Come nasce la Costituzione

Come nasce la Costituzione
partner di progetto

POMERIDIANA DI MERCOLEDÌ 1° OTTOBRE 1947

ASSEMBLEA COSTITUENTE

CCXL.

SEDUTA POMERIDIANA DI MERCOLEDÌ 1° OTTOBRE 1947

PRESIDENZA DEL PRESIDENTE TERRACINI

INDICE

Sul processo verbale:

Cappa, Ministro della marina mercantile

Comunicazioni del Presidente:

Presidente

Domande di autorizzazione a procedere in giudizio:

Presidente

Mozioni (Seguito della discussione):

Morandi

Togni, Ministro dell’industria e commercio

Corbino

Interrogazioni e interpellanza con richiesta d’urgenza (Annunzio):

Presidente

De Gasperi, Presidente del Consiglio dei Ministri

Angelucci

Grassi, Ministro di grazia e giustizia

Macrelli

Sui lavori dell’Assemblea:

Presidente

De Gasperi, Presidente del Consiglio dei Ministri

Interrogazioni (Annunzio):

Presidente

La seduta comincia alle 16.

MOLINELLI, Segretario, legge il processo verbale della precedente seduta pomeridiana.

Sul processo verbale.

CAPPA, Ministro della marina mercantile. Chiedo di parlare sul processo verbale.

PRESIDENTE. Ne ha facoltà.

CAPPA, Ministro della marina mercantile. Nella seduta di ieri sera, avendo il Ministro Merzagora affermato che il Governo ha ridato la libertà agli armatori, l’onorevole Aldisio ha interrotto affermando, secondo quanto reca il resoconto stenografico: «Ora gliela avete levata, però. Il provvedimento fondamentale che ha dato questi risultati lo avete abolito».

Desidero chiarire rapidamente come stiano realmente le cose, perché credo che l’onorevole Aldisio sia caduto in un equivoco. In realtà, penso che egli accenni alla soppressione dell’articolo 3 del decreto ministeriale 20 agosto 1946. Con questo decreto ministeriale si concedevano agevolazioni valutarie ad armatori e noleggiatori italiani di navi mercantili, sulla cessione di valuta proveniente da noli ricavati dall’esercizio della navigazione. Questo decreto, all’articolo 3, recava una disposizione in favore degli armatori italiani che acquistavano navi con valuta libera, cioè affermava e disponeva che «l’ufficio italiano dei cambi metterà a disposizione degli armatori italiani che acquistino o abbiano acquistato navi mercantili, battenti bandiera estera, mediante finanziamenti esteri in valuta libera, l’intero ammontare dei noli netti di valuta libera ricavato dall’esercizio della navigazione delle navi come sopra acquistate». Aggiungeva l’articolo 3 che «le disponibilità in valuta di detti conti potranno essere utilizzate dai rispettivi titolari, unicamente per il regolamento dei finanziamenti ottenuti per l’acquisto delle navi».

All’articolo 1, invece, questo decreto lasciava un accreditamento del 50 per cento nei conti a disposizione degli armatori italiani e dei noleggiatori italiani di navi mercantili. Questo 50 per cento doveva essere utilizzato in pagamenti all’estero per acquisto di navi mercantili, in trasferimento di un conto analogo intestato ad altri armatori e noleggiatori italiani, purché si utilizzasse per gli scopi di cui sopra. Insomma, con questo decreto, mentre si lasciava il 50 per cento della valuta estera acquistata coi noli, a disposizione degli armatori di navi mercantili, si concedeva la totalità della valuta proveniente dai noli agli armatori e ai privati, i quali acquistassero navi battenti bandiera estera e le trasferissero sotto bandiera italiana, fino al pagamento totale della somma che in valuta libera era stata destinata all’acquisto di queste navi. Ad un anno di distanza e cioè il 6 agosto scorso, visti i risultati di questa operazione, e tenuto conto delle necessità da parte del Ministero del commercio estero di trattenere il maggior numero possibile di valuta derivante dal commercio con l’estero, per gli acquisti del nostro Paese, si è provveduto con tale decreto del Ministero del commercio estero, d’accordo col Ministero della marina mercantile, alla soppressione dell’articolo 3, cioè si è ridotta la disponibilità di valuta acquisita con i noli delle nostre navi mercantili al 50 per cento.

Questo è stato il provvedimento che si è preso, date le necessità assolute del nostro Ministero del commercio estero. Però in compenso si è consentito agli armatori di disporre di questo 50 per cento di valuta non solamente per l’acquisto di navi all’estero, ma per l’acquisto di merce che ritenessero di importare dall’estero. Non penso, onorevoli colleghi, che con questo si possa dire di avere limitato la libertà di acquisto da parte di armatori italiani di navi estere; non credo che questo provvedimento potrà portare ad una restrizione di questi acquisti. Ritengo che il provvedimento sia stato preso dopo di aver valutato la situazione di fatto, tenendo ben conto dell’opportunità di favorire in tutti i modi, come il Governo sta favorendo, l’acquisto di navi all’estero anche da parte di privati e di liberi armatori, contemperando però questa utilità e questa necessità da parte del nostro Paese di acquistare navi, con quelle che sono le esigenze di valuta da parte del commercio estero.

PRESIDENTE. Se non vi sono altre osservazioni, il processo verbale si intende approvato.

(È approvato).

Comunicazioni del Presidente.

PRESIDENTE. Comunico di aver chiamato a far parte:

della Commissione pei Trattati internazionali l’onorevole Eugenio Reale, in sostituzione dell’onorevole Mario Montagnana, dimissionario;

della terza Commissione permanente l’onorevole Agostino Novella, in sostituzione della onorevole Adele Bei, dimissionaria.

Domande di autorizzazione a procedere in giudizio.

PRESIDENTE. Comunico che il Ministro di grazia e giustizia ha trasmesso sei domande di autorizzazione a procedere in giudizio:

contro i deputati Spano, Bonfantini, Villani e Zanardi, per il reato di cui all’articolo 595, secondo capoverso, in relazione all’articolo 57 n. 1 del Codice penale;

contro il deputato Tega, per il reato di cui all’articolo 18 del regio decreto 18 giugno 1931, n. 773;

contro il deputato Gullo Rocco, per i reati previsti dell’articolo 1 del regio decreto-legge 17 giugno 1937, n. 1084, dall’articolo 3 della legge 6 agosto 1940, n. 1278 e dai decreti luogotenenziali 31 agosto 1945, n. 579, 9 novembre 1945, n. 776 e 1° marzo 1945, n. 177.

Saranno inviate alla Commissione competente.

Seguito della discussione di mozioni.

PRESIDENTE. L’ordine del giorno reca il seguito della discussione di mozioni.

È iscritto a parlare l’onorevole Morandi. Ne ha facoltà.

MORANDI. Onorevoli colleghi, mi occuperò della situazione economico-finanziaria, o per meglio dire di alcuni degli aspetti più preoccupanti che essa presenta. Io non intendo riproporre su questo piano i motivi generali della nostra opposizione, che vi sono ben noti, e non mi attarderò – dopo che altri oratori dell’opposizione l’hanno fatto, e molto efficacemente stamane l’onorevole Lizzadri – a sviluppare le contradizioni massicce che hanno divorato le enunciazioni programmatiche, sulla base delle quali questo Governo ottenne già un voto di fiducia dall’Assemblea.

Ritengo del resto che in questi quattro mesi, l’indirizzo effettivo che questo Governo segue, le idee che ha e la volontà che lo anima si siano schiariti a sufficienza al Paese, perché sia di qualche utilità ancora aprire un processo ai programmi che non sono venuti ad attuazione. Noi tutti sapevamo in fondo che il quarto Gabinetto De Gasperi si presentava con un programma che non aveva alcuna seria intenzione di realizzare.

Andiamo, dunque, direttamente ai fatti e risaliamo da questi alle responsabilità che si possono stabilire nei confronti dell’azione di Governo.

Alcuni di essi, che sono pure di una portata oggettiva estremamente grave, trascendono in parte le responsabilità di questo Governo, o per lo meno possono lasciare esitanti nello stabilirle a pieno.

Così è del fatto che la circolazione di Stato è andata incessantemente aumentando; non vogliamo contestare che si siano presentate delle necessità alle quali il Ministro del Tesoro ha dovuto piegarsi. Così è del fatto che l’incremento delle entrate è stato completamente assorbito da maggiori, ovvero nuove spese, compromettendo in questo modo le buone intenzioni di portare a pareggio il bilancio. Così è di altre spiacevoli cose che non sto qui ad enumerare, per quanto io debba dire che potevamo attenderci dal Ministro del bilancio una cura ed una energia più grandi nel tentativo di mettere ordine ai bilanci dello Stato, giacché veramente il disordine non è mai stato più grande.

Ma vi sono, onorevoli colleghi, altri fatti che scoprono invece delle deviazioni e degli errori specifici dell’azione di Governo, fatti che segnalano pericoli tali da esigere, a parer nostro, un radicale ed immediato mutamento di rotta.

Tali sono:

l’ascesa continua, con progressione accelerata, dei prezzi;

una politica valutaria radicalmente errata, che qualcuno definisce addirittura suicida, che ci induce a dover troncare da un momento all’altro le nostre importazioni essenziali, e costituisce la causa prima dello svilimento continuo della nostra moneta;

il ritorcersi di una pratica malsana di favoritismi e di protezioni, che è alla radice del regresso impressionante della nostra esportazione;

il collasso in atto dell’I.R.I., dopo tanti moniti rivolti al Governo;

le conseguenze di un tentativo inutile di deflazione che si ripercuotono su tutto il nostro sistema produttivo, in particolare sulle industrie;

e l’abbandono sempre più accentuato degli organi dell’Amministrazione all’influenza e alle pressioni interessate di gruppi affaristici.

Tutti questi fatti – e i miei riferimenti non pretendono ad alcuna completezza – sommano in un solo termine: l’inflazione.

L’inflazione ha fatto passi giganteschi nel corso di questi quattro mesi, ed essa potrebbe passare, da un momento all’altro, dalla fase dello «slittamento», alla fase fatale dello «avvitamento», come i tecnici usano dire, della nostra moneta. Io non dirò di certo che il Governo consapevolmente tenda all’inflazione, non sosterrò che la vogliano gli uomini che seggono a quel banco. Ma altri – e questo è il punto – la vogliono per essi; ed è sotto l’influsso di questa volontà tenebrosa che non si scopre, che il Governo opera.

L’inflazione, onorevoli colleghi, è un termine pauroso, come la guerra; nessuno arriverà mai al cinismo di ammettere e di dichiarare che la desidera e la vuole: eppure all’inflazione non si arriverebbe, coi mezzi di intervento di cui oggi dispone lo Stato, come non si arriverebbe mai alle guerre, se non vi fossero delle forze e degli interessi che vi sospingono.

Aperti e dichiarati avversari della concezione economica e dei principî politici dell’onorevole Einaudi, noi non vogliamo farne il capro espiatorio di questa politica; noi non vogliamo giudicarlo alla stregua delle responsabilità schiaccianti che egli porta dinanzi al Paese come Ministro del bilancio, come coordinatore supremo dei dicasteri economici, come Governatore della Banca d’Italia. Noi arriviamo sino al punto di voler distinguere fra la sua posizione di Governatore dell’Istituto di emissione e la sua funzione di Governo.

Se, infatti, così non fosse, dovremmo attribuire all’onorevole Einaudi un piano veramente diabolico: quello di condurci all’inflazione, non risparmiando al Paese le torture della deflazione e così, esasperando fino all’estremo il conflitto degli interessi, flagellare le varie categorie una dopo l’altra per coalizzarle tutte alla fine contro gli interventi dello Stato, quasi ad assicurare il trionfo delle tesi liberiste.

Io non gli imputo ciò, perché conosco quale sia la caratteristica condotta politica del nostro Presidente del Consiglio, il quale ama un poco il gioco dell’altalena e, in questo modo, a parer nostro, ha anche sprecato la miglior carta che aveva in mano: la carta Einaudi. Egli non è riuscito a rovesciare quella situazione psicologica, cui pure si fece riferimento per giustificare il cambiamento di Governo. Non si crede dal Paese, non si crede dai finanzieri, dagli industriali, che l’onorevole Einaudi possa durare e riuscire nel suo tentativo di contrastare all’inflazione.

Penso, più semplicemente, che l’onorevole Einaudi da un pezzo abbia dovuto rinunziare alle funzioni che gli sono state attribuite in seno al Governo, per accontentarsi di quelle di Governatore della Banca d’Italia. Questo io ho voluto anticipare sulle accuse che noi muoviamo al Governo, perché, se è vero che noi abbiamo forti riserve da fare sulle direttive che segue l’Istituto di emissione, non per questo noi ammettiamo che queste riserve siano confuse con le critiche di ben altra origine che investono oggi aspramente il Ministro del bilancio. Per nessun motivo – anche se oggi ce ne potesse derivare un vantaggio politico – noi vogliamo essere confusi con chi da tempo ha puntato sull’inflazione, la vuole ed è deciso ad averla. Ma l’onorevole Einaudi avrebbe pur dovuto accorgersi a quest’ora che siede in un Gabinetto inflazionista! Egli inoltre porta delle responsabilità abbastanza definite per quel che è la politica valutaria e la politica dei prezzi, su cui dovrò poi intrattenermi.

Onorevoli colleghi, perché e da chi si vuole l’inflazione?

Sono state citate delle cifre che valgano a misurare approssimativamente il costo economico della guerra. Effettivamente la guerra, oggi, dopo aver seminato di lutti il Paese, presenta il suo conto economico, e il costo della ricostruzione risulta enorme. Esso è tanto più grave, in quanto il nostro reddito nazionale, alla fine della guerra, si era ridotto a circa la metà del livello prebellico, ed è poi risalito molto lentamente. Si ritiene così che l’onere della ricostruzione, se fosse ripartito in un periodo di quindici anni, assorbirebbe non meno del 22 per cento del reddito nazionale. Come dividere questo peso, che è costituito dallo squilibrio tra potenziale di consumo e possibilità di investimento, dallo squilibrio tra investimenti di carattere privato e investimenti di carattere pubblico? L’inflazione è il mezzo più idoneo, più efficace e più rapido per far ricadere tale peso sulle spalle delle categorie lavoratrici. Essa ne decurta i redditi reali e ne contrae la capacità di consumo fino all’estremo limite; e consente di rinviare la stabilizzazione del bilancio fino al punto in cui queste categorie della popolazione saranno state depauperate di tutte le loro risorse, e sarà stato depresso al massimo il loro tenore di vita.

Onorevoli colleghi, come tutti i Governi pretendono di essere tutori della pace fino al momento in cui non dichiarano la guerra, così tutti i Governi asseriranno sempre di sentirsi impegnati alla più strenua difesa della moneta, finché non saranno stati abbandonati gli ultimi spalti.

Ma che cosa fa questo Governo per difendere la moneta? Tiene dei discorsi, ispira degli articoli, si preoccupa di procurarsi un alibi morale; ma i fatti parlano ben altrimenti.

Una sola eccezione pare presentare questa linea di condotta ed è rappresentata dalle restrizioni del credito, che sono state già oggetto di varia considerazione in questo dibattito. In piena inflazione noi abbiamo visto il Governatore della Banca d’Italia sferrare un violento attacco al settore creditizio, determinando dure restrizioni del credito da parte delle Banche. È un tentativo di deflazionare drasticamente un settore della nostra economia, che manca disgraziatamente di ogni connessione con la politica economica che si svolge, ed anzi è, per molti aspetti, contraddetta da essa. Così può, alla fine, anche ritorcersi in effetti inflazionistici. Prendendo motivo e spunto da queste restrizioni, dagli ampi commenti di stampa cui essi danno luogo, il Presidente del Consiglio ha creduto ad un certo momento di poter candidamente annunziare prossima una crisi di deflazione e la gente, che vede salire i prezzi ogni giorno, si domanda in che mondo campa.

Di deflazione veramente io non vedo come si possa parlare, dal momento che la circolazione monetaria si è accresciuta solo fra aprile e agosto di un centinaio di miliardi, ossia di quasi una quinta parte, mentre è nelle previsioni del Tesoro che essa debba ulteriormente espandersi nei prossimi mesi in proporzione molto più grande. A meno che per politica deflazionista non si intenda semplicemente il fatto di causare – per soprammercato ai nostri guai – una serie di fallimenti.

L’onorevole Einaudi ha affermato di essersi trovato dinanzi ad una cruda alternativa: o accrescere l’emissione o creare il caos economico. È una condizione di cose, questa, è uno stato di necessità che egli – a parer nostro – poteva prevedere. Ed è cosa che dovrebbe capacitarlo ad ogni modo della inanità e della pericolosità di contendere il terreno all’inflazione con mezzi puramente finanziarì. Le misure adottate nel settore creditizio potrebbero avere la loro efficacia se connesse ad un complesso sistematico di interventi rivolti a diminuire il fondamentale divario fra consumo, produzione e importazione, fra investimenti e risparmi, fra le diverse categorie di consumo e di investimenti; prese a sé stanti, non fanno che aggravare – come noi riscontriamo – la situazione.

Sorge legittimo allora in noi il dubbio che ci si voglia servire di esse per un’opera di disintegrazione liberistica e capitalistica della nostra economia, la quale è caratterizzata da una sempre accentuata estensione del settore pubblico nella sua recente evoluzione.

La deflazione del credito costituisce in ogni modo un mezzo di emergenza per accrescere il gettito del mercato monetario a favore del Tesoro, ma essa viene anche ad accentrare nelle mani del Tesoro e dell’Istituto di emissione il finanziamento dell’economia, limitando l’opera di finanziamento autonomo degli istituti privati (il che comporta qualche contradizione con l’ideologia liberista). È da chiedersi allora a qual fine questo accentramento delle possibilità e della capacità di finanziamento sarà indirizzato, mancando un analogo accentramento e controllo delle forze produttive, mancando un programma.

Prima di conseguire degli effetti deflazionistici (effetti deflazionistici che dovrebbero consistere nella riduzione delle scorte, nelle vendite forzate), queste restrizioni, applicate come misure isolate e indiscriminate, potrebbero convertirsi – come ho già detto – in cause concorrenti di inflazione. Infatti, esse accentuano l’attività speculativa, accorciando il ciclo produttivo colpiscono i settori più vitali della nostra ricostruzione, aumentano enormemente i costi del credito rialzando i costi di produzione ed i prezzi.

Ciò parrebbe provato dalla crescente tensione al rialzo che è registrata da tutti gli indici, contrariamente a quel che ha sostenuto stamane l’onorevole Quarello. In ogni caso questa ascesa dei prezzi dimostra un accentuato dinamismo delle forze inflazioniste che sfuggono alla manovra finanziaria.

Onorevoli colleghi, da quando si è costituito un Gabinetto omogeneo, da quando si è istituito l’ufficio di coordinatore dei vari Dicasteri economici, noi non sappiamo più capire chi sia veramente che conduce la nostra finanza: se il Tesoro, se la Banca d’Italia o il Commercio estero.

Dall’onorevole Einaudi noi vorremmo sapere a quale indirizzo obbedisce la nostra politica valutaria. Noi non abbiamo avuto delle spiegazioni a questo riguardo ieri dal Ministro Merzagora. Quello che noi vediamo è che il Ministro Merzagora, da quel valente uomo di affari che è, considerandosi un tecnico applicato alle esportazioni, si dà a tutt’uomo a favorire gli esportatori, incurante degli strattoni che dà in questo modo alla nostra vacillante moneta.

Io mi soffermerò un po’ sulla nostra politica valutaria, perché considero che essa sia veramente al centro di tutti i nostri mali attuali.

Il Ministro Merzagora si è dimostrato uno dei Ministri più dinamici di questo Gabinetto ed a lui dobbiamo tutta una serie di innovazioni: la modifica del tasso ufficiale del cambio, le varianti introdotte nel sistema del cinquanta per cento di valuta, la reintroduzione ufficiale, direi, del franco-valuta e delle lavorazioni per conto, sistemi che erano già stati accantonati per i disastrosi risultati che avevano dato. A lui, disgraziatamente, non a lui in quanto persona, ma alla politica che è stata svolta in questi mesi dal Commercio estero, dobbiamo anche il depauperamento totale delle nostre scorte valutarie in dollari.

Abbiamo appreso dai giornali, onorevoli colleghi, che si sono dovute disdire le importazioni di carbone, così che noi avremo per i prossimi mesi soltanto un anticipo sui rifornimenti post-U.N.R.R.A. gratuiti, e pare addirittura che ci si trovi in serie difficoltà per assicurare semplicemente il pagamento dei noli nell’effettuare il trasporto di questo carbone.

Il Ministro Merzagora ha pronunciato ieri un discorso politico fortemente polemico, nonostante tutto il garbo e certa levità delle sue espressioni. Noi ci attendavamo qualcos’altro, che ci desse, come piuttosto gli competeva di fare, la spiegazione su un piano tecnico del perché si insiste in un sistema carico di vizi.

È comodo, signor Ministro, addurre le responsabilità del tripartito. Il tripartito certo ha le spalle grosse. Ma che forse non è sempre stato questo, nei Governi precedenti, il punto di massima divergenza nostra col Partito democristiano e con il Governatore della Banca d’Italia?

Ministro Merzagora, noi avremmo voluto capire perché si è portato il dollaro, per esempio, a 350. Per quello che io so, il Ministro del Commercio estero aveva chiesto di portarlo a 450. Poi si è contrattato: «è troppo, allora potrebbe essere 400, via, fissiamolo a 350»! Questo vuol dire che nessun criterio è stato preso a base della determinazione del nuovo tasso.

Accorciare le distanze, si dice. Ma che cosa significa? Accorciare delle distanze che sono andate continuamente aumentando proprio per effetto di questo sistema, che è venuto spostando incessantemente la quotazione libera del dollaro! Ridate corso alle importazioni di lana e di cotone, e voi vedrete dove può avanzare la valuta libera. Col sistema vigente, questa modifica del tasso di cambio, che non aveva nessuna ragione di farsi come misura isolata, non rappresenta affatto un adeguamento della quota effettiva. Essa si è tradotta puramente in un premio contingente agli esportatori.

Il Ministro Merzagora non ha saputo spiegare la ragione di una serie di circolari, che il suo Ministero ha emanato, sulla base delle quali è stata variata la quota di disponibilità che gli esportatori hanno sulla valuta ricavata dalle esportazioni; perché si sia differenziata nei confronti dei lanieri e di altre categorie; così che oggi egli si trova investito da tutte le parti, dagli alimentaristi, dai setaioli, da ogni categoria che comincia invariabilmente in partenza col chiedere il cento per cento, per poi transare, chi sul 75, chi sull’80, chi sul 90 per cento. Così si creano i cosiddetti cambi multipli. A questo modo – già è stato detto, ma è il caso che lo ripeta e vi insista – è stata compromessa una delle convenzioni più interessanti e più giovevoli alla nostra economia, che la nostra missione in America aveva potuto concordare. La così detta «certificazione dei cambi» da parte degli Stati Uniti è andata a monte. Che cosa è questa certificazione dei cambi?

È cosa molto semplice. Si trattava di ottenere che gli americani applicassero i dazi doganali ad valorem sulla base non del cambio ufficiale, ma del cambio medio. Avviene che quando i nostri esportatori introducono in America una merce del valore di 450 o 500 lire, per essi quel 450-500 rappresenta un dollaro, poiché tale è il cambio medio del dollaro in Italia; per gli americani rappresenta invece, alla stregua del cambio ufficiale, due dollari, i diritti doganali sono, quindi applicati su due dollari. È stato valutato da esperti americani, i quali hanno un certo occhio in queste valutazioni, che con la mancata certificazione di cambio noi possiamo scapitare di un centinaio di milioni di dollari per maggiori esportazioni che potremo fare.

Questi cambi multipli cullano nell’inerzia i nostri industriali, i quali si guardano bene dal limare i costi, o ridurre i propri profitti; sotto questo aspetto, quindi, possono ritorcersi alla lunga in un danno alla nostra esportazione. Con questa moltiplicazione dei cambi non è più possibile seguire la effettiva, reale ragione di scambio nel commercio con l’estero.

Si vuol dar nome di conti valutari a questi trattamenti privilegiati, ma ciò è assolutamente improprio. I conti valutari dovrebbero assicurare all’esportatore italiano il reintegro della valuta necessaria per coprire esattamente quel tanto che costa la materia prima, che egli deve importare.

Per applicare correttamente questo sistema, occorrerebbe avere dei controlli, occorrerebbe sapere, per esempio, quanto di lana un fabbricante mette nel tessuto che produce: se ne mette il 50, il 20 o il 5 per cento. Quindi, nel caso dei provvedimenti adottati non si può proprio parlare di conti valutari, poiché si tratta piuttosto di «forfetizzazioni» grossolane, e quindi semplicemente di ritocchi, per chiamarli con questo eufemismo, del sistema del cinquanta per cento di valuta libera.

Anche per quanto concerne il franco-valuta e la lavorazione per conto, il Ministro Merzagora avrebbe dovuto darci delle giustificazioni. Perché, ad un certo punto, nel gennaio scorso, questi sistemi furono abbandonati? Perché si ristabiliscono oggi? Non vale addurre delle ragioni generali, ossia la opportunità di rastrellare la valuta trafugata. Il fatto è che il franco-valuta, quando mancano mezzi di controllo efficaci, si risolve in un nuovo incentivo alla fuga di valuta, in un incentivo a quella tale sotto fatturazione, che è il grande male del nostro commercio estero: i nostri esportatori fatturano per dieci il valore della merce che essi esportano e che è 50 o 100, per accantonare valuta all’estero.

Si favorisce e si incrementa il commercio delle valute e tutti sappiamo come e dove si fa il commercio dei falsi attestati di credito che vengono a testificare che, per esempio, un tizio, prima del marzo 1946, aveva presso una banca svizzera un certo credito. Gli effetti di questo sistema vengono scontati dal consumatore, che paga prezzi più elevati per i prodotti che vengono importati, perché si cerca di sfruttare al massimo quella valuta, e di attingere quei cambi stellari che si sono già toccati in passato: 5000 o 8000 lire sul dollaro, introducendo magari delle penne stilografiche o altri beni voluttuari.

Il Ministro Merzagora ci ha piuttosto confermato quale sia l’empirismo e l’arbitrio che impera sul nostro commercio con l’estero. Egli ha citato delle cifre che dovrebbero farci rabbrividire: domande di licenza per decine e decine di migliaia. Sappiamo benissimo che soltanto una piccolissima parte di queste domande può essere evasa, e solo una parte delle domande accolte va poi a buon fine, ossia è utilizzata. Sappiamo quale commercio si faccia di queste licenze.

Quello che noi avremmo potuto domandare all’onorevole Presidente del Consiglio nel momento in cui si è costituito questo Governo, lo potremmo domandare ancora in questo momento: perché cessata la ragione di bilanciare la posizione dei socialisti all’industria, si è tenuto ancora in piedi il Ministero del commercio estero. Tutti voi sapete, onorevoli colleghi, come questo Ministero sia nato; fu per cavarsi da un imbarazzo nella distribuzione dei portafogli tra tanti partiti che partecipavano al Governo, che si pensò a un certo momento di dar vita ad un Ministero staccato. Naturalmente, istituito il Ministero, esso poi ha cercato di giustificare la sua funzione moltiplicandosi nei propri organi. In che modo? Tagliando sempre più nettamente quei rapporti che dovrebbero avere l’Amministrazione del commercio estero col Tesoro e soprattutto con l’Amministrazione dell’industria e del commercio interno. Ne è derivata questa informe struttura che ogni giorno di più aggrava i suoi difetti e aumenta i danni che si ripercuotono nella nostra economia.

Su una questione, già propostagli dall’onorevole Nenni, il Ministro Merzagora, mi permetta di farglielo amichevolmente osservare, se l’è cavata troppo alla spiccia. Egli ha detto che per i setaioli non si è fatto nulla di straordinario, ma quello che si è sempre usato fare in questi casi. No, egregio Ministro, qui si tratta di una misura di vero e proprio protezionismo, sulla quale io richiamo l’attenzione dell’onorevole Einaudi, patrono già, ai bei tempi, dell’industria della seta, che combatteva allora una strenua lotta contro i protezionisti. Vi faccio osservare che i setaioli non sono i contadini che coltivano il filugello… (Interruzioni al centro), ma sono gli industriali della seta, i filandieri, che hanno accumulato guadagni, dirò per lo meno ingenti, in questi ultimi tempi e costituiscono una delle categorie più arretrate della nostra industria. Essi hanno dichiarato, uno di questi giorni, che non erano più disposti a cedere, a condizione di favore, una parte di valuta allo Stato. Vedete quale inversione si verifichi nella logica di questo sistema del 50 per cento che, come è stato già ricordato, era stato adottato per ragioni eccezionali e contingenti. Gli industriali considerano che questo 50 per cento non sia già una facilitazione concessa loro, ma invece una condizione di favore che essi fanno allo Stato e non ne vogliono più sapere.

Con gli accordi stipulati dal Ministro Merzagora, i setaioli potranno intraprendere delle operazioni di compensazione, ma noi vorremmo sapere a quali prezzi saranno venduti sul mercato interno i prodotti che essi importeranno, perché evidentemente essi intendono di coprirsi di quel margine che dicono mancare loro nella produzione.

Insomma, ci si è solo preoccupati di favorire l’esportazione, anzi di favorire gli esportatori, quando invece la preoccupazione maggiore avrebbe dovuto essere quella di servire le importazioni essenziali, come il carbone ed il grano, per le quali oggi ci troviamo repentinamente in disperate difficoltà. Certo, in questo entra per la sua parte l’inconvertibilità del fondo sterline che noi avevamo a disposizione, ma questo non diminuisce le responsabilità nei confronti di un uso così poco oculato delle risorse ih dollari.

Veramente, ci si deve chiedere se a questo modo non si vuole deliberatamente mettere il Paese alla mercé di chi lo deve aiutare a campare.

La prima misura che noi consideriamo essere necessario e urgente a prendere è il controllo integrale della valuta, e questo anche se si avesse in vista di passare domani a forme libere di scambio.

Io vorrei invitare l’onorevole Presidente del Consiglio a sentire il parere dei migliori funzionari ed esperti del Commercio estero e dell’Ufficio dei cambi. Essi sono tutti concordi nel ritenere che non sia più possibile procedere con i sistemi in uso, e che non è per queste vie tortuose che noi possiamo tendere all’allineamento dei prezzi interni a quelli dei mercati internazionali.

Così, la politica valutaria che si è fatta e la prassi che si è seguita al Commercio estero sono, a parer mio, la ragione prima dell’inflazione, perché per questa via si caricano sui prezzi interni i premi accordati indirettamente agli esportatori, che pesano come vere e proprie tasse sull’importazione; si favorisce l’accumulazione di scorte a prezzi elevati (che domani naturalmente resisteranno ad ogni inversione di congiuntura); si favorisce la introduzione di beni superflui sui quali è possibile spuntare i cambi più alti; si incita, infine, come ho detto, alla fuga della valuta.

Onorevoli colleghi, questa è la grande operosa centrale inflazionistica in seno al Gabinetto. Ma un’altra centrale di inflazione è rappresentata dalla regolamentazione ufficiale dei prezzi, sia dei servizi che dei prodotti bloccati. Ci si è dati ad una corsa sfrenata negli aumenti dei servizi (ferrovie, imposte), mentre avrebbero dovuto essere più ragionevolmente contenuti, non considerando che in questo modo si dava una spinta materiale e psicologica all’ascesa di tutti i prezzi. Si sono inforcati i trampoli, onorevole Einaudi, del protezionismo più acceso a favore dei siderurgici e degli zuccherieri, quelli che una volta ella chiamava i trivellatori della nostra economia. Io sfido qualsiasi tecnico a dimostrare la necessità dei recenti aumenti accordati alla siderurgia, dopo che molto rilevanti erano stati quelli deliberati soltanto pochi mesi prima.

Che meraviglia dunque, onorevoli colleghi, se con questo andazzo, e col formarsi, per giunta, di una borsa nera del denaro, per effetto delle restrizioni creditizie, gli indici dei prezzi alla produzione segnino impressionanti aumenti i quali si moltiplicano attraverso ogni sorta di mediatorati e di bagarinaggi ripercotendosi sui prezzi al minuto? Gli indici segnano un aumento a progressione accelerata, poiché, se riscontriamo nel primo trimestre, da gennaio a marzo, un aumentò di 152 punti, noi vediamo che nel trimestre successivo si ha un nuovo scarto di 864 punti ed un nuovo balzo all’insù si riscontra all’inizio di questo mese. Cosicché dalla fine di marzo ai primi di settembre sono (stando ai calcoli del professor Livi) 1886 punti che incrementano l’indice dei prezzi all’ingrosso.

Ogni azione è mancata da parte del Governo per infrenare questa ascesa dei prezzi. Che cosa si può fare? Siamo sempre daccapo. È una questione che è stata trattata infinite volte già davanti a questa Assemblea e al Consiglio dei Ministri. Ad un dato momento ci si era trovati però d’accordo su qualche punto: la necessità di provvedere ad importazione in massa di derrate alimentari da gettare sul mercato. Ma non proponendosi di farlo, così come si espresse il collega Quarello stamane, «nei limiti del possibile». No, questo deve essere un obiettivo preciso dell’azione del Governo. E mentre oggi il Ministro Merzagora non ha più un dollaro da spendere, e affida le importazioni di grassi alle onerose compensazioni dei setaioli, io dico che si sarebbero dovuti coprire a tutti i costi i contingenti assegnatici, assicurandone la importazione in vista di agire sul mercato interno. Ci si era trovati d’accordo anche su un altro punto.

La necessità di intensificare l’azione per l’approvvigionamento diretto dei grandi centri urbani, che agiscono da pompa aspirante sulla campagna; assicurare un rifornimento il più largo possibile dei centri cittadini, vuol dire poter dominare in un primo tempo e poi poter comprimere l’andamento generale dei prezzi. Noi dobbiamo bene da qualche parte agganciare questa situazione che è caratterizzata da una fondamentale carenza di beni, la quale viene esasperata dalla grande facilità che ha la speculazione ad innestarsi nel processo distributivo.

Degli enti comunali di consumo non ho il coraggio di parlare, perché non so da quanto tempo si dice che questi enti stanno per essere messi in grado di agire, e pure da tutti si riconosce che essi potrebbero essere un mezzo efficace di calmierazione. Ma nulla di serio finora è stato fatto per questo. Ci si era trovati anche d’accordo su una certa disciplina dei mercati e dei magazzini generali, e qui non vi può essere questione di divario ideologico; si tratta semplicemente di volontà di fare.

Noi ci troviamo, onorevoli colleghi, nel viluppo di una politica vincolista a rovescio, intesa a rincorrere gli interessi delle diverse categorie, le quali trovano il patrocinio da parte dei singoli Dicasteri e si determinano, in questo modo, le sfasature più gravi per il nostro sistema produttivo.

Attendiamo di ascoltare l’esposizione del Ministro dell’agricoltura. Ma io non vedo che fino ad oggi si sia fatto qualche cosa di utile e di serio per dare un orientamento ai produttori; all’opposto, si sono aumentate le incognite.

Nell’industria la situazione è anche più grave. Vi sono situazioni pericolosamente stagnanti. Un intero vitale settore, quello dell’industria meccanica e cantieristica, è andato in questi mesi sprofondando nel marasma per l’inazione governativa.

È stato di recente approvato dal Consiglio dei Ministri in gran furia, con la formula della massima urgenza – per quanto da molto tempo esso fosse allo studio e in preparazione – un provvedimento a favore dell’industria meccanica. Riconosco che esso potrebbe giovare ad equilibrare certi effetti più nocivi della deflazione creditizia: tutto dipenderà, però, da come sarà applicato, da come questo strumento sarà usato, se si preleverà su questi stanziamenti la congrua parte per l’industria di Stato, se si sarà più o meno rigorosi nell’assumere le garanzie, che dovrebbero essere rappresentate soprattutto da programmi ragionevoli di produzione, non soltanto da titoli che possono anche ridursi a pezzi di carta.

Se non ci si varrà di questo mezzo per assicurare a determinate aziende troppa comodità nel coprire aumenti di capitale, che esse forse non sarebbero in grado di collocare sul mercato. Non c’è bisogno che io faccia dei riferimenti circostanziati: tutti sanno in quali difficoltà oggi si dibattano alcune delle nostre più grosse aziende meccaniche private.

E, per quello che riguarda il merito di questo provvedimento, osservo che esso si origina da un progetto di portata più vasta e generale che era stato studiato allorché si pensò di mettere il fermo a un certo sistema seguito in passato nell’erogare questi prestiti. Ma il provvedimento in discorso limita di molto le garanzie che lo Stato può esigere. Fra l’altro, abbiamo visto che possono essere assunte azioni senza diritto di voto, ciò che rappresenta un titolo di garanzia che può in pratica svanire molto facilmente.

Questo provvedimento taglia fuori, nel suo congegno di applicazione, l’I.R.I.; mentre quello che era stato messo allo studio nel passato Governo, che si riferiva all’industria tutta nel suo insieme, prevedeva, proprio per il settore meccanico, il funzionamento di una commissione mista di rappresentanti dell’I.R.I. e dell’I.M.I., ad evitare che si potesse comunque svolgere – in presente o in avvenire – un’azione rivolta allo svuotamento dell’I.R.I. attraverso le garanzie assunte dall’I.M.I.

È singolare anche un altro aspetto di questo provvedimento: il fatto che siano investiti di facoltà deliberativa dei funzionari e degli esperti, mentre risultano completamente tagliati fuori i Ministri responsabili. Si tratta di un comitato composto di tre esperti estranei all’amministrazione e di quattro direttori generali di diversi Ministeri i quali decidono, mentre ai signori Ministri non resterà che da apporre la firma sotto la decisione presa da costoro.

EINAUDI, Ministro del bilancio. Perché la firma?

DE GASPERI, Presidente del Consiglio dei Ministri. No, neanche la firma.

MORANDI. Tanto meglio, se ne avete per lo meno nella forma salvaguardata la dignità.

In connessione a questa situazione dell’industria meccanico-cantieristica, anzi al centro di essa, sta la situazione pazzesca dell’I.R.I.

Onorevoli colleghi, da quanto tempo noi, in ogni occasione che si presenta di discutere di questioni economiche, ricadiamo a parlare dell’I.R.I.! È venuta però l’ora per il Governo di provvedere ed esso deve assumere tutte le responsabilità che gli competono di fronte alla situazione che si è venuta a creare.

L’I.R.I. è un istituto che ha un patrimonio valutato ad oltre cento miliardi – la valutazione più recente si aggira sui 120-130 miliardi – e che non ha fondi di cassa, che non riesce più ad assicurare le paghe ai suoi dipendenti. Esso ha già dovuto richiedere all’I.M.I., prima ancora che il decreto fosse pubblicato, anticipazioni su questo fondo di 55 miliardi, allo scopo di pagare i salari; ed è ridotto a campare su un giro interno di cambiali e di sconti fra le diverse aziende e le aziende e le Banche, con degli aggravi spaventosi nelle spese di gestione. E in queste condizioni l’I.R.I. continua ad essere ostinatamente ignorato dal Governo.

Noi abbiamo sentito come si è espresso di recente il Ministro del tesoro: l’I.R.I., a parer suo, è un problema risolto, dopo che si è provveduto a nominarvi un Commissario. Infatti nel mese di giugno, mentre nel precedente Governo si era arrivati a fissare un certo orientamento per la riorganizzazione dell’istituto e si trattava semplicemente di passare alla realizzazione di quel programma; a giugno, dico, tutte queste cose sono state lasciate cadere, e si è addivenuto alla nomina di un Commissario. Il Commissario non ha tardato a presentare la sua relazione al Governo fin dai primi di luglio. Ma il Governo, per quello che mi consta, fino ad oggi non v’ha dato risposta.

Intanto si presentano delle situazioni aziendali che arrivano veramente allo spasimo, come è la situazione dell’«Ansaldo». Così si possono pregiudicare, definitivamente forse, le sorti del settore più interessante e promettente della nostra economia industriale, anche se si tratta di quello dove più gravi sono gli oneri della riconversione. È sullo sviluppo della nostra industria meccanica che si fonda l’avvenire del nostro sistema industriale, e questa trascuranza da parte del Governo è cosa che veramente non si sa in che termini deplorare.

Io direi che il Governo – qualunque sia la composizione, il suo colore – è sempre in dovere di tutelare gli interessi dello Stato; e qui non è questione di seguire una ideologia liberalista o collettivista. Non si può chiudere gli occhi alla realtà delle cose, che è rappresentata – come prima dicevo – dall’estensione che ha avuto il settore pubblico della nostra economia. Non è lecito dilapidare in questo modo un patrimonio di ricchezza e di lavoro che è dello Stato, che è della collettività.

Ed è veramente inconcepibile, onorevole Einaudi, onorevole Togni, il disordine che è cresciuto nell’amministrazione di questi beni dello Stato: i conflitti che si sviluppano in seno all’I.R.I., tra le banche e le industrie dell’I.R.I., tra la Finsider, raggruppamento siderurgico dell’I.R.I., e le aziende meccaniche dell’I.R.I.

È scandaloso il mancato coordinamento e le collisioni che si verificano oggi fra 1’I.R.I, 1’I.M.I. e la Banca d’Italia. Un tale assurdo stato di conflitto, che si è acutizzato sempre più in questi mesi, dobbiamo ben domandarci dove ci porterà.

È in ogni modo uno stato di cose che dimostra – a parer mio – una cosa molto semplice: che questo Governo amministra male!

Onorevoli colleghi, voglio rilevare che una tale situazione è tanto più pericolosa in quanto mai, come dalla costituzione di questo Governo, è stata così grande la possibilità di influenza e di comando dei gruppi e degli aggregati capitalistici. Essi hanno trovato la via libera in tutti gli organismi dell’amministrazione, anche in quelli che sono più vicini alla Presidenza del Consiglio, e vi hanno annidato i loro uomini. Sono essi che tirano i fili dei molti Comitati e delle troppe Commissioni, sono essi che spadroneggiano negli uffici come non mai! Lo Stato abdica alla condotta della siderurgia e cede ai ricatti di questi gruppi: ha uno strumento possente per dominare, e sono le aziende siderurgiche dell’I.R.I.; ma i consorzi di approvvigionamento che si chiamano Campsider, Camfond… questi, onorevoli colleghi, sono nelle mani di agenti dell’industria privata!

E avrei voluto citare a questo punto la tracotanza dei nostri armatori, ma sono rimasto sconcertato dalle spiegazioni che il Ministro Cappa è stato un momento fa così sollecito a dare all’onorevole Aldisio.

Già, lo sappiamo come sono messi a profitto i dollari ricavati dai noli, che questi armatori dicono dovrebbero servire al pagamento delle navi che sono state loro assegnate! Quando invece, le navi Liberty sono state cedute dall’America, con pagamento ventennale a un tasso molto basso (il 2% per cento mi pare) e tutti sanno che i nostri armatori, dopo un anno e mezzo o due anni di corsa sono in grado pagarle per intero, o di comprarsi un’altra nave che possa magari viaggiare sotto bandiera straniera.

È uno scandalo questo, e non lo diciamo noi per fare della demagogia, ma lo dicono i vostri consiglieri aulici, gli addetti americani. Voi lo sapete benissimo, voi che siete al Governo, che avete contatti continui con queste persone, voi sapete che se un rimprovero ci si fa da parte del Dipartimento di Stato americano è lo sperpero della valuta ed il protezionismo folle che noi accordiamo agli armatori. Non meravigliamoci, poi, che questa gente possa foraggiare così abbondantemente i giornali, in vista di influire sull’opinione pubblica. (Applausi a sinistra).

In verità, mai come in questo Governo omogeneo e tecnico si è riscontrato una mancanza di coordinamento ed una contraddittorietà più grande nell’azione di Governo. A chi si connette, onorevole Presidente del Consiglio, la nostra Delegazione a Parigi? Noi sappiamo di un conflitto con la burocrazia del Ministero degli esteri. Noi sappiamo che la burocrazia del Ministero degli esteri si affatica a mettere su un suo piccolo C.I.R. in contrapposto al grande C.I.R. Intanto i Dicasteri vanno ognuno per conto suo e la Banca d’Italia tende ad obiettivi suoi propri, trapassando di forza tutti i diaframmi ministeriali.

Questo è un quadro a tinte molto attenuate della nostra situazione, dei risultati che ha dato in pochissimi mesi la politica di questo Governo. Io voglio tacere delle prospettive che ci si aprono… Ma un’analisi come questa, l’analisi dei fatti, non scopre tutta la portata del male. È qualche cosa che si avvicina ad una vera e propria disintegrazione dello Stato. È una società che minaccia di essere smagliata attraverso l’esasperazione di tutti i contrasti e conflitti di interessi, attraverso la cieca politica di parte che si fa.

È una situazione dalla quale bisogna al più presto uscire, perché essa potrebbe originare un grave processo degenerativo tale da compromettere l’attività vitale del nostro Paese.

Onorevoli colleghi, tiriamo le somme ed io arrivo alla conclusione.

Che cosa imputiamo noi a questo Governo?

Gli imputiamo:

di avere in questi quattro mesi enormemente aggravato la nostra situazione economica e finanziaria, rinunziando ad ogni azione sistematica per fronteggiare l’inflazione;

di avere svolto azione contradittoria e incoerente nei settori della politica creditizia, valutaria e dei prezzi, causando così sofferenze inutili, esasperando i vizi di un sistema che è da abbandonare, inserendo spinte dirette all’ascesa dei prezzi;

di non aver sentito l’imperativo di tutelare il patrimonio economico del Paese, rinunciando ad esigere anche un minimo di disciplina, dalla popolazione; mettendo in crisi una struttura nostra peculiare come è l’I.R.I.; riducendosi, come oggi avviene, a mendicare il carbone dall’America; accettando uno stato di minorità e di sudditanza col fatalismo con cui si esprimeva ieri il Ministro del commercio;

di essere sordo ai patimenti e all’accresciute sofferenze delle categorie lavoratrici, e proni invece alla prepotenza del capitale (Applausi a sinistra); di favorire l’invadenza dei gruppi affaristici; di respingere la volontà manifestata dai lavoratori di collaborare alla soluzione dei problemi più ardui della produzione (ricordo all’onorevole Togni certe promesse per i Consigli di gestione…); di avere accettato delle condizioni – se non si vogliono chiamare ricatti – dalle associazioni padronali (ancora intendo riferirmi ai Consigli di gestione); di praticare il liberismo dove si richiederebbe un controllo, e il vincolismo dove la libertà dei rapporti potrebbe giovare ai consumatori.

Onorevoli colleghi, in questo rovinio noi pensiamo che sia urgente raggiungere delle posizioni di sicurezza: semplicemente questo. Intendiamoci, noi restiamo convinti che non è con mezzi di ripiego, né con espedienti che si risolvono i grandi problemi della ricostruzione. Soltanto una impostazione di larghe vedute, una impostazione di essi che corrisponda alle esigenze dei tempi mutati ed affronti arditamente l’esigenza di profonde riforme e profonde innovazioni strutturali, ci può schiudere nuovamente la via del progresso.

E qui dirò, a questo proposito, che noi dobbiamo fieramente protestare contro il modo che si usa oggi dai sostenitori del Governo e perfino dalla stessa Democrazia cristiana, di scaricare sul tripartito la responsabilità di non avere affrontato questi problemi, di non avere recato in atto mai una politica organica, quando invece questo fu lo sforzo costante e tenace dei partiti di minoranza al Governo, tagliati fuori come erano da certi posti di comando o tallonati in modo da elidere le loro forze. Del resto, quale ragione ebbe la crisi di aprile, se non la deliberata volontà della Democrazia cristiana di sottrarsi a questa pressione?

Ormai noi consideriamo che sul conto di questi problemi si debba pronunciare il popolo nelle prossime elezioni; e non è nelle condizioni in cui versiamo, in questo scorcio di vita dell’Assemblea Costituente, in un’ora conturbata da così accesi contrasti, che questo tema delle grandi riforme strutturali si pone per noi.

L’onorevole Saragat ha espresso al riguardo un suo punto di vista diverso dal nostro. Prendendo le distanze dall’estrema sinistra – da socialisti e comunisti – egli ha offerto alla Democrazia cristiana i buoni uffici di qualche provetto pianificatore. Anche questa è un’idea, che presumo troverà però degli intoppi per realizzarsi negli interessi e nella volontà della Democrazia cristiana. Passare di punto in bianco alla pianificazione, è una bella idea, bellissima anzi per noi socialisti, ma l’onorevole Saragat dovrebbe sapere, che disgraziatamente con lo schieramento attuale delle forze politiche, dopo la rottura causata dall’impennata della Democrazia cristiana ad aprile, questo è possibile solo nella esatta misura, in cui il compito di pianificare è stato proposto a quella specie di accademia bizantina, la quale vi può lavorare attorno vent’anni prima di concludere qualcosa.

Da qui alle elezioni, dalle quali faremo tutto il possibile perché ci vengano suffragi bastevoli a darci la forza necessaria a recare in atto un’economia programmata; da qui a primavera noi ci appaghiamo di mettere il Paese al riparo dall’inflazione, di salvare i lavoratori dalle miserie e dalla desolazione che essa seminerebbe.

Gli obiettivi del momento tutti si concentrano in questo programma fondamentale: consolidare i salari reali, per spezzare la spirale dei prezzi e salari. Ed io penso che, dopo tanto discutere, e con tanto scetticismo che si è radicato nella popolazione, la questione sia di cercare un valido punto di attacco. Questo può essere rappresentato da un mutamento radicale della nostra politica valutaria.

È questa, io ritengo, la via più diretta che oggi noi si possa tenere, e l’azione più pronta che si possa svolgere, per la difesa dei salari e della moneta.

Il controllo integrale della valuta e una opportuna manovra degli scambi è il mezzo più efficace per spezzare le reni alla speculazione, ed influire beneficamente sui prezzi. Questa azione deve essere rincalzata da uno sforzo serio di regolamentazione dei settori più facilmente manovrabili della produzione e del consumo, attraverso soprattutto un indirizzo, che deve essere segnato agli investimenti ed al credito.

Bisogna poi applicarsi con energia estrema e con il massimo impegno nell’azione fiscale. Noi, onorevole Pella, la vorremmo più dura.

È necessario, poi, intraprendere un’azione diretta sull’andamento dei prezzi delle derrate alimentari e dei generi di più largo consumo.

Non si può differire più la riorganizzazione dell’I.R.I., che è uno strumento di importanza capitale per un Governo che voglia sviluppare una politica economica.

Si deve assicurare allo Stato la partecipazione fattiva dei lavoratori, perché lo sforzo che ci si impone non può essere superato con i mezzi comuni dell’amministrazione.

Ma – se a questo si possono ridurre le esigenze imperiose del momento – io mi domando: sono queste, cose che possa fare l’attuale Governo?

La nostra risposta la conoscete già: no, nettamente no! Questo Governo ha già fallito – e non poteva non fallire – nel compito di difendere la moneta, perché si è estraniato dal popolo e dalle categorie lavoratrici per operare sotto la suggestione di quelle esigue minoranze che il Presidente del Consiglio, non io, ha battezzato efficacemente come il «quarto governo».

Non è questo un Governo che possa più raddrizzare il corso pericoloso della politica svolta fin qui. Lo potrà fare solo un nuovo Governo che riscuota la fiducia dei ceti popolari e che sia in grado di determinare, prima di ogni altra cosa, una benefica distensione politica come premessa all’azione di difesa e di consolidamento della nostra economia;

la fiducia di chi dovrà sempre, in definitiva, sopportare i sacrifici maggiori e gli oneri più gravi;

la fiducia di chi conserva l’orgoglio della sua terra e del proprio lavoro, e non di chi ha spirito rinunciatario. (Vivi applausi a sinistra – Molte congratulazioni).

PRESIDENTE. Ha chiesto di parlare l’onorevole Ministro dell’industria e commercio. Ne ha facoltà.

TOGNI, Ministro dell’industria e commercio. Molto si è parlato e molto si è criticato circa l’andamento dei prezzi, troppo spesso in funzione polemica, esaminando il fenomeno nei suoi aspetti puramente apparenti e superficiali, omettendo di valutarlo con quel senso di doveroso realismo che, al disopra e al difuori di ogni concezione o posizione politica, deve essere tenuto presente nell’apprezzamento di così rilevanti e vasti fenomeni economici.

Infatti, l’aumento dei prezzi in Italia non è che un aspetto particolare di un fenomeno generale che in questo dopoguerra si è manifestato, può dirsi, nel mondo intero.

Negli stessi Stati Uniti d’America, dove la produzione industriale ha raggiunto nel 1946-1947 livelli assai prossimi a quelli massimi del periodo .bellico, l’indice dei prezzi all’ingrosso è passato da 144 pel luglio 1946 a 163 nel dicembre dello stesso anno, e a 170 nel maggio del 1947.

In Francia l’indice dei prezzi all’ingrosso è passato da 648, media annuale del 1946, a 946 nel maggio 1947, e continua a salire, fatto cento il 1939.

Negli altri paesi il fenomeno è meno accentuato, ma la tendenza all’aumento è comune.

In Italia, su uno sfondo determinato dalla situazione mondiale, si sono inseriti fattori locali che hanno esasperato il fenomeno. È principio universalmente accettato che vige una ferrea interdipendenza fra i prezzi della massa dei prodotti disponibili sul mercato ed il volume della circolazione, con cui i primi si devono scambiare. Se la circolazione aumenta e a tale aumento, come nel nostro caso, non corrisponde un’adeguata maggiore produzione, i prezzi fatalmente si elevano.

Fra i fattori che in concomitanza con l’aumento della circolazione hanno contribuito all’aumento dei livelli dei prezzi, sono da annoverare essenzialmente: l’insufficiente incremento della produzione, collegato anche ad una scarsa produttività del lavoro; la speculazione, la cui esistenza sarebbe assurdo negare; l’inasprimento di un livello dei cambi nella scorsa primavera e di cui si risentono gli effetti con qualche mese di ritardo in relazione al periodo di tempo richiesto dal ciclo produttivo; l’adozione della scala mobile che opera in una sola direzione e consolida aumenti, che in condizioni normali potrebbero essere riassorbiti dalla dinamica del mercato.

L’aumento dei prezzi non ha certo inizio dal giugno 1947. A partire dall’estate del 1946, infatti, dopo un periodo di stasi, i prezzi riprendevano il movimento di ascesa, con ritmo dapprima moderato, poi, via via, più veloce, come dimostra l’indice dei prezzi all’ingrosso calcolato dall’istituto centrale di statistica, che ha avuto il seguente andamento: settembre 1946, 3.011; ottobre 3.176; novembre 3.376; dicembre 3.677; gennaio 1947, 3.754; febbraio 3.891; marzo 4.139. Onorevole Morandi, ascolti anche l’indice di aprile e quello di maggio che lei ha dimenticato di ricordare nel suo discorso: aprile 4.533; maggio 5.203; giugno 5.329; luglio 5.779. (Interruzione del deputato Morandi); agosto 5876. Dal settembre 1946, quindi, l’indice ha subito un aumento di quasi il 95 per cento. Ma è da rilevare che il 78 per cento di questo aumento si era già verificato fin dal giugno del 1947. (Approvazioni al centro).

Per l’indice del costo della vita per la sola voce alimentazione, l’aumento dell’agosto 1947 rispetto al settembre 1946 è dell’82 per cento, ma nel giugno si era già al 70 per cento.

MORANDI. Perché non prende gli altri mesi del 1947?

TOGNI, Ministro dell’industria e commercio. Non si sono ancora calcolati gli indici per tutto il mese di settembre, ma gli indici decadali dei principali generi alimentari, calcolati dall’Istituto centrale di statistica, mostrano per le ultime decadi calcolate una stazionarietà per i prezzi legali di mercato libero, ed una lieve diminuzione dei prezzi del mercato nero dovuta essenzialmente al ribasso dei prezzi dell’olio e dello zucchero. (Commenti a sinistra).

Inoltre un esame degli indici dei prezzi all’ingrosso ufficiali ed effettivi dei mesi di luglio e agosto (qui bisogna distinguere i tre prezzi calcolati dall’Istituto di statistica, il quale calcola il primo indice sui prezzi bloccati, il secondo indice così detto dei prezzi effettivi in base agli altri prezzi liberi perché non bloccati, il terzo indice è quello del cosiddetto mercato nero, vale a dire dei prezzi bloccati e che sono soggetti alla regolamentazione) mostra una tendenza che non si può essere autorizzati ad interpretare come un miglioramento, ma che potrebbe costituire il presupposto di una posizione più riflessiva che può preludere anche ad inversione del fenomeno.

Difatti il rallentamento dei movimenti di ascesa degli indici dei prezzi ufficiali all’ingrosso palesatosi nel mese di giugno ha avuto il seguente andamento:

Incremento di giugno rispetto al maggio + 2,90

di luglio rispetto a giugno 43,80;

di agosto rispetto a luglio + 0,9.

L’aumento del mese di luglio rispetto al precedente è dovuto specialmente all’aumento del prezzo ufficiale del grano deciso dal Governo in relazione al voto espresso dal Governo precedente per l’abolizione dei prezzi politici.

Le variazioni percentuali dell’indice dei prezzi ufficiali di categoria nei mesi di luglio ed agosto rispetto ai mesi precedenti sono le seguenti:

materie grezze: luglio, aumento percentuale rispetto a giugno + 19,5; agosto, aumento percentuale rispetto a luglio + 1,2;

materie semi lavorate, luglio + 0,90; agosto + 2;

prodotti lavorati, luglio + 14,5; agosto + 0,1.

Gli incrementi sono quindi decrescenti, fatta eccezione per i semi lavorati per i quali si è verificato un lieve aumento a causa della variazione dei prezzi dei materiali siderurgici.

È difficile affermare – dato anche il breve periodo di tempo esaminato, in quanto non bisogna dimenticare che tre mesi e mezzo di Governo sono pochi, troppo pochi, perché si possa, non dico giudicare i risultati raggiunti sul piano economico, ma anche e semplicemente impostare una critica obiettiva e serena sugli stessi – se questi sintomi possono essere considerati come effetto dell’azione del Governo, anche perché interferiscono in questo periodo cause di carattere stagionale. Tuttavia se si volesse polemizzare si potrebbe affermare che l’impazienza dei critici è veramente eccessiva, perché, indipendentemente da questi sintomi favorevoli, è chiaro che qualsiasi provvedimento, specialmente quando deve operare in un periodo così delicato e in un momento come quello che attraversa il popolo italiano, ha bisogno di un minimo di tempo per divenire operante. L’attuale Governo si è trovato difatti, come del resto tutti i precedenti, nella necessità di dover contemperare le esigenze di carattere economico con quelle di carattere sociale, esigenze che – come è noto – sono il più delle volte contrastanti, ed alle quali non ha inteso, ovviamente, sottrarsi.

Peraltro, quando il Governo ha cercato di porre in qualche modo rimedio al deficit del bilancio aumentando le tariffe ferroviarie e postali e il prezzo dei generi di monopolio e adeguando parzialmente il prezzo del pane – in relazione anche al deliberato del precedente Governo – la stampa di opposizione ha messo il campo a rumore ed ha presentato questi aumenti come causa di ulteriori aumenti.

Se ciò può esser vero, in linea assoluta, non bisogna trascurare in questi problemi il senso della proporzione. È sufficiente, invero, considerare l’incidenza di queste tre voci sui bilanci familiari per convincersi che esse non possono avere influito in misura apprezzabile sull’indice del costo della vita, né possono, quindi, essere state causa di grandi squilibri nel sistema dei prezzi, come si vorrebbe far credere.

Vi è da considerare, inoltre, il fenomeno della speculazione. Non si può negare che il fenomeno della speculazione esiste; ma non si può nemmeno dimenticare che la speculazione – che in condizioni normali è un fenomeno marginale – è in sostanza, ora, la conseguenza e non la causa prima dell’aumento dei prezzi. La speculazione tende a sparire o a restringersi entro certi limiti quando la moneta è stabilizzata e quando la produzione sodisfa le esigenze del mercato. Fino a che il bilancio dello Stato non sarà risanato, sarà difficile parlare in Italia di stabilizzazione; ma condizione prima perché il bilancio possa risanarsi è di avere un periodo di normalizzazione e di stabilità sociale.

Nella situazione attuale è naturale riconoscere che le critiche sono facili e a queste non intendiamo sottrarci, quando, soprattutto, diano un apporto costruttivo. Ma è deplorevole quella critica che sotto l’apparenza tecnica tramuta ì problemi e, inconsciamente o consciamente, confonde in un gioco intricato la causa e l’effetto, come è estremamente facile nel campo economico, disorientando l’opinione pubblica.

È sulle cause prime che bisogna agire e non sui sintomi: e il fenomeno dei prezzi è un sintomo e non una causa e quando si agisce sui sintomi di una malattia la guarigione non è mai immediata, anzi una guarigione che avesse come risultato la scomparsa dei sintomi non sarebbe tale. Facendo questo, ammettendo cioè che un’azione sulla causa prima produce effetto a scadenza relativamente lunga, si ammette implicitamente che l’azione del Governo deve agire anche direttamente sul fenomeno dei prezzi, escogitando rimedi che agiscano il più possibile prontamente su di esso.

Infatti, il Governo ha deciso alcune misure miranti ad istituire un severo controllo dei prezzi. Il Comitato interministeriale ha dovuto affrontare, subito dopo il suo insediamento nella nuova composizione governativa, problemi che o erano rimasti in sospeso, o erano conseguenze di provvedimenti adottati in precedenza o, comunque, erano stati lasciati in eredità a rima obbligata dal precedente Governo. E le questioni da risolvere sono state esaminate con spirito restrittivo, ma obiettivo, non potendosi prolungare oltre uno stato di disagio e un marasma che rendevano inoperante una disciplina ed un controllo dei prezzi.

Abbiamo ritenuto doveroso affrontare alcuni problemi da tempo sospesi che ben sapevamo si sarebbero prestati a facile e superficiale critica, ma che il nostro senso di responsabilità, al di sopra di ogni interesse elettoralistico, ci imponeva di affrontare decisamente e di risolvere decisamente, nell’interesse obiettivo di una sana economia.

Sono ben noti i provvedimenti adottati nel settore agricolo, ed in particolare il parziale adeguamento al prezzo di costo del prezzo del grano, in ottemperanza – come abbiamo già detto – ad una precedente decisione del Governo in materia di prezzi politici. È bene qui ricordare che i prezzi attuali del pane non sono stati ancora allineati con l’effettivo costo del grano del nuovo raccolto e di importazione e che è rimasto a carico del bilancio dello Stato un onere ancora notevolmente elevato, il quale costituisce la preoccupazione del Ministero del tesoro.

In relazione al prezzo delle barbabietole, stabilito nel mese di marzo del corrente anno e degli aumentati costi di lavorazione, è stato fissato il prezzo provvisorio dello zucchero della corrente campagna in lire 155 al chilogrammo. Allo scopo poi di rendere meno gravoso l’aumento per il consumo diretto, il Comitato ha deciso di fissare in lire 120 al chilogrammo il prezzo dello zucchero destinato all’alimentazione mediante tessera, facendo gravare la differenza rispetto al prezzo medio dello zucchero destinato agli usi non soggetti alla disciplina del tesseramento. L’aumento per l’alimentazione mediante tessera è stato perciò di lire 45 al chilogrammo, anziché di lire 80 come sarebbe risultato applicando il prezzo medio generale.

Nel settore dei prodotti industriali, si è dovuto riconoscere, alla metà di giugno del corrente anno, un aumento di lire 1.000 a tonnellata per il carbone di importazione, in relazione alle mutate condizioni di acquisto; aumento che è stato contenuto in lire 500 a tonnellata per il carbone destinato alle officine da gas. In conseguenza di ciò, è stato aggiornato il prezzo del coke, il che ha evitato un aumento del prezzo del gas.

L’aumento del carbone era già maturato fino dal maggio del corrente anno, in relazione al costo dei noli e al nuovo sistema di approvvigionamento del carbone attraverso l’Ente approvvigionamento carboni, sistema questo che richiede un’esposizione di capitali maggiore di quella che si aveva con il sistema delle vendite effettuate dall’Ufficio centrale carboni.

È opportuno ricordare che la valutazione del prezzo dei carboni è stata fatta con il dollaro a 400 lire e che, in una prima fase, i prezzi stabiliti risultavano alquanto inferiori agli effettivi costi. Il favorevole andamento del mercato dei noli ha portato una riduzione nei costi del carbone, tanto da tranquillizzare su una stabilità dei prezzi interni per l’immediato avvenire.

Nello stesso mese di giugno, si è dovuto apportare un modesto aumento al prezzo dei carburanti e precisamente in ragione di lire quattro al litro per la benzina e di lire 2,50 al litro per il gasolio, sempre in relazione alle mutate condizioni di acquisto. Del resto anche questo aumento era già maturato nel mese di maggio, in relazione ai maggiori costi all’origine.

La valutazione dei prezzi dei carburanti è stata mantenuta in lire 400 per dollaro, nonostante che la media dei prezzi risultasse allora superiore a detta cifra. Un sensibile ribasso nel corso del dollaro libero ha neutralizzato l’aumento del corso ufficiale del dollaro, tanto che oggi la media tra il corso libero e quello ufficiale è all’incirca di lire 500 per dollaro ed è quindi da ritenersi che non vi saranno ulteriori aumenti in questi prodotti.

La revisione dei prezzi dei concimi chimici si è resa necessaria in relazione all’aumento dei costi delle materie prime, del materiale di consumo e della mano d’opera. Sarà anzi opportuno tener presente che la fissazione del prezzo dei concimi vale per il periodo della campagna primaverile ed autunnale.

Sullo stesso piano va considerato il prezzo del carburo di calcio, prodotto che serve alla produzione dei concimi chimici, per la quale, peraltro, si è ottenuta la parificazione del prezzo per tutte le stazioni franco destino a lire 65 al chilogrammo, in confronto ai prezzi di lire 41, 46, 51 al chilogrammo, che erano stati stabiliti nelle varie zone nell’aprile del corrente anno.

Altro settore che ha richiesto una particolare sistemazione è stato quello dei prodotti siderurgici, nel quale settore si era ormai affermata una completa indisciplina sia nei riguardi dei prezzi, sia nei riguardi dell’obbligo della consegna del 60 per cento della produzione agli usi preferenziali per le amministrazioni di Stato. E proprio le aziende che in prevalenza sono dell’I.R.I., sono state quelle che hanno fatto maggiori pressioni, in quanto le loro situazioni economiche richiedevano effettivamente un intervento in questo senso.

Per accelerare le consegne necessarie alla ricostruzione del Paese è stato deciso, a titolo di esperimento, di creare due listini di prezzi: un listino ufficiale, per i prodotti siderurgici, circa il 60 per cento, destinati alle quote preferenziali; un listino dei prezzi liberi autocontrollati dall’associazione di categoria, per i prodotti siderurgici destinati ad altri consumi.

Con tale provvedimento si è inteso assicurare il regolare rifornimento per le quote preferenziali e nel contempo, attraverso gli impegni assunti dai produttori, di ottenere una riduzione nei prezzi della cosiddetta «borsa nera». L’aumento dei prezzi, attuato il 27 agosto, per la quota preferenziale è di circa il 25 per cento su quelli del maggio del corrente anno; mentre i prezzi della quota libera non dovrebbero superare del 20 per cento quelli ufficiali.

Naturalmente, oltre le ragioni su esposte, hanno contribuito alla revisione dei prezzi l’aggiornamento del costo dei rottami, dei combustibili e della mano d’opera. Come già detto, la soluzione adottata ha carattere sperimentale. Il Comitato interministeriale dei prezzi è deciso di adottare dei provvedimenti di controllo generale, nel caso che i risultati non corrispondessero alle aspettative.

In relazione alla nuova valutazione del cambio del dollaro, applicata alle materie prime impiegate nella fabbricazione dei pneumatici, si è dovuto procedere all’aggiornamento dei prezzi di vendita per questi prodotti, tenendo conto delle pure variazioni intervenute nei vari elementi di costo. L’aumento in media è stato del 30 per cento rispetto al febbraio 1947. In occasione di tale aumento è stato disposto un recupero a favore dello Stato sulle giacenze fabbricate a costi inferiori, che ha fruttato alcune centinaia di milioni.

Il settore dei pubblici servizi era stato in passato particolarmente compresso in relazione ai principî generali che ne informavano la revisione, senza tener conto delle adeguate quote per il rinnovamento degli impianti. Ciò ha causato perdite ingenti da parte di numerose pubbliche amministrazioni, e in particolare di aziende comunali, le cui amministrazioni, appunto, all’infuori di ogni colorazione politica, hanno costantemente fatto pressioni per un sollecito adeguamento.

Se criteri restrittivi potevano essere giustificati in un periodo di modesti aumenti dei materiali, essi potevano diventare deleteri in una fase di sensibili spostamenti e specialmente per la durata della loro applicazione. Già il Governo in varie riprese s’era espresso in senso favorevole alla abolizione dei prezzi politici, e tale principio ha trovato applicazione nell’aggiornamento delle tariffe delle Ferrovie dello Stato, dei telegrafi e delle poste. Con tali nuovi criteri dovevano perciò essere rivedute le tariffe dei servizi pubblici.

Prima del giugno del corrente anno sono stati aggiornati i prezzi del gas, in relazione agli aumenti intervenuti nei costi. E a tale proposito si ricorda che il Comitato decise di non concedere la retroattività per l’aumento del gas a Roma, consentito a fine luglio.

Con i nuovi criteri è stata esaminata la situazione delle tariffe degli acquedotti ed è stato concesso un aumento di circa il 50 per cento sulle tariffe del gennaio del corrente anno.

Con tale autorizzazione le tariffe degli acquedotti (nella quasi totalità di gestione comunale) presentano, secondo i casi, aumenti da dieci a quindici volte rispetto alla base 1942.

Per le tariffe dell’energia elettrica la questione si presentava più complessa, in quanto la precedente autorizzazione di aumenti era scaduta al 30 aprile corrente anno, senza che il Comitato avesse provveduto per una nuova decisione. I successivi rinvii avevano portato notevole perturbamento nelle aziende elettriche, che anche per assicurare l’esecuzione di nuovi impianti, avevano bisogno di stabilire l’equilibrio dei loro conti economici. Dopo numerose riunioni nelle quali il problema venne esaminato sotto tutti gli aspetti, è stato deciso di raddoppiare le tariffe precedentemente consentite, autorizzando una maggiorazione fino a 1300 per le imprese elettriche dell’Italia settentrionale e fino a 1500 per le altre imprese del Continente. Gli aumenti di cui sopra sono sempre riferiti ai prezzi bloccati del 1942, che praticamente risalgono al 1936, e in definitiva i nuovi prezzi sono pari a quattordici volte e, rispettivamente, a sedici volte il prezzo base del 1936. È opportuno far presente che per gli utenti di energia ad usi industriali, i suddetti coefficienti sono di molto inferiori a quelli risultanti per altre fonti di energia, come carbone e carburanti in genere.

Il Comitato si è preoccupato di salvaguardare le necessità degli utenti privati, per cui nello stesso provvedimento è stato deciso l’esonero dal nuovo aumento delle prime 30 Kwh annue per energia destinata all’illuminazione privata.

Si è fatto su questo dell’ironia, ma ci stiamo avvedendo in questi giorni, dalle richieste e dalle pressioni che vengono da ogni parte d’Italia, quanta importanza e quanto rilievo abbia questa esclusione che riguarda esercizi interi di alcune compagnie della nostra penisola. Il miglioramento concernente le tariffe dell’energia elettrica è stato collegato al formale impegno che le stesse aziende hanno assunto di portare a compimento i programmi dei nuovi importanti impianti per assicurare al Paese la necessaria disponibilità di energia elettrica e, insieme, un forte assorbimento diretto e indiretto di mano d’opera. Non si esclude perciò un riesame della decisione, nel caso che l’esecuzione di tali impegni fosse di molto ritardata.

Per le stesse considerazioni è stato apportato l’aumento del 40 per cento sulle tariffe telefoniche urbane ed extraurbane, obbligando le società concessionarie ad adeguare gli impianti per il soddisfacimento delle richieste dei nuovi utenti.

Nel settore dei trasporti ferrotramviari in concessione, il Comitato ha affermato il principio che le tariffe per persone e cose non potranno superare quelle decise per le ferrovie dello Stato.

Dall’esame di quanto sopra risulta che, nel settore dei prezzi controllati, gli aumenti autorizzati sono contenuti al minimo indispensabile e sono dipendenti da valutazioni intervenute nella valutazione dei cambi e degli aumenti della mano d’opera e delle materie prime, in gran parte di importazione.

La prima fase dell’azione del Comitato, rivolta ad armonizzare i prezzi delle merci e dei servizi, che si trovavano sfasati rispetto alle nuove condizioni dell’economia generale, può considerarsi chiusa.

La nuova azione del Comitato si dovrà indirizzare in avvenire a comprimere le punte dei prezzi di quelle merci, non ancora controllate, che hanno raggiunto dei limiti eccessivamente elevati.

Inoltre, compatibilmente con l’andamento generale dei mercati, anche mondiali, e delle principali fonti di rifornimento, quest’azione dovrebbe essere diretta verso una generale compressione.

Difatti non si è voluto finora turbare eccessivamente l’economia del Paese, in fase di delicato consolidamento, ma la constatazione di alcune anomalie intervenute in determinati settori, induce a un riesame della situazione, tanto più che in altri Paesi sorgono voci autorevolissime per un ripristino del controllo dei prezzi, forse prematuramente abolito. Su tale piano devono essere considerate le disposizioni impartite ai Comitati provinciali dei prezzi, con invito a provvedere alla regolamentazione dei prezzi di vendita nelle rispettive provincie, e a esercitare il massimo controllo per il rispetto dei prezzi stabiliti.

Ancora un provvedimento che viene incontro anche ad una osservazione fatta testé dall’onorevole Morandi, è quello relativo alla istituzione del Corpo dei periti accertatori, i quali dovranno appunto appurare nelle aziende i prezzi di costo e la situazione economica delle varie industrie. È fermo proposito del Governo di dare ampia applicazione alle norme contenute nel decreto ed è bene che gli speculatori sappiano tale intendimento, per regolare la loro azione con le direttive generali che saranno applicate in tutti i settori.

Non voglio poi dilungarmi sul tema speculazione, perché l’onorevole Nenni ha dato atto al Governo delle ferme intenzioni con cui la lotta è stata intrapresa e dei risultati conseguiti, che, aggiungo, non sono disprezzabili, dato il limitato periodo di tempo avuto a disposizione e considerate tutte le difficoltà.

Da quanto esposto ritengo possa dedursi che il Governo non ha scientemente trascurato alcun possibile mezzo per agire sulla causa dell’ascesa dei prezzi. È chiaro tuttavia che un ulteriore miglioramento della situazione è essenzialmente connesso all’intensificazione dell’azione intrapresa, che ha di mira l’obiettivo fondamentale dell’aumento della produzione. Nei confronti dello scorso anno tale aumento si è indubbiamente realizzato, ma in misura inferiore alle aspettative per l’ancora insufficiente disponibilità di materie prime, di valuta pregiata, di capitale e di energia elettrica e termica.

Orbene, noi dovremo continuare a spingere la produzione verso quote sempre più alte mediante l’importazione di maggiori quantitativi di materie prime, mediante la riduzione dei costi, il perfezionamento e il rimodernamento dell’attrezzatura industriale, ed infine, oserei dire, con una maggiore e più ordinata produttività delle maestranze. Quale cammino abbia percorso l’attuale Governo per un raggiungimento dello scopo fondamentale dell’aumento della produzione, è illustrato dai seguenti dati di fatto.

Nel gennaio e nel febbraio del 1947 l’attività dell’industria italiana ha raggiunto il livello più basso dell’anno, avendo toccato il livello minimo il numero indice 43-42, fatto 100 quello del 1938, dopo la diminuzione che ebbe inizio nell’ottobre dello scorso anno. In quei mesi la produzione industriale fu quasi eguale nel suo complesso a quella dell’aprile del 1946. Ma bisogna considerare che nella primavera dello scorso anno si risentivano ancora gli effetti della grave situazione che dominò per quasi tutto l’anno 1945 l’industria italiana, come conseguenza diretta del conflitto. Sono note le cause fondamentali che dettero luogo ad una diminuzione del ritmo produttivo dello scorso autunno e dell’inverno: diminuita disponibilità dell’energia elettrica e di combustibile, materie prime fondamentali insufficienti ai fabbisogni, diminuzione delle esportazioni, originata dall’aumento dei costi e dal riapparire sui mercati mondiali della produzione di alcuni Paesi concorrenti.

La diminuita esportazione fu origine a sua volta di un ulteriore aumento dei costi, e si manifestò come causa concomitante dell’aumento dei salari e del prezzo delle materie prime fondamentali importate. Cominciava anche a risentirsi nei primi mesi dell’anno in corso la diminuzione degli arrivi del rifornimento U.N.R.R.A., che a partire dal secondo trimestre 1946 aveva dato un considerevole contributo all’economia italiana ed all’industria in particolare. A partire dal marzo 1947, la maggiore disponibilità di energia elettrica e più abbondanti arrivi di carbone dall’America, e in minor misura da altre fonti, dettero un forte impulso all’aumento della produzione industriale, cosicché il numero indice passò da 47 nel marzo a 52 nell’aprile ed a 61 nel maggio, raggiungendo così in tal mese il livello più elevato dopo la fine del conflitto.

Parametro fondamentale che regola la produzione industriale italiana è, come è noto, il carbone: talché si è potuto constatare in questi ultimi tempi, quando si sono verificate notevoli discontinuità nei rifornimenti e quando il fenomeno era macroscopicamente rilevabile, una quasi proporzionalità fra disponibilità di carbone, indice della produzione e occupazione operaia. Ecco perché nel mese di giugno, quando il Governo portò in causa il problema del necessario rifornimento di carbone, fu da noi considerato come uno degli obiettivi fondamentali nonostante che in quel periodo si manifestassero serie difficoltà non solo di carattere valutario ma anche di trasporto dall’America in Italia e da porti italiani ai luoghi di consumo. Tali difficoltà si sono volute superare e si sono superate.

Nei mesi di giugno, luglio e agosto, infatti le importazioni di carbone si sono aggirate, poco più poco meno, intorno al milione di tonnellate. Nel mese di giugno la cifra del milione di tonnellate mensili, che da tempo costituiva una specie di limite alle più ardite aspirazioni, è stata superata di cento mila tonnellate circa. Complessivamente, nel trimestre giugno, luglio, agosto, si sono importati 2.940.000 tonnellate contro 1.545.000 tonnellate del corrispondente periodo del 1946.

L’aumento è stato quindi del cento per cento, circa. Contemporaneamente nulla si è trascurato per aumentare al massimo possibile la produzione dei combustibili nazionali: carbone sardo e ligniti; per quanto è noto che, specie per il primo, difficoltà di ordine tecnico non consentono di spingere la produzione al di là di certi limiti. Nello stesso periodo considerato, la produzione di carbone sardo è stata di 318 mila tonnellate contro 276 mila nello stesso periodo del 1946, con un aumento del 20 per cento. Non è molto, ma le miniere sarde non possono dare per il momento molto di più, almeno fino a quando non sarà possibile attivare altre miniere secondo un programma elaborato in tutti i suoi particolari e che prevede di triplicare nei prossimi tre anni la produzione. La situazione del carbone è da considerare ora con una certa tranquillità e – a meno che non intervengano perturbamenti estranei alle nostre possibilità come gli scioperi nei luoghi di origine – ci consente di prevedere per il prossimo mese di ottobre una distribuzione di oltre un milione di tonnellate fra carbone d’importazione e nazionale; e per i prossimi mesi invernali, l’assegnazione, per la prima volta dopo il conflitto, di combustibile per il riscaldamento domestico. Provvedimenti atti a far pervenire ai consumatori un idoneo tipo di combustibile sono ora allo studio, mentre è stato deciso un aumento del potere calorifico del gas da 3200 a 3500 calorie e di sbloccare l’orario di erogazione. Una nota difficoltà, particolarmente sentita al presente e che ci lascia molto perplessi, è portata dalla ricerca dei mezzi valutari occorrenti per l’acquisto e per il trasporto di quasi 9 decimi dell’intero quantitativo dall’America, trasporto che richiede 9 dollari per tonnellata. Ma ciò costituisce una difficoltà di carattere generale che incide nel complesso dei rifornimenti dei materiali basilari per l’economia del Paese, compresi i prodotti alimentari. D’altra parte i rifornimenti che ci pervengono dagli Stati Uniti, a titolo gratuito, sotto forma di aiuti post-U.N.R.R.A., alleviano sensibilmente questa condizione di disagio.

Incidentalmente, aggiungo che il problema di un conveniente rifornimento di carbone è problema non soltanto italiano, ma europeo: a Parigi, durante le discussioni che si sono avute per il Piano Marshall, questo problema, la cui soluzione è per la nostra economia di capitale importanza, perché consentirebbe di ridurre notevolmente la spesa in valuta pregiata per il rifornimento di combustibile che ci è necessario, è stato ampiamente esaminato. Una maggiore produzione di carbone europeo ed un auspicabile spirito di collaborazione tra i paesi europei potranno risolvere, a non troppo breve scadenza però, questo importantissimo problema che domina la nostra produzione e la nostra economia.

Altra fonte di energia alla quale è strettamente legata la nostra produzione è l’energia elettrica. La stagione è da alcuni anni ormai eccezionalmente avversa, ma la produzione, confrontando periodi annuali corrispondenti, è in aumento. La produzione del trimestre giugno-agosto è stata di 5 miliardi e 283 milioni di Kwh, contro 4 miliardi 159 milioni prodotti nello stesso periodo dello scorso anno. L’aumento è stato quindi del 27 per cento. Purtroppo, alle deficienze idrologiche, si devono aggiungere quelle dovute alla mancata costruzione di impianti elettrici nel periodo bellico ed in quello immediatamente post-bellico, aggravate dal fatto che i consumi di energia elettrica sono notevolmente aumentati e non sono oramai più soddisfatti da una produzione che ha già raggiunto il livello prebellico.

Il problema di disporre di adeguati quantitativi di energia per far fronte alle richieste in continuo aumento non può essere risolto che in una sola direzione: intensificare la costruzione di nuove centrali e di nuovi serbatoi. I programmi esistono e le buone intenzioni anche; così, negli scorsi mesi, superando notevoli difficoltà collegate in gran parte alla scarsa disponibilità di materie prime, si è dato inizio ad importanti lavori idroelettrici, che gli industriali elettrici si sono formalmente impegnati di proseguire. Gli aumenti delle tariffe sono stati concessi anche, come già rilevato, per questo impegno, e noi non esiteremmo a rivedere la situazione delle tariffe accordate se questo impegno non dovesse essere mantenuto.

Naturalmente i finanziamenti esteri, necessari in tutti i settori, ma soprattutto in questo, potrebbero, se concessi tempestivamente, contribuire potentemente alla soluzione di questo altro problema, che costituisce un altro assillo ad ogni ritorno della stagione invernale.

Basti rilevare che, per il raggiungimento del potenziale di 40 miliardi di Kwh, che costituisce la unità prefissaci, occorrono oltre mille miliardi di lire.

I prodotti petroliferi costituiscono una altra fonte di risorse energetiche di grande importanza. L’approvvigionamento e la distribuzione dei quali, nonostante le difficoltà che si devono quotidianamente superare, hanno avuto, in questi ultimi mesi, un andamento soddisfacente, soprattutto quando si consideri che la richiesta di essi non solo ha superato notevolmente quella dello scorso anno, ma per il gasolio e gli olii combustibili è maggiore financo di quella prebellica. I consumi medi mensili di benzina, petrolio, gasolio ed olii combustibili sono stati, rispettivamente, nel primo semestre del 1947 di 29.801 tonnellate, 12.457 tonnellate, 32.718 tonnellate e 134.252 tonnellate e, percentualmente, rispetto a quelle del 1938: 83,2 per cento, 83,8 per cento, 148,5 per cento e 161,50 per cento. Sono notevolmente aumentati, come si vede, i consumi di gasolio e di olì combustibili a causa delle maggiori richieste dei mezzi di trasporto su strada azionati con motori a gasolio, dell’agricoltura e degli impianti industriali. Questi ultimi hanno trasformato molti impianti di combustione dall’alimentazione a carbone a quella ad olio combustibile.

Nei recenti mesi i prodotti petroliferi distribuiti hanno raggiunto livelli ancora più alti di quelli del primo semestre in relazione alle aumentate esigenze ed all’incremento della produzione industriale, per cui oggi si distribuisce per la benzina 1’83 per cento, per il petrolio il 133 per cento, per il gasolio il 215 per cento e per l’olio combustibile oltre il 200 per cento di quanto si distribuiva nel 1938.

Nel soddisfacimento del fabbisogno di codesti prodotti si rileva quindi un progressivo miglioramento e si comprende quale sforzo organizzativo e tecnico si deve compiere in questo settore per superare le difficoltà di carattere valutario e quelle collegate ai trasporti ed allo stesso reperimento dei prodotti petroliferi sui mercati mondiali. La produzione delle raffinerie italiane ha portato, dalla fine dello scorso anno, un contributo apprezzabile per ogni fabbisogno di prodotti finiti petroliferi, contributo che è in continuo miglioramento e consente di risparmiare valuta pregiata.

La produzione delle nostre raffinerie, che nel trimestre giugno-agosto è stata di 336.310 tonnellate di prodotti lavorati, ha raggiunto così il 75 per cento del livello della produzione del 1938. Nel complesso si può affermare che la situazione energetica del Paese nel secondo trimestre dell’anno e, più ancora nel terzo trimestre, è andata progressivamente migliorando ed ha contribuito fortemente allo sviluppo del ritmo della produzione industriale. L’inverno, non molto lontano, porterà inevitabilmente minori disponibilità di energia elettrica, ma le restrizioni che si prospettano fino ad ora saranno attenuate da disponibilità più adeguate al fabbisogno di carbone e di combustibili liquidi e da una più oculata distribuzione. Il miglioramento della situazione energetica ha avuto – come è stato detto – immediati riflessi sul livello della produzione industriale il cui indice generale, riferito alla media del 1939 fatta uguale a 100, che era disceso a 42 nel mese di febbraio, si è elevato a 61 nel mese di maggio ed a 68 in quello di giugno. Non sono stati ancora calcolati gli indici per i mesi di luglio e di agosto, ma valutazioni approssimative indicano che in questo periodo l’indice è salito a 72-75 per cento rispetto alla media dello stesso periodo dello scorso anno: si ha quindi un miglioramento di oltre 20 punti, e ciò costituisce un risultato veramente apprezzabile, quando si considerino le difficoltà di tutti i generi che l’industria italiana e gli organi di Governo hanno dovuto affrontare.

A questa migliorata situazione ha contribuito la produzione dell’acciaio che è stata, nel bimestre giugno-luglio, di 329.516 tonnellate contro 215.381 tonnellate nel corrispondente periodo del 1946 (aumento 53 per cento); della ghisa: tonnellate 80.337 contro 48.251 (aumento 67 per cento); del cemento: tonnellate 592.000 conto 337.000 (aumento 79 per cento); dei tessili artificiali (aumento del cento per cento); della soda; dei prodotti chimici; dei fertilizzanti.

Le autovetture prodotte nello stesso periodo sono state 4.516 contro 1.697 (aumento 165 per cento); gli autocarri 3.418 contro 2.980 (aumento 15 per cento); i pneumatici 165.557 contro 120.620 (aumento 38 percento).

L’industria tessile ha conservato, nel trimestre maggio-luglio, un’attività produttiva all’incirca uguale a quella del corrispondente periodo del 1946, durante il quale questo settore industriale lavorò a pieno ritmo. Precisamente, durante i mesi di maggio, giugno, luglio, il cotone entrato in mischia nella filatura ammontò a 43.665.338 chilogrammi, col quale si produssero 38.678.109 chilogrammi di filati. 13.000.000 di chilogrammi di filati furono consumati come tali all’interno o destinati all’esportazione; i rimanenti furono impiegati nella tessitura che ha prodotto, nello stesso periodo, 22.000.000 di chilogrammi circa di tessuti, cioè una produzione corrispondente all’incirca alla capacità di trasformazione dei normali anni pre-bellici,

E qui ritengo necessario accennare alla produzione dei tessili U.N.R.R.A., che per il suo considerevole volume non potrà non esercitare, quando sarà immessa al consumo nella sua totalità, un benefico influsso. È da notare che di recente vi sono state alcune polemiche della stampa, molto precipitose nella forma e nella sostanza, che volevano criticare dei provvedimenti presi da noi, nel senso di migliorare l’amministrazione dell’U.N.R.R.A. tessile e di completare la sua attrezzatura interna. Il programma prevede, come è noto, l’allestimento di tessuti di cotone, lana, matasse per maglierie, ecc. ed un limitato quantitativo di scarpe. Senza dilungarci in questa descrizione, preciso che, nel complesso, dal programma del cotone dovranno essere ricavati 150 milioni di metri di tessuti. Il programma del cotone è già a buon punto: oltre una metà è stato distribuito ed attualmente è in corso la distribuzione proprio nella provincia di Roma. Il programma della lana è in ritardo, in quanto è stato più difficile fare la cernita della produzione e la distribuzione alle industrie, le quali hanno assunto l’impegno di mettere a disposizione per queste lavorazioni il 30 per cento del loro potenziale.

Ma nel complesso, data la nuova organizzazione, che è stata completata più snella, più agile, più efficace nei suoi controlli e nel suo funzionamento, noi riteniamo di poter affrettare, accelerare il programma U.N.R.R.A., sicché anche la distribuzione di tutto il quantitativo della lana, che ammonta a circa 38 milioni di metri, possa essere distribuito ancora nella prossima primavera.

Dai dati in precedenza esposti si è rilevato come un notevole aumento della produzione si è quindi avuto ed in alcuni settori esso è stato di entità considerevole. Purtroppo però alle migliorate condizioni di produzione e alla diminuzione dei costi unitari conseguente all’aumento del volume della produzione non ha fatto finora riscontro una generale e decisa diminuzione dei prezzi. E ciò, a mio parere, perché il benefico risultato è stato più che neutralizzato, assorbito da quel complesso di cause agenti in senso contrario, già citate.

Vi è infine un’ultima causa a cui voglio accennare, ed è quella dell’aumento di taluni consumi. Questi difatti, se nel loro complesso sono notevolmente inferiori a quelli prebellici, in alcuni settori, in ispecie quelli voluttuari, e per alcuni strati della popolazione, sono aumentati, come si rileva da una recente pregevole pubblicazione del professore Albertani.

Quando affermo ciò non vorrei essere frainteso, perché è noto che il tenore di vita del popolo italiano si è nel suo complesso fortemente abbassato, ma intendo dire che la corsa ai consumi in determinati settori ed in casi ben definiti ha sottratto beni e capitali che avrebbero dovuti essere destinati a scopi ben più produttivi. Questo ha influito, e non poco, sulla formazione del risparmio che non aumentando come sarebbe stato logico, è stato causa non ultima dell’attuale critica situazione creditizia.

Da alcuni è stato fatto osservare che non vi è ora uomo politico in Italia in grado di convincere alcune categorie di italiani a ridurre certi determinati consumi. È una affermazione che ha il suo sfondo di verità, specialmente quando si tenga conto di quella ben nota atmosfera psicologica che si determina in tutti i Paesi del mondo e in tutti i dopoguerra; ma non voglio essere così pessimista; affermo che è solo una questione di tempo e di convinzione. Che nella attuale condizione non vi sia Governo o uomo politico o partito che sia in grado di modificare radicalmente la situazione nel volgere di poche settimane o di due o tre mesi, questo credo fermamente; ma il problema che si prospetta è quello di agire gradualmente col metodo, di convincere i riottosi con la ragione, con la forza della legge se è necessario. Occorre che quei ben individuati strati della popolazione che mostrano preferire ad un oculato risparmio un incremento di consumi voluttuari, comincino a considerare che finanche nei Paesi vincitori, sia ad economia liberistica che vincolistica, esiste tuttora una notevole contrazione dei consumi rispetto ai livelli prebellici.

Per raggiungere l’obiettivo di una maggiore, migliore e più economica produzione, occorre infine essenzialmente che continui l’afflusso dall’estero di capitali e di beni strumentali senza cui nessun progresso potrebbe essere realistico.

Cessati o quasi i generosi aiuti finora erogatici, tale afflusso è subordinato all’ottenimento del credito.

Abbiamo e continueremo ad avere per lungo tempo assoluto bisogno di credito ed il credito si concede quando si ha fiducia nella solvibilità di chi lo riceve.

Il Governo si è sforzato in questi ultimi tempi di rinforzare all’estero la fiducia sulla capacità del popolo italiano e sulla buona volontà di lavoro dello stesso, si è avvalso senza preconcetti ideologici di uomini che, bisogna riconoscerlo, hanno saputo assolvere il compito loro affidato con dignità ed alta capacità tecnica; ma non si può costruire faticosamente da una parte e scalzare il terreno dall’altra.

Qui è bene affermare che le agitazioni permanenti non sono certo i mezzi più idonei per ottenere beni dall’estero…

Una voce a sinistra. Ma dove sono?

TOGNI, Ministro dell’industria e commercio. …beni che possono venire dall’Occidente come dall’Oriente.

La partecipazione italiana alla compitazione del piano Marshall a Parigi, dove l’Italia è stata accolta per la prima volta in un consesso internazionale a parità di condizioni, le trattative condotte a buon fine con l’Export Import Bank, il lavoro con la Banca Internazionale per la ricostruzione e lo sviluppo, il prestito canadese e quello argentino, costituiscono la trama di un lavoro che non deve essere interrotto da agitazioni inconsulte e da critiche che troppo sovente… (Interruzione del deputato Di Vittorio – Applausi al centro) …sfruttano il motivo dell’indipendenza economica e politica del nostro Paese e quello della dignità nazionale perché possano credersi del tutto disinteressate o obiettive.

Quasi tutti i paesi d’Europa, la Francia, la stessa Inghilterra hanno immediato bisogno dell’aiuto esterno: l’Italia ha bisogni ancora più urgenti ed ha bisogno di aumentare la sua produzione industriale ed agricola per dare un tenore di vita più degno ai suoi figli e per risanare le ferite di una guerra eccezionalmente rovinosa.

Solo a questa condizione potremo ritrovare la nostra salvezza ed un relativo benessere; ma tutto è subordinato ad un maggiore sforzo produttivo, ad una situazione di maggiore stabilità politica e sociale e ad un concorso dello spirito di sacrificio, che mostrino un’Italia conscia delle difficoltà che deve ancora superare, ma decisa a ritrovare la sua via ed a riconquistare quella posizione che la storia e la civiltà le hanno assegnato. (Commenti a sinistra).

L’onorevole Saragat, fra gli altri oratori, ha parlato della necessità di una pianificazione, con riferimento in modo particolare al cosiddetto piano Marshall.

Ora, questo rilievo necessita di maggiore chiarezza, perché noi siamo perfettamente d’accordo sulla necessità di orientare la politica economica del nostro Paese e, in particolare, la politica industriale che ne è l’elemento prevalente, in relazione ad un ordine di priorità, di necessità, di possibilità e di interesse generale. Ma ritengo molto difficile nella sua realizzazione e dubbia nella sua utilità una pianificazione nel senso stretto della parola, la quale presuppone un’organizzazione amministrativa nelle varie fasi di controllo, di distribuzione, di repressione, di interventi in genere, che il nostro Paese non ha e per la quale esiste, direi, una naturale intolleranza del nostro popolo, come dimostrano tutti gli esperimenti…

PASTORE RAFFAELE. Sono gli industriali che non vogliono il controllo! (Commenti).

TOGNI, Ministro dell’industria e commercio. …che sono stati fatti nel periodo fascista e in quello post-bellico. Ma, soprattutto, una pianificazione intesa in tale stretto senso presuppone una sicurezza ed una regolarità di rifornimenti di materie prime e di capitali che noi siamo ben lungi dall’avere.

D’altra parte, ogni popolo deve tener conto delle caratteristiche particolari delle proprie attitudini: attitudine fondamentale del popolo italiano è quella dell’iniziativa, intimamente connessa ad un deciso senso di individualità.

E qui mi sia consentito ricordare come i produttori in genere del nostro Paese hanno, in più di un caso e indipendentemente da qualsiasi pur lodevole tentativo dirigistico dei Governi, fatto risorgere industrie, negozi ed attività in genere con mezzi di fortuna, spesso con risorse e possibilità minime, sempre con una gran fede e una grande sicurezza nei risultati dei loro sforzi. (Interruzioni a sinistra).

I Ministri che mi hanno preceduto, l’onorevole Gronchi che ha dovuto creare ex novo il Ministero dell’industria e commercio, e l’onorevole Morandi, che, con tanta passione, ne ha consolidato la rinascente struttura, possono per primi testimoniare come al di sopra e al di fuori di ogni intervento e, molto spesso, di ogni aiuto, l’industria e il commercio italiani hanno trovato nella propria capacità e nella propria fede quelle risorse che hanno consentito una così rilevante rinascita che, è doveroso affermare, ha meravigliato gli stessi ambienti europei. (Vivi applausi al centro).

Né vuole significare questo una condanna di principio verso la pianificazione integrale o, tanto meno, un inno al liberismo economico; ma soltanto un doveroso riconoscimento di quel sano interventismo economico, là, dove e quando, nella diversità dei settori e nella successione dei tempi, esso si manifesti necessario.

Le condizioni attuali non consentono infatti di scegliere decisamente fra una forma di economia puramente liberista o una forma di economia puramente controllata; ma richiedono invece una estrema oculatezza che consenta di adeguare la nostra condotta alle mutevoli vicende dell’economia mondiale, traendo profitto dalle congiunture favorevoli.

La nostra politica economica deve essere quindi soprattutto vigilante e, se mi fosse concesso un paragone che mi sembra calzante, vorrei dire che, nel campo economico, ci si dovrebbe orientare verso qualche cosa di analogo a quanto dai più si ritiene necessario nel campo politico, nel quale le libertà non debbono essere lasciate abbandonate a se stesse, bensì vigilate e difese. (Rumori a sinistra).

L’intervento dello Stato quale organo regolatore della economia di un Paese deve manifestarsi tutte quelle volte che è richiesto per difendere l’economia da quei fenomeni patologici come monopoli, oligopoli, superdimensioni industriali, tutte le volte che essi si manifestano. In questo è la differenza tra l’indirizzo che ritengo più opportuno e quell’altro indirizzo, ormai sorpassato per ammissione dei più, del liberismo dottrinario antico.

Abbiamo detto – e ci piace ripetere – che la nostra politica economica vuole essere una politica produttivistica, vale a dire orientata nel senso di facilitare la produzione e gli scambi in ogni loro forma e possibilità, sia col rimuovere gli ostacoli di ogni genere che, soprattutto in questi difficili tempi, si frappongono alle iniziative e alle attività in genere, sia intervenendo, nei limiti del possibile, e soprattutto con la maggiore celerità, per i rifornimenti delle indispensabili materie prime, e ancora preoccupandoci in modo concreto ed efficace delle difficoltà di ordine finanziario che colpiscono le imprese produttrici, anche economicamente sane.

In merito è anzi di particolare attualità il problema del credito alle industrie, che il Governo ha parzialmente affrontato e che non dubito il Governo ulteriormente dovrà esaminare, preoccupato com’è di mantenere intatto e anzi, di nulla trascurare per integrare il potenziale produttivo del nostro Paese.

Il mio Ministero che segue, com’è suo stretto dovere, le possibilità industriali della nostra economia, non mancherà di porre ogni sua iniziativa e interessamento anche alla soluzione di questo problema.

E in questa preoccupazione non può non trovare una parte che direi prevalente il gruppo I.R.I., che non è, egregio onorevole Morandi, un frutto di stagione, perché la situazione dell’I.R.I. si va maturando da molto tempo. (Interruzione a sinistra). E, seppure oggi siamo arrivati al momento critico, noi possiamo assicurare che il Governo è seriamente intenzionato a risolvere il problema dell’I.R.I., del quale noi siamo i primi ad essere preoccupati. (Commenti a sinistra).

Una voce a sinistra. Ci pensa l’associazione degli industriali a risolverlo!

TOGNI, Ministro dell’industria e commercio. Ma su questo il Governo farà, nel corso della discussione, ulteriori e più complete dichiarazioni. L’importanza di questo gruppo, anche agli effetti di quel sano e opportuno intervento dello Stato in determinati settori della produzione, non ha bisogno di essere sottolineata in modo particolare. Unanime il riconoscimento e unanime, posso affermare, l’intenzione del Governo di fare ogni possibile sforzo per realizzare il risanamento e il potenziamento del gruppo stesso e delle sue aziende che, non va dimenticato, rappresentano una risorsa vitale per un numero notevole di tecnici e operai. Lungi il concetto ormai di un’economia intesa in senso stretto, l’azione di tutela dello Stato e dei suoi organi deve svilupparsi appunto anche nel senso che potremmo definire sociale, e cioè di salvezza delle iniziative ancora economicamente sane. (Approvazioni).

L’economia del nostro Paese può dirsi ora passata da una fase transitoria ad una fase di consolidamento, e forse le critiche, i dubbi e le preoccupazioni che si stanno sviluppando sono proprio una dimostrazione di questa fase di crescenza dell’industria italiana e, diremmo, di consolidamento. Molto è stato fatto; molto, però, resta ancora da fare. Doverosamente riconosciamo il merito, dai capi ai gregari, che sempre più compresi dell’importanza della loro funzione, aumentano e armonizzano i loro sforzi, per aumentare e migliorare la produzione dei prodotti italiani, di questi prodotti, che oggi già si vanno affermando in tutto il mondo, che vengono apprezzati e che certamente un giorno potranno in gran copia affermarsi nei mercati del mondo. Diamo atto di questa volontà, di questa fede: elementi sicuri di successo, che tendono al potenziamento della nostra economia in funzione sociale.

Noi seguiamo questo sforzo, lo fiancheggiamo, senza frasi o discorsi altisonanti, senza provvedimenti ad effetto, ma cercando realisticamente di facilitare lo sforzo e di spianare la strada. Contro ogni difficoltà noi proseguiremo in questo compito finché la vostra fiducia non ci verrà meno. Sentiamo in questo di essere affiancati, direi di essere all’unisono, con tutte le categorie, dagli industriali ai dirigenti, agli operai, alle maestranze, le quali sentono, effettivamente sentono (Interruzioni a sinistra) come hanno già in altri momenti sentito col loro sacrificio…

Una voce a sinistra. Ci parli dei consigli di gestione!

TOGNI, Ministro dell’industria e commercio. …sacrificio diretto, l’importanza delle aziende, l’importanza del loro lavoro, l’importanza del sacrificio ch’essi compiono. Essi soprattutto, uniti in un grande sforzo, si sono resi conto che la salvezza delle industrie e dell’economia nazionale è la salvezza del loro lavoro e del loro pane ed è effettivamente l’unico elemento per l’indipendenza del nostro Paese! (Vivi applausi al centro e a destra – Molte congratulazioni).

PRESIDENTE. È iscritto a parlare l’onorevole Corbino. Ne ha facoltà.

CORBINO. La discussione che si svolge in questa Assemblea fin dalla settimana scorsa ha, a mio giudizio, una importanza che supera quella che potrebbe collegarsi con la sorte di un Ministero.

L’iniziativa dei colleghi di parte socialista, di parte comunista, del Gruppo del Partito socialista dei lavoratori italiani, di porre il problema della fiducia o della sfiducia nel Governo presso l’Assemblea, è servita infatti a spalancare un po’ le finestre della nostra Aula e farvi entrare l’eco di tutto ciò che, nel settore politico e nel settore economico, accade un po’ fuori dell’Aula, nel Paese, fuori del Paese in Europa, fuori dell’Europa in tutti gli altri continenti.

Il mio temperamento, notoriamente ottimista, mi accompagna anche in questa occasione, perché là dove gli altri vedono segni di turbamento, segni di perplessità per chissà quali tempeste dovranno ancora venire, io vedo segni di guarigione.

Sì, segni di guarigione, colleghi (Interruzione del deputato Scoccimarro), perché l’economia del mondo è un po’ nelle condizioni degli organismi che prima della scoperta dei sulfamidici e della penicillina erano attaccati da polmonite. Chi ha avuto la disgrazia di avere dei cari parenti affetti da quella malattia, sa che al quinto, al settimo giorno avveniva quella che si chiamava la crisi, crisi che poteva portare o alla morte dell’ammalato, o alla fine del male, all’inizio della convalescenza. Ora, nelle malattie dei popoli non è ammissibile l’ipotesi della morte: i popoli non muoiono mai. Possono coloro che appartengono ad una popolazione, in uno degli anni del suo svolgimento, stare più o meno bene, più o meno male, ma i popoli sopravvivono, ed allora è evidente che dall’inizio della crisi, del quale noi ora cominciamo a soffrire, noi usciremo, e siccome come popoli non possiamo morire, evidentemente ne dovremo uscir bene. Questo è il punto di partenza dal quale noi dobbiamo esaminare la situazione. (Applausi a destra).

Oggi il mondo è malato soprattutto in due cose: vi è una deficienza di generi alimentari che crea dappertutto lo spettro della carestia; le statistiche sono diventate la fonte della nostra preoccupazione: un giorno ci fanno allargare il cuore alla speranza che non moriremo di fame; il secondo giorno ci ripiombano nel più nero pessimismo. Io vorrei far rilevare ai critici, che possono avere talvolta ragione dell’economia liberale, che nel secolo di economia liberale pericolo di carestia non ce ne fu mai. Il pericolo di carestia l’abbiamo da quando i Governi nei vari Paesi del mondo si sono assunti il compito, insopportabile per le loro modeste spalle, di dar da mangiare alla gente.

Ma nella sostanza accade questo, che noi in Europa abbiamo in gran parte esaurite le scorte, per cause che tutti conosciamo, e nel resto del mondo, per una serie di vicende climatiche non sempre favorevoli, non vi è stato quell’eccesso di produzione che sarebbe occorso per farci vivere con maggior larghezza e per farci ricostituire le scorte. Il problema più angoscioso che da questo lato si pone ai vari paesi europei è quello della ricostituzione delle scorte. Non si potrà fare nessuna politica alimentare seria, se ciascun paese non potrà disporre di scorte sufficienti per almeno tre mesi di consumo della propria popolazione. È questo un elemento indispensabile della stabilità alimentare. Ma intanto si profila all’orizzonte una crisi opposta nel settore agricolo; tanto ciò è vero, che alcuni dei paesi notoriamente produttori di cereali cominciano a sentire il timore di un’inversione della congiuntura, e già il Canada quest’anno ha ridotto di oltre il 10 per cento la superficie destinata alla produzione cerealicola.

Il secondo problema che, in collegamento con il primo, affligge l’economia mondiale è quello della produzione dell’energia. Noi siamo divoratori di carbone, e non ne produciamo tanto quanto ne occorrerebbe per rimettere in sesto tutta la macchina produttiva del mondo, e specialmente quella dell’Europa. Eppure prima della prima guerra mondiale l’Europa era il solo Paese del mondo che esportasse carbone dappertutto: oggi l’Europa è il Paese del mondo che riceve carbone da tutti i continenti. Vi sono ragioni di carattere economico che spiegano questo capovolgimento, ma vi sono anche ragioni di carattere politico nel senso più alto della parola. La produzione tedesca, per il mancato raggiungimento di un accordo tra i Quattro Grandi, non ha potuto ancora svilupparsi fino ai quantitativi che sarebbero necessari per soddisfare il fabbisogno di carbone dell’Europa. Che cosa è accaduto nel frattempo? Che la deficienza di carbone ha spinto all’elettrificazione di tutti gli impianti industriali o per uso domestico; e allora in tutta Europa avvertiamo una deficienza di energia idroelettrica, resa più grave dal diverso gioco dei prezzi del carbone rimasti liberi in alcuni settori, e dell’energia elettrica vincolata in altri settori o in altri paesi.

Vi è poi un problema di inutilizzazione della mano d’opera, quello che gli inglesi chiamano il «man power», che durante la guerra era stato oggetto degli studi più accurati da parte degli Uffici di mobilitazione britannici e nord-americani al fine di utilizzare al massimo le risorse produttive di quei paesi nell’immenso sforzo richiesto dalle necessità belliche. Noi usciamo dalla guerra con una popolazione europea globale presso a poco nelle stesse cifre del 1939; ma con una Francia che deve ancora adoperare oltre 400 mila prigionieri tedeschi, ripetendo nel 1948 una forma schiavistica di lavoro che noi ci stupiamo di leggere nei nostri libri di storia, per quello che accadeva all’epoca delle guerre fra i popoli civili della Grecia o di Roma ed i popoli barbari da esse conquistati. L’Inghilterra ha ancora prigionieri tedeschi sul suo suolo. Vi sono prigionieri giapponesi e tedeschi in Russia. Vi sono, in altri termini, deficienze di «man power» in alcuni dei più grandi paesi industriali del mondo; mentre vi sono alcuni paesi che hanno una relativa abbondanza di mano d’opera, e, non potendo assorbirla integralmente con attività produttive all’interno, vedono i loro costi elevati dalla necessità di aggiungere a quello che è il costo economico, collegato con lo sforzo produttivo in senso stretto, il costo politico dipendente dal mantenimento dei disoccupati.

Quando parlo di disoccupati, non intendo riferirmi a coloro i quali vorrebbero lavorare e non trovano lavoro, ma anche a quella massa enorme, che non potendo fare nulla, è allocata o presso le industrie o presso lo Stato o presso gli enti locali, per risolvere in questo modo il proprio problema riversando così sulla collettività, attraverso le imposte, l’onere del mantenimento di chi non può, per ragioni di disfunzionamento del sistema economico, provvedervi diretta mente.

DI VITTORIO. Conseguenza del sistema capitalistico.

CORBINO. Potrebbe darsi che sia conseguenza del sistema capitalista, onorevole Di Vittorio. Faccio osservare però, che, quando il sistema capitalistico era in pieno vigore, non vi è stata mai disoccupazione così vasta e duratura come quella avuta dal 1919 in poi. L’Inghilterra non ebbe mai 2.000.000 di disoccupati per 10 anni fino al 1914. Ma io non voglio fare la difesa del sistema capitalistico; non è questa la sede più opportuna. Non parlo qui per cercare quello che nelle nostre ideologie potrebbe contribuire ad invelenire una situazione, che è già abbastanza avvelenata. Noi dobbiamo cercare in uno sforzo concorde di conciliare le ideologie contrapposte, perché oggi non si discute della sopravvivenza di una ideologia o di un’altra, ma della sorte di tutti i popoli civili, e come uomini abbiamo il dovere di preoccuparcene.

Vi è infine il problema più grave, che oggi complica la vita economica e che è il sintomo più importante della crisi in atto: ed è la deficienza di capitali, che si manifesta non soltanto in Italia o in Francia ma dappertutto, anche nei Paesi più ricchi, compresi gli Stati Uniti d’America, dove la trasformazione del debito fluttuante in debito a più lontana scadenza si sta effettuando gradualmente, ma con un rialzo notevole del costo dell’interesse: siamo passati da uno e sette ottavi per cento a due e tre ottavi; e certamente non ci fermeremo lì. Del resto, non ci voleva un grande spirito profetico, per credere che, prima o dopo, a questa deficienza di capitale il mondo dovesse essere esposto. Dal 1939 al 1945, in uno sforzo che era il risultato di una specie di follia collettiva, e andava dal polo nord al polo sud, facendo il giro del mondo, l’umanità non ha fatto che distruggere ricchezza, distruggere capitali accumulati. Oggi, passata l’euforia del periodo immediatamente post-bellico, noi cominciamo a sentire gli effetti di questa distruzione, finora velati agli occhi dei più dal fenomeno inflazionistico.

Noi non ci siamo accorti della distruzione dei capitali perché l’inflazione ci dava l’illusione dell’arricchimento. Ma se l’inflazione fosse una fonte di capitali noi potremmo veramente dire di essere fortunati, perché voi sapete che per fare l’inflazione basta la rotativa di un giornale. Noi avremmo così risolto il più grave, il più duro ed il più angoscioso dei problemi che oggi affliggono l’universo.

L’Italia si collega al resto del mondo attraverso questi quattro punti nevralgici del sistema economico mondiale. Vi si collega con la sua deficienza di materie prime e di generi alimentari; vi si collega con la necessità della ricostruzione; vi si collega con l’eccesso di mano d’opera e vi si collega, infine, con la deficienza dei capitali. Ma quello che sembra soltanto un problema italiano, è anche un problema francese e britannico ed è anche un problema dei piccoli Paesi come il Belgio, l’Olanda, la Svizzera, la Svezia, la Norvegia, la Danimarca, paesi ricchissimi che oggi sono intenti a guardare quello che accade tra i grandi colossi dell’economia mondiale, per sapere come regolarsi e per conoscere da quale lato debbono aspettarsi sorprese ed in quale direzione dovranno tendere i loro sforzi produttivi. Oggi nel mondo è incominciata o sta per cominciare la deflazione. Questa è l’inizio della crisi, o signori, e ne volete una prova? Noi qui discutiamo della capacità di un Ministero a governare, ed è la terza volta, nel giro di un anno, che ne discutiamo. In Francia il Governo socialista di Ramadier ha dovuto chiedere, nel giro di pochi mesi, ben cinque voti di fiducia al Parlamento ed il Governo laburista – pur avendo alle sue spalle una maggioranza omogenea e formidabile quale mai nessun partito al potere ha avuto nella Gran Bretagna – ha anch’esso la sua crisi. È di ieri l’annuncio dei primi mutamenti della compagine governativa ed essi non saranno gli ultimi. Il Governo laburista deve fronteggiare come noi – che abbiamo un Governo monocolore, e se avessimo un Governo pluricolore sarebbe lo stesso – gli stessi problemi che dobbiamo fronteggiare noi, che sono, poi, i problemi della convalescenza ed i problemi della guarigione.

Ora, in questa situazione che cosa accade? Sì, il liberismo è finito; possiamo anche essere d’accordo che il liberismo, come sistema politico, sia finito. Io vi posso dire che, a mio giudizio, il liberismo è finito quando, durante la prima guerra mondiale, la borghesia accettò di mettersi al servizio dei militari e della burocrazia per cercare di vincere la guerra. Si disabituò allora all’azione direttrice della vita economica e politica del mondo, e quando la guerra finì tutti i grandi borghesi – intendendo sotto questo nome i veri capitani dell’industria – si trovarono imbarazzati, non sapendo più camminare da soli, perché per sei anni avevano camminato sostenuti dalle dande della politica governativa: allora è finito probabilmente, dal punto di vista storico, il regime capitalistico e il regime liberista. (Interruzioni a sinistra).

Il resto, che si impone anche oggi alla politica di tutti i Governi del mondo, non è liberismo o vincolismo o protezionismo. Il resto – abbiate pazienza, o colleghi dell’estrema sinistra – è buon senso; il resto è riconoscimento dell’istinto degli uomini, i quali possono talvolta essere capaci dei più grandi sacrifici per le più grandi idealità, ma sono poi incapaci di piccoli sacrifici per idealità forse ugualmente grandi. La natura umana è lenta ad evolversi, la natura umana non cammina come cammina la tecnica. Ed è questo il guaio dell’umanità contemporanea, perché con scoperte nuove diamo ad un solo uomo il mezzo di fare tanto male all’umanità, mentre per poter fare del bene gli uomini devono essere in molti, e devono essere strettamente collegati gli uni con gli altri. (Applausi a destra).

Ora, qual è la realtà? Voi osservate in Inghilterra un Governo laburista; in Francia un Governo socialista, in Italia abbiamo avuto fino a tre mesi fa un Governo in cui i socialisti erano magna pars (Commenti a sinistra)Non voglio ricercare responsabilità. Credete pure che non c’è nell’animo mio nessun desiderio di acredine verso chicchessia, perché parto dal presupposto che tutti possiamo aver sbagliato, ma, se abbiamo sbagliato, abbiamo sbagliato in buona fede.

Qual è la realtà? La realtà è che per un effetto psicologico della guerra noi vogliamo imprimere alla società un movimento di trasformazione molto più celere di quello che la situazione consenta. Il socialismo è una gran bella teoria e l’umanità deve molto alla diffusione delle teorie socialiste e all’influenza che queste teorie hanno esercitato nei rapporti fra gli uomini appartenenti a diverse classi sociali. Ma, secondo me, Marx, che era un critico formidabile, era un uomo che non aveva una fantasia molto fervida, era un uomo il quale prevedeva una società statica, mentre la società è dinamica, era un uomo il quale prevedeva il concentramento del capitale in poche mani, mentre lo sviluppo dell’anonima ha polverizzato il capitale nelle mani dei più, era un uomo il quale, per quanto considerasse la guerra come uno degli elementi essenziali per la definitiva devoluzione del potere dalle classi capitaliste alle classi proletarie, non poteva prevedere che questa devoluzione dovesse aver luogo dopo una guerra che ha distrutto quasi un terzo del patrimonio produttivo dell’umanità. In maniera che voi, se voleste raccogliere l’eredità del mondo borghese, ai termini delle previsioni di Carlo Marx, a mio giudizio fareste un cattivo affare. Per lo meno vi converrebbe sempre di accettare col beneficio d’inventario. (Applausi a destra – Commenti a sinistra).

In questa situazione si innesta il rapporto di collegamento stretto fra l’economia, e la società europea, l’economia e la società orientale, l’economia e la società occidentale.

Qual è questo rapporto? Non mi riferisco ai rapporti politici. I rapporti politici, che possono dare luogo a contrasti, e che non si possono sistemare sul piano della collaborazione economica, si sistemano sul piano del contrasto bellico.

Ora, io sono convinto che al contrasto bellico non si arriverà. Potremo forse rasentare la minaccia, la paura di una guerra, ma ne usciremo come se avessimo toccato la coda della cometa di Harley che apparve nel 1913. Il ruolo dell’America è un altro: è il solo Paese del mondo il quale possa in questo momento consentire agli Stati dell’Europa, tutti gli Stati dell’Europa, di superare questa crisi transitoria che all’economia deriva dagli avvenimenti e dalle cause che io vi ho dianzi accennato.

Una voce a sinistra. Siamo in via di guarigione!

CORBINO. Il presupposto degli aiuti non è politico, non può essere politico, non può essere che economico. E vi dico che non può essere che economico anche per un’altra ragione: quando si parla di aiuti americani ci si dimentica del modo con cui questi aiuti potranno venire. La via è questa: l’America deve produrre certe merci; ci vorrà il Governo americano che stabilirà dei crediti a spese dei contribuenti americani perché queste merci siano comperate e siano cedute a credito o a fondo perduto ai vari Paesi di Europa. Ma in sostanza saranno sempre gli americani quelli che pagheranno, e non gli abitanti di un altro pianeta. Ora, 5 miliardi di dollari all’anno, per esempio, costituiscono il 2 e mezzo per cento del reddito americano. Il che significa che, a prescindere da quelli che possono essere i fenomeni di traslazione dei tributi, ogni cittadino americano, sia mister Vanderbilt o sia lo scaricatore del porto di New York, su cento dollari che riceve ogni anno ne dovrà sborsare due per aiutare la economia europea. Questa è la realtà concreta. Quale il corrispettivo? Si dice comunemente: gli americani hanno bisogno di esportare perché altrimenti chissà che cosa succederebbe. Ma se essi dovessero produrre per forza, non avrebbero nessun obbligo di dare a noi europei l’eccesso di quello che producono: basterebbe che lo caricassero sui piroscafi per buttarlo in alto mare. L’obiettivo della produzione e della esportazione sarebbe stato raggiunto egualmente. Per darlo a noi da che cosa devono essere spinti? Essi devono sentire che c’è una solidarietà fra i continenti che va al di sopra delle ideologie, che va al di sopra degli interessi di carattere materiale e che lega l’Europa considerata come un continente produttore all’America considerata come un altro continente produttore. (Applausi al centro e a destra).

Ora vediamo un po’ di passare dal grande al piccolo e di trovare nei nostri riguardi i riflessi di questa situazione.

Di che cosa abbiamo bisogno noi? E quando dico «noi» non intendo parlare dell’Italia, ma intendo parlare di tutti i paesi che domandano aiuti all’America.

Evidentemente, abbiamo bisogno di ordine. Ma ordine – intendiamoci sul significato di questa parola – non significa sparare; ordine significa capacità, attitudine e possibilità di produrre al massimo, secondo le disponibilità dei mezzi tecnici dei quali ogni paese gode in un determinato istante; significa stabilizzazione monetaria.

Taluno considera la stabilizzazione monetaria come un fine. Ma no! La stabilizzazione monetaria è uno strumento, è un mezzo, è il mezzo pregiudiziale per costruire, perché voi non potrete avere mai una chiara visione del mondo economico, delle sue necessità, delle sue possibilità, se prima non avrete provveduto alla stabilizzazione monetaria.

Ed abbiamo infine bisogno di un’altra cosa: dell’incremento del risparmio, per ricostituire capitali che ci mancano.

Avete notato che risparmiamo poco? Non intendo riferirmi soltanto alle classi più ricche, che sono veramente deplorevoli nella loro condotta in questo periodo, perché mostrano di non avere nessuna sensibilità per i problemi più immediati dell’ora. (Vivi applausi). Noi abbiamo troppi locali di lusso aperti, troppi; molti di più di quanti non ce ne fossero nel 1939, locali nei quali della gente che ha guadagnato del denaro senza sapere come lo ha guadagnato, lo sperpera in una maniera indegna, che io qui – anche se voi credete che da questi banchi non si possa parlare in favore delle classi più misere – deploro nella forma più dura che possa uscire dall’animo di uomo. (Applausi).

Ma, credete pure che non sono soltanto i ricchi coloro che hanno perduto l’attitudine al risparmio. Gli è che ciascuno di noi, nel suo piccolo, non intende rinunziare alla soddisfazione dei bisogni che fino a qualche tempo fa potevano costituire un lusso. E questo accade anche in larghissimi strati di quei ceti che più sentono le difficoltà del momento attuale.

Mi è stato detto – non so fino a qual punto la cifra sia esatta – che la ferrovia Roma-Ostia ha avuto un traffico giornaliero di bagnanti che, in alcune giornate, ha toccato la cifra di 250 mila persone, a cui si aggiungevano circa 100 mila persone trasportate dalle camionette. Ora, sentite, Roma ha un milione e 200 mila abitanti: che ce ne siano 300 mila che giornalmente si possano permettere il lusso di andare ad Ostia per il bagno io lo ammetto, ma dovete anche ammettere con me che è impossibile che a Roma ci siano 300 mila ricchi signori e tutti gli altri siano dei pezzenti.

Evidentemente, questa abitudine di spendere esiste anche in altri strati della popolazione. Ora, io dico che noi ci dovremmo proporre tutti, come meta fondamentale da raggiungere, quella di dare al popolo italiano il volto di una vita più austera, il volto di una vita molto più morigerata.

GIANNINI. Il fascismo ci ha annoiato con questa vita austera: finiamola! Non si salva l’Italia con queste sciocchezze. (Commenti).

CORBINO. No, onorevole Giannini, non sono sciocchezze.

E qualunque Governo, qualunque sistema economico, che voglia veramente ripristinare le abitudini al risparmio, deve incominciare proprio da lì, deve incominciare a tagliare sui consumi voluttuari. Non dovrà evidentemente colpire tutto ciò che è necessario, non dovrà colpire tutto ciò che è indispensabile all’esistenza. Ma, che io mi sappia, fino al 1914, non credo ci fossero 350.000 persone che da Roma andavano a fare il bagno ad Ostia; eppure gli italiani erano così robusti che sono stati capaci di andare a Vittorio Veneto. (Commenti).

Innestata con il problema dei risparmio è la politica del credito, perché è evidente che, se voi non avete il risparmio, su che cosa basate la politica del credito? Tutti i tecnici che conoscono la struttura delle nostre organizzazioni bancarie vi dicono che oggi le banche si trovano in una situazione economica veramente preoccupante. Perché questo? Perché, mentre i depositi sono cresciuti nei rapporti di uno a dodici o quindici, le spese sono cresciute invece secondo l’indice del costo della vita; c’è quindi uno squilibrio fra il costo della organizzazione bancaria e il rendimento dei depositi bancari.

Noi siamo arrivati all’assurdo che i depositi bancari sono trattati come all’epoca del banco di Amsterdam o del banco di San Giorgio, quando i depositanti pagavano qualche cosa all’istituto bancario. Oggi i depositanti ricevono formalmente l’uno e mezzo per cento; però vi sono tanti elementi di spesa che si sottraggono all’interesse, per cui, alla fine del semestre, quando si esamina la situazione del proprio conto corrente, si vede che si è perduto qualche cosa.

E allora ognuno comincia a domandarsi se non sia preferibile trasformarsi da depositante presso una banca in depositante presso sé medesimo, o – peggio ancora – se non sia il caso di fare quel tale mercato nero del credito cui hanno già fatto allusione alcuni colleghi nell’Aula, e l’onorevole Morandi nel suo discorso di oggi.

Che cosa, in sostanza, sta accadendo? Sta accadendo che la banca, la quale finora era indubbiamente lo strumento più efficace della distribuzione dei capitali dal risparmiatore a chi ne avesse bisogno, sta diventando uno strumento più costoso, e noi corriamo alle operazioni di credito diretto. Questo non è progresso né sul settore economico né sul settore tecnico, né nel settore liberista né nel settore socialista: è regresso nel senso più assoluto della parola.

Una voce al centro. Faremo tutti gli usurai.

CORBINO. Onorevole collega, veda, il problema della lotta all’usura affligge il mondo fin dall’epoca di San Tomaso d’Aquino. Noi avevamo nell’Italia meridionale i famosi «monti frumentali», sorti appunto per combattere l’usura, che davano il grano a misura rasa, per averlo poi a misura colma. A poco per volta, con l’aumento del risparmio, l’usura era stata debellata (Interruzioni), ma posso assicurare il collega che mi interrompe che oggi in alcuni settori noi siamo ritornati a tassi veramente usurai. Per esempio in qualcuna delle borse-valori si pagano oggi anche 4.500 lire al giorno per un milione di capitale dato in prestito, il che significa un tasso annuo del 180 per cento.

Ora, onorevoli colleghi, guardate che questo problema è collegato al precedente, della stabilità monetaria. La gente che non ha fiducia nella stabilità monetaria vuole tenere merci, e molti di coloro che strillano contro recenti restrizioni del credito gridano perché non vogliono essere costretti a vendere le loro riserve di merci (Applausi al centro e a destra). Credo che il Governo debba tener duro su questo punto. Mentre ammetto che le restrizioni non debbano incidere sulle forme di attività economica a carattere veramente produttivo, in tutte le forme nelle quali, dietro la parvenza di una attività produttiva, si nasconda un’attività speculativa, fondata sul presupposto della svalutazione monetaria, il Governo deve agire con la massima energia. Non si preoccupi delle conseguenze: ci saranno dei fallimenti. Ma, benedetto Iddio, che i fallimenti siano nell’ordine naturale delle cose è provato dal fatto che la legge sui fallimenti risale al di là del 1882, il che vuol dire che i fallimenti c’erano anche allora; e c’è un libro del Codice civile che contempla i fallimenti, ciò che vuol dire che i fallimenti sono nell’ordine naturale della vita economica.

La questione oggi ha un altro aspetto, perché nelle nostre classi industriali e commerciali si sono infiltrati molti elementi che si sono abituati a lavorare nel periodo dell’inflazione, quando tutto si volgeva in guadagno, e che quindi ignorano che c’era un tempo in cui gli industriali ed i commercianti qualche volta guadagnavano, ma qualche volta anche perdevano. È bene che coloro che si sono infiltrati con questa mentalità siano eliminati, con le buone o con le cattive; e gli altri, che la stessa mentalità hanno acquisito per cattiva abitudine, ritornino alle buone abitudini che avevano anteriormente al 1939. Il Ministro Guardasigilli provveda ad organizzare opportunamente le Sezioni di fallimento dei Tribunali. (Commenti).

E allora, mi avvio alla parte conclusiva: perché ad una conclusione ci si deve arrivare, e la conclusione non può essere soltanto tecnica.

Io ho sentito vari discorsi di carattere tecnico in questa Assemblea; ho sentito le risposte che già sono state date da alcuni membri del Governo. Vi confesso che nel dettaglio tecnico della critica o della difesa non intendo entrare. Non mi pare che sia opportuno entrarvi. Noi siamo qui Assemblea politica, è il problema politico che dobbiamo affrontare! Qual è questo problema?

C’è un Governo. Dicono alcuni che questo Governo non va e che bisogna rovesciarlo.

Bene: tutte le opinioni sono rispettabili; e quando queste opinioni si trasformeranno in cifre, in dati, allora ne verrà fuori una statistica: X voti favorevoli, X voti contrari, e il risultato della statistica dirà se il Governo se ne dovrà andare, se il Governo potrà restare, o se il Governo debba considerare l’opportunità di restare con qualche modificazione. (Commenti).

Per il momento non voglio entrare in questo. Ma quando un Governo cade e cade sotto un voto di sfiducia del Parlamento, o quando, anche senza arrivare al voto di sfiducia, il Governo sente che sarebbe opportuno, per esempio, che se ne andasse (io non dico con questo che se ne debba andare, perché dichiaro senz’altro che voterò a favore del Governo), noi dobbiamo tener conto di un fatto, e cioè della situazione difficile dalla quale sono partito e che dovrebbe essere considerata come il punto di partenza per il riesame della situazione.

Le necessità fondamentali del Paese sono due: la prima è di rimanere collegati col mondo esterno, perché vi è ormai un avviamento in tal senso. La stessa ripresa dei traffici tende a riequilibrare i prezzi, tende a sovvertire i sistemi monetari, tende a ridistribuire le forze produttive nel mondo. Ciò esige che l’Italia abbia un Governo che possa conservare questi rapporti. Vi è poi l’altra necessità fondamentale: cioè a dire un Governo che riesca a conservare all’interno quel minimo di ordine (non dirò di disciplina perché l’amico Giannini mi potrebbe ricordare che anche i fascisti parlavano di disciplina), quel minimo di ordine, di disciplina spontanea, di autodisciplina (chiamiamola così) che corrisponde alle esigenze generali del Paese in questo momento.

Come si può formare questo Governo?

La situazione non è agevole, perché, per quelle tali virtù o per quei tali vizi atavici dell’uomo – che tende sempre a seguire il principio edonistico, e cioè di ottenere il massimo risultato col minimo sforzo – la mia impressione è che uno degli elementi più notevoli dell’attuale crisi in Europa, soprattutto nelle grandi democrazie europee (Inghilterra, Francia, Italia) è questo: che la realtà economica imporrebbe quelli che si potrebbero chiamare governi di destra – ma badate bene, non Governi di destra nel senso «pelluniano» della parola, ma nel senso «minghettiano», cioè a dire Governi che mantengono un’atmosfera di serenità. Senonché i parlamenti sono fatti in maniera che non possono sprigionare che governi di sinistra, donde deriva il contrasto tragico nel quale si dibatte il complesso delle democrazie occidentali. Noi vediamo il laburismo in Inghilterra obbligato a fermare le sue riforme: ha nazionalizzato le miniere, ha nazionalizzato l’acqua, la luce, il gas, ha nazionalizzato i trasporti ed ora è lì fermo, tentennante, perché se dovesse continuare con il suo sistema, dovrebbe estendere il controllo ad altri settori della vita economica, e l’estensione del controllo esige l’impiego di strumenti tecnici e di personale tecnico che in Inghilterra mancano.

Qualcuno di voi, che forse vive più a contatto di quello che non abbia potuto farlo io col mondo inglese, sa che oggi l’Inghilterra ha deficienza di burocratici.

Per amor di Dio, non offriamo i nostri (Commenti), perché i risultati che abbiamo avuto da noi non sono eccessivamente brillanti e in Inghilterra vogliono burocratici di quelli che fanno sul serio!

In Francia avviene la stessa cosa, ed il Governo Ramadier è obbligato ad agire tortuosamente perché sente che per salvare il franco, per salvare la situazione, dovrebbe fare una politica di destra. Ma non la può fare per il suo colore politico, sicché nei suoi movimenti è continuamente impacciato.

Ed anche in Italia abbiamo avuto il caso del Governo De Gasperi, che si è presentato annunciando nel suo programma i 14 punti di un programma preesistente del precedente Ministero pluricolore. Ed allora come si può fare un Governo, che debba operare, sia pure transitoriamente, con direttive di destra, quando invece le maggioranze sono formate da partiti di sinistra? Noi abbiamo sentito il discorso di Saragat, il quale in certi punti in materia di politica economica è andato anche al di là dell’onorevole Togliatti, pur essendo al di qua in materia di politica generale, e probabilmente Morandi è più vicino a noi di quello che teoricamente potrebbe esserlo Tremelloni. I contrasti della situazione sono gravi perché ciascuno di noi ha una divisa e vuole agire secondo quella divisa; ma poi ha una logica e vuole agire secondo la logica, e quindi stiamo facendo quello che Pirandello avrebbe potuto chiamare il gioco delle parti. Ciascuno non fa la parte sua. Ora, ci vogliamo mettere d’accordo per vedere di tirar fuori questo Paese dalla situazione attuale?

Io una volta, per conto mio, e per conto dei colleghi del mio partito, feci una esclusione. Era una esclusione che rispondeva per una piccola parte (e di questo ne chiedo perdono a tutti) ad un sentimento di carattere personale.

Ero stato estromesso, ed allora era umano che io rispondessi con lo stesso sistema. E di questo, per quel che concerne il sentimento di carattere personale, dico che ho fatto male; perché in politica gli uomini dovrebbero sempre guardare al Paese e mai a risentimenti di carattere personale. Ma c’era una parte sostanziale che ci divideva e che potrebbe darsi che, su un terreno di collaborazione completa, ci continuerebbe a dividere. La parte sostanziale è questa: che chi ha una mentalità orientata nel senso di una politica liberista non può evidentemente agire bene nell’interesse generale se deve continuamente transigere con coloro che hanno una mentalità orientata in senso differente. È questa la ragione per la quale la formazione generale di un Governo come quello vaticinato dall’onorevole Nenni o come quello vaticinato dall’onorevole Togliatti credo non sia possibile. E mi duole che non sia possibile, perché ammetto e riconosco che diminuire la tensione, come diceva testé l’onorevole Morandi, creare un’atmosfera di concordia, sarebbe un gran risultato, potrebbe avere per il Paese benefici immensi. Ma, giunto a questo punto, io mi domando: se la mia diagnosi sulle direttive indispensabili di politica è esatta, vi conviene proprio di partecipare a questo Governo di coalizione?

SCOCCIMARRO. A noi no! Al Paese sì!

CORBINO. Scusate se una volta tanto entro nei fatti vostri. Vi sono infinite maniere di collaborare. Non è assolutamente necessario stare gomito a gomito nel Consiglio dei Ministri. La collaborazione deve avere per presupposto la garanzia delle pubbliche libertà. E credo che qui non ci sia nessuno che possa accettare lontanamente l’ipotesi di entrare in una qualsiasi combinazione nella quale il presupposto del rispetto delle pubbliche libertà per tutti su un piano di perfetta uguaglianza non sia da tutti riconosciuto. (Approvazioni). Dunque, il terreno della collaborazione, a mio giudizio, va trovato nell’atmosfera generale che deve regolare i nostri rapporti; va trovato in uno sforzo di reciproca comprensione, in una specie di tregua delle battaglie ideologiche fino al giorno in cui il corpo elettorale non si sarà pronunciato e avrà dato al partito, che a giudizio del popolo lo merita, la maggioranza necessaria per governare il Paese per i cinque anni di vita del prossimo Parlamento.

In sostanza, se siamo tutti d’accordo che l’ordine è necessario, che la produzione debba essere intensificata, che il risparmio debba essere stimolato colpendo quei consumi – a cominciare soprattutto dai consumi di lusso che sono quelli che più oggi colpiscono la fantasia dei più poveri – se siamo d’accordo su questo, non dovrebbe essere impossibile trovare una formula che consenta a tutti di collaborare in perfetta armonia di intenti per questo scorcio di 6-8 mesi che ci separa dal giorno delle elezioni. Voglio aggiungere qualche cosa di più: noi – e credo di interpretare in questo il pensiero anche degli amici del Partito liberale – non porremo condizioni di sorta. Siamo disposti ad escluderci automaticamente, se questa esclusione fosse necessaria per dare al Paese un Governo, che governi fino al giorno delle elezioni. E con questa esclusione, credetelo pure, onorevoli colleghi, noi avremmo la coscienza di interpretare il liberalismo, nel senso più alto della parola; perché oggi in Italia non è in giuoco la sorte di una classe o di un’altra, ma la libertà. E se il Partito liberale dovesse sparire per salvare la libertà in Italia, esso non avrebbe fatto che la più piccola parte del suo dovere. (Vivi applausi al centro e a destra – Molte congratulazioni).

PRESIDENTE. Il seguito della discussione sulle mozioni è rinviato a domani.

Interrogazioni e interpellanza con richiesta d’urgenza.

PRESIDENTE. Sono pervenute alla Presidenza due interrogazioni con richiesta di risposta urgente. La prima è quella degli onorevoli Volpe e Aldisio, al Ministro dell’interno, «sui fatti di Mussomeli, Villalba e comuni viciniori».

Questa interrogazione sarà abbinata all’altra, sullo stesso argomento, degli onorevoli Musotto e Fiorentino, annunziata nella seduta pomeridiana di ieri.

Chiedo al Governo quando intenda rispondere.

DE GASPERI, Presidente del Consiglio dei Ministri. Il Governo risponderà nella seduta di lunedì.

PRESIDENTE. La seconda interrogazione è la seguente:

«Al Ministro dell’interno, per sapere quale fondamento abbia la notizia data dalla stampa, circa la costituzione di Commissioni di conciliazione per superare il grave turbamento sociale, sorto in seguito alla occupazione delle terre in alcune regioni d’Italia e, se la notizia è vera, per sapere quali siano le funzioni delle suddette Commissioni, le quali, secondo l’avviso dell’interrogante, dovrebbero tendere non solo a stabilire rapporti legali fra proprietari ed occupanti, ma altresì a tenere presenti le esigenze di quelle organizzazioni cooperative e di quei contadini che, pur bisognosi di terra, si sono astenuti da azioni illegali per non turbare la tranquillità sociale, fondamento della ricostruzione del Paese.

«Angelucci».

DE GASPERI, Presidente del Consiglio dei Ministri. Questa interrogazione potrebbe essere rivolta piuttosto al Ministro dell’agricoltura che a quello dell’interno.

ANGELUCCI. La estendo anche al Ministro dell’agricoltura.

PRESIDENTE. Interpellerò i Ministri competenti perché facciano sapere quando intendano rispondere.

Comunico che è stata presentata anche la seguente interpellanza, con richiesta di svolgimento urgente:

«Ai Ministri dell’interno e di grazia e giustizia, per conoscere le ragioni che hanno spinto il primo a disporre che il prefetto di Caltanissetta sciogliesse arbitrariamente le Commissioni per l’assegnazione delle terre incolte o mal coltivate alle cooperative di contadini, provocando anche la protesta del presidente di quel Tribunale; e il secondo a consentire che il procuratore della Repubblica di detta città facesse rinviare – con aperta violazione del principio della indipendenza della Magistratura – ogni decisione sull’ex feudo Polizzello, richiesto regolarmente dalla cooperativa di Mussomeli; comunque, se intendano revocare le disposizioni anzidette, aventi lo scopo di coartare la volontà delle Commissioni giudicanti in danno dei contadini e di impedire che abbiano pratica attuazione le decisioni già prese da dette Commissioni, specie quelle riguardanti l’ex feudo Polizzello, che una regolare ispezione della Commissione competente e una relazione tecnica del perito hanno dichiarato parzialmente incolto e parzialmente mal coltivato.

«Li Causi, Montalbano, D’Amico, Fiore».

Chiedo al Governo quando intenda rispondere.

GRASSI, Ministro di grazia e giustizia. Farò sapere lunedì quando il Governo potrà rispondere.

MACRELLI. Chiedo di parlare.

PRESIDENTE. Ne ha facoltà.

MACRELLI. Presentai tempo fa al Ministro dell’interno un’interrogazione con carattere di urgenza. Egli mi aveva promesso che avrebbe risposto in una successiva seduta. Ma finora ciò non è stato fatto. Continuano ad accadere incidenti dolorosi e gravi, nelle Marche ed in Romagna, per l’occupazione delle case del partito fascista. Di ciò tratta la mia interrogazione. Sarebbe opportuno che il Governo rispondesse di urgenza anche prima di lunedì perché sono in corso operazioni di polizia e giudiziarie. A questo proposito c’è un progetto di legge da me presentato che è passato per tutti i Ministeri ma non è ancora arrivato all’esame dell’Assemblea.

PRESIDENTE. Se io fossi al posto suo pregherei il Governo di rispondermi rapidamente per iscritto.

Poiché nella sua interrogazione è richiamato il progetto di legge da lei elaborato, il Governo potrebbe dirle così a che punto se ne trova l’esame.

MACRELLI. Io chiederei frattanto che il Governo emettesse, in via di urgenza, i provvedimenti necessari onde evitare dolorosi incidenti. Si fa una sospensione di dieci o quindici giorni e non si ottiene nulla, e frattanto accadono incidenti dolorosi e gravi.

PRESIDENTE. Ma le ho già detto che secondo me l’importante sta nel fatto che il Governo esprima il suo avviso sull’argomento e che ciò può essere fatto dal Ministro al quale l’interrogazione è diretta anche per iscritto.

MACRELLI. Trasformerei allora l’interrogazione in interrogazione con richiesta di risposta scritta, diretta al Ministro dell’interno, e vorrei estenderla anche al Ministro di grazia e giustizia, dato l’intervento dell’autorità giudiziaria nei lamentati incidenti.

DE GASPERI, Presidente del Consiglio dei Ministri. D’accordo.

Sui lavori dell’Assemblea.

PRESIDENTE. Vorrei richiamare l’argomento di cui abbiamo brevemente trattato stamattina e ieri sera. Poiché abbiamo constatato che col ritmo attuale possono essere ascoltati due oratori per ogni seduta ed in più l’esposizione di un Ministro, penso che da domani dovremo cominciare a tenere sedute serali. (Approvazioni – Commenti). È una necessità, onorevoli colleghi. Così abbiamo fatto alcune volte nel passato. Due sedute formalmente, una mattutina e una pomeridiana, ma quest’ultima verrà sospesa ad una certa ora, per essere poi ripresa dopo un certo tempo e protrarsi nella tarda serata.

DE GASPERI, Presidente del Consiglio dei Ministri. Se i Gruppi fossero disposti a ridurre il numero degli oratori iscritti, anche gli interventi dei Ministri potrebbero essere limitati, ed io mi impegnerei al riassumere nel mio discorso – salvo l’intervento del Ministro del bilancio – gli argomenti che dovrebbero essere trattati ancora da altri Ministri.

PRESIDENTE. Questo non dipende da me. Dipende dai Gruppi limitare il numero degli oratori. Gli iscritti a parlare sono ancora 42. (Commenti). È evidente che se il numero degli oratori si riduce, così come si ridurrebbe il numero dei Ministri attraverso il metodo che il Presidente del Consiglio sarebbe disposto a adottare, potremmo anche rinunciare alle sedute serali. Comunque, anche se questo avvenisse, domani sera prolungheremo la seduta.

(Così rimane stabilito).

Interrogazioni.

PRESIDENTE. Si dia lettura delle interrogazioni pervenute alla Presidenza.

SCHIRATTI, Segretario, legge:

«I sottoscritti chiedono di interrogare i Ministri delle finanze e del tesoro, per sapere se non ritengano opportuno emanare provvedimenti perché le città di Agrigento, Canicattì, Licata e Porto Empedocle, gravemente danneggiate dagli eventi bellici, abbiano il loro giusto riconoscimento di centri danneggiati; e quali i motivi che fino ad oggi hanno determinato il detto mancato riconoscimento, causa del diffuso malcontento tra la popolazione, ben considerato che tale riconoscimento è stato già fatto per centri meno danneggiati.

«D’Amico, Li Causi, Montalbano, Fiore».

«Il sottoscritto chiede d’interrogare il Ministro dell’agricoltura e delle foreste, per conoscere se non ritenga indispensabile procedere ai lavori di bonifica del secondo lotto del comprensorio dell’Urana-Saima (provincia di Udine) e al relativo finanziamento, se non si vuole che il dispendio fatto per completare i lavori del primo lotto corra il rischio di andare completamente perduto in seguito alle alluvioni, molto probabili, sia nel corrente autunno sia nella prossima primavera. (L’interrogante chiede la risposta scritta).

«Piemonte».

«I sottoscritti chiedono di interrogare i Ministri dei trasporti e della marina mercantile, per conoscere come intendano fronteggiare la grave situazione denunciata dalla Compagnia lavoratori portuali e dal Consiglio di amministrazione del Provveditorato al porto di Venezia.

«In seguito alla confortante ripresa di arrivi di vapori, carichi specialmente di carbone, necessita che l’insufficienza, ora aggravata, di carri ferroviari, anche per la prolungata sosta di ingenti quantitativi di carbone in depositi a terra, non comprometta l’attività del porto di Venezia; necessita che i due Ministeri, dei trasporti e della marina mercantile, oltre ad adoperarsi perché con ogni urgenza venga assicurata giornalmente una adeguata assegnazione di carri ferroviari, che consenta continuità nel lavoro di scarico e rapido sgombro dei depositi, pongano contemporaneamente ogni attenzione al problema della migliore e più razionale utilizzazione dei trasporti per le vie acquee interne. (Gli interroganti chiedono la risposta scritta).

«Ghidetti, Ravagnan».

«Il sottoscritto chiede d’interrogare il Ministro dei trasporti, per sapere se è a conoscenza, e come intenda rimediarvi, dell’ingiusta disparità di trattamento che l’applicazione del regio decreto 7 dicembre 1923, articolo 5, ultimo comma, determina tra il personale attualmente in quiescenza, già dipendente dal Ministero delle comunicazioni.

«Scomposto quest’ultimo, con la fine del fascismo, e restituiti i post-telegrafonici all’apposito Ministero, per il criterio adottato dal Ministero dei trasporti, si ha questa assurda situazione: i dipendenti ferrovieri licenziati durante la guerra e contemporaneamente riutilizzati, e con la fine della guerra nuovamente licenziati, si trovano ad avere un trattamento di pensione che esclude l’ultimo periodo di servizio come riutilizzati; periodo che invece è stato riconosciuto ai post-telegrafonici, e ciò per evidenti ragioni di giustizia. (L’interrogante chiede la risposta scritta).

«Ghidetti».

«Il sottoscritto chiede di interrogare i Ministri della difesa e del tesoro, per conoscere se non ritengano equo ed opportuno ammettere i militari, membri delle disciolte bande musicali, al godimento della pensione riservata ai militari di carriera, tenuto presente:

che i membri delle bande musicali disciolte nel 1923 erano militari di carriera (come dimostra la loro assunzione per concorso e ad esempio, l’autorizzazione a prender moglie), anche se il regolamento disponeva che non potessero superare il grado di caporal maggiore, qualunque fosse la loro anzianità; che essi sono stati collocati in pensione con gli assegni «tabellari» che competono ai militari di leva e non di carriera, poiché alla data del provvedimento ciò non li danneggiava, non esistendo il «caro-viveri» di recente istituzione;

che le altre categorie di militari di truppa, di carriera”(carabinieri, finanzieri, ecc.), godono di pensione non tabellare;

che l’aggravio che ne deriverebbe al Tesoro sarebbe minimo, considerato l’esiguo numero di questi ex-militari. (L’interrogante chiede la risposta scritta).

«Scarpa».

«Il sottoscritto chiede d’interrogare il Ministro ad interim dell’Africa italiana, per conoscere quali provvedimenti intenda prendere per rendere più sollecite e più semplici l’istruttoria e la liquidazione delle domande di risarcimento di danni di guerra subiti dai nostri connazionali in Africa Orientale Italiana ed in Libia.

«Migliaia di profughi, rientrati in Patria completamente spogliati di ogni loro avere, vivono in estrema indigenza ed attendono, con l’ansia resa sempre più acuta dal crescente bisogno, la predetta liquidazione.

«L’espletamento delle pratiche, nonostante il lodevole spirito di sacrificio dei preposti, la loro abnegazione e la loro competenza, procede con ritmo veramente esasperante, in dipendenza, soprattutto, dell’insufficienza e della angustia dei locali, della mancanza di materiali per una razionale attrezzatura degli uffici (scaffali, raccoglitori, cartelle, ecc.) e della lenta e complessa procedura burocratica. (L’interrogante chiede la risposta scritta).

«Pat».

«Il sottoscritto chiede d’interrogare il Ministro della difesa, per sapere se sia vero che è stato disposto il trasferimento del 46° fanteria da Messina a Palermo e quale sia in tal caso l’utilità di un provvedimento che importerebbe un notevole dispendio, dato che a Messina dovrebbe trasferirsi un reggimento, che ha l’attuale sede a Palermo. (L’interrogante chiede la risposta scritta).

«Basile».

PRESIDENTE. Le interrogazioni testé lette saranno iscritte all’ordine del giorno e svolte al loro turno, trasmettendosi ai Ministri competenti quelle per le quali si chiede la risposta scritta.

La seduta termina alle 20.10.

Ordine del giorno per le sedute di domani.

Alle ore 10 e alle ore 16:

Seguito della discussione delle mozioni degli onorevoli Nenni, Togliatti e Canevari.