ASSEMBLEA COSTITUENTE
CCXLII.
SEDUTA POMERIDIANA DI GIOVEDÌ 2 OTTOBRE 1947
PRESIDENZA DEL PRESIDENTE TERRACINI
indi
DEL VICEPRESIDENTE CONTI
INDICE
Mozioni (Seguito della discussione):
Scoccimarro
Pella, Ministro delle finanze
Giannini
Presidente
Rodinò Mario
Perrone Capano
Simonini
Quintieri Quinto
De Gasperi, Presidente del Consiglio dei Ministri
Interrogazione con richiesta d’urgenza (Svolgimento):
PRESIDENTE
De Gasperi
Gasparotto
Interrogazioni con richiesta d’urgenza (Annunzio):
Presidente
De Gasperi, Presidente del Consiglio dei Ministri
Dugoni
Interrogazioni (Annunzio):
Presidente
La seduta comincia alle 16.
MOLINELLI, Segretario, legge il processo verbale della precedente seduta pomeridiana.
(È approvato).
Seguito della discussione di mozioni.
PRESIDENTE. L’ordine del giorno reca: Seguito della discussione di mozioni.
È iscritto ha parlare l’onorevole Scoccimarro. Ne ha facoltà.
SCOCCIMARRO. Signor Presidente, onorevoli colleghi, è la prima volta che questa Assemblea è. chiamata a discutere non di quello che il Governo si propone di fare, ma di quello che ha fatto; non dei suoi propositi e delle sue intenzioni, ma della sua azione e dei risultati conseguiti. Ed è pure la prima volta che questa Assemblea è chiamata a decidere se la politica del Governo, e quindi anche il Governo, devono cambiare oppure no.
È bene, ed è necessario che sia così, poiché la situazione del Paese è tale per cui l’Assemblea deve assumere le sue responsabilità e risponderne dinanzi al popolo.
E l’Assemblea, che è l’organo di collegamento fra Governo e popolo, deve pure dire se condivide il giudizio che della situazione politica ed economica del Paese dà il Governo, così come appare dai discorsi dei Ministri intervenuti nella discussione, ma specialmente dall’ultimo radio-discorso del Presidente del Consiglio. Nel quale discorso l’onorevole De Gasperi, con un certo tono fra il compiaciuto e il sodisfatto, ci fa la cronaca di una serie di atti governativi, ma non dice una sola parola sul fatto grave che balza evidente agli occhi di tutti, cioè che invece della difesa della lira e, per lo meno, di un freno all’inflazione – come era nel programma del Governo – in questi ultimi 4 mesi abbiamo avuto un acceleramento del processo inflazionistico, tanto che siamo ormai ridotti all’ultima trincea nella quale rischiano di crollare le ultime fragili difese della nostra moneta.
Ed è veramente strano che l’onorevole De Gasperi, mentre nel maggio scorso diceva di vedere gli abissi dell’inflazione (e questo era eccesso di pessimismo), oggi, in una situazione ben più grave, egli è quasi ottimista, non vede il reale pericolo che ci sovrasta, e si consola dicendo che in definitiva i prezzi aumentano anche in altri paesi.
La qual cosa può anche avere il suo valore, ma non è pertinente al problema che qui si discute, che è la politica del Governo italiano in Italia, il cui aspetto economico-finanziario giustamente è stato posto in primo piano poiché esso è al centro della situazione politica ed economica del Paese. Di questo problema io essenzialmente mi occuperò.
E me ne occuperò mettendo da parte ogni apriorismo di dottrina, ogni divergenza ideologica, ogni preconcetto schematico, per guardare alla realtà, quale essa è, nei suoi aspetti positivi e negativi, e trarre da essa norma per un’azione diretta alla realizzazione dell’obiettivo che ci proponiamo: stabilizzazione dei prezzi, fine dell’inflazione.
Questo era pure il problema centrale del dibattito svoltosi in questa Assemblea quattro mesi or sono discutendo il programma del Governo. Anche allora si poneva il quesito: esiste nella situazione economica del nostro Paese la possibilità obiettiva di porre termine all’inflazione ed al continuo aumento dei prezzi? E con quale politica e quali provvedimenti si può eventualmente realizzare tale obiettivo?
A tale quesito, noi rispondemmo affermativamente ed indicammo quali, secondo noi, dovevano essere la politica da seguire ed i provvedimenti da prendere. Il Governo concordava sulle possibilità di arrestare l’inflazione (proprio per questo si era costituito), ma fu d’avviso diverso dal nostro sulle misure e sui provvedimenti a ciò necessari.
Oggi si ripresenta lo stesso problema, perciò questo dibattito si ricollega a quello di quattro mesi or sono, ed io lo riprendo al punto in cui si concluse col discorso dell’onorevole Einaudi.
Il Ministro del bilancio, commentando il mio giudizio sul bilancio di previsione per l’esercizio 1947-48, si esprimeva in questi termini: «Le argomentazioni dell’onorevole Scoccimarro sono esatte ad una condizione: che le previsioni di entrate e spese che si fanno oggi siano quelle stesse che si potranno fare domani. In realtà, se così fosse, il problema del bilancio italiano non sussisterebbe».
E più avanti: «Fra i pericoli ai quali si va incontro nello sforzo di far sì che sia mantenuto l’equilibrio parziale che oggi si è ottenuto, ne ricordo uno che sta nella inevitabilità di impostazioni di nuove spese in conseguenza di spese già deliberate. Per i pubblici appalti è stabilita la regola della revisione dei prezzi». Perciò l’onorevole Einaudi diceva espressamente di dover fare una riserva e pertanto il problema del nostro bilancio non era ancora risolto.
Giudizio esatto: di nessun bilancio di previsione si può dire che il problema del bilancio è risoluto, se si prevede che i dati previsti possono non realizzarsi. Ma, proprio qui si ritrova il principio del nostro dissenso dalla politica finanziario-economica del Governo.
Un bilancio di previsione non è solo l’indicazione di qualcosa che si realizza automaticamente, ed alla cui realizzazione noi assistiamo passivamente: esso afferma una possibilità, pone un obiettivo ed indica una linea d’azione diretta a creare le condizioni perché quella previsione divenga realtà. Quelle condizioni si concretano oggi per noi nella stabilizzazione dei prezzi: se questi continuano ad aumentare quella previsione viene a mancare di ogni fondamento. Infatti, la riserva dell’onorevole Einaudi sorgeva dal fatto che, continuando l’aumento dei prezzi, sarebbero necessariamente aumentate le spese in conseguenza di impegni precedentemente assunti, come avviene per la revisione dei contratti di appalto a cui si è tenuti per legge. Ma questo significa che il Governo non si poneva come obiettivo immediato la stabilizzazione dei prezzi: questo è il significato della riserva dell’onorevole Einaudi. Quell’obiettivo si poneva invece la politica che proponevo, ed è in relazione a quella politica che doveva considerarsi il mio giudizio sul bilancio. Qui appare chiaro il punto di divergenza: per me il problema del bilancio era strettamente connesso ad una politica di stabilizzazione dei prezzi, ritenuta possibile ed attuabile con i provvedimenti proposti. Per il Ministro del bilancio invece questo problema dei prezzi non si poneva come una esigenza immediata, ed il problema del bilancio non era connesso ad una politica di stabilizzazione dei prezzi. In sostanza, si doveva o non si doveva fare una politica di stabilizzazione? Per la difesa della lira e la lotta contro l’inflazione a me pareva questo un punto essenziale; all’onorevole Einaudi evidentemente no? Ora, io mi domando: è giusta l’impostazione che il Governo ha dato alla politica antinflazionista? A me pare di no, e l’esperienza di questi quattro mesi mi conferma in questo giudizio.
Invero, qual è il concetto informatore della politica economico-finanziaria del Ministro del bilancio? Esso può riassumersi nei seguenti termini.
Realizzare il pareggio del bilancio; conseguentemente si arresta l’aumento della circolazione monetaria per conto dello Stato; quindi cessa l’aumento dei prezzi e l’inflazione. In questo concetto la politica del Governo trova la sua spiegazione e giustificazione logica.
E quella è, in fondo, l’impostazione classica, tradizionale di una politica contro l’inflazione. Ma è l’impostazione giusta per situazioni in cui l’inflazione è essenzialmente un fenomeno di origine finanziaria e monetaria, nel quale i fattori extra monetari hanno valore ed influenza accidentali e secondarie che possono essere trascurati.
Ma l’inflazione di cui soffre oggi l’Italia non è soltanto la risultante di un fenomeno monetario e finanziario: essa è pure il riflesso degli squilibri profondi che esistono nella nostra economia, e i fattori extra monetari operanti in senso inflazionistico sono tutt’altro che accidentali e secondari, ed hanno valore e influenza essenziale nel processo inflazionistico. Quello schema logico lascia fuori di sé una parte troppo importante della realtà che non può essere trascurata: esso coglie l’aspetto finanziario-monetario e trascura quello economico.
La lotta contro l’inflazione deve perciò impostarsi su di un piano più vasto, comprensivo di tutti i fattori che concorrono a determinare l’inflazione e deve attuarsi con un’azione coordinata che operi simultaneamente in punti diversi dell’organismo economico, e capace di suscitare una molteplicità d’impulsi e di spinte che per vie diverse confluiscano allo stesso fine: stabilizzazione dei prezzi e del valore della moneta.
Ora, è chiaro che per risolvere un problema di questo genere non basta guardare solo al bilancio ed alla circolazione monetaria: bisogna pure tener conto della produzione e dei suoi costi, del consumo e quindi della distribuzione dei redditi, insomma di tutti i fattori determinanti dei prezzi sui quali bisogna agire con criteri e fine unitari. Quest’azione, secondo me, è assolutamente mancata nella politica economico-finanziaria del Governo. Ed è mancata perché la stabilizzazione dei prezzi e della moneta è stata sistematicamente concepita come la conseguenza del risanamento finanziario, mentre essa deve considerarsi anche come condizione del risanamento stesso. Questo potrà sembrare contradittorio dal punto di vista della logica formale; non è così nella realtà. La stabilizzazione dei prezzi e del valore della moneta in fase di avviamento al risanamento finanziario deve essere sostenuta da una politica di emergenza, direi quasi da puntelli che la sostengono fino a quando il risanamento è compiuto ed in esso troverà la base e le condizioni per la sua stabilità e durevolezza. Qui è il punto debole nella politica del Governo, e deriva dal fatto che questa ha considerato la stabilità dei prezzi e del valore della moneta solo come conseguenza del risanamento finanziario, e non pure come condizione del risanamento stesso. Lo stesso concetto ha espresso ieri l’onorevole Corbino, affermando che la stabilizzazione dei prezzi e della moneta devono considerarsi come un mezzo, uno strumento e non soltanto come un fine.
Si comprende facilmente che ogni provvedimento diretto al risanamento finanziario, che dia nuovo impulso alla spirale ascendente dei prezzi, mina e distrugge le basi stesse del risanamento, ed in definitiva il risanamento diviene un miraggio che ci sfugge sempre dinanzi, ogni qualvolta ci sembra di averlo avvicinato o raggiunto. A mio giudizio la politica del Governo si svolge in un circolo vizioso nel quale, se non ne usciamo, rischia di essere travolta la nostra moneta. Bisogna spezzare quel circolo ed avviarci per alta via. In qual modo e per quale via?
Il punto di attacco decisivo è quello dei prezzi: qui si può veramente spezzare il circolo vizioso in cui si dibatte l’azione del Governo. A tal fine occorre che per un certo periodo di tempo, si ponga la stabilizzazione dei prezzi come obiettivo centrale immediato al quale tutti i provvedimenti economico-finanziari dovrebbero essere rivolti e subordinati. Quale è la situazione del nostro Paese in questo campo? Tutti sanno che i prezzi dipendono da molti fattori: circolazione, produzione, consumo ecc. Se guardiamo alla realtà si constata che, sulla base dei dati attuali della produzione, della circolazione e del consumo, i prezzi si trovano ad un livello infinitamente superiore a quella che dovrebbe essere la giusta posizione di equilibrio in rapporto alla effettiva produzione, circolazione e consumo nel nostro Paese. E questo giudizio è vero anche tenendo conto di quel margine di scarto all’insù che c’è sempre nei prezzi in periodi di inflazione per effetto del loro più celere ritmo di aumento. Ma anche tenendo conto di questo margine, lo scarto che oggi esiste è troppo forte e rivela altre cause operanti in quel senso, per cui si pone un problema che la politica del Governo deve affrontare, cioè individuare quelle cause e cercare di eliminarle per riportare i prezzi a quel punto di equilibrio con la circolazione che la dichiarazione programmatica del Governo affermava di voler realizzare.
Ora, si calcola che quello scarto vada dal 30 al 50 per cento, il che vuol dire che tutti i prezzi comprendono un sovrapprezzo speculativo che in media si può ritenere al di sopra del 30 per cento.
Quali sono i fattori che determinano questa situazione? Io ho già altre volte accennato ad alcuni fattori speculativi operanti della nostra situazione economica e desidero ora completare quelle mie indicazioni.
Devo dire subito che non intendo riferirmi alla speculazione spicciola, quella che nasce necessariamente in periodi inflazionistici dal fatto che ogni cittadino che ne ha la possibilità fa qualche provvista, cioè fa acquisti che in altra situazione non avrebbe fatti; tali operazioni compiute da milioni di uomini esercitano una pressione sui prezzi. Questo fenomeno si elimina smobilitando la psicologia inflazionista diffusa nel Paese.
Mi riferisco invece a fattori speculativi di altra natura, che direi di speculazione all’ingrosso, organizzata, che si inserisce organicamente nel sistema di circolazione e di distribuzione delle merci, alterandone e deformandone il meccanismo funzionale.
Vediamo qualche esempio di fatto. Ho accennato altra volta ad alcune associazioni di produttori, per esempio dei cotonieri e dei lanieri, che hanno per legge la facoltà di imporre tributi. Per esempio, l’associazione dei cotonieri impone un contributo di quattro lire per ogni chilogrammo di cotone importato, e quella dei lanieri impone un contributo di dieci lire per ogni chilogrammo di lana importata.
Questi tributi si incorporano nel prezzo delle materie prime, e perciò sono un contributo obbligatorio a cui non ci si può sottrarre, perché quando si acquista la materia prima lo si paga necessariamente nel suo prezzo. E quel prezzo si ripercuote sui costi di produzione e quindi sui prezzi dei prodotti finiti.
Ma c’è di più. L’associazione dei cotonieri impone lire 1,80 per ogni fuso di filatura, lire 0,90 per ogni fuso di ritorcitura, lire 60 per ogni telaio installato, lire 100 o lire 60, secondo i casi, per ogni dipendente. Tutti questi tributi incidono sui costi di produzione e quindi sui prezzi.
Tutto ciò indipendentemente dalla quota di adesione dei soci che è di lire 3000 per ogni socio.
A quale scopo servono questi tributi? Alla ricostruzione della sede sociale, la quale poi è proprietà di una società immobiliare che ha recentemente aumentato il proprio capitale a 90 milioni. Ora io mi domando: se quelle Associazioni vogliono costruirsi un edificio perché non se lo pagano con i loro mezzi? Perché devono riversarne la spesa sui consumatori? Perché si deve consentire di aggravare i costi di produzione e quindi i prezzi? Si dice che si tratta solo di un metodo di riscossione di un contributo volontario: ma questo non è vero perché il produttore che acquista la materia prima non può sottrarsi al tributo. Senza dire poi che se vi fossero dei piccoli e medi industriali che osassero sottrarsi all’imposizione, sarebbero boicottati dai gruppi più forti dominanti nell’Associazione, e quindi si guardano bene dal farlo. Devono subire la legge del più forte. Si pensi che, con i soli tributi sulle importazioni, l’Associazione dei cotonieri e quella dei lanieri prendono un miliardo, che pagano i consumatori, e questo per la costruzione di un edificio che serve ad esse, ma che non sarà nemmeno di loro proprietà, bensì di una società immobiliare.
L’episodio è significativo: è uno di quei tanti residui di corporativismo fascista che sarebbe tempo venissero liquidati dalla nostra vita economica.
Passiamo ad altro campo: andiamo a vedere come è il mercato di alcune merci fondamentali: ferro, cemento, concimi ecc., come si distribuiscono fra i consumatori. Ebbene qui troviamo che fra produttori e consumatori si inseriscono degli intermediari speculatori, che talvolta sono Enti, gruppi monopolistici ecc., i quali bloccano la produzione, dominano monopolisticamente il mercato ed impongono prezzi che sono due, tre, quattro volte superiori a quelli che dovrebbero essere.
Ora il Ministro dell’industria ha deciso di bloccare il 60 per cento della produzione siderurgica. Ma che cosa avviene con questo provvedimento? Si danno dei buoni di assegnazione ma questi riescono ad averli coloro i quali non impiegano la merce e ne fanno mercato nero; così si crea un mercato dei «buoni» e la speculazione continua la sua opera di moltiplicare i prezzi per due, tre, quattro volte. Si veda quello che avviene per i cementi.
Poco tempo fa un giornale denunciava, come uno scandalo: «la forte ascesa dei prezzi dei cementi, dovuta ad una specie di mercato libero creatosi vicino al mercato ufficiale ed un forte commercio di buoni d’assegnazione».
Non parliamo dei concimi chimici, per cui i contadini che hanno bisogno di concime, se vogliono averlo, devono pagarlo con sovraprezzi speculativi sbalorditivi.
Se poi andiamo a guardare i generi alimentari, troviamo delle cose veramente inspiegabili. Io mi domando come è possibile, ad esempio, consentire una speculazione come quella che è denunciata da questi documenti: vi sono trafficanti i quali, ad esempio, sfruttano in Italia la diversa scadenza della saldatura nelle regioni, e mentre nelle prime settimane di maggio incettano grano nell’Italia centrale per i mercati meridionali, verso gli ultimi dello stesso mese corrono nelle campagne delle Puglie ad incettare grano per i mercati centrali ove la stagione è più tarda.
E poi, che dire di un nucleo di trafficanti del Nord che scendono sui mercati agricoli dell’Italia centrale e bloccano col rialzo dei prezzi tutti i capi di bestiame in vendita, li macellano e, si dice, esportano clandestinamente quella carne all’estero, in Francia e Svizzera, provocando un enorme rialzo dei prezzi delle carni all’interno?
Per le uova avviene questo fenomeno: nel mese di maggio, che è il mese di maggiore produzione, i prezzi in Italia sono passati dalle 15 mila lire per ogni migliaio nel maggio dello scorso anno a 31 mila lire nel maggio dell’anno corrente. Dove arriveranno in ottobre-novembre, quando la produzione scenderà alla metà? Anche qui speculazione, accaparramento.
E poi, se il Ministro dell’industria vorrà informarsi presso qualche Ente di consumo troverà che vi sono dei capitalisti, degli intermediari speculatori che bloccano la produzione olearia di intere regioni e non è possibile a quegli Enti comprare neanche un chilo di olio da vendere ai loro soci.
Vi faccio grazia di altri molti fatti del genere.
Ora, se mettiamo insieme l’azione di questa speculazione (che non è la piccola speculazione di chi i provvede di qualche riserva in casa) e facciamo i calcoli di quanto essa incide sull’aumento dei prezzi, noi troviamo, se non tutta, in gran parte, la spiegazione del fenomeno che ho denunciato.Qui si tratta del sistema di circolazione di distribuzione delle merci che viene alterato e deformato; si tratta di vere e proprie incrostazioni parassitarie e monopolistiche che fanno sentire il loro peso sui prezzi; si tratta delle speculazioni d’alto bordo, la cui attività è veramente nefasta. Orbene, quando il Governo si è costituito, noi abbiamo denunciato questi fenomeni e la necessità di un intervento contro di essi come un aspetto della lotta contro le speculazioni: che cosa si è fatto? Nulla, assolutamente nulla.
Ora, quando si pone il problema della lotta contro la speculazione, il primo compito è di riorganizzare il sistema di circolazione e distribuzione delle merci, eliminando – piccola o forte che sia – qualsiasi influenza di fattori speculativi. Il Ministro dell’industria non si è nemmeno posto tale problema. Ed ecco che, dopo quattro mesi, un bel giorno il Governo si è svegliato ed è venuto fuori un provvedimento del settembre nel quale si comminano fino a tre o sei anni di reclusione e fino a 10 e 20 milioni di multa per accaparramento di merci.
Ora, non sembri strano che proprio da questi banchi si dica al Governo che non bisogna aver troppa fiducia in queste misure; sono misure amministrative che non risolvono il problema e possono avere solo funzione ausiliaria di altri provvedimenti di carattere economico. Se questi mancano, anche quelle misure si risolvono in nulla. L’opera più efficace sarebbe che il Ministero dell’industria intervenisse allo scopo di riorganizzare tutto il sistema di circolazione e distribuzione delle merci, eliminando tutte le posizioni monopolistiche acquisite in questo campo, appoggiandosi ad organi cooperativi e ad Enti pubblici, per loro natura antispeculativi.
Se questo si facesse, sarebbe indubbiamente il primo grosso colpo contro la speculazione in Italia. Quali risultati si otterrebbero? Non certo una immediata ed automatica diminuzione dei prezzi; questi fanno presto a salire, ma sono poi sempre riluttanti a discendere. Ma, eliminando il margine speculativo, noi creiamo la premessa e la condizione obiettiva della stabilizzazione che potrebbe anche implicare una più o meno sensibile riduzione dei prezzi. Il punto di stabilizzazione potrebbe muoversi fra un massimo, che è il limite attuale, ed un minimo che sarebbe il limite di equilibrio, oggi superato dal sovraprezzo speculativo. E sarebbe politica di stabilizzazione, e non di deflazione, anche determinando una compressione dei prezzi, perché quelli che si eliminerebbero non sarebbero i profitti normali, ma solo quelli speculativi. Entro quei due limiti si potrebbe creare anche un maggior respiro alla circolazione monetaria, pur senza influenza inflazionista.
Perché non si è fatto nulla in questo campo?
Ce lo ha detto ieri lo stesso onorevole Ministro Togni, quando ha affermato che la speculazione sparirà quando avremo raggiunto il risanamento finanziario del Paese. Ma per raggiungere il risanamento finanziario del Paese, bisogna incominciare fin da ora a liquidare la speculazione organizzata. Ed è così vero che il Governo non si è nemmeno posto tale problema, che lo stesso Ministro dell’industria ci diceva che per impedire l’ulteriore aumento dei prezzi, quel che bisognerebbe fare è di abolire la scala mobile.
Ora, qui basta fare una semplice considerazione. Se il Governo si ponesse il problema di arrivare seriamente alla stabilizzazione dei prezzi, la scala mobile non dovrebbe preoccupare perché non avrebbe più nessuna influenza. Quando invece si pone come condizione essenziale del risanamento l’abolizione della scala mobile, vuol dire che si pensa ad ulteriori aumenti di prezzi e quindi ad un ulteriore sviluppo dell’inflazione. Proprio per questo noi non possiamo condividere la politica economica del Governo.
Onorevoli colleghi, la eliminazione della speculazione è solo la premessa per una efficace politica di stabilizzazione. L’azione concreta da svolgere riguarda la circolazione e il credito, i costi di produzione e il commercio estero.
Ora, non solo non si è realizzata la premessa necessaria di una politica di stabilizzazione, ma anche i provvedimenti concreti da prendere in quei diversi campi o sono mancati o sono stati delle mezze misure che non hanno risolto nulla, ed hanno invece aggravato il male di cui tutti oggi si lamentano: l’inflazione si è aggravata, la sana attività produttiva è stata posta in difficoltà, e la speculazione è divenuta sempre più virulenta e perniciosa. Infatti i calcoli rivelano che quel margine speculativo dei prezzi, di cui dianzi ho parlato, ha la tendenza a dilatarsi sempre più.
Quando questo Governo si è costituito si prevedeva che un certo aumento della circolazione era inevitabile, non però nella misura in cui è avvenuto.
A maggior ragione si imponeva di creare le condizioni perché quell’aumento di circolazione avesse la minore ripercussione inflazionista possibile nel paese. La prima condizione era quella di decurtare i sovraprezzi speculativi; la seconda condizione consisteva nel far sì che all’aumento di circolazione monetaria corrispondesse la eliminazione della circolazione creditizia per fini speculativi.
Anche qui – mi si consenta di dirlo – non si è fatto nulla. La circolazione monetaria è aumentata di un centinaio di miliardi, ma nello stesso tempo anche la circolazione creditizia si è dilatata oltre il giusto limite ed è divenuta inflazionista. Dal dicembre 1946 al luglio 1947 i depositi sono cresciuti di 258 miliardi e gli impieghi di 193 miliardi. Che cosa significano queste cifre? Significano che, pur tenendo conto dell’aumento nella produzione e nei prezzi, nella «creazione di depositi» da parte delle banche si è andati oltre il giusto limite, si è fatta dell’inflazione, si è imposto un «risparmio forzoso». Tanto che il Governo, ad un certo momento, ha dato l’allarme riconoscendo ed affermando che il risparmio forzoso in Italia è arrivato a un punto che pesa già in modo eccessivo sulle classi povere della popolazione.
Per chi non lo capisce, risparmio forzoso vuol dire inflazione; in questi mesi dunque, nello stesso tempo in cui la circolazione monetaria si dilatava, si consentiva che anche nel campo del credito si operasse in modo da dare un impulso all’inflazione.
Se poi andiamo a guardare come sono stati impiegati quei 193 miliardi di nuovi impieghi, cioè quanti sono stati impiegati produttivamente e quanti per scopi speculativi, dobbiamo riconoscere che non ne sappiamo nulla di preciso. Sappiamo però che impieghi speculativi si sono attuati in larga misura. Il popolo lavoratore si è trovato preso in un meccanismo infernale: da una parte l’inflazione gli ha imposto un abbassamento del tenore di vita, dall’altra, la speculazione si è servita di parte dei beni che gli sono stati sottratti per infliggergli un nuovo danno. Per combattere e porre termine a tale situazione, quattro mesi or sono, quando si è posto il problema della lotta contro l’inflazione, noi chiedemmo che non si perdesse tempo a porre un limite alla crescente espansione creditizia, tanto più che la circolazione monetaria si dilatava. E chiedemmo anche che si controllasse l’impiego del credito. A tal fine proponemmo che il controllo del credito non fosse solo quantitativo, ma anche qualitativo. Quando il progetto del Governo venne alla Commissione di finanze e tesoro di questa Assemblea, io dissi subito che quel provvedimento non era adeguato alle esigenze della situazione.
Ora, l’onorevole Einaudi, rispondendo a tale richiesta, dichiarò che non accettava la proposta di controllo qualitativo, perché questa è impresa molto delicata, in quanto l’istituto controllante dovrebbe ingiungere alle Banche di dare o non dare credito a questo o a quello, e se l’istituto controllante indica quali sono le persone alle quali si deve o non si deve far credito, la responsabilità si deve togliere a coloro che l’hanno e si deve darla a coloro che esplicano questa azione.
Onorevole Einaudi, non è questo il problema. Nessuno si è mai sognato di chiedere che l’Istituto di emissione si sostituisca alle Banche per valutare se il cliente che chiede il credito lo meriti o non lo meriti, dia o non dia garanzie. Il controllo qualitativo del credito vuol dire controllo della natura dell’impiego economico del risparmio nazionale, indipendentemente dalle valutazioni personali dei singoli clienti, che rimane sempre compito delle singole banche. Il Governo ha oggi il dovere di controllare in quale modo si impiega il risparmio nazionale. Questo non si è fatto e le conseguenze sono molto gravi, perché così si è lasciato via libera alla speculazione con tutte le conseguenze inflazioniste che ne derivano.
Con la richiesta del controllo qualitativo del credito, su cui insistiamo, noi in sostanza difendiamo l’attività produttiva contro l’attività speculativa; difendiamo le piccole e medie industrie contro la sopraffazione dei gruppi monopolistici; difendiamo l’industria sana, che risponde agli interessi generali del Paese, contro l’industria che punta sull’inflazione, sulla speculazione e simili espedienti; difendiamo il credito produttivo contro il credito speculativo. In sostanza noi vogliamo che il credito concorra alla stabilizzazione dei prezzi e della moneta.
Che cosa è avvenuto in pratica con il puro controllo quantitativo? È avvenuto che si danneggiano alcune attività produttive a beneficio di quelle speculative, poiché le banche – come denunciava ieri l’onorevole Corbino – per compensare il minor volume di affari, inclinano a impieghi speculativi perché più redditizi. Io so di interessi che vanno dal 14 al 35 per cento; qualche istituto è arrivato persino al 76 per cento, operando attraverso interposte persone. Quale è il produttore che può pagare questi saggi di interesse? E allora avviene che gli incettatori di merci, gli accaparratori, gli speculatori che possono pagarli, monopolizzano a loro beneficio il credito.
Onorevole Einaudi, ella ha dato particolari disposizioni alle banche in materia di riporti. Ora, sa quale scherzo le hanno fatto le banche? Invece dei riporti fanno operazioni staccate: invece del riporto tradizionale, si vende a fine mese corrente e si ricompra a fine mese successivo. Lo scarto del prezzo è il compenso della banca. Le posso dare qualche cifra. Solo su di un titolo, per la Fiat, si è determinato in queste operazioni uno scarto di 50 punti in un mese, e la banca ha avuto un reddito del 30 per cento. Si tratta di un finanziamento speculativo che sfugge ai divieti da lei posti per i riporti speculativi. Ma come si fa ad evitare questi fenomeni se non si instaura un controllo qualitativo del credito? Questo è un episodio, ma ve ne sono altri: i banchieri hanno più fantasia degli uomini di governo.
L’onorevole Einaudi pensava che con il controllo quantitativo del credito e il limite posto alla sua espansione quanti si sono serviti del credito per riempire i loro magazzini a fine speculativo, ora devono vendere e quindi l’aumento di offerta delle merci, farebbe ribassare i prezzi. Ma la reazione è stata ben diversa: si sono mantenuti pieni i magazzini e si tende invece a ridurre o ad arrestare la produzione con tutte le prevedibili conseguenze: così si continua sul binario inflazionistico.
Oltre a tutto ciò, noi dobbiamo constatare che si sono posti in gravi difficoltà piccoli e medi industriali e commercianti: i primi sacrificati, perché i meno influenti e meno provveduti di appoggi. E poi anche talune grandi industrie sane sono state poste in difficoltà, mentre la speculazione continua a infierire. Queste sono le conseguenze di una insufficiente realizzazione del controllo del credito. Le misure che dovevano servire a combattere l’inflazione servono invece a potenziarla e a svilupparla.
Ma io vorrei far presente al Ministro del bilancio una questione particolare, che mi pare abbastanza seria e meritevole di considerazione. La Banca d’Italia ha ripetutamente affermato che il nuovo sistema di disciplina del credito non comporta per i depositi in atto obblighi e limiti maggiori di quelli imposti dal sistema precedente che imponeva il versamento totale dei depositi che superavano il limite di 30 volte il patrimonio della Banca. Ma, se questo è vero per le grandi banche, non è vero per le piccole banche, per le cooperative locali. Cosa è avvenuto in questo campo? Le piccole banche, le cooperative che finanziano artigiani, piccoli bottegai e piccoli produttori, con una zona di attività limitata, in questi ultimi tempi hanno fatto questo: quando hanno visto che i loro depositi superavano il livello di 30 volte il loro patrimonio, hanno chiesto ai loro soci un sacrificio, cioè di versare nuove quote per portare il loro patrimonio al giusto livello. Dopo aver imposto tale sacrificio, ai suoi soci, è venuto il mutamento di sistema che impone anche alle piccole banche di versare alla Banca d’Italia una parte dei loro depositi che superano il decuplo del patrimonio. Ora avverrà che quelle attività artigiane, di piccoli e medi industriali, finanziate da quelle banche, si troveranno in grande difficoltà perché non hanno altri mezzi di finanziamento: la piccola e la media industria non emette azioni né obbligazioni, e tanto meno può ricorrere all’I.M.I. o al Consorzio imprese di pubblica utilità, perché notoriamente questi istituti servono solo alle grandi industrie. Molti piccoli e medi produttori si troveranno in una situazione disgraziata.
Io credo che i provvedimenti presi dalla Banca d’Italia in rapporto alla situazione delle banche cooperative locali debbano essere riveduti ed attenuati. Il problema del credito sta assumendo un aspetto drammatico nel Paese.
Oggi si leva gran clamore attorno al Ministro del bilancio: a molte di quelle voci che lo criticano noi non ci associamo. Però, constatiamo che vi sono dei produttori, che svolgono un’attività sana ed utile al Paese, ai quali è venuto a mancare il credito e le cui proteste sono giustificate; d’altra parte vi sono le banche che dicono che col nuovo sistema non possono far credito. La Banca d’Italia risponde che le misure imposte con la nuova disciplina non possono portare ad una restrizione del credito alla sana attività produttiva.
Chi ha ragione? Se le cose stanno così vuol dire che bisogna andare a vedere il modo in cui le banche impiegano il credito, oppure bisogna pensare ad un sabotaggio delle banche per far cadere i suoi provvedimenti, o ad una subdola manovra inflazionistica che cerca di prendere la mano al Governo. È possibile che queste ipotesi siano tutte vere. Ma come fa lei, onorevole Einaudi, a risolvere questo problema se non passa dal controllo quantitativo a quello qualitativo?
Bisogna controllare dove va a finire il risparmio nazionale, che è destinato ad incrementare la vita economica del Paese e non a sostenere attività speculative. Per fare questo occorre mutare sistema.
Occorre adottare il sistema che noi suggerimmo quattro mesi or sono e che il Governo non ha voluto applicare. Oggi è la realtà che lo impone. Oggi siamo arrivati a questo; che gli industriali più intelligenti, gli industriali che non puntano sulla speculazione, gli industriali che sono veramente gli organizzatori della produzione, vi chiedono di controllare qualitativamente il credito, perché non è giusto che lo si neghi a loro che operano nell’interesse del Paese, mentre si concede ad altri la cui attività rovina l’economia del Paese.
Questo è il problema. La critica che noi facciamo al Governo è che in questi quattro mesi ha lasciato andare le cose per questa via. Perché? Perché, onorevole Einaudi (e risalgo a dove sono partito), il problema del risanamento finanziario si è posto esclusivamente, prevalentemente, sul piano finanziario, perché si è considerata la stabilizzazione dei prezzi e della moneta solo come una conseguenza futura del risanamento finanziario e non pure come una premessa ed una condizione di una politica efficiente di risanamento economico e finanziario.
Bisogna mutare sistema ed adottare il sistema da noi suggerito. Di fronte alle richieste di allargare il credito, di annullare le decisioni già prese, noi chiediamo che si risponda in modo da sodisfare quanto vi può essere di giusto in quelle richieste senza però annullare i limiti posti, il che si ottiene mutando sistema, non togliendo il controllo, ma allargandolo e integrandolo, passando cioè dal puro controllo quantitativo anche a quello qualitativo. Il Governo ha il dovere di assicurare ai produttori l’utile impiego del risparmio nazionale: questo il Governo non lo ha fatto. Quali sono state le conseguenze? Speculazione, inflazione, aumento di prezzi, moneta svalutata: l’inflazione ha fatto un balzo avanti. Bisogna cambiar sistema.
E vengo ad altro problema essenziale: i costi di produzione.
Se il Governo si fosse posto seriamente l’obiettivo di stabilizzare i prezzi nel più breve tempo possibile, non avrebbe potuto ignorare che si poneva altresì il problema di stabilizzare i costi di produzione, evitando per un certo periodo tutti quei provvedimenti che potevano determinare l’aumento.
Qui si pone il problema dei prezzi politici. Ora, in tutti i grandi Paesi, specialmente nei Paesi occidentali, nel periodo della lotta contro l’inflazione si è ritenuto conveniente non sopprimere i prezzi politici, ma farne anzi uno strumento di manovra. L’esperienza fatta in altri Paesi poteva insegnare qualcosa anche a noi. Viceversa, in Italia si è ritenuto, in un momento culminante di svalutazione monetaria, di abolire o di avvicinarsi alla progressiva abolizione dei prezzi politici, pensando che questo provvedimento fosse una misura utile, necessaria e favorevole al riassetto generale dell’economia e non invece un nuovo impulso dato all’inflazione. Non si è tenuto presente che l’abolizione dei prezzi politici, specialmente di quei prezzi che concorrono a formare la razione alimentare delle masse, hanno un’influenza diversa se sono presi in una fase di inflazione, oppure di stabilizzazione dei prezzi.
Non si è pensato che per taluni prezzi politici il risparmio che il Tesoro fa con la loro abolizione può essere inferiore alla maggiore spesa che indirettamente deve sostenere per effetto dell’aumento dei prezzi,: che porta ad aumenti di stipendi e salari, a rivedere i contratti di appalto e via di seguito.
L’onorevole Del Vecchio, Ministro del tesoro, in un certo momento ha fatto alcune dichiarazioni che suonano testualmente così: «dopo due anni di guerra occorre ristabilire l’equilibrio tra i vari prezzi. I consumatori credono di trarre vantaggio pagando i prezzi politici. In realtà non si accorgono che questo vantaggio è scontato ad usura col pagamento, di ben più alti prezzi economici dei generi che sono costretti ad acquistare».
A questo ragionamento se ne può opporre un altro: lo Stato crede di trovare vantaggio abolendo i prezzi politici e non si accorge che tale vantaggio è scontato ad usura con l’aumento delle spese per stipendi, salari, lavori pubblici, conseguente ad un aumento di costi e di prezzi proporzionalmente superiore all’aumento dal prezzo politico al prezzo economico. E la conseguenza quale può essere? Che la circolazione aumenterà, i prezzi subiranno un nuovo aumento ed i consumatori pagheranno di più quel determinato bene e tutti gli altri beni; l’inflazione avrà fatto un altro passo avanti. È perciò che la politica di aumento del prezzo del pane, delle tariffe dei trasporti, delle comunicazioni ecc. è stata obiettivamente una politica inflazionista. Vorrei a questo punto esaminare un problema concreto, quello del pane. Quando si sono riunite le quattro Commissioni per discutere la relazione dell’ex Ministro Campilli, qualcuno ricorderà che in quella riunione io fui il solo ad esprimere parere contrario all’abolizione del prezzo politico del pane in quel momento. E questo perché mi pareva che i risultati potessero essere negativi.
Ora, se calcoliamo gli oneri finanziari dell’abolizione del prezzo politico del pane dobbiamo tenere presente questo: 1°) ciò che lo Stato paga come indennità caro-pane, ad impiegati, salariati di Enti pubblici e semi-pubblici ecc.; 2°) quello che pagherà successivamente per l’aumento di stipendi e salari, conseguente all’aumento di tutti i prezzi; 3°) quello che pagherà per revisione di contratti di appalto ecc. Tutto sommato, tenuto conto degli elementi positivi e negativi, l’onere finanziario è probabilmente superiore, anche se non figura più come prezzo politico. Accanto agli oneri finanziari bisogna considerare pure quelli economici:
1°) l’aumento del prezzo del pane, bene a domanda rigida ed universale, porta necessariamente all’aumento di tutti i costi di produzione in proporzioni moltiplicate: dal ciclo produttivo iniziale a quello finale di un bene, con le interferenze degli aumenti salariali, l’aumento si moltiplica con un crescendo continuo;
2°) che aumenti generali di costi e prezzi rendono i prezzi dei cereali all’ammasso insoddisfacenti, con una influenza negativa sulle future semine;
3°) che lo stesso costo di produzione del pane aumenta per l’aumento dei salari;
4°) il costo economico di scioperi ed agitazioni perché l’indennità di caro-pane non indennizza l’aumento di prezzo di tutte le altre merci;
5°) che si creano ostacoli ad iniziative ed attività produttive.
Ora, cosa hanno dimostrato i fatti? Quando il Governo ha aumentato il prezzo del pane, immediatamente vi è stato un rapido e forte aumento di tutti i prezzi, ed è stato tale da non far dubitare della sua connessione con l’aumento del prezzo del pane. Perché non si è voluto tener conto di questo insegnamento dei fatti? Si pensava forse che nonostante l’aumento dei prezzi si sarebbe impedito l’aumento di stipendi e salari? Questo rivelerebbe lo spirito e il contenuto reazionario di quella decisione.
Ora, a questo proposito vorrei dire una parola sulla speculazione di doppio giuoco che si è fatta contro di noi su tale questione. L’onorevole De Gasperi dovrebbe ricordare che noi fummo contrari all’abolizione del prezzo politico per le ragioni che ho esposto. Ci si assicurò che quella misura non avrebbe fatto aumentare gli altri prezzi, caso mai li avrebbe fatti diminuire, perché la maggiore spesa per il pane avrebbe provocato una contrazione nell’acquisto di altri generi. Non si è avvertito l’errore che si commetteva ragionando a quel modo, perché, semmai, si sarebbe avuto un aumento minore in talune merci rispetto ad altre. Tuttavia, finimmo per consentire, rimettendoci al verdetto dei fatti. Si fece un primo aumento del prezzo del pane: i fatti ci diedero ragione. Tutti i prezzi aumentarono: si verificarono le conseguenze da noi previste. Veniva così a mancare la condizione essenziale dell’impegno per ulteriori aumenti. Perciò all’atto del secondo aumento, giudicando che il provvedimento era dannoso, non ci sentimmo più di approvarlo. Dov’è il doppio giuoco? E se qualcuno è mancato all’impegno siete voi, che avete proceduto al secondo aumento nonostante che le condizioni previste non si fossero realizzate.
Una volta constatati gli effetti del primo aumento era opportuno fermarsi: non lo avete fatto e avete commesso un errore. Vi illudevate forse di evitare i conseguenti aumenti di stipendi e salari? Questa è in sostanza la tendenza della vostra politica, altrimenti non avrebbe senso. Ma è una politica irrealizzabile e perciò sbagliata.
Io potrei fare un’analisi analoga per l’aumento del prezzo dei trasporti; non la farò per brevità. Ma tutti questi provvedimenti che tendono ad aumentare i costi di produzione in un momento in cui, per la lotta contro l’inflazione, ci si doveva porre per obiettivo la stabilizzazione dei prezzi, o sono una contradizione, oppure sono la conseguenza del fatto che non si è posta la stabilizzazione dei prezzi e della moneta come una condizione del risanamento finanziario. Se questo si fosse fatto, questi provvedimenti non si dovevano adottare in quel momento: bisognava rinviarli.
E vengo all’ultimo problema: il commercio estero. Il Ministro Merzagora l’altro giorno ci ha detto che fa tutto il possibile per aumentare le esportazioni e provvedere il Paese di quanto ha bisogno e che, se non tutto si può realizzare, non è colpa della politica del Governo, poiché le difficoltà e le impossibilità sono nelle cose.
Ora, qui non si tratta della buona volontà e della diligenza del Ministro del commercio estero, né delle difficoltà o impossibilità che indubbiamente esistono; né si pretendono miracoli da nessuno: qui si discute la politica che si attua in questo campo in relazione alla politica economico-finanziaria del Governo ed all’obiettivo della lotta contro l’inflazione. È su questi problemi che il Ministro avrebbe dovuto parlare.
Il primo problema che si pone è quello del regime valutario. È noto che, fin dal gennaio, vi sono stati dei partiti, fra i quali il nostro, i quali hanno posto il problema se, nella nuova situazione che si andava determinando, non fosse opportuno ritornare al sistema del controllo totale dei cambi. Il Governo non ha mai creduto di rispondere a tale quesito. Perché all’inizio del 1947 noi abbiamo posto tale questione? Perché un sistema di scambi nel quale l’industria nazionale riceve, per ciò che vende, una moneta – il dollaro – che vale meno di quella che usa per ciò che compera, poteva mantenersi in piedi finché esisteva una situazione come quella del 1946, quando abbiamo esportato, in regime di valuta 50 per cento, per il 74,2 per cento ed abbiamo importato con lo stesso regime solo per il 5 per cento. Ma, quando la situazione si rovescia, e le importazioni superano le esportazioni, allora è lecito nutrire il dubbio che quel sistema non convenga più. Perché il principio assurdo che il dollaro di chi vende debba valere meno del dollaro di chi compera, fa balzar fuori tutte le contradizioni del sistema. E infatti, a quali conseguenze porta quel sistema?
Anzitutto, gli esportatori tendono a non esportare nei Paesi coi quali i pagamenti avvengono a cambio ufficiale e preferiscono esportare invece nei Paesi in cui i pagamenti avvengono a cambio libero, anche vendendo a prezzo minore.
Viceversa gli importatori trovano convenienza ad importare dai Paesi in cui i pagamenti avvengono a cambio ufficiale ed evitano di importare dai Paesi in cui i pagamenti avvengono a cambio libero. Quali sono dunque le conseguenze di tale situazione? La prima è che noi vendiamo a basso prezzo i nostri prodotti e quindi il nostro lavoro e comperiamo ad alto prezzo quelli degli altri; la seconda è che la riduzione delle esportazioni verso un determinato Paese comporta di necessità una riduzione delle importazioni da quello stesso Paese e viceversa una riduzione di importazioni da un dato Paese riduce anche le possibilità di esportazione in quel Paese: questo è tanto più vero in regime di scambi compensati, come largamente avviene oggi. Quando noi, ad esempio, esportiamo poco in Polonia per le ragioni dette sopra, si riducono in pari tempo anche le possibilità di importare dalla Polonia: ecco perché non si è importato la metà del carbone che la Polonia ha messo a nostra disposizione, nonostante il bisogno che ne abbiamo.
La conseguenza di tale stato di cose è abbastanza grave, perché i Paesi con i quali noi abbiamo scambi compensati e con pagamento al cambio ufficiale si trovano quasi tutti nell’Europa orientale, cioè proprio nella zona che costituisce il mercato naturale per l’economia italiana, ed è proprio con quei Paesi che i nostri scambi stentano ad avviarsi e tendono a divenire sempre più difficili. Quando il Ministro Merzagora ci dice che con quei Paesi abbiamo fatto una quantità di accordi e ne faremo ancora degli altri, e, se poi in pratica non si ottengono risultati, non sappiamo cosa farci, noi rispondiamo che è compito del Ministro ricercare le cause per le quali quegli accordi non danno i risultati che dovrebbero dare, ed eliminarle. Se si fa tale esame si vedrà che una delle cause è nella nostra politica valutaria; e se quella politica si cambiasse anche le condizioni delle nostre esportazioni ed importazioni cambierebbero.
Una seconda conseguenza è che, lasciando anche soltanto il 50 per cento di valuta libera ed accentrando solo su di essa lo squilibrio fra cambio ufficiale e cambio di equilibrio, ne viene raddoppiata l’incidenza con una duplice conseguenza:
1°) i più alti corsi di mercato della valuta di esportazione fanno apparire un indice di svalutazione della moneta superiore alla realtà, influenzando il giudizio sulla svalutazione della moneta in contrasto con la politica di difesa della lira;
2°) rincarano in misura anormale tutte le importazioni finanziate con valute di esportazione, da cui aumento di costi di produzione, di prezzi e quindi spinta all’inflazione;
3°) talune industrie pagano la materia prima con un dollaro che vale, ad esempio, 900 e la rivendono nel prodotto finito ricavando un dollaro che vale 500: questo porta ad aggravare i costi di produzione, i prezzi e quindi ad aumentare l’inflazione.
Altre conseguenze si potrebbero rilevare e tutte di carattere inflazionista, il che è in aperto contrasto con la politica di lotta contro l’inflazione che il Governo dichiara di voler seguire. Se il sistema del 50 per cento di valuta libera è in contrasto con le esigenze di una politica anti-inflazionista, perché non si cambia?
Il Ministro dice: per talune categorie io l’ho già mutato, ho concesso ad alcune categorie non il 50 per cento, ma il 75 per cento ed anche il 90 per cento. Ma non è quella la via da seguire, onorevole Ministro, bisogna andare per la via contraria. A quel modo si aggrava il male, non lo si guarisce. Perché, quando lei concede il 75 per cento di valuta libera, lei crea e moltiplica la diversità dei cambi invece di tendere ad eliminarla. Bisogna arrivare al cambio unico.
E bisogna ristabilire il controllo integrale delle valute, perché non si controllano le importazioni ed esportazioni senza il controllo totale delle valute, come non si controllano le valute senza il controllo totale delle importazioni ed esportazioni. Questa è l’esigenza che impone oggi una efficace politica antiinflazionista.
Ma io desidero porre una questione specifica per le concessioni che sono state fatte. I tessili, ad esempio, sono, fra le categorie degli industriali, quelli che hanno guadagnato di più durante la guerra fascista, che hanno avuto minori danni di guerra e maggiori sopraprofitti, che l’anno scorso hanno fatto notevoli utili. Come mai proprio ai tessili si è fatta tale concessione?
So che le esportazioni dei prodotti tessili quest’anno hanno incontrato difficoltà e, là dove è necessario, io sono d’accordo che bisogna sostenere le nostre esportazioni, ma in questo caso mi vengono dei gravi dubbi. Quando lei, onorevole Ministro, afferma che i prezzi di esportazione sarebbero stati troppo bassi rispetto ai costi, una delle due: o le hanno dato dei dati inesatti, oppure lei ha fatto un favore che non doveva fare. Perché, dai dati che io ho, non risulta affatto che gli industriali tessili italiani non potessero esportare. È vero che gli utili diminuivano, ma guadagnar meno non vuol dire perdere. A me risulta infatti che all’esportatore rimaneva sempre un utile netto di almeno lire 185,50 per ogni chilo di filato. Certo, tale utile è inferiore a quello ricavato sul mercato interno che è di lire 308, ma esso dimostra non esser vera l’asserita impossibilità di poter vendere all’estero allo stesso prezzo degli americani. E tanto più spiacevole è la concessione che si è fatta, per le conseguenze che ha avuto negli accordi già realizzati dalla missione Lombardo, secondo i quali si riducevano alla metà i tributi doganali di tutti i nostri esportatori negli Stati Uniti, e dopo la concessione fatta ai tessili, in conseguenza di questa differenziazione di cambi, quell’accordo è caduto e i nostri esportatori pagano oggi come tributo doganale il doppio di quello che avrebbero pagato. Ora, è giusto che per l’interesse particolare di una categoria si debba sacrificare l’interesse generale di tutti gli esportatori verso gli Stati Uniti d’America? Che politica è mai questa?
Un secondo problema a cui desidero accennare è quello dell’aumento del cambio del dollaro da 225 a 350.
Io mi domando: in una situazione in cui le importazioni superano le esportazioni ed il Governo si propone di fare una politica anti-inflazionista, è stato opportuno un provvedimento di quel genere? Si è voluto facilitare le esportazioni e sta bene, ma non si poteva provvedere a ciò altrimenti, con misure che non fossero in contrasto con la politica che il Governo dice di voler perseguire? Che non si riflettessero a danno delle importazioni e quindi dei consumatori? Si sono esaminate le ripercussioni di quel provvedimento nei rapporti della lira, non solo con il dollaro, ma con tutte le altre monete? Non avviene forse oggi che, per avere la stessa quantità di beni, per esempio, dalla Francia o da altri Paesi, dobbiamo dare una quantità maggiore di beni italiani, oppure per la stessa quantità di beni italiani noi riceviamo in cambio oggi una minore quantità di beni dagli altri Paesi? Se così è, è chiaro che quel provvedimento ha determinato un aumento dei costi di produzione e quindi ha esercitato una influenza inflazionistica nel Paese. Bisogna proprio riconoscere che l’esigenza di non far salire i costi di produzione era assente dalla politica del Governo. Ciò è confermato da un altro provvedimento assai significativo: l’aumento improvviso del diritto di licenza al 10 per cento sul valore delle merci ammesse all’importazione. Ora questo porta all’aumento dei costi di produzione, e quindi dei prezzi e dell’inflazione.
Era proprio questo il momento opportuno per un tale provvedimento, quando bisognava fare una politica di stabilizzazione di costi e di prezzi? In verità tutto conferma che questa esigenza non si poneva nella politica del Governo, e questo in conseguenza della impostazione generale che guarda essenzialmente al bilancio, all’aspetto finanziario e monetario della situazione e trascura quello economico.
Ad un ultimo problema voglio rapidamente accennare: si tratta dei molti miliardi evasi all’estero.
I giornali parlano di 60 milioni di dollari che corrisponderebbero a 30 miliardi di lire. Il Ministro Merzagora dice che sono anche di più. Noi dobbiamo ad ogni costo far rientrare questi capitali in Italia. Certo, coloro che hanno compiuto quest’opera sono estremamente biasimevoli. Ma con i biasimi e le invettive non si risolve nulla. Ed il Paese è con l’acqua alla gola ed ha bisogno di rastrellare tutto quello che è possibile. Orbene, noi abbiamo concesso l’amnistia a tanti criminali, potremmo anche concedere una sanatoria a quei capitali emigrati clandestinamente e sollecitarli a rientrare. Un mezzo potrebbe essere di consentire le importazioni «franco valuta»: io non vi sarei contrario.
In definitiva, anche per il commercio estero, risorge il quesito: con quali criteri si attua la politica antinflazionista? Anche qui vediamo che la politica in atto porta a conseguenze inflazioniste: un suo mutamento si impone.
Ora, il problema generale che si pone è questo: si vuol fare una politica contro l’inflazione? Ed allora la via seguita finora non è quella giusta. Bisogna cambiare strada. Dall’esame di alcuni aspetti della nostra politica economica e finanziaria risulta che il Governo considera la stabilizzazione dei prezzi e della moneta solo come conseguenza e non pure come condizione del risanamento finanziario. Accettare questo principio significa mutare tutta la politica finora seguita, come mi pare di avere dimostrato. Ma con ciò si pone anche il problema della stabilizzazione come un obiettivo immediato. A tal fine potrebbe essere utile attuare qualche provvedimento di tecnica monetaria diretto a facilitare il processo di stabilizzazione: si tratta di inserire nella situazione economica e finanziaria un primo elemento di stabilizzazione. L’anno scorso si era pensato per altri fini ad un progetto di «Buoni di imposta» collegato al problema della rivalutazione degli impianti industriali. Io credo che se in gennaio si fosse realizzato quel progetto, esso avrebbe avuto successo. Oggi avrei dei dubbi, perché non esistono più le condizioni di gennaio. Penso però che quell’idea potrebbe essere integrata da un elemento nuovo che potrebbe renderla attuabile. Lo Stato dovrebbe assicurare a quel titolo stabilità di valore, non già nel senso che ci imponga di risolvere oggi definitivamente il problema del valore della nostra moneta, ma nel senso che lo Stato ne garantisce il valore che ha al momento dell’emissione, in modo da essere messo al riparo dalle eventuali successive svalutazioni monetarie.
Si tratta in sostanza di creare uno strumento di stabilizzazione capace di anticipare ed accelerare le ripercussioni benefiche di una politica quale è quella che vi ho delineato, indebolendo i movimenti speculativi e determinando una smobilitazione psicologica degli operatori al rialzo di merci e valori, ed offrendo un punto di sicuro approdo ai risparmiatori che oggi, come diceva l’onorevole Corbino, non portano nemmeno più i loro risparmi in banca. Non è questa la sede per sviluppare tecnicamente una simile proposta. Io conosco tutte le obiezioni che si potrebbero muovere, ma mi pare che tali obiezioni non sono insuperabili. Se ci si pone seriamente il problema della stabilizzazione dei prezzi e della moneta e si opera secondo un piano organico nel senso, indicato, io credo che tale politica può avere successo.
Onorevoli colleghi, di fronte all’inflazione vi sono due politiche possibili.
Quella seguita dal Governo fino ad oggi è, obiettivamente, una politica inflazionistica. Essa si basa sull’attesa di una soluzione automatica della corsa alla svalutazione ed all’aumento dei prezzi per effetto del pareggio del bilancio, di prestiti esteri ed altri eventi favorevoli. È una politica che direi di «attesismo finanziario»: come quella di coloro che pensano che il miglior modo di combattere l’inflazione è quello di attenderne la fine. Ma l’esperienza storica dimostra che una volta avviati sul piano inclinato dell’inflazione non si è mai ristabilito automaticamente un nuovo equilibrio senza passare attraverso un collasso economico-finanziario.
L’altra politica che vi proponiamo rifugge da ogni forma di attesismo e propugna un intervento attivo nella vita economica, con l’obiettivo immediato della più rapida stabilizzazione dei prezzi e della moneta come condizione del risanamento finanziario. È la sola politica che, a mio giudizio, può trarci dalla attuale situazione evitando il collasso economico-finanziario, che è la minaccia più grave che pesa oggi su di noi. Cosa significa un tale evento? Basti pensare alla Germania del 1923: significa immiserimento delle grandi masse lavoratrici, espropriazione in massa dei ceti medi, rovina dei piccoli produttori, miseria crescente da una parte, accumulazione e concentramento di ricchezze dall’altra, violente convulsioni politiche e sociali. È come una sferzata violenta sul corpo della Nazione, e le conseguenze per noi sarebbero ben più gravi di quelle che furono per la Germania nel 1923, perché più grave è il disastro che ha colpito noi e diverse sono le condizioni politiche e sociali del tempo. Vero che taluni pensano di sfuggire a tali conseguenze diluendole nel tempo, pur che si riesca ad evitare che alla progressiva svalutazione si accompagni un adeguamento di salari e stipendi, cioè dei redditi di consumo. Questo è in fondo il senso vero della politica attuale.
Le classi padronali d’Italia hanno ben compreso il senso di quella politica; hanno infatti tentato e tentano di opporre una assoluta intransigenza alle richieste dei lavoratori, come si è visto nello sciopero dei braccianti, ed il Governo le ha aiutate come ha potuto. Si è persino tentato di mobilitare l’opinione pubblica contro di noi, qualificandoci come «sobillatori» dello sciopero: ma l’unico e vero sobillatore è stato il Governo con la sua politica. (Applausi a sinistra).
E la Confederazione dell’industria riflette ancora più chiaramente il senso di quella politica quando prospetta la necessità dell’abolizione della «scala mobile» e ieri il Ministro dell’industria e commercio ha riecheggiato l’identico pensiero quando ha detto che in Italia il problema da risolvere è quello della scala mobile. Cosa vuol dire ciò? Vuol dire che i prezzi possono salire ma i salari e gli stipendi devono restare fermi. Questo è il pensiero della Confederazione dell’industria, questo è il pensiero del suo rappresentante onorevole Togni. E se non ci fossero altri motivi, solo per questo io voterei contro il Governo.
Una voce al. centro. Può dire anche l’inverso.
SCOCCIMARRO. Ma, a parte che anche questa misura sarebbe insufficiente per le ripercussioni indirette che essa determinerebbe, sta di fatto che essa è inattuabile. Non fatevi illusioni, signori, di strappare alle classi lavoratrici una tale misura di garanzia delle loro più elementari condizioni di esistenza: non vi riuscirete. Bisogna convincersi che salari e stipendi non sono più oltre comprimibili. Stando così le cose la politica attuale minaccia di portarci al collasso. Per questa via si preparano giorni tristi per il nostro Paese.
Ora, fra queste due politiche che ho delineato la divergenza non è o per lo meno non è solo tecnica, ma politica. Ciascuna ha un suo proprio contenuto e significato economico e sociale. L’onorevole Corbino ci diceva che siamo arrivati al momento della liquidazione dei conti della guerra e del disastro economico: ora si pone il problema di chi deve pagare. Non v’è dubbio che con la politica attuale si tende a rovesciare il maggior costo del risanamento sulle classi lavoratrici. Per tale scopo si sono create le condizioni politiche necessarie con la formazione di questo Governo. Però badate: dopo la guerra 1914-18, per realizzare un tale obiettivo, ci volle il fascismo. Le classi padronali si sentono di ritentare la prova? Questa volta mi pare che l’operazione difficilmente può riuscire. Tuttavia le velleità non mancano. Intanto, per ora, devono accontentarsi di questo Governo.
UBERTI. Non c’è paragone!
SCOCCIMARRO. La politica che noi vi proponiamo fa ricadere i sacrifici della ricostruzione su tutte le classi sociali secondo un principio di equità e, a nostro avviso, con più sicura possibilità di evitare il crollo della moneta con tutte le nefaste conseguenze che ne derivano. Lo condizioni politiche necessarie per realizzare questa politica esigono un nuovo Governo.
Ieri l’onorevole Corbino si è dichiarato ottimista. Ci ha detto che i popoli non muoiono mai ed essendo noi in fase di convalescenza, anche noi non moriremo e tutto andrà per il meglio.
L’onorevole Corbino è veramente troppo ottimista. Se è vero che nella storia non vi sono situazioni senza vie di uscita, il problema però, è di sapere quale sarà la via di uscita: se sarà una via che ci consenta di fare un passo avanti oppure se sarà una via di uscita che ci obbligherà a fare un passo indietro: anche quella è una via di uscita. Ma è proprio nella scelta della via d’uscita che sta il senso di questo dibattito. A mio giudizio, dopo la liberazione non ci siamo mai trovati in una situazione così difficile, così pericolosa come quella in cui ci troviamo oggi. Lo spettro dell’inflazione distende la sua ombra nel paese e diviene sempre più minaccioso: siamo ormai ridotti a dare l’ultima battaglia per la salvezza della nostra moneta. In passato si sono perdute buone occasioni in cui si sarebbe potuto operare efficacemente al risanamento finanziario: è perciò che oggi la situazione è particolarmente grave. Pesano sulla situazione attuale le conseguenze di quello che si sarebbe dovuto fare e non si è fatto. Oggi si presenta forse l’ultima occasione per tentare di salvare la nostra moneta: fate che anche questa non vada perduta. Bisogna cambiare politica e bisogna cambiare Governo.
In un momento così grave della vita nazionale le classi lavoratrici, a nostro mezzo, offrono la loro collaborazione con tutte le forze sane del Paese: sappiate valutarne tutto il valore e l’importanza. Non respingetela a cuor leggero. Il voto che ognuno di noi darà in questo dibattito implica una grave responsabilità dinanzi al Paese.
L’Italia è dinanzi ad un bivio: noi vi abbiamo indicato la via giusta. Sta a voi il decidere se seguirla o no. (Vivi applausi a sinistra – Molte congratulazioni).
PRESIDENTE. Ha facoltà di parlare l’onorevole Ministro delle finanze.
PELLA, Ministro delle finanze. Onorevoli colleghi, ai fini dell’ampio dibattito che si sta svolgendo da alcuni giorni e che investe tutti gli aspetti della vita economica e finanziaria della Nazione, il Governo ritiene doveroso, quale contributo alla discussione, procedere ad una rapida illustrazione del settore fiscale, anche perché l’Assemblea soltanto di scorcio – in occasione della chiusura della discussione generale sopra l’imposta sul patrimonio – ha avuto occasione di avere una rapida visione della situazione del Dicastero che mi onoro di presiedere.
Desidererei attraverso questa rapida esposizione portare una nota di virile e cosciente ottimismo e, soprattutto, portare in primo piano la figura di un tipo d’italiano, che forse troppo dimentichiamo nelle nostre discussioni: la figura del contribuente, a cui io ritengo (e questa sarà la conclusione della mia rapida esposizione) si debba oggi rivolgere un sentimento di viva riconoscenza.
Voi conoscete gli estremi del problema. Ancora l’esercizio 1946-47, chiuso da poco, cominciato con una previsione di tributi ordinari di 148 miliardi, concludeva con un consuntivo di entrate di poco superiore a 300 miliardi, confermando così quel disavanzo di oltre 600 miliardi che, mesi fa, aveva veramente impressionato l’opinione pubblica italiana. Però la situazione, attraverso gli sforzi di quanti ebbero l’onore di reggere le finanze italiane in questi ultimi mesi, può dirsi veramente mutata in modo radicale in quanto, già al mese di giugno, si potevano contabilizzare circa 40 miliardi di tributi ordinari, passati a 47 miliardi nel mese di luglio ed all’incirca mantenutisi in tale cifra per il mese di agosto, nonostante la consueta flessione del periodo di ferragosto.
Potevamo inoltre contabilizzare nel mese di giugno 6 miliardi e 600 milioni di imposta proporzionale 4 per cento, 7 miliardi nel mese di luglio, circa 12 in quello di agosto. Cosicché il gettito tributario totale passava rapidamente da 44 a 56 miliardi.
Desidero, ancora, premettere che, ai fini del risanamento finanziario, dobbiamo essenzialmente polarizzare la nostra attenzione sui risultati della finanza ordinaria, perché deve essere ancora una volta affermato che lo scopo prevalente della finanza straordinaria non è, oggi, quello del gettito tributario, ma è uno scopo duplice di ordine anti inflazionistico e di ordine sociale.
Il problema delle entrate deve fondamentalmente risolversi nel quadro della finanza ordinaria.
Appunto su questo quadro noi possiamo oggi scorgere delle luci che, ancora qualche mese addietro forse, non speravamo di vedere: luci le quali ci permettono di affermare che certamente noi, nel corso di questo esercizio, arriveremo a un gettito complessivo di tributi ordinari non inferiore ai 650 miliardi. (Applausi al centro).
La finanza straordinaria potrà mettere a disposizione del Paese 100-150 miliardi e, poiché la valutazione dei 650 miliardi di tributi ordinari, a mio avviso, può considerarsi prudenziale, io credo che si possa contare su un gettito totale di 800 miliardi per l’esercizio 1947-48. (Approvazioni al centro). Sono 800 miliardi nei confronti dei 300 con cui si concludeva l’esercizio testé decorso; sono dunque 500 miliardi di maggiori entrate su cui l’esercizio in corso può fare assegnamento.
È bene, onorevoli colleghi, che noi ci poniamo ad analizzare questi dati, poiché ancora troppo facilmente si ripete fra noi – e non soltanto fra noi – lo slogan secondo cui il contribuente italiano ha perso l’abitudine di pagare le imposte. Se noi vogliamo considerare il totale dell’incidenza tributaria degli 800 miliardi sull’economia nazionale, rispetto alla pressione prebellica, ci troveremo a dover paragonare gli 800 miliardi attuali con i 23 miliardi e mezzo circa incassati nell’esercizio 1938-39.
Il rapporto sarebbe ancora più favorevole se prendessimo come base la media del quinquennio ante-bellico che contabilizzò 19 miliardi. Ma anche partendo dai 23 miliardi e 400 milioni, oggi ci troveremmo davanti ad una pressione fiscale che è 34 volte quella dell’anteguerra: e poiché la situazione in termini di reddito, di capitale, di volume di scambi, probabilmente non è superiore al 70 per cento dell’anteguerra (naturalmente sono cifre molto approssimative soprattutto richiamate per dare il senso della dimensione del fenomeno) noi arriveremmo alla conclusione che la pressione è 48 volte l’anteguerra rendendo omogenei i dati. Se volessimo fare il confronto soltanto rispetto ai tributi ordinari, potremmo concludere che la pressione attuale è 40 volte quella prebellica; un rapporto di moltiplicazione superiore allo stesso rapporto di aumento della circolazione cartacea e che sfiora all’incirca l’indice dell’aumento del prezzo all’ingrosso. E allora, onorevoli colleghi, io credo veramente venuto il momento di proclamare dinanzi alla Nazione e dinanzi al mondo che il contribuente italiano sta facendo tutto il suo dovere.
Tutto ciò premesso rispetto alle dimensioni globali del fenomeno, vale la pena di procedere ad un ulteriore esame di natura qualitativa del fenomeno fiscale. Si dice che la pressione fiscale gravi essenzialmente sul settore dei consumi, che il gettito è determinato essenzialmente dalle imposte indirette, mentre invece una finanza democratica dovrebbe prevalentemente mirare alle imposte dirette sui redditi.
Non è esatto. Io non voglio qui indugiarmi a ricordare la distinzione fra imposte non trasferibili ed imposte trasferibili sul consumatore (distinzione che porta ad affermare una superiorità delle imposte dirette sui redditi, principalmente se a carattere personale, in quanto non si trasferiscono sul consumo, mentre tutte le altre imposte finiscono per trasferirsi sul consumatore) – non voglio indugiarmi a ricordare che questa distinzione presuppone un’offerta di merci sul mercato che equilibri la normale domanda.
In una situazione come l’attuale mi chiedo se oggi abbia significato concreto la distinzione fra tributi che si trasferiscono e tributi che non si trasferiscono, in quanto, purtroppo, tutto il carico tributario, diretto ed indiretto, tende a trasferirsi sul consumatore, in sede di prezzo di vendita. Perciò il problema dell’analisi del gettito totale non ha tanto importanza per oggi, quanto per domani, cioè per il momento in cui la normalità degli scambi raggiunga tutto il suo significato.
Ma è già confortante constatare che, contrariamente a quanto si ritiene dall’opinione pubblica non completamente informata, noi abbiamo raggiunto oggi, come incidenza di imposte dirette sui redditi, il grado di incidenza dell’esercizio 1938-39.
Infatti nell’esercizio 1938-39 le imposte dirette sui redditi rappresentavano il 27 per cento del carico totale; l’analisi del gettito del mese di agosto 1947, ultimo mese, presenta lo stesso preciso rapporto del 27 per cento, con un progresso notevole rispetto all’esercizio 1946-47 in cui il rapporto era disceso al 16 per cento.
Quindi non sarebbe esatto affermare che non ci sia lo sforzo costante dell’Amministrazione finanziaria di arrivare all’attuazione di quei postulati di finanza democratica i quali suggeriscono di portare all’estremo il gettito delle imposte dirette e di moderare, per quanto possibile, compatibilmente con le necessità di bilancio, il settore dell’imposizione dei tributi indiretti che gravano immediatamente sul consumo. E badate che questo ripristino dell’incidenza rispetto all’anteguerra è stato ottenuto nonostante che l’imposta fabbricati praticamente non esista nel quadro fiscale. Prima della guerra essa dava 350 milioni all’anno, oggi dà 330 milioni, per il combinato concorso e del blocco dei fitti e delle distruzioni belliche. Si è raggiunto questo risultato nonostante che dal 1° luglio 1947 (e quindi per il mese di agosto preso in considerazione) sia stata completamente soppressa la categoria C-2, gravata sopra gli stipendi degli impiegati di Stato. Cosicché, se rendessimo omogenei i dati di comparazione, noi potremmo veramente concludere che attualmente l’incidenza delle imposte dirette è superiore a quella dell’anteguerra. Oggi ogni italiano paga 18 mila lire a testa all’anno di tributi, contro 520 lire d’anteguerra. Questi sono gli estremi del problema. Onorevoli colleghi, dobbiamo cominciare a pensare veramente al contribuente e metterlo in primo piano, all’ordine del giorno della Nazione.
Sarei ora tentato (ma ho firmato una cambiale in ordine alla durata della mia esposizione), sarei tentato di passare in rassegna con una certa profondità i diversi settori del dicastero che ho l’onore di rappresentare, ma mi limiterò ad alcuni cenni, soprattutto per venire incontro ad osservazioni che la bontà degli onorevoli colleghi non ha ancora portato nell’Aula, ma che hanno avuto occasione di manifestarsi nel Paese attraverso a comunicati di associazioni, attraverso ad articoli di stampa, attraverso ad altri mezzi.
Nel settore delle imposte dirette in cui speriamo di raggiungere e superare i 120 miliardi e forse di avviarci verso i 140 miliardi, esiste oggi il problema dell’adeguamento degli imponibili di ricchezza mobile per industriali e commercianti.
Si è provveduto a pubblicare un decreto che porta ad una rivalutazione automatica con aumento del 200 per cento o del 50 per cento a seconda della data di nascita dell’imponibile. Era un decreto necessario in quanto la revisione dei redditi fatalmente va a rilento per un complesso di ragioni. Tutto questo però non deve preoccupare affatto il mondo dei contribuenti interessati poiché dichiaro nel modo più formale che non si intende, attraverso a questa forma automatica di revisione, impedire che il singolo (soprattutto il piccolo ed il medio contribuente) abbia la possibilità di ottenere quella giustizia individuale che deve essere un caposaldo di una corretta politica valutaria.
Sul settore della ricchezza mobile occorre sottolineare il coraggioso provvedimento preso allo scopo di andare incontro alle istanze delle categorie interessate, non soltanto colla soppressione della ricchezza mobile categoria C-2 per i funzionari dello Stato, ma bensì anche colla elevazione del minimo di esenzione a lire 240.000 annue per tutti i prestatori d’opera, impiegati e operai, alle dipendenze di aziende private, provvedimento al quale con recente disposizione è stata data la decorrenza del 1° luglio 1947. Abbiate la bontà, onorevoli colleghi, di tener presente che questa disposizione di sgravio costa per il bilancio dello Stato da 22 a 23 miliardi; ed era questa una delle ragioni per cui si rimase per lungo tempo perplessi sulla possibilità o meno di arrivare ad uno sgravio così ingente e la conclusione affermativa fu dettata soprattutto dai risultati che, in genere, accusava il gettito tributario degli ultimi mesi.
È all’ordine del giorno il problema dell’imposta complementare. L’imposta complementare sul reddito oggi non assolve al suo compito: è praticamente ferma a posizioni molto arretrate. Occorre avere il coraggio di una revisione di tabelle che forse oggi non sono applicabili a seguito della intervenuta svalutazione, ed occorre affrontare il problema degli accertamenti con criteri forse più svelti, più rapidi di quelli seguiti finora.
Ritengo che il problema di un accertamento del reddito globale e personale di ogni cittadino abbia una importanza che va molto al di là di quello che è il gettito tributario che può derivare dall’imposta. È di supremo interesse sul piano politico e sociale di avere finalmente un censimento degli italiani in termini di reddito globale personale: ed è in questo senso che la Commissione finanziaria intende rivolgere i suoi sforzi nel prossimo futuro.
Il settore della tasse e delle imposte indirette può assicurare contro i 142 miliardi incassati nel decorso esercizio un gettito complessivo di almeno 240 miliardi. Caposaldo di questo settore è l’imposta sull’entrata la quale va procedendo da qualche mese con un gettito che non esito a definire superbo.
La riduzione dell’aliquota dal 4 al 3 per cento ha dato ancora una volta la riprova che il problema di un copioso gettito è anche – e starei per dire, soprattutto – in funzione della sopportabilità delle aliquote. È un tributo che potrà ancora andare molto oltre. Desidero però affermare, come ho avuto occasione di sottolineare in questa Assemblea alcune settimane fa, che il rendimento dell’imposta sull’entrata, ridotti i termini ad omogeneità, è oggi superiore a quello dell’imposta sugli scambi di anteguerra. Quindi il problema dell’evasione all’imposta entrata è un problema che oggi presenta dimensioni non maggiori di quelle dell’anteguerra. Probabilmente tali dimensioni sono ancora cospicue. L’amministrazione finanziaria farà di tutto per colpirle. La Guardia di finanza, che sta in questi mesi perfezionando i suoi ordinamenti e la sua organizzazione, ha veramente apportato un contributo notevole contro l’evasione; e vorrei avere qui il tempo per potervi riportare le cifre che dimostrano i risultati conseguiti.
Sempre in ordine al gettito dell’imposta, in prima linea, non soltanto in cifra assoluta, ma anche in linea relativa, credo che si debba annoverare il compartimento di Milano, il quale da solo fornirà forse un terzo del gettito dell’intera imposta.
L’esame del settore delle imposte indirette e delle tasse sugli affari mi permette di dichiarare che non è esatto che il Ministero delle finanze abbia intenzione di rivedere il problema della sovraimposta di negoziazione 4 per cento, che colpisce le contrattazioni di borsa. È questa un’imposta che dà oggi un gettito mensile superiore al mezzo miliardo e che potrebbe anche sfiorare il miliardo.
Non penso che essa arrechi un grave turbamento all’economia generale della Nazione. Non sembra vi sia oggi ragione sufficiente per prendere in esame il problema ai fini di una eventuale abolizione.
Voi sapete che il sistema della imposta di negoziazione presentava l’inconveniente di alcune deficienze di valutazione che sono state corrette con un provvedimento in data 5 settembre 1947 in corso di pubblicazione. Con tale provvedimento abbiamo inteso portare sullo stesso piano, come criteri di valutazione ai fini dell’imposta ordinaria di negoziazione e dell’imposta straordinaria sul patrimonio, le società quotate in borsa e le società non quotate in borsa. Nessun’altra intenzione ci ha guidato e tanto meno una minore fiducia negli organi preposti alla valutazione, che vengono, tuttavia, integrati con rappresentanti della finanza, i quali già prima partecipavano in veste consultiva.
Il settore dazi ed imposte di fabbricazione ha pure camminato con ritmo sodisfacente. Molte tariffe sono state ritoccate e tributi nuovi sono stati istituiti tra cui l’imposta di fabbricazione sui filati che, configurata inizialmente per un gettito di dieci miliardi ed impostata per quindici miliardi, sta oggi dando un gettito mensile di circa un miliardo ed ottocento milioni. Con un largo margine rispetto alle previsioni iniziali.
Abbiamo ritoccato il diritto di licenza sulle importazioni e so di sfiorare un punto delicato. Quando si sono concessi agli statali i noti aumenti si è chiesto al Ministro delle finanze di compiere qualche sforzo di fantasia per finanziare il nuovo onere di spesa. Gli sforzi hanno portato a due inasprimenti: uno sul settore delle importazioni; l’altro sul settore dei monopoli di cui parlerò più oltre.
Per quanto riguarda le importazioni, voi conoscete la coesistenza di dazi specifici con l’imposta di licenza, che è un vero dazio «ad valorem». Il dazio specifico è regolato dalla vecchia tariffa doganale del 1921, che oggi praticamente è inefficace agli effetti fiscali perché, – inizialmente stabilita in lire oro – è stata allineata soltanto con la moltiplicazione per 3,66, a seguito della legge monetaria del 1927: nulla più si è fatto, poi, neanche a seguito del nuovo allineamento monetario del 1936, e tanto meno si è proceduto ad ulteriori allineamenti nel dopoguerra.
Sicché, se noi oggi volessimo portare, in termini di lire attuali, le lire espresse da quella tabella, dovremmo moltiplicare forse per cinquanta la generalità dei dazi specifici contemplati nella tariffa doganale. Ciò, naturalmente, sarebbe molto seducente per il Ministro delle finanze il quale vedrebbe automaticamente moltiplicato per cinquanta l’attuale gettito di circa 600 milioni mensili dei dazi doganali.
Senonché, un problema di questo genere avrebbe significato ricostruire una barriera doganale che la svalutazione monetaria aveva abbattuto: ricostruirla in funzione fiscale, ma anche in funzione economica e cioè protezionista. E dato e non concesso che il grado di protezione adottato nel 1921 nei confronti dei diversi settori economici, effettivamente corrispondesse ad una esigenza di giustizia per i singoli settori, resterebbe pur sempre da dimostrare che dal 1921 ad oggi il grado di necessità di protezione dei diversi settori si sia mantenuto nello stesso rapporto.
Cosicché, si è rimasti perplessi dinanzi alla possibilità di un provvedimento di questo genere e si è ritenuto più opportuno, nel senso di errare di meno, procedere ad una revisione del diritto di licenza di importazione, che praticamente è stato moltiplicato per quattro, con un incremento di gettito di 30 miliardi.
So che il provvedimento ha gettato lo allarme in molti settori interessati e non escludo che con l’andar del tempo esso possa essere ripreso in esame in funzione di un primo adeguamento della tariffa doganale, quando abbiano avuto luogo tutte le più ampie discussioni, necessarie al riguardo. Affermo, però, che in tale attesa, è precisa intenzione dell’amministrazione finanziaria di attenuare gli inconvenienti che possono essere derivati dalla moltiplicazione per quattro del diritto di licenza. Si è portato dal cinque al dieci per cento l’aliquota, ma anziché applicarla sul dollaro a corso legale, si applicherà sul corso medio. Non escludo che nel frattempo si possa arrivare a temperamenti attraverso una migliore disciplina dell’istituto della temporanea importazione e del cosiddetto Draw-back, soprattutto per le categorie che esportano prodotti in cui debba entrare in larga misura la materia prima importata e sulla quale incida in misura insopportabile la quadruplicazione di questo diritto di licenza di importazione.
Onorevoli colleghi, so che non debbo abusare della vostra cortesia, so che la materia non è delle più divertenti, so che vi sono quindi molte ragioni perché il mio esame debba essere rapido, volendo conchiudere in settimana le nostre discussioni. Perciò rinuncio a molti argomenti. Ho accennato al problema dei monopoli e debbo qui rispondere ad alcune osservazioni che si fanno intorno alla loro gestione.
Si è protestato, in primo luogo, contro lo aumento dei prezzi andato in vigore, se non erro, col 27 luglio 1947. Ricordate come si presentava il problema, quale lo abbiamo visto in quest’Aula un mese fa, quasi preannunciando il provvedimento che sarebbe venuto? Noi ci trovavamo ad avere dei prezzi di vendita dei tabacchi che erano 24 volte quelli anteguerra, mentre pagavamo il tabacco (materia prima) 50 volte l’anteguerra; la mano d’opera era 35-36 volte superiore al livello prebellico: coi recenti aumenti siamo arrivati a 55 volte. Non era possibile continuare a vendere effettivamente sotto-costo il prodotto di monopolio ed è per questo che ci sembrò veramente necessario arrivare a un adeguamento che ha significato portare a 32, rispetto all’anteguerra, il livello dei prezzi. E può darsi che non sia neanche l’ultimo limite a cui si arriverà. (Commenti).
I fumatori forse hanno questa disgrazia che da qualche tempo si avvicendano ai Ministeri finanziari Ministri che non fumano. (Si ride).
Quando si spingono al massimo tutti i tributi, ed in una determinata circostanza occorre incrementare il gettito per una determinata cifra, come è successo allo scopo di finanziare l’aumento degli impiegati dello Stato, penso che un ritocco al prezzo a carico dei fumatori, che pagano notevolmente meno rispetto all’anteguerra, non sia davvero un delitto.
RUBILLI. Questo per concorrere alla discesa dei prezzi!
PELLA, Ministro delle finanze. No, il problema, onorevole collega, è molto più vasto. Il problema è questo: premesso che ai prezzi a cui si vendeva allora i monopoli erano industrialmente passivi, sorge l’interrogativo se convenga lasciare una azienda di Stato in condizioni di disavanzo, con le conseguenze rispetto al volume della circolazione che non sta a me illustrare, o se non convenga invece arrivare ad una ulteriore pressione per sanare il deficit. Questo è il problema in termini generali.
Il disavanzo di un’azienda statale quasi sempre è padre di un incremento di circolazione per conto dello Stato. La pressione fiscale non sempre costituisce causa di incremento di circolazione e se la costituisce quasi sempre è un incremento di circolazione per conto del commercio. Tale concetto è applicabile a tutte le aziende statali, compresa quella dei monopoli, la quale continuava a sanare il conto economico a spese dell’imposta erariale gravante sui generi di sua produzione.
Il settore dei monopoli ha avuto altre critiche: perché si vendono le sigarette a borsa nera? Perché non le vende lo Stato? Perché bisogna comprare le sigarette estere lungo le strade di Roma e di altre città italiane e non si possono comprare dal tabaccaio?
Domande molto ovvie, a cui però si possono dare risposte altrettanto ovvie. In primo luogo (e non si consideri spregiudicata la mia affermazione) il problema della borsa nera del tabacco è un problema di grande importanza sul piano morale, ma non ha altrettanta importanza sul punto di vista economico immediato.
Infatti, per un fenomeno che è consueto in tutti i periodi di guerra e del dopoguerra e che viene aiutato dal sistema delle tessere, l’aumento di consumo di tabacchi è stato del 30 per cento rispetto all’anteguerra. Oggi i monopoli (produzione di luglio 1947) producono e vendono il 10 per cento più dell’anteguerra nonostante le distruzioni di stabilimenti e di magazzini e delle scorte relative.
Vi è un venti per cento di squilibrio tra la domanda e l’offerta in cui si inserisce la borsa nera. Il problema non è grave oggi, dal punto di vista economico, ma lo diventerà domani quando, o per diminuito consumo, o per incremento certo della produzione, il monopolio sarà in grado di portare sul mercato un’offerta uguale alla domanda. Ed allora per un prodotto che almeno per due terzi (anzi, dovrebbe esserlo per i quattro quinti), che per quattro quinti è imposta e per un quinto (oggi è un terzo) è costo industriale, voi vedete quale largo margine vi sarà di concorrenza in quel giorno ai danni dello Stato, in funzione di vero e proprio contrabbando.
Per allora la borsa nera dovrà essere definitivamente stroncata ed è per questo che da alcune settimane, col concorso di altri Dicasteri, soprattutto quelli della Giustizia e dell’interno, sono allo studio provvedimenti per cominciare un’azione di repressione veramente efficace. (Commenti).
GIANNINI. Adesso sì che aumenta il prezzo!
PELLA, Ministro delle finanze. Se la lettura del verbale di così autorevole Assemblea potrà, fra le righe, far capire al Ministro delle finanze che vi può essere una sfumatura di desiderio in qualche altra direzione, se questo dovesse succedere, può darsi che il grado di diligenza nell’attuazione del provvedimento possa anche essere in funzione di tale desiderio.
Ma, onorevoli colleghi, il problema della borsa nera è soltanto del nostro settore? Siamo proprio sicuri che vi siano dei settori economici in Italia in cui il problema della borsa nera si presenti con un ordine di grandezza inferiore al 20 per cento? Questa è la domanda che vi faccio. Per quanto riguarda il problema delle sigarette estere, il collega Merzagora sa che da un anno i Monopoli bussano alla porta del suo Dicastero. È un desiderio comune dei fumatori e del Monopolio di poter adottare formule di importazione e di vendita di sigarette estere. Il problema è di ordine valutario, direttamente o indirettamente, e non può che essere risolto in funzione delle possibilità valutarie. Potrei ancora attardarmi su altri settori della finanza ordinaria. Non lo faccio perché non posso esimermi, in questo scorcio di tempo che mi resta a disposizione, di fare alcuni accenni alla finanza straordinaria: settore in cui troviamo vecchi tributi, tipo l’avocazione dei profitti di guerra, l’avocazione dei profitti di speculazione e di regime, accanto a nuovi tributi, come quelli contemplati dal decreto 29 marzo 1947 – da voi esaminato e da voi perfezionato – cioè l’imposta progressiva straordinaria sul patrimonio, l’imposta proporzionale 4 per cento, l’imposta sugli enti collettivi.
Per quanto riguarda l’avocazione dei profitti di guerra, l’avocazione dei profitti di regime e di speculazione, io devo ancora una volta ripetere che è grande peccato che l’amministrazione finanziaria non abbia potuto nel passato, con la necessaria tempestività, arrivare alla loro applicazione sollecita. Oggi ci troviamo in enorme ritardo; oggi dobbiamo risolvere questi problemi soprattutto in funzione del tempo, in quanto ogni mese che passa rende più difficile il raggiungimento di concreti risultati. Abbiamo adottato in sede legislativa dei perfezionamenti; forse altri ne adotteremo in prosieguo di tempo. Nessuna intenzione ci guida di vessare determinate categorie di contribuenti, ma solo l’intenzione precisa di compiere serenamente giustizia con spirito di benevolenza nei confronti dei minori interessati. Ma soprattutto non si ritenga che l’involontario ritardo nell’applicazione possa significare archiviazione di questi tributi.
Per quanto riguarda l’imposta progressiva sul patrimonio, gli uffici si stanno attrezzando per la sua applicazione. Il termine per la presentazione delle dichiarazioni è stato portato al 31 ottobre e ritengo che veramente non debba parlarsi di altre proroghe.
Per questo tributo, veramente straordinario, io voglio soltanto formulare un augurio ed è che il Ministro delle finanze del tempo in cui il tributo sarà riscosso possa veramente iniziare la riscossione in un quadro di stabilità monetaria: perché, se così non fosse, noi avremmo finito per compromettere inutilmente uno degli strumenti più efficaci della finanza straordinaria.
Per quanto riguarda la proporzionale 4 per cento, onorevoli colleghi, quante discussioni sono state fatte! Io avrei sperato, veramente, in una maggiore solidarietà ed onestà, in termini politici, attorno a tale imposta, la quale era nata nella notte dal 28 al 29 marzo 1947, col consenso unanime e colla firma dei Ministri del tripartito allora al potere. Posso dire che la riscossione procede felicemente, senza inconvenienti; ma quello cui io volevo accennare e che forse costituirà una rivelazione per l’Assemblea, sono gli effetti che la riscossione ha avuto in senso favorevole sulla circolazione per conto dello Stato.
Il Ministro del bilancio e il Ministro del tesoro forniranno certamente degli ampi dati sul problema della circolazione; io voglio limitarmi a ricordare che nei mesi di marzo, di aprile, di maggio, vi era stato un incremento di circolazione per conto dello Stato di un ordine di grandezza che andava dai 12 ai 15 miliardi: nel mese di giugno invece – primo mese di riscossione di questa imposta 4 per cento – la circolazione non è aumentata, per conto dello Stato, se non nella misura della cifra insignificante di 500 milioni. Nel mese di agosto – mese in cui ha avuto luogo la riscossione della seconda rata – non soltanto la circolazione per conto della Stato non è aumentata, ma è diminuita di ben 4 miliardi.
Questa, onorevoli colleghi, è l’importanza che ha assunto questo tributo, il quale ha dato un efficacissimo contributo, come abbiamo visto dalle cifre, a frenare l’aumento della circolazione per conto dello Stato, che costituisce una delle maggiori preoccupazioni.
L’Amministrazione dello Stato si fa carico di andare incontro a tutte le esigenze dei piccoli e dei medi contribuenti; ma non vorrei che si esagerasse nel prospettare le dimensioni del fenomeno. Ricordiamoci – sono cifre che già si conoscono, ma ripetiamole – che su 10 milioni di articoli di ruolo dell’imposta terreni, 8 milioni 600 mila non hanno niente a che vedere coll’imposta 4 per cento, in quanto essi si trovano tutti al di sotto di quel limite delle 100 mila lire che, per essere espresso in termini di lire anteguerra, moltiplicate soltanto per dieci, significa oggi certamente molto di più di 100 mila lire. Quindi, soltanto un 15 per cento degli articoli di ruolo si trova ad essere interessato a questa imposta.
Inoltre, fino a 750 mila lire di imponibile vi è quella rateazione triennale, che praticamente, intesi i patrimoni in termini di valore attuale, può significare rateazione fino a due milioni-due milioni 500 mila di valore attuale.
Se vi sono state delle revisioni intermedie in aumento, per cui la moltiplicazione per dieci o la moltiplicazione per cinque abbiano significato una palese sperequazione, voi lo sapete che sono già state date disposizioni al riguardo per i terreni e per i fabbricati allo scopo di eliminare le sperequazioni stesse. Prossimamente sarà presentato un provvedimento che concederà a tutti i titolari di redditi di categoria B) di chiedere la loro revisione in diminuzione, ai fini del 4 per cento, entro il 31 dicembre di quest’anno, allo scopo di eliminare gli effetti delle accennate revisioni intermedie e sempre quando esse non siano state determinate da aumentate dimensioni dell’azienda.
Per quanto riguarda l’imposta sugli enti collettivi, ormai non ho più bisogno di ripetervi che davanti al problema di applicare un tributo addizionale sul settore delle società azionarie, io avrei considerato più equo e più corretto, da un punto di vista di giustizia tributaria, tassare quella parte dei saldi di rivalutazione dell’attivo che rappresentano un vero incremento patrimoniale; ad esclusione, cioè, dei saldi che sono semplice contropartita della rivalutazione del capitale e delle riserve.
L’Assemblea, nella sua sovranità, ha adottato la formula del tributo globale sul patrimonio dell’ente, e con questo – ed è la dichiarazione che desidero fare a nome del Governo – è certamente sepolto il problema della tassazione delle rivalutazioni dal punto di vista fiscale: poiché costituirebbe una evidente duplicazione riproporre il problema in termini fiscali.
Dinanzi al suggerimento dell’onorevole Valiani di arrivare ad una rivalutazione degli impianti, egli parlava addirittura di un coefficiente 25, io vorrei, fra i due estremi, della formale ampia proposta dell’onorevole Valiani e del diniego assoluto – così mi sembra avere inteso – dell’eminente collega Merzagora, affermare che esiste ancora un problema delle rivalutazioni sotto un profilo di politica del tesoro e sotto un profilo di maggiore sincerità dei bilanci. Di tale problema il Governo deve farsi carico, e non è escluso che esso possa essere esaminato in funzione di una opportuna mobilitazione anticipata dell’imposta sugli enti collettivi, con criterio facoltativo, allo scopo di accogliere, se possibile, le istanze dei colleghi dei lavori pubblici e dell’agricoltura, che stanno bussando per un complesso di loro opere che, alla vigilia dell’inverno, desiderano mettere in cantiere.
Qualsiasi maggiore dettaglio, voi comprendete, su questo argomento non sarebbe oggi possibile.
Arrivati a questo punto, debbo ancora ricordare che esiste un problema della finanza locale, il quale sta diventando nuovamente scottante.
Esisteva un fondo di integrazione, e questa è materia del Tesoro, che col 31 dicembre di quest’anno deve avere termine.
I bilanci dei comuni e delle provincie devono trovare il loro assestamento con mezzi propri: concetto che non può essere rifiutato, perché non c’è ragione che un comune delle Alpi debba pagare per un comune della Sicilia, o viceversa un comune della Sicilia per quello delle Alpi.
È compito dei singoli amministratori preposti alla amministrazione di un comune o di una provincia di assumersi la responsabilità del punto limite di equilibrio fra programma di spese e programma di pressione fiscale, rispondendone direttamente agli amministrati.
Voci dall’estrema sinistra. E i mezzi?
PELEA, Ministro delle finanze. Proprio in questi giorni il Ministro delle finanze ha tenuto – con i sindaci delle maggiori città – riunioni che si concluderanno tra breve per fornire gli strumenti idonei ai comuni perché possano – qualora lo ritengano – applicare i tributi necessari per raggiungere il pareggio del proprio bilancio. (Commenti).
Cioè, il potere centrale deve dare gli strumenti: spetta agli amministratori locali decidere se applicarli o meno. (Commenti).
Ora io ritengo che debba la finanza locale avocare a sé determinate categorie di tributi, che malamente possono essere applicate dall’Amministrazione centrale.
Tutta la tassazione dei consumi voluttuari, a mio modesto avviso, potrebbe essere, molto più opportunamente, demandata agli enti locali, sia per la relatività di consumo voluttuario da regione a regione anche in termini di limiti di spese, sia per il più efficace controllo che l’ente locale può esercitare.
So però – e questo hanno detto a chiare note principalmente gli amministratori dei grandi comuni – che non v’è molta fiducia nell’esito di questi tributi.
Io non condivido questo pessimismo. L’imposta sulle spese non necessarie è uno strumento che non è detto non possa essere applicato con revisioni magari radicali.
Io vorrei fosse qui presente il sindaco della mia città, l’onorevole Luisetti, per dargli atto che in una piccola città di 42 mila abitanti si sono notificati circa 200 accertamenti, mentre in grandi città se ne sono fatti da 10 a 15.
Non nego che sia più facile l’accertamento in piccoli centri piuttosto che in grandi centri. Però la difficoltà non esime dall’obbligo di cercare i mezzi per superarla.
O il sistema – e questo è il problema che sarà dibattuto nella prossima riunione – è di possibile applicazione attraverso determinati perfezionamenti, ed allora perfezioniamolo ed applichiamolo, oppure aboliamo la legge.
Una voce a sinistra. È un inutile duplicato dell’imposta di famiglia. Un inutile e dannoso duplicato.
PELLA, Ministro delle finanze. Dovremmo dimenticare allora quel concetto di progressività che non si esprime soltanto nella forma elementare di una tabella di imposte con aliquote progressive, ma che si può esprimere anche con la coesistenza di due tributi, uno principale e l’altro collaterale.
E d’altra parte, l’imposta sulle spese non necessarie è un’imposta tipica che non vuole colpire tutto il reddito, come l’imposta di famiglia, ma che vuole colpire quella parte di reddito consumato (mentre l’imposta di famiglia colpisce consumato e risparmiato) che eccede il limite normale di consumo. Questo è il concetto.
Per quanto riguarda l’incidenza della finanza locale, ricordo che nel 1946 l’ammontare dei tributi comunali è stato di 29 miliardi, contro 4 miliardi e mezzo del 1939. Quindi si ha la sensazione che la pressione della finanza locale si esprima in termini notevolmente minori di quelli della finanza erariale.
Per quanto riguarda le provincie, da un miliardo del 1939 siamo passati a 3 miliardi e 700 milioni.
Vi è un tarlo roditore (in termini fiscali) della finanza locale ed è l’impossibilità di far rendere la sovrimposta fabbricati a seguito del blocco dei fitti. Questo è veramente uno degli aspetti fondamentali del problema, problema di natura eminentemente transitoria e che suggerirà quindi di dare carattere transitorio ad alcune delle provvidenze che saranno studiate in questi giorni per arrivare ad una sistemazione del bilancio delle entrate locali.
Onorevoli colleghi, dall’ulteriore corso della discussione io potrei attendermi da voi un’osservazione d’ordine generale: «ma tutto questo significa camminare sui vecchi solchi della finanza, tutto questo ha significato non affrontare quel problema generale della riforma del sistema tributario che pure è richiesto da anni e da studiosi e da tecnici».
L’osservazione sarebbe esatta principalmente se dovesse rivolgersi al futuro, nell’ipotesi che il Governo non si facesse carico di un problema di questo genere. Per il passato ritengo che sarebbe stato un errore arrivare ad una riforma strutturale del sistema che incidesse troppo profondamente. Qualsiasi riforma del sistema tributario significa un rischio in ordine al gettito totale. Tali riforme si fanno o quando il gettito è quasi nullo (quindi, in ipotesi, nel 1944-45, ma evidentemente non le si poteva affrontare), oppure occorre attendere che i vecchi sistemi diano, in termini di gettito, quel limite massimo a cui si può arrivare; cosicché, adottando le cautele necessarie, perché nel frattempo il gestito non si affievolisca, impostare il problema della riforma generale. Ed è proprio questo che il Ministro delle finanze sta facendo attraverso la nomina di una apposita Commissione, la quale dovrà studiare il problema della riforma, sia in funzione di quel principio di progressività proclamato dalla Costituzione, sia in funzione del nuovo ordinamento regionale che naturalmente avrà delle incidenze profonde su tutto il sistema.
MICHELI. E allora il collega Merzagora cosa dice?
PELLA, Ministro delle finanze. Nel frattempo, onorevoli colleghi, l’amministrazione finanziaria si propone di affinare i suoi strumenti, di migliorare i mezzi di cui dispone, perché il gettito di 650 miliardi di tributi ordinari progressivamente migliori. Ho, però, la sensazione che l’incremento dipenderà soprattutto dal naturale incremento della ripresa economica, cioè dal passaggio dall’accennato indice 70 per cento ad un indice prossimo al 100 per cento: cosicché il gettito dei tributi ordinari potrà avviarsi verso il traguardo dei mille miliardi. La finanza farà tutti gli sforzi necessari: credo che i risultati conseguiti finora possano dare sufficiente affidamento per il futuro.
Onorevoli colleghi, se nelle notizie che vi ho comunicato vi può essere motivo di compiacimento, la nostra gratitudine deve essere rivolta in due direzioni: verso il contribuente e verso i funzionari dell’Amministrazione. L’Amministrazione finanziaria ha saputo resistere ai diversi cicloni che si sono abbattuti; ha saputo, attraverso privazioni di ogni genere dei funzionari dai gradi più alti ai minori, dare una collaborazione di cui oggi vediamo i frutti concreti.
A questi funzionari io sono in dovere di rivolgere – e penso anche a nome vostro – il mio riconoscente ringraziamento. (Applausi al centro ed a destra – Molte congratulazioni).
PRESIDENTE. È iscritto a parlare l’onorevole Giannini. Ne ha facoltà.
GIANNINI. Signor Presidente, onorevoli colleghi, questo dibattito presenta un equivoco iniziale, perché è fondato su alcune mozioni di sfiducia che sono state presentate da chi non aveva precedentemente fiducia, e anzi aveva precedentemente dichiarato la sua sfiducia al Governo.
Molto più interessante sarebbe stato forse, se si fosse chiesto a chi aveva avuto fiducia se questa fiducia ha ancora, se ce l’ha piena o condizionata, se per caso l’avesse perduta del tutto.
Un altro elemento disorientante è che fino adesso noi non abbiamo ancora avuto un vero e proprio discorso d’opposizione.
Il solo vero discorso di opposizione fino a oggi ci è sembrato quello del ministro Merzagora.(Si ride), al quale facciamo le nostre congratulazioni per il suo felice debutto oratorio in questa Assemblea.
Gli altri si sono lagnati di cose varie. L’onorevole Nenni vorrebbe il monopolio dei cambi, e colpire i redditi al di sopra di un livello alimentare. Ha detto, tra l’altro, una frase qualunquista (Si ride). Per respingere l’accusa di voler andare al governo a scopo elettorale, ha detto che il Governo non può influire sulle elezioni, oggi, con il suffragio universale e con il voto alle donne. Questa è un’idea nostra, espressa dentro e fuori l’Aula, e ringraziamo l’onorevole Nenni per il prezioso riconoscimento d’una situazione di fatto su cui anche noi fondiamo le nostre migliori fortune.
Egli ha proposto anche un’altra cosa importantissima, fondamentale, di cui però mi occuperò in seguito. Comunque la conclusione del suo discorso, in sostanza, è stata questa: Alcide, riprendimi con te! (Viva ilarità).
L’onorevole Togliatti non ci ha meno sorpresi. Egli si è indispettito perché gli disturbano l’affissione dei manifesti. Si potrebbe dire, con una freddura molto elementare, che non è giustificato un attacco per degli attacchini. (Si ride). Ci sembra poco. L’onorevole Togliatti se l’è presa anche con un certo articolo 290, ed ha sciolto un inno alla libertà. Siamo veramente lieti di aver convertito alla libertà un così eminente collega e, se egli è realmente convinto di ciò che dice, la libertà, tra lui, noi e l’onorevole Corbino, non correrà più nessun pericolo. (Si ride). È inutile rilevare, tra l’altro, che il suo felicissimo dire è ordinaria amministrazione. La disavventura dell’onorevole Pratolongo è la disavventura del nostro onorevole Mastrojanni. «Il bene – si dice al mio paese – spesso al male si assomiglia, e chi va per questi mari, questi pesci piglia».
Il Ministro degli interni – s’è lagnato l’onorevole Togliatti – mi dà del fascista. Beh, capita a tutti! Egli si lagna poi dei disordini di Gorizia. Deploro che il Ministro degli interni non gli abbia detto, a proposito di questi disordini, che molti di coloro che sono andati, diciamo così, a disordinare contro gli slavi, erano buoni comunisti: ci sono andati con bandiere rosse, con le mani che prudevano, perché erano sì, comunisti, ma prima d’essere comunisti erano goriziani. (Approvazioni). Non capisco perché il Ministro Scelba non abbia fornito all’onorevole Togliatti questa preziosa informazione.
Egli vuole – Santo Cielo, anche lei onorevole Togliatti! – una legge in difesa della Repubblica ma, subito dopo averla chiesta, riconosce che il Governo finisce sempre per fare quello che vuole. Ed allora che bisogno c’è di fare questa legge? Comunque, anche il ruggibondo parlare dell’onorevole Togliatti, si conclude con la richiesta d’un posticino. «Anch’io son figlio di Dio». (Si ride).
Saragat. Anche lui non ha fiducia, e almeno formalmente anche lui non l’ha mai avuta. Vuole un governo a direzione socialista, però è contro i comunisti, dimenticando che il comunismo è la quintessenza del socialismo. Ora, noi respingiamo il socialismo che secondo noi è errore, ma crediamo che più grave errore sia quello di voler fare del socialismo senza i socialisti. La realizzazione del socialismo senza la disciplina sociale prevista dal comunismo è impossibile. Si può realizzare quel socialismo americano di cui parlava l’onorevole Labriola: ma quello non è socialismo, è il nostro liberalismo progredito, ossia è la borghesia che s’è messa a ridisperdere il suo danaro fra le masse. È tutt’altra cosa. Comunque, anche Saragat vuole andare al Governo, e quando l’onorevole Togliatti gli oppone che egli non ha seguito, Saragat risponde: il seguito verrà. Il meno che gli si possa dire è di aspettare che venga (Si ride), perché non è mica detto che debba venire.
Il giovane e valente collega Valiani ci ha dato qualche vocabolo qualunquista, che ci ha abbastanza entusiasmati, ma non ha fatto però il discorso che ci aspettavamo, dopo la premessa di quei vocaboli. A un certo punto ha detto: «Credo che basti una dichiarazione di neutralità per evitarci i guai in un prossimo conflitto». Ha soggiunto che vuol tenere le porte aperte (ho inteso precisamente «porte aperte») verso gli Stati Uniti e verso la Russia. Mio caro Valiani, oggi porte non ce ne sono più. È inutile pensare a tenerle aperte o chiuse quando c’è l’aeroplano senza pilota che parte da un ufficio postale americano o russo e arriva come un pacco postale direttamente davanti al portone di casa sua (Si ride). Ha voglia di chiuderlo, il suo portone!
In ogni modo, nemmeno Valiani sembra volere la morte del Governo presieduto dall’onorevole De Gasperi. Il suo è stato un discorso di consigli e non di opposizione vera e propria.
Corbino. Corbino ha incominciato col dichiarare che i liberali voteranno a favore del Governo, con che l’opposizione è bella e finita e non se ne parla più. Ho avuto l’impressione, ieri, che avessero cambiato il mio vecchio Corbino e che lo avessero sostituito, lui a cui voglio tanto bene, con un Corbino un po’ falso, un po’ demagogo, nemico del lusso e delle spese voluttuarie, sostenitore di quell’austerità di cui per tanti anni abbiamo avuto stufa la cicoria da un regime che non era affatto austero, come tanti predicatori, d’austerità. Francamente, ci stupisce un Corbino che biasima il lusso, il quale dà vita alle industrie di lusso, e pane a milioni di lavoratori.
Una voce a sinistra. Vecchia storia!
GIANNINI. Mi dispiace di vedere Corbino contrario ai 350 mila romani, sia pure proletari, che sono andati a tuffare la loro arroventata anatomia nel Tirreno durante questa estate. Quei proletari, caro Corbino, hanno dato vita alla ferrovia Roma-Ostia, hanno dato pane a Ostia, hanno permesso che funzionassero le trattorie di Ostia, i bagnini ed i bagni di Ostia, e fatto vivere tutti coloro che guadagnano con Ostia. Per qual ragione non vuoi che questi 350 mila proletari o gran signori che siano, vadano ad Ostia? Lasciamo che si bagnino, lasciamo che si divertano, lasciamo che vivano, perché la vita è movimento. La vita vera non può essere austerità, né conventuale, né militare; quelle sono altre vite, a parte; sono oasi nella vita ordinaria.
Lussu. Devo innanzi tutto ringraziare questo leale avversario e prendere atto con commozione del suo elegante e generoso senso di cavalleria. Egli ha toccato l’argomento pacificazione sul quale non siamo d’accordo, e spiegherò perché non siamo d’accordo.
L’ottimo collega Scoccimarro ha fatto un discorso tecnico, uno di quei bellissimi discorsi tecnici che si stanno a sentire volentieri, che forse non si capiscono interamente perché non tutti siamo tecnici, ma si ascoltano e si meditano: e si rileggono per capirli meglio.
A questo punto del dibattito ci troviamo nella curiosa situazione che, se un discorso di opposizione non è fatto almeno da noi, il dibattito non avrà discorsi d’opposizione, e l’onorevole Presidente del Consiglio vincerà per capitolazione incondizionata degli oppositori.
Su che cosa si fonda questa nostra opposizione? Sul Governo? Sì, ma fino a un certo punto.
Potremmo lagnarci del Ministro dell’interno? Certamente no. Appunto perché se ne lagnano Nenni e Togliatti.
Dobbiamo anzi lodarci di questo Ministro, al quale non possiamo rimproverare altro che la gola nella quale la sua voce qualche volta si sperde e gorgoglia come un vortice.
Possiamo lagnarci dei tecnici Merzagora, Corbellini, uomini qualunque? Fanno quello che possono.
Se potessi ardire una citazione volterriana in questo ambiente democristiano, senza offendere la suscettibilità, direi che sono i migliori tecnici nel miglior Ministero democristiano possibile.
Ugualmente potremmo dire degli altri Ministri singolarmente considerati, dall’onorevole De Gasperi che fa il suo mestiere di tirare avanti, all’onorevole Grassi che cerca di uscire dal rotto della cuffia dei suoi imbarazzi, tra una Magistratura che vuol essere Magistratura e altri che vorrebbero trasformarla in Tribunale di parte. (Applausi a destra). Senonché è nello spirito che anima questo Governo che il Governo non ci piace. Esso ci appare incerto, esitante, brancola fra destra e sinistra; e non come l’equilibrista che bene o male brancolando avanza, ma come il giocoliere che s’è fermato al centro della catenaria. L’ingegnere Corbellini mi corregga. La catenaria è quella che forma la corda sospesa a due poli: la curva che il suo peso istesso traccia: l’acrobata arriva facilmente al centro discendendo, poi deve risalire, e lì incomincia la difficoltà. Mi sembra che questo Governo si sia proprio fermato al centro della catenaria.
Da dove promana questo spirito che rende imbarazzata e imbarazzante l’azione di Governo? Dal suo Partito, onorevole Presidente dei Consiglio, dal suo Partito, il quale ripete il mito dell’asino di Buridano, con questa sola differenza: che quell’asino morì di fame fra due fasci di fieno non sapendo su quale dei due avventarsi per primo, mentre l’asino moderno sembra aver tutta l’intenzione di mangiarli tutti e due, a destra e a sinistra (Si ride). È da ciò che nascono l’imbarazzo e la preoccupazione.
Noi non siamo contro la Democrazia cristiana; noi l’abbiamo aiutata sempre e non ne abbiamo avuto, in cambio, che colpi, ingiurie e, il più delle volte, qualche cosa di peggio: della degnazione.
Mi limito a ricordare un discorso, del resto confermato da un recente articolo, dell’onorevole Cappi, che, in occasione del nostro incidente di Cremona – risoltosi poi con quel Congresso tenuto nel massimo ordine e senza nessun disturbo da parte di nessun Partito – ebbe l’aria di raccoglierci con il fazzoletto, come un oggetto che fosse necessario raccattare, ma che era sporco, maculato.
Questa curiosa maniera di considerarci della Democrazia cristiana ha segnato una punta veramente drammatica in quella che si può chiamare la polemica per le elezioni amministrative di Roma, capitale, d’Italia, ma anche sede del Papato.
Non credo che sia utile né necessario diffondermi sul significato delle elezioni amministrative di Roma. Esse hanno sempre un profondo significato politico e, in questa occasione, lo hanno ancora di più. Noi abbiamo fatto le elezioni di Roma, nelle quali abbiamo avuto la disgrazia di battere, di qualche corta testa, la Democrazia cristiana. Sono cose che capitano; si può vincere con cento punti come con novanta: non bisogna irritarsene. Il certo è che noi, per quel peccato, non abbiamo potuto costituire, come sarebbe stato possibile, l’amministrazione comunale di Roma. La Democrazia cristiana, pur di non compromettersi, pur d’evitare fastidi, pur di non aver guai, pur di non sporcarsi con il sozzo qualunquismo, ha preferito mandare all’aria l’amministrazione regolare di Roma e far venire un Commissario prefettizio.
Abbiamo invitato in seguito, e pubblicamente, visti vani tutti gli altri tentativi, la Democrazia cristiana, a voler prendere in considerazione una nostra proposta o a farcene una sulle elezioni amministrative di Roma, che noi vogliamo siano vinte da un partito cattolico, dai cattolici, per ragioni che non starò qui a spiegare di più, non essendo il caso di fare della demagogia sul cattolicesimo.
Non è stato possibile, non dico fare accettare una proposta, ma avviare una discussione.
Leggemmo un articolo dell’onorevole Piccioni nel quale ci si parlava di liste bloccate e si insisteva sul pericolo che le liste bloccate possono presentare per i partiti che si fondono. Noi rispondemmo con un altro articolo nel quale affermavamo che non era il caso di parlare di liste bloccate; che non avevamo inteso parlare di liste bloccate; che intendevamo soltanto prendere contatto con la Democrazia cristiana per tentare di dare a Roma un’amministrazione come noi la vogliamo, cioè cattolica.
Nella tema che questo articolo avesse potuto per avventura sfuggire alla Direzione della Democrazia cristiana, pregammo l’onorevole Tieri, segretario generale del nostro partito, di scrivere una lettera ufficiale alla Democrazia cristiana, ripetendo l’invito a trattare: ciò che il nostro amico Tieri subito fece. Ma la Democrazia cristiana non credette d’onorarlo d’una risposta; e questo, consentitemi, onorevoli colleghi, ch’io lo dica francamente, è oltretutto una mancanza di riguardo. (Commenti al centro).
Ci si è detto: ma voi potete fare anche un accordo dopo le elezioni. Perché dopo? A elezioni fatte, a risultati raggiunti, non è detto che l’accordo si debba farlo obbligatoriamente con i democristiani. Aspettiamo di conoscere come andranno le elezioni, e «dopo» ci regoleremo in conseguenza: non c’è più ormai alcuna ragione per impegnarci in anticipo; come non c’è alcuna ragione d’impegnarci sempre a dare e non mai a ricevere.
C’è una leggenda intorno alla mia stampa ed è quella delle mie famose parolacce, le quali parolacce hanno urtato tante suscettibilità, ma hanno avuto pure qualche risultato concreto. Ma la stampa della Democrazia cristiana – che non dice parolacce – ci accusa però – e faccio il preciso nome del giornale: il Gazzettino di Venezia – ci accusa, dicevo, di aver votato nelle commissioni a favore del divorzio.
Questa accusa mossa dal Gazzettino di Venezia ha dato poi la stura alla sua ripetizione pedissequa da parte di tutti i bollettini parrocchiali del Veneto. Si è sparsa questa calunnia come un grande Papa diceva che si sparge il contenuto d’un cuscino di piume: per riparare al male che fa bisognerebbe recuperare tutte le piume a una a una. Ho dovuto allora pregare l’onorevole Russo Perez, l’onorevole Mastrojanni di riprendere i verbali delle commissioni e scrivere una smentita formale in base a quei documenti.
Ma ho dovuto poi incomodare un onesto sacerdote, padre Martegani, il quale cortesemente m’ha accontentato dopo aver preso visione dei miei documenti, e ha pubblicato sulla sua autorevole rivista Civiltà Cattolica, una smentita.
Io so che mi si dirà che il Gazzettino di Venezia non è della Democrazia cristiana.
Una voce a sinistra. Sì, sì, lo è, lo è!
GIANNINI. Spero che non si insista su questo, perché sono troppo buon giornalista per non sentire a fiuto di chi sono i giornali. Onorevoli colleghi, ci sono poi cose che veramente m’infastidiscono a dire, ma che pure bisogna ch’io dica, perché io ho un Partito dietro di me, e ho quindi degli obblighi. Sono stato accusato, in ambienti democristiani della Calabria nientemeno che di questo: se sarò sindaco a Roma – il che non sarò mai – istituirò molte case di tolleranza perché i turisti che vengono a Roma in pellegrinaggio possano trovare il sollazzo che desiderano nella Capitale. (Si ride – Commenti).
Una voce al centro. Chi ha detto questo?
GIANNINI. Chi l’ha detto? Caro collega, se lei dubita di me, e suppone sia una mia spiritosa invenzione, la prego di rivolgersi a un nobilissimo e illustre sacerdote, dal quale molti presenti in questa Assemblea hanno avuto ospitalità, mangiato la minestra e condiviso i pericoli, e gli domandi se è vero ch’egli ha dovuto smentire questa diceria, e smentirla autorevolmente, perché conoscendomi bene sa che non sono queste le industrie che preferisco. (Commenti).
C’è un esclusivismo della Democrazia cristiana. Non si deve fare nulla di buono in Italia che non promani da questo Partito. Vi darò un esempio. Abbiamo fatto una Commissione parlamentare napoletana presieduta dall’onorevole Porzio. Fui incaricato di studiare il problema della Mostra d’Oltremare, la quale fu fatta dal fascismo, ma era una gran bella cosa; ed è un peccato che sia stata distrutta. Si è parlato della utilizzazione di quella Mostra, utilizzazione alla quale mancava innanzi tutto un’idea – perché il danaro si trova sulle idee: almeno io lo so trovare sull’idea.
Ebbi questa idea: esaltiamo il 1848 napoletano, esaltiamo il 15 maggio napoletano, giornata in cui fu combattuta la più bella battaglia per la libertà italiana; creiamo, in questa Mostra d’Oltremare del fascismo, la Mostra internazionale della libertà; facciamo convergere in essa tutto quanto riguarda e illustra la libertà di tutti i Paesi e a consacrazione dell’eroismo napoletano del 15 maggio 1848, celebriamone il centenario. M’impegno io a scrivere e a montare tutto quello che ci vuole – e voi sapete che se voglio fare l’agente di pubblicità, lo so fare – per interessare tutto il mondo a questa Mostra. Riusciremo a risuscitarla.
Ma di questo non s’è potuto parlare pubblicamente, perché nella nostra Commissione di deputati napoletani, i deputati democristiani hanno preteso che non se ne parlasse. Perché non se ne dovesse parlare, non si sa. Mi sono impegnato a non parlarne sui giornali e non ne ho parlato: ma poiché non mi sono impegnato a non parlarne in Assemblea ne parlo in Assemblea, senza mancare alla mia parola.
Ci sono state e ci sono continuamente nella Democrazia cristiana queste preoccupazioni d’umiliarci in tutti i modi.
Si è tenuto un Convegno internazionale a Gstaad, dove, in seguito alla mia campagna per gli Stati Uniti d’Europa, ero stato elencato come quinto oratore, immediatamente dopo Paul Reynaud. Praticamente ero il secondo, perché il primo oratore era il Presidente dell’Assemblea, Léon Maccas, il secondo il Segretario generale, Coudenhove Kalergi, il terzo un membro del Consiglio federale svizzero che dava il benvenuto ai congressisti. Praticamente Paul Reynaud parlava per primo: io seguivo Paul Reynaud. Nossignori! Ciò non è stato possibile. Ho dovuto diventare undicesimo, perché si è dovuto distinguere, si è dovuto fare una questione di partito anche là. Conclusione: il nostro Paese, che indegnamente e per la mia modesta figura, aveva il quinto posto ha finito per avere il decimo. Ha parlato l’onorevole democristiano Giacchero, e poi io: e prima di noi, in seguito a quel pettegolezzo, altri sei oratori europei.
Oggi sulla cattolicità, che per noi è un sentimento e non un affare, nasce un’altra polemica, condotta dal Quotidiano, e alla quale deve rispondere, brillantemente ma anche con infinita pazienza, il collega onorevole Tieri. Io, che sono un polemista, non gli invidio questa polemica, appunto per le prove di pazienza ch’egli deve dare, per le tortuosità nelle quali egli si deve infilare, perché in sostanza si tratta dell’ennesimo tentativo d’identificarci come quinta colonna del Partito comunista e così danneggiarci elettoralmente. (Si ride – Commenti).
Ora io ho detto, e confermo, che quando il Partito comunista pretende una più equa giustizia sociale, un più diffuso e più giustamente distribuito benessere, quando pretende l’elevazione degli umili, nessuno di noi è contrario al Partito comunista.
Ciò non vuol dire che non ci siano differenze. È chiaro che se, oltre a queste identità, il Partito comunista si dichiarasse cattolico, si permeasse di spiritualità cattolica, diventasse un partito nazionale, si liberasse da certe appendici che a noi non piacciono, non ci sarebbe bisogno di fare due partiti, e a me non resterebbe che offrire la presidenza del comun-qualunquismo all’onorevole Togliatti e liberarmi dalla scocciatura di dirigere un partito.
È logico che se fra due partiti vi sono tre addentellati, su questi tre addentellati si cerchi di collaborare.
Poiché ho già avuto una polemica su questo argomento, con un avversario più aspro, ma certamente più sincero, non invidio all’onorevole Tieri la sua ingrata fatica.
Si direbbe insomma che questo grande Partito sia talmente preoccupato di noi da volerci sbarrare il cammino in ogni modo. Per esempio, è venuta fuori, a proposito di questa che non è ancora una crisi, onorevole signor Presidente del Consiglio, è venuta fuori una pregiudiziale, non so da chi messa in giro (ma le pregiudiziali più o meno si sa bene a quali sorgenti attingano) che bisogna fare un Governo dichiaratamente repubblicano, un Governo dichiaratamente democratico.
Onorevoli colleghi, la nostra corrente è agnostica. Credo che nessuno mi possa dare del monarchico. Ma non mi dichiaro repubblicano, perché il mio partito è un partito agnostico. Come tale s’è impegnato coi suoi elettori, come tale ha vinto la sua battaglia elettorale: non può mutare bandiera, non può cambiare. Dobbiamo forse pensare che per questo nostro agnosticismo siamo sospetti alla Repubblica molto di più di quanto non possano essere le compagini valenti della Democrazia cristiana, nella quale non c’è nemmeno un monarchico? O dobbiamo cercare i monarchici della Democrazia cristiana e denunciarli sulla colonna infame?
In materia di democraticità. Abbiamo tenuto un Congresso, onorato da visitatori che ringraziamo ancora, e ai quali speriamo ci sarà concesso di ricambiare la visita (Commenti), un Congresso nel quale è stata eletta non una direzione del Partito soltanto, onorevoli colleghi, ma un Parlamento del Partito, un parlamentino, con facoltà di discutere e di rovesciare il Governo del partito ogni tre mesi, cioè ogni volta che si aduna. Non c’è nessun partito politico europeo che si trovi in queste condizioni. Quindi, a chi ci parla di democraticità, noi oggi siamo in grado di dire: noi vi abbiamo mostrato le nostre carte, mostrateci le vostre e vediamo chi è più democratico.
Tutto ciò mi fa pensare che la Democrazia cristiana è scontenta che noi siamo cattolici. Forse se fossimo scintoisti ci amerebbe di più. C’è la storia della questione sociale cristiana. Essi «differiscono». Differiscono da noi in che cosa? C’è un mezzo cristiano per risolvere la questione sociale? Io non ne conosco che uno: il Vangelo, e nel Vangelo, Cristo ha detto ai suoi: «Dona tutto ai poveri e vieni meco».
Sarei lieto d’aver l’elenco di quei democristiani che hanno donato tutto ai poveri! (Applausi a sinistra).
Devo dunque pensare che si tratti d’una lotta sul mercato della religione? Ma appunto per non fare questa lotta sul mercato della religione, io, personalmente, avevo proposto al signor Mosconi, rappresentante della Democrazia cristiana in Roma, di fare le elezioni insieme con la Democrazia cristiana, mettendoci, insieme, sotto l’egida della civiltà italica. Dissi chiaramente: voi non avete nessuna fiducia in noi e non volete fare la lista bloccata; vi assicuro che noi non abbiamo nessuna fiducia in voi e non vogliamo fare la lista bloccata. Però siamo due partiti cattolici, mettiamo le nostre due liste, se volete vi cediamo la destra, mettiamo queste due liste una a fianco dell’altra sotto l’egida della civiltà italica, la quale raccomanderà entrambe le liste perché entrambe cattoliche. In questo modo noi saremo divisi solo da questioni politiche, amministrative, sociali, ma non dovremo colluttare sul sacro terreno della religione. Questa proposta è stata fatta da me al signor Mosconi, e non mi costringete a dire in quale sede, perché se no ve lo dico. (Ilarità). Non ho avuta nessuna risposta, né un sì né un no: la proposta è stata ignorata. (Ilarità a sinistra – Commenti).
Il nostro appoggio sia al Governo che al Partito democristiano è considerato coatto. «Voi dovete votare per noi» – ci si dice – «voi non potete votare per altri. Non votando per noi voi votate per Togliatti, per il comunismo, per le forche, per la Siberia»! (Si ride).
Su questo punto, onorevoli colleghi, è bene dire una volta di più che se noi siamo stati contro l’antifascismo di maniera siamo anche contro l’anticomunismo di maniera. Oggi è facile fare dell’anticomunismo; bisognava farlo prima, cioè nel momento in cui erano scagliati tuoni e fulmini da quei due veri ed autentici fondatori del qualunquismo che sono stati gli onorevoli Spano e Grieco. (Si ride).
Allora bisognava fare dell’anticomunismo. Oggi è troppo facile e troppo semplice, ed è fors’anche ridicolo, come sono ridicoli coloro che vanno cantando inni provocatori per le strade di Roma, e non solo di Roma: cantanti ai quali, caro Lussu, noi non facciamo coro, anzi!
D’altra parte, non è possibile vivere eternamente sotto l’assillo d’un ricatto politico.
A un certo punto ci si ribella. Se mi permettete tenterò di esprimervi questo concetto con una brevissima storiella. (Si ride).
Voce al centro. Un altro somaro!
GIANNINI. Non si tratta d’un somaro (Si ride), si tratta d’un pappagallo, il quale viveva in una famiglia di monarchici spagnoli, una famiglia hidalga, fierissima del suo sentimento monarchico. Sapete come vanno le cose nella Spagna: ogni tanto i repubblicani si avventano sui monarchici e viceversa. Questa famiglia subì assalti da parte dei repubblicani di fresco tornati al potere.
Spaventata dalle conseguenze che avrebbe potuto avere l’eccessiva loquacità del pappagallo, la famiglia hidalga aveva preso l’abitudine di nasconderlo ogni volta che avvenivano le perquisizioni, e lo metteva sotto la gonna della nonna perché stesse più tranquillo. Per una volta, per due, il povero pappagallo ha resistito al mefitico ambiente (Si ride) di quella gonna così come il Gruppo parlamentare qualunquista resiste eroicamente sotto la tonaca democristiana. (Si ride). Ma alla terza volta non ne ha potuto più, e con un colpo di becco ha spaccato la gonna della nonna ed è uscito gridando: prefiero la muerte, viva el rey! (Vivissima ilarità). Ora se un pappagallo ha avuto tanto coraggio, noi qualunquisti riteniamo di non poter essere da meno dell’ardimentosa bestiola che a un certo momento, come noi, non ne ha potuto più.
Quale situazione si pone in questo nostro discorso? Il Governo deve decidere, deve assumere una linea di chiarezza, deve tenere una condotta o liberale o socialista: tutte e due non può tenerle. Noi vogliamo la prima, che non è quella dell’onorevole Corbino, ma è l’idea liberale, progredita.
Sgombriamo il terreno da un primo ostacolo: la pacificazione. L’onorevole Lussu si è lagnato delle manifestazioni inconsulte che si sono fatte a Roma ed in altre parti d’Italia. Nessuno lo comprende più di noi; nessuno ne soffre forse più di me, che so quanto false e bugiarde siano la gran parte di quelle manifestazioni, fatte unicamente in funzione elettorale e con la speranza di raccattare voti che forse non ci saranno. Ma a quelle manifestazioni, caro amico Lussu, dànno pretesto precisamente le remore alla pacificazione. L’onorevole Togliatti ha firmato l’amnistia: bisogna dargliene atto; è stato un grande atto politico. Ma dopo quell’amnistia continua e pesa ancora una mentalità, un errore, cause di qualche reazione giusta intorno alle quale s’innestano le speculazioni.
Abbiamo ancora delle leggi eccezionali, abbiamo ancora veri e propri Tribunali speciali, ancora una sedicente folla che urla nelle aule dei giudizi, abbiamo ancora il confino. Si venga alla pacificazione, si abolisca perfino il nome di «confino» e gli si dia il suo vero nome di domicilio coatto.
Si proclami che non c’è più né fascismo né antifascismo, si perdoni, si dimentichi: amnistia viene da amnesia. Dimentichiamo: e si diano venti e trent’anni di reclusione a chi infrange questa tregua, questa pace, sia esso comunista, sia esso socialista, azionista, qualunquista! Nessuno deve avere più il diritto di tormentare il suo fratello italiano perché durante la guerra ha assunto un atteggiamento o un altro durante la guerra civile. Soltanto Dio può giudicare.
LUSSU. Ma non deve essere più repubblichino dichiarato e non più fascista, altrimenti… (Proteste al centro e a destra).
GIANNINI. Ho detto questo, onorevole Lussu: aboliamo la legislazione speciale e diamo trent’anni di reclusione a chi ci rompe ancora le scatole con queste cose che non vogliamo più ascoltare e sopportare. (Applausi). Dico quello che dice lei. Basta applicare il Codice penale per ottenere tutto questo. E mi fermo su questo argomento: non vorrei che il mio discorso diventasse provocatorio, perché in materia di pacificazione bisogna tenersi nei suoi ristretti limiti senza oltrepassarli.
I piani. Noi non vogliamo piani. Anche qui una divisione è più sulle parole che sui fatti. Piano significa programma, e niente altro. Come si può non volere un programma? Certamente c’è un programma: ma non si può volere che uomini di destra applichino un programma di sinistra. È un’assurdità nell’assurdo. Il Governo sta applicando un programma di sinistra: Einaudi toglie danaro dalla circolazione; Merzagora limita le esportazioni e le importazioni.
Si tratta – essi dicono – d’impedire una speculazione; ma, onorevoli colleghi, quando una speculazione dura da 10 o 15 anni, non è più una speculazione: è un mezzo ed è un sistema. Sarebbe come se l’ottimo, amico Pella volesse abolire da un giorno all’altro il contrabbando delle sigarette americane: farebbe morire di fame migliaia di persone che vivono su quel contrabbando.
Ora, tutto quello che accade in questa materia (e per cui si esigono piani e si esigono programmi d’una vastità tale che non credo possano essere affrontati da cervelli ordinari ed in circostanze straordinarie), tutto ciò dipende dalla situazione internazionale in cui si trovano il nostro Paese e tutti gli altri Paesi. A questo proposito mi domando: si parla e ripete spesso in questa Aula d’indipendenza. Di quale indipendenza si tratta? C’è una discussione appassionata in questo momento in tutta Europa sulla Unione europea, sugli Stati Uniti d’Europa, discussione alla quale partecipano i più grandi politici non in attività di servizio, ma non per questo completamente decaduti dal firmamento politico europeo. Perché non se ne parla anche da noi? Perché il nostro Governo non prende posizione, in un senso o nell’altro, su questo grandissimo problema? È vero che nessun Governo ha preso posizione ufficiale sul problema degli Stati Uniti d’Europa; ma perché non potremmo essere noi i primi?
Una politica estera dignitosa, protagonista non di storia – come si diceva un tempo – ma di azione, perché non si può farla? Questo sì che sarebbe un piano. Invece, noi facciamo del timido socialismo e non contentiamo le sinistre e scontentiamo le destre. Noi vorremmo che il Governo parlasse chiaro e dicesse (come è sua ferma intenzione e suo fermo proposito): un piano, quale voi lo intendete, no! Controllismo, permessismo sono aberrazioni che portano unicamente al commercio dei permessi e dei controlli.
Io spero che l’onorevole De Gasperi non mi chieda delle prove materiali per quanto starò per dirgli: ma per avere un vagone, per avere un permesso, per avere un’autorizzazione, onorevole signor Presidente del Consiglio, bisogna pagarli. Merzagora ha detto che ha diecimila domande di importazione al mese nel suo Ministero, alle quali non riesce nemmeno a rispondere. Sorge spontanea la domanda: e perché non abolisce il suo Ministero se è così d’inciampo? In questo, e in altri Ministeri, ci sono impiegati, a poche migliaia di lire al mese, che non riescono a vivere: e noi pretendiamo, con un sistema di controlli e di piani che questi disgraziati amministrino miliardi. Non è nemmeno cristiana questa pretesa, perché uno dei doveri del buon cristiano è quello di non indurre il prossimo in tentazione. (Si ride).
Ci vogliono misure generali e libertà. Si ha paura di concederla questa libertà, ed allora si gira, si cincischia, si ciurla nel manico.
Ho sentito parlare di risparmio. Come si fa a risparmiare un biglietto da mille che perde valore ogni giorno? Come si fa a mettere da parte del danaro che oggi vale cinque, domani varrà quattro e mezzo, dopo domani quattro? È assurdo il solo enunciarlo, e coloro che, incauti, o ignoranti, fanno tesaurizzazione della moneta in questo momento, sono degli inconsapevoli collaboratori del nostro Ministro del tesoro: perché in sostanza fanno una deflazione automatica tenendo chiuso tutto quel danaro che per fortuna non circola e che forse è fortuna se perde di valore.
Si parla di ridurre i consumi e non si capisce che questa è una crisi di consumo, non di produzione. Si dovrebbe consumare di più, e benedetti quei 350 mila proletari che sono andati a Ostia!
Udiamo parlare con leggerezza spaventevole di toccare i meccanismi economici, di fare piani da uomini ai quali sinceramente io vorrei pigliarmi il gusto di affidare l’amministrazione dei miei giornali per vedere come ne caverebbero le mani.
Si tuona contro l’edilizia di lusso. Ma chi lavora a fare quelle case di lusso? Dei marchesi? Dei conti? Il mio amico Lucifero? Il mio ancora più nobile amico Negarville? Lavorano dei muratori. Saranno case di lusso, ma lavorano dei muratori. Si tratta di togliere danaro dalle tasche di gente che l’ha guadagnato per contingenze di guerra, in un modo o nell’altro. Onorevoli colleghi, non c’è nessun mezzo per levar loro dalle tasche quel danaro, se non facendoglielo spendere. Le avocazioni, le tassazioni, le pressioni, tutte le illusioni di tutti i Ministri delle finanze e del tesoro non servono a niente. Fate spendere liberamente quel danaro Quando quel danaro sarà speso sarà restituito in modo fruttifero alla circolazione, ed è questo che importa.
Si teme l’inflazione. Io credo che ce ne sia una sola di inflazione: l’inflazione dei professori d’economia. (Si ride). Ce ne sono troppi in questa materia che nessuno conosce. Finirò col porre la mia candidatura al Ministero del bilancio col solo titolo di non capirne niente e credo che forse me la caverò bene. (Si ride).
La verità è (è questa un’osservazione che dedico particolarmente ai colleghi comunisti) che la vita fiorisce per intima forza. Il regime capitalistico, dopo il suo glorioso ciclo dell’800 che ha cominciato col creare voi, perché ha creato il proletariato e ha creato il socialismo, trova la sua moderazione e limitazione nel consumo, nel maggior consumo che si stabilisce appunto per la maggiore produzione, e per l’industrializzazione creata unicamente dal regime capitalistico.
È il proletariato che consuma oggi, non più la ristretta classe aristocratica. E consumando esso diventa capitalista e spezzetta il capitale. (Si ride).
È proprio così. Avete riso spesso di quello ch’io vi dicevo; poi siete venuti a ripetere, dopo un anno o due, le mie parole qui dentro.
In confronto a questo naturale fenomeno di spezzettamento di capitale e di elevazione del proletariato attraverso il consumo e il maggior guadagno, il capitalismo di Stato sovietico è un’amplificazione della regola conventuale, di quel convento in cui può star bene solo chi per vocazione c’entra, e volontariamente ci rimane. Ciò è tanto vero che per risolvere il problema sociale in senso pianificativo e socialista, Nenni chiede un Ministero di salute pubblica, ossia una dittatura.
Ha ragione, ha ragione Nenni, perché solo quel Ministero può pianificare. Ma noi vi ci opporremmo con tutti i mezzi, perché siamo stanchi di dittature.
Non si stupisca l’onorevole Lussu se dopo avere minacciato trent’anni di reclusione a chi parla di fascismo, ne riparlo ancora io.
Si tratta di fascismo come fenomeno economico. È fenomeno squisitamente socialista, perché Mussolini venne di là, dalle vostre file! (Indica la sinistra).
CALOSSO: Come Giuda!
GIANNINI. Sono affari che a noi non riguardano, ma è dalla vostra parte che venne. (Interruzioni a sinistra).
CALOSSO. Giuda è la prova di Cristo.
GIANNINI. A noi non interessano questi argomenti polemici, sono vostri affari interni, nei quali noi siamo troppo bene educati per ficcare il naso. (Interruzione a sinistra). Onorevole Calosso, lei ha detto la sua freddura, non insista. Mussolini venne dai vostri ranghi. O Giuda o non Giuda a me che me ne importa? È da voi che venne; Giuda o non Giuda che ci posso fare? Peggio per lei che aveva Giuda in casa e non se ne è accorto. (Si ride).
Che cosa ha detto Nenni reclamando la pianificazione e chiedendo che si mettesse sotto disciplina la borghesia produttrice, tutta la classe industriale, tutte le classi? A un certo momento Nenni (mi corregga se sbaglio) ha detto all’incirca queste parole: (me le sono appuntate) «Siamo disposti a disciplinare (dunque obbligare) anche il lavoro, come il capitale, come esige la civiltà attuale».
Questo ha detto Nenni.
NENNI. Lo stanno facendo in Inghilterra che è un Paese abbastanza avanzato.
GIANNINI. Comunque lei lo ha detto. Ne prendo atto. Però questo è corporativismo.
Anche Valiani vuole un controllo della economia, vuole un controllo del lavoro, vuole di più – e me lo sono appuntato – vuole «lo sviluppo delle gerarchie». Di che cosa si tratta? Si tratta della Confederazione dell’industria, della Confida, della Confederazione del lavoro e della Federterra chiuse in un solo campo di concentramento. Ma questo lo aveva già fatto il fascismo e noi, borghesia, non lo permetteremo più, perché lo abbiamo già conosciuto questo regime e non lo rivogliamo. (Interruzione dell’onorevole Di Vittorio). Che vuole onorevole Di Vittorio?
CALOSSO. Mussolini era liberista nel 1919! (Commenti a sinistra).
GIANNINI. Non m’inganna con i suoi giochi d’artificio, Mussolini, noi lo conosciamo…
CALOSSO. Ma nel 1919!… (Commenti).
GIANNINI. Lasci andare il 1919! Quello che volete oggi voi, l’ha fatto Mussolini, prima di voi.
PRESIDENTE. Onorevole Calosso, lei è iscritto a parlare; parlerà dopo, la prego.
GIANNINI. Certo è che esiste – e noi ne abbiamo avuto una prova col fascismo – una materiale impossibilità del controllo. Lo afferma anche Merzagora; e dunque perché controllate e, peggio ancora, perché fingete di controllare? Il vincolismo non produce che speculazione. Ne abbiamo un esempio con le pigioni. Fra le mie molte fortune ho quella di non essere proprietario che di tre stanze, a Napoli, che comprai per i miei genitori, quando si potevano comprare stanze, e la sorte me li ha fatti morire, così ho fatto anche una spesa inutile. Queste sono tutte le mie proprietà…
Una voce al centro. Oltre la casa editrice!
GIANNINI. Sì, oltre la casa editrice, va bene. Ma c’è gente che paga poche centinaia di lire per grandi appartamenti. Io, per esempio: io non pago il valore del mio appartamento. Ora su questa vincolazione, su questo schiacciamento degli affitti s’innesta, oltre alla violazione del diritto del singolo proprietario, s’innesta la speculazione del subaffittuario. Il padrone della casa non guadagna e paga le tasse, l’inquilino si subaffitta le camere. C’è, in sostanza, godimento di bene altrui, in omaggio a quella legge, umana ma infame, che si può riassumere così: fatta la legge, trovato l’inganno.
Ogni trasformazione violenta dà risultati imprevedibili.
Prendo per un attimo in esame, con la mia incompetenza di semplice scrittore di fantasie, un fatto finanziario. Animato dalle più nobili intenzioni, l’onorevole Einaudi ha fatto quello che ha fatto con la restrizione del credito. Cos’è accaduto praticamente? È accaduto che il credito è stato negato alle persone che facevano operazioni normali, ma lo speculatore, il giocatore, colui che è abituato a considerare e ad immaginare affari sui quali si guadagna il mille per cento, ha il credito lo stesso, perché lo paga il venti o il trenta per cento di più.
E allora, cosa ha prodotto questa nobilissima fatica dell’onorevole Einaudi? Semplicemente questo: il mercato nero del credito e della moneta.
L’onorevole Einaudi potrebbe dirmi: «Perché non me l’ha detto prima, questo»? Non l’ho detto prima perché non lo potevo dire prima; perché – a parte la mia incompetenza specifica – nessuno può prevedere che cosa accade quando si prendono questi provvedimenti speciali, drastici, draconiani, fascisti. (Commenti).
Mi viene segnalato – perché, onorevoli colleghi, voi sapete benissimo che quando si parla qui si ripetono gli echi di milioni di voci che giungono dal Paese – mi viene segnalata una reazione suscitata da una frase pronunciata dall’onorevole Merzagora a proposito delle Regioni. C’è chi gli dà ragione e chi gli dà torto, ma indubbiamente questo provvedimento delle Regioni, attesissimo nella Sicilia, respinto altrove, che cosa ha portato? Ha portato, nella stessa Sicilia, a questo: che il ricavato delle tasse, che la Sicilia s’è rifiutata di consegnare al Governo centrale assumendo che servivano per lei, pare – dico pare –: poi l’onorevole Pella mi dirà se ho sbagliato o no – che siano molto inferiori al fabbisogno della Sicilia.
Abbiamo un’altra voce dall’esterno: le famose cooperative agricole. Onorevoli colleghi, entrare in una cooperativa agricola significa assicurarsi 240 chili di grano a testa all’anno per sé e per i propri familiari. Avviene così che ogni barbiere, ogni sartore, ogni farmacista, ogni segretario comunale che entri in una cooperativa si assicura, per sé e per i suoi 240 chilogrammi di farina all’anno. Ecco come s’inflaziona la categoria degli agricoltori: ed ecco come noi facciamo sì che tutta la farina nostra, a poco per volta, non arriverà neppure a sodisfare le esigenze di tutti gli agricoltori che la producono, veri o falsi che siano.
È facile fare i piani a tavolino: è quando si debbono applicare che succedono i guai. Noi ci lagniamo di questo Governo perché è troppo pianificatore, è troppo socialista. (Viva ilarità). Noi guardiamo freddamente ai fenomeni economici e sociali, e non c’impressiona chi ride.
SCOCA. A Dio spiacenti ed a’ nimici sui.
GIANNINI. Non ho ancora finito. Si parla della Jugoslavia che ha comperato, o avrebbe comperato, il nostro grano a un prezzo anche forte. Da che cosa dipende questo fenomeno? È innegabile, onorevoli colleghi, che se la Jugoslavia non ha abbastanza grano deve comprarlo dove ne trova. Ed è evidente che se la Jugoslavia possedesse grano in quantità sufficiente, non avrebbe nessun bisogno di comperarne fuori dei suoi confini. (Commenti).
Ecco perché la crisi è internazionale e non è risolvibile da un singolo Governo il quale, appunto per ciò, non si deve arbitrare a far piani che non potrebbero inserirsi in quella che è la pianificazione generale del mondo, e sarebbero destinati a fallimento completo e forse nemmeno clamoroso; perché moriremmo d’inedia e d’inazione in questo fallimento.
Gli Stati Uniti d’Europa sono la chiave di questa soluzione e dovrebbero essere anche la chiave della nostra politica estera. Io non so perché non ne facciamo davvero il perno della nostra politica estera, facendo una politica estera originale italiana, con dignità e con fierezza.
Con dignità ho detto, onorevoli colleghi, e con fierezza. Si può essere fieri senza iattanza; si può essere contegnosamente, gelosamente italiani senza isterismo.
C’è in questo momento una angosciosa tragedia che volge verso il suo ultimo atto: la tragedia della marina italiana. È necessario che il Governo, che l’Assemblea col Governo, dicano ai nostri marinai, due volte traditi, che la Patria apprezza il loro senso del dovere, così come ha apprezzato il loro senso d’eroismo. La Patria non ha bisogno d’altre gesta da parte dei suoi marinai che, inferiori per mezzi e per numero, hanno tenuto in iscacco per tre anni le più potenti flotte del mondo. Molto più preoccupati e sconcertati dei nostri si troveranno quegli equipaggi stranieri che presidieranno navi ormai troppo cariche di gloria, non conquistate o catturate, ma guadagnate su una carta del gioco politico, in cui ha vinto il più dovizioso, non il più eroico.
S’è parlato di trattative fra il mio Partito e la Democrazia cristiana, fra il mio Partito e il Governo. Non crediamo che il Governo possa far trattative sotto l’assillo del voto; non sarebbe morale. Noi ci sentiremmo davvero imbarazzati a dire all’onorevole De Gasperi: vogliamo questo in cambio dei nostri 33 voti. Non sappiamo che cosa De Gasperi ci risponderebbe; sappiamo, però, quali parolacce diremmo noi al suo posto a chi ci venisse a fare simili offerte.
Per questo, e in regime democratico, noi facciamo pubblicamente le nostre richieste, in modo che non abbiano né carattere di trattativa né aspetto di ricatto o, comunque, d’intimidazione.
Noi vogliamo la pacificazione fra gli italiani. (Approvazioni a destra). La condanna o l’invio al domicilio coatto di chiunque la turbi con atti o anche soltanto con parole o scritti, quale che sia il partito cui appartenga, a cominciare dal nostro.
Noi vogliamo una condotta liberale progredita del Governo. Empirismo, onorevole Presidente del Consiglio, perché oggi si vive «a ora» nel mondo; non si possono fare previsioni che oltrepassino il tempo limite di una settimana o di due. Tutto cambia da un momento all’altro, in tutto il pianeta.
Noi vogliamo l’applicazione di questo empirismo politico, finanziario, industriale, monetario, monetario specialmente, caso per caso, circostanza per circostanza.
Noi esigiamo la smobilitazione, graduale e rapida, dell’economia di guerra; il ritorno alla maggiore libertà possibile, nel più breve tempo possibile.
Noi vogliamo l’europeismo a fatti e non a parole; e constatiamo che mancano gli uni e le altre.
Noi vogliamo vigilare dentro il Governo, per impedirne le deviazioni. Quello che chiediamo, è una partecipazione adeguata all’amministrazione del Paese. (Commenti a sinistra).
Una voce a sinistra. Anche voi!
GIANNINI. Devo adesso chiedere una cosa molto seria: noi chiediamo che uno di questi Ministeri sia quello dell’Unione europea, Unione europea che noi dobbiamo dirigere, perché abbiamo il diritto almeno di tentare di riportare il nostro Paese, spiritualmente, alla testa di questo continente la cui civiltà si è formata al lume della fiaccola che splendeva nel nostro Paese!
Noi abbiamo il diritto almeno di tentare di riconquistare questo primato spirituale che non è nazionalismo, che non è fascismo, che è semplicemente quel sano europeismo che noi avevamo mille anni fa, e che abbiamo fatto male a lasciar sperdere.
Questo è il nostro discorso d’opposizione, queste le nostre critiche e le nostre richieste.
Giustamente l’onorevole Lussu ha detto oggi che la sorte del Governo non è nelle mani dell’Uomo qualunque, ma in quelle della Democrazia cristiana. Da quanto ci risponderà l’onorevole Presidente del Consiglio (il solo col quale desideriamo avere a che fare) dipenderà il nostro voto su questa discussione. (Applausi a destra – Congratulazioni).
PRESIDENTE. Sospendiamo ora la seduta, che sarà ripresa alle 22. Faccio presente che sono iscritti a parlare nell’ordine: gli onorevoli Simonini, Varvaro, Quintieri Quinto e Rodinò Mario.
RODINÒ MARIO. Rinuncio.
PRESIDENTE. Segue allora l’onorevole Perrone Capano.
PERRONE CAPANO. Rinuncio.
PRESIDENTE. E allora segue l’onorevole Sereni.
(La seduta, sospesa alle 20.25, è ripresa alle 22).
Presidenza del Vicepresidente CONTI
PRESIDENTE. Si riprende la discussione sulle mozioni.
È iscritto a parlare l’onorevole Simonini. Ne ha facoltà.
SIMONINI. Io assicuro l’onorevole Presidente che non prenderò parte alla gara di resistenza che è stata inaugurata in questa Assemblea in occasione di questo dibattito. E senza fare l’elogio del discorso breve, spero di riuscire a dimostrare, facendo un discorso breve, che la brevità è il più grande pregio di un discorso. Si potrebbe dire che questo dibattito, al quale io partecipo avendo ancora una grande fiducia nel Parlamento nonostante le enormità che ho udite qui dentro due ore fa, si è svolto un po’ contro di noi. Se la son presi tutti con noi, da destra e da sinistra. Critiche e consigli: Lussu, Corbino, Morandi. Anche l’onorevole Crispo ha voluto partecipare alla gara. L’onorevole Lussu, di cui abbiamo apprezzato il discorso, non ha voluto essere da meno e ci ha consigliato un viaggio a Mosca per non lasciare non si sa quali ombre su quel viaggio in America che nostri rappresentanti hanno recentemente fatto. Possiamo assicurare l’onorevole Lussu, i nostri amici e i nostri avversari che noi siamo andati in America puliti e liberi e siamo ritornati liberi e puliti. Potremmo anche andare a Mosca e tornare puliti… (salvo l’esito di eventuali polmoniti che possono capitare in occasione di viaggi così lunghi!).
Una voce a sinistra. Che arguto!
SIMONINI. Ma io voglio, se è possibile, sorvolare sopra queste note polemiche e inserirmi nella discussione modestamente, come può fare un uomo come me che non ha nessun altro titolo se non la fedeltà e la coerenza alla sua idea, per dire qualche cosa non di nuovo, ma che si ricolleghi a ciò che già è stato detto e che suppongo potrà essere detto, se la discussione non sarà prima chiusa, da altri miei compagni ed amici. Ho detto prima che non è il caso di polemizzare. Evidentemente non voglio lasciar passare senza una osservazione l’affermazione dell’onorevole Crispo (mi dispiace che non sia presente) circa il fatto che l’onorevole Saragat, – in questo caso il nostro Partito avendo Saragat parlato per il Partito, – non ha inventato la terza via. Noi non apparteniamo alla categoria degli inventori né dei fondatori: c’inseriamo modestamente in un processo politico che è tanto più grande di noi; cerchiamo di comprendere e di metterci nella posizione che ci consente, difendendo le nostre idee, di difendere, con la modestia che è dovuta al modesto valore del nostro Partito, gli interessi che presumiamo di rappresentare in questa Assemblea e nel Paese. L’onorevole Scoccimarro, oggi, iniziando il suo lungo discorso prevalentemente tecnico, sul quale io non l’ho potuto seguire per confessata, confessabile e, credo, non disonorante incompetenza, ha detto che questo dibattito si ricollega al precedente dibattito che in questa stessa Assemblea fu fatto quando questo Ministero si presentò al nostro giudizio.
Io ritengo, onorevoli colleghi, che si possa andare più in là. Io ritengo che si possa affermare che questo dibattito si ricollega a tutti quelli che noi abbiamo sovente sostenuti in questa Assemblea durante la vita dell’Assemblea Costituente; ma anche oltre, perché tale fu sempre il tono di questi dibattiti; anche a quelli che si svolsero dal 25 settembre 1945 in poi nella Consulta prima e nell’Assemblea Costituente dopo, perché – e qui mi trovo a concordare pienamente con l’amico Lussu – evidentemente di natura politica è la crisi che travaglia il nostro Paese. E politica non può che essere la soluzione, come politico non può che essere lo strumento che porrà rimedio a questa crisi che il Paese attraversa.
Mancherebbero al loro scopo i dibattiti nostri, egregi colleghi, se noi perdessimo di vista la necessità di individuare e ricercare, attraverso le nostre discussioni, questo strumento politico con il quale affrontare e tentare di risolvere la crisi stessa.
Io ho detto prima che non so se riuscirò a portare un contributo efficace a questa discussione. Arrivo quasi alla fine del dibattito, quando tante cose interessanti sono state dette da uomini rappresentanti i partiti; uomini e partiti più qualificati di quel che io non possa essere e forse di quel che non possa essere il mio stesso Partito il quale trae le sue origini da un avvenimento politico, quale la scissione del Partito Socialista di Unità Proletaria, e che parlamentarmente è rappresentato da un pugno di uomini che non si sa ancora in quale misura rappresentino un tantum della popolazione italiana, come evidentemente non si sa in quale misura gli altri – rimasti al di là – rappresentino un tantum della popolazione italiana.
PRIOLO. Solo Dio vi può perdonare! (Commenti).
SIMONINI. Ad ogni modo, prima del giudizio di Dio noi aspettiamo il giudizio del corpo elettorale per vedere se abbiamo avuto ragione o torto quando siamo arrivati a quella decisione. Dopo tanti luminari che hanno parlato in questo dibattito politico è ammesso anche per i questori avere passioni, specialmente quando l’Assemblea è calma come è calma in questo momento. (Si ride).
PRIOLO. Non si può non avere passione quando si è socialisti dall’età di sedici anni. (Commenti).
SIMONINI. I discorsi che hanno aperto questo dibattito sono stati fatti a porte chiuse: non so se le porte siano state chiuse al solo scopo che fuori non si sentisse quel che si diceva qua dentro. Di questo speciale riguardo ha beneficiato l’amico Nenni, arrivato poco prima di Togliatti, mentre a porte aperte è stato tenuto il discorso di Saragat, il quale ha avuto per lo meno il pregio di essere breve. Spero che almeno questo pregio – se non altri – gli vorrete riconoscere. Del resto, è stato questo l’unico discorso di opposizione che qualcuno ha fatto qua dentro. È stato detto che si è trattato di un «discorso di opposizione alle opposizioni», ma è stato anche un discorso di opposizione ad una determinata politica od all’assenza di una determinata politica del Governo.
È certo che, non avendo nessun’altra preoccupazione che quella di dire che considera la verità, facendo un discorso che doveva porre in luce la situazione in cui vive il popolo italiano, quindi di opposizione, non poteva non investire coloro che poco più di tre mesi fa assumevano, in solidarietà con coloro che sono oggi al banco del Governo, la responsabilità dell’amministrazione del Paese. Se poi si pensa che sia possibile – come mi pare sia difficile dimostrare e nessuno abbia dimostrato – che sia cominciata esattamente una vita nuova tre mesi fa, che non abbia nessuna relazione con la precedente, il problema si pone in modo diverso; ma se io non ho mal capito mi sembra che tanto Nenni quanto Togliatti questo non abbiano esattamente sostenuto.
Noi abbiamo prospettato una soluzione che è stata indicata come una terza via. Abbiamo la presunzione di credere di essere nel vero, ed in fondo lo stesso vostro discorso amici di sinistra, o che supponete di essere comunque alla nostra sinistra (Si ride), ha dimostrato che anche voi nel fondo siete alla ricerca della terza via. Nessuno di voi avendo sostenuto che alla crisi politica che travaglia il Paese si possa opporre un rimedio con la ricostituzione del tripartito, avendo semplicemente sostenuto, come sosteniamo noi, che si debba andare alla ricerca di un’altra formula, che non sia l’attuale, ma non sia la precedente, voi, così facendo, vi siete messi alla ricerca evidentemente della terza via, come tutto il mondo. La quale via esiste per coloro che non accettano la visione apocalittica della situazione italiana prospettata dall’amico Nenni, il quale ha detto che vede un baratro aprirsi dinanzi a noi, e non vede che cosa potrà accadere se i partiti che egli considera i legittimi rappresentanti della classe lavoratrice non saranno domani al Governo.
Ora, io non dico una cosa nuova se affermo che sono d’accordo con coloro che sostengono che un’adeguata rappresentanza della classe lavoratrice debba essere investita delle responsabilità e dei problemi del Governo. Forse qualche sciocco può pensare che potessimo essere su un terreno diverso. Non credo che vi siano qui molti legittimi rappresentanti, per le loro origini, della classe lavoratrice, quale per esempio è colui che vi parla, che ha conosciuto veramente il lavoro, non su i libri di testo, ma nelle officine, ed ha conservato l’animo di un lavoratore.
Una voce a sinistra. Questo è esagerato!
SIMONINI. Lo so che per conservare l’animo di un lavoratore, secondo voi, oggi bisogna obbedire, credere e combattere, ed io non ho mai ubbidito, creduto e combattuto (Applausi al centro e a destra – Commenti a sinistra). Perfettamente indifferente ai commenti ed agli applausi, non sono dell’opinione di Enrico Ferri, che affermava che quando gli applausi-venivano dagli avversari voleva dire che aveva sbagliato.
Vi sono delle verità che appartengono agli uomini di tutti i partiti. Solo voi credete di essere in possesso della verità assoluta e credete di poter trinciare giudizi, come quelli che voi trinciate. (Indica la sinistra).
Io ho affermato che non ho perso nulla di ciò che avevo nell’animo mio quando sui 16, 17, 18 anni, lavorando nelle officine, ai più umili mestieri ai quali ero stato indotto dalle condizioni di famiglia, io ho cominciato a credere in questa idea nella quale credo ancora avendo varcato il mezzo secolo di età, e alla quale ho conservato fedeltà quando era difficile conservare fedeltà alla propria idea, senza contare su una fortuna personale e a costo di miserie e mortificazioni che molti fra voi conoscono.
Comunque non è delle nostre persone che si discute qui oggi.
Io dico che non credo a questa visione apocalittica prospettata da Nenni e condivido in parte, per temperamento forse, non per affinità di idee, l’ottimismo di Corbino.
Io credo che noi dovremo puntare alla conclusione del dibattito avendo presente ciò che è stato detto dall’amico Lussu, e penso che in questo Lussu abbia colpito nel segno quando ha detto che la natura di questa crisi è eminentemente politica e che politici devono essere i rimedi ai quali dovremo guardare. Noi dovremo puntare su alcuni obiettivi che non dovrebbero essere difficili da raggiungere. E questi sono, a mio modesto avviso, il ritorno del popolo italiano, della nostra vita politica, a quel senso di equilibrio, a quell’aderenza alla realtà che è sempre stata una caratteristica particolare della vita nostra in altri tempi, prima che ad alterarla venisse l’esperimento fascista che ha tradotto tutti i rapporti sociali e politici in termini esasperati ed esasperanti, termini esasperati ed esasperanti dei quali noi tutti siamo forse ancora le vittime inconsapevoli. Ritornare a ciò vuol dire riaprire possibilità di ripresa della nostra vita politica e sociale. Il prevalere di un certo senso di equilibrio e di una adeguata aderenza alla realtà permetterà di evitare in avvenire errori che si sono commessi e che forse non sono irreparabili se il rimedio arriverà in tempo.
Noi abbiamo provato infinite delusioni. È stato ricordato qui da qualcuno, da molti anzi, come si guardava, e con quanta fiducia, alla possibilità di rinascita del nostro Paese sotto l’ispirazione e l’orientamento di dottrine e di idee che avrebbero potuto dare al popolo italiano ciò che purtroppo non ha mai avuto: libertà sicura, democrazia effettiva, e non soltanto formale, non soltanto sulla carta, giustizia sociale.
Noi abbiamo provato una infinità di delusioni che un po’ forse sono la conseguenza, è vero, di una situazione che è più forte di noi. Ma un po’ ce le siamo fabbricate anche noi con le nostre mani. Io non so se ciò che ho provato io in quest’Aula possa essere condiviso da voi.
Io ricordo di avere visto un giorno, quando qui sedeva quella Consulta che si inaugurò, quale prima Assemblea libera dopo 25 anni di oscurantismo, col discorso di quel vecchio, ma saldo cuore di Gregorio Agnini, che per il primo da quella tribuna lanciò il grido della Repubblica al popolo italiano, ed è stato forse l’unico grido di vero, sano, genuino, italico entusiasmo che si sia sentito in quest’Aula in tre anni; ricordo, dicevo di aver visto allora entrare in quest’Aula un uomo nel quale avevo creduto per venti anni, come tanti altri italiani, perché rappresentava una bandiera della lotta antifascista ai tempi della nostra giovinezza. Attendevamo quest’uomo all’opera, noi uomini non più giovani, ma non esperti della lotta politica, attendevamo quest’uomo all’opera di collaborazione e di ricostruzione di questa vita civile del popolo italiano. Quest’uomo ascoltava, con quel sorriso sprezzante, irritante ed ironico, che gli è proprio, tutti i discorsi che provenivano dai più opposti campi. Quella Consulta è stata trattata tanto male. E pure rappresenta qualche cosa nella storia moderna del nostro Paese: (è stata trattata tanto male, onorevoli colleghi, che si è creduto perfino di parificare i consultori ai deputati fascisti nell’escluderli dal permesso di entrare a Montecitorio) (Commenti). Rappresentavano qualche cosa quei Consultori: erano nominati dai partiti, erano designati dai partiti, non erano degli eletti come qualcuno presume di essere fra noi; ma rappresentavano la lotta che il popolo italiano aveva condotto nella sua enorme maggioranza, i sacrifici che gli operai italiani specialmente avevano fatto per la lotta di liberazione.
Quest’uomo, Francesco Saverio Nitti, abbandonò l’Aula nel giorno stesso in cui il dibattito si concludeva per andare al Teatro San Carlo a fare il primo discorso qualunquista nel nostro Paese.
Forse, ciò che si può dire di Nitti si può dire di qualcun altro fra i vecchi alfieri della democrazia e dell’antifascismo italiano, che sono mancati alla nostra aspettativa. E certo una somma di delusione doveva aggiungersi dopo, per un’infinità di errori commessi anche da noi, per cui oggi siamo qui a dover accettare per buona – non possiamo fare diversamente – l’affermazione di Nenni che sostiene essere «liquidata ormai la lotta fra fascismo e antifascismo». Ma liquidata come? Col fallimento dell’epurazione, con l’amnistia, col caso Basile. Liquidata, ma liquidata in passivo per le forze della democrazia, perché non è vero (anche se è lungi da me l’idea di lanciare il grido di guerra contro le generazioni fasciste), che si sia inteso, da parte di coloro che avrebbero dovuto pagare, il gesto di generosità compiuto dal regime repubblicano e democratico nei confronti di chi aveva assunto tremende responsabilità durante il fascismo, e particolarmente durante l’occupazione tedesca. Ripeto, non è mia intenzione qui chiedere che si riapra la lotta e accetto quanto il Nenni ci propone: consideriamo liquidata la lotta tra fascismo e antifascismo. Non credo invece risolta la polemica fra democrazia e totalitarismo. Anche per quanto riguarda la democrazia, bisognerebbe intendersi molto sul valore delle parole. L’altro giorno, assistendo ad una discussione fra il nostro vecchio D’Aragona e un nostro giovane compagno…
Una voce a destra. Perché vecchio?
SIMONINI. Vecchio d’età, ma giovane di spirito: forse anzi il più giovane di noi sotto questo punto di vista. Si andava dunque in cerca del significato della parola «reazionario» e gli dicevo che bisognerebbe rifare il vocabolario. Ed infatti, quando noi eravamo giovani, le parole avevano un significato stabile. L’onorevole Calosso reputa che siano reazionari i comunisti: io confesserò che non so fare i paradossi e non posso quindi seguirlo in questa sua affermazione; ma è certo che per qualcuno è reazionario chiunque non la pensi come lui.
Ritorniamo dunque ad un costume democratico in cui imperi il rispetto, la tolleranza. E, soprattutto, la lotta sia civile, la competizione si svolga in modo civile, così come erano possibili le competizioni ai tempi della giovinezza del nostro Tonello, il quale, nonostante sia qui considerato un mangiapreti, è stato anche – voi forse non lo sapete – il bravo Fabbriciere dell’insigne Basilica di San Petronio (Si ride), ed è riuscito in quell’epoca a filare in perfetto accordo con il futuro papa Benedetto XV quando era ancora Cardinale arcivescovo di Bologna.
Nessuno di noi ha evidentemente il diritto di mettere in dubbio la buona fede di chicchessia; e, circa la libertà di parola e di politica nelle fabbriche, rivendicata dall’onorevole Togliatti, l’onorevole Saragat ha detto già qualche cosa ed io spero sia consentito anche a me di dire qualcosa in argomento.
La libertà è un bene indivisibile: se si vuole che essa resista, deve essere un bene per tutti come la giustizia, ancora più della giustizia, se è possibile. E allora il rispetto e la tolleranza non dovrebbero essere più soltanto parole; si dovrebbe poter ragionare, parlare liberamente.
Onorevoli colleghi, io non starò a ricordarvi ora quello che è capitato a me in qualche parte d’Italia, e che puzzava più assai di organizzazione che non di manifestazione spontanea. Ma vi citerò semplicemente quello che è accaduto alla mia modesta compagna Bianca Bianchi, due giorni or sono in Roma, quando tre ondate successive di disturbatori, cicliste, motociclista e camioniste, le hanno impedito di parlare.
Qui, signori, sta la base della democrazia; ma qui sta anche un grande pericolo per la democrazia (Approvazioni). Specialmente durante le lotte elettorali. Si può comprendere che nel pubblico si manifesti, specialmente in tempi di assenza di educazione e di preparazione politica, in tempi arroventati come quelli che noi viviamo, si determini – e io arrivo persino a comprendere e a spiegarmelo data l’incapacità in cui si può trovare una parte della massa operaia di comprendere il significato dell’atteggiamento politico che noi abbiamo assunto – se può essere comprensibile che una parte, una minoranza o, se volete, una maggioranza in un determinato momento si scateni e urli e fischi; quando noi assistiamo all’evidente organizzazione di questa masturbazione, di questa violazione delle libertà altrui, noi diciamo che così non si può continuare senza far correre gravi rischi alla democrazia.
Ma io dico anche al Governo, e voglio dire al Ministro Scelba, che il suo primo dovere non dovrebbe essere quello di impugnare il regolamento di polizia, di scatenare i suoi carabinieri o i suoi poliziotti e mettere le mani addosso a chi eventualmente fa un discorso senza avere il regolare permesso, come aveva minacciato di fare con me all’epoca del discorso di Guastalla.
Guai se di fronte a questi problemi il Governo si dovesse lasciar trascinare soltanto considerando i problemi stessi come problemi di polizia. Vi è qualche cosa al fondo che deve essere compreso. Vi è una funzione che dovrebbe essere, più che del Governo, soprattutto dei partiti politici, di tutti i partiti politici (che io considero siano mancati a questa loro funzione). È loro dovere quello di illuminare la classe lavoratrice, di parlare un linguaggio franco, onesto, di dire la verità. La verità che non è mai stata detta in vent’anni; che non è mai stata scritta e detta né sui giornali né sui libri in vent’anni; illuminare la classe operaia, non pretendere di guidarla, ma illuminarla, perché essa impari, essa stessa, a camminare, e sia domani la politica che i partiti della classe operaia faranno, l’espressione della volontà che sale dalla base, dal basso, il risultato della maturazione, della convinzione, della preparazione della massa operaia stessa.
Ciò che avevamo fatto un tempo, e che non è ora stato fatto, bisogna riprenderlo, e far sì che queste masse intendano che questa vita nuova che noi vogliamo instaurare nel nostro Paese, potrà essere domani, soprattutto se esse masse ne saranno la base e lo strumento costruttivo. Tutti i partiti sono mancati a questa loro funzione. È mancato a questa funzione, anche e soprattutto, il partito che oggi sta al Governo.
DOSSETTI. Perché?
SIMONINI. L’onorevole Dossetti mi attendeva ad un altro traguardo. Sulla sua orgogliosa sicurezza ha contato l’onorevole De Gasperi: otto milioni di voti, 207 deputati, buttati sulla bilancia in un certo momento, hanno portato il partito ad assumere delle responsabilità, delle responsabilità che sono sproporzionate a quella che è la sua reale efficienza nel paese, a quello che è il suo peso politico effettivo, e che l’hanno costretto ad accettare dei compagni di viaggio molto pericolosi che Io potranno portare ad affrontare e a fare affrontare al Paese (se questa situazione perdurerà) delle pericolose avventure, pericolose non soltanto per il partito, ma purtroppo per il paese stesso!
Noi abbiamo sostenuto già nelle precedenti discussioni, e particolarmente nell’ultima discussione sulle dichiarazioni del Governo, che una certa azione del Governo dovesse rispondere ad un determinato piano. Ma hanno paura del piano tutti!
Adesso hanno paura del piano anche da questa parte, se devo giudicare da quanto ha detto Morandi ieri. Ha paura del piano Corbino, il quale ha scoperto nientemeno che la carestia minaccia il mondo da quando i Governi si sono assunti il compito di pianificare la vita dei popoli. Ma l’onorevole Corbino si è dimenticato di una cosa: che i Governi sono stati costretti ad occuparsi dell’amministrazione di ciò che serve alla vita dei popoli in conseguenza del maggiore consumo e della diminuzione della produzione che è conseguenza della guerra, e non era possibile evidentemente far pervenire ad una parte delle popolazioni ciò che serve alla vita delle famiglie, particolarmente alla parte economicamente più debole delle popolazioni stesse, se non attraverso un regime vincolistico, una disciplina, o – se volete – un piano.
Noi lamentiamo non che il piano non ci sia stato. Volete forse sostenere che un piano ci sia stato nel nostro Paese, specialmente in materia alimentare?
Non c’è stato un piano. Non solo: ma non c’è stata mai, neanche in questa Assemblea, una discussione sulla politica alimentare del Governo, discussione che servisse a far sentire al popolo italiano che qualcuno pensava a questi problemi.
Benché la terza Commissione permanente dell’Assemblea Costituente – che io ho l’onore di presiedere – abbia chiesto più volte che la politica alimentare del Paese fosse portata qui in discussione, il Governo ha fatto sempre orecchio da mercante. Perché? Perché io ebbi il torto forse di chiedere che questa discussione fosse qui portata in occasione di una certa legge, di una certa leggina della Presidenza del Consiglio che dava valore di legge a certe disposizioni dell’Alto Commissariato per l’alimentazione su quello che fu lo scandalo del formaggio grana, sul quale per carità di patria sarà forse bene non tornare.
La politica alimentare non si è potuta discutere qui e credo che sia stato un gravissimo errore non dare la sensazione al popolo italiano delle difficoltà verso le quali marciava e dell’interessamento che chi aveva il dovere di farlo portava al problema del suo pane quotidiano. Si parla di mercato nero. Ma mercato nero in questa materia non esiste! Si può dire che è mercato bianco! Voi andate fuori di questo palazzo ed imboccate il primo vicolo a sinistra o a destra, e trovate che si vende pane bianco, mentre leggete sui giornali che ci sono città senza grano e senza farina!
La disciplina manca perché manca il senso del civico dovere (è vero) che è preminente presso altre Nazioni di Europa; ma alla disciplina bisognava sostituire l’intervento dell’autorità che doveva agire come non ha mai agito. E voglio ricordare un piccolo episodio. Per un modesto pacchetto di sigarette venduto alla borsa nera, noi abbiamo visto nella nostra città, una donna vedersi sottratta la licenza di privativa e nello stesso giorno abbiamo visto scatenata per la città la polizia tributaria, la guardia di finanza a mettere in contravvenzione, a requisire tutto ciò che incontrava e che puzzava di tabacco. Sono tornato a Roma col cuore aperto alla speranza ed ho detto: finalmente cominciamo a fare sul serio in questa materia!
Ma arrivato a Roma ho visto che le sigarette si continuano a vendere liberamente dappertutto. E lo Stato è assente ed ignora questa truffa che si esercita, ai danni di chi? Ai danni dello Stato stesso.
DE GASPERI, Presidente del Consiglio dei Ministri. Non ne possiamo produrre abbastanza.
SIMONINI. In questa materia io non sono molto profondo, perché non sono un fumatore. La legge però, onorevole De Gasperi, è uguale per tutti. Perché volete imprigionare in una città e lasciare libero il commercio nelle altre? È questa una disuguaglianza nell’applicazione della legge che determina il dispregio per la legge stessa, perché nulla è più dannoso del fare una legge per non applicarla, come nulla è più dannoso che applicare una legge con misure diverse.
Una voce a sinistra. La legge è uguale per tutti; la giustizia non è uguale per tutti.!
SIMONINI. Grazie, avvocato!
E qui entriamo su quel terreno della pianificazione. Per esempio, a Milano ed anche a Roma e dappertutto è stato detto che si costruiscono case, palazzi e poi vengono venduti gli appartamenti a vani che vengono a costare 2 milioni, due milioni e mezzo ciascuno. Ha detto Giannini che dobbiamo lasciar fare perché in questo modo si dà da lavorare agli operai. È vero che sono gli operai che costruiscono i palazzi, ma si usano mattoni, cemento, calce che mancano per fare le case popolari e la gente continua a vivere nei tuguri. Provate, onorevoli deputati, a fare un giro a cinque o sei chilometri dal centro di questa grande città, andate fuori, nei piccoli quartieri a vedere come vive certa povera gente. E del resto, perché dovrei insistere su questo argomento se siamo su ciò tutti d’accordo? Ma intanto il piano continua a fare paura. Come i consigli di gestione. È una magnifica legge elaborata dai Ministri Morandi e D’Aragona, con una bellissima relazione introduttiva. Ma non se ne parla più. Quando se ne parlerà? Se ne ha paura. Ma a torto.
Immediatamente dopo la liberazione un industriale mio amico, della mia città, venne da me perché gli era stato presentato un progetto di consiglio di gestione di sette articoli. Il settimo era quello aggiunto dalla commissione interna della sua fabbrica dove la massa operaia si sentiva più portata a questa ardita conquista. I primi sei elaborati dalla Camera del lavoro erano, dirò così, giudiziosi, accettabilissimi anche da parte dell’industriale. Diceva però il 7°): «Qualora si determini un contrasto fra il consiglio di gestione e il proprietario privato, il consiglio di gestione estrometterà il proprietario e continuerà la gestione per conto suo». Era spaventato. Io gli dissi: «abbia fiducia del senso di equilibrio che è innato nel popolo italiano. Porti questa gente a vedere veramente come l’industria si conduce, e vedrà che non la metteranno mai fuori». Infatti è ancora oggi padrone della sua azienda.
Ma, dice giustamente l’amico Morandi (l’autore di quei 14 punti che sono pure un piano, anche se cucito con filo bianco, ma pure sempre un piano che il Governo ha accettato e non so in che misura veramente applicato), se noi attendiamo quell’avvio che dovrebbe venire dal Consiglio economico nazionale, attenderemo per venti anni. Penso ce ne vorranno molti di più, a giudicare da quello che ho avuto occasione di sentire durante i primi due giorni di discussione e da quello che ho avuto occasione di vedere nelle relazioni introduttive che sono state preparate dal Governo. Vi sono dei problemi che non possono attendere le elaborazioni e le inchieste del Consiglio economico nazionale. C’è un problema pesante nel nostro Paese: quello della disoccupazione. Qui occorre un intervento deciso. Noi abbiamo approvato l’altro giorno un provvedimento di legge che parla d’imposizione di mano d’opera in agricoltura. Bisogna camminare in questa direzione se si vuole assorbire in gran parte quella mano d’opera disoccupata che oggi costituisce preoccupazioni per l’onorevole Scelba, ma anche una grande preoccupazione per coloro che hanno a cuore gli interessi della classe operaia, perché è tutta gente che non ha da mangiare a casa propria.
Bisogna guardare soprattutto alla possibilità di sviluppo della nostra agricoltura. Quando noi pensiamo e sentiamo parlare di riforma agraria, vediamo molta gente allargare e aprire occhi ed orecchie e spaventarsi. Si fa una gran confusione fra riforma agraria e riforma fondiaria. Effettivamente bisogna riconoscere che in questa materia una grande chiarezza non c’è mai stata; ma non dimentichiamo quello che ci hanno detto coloro che in essa sono profondi. Mi appello ad uno che non è certamente dei nostri, Arrigo Serpieri, che ci consiglia di avvicinarci con cautela e rispetto all’agricoltura; di parlare con cautela di riforma agraria. Ma ci indica anche la possibilità di trasformazioni, di miglioramenti della condizione agraria nel nostro Paese, tanto da poter offrire una maggiore possibilità di collocamento di mano d’opera, di assorbimento di bracciantato, e permetterci di affrontare e risolvere – se non in tutto, in parte – in attesa che si aprano le grandi correnti d’emigrazione, il problema del collocamento di quel bracciantato agricolo che tante preoccupazioni ha dato in questi giorni al Paese, e specialmente al Ministro Scelba. Bisogna aumentare le possibilità di immissione delle grandi masse alle compartecipazioni agricole. Ciò potrà essere il risultato della realizzazione di un ardito piano di sviluppo delle bonifiche che sin’ora si sono svolte con piani non sempre ben ordinati, ma che dovranno essere oggetto di cura d– parte di questo Governo o del Governo più rispondente agli interessi della classe lavoratrice e dei nostri tempi, che all’attuale dovrà succedere.
Pensate soprattutto, signori del Governo, alla immensa miseria che imperversa nel nostro Paese in certe zone. L’onorevole Corbino ci parla dei 350.000 bagnanti di Ostia, e io sono ben lieto che ad Ostia siano potuti andare, in ragione di un terzo, i romani e sarò più lieto quando saprò che tutti potranno andare a Ostia, perché vuol dire che almeno a casa essi hanno da mangiare se hanno soldi da spendere per recarsi ad Ostia. Ma guardiamoci intorno; non dirò di Milano; ma specialmente di Roma e di Napoli: siamo circondati continuamente da bambini i cui volti tradiscono patimenti e miseria. Non mi si venga a dire che esiste una organizzazione dell’accattonaggio. Può anche esser vero, ma la miseria si vede lo stesso in quelle povere ossa, che spuntano spesso da camicie stracciate e lacere: peggio ancora se c’è anche l’ignominia dell’organizzazione dell’accattonaggio che fa leva su tutta questa miseria. Sono questi problemi grossi: bisogna pensare ad essi e guardare a questi problemi, ai quali guarda soprattutto – ed è suo dovere – la Confederazione generale del lavoro. La Confederazione generale del lavoro, che è oggi una grande forza politica nel nostro Paese, e che deve essere preservata da possibili scissioni. Io colgo l’occasione volentieri, io che sono tra coloro che per diverse ragioni (che qui non ho da ripetere, perché non è questa la tribuna da cui possano essere esposte determinate idee) si sono trovati e si troveranno ancora lungo la strada in polemica con gli attuali dirigenti della Confederazione, colgo l’occasione per dire che l’unità sindacale è oggi una forza basilare della nostra Nazione e penso altresì che se la classe operaia fosse disunita e l’unità sindacale spezzata, ciò porterebbe ad un enorme aumento delle difficoltà del nostro Paese.
Quindi noi siamo per l’unità, ma vorremmo che la Confederazione generale del lavoro diventasse uno strumento veramente capace di inserirsi nella lotta, attrezzato per contare e pesare nella risoluzione dei problemi della vita del nostro Paese e fare una sua politica. Chiediamo che essa sia apartitica e domandiamo che nella sua azione non senta l’influenza ed il peso delle decisioni e della volontà dei partiti, ma vorremmo che la Confederazione facesse una sua politica e prospettasse le soluzioni dei problemi della categoria e della classe nel quadro dell’interesse nazionale, sì da far coincidere gli interessi di quella determinata categoria e della classe con gli interessi nazionali, così come si è sempre fatto e sempre si fa dovunque esiste un movimento sindacale veramente forte, che sa dire il suo pensiero sui gravi problemi politici dell’ora. Vorremmo che la Confederazione ci prospettasse il suo pensiero sul problema delle grandi riforme di struttura di cui si parla alle masse operaie da tre anni a questa parte, senza mai riuscire a indicare nulla di concreto.
Molto spesso la Confederazione del lavoro ha appoggiato la soluzione di determinati problemi prospettati dai partiti politici, mentre è verso essa e verso le sue soluzioni che dovrebbe convergere l’appoggio dei partiti politici. Ma, compagni (l’abitudine di parlare nelle assemblee socialiste mi ha portato a chiamarvi compagni, una parola che mi è cara, anche se da qualche parte è respinta), onorevoli colleghi, al partito politico può essere possibile prospettare la soluzione di un problema che si proietta nell’avvenire, ed il partito politico può anche essere sconfitto e trovare nella sconfitta una ragione di più per rafforzarsi nella sua convinzione e resistere alla battaglia.
Ma alla classe lavoratrice, che ha determinati diritti da difendere e precisi interessi che sono quelli rappresentati dal pane delle famiglie dei lavoratori, alla classe lavoratrice non è consentito prospettare una soluzione, un’impostazione, una battaglia che sia fuori dalla possibilità della realizzazione. Non è consentito cioè associare la sua sorte alla sorte del partito politico.
Qualcuno ha affermato che la classe operaia è stata battuta. Io affermo che la classe operaia non è stata ancora battuta, anche se la situazione che si è creata nel Paese può far credere che determinati partiti politici possano trovarsi in condizioni diverse o di minor prestigio di quelle di ieri.
Ma la classe operaia potrebbe essere battuta se questa situazione non avesse un rimedio. Ed è a questo rimedio che noi dobbiamo guardare. Questo rimedio noi lo possiamo trovare se riusciremo a individuare lo strumento che ci permetta la soluzione che dovrebbe correggere l’attuale crisi.
E mi riallaccio a quanto ho detto inizialmente facendo mia l’affermazione di Lussu. Come? Ecco il punto. Ne parliamo nei corridoi tutti i giorni. Ma prima di addentrarmi all’esame rapido, che vi porterà via pochi minuti, di questo problema eminentemente politico, io voglio dire ancora una parola su quello che è il problema del giorno: l’occupazione delle terre incolte. Ho letto stamane sul giornale che non vi sono terre incolte nel Lazio. Io non lo so. Può darsi, ma non conosco questa regione. Certo, terre incolte in Italia ve ne sono, ma vi sono soprattutto molte terre mal coltivate, ed è in quella direzione che dovrebbe puntare la riforma agraria, una riforma agraria intelligente che offra prospettive e possibilità di lavoro e, attraverso l’utilizzazione del suolo nazionale, anche la possibilità di dare al popolo italiano quel pane che gli manca. Ecco il grande problema. Confederazione del lavoro e Governo potrebbero fare molto in questo campo. Dare lavoro agli italiani e aumentare la produzione agraria si può, pensando in tempo, predisponendo un piano, creando grandi cooperative, disciplinando l’occupazione delle terre mal condotte, immettendovi, attrezzate debitamente, queste cooperative. Vi sono nel nostro Paese migliaia di tecnici agrari che non attendono che di essere utilizzati, come vi sono migliaia di braccia che non attendono che essere avviate al lavoro. Dare sementi, dare concimi, dare macchine, dare credito a questa gente organizzata in forma cooperativa. Questa è la riforma agraria. Una riforma modesta alla quale il Governo e la Confederazione dovrebbero chiamare a collaborare, se non vengono al richiamo della convinzione, con quello della legge, le classi proprietarie. Ed allora molte cose nel nostro Paese che oggi sembrano difficili diventeranno più facili. Ma occorrerebbe soprattutto che si intendesse una grande verità: che nel nostro Paese vi sono delle forze sociali retrive, arretrate, che noi dobbiamo battere in breccia se vogliamo affrontare uno qualsiasi di questi grandi problemi e soprattutto se vogliamo affrontare il problema grave, centrale, basilare della crisi politica del nostro Paese. Queste forze sociali sono il latifondismo, i monopoli industriali, la dittatura del capitale finanziario che sono una pesante ipoteca, come è stato dimostrato da tanti oratori, sull’azione del Governo, o di una parte del Governo. Non dirò su quella dell’onorevole Gonella, sul quale pesa invece l’accusa di una specie di ipoteca clericale. (Proteste al centro).
Lo dimostreranno, caso mai, i tecnici che interverranno in questa discussione. Contro queste forze noi dobbiamo lottare, queste forze dobbiamo battere in breccia, se vogliamo aprire la strada ad una democrazia nel nostro Paese che non sia solo formale. Non sono larve del passato, onorevole Dossetti. Sono realtà presenti nel nostro Paese. Ma, come ho detto: noi dovremmo andare alla ricerca di questo strumento politico. Io non farò, come l’onorevole Giannini, un tentativo di mercato in pubblica seduta. (Si ride a sinistra). È abitudine, è consuetudine nel nostro Paese di risolvere questi problemi nei corridoi, fuori da quello che è l’ambiente nel quale dovrebbero essere risolti, e l’ambiente dovrebbe essere questa Aula.
È un peso che porteremo ancora, io spero, per poco tempo, perché credo, spero, mi auguro che il popolo italiano possa arrivare a correggere la formazione di questa Assemblea. Non credo però alla possibilità del trionfo di un solo partito. Evidentemente non è nelle prospettive dell’immediato domani e vorrei quasi dire: è augurabile che non sia nelle prospettive dell’immediato domani questa soluzione. Dove troveremo la base per la creazione di questo strumento politico, di questo Governo nuovo, diremo così, per intenderci meglio? Ma vediamo di non vendere la pelle dell’orso prima di averlo ammazzato, perché sembra che il Governo non abbia nessuna intenzione di andarsene e nessuno deve credere sul serio che sia compromessa per sempre la solidarietà dei qualunquisti. Ma è certo che se il Governo vuole porsi nella condizione di assumere una determinata maggiore autorità nei confronti delle classi del lavoro, deve allargare la sua base in questa parte dell’Assemblea. (Commenti al centro).
Una voce al centro. Fin dove?
SIMONINI. È una domanda che ci è stata posta da qualcun altro: «fin dove?». Non dirò cosa ho risposto: il problema è di sapere quello che si vuole fare e di incontrarci fra uomini che vogliono giovare veramente, realmente al Paese! Il mio partito in questa materia non ha pregiudiziali di sorta, non prende l’iniziativa di nessuna esclusione, non intende precludersi nessuna possibilità: ciò che urge oggi è trovare la formula che dia lo strumento politico che ci permetta di superare l’inverno e di arrivare alla primavera, perché in primavera il popolo italiano ci giudicherà e, se avrà giudizio, forse ci manderà a spasso tutti. Ma l’importante è che il Governo e il Paese non ignorino che vi sono dei problemi oggi, e sono propri di quella enorme massa di italiani che noi presupponiamo di rappresentare, chi più, chi meno. Perché, colleghi comunisti, ha ragione Saragat quando vi dice che voi non dovete arrogarvi il diritto di essere gli unici e soli rappresentanti della classe operaia. E io voglio correggere anche ciò che egli ha detto concludendo il suo discorso e riferendosi ad una certa frase di Rosa Luxemburg: noi riteniamo non di essere sulla strada che ci permetterà di incontrarci con la classe lavoratrice, ma riteniamo di essere oggi sul terreno, sulla piattaforma di un’azione politica e sociale che ci permette di difendere gli interessi della classe lavoratrice! In quell’azione, che il vostro Togliatti ha definito di «unità nella ricostruzione», noi non poniamo, come ho detto, il problema della esclusione di alcuno, ma pensiamo che la classe lavoratrice oggi potrebbe bene essere efficacemente difesa anche da un Governo al quale non partecipasse il Partito comunista. (Commenti).
E quanto ha affermato l’onorevole Presidente di questa Assemblea domenica, in una grande adunata a Bologna, vi dà la riprova e la conferma di ciò che io affermo. Egli ha detto, parlando alle masse organizzate che erano affluite alla festa della stampa democratica, che «in uno Stato moderno i lavoratori così compattamente organizzati possono sorvegliare lo sviluppo della vita nazionale anche se, per intanto, gli uomini che esprimono più direttamente il loro pensiero (in questo caso sareste voi) non seggono al centro dello Stato».
La vostra funzione è la funzione di un grande partito, diremo così di estrema sinistra, che non si deve esaurire, non si può esaurire nella ricerca affannosa di posti al Governo è può pesare lo stesso nella politica del Paese, se realmente ha il consenso di grandi masse consapevoli.
Una voce a sinistra. Allora volete andare voi al Governo…
SIMONINI. Noi non ci siamo ancora andati.
So che voi volete dare alla classe lavoratrice ciò che noi pure le vogliamo dare e che non può essere il risultato di una improvvisazione (Commenti – Interruzioni all’estrema sinistra) né il frutto di un colpo di bacchetta magica: tutte le grandi conquiste sono faticose a realizzarsi ed io voglio fissare qui un pensiero espresso sempre dal Presidente di questa Assemblea in quella adunanza di Bologna, pensiero altamente nobile, istruttivo, indicativo, che ci permette di perdonargli d’aver rotto la tradizione secolare di questo Parlamento che vedeva il Presidente estraniarsi dalla vita politica attiva. (Approvazioni al centro).
Egli parlava, in quell’adunanza, del travaglio di un secolo, riferendosi al tempo in cui a Torino era stato promulgato lo Statuto. E concludeva: «Quei lontani nostri progenitori di un secolo fa, anch’essi lottando, erano nelle loro lotte impazienti e credevano che nel giro di pochi anni avrebbero raggiunto le loro mete e consolidato le nuove istituzioni degli italiani». Egli sottolineava appunto quale complesso di destini, di gioie, di dolori abbia rappresentato quest’era che l’anno prossimo troverà la sua conclusione.
Queste cose, onorevoli colleghi, diciamo noi oggi, convinti, profondamente convinti, di rappresentare collegialmente gli interessi della classe lavoratrice italiana: e sono cose che nel nostro Paese si dicono da molti anni. C’è stata una bufera, c’è stata un’interruzione che è durata un quarto di secolo, durante il quale non abbiamo più potuto parlare questo linguaggio alle classi operaie: ma è pur sempre questo il linguaggio che noi dobbiamo rivolgere alle masse lavoratrici.
Concludendo, vi prego permettermi di leggere alcune parole che ha qui pronunziato, in questa stessa Aula, mentre si discuteva intorno ad un Governo Zanardelli, colui che io considero come mio maestro per aver vissuto a lui accanto e per aver appreso da lui quel poco che so, Camillo Prampolini…
Una voce all’estrema sinistra. Ma che adesso hai dimenticato.
SIMONINI. …e voi vedrete, colleghi comunisti, quanto siano di attualità in questo momento le parole di quell’uomo: «Confrontate l’alba del movimento operaio inglese con quest’alba di redenzione del nostro proletariato. Quella inglese fu un’agitazione che si iniziò e si svolse specialmente presso il proletariato industriale, e la nostra invece comprende già molta parte del proletariato agricolo, meno preparato, più rozzo, più misero dell’altro. Eppure, ciò nonostante, la lotta fra i padroni ed i lavoratori in questi ultimi tempi ha proceduto in Italia quasi senza scosse, quasi senza incidenti gravi; cioè in modo veramente mirabile e di cui abbiamo tutti il diritto di essere orgogliosi se lo paragoniamo a ciò che durante lo stesso periodo dell’organizzazione della resistenza avvenne in quell’Inghilterra, della quale tutti siamo soliti a menar vanto per la sua civiltà».
Non vi sembra che queste parole possano inquadrarsi nella nostra situazione attuale? Non è un’alba questa che sorge? Non è vero che in questi due anni la classe operaia italiana ha dato dimostrazione di alto senso di civismo per il modo con cui ha affrontato le dure battaglie del momento?
Ma concludeva Camillo Prampolini affermando che «i lavoratori sono maturi alla libertà». Non insultateli (onorevole Scelba, queste parole andrebbero bene anche per lei) dicendoli immaturi alla libertà; i fatti vi hanno smentito; ma non ostinatevi nel proposito folle di togliere loro la libertà; essi potranno abusarne qualche volta, anzi, ne abuseranno certamente, cioè commetteranno inevitabilmente qualche errore – chi di noi non ha errato e non erra? – Ma voi stessi li spingereste fatalmente al massimo errore, o meglio, al massimo danno, nostro, vostro, di tutti, perché li costringereste alla violenza sistematica, voluta, premeditata, organizzata, se, dimentichi del passato della vostra stessa classe e dei principi di diritto pubblico da voi stessi proclamati, precludeste loro le vie dell’azione nell’ambito della libertà».
Sono parole queste che noi possiamo ancora ripetere e ricordare a monito dei governanti di oggi e ad insegnamento per noi.
Noi guardiamo all’avvenire come all’armonica visione di una società civile, di una nuova società civile italiana che risorge, nella quale si affermano i diritti del lavoro, mentre cadono privilegi e pregiudizi, e nasce il nuovo ordine socialista. (Applausi – Congratulazioni).
PRESIDENTE. L’onorevole Quintieri Quinto ha presentato il seguente ordine del giorno, firmato anche dagli onorevoli Lucifero, Condorelli, Fabbri, Cifaldi, Bellavista, Villabruna, Cortese e Perrone Capano:
«L’Assemblea Costituente, preso atto delle comunicazioni del Governo, ne approva le attuali direttive politiche ed economiche, raccomandando che i provvedimenti necessari per riportare alla normalità la produzione e la vita del Paese siano accompagnati da tutte le cautele atte ad attenuare gli inevitabili contraccolpi di un cambiamento di congiuntura, e passa all’ordine del giorno».
L’onorevole Quintieri ha facoltà di svolgere il suo ordine del giorno.
QUINTIERI QUINTO. Non premetto la promessa consuetudinaria di brevità, fatta anche dal nostro collega che abbiamo ascoltato con interesse, ma che abbiamo ascoltato per un’ora e mezzo; non mi sento quindi di dare agli amici una sensazione di freddo con una promessa che i fatti hanno mostrato fallace.
Cercherò, poiché al nostro Governo sono state date delle idee in ogni campo, sono stati forniti argomenti di meditazione in ogni direzione, di limitarmi soltanto a poche e precise cose, per vedere su quali punti si possa imperniare e precisare il dissenso e su quali punti invece noi possiamo essere d’accordo.
Tutti hanno detto che la crisi attuale è una crisi politica. Esattissimo! In questo momento si tratta di una crisi esclusivamente politica.
Ma le basi, ma gli argomenti, ma gli spunti sono economici.
E poiché il mio mestiere è quello di occuparmi di qualche questione economica, mi limiterò esclusivamente al mio campo.
Confesso che questa Assemblea non mi sembra, per come è sorta, per le sue tradizioni, per i suoi sentimenti, l’ambiente più adatto per trattare delle questioni economiche. Questo era uno strumento forgiato per altri compiti. Qualche ricordo scolastico mi suggerirebbe, forse, una funzione completamente diversa, perché ricordo che, quando Giovanni Senza Terra dovette subire dai suoi baroni l’imposizione della Magna Charta, fu per tutelate i mercanti, i commercianti, diremo i capitalisti, della City, dalle imposizioni che il fisco faceva gravare sulle loro spalle.
Ora, il nostro Parlamento ha una funzione del tutto diversa. C’è qualche cosa che rende difficile l’uso di questo prezioso e delicato strumento per affinare e discutere le questioni economiche. E questo qualche cosa (perdonate!) è la mancanza di moderazione, è la mancanza di obiettività, è soprattutto la mancanza d’una facoltà che io risento: la facoltà di poter dire agli avversari, tutte le volte che vorrei, che hanno ragione, e naturalmente di sentire dall’altra parte le stesse ammissioni.
Ci sono molti punti nelle questioni finanziarie sui quali non vedo come non ci possano essere divergenze, penso dunque che queste divergenze siano dovute talora solo alle posizioni reciproche dei contendenti, in questa Aula, perché vedo che quando i colleghi che stanno nell’emiciclo passano al banco del Governo difendono qualche volta opinioni opposte a quelle che sostenevano quando stavano nell’emiciclo, e viceversa.
Ho promesso che avrei trattato problemi precisi; vengo, quindi, al più attuale di essi.
Restrizione del credito. C’è stata in questi ultimi tempi, specialmente da poche settimane, una certa apprensione nel paese per delle pretese restrizioni del credito. Vorrei cominciare col dire che si è evidentemente fraintesa qualche frase, forse non felicissima, da parte dei preposti al regolamento del credito e soprattutto alla situazione bancaria.
Siccome altra volta ho definito delicata la condizione delle banche, mi sembra che, anche adesso (sebbene siano le undici e mezzo di sera) valga la pena di dirne qualche parola.
La svalutazione monetaria ha profondamente alterato il funzionamento del meccanismo creditizio. Le ragioni sono profonde. È svanito il capitale liquido, quello che le aziende non avevano investito in beni reali. Non c’è la possibilità di smobilitare quella parte di capitali ancora esistente nelle aziende, investita in beni reali, sia per le difficoltà delle vendite e i rischi che ancora sono collegati con la moneta, sia perché una parte di questi beni è necessaria al funzionamento della banca.
Quindi vi sono, in pratica, gli istituti che hanno salvato parte del loro capitale ma lo hanno immobilizzato, e quelli che non hanno salvato nulla. Le banche hanno visto accrescersi fortemente i loro depositi; con questi siamo a circa 17-18 volte le cifre dell’anteguerra perché a fine luglio si è arrivati a quasi 1000 miliardi di fondi di terzi. Ma questo accrescimento di depositi ha anche portato con sé uno spostamento fra le varie specie di essi. Sono aumentate soprattutto quelle che erano somme a vista, somme da tenere a disposizione della clientela bancaria.
Ora, è avvenuto questo fenomeno: siccome non si dànno più interessi sui depositi, la gente non ha nessun interesse di depositare le somme di cui dispone. Sono invece gli assegni circolari ed i vaglia che si sono accresciuti per delle somme enormi, perché mentre i depositi non sono aumentati che 17-18 volte, gli assegni ed i vaglia sono aumentati di 200-250 volte l’ammontare dell’anteguerra. Notate che l’assegno circolare permette di costituire una forma di conto corrente completamente anonimo. Può andare qualsiasi sconosciuto a fare un vaglia. Si può anche fare un vaglia ad un nome inesistente e poi si conserva nel cassetto questo titolo di credito che si potrà esigere in ogni momento. E non c’è modo di rintracciarne il beneficiario; non è possibile raggiungerlo in nessuna maniera, specialmente se il titolo di credito è stato emesso con un nome falso. In questa situazione, con questa mole di depositi non garantiti da capitali propri degli istituti, con questa massa di assegni circolari pagabili a vista, le banche evidentemente devono usare la massima prudenza. Ora, in un anno, dal luglio dell’anno scorso, abbiamo avuto un incremento di circa 460 miliardi di depositi, 460 miliardi che sono stati assorbiti interamente dalla richiesta della clientela delle banche. C’è stata in tale senso una pressione fortissima. Evidentemente abbiamo avuto nel nostro Paese, negli ultimi 18 mesi, un forte sviluppo in tutti i rami dell’attività economica – dirò poi per quali ragioni – e quindi le banche hanno risentito al massimo di questa pressione. C’è qualche cosa di più; le banche non riescono a fare il loro bilancio economico perché le spese sono salite in proporzioni maggiori di quella in cui si siano accresciute le risorse. Si è andati così avanti per cercare di incrementare gli utili di gestione che le banche non funzionano più neppure nel regime di monopolio che è quello attuale, perché hanno a mano a mano, ridotti zero i tassi dei depositi che venivano loro portati (e quindi non c’è più nessun tornaconto da parte del pubblico a portare il denaro agli istituti di credito). D’altro canto si sono elevati al massimo gli interessi sulle cambiali e sui fidi.
In questa situazione le banche hanno investito tutto quello che potevano investire. Ora, di recente, la Banca d’Italia ha detto ai direttori degli altri Istituti: Signori, voi conoscete il mestiere; vi renderete conto di che cosa significa investire più del 70-75 per cento delle vostre disponibilità, disponibilità di cui dovete tenere una parte pronta in ogni circostanza ed in ogni momento perché, data la delicatezza della situazione, possono esservi prelievi imprevisti ai quali dover far fronte; qualunque incrinatura al credito delle banche, che fortunatamente oggi è alto, potrebbe avere ripercussioni serie. Quindi, con il fido alla clientela, voi più in là di quanto abbiate fatto non potete andare. Su questo ragionamento convengo in pieno con l’istituto di emissione.
Nella stessa riunione si è anche detto alle Banche: voi dovete aiutare lo Stato. Qui debbo osservare che non vi è organismo finanziario il quale abbia i mezzi, in questo momento, di aiutare lo Stato, perché effettivamente i bisogni del commercio e dell’industria sono così elevati, che le possibilità bancarie di aiutare lo Stato si riducono a ben poca cosa. Ma c’è anche un’altra questione: in questi ultimi mesi la congiuntura finanziaria ha avuto una variazione nella sua andatura. Infatti, fino a qualche mese fa, fino a luglio, c’è stato un incremento dei depositi, incremento che con il mese di luglio è finito. Io vorrei richiamare l’attenzione, soprattutto dei Ministri finanziari, sul fatto che l’accrescersi del gettito fiscale è senza dubbio benefico, però dobbiamo tener presente che rappresenterà altrettanti mezzi sottratti all’economia privata. Quindi nell’ordine del giorno di fiducia al Governo raccomando di fare la maggiore attenzione, per mitigare i contraccolpi inevitabili, od almeno possibili, data la massa ingente di circolante che non affluisce più all’industria ed al commercio.
Se il commercio e l’industria si troveranno messi alle strette, ricorreranno, per sottrarsi alle difficoltà, ad ogni pressione sullo Stato. Occorre essere preparati per resistere in una forma ragionevole e ridurre i danni che anche soltanto un inizio di deflazione può provocare. C’è poi un altro punto importante in discussione ed è questo: la selezione delle operazioni delle banche. Richiamo l’attenzione su di un fatto: 1’80 per cento e più, forse, dei depositi bancari è sotto il controllo dello Stato, perché è lo Stato che esercisce oggi l’industria bancaria; pensate, a tale proposito, alle banche di diritto pubblico, o a quelle di interesse nazionale ed alle loro collegate, alle Casse di risparmio, alle Casse postali. Oltre 1’80 per cento, dunque, come ho detto, delle riserve bancarie italiane sono in mano dello Stato. E allora in che cosa può consistere questo controllo? Questo controllo dovrebbe essere affidato alla Banca d’Italia che ha, per esercitarlo, a sua disposizione un mezzo efficace classico: quello del risconto. Senza contare il diritto che le dà la legge per la tutela del risparmio e per l’esercizio del credito di seguire le operazioni di fido. Quando una banca ha bisogno dell’appoggio della Banca d’Italia, questa ha modo di controllare gli investimenti. Le ordinarie disposizioni per la tutela del risparmio dànno, come ho detto, alla Banca d’Italia la possibilità di esaminare le operazioni in cui cambiali sono presentate al risconto dai diversi Istituti che le hanno fatte. Aumentare ed integrare questa specie di sorveglianza, in questo momento, può essere una cosa utile sia per mitigare le operazioni speculative, sia per poter rispondere alle lamentele ed alle proteste che, più o meno in buona fede, verranno fatte a questo proposito.
Venendo poi alla parola «speculazione», alla quale parola ed alla quale tendenza l’onorevole Scoccimarro mi pare abbia dato una importanza eccessiva, dirò questo: è evidente che in un momento di svalutazione monetaria vi sia della speculazione. Ma che cosa intendete per speculazione? Non credo si possa considerare strettamente colpevole e speculatore l’industriale o il commerciante che vede ridursi il suo capitale giorno per giorno, se cerca di difendere i suoi mezzi di lavoro, perché per l’industriale e per il commerciante il capitale rappresenta un mezzo di lavoro come la biblioteca per il professionista, e gli attrezzi per l’artigiano.
Ammetto però che insieme con questi ce ne sono altri che allargano gli impianti, che migliorano le scorte facendo debiti e confidando, per pagarli, solo sulla svalutazione del denaro. Lì è opportuno intervenire, con moderazione e con criterio, ma bisogna intervenire; un’azione governativa si può perfettamente approvare, su per giù con le direttive seguite fin’ora. Questo è l’argomento principale sul quale volevo intrattenervi. Mi pare di non essermi troppo dilungato.
Dirò poche parole sulla deflazione. Bisogna amarissimamente piangere sulla inflazione e sulla ingiustizia profonda e la nequizia della inflazione. Badate però che la deflazione sarà qualche cosa di peggio. Io ricordo il sogno del Faraone delle sette vacche grasse e delle sette magre. Le magre le metterei a simboleggiare la deflazione. Bisogna cercare di evitare contraccolpi psicologici, perché questi potrebbero portare un arresto notevole in tutta la produzione; tanto più che si specula non solo al rialzo, ma anche al ribasso dei prezzi, perché infine, i primi ad essere colpiti da tutte queste ripercussioni economiche sarebbero i ceti più modesti. La differenza di opinioni non può vertere che sui mezzi come attutirli. Ora, nella deflazione, tutti immaginano che i prezzi scenderanno e che si potrà comprare; che si potrà comprare più di quanto non lo si possa oggi perché ognuno potrà disporre del denaro che possiede ora, con prezzi più bassi.
Purtroppo, se i prezzi scendono di una certa aliquota, il denaro che affluisce nelle tasche di ciascuno diminuisce molto di più: quindi, nuove, enormi difficoltà. Alla deflazione non ha retto nemmeno l’economia americana, che è stata duramente scossa nella grande crisi del 1929-1931, che ha visto diverse migliaia di istituti bancari fallire, ed ha sentito scricchiolare tutta la compagine finanziaria e sociale di quell’immenso Paese. Anche gli americani si son dovuti adattare a svalutare il dollaro ed a fare tutta una gamma di operazioni inflazionistiche perché la moneta non voleva scendere sufficientemente nei confronti dell’oro; tutto al contrario, per questo punto, di quanto accade da noi. Quindi, come vedete, la deflazione è molto pericolosa. Il rallentamento della congiuntura favorevole dei mercati internazionali – a cui accennava l’onorevole Corbino e che è in effetti da attendersi più o meno presto, perché da due anni a questa parte non si distrugge più, ma si è invece cominciato a costruire – è stato iniziato per il soddisfacimento almeno parziale dei bisogni più impellenti del pubblico di tutto il mondo. Anche questo fenomeno per noi avrà le sue luci e le sue ombre, giacché è bene tener presente che la nostra economia è, almeno parzialmente, basata sulle punte dell’economia altrui. Quando gli altri lavorano per il 110 per cento della loro potenzialità, per l’ultimo 10 per cento chiedono la nostra mano d’opera e le nostre merci. A mano a mano che la loro produzione sodisfa in più larga misura i loro bisogni, avremo dall’estero richieste diminuite e le nostre difficoltà economiche si accentueranno; dovremo prepararci quindi ad una aspra concorrenza sui mercati esterni.
Vorrei precisare per ultimo due o tre questioni di cui ho sentito parlare. La prima di queste è il mercato nero. Ci si è scagliati contro di esso, senza tener presente che il mercato nero ha una sua precisa funzione economica, cioè quella di portare i prezzi ad un livello tale che risponda alle necessità del momento, ed al reale valore della moneta. Ci dicono: vedete, c’è il mercato nero, nel quale si possono trovare pasta, pane, dolci e tutto. Ma non è esatto: il mercato nero c’è soltanto per una piccola aliquota di acquirenti ai quali è consentito raggiungere quei determinati prezzi. Si dice: ma il mercato nero ha l’odiosa caratteristica di sodisfare soltanto alcuni consumatori, lasciandone molti altri nell’indigenza. Vorrei far presente all’onorevole Scoccimarro, a questo proposito, che il danno del prezzo politico del pane non è costituito dai miliardi che costa al Governo il prezzo basso di vendita; il danno principale del prezzo politico del pane è costituito dal cattivo uso, dallo sciupio, che si fa del pane. Se si potesse dare il pane di grano, realmente, a tutti al 20 per cento o al 30 per cento del suo valore, esso finirebbe all’alimentazione del bestiame o sciupato in cento altri modi, perché è soltanto il prezzo che può, evidentemente, ridurne in modo efficace il consumo.
Quindi il mercato nero ha una sua funzione economica precisa: quella di portare i beni al loro prezzo effettivo, al loro corso di mercato libero. Perciò esso si è diffuso in tutto il mondo e si riproduce dovunque con gli stessi aspetti.
Ho qualcosa da dire in difesa di un’altra nostra concezione economica: della concezione economica fondamentale del Partito liberale. Ha detto l’onorevole Morandi – e sono perfettamente certo dell’esattezza della sua affermazione – che gli industriali tessili non hanno dato nemmeno un centesimo ai loro lavoratori dei miliardi che hanno guadagnato.
Io dico però che bisognava essere altrettanti San Francesco d’Assisi per dare qualcosa ai lavoratori. Era evidente che nessun tessile – fatta naturalmente qualche rara eccezione – avrebbe dato qualcosa ai propri operai. Ma su che linea deve essere indirizzato il nostro sforzo? Esso deve essere rivolto a ridurre questi margini eccessivi di utile dell’industria attraverso la concorrenza; è solo la libera concorrenza delle forze produttive che può fare da argine all’egoismo degli imprenditori. Ecco l’esigenza della nostra economia; ecco perché noi diciamo: non alterate i prezzi; non fate violenza al naturale equilibrio di essi. Se li alterate, accadrà questo, che quando le cose vanno male per loro gli esponenti dell’industria vi chiederanno aiuti e sussidi a spese della collettività; quando invece andranno bene, allora guadagneranno molto ma non vi daranno un soldo. Io non voglio così, a precipizio, addentrarmi in discussioni sul sistema liberale; ma mi sembra che l’unico mezzo per ridurre gli utili esagerati dei produttori risieda nella possibilità di far funzionare liberamente il giuoco delle forze economiche. A questo proposito cito un ultimo fenomeno. Specialmente nel Nord abbiamo tassi di interesse per operazioni di prestito elevatissimi: si parla del 15, 20, 30 per cento.
Questo è uno di quei tali elementi che possono frenare la speculazione e possono far ritornare in Italia i capitali emigrati fuori e naturalmente attirare anche il capitale estero. Io ho più fiducia in questo fenomeno che in tutto quello che può essere pressione, coercizione e controllo sui cambi. Il danaro è avido e pavido. Bruttissimi difetti, ma è così. Noi dobbiamo, finché vogliamo lasciare agire, nell’attuale struttura del paese, il gioco delle forze economiche, tener conto di queste attitudini.
Ora davvero un’ultima osservazione ed ho finito. Noi abbiamo tutti un grande interesse a che le condizioni economiche del nostro Paese non vadano peggiorando, perché è da queste condizioni economiche che dipende l’indipendenza di esso. Devo dire che ho sentito qui con una certa preoccupazione il Ministro Merzagora descrivere in una forma pittoresca la nostra situazione nei riguardi degli scambi con l’estero, e principalmente con l’America. È verissimo, ma io non credo che il nostro Paese, che è un grande Paese, che ha mostrato qualità eccezionali di lavoro, di tenacia, di resistenza, voglia adattarsi a vivere con questo cordone ombelicale. Anche fisiologicamente è una cosa che va fin quando l’organismo può stare nel grembo materno, ma poi il cordone si deve tagliare. Ora, su questo punto avremmo voluto sentire qualche cosa di più sui programmi del Ministro Merzagora per il futuro. Egli ci ha descritto la situazione e ci ha spiegato i diversi rimedi adottati per fronteggiarla e per riparare ai guai più imminenti. Io mi rendo conto della necessità dell’adozione dei cambi multipli fatta per cercare di incrementare le nostre esportazioni. Ma un programma a lunga scadenza non c’è. Su questo punto richiamo l’attenzione del Governo data la gravità della situazione, che poi non è soltanto una difficile situazione italiana, ma è comune a diversi altri Paesi europei che, come il nostro, sono legati agli scambi con l’estero. L’Inghilterra è nella stessa situazione. I mercati che ci fornivano le materie prime li abbiamo in parte perduti, perché sono i mercati dell’Europa orientale con i quali ancora non abbiamo potuto riprendere i contatti. E sono giustissimi tutti gli sforzi fatti per riattivare gli scambi con la Jugoslavia, con l’Ungheria e con tutti i paesi dell’Europa centrale, orientale e sud-orientale, che sono poi i nostri naturali mercati di sbocco, perché purtroppo gli scambi con l’America, mettendo da parte la forma del tutto particolare della beneficenza, della quale dobbiamo essere grati, gratissimi anzi, gli scambi con l’America in forma reciproca, credo, non saranno facilissimi. L’America è un venditore per eccellenza; è tanto un ricco, un generoso venditore, che regala perfino i beni, ma sarà per noi un cattivo compratore. Quindi, occorre esser cauti nel nutrire grandi speranze di stabilire un duplice scambio di prodotti con l’America.
Ho detto che avrei finito e mantengo la promessa. C’è soltanto una cosa che mi lascia un po’ perplesso e che vorrei chiedere agli amici della sinistra: noi abbiamo una situazione difficile economicamente e tale che può compromettere la difesa della indipendenza del nostro Paese alla quale sono sicuro teniamo tutti. Tale indipendenza politica ed economica evidentemente non è favorita e non è agevolata dagli scioperi, dalle interruzioni dell’attività lavorativa, che portano tra le masse operaie ed i dirigenti, che sono tutti e due elementi egualmente importanti per la produzione, strascichi di rancori e di cattivi rapporti dolorosi e dannosi. Ho saputo che domani noi avremo, per esempio, uno sciopero generale a Roma. Mi permetto di interrogare a questo proposito il Presidente del Consiglio per avere una parola di assicurazione. Se avremo, come spero, una risposta favorevole, credo di aver chiuso bene il mio discorso. (Applausi – Congratulazioni).
DE GASPERI, Presidente del Consiglio dei Ministri. Chiedo di parlare.
PRESIDENTE. Ne ha facoltà.
DE GASPERI, Presidente del Consiglio dei Ministri. Vorrei dire all’Assemblea una parola tranquillante. La tenace opera di mediazione dei colleghi Segni e Marazza è riuscita stasera a fare rinviare la decisione e l’attuazione dello sciopero generale in Roma, la cui minaccia era incombente. Credo che domani si potrà avere una risposta definitiva da parte degli agricoltori e confido che essa sarà tale da dare soddisfazione alle più essenziali richieste dei contadini. Spero che questa decisione possa essere presa domani, in modo da evitare uno sciopero generale che sarebbe senza dubbio molto funesto per la nostra città. (Applausi al centro e a destra).
PRESIDENTE. Il seguito della discussione è rinviato a domani.
Svolgimento di interrogazione.
PRESIDENTE. Gli onorevoli Gasparotto, Pajetta Gian Carlo, Malagugini e Vigorelli hanno presentato la seguente interrogazione con richiesta di risposta urgente:
«Al Governo, per sapere quali provvedimenti abbia preso in questi giorni o intenda prendere, perché siano dati alle industrie milanesi, che si trovano nella condizione di non poter far fronte al pagamento degli stipendi e dei salari al personale, i mezzi di credito necessari per fronteggiare la situazione e assicurare la normale attività produttiva»,
Chiedo al Governo quando intenda rispondere.
DE GASPERI, Presidente del Consiglio dei Ministri. Credo che domani, nel corso della discussione delle mozioni, il Vicepresidente Einaudi sarà in grado di esporre i termini generali della questione, anche per ciò che si riferisce alle industrie milanesi. Per quello che particolarmente riguarda la Breda, posso dire che lo Stato, essendo interessato alla puntuale esecuzione delle proprie forniture, che concernono specialmente il materiale ferroviario, ha potuto già rendere agevole e liquida la situazione.
PRESIDENTE. L’onorevole Gasparotto ha facoltà di dichiarare se sia sodisfatto.
GASPAROTTO. Prendo atto di questa dichiarazione e parzialmente sono sodisfatto, nel senso che essa segnala un avviamento alla soluzione. Il problema è vasto, e interessa solidalmente i datori ed i prestatori di lavoro. Noi non ci siamo preoccupati degli interessi personali degli industriali; ci preoccupiamo degli interessi della produzione e soprattutto del lavoro, perché si minaccia niente meno che la mancata corresponsione dei salari e degli stipendi. Ora, sta bene che si siano già presi provvedimenti. Ieri ho preso atto della risposta scritta ad una interrogazione mia e dei colleghi bergamaschi al Ministro Corbellini, nella quale ci si assicura che sono in via di attuazione elettrificazioni delle linee ferroviarie che da Milano irradiano verso Bergamo, per un miliardo e trecento mila lire.
Parimenti, ho preso atto di una dichiarazione verbale fattami stamane dal Ministro della difesa, il quale intende obbligare o quanto meno sollecitare le ditte concessionarie delle linee aeree civili a dare commesse di aeroplani alle società costruttrici italiane, che minacciano di licenziare interamente le loro maestranze, con che si verrebbe alla dispersione, anzi alla distruzione, di una attrezzatura industriale che domani richiederebbe non un anno ma forse un decennio per essere rimessa in assetto. Quindi il problema si presenta complesso, grave e soprattutto urgente e riguarda una volta tanto gli interessi solidali degli industriali e dei lavoratori.
Io non domando al Governo che arrivi a sovvenire gli industriali perché possano pagare gli operai. Potrei dire, anzi, che i grandi industriali, detentori di cospicui pacchi azionari, i quali hanno realizzato larghi profitti in passato, dovrebbero incominciare essi ad anticipare alle loro aziende le somme occorrenti.
Vista così, la questione riguarda tutta la Lombardia e forse anche tutta l’Italia, perché ove mancasse alle imprese il fido cambiario, tutta la produzione industriale di ditte specializzate in grandi opere verrebbe a subire irreparabili paralisi.
Annunzio di interrogazioni con richiesta d’urgenza.
PRESIDENTE. Sono pervenute alla Presidenza le seguenti interrogazioni con richiesta di risposta urgente:
«Al Ministro dell’interno, per conoscere in base a quale criterio o in base a quale ordine superiore ha agito il prefetto di Campobasso nel disporre un imponente servizio di ordine pubblico, con quasi occupazione militare del centro della città, in occasione di un pacifico comizio popolare colà svoltosi il 28 settembre, creando così uno stato di intimorimento e di panico in quella pacifica e laboriosa popolazione.
«Per conoscere, altresì, perché mai lo stesso signor prefetto in occasione della giornata popolare del 20 settembre (nella quale in Campobasso non vi fu comizio) ebbe a far installare su un balcone della Prefettura una mitragliatrice pesante, senza che vi fosse alcun motivo di ordine pubblico, perseguendo così una politica di intimorimento ai danni della popolazione.
«Sansone, Assennato, Azzi».
«Al Ministro del tesoro, per conoscere le ragioni per le quali, contrariamente alle assicurazioni date alle organizzazioni sindacali dei dipendenti dello Stato ed agli interroganti, di estendere il trattamento dell’indennità di caroviveri concesso al personale residente nei centri capoluoghi di provincia a tutto il personale residente nella provincia, si sia disposto, col decreto legislativo n. 778 del 5 agosto 1947, pubblicato sulla Gazzetta Ufficiale del 21 agosto 1947, n. 190, all’articolo 14, di estendere tale indennità solo ai dipendenti aventi sede di servizio nei comuni della provincia che non siano distanti più di 30 chilometri dal capoluogo misurati su via ordinaria fra le rispettive sedi comunali.
«Dato lo stato di agitazione esistente fra questi dipendenti, chiedesi risposta urgente.
«Morelli Luigi, Arcaini».
«Ai Ministri dell’interno e di grazia e giustizia, per sapere:
1°) se sia a loro conoscenza che da quattro anni la popolazione di Montelepre è posta in blocco fuori legge dalle autorità di polizia preposte alla lotta contro il banditismo, le quali si comportano – e talvolta lo dichiarano senza infingimenti – come se tutti i seimila abitanti di quella cittadina fossero dei banditi o dei loro complici; senza tener conto del fatto che la stragrande maggioranza è costituita da galantuomini e onesti agricoltori e che di essa fanno parte uomini che onorano i pubblici impieghi, la Magistratura e la scienza. Che nel corso delle indagini e dei rastrellamenti indiscriminati vengono commessi soprusi di ogni genere, senza alcun rispetto per la libertà, per il domicilio, per la proprietà e per la vita stessa dei cittadini;
2°) che questo avvenga per ordini del Ministero dell’interno e in quale misura è voluto, permesso o tollerato dalla Magistratura;
3°) se e quali provvedimenti intendano adottare perché a Montelepre si ripristinino la legalità e il rispetto della legge;
4°) se non intendano provvedere all’accertamento imparziale e severo dello stato di cose denunziato, dandone mandato a funzionari non suscettibili di influenze di ufficio, solleciti soltanto della ricerca della verità e ispirati dal sentimento del dovere.
«Varvaro».
Chiedo al Governo quando intenda rispondere.
DE GASPERI, Presidente del Consiglio dei Ministri. Nella seduta di lunedì farò sapere quando il Governo intende rispondere.
DUGONI. Chiedo di parlare.
PRESIDENTE. Ne ha facoltà.
DUGONI. Sollecito dal Presidente del Consiglio la risposta ad una interrogazione riguardante la delegazione italiana presso l’U.N.R.R.A. Questa delegazione costa circa 500 mila lire al giorno. Siccome i soccorsi U.N.R.R.A. sono cessati, avevo chiesto di spiegare le ragioni per cui viene conservata questa delegazione.
DE GASPERI, Presidente del Consiglio dei Ministri. Chiedo di parlare.
PRESIDENTE. Ne ha facoltà.
DE GASPERI, Presidente del Consiglio dei Ministri. Anche per questa interrogazione farò sapere lunedì quando il Governo intenda rispondere.
Interrogazioni.
PRESIDENTE. Si dia lettura delle interrogazioni pervenute alla Presidenza.
MATTEI TERESA, Segretaria, legge:
«Il sottoscritto chiede d’interrogare il Ministro del tesoro, per conoscere le ragioni per le quali il concorso per la copertura dei posti vacanti nel ruolo degli agenti di cambio delle Borse valori italiane, bandito il 16 ottobre 1946, non è stato ancora concluso. Il ritardo inspiegabile, e che ha dato luogo a congetture non favorevoli nei confronti dell’Amministrazione, congetture raccolte anche dalla stampa tecnica (Il commercio – 24 ore di Milano in data 14 settembre 1947 e Agenzia economica finanziaria di Roma in data 13 settembre 1947); oltre a ledere interessi privati, lede anche gravemente l’interesse pubblico, poiché gli organi ministeriali preposti alla vigilanza sulle Borse valori ritennero già nel 1946 che per normalizzare i mercati finanziari italiani dal punto di vista professionale occorressero un maggior numero di agenti di cambio, pubblici ufficiali. Si riconobbe, cioè, un’esigenza pubblica che era urgente sodisfare. Invece, ad oltre un anno di distanza dal bando, ciò non è stato fatto.
«L’interrogante chiede, inoltre, di conoscere quali provvedimenti si intenda prendere per arrivare ad una sollecita e definitiva risoluzione della questione.
«Marinaro».
«Il sottoscritto chiede d’interrogare il Ministro di grazia e giustizia, per conoscere se non sia equo disporre l’aumento delle retribuzioni dei sanitari delle carceri mandamentali (attualmente disciplinate dalla tabella C allegata alla legge 29 novembre 1941, n. 1405). (L’interrogante chiede la risposta scritta).
«Caccuri».
«Il sottoscritto chiede d’interrogare il Ministro dei lavori pubblici, per conoscere se abbia preso visione della lettera indirizzata, in data 15 settembre scorso, dal sindaco di Cassino al provveditore delle opere pubbliche del Lazio, nella quale si denunciano le condizioni intollerabili in cui si trova ancora quella città, dopo tre anni e mezzo dalla sua completa distruzione, e quali provvedimenti intenda prendere urgentemente al riguardo. (L’interrogante chiede la risposta scritta).
«Persico».
«Il sottoscritto chiede d’interrogare il Ministro dei trasporti, per conoscere perché si sia dato un così breve termine di tempo per il concorso di appalto per l’assunzione dei servizi della navigazione sul Lago Maggiore, e linee automobilistiche che convergono e partono da diversi centri di detto lago. La data di appalto è del 19 settembre 1947 e la scadenza è del 10 ottobre 1947.
«Se si calcola il tempo necessario perché arrivi in provincia la comunicazione, sono meno di venti giorni per un appalto che ammonta a molte centinaia di milioni, e che impone la costruzione di un battello che serva da traghetto e il trasporto del cantiere da Arona al centro lago, in cui le ditte dovranno prendere intese anche coi Comuni interessati.
«Vi è poi una lacuna negli appalti ed è il trasporto merci da Verbania stazione a Verbania città, Pallanza ed Intra, in cui hanno contribuito fortemente or sono 20 anni a costruire detta linea per servire le industrie e che la Società Verbano ha lasciato andare e sta liquidando con il consentimento colpevole dei funzionari addetti al controllo. Veda l’onorevole Ministro se non è più opportuno di rinviare l’asta e nominare un commissario per la navigazione per sei mesi, affinché d’intesa coi Comuni interessati possano disciplinare ed organizzare maggiormente questi importanti servizi soprattutto, che peserebbero sull’economia della Regione per 20 anni. (L’interrogante chiede la risposta scritta).
«Zappelli».
«Il sottoscritto chiede di interrogare l’Alto Commissario per l’igiene e la sanità pubblica, per conoscere:
- a) se siano fondate le voci secondo le quali ancora una volta si penserebbe di sospendere i concorsi per posti vacanti di medico, veterinario ed ostetrico condotti, come tante volte senza ragione si è praticato in passato;
- b) se non ritenga opportuno disporre che ai concorsi per le condotte vacanti del 1938 e del 1939 possano partecipare anche i laureati prima di detta epoca e non quelli che hanno conseguito la laurea in seguito e perfino non hanno sostenuto l’esame di Stato;
- c) se non ritenga opportuno riservare ai sanitari, che sono stati richiamati nel 1939 e trattenuti fra servizio militare e campi di prigionia fino al 1946, almeno il 50 per cento dei posti, come, del resto, era stato promesso al tempo del richiamo, od almeno che il servizio militare obbligatorio sia considerato, ai fini del concorso, con un punteggio di molto superiore a quello che possa toccare ai concorrenti, che, mentre gli altri erano alle armi, prestavano servizio con grande tranquillità nell’interno del paese;
- d) se non ritenga opportuno, per i posti vacanti al 1939, bandire il concorso solo per titoli. (L’interrogante chiede la risposta scritta).
«Colitto».
«Il sottoscritto chiede d’interrogare il Ministro dei trasporti, per conoscere le ragioni per le quali l’Amministrazione delle ferrovie dello Stato ha preso la deprecabile abitudine di avviare nel Molise, per il servizio viaggiatori, quasi esclusivamente carri bestiame, tutti sforniti di sedili e insufficienti, per cui giorni fa – alla stazione di Campobasso – il Vescovo della diocesi dovette essere invitato da un cortese funzionario a prendere posto nel bagagliaio, donde peraltro fu poi fatto discendere, tra lo stupore dei presenti, da altro troppo zelante funzionario, e costretto a salire e a rimanere in piedi in un carro bestiame. (L’interrogante chiede la risposta scritta).
«Colitto».
«Il sottoscritto chiede di interrogare l’Alto Commissario per l’igiene e la sanità pubblica, per conoscere le ragioni per le quali pare che non si intenda, nei confronti dei veterinari interinali, applicare la circolare del Ministero dell’interno – Direzione generale amministrazione civile – n. 15700/15/49607 del 7 giugno 1942, richiamante il decreto 8 luglio 1941, n. 863, che riguarda la sistemazione degli avventizi combattenti dell’ultima guerra, e non si intenda, quindi, nominarli in pianta stabile. (L’interrogante chiede la risposta scritta).
«Colitto».
«Il sottoscritto chiede d’interrogare il Ministro del lavoro e della previdenza sociale, perché consideri se non sia opportuno accertare presso gli Uffici provinciali del lavoro il grado di istruzione delle pratiche riguardanti gli italiani, che desiderino emigrare, ed altresì disporre che tali pratiche siano distribuite per categorie e per Comuni, procedendosi anche ad una graduatoria sulla base di criteri, che da esso Ministero potranno essere fissati, tenendosi conto, ad esempio, del numero di persone a carico, degli anni di appartenenza del lavoratore, che desidera emigrare, alla categoria, dello stato di bisogno, evitandosi che la scelta degli operai, che possono emigrare, abbia luogo mediante estrazione a sorte, perché ciò potrebbe, a parte ogni altro rilievo, portare anche turbamenti nell’ordine pubblico. (L’interrogante chiede la risposta scritta).
«Colitto».
«Il sottoscritto chiede d’interrogare il Ministro della difesa, perché consideri se non sia opportuno promuovere il provvedimento legislativo, per il quale il trattamento assicurativo, che, giusta l’articolo 11 del regio decreto-legge 12 aprile 1946, n. 320, si applica al personale specializzato infortunato durante i lavori di bonifica, venga esteso a coloro che, ammessi alla frequenza dei corsi per la formazione del personale specializzato, restino infortunati per lo scoppio di ordigni esplosivi durante lo svolgimento dei corsi, e ciò con effetto dal giorno in cui entrò in applicazione il decreto n. 320 del 1946, innanzi ricordato. (L’interrogante chiede la risposta scritta).
«Colitto».
«Il sottoscritto chiede d’interrogare il Ministro dei lavori pubblici, sulla deficiente assegnazione di fondi per la esecuzione di opere, pur indispensabili ed urgenti, nel Molise. Si dovrebbero ivi costruire case per i senzatetto, case popolari, edifici scolastici, ricostruire ponti ed edifici pubblici, sistemare acquedotti e cimiteri. Ogni tanto, si preparano piani più o meno grandiosi che riportano tutte le prescritte approvazioni, ma è molto difficile, purtroppo, che si passi poi alla fase della esecuzione, mentre a tale fase si passa molto agevolmente in altre regioni d’Italia, profittandosi che il Molise – laborioso e tranquillo – non conosce la accesa protesta. (L’interrogante chiede la risposta scritta).
«Colitto».
«Il sottoscritto chiede d’interrogare il Presidente del Consiglio dei Ministri e i Ministri del tesoro, del lavoro e previdenza sociale e dell’industria e commercio, per conoscere le ragioni che hanno determinato il Governo ad escludere l’organizzazione sindacale dalla Commissione che dovrà presiedere all’assegnazione dei cinquantaquattro miliardi stanziati dal Governo a favore della ripresa dell’industria metallurgica.
«L’interrogante fa notare che i lavoratori non possono essere sufficientemente garantiti nell’erogazione del pubblico denaro da una Commissione quasi esclusivamente composta di funzionari e chiede che la FIOM – quale organizzazione dei lavoratori – sia invitata a nominare uno o più rappresentanti nella predetta Commissione. (L’interrogante chiede la risposta scritta).
«Roveda».
«Il sottoscritto chiede d’interrogare il Ministro della pubblica istruzione, per conoscere se non ritenga opportuno che il provvedimento del collocamento a riposo dei vecchi maestri che hanno superato al 1° ottobre 1947 il 70° anno di età venga effettuato con decorrenza dal 30 settembre dell’anno prossimo e ciò per un senso di umanità, perché, nonostante i recenti miglioramenti, le pensioni rappresentano ancora nel loro complesso circa un terzo del già insufficiente trattamento corrisposto a chi è in servizio. (L’interrogante chiede la risposta scritta).
«Spallicci».
«Il sottoscritto chiede d’interrogare il Ministro di grazia e giustizia, per sapere quanto dovrà ancora indugiare l’annunciato provvedimento che aumenterebbe le diarie di missione dei magistrati, essendo addirittura insostenibile la loro esiguità (lire 1100 giornaliere ai magistrati di terzo grado e lire 1200 a quelli di quarto grado), in relazione alle spese correnti di trasferta e di mantenimento, tanto da rappresentare, un tale trattamento, una perdita evidente per gli interessati e il disdoro per l’Amministrazione della giustizia. (L’interrogante chiede la risposta scritta).
«Bertini».
«I sottoscritti chiedono di interrogare il Ministro delle finanze, per sapere quali provvedimenti intenda adottare a favore dei pensionati assegnati, per effetto della legge Majorana, alla Cassa depositi e prestiti ed aventi un trattamento di grave inferiorità rispetto a tutte le altre categorie. La pensione più alta sorpassa appena le 5000 mensili, mentre le altre non superano le 3000. Si chiede un intervento sollecito da parte dello Stato. (Gli interroganti chiedono la risposta scritta).
«Bianchi Bianca, Sapienza».
«La sottoscritta chiede di interrogare il Presidente del Consiglio dei Ministri e il Ministro delle poste e delle telecomunicazioni, per sapere quali solleciti provvedimenti intenda prendere per l’allacciamento del telefono a tutti i paesi del Mugello e dell’alta Romagna.
«È oltremodo doloroso per una popolazione, che ha subito tante distruzioni, constatare come a due anni dalla guerra gli organi governativi non siano riusciti a comporre inspiegabili dissidi sorti con la Società telefonica TETI per il ripristino della linea. Si tratta di una vasta zona montana progredita e feconda, avente importanti miniere di lignite e numerose industrie ed aziende agricole, ma scomoda e lontana dai maggiori centri cittadini, per cui non è più possibile dilazionare il ripristino del detto servizio. (L’interrogante chiede la risposta scritta).
«Bianchi Bianca».
«Il sottoscritto chiede di interrogare i Ministri del tesoro e dei lavori pubblici, per conoscere se e quando la Commissione sedente presso l’Istituto nazionale per le case degli impiegati statali (I.N.C.I.S.) e preposta alla assegnazione delle case ai funzionari dello Stato, intenda applicare il disposto dell’ultima parte dell’articolo 2 del decreto legislativo luogotenenziale 9 giugno 1945, n. 387, nei confronti di quegli impiegati che, per ragioni di servizio, sono stati segnalati dalle proprie Amministrazioni per l’assegnazione dell’alloggio con ogni precedenza. (L’interrogante chiede la risposta scritta).
«Sapienza».
PRESIDENTE. Le interrogazioni testé lette saranno iscritte all’ordine del giorno e svolte al loro turno, trasmettendosi ai Ministri competenti quelle per le quali si chiede la risposta scritta.
La seduta termina alle 24.
Ordine del giorno per le sedute di domani.
Alle ore 10 e alle ore 16:
Seguito della discussione delle mozioni degli onorevoli Nenni, Togliatti e Canevari.