Come nasce la Costituzione

ANTIMERIDIANA DI MERCOLEDÌ 1° OTTOBRE 1947

ASSEMBLEA COSTITUENTE

CCXXXIX.

SEDUTA ANTIMERIDIANA DI MERCOLEDÌ 1° OTTOBRE 1947

PRESIDENZA DEL PRESIDENTE TERRACINI

INDICE

Congedo:

Presidente

Mozioni (Seguito della discussione):

Quarello

Lizzadri

Presidente

La seduta comincia alle 10.

MOLINELLI, Segretario, legge il processo verbale della precedente seduta antimeridiana.

(È approvato).

Congedo.

PRESIDENTE. Comunico che ha chiesto congedo il deputato Pignatari.

(È concesso).

Seguito della discussione di mozioni.

PRESIDENTE. L’ordine del giorno reca il seguito della discussione di mozioni.

È iscritto a parlare l’onorevole Quarello. Ne ha facoltà.

QUARELLO. La discussione su un argomento così importante come quello del caro-vita e dei prezzi, da tempo desideravo che l’Assemblea Costituente avesse potuto affrontarla, non tanto sotto la pressione di muovere delle critiche, quanto per l’esame dell’argomento in se stesso, allo scopo di portare un contributo, sia pure relativo, alla risoluzione di così gravi problemi, senza per questo illudersi di poterli dominare, né di poterli risolvere, in quanto si tratta di argomento di tale importanza e potenza da sconvolgere non solo l’economia in Italia, ma anche negli altri Paesi.

Ma è evidente che un contributo su questo argomento merita di essere dato, anche perché noi constatiamo che questo processo di aumento di costi, che continua quasi in modo perenne, è dovuto sostanzialmente al problema dell’insufficienza dei mezzi che si possono avere, e quindi è un esame dedicato a quello che è il processo produttivo. Ma nel caso nostro, nel momento in cui si pone questa discussione, e cioè sotto la pressione di avvenimenti specifici e di una mozione di sfiducia al Governo, è pure il caso di esaminare se eventualmente l’argomento del caro-vita in sé non sia un pretesto e non possa essere soltanto il mezzo di inscenare un’opposizione politica senza che ci siano giustificazioni sostanziali e precise.

Non che con questo io dica che non ci sia il problema del caro-vita, ma, nel modo e nel tempo in cui le agitazioni sul caro-vita si vengono a svolgere, c’è da credere che vi sia una preoccupazione: che il caro-vita non abbia avuto ancora quelle accentuazioni che si vorrebbero avere.

Vorrei far presente agli onorevoli colleghi che, tutte le volte che noi assistiamo a dei grandi movimenti e a grandi agitazioni nazionali contro il caro-vita, è proprio quando gli indici del caro-vita tendono a rallentarsi e, direi quasi, a normalizzarsi.

Noi abbiamo avuto l’anno scorso, per esempio, nel 1946, un grande movimento contro il caro-vita, che si è sviluppato nei mesi di agosto e settembre. Noi ci ricordiamo le manifestazioni nazionali e il Presidente del Consiglio si ricorderà anche delle commissioni che egli dovette ricevere a Milano in occasione di una grande manifestazione.

Ebbene, sarà il caso di esaminare quale era stato l’andamento dei prezzi in quel tale periodo e vedere se eventualmente, in quel tale periodo, avrebbero dovuto essere minori le preoccupazioni e se in quelle agitazioni non c’era invece la volontà precisa di creare condizioni artificiose, quasi per impedire che un principio di ristabilimento si venisse a consolidare.

Abbiamo dunque nel precedente anno queste variazioni di prezzi: nell’aprile 1946 il franco svizzero era disceso a 94 lire, mentre nel luglio precedente era a 170; il prezzo dell’oro nel marzo 1946 era disceso a 510-520 lire al grammo, mentre nell’anno prima era a 1000-1030.

Questo annunciava evidentemente una diminuzione dei prezzi all’ingrosso, tanto che noi abbiamo avuto nei mesi di aprile, maggio e giugno queste variazioni: il prezzo del ferro, per esempio, che era al febbraio 40-42, era disceso in giugno a 30 al chilogrammo vagone; e il prezzo del legno compensato di pioppo, da 70-80 mila lire, era disceso a 50 mila al metro cubo. Questo nel mese di giugno.

Ma c’era un altro fatto, e cioè che gli indici del caro-vita avevano segnato un rallentamento notevolissimo, tanto che, prendendo i dati che ho avuto dal comune di Torino e che sono stati pubblicati, abbiamo avuto questa situazione: l’indice del caro-vita, paragonato a 100 nel 1938, nell’aprile del 1946 era a 2668, discendendo in maggio a 2508; in giugno a 2470; in luglio a 2327. Quindi, era da due o tre mesi che si verificava una relativa normalizzazione nei prezzi, tanto che l’indennità di caro-vita, al 1° luglio, con l’applicazione della scala mobile, aveva portato ad un aumento solo di 3 lire al giorno.

Quindi era evidente che in quel particolare momento c’era un ribasso e una tendenza alla normalizzazione, sia pure relativa, in quanto che i prezzi di mercato non si stabilizzano così facilmente, ma sono soggetti ad altre condizioni. Evidentemente bisogna considerare, e risulta dai dati esposti, che gli scopi dell’agitazione erano ben diversi; c’è da domandarsi se quelle agitazioni non fossero state provocate apposta per impedire che la situazione si normalizzasse, per determinare uno stato d’animo nel Paese, tale da poter consentire la continuazione della ascesa dei prezzi, da poter impedire quella stabilizzazione che, a quanto pare, molti temono.

Vediamo quest’anno. Anche nel 1947 abbiamo avuto una ascesa dei prezzi, perché dopo le agitazioni dell’anno scorso – dell’agosto, settembre, ottobre – i prezzi hanno ripreso a salire e quando i prezzi cominciano di nuovo a salire, le agitazioni pare che si fermino. Quest’anno abbiamo avuto un principio di rallentamento nell’ascesa dei prezzi, preceduto dal ribasso dei titoli, appena costituito l’attuale Governo. In aprile c’è stata una piccola revisione nella scala mobile, si è avuto un secondo aumento e siamo arrivati al luglio di quest’anno. Nel mese di luglio di quest’anno il costo della vita rispetto al giugno accenna una leggera diminuzione, tanto che al giugno era – sempre con 100 al 1938 – a 4716, a luglio a 4503.

Di colpo noi apprendiamo che la Confederazione del lavoro inizia tutta una serie di agitazioni e tutti si domandano cosa sta per accadere. Vi sono, indubbiamente, notevoli riflessi di carattere psicologico, ma malgrado tutti i movimenti avvenuti, malgrado tutte le inscenature, il mese di agosto ha dato come percentuale del costo della vita 4408, cioè ha segnato ancora una leggerissima diminuzione rispetto al mese precedente.

Davanti a questi dati noi ci domandiamo francamente se queste agitazioni sono rivolte a combattere il rialzo o se sono rivolte a provocare viceversa continui rialzi, cioè se in sostanza questa azione tende a combattere la speculazione o a creare condizioni di fatto perché la speculazione si sviluppi e continui, creando condizioni di impossibilità per la stabilizzazione.

L’inscenatura avvenuta perciò è completamente artificiosa e tende sostanzialmente non ad eliminare quegli inconvenienti, ma a crearne viceversa degli altri sempre maggiori.

Ma ci sono altre considerazioni da fare. Ci sono è vero gli indici del costo della vita, ma ci sono le condizioni di chi lavora, che sono gravissime. Ebbene, sarà il caso che noi li esaminiamo e siccome qui, in questa sede, il 20 di giugno è stato dichiarato che, per la prima volta nella storia, con la tregua sindacale si è verificato che gli operai hanno rinunciato ad ogni aumento, mentre tutto rincarava, sarà bene il caso che io esponga qualche cifra per far presente agli onorevoli colleghi che cosa ha voluto dire la tregua sindacale e che cosa ha voluto dire l’accordo che è stato concluso.

Noi abbiamo presenti le condizioni salariali nel mese di agosto del 1946 e qui vi porto quale base di categorie, le paghe di Torino perché i dati nazionali non ci sono. Noi avevamo un salario giornaliero composto in questo modo: paga oraria di 20 lire che per otto ore fanno 160; contingenza lire 159 più 3, 162; lire 8 di indennità di mensa. Salario giornaliero 330 lire. In quel momento l’indice del costo della vita del mese di agosto, sempre secondo l’ufficio statistica ed inchieste del comune di Torino, segnava 2426 rispetto al 100 del 1938. Gli onorevoli colleghi ricorderanno che durante le trattative per la tregua salariale fu concesso un acconto di lire 40 applicato con data 16 settembre e venne dato un aumento in seguito di altre 56 lire, per cui il primo acconto sulla tregua salariale ha portato un aumento di 96 lire giornaliere, che vennero suddivise, in parte, nella paga oraria con l’aumento del 35 per cento. L’aumento sulle paghe del 35 per cento, a partire dal primo ottobre, è stato comunicato alle ditte il 26 novembre (la retroattività è oramai regola generale).

Si è avuto un successivo aumento nel mese di novembre e così nel mese di dicembre, per modo che, sempre a norma dei contratti, al primo dicembre le paghe erano di lire 523.90, al primo febbraio di lire 599.85, al primo aprile di lire 707.85, al 16 aprile si sono aggiunte 4 lire giornaliere per aumento caro-pane, al 1° giugno si hanno lire 817.40. Al primo agosto si ha l’ultimo aumento: paga oraria di lire 46.80, per otto ore lire 374.40; contingenza 598.40; caro-pane 8 lire; mensa 8 lire. In totale 988.80.

Gli assegni familiari nell’agosto 1946 erano di 28 lire; attualmente sono di 59 lire a cui va aggiunto il caro-pane. Quindi in un anno dall’agosto 1946 all’agosto 1947 il costo della vita ha variato da 2.426 per toccare al massimo in giugno 4.716, cioè raddoppiando. Il salario dei lavoratori è andato da 330 a 988. Cioè triplicando.

Quindi, dal punto di vista dei salari, la tregua ha concesso miglioramenti nella capacità di acquisto dei lavoratori; e le agitazioni inscenate in questo mese di agosto e settembre non erano giustificate affatto dall’indice del costo della vita che tendeva a normalizzarsi, ed erano meno giustificabili dalle condizioni salariali che avevano aumentato del 50 per cento (rapporto da 2 a 3) la capacità di acquisto nei confronti dell’anno scorso. (Interruzioni a sinistra – Commenti).

GIUA. Perché non va a dirlo agli operai di Torino?

QUARELLO. Questi sono dati tratti dal libro paga.

Sarà bene che faccia rilevare agli onorevoli colleghi, caso mai non lo tenessero presente, che l’accordo per la tregua salariale è stato una iniziativa particolare del Presidente del Consiglio dei Ministri, quando, risolta la crisi del settembre 1946, sentì la necessità e il bisogno di lavorare un po’ in pace e chiese alle rispettive Confederazioni del lavoro e dell’industria che compissero uno sforzo per creare una condizione di relativa tranquillità che consentisse il regolare svolgimento dell’attività sindacale, e desse a chi lavorava condizioni di vita possibili, almeno compatibilmente con la situazione.

La cosa è avvenuta. Tengo a dichiarare che la discussione, attraverso le rispettive Confederazioni, ha avuto la partecipazione attiva, da parte del Governo, dell’onorevole Campilli; tanto che, quando il 27 ottobre dello scorso anno, in sede conclusiva, fu firmato il patto di tregua salariale, l’onorevole Lizzadri, a nome della Confederazione generale italiana del lavoro, ed il rappresentante industriale, hanno sentito il dovere di ringraziare in modo particolare l’onorevole Campilli dichiarando che era la prima volta che il Governo partecipava con così buona volontà alla discussione e portava un contributo così sostanziale, rendendosi conto delle condizioni dei lavoratori.

Ho voluto ricordare questo piccolo particolare, per far sentire che in questa questione il Governo era presente, come è stato presente ed è presente in tutte le questioni che riguardano il lavoro, portando sempre in esse un contributo non solo di pacificazione ma soprattutto di comprensione, facendo quanto è umanamente possibile fare in questo momento per elevare il tenore di vita dei lavoratori.

Qualcuno potrebbe osservare: allora non c’è più niente da fare; ormai le condizioni salariali sono migliorate; adesso possiamo stare tranquilli.

Nessuno di noi si illude né crede di illudere gli altri che la situazione possa essere a posto. Anzi, devo dire che l’aumento avvenuto nel potere di acquisto rispetto al 1946 è cosa non solo transitoria, ma apparente, perché noi giochiamo su di una economia, che non ha ancora raggiunto la sua posizione precisa di prezzi. Troppi valori oggi non sono valutabili a prezzo economico: abbiamo dei servizi generali al disotto del loro costo, e lo stesso può dirsi per i fitti. Quando l’economia dovrà basarsi sulla stabilizzazione effettiva del costo, in quel momento vedremo che le condizioni salariali, quali oggi sono, verrebbero ad essere di molto insufficienti.

Perché noi marciamo su di una economia, fondamentalmente basata su di una struttura industriale che si regge soltanto per il fatto che 10 altre economie sono in condizioni peggiori della nostra.

Mi sia permesso, prima di addentrarmi nel problema industriale, di trattenermi sulla questione annonaria.

Tutte le volte che si parla di caro-vita, tra le diverse rivendicazioni che si pongono vi è sempre la proposta di aumentare gli ammassi, di portare una maggiore disciplina nel regime annonario. Sovente nei comizi si sentono minacce, per il fatto che il Governo non provvede: che occorrerebbe perciò essere più energici ed impiccare anche qualcuno. Si dice che c’è una teoria di regolamentazione, la quale trova anche una certa rispondenza nell’animo popolare, in quanto che tutto quello che è semplicistico trova maggior presa.

Altra cosa da prendere in esame è la situazione dei prezzi dei generi alimentari. È una questione che non può prescindere da quella che è la quantità di circolante che abbiamo e dalla quantità dei mezzi, di cui ciascuno dispone; perché la insufficienza dei mezzi e delle merci porta come conseguenza che tutte le volte che aumentiamo il potere di acquisto, facciamo salire evidentemente il prezzo, per la ragione, molto semplice, che la merce è sempre quella e quindi il prezzo è soggetto a salire sino al punto, nel quale qualcuno deve rimanere senza quella merce. È tragico dire queste cose, ma è inevitabile. Fin quando noi aumentiamo il guadagno dei lavoratori, non faremo che spingere in alto i prezzi dei generi alimentari, sino al punto della massima offerta. Perché tutti noi, dal primo all’ultimo, qualora non li trovassimo sul mercato, andremmo a cercarli sui luoghi di produzione.

Questo è bene dirlo con franchezza, perché si dice, nei comizi ed altrove, che il governo non prende i provvedimenti necessari. Ma nessuno ha il coraggio di dire che siamo noi a ridercene di questi provvedimenti e che il popolo italiano non sa cosa farsene di questi provvedimenti che non rispetta. La verità è che noi non protestiamo quando la borsa nera aumenta, ma quando la borsa nera non funziona o funziona meno, si va magari in bicicletta a cercare quello che occorre sui luoghi di produzione. In Italia ci sono quattro milioni di produttori: su quattro milioni di produttori se ne trova sempre qualcuno dal quale si può trovar merce e dal quale si può acquistarla.

La realtà, signori, è che siamo tutti animati da un senso egoistico ed individuale che è veramente impressionante. Nessuno di noi è disposto ad accettare sacrifici. Quando parliamo di sacrifici, parliamo sempre dei sacrifici degli altri; quando si parla di qualcuno che deve pagare, parliamo sempre di altri che debbono pagare. Non c’è classe, non c’è categoria, direi quasi che non c’è individuo in Italia oggi che non senta di essere, lui personalmente, la sua categoria e la sua classe, quella che ha la maggiore importanza in Italia, mentre le altre classi e le altre categorie debbono pagare e sacrificarsi. Questa è la mentalità profondamente egoistica ed individualista che si è affermata in Italia ed è la mentalità sulla quale tutti giuocano per speculare sui singoli interessi di categoria e per accentuare i contrasti che ci sono tra classe e classe.

Per quella parte che si riferisce agli aumenti di prezzo dei generi alimentari, l’unica possibilità di rimediare consiste nell’importare dall’estero quanto è possibile e nell’aumentare la nostra produzione interna per sopperire alle attuali esigenze.

Si verifica un fatto importante: vediamo che sono aumentate, in questi ultimi tempi, le spese voluttuarie. Io credo che tutti quanti hanno potuto constatare che tutto ciò che è divertimento e genere voluttuario – dal cocomero al gelato, al cinema – ha un consumo semplicemente spaventoso. Quando penso che a Torino dei posti affittati per la vendita al pubblico sono stati pagati 600 mila lire per soli 15 giorni per vendere quella roba, evidentemente è il caso di dire che si spende molto e chi vende, guadagna molto. Ma il fatto impressionante è questo: che la grandissima parte di quello che dovrebbe andare al risparmio va a tutto quello che è genere voluttuario. Questo perché? Innanzi tutto perché non si può fare risparmio per timore della svalutazione, che annulla il valore del risparmio; inoltre, per l’impossibilità di rivolgere quei risparmi all’acquisto di beni reali. Perché, mentre abbiamo constatato nel guadagno complessivo un miglioramento rispetto al 1946, è altrettanto vero che rispetto ai prodotti industriali abbiamo avuto un peggioramento. Infatti, le industrie – la maggior parte delle industrie – lavorano unicamente per un mercato di eccezione, in quanto la loro produzione non può rivolgersi al mercato medio e povero, e la produzione così come si svolge oggi, non è possibile che sia portata ad un prezzo di acquisto accessibile alle classi medie e più povere, perché la struttura industriale è oggi così pesante ed antieconomica che ogni aumento di salario porta ad un costo di molto superiore a quello che comporta l’aumento stesso.

Esempio tipico: quindici anni fa gli operai guadagnavano 24 lire al giorno. Io posso dire, in base all’esperienza di allora, che era molto facile per l’operaio riuscire a comperarsi la camera da letto ed a sistemarsi la cucina; qualcuno aveva la possibilità di comperarsi perfino la camera da pranzo. Ciò era possibile perché si pagavano delle cifre proporzionate a quello che era il guadagno. Oggi, con mille lire al giorno, gli operai non riescono a comperarsi nemmeno una sedia per la cucina perché il costo dei prodotti industriali, il costo delle materie prime, il costo del processo di lavorazione sono saliti ad un tal prezzo che la produzione è destinata ad altri mercati.

Ne ho avuto l’esempio, nei primi giorni della Fiera di Torino. Ho visto, in uno stand, una camera da pranzo di un gusto così pacchiano, così volgare, ma di altissimo prezzo che ho chiesto chi avesse permesso la presentazione di un mobile così disgustoso. «È l’unico che abbiamo venduto», mi hanno risposto.

Ora, questo esempio merita evidentemente un esame, perché dobbiamo constatare oggi questa insufficienza di potere di acquisto da parte dei lavoratori dei prodotti industriali. Se possiamo dire che le altre nazioni non hanno ancora risolto il loro problema industriale, se l’economia ancora non è collegata internazionalmente, tutto ciò però rappresenta un fatto preoccupante perché queste cose ad un dato momento devono avvenire, perché la speculazione rallenterà e si ritornerà al mercato normale.

Oggi, possiamo fare manifestazioni anche contro il caro-vita, ma il giorno in cui le industrie non lavorassero più, potremmo fare sì dimostrazioni, ed anche con maggiore ragione, ma non concluderemmo più niente. Potremo protestare e con più ragione, ma senza alcun esito.

Ora, qual è la nostra situazione? Se permettete, onorevoli colleghi, farò un breve esame della situazione e mi riporterò allo sviluppo precedente, farò cioè un esame retrospettivo per poter giudicare, con una certa sicurezza, anche quello attuale.

Lo sviluppo industriale in Italia è veramente notevole, ed anche dal punto di vista tecnico è veramente ammirevole. In questi ultimi quindici anni esso si è sviluppato per dei prodotti particolari, rivolti all’economia italiana ed in clima di possibilità economiche dovute all’autarchia, cioè non sul campo della concorrenza internazionale.

Quindi con altra mentalità, con altra struttura.

È venuta la guerra e l’economia si è adattata ai bisogni della guerra. È venuta poi l’occupazione e allora si è verificato questo caso particolare: che l’industria – parlo del Settentrione – nel tempo dell’occupazione nazi-fascista era rivolta ancora apparentemente a produrre, ma sostanzialmente a non produrre, sia perché la non produzione era un fatto di dovere nazionale, sia perché il non produrre è sempre una cosa più comoda di quella di lavorare, sia anche perché la possibilità di scambi di merci era ristretta. Ma si era verificato anche in queste aziende un aumento di personale, dovuto all’assunzione di elementi da parte delle diverse aziende per farli partecipare alla lotta di liberazione e per toglierli al controllo nazi-fascista. E possiamo dire che nel Settentrione, da parte di molti industriali, è stato dato un esempio veramente di solidarietà, assumendo, senza averne bisogno, senza possibilità di lavoro, personale che veniva tenuto in forza nello stabilimento stesso. Si era verificata anche un’altra cosa: si era verificato uno stato d’animo curioso: la speranza della liberazione aveva illuso anche molta gente nel senso che tutto sarebbe cambiato. Se noi ricordiamo tutti i vincoli che esistevano nell’economia in quegli anni della guerra, tutte le attrezzature legali e commerciali che le aziende industriali avevano dovuto impiantare per via delle assegnazioni o non assegnazioni, ricordiamo anche quale era stata la conseguenza di questo fatto, cioè, che, non potendo più lavorare senza assegnazioni (e si lavorava lo stesso) si era cominciato ad attrezzarsi in modo da eliminare il peso fiscale perché non potendosi procedere ad acquisti regolari, non si poteva produrre regolarmente e vendere regolarmente. Si era creata in tutte le aziende una struttura fiscale ed amministrativa diversa, più complessa, quasi doppia, perché bisognava trovare il modo di regolarsi di fronte alla legge.

Si aveva così a fine guerra una struttura rivolta a produzioni autarchiche e di guerra, una prevalenza enorme di mano d’opera non adatta ai lavori, una organizzazione commerciale e fiscale sproporzionata ed impiegati in un numero maggiore. Si sperava che la liberazione avrebbe liberato da tutti i vincoli, consentendo di potersi mettere a lavorare tranquillamente.

Si era verificato anche un fatto di importanza morale che noi, in seguito, abbiamo fatto il possibile per annullare tutti insieme. Si era verificato in quel momento una certa solidarietà, la comprensione della utilità degli sforzi del lavoratore e del datore di lavoro, che aveva raggiunto, in certi posti, una completa unione. C’era la sensibilità, quasi la certezza che a guerra finita si sarebbe realizzato qualche cosa di più profondo, di duraturo nei rapporti fra capitale e lavoro, fra lavoratori e datori di lavoro.

Questa comunanza di interessi nella stessa lotta per difendere gli impianti industriali che, anche se è stata un po’ artificiosamente aumentata, in parte c’è stata; questo legame che esisteva tra chi lavora e fa lavorare, aveva generato la convinzione che questa volta si sarebbe potuto ottenere una realizzazione concreta.

E siamo venuti alla liberazione. Bisognava tener conto di una cosa; che l’economia si doveva adeguare ai bisogni del Paese.

C’è un fatto innegabile; l’economia industriale italiana era in piedi mentre quella degli altri paesi europei era distrutta; quindi una condizione di privilegio assoluto su tutta l’Europa, in un mondo che di tutto aveva bisogno, e quindi possibilità da parte nostra di conquistare i mercati che finora non avevamo potuto conquistare, nella condizione di essere gli unici a poter lavorare e quindi a poter ottenere quelle materie per lavorare che noi non avevamo.

Bisognava perciò affrontare la necessità di introdurre, con adeguazione alle esigenze produttive, quei cambiamenti nella struttura delle aziende resi necessari dalle nuove esigenze, cioè tutta una revisione dei rapporti di lavoro.

Fra tutte queste aspirazioni subentra la liberazione. Avviene l’epurazione, sulla quale però non parlo perché, evidentemente, è legge e su quello che è applicazione di legge non dico nulla, anche se non ne condivido i principî.

Ma, in proposito, vorrei dire per la parte che mi riguarda, come democratico cristiano, di essere lieto che ad imporre quelle leggi e quelle disposizioni non ci siano stati i nostri uomini, ma rappresentanti di altri partiti, anche se – quasi per somma ironia – oggi vediamo che le masse si agitano contro quelle tali disposizioni di legge e sono incitate contro gli uomini che le hanno subite, mentre le masse avrebbero dovuto e dovrebbero rivoltarsi contro i loro dirigenti che le hanno emanate. (Applausi a destra).

Ma veniamo ai provvedimenti interni. Non so se molti di voi hanno seguito lo sviluppo industriale del Settentrione: i provvedimenti interni (cioè la espulsione dallo stabilimento) sono stati presi per quelli che avevano un certo valore tecnico ed una certa capacità, quelli che avevano una funzione disciplinare, cioè verso gli elementi essenziali, veri competenti per la gran parte, che potevano avere influenza sia per autorità, sia per capacità fondamentale nel funzionamento aziendale.

Un provvedimento generale, un’unica scusa e via!

Ora, c’è un fattore morale: questa gente, specialmente parlo della mia provincia, era nell’età dai 45 ai 60 anni, gente si può dire della mia generazione. Ed io posso dire che la gran parte dei dirigenti industriali torinesi erano da ragazzi con me in fabbrica. Centinaia, molte centinaia ci siamo conosciuti alle scuole serali professionali dopo dieci ore di lavoro; e questa gente che si è fatta attraverso tanti sacrifici ha portato una competenza tecnica di primissimo ordine nell’industria torinese e sono questi che abbiamo visto mettere fuori, perché non erano piaciuti all’elemento interno. Posso testimoniare fra voi che per molti non c’era nessuna ragione di carattere politico (e d’altronde per questo c’era la epurazione). Quello era il primo colpo che si veniva ad inferire al sistema industriale italiano per impedire che, comunque, si potesse riprendere e diventare quello che doveva essere. (Applausi).

Questa azione fu compiuta con molta intelligenza, sfruttando lo stato d’animo degli operai, e con vera passionalità, sfogando risentimenti e forse delle antipatie. Noi, durante e dopo la liberazione, ci siamo sentiti tutti leoni e lo siamo effettivamente diventati: ma, abbiamo forse dimenticato quello che eravamo qualche anno prima. Io vedo che in fabbrica di fronte a certe situazioni vi sono pecoroni, oggi, più di quanti non ve ne fossero dieci o quindici anni fa.

Ad ogni modo, quest’opera smantellatrice delle industrie è stata concomitante in tutta l’alta Italia, il che evidentemente esclude la pretesa spontaneità. E si incomincia così a verificare che, nella fabbrica, chi era rimasto a dirigere aveva capito di essere rimasto soltanto per il fatto del gradimento o della sopportabilità della massa e che dipendeva evidentemente da queste circostanze se in quel dato posto poteva ancora rimanere.

Come andasse la cosa in quel tempo non è il caso di spiegare, perché voi stessi potete rendervene conto. C’era stato un caso speciale a Torino, che cioè un grande stabilimento di prodotti metallurgici era l’unico che producesse delle lamierine che servivano ad altre industrie. Siccome il gruppo di tecnici, in questo stabilimento, di quella data lavorazione, avevano subito provvedimenti di indesiderabilità, si è dovuto conservare un ufficiale tedesco, perché era l’unico che fosse un tecnico. Malgrado questo, quella lavorazione è rimasta ferma.

Il che ha voluto dire che i possessori di quei tipi di lamiera hanno compiuto affari d’oro. E quindi anche questo per combattere la speculazione è indubbiamente servito.

E veniamo ad esaminare le condizioni di carattere salariale. I costi della vita erano aumentati in ragione di 24 volte rispetto al 1938, mentre le paghe erano aumentate solo da 10 a 17 o 18 volte, perché c’era un certo disordine dal punto di vista salariale. Anche se, infatti, c’erano stati dei provvedimenti notevoli, come quello della socializzazione, che esamineremo in sede particolare, la situazione era indubbiamente, sotto questo riguardo, da sistemarsi. C’erano degli industriali più generosi, altri più avari…

C’era insomma da compiere una regolamentazione della questione salariale. Era sperabile, almeno da noi, che, avvenuta la liberazione, in precedenza nel centro e meridione d’Italia si era costituita la Confederazione del lavoro implicante un fatto di importanza storica, da non dimenticarsi mai, l’unità sindacale, alla quale anche noi avevamo contribuito, sia pure per la parte che ciascuno di noi poteva dare, che si trovasse un organismo che fosse pronto ad agire e che ci fosse almeno un piano già preparato. Noi sentivamo che si parlava allora di piani economici e desideravamo sapere se nell’Italia già liberata questo piano fosse stato fatto. Ora, noi non sapevamo se il Governo fosse stato in grado di farlo, perché al di là del fronte noi che seguivamo questi problemi sapevamo che il Governo affrontava questioni importantissime quale quella istituzionale, ma pensavamo che la Confederazione del lavoro, almeno essa, avrebbe avuto un piano. Siccome è la pianificatrice per eccellenza, pensavamo che dovesse avere un piano.

E si è atteso… ma inutilmente. Delle azioni slegate ci sono state nei primi tre mesi, caotiche, con una infinità di interferenze. Ad ogni modo, questo non va attribuito a colpa dei singoli dirigenti sindacali locali, poiché la situazione era quella che era. Il che dimostra che in certi momenti quello che conta è la situazione di fatto.

Poi si ebbero i primi accordi di un certo valore (per i salari) nell’agosto 1945. Ma quello che attendevamo noi da parte confederale era che ci fosse un elemento nuovo, una parola nuova, un qualche cosa che fosse diverso dalla questione strettamente salariale che si veniva ad impostare. Noi aspettavamo qualche cosa che utilizzasse quello spirito maturatosi in quel periodo; auspicavano la concretizzazione delle aspirazioni della classe lavoratrice che tendesse a portare la questione non più sul piano puramente della lotta per gli aumenti salariali fatti a casaccio, ma nel senso responsabile della possibilità produttiva, entrare in quello che è il processo produttivo stesso assumendo delle responsabilità, ed abbandonare quelle posizioni apparentemente comode, dei miglioramenti o delle lotte salariali. La responsabilità sarebbe stata questa: incominciare a portare nel sistema industriale, nelle industrie, una sistemazione produttiva logica, eliminare tutto quello che era in più; perché gli errori portano a conseguenze che si pagano in modo inesorabile, né vi possono essere provvedimenti di legge che valgano ad eliminarli.

Occorreva affrontare il processo industriale e la disciplina delle aziende, per poter assumere gli oneri e le responsabilità della nuova struttura, nonché il diritto di assumere il comando delle aziende stesse, mettere su un piano di eguaglianza il lavoro con il capitale, con gli stessi diritti. Ma, signori, per questo occorreva senso di responsabilità, nonché chiarezza di vedute. La Confederazione del lavoro si vede non aveva pianificato, né, evidentemente, era possibile attendere norme al riguardo.

Potrei parlarvi di quello che è avvenuto nel campo dei consigli di gestione. Vorrei che si discutesse un giorno dei consigli di gestione, per poter effettivamente valutare le diverse esperienze acquisite, avendo avuto la fortuna di seguirli sin dai primissimi giorni della loro nascita nonché in tutto lo sviluppo, parziale e generale, a Torino. Ho visto lo sforzo compiuto, ho visto che hanno servito, malgrado, diciamo così, le origini non perfettamente sane; cioè si è partiti da un presupposto politico, non da uno economico; eppure hanno servito in un’infinità di casi.

Gli uomini di qualunque partito messi di fronte alla responsabilità, ad un certo punto cambiavano la posizione morale. Questo fatto è di un insegnamento profondo, e forse è per questo che il consiglio di gestione è rimasto come uno strumento che fino ad un certo punto ha avuto una utile funzione, ma il più delle volte vi era qualche elemento nello stesso che impediva che si andasse oltre un certo limite, ed allora la funzione diventava padronale.

Ora, questa posizione morale da affermare, questa realizzazione economica che si poteva fare, non si è fatta. E allora anche questo si è verificato: una enorme riduzione dal punto di vista della potenzialità tecnica dell’azienda.

Nel campo economico si svolgeva la lotta salariale nel modo più volgare che si potesse fare.

Voglio far rilevare, specialmente a quelli dei colleghi che conoscono l’attività sindacale, questo: tutte le volte che c’è un provvedimento di carattere sindacale, almeno nove volte su dieci esso viene a premiare l’industriale avaro e viene a colpire l’industriale generoso. Per esempio, il caso di quanto è avvenuto alla liberazione: industriali che avevano assunto diecine di persone senza averne assoluto bisogno, avevano aumentato in modo inverosimile le loro aziende per poter difendere dei lavoratori fino a liberazione avvenuta. Quindi, essi pagavano del proprio e hanno pagato del proprio. Ho visto anche altri industriali, quelli avari, che non avevano assunto nessuno; ora, a fine guerra, quando era tempo di lavorare sul serio, quei tali industriali generosi che avevano voluto quelle assunzioni, hanno avuto un pugno nella schiena, e viceversa gli altri, quelli avari, si son trovati in condizioni migliori. Quando sono arrivate le rivendicazioni salariali, gli aumenti sono avvenuti per percentuali sulle paghe che esistevano, non su un minimo logico stabilito; e quindi, chi aveva dato quindici doveva aumentare in proporzione e chi aveva dato sette aumentava in misura minore. Quindi i provvedimenti sindacali non premiano l’industriale generoso ma l’industriale avaro. Fate pure i generosi, ché a pagare ci penserete voi!

Ma il fatto essenziale era questo: che l’operaio poteva andarsene via. E abbiamo visto così che molto personale veramente capace di lavorare e veramente sano e stanco di vedere certe situazioni di fabbrica, si allontanava.

PAJETTA GIANCARLO. Dove sono andati? A fare i capitalisti?

QUARELLO. Sono andati a percepire condizioni di paga superiori. Vi sono degli operai che vanno a lavorare senza libretto in una infinità di aziende, con stipendi superiori al 50 per cento rispetto a quelli che prendono gli altri! Questo perché lei lo sappia.

Ma il curioso era questo: e cioè, che la misura in sé era incomprensibile. Se avessero detto agli industriali di liberarsi del personale in più che economicamente non serviva, mi pare che sarebbe stato anche logico, facendo anche assumere l’impegno della riassunzione entro cinque o sei mesi di altri elementi che potessero servire.

C’era da tenere conto di un fatto importante. Nell’adeguare le industrie alla loro potenzialità effettiva, bisognava che la collettività provvedesse al sostentamento dei disoccupati e, quindi, occorreva allo stesso tempo un’azione governativa che avesse dato ai disoccupati possibilità di vita sia pure limitata. Non si è fatto né l’uno, né l’altro. Vi sono state riunioni a Milano nel luglio, poi nel settembre, poi nel gennaio del 1946; poi c’è stata la commissione che ha esaminato la condizione dell’industria e concluso che il personale in più era di circa 180 mila persone. Nel frattempo si era verificato che certe aziende, blocco o non blocco, si erano liberate di parte ed anche di tutto il personale e quindi una certa eliminazione avveniva ugualmente, non portando però quei benefici che potrebbe dare anche oggi, se affrontata compiutamente. Ma se noi vogliamo esaminare questo provvedimento in sé e comprendere la portata politica di questo blocco, noi dobbiamo collegarlo con quell’altro dell’eliminazione del personale tecnico, amministrativo.

Perché in un’azienda esiste non soltanto il peso di pagare uno che non lavori, ma di pagare uno che non lascia lavorare gli altri. Perché pagare la gente che non lavora è il meno. Quando si dice ad una azienda: tu devi pagare il dieci, il venti o il trenta per cento in più di quello che paghi, questo è niente; ma è disastroso tenere delle persone che son lì apposta per non far lavorare gli altri. Si tiene il blocco dei licenziamenti nelle fabbriche e specie nelle grandi fabbriche appunto per impedire qualsiasi disciplina. Questo lo si giustifica apparentemente con la difesa degli interessi delle classi lavoratrici. È una delle tante parole generiche che non servono a niente. La realtà è che si vuole impedire ad ogni costo che l’azienda italiana si difenda e si metta sul piano produttivo. (Applausi al centro).

GORRERI. Venga a vedere il numero dei disoccupati; sono migliaia e migliaia.

QUARELLO. Per i quali occorrono provvedimenti in proposito.

Il Ministro Fanfani, da poco tempo al Ministero del lavoro, ha già provveduto ad elevare per i disoccupati il sussidio da cinquanta a duecento lire al giorno. È un primo passo. Questa necessità non era stata sentita finora.

Ho saputo che l’onorevole Fanfani ha fatto fare un’inchiesta sui disoccupati e su quella cifra di un milione e mezzo che si gonfia quando fa comodo. Quello che è interessante rilevare è il numero dei disoccupati dall’aprile del 1946, cioè da quando si è parlato del premio della Repubblica che andava anche ai disoccupati.

Si vedrà che l’ascesa è stata del 50 per cento ed anche in certi casi del 100 per cento.

I disoccupati di occasione esistono apposta per prendere quei tali premi o quelle date concessioni.

Si capisce che la disoccupazione in Italia è grave. Pensate a tutta la gioventù che va dai 18 ai 25 anni: che mestiere ha? Ha fatto ginnastica, la guerra d’Africa, etc. Ma anche la generazione dell’ultimo ventennio non ha un mestiere, perché si era restii a fare imparare il mestiere. Si voleva l’impiego.

Sono ritornati tutti i prigionieri e gli internati, minorati fisicamente e diminuiti nella capacità di lavoro. Così pure gli ex-reduci. Questa è la generazione sulla quale si dovrebbe basare la forza di un Paese. La grandissima parte di essa è senza mestiere, mentre l’altra parte non può lavorare. Quindi una condizione quanto mai dolorosa per l’Italia. Occorrerebbe almeno impiegare questa gente come commessi, guardiani, magazzinieri. Questa tragedia, in Italia, è una delle cose più gravi, uno degli elementi che dovranno essere tenuti presente quando si dovrà pensare all’industria italiana futura, la quale dovrà essere messa in condizione di assumere personale non specializzato, e quindi con delle attrezzature fondamentalmente tecniche che consentano l’utilizzazione di elementi non preparati.

Esaminiamo un altro fatto. Ho detto che durante la guerra vi era in tutte le aziende un ufficio a parte (assegnazione, contratti), cioè tutta quella organizzazione supplementare dell’azienda che dal punto di vista economico non è la meno importante (era anzi la più importante). Ora, si sperava che almeno questa struttura fosse abolita: viceversa le condizioni del Paese non l’hanno consentito. Anzi, si sono ricreati degli organi già sciolti e, a quanto mi risulta, si sono continuati gli stessi sistemi. Devo dichiarare che dopo due anni dalla liberazione, da parte di molta gente – troppa gente – si conclude molto melanconicamente che il detto pirandelliano «Come prima, peggio di prima» non è un detto puramente letterario; e c’è in molta gente non solo disillusione ma un senso di amarezza.

La convinzione che la distribuzione di assegnazioni od acquisti possa avvenire non in seguito a criteri determinati ma secondo una valutazione personale, è la cosa più dolorosa. Ma di questo parlerò in altro momento. Esiste un altro elemento di enorme importanza che io voglio sottoporvi: è il sistema assicurativo italiano. Spero che, quando la Commissione per le assicurazioni avrà compiuto gli studi, ci darà gli elementi di giudizio a proposito. Ho l’impressione che il bilancio delle assicurazioni raggiunga il livello di quello dello Stato o, per lo meno, se ne discosti poco. Sarà interessante conoscere quello che viene a costare il servizio e quello che va come beneficio agli assicurati.

Permettetemi, onorevoli colleghi, che io abusi della vostra attenzione per farvi conoscere l’ammontare d’oggi e quali sono state le variazioni verificatesi.

Oggi abbiamo i seguenti contributi: Assegni familiari: 30 per cento; Cassa richiamati 0,5 per cento; fondo pensioni 6,85 per cento; fondo disoccupazione 4,90 per cento; fondo tubercolosi 4 per cento; solidarietà sociale e pensioni 12 per cento (8 a carico del datore di lavoro e 4 a carico dei lavoratori); 1,5 per cento per invalidità e vecchiaia (lire 25 fisse per settimana).

Questo onere sulla quota del massimale fisso di lire 6.250 mensili, viene ad essere del 59,75 per cento e deducendo il 4 per cento a carico dei lavoratori è del 55,75 per cento.

Per gli impiegati vi è il 2 per cento in più per la Cassa richiamati. Poi si aggiungono, e sulla retribuzione completa, per la Cassa di integrazione il 3,5 per cento; Cassa malattia 5 per cento; Assicurazioni infortuni in media 5,5 per cento; in totale 14 per cento, che, aggiunto al rimanente, viene ad ammontare al 69,75 per cento. Però, precisiamo, il 55,75 per cento è solo sul massimale di 6.250 e non sul totale della corresponsione.

Ora esaminiamo l’altra parte, che grava sul salario, cioè quella delle disposizioni contrattuali che calcoliamo su una attività annua dell’operaio di 2000 ore. Nel 1920, quando si sono ottenute per la prima volta le ferie pagate, si esigevano dall’operaio 2400 ore di lavoro effettivamente compiute.

Ora calcoliamo, per puro conto teorico, una produzione annua di 3000 ore, che non sono affatto necessarie per acquisire i diritti contrattuali. Per questo è sufficiente essere in carico alla ditta e segnati sul libro paga.

Vediamo:

Gratifica natalizia ore 200 che rispetto alle 2000 ore danno una percentuale del 10 per cento.

Ferie annuali giorni 12 ore 96.

Festività fisse giorni 4, su 32 concesse dal fascismo e mantenute (potrei dire che nel ’44 la commissione interna è venuta da noi a reclamare il 28 ottobre. Vi risparmio la risposta che ho dato).

Festività infrasettimanali giorni 12 ore 96.

Indennità di licenziamento giorni 2 per anno ore 26.

Complessivamente ore 440 che sulle presunte 2000 ore danno una percentuale del 22 per cento.

Questo ammontare è gravato dalle assicurazioni che, come abbiamo visto, sono del 69.75 per cento.

Il che vuol dire che il 22 per cento va aumentato di più di due terzi, il che porta una maggiorazione del 15.35 per cento. Totale 37.35.

Riassumiamo: 69.75 per assicurazioni, più 37.35 per disposizioni contrattuali più assicurazioni, è un totale di 107.10.

La retribuzione salariale è raddoppiata. Devesi però notare che per il 55 per cento le assicurazioni sono sul massimale di lire 6250 mensili e non sul totale delle retribuzioni, il che viene a ridurre la percentuale totale.

Io credo che se potessimo attuare subito questo provvedimento: le paghe e le retribuzioni attuali sono quelle che sono, dando il doppio a ciascuno che provveda da sé per le assicurazioni ed il resto, io credo che tutti sarebbero disposti ad accettare. Infatti, quando pensiamo: siamo a 1000 lire al giorno di paga, ne possiamo prendere 2000 di colpo, faremmo tutti un ottimo affare. Però diciamo anche che questo non è possibile per tutto un complesso di ragioni che oggi non è il caso di esporre.

Desidero, onorevoli colleghi, farvi presente, perché è interessante, come si è arrivati a questa posizione attraverso le diverse variazioni. Dire tu devi dare 100 o 200 lire è una cosa da ridere. Finché ci sono, si paga, ma il bello è che si viene a dire: «Tu dal mese scorso devi dare questo»; «Io ho già registrato, e sui libri contabili!»; «Non importa, tu cancelli o correggi».

Vediamo. Su, in Alta Italia, abbiamo avuto fino al giugno del 1945 il sistema assicurativo preesistente, cioè quello della Repubblica di Salò che aveva applicato il contributo unificato. Poi, dal primo agosto 1945, è entrato in funzione il nuovo sistema. Per gli assegni familiari, 20 per cento; 1 per cento alla cassa per i richiamati ed il 5 per cento alla cassa di integrazione. E sull’intero salario.

Per gli impiegati, e qui comincia ad essere interessante, si stabilisce il 20 per cento sulle prime 3000 lire di stipendio, il 5 per cento per i richiamati sull’intero stipendio, ed il 0,75 per cento per la cassa di integrazione sulle prime 2000 lire dello stipendio.

Non si poteva stabilire il 25,75 per cento su una unica base di conteggio? No. Bisognava compiere tre operazioni diverse. Questo dura sino al 1° ottobre del 1945, data con la quale, per gli impiegati, si eleva il contributo per la cassa di integrazione dal 0,75 per cento nelle prime 2000 lire di stipendio, al 5 per cento sull’intero stipendio; si cambia nuovamente al 9 novembre 1945 e poi nuovamente al 1° gennaio 1946; e poi nuovamente al 29 maggio 1946. A questo punto, sempre aggiungendo oneri e sempre spostando le basi di conteggio (al gennaio si stabilisce il massimale di 3.600 lire mensili su 5 voci ed una sull’intero stipendio, ed al 23 maggio il massimale è elevato a 6.250 lire). Tutto questo, potremmo concederlo, vorrebbe dir poco, ma il fatto importante è che i cambiamenti sono notificati in ritardo anche di mesi, il che comporta una revisione si può dire permanente dei conteggi e delle dichiarazioni e talvolta dei libri paga. E col rischio di non venirne a capo, tanto che nel giugno 1946 l’Istituto nazionale della previdenza sociale ha dovuto mandare una circolare riassuntiva che a partire dal 1° agosto 1945 precisasse i vari periodi e le relative variazioni. Particolare interessante. In questa circolare vi era una avvertenza che precisava questo:

I lavoratori lasciati a casa per indesiderabilità non possono fruire della Cassa di integrazione.

Le ditte devono però corrispondere i contributi assicurativi al completo.

E questo, tanto per riferirmi a quanto già detto, è un regalo non indifferente che è venuto a gravare sulle industrie. Ma passiamo ad altro. Alla ricchezza mobile.

Vi leggo le disposizioni per i pagamenti a mese, ma tenete presente che le paghe si fanno in genere settimanalmente e quindi per ogni periodo di paga ci sono da compiere gli stessi conteggi. (Per gli operai):

sino ad 8.000 lire esente da imposta;

da lire 8.000 a 8.150,15, l’imposta è uguale alla differenza esistente tra la retribuzione percepita e lire 8.000;

da lire 8.150,15 a 9.000, l’imposta del 2,10 per cento si calcola sulla retribuzione percepita depurata di lire 1.000;

per lire 9.000 l’imposta è di lire 168;

da lire 9.000 a lire 9.086,75, l’imposta è di lire 168 più una quota pari alla differenza esistente tra la paga e le lire 9.000;

da lire 9.086,75 a 10.000, l’imposta del 3,15 si calcola sulla paga percepita depurata di lire 1.000;

per lire 10.000, l’imposta è di lire 283,50; da lire 10.000 a 10.098,55, l’imposta è di lire 283,50 più una quota pari alla differenza esistente.

PRESIDENTE. Onorevole Quarello, per favore, non ci legga tutti questi elenchi di aliquote e di quozienti! Sono interessanti, ma non per la discussione immediatamente. Li richiami per cenni.

Una voce al centro. È bene conoscerle queste cifre.

PRESIDENTE. È bene conoscerle, ma per questo abbiamo a nostra disposizione tutti gli stampati, i moduli, i questionari del Ministero delle finanze.

QUARELLO. L’imposta va al 4,20 per cento e poi si aggiunge la complementare che si moltiplica per 1,575 per cento. Con l’ottobre pare si debba cambiare.

Perché questo? Perché sembra fatto apposta per rendere difficili i mezzi di controllo e turbare notevolmente il sistema contabile. Guardate, signori, che oggi vi è una situazione per cui la parte industriale pensa alla speculazione. Pensiamo cosa ha voluto dire questo sistema quando ad esempio nel 1946, a fine novembre, si notifica che le paghe vengono modificate dal 1° ottobre, e poi a fine dicembre si modifica dal 1° novembre, e così in gennaio per dicembre. Pensate, signori, che la tenuta del libro paga diventa una cosa impossibile da controllare. Quando la ditta non può più controllare se il personale registra bene o se registra male, tutto il sistema amministrativo dell’azienda diventa un sogno. Io domando a voi se è possibile continuare di questo passo.

Ma anche questo vi faccio presente: oggi si verifica l’esodo di gente che va a lavorare in posti dove non c’è la tenuta amministrativa dei libri. Quando osserviamo che in certe fabbriche gli operai non vogliono fare lo straordinario, non è che non intendano lavorare ore in più, è perché vanno a lavorare in altri posti dove non si segna sul libro paga e danno 150 lire invece di 100. Tutti questi oneri portano come conseguenza alla evasione e la gente cerca di liberarsene. Questo è bene spiegare.

E se noi crediamo veramente che si vuole ottenere nel campo produttivo quella volontà che esisteva e che in parecchi ancora esiste, io ritengo che non soltanto negli accordi interni sindacali ma anche da parte degli organi legislativi sarebbe necessario agire in modo diverso.

Ora ho speranza che questo sistema venga modificato e pregherei il competente Ministero che, almeno per queste disposizioni di assicurazioni, si affidasse a funzionari che per lo meno abbiano fatto il capo ufficio mano d’opera in qualche stabilimento, in maniera che sappiano di che cosa si tratta.

Ho detto che mi preoccupavo delle conseguenze: perché oggi, anziché pensare al processo produttivo, si pensa al fatto speculativo. E questo è grave.

Posso dire che qualche tempo fa, ed il fatto mi ha colpito, io avevo delle preoccupazioni per una piccola azienda che ho, la quale mancava di attrezzature. Mi sono rivolto ad un grande industriale il quale mi sente parlare e poi guardandomi mi dice: «Senta, io non sapevo che lei fosse così stupido. Perché vuole preoccuparsi in questo senso? Faccia la cortesia, non stia a perdere tempo! Compri quel vagone di roba e lo tenga lì: fra sei mesi mette tutto a posto. Le pare che sia il momento di perdere tempo con le attrezzature?».

Questo mi diceva un industriale del quale avevo una infinita stima per la sua capacità di lavoro: questa è una inversione di volontà che spinge molti a non sforzarsi verso la produzione, per fare invece della speculazione, dalla quale bisogna assolutamente guarire.

Onorevoli colleghi, quella condizione di favore che due anni fa esisteva in Italia comincia ad essere modificata e negli altri Paesi, se pure per fortuna nostra questi hanno una economia controllata e quindi più restrittiva che espansiva, già oggi cominciamo a sentire il peso della concorrenza per certi prodotti.

Si comincia a fare sentire la possibilità di vendere in Italia e soprattutto l’impossibilità nostra di vendere altrove. Cioè comincia a saldarsi quel periodo di frattura della guerra. Badate bene che quello che in altri Paesi venne distrutto e che oggi si ricostruisce, non è nel sistema dell’attrezzatura antica ma di quanto di più perfetto esiste nel campo produttivo.

Quando pensiamo alla vecchia industria inglese che in gran parte è caduta, dobbiamo pur notare che fra dieci anni gli inglesi saranno contenti di averla perduta, in confronto a quella che stanno preparando oggi. È una perfezione, cioè è quanto di più progredito si sta compiendo nel campo industriale inglese ed anche in quello francese, perché chi ha avuto la casa distrutta, la vuole ricostruire nella maniera la più perfetta possibile. E quindi noi oggi, dopo avere avuto un vantaggio, dovremo sentire man mano l’avanzata di altre industrie in perfetta tecnica. La lotta economica sarà senza quartiere, sarà inesorabile. Questa è la posizione, signori. Occorre che si cambi la struttura, la mentalità e che si pensi effettivamente a quella che è la produzione, e non a tirare avanti alla men peggio.

Ora, se il mercato finanziario non avrà sbalzi troppo forti e l’economia potrà normalizzarsi un po’, io spero che una parte delle industrie speculatrici finiranno; ma la parte sana comincerà ad affrontare seriamente il lavoro, al quale guarderà come fonte di guadagno e come mezzo di soddisfazione, per l’interesse del Paese, oltre che per accrescimento dei redditi dello Stato.

Per questo, vorrei pregare il Governo: forse in questo campo potrà far poco, ma può dare l’esempio nell’organizzare i suoi uffici, nell’organizzare lo Stato. Perché c’è anche questa ragione morale, che quando si lavora e si paga (perché chi lavora onestamente ha tutti gli svantaggi e paga tutti i tributi in confronto a chi, invece, lavora disonestamente) si ha anche il diritto di dire: ma, insomma, voi fate una organizzazione statale che pesa e noi lavoriamo per mantenere della gente che non fa niente.

Io vorrei che ci fosse anche in questo un gesto da parte del Governo. Onorevole De Gasperi, ho sentito che quando è venuta da lei la Commissione confederale ed ha chiesto la scala mobile per i dipendenti statali – scala mobile di cui non si era mai parlato prima – si sono fatte delle promesse. Invece, si doveva dire: «Sissignori, stipendi, quanto volete? Tanto. Però, intendiamoci, si lavora otto ore e lavorano quanti mi sono necessari; gli altri fuori della porta». Questo avrei voluto che si fosse detto. Questo: perché bisogna pagare chi lavora, ma non c’è obbligo di tenere in servizio persone che non servono e non lavorano.

Se questo potesse verificarsi, cioè che lo Stato faccia sentire il suo polso, e paghi i suoi dipendenti quanto è giusto pagarli, però tenendo solo quelli di cui ha bisogno, e facendoli lavorare, questo sarebbe un esempio nel Paese. E sarebbe una cosa importante anche dal punto di vista morale, perché, creda pure, che questo andazzo generale è una cosa molto grave.

Si dice: «avremmo dovuto fare una politica di sussidi». Ma il sussidio costa nemmeno la metà di quello che costa oggi mantenere impiegati e lavoratori in soprannumero, soprattutto tenuto conto di quello che consumano e di quello che sprecano. Invece, si potrebbe dare un sussidio decoroso a chi ne avesse bisogno.

PAJETTA GIULIANO. Cosa vuol fare? Vuol pagarli, oppure licenziarli, gli statali?

QUARELLO. Lei non ha inteso.

PAJETTA GIULIANO. Ho inteso fin troppo bene: li vuol licenziare e non pagare!

QUARELLO. Sto dimostrando da tempo la necessità di provvedere in modo adeguato prima di procedere ai licenziamenti. Per questo ho elogiato l’onorevole Fanfani.

Vorrei parlare ora dell’indirizzo industriale; ma mi limito a fare ancora una raccomandazione al Ministro dei lavori pubblici.

PRESIDENTE. Onorevole Quarello, mi scusi: non è una discussione sulle comunicazioni del Governo quella che stiamo facendo.

QUARELLO. Sul caro-vita.

PRESIDENTE. Suppongo, onorevole Quarello, che ella avrà letto le mozioni in discussione. Comunque prosegua.

QUARELLO. Io sono convinto che ciò che significa risparmio sulle spese inutili sia un contributo saliente al risanamento del bilancio e dell’economia nazionale e quindi, del caro-vita. Del resto, tralasciando altre considerazioni che pure sarebbero importanti, mi limito solo a questa: esiste una situazione veramente tragica per quello che riguarda le case. È una questione, onorevoli colleghi, che oggi non esaminiamo con la dovuta attenzione, illudendoci di poter continuare ad andare avanti così.

Noi abbiamo avuto due milioni di vani distrutti ed abbiamo un incremento demografico di circa 400.000 abitanti all’anno. In questa situazione, le case non si ricostruiscono e gli abitanti si ammucchiano in angusti e insufficienti edifici, in condizioni igieniche e morali molto pericolose.

Ma, quello che è peggio, si è determinata per questo stato di cose una vera e propria situazione di impossibilità a risolvere questo problema; costruire una casa rappresenta oggi una spesa enorme. Il costo non è inferiore alle 400 mila lire al vano. C’è poi la politica del blocco degli affitti, la quale ha impedito ai padroni di casa di sentire quello stimolo, che sarebbe tanto necessario, verso la riparazione dei loro stabili. Avviene così che oggi vengano riparate soltanto quelle case i cui proprietari hanno avuto la ventura di accumulare cifre enormi di denaro.

È così che noi, fingendo di fare una politica a favore del popolo, facciamo invece sostanzialmente il gioco di questi grandi speculatori. Ma quello che sovra ogni altra cosa mi preoccupa è che, mentre il settore del lavoro edilizio potrebbe dare occupazione in Italia a centinaia di migliaia di operai, noi continuiamo, sì, a fare la voce grossa dicendo che ci sono tanti disoccupati, ma di fronte ai molti e molti industriali dell’edilizia che potrebbero dar loro lavoro e pane, noi li osteggiamo, paralizzando queste iniziative o non facendole addirittura nascere.

Ci sarà, s’intende, anche da esaminare la questione di rendere economicamente possibile il reddito ai proprietari di casa. Ora, sotto questo riguardo, io credo che il Governo potrebbe incominciare a fare, in materia di affitti, una politica chiara e precisa, nel senso di procedere ad una revisione graduale degli affitti stessi, per poter portare in dieci anni a quello che è il reale reddito economico per le riparazioni e la ricostruzione. È dunque assolutamente necessario un chiaro e fattivo orientamento in proposito da parte del Governo.

La costruzione delle case oggi non procede industrialmente; è un ramo questo che risente ancora di una struttura quasi artigianale. Bisogna arrivare al punto di creare, in questo settore, una vera industria, una industria della casa che vada dalle strutture murali alle parti accessorie.

L’industria edilizia occuperebbe circa il 50 per cento della mano d’opera, e la sua industrializzazione porterebbe una riduzione enorme sui costi; potrei documentarlo in qualunque momento. Bisogna fare una politica molto diversa dalla precedente: è il minimo; ma occorre per questo orientare anche la stessa politica fiscale.

Ho letto sui giornali che l’onorevole Tupini ha fatto delle dichiarazioni in questo senso, cioè, a coloro che intendono portare del capitale all’industria della costruzione edilizia, si concederanno esoneri dall’imposta patrimoniale; cioè la parte che si impiega nell’industria edilizia viene esonerata dall’imposta patrimoniale. Credo che si dovrebbe indirizzare tutto quello che si può verso il ramo della costruzione e ricostruzione di case. Non parlerò dei materiali che sono necessari, e che oggi in Italia sono insufficienti, perché inadeguati ai bisogni.

Io penso solo questo: che si voglia o non si voglia, fra un anno e mezzo o due la crisi industriale italiana sarà inevitabile, e sarà tanto peggiore in quanto non si sarà adeguata l’industria ai bisogni economici. Se noi per quel periodo avessimo predisposto l’orientamento della ricostruzione delle case in un senso industriale, noi potremmo col lavoro interno sopperire all’uso della nostra mano d’opera e alle nostre possibilità industriali. Occorre che noi guardiamo questo problema da un punto di vista sociale, per dare una casa a chi ne ha bisogno e del lavoro a chi deve lavorare. Ma soprattutto bisogna fare le case con comodità; e ciò si può ottenere soltanto con l’organizzazione industriale.

Onorevoli colleghi, ho finito e domando scusa se ho perso del tempo in cosettine che hanno poca importanza. (Approvazione al centro e a destra).

Avrei potuto soffermarmi ancora qualche ora a darvi elementi di un interesse tale che se li sapeste, tanti discorsi nei comizi non li fareste.

Ad ogni modo, per concludere, dico che bisogna potenziare l’industria italiana, perché l’Italia ha tutte le possibilità per avere un’industria: ha gli uomini, ha le capacità; ma deve crearsi una sua base di consumo nazionale. Nessuna industria può reggere oggi, se non trova nel mercato interno la possibilità di vendere. Occorre che noi abbiamo questa visione: poter dare col lavoro al produttore la capacità di acquisto al consumatore; soltanto in quanto noi creeremo la condizione al nostro lavoratore di effettivo consumatore di quello che produce, cioè allargando la sfera della possibilità produttiva e dando al lavoratore una condizione morale adeguata nell’interno dell’azienda, noi potremo creare le basi per lo sviluppo industriale italiano, permettendo così alla nostra industria di affrontare, anche sotto la forma complementare, i mercati esteri nel prossimo avvenire.

Ma soprattutto occorre prepararsi anche ad industrializzare l’agricoltura, perché l’agricoltura avrà a suo tempo una grave situazione di concorrenza rispetto a quella estera; e se non arriviamo a delle riforme sostanziali tecniche e sociali non avremo la possibilità di sostenerla.

Domando scusa agli onorevoli colleghi del tempo che ho fatto perdere loro, e li prego di valutare tutto quello che è necessario fare in questo campo per dare lavoro, ed a chi lavora creare condizioni di vita possibili: queste sono le basi fondamentali; molto più che non gridare contro il caro-vita, contro cui nessuno sa opporsi, e che soltanto la forza delle cose e il lavoro degli uomini riusciranno ad eliminare. (Applausi al centro e a destra – Molte congratulazioni).

PRESIDENTE. È iscritto a parlare l’onorevole Lizzadri. Ne ha facoltà.

LIZZADRI. Onorevoli colleghi, credo opportuno fare una premessa: che io sarò il più possibilmente breve perché cercherò di stare nei termini di questa discussione, cioè nei limiti delle mozioni che sono state presentate.

Il 3 aprile 1947 la Presidenza del Consiglio diramò un comunicato nel quale, dopo un preambolo piuttosto ottimista sulle condizioni finanziarie del Paese, tali da consentire (sono le parole del comunicato) ragionevole fiducia nell’esito di un supremo sforzo per evitare ogni ulteriore slittamento della moneta, venivano resi pubblici alcuni provvedimenti deliberati dal Consiglio dei Ministri.

Non vi leggerò tutti i provvedimenti, ma mi è necessario accennarne qualcuno per le osservazioni che vi devo fare.

Il numero quarto di questi provvedimenti diceva: estendere il sistema di tesseramento differenziale, preferenziale, per il pane, ecc.

Il sesto: mettere gli enti comunali di consumo in condizioni di esercitare la loro funzione calmieratrice.

L’ottavo: rafforzare l’applicazione della disciplina valutaria.

Il nono: attuare misure efficaci per la disciplina bancaria.

Il decimo: colpire la rivalutazione delle rimanenze di magazzino.

Finalmente, il dodicesimo: accertamento rigoroso dell’impiego delle materie prime di assegnazione.

E il tredicesimo: comminare sanzioni rigorose, non esclusa la gestione commissariale, degli stabilimenti che contravvengano alla disciplina dei prezzi.

Voi ricorderete tutti che, dopo questo comunicato, il Paese tirò un sospiro di sollievo all’annuncio di questi provvedimenti. Perché? Perché credetti che finalmente in Italia si cominciasse a fare sul serio.

E tutti ricorderanno anche che la Confederazione generale italiana del lavoro immediatamente fece un comunicato dichiarando di mettersi a disposizione del Governo per collaborare affinché si desse pratica attuazione ai 14 punti.

Se facciamo il punto al 4 aprile, dopo la pubblicazione dei provvedimenti presi dal Governo, noi vediamo che forse mai – dopo la liberazione – in Italia avevamo raggiunto una certa unanimità: Governo, Confederazione del lavoro, la stampa in genere (perché tutta la stampa approvò i provvedimenti presi dal Consiglio dei Ministri) e il Paese.

Naturalmente questa unanimità durò molto poco, perché il giorno 9 la Confederazione generale dell’industria italiana, a mezzo del suo organo ufficiale L’Organizzazione Industriale, espresse nei seguenti termini il suo pensiero sul programma del Governo: «In occasione dell’esposizione del programma governativo – dice L’Organizzazione Industriale – di risanamento economico, è sgusciata fuori la facile comune accusa contro ogni industriale, contro i produttori che riempirono i magazzini di merce per aspettare che il prezzo aumentasse, e da questa accusa è venuto fuori quel progetto di colpire le giacenze di magazzino che, se attuato, costituirebbe un monumento di stramberia e di stortura fiscale».

Così giudica la Confindustria i provvedimenti del Governo democratico dell’Italia repubblicana.

Ed inoltre: «Occorre convincersi che almeno tredici dei quattordici punti indicati dal Governo devono essere lasciati nei programmi dei partiti».

Non dice qual è il quattordicesimo punto che la Confindustria vorrebbe invece fosse applicato.

«Ed occorre (dulcis in fundo) persuadersi che il servirsi dei consigli di gestione è il mezzo migliore per distruggere quel poco che si è fatto».

Il pubblico, il grosso pubblico, che non conosce i segreti ed i retroscena della vita politica e che non legge il giornale della Confindustria, era sempre in attesa che cominciasse l’applicazione del programma governativo condensato nei quattordici punti, ed. invece avvenne che improvvisamente (per lo meno così sembrò alla maggioranza del pubblico italiano) la sera del 28 aprile il Presidente del Consiglio pronunciò alla radio il suo noto discorso, che irriverentemente qualcuno ha voluto chiamare «il discorso alle dattilografe», e che aprì di fatto la crisi di Governo.

Però è onesto e giusto riconoscere che il 9 giugno lo stesso Presidente del Consiglio, e, me lo perdoni l’onorevole De Gasperi, a me sembra, in riflesso all’accusa fattagli dall’onorevole Nenni di scrivere poco e di parlare molto, affermò testualmente: «Alcuni di questi punti, quelli che ho testé citato, sono già trasfusi in decreti o disegni di legge, ed il Governo accetta quelli già codificati e si propone di attuarli».

Ed aggiunse: «ma intanto bisogna scegliere immediatamente i punti di attacco: il nemico più vigoroso è l’inflazione, ed il punto più dolente quello monetario». Il che farò in questa battaglia ed in questa lotta (questo non lo disse l’onorevole De Gasperi, ma è facile pensarlo), con maggior facilità oggi che ho messo fuori dal Governo socialisti e comunisti, ed ho introdotto nel Governo i tecnici e gli uomini di alta competenza, come voi sapete.

Facciamo il punto ancora a fine giugno e vediamo che quella unanimità che dopo la liberazione, per la prima volta, si era realizzata in Italia intorno al programma dei Governo il 4 aprile, il 9 giugno non c’era più. Già questa unanimità è rotta. C’è il Governo omogeneo, ma non c’è più nel Governo quel rapporto di forza regolare, né l’apporto dei lavoratori organizzati rappresentato dalla Confederazione del lavoro, e dopo un mese da questo discorso la situazione, naturalmente, non migliorò. Tutti si domandarono se il Governo voleva ancora realizzare il piano che aveva esposto in questa Assemblea o se invece nel colpire quel nemico n. 1, il più pericoloso dei nemici, cioè l’inflazione, l’onorevole De Gasperi non avesse ancora scelto i punti di attacco o se le armi che adoperava fossero spuntate.

Comunque le condizioni del Paese continuarono a peggiorare e la circolazione aumentò.

Ai primi di luglio la Confederazione italiana del lavoro, sotto la pressione delle masse e del malcontento che andava sempre più diffondendosi in conseguenza delle incertezze e della inefficienza delle misure governative, insieme con i sindaci dei capoluoghi di provincia e con gli enti della cooperazione, presentò proposta concreta per la lotta contro il continuo rialzo del costo della vita astenendosi dal presentare nuove rivendicazioni salariali, benché la base si agitasse anche in questo senso. Molto si è parlato di queste proposte, sia dal punto di vista della loro applicazione pratica sia dal punto di vista del principio.

Esse sono state esaltate naturalmente da chi ci vedeva del buono – dai lavoratori – e sono state svalutate, specialmente senza tener conto né del loro valore concreto né della loro tempestiva attuazione, dai portavoce padronali.

È utile ricordare che queste proposte furono discusse e approvate nel Comitato direttivo della Confederazione all’unanimità, col concorso cioè di tutte le correnti, comprese la corrente democristiana, la repubblicana e l’indipendente, tutte rappresentate nel massimo organismo della Confederazione generale italiana del lavoro. Alcuni giornali, che si dicono liberali e indipendenti e che approfittano oltre ogni limite decente di questa libertà che i combattenti ed i partigiani hanno conquistato all’Italia, per insultare tutti i giorni la Confederazione generale italiana del lavoro e i partiti di sinistra, scrissero naturalmente che non spettava alla grande organizzazione sindacale occuparsi di questi problemi. Ricordo che un giornale di Napoli, che per fortuna vende soltanto poche centinaia di copie, domandava: «Cosa c’entra la Confederazione generale italiana del lavoro col caro-vita? La Confederazione generale italiana del lavoro deve interessarsi degli aumenti salariali; e poiché in questo momento la Confederazione generale italiana del lavoro non può domandare l’aumento salariale, ma solo un miglioramento della situazione economica in Italia per migliorare le condizioni dei lavoratori, praticamente la Confederazione generale italiana del lavoro in questo momento non deve far niente, deve andare a riposo».

Del resto anche nei corridoi di questa Assemblea ho inteso la stessa accusa alla Confederazione generale italiana del lavoro, e credo che anche qui dentro ci siano dei colleghi che sarebbero ben contenti se i sindacati non ci fossero affatto. Ma ormai bisogna rendersi conto che questi organismi si sono così profondamente inseriti nella vita economica e politica delle nazioni democratiche che non è possibile ignorarli e tanto meno confinarli ad una funzione di secondo piano. Potrei quasi dire che la libertà e la democrazia di un Paese si giudicano oggi dalle funzioni che in esso esercitano i sindacati.

Tutti sanno che il Governo inglese è nella stragrande maggioranza l’emanazione delle «Trade Unions», e che circa 300 deputati laburisti provengono dalle Leghe operaie. Così in Australia, così nella Nuova Zelanda e così in molti Paesi dell’Europa orientale e occidentale. Voi sapete che la reazione negli Stati Uniti ha cercato di sferrare una forte azione contro i sindacati; ma noi sappiamo che i sindacati negli Stati Uniti resistono e che la reazione sta frantumando i suoi denti.

Il Presidente Truman stesso è dovuto intervenire a porre il suo veto contro la legge sui sindacati. Senza parlare naturalmente dell’Unione Sovietica dove i sindacati hanno delle attribuzioni oltremodo importanti non solo per la vita degli organizzati, ma per quella di tutto il popolo. Forte perciò dell’adesione dei suoi 7 milioni di organizzati d’ogni tendenza, d’ogni mestiere e d’ogni professione, ma forte soprattutto del consenso, che ad essa dà la grande maggioranza del popolo italiano, la Confederazione generale del lavoro è nel suo diritto, anzi direi nel suo dovere, di elaborare un piano; di chiederne la discussione prima e poi l’applicazione al Governo. Questo piano non ha niente di rivoluzionario. Esso tiene conto della situazione generale del nostro Paese; è in armonia con la ripresa necessaria della ricostruzione, mira ad alleviare le pene di coloro che più soffrono, dei lavoratori occupati o disoccupati, dei pensionati, degli impiegati di tutte le categorie. Nessuno potrebbe trovare da ridire sul fatto che la Confederazione si occupa specialmente di quelli che più soffrono, di quelli che lavorano, di quelli che sono disoccupati. Perché è un fatto – e credo che nessuno possa smentirlo – che chi ha dato fino a questo momento il più forte contributo alla ricostruzione in Italia sono stati i lavoratori, percependo da due anni a questa parte un salario sempre inadeguato alle esigenze della vita, malgrado le affermazioni fatte in merito dall’onorevole Quarello.

Tutti quelli che si sentono veramente legati alla rinascita del nostro Paese, dovrebbero essere più che contenti, soddisfatti del fatto che i lavoratori concorrono e sentono l’interesse supremo della Patria, partecipando alla ricostruzione del nostro Paese e non si astraggono dalla vita della Nazione.

Qual è, poi, in fondo il contenuto concreto di queste proposte? Non voglio leggerle tutte; però, non posso fare a meno di segnalare l’impostazione organica del piano della Confederazione del Lavoro. Nella sua parte essenziale, esso trattava gli approvvigionamenti, la distribuzione, i prezzi, gli organi esecutivi di applicazione ed anche la legislazione adeguata all’attuazione del piano stesso.

Per gli approvvigionamenti tutti si erano mostrati d’accordo sulla necessità di una revisione del regime vincolistico in vigore, nei riguardi specialmente di alcuni generi contingentati, come il latte ed i grassi, al fine di renderlo effettivamente operante.

Non credo ci sia tra noi qualcuno, responsabile della politica del nostro Paese, il quale non deplori che fortissimi quantitativi di latte, per esempio, vadano ai prodotti voluttuari o alle fabbricazioni di formaggi di lusso. L’Alto Commissario per l’alimentazione non riesce ad aumentare la razione del latte ai bambini, che pure sono la speranza e l’avvenire del nostro Paese.

Credo che tutti dovrebbero essere d’accordo nell’aumentare il vincolo sul numero dei prodotti, per esempio sulle carni, sui formaggi, sui legumi, sulle calzature.

Io so tutto quello che si dice; abbiamo discusso a lungo, anche con l’onorevole Aldisio, quando egli era Alto Commissario, ed anche con l’attuale Alto Commissario per l’alimentazione; so tutte le difficoltà che esistono per aumentare, per allargare il numero dei generi razionati. Ma vorrei domandare, come l’ho domandato al tavolo delle trattative qualche volta: chi potrà convincere il lavoratore, il quale, ritornando a casa, passa davanti ad un negozio del centro di Roma e lo vede pieno d’ogni grazia di Dio? Io ne ho visto uno di questi negozi: ho contato 25 qualità di formaggi e 18 di salumi. Chi convincerà il lavoratore che una più giusta distribuzione di questi prodotti non possa dare almeno una volta la settimana una minima quantità per i suoi figlioli? Chi lo convincerà che la burocrazia è così arretrata, che non riesce mai a distribuire almeno una parte di tutta questa massa di prodotti, che potete vedere nei negozi di Roma?

Sorge dunque la necessità di allargare il numero dei prodotti contingentati. Le proposte della Confederazione del lavoro si estendono anche al blocco di parte della produzione industriale destinata all’agricoltura, come ad esempio attrezzi, concimi, ecc. Anche qui bisognerebbe rendersi conto che si commette – oltre che una grave ingiustizia – un errore, in regime di vincolismo parziale, con d’imporre ad uno solo od a pochi prodotti prezzi d’imperio, tenendo conto dei loro costi di produzione. Non è sufficiente, per determinati prezzi di un solo prodotto, esaminare soltanto gli elementi che concorrono alla sua produzione. Questo sarebbe economicamente giusto se il vincolo si estendesse almeno a tutti i generi di prima necessità. Nel caso in oggetto bisogna tener conto che, ad esempio, un piccolo produttore di grano ha bisogno di vestiti, di scarpe, di medicinali e deve mandare a scuola i propri figli. Ebbene, quando stabiliamo il prezzo del grano – che qualche volta è l’unico prodotto di questo piccolo proprietario – tenendo conto delle giornate lavorative e dei concimi che concorrono a fissare il costo di produzione, non teniamo conto che questo produttore, specialmente se si tratta di un piccolo produttore, si trova nella necessità di andare ad acquistare fuori del suo campo altri generi, anche alimentari, che occorrono alla sua alimentazione ed a quella della propria famiglia, generi di abbigliamento, ecc. Di qui sorge la necessità di vincolare almeno i generi indispensabili per la vita quotidiana e di rafforzare nello stesso tempo il funzionamento degli enti comunali di consumo, affinché i benefici che si conseguono con la produzione non si disperdano per la strada.

C’è, poi, un’altra proposta della Confederazione generale italiana del lavoro, tendente a riorganizzare gli organi preposti alla fissazione di prezzi. Anche qui sappiamo che il maggior danno viene dal fatto che il contadino viene in città e vede i suoi prodotti esposti in vendita al doppio o al triplo del prezzo a cui li ha ceduti all’acquirente. E poiché egli non trova opposizioni da nessuna parte, ritorna in campagna ed aumenta il prodotto. Così siamo sempre daccapo. Ma come accolse il Governo le proposte della Confederazione generale italiana del lavoro? Il Ministro Togni fece in proposito un discorso alla radio il 3 luglio scorso, ma piuttosto che un discorso era un bollettino di guerra. «Scopo fondamentale è l’incremento del potere di acquisto delle retribuzioni delle masse lavoratrici – dice il Ministro Togni (mi dispiace che non sia presente per porgergli le felicitazioni per la sua guarigione) – attualmente travagliate in una rincorsa sempre più appesantita da condizioni di vita, non diciamo normali, ma almeno sopportabili. Situazione questa che ha trovato concreta eco nelle richieste della Confederazione generale italiana del lavoro che, nella quasi totalità, collimano con le preoccupazioni del Governo manifestatesi sia nelle ripetute sedute del C.I.R., che nelle deliberazioni del Consiglio dei Ministri».

Dunque, identità di vedute tra il Governo e la Confederazione del lavoro, secondo il Ministro Togni. Siccome il Ministro Togni è pieno di energia e non si ferma qui, aggiunge: «soprattutto, in considerazione di questo stato di cose, il Governo si è preoccupato di arrestare l’ascesa dei prezzi, per giungere poi ad una loro compressione ed infine sarà inesorabilmente stroncata con ogni mezzo l’esportazione clandestina e sarà condotta un’energica azione di reperimento delle merci imboscate, comunque ed ovunque, colpendo senza quartiere i colpevoli».

Ed in ultimo diceva: «Oltre alla serie di controlli governativi, si avrà una serie di controlli da parte dei consumatori».

Quanto sarebbe meglio se i Ministri parlassero qualche volta di meno e concludessero di più! Che cosa è stato realizzato di tutte queste promesse? Del programma esposto qui dall’onorevole De Gasperi il 9 giugno e dal Ministro Togni nel suo discorso? Fabbisogno garantito alla popolazione? Non è stato ancora garantito nulla alla popolazione. Basta avere ascoltato il discorso dell’Alto Commissario per l’alimentazione.

È stata colpita la rivalutazione delle rimanenze? È stato proceduto al l’accertamento degli impieghi delle materie assegnate? Sono state comminate sanzioni rigorose ai contravventori alla disciplina dei prezzi?

DE GASPERI, Presidente del Consiglio dei Ministri. Come no! C’è un disegno di legge.

LIZZADRI. Tesseramento differenziato?

DE GASPERI. Presidente del Consiglio dei Ministri. Non si può fare, ve l’ho detto. Ma voi non ascoltate quando ve lo spiego.

LIZZADRI. Tesseramento differenziato? Arresto della ascesa dei prezzi? Sequestro degli stabilimenti? Avete frenato l’inflazione? Questo è il programma. Che cosa ha realizzato questo Governo? (Interruzione del deputato Pastore Giulio).

Io penso che si sia reso un cattivo servizio all’onorevole Aldisio pubblicando la risposta che egli avrebbe dato sulla possibilità di una crisi di Governo. «Crisi imminente?», ha risposto Aldisio alla domanda di un giornalista. «Ma, voi scherzate! Questo Governo è avviato ad una salutare opera ricostruttiva. Non esiste una ragione per una crisi. Sarebbe un danno spezzare l’opera del Governo». È come dire, aggiungo io, che sarebbe un danno spezzare il corso all’inflazione e all’aumento del costo della vita. (Interruzioni al centro).

La costituzione di questo Governo – questo è il nocciolo – di tecnici non fu giustificata dal Presidente del Consiglio in quest’Assemblea con la necessità di fermare l’inflazione? E l’onorevole Togni non ha detto nel suo discorso che il Governo si è preoccupato di arrestare l’ascesa dei prezzi per giungere poi ad una compressione di essi? In verità, onorevoli colleghi, non si è arrestata l’ascesa dei prezzi e tanto meno si è compressa. In verità, l’unico merito degli arresti spetta all’onorevole Scelba il quale ha fatto arrestare (Applausi a sinistra – Commenti al centro) i ragazzi che protestavano contro Gonella e quei lavoratori che, in virtù di un decreto che esiste e che gli agrari non applicano, stanno nelle campagne per dissodare, per lavorare, per seminare. (Applausi a sinistra). Questa è la verità. Essi stanno nelle campagne per aumentare quella produzione la cui deficienza tutti lamentiamo.

Altro che arrestare l’inflazione! Non voglio portarvi elementi che altri oratori vi hanno già portato, ma le cifre sono queste: la circolazione, che a marzo ascendeva a 531 miliardi, dopo agosto è salita a 642 miliardi. Il costo della vita, secondo l’Agenzia economica e finanziaria, dalla quale io traggo questi dati, che non sono stati smentiti, da punti 3829 nel marzo è salito a punti 4813 nel luglio. Né il rialzo è stato arrestato da Scelba!

La situazione è ancora più grave nel settore alimentare, dove l’indice, sempre secondo questa agenzia economica – e i dati non sono stati smentiti dal Governo – da 4832 nel marzo 1947 va a 6134 nel luglio 1947. E credo che nei mesi di agosto e settembre non sia certamente diminuito.

Qualche cosa ha fatto l’onorevole Einaudi. Io credo alle sue intenzioni. Però quali sono state le conseguenze del noto provvedimento sulle banche? Non voglio ripetere argomenti prospettati in questa Assemblea, ma la conseguenza più grave, secondo me, è che questo provvedimento ha colpito indifferentemente sia la produzione, sia la speculazione. Anzi, se andiamo in fondo alla cosa, ha colpito veramente la produzione.

Ha colpito la produzione perché c’è la naturale tendenza delle banche ad investire i propri capitali al più alto interesse e a breve scadenza. Ora è chiaro che i capitali vengono più facilmente investiti con un tasso maggiore nelle rimanenze di magazzino a beneficio della speculazione che non nella produzione che si estende per un periodo di tempo più lungo.

Tirando le somme di questi tre o quattro mesi di Governo omogeneo, possiamo sì constatare che la situazione si è schiarita. Oggi la situazione è molto chiara, nel senso che i risultati sono assolutamente negativi.

Questo Governo non è riuscito a risolvere nessuno dei problemi per cui si costituì il 9 giugno, quando spezzò la concentrazione che si era formata qui dentro dei quattro quinti di questa Assemblea. Unico risultato positivo, e non credo che questo fosse l’obbiettivo dell’onorevole De Gasperi e la volontà del popolo italiano, è la rottura della solidarietà fra i grandi partiti di massa che poteva assicurare un Governo all’Italia almeno fino alle elezioni.

Io personalmente – voi comprendete il mio personale rincrescimento – ho lavorato per tre anni nella Confederazione generale italiana del lavoro con la costante preoccupazione di non rompere l’unità fra questi grandi partiti sul terreno sindacale, anzi cercando di influenzare anche un accordo nel campo politico.

Sono convinto che l’unica possibilità per ottenere il concorso delle grandi masse lavoratrici alla ricostruzione dell’Italia, specialmente se noi dobbiamo chiedere loro dei nuovi sacrifizi, risiede principalmente sull’accordo, transitorio se volete, di questi partiti.

Non v’è dubbio che le diverse fasi della vita politica abbiano una grande ripercussione sulla compagine della Confederazione generale italiana del lavoro, ma sarebbe un grave errore anche per i signori industriali il pensare che una scissione nella Confederazione generale italiana del lavoro possa portare dei vantaggi agli industriali stessi. Se qualcuno pensa così si dovrebbe disilludere, perché le condizioni obiettive di lavoro nel nostro Paese diventerebbero molto più difficili se avvenisse la scissione sindacale e la lotta politica potrebbe assumere aspetti molto più difficili di quelli attuali.

E veniamo agli scioperi. Il Governo, e i giornali che sostengono il Governo, sono su tutte le furie per gli scioperi che avvengono in Italia e mostrano in questo modo di accorgersi soltanto oggi che per tre anni, malgrado la fame, malgrado i bassi salari, malgrado le malattie, malgrado la disoccupazione, il nostro Paese è stato forse il più tranquillo di Europa, certamente il meno agitato dei paesi che hanno perduto la guerra. Naturalmente oggi la colpa sarebbe della Confederazione del lavoro e dei partiti di sinistra, che nulla farebbero per evitare queste agitazioni e che anzi, sotto sotto, fomenterebbero le agitazioni stesse.

Sapete, per quelli che dicono ciò in malafede, la cosa è molto chiara, perché sappiamo cosa vogliono e perché dicono questo in malafede. Il brutto sarebbe che ci fosse qualcuno in buona fede che dicesse questo, il che vorrebbe dire che in Italia c’è qualcuno che non si è ancora reso conto delle vere condizioni della classe lavoratrice e della gente che soffre.

Comunque, cari colleghi, la verità è che i lavoratori e il popolo non ne possono più, sono al limite della sopportazione e sono, specialmente, esasperati dalle ingiustizie che ogni giorno essi vedono accumularsi a loro danno. E se sono oggi disposti a sopportare queste ingiustizie meno di ieri, è perché essi oggi non si sentono sufficientemente garantiti da questo Governo. Questa è la verità, anche se a qualcuno può essa dispiacere.

La presenza dei partiti popolari, dei partiti di sinistra, dei Partiti socialista e comunista al Governo, dava loro la garanzia che tutto quanto si potesse fare per essi veniva fatto. Ora, possiamo dar torto ai lavoratori che la pensano così? Io credo di no. D’altra parte, quale prova ha offerto ai lavoratori questo Governo, e in genere alle classi più disagiate, per pretenderne la fiducia?

Io veramente vorrei che qualcuno lo dicesse e dall’esposizione che faranno gli onorevoli Ministri si dirà cosa concretamente è stato fatto a favore dei lavoratori italiani; e vorrei che lo dicessero per prenderne atto lealmente, perché finora credo che la maggioranza del popolo italiano non se ne sia ancora accorta e aspetta ancora queste prove di interessamento da parte del Governo.

Chiedete nuovi sforzi, nuovi sacrifici, e i lavoratori sono disposti a farli nell’interesse del Paese; ma è necessario, per ottenere questi sacrifici, che chi deve sostenerli sappia che, in definitiva, questi sacrifici sono indispensabili e non andranno a favore di pochi privilegiati, ma andranno a favore di tutta la collettività.

Da quanto tempo, per esempio, in Italia si parla dei consigli di gestione? La Confederazione del lavoro ne ha chiesto da molto tempo l’istituzione, con funzioni modeste e possibili. Lo ha chiesto specialmente nell’intento di affrettare l’opera di ricostruzione e di convogliare in quest’opera la volontà e l’entusiasmo dei lavoratori italiani. Incidentalmente voglio ricordare che anche la risoluzione per i consigli di gestione fu approvata dal comitato direttivo della Confederazione del lavoro all’unanimità, cioè col concorso anche della corrente democristiana e particolarmente dell’onorevole Pastore, che in quel momento non era ancora segretario generale, ma membro autorevole del comitato direttivo.

Cosa abbiamo detto per i consigli di gestione? Abbiamo detto che è un errore credere che con i consigli di gestione vogliamo portare la rivoluzione nell’interno delle fabbriche.

Essi devono invece diventare i nuovi organi costruttori della vita economica e del progresso del nostro Paese. I consigli di gestione dovranno essere investiti di alcune attribuzioni, le quali, pur lasciando l’iniziativa all’imprenditore, coinvolgano la responsabilità del personale e tengano conto dei suggerimenti che la pratica renderà necessari.

I lavoratori sono i più interessati al buon andamento delle imprese, perché le crisi colpiscono essi per i primi. La conoscenza da parte loro delle condizioni finanziarie della propria azienda può indicare, in date circostanze, le direttive giuste del processo produttivo ed anche il raddrizzamento delle imprese sballate. In Italia, per molti anni, è la collettività che ha pagato le cattive amministrazioni. Che cosa è accaduto infatti? È accaduto che, quando l’azienda prosperava, i guadagni andavano al proprietario, mentre, quando andava male, le perdite venivano pagate dalla collettività.

Ma c’è l’opposizione della Confederazione dell’industria, il cui Presidente ha dichiarato a Bari nel mese di aprile – quante dichiarazioni in questo mese di aprile! – che la Confederazione dell’industria ha ostacolato l’istituzione dei consigli di gestione e sempre la ostacolerà. La Confindustria: sempre la Confindustria. È la Confindustria che non vuole che i quattordici punti vengano realizzati; è la Confindustria che non vuole che i consigli di gestione vengano istituiti.

Qual è dunque la situazione di fatto? Da una parte, la buona disposizione del Governo ad applicare il programma da esso formulato, come risulta dalle dichiarazioni del Presidente del Consiglio e del Ministro dell’industria; dall’altra, l’opposizione costante e rigida della Confederazione dell’industria. È così che i quattordici punti non vengono realizzati e i consigli di gestione non vengono istituiti. È lecito quindi domandarsi: ma chi governa in Italia? Il Governo o la Confindustria? (Applausi a sinistra).

Ma i consigli di gestione, là dove sono stati istituiti, hanno dato poi tanto cattiva prova? Prendiamo l’esempio della Fiat, dove i consigli di gestione sono stati istituiti senza il consenso della Confederazione dell’industria, ma anzi contro il parere di questa. Ebbene, il consiglio di gestione della Fiat ha contribuito, per ammissione dei suoi stessi dirigenti, nel modo più efficace alla ripresa industriale della ditta: oggi la Fiat produce precisamente il doppio di quanto produceva nello stesso periodo del ’46.

Io credo di interpretare i sentimenti per lo meno dei settori di sinistra dell’Assemblea mandando un saluto al proletariato di questa grande città piemontese. (Applausi a sinistra).

È troppo facile accollare ad altri la responsabilità della situazione; oggi la colpa sarebbe dei partiti di sinistra e della Confederazione del lavoro; com’è infantile tutto ciò! E come, soprattutto, è facile fare il calcolo delle giornate di lavoro perdute e del denaro conseguentemente perduto per effetto dello sciopero.

La storia delle lotte sociali sta a dimostrare come i lavoratori, là dove sono riusciti a conquistare qualche cosa, abbiano raggiunto il loro intento soltanto con l’arma dello sciopero. Io non credo di errare affermando che i Paesi più progrediti sono quelli ove si sono avuti più scioperi.

DE GASPERI, Presidente del Consiglio dei Ministri. In Russia non se ne fa uno. (Commenti a sinistra).

DI VITTORIO. Non c’è la Confindustria.

DE GASPERI, Presidente del Consiglio dei Ministri. Lasci stare, onorevole Di Vittorio.

LIZZADRI. Con quale senso di giustizia e con quali criteri si vuole gettare la colpa degli scioperi soltanto sull’organizzazione dei lavoratori e sui lavoratori stessi? Nella grande maggioranza dei casi è l’egoismo dei ceti padronali che genera le agitazioni (Commenti destra), e spesso è l’errata valutazione da parte di questi ceti dei loro stessi interessi. Quante volte datori di lavoro, al tavolo delle trattative, hanno rifiutato fino all’ultimo momento quello che poi essi sapevano che avrebbero concesso dopo due giorni di scioperi, malgrado il danno che essi dicevano avrebbero subito da questa astensione dal lavoro!

Del resto, ci sono esempi in Italia, molto recenti, che dimostrano da quale parte stia la comprensione e da quale parte l’incomprensione. Devo portare qui l’esempio dei tessili. Noi della Confederazione del lavoro, nelle lunghe discussioni per la perequazione salariale tra il Nord e il Sud, comprendemmo la grande importanza della ripresa di questo settore nell’economia italiana, e accettammo – e i lavoratori tessili accettarono – un salario sensibilmente inferiore a quello dei lavoratori di tutti gli altri settori. Ricordo che fummo costretti a creare una categoria apposita, la categoria T; una categoria, cioè, con un salario basso, il più basso possibile, appunto per aiutare l’industria tessile italiana a riprendere il suo posto nel mondo. Ebbene, quando gli industriali tessili, per effetto di questi salari bassi, e per effetto di quel famoso 50 per cento, poi portato a 75 per cento, di valuta, hanno guadagnato miliardi su miliardi, mettendosi alla testa dei profittatori di questo dopoguerra, credete che i signori industriali tessili abbiano riconosciuto ai loro dipendenti un trattamento adeguato, non dico agli utili che essi realizzavano, ma almeno alle migliorate condizioni delle loro aziende? Neanche per sogno!

Oggi avviene press’a poco lo stesso nelle industrie metalmeccaniche. La maggior parte di queste industrie – lo sanno tutti – oggi produce, con le stesse maestranze del 1946, dal 40 al 50 per cento in più. Qualche azienda, come la Fiat, ha raggiunto anche il doppio. Forse che nelle paghe si tiene conto di questo aumento di produttività da parte dei lavoratori?

Non so poi come definire l’affermazione di taluni giornali (e non solo giornali) secondo cui lo sciopero dei braccianti del Nord avrebbe causato miliardi di danni all’economia nazionale e ai braccianti stessi. Per quello che riguarda l’economia nazionale, risulta che neppure un chicco di riso è andato perduto; non so, però, se tutto questo riso i proprietari lo porteranno all’ammasso. (Commenti). Sta di fatto poi che i braccianti agricoli nel corso di un’annata riescono a lavorare sì e no per 150 giorni. Perciò, anche se hanno scioperato per due, tre, quattro, cinque giorni, nel computo di un anno essi non perdono neppure una sola giornata.

Che cosa è successo anche a Roma l’anno scorso? Fu emesso, su richiesta delle parti, la Confida e la Confederterra, un lodo del Ministro del lavoro. Questo lodo, accettato dalle parti, comprendeva fra l’altro l’obbligo di istituire, a decorrere dal 1° luglio 1947, un sistema di scala mobile, debitamente rettificato per le particolarità del lavoro, ma sulle stesse basi di quello in vigore per i lavoratori dell’industria. Ebbene, i signori agricoltori della provincia di Roma, finché non è stata imposta questa parte del lodo con lo sciopero, non l’hanno applicata, e questa parte del lodo è entrata in vigore solo il 20 settembre, in seguito alla minaccia dello sciopero dei lavoratori agricoli della provincia di Roma, e non il 1° luglio.

Tutto questo significa che oggi gli agrari e gli industriali credono di potere negare quello che ieri avrebbero concesso forse con più facilità, o addirittura di potere eludere i patti firmati.

Io non dico che questa sia una colpa dell’attuale Governo, ma questa intransigenza, rafforzatasi da pochi mesi a questa parte, non può essere giustificata se non col fatto che i ceti padronali si sentono oggi più a loro agio con questo Governo che non coi governi passati.

DE GASPERI, Presidente del Consiglio dei Ministri. Gir agricoltori hanno ceduto in seguito al mio appello diretto di trattare (Applausi al centro).

LIZZADRI. No, hanno ceduto dopo la sconfitta.

È in quest’ordine di considerazione che – secondo me – assume un aspetto reazionario e poliziesco la richiesta fatta ai prefetti di comunicare i dati sugli scioperi nelle singole provincie.

Io vorrei domandare se il Governo si è mai preoccupato di domandare ai prefetti il nome, il cognome e tutte le indicazioni necessarie relative a quei padroni egoisti e testardi che spesso ostacolano ogni composizione amichevole delle vertenze sindacali. Perché non si chiede, per esempio, ai prefetti un elenco di quei nominativi che nelle città di provincia (ed anche a Roma) corrono sulle bocche di tutti; i nominativi di coloro che hanno accumulato i milioni speculando sulla fame del popolo? Perché non si domanda ai prefetti un censimento preciso dei bambini poveri, dei tubercolotici, dei disoccupati, e, d’altra parte, un elenco delle signore e dei signori che quest’estate hanno sperperato milioni e milioni sulle spiagge e nelle case da giuoco? (Applausi a sinistra).

Domandate, per esempio, al prefetto di Firenze con quale criterio ha decurtato la somma destinata dal Comune per le refezioni scolastiche! Il Comune di Firenze, che ha un bilancio di qualche miliardo, aveva stanziato per la refezione scolastica ai bambini poveri una somma di 25 milioni. Voi sapete in questo momento cosa significhi questa cifra. Ebbene, il prefetto di Firenze (di cui non conosco il nome, ma che vorrei additare all’ammirazione dell’onorevole Einaudi) ha ridotto questo stanziamento da 25 milioni a 2 milioni e mezzo. (Commenti).

Questo significa, per Firenze, dare la refezione a 25 mila bambini poveri per un giorno o due in tutto l’anno scolastico!

Io credo che queste siano direttive che vengono dall’alto, dal Governo.

Una voce a destra. E allora?

LIZZADRI. Ho chiesto, onorevole collega, se il Governo poteva domandare questo al Prefetto di Firenze! Ecco che cosa ho chiesto!

Una voce a destra. Ma ciò non rientra negli argomenti in discussione. Lei potrà presentare una interrogazione. (Commenti).

LIZZADRI. Onorevoli colleghi, non è – io credo – con una politica di parte (o che appaia come politica di parte) che si può riportare la fiducia e la pace nel nostro Paese. Che la situazione sia grave l’ho sentito ripetere da membri del Governo e dai colleghi che mi hanno preceduto. In una visita che ho fatto nell’Italia meridionale ho dovuto constatare che in città anche con più di diecimila abitanti la popolazione vive quasi esclusivamente di carità pubblica. Ho segnalato questo fatto all’onorevole Scelba e all’Alto Commissario dell’alimentazione, e ambedue si sono resi conto della verità di queste affermazioni e hanno promesso che sarebbero intervenuti.

La situazione è grave ed è impossibile, secondo me, riportarla in condizioni di relativa tranquillità, senza il concorso attivo operante e comprensivo delle masse lavoratrici. Il 4 aprile, come ho detto all’inizio del mio discorso, si era ottenuto un pieno accordo fra il Governo e la Confederazione del lavoro su un programma che si riteneva efficace e che faceva perno sui 14 punti elaborati dall’onorevole Morandi. Per il bene del Paese è necessario riprodurre la situazione di fiduciosa attesa determinatasi nel popolo con la pubblicazione di quel programma. Anche volendo ammettere la bontà delle intenzioni con le quali fu formato l’attuale Governo, oggi dobbiamo constatare che esso è venuto meno al compito che si era prefisso. Oggi l’Italia è divisa in due blocchi, in questa Assemblea e fuori di questa Assemblea. Le prossime elezioni indicheranno la volontà del popolo italiano e ci diranno se dovrà governare uno dei due blocchi o se per l’avvenire si dovrà trovare una via di intesa fra i diversi partiti. Ma ciò che oggi appare chiaro, secondo me, è che un Paese come il nostro, nelle condizioni in cui si trova, che esce da una guerra e da una dittatura, ha bisogno di tutte le sue forze e in primo luogo del contributo delle masse lavoratrici.

Abbiamo dinanzi a noi, onorevoli colleghi, un inverno particolarmente duro, e la situazione internazionale non è proprio tale ha lasciarci completamente tranquilli. In queste condizioni chi è veramente preoccupato delle sorti dell’Italia non può non sentire che soltanto l’unione degli sforzi e un minimo di concordia potranno affrettare il ritorno della tranquillità e del benessere del nostro popolo. L’onorevole Nenni ha terminato il suo discorso dicendo, rivolto alla Democrazia cristiana: assumete le vostre responsabilità; noi abbiamo assunto le nostre.

Io termino con la stessa invocazione dell’onorevole Nenni. Solo aggiungo: attenzione, perché il popolo italiano ci giudicherà. (Vivi applausi all’estrema sinistra – Molte congratulazioni).

PRESIDENTE. Le tre sedute che abbiamo dedicato a questa importante discussione ci hanno permesso di ascoltare, per ognuna, due oratori. Onorevoli colleghi, se questo deve essere il ritmo, mi permetto di osservare che dovremo riesaminare il calendario della discussione: io non posso e non voglio dimenticare che abbiamo il compito di redigere la Costituzione.

Questo compito non deve essere messo in seconda linea dall’altro, altrettanto importante, ma non preminente, di questo dibattito politico. E siccome gli oratori ancora iscritti sono 45 e pare che, oltre che a una gara di intelligente capacità, gli oratori si siano sfidati anche a quella di durata e di resistenza, è evidente che tutti i calcoli fatti non reggeranno alla prova.

Ho il dovere, e lo adempio, di ricordare all’Assemblea che essa deve completare il suo compito costituzionale.

Il seguito di questa discussione è rimandato alle ore 16.

La seduta termina alle 12.45.