Come nasce la Costituzione

ANTIMERIDIANA DI MERCOLEDÌ 8 OTTOBRE

ASSEMBLEA COSTITUENTE

CCXLIX.

SEDUTA ANTIMERIDIANA DI MERCOLEDÌ 8 OTTOBRE 1947

PRESIDENZA DEL PRESIDENTE TERRACINI

INDICE

Congedi:

Presidente

Comunicazione del Presidente:

Presidente

Progetto di Costituzione della Repubblica italiana (Seguito della discussione):

Presidente

Vigna

Dominedò

Bozzi

Targetti

Nitti

Mortati

Lussu

Togliatti

Badini Confalonieri

Reale Vito

Moro

Pignatari

Lucifero

Candela

Votazione nominale:

Presidente

Risultato della votazione nominale:

Presidente

La seduta comincia alle 11.

AMADEI, Segretario, legge il processo verbale della precedente seduta antimeridiana.

(È approvato).

Congedi.

PRESIDENTE. Comunico che hanno chiesto congedo i deputati Caroleo e Simonini.

(Sono concessi).

Comunicazione del Presidente.

PRESIDENTE. Comunico che, in sostituzione del compianto onorevole Modigliani, ho chiamato l’onorevole Romita a far parte della Giunta per il Regolamento interno.

Seguito della discussione del progetto di Costituzione della Repubblica italiana.

PRESIDENTE. L’ordine del giorno reca: Seguito della discussione sul progetto di Costituzione della Repubblica italiana.

Riprendiamo l’esame dell’articolo 55.

VIGNA. Chiedo di parlare.

PRESIDENTE. Ne ha facoltà.

VIGNA. Onorevoli colleghi; io penso che sia indispensabile in questo momento richiamarci ai veri limiti della discussione nella quale ci siamo intrattenuti ieri sera, limiti che sono stati reiteratamente precisati dall’illustre nostro Presidente, che sono stati precisati anche dal Presidente della Commissione dei settantacinque, ma dai quali vari oratori sono andati via via discostandosi.

La questione che ci interessa si concreta in un quesito: se, cioè, dopo le deliberazioni dell’Assemblea di rigetto dell’ordine del giorno dell’onorevole Perassi e di approvazione dell’ordine del giorno dell’onorevole Nitti, sia sorta, o quanto meno sia sorta entro determinati limiti, una preclusione all’ulteriore deliberazione da parte dell’Assemblea sulle ipotesi formulate dall’articolo 55 del Progetto. L’ordine del giorno dell’onorevole Perassi è stato respinto in toto nella sua formulazione concreta e quindi io penso non sia consentito un ulteriore esame e tanto meno ulteriori decisioni su questo ordine del giorno. Onde la questione si restringe all’esame del contenuto dell’ordine del giorno dell’onorevole Nitti e dell’articolo 55 del Progetto.

Con l’approvazione dell’ordine del giorno dell’onorevole Nitti l’Assemblea afferma che il Senato, nella sua entità unica, indivisibile, dovrà essere eletto a suffragio universale e diretto. Dico nella sua entità unica e indivisibile perché non è concepibile che si possa frazionare il Senato, e che una parte di esso possa venire eletta ai sensi dell’ultimo comma dell’articolo 55 ed un’altra parte venga eletta, invece con suffragio universale diretto…

PRESIDENTE. Onorevole Vigna, mi permetta, il suo riassunto e la sua esposizione sono molto interessanti, ma ho l’impressione che lei ci faccia fare un passo indietro perché ieri sera, per bocca di numerosi colleghi, si è già ampiamente discusso questo punto – si era giunti almeno a precisarne i termini concreti. Non so se sia veramente necessario, per l’andamento della nostra discussione, che lei in questo momento riprenda una tesi già tanto dibattuta, suffragandola con nuovi argomenti. Io mi ero ripromesso, riprendendo oggi i nostri lavori, di partire dal punto acquisito per modo che si potesse discutere su qualche cosa di determinato. Ma ho l’impressione che lei ci ripiombi in pieno nella discussione di ieri sera.

VIGNA. Ogni sua osservazione per me è un ordine. Vuol dire che salterò quella parte che tende a dimostrare come effettivamente, su parte dell’articolo 55, sia intervenuta quella preclusione di cui lei ha fatto cenno ieri sera. Ma a me pare che in questo momento la questione di maggiore importanza che noi dobbiamo affrontare sia questa: se una preclusione esiste, a chi la funzione di dichiarare tale preclusione? Io sostengo che l’Assemblea non può essere interrogata su questo argomento. Richiamare l’Assemblea a deliberare se esista o no una preclusione, vorrebbe dire porre l’Assemblea in condizioni tali da arrivare a una deliberazione, eventualmente contradittoria con quella che è stata presa in precedenza; vorrebbe dire soprattutto privare le minoranze di quelle garanzie che alle minoranze stesse derivano dal Regolamento e dal regime parlamentare.

Onde io penso che l’Assemblea non possa, non debba essere chiamata a pronunziarsi su questa questione: se la preclusione esista o non esista. Il Regolamento della Camera detta, a mio avviso, la via maestra che dobbiamo seguire. Il Presidente ha facoltà, e io penso che in determinati momenti e particolarmente in momenti come questi abbia il dovere, di porre le questioni all’Assemblea: le questioni come sorgono, come si risolvono e si esauriscono. Soltanto al Presidente spetta questa funzione. Ed allora io concludo affermando che soltanto Ella, signor Presidente, dovrà decidere fino a quale punto si sia maturata quella tale preclusione; dovrà decidere su quali questioni ancora comprese nell’articolo 55 potrà l’Assemblea essere chiamata a deliberare. E dico subito che, a mio avviso, le questioni insolute restano tre, e precisamente: il rapporto numerico fra l’entità nazionale o popolazione e gli eleggendi al Senato, la rappresentanza per la Val d’Aosta e il limite di età degli elettori.

Su queste tre sole questioni, potrà la Camera essere invitata a deliberare; sulle altre no, perché la preclusione impedisce ulteriori deliberazioni che possano essere prese dall’Assemblea.

PRESIDENTE. Onorevole Vigna, mi pare che lei si preoccupi di controbattere una proposta che nessuno ha fatto; perché nessuno aveva proposto di sottoporre all’Assemblea di decidere se una preclusione esisteva o no.

Io ho ricevuto ad esempio un emendamento all’articolo 55, del quale adesso darò lettura, ma in esso non si toccano argomenti che possano far sorgere una questione di preclusione o di non preclusione.

VIGNA. La questione non è stata posta formalmente; però, dalle argomentazioni di vari oratori derivava la conseguenza necessaria che effettivamente si impugnasse l’esistenza di questa preclusione.

PRESIDENTE. Lei ha contestato la ipotetica proposta che, esistendo la preclusione, dovesse essere l’Assemblea a decidere in merito. Ora ieri molti colleghi hanno parlato di preclusione, ma, a quanto mi ricordo ed a quanto risulta dai processi verbali, nessuno aveva proposto, anche solo in forma iniziale, che una tale questione fosse deferita all’Assemblea.

Entriamo finalmente nel merito delle nostre questioni, la prego.

È stato presentato dagli onorevoli Mortati, Tosato, Uberti, Dominedò, Bastianetto, Perlingieri, Recca, Alberti, Ferrarese, Storchi il seguente emendamento all’articolo 55:

«Il Senato della Repubblica è eletto a base regionale.

«Il numero dei senatori è determinato in ragione di uno ogni 250.000 abitanti, attribuendosi però a ciascuna Regione un numero minimo di sei senatori».

Ora, riguardo al contenuto degli emendamenti, abbiamo due questioni, essenziali, da risolvere, secondo quanto ieri sera si era detto da varie parti: il quoziente ed il numero minimo di senatori.

Su questo secondo punto, vi è da risolvere la questione di principio se debba esservi o no questo numero minimo di senatori per ogni Regione. Risolta la questione di principio, si tratterà di indicare il quoziente; evidentemente occorrerà esaminare tutte le proposte fatte in relazione alla proposta iniziale della Commissione; ma l’Assemblea fisserà questo quoziente, sempre tenendo presente la decisione, già presa, di un numero fisso o meno di senatori per ogni singola Regione.

In merito al primo comma «Il Senato della Repubblica è eletto a base regionale», ieri sera l’onorevole Bozzi aveva affacciato questa idea: che questo primo comma potesse essere rinviato come ultimo argomento; non era una proposta di rinvio o di sospensiva, ma semplicemente una subordinazione di questa decisione a quelle sugli altri argomenti in oggetto ai quali, evidentemente, la formulazione è connessa; il che ritengono tutti coloro che hanno parlato ieri sia difensori della formula, sia oppugnatori.

Penso che si potrebbe accedere a questo criterio: cioè, risolvere prima le questioni relative al numero fisso o – qualche altro propone – al numero minimo dei senatori per Regione e poi, la questione del quoziente, come ultima decisione, facendola discendere dalla decisione che si sarà presa su questo punto: decidere, quindi, sopra il primo comma, il quale può acquistare un preciso significato, ed è necessario, a seconda delle decisioni concrete prese in ordine alla costituzione del Senato.

Se questo risulterà formato in certo modo, è evidente, anche se non lo si dicesse – ma bisognerebbe dirlo – che sarebbe eletto su base regionale. Se fosse, invece, formato in altro modo, è evidente che non sarebbe l’affermazione posta al primo comma, che modificherebbe la natura e la struttura del Senato stesso.

Pertanto, se non vi sono obiezioni a questo proposito, io passerei subito alla votazione, salvo le dichiarazioni eventuali che si desiderasse fare su queste due questioni: il quoziente ed il numero minimo o fisso di senatori per ogni Regione.

DOMINEDÒ. Chiedo di parlare.

PRESIDENTE. Ne ha facoltà.

DOMINEDÒ. Prima di scendere all’esame del merito del secondo comma, cui si riferisce il nostro emendamento, relativamente alla determinazione del numero dei senatori e del criterio per arrivare a tale determinazione, mi pare che, dal punto di vista sistematico e logico, preceda la votazione del primo comma. Questo ha un valore indicativo di carattere generale, essendo rivolto ad affermare in via di principio la base regionalistica, nell’ambito della quale deve operare il concetto uninominalistico ieri approvato, ed essendo quindi destinato ad influenzare il sistema nel campo delle possibili applicazioni.

Ciò è tanto vero, che non si spiegherebbe diversamente come si possa senz’altro entrare nel merito di una determinazione numerica dei senatori, da fare in relazione alla Regione, se non si fosse prestabilito, in linea direttiva, il criterio regionale stesso, come dal primo comma dell’articolo 55.

Perciò, mi permetto di formulare la proposta che si proceda alla votazione secondo quest’ordine logico, cominciando dal primo comma, di portata generale e introduttiva.

PRESIDENTE. Non ho nulla in contrario ad accettare la richiesta dell’onorevole Dominedò. Vorrei però che egli si rendesse conto di questo fatto: che una tale votazione non impegna senz’altro l’Assemblea, e cioè, ogni singolo membro dell’Assemblea, a votare poi in un certo senso sui due problemi concreti: questa è una semplice affermazione di principio. Successivamente bisognerà votare invece su due questioni non di principio, ma di valutazione e di opportunità e potrebbe avvenire, onorevole Dominedò, che, approvata la determinazione di principio, l’Assemblea, nella sua sovranità, voti poi, in relazione al quoziente ed all’esistenza o meno di un numero fisso o di un numero minimo, in tal modo, da portare necessariamente a rivedere la decisione presa in ordine al primo comma.

Già fin dall’inizio di questi nostri lavori costituzionali, si è detto, fra l’altro, che non si ritorna su votazioni già fatte, salvo il caso in cui nuove votazioni creino contraddizioni con decisioni prese in precedenza e sorga, evidentemente, la necessità di coordinare le due decisioni: coordinamento significa sempre, almeno in parte, modificazione.

Fatta questa premessa osservo che sarà, in definitiva, dalle decisioni relative al quoziente ed all’esistenza o meno di un numero fisso o di un numero minimo di senatori per ogni Regione, che dipenderà la conservazione o meno della affermazione di principio.

Non ho nulla in contrario a mettere in votazione il primo comma dell’articolo 55 contenuto nel suo emendamento, che riprende a questo proposito, sostanzialmente, il testo della Commissione.

BOZZI. Chiedo di parlare.

PRESIDENTE. Ne ha facoltà.

BOZZI. Ieri nel mio intervento avevo fatto cenno dell’opportunità che del primo comma si parlasse dopo la votazione del secondo ed oggi ho visto che l’onorevole Presidente ha ripreso questo concetto e l’ha proposto quasi formalmente all’Assemblea. Ora questo primo comma, sebbene venga per primo, è in sintesi il proemio, come diceva ieri l’onorevole Ruini, di quel che era il contenuto dell’articolo 55 del progetto della Commissione dei Settantacinque. Ora questo articolo 55 è stato già in parte distrutto nella sua parte fondamentale, che è l’ultimo comma dell’articolo. Che cosa significa dire: «Il Senato è eletto a base regionale»? L’espressione: «a base regionale» – ed io ricordo i lavori della seconda Sottocommissione – è una espressione vaga e incerta. Può significare due cose: può significare che si assume la Regione come una circoscrizione elettorale; può significare che le Regioni, come enti di diritto pubblico, concorrono alla formazione del Senato. Questo ultimo concetto era quello espresso nell’ultimo comma, in quanto i Consigli regionali eleggevano, sia pure per una frazione ed una quota, i senatori. Quest’ultimo concetto è venuto meno.

Come possiamo affermare senz’altro, aprioristicamente che il Senato è eletto a base regionale, se non sapremo se vi sarà un numero fisso di senatori attribuito alla Regione, indipendentemente dal rapporto di un senatore ogni 200 mila od ogni 250 mila abitanti? Come potremo votare preventivamente questo concetto se non sapremo il contenuto di queste parole: «a base regionale»? Può essere che quando avremo determinato il modo di formazione e di elezione del Senato e dei senatori, vi sarà una base regionale ed allora metteremo questo primo comma come un proemio; ma se la frase dovesse essere svuotata di contenuto, mi sembra che votare in anticipo sia una cosa, non dirò tanto inutile, onorevoli colleghi, ma dannosa perché dopo si potrebbe dire: abbiamo già affermato che il Senato deve avere base regionale e bisogna dare assolutamente un contenuto a questa espressione che di per sé è troppo vaga.

Quindi, onorevole Presidente, ritornerei sulla proposta che feci ieri, così per incidens, e le darei un carattere formale.

TARGETTI. Chiedo di parlare.

PRESIDENTE. Ne ha facoltà.

TARGETTI. Mi associo, in sostanza, alle osservazioni fatte dal collega Bozzi, ma vorrei aggiungere qualche altra osservazione. È proprio necessario procedere alla votazione di un principio quando vi sono degli emendamenti sostitutivi dell’articolo 55 che negano il principio che dovrebbe essere messo in votazione? Il signor Presidente sa che vi sono vari emendamenti: quello dell’onorevole Lami Starnuti ed il nostro che sono emendamenti sostitutivi dell’articolo 55. Quando l’Assemblea approvasse uno di questi emendamenti avrebbe già risolto la questione del primo comma dell’articolo 55. E faccio osservare che questi emendamenti sono intonati all’ordine del giorno Nitti, che abbiamo approvato.

Riconosco che non si potrebbe mettere in votazione un emendamento che si basi sulla rappresentanza proporzionale, perché andrebbe contro al concetto approvato dall’Assemblea attraverso l’ordine del giorno Nitti; ma gli altri emendamenti che parlano di elezione di senatori a suffragio universale diretto non vedo la ragione per la quale non debbano essere proposti senz’altro all’approvazione dell’Assemblea, senza passare attraverso una votazione di un principio di massima.

NITTI. Chiedo di parlare.

PRESIDENTE. Ne ha facoltà.

NITTI. L’ordine del giorno che è stato votato ieri ha cambiato alcuni articoli, se non molti, della Costituzione, e bisognerà tener conto di questa realtà.

Quale era il progetto ministeriale, che poi la Commissione, in gran parte, aveva fatto suo? La Camera dei senatori, come si diceva impropriamente, è in fondo una rappresentanza locale delle Regioni, e la Regione è formata soprattutto da elementi che hanno carattere locale. Difatti, si incominciava col dire che condizione per l’eleggibilità per i candidati al Senato era di essere nati o domiciliati nella determinata Regione dove essi presentassero la candidatura, quindi una concezione del tutto diversa da quella che noi abbiamo ammessa e che vogliamo.

Che cosa dice l’ordine del giorno votato? Non vi è nessun dubbio su questa materia. L’ordine del giorno votato dice che il Senato deve essere eletto con suffragio universale diretto, col sistema del collegio uninominale; in dipendenza di ciò, dunque, sono cadute molte disposizioni. Ogni carattere locale del Senato più non sussiste perché con questa deliberazione il Senato ha ora carattere nazionale. È caduta quindi tutta una serie di articoli: si erano stabilite perfino le categorie di elettori e di eleggibili. Si era stabilito che gli elettori dovevano essere scelti in alcune categorie, e gli eleggibili, a loro volta, erano scelti in alcune categorie. Questo è caduto.

Dunque, ora la situazione è semplice. Noi dobbiamo adattare tutti gli altri articoli a questi due concetti essenziali. Che significa la disposizione che il Senato è eletto a base regionale? Ora non c’è più la base regionale. La Regione non elegge nessuno, non designa nessuno e l’elezione è fatta a collegio uninominale e non vi sono più privilegi o limitazioni.

Noi dobbiamo sancire, dunque, il sistema del collegio uninominale con suffragio universale, suffragio universale naturalmente limitato dall’età, perché in tutti i Paesi l’eleggibilità dei senatori dipende da condizioni diverse dalla Camera dei Deputati. Così l’eleggibilità come l’elettorato dipendono da condizioni diverse. Pertanto, dobbiamo formare il Senato diversamente dalla Camera dei Deputati, che è eletta, come abbiamo stabilito – con mio dispiacere, – sulla base del sistema proporzionale. Il Senato è eletto col sistema del collegio uninominale. Dunque su questo non si può tornare. È mutile girare la questione.

Che significa la proposta: «Il Senato è eletto a base regionale»? Che le circoscrizioni dentro cui si fanno le elezioni rimangono regionali, se volete. Non più di questo.

Dunque vi sarà una Regione Puglie o Basilicata dentro cui, come era con la legge del 1919, si faranno le partizioni per il collegio uninominale. Quindi le Puglie, la Calabria, la Basilicata, come tutte le altre Regioni formeranno delle circoscrizioni elettorali sulla base del numero degli elettori che noi stabiliremo.

Viene l’altra questione: vi saranno al di fuori di questo senatori che non sono in rapporto al numero o ad una quantità fissa per ogni collegio quale che sia il numero degli abitanti? Io ho riconosciuto questo e sono io stesso esitante, perché sono disposizioni le quali spesso danno luogo a inconvenienti e dire che ogni Regione all’infuori del numero dei senatori che elegge in ragione appunto della popolazione, ha un numero fisso di senatori non manca di un certo pericolo.

Questo è comprensibile in certi paesi i quali arrivano, come l’America, perfino a non dare importanza al numero dei votanti e al numero dei voti per il Senato, ma si tratta di un Paese con ordinamento federale. Al Senato americano, i senatori non rappresentano la massa degli elettori. La massa degli elettori è rappresentata dalla Camera dei Deputati. La Camera dei Deputati in America è eletta ogni due anni; ha una vita turbinosa perché lo Stato vuole mantenersi a contatto dell’opinione pubblica.

Il Senato, poi, non si scioglie mai. Un altro degli errori di questo progetto. Noi parliamo di scioglimento del Senato.

PRESIDENTE. Onorevole Nitti, per favore, resti nell’argomento. Dello scioglimento parleremo dopo.

NITTI. Benissimo. Le altre questioni però sono legate a questo. Quando diciamo: «Il Senato è eletto a base regionale» abbiamo considerato il vecchio progetto governativo, invece adesso, questo implica solo che le circoscrizioni elettorali saranno fissate nell’ambito della Regione. Non più di questo. Del resto siamo completamente legati alla disposizione che abbiamo presa e che non possiamo più cambiare. Quindi prego di tener conto di questa situazione nella votazione.

MORTATI. Chiedo di parlare.

PRESIDENTE. Ne ha facoltà.

MORTATI. Sono state affacciate due tesi: una, secondo la quale la votazione del primo comma dell’articolo 55 sarebbe inibita dalla votazione precedente, sull’ordine del giorno Nitti; l’altra, affacciata dall’onorevole Bozzi, secondo cui si tratterebbe semplicemente di sospendere la votazione, rinviandola a dopo che sarà approvato il secondo comma.

Sul primo punto, cioè sulla tesi più drastica, preclusiva, affacciata dall’onorevole Nitti, mi permetto richiamare le osservazioni fatte ieri, osservazioni, che stanno a dimostrare che la votazione sull’ordine del giorno incide, escludendole, su alcune delle applicazioni che si erano dedotte dal principio della base regionale, ma non esclude la possibilità di altre. E fra queste ho ricordato il numero fisso per ogni Regione, le circoscrizioni, lo scrutinio regionale, ecc.

Non è esatto ritenere che senza una espressa formulazione nella Costituzione della base regionale, per lo meno della circoscrizione regionale, sia pacifico che i nuovi collegi uninominali saranno contenuti nell’ambito di una stessa Regione, perché nulla toglierebbe al futuro legislatore di fare collegi che comprendano elettori di due Regioni. Basterebbe questa sola eventualità a giustificare la menzione della base regionale del Senato. Ma, in via più generale, è da ribadire che si tratta di un principio direttivo suscettibile di applicazioni varie, applicazioni che possono essere imprevedibili oggi, ma potrebbero trovare nel legislatore di domani degli svolgimenti verso singole concretizzazioni che, ripeto, oggi sarebbe opportuno non discutere o rinviare.

È un’affermazione di principio, è una direttiva che, essendo – come dicevo – suscettibile di applicazioni varie, sia in questa sede, sia nella sede legislativa futura, ha una ragion d’essere, che è stata illustrata anche da altri oratori, nel suo collegamento con la riforma regionale, che non può non ripercuotersi, per il carattere costituzionale ad essa conferito, sulla organizzazione dei poteri centrali dello Stato.

Da quanto si è dettò sembra dimostrato non solo che la votazione di ieri non è preclusiva dell’affermazione del principio che il Senato è a base regionale, ma altresì che questa affermazione ha carattere preliminare rispetto all’esame di altri punti.

Mi pare appunto che, dalla funzione direttiva da attribuire all’inciso del primo comma, si argomenti la necessità di una votazione preventiva del medesimo, pure ammettendo quanto ha detto il Presidente, che questa votazione preliminare non impegna ad adottare questa o quella singola applicazione del principio, ma impegna a mantenerlo fermo con quelle modalità, con quei limiti, che si vedranno di volta in volta.

Quindi, insisto nell’affermare elle la votazione di ieri non è preclusiva dell’esame di questo primo punto, e che inoltre tale esame debba precedere quello sui commi successivi.

LUSSU. Chiedo di parlare.

PRESIDENTE. Ne ha facoltà.

LUSSU. Io condivido la proposta del collega onorevole Dominedò. Sono, cioè, contrario a quanto ha testé proposto il nostro onorevole Presidente seguito in questo dall’onorevole Bozzi, e sono altresì contrario a quanto ha detto l’onorevole Presidente Nitti.

Se io non ho mal sentito, ho l’impressione che l’onorevole Presidente Nitti – me lo consentirà – abbia espresso oggi un pensiero che può apparire contradittorio con quello espresso ieri. Infatti ieri l’onorevole. Presidente Nitti ci ha detto, se non ho mal compreso, che era perfettamente inutile votare su questa prima parte dell’articolo 55, perché era implicita. Oggi invece ci dice che è incompatibile, perché abbiamo votato ieri il suo ordine del giorno. Ora, a mio parere, questo non è giusto, ed ho anche l’impressione che l’onorevole Presidente Nitti, dopo avere ottenuto sulla sua proposta una vittoria relativa, voglia oggi farla diventare assoluta.

Non è esatto, secondo il mio avviso, il ragionamento dell’onorevole Presidente Nitti, perché, ad esempio, può essere ancora votato l’articolo 56. E la votazione avvenuta sul suo ordine del giorno non esclude appunto che si voti l’articolo 56, là dove si dice, ad esempio, nel primo comma, che i senatori debbono risiedere nella Regione.

Ciò dunque indiscutibilmente significa, onorevoli colleghi, che il criterio della rappresentanza, per quanti eufemismi si possano adoperare, è basato sulla Regione. Io penso dunque, tenendo presente ciò, che noi dobbiamo prima adottare il principio e poi, rispettando il principio stesso, attenerci ad esso. Io penso dunque che, siccome questa prima parte di tale articolo ha avuto la grande maggioranza in seno alla Commissione, possa con facilità avere del pari la maggioranza in seno all’Assemblea.

Debbo dire pertanto che, circa quanto il collega onorevole Targetti ha detto poc’anzi, io ritengo che, se egli si pone a riflettere su quanto egli stesso ha in modo molto bello espresso in quest’Aula, deve ammettere che non è possibile allontanarsi dal principio regionalistico.

PRESIDENTE. Onorevoli colleghi, io non credo che la richiesta dell’onorevole Targetti possa essere accolta. Infatti gli emendamenti sostitutivi di articoli complessi non sono stati mai votati in toto dall’Assemblea, ma sempre sono stati votati in contrapposto alla correlativa parte del testo della Commissione; non c’è pertanto ragione di abbandonare in questo momento tale metodo.

In secondo luogo, quando vi sono delle formulazioni soppressive – implicite o esplicite – noi abbiamo sempre adottato il criterio di votare contro la formulazione positiva, mentre non abbiamo posto in votazione emendamenti soppressivi a sé stanti.

All’onorevole Nitti desidererei far presente che la votazione di ieri sul suo ordine del giorno, come del resto è stato sostenuto anche da altri colleghi questa mattina stessa, non ci impedisce di votare il primo comma dell’articolo 55. È stato pure sottolineato ieri dal collega onorevole Mortati, quando sedeva al banco della Commissione, in qual forma, anche applicando il criterio del collegio uninominale, si possa tuttavia dare un carattere regionale alla formazione del Senato. E pertanto quella votazione di ieri sul collegio uninominale non impedisce oggi all’Assemblea eventualmente di pronunziarsi su proposte concrete, le quali tengano conto del principio regionale e pertanto ammettano l’affermazione anche del principio regionale nella formulazione dell’articolo 55.

All’onorevole Mortati vorrei soltanto dire che ho preso atto di quanto egli ha esposto, perché corrisponde anche alla mia opinione, espressa poco fa, che cioè, anche se adesso votiamo il primo comma dell’articolo 55, il risultato non precluderà poi nessuna votazione in ordine agli elementi relativi al quoziente e al numero fisso. E pertanto resti chiaro che, anche votando adesso il primo comma, ciò non potrà poi essere impugnato successivamente se, per ipotesi, respingendo il numero fisso per ogni Regione, si venisse con ciò, in fondo, a svuotare l’articolo 55 del solo elemento concreto che giustificherebbe la prima affermazione regionale.

Ha ragione l’onorevole Lussu quando dice che resta sempre salva la votazione sull’articolo 56, che reca un inciso, sul quale non ci siamo ancora pronunziati, secondo cui per essere eleggibili, bisogna essere nati o domiciliati nella Regione. Ma suppongo che, anche se l’Assemblea accettasse questa formulazione, essa sarebbe insufficiente a dare carattere regionale al Senato. Se fosse sufficiente, comunque, e se ne accontentassero coloro che difendono il carattere regionale delle elezioni del Senato, questa formula resterebbe in piedi in relazione solo alla determinazione dell’articolo 56 e non per la determinazione dell’articolo 55, cioè in funzione di un requisito di eleggibilità, e non in relazione al sistema e al metodo della elezione del Senato.

Queste le cose che mi pare dovessi dire per chiarire le votazioni alle quali in questo momento dobbiamo procedere.

Vi sono numerosi colleghi che chiedono insistentemente che si voti, comunque, il primo comma: «La Camera dei Senatori è eletta a base regionale», e ripreso nelle proposte di emendamento: «Il Senato della Repubblica è eletto a base regionale».

Ho detto che non ho nulla in contrario a porlo in votazione; ma sottolineo ancora una volta che, qualunque sia il risultato di questa votazione, nessun collega successivamente, quando si votino le determinazioni concrete, e una risoluzione favorevole ad esse non si determinasse, ma fosse nettamente in contrasto con questa prima affermazione, possa riferirsi a tale contradittorietà per impugnare la votazione avvenuta o per proporre che a questa votazione non si addivenga.

E questa votazione – diciamolo subito, per avere chiara la cosa – è quella relativa al numero fisso di senatori per ogni Regione o al numero minimo. E da questo punto di vista – mi perdoni, onorevole Nitti, a ciascuno di noi le idee si chiariscono progressivamente nelle cose complesse, e vediamo chiare oggi cose che ieri parevano oscure – è chiaro che, quando l’onorevole Nitti nella sua proposta di emendamento indicava il numero fisso di tre senatori per Regione, contraddiceva al sistema generale che poi esponeva nel suo emendamento e contraddiceva a quanto questa mattina ci ha detto.

Resti, dunque, chiaro che se si vota un numero fisso o un numero minimo di senatori per ogni Regione, con ciò si afferma il carattere regionale del Senato. Ma, onorevoli colleghi, bisognerà poi accettare la conseguenza che i senatori non saranno tutti eletti dallo stesso numero di elettori, o meglio, non ci sarà un quoziente unico per tutti i membri del Senato. Questo lo dico, non perché io lo desideri, ma perché ciascuno si renda conto di questa conseguenza particolare del voto, quando vi procederemo.

Comunico che su questo primo comma dell’articolo 55, nella formulazione dell’emendamento Mortati è stata chiesta la votazione per appello nominale dagli onorevoli Uberti, Dominedò, Moro, Bertone ed altri.

Faccio presente che, d’altra parte, questo primo comma, era stato preso in considerazione in numerosi emendamenti: ad esempio, l’emendamento dell’onorevole Targetti, l’emendamento dell’onorevole Russo Perez, sia pure con alcune modificazioni, accoglievano in sé qualcosa che si avvicinava alla definizione regionale del Senato o della sua base; mentre abbiamo altri emendamenti – per esempio, degli onorevoli Lami Starnuti, Preti e Laconi – che proponevano implicitamente od esplicitamente la soppressione di questo comma.

Il problema dunque non è sorto stamani, né ieri: esso era stato considerato e risolto secondo varie formule in precedenza.

Adesso troveremo la soluzione definitiva.

TOGLIATTI. Chiedo di parlare per dichiarazione di voto.

PRESIDENTE. Ne ha facoltà.

TOGLIATTI. Dichiaro a nome del Gruppo comunista che noi voteremo a favore di questa formulazione, e ciò anche allo scopo di sottolineare che non vediamo contradizione formale in questa formulazione; per dire cioè che noi consideriamo che il voto di questa formula non annulla i risultati acquisiti con la votazione di ieri, cioè che il voto per l’elezione dei senatori dovrà essere diretto e sulla base del collegio uninominale.

BADINI CONFALONIERI. Chiedo di parlare per dichiarazione di voto.

PRESIDENTE. Ne ha facoltà.

BADINI CONFALONIERI. Dichiaro di votare contro questo primo comma dell’articolo 55 in quanto, a malgrado delle molte delucidazioni qui avute, a mio parere questa formulazione non è soltanto vaga ed imprecisa ma non significa nulla. Se si vuole dire «nell’ambito della circoscrizione regionale», si deve allora mutare totalmente la formulazione e si deve dire: «le circoscrizioni saranno regionali» oppure si deve trovare un’altra formulazione, ma non questa «a base regionale» che non ha nessun significato. (Commenti).

TARGETTI. Chiedo di parlare per dichiarazione di voto.

PRESIDENTE. Ne ha facoltà.

TARGETTI. Dichiaro che il nostro Gruppo – non per preconcetti antiregionalisti ma per la convinzione che il concetto espressovi non possa avere una pratica applicazione – voterà contro questo primo comma dell’articolo 55.

Se ne persuadano i colleghi regionalisti. Una volta approvato l’ordine del giorno dell’onorevole Nitti – che le elezioni avvengono col sistema del collegio uninominale – la base regionale non abbiamo ancora avuto il piacere di sapere che cosa significhi. Perché quando si dice che significa impedire che un collegio si formi con un pezzo di regione ed un pezzo di un’altra ci si richiama ad un pericolo inesistente. Non c’è ragione di vietare ciò che non è mai avvenuto e non potrà mai avvenire per ragioni logiche. D’altra parte il comma proposto non ha altro significato.

REALE VITO. Chiedo di parlare.

PRESIDENTE. Ne ha facoltà.

REALE VITO. Io vorrei – ad eliminare ogni equivoco – proporre un emendamento a questo comma.

Una voce. Ma siamo in votazione, in sede di dichiarazioni di voto.

REALE VITO. Questo per avere un voto chiaro e non equivoco.

Io propongo che al comma sia sostituita questa formula: «Il Senato è eletto nell’ambito delle Regioni». (Interruzione del deputato Uberti).

PRESIDENTE. Onorevoli colleghi, l’onorevole Reale Vito ed altri mi ha fatto pervenire un emendamento al testo dell’articolo.

Mi pare che la soluzione possa essere trovata in questo senso che, se è respinta la formulazione dell’onorevole Mortati, allora subentra la formulazione dell’onorevole Reale Vito; perché, a rigore di termini, onorevole Uberti, non eravamo ancora in sede di votazione. Nel Regolamento si prevede il caso: quando sia cominciata la votazione non si possono presentare emendamenti, ma la votazione ha inizio quando effettivamente si comincia a votare. (Interruzione del deputato Piccioni).

Onorevole Piccioni, ho anticipato la soluzione, e la soluzione credo che dia sodisfazione a lei e all’onorevole Reale Vito. Tuttavia, a termini di Regolamento, così spesso invocato, la votazione ha inizio quando comincia la chiama. (Interruzione del deputato Piccioni).

Procederemo ora alla votazione del primo comma nella formula dell’onorevole Mortati e, se questa non ottenesse la maggioranza, la proposta di emendamento dell’onorevole Reale Vito avrebbe diritto di essere presentata all’Assemblea.

Chiedo ai firmatari della richiesta di appello nominale se, dopo le dichiarazioni di voto, conservano la loro richiesta.

MORO. Poiché si tratta di uno schieramento di forze molto importante di natura politica, riteniamo opportuno mantenere la richiesta di appello nominale.

PRESIDENTE. Sta bene.

PIGNATARI. Chiedo di parlare per dichiarazione di voto.

PRESIDENTE. Ne ha facoltà.

PIGNATARI. Dichiaro di essere contrario al primo comma dell’articolo 55 perché, votandolo, è evidente che non si vuole soltanto che l’elezione dei senatori avvenga su base regionale, intendendo per base regionale lo ambito territoriale della regione, ma attraverso l’approvazione del primo comma dell’articolo 55, come d’altra parte è dimostrato dall’insistenza della richiesta di un appello nominale, si vuol far rivivere e si vuole annullare il voto dato ieri.

LUCIFERO. Chiedo di parlare per dichiarazione.

PRESIDENTE. Ne ha facoltà.

LUCIFERO. Voglio semplicemente dichiarare, perché non ci possano essere equivoci sul mio voto, che io voterò contro la formula proposta dall’onorevole Mortati, perché mi riservo di votare a favore dell’emendamento Reale, che è molto più chiaro.

CANDELA. Chiedo di parlare.

PRESIDENTE. Ne ha facoltà.

CANDELA. Se l’emendamento Mortati è uguale al testo, della Commissione, si deve votare per primo l’emendamento dell’onorevole Vito Reale.

PRESIDENTE. Io ritenevo che da ciò che ho detto poco fa si fosse compreso che l’emendamento a firma Vito Reale è stato presentato in ritardo e che solo per non respingerlo senz’altro ho fatto quelle considerazioni. Ma ciò non significa che possa addirittura avere la precedenza.

Votazione nominale.

PRESIDENTE. Pongo in votazione per appello nominale il primo comma dell’articolo 55 nella formulazione dell’emendamento Mortati:

«Il Senato della Repubblica è eletto a base regionale».

Estraggo a sorte il nome del deputato dal quale comincerà la chiama.

(Segue il sorteggio).

Comincerà dal deputato Sansone.

Si faccia la chiama.

SCHIRATTI, Segretario, fa la chiama.

Hanno risposto sì:

Adonnino – Alberti – Aldisio – Allegato – Ambrosini – Amendola – Andreotti – Angelucci – Arcangeli – Assennato – Azzi.

Baldassari – Balduzzi – Baracco – Bardini – Bargagna – Barontini Anelito – Barontini Ilio – Bastianetto – Bazoli – Bei Adele – Bellato – Bellusci – Belotti – Benedettini – Benvenuti – Bernabei – Bernamonti – Bertola – Bertone – Bettiol – Biagioni – Bianchi Bruno – Bianchini Laura – Bibolotti – Bitossi – Bolognesi – Bonomi Paolo – Bordon – Borsellino – Bosco Lucarelli – Bosi – Bovetti – Braschi – Bruni – Brusasca – Bubbio – Bucci – Bulloni Pietro – Burato.

Caccuri – Calosso – Camposarcuno – Cappa Paolo – Cappelletti – Cappi Giuseppe – Carbonari – Carboni Angelo – Carboni Enrico – Carignani – Caristia – Ca– ronia – Carratelli – Caso – Cassiani – Castelli Edgardo – Castelli Avolio – Cavallari – Cavalli – Cavallotti – Chatrian – Chiarini – Chieffi – Chiostergi – Ciampitti – Cianca – Ciccolungo – Cimenti – Cingolani Mario – Clerici – Coccia – Codacci Pisanelli – Colombi Arturo – Colombo Emilio – Conci Elisabetta – Condorelli – Conti – Coppi Alessandro – Corbi – Corbino – Corsanego – Corsi – Cotellessa – Cremaschi Carlo – Cremaschi Olindo.

D’Amico – De Caro Gerardo – De Filpo – De Gasperi – Del Curto – Delli Castelli Filomena – De Maria – De Martino – De Michele Luigi – De Palma – De Unterrichter Maria – Di Fausto – Di Vittorio – Dominedò –– D’Onofrio – Dossetti – Dozza.

Ermini.

Fabriani – Fanfani – Fantoni – Fantuzzi – Farina Giovanni – Farini Carlo – Fedeli Armando – Federici Maria – Ferrarese – Ferrari Giacomo – Ferrario Celestino – Ferreri – Fiore – Firrao – Flecchia – Foresi – Franceschini – Fresa – Froggio – Fuschini.

Gabrieli – Galati – Gallico Spano Nadia – Gatta – Gavina – Germano – Geuna – Ghidetti – Giacchero – Giolitti – Giordani – Gonella – Gorreri – Gotelli Angela – Grassi – Gronchi – Guariento – Guerrieri Filippo – Gui – Guidi Cingolani Angela.

Imperiale – Iotti Nilde.

Jervolino.

Laconi – La Malfa – Landi – La Pira – La Rocca – Lazzati – Leone Francesco – Leone Giovanni – Lettieri – Li Causi – Lizier – Lombardi Carlo – Longo – Lozza – Lussu.

Maffi – Magnani – Magrini – Malvestiti – Manzini – Marazza – Marconi – Martinelli – Massini – Massola – Mastino Gesumino – Mastino Pietro – Mattarella – Meda Luigi – Mentasti – Merlin Umberto – Mezzadra – Micheli – Minella Angiola – Minio – Molinelli – Montagnana Mario – Montagnana Rita – Montini – Moranino – Morelli Luigi – Moro – Mortati – Moscatelli – Murdaca – Murgia.

Negarville – Negro – Nicotra Maria – Noce Teresa – Notarianni – Novella – Numeroso.

Pacciardi – Pajetta Giuliano – Pallastrelli – Pastore Giulio – Pastore Raffaele – Pat – Patricolo – Pecorari – Pella – Pellegrini – Perassi – Perlingieri – Persico – Pesenti – Petrilli – Piccioni – Platone – Pollastrini Elettra – Ponti – Proia – Pucci – Puoti.

Quarello – Quintieri Adolfo.

Raimondi – Rapelli – Ravagnan – Reale Eugenio – Recca – Restagno – Rivera – Rodinò Ugo – Romano – Roselli – Rossi Giuseppe – Rossi Maria Maddalena – Roveda – Ruggeri Luigi – Ruini – Rumor.

Saccenti – Salerno – Salizzoni – Sampietro – Scalfaro – Scarpa – Scelba – Schiratti – Scoca – Scoccimarro – Scotti Alessandro – Scotti Francesco – Secchia – Segni – Sereni – Silipo – Spallicci – Spataro – Stella – Storchi – Sullo Fiorentino.

Tambroni Armaroli – Taviani – Terranova – Tessitori – Titomanlio Vittoria – Togliatti – Togni – Tosato – Tosi – Tozzi Condivi – Trimarchi – Tupini – Turco.

Uberti.

Valenti – Valmarana – Vanoni – Veroni – Viale – Vicentini.

Zaccagnini – Zerbi – Zotta – Zuccarini.

Hanno risposto no:

Abozzi – Amadei – Arata.

Badini Confalonieri – Basso – Bencivenga – Bergamini – Bianchi Bianca – Bocconi – Bonino – Bonomelli – Bozzi.

Cacciatore – Candela – Canevari – Costantini – Covelli – Cuomo.

De Michelis Paolo – Di Gloria – Donati.

Fabbri – Faccio – Filippini – Finocchiaro Aprile – Fiorentino – Fioritto – Fo– gagnolo – Fornara.

Ghislandi – Giacometti – Giua – Grazi Enrico – Grilli.

Jacometti.

Labriola – Lagravinese Pasquale – Lami Starnuti – Lizzadri – Lombardi Riccardo – Lopardi.

Mancini – Mariani Enrico – Marinaro – Mastrojanni – Mazzoni – Merlin Angelina – Miccolis – Molè – Momigliano – Morandi – Morelli Renato – Morini.

Nasi – Nenni – Nitti – Nobile Umberto – Nobili Tito Oro.

Paris – Pera – Pertini Sandro – Perugi – Piemonte – Pignatari – Pistoia – Preziosi – Priolo.

Reale Vito – Rodi – Romita – Rossi Paolo – Rubilli.

Sapienza – Segala – Stampacchia.

Targetti – Tega – Tieri Vincenzo – Tonello – Tonetti – Tripepi.

Vernocchi – Vigna – Villabruna – Villani.

Zanardi.

Sono in congedo:

Angelini.

Cairo – Carmagnola – Caroleo – Cevolotto.

De Vita – Dugoni.

Jacini.

Mannironi – Martino Enrico – Martino Gaetano.

Perrone Capano – Porzio.

Russo Perez.

Simonini.

PRESIDENTE. Dichiaro chiusa la votazione nominale e invito gli onorevoli Segretari a procedere al computo dei voti.

(Gli onorevoli Segretari procedono al computo dei voti).

Risultato della votazione nominale.

PRESIDENTE. Comunico il risultato della votazione nominale.

Presenti e votanti     380

Maggioranza           191

Hanno risposto      294

Hanno risposto no    86

(L’Assemblea approva).

Il seguito della discussione è rinviato alle ore 16.

La seduta termina alle 13.

MARTEDÌ 7 OTTOBRE 1947

ASSEMBLEA COSTITUENTE

CCXLVIII.

SEDUTA DI MARTEDÌ 7 OTTOBRE 1947

PRESIDENZA DEL PRESIDENTE TERRACINI

indi

DEL VICEPRESIDENTE BOSCO LUCARELLI

INDICE

Sul processo verbale:

Rubilli

Parri

Labriola

Congedi:

Presidente

Commemorazione di Giuseppe Emanuele Modigliani:

Presidente

Saragat

Targetti

Molè

Rubilli

Gronchi

Mastrojanni

Lussu

Grieco

Sardiello

Merlin Umberto, Ministro delle poste e telecomunicazioni

Progetto di Costituzione della Repubblica italiana (Seguito della discussione):

Presidente

Perassi

Ruini, Presidente della Commissione per la Costituzione

Targetti

Lussu

Nitti

Lucifero

Mastino Pietro

Rubilli

Conti

Mortati

Nobili Tito Oro

Laconi

Bozzi

Moro

Persico

Bosco Lucarelli

Piemonte

Votazione segreta:

Presidente

Risultato della votazione segreta:

Presidente

Interrogazioni con richiesta d’urgenza (Annunzio):

Presidente

Andreotti, Sottosegretario di Stato per la Presidenza del Consiglio dei Ministri

Sulla nomina di tre membri della Corte costituzionale per la Sicilia:

Presidente

Interrogazioni (Annunzio):

Presidente

La seduta comincia alle 16.

AMADEI, Segretario, legge il processo verbale della precedente seduta pomeridiana.

Sul processo verbale.

RUBILLI. Chiedo di parlare sul processo verbale.

PRESIDENTE. Ne ha facoltà.

RUBILLI. Volevo chiarire che io, liberale, ieri non ho invocato affatto leggi eccezionali, come a torto si volle accennare nei miei riguardi. Non le potevo invocare perché, secondo me, danno troppo il ricordo delle vecchie leggi in difesa dello Stato, di non lieto auspicio, e perché credo che in Italia non se ne senta assolutamente bisogno.

Mi limitai soltanto a dire che siccome l’onorevole Covelli aveva creduto di tenere un comizio, indiscutibilmente di carattere monarchico, in Avellino, poteva farlo benissimo, non essendovi alcun divieto al riguardo a norma delle leggi ora vigenti.

PARRI. Chiedo di parlare sul processo verbale.

PRESIDENTE. Ne ha facoltà.

PARRI. Desidererei fare inserire a verbale che, se fossi stato presente alla seduta di sabato, avrei dato il mio voto all’ordine del giorno Magrini.

LABRIOLA. Chiedo di parlare.

PRESIDENTE. Ne ha facoltà.

LABRIOLA. Desidero anch’io chiarire che, se fossi stato presente alla seduta di sabato, avrei votato tutte le mozioni contrarie al Governo, nonché l’ordine del giorno Magrini, con riserva di fare altrettanto per i successori dell’onorevole De Gasperi.

PRESIDENTE. Se non vi sono altre osservazioni, il processo verbale s’intende approvato.

(È approvato).

Congedi.

PRESIDENTE. Comunico che hanno chiesto congedo gli onorevoli Dugoni e Perrone Capano.

(Sono concessi).

Commemorazione di Giuseppe Emanuele Modigliani.

PRESIDENTE (Si alza in piedi e con lui tutta l’Assemblea e il pubblico delle tribune): Onorevoli deputati, stamani abbiamo accompagnato alla sua ultima dimora l’onorevole Giuseppe Emanuele Modigliani. E tanto numerosi ci ritrovammo alla triste cerimonia che mi chiedo se in essa appunto non potrebbe intendersi essersi conclusa quella celebrazione del morto, contesta di cordoglio e di memorie, che si svolge normalmente, ad ogni consimile luttuosa evenienza, qui, nell’Aula, con discorsi commemorativi. E tuttavia io stesso avverto il bisogno di esprimere in parole la tristezza profonda nata in me all’annunzio di una perdita cui da tempo eravamo preparati, ma che, non per questo, ci è giunta meno dolorosa ed aspra.

Così ancora una volta risuonerà in quest’Aula il nome di Giuseppe Emanuele Modigliani, nome che tanto spesso vi venne pronunciato in anni lontani, quando esso significava preannuncio di forti discorsi battaglieri a difesa degli interessi delle masse popolari, ad esaltazione dei diritti del lavoro, a riconoscimento dei doveri di tutti verso la Nazione e verso l’umanità.

Deputato per quattro legislature normali, l’onorevole Modigliani era entrato nella Camera nel 1913, a quelle prime elezioni fatte in Italia sulla base del suffragio universale che, immettendo nella vita politica le immense energie, fino allora respinte o represse, delle moltitudini dei campi e delle officine, doveva spezzare in gran parte le consuetudini, forse un po’ troppo quiete e composte, del vecchio mondo dei legislatori, creando un più immediato tramite di pensiero e di azione fra Paese e Parlamento. E la Sua vitalità potente, il fervore del Suo intelletto formatosi nell’agitata atmosfera sociale di un grande porto tirrenico, la passionalità innata del Suo animo dovevano costituirlo ben tosto in figura preminente non solo dell’ala estrema, ma dell’intero Parlamento, pure così folto di incisive, ricche personalità.

Né il Suo spirito combattivo conobbe flessioni o intiepidimenti quando, nel quadro delle differenziazioni che venivano rispecchiando in seno al socialismo i nuovi contrasti del moto sociale, Egli si riconobbe nella concezione e nella corrente riformista.

Perché Giuseppe Emanuele Modigliani sentiva, come forse nessun altro, il valore decisivo che, per una democrazia di popolo, assumono l’istituto e le funzioni parlamentari; e in queste si era immedesimato, conscio che solo difendendole e perfezionandole si sarebbe potuto assicurarne al popolo tutti i frutti fecondi e progressivi. Di qui quella Sua gelosa cura delle norme e dei regolamenti che parve a volte amore di sottilizzazioni o strano bizantinismo, ma che svelava invece la sua consapevolezza che ogni minimo cedimento su questo terreno avrebbe potuto favorire poi finanche l’ultima rovina. Di qui il grido impetuoso di ribellione e di sdegno con cui Lui, e Lui solo, in una seduta torbida di paure e di umilianti patteggiamenti, ardì spezzare la ebbra allocuzione del capo-in-testa, che era stato portato a vittoria da tante note viltà complici e servili.

Poi anche Egli dovette battere le vie dure dell’esilio, fatto bersaglio dell’odio implacabile del dittatore, che a sua volta d’altronde, mai risparmiò, continuando a combatterlo, da giornali e da tribune, in una infaticabile, ardente requisitoria.

Giuseppe Emanuele Modigliani ha conosciuto sì la gioia del ritorno in una terra fatta libera anche dal Suo sacrificio, e quest’Aula, di cui Egli aveva rivendicato l’alta missione civile e di progresso, contro il ludibrio favorito e tollerato da altri, Lo ha rivisto, ma ormai spezzato nella Sua fibra dalla terribile ventennale vicenda.

L’animo non aveva ceduto però; ed il grande amore per i liberi istituti democratici, il fierissimo senso del dovere comandavano ogni giorno al Suo corpo stanco di levarsi, di camminare, di portare fin qui quanto in Lui restava di vivo, di squisitamente vivo: la Sua coscienza. E credo che nessuno di noi dimenticherà mai più quella figura solenne, biblica che, immota e silenziosa, dal primo banco del primo settore pareva – in questi ultimi mesi – stare a custodia della soglia di quest’Aula, già una volta purtroppo violata, venticinque anni fa, nonostante il suo grido audace.

L’Assemblea Costituente sente come proprio onore e titolo di nobiltà l’aver annoverato fra i propri deputati Giuseppe Emanuele Modigliani; e, reverente, ne trasmetterà la memoria ai nuovi Parlamenti della Repubblica. (Vivi, generali applausi).

SARAGAT. Chiedo di parlare.

PRESIDENTE. Ne ha facoltà.

SARAGAT. Onorevoli colleghi, Modigliani non è più. Il cuore di un uomo giusto e generoso ha cessato per sempre di battere.

Per sempre tacerà la voce eloquente che durante un mezzo secolo si levò, appassionata e ammonitrice, in un mondo che pareva e pare sordo ai richiami della vera saggezza ed ai consigli dei veri profeti.

Più non vedremo animato dalla fiamma vitale il caro volto del compagno che fu uno dei maestri della nostra generazione.

Nathan il saggio riposa per sempre, portando con sé nella tomba l’angoscia segreta ed il fervore profondo di una vita spesa per la sacra causa della pace fra gli uomini. Perché nessuno ha odiato più di Modigliani la guerra, in un tempo in cui il destino tragico nel breve spazio di un quarto di secolo ha condannato per ben due volte i padri a seppellire i loro figli.

Tutta la vita di Modigliani è un veemente atto di accusa contro la guerra, contro le cause che la generano, contro gli effetti funesti che ne derivano.

In ogni natura superiore, la lotta contro le forze del male che si avvinghiano alla vita con mille e mille tentacoli per trascinarla nel nulla da cui è emersa, si concentra su uno di essi e su quello abbatte la spada della giustizia per tentare di reciderlo.

Tragica lotta che durerà quanto dureranno le forze del male, vale a dire che durerà quanto durerà la vita stessa; ma lotta che non avrà mai tregua, perché sempre la vita troverà dei liberatori per difenderla, sempre balzeranno al suo fianco, veri angioli tutelari, i martiri e gli eroi.

Modigliani oggi riposa nella fredda bara dopo la sua lunga e operosa giornata, ed alla nobiltà che la vita conferiva al suo volto di antico saggio, si aggiunge quella misteriosa e profonda che a tutti conferisce la morte.

Vorremmo non turbare con parole vane questo riposo sacro e questo sonno eterno; vorremmo potere, in silenzio, nel nostro ricordo rifare il cammino che abbiamo compiuto sotto la sua guida paterna.

Ma è pur giusto dire ai giovani che non sanno e ricordare ai vecchi che potessero averlo dimenticato, il significato di una vita fervidamente vissuta a servizio di un all’ideale umano.

Modigliani viene al socialismo spintovi da un profondo sentimento di fraternità per gli umili. Non motivi teorici, non fredda dottrina lo avviano per la strada che seguirà sino alla morte; ma impulso di quel cuore umano che ha delle ragioni che la ragione ignora.

La dottrina verrà dopo e sarà una dottrina che noi giovani consideravamo con quella sufficienza presuntuosa che su questo terreno caratterizza il comportamento di ogni generazione nei confronti di quella che immediatamente la precede.

Il positivismo di Modigliani che si sovrapponeva a una più profonda visione delle cose derivatagli dal marxismo, non offriva per noi altro che motivo di affettuosa polemica.

Ciò che ci legava a lui come allievi al maestro era ben altro: era una coscienza morale di irraggiungibile altezza, una bontà infinita, una intransigenza esemplare, e soprattutto l’esempio di una vita in perfetta armonia con i fini umani a cui era dedicata.

Il socialismo di Modigliani è impulso verso una società in cui la libertà sia la sorella della giustizia.

All’individualismo delle civiltà fondate sulla economia capitalistica, Modigliani oppone la solidarietà che fiorisce al vertice del sentimento di responsabilità della persona umana.

La stessa lotta delle classi viene così concepita come qualcosa che lungi dallo spezzare il patto di solidarietà che deve unire tutte le creature, lo cementa nell’atto stesso in cui gli oppressi, conducendo la loro buona battaglia, anticipano nella loro coscienza l’immagine di un mondo più giusto ed umano per il cui avvento combattono.

Socialismo quindi che, avendo sempre presente la piena umanità dei suoi fini, non cade nell’errore funesto di ricorrere a mezzi che a quei fini contrastino.

Democratico sarà quindi Modigliani in ogni fibra del suo essere, democratico perché uomo libero, democratico perché socialista.

Tutta la sua vita è una milizia al servizio di questi principî. Il periodo in cui egli entra nell’agone politico è dominato dall’illusione dell’indefinito progresso, di quel progresso che non conosce tramonto. Modigliani non partecipa a questa illusione. Modigliani sente, forse prima di ogni altro, avvicinarsi i tempi della bestia che porta sul suo corpo i segni maledetti.

E un giorno del lontano 1914 i fatti si compiono. Il mondo entra in una era terribile da cui, dopo oltre 30 anni, non siamo ancora usciti.

Da questo istante Modigliani trova la sua vocazione vera e riscuote nel suo cuore una volontà indomabile che lo guiderà per tutta la vita. Guerra alla guerra sarà la sua parola d’ordine, quella che certo splendeva nel suo spirito ancor lucido, pur nelle ore dell’agonia.

La guerra, quali che siano le sue cause, quali che siano i suoi moventi, è il male radicale, il male in sé, il male assoluto.

Se è vero, come diceva Jaurès, che il capitalismo porta nel suo grembo la guerra come la nube porta l’uragano, non è meno vero che essa è generata dalla sua stessa essenza, che essa anticipa nel tempo i motivi che prenderanno inevitabile.

Non basterà quindi lottare contro le forme sociali in cui il morbo si annida e da cui trae alimento; bisognerà lottare direttamente contro la guerra in sé, come il chirurgo lotta contro il cancro che distrugge i tessuti sani.

Il positivista Modigliani assume quindi di fronte a questo mostro un atteggiamento che ha, non soltanto nel fervore dell’azione ma anche nella determinazione dei moventi, come un afflato religioso.

In nome del senso storico si potrebbe irridere a questa posizione, se la guerra stessa non ponesse il problema in termini nuovi.

Oggi, nell’atto in cui la guerra, se scoppiasse, distruggerebbe tutta l’umanità ossia la storia umana, c’è da chiedersi se il senso storico sia adeguato come criterio di giudizio per qualche cosa che minaccia di trascendere; c’è da chiedersi se Modigliani non avesse ragione.

Se quelle posizioni potevano essere irrise ieri, oggi debbono essere considerate da tutti gli uomini di cuore come qualcosa di profondamente vitale, come un fermento risanatore per una umanità che, secondo l’espressione del poeta, appare come uno sciame di assurdi insetti invisibilmente attirati dalla fiamma.

Guerra alla guerra dunque, quali che siano le sue cause, quali che siano i suoi moventi. Ed è questa posizione che lo porta a Zimmerwald, dove egli affermerà con passione i suoi principî.

Se la guerra è il male radicale, essa non può che riprodursi in nuovi mostri, non può che generare nuove catastrofi che limiteranno sempre più la zona della vita, sino ad annullarla per sempre.

Chi pensa che la guerra sia la levatrice della storia, sbaglia. La guerra ne è l’affossatrice. Se non si uccide il mostro, l’umanità, di convulsione in convulsione, precipiterà nell’abisso sino al suo annientamento totale.

Il valore di questa posizione veramente religiosa nei confronti della guerra, non si può quindi commisurare né al criterio storico che spiega i conflitti e neppure allo stesso criterio morale che distingue le guerre giuste dalle guerre ingiuste.

È una posizione che nasce da un istinto vitale, il quale sente inaridire le fonti da cui la vita trae alimento. È una ribellione contro una storia che distrugge sé stessa in nome della ragione storica. È il grido di un profeta antico e nuovo contro tutte le guerre, quali che siano i motivi invocati dagli uomini per uccidere altri uomini, sino alla strage totale che farebbe sparire sul nostro pianeta il genere umano.

Al lume di questa posizione fondamentale, tutta la vita di Modigliani appare come una meravigliosa crociata di vita attraverso un mondo che diventa disumano.

L’antifascismo profondo di Modigliani di fronte alla dittatura nata in Italia dalla prima guerra mondiale, si lega quindi a motivi che vanno al di là della politica, che vanno al di là dello stesso principio morale di libertà.

Il fascismo è il mostro generato dalla guerra e come tale porta in sé le stigmate di un male radicale.

Nella dittatura, prima di ogni altro, Modigliani presente qualcosa di cadaverico, i cui miasmi grevi soffocheranno il respiro della vita.

Ed è notevole che Modigliani, nel periodo di incubazione del fascismo, sorretto da questa sua illuminazione religiosa intorno al significato della guerra come male assoluto, abbia avuto la più lucida visione del problema politico che travagliava allora l’Italia e che solo dopo 20 anni di prove dolorose fu risolto.

Dove il realismo degli altri sfociava nella concezione puramente economica della lotta di classe, il suo senso religioso della libertà lo portava a ficcare lo sguardo più in fondo e a intendere l’intima sostanza delle cose.

Fu in quel periodo che Modigliani, unico forse fra tutti gli uomini della sinistra socialista, pose di fronte alla coscienza del Paese il problema istituzionale in termini di democrazia repubblicana.

Si fece allora dell’ironia sulla repubblichetta di Modigliani. Ma quelli stessi che allora irrisero a una concezione che pareva inadeguata a seguire lo slancio in avanti del popolo, dovettero, dopo un quarto di secolo di sventure e di lutti, salutare l’avvento della Repubblica come una grande vittoria.

L’assassinio di Matteotti trova Modigliani all’avanguardia contro il fascismo. Egli sarà nello stesso tempo il protettore della vedova e dell’orfano, l’accusatore del tiranno, il vindice della giustizia offesa.

Le persecuzioni si fanno più implacabili: la sua casa è devastata, egli stesso è minacciato di morte.

Egli continua imperterrito per la sua strada protetto dalla devozione della sua compagna fedele ed è più tardi, quando la partita in Italia sarà perduta, che il movimento socialista gli consegnerà la preziosa bandiera perché la ponga in salvo al di là della frontiera della Patria.

Comincia per Modigliani, all’avanguardia anche in questo, quel lungo e duro esilio che è tanta parte della vita di noi in cui veramente si è conclusa la sua.

Figlio di una stirpe che conosce da due millenni le amarezze della diaspora, c’è chi potrebbe immaginarselo chiuso in un fatalismo doloroso e in un’attesa messianica. Errore. Nessuno di noi ha sofferto, quanto lui, dall’esilio. Nessuno più di lui ha sentito la separazione dalla Patria come una lacerazione nell’anima e quasi come una amputazione fisica.

Ma nessuno più di lui ha saputo dissimulare la sua sofferenza con un animo stoico che reagiva al dolore con le risorse dell’ironia e, quando l’ironia non bastava, con quelle di una ricca natura a un tempo aristocratica e plebea in cui vedevi la finezza del gran signore e l’esuberanza beffarda del popolo livornese.

Come in Patria, così nell’esilio il suo pensiero dominante era la guerra. La guerra passata che ha generato la dittatura, e quella che viene, portata in grembo dalla dittatura.

Durante un ventennio, sulla stampa, da tutte le tribune, in tutti i congressi dell’internazionale socialista, in Europa e in America, è contro la guerra passata, è contro la guerra futura che egli si leverà in un atto di accusa tremenda.

Il grande avvocato è sempre presente in lui nella tragica causa, che ha come accusato un mostro inafferrabile e come vittima l’umanità tutta intera.

Venti anni di lotta e la causa è, alla fine, di nuovo perduta. Spunta l’alba tragica del settembre 1939.

Per la seconda volta, nella sua vita, Modigliani sente l’agonia della pace come la sua propria agonia.

Vecchio ormai e stanco, lotta con le forze della disperazione per salvare almeno la bandiera del Partito che gli è stata affidata.

Potrebbe recarsi in America dove gli è offerto sicuro rifugio; ma si ostina a rimanere in una Francia invasa dalle armate di Hitler, sotto la minaccia continua della tortura e della morte.

Ed è soltanto nel 1943 che gli amici fraterni lo circondano, riescono a indurlo a varcare il confine della Svizzera, dove colpito dal male, attenderà l’epilogo dell’immane tragedia.

Liberato il territorio nazionale, Modigliani rientra in Patria unicamente per morire. Rieletto deputato si trascinerà in quest’Aula come per offrire la suprema testimonianza di un moribondo, della devozione che gli uomini liberi devono avere per le istituzioni democratiche.

Il nostro Gruppo parlamentare lo designa suo Presidente ed è in questa dignità di nostro fratello maggiore che la morte pietosa lo coglie, troncando la dolorosa agonia.

Modigliani si è spento in un tempo in cui la guerra bussa di nuovo alle porte di una umanità che, come Macbeth, ha ancora le mani rosse di sangue.

Spranghiamo la porta e tracciamo sulla sua soglia il pentagramma che arresta gli spiriti malefici. Fuori di metafora, odiamo la guerra con tutte le forze dell’animo nostro e uniamo tutti gli uomini di buona volontà in questa passione sacrosanta di pace, che è la sola che può suggerire gli accorgimenti che la fredda politica ignora.

Se un soffio universale di libertà e di giustizia non rianima questa umanità che soffoca sotto un destino maledetto, per la terza volta la causa della pace sarà perduta e forse sarà perduta per sempre.

È questo immenso amore della pace tra gli uomini il retaggio che Modigliani ci lascia e che noi tutti dobbiamo raccogliere.

Oggi noi ci inchiniamo sulle fredde ceneri di un uomo che negli ultimi istanti della sua vi fa ha potuto dire di sé come Paolo di Tarso: sono giunto al termine della mia corsa. Ho tenuto ferma la mia fede, ho combattuto la buona battaglia, attendo adesso la corona della giustizia.

Lottiamo con tutte le nostre forze per scongiurare la guerra e affrettiamo l’avvento di un mondo in cui l’umanità, divenuta giusta con sé stessa, sarà degna di deporre un serto di gloria sulla fronte dei grandi che hanno combattuto perché non ci fosse tolto il supremo dei diritti: quello di sperare e di credere. (Applausi).

TARGETTI. Chiedo di parlare.

PRESIDENTE. Ne ha facoltà.

TARGETTI. Onorevoli colleghi, nelle nobilissime parole del Presidente, Emanuele Modigliani ha già trovato, qui, in mezzo a noi, la più degna commemorazione, e di lui in quest’Aula ha or ora parlato nobilmente anche il collega Saragat. Ma il nostro dolore non può tacere, anche se sa di non poter trovare in questo momento parole adeguate.

La perdita del nostro caro Modigliani era temuta ogni giorno di più. Stringeva il cuore, vederlo in questi ultimi tempi trascinarsi penosamente a quel banco dove egli sembrava stare a difesa della libertà, come una croce su la soglia di un luogo che si vuole difendere dal male.

Ci stringeva il cuore, o colleghi, vederlo lì, non assente col pensiero, ma muto, muto lui, in quest’Aula, dove tante volte la sua eloquenza aveva raggiunto le vette più eccelse.

Gli si passava vicino, lo si salutava, soffermandosi appena per evitargli l’angoscia di non poter rispondere al saluto; e si vedeva la sua faccia stanca spianarsi ed i suoi occhi illuminarsi di un dolce sorriso. Era poco ma, per noi, era qualche cosa. Era il modo di dare al nostro Modigliani la certezza che continuava per lui tutta la nostra tenerezza.

Ma ora, anche questo, o colleghi, è finito; e negli animi nostri vi è una grande tristezza. Chi è venuto, in giorni ormai lontani, in quella milizia in cui trovò Modigliani già audace e fervido combattente; chi, nel corso del tempo, ha avuto la grande fortuna di lottare al suo fianco; chi, attraverso tanti anni, gli è rimasto sempre, anche da lontano, spiritualmente vicino avendo con lui comuni i pericoli, le ansie e le speranze; chi fu legato a lui da una amicizia sorta con la spontaneità, con la freschezza di tutti i sentimenti giovanili e che poi si è rinsaldata, rinforzata attraverso il tempo e le prove, tanto che neppure un malaugurato dissenso, che per la sua gravità avrebbe potuto annebbiarla, non è riuscito a renderla in nulla meno affettuosa e fraterna; come può, in quest’ora, non sentire nell’animo una grande pena?

Onorevoli colleghi, non è una debolezza sentimentale se, nel perdere Emanuele Modigliani, a molti di noi è sembrato che qualche cosa di noi stessi si perdesse; che con lui dileguasse qualche cosa di noi. E per sempre.

Questi però sono sentimenti personali, che l’Assemblea deve scusare se per un bisogno dell’animo abbiamo manifestato. Ma tutto il gruppo del nostro partito è unito e concorde nel rendere questo estremo omaggio alla memoria di chi per la fede comune, per la grande fede socialista, sacrificò tutto se stesso. Si può dire che sacrificò la vita, condannandosi all’esistenza più combattuta, più triste, più angosciata e più amara.

Non credo che sia questa l’ora e non è certo questo il luogo di parlare della sua specifica attività politica, dell’atteggiamento da lui tenuto di fronte alle varie questioni, che si sono presentate nella vita del nostro partito, accennare ai suoi orientamenti ideologici. Non è l’ora e non è il luogo perché, anzitutto, onorevoli colleghi, io sento che qui, nella nostra Aula, quando si rievoca uno dei nostri, non si deve mai dimenticare che siamo in un consesso dove sono rappresentate tutte le idee, le più diverse, anche le più opposte.

Esaltare una determinata fede mi sembra che sempre voglia dire, anche non volendo, opporre la nostra fede alla fede altrui. Quello che si può e si deve esaltare, col consenso di tutti e con lo stesso animo, è il modo col quale una idealità politica si è servita. E di Emanuele Modigliani si può qui, nell’Aula dell’Assemblea Costituente, ben ricordare anche quello che il nostro illustre Presidente ha già ricordato: la difesa che egli sempre fece dell’istituto parlamentare.

Nel corso del tempo, questo istituto potrà trasformarsi – io sono modestamente tra quelli che ritengono che una trasformazione sia necessaria – ma, badate, finché nulla di diverso esisterà, l’istituto parlamentare sarà sempre la base, il fondamento del rispetto di ogni libertà, di ogni civiltà. Tale egli lo considerò e, perché tale, lo volle difendere ad ogni costo, in mezzo ad ogni difficoltà, ad ogni pericolo. Egli fu un grande esperto di vita parlamentare. Questa Aula fu il suo campo di battaglia preferito. Egli fu un grande stratega delle battaglie parlamentari. Ma di lui si deve soprattutto ricordare come egli seppe servire l’idea, che lo guidò e lo illuminò lungo tutta la via: un sacrificio, onorevoli colleghi, assoluto, intero di se stesso; una dedizione – non vorrei da una parte esagerare, e dall’altra, ridurre il significato d’una così grande parola – una dedizione da martire, vorrei dire.

Pensate! Col suo ingegno, con la sua cultura, con la sua preparazione, con la sua parola, avrebbe potuto trionfare nell’agone forense, ricevere onori, guadagnarsi una meritata agiatezza di vita. Non lo sedusse nulla; lo sedusse soltanto il grande sogno di servire una grande idea.

E fu così fermo nell’asserire la sua fede socialista, che di fronte al fascismo (il quale, oltre ad essere negazione di socialismo, anzi per essere negazione di socialismo, aveva dovuto anche negare democrazia e libertà) Egli fu inflessibile e fu, a suo merito fra i più odiati dal passato regime.

Perseguitato, in ogni modo, in ogni luogo, senza tregua, brutalmente. Ingiuriato, schernito, inseguito, percosso, ferito, esposto più volte a pericolo di vita. Ma la sua fede sembrava quasi rafforzarsi ad ogni nuovo assalto e divenire a lui, per ogni nuovo pericolo e ogni nuovo dolore, più cara.

Tutta la sua vita fu una sola battaglia, Ma la vita fu ingiusta verso di lui così giusto; una fortuna sola ebbe, una di quelle fortune che non hanno nome e che forse non si riesce mai a misurare: l’amore di una donna che fu il suo sostegno, la sua difesa, il suo scudo morale e persino in qualche evento, di fronte alla teppaglia fascista, anche materialmente il suo scudo. Ma, tolta questa grande fortuna, poche gioie conobbe: la vita fu aspra, fu amara e cattiva con lui e tuttavia non riuscì, onorevoli colleghi, a renderlo meno buono, perché una delle sue più grandi virtù fu una immensa bontà. Combatté tante cose, forse odiò molte cose, ma non volle mai male a nessuno. Questa, forse, la più grande delle sue grandezze ed è questo il perché a compiangerlo siamo uomini anche di opposte ideologie. L’attività politica può e deve essere diversamente apprezzata; dagli uni esaltata, combattuta dagli altri, ma vi sono dei complessi di virtù dinanzi ai quali le differenze ideologiche e le differenze di fede scompaiono, cancellate, travolte tutte da un grande sentimento di ammirazione. È per questo che, se io non m’inganno, non certo per merito delle nostre povere parole, ma per merito dell’uomo che rievochiamo, in quest’ora, in quest’Aula in cui, non per colpa di alcuni, ma per necessità di cose, non frequenti sono i consensi e spesso aspri sono i contrasti, mi sembra che aleggi una diffusa mestizia a cui nessuno può sottrarsi, e che tutti gli animi assiema ed affratella.

Benedette siano queste figure umane di eccezione che in vita seppero esser tali che, morendo, le accompagna un rimpianto che tutti rattrista, ma di una tristezza che ci rende un po’ migliori. (Vivi applausi).

MOLÈ. Chiedo di parlare.

PRESIDENTE. Ne ha facoltà.

MOLÈ. Non è volontà di prolungare una commemorazione così dolorosa, che può avermi indotto a parlare, a nome mio e dei miei amici. Alcuni di noi vissero gli anni della giovinezza lontana in consuetudine di pensiero e di vita con l’uomo che oggi piangiamo: così che a noi pare che con lui scompaia qualcosa di noi, forse la parte migliore: la stessa poesia della giovinezza lontana. Non è volontà di prolungare una così dolorosa commemorazione che dunque c’induce a parlare.

I morti restano nel ricordo di quelli che sopravvivono, non per il numero delle parole e per l’ampiezza delle celebrazioni, ma per quello che furono, per quello che hanno fatto, per l’eredità che lasciano di insegnamenti e di opere.

E di quello che fu Modigliani, nella nostra vita politica; di quel che operò nel periodo più oscuro e tormentoso della nostra storia civile: di lui, socialista, rappresentante del popolo, combattente della libertà in Patria e fuori; della sua odissea aspra e tempestosa di profugo che divise con colei che mai da lui non fu divisa il pane salato dell’esilio e della miseria, hanno detto i colleghi che mi han preceduto: l’onorevole Saragat, dando di scorcio la visione complessiva di quello che fu il suo pensiero politico, l’amico Targetti tracciando l’immagine morale dell’uomo.

Una sola cosa io vi dirò. Emanuele Modigliani fu onore del socialismo italiano. Ma tutti i partiti possono onorarsi di lui, perché chi fa della vita politica una severa milizia, chi offre l’esempio di una perfetta coerenza di pensiero e di azione, chi affronta persecuzioni, pericoli, miseria, sacrificio per servire una idea, chi può dire morendo, come Spinoza, che la sua eredità è una riconferma dell’Etica, esula dai confini di una formazione politica e personifica i valori religiosi della vita.

Nulla dunque da aggiungere alla commossa celebrazione che, con unanime consenso, il Parlamento fa di Colui che lo difese a viso aperto. Noi uniamo a questo accorato cordoglio il nostro accorato rimpianto.

Ma nel nostro rimpianto vi è una vena di amarezza perché non sappiamo tacere una protesta, ahimè quanto vana! Contro l’iniquità del destino che ha concluso la vita di Modigliani.

Il destino fu per lui beffardo ed ostile.

La sua morte è di ieri. Ieri si è conchiuso il Suo ciclo e si è spenta l’ultima luce che si era raccolta negli occhi. Ma la morte era cominciata da quando il morbo gli aveva suggellato sulle labbra la parola; quella libera parola, fatta di potenze, di finezze, di passione e di impeti, che non era riuscita a soffocare la tirannide e che era stato lo strumento della sua lotta, l’arma del suo dominio. Così lentamente era costretto a morire giorno per giorno, ora per ora, spettatore e vittima della sua stessa tragedia – la più terribile tragedia che possa colpire gli uomini di pensiero: la tragedia del pensiero che pensa e non si esprime, la tragedia del pensiero che permane lucido e vivo ma è imbrigliato e incatenato dalla impossibilità dell’espressione. Questo martirio è durato due anni.

Noi lo vedemmo qualche volta aggirarsi in quest’Aula, testimone del suo glorioso passato, come l’ombra di se stesso, come un’ombra che cercasse in quest’Aula se stesso e gli echi del suo passato! Ma, estraniato dalle moltitudini, che lo amavano e che erano la vocazione del suo più grande amore, egli dovette recludersi in solitudine. E in solitudine attese la morte.

Che ieri è giunta per lui, finalmente, liberatrice.

Non così, non così doveva finire, inerte e muto, con la parola spenta o gorgogliante nella gola, questo grande signore della parola che aveva osato levarsi in nome di tutte le libertà contro tutte le tirannie. Non così, non così doveva finire questo dominatore di Assemblee, capace da solo di tenere in iscacco una maggioranza e di mettere in minoranza un Governo. Egli meritava altra sorte. A questo povero inerme e glorioso che nella parola aveva la sua unica potenza e la sua grande ricchezza, il destino beffardo ed iniquo non doveva togliere, non poteva togliere, dopo tanto soffrire, la sua sola potenza, la sua sola ricchezza. Questo grande lottatore meritava di finire come il gladiatore sul terreno.

Così, così doveva morire Emanuele Modigliani: in piedi – combattendo fulminato, folgorato nella pienezza della sua eloquenza – non vuotato, impoverito, assottigliato, mutilato dal male della carne miserabile che soffoca la voce del pensiero e spegne la luce divina dello spirito.

È questo senso di ribellione che aggrava il nostro rimpianto e rende più cocente il nostro dolore.

Ma Emanuele Modigliani non muore tutto quanto, se lascia tanta eredità di insegnamento e di opere.

Egli lascia, soprattutto, a noi la sua fede e la sua idea: la consegna di continuare come un sacro mandato, con la sua fede e la sua idea, l’opera cui dedicò tutta la vita: questa opera per la libertà umana e per la giustizia sociale: la meta, Egli disse, verso cui va inesorabilmente la storia, la meta – noi ripetiamo con Lui – verso cui andrà inesorabilmente la storia. (Applausi).

RUBILLI. Chiedo di parlare.

PRESIDENTE. Ne ha facoltà.

RUBILLI. Porto l’adesione commossa del Gruppo parlamentare liberale alla solenne, doverosa, adeguata commemorazione di Giuseppe Emanuele Modigliani.

Prima il nostro Presidente, poi chi più ne aveva il diritto, il dovere e l’autorità e poi anche gli altri oratori hanno di già ricordato la fede, i sentimenti, i meriti, le qualità e la multiforme attività politica di Giuseppe Emanuele Modigliani con le grandi lotte, le grandi battaglie da lui sostenute per il trionfo della civiltà e della giustizia. Noi, radicali e liberali, seguimmo tutta quanta l’opera sua con simpatia e con ammirazione, ed anche con l’animo aperto a tutte le idealità democratiche, a tutte le rivendicazioni sociali.

Io desidero però ricordare soltanto, che qui abbiamo conosciuto l’insigne parlamentare, abbiamo ammirato il campione invitto del socialismo, ma bisogna pur dire che l’attività di Emanuele Modigliani si svolgeva anche mirabile in altri campi, poiché egli era un illustre professionista, uno dei più grandi avvocati penali d’Italia. Mi piace poi, rievocarlo in questo momento come ancora ci pare di rivederlo, nei suoi momenti migliori, specialmente durante il periodo della prima guerra mondiale, quando in quest’Aula appariva veramente come un dominatore, un dominatore nell’aspetto, un dominatore nell’atteggiamento, nel gesto, nella parola travolgente e formidabile.

Quindi vennero le persecuzioni, poi venne l’esilio, vennero i dolori che fiaccarono il gagliardo e robusto organismo, e poi venne la libertà, venne il suo ritorno in Patria, il suo ritorno nell’Aula, in quest’Aula dei suoi grandi trionfi: ma il gigante, purtroppo, era abbattuto.

Però, anche quando egli si trascinava sorretto da qualche collega o anche da qualche usciere, poggiato sul suo bastoncello, noi notavamo che negli occhi gli brillavano sempre la stessa fede, gli stessi sentimenti che accoglieva nell’anima, quando era un dominatore, quando era un gigante.

Mentre ora vivamente commossi ci raccogliamo nel dolore per la sua dipartita, che pur non era assolutamente imprevista, io non credo di aggiungere altro a quanto di lui è stato di già detto. Non vi è bisogno di molte parole per commemorare Modigliani, perché egli appartiene indiscutibilmente a quella fulgida schiera di grandi figure parlamentari che hanno onorato l’Italia e che, anche attraverso gli anni, non potranno mai essere dimenticate! (Vivi applausi).

GRONCHI. Chiedo di parlare.

PRESIDENTE. Ne ha facoltà.

GRONCHI. Dinanzi alla maestà della morte, onorevoli colleghi, inadeguate ed esteriori appaiono anche le parole dettate dal più profondo e sincero sentimento. Ma non può mancare, dinanzi alla scomparsa di Emanuele Modigliani, né l’omaggio commosso e riverente di tutto il nostro Gruppo, né l’espressione mia personale che mi associa così profondamente a tanto rimpianto.

Emanuele Modigliani è stato un lottatore aperto, leale, impetuoso per la sua fede, fin dai tempi lontani in cui gli uomini della mia generazione cercavano faticosamente, ma ardentemente, di avvicinare la loro fede religiosa al primo anelito di liberazione delle classi lavoratrici. In quel primo affermarsi della Democrazia cristiana, che schierò i più ardenti e consapevoli di noi a lato delle aspirazioni e delle rivendicazioni di libertà, io fui vicino ad Emanuele Modigliani, anche per l’attività che egli svolgeva nella sua Livorno, fui tra coloro che esperimentarono in quel suo temperamento positivista quanto poteva l’idealismo di una fede, che lo conduceva a rispettare altamente tutte le altre fedi sinceramente professate e lo rendeva araldo di libertà e di democrazia, anche nel periodo nel quale l’atmosfera arroventata della guerra mondiale, sembrava portare le folle lavoratrici verso forme di intolleranza o di violenta opposizione ad ogni altra idea che non fosse la loro.

Egli combatté due lotte elettorali e io lo ebbi, noi lo avemmo avversario leale ed aperto, ma rispettoso di ogni forma di libertà; ed imparammo a conoscere in lui quella cui i colleghi che hanno parlato prima di me hanno fatto cenno e che egli ebbe in altissima misura, cioè la grande bontà, quella bontà che lo rendeva istintivamente vicino ad ogni causa di giustizia e lo faceva sentire fraterno in ogni sofferenza e in ogni miseria.

È così che, senza retorica, pensando a lui, pensando alla forma altamente ideale con cui si combattevano le campagne politiche di una volta, non credo sia esagerato definirlo – come vorrei definirlo chiudendo queste mie brevi parole – cavaliere dell’umanità. (Applausi).

MASTROJANNI. Chiedo di parlare.

PRESIDENTE. Ne ha facoltà.

MASTROJANNI. Onorevoli colleghi! La morte di Emanuele Modigliani non tanto ci sorprende, quanto ci addolora. L’età veneranda, nel fragile corpo, da tempo aggredito dal male, più non consentiva umane speranze risolutive. Tuttavia la morte che sempre rende pensosi, tanto più ci fa meditare quando, come questa volta, chiude la vita di un uomo, il cui nome è assurto a simbolo di libertà.

Quando piccoli uomini, investiti del mandato parlamentare, intimiditi dalla boriosa tracotanza del dittatore, supinamente piegarono la bandiera della libertà, qui, Emanuele Modigliani, solo tra pochi, levò alta e solenne la sua protesta ammonitrice. Qui Emanuele Modigliani sciolse il più grande inno alla libertà.

Noi non possiamo dimenticare ciò; noi ci inchiniamo reverenti di fronte a uomo sì grande, a uomo, il quale non è morto. Egli vive perennemente nei nostri cuori; egli vive per tutte le generazioni future che saranno illuminate dalla sua memoria, per tutti i supremi beni dello spirito. A nome del Gruppo parlamentare dell’Uomo Qualunque, esprimo il più profondo cordoglio. (Applausi).

LUSSU. Chiedo di parlare.

PRESIDENTE. Ne ha facoltà.

LUSSU. Dopo così ardenti rievocazioni, mi sia consentito, a nome del nostro Gruppo e di coloro i quali composero il movimento di «Giustizia e Libertà», intorno a cui Modigliani visse per circa quindici anni, recare una parola di saluto.

Noi sentiamo che, più che ai partiti ed alle correnti politiche, le grandi anime – e Modigliani fu una grande anima – appartengono all’umanità. Io voglio di lui ricordare soltanto la semplice, eroica serenità con la quale sempre, in ogni momento, seppe affrontare i rischi e i pericoli che il fascismo, attraverso le sue persecuzioni e le sue polizie – tre polizie – lo colpì. Aggiungo che egli tentò il passaggio (e vi riuscì) in Svizzera, perché il passare era ugualmente rischioso quanto il rimanere.

Io voglio anche portare, a nome del nostro Gruppo e principalmente a nome della vecchia famiglia di «Giustizia e Libertà» nella quale Carlo Rosselli era verso Modigliani come un figliolo – alla compagna di Modigliani, Vera Modigliani, l’espressione del nostro affetto e della nostra devozione.

Credo che più degnamente non era possibile scolpire la devozione, la coerenza che questa fedele, coraggiosa compagna mantenne in tutta la sua vita, delle parole che essa volle mettere come prefazione alla dedica del libro dell’esilio, che ricorda gli anni dal 1926 alla liberazione dell’Italia, così semplicemente concepita: Ubi tu Caius et ego Caia. Dovunque tu sia e comunque tu sia, al tuo fianco io, la tua compagna.

È un simbolo. (Applausi).

GRIECO. Chiedo di parlare.

PRESIDENTE. Ne ha facoltà.

GRIECO. Il Gruppo comunista si associa al profondo tributo di cordoglio dell’Assemblea per la morte del grande tribuno Giuseppe Emanuele Modigliani. (Applausi).

SARDIELLO. Chiedo di parlare.

PRESIDENTE. Ne ha facoltà.

SARDIELLO. Il Gruppo parlamentare repubblicano si associa a questa rievocazione di Giuseppe Emanuele Modigliani.

Non ripeterò, in nome dei miei amici di Gruppo, le alte parole pronunciate dai precedenti oratori, ma il Partito repubblicano italiano non può, non vuole dimenticare che Giuseppe Emanuele Modigliani, nato alla lotta politica nell’atmosfera grande e luminosa delle battaglie per le rivendicazioni sociali, ebbe sempre una particolare sensibilità per i problemi più strettamente politici, per le battaglie dirette alla conquista dei diritti politici del popolo. E fu assertore magnifico e tra i più forti sostenitori del suffragio universale. E quando drammatici eventi, parvero dare veramente una grande espressione sintetica di certe leggi profonde della storia, mostrando che alle conquiste sociali è mezzo potente la conquista del diritto politico, Giuseppe Emanuele Modigliani naturalmente, fu tra gli assertori più vivi, più alti e costanti dell’idea e delle istituzioni repubblicane.

Per questo suo atteggiamento di pensiero politico, che egli nella realtà concretò in una perenne simpatia (animata dalla visione di una lunga, perseverante battaglia da sostenere insieme) verso il Partito repubblicano; in nome di questi ricordi, il Gruppo parlamentare repubblicano partecipa alla commozione di tutta l’Assemblea in quest’ora di profonda tristezza. (Applausi).

MERLIN UMBERTO, Ministro delle poste e telecomunicazioni. Chiedo di parlare.

PRESIDENTE. Ne ha facoltà.

MERLIN UMBERTO, Ministro delle poste e telecomunicazioni. Il Governo si associa con cuore commosso alle meritate onoranze che sono state rese da questa Camera, con la voce di uomini autorevoli dei vari partiti, alla memoria del grande parlamentare onorevole Modigliani.

È una delle fortune del nostro sistema politico di potere spesso onorare questi uomini superiori, che si ergono al disopra di ogni divisione e che con la loro altezza morale personificano quell’ideale di libertà, che costituisce il patrimonio comune di tutti gli uomini che credono nel regime democratico. Per questi ideali il Nostro ha tanto sofferto nella sua esistenza.

Io che ho avuto l’onore di sedere in questa Aula per tre legislature, prima dell’avvento del fascismo, e che ho partecipato con l’onorevole Modigliani ad una delle più belle battaglie che siano state combattute in difesa della libertà – la battaglia dell’Aventino – io ho sempre ammirato questa splendida figura di uomo realmente superiore, di grande parlamentare, il quale non era solo antifascista per ragioni politiche, ma soprattutto, o signori, era antifascista per ragioni morali, io ho il dovere in quest’ora di riconoscere la superiorità di questo uomo. Egli nella lotta contro il fascismo vedeva soprattutto il dovere di tutti gli uomini onesti di combattere una dottrina che voleva vincere l’avversario, non con la persuasione e la vittoria del numero, ma con la violenza sopraffattrice.

Ed io ricordo che, quando fu certo ormai, che Giacomo Matteotti era stato trucidato dai fascisti e che la responsabilità del Governo di allora era evidente, l’onorevole Modigliani fu uno di quelli che più fermamente sostennero che noi dell’opposizione non potevamo più rimanere in quest’Aula, perché una barriera incolmabile erasi creata tra noi e la maggioranza.

Il suo antifascismo era basato su questa ripugnanza morale e noi condividevamo il suo retto pensiero. Egli aveva il culto del Parlamento e capiva che ogni offesa rivolta a questo Istituto, palladio di tutte le libertà, era un’offesa rivolta alla libertà del cittadino, alla tolleranza verso tutte le opinioni, alla difesa della dignità e della personalità umana.

Campione della libertà, difensore del Parlamento, quest’uomo, che tanto sofferse nel lungo esilio, era tornato fra noi ormai vecchio e ammalato; e noi che lo avevamo conosciuto forte, fiero, virilmente pugnace, soffrivamo spesso vedendolo nelle condizioni fisiche in cui egli era. Ma non pensavamo che così presto egli ci fosse rapito.

È per questo che, finché ci sarà al mondo il culto per la libertà, finché vi sarà al mondo un Parlamento da difendere, finché vi saranno uomini pronti a dare per la libertà anche la vita, il nome di Giuseppe Emanuele Modigliani sarà sempre onorato nei secoli. (Vivissimi applausi).

Seguito della discussione del progetto di Costituzione della Repubblica italiana.

PRESIDENTE. L’ordine del giorno reca: Seguito della discussione del progetto di Costituzione della Repubblica italiana.

Penso che sia opportuno, onorevoli colleghi, ricordare brevemente l’ultima seduta nella quale abbiamo discusso in ordine al progetto costituzionale e abbiamo correlativamente votato.

Nella seduta scorsa, dedicata al progetto costituzionale, dopo aver udito lo svolgimento degli ultimi due emendamenti che si riferivano ad un modo complementare di formazione del Senato per mezzo di alcune nomine dall’alto e di alcuni posti da ricoprire per cariche, siamo passati all’esame del modo di votazione e ci siamo trovati di fronte due ordini del giorno.

I due ordini del giorno erano stati presentati rispettivamente dall’onorevole Lami Starnuti e da altri colleghi, e dall’onorevole Nitti e da altri colleghi.

I due ordini del giorno ponevano nettamente il problema della formazione del Senato della Repubblica sulla base del suffragio universale e diretto, ma l’uno col sistema proporzionale, l’altro invece col sistema uninominale.

Si è svolta una lunga discussione procedurale, perché alcuni colleghi sostenevano che non si potessero mettere in votazione gli ordini del giorno prima della votazione degli emendamenti.

Dopo quella lunga discussione procedurale, essendo stato accettato da tutti il criterio che si procedesse alla votazione degli ordini del giorno, alcuni colleghi hanno però ritenuto opportuno che ai due ordini del giorno già presentati se ne aggiungesse un altro che affermasse un nuovo e diverso principio. E precisamente quello della elezione indiretta, di secondo grado.

È sufficiente che i colleghi rileggano, non il sommario, ma il resoconto stenografico di quella seduta, per constatare come l’ordine del giorno che chiamerò Perassi, sebbene presentato da altri colleghi che hanno però in esso ripreso il contenuto di un emendamento Perassi – mirava essenzialmente a fissare questo principio in ambedue i settori elettorali che quest’ordine del giorno proponeva per l’elezione del Senato della Repubblica. E cioè, un primo settore costituito dalla Assemblea regionale, e un secondo settore costituito da elettori di secondo grado che avrebbero dovuto essere eletti secondo un sistema particolare.

Si è proceduto alla votazione, che, come i colleghi ricordano, è stata fatta per divisione, e si è votato contemporaneamente sopra le due parti dell’ordine del giorno Perassi.

L’Assemblea ha respinto a maggioranza sia la prima che la seconda parte di questo ordine del giorno.

Questo è il punto a cui si è giunti. Si tratta quindi, adesso, di passare alla votazione di uno degli altri due ordini del giorno. Se l’ordine del giorno Perassi, che portava, fra le altre, la firma dell’onorevole Uberti, avesse avuto la maggioranza, gli ordini del giorno dell’onorevole Lami Starnuti e dell’onorevole Nitti sarebbero decaduti. Poiché quel primo ordine del giorno è stato respinto, dobbiamo porre adesso alla prova della votazione gli altri due ordini del giorno. Si tratta di stabilire quale di questi debba avere la precedenza. Rammento che nella lunga discussione svoltasi nella ultima seduta dedicata al problema costituzionale, i presentatori di questi due ordini del giorno, gli onorevoli Nitti e Lami Starnuti, non contesero sulla precedenza. Ciascuno di questi ordini del giorno contrappone all’altro un sistema elettorale; ed è evidente che i colleghi non voteranno per l’uno o l’altro perché è per primo posto in votazione, ma voteranno in relazione al modo con cui giudicano i due sistemi. L’onorevole Lami Starnuti aveva accennato, comunque, nel corso di quella lunga discussione, che egli accettava senz’altro che si desse la precedenza all’ordine del giorno Nitti. Credo perciò, che il primo ordine del giorno da mettere in votazione sia quello a firma dell’onorevole Nitti. Quest’ordine del giorno è del seguente tenore:

«L’Assemblea Costituente afferma che il Senato sarà eletto con suffragio universale diretto col sistema del collegio uninominale.

«Nitti, Rubilli, Persico, Laconi, Gullo Fausto, Quintieri Quinto, Nasi, Bozzi, Grieco, Togliatti, Cifaldi, Reale Vito, Vigna, Molè, Perrone Capano, Basile, Russo Perez, Dugoni, Coletto».

PERASSI. Chiedo di parlare.

PRESIDENTE. Ne ha facoltà.

PERASSI. Onorevole Presidente, onorevoli colleghi. L’onorevole Presidente ha richiamato le condizioni nelle quali sono avvenute nella seduta ultima in materia costituzionale le votazioni sull’ordine del giorno di cui ha fatto cenno. Sembra che da qualche espressione usata dall’onorevole Presidente, a quest’ordine del giorno si crede di poter attribuire una portata che a mio avviso non può avere. Io ricordo che in quella seduta l’onorevole Fabbri aveva prospettato l’opportunità che l’Assemblea fosse consultata su dei principî di ordine generale. Questa proposta non ebbe seguito. In realtà si venne alla votazione su quest’ordine del giorno che porta la mia firma. Ora, a me pare che l’Assemblea non può attribuire a quest’ordine del giorno se non un valore strettamente attinente a quanto in esso si dice. In altri termini l’Assemblea non ha approvato due formule concretissime e cioè l’elezione di tre senatori per ciascuna Regione da parte del Consiglio regionale e l’elezione – che è la seconda formula concreta – del resto, per ciascuna Regione, attraverso un procedimento di elezione di secondo grado. A mio avviso quest’ordine del giorno importa semplicemente che l’Assemblea non ha votato quelle due formule concrete. Non si può adesso attribuire ad esso una portata maggiore. Devo quindi fare ogni più ampia riserva circa qualsiasi altra interpretazione dell’ordine del giorno. A mio avviso esso non preclude che le questioni che sono state concretamente poste con quella formula possano essere esaminate dall’Assemblea.

PRESIDENTE. Ritengo che l’interpretazione di. ogni votazione fatta dall’Assemblea non debba basarsi puramente sull’esame schematico del documento votato, ma anche su tutte le discussioni che ne hanno accompagnato la presentazione e preceduta la votazione; in questo senso, poco fa, ho detto che la semplice consultazione del processo verbale della seduta pomeridiana di giovedì 25 settembre 1947 avrebbe fornito lumi a tutti i deputati, e avrebbe – lo speravo – evitato una inutile discussione sull’argomento. In questo processo verbale si legge che, dopo che io stesso avevo preannunciato l’esistenza di due ordini del giorno che sarebbero stati posti in votazione, l’onorevole Ruini, Presidente della Commissione per la Costituzione, ha fatto presente che sarebbe stato necessario stabilire prima, se la composizione del Senato, dovesse essere unica o lasciata in parte ai Consigli regionali; e su questa proposta dell’onorevole Ruini si è sviluppata poi, tutta la discussione successiva.

In questa prese immediatamente la parola l’onorevole Piccioni, facendo per l’appunto rilevare che se attraverso l’ordine del giorno dell’onorevole Nitti si proponeva il collegio uninominale ed attraverso l’ordine del giorno Lami Starnuti si proponeva il suffragio con la proporzionale, c’era un terzo sistema – diceva letteralmente l’onorevole Piccioni – che attraverso la discussione ha raccolto vasti consensi, ed è quello appunto contenuto nell’emendamento dell’onorevole Perassi contemplante l’elezione di secondo grado. Ecco la base delle decisioni dell’Assemblea. L’ordine del giorno Perassi, infatti, non proponeva semplicemente due modi concreti nei quali il sistema elettorale di secondo grado avrebbe potuto tradursi quando l’Assemblea avesse votato in principio il sistema di secondo grado.

L’ordine del giorno Perassi, che portava appunto anche la firma dell’onorevole Piccioni, ha voluto significare contrapporre alle elezioni con il collegio uninominale e alle elezioni con la proporzionale un terzo sistema che attraverso la discussione, come ci ha detto l’onorevole Piccioni, aveva raccolto vasti consensi; ed era quello delle elezioni di secondo grado.

Mi pare che sia da questo punto, è solo da questo punto di vista che noi dobbiamo valutare la votazione avvenuta; e se poi volessi aggiungere ancora un commento chiarificatore, potrei richiamare ciò che l’onorevole Lussu ha detto.

Anche l’onorevole Lussu, invitando i colleghi a trasformare l’emendamento Perassi in un ordine del giorno, ha detto: «È bene che l’Assemblea abbia così di fronte a sé i tre schemi».

Mi pare che ogni ulteriore discussione di fronte alle dichiarazioni espresse di coloro che si sono fatti sostenitori dell’ordine del giorno Perassi sia evidentemente del tutto inutile.

L’Assemblea ha votato un ordine del giorno che proponeva: 1°) il sistema indiretto di elezione; 2°) la devoluzione all’Assemblea regionale di una parte dei senatori che dovevano essere eletti dalle singole Regioni.

Queste due posizioni di principio sono state respinte tutte e due dall’Assemblea, e non per nulla si è chiesto che la votazione avvenisse per divisione: proprio perché poteva avvenire che l’Assemblea accettasse il principio della elezione diretta, ma respingesse il settore elettorale dell’Assemblea regionale, come poteva invece avvenire che l’Assemblea accettasse di deferire all’Assemblea regionale una parte dei senatori da eleggere, pur riservando all’altra parte dei senatori da eleggersi, un sistema elettorale che fosse diretto e non indiretto.

I due principî sono stati posti separatamente e separatamente sono stati chiariti; l’Assemblea ha risposto.

Mi pare, pertanto, che l’obiezione dell’onorevole Perassi non abbia validità.

PERASSI. Io mantengo la mia riserva.

COSTANTINI. Vi sono altri ordini del giorno.

PRESIDENTE. Ve ne sono altri due e bisogna passare alla loro votazione. Indipendentemente da ogni commento sopra la votazione avvenuta, è chiaro che, avendo tre ordini del giorno, avendo dato, per transazione, direi, lodevole da parte di certi settori dell’Assemblea, il consenso che l’ordine del giorno presentato per ultimo fosse votato per primo, non resta che votare gli altri due.

Rammento che nella introduzione alla votazione delle scorse sedute ho fatto rilevare che la votazione degli ordini del giorno devono precedere, a tenore del Regolamento, anche perché influiscono, a seconda del senso, in un modo o nell’altro, sugli emendamenti presentati, o facendoli decadere o provocando la presentazione di emendamenti ad emendamenti. Comunque, ripeto che mi pare pacifico che, votato il primo ordine del giorno, bisogna passare alla votazione degli altri due successivi, ed avvenuta questa votazione, passare agli emendamenti.

Votazione segreta.

PRESIDENTE. Dobbiamo porre in votazione il seguente ordine del giorno presentato dall’onorevole Nitti e da altri:

«L’Assemblea Costituente afferma che il Senato sarà eletto con suffragio universale e diretto, col sistema del collegio uninominale».

È stata chiesta la votazione a scrutinio segreto dagli onorevoli Sicigliano, Molinelli, Minio, Lombardi Carlo, Rossi Maria Maddalena, Pellegrini, Bardini, Cremaschi Olindo, Grieco, Bucci, Bernamonti, Bianchi Bruno, Flecchia, Ferrati, Lozza, Laconi, Dozza, Bibolotti, Mezzadra, Fiore, Rubilli, Bozzi, Badini Confalonieri, Morelli Renato, Cortese, Villabruna, Gasparotto, Paratore.

Procediamo alla votazione a scrutinio segreto.

Presidenza del Vicepresidente BOSCO LUCARELLI

(Segue la votazione).

PRESIDENTE. Dichiaro chiusa la votazione. Invito gli onorevoli Segretari a procedere alla numerazione dei voti.

(Gli onorevoli Segretari numerano voti).

Presidenza del Presidente TERRACINI

Risultato della votazione segreta.

PRESIDENTE. Comunico il risultato della votazione a scrutinio segreto:

Presenti e votanti                   371

Maggioranza                         186

Voti favorevoli                      190

Voti contrari                          181

(L’Assemblea approva – Commenti).

Hanno preso parte alla votazione:

Abozzi – Adonnino – Alberti – Aldisio – Allegato – Amadei – Ambrosini – Amendola – Andreotti – Angelucci – Arcangeli – Assennato – Avanzini – Azzi.

Badini Confalonieri – Baldassari – Balduzzi – Baracco – Bardini – Bargagna – Barontini Anelito – Barontini Ilio – Basso – Bastianetto – Bei Adele – Bellato – Belotti – Bencivenga – Benedettini – Benvenuti – Bergamini – Bernabei – Bernamonti – Bertola – Bertone – Bianchi Bruno – Bianchini Laura – Bibolotti – Bitossi – Bocconi – Bolognesi – Bonino – Bonomelli – Bonomi Paolo – Bordon – Borsellino – Bosco Lucarelli – Bosi – Bozzi – Braschi – Brusasca – Bubbio – Bucci – Bulloni Pietro.

Cacciatore – Caccuri – Camposarcuno – Candela – Canevari – Caporali – Cappa Paolo – Cappelletti – Cappi Giuseppe – Cappugi – Capua – Carbonari – Carboni Enrico – Carignani – Caristia – Caronia – Carratelli – Castelli Avolio – Castiglia – Cavallari – Cavalli – Cavallotti – Cerreti – Chatrian – Chiarini – Chieffi – Ciampitti – Cianca – Ciccolungo – Clerici – Codacci Pisanelli – Colombi Arturo – Colombo Emilio – Conci Elisabetta – Condorelli – Conti – Coppa Ezio – Coppi Alessandro – Corbi – Corbino – Corsanego – Cortese – Costa – Costantini – Cotellessa – Cremaschi Carlo – Cremaschi Olindo – Cuomo.

D’Amico – De Filpo – De Gasperi – Del Curto – Della Seta – Delli Castelli Filomena – De Maria – De Martino – De Michele Luigi – De Michelis Paolo – De Palma – De Unterrichter Maria – Di Fausto – Di Gloria – Di Vittorio – Dominedò – Donati – D’Onofrio – Dozza.

Ermini.

Fabbri – Fabriani – Faccio – Fanfani – Fantoni – Fantuzzi – Farina Giovanni – Farini Carlo – Fedeli Armando – Ferrarese – Ferrari Giacomo – Ferrario Celestino – Ferreri – Filippini – Finocchiaro Aprile – Fiore – Fioritto – Firrao – Flecchia – Foa – Foresi – Fornara – Franceschini – Fresa – Froggio – Fuschini.

Gabrieli – Gallico Spano Nadia – Gasparotto – Gatta – Gavina – Germano – Gervasi – Geuna – Ghidetti – Ghislandi – Giacchero – Giolitti – Giordani – Giua – Gorreri – Gotelli Angela – Grassi – Grazi Enrico – Grieco – Grilli – Gronchi – Guariento – Gui – Guidi Cingolani Angela.

Imperiale – Iotti Leonilde.

Jacometti – Jervolino.

Labriola – Laconi – Lagravinese Pasquale – La Malfa – Lami Starnuti – Landi – La Rocca – Lazzati – Leone Francesco – Leone Giovanni – Lettieri – Li Causi – Lizier – Lizzadri – Lombardi Carlo – Lombardi Riccardo– Lombardo Ivan Matteo – Longo – Lozza – Lucifero – Lussu.

Maffi – Magnani – Magrini – Maltagliati – Malvestiti – Mancini – Marezza – Marchesi – Mariani Enrico – Marinaro – Marzarotto – Massini – Massola – Mastino Gesumino – Mastino Pietro – Mastrojanni – Mattarella –  Mattei Teresa – Mazzoni – Meda Luigi – Mentasti – Merlin Angelina – Mezzadra – Miccolis – Minella Angiola – Minio – Molè – Molinelli – Momigliano – Montagnana Mario – Montagnana Rita – Montalbano – Monticelli – Morandi – Moranino – Morelli Luigi – Morelli Renato – Morini – Moro – Mortati – Moscatelli – Mùrdaca – Murgia – Musolino.

Nasi – Negarville – Negro – Nenni – Nicotra Maria – Nitti – Nobile Umberto – Nobili Tito Oro – Noce Teresa – Notarianni – Novella – Numeroso.

Pajetta Gian Carlo – Pajetta Giuliano – Pallastrelli – Paratore – Paris – Parri – Pastore Giulio – Pat – Patricolo – Pecorari – Pella – Pellegrini – Pera – Perassi – Perlingieri – Persico – Pertini Sandro – Perugi – Pesenti – Piccioni – Piemonte – Pignatari – Pistoia – Platone – Pollastrini Elettra – Ponti – Pratolongo – Preziosi – Priolo – Proia – Pucci – Puoti.

Quarello – Quintieri Adolfo.

Raimondi – Rapelli – Ravagnan – Reale Eugenio – Reale Vito – Recca – Restagno – Restivo – Ricci Giuseppe – Riccio Stefano – Rivera – Rodi – Rodinò Ugo – Romano – Roselli – Rossi Giuseppe – Rossi Maria Maddalena – Rubilli – Ruggieri Luigi – Ruini – Rumor.

Saccenti – Salerno – Salizzoni – Salvatore – Sampietro – Santi – Sapienza – Saragat – Sardiello – Scalfaro – Scarpa – Schiavetti – Schiratti – Scoca – Scocci-marro – Scotti Francesco – Secchia – Segni – Selvaggi – Sereni – Sicignano – Siles – Silipo – Spano – Spataro – Stampacchia – Stella – Storchi – Sullo Fiorentino.

Targetti – Taviani – Tega Tessitori – Titomanlio Vittoria – Togliatti – Togni – Tonello – Tonetti – Tosato – Tosi – Tozzi Condivi – Trimarchi – Tripepi – Tupini – Turco.

Uberti.

Valenti – Valiani – Valmarana – Vanoni – Vernocchi – Veroni – Viale – Vicentini – Vigna – Villabruna – Villani – Volpe.

Zanardi – Zerbi – Zotta – Zuccarini.

Sono in congedo:

Angelini.

Cairo – Carmagnola – Cevolotto.

De Vita – Dugoni.

Jacini.

Martino Enrico – Martino Gaetano.

Perrone Capano – Porzio.

Russo Perez.

Si riprende la discussione del progetto di Costituzione della Repubblica italiana.

PRESIDENTE. Passiamo all’esame dell’articolo 55 nei suoi vari capoversi in relazione agli emendamenti che sono stati svolti nel corso della discussione e che sono compatibili con le votazioni sino a questo momento eseguite dall’Assemblea.

Pregherei il Presidente della Commissione, onorevole Ruini, di dire se dobbiamo attenerci, per l’esame degli emendamenti, al testo stampato ovvero al testo così come è stato redatto nell’ultima riunione del Comitato di redazione e che mi ha comunicato in visione nell’ultima seduta.

RUINI, Presidente della Commissione per la Costituzione. Onorevole Presidente, quel testo era stato concordato condizionatamente, nel senso che alcune delle correnti rappresentate nel Comitato avevano dichiarato di aderirvi soltanto nel caso che fosse stato approvato il primo comma dell’articolo 55: «La Camera dei Senatori è eletta a base regionale». Non essendo stato ancora approvato questo comma, il testo nuovo non può essere considerato come nuovo testo di Commissione ed assunto a base di discussione.

Resta ora da vedere la questione sollevata come riserva dal collega Perassi, se si possa, malgrado la reiezione del suo ordine del giorno, procedere alla votazione del comma. Mi sembra che giudice in tale questione, trattandosi di interpretare una sua deliberazione già presa, debba essere l’Assemblea.

Se l’Assemblea deciderà in tal senso, e se sarà approvato il primo comma, allora il Comitato farà formalmente suo il testo concordato.

PRESIDENTE, Pregherei l’onorevole Perassi, il quale ha fatto una riserva prima che si passasse alla votazione or ora conclusa, di esprimere quanto egli pensa in proposito.

PERASSI. Chiedo di parlare.

PRESIDENTE. Ne ha facoltà.

PERASSI. Ringrazio l’onorevole Presidente per avermi dato la possibilità di far conoscere il mio pensiero.

Per essere chiaro, osservo anzitutto che quel famoso ordine del giorno, che è stato sottoposto all’Assemblea nella precedente seduta, ha la sua origine in un emendamento che avevo proposto, emendamento che riguardava esclusivamente l’ultimo comma dell’articolo proposto dalla Commissione. Per conseguenza nel mio pensiero è certo che tutto il resto dell’articolo era un presupposto del mio emendamento, che non era toccato affatto. Ora, che cosa ha deliberato l’Assemblea?

A mio avviso, l’Assemblea ha deliberato di non adottare una formula che concerne l’ultima parte dell’articolo, cioè a dire non ha adottato due modi che erano indicati per quanto concerne l’elezione dei senatori assegnati a ciascuna Regione. L’Assemblea ha ritenuto che non fosse opportuno stabilire che tre senatori fossero eletti dal Consiglio regionale; non ha ritenuto opportuno che il resto dei senatori assegnati a ciascuna Regione fosse eletto col sistema che era stato indicato, cioè elezione indiretta con quei certi criteri stabiliti.

A mio avviso, ripeto, quest’ordine del giorno votato dall’Assemblea non può avere effetto preclusivo se non per le formule concrete in esso indicate. Per conseguenza, allo stato delle cose, l’ordine del giorno che è stato approvato, concernente il sistema del collegio uninominale, mi pare tocchi il problema della elezione di una parte dei senatori e, anzitutto, questo ordine del giorno non risolve un altro problema, che è pregiudiziale e che non è stato affatto affrontato. Ed è il problema che è riassunto nei primi due commi dell’articolo proposto dalla Commissione.

Il primo comma afferma anzitutto che il Senato sarà costituito su base regionale: su questo punto non c’è nessuna preclusione.

Il secondo comma afferma un altro concetto, che non ha nulla a che fare col modo di elezione, cioè dice che il numero dei senatori è determinato in relazione a ciascuna Regione, in base ad un certo rapporto proporzionale; ma aggiunge che, oltre al numero dei senatori determinato per ciascuna Regione in proporzione alla popolazione, è assegnato a ciascuna di esse un certo numero fisso, che nel testo era indicato in cinque.

Anche tutti questi aspetti del problema non sono stati affatto pregiudicati dai voti intervenuti. Per conseguenza, a mio avviso, mi pare che non vi sia dubbio che l’Assemblea, allo stato delle cose, non possa far altro se non prendere in esame il progetto della Commissione così come era staio proposto e, per quanto riguarda anzitutto i primi commi, esaminare gli emendamenti che sono stati presentati.

Quando poi si arriverà all’ultimo comma, relativo al modo di elezione, allora si potrà ritenere che sono preclusi quei concreti modi indicati nell’ordine del giorno che noi avevamo presentato e si potrà ritenere che l’elezione del grosso dei senatori – non tutti – avverrà secondo il sistema del collegio uninominale.

Mi pare che in questi termini si possa porre la questione all’ora attuale.

TARGETTI. Chiedo di parlare.

PRESIDENTE. Ne ha facoltà.

TARGETTI. Ho chiesto di parlare perché desidero pregare l’onorevole Perassi di fornirmi un chiarimento. L’Assemblea ha approvato che l’elezione debba avvenire con il sistema del collegio uninominale; l’onorevole Perassi chiede ora che – se ho ben compreso – l’Assemblea sia chiamata a decidere sul primo comma che parla dell’elezione a base regionale. Desidero pertanto che egli mi dica come, in pratica, secondo lui, si possano conciliare queste due cose: il collegio uninominale e la base regionale.

PRESIDENTE. Invito l’onorevole Perassi a rispondere a questo quesito.

PERASSI. A me pare che la risposta alla obiezione sollevata dall’onorevole Targetti sia molto facile: non c’è per niente contradizione. Quando si dice che i senatori sono eletti a base regionale, non si intende con ciò di precludere il modo con cui debbano venir stabiliti i collegi elettorali. (Commenti).

Il primo comma dell’articolo dice «a base regionale»; non dice: «circoscrizioni regionali». Si tratta cioè del concetto un po’ empirico con il quale si voleva inizialmente dire che il Senato è il Senato della Regione. Il problema poi del modo di eleggere i senatori è regolato dall’ultima parte. Ora, anche ammesso che l’ultima parte dell’articolo dica che i senatori, la cui nomina non è diversamente disposta e che è elettiva, sono eletti col sistema del collegio uninominale, questa è tuttavia compatibile con il primo comma.

Vuol dire che entro ciascuna Regione si faranno, per quanto concerne il numero dei senatori, tanti collegi uninominali. Ne deriva che l’unica cosa che risulta esclusa è quella di un collegio uninominale che sia costituito da una frazione di territorio che comprenda due Regioni: tutto il resto è perfettamente compatibile.

LUSSU. Chiedo di parlare.

PRESIDENTE. Ne ha facoltà.

LUSSU. Non credevo che l’Assemblea avrebbe votato per i collegi uninominali è quindi non ho preparato un emendamento o una serie di emendamenti che sarebbero stati indispensabili nell’eventualità che si è poi verificata. Ora, il collegio uninominale presuppone la base regionale: è chiaro che non vi possono essere basi nazionali; è chiaro che ogni collegio, ogni circoscrizione è nella Regione, e mai in due Regioni. E allora questa espressione contenuta nell’articolo 55: «La Camera dei Senatori è eletta a base regionale» è o un non senso oppure un eufemismo, col quale non si vuole riconoscere che la Camera dei Senatori o Senato è, in fondo, espressione di rappresentanze regionali. Io pongo chiaramente il problema, così come deve essere posto: l’Assemblea vuole che il Senato sia espressione di base regionale, cioè di interessi regionali? Ebbene, è meglio dirlo chiarissimamente, di modo che non ci sia alcun equivoco.

In seno alla seconda Sottocommissione io avevo presentato un emendamento, che non è passato, cioè: «Il Senato è la Camera delle Regioni»; non è passato, perché in questa dizione alcuni hanno voluto veder penetrare con sotterfugi il concetto federalistico dello Stato, che peraltro è rifiutato dagli articoli finora approvati. Io non mi permetto adesso di presentare ancora quell’emendamento, perché so che sarebbe respinto, ma credo che si può – senza affermare un concetto federalistico, con cui questa Assemblea non è d’accordo – affermare un altro concetto, che è un chiarimento, dicendo per esempio: «I Senatori rappresentano le Regioni nell’ambito dell’unità nazionale».

Se io trovo dei colleghi che sottoscrivono la mia proposta, io presento questo emendamento; e lo presento sicuro di esprimere un concetto di chiarificazione, non solo, ma una esigenza politica. Noi sappiamo che l’Assemblea ha approvato la mozione del regionalismo con estreme riserve; tuttavia la questione delle Regioni è posta, il problema dell’organizzazione dello Stato con le Regioni è posto. Allora, tanto vale accettarne le conseguenze, sia pure estremamente modeste.

Ma quando si afferma che la seconda Camera, cioè il Senato, rappresenta le Regioni nell’ambito dell’unità nazionale, significa questo: che la seconda Camera non accetterà mai che queste rappresentanze regionali siano particolaristiche, ma le accoglie e le accetta in quanto si conciliano e si sintetizzano con quelli che sono gli interessi generali della Nazione, dello Stato. In altre parole, nella seconda Camera si ha la sintesi dell’unità nazionale attraverso i vari particolarismi regionali.

Mi pare quindi un concetto di chiarificazione rispetto all’articolo 55, così come è adesso, e mi pare anche una chiarificazione politica nel senso regionale, ma legato agli interessi superiori dello Stato e della Nazione.

PRESIDENTE. In questo momento il problema che si pone è quello del metodo di elezione del Senato. Mi pare che la sua proposta, onorevole Lussu, miri invece a sottolineare una certa caratterizzazione politica dell’istituzione. L’onorevole Perassi, insistendo perché venga posto in votazione il primo comma dell’articolo 55, si propone uno scopo molto più concreto, e cioè di stabilire una norma limitatrice specifica, da cui discendano poi certe norme per la elezione del Senato.

Quindi, nessuna opposizione acché lei onorevole Lussu, traduca in un emendamento preciso la sua proposta – eventualmente potrebbe trovare anche le firme di altri colleghi –; ma tenga presente che non è questa la questione che stiamo discutendo.

NITTI. Chiedo di parlare.

PRESIDENTE. Ne ha facoltà.

NITTI. Io non ho compreso bene. Noi, dunque, abbiamo votato che il Senato sarà eletto a collegio uninominale. Questo è un punto fermo. Ora ci troviamo di fronte ad una proposta, la quale vuole riportare in discussione la questione, ma in realtà non la sposta; perché, quando si dice che la base sarà la Regione, si deve intendere la Regione come divisione interna; cioè i senatori saranno eletti in ogni Regione. Ci dev’essere una base: o provinciale o regionale. Finora nelle elezioni avevano avuto la base provinciale, e nella legge del 1919 prevaleva in fondo il concetto di provincia. Ora avete voluto la Regione, cosa a cui non credo, ma a cui voi credete. Ma questo non sposta nulla, non entra nella questione. Il Senato dev’essere eletto sulla base del collegio uninominale. Vuol dire che i collegi uninominali saranno formati nell’ambito di ciascuna Regione, e voi formerete nella provincia un collegio uninominale a seconda del numero della popolazione. Ma questo non modifica niente, perché l’ammettere che la divisione si faccia all’interno non sposta il principio che abbiamo adottato del collegio uninominale. La Regione è una circoscrizione entro cui si faranno le elezioni dei senatori. E quindi si ammette che non si possono unire arbitrariamente due Regioni per eleggere i senatori quando si è votato il criterio dell’uninominalità. Ora, noi ci dobbiamo limitare a quanto abbiamo votato già. La discussione presente non è quindi necessaria, e direi che è inutile. La Regione rimane, dal momento che l’avete votata. Vuol dire che in una Regione si faranno cinque senatori, in un’altra sei oppure sette a seconda della popolazione della Regione. Ciò che non muta è che il collegio uninominale è la base della elezione. Il resto è secondario, e non dobbiamo occuparcene.

PRESIDENTE. Mi pare che la tesi dell’onorevole Perassi avrebbe validità soltanto se noi accettassimo un criterio che personalmente mi lascia molto dubbioso, quello che i senatori possano essere eletti, da Regione a Regione, da un numero diverso di cittadini e cioè che il quoziente che stabilisce il rapporto fra il numero dei senatori e il numero dei cittadini possa variare da Regione a Regione.

Vedo che l’onorevole Perassi si mostra alquanto stupito, e tuttavia questa sarebbe la conseguenza. Di fatto, è vera l’affermazione dell’onorevole Nitti – io, almeno, la ritengo vera – che nella determinazione dei singoli collegi uninominalisi eviterà naturalmente di superare i confini di ogni singola Regione, in maniera che ciascun collegio sarà contenuto nel termine territoriale di una sola Regione. A questa stregua l’affermazione del carattere regionale della Camera dei Senatori è implicita. Tutte le leggi elettorali che si sono fatte ed applicate da decenni e decenni in Italia, hanno rispettato senza dirlo questo principio. Ma ciò nonostante, nessuno ne traeva la conseguenza che la Camera italiana fosse una Camera a carattere regionale.

Ma ritorniamo a quello che diceva l’onorevole Perassi. Egli ha legato concettualmente il primo comma al secondo. Ora, nel secondo comma si propone che le Regioni abbiano un numero fisso di senatori, e in più un senatore per ogni 100.000 abitanti. (Altri propongono cifre diverse).

Se noi affermeremo nel primo comma la base regionale della Camera dei Senatori e se poi nel secondo comma assicurassimo comunque un numero determinato di senatori ad ogni Regione, oltre al numero variabile in rapporto alla popolazione, è evidente che dato il collegio uninominale, i collegi abbracceranno un numero diverso di cittadini, Regione per Regione.

Non sto a fare esemplificazioni. Ciascuno può fare un calcolo in base a dati di fantasia. Ecco perché ritengo che l’impostazione data alla questione dall’onorevole Perassi non possa essere accettata.

Se egli vuole semplicemente riconfermare nel testo costituzionale la verità elementare esposta dall’onorevole Nitti, questa è una superfluità; e sarebbe bene non appesantirne il testo. Se invece vuole questa affermazione per trarne poi le conseguenze che dovrebbero eventualmente essere inserite nel secondo comma, si tratterebbe di stabilire un principio che mi appare molto lontano da ogni nostro precedente costituzionale.

Concludendo, mi pare che la votazione di poco fa abbia reso impossibile la presa in considerazione del primo comma dell’articolo 55, così come è contenuto nel progetto di Costituzione. Mentre, invece del secondo comma, bisogna esaminare la parte che stabilisce il quoziente necessario per la nomina di ogni singolo senatore.

PERASSI. Chiedo di parlare.

PRESIDENTE. Ne ha facoltà.

PERASSI. Domando scusa, ma devo insistere nelle spiegazioni date prima. L’osservazione fatta dall’onorevole Nitti l’ho fatta io per primo. Dicendo che il Senato è costituito su basi regionali, e dicendo poi che i collegi sono uninominali, si esclude la possibilità di un collegio uninominale a cavallo di due Regioni. Questo è positivo.

Ma l’affermazione del primo comma «il Senato è costituito su basi regionali» non preclude e non è incompatibile con la formula adottata del collegio uninominale. Il primo comma vuol dire un’altra cosa, che il Senato è creato sulla base della Regione. (Interruzioni a sinistra).

E la dimostrazione che l’adozione del sistema uninominale per le elezioni non sia incompatibile con tutto il resto che è detto nel primo e nel secondo comma, risulta da questo, che la proposta del collegio uninominale venne anche in seno della Sottocommissione prima e della Commissione plenaria poi, e nessuno allora sostenne la tesi che, avendo adottato il primo e il secondo comma, fosse preclusa la proposta del collegio uninominale. Il che dimostra che il primo e il secondo comma riguardano un problema nettamente diverso da quello che è regolato dal terzo comma.

Nel primo comma si fa un’affermazione di principio, quella della base regionale. Nel secondo comma anzitutto si determina il numero dei senatori assegnati a ciascuna Regione e si stabilisce che questo numero è determinato in ragione della popolazione, con una aggiunta di un certo numero fisso.

Del resto l’onorevole Nitti non può non ricordare che nel suo stesso emendamento si dice: «ad ogni Regione è inoltre attribuito un numero fisso di senatori».

È da ritenersi che nella mente dell’onorevole Nitti questa formula fosse perfettamente compatibile con quelle successive dello stesso emendamento, nel quale si adotta il collegio uninominale. Appunto perché sono due problemi diversi. Nel secondo comma si stabilisce dunque il numero dei senatori, una parte determinata in ragione della popolazione, ed un numero fisso. Il terzo comma, invece, entra nel problema del modo come si procede alle elezioni di questi senatori. Ed allora qui si pone il problema. Una parte dei senatori può essere attribuita al Consiglio regionale in coerenza al concetto della Regione. (Commenti – Rumori a sinistra).

Una voce a sinistra. È stato respinto.

PERASSI. Io protesto ancora una volta. È stata respinta l’elezione di tre senatori. (Commenti a sinistra).

PRESIDENTE. Con la votazione dell’ordine del giorno Nitti si è stabilito il suffragio diretto, non lo dimentichi.

PERASSI. L’adozione del sistema uninominale per la elezione dei senatori o parte di essi non è affatto incompatibile con l’affermazione messa all’inizio e con quanto si afferma nel secondo comma. Non vedo quindi nessuna ragione giuridica che si possa opporre a che il primo e secondo comma del testo proposto dalla Commissione siano sottoposti al voto dell’Assemblea.

LUCIFERO. Chiedo di parlare.

PRESIDENTE. Ne ha facoltà.

LUCIFERO. Signor Presidente, io ho l’impressione che certe volte ci dimentichiamo delle regole del gioco. Io chiedo scusa e chiedo all’Assemblea di permettermi di parlare con la massima franchezza. È la terza o la quarta volta che succede – e l’osservazione può toccare tutti e quindi non tocca nessuno – che non si sa perdere, e che chi in una questione è rimasto soccombente, cerchi di trovare il modo di far rientrare dalla finestra quello che è uscito dalla porta. (Applausi a sinistra).

Ora, questo è avvenuto da varie parti dell’Assemblea e mi pare che stia accadendo anche adesso. Noi ci siamo trovati di fronte a tre ordini del giorno, che stabilivano tre concezioni diverse circa il futuro Senato della Repubblica. Il primo è stato respinto, ed era un ordine del giorno il quale si fondava su due concetti; quello regionalistico e quello della elezione indiretta. Il secondo, che è stato votato ed è stato accettato, ha stabilito semplicemente una massima: di elezione con suffragio universale diretto con sistema di collegio uninominale; e questa approvazione ha escluso senz’altro dalla votazione la formula dell’onorevole Lami Starnuti, che si trovava in contradizione con quanto era stato approvato.

Ora è evidente che se cominciamo a dire che il Senato della Repubblica è eletto su base regionale, noi o non diciamo niente o diciamo il contrario di quello che abbiamo detto prima. Le argomentazioni dell’onorevole Perassi – e mi scusi l’onorevole Perassi, ma per lui, così fine giurista, è facile trovare delle argomentazioni per cercar di far rientrare quello che un chiaro voto ha escluso – non possono convincere l’Assemblea, ed è anche pericoloso continuare con questo sistema.

Badate che tradire le regole del gioco fa male a tutti quanti: a chi riesce e a chi non riesce.

Comunque io ritengo che noi non possiamo più tornare su questa questione regionale e che noi dobbiamo adesso passare a votare quegli emendamenti; e forse ne dovremo creare qualcuno che organizzi questa elezione del Senato con il collegio uninominale e con il voto diretto, come abbiamo deliberato.

MASTINO PIETRO. Chiedo di parlare.

PRESIDENTE. Ne ha facoltà.

MASTINO PIETRO. Per quanto una gran parte dell’Assemblea abbia sottolineato le osservazioni dell’onorevole Lucifero, in certo senso approvandole, io mi permetto di dissentire dall’interpretazione che egli ha dato.

L’articolo 55, del quale si discute, stabilisce concetti diversi. Afferma anzitutto che la Camera dei Senatori sarà eletta a base regionale; immediatamente dopo fissa quale sia il numero stabile di senatori da attribuire a ciascuna Regione oltre ad un senatore per 200 mila abitanti o frazione di 200 mila.

Nell’ultimo capoverso si stabilisce il modo da seguire per la votazione. Ora, relativamente al modo da seguire per la votazione, si è stabilito che si debba procedere col metodo del collegio uninominale, ma non abbiamo detto ancora nulla sul numero dei senatori da attribuire a ciascuna Regione e tanto meno abbiamo detto, affermando o negando, se una parte di questi senatori debba essere dal Consiglio regionale indicata anziché no.

PRESIDENTE. Questa è una questione già risolta.

MASTINO PIETRO. L’altro giorno è stato respinto l’ordine del giorno formulato dall’onorevole Perassi. Ma rileggiamolo. Esso stabilisce che «l’Assemblea Costituente ritiene che i senatori devono essere eletti nel numero di tre dal Consiglio regionale per ogni Regione». Non è solo il numero che è stabilito, ma il modo: dal Consiglio regionale. In quanto è stato approvato il metodo del collegio uninominale…

PRESIDENTE. Abbiamo votato poco fa l’elezione diretta, non lo dimentichi.

MASTINO PIETRO. L’elezione diretta può essere anche limitata all’altro numero dei senatori, (Commenti) ed avere, così, due metodi concorrenti all’elezione.

La proposta formulata dall’onorevole Perassi ha ragione di esistere.

RUBILLI. Chiedo di parlare.

PRESIDENTE. Ne ha facoltà.

RUBILLI. Volevo dire prima di tutto quello che ha detto l’onorevole Lucifero; siccome l’ha detto lui, per questa parte me ne astengo. Ma voglio pure domandarvi: le nostre votazioni hanno o non hanno un valore? O cominciamo daccapo dopo aver votato?

Questa è la domanda, per la serietà dell’Assemblea; e mi rivolgo specialmente al nostro onorevole Presidente. C’è una votazione la quale ha stabilito un nuovo sistema di cui non parla il progetto. Ora si tratterà di tradurre in una norma quello che l’Assemblea ha votato, ed a questo potrà provvedere anche la Commissione. Quindi non può non rimaner fermo il rispetto a quello che l’Assemblea ha votato: collegio uninominale e suffragio diretto. Con questi due elementi essenziali ed ormai innegabili dovrà essere modificato il progetto di legge costituzionale. Si è deciso, e non si può ritornare sullo stesso argomento.

Dimodoché del primo capoverso dell’articolo 55 rimane una cosa sola, perché la parte riguardante il numero fisso di cinque senatori per Regione è superata…

PERASSI. Perché? Che c’entra?

RUBILLI. Come non c’entra? Il metodo è stabilito ormai senza eccezioni; suffragio universale diretto e collegio uninominale. Quindi rimane solamente da stabilire se i senatori devono essere eletti sulla base di uno per 200 mila abitanti oppure con criterio diverso.

Non vedo come ci sia ancora possibilità di discussione.

LUSSU. Chiedo di parlare.

PRESIDENTE. Ne ha facoltà.

LUSSU. Limito le mie considerazioni solo all’esame del primo comma dell’articolo 55, di cui principalmente ha parlato l’onorevole Perassi.

Io non sono stato affatto scacciato dalla porta e tanto meno voglio rientrare dalla finestra. Io voglio entrare e non rientrare dalla porta.

Per la questione «la Camera dei senatori è eletta a base regionale» faccio appello all’onorevole Ruini, perché questo primo comma è stato l’espressione della maggioranza della Commissione. L’onorevole Ruini non la difende, perché ha avuto un amore estremamente moderato per la Regione.

RUINI, Presidente della Commissione per la Costituzione. E me ne vanto.

LUSSU. Se l’Assemblea ritiene di respingere le proposte della Commissione, può farlo nella sua sovranità. Lo stesso onorevole Nitti ammette le elezioni del Senato a base regionale. Egli dice: io sono contrario alle creazioni della «Regione»; ma è chiaro che le elezioni del Senato a base regionale, che alcuni di noi intendono affermare, non è superflua.

Io ho suggerito un criterio per affermarlo in modo più logico di quello che non faccia oggi il primo comma dell’articolo 55.

CONTI. Chiedo di parlare.

PRESIDENTE. Ne ha facoltà.

CONTI. L’onorevole Lucifero ha voluto dirci che parlava con franchezza, anzi ha chiesto il permesso di parlare con franchezza; io non chiedo mai il permesso per parlare con franchezza; parlo con franchezza.

Dico all’onorevole Lucifero che, se egli ha parlato con franchezza, non ha parlato con sincerità.

Gli rimprovero, anzitutto, di avere malamente offeso i regionalisti dicendo che questi vogliono far rientrare dalla finestra quel che non è passato dalla porta. È proprio il contrario. Oggi noi assistiamo alla vendetta degli antiregionalisti contro il regionalismo. Siamo qui ad assistere ad una quantità di manovre che mirano a rendere questo povero istituto della Regione irriconoscibile. Questo è grave, anzi è gravissimo. Riuscirete nello scopo e noi non potremo far nulla. Riuscirete nello scopo perché un’Assemblea di troppi elementi è un’Assemblea che non ragiona, è un’Assemblea che si perde in discussioni le quali non concludono secondo la logica e secondo il buon senso. (Commenti).

PRESIDENTE. Onorevole Conti, si tenga all’argomento, cioè all’articolo 55.

CONTI. Io mi tengo all’argomento, perché parlo sull’articolo 55 facendo delle premesse. (Interruzione dell’onorevole Costantini).

Ora è evidente che qui tutte le parti della Camera debbono assumere la loro responsabilità. Se avremo questo Titolo della Costituzione irriconoscibile e se, per l’irriconoscibilità di questo Titolo della Costituzione sarà disordinato tutto il sistema del nostro testo, la responsabilità deve assumerla ognuno di voi e la deve assumere per domani, quando gli effetti di una Costituzione, fatta con questi sistemi, saranno risentiti dal Paese. (Commenti).

Una voce al centro. Quali effetti?

CONTI. Li vedrete. Io per ora affermo, preannunzio e dico che dovete assumere la responsabilità di quel che fate.

Ne avete già assunta una, quando avete deliberato che questa Camera deve riempirsi eccessivamente di deputati; voi già avete assunta questa responsabilità. Continuate su questa strada: gli italiani vi faranno rimprovero di aver tradito il mandato. (Commenti). Vedete che io parlo con franchezza è con sincerità nello stesso tempo. (Commenti). Ora, quando si discute proprio cavillando, dico a lei onorevole Marinaro che dianzi parlava di cavilli, sull’articolo 55 e si contesta che si debba passare alla votazione del primo comma: «La Camera dei senatori è eletta a base regionale», evidentemente si vuol far rientrare dalla finestra quel che è uscito dalla porta; evidentemente si vuol negare l’esistenza della Regione, la funzione della Regione, si vuol negare tutto quello che si è fatto.

Ora, potete rimediare al male che si sta facendo votando tranquillamente il primo comma dell’articolo 55. Non ha nessuna importanza sostanziale, ma ne ha almeno una formale per l’armonia di questo testo costituzionale. Non cancellate in questo Titolo la Regione che avete affermata in altro Titolo.

Evidentemente, questo mi pare che dobbiate ammetterlo, anche se siete irritati con me per le parole franche che vi sto dicendo.

È necessario, onorevoli colleghi, e lo dico all’onorevole Costantini che fa l’interruttore, anzi, meglio, l’interrompitore, che ciò avvenga. Leggevo in una bellissima analisi della vita parlamentare, che si riferisce alla Camera del 1919… (Interruzioni – Commenti).

PRESIDENTE. Onorevole Conti, venga all’Argomento.

CONTI. È quello che sto facendo. Sto dicendo che bisogna votare l’articolo 55 nel suo primo comma, se non si vuole disordinare tutto il sistema di questo testo costituzionale. È necessario che lo facciano anche coloro che sono stati ostili al sistema della Regione. Lo debbono votare se non vogliono creare una disarmonia che sarebbe grave. E siccome questa votazione comporta conseguenze, è evidente che la preghiera che i regionalisti fanno può essere una preghiera accolta dagli antiregionalisti.

Per il resto, c’è forse una incompatibilità fra le affermazioni della votazione per collegio uninominale e la limitazione nell’ambito della Regione dei collegi che devono eleggere i singoli senatori? Evidentemente questa incompatibilità non c’è.

Diceva il Presidente, delucidando la questione, che nel passato, in fondo, tutte le leggi elettorali hanno tenuto presente la Regione. (Io dicevo, fra me, per gli antiregionalisti, che questo è un altro argomento dell’esistenza antica, irresistibile, del fatto regionale in Italia. Si, è negato, si è voluto negare, si continua a negarlo, ed intanto la Regione la trovate in tutti gli elementi della legislazione italiana, sempre).

Evidentemente, non c’è incompatibilità, perché i collegi elettorali che dovranno essere costituiti per l’elezione dei senatori, dovranno essere costituiti nell’ambito della Regione.

C’è l’altra questione: si può, dopo la votazione contraria all’ordine del giorno Perassi sul numero dei senatori, che le Assemblee regionali avrebbero dovuto eleggere, si può oggi, dopo quell’ordine del giorno, stabilire che le Regioni abbiano la facoltà di eleggere un certo numero di senatori, che non siano i tre che sono stati indicati nell’ordine del giorno Perassi? Questa è la questione, è la seconda questione che l’Assemblea deve risolvere. Ed il parere di questi nostri colleghi giuristi è che non vi sia nessuna preclusione, perché, se può apparire che è stato votato il principio contrario alla elezione dei senatori da parte delle Assemblee regionali, si risponde che in sostanza non il principio è stato votato, ma è stata respinta la proposta concreta del numero di 3 dei senatori da eleggersi dalle Assemblee regionali.

Queste sono le questioni poste davanti all’Assemblea; queste sono le questioni sulle quali, mi pare, che senza prevenzioni, con grande spirito di onestà politica, con grande senso di responsabilità, l’Assemblea debba procedere alle sue deliberazioni. (Applausi al centro).

RUINI, Presidente della Commissione per la Costituzione. Chiedo di parlare.

PRESIDENTE. Ne ha facoltà.

RUINI, Presidente della Commissione per la Costituzione. Desidero dare alcuni chiarimenti. Credo di aver diritto di parlare come Presidente del Comitato di redazione in qualunque momento della discussione. Se si fosse seguita fin dall’inizio la mia proposta di non procedere subito alla votazione degli ordini del giorno, ma di decidere le questioni nell’ordine logico in cui erano proposte dal testo del progetto, si sarebbero evitate queste code di dibattito e di incertezze. Se si fosse deciso prima di tutto, chiaramente e nettamente se era o no ammesso, nel Senato, una quota di senatori eletti dall’ente regionale, non staremmo più ora a tirarci i capelli.

Ciò premesso, per scarico di coscienza, risponderò all’onorevole Lussu, e dirò le ragioni che avevano indotto la Commissione dei Settantacinque a votare questo testo, salvo vedere poi, la posizione che si viene a determinare in base alla reiezione dell’ordine del giorno Perassi ed all’approvazione di quello Nitti.

La maggioranza della Commissione, a suo tempo, decise che il Senato avesse un nesso particolare con l’istituto della Regione.

Badate bene: se anche voi annullaste questo nesso, non è che la Regione sparisca, la Regione rimane nella struttura che è stata approvata. Ma sembrò alla maggioranza che creato questo ente, fosse opportuno dargli una partecipazione nella formazione del Senato. Questo è il concetto da cui è partita la maggioranza. Ed allora, che cosa ha fatto? In un primo comma, che come dissi in un mio intervento, ha un valore più che altro di proemio e di prefazione, ha affermato che il Senato è eletto su base regionale. La sostanza viene nell’altro comma in cui si stabiliscono due cose: 1°) che una parte dei senatori sono eletti dai Consigli regionali; 2°) che le Regioni debbono avere un certo numero di senatori fisso; e ciò per equilibrare meglio questi enti, e tener conto delle Regioni più piccole.

Non apparve allora, e non vi sarebbe ora, alcuna contradizione nel fatto che un terzo (o come fu proposto in sede di emendamento un quarto) di senatori fosse eletto dai Consigli regionali e il rimanente dal popolo direttamente, anche col sistema del collegio uninominale. (Rumori – Commenti – Interruzione del deputato Rubilli).

Onorevole Rubilli, io sto qui esponendo, quali furono le ragioni che indussero la Commissione ad adottare il suo testo. È ineccepibile che non vi era nessuna contradizione. Tant’è che, come ho detto poco fa, anche la minoranza, subordinatamente, accolse il concetto dei due sistemi convergenti di elezione.

Sta di fatto che la soluzione data dall’articolo 55 nel testo della Commissione potrebbe riunire in una equilibrata formula i sostenitori della Regione, che vogliono connetterlo con la formazione del Senato, ed i sostenitori del collegio uninominale, che avrebbe in tutto il resto un’ampia applicazione.

Ma, si dirà, è intervenuta la reiezione dell’ordine del giorno Perassi, e l’adozione di quello Nitti: la rappresentanza delle Regioni, attraverso i loro Consigli, non può più essere ammessa. Non voglio entrare in materia, né parlare per il Comitato di redazione, che, come purtroppo avviene ogni momento, è in disaccordo interno; né ho avuto il tempo di interpellarlo su questo punto. Osservo soltanto, per conto mio, che vi possono essere dubbi; tant’è che, quando fu presentato l’ordine del giorno Nitti, il Presidente della nostra Assemblea suggerì di aggiungere «compiutamente» o qualcosa di simile, perché risultasse in modo chiaro esclusa la rappresentanza dei Consigli regionali; ma il savio consiglio non fu accolto. E l’ordine del giorno Perassi, nelle sue espressioni che riguardano un punto particolare «tre senatori per ogni Consiglio regionale» potrebbe non implicare la decisione assoluta del principio ed escludere una diversa partecipazione dei Consigli regionali. Sono dubbi, ripeto, e sarebbe bene che si decidesse subito al riguardo. Bisogna evitare che si continui a discutere a perdifiato. Decidete una buona volta, in un senso e nell’altro e non se ne parli più. A me sembra che l’Assemblea dovrebbe finire col pronunciarsi sul primo comma dell’articolo 55 nel testo della Commissione, o votandolo direttamente, o fermandosi sulla questione pregiudiziale della preclusione, quale è stata qui impostata.

Vediamo, onorevoli colleghi, di non perdere altro tempo in sfibranti dibattiti di procedura.

Riassumo così il mio pensiero, il progetto della Commissione era organico; senza contradizioni; e si presterebbe benissimo ad un accordo anche col collegio uninominale. La via è ancora aperta, se si riterrà che non osti la eccepita preclusione. Decidiamo in qualunque senso. Anche in discussioni recenti abbiamo visto il valore enorme che ha l’esigenza di non perdere tempo, per poter entro l’anno chiudere i nostri lavori con l’approvazione della Costituzione.

C’è ora, una questione: decidiamola e non se ne parli più.

PRESIDENTE. Penso che dovremo, seguendo l’invito dell’onorevole Ruini, stabilire di che cosa stiamo discutendo, perché avevamo, sì, affrontato l’articolo 55, ma non nel suo intero complesso.

Come stiamo facendo da mesi, l’articolo viene diviso nei suoi accapo; e sui singoli accapo si discute e si vota.

E se pure c’è da fare, discutendo d’un accapo, qualche richiamo agli altri, non dobbiamo però rifare una discussione generale, come invece stiamo oggi larghissimamente facendo.

La materia dell’attuale dibattito è quella che ha richiamato l’onorevole Ruini e che avevo io stesso citata – mi perdonino – fin dall’inizio: si tratta di risolvere un quesito. E lei, onorevole Lucifero, non si rammarichi: se non avesse detto giorni fa che votare per quesiti è «un giuoco da bambini», non ci troveremmo in questa situazione. Infatti avremmo allora proceduto alle nostre votazioni in un ordine logico, superando i vari punti e cioè i vari quesiti uno dopo l’altro.

E il primo quesito che io avevo proposto – leggano il testo stenografico – è appunto quello che ora stiamo dibattendo.

Tuttavia, onorevole Ruini, io domando: si può votare su questo quesito? Ritengo di no, perché la questione è stata già decisa da un voto dell’Assemblea.

È strano che tutti i colleghi che hanno parlato si sono ricordati della votazione di dieci giorni fa – benché sia passato già un certo periodo di tempo – ma hanno già dimenticato la votazione di appena un’ora fa. Orbene, se la votazione di dieci giorni fa lasciava ancora aperta la questione, almeno entro certi limiti (tanto vero che l’onorevole Perassi aveva posto una riserva), con la votazione di questa sera, la questione è stata risolta e non esiste più. Perché io chiedo in qual modo si possa ancora sostenere di commettere al Consiglio regionale l’elezione di una parte dei senatori, quando questa elezione, essendo evidentemente di secondo grado, è ormai preclusa dal voto dell’Assemblea a favore dell’elezione diretta.

Non vi è una via di elusione. Il Senato è un organismo indivisibile ed indifferenziato e, dacché si è deciso che esso deve essere eletto con metodo diretto, si deve intendere – non v’è dubbio – che tutto il Senato debba trovare nell’elezione diretta la propria origine.

Mi sembra pertanto che abbia ragione l’onorevole Ruini quando afferma che deve essere definitivamente fissato questo punto; ma non ha forse più ragione nel ritenere che si debba ancora votare su ciò. Su questa questione, onorevoli colleghi, e soltanto su questa questione, io potrò dare pertanto la parola agli iscritti, pregandoli di restare rigorosamente all’argomento.

MORTATI. Chiedo di parlare.

PRESIDENTE. Ne ha facoltà.

MORTATI. Ho chiesto di parlare sull’interpretazione da dare all’ordine del giorno Nitti, perché – contrariamente a quanto ha or ora affermato l’onorevole Ruini – la questione sorta in proposito non può dirsi chiarita né matura per la decisione, esistendo ancora, come appare da recenti interventi, dei gravi equivoci in ordine ad essa.

È da mettere in rilievo che l’articolo 55 contiene nei suoi secondo e terzo comma due distinti principî: il primo è quello relativo al modo di determinare il numero dei senatori; il secondo invece quello relativo al metodo della loro elezione. Ora, l’ordine del giorno dell’onorevole Nitti, come risulta dal suo tenore letterale e altresì dall’interpretazione che lo stesso proponente ne ha data nello svolgimento dell’emendamento da cui esso è derivato, si riferisce esclusivamente a questo secondo punto, cioè al modo di elezione della seconda Camera.

Mi pare di potere convenire senz’altro nella tesi annunciata dal nostro onorevole Presidente, secondo cui l’approvazione intervenuta di tale ordine del giorno importa l’esclusione di forme elettive del Senato che siano, anche in misura parziale, affidate alla elezione indiretta, e quindi l’esclusione della possibilità di riproposizione della proposta di affidare la scelta di un’aliquota di senatori ai Consigli regionali. Ma, ciò ammesso, è da affermare che viceversa nessuna preclusione è intervenuta, in conseguenza del voto precedente, per quanto riguarda il contenuto del secondo comma dell’articolo 55 e quindi nessun pregiudizio si è avuto nella soluzione dell’altro problema, relativo al modo di determinazione del numero dei senatori. (Commenti).

Del pari impregiudicato deve ritenersi rimanga il principio consacrato nel primo comma dell’articolo in discussione, riferentesi all’affermazione della base regionale del Senato. Base regionale significa collegamento stabile ed istituzionale fra l’ordinamento regionale e il Senato. Tale collegamento è sembrato a tutti costituire un elemento essenziale della riforma regionale, tale da potersi svolgere con applicazioni molteplici ed in particolare con due, espressamente consacrate nell’articolo 55, con quella cioè, in primo luogo, relativa al metodo di scrutinio indiretto ad opera dei Consigli regionali, e questa è stata esclusa; con quella, in secondo luogo, che si realizza attraverso l’attribuzione di un numero fisso di senatori. Quest’ultima applicazione, contrariamente a quanto ritiene l’onorevole Rubilli, non si può considerare eliminata o comunque compromessa dalla votazione dell’ordine del giorno dell’onorevole Nitti. Dice infatti il secondo comma dell’articolo in questione, che contiene i criteri di determinazione del numero dei senatori, che tale numero si ottiene, in parte, in misura proporzionale al numero degli abitanti; in altra parte mediante l’attribuzione di un numero fisso di senatori ad ogni Regione, indipendentemente dalla sua popolazione. Ora, è precisamente questo secondo criterio dell’attribuzione di un numero fisso che vale a conferire una spiccata base regionale al Senato; ed anzi può dirsi che sia proprio esso a imprimere in modo più spiccato di ogni altro tale carattere regionale.

Accertato che il numero fisso serve solo come uno dei criteri per determinare la composizione numerica della seconda Camera e non tocca il metodo di scrutinio, né ha nulla a che fare con l’aliquota che si era proposto di affidare alla elezione dei Consigli regionali viene meno l’obiezione che era stata fatta contro la proposta di passare a discutere il primo comma dell’articolo 55. Si può aggiungere che il principio della base regionale, in esso proclamato, ha, come ha detto l’onorevole Ruini, il valore di una direttiva suscettibile di molteplici applicazioni, anche al di fuori di quella di cui ho parlato adesso, o di altre affermate in altri punti del progetto, come nell’articolo 56. Per provare con un esempio l’esattezza della mia affermazione ricorderò la possibilità di adattare alla base regionale il sistema di scrutinio uninominale, adottato dalla recente deliberazione di quest’Assemblea. Si potrebbe infatti stabilire nella legge elettorale da emanare, e sarebbe questo un altro modo di collegare la elezione del Senato con le Regioni, che, pur avvenendo le elezioni con il sistema del collegio uninominale, lo scrutinio si faccia tenendo presente i risultati ottenuti in tutta la circoscrizione regionale. Ciò utilizzando uno dei tanti sistemi escogitati per abbinare il collegio uninominale con forme di scrutinio proporzionale: utilizzazione che non è affatto esclusa dall’ordine del giorno Nitti, ed alla quale il futuro legislatore potrebbe essere indotto seguendo appunto la direttiva posta dalla Costituzione con la proclamazione della base regionale della seconda Camera.

Così, dunque, mi pare dimostrato che l’approvazione del primo comma dell’articolo 55 non solo non contrasta con le precedenti deliberazioni, non solo non è superflua, ma si presenta necessaria, come complemento naturale dell’ordinamento regionale, come inserzione di questo nell’ordine costituzionale dei poteri, secondo l’opinione unanime sempre espressa da quanti adottarono quell’ordinamento.

NOBILI TITO ORO. Chiedo di parlare.

PRESIDENTE. Ne ha facoltà.

NOBILI TITO ORO. Io aderisco sostanzialmente, onorevoli colleghi, alle considerazioni svolte dagli onorevoli Lucifero e Rubilli.

Sulle riflessioni di carattere filosofico sviluppate, in tema di giuoco e di perdenti, dall’onorevole Lucifero, in rapporto ai risultati del voto, mi permetto di aggiungere un consiglio…

PRESIDENTE. Onorevole Nobili Oro, mi perdoni, vorrei pregarla di tralasciare ormai queste digressioni marginali e filosofiche, come lei stesso le chiama. Stia alla questione, la prego.

NOBILI TITO ORO. Non si preoccupi, onorevole Presidente, non ho il programma marginale che lei teme. Volevo soltanto ripetere a chi ha perduto il giuoco il consiglio di Catullo: «Quod perdidisti perditum ducas». Questa sintesi mi doveva riallacciare immediatamente all’argomento già trattato dai colleghi ricordati; dirò brevemente il mio pensiero e preciserò i punti nei quali esso si allontana da quello loro. Viene sul terreno della discussione l’articolo 55 del progetto di Costituzione, il quale contempla, in tre distinti commi, la estensione delle circoscrizioni elettorali, la composizione numerica del Senato della Repubblica, la distribuzione dei senatori fra le singole circoscrizioni, e il sistema di elezione. Se non fossero stati presentati tre ordini del giorno, tendenti a modificare l’articolo 55 in ciascuna di queste tre parti, si sarebbe dovuto intraprendere l’esame degli emendamenti proposti per ciascuna di esse, per poi passare alla votazione. Senonché questo, che sarebbe stato il procedimento normale, è stato modificato dal rigetto dell’ordine del giorno Perassi e dalla approvazione di quello Nitti, in quanto le deliberazioni con esso assunte vulnerano più o meno ciascuna delle tre parti dell’articolo. E il Regolamento della Camera, che disciplina i lavori dell’Assemblea, è molto chiaro in proposito. Inspirandosi al principio non bis in idem, che garantisce il rispetto di tutte le decisioni sia sul terreno giudiziario, sia su quello amministrativo o politico, stabilisce che gli ordini del giorno debbono essere discussi e votati con precedenza sugli emendamenti e che le loro statuizioni facciano stato e precludano l’esame di proposte contrastanti. Queste regole, racchiuse principalmente negli articoli 87 e 89, sono illustrate da una prassi abbondantissima; ordunque adesso è necessario di stabilire, per ciascuno dei tre commi dell’articolo 55, se e fino a qual punto esso sia rimasto vulnerato dagli ordini del giorno votati, perché per ogni comma, là dove vulnerazione siasi verificata, vi è preclusa, in tutto o in parte, sia la discussione, sia la votazione. Occorre, pertanto, anzitutto portare ciascuno dei tre commi a raffronto sia coll’ordine del giorno Perassi, sia con quello Nitti. Cominciando dal primo comma, pel quale il Senato dovrebbe essere eletto a base regionale, io non esito a ritenere che il suo esame, come quello degli emendamenti che ne accolgono il principio, sia assolutamente precluso.

Per vero poteva intendersi la base regionale per la elezione dei senatori in rapporto alla statuizione dell’ultimo comma dell’articolo 55 che attribuisce ai Consigli regionali la elezione di un terzo, ripresa dall’ordine del giorno Perassi. Ma quando questo è stato respinto, è crollata con esso la base regionale; e il colpo di grazia le è stato vibrato dall’approvazione dell’ordine del giorno Nitti, pel quale il Senato sarà eletto a suffragio universale e diretto e col sistema del collegio uninominale.

PERASSI. Non è vero!

NOBILI TITO ORO. È verissimo. E la preclusione deriva non solo dalla deliberazione di affidare l’elezione dei senatori al suffragio universale e diretto, la quale basta ad escludere la base regionale che avrebbe trovata la propria manifestazione nella elezione dei senatori affidata ai Consigli regionali; essa deriva soprattutto dalla deliberazione che la elezione si faccia col sistema del collegio uninominale.

E di fronte al collegio uninominale assunto come base elettorale la base regionale inesorabilmente scompare. Se un nostro voto precedente avesse già affermato la volontà di dar vita a un sistema elettorale a base regionale, io non mi rifiuterei, nella coesistenza dei due voti, al tentativo di conciliarli e potrei perfino mettermi d’accordo con coloro che continuano a sostenere che l’ordine del giorno Nitti possa ricevere una interpretazione diversa da quella univoca che ormai si impone. Senonché l’ordine del giorno Nitti è intervenuto quando la base regionale non era stata ancora deliberata; e colla creazione della base elettorale nel collegio uninominale ha prevenuto e impedito il suo affermarsi. Al riguardo non possono elevarsi dubbi di sorta.

Io ho ascoltato le ultime dichiarazioni fatte dall’onorevole Nitti dopo la votazione del suo ordine del giorno sulla estensione che sarebbe stato intendimento suo di dare all’ordine del giorno medesimo; e non nego che esse possano in qualche modo imbaldanzire la tesi di coloro che escludono la preclusione della discussione e della votazione di questo primo comma.

Ma mi duole di dover dire che noi non possiamo accogliere questa chiarificazione come espressione di una interpretazione autentica; perché questa interpretazione avviene quando l’Assemblea ha già votato e l’Assemblea ha votato non in base alle intenzioni, non ancora palesate, dell’onorevole Nitti, ma in base alla lettera chiara del suo ordine del giorno. Quando la lettera è chiara, bisogna stare ad essa. E l’ordine del giorno afferma che «l’elezione dei senatori sarà fatta col sistema del collegio uninominale». Pertanto la base elettorale sarà il collegio uninominale e non già la Regione e il Consiglio regionale.

Questa è dunque la parte insopprimibile della deliberazione assunta, la quale preclude indiscutibilmente la presa in esame del primo comma: il collegio uninominale, circoscrizione ridottissima rispetto a quella della Regione, è circoscrizione autonoma, con ufficio proprio, che non può avere più alcun nesso con l’ente Regione e deve collegarsi direttamente con l’ufficio elettorale centrale. Unica questione ancora possibile potrebbe essere questa: se si debba o no tener presente la circoscrizione delle istituende Regioni, per distribuire nell’ambito di esse, a gruppi territorialmente ravvicinati, i collegi uninominali; ma non si potrà prescindere dalla necessità di considerare il collegio uninominale come base autonoma delle elezioni senatoriali. Questo è per me il decisum già acquisito e quindi un punto incontrovertibile.

E, siccome la prima chiarificazione deve avvenire a questo riguardo, io confido che l’onorevole Presidente vorrà dare atto che il primo comma è assorbito per preclusione. Solo subordinatamente io mi son permesso di proporre un ordine del giorno col quale l’Assemblea è chiamata a dare questa interpretazione, che, allo stato, è l’unica autentica che possa, nella peggiore ipotesi, essere ricercata.

Ritengo che l’onorevole Rubilli possa essere d’accordo in ciò, qualora l’onorevole Presidente non voglia far valere il potere che gli deriva dal voto già emesso, dandogli il crisma formale.

Per economia di discussione il mio ordine del giorno contempla anche la rimanente parte dell’articolo.

A rigore si dovrebbe riconoscere che gli ordini del giorno votati hanno precluso anche il secondo comma, pel quale a ciascuna Regione è attribuito oltre a un numero fisso di cinque senatori, un senatore per duecentomila abitanti o per frazione superiore a centomila: giacché, come ho dimostrato, non si può più parlare di circoscrizione regionale, per effetto dell’ordine del giorno Nitti, mentre il criterio, del numero fisso di senatori eligendi a complemento di quello proporzionale al numero degli abitanti, è stato già respinto per effetto del rigetto dell’ordine del giorno Perassi. Siccome però potrebbe osservarsi che il numero dei senatori da eleggere non è stato definitivamente fissato, perché non è stato ancora determinato il quoziente di ciascun collegio uninominale, sono incline a riconoscere che, limitatamente a questa necessità, possa invocarsi ancora la decisione dell’Assemblea.

Per contro l’ultimo comma dell’articolo è quello totalitariamente vulnerato e distrutto dall’ordine del giorno Nitti e adesso non resta altro da fare all’onorevole Presidente, quale depositario delle manifestazioni di volontà dell’Assemblea, se non dare atto, e non resta altro all’Assemblea che prendere atto che quest’ultimo comma è stato già emendato colla approvazione dell’ordine del giorno Nitti, per effetto del quale il Senato sarà eletto a suffragio universale e diretto col sistema del collegio uninominale. Pretendere in proposito che si rinnovi la votazione sarebbe volere offendere il principio non bis in idem, e violare, tra gli altri, l’articolo 87 del Regolamento.

Per principio di onestà politica e per la serietà dell’Assemblea questo non può però avvenire e noi abbiamo la più completa fiducia che non avverrà.

LACONI. Chiedo di parlare.

PRESIDENTE. Ne ha facoltà.

LACONI. Io credo che l’Assemblea debba ringraziare – in questa discussione – unicamente l’onorevole Mortati di aver posto la questione in termini chiari, onesti ed esatti. Mi dispiace di non poter dire altrettanto al Presidente del Comitato di coordinamento, il quale, essendo intervenuto senza avere consultato il Comitato, credo dovesse attenersi per lo meno alla logica, la quale in questo momento ed in questa materia ci insegna una cosa molto semplice: che qui ci sono tre questioni: una è quella della base elettorale, la seconda è quella dei collegi elettorali, la terza è quella del numero da stabilire per ogni Regione. La prima questione è difficile da risolvere per prima perché dire che il Senato è eletto a base regionale significa fare un’affermazione piena o vuota di significato, a seconda di quel che segue.

Per quanto riguarda la seconda questione, non v’è dubbio che una votazione in merito è assolutamente esclusa dall’approvazione, già avvenuta, dell’ordine del giorno Nitti. Mi pare che nessuna persona che guardi le cose con un minimo di serenità possa affermare il contrario.

L’unica questione che rimane da discutere è la terza. Io riconosco onestamente – per quanto la cosa non convenga alla parte che rappresento – che la questione del numero dei senatori da fissarsi per ogni collegio regionale o meno, non è pregiudicata dall’ordine del giorno che abbiamo votato. A me sembra però che sia pregiudicata dallo spirito delle votazioni che abbiamo fatte, in quanto sarebbe una cosa assurda che noi domani venissimo a determinare dei collegi uninominali di diversa entità per cui – per esempio – la Sicilia avesse un collegio per 100.000 abitanti e l’Emilia per 150.000 o viceversa. Mi pare che il popolo italiano non riuscirebbe a comprendere una differenza di questo genere.

Comunque, dal punto di vista formale, finora la cosa non è stata giudicata.

Per questo penso che si debba procedere nel modo seguente: escludere completamente una votazione sulla seconda questione e votare sulla terza.

E, infine, qualora il numero fisso fosse approvato, noi potremmo decidere sulla questione della base regionale.

BOZZI. Chiedo di parlare.

PRESIDENTE. Ne ha facoltà.

BOZZI. Concordo con quanto ha detto l’onorevole Laconi.

Qui si tratta di vedere l’interpretazione del testo dell’ordine del giorno che abbiamo votato e la compatibilità del contenuto di questo ordine del giorno con l’articolo 55.

Ora, mi pare che la votazione negativa sull’ordine del giorno Perassi, e la votazione affermativa sull’ordine del giorno Nitti escludano nel modo più tassativo che l’Assemblea possa in qualsiasi modo, sia pure sotto la forma indiretta dell’interpretazione autentica, ritornare sulla sua determinazione. Questi due ordini del giorno, uno respinto, l’altro votato, escludono che si possa votare o interpretare il terzo comma dell’articolo 55.

In altri termini, il Senato non può essere costituito né con l’elezione da parte dei Consigli comunali, né con l’elezione in base al suffragio universale col sistema proporzionale, perché il meccanismo di elezione del Senato dev’essere esclusivamente quello del sistema uninominale: e questo ha voluto affermare l’ordine del giorno Nitti.

Resta la questione accennata dall’onorevole Mortati e ripresa dall’onorevole Laconi, cioè la determinazione del numero dei senatori.

Il secondo comma dell’articolo 55 dice che a formare il numero dei senatori si procede con un duplice sistema: l’attribuzione di un senatore per ogni 200.000 abitanti e una quota fissa di senatori. Questo è un problema impregiudicato dal punto di vista formale.

Forse se si volesse sottilizzare – ma io non ne ho vaghezza – si potrebbe dire che anche la quota fissa è esclusa dall’ordine del giorno Perassi, perché nella prima parte si dice che i senatori devono essere eletti nel numero di tre per ogni Regione.

PERASSI. Non è un numero fisso.

BOZZI. E quanto meno dubbio se l’onorevole Perassi abbia voluto mettere l’accento sulla elezione da parte del Consiglio regionale, oppure sulla quota fissa; sicché possiamo dire che sul secondo comma dobbiamo ancora votare, cioè dobbiamo ancora votare sul modo di costituzione del numero dei senatori da eleggere, in base alla proposta di una quota fissa e di un senatore per ogni 200 mila abitanti.

Resta la questione del primo comma.

Io, signor Presidente, proporrei di suggerire che non si addivenisse adesso a fila votazione del primo comma perché il primo comma – lei ricorda meglio di me come si venne a questa formula un po’ vaga – quando dice che il Senato è eletto a base regionale, in fondo non dice niente. Si volle escludere una affermazione che portasse a considerare la Regione come ente, perché si disse che si sarebbe così costituito un Senato di carattere regionale. Comunque, l’espressione ha la sua ragion d’essere in quanto si siano votati il primo ed il secondo capoverso.

Ora, il secondo capoverso dell’articolo 55 è caduto. Resta da vedere se rimane ferma la quota fissa dei senatori che spettano ad ogni Regione.

Se l’Assemblea voterà questa quota fissa di senatori attribuita ad ogni Regione come tale, noi potremo prendere in esame se sia da votare il primo comma o nella formulazione proposta o in un’altra più confacente.

LUCIFERO, Chiedo di parlare.

PRESIDENTE. Ne ha facoltà.

LUCIFERO. Io, in verità, in origine avevo chiesto la parola per un fatto personale, ma parlo nel merito nel quale il fatto personale entra. Ha detto l’onorevole Conti che non ho parlato con sincerità…

PRESIDENTE. Onorevole Lucifero, non faccia il fatto personale.

LUCIFERO. Non lo faccio, perché l’avrei anche con lei il fatto personale, signor Presidente. Mi ha fatto provare una emozione perché in 44 anni questa accusa non me l’aveva mai fatta nessuno, ed io la ringrazio. La mia mancanza di sincerità sarebbe stata nel fatto che noi, antiregionalisti, tenteremmo di fare entrare dalla finestra quello che era uscito dalla porta.

Io che ho degli scrupoli, sono andato a vedere il progetto: venti articoli sulla Regione, onorevoli colleghi, in cui la Regione ha tutti gli elementi per continuare a non funzionare per i secoli, anche se non sarà investita della nomina di alcuni senatori. Quindi non si tratta affatto di andare contro quello che è stato votato. Si tratta semplicemente di delimitare fra le infinite attribuzioni della Regione se vi debba essere anche quella di nominare alcuni senatori oppure no. Ma anche se la Regione non nominerà senatori le resteranno tante di quelle attribuzioni che ci sarà da uscir pazzi non so per quanto tempo.

Detto questo, la questione del voto è proprio questa, cioè di aver voluto limitare, escludere da alcune funzioni la Regione; perché, quando noi abbiamo stabilito un suffragio diretto con un sistema uninominale, che cosa abbiamo fatto? Abbiamo escluso evidentemente tutti i sistemi di elezione indiretta e tutti i sistemi diversi dal collegio uninominale. Ora, non vi è dubbio che una elezione fatta attraverso un Consiglio regionale non sarebbe un’elezione diretta e non sarebbe un’elezione con il collegio uninominale. Quindi questa cosa a me sembra assolutamente esclusa. Voler tornare sulla discussione di questo significherebbe, onorevole Conti, non una insincerità da parte mia, ma un errore da parte sua, anche se io questa volta mi trovo dalla parte di quell’Assemblea che, secondo lei, non ragiona. E, signor Presidente, io avrei voluto un suo intervento quando questa frase circa l’Assemblea, che lei onorevolmente presiede, è stata pronunciata, perché la frase riguardava lei. Per quanto riguarda l’appunto che lei mi ha fatto circa i quesiti, io rispondo con una sua frase. Lei dice: non ci sarebbero state queste questioni se si fossero votati i quesiti. Lei ha escluso che vi possa essere, con questa votazioni con sistema ordinario, la questione. Con una sua frase, come lei vede, abbiamo raggiunto lo stesso risultato senza fare delle innovazioni.

MORO. Chiedo di parlare.

PRESIDENTE. Ne ha facoltà.

MORO. Non parlerò sulla sostanza dei problemi che sono stati avanzati questa sera. Vorrei fare invece una proposta concreta. Sono state sollevate in quest’ultima discussione numerosi problemi che forse l’Assemblea non era preparata a considerare e ci sono state prospettate, in questo gioco delicato di preclusioni, numerose difficoltà. Si dovrà decidere, per esempio, se sia intervenuta una preclusione per quanto riguarda quella parte di senatori che si pensava dovessero essere eletti dai Consigli regionali o nominati dal Capo dello Stato.

Questa è una delle questioni, ma molte altre ne sono state sollevate.

Mi sembra che il complesso di questi problemi sia così vasto e delicato da consigliare un esame da parte del Comitato di redazione. Ho visto anche che i membri del Comitato si sono divisi su alcuni punti che erano in discussione questa sera.

Non sembra opportuno – mi rivolgo sia al Presidente dell’Assemblea, sia al Presidente della Commissione – che il Comitato di redazione si raduni domani, esamini questo gioco di preclusioni e porti delle proposte all’Assemblea? Mi sembra che un esame preliminare sia opportuno e che possa portare a decisioni più mature.

PERSICO. Chiedo di parlare.

PRESIDENTE. Ne ha facoltà.

PERSICO. A me sembra che la questione sia stata posta chiaramente dall’onorevole Ruini. Il problema è solo questo: se i due ordini del giorno rendano impossibile la votazione dell’articolo 55. Ora, non vi è dubbio che il primo comma dell’articolo 55 si deve votare, perché stabilisce una norma d’ordine generale. La Camera dei senatori, cioè il Senato, è eletto a base regionale; quindi non incide sulla modalità dell’elezione che deriva dall’ordine del giorno Nitti che è stato testé approvato.

L’ordine del giorno Nitti, a che cosa si riferisce? Al sistema elettorale attraverso il quale dovranno essere nominati i senatori. Che cosa rimane da stabilire? Quello che è il problema del secondo comma dell’articolo 55 proposto dalla Commissione. Di questo secondo comma v’è una parte viva e una parte che è caducata. È caducata la parte per cui alcuni senatori devono essere eletti dalla Regione. Però rimane che ogni Regione può avere un numero fisso di senatori. L’equivoco da che cosa è nato, secondo me? Da quel numero fisso di 200.000 cittadini per ogni collegio elettorale. Non è affatto vero che il collegio uninominale avesse un numero fisso. Ricordiamo la vecchia legge elettorale: avevamo collegi con un numero diverso di elettori: Pavullo sul Frignano aveva mille elettori; un collegio di Milano aveva 200.000 elettori. Ciò non è male. Tutto sta a considerare se i senatori dovranno avere la caratteristica di essere l’emanazione di una certa zona regionale, di rappresentare nel Senato una determinata parte di territorio nazionale. Se questo si stabilisce, evidentemente l’ordine del giorno Nitti stabilisce la norma per lo svolgimento delle elezioni: tanto è vero, che lo stesso onorevole Nitti, nella sua proposta di modifica agli articoli 55 e 56, si esprimeva così:

«Il Senato è eletto sulla base di un senatore per 200.000 abitanti. Il territorio della Repubblica è diviso in circoscrizioni elettorali, che eleggono un solo senatore ciascuna. Ad ogni Regione è, inoltre, attribuito un numero fisso di tre senatori».

Quindi, anche l’onorevole Nitti, nella sua proposta sostitutiva dell’articolo 55, ritiene Che ogni Regione deve avere tre senatori, qualunque sia il sistema elettorale prescelto, collegio uninominale o altro (ormai è stato scelto quello uninominale, e non si può più discutere).

Evidentemente il concetto regionale entra nella composizione del Senato. Quindi, potremmo votare il primo comma del testo della Commissione: «La Camera dei senatori è eletta a base regionale». Poi potremmo pregare il Comitato di redazione di coordinare l’ordine del giorno Nitti già approvato con le formalità necessarie perché l’elezione dei senatori avvenga nella circoscrizione regionale; e allora spero che la Commissione muterà il suo avviso sul numero fisso di 200 mila abitanti: perché ci possono essere Regioni che, pur dovendo avere tre o quattro senatori, non hanno il numero necessario di abitanti.

La Basilicata, per esempio, che ha circa 500.000 abitanti, non potrebbe avere tre senatori, come è stabilito nel testo dell’articolo 55 proposto dall’onorevole Nitti.

PRESIDENTE. Che non è ancora stato approvato.

PERSICO. Quindi, l’Assemblea potrà ora votare la prima parte dell’articolo 55.

Resta fermo che l’ultima parte è sostituita dall’ordine del giorno Nitti approvato, circa le modalità dell’elezione: suffragio universale e diretto col sistema del collegio uninominale.

Darei mandato al Comitato di redazione di coordinare quest’ultima parte, approvata, colla prima parte dell’articolo 55 che stabilisce la base regionale, perché vi si innesti il sistema del collegio uninominale.

BOSCO LUCARELLI. Chiedo di parlare.

PRESIDENTE. Ne ha facoltà.

BOSCO LUCARELLI. Io sono del parere del collega Moro, di rinviare alla Commissione la formulazione di tutto l’articolo, perché, dopo l’approvazione dell’ordine del giorno Nitti, a me pare che l’articolo vada rifuso.

Qualora ciò avvenisse, io mi permetterei di sottoporre alla Commissione delle questioni pratiche da tenere presenti. Dovendosi determinare le circoscrizioni per i collegi uninominali, ad evitare difficoltà nella compilazione della relativa legge elettorale, credo opportuno che nella Costituzione si dia un indirizzo generale per sapere come debba avvenire il raggruppamento di comuni per costituire i singoli collegi, e cioè se debba avvenire nell’ambito delle provincie o delle regioni, o se debba prescindere da esse.

Nelle vecchie leggi elettorali col sistema uninominale, i collegi erano determinati nell’ambito delle provincie.

L’assegnazione di un senatore per ogni 200 mila elettori, tenuta anche presente l’importanza delle frazioni, rende necessario un accurato esame della questione.

Anche per questo credo vada appoggiata la proposta Moro.

PIEMONTE. Chiedo di parlare.

PRESIDENTE. Ne ha facoltà.

PIEMONTE. L’altro giorno abbiamo votato, a scrutinio segreto, contro un numero fisso di senatori per Regione. Non comprendo come l’Assemblea oggi possa ritornare sulla deliberazione già adottata.

Richiamo, peraltro, l’attenzione dei regionalisti su questo problema: domandando un minimo di rappresentanza di senatori per ogni Regione, si impedisce che si formino quelle piccole Regioni che, a mio modo di vedere, sono più giustificate delle grandi. Le piccole Regioni potranno effettivamente valere nella vita pubblica italiana, perché esse permettono il massimo controllo sulla pubblica amministrazione; a questo riguardo le grandi Regioni presenteranno di poco diminuiti i danni dell’accentramento burocratico. Se si chiede che le Regioni abbiano un minimo di rappresentanti si darà un’arma perché queste piccole Regioni non siano approvate.

Sono d’accordo con il collega Moro che dopo il voto sull’ordine del giorno Nitti tutto il capitolo vada riveduto e le disposizioni fra loro coordinate e coordinate al principio votato dal Comitato di redazione.

TARGETTI. Chiedo di parlare.

PRESIDENTE. Ne ha facoltà.

TARGETTI. Non vorrei essere in errore, ma mi sembra che questa discussione sulla preclusione o meno della possibilità di mettere in votazione l’articolo bel testo del progetto sia, se non altro, intempestiva. Infatti prima bisognerà mettere in votazione gli emendamenti che sono stati presentati a questo articolo, giacché nel caso in cui qualcuno di questi emendamenti – che sono emendamenti sostitutivi – venga approvato, la questione della preclusione è già assorbita. Non so se sono in errore, ma mi sembra che la questione si ponga così: v’è l’emendamento dell’onorevole Nitti con il quale si propone di sostituire gli articoli 55 e 56 con un articolo da lui stesso formulato; v’è poi, tra gli altri, un nostro emendamento del seguente tenore: «Il Senato della Repubblica è eletto a suffragio universale, diretto e segreto, ecc.». Sono due emendamenti che, se venissero approvati, o l’uno o l’altro, annullerebbero il testo del progetto. Se questi emendamenti saranno respinti, allora si potrà proporre la questione se sia possibile mettere in votazione l’articolo del testo, che è in contradizione, secondo l’opinione di alcuni, con due ordini del giorno: uno approvato e l’altro respinto.

PRESIDENTE. La questione è stata largamente chiarita nonostante che gli onorevoli Moro e Bosco Lucarelli ritengano che essa non lo sia ancora a sufficienza ed abbiano affacciato l’idea di rimetterla al Comitato di redazione. È possibile che non sia chiara per qualcuno, ma io, onorevoli colleghi, debbo ribattere sempre sul medesimo punto: ci avviciniamo alla metà di ottobre e non possiamo rinviare più, neanche di un giorno, questioni che sono state già lungamente discusse; in questo momento, onorevole Moro, si tratta veramente di voler fare soltanto un piccolo sforzo logico. Il problema è questo: il testo dell’articolo 55, che abbiamo ricevuto dalla Commissione per la Costituzione, aveva per l’appunto una sua logica interna. Vi era un primo comma che in tanto teneva, in quanto seguivano il secondo ed il terzo. Coloro i quali hanno partecipato alla discussione di questo testo rammentano che il secondo e il terzo comma sono stati così configurati perché il primo era stato in precedenza redatto in quel particolare modo. È evidente che, affermata una base regionale per il Senato, ne veniva come necessaria conseguenza che per l’elezione del Senato si presupponesse una certa struttura della Regione e, in primo luogo, la esistenza di assemblee regionali.

Onorevoli colleghi, non è responsabilità mia – vorrei lo si riconoscesse – se la strada attraverso la quale siamo giunti a questa prima votazione non ha seguito la stessa traccia di quella percorsa in seno alla seconda Sottocommissione. È stata l’Assemblea a decidere di prendere una via diversa, ed una tale via per la quale avendo votato una prima decisione, non è più permesso seguire nel loro ordine primitivo i tre commi dell’articolo 55.

Vorrei dire a questo proposito, che non vi è dubbio che le decisioni dei Settantacinque e della seconda Sottocommissione che ha elaborato questa parte del progetto conservano valore; ma adesso, a mano a mano che i lavori nostri procedono, se facciamo dei richiami, dobbiamo farli non alle decisioni della Commissione dei Settantacinque, dall’Assemblea non accettate, ma a quelle altre decisioni che l’Assemblea ha ad esse sostituite.

Oggi pertanto l’Assemblea deve ragionare in base alle premesse logiche che si è poste, e se queste non consentono di accettare le norme della Commissione dei Settantacinque, io posso essere il primo a rammaricarmene, perché vi ho collaborato, ma bisogna sottomettersi al volere espresso dell’Assemblea.

MORO. Chiedo di parlare.

PRESIDENTE. Ne ha facoltà.

MORO. Io non vedo le cose con la stessa chiarezza con cui le vede l’onorevole Presidente. Mi dispiace di dover fare una proposta formale perché la materia sia rinviata al Comitato di redazione per un nuovo esame. Domani mattina l’Assemblea potrebbe occuparsi di un altro argomento, mentre il Comitato riprende in esame la materia.

PRESIDENTE. Mi permetto di parlare in maniera molto netta. Se lei, onorevole Moro, propone formalmente che l’Assemblea sospenda i suoi lavori, in attesa che il Comitato di redazione dipani questa matassa, che a me sembra abbastanza dipanata, io metterò in votazione la sua proposta; ma desidero che risulti chiaro a chi spetta la responsabilità del permanente ritardo dei lavori della nostra Assemblea. (Commenti al centro). Mi permettano, ma nessuno vorrà farmi credere che, da dieci giorni a questa parte, voi non abbiate più pensato alle conseguenze dei voti che si erano dati in precedenza.

Credo che nessuno di voi, da dieci giorni a questa parte, abbia completamente rinunciato a svolgere pensieri e considerazioni sui lavori della Costituzione e pertanto non credo che i problemi intorno ai quali oggi stiamo discutendo vi riescano nuovi in maniera tale da non orientarvici.

Onorevole Moro, il problema si pone in questi termini: si è votata una disposizione; questa disposizione stabilisce che il Senato della Repubblica sia eletto a suffragio universale e diretto col sistema del collegio uninominale. La prima conseguenza che se ne trae è senz’altro questa: nessuna forma di elezione indiretta è più ammissibile.

La seconda conseguenza è ancora da trarre, e starà nel quesito se si possa accettare o meno che nel Senato della Repubblica vi siano senatori che si richiamino rispettivamente ad un numero diverso di elettori. Questa è l’unica questione ancora da risolvere. Se l’Assemblea risponde «sì», ed è legittimamente padrona di farlo, allora resta in piedi il quesito del numero fisso di senatori. Se l’Assemblea dice «no», allora non vi sarà più numero fisso di senatori, ma si tratterà soltanto di scegliere, fra le varie proposte relative al quoziente, che vanno da 200 mila a 120 mila. Questa è tutta la questione da risolvere e mi pare in realtà che non sia tanto complessa. Essa pone una questione di principio; se un eletto possa richiamarsi ad un numero di elettori o ad una base di popolazione diversa da un altro eletto. È la sola questione da risolvere. E, onorevoli colleghi, non credo che possiamo affidare la soluzione al Comitato di redazione. È l’Assemblea che deve risolvere e votare. E siccome il quesito è semplice non è necessario che ci venga riportato fra alcuni giorni. Tutto questo ho detto per precisare i termini della questione. Poiché, comunque, l’onorevole Moro ha fatto una proposta formale di sospensiva, dovrò porla in votazione.

MORO. Io chiedevo di rinviare fino a domani pomeriggio e non di tre o quattro giorni.

PRESIDENTE. Già ieri mattina non si è tenuta seduta, stamane neppure, domani mattina non si dovrebbe tenere seduta per dare tempo al Comitato. Siccome io ho una responsabilità e lei e l’Assemblea hanno la loro, le si precisi col voto.

Pongo dunque in votazione la proposta dell’onorevole Moro che si sospenda la discussione e che si rimetta al Comitato di redazione il compito di trarre le conseguenze logiche della votazione oggi avvenuta in relazione al testo del progetto.

(Dopo prova e controprova, e votazione per divisione, con la esatta parità dei voti, la proposta Moro non è approvata).

Il seguito della discussione è rinviato alle ore il di domani.

Interrogazioni con richiesta d’urgenza.

PRESIDENTE. Sono state presentate le seguenti interrogazioni con richiesta di risposta urgente:

«Al Presidente del Consiglio dei Ministri, sugli sviluppi e sui provvedimenti presi a seguito della serrata delle aziende editoriali dei quotidiani italiani, nonché dello sciopero proclamato dai poligrafici a Torino.

«Froggio».

«Al Ministro dei lavori pubblici, per sapere se e quando intenda provvedere alla sistemazione degli acquedotti della Lucania ove, per la scarsa manutenzione e per la inadeguatezza degli impianti, intere popolazioni sono prive di acqua, con grave pregiudizio della salute e dell’igiene.

«Colombo, Zotta».

Chiedo al Governo quando intenda rispondere.

ANDREOTTI, Sottosegretario di Stato alla Presidenza del Consiglio dei Ministri. Risponderò alla prima interrogazione domani nel pomeriggio; quanto alla seconda, ritengo che il Ministro dei lavori pubblici potrà rispondere lunedì prossimo.

Per la nomina di tre membri della Corte costituzionale della Sicilia.

PRESIDENTE. Avverto che l’Assemblea dovrà procedere, nel corso di questa settimana, alla elezione di tre membri della Corte costituzionale per la Sicilia.

Interrogazioni.

PRESIDENTE. Si dia lettura delle interrogazioni pervenute alla Presidenza.

SCHIRATTI, Segretario, legge:

«Il sottoscritto chiede d’interrogare il Ministro delle finanze, per sapere se non intenda mantenere ferma la sospensione della esazione delle tasse e delle imposte a favore dei proprietari dei fondi occupati dalle truppe alleate dal maggio 1944 al maggio 1947, e che dovranno essere nuovamente dissodati per poter venire coltivati, fino a che non verranno concordate e liquidate le indennità di requisizione. (L’interrogante chiede la risposta scritta).

«Persico».

«Il sottoscritto chiede d’interrogare il Ministro della difesa, per conoscere se sia esatto che lo Stato Maggiore dell’Esercito e tutti indistintamente i comandanti militari territoriali si siano espressi favorevolmente per il mantenimento delle direzioni di amministrazione in atto funzionanti e per la non più ricostituzione dei soppressi uffici amministrativi e ciò, oltre che per ragioni tecniche e di snellimento del servizio, anche per ragioni di economia; e per conoscere, altresì, se non sia conseguentemente opportuno dar corso senza ulteriore indugio al provvedimento legislativo già predisposto fin dal 1943, al fine di rendere sotto ogni rapporto legale la costituzione delle direzioni di amministrazione. E ciò tenuto conto:

1°) che con circolare n. 139900/121/4/1 – Gab. – in data 29 giugno 1943 del Ministero della guerra, furono istituite le direzioni di amministrazione allo scopo di riunire in un unico ente direttivo le funzioni disimpegnate dagli uffici amministrativi territoriali di cui al regio decreto-legge 28 settembre 1934, n. 1635 (già rette da funzionari civili dell’Amministrazione centrale) e dagli uffici contabilità e revisione dei comandi difesa territoriale. La materia di competenza dei soppressi uffici amministrativi territoriali passi quindi alle direzioni di amministrazione e più precisamente alla sezione giuridico-amministrativa;

2°) che tale provvedimento venne disposto per rendere più armonico e consono alle effettive esigenze del servizio il funzionamento dell’Amministrazione presso gli enti periferici, comandi di grandi unità nel territorio e per adattare la struttura organico-amministrativa degli enti territoriali a quella degli enti mobilitati, poiché le direzioni di amministrazione previste con gli ordinamenti di guerra già funzionavano fin dal giugno 1940 presso tutte le grandi unità mobilitate con ottimi risultati;

3°) che venne in tal modo uniformato il funzionamento del servizio amministrativo di guerra a quello di pace, non potendo logicamente esistere diversità di formazione tra l’uno e l’altro;

4°) che cumulando in un unico organo direttivo tutte le funzioni amministrative già devolute ai soppressi uffici amministrativi, a quelli di contabilità e revisione, affidandole tutte ad ufficiali dello specifico servizio, perfettamente competenti in materia sia per la lunga carriera percorsa nel ramo amministrativo, che per la perfetta conoscenza delle esigenze dei corpi nei quali vissero a lungo si è creato uno stato di fatto consono ai più elementari principî di buona e saggia amministrazione, attuando in pieno un completo controllo preventivo, concomitante e successivo;

5°) che era stato disposto il relativo provvedimento legislativo per le conseguenti varianti da apportarsi al sopracitato regio decreto-legge 28 settembre 1943, n. 1635, al fine di sancire con regolare disposizione la fusione dei due uffici molto opportunamente disposta con la sopradetta circolare n. 139900 che istituì le direzioni di amministrazione. (L’interrogante chiede la risposta scritta).

«Valenti».

«Il sottoscritto chiede di interrogare i Ministri della pubblica istruzione e del tesoro, per sapere perché abbiano escluso dai concorsi alla presidenza degli Istituti di istruzione classica, di istruzione tecnica, di scuole medie e di scuole di avviamento, testé banditi, gli insegnanti medi titolari e ordinari, forniti di diplomi d’Istituto superiore di magistero conseguiti attraverso un corso quadriennale di studi, con esami orali e scritti pari a quelli sostenuti nelle Università.

«Tale esclusione risulta ingiusta, se si constata che i diplomati degli Istituti superiori di magistero sono ammessi a tutti i concorsi di insegnamento, a cui partecipano i laureati, e percorrono la stessa carriera scolastica degli insegnanti forniti di laurea. (L’interrogante chiede la risposta scritta).

«Lozza».

«Il sottoscritto chiede di interrogare i Ministri della pubblica istruzione e del tesoro, per sapere per quale ragione alla maggioranza degli insegnanti di scuole elementari e medie estromessi dal fascismo per motivi politici o razziali, e riassunti dopo la liberazione, non sia ancora stata ricostruita la carriera ed essi siano ancora pagati con nota a parte e con lo stipendio iniziale.

«L’interrogante si permette di riferirsi ad alcuni, fra i molti, casi specifici; quelli di Angelo Sorgoni (insegnante elementare di Ancona), Lia Corinaldi, Giorgina Levi in Arian, Giuliana Fiorentino in Tedeschi, Lina Momigliano, Tina Pizardo in Rieser, insegnanti di Istituti di istruzione media. (L’interrogante chiede la risposta scritta).

«Lozza».

«Il sottoscritto chiede d’interrogare il Ministro dell’agricoltura e delle foreste, per sapere le ragioni per cui il Consorzio agrario di Alessandria maggiora i prezzi dei concimi assegnati ai comuni per la distribuzione agli agricoltori.

«Mentre il Comitato interministeriale dei prezzi ha fissato per il solfato ammonico il prezzo di lire 3300 il quintale, il Consorzio agrario di Alessandria lo vende con una maggiorazione di lire 1360 il quintale, e cioè a lire 4660 il quintale.

«Nella stessa proporzione sono pure maggiorati i prezzi degli altri concimi (perfosfati, nitrati, ecc.).

«Le maggiorazioni denunciate sono così forti da sollevare le giuste proteste degli agricoltori alessandrini. (L’interrogante chiede la risposta scritta).

«Lozza».

PRESIDENTE. Le interrogazioni testé lette saranno trasmesse ai Ministri competenti per la risposta scritta.

La seduta termina alle 20.15.

Ordine del giorno per le sedute di domani

Alle ore 11 e alle ore 16:

Seguito della discussione sul progetto di Costituzione della Repubblica italiana.

LUNEDÌ 6 OTTOBRE 1947

ASSEMBLEA COSTITUENTE

CCXLVII.

SEDUTA DI LUNEDÌ 6 OTTOBRE 1947

PRESIDENZA DEL VICEPRESIDENTE CONTI

INDICE

Sul processo verbale:

Nobile

Corbellini, Ministro dei trasporti

Congedi:

Presidente

Comunicazioni del Presidente:

Presidente

Interrogazioni (Svolgimento):

Presidente

Marazza, Sottosegretario di Stato per l’interno

De Mercurio

Rubilli

Sullo

La Rocca

Vinciguerra

Covelli

Corbellini, Ministro dei trasporti

Musotto

Volpe

Petrilli, Sottosegretario di Stato per il tesoro

Canevari

Cappa, Ministro della marina mercantile

Tonetti

Interpellanze (Svolgimento):

Cremaschi Olindo

Petrilli, Sottosegretario di Stato per il tesoro

Gavina

Segni, Ministro dell’agricoltura e delle foreste

Interrogazioni e interpellanza con richiesta d’urgenza (Annunzio):

Presidente

Andreotti, Sottosegretario di Stato per la Presidenza del Consiglio dei Ministri

Interrogazioni (Annunzio):

Presidente

La seduta comincia alle 16.

AMADEI, Segretario, legge il processo verbale della precedente seduta pomeridiana.

Sul processo verbale.

NOBILE. Chiedo di parlare sul processo verbale.

PRESIDENTE. Ne ha facoltà.

NOBILE. Onorevole Presidente, ieri notte fui costretto ad allontanarmi dall’Aula e perciò non potei prendere parte alla votazione dell’ordine del giorno Magrini.

Desidero dichiarare che, se fossi stato presente, avrei votato quell’ordine del giorno, così come avevo già votato a favore delle due precedenti mozioni.

CORBELLINI, Ministro dei trasporti. Chiedo di parlare sul processo verbale.

PRESIDENTE. Ne ha facoltà.

CORBELLINI, Ministro dei trasporti. Nel resoconto sommario della seduta pomeridiana di sabato scorso è detto che l’onorevole Sereni «dà lettura di un documento da cui inequivocabilmente risulta che l’ingegnere Corbellini fu effettivamente ufficiale della milizia, tanto che il 25 luglio 1940 ottenne la croce di anzianità di servizio».

Tengo a precisare che dal documento letto dall’onorevole Sereni non risulta ch’io sia stato ufficiale della milizia: fui semplicemente iscritto come milite nella milizia ferroviaria, nella quale non prestai mai effettivo servizio. Prego di rettificare.

Congedi.

PRESIDENTE. Comunico che hanno chiesto congedo i deputati Cairo, Cevolotto, Martino Gaetano, Russo Perez e Angelini.

(Sono concessi).

Comunicazioni del Presidente.

PRESIDENTE. Comunico che ho chiamato a far parte:

l’onorevole Sereni, della seconda Commissione permanente per l’esame dei disegni di legge, in sostituzione dell’onorevole Platone, dimissionario,

e l’onorevole Mattarella, della Commissione speciale per l’esame delle leggi elettorali, in sostituzione dell’onorevole Micheli, dimissionario.

Interrogazioni.

PRESIDENTE. L’ordine del giorno reca: Interrogazioni.

Le seguenti interrogazioni riguardano lo stesso argomento e possono quindi essere svolte congiuntamente:

De Mercurio, Amendola, al Ministro dell’interno, «per conoscere quali provvedimenti siano stati presi contro i responsabili dei gravi fatti verificatisi in Avellino il 28 settembre in occasione di un comizio monarchico tenuto dall’onorevole Covelli, con l’autorizzazione del Ministro dell’interno. Va rilevata la insufficienza del servizio di ordine pubblico, in quanto i preposti hanno minacciato inermi cittadini ed elementi antimonarchici, i quali sono stati fatti segno alle provocazioni di teppisti prezzolati nella malavita di provincie limitrofe ed affluiti nel capoluogo. Tale insufficienza ha portato come conseguenza gravi lesioni, anche da arma da taglio, ed altre lesioni meno gravi, nei confronti di cittadini non partecipanti al comizio. Non risulta che le autorità locali, benché invitate ad una più energica azione contro i responsabili diretti e indiretti degli incidenti, abbiano svolto una positiva attività, non avendo proceduto neppure all’arresto dei colpevoli e alla diffida degli organizzatori del raduno»;

Rubini, al Ministro dell’interno, «sui disordini che si sono verificati in Avellino domenica 28 settembre»;

Sullo, al Ministro dell’interno, «sugli incidenti di Avellino del 28 settembre 1947»;

La Rocca, Sereni, Amendola, Reale Eugenio, al Ministro dell’interno, «sui sanguinosi avvenimenti di Avellino e per sapere se è più oltre possibile una politica di tolleranza verso forme manifeste di rinascente fascismo»;

Vinciguerra, al Ministro dell’interno, «sui gravi incidenti verificatisi in Avellino il 28 settembre 1947 in occasione dei quali pacifici cittadini riportavano anche lesioni»;

Covelli, al Ministro dell’interno, «per sapere quali provvedimenti abbia adottato od intenda adottare a carico di taluni ben noti provocatori di Avellino, che hanno tentato con insulti, con sassate, con minacce a mano armata, in occasione di un comizio del Partito nazionale monarchico, di dar luogo ad incidenti cui, solo per la pazienza, l’amore dell’ordine ed il senso profondo di responsabilità dei partecipanti al comizio, si è evitato che seguissero conseguenze veramente gravi».

L’onorevole Sottosegretario di Stato per l’interno ha facoltà di rispondere.

MARAZZA, Sottosegretario di Stato per l’interno. Trattasi di incidenti i quali, come si può rilevare dallo stesso tenore delle molte interrogazioni che sono state presentate al riguardo, vengono giudicati in modo molto diverso a seconda della parte alla quale i vari interroganti appartengono. Noi troviamo infatti che l’onorevole De Mercurio li definisce «gravi fatti», che l’onorevole Rubilli si accontenta di chiamarli «disordini», che – più benevolo ancora – l’onorevole Sullo li dice «incidenti»; un po’ meno ottimista, l’onorevole Vinciguerra li chiama «gravi incidenti»; dall’onorevole La Rocca, infine, sono chiamati «sanguinosi avvenimenti».

Dal testo dell’interrogazione dell’onorevole Covelli, poi, sembrerebbe perfino di poter dedurre che di incidenti non ve ne furono affatto, se è vero che vi si legge che taluni hanno tentato con insulti, sassate, minacce, ecc., di dar luogo ad incidenti, ma, insomma, che il profondo senso di responsabilità dei partecipanti al comizio ha in effetti evitato che seguissero apprezzabili conseguenze. Particolarmente impegnato è quindi il Governo a fare il punto della situazione e tale punto crede di poterlo fare in questo modo:

Già l’8 settembre era pervenuto al Comandante del Gruppo locale dei carabinieri un documento, una lettera, a firma di tutti i partiti cosiddetti di sinistra, dalla quale si rilevava che questi partiti intendevano impedire che questo comizio, che si sapeva essere stato progettato dal Partito monarchico, avesse luogo. Esso veniva infatti definito una aperta provocazione alla quale essi partiti non potevano rimanere insensibili e si aggiungeva anche che, nell’interesse della pacificazione nazionale, tali partiti non erano disposti a tollerare provocazioni di tal fatta. Le autorità governative, evidentemente sapendo come un sistema di questo genere, generalizzato, potesse determinare conseguenze facilmente prevedibili, ed assolutamente deprecabili nei rapporti di tutti quanti i comizi che si volessero convocare, si son fatte scrupolo di convocare i rappresentanti dei vari partiti per persuaderli della inammissibilità del sistema ed esercitare su di loro le maggiori pressioni affinché si dimettesse da parte di ciascuno l’idea di provocare gli avversari. Pare che i rappresentanti dei partiti questo l’hanno inteso: comunque hanno assunto nei confronti delle autorità un preciso impegno al riguardo. L’autorità, avendo da parte sua, assunto impegno di fare quanto dipendeva da essa perché gli incidenti fossero prevenuti ed eventualmente repressi, ha a tale scopo disposto innanzitutto posti di blocco sulle strade confluenti alla città e tutti gli automezzi sono stati fermati e i passeggeri perquisiti. Non sono state trovate armi. Sono state trovate alcune bandiere con l’emblema sabaudo, che vennero sequestrate. Dopo di che il comizio ebbe luogo senza incidenti.

Viceversa, quando i dimostranti erano sulla via del ritorno (io conosco poco Avellino, ma mi si dice che la strada percorsa, lungo la quale gli incidenti di cui sto per parlare sono avvenuti, indicasse appunto il proposito dei dimostranti di ripartire) ad un certo punto fischi, dileggi, qualche ingiuria anche, sono partiti all’indirizzo di uno degli automezzi. Questo automezzo si è immediatamente fermato; coloro che vi erano sopra ne sono discesi e ne derivò un tafferuglio. Questo tafferuglio fu abbastanza serio: si ebbe un solo ferito dichiarato guaribile entro 20 giorni. Il tafferuglio sarebbe durato certo di più se non fosse sopravvenuto un reparto della polizia, disposto poco lontano.

Ripresa la marcia dall’automezzo, dopo cinquecento metri, altre ingiurie, altri fischi, altra reazione, altro tafferuglio; e questo tafferuglio ha assunto anche maggiore importanza, in quanto sopraggiunsero ad ingrossarlo coloro che avevano partecipato a quello precedente. Senonché, anche qui la forza pubblica è sopraggiunta con il reparto già intervenuto poco prima e con un altro reparto. Fatto sta che di lì a poco tutto è finito e i dimostranti hanno proseguito sulla via del ritorno senza ulteriori incidenti, finché la polizia informata del ferimento del quale ho parlato prima, provvide ad inseguire immediatamente gli automezzi dei dimostranti e, raggiuntili poco dopo, li sottopose ad una nuova meticolosa perquisizione. Non venne trovata nessun’arma, bensì unicamente un coltello autorizzato. Naturalmente tutti i passeggeri vennero lasciati proseguire.

In questa condizione di cose non pare che da parte della polizia si sia venuto meno a quelli che erano i suoi doveri, sia per aver predisposto i mezzi sufficienti per reprimere gli eventuali incidenti, sia, in seguito a questi, per assicurarsene i responsabili.

Non è riuscita; comunque, le indagini subito iniziate vengono proseguite e voglio augurarmi che esse possano sortire l’effetto desiderato.

In occasione della discussione suscitata da questi incidenti si è verificato in prefettura un deplorevole episodio; un giornalista, infatti, estrasse la pistola ed affermò concitatamente di avere incitato poco prima gli agenti dell’ordine a sparare sui dimostranti, con le parole: «se non sparate voi, sparo io». Pare, tuttavia, che questa sia stata la sola sparata dell’occasione, perché in effetti le indagini svolte per accertare se proprio era stata estratta la pistola…

COVELLI. È stata estratta.

MARAZZA. Sottosegretario di Stato per l’interno. …hanno concluso negativamente. Dopo di che io invito le parti a riportare la questione nei suoi modesti limiti ed a spegnere, se è possibile, i reciproci risentimenti.

PRESIDENTE. L’onorevole De Mercurio ha facoltà di dichiarare se sia sodisfatto.

DE MERCURIO. Non sono per niente sodisfatto delle dichiarazioni dell’onorevole Sottosegretario, perché esse hanno un tono di ottimismo, che non si addice al caso specifico.

Sta di fatto che tutti i partiti, anche quelli non definiti di sinistra, si associarono alla richiesta di non fare tenere il comizio all’onorevole Covelli, ivi compreso, credo, anche il Partito liberale, certamente la Democrazia cristiana. Tutti i partiti furono solidali in questa richiesta, non perché si volesse impedire al Partito monarchico di tenere il comizio – perché in regime di libertà e di democrazia è giusto che ognuno esponga la propria opinione – ma perché si sapeva in antecedenza che i metodi usati durante la campagna elettorale e post-elettorale dall’oratore che avrebbe parlato ad Avellino, avrebbero certamente portato le conseguenze, che poi si sono verificate. E adesso andiamo ai fatti.

Rivendico alla città di Avellino, che mi onoro di rappresentare in quest’Aula, l’alto senso di civismo e di responsabilità politica dimostrato in questa occasione; perché tutti i presenti – e vi sono anche dei colleghi di altri gruppi – possono dichiarare che il comizio non fu minimamente turbato, anzi direi, fu quasi ignorato.

E che il comizio sia stato ignorato dalla popolazione di Avellino è dimostrato dal fatto che ben 25 camions affluirono quel giorno ad Avellino dalle provincie di Benevento, di Napoli e perfino di Campobasso, come mi ha confermato l’onorevole Azzi, che quel giorno era a Campobasso.

Non parliamo, poi, dei pubblici bandi lanciati per alcuni giorni in parecchi Comuni, fra cui Prata, Candida, Tufo ed altri, preannuncianti un comizio monarchico che sarebbe stato tenuto ad Avellino, allo scopo di far accorrere al comizio stesso la massima parte di convenuti.

MAZZA. Non è vietato, che c’è di male?

DE MERCURIO. Non sto dicendo che è vietato. Fatto sta che il manifesto affisso per l’occasione diceva che l’onorevole Covelli, deputato all’Assemblea Costituente, avrebbe parlato al popolo di Avellino. È evidente che il popolo di Avellino era molto scarsamente rappresentato, perché nella piazza vi erano poco più di 2000 persone venute con 25 camions… (Interruzione del deputato Covelli) affluite dalla provincia anche con tre camions gentilmente concessi dal Ministro dei trasporti, e di questo mi occuperò più tardi. Il comizio si svolse, come dicevo, ordinatamente, tanto ordinatamente che, finito, quelli che vi avevano partecipato si misero nei rispettivi camions e presero la via del ritorno. Qui incomincia il divario fra la nostra versione e quella fornita dal Sottosegretario.

PRESIDENTE. La prego di dichiarare se sia sodisfatto o meno.

DE MERCURIO. No, naturalmente non sono sodisfatto, ma io debbo precisare i fatti. Come ho già detto qui sorge un divario fra me e il Sottosegretario di Stato per l’interno. Infatti quando si prese la via del ritorno, i comizianti scesero dai camions ed andarono ad ingiuriare tutti i presenti. L’ingiuria consisteva nel fatto che furono cantati inni fascisti e fu gridato: Viva la monarchia! Abbasso la repubblica! Viva i reali carabinieri. (Interruzioni a destra).

Io, a questo punto, domando: da chi preveniva la provocazione? Dai pacifici cittadini che erano sui marciapiedi o da chi in regime repubblicano lanciava grida sediziose ed ingiuriose?

COVELLI. Che male c’è a gridare: viva il re?

PRESIDENTE. Io sono stato condannato tre volte per avere gridato: viva la Repubblica!

DE MERCURIO. Ma c’è di più, signor Presidente! L’onorevole Covelli nel suo comizio aveva eccitato i partecipanti al comizio auspicando il ritorno delle aquile romane ed aveva detto che i monarchici erano pronti a tutto osare. (Rumori a sinistra). Queste parole, buttate agli intervenuti, hanno dato un incitamento a malamente osare. Avvenne quindi il primo incidente, nel quale riportò contusioni multiple il Bonerba, il quale è tuttora degente all’ospedale e non so con quali complicazioni. Successivamente, a distanza di 200 metri, è avvenuto l’altro incidente nel quale, estratte le armi, fu colpito il Guerriero. Qui è il grave, il fatto grave sul quale l’onorevole Sottosegretario non mi ha risposto. Quando mi sono recato in Prefettura a protestare presso il prefetto, questo si è stretto nelle spalle dicendo: «L’autorizzazione è stata data dal Ministro dell’interno, io non potevo darla». Io ho poi appreso con rincrescimento e dolore che un maresciallo di pubblica sicurezza quando è stata vibrata la coltellata, ha respinto non coloro che si erano lanciati per accoltellare il Guerrieri, ma ha respinto in malo modo i pacifici cittadini che erano sui marciapiedi. A questo punto era logico che venisse detto al maresciallo quel che meritava e me ne sono andato protestando e facendo le note dichiarazioni.

Ora, su tutti questi fatti l’onorevole Sottosegretario non mi ha detto quali provvedimenti siano stati presi contro i responsabili diretti e indiretti. Abbiamo dovuto domandare noi alla pubblica sicurezza cosa intendesse fare contro i responsabili, perché questi, sui sei camions che andavano a Napoli, si erano già allontanati; abbiamo dovuto dire noi di far telefonare perché fossero fermati e perquisiti, perquisizione che non si era verificata preventivamente.

Ora, domando a me stesso, se non debbo domandarlo all’onorevole Sottosegretario, se ritiene che le provocazioni siano partite da chi stava sul camion o da chi stava pacificamente ad attendere che il comizio avesse fine.

In questa occasione, io chiedo e faccio appello al Governo affinché siano subito messi in discussione avanti a questa Assemblea le leggi sul consolidamento della Repubblica.

PRESIDENTE. L’onorevole Rubilli ha facoltà di dichiarare se sia sodisfatto.

RUBILLI. Io sono assai sodisfatto di una cosa soltanto, e cioè che sia dalle dichiarazioni che ha fatte il Sottosegretario di Stato, sia dalle notizie private che mi sono giunte, so che in realtà si è trattato di lievi incidenti, con molto lievi conseguenze. Di questo specialmente sono assai sodisfatto e contento. Debbo però rilevare, per quello che riguarda la concessione dei camions per le adunate di partito, anche se, come ho sentito, si tratta di concessioni che si sogliono fare e si sono fatte ancora in casi simili, che questa è un’abitudine deplorevole e sarà meglio non seguirla per l’avvenire. E ciò per una ragione molto semplice: perché il Governo e lo Stato devono garantire ampiamente i partiti nella libera, legittima esplicazione della loro attività, ma non devono dare né sussidi né aiuti, né soccorsi, altrimenti può sorgere anche il sospetto che il Governo faccia quanto può, ed anche quanto non può, per i partiti che lo sostengono, e riserbi solamente le briciole ai partiti avversari. Meglio quindi che questa abitudine sia completamente eliminata per l’avvenire.

Per il resto, l’onorevole Covelli fece ad Avellino, chiamando gente da tutte le parti, specialmente fuori della Provincia, un’adunata di carattere monarchico. D’altronde egli non nasconde i suoi sentimenti, non nasconde la sua fede. Sono manifestazioni che finora, almeno finché non vi saranno leggi in contrario, sono consentite e possono essere legalmente organizzate. Io vedo tappezzate le vie di Roma di annunzi di comizi monarchici per le prossime elezioni amministrative. Dunque, sono un po’ dovunque piuttosto frequenti simili comizi, e se Covelli ha creduto di farne uno ad Avellino, fino a questo momento almeno non abbiamo gran che da opporre. (Interruzione a sinistra).

Sarebbe molto meglio, è vero, che tutti quanti, dopo il 2 giugno, passate le perplessità e i dubbi che prima di tale data non potevano d’un tratto completamente eliminarsi, sentissimo oggi il dovere di essere buoni cittadini per contribuire con tutte le nostre forze e con sentimenti sinceramente patriottici a consolidare la Repubblica, il nuovo regime che il popolo ha deliberato, con libera votazione. Io sono stato il primo nella Consulta Nazionale a pronunziare un discorso sulla legge elettorale proponendo e sostenendo il referendum sulla questione istituzionale. La Consulta accolse la proposta, il popolo si è pronunziato; dunque ogni dissenso su questo argomento dovrebbe da ogni parte ormai aver termine.

Questo è il mio pensiero, questa la mia opinione personale, che purtroppo non vedo ancora completamente seguita, perché molti vogliono persistere a mantenere ferme le loro vecchie idee; ciò potrà anche deplorarsi, ma non si potrà opporre un assoluto divieto che dalle leggi vigenti non è imposto. Però sarà opportuno che sia evitato ogni equivoco al riguardo, perché spesso in simili manifestazioni (e questo è vero) si mescolano degli elementi con spiccate nostalgie fasciste. Sono gli stessi organizzatori che per la loro dignità e nell’interesse della causa che vogliono sostenere, debbono far sì che anche nelle apparenze sia eliminato qualsiasi sospetto e qualsiasi dubbio sul carattere politico di un comizio.

Per quello che riguarda la città di Avellino, devo constatare con grande compiacimento – come cittadino avellinese – che anche in questa occasione essa non è venuta meno alle sue nobili antiche tradizioni. Noi uomini politici della Provincia abbiamo largamente contribuito ad elevare il livello, il clima, l’ambiente politico delle nostre contrade e siamo riusciti con grandi sacrifici a mantenere e conservare il rispetto a tutte le opinioni liberamente e civilmente espresse, anche in tempi e in occasioni molto difficili. Ed in questa occasione, altresì, come è stato constatato dall’onorevole Sottosegretario di Stato, come può essere constatato da tutti gli interroganti – e su ciò potremo essere d’accordo – il comizio non è stato per nulla turbato e gli oratori hanno potuto in Avellino esprimere, senza essere disturbati, il loro pensiero, affermando la loro fede ed i loro sentimenti.

Si sono verificati dei tafferugli, piccoli tafferugli che sono avvenuti dopo, lungo la strada? Ebbene, ne avvengono spesso in casi simili. La fortuna è che hanno avuto piccole conseguenze. Chi li ha determinati? Chi è stato il provocatore? Questo non lo può dire il Sottosegretario; questo non lo possono dire nemmeno i singoli deputati interroganti. Dopo ampia istruttoria e dopo un pubblico dibattimento, se occorre, potrà dirlo soltanto il magistrato con serena, obiettiva sentenza. (Applausi).

PRESIDENTE. L’onorevole Sullo ha facoltà di dichiarare se sia sodisfatto.

SULLO. Sono lieto che la discussione di questa interrogazione sia avvenuta adesso, perché se fosse avvenuta una settimana fa indubbiamente si sarebbe detto che si trattava di una questione antigovernativa o filogovernativa e l’Assemblea non avrebbe dato una valutazione esatta all’episodio che, se nelle conseguenze fisiche non è di grande importanza, è tuttavia qui da sottolineare, per denunziare e un metodo che bisogna combattere anche sul terreno politico e non soltanto, come l’onorevole Rubilli diceva, sul terreno della Magistratura. Sono perfettamente d’accordo con l’onorevole Sottosegretario che le conseguenze fisiche dell’episodio sono minime, ma sono minime oggi, e se il metodo continuasse per l’avvenire, così come si va trascinando da mesi e starei per dire da anni, non crederei che anche per l’avvenire potessero essere definite come sono state definite in questo momento.

L’Assemblea deve sapere che in tale questione non entra né la Destra, né la Sinistra, né il Centro, né il Governo, né l’opposizione al Governo, ma il tono con cui questa interrogazione – poteva benissimo essere un’interpellanza – deve essere discussa è un tono che riguarda soprattutto la civiltà ed il metodo della propaganda, che riguarda soprattutto l’esempio che dobbiamo dare ai nostri concittadini, di come comportarsi nella vita politica. Perciò io, da un lato, posso senz’altro dire che l’impostazione che alcuni giornali di sinistra hanno dato all’episodio è stata eccessiva, esagerata e controproducente, perché, lasciando intendere che si trattava di attaccare il Ministro dell’interno e il Ministro dei trasporti, hanno insensibilmente portato l’opinione pubblica a difendersi contro questo metodo.

Noi, come democristiani, dobbiamo riprovare che, in questa maniera, in effetti, si sia portata la questione su un altro piano. Anche i nostri amici di destra non devono fissarsi nel solito cliché, a favore del Governo o contro il Governo, ma devono guardare le cose con assoluta obiettività, come cercherò di fare io.

Sono un anno e mezzo o due che certi propagandisti del Partito monarchico, tra i quali è il collega Covelli, hanno cominciato ad adottare il sistema della guardia del corpo. Ora, questo sistema non è un sistema nuovo nella storia dei comizi in Italia, perché mi è stato detto che anche in passato c’era gente che amava portarsi dietro una scorta di uno, due, tre camions di gente autotrasportata, di claque, che fosse pronta a fischiare l’avversario, ad applaudire e, anche un po’ troppo ardentemente, a scivolare nel tafferuglio.

Ma è evidente che nell’anno di grazia 1947, quando predichiamo la democrazia dappertutto, non può essere lecito continuare con questi sistemi. Agli amici di destra, di sinistra e del centro, dico: può darsi che la provocazione sia venuta dalla strada, o dai camions: ma la vera provocazione consiste nel fatto di aver portato ad Avellino della gente di altri capoluoghi di Provincie, da altre Provincie, della gente che indubbiamente non aveva nulla a che fare con la popolazione della Provincia di Avellino.

Qui il problema serio e fondamentale non è quello di dire che potevano essere adottati dei provvedimenti, per quanto il mio partito, proprio nel passato, prendendo occasione dagli incidenti che durante la campagna elettorale erano capitati anche agli attuali deputati della Democrazia cristiana – e l’onorevole Scoca potrebbe dirne qualche cosa – in comizi tenuti nel periodo del 2 giugno, abbia voluto fin d’allora porre il problema dicendo: state attenti, prima di concedere queste autorizzazioni, guardate come le concedete, io plaudo al Ministro Scelba perché ha dato questo permesso, ma il Ministro Scelba non credo abbia dato il permesso di fare un’adunata dei monarchici della Campania, poiché si sarà limitato a dare il permesso di tenere un comizio in Avellino. Invece, nella giornata di domenica, sono giunti ad Avellino dei camions, i quali non possono circolare nei giorni festivi e, per giunta, non possono trasportare persone; questi camions sono venuti da Napoli e la pubblica sicurezza può indagare anche sulla identità delle persone che trasportavano.

Comunque, questi camions avevano l’autorizzazione per trasportare le persone e l’autorizzazione per circolare nei giorni festivi? Ora, amici miei, la vera provocazione è questa: aver portato questa gente ed avere continuato con questi sistemi che noi dobbiamo assolutamente biasimare e deprecare.

Là realtà è questa: quando vi è gente che va via e attraversa un corso affollatissimo, come quello di Avellino nella giornata di domenica, e quando vi è gente che va via dopo un comizio che è stato perfettamente tranquillo e ode dei fischi dalla gente del luogo, ode anche delle provocazioni dalla gente del luogo, se questa gente dei camions non è disposta a fare tafferugli non scende, perché sa che scendendo deve forzatamente attaccare briga.

La provocazione può essere partita da chiunque; ma, come democratico cristiano, io dico che questi sono i metodi che dobbiamo combattere, di là dalle persone. Che la responsabilità personale sia dell’onorevole Covelli io non so: egli ha detto che dei camions non sapeva nulla. Può darsi; a me non interessa. Ma io dico che di chiunque sia questa responsabilità, noi dobbiamo biasimare l’episodio.

Ed, anche se, come ha detto l’onorevole Marazza, l’episodio permette di essere giudicato con un relativo ottimismo, rispetto al modo come si è svolto e alle conseguenze che avrebbero potuto derivarne, esso riveste tuttavia carattere di indiscussa gravità. (Interruzione del deputato Benedettini).

Io parlo indipendentemente dai sentimenti miei anteriori al 2 giugno, perché bisogna che la libertà di parola non rappresenti un sistema per intimidire le persone. (Interruzione del deputato Benedettini).

PRESIDENTE. Concluda, onorevole Sullo.

SULLO. Io denunzio al Paese un metodo che ritengo debba essere riprovato da qualunque cittadino, di qualunque parte politica. (Interruzione del deputato Benedettini).

PRESIDENTE. Onorevole Benedettini, abbiamo incominciato senza interruzioni: la prego di non portarle in campo lei.

L’onorevole La Rocca ha facoltà di dichiarare se sia sodisfatto.

LA ROCCA. Onorevoli colleghi, le dichiarazioni dell’onorevole Sottosegretario all’interno non sono valse a disperdere in alcun modo le nostre preoccupazioni, né a placare la nostra ansia. A me dispiace che non sia qui a trattare questo argomento l’onorevole Amendola, impegnato altrove. La sua presenza sarebbe stata tanto più utile, in quanto egli è più intimamente legato alla zona avellinese, di cui è diretta e immediata espressione.

Non mi dilungo sui fatti che, nel loro insieme, nonostante una versione partigiana offertaci dall’onorevole Sottosegretario di Stato per l’interno (Commenti), si rivelano particolarmente gravi. Essi sono stati già esposti, esaminati e commentati dagli altri oratori.

Vorrei piuttosto trarre delle conseguenze da questi avvenimenti e tradurle in una linea politica conseguente. Una prima cosa è certa – e l’ha notato proprio ora l’onorevole Sullo – che è tornato l’uso dei raduni, con la raccolta dei peggiori elementi dalle varie contrade, e non già per una dimostrazione di forza, ma per una sfida di baldanza, che poi si converte in una rottura della legalità, che si traduce nell’esercizio della violenza.

Voce a destra. È anche il vostro metodo.

LA ROCCA. Noi non abbiamo bisogno di ricorrere a questi metodi. (Commenti a destra).

Voci a destra. Piazza del Popolo! Piazza del Popolo!

PRESIDENTE. Prego di non interrompere.

LA ROCCA. E una seconda cosa è certa: che il Ministro ingegner Corbellini, il quale in circostanze più prementi non concede mezzi di trasporto, non ha esitato, forse per una simpatia intellettuale verso i suoi ex camerati, a fornire i camions a tristi figuri, (Proteste al centro e a destra) che nella terra di Pasquale Stanislao Mancini e di Francesco De Sanctis, che incarnano, nel campo giuridico e in quello estetico, il pensiero più progressivo del Risorgimento, nella terra dei De Conciliis (Complimenti al centro) e di Guido Dorso, sono andati, se non materialmente, almeno spiritualmente a sollevare il gagliardetto nero dei pirati, col teschio e con gli stinchi, per una netta manifestazione neo-fascista.

L’onorevole Covelli è padronissimo di ritenere che l’avvenire della Nazione sia nell’istituto monarchico. Del resto, nella Campania si trovano, ancora oggi, forse, cadaveri viventi, residui di un passato putrefatto, che accendono ceri per il ritorno dei Borboni. Al delirio dei monarchici neo-fascisti, si risponde, sul piano della legalità democratica, che l’istituto monarchico è stato estraneo alla vita nazionale, che non ha adempiuto al compito storico che è stato proprio della monarchia in altri Paesi: di combattere il frazionamento feudale e contribuire all’unità nazionale; che il Risorgimento, nella sua essenza, è stata l’opera dei Mazzini e dei Garibaldi e che i Savoia si sono impadroniti del sacrificio altrui, di un terreno che non era stato lavorato da loro; che, alla fine, quando l’istituto avrebbe dovuto agire da forza moderatrice, come garanzia dei diritti degli italiani, ha tradito il Paese ed è diventato il complice diretto del fascismo, ne ha sostenuta la dittatura e, col fascismo, ci ha portati alla servitù, alla miseria e al disastro.

Questo è un contrasto di idee, che non deve concludersi nel guizzo delle armi bianche. Ecco il punto. Perché la vitalità e la forza di una qualsiasi ideologia non possono essere affidate alla punta dei pugnali dei briganti e degli assassini.

Una voce al centro. Alle roncole, come a Genzano!

LA ROCCA. Si tratta di domandare all’onorevole Ministro dell’interno fino a quando e fino a quanto egli è disposto a tollerare certi sistemi sul piano inclinato che ci conduce ad una rinascita del passato, che tutti dovremmo essere d’accordo a voler seppellire senza speranza di resurrezione.

Ella, poco fa, ha detto, onorevole Sottosegretario per l’interno, che niente di meno su questi camions che trasportavano una teppa di Napoli – teppa che non osa più agire sulle piazze della grande città, perché Napoli democratica la spazza via con formidabili colpi di scopa, ed è ridotta ad esercitare le sue imprese da saccomanni alla periferia – è stata compiuta una perquisizione. Si sono avuti feriti da arma di punta e taglio. Di dove sono usciti questi pugnali e questi coltelli, se la prima perquisizione è riuscita infruttuosa?

Onorevole Sottosegretario per l’interno, allora riconoscerà che si è trattato di una perquisizione all’acqua di rose, di una perquisizione amichevole, compiuta per la forma.

E aggiungo dell’altro. Ella stesso ha ricordato che tutti i partiti democratici di Avellino non desideravano che lo sconcio fosse avvenuto in una città dove la lotta politica si è svolta sempre democraticamente, nella maniera più libera, senza che la parola di alcuno fosse stata disturbata o imbavagliata dal sopruso o dalla soverchieria di altri gruppi politici. Occorre dunque che intervengano i terzi, di fuori, per avvelenare e turbare l’atmosfera.

E a questo si è risposto in che modo? Nemmeno col gesto di Ponzio Pilato da parte di quelli che sono gli strumenti dell’esecutivo, che sono il vostro braccio nella Provincia: il questore e il prefetto; perché essi non si sono ristretti nemmeno a lavarsi le mani. Hanno dato addirittura una scrollata di spalle; e la piazza intitolata a Matteotti è stata per l’occasione intestata ad un Savoia.

È difficile immaginare provocazioni maggiori e peggiori. Né accade insistere sull’argomento che estranei, stranieri, non possono assolutamente, se non si sentono spalleggiati, sfidare una cittadinanza. compatta, compatta almeno intorno allo spirito che lega un po’ gli uomini della stessa contrada contro gente che viene di fuori a rompere l’ordine pubblico. C’è, dunque, una sorta di favoreggiamento da parte della questura, che non interviene, da parte del prefetto, che si stringe nelle spalle quando ci si lamenta per una manifestazione che era un’aperta sfida ed un’aperta provocazione, a cui un popolo, giunto ad un alto grado di maturità politica e di senso di responsabilità, non cede.

Ora ci domandiamo se questo metodo possa ancora continuare, dopo un’offensiva già da tempo scatenata contro le libertà democratiche, contro l’esercizio della critica e della propaganda, già da noi denunciata e su cui non ritorno; ma oggi ci mettiamo su un terreno quanto mai difficile!

L’altro giorno ho seguito con un senso di grande stupore il modo con cui l’onorevole Ministro dell’interno ha cercato di interpretare a suo modo la legge. Vorrei ricordare all’onorevole Ministro dell’interno un concetto sul quale non è possibile cavillare o sofisticare e che è alla base di tutta la nostra legislazione di diritto pubblico: che cioè un cittadino, a tutela di un suo diritto vitale, si sostituisce allo Stato, quando lo Stato non può intervenire. Siamo nel campo della legittima difesa. C’è da augurarsi che il popolo italiano, per la politica equivoca dell’attuale Ministro dell’interno, non debba trovarsi nella condizione e nella necessità (Commenti al centro) di sostituirsi allo Stato, che non interviene e che non agisce (Commenti al centro), a tutela dei diritti e delle libertà democratiche! (Commenti al centro).

Una voce al centro. Genzano! Si ricordi di Genzano!

LA ROCCA. I democratici cristiani dovrebbero ricordare che nei Vangeli è detto che gli uomini si giudicano non dalle loro parole, ma dai loro atti, come gli alberi non si giudicano dalla loro veste di foglie, ma dai frutti che dànno.

Esiste un abisso tra le parole del Ministro dell’interno e la sua azione politica, che è azione di parte: azione che restringe la sfera dei diritti di alcuni, che sostiene la pratica antidemocratica di altri, che, direttamente o indirettamente, aiuta il risorgere della violenza fascista, C’è un divorzio pauroso tra le parole e i fatti del Ministro dell’interno. Se i questori e i prefetti non ricevessero determinate direttive, non si comporterebbero nel modo con cui si comportano: o saprebbero che, agendo di testa loro e permettendo attentati alla democrazia, finirebbero col ballare il ballo di San Vito, con un Ministro dell’interno, custode dello spirito repubblicano antifascista. (Rumori al centro).

PRESIDENTE. Concluda, onorevole La Rocca, la prego.

LA ROCCA. E allora concluderò ricordando le parole di un marito che ammoniva la moglie multivola (in una deliziosa commedia di Molière). Le diceva: Io ti dico sempre le stesse cose perché tu fai sempre le stesse cose, e finché tu farai sempre le stesse cose io non potrò che dirti sempre le stesse cose».

L’onorevole Ministro dell’interno, per la sua politica, evidentemente somiglia alla moglie multivola; ma il popolo italiano non può identificarsi in quel marito, che in definitiva si chiamava Pierrot! Noi ci auguriamo che il popolo italiano non sia costretto a mettersi in piedi, per difendere da sé le sue libertà contro un nuovo vomito di barbarie fascista. (Applausi a sinistra – Rumori al centro).

PRESIDENTE. L’onorevole Vinciguerra ha facoltà di dichiarare se sia sodisfatto.

VINCIGUERRA. Onorevoli colleghi, penso che questo mio intervento potrebbe essere anche considerato superfluo, ma credo di dover fare una precisazione, resa necessaria dalla impostazione che ha dato a questa nostra discussione l’onorevole Rubidi.

PRESIDENTE. Non divaghi, onorevole Vinciguerra; siamo in sede di interrogazione.

VINCIGUERRA. Anzi di una piccola interrogazione. Dopo le dichiarazioni del Sottosegretario, l’onorevole Rubilli ha osservato che ovunque c’è il diritto di propaganda; a Roma si assiste a tanti comizi monarchici, e quindi nulla di grave che questo sia successo anche ad Avellino, dove, a suo modo di vedere, la manifestazione sarebbe stata contenuta entro giusti limiti.

Si capisce che la propaganda monarchica è libera come quella comunista, socialista e degli altri partiti; ma io penso che in regime democratico ogni forma di propaganda debba avere i suoi limiti nella legge. Ora, è notorio – e vi porto la testimonianza non sospetta dell’onorevole Sullo che ha parlato con molta obiettività – che l’onorevole Covelli usa nell’organizzazione delle manifestazioni del suo partito un sistema che è del tutto speciale, cioè egli crede di dovervi far partecipare anche elementi estranei, non del luogo, e ordinariamente si tratta di elementi reclutati senza troppi scrupoli, e molte volte si notano persone che non hanno la fedina penale a posto.

Perché questi sistemi? Essi sono resi necessari dal nostro ambiente. Le nostre popolazioni sono costituite in gran parte da ex emigrati negli Stati Uniti d’America, ed hanno quel senso della libertà repubblicana che noi proclamiamo (ma che fino a questo momento non abbiamo fatto rispettare), e sono refrattarie alle nostalgie monarchiche. V’è allora bisogno di portare sul posto elementi, diciamo così, di contorno che facciano opera di intimidazione?

È questa la ragione di quel tipo di manifestazioni monarchiche dovute all’attività del segretario del Partito monarchico, onorevole Covelli.

Voglio concludere con una osservazione di carattere giuridico. Se quella tal proposta di legge per la repressione dell’attività diretta alla restaurazione dell’istituto monarchico non fosse rimasta nel cassetto del Presidente del Consiglio e fosse stata invece tradotta in legge (speriamo che si voglia rimediare con una iniziativa parlamentare) noi avremmo trovato la sanzione contro questi sistemi; se quella proposta fosse stata già tradotta in legge, noi non saremmo qui ad occuparci dei fatti di Avellino, ma se ne sarebbe occupata l’autorità giudiziaria. Però è da rilevare che, mentre questi sistemi di intimidazione sono notori da parte del questore di Avellino non è stato adottato nessun provvedimento, né preventivo né repressivo. È invece da rilevare che mentre il questore ed il prefetto avevano creduto di dover proibire il comizio, il Ministro dell’interno fu di diverso parere ed in questo caso ha creduto di sostituirsi al prefetto, forse anche al questore, il quale stando sul posto aveva valutato diversamente la situazione. Tuttavia l’incidente non può finire con delle semplici dichiarazioni anodine del Sottosegretario e attendiamo i provvedimenti politici a carico dei responsabili.

Per i fatti delittuosi nei quali vi sono stati anche dei feriti, provvederà l’autorità giudiziaria.

PRESIDENTE. L’onorevole Covelli ha facoltà di dichiarare se sia sodisfatto.

COVELLI. Intendo rispondere ai miei avversari del centro e di sinistra e dichiarare che neanche io, soprattutto io, non sono sodisfatto delle dichiarazioni del Ministero dell’interno. Devo premettere, a scanso di equivoci e senza offesa all’intelligenza degli onorevoli avversari, che si è riportato qui in maniera molto palese un motivo elettorale: niente altro che questo. C’è qualche ingenuo, ma tutto quello che è stato detto fa parte di una gretta gelosia elettorale e locale.

RUBILLI. Non credo che lei voglia alludere a me.

COVELLI. Ingenui, l’ho detto prima, ve ne sono stati. Il Ministro dell’interno ci fa sapere, e lo dice con una leggerezza che noi non possiamo tollerare, che c’è stata una protesta preventiva al comizio, cosicché si ammette da parte del Ministro dell’interno che vi possano essere dei rappresentanti, alcuni dei quali sono anche «fasulli», che vadano a dire al prefetto della provincia ed al questore: «Noi non vogliamo che abbia luogo questo comizio». Dice inoltre il Ministro dell’interno che è risultato che uno di questi, di cui ho fatto cenno nella interrogazione, ha estratto la pistola ed ha detto che avrebbe incitato gli spettatori o la polizia a sparare, perché, se la polizia non avesse impedito il comizio, lo avrebbe impedito lui.

Il questore od il prefetto, che hanno sentito la necessità di far inseguire l’autocarro di monarchici per farlo perquisire, non cominciarono prima di tutto ad arrestare chi aveva estratto la pistola. Capisco che l’equilibrismo del signor Ministro dell’interno, in omaggio allo squittio dell’onorevole Sullo, non poteva che portare a questa conclusione.

Ma che si venga a dir qui che le provocazioni sono partite dall’autocarro, che le provocazioni sono state fatte da coloro che in quel momento tornavano tranquillamente a casa, che si venga addirittura a dirlo in quest’Aula – qui subentra il motivo demagogico, la campagna elettorale che deve interessare solo la nostra provincia e non disturbare gli onorevoli colleghi – è un falso inconcepibile.

Si dice: c’era pochissima gente, tutta venuta da Napoli e da Benevento. L’onorevole Azzi ha visto addirittura qualche autocarro venire da Campobasso. In verità, egregi colleghi, anche avversari, la cosa che ha sgomentato, anche sul piano politico, i miei avversari, è stato di aver visto – la cosa del resto, è stata vista e si vede dappertutto – che i monarchici (quelli i quali non credono più in coloro che si fecero eleggere per venire a fare i repubblicani in quest’Aula) seguono con certa simpatia e con certa lealtà coloro i quali, in regime repubblicano, col rispetto delle leggi vigenti, hanno ancora fede nell’istituto monarchico e nell’efficacia dell’istituto monarchico.

Noi, egregi avversari (coi quali non abbiamo niente in comune, perché, se duri e violenti siete voi, subdoli e cinici sono quelli che ci stanno più vicini), noi diamo eccessivo fastidio, perché compromettiamo talune situazioni, che non sono personali. Io avrei voluto ricordare, prima dell’interrogazione, agli onorevoli colleghi, che ad essere elette saranno quelle persone che hanno saputo rispettare la fede degli elettori che li hanno mandati alla Camera.

Non raccolgo le insinuazioni di qualche mio collega della provincia, circa metodi poco democratici di propaganda politica, perché proprio qualcuno, che ha parlato qui, ha istigato quelle popolazioni e poco è mancato che non mi linciassero al solo apparire; hanno reso necessario qualche volta farmi prendere di peso, per isolarmi, nel timore che gli incitati mi si potessero gettare addosso.

Che costoro vengano a fare oggi gli agnellini è cosa stomachevole.

Perché non si viene a dire delle menzogne soltanto a me, ma si dicono delle menzogne a rispettabili colleghi. Il Ministro dell’interno ha il dovere, in un regime di libertà che il suo Governo ritiene di far rispettare, di dire a certi prefetti, in particolare a quello di Avellino, che, come c’è libertà per i comizi comunisti, democristiani e repubblicani, c’è libertà per i comizi monarchici. Si levi il malvezzo a certi prefetti, usi ad inchinarsi peggio di ieri all’autorità imperante, al colore politico imperante, di aver timore di eccedere o meno, dando l’autorizzazione ad un comizio monarchico.

Occorre che la legge ci garantisca le libertà democratiche e non si deve più verificare che la provocazione a mano armata sia legittimata dall’equilibrismo di certe dichiarazioni, tipo quelle che ha fatto lei, onorevole Sottosegretario. Gli autocarri portavano pacificamente gente non di Napoli o di Benevento o di Campobasso, ma della mia provincia, che mi onoro di rappresentare e che detesta certi «fasulli». (Interruzione del deputato Sullo).

Coloro che mi hanno ascoltato in qualità di segretario generale del Partito nazionale monarchico, non soltanto ad Avellino ma in tutte le città in cui mi è stato dato di poter parlare, sanno che nessun autocarro è venuto a proteggermi, nessuna guardia armata è venuta a proteggermi, nessuna malavita io ho raccattata per portarla a guardarmi le spalle. L’onorevole La Rocca, se avesse ascoltato il discorso dell’onorevole Pajetta, ed avesse letto un poco in fondo i giornali da lui molto opportunamente citati, avrebbe visto che in fondo a quei giornali si attaccano non soltanto le istituzioni democratiche ma anche e soprattutto i monarchici che intendono essere, e sono, solamente monarchici, e che non hanno nulla a che vedere con quelle forze che, non so se considerevoli o meno, dànno l’assillo ai nostri avversari di sinistra. Prenda spunto il Governo da questa occasione, non per varare leggi eccezionali – perché il solo parlare di leggi eccezionali sarebbe un tradimento alla democrazia – ma per garantire, con il suo fermo atteggiamento, la libertà a noi e agli altri, soprattutto a noi (perché fino ad oggi siamo noi state le vittime delle sopraffazioni e delle violenze, ogni volta che abbiamo parlato in nome della monarchia) e in tempo utile, cioè prima che noi ravvisiamo la necessità di essere come gli altri antidemocratici…

PAJETTA GIULIANO. Quali altri?

COVELLI. …gli altri che parlano di democrazia, di libertà e di pacificazione e sono gli avvelenatori del popolo. Sono costoro i quali si trovano veramente in possesso non soltanto delle armi bianche, che tanto sgomentano l’onorevole La Rocca. L’onorevole La Rocca poi dovrebbe fare a meno di accennare all’onorevole Amendola, perché l’onorevole Amendola per quella gente che, impropriamente, è ritenuta di malavita, è un brutto ricordo e sarebbe giovevole per l’onorevole Amendola farsi dimenticare, perché lo si ricorda oggi a Napoli come colui che ha dato l’autorizzazione a sparare sulla folla dei monarchici durante le dimostrazioni dopo il referendum istituzionale. (Interruzioni e proteste a sinistra).

Voci a sinistra. Non è vero, non è vero!

COVELLI. I monarchici sono gente democratica che sa dimenticare, e non è vero che tema la piazza di Napoli: la vostra piazza è quella superficiale, per la quale ci vogliono veramente molti autocarri dalla provincia; la piazza nostra, di Napoli, è quella spontanea, che non vi darebbe l’ardire di esercitarvi in queste violenze verbali di cui fate uso nella Camera e fuori (Rumori a sinistra), in quanto è gente che ha saputo ancor oggi, in pieno regime repubblicano e prima con l’amministrazione comunale monarchica, quindi con amministrazioni democratiche, con l’azione che svolge il partito nazionale monarchico a Napoli, ha saputo mostrare di dimenticare le vostre violenze e di sapersi attenere al più scrupoloso rispetto della legge, sempre che voi la rispettiate. (Interruzioni a sinistra – Interruzione del deputato Vernocchi).

PRESIDENTE. Concluda, onorevole Covelli.

COVELLI. Concludo. Il fatto di insolentire nei confronti dei monarchici, trattandoli per persone di malavita, per fascisti, per provocatori, è una cosa che non giova ai partiti che si sentono veramente democratici. Credete a me, di questi monarchici la democrazia italiana si è già avvantaggiata, perché essi hanno impostato il loro problema con lealtà ed onestà politica, soprattutto dopo il 2 giugno; è questo un fatto che deve interessare tutta la democrazia italiana.

Siamo convinti che il Ministro dell’interno, approfondendo l’indagine, perché non temiamo l’autorità giudiziaria, sia veramente in grado di portare a conoscenza degli onorevoli colleghi le responsabilità precise. Responsabilità che se sono accertate in campo giudiziario non devono non essere accertate in campo politico, particolarmente per quello che riguarda il prefetto ed il questore di Avellino. Il prefetto e il questore di Avellino in questa occasione si sono mostrati non degni della situazione, non all’altezza del compito, in quanto solo per avere acceduto all’invito dei partiti così detti democratici che volevano vietarci il comizio, sono venuti meno alla norma di libertà e di democrazia che mi auguro che il Ministro dell’interno voglia tutelare. (Applausi a destra – Congratulazioni).

BENEDETTINI. Viva la monarchia! (Rumori – Commenti a sinistra).

MARAZZA, Sottosegretario di Stato per l’interno. Chiedo di parlare.

PRESIDENTE. Ne ha facoltà.

MARAZZA, Sottosegretario di Stato per l’interno. Naturalmente, non entro nella polemica. Però, vi sono state, dall’una e dall’altra parte, alcune affermazioni alle quali devo necessariamente rispondere. Incominciamo con l’ultima dell’onorevole Covelli, il quale ha realmente portato qui un’accusa contro il prefetto ed il questore di Avellino, accusa assolutamente immeritata. Egli ha detto infatti, che l’uno e l’altro si sono mostrati proni ai partiti suoi avversari, per il fatto di aver ricevuto da loro una lettera. Effettivamente, non usano respingere le lettere al mittente, senza averne prima presa conoscenza. Ed avendo appreso da quella di cui trattasi come i rappresentanti di molti partiti fossero d’avviso che la riunione monarchica non dovesse aver luogo, per le ragioni che ho dette prima, naturalmente non rimasero insensibili e convocarono presso di sé costoro e seriamente li ammonirono a rispettare la legge e ad assumere l’impegno che la legge sarebbe stata rispettata dai loro seguaci. E a questo forse, oltre al senso politico della popolazione di Avellino – alla quale rendo omaggio – che abbiamo sentito qui da più parti esaltare, devesi se il comizio dell’onorevole Covelli si è svolto senza disturbi.

All’onorevole Covelli debbo anche dire che se ovviamente non era possibile disporre, lungo tutto il tragitto che i suoi amici dovevano percorrere per ritornare alle rispettive residenze, dei cordoni di polizia, con tutto ciò di polizia ne è stata mobilitata a sufficienza per potere intervenire e reprimere gli incidenti che egli lamenta.

Ho detto prima che io non so da quale parte siano partite le provocazioni. Non lo so; spero di riuscire a saperlo quanto prima attraverso le risultanze della istruttoria dell’autorità giudiziaria, ma devo difendere in questo momento il prefetto ed il questore di Avellino, che realmente non meritano il rimprovero che l’onorevole Covelli ha loro rivolto.

Devo poi qualche parola al collega onorevole La Rocca. L’onorevole La Rocca ha cominciato con l’accusarmi di versione partigiana ed ha promesso di darne la prova; ma questa prova non ha dato.

Io credo che l’onorevole La Rocca intendeva riferirsi a quello che ha con parola elegante definito «il guizzo delle armi bianche». Ora, l’unico ferito della giornata…

LA ROCCA. I feriti sono due.

MARAZZA, Sottosegretario di Stato per l’interno. L’unico ferito, tale Guerriero, mi pare, ha sì riportato una ferita di arma da taglio, ma tanto lieve da permettergli il giorno seguente al ferimento di farsi ammirare per tutte le strade di Avellino, e voglio anche aggiungere, di rifiutarsi energicamente di subire gli accertamenti di polizia giudiziaria ai quali era stato invitato. Quanto alla piazza del comizio è vero che l’onorevole Covelli nell’invito alla manifestazione da lui presieduta ebbe a indicarla col nome «Principe di Piemonte». È vero altresì che questa piazza…

DE MERCURIO. Ora si chiama Piazza Matteotti.

MARAZZA, Sottosegretario di Stato per l’interno. …si chiama ancora Principe di Piemonte…

DE MERCURIO. No, no! Da due anni, in seguito a deliberazione consigliare, questa piazza si chiama Piazza Matteotti!

RUBILLI. Ufficialmente, amministrativamente è Piazza Matteotti; ma il pubblico, come fa anche per altre vie, continua a chiamarla Principe di Piemonte.

DE MERCURIO. Sono piccoli fenomeni che vanno rilevati!

RUBILLI. A Napoli, accade lo stesso. Si dice più spesso Via Toledo, il vecchio nome, anziché Via Roma, il nome attuale.

MARAZZA, Sottosegretario di Stato per l’interno. Abbiate pazienza; non crederete che venga a raccontar delle cose tanto per chiacchierare. Questa Piazza si chiama ancora Principe di Piemonte, legalmente.

DE MERCURIO. Niente affatto!

MARAZZA, Sottosegretario di Stato per l’interno. Effettivamente, è stata affissa una targa col nome di Matteotti; ma la deliberazione relativa non è stata ancora approvata. Voi direte che questa è una ragione di più per infierire contro l’Amministrazione. (Proteste a sinistra – Interruzione del deputato La Rocca).

Una voce a sinistra. Matteotti fa ancora paura!

MARAZZA, Sottosegretarie di Stato per l’interno. Volevo dire semplicemente questo: che questa delibera del 1944 non è stata ancora approvata dalla Prefettura. Siccome è proprio il prefetto che me lo dice, immagino che non sbaglierà.,

LA ROCCA. Questo sta ad indicare con quale senso di responsabilità opera la Prefettura di Avellino! (Commenti a sinistra).

MARAZZA, Sottosegretario di Stato per l’interno. Aggiungo che questa mancata approvazione è conforme al parere della Sovrintendenza ai monumenti di Napoli.

Io mi sono preoccupato della cosa e spero che questa approvazione avverrà ben presto; ma ho voluto dirvi che se anche questo fosse un argomento a carico del prefetto e del questore, che non avrebbero proibito, prevenuto, ecc. quel comizio indetto da uno dei partiti che – piaccia o no – è rappresentato anche in questa Assemblea, come argomento vale almeno quanto gli altri.

In merito poi alle altre accuse, che ho sentito ripetere un po’ da tutte le parti (si è parlato di inni fascisti, di evviva al duce, di tante altre cose del genere, devo smentirle tutte: in questo comizio inni fascisti non sono stati cantati, nemmeno nella marcia di ritorno, come pure non è stato inneggiato al duce.

VINCIGUERRA. Monarchia e fascismo sono la stessa cosa! (Commenti).

BENEDETTINI. Non è vero! Non è vero! Monarchia e fascismo non sono la stessa cosa! Questa voluta confusione tra fascismo o monarchia deve cessare! (Commenti).

PRESIDENTE. Facciano silenzio!

MARAZZA, Sottosegretario di Stato per l’interno. Questo dico semplicemente per riaffermare – concludendo – che per i fatti lamentati, al prefetto ed al questore di Avellino non si possono attribuire responsabilità. (Interruzioni – Commenti).

DE MERCURIO. Chiedo che si inserisca a verbale la mia protesta… (Commenti).

PRESIDENTE. Onorevole De Mercurio, non le posso dare facoltà di parlare.

Segue l’interrogazione degli onorevoli De Mercurio e Sullo, al Ministro dei trasporti, «per conoscere in base a quali disposizioni siano stati concessi dei carri ferroviari da parte del Compartimento di Napoli agli organizzatori di un comizio monarchico in Avellino nella giornata del 28 settembre. Tali carri sono stati messi a disposizione dell’onorevole Covelli, segretario generale del Partito nazionale monarchico, per far affluire, anche con detti mezzi, elementi affiliati a quella organizzazione, prelevandoli dai comuni afferenti alle linee ferroviarie Taurasi-Avellino e Rocchetta Sant’Antonio-Avellino.

Si compiaccia il Ministro comunicare quali provvedimenti siano stati presi contro i responsabili».

L’onorevole Ministro dei trasporti ha facoltà di rispondere.

CORBELLINI, Ministro dei trasporti. La concessione di questi carri ferroviari non fu data né dal Ministro dei trasporti né dal direttore generale delle ferrovie e nemmeno dal capo compartimento di Napoli, perché, nei trasporti domenicali di viaggiatori, la competenza è locale, trattandosi unicamente di regolarsi a seconda dell’affluenza dei viaggiatori e spetta semplicemente alla sezione movimento e ai ripartitori dei veicoli di provvedere.

Ora, la questione si pone nei seguenti termini: dalla stazione di Rocchetta i viaggiatori si sono serviti di treni normali e non v’è nulla dunque a ridire. Il fatto invece che ha dato motivo forse, a questa interrogazione è che l’assuntore della piccola fermata di Taurasi, che si trova tra Cancello ed Avellino, avendo avuto sentore, forse da voci cittadine, che vi sarebbe stata un’affluenza piuttosto inusitata di viaggiatori, ha telefonato al ripartitore dei veicoli per chiedergli se poteva aggiungere qualche carro in più a quelli normali.

Di conseguenza, il ripartitore dei veicoli – notate che di domenica normalmente non si caricano merci – ha dato questi tre carri i quali hanno servito per viaggiatori che avevano regolarmente pagato il loro biglietto.

Ed io che della cosa non avrei avuto alcun motivo di dovermi occupare, l’ho saputa semplicemente quando è stata presentata l’interrogazione, perché si tratta di un’attività normale che deve essere svolta dai capistazione. Non credo che si possa fare diversamente in altri casi, in avvenire, quando un folto gruppo di viaggiatori, una comitiva, chieda la stessa cosa.

Quindi, non ho da dire nulla e non ho preso nessun provvedimento su questa questione che, se poi ha avuto conseguenze politiche, di esse il Ministro dei trasporti non ha nessuna responsabilità. (Approvazioni al centro).

PRESIDENTE. L’onorevole De Mercurio ha facoltà di dichiarare se sia sodisfatto.

DE MERCURIO. Ho ammirato moltissimo la disinvoltura del Ministro dei trasporti nel rispondere alla mia interrogazione, disinvoltura veramente ammirevole, perché a delle contestazioni specifiche egli ha dato delle risposte vaghe. (Commenti a destra). E preciso: egli ha detto: «Non posso e non debbo occuparmi di affari della mia amministrazione». (Interruzioni al centro).

CREMASCHI CARLO. Non è esatto.

DE MERCURIO. Egli ha sostenuto anche che non si caricavano merci; c’è un’aggravante specifica. L’onorevole Cappugi, il quale è presente, può dire che domenica 28 settembre, mentre nella stazione di Avellino si caricavano delle patate per conto di una cooperativa di ferrovieri di Firenze, di cui l’onorevole Cappugi è Presidente, si è sospeso il carico, per dare i carri ferroviari al comizio monarchico.

Questo è quello che risulta a noi, e l’onorevole Cappugi può confermare il favoritismo del Ministro Corbellini.

CREMASCHI CARLO. Che vuol dire questo?

RUBILLI. I viaggiatori hanno più importanza delle patate; valgono un po’ di più.

DE MERCURIO. Parlerete dopo. Questo non so se rientri nei compiti del Ministro.

Se i carri ferroviari furono cinque o sei, non lo so, ma è certo che furono dati i carri ferroviari. Quindi insisto perché sia fatta luce su quanto è avvenuto.

Chiarisco poi, giacché siamo in argomento, la questione della strada. La via «Principe di Piemonte» si chiama da due anni «Giacomo Matteotti», a seguito di una deliberazione approvata dal Consiglio comunale.

BENEDETTINI. Non approvata.

DE MERCURIO. Tanto è vero che lo stesso questore, allorché gli ho contestato la affissione del manifesto, mi rispose che era stata una svista, che lui aveva semplicemente badato al testo, e non aveva badato alla menzione della strada.

Quindi, non sono sodisfatto e insisto perché su queste mie dichiarazioni specifiche il Ministro Corbellini indaghi e ci faccia sapere i risultati delle sue indagini punendo i responsabili.

PRESIDENTE. Segue l’interrogazione, degli onorevoli Musotto e Fiorentino, al Ministro dell’interno, «sull’arbitrario intervento delle forze di polizia durante lo svolgersi dello sciopero proclamato il 28 settembre 1947 dai contadini di Villalba, Valledomo, Marianopoli, Vallelunga, Mussomeli, Resuttano, in provincia di Caltanissetta; e per conoscere quali provvedimenti intenda adottare contro gli agenti di polizia responsabili di avere manganellato indiscriminatamente uomini e donne che avevano partecipato alla manifestazione».

Sullo stesso argomento vi è l’interrogazione degli onorevoli: Volpe e Aldisio, al Ministro dell’interno, «sui fatti di Mussomeli, Villalba e comuni viciniori».

L’onorevole Sottosegretario di Stato per l’interno ha facoltà di rispondere.

MARAZZA, Sottosegretario di Stato per l’interno. L’onorevole Musotto nella sua interrogazione accenna a contadini di Villalba, Valledomo, Marianopoli, Vallelunga, Mussomeli, Resuttano. Io vorrei chiedergli se egli, però, intende riferirsi ai fatti avvenuti a Villalba esclusivamente.

MUSOTTO. Specialmente.

MARAZZA, Sottosegretario di Stato per l’interno. I fatti sono questi: era stato indetto dal Blocco del popolo un comizio, una riunione, a Villalba, per il giorno 28 del mese scorso.

Devo dire che di questa riunione la notizia era giunta alle autorità provinciali soltanto per via indiretta. Alle autorità provinciali era invece stata esplicitamente richiesta dalla Democrazia cristiana l’autorizzazione per tenere nello stesso Comune e nello stesso giorno un proprio comizio. Ritenendo le autorità provinciali – anche per le affermazioni dei rappresentanti dei vari partiti interessati – che queste manifestazioni avrebbero raccolto in Villalba parecchie migliaia di persone, parve loro opportuno negare, impedire che esse avvenissero.

Ripeto che di autorizzazione ne era stata richiesta soltanto una: dalla Democrazia cristiana.

Ad ogni modo, la Democrazia cristiana, informata, si uniformò; i rappresentanti degli altri partiti, avvertiti, parve che si acconciassero.

Tuttavia – per altre voci loro indirettamente pervenute – il Prefetto ed il Questore decisero di tenere ugualmente d’occhio la situazione, ed il Questore, con un reparto di polizia (130 uomini) si recò sul posto e, essendosi effettivamente riunito sulla piazza del paese un migliaio di persone, dispose perché questa riunione non si trasformasse in quel tale comizio che era stato vietato.

Infatti avendo un deputato dell’Assemblea siciliana tentato di prendere la parola, il funzionario di servizio intervenne ed invitò questa persona a desistere dal parlare.

Vi furono delle resistenze; il funzionario di servizio dovette allora indursi a sciogliere il comizio. Lo scioglimento sarebbe avvenuto, a quanto pare, senza incidenti, se da parte di un altro dei presenti non si fosse incitata la folla a non sciogliersi.

Questo atteggiamento non poteva non indurre il funzionario di servizio ad accompagnare il riluttante fino alla caserma dei carabinieri, dove venne ammonito e quindi rilasciato.

Intanto, poiché in questa folla (che, dicevo, ammontava ad un migliaio di persone) si notava un numeroso gruppo di donne e di ragazzi, fu scrupolo da parte della polizia di isolarlo in modo da sottrarlo ai possibili incidenti, limitati di fatto ad alcuni tafferugli. Soltanto in un caso il tafferuglio fu accanito: e fu quando, da parte di un gruppo di dimostranti, si riuscì ad afferrare un agente di pubblica sicurezza e si tentò di trascinarlo in una casa privata distaccandolo dai suoi compagni.

Ora non si può certamente attribuire a colpa degli agenti di pubblica sicurezza presenti, l’essere essi intervenuti per liberare il collega; e di aver impiegato mezzi idonei. Però – e questo deve esser detto per non ingrandire avvenimenti che non meritano affatto di essere ingranditi – nonostante questo intervento della polizia non si ebbe nessun ferito. A carico dell’unico fermato venne elevata la contravvenzione a sensi dell’articolo 24 della legge di pubblica sicurezza; e, quindi, venne rimesso in libertà. L’azione delle forze di polizia, a seguito di un’inchiesta immediatamente compiuta sul posto per ordine del Ministero appena informato, risultò perfettamente regalare e provvedimenti quindi non parve che dovessero esser presi.

A proposito tuttavia di questa interrogazione, io devo rilevare, che una interrogazione analoga è stata presentata e discussa dal Parlamento siciliano proprio tre giorni fa. Ora, in quella Assemblea l’incidente trovò, a mio modo di vedere, la sua legittima sede; l’averla riproposta in questa, invece, mi pare possa istituire una prassi quanto meno assai disputabile.

NOBILE. Perché?

MARAZZA, Sottosegretario di Stato per l’interno. Perché, come sapete, l’impiego delle forze di polizia dipende dal Governo regionale. Conseguentemente, tutto ciò che ha connessione con questo impiego mi pare sia di competenza dell’Assemblea regionale. La quale come ho detto, si è già occupata dell’argomento stesso di cui discutiamo.

PRESIDENTE. L’onorevole Musotto ha facoltà di dichiarare se sia sodisfatto.

MUSOTTO. Onorevoli colleghi, va primieramente osservato e credo che in ciò trovi consenzienti tutti i colleghi dell’Assemblea, che a noi non è interdetto intervenire in tutti i fatti che interessano la vita della Regione siciliana. Nessun pericolo noi troviamo né dal punto di vista costituzionale, né dal punto di vista politico. Dal punto di vista costituzionale potrei dire subito che la pubblica sicurezza è una materia rimasta alla competenza dello Stato. Quindi noi possiamo legittimamente intervenire così come siamo intervenuti. Da un punto di vista politico dobbiamo semplicemente far osservare che l’autonomia regionale non ha distaccato la Sicilia dall’Italia, che anzi direi l’ha maggiormente unita e maggiormente rinsaldata all’unità dello Stato.

Quindi abbiamo il diritto di intervenire.

Il Ministro dell’interno si rinchiude sempre nei rapporti dei suoi funzionari; e secondo le notizie che gli hanno trasmesso non vi è il dubbio che la nostra interrogazione è destituita di ogni fondamento. Ma le notizie che a noi pervengono sono diverse, onorevole Sottosegretario. Vere le vostre o vere le nostre. Avete dei privilegi per accreditare vere le vostre informazioni? Non credo: onde noi desidereremmo che si facesse davvero una inchiesta sul posto, che si interrogassero tutti e non ci si fermasse alle affermazioni della Pubblica sicurezza; si dovrebbero interrogare i cittadini che furono presenti a quella manifestazione. Dalle dichiarazioni da lei fatte, deduco che la Democrazia cristiana ha chiesto l’autorizzazione per tenere il comizio. Anche il Partito socialista l’aveva chiesta. Perché non gliela avete concessa? Se la concedete a un partito, dovete concederla anche all’altro. Ma secondo quello che dice l’onorevole Sottosegretario all’interno, l’autorizzazione fu concessa unicamente alla Democrazia cristiana.

Una voce al centro. Non fu concessa.

MUSOTTO. Voi dite che non fu concessa: a me risulta invece che fu concessa. Poté anche non avvalersene, ma fra il fatto di non avvalersene e quello di non averla concessa c’è una grande differenza, miei cari colleghi della Democrazia cristiana. Comunque, che siano stati bastonati dei bambini e delle donne non vi è dubbio. Le notizie che a noi pervengono segnalano questo, ed io mi riservo, onorevole Sottosegretario all’interno, se le notizie che ci perverranno saranno in contrasto con le affermazioni, che non sono vostre, ma dei vostri funzionari, mi riservo il diritto, ripeto, di trasformare la presente interrogazione in interpellanza.

Volevo dire semplicemente questo.

In Sicilia bisogna andare molto piano – in tutta Italia, ma specialmente in Sicilia – con i mezzi repressivi, onorevole Sottosegretario. La Sicilia ha tutto sopportato e sempre sopportato. Badate, però, che è sensibile all’ingiustizia. L’atto di ingiustizia non lo sopporta, non lo ha mai sopportato. Quindi fate una inchiesta per vedere se ci sono agenti di pubblica sicurezza che hanno davvero maltrattato donne e bambini indiscriminatamente. Questo vi chiediamo con immenso interesse, e desideriamo sollecitare il vostro grande senso di responsabilità.

PRESIDENTE. L’onorevole Volpe ha facoltà di dichiarare se sia sodisfatto.

VOLPE. Non posso ancora dichiararmi sodisfatto, perché la interrogazione da me presentata è diversa.

PRESIDENTE. Sotto quale aspetto, onorevole Volpe?

VOLPE. Perché sono citati altri fatti; quindi, credo che la mia interrogazione meriti una risposta a parte.

PRESIDENTE. Che ne pensa l’onorevole Sottosegretario per l’interno?

MARAZZA, Sottosegretario di Stato per l’interno. L’interpretazione, che noi abbiamo data a queste due interrogazioni, è che esse sono molto simili: effettivamente, si riferiscono a fatti analoghi. L’adunata di Villalba, cui io ho accennato, era un’adunata di contadini di tutti i paesi, nominati dall’onorevole Volpe e dall’onorevole Musotto, e incidenti di particolare gravità, tale da giustificare una interrogazione, che si fossero svolti in questi altri comuni citati dall’onorevole Volpe, a noi non risultano.

VOLPE. Chiedo di parlare.

PRESIDENTE. Ne ha facoltà.

VOLPE. Mi meraviglia come l’onorevole Sottosegretario per l’interno non abbia rilevato dalla mia interrogazione, nella quale facevo menzione di due centri distinti e separati della provincia di Caltanissetta, che si tratta di avvenimenti, ognuno a sé stante.

Gli incidenti di Villaba, dei quali hanno fatto parola gli amici del Partito socialista, sono una cosa; gli incidenti di Mussumeli sono altra cosa.

PRESIDENTE. Mi pare che la sua interrogazione, onorevole Volpe, sia troppo laconica: è detto «sui fatti di Mussomeli, Villalba e comuni viciniori».

VOLPE. L’onorevole Sottosegretario avrebbe dovuto sapere dalle informazioni che gli incidenti di Villalba sono una cosa e quelli di Mussomeli altra.

MARAZZA, Sottosegretario di Stato per l’interno. Chiedo di rispondere su quegli altri incidenti in altra seduta.

PRESIDENTE. Onorevole Volpe, riproduca la sua interrogazione, specificando i fatti, in modo che l’onorevole Sottosegretario possa rispondere.

VOLPE. Li ho specificati abbastanza; comunque li specificherò meglio in altra interrogazione.

PRESIDENTE. Segue l’interrogazione dell’onorevole Canevari, al Ministro delle finanze, «per conoscere quali provvedimenti si intendano adottare a favore degli agricoltori coltivatori diretti, delle provincie di Pavia e di Milano, danneggiati dalla grandinata del 22 giugno 1947».

L’onorevole Sottosegretario di Stato per le finanze ha facoltà di rispondere.

PETRILLI, Sottosegretario di Stato per il tesoro. In relazione alla richiesta di agevolazioni tributarie fatta dall’onorevole interrogante a favore degli agricoltori, coltivatori diretti, delle Provincie di Pavia e di Milano, danneggiati dalla grandinata del 22 giugno 1947, si osserva che in base all’articolo 47 del regio decreto 8 ottobre 1931, n. 1572, che approva il testo unico delle leggi sul nuovo catasto dei terreni, nei casi in cui per parziali infortuni non contemplati nella formazione dell’estimo venissero a mancare i due terzi almeno del prodotto ordinario del fondo, l’Amministrazione finanziaria può concedere una moderazione dell’imposta erariale sui terreni, nonché dell’imposta sui redditi agrari, dietro presentazione, da parte dei possessori danneggiati, alla competente intendenza di finanza, entro i trenta giorni dall’accaduto infortunio, di apposita domanda con l’indicazione, per ciascuna particella catastale, della qualità e quantità dei frutti perduti e dell’ammontare del loro valore.

I danni provenienti da infortuni atmosferici, come la grandine, le siccità, le gelate e simili, vengono tenuti presenti nella formazione delle tariffe d’estimo e, perciò, di regola, non possono dar luogo alla moderazione di imposta di cui al citato articolo 47 del testo unico 8 ottobre 1931, n. 1572.

Comunque, sono state interessate le intendenze di finanza di Pavia e Milano, per accertare, sentito l’Ufficio tecnico erariale, l’entità dei danni arrecati dalla suddetta grandinata nel territorio di quelle provincie.

Le predette intendenze hanno dichiarato che nessun provvedimento di sgravio delle imposte fondiarie può adottarsi nei confronti degli interessati, in quanto, giusta le risultanze degli accertamenti tecnici all’uopo disposti, i danni prodotti dall’evento in parola non sono stati di carattere straordinario, tale da poterli far considerare non contemplati nella formazione delle tariffe d’estimo, non avendo essi raggiunto il minimo di due terzi del prodotto ordinario del fondo stabilito dalla legge come condizione per la concessione della moderazione dell’imposta fondiaria.

PRESIDENTE. L’onorevole Canevari ha facoltà di dichiarare se sia sodisfatto.

CANEVARI. Io sono veramente sorpreso della risposta che mi è stata data, dopo oltre due mesi, dal Sottosegretario per il tesoro.

La grandinata, che è stata veramente spaventosa ed ha colpito particolarmente il comune di San Colombano in provincia di Milano ed il comune di Miradolo in provincia di Pavia, due comuni entrambi coltivati prevalentemente a vite, e numerosi altri comuni della provincia di Pavia, ha causato dei danni che sono stati accertati dagli uffici dell’Ispettorato provinciale di agricoltura e dagli uffici economici del Ministero di agricoltura complessivamente ammontanti ad oltre 600 milioni. Io ho pregato il Ministro delle finanze di voler accennarmi quali provvedimenti potevano essere adottati per andare incontro a quei coltivatori diretti. Perché, onorevole Sottosegretario di Stato, non bisogna pensare soltanto ai regolamenti che consentono l’esenzione dalle imposte; ci sono tanti altri modi per andare incontro ai bisogni dei piccoli coltivatori diretti quando sono colpiti da sventure così eccezionali. Per esempio, una sospensione di imposte poteva servire a quei coltivatori diretti; i quali, badate bene, non sono stati, dopo la grandinata, con le mani in mano a meditare sui loro peccati che avrebbero potuto determinare le ire del cielo. Il giorno dopo, o due o tre giorni dopo, li ho rivisti sulle terre colpite dalla grandinata, a riprendere le lavorazioni per altre colture nella speranza di ottenere, nell’annata agraria in corso, un nuovo prodotto: bisognava andare incontro a quella gente. Sapete come è andato loro incontro il Governo? I due ispettorati provinciali, quello della provincia di Milano da una parte, e quello di Pavia dall’altra, avevano chiesto l’intervento del Ministro dell’agricoltura con l’assegnazione di concimi chimici per le nuove colture. Infatti, per la provincia di Pavia, sono stati assegnati 1500 quintali tra solfato ammonico e nitrato di calcio; per la provincia di Milano, 1400 quintali. Riconosco che nel complesso queste quantità potevano essere ritenute sufficienti; ma, tornato sul posto di nuovo, ho visto che in taluni comuni i Consorzi agrari, che avevano avuto l’incarico delle assegnazioni, hanno preteso dei prezzi di una elevatezza e di una esosità tale, da indurre gli stessi coltivatori diretti a rinunziarvi; per cui essi hanno fatto le nuove semine senza concimazione.

Quali provvedimenti dovevano essere adottati dal Ministero delle finanze? Almeno accordare una sospensione dell’imposta straordinaria e lasciare che quella povera gente riprendesse fiato.

Ebbene, non si è fatto niente. Credete a me: questo mancato provvedimento da parte vostra ha fatto una cattiva impressione. È vero che i nostri contadini sono abituati alla sopportazione; ma credo che non siano tanto abituati a dimenticare.

Io sono veramente scandalizzato, perché avevo interessato di ciò il Ministero delle finanze il giorno 11 luglio; il Ministero delle finanze mi ha fatto rispondere in data 28 luglio che aveva messo la cosa allo studio e che sperava di potermi dare buone notizie; ed ora, alla distanza di oltre due mesi, queste sono le notizie che mi sono pervenute da voi! E credo di interpretare il sentimento di quella povera gente dichiarandomi assolutamente insoddisfatto.

PRESIDENTE. Segue l’interrogazione degli onorevoli Volpe e Borsellino, al Ministro della marina mercantile, «per conoscere quali criteri intenda seguire nell’assegnazione dell’ultimo lotto di Liberty e delle navi restituite al Governo italiano dagli Stati Uniti d’America ed in particolare se non creda, per stimolare le iniziative locali anche nel campo dell’armamento marittimo, destinare una forte percentuale di tali navi alle regioni meridionali ed isolane».

L’onorevole Ministro della marina mercantile ha facoltà di rispondere.

CAPPA, Ministro della marina mercantile. Le trattative per l’acquisto del terzo lotto di navi Liberty sono ancora allo stato iniziale, e non sono stati ancora fissati i criteri per la loro assegnazione ai numerosissimi richiedenti, isolati o raggruppati in associazioni locali.

Occorre, però, tenere presente che, data l’attuale situazione valutaria, è da escludere ogni possibilità di speciali concessioni di valuta agli assegnatari delle navi che dovranno, quindi, provvedere coi propri mezzi al pagamento dei previsti acconti in valuta.

Tale mancata assistenza valutaria, imposta da circostanze di forza maggiore, eliminerà senza dubbio non poche delle richieste già avanzate.

In ogni caso, se le trattative per l’acquisto del terzo lotto giungeranno a buon fine, come speriamo, il Ministero della marina mercantile non mancherà di rendere pubblici i criteri che verranno fissati per procedere all’assegnazione delle navi di cui trattasi, e così tutti potranno rendersi conto della regolarità della procedura seguita per l’assegnazione.

Evidentemente, tali criteri non potranno di molto allontanarsi da quelli seguiti per l’assegnazione dei due precedenti lotti di Liberty, che, come noto, vennero ripartiti sulla base delle perdite subite per causa di guerra dai richiedenti, allo scopo di ricompensarli, in parte, dei limitatissimi indennizzi conseguiti.

Per quanto attiene poi alla prospettata assegnazione di una percentuale di tali navi alle regioni meridionali ed isolane, il Governo sorreggerà certamente tutte le relative iniziative, sempre che esistano forze locali capaci di affrontare le esigenze ed i rischi dell’industria armatoriale, e sempre che i richiedenti dimostrino di possedere, sulla base dei criteri che saranno fissati, i titoli necessari per l’accoglimento delle loro domande.

Formano ancora obietto di esame da parte del Governo le questioni sorgenti dalla restituzione da parte degli Stati Uniti d’America delle navi italiane, e, pertanto, non è possibile, allo stato delle cose, fornire precisazioni sull’argomento.

PRESIDENTE. L’onorevole Volpe ha facoltà di dichiarare se sia sodisfatto.

VOLPE. Ringrazio il Ministro della marina mercantile, ma mi permetto fargli osservare che nelle precedenti assegnazioni delle navi Liberty, ottenute dagli Stati Uniti in numero di cento, la marina genovese, la quale sicuramente è stata quella che ha avuto i danni maggiori per cause di guerra, già sino ad oggi ha avuto assegnate ben 800.000 tonnellate sul milione di tonnellate di navi Liberty. Le perdite della marina genovese ammontano all’incirca ad un milione di tonnellate, escludendo la grande compagnia di navigazione «Italia».

Quest’assegnazione di Liberty è avvenuta parecchio tempo fa a condizione di privilegio, ed in questo periodo sicuramente gli assegnatari si sono rifatti delle perdite subite; si sono rifatti anzitutto perché hanno recuperato già quasi tutto il materiale perduto (un milione perduto, 800.000 già assegnato) e poi perché hanno lavorato in un momento di particolare situazione a loro beneficio. Quanto, quindi, il Ministro della marina mercantile diceva sulle condizioni da farsi ai nuovi assegnatari delle Liberty, cioè che i nuovi assegnatari dovrebbero essere muniti, dovrebbero dare, versare, fornendosene, procurandosela per conto loro, la valuta, io penso che non sia un criterio giusto. Mi permetto, quindi, di fare osservare al Ministro della marina mercantile che nella nuova distribuzione, prima di tutto, debbono essere aiutati coloro che debbono avere assegnate queste navi, nella valuta. Il sistema, il modo, lo studierà il Ministro della marina mercantile con il Ministro del commercio estero; secondo, tenere veramente in particolare considerazione le regioni rimanenti d’Italia; la Sicilia, la Sardegna, le Puglie, abbiano anche loro un congruo quantitativo, in quanto (io parlo per esempio per la mia Sicilia) in Sicilia noi abbiamo un passato di attività marinara, abbiamo sicuramente una storia che dimostra che la Sicilia ha avuto una marina mercantile; che gli armatori siciliani, anche loro, hanno avuto delle perdite in questa guerra e, quindi, è giusto che questa regione meriti particolare considerazione. La Sicilia su cento Liberty ne ha avute assegnate fino ad oggi tre.

Questo mi permettevo fare osservare al Ministro con la preghiera di tenerlo in benevola considerazione.

CAPPA, Ministro della marina mercantile. Chiedo di parlare.

PRESIDENTE. Ne ha facoltà.

CAPPA, Ministro della marina mercantile. Vorrei fare una precisazione: non posso qui controllare se sia esatto il dato dell’onorevole interrogante relativo al tonnellaggio compensato con l’assegnazione delle Liberty. Mi permetto di fare presente che i criteri di assegnazione delle Liberty dei due lotti precedenti furono precisamente stabiliti dal mio collega e predecessore onorevole Aldisio che è siciliano, quindi non credo che egli abbia danneggiato gli interessi di una regione, per favorire quelli di altre regioni.

VOLPE. Doveva, giustamente, compensare la marineria genovese.

CAPPA, Ministro della marina mercantile. Vorrei far presente all’onorevole interrogante che questa questione dell’assegnazione delle navi Liberty ha una particolare delicatezza e presenta notevoli difficoltà. Il Ministero della marina mercantile, quando si è trattato di risolvere la questione, ha ritenuto di ricorrere a quel sistema, appunto in considerazione di queste difficoltà e per eliminare recriminazioni da una parte o dall’altra. Si è stabilito, che, in base al tonnellaggio perduto, si attribuissero proporzionalmente le navi o il tonnellaggio delle navi che erano dal Governo state acquistate dagli Stati Uniti. E mi pare che questo fosse giusto, anche – come prima ho rilevato – per compensare almeno in piccola parte gli armatori che avevano perduto questo tonnellaggio…

VOLPE. Sono stati già compensati.

CAPPA, Ministro della marina mercantile. …e che dovevano avere un compenso per il ridicolo indennizzo derivato dall’assicurazione. Tenga presente l’onorevole interrogante che si trattava di navi requisite.

Così è stato fatto. Il Ministero della marina mercantile, per eliminare anche eventuali ragioni di sospetto o contrasti, cosa ha fatto? Ha invitato la Confederazione degli armatori, in cui sono rappresentati tutti gli armatori d’Italia, a fare essa i conti e a sottoporli ai soci. Quindi si tratta di una cosa fatta pubblicamente, in perfetta correttezza e con soddisfazione generale.

L’assegnazione di queste navi per regioni darebbe luogo ad una quantità di inconvenienti, che non è qui il caso e il momento di far presenti.

A dimostrazione, però, del desiderio mio di andare incontro alle partite minori, particolarmente agli armatori di piccolo tonnellaggio, che hanno perduto il loro tonnellaggio, nella recente assegnazione di 10 navi cisterna – facenti parte del lotto delle 16 navi che recentemente gli Stati Uniti ci hanno ceduto, del quale lotto, 6 erano già state precedentemente attribuite in un lotto che non era stato completato – nell’assegnazione di queste 10 navi cisterna, dicevo, ho voluto favorire, tenendo conto soprattutto dell’interesse del Mezzogiorno, il piccolo armamento e gli armatori che, dato l’armamento minore che avevano in precedenza, avevano avuto un minor tonnellaggio perduto. E così, mentre la Confederazione degli armatori aveva proposto di assegnare proporzionalmente la caratura di queste nave cisterna a coloro che in proporzione potessero pretendere due carature per navi, io, dopo aver fatto esaminare l’assegnazione da una Commissione di armatori in cui erano rappresentanti di tutte le regioni d’Italia, ho stabilito di assegnare le navi fino ad una suddivisione di una caratura, cosicché su una nave potevano essere rappresentanti gli interessi di bene 24 gruppi o armatori.

Assicuro l’onorevole interrogante che comunque, se sarà ottenuta la cessione di un altro lotto di 50 navi dagli Stati Uniti, terrò conto delle osservazioni e dei voti che ha espresso, cercando di conciliare quelle che sono le aspirazioni qui portate, con le possibilità di un’equa ripartizione.

Nei riguardi della valuta, sarebbe certo una bella cosa che il Governo potesse andare incontro, come ha fatto per i primi due lotti, anche agli armatori che diventeranno assegnatari di questo terzo lotto. Ma siamo di fronte a difficoltà di valuta che sono ben note, com’è risultato dalla recente discussione in questa Assemblea. Attualmente il Ministro del commercio con l’estero ha dichiarato che non potrà dare alcuna assegnazione di valuta per il pagamento della prima trancia del debito che si va ad accendere, e cioè del 25 per cento del costo di queste navi.

Siamo di fronte ad una realtà pesante e dolorosa, certamente, ma il Ministero della marina mercantile non può far nulla al riguardo. Spero che l’onorevole interrogante sarà sodisfatto di queste dichiarazioni; la questione sarà comunque riesaminata quando avremo ottenuto la cessione di cui ho parlato.

Faccio presente che, in materia di valuta, nell’assegnazione recente delle 16 navi-cisterna, la concessione della valuta non è stata data e quindi gli assegnatari delle carature delle navi hanno dovuto provvedere con mezzi proprî.

PRESIDENTE. Segue l’interrogazione degli onorevoli Tonetti, Pellegrini, Costa, Giacometti e Tonello, al Ministro dell’interno, «per conoscere quali provvedimenti intenda prendere a carico dei responsabili dell’arresto arbitrario di alcuni socialisti, comunisti ed organizzatori sindacali, avvenuto due giorni dopo la pacifica dimostrazione di solidarietà all’Amministrazione social-comunista di Caorle, fatta dalla grande maggioranza della popolazione, sdegnata per gli insulti proferiti contro la stessa, nella persona del sindaco, da pochi facinorosi, fra i quali vi era il noto fascista bastonatore, podestà del paese per molti anni, la mattina del 20 luglio, in occasione di un comizio socialista».

L’onorevole Sottosegretario di Stato per l’interno ha facoltà di rispondere.

MARAZZA, Sottosegretario di Stato per l’interno. A proposito di questa interrogazione, debbo osservare che sul medesimo argomento ne è stata presentata un’altra dagli onorevoli Mentasti, Lizier, Bastianetto e Ponti. Poiché essa non è all’ordine del giorno di questa seduta, chiedo che venga rimandato lo svolgimento di questa, così da poterle a suo tempo abbinare.

PRESIDENTE. L’onorevole interrogante consente a questo rinvio?

TONETTI. No, perché è più di un mese – anzi, un mese e mezzo – dacché il Ministro ha dato formale assicurazione che era pronto a rispondere. Desidererei quindi che rispondesse questa sera.

MARAZZA, Sottosegretario di Stato per l’interno. Ma io sono pronto: presentavo semplicemente una questione d’opportunità.

TONETTI. Se è pronto, allora la svolga: a suo tempo svolgerà l’altra.

MARAZZA, Sottosegretario di Stato per l’interno. Io ritengo superfluo fare una discussione per doverla poi ripetere a breve scadenza una seconda volta.

PRESIDENTE. Dei deputati presentatori della seconda interrogazione nessuno è presente.

TONETTI. Chiedo di parlare.

PRESIDENTE. Ne ha facoltà.

TONETTI. Se essi non sono stati diligenti nel presentarsi, non per questo la risposta deve essere rimandata.

MARAZZA, Sotto segretario di Stato per l’interno. Chiedo di parlare.

PRESIDENTE. Ne ha facoltà.

MARAZZA, Sottosegretario di Stato per l’interno. Ma non è questa la questione. Non si può tacciare di negligenza i firmatari della seconda interrogazione per il fatto che non siano oggi presenti, in quanto essa non è all’ordine del giorno. Io non ho comunque difficoltà a rispondere subito: quindi risponderò.

Sono molto dispiacente di non poter ripetere in questa occasione quanto già pur dissi altre volte, che cioè si tratti di fatti cui è stata attribuita un’importanza maggiore di quanto essi non meritassero.

I fatti di Caorle, oggetto dell’interrogazione dell’onorevole Tonetti, sono, infatti, episodi che rivestono carattere – a mio avviso – di particolare gravità.

Dico subito, a conforto di questa mia affermazione pregiudiziale, che essi formano oggetto di un’istruttoria giudiziaria, che coinvolge, tra l’altro, la persona dello stesso interrogante.

Si tratta di questo: il giorno 20 di luglio, alle 11 del mattino, in Caorle, l’onorevole Tonetti teneva un comizio non autorizzato. Avvennero degli incidenti; evidentemente, non si ebbe l’unanimità dei consensi; però l’onorevole Tonetti poté concludere il comizio e andarsene indisturbato a tenerne un altro poco lontano, parimenti non autorizzato.

In questa seconda riunione gli eventi della mattina, o, per meglio dire, i disturbi che erano stati recati alla parola dell’onorevole Tonetti a Caorle, formarono oggetto di espressioni particolarmente risentite da parte del sindaco di Caorle, il quale io non credo si proponesse di provocare quanto in seguito è avvenuto, ma indubbiamente ha gettato il primo seme.

In seguito è avvenuto questo: alle ore 20 in Caorle, su alcuni camions e anche in bicicletta giungevano alcune centinaia di dimostranti, e l’onorevole Tonetti teneva il terzo comizio non autorizzato. Questo comizio, però, non aveva lo svolgimento di quello della mattina. Infatti, se alla mattina le espressioni di dissenso erano state sopportate, non così avveniva alla sera. Ed essendo partiti alcuni fischi da un certo angolo della piazza, ed essendosi ritenuto che questi fischi partissero da un locale adibito ad osteria, subito un numero notevole di quei tali che erano giunti a Caorle coi mezzi che ho prima accennato, si lanciava all’assalto, invadeva la trattoria, ne frantumava i vetri, si impossessava delle seggiole e se ne valeva come armi aggredendo i presenti e provocando anche parecchi feriti. Ci fu della reazione, s’intende, ma la reazione non ebbe conseguenze del genere di quelle avute dall’aggressione.

L’onorevole Tonetti e i suoi compagni, dopo questo episodio (del quale non sto a raccontare particolari, pure edificanti, per non stancare l’Assemblea) con dimostrazioni di evidente soddisfazione, se ne partiva e la calma ritornava a Caorle, dove però l’episodio lasciava il ricordo che ognuno può pensare.

La pubblica sicurezza, informata, naturalmente indagava sul fatto e, avendo accertato che a questi fatti avevano preso parte determinate persone (l’ho detto prima: in numero di 27) ed avendo raccolto sul conto di queste persone le prove necessarie, ne arrestava cinque (una, in seguito ad ulteriori accertamenti, veniva però subito rilasciata), ne tratteneva quattro e denunciava tutti all’Autorità giudiziaria.

Devo dire che i reati per i quali la denuncia è stata fatta sono quelli di sequestro di persona, di violenza privata, di lesioni, di danneggiamenti e, in seguito, da parte dell’autorità giudiziaria, si elevava imputazione anche per rapina e per adunata sediziosa.

Io, poiché rispondo soltanto alla interrogazione dell’onorevole Tonetti, potrei dire di aver finito. Ma mi sembra che, dato il modo come la pubblica sicurezza ha proceduto all’inchiesta che ha portato alla denuncia, e data la conferma che l’autorità giudiziaria ha dato degli arresti che dalla pubblica sicurezza sono stati effettuati in via preventiva, quanto alla richiesta di provvedimenti a carico della pubblica sicurezza per degli arresti arbitrari avvenuti in occasione della pacifica dimostrazione che ho sopra descritta, mi pare, francamente, non occorra aggiungere molto per dimostrare che il Governo a ragione li ritiene pienamente giustificati.

PRESIDENTE. L’onorevole Tonetti ha facoltà di dichiarare se sia sodisfatto.

TONETTI. Anzitutto rettifico una inesattezza dell’onorevole Sottosegretario circa l’autorizzazione del comizio, in quanto la sera del 19 luglio il sindaco di Caorle avvertì i carabinieri che il giorno dopo avrei tenuto un comizio.

La risposta del Sottosegretario per l’interno è insoddisfacente, come era prevedibile, anzi inevitabile; perché, se avesse preso provvedimenti a carico dei funzionari della polizia e degli ufficiali dei carabinieri che hanno compiuto abusi e falsificazioni a proposito dei fatti di Caorle, egli avrebbe implicitamente sconfessata la miserabile speculazione politica ordita sui fatti stessi da una parte della Democrazia cristiana della provincia di Venezia.

La verità sui fatti di Caorle, constatata da tutta la popolazione e dai villeggianti, e suffragata da centinaia di testimonianze scritte (in mio possesso), fra le quali anche quella di un monarchico, che si è offerto spontaneamente, è molto semplice e tutt’altro che drammatica. La minoranza democristiana di Caorle aveva deciso di impedire che io tenessi un comizio, per rappresaglia (così dicevano) contro il mancato comizio De Gasperi in piazza San Marco a Venezia. Con schiamazzi e con insulti impedirono al sindaco comunista di Caorle di aprire il comizio. Ciò non per tanto, a differenza di certi uomini politici che quando lasciano lo scranno ministeriale per parlare sulle piazze credono di essere tabù, dichiarando che accettavo il contraddittorio coi rappresentanti di qualsivoglia partito, ho potuto tenere il comizio. Nel pomeriggio, trovandomi in un paese lontano pochi chilometri da Caorle, numerosi lavoratori agricoli, i quali non erano intervenuti al comizio del mattino per causa di lavoro, si presentarono a dirmi che avevano deciso di fare una manifestazione di solidarietà e di simpatia al loro sindaco, che era stato oltraggiato, e mi invitarono ad unirmi a loro. La manifestazione si svolse con la massima calma e con il massimo rispetto della popolazione e dei villeggianti che rimasero indisturbati nelle vie e nelle piazze del paese, tanto è vero che i carabinieri non hanno avuto motivo per intervenire, malgrado che il parroco, un certo Don Marchesani, ridicolo e bugiardo, fosse andato a dire in caserma che social-comunisti armati avevano invaso Caorle. L’unico incidente fu provocato da dieci democristiani, fra i quali un organizzatore delle squadre d’azione fasciste del 1919, nonché podestà di Caorle per molti anni, i quali, da un caffè poco lontano dal Municipio, innanzi al quale si svolgeva la pacifica manifestazione, pronunciarono espressioni oltraggiose all’indirizzo dei manifestanti, e quando non più di otto di questi si avvicinarono per invitarli al silenzio, prima che parlassero (e di ciò vi sono numerosissimo testimonianze) lanciarono loro addosso le sedie del caffè. Tutto il contrario di quello che ha riferito al signor Sottosegretario. Allora quei facinorosi, che dalla mattina provocavano in tutti i modi ed offendevano i sentimenti della maggioranza della popolazione di Caorle, ebbero la lezione che si meritavano a suon di pugni. Risultato: dieci contusi, uno solo dei quali ebbe quindici giorni di riposo dal dottore. Dopo di che la manifestazione si sciolse con la stessa calma e lo stesso rispetto della popolazione con la quale era cominciata.

Di questo banale episodio di vita politica si sono serviti due giornali democristiani – il Gazzettino ed il Popolo del Veneto – per parlare di spedizioni punitive e per organizzare una stolta montatura, che disonora soltanto gli ideatori di essa. Ma non è questa la sede di occuparsi della diffamazione perpetrata dai su non lodati giornali, che ne risponderanno dinanzi al Magistrato.

Deve essere denunciata invece la condotta delle autorità di polizia. I funzionari della questura di Venezia Dattilo e Giaquinto, il capitano dei carabinieri di Mestre, Olivieri, il tenente dei carabinieri di Portogruaro, i quali non potevano ignorare la verità, perché erano andati a Caorle a fare una inchiesta, compilarono un rapporto falso nel quale copiarono le menzogne pubblicate dai giornali ai quali ho accennato prima e, per avere il primo posto nella graduatoria dei mentitori, non esitarono ad affermare che un camion, liberamente noleggiato dai manifestanti privi di biciclette che volevano recarsi a Caorle, era stato rapinato e l’autista sequestrato.

In conseguenza: quattro lavoratori incensurati, fra cui un valoroso partigiano, furono rinchiusi per 58 giorni nel carcere di Venezia, dove per 60 giorni furono detenuti altri quattro lavoratori presenti a Piazza S. Marco in occasione del già ricordato mancato comizio dell’onorevole De Gasperi, arrestati a casaccio per odio di parte. Basterebbe il solo fatto che i lavoratori di Caorle sono stati scarcerati per dimostrare che il rapporto della pubblica sicurezza e dei carabinieri era falso, in quanto, a norma della legge vigente, rapina e sequestro di persona non consentono libertà provvisoria.

Di fronte all’enormità di questi fatti è spontaneo domandarsi se gli agenti dell’ordine agiscono di loro iniziativa o non piuttosto secondo le direttive del Ministero dell’interno. Questa seconda ipotesi è più plausibile, dati i sistemi che sono instaurati al Ministero dell’interno da quando è retto dall’onorevole Scelba e da certe circolari riservate ai questori delle quali vorrei dar lettura.

PRESIDENTE. Lei non può continuare oltre: concluda.

TONETTI. Noi abbiamo il diritto di reagire. Ad ogni modo la colpa di questi abusi, di questi arresti arbitrari e di queste falsificazioni deve essere attribuita al Ministro dell’interno il quale, anziché esercitare le sue attribuzioni con senso di assoluta imparzialità, con il rispetto del diritto all’opposizione e della libertà dei cittadini come è suo preciso dovere, agisce in modo fazioso, reazionario e abusa del suo potere per interesse di partito, così da sembrare simile, piuttosto che al Ministro di una repubblica democratica, a un capo della polizia pontificia di deprecata memoria. (Ilarità al centro).

Devo osservare che in questo caso, i patetici appelli del Presidente del Consiglio alla pacificazione ed alla solidarietà nazionale per superare la tragica crisi economico-finanziaria sono un oltraggio; più che vani, sono una oltraggiosa ironia, quando con i fatti si scava fra gli italiani un solco di odio che può avere conseguenze imprevedibili. La situazione è tanto grave che è stolto e delittuoso pensare di dominarla con gli arresti arbitrari, con i mitra della Celere e col doppio gioco.

L’onorevole Presidente del Consiglio ed il Ministro dell’interno sappiano che il popolo lavoratore, che non ha avuto paura di combattere la tragica e sanguinosa lotta contro il nazi-fascismo, non è disposto a tollerare che siano istaurati metodi di Governo che incominciano a ricordare quelli della Grecia e della Spagna, come da molte prove appare manifesto essere nelle intenzioni di questo Governo, che ogni giorno maggiormente rivela una mentalità clerico-totalitaria. (Proteste – Commenti al centro).

MARAZZA. Sottosegretario di Stato per l’interno. Chiedo di parlare.

PRESIDENTE. Ne ha facoltà.

MARAZZA, Sottosegretario di Stato per l’interno. Non intendo replicare. Di fronte, però, alle smentite dell’onorevole Tonetti io oppongo la conferma precisa e rigorosa dei fatti, così come li ho esposti.

Assicuro l’Assemblea che le informazioni, le indagini, le ricerche del Governo, sono molto più serie di quanto non siano state le drammatiche urla dell’onorevole Tonetti. (Applausi al centro).

L’onorevole Tonetti avrà diritto di replicare alle dichiarazioni, che con senso di viva responsabilità il Governo ha reso per mio mezzo quest’oggi, soltanto quando l’autorità giudiziaria lo avrà prosciolto dai reati, per i quali è stato denunziato. (Vivi applausi al centro – Commenti a sinistra).

PRESIDENTE. Lo svolgimento delle altre interrogazioni è rinviato ad altra seduta.

Svolgimento di interpellanze.

PRESIDENTE. L’ordine del giorno reca lo svolgimento di interpellanze. La prima è quella presentata dagli onorevoli Cremaschi Olindo, Bianchi Bruno, Gavina, Pastore Raffaele, Gorreri, Fantuzzi, Malagugini, Moranino, Lozza, Bucci, Mezzadra e Lizzadri, ai Ministri del tesoro e dell’agricoltura e foreste, «per conoscere le ragioni che hanno indotto il Ministro del tesoro a vendere all’asta pubblica notevoli quantitativi di granone avariato giacenti presso la Federazione nazionale dei consorzi agrari, e se intende usare il medesimo sistema per la vendita di altre ingenti quantità giacenti nelle medesime condizioni».

L’onorevole. Cremaschi ha facoltà di svolgerla.

CREMASCHI OLINDO. Onorevoli colleghi. Da informazioni assunte è risultato che il         Ministero del tesoro, nel mese di luglio ultimo scorso, ha venduto all’asta notevoli quantitativi di granone scondizionato, dei due milioni e 300.000 quintali circa di provenienza U.N.R.R.A., a un prezzo superiore di cinque o sei volte a quello di consegna.

Infatti, risulta che il prezzo d’acquisto del granone proveniente dall’U.N.R.R.A. è di lire 1.080 circa al quintale, mentre quello realizzato nella libera vendita è stato da lire 6.800 a lire 7.250 il quintale.

A parte il fatto che con tale sistema lo Stato abbia potuto incassare parecchi milioni, poiché sarebbero parecchie le migliaia di quintali di granone venduto, vien logico chiedere se allo Stato sia apparsa cosa conveniente alienare dei cereali con maggiorazioni di prezzo che, di riflesso, sono venute ad incidere sul costo di produzione dei prodotti agricoli di prima necessità, e ciò a danno esclusivo di tutti i lavoratori. Infatti quali vantaggi hanno potuto detrarne i consumatori dei grassi e del granone, che fu acquistato a Livorno dalla ditta Galbani di Melzo, dalle Fabbriche riunite amido e glucosio di Milano e di quelle migliaia di quintali venduti a Venezia ed a Mestre? Ci vien logico di domandare se l’U.N.R.R.A. abbia assegnato determinate partite di granone allo scopo di venderle all’asta ai soli commercianti ed industriali; proprio soltanto i grossi commercianti ed industriali risultarono essere venuti in possesso di queste rilevanti partite di granone, mentre le cooperative agricole dei piccoli proprietari, affittuari e mezzadri non sono riuscite, nonostante le loro richieste, ad ottenere nulla, anzi questi, presi dalla grande necessità, per preservare il loro patrimonio zootecnico, hanno dovuto ricorrere ai grandi commercianti per acquistare del granone e pagarlo poi dalle lire 8.000 alle lire 9,000 al quintale. Non sarebbe forse stato più coerente per il Governo destinare le suddette partite ai produttori dai quali il Governo attinge a prezzi vincolistici il conferimento del grano, del latte, dei grassi, dell’olio, del burro, mentre da commercianti e industriali il Governo riceve solo il vantaggio di vedere aumentare vertiginosamente i prezzi dei prodotti destinati al consumo a mezzo della vendita al libero mercato di prodotti ricavati anche da mangimi contingentati, che il Ministro del tesoro stesso a questi ha venduto?

La vendita all’asta di granone, proprio all’epoca della trebbiatura e del conferimento del grano agli ammassi, ha sollevato grandi obiezioni da parte di tutti i piccoli produttori agricoli i quali ben a ragione hanno fatto rilevare essere ingiusto che loro conferissero il grano e i commercianti e gli industriali, che nulla del loro conferivano, erano i soli preferiti per l’assegnazione e per l’acquisto del granone destinato ad uso zootecnico (in compenso l’Alto Commissariato dell’alimentazione, sempre in difesa degli industriali e dei commercianti, ha disposto la libera macellazione dei suini, senza alcuna percentuale vincolata, fino al 30 settembre, ripristinando poi il vincolo nel periodo della macellazione ad uso familiare).

Desidero attirare l’attenzione del Governo, onde evitare che il ripetersi di tali sistemi possa pregiudicare il buon andamento del conferimento dei cereali e dei grassi che tanto sono necessari per favorire l’alimentazione del popolo.

Mentre il Governo si era proposto di combattere il mercato nero e la speculazione, proprio dai suoi uffici sarebbero messi in atto sistemi atti ad alimentare la speculazione e la borsa nera.

Io chiedo, pertanto, al Ministro del tesoro che precisi quali siano state le ragioni che l’hanno indotto a praticare la vendita di granone con maggiorazione di prezzi e quali siano state quelle di indire un’asta non pubblica e come sia stato possibile alienare tale prodotto proveniente dall’U.N.R.R.A. senza incorrere nell’infrazione del regime vincolistico dell’Alto Commissariato dell’alimentazione e delle norme che regolano il soccorso dell’U.N.R.R.A. per l’assistenza alimentare al nostro Paese.

Al Ministro dell’agricoltura ho rivolto l’interpellanza per conoscere le ragioni per le quali si è avuta sul libero mercato la vendita di farina ricavata dal granone degerminato a lire 4120 il quintale. È da notare che il granone, dal quale venne ricavata la suddetta farina, è stato conferito dai produttori e a loro pagato in ragione di 1.600 e 1.900 lire al quintale; pertanto ritengo ingiustificato che debba ritornare, a coloro che hanno conferito del granone, della farina maggiorata di prezzo e ridotta della sua capacità nutritiva. (Questa notizia è stata riportata sul giornale Il Globo del 23 luglio 1947).

Con tali sistemi non si sono affatto aiutati i piccoli produttori ed il Governo non ha dato loro un riconoscimento del grande contributo dato all’alimentazione del Paese col conferimento del loro prodotto. Ma si è favorito il mercato nero e l’aumento dei prezzi a danno di tutte le masse lavoratrici.

Non ho potuto pertanto fare a meno di interpellare il Governo affinché esso ci dia quei necessari chiarimenti atti a determinare nei piccoli produttori quello stato d’animo necessario perché continuino nel loro sforzo e continuino a dare il loro contributo al Paese. (Applausi).

PRESIDENTE. L’onorevole Sottosegretario di Stato per il tesoro ha facoltà di rispondere.

PETRILLI, Sottosegretario di Stato per il tesoro. Gli onorevoli interpellanti hanno chiesto di conoscere quali siano le ragioni che indussero il Ministro del tesoro a vendere all’asta pubblica notevoli quantitativi di granone avariato giacenti presso la Federazione nazionale dei consorzi agrari e se intenda usare il medesimo sistema per la vendita di altre ingenti quantità giacenti nelle medesime condizioni.

Devo premettere che le vendite di granturco scondizionato sono state effettuate col sistema dell’asta fino al 18 luglio ultimo scorso, data dalla quale una deliberazione del Comitato interministeriale per la ricostruzione ha stabilito che detta merce dovesse essere ceduta a prezzo predeterminato dalla pubblica amministrazione.

Le ragioni che giustificarono la procedura di vendita all’asta fino alla data del 18 luglio sono essenzialmente tre:

1°) compensare le gestioni statali delle sensibili perdite derivanti dalla vendita di partite di prodotti vari fortemente deteriorate;

2°) evitare le speculazioni determinantisi intorno alla cessione a basso prezzo di generi alimentari di importazione;

3°) evitare recriminazioni su asserite preferenze di acquirenti.

Le sole eccezioni al nuovo sistema, quello, dico, proposto dal Comitato interministeriale della ricostruzione, della vendita cioè a prezzi predeterminati, sono attualmente quelle riferentesi: a) ai quantitativi inferiori ai cento quintali, che vengono ceduti a prezzo intermedio fra quello ufficiale dei prodotti buoni all’alimentazione umana e quello di libero mercato; b) alle limitate partite destinate ad usi industriali che sono cedute di regola attraverso gare (asta pubblica, licitazione privata, ecc.).

Il Ministero del tesoro ritiene che convenga sottoporre nuovamente al Comitato interministeriale della ricostruzione la situazione in parola, perché esamini se non sia opportuno, come sembra, adottare provvedimenti che adeguino il prezzo del granone scondizionato a più confacente livello per lo Stato, atteso fra l’altro che dal primo del corrente anno il prezzo del cereale buono all’alimentazione umana è stato portato ad oltre lire 3.800 al quintale.

PRESIDENTE. L’onorevole Cremaschi Olindo ha facoltà di dichiarare se sia sodisfatto.

CREMASCHI OLINDO. Non mi ritengo sodisfatto della risposta data a questa interpellanza, poiché, dato il regime vincolistico, e dato che questi prodotti vengono assegnati per portare un contributo al nostro Paese, non ravviso la ragione per cui il Ministro del tesoro, per risolvere determinate deficienze di operazioni che esso stesso riscontra nella sua risposta, abbia potuto stabilire un aumento dei prezzi. Perché noi vediamo che il prezzo del granone scondizionato è portato a 3.800 lire, comprensivo di determinate spese, mentre l’altro è stato di 7.000-7.250 lire al quintale.

Noi domandiamo per quale ragione vi siano state delle cooperative che avevano avuto delle mirate astrazioni con ordine tassativo di non alterare i prezzi (e qui ricordo l’intervento dell’onorevole Cerreti allorché disse che in seguito al riscontro di una alterazione del prezzo aveva provveduto con la sospensione del presidente e la denuncia dello stesso, mente per il Ministro del tesoro questo non avviene. Quindi l’alterazione dei prezzi non riguardava per nessunissima ragione prodotti che erano stati destinati ad un determinato uso e non ritengo che per questo il Ministro del tesoro abbia avuto ragione di giustificarsi con le proprie operazioni di contabilità, per le assegnazioni che sono state fatte col sistema dell’asta sul mercato libero, che poi non era mercato libero, perché se andiamo a vedere, vi sono state cooperative che si sono presentate a Venezia per andare ad acquistare determinate partite di granone e queste cooperative non sono state accettate come concorrenti, in quanto il granone stesso era già stato assegnato in precedenza. Quindi non è neanche un’asta pubblica.

Se vi sono alterazioni nella determinazione dei prezzi, osservo che c’è una legge che dice che i prezzi di determinati prodotti non possono essere alterati. Vi è un’infrazione di carattere annonario per ciò che riguarda il vincolo del grano ed abbiamo visto che vi sono stati dei sindaci che sono stati processati o colpiti da mandato di cattura perché, per ragioni annonarie, hanno alienato dei prodotti per sanare determinate situazioni in favore dei lavoratori.

Orbene, chi ha alienato e venduto questi prodotti al di fuori del prezzo stabilito? Chi ha dato questo mandato? Sono prodotti che vengono mandati al nostro Paese e devono servire al Paese, non alla speculazione. E poi abbiamo visto che i nostri contadini dovevano recarsi dai grandi mugnai per acquistare il grano. Lo abbiamo visto in provincia di Modena, dove dovevano recarsi ai «Mulini nuovi» per acquistale farina a 10 mila lire al quintale. Quindi, la speculazione non si è eliminata, ma si è potenziata. Lo abbiamo visto nella stessa provincia di Modena, dove il prefetto si era imposto per effettuare la vendita del granone scondizionato.

Ebbene, grazie all’intervento del segretario della Camera del lavoro, questo fu evitato, perché una vendita all’asta ai grandi commercianti ed industriali, in quel particolare momento, quando il contadino doveva conferire i suoi prodotti, non rivestiva il significato di un invito ai produttori ad essere disciplinali e corretti, ma piuttosto pregiudicava il buon andamento della campagna del grano, e non solo del grano, ma del burro, dei grassi in genere, in una parola dei prodotti che sono tanto necessari all’alimentazione del Paese.

Io non mi ritengo quindi sodisfatto della risposta, perché sono convinto che una modifica dei prezzi di prodotti contingentati non può essere disposta dal Ministro del tesoro né dal Comitato interministeriale per la ricostruzione senza interpellare le organizzazioni interessate.

PRESIDENTE. Segue l’interpellanza degli onorevoli Gavina, Cremaschi Olindo, Gorreri, Bianchi Bruno, Moranino, Lozza, Bucci, Mezzadra, Fantuzzi, Lizzadri, Pastore Raffaele e Malagugini, al Ministro dell’agricoltura e delle foreste, «per sapere se e quali provvedimenti intenda adottare per eliminare le conseguenze che si sono determinate, a tutto danno per la produzione, in materia di pagamento di canoni di affitto in natura (grano) in seguito alla promulgazione del decreto che fissava in lire 4000 (quattromila) il quintale il prezzo del grano consegnato agli ammassi; e per sapere se e quali direttive intenda infine dare agli organi periferici delle province di Pavia e Como per permettere che le operazioni di trebbiatura e di consegna agli ammassi si possano svolgere in un clima di ordinato lavoro eliminando la grande tensione che minaccia di turbare la tranquillità di quelle laboriose popolazioni».

L’onorevole Gavina ha facoltà di svolgerla.

GAVINA. Onorevoli colleghi, onorevole Ministro! È questa la prima volta che io prendo la parola in questa Assemblea. Il mio sistema è quello del ragionatore piano, semplice, modesto e particolarmente e possibilmente chiaro; preciso e conciso nel senso di sottoporre all’attenzione degli onorevoli colleghi il problema di cui si tratta, svolgendone la relativa argomentazione.

Perché dunque noi del Gruppo comunista e del Gruppo socialista, firmatari dell’interpellanza, abbiamo creduto di richiamare l’attenzione dell’onorevole Ministro sui problemi in argomento? È dal 22 luglio che è stata presentata questa nostra interpellanza. Allora essa presentava un duplice interesse: da una parte, il rapporto della liquidazione dei canoni in natura; dall’altra, il rapporto delle operazioni di trebbiatura.

Io avevo, per la verità, diviso in due tempi, secondo questa suddivisione, la mia interpellanza. Ma vengo ora semplicemente a quello che è il punto centrale. In questa Camera, nella nostra Assemblea – permettetemi una lievissima digressione – vi è normalmente l’abitudine di parlare molto e in senso giuridico: di praticità, di problemi che si possono risolvere e con il buon senso e con la pratica, poco si discute.

Io non voglio, con questo, muovere un appunto ai colleghi avvocati: sono avvocato anch’io. Io rilevo però che vi sono gravi disquisizioni giuridiche nelle quali si perde il punto. È vero che perdiamo il punto tutti insieme, onorevole Ministro, se l’argomento che vi sto esponendo dovesse portare a ritenere che la Magistratura ha detto che è tutto incostituzionale ciò che ha fatto il Governo.

Ci vuol dunque maggiore praticità, maggiore aderenza giuridica a quella che è la soluzione pratica dei problemi, e non già aderenza a quelle che sono le disquisizioni.

Io sono lombardo; parlo da lombardo, parlo in senso pratico.

E allora, qual è l’argomento che ci interessa?

Prezzo del grano 1945-46: 2250 lire al quintale; delle quali 750 erano date a titolo di premio di maggiorazione, di intensificazione della produzione, e 1.500 erano indicate come ammontare dei canoni che si pagano in natura. Voi sapete che da noi, in particolare oggi, i canoni dei fitti, delle tenute affittate, sono pagati non in denaro, ma con corrispettivo in natura. Ebbene, voi avete due termini di confronto: 2250 lire: 750 al produttore, 1.500 al locatore.

Prezzo del grano 1946-47: 4.000 lire. Stando così le cose noi abbiamo che il prezzo da corrispondere al locatore è di 4.000 lire al posto di 1.500. Quando scrivevo l’interpellanza il provvedimento non era stato ancora preso. Si diceva – l’ho letto in un articolo del Globo – che il Ministero avesse intenzione di proporre una maggiorazione del 30 per cento.

Il che avrebbe portato a questo risultato: 1.200 lire quale premio di integrazione per la produzione del grano e 2.800 per canone di affittanza.

Anche se fosse venuto questo provvedimento, è vero o non è vero, onorevoli colleghi, che noi avremmo ottenuto il raddoppiamento dell’importo del canone in natura al locatore e una maggiorazione di 500 lire per chi produce il grano? Voi avete aumentato il prezzo del grano, portandolo da 2250 a 4.000 lire, per incrementare la produzione, e avete ottenuto come risultato di aver raddoppiato il canone d’affitto.

Ma non sarebbe ancora niente. Distinguo rapidissimamente il mio dire in due dati: uno di fatto, del quale mi sto occupando, e uno di riflesso giuridico, di diritto, del quale verrò a parlare in seguito. Perché il ritardo nello svolgimento della nostra interpellanza – credo che in ciò sia consenziente il Ministro – ha portato a questo risultato: di doverci occupare dell’una e dell’altra cosa.

Ebbene, dicevo che il risultato pratico sarebbe oggi di aver raddoppiato il canone di affitto. Vi sono altre voci, non solo quella del grano, vi sono altri prodotti che attendono di essere perequati, per potervi avere una perequazione dei canoni di affitto.

Premesso questo, credo di aver richiamato la vostra attenzione sull’assillante problema: o il Governo interviene e precisa d’imperio un prezzo che sia di premio alla produzione, oppure assisteremo a questo bel risultato: che i locatori non solo non si adegueranno a quella che sarebbe l’indicazione di perequazione data da voi, Ministro dell’agricoltura, del 30 per cento, che porterebbe a 2.800 lire il prezzo del canone di affitto, canone in natura, ma pretenderebbero e pretendono che l’affittuario, che il conduttore versi, se non paghi direttamente nelle mani del locatore, versi la differenza, cioè paghi – facciamo l’esempio di cento quintali – invece delle 150 mila lire del 1946, 280 mila, se accetta la perequazione del 30 per cento; 400 mila se non l’accetta. Questa è la situazione di fatto.

Ma dicevo, onorevole Ministro, che noi ci dobbiamo preoccupare di una situazione che è venuta a crearsi dopo, e sulla quale permetterete che io richiami la vostra attenzione, non per il problema in se stesso, che parte dal decreto del 1° aprile 1947, ma perché si riallaccia a tutta quella che è la precedente legislazione in materia.

Nel 1942 noi abbiamo, o meglio il Governo di allora ha fissato, un premio per i conferenti.

È nata una contestazione giuridica nella quale la magistratura, intervenendo sul rilievo che il conferente era tanto il locatore quanto il conduttore, ha detto: il premio va suddiviso a tutte e due le parti.

E allora (1944-45) il Ministro Gullo ha cercato di ovviare all’inconveniente spostando il termine: anziché parlare di conferente ha parlato di produttore.

Senonché la magistratura dichiarava incostituzionale il decreto Gullo, non essendo consentito al Ministro di emanare norme in materia di diritto privato.

Poiché la tardiva decisione della Cassazione veniva a riaprire i cicli economici già chiusi (perché si erano liquidati i canoni su questa base), che cosa è avvenuto? Nell’intento di ovviare all’inconveniente, con decreto 22 giugno 1946, n. 44, del Presidente della Repubblica, all’articolo 4 si convalidavano i due decreti Gullo del 1944-45. Ma la Cassazione a sezioni riunite dichiarava la incostituzionalità di detto articolo in quanto con detta disposizione il Capo dello Stato poneva nel nulla il provvedimento dell’Autorità giudiziaria che aveva già dichiarato incostituzionale il decreto Gullo.

Così la questione venne riaperta.

Per inciso (mi si permetta un piccolo breve inciso), non si è parlato in quel decreto di quello che è il canone in natura del risone, di guisa che anche per questo non è stata e non è possibile una liquidazione.

E allora, nell’interesse di sanare queste situazioni (perché voi capite, onorevoli colleghi, che quando uno lavora e va dal proprietario per pagare il suo canone di affitto e si sente dire che non solo non può prendere la percentuale attuale che ha stabilito oggi il nuovo Governo, ma deve restituire anche l’illecito – dico l’illecito! – che avrebbe trattenuto, voi capite che la casistica va all’infinito e che la situazione alla periferia diventa caotica); per sanare queste situazioni – dicevo – che cosa ha fatto il Governo? Il Governo, col decreto 1° aprile 1947 del quale ci occupiamo (e per inciso ne ho richiamato i limiti), ha cercato di risolvere in pieno la controversia nel senso di istituire commissioni periferiche (due commissioni: una generica e l’altra particolare e specifica) per adeguare i canoni in natura.

Forse io penso che il provvedimento era – almeno nella mente e nell’animo di chi lo emanava – un anticipo di quel provvedimento integrativo del 30 per cento; e cioè: secondo l’ubicazione e secondo la possibilità di produzione dei fondi, la commissione arbitrale locale avrebbe provveduto a determinare il canone.

Che cosa è avvenuto? Anche prima che le Commissioni (che dovevano essere per legge presiedute da un magistrato) si mettessero all’opera in provincia (perché il decreto consentiva 90 giorni per la presentazione del ricorso), con sentenza 18 giugno 1947 la Corte d’appello di Torino dichiarava inapplicabile il decreto, esulando dai poteri del Capo dello Stato quello di istituire delle commissioni speciali.

E allora, onorevole Ministro ed onorevoli colleghi, possiamo noi assistere ad un così indecoroso fatto, per cui la nostra autorità legislativa emana decreti e quella che dovrebbe essere l’autorità interpretativa ed applicativa della legge li dichiara tutti incostituzionali?

Alla periferia avviene questo: non si possono liquidare i canoni di affitto, malgrado la buona volontà dei coltivatori, per incomprensione o meglio esosità dei locatari, ai quali non sembra vero di potersi appigliare a cavilli legali e le commissioni non funzionano.

Onorevole Pallastrelli (mi rivolgo a lei per incidenza come vecchio amico e come agricoltore), quando io ieri l’altro ho avuto l’invito da lei per assistere a quella riunione dove con altri competenti volevate proporre e prospettare la possibilità di provvedimenti per la produzione del grano, non potendo per impedimento intervenirvi, ho pensato che l’agricoltore Pallastrelli, del Consorzio provinciale agrario di Piacenza, non poteva non sapere che se noi abbiamo una lira che vale venti soldi e la spendiamo diciannove volte per diciannove soldi, all’ultimo noi ci troviamo senza la lira. Non potete pretendere dai produttori che si versi il grano all’ammasso se non avete prima fissato il prezzo del grano, che ovvii a tale inconveniente. Il prezzo va fissato prima della semina.

Per ritornare nei termini del mio problema, io chiedo al Governo se e quali provvedimenti può emanare e chiedo ai colleghi della Costituente che dicano se possiamo fare un articolo di legge il quale tagli nettamente ogni possibilità di discussione.

Io ricordo che problemi contingenti della specie li abbiamo risolti da soli, nelle nostre province quando, io viceprefetto politico di Pavia e voi, onorevoli colleghi Fornara e Lombardi, prefetti rispettivamente di Novara e Milano, abbiamo preso analoghi provvedimenti omologati dalla A.M.G.: le parti, sulle indicazioni date, hanno allora potuto, e potrebbero ancora oggi, direttamente liquidare i loro interessi privati; se non il liquidano, ci sia la commissione specifica la quale decida inappellabilmente: si vada avanti alla commissione per finire le cose, non per cominciarle.

Perdonino i colleghi avvocati, ma quando si va davanti alle commissioni assistiti da legali, di regola non si risolve mai nulla. Questa è la proposta che faccio all’Assemblea e al Governo perché la mia modesta parola possa servire di pratica soluzione e non di critica inutile e sterile. (Applausi).

PRESIDENTE. L’onorevole Ministro dell’agricoltura e delle foreste ha facoltà di rispondere.

SEGNI, Ministro dell’agricoltura e delle foreste. Risponderò molto brevemente. La prima questione, quella del canone di affitto in grano per l’anno agrario 1946-47, era già risolta quando veniva presentata l’interrogazione. Naturalmente, la deliberazione al Consiglio dei Ministri venne qualche giorno dopo, e il decreto è stato pubblicato in ritardo nella Gazzetta Ufficiale del 2 ottobre 1947. Ha subito questo ritardo per una vicenda singolare. Il decreto fu mandato alla Commissione della Costituente con la richiesta di urgenza e fu ritirato trascorso largamente il termine fissato in regolamento senza nessuna decisione della Commissione stessa, forse perché si era in periodo di vacanza dell’Assemblea. La Corte dei conti per questo motivo oppose difficoltà alla registrazione, che furono superate solo alcuni giorni or sono. Il decreto però ormai è entrato in vigore, e regolerà senza che vi siano gravi attriti fra le parti i canoni in grano dell’anno agrario decorso. Non vi sono gravi differenze fra la situazione del 1945-46 e la situazione del 1946-47, in quanto per lo scorso anno la riduzione apportata al prezzo del grano era del 33 per cento e quest’anno è del 30 per cento. Quindi i gravami all’affittuario, di cui parla l’onorevole Gavina, non mi pare che in realtà vi siano stati: i canoni vengono raddoppiati; ma tutti i prezzi sono stati raddoppiati purtroppo in quest’ultimo anno. Sono stati raddoppiati anche i prezzi a cui si vendono le merci e le derrate agricole, in modo che è equo che l’affittuario paghi di più, siccome ha un reddito quasi doppio dell’anno decorso. Si è avuta per i fitti una proporzione quasi uguale a quella fra tutti gli altri costi e prezzi del 1946 e quelli del 1947.

L’altra questione sollevata dall’onorevole Gavina è più complessa: riguarda non solo il decreto di questo anno ma tutto il sistema dei canoni di affitto del grano da molti anni a questa parte: non solo i canoni regolati dai decreti Gullo 1944-45, ma anche i canoni anteriori per i quali erano state emanate dal Governo fascista alcune norme analoghe, attraverso il comitato corporativo che si riteneva allora investito di questo potere. Fin dal 1942 abbiamo avuto una scomposizione nel prezzo pagato dagli ammassi per i conferimenti grano, in modo che gli affittuari non corrispondono l’intero prezzo ma una parte. Nel 1943 il rapporto era di un terzo all’affittuario e due terzi al proprietario. Nel 1944 questa proporzione fu elevata al 50 per cento; nel 1946 e 1947 si è ritornati al punto di partenza. I rapporti di affitto si erano adattati sostanzialmente a questa scomposizione del prezzo, e nei nuovi contratti si era quindi tenuto conto di questa scomposizione per aumentare i quantitativi del corrisposto. Vi fu un adeguamento su una norma che dopo cinque anni poteva dirsi tradizionale. Ed è per questo che quest’anno gli affittuari hanno richiesto di addivenire ad uno sdoppiamento del prezzo appunto perché i canoni stipulati in questi anni tengono conto di questo sdoppiamento: un terzo e due terzi. E quindi se si fosse venuto ad eliminare lo sdoppiamento si sarebbe aggravato eccessivamente il canone, in modo che non sarebbe stato sopportabile dagli affittuari.

D’altronde, si è creduto di dare una riduzione minore di quella dell’anno scorso in relazione ai maggiori oneri fiscali che i proprietari fondiari devono sopportare. Per lo stesso motivo nel decreto che regola l’ammasso per contingente si è stabilito che il canone in natura venga trasformato in canone in danaro al pieno prezzo che verrà stabilito per il grano. Questo perché se noi dobbiamo incoraggiare le imprese agricole, dobbiamo anche però tener conto dei maggiori gravami fiscali sul proprietario come tale, indipendentemente dalla gestione dell’impresa agricola. La patrimoniale straordinaria proporzionale, la patrimoniale straordinaria progressiva, le imposte fondiarie gravano sulla proprietà e non sull’impresa; e si è ritenuto necessario che il proprietario possa essere posto in condizione di poter sopportare questi oneri. Questo a prescindere dalla manutenzione e da altri oneri del proprietario. Però con un decreto che l’onorevole Gavina ha ricordato, decreto del 1° aprile 1947, che è richiamato anche nel decreto testé pubblicato e che deve valere come principio generale, si era creduto di poter dare una regolamentazione più completa a questa materia molto complessa; si era addivenuti alla costituzione di due commissioni: una commissione tecnica, la quale doveva dare direttive d’ordine generale, ed una giurisdizionale, la quale doveva giudicare i casi che fossero rimasti controversi dopo le decisioni della prima commissione, per perequare i canoni di affitto eliminando le punte eccessive, ossia eliminando sia i canoni eccessivamente alti, come quelli eccessivamente bassi. La perequazione deve avvenire nei due sensi: tanto nel senso di diminuire i canoni elevati, come nel senso di elevare quelli troppo bassi. Esistevano infatti contratti a termine più o meno lungo, novennali o ultranovennali, stipulati prima dell’attuale svalutazione, i quali mettevano il proprietario in una condizione veramente difficile, mentre ponevano l’affittuario nella condizione di avere un notevole lucro di congiuntura.

Questo decreto, purtroppo, ha avuto una prima disavventura: la Corte di appello di Torino lo ha dichiarato incostituzionale, per i motivi ricordati dall’onorevole Gavina.

Tuttavia, posso dichiarare che, poiché la sentenza era passata in giudicato, è stato interposto ricorso davanti alla Cassazione nell’interesse della legge. Il Governo si è preoccupato della grave situazione che veniva a crearsi in seguito alla sentenza ricordata e ha ritenuto di dovere riaffermare la costituzionalità dello stesso decreto, poiché ha disposto l’impugnativa della detta sentenza nell’interesse della legge.

Richiederò che il ricorso, già proposto, sia discusso nel più breve termine possibile. Ritengo che la questione della incostituzionalità dei decreti del 1° aprile e del 22 giugno 1946 sia di una gravità veramente notevole, perché investe una molteplicità di rapporti, i quali, in base ad una serie di norme, emanate dal 1942 in poi, avevano trovato una loro sistemazione. La maggior parte di questi rapporti si era sistemata pacificamente tra le parti, con l’adeguamento a norme di legge, riconosciute eque, seppure con qualche adattamento, caso per caso.

La recente sentenza, ricordata dall’onorevole Gavina, rimette in discussione non solo il decreto Gullo, ma tutte le norme precedenti del Governo fascista, e rimette in campo una questione spinosissima e complessa. Il Governo ha già dimostrato di volere ovviare alla situazione, mediante la interposizione di ricorso alla Cassazione, nell’interesse della legge. Se questo rimedio non si rivelerà efficace, l’Assemblea Costituente dovrà risolvere la questione. Perciò dichiaro, come mia opinione personale, che il Governo chiederà di sottoporre la questione all’Assemblea, perché la risolva con una sua legge, non potendosi lasciare nell’incertezza norme che riguardano imprese agrarie di tutte le dimensioni, le quali ci dànno grano ed altri prodotti agricoli e per le quali occorre ricostituire una situazione di tranquillità.

Credo che con questa legge potranno essere definitivamente risolte tutte le questioni al riguardo.

PRESIDENTE. L’onorevole Gavina ha facoltà di dichiarare se sia sodisfatto.

GAVINA. Sono lieto di aver provocato e di aver avuto le delucidazioni dell’onorevole Ministro, le quali, in fondo, come egli ha assicurato, dànno la prova che il problema esiste e sussiste e che il Governo intende risolverlo.

Io faccio presente una cosa, in linea di fatto: già il decreto del 1° aprile lo premette: nella eventualità che le Sezioni riunite della Corte di cassazione dessero parere contrario al ricorso presentato e si dovesse perciò ricorrere alla Costituente, voglia il Governo tener presente che non si tratta solo del grano, ma di tutti i prodotti per i quali si paga il canone in natura, e chiaramente provvedere.

D’altra parte, il decreto 1° aprile 1947 incideva già nel merito in tal senso.

Ringrazio l’onorevole Ministro della risposta datami ed attendo che si possa rapidamente giungere in porto.

PRESIDENTE. È così esaurito lo svolgimento delle interpellanze e quindi dell’ordine del giorno.

Interrogazione e interpellanza con richiesta d’urgenza.

PRESIDENTE. È pervenuta alla Presidenza la seguente interrogazione con richiesta di risposta urgente:

«Al Governo, per conoscere cosa risulti allo stesso circa il ferimento di giovani democristiani a Genzano, in seguito ad aggressione avvenuta nel pomeriggio di domenica 5 ottobre 1947.

«Cremaschi Carlo».

Chiedo al Governo quando intenda rispondere.

ANDREOTTI, Sottosegretario di Stato alla Presidenza del Consiglio dei Ministri. Il Governo risponderà nella seduta di lunedì prossimo.

PRESIDENTE. È pervenuta anche la seguente interpellanza con richiesta di svolgimento urgente:

«Al Ministro di grazia e giustizia, per chiedere se non ritenga conforme ai principî ispiratori della legislazione penale sui minorenni l’adeguamento delle pene pecuniarie all’odierna svalutazione della moneta, ai fini dell’applicazione del perdono giudiziale e della sospensione condizionale della pena, e se, allo stesso scopo, non ravvisi opportuno che siano eliminate, nei confronti degli imputati d’età minore, specie per i reati d’indole annonaria, l’obbligatorietà del mandato di cattura e tutte le altre aggravate restrizioni limitative della libertà personale.

«Caroleo».

Chiedo al Governo quando intenda rispondere.

ANDREOTTI, Sottosegretario di Stato alla Presidenza del Consiglio dei Ministri. Mi riservo di far conoscere quando il Governo intenda rispondere..

Interrogazioni.

PRESIDENTE. Si dia lettura delle interrogazioni pervenute alla Presidenza.

AMADEI, Segretario, legge:

«Il sottoscritto chiede d’interrogare il Ministro dell’agricoltura e delle foreste, per chiedere se, in attesa dell’auspicata riforma agraria, non ritenga rispondente a criteri di giustizia verso i lavoratori della terra, oltre che alle esigenze dell’appoderamento, l’adozione di un provvedimento legislativo, rivolto ad agevolare, nei convenzionali trasferimenti di proprietà immobiliare, specie nelle zone di latifondo, il maggior frazionamento della terra, col rispetto dovuto alla minima entità colturale; e rivolto, altresì, a stabilire un diritto di prelazione nell’acquisto, a parità di condizioni, in favore di coltivatori diretti, i quali si trovino da più anni in possesso del terreno in vendita e vi abbiano eseguito opere di miglioramento.

«Caroleo».

«Le sottoscritte chiedono di interrogare il Presidente del Consiglio dei Ministri e il Ministro dell’interno, per conoscere le circostanze ed i motivi che hanno determinato l’indegno atteggiamento delle forze di polizia di Palermo, che non hanno esitato a caricare un pacifico corteo di donne e di fanciulli, che ordinatamente chiedeva il tesseramento differenziato e la distribuzione di viveri. Le interroganti chiedono quali provvedimenti si intendano adottare sia a carico dei responsabili dell’inumana azione di polizia di Palermo sia per tutelare le manifestazioni democratiche, oggi nemmeno più difese dalla presenza di innocenti fanciulli e dall’elementare rispetto dovuto alle donne.

«Gallico Spano Nadia, Merlin Angelina, Montagnana Rita, Mattei Teresa, Bei Adele, Noce Teresa, Pollastrini Elettra, Iotti Leonilde, Minella Angiola, Rossi Maria Maddalena».

«Il sottoscritto chiede d’interrogare il Presidente del Consiglio dei Ministri, per sapere se non ritenga opportuno ridurre da cinque a tre il numero di anni di lodevole servizio previsti dal decreto legislativo il novembre 1946, n. 461, perché possa prescindersi dal limite massimo di età per l’ammissione ai concorsi pubblici presso gli Enti locali del personale non di ruolo di detti Enti; e ciò a favore di coloro che non furono mai iscritti al partito fascista o che ne subirono persecuzioni, e che quindi – come di fatto si è verificato in molti casi – vengono a trovarsi esclusi dal suddetto beneficio, in quanto non poterono prestar servizio presso quelle pubbliche Amministrazioni prima del 25 luglio 1943. (L’interrogante chiede la risposta scritta).

«Giolitti».

«II sottoscritto chiede d’interrogare il Ministro dei trasporti, per sapere se è a conoscenza delle gravissime condizioni di deperimento in cui versa, per incuria dell’amministrazione competente, la linea tramviaria Cuneo-Torino, gestita dalla S.A.T.I.P., dalla quale dipendono totalmente i trasporti in una vasta è importante zona agricola; e se non ritenga, al riguardo, di accogliere le proposte formulate dalla Commissione interna della S.A.T.I.P. in data 8 agosto 1947, o almeno di disporre per una accurata ed esauriente ispezione che metta il Ministro in grado di prendere tempestivamente adeguati provvedimenti. (L’interrogante chiede la risposta scritta).

«Giolitti».

«Il sottoscritto chiede d’interrogare il Ministro dell’interno, per conoscere se, in adesione ai voti formulati dagli Enti locali, non si ritenga opportuno disporre perché il servizio dei vigili del fuoco per i capoluoghi inferiori ai 50.000 abitanti ritorni alle dirette dipendenze dei Comuni, come esisteva prima della trasformazione operata dal fascismo, rendendo così possibile un migliore adeguamento del servizio alle esigenze locali con notevole riduzione di spesa, fermi rimanendo il coordinamento provinciale tra i diversi corpi comunali e la destinazione definitiva ad essi dei materiali di cui attualmente sono dotati. (L’interrogante chiede la risposta scritta).

«Bubbio».

«Il sottoscritto chiede d’interrogare i Ministri del lavoro e previdenza sociale e del tesoro, per conoscere se non ritengano doveroso, ciascuno per la propria competenza, emanare provvedimenti a favore della categoria dei ciechi, i quali, in questo periodo di grave disagio economico, reso ancor più grave dalla naturale impossibilità a provvedere da sé, si trovano in condizioni della più nera miseria.

«L’interrogante fa rilevare che l’Unione italiana ciechi ha già avanzato memoriali, esponenti la grave loro situazione e che ebbe promesse di provvedimenti, che ancora, dopo lungo tempo, non sono stati definiti.

«Questo silenzio da parte dell’Amministrazione dello Stato determina in questi italiani infelici un’esasperazione che va sollevata per quel senso di elementare solidarietà umana e nazionale, a cui hanno diritto i nostri ciechi. (L’interrogante chiede la risposta scritta).

«Musolino».

«Il sottoscritto chiede d’interrogare il Ministro del lavoro e della previdenza sociale, per conoscere se sia suo intendimento di fare affluire urgentemente lavoro di manifattura di biancheria disposto dall’U.N.R.R.A. al laboratorio di Palermo, dove lavorano circa cento operaie, in parte vedove di guerra ed in parte mogli o figlie di reduci, che fra una diecina di giorni dovranno essere sospese per mancanza di lavoro.

Se non sia nelle intenzioni dell’onorevole Ministro abolire il compenso a cottimo nei riguardi delle predette operaie, che si ravvisa assolutamente inadeguato, sostituendovi il compenso a giornata, secondo i minimi di paga relativi a tale categoria di lavoratrici. (L’interrogante chiede la risposta scritta).

«Castiglia».

«Il sottoscritto chiede d’interrogare l’Alto Commissario per l’igiene e la sanità pubblica, per conoscere se abbia adottato o si proponga di adottare provvedimenti intesi a normalizzare l’attuale situazione dell’organizzazione provinciale sanitaria di Catania.

«Sembra, infatti, che i servizi sanitari di quella provincia lascino molto a desiderare, soprattutto per la mancanza di un titolare dell’ufficio sanitario provinciale e che, nonostante la nomina sia stata fatta sin dal marzo scorso, sarebbe riuscito vano al medico nominato ogni tentativo di prendere possesso del suo ufficio. (L’interrogante chiede la risposta scritta).

«Varvaro».

PRESIDENTE. Le interrogazioni testé lette saranno iscritte all’ordine del giorno e svolte al loro turno, trasmettendosi ai Ministri competenti quelle per le quali si chiede la risposta scritta.

La seduta termina alle 19.50.

Ordine del giorno per la seduta di domani.

Alle ore 16:

Seguito della discussione sul progetto di Costituzione della Repubblica italiana.

POMERIDIANA DI SABATO 4 OTTOBRE 1947

ASSEMBLEA COSTITUENTE

CCXLVI.

SEDUTA POMERIDIANA DI SABATO 4 OTTOBRE 1947

PRESIDENZA DEL PRESIDENTE TERRACINI

indi

DEL, VICEPRESIDENTE BOSCO LUCARELLI

INDICE

Sul processo verbale:

Sereni

Congedi:

Presidente

Mozioni (Seguito della discussione):

Sforza, Ministro degli affari esteri

Nenni

Togliatti

Saragat

De Gasperi, Presidente del Consiglio dei Ministri

Presidente

Lucifero

Giannini

Bozzi

Bellavista

Tosato

Dugoni

Dossetti

Cortese

Fabbri

Crispo

La Rocca

Lussu

Lombardi Riccardo

Macrelli

D’Aragona

Dominedò

Chiostergi

Nitti

Caroleo

Mazzoni

Votazione nominale:

Presidente

Risultato della votazione nominale:

Presidente

Sugli ordini del giorno:

Quintieri Quinto

Micheli

Magrini

Crispo

Macrelli

Domenidò

Scoccimarro

Laconi

Sardiello

De Gasperi, Presidente del Consiglio dei Ministri

Chiostergi

Interrogazioni e interpellanza (Annunzio):

Presidente

La seduta comincia alle 16.

MOLINELLI, Segretario, legge il processo verbale della precedente seduta pomeridiana.

Sul processo verbale.

SERENI. Chiedo di parlare.

PRESIDENTE. Ne ha facoltà.

SERENI. Nella seduta pomeridiana di ieri ebbe seguito un incidente sollevato nella seduta del mattino, a proposito di un brano del mio discorso, da parte dell’ingegnere Corbellini. Mentre parlava l’onorevole Pajetta, che ebbe a fare il nome dell’ingegner Corbellini, questi ribadì quanto aveva detto nella seduta della mattina. Io avevo parlato a proposito della composizione del nuovo Governo, del significato di questa composizione; avevo fatto un accenno al passato dell’ingegner Corbellini, al passato politico, senza fare nessun particolare apprezzamento personale, ma traendone motivo per dare una valutazione della composizione del Governo. Alle mie parole, ed a quelle pronunciate nello stesso senso dal collega Pajetta nel pomeriggio, l’ingegnere Corbellini disse che avrebbe querelato chi vi parla. Io credo che l’ingegner Corbellini, che non è un parlamentare, ignori il fatto che un parlamentare non può essere querelato (Commenti al centro). Tuttavia la redazione de Il Popolo, un giornale che appartiene al Capo del Governo, ha pubblicato un articolo stamani nel quale si dice che l’ingegner Corbellini minaccia di querelare il comunista Sereni.

Ora, io potrei avvalermi con tranquillità della mia facoltà di deputato per ridere di questa querela, ma non intendo affatto avvalermene, e preferisco leggere un documento, di cui depositerò alla Presidenza un esemplare, che così dice:

«Ministero delle comunicazioni. Ferrovie dello Stato. Direzione servizi materiali e trazione. Firenze 25 luglio 1940 anno XVIII. n. 52118650135.

«Al Servizio personale affari generali.

«Si trasmette, per le opportune registrazioni a matricola generale, il brevetto di concessione dellà croce per anzianità di servizio nella milizia volontaria per la sicurezza nazionale, concesso all’ispettore Capo superiore (163376) Corbellini, ingegnere, professore, commendatore Guido.

«Si resta in attesa di ricevere, ecc., ecc.».

Io voglio fare ammenda che non conoscevo questa anzianità. Io non avevo parlato di anzianità. (Interruzioni al centro). Nessuna mia intenzione personale nei confronti dell’ingegnere Corbellini. Abbiamo affermato nella seduta di ieri e riaffermiamo oggi che non abbiamo nessuna intenzione di escludere dalla vita nazionale quelli che hanno avuto un passato fascista. Ho voluto citare questo documento soltanto per dimostrare questo: che mentre in quel momento avevo fatto tutte le riserve perché non conoscevo questo documento particolare, non merito la taccia di calunniatore e che invece il Governo merita la taccia di bugiardo nei confronti della sua maggioranza, che in buona fede ignorava questo fatto. (Applausi a sinistra – Proteste al centro – Commenti).

PRESIDENTE. Se non vi sono altre osservazioni, il processo verbale si intende approvato.

(È approvato).

Congedi.

PRESIDENTE. Hanno chiesto congedo gli onorevoli Porzio, De Vita e Martino Enrico.

(Sono concessi).

Seguito della discussione di mozioni.

PRESIDENTE. L’ordine del giorno reca: Seguito della discussione di mozioni.

Ha facoltà di parlare l’onorevole Ministro degli affari esteri.

SFORZA, Ministro degli affari esteri. Onorevoli colleghi, anche senza la mozione degli onorevoli Nenni e Togliatti, io avrei cercato la prima occasione possibile per riferire all’Assemblea Nazionale sull’azione del Governo circa la conferenza di Parigi e sulla nostra azione circa l’ammissione dell’Italia all’O.N.U.

Ho sempre creduto che il Governo non può che trarre forza dal comunicare le proprie direttive di politica estera all’Assemblea e trarne ammaestramenti e, se può, appoggi. Ma ciò farò in modo brevissimo, perché in certi casi la brevità è la chiave della chiarezza; aggiungerò poi altri elementi i quali risponderanno direttamente o indirettamente ad alcune delle osservazioni che i colleghi hanno fatto durante la discussione sulla politica estera. Essi mi scuseranno se non rispondo loro partitamente per rispetto al tempo ed all’ora. Fissando bene come nacque la Conferenza di Parigi avrò fornito una risposta agli oratori che criticarono come troppo rapida la immediata accettazione dell’invito che fu rivolto all’Italia. Ecco la veridica storia: negli ultimi giorni del giugno scorso i Governi britannico e francese si fecero promotori della immediata convocazione di una Conferenza a tre a Parigi per discutere il problema europeo. A me non piacque questa iniziativa, che correva il rischio di fare diventare politico un convegno che, con la partecipazione di tutti gli Stati europei, doveva essere esclusivamente economico. Non mi piacque perché, con la esclusione anche solo iniziale dei piccoli Paesi e di Paesi come l’Italia che erano stati considerati ex-nemici, esso minacciava di perpetuare una distinzione divenuta anacronistica e che sarebbe stata dannosa alla pace e alla rinascita europea. E tosto formulai queste mie riserve e questi miei sentimenti.

L’Unione Sovietica, dichiarandosi paladina degli interessi delle piccole Nazioni, accentuò il significato politico che la Conferenza avrebbe avuto e ne deprecò il successo.

Ma fu allora che gli anglo-francesi, correggendo l’errore iniziale, affermarono l’esclusivo aspetto economico della riunione e la allargarono, invitando tutti gli Stati di Europa e naturalmente anche la Russia. Dovevamo noi attendere un solo momento per deciderci, proprio quando gli iniziatori della Conferenza davano ragione al nostro punto di vista, cambiando il loro? La nostra rapidità nel decidere era in ragione del nostro interesse e della nostra decisa volontà di agire con tutte le nostre forze a favore della rinascita europea. Non potevamo esitare, coscienti come eravamo del dovere di tutti di superare qualsiasi egoismo per salvare la vita economica dell’Europa, cioè la vita stessa di ognuno di noi.

Come vi riferii nei precedenti discorsi del luglio scorso, stimai subito inammissibile che l’Italia partecipasse senza parità assoluta di condizioni, e lo dichiarai. I governi promotori risposero, invece, che il nostro ritardo a ratificare il Trattato di pace avrebbe impedito una nostra piena partecipazione con diritti uguali agli Stati promotori. Finii, tuttavia, per far comprendere loro che una conferenza economica senza l’Italia era un non senso. L’assicurazione di assoluta parità ci fu quindi data, mentre noi, a nostra volta, dichiarammo che avremmo fatto quanto era in nostro potere perché il Trattato fosse portato all’Assemblea.

Ma il 5 luglio l’Ambasciata sovietica ci significò che il suo Governo non avrebbe aderito alla conferenza. Nella sua nota il Governo di Mosca dichiarava «di avere avuto fin dal principio poca fiducia verso questa iniziativa, sia perché inglesi e francesi si erano messi d’accordo circa le condizioni delle discussioni con gli Stati Uniti dietro le spalle della Russia, sia anche perché nelle dichiarazioni stesse di Marshall non erano state fissate le condizioni e le dimensioni del credito, né la realtà stessa del credito».

Dopo aver ripetuto a due riprese con nuove parole, ma senza un’ombra di prova, questo sospetto, la nota sovietica concludeva dicendo cosa si sarebbe dovuto fare secondo il Governo di Mosca:

«Anzitutto bisognava chiarire la realtà del credito, le sue condizioni e dimensioni, quindi chiedere ai Paesi europei quali sono i loro bisogni di credito e infine compilare un programma sintetico delle loro dichiarazioni, le quali dovrebbero, in quanto possibile, essere soddisfatte in conto dei crediti da parte degli Stati Uniti. Con simile procedere i Paesi europei rimarrebbero padroni della loro economia e potrebbero disporre liberamente delle proprie risorse e delle proprie abbondanze».

Voi vedete quali «risorse e abbondanze» noi avevamo! La nota così concludeva:

«Data una così seria divergenza tra la posizione anglo-francese e la posizione sovietica l’accordo è risultato impossibile».

Noi non abbiamo il menomo diritto di dubitare dell’assoluta sincerità della dichiarazione sovietica, ma essa costituiva un processo ad intenzioni, senza addurre il menomo indizio circa le pretese mire americane. Col sistema dei sospetti sarebbe stato facile ritorcere gli argomenti della nota sovietica. Ma tali esercizi polemici sono pericolosi perché inaspriscono l’atmosfera.

L’andamento della conferenza dovette mostrare a Mosca quanto le cose fossero più semplici, chiare e niente affatto combinate in anticipo; e certo le mostrò quanto liberamente le tesi più diverse poterono agevolmente comporsi.

Fummo molto dolenti che l’Unione Sovietica e gli Stati ad essa vicini non venissero a Parigi; né mai omisi occasione di dichiararlo sia a Mosca che altrove: L’Italia continuò ad auspicare un progressivo allargamento della conferenza e a volere tutte le porte aperte, anche a conferenza finita, verso tutti gli Stati orientali che avessero in seguito voluto aderire all’organizzazione di cui si fossero fissate le basi a Parigi. Molte testimonianze possono darsi in proposito. Ho qui sott’occhio sette od otto mie documentate dichiarazioni che provano come, ogni volta che potei, alla Conferenza di Parigi o altrove, ho insistito perché la porta restasse aperta verso l’Unione Sovietica e gli Stati ad essa alleati e ho affermato la volontà del Governo italiano di mantenere viva la fiducia, la speranza che tutti gli Stati d’Europa aderiscano un giorno ad una organizzazione in cui l’America – è ormai provato – non ha che delle perdite da subire e nessun guadagno e nessuna cupidigia da soddisfare.

Citerò, per esempio, il mio discorso di apertura alla Conferenza di Parigi in cui dissi: «Noi siamo alla vigilia di una trasformazione del vecchio mondo; noi lo faremo con la coscienza che la nostra ricostruzione conservi tutte le porte aperte verso la collaborazione fiduciosa dell’Europa orientale. Dobbiamo tentare di tutto per ricondurre al nostro fianco tutti i Paesi assenti» e così feci il 10 luglio alla Delegazione di Parigi.

Ancora.

Tornato a Roma, in una riunione di Ministri tecnici indetta per concordare ulteriori precisazioni da inviare alla delegazione rimasta a Parigi, stabilii coi colleghi che si significasse quanto segue agli onorevoli Campilli e Tremelloni:

«Si afferma l’interesse economico dell’Italia acché l’area dei Paesi del piano Marshall rimanga aperta nei confronti dell’oriente europeo e che si compia ogni sforzo per favorire la tendenza in atto da parte di alcuni dei Paesi del blocco orientale ad intensificare i rapporti commerciali con i Paesi dell’occidente. In ogni caso l’Italia non dovrebbe rinunziare, ma anzi sviluppare i traffici già avviati con la Polonia, la Cecoslovacchia, la Jugoslavia e gli altri Paesi della Penisola balcanica».

Potrei qui leggervi molti altri testi analoghi. Ma non lo farò per brevità.

Si può aggiungere che la Conferenza di Parigi ha affidato l’esame di talune questioni tecniche, la cui discussione si era iniziata sul piano della Conferenza stessa, alle Sottocommissioni competenti della Commissione economica europea di cui come è noto, fanno parte l’Unione sovietica, la Polonia, la Jugoslavia ed altri Paesi dell’Europa Orientale. L’Italia aderì a tale decisione, non senza sacrifizio, in quanto, non per nostra colpa, non facendo ancora parte dell’O.N.U., non potremo partecipare ai lavori delle Commissioni predette su un piede di parità assoluta. Tuttavia noi abbiamo ritenuto opportuno che di un organismo internazionale già esistente, e del quale fanno parte Paesi non aderenti piano Marshall, venisse fatto uso nel quadro del piano predetto, come prova tangibile del desiderio nostro di vedere tutti i Paesi europei unirsi un giorno per la rinascita del nostre continente.

Circa la nostra mancata ammissione all’O.N.U., voglio dire quanto mi parve doloroso che in Russia si siano ignorati quegli elementi morali e imponderabili per cui è inconcepibile – come ebbe a dire Bevin in un telegramma a me diretto – che esista un organismo internazionale senza la presenza dell’Italia. Ma v’è un altro lato della questione, il quale forse è sfuggito ai dirigenti sovietici; ed è che il preambolo del Trattato di pace, liberamente firmato dalla Russia, dichiara che l’entrata in vigore del Trattato stesso sarebbe stato un elemento notevolissimo in favore della nostra ammissione all’O.N.U.

Se analoghe dichiarazioni sono contenute nei preamboli di altri trattati di pace ciò non mi pare dovrebbe avere rilievo nei confronti del nostro buon diritto.

Oltre a ciò, nell’accordo di Potsdam, che spesso viene citato a torto, al capoverso in cui si parla dei Trattati di pace in preparazione, l’Italia viene completamente distinta dagli altri Stati ex nemici. L’accordo dice: «L’Italia è stata la prima potenza dell’Asse a staccarsi dalla Germania alla cui disfatta essa ha apportato un materiale contributo. L’Italia si è liberata dal regime fascista e sta compiendo buoni progressi verso il ristabilimento di una forma istituzionale democratica».

«La conclusione di un Trattato di pace con un Governo italiano riconosciuto come democratico renderà possibile ai tre Governi di appoggiare una domanda di ammissione dell’Italia alle Nazioni Unite». Di fronte all’O.N.U. e al problema della nostra ammissione, ben sapendo io – nonostante l’evidenza degli impegni presi a Potsdam a nostro favore – che dovevamo contare anche sulla Russia, feci il possibile per tener conto dei suoi punti di vista. Eccovi a prova – e potrei citarvene molte altre – le istruzioni che inviai il 7 settembre all’Ambasciata d’Italia a Parigi: «L’ammissione dell’Italia all’O.N.U. – cito – non può essere discussa se non insieme alle ammissioni di altri Stati. Invece di cercare l’appoggio di ognuna delle grandi Potenze, occorre adoperarsi per ottenere una loro azione comune sul problema degli ex nemici. Dopo tutto – continuava il mio telegramma di istruzioni – qualora tali Stati o anche taluni di essi potessero intervenire nelle discussioni internazionali, ciò gioverebbe alla lunga all’universalità che deve rimanere principio e finalità dell’organizzazione delle Nazioni Unite».

Voi vedete, dunque, con quale indipendenza di spirito e con quale riguardo ai differenti e più opposti punti di vista noi agimmo e agiamo.

Non parlerò più oltre dell’O.N.U.; ma se ci trovassimo sulla difensiva – il che non è – potrei anche aggiungere che noi facemmo domanda di entrare nell’O.N.U. dopo aver ottenuto l’approvazione e l’assenso della Commissione per i trattati.

Ma qui vorrei fare un’osservazione: potremmo noi differire, bensì, com’è naturale che accada in una libera Assemblea, sui punti, sui principî più varî della nostra politica generale e anche della nostra politica estera, ma dobbiamo mostrarci uniti in un punto che ha solamente questo senso: noi abbiamo diritto di essere nell’O.N.U., perché – come diceva Bevin nel telegramma a me diretto – è inconcepibile un grande organismo internazionale, nel quale l’Italia non sieda pari fra pari in mezzo a tutti gli altri Stati. Se noi mostrassimo costantemente, senza scherni e senza dubbi, che il nostro diritto ad entrare all’O.N.U. è sentito da tutto il popolo italiano, la nostra posizione sarebbe assai più forte; benché, come ho detto, debole non è.

Perché questo è il punto: o l’O.N.U. esisterà, l’O.N.U. diventerà attiva – ed è impossibile concepire che ciò sia senza un popolo del valore morale, intellettuale e demografico dell’Italia; o, se l’O.N.U. perirà, come perì la Società delle Nazioni, una delle ragioni per le quali perirà è che l’Italia non c’è entrata. (Applausi al centro).

Del resto, se oggi l’ammissione dell’Italia alla Organizzazione delle Nazioni Unite è ancora in discussione, ciò non avviene perché si dubiti della nostra volontà di pace e capacità di adempiere agli obblighi incombenti sugli Stati membri, bensì perché – all’infuori di noi e dei nostri desideri – il caso italiano è venuto a trovarsi legato a quello di altri Stati sulla cui ammissibilità esistono in seno al Consiglio di sicurezza dei pareri discordi. È un problema che l’Italia non ha creato e per la soluzione del quale essa non ha purtroppo – nonostante la sua migliore buona volontà – veste per un’azione determinante.

Quello che non perirà, in ogni modo, è il costante sentimento dei popoli, più maturo di certi Governi, verso l’ideale di un’Unione europea. È per questo che io sono lieto dell’eco di profonda simpatia che la proposta da me formulata il 15 luglio a Parigi per un’unione doganale italo-francese ha avuto in Francia. Bisogna che sappiate, a proposito del progetto dell’Unione doganale italo-francese, che, per ciò che ci concerne, noi Governo italiano sempre abbiamo detto: vogliamo un’unione doganale italo-francese, perché essa darà nuovo respiro e nuove forze ai due popoli di fronte alle eventualità dell’avvenire, ma anche perché la consideriamo come una base e una porta aperta a qualunque futura adesione, possa questa venite sia dal Nord che dall’Est.

Non vi avrei detto completamente il mio pensiero, se non facessi cenno delle ragioni per le quali il Governo ed io personalmente siamo perfettamente e profondamente convinti che ogni voce, anche se sincera, che viene lanciata ogni tanto, di tentativi degli Stati Uniti di influire indebitamente sui governi europei, è priva assolutamente di ogni consistenza.

Noi possiamo essere profondamente ottimisti, malgrado incidenti penosi che possono avvenire, circa il futuro della pace europea, perché una cosa – a mio avviso – è certa: che la Russia non farà mai la guerra e che gli Stati Uniti non faranno mai la guerra. La Russia non farà mai la guerra perché è convinta (ed ha ragione) che in un lontano avvenire il suo sviluppo interiore sarà molto più importante di una vittoria militare qualunque; e gli Stati Uniti non faranno mai la guerra perché chi li conosce sa benissimo che vi è un articolo non scritto nella Costituzione americana ed è che l’America non fa mai la guerra se non è invasa.

Roosevelt, che voleva la guerra perché temeva il dilagare del dominio nazista, sarebbe stato incapace di indurre il suo Paese ad entrare nella fornace ardente se i giapponesi non avessero commesso la follia di andare a bombardare la flotta americana in un’isola americana.

PAJETTA GIAN CARLO. E la guerra di Cuba?

SFORZA, Ministro degli affari esteri. Onorevole Pajetta, la guerra di Cuba è stata fatta dagli americani come la guerra del Transvaal è stata fatta dagli inglesi e come purtroppo la guerra dell’Abissinia è stata fatta da italiani; ma gli anni passano e i popoli imparano, e vi è fra il periodo della guerra di Cuba ed ora una distanza di secoli; per chi conosce l’America è noto che tutti gli americani considerano oggi gli atti di violenza compiuti da vecchi presidenti repubblicani, cioè conservatori, nell’America centrale, come una macchia sullo stemma degli Stati Uniti; gli americani, in fondo ancor oggi puritani, idealisti e alcun poco isolazionisti, non si immischiano delle cose europee che per un senso di dovere, senza nessun piacere; e – lo sanno bene – senza nessun loro guadagno.

Tutti coloro che ben conoscono l’America sanno quanto fu profondamente veridico il presidente Truman quando, ricevendo il presidente De Gasperi, gli rivolse questo discorsetto che non è stato abbastanza rilevato in Italia: «Vi vogliamo aiutare per la vivissima simpatia che abbiamo per il popolo italiano, di cui esiste qui una così forte e leale comunità. Non vogliamo nulla dall’Italia, che deve fare la sua strada per suo conto e riconquistare il suo posto a cui ha diritta nel mondo. Se un uomo può esprimere i sentimenti di un popolo intero, io vi dico che l’America ha rispetto ed amicizia per l’Italia e farà tutto quel che potrà fare in suo favore».

E poiché le parole sono parole e i fatti sono fatti, credo di non essere indiscreto se vi cito una decisione ufficiale che a noi non consta ancora in modo diretto, ma che so che il Governo americano ha preso. Io non sono forse autorizzato a dire ciò. E se il Governo americano (io non ne so niente) ha ritardato questa comunicazione per non aver l’aria di mescolarsi nei nostri dibattiti politici, io dico che il nostro rispetto per il Governo americano deve aumentare.

In ogni modo, ecco che cosa posso trarre da due telegrammi ricevuti giorni fa dalla nostra ambasciata a Washington: il Presidente Truman ed il Segretario di Stato Marshall hanno deciso finalmente di rinunciare alla quota che spettava all’America del nostro naviglio da guerra e lasciarlo completamente nelle nostre mani per i nostri usi. (Vivissimi, generali, prolungati applausi – Il Presidente, i componenti del Governo, i deputati si levano in piedi).

Il Dipartimento di Stato conta far presente ad altrui che sarà felice se la decisione del Governo americano servirà di esempio ad altri Paesi. (Applausi).

Badate, non crediate che questa è solo una decisione di Governo. Il Governo americano è così fatto che né il Presidente, né il Congresso, né i governanti sono capaci di fare alcunché che abbia una importanza siffatta, se non hanno dietro di loro l’opinione pubblica.

Una voce all’estrema sinistra. Anche la limitazione sulla legge degli scioperi? (Commenti al centro).

Una voce al centro. Proprio come in Russia! (Commenti a sinistra).

SFORZA, Ministro degli affari esteri. Io non so quando il Governo americano ci farà una comunicazione ufficiale a questo riguardo. Sarà prestissimo, suppongo, ma vi voglio dire fin d’ora che risponderò che noi italiani siamo grati al Governo americano ed alle associazioni religiose, laiche, filantropiche americane che durante gli anni terribili dell’armistizio riuscirono a salvare dalla tubercolosi i nostri bambini e a far vivere noi stessi, ma che la nostra gratitudine per gli aiuti materiali sarà nulla in confronto di quanto sentiremo per questo gesto morale di cui noi apprezziamo tutta l’importanza; infatti il popolo italiano come tutti i popoli che hanno una storia gloriosa, ma piena di sofferenze, apprezza la giustizia più di tutto, l’apprezza perfino – non so se oso dire troppo – più della libertà, più della democrazia; ed in questo atto del Governo americano gli italiani vedranno la prova che giustizia all’Italia è stata resa. In fondo, si poteva benissimo non darci del pane, ma si doveva render giustizia alla Marina italiana che, dopo il fatale 8 settembre, ha fatto miracoli di coraggio, di abnegazione morale al lato degli alleati; aveva ragione il popolo italiano, sentendo che era una ferita al nostro sentimento di giustizia, il colpirci ingiustamente in quella Marina da guerra che spontaneamente, eroicamente, stoicamente ha servito la causa non solo nostra, ma anche degli Stati Uniti e dell’Inghilterra. (L’Assemblea, in piedi, grida: «Viva la Marina!» – Vivissimi, prolungati applausi).

Devo aggiungere, poiché noi italiani siamo felici di vedere ogni spiraglio di luce e di comprensione da tutte le parti, che da Mosca mi è giunta una proposta di cui sono lieto. Eccone le origini. Nel mio discorso del 24 luglio scorso dissi: «Il terzo pilastro della costruzione sarà, oltre la politica migratoria con l’America latina, anche una vasta politica culturale, commerciale, con la stessa America latina da una parte e con l’Europa orientale dall’altra, non perdendo occasioni per migliorare le nostre relazioni con quei mondi dall’avvenire per noi tanto importante, dalla vicina Jugoslavia, fino all’Unione Sovietica, passando per tutti i popoli Balcanici». Due o tre giorni dopo ebbi una conversazione con l’Ambasciatore sovietico che mi domandò che cosa quelle frasi significavano. Risposi: «Sono un uomo semplice e ciò che ho detto significa solo ciò che ho detto. Se noi possiamo stabilire dei buoni rapporti economici con voi ne saremo felici». L’altro giorno il signor Kostylev, riferendosi al mio discorso o alla mia dichiarazione, mi domandò se non credevo che fosse venuto il tempo di mandare una missione commerciale in Russia per vedere di stabilire dei rapporti economici con quel Paese. Il Governo italiano ha messo subito allo studio la questione, e non mancherà di fare quanto è in noi perché i rapporti fra i due Paesi vengano progressivamente migliorati nell’interesse comune e nell’interesse della pace. (Applausi al centro).

Il nostro pensiero in politica estera è questo: sicuri del nostro avvenire, come Mazzini fu sicuro un secolo fa dell’unità, noi dobbiamo guardare avanti e veder lontano. È per questo, lo ripeto, che sono lieto dell’adesione dell’onorevole Giannini al concetto dell’Unione Europea. È per questo che sono convinto che noi dobbiamo inventare un nuovo sacro egoismo; ma questo nuovo sacro egoismo deve essere: identificare l’essenza più profonda dei nostri interessi italiani con gli interessi dell’umanità, del progresso sociale e dell’Europa. (Applausi al centro).

Così, noi agiremo per i gruppi italiani rimasti in Africa, per i nostri interessi in Africa; li difenderemo perché sono italiani e perché sono carne della nostra carne; ma anche perché mostreremo e faremo sentire al mondo che la presenza degli italiani in terre africane, che prima di noi erano deserti, costituisce un beneficio comune per l’Europa. Non v’è dubbio infatti; quei luoghi ridiventerebbero dei deserti se gli italiani ne partissero.

Quindi è interesse dell’Europa e della civiltà occidentale che essi rimangano dove essi con il loro sangue e con il loro sudore fruttificarono i terreni dell’Africa. (Approvazioni al centro e a destra).

Questo dirò a Londra, quando prossimamente – oramai la data della mia visita è definitivamente fissata tanto da parte di Bevin quanto da parte mia – mi recherò a Londra, se la vostra fiducia ci è conservata, tra il 25 e il 30 di ottobre. Là parlerò degli interessi dell’Italia, ma parlerò degli interessi dell’Italia in relazione a quelli che sono anche gli interessi supremi della Gran Bretagna, perché nella situazione attuale del mondo non vi è salvezza per gli uni se non vi è salvezza per gli altri. Voi riconoscerete che in questa mia breve comunicazione io sono stato del tutto obiettivo senza parlare un sol momento del Ministro degli esteri, che, come uomo, poco conta in questi problemi. Ma in quanto gli uomini possono contare, poiché sono essi che rappresentano o spiegano una politica, vorrei dire ad uno degli oratori della passata discussione (oratore che, per altro, ebbe frasi gentili verso di me e di ciò lo ringrazio) che quando egli dichiarò che noi non dobbiamo avere un complesso di inferiorità, io sono bensì d’accordo con lui, ma alla condizione che il complesso di inferiorità non sia escluso attraverso il facile trucco di parole bombastiche, esagerate, retoriche. Non è con la sciatteria di vacui discorsi roboanti che si può acquistar la stima e il rispetto dei Paesi stranieri: anzi, più noi ci mostreremo modestamente sicuri della nostra coscienza e sicuri del nostro avvenire, ma diremo questo con parole piane, senza vantarci delle quattro nostre civiltà passate, senza rinnovare quelle atmosfere dannunziane che, a torto o a ragione, sono sì mal sentite dai popoli esteri, e più noi daremo l’impressione di sentirci uguali tra uguali senza costantemente montare sui trampoli della letteratura per accentuare una superiorità che può essere solo garantita dalla nostra serenità e compostezza. È con tali pensieri e tali sentimenti che io, finché resterò a questo posto, agirò al servizio della causa italiana. Così parlerò presto a Londra; così parlerò dovunque e credo che questo linguaggio, o colleghi, è il solo corretto, onesto, efficace per servire l’Italia. (Vivi applausi al centro e a destra – Congratulazioni).

PRESIDENTE. Darò ora la parola ai presentatori delle mozioni nell’ordine in cui essi le hanno svolte.

L’onorevole Nenni ha facoltà di parlare.

NENNI. Onorevoli colleghi, signori del Governo. Se dicessi che la discussione mi ha posto in condizioni di dire una parola conclusiva sui problemi che ho avuto l’onore di sottoporre all’Assemblea e al Governo, direi certamente cosa inesatta.

Gli arcani del Regolamento sono stati invocati per rovesciare quello che mi pareva dovesse essere l’ordine logico della discussione, per far parlare cioè i presentatori delle mozioni di sfiducia prima che il Presidente del Consiglio abbia loro risposto.

Posso io considerare di avere avuto dai Ministri, che hanno successivamente preso la parola nel corso della discussione, una risposta adeguata? Credo che l’Assemblea riconoscerà che questa risposta non c’è stata.

Come potrei, per esempio, considerare esauriente la risposta del Ministro Merzagora, il quale, avendo escluso che esistesse uno scandalo dei conti valutari, ha però richiamato l’attenzione dell’Assemblea sullo scandalo delle evasioni delle valute, il quale, nello spirito mio, è la conseguenza dello scandalo dei conti valutari, e che, in ogni modo, di per se stesso, è infinitamente più grave dello scandalo da me denunciato?

Posso considerare soddisfacente la risposta del Ministro Togni alle critiche mosse alla mancanza di un piano di priorità nell’industria ed allo stato indisciplinato, vorrei dire anarchico, della produzione industriale?

Debbo manifestare la medesima insoddisfazione, per il discorso che ha pronunciato questa mattina il Ministro Einaudi, discorso che noi attendevamo con una certa impazienza, che il Paese attendeva con una impazienza maggiore, in quanto desiderava di veder chiaro nelle intenzioni del Governo, e che ci ha delusi.

Il collega Morandi aveva posto al Ministro Einaudi due problemi per noi fondamentali. Aveva chiesto al Ministro Einaudi se egli si assumeva la responsabilità della politica valutaria e della politica dei prezzi seguita dal Gabinetto da lui definito la «Centrale dell’inflazione». Non credo che il Ministro Einaudi abbia dato, non dico, una risposta sodisfacente, ma neanche una risposta approssimativa. Egli ha parlato delle restrizioni del credito con una lontananza che mi ha sorpreso, come se attorno a questo problema non si fosse determinato un vero stato di tormentosa attesa nel Paese, come se esso non fosse fondamentale per il destino di vasti settori della industria e degli operai che ne dipendono.

Noi non possiamo quindi considerare come sodisfacenti le risposte dei Ministri che finora hanno parlato, ed io voglio sperare che il Presidente del Consiglio sarà meno generico e più aderente alla concretezza dei problemi da noi sollevati.

Devo dire che anche il Ministro degli esteri ci ha deluso.

Non so se debbo attribuire alle imperfezioni della acustica di questa sala il non aver trovato nelle sue parole una spiegazione di quella che vorrei chiamare la nostra avventura dell’O.N.U.

Onorevoli colleghi, quando ci è stato chiesto un voto che lacerava la coscienza nazionale, che, come italiani, ci poneva di fronte a uno dei problemi più angosciosi, quando ci è stato chiesto di ratificare anticipatamente il Trattato di pace, cosa ha detto il Governo? Ha detto due cose: che dovevamo subire la ratifica anticipata per poter andare a Parigi alla Conferenza che stava elaborando la piattaforma dell’Europa sul cosiddetto piano Marshall. Codesta affermazione del Governo fu smentita nel corso stesso della discussione, che concludemmo col Ministro degli esteri il quale tornava dalla Conferenza di Parigi.

Si pretese allora che la ratifica anticipata condizionasse il nostro ingresso all’O.N.U., ed ecco il Governo si ripresenta all’Assemblea dopo di aver inflitto all’Italia l’umiliazione inutile di farci respingere dall’O.N.U. (Proteste a destra e al centro).

Una voce al centro. È stata la Russia…

NENNI. Onorevoli colleghi è stata la conseguenza della unilateralità della nostra politica estera. (Proteste al centro e a destra).

È evidente (e noi lo dicemmo nella misura in cui ciò si poteva dire senza incorrere nel sospetto che noi offrissimo argomenti a chi avesse voluto escluderci dall’O.N.U.), è evidente che tanto più appariremo legati sul piano della politica estera all’uno dei blocchi mondiali, tanto più ci condanneremo a subire l’ostilità dell’altro. Giacché, ci piaccia o non ci piaccia – ed io non sto a dire se sono fra coloro cui piace o non piace, ciò essendo senza importanza – a determinare la politica europea e mondiale, non c’è soltanto un blocco di potenze, ma ce ne sono due, dei cui conflitti noi faremo sempre le spese tutte le volte che prenderemo una posizione unilaterale o partigiana.

Mi consenta poi il Ministro degli esteri di esprimere la mia meraviglia per avere egli sorpreso il sentimento dell’Assemblea con l’annunzio che gli Stati Uniti sono disposti a non far valere i diritti che a loro conferisce il Trattato di pace su una parte delle nostre navi. Tale promessa degli Stati Uniti risale a parecchi mesi or sono, e fu fatta contemporaneamente dagli Stati Uniti e dall’Inghilterra.

Una voce a destra. E la Russia?

NENNI. Non ha quindi rapporto con la anticipata ratifica del Trattato, ma risale all’epoca in cui si discusse a Parigi la sorte della nostra Marina da guerra.

È un gesto, questo, di cui dobbiamo prendere atto con soddisfazione come di un parziale riconoscimento dell’ingiustizia usata nei nostri confronti.

Onorevoli colleghi, venendo ora ai problemi di ordine generale ai quali si collega la mia mozione di sfiducia, non ho, per orientarmi sulle intenzioni del Governo, che il discorso dell’onorevole Piccioni, elemento necessario di questo dibattito, in quanto che se le nostre critiche erano dirette al Governo, il nostro appello per creare una situazione nuova era diretto alla Democrazia cristiana.

Ma prima di affrontare il tema centrale, mi consenta l’Assemblea di rispondere ad un quesito che l’onorevole Piccioni ha posto a me e – al di là dalla mia persona – ha posto al Partito socialista italiano. L’onorevole Piccioni, si è rammaricato di non scorgere nell’azione pratica divergenze apprezzabili, sostanziali, fra la nostra azione e quella del Partito comunista.

Egli riprendeva così – e lo lodo di averlo fatto sul terreno dell’azione pratica e senza spaziare fra le nuvole dell’astrazione secondo il metodo di Saragat – il vecchio problema già posto dall’onorevole Presidente del Consiglio, quando invocò lumi danteschi per chiederci se socialisti e comunisti eravamo due in uno, o uno in due.

Io potrei, onorevole Piccioni, prendermi il lusso di rovesciare la domanda e porre alla Democrazia cristiana un analogo quesito.

Quando la frazione più avanzata della Democrazia cristiana, quando i gruppi, i nuclei di essa verso i quali esiste da parte nostra un vincolo sentimentale che gli avvenimenti degli ultimi tempi non hanno distrutto, quando codesta frazione avanzata antifascista della Democrazia cristiana lottava insieme con i comunisti e con noi socialisti, per la liberazione del Paese, per abbattere il regime fascista, per scacciare i dominatori stranieri, quale era, sul terreno dell’azione pratica, la differenza fra la Democrazia cristiana e l’estrema sinistra?

L’onorevole Piccioni, gli uomini della Democrazia cristiana, che hanno partecipato a questa lotta ed alcuni dei quali siedono al banco del Governo, hanno mai considerato leso, diminuito, annullato il carattere autonomo del loro Partito, solo perché trovavano al loro fianco i comunisti e con essi combattevano? (Interruzioni al centro).

E più tardi, quando con una frazione della Democrazia cristiana, che era maggioranza nel partito e minoranza nella famiglia cattolica italiana (come lo dimostrarono le elezioni del 2 giugno), quando abbiamo lottato per la Repubblica ha l’onorevole Piccioni, hanno i democristiani nostri alleati di allora, considerato che l’autonomia del loro Partito fosse insidiata dal fatto che combattevano per la Repubblica assieme ai socialisti?

Ora la nostra posizione di fronte ai problemi attuali della società italiana e della democrazia italiana, è identica alla vostra nella lotta contro il fascismo e per la Repubblica. (Commenti al centro).

Una voce al centro. Vi sbagliate.

NENNI. I problemi fondamentali della democrazia italiana sono oggi per noi i problemi sociali. Lo abbiamo detto in quest’Aula dopo il 2 giugno, lo abbiamo ripetuto in cento manifestazioni attraverso il Paese. Per noi, i problemi fondamentali del popolo sono la riforma agraria e la riforma industriale. E allora, con chi volete che il Partito socialista si allei se non con coloro che come noi, col nostro stesso spirito, vogliono la riforma agraria e la riforma industriale? (Applausi all’estrema sinistra).

Se allarghiamo poi il dibattito dal particolare al generale, allora è evidente il problema del socialismo, è quello dell’avvento delle classi lavoratrici al potere, come lo riconosceva l’altro giorno lo stesso onorevole Saragat.

A chi dobbiamo allearci, per risolvere questo problema: agli agrari, agli industriali? (Interruzioni al centro).

Una voce al centro. Alla Russia! (Proteste a sinistra).

NENNI. Saremmo lieti, onorevoli colleghi del centro democristiano, di poter affrontare questi problemi anche con voi. Sono personalmente convinto che esiste una sinistra democristiana (Commenti al centro); che essa è costituita non tanto dagli uomini coi quali abbiamo condotto assieme la cospirazione antifascista, ma dai giovani che cercano le vie di una conciliazione della Democrazia cristiana con la sinistra operaia, proprio per risolvere la questione sociale. Saremmo lieti di poter collaborare con questi giovani e di poter estendere a loro l’alleanza che pratichiamo coi comunisti e che vogliamo allargare a tutti i settori della sinistra. (Vivi applausi all’estrema sinistra).

Onorevole Piccioni, che cosa vuole ella da me? Ella mi chiede di associarmi ad un processo alle intenzioni.

Allorché in un recente discorso a Bologna ho voluto dire in quale momento potrebbe rompersi la nostra alleanza coi comunisti, ho fatto riferimento ad un avvenire ipotetico, che probabilmente non si verificherà mai: ho dovuto dire che romperemo la nostra alleanza coi comunisti quando essi si metteranno fuori e contro la Nazione, fuori e contro la democrazia. Senonché non avevo nessun elemento positivo sul quale basare la mia ipotesi. (Applausi all’estrema sinistra).

Signori, sulla base del processo alle intenzioni nessuna convivenza politica è mai stata possibile e sarà mai possibile. Il solo processo ammissibile è quello dei fatti; e – permettetemi – non il processo ai fatti esterni (la Russia o la Bulgaria, la Grecia o la Spagna) ma a quelli interni. Oggi non c’è probabilmente nessun comunista il quale pensi che il cammino che dovrà percorrere il popolo italiano per realizzare le sue aspirazioni politiche e sociali debba essere quello per cui passò la rivoluzione bolscevica. Né noi siamo abituati, in ogni caso, a cercare la ispirazione dei problemi che poniamo di fronte alla collettività nazionale, in Russia o in Inghilterra: noi poniamo i problemi che la storia pone al popolo italiano, e li risolviamo con quanti concordano nel nostro metodo e nel nostro fine.

Ecco perché siamo, restiamo, resteremo alleati del partito comunista.

L’onorevole Saragat ha citato qui la frase dettata a Rosa Luxemburg da un momento di orgoglio intellettuale: «Se sei nella verità, se sei sulla diritta via, incontrerai il proletariato». No, Saragat, per i socialisti il problema non si è mai posto in questi termini; giustamente Pertini ha ricordato che Rosa Luxemburg, avendo nel gennaio 1919 aspramente combattuto nel suo Partito contro la frazione spartachiana favorevole all’insurrezione immediata, una volta la decisione presa, non dette appuntamento agli operai di Berlino ad un punto indefinito del tempo e dello spazio, ma si mise alla testa dei proletari che sapeva destinati alla disfatta, ma dei quali volle condividere la sorte e la morte. (Applausi all’estrema sinistra).

Del resto, oggi Saragat fa il processo delle intenzioni nostre e dei comunisti, e su questo processo fonda il suo tentativo di dividere i lavoratori.

Ad un Congresso parigino del 1937, quando un illustre socialista italiano, – che non nomino perché assente – volle fare il processo delle intenzioni per le quali in Ispagna i comunisti morivano sulle trincee della libertà e della democrazia, Saragat rispose: «Non faccio di questi processi. Non c’è testimonianza più eloquente del sangue».

Signori, noi accettiamo il contributo che i comunisti hanno dato alla lotta di liberazione del Paese, noi accettiamo il loro contributo alla soluzione della questione sociale come un fatto, ed è sulla base di questo fatto che è nata la nostra alleanza con loro, la coincidenza della loro azione pratica con la nostra.

Quanto alle differenze, più che nelle ideologie, io la troverei nella storia. Io sono di coloro che pensano che la scissione del 1921 fu un errore. Io sono di coloro che pensano che il compito della classe lavoratrice italiana, degli stessi comunisti, sarebbe più facile se la scissione non ci fosse stata. Ma non è dato a me, non è dato a nessuno, di fare à rebours la storia. Essa è quella che è. Prendete però, onorevoli colleghi, atto di un’affermazione che tengo a ripetere davanti alla Costituente: noi socialisti siamo indipendenti ed autonomi nei confronti di tutti; siamo indipendenti e autonomi nei confronti del Partito comunista, come nei confronti di ogni altro partito. Non siamo autonomi nei confronti della classe lavoratrice. (Applausi all’estrema sinistra).

Se la nostra naturale ambizione è di influenzare la classe lavoratrice nella direzione delle nostre ideologie e del nostro metodo, niente però potrà mai dividerci dal proletariato del nostro Paese, neppure gli errori che esso potesse compiere. (Applausi all’estrema sinistra).

Ciò detto, quale apprezzamento posso io dare del discorso dell’onorevole Piccioni? Ho la convinzione che egli abbia parlato come uomo di partito, come segretario del suo Partito, in uno stato che posso ammettere fosse di legittima difesa, ma più guidato dall’orgoglio che dalla riflessione. Credo che l’onorevole Piccioni converrà con me – e ne converrà, lo spero, il Presidente del Consiglio dei Ministri – che c’è un momento in cui il patriottismo di partito non basta; c’è un momento in cui la qualità di uomini responsabili si misura dalla capacità che abbiamo di superare gli stretti limiti del partito e di parlare ed agire secondo l’interesse dello Stato e della Nazione.

Ora, se io non sono riuscito a convincere l’Assemblea dei motivi nazionali della nostra opposizione, la colpa è mia; è della insufficienza della mia capacità comunicativa. Ho sentito dire dall’onorevole Giannini e da altri che tutto per noi si ridurrebbe a chiedere un posto nel Governo.

Onorevoli colleghi, il destino ha voluto che la nostra vita si svolgesse quasi sempre fuori legge. Non c’è difficoltà maggiore di quella di piegare uomini come noi alle esigenze del Governo e dello Stato. Quando si è trascorsa tutta la propria vita considerando nello Stato il nemico, si può diventare, come è capitato a me, Vice Presidenti del Consiglio dei Ministri, ma si resiste difficilmente all’attrattiva della opposizione, che è il nostro stato naturale, per cui forse ha ragione l’onorevole De Gasperi quando dice che siamo all’opposizione anche essendo al Governo. Tuttavia non sono uomini come noi che possono subire la vanità del potere. Ora ecco che, ammaestrati dalle cose, tornati nel nostro Paese dopo una grande tragedia, gioiosi di aver concorso a risolvere uno dei problemi della nostra gioventù (quello repubblicano), ecco che, mentre il proletariato avverte che è venuta l’ora di superare i confini della esclusiva attività di Partito e di classe, voi ci ricacciate nell’opposizione. E viene in vostro soccorso anche l’onorevole Calosso ad accusarci di diciannovismo, cioè della tendenza ad isolarci ed a considerare che la classe operaia non può risolvere i suoi problemi che da sola, nella pienezza della sua vittoria, concepita come vittoria insurrezionale, un po’ alla francese, come le grand soir. Ora è proprio questo primitivo massimalismo blanquista che noi abbiamo superato, ad esso sostituendo il senso della nostra responsabilità verso il Paese, del socialismo che diviene ogni giorno, che avanza se avanza la vita collettiva della Nazione. E voi signori ci ricacciate indietro con un processo alle intenzioni e scavate così più profonde le divisioni di partito e di classe proprio nel momento in cui vi abbiamo offerto, onorevole De Gasperi, la possibilità di una distensione.

DE GASPERI, Presidente del Consiglio dei Ministri. Dopo tre mesi di propaganda!

NENNI. Al quesito che abbiamo posto non è sufficiente risposta la piccola cronaca, oppure la rispolveratura delle parole poco cortesi dell’Avanti! o dell’Unità, o l’episodio del manifesto ingiurioso alla porta della casa dell’onorevole De Gasperi.

Soltanto l’onorevole Nitti ha mostrato di capirci quando rivolto all’onorevole Piccioni – che aveva usato il linguaggio orgoglioso di un capo di setta – ha chiesto: «siete sicuri di potere dominare gli avvenimenti che si svolgeranno nel Paese? Siete sicuri di avere autorità e forza sufficiente per arrivare a dicembre senza situazioni catastrofiche? (Commenti al centro e a destra).

Una voce al centro. Il caos!

NENNI. Onorevoli colleghi: questo è il problema che Nitti ha posto.

SILES. Nitti lo ha posto a noi ed anche a voi. (Commenti a sinistra).

NENNI. Se voi avete l’orgogliosa certezza di tenere in pugno la situazione, allora anticipando, sulla normale vita dei parlamenti, voi potete avventurarvi a governare con un voto di maggioranza. In questo caso, onorevole Scelba, è perfettamente inutile ritorcere contro i comunisti l’accusa che i comunisti fanno alla Democrazia cristiana, di aver rotto il fronte repubblicano, perché in definitiva al popolo interessa meno di sapere chi è responsabile della rottura del fronte repubblicano di quanto non lo interessi sapere se lo schieramento si può rifare.

Noi diciamo di sì, e se nella discussione generale abbiamo premesso che voi non potete fare miracoli al Governo, come non ne potremmo fare noi, non è per precostituirci un alibi in vista del domani, ma per dimostrare che né gli uni né gli altri da soli siamo in grado di trarre il Paese a salvamento. È inteso, onorevoli colleghi della Democrazia cristiana, voi siete in quest’Aula i più forti. Ma i voti basta contarli o bisogna anche pesarli? (Commenti al centro). Io sono convinto che bisogna contarli e pesarli.

L’onorevole Finocchiaro Aprile pose, in forma sbagliata, un problema che vorrei a mia volta riproporre all’Assemblea. Egli fece un confronto, fra quelle che chiamava le «donnaccole» che avevano votato per la Democrazia cristiana e le masse operaie che avevano dato il voto ai socialisti e ai comunisti. Il problema così non è ben posto. Non è lecito stabilire una differenza di grado di responsabilità fra le categorie degli elettori e delle elettrici. Però, signori, non sfugge a nessuno che al peso del numero occorre aggiungere la valutazione della funzione sociale. 1 voti, quindi, bisogna contarli ed anche pesarli. Ed è contando e pesando i voti che noi siamo arrivati alla conclusione che, nelle attuali condizioni, senza la Democrazia cristiana non si può costituire un Governo il quale abbia nella Costituente la maggioranza necessaria per affrontare la crisi e del Paese, così come senza l’estrema sinistra manca al Governo l’autorità non meno necessaria perché i suoi atti siano accettati dalle masse lavoratrici, anche quando colpiscono interessi che hanno una naturale tendenza a reagire.

È il problema di oggi, problema al quale la Democrazia cristiana non ha risposto, limitandosi a ricordarci che dispone di 207 seggi in questa Assemblea, cosa che non possiamo disgraziatamente porre in dubbio, pur fiduciosi come siamo in un responso diverso del Paese nelle prossime elezioni. (Commenta al centro).

Senonché, onorevoli colleghi del centro, così come noi riconosciamo il valore e il peso del vostro Gruppo in quest’Aula e della vostra forza nel Paese, così voi non potete negare il peso e la forza di milioni di lavoratori giunti ormai ad un grado tale di maturità da costituire una potenza con la quale dovete trattare.

Signori del centro, così potete respingere il nostro appello, cosa di cui vi pentireste nelle prossime settimane, nei prossimi mesi, come di una occasione perduta. (Proteste al centro e a destra). Ma se volete accettarlo, non ricorrete allora alla mediocre furberia di sostituire una piccola maggioranza di destra con una piccola maggioranza di centro-sinistra che lascerebbe impregiudicata l’attuale situazione, anche se per ambizione di Governo noi vi dessimo il nostro assenso. Il problema è più vasto e non si risolve che allargando il governo a tutto il fronte democratico e repubblicano e ai rappresentanti diretti delle classi lavoratrici, sulle quali, in ogni caso, ricadranno in larga misura i sacrifici della ricostruzione e che hanno diritto al riconoscimento della loro alta funzione politica e sociale.

Di che si tratta in definitiva?

La Nazione auspica una distensione politica e sociale. Condizione di tale distensione è il riconoscimento che non c’è soltanto il quarto partito, quello del capitale, ma ci sono anche i partiti della classe operaia, appena usciti dalla lotta per l’indipendenza e la libertà del Paese, alla quale hanno dato un contributo decisivo. Se, onorevoli colleghi, noi ci ponessimo da un punto di vista esclusivo di partito, potremmo augurarci di veder respinta la nostra mozione. Ma sappiamo, noi che fummo per tanto tempo posti fuori della legge comune, che c’è qualche cosa di più importante del partito, fors’anche della classe, ed è l’interesse collettivo della Nazione. Abbiamo perciò coscienza di aver parlato non come militanti di un partito, ma come italiani preoccupati del domani della Nazione. (Vivissimi applausi all’estrema sinistra – Molte congratulazioni).

PRESIDENTE. Ha facoltà di parlare l’onorevole Togliatti.

TOGLIATTI. Onorevoli colleghi! Come senza dubbio ricorda questa Assemblea, la mozione di sfiducia al Governo da me presentata a nome del Gruppo comunista all’Assemblea Costituente, partiva dalla critica di determinati atti compiuti dal Ministro degli interni e dalle autorità da lui dipendenti, e di qui arrivava alla considerazione, o ad una serie di considerazioni, relative alla politica generale del Governo.

Sebbene l’onorevole Scelba non mi avesse fatto l’onore di ascoltare le mie critiche, ho ascoltato questa mattina la sua replica. I colleghi mi permettano di consacrare alcune espressioni a rispondergli.

Su nessuno dei problemi da me sollevati, piccoli o grandi che fossero, ho sentito non dico una risposta sodisfacente, ma ho sentito che il Ministro si ponesse su quel terreno sul quale egli avrebbe dovuto porsi, se la sua risposta avesse voluto essere una risposta oggettiva, argomentata, documentata.

Pensavo prima di tutto che l’onorevole Scelba dovesse citare i documenti in questione, i manifesti da lui proibiti, per dimostrare dove era e se esisteva in essi il vilipendio delle istituzioni repubblicane, di cui egli ha parlato. Lo sfido, e sfido tutto il Governo e tutti i colleghi di quella parte che lo sostengono, a trovare un sol documento comunista o una parola sola in un documento comunista dove vi sia un vilipendio delle istituzioni democratiche e repubblicane o qualsiasi accenno che possa significare vilipendio a queste istituzioni, a meno che non si voglia considerare come istituzione la persona di singoli Ministri, la persona del Ministro degli interni, o anche la persona del Presidente del Consiglio…

Credo che nemmeno nella legislazione fascista i Ministri fossero coperti da una simile prerogativa: soltanto il cosiddetto – così lo chiamavano allora – Capo del Governo.

Non credo che gli attuali Ministri abbiano voluto, né che l’onorevole Scelba abbia voluto o voglia che il Governo del quale egli fa parte estenda la legislazione fascista, o per lo meno lo spirito di quella legislazione, sino a concedere garanzie di intangibilità e inviolabilità agli uomini del Governo, tali che debba considerarsi vilipendio l’affissione in un manifesto dell’immagine di un uomo del Governo stesso e non invece offensiva l’affissione dell’immagine di un membro di questa Assemblea.

Quanto alle ingerenze illecite, da me denunciate, nelle amministrazioni comunali, l’onorevole Scelba ha ripetuto cose che sapevo di già, perché sono cose che qualsiasi mediocre conoscitore della legislazione amministrativa conosce. Ma perché, onorevole Scelba, ella non si riferisce ai fatti? Perché, onorevole Scelba, ella ha taciuto che quei sindaci della provincia di Bologna da lei deferiti all’autorità giudiziaria e sospesi dalle loro funzioni, si trovano oggi nella curiosa situazione che il Tribunale di Bologna ha respinto il procedimento, in quanto non era stata compiuta la procedura di sospensione della guarentigia amministrativa? Di fronte a questo risultato, o si restaura il sindaco nelle sue funzioni o si continua il processo: ma non è stata fatta né una cosa né l’altra. È dunque avvenuto – e tutte le argomentazioni avvocatesche svolte da lei e da altri colleghi del settore liberale, non recano alcun elemento valido rispetto a questo fatto – è dunque avvenuto che l’autorità giudiziaria si è rifiutata di giudicare sindaci che furono sospesi dalle loro funzioni, non so se per volere suo o dei prefetti che da lei dipendono, ma sempre in violazione della legge. La posizione da me sostenuta, di condanna e denuncia dei suoi arbitrî, è quindi confermata persino da una sentenza di tribunale.

Circa la colpevole tolleranza verso le organizzazioni fasciste, lei non ha risposto a nessuna delle cose che sono state dette da me, dall’onorevole Pajetta, dall’onorevole Lussu, dall’onorevole Macrelli. Lei che si accorge dell’affissione della sua fotografia in un manifesto e se ne scandalizza, non si accorge del vilipendio delle istituzioni democratiche e repubblicane fatto nella stampa, nei manifestini sui muri, nei comizi e dappertutto dai fascisti. Questa è la strada su cui si arriva ai gravissimi episodi denunziati e da me e dall’onorevole Pajetta. E dell’attività facinorosa delle associazioni segrete o non segrete fasciste lei ha forse parlato? No, lei non ne ha parlato: da quella parte tutto va bene, dunque, secondo lei. Onorevole Scelba, la sua risposta può darsi abbia sodisfatto i colleghi del suo partito, che sono tenuti per solidarietà a batterle le mani; certo ha sodisfatto i rottami di fascismo che purtroppo sono presenti in quest’Aula; non credo però possa aver sodisfatto chiunque giudichi di questi problemi con ispirito di obiettività, partendo dalla sollecitudine per la difesa della democrazia e della Repubblica.

Ma passo ai temi di carattere generale, in quanto la nostra mozione investiva tutta la politica di questo Governo, e quindi investiva anche la sua composizione e la sua attività nei diversi campi.

Il dibattito che sul tema delle nostre mozioni si è svolto in questa Assemblea, ha toccato questi temi generali; ma io pure debbo dolermi di dover replicare senza aver ancora avuto dal Governo una risposta alle questioni di questa natura, qui sollevate. Credo che anche se il Regolamento impone l’ordine di interventi che è stato scelto, sarebbe stato democraticamente e parlamentarmente corretto che il Governo, per bocca di uno dei suoi principali esponenti, rispondesse anche prima che noi replicassimo, circa il modo con il quale considera questi problemi generali, perché io non posso considerare come una replica fatta a nome del Governo il discorso tenuto dall’onorevole Piccioni, segretario del partito della Democrazia cristiana.

Ad ogni modo tutti i partiti, o quasi tutti, che sono rappresentati in questa Assemblea, si sono schierati, hanno esposto le loro vedute con maggiore o minore rilievo. Ho avuto la impressione che il partito che tra tutti meno è riuscito a dar rilievo alle proprie posizioni sia stato il Partito liberale. Questo, del resto, non è soltanto in relazione con la maggiore o minor valentia dei colleghi che lo rappresentano in quest’Aula, ma è piuttosto in funzione dell’esistenza della struttura, della natura di questo Governo, il quale – come io ebbi occasione di dire nel mio intervento nel mese di luglio – condanna effettivamente i partiti che sono alla sua destra, alla paralisi, a non potersi muovere, a perdere ogni iniziativa, in quanto fa propria, senza riserve, la loro posizione di difensori sino all’ultimo delle classi possidenti più ricche. Il Partito liberale, fatta eccezione per qualche guizzo di indipendenza di giudizio che abbiamo colto nel discorso dell’onorevole Corbino, non ha potuto fare altro che adempiere alla funzione di colui che, in coro, ripete il ritornello delle litanie intonate dall’onorevole De Gasperi.

Maggior rilievo, senza dubbio, ha avuto la posizione del Partito qualunquista, a proposito del quale alcuni rimproveri sono stati fatti a noi, e a me personalmente, accusandoci non so se di eccessiva simpatia per questo partito o di una tendenza a determinati accordi con esso. Si è persino parlato di patti. Onorevole Giannini, ella sa perfettamente che questi patti non esistono. Però è verissimo che noi, nei confronti del Partito qualunquista abbiamo seguito e seguiamo una politica determinata, la quale non può in nessun modo ridursi a un’ingiuria, o a una serie di male parole. No, per noi lo sviluppo del Partito qualunquista è un fenomeno che studiamo con attenzione e di fronte al quale sentiamo il dovere come democratici e nell’interesse della democrazia italiana di reagire in un determinato modo. Riteniamo che se nel 1919-20, quando gruppi all’inizio, e poi masse di piccola borghesia, presero orientamenti analoghi a quelli che prendono oggi determinati gruppi della stessa natura sociale che seguono il qualunquismo, orientamenti che poi vennero sfruttati dal partito fascista agli scopi della sua politica reazionaria, crediamo che se allora vi fosse stata nella democrazia italiana la capacità di comprendere a tempo questo fenomeno e di riparare facendo fronte ad esso, forse lo sviluppo del fascismo sarebbe stato meno facile.

Non dico che non vi sarebbe stato. Le forze decisive non furono quelle, non furono i piccoli borghesi che battendo le mani al duce organizzarono la marcia su Roma e le successive fasi del fascismo. No, decisive furono le forze dirigenti della grande industria, della banca, del capitalismo…

GIANNINI. …e della massoneria.

TOGLIATTI. Anche, e della Chiesa cattolica, almeno in parte.

La piccola borghesia disorientata e disillusa formò soltanto il coro, la massa.

Ebbene, noi consideriamo oggi il fenomeno qualunquista come qualcosa di ancora confuso e indeterminato, e vediamo che vi sono in esso ancora delle incognite. Vi sono senza dubbio (vi erano all’inizio e vi sono tuttora) uomini e gruppi che vedono nel qualunquismo nient’altro che la prima tappa o, direi, la prima mascheratura di una rinascita del fascismo che essi continuano a sognare. Vi sono però, senza dubbio, anche masse malcontente e disorientate le quali si orientano verso il qualunquismo senza vedere questo pericolo, senza comprenderlo, e noi sentiamo che è nostro dovere quello di comportarci, nei confronti di queste masse e quindi di quel movimento, come dei ragionatori, degli uomini politici. Per questo polemizziamo, per questo anche – se necessario – assistiamo a una seduta del Congresso dell’uomo qualunque, per riuscire a comprendere quel che ci interessa nei dibattiti che vi si svolgono. E perché ci interessano? E in qual senso abbiamo noi polemizzato con l’onorevole Giannini? Abbiamo polemizzato e condurremo una politica nei confronti dell’Uomo qualunque allo scopo di favorire un distacco dagli elementi apertamente o larvatamente fascisti, di quella che può essere invece una massa di malcontenti che cerca una strada, che non l’ha trovata e che forse non la troverà, noi crediamo, sotto la guida dell’onorevole Giannini.

GIANNINI. L’ha trovata, l’ha trovata!

TOGLIATTI. Questo è il nostro obiettivo; crediamo, comportandoci in questo modo, di servire la causa della democrazia e dell’antifascismo, né ci toccano le insinuazioni e le calunnie che vengono lanciate a questo proposito contro di noi.

Nel corso di questa discussione, ripeto, la posizione del rappresentante del Partito qualunquista è stata senza dubbio più vivace di quella liberale Ho avuto però l’impressione che quel guizzo di opposizione, cui ci ha fatto assistere l’onorevole Giannini nel suo ultimo discorso, in realtà partisse piuttosto dallo stato d’animo di un concorrente dell’onorevole De Gasperi che non da un avversario di una determinata politica, e di determinati metodi di questo Governo.

Questa impressione non ho del resto ricavata solo dalle cose che l’onorevole Giannini ha detto, ma, direi, da tutto lo sviluppo della sua personalità politica: questo professarsi cristiano, cattolico, adire contemporaneamente a tutti i Sacramenti…

Una voce al centro. A tutti no! (Si ride).

TOGLIATTI. Diciamo, a tutti i «possibili» Sacramenti, e la propaganda fattaci attorno, effettivamente dà l’impressione che anche qui non vi sia una differenza sostanziale fra l’onorevole Giannini e l’onorevole De Gasperi, come capi di partito, in quanto questo ostentato impulso religioso derivi dal fatto che per entrambi la religione sia essenzialmente instrumentum regni, strumento di Governo o di fortuna e successo di un partito nelle lotte elettorali. In realtà se osservo l’onorevole Giannini, riferendomi al suo passato, e cerco di adattare alla sua figura un «Credo» qualunque, mi pare che alle sue labbra l’unico che si addica sarebbe il «Credo» che un nostro grande poeta, il Pulci, metteva sulla bocca di quel mezzo gigante che si chiamava Margutte, il quale credeva «nella torta e nel tortello, l’uno la madre, e l’altro il figliolo». La torta sarebbe in questo caso la maggioranza parlamentare e sarebbe riservata all’onorevole De Gasperi, mentre il tortello sarebbe per lei, onorevole Giannini, e sarebbe un posticino di Ministro o anche di Sottosegretario per l’unione di tutta l’Europa. (Si ride).

Ad ogni modo, fra poche ore il dubbio sarà sciolto. Fra poche ore sapremo se abbiamo assistito a una presa di posizione coerente, corrispondente alla volontà di correggere una situazione politica determinata in un senso determinato, o se vi è stato da parte dell’onorevole Giannini unicamente un guizzo senza conseguenze ulteriori, e quindi potremo assistere al fatto che il pappagallo qualunquista rientrerà tranquillo e prudente sotto le gonne maleolenti della nonna democristiana. (Si ride).

L’onorevole Saragat e gli altri oratori del suo partito hanno posto alcuni problemi seriamente, altri invece in modo tale che ritengo sarebbe indegno di noi se polemizzassimo su quel terreno. Le calossate non son fatte per noi.

Vedete, quando voi ci accusate di non essere democratici, vi dico che per noi la democrazia non è soltanto un principio, un complesso di istituzioni: è anche un metodo, e prima di tutto un metodo di discutere le posizioni dell’avversario, riproducendole esattamente, oggettivamente, non sostituendo a quella che è l’elaborazione del pensiero dell’avversario quel fantoccio ripugnante che voi vi sforzate di creare, e di fare circolare per le strade, con l’aiuto della stampa fascista e neofascista. Democrazia, cioè, è prima di tutto onestà di polemica politica. Per questo io discuterò di voi soltanto la posizione relativamente seria che avete presa e che consiste nel rivendicare una direzione socialista del Governo e d’Italia.

Non so se questa rivendicazione corrisponda in questo momento alla struttura di questa Assemblea che fino alle prossime elezioni rappresenta il Paese. Quello che so però, è che non corrisponde alla rivendicazione di una direzione socialista del Paese il fatto di avere scisso quelle forze che potevano, unite, rivendicare con maggiore possibilità di successo una direzione socialista. La vostra posizione nei nostri confronti è essa pure in contraddizione stridente con la vostra rivendicazione di una direzione socialista. Come escludete voi dal socialismo questo nostro partito di operai, per cui hanno votato masse di lavoratori, di contadini, di impiegati, d’intellettuali di avanguardia, che credono agli ideali del socialismo? Per noi, vi dovrebbe essere il bando dalla democrazia e dal socialismo. È vero che voi cercate di giustificare questa posizione con i vili e spregevoli argomenti cui ho accennato prima, ma ciò non toglie che essa è in contraddizione profonda con la rivendicazione che avanzate di una direzione socialista. Voi vi adoprate ancora una volta per dividere quelle forze che possono, unite, non dico realizzare oggi una direzione socialista, ma per lo meno realizzare quel tanto di misure socialiste che oggi sono realizzabili. Questa è la profonda contraddizione che mina le vostre posizioni, e in conseguenza della quale voi, mentre parlate di socialismo e dite di volere una direzione socialista, in realtà dimostrate di essere al servizio delle forze reazionarie. L’operazione che voi compite o vorreste compiere è nell’interesse delle forze reazionarie di cui siete i servitori; ed è per questo che da quelle parti vi vengono e verranno sempre gli applausi

Molto più preoccupante la posizione del Partito della democrazia cristiana quale è stata esposta qui dagli oratori che lo hanno rappresentato e, in particolare, dal suo segretario generale, onorevole Piccioni; è preoccupante non tanto perché noi riteniamo la Democrazia cristiana un partito – diceva l’onorevole Piccioni – famelico, o piuttosto assetato, – correggerebbe onorevole Micheli – di potere. Ogni partito ha il diritto di aspirare a quel potere che gli spetta secondo le forze che rappresenta.

MICHELI. È assetato lei di potere, oggi! (Si ride).

TOGLIATTI. Quello che ci preoccupa nella posizione del Partito della democrazia cristiana è prima di tutto il fatto che esso, attraverso le parole del suo Segretario generale, si è presentato ancora una volta come un partito che semina e vuole la discordia del Paese.

Una voce a destra. Che ama la chiarezza!

TOGLIATTI. Che ama la discordia. La maggior parte dell’intervento dell’onorevole Piccioni, la parte sostanziale politica è stata infatti diretta a trattare la questione dei rapporti tra il nostro Partito e il Partito socialista.

Io aspettavo una risposta dall’onorevole Piccioni; aspettavo che egli mi dicesse perché, secondo il Partito della Democrazia cristiana, noi comunisti dovremmo essere tenuti in quella particolare posizione che esclude una nostra partecipazione alla direzione politica del Paese. L’onorevole Piccioni non mi ha risposto con argomenti; non ha discusso il nostro programma politico; non ha preso le nostre risoluzioni per far vedere all’Assemblea e al popolo italiano quali sono le nostre proposte economiche, politiche, organizzative che sono cattive e da respingersi, allo scopo di far risultare un contrasto fondamentale che impedisca una eventuale nostra collaborazione. No! Se l’è cavata con una frase; e io mi sono ricordato quello che diceva Goethe: «Quando tu non hai un pensiero (o, in questo caso, quando vuoi nascondere il tuo pensiero) mettici delle parole». Erano parole e frasi senza contenuto, le sue, non erano argomenti.

Ma la risposta vera l’onorevole Piccioni l’ha data quando ha parlato del Partito socialista e perfino nei confronti del Partito socialista ha voluto porre un veto alla sua collaborazione, a una attività di direzione politica, pur dopo avere premesso che non vedeva disaccordi di sostanza e programmatici. Tuttavia egli ha posto anche nei confronti dei socialisti un veto. Perché? Perché il Partito socialista tende la mano agli appestati e gli appestati siamo noi. Grave posizione, per un partito come quello della Democrazia cristiana. Grave posizione perché, onorevole Piccioni, onorevole De Gasperi, che male vi fa il fatto che due partiti di questo Parlamento abbiano stretta tra loro un’alleanza? Forse che in questo Parlamento non sono esistite nel passato altre alleanze tra differenti partiti? È perché vi dovrebbe essere non alleanza ma discordia tra due partiti che, entrambi, si richiamano alla classe operaia e alle masse lavoratrici, che sorgono dallo stesso ceppo storico, ed hanno, lo diceva testé l’onorevole Nenni, i punti programmatici fondamentali immediati comuni? Il Partito socialista non sarebbe autonomo e non sarebbe indipendente. Tutti coloro che hanno osservato lo sviluppo della lotta politica nel corso dell’ultimo anno, sanno che il Partito socialista e il Partito comunista prendono delle posizioni che non sempre coincidono, anche se le loro attività ad un certo punto confluiscono.

Ad esempio, l’iniziativa di questo dibattito non è stata la nostra, ma dei socialisti. Altre volte siamo stati noi a prendere determinate iniziative e il Partito socialista vi ha aderito. Io direi che, tra l’altro, lo stile del mio partito è diverso: diverso è il temperamento dei due partiti. Basta osservare, ad esempio, il temperamento di Nenni e il mio. Nenni si richiama alla scuola del repubblicanesimo, alla scuola dei grandi dibattiti parlamentari francesi. Io ho un’altra scuola, quella del lavoro paziente clandestino…

Una voce al centro. La scuola della Russia. (Commenti al centro).

TOGLIATTI. Sì, collega, io ho quella scuola ed è anzi una scuola che ho fatto in misura troppo limitata. Ho la scuola di quei grandi uomini che hanno saputo fare della Russia, che era alla fine dell’altra guerra uno dei Paesi più arretrati e più devastati, la grande potenza socialista che oggi domina nel mondo. (Applausi all’estrema sinistra). Io ho quella scuola e mi vanto di averla. Ma quando voi, colleghi della Democrazia cristiana, posti di fronte al problema di costituire un governo di unità delle forze democratiche e repubblicane e di unità dei partiti che hanno l’appoggio delle classi lavoratrici, sollevate questa eccezione, inevitabilmente gettate nel Paese il germe della discordia. Voi volete che la classe operaia sia divisa: nell’interesse di chi lo volete? Nell’interesse dei capitalisti e delle forze antidemocratiche, nell’interesse del fascismo e delle forze antirepubblicane. Soltanto in quell’interesse voi potete volere questa divisione, e lavorare, come voi lavorate, per provocare nel corpo della classe operaia e della nazione una scissione pericolosa.

Preoccupante assai anche la posizione del Partito democratico cristiano nei confronti non solo del nostro partito, ma direi di tutti gli altri partiti dell’Assemblea. Si possono avere 207 deputati nell’Aula e gli elettori corrispondenti nel Paese, ma non si può, fondandosi su questo fatto, rivendicare quello che voi avete rivendicato; un diritto di direzione esclusiva. Anzi, quanto maggiore è la responsabilità che una parte del corpo elettorale vi ha dato – e non so se oggi vi darebbe di nuovo – tanto più grande è il dovere che voi avete di agire nell’interesse dell’unità di tutte le forze democratiche e repubblicane, di tutte le forze vive dei lavoratori.

Ed è inutile che l’onorevole Scelba ci dica che il dissenso fra noi e la Democrazia cristiana deriva dal fatto che noi avremmo accusato De Gasperi di austriacantismo, accusa che non credo sia passata nei differenti giornali altro che di sfuggita. Nessuno ha ancora tirato fuori documenti in proposito. Per lo meno, non ne ho ancora visti. Ma l’onorevole Scelba è andato sì a scovare negli archivi della polizia, venendo meno al suo dovere di custode degli archivi dello Stato, e quindi anche degli archivi della polizia, un documento che è una domanda sottoscritta da Longo in cui egli, come tutti hanno fatto, e come lei ha fatto, onorevole De Gasperi, e come ha fatto l’onorevole Gonella, per sfuggire ad una persecuzione si poneva sotto la protezione di uno Stato, che non era lo Stato fascista. E, badate, che egli non vi riuscì, perché i fascisti non ci credettero. Però, l’onorevole Scelba ha trovato e sottratto il documento negli archivi della sua polizia, che egli dovrebbe custodire e non mettere a disposizione del suo Partito, per diffamare pubblicamente i membri dell’Assemblea.

DE GASPERI. Presidente del Consiglio dei Ministri. Tanto per rettificare: io sono rimasto cittadino italiano anche quando ero funzionario in Vaticano. Non faccio nessuna accusa, ma rettifico il fatto.

TOGLIATTI. E anche noi siamo sempre rimasti cittadini italiani. Ma il fatto è che ella è ricorso a determinate protezioni e a determinate autorità per salvare la sua persona fisica.

È inutile quindi l’argomento, suo, onorevole Scelba. Se vogliamo comprendere a fondo il perché della lotta contro di noi, con tutte le armi, che avete iniziato e conducete, e di cui volete fare l’asse della situazione italiana in questo momento, bisogna cercare i motivi nel fatto che voi state progressivamente rinunciando a quei punti, di un vostro originario programma, che coincidevano con determinati punti del nostro. Siccome voi state rinunciando a questo e state diventando, a poco a poco, un normale partito rappresentativo delle classi possidenti italiane, in tutte le loro sfumature, sino alle più reazionarie, per questo voi volete questa rottura, per questo accentuate la punta della polemica e della vostra azione contro di noi.

Ma si è detto che il nostro intervento in questo dibattito, la nostra mozione di sfiducia e il nostro appello all’Assemblea perché voti la sfiducia a questo Governo, sarebbero viziati dal fatto che noi soltanto, chiediamo di andarci al Governo. Onorevoli colleghi, ho già detto, replicando ad un interruttore, che è diritto di ogni opposizione cercare di diventare Governo.

Desidero però precisare molto bene in che senso noi vogliamo entrare nel Governo, perché noi vogliamo questa rivendicazione, e quale è il Governo che noi rivendichiamo e al quale parteciperemmo.

Noi eravamo in determinati governi e oggi, l’onorevole De Gasperi ci rimprovera perché quei governi non hanno fatto molte cose che noi oggi rivendichiamo. È vero. Non le hanno fatte. Ma per questo appunto noi quei governi li abbiamo criticati, per spingerli a fare quelle cose che erano nel nostro programma, nel programma degli stessi governi di cui facevamo parte. Quando l’onorevole De Gasperi ci rivolge questa critica come se ciò dimostrasse una nostra incapacità di fare parte di un Governo democratico e repubblicano, giustifica tutta la nostra azione di critica dei precedenti governi.

Desidero però porre questo problema in modo ancora più chiaro, perché si sappia molto bene che se domani ci si proponesse di entrare in un Governo come l’attuale, che facesse la politica che fa questo Governo, noi non accetteremmo mai.

Noi consideriamo questo Governo come un Governo che sempre più sta prendendo fisionomia di un ordinario comitato di affari di determinati gruppi della classe possidente italiana, dei gruppi più forti, dei grandi capitalisti, degli agrari, dei grandi industriali e delle forze che si basano sulla speculazione. Lo abbiamo del resto dimostrato. Orbene, in un Governo che abbia questa fisionomia è ben chiaro che i comunisti non ci entreranno mai e poi mai. Non è questo il Governo che noi vogliamo. (Applausi all’estrema sinistra).

Non solo le cose dette da noi, ma le cose dette da voi stessi e dai deputati del vostro Partito confermano questo nostro giudizio. La posizione presa qui dal Ministro dell’industria rispetto alle agitazioni operaie, posizione che coincide del resto, con quella espressa da un famigerato ordine del giorno pubblicato dalla Democrazia cristiana il giorno in cui si annunciava lo sciopero dei braccianti della Valle Padana, quella posizione non è ammissibile non dico per un Governo che sia sollecito degli interessi delle classi lavoratrici, ma neanche per un Governo democratico, perché essa consiste nel condannare in qualsiasi caso ogni agitazione operaia. L’onorevole Ministro dell’industria non ha distinto; ha detto puramente e semplicemente: «Tutte le agitazioni sono inconsulte». Che cosa vuol dire ciò? Vuol dire che ha sempre ragione la parte padronale. Del resto questo era il contenuto del vostro ordine del giorno all’inizio dello sciopero dei braccianti della Valle Padana. (Applausi a sinistra – Proteste al centro). Un Governo che prende una posizione simile è un Governo che prima di tutto viola le norme della democrazia. Nei conflitti del lavoro, un Governo democratico non può schierarsi in questo modo pregiudizionalmente a favore della parte padronale, anche perché ad esso potrà spettare di intervenire per comporre la vertenza nell’interesse della collettività e non della parte padronale. Una simile dichiarazione qualifica il Governo che la fa, come l’agente di una delle classi che sono di fronte nei conflitti del lavoro. In un Governo il quale ha una posizione simile noi non possiamo entrare.

Ma voglio precisare ancora di più. Il Governo che noi rivendichiamo deve essere un Governo che faccia conseguentemente una politica democratica, di unità delle forze democratiche e repubblicane e di difesa degli interessi delle grandi masse lavoratrici. E questo in tutti i campi, a cominciare da quello della politica estera.

Si è parlato qui della esistenza di due blocchi. Si è discusso se è vero o non è vero che questi blocchi esistano. Si è cercato di caratterizzarli. Qualcuno ha cercato di trovare, tra i due blocchi una terza strada. Non voglio oggi approfondire tutta la questione. È sempre più chiaro però, oggi, agli occhi dell’uomo comune, dell’uomo semplice, che per lo meno due blocchi esistono in questo senso: che nel mondo c’è qualcuno che lavora per la pace e qualcuno che lavora per la guerra e noi ci accontentiamo di una differenziazione che prenda questo come punto di partenza. Vi sono uomini e gruppi politici e sociali di natura imperialistica, che per questa loro stessa natura spingono alla guerra, reclamano la guerra, vogliono la guerra.

«Noi possiamo ancora organizzare il blocco psicologico contro la Russia», – ecco quello che scrive uno dei rappresentanti di questi gruppi. «Se non vi riusciamo, noi dobbiamo schiacciarla con la forza delle armi». Ecco il linguaggio di chi è pronto, per la difesa del proprio interesse e della propria posizione di gruppo imperialistico che vuole il dominio del mondo, a gettare tutta l’umanità nell’abisso di un nuovo conflitto mondiale.

«Bisogna produrre un grande numero di bombe atomiche per servirsene contro un dato paese» – e sappiamo tutti qual è questo paese – «senza domandarsi se vi è o non vi è una ragione di credere che quel paese sia sul punto di produrre delle armi». Questo dicono i provocatori di guerra, i gruppi che vogliono ancora una volta gettarci in questo abisso.

E non è per un caso che nel nostro Paese, in Italia, checché voi diciate, la paura della guerra si sta diffondendo sempre di più.

Un istituto che fa indagini sugli orientamenti dell’opinione pubblica, al termine di una ricerca relativa alla percentuale di cittadini che nei diversi paesi del mondo credono allo scoppio di una nuova guerra mondiale, arrivava alla conclusione che al primo posto è l’Italia: il 58 per cento dei cittadini italiani nutre questa convinzione.

Questo cosa vuol dire? Non credo che quel 58 per cento di cittadini italiani siano uomini che desiderino la guerra: essi hanno paura della guerra. Da questa massa di cittadini italiani esce un imperativo per il nostro Governo: fate una politica di pace. Ma fare una politica di pace vuol dire: schieratevi contro i provocatori di guerra, non siate al loro servizio, non siate al loro seguito, come sembra invece che voi siate e vogliate mantenervi. (Proteste al centro).

Una voce al centro. Ma se è Tito il primo provocatore di guerra!

TOGLIATTI. Vi sono potenze imperialistiche le quali sulla paura di una guerra, sul ricatto di una nuova guerra, sulla preparazione di una nuova guerra, fondano tutta la loro politica e le cui iniziative, anche se sono presentate sotto i manti più attraenti, coprono sempre una politica di preparazione alla guerra. Alla testa di queste potenze imperialistiche vi sono gli Stati Uniti, e noi reclamiamo da un Governo democratico italiano che esso mantenga la nostra indipendenza di fronte a questo paese imperialistico fomentatore di guerre. Questa è una delle condizioni di salvezza dell’Italia, questa è una delle condizioni della nostra indipendenza.

GIANNINI. Ci vuole l’unione europea. (Commenti).

TOGLIATTI. E non a caso sollevo la questione della nostra indipendenza nel momento in cui parlo della composizione del Governo e chiedo la creazione di un Governo il quale sia l’espressione di tutte le forze democratiche e repubblicane e di tutte le forze lavoratrici.

È inutile che l’onorevole Sforza metta la testa sotto il banco come lo struzzo. Anche noi abbiamo letto quelle interviste e dichiarazioni che qui sono state citate, e nelle quali è detto chiaramente che gli Stati Uniti non desiderano che il Partito comunista partecipi al Governo. Basta il solo fatto che la questione venga sollevata con chiari riferimenti a interventi stranieri nella nostra vita interna, perché la rivendicazione della partecipazione del Partito comunista al Governo d’Italia sia una rivendicazione di indipendenza del nostro Paese. (Vivissimi applausi all’estrema sinistra – Commenti al centro e a destra).

Non sarà mai né un Governo indipendente né un partito indipendente quello che accetterà da qualsiasi straniero una simile imposizione.

Una voce al centro. Voi a Mosca dite che la Russia è la vostra patria. (Rumori all’estrema sinistra).

TOGLIATTI. Noi rivendichiamo quindi, in primo luogo, da un Governo italiano il quale voglia effettivamente essere un Governo democratico, una politica estera indipendente; e condanniamo questo Governo perché non vediamo nella sua politica estera questa caratteristica fondamentale.

Nella politica interna, essenzialmente chiediamo che l’attività di tutti gli organi dello Stato sia volta a far fronte ad ogni tentativo e ad ogni minaccia – anche se lontana – di fascismo e neo-fascismo. Questo è oggi il compito di un Governo che voglia veramente essere rispettoso delle nuove istituzioni democratiche e repubblicane: non già quello di andar cercando se nei manifesti nostri si manchi di rispetto al Ministro dell’interno, per poi lasciare impuniti gli attentati che si commettono contro le organizzazioni dei lavoratori.

E quando scoppiano manifestazioni come quelle recenti, o come quelle che ancora sono in corso in Sicilia per la ripartizione dei feudi siciliani a beneficio delle masse lavoratrici, non è compito del Governo mandare la celere, le jeeps e i mitra contro i lavoratori i quali si son fatti promotori di rivendicazioni sociali che rispondono a un’esigenza altamente sentita in tutto il Paese: il compito del Governo è quello di essere alla testa di questo movimento, movimento sociale profondamente rinnovatore, che tende al progresso di tutta la Nazione. (Vivi applausi all’estrema sinistra).

Noi chiediamo, infine, che il Governo abbia una politica economica, sia essa più o meno pianificata, la quale nelle sue sostanziali misure sia diretta a impedire il crollo della nostra moneta, e sia diretta ad elevare il tenore di vita delle masse lavoratrici, combattendo la speculazione e prendendo in tutti i campi quelle misure che sono necessarie affinché questi scopi vengano raggiunti. È soltanto ad un Governo che soddisfi queste rivendicazioni che noi potremmo dare la nostra adesione.

Si comprende, quindi, quale è il significato della nostra richiesta di un nuovo Governo.

Un nuovo Governo vuol dire per noi una composizione governativa nuova, con un programma nuovo: con un programma di politica estera, di politica interna, di politica economica e finanziaria, che sia effettivamente nell’interesse delle grandi masse lavoratrici, di tutto il popolo, di tutta la Nazione. Un Governo simile io non so se sarebbe Governo di unità nazionale – anche questo rimprovero ci è stato rivolto: di servirci troppo di frequente di questo termine – un Governo simile sarebbe però certamente un Governo che avrebbe l’appoggio di tutte le forze democratiche e repubblicane del Paese.

Uscirà da questo dibattito un mutamento della attuale formazione governativa? Non lo so. Ogni Gruppo è posto di fronte alle proprie responsabilità. Di fronte alla propria responsabilità è posta però, prima di tutto, questa Assemblea. Questa Assemblea, in tutti i suoi partiti, deve dimostrare di saper comprendere quali sono le odierne esigenze fondamentali della nostra vita nazionale e di saperle sodisfare; e i partiti qui rappresentati, grandi e piccini, devono saper valutare quali sono le trasformazioni avvenute nello spirito pubblico dopo il 2 giugno e che le consultazioni elettorali hanno rivelato e riveleranno ancora una volta domani; devono saper comprendere quali sono i pericoli che minacciano la nostra indipendenza, la nostra libertà, la nostra moneta, il tenore di vita delle nostre masse lavoratrici, e far fronte a questi pericoli con uno sforzo unitario di tutte le forze democratiche e repubblicane.

Si metterà la nostra Assemblea su questa strada? Dimostrerà di saper comprendere queste esigenze? Dalla risposta che essa darà dipende il giudizio che il popolo darà dell’Assemblea. Non dimenticate, infatti, che per qualunque voto che qui venga dato vi è una istanza di appello, sempre: la consultazione del corpo elettorale; il popolo, chiamato liberamente a esprimere la propria opinione attraverso l’elezione dei propri rappresentanti.

Questo Governo si presentò promettendo che una delle sue cure principali, forse la principale delle sue cure, sarebbe stata quella di portarci, nel corso di questo autunno, alla consultazione elettorale, come mezzo radicale per risanare l’atmosfera politica. Era la prima delle promesse fatte da questo Governo; ed è stata la prima delle promesse non mantenute, contraddette, tradite (Commenti al centro – Proteste a sinistra).

Il problema rimane, onorevoli colleghi, qualunque sia il voto che tra poche ore qui verrà dato: il giudizio definitivo spetta al popolo italiano, che lo darà fra otto giorni a Roma, tra qualche mese in tutto il Paese.

Dimostri l’Assemblea Costituente di non essere in contrasto con lo spirito che prevale nelle grandi masse del popolo lavoratore, il quale aspira a un rinnovamento della nostra vita nazionale e della nostra attività governativa.

Quanto al nostro Partito, onorevoli colleghi, particolarmente da parte democristiana e da parte dei socialisti riformisti, stiamo assistendo a un curioso accentuarsi delle lotte contro di noi, delle polemiche contro di noi, delle calunnie contro di noi, (Interruzioni al centro) delle diffamazioni contro di noi, e di una tendenza alla persecuzione, per quanto ancora in embrione (e vorrei vedere che fosse diversamente con la forza che abbiamo!).

Vi ho detto altra volta (e qualcuno di voi ha finto di non capire cosa dicessi) che veniamo da lontano e andiamo lontano. E vi ho detto dove andiamo.

Una voce a destra. In Russia.

TOGLIATTI. Sì collega, noi vogliamo creare in Italia una società socialista. In Russia esiste una società socialista. Noi creeremo una società socialista secondo il metodo nostro, nelle condizioni obiettive del nostro Paese, tenendo conto di tutto quello di cui occorrerà tenere conto, come già abbiamo dimostrato di saper fare.

Noi consideriamo questa marea anticomunista, che da diverse parti si cerca di scatenare, con la più grande tranquillità. Siamo sicuri non solo del nostro passato, ma del nostro avvenire.

Vorrei leggervi alcune parole di uno dei nostri grandi, Federico Engels, scritte quando in Germania, contro il movimento socialista di allora, si scatenava pure una marea di insulti, provocazioni, calunnie e misure persecutorie contro il movimento socialista. Sapete che cosa rievocava quel nostro grande di fronte a questa offensiva? La storia del cristianesimo! (Commenti al centro).

«Sono passati quasi 1600 anni – scriveva egli – da quando nell’impero romano agiva ugualmente un pericoloso partito sovversivo. Esso minava la religione e tutte le basi dello Stato; negava che il volere dell’imperatore fosse la legge suprema» (e noi neghiamo, appunto che la legge suprema, sia la volontà dei plutocrati e dei capitalisti), «si estendeva in tutte le terre», «era internazionale», «aveva fatto per un lungo periodo di tempo un lavoro segreto, sotterraneo» (come l’abbiamo fatto anche noi, contro il fascismo), «ma già da parecchio tempo si sentiva abbastanza forte per mostrarsi alla luce del sole. Questo partito sovversivo, conosciuto con il nome di Cristianesimo, era anche fortemente rappresentato nell’esercito, intiere legioni erano cristiane» (come erano comuniste, nella loro maggioranza, le gloriose nostre unità garibaldine); «quando erano comandati per far servizio d’onore nelle cerimonie dei sacrifici della Chiesa di Stato… i soldati sovversivi spingevano la temerità sino a porre, sui loro elmi in senno di protesta distintivi particolari». «L’imperatore Diocleziano, non potendo assistere al modo come l’ordine e la disciplina venivano minate, prese delle misure energiche contro i socialisti, voglio dire contro i cristiani: le riunioni dei sovversivi vennero proibite, i loro locali chiusi…, i distintivi vennero proibiti… si proibì ai cristiani di domandare giustizia davanti ai tribunali. Anche questa legge eccezionale rimase senza effetto. I cristiani la strapparono dai muri per scherno. Si dice anche che essi abbiano persino incendiato il palazzo dove si trovava l’imperatore e allora questi si vendicò con le grandi persecuzioni dell’anno 303. Essa fu l’ultima del genere. E fu così efficace che diciassette anni dopo l’esercito era composto in grande maggioranza di cristiani e il successivo autocrate di tutto l’impero romano, Costantino, che i preti chiamano il Grande, proclamò il cristianesimo religione dello Stato». (Applausi).

Anche noi, onorevoli colleghi, abbiamo una grande fede e non vi è marea di calunnie, di accuse, di insinuazioni, di provocazioni e di misure poliziesche che possa scuoterla o sconfiggerla.

Una voce dal centro. Ma il capo di quegli altri è Cristo, figlio di Dio. Voi non l’avete.

TOGLIATTI. Non vi dico che andremo avanti, vi dico che già andiamo avanti sicuri di ogni nostro passo e del nostro successo finale. La causa della libertà, della democrazia, del socialismo per cui noi combattiamo è una causa di cui la vittoria è sicura. (Vivissimi applausi all’estrema sinistra – Moltissime congratulazioni).

PRESIDENTE. Ha facoltà di parlare l’onorevole Saragat.

SARAGAT. L’Assemblea è stanca. Deve sentire ancora il Capo del Governo, e deve votare. Sarò brevissimo. Innanzi tutto, il terreno della discussione si è spostato.

Qui c’è un problema di Governo, su questo mi voglio soffermare. Ho poco da aggiungere a quello che ho detto ed a quello che hanno detto gli altri oratori del nostro Gruppo. Noi neghiamo la fiducia a questo Governo e la neghiamo per ragioni economiche e per ragioni politiche.

Abbiamo detto che non potevamo associarci ad altre mozioni: abbiamo presentato anche noi una mozione di sfiducia; ed è su quella che votiamo. Quanto abbiamo udita da parte degli oratori del Governo a difesa della sua politica non ci ha convinti.

Noi, più che mai, pensiamo che la soluzione dei problemi che interessano oggi il popolo italiano, la si può trovare soltanto nel quadro di una economia seriamente controllata. Noi chiediamo l’economia pianificata. È su questo punto che voglio molto rapidamente intrattenere l’Assemblea.

Secondo me, si è fatta confusione da alcuni oratori intorno a questo concetto di economia pianificata. Anche l’onorevole Nitti, se non erro – nonostante la sua competenza – ha fatto confusione fra economia pianificata e controllata. L’economia vincolistica non ha nulla di comune con la economia pianificata. L’economia vincolistica pone remore, senza un criterio organizzativo, alla iniziativa individuale. Noi intendiamo per economia pianificata un’altra cosa, del resto come tutti coloro che si occupano di questi problemi in Europa.

Un’economia pianificata presuppone un punto di vista centrale per tutti i problemi nazionali ed è una economia che lungi dal porre remore alle iniziative individuali è, in molti casi, un incentivo per queste iniziative. Vorrei fare qualche caso, molto banale: c’è chi pensa, per esempio, che il giorno in cui il Governo si avvia per la strada dell’economia pianificata, il lustrascarpe all’angolo non potrà lustrare le scarpe se non giungono gli ordini dal Governo. Molti colleghi hanno denunciato il fatto che a Milano si stanno costruendo case di quindici vani a due milioni e mezzo il vano; questo vuol dire che c’è gente che può spendere 40 milioni per comprare queste case; vuol dire che ci sono in Italia energie umane, cemento e ferro che vengono impiegati per fare queste case di lusso, quando ci sono ancora dei villaggi distrutti che attendono la ricostruzione. L’economia pianificata servirebbe ad evitare tutto questo sconcio e ad avviare l’economia verso forme più redditizie ed eque per il Paese. L’economia pianificata non è altro che questo: un’organizzazione più razionale degli sforzi e nello stesso tempo un incentivo a perequare meglio il reddito nel nostro Paese ad evitare le iniquità che esistono in Italia tra classe e classe, tra ceto e ceto, tra regione e regione. È una cosa che ci pare stupefacente, che qui in Italia non si arrivi a comprendere, ciò che tutti i Paesi d’Europa comprendono. Noi sosteniamo questo criterio della pianificazione, che invece di spezzare le iniziative individuali le suscita nel Paese, ma nell’interesse collettivo, nell’interesse di tutti.

Voglio accennare brevemente all’aspetto politico del problema, che è quello che ci interessa di più. Questo Governo è un Governo che non può permanere, così com’è. Se anche dovesse rimanere così com’è, noi non potremmo accettarlo perché non risponde agli interessi del Paese. Ma c’è di peggio: questo è il Governo che, lasciato a se stesso, secondo la logica delle cose, dovrà spingersi verso destra. Questo è il problema che ci interessa di più in questo momento. Il problema come noi ora lo poniamo è di suscitare le forze sufficienti per spostare questo Governo verso sinistra. Qui sono state mosse a noi delle accuse, di volere non sappiamo quali esclusioni ed accuse di colpe che non sono nostre. La situazione è quella che è, il Governo è quello che è perché voi (Accenna alla estrema sinistra) avete fatto la politica che avete fatto durante tre anni. (Commenti a sinistra). Se aveste fatto una politica diversa non saremmo a questo punto. (Interruzioni a sinistra). Il problema obiettivamente posto è questo: riunire le forze concrete che possono ristabilire l’equilibrio spezzato dagli errori che voi avete commessi in passato. Questo è il punto fondamentale. Bisogna cercare di ristabilire l’equilibrio spezzato. L’onorevole Nenni si è rivolto alle forze di sinistra della Democrazia cristiana ed ha fatto un appello, appello che io apprezzo e che penso si possa fare. Esse hanno una seria responsabilità in questo momento. Ma io faccio appello ad un’altra forza che penso abbia una responsabilità maggiore in questo momento. Io credo che essa sia l’unica che possa determinare una situazione nuova in Italia: essa è costituita dalle forze del socialismo autonomo e qui dovrei veramente iniziare una polemica con l’onorevole Nenni e con l’onorevole Togliatti. Non lo farò, perché mi porterebbe lontano ed acuirebbe il dissidio esistente tra noi e loro. Ma c’è una cosa, che l’onorevole Nenni elude: il problema che in questa Europa contemporanea si pone in maniera dominante: il problema della libertà umana. (Applausi al centro – Proteste a sinistra).

C’è uno scrittore francese, che non è di parte socialista, ma è un uomo il quale ha seguito con entusiasmo la lotta operaia, che ha partecipato con tutto il suo spirito alla lotta per la Spagna repubblicana, il quale diceva una cosa, che voglio ripetervi, che forse non so se si capirà da quella parte (Indica l’estrema sinistra): «Nulla separa il socialismo dal comunismo, salvo qualche abisso». E quando vedo spalancarsi un abisso, come quello dell’altro giorno, che è l’affare Petkow, io ho il diritto di dire che l’abisso c’è. (Applausi al centro – Proteste a sinistra).

Ma io vorrei chiudere questa polemica inutile. Ci vuole oggi, da parte dei socialisti, un grande senso di responsabilità. Io so che la contradizione è nelle cose. Lo so, ma appunto per questo tu (Si rivolge a Nenni) avresti dovuto avere maggior senso di responsabilità, nei mesi passati, negli anni passati. Se la situazione è quella che è nel tuo partito e nel nostro, la colpa è tua. (Applausi al centro – Proteste all’estrema sinistra – Interruzioni del deputato Nenni).

Questi sono problemi che trovano la loro sede naturale in un Congresso socialista. Ma tu non hai creato un’atmosfera democratica nel seno dei tuoi congressi, di modo che noi ci siamo trovati stranieri in casa nostra ! (Interruzioni all’estrema sinistra – Interruzione del deputato Nenni).

Il problema oggi è questo: noi cerchiamo che si crei in questa Assemblea un raggruppamento di forze di sinistra, profondamente democratiche, per poter risolvere il problema di Governo. Io accetto quindi l’appello fatto alle forze della Democrazia cristiana di sinistra. Lo estendo ad altre forze, soprattutto ai socialisti autonomi di tutte le correnti. Vorrei fare un appello anche a loro per dire che è da un atto di coraggio dei socialisti che dipende in questo momento la salvezza del nostro Paese. (Applausi al centro).

(La seduta, sospesa alle 19.10, è ripresa alle 19.45).

PRESIDENTE. Ha facoltà di parlare l’onorevole Presidente del Consiglio dei Ministri.

DE GASPERI, Presidente del Consiglio dei Ministri. Onorevoli colleghi, sono lieto di poter dare una notizia di pace sociale. Poco fa si è conciliata la vertenza delle terre incolte nel Lazio fissando una procedura di Commissioni conciliative e di ricorso eventualmente in ultima istanza al Ministero dell’agricoltura, come del resto è previsto per legge.

Così possiamo dire di avere evitato ogni pericolo di sciopero generale. (Applausi al centro). Aggiungo ancora che anche lo sciopero dei bancari è stato superato, cioè la minaccia dello sciopero a Roma e lo sciopero in attuazione a Livorno. Vi sono fortissime speranze, direi quasi la certezza, di concordare anche circa la vertenza dei tessili. Dandovi queste notizie di pacificazione sociale, io colgo il destro per ricordarvi una questione della quale in questo dibattito non si è mai accennato: non c’è stato forse mai Governo che, in così breve periodo, abbia mediato vertenze sindacali in così gran numero e con esito felice per la classe lavoratrice, come dal giugno a questa epoca. Ed io qui compio il dovere di ringraziare in modo particolare coloro che hanno partecipato alle trattative: per le ultime, specialmente il Ministro Segni, l’onorevole Marazza, il collega Fanfani; per le prime (quelle che trattavano il caro-vita), gli stessi oltre l’Alto Commissario per l’alimentazione. Io devo ricordare che fin dalla prima settimana di attività del nuovo Governo, prima ancora della presentazione alla Camera, già si erano iniziate conversazioni con la Confederazione del lavoro per la questione degli impiegati statali, e che queste trattative, che erano pure laboriose e che imponevano senza dubbio grossi carichi allo Stato, vennero concluse col concedere una media del 30 per cento di aumento, il che importò 62 miliardi di nuova spesa.

Pochi giorno dopo si deliberarono anche miglioramenti ai pensionati, in relazione agli stipendi, e ciò importò nove miliardi 700 milioni di spesa.

Una settimana più tardi si decise l’aumento delle pensioni di previdenza amministrate dalla Cassa depositi e prestiti, per 220 milioni.

Il giorno 20 agosto nuove misure per le paghe degli appartenenti alle Forze armate, per due miliardi e 200 milioni.

Si approvò, poi, nel Consiglio dei Ministri del 22 luglio, la deliberazione concernente i miglioramenti economici ai pensionati di guerra quattro miliardi e 600 milioni.

Se si somma il complesso di queste cifre e si unisce all’onere annuale il caro-vita, nei rispettivi scatti in favore degli statali, si arriva a dover far fronte ad una maggiore spesa di 122 miliardi e 720 milioni. Nello stesso periodo venne anche approvato il contratto della gente di mare.

Ciò non è proprio una prova che il Governo trascuri completamente le classi lavoratrici e, soprattutto, come mi è stato detto da qualche oratore, che il Governo eviti di intervenire nei conflitti di lavoro, ed eviti i contatti con la Confederazione del lavoro. I contatti con la Confederazione del lavoro vennero tenuti anche molto vivi ed intensi durante il breve periodo di vacanze ministeriali, nelle discussioni sopra i progetti della Confederazione per il caro-vita, e, in quelle discussioni, i nostri tecnici, in modo particolare l’Alto Commissario, ebbero occasione di dimostrare l’impossibilità di applicare, come è dimostrato dai censimento, il sistema differenziato per il grano.

Ciò non toglie che poi, in tutta la campagna di stampa, fino agli ultimi giorni, fino all’adunanza del 20 settembre, si continuò a dire che la soluzione per il grano è nel sistema differenziato. Ciò non toglie che la prova sia stata ripetuta dall’Alto Commissario, come chiarito in un discorso molto dettagliato, che però le opposizioni in genere hanno disertato; il che vuol dire che si continua a ripetere certe frasi e certi postulati, di cui si dimostra l’impossibilità di realizzazione. (Interruzione del deputato Di Vittorio). Caro Di Vittorio, lasciami dire che già con te abbiamo avuto occasione di esprimere i nostri pensieri.

Si deve osservare che in base a queste discussioni, subito dopo il Ferragosto, ci fu una serie intensa di Consigli dei Ministri per affrontare il problema del caro-vita e per vedere cosa si potesse fare.

Abbiamo affrontato prima di tutto la questione dei cereali e ci siamo trovati dinanzi ad una dura realtà, che avevamo bisogno di importarne per 48 milioni di quintali. Tuttavia, in questo periodo, non è che abbiamo dimostrato una qualche idea pregiudizialista contro il sistema differenziato, – infatti abbiamo applicato il trattamento differenziato per l’olio e lo zucchero. Di più per la prossima campagna granaria, avremo la possibilità di applicare il trattamento differenziato anche per il grano, cioè per quel contingente che verrà vincolato dallo Stato, perché una delle categorie, e forse anche due categorie previste, potranno, sodisfare le loro esigenze sul mercato libero.

C’è quindi una concezione, un programma, un piano – se così volete chiamarlo – molto chiaro, che è risultato da studi, da elaborazioni, da discussioni. E qui io avrei desiderato che la Camera – approvi o condanni questo Governo – avesse affrontato sul serio i problemi economici, perché il Paese ed il nuovo eventuale Governo sappiano quali sono le difficoltà che si debbono affrontare e sappiano, soprattutto, che è assolutamente necessario che noi si importi del grano, ed in misura notevole, se non si vuol diminuire la razione.

In quelle discussioni, abbiamo anche tracciato un piano – la parola ormai è di moda – per cui occorrono contributi dall’estero. Avete anche sentito parlare di un trattato con l’Argentina ed io vi posso dire che proprio questa mattina è arrivato un telegramma che annuncia che è stato siglato. (Commenti). Avete sentito parlare del prestito con il Canada, avete sentito parlare delle trattative con la Banca delle esportazioni ed importazioni e delle trattative della Banca internazionale di cui si è occupato il Vicepresidente Einaudi a Londra.

Già in queste trattative si manifesta un programma di approvvigionamento e di finanziamento, che ha di necessità richiesto il consiglio di tecnici e la deliberazione di tutti i Ministri. E il Governo ha preso le sue responsabilità per questa strada.

Anche per i prezzi, abbiamo studiato il problema e siamo addivenuti alla conclusione che, con quell’organismo che possediamo, non siamo neppure in grado di diminuirne o di attutirne le punte estreme se prima non si istituisce una specie di camera di consumo, donde nascano convinzioni discusse e meditate e se, in secondo luogo, non avremo in precedenza disposto un corpo di ispettori, accertatori, i quali stabiliscano i costi tanto della materie prime, quanto della produzione.

Questo solo può essere un elemento indispensabile por poter agire sui prezzi. Certo è che noi ci troviamo dinanzi ad una grossa questione. La questione è che le importazioni di grano e di carbone vengono dall’estero e vengono anche dall’estero altre importazioni di materie prime, i cui prezzi all’estero aumentano. Quindi anche se dall’interno non ci fosse quella spinta che c’è all’aumento, noi dovremmo ugualmente subire questo aumento, che ci viene dal di fuori.

Oltre a ciò, siamo sotto uno sforzo notevole per inserirci nell’equilibrio mondiale della moneta.

In quelle sedute abbiamo anche dato delle garanzie solidali e non più ausiliarie dello Stato, fino al 70 per cento, per il finanziamento degli enti di consumo. Questo rende possibile ai comuni di esigere questo fido in quanto che il 50 per cento è garantito nella stessa misura da parte dello Stato.

L’onorevole Togliatti prima, l’onorevole Lizzadri poi, hanno detto che il Governo non fa nulla per i lavoratori.

Ora, giudichi l’Assemblea: dal 2 giugno al 2 ottobre, per i provvedimenti presi in materia di aumento delle pensioni della previdenza sociale, aumento degli assegni familiari, delle prestazioni per infortunio e malattie e di integrazioni salariali, di aumento delle indennità di disoccupazione et similia, il Governo ha imposto un trasferimento di ricchezza dagli abbienti ai lavoratori, per il periodo dal luglio 1947 al giugno 1948, di oltre 80 miliardi di lire. Ho qui i dati, naturalmente in dettaglio; e la loro somma porta a questo risultato.

Se, accanto alle critiche, accanto agli attacchi e alle accuse di insufficienza politica, o di insufficienza dei provvedimenti economici, ci fosse stata nella stampa avversaria anche qualche considerazione, qualche notizia di questi provvedimenti, non mi lagnerei. Ma in realtà una certa stampa – è inutile che la nomini – pregiudizialmente esclude qualsiasi notizia concreta, positiva, che possa, per caso, sembrar utile, o che possa sembrare in favore della politica del Governo. Ecco perché ci siamo trovati dinanzi ad un’agitazione, dopo la costituzione del nuovo Governo, di cui poche volte abbiamo avuto l’esempio. Io sono stato subito descritto come il «cancelliere», ogni provvedimento del Governo ignorato, tentativi di impedirci la parola, tattica di esasperazione dei conflitti; sospetti sul Governo nero, reazionario, che fosse – come diceva il mio ex collega Morandi – prono al capitale e sordo alle sofferenze dei lavoratori; sospetti su ogni negoziato in America, sospetti sul piano Marshall; accuse di essere affamatori, in tutte le piazze.

Qualcuno, mi pare l’onorevole Labriola, ha portato l’esempio di Giolitti, il quale si rideva di quello che stampavano e delle figure che comparivano su un giornale umoristico; ebbene, dei giornali umoristici non mi interesso, ma della propaganda sulle masse, della suggestione sulle masse, su certe masse, alle quali non ci riesce di far arrivare una parola di verità o di conciliazione, questa sì, dico, è una situazione che in Italia dovrebbe cessare. (Applausi al centro – Commenti a sinistra).

DUGONI. Create il Ministero della stampa e propaganda!

DE GASPERI, Presidente del Consiglio dei Ministri. Credete, egregi avversari, io non pretendo troppo dalla stampa avversaria: riconosco che l’Avanti! deve scrivere come l’Avanti! e l’Unità come l’Unità; però se davvero c’era in loro il desiderio di ricostituire una coalizione, una maggioranza, una collaborazione come era stata nel passato o simile a quella, in ogni modo una collaborazione con la Democrazia cristiana, cogli uomini che la Democrazia cristiana ha mandato a questo Governo, si doveva evidentemente seguire un’altra tattica, perché la tattica del ricatto, della pressione pubblica per farci mettere in ginocchio, a terra, e farci accettare una collaborazione a qualunque prezzo, questa tattica non riesce assolutamente quando un partito ha la propria dignità da difendere. (Applausi al centro).

Non crediate che tutto questo sia avvenuto semplicemente per esuberanza o esasperazione di masse non organizzate. La circolare del 16 agosto dell’onorevole Togliatti, che dice: «Noi intendiamo per opposizione un seguito – questa è la circolare interna, un’enciclica entro il partito – di agitazioni, di lotte, di natura sia economica che politica, le quali portino a manifestare la loro opposizione al Governo ed a schierarsi contro di esso la parte importante della popolazione. Ciò che si è fatto è stato quasi esclusivamente di natura sindacale. Sono mancati agitazioni e movimenti legati a motivi di altra natura. La nostra opposizione al Governo mantiene, quindi, per ora, un carattere più verbale che di lotta». Dico che questo…

TOGLIATTI. Questo è democrazia!

DE GASPERI, Presidente del Consiglio dei Ministri. Questo è democrazia, ma non democrazia parlamentare. (Proteste a sinistra). Comunque, onorevole Togliatti, se questa è democrazia, è certo che per lo meno non è democrazia di collaborazione o democrazia che possa fondarsi sulla collaborazione. (Interruzioni a sinistra).

Una voce a sinistra. È opposizione.

DE GASPERI, Presidente del Consiglio dei Ministri. Anche l’opposizione può contribuire al progresso sociale e politico quando si tenga entro certe linee che evidentemente salvaguardino la verità e la coscienza.

Una voce a sinistra. Come diceva Mussolini..

DE GASPERI, Presidente del Consiglio dei Ministri. Dei pareri di Mussolini non sono responsabile.

Io non voglio dire che i movimenti siano stati senz’altro politici; senza dubbio gli scioperi e le vertenze sindacali hanno, la maggior parte, un’origine ed un contenuto sindacali; però è un fatto, che da giugno al settembre gli scioperi furono in continuo aumento: 287 nel giugno, 215 in luglio, 259 in agosto, 400 in settembre, fino al 18 settembre!

Una voce a sinistra. Come l’aumento dei prezzi.

DE GASPERI, Presidente del Consiglio dei Ministri. In complesso abbiamo avuto in questo anno 2617 scioperi con 4.851.523 scioperanti.

Badate, di scioperi ne ho diretti anche io e non ho nessuna pregiudiziale contro lo sciopero di per sé, come misura di difesa sindacale. Però lo sciopero continuo, intensificato, come arma ordinaria, non solo si spunta per ottenere l’effetto contrario, ma in ogni caso crea una tale irrequietudine che assume un aspetto politico. Ci pensino coloro che devono pur tener conto anche dell’impressione che si produce al di fuori di qui, dell’impressione che possono avere coloro che hanno volontà di lavorare e di far lavorare, e ci pensino soprattutto per la produzione!

Ammessa e sancita nella Costituzione la libertà di sciopero, nella stessa Costituzione è però prevista anche la regolamentazione dello sciopero; è necessario che si arrivi a dare carattere di diritto pubblico alle organizzazioni sindacali per poter creare una procedura, che renda lo sciopero non uno strumento ordinario, ma solo eccezionale della lotta sindacale, ed è evidente che quando essi sono troppi e frequenti, non hanno più tale carattere. (Interruzioni a sinistra).

Si deve arrivare all’arbitrato! Una volta abbiamo proposto in Consiglio dei Ministri, al Ministro del lavoro, di presentare un progetto di legge sull’arbitrato, e lo aveva anche elaborato, ma è venuto il veto dal di fuori.

Ora, io credo che, se non saremo più in grado, noi, come Assemblea Costituente, di fare una simile legge, dobbiamo metterci d’accordo tutti nei prossimi Parlamenti, nelle prossime Camere, per affrontare questo problema che salvaguardi la libertà dello sciopero, che non conduca ad una coazione sotto una sentenza di giudice, ma che almeno faciliti l’arbitrato e la soluzione arbitrale.

Riguardo alla collaborazione della Confederazione del lavoro, ne abbiamo avuto molta. Ne avremmo avuta di più se, dopo le discussioni che si facevano molto amichevolmente fra rappresentanti della Confederazione del lavoro e rappresentanti del Governo, non ci fossero stati dei giornali i quali inquinavano tutte queste discussioni con un veleno politico, rendendo difficile la cordialità che è necessaria, quando le difficoltà sono grandi e si devono superare con un tono di amicizia. Mi auguro che la Confederazione diventi forte, che rimanga unitaria, ma deve assolutamente essere fuori dei partiti, deve essere indipendente da qualunque partito. Allora si potranno citare le Trade Unions qui, come si è fatto in Inghilterra, perché c’è un contributo laburista che è superiore alle divisioni politiche. Allora sì che la Confederazione potrà essere una forza che nessuno toccherà e che i nostri dissensi politici non metteranno in pericolo (Applausi). Voi troverete, egregi avversari, o avete già trovato per bocca di Nenni, che io esagero quando mi lamento del contegno dei giornali, di qualche manifesto, ecc. Qualche? Presentatemi la raccolta dell’Avanti! e trovatemi un numero in cui non si attacchi violentemente il Governo, un solo numero! (Commenti a sinistra). Dico questo, egregi colleghi, perché è un’analisi clinica che potrà farci del bene, ma voi dovete persuadervi che questo sistema di agitazioni politiche crea un’atmosfera impossibile alla collaborazione di Governo.

Una voce a sinistra. È democratico.

DE GASPERI, Presidente del Consiglio dei Ministri. Se è democratico, vuol dire che non è della nostra democrazia. (Applausi al centro). Esempi ne abbiamo avuto nei passati Governi e non è, come ha accennato l’onorevole Nenni, che io mi sia lagnato qualche volta di qualche contraddittorietà. No, mi sono lagnato sempre dopo aver tentato in ripetuti regolamenti, convenzioni, gentlemen’s agreements, ecc.; dopo aver tentato tutto questo, mi sono lagnato in modo definitivo, quando il tripartito si è sciolto. È così vero che questa esasperazione della lotta politica alla periferia crea imbarazzo ai parlamentari che usano una tattica più prudente, che Togliatti, in quella circolare che ho accennato continua a dire, lamentandosi verso i comunisti che trattano troppo male i democristiani: «la maggioranza del partito ha praticamene ignorato la direttiva che tendeva ad impedire che si creasse un abisso fra noi e i democristiani ed inh particolare fra le nostre masse e i democristiani. Insensibilmente il partito tende a scivolare nel terreno della lotta aperta e violenta contro la Democrazia cristiana e le sue masse. Così avviene che la nostra propaganda perde ogni capacità di attirare le masse dalla Democrazia cristiana ed anche dalla destra reazionaria, che ha tutto l’interesse che non ci sia alcun contatto di nessun genere, ma solo lotta aperta fra noi e i democristiani». (Commenti a sinistra).

Io non voglio ripetervi quello che mi è stato detto, ripetutamente, anche durante l’ultima crisi e quello che è stato detto qui, da questo banco, da questo posto, in risposta alle accuse che mi sono state mosse nell’ultima crisi. È inutile che ripeta le stesse cose e le stesse prove e faccia le stesse affermazioni perché voi le negate ostinatamente o ripetete la stessa versione.

Comunque, guardiamo pure l’avvenire. L’esperienza, a me che sono stato per tre anni collaboratore dei socialisti e dei comunisti, e prima ancora dei liberali nei Governi dei Comitati di liberazione o nei Governi tripartitici, a me l’esperienza ha portato questi risultati: fino a che la meta rimane la conquista del potere, sia pure attraverso le elezioni, ma conquista del potere mediante un patto d’azione tra i due partiti che si trovano in posizione di particolare privilegio in confronto del terzo partito; fintanto che dura questa situazione, è assolutamente impossibile che un partito rischi il suo credito e un Governo non si svaluti in una situazione di contradizioni che si manifesta soprattutto non nell’interno, – perché nell’interno di un Consiglio ci si trova quasi sempre fra uomini ragionevoli – ma nelle lotte e nei riflessi che le divergenze generano nella stampa nella pubblica propaganda. Può essere, e mi auguro, egregi colleghi, che quando sarà combattuta la battaglia elettorale e quando saranno decise le maggioranze, la situazione cambi. Può essere. Mi auguro sia così. E quando abbiamo fatto questo Governo speravamo che le elezioni avrebbero potuto esser fatte al più presto. (Commenti a sinistra).

Questa marcia comune dei socialisti e comunisti, la quale si richiama naturalmente allo stesso movimento psicologico, alle stesse origini marxiste, fino alla dittatura del proletariato, questa marcia rende sospetta e difficile ogni attività. (Interruzioni a sinistra).

Una voce a sinistra. Si potrà arrivare alla democrazia.

DE GASPERI, Presidente del Consiglio dei Ministri. Si potrà arrivare a una «democrazia» non occidentale, chiamiamola così; ma questa è un’altra cosa. (Applausi al centro – Commenti a sinistra).

Il bloccardismo, che si poggia non su una confluenza d’interessi proletari – perché certo bloccardismo manifesta un campionario di gradazioni sociali molto variopinte – ma su un certo bloccardismo massonico di vecchia maniera, è la seconda caratteristica che ha reso impossibile la continuazione dei Governi tripartiti o simili.

Lo so, l’amico onorevole Macrelli propone la ricostituzione di un Governo su larga base, senza nessuna esclusione a sinistra: mettendo però – e lui l’ha sentito per l’esperienza che ha fatto nel passato – delle condizioni che permettano di dire: «a patto che ci si dia una stretta di mano fra galantuomini e si cambino i metodi passati». A queste condizioni, se potessi averne la fiducia, lo farei; ma disgraziatamente ho perso la fiducia prima che voi la togliate a me. (Applausi al centro).

Tutti coloro che credono che un simile Governo significherebbe la pacificazione in un periodo elettorale, si ingannano. È una illusione; e quindi credo che il rischio non meriti la candela.

È assolutamente necessario che si cambi metodo.

Una voce a sinistra. È già cambiato.

DE GASPERI, Presidente del Consiglio dei Ministri. Come volete!

Io ho sentito il discorso dell’onorevole Nenni che mi ha scombussolato. Mi sono fatto portare subito il testo della mozione per vedere se avesse proposto la fiducia invece che la sfiducia, considerato il tenore, il tono e l’invito che proveniva dalle labbra dell’onorevole Nenni. Ho trovato che il testo è ancora quello.

Ma come volete che noi accettiamo questi inviti singoli, che saranno anche sinceri come espressione dello stato psicologico di un determinato momento, quando poco prima un altro collega, l’ex Ministro onorevole Morandi, ci ha accusato semplicemente d’esser sordi alle sofferenze del popolo e proni al capitale? E quando un altro ex collega ha avuto la perfidia d’insinuare che la scelta dei Ministri fu fatta per far piacere all’industria del Nord contro gli interessi del Mezzogiorno? (Proteste a sinistra – Interruzione del deputato Musolino). Io aggiungo un’altra ragione che riguarda la contingenza storica. Ditemi: come avremmo potuto fare a deciderci subito alla partecipazione alla Conferenza di Parigi ed al «Piano Marshall» se fossimo stati nel tripartito ed avessimo avuto dentro i rappresentanti di quell’opinione che si manifesta nei giornali assolutamente contraria al piano Marshall ed a tacitare l’invito dell’O.N.U.?

Togliatti ha affermato, ed io stesso lo dico, che ci sono nelle linee generali della politica estera delle differenze talmente approfondite che la collaborazione in un momento in cui la politica estera è anche politica interna ed economica, è inefficace, contraddittoria ed è tempo perduto. (Applausi al centro – Commenti a sinistra).

TOGLIATTI. L’ambasciatore americano…

DE GASPERI, Presidente del Consiglio. Voi sentite le interruzioni di Togliatti? Potete immaginare che io possa sedere ad uno stesso tavolo con lui che dice: sarà l’ambasciatore americano, ecc., ecc.? (Applausi al centro e a destra).

Riguardo alla politica estera, poiché ci siamo, debbo osservare la facilità con la quale Nenni è passato sopra alla decisione americana che ci è stata ufficiosamente comunicata questa sera, dicendo che era una cosa scontata, perché si sapeva benissimo che l’America e la Gran Bretagna avrebbero, ecc., ecc. Io dico: 1°) dell’Inghilterra non sappiamo nulla; 2°) l’America aveva espresse le sue intenzioni: me l’aveva detto personalmente Truman, come ha ricordato il Ministro Sforza, ma altro è il dire altro è prendere una decisione. E la decisione, evidentemente, si poteva prendere solo dopo la ratifica del Trattato di pace da parte nostra.

Dovrei anche aggiungere, ma non voglio inasprire la polemica, una considerazione che si potrebbe fare circa la nostra ammissione all’O.N.U.

PERTINI. Mi pare che di asprezza ce ne sia abbastanza.

DE GASPERI, Presidente del Consiglio dei Ministri. Sì, è vero, ce n’è abbastanza, ma noi avevamo diritto di entrare nell’O.N.U., perché fra l’altro, nell’introduzione di quel Trattato di pace che noi abbiamo firmato c’è l’impegno di tutti e quattro gli alleati. Noi avevamo questo diritto e nessuno poteva togliercelo senza mancare fede a quell’impegno del Trattato. (Vivi applausi al centro e a destra – Commenti a sinistra). Io dico soltanto che se ciò è accaduto, è avvenuto per la combinazione di altre situazioni che non ci riguardano. Io non voglio emettere nessun giudizio su coloro che questa decisione hanno preso. Però permettetemi di meravigliarmi, che quando si parla dell’O.N.U., da quella parte ci si lanci contro il Governo come quella colpa fosse nostra, e da quella parte non si dica una parola di coloro che hanno impedito il nostro ingresso. (Applausi al centro e a destra – Commenti a sinistra).

L’onorevole Togliatti mi ha detto che da un certo mio discorso è cominciata la mia avversione al comunismo e che farò tanta strada: fino a divenire neo-fascista. (Interruzioni a sinistra).

Ora io debbo dichiarare molto nettamente: i contrasti tra la dottrina nostra e quella comunista sono profondi; erano sempre stati profondi.

Ciò non ci aveva impedito, con un programma di azione ben chiarito, di partecipare al Governo e di collaborare insieme per il bene del popolo italiano, sia per la forma dello Stato, sia per altri progressi sociali. Ciò non ci impedirà nemmeno domani, se questa sarà una necessità parlamentare, di tornare a simile collaborazione, dopo le prossime elezioni; (Commenti a sinistra) però ad una condizione: bisogna, che sia ben chiaro, e che sia chiaro nella prassi, che i partiti, di qualsiasi colore siano, devono sottoporsi alle regole convenzionali della civiltà nazionale, alla quale dobbiamo subordinare tutto. E questi principî convenzionali, queste mete, si chiamano: libertà e democrazia. E questo deve essere non detto, ma provato nel programma, nel contegno, nello schieramento di battaglia, nella propria azione nel Paese. (Applausi al centro – Commenti a sinistra).

Una voce a sinistra. Siamo noi che abbiamo dato questo esempio. (Protesta al centro).

DE GASPERI, Presidente del Consiglio dei Ministri. L’onorevole Pajetta, in quella parte di discorso che ho ascoltata, ha detto, a proposito dell’onorevole Giannini: «Tante cose si sono cambiate in Giannini, ed un po’ – egli ha aggiunto – forse egli è stato aiutato anche da noi comunisti, cioè dalla sua opposizione». Non so se questo sia vero, ma io applico questa didascalia ai rapporti fra noi e i comunisti. Vedano di cambiare parecchio nei loro sistemi, e se possiamo, con la stessa posizione che ha tenuto il Partito comunista contro i qualunquisti, anche noi cercheremo di aiutarli perché mutino questo loro costume. (Commenti a sinistra).

TOGLIATTI. Cerchi di mantenere fede ai suoi impegni!

DE GASPERI, Presidente del Consiglio dei Ministri. «La terza via», come sapete, è il titolo di un libro famoso di Röpke, che è un liberale famoso, ed alle sue idee si sono ispirati alcuni discorsi dei liberali, quello di Crispo e quello di Cortese, nel presente dibattito. Vi sono delle idee che sono molto vicine a noi, che vi sono dappertutto in tutti i settori (bisogna augurarselo), negli adattamenti alle necessità della vita, nelle confluenze necessarie, anche là dove le origini sono contraddittorie.

Saragat di questa terza via ha stabilito la pietra miliare: difesa della pace, libertà, lotta contro la miseria. Crediamo anche noi di essere su questa linea. Ma egli ha dato particolare rilievo alla pianificazione, e stasera ha spiegato un po’ meglio, sicché non ho molte difficoltà a giungere alla interpretazione di questa parola. Io vi faccio soltanto osservare che il congegno di programmazione – perché a questo si riduce la pianificazione nel senso indicato da Saragat – esiste nel Governo: è il C.I.R., è l’organismo dello studio e dell’applicazione dei problemi economici, che segue una certa direttiva e costruisce un certo piano. Abbiamo creato poi il Comitato delle meccaniche, anche come strumento di pianificazione in confronto di una industria che alimenta 650 mila operai e quindi rappresenta una delle industrie di maggiore speranza, ma oggi di maggiore imbarazzo dell’Italia. Anche noi cerchiamo nella nuova forma, che abbiamo dato alla legge sui prezzi e soprattutto nella sanzione degli incettatori, di creare degli organismi, degli strumenti per potere veramente programmare la nostra attività di Governo nel campo economico, rispondendo anche alle esigenze di coloro ai quali ci rivolgiamo per prestiti o investimenti in Italia. Non è dunque che si tratti di cosa nuova, si tratta evidentemente di perfezionare, e sono il primo a dire che dal primo Governo ad oggi molte modificazioni sonò state fatte, ma non sono ancora sufficienti. Si tratta di coordinare programmi che già esistono e quando si parla di programmazione non bisogna dimenticare che abbiamo un programma di gestione, di finanziamento e di costruzioni ferroviarie che è elaborato fin nei maggiori dettagli. In questo primo periodo le funzioni stimolatrici dei premi di maggiore rendimento, che salgono ad oltre 2 miliardi e 300 milioni, hanno portato a far lavorare gli stessi ferrovieri per un traffico aumentato del 15 per cento di quello anteriore. Gli aumenti dei costi dei trasporti, l’aumento delle tariffe (badate, nonostante tutto quello che si è detto, sono ancora otto volte minori a quelle della Svizzera, quattro volte nei confronti della Polonia, Danimarca, Francia; sei volte minori della Svezia, del Belgio, ecc.) corrisponde a un certo programma che ha una meta e ormai, è in vista il pareggio del bilancio di esercizio delle Ferrovie dello Stato nel prossimo anno finanziario 1948-49 e si è in pieno fervore di ricostruzione. Poi c’è il piano di ricostruzione delle ferrovie, per cui abbiamo fissato 175 miliardi da dividersi in 3 esercizi e che nel 1950-51 dovrebbe essere coronato dal successo.

Un altro piano è quello delle bonifiche. Si e fatto accenno da qualcuno alla bonifica, alle migliorie.

Anche qui noi abbiamo il piano, abbiamo il progetto fin nel dettaglio, ma il ritardo nell’applicazione è dovuto a mancanza finanziaria e non a mancanza di programmazione, o a difetto di studi necessari per l’attuazione delle bonifiche. Ma è certo che abbiamo piena coscienza che specialmente per il Mezzogiorno, occorre provvedere in quanto è necessario equilibrare una fatale deficienza che avviene quando cerchiamo in qualche misura di sostenere l’industria meccanica del Nord, e conguagliare le esigenze del Mezzogiorno. Per queste ragioni che d’altra parte non sono essenziali, – l’essenziale è che si deve combattere la disoccupazione ed aumentare la produzione – un programma dettagliato è pronto per l’esecuzione; è ormai fatto.

Si tratta solo di potere aumentare i fondi messi a disposizione del Ministero dell’agricoltura, perché le bonifiche delle Puglie, della Basilicata e della Sardegna – circa 700.000 ettari – possano sul serio venire condotte avanti. A proposito dell’I.R.I., da quando siamo entrati in questo Governo con questa formazione abbiamo fatto un passo notevole, mi pare, perché abbiamo incaricato un uomo fuori dei partiti, un tecnico, di studiare tutte le possibilità entro l’I.R.I. dirigendole, per portarci delle proposte concrete, proposte che in parte ci ha portato e che in parte completerà entro 15 giorni o 3 settimane; progetti e proposte che verranno studiati dal Comitato di ricostruzione e poi verranno applicati con questo scopo: mantenere tutto quello che è vitale, mantenere tutto quello che è chiave degli interessi collettivi, liberarsi del resto, perché, altrimenti, tutto cade in rovina, e la situazione a questo riguardo è molto seria.

Se aveste assistito ad una conferenza che ho avuto qui, subito dopo la prima seduta, con i rappresentanti della Camera del lavoro e delle banche e degli industriali di Milano voi avreste avuto la conoscenza e, direi, l’angoscia dell’asprezza di questo problema. Essi venivano a dirci: «Non vogliamo l’inflazione, non vogliamo che lo Stato stampi per dare denaro agli industriali; vogliamo altre riforme, altre forme di credito». E noi su questo ci siamo scambiati delle idee ed abbiamo avviato trattative; ma si vedeva l’angoscia degli stessi operai, che sanno cosa voglia dire l’inflazione (Commenti a sinistra) e sanno che, se ci mettiamo su quella strada, anche per esigenze giuste, non faremmo gli interessi della classe operaia.

Io sono persuaso che, nonostante tutto quello che scrivete voi, se ci fosse data la possibilità di parlare serenamente agli operai, di dir loro che il loro destino è legato a questa migliore amministrazione dello Stato, a queste riforme, a questa prudenza che abbiamo introdotte, siamo persuasi che essi ci direbbero sì e sarebbero pronti ad accettare questa disciplina. (Applausi al centro e a destra).

Certo che nel campo della programmazione, della pianificazione in genere, dell’applicazione dei rimedi economici, la collaborazione non è mai abbastanza. Noi abbiamo dimostrato sia nelle trattative per il piano Marshall, sia nelle trattative per la Banca Internazionale, sia nel Comitato per le industrie meccaniche, che cerchiamo la competenza anche al di fuori del Governo e anche in partiti che votano contro il Governo, dimostrando con ciò la nostra volontà di chiamare tutte le forze competenti per poter riuscire a superare queste grandi difficoltà che travagliano il nostro Paese.

Questo è il criterio che abbiamo applicato, anche quando si trattò di concludere accordi commerciali e anche quando si tratta di inviare consoli o rappresentanti diplomatici. Questo criterio va seguito e va allargato, in questo senso, che nel momento in cui le difficoltà sono così gravi, bisogna chiamare tutti gli uomini a bordo.

Ed ora mi rivolgo in particolare all’amico Giannini. (Commenti). Si è fatto molto rumore intorno al suo discorso, ma mi è parso che Giannini stesso abbia preventivamente dato il giusto significato alle sue conclusioni, quando ha detto qui e poi ha stampato sul suo giornale queste parole:

«Si è parlato di trattative fra il mio partito e la Democrazia cristiana, o fra il mio partito e il Governo. Non crediamo che il Governo possa fare trattative sotto l’assillo del voto; non sarebbe morale. Noi ci sentiremmo di essere imbarazzati a dire all’onorevole De Gasperi: vogliamo questo in cambio dei nostri 33 voti. Non sappiamo De Gasperi con quali parole ci risponderebbe, ma noi sappiamo le parolacce che diremmo al suo posto».

Credo di avere interpretato il significato delle sue dichiarazioni secondo questa sua premessa: le sue dichiarazioni sono postulati programmatici, non condizioni di voto, le quali non mi vennero poste né da questo, né da nessun altro partito. Con nessun partito, durante queste trattative, ho voluto avere negoziati, per la ragione semplice che un uomo di cui si mette in dubbio la capacità di governare e contro il quale si muove in triplice assalto un voto di sfiducia, si mostrerebbe veramente ridicolo, se cercasse di superare le difficoltà con misure che riguardano semplicemente l’atteggiamento di un voto o di un Gruppo. (Applausi al centro).

Ma quando egli fra i postulati chiede una politica di pacificazione e di disarmo civile io gli rispondo: d’accordo. Abbiamo già, dopo la concessione dell’amnistia del 1947, ritenuto necessario ritornare alla normalità nell’amministrazione della giustizia e abbiamo disposto, con decreto 26 giugno, la chiusura delle Corti d’assise speciali, fissando un breve termine per la definizione dei lavori pendenti.

La nostra è dunque una identica finalità di pacificazione. Stanno a dimostrarlo il provvedimento già elaborato relativo all’epurazione e al riconoscimento del diritto degli anti-fascisti esonerati, sotto il cessato regime, per ragioni politiche. Con detto provvedimento, che sarà presentato alle Commissioni legislative di questa Assemblea, il Governo, considerando che di fronte al compito immane della ricostruzione è indispensabile l’unione di tutti gli sforzi in una concorde ed operosa volontà di rinascita, ha limitato i casi di procedimento di epurazione agli addebiti di notevole gravità e alla responsabilità di coloro che hanno gradi più elevati nella gerarchia statale e che assunsero posizioni non compatibili con la permanenza del rapporto di impiego.

Quando poi egli parla di direttiva liberale democratica in economia, penso che egli voglia dire che la meta deve essere il ritorno alla libertà e che non chieda che da oggi a domani si lascino cadere tutte le discipline, senza una certa graduatoria e senza sostituirle con mezzi efficaci per arrivare alla libertà.

GIANNINI. Al più presto possibile.

DE GASPERI, Presidente del Consiglio dei Ministri. Ed ecco che la misura che noi abbiamo preso nel campo del grano corrisponde proprio al vostro postulato; noi andiamo verso la libertà, ma abbiamo bisogno, in un primo esperimento, che gli agricoltori producano e ci consegnino quei tanti milioni di quintali di grano che sono necessari per le classi più povere.

Poi verrà la libertà, se gli agricoltori faranno il loro dovere. E ripeto qui quello che ho detto in una assemblea di tecnici agricoli: non è che io non sappia – come è stato stampato più volte – scegliere tra vincolismo e libertà. No; io credo che questo esperimento vada fatto e che sia il migliore che si possa fare. Ma certamente, se non corrisponderà la solidarietà degli agricoltori e se l’egoismo – ed io spero che ciò non sia – di alcuni ci farà naufragare questo progetto, io vi domando: che cosa rimarrà più a un Governo qualsiasi che dovrà legiferare in quel momento, se non ricorrere a misure più drastiche?

Ma allora saranno proprio coloro che avranno chiesto la libertà, che si saranno tirati addosso questa misura di vincolismo. (Approvazioni al centro – Commenti a sinistra).

L’onorevole Nitti ha rilevato l’importanza dei ceti e dei partiti medi. Lo riconosco; riconosco che non basta avere una massa di elettori, riconosco che non basta avere un’organizzazione perfezionata e valersi del sistema elettorale per portare nei Parlamenti una numerosa rappresentanza dei partiti di massa.

Bisogna augurarsi che nei Parlamenti entrino anche delle personalità che, con il loro ingegno, con le loro qualità, compensino eventualmente le debolezze del numero. Io vedo quindi con speranza, e non con avversione, che accanto ai partiti di massa entrino a far parte della Camera anche i rappresentanti di quei ceti medi, i rappresentanti di quei gruppi che valgano a dire una parola di serenità come ieri l’ha pronunciata qui l’onorevole Nitti.

Noi questo Governo lo abbiamo definito l’altra volta: è un Governo di necessità. Lo sappiamo che questa non è una situazione normale; ma che cosa c’è di normale oggi nel Paese, onorevoli colleghi? Nelle difficoltà enormi di carattere economico, nei nostri rapporti con l’estero, ditemi voi se non è stata una fatalità che in quasi tutti i campi si sia dovuto ricorrere troppo spesso a degli espedienti?

Questo è un Governo di necessità perché Governi di grande coalizione allora – e l’onorevole Nitti lo sa – non si son voluti fare all’infuori della mia persona; e quindi è inutile che poi si sia andati tanto a decantare l’ingiustizia che io avessi tutto organizzato per diventare Cancelliere e per imporre non so che restrizioni della libertà. (Commenti a sinistra).

È inutile che si suggestioni la folla perché questa mi impedisca di parlare sulle pubbliche piazze. Questo diritto me lo sono Conquistato e me lo difendo: il diritto di parlare a nome del popolo, e di parlare alla coscienza del popolo direttamente, (Applausi al centro e a destra – Commenti a sinistra).

Sono d’accordo con l’onorevole Nitti quando parla di libertà di elezioni. Senza dubbio, qualsiasi Governo che sarà al potere in quel momento dovrà garantire l’assoluta libertà delle elezioni; cosa relativamente facile col sistema presente, perché gli intrugli che facilmente avvenivano nel collegio uninominale, non avvengono, non possono avvenire nel sistema proporzionale.

Ah, mi sono dimenticato, ho saltato una risposta che dovevo all’onorevole Giannini. (Commenti a sinistra). Non importa; lo dirò così; sarò tanto più sincero: non l’ho scritto. Mi sono dimenticato di prendere atto del postulato dell’onorevole Giannini nella politica internazionale, cioè del movimento europeista. Qui, in questo Governo siede l’amico autorevole Einaudi, che già nel 1917 o 1918 ha scritto un volume sopra il sistema federale degli Stati europei. Oltre a ciò questo Governo ha avuto cura, già al suo primo ripresentarsi alla vita internazionale, di lanciare ed alimentare l’idea di una unione degli Stati europei. (E oggi, mentre parliamo, si sta discutendo a Roma l’Unione doganale tra la Francia e l’Italia). Movimento interessantissimo, movimento che sarà lento nell’attuazione, ma che è senza dubbio il movimento dell’avvenire. Se il qualunquismo si trasformerà in qualunquismo europeo, nel senso della fratellanza dei popoli, ci troverà pienamente concordi e collaboratori con esso in tutti i sensi. (Applausi al centro – Commenti a sinistra).

Aderisco anche all’appello che l’onorevole Nitti ha fatto perché nel nostro agitato periodo, che per forza si svolgerà durante le elezioni, ci sia serenità, rispetto della libertà, rispetto di un partito di fronte all’altro. È questo un desiderio vivissimo nostro, ed è questo il compito del Governo: cercare in tutti i modi di salvaguardare la libertà dei partiti e dei candidati.

Una voce al centro. E degli elettori.

DE GASPERI, Presidente del Consiglio dei Ministri. Il Governo di necessità vuole mantenere lo Stato al di sopra dei partiti; vuole liberare la nostra economia dalla stretta, superare i conflitti sociali coi metodi della libertà, garantire il libero sviluppo e il consolidamento delle istituzioni repubblicane, egualmente aperte a tutti i cittadini.

Si è fatto un po’ di scandalo per le affermazioni dell’amico Piccioni, quando Piccioni rivendicava al Partito democratico cristiano una prevalente direzione politica. Ora, si può ben tradurre il suo pensiero con queste altre parole: che egli rivendicava una prevalente responsabilità, non volendola addossare ad altri partiti, liberi di prendere il loro atteggiamento come credono meglio, dinanzi all’interesse della nazione, anche in un voto come quello di fiducia o sfiducia. Responsabilità prevalenti, ma non esclusive, ed in ogni caso non per finalità egoistiche proprie, ma in servizio dello Stato e per la causa della pacificazione sociale e della pacificazione fra i partiti.

L’onorevole Lussu mi ha attribuito dell’ambizione personale. Se fossi ambizioso di rimanere a questo posto, sarei veramente uno sciocco, perché dimostrerei di non avere imparato ancora che a questo posto le spine sono molte e le rose pochissime!

Ma vi dico subito che esiste nella coscienza dei popoli anche un altro sentimento; che è quello della forza di assumere responsabilità!

Ed ora vi dico: io non voglio dare cattivo esempio a milioni di uomini che in Italia si battono disperatamente contro le difficoltà e resistono allo scoramento di questo momento. Il loro sacrificio esige, per quanto riguarda la mia volontà, anche il sacrificio mio, e questa è la mia ambizione! (Applausi al centro). Ma voi soli potete liberarmi da quest’obbligo di coscienza in confronto delle mie responsabilità; voi soli, voi rappresentanti del popolo, se mi scioglierete da questa responsabilità, la mia ambizione sola sarà di obbedirvi, in qualità di semplice cittadino, ma sempre in difesa della libertà e delle grandi tradizioni della civiltà italiana! (Vivissimi prolungati applausi al centro e a destra – Moltissime congratulazioni).

PRESIDENTE. Dichiaro chiusa la discussione. Comunico che è stato presentato ora un terzo ordine del giorno, del seguente tenore, firmato dagli onorevoli Magrini, La Malfa, De Mercurio, Azzi, Macrelli, Chiostergi, Paolucci, Pacciardi ed altri:

«L’Assemblea, udite le dichiarazioni del Governo, non le approva e passa all’ordine del giorno».

Ricordo che erano stati presentati i seguenti ordini del giorno:

«L’Assemblea Costituente, preso atto delle comunicazioni del Governo, ne approva le attuali direttive politiche ed economiche, raccomandando che i provvedimenti necessari per riportare alla normalità la produzione e la vita del Paese siano accompagnati da tutte le cautele atte ad attenuare gli inevitabili contraccolpi di un cambiamento di congiuntura, e passa all’ordine del giorno.

«Quintieri Quinto, Bonino, Condorelli, Fabbri; Cifaldi, Villabruna, Lucifero, Perrone Capano, Bellavista, Cortese».

«L’Assemblea Costituente,

ritenuto, che non è possibile fermare il ritmo dei lavori pubblici della ricostruzione e contro la disoccupazione, e particolarmente di quelli che dipendono da impegni assunti dallo Stato;

invita il Governo a provvedere agli stanziamenti necessari e, nella certezza che provvederà in questo senso, gli esprime la sua fiducia».

«Micheli».

Abbiamo, dunque, le tre mozioni intorno alle quali si è svolta tutta la discussione, ed abbiamo tre ordini del giorno, ma in questa discussione particolare gli ordini del giorno devono cedere il passo alle mozioni. Chiedo quindi ai presentatori delle mozioni, onorevoli Nenni, Togliatti e Saragat, il quale ha svolto la mozione che aveva per prima la firma dell’onorevole Canevari, se conservano le loro mozioni.

TOGLIATTI. Chiedo di parlare.

PRESIDENTE. Ne ha facoltà.

TOGLIATTI. Desidererei una breve sospensione di seduta per poter consultare il mio Gruppo.

PRESIDENTE. Onorevoli colleghi, credo che la richiesta dell’onorevole Togliatti risponda a un desiderio abbastanza diffuso e di cui si erano fatti portavoce altri deputati.

Possiamo quindi sospendere la seduta fino alle 21.30. (Commenti).

LUCIFERO. Chiedo di parlare.

PRESIDENTE. Ne ha facoltà.

LUCIFERO. Signor Presidente, in verità abbiamo già avuto una sospensione prima del discorso del Presidente del Consiglio, e mi stupisco che dei Colleghi, che hanno presentato le mozioni, le hanno discusse, le hanno ridiscusse, ancora non sappiano se vogliono mantenerle o no. Ad ogni modo rispetto le titubanze e le incertezze di tutti, ma pregherei il Presidente, se vuole dare questa sospensione, che ci dia almeno un’ora di tempo.

GIANNINI. Chiedo di parlare.

PRESIDENTE. Ne ha facoltà.

GIANNINI. Signor Presidente, le parole del collega, onorevole Lucifero, sono perfettamente giuste in quanto egli appartiene al solo Gruppo che ha interamente definito la sua condotta e quindi è perfettamente giusto che si preoccupi solamente della cena, perché evidentemente è il Gruppo che non ha altro da fare che andare a cena. Per quanto riguarda noi, signor Presidente, mi permetto associarmi alla richiesta dell’onorevole Togliatti, a costo di confermare ancora una volta la leggenda che noi prendiamo tanti rubli dai comunisti per la nostra organizzazione, e quindi desidererei che ci fosse concessa una sospensione, se possibile fino alle 22.

(La seduta, sospesa alle 21, è ripresa alle. 21.55).

PRESIDENTE. Propongo ai tre presentatori delle mozioni il quesito che avevo posto prima: se essi conservano oppure ritirano le mozioni.

Onorevole Nenni?

NENNI. Onorevole Presidente, noi manteniamo la nostra mozione e domandiamo il voto per divisione nella intenzione di chiedere l’appello nominale soltanto sull’ultima parte della mozione.

PRESIDENTE. La prego di precisare quale è questa divisione che lei propone.

NENNI. La divisione è fra la motivazione e la conclusione. La motivazione comprende le parole: «L’Assemblea Costituente, di fronte ai risultati della politica generale del Governo, ed in particolare di quella economico-finanziaria che compromette lo sforzo solidale della ricostruzione del Paese, l’ordine interno e il tenore di vita delle masse popolari». Per questa parte domandiamo il voto per alzata e seduta. Per la conclusione, che comprende le parole: «nega la sua fiducia al Governo e passa all’ordine del giorno», chiediamo l’appello nominale.

PRESIDENTE. Onorevole Togliatti?

TOGLIATTI. Mantengo la mozione.

PRESIDENTE. Onorevole Saragat?

SARAGAT. Noi manteniamo la nostra mozione.

BOZZI. Chiedo di parlare.

PRESIDENTE. Ne ha facoltà.

BOZZI. Signor Presidente! Onorevoli colleghi! Mi riferisco alla proposta fatta dall’onorevole Nenni, che ha chiesto la votazione per divisione. Io credo che questo procedimento non possa essere ammesso. Qui c’è una mozione di sfiducia: sarebbe come se in una sentenza – scusate se ricorro all’esempio di un documento che mi è familiare – si volesse scindere la motivazione dal dispositivo e dare un dispositivo senza dirne le ragioni.

Ora, l’articolo 3 della legge del 1946, ultimo comma, che regola la vita ed il procedimento di questa Assemblea dice che il Governo è giuridicamente obbligato a dimettersi quando, con una maggioranza qualificata, sia approvata una apposita mozione di sfiducia. Vuol dire che si è voluto qualificare giuridicamente, costituzionalmente una particolare forma di mozione, che è diversa dalla mozione prevista dal Regolamento della Camera del 1921-22. Si tratta di una figura nuova venuta nelle Costituzioni del dopoguerra, e intesa a dare stabilità ai governi. È vero che nell’articolo 128-129 del Regolamento della Camera è detto che la mozione può essere votata per divisione, ma qui, come ho detto, ci si riferisce a un concetto diverso, vale a dire ad una mozione che proponeva un progetto di legge, o altro provvedimento da parte del Governo. Ma è evidente che una mozione di sfiducia non si può votare per divisione, separando la motivazione dall’atto finale. Si può dividere nella parte motivata. E vi è infatti un altro argomento a sostegno di questa tesi, e cioè che la mozione di sfiducia ha valore orientativo per il Capo dello Stato, perché, se essa fosse accolta, il Capo dello Stato dovrà addivenire alle designazioni necessarie per la formazione del nuovo Governo. Quale sarà l’orientamento che noi daremmo se votassimo il dispositivo senza dire le ragioni di questa sfiducia che diamo al Governo? Io credo che alla votazione per divisione non si possa addivenire.

BELLAVISTA. Chiedo di parlare.

PRESIDENTE. Ne ha facoltà.

BELLAVISTA. Volevo appunto dire quanto il collega Bozzi ha finito di esporre, sottolineando particolarmente che se la mozione di sfiducia è essenzialmente un atto di giudizio, essa è logicamente scindibile in un «atto di intelligenza», che è costituito dalla motivazione, e in un «atto di volontà», che è il dispositivo. Ma la prima è il prius logico, che conduce alla seconda. Per questo io credo che la proposta dell’onorevole Nenni non si possa accettare, e la mozione debba votarsi senza divisione.

TOSATO. Chiedo di parlare.

PRESIDENTE. Ne ha facoltà.

TOSATO. Credo anch’io che la domanda di votazione per divisione della mozione presentata dall’onorevole Nenni e da altri colleghi non possa essere accolta. L’articolo 128 del Regolamento della Camera al terzo comma prevede bensì la possibilità della votazione per divisione di una mozione. Tuttavia è chiaro che il Regolamento dell’Assemblea, cioè il vecchio Regolamento vigente prima del fascismo, vale in quanto sia compatibile con la legge di natura costituzionale che regola la costituzione dello Stato in questo momento. Ora l’articolo 3 della legge del 16 marzo 1946, che rappresenta la nostra Costituzione provvisoria, contiene anche una disciplina abbastanza precisa del Governo parlamentare, rilevante ai fini della soluzione della questione che ora si discute.

L’articolo 3 stabilisce che «il Governo è responsabile di fronte all’Assemblea Costituente» e successivamente, all’ultimo comma, determina il procedimento con il quale si deve esprimere la sfiducia al Governo e le condizioni, date le quali, la manifestazione della sfiducia importa, obbligatoriamente, le dimissioni del Governo. Ecco il testo dell’articolo 3: «Il rigetto di una proposta governativa da parte dell’Assemblea non porta come conseguenza le dimissioni del Governo. Queste sono obbligatorie soltanto in seguito alla votazione di una apposita mozione di sfiducia, intervenuta non prima di due giorni dalla sua presentazione e adottata a maggioranza assoluta dei membri dell’Assemblea».

Per revocare la fiducia al Governo è necessario adunque che la votazione abbia luogo su una apposita mozione – notate bene: mozione, e non ordine del giorno – presentata almeno 48 ore prima, e che la mozione di sfiducia sia approvata dilla maggioranza assoluta dei membri dell’Assemblea.

Ora, a parte il rilievo che non è concepibile una mozione senza motivazione, mi pare che la questione della divisibilità o meno della votazione della mozione di sfiducia vada e debba essere considerata in rapporto a questa norma fondamentale che regola il Governo parlamentare in Italia. Con questa norma si introduce un sistema nuovo che si discosta notevolmente dalla prassi tradizionale. Il Governo deve godere la fiducia dell’Assemblea. Una volta ottenuta la fiducia dell’Assemblea, il Governo dura in carica e si presume assistito dalla fiducia parlamentare, fino a che non sia approvata una specifica mozione di sfiducia e finché questa mozione di sfiducia non sia approvata a maggioranza assoluta.

Perché la norma costituzionale richiede la presentazione di una mozione apposita, e la approvazione della mozione stessa da parte della maggioranza assoluta dei membri dell’Assemblea, affinché la volontà della Assemblea sia operativa agli effetti di rovesciare il Governo in carica e di provocare la costituzione di un nuovo Governo? Tutto ciò è richiesto, evidentemente, perché non si ammette più che una qualsiasi opposizione possa rovesciare il Governo, ma si vuole una opposizione tale da poter costituire un nuovo governo in sostituzione di quello che si intende rovesciare.

Ora, perché si abbia una opposizione atta a formare un nuovo Governo, occorre che l’opposizione stessa sia concorde e costituisca la necessaria maggioranza non soltanto all’effetto generico di rovesciare il Governo in carica, ma anche all’effetto di costituire il nuovo Governo. Di qui la necessità della motivazione, che è l’elemento indispensabile a identificare la maggioranza necessaria per costituire un nuovo Governo. Solo l’identità dei motivi nella sfiducia al Governo permette di riconoscere se esiste una nuova maggioranza che formi la base di un nuovo Governo; solo l’esistenza di una nuova concorde maggioranza giustifica una crisi di Governo. Se più mozioni di sfiducia possono concludere allo stesso modo nella sfiducia al Governo, e tuttavia queste mozioni di sfiducia, essendo derivate da motivazioni diverse, e magari opposte, non possono per sé stesse condurre alla formazione di quella maggioranza che è necessaria per costituire un nuovo Governo, la sfiducia al Governo in carica non è giustificata e non è operativa. (Interruzioni a sinistra).

Per queste ragioni, ai sensi della legge costituzionale vigente, non è ammissibile accogliere la richiesta di votare per divisione le mozioni di sfiducia che sono state presentate. In tal caso si avrebbe quella confusione che la legge ha voluto evitare. (Commenti a sinistra).

DUGONI. Chiedo di parlare.

PRESIDENTE. Ne ha facoltà.

DUGONI. Mi sembra che la richiesta di votazione della mozione presentata dall’onorevole Nenni e da altri colleghi per divisione non possa, in nessun modo, venire contestata.

È stato stabilito che i nostri lavori, di qualsiasi tipo e di qualsiasi genere – e questo contemporaneamente alla pubblicazione della legge 16 marzo 1946 – siano ordinati dal Regolamento della Camera dei deputati del 1921. (Commenti al centro).

Vi è stata una deliberazione di questa Assemblea la quale ha confermato che i nostri lavori siano guidati dal Regolamento 1921. Questa nostra deliberazione vale in linea assoluta anche come deliberazione legislativa. Su questo non vi è nessun dubbio, perché è una deliberazione normativa che regola i lavori della nostra Assemblea. Non ha né il legislatore, né l’Assemblea Costituente, fatta nessuna distinzione fra mozioni che riguardino la legge 16 marzo e mozioni ordinarie. In queste condizioni non vi è nessun dubbio che noi abbiamo il diritto di chiedere la votazione per divisione. Non solo, ma la richiesta di votazione per divisione è un diritto individuale, inalienabile ed appartiene a ciascun deputato (Commenti al centro), diritto, ho detto, personale ed inalienabile che ciascun deputato ha, di vedere rispecchiato con esattezza il valore del proprio voto.

Pertanto io mi chiedo: se noi avessimo richiesto una qualsiasi altra divisione della mozione, avreste voi potuto rifiutarla? Se cioè ci fossimo fermati a un terzo o alla prima frase della mozione e avessimo chiesto la votazione su quella, domando se voi aveste potuto rifiutarla. Se non potete rifiutare una qualsiasi altra divisione, non potete neanche rifiutare quella che noi abbiamo proposta, perché questa corrisponde esattamente al nostro pensiero: cioè noi desideriamo che si formi una maggioranza di voti, ed a questo fine abbiamo chiesto l’appello nominale, intorno ad un determinato punto della nostra mozione. (Commenti al centro).

DOSSETTI. Chiedo di parlare.

PRESIDENTE. Ne ha facoltà.

DOSSETTI. Temo in primo luogo che si prolunghi questa discussione su un punto di diritto così evidente, e che dovrebbe essere tanto più evidente dopo le discussioni intervenute in sede di preparazione del nostro progetto di Costituzione.

DUGONI. Ma che non c’entrano oggi.

DOSSETTI. Non c’entrano, ma si conoscono perfettamente i motivi ed il significato della norma così come oggi dobbiamo applicarla. In secondo luogo l’onorevole Dugoni, che insiste sulla non pertinenza di queste considerazioni, avrebbe per lo meno dovuto imparare da quella discussione una cosa che forse ha un po’ dimenticato dai banchi dell’Università, e cioè la gerarchia delle norme e la necessaria graduazione della validità delle norme regolamentari rispetto alle norme che regolamentari non sono. Ad ogni modo, voglio scendere sul terreno dell’onorevole Dugoni e, senza ripetere le considerazioni che si riconnettono alla norma dell’articolo 3 del decreto del marzo 1946, così autorevolmente e lucidamente esposte dagli onorevoli Bozzi, Bellavista e Tosato, mi limito semplicemente al Regolamento, invocato dall’onorevole Dugoni.

E chiedo: è vero o non è vero che il Capo XVI del Regolamento prevede una serie di figure diverse, e cioè l’interrogazione, l’interpellanza, la mozione, l’ordine del giorno, in modo che lo stesso articolo 127 distingue tra mozione e ordine del giorno? Ora, di queste figure, alcune sono espressamente definite dal Regolamento, così come accade per l’interrogazione e l’interpellanza. Ma nel caso nostro, della mozione, non è detto il concetto; tuttavia il concetto deriva in maniera sostanziale dalla contrapposizione di questa figura con le altre figure espressamente definite. E il concetto che della mozione si ricava dal Regolamento è precisamente questo: di una iniziativa, di una deliberazione motivata, in cui la connessione tra la deliberazione e la motivazione rappresenta non soltanto quella necessità logica alla quale accennava l’onorevole Bellavista, (Commenti a sinistra) ma la caratteristica della figura parlamentare di fronte alle altre. E questo è tanto vero, che l’articolo 127 contrappone alla mozione l’ordine del giorno e distingue vari ordini del giorno.

Allora, quando l’articolo 128 ci parla di una divisibilità della mozione, stando sempre al terreno regolamentare, noi dobbiamo necessariamente ricavare questa conseguenza: che la divisibilità deve essere una divisione tale, da non alterare quello che è l’ordinamento individuante tipico della figura parlamentare. Se astraiamo completamente il dispositivo da uno o più motivi, noi scindiamo la caratteristica tipica della mozione. La divisione non potrà altro che riferirsi, eventualmente, ad una divisibilità dei motivi, ma non ad una divisione che è uno spezzettamento del concetto della mozione. (Interruzioni a sinistra).

Quindi, io credo che, di fronte a queste considerazioni, non ci sia bisogno di insistere ulteriormente. (Commenti a sinistra). La stessa intemperanza di cui danno prova quei settori dimostra la non sensibilità delle loro menti, non preparate alla forza di questi argomenti. (Applausi al centro).

Mi limito a concludere, rivolgendo all’onorevole Presidente non un invito, ma semplicemente una considerazione, di cui egli è bene in grado di valutare tutta l’importanza: e cioè che in questo momento non stiamo interpretando una qualche norma regolamentare che, in caso estremo, possa essere rimessa ad una semplice votazione per alzata di mano; ma stiamo applicando una norma fondamentale dell’attuale ordinamento costituzionale, completamente sottratto ad una qualsiasi deliberazione di questa Assemblea e di cui il Presidente, nella sua funzione di interprete della legge, deve in questo istante assumersi piena ed intera responsabilità. (Applausi al centro e a destra).

CORTESE. Chiedo di parlale.

PRESIDENTE. Ne ha facoltà.

CORTESE. Presidente, sarà per colpa mia, ma non arrivo a comprendere su che cosa l’onorevole Nenni chiede il voto per divisione, perché io rileggo la prima parte, che dovrebbe essere una parte che diventi autonoma, tale da poter essere materia sottoponibile ad un voto, ad un sì o ad un no. Io leggo:

«L’Assemblea Costituente, di fronte ai risultati della politica generale del Governo ed in particolare di quella economico-finanziaria che compromette lo sforzo solidale della ricostruzione del Paese, l’ordine interno e il tenore di vita delle masse popolari…»! A questo punto dovrei dire, io, deputato, sì o no.

Io domando al buon senso che cosa mi propone di votare l’onorevole Nenni col suo primo quesito? (Applausi al centro e a destra).

PRESIDENTE. Onorevoli colleghi, nonostante l’affermazione e l’invito molto cortese, ma solenne, dell’onorevole Dossetti – proprio perché si tratta di una questione che non ha precedenti e che potrà ancora presentarsi per l’avvenire, nel funzionamento della nostra Assemblea – penso non possa essere un atto di volontà mia personale a fare la legge. Ma occorre rimettersi alla decisione di coloro che sono in questo momento investiti di decidere sul sì o sul no alla legge stessa fondamentale.

Rimetterò, dunque, secondo l’articolo citato dallo stesso onorevole Dossetti, all’Assemblea decidere se si debba stabilire o no questo precedente, se cioè, in questa materia o in questa sede, si possa o non si possa votare per divisione, si debba o non si debba attenersi al Regolamento della Camera che l’Assemblea ha fatto proprio.

Mi permetta tuttavia l’onorevole Dossetti: è vero che l’articolo 3 del decreto del 16 marzo 1946 parla di una mozione di sfiducia, ma, quando dice che deve essere votata, non fa alcun cenno al modo di votazione, dicendo semplicemente: «Le decisioni del Governo sono obbligatorie in seguito alla votazione di una apposita mozione di sfiducia».

Nel progetto costituzionale ancora da votare, e che pertanto può esprimere l’opinione ponderata e saggia di 75 membri di questa Assemblea, ma non fa ancora testo per l’Assemblea, si parla di mozioni di sfiducia «motivate». Ma a me pare che, proprio perché la Commissione dei Settantacinque ha voluto ponderatamente aggiungere questo aggettivo, coloro che, redigendo il decreto 16 marzo 1946, non ve lo hanno inscritto, a meno che li tacciamo di negligenza e di incapacità, evidentemente lo hanno omesso a ragione veduta.

D’altra parte, onorevoli colleghi, qual è il regolamento che dobbiamo seguire in questa discussione? Se fosse vero che noi non siamo impegnati a ciò che il Regolamento della Camera stabilisce in tema di mozione, allora qualcuno avrebbe dovuto sollevarsi – sollevarsi, si intende in forma parlamentare, chiedendo la parola – per reclamare poco fa contro la nostra procedura.

Un’ora fa, infatti, io ho dato lettura di alcuni ordini del giorno che sono stati presentati.

DOSSETTI. Ne parleremo.

PRESIDENTE. Onorevole Dossetti, io non l’ho interrotta, quando lei parlava. Se noi abbiamo accettata dunque la presentazione degli ordini del giorno…

DOSSETTI. Noi non abbiamo accettata la presentazione degli ordini del giorno.

PRESIDENTE. Onorevole Dossetti, noi l’abbiamo accettata, perché io ho dato la parola ai presentatori e nessuno, neanche lei, ha protestato. E i presentatori appartenevano, fra l’altro, anche al suo partito e al partito liberale, a nome del quale l’onorevole Cortese ha sollevato poco fa un’eccezione contraria. E se un ordine del giorno è stato presentato ed è stato svolto, esso deve di necessità ritenersi acquisito all’Assemblea.

Ciò deve farci riflettere. Non è una cosa così chiara e così netta, come alcuno sostiene, nella quale si possa decidere con certezza assoluta il quesito che ci sta dinanzi; ed è questa la ragione per la quale, non ritenendomi il depositario della certezza, io chiederò all’Assemblea di decidere essa stessa, avvalendomi di quella norma del Regolamento che sottopone i casi controversi di questo genere al voto dell’Assemblea, per alzata e per seduta.

DOSSETTI. Chiedo di parlare.

PRESIDENTE. Ne ha facoltà.

DOSSETTI. Onorevole Presidente, non voglio affatto tediare i colleghi e i miei amici, perché anch’io ho interesse alla rapida conclusione di questo dibattito; ma poiché il Presidente ha creduto opportuno di desumere da quella che gli è parsa una certa acquiescenza, una norma, la determinazione di una prassi dell’Assemblea, sono costretto, quindi, a fare immediatamente le mie riserve.

Dovrei fare delle riserve su quelle che sono state le risposte che l’onorevole Presidente ha dato alle considerazioni, ripeto, soprattutto dell’onorevole Bozzi e dell’onorevole Tosato, in quanto l’onorevole Presidente non ha centrato, a mio modesto avviso, o almeno non ha risposto a quello che era l’argomento fondamentale, deducibile dall’articolo 3 del decreto del marzo 1946, cioè il significato sostanziale di quella norma, la quale risiede nella sua precisa portata e nella interpretazione che le si deve dare; e la risposta è stata data dagli analoghi precedenti francesi, da cui è stato dedotto che la mozione sia costituita in modo e sia votata in modo che ne risulti una precisa indicazione politica di maggioranza e di designazione di responsabilità.

Questo argomento fondamentale non è stato affatto considerato dall’onorevole Presidente. Ma non è su questo punto, dal momento che l’onorevole Presidente ha creduto di deferire al giudizio dell’Assemblea un’interpretazione di una norma costituzionale fondamentale, che dovrebbe essere interpretata direttamente dall’onorevole Presidente stesso, sotto la sua precisa responsabilità, che io voglio insistere.

Io voglio, invece, far subito le mie riserve – e fra l’altro, aprendomi la possibilità ad un ulteriore intervento, quando si parlerà degli ordini del giorno – in merito alla conclusione, mi pare un poco intempestiva, che l’onorevole Presidente ha creduto di desumere dal fatto che ieri sera sono stati presentati degli ordini del giorno, nei confronti dei quali nessuno ha protestato, e che oggi ne sia stato presentato un altro.

Quanto agli ordini del giorno presentati ieri sera, non possono costituire in nessuna maniera un argomento per le conclusioni alle quali ha voluto pervenire l’onorevole Presidente, perché sono ordini del giorno di fiducia, e quindi non hanno niente a che fare con la procedura della quale ora discutiamo, cioè quella di mettere in crisi un Governo, il quale ha già avuto la sua fiducia. (Commenti a sinistra).

In secondo luogo, per quel che riguarda poi l’ordine del giorno di sfiducia presentato stasera, devo dichiarare che noi ne abbiamo avuto formalmente notizia da parte dell’onorevole Presidente al momento della conclusione (se non vado errato) della riunione di questa sera. Come il Presidente ha dato questo annuncio, io alzai immediatamente la mano per chiedere di parlare e desistetti dall’insistere a questo riguardo unicamente perché la richiesta di dilazione proposta dall’onorevole Togliatti e da altri colleghi mi ha dato l’impressione che sulle questioni di procedura, che, come si sapeva, da ventiquattr’ore covavano, si sarebbe dovuto discutere all’inizio della ripresa della seduta.

Per questi motivi ritengo che non ci sia niente da modificare e che, quindi, avremo possibilità di discutere della votazione dell’ordine del giorno di sfiducia quando di esso si parlerà. (Commenti a sinistra).

PRESIDENTE. Onorevoli colleghi, certe questioni non bisogna sollevarle, se non si intende discuterle fino in fondo. Io intendo rimettere la questione all’Assemblea la quale sta esprimendosi già attraverso tutti gli oratori che hanno parlato e che vorranno parlare.

FABBRI. Chiedo di parlare.

PRESIDENTE. Ne ha facoltà.

FABBRI. Non mi pare dubbia la circostanza che durante la discussione di mozioni gli oratori che svolgono degli interventi abbiano sempre la possibilità di presentare degli ordini del giorno. C’è però una norma precisa di Regolamento, che cioè questi ordini del giorno potranno essere portati alla discussione e alla votazione prima delle mozioni, soltanto se risulterà che le mozioni sono ritirate. Ora, l’acquisizione del fatto – avvenuta soltanto in questo ultimo momento – che le mozioni sono mantenute, implica la conseguenza per l’Assemblea, che coloro che hanno presentato le mozioni, hanno il pieno diritto di veder procedere su di esse a votazione, e questa conseguenza fa automaticamente cadere la possibilità di votare prima gli ordini del giorno, perché le mozioni hanno la precedenza, come ho già ricordato, sugli ordini dèi giorno.

Ciò dico per quanto si attiene alla procedura.

Su quella che poi è la questione di merito, io sono completamente d’accordo pei motivi ricordati dai colleghi Bozzi e Bellavista, che la particolare mozione Nenni risulta nel suo testo indivisibile e, dunque, non deve essere votata per divisione. L’articolo 3 della legge costituzionale provvisoria esclude la votazione pura e semplice di sfiducia senza una premessa per questa conclusione. Si è voluto assicurare una certa stabilità al Governo quando le opposizioni non risultassero concordi su una direttiva, ed è chiaro che la disposizione precisa dell’articolo 3, di carattere eminentemente costituzionale e sostanziale, si è preoccupata dell’ipotesi della caduta o non caduta di un Governo in questo momento particolarissimo di particolarissimo regime costituzionale transitorio. Se è così e se, quindi, la disposizione dell’articolo 3 è di legge speciale costituzionale sostanziale, questa non può essere messa in giuoco e compromessa da una disposizione regolamentare, che è una fonte assolutamente subordinata.

GRISPO. Chiedo di parlare.

PRESIDENTE. Ne ha facoltà.

CRISPO. Noi siamo dinanzi soltanto ad una questione. La questione che si propone è una questione di procedura; cioè se si debba o non si debba, se si possa o non si possa votare per divisione la mozione di sfiducia. È questa la questione.

Non credo – e concordo in questo con l’onorevole Presidente dell’Assemblea – che in proposito si possa invocare l’articolo 3 della legge del giugno 1946, perché l’articolo 3 stabilisce soltanto in quali casi siano obbligatorie le dimissioni del Governo; e soggiunge che le dimissioni del Governo si verificano soltanto come conseguenza di una mozione di sfiducia presentata in determinate occasioni.

Quindi l’articolo 3 non fa in alcun modo cenno della procedura relativa alla votazione della mozione di sfiducia.

Occorre adunque richiamarsi all’articolo del Regolamento, all’articolo 128.

Se ci soffermiamo sull’ultima parte dell’articolo 128, apparentemente potrebbero aver ragione coloro che sostengono che si possa procedere alla votazione per divisione della mozione, perché l’ultima parte dell’articolo 128 dice testualmente: «la votazione di una mozione può farsi per divisione». Ma la questione, a mio avviso, si risolve assai agevolmente; perché qui non siamo dinanzi ad una questione di interpretazione di una norma regolamentare; siamo dinanzi ad una questione meramente di fatto, vale a dire che si procede per divisione sempre quando una votazione per divisione sia logicamente e organicamente attuabile, onde l’osservazione già fatta dal collega Cortese resta tale, che nessuna eccezione logicamente è dato sollevare contro di essa. Ci troviamo noi di fronte ad una mozione per la quale sia ammissibile la procedura della votazione per divisione? Evidentemente no. Ecco perché dico che non è una questione di diritto ma è una questione di fatto. Se la prima parte è così inscindibilmente legata alla seconda parte che votandosi la prima parte non si sa che cosa si vota, innegabilmente siamo dinanzi ad un caso che non consente la procedura della votazione per divisione.

LA ROCCA. Chiedo di parlare.

PRESIDENTE. Ne ha facoltà.

LA ROCCA. Onorevoli colleghi, credo che non sia il caso di distendersi in disquisizioni di un carattere nettamente giuridico che degenera quasi in carattere curialesco. (Ilarità). Alla stregua del decreto del 16 marzo, l’Assemblea è stata incaricata di deliberare sul testo costituzionale e per due altri compiti: elaborare la legge elettorale e approvare i trattati internazionali. Il potere legislativo è stato delegato al Governo. L’Assemblea Costituente non ha la facoltà di investire della sua fiducia il Governo che si ritiene, che si presume già investito di questa fiducia. Però, se l’azione governativa non gode la fiducia del Paese, l’Assemblea Costituente può rendersi interprete e voce di questo scontento, negando la fiducia al Governo. Alla stregua dell’articolo 3 del famoso decreto del 16 marzo, che è quello in base al quale noi siamo qui radunati (ed è presumibilmente da attendersi che non vengano degli spaccatori di capelli in quattro a negare il fondamento di tutto questo), alla stregua di questo decreto, dicevo, l’Assemblea Costituente è chiamata a negare puramente e semplicemente la sua fiducia al Governo a maggioranza assoluta dei membri.

FABBRI. Su apposita mozione.

LA ROCCA. Su apposita mozione di sfiducia. Il che non significa, onorevole Fabbri, che la mozione debba essere motivata. (Commenti al centro e a destra).

Noi qui possiamo più o meno andare a scuola di diritto, ma non a scuola di lingua italiana: «apposita mozione» non sta a significare «mozione motivata». Chiediamo, alla stregua della disposizione dell’articolo 3, che l’Assemblea dimostri di non aver fiducia nell’indirizzo generale della politica del Governo. Questo è il succo; questo è il risultato: così stanno le cose. (Interruzioni al centro e a. destra).

Così stando le cose, diventa semplicemente, non una argomentazione, ma casistica e cavillo, voler impedire che la mozione possa essere ridotta – diciamo così – come in due tronconi, cioè divisa; senza contare che l’osservazione dell’onorevole Fabbri – e mi duole che un giurista della sua statura incorra in certi equivoci – non è in alcun modo fondata: perché, quando egli si richiama all’articolo 4, dimentica che l’articolo 4 fa riferimento esplicito, in questo caso, al Regolamento, dicendo che «L’Assemblea Costituente, nel corso dei suoi lavori, non avendo avuto modo di elaborare un nuovo Regolamento, adotterà quello della Camera». Ora, il Regolamento della Camera all’articolo 128, ultimo capoverso, dice che la mozione può essere votata per divisione. Non so davvero come possano sorgere tanta opposizione e tanti cavilli per impedire che l’Assemblea giunga al succo della questione.

L’Assemblea questa sera si è radunata per decidere se ha o no fiducia nell’attuale Governo, quanto mai democratico, per così dire. (Commenti al centro – Rumori).

Noi siamo qui per esprimere la nostra sfiducia. (Interruzioni). Per esprimere questa sfiducia, si può votare per divisione. (Commenti al centro).

NENNI. Chiedo di parlare.

PRESIDENTE. Ne ha facoltà.

NENNI. Noi ci eravamo rimessi – ed eravamo in questo d’accordo con la Democrazia cristiana – al giudizio del Presidente dell’Assemblea. Il Presidente dell’Assemblea ritiene di doversi appellare all’Assemblea. Non abbiamo nessuna difficoltà per parte nostra ad accettare la sua proposta.

LUSSU. Chiedo di parlare.

PRESIDENTE. Ne ha facoltà.

LUSSU. Se l’onorevole Presidente, accettando la proposta del collega Nenni, si assumesse la responsabilità di decidere, io non avrei nulla da dire e sospenderei il mio intervento. Ma se la cosa non fosse così pacifica come il collega Nenni sostiene, evidentemente bisogna entrare nel tema. Io dico subito che, arrivati a questo punto della discussione – chiedo scusa dell’arroganza – se fossi il Presidente dell’Assemblea, mi rimetterei alla decisione dell’Assemblea e non mi assumerei questa responsabilità. (Commenti al centro). Io ho interpretato la richiesta dell’onorevole Nenni nel senso che si rimetteva alla decisione del Presidente, ma poiché non è così, chiedo scusa, ma non ne ho colpa se il microfono è arrivato in ritardo.

PRESIDENTE. Allora è d’accordo?

LUSSU. Sono d’accordo ma penso che è l’Assemblea che deve decidere. (Commenti al centro). Io desidererei che i colleghi di quel settore rispettassero gli interventi degli altri, tanto più che da questa parte, comunque almeno da parte mia, con rispetto si è assistito al doppio o al triplo intervento di molti giovani colleghi.

PRESIDENTE. Onorevole Lussu, la prego stia al tema.

LUSSU. Il tema è questo: che, a mio parere, la questione è semplice ed è stata un po’ complicata dai nostri illustri onorevoli colleghi ed avvocati. (Si ride). La questione è politica: si tratta del voto di fiducia che il Governo deve avere. Può l’Assemblea con una mozione chiedere all’Assemblea stessa questo voto di fiducia o di sfiducia? Certamente sì. Qual è la legge ed il Regolamento che regolano la presentazione, discussione e votazione delle mozioni? Non vi è, ma è chiaro che la mozione può essere presentata. La mozione deve essere motivata e, mi dispiace onorevole collega Dossetti, ma non si può portare qui il giudizio di una parte di noi, dei Settantacinque, come quello che dovrebbe regolare come principio il lavoro dell’Assemblea. Su questo non ci può essere nessuna insistenza da parte sua.

Ma ecco l’altra questione, la sola che è interessante dal punto di vista della discussione: ci può essere divisione oppure no?

Evidentemente, ci può essere divisione. Non c’è mai stata nel passato una divergenza su questo. Una mozione può essere divisa, e può essere divisa, sia essa di sfiducia o di fiducia.

Si può – ecco un’altra questione, che è l’ultima – obiettare, come è stato fatto: ma la prima parte non si può scindere dalla seconda. E per quale ragione? La prima parte riguarda considerazioni che nel testo sono state esposte, e significa critica e condanna a quell’azione particolare del Governo qui indicata. La parte ultima è la fiducia. Questo è quello che conta. Che se poi il Presidente della Repubblica avrà bisogno di chiarire il pensiero e la volontà dell’Assemblea, sono i rappresentanti politici dei Gruppi parlamentari che lo faranno.

TOGLIATTI. Chiedo di parlare.

PRESIDENTE. Ne ha facoltà.

TOGLIATTI. L’onorevole Nenni ha accettato la proposta del Presidente di rimettere la questione al giudizio dell’Assemblea.

Io non sono d’accordo con l’onorevole Nenni. (Commenti al centro). Avete parlato tutti, lasciate che parli anch’io!

Ci troviamo di fronte ad uno di quei casi più delicati, relativi al contegno dell’Assemblea nei confronti di quella che è la guida dei dibattiti parlamentari: il Regolamento. Noi siamo già intervenuti, ed io particolarmente sono intervenuto parecchie volte, per sostenere che non possiamo, con un voto di maggioranza, modificare il Regolamento. Non possiamo perché le maggioranze cambiano ed il Regolamento deve invece essere sempre quello per tutti, con qualsiasi maggioranza, con qualsiasi minoranza. Ora, in questo caso il Regolamento è inserito nella legge dalla legge stessa, perché vi è un articolo della legge costitutiva di questa Assemblea che dice, dopo aver parlato della mozione di sfiducia, che l’Assemblea deve osservare nei suoi dibattiti il Regolamento della Camera, il quale ammette in tutte lettere la divisione di una votazione su una mozione.

Mi pare che questo basterebbe. Credo infatti che in questi casi è bene attenersi, il più possibile, alla lettera del testo, perché questa è la vera garanzia per tutti. Assai pericoloso è interpretare il Regolamento per modificarne la lettera, perché allora possono venir fuori dieci interpretazioni differenti di una norma chiara e semplice, e ogni garanzia va perduta tanto per la maggioranza che per la minoranza.

Ma io mi appello anche allo spirito della legge e del Regolamento. Noi siamo qui 500 e più. Possiamo dividerci in dieci gruppi di 50, ognuno dei quali disapprova il Governo, ma per un motivo diverso. Ognuno di noi ha diritto di votare una parola della mozione di sfiducia o di respingerla, e di votare in seguito la frase in cui si dice che non si ha fiducia nel Governo. Questo è diritto di ognuno di noi, perché quello in cui consentiamo è di rovesciare il Governo. Se non si ammette questo principio, possiamo venire alla conseguenza che il Governo non potrà essere mai rovesciato, se non vi è consenso generale sui motivi della sfiducia, perché può darsi benissimo che sui motivi non saremo mai tutti d’accordo, mentre saremo d’accordo lutti che il Governo non soddisfa alle esigenze di una politica nazionale.

Questo è il fondo della questione. E sia per questo motivo, sia perché la lettera del Regolamento è superiore ad ogni equivoco, invito i colleghi democratici cristiani a desistere dal chiederci di sottoporre ai voti una norma di Regolamento, perché questo, come dissi parecchie altre volte, è un precedente troppo pericoloso.

Se l’onorevole Nenni rinuncia a chiedere la divisione della sua mozione, questo è affar suo, ma una volta chiesta, ritengo pericolosissimo risolvere una questione con un voto di Assemblea. Questo è contro le norme che devono regolare la vita di una Assemblea democratica.

PRESIDENTE. Onorevoli colleghi, due osservazioni, e poi passeremo alla decisione.

Per la precisione desidero sottolineare che gli ordini del giorno non sono stati presentati tutti questa sera, un’ora fa. Uno di questi ordini del giorno è stato presentato già da quattro giorni ed il presentatore lo ha svolto il giorno dopo. In quel momento, onorevole Dossetti, non abbiamo valutato quel documento nel merito; quanto meno io non l’ho così valutato. Come Presidente io trascendo sempre dal giudizio del merito. Indipendentemente dalla tesi che sostengono, per me tutte le proposte sono uguali: che propongano fiducia o sfiducia al Governo. Un ordine del giorno è un ordine del giorno; e quando, tre giorni fa uno ne fu ampiamente sviluppato dall’onorevole Quintieri né l’onorevole Dossetti né altri colleghi hanno sollevato obiezioni.

La seconda osservazione: che l’applicabilità nel nostro caso della disposizione del Regolamento – indipendentemente dal fatto che non la ritengo obbligatoria – sarebbe giustificata da questa constatazione: che abbiamo qui tre mozioni con tre diverse motivazioni, ma con una conclusione unica. Il che significa appunto che vi può essere diversità nelle premesse e confluenza nella conclusione, e cioè che l’Assemblea può diversificarsi nelle motivazioni e concordare nella conclusione. E appunto il fatto che in una discussione si possono presentare mozioni diversamente motivate, conferma il valore autonomo della motivazione che ha valore a sé, indipendente dalla conclusione.

All’onorevole Togliatti mi limito a rispondere che il fatto che vi sia nel Regolamento l’articolo 85, che prevede espressamente i richiami per ragione di Regolamento e dispone il conseguente modo di votazione, sta appunto ad indicare che, l’applicazione stessa del Regolamento può essere oggetto di votazione: non vi è pertanto pericolo per la maggioranza o per la minoranza nel deferire all’Assemblea una decisione sul Regolamento.

LACONI. Con proposta di modifica.

PRESIDENTE. Senza proposta di modifica, ma bensì nel semplice corso di una discussione. L’articolo 85 non ha nulla a che vedere con la Giunta del Regolamento. Ma la ragione fondamentale per la quale, in base all’articolo 85, pongo la questione all’Assemblea è ancor sempre questa, che il caso attuale costituirà un precedente. L’articolo 85 dispone tassativamente che la votazione si faccia per alzata e seduta. Così voteremo.

Riassumendo: l’onorevole Nenni chiede che la sua mozione venga votata per divisione. Poiché sono state sollevate delle obiezioni e si è anzi espressamente proposto di respingere un tal modo di votazione, chiedo all’Assemblea di decidere.

Pongo in votazione la proposta dell’onorevole Nenni, se si possa nel caso di una mozione di sfiducia contro il Governo presentata a norma dell’articolo 3 del decreto 16 marzo 1946, votare per divisione, secondo quanto prescritto dall’articolo 128 del Regolamento.

(Dopo prova e controprova, non è approvata).

La proposta della votazione per divisione dalla maggioranza dell’Assemblea non essendo stata approvata, in base alle considerazioni esposte poco fa, la votazione procederà, pertanto, non per divisione, ma sulla mozione nel suo complesso.

Sopra la mozione presentata dall’onorevole Nenni è stato chiesto l’appello nominale dagli onorevoli Merlin Lina, Tomba, Vernocchi, Stampacchia, Costa, Di Vittorio, Lopardi, Silipo, Fogagnolo, Barbareschi, Dugoni, Carpano Maglioli, Li Causi, Giua, Cosattini, De Filpo, D’Amico. D’altra, parte, è tempo che intorno a questo punto non vi sia discussione; queste mozioni devono essere sempre votate per appello nominale, poiché si tratta di constatare la maggioranza assoluta richiesta dall’articolo 3. Comunque, a sussidio di questa necessità implicita, vi è una richiesta di appello nominale presentata dagli onorevoli Merlin, Cosattini, Carpano Maglioli, Dugoni e altri.

LOMBARDI RICCARDO. Chiedo di parlare per dichiarazione di voto.

PRESIDENTE. Ne ha facoltà.

LOMBARDI RICCARDO. Onorevoli colleghi! La chiusura della discussione votata ieri sera non mi ha consentito di esporre le ragioni, per le quali il Gruppo al quale appartengo voterà l’ordine del giorno Nenni, così come voterà – ove questo fosse respinto – tutti gli altri ordini del giorno di sfiducia al Governo, poiché non ci importa molto la motivazione della sfiducia, e questo maggiormente dopo la discussione e le dichiarazioni che il Governo e i rappresentanti della maggioranza hanno fatto nel corso della discussione stessa.

Da questa discussione noi siamo persuasi che le ragioni, le quali nel giugno scorso ci avevano indotto a negare la fiducia al Governo allora costituito, permangono e sono aggravate. Allora noi avevamo espresso la nostra profonda sfiducia nell’incapacità di questo Governo, in ragione della sua composizione, e in ragione delle circostanze che ne avevano determinato la costituzione, ad opporre una valida resistenza all’urto degli interessi che si sarebbero affollati intorno al Governo e che oggi si affollano non contro il Governo, ma contro determinati provvedimenti del Governo.

Onorevole Einaudi, non le dice niente l’offensiva che si conduce, non certo contro il Governo di cui ella fa parte, perché coloro i quali oggi conducono la campagna contro i suoi provvedimenti sono quelle stesse forze, quegli stessi partiti i quali desiderano la permanenza di questo Governo, ma contro determinati provvedimenti i quali urtano i loro interessi?

È così che lei si trova in una posizione esposta, e non so fino a che punto ella potrà tenere, perché, qualunque sia la determinazione delle persone che compongono questo Governo, qualunque sia il grado di indipendenza che esse possono opporre, è il tipo di questo Governo, è il genere di maggioranza dal quale dipende la sua vita, che rendono impossibile opporre all’urto di queste forze una resistenza sufficiente.

Dirò che le dichiarazioni del Ministro Scelba – alle quali sostanzialmente si è associato l’onorevole Presidente del Consiglio – hanno indotto un senso profondo, non di perplessità, ma di sfiducia e di preoccupazione nella politica che questo Governo svolgerebbe, ove esso fosse mantenuto e ove il voto di sfiducia non venisse accolto.

Dalle dichiarazioni che noi abbiamo sentito, abbiamo riportato non la sensazione, ma la persuasione che il Governo tenda a confondere la difesa della propria posizione politica con la difesa delle istituzioni democratiche e con la difesa della Repubblica. Ora, questo noi non possiamo per alcun modo ammettere; questa confusione è gravida di pericoli e su di essa richiamo il Governo, ove esso dovesse rimanere al suo posto.

Questa nostra persuasione è stata d’altronde più ancora aggravata dalle dichiarazioni che ha fatto ieri in questa Assemblea l’onorevole Piccioni. L’onorevole Piccioni ha fatto delle dichiarazioni che non sono naturaliter christianae, ma naturaliter diabolicae. (Proteste al centro).

Egli ha fatto un tentativo pericoloso, il tentativo cioè di stabilire, di attirare un numero maggiore di adesioni alla politica del Governo, abbozzando una frattura, una differenziazione tra le forze ostili e le forze favorevoli al Governo, che è pericolosa per la democrazia; perché una tendenza si è spiegata nell’intervento dell’onorevole amico Piccioni: quella, cioè di dividere questa Assemblea in due blocchi, ma non già nei due blocchi di coloro che hanno fiducia nel Governo e di coloro che al Governo questa fiducia negano, ma nel blocco di coloro che sono per la libertà, e di coloro che sono contro la libertà. (Applausi a sinistra – Proteste al centro e a destra).

Noi non accetteremo mai – e qui sta veramente la profonda unità di questa Assemblea – non accetteremo mai che si cristallizzi, che si solidifichi questa linea di frattura la quale sarebbe, una volta determinata, irreparabile. I problemi che ci dividono – perché la vita democratica è fatta di divisioni – sono ben più complessi e non possono essere ridotti alla pura e semplice linea, alla concezione semplicistica di coloro che sono per la libertà e di coloro che sono contro la libertà.

Elementi e pericoli per la libertà e contro la libertà ci sono dovunque… (Commenti al centro).

Una voce a destra. Vada in Ungheria!

LOMBARDI RICCARDO. Amici democristiani, io intendo mantenermi nei limiti del Regolamento, e non ne abuserò affatto. Amici democristiani, se noi dovessimo veramente accettare questa frattura, e giudicare per astrazione e per differenziazione ideologiche, noi ci troveremmo ben presto nel Paese nell’impossibilità di far funzionare le istituzioni democratiche, perché, guardate che questo è un gioco assai pericoloso, e come nessuno nega oggi a voi di essere sul terreno democratico e sul terreno liberale, malgrado il Sillabo (Commenti al centro), malgrado lo statuto della disciolta… (Interruzioni al centro) impostare così la questione in un Paese, il quale domani potrà mandare anche una maggioranza di fascisti, di comunisti e di socialisti al Governo, significa rendere impossibile per l’avvenire la lotta democratica, e passare necessariamente sul terreno dello scontro e della frattura irreparabile.

Questo modo di impostare la questione da parte dell’onorevole Piccioni – che devo ritenere essere stata l’impostazione ufficiale della Democrazia cristiana – aggiunto alla profonda diffidenza che l’onorevole Piccioni ha esposto circa le possibilità che abbiamo chiamate qui della pianificazione, ci preoccupano. Ma, onorevoli colleghi, mi pare che diciamo troppo e troppo poco: è chiaro che la pianificazione non si improvvisa; ma quando noi parliamo di pianificazione, di dirigismo nell’economia, si tratta di una cosa ben più semplice e impegnativa, perché reale: si tratta di creare gli strumenti della vita socialista del Paese, perché lo Stato non si conquista né coi sistemi della violenza, né coi sistemi dei blocchi: lo Stato si amministra e si organizza; è sul modo di amministrarlo e di organizzarlo che vertono le divergenze legittime in questa Assemblea e sono le lecite discussioni. (Interruzioni al centro).

PRESIDENTE. Prosegua pure, onorevole Lombardi.

LOMBARDI RICCARDO. Ho finito. Dirò soltanto, per concludere – mi dispiace di aver annoiato i colleghi – che questa divisione che si tende a creare e dalla quale io – con la scarsa autorità che posso avere – scongiuro veramente l’amico Piccioni di recedere, è pericolosa sul terreno nazionale ed è pericolosa sul terreno internazionale. Qui, se avessi potuto parlare, mi sarei soffermato su questo punto, perché nella situazione in cui è il Paese, non si possono creare la leggenda e la verità; non si possono creare, perché quando si pongono le pregiudiziali, quelli che sono fantasmi, diventano all’occhio di coloro che stanno fuori dei nostri confini, realtà, realtà possibili. Non è lecito creare nel Paese un partito dello straniero.

Amici democristiani, c’è qualche cosa nella storia che dovrebbe ammonirci: l’esempio dei cattolici inglesi, ai quali fu negato per lungo tempo il diritto politico, perché papisti, perché dipendenti da un dominio straniero. Il pericolo è evidente. Non creiamo la leggenda del partito dello straniero, perché sono persuaso che nel Paese non c’è un partito dello straniero. Io vorrei che si avesse da parte del Governo e si avesse da parte degli amici del partito che ha la maggioranza in questa Assemblea, una fiducia maggiore nelle forze della democrazia, nelle forze interne degli stessi partiti. Non creiamo il «führerprinzip»; non creiamo in Italia una idea astratta, un’idea rigida dei partiti come di complessi che si muovono quali eserciti al comando e che sono senza fisionomia differenziata, masse informi e deformi.

C’è una spinta democratica, c’è una possibilità e realtà democratica in tutti i partiti, e nei partiti di massa, che non dobbiamo sottovalutare o annullare. Dobbiamo non avere sfiducia ma fiducia. E sono anzi queste forze democratiche all’interno dei partiti, dei grandi partiti, che noi dobbiamo aiutare a tenersi sul terreno democratico! Non dobbiamo scoraggiarle e respingerle fuori dalla libertà democratica, poiché respingere qualsiasi partito che dichiaratamente nella sua impostazione e nella sua prassi si muove sul terreno democratico, respingerlo fuori dal terreno della democrazia significa creare condizioni perché la Repubblica non viva! (Applausi a sinistra).

MACRELLI. Chiedo di parlare per dichiarazione di voto.

PRESIDENTE. Ne ha facoltà.

MACRELLI. Parlo per dichiarazione di voto e dico subito la ragione, che ha la sua importanza, perché è sorto un dubbio in noi, soprattutto dopo la discussione a cui abbiamo assistito per la proposta fatta dall’onorevole Nenni.

Noi abbiamo presentato un ordine del giorno. Noi chiediamo sin da questo momento se l’ordine del giorno sarà posto o no in votazione, dopo le mozioni, s’intende. E la richiesta che facciamo noi è legittima, non solo dal punto di vista squisitamente parlamentare e regolamentare, ma soprattutto da un punto di vista politico, di responsabilità politica. Se l’ordine del giorno rimane ed è posto in discussione, noi dichiariamo subito che ci asterremo dal votare le mozioni, tutte e tre le mozioni, perché partono da presupposti che noi completamente non condividiamo.

Io ieri sera ho esposto – credo abbastanza chiaramente – il pensiero del mio partito e il pensiero del mio Gruppo. Di esso non troviamo riflesso nelle tre mozioni presentate dall’onorevole Nenni, dall’onorevole Togliatti e dall’onorevole Saragat. Quelle premesse vincolerebbero la nostra libertà d’azione di uomini e di partito. Ma se dal Governo, dalla Presidenza dell’Assemblea, fosse posto un veto al nostro ordine del giorno, dichiariamo subito che voteremo per tutte le mozioni, per la prima, per la seconda, per la terza.

Era necessaria questa mia dichiarazione. È una dichiarazione di lealtà e di onestà politica sulla quale io richiamo l’attenzione Dell’Assemblea. (Applausi).

PRESIDENTE. Onorevole Macrelli, il problema è molto semplice. Gli ordini del giorno restano se le mozioni cadono, inquantoché prima bisogna votare le mozioni e poi gli ordini del giorno. Se, nel corso della votazione delle mozioni, una di queste ottiene la maggioranza, ciò rende inutile, anzi impossibile, la votazione di un ordine del giorno, poiché si è deciso nel merito.

Tuttavia, quando si passasse agli ordini del giorno, si dovrebbe ritornare alle norme sugli ordini del giorno; il Governo avrà dunque il diritto di indicare su quale di essi dovrà avvenire la votazione. E poiché noi avremmo – nel caso attuale – l’ordine del giorno dell’onorevole Quintieri Quinto, di fiducia, e l’ordine del giorno presentato da lei e da alcuni suoi colleghi di Gruppo, di sfiducia, è ovvio, mi pare, su quale dei due cadrebbe la scelta e l’indicazione del Governo.

Non c’è nulla da aggiungere.

D’ARAGONA. Chiedo di parlare per dichiarazione di voto.

PRESIDENTE. Ne ha facoltà.

D’ARAGONA. Onorevoli colleghi. Io mi limiterò ad una semplicissima dichiarazione di voto a nome del Gruppo socialista dei lavoratori. Il nostro Gruppo ha presentato una sua mozione la quale conclude con l’affermare la sua sfiducia nell’attuale Governo, ma questa mozione ha delle premesse che stabiliscono le ragioni per le quali noi non abbiamo fiducia in questo Governo. Noi non possiamo votare la mozione che è ora in votazione, perché le motivazioni di questa mozione non possono essere accettate da noi. Noi ci asterremo da questa votazione perché ci riserviamo di dare il nostro voto di sfiducia al Governo sulla nostra mozione.

DOMINEDÒ. Chiedo di parlare per dichiarazione di voto.

PRESIDENTE. Ne ha facoltà.

DOMINEDÒ. Per motivo di rispetto rigoroso ed obiettivo delle norme di legge, mi limito a fare una espressa riserva.

In questo senso: che, in coerenza di quanto è stato da noi precedentemente sostenuto o di quanto, quindi, è stato sottoposto alla deliberazione dell’Assemblea, ritenendo con ciò di interpretare la volontà reale del Regolamento e non già ad esso di sovrapporsi, come accennava l’onorevole Togliatti, devo dire che noi pensiamo che la sfiducia prevista dall’articolo 3 della legge istitutiva della Costituente debba essere affidata al sistema formalmente e sostanzialmente previsto dalla legge stessa, la quale presuppone un’apposita mozione di sfiducia con quei caratteri formali e sostanziali che sono stati già esposti da altri, notevole tra i quali il deposito preventivo entro il termine di 48 ore in anticipo.

Di conseguenza, poiché qui si tratta di applicare strettamente la legge, anzi una legge costituzionale, devo ritenere che nei confronti di un Governo il quale abbia precedentemente ottenuto il suffragio dell’Assemblea, nei confronti di un Governo per cui non sorga la necessità di presentarsi all’Assemblea per riscuoterne la fiducia, bensì al contrario la sola questione di opporsi ad una mozione di sfiducia, occorra rigorosamente attenersi allo schema formale c sostanziale dell’articolo 3. Con la pratica conseguenza che una mozione di sfiducia non depositata con l’osservanza delle forme c dei termini previsti, e giuridicamente equiparabile a un ordine del giorno puro e semplice, non possa essere oggi sottoposta alla votazione dell’Assemblea. (Applausi al centro).

GIANNINI. Chiedo di parlare per dichiarazione di voto.

PRESIDENTE. Ne ha facoltà.

GIANNINI. Signor Presidente, onorevoli colleghi, mi trovo costretto a fare una dichiarazione personale, poiché la votazione che ha avuto luogo sul modo di votazione della mozione Nenni ha creato, secondo me, un fatto nuovo, ossia rende impossibile la divisione della mozione stessa in seguito a votazione dell’Assemblea. Secondo me, questo è un fatto nuovo. Non ho il tempo, né oso chiedere né a lei, né all’Assemblea di consentirmi di mettermi in contatto con i miei amici, poiché non conosco il loro pensiero in merito: per cui, senza violare nessuna disciplina di Gruppo, sono costretto, da questo fatto nuovo, a consultare unicamente la mia coscienza. Aggiungerò che, dopo le dichiarazioni degli onorevoli De Gasperi, Sforza e Scelba, avrei potuto anche sentirmi molto soddisfatto, e dimenticare il discorso dell’amico Piccioni il quale reca la data del 3 ottobre e non del 3 gennaio. (Si ride). Ma a parte questo, la situazione nuova, creata dalla votazione che ha avuto luogo sulla mozione Nenni, e l’impossibilità in cui mi trovo, di prendere contatti con i miei amici di Gruppo, mi costringono ad astenermi dalla votazione sulla mozione Nenni. (Commenti).

CHIOSTERGI. Chiedo di parlare per dichiarazione di voto.

PRESIDENTE. Ne ha facoltà.

CHIOSTERGI. La dichiarazione fatta dall’onorevole Dominedò ci obbliga a fare una dichiarazione e a domandare al Presidente dell’Assemblea Costituente se avremo o no la possibilità di esprimere la nostra sfiducia all’attuale Governo votando l’ordine del giorno che abbiamo presentato. Poiché, se questa possibilità non ci è garantita, nostro malgrado – pur non condividendo le motivazioni delle tre mozioni presentate – noi saremo obbligati, pur volendoci differenziare e riservare completamente la nostra libertà d’azione, a votare le tre mozioni di sfiducia presentate dai colleghi. (Applausi a sinistra).

NITTI. Chiedo di parlare per dichiarazione di voto.

PRESIDENTE. Ne ha facoltà.

NITTI. Debbo confessare lo stato di disagio nel quale mi trovo in questo momento. Io avevo intenzione di negare la fiducia al Governo (Commenti al centro) e non mi pareva che, date le mie idee ed i miei precedenti, dovessi agire diversamente; ma speravo che qualche cosa di vivo uscisse da questa discussione: e non è uscito nulla.

Ci troviamo ora di fronte ad un Governo che ha, o comunque ha avuto finora, una maggioranza. Anche dopo il distacco degli elementi più avanzati, non ci troviamo di fronte ad alcuna unione. Io speravo che da queste discussioni uscisse almeno tra tutti i partiti minori un senso di concordia e di unione.

Ho già sperimentato personalmente come ciò sia difficile. Quando il Presidente della Repubblica volle consultarmi per dirmi se accettavo di fare un Governo, io gli indicai le ragioni che mi inducevano a volere un Governo che rappresentasse veramente una unione, di fronte alle grandi minacce politiche, economiche e sociali che incombono sul Paese. Io mi illudevo. Trovai molte difficoltà a fare quel Governo che la gravità del momento richiedeva.

Per demolire un Governo occorre che vi sia un Governo da sostituire.

Ora vi è unione di molti contro il Governo attuale, non unione per costituire un nuovo Governo. Parliamo con lealtà: se il Governo oggi è abbattuto, vi sentite di fare un secondo Governo? Per fare un Governo non basta soltanto avere una coalizione, ma occorre una maggioranza. La maggioranza non è solo nei voti, ma nell’unione. Ora la disunione è grande, da una parte e dall’altra, proprio quando noi andiamo verso un’ora terribile. Non ci illudiamo: siamo nell’angoscia di una situazione che fra uno, due o tre mesi diventerà sempre più grave. Vi sentite la sicurezza di buttare a terra il Governo ora, senza pensare di sostituirlo con qualcosa d’efficiente? Non basta essere contro il Governo. La cosa non ha che mediocre importanza; un Governo o l’altro, purché si possa fare un vero Governo. Io non vedo fra gli oppositori che disunione.

Nelle ore difficili, oserei dire terribili, cui andiamo incontro fra uno o due mesi, ancora di più fra tre mesi e nel terribile anno che si inizia con il 1948, io non vedo le forze operanti per formare una unione che ci possa salvare. Non basta avere una incerta maggioranza di voti, ma occorre una base di associati che abbiano almeno intenzione e programma sicuri.

Io esitavo ieri (mi consentano i colleghi la sincerità): il discorso dell’onorevole Piccioni, così audace ed anche così esuberante, mi aveva ricacciato nella tristezza del dubbio. Mi pareva aumentasse i contrasti invece che diminuirli. La sua stessa sicurezza contro gli avversari e il linguaggio quasi minaccioso mi turbavano. Noi non sappiamo quale sia la nostra situazione reale in questo momento. L’onorevole De Gasperi ci ha detto ieri che noi manchiamo di grano. Quando io dissi che mancavano almeno 29 milioni di quintali di grano, si è riso del mio pessimismo. Ora l’onorevole De Gasperi con sincerità, ha dovuto dichiarare che la deficienza è ben maggiore di quel che io avevo detto. Non è il grano soltanto che ci manca: ci mancheranno presto molte delle cose che ci sono necessarie ed è impossibile mentire. Non abbiamo grano e mancano dollari per comprare grano. Dobbiamo trovarne. E non basta: mancano tante altre cose necessarie. L’onorevole Einaudi stamattina ci ha detto che, pur avendo accresciuto le imposte, pur avendole portate ad una pressione molto alta, non è diminuito il disavanzo. Ci ha confessato le difficoltà che si creano da una qualunque politica che voglia arrestare veramente la caduta della lira, che ci minaccia realmente, a breve intervallo, se non faremo una politica saggia, onesta, audace: politica di economie che imponga nuove privazioni.

Il pericolo è grave la situazione nostra all’estero, nonostante l’ottimismo arcadico di Sforza, non è certo ragione di orgoglio e non è programma di sicurezza.

Noi abbiamo difficoltà interne di sistemazione; vi sono forze che agiscono più in senso di dissoluzione che di coesione e di rinnovazione. Molte cose ci mancano. Ci manca soprattutto quell’unità spirituale di un Paese che, conscio delle sue difficoltà e dei suoi pericoli, si vuol salvare con la unione e con il sacrificio di tutti alla causa comune. Troppo grande è il rancore di quegli stessi che erano ieri ancora riuniti, troppo grande è il distacco spirituale. Noi dobbiamo evitare a ogni costo l’aggravarsi di questo stato degli animi.

Qui dentro vi sono tanti spiriti onesti che vedono solo la Patria, ma forse non mancano persone che hanno di mira soprattutto il Governo. Per quanto il Governo non possa avere attrazione per uomini veramente responsabili – tante sono le difficoltà – pure esercita ancora attrazione.

Il Governo attuale, se rimane, come io credo, al suo posto, deve pensare al suo compito terribile. E tra due, tre mesi, lo ripeto, la situazione sarà molto più critica di adesso, e nell’anno nuovo sarà gravissima.

Non desideriamo nessuna avventura. Aspettiamo. Che il Governo cada è probabile, ma io so che chi vota per la caduta del Governo, deve pensare al Governo che segue. Ora, è possibile a noi fare un Governo che faccia a meno dei democratici cristiani da una parte, dell’America dall’altra?

Vediamo la situazione così com’è, ruvidamente, brutalmente, senza dissimularci nulla. Non solo non possiamo vincere le difficoltà più grandi contro l’America, ma né meno senza l’America. Data la situazione attuale non si può fare un Governo contro i democristiani e né meno senza i democristiani. Ora, in queste condizioni, io ritengo che sia grave avventura lanciarsi in una crisi di Governo. Pensiamo che domani apriremmo una crisi che durerebbe almeno venti giorni, paralizzando tutto. E poi ci sarebbe una nuova discussione sul programma del Governo. Discussione eterna e forse inutile. E intanto ci avviciniamo alla fine dell’esistenza della Costituente senza avere compiuto il nostro compito.

Dunque, io vi dico che, pur essendo nell’animo mio spesso in molte cose contro il Governo, non mi sento adesso nel diritto di votar contro e di provocare una crisi. Il Governo non può essere eterno. Fra venti giorni, fra un mese, fra due mesi, fra tre bisognerà affrontare tali problemi che minacceranno il Governo. Vi potrà essere persino necessità di una crisi. Ma in tal caso, bisogna che vi sia qualcosa di ben definito e non già l’incertezza e l’equivoco. Sono gli avvenimenti che ci dominano. E noi, non perdendo mai il senso della realtà, dobbiamo seguire i nostri programmi e i nostri ideali adattandoci alla realtà. Forse saranno possibili tante cose che ora non lo sono. Dichiaro che, pur mantenendo tutte le mie idee, la mia azione, il mio programma, in questo momento credo mio dovere votare la fiducia al Governo, cioè evitare una crisi. (Applausi al centro – Commenti a sinistra).

PRESIDENTE. Dobbiamo ora passare alla votazione.

CHIOSTERGI. Onorevole Presidente, mi scusi, le avevo chiesto una assicurazione.

PRESIDENTE. Mi stupisco che Ella ripresenti la questione. Bisognerebbe che io potessi prevedere l’esito delle prossime votazioni per darle la garanzia che mi chiede. Evidentemente ora non posso dargliela. A seconda del modo con cui si concluderanno le votazioni si potranno poi o no votare gli ordini del giorno. Questa è l’unica cosa che posso dirle.

CHIOSTERGI. Mi permetto di fare osservare che in quest’Aula c’è un partito che potrebbe dare la risposta, ed è il partito della democrazia cristiana. (Commenti).

PRESIDENTE. In queste questioni, in Aula, la risposta la dà solo il Presidente.

Votazione nominale.

PRESIDENTE. Procediamo alla votazione nominale sulla mozione degli onorevoli Nenni, Basso, Romita, Cosattini, Faralli, Giacometti, Giua, Jacometti, Lizzadri, Morandi, Nobili Tito Oro, Cacciatore, Stampacchia, Tonello e Vernocchi:

«L’Assemblea Costituente, di fronte ai risultati della politica generale del Governo ed in particolare di quella economico-finanziaria che compromette lo sforzo solidale della ricostruzione del Paese, l’ordine interno e il tenore di vita delle masse popolari, nega la sua fiducia al Governo e passa all’ordine del giorno».

Estraggo il nome del deputato dal quale comincerà la chiama.

(Segue il sorteggio).

Comincerà dal deputato Sardiello.

Si faccia la chiama.

Presidenza del Vicepresidente BOSCO LUCARELLI

RICCIO, Segretario, fa la chiama:

Hanno risposto sì:

Alberganti – Allegato – Amadei – Amendola – Assennato.

Baldassari – Barbareschi – Bardini – Bargagna – Barontini Anelito – Barontini Ilio – Basso – Bei Adele – Bernamonti – Bernardi – Bernini Ferdinando – Bianchi Bruno – Bibolotti – Bitossi – Boldrini – Bolognesi – Bonomelli – Bosi – Bruni – Bucci – Buffoni Francesco.

Cacciatore – Calamandrei – Caldera – Carpano Maglioli – Cavallari – Cavallotti – Cerreti – Cevolotto – Chiarini – Cianca – Codignola – Colombi Arturo – Corbi – Cosattini – Costa – Costantini – Cremaschi Olindo.

D’Amico Michele – De Filpo – De Michelis Paolo – Di Vittorio – Donati – D’Onofrio – Dozza – Dugoni.

Faccio – Fantuzzi – Faralli – Farina Giovanni – Farini Carlo – Fedeli Aldo – Fedeli Armando – Ferrari Giacomo – Finocchiaro Aprile – Fiore – Fiorentino – Fioritto – Flecchia – Foa – Fogagnolo – Fornara.

Gallico Spano Nadia – Gavina – Gervasi – Ghidetti – Ghislandi – Giacometti – Giolitti – Giua – Gorreri – Grazi Enrico – Grazia Verenin – Grieco – Gullo Fausto.

Imperiale – Iotti Leonilde.

Jacometti.

Laconi – Landi – La Rocca – Leone Francesco – Li Causi – Lizzadri – Lombardi Carlo – Lombardi Riccardo – Longo – Lopardi – Lozza – Luisetti – Lussu.

Maffi – Magnani – Malagugini – Maltagliati – Mancini – Marchesi – Mariani Enrico – Massini – Massola – Mastino Pietro – Mattei Teresa – Matteotti Carlo – Merighi – Merlin Angelina – Mezzadra – Minella Angiola – Minio – Molè – Molinelli – Montagnana Mario – Montagnana Rita – Montalbano – Morandi – Moranino – Moscatelli – Musolino – Musotto.

Nasi – Negarville – Negro – Nenni – Nobile Umberto – Nobili Tito Oro – Noce Teresa – Novella.

Pajetta Gian Carlo – Pajetta Giuliano – Pastore Raffaele – Pellegrini – Pertini Sandro – Pesenti – Pistoia – Platone – Pollastrini Elettra – Pratolongo – Pressinotti – Priolo – Pucci.

Ravagnan – Ricci Giuseppe – Romita – Rossi Giuseppe – Rossi Maria Maddalena – Roveda – Ruggero Luigi.

Saccenti – Sansone – Santi – Scarpa – Schiavetti – Scoccimarro – Scotti Francesco – Secchia – Sereni – Sicignano – Silipo – Spano – Stampacchia.

Targetti – Tega – Togliatti – Tomba – Tonello – Tonetti.

Valiani – Varvaro – Vernocchi – Veroni – Vigna – Vinciguerra.

Zannerini – Zappelli.

Hanno risposto no:

Abozzi – Adonnino – Alberti – Aldisio – Ambrosini – Andreotti – Angelini – Angelucci – Arcaini – Arcangeli – Avanzini – Ayroldi.

Bacciconi – Badini Confalonieri – Balduzzi – Baracco – Bastianetto – Bazoli – Bellato – Bellavista – Belotti – Bencivenga – Benedettini – Benvenuti – Bergamini – Bertini Giovanni – Bertola – Bertone – Bettiol – Biagioni – Bianchini Laura – Bonino – Bonomi Paolo – Borsellino – Bosco Lucarelli – Bovetti – Bozzi – Braschi – Brusasca – Bubbio – Bulloni Pietro – Buonocore – Burato.

Caccuri – Caiati – Camposarcuno – Cannizzo – Cappa Paolo – Cappelletti – Cappi Giuseppe – Cappugi – Capua – Carbonari – Carboni Enrico – Carignani – Caristia – Caroleo – Caronia – Carratelli – Caso – Cassiani – Castelli Edgardo – Castelli Avolio – Castiglia – Cavalli – Chatrian – Chieffi – Ciampitti – Ciccolungo – Cicerone – Cifaldi – Cimenti – Cingolani Mario – Clerici – Coccia – Codacci Pisanelli – Colitto – Colombo Emilio – Colonna di Paliano – Colonnetti – Conci Elisabetta – Condorelli – Coppa Ezio – Coppi Alessandro – Corbino – Corsanego – Corsini – Cortese – Cotellessa – Covelli – Cremaschi Carlo – Crispo – Cuomo.

Damiani – De Caro Gerardo – De Caro Raffaele – De Falco – De Gasperi – Del Curto – Delli Castelli Filomena – De Maria – De Martino – De Michele Luigi – De Palma – De Unterrichter Maria – Di Fausto – Dominedò – Dossetti.

Einaudi – Ermini.

Fabbri – Fabriani – Fanfani – Fantoni – Federici Maria – Ferrarese – Ferrario Celestino – Ferreri – Firrao – Foresi – Franceschini – Fresa – Froggio – Fuschini – Fusco.

Gabrieli – Galati – Galioto – Garlato – Gatta – Germano – Geuna – Giacchero – Giordani – Gonella – Gortani – Gotelli Angela – Grassi – Gronchi – Guariento – Guerrieri Emanuele – Guerrieri Filippi – Gui – Guidi Cingolani Angela.

Jervolino.

La Gravinese Nicola – Lagravinese Pasquale – La Pira – Lazzati – Leone Giovanni – Lettieri – Lizier – Lucifero.

Malvestiti – Mannironi – Manzini – Marazza – Marconi – Marina Mario – Marinaro – Martinelli – Martino Gaetano – Marzarotto – Mastino Gesumino – Mastrojanni – Mattarella – Mazza – Meda Luigi – Medi Enrico – Mentasti – Merlin Umberto – Miccolis – Micheli – Monterisi – Monticelli – Montini – Morelli Luigi – Morelli Renato – Moro – Mortati – Motolese – Murgia.

Nicotra Maria – Nitti – Notarianni – Numeroso.

Orlando Camillo.

Pallastrelli – Pastore Giulio – Pat – Patrissi – Pecorari – Pella – Penna Ottavia – Perlingieri – Perrone Capano – Perugi – Petrilli – Piccioni – Pignedoli – Ponti – Proia – Puoti.

Quarello – Quintieri Adolfo – Quintieri Quinto.

Raimondi – Rapelli – Recca – Rescigno – Restagno – Restivo – Riccio Stefano – Rivera – Rodi – Rodinò Mario – Rodinò Ugo – Romano – Roselli – Rubilli – Ruini – Rumor – Russo Perez.

Saggin – Salizzoni – Salvatore – Sampietro – Sartor – Scalfaro – Scelba – Schiratti – Scoca – Segni – Selvaggi – Sforza – Siles – Spataro – Stella – Storchi – Sullo Fiorentino.

Tambroni Armaroli – Taviani – Terranova – Tessitori – Tieri Vincenzo – Titomanlio Vittoria – Togni – Tosato – Tosi – Tozzi Condivi – Trimarchi – Tripepi – Trulli – Tumminelli – Topini – Turco.

Uberti.

Valenti – Vallone – Valmarana – Vanoni – Venditti – Viale – Vicentini – Vigo – Vilardi – Villabruna – Volpe.

Zaccagnini – Zerhi – Zotta.

Si sono astenuti:

Arata – Azzi.

Bennani – Bernabei – Bianchi Bianca – Bocconi – Bonfantini.

Cairo – Calosso – Camangi – Canevari – Caporali – Carboni Angelo – Cartìa – Chiaramello – Chiostergi – Conti – Corsi.

D’Aragona – Della Seta – De Mercurio – Di Govanni – Di Gloria.

Facchinetti – Fietta – Filippini.

Gasparotto – Ghidini – Giannini – Grilli – Gullo Rocco.

La Malfa – Lami Starnuti – Longhena.

Macrelli – Magrassi – Magrini – Matteotti Matteo – Mazzoni – Momigliano – Montemartini – Morini.

Pacciardi – Paolucci – Paris – Pera – Perassi – Persico – Pignatari – Preti.

Rossi Paolo.

Salerno – Sapienza – Saragat – Sardiello – Segala – Simonini – Spallicci.

Tremelloni – Treves.

Vigorelli – Villani.

Zuccarini.

Sono in congedo:

Carmagnola.

De Vita.

Jacini.

Parri – Pellizzari – Porzio.

PRESIDENTE. Dichiaro chiusa la votazione nominale ed invito gli onorevoli Segretari a procedere al computo dei voti.

(Gli onorevoli Segretari fanno il computo dei voti).

Presidenza del Presidente TERRACINI

Risultato della votazione nominale.

PRESIDENTE. Comunico il risultato della votazione nominale sulla mozione presentata dall’onorevole Nenni:

Presenti                                 512

Astenuti                                 63

Votanti                                  449

Maggioranza assoluta dei

membri dell’Assemblea         279

Hanno risposto                   178

Hanno risposto no                  271

Non essendo stata raggiunta la maggioranza assoluta, di cui all’articolo 3 del decreto legislativo 16 marzo 1946, n. 98, la nozione non è approvata.

Si riprende la discussione delle mozioni.

PRESIDENTE. Dobbiamo ora passare alla mozione presentata dagli onorevoli Togliatti, Scoccimarro, Longo, D’Onofrio, Secchia, Novella, Rossi Maria Maddalena e Laconi:

«L’Assemblea Costituente, di fronte alle misure delle autorità di pubblica sicurezza e prefettizie che limitano la libertà di propaganda e agitazione, e le libertà democratiche in generale, nega la sua fiducia al Governo e passa all’ordine del giorno».

TOGLIATTI. Chiedo di parlare.

PRESIDENTE. Ne ha facoltà.

TOGLIATTI. Signor Presidente, mi pare che, dato che sulla mozione presentata dal nostro Gruppo difficilmente si realizzerebbe uno schieramento diverso da quello che testé è stato constatato, per non far perdere maggiormente tempo all’Assemblea il nostro Gruppo ha deciso di ritirare la mozione. (Applausi).

PRESIDENTE. Segue la mozione presentata dagli onorevoli Canevari, Saragat, Zagari, Vigorelli, Simonini, Persico, Piemonte, Villani, Cartia, Lami Starnuti e Cairo:

«L’Assemblea Costituente, considerati la gravità della crisi economica del Paese ed i preoccupanti sviluppi della situazione internazionale, ritiene necessaria una nuova formazione di Governo più rispondente di quella attuale agli interessi solidali della Nazione e delle classi lavoratrici. Conseguentemente nega la sua fiducia al Governo e passa all’ordine del giorno».

NENNI. Chiedo di parlare.

PRESIDENTE. Ne ha facoltà.

NENNI. Onorevoli colleghi, per quanto convinti che il risultato negativo della lotta che si è svolta in questa Assemblea sia dovuto all’atteggiamento che ha tenuto il Gruppo di cui in questo momento ci si chiede di votare la mozione, abituati però a porre le conclusioni al disopra dei nostri sentimenti e dei nostri risentimenti, noi voteremo la mozione che è stata presentata.

TOGLIATTI. Chiedo di parlare.

PRESIDENTE. Ne ha facoltà.

TOGLIATTI. Dichiaro che anche il nostro Gruppo, dopo avere nel dibattito chiaramente sottolineato le proprie posizioni in confronto alle posizioni sostenute dal partito dell’onorevole Saragat, siccome mira prima di tutto al risultato positivo e concreto del voto parlamentare, voterà la mozione dell’onorevole Saragat.

CAROLEO. Chiedo di parlare.

PRESIDENTE. Ne ha facoltà.

CAROLEO. Dichiaro che voterò contro la mozione Saragat pur approvandone, in via di massima, la prima parte.

MAZZONI. Chiedo di parlare.

PRESIDENTE. Ne ha facoltà.

MAZZONI. Io avrei votato la mozione Saragat, ma poiché in questo momento, già torbido per vari aspetti, pieno di ombre e di cose insincere, la mozione Saragat assumerebbe un aspetto falso in seguito alle dichiarazioni che hanno fatto gli onorevoli Togliatti e Nenni, in nome di una sincerità che non deve essere disprezzata ed anzi deve essere onorata in questo momento, dichiaro che voterò contro. (Applausi al centro e a destra – Commenti a sinistra).

D’ARAGONA. Chiedo di parlare.

PRESIDENTE. Ne ha facoltà.

D’ARAGONA. A nome del mio Gruppo devo dichiarare che l’onorevole Mazzoni già da tempo non appartiene ad esso. (Interruzioni – Commenti). Quindi la dichiarazione dell’onorevole Mazzoni è una dichiarazione strettamente personale che non impegna affatto il nostro Gruppo.

MERLIN ANGELINA. L’onorevole Mazzoni è un socialista, mentre lei non lo è. (Commenti).

MAZZONI. Chiedo di parlare.

PRESIDENTE. Ne ha facoltà.

MAZZONI. Signor Presidente, non ho l’abitudine di mescolare le meschinità, le miserie e le amarezze dei partiti nella discussione delle assemblee pubbliche, che hanno il diritto di dare giudizi e voti in piena libertà. Ma poiché l’onorevole D’Aragona, con una impudenza di cui gli do atto, s’è permesso di fare accenno alle mie dimissioni, gli devo osservare che, circa le mie dimissioni – che ho date per l’incertezza è l’ambiguità di un voto che si è trascinato fino a queste ultime ore, fino a questa mattina e quest’oggi – gli amici mi hanno pregato di rientrare perché delle mie dimissioni non si voleva prendere atto. Detto questo, dichiaro all’onorevole D’Aragona che non ricevo lezioni né da lui, né da altri. (Commenti).

Votazione nominale.

PRESIDENTE. Comunico che sulla mozione Saragat è stato chiesto l’appello nominale dagli onorevoli Preti, Simonini, Piemonte, Persico, Villani, Morini, Bennani, Calosso, Filippini, Carboni Angelo, Paris, Cartia, Gullo Rocco, Rossi Paolo, Chiaramello e Caporali.

Procediamo alla votazione nominale.

Estraggo a sorte il nome del deputato dal quale comincerà la chiama.

(Segue il sorteggio).

Comincerà dal deputato Morandi.

Si faccia la chiama.

RICCIO, Segretario, fa la chiama:

Hanno risposto sì:

Alberganti – Allegato Amadei – Amendola – Arata – Assennato.

Baldassari – Barbareschi – Bardini – Bargagna – Barontini Anelito – Barontini Ilio – Basso – Bei Adele – Bennani – Bernamonti – Bernardi – Bianchi Bianca – Bianchi Bruno – Bibolotti – Binni – Bitossi – Bocconi – Boldrini – Bolognesi – Bonfantini – Bonomelli – Bosi – Bruni – Bucci – Buffoni Francesco.

Cacciatore – Cairo – Calamandrei – Caldera – Calosso – Canevari – Caporali – Carboni Angelo – Carpano Maglioli – Cartia – Cavallari – Cavallotti – Cerreti – Cevolotto – Chiaramello – Chiarini – Cianca – Codignola – Colombi Arturo – Corbi – Corsi – Cosattini – Costa – Costantini – Cremaschi Olindo.

D’Amico – D’Aragona – De Filpo – De Michelis Paolo – Di Giovanni – Di Gloria – Di Vittorio – Donati – D’Onofrio – Dozza – Dugoni.

Faccio – Fantuzzi – Faralli – Farina Giovanni – Farini Carlo – Fedeli Aldo – Fedeli Armando – Ferrari Giacomo – Fietta – Filippini – Finocchiaro Aprile – Fiore – Fiorentino – Fioritto – Flecchia – Foa – Fogagnolo – Fornara.

Gallico Spano Nadia – Gavina – Gervasi – Ghidetti – Ghidini – Ghislandi – Giacometti – Giolitti – Giua – Gorreri – Grazi Enrico – Grazia Verenin – Grieco – Grilli – Gullo Fausto – Gullo Rocco.

Imperiale – Iotti Leonilde.

Jacometti.

Laconi – Lami Starnuti – Landi – La Rocca – Leone Francesco – Li Causi – Lizzadri – Lombardi Carlo – Lombardi Riccardo – Longhena – Longo – Lopardi – Lozza – Luisetti – Lussu.

Maffi – Magnani – Malagugini – Maltagliati – Mancini – Marchesi – Mariani Enrico – Massini – Massola – Mastino Pietro – Mattei Teresa – Matteotti Carlo – Matteotti Matteo – Merighi – Merlin Angelina – Mezzadra – Minella Angiola – Minio – Molè – Molinelli – Momigliano – Montagnana Mario – Montagnana Rita – Montalbano – Montemartini – Morandi – Moranino – Morini – Moscatelli – Musolino – Musotto.

Nasi – Negarville – Negro – Nenni – Nobile Umberto – Nobili Tito Oro – Noce Teresa – Novella.

Pajetta Gian Carlo – Pajetta Giuliano – Paris – Pastore Raffaele – Pellegrini – Pera – Persico – Pertini Sandro – Pesenti – Piemonte – Pignatari – Pistoia – Platone – Pollastrini Elettra – Pratolongo – Pressinotti – Preti – Priolo – Pucci.

Ravagnan – Ricci Giuseppe – Romita – Rossi Giuseppe – Rossi Maria Maddalena – Rossi Paolo – Roveda – Ruggieri Luigi.

Saccenti – Salerno – Sansone – Santi – Sapienza – Saragat – Scarpa – Schiavetti – Scoccimarro – Scotti Francesco – Secchia – Segala – Sereni – Sicignano – Silipo – Silone – Simonini – Spano – Stampacchia.

Targetti – Tega – Togliatti – Tomba – Tonello – Tonetti – Tremelloni – Treves.

Valiani – Varvaro – Vernocchi – Veroni – Vigna – Vigorelli – Villani – Vinciguerra.

Zagari – Zanardi – Zannerini – Zappetti.

Hanno risposto no:

Abozzi – Adonnino – Alberti – Aldisio – Ambrosini – Andreotti – Angelini – Angelucci – Arcaini – Arcangeli – Avanzini – Ayroldi.

Bacciconi – Badini Confalonieri – Balduzzi – Baracco – Bastianetto – Bazoli – Bellato – Bellavista – Belotti – Bencivenga – Benedettini – Benvenuti – Bergamini – Bertini Giovanni – Bertola – Bertone – Bettiol – Biagioni – Bianchini Laura – Bonino – Bonomi Paolo – Borsellino – Bosco Lucarelli – Bovetti – Bozzi – Braschi – Brusasca – Bubbio – Bulloni Pietro – Buonocore – Burato.

Caccuri – Caiati – Camposarcuno – Cannizzo – Cappa Paolo – Cappelletti – Cappi Giuseppe – Cappugi – Capua – Carbonari – Carboni Enrico – Carignani – Caristia – Caroleo – Caronia – Carratelli – Caso – Cassiani – Castelli Edgardo – Castelli Avolio – Castiglia – Cavalli – Chatrian – Chieffi – Ciampitti – Ciccolungo – Cicerone – Cifaldi – Cimenti – Cingolani Mario – Clerici – Coccia – Codacci Pisanelli – Colitto – Colombo Emilio – Colonna di Paliano – Colonnetti – Conci Elisabetta – Condorelli – Coppa Ezio – Coppi Alessandro – Corbino – Corsanego – Corsini – Cortese – Cotellessa – Covelli – Cremaschi Carlo – Crispo – Cuomo.

Damiani – De Caro Gerardo – De Caro Raffaele – De Falco – De Gasperi – Del Curto – Delli Castelli Filomena – De Maria – De Martino – De Michele Luigi – De Palma – De Unterrichter Maria – Di Fausto – Dominedò – Dossetti.

Einaudi – Ermini.

Fabbri – Fabriani – Fanfani – Fantoni – Federici Maria – Ferrarese – Ferrario Celestino – Ferreri – Firrao – Foresi – Franceschini – Fresa – Froggio – Fuschini – Fusco.

Gabrieli – Galati – Galioto – Garlato – Gatta – Germano – Geuna – Giacchero – Giordani – Gonella – Gortani – Gotelli Angela – Grassi – Gronchi – Guariento – Guerrieri Emanuele – Guerrieri Filippo – Gui – Guidi Cingolani Angela.

Jervolino.

La Gravinese Nicola. – Lagravinese Pasquale – La Pira – Lazzati – Leone Giovanni – Lettieri – Lizier – Lucifero.

Maffioli – Malvestiti – Mannironi – Manzini – Marazza – Marconi – Marina Mario – Marinaro – Martinelli – Martino Gaetano – Marzarotto – Mastino Gesumino – Mastrojanni – Mattarella – Mazza – Mazzoni – Meda Luigi – Medi Enrico – Mentasti – Merlin Umberto – Miccolis – Micheli – Monterisi – Monticelli – Montini – Morelli Luigi – Morelli Renato – Moro – Mortati – Motolese – Murgia.

Nicotra Maria – Notarianni – Numeroso.

Orlando Camillo.

Pallastrelli – Pastore Giulio – Pat – Patrissi – Pecorari – Pella – Penna Ottavia – Perlingieri – Perrone Capano – Perugi – Petrilli – Piccioni – Pignedoli – Ponti – Proia – Puoti.

Quarello – Quintieri Adolfo – Quintieri Quinto.

Raimondi – Rapelli – Recca – Rescigno – Restagno – Restivo – Riccio Stefano – Rivera – Rodi – Rodinò Mario – Rodinò Ugo – Romano – Roselli – Rubilli – Rumor – Russo Perez.

Saggin – Salizzoni – Salvatore – Sampietro – Sartor – Scalfaro – Scelba – Schiratti – Scoca – Segni – Selvaggi – Sforza – Siles – Spataro – Stella – Storchi – Sullo Fiorentino.

Tambroni Armaroli – Taviani – Terranova – Tessitori – Tieri Vincenzo – Titomanlio Vittoria – Togni – Tosato – Tosi – Tozzi Condivi – Trimarchi – Tripepi – Trulli – Tumminelli – Tupini – Turco.

Uberti.

Valenti – Vallone – Valmarana – Vanoni – Venditti – Viale – Vicentini – Vigo – Vilardi – Villabruna – Volpe.

Zaccagnini – Zerbi – Zotta.

Si sono astenuti:

Azzi.

Bernabei.

Camangi – Chiostergi – Conti.

Della Seta – De Mercurio.

Facchinetti.

La Malfa.

Macrelli – Magrini.

Pacciardi – Paolucci – Perassi.

Sardiello – Spallicci

Zuccarini.

Sono in congedo:

Carmagnola.

De Vita.

Jacini.

Parri – Pellizzari – Porzio.

PRESIDENTE. Dichiaro chiusa la votazione nominale. Invito gli onorevoli segretari a procedere al computo dei voti.

(Gli onorevoli Segretari procedono al computo dei voti).

Risaltato della votazione nominale.

PRESIDENTE. Comunico il risultato della votazione nominale sulla mozione presentata dall’onorevole Saragat:

Presenti                                      512

Astenuti                                     17

Votanti                                      495

Maggioranza assoluta dei

membri dell’Assemblea              279

Hanno risposto                        224

Hanno risposto no                       271

Non essendo stata raggiunta la maggioranza assoluta, di cui all’articolo 3 del decreto legislativo 16 marzo 1946, n. 98, la mozione non è approvata.

Sugli ordini del giorno.

PRESIDENTE. Dobbiamo ora passare agli ordini del giorno degli onorevoli Quinto Quintieri, Micheli e Magrini.

Chiedo ai presentatori se vi insistono. Ha facoltà di parlare l’onorevole Quinto Quintieri.

QUINTIERI QUINTO. Ritiro il mio ordine del giorno, avendolo presentato soltanto per richiamare l’attenzione del Governo sopra un aspetto particolarmente delicato della sua politica finanziaria.

PRESIDENTE. L’onorevole Micheli ha facoltà di dichiarare se conserva il suo ordine del giorno.

MICHELI. Come ho già dichiarato rinunziando allo svolgimento del mio ordine del giorno, esso aveva il solo scopo di richiamare l’attenzione del Governo sopra le necessità che non si interrompa il ritmo dei lavori per la ricostruzione e di provvidenze per lenire la disoccupazione. Pertanto lo ritiro.

PRESIDENTE. L’onorevole Magrini ha facoltà di dichiarare se mantiene il suo ordine del giorno.

MAGRINI. Lo mantengo.

CRISPO. Chiedo di parlare per una pregiudiziale.

PRESIDENTE. Ne ha facoltà.

CRISPO. Onorevole Presidente, ritengo che l’ordine del giorno Magrini non possa essere posto in votazione. È questa la pregiudiziale che io presento. E mi affretto a dire subito che a sostegno del mio assunto io non invoco l’ultima parte dell’articolo 3 della legge del 16 marzo 1946, n. 98. L’ultima parte dell’articolo 3 della legge 16 marzo 1946 stabilisce in quali casi la mozione di sfiducia debba determinare obbligatoriamente le dimissioni del Governo e determina le condizioni nelle quali questa mozione di sfiducia debba essere presentata per produrre gli effetti delle dimissioni del Governo. Non invoco adunque l’ultima parte dell’articolo 3, perché mi si potrebbe osservare agevolmente (e faccio a me stesso l’obiezione) che l’ordine del giorno potrebbe essere votato, ma non sarebbe destinato a produrre gli effetti dell’articolo 3 della legge 16 marzo 1946.

Ecco perché dicevo che non invoco a sostegno della mia tesi l’articolo 3, ma invoco invece l’articolo 28 del Regolamento.

Spiego subito il mio pensiero. In effetti, l’ordine del giorno di sfiducia riproduce la mozione di sfiducia.

Voci a sinistra. No, No!

PRESIDENTE. Prego: non interrompano.

CRISPO. L’ordine del giorno riproduce, dicevo, – e ripeto – la mozione di sfiducia, con questa differenza, che l’una si chiama mozione di sfiducia e quello presentato, e sul quale si dovrebbe votare, si chiama ordine del giorno, e che l’una – la mozione di sfiducia – è motivata e questo ordine del giorno non è motivato. Ma, nella sostanza e nel contenuto, l’ordine del giorno riproduce una dichiarazione di sfiducia al Governo.

Qual è la ragione per la quale, secondo me, è inammissibile la votazione su quest’ordine del giorno che, nella sua sostanza e nel suo contenuto, riproduce una dichiarazione di sfiducia? Questa: che si potrebbe determinare una evidente contradizione… (Interruzione del deputato Carpano Maglioli – Commenti a destra).

Vi sono tre mozioni di sfiducia, delle quali una, quella dell’onorevole Togliatti, ritirata; le altre due respinte. Com’è conciliabile una votazione su un ordine del giorno di sfiducia quando già, respingendosi le mozioni di sfiducia, è stata data la fiducia al Governo? (Applausi al centro).

LACONI. Le mozioni non esauriscono tutte le motivazioni possibili.

Una voce al centro. Ne potete fare centomila di motivazioni! (Commenti).

CRISPO. Rispondo all’onorevole Laconi che ho già ricordato come l’ordine del giorno sia senza alcuna motivazione: il più comprende evidentemente il meno. Se sono state respinte due mozioni motivate, evidentemente deve intendersi respinto anche un ordine del giorno che conclude allo stesso modo delle mozioni ed in più è senza motivazione. (Proteste a sinistra – Commenti al centro e a destra).

CRISPO. Vorrei, signor Presidente, a ribadire la esattezza della mia tesi, dire un’altra cosa. Se io presentassi in questo momento un ordine del giorno di fiducia al Governo, potrebbe questo ordine del giorno essere votato? Evidentemente no; non potrebbe essere votato perché è stata già votata implicitamente la fiducia al Governo, respingendosi le mozioni di sfiducia. Questo mi sembra evidentissimo (Commenti a sinistra). E allora meno ancora può essere votato un ordine del giorno di sfiducia al Governo.

Un’ultima considerazione. Ho già ricordato come non invocassi – e difatti non ho invocato – l’ultima parte dell’articolo 3; ma posso in questo momento riferirmi all’ultima parte dell’articolo 3, per una definitiva osservazione. (Interruzioni – Commenti prolungati a sinistra).

PRESIDENTE. Onorevoli colleghi, facciano silenzio, per favore. Onorevole Crispo, la prego, continui.

CRISPO. La disposizione dell’articolo 128 del Regolamento, per la quale l’ordine del giorno puro e semplice e l’ordine del giorno motivato non hanno nella votazione la precedenza sulle mozioni, va interpretata, senza dubbio, nel senso che in tanto possa essere votato un ordine del giorno in occasione della votazione di una mozione, in quanto l’ordine del giorno non riproduca la mozione perché, altrimenti, si tratterebbe di un bis in idem.

Si potrà votare solo un ordine del giorno il quale abbia un contenuto sostanzialmente diverso da quello di mozioni già votate. (Interruzione dell’onorevole Nenni – Commenti e proteste a sinistra).

PRESIDENTE. Facciano silenzio, onorevoli colleghi. Onorevole Nenni, la prego.

CRISPO. Quale definitivo argomento, posso ora ricordare anche l’ultima parte dell’articolo 3 del decreto 16 marzo 1946, per dire che, se la sfiducia al Governo obbedisce ad una sola finalità, quella di obbligare il Governo stesso a rassegnare le dimissioni, e se la legge stabilisce una determinata e speciale procedura, quella cioè che ha luogo attraverso un’apposita mozione di sfiducia presentata in un determinato modo, è evidente, onorevoli colleghi, che non si può dare la sfiducia al Governo attraverso un ordine del giorno.

Per queste ragioni, sostengo l’inammissibilità dell’ordine del giorno e chiedo che non sia posto in votazione. (Applausi al centro e a destra – Commenti a sinistra).

MACRELLI. Chiedo di parlare.

PRESIDENTE. Ne ha facoltà.

MACRELLI. Mi dispiace che le parole dell’onorevole Crispo non siano arrivate fino a me. Immagino che si sia appellato alla parola e allo spirito del decreto 16 marzo 1946 e del Regolamento.

Potremmo discutere anche su questo tema; potremmo anche esprimere il nostro giudizio a questo proposito, in assoluto contrasto con la tesi che ha presentato L’onorevole Crispo.

Una voce al centro. Ma se non l’ha sentita!

MACRELLI. Me l’immagino, anche se non l’ho sentita.

Ho delle ragioni personali che militano a favore di questo mio assunto. Purtroppo sono un vecchio parlamentare. (Commenti). Appartengo ad anni lontani. Ho discusso altre volte qui anche il Regolamento che dirige i nostri lavori; quindi, lo conosco e, poi, sono un avvocato, non della levatura dell’onorevole Crispo (Commenti), ma credo di sapere interpretare e la legge e il Regolamento, nella parola e nello spirito.

Ma non farò una questione di ordine giuridico; io sollevo una questione di ordine morale e politico, una questione di onestà e di lealtà. Mi rivolgo alla Presidenza, allo stesso Governo, a tutta l’Assemblea.

Voi avete sentito che io ho parlato prima che fossero messe in votazione le mozioni; ho detto le ragioni per cui noi del Gruppo repubblicano ci saremmo astenuti dal votare le tre mozioni, perché le premesse non collimavano col nostro pensiero e col nostro giudizio. Ma abbiamo detto qualche cosa di più, e ci siamo rivolti alla Presidenza e ci siamo rivolti anche all’Assemblea Costituente. Il collega Chiostergi, su un richiamo venuto dal banco della Presidenza, ha rivolto una domanda specifica proprio al Gruppo della democrazia cristiana.

Una voce al centro. Non a noi.

MACRELLI. L’ha rivolta anche a voi; comunque l’ha fatto. Questa è la situazione. Nonostante qualche accenno che ha sollevato un dubbio molto importante, noi abbiamo dichiarato che non avremmo votato le mozioni perché ci riservavamo di votare il nostro ordine del giorno. Se avessimo saputo che invece questo nostro atteggiamento sarebbe stato interpretato così come si intende interpretarlo adesso, noi avremmo votato la prima e l’ultima mozione. (Commenti al centro). E allora la nostra astensione acquista un altro valore e un altro significato. Se si potessero rettificare i voti, i risultati delle votazioni, noi potremmo anche dire: aggiungete i nostri voti ai risultati.

BADINI CONFALONIERI. Ma il risultato non cambierebbe!

MACRELLI. Non importa, onorevole Badini, noi riteniamo ugualmente mantenere la nostra corretta linea morale e politica. Non significa nulla il risultato della votazione; per me hanno valore fino ad un certo punto i voti: sono le premesse, le condizioni, le situazioni, soprattutto i pensieri che dirigono i voti, che hanno valore.

Ecco quello che noi affermiamo davanti al Governo e davanti all’Assemblea. Noi insistiamo. Il Governo avrà la maggioranza dei voti. Perfettamente d’accordo. Noi non ci lamenteremo. Ma permetteteci che, facendo appello al vostro senso di onestà e di lealtà, noi insistiamo.

DOMINEDÒ. Chiedo di parlare.

PRESIDENTE. Ne ha facoltà.

DOMINEDÒ. Devo dissentire dall’impostazione data dall’onorevole Crispo per la ragione che non ritengo sussista un motivo di preclusione, nascente dalle precedenti votazioni. Infatti dal giuoco delle diverse motivazioni può ben discendere un diverso giuoco dei risultati, come è comprovato praticamente dal fatto che il Gruppo repubblicano, astenutosi da una precedente votazione, è successivamente portato ad esprimere un voto contrario. Questo, per debito di lealtà.

Aggiungo – e desidero sottolinearlo nei confronti dell’onorevole Macrelli il quale osservava che se i repubblicani fossero stati resi edotti tempestivamente di questa presa di posizione, avrebbero potuto diversamente votare nell’ambito dell’ultima votazione – aggiungo, dicevo, che noi abbiamo ritenuto doveroso dal punto di vista della correttezza parlamentare preannunciare a tempo la nostra interpretazione della materia. Noi ci fondiamo sul terreno strettamente giuridico, non in base alle argomentazioni regolamentari testé svolte e che personalmente non condivido, bensì in forza di quel principio di ordine costituzionale contenuto nell’articolo 3 della legge istitutiva della Costituente, la quale tende a creare tutto un nuovo spirito nella serie dei giudizi politici che possono darsi ai fini della caduta o meno del Governo, esigendo, per il principio di stabilità del potere esecutivo rispetto alla funzione del potere legislativo, un’apposita mozione di sfiducia da depositare nei termini e nelle forme previste. Né varrebbe operare fuori di questo quadro, mediante votazioni semplicemente indicative le quali non portino come conseguenza l’obbligatorietà delle discussioni: poiché ciò sarebbe violare lo spirito della legge.

Sono questi i principî costituzionali che noi teniamo a preservare, proprio in questa fase storica di profonda elaborazione costituzionale.

Detto questo, resta solo da aggiungere che potrebbe tuttavia subentrare una valutazione contingente di ordine politico, sul cui apprezzamento di convenienza non compete a me fare parola in quanto il giudizio spetta al Governo.

SCOCCIMARRO. Chiedo di parlare.

PRESIDENTE. Ne ha facoltà.

SCOCCIMARRO. L’apprezzamento politico del quale parlava testé l’onorevole Dominedò si collega al quesito posto dall’onorevole Crispo, il quale si domanda: dopo il voto sulle mozioni di sfiducia, che vale votare un ordine del giorno su una cosa già decisa? Non avrebbe lo stesso significato?

Ebbene no, non ha lo stesso significato. Una mozione di sfiducia che ottenga la maggioranza obbliga il Governo a dimettersi, l’ordine del giorno non obbliga il Governo a dimettersi, ma può significare un consiglio al Governo, l’indicazione di un orientamento, di uno stato d’animo; in questa differenziazione v’è la giustificazione del voto sull’ordine del giorno. Questo mi pare un atto politico che non si possa respingere: il Governò può anzi avere interesse che si compia.

Ha importanza, onorevole Crispo, sapere se in questi quattro mesi i voti di fiducia o di sfiducia al Governo sono aumentati o diminuiti. Per questo chiediamo che l’ordine del giorno venga messo in votazione.

LACONI. Chiedo di parlare.

PRESIDENTE. Ne ha facoltà.

LACONI. Comprendo lo stato di agitazione in cui si trova l’Assemblea in quest’ora, ma il fatto si è che vengono sollevate eccezioni senza fondamento, proprio perché danno motivo a che altre questioni sulla interpretazione del Regolamento vengano sottoposte all’Assemblea. È proprio per porre un freno a questo sistema che io desidero intervenire.

Vorrei rispondere a due eccezioni, sollevate una dall’onorevole Crispo e l’altra dall’onorevole Dominedò. L’onorevole Crispo notava giustamente che la approvazione di un ordine del giorno di sfiducia non comporta le dimissioni automatiche del Governo. Questo è pacifico. Ma la votazione ha comunque un valore di indicazione e di orientamento che ha un suo rilievo politico. In questo senso l’ordine del giorno può essere votato. Sono state votate due mozioni di sfiducia, con due distinte motivazioni; ma vi sono infinite motivazioni possibili di una mozione di sfiducia. È evidente quindi che l’Assemblea, votandone due, non le ha esaurite tutte. Votando l’ordine del giorno non motivato, l’Assemblea vota qualche cosa di infinitamente più ampio delle mozioni di sfiducia che ha fino ad ora respinto; quindi l’Assemblea si riserva, attraverso la votazione di un ordine del giorno, quel diritto che le è stato negato con il voto sulla questione di procedura, allorché è stata impedita la divisione delle mozioni, e cioè il diritto di coalizione di tutte le opposizioni discordanti nelle motivazioni ma coincidenti nella conclusione. A questo titolo io chiedo che l’ordine del giorno dell’onorevole Macrelli venga messo in votazione. (Applausi a sinistra – Commenti al centro).

SARDIELLO. Chiedo di parlare.

PRESIDENTE. Ne ha facoltà.

SARDIELLO. Onorevoli colleghi, desidero obiettivare la discussione non tenendo presente per un momento che l’ordine del giorno del quale si discute è stato presentato dal Gruppo al quale appartengo.

Erano stati già presentati due ordini del giorno sull’argomento (la fiducia o no al Governo) uno dei quali, come ha avvertito l’onorevole Presidente, da tre o quattro giorni è stato svolto già nella Assemblea dall’onorevole Quintieri Quinto, e su di esso, senza che sorgesse eccezione alcuna, appena un minuto addietro l’onorevole Presidente ha chiesto al presentatore se intendesse mantenerlo o meno. Dunque è fermo che sulla materia in questione sono consentite la presentazione e la votazione di un ordine del giorno.

Si introdurrà ora qui il concetto di una differenza di regolamentazione in considerazione soltanto del diverso orientamento politico di due forme di manifestazione parlamentare? Se la forma dell’ordine del giorno è consentita, deve dirsi (a patto di rinunciare a quelle tante nozioni che testé l’onorevole Dossetti rimproverava a qualcuno di aver lasciato sui banchi della scuola), che non è possibile fare la distinzione sulla sostanza. Allora che cosa rimane di quello che hanno detto gli avversari per contrastare che l’ordine del giorno vada in votazione? Rimane un’osservazione: che sono state presentate su questo argomento della fiducia al Governo anche delle mozioni, e per questo l’ordine del giorno non dovrebbe trovar posto. E dove è detto – fra tante norme regolamentari citate – che quando su un argomento sia presentata una mozione non possa essere presentato anche un ordine del giorno?

Incalzano sulla scia di questo argomento gli avversari, e ci dicono: «la mozione ha la conseguenza diretta, automatica, delle dimissioni del Governo; l’ordine del giorno, no». Mi permetto di dire che appunto questa diversità di conseguenza dell’una e dell’altra forma regolamentare legittima la presentazione e della mozione e dell’ordine del giorno: può infatti accadere che un Gruppo o una parte dell’Assemblea intenda soltanto di sollecitare una manifestazione politica che non giunga a quelle conseguenze. Il che prova ancora che l’una e l’altra forma regolamentare possono coesistere.

Ma l’argomentazione è superflua là dove sono due realtà di fatti che non possono essere negate a patto che non si esca di qua dicendo che c’è una parte politica che deve subire necessariamente una menomazione. Le conseguenze di questo sarebbero preoccupanti. Ci sono due realtà che non possono essere discusse.

Una, che la forma dell’ordine del giorno, come dicevo in principio, è stata ammessa; l’altra che, allorquando, in seguito a vociferazioni colte tra i banchi di diversi settori, sorse la preoccupazione che l’ordine del giorno potesse non essere votato, i colleghi Macrelli e Chiostergi hanno interpellato l’onorevole Presidente appellandosi alla sua autorità, ed egli ha risposto che se l’esito della votazione sulle mozioni fosse stato favorevole, non si sarebbe fatto luogo alla votazione dell’ordine del giorno. Il che includeva la «reciproca» che, nel caso le mozioni non avessero avuto successo, si sarebbe andati alla votazione dell’ordine del giorno. Anche per la fiducia che doverosamente abbiamo riposto in quella parola è venuta la nostra insistenza che manteniamo, fiduciosi nel senso politico e di giustizia dell’Assemblea, chiedendo la votazione dell’ordine del giorno. (Applausi a sinistra).

DE GASPERI, Presidente del Consiglio dei Ministri. Chiedo di parlare.

PRESIDENTE. Ne ha facoltà.

DE GASPERI, Presidente del Consiglio dei Ministri. Poiché i colleghi repubblicani hanno fatto, accantonando la questione giuridica, una questione politica e morale, il Governo non fa opposizione perché l’ordine del giorno venga votato. Devo però dirvi che temo assai che il precedente sia cattivo. La forma tradizionale di esprimere la sfiducia è quella di non approvare le dichiarazioni del Governo. Questa è la forma della tradizione parlamentare; e di questo ci ricordammo quando formulammo il decreto 16 marzo 1946. Tuttavia circondammo la manifestazione di sfiducia con diverse cautele, appunto per rendere più stabili i Governi: necessità questa, che fu avvertita da tutti coloro che parteciparono alla elaborazione della legge. Lo scopo fondamentale era di evitare che un ordine del giorno potesse trovare in qualunque momento una maggioranza casuale.

Non vorrei, come uno dei compilatori di quel decreto, che si creasse un cattivo precedente. Si sono presentate tre mozioni di sfiducia e si sono seguite tutte le norme che erano previste; si sono avute anche le votazioni; e durante questa discussione si ripresenta la vecchia formula del non approvare le dichiarazioni del Governo, cercandosi in tal modo di annullare il significato, lo scopo e le finalità della formula nuova, quella cautelare, la cui importanza caratteristica non consiste tanto nella maggioranza qualificata quanto nella particolare procedura stabilita. Temo assai, come vecchio parlamentare, guardando quello che sta avvenendo nella nostra Assemblea, che questo precedente annulli completamente quello che si è tentato di fare, nell’interesse della democrazia, per una certa stabilità nel presente regime provvisorio. È avvenuto anche in Francia un simile dibattito e si è risolto in favore della mia tesi.

Detto questo, poiché i colleghi repubblicani hanno capito le cose diversamente e credevano di avere in mano l’interpretazione giusta, poiché essi hanno inteso porre su un altro terreno la questione, il Governo non vuole in nessuna maniera contribuire a dare adito a interpretazioni errate sul suo atteggiamento; non vuole che si possa accusarlo di non lealtà o di fuga o timore di non ottenere una terza dichiarazione di fiducia e prega gli amici di regolarsi come si sono regolati precedentemente. Non ho quindi obiezioni a che venga posto in votazione l’ordine del giorno Magrini. (Applausi al centro).

PRESIDENTE. Sull’ordine del giorno Magrini gli onorevoli Chiostergi, De Mercurio, Nasi, Cevolotto, Paolucci, La Malfa, Spallicci, Bernabei, Magrini, Camangi, Foa, Sardiello, Zuccarini, Facchinetti e Azzi hanno chiesto la votazione per appello nominale. Chiedo ai presentatori della richiesta se intendano mantenerla.

CHIOSTERGI. Conserviamo la domanda di appello nominale.

Votazione nominale.

PRESIDENTE. Pongo pertanto in votazione, per appello nominale, l’ordine del giorno presentato dall’onorevole Magrini ed altri, di cui do ancora uno volta lettura: «L’Assemblea Costituente, udite le dichiarazioni del Governo, non le approva e passa all’ordine del giorno».

Estraggo a sorte il nome del deputato dal quale comincerà la chiama.

(Segue il sorteggio).

Comincerà dal deputato De Vita.

Si faccia la chiama.

SCHIRATTI, Segretario, fa la chiama:

Hanno risposto sì:

Alberganti – Allegato – Amadei – Amendola – Arata – Assennato – Azzi.

Baldassari – Barbareschi – Bardini – Bargagna – Barontini Anelito – Barontini Ilio – Basso – Bei Adele – Bennani – Bernabei – Bernamonti – Bernardi – Bianchi Bianca – Bianchi Bruno – Bibolotti – Binni – Bitossi – Bocconi – Boldrini – Bolognesi – Bonfantini – Bonomelli – Bosi – Bruni – Bucci – Buffoni Francesco.

Cacciatore – Calamandrei – Caldera – Calosso – Camangi – Canevari – Caporali – Carboni Angelo – Carpano Maglioli – Cartia – Cavallari – Cavallotti – Cerretti – Cevolotto – Chiaramello – Chiarini – Chiostergi – Cianca – Codignola – Colombi Arturo – Corbi – Cosattini – Costa – Costantini – Cremaschi Olindo.

D’Amico Michele – D’Aragona – De Filpo – Della Seta – De Mercurio – De Michelis Paolo – Di Giovanni – Di Gloria – Di Vittorio – Donati – D’Onofrio – Dozza – Dugoni.

Facchinetti – Faccio – Fantuzzi – Faralli – Farina Giovanni – Farini Carlo – Fedeli Aldo – Fedeli Armando – Ferrari Giacorno – Fietta – Filippini – Finocchiaro Aprile – Fiore – Fiorentino – Fioritto – Flecchia – Foa – Fogagnolo – Fornara.

Gallico Spano Nadia – Gasparotto – Gavina – Gervasi – Ghidetti – Ghidini – Ghislandi – Giacometti – Giolitti – Giua – Gorreri – Grazi Enrico – Grazia Verenin – Grieco – Grilli – Gullo Fausto.

Imperiale – Iotti Leonilde.

Jacometti.

Laconi – La Malfa – Lami Starnuti – Landi – La Rocca – Leone Francesco – Li Causi – Lizzadri – Lombardi Carlo – Lombardi Riccardo – Longhena – Longo – Lopardi – Lozza – Luisetti – Lussu.

Macrelli – Maffi – Magnani – Magrassi – Magrini – Malagugini – Maltagliati – Mancini – Marchesi – Mariani Enrico – Massini – Massola – Mastino Pietro – Mattei Teresa – Matteotti Carlo – Matteotti Matteo – Meda Luigi – Merighi – Merlin Angelina – Mezzadra – Minella Angiola – Minio – Molè – Molinelli – Momigliano – Montagnana Mario – Montagnana Rita – Montalbano – Montemartini – Morandi – Moranino – Morini – Moscatelli – Musolino – Musotto.

Nasi – Negarville – Negro – Nenni – Nobili Tito Oro – Noce Teresa – Novella.

Pacciardi – Pajetta Gian Carlo – Pajetta Giuliano – Paolucci – Paris – Pastore Raffaele – Pellegrini – Pera – Perassi – Persico – Pertini Sandro – Perugi – Pesenti – Piemonte – Pignatari – Pistoia – Platone – Pollastrini Elettra – Pratolongo – Pressinotti – Preti – Priolo – Pucci.

Ravagnan – Ricci Giuseppe – Romita – Rossi Giuseppe – Rossi Maria Maddalena – Rossi Paolo – Roveda – Ruggeri Luigi.

Saccenti – Salerno – Sansone – Santi – Sapienza – Saragat – Sardiello – Scarpa – Schiavetti – Scoccimarro – Scotti Francesco – Secchia – Sereni – Sicignano – Silipo – Silone – Simonini – Spallicci – Spano – Stampacchia.

Targetti – Tega – Togliatti – Tomba – Tonello – Tonetti – Treves.

Valiani – Varvaro – Vernocchi – Veroni – Vigna – Vigorelli – Villani – Vinciguerra.

Zagari – Zanardi – Zannerini – Zappelli – Zuccarini.

Hanno risposto no:

Abozzi – Adonnino – Alberti – Aldisio – Ambrosini – Andreotti – Angelini – Angelucci – Arcaini – Arcangeli – Avanzini – Ayroldi.

Bacciconi – Badini Confalonieri – Balduzzi – Baracco – Bastianetto – Bazoli – Bellato – Bellavista – Belotti – Bencivenga – Benedettini – Benvenuti – Bergamini – Bertini Giovanni – Bertola – Bertone – Bettiol – Biagioni – Bianchini Laura – Bonino – Bonomi Paolo – Borsellino – Bosco Lucarelli – Bovetti – Bozzi – Braschi – Brusasca – Bubbio – Bulloni Pietro – Buonocore – Burato.

Caccuri – Caiati – Camposarpuno – Cannizzo – Cappa Paolo – Cappelletti – Cappi Giuseppe – Cappugi – Capua – Carbonari – Carboni Enrico – Carignani –Carìstia – Caroleo – Caronia – Carratelli – Caso – Cassiani – Castelli Edgardo – Castelli Avolio – Castiglia – Cavalli – Chatrian – Chieffi – Ciampitti – Ciccolungo – Cicerone – Cifaldi – Cimenti – Cingolani Mario – Clerici – Coccia – Codacci Pisanelli – Colitto – Colombo Emilio – Colonna di Paliano – Colonnetti – Conci Elisabetta – Condorelli – Coppa Ezio – Coppi Alessandro – Corbino – Corsanego – Corsini – Cortese – Cotellessa – Covelli – Cremaschi Carlo – Crispo – Cuomo.

Damiani – De Caro Gerardo – De Caro Raffaele – De Falco – De Gasperi – Del Curto – Delli Castelli Filomena – De Maria – De Martino – De Michele Luigi – De Palma – De Unterrichter Maria – Di Fausto – Dominedò – Dossetti.

Einaudi – Ermini.

Fabbri – Fabriani – Fanfani – Fantoni – Federici Maria – Ferrarese – Ferrario Celestino – Ferreri – Firrao – Foresi – Franceschini – Fresa – Froggio – Fuschini – Fusco.

Gabrieli – Galati – Galioto – Garlato – Gatta – Germano – Geuna – Giacchero – Giordani – Gonella – Gortani – Gotelli Angela – Grassi – Gronchi – Guariento – Guerrieri Emanuele – Guerrieri Filippo – Gui – Guidi Gingolani Angela.

Jervolino.

La Gravinese Nicola – Lagravinese Pasquale – La Pira – Lazzati – Leone Giovanni – Lettieri – Lizier – Lucifero.

Maffioli – Malvestiti – Mannironi – Manzini – Marazza – Marconi – Marina Mario – Marinaro – Martinelli – Martino Gaetano – Marzarotto – Mastino Gesumino – Mastrojanni – Mattarella – Mazza – Meda Luigi – Medi Enrico – Mentasti – Merlin Umberto – Miccolis – Micheli – Monterisi – Monticelli – Montini – Morelli Luigi – Morelli Renato – Moro – Mortati – Motolese – Murgia.

Nicotra Maria – Notarianni – Numeroso.

Orlando Camillo.

Pallastrelli – Pastore Giulio – Pat – Patrissi – Pecorari – Pella – Penna Ottavia – Perlingieri – Perrone Capano – Perugi – Petrilli – Piccioni – Pignedoli – Ponti – Proia – Puoti.

Quarello – Quintieri Adolfo – Quintieri Quinto.

Raimondi – Rapelli – Recca – Rescigno – Restagno – Restivo – Riccio Stefano – Rivera – Rodi – Rodinò Mario – Rodinò Ugo – Romano – Roselli – Rubilli – Rumor – Russo Perez.

Saggin – Salizzoni – Salvatore – Sampietro – Sartor – Scalfaro – Scelba – Schiratti – Scoca – Segni – Selvaggi – Sforza – Siles – Spataro – Stella – Storchi – Sullo Fiorentino.

Tambroni Armaroli – Taviani – Terranova – Tessitori – Tieri Vincenzo – Titomanlio Vittoria – Togni – Tosato – Tosi – Tozzi Condivi – Trimarchi – Tripepi – Trulli – Tumminelli – Tupini – Turco.

Uberti.

Valenti – Vallone – Valmarana – Vanoni – Venditti – Viale – Vicentini – Vigo – Vilardi – Villabruna – Volpe.

Zaccagnini – Zerbi – Zotta.

Si è astenuto:

Conti.

Sono in congedo:

Carmagnola.

De Vita.

Jacini.

Parri – Pellizzari – Porzio.

PRESIDENTE. Dichiaro chiusa la votazione ed invito gli onorevoli segretari a procedere al computo dei voti.

(Gli onorevoli Segretari procedono al computo dei voti).

Risultato della votazione nominale.

PRESIDENTE. Comunico i risultati della votazione nominale:

Presenti                            507

Votanti                             506

Astenuti                             1

Maggioranza                     254

Hanno risposto               236

Hanno risposto no            270

(L’Assemblea non approva l’ordine del giorno Magrini – Vivissimi, prolungati applausi al centro e a destra).

Interrogazioni e interpellanza.

PRESIDENTE. Si dia lettura delle interrogazioni e di una interpellanza pervenute alla Presidenza.

RICCIO, Segretario, legge:

«I sottoscritti chiedono di interrogare il Ministro di grazia e giustizia, per conoscere per quali motivi non si provveda ad emanare un provvedimento legislativo, che estenda i beneficî dell’amnistia e dell’indulto ai reati in danno delle Forze armate alleate. L’ingiustificato. trattamento di rigore per tali reati poteva finora trovare giustificazione soltanto nel regime di armistizio, cessato il quale il Governo – per sanare, sia pure in ritardo, l’ingiusta sperequazione – dovrebbe, senza ulteriore indugio, provvedere all’estensione dei beneficî del condono.

«Gli interroganti chiedono lo svolgimento di urgenza.

«Leone Giovanni, Bettiol».

«Il sottoscritto chiede di interrogare i Ministri dell’agricoltura e foreste e di grazia e giustizia, per sapere se non ritengano opportuno:

il primo, di disporre che venga senz’altro abbandonata l’azione promossa dall’Ufficio di reintegra dei tratturi (U.R.T.) di Foggia – sezione distaccata di Pescara – per la reintegra di vaste zone del centro abitato di Pescara, in considerazione sia dell’assoluto difetto di ogni suo fondamento in fatto e in diritto, nonché per motivi pratici e di ordine pubblico: a) in quanto è da escludersi nettamente, in base a documenti, a dati storici ed a rilievi inoppugnabili, anche di carattere geografico, che in dette zone sia passato alcun tratturo, a partire dai primi anni del 1500; b) perché, anche se si ammettesse – per pura ipotesi – il contrario, ogni possibile diritto dello Stato sulle zone medesime si sarebbe prescritto almeno da un secolo e mezzo, per l’avvenuta cessazione tacita della demanialità, principio ammesso dalla Corte di cassazione in tema di strade pubbliche; c) perché la questione, che interessa ed ha messo in allarme ed in agitazione circa 2000 cittadini, costituisce un grave ostacolo alla ricostruzione della città – tanto provata dalle distruzioni della guerra – rendendo dubbia la proprietà del suolo e provocando anche la incommerciabilità delle aree edificatorie poste in quelle stesse zone;

il secondo, di promuovere, in ogni caso, l’emanazione di apposite norme legislative che modifichino il regio decreto 30 dicembre 1923, n. 3244 e i regolamenti di cui al regio decreto 29 dicembre 1927, n. 2801 e 16 luglio 1936, n. 1706, col sopprimere, nel primo decreto, il secondo e il terzo capoverso dell’articolo 10 e, negli altri due, l’articolo 2, che attribuiscono, nientemeno, allo stesso Ministero dell’agricoltura, dal quale dipende l’Ufficio di reintegra dei tratturi, cioè ad una delle parti in causa, la decisione definitiva delle controversie in materia di pretesa occupazione di suolo dei tratturi, ripristinando, invece, le precedenti disposizioni prefasciste, con le quali le predette controversie erano devolute al magistrato ordinario. (L’interrogante chiede la risposta scritta).

«Paolucci».

«Il sottoscritto chiede d’interrogare il Ministro delle finanze, per sapere se in vista delle complesse difficoltà di interpretazione e documentazione inerenti alle denuncie dell’imposta straordinaria sul patrimonio non creda promuovere una ulteriore proroga del termine di presentazione fissato al 31 ottobre prossimo; e se per le accennate difficoltà, tanto più sensibili e gravi nei centri dove è diffusa la piccola e media proprietà, non creda altresì urgente dare disposizioni ai propri uffici, affinché cerchino di alleggerire le penose ricerche dei denuncianti aiutandoli preventivamente con la istituzione di reparti appositi a scopo di avviamento delle pratiche. (L’interrogante chiede la risposta scritta).

«Bertini».

«Il sottoscritto chiede d’interrogare il Ministro della pubblica istruzione, per conoscere quanto di illegale ed arbitrario sia stato fatto dalle Commissioni di Stato per gli esami di maturità classica in Brindisi (Liceo Marpolla) e Lecce da un ispettore ministeriale. Se l’onorevole Ministro non ritenga indispensabile ed urgente prendere adeguati provvedimenti perché alcun danno non ricada sugli allievi.

«Pare inoltre che a presiedere la Commissione di Brindisi sia stata chiamata persona priva del titolo richiesto dalla legge. (L’interrogante chiede la risposta scritta).

«Ayroldi».

«I sottoscritti chiedono di interrogare il Ministro dei trasporti, per sapere a quali motivi sia da attribuire il fatto che, anche nel nuovo orario delle ferrovie dello Stato nella linea Spezia-Sestri Levante non vi sia alcun treno accelerato dalle ore 7.20 fino alle 17.20, con grave disagio della popolazione, che per affari o per lavoro deve recarsi a La Spezia e non può far ritorno che a sera ai propri paesi, i quali, privi di qualunque strada, sono collegati tra loro e la città soltanto per mezzo del treno e del tutto isolati quando questo viene a mancare (inconveniente tanto più grave per i numerosi studenti: per la loro salute, per i loro studi, per la loro educazione); e se non ritenga quindi urgente, in vista anche della prossima riapertura delle scuole, rimediare a questa grave lacuna, che finora non è stata colmata, nonostante le varie sollecitazioni presso gli organi competenti, istituendo un treno accelerato, che parta da La Spezia nelle prime ore del pomeriggio. (Gli interroganti chiedono la risposta scritta).

«Gotelli Angela, Guerrieri Filippo».

«Il sottoscritto chiede d’interpellare il Ministro dell’interno, per sapere se e in qual modo si intenda dare sistemazione al compendio termale di Guardia Piemontese, sottraendolo alfine allo sfruttamento di una ditta privata, alla quale fu concesso nel 1942, con gravissimo pregiudizio degli interessi dei comuni di Guardia Piemontese e di Acquappesa, che ne sono usufruttuari perpetui e che invano chiedono da tre anni l’annullamento di un contratto che fu il risultato di illecite inframmettenze e pressioni.

«Gullo Fausto».

PRESIDENTE. Le interrogazioni testé lette saranno iscritte all’ordine del giorno e svolte al loro turno, trasmettendosi ai Ministri competenti quelle per le quali si chiede la risposta scritta.

Così pure l’interpellanza sarà iscritta all’ordine del giorno, qualora il Ministro interessato non vi si opponga nel termine regolamentare.

La seduta termina alle 2.10.

Ordine del giorno per la seduta di lunedì 6 ottobre 1941.

Alle ore 16:

  1. – Interrogazioni.
  2. – Svolgimento di interpellanze.

ANTIMERIDIANA DI SABATO 4 OTTOBRE 1947

ASSEMBLEA COSTITUENTE

CCXLV.

SEDUTA ANTIMERIDIANA DI SABATO 4 OTTOBRE 1947

PRESIDENZA DEL PRESIDENTE TERRACINI

INDICE

Sul processo verbale:

Lussu

Presidente

Bellavista

Mozioni (Seguito della discussione):

Einaudi, Ministro del bilancio

Scelba, Ministro dell’interno

La seduta comincia alle 10.

MOLINELLI, Segretario, legge il processo verbale della precedente seduta antimeridiana.

Sul processo verbale.

LUSSU. Chiedo di parlare sul processo verbale.

PRESIDENTE. Ne ha facoltà.

LUSSU. Ieri l’onorevole Piccioni, nel suo discorso, ha fatto riferimento, equivocando e comunque interpretandola male, ad una mia espressione del discorso precedente. Egli ha parlato, infatti, del Partito d’azione.

Nel mio discorso – del quale ho qui il resoconto stenografico – io non ho parlato del Partito d’azione, ho parlato di corrente politica e di venti anni di lotta.

Comunque, io non saprei come esprimere la mia gratitudine per il modo commosso, per il profondo senso di simpatia espresso dall’onorevole Piccioni per il Partito d’azione.

Per quella parte di rappresentanza che mi tocca nel Partito d’azione, io posso dire questo: che mai nessuno del Partito d’azione, dovunque egli sia, dimenticherà i sentimenti di profonda simpatia e di spirito di sacrificio con cui la Democrazia cristiana si comportò verso il Partito d’azione; e meno di tutti – io credo – lo dimenticherà il collega onorevole Parri.

Per concludere, mai come durante il discorso dell’onorevole Piccioni è sembrato vero l’apoftegma dell’onorevole Nitti, che la politica non fa santi.

BELLAVISTA. Chiedo di parlare sul processo verbale.

PRESIDENTE. Ne ha facoltà.

BELLAVISTA. Nel suo intervento di ieri l’onorevole Giancarlo Pajetta fece allusione a chi parla a proposito di una proposta, che in realtà non c’è stata, di escludere dal diritto di voto i littori, con riferimento a Mario Alicata e Pietro Ingrao.

Intendo chiarire che sono personalmente lieto e contentissimo della catarsi e della purificazione antifascista dell’Alicata e dell’Ingrao, e quando intervenni a proposito dell’articolo 47 avevo presenti le nobili ragioni esposte dall’onorevole Pajetta, cioè la necessità di distinguere, non già per categorie da colpire indiscriminatamente, ma caso per caso, opponendomi a quella illiberale ed indiscriminata esclusione dall’elettorato attivo di una categoria di cittadini italiani.

PRESIDENTE. Onorevole Bellavista, ormai ella ha la parola, e concluda. Ma le faccio osservare che queste sue dichiarazioni erano da farsi nella ceduta pomeridiana, perché l’onorevole Pajetta ha parlato ieri nel pomeriggio, e il verbale di stamane è quello della seduta antimeridiana di ieri, ed in esso, perciò, non si fa cenno del discorso dell’onorevole Pajetta.

BELLAVISTA. Chiedo scusa: è un’anticipazione di credito.

L’onorevole Pajetta ha chiesto dove si trovava il sottoscritto quando l’Alicata era a Regina Coeli. Il sottoscritto era prigioniero di guerra in America e faceva parte di una unità di cooperatori. E in quel Paese democratico ha avuto confermata una massima d’onore che non sarà contraddetta certamente dall’onorevole Pajetta: «right or wrong, my Country».

PRESIDENTE. Non essendovi altre osservazioni, il processo verbale s’intenda approvato.

(È approvato).

Seguito della discussione di mozioni.

PRESIDENTE. L’ordine del giorno reca: Seguito della discussione di mozioni. Ha facoltà di parlare l’onorevole Ministro del bilancio.

EINAUDI, Ministro del bilancio. Onorevoli colleghi, consentitemi che prima di scorrere degli argomenti specificamente propri al mio assunto, e delle osservazioni che in questa assemblea sono state fatte sulla politica economico-finanziaria generale del governo, io dica che non intendo prolungarmi troppo sulle premesse generali delle critiche, fondate sul contrapposto fra liberismo e vincolismo, fra pianificazione e concorrenza. Le discussioni in proposito hanno un carattere molto generico e sono l’eco di altre dispute consimili più antiche, alle quali oggi sarebbe difficile attribuire un contenuto effettivo.

Spesso nella stampa e anche in questa assemblea sono designato come il prototipo dei liberisti, e le accuse, le critiche appaiono dedotte dalla qualificazione o classificazione in cui sono collocato, come se da questa qualificazione, e non dagli atti compiuti, dovesse dedursi la bontà e la malvagità delle disposizioni medesime.

Ogni qualvolta io qui a Roma passo dinanzi alla Chiesa di San Luigi de’ Francesi e ricordo che in quella chiesa è sepolto – essendo morto a Roma nel 1850 – colui che fu considerato nel secolo scorso come il massimo esponente del liberismo mondiale, l’economista francese Federico Bastiat, mi vien fatto di pensare che, se egli vivesse oggi, stupirebbe delle accuse che si fanno a quelli che si chiamano liberisti e di cui egli fu il massimo rappresentante nel secolo scorso.

Si meraviglierebbe che ai liberisti si attribuiscano idee che non hanno mai avuto, come se essi per definizione negassero qualunque azione dello stato, negassero qualunque vincolo, qualunque norma legislativa che venisse a regolare in un senso o in un altro l’economia privata. Stupirebbe maggiormente, come autore di scritti che rimangono immortali intorno ai danni dell’intervento mal compiuto da parte dello stato, come autore della celebre petizione dei fabbricanti di candele, di sego e di cera, di candelieri e lampade, di bugie e di tutto ciò che serve all’illuminazione pubblica, contro il nemico più acerrimo mai sorto a distruggerli, contro un tale nemico che lavorava sotto costo, anzi senza costo, e batteva senza fatica un’industria così vantaggiosa all’umanità. La famosa petizione contro la concorrenza sleale del sole, petizione che rimarrà negli annali dell’economia e che anche oggi potrebbe essere ristampata, non era diretta contro tutti gli interventi dello stato. Bastiat, campione del liberismo del secolo XIX, combatteva gli interventi dannosi dello Stato. Mai si sarebbe sognato di combattere quegli interventi necessari che sono l’essenza medesima dello stato. Lo stato deve intervenire tutte le volte che esso solo può compiere certe cose; deve intervenire tutte le volte che la sua azione è migliore di quella dei privati; non deve intervenire quando la sua azione è inutile o dannosa. La disputa non si svolge sulle parole, ma si svolge su quella che è la sostanza di ogni singolo problema, di quel problema che volta a volta è posto dinanzi all’opinione pubblica. Quando si parla di piani (che è un’altra parola che si usa invece di quella di vincoli o limiti che si usava un tempo) si dimentica che tutti facciamo dei piani. Si tratta di discutere se questo o quel piano sia buono o cattivo. Ogni massaia, ogni padre di famiglia fa dei piani.

E che cosa facciamo noi qui ogni anno se non discutere il piano per antonomasia, e cioè il bilancio dello stato?

Ed a questo proposito, vorrei ringraziare l’onorevole Nitti per l’accenno che ieri ha fatto intorno all’opportunità di migliorare quel tipico piano che è il nostro bilancio, aggiungendo alla classificazione in capitoli, la classificazione in articoli. Concordo con lui nel desiderio e me ne ero fatto eco nel discorso del 18 giugno quando avevo promesso all’assemblea di occuparmi del problema della divisione del bilancio, oltreché in capitoli, in articoli, poiché la divisione in articoli è necessaria per impedire il mal uso del pubblico denaro, è necessaria per far sì che le spese siano contenute entro i limiti prestabiliti. Non mi sono dimenticato la promessa, e fin dal 27 agosto scorso la ragioneria generale dello stato indirizzava una circolare a tutti i direttori capi delle ragionerie centrali dei ministeri per invitarli a preparare fin d’ora, entro e non oltre il 15 ottobre, gli elementi per il bilancio preventivo 1948-49, così che esso sia pronto per l’esame del legislatore entro il gennaio del 1948. In quella occasione si diceva che, ai fini di rendere meno gravosa l’applicazione della riforma in corso, che prevede la ripartizione in articoli, sarà opportuno che i capitoli sui quali gravano attualmente spese di natura diversa vengano quanto più è possibile suddivisi onde renderne omogenea la materia e ciò anche in omaggio al principio della specializzazione dei bilanci. Contemporaneamente un disegno di provvedimento legislativo veniva apprestato, allo scopo di modificare la legge generale per l’amministrazione del patrimonio e la contabilità generale dello stato, coll’aggiunta di un articolo 38-bis il quale dice: «Prima dell’inizio di ogni esercizio ciascun ministro, d’intesa con quello del tesoro, provvede a ripartire in articoli la somma stanziata sui singoli capitoli in relazione alla natura delle spese e all’ordinamento dei servizi». I trasporti di fondi, da un articolo all’altro del medesimo capitolo devono essere disposti con decreti dei ministri competenti, di concerto con il ministro per il tesoro, decreti da registrarsi alla Corte dei conti. Analogamente, l’articolo 144 del regolamento verrebbe modificato nel senso che, in seguito alla divisione in articoli dei capitoli di spesa, dovranno essere ripartite in articoli anche le nuove e maggiori somme che si stanziassero nel corso dell’esercizio, nonché dovranno distribuirsi fra i vari articoli le riduzioni disposte, durante l’esercizio medesimo, negli stanziamenti di bilancio. Questo schema di provvedimento legislativo fu inviato, come ne fa obbligo la legge sulla contabilità generale dello stato, alla Corte dei conti perché desse il suo parere; e la Corte dei conti già l’11 agosto in seduta plenaria discusse ampiamente la materia, dando parere favorevole ad esso.

Il 23 settembre lo stesso schema di provvedimento legislativo era sottoposto al Consiglio di stato per il suo parere. Non appena il Consiglio di stato avrà dato il parere, il disegno di legge verrà presentato al Consiglio dei ministri e poi inviato alla Commissione di finanza e tesoro affinché anch’essa dia il suo giudizio su una materia che io reputo importantissima per il perfezionamento di quello che è un vero piano della nostra amministrazione pubblica.

Il principio regolatore della nostra azione non è dunque un piano a priori, non è un liberismo assoluto, ma è la considerazione di ogni singolo provvedimento sulla base di ciò che il ragionamento e l’esperienza del passato ci dicono. È ovviò che i singoli provvedimenti debbano essere coordinati; ma il coordinamento deve necessariamente aver luogo in ubbidienza alle esigenze del momento. Le quali oggi – e la discussione avvenuta in questa assemblea lo dimostra – toccano sovratutto due problemi: bilancio dello Stato e restrizione del credito.

Per avere un’idea di quella che è l’importanza correlata di questi due aspetti del problema, bilancio dello stato e restrizione del credito, occorre dare qualche indicazione intorno al modo con cui è variata la circolazione dei biglietti negli ultimi mesi. Vi è un certo contrapposto fra i mesi dal febbraio al maggio e quelli dal maggio al settembre.

La circolazione è aumentata in tutti e due i periodi; ma nel primo periodo la responsabilità dell’aumento si poteva dire che fosse principalmente data dalle esigenze del tesoro. Su un aumento di 61,8 miliardi di lire lo stato poteva considerarsi responsabile per 54 miliardi di lire; e gli ammassi dei cereali, che sono un altro aspetto dell’azione dello stato, per 6 miliardi e 200 milioni di lire. In totale 60,2 miliardi di lire su 61,8 erano dovuti all’azione dello stato.

L’economia, ossia le esigenze dell’industria, del commercio e dell’agricoltura avevano chiesto agli istituti di emissione un aumento di circolazione di un miliardo e 600 milioni.

Nel quadrimestre dal giugno al settembre, invece, l’aumento totale di circa 110 miliardi si distribuisce così: esigenze del tesoro dello stato 26 miliardi e 600 milioni invece di 54; ammassi: 26 miliardi e 200 milioni invece di sei (ma questa è l’epoca in cui cadono gli ammassi del grano del nuovo raccolto); e l’economia, che aveva chiesto soltanto miliardi 1,6, ha chiesto all’Istituto di emissione un contributo di miliardi 55,9. All’incirca si potrebbe dire che in questo secondo periodo le richieste dell’economia del paese avrebbero avuto la prevalenza sulle richieste del tesoro.

Forse è del resto superfluo andare alla ricerca di chi abbia in questo caso diritto alla precedenza: certi problemi sono simili a quello della precedenza dell’uovo o della gallina. Congiuntamente il tesoro e l’economia, prima forse più il tesoro che l’economia e poi forse più l’economia che il tesoro, hanno avuto la responsabilità dell’aumento della circolazione.

Per potere avere un’idea precisa del fenomeno, sarebbe necessario guardarlo nel suo complesso. Ma qui non siamo in sede scientifica. Siamo qui per recitare ognuno di noi, uomo pubblico e uomo privato, il mea culpa. Riconosciamo senza troppo discutere sulle proporzioni, che amendue, stato ed economia, hanno una responsabilità nell’aumento dalla circolazione.

Cominciamo dalla responsabilità del tesoro. In che cosa consiste questa responsabilità? Essa non consiste, per quel che si riferisce al nuovo esercizio, in un mancamento o in una diminuzione di entrate. Il collega ministro delle finanze Pella ha esposto ampiamente quali siano i risultati favorevoli e più che ottimistici i quali sono stati dati dal gettito delle entrate effettive dello stato.

L’incremento delle imposte ordinarie e straordinarie è stato tale da poterci far fondatamente asserire che se le previsioni all’inizio si aggiravano sui 529 miliardi di lire, oggi si possono ritenere aggirantisi sugli 800 miliardi di lire. Io vorrei aggiungere una piccola integrazione alle cifre che sono state così bene esposte dal ministro delle finanze. Per amore dell’arte, e per un po’ di quella predilezione per le cifre finanziarie derivante dal mio antico compito di insegnante della materia, ho manipolato le stesse cifre in un’altra maniera, mettendo insieme da una parte tutte le imposte che colpiscono i redditi ed i capitali, comprese in questa categoria anche certe imposte che amministrativamente sono messe in un’altra categoria, e cioè le imposte sugli affari, le imposte sulle eredità e sul registro e bollo, le quali possono essere considerate veramente come imposte che colpiscono in qualcuna delle loro fasi e mutazioni il reddito e il patrimonio; dall’altra parte ho collocato tutte le imposte che colpiscono invece i consumi. Il risultato complessivo – dirò soltanto poche cifre per non elencarne troppe – è questo: che, a seconda delle risultanze consuntive dell’esercizio scorso 19461947, il primo gruppo di imposte (quelle su redditi e sui capitali) contribuiva per il 28,6 per cento del totale gettito delle entrate effettive, laddove le imposte sui consumi contribuivano per il 63,4 per cento. Nel mese di agosto 1947 le proporzioni sono ben diverse. Le imposte sul reddito e sui capitali, ordinarie e straordinarie, compresa l’imposta sulle eredità, contribuivano per il 46,7 e le imposte sui consumi contribuivano per il 49,3. Il resto è dato da entrate minori, patrimoniali e diverse, che non sono di carattere tributario. Siamo arrivati nel mese di agosto, su per giù, a quella che non è una regola di ragione ma una regola empirica di esperienza, cioè che all’incirca le due grosse fonti di entrate si equivalgono: 50 e 50. Questa dicevano i vecchi trattatisti essere la proporzione che deve essere serbata tra imposte sul reddito e sui capitali da una parte ed imposte sui consumi dall’altra.

Noi, per necessità di cose, per l’arrugginimento della macchina tributaria, ce ne eravamo distaccati. Oggi, grazie all’opera indefessa del ministro delle finanze e dell’amministrazione, siamo tornati a quella che è la proporzione classica tradizionale, metà e metà dei due gruppi.

Voglio aggiungere ancora che il peso delle imposte che grava sul contribuente italiano non è un peso piccolo. Qualche volta gli stranieri, che oggi vengono abbastanza frequentemente a fare interrogatori, indagini, a curiosare nelle cose nostre, ci domandano: «Ma quanto pagate voi di imposta?». E se sono americani, siccome hanno in testa una certa proporzione delle imposte effettivamente pagate al reddito nazionale, proporzione che è su per giù del 25 per cento, quando noi diciamo che al 25 per cento forse stiamo soltanto per arrivare, dicono: «È bene che voi ci arriviate». Fa d’uopo replicare, ed abbiamo ripetutamente replicato e fatto osservare, che una proporzione in Italia del 20 o del 25 per cento sul reddito nazionale è una proporzione la quale è di gran lunga superiore alla stessa proporzione del 25 per cento sul reddito nazionale nord-americano o di altri paesi meglio provveduti del nostro.

Non bisogna mai dimenticare che i redditi nazionali per testa, che sono quelli che contano, variano moltissimo da paese a paese; e se negli Stati Uniti il reddito nazionale potrà essere considerato di circa 1200 dollari all’anno a testa, in Italia il reddito medio non potrà essere certamente considerato (per quel poco che se ne sa attraverso indizi) superiore ad una cifra posta fra 160 e 200 dollari. Ora, portare via il 25 per cento su 1200 dollari vuol dire lasciarne ancora 900 a disposizione del contribuente, mentre invece il portar via, come noi facciamo, dal 20 al 25 per cento di un reddito che è soltanto da 160 a 200 dollari, vuol dire lasciarci qualcosa che può andare da 130 a 160 dollari, ossia una somma la quale sarebbe oltre oceano considerata tale da essere senz’ altro esentata da tutte le imposte.

Il nostro sacrificio comparativo nel pagamento delle imposte è dunque un sacrificio che è di gran lunga superiore a quello dei paesi con i quali tante volte si fa un ingiusto confronto.

E passo alle spese. Espongo le cose quali sono e non quali vorrei sperare che fossero. Le spese, purtroppo, sono aumentate, per provvedimenti già definiti, su per giù nella stessa misura delle entrate: le entrate cresciute probabilmente di 280 miliardi e le spese, per provvedimenti già definiti o in essere, di 264 miliardi; sicché debbo confessare – e non so se qui prevalga più la lode od il biasimo – che la sola meta alla quale siamo riusciti è quella di mantenere per ora invariato il disavanzo che preesisteva. Io vi dirò qualche cifra per spiegare in che cosa consiste l’aumento nella spesa. Ve ne sono alcune sulle quali non può darsi alcun dubbio sulla loro necessità. I servizi finanziari del tesoro hanno richiesto, ad esempio, variazioni già definite per 9 miliardi e 750 milioni; ma l’aumento è dovuto per 550 milioni di lire alla assegnazione che si è dovuta fare per le quote dovute per legge ai comuni sul provento dei pubblici spettacoli, e per 8.000 milioni per il rimborso ai comuni dei diritti erariali sugli spettacoli cinematografici. Certo, lo stato avrebbe potuto tenersi per sé queste imposte invece di riversarle a favore dei comuni; ma non solo ciò è accaduto in virtù di legge, una delle quali a lungo dibattuta in quest’aula; ma dai comuni giungono lagnanze vive perché il rimborso, per le esigenze della contabilità, non sia ancora stato effettuato, sicché ci chiedono anticipi per sopperire alle loro urgenze di cassa.

I comuni non hanno ancora toccato i beneficî di queste assegnazioni di cui affermano (e non ho dubbio sulla fondatezza della loro affermazione) avere estrema necessità non per colmare in tutto, ma in parte, il disavanzo necessario dei loro bilanci. Per questa partita, ad esempio, nulla si può obiettare all’incremento della spesa.

Beneficenza ed assistenza sociale: 24 miliardi 270 milioni. Egregia somma; ma per 7 miliardi 260 milioni dovuta al contributo dello stato per la costituzione del fondo di solidarietà sociale a carattere previdenziale in favore dei lavoratori. Trattasi di domande da lungo tempo presentate, le quali sono state soddisfatte non so se con completa soddisfazione di coloro, invalidi e vecchi, che chiedevano l’aumento di pensione, ma che sono parse necessarie in relazione all’aumento del costo della vita; 2 miliardi: soccorsi ai militari alle armi; un miliardo: contributo all’Opera maternità ed infanzia; 8 miliardi: contributo alle integrazioni salariali, anche questa resa necessaria dalla speranza di potere in questo modo riorganizzare le industrie in guisa da evitare che un troppo grande peso di salari a operai in eccedenza debba essere pagato; 3 miliardi e 10 milioni: assegno straordinario contingente ai pensionati delle assicurazioni obbligatorie a carico dello stato; 2 miliardi: assegno integrativo indennità disoccupazione; 1 miliardo: acquisto materiale sanitario dell’A.R.A.R. Sono tutti aumenti di spese le quali sono dovute alla necessità di sovvenire alle esigenze di malati, di vecchi, di poveri in conseguenza del rincaro della vita.

Non vi tedierò più’ a lungo su questi aumenti; farò soltanto rilevare come il grosso dell’aumento totale di 264 miliardi di lire si deve riferire a due capitoli. A favore del fondo speciale a copertura di maggiori oneri del personale dello stato erano già impostati in bilancio 89 miliardi, in previsione degli aumenti degli stipendi e del caro-viveri al personale; si sono dovuti impostare altri 49 miliardi e 380 milioni di lire, per corrispondere alle esigenze degli impiegati e di tutti gli altri dipendenti dello stato che avevano diritto, in conseguenza del metodo della scala mobile, ad ottenere l’aumento di caro-viveri e chiesero di ottenere, come ottennero, anche un aumento di stipendio. Vuole l’Assemblea costituente ritornare indietro su questi aumenti di stipendio e di caro-viveri? Sarà un miracolo se potremo fermarci su questa strada. L’altra cifra, la più grossa fra quelle che contribuiscono all’incremento delle spese, è il mantenimento del prezzo politico del pane, il quale costa nuovamente 100 miliardi di lire all’anno. Dopo che lo avevamo soppresso, il prezzo politico del pane e la conseguente perdita di 100 miliardi di lire è risorto in conseguenza dell’aumento dei prezzi internazionali e dei prezzi interni del frumento. Non è questo il momento di discutere il problema, basti ricordare che il prezzo politico del pane è davvero il fattore principale, il più importante di quell’aumento delle spese pubbliche che ha controbilanciato l’aumento delle entrate.

In sostanza abbiamo ubbidito se non alla speranza di diminuire il disavanzo, all’impegno preso di far sì che nessuna nuova spesa fosse deliberata senza che a questa nuova spesa corrispondesse un incremento di imposte, un incremento di gravami sui contribuenti. Naturalmente, le spese, come accade sempre, sono desiderate da tutti, mentre le imposte sono oppugnate con uguale unanimità. Almeno si riconosca la necessità di far sì che quando le une aumentano, aumentino anche le altre.

Poiché mi sono state chieste notizie sull’ammontare dei residui – ancora ieri l’onorevole Nitti ha detto che questa doveva essere una delle fonti di preoccupazione maggiore del governo – dirò le cifre riassuntive dei residui passivi ed attivi, quest’ultimi molto inferiori ai primi.

I residui passivi, ereditati dagli esercizi finanziari 1945-46 e precedenti, al 1° luglio 1946 ammontavano, nella parte effettiva (dirò solo di questa e non del movimento di capitali, che ha altra natura), ammontavano a 220 miliardi di lire. Durante l’esercizio 1946-1947 furono pagati 145 miliardi a valere su questi residui, cosicché l’eredità degli esercizi 1946-47 e precedenti al 30 giugno 1947, ammontava ancora a 75 miliardi di lire. Se ai residui antichi si aggiungono i residui presunti del 1946-47 in 374 miliardi di lire, il totale dei residui passivi, tra antichi e nuovi, ammonta a 449 miliardi di lire, da cui, deducendo pochi 18 miliardi di residui attivi, risulta l’ammontare netto dei residui passivi in 431 miliardi di lire.

Al disavanzo dell’esercizio corrente noi dobbiamo quindi aggiungere anche il debito del disavanzo nei residui, il quale però non avrà effetto, o non avrà effetto totale sulla cassa, inquantoché tutti gli anni, ad una eredità di residui del passato, corrisponde una eredità di residui nuovi che si lasciano all’esercizio avvenire, cosicché si può ritenere che le partite, alla fine dell’anno, possano per lo più contrapporsi ed uguagliarsi.

I      disavanzi degli esercizi hanno un brutto effetto, che è conosciuto sotto il nome di «incremento del debito pubblico». Devo dire che l’incremento del debito pubblico continua. Dirò solo le cifre estreme; osservando che esse comprendono tutto il debito pubblico: consolidato, redimibile, fluttuante, per residui netti passivi, per valore attuale delle annualità differite.

Al 30 giugno 1939 il debito pubblico italiano ammontava a 178 miliardi e mezzo; al 30 giugno 1947 esso ammontava a 2.098 miliardi, con un incremento di 11,75 volte. Il debito pubblico è dunque cresciuto quasi 12 volte in confronto all’anteguerra.

Il significato di questa variazione è socialmente più grave di quello che non appaia dalle cifre, contabilmente ed economicamente assai meno gravi. E ciò perché là dove prima della guerra, alla data del 30 giugno 1939, il debito totale – di 178,5 miliardi – si ripartiva in 7,1 miliardi di debito per i biglietti di stato e per le anticipazioni della Banca d’Italia per somministrazione di biglietti e 171,3 miliardi di altri debiti – cosicché i primi erano solo il 4 per cento del totale – oggi invece, sui 2.098 miliardi di debito pubblico, 486 sono dovute alle amlire, alle anticipazioni della Banca d’Italia ed ai biglietti di stato; il resto – 1.611,7 miliardi – è costituito da tutte le altre partite.

Il 23 per cento, dunque, del debito pubblico consiste in debito per creazione di biglietti. Che cosa vuol dire questo? Vuol dire che contabilmente il totale del debito vale oggi probabilmente meno del debito antico. Noi abbiamo un debito di 2.098 miliardi; ma questo debito, come potenza d’acquisto, come carico sui contribuenti, poiché la moneta si è svalutata ad una quarantesima, o cinquantesima che dir si voglia, parte del suo valore antebellico, vale soltanto una quarantesima parte del valore antico; cioè sebbene sia aumentata di quasi dodici volte il suo ammontare, il suo peso a carico del contribuente è soltanto una quarantesima parte di 2.098 miliardi. Contro 178 miliardi del 1939 noi abbiamo un debito che vale, espresso nelle stesse lire del 1939, solo 52 miliardi circa; il peso economico è minore; esso costa in termini di sforzo molto meno, meno di un terzo, ai contribuenti di quanto non costasse nel 1939.

Ma se questo è il significato contabile economico, ben altro invece è il significato sociale. Qual è il significato sociale? Il significato sociale è che, in misura differente, i creditori dello stato sono stati privati di una parte di quello che avevano dato allo Stato. Ciò vuol dire che, di mano in mano che procede la svalutazione monetaria, i creditori dello stato sono danneggiati, sono privati di una parte del valore del patrimonio che possedevano; essi sono rimborsati – in capitale ed interessi – con una moneta che vale una quarantesima parte di quello che valeva nel 1947.

Tanto più, quindi, è necessario, allo scopo di por termine a questa mala redistribuzione della ricchezza fra le diverse classi sociali che scoraggia i risparmiatori, tanto più, dicevo, è necessario tener bene in mente che quella del bilancio dello stato non è una parte secondaria del problema della ricostruzione del paese e del ristabilimento della nostra unità monetaria; ne è anzi la parte fondamentale, il punto di partenza.

Se si vuol fare qualche cosa, bisogna certamente incominciare dal bilancio dello stato. Non vale dire: Incominciamo da qualche cosa d’altro e poi il bilancio dello stato si aggiusterà; promoviamo la produzione ed il bilancio dello stato rifiorirà. Non vale dir ciò, perché, finché il bilancio dello stato non sia tornato ad un relativo equilibrio, sarà vano sperare che si possa avere un risanamento dell’economia del paese. Il risanamento del bilancio è la premessa indispensabile per il ristabilimento della moneta; tutto il resto potrà essere sì, un coronamento, potrà essere un aiuto alla stabilizzazione: ma la premessa indispensabile è l’equilibrio del bilancio.

Vorrei ricordare, a conferma di questa che potrebbe essere considerata una mia opinione personale, un’opinione ben più autorevole della mia: quella del presidente del fondo internazionale monetario, la massima autorità che in fatto di moneta oggi esista al mondo. Nella relazione alla recente riunione dei governatori del Fondo monetario internazionale a Londra, il signor Gutt, il belga che ha avuto il merito della riforma monetaria e finanziaria nel Belgio, disse queste parole:

«In taluni paesi l’inflazione, e ciò significa una spesa eccessiva in consumi ed investimenti (questa è la definizione ch’egli dà dell’inflazione, definizione suggestiva, perché mette in chiaro che al disotto delle cifre monetarie, vi è una realtà di cose sostanziali), ha trovato origine in larghi disavanzi statali. Il punto di partenza per una riforma finanziaria ed economica interna sta, quindi, nel pareggio del bilancio statale. Questo deve essere un reale pareggio del bilancio, in cui le entrate effettive provenienti dal reddito corrente del pubblico coprano i pagamenti effettivi in favore del pubblico (stipendi, spese pubbliche, interessi del debito, ecc.). Deve essere un compiuto pareggio dell’intero bilancio, incluso tanto il bilancio ordinario che quello straordinario, come le operazioni delle aziende di stato. (Anche le aziende di stato devono dunque essere in pareggio). Le spese pubbliche per qualsiasi fine devono essere ridotte ad un ammontare che possa essere ricoperto con le imposte e le altre entrate correnti. In particolare né l’istituto di emissione né le banche private devono fornire fondi per le spese pubbliche».

Lo stato non deve ricorrere, cioè, nell’opinione del presidente del Fondo internazionale, né ad anticipazioni dell’Istituto di emissione, né a prelevamenti sulle banche private, allo scopo di poter colmare il disavanzo del suo bilancio.

Forse questo che il signor Gutt esponeva nella seduta di Londra può essere considerato da noi quello che gli inglesi usano chiamare un consiglio di perfezione, il massimo di perfezione che può essere ottenuto. Forse noi ci possiamo contentare di qualche cosa di meno; noi potremmo anche considerarci contenti se il bilancio dello stato potesse essere equilibrato, oltrecché con le entrate effettive derivanti dalle imposte, con altre entrate derivanti da prestiti, ma che siano prestiti effettivi sottoscritti dal pubblico, con emissione di titoli di debito pubblico e di buoni del tesoro, a cui corrispondano biglietti versati dal pubblico al tesoro, così da non aumentare la circolazione. Noi potremmo contentarci anche di questo grado minore di perfezione e ritenere di avere già raggiunto il nostro scopo.

MARINA. Ma per arrivare a questo, bisogna stabilizzare le paghe e i prezzi; altrimenti il bilancio dello Stato continua a non quadrare.

EINAUDI, Ministro del bilancio. Ne parleremo.

Il signor Gutt aggiungeva un altro consiglio, che mi serve come ponte di passaggio alla seconda parte delle mie argomentazioni, quella che non si riferisce più al bilancio dello stato, ma invece all’economia del paese e alla questione controversa delle restrizioni del credito. Egli aggiungeva:

«Stabilizzare la moneta, significa soprattutto che le spese, a qualsiasi titolo esse siano fatte, devono essere limitate all’ammontare di quei beni che possono essere acquistati a prezzi stabili».

E cioè, secondo il signor Gutt, è inutile aumentare la circolazione ed aumentare paghe perché ciò non serve a niente; serve soltanto a far aumentare i prezzi e ad impedire la stabilizzazione della moneta.

«In particolare – egli prosegue – le spese per ricostruzione ed impianto» (e quando egli parla di «spesa di ricostruzione ed impianto» si riferisce non soltanto alle spese di ricostruzione ed impianto compiute dallo Stato, ma anche alle spese di ricostruzione ed impianto compiute dai privati) «non devono essere aumentate attraverso la creazione di credito bancario».

La creazione di credito bancario per fare opera di ricostruzione e di impianto è opera vana, la quale non raggiunge il suo risultato di creare qualcosa e di creare lavoro, ma raggiunge soltanto il risultato unico di aumentare la svalutazione monetaria ed aumentare ancora il disordine sociale che già esiste.

E vengo – attaccandomi a quest’ultima dichiarazione del presidente del Fondo monetario internazionale – all’argomento dell’economia del paese, la quale si concentra nella disputa relativa alla restrizione del credito.

A questo riguardo io vorrei essere il più chiaro possibile e i colleghi mi perdoneranno se forse mi dilungherò alquanto nella delucidazione dell’argomento.

Il problema, quale base – diremo così – di fatto ha? La base di fatto si può riassumere in queste cifre: durante il 1946 l’intero sistema bancario italiano (banche di ogni specie e casse di risparmio) ricevette dai depositanti, in più di quelli che c’erano già prima, 273 miliardi di lire di depositi. Ne impiegò 252. Un margine piccolissimo fra depositi e investimenti è la caratteristica del 1946. Praticamente tutto ciò che era stato ricevuto dalle banche fu impiegato.

Nei primi sette mesi di quest’anno 1947 l’intero sistema bancario italiano ricevette 188 miliardi di depositi di più di quelli che già aveva, 188 miliardi di nuovi depositi fatti in sette mesi dai risparmiatori, e ne impiegò 219. Il sistema bancario italiano impiegò, cioè, a favore dell’industria e del commercio, in sconti e anticipazioni e sovvenzioni di ogni specie, 219 miliardi di lire; quando i depositi, in quello stesso periodo di tempo, aumentavano soltanto di 188 miliardi.

È questa una situazione la quale possa essere considerata normale?

Io vorrei a questo riguardo fare qualche esempio quasi elementare. Se un banchiere ha 100 di depositi e impiega 100, che giudizio daremo di lui? Il giudizio unanime e spontaneo è: costui è un pazzo e un delinquente! Perché, se egli impiega tutti i suoi depositi, è certo che domani non potrà rimborsare il primo depositante che si presenterà ai suoi sportelli per riavere il suo denaro; è certo che dovrà depositare i suoi libri in tribunale ed è certo che egli ha truffato i suoi depositanti.

Quindi costui è un pazzo e un delinquente! (Applausi di centro).

Se egli, che ha ricevuto 100, impiega 99, modificheremo il nostro giudizio? Lo attenueremo lievissimamente, ma il giudizio rimane tale e quale.

E, discendendo grado a grado, mantenendo a 100 i depositi e diminuendo gli impieghi, fino a che punto dovremo discendere? Non c’è qui nessuna regola, non c’è nessun libro teorico il quale ci dica quale percentuale i banchieri possano onestamente impiegare. Essi maneggiano il denaro dei depositanti, essi sono fiduciari dei depositanti e devono mantener fede alla promessa fatta di restituire o a vista o a termine il denaro ricevuto in deposito. Questo è il primo ed il massimo dovere, dinanzi a cui tutti gli altri doveri scompaiono.

L’esperienza del passato, che è l’unica maestra in materia, dice che il punto al di là del quale il banchiere diventa imprudente sta fra il 60 e il 70 per cento. Occorre che il banchiere mantenga una riserva, o in denaro contanti o in depositi ritirabili a vista attraverso l’istituto di emissione nello stesso giorno, o in titoli facilmente realizzabili o che abbiano il diritto di essere presentati al risconto presso l’istituto di emissione. Egli deve cioè mantenere una certa riserva, in piccola parte in denaro contante, e per il resto in depositi, o in titoli, tale sempre che possa essere convertita rapidamente in denaro.

Se si supera questa percentuale dovremo dire che il limite di prudenza non è stato osservato.

Ora che cosa è accaduto? È accaduto che la percentuale impiegata nei depositi è andata via via crescendo: era del 42 per cento al 31 maggio 1946, ed era così bassa, perché giustamente le banche durante il periodo della guerra e nel dopoguerra sì erano mantenute entro limiti di grande prudenza, avevano cercato di conservare al massimo le loro liquidità, per evitare perdite.

A poco a poco la percentuale cresce: al 31 dicembre 1946 siamo arrivati al 61 per cento: al 31 luglio 1947 essa è aumentata al 72 percento, cioè le banche hanno dato all’industria e al commercio, crediti nella misura massima che la prudenza consente. Andare al di là sarebbe stato opera imprudente, sarebbe stato contravvenire, non dico alle norme della scienza, che deve conformarsi all’esperienza, ma alle norme insegnate dalla universale esperienza straniera e italiana.

LA MALFA. C’era già un coefficiente inflazionistico.

EINAUDI, Ministro del bilancio. C’era un coefficiente inflazionistico e si era infatti corso ai ripari fin da prima. Fin dal gennaio di quest’anno, l’istituto di emissione vedeva che la percentuale d’impiego dei depositi andava crescendo e ha cercato di venire ai ripari d’accordo con il tesoro per evitare che la percentuale seguitasse a crescere.

Purtroppo in passato, per non aver seguito i consigli della prudenza, abbiamo fatto ben tristi esperienze: dalla caduta della Banca italiana di sconto e di altre banche dell’Alta Italia nel 1921 e 1922, alle immobilizzazioni che si verificarono nel 1931-32, di cui tutti conoscono le conseguenze, come il passaggio delle tre grandi banche, Commerciale italiana, Credito italiano e Banco di Roma, all’I.R.I. e quindi allo stato e così pure il trapasso della partite immobilizzate all’I.R.I.

Vogliamo ripetere questa esperienza oggi? Il nostro dovere è di fare tutto il necessario perché essa non si ripeta.

Tutti i paesi, tutti indistintamente, hanno una politica a questo riguardo, una politica che per lo più è assai più restrittiva di quella blandissima che fu inaugurata nel 1936, modificata in seguito, e ripresa quest’anno.

In Inghilterra non c’è una regola precisa, perché tutti sappiamo che la Banca d’Inghilterra non usa mettere per iscritto le sue norme. Le norme si concretano durante conversazioni con i direttori delle grandi banche ordinarie; ma queste conversazioni conducono a risultati che per essere apparentemente volontari, non sono meno coattivi.

Si può ritenere che nel 1929 il 30 per cento dei depositi delle banche inglesi venisse investito in titoli di stato. Nell’agosto del 1939 la percentuale era del 46 per cento. Alla fine del 1946 la percentuale dei depositi bancari, la quale era investita in titoli di credito verso lo Stato, si aggirava sul 70 per cento, percentuale quindi di gran lunga superiore a quella esistente nel nostro paese.

In Olanda le cinque grandi banche commerciali avevano investito al 28 febbraio 1947, 1’85 per cento dei propri depositi in buoni del tesoro e titoli pubblici.

Negli Stati Uniti, dove esiste una legislazione precisa in proposito, per i depositi a vista le banche della città di riserva centrale sono obbligate a versare alla Banca federale di riserva il 20 per cento dei depositi. Le banche delle città di riserva pure il 20 per cento, le banche di provincia il 14 per cento; per i depositi a termine l’obbligo di riserva è del 6 per cento.

In Francia, le banche, al 31 dicembre 1946 avevano investito circa il 45 percento dei loro depositi in titoli pubblici.

Nel Belgio il rapporto di copertura, ossia il rapporto fra la cassa, più le somme disponibili a vista, più gli effetti pubblici ed il totale dei depositi deve essere del 50 per cento per le banche regionali, del 60 per cento per le banche di media circolazione e del 65 per cento per le banche di grande circolazione. Inoltre è obbligatorio che gli investimenti in titoli pubblici costituiscano almeno i quattro quinti della copertura.

Caratteristico è l’esempio svedese, dove, come sapete, l’istituto di emissione è posto alla diretta dipendenza del parlamento. Per quanto riguarda il rapporto fra depositi e patrimonio è stabilito che per le banche con patrimonio non superiore a cinque milioni di corone, l’ammontare dei depositi non deve essere superiore a cinque volte il patrimonio più il saldo creditore dei depositi a vista presso le altre banche; per le banche con patrimonio oltre i cinque milioni di corone, venticinque milioni di corone più nove volte l’eccedenza del patrimonio sui cinque milioni, purché l’ammontare complessivo non sia superiore a otto volte il patrimonio. Oltre a questi vincoli, concepibili in un paese, come la Svezia, a moneta stabile, è fatto obbligo alle banche di tenere una riserva liquida costituita da contanti o da valori facilmente realizzabili, non inferiore al 25 per cento dei totale e degli impieghi a vista.

Potrei continuare, ma questi esempi dimostrano già che le legislazioni straniere non han mancato di intervenire in questa materia poiché l’esperienza dimostra che ci sono banchieri prudenti, ma ci sono anche banchieri imprudenti, ed il sistema bancario è costituito in maniera tale che se ci sono banchieri imprudenti i quali cadono, la loro mala fine non si limita ad essi ma, per il panico di cui il pubblico è preso, si ripercuote su tutte le altre banche. È necessario quindi che vi sia qualche norma la quale induca tutti i banchieri, quelli prudenti e quelli non prudenti, ad osservare talune regole fondamentali.

Quali erano queste regole fondamentali in Italia fino a ieri? La legislazione del 1933-1936 stabiliva che le banche potessero tenere per sé ed investire liberamente 20 volte tanto (prima, e poi il multiplo fu aumentato a 30 volte) il loro patrimonio netto. Quindi, se una banca aveva un patrimonio netto di 100 milioni, poteva tenere per sé i propri depositi fino ad un ammontare di 30 volte i 100 milioni, cioè tre miliardi. Essa avrebbe dovuto depositare presso il tesoro o presso l’istituto di emissione od investire in titoli pubblici tutto l’eccesso oltre le 30 volte del patrimonio netto. La norma era stata adottata in un momento in cui esisteva veramente una correlazione fra patrimonio e depositi. Patrimonio e depositi erano espressi nella medesima moneta. Quando una banca aveva un patrimonio proprio di 100 milioni poteva essere ragionevole si dicesse: il supero, il di più, dovrai depositarlo presso l’istituto di emissione a garanzia del depositante. La norma funzionò discretamente bene per un certo periodo di tempo. Ma, venuta la guerra e cominciata la svalutazione monetaria, essa non funzionò più bene, poiché il patrimonio era espresso in una moneta ed i depositi in un’altra. Il patrimonio delle banche non crebbe o crebbe in misura così lenta che si poté dire che quasi non avesse importanza.

Quella banca la quale aveva un patrimonio di 100 milioni continuò ad avere lo stesso patrimonio. Ma i depositi crebbero, ed è naturale, perché i depositi sono espressi in una moneta che vale 40 volte meno di quello che valeva la moneta originaria; e toccano limiti più alti.

Col crescere dei depositi accadde che una banca la quale aveva un patrimonio di 100 milioni avrebbe dovuto depositare presso l’istituto di emissione tutto l’eccesso dei depositi oltre i 3 miliardi; e se ne aveva 10 o 20, come accadde frequentemente dopo la guerra, avrebbe dovuto depositare tutto l’eccesso oltre i 3 miliardi presso l’Istituto di emissione.

Ciò voleva dire che la banca avrebbe dovuto fallire; ed invero la banca deve fare le spese per tutto il suo apparato; e soprattutto deve far fronte agli stipendi agli impiegati, stipendi che via via si sono moltiplicati, prima per 10-20 ed ora, credo, per 25-30. Se si fosse osservata la regola del 1936, i depositi rimasti a libera disposizione della banca sarebbero stati invariati. Le banche, a cui il denaro costa dal 5 al 6 per cento, specie per l’onere degli stipendi, avrebbero ricavato un buon frutto solo per una parte dei loro depositi, laddove per il sovrappiù, anzi per la più parte, avrebbero dovuto contentarsi del 3,50 per cento, meno del costo. Quindi le banche violavano la legge. Il 29 gennaio di questo anno l’istituto di emissione con una sua circolare ricordò alle banche l’obbligo che avevano secondo la legge. Nel ricordare l’obbligo, lo attenuò dicendo che nei depositi fatti presso l’istituto di emissione si potevano anche includere certe partite che prima non vi erano incluse, con notabile attenuazione del rigore della legge. Ricordò però che la legge esisteva. Ma poiché questa era riconosciuta da tutti inapplicabile, in quanto avrebbe costretto le banche a depositare presso l’istituto quasi tutti i loro depositi, tutto l’eccesso dei loro depositi oltre una cifra molto piccola, subito cominciarono le discussioni: cominciarono in febbraio e proseguirono fino ad agosto. Discussioni, che cominciano in febbraio e durano fino all’agosto, non si può dire che abbiano portato, – come è stato detto in questa Camera – ad un provvedimento brusco. Non è improvviso né brusco ciò di cui si discusse per tanti mesi. Tutti ne erano a conoscenza; furono pubblicate in proposito memorie; le associazioni interessate, i competenti presero la parola e furono formulati voti.

La questione fu dunque ampiamente dibattuta.

Quando il decreto che istituiva il «Comitato interministeriale per il credito ed il risparmio» (e anche questo decreto fu oggetto di discussione presso la Commissione di finanza e tesoro dell’assemblea) entrò in attuazione, il Comitato, lo stesso giorno in cui il decreto veniva pubblicato il 2 agosto sulla Gazzetta Ufficiale, si radunò e discusse per primo questo che era il problema più urgente della nostra situazione monetaria; e la conclusione fu quella che fu poi comunicata in una seduta del 20 agosto in una adunanza di banchieri in cui erano rappresentati tutti i principali banchieri italiani e le associazioni bancarie.

Il risultato delle deliberazioni del Comitato interministeriale fu: dare maggiore elasticità, non restringere la legge antica, ma dare invece maggiore elasticità alla legge antica così che essa potesse adattarsi alle mutate circostanze. Si concluse, cioè concluse il Comitato interministeriale presieduto dal ministro del tesoro e composto dai ministri dei lavori pubblici, dell’agricoltura, dell’industria e commercio e del commercio estero, che le nuove norme dovessero essere le seguenti: libere le banche di investire, a favore dell’industria e del commercio, sino a 10 volte il patrimonio netto. Si ridusse il multiplo da 30 a 10; ma in compenso della riduzione si disse: dell’eccesso dei depositi oltre il decuplo, voi banche potete tenere per voi ed investire l’80 per cento.

Sarete obbligate a depositare, a garanzia dei depositi, soltanto il 20 per cento dell’eccesso dei depositi oltre 10 volte il capitale sociale. Per maggiore larghezza si disse che in ogni caso però, tenuto conto del multiplo e della percentuale, le banche non fossero obbligate a depositare presso il tesoro o l’istituto di emissione o ad investire in titoli pubblici più del 15 per cento dei depositi esistenti alla data del 30 settembre 1947. Quando in tutti gli altri paesi le percentuali sono maggiori e la prudenza consiglia alle banche di conservare un margine del 30 per cento, più che meno, meno del 15 per cento non poteva esser chiesto. E poiché l’inflazione si dà per l’incremento degli impieghi oltre il livello presente, fu disposto che se in avvenire, a partire dal 30 settembre i depositi fossero aumentati oltre la cifra che avevano raggiunta alla stessa data, sull’aumento, ma solo sull’aumento, dovesse essere versata presso il tesoro o l’istituto di emissione una percentuale del 40 per cento. Ciò perché, come dissi or ora, l’inflazione creditizia può esser considerata già scontata per il passato, ma ciò a cui si deve rimediare è la nuova inflazione, quella ulteriore. Tuttavia fu attenuata la regola con la clausola che in ogni caso la riserva obbligatoria non potrà (tenuto conto del vecchio e del nuovo) superare un 25 per cento dei depositi.

Questa è ciò che fu chiamata in questa assemblea la brusca, la improvvisa e la draconiana restrizione del credito. Dopo l’esposizione che gli onorevoli colleghi hanno ora ascoltata, è evidente che la restrizione non è stata né brusca, né improvvisa, né draconiana; è stata lenta, preavvertita e lungamente discussa. Può essere considerata, più che una restrizione del resto tenue, un avvertimento ed uno strumento del quale si possono servire le autorità di controllo allo scopo di controllare l’azione delle banche. Di per se stessa la nuova norma non è affatto feroce.

Sbarazzato, mi pare, il terreno dai rimproveri di eccesso, di brusco, di draconiano, resta l’altra obiezione fondamentale, e cioè che la restrizione del credito sarebbe soltanto quantitativa e non qualitativa. La osservazione è stata ripetuta da molti ed insigni membri di questa assemblea e merita la più attenta considerazione. Sono ben lieto che, dopo che questa obiezione era stata sollevata, si sia già riconosciuto da qualche oratore che in ogni caso il controllo qualitativo del credito non aveva un certo significato, cioè non aveva e non può avere il significato che l’istituto di emissione, l’ente di controllo, debba controllare ad una ad una le operazioni di credito che sono fatte dalle singole banche. L’idea appena affacciata è subito apparsa non desiderata da nessuno

E che non sia da desiderarsi da nessuno lo provano le osservazioni che l’amico e collega Merzagora ha fatto l’altro giorno intorno alle difficoltà in cui egli si trova per rispondere a 10 mila domande al mese che gli pervengono per autorizzazione di esportazione ed importazione, che mettono in subbuglio e in imbarazzo tutti gli impiegati del suo ministero, che fanno nascere problemi veramente angosciosi per una persona la quale abbia intendimento di fare tutto il suo dovere e di fare le cose come la coscienza gli detta. Egli ci ha parlato di centinaia di automobili le quali si trovano nel giardino prospiciente al suo ministero, di gente che arriva da tutte le parti d’Italia per ottenere autorizzazioni e permessi. Ma se egli si trova imbarazzato di fronte a 10 mila domande al mese, quanto più dovrebbe essere imbarazzato l’istituto di vigilanza se dovesse controllare tutte le operazioni di credito, per impedire che sia fatto questo o quel credito? Non 10 mila, ma centinaia di migliaia di domande arriverebbero ogni mese. Non poche centinaia di automobili sarebbero ferme, come dinanzi al Ministero del commercio estero, dinanzi al palazzo della Banca d’Italia in via Nazionale! Non basterebbe l’intera via Nazionale, da piazza Termini a Magnanapoli, per contenere tutte le automobili che arriverebbero per piatire la concessione di un credito, ottenere lo sconto di una cambiale!

Siamo tutti d’accordo – e sono lieto di averlo sentito qui – che questo non sia il controllo qualitativo che si desidera. Il controllo qualitativo che si desidera è qualcosa altro. Non l’ho sentito esporre con regole e norme molto precise. All’incirca, si è detto che si dovrebbe controllare la natura dell’operazione, almeno per categorie di operazioni, per categorie di industrie, o per localizzazione di quelle industrie, o per i fini a cui l’industria si rivolge.

Orbene, io devo dire che su questa via l’Italia ha già fatto dei grandi passi, e non so se vi sia un altro paese al mondo in cui esista già un controllo qualitativo quale esiste nel nostro paese. In Italia, in virtù delle leggi vigenti, gli istituti ordinari di credito, le banche, non possono fare crediti se non per operazioni di esercizio, non possono cioè concedere crediti se non per operazioni a breve termine, non per operazioni a medio o a lungo termine. Per le operazioni a medio e a lungo termine e per le operazioni di carattere speciale, sono istituiti, ed istituiti da tempo, qualche volta da tempo immemorabile, istituti specializzati: istituti di credito fondiario, istituti di credito agrario, istituti di credito edilizio, ognuno dei quali si occupa di branche particolari di credito ed è attrezzato in modo particolare per queste funzioni che esercita. Hanno uffici di periti e di legali esperti in materia che vegliano che le operazioni siano compiute secondo le regole più sicure. Vi sono istituti di credito peschereccio, di credito alberghiero, di credito cinematografico. Ognuno di questi istituti è sottoposto alla vigilanza di organi governativi i quali esaminano le operazioni che devono essere fatte.

Le operazioni a medio termine sono compiute dall’Istituto mobiliare italiano, dall’I.M.I., il cui primo presidente è stato il senatore Mayer, il quale ha creato una tradizione, osservata anche oggi dall’attuale presidente onorevole Siglienti, tradizione la quale consiste nella severità dell’esame delle operazioni presentate; severità la quale ha consentito all’Istituto mobiliare italiano di ottenere credito, ossia di poter collocare al pubblico le obbligazioni che sono la sola fonte da cui esso ricava i mezzi per poter fare credito. Un istituto di banca non può dare i denari che non ha; i denari che ha sono quelli che riceve dal pubblico; ma per ricevere questi danari dal pubblico a medio e a lungo termine, occorre avere fiducia da parte dei risparmiatori e la fiducia si ottiene soltanto (come hanno fatto Mayer, Beneduce e Siglienti) dimostrando e persuadendo il pubblico che si fanno operazioni serie alla fine delle quali c’è il rimborso da parte dei debitori. Cosicché le obbligazioni dell’Istituto mobiliare italiano hanno credito e sono ben collocate. Accanto all’Istituto mobiliare italiano vi è il Consorzio sovvenzioni su valori industriali; vi è l’Istituto di credito per le opere pubbliche, tutti specializzati in certi determinati tipi di operazioni a medio e a lungo termine.

Alle banche ordinarie è riservato il credito a breve termine: il credito di esercizio, il credito commerciale, il credito cioè che non serve per impiantare una fabbrica, che non serve per comprare una macchina che si ammortizzi in 10-15 anni; ma serve per comprare materie prime, per pagare salari, operazioni che consentono di ricuperare i denari forniti a breve scadenza, a 2-3 mesi quando la merce fabbricata sia venduta.

Possono commettersi degli abusi, ma contro questi abusi esistono già opportuni freni. Uno di questi freni, reso assai più efficace dalla svalutazione monetaria, è quello che dice che nessuna banca può investire a favore di un solo cliente (ricordiamoci come talune banche piemontesi siano fallite perché avevano dato tutto ad un solo cliente) più di un quinto del suo patrimonio. C’era in origine una certa larghezza in questo quinto; poteva la banca investire un quinto del suo patrimonio netto, che era una cifra grossa, a favore di un solo cliente. La svalutazione monetaria che effetto ha prodotto? Ha prodotto l’effetto che i patrimoni delle banche sono rimasti, come osservai dianzi, tali e quali; sicché il quinto è diventato spesso una cifra assai piccola. Perciò per tutte le operazioni che si riferiscono ad un solo cliente e il cui ammontare superi il quinto del patrimonio sociale, la banca non può fare l’operazione se non ottiene l’autorizzazione esplicita, apposita dell’istituto di vigilanza. E queste operazioni, per cui è necessaria volta per volta l’autorizzazione della Banca d’Italia, dato il piccolo ammontare dei patrimoni netti delle banche, sono divenuti assai numerose. Sotto questo rispetto il controllo qualitativo su ogni singola operazione è oggi assai più efficace di quello che non fosse una volta. Sono decine e decine di autorizzazioni al giorno che l’ufficio di vigilanza deve dare, e dà o nega a seconda della natura dell’operazione per cui viene chiesta l’autorizzazione.

Vi è poi l’arma del risconto. Il risconto si fa dalle banche presso l’istituto di emissione. Ora non è detto che l’istituto di emissione debba accettare tutta la carta che gli è presentata senza un esame preventivo, e l’esame preventivo è accuratamente fatto non dalla sede centrale, ma in primo luogo, salvo revisione del centro, dai direttori delle singole filiali della Banca d’Italia, i quali devono esaminare la carta che le banche presentano al risconto. Sotto che profilo le istruzioni date dal centro dicono di esaminare questa carta? Di non riscontare le cambiali per le quali si vede che c’è dietro una immobilizzazione; di non riscontare le cambiali dietro le quali c’è una semplice operazione di conservazione di utili sovrabbondanti sotto forma di scorte eccessive. Non si può dire che non si debbano riscontare tutte le cambiali che servono per comperare scorte, perché ci sono scorte che sono necessarie giorno per giorno per la vita dell’azienda. È ovviamente affidato alla prudenza dei dirigenti di discriminare fra quelle che sono scorte necessarie per la vita dell’azienda e quelle che sono scorte eccessive. Le istruzioni, applicate, sono di non concedere risconto tutte le volte che la cambiale debba servire per operazioni di mera conservazione di scorte. E le norme puramente quantitative, di cui ho parlato prima, eserciteranno, sotto questo rispetto del risconto, una efficacia notevole, anche per ottenere un controllo qualitativo.

Faccio un esempio. Se una banca ha 100 milioni di depositi, deve, per le norme che ho ricordato, depositare presso l’istituto di emissione 15 milioni di lire. Supponiamo ora che, per qualunque circostanza, i depositanti chiedano un rimborso di dieci milioni: la banca deve rimborsare i dieci milioni. Per rimborsarli può chiedere il rimborso di un decimo dei quindici milioni versati. Come dovrebbe trarre dagli 85 milioni rimasti a sua disposizione i mezzi per rimborsare 8,5 milioni, così trae anche dai 15 milioni che ha dato all’istituto di emissione i mezzi per rimborsare 1,5 milioni; in totale i 10 milioni dei depositi da rimborsare ai depositanti. Evidentemente il milione e mezzo che essa ha in restituzione dal tesoro o dall’istituto di emissione non basta da solo per rimborsare dieci milioni; per rimborsare dieci milioni ne mancano otto e mezzo. Se li ha in contanti presso di sé in un’ulteriore riserva prudenzialmente disponibile (dissi sopra che la riserva dovrebbe essere almeno del 30 per cento), sta bene; altrimenti cosa dovrà fare? Portare una parte della sua carta o dei suoi titoli e chiedere risconto o anticipazione all’istituto di emissione. E in quell’occasione l’istituto di emissione farà lo scrutinio della carta presentata al risconto o dirà: «Questa sì, perché corrisponde ad una operazione sana di credito; questa no perché serve soltanto per conservare scorte eccessive che il tuo cliente farebbe molto bene a vendere per procurarsi denaro».

Quindi, anche la forma istituita per il controllo quantitativo è un mezzo per rendere efficace il controllo qualitativo che già preesisteva. Un metodo automatico, che non implica obbligo di chiedere il consenso a Roma per ogni singola operazione, un metodo che agisce secondo le norme classiche e provate della pratica bancaria.

A che cosa, perciò, si riduce il clamore inusitato che è stato fatto intorno ad una restrizione del credito che è inesistente, ad una restrizione del credito che è quantitativa e qualitativa nel tempo stesso, che non è stata né improvvisa né ingiusta e neppure draconiana, anzi, assai tenue paragonata a quello che si fa altrove e paragonata a quello che è dovere ed usanza della maggior parte dei banchieri prudenti di fare spontaneamente?

Si riduce a qualcosa che è bene spiegare chiaramente. Il credito si fa e si può fare soltanto col mezzo dei risparmi, i quali sono formati dai risparmiatori e affluiscono alle banche. Se il risparmio non si forma, se le banche non ricevono i depositi, esse non possono fare credito, non possono dare denaro che non hanno a industriali o commercianti. Se questi chiedono denaro alle banche in aggiunta a quello che le banche non hanno e che, non avendo, non possono fornire, che cosa chiedono? Chiedono puramente e semplicemente che si fabbrichi carta moneta, che si dia credito fabbricando carta moneta, nell’illusione che in tal modo si possa sul serio dare lavoro e fare qualche cosa che sia utile per la collettività. Ora, è bene che io dica apertamente di non essere per nulla d’accordo con coloro i quali chiedono credito non sui risparmi che di giorno in giorno si vanno costituendo, ma chiedono credito attraverso la fabbricazione di carta moneta. (Vivi applausi al centro e a destra).

Si dice: oggi la quantità di circolazione è troppo bassa in confronto ai prezzi; la quantità della circolazione è aumentata trenta volte, mentre i prezzi sono aumentati cinquanta volte. Ne deriva che gli industriali e i commercianti hanno bisogno per pagare gli operai, per pagare le scorte, di una somma di denaro che sia cinquanta volte, e non soltanto trenta, quella che era nell’anteguerra. Da ciò conseguirebbe, secondo costoro, che si potrebbe emettere un po’ di carta moneta, così da provvedere ai bisogni dell’industria. Se 650 miliardi non bastano perché sono soltanto 30 volte l’anteguerra, portiamoli a 1000, e così andranno alle 50 volte e saranno in equilibrio con i prezzi.

È un ragionamento questo che e stato ripetuto infinite volte e che non ha condotto ad alcun risultato. Nessuno può affermare infatti che quando la circolazione fosse ulteriormente aumentata da trenta a cinquanta volte, i prezzi permarrebbero al livello delle cinquanta volte: è probabilissimo invece che i prezzi da cinquanta volte salirebbero a cento. (Approvazioni al centro).

È questa un’esperienza universale; è un fatto sicuro, perché la fame di denaro dell’industria deriva dall’aumento dei prezzi e, quando è cominciata la spirale, quando è incominciata ad insinuarsi la sfiducia, il secondo aumento è molto più veloce di quanto non sia quello della circolazione. Vana speranza dunque! Noi non faremmo così se non incancrenire il male, se non renderlo più grave.

E bisogna dire ancora un’altra cosa molto chiara a coloro i quali chiedono denaro attraverso l’aumento della circolazione. Certamente, il perdere il risparmio accumulato è sempre qualche cosa di spiacevole e di dannoso: dannoso al singolo e dannoso alla collettività. Io sono quindi ben lungi dal proclamare, così alla leggera, che si debbano distruggere i capitali esistenti. Il mio concetto è un altro. Io dico che se vi sono industriali, se vi sono società le quali, in passato, hanno messo insieme utili notevoli – se hanno pagato le imposte, gli utili restanti sono di loro proprietà e non ci sono obiezioni da fare; – se dunque costoro hanno realizzato utili notevoli ed hanno investito questi utili in case, in terreni, nell’acquisto di pacchetti d’azioni di altre società, se li hanno investiti in aree fabbricabili o se, supponiamo, li hanno impiegati nell’acquisto di dollari tenuti da parte come riserva, allora io non dico che li debbano buttar via, ma dico che non devono ricorrere all’aumento della circolazione per conservare l’azienda bisognosa di credito. (Vivi applausi al centro e a destra).

È questo un gioco che deve finire. È troppo comodo conservare in beni reali il frutto dei propri utili e poi chiedere allo stato direttamente o indirettamente sovvenzioni in lire per l’esercizio della propria azienda principale. Il meccanismo è chiaro: chiedendo sovvenzioni, quando si sa che le sovvenzioni non possono essere date se non col mezzo dell’aumento della circolazione, si è praticamente certi che quella sovvenzione, quando sarà restituita, se era di un miliardo come potenza di acquisto, sarà restituita in un miliardo nominale, ma quel miliardo nominale varrà soltanto un mezzo o magari un terzo di miliardo come potenza d’acquisto. Si sarà verificata una trasposizione di fortune, da chi a chi? Dalla povera gente che ha risparmiato, che ha depositato i denari (Applausi al centro e a destra), che ha comperato i titoli del debito pubblico (e abbiamo visto poco fa il loro crescere in cifre assolute ed il loro diminuire in potenza d’acquisto), a favore di coloro i quali hanno trovata la elegante maniera sovradescritta di sovvenire ai bisogni delle proprie aziende senza proprio sacrificio. A coloro che chiedono denari allo stato attraverso l’aumento della circolazione bisogna chiedere: Avete prima venduto le case che avete comprato? Avete venduto i terreni? Avete venduto i pacchetti di azioni di altre società? Avete venduto i dollari che avete comprato? (Applausi al centro). Questo è il discorso che deve essere fatto a coloro i quali si lamentano della restrizione del credito.

E non è esatto – è contrario al vero – affermare che vi sia stata una restrizione del credito. Le banche hanno dato tutto ciò che hanno ricevuto, e nei primi sette mesi dell’anno corrente hanno dato anche di più di quello che hanno ricevuto, attingendo ai depositi disponibili che avevano ricevuto prima. Non esiste in realtà alcuna restrizione di credito. Lo stato attraverso i suoi organi non è intervenuto se non per dire: Qui c’è una regola alla quale tutti si devono uniformare; alla quale non solo noi dobbiamo supporre ma siamo certi che i banchieri prudenti si uniformavano già molto tempo prima. È un avvertimento per coloro che sono imprudenti, per evitare che, avendo alcuni commesso qualche atto imprudente, essi trascinino nella loro rovina, che non deve avvenire, anche gli innocenti, con danni universali. Le crisi creditizie rassomigliano alle crisi degli edifici di carte da gioco costruiti dai bambini. Se una carta cade tutto l’edificio rovina.

Non si deve creare credito fabbricando carta; con dei pezzi di carta, con delle cifre, con degli armeggi non si creano risparmi, merci, macchine. I pezzi di carta non sono macchine, non sono fabbricati, non sono scorte.

Il che non vuol dire che il governo si sia rifiutato di intervenire sempre. È di nozione comune l’esistenza di un decreto, dell’8 settembre di quest’anno intitolato: «Fondo per il finanziamento delle industrie naval-meccaniche». Che cos’è questo fondo? Le industrie naval-meccaniche costituiscono un qualche cosa a sé nel mondo industriale italiano. Lo costituiscono anche in quel grande complesso che si chiama I.R.I., Istituto di ricostruzione industriale. Se ne è parlato molto di questo I.R.I., se ne discuterà ancora in avvenire. Io vorrei soltanto far osservare che nella grande massa questo istituto abbraccia aziende sane, solide, le quali non hanno niente da temere. Su un patrimonio che può essere valutato oggi in 99 miliardi di lire, le partecipazioni bancarie figurano per 15, le siderurgiche per 5, le industrie marittime per 12, le telefoniche per 3,5, le elettriche per 11, la Montecatini per 6.5 (è il pacchetto di proprietà dell’I.R.I.), le immobiliari, agricole, alberghiero per 5, le diverse aziende italiane per 6, le diverse aziende estere per 12.

Tutti questi investimenti sono in sostanza investimenti i quali possono essere considerati buoni. L’unico punto nero è quello delle partecipazioni che l’I.R.I. ha nell’industria naval-meccanica, le quali partecipazioni hanno già dato luogo – secondo i criteri del commissario ingegnere Longo – ad una svalutazione di 20 miliardi su un attivo totale di 33,5 miliardi.

Perché esiste una situazione difficile nell’industria cantieristica meccanica? In fondo la difficoltà deriva dal fatto che questa è veramente la sola grande industria italiana la quale ha dovuto e deve procedere ad un processo costoso di riconversione dall’industria bellica all’industria di pace. Un’industria alberghiera, una banca, un’industria telefonica, un’industria elettrica, sono industrie le quali avranno bisogno di ricostruire le cose distrutte, ma non di riconvertirsi. Esse continuano su per giù ad adempiere i medesimi fini a cui adempivano prima. Invece, le industrie naval-meccaniche, che prima costruivano cannoni e navi da guerra, si trovano a dover attuare una profonda trasformazione; trasformazione che ebbe ed ha luogo in mezzo a difficoltà gravi in parte determinate dal fatto che il personale è divenuto esuberante. Già prima della liberazione esso era esuberante; esso crebbe anche dopo. L’aumento del personale oltre il necessario fa sì che non solo si debbono pagare salari a vuoto (si calcola che le industrie dell’I.R.I. subiscano, ogni anno, una perdita in salari pagati a vuoto da 15 a 18 miliardi di lire); non solo – dicevo – vi sono salari pagati a vuoto, ma vi sono le difficoltà di trovar ordinazioni. Spesso l’ansia di trovar nuovo lavoro conduce all’assunzione di commesse a perdita o alla creazione di reparti i quali, non essendo altro che doppioni di altre aziende già esistenti, non trovano se non difficilmente da poter collocare i propri prodotti. Tutto ciò rende necessario un lavoro complesso per risanare l’azienda.

Il male non è proprio delle aziende navalmeccaniche che appartengono all’I.R.I., ma anche di quelle analoghe che non appartengono all’I.R.I. Tutte sono sottoposte alla difficoltà di riconversione dell’industria di guerra in industria di pace. È naturale che in questo clima di difficoltà parecchi dirigenti si siano disgustati; in parecchie di queste aziende si è quindi verificata una fuga di tecnici, che sono passati ad altre aziende o sono emigrati all’estero per trovare altre vie più proficue e meno agitate di attività.

È certo dunque che l’industria naval-meccanica si trova in condizioni di difficoltà; ma non è una soluzione del problema far dare del denaro indiscriminatamente dallo stato soltanto perché talune imprese si trovano nella necessità di dovere aver denari di giorno in giorno, da un giorno all’altro, per poter fare la paga degli operai, o per pagare il carbone, o l’acciaio e il ferro di cui hanno bisogno. La soluzione deve essere ragionata.

Di qui la creazione del fondo per le industrie naval-meccaniche. In apparenza il fondo segue le tracce di due altre provvidenze che sono conosciute nel mondo degli industriali, coi numeri 367 e 449, i due decreti con cui furono concessi 38 miliardi di sovvenzioni.

Ma questa è solo l’apparenza. La realtà è diversa. La realtà si vede esaminando quali sono le caratteristiche con cui il fondo, secondo il decreto istitutivo, deve essere amministrato. Innanzitutto non è amministrato direttamente dal governo. I due decreti 367 e 449 presentavano lo svantaggio che coloro che avevano bisogno di denaro dovevano andare a tirar la giacca ai ministri del tesoro e dell’industria del tempo per cercare di strappar loro denaro.

Ma le persone di governo, i ministri non sono banchieri. Pur essendo ed essendo stati tutti persone degnissime, fa d’uopo riconoscere che essi non posseggono l’attrezzatura necessaria per poter giudicare se una domanda di credito sia legittima o no. Si è voluto perciò questa volta che, pur venendo in aiuto alle industrie naval-meccaniche, l’aiuto fosse concesso con gli stessi rigidi criteri che sono seguiti dalle banche. L’amministrazione del fondo, trattandosi di denaro dello stato, non poteva non essere pubblica. Ma in questa amministrazione non ci sono più ministri: c’è un Comitato composto di 7 persone, di cui 4 funzionari che, per la loro natura, hanno un grado notevole d’indipendenza dalla politica – di questo io posso esser garante – e di altri tre esperti. Uno di essi è l’onorevole Tremelloni, che tutti conosciamo per la diligenza che mette hello studio dei problemi che gli sono affidati. Apprezzandolo ormai da un quarto di secolo, perché ho avuto l’onore di essere suo professore all’Università commerciale Bocconi di Milano, valuto grandemente lo scrupolo e la diligenza che egli pone nell’esame dei problemi che dovrà esaminare.

Un secondo membro del Comitato è il professor Ernesto Rossi, oggi presidente dell’A.R.A.R., e che, in questa qualità, si è procacciato molti odi che, a mio parere, gli fanno molto onore. L’A.R.A.R. è infatti la sola istituzione di quel tipo esistente in Europa la quale sia riuscita a dare decine di miliardi al tesoro vendendo le merci che le erano state affidate. In altri paesi istituzioni congeneri, sempre nell’ansia di sapere se si sarebbero regolate bene o male, se questo o quel residuato avrebbe dovuto essere venduto al più alto offerente o distribuito secondo criteri pubblici, hanno lasciato disperdere o guastare il materiale che era stato loro consegnato dagli alleati.

Invece l’A.R.A.R. ha dato decine di miliardi allo stato e ha permesso che corressero sulle strade d’Italia circa 200 mila automezzi, che sarebbero altrimenti rimasti ad arrugginire nei campi. Taluno avrebbe voluto distruggere o inutilizzare gli automezzi, per paura della concorrenza alle fabbriche italiane. Rossi non ha avuto questa paura, procacciando in definitiva, grande vantaggio a consumatori ed a produttori. Quanto più numerosi sono infatti i veicoli che corrono per le strade d’Italia, tanto più aumenta la necessità di produrre pezzi di ricambio, ed alla fine, quando il veicolo straniero è logoro, si vede la convenienza di seguitare a servirsi di automezzi. Sicché coloro che hanno avuto la possibilità di acquistare dall’A.R.A.R. automezzi americani saranno poi costretti a ricorrere alla Fiat e alle alti e fabbriche italiane per rinnovare il loro materiale.

Il professore Rossi è dunque il secondo degli uomini a cui è affidata la gestione del fondo.

Il terzo è il professore Ferrari Agradi, che molti conoscono nella qualità di segretario generale del C.I.R. e relatore preciso sui problemi presentati all’esame di questo comitato interministeriale. Informatissimo dei problemi dell’industria italiana, è uno di coloro che hanno preparato i piani presentati nei consessi internazionali per i prestiti all’Italia.

lo confido che queste tre persone, insieme con i quattro alti funzionari ex-ufficio, eserciteranno il loro compito come la legge lo dichiara. La legge che cosa dice? La legge, all’articolo 5, dice che per l’attuazione del fondo si potranno in primo luogo effettuare operazioni di finanziamento a favore delle imprese per i loro programmi di esportazioni mediante corresponsione di anticipi in moneta nazionale al cambio corrente e contro cessione totale o parziale dei crediti derivanti dalle forniture relative, con l’osservanza delle norme valutarie. Ciò vuol dire che se c’è un industriale che ha ricevuto commesse dall’estero, che perciò ha titolo per ricevere dollari, li potrà vendere al fondo al cambio corrente, anche se i dollari non sono ancora esigibili. Così la partita è chiusa. Se il dollaro, per esempio, aumentasse di prezzo, godrà il fondo del vantaggio dell’aumento dei prezzi. Quindi coloro che chiedono un credito non potranno speculare sulla svalutazione della lira e sull’aumento di prezzo del dollaro.

In secondo luogo il fondo potrà garantire l’aumento di capitale delle imprese e sottoscrivere ed acquistare nuove azioni. Il fondo può così rendersi acquirente di azioni, che la società emittente ha diritto di riacquistare contro un termine da fissarsi di comune accordo, ma non al prezzo di sottoscrizione. Se il fondo ha pagato le azioni cento, la società, che le voglia acquistare, le dovrà pagare quanto varranno al momento del riscatto. Se varranno 120 o 150 lire dovrà pagarle 120 o 150. Correrà esso il rischio che, se varranno di meno, verranno pagate di meno. Ad ogni modo il congegno è fatto in maniera che non sia possibile ottenere prestiti in lire che oggi valgono tot, e rimborsare i prestiti in lire che valgano meno. Le azioni sottoscritte dal fondo potranno essere riscattate, ma al prezzo che le azioni varranno quando saranno riacquistate dagli azionisti.

In terzo luogo il fondo potrà facilitare le imprese nella smobilitazione delle loro partecipazioni in altre imprese di diversi settori, sia acquistando direttamente tali partecipazioni per alienarle successivamente, sia assumendo il mandato di alienarle a determinate condizioni. Se qualcuno perciò andrà al fondo e dirà: sì, io avrei intenzione di vendere tale o tal’altro pacchetto di azioni che sta all’infuori della mia società, ma non mi è comodo o non mi è possibile venderle oggi; il fondo dirà: ti aiuto io a venderle. Le assumo io, per venderle poi; o mi incarico io di venderle per tuo conto alle condizioni da stabilirsi. Gli industriali non potranno più ottenere prestiti dallo stato a spese della circolazione, e al tempo stesso, tenere per sé i buoni investimenti fatti in passato. Se vogliono ottenere un prestito dal fondo dovranno anche essi contribuire al proprio salvamento.

Finalmente il Comitato ha il diritto (art. 6) di stabilire che le operazioni che esso farà siano subordinate alla prestazione di determinate garanzie ed alla attuazione di provvedimenti di riassetto economico industriale delle singole intraprese. Ciò vuol dire che non si darà la sovvenzione all’intrapresa che la chiede, soltanto perché promette di rimborsare – e magari rimborserà, ma si dirà: «noi diamo la sovvenzione; ma tu hai cinque reparti di cui tre vanno bene ed hanno un avvenire, mentre due vanno male; chiudi quei due reparti a poco a poco, in modo da non perdere troppo, ma metti la tua industria in ordine».

L’aiuto che si dà all’industria meccanica è un aiuto condizionato al risanamento dell’industria stessa, ed è condizionato all’apporto che i proprietari delle intraprese dànno al risanamento medesimo.

Quest’industria meritava di non morire. È una industria che presenta alcuni aspetti importantissimi; richiede molta mano d’opera specializzata, abile, per cui gli italiani hanno un genio particolare. È una industria la quale in passato ha ottenuto risultati notevoli. Vale la pena di fare un tentativo per risanarla e metterla in condizioni di vivere da sé. Non valeva la pena però di dare denari indiscriminatamente perché fossero consumati di giorno in giorno senza lasciare traccia.

Onorevoli colleghi! Riassumiamo ora, concludendo, i fatti susseguitisi in questi quattro ultimi mesi. Il bilancio ha sopportato, col gettito maggiore delle nuove imposte, l’aumento delle spese cagionate da provvedimenti imposti dalla necessità o da leggi vigenti. I prezzi sono aumentati, sì, ma in proporzione minore dell’aumento della circolazione. Nel periodo dal maggio all’agosto la circolazione è aumentata del 5,05 per cento. I prezzi sono aumentati solo del 4,60 per cento; ed i salari dell’8,96 per cento; cosicché la potenza di acquisto dei salari – secondo le statistiche dell’Istituto centrale – nel mese di agosto può essere calcolata al 93 per cento di quello che era la potenza di acquisto dei salari del 1938.

Vi sono differenze enormi fra categoria e categoria di lavoratori su cui qui sarebbe fuor di luogo dilungarsi. In media, il salario non è ancora arrivato ad avere la stessa potenza di acquisto del 1938; ma ricordiamo che la produzione, ossia la torta comune che deve essere divisa fra tutti i cittadini, non è arrivata al 93, sta bene al disotto. La torta comune sarà – poniamolo ottimisticamente – l’80 per cento di quella che era nel 1938, sicché si può concludere che oggi la quota, che nella torta comune spetta ai lavoratori, è una quota proporzionalmente più alta di quella che era nel 1938. La speranza, si potrebbe quasi dire la certezza, di poter tornare di nuovo al tenore di vita del 1938 e di sorpassarlo è dunque una speranza ed una certezza che riposano esclusivamente sull’aumento della produzione. Se la produzione aumenterà dall’80 per cento al 90 per cento, possiamo esser certi che la quota che spetterà alla parte lavoratrice non sarà soltanto una quota proporzionalmente superiore a quella che le spettava in confronto alle altre classi sociali nel 1938, ma anche tale, da consentire ai lavoratori di condurre una vita migliore di quella che conducevano nel 1938.

Un altro indice, che non dobbiamo dimenticare è quello del corso dei cambi. So bene che esso è imperfetto ed è determinato anche dall’opera delle autorità governative. È un indice che tuttavia qualcosa ci dice: il dollaro di esportazione, che tra il gennaio ed il febbraio di quest’anno era di 538, e nella prima metà di maggio era salito a 900 ed il 13 maggio raggiunse 950, e questa fu la punta massima, nel giugno comincia a discendere: 830-850; il 7 luglio cade a 745; il 15 luglio a 700, il 1° settembre a 600, il 10 settembre a 650 ed ancora oggi il corso dei cambi è su 650. Ed il corso della cosiddetta borsa nera segna le stesse variazioni, dimostrando che l’apprezzamento del pubblico in genere è più favorevole di prima alla lira. Dipende da noi fare in modo che il corso dei cambi si stabilizzi, in guisa tale che la moneta non abbia più da subire né inflazioni né deflazioni. Sono questi due mali opposti che, per le conseguenze che producono, sono ugualmente gravi. L’inflazione produce, con l’arricchimento di pochi, la distruzione delle classi medie ed il disordine sociale; la deflazione produce le crisi economiche e la disoccupazione operaia. Quindi noi dobbiamo fare tutti gli sforzi possibili per evitare sia l’uno che l’altro dei due mali. I mezzi per raggiungere il risultato dipendono in parte dall’azione del Governo; ma fortunatamente dipendono anche dagli italiani.

Io voglio qui tributare al risparmiatore italiano una parola di riconoscimento simile a quella che il collega Pella ha tributato l’altro giorno al contribuente italiano. Il ministro Pella ha detto che doveva ringraziare il contribuente italiano per la pazienza ed il sacrificio con cui si sottopone al duro aumento d’imposte che si va verificando oggi, e che è un aumento – come ho detto al principio del mio discorso – il quale non trova paragone in paesi in cui sembra si paghino imposte maggiori. In un paese povero pagare il 25 per cento d’imposta è un sacrificio di gran lunga maggiore del pagare lo stesso 25 per cento in un paese ricco. Accanto alla lode del contribuente italiano, debbo tributare una parola di elogio al risparmiatore italiano. Nonostante tutte le svalutazioni e nonostante lo scoraggiamento, che il vedersi diminuire fra le mani il valore reale dei risparmi compiuti produce in ogni persona, il risparmiatore italiano ha seguitato a risparmiare.

Intendo qui per risparmio soltanto una parte di esso, quella parte cioè che risulta da dati noti: aumento di depositi nelle banche o casse di risparmio, ordinarie e postali, aumento delle sottoscrizioni in buoni del tesoro, aumento netto delle sottoscrizioni in titoli di debito pubblico e in cartelle ed obbligazioni, aumento netto del capitale delle società per azioni. Tengo conto solo di questi dati visibili, trascurando perciò quella parte di risparmio che i risparmiatori italiani fanno direttamente. Ed i risparmiatori italiani fanno molti risparmi diretti. Quando un contadino nella sua stalla ricostituisce i capi di bestiame che aveva prima e che la guerra gli aveva portato via, costui fa un risparmio, che non risulta da nessuna statistica. Quando uno ha avuto una casa incendiata da qualche bomba e se la ricostruisce con i propri mezzi, questo è risparmio, anche se non figura in nessuna statistica.

Tenendo conto solo delle parti visibili, nel 1938 i risparmiatori italiani avevano risparmiato 11 miliardi e 582 milioni, nel 1939, 13 miliardi e 983 milioni; nel 1945, 354 miliardi; nel 1946, 521 e nel primo semestre del 1947, 241. Le cifre del risparmio nuovo degli ultimi anni in lire italiane sono però troppo grosse e procacciano illusioni, derivanti dal nominalismo monetario. Il confronto non si può fare in lire italiane, ché si tratta di lire non paragonabili. Ho perciò tradotto le cifre in dollari attuali 1947. Il risultato è il seguente: nel 1938 i risparmiatori italiani avevano risparmiato 938 milioni di dollari; nel 1939 1086; ma nel 1945, 1405; nel 1946, 1478, e nel primo semestre del 1947, 449 milioni di dollari. Il ritmo del risparmio sembra diminuire nel primo semestre del 1947, sia nominalmente in lire, sia in moneta stabile. È una diminuzione reale od è uno spostamento dal risparmio visibile a quello che non risulta dalle statistiche? Si può dire, ad ogni modo, che il risparmiatore italiano oggi, dopo tante distruzioni, non ha risparmiato meno di quello che risparmiava nell’ante-guerra. Il risparmiatore italiano, con i suoi mezzi, ha provveduto a che si ricostruissero le ferrovie, si rifacessero le strade; ha compiuto un’opera che, domani, quando sarà considerata nel suo complesso, dovrà essere definita grandiosa. Esso, bisogna riconoscerlo, non avrebbe potuto ricostruire – risparmiare vuol dire ricostruire, è la premessa e la sostanza medesima della ricostruzione – se non fosse stato aiutato nel frattempo a vivere, a mangiare e vestire, dai soccorsi americani. Ma gli italiani non si sono adagiati passivamente ai soccorsi altrui. Se ne sono dimostrati degni, faticando a ricostruire, risparmiando, per potere in avvenire fare da sé. Se noi togliamo al risparmiatore italiano la paura di perdere il valore reale dei suoi risparmi, io ho fiducia che il risparmiatore italiano risparmierà ancor oggi e domani più di quello che abbia risparmiato in questi anni così difficili. E risparmiando ancora di più, dopo aver provveduto alla prima e più dura opera della ricostruzione, sarà in grado di ottenere due risultati: quello di permettere che si compiano con i nostri sforzi altre opere grandiose, le quali faranno sì che l’Italia possa da qui a qualche anno vivere meglio di oggi, e di fornire agli stranieri la prova che noi, risparmiando, meritiamo di avere nel frattempo tutto quel credito che noi chiediamo e che ci è necessario per poter sormontare le difficoltà presenti. (Applausi a destra e al centro – Molte congratulazioni).

PRESIDENTE. È iscritto a parlare l’onorevole Ministro dell’interno. Ne ha facoltà.

SCELBA, Ministro dell’interno. Onorevoli colleghi, a tranquillizzare l’Assemblea dichiaro che sarò brevissimo nella mia esposizione.

Aveva ragione l’onorevole Pajetta ieri sera, quando affermava che, allorché si tratta di attentati alle libertà democratiche, l’importanza non è nel numero, ma è nella qualità. Aveva ragione, perché anche un solo attentato, volontario, alle libertà democratiche è un fatto estremamente grave e di cui l’Assemblea Costituente che è custode geloso di queste libertà, ha il dovere di occuparsi. Ed il Ministro dell’interno è stato accusato di avere violato ripetute volte le libertà democratiche.

L’onorevole Togliatti ha parlato lungamente nel suo discorso, al quale io non potetti assistere, non per mancanza di riguardo verso l’oratore, ma perché i suoi amici non hanno molto riguardo verso il Ministro dell’interno, il quale è obbligato il più delle volte ad assentarsi dall’Assemblea per provvedere alla sicurezza dei cittadini. (Applausi al centro – Interruzioni a sinistra). Tuttavia ho letto attentamente, come meritava il discorso dell’onorevole Togliatti. E le accuse ch’egli ha formulato contro il Ministro dell’interno si riassumono in tre capi.

Primo capo d’accusa: attentato alle libertà di stampa. Il Ministro dell’interno è intervenuto per vietare l’affissione di manifesti con i quali si criticava l’azione del Governo. L’attentato sarebbe nella pretesa del Ministro dell’interno di negare all’opposizione la facoltà di critica del Governo, anche a mezzo di manifesti murali.

Veramente, il Partito comunista è il meno adatto ad assumere la posizione di vittima nella vita politica italiana, perché, se c’è un partito in Italia che gode di tutte le libertà democratiche e si consente la libertà di violare quelle altrui, è precisamente il Partito comunista. (Applausi al centro – Commenti all’estrema sinistra).

Una voce a sinistra. Vogliamo le prove!

Una voce al centro. Fate un giro per i comizi di Roma! (Rumori a sinistra).

PRESIDENTE. Facciano silenzio!

SCOTTI FRANCESCO. E l’onorevole Scelba faccia il Ministro!

PRESIDENTE. Scusi onorevole Scotti, mi pare che l’onorevole Scelba stia facendo il Ministro, rispondendo alle accuse. (Applausi al centro – Commenti all’estrema sinistra).

SCELBA, Ministro dell’interno. È a tutti noto, anche ai rappresentanti del Partito comunista, che mai in Italia nessuna manifestazione comunista è stata disturbata.

Una voce a sinistra. E in Sicilia?! (Commenti all’estrema sinistra).

GIACCHERO. Neanche il figlio di Matteotti può più parlare! (Commenti all’estrema sinistra – Scambio di apostrofi fra il centro è l’estrema sinistra – Interruzioni del deputato Li Causi).

PRESIDENTE. Onorevole Li Causi! Onorevoli colleghi! Io desidero sapere se c’è o no l’intenzione che il Ministro dell’interno parli. (Interruzione del deputato Amendola). Onorevole Amendola, non interrompa, non sta lei a dire come il Ministro debba rispettare l’Assemblea.

Onorevoli colleghi, non mi mettano nella condizione di dovere applicare il Regolamento. Il Ministro dell’interno ha atteso a parlare sino a questo momento ed ha diritto di parlare. (Interruzione del deputato Farina). Onorevole Farina, lei ha un precedente in proposito: se ne rammenti. Onorevole Scelba, continui a parlare. Faccio appello al senso di comprensione dell’Assemblea. (Commenti). Onorevoli colleghi, l’onorevole Scelba fa parte dell’Assemblea. (Approvazioni).

SCELBA, Ministro dell’interno. Soltanto nella giornata di ieri, tre oratori del Partito socialista dei lavoratori italiani non hanno potuto parlare in Roma e un comizio della Democrazia cristiana è stato impedito, ed erano stati organizzati persino dei bambini per fischiare. (Commenti a sinistra).

Una voce al centro. La verità brucia. (Commenti a sinistra – Interruzione del deputato Li Causi).

PRESIDENTE. Onorevole Li Causi, la parola è al Ministro dell’interno: non credo che sia lei il Ministro dell’interno.

SCELBA, Ministro dell’interno. E vengo alla prima accusa sollevata dall’onorevole Togliatti contro il Ministro dell’interno, cioè il divieto dei manifesti. L’onorevole Togliatti si è lamentato di questo divieto: io potrei rispondere che l’autorizzazione o meno per l’affissione dei manifesti è di competenza dei questori e non del Ministro dell’interno: ma il Ministro dell’interno assume la sua responsabilità politica…

PAJETTA GIULIANO. Avete mandato i telegrammi.

SCELBA, Ministro dell’interno. …assume la sua responsabilità politica nei confronti degli organi esecutivi provinciali ed è in grado di poter difendere per suo conto quello che è stato l’operato in questo campo. La facoltà dei questori di autorizzare o di non autorizzare l’affissione di un manifesto deriva dall’articolo 113 della legge di pubblica sicurezza.

Voce a sinistra. Fascista!

ANDREOTTI, Sottosegretario per la Presidenza del Consiglio dei Ministri. C’era anche prima.

SCELBA, Ministro dell’interno. Se loro avessero, onorevoli colleghi, una più approfondita conoscenza della legislazione italiana, saprebbero che un’analoga disposizione si trova nel testo unico della legge di pubblica sicurezza del 1889 approvata dalla Camera dei deputati. (Applausi al centro – Commenti).

Questa legge, onorevoli colleghi, ha governato l’Italia fino all’avvento del regime fascista; perché è stato il regime fascista a modificare questo testo unico, apportando anche in questo campo delle limitazioni più confacenti al regime dittatoriale che si andava affermando in Italia fin dal 1926, con le prime disposizioni limitative della libertà. Ma il diritto dell’autorità di concedere la licenza per l’affissione dei manifesti – ripeto – è stato un diritto riconosciuto da Assemblee democratiche, o che non è stato mai contestato.

Dice l’articolo 65 del testo unico della legge di pubblica sicurezza del 1889, al quale testo unico io mi riferisco tutte le volte che la mia coscienza democratica… (Interruzioni a sinistra).

Una voce al centro. Avete forse soltanto voi la coscienza democratica?

SCELBA, Ministro dell’interno. …trova dei dubbi di interpretazione.

«Salvo quanto dispone la legge sulla stampa dei giornali periodici, nessuno stampato o manoscritto può essere affisso o distribuito in luogo pubblico od aperto al pubblico, senza la licenza dell’autorità locale di pubblica sicurezza.

Sono esclusi da questa prescrizione gli stampati e manoscritti dell’autorità e pubbliche amministrazioni e quelli relativi a materie elettorali, ad affari commerciali ed a vendite o locazioni.

Le affissioni devono farsi nei luoghi designati dall’autorità competente».

(Interruzioni all’estrema sinistra).

Si tratta di vedere se l’esercizio di questo potere, che deriva dalla legge, è stato un esercizio abusivo, è stato un esercizio in contrasto col clima democratico che vige in Italia.

Ora, il manifesto principale che ha dato luogo alle proteste del Partito comunista è il manifesto intitolato «Il doppio gioco». Questo manifesto fu affisso senza licenza dell’autorità; anzi, la licenza non fu chiesta, perché, evidentemente, se ne riconosceva il carattere inammissibile. (Interruzioni a sinistra)

PAJETTA GIULIANO. Perché anche la Democrazia cristiana non l’ha chiesta.

SCELBA, Ministro dell’interno. L’ha chiesta, la Democrazia cristiana! Se ne riconosceva – dicevo – il carattere inammissibile; perché in tutte le provincie d’Italia fu affisso clandestinamente, senza licenza dell’autorità.

Basterebbe questo solo fatto, perché l’autorità di pubblica sicurezza avesse il diritto di intervenire per far rimuovere il manifesto. Dico che in Italia 88 questori su 90, senza particolari istruzioni, rifiutarono l’autorizzazione, quando questa autorizzazione fu richiesta.

E l’autorizzazione fu negata… (Interruzioni del deputato Togliatti).

PRESIDENTE. Onorevole Togliatti, la prego, non interrompa.

SCELBA, Ministro dell’interno. …persino dalle autorità alleate di Udine e di Gorizia (Interruzioni e commenti a sinistra).

Una voce al centro. Pur essendo imparziali!

SCELBA, Ministro dell’interno. Le autorità alleate di Udine e di Gorizia erano le autorità di Paesi che si chiamano Inghilterra, che si chiamano America, in cui la democrazia politica non è un’espressione vana, ma una realtà che ha la sua base in conquiste popolari secolari. (Interruzioni all’estrema sinistra).

E se le autorità, se rappresentanti di queste democrazie negavano l’autorizzazione a quel manifesto, avevano le loro ragioni così come le avevano le autorità italiane.

Si è ricorso perfino all’inganno: si disse alle autorità alleate (ed anche ad altre autorità, ai questori italiani che rifiutavano il visto) che il Governo italiano aveva autorizzato a Roma il manifesto.

Di fronte a quest’affermazione, le autorità alleate concessero il visto, che fu revocato allorché fu chiarito che nessuna autorizzazione era stata data in Italia.

Quindi è chiaro che il Partito comunista era talmente convinto del valore intrinseco di questo documento (Interruzioni all’estrema sinistra), che la sua prima azione è stata quella di affiggerlo clandestinamente, in violazione delle leggi.

E perché l’autorità di pubblica sicurezza ha negato il visto al manifesto? Nonostante le continue accuse che vengono indirizzate al Ministro dell’interno dall’estrema sinistra, il Ministro dell’interno, in questo settore (e lo dimostrerò a mano a mano che esaminerò le altre accuse) ha agito col massimo scrupolo, si è premunito e si è preoccupato di domandare perfino il parere dell’ufficio legale del Ministero di grazia e giustizia sul contenuto del documento. E all’ufficio legale vi sono altissimi magistrati, i quali hanno l’abitudine critica ed il senso dell’autonomia di giudizio e del rispetto di se stessi (Applausi al centro e a destra), magistrati che già furono collaboratori dell’onorevole Togliatti come dei successivi Guardasigilli.

E l’ufficio legislativo (ho qui il testo del suo parere) opinò che nel manifesto in questione potevano ravvisarsi il vilipendio del Governo e la diffamazione dei singoli Ministri. (Interruzione all’estrema sinistra).

LACONI. Non vi siete mai accorti che erano Ministri Togliatti e Sereni quando diffamavate i nostri Ministri!

PRESIDENTE. Onorevole Laconi, per favore non interrompa.

SCELBA, Ministro dell’interno. Se questo, onorevoli colleghi, era il contenuto del manifesto, se dei giuristi di valore indiscutibile affermavano che in questo manifesto c’erano dei reati di diffamazione e di vilipendio…

Una voce a sinistra. Potevate dare querela!

SCELBA, Ministro dell’interno. …nessuna autorità politica poteva consentire la pubblicazione di un manifesto, che in sé conteneva determinati e specifici reati, senza rendersi complice di questi reati!

Questo, onorevoli colleghi, mi pare troppo chiaro.

Io ho letto le argomentazioni dell’onorevole Togliatti a proposito dell’articolo 290. L’articolo 290 parla di «vilipendio del Governo del re»; ma questo, dice l’onorevole Togliatti, non è il Governo del re. (Si ride); quasi che il vilipendio fosse ammesso a seconda che il Governo sia del re o della Repubblica; quasi che fosse legittimo vilipendere le istituzioni repubblicane. (Vivi applausi al centro – Proteste a sinistra).

BELLAVISTA. C’è più sincerità in noi nell’accettare la Repubblica che in voi a dichiararvi democratici. (Commenti all’estrema sinistra).

SCELBA, Ministro dell’interno. Ora, la repressione del vilipendio del Governo come tale non deriva da una legge di oggi. Anche il vecchio codice Zanardelli – un uomo di parte democratica – aveva una precisa disposizione in materia, e puniva lo stesso fatto con pene abbastanza rilevanti, dato il clima e il tempo in cui quelle sanzioni venivano sancite.

L’articolo 126 del codice penale del 1889 dice: «chiunque pubblicamente vilipende le istituzioni costituzionali dello Stato è punito con la detenzione fino ad un anno». (Interruzioni all’estrema sinistra).

Ora, onorevoli colleghi, tutto può pretendersi da Governo, tutto può pretendersi da un’autorità, ma non si può pretendere che si vilipendi e si insulti quell’autorità col visto dell’autorità medesima. (Si ride).

Questo non è interesse di nessuno, né interesse della democrazia (Interruzioni a sinistra).

L’onorevole Togliatti mi ha domandato: «che fine ha fatto il progetto Romita di riforma della legge di pubblica sicurezza, e perché ci serviamo ancora di una legge fascista».

Io potrei osservare che anche l’articolo 290 del Codice penale esisteva quando l’onorevole Togliatti era Guardasigilli; e domandare a lui perché non ha provveduto a sopprimerlo. Ma posso assicurare l’onorevole Togliatti che non è per colpa del Ministro dell’interno se il progetto Romita non è andato avanti. È stato il Consiglio di Stato che, con un motivato parere, ha dichiarato che sembrava intempestiva la riforma della legge di pubblica sicurezza prima che la Costituente avesse fissato i cardini fondamentali ed i diritti dei cittadini, i quali nella legge di pubblica sicurezza trovano la garanzia concreta di esercizio. Io, quindi, non ho potuto far altro che proseguire gli studi che, sotto la presidenza degli onorevoli Corsi e Spataro, erano stati iniziati nel passato e preparare tutto il materiale, seguendo passo passo l’attività della Costituente, da sottoporre al futuro Parlamento per la riforma.

E veniamo alla seconda accusa: il divieto dei comizi nelle fabbriche. Ieri l’onorevole Matteotti, mi pare, non ha potuto parlare alla Snia Viscosa, in un comizio politico in preparazione delle elezioni.

Di questo argomento se ne parlò alla Camera allorché fu nota la disposizione limitativa; ed in quel momento furono precisati anche i limiti del divieto, divieto che non riguardava, come si disse, e come è pacifico, il diritto sindacale. Nessuno aveva mai pensato di negare ai lavoratori di potersi riunire nell’interno degli stabilimenti per trattare di tutti i loro problemi sindacali e, in questa sede, di criticare (l’onorevole Di Vittorio ha affermato una cosa inesatta in un suo articolo) anche il Governo, per quanto abbia nesso alla politica sindacale.

Io non nego, infatti, che anche in sede sindacale si possa criticare l’azione del Governo. Ma che cosa noi abbiamo voluto disciplinare più che impedire totalmente? Abbiamo voluto affermare con quella disciplina una esigenza di libertà che sorgeva dall’esperienza concreta; e l’esperienza concreta era questa, che nelle fabbriche avevano diritto di parlare soltanto determinati uomini; che nelle fabbriche esisteva ed esiste una coazione morale nei confronti delle minoranze che non la pensano come le maggioranze… (Applausi al centro – Interruzioni a sinistra – Commenti).

I lavoratori cristiani – e ammettete, onorevoli colleghi dell’estrema sinistra, che un ministro democristiano si preoccupi anche di tutelare la libertà dei lavoratori cristiani – i lavoratori cristiani di Milano, esaminando le disposizioni che erano state impartite in materia, hanno affermato la loro solidarietà piena con il Ministro dell’interno, con espressioni assolutamente inequivocabili: «Approviamo incondizionatamente ritenendo d’interpretare con certezza la volontà di tutti lavoratori cristiani le disposizioni Ministro Scelba in ordine ai comizi politici che l’esperienza ha già dimostrato essere antitetici alla serenità dello sforzo produttivo ed alla tranquillità sociale delle categorie lavoratrici». (Interruzione del deputato Laconi).

L’onorevole Togliatti ha affermato che i lavoratori si sono conquistato questo diritto; dalle fabbriche sono sorti i movimenti popolari e che non si possono negare a una parte di cittadini le libertà politiche.

Ora, onorevole Togliatti, penso che quando i lavoratori nell’interno delle fabbriche operavano politicamente erano i lavoratori di tutte le tendenze, e ciò avveniva nel momento politico in cui non era dato di poter svolgere liberamente i diritti politici, compreso quello di riunione o di associazione. E tutti facevamo della politica dove si poteva: nelle aule dei tribunali come nelle fabbriche.

Ma oggi i lavoratori italiani, come tutti i cittadini italiani, hanno diritto di adunarsi pacificamente nelle piazze, nei teatri, nei cinematografi. Impedire o regolare o disciplinare, per garantire a una minoranza la libertà politica, il diritto di tener comizi interni nelle fabbriche, significa limitare, negare, a una parte del popolo la libertà di riunione e di associazione? Voi avete lo stesso diritto di tutti i cittadini: ne reclamate uno particolare. E questo diritto può essere anche riconosciuto, ma va disciplinato nel senso che non si tramuti in tirannia e in terrorismo psicologico presso le masse. (Interruzioni – Commenti).

LUSSU. Quale disposizione avete dato per quella parte del clero che fa comizi in Chiesa?

CIMENTI. I sacerdoti hanno fatto contradittori in piazza, non in Chiesa.

SCELBA, Ministro dell’interno. Abbia la pazienza di ascoltarmi, onorevole Lussu. Se l’onorevole Lussu segnalerà la violazione di leggi in materia…

LUSSU. I questori sono al corrente di tutto.

Una voce al centro. Non è vero.

SCELBA, Ministro dell’interno. Il Governo, come fa osservare o si sforza di far osservare altre leggi, farà osservare la legge anche in questo campo.

Ma, onorevoli colleghi, il Governo ha così poca voglia di servirsi del suo potere ed io, che in questo momento esprimo il potere esecutivo nella sua branca più sensibile, ho tale avversione al potere che è concesso al Ministro dell’interno, che ho fatto approvare nell’ultimo Consiglio dei Ministri un decreto con cui il potere esecutivo rinuncia all’esercizio del suo potere in materia. Io ho compreso, attraverso l’esperienza, che il potere esecutivo può abusare del suo potere e limitare la libertà dei cittadini, anche se nei casi concreti questo abuso – lo affermo in piena coscienza – non c’è stato; io ho compreso il valore potenziale che presenta questa disposizione della legge di pubblica sicurezza.

Sensibile alle esigenze profonde di libertà ho voluto che, contro l’esercizio del potere esecutivo in materia di affissioni, fosse data ai cittadini ed ai partiti la possibilità di ricorrere ad un altro potere; perché se oggi un questore nega un permesso, contro chi si può ricorrere? Al prefetto ed al Ministro, che è corresponsabile o l’ispiratore della politica dei questori e dei prefetti, e non c’è evidentemente che una sola garanzia; la garanzia democratica del controllo parlamentare, spesso tardivo. Ma tuttavia ho riconosciuto il valore fondamentale della libertà di manifestazioni murali ed ho voluto che contro la possibilità di abusi fosse data a tutti la facoltà di ricorrere ad un altro potere; e con la legge approvata nell’ultimo Consiglio dei Ministri è stato stabilito che contro il divieto del questore di concedere l’autorizzazione per i manifesti politici, si può ricorrere al Procuratore della Repubblica. L’articolo 1 del decreto che abbiamo approvato dice testualmente: «I provvedimenti dei questori che importino diniego dell’autorizzazione prevista…».

PAJETTA GIAN CARLO. Perché non abolite l’articolo 290?

SCELBA, Ministro dell’interno. Lo faremo poi, ma oggi dobbiamo prendere qualche garanzia contro la legge di pubblica sicurezza; «…sono impugnabili con il ricorso al Procuratore della Repubblica competente per territorio, che decide immediatamente e, comunque, non oltre 48 ore dalla presentazione, senza l’osservanza di formalità». (Commenti). Ho voluto che contro la possibilità di abusi da parte dei questori a tutti fosse data la facoltà di ricorrere ad un’autorità estranea al potere esecutivo, ed affinché la legge non diventasse un trucchetto per portare le cose alle lunghe, ho detto che i Procuratori della Repubblica debbono decidere immediatamente ed entro 48 ore e senza formalità di sorta. Perché la libertà ha diritto di essere tutelata immediatamente.

Ed allora, onorevoli colleghi, dire che il Ministro voglia abusare non è vero perché non c’è stato il fatto, e neppure esiste la volontà di farlo perché un Ministro che, innovando in tutta la legislazione passata, fascista e prefascista, rimette ad un altro potere, giudiziario, che noi vorremmo sempre forte e vigile custode delle libertà democratiche, la garanzia e la guarentigia di queste libertà non può essere un Ministro che intenda esercitare un abuso contro qualsiasi partito. (Approvazioni al centro).

Ho dato questa garanzia, per cui in avvenire nessuno potrà lamentarsi se un questore abusa del suo potere e nega l’autorizzazione. Infatti si potrà sempre ricorrere al Procuratore della Repubblica, il quale ha il dovere di provvedere immediatamente.

E veniamo al terzo capo di accusa.

PAJETTA GIAN CARLO, E perché non ci dice qualcosa sul manifesto del Papa?

SCELBA, Ministro dell’interno. Lei vuol sapere qualche cosa sul manifesto del Papa. Io mi trovavo a Milano. Appena arrivato a Milano trovo su Milano Sera un articolo contro il Ministro dell’interno, violatore delle libertà. Insomma, il solito manifesto. Tutti i questori della Lombardia senza avere interpellato il Ministro del l’interno…

PAJETTA GIAN CARLO. Non è vero!

SCELBA, Ministro dell’interno. Aspetti, onorevole Pajetta. Lei ha letto sul Popolo di Milano una mia intervista con la quale approvavo pienamente l’operato dei questori. E quindi, non c’è contraddizione. Se l’avessero chiesta, l’avrei data. Milano Sera viene fuori con un grande manifesto murale, ed in questo campeggia la figura del Pontefice Pio XII. Perché è stato negato il permesso? Ma, onorevoli colleghi, esiste un diritto del cittadino di non vedere utilizzata la propria immagine per nessuna speculazione, e tanto meno per una speculazione commerciale. Ora, se questo diritto esiste per i cittadini, a maggior ragione deve essere tutelato nei confronti del Capo della religione cattolica. (Vivi applausi al centro). Dev’essere tutelato perché io penso che se il partito della Democrazia cristiana, per esempio, o il partito socialista, o il partito repubblicano prendessero altre immagini, probabilmente le persone interessate o i partiti protesterebbero ugualmente. Comunque, io ritengo che l’autorità di pubblica sicurezza non potesse dare il visto ad una siffatta pubblicazione, perché poteva rappresentare, per lo meno, una mancanza di riguardo verso il Capo della religione cattolica, verso il Capo di uno Stato col quale l’Italia è in rapporti diplomatici.

PAJETTA GIAN CARLO. È stato interpellato, lei?

SCELBA, Ministro dell’interno. Rispondo subito dicendo che il questore ha negato l’autorizzazione. È stato presentato questo manifesto e data l’importanza ed il chiasso che può fare una cosa di questo genere, egli chiede al Ministro dell’interno di esprimere il suo parere. Si vuole che il questore non interpelli il Ministro dell’interno?

E veniamo al terzo capo di accusa.

TOGLIATTI. Perché non sopprime tutti i giornali politici?!

SCELBA, Ministro dell’interno. Ella sa, onorevole Togliatti, che la materia della stampa e delle affissioni murali ha una disciplina diversa, che c’è stata sempre, che non ho inventato io, e neppure il fascismo. E se c’è una differenziazione di trattamento fra i giornali e gli affissi murali, la ragione c’è. Lei può trovarne molte, io ne trovo per conto mio una, che non ha un valore decisivo, per me; comunque i deputati eletti liberamente che discutevano della legge di pubblica sicurezza e che hanno stabilito questa diversità di regolamentazione hanno avuto un qualche motivo particolare. Questo motivo è: (Interruzione del deputato Togliatti – Proteste al centro) il cittadino che tutte le mattine si alza e vuole trovare degli improperi contro il Ministro dell’interno non ha che prendere l’Unità e l’Avanti. Spende dieci lire ed è sicuro di trovare quotidianamente qualche cosa nei riguardi del Ministro dell’interno. Nessuno si scandalizza, né si scandalizza il Ministro dell’interno, né si scandalizza il lettore, perché sa perfettamente che l’Unità ha questo compito specifico, almeno si è assunto questo compito specifico e non c’è nessuno scandalo. Ma quando, onorevole Togliatti, voi mettete per i muri della città un manifesto con la fotografia del Ministro dell’interno, può passare mia moglie, mia figlia, i miei parenti, possono passare degli amici e vedono una fotografia, con una serie di insulti come commento! Ma perché debbo essere insultato nei miei sentimenti, nella mia credenza, nella mia fede politica gratuitamente nelle vie di Roma col permesso delle autorità? Ma perché, tutto questo, onorevole Togliatti? (Interruzioni – Proteste a sinistra).

Sarà questa la ragione o sarà un’altra? Io dico: ho trovato questa ragione che mi sembra più plausibile col mio sentimento. Ragioni ve he saranno molte. Si possono prendere i precedenti parlamentari e trovare la ragione che ha ispirato il legislatore a dettare questa norma.

Ma dal momento che una differenziazione c’è, ci dovrà essere una ragione e non possiamo non tenerne conto.

LACONI. Per quale ragione non si stracciano i manifesti che insultano noi?

TOGLIATTI. Anch’io ho una famiglia e pure mi s’impicca sui manifesti.

SCELBA, Ministro dell’interno. Non è una autorità in carica, si potrebbe dire. (Rumori a sinistra).

Per concludere su questo punto io mi permetterei di leggere un ordine del giorno della Federazione comunista di Arezzo e credo che potrebbe costituire un punto di conciliazione politica in questo campo.

L’ordine del giorno della Federazione comunista di Arezzo, di fronte alla propaganda murale che altri partiti hanno iniziato, seguendo lo stesso sistema che per diverso tempo usava il partilo comunista, ha protestato contro questa presa di posizione, contro questo nuovo sistema.

Fin quando questo sistema era monopolio di un partito, nessuno protestava; quando altri partiti hanno scelto la stessa linea polemica, sono cominciate le proteste!

Comunque è apprezzabile lo sforzo che fa la Federazione comunista di Arezzo.

Do lettura dell’ordine del giorno:

«La segreteria della Federazione comunista di Arezzo si è riunita per esaminare la particolare situazione creatasi nella popolazione a seguito della continua affissione di manifesti murali anonimi contenenti ogni sorta di calunnie ed ingiurie verso il partito comunista e i suoi dirigenti;

constatato che tali manifesti sono una offesa al buon costume politico e una deroga alle leggi vigenti in materia di affissioni murali;

richiama le autorità di polizia perché obbiettivamente vigilino e prendano provvedimenti a carico dei responsabili trasgressori, ogni qual volta queste cose si verifichino;

ricorda in proposito che, mentre taluni agenti di polizia nella provincia si preoccuparono di strappare o di far togliere regolari manifesti stampati a cura dell’Unità, nessun provvedimento del genere è stato preso nei rispetti degli anonimi manifesti anticomunisti;

fa presente che se persistesse questa azione anonima di discredito del Partito comunista in forme vietate dalla legge essa si vedrebbe costretta a declinare ogni responsabilità per quanto potrebbe accadere, a seguito dello stato d’animo dei comunisti, degli amici e dei simpatizzanti;

rinnova la sua ammirazione nei confronti di uomini come Togliatti, che hanno combattuto, ecc…

e invita i partiti democratici ad esprimersi contro questo particolare tipo di pseudo democrazia, che è soltanto licenza di determinati ambienti politici;

invita tutti i democratici a far sì che la politica non si svolga sul terreno della calunnia, della maldicenza o del pettegolezzo (Applausi al centro – Commenti all’estrema sinistra) ma che sia invece una discussione onesta, leale e concreta sui problemi che travagliano la vita del Paese».

Io concordo, onorevoli colleghi, con questo appello e, se tutti i partiti abbandoneranno questo sistema di lotta di manifesti e di ingiurie anonime, sarà tanto di guadagnato. (Proteste all’estrema sinistra).

E veniamo all’altro attentato, contro le libertà comunali. Questa accusa mi offende in modo particolare, perché io delle libertà comunali sono un assertore convinto ed ho nella mia memoria direi quasi l’odio contro la politica giolittiana nei confronti delle amministrazioni comunali. Io dico, ed ho sempre pensato, che il fascismo in Italia non ci sarebbe stato se la violazione delle libertà comunali non fosse stata tollerata. Perché, quando si incomincia a violare una libertà e quando questa libertà sta alla radice della libertà politica stessa – perché è nella libertà comunale che si forma la coscienza libera del cittadino – quando si offende questa libertà alla radice, tutto il resto è possibile. Quando voi, con l’arbitrio del potere esecutivo, sciogliete un’amministrazione comunale liberamente eletta, nulla vieta che un qualsiasi Mussolini venga, domani, a sciogliere il Parlamento nazionale.

Questo è stato sempre il mio profondo convincimento ed io ho quasi orrore del potere esecutivo che interviene in ordine alle amministrazioni comunali.

Quindi, questa accusa dell’onorevole Togliatti mi offende in modo particolare; direi offende la mia sensibilità politica di democristiano in quanto è nota la posizione da noi presa a favore della libertà dei comuni. Ora, in materia di libertà comunale, il mio scrupolo è arrivato a tal punto, che sono quattro mesi che non firmo alcun decreto di scioglimento di Consigli comunali, urtando persino miei amici di partito. (Commenti a sinistra – Ilarità). Un Ministro democristiano può anche permettersi il lusso di richiamare qualche suo amico il quale creda onestamente che, di fronte alla condotta di un sindaco che offenda ogni senso amministrativo, il potere esecutivo possa intervenire con lo scioglimento del Consiglio comunale.

Io ho mandato una circolare a tutti i prefetti, invitandoli a non spedirmi più proposte di scioglimento di Consigli comunali per motivi di ordine pubblico. E ho fatto anche qualche altra cosa: ho ristabilito la garanzia democratica – cosa che nessun mio predecessore, evidentemente preoccupato di altre gravi e pressanti cure, aveva pensato di fare – la garanzia democratica, dicevo, per cui sulla proposta di scioglimento dei Consigli comunali debba essere sentito il parere del Consiglio di Stato.

Così, per effetto di tale disposizione, ove il Ministro dell’interno fosse di parere contrario a quello espresso dal Consiglio di Stato, avrebbe il dovere di motivare tale suo avviso, anche se il parere del Consiglio di Stato non è vincolante.

Ho disposto, dicevo, che non vengano sciolti Consigli comunali sotto il pretesto dell’ordine pubblico, perché, molto spesso, l’ordine pubblico rappresenta il mezzo più rapido per compiere arbitrî.

L’ordine pubblico non è spesso che il pretesto con cui una fazione cerca di sopraffare l’altra liberamente eletta. E a noi corre l’obbligo di esercitare una funzione di tutela; noi dobbiamo resistere alla piazza che cerca di distruggere con la violenza ciò che la volontà popolare ha voluto.

Se dunque questo è ciò che ha fatto il Ministro dell’interno, se dunque il Ministro dell’interno ha dato disposizione di non servirsi di questo arnese dell’ordine pubblico che tutti i Governi cercano invece di utilizzare a profitto della propria parte; se dunque il Ministro dell’interno ha disposto che venga sentito il parere del Consiglio di Stato sulle proposte di scioglimento di Consigli comunali, come si può, francamente, dire che il Ministro dell’interno sia fazioso? È questa una accusa, onorevole Togliatti, che io non posso assolutamente accettare.

Ma l’onorevole Togliatti ha detto anche che alcuni sindaci dell’Emilia – si tratta di cinque o sei in tutto – sono stati sospesi perché avevano violata la legge sugli ammassi. E – ha detto – non mi offende tanto la sostanza, perché nella sostanza può darsi che fossero colpevoli, anche se politicamente non lo sono; mi lamento della forma, perché non si può procedere contro un sindaco senza che il Ministero dell’interno abbia provocato lo scioglimento della garanzia amministrativa.

Ora, onorevole Togliatti, mi dispiace, ma la disposizione di legge cui lei si riferisce non esiste. Cioè, non è il Ministero dell’interno che dà l’autorizzazione. Lei si è riferito evidentemente alla legge comunale e provinciale del 1915; ma non ha tenuto conto del Codice di procedura penale, il quale all’articolo 15 regola le modalità dell’autorizzazione. Il compito di chiedere lo scioglimento della garanzia amministrativa spetta al Procuratore della Repubblica, il quale inoltra la domanda al Ministro di giustizia. – E lei, come Guardasigilli, avrà firmato tante volte richieste e documenti del genere. – Il Ministro Guardasigilli chiede al Ministro dell’interno il suo parere. È un semplice parere a cui non è tenuto il Ministro di giustizia a sottostare. Il Ministro Guardasigilli, chiesto il parere, promuove il decreto del Capo dello Stato che scioglie o sospende la garanzia amministrativa.

È questa la procedura che riguarda la garanzia dell’amministrazione comunale. Quindi, se una violazione c’è stata, questa non è dipesa, non è imputabile al Ministro dell’interno. Ma, onorevole Togliatti, anche se questa violazione ci fosse stata in concreto, se l’autorizzazione non ci fosse stata, spetterebbe al magistrato, allorché dovrà giudicare del sindaco imputato, sospendere il giudizio per mancanza, per difetto di autorizzazione.

Ma il prefetto ha sospeso i sindaci. Vi è una norma di legge la quale stabilisce che, quando il sindaco è rinviato a giudizio o è citato a comparire, egli è sospeso di pieno diritto; tanto che vi sono scrittori i quali sostengono che non accorre neppure un provvedimento del prefetto, dell’autorità amministrativa, ma automaticamente opera la sospensione dall’esercizio delle funzioni.

Che cosa vi è in questa procedura di attentato alle libertà democratiche? Come si può imputare al Ministro dell’interno un attentato alle libertà comunali, alle libertà municipali, quando nessuna ombra, nessun esercizio di potere esecutivo vi è stato in questi casi?

Dice l’onorevole Togliatti che basta un telegramma del Ministro dell’interno per sospendere un sindaco. Io potrei dire all’onorevole Togliatti di indicarmi un telegramma del Ministro dell’interno che abbia chiesto la rimozione di un sindaco. E mi dica quale disposizione di legge stabilisce e ammette e permette che con un telegramma del Ministro dell’interno possa sospendersi un sindaco.

Vi sono certamente molti sindaci che sono stati sospesi; io potrei leggere una lunga, numerosa, infinita serie di sindaci che sono stati denunziati all’autorità giudiziaria per violazione di leggi penali comuni, e per i quali l’autorità amministrativa, il prefetto, ha sospeso il sindaco fino all’esito del giudizio. Ma tutto questo non ha nulla a che vedere con l’esercizio arbitrario del potere esecutivo, con l’intervento del Ministro dell’interno.

Ecco le tre accuse che sono state sostanzialmente rivolte al Ministro dell’interno. D’altronde, giustamente, ieri ha detto l’onorevole Piccioni: queste accuse, anche nel tono nel quale erano state originariamente formulate le mozioni, non erano tali, nel pensiero stesso dell’onorevole Togliatti, da giustificare un voto di sfiducia; tanto è vero che l’onorevole Togliatti, nel suo discorso, ha finito col dire che in fondo la sua mozione investe la politica generale del Governo.

Ma una quarta accusa è stata ancora rivolta: il Governo non fa nulla per la difesa della Repubblica, il Governo non perseguita le organizzazioni neofasciste, non fa nulla contro il fascismo. (Le due cose sono intimamente connesse perché, evidentemente, il fascismo opera contro la Repubblica e più si rafforza la Repubblica più si combatte il fascismo).

Ed ho sentito accenti patetici – per esempio dall’onorevole Gian Carlo Pajetta – per il fango che dalla stampa neofascista viene lanciato contro gli uomini dell’antifascismo.

Ed io, che non posso evidentemente leggere tutta la stampa ma che ho occasione spesso di vedere i giornali citati dall’onorevole Pajetta, ho sentito talvolta il dispetto, lo sdegno contro queste manifestazioni; e sono intervenuto in due casi, quando potevo e come potevo, deferendo alle Commissioni per il confino due direttori di giornali per attacchi contro l’antifascismo che erano veramente una vergogna. L’ho fatto, ma non è compito del Ministro dell’interno di sovrintendere alla stampa; non è compito specifico mio di sovrintendere a questo settore.

L’onorevole Pajetta si lamenta di questo fango che viene lanciato contro gli uomini dell’antifascismo e ne imputa la colpa alla Democrazia cristiana che avrebbe spezzato l’unità delle forze antifasciste. Onorevole Pajetta, perché si meraviglia? Quando dal suo partito, dalla sua stampa, e ancora ieri sera da lei stessa viene ripetuto l’atroce insulto contro Alcide De Gasperi di austriacante, contro Alcide De Gasperi che a venti anni conosceva il rigore delle prigioni austriache, contro quest’uomo che nel 1926 conosceva il rigore delle prigioni fasciste; quando voi, in tutta la vostra stampa, nei vostri discorsi, nei vostri manifesti indicate come traditore, austriacante, anti-italiano, nemico del Paese il Capo del Governo e di un grande partito politico e lo gettate al ludibrio dei vostri aderenti? Che meraviglia se poi vengono ex fascisti a gettare fango contro di voi e contro di noi?

Siete voi che avete spezzato il fronte dell’antifascismo! (Vivi applausi al centro e a destra – Scambio di apostrofi fra il centro e l’estrema sinistra).

Onorevoli colleghi, quando non si può accusare un Ministro di essere monarchico, ma si deve riconoscere che ha lottato per la Repubblica, allora si dice che egli chiude gli occhi, è sordo e cieco di fronte all’attività fascista.

Ora io devo dire chiaramente, lealmente, onestamente – e lo dico per mio intimo compiacimento – che la Repubblica italiana ogni giorno più si afferma nella coscienza degli italiani, la Repubblica italiana ogni giorno più si rafforza; e noi la Repubblica la rafforziamo e vogliamo rafforzarla, non presentandola col viso grifagno del persecutore, ma con volto umano pacificatore. Noi vogliamo portare alla Repubblica tutte le forze, presentando loro la Repubblica non come l’espressione di una fazione, di una parte, ma come il volto stesso della Patria. (Applausi al centro). È questa, onorevoli colleghi, la politica che noi facciamo per rafforzare la Repubblica.

È la politica, d’altronde, che voi avete iniziato, ma non voi soltanto, né per vostro merito soltanto, ma per merito di tutto l’antifascismo, con la pacificazione rappresentata dall’amnistia. Sappiamo benissimo che molti fascisti hanno inteso l’amnistia non come un attrazione pacificatrice, non come l’espressione umana dell’antifascismo, ma quasi come un atto riparatore di pretese ingiustizie commesse a loro danno. Questo è un errore di molti elementi fascisti che accusano la democrazia ingenerosamente, ingiustamente.

Non è merito e demerito dell’onorevole Togliatti l’amnistia con cui la Repubblica ha iniziato il suo Governo, ma merito dell’antifascismo che voleva mostrare agli italiani un volto nuovo dopo tante persecuzioni, dopo tante sevizie. L’amnistia si presentava così come un gesto pacificatore che non possiamo sciupare considerandolo fatto soltanto ed obbligatoriamente in una sola direzione. Quando si pretende che la pacificazione avvenga attraverso l’iscrizione a un determinato partito, essa manca al suo scopo e non è più ammissibile. Non possiamo accettare che per, riconciliarsi con la Repubblica, si debba iscriversi soltanto a un determinato partito, non possiamo accettare questa tesi di un battesimo civile (Vivi applausi al centro – Rumori a sinistra), battesimo che verrebbe al fascista allorché, accettando una determinata fede politica classificata in antitesi con la sua precedente, si vuol stabilire che con ciò stesso egli si purga totalmente.

Quando noi vediamo che l’onorevole Togliatti rivolge le sue cure, non soltanto a coloro a cui è stata concessa l’amnistia, ma anche ai repubblichini, perché il Governo dovrebbe da parte sua fare una politica di persecuzione? (Applausi al centro – Rumori all’estrema sinistra).

Onorevoli colleghi, io concludo dicendo che non si può accusare di faziosità una politica che tende a correggere la violenza, che tende a correggere la prepotenza, la quale sembrava diventata lecita e legittima, soltanto perché rimaneva impunita. Il nostro sforzo è quello di ridare fiducia al popolo italiano, fiducia nell’autorità dello Stato, perché esiste un problema in Italia: liberare il popolo italiano dal timore. Lo sforzo che noi coscientemente facciamo è questo: di dare a tutti i cittadini la libertà di sentirsi pari di fronte a chicchessia e quella di sentirsi figli di un’unica famiglia. Il popolo italiano non aspira altro che alla sua prosperità, non aspira altro che alla pace, non aspira altro che a vivere nella libertà dopo l’esperienza tragica del fascismo. Noi, onorevoli colleghi, siamo qui garanzia di questa libertà (Applausi al centro – Proteste a sinistra), garanzia di voler favorire il popolo italiano nello sforzo della ricostruzione materiale e nel lenire le sue piaghe e le sue ferite materiali; ma siamo qui anche per ridare una dignità ed un volto libero al popolo italiano. (Vivissimi applausi al centro e a destra – Molte congratulazioni).

PRESIDENTE. Il seguito della discussione è rinviato alla seduta pomeridiana.

La seduta termina alle 13.35.

POMERIDIANA DI VENERDÌ 3 OTTOBRE 1947

ASSEMBLEA COSTITUENTE

CCXLIV.

SEDUTA POMERIDIANA DI VENERDÌ 3 OTTOBRE 1947

PRESIDENZA DEL PRESIDENTE TERRACINI

INDICE

Sul processo verbale:

Giacchero

Tonello

Simonini

Domanda di autorizzazione a procedere in giudizio:

Presidente

Mozioni (Seguito della discussione):

Calosso

Bruni

Nitti

Presidente

Pajetta Giancarlo

Macrelli

Interrogazione con richiesta d’urgenza (Annunzio):

Presidente

De Gasperi, Presidente del Consiglio dei Ministri

Interrogazioni (Annunzio):

Presidente

La seduta comincia alle 16.

MOLINELLI, Segretario, legge il processo verbale della precedente seduta pomeridiana.

Sul processo verbale.

GIACCHERO. Chiedo di parlare sul processo verbale.

PRESIDENTE. Ne ha facoltà.

GIACCHERO. Ho chiesto la parola per precisare un punto toccato ieri dall’onorevole Giannini e che si riferisce al Convegno parlamentare europeo di Gstaad.

Questa precisazione non è fatta per controbattere l’accusa di ostilità che la Democrazia cristiana avrebbe dimostrato nei di lui riguardi anche in quella occasione.

Per rispondere a questo, come agli altri rilievi del genere, la Democrazia cristiana può contare su elementi molto più qualificati di me.

Ma siccome si è parlato di diminuzione di prestigio, che sarebbe derivata all’Italia da uno scambio di oratori nell’elenco ufficiale della giornata inaugurale di quel Convegno, e siccome io ero il capo di quella Delegazione italiana, che contava 34 deputati e che ne rappresentava oltre 200, ho il dovere di dimostrare che questo non è esatto. E non è esatto prima di tutto perché l’elenco preparato dalla Segreteria generale era stato compilato con criteri che nulla avevano a che vedere né con l’importanza della Nazione (sarebbe stata ridicola una gerarchia di valori fra le Nazioni, quando queste si riunivano su di un terreno di assoluta parità) né con l’abilità o la rinomanza dell’oratore (e questo lo dimostrerebbe il fatto che il più brillante oratore, capo del Gruppo parlamentare socialista belga e che fu poi eletto presidente dell’Assemblea, Georges Bohy, figurava agli ultimi posti sull’elenco), ma semplicemente seguendo un criterio direi così coreografico, che nelle cerimonie ufficiali non può venire trascurato.

Non è esatto il rilievo dell’onorevole Giannini perché, se la Delegazione Italiana chiese alla Segreteria generale di far parlare il rappresentante ufficiale della Delegazione prima dello stesso onorevole Giannini, lo fece dopo aver discusso la questione in una seduta preliminare, dove l’opportunità di questo scambio venne sostenuta non solo dai democristiani, ma anche dai rappresentanti di altri partiti presenti a Gstaad, per evidenti ragioni di correttezza.

Ed infine, se si vuol proprio parlare di prestigio dell’Italia, anche in quest’occasione, dove io ritengo sia fuori posto, tenuto conto dello spirito che doveva animare e che ha animato il Convegno, mi corre l’obbligo di precisare che questo prestigio fu tenuto molto in alto non tanto dal discorso di questo o di quel Presidente, quanto dalla sobrietà, serietà e consistenza degli interventi dei delegati italiani di tutti i partiti e dalla circostanza cui Giannini, che tanto si preoccupa del prestigio dell’Italia quando gli si cambia posto, non ha accennato, e cioè che all’Italia fu riservata una delle quattro Vicepresidenze nel Consiglio e nell’Assemblea.

Ma questo, che senza dubbio può rappresentare un segno di prestigio, fu ottenuto dall’Italia non per il merito di questo o di quell’inviato, di questo o di quel partito, di questo o di quell’oratore, ma semplicemente perché l’Italia, negli ambienti dove non vi sono cieche e meschine ostilità, o preconcetti ideologici, è ancora e sempre considerata un grande Paese a cui, quando si vuol costruire una civile convivenza di popoli europei, non si può negare un posto di primo piano. (Applausi al centro).

TONELLO. Chiedo di parlare.

PRESIDENTE. Ne ha facoltà.

TONELLO. Il mio amico onorevole Simonini nel suo discorso di ieri ha accennato ad una mia antica carica quale membro della fabbriceria della basilica di San Petronio in Bologna. Fra le altre cariche ebbi pure quella di fabbriciero della basilica di San Petronio in Bologna; e fu perché, essendo io allora consigliere provinciale, la maggioranza clericomoderata del Consiglio, dovendo nominare un rappresentante della provincia in grembo a questa organizzazione, nominò me.

Nel fare una risata, io mi alzai e dissi: «Ringrazio i colleghi dell’onore che mi fanno»; ed accettai la carica. Fu in quel tempo che contrassi rapporti cordiali con lo stesso Cardinale Della Chiesa che poi fu Pontefice, un uomo intelligentissimo e spiritosissimo, ve lo dico subito. Dunque, in tutto questo non c’è niente di male. In altri tempi ho coperto altre cariche che potevano, anche politicamente, apparire all’infuori del mio partito, ma non c’è niente di strano; e nemmeno credo che il collega onorevole Simonini abbia voluto attribuire a celia questa mia appartenenza, diremo così, alla fabbriceria di San Petronio. (Ilarità – Commenti).

SIMONINI. Chiedo di parlare.

PRESIDENTE. Ne ha facoltà.

SIMONINI. Desidero precisare che il mio riferimento a quel determinato particolare della storia politica italiana aveva soltanto, nel mio intento, lo scopo di dimostrare come allora la serenità era tale nell’ambiente politico, che l’onorevole Tonello poteva collaborare con un futuro Papa; ed auguro che quei tempi abbiano a ritornare. (Applausi al centro).

PRESIDENTE. Se non vi sono altre osservazioni, il processo verbale si intende approvato.

(È approvato).

Domanda di autorizzazione a procedere in giudizio

PRESIDENTE. Comunico che il Ministro di grazia e giustizia ha trasmesso una domanda di autorizzazione a procedere in giudizio contro il deputato onorevole Spano per il reato di cui all’articolo 595, secondo capoverso, del Codice penale.

Sarà inviata alla Commissione competente.

Seguito della discussione di mozioni.

PRESIDENTE. L’ordine del giorno reca: Seguito della discussione delle mozioni.

È iscritto a parlare l’onorevole Calosso. Ne ha facoltà.

CALOSSO. Signor Presidente! Il Governo di centro-destra, a bandiera liberale, che ha nel suo seno uomini egregi come l’onorevole Einaudi (del quale non posso parlare senza un sentimento di venerazione e del quale fui alunno, sia pure di quelli dell’ultimo banco), a mio parere è basato su di una contradizione economica e su di uno scetticismo morale liberista, quello del lasciar fare. Il liberismo, che alle origini era un atto di fiducia per le imprese individuali, mi pare che con l’andar del tempo, specialmente oggi, con l’attuale stanchezza, sia essenzialmente un atto di sfiducia nelle forze dell’impresa associata, in quella che oggi, con linguaggio moderno, con un linguaggio di moda (che ci impegna, perché la moda noi dobbiamo seguire; infatti è una cosa cristiana, come diceva il Manzoni) si chiama pianificazione.

È stato, a mio parere, molto chiarificatore in proposito il discorso dell’onorevole Giannini, uno dei più notevoli discorsi di parte governativa, dirò così, perché egli ed il qualunquismo in genere mi pare che rispecchino uno scetticismo assoluto, e se non credessi di urtare le orecchie dell’onorevole Giannini e dei suoi amici, direi quasi un menefreghismo assoluto. Rappresenta una realtà il qualunquismo; in questo momento di stanchezza, il qualunquismo non poteva non sorgere come uno scetticismo il quale, con la sua sincerità, si dà per quel che è. Perciò egli ha parlato molto chiaramente e sinceramente ed ha posto quasi la candidatura di qualche suo amico al seggio di sindaco di Roma, in nome di quello sblocco dei fitti che getterebbe sulla strada 500 mila romani; che forse, se saranno veri qualunquisti, gli daranno il voto ugualmente.

Egli ha fatto l’elogio del lusso, un elogio che non ricordavo se non in un opuscolo del 1700. Che cosa vuol dire l’elogio del lusso fatto dall’onorevole Giannini? Vuol dire che quando chiederemo il denaro americano e quando esso arriverà, noi lo impiegheremo a comprarci non del pane, ma dei pasticcini e fabbricheremo in Italia non occhiali – questa industria è già prosperosa da noi – ma caramelle da occhio. (Si ride). Questo è l’elogio del lusso: rendiamo atto alla sua sincerità, perché nessuno aveva osato dirlo. Notate, il vero liberismo suo non vive interamente se non in Egitto, dove vivono i pascià opulenti e preziosi su tappeti persiani, accanto ai quali vigila il fellah, che lotta ogni giorno per vedere se il suo padrone ha mangiato o no. La sua politica non è sostanzialmente differente dalla teoria governativa, a mio parere. Noi ricordiamo che dal 1919 al 1922 la bandiera dello squadrismo fu quella del liberismo assoluto: via le bardature di guerra! E gli industriali lo seguivano, perché volevano fuori le bardature di guerra. Io non voglio dire con questo che Giannini è stato, nel passato, fascista. Non l’ho mai detto, anzi mi opposi al provvedimento con il quale gli tolsero, a suo tempo, il giornale.

Egli, stia a destra o a sinistra, è uno degli uomini meno fascisti che ci siano stati. Ma io, ricordando che la sua opera è identica in parole e temperamento a quella che era la bandiera del fascismo prima della marcia su Roma, temo che sia un fascismo futuro, vale a dire che noi sappiamo che cos’è il liberismo fascista, che sotto sotto ha i monopoli industriali ed agrari. E questo è lo statalismo assoluto. La parola liberismo non mi suona se non come statalismo, dittatura. È quello che sento automaticamente, come un uomo di 52 anni che ricorda, come ieri, il periodo della lotta antifascista.

E trovo che ha ragione di chiedere due Ministeri, di cui uno per l’Unione europea (credo che voglia dire il Ministero degli esteri). È giusto, egli farà l’unione dei Paesi; credo che voglia unire le tre penisole meridionali: la Spagna, l’Italia e la Grecia. Le vorrà unificare e poi farà anche l’unione degli altri Paesi. Del resto, già adesso, un Governo di destra in Europa c’è solo in queste tre penisole meridionali. È un grave fatto, notate bene, perché, come ha detto Lussu, ed ha ricordato anche Piccioni, tutti i paesi dell’Europa occidentale sono in mano ai regimi socialisti, o in essi i socialisti hanno importanza notevole. Man mano, anche queste tre penisole che fanno eccezione, finiranno con l’avere un Governo socialista.

Ora, non bisogna illudersi. È un fatto pericoloso. Noi siamo dei poveracci che con vestiti unti e bisunti ci presentiamo in mezzo a gente elegante, quando andiamo alla riunione di Parigi.

TOGLIATTI. Anche l’Austria.

CALOSSO. Anche l’Austria.

Non crediate che i conservatori stranieri vi vogliano bene. Vi disprezzano fin dal primo momento e quando c’è una piccola questione ve lo ricordano. Franco stesso non ha poi fatto un grande affare. È pericoloso un Governo di destra, anche se ha dei sorrisi.

Ora, ha detto l’onorevole Giannini, ed anche un po’ l’onorevole Piccioni che ha consentito in questo punto, di temere la pianificazione, che è il soggetto della nostra politica al Governo, della nostra opposizione, e con la quale, in un certo senso, ci identifichiamo. Questa necessità della pianificazione – dicono – porterà ad uno statalismo gravissimo.

Ora, è molto importante, fin dal principio, stabilire che il concetto di Stato e di piano sono diversissimi e antitetici nella sostanza. Lo statalismo noi, come socialisti, almeno nella più pura ortodossia marxista, lo respingiamo, perché pensiamo che in un lontano futuro questo Stato debba essere addirittura abolito, quando non vi siano più le classi dirigenti. E questo è uno degli elementi della nostra amicizia con la Democrazia cristiana che, se ha letto i testi sacri, come noi abbiamo letto Marx, o se non li ha letti come noi quasi tutti non abbiamo letto Marx (Si ride), saprà che lo Stato è un male necessario secondo la tesi sacra di San Paolo, per cui la parola «legge», la parola «Stato» è una parola di suono cattivo, come per il socialista; perché la parola «statalista» è brutta per il socialista, come la parola «legale» è brutta per il democratico cristiano.

Piano è il contrario. Senza fare tante teorie, il popolo italiano, dopo tutte queste prove di dittature, è un popolo molto statalista e poco pianificatore. Per la strada molto facile è arrestare un italiano. Il primo poliziotto gli mette una mano sulla spalla, senza mandato di cattura, e di solito non trova reazioni e l’individuo viene arrestato. Lo vediamo tutti i giorni. Siamo un popolo molle di fronte allo Stato, siamo statalisti; invece nel senso del piano, no. L’espressione elementare del piano è la coda che facciamo all’autobus. Lottiamo mezz’ora, ma non facciamo la coda. La coda è il piano. E l’arresto di un povero disgraziato per la strada è lo Stato. Sono due concetti difficili. E noi ci libereremo dallo statalismo nella misura in cui pianificheremo.

Onorevole Einaudi, anche l’isola di Robinson Crosuè, che è nel sogno di tutti, perché tutti abbiamo sognato un’isola ed aspiriamo ad averla, è possibile averla soltanto in base ad un piano, come è possibile che il bambino circoli col suo cerchio per le nostre strade soltanto perché c’è un piano regolatore del traffico. Il colpo tremendo inferto dagli inglesi degli ultimi due anni al patrimonio forestale italiano, tagliando per cento miliardi di lire italiane, è uno dei delitti più grandi che abbia fatto l’incapacità o la stanchezza della vecchia classe politica inglese; provatevi a ricostituire i nostri boschi col liberismo. o gli stambecchi del Gran Paradiso, che stanno scomparendo. Fateli vivere senza un piano. Tutto, perfino l’albero, è comandato dalla pianificazione oggigiorno.

Qualche mese fa c’era un piccolo emendamento dove entrava la parola «piano». Non era il concetto. Non so se fosse dell’onorevole Foa o di qualche altro.

Notammo, vi ricordate, che tutti i membri del Governo e i loro seguaci votarono contro questa parola «piano» ed i giornali (come devo chiamarli? – Non saprei. I giornale indipendenti, lo stesso Corriere della Sera) alzarono alte grida perché la rivoluzione era arrivata in Italia. Tanto è provinciale la nostra grande stampa moderna, che non aveva mai sentito parlare di piano; era una rivoluzione. Non capiva che è quello il sistema per prendere delle precauzioni contro la rivoluzione.

Poche settimane dopo venne un generale americano, Marshall; badate che non era uno stinco di socialista; venne fuori il piano Marshall ed allora la parola la trangugiarono tutti. Ed adesso non ci sono giornali che scrivono articoli tremendi contro il piano.

Questo è importante non per la nostra intelligenza superiore, ma perché abbiamo inserito in una realtà moderna anche questo problema; orientare l’Assemblea col nostro voto.

Persino nel modo di discutere, il Governo è un Governo anti-piano. Vedete un po’: quando diciamo «piano», diciamo unità, convergenza di molte cose che ne fanno una. Ed il Governo risponde in ordine sparso, problema per problema, Ministro per Ministro. È difficile prenderlo per la coda. (Si ride). Mi pare che questo metodo di discussione sia di per sé rivelatore di una mentalità. D’altra parte, l’onorevole De Gasperi, mi rincresce che non sia presente, è a ragione l’esponente dell’attuale situazione. Non per nulla è stato alla testa di quattro Ministeri, ma egli è anche l’esponente di una situazione storica in cui dopo 20 anni di sconfitta, dopo due grandi cambiamenti avvenuti a distanza di 23 anni, uno scetticismo naturale è nelle ossa di tutti: abbiamo visto troppi doppi giuochi per credere facilmente nell’uomo, ed allora viene uno stato di scetticismo.

L’onorevole De Gasperi, onestamente, cosa dice? Quale è l’essenza della sua teoria di Governo? È questa: non muovere troppo le cose; lasciar fare. Io capirei, molto bene questo modo di pensare, se fossimo veramente in una situazione di senilità o di stanchezza assoluta, come poteva essere per l’Austria, nel qual caso, noi saremmo stati grati ad un uomo di questo genere. È un atteggiamento politico che potrebbe essere valido, ed è effettivamente il precetto austriaco di Governo. E l’onorevole De Gasperi, sia nel bene che nel male, risente del suo tirocinio austriaco, prima di tutto nel suo vivo senso di italianità, che tutti gli dobbiamo riconoscere e che è proprio degli irredenti, di coloro cioè che hanno a lungo combattuto contro lo straniero.

In secondo luogo, credo che abbia quel panorama internazionale per cui sente con facilità cosa c’è al di là delle Alpi, il che sfugge a certi settori della nostra vita politica, a cui pare che Rocca Cannuccia sia il limite del mondo.

Queste sono le qualità che gli derivano in parte dal suo tirocinio di italiano irredento; ma ha preso, da questo tirocinio, anche qualche altro carattere, per esempio il senso del contratto. Tutto è contratto, tutto diventa contratto. È sotto questa forma di contratto che egli vede le cose, quando gli si sottopone un problema, anche facilmente risolubile. Del resto, anche Giolitti, fra due cose, una buona e una cattiva, che non costassero troppa fatica, sceglieva sempre quella buona. Effettivamente egli ha seguito un programma in tutta la sua vita.

Poi, quella furberia, che è ammirevole, senza, dubbio, e che può essere anche una virtù, io non m’intendo.

La diplomazia austriaca, per esempio, era la più famosa del mondo per eleganza e furberia. Sapete che cosa ha fatto la diplomazia austriaca? Ha liquidato l’Austria. Qualcuno dirà che, forse, non è troppo difficile questo per la diplomazia…

Io vedo questa linea anche nell’onorevole De Gasperi. Guardate che sotto il temperamento austriaco e sotto il decoro statale e religioso – mi appello all’onorevole Sforza – era il segreto dell’Austria. Qualche cosa di scettico e di frivolo, questo era il segreto dell’Austria.

Ora, mi pare che l’onorevole De Gasperi, con tutte queste sue qualità, rispecchi la situazione italiana e non per caso si trovi ad essere il Presidente del nostro Consiglio. È da questa attitudine che nasce nel Governo una fondamentale contradizione, segno che il Paese è più vivo di quanto si pensi, segno che questo scetticismo non deve essere udito, perché ci sono delle forme vitali più profonde.

C’è una contradizione evidente tra la politica industriale e quella del tesoro, che balza agli occhi di tutti. La Confederazione dell’industria e tutti i parassiti hanno una mano abbastanza pesante sul Ministero, specialmente i parassiti antichi, che gravano sull’Italia da tanti decenni. La siderurgia, per esempio, che ha sempre rappresentato una tassa, che ha sempre alzato i costi della produzione industriale, persino nel seno dell’I.R.I., la siderurgia rappresenta una tassa all’interno. Così dicasi per gli zuccherieri; e ancora per il monopolio dell’industria elettrica.

Sotto questo riguardo, la legge Bonomi del 1919 aveva cercato di garantire i diritti del Paese sui nuovi impianti, ma il fascismo più tardi li abolì. Ora, a me non risulta che i Governi abbiano, in questi ultimi due anni, migliorato la situazione, ritornando almeno allo stato di cose che vigeva all’epoca di Bonomi.

E sono cancri vecchi questi, della vecchia Italia umbertina, della vecchia Italia giolittiana. Ma bisogna che abbiamo coraggio, bisogna che abbiamo quel coraggio che è stato scarso in noi da una trentina di anni a questa parte.

La Confindustria conta poco in questo Ministero, se in una fabbrica come la F.I.A.T., per l’opera illuminata degli uomini responsabili, sono stati attuati in un anno i consigli di gestione. Questo è un esempio che sta indubbiamente a dimostrare come i consigli di gestione siano un fatto socialmente e politicamente, dirò così, conservatore ed anche repubblicano, perché la Repubblica sarebbe un errore se noi volessimo ritrovarla soltanto qui a Roma; la Repubblica è anche e soprattutto nelle cellule del Paese.

Nonostante, dunque, questo precedente che ho chiamato conservatore, voi vedete che la Confindustria non vuole i consigli di gestione e questo è un fatto di sovversivismo.

Dopo questo fatto, non si può certo dire che la politica del tesoro e del credito sia in coerenza con ciò. Io so benissimo, intendiamoci, che l’onorevole Einaudi personalmente non è in rapporto con le macchie che prima ho elencate.

È però la politica del liberismo che dà luogo ad una contradizione insita. Il Governo attuale è il Governo dell’anti-piano e deve quindi pagarne lo scotto, perché una politica siffatta è una politica senza previdenza; certo non si possono far morire gli operai per un errore del Governo ed il Governo è colpevole se gli operai oggi a Milano non sanno se avranno il loro salario.

Ma ci sono poi delle cose strane che accadono sotto questo Governo. I fratelli Perrone, ad esempio, i quali hanno un giornale che credo sia uno dei giornali più rivoluzionari d’Italia, hanno denunziato, sulle colonne di tale giornale, che alcuni settori capitalistici sono entrati, direi quasi, in connivenza con le agitazioni della piazza, con le agitazioni operaie: questo è stato denunziato giorni fa, dicevo, dal Messaggero, dall’organo cioè dei fratelli Perrone.

Ed anche questa non è certo una cosa nuova e le agitazioni dei gruppi capitalistici corrotti, e le agitazioni di piazza, da lunghi decenni sono lì a dimostrarlo. Io non credo che la Confindustria se ne sia accorta; neanche l’onorevole Nenni, di cui leggo il giornale, se ne è accorto; ma questo è avvenuto: una collusione tra gli industriali, i quali vogliono tenersi le loro scorte, vogliono l’inflazione, e corrono dal Governo a farsi pagare i salari all’ultimo momento. E le agitazioni! Io non so se quelli che erano riuniti a Piazza del Popolo qualche domenica fa sapevano – anche se deputati al Parlamento – questo fatto: che gli industriali sono contenti, perlomeno, di queste agitazioni. Sono dei fatti che sono molto interessanti, perché non sono affatto nuovi: badate che fin dall’epoca di Mussolini e prima, queste cose avvenivano; e sono fatti gravi su cui un’inchiesta dovrebbe essere fatta.

Gli industriali, di cui abbiamo alcuni rappresentanti nel Governo, possono essere persone della più grande capacità, come possono essere persone di scarsissima capacità. Non conosco molti industriali italiani, ma direi che la maggioranza non sono degli imprenditori; molti di essi, direi che piuttosto che imprenditori, sono bottegai dalla vista corta: per uno geniale ve ne sono dieci mediocri.

Rimasero sorpresi quando qualche mese fa il Vicecapo dell’U.N.R.R.A. – non ricordo più come si chiamava – un americano, lasciando l’Italia, diede una lavata di capo ai nostri industriali, dicendo che essi non hanno alcun piano – era l’epoca in cui si strillava contro la parola «piano» – che fabbricano quello che capita per far denaro; ma non avranno denaro finché non si imposteranno su un sistema di precedenze, ossia finché non faranno un piano. La nostra classe industriale avrebbe dovuto arrossire effettivamente. Però, individualmente, ci sono degli industriali che hanno dei larghi interessi anche fuori del loro campo. Ieri c’era uno che parlando con me citava Orazio; ma è raro trovare l’uomo dai larghi interessi: un Ford, il quale ha la mania religiosa, che non voglio discutere, è rarissimo in questo ambiente. Mi ricordo quando andai in Inghilterra; lo stesso giorno trovai un telegramma a casa mia di un lord, che non conoscevo, il quale mi invitava a cena, e poi seguitò ad invitarmi quasi ogni settimana. Non sapevo chi era: era uno che aveva un «tic», quello della pace perpetua, un vero «tic»; faceva dei libri, dei pagamenti in denaro, una vera organizzazione. Poi seppi anche che era uno dei più ricchi industriali inglesi, padrone di parecchie industrie e anche consigliere delegato, o presidente che fosse, di una delle principali di queste grandi industrie. E allora compresi che queste due cose in questi uomini rappresentavano certo una genialità; questo uomo si riposava dalle sue industrie, che non credo fossero…

Una voce a destra. …pianificate!

CALOSSO. Non era certamente pianificata l’industria del carbone, allora; ma si riposava invece che al golf, con questa piccola mania della pace perpetua, che a noi serviva molto, perché ci mise a contatto con i fuorusciti di tutte le Nazioni.

Ora, è raro trovare in Italia di questi industriali.

Il Governo è sotto il dominio di queste classi – è stato dimostrato da parecchi oratori – vive di queste contradizioni la politica del Governo, perché certamente poi il credito bisogna darlo, bisogna dare i denari, ma non bisogna esagerare nel credere a tutti gli strilli degli industriali. Gli industriali hanno degli enti di finanziamento proprî, che dovrebbero entrare in funzione proprio nel momento della crisi industriale; non hanno paura di essere abbandonati, hanno delle riserve.

E ugualmente questo Governo vive sulla contradizione estera, perché la sua politica estera – l’ho già detto – è tutta una contradizione. Un Governo di destra, solo in Europa insieme con la Grecia e con la Spagna, falangista, le tre penisole meridionali che sono le sole rette da governi di destra…

DE GASPERI, Presidente del Consiglio. E chi le ha detto che siamo di destra?

CALOSSO. Anche Franco non è di destra. Non dico che lei sia per niente paragonabile a Franco o alla Grecia, ma nell’opinione pubblica internazionale le tre penisole meridionali sono le sole rette da Governi conservatori o perlomeno di destra. E già, perché in politica estera bisogna fare i conti con lo straniero, il che – come ho già detto prima – è pericoloso, in quanto i conservatori stranieri sono ben pronti a sorriderci quando andiamo loro incontro, ed è una cosa umana di avere sempre per lo meno un volto rivoluzionario. Ma è molto male. Per i conservatori stranieri è molto bello, perché alla prima crisi ci fanno pagare la nostra conservazione! Se ne ricordino! Questa è una cautela di linea generale che noi conosciamo molto bene. Perciò a me pare che il piano, la pianificazione, sia effettivamente il centro, il problema su cui noi basiamo la nostra posizione. Non il piano come una parola magica, come ha detto l’onorevole Piccioni; tutt’altro. Il piano è una parola usuale, che si usa, come tutta l’Europa usa la giacca e i calzoni, che non si possono cambiare senza apparire eccentrici. Che cosa è il piano? È l’arte di fare tutto il possibile, tutto quello che si può. Non ha altro senso la parola piano. E badate, è notevole che in tutta Europa vi sia un tentativo di pianificazione, e in qualche Paese vi siano tentativi cospicui, tentativi democratici di pianificazione. Noi siamo isolati nella nostra idea di pianificazione.

Come vecchio membro della Società Fabiana, io ho seguito la preparazione teorica e schematica di quella che è stata la pianificazione dei socialisti inglesi. E non crediate che tutto fosse pronto. Avevano fatto i loro preparativi, i loro piccoli schemi. Mi ricordo che dicevano: abbiamo di fronte a noi delle oscurità, abbiamo qualcosa di oscuro, ma noi ci gettiamo con quello che abbiamo fatto. Nessuno nuoterà mai, prima di essersi buttato in acqua. In una certa misura bisogna avere coraggio: bisogna buttarsi in acqua e poi si nuoterà.

Gli inglesi, che sono più pigri di noi, che sono notevolmente più pigri di noi, hanno però forse una rotellina che è quella che li fa muovere: ritengo che nel campo politico abbiano più coraggio. Il partito socialista inglese ha osato. Non aveva osato nell’altro Ministero, nel Ministero MacDonald, ma adesso, durante la guerra, dopo che visto come il controllo sull’industria agisse come uno stimolo, ha preso questo coraggio nella politica interna ed ha tentato. È vero che adesso sono in difficoltà.

Da radio Londra un noto scrittore li ha rimproverati di non avere agito abbastanza sul terreno politico, psicologico e morale, perché questo è il segreto di un piano.

Ritengo che il motivo fondamentale per cui con l’attuale Governo siamo poco pianificatori è la nostra timidità, la nostra semplicità, di cui ho rimproverato l’onorevole De Gasperi prima che arrivasse, uno scetticismo non in Dio ma sulla terra, una scarsa fede.

Non c’è pianificazione se non come fatto pubblico, che metta in moto tutta la Nazione e sia propagato e chiami tutte le classi operaie. I consigli di gestione sarebbero già una cosa da farsi se vogliamo una pianificazione, perché essi creano una forza da cui nasce un campo magnetico, invisibile ma forte. Senza di essi non c’è pianificazione. Se volessi dare una definizione simpatica all’onorevole Piccioni, direi che un piano è un atto di fede, soprattutto un atto di fede.

Questa impossibilità che hanno sentito alcuni Ministri, come l’onorevole Einaudi, non era una difficoltà tecnica, ma mancava al Governo questa forza autoritaria, questo atto di fede. Quando questo si sia ben compreso, allora il piano implica un congegno, che non c’è, perché ci siamo trovati sprovvisti. Quelli che tornano da Parigi dicono che semplicemente per dire agli europei che cosa ci bisogna, è difficile raccogliere dati, perché non abbiamo un apposito congegno. Ora, questo congegno di cui abbiamo bisogno per il piano Marshall, ci occorre anche per il nostro piano. Il congegno va fatto. E non è da credersi che la nostra burocrazia sia poi disprezzabile: è stanca perché è passata attraverso prove straordinarie: il fascismo, la guerra e l’epurazione fatta male.

Un giorno il primo segretario della Camera dei Comuni, quello che porta la parrucca, mi diceva: «La nostra burocrazia in genere è buona, e adesso lavora; ma è stanca dopo la guerra». Ora la burocrazia dovrebbe essere la classe socialista per eccellenza, se conoscesse i suoi interessi. Io credo che questo congegno pianificatore sia possibile farlo. In che cosa consiste il piano? Darò qualche linea.

Prima di tutto in una coordinazione del piano interno e di quello estero. Su questo siamo tutti d’accordo; anche l’estrema destra è d’accordo che non si può andare a fare gli Stati Uniti di Europa senza un piano. Lo esigono gli stranieri. E necessario un piano, per usare utilmente i soccorsi americani. Questo non si può fare senza un piano: ce l’hanno detto in modo molto chiaro.

Poi, un programma industriale di precedenze, di specializzazioni, di produzione. Usare il ferro per fare vagoni e non «vespe» (vero, Quarello? tu te ne intendi più di me), usare cemento per fare case popolari e non case di lusso, le quali rendono di più al privato; usare vetri per fare occhiali e non «caramelle», anche se queste sono più eleganti.

Oggi nella produzione c’è tutto questo caos. Tutti producono «vespe», motociclette, telai per tessili: ecco, manca un piano. Io non credo che in queste linee generali ci sia qualcosa di misterioso. Anche noi laici possiamo vedere queste cose ed un piano non si fa soltanto con quattro tecnici chiusi in una stanza attorno a un tavolino: essi non l’hanno mai fatto.

Il credito. Ho sentito parlare da parecchi oratori della restrizione del credito. Il credito deve essere distribuito con criteri qualitativi, se no finisce automaticamente per aiutare la speculazione di quelli che fanno ad esempio il cinematografo, il quale rende immediatamente, e non per aiutare le industrie che rendono a lungo andare. Ci sono problemi che fin d’ora dovremmo affrontare con coraggio, perché essi rappresentano la bandiera attorno alla quale l’Italia può guardarsi dai moti inconsulti ed incomposti.

La riforma agraria, per esempio. Noi non l’abbiamo ancora impostata, oppure aspettiamo che i contadini occupino le terre per mandare la polizia; ma nulla si risolve soltanto con la polizia. Per attuare la riforma agraria ci sono delle misure semplici, moderate da prendere, misure che non devono far paura a nessuno, quelle stesse misure che l’amico Corsi ha descritto in un suo discorso. C’è un piano lungo e decennale, al quale io penso, ed è un piano tutt’altro che rivoluzionario, ma quasi conservatore: è il piano agrario danese, attuato nel secolo scorso e durato dieci o dodici anni. Esso fece meraviglie, trasformando un suolo arido e povero in un suolo che è stato chiamato «terra stillante latte e burro». È un piano che non può spaventare nessuno; infatti conserva la piccola e la media proprietà, ed è un sistema di convergenze, perché non si tratta di mandare dei contadini a grattare un po’ di terra che l’anno dopo non produce più nulla, né di dare le terre a barbieri o a proprietari i quali poi affittano le terre, ma si tratta di misure tecniche. Se noi fin da adesso facessimo il primo passo – si può sempre farlo – e se impostassimo la riforma agraria non ci sarebbe nulla di male. Sarebbe un’azione alla quale tutto il Paese starebbe attento, e tutta la propaganda si muoverebbe per essa. Il nostro Paese ha un buon numero di contadini e di rurali: vi è un milione e mezzo di braccianti ed un milione e mezzo di piccoli proprietari, il cui numero è destinato ad aumentare ancora. Sono sicuro che una grande attenzione si concentrerebbe su questo problema ed allora il pericolo dei moti inconsulti ed incomposti sarebbe facilmente eliminato.

Io sono meravigliato che il popolo italiano si sia mantenuto calmo in questi ultimi anni. Esso è così calmo da poter essere giudicato senz’altro il più calmo popolo del mondo. Altri popoli hanno dato luogo ad agitazioni ben più gravi. La nostra classe lavoratrice costituisce un esempio meraviglioso di calma. Impostate, dunque, la riforma agraria ed allora tutti lavoreranno.

Anche la scuola, per esempio, manca di pianificazione. Io sono poco sensibile, lo confesso, al pericolo delle scuole dei preti. Se sono buone scuole, io personalmente non avrei nulla in contrario a dare denaro ad una buona scuola di preti, o se diamo una laurea ad un prete che non ce l’ha, io non credo che caschi il mondo se questi insegna in una scuola ecclesiastica. Non sono tanto contrario a tutto questo, ma vi sono delle cose che lo Stato deve fare. Prima di tutto, il problema della scuola professionale, problema che è urgente ed importante. Se chiudiamo qualche ginnasio, poco male, perché ce ne sono moltissimi in Italia. Se del latino ne facciamo una lingua, rispettiamo il carattere liberale e aristocratico del latino, e quindi rendiamolo facoltativo per quelli che lo vogliono. Io appartengo a quelli che amano il latino, per esempio. Mi sono accorto che sono uno dei pochi che ricorda ancora a memoria Orazio. L’insegnamento del latino impedisce oggi a determinati giovani, di potere accedere alle scuole di primo grado. Per esempio, i periti industriali, dopo otto anni di studi, non possono fare gli ingegneri, perché non conoscono il latino, quel famoso latino che nessun italiano conosce. Io potrei citare un avvocato che mi elogiava la romanità delle poesie di Orazio Coclite! (Si ride). Non è una storia.

A Parigi ci hanno chiesto quanti disoccupati avevamo. Due milioni, è stato risposto. E quanti di questi operai sono qualificati? Centosessantamila, hanno risposto i nostri inviati a Parigi. Centosessantamila operai qualificati su due milioni di disoccupati!

Si deve impostare questo problema della scuola professionale. È un problema educativo che non costa niente, o quasi, ed è il momento di farlo, appunto perché non costa niente. Se non lo faremo adesso che non costa niente, non lo faremo mai. Vi è la mancanza di un piano, che è mancanza di fede. Abbiamo cambiato il nome del Ministero. Prima si chiamava Ministero dell’educazione nazionale (ottimo titolo, ma lo aveva messo il fascismo!) ed adesso si chiama Ministero della pubblica istruzione, cioè abbiamo preso di nuovo l’idea che il nostro corpo insegnante debba inculcare sapienza e dottrine nelle teste: l’algebra, la geometria, la trigonometria, la consecutio temporum, ecc. Il nostro studente è oberato da un eccesso di sapienza! Noi dovremmo dimezzare i programmi, e abolire gli esami di Stato. Anche se ciò dovesse aver dei difetti, la cosa più importante è di non trovarci davanti ad un disgraziato di 18 anni che deve sapere tutto lo scibile umano.

MARCHESI. Il piano dell’ignoranza!

CALOSSO. Non ho detto questo, onorevole Marchesi. Ho detto: metà programma, e fatto bene. E affidare l’esame a chi? Al più competente. Chi è il più competente? Il suo professore. Ma l’errore sta nell’avere, dopo un disastro ventennale, un Governo che non pone il problema educativo dinanzi alla Nazione. Questo mi pare qualche cosa di grave.

Prendiamo il problema militare: abbiamo avuto una tremenda sconfitta. L’Italia è diventata un piccolo Paese di fronte a Nazioni che sono continenti, come la Russia, come è l’America, che ha 48 Stati. Noi siamo grandi come uno Stato d’America. Ora questi problemi il Governo non li ha portati dinanzi a noi. Non ne sappiamo nulla. Non c’è un piano. Ne ho parlato con i generali e ho visto che avevano un’idea soltanto: «Il soldato italiano si batte sempre».

Quale rapporto c’è fra uomini ed armi? Con quali armi sarà difeso il petto di ogni figlio di madre italiana? Questi sono problemi di pianificazione e che devono essere portati dinanzi alla Nazione. Il Governo spende 50 miliardi divisi in 10 dicasteri che vanno del tutto dispersi in spese di ufficio, spese burocratiche.

C’è un ente assistenziale che spende il 90 per cento in spese di ufficio. Si potrebbe in Italia fare un piano Beveridge adatto all’Italia, più piccola. Basterebbe unificare l’assistenza e la previdenza e ciò sarebbe l’inizio di un piano Beveridge, che è un piano fatto da un liberale, ma è sostanzialmente socialista. Ecco per i liberali, caro Lucifero, un esempio di specializzazione. Potrei parlarvi anche di altri problemi. Perfino della radio, per dirne uno. La radio è anche essa una cosa da pianificare. Il Governo si è trovato in difficoltà. La benedetta politica, i partiti. Ora la radio è proprio una di quelle cose che fa pensare. Non si ha il diritto di fare politica dalla radio. Ora si è trovata in difficoltà la Democrazia cristiana, ed ha risolto il problema in un modo tipico: distruggendo la propaganda. Questa è stata la soluzione e mi pare che non sia la più felice.

Ora, ho cercato brevemente di dimostrare, così per accenni, come con l’anti-piano governativo non è che si risolvono i problemi; si crea una contradizione fondamentale. Ed allora la discussione politica, oltre ad essere fatta in ordine sparso, si riduce a che cosa? Non più ad un programma o ad un piano, ma ad una contemplazione della forza della propria maggioranza. Ma notate che la maggioranza non ha diritto di fare quello che vuole. Se noi proponiamo una legge buona, teoricamente dovrebbe essere votata; si ha l’obbligo morale di farlo e nei Parlamenti che funzionano questo è ammesso, almeno a parole; invece noi continuamente parliamo di questione di forza. Non ho mai sentito parlare tanto di rapporti di forza come in questa Assemblea, che mi pare assai debole, oppure squisitamente politica. Quante volte l’ho sentito dire: la politica è un male necessario, dice anche il Vangelo.

Anche stamattina, nel notevole discorso dell’onorevole Piccioni, ho sentito che egli ha enunciato, nei confronti del suo partito, la Democrazia cristiana, un concetto monastico, come di un ente che sta a sé; mi faceva pensare all’aquila del Paradiso di Dante, grande uccello formato di anime di santi, che cantano con una sola voce, con la voce di questo animale. Questo senso monastico di partito è in contradizione col soggetto, rappresentato, invece, dal programma. Anche se ci fosse una maggioranza assoluta da parte della democrazia cristiana, è chiaro che non si deve parlare semplicemente di questa forza, ma del piano a cui questa forza serve. Lo stesso difetto di eccesso di politica è proprio di tutti i settori. Anche l’onorevole Giannini, cosa ha detto? Non ha criticato il Governo, avrebbe dovuto lodarlo. Invece ha detto: voglio due posti. E non una parola di elogio al Governo.

Anche nei discorsi di Nenni e Togliatti, salvo qualche sfumatura, non si è sentito un programma. Più o meno, hanno detto che vorrebbero il tripartito di nuovo. Io, in questo momento, espongo invece un programma, espongo delle necessità (Commenti), espongo la sovranità del piano…

Una voce al centro. Ma non è un programma!

CALOSSO. Io ho semplicemente esposto la sovranità del piano e ho disegnato le linee direttive di questo piano…

Ora, da questa situazione, che a me pare non troppo savia, da questa impostazione dei problemi anziché su di un piano e su di un programma, su di un semplice rapporto di forze o di debolezze, cosa viene fuori? Una cosa molto tragica: il diciannovismo. Noi stiamo vedendo risorgere il diciannovismo, con facce non so se allegre o tristi. (Interruzione del deputato Togliatti).

Effettivamente, c’era allora un comunismo, il quale aveva un avvenire dinanzi a sé, non aveva ancora determinato certe evoluzioni rivoluzionarie che vennero dopo e quindi io, marxisticamente, ho seguito la traccia di allora. Ma mi riservo di rispondere dopo, su questo.

Quale è il diciannovismo in questo momento? Quali ne sono le prove? La paura del comunismo è un elemento importante, senza dubbio: il fascismo è nato dalla paura del comunismo. Sentimento gravissimo e deleterio, perché porta al fascismo.

Lo squadrismo c’è già, lo vediamo già qua e là. Io sono stato in Alta Italia, in qualche paese e ho sentito – con la sensibilità dei nervi – che lo squadrismo è là. I fenomeni avvenuti a Gorizia sono fenomeni di squadrismo e di nazionalismo di tipo post-fiumano, che hanno proprio i tratti del nazionalismo; perché che cosa hanno fatto? al massimo, possono dire di aver copiato il nazionalismo di Tito; è insieme questa una altra prova grandissima di nazionalismo; è il nazionalismo della sinistra che sempre più cresce: uno è rosso, l’altro più rosso ancora, questo è più socialista di quello. Questa è una malattia tremenda del socialismo.

Pensate un po’ infatti se nel 1919 ci fosse stato uno che fosse sorto a dire la verità, come un profeta. Ora, io sento che ciò vive ancora oggi. L’opposizione che ho sentito nei discorsi, dell’onorevole Nenni e dell’onorevole Togliatti non mi pare si possa chiamare opposizione, salvo forse qualche aspetto marginale. Mi pare infatti che quello che essi hanno detto sia, più o meno, sullo stesso piano di argomentazione dell’onorevole De Gasperi; i loro discorsi non sono molto diversi.

Io ho qualificato l’onorevole De Gasperi come l’esponente di un fondamentale scetticismo: ora, stando ai limiti che ci siamo imposti, siete anche voi degli scettici. Voi avete detto: vogliamo questo; siamo innamorati di questo; vogliamo il tripartitismo. Ma questo è scetticismo, questa è mancanza di fede in un programma vostro. (Commenti a sinistra).

È da notarsi infatti che un piano oggi è tutt’altro che una burocratizzazione: un piano oggi è l’avventura del mondo moderno il quale, dopo le dittature, è andato in cantiere per costruire il socialismo con il metodo della democrazia.

È un metodo pieno di difficoltà, perché non ha la facilità degli stati di assedio di cui si servono le dittature; ma, se riuscirà, ci condurrà in porto senza spargimenti di sangue ed infatti meno sangue si sparge e più e meglio la pianificazione si farà. Questa è l’avventura del mondo moderno.

Ma se noi non riusciremo ad interessare il Paese per questo piano di cui ho parlato, che cosa avremo allora? Inevitabilmente avremo un ritorno al 1919. Dal governo al potere: non siamo noi forse sullo stesso piano?

È in atto una guerriglia che non riesce ad essere guerra, perché la guerra richiede oggi gli eserciti. È un massimalismo come lo era allora; e non dimentichiamo che il massimalismo, il vero massimalismo, è quello di Mussolini.

Ha detto molto bene ieri l’onorevole Giannini che Mussolini era socialista, ed infatti i traditori si trovano soltanto dove è la verità.

Ma, a parte il fatto che noi non siamo più mussoliniani, quando uno mi dice: ma prima era un grande, era un vero socialista, quando usava le belle frasi, quando parlava di marxismo ogni tre minuti e di lotta di classe ogni cinque, allora io rispondo che è proprio lui l’inventore del massimalismo; è lui che abbiamo ancora nel sangue, purtroppo, e in quel senso che ho detto…

VERNOCCHI. Non è questo il massimalismo!

CALOSSO. Caro Vernocchi, tu hai inventato la parola «duce»; l’ho letto su un giornale (Ilarità), non è per te.

A Ludwig Mussolini diceva: «Io sono stato socialista, e lo sono ancora» – bel senso che egli intendeva, appunto… (Commenti a sinistra).

Una voce al centro. Mettetevi d’accordo.

CALOSSO. Noi dobbiamo rinnegarlo totalmente, e quello del 1914 e quello del 1919, perché è il temperamento massimalista di Mussolini che è sbagliato e che ci ha portato alla rovina. Anche le folle. Chi non ha visto le folle attorno a Mussolini: massimaliste e sinistre. La folla in sé non trova niente; anzi, come folla, è sempre sinistra, è la naturale complice del tiranno: bisogna che essa diventi popolo attraverso l’organizzazione. Io trovo in alcune folle segni di un’eredità fascista. E lo dico, quando mi è permesso, e lo riconosco. Questo è vero, naturalmente, che noi vogliamo rendere migliore la classe lavoratrice, e la folla stessa, da cui essa profondamente si diversifica. Perciò vogliamo appoggiarci alla classe lavoratrice (Commenti a sinistra), che ha subito tante sconfitte, fin dall’epoca dei Ciompi. Abbiamo visto nel 1919 cos’era. Noi vogliamo salvare la classe lavoratrice, e credo che finiremo per farlo. E in primo luogo, certamente, noi vorremmo garantire che non si rompa quel patto tra le classi lavoratrici, in cui è la saldezza stessa della classe operaia. Noi vogliamo che falce e martello e libro collaborino insieme senza demagogia; e crediamo che in questo modo anche la paura comunista, che è una paura diciannovista in questo momento, possiamo tenerla lontana: e questo è il servizio di amici, di compagni che noi possiamo fare.

Il discorso di Togliatti, sempre fino – come è sua abitudine – era in complesso vero; e non ho esitato ad accettarlo tutto. Tutta la base di eroismo che è dietro di lui, dietro il suo partito, nessuno può negarla, perché se noi abbiamo avuto tanti martiri come Matteotti, innegabilmente i comunisti ne hanno avuti molti di più, e nella guerra di liberazione e nella guerra di Spagna, che ne è stata l’antefatto, e nella quale si sono formati i quadri della guerra di liberazione. Essi nella guerra di liberazione sono stati di gran lunga i primi.

Questo è il grande fatto, per cui, anche quando Togliatti dice qualche bugia – e io ne citerò qualcuna fra poco – noi non dimentichiamo mai questo grande primato di eroismo che hanno i comunisti, e che nessuno può dimenticare. Ora, che cosa ha detto Togliatti? Cose molto interessanti, come è sua abitudine.

Egli ha parlato di quello che è il programma comunista da parecchi anni, ha parlato dell’unità, dell’unità che essi hanno contribuito a dirigere, ha parlato dell’autonomia nazionale, accettata addirittura dall’epoca dello scioglimento del Comintern durante la guerra; ha parlato di patriottismo, che personalmente Togliatti sente profondamente, e lo posso testimoniare io, suo antico compagno di scuola: è un patriottismo che non è una finzione. Non c’è dubbio. E poi ha parlato della democrazia, di quella democrazia nelle fabbriche, per cui è giusto tenere dei comizi politici perché le fabbriche sono i luoghi di nascita della democrazia moderna; ed ha parlato dei giornali murali, che sono anch’essi nati nel luogo di nascita della democrazia. Sono parole meravigliose.

Dov’è dunque il rilievo che noi gli facciamo? A noi pare che dalla liberazione ad oggi i comunisti – siano stati coscienti o no – si siano allontanati da questo concetto di unità patriottica, di partito nuovo (perché tutti i partiti hanno visto che sui vecchi schemi prefascisti, prebellici, non si vive). Ora, non so se se ne siano accorti, sono arrivati al punto che la loro politica è capovolta, in contrasto, perché la politica attuale è fatta di blocchi. (Commenti a sinistra). Prima di tutto, verso le sinistre autonome, che essi volevano che fossero identiche a loro. Infatti erano così. Qualcosa di diverso dal comunismo, e lo vedremo…

Una voce all’estrema sinistra. Nei Comitati di liberazione noi abbiamo sempre mantenuta la nostra caratteristica e la nostra autonomia!

CALOSSO. Vedremo anche questo, e tu mi applaudirai, te ne do il permesso. Voi avete sempre insidiato la sinistra.

TOGLIATTI. Lo dimostri.

CALOSSO. In secondo luogo, anche adesso voi lasciate tranquilli i qualunquisti e disturbate i comizi nostri. (Interruzioni all’estrema sinistra).

Il concetto di democrazia è stato finemente e delicatamente esposto da Togliatti, dal quale non avevo mai sentito accennare al rispetto delle minoranze ed egli, come ha detto un interruttore, ha parlato con la delicatezza di una vergine.

Ma sarebbe difficile credergli; anche se lui lo giurasse, sarebbe difficile.

Non vi è democrazia in un regime dove non sia possibile una minoranza. Ci può essere una dittatura… ma allora si chiama dittatura, non democrazia. Voi avete il diritto di lottare per la verità, ma non potete parlare di democrazia.

TOGLIATTI. Perché?

CALOSSO. Perché non è nei vostri metodi.

TOGLIATTI. Lo dimostri.

CALOSSO. Ma io l’ho già dimostrato, o almeno ritengo di averlo dimostrato. Ma se proprio mi vuol tirare per i piedi io sostengo che secondo il marxismo…

TOGLIATTI. Secondo il marxismo non c’è dittatura.

CALOSSO. Vedete in Russia, per esempio. Perché non esiste in Russia un partito come quello socialista dei lavoratori italiani? (Si ride). O anche un partito socialista? Non so perché in Russia non abbiano fondato un partito socialista.

Eppure gli appartenenti al nostro Partito socialista italiano credono che il loro sia il partito migliore. E perché non sono andati mai a portare la loro fede in Russia? (Si ride).

Sta di fatto che in Russia, nonostante che le classi siano sparite, c’è una forte polizia che taglierebbe loro la testa. (Interruzioni – Commenti). Questa è la verità, nuda e cruda.

Anche nel problema religioso il Partito comunista è arrivato lontano da dove era partito. Pochi giorni fa aveva scelto la data del 20 settembre…

TOGLIATTI. Non l’abbiamo scelta noi.

CALOSSO. Già, l’avete accettata. Voi non fate nulla: sono i socialisti che fanno tutto. (Ilarità).

TOGLIATTI. È Scelba che ce l’ha indicata. (Si ride).

CALOSSO. Effettivamente io credo che il 20 settembre dovrebbe essere una festa ecclesiastica, una festa dell’Azione cattolica. (Si ride).

SCOCCIMARRO. L’ha consigliata Scelba, perché attendeva la rivoluzione.

PRESIDENTE. Non interrompano, facciano silenzio!

CALOSSO. Il patriottismo non è stato nel Partito comunista uno degli accenti più originali, contrapposto alla vecchia tradizione. Ma a un certo punto il comunismo si è imbattuto in alcuni problemi nazionali in cui la sua mancanza di autonomia ha fatto sì che non potesse dire nemmeno una parola.

TOGLIATTI. Ma faccia il piacere!

CALOSSO. Provi a dire una parola contro la dittatura di Tito! (Applausi al centro – Proteste all’estrema sinistra).

Onorevole Togliatti, lei è intimamente un patriota e ritengo abbia dei dolori segreti.

Se una provincia italiana viene strappata al nostro Paese voi siete in piena corsa di patriottismo. Dovete ammettere, però, che in quell’impeto meraviglioso di patriottismo, persino esagerato, dinanzi al popolo istriano siete diventati talpe.

TOGLIATTI. Non è vero!

CALOSSO. Ritengo che questo sia stato un cattivo servizio reso alla Russia. Io ho già parlato dell’Inghilterra…

TOGLIATTI. Non mi interessa l’Inghilterra.

CALOSSO. Lo credo. Io mi sono sempre battuto in Inghilterra e in Italia.

PAJETTA GIULIANO. Non faccia l’eroe, onorevole Calosso. (Commenti).

PRESIDENTE. Vorrei ricordare a tutti qual è il tema di questa discussione. Ogni interruzione porta lontano dall’argomento. Facciano silenzio e permettano che si prosegua.

CALOSSO. Tanto, questa posizione mi pare poco sincera, falsa e demoralizzatrice per il popolo italiano, per la classe operaia, ed è persino un cattivo servizio reso alla Russia. Io ammetto – basta vedere la carta geografica – che la Russia ed i Paesi posti al di qua del mondo germanico siano occidentali; ma non è un fatto importante. Le ideologie non debbono influenzarci. Il mondo latino e slavo non si toccano in nessuna parte se non nella Venezia Giulia; quindi, è interesse nostro di cercare di smussare ogni attrito fra loro.

Penso che sia un errore della Russia andare incontro al nazionalismo o meglio al provincialismo iugoslavo. Non so se l’onorevole Togliatti si sia detto in segreto queste parole. È per un fatto di provincialismo che questo popolo slavo staccato dagli altri slavi ha creato fra noi e gli slavi questo punto di attrito mentre bastava a risolverlo una linea etnica, un plebiscito, e questo, mi pare socialismo al cento per cento, una decisione nazionale. Non essendosi fatto, io avrei creduto che sarebbe stato nostro dovere batterci per questo. Togliatti, che è stato in Russia ed ha amici laggiù, poteva battersi per questo. L’avrà fatto in segreto, ma non averlo fatto in pubblico ha demoralizzatogli italiani ed ha creato un abisso. Per queste ragioni noi cerchiamo di criticare questo sciocco imperialismo provinciale slavo. Il nostro imperialismo ha creato la sconfitta; quello slavo invece ha creato una linea di divisione ed una testa di sbarco anglo-americana: ecco quello che Tito ha determinato. Se noi avessimo protestato – non so se saremmo riusciti – per lo meno non avremmo demoralizzato il Paese inducendolo a farci indicare come traditori. Perciò la classe lavoratrice è oggi circondata: lo si deve a questa politica slava. Se nel campo internazionale siamo di fronte a questi due blocchi e dobbiamo toglierci il cappello e prendere ciò che gli altri ci danno – e se la Russia ci desse del grano lo prenderemmo – questo è frutto della politica di Tito. Voi avete dato la sensazione di chiamare imperialista soltanto un blocco, mentre lo sono tutti e due. (Interruzioni a sinistra). Sapete che i russi hanno deportato dai loro paesi 13 milioni di lavoratori tedeschi con le donne e i bambini: non lo volete chiamare imperialismo? Chiamatelo babilonismo, chiamatelo come volete! (Approvazioni al centro e a destra).

Una voce all’estrema sinistra. Se fosse andato a Mauthausen, non la penserebbe così.

TOGLIATTI. Vada a visitare Auschwitz!

CALOSSO. Si sono deportati 13 milioni di lavoratori tedeschi, con mogli e bambini perché i tedeschi hanno commesso delle crudeltà ed hanno fatto altrettanto in Russia.

TOGLIATTI. Come, «altrettanto»?

CALOSSO. Perché i tedeschi hanno fatto infinite crudeltà ed assassini in Russia; ma noi abbiamo sempre sentito dire, tra socialisti, che la guerra è un atto che non compie il popolo e del quale non è certamente responsabile la classe lavoratrice, e quindi non si può opprimere un popolo per il fatto che esso ha oppresso. Si deve liberarlo: questo è chiaro, altrimenti siamo nel campo dell’imperialismo puro. Questo era il motivo del «diciannovismo» ed è il pericolo che corriamo adesso. Lo vediamo in quest’Aula dove non riusciamo a mandare un saluto ai lavoratori tedeschi deportati dalle loro case. (Interruzione del deputato Moscatelli). Il martirio russo non può trovare vendetta contro il popolo ed i lavoratori tedeschi.

TOGLIATTI. Non è vendetta, è precauzione! (Commenti al centro e a destra).

CALOSSO. Comunque, io concludo. Mi avete tirato per i capelli ed ho dovuto rispondere. Questo è il nostro socialismo, questa è la nostra bandiera. (Interruzioni all’estrema sinistra). V’è nel mondo la sventura dell’Italia e la sventura del mondo, e noi speravamo in una rivoluzione proletaria, nell’internazionalismo. (Interruzioni all’estrema sinistra). Disgraziatamente abbiamo visto invece che, ad un certo punto c’è stata un’involuzione, come l’ha avuta la rivoluzione francese. Perciò, sentiamo qual cosa di invecchiato, e vediamo una massa di organizzati costretta sempre più a basarsi sull’organizzazione.

La rivoluzione, che non è necessariamente violenza e sangue, ma un cambiamento, è essenzialmente verità. «Ciò che è sussurrato all’orecchio, andatelo a gridare sui tetti», ha detto un grande rivoluzionario, noto anche ai nostri amici democristiani. Quando c’è una reticenza, quando c’è un eccesso di ipocrisia, quando si tace qualcosa volontariamente, non è mala fede; è qualcosa di più, è, in fondo, inizio reazionario. (Interruzioni all’estrema sinistra).

Il mio discorso ha voluto dire semplicemente che nel piano del Governo e dell’opposizione io ho l’impressione che l’opposizione l’abbiamo rappresentata noi. (Ilarità a sinistra). Noi abbiamo opposto all’antipiano del Governo la sovranità di un piano, perché noi crediamo che questo debba essere il soggetto di una discussione armonica e perché noi crediamo, come ho già detto, che il piano sia una grande opera moderna e sia la possibilità di costruire il socialismo, o almeno una migliore società, col metodo della democrazia. (Applausi a sinistra – Congratulazioni).

PRESIDENTE. È iscritto a parlare l’onorevole Bruni. Ne ha facoltà.

BRUNI. Onorevole Presidente, onorevoli colleghi, non del tutto d’accordo con l’opinione espressa questa mattina dall’onorevole Piccioni, ma d’accordo molto più con tanti di voi, sono del parere che l’esperimento democristiano sia durato abbastanza perché il Paese e l’Assemblea si possano già sentire autorizzati ad emettere su di esso un giudizio sufficientemente oggettivo, al di sopra delle preoccupazioni ed ire di parte. Avversandolo al suo sorgere fui, purtroppo, facile profeta nel prevederne tutti gli inconvenienti, ai quali sarebbe andato incontro. Oratori che mi hanno preceduto hanno toccato in vario modo, e spesso con dovizia di dettagli, tutti i motivi di opposizione; cosicché a me, anche perché isolato, non conviene davvero tediare l’Assemblea con un lungo discorso.

Questo mio intervento sarà, perciò, brevissimo; e poiché la risposta del Governo ai suoi oppositori, non potrà mutare sostanzialmente, anche in seguito, i termini fondamentali della opposizione, come non li ha mutati sinora, questo mio intervento, oltre alla brevità di una dichiarazione di voto intende averne anche il valore.

Posto di fronte a tre mozioni (amerei trovarmi di fronte ad una mozione unificata) che tutte tendono a rovesciare il Governo ed a sostituirlo con un altro più rappresentativo delle esigenze popolari, dichiaro che le voterò, eventualmente, tutte e tre successivamente (caso mai tutte e tre fossero messe ai voti) pur dovendo riconoscere che, per essere più comprensiva, la mozione Canevari-Saragat ha le mie preferenze. Ma ciò dichiarando sono ben lontano dall’approvare, in tutte le sue parti, la illustrazione che della sua mozione ha fatto l’onorevole Saragat.

Sono d’accordo con l’onorevole Saragat nel riconoscere che anche l’Italia avrebbe urgente bisogno di un suo piano economico, piano – desidererei precisare – che contemplasse la realizzazione di profonde riforme di struttura. Senonché, in questo momento, non insisterei tanto sopra i grandi piani quanto sopra un chiaro programma di emergenza che possa raccogliere l’adesione di più gruppi di questa Assemblea, il che permetterebbe il rapido sbloccamento del monopolio democristiano e la formazione di un Governo di concentrazione e di pacificazione, che ci possa portare sino alle elezioni.

Non posso, invece, condividere le responsabilità dell’onorevole Saragat per l’attacco contro il Partito comunista italiano che egli ha creduto opportuno di includere nella illustrazione della sua mozione di sfiducia.

Il meno che si può dire a tale riguardo è che questo è un lusso che qualsiasi partito socialista non dovrebbe prendersi in questi momenti nei quali è in pieno svolgimento, da parte del mondo capitalistico, la più grandiosa offensiva contro il socialismo, che ricordi la storia della lotta di classe dell’Ottocento e del Novecento.

Con tutta franchezza dirò che non mi piacciono affatto le querele contro i comunisti che raccolgono gli applausi delle destre e del centro.

Sono del parere che coloro che si mettono nella condizione di raccoglierli, anche loro malgrado, corrano gravemente il rischio di liquidarsi come costruttori di socialismo.

Dio perciò non voglia che al suo appuntamento dato alle masse lavoratrici, l’onorevole Saragat veda un giorno accorrere soltanto l’esercito umiliato e vinto del proletariato arresosi senza condizione di fronte ai detentori dell’oro.

A questo punto non vorrei essere frainteso; ma mi creda l’onorevole Saragat e mi credano tutti i compagni del suo partito. Non è questo il tempo di diatribe tra le varie correnti socialiste, quando è in corso la più grande provocazione contro tutto il socialismo che la storia ricordi.

È meglio, assai meglio, oggi come oggi, meritare la persecuzione ed anche perire assieme ai comunisti che tenere atteggiamenti che possano aiutare a ricalcare il dominio capitalistico.

Chiariti questi preliminari, farò un semplice, affrettato elenco dei fondamentali punti di dissenso che mi portano a negare il voto di fiducia all’attuale Governo.

Sul piano nazionale questo Governo monocolore, che nacque in polemica contro la inefficacia dei precedenti governi multicolori, come ce l’ha riconfermato questa mattina l’onorevole Piccioni, nonostante la sua vantatissima coesione di pensiero e di struttura, non mi pare sia riuscito, non dico a risolvere, ma ad avviare verso la soluzione uno solo dei più urgenti problemi che tormentano il Paese.

La situazione del Paese, anzi, è notevolmente peggiorata. Il Governo, per difendersi da questa accusa, tenterà probabilmente di manovrare alcune cifre statistiche; ma si troverà, senz’altro, imbarazzato a toccare quelle relative al costo dei generi di prima necessità, come mi pare abbia confermato da pure accurata e dotta relazione dell’Alto Commissario per l’alimentazione.

Forse al professor Ronchi non potranno essere mossi addebiti se un maggior numero di tonnellate di grano non venne scaricato nei nostri porti. Ciò che noi rimproveriamo soprattutto al Governo è che esso non sia ancora riuscito a combattere efficacemente il mercato nero che in altre nazioni, non più rifornite della nostra, è stato definitivamente, o quasi, stroncato.

Purtroppo il Governo non è riuscito, ripeto, con tutti i poteri a sua disposizione e nonostante la sua struttura unitaria, ad imprimere una qualsiasi disciplina alla produzione, alla circolazione, e al consumo dei beni di prima necessità. In questo terreno le cose sono andate peggiorando.

È andata aumentando la corruzione ovunque; è aumentata la speculazione e il disordine. La fuga di capitali all’estero è aumentata e costituisce una delle cause maggiori del nostro disordine finanziario.

Il disagio popolare è da tempo che va esplodendo ovunque, in agitazioni e scioperi di cui a mio parere troppo a cuor leggero si cerca far ricadere la colpa sopra artificiose inframettenze politiche. Gli indici della vita parlano purtroppo chiaro a questo riguardo; e, comunque, il Governo democristiano ha avuto il torto – che non è davvero piccolo –, con l’assumersi tutto il potere, di mettersi in posizione polemica contro le convinzioni politiche di una grande parte delle masse popolari, tra le più evolute ed attive, che sono quelle socialiste e comuniste.

Non è il Partito democristiano, con il suo interclassismo, con il suo centrismo, con tutte le sue incertezze, che può pretendere di riassorbire, per così dire, le esigenze, politiche e sociali, delle masse socialiste e comuniste.

Prigioniero, nonostante le pie intenzioni di autonomia dell’onorevole Piccioni, delle destre, in seno al Gabinetto ed in seno all’Assemblea; costretto a sopravvivere giovandosi dei voti di chi anche cordialmente e pubblicamente lo disprezza, questo Governo, come a suo tempo riconobbe lo stesso onorevole Presidente del Consiglio, si è condannato, fin sul nascere, all’isolamento. E non si può ascrivere a suo merito questo isolamento, che non è davvero una splendid isolation, di cui possa comunque menar vanto, ma una semplice ed ingenua pretesa, morale e politica, di poter governare proficuamente da solo un Paese come il nostro.

È mio parere che l’onorevole De Gasperi si sia rassegnato troppo facilmente a prescindere dalla collaborazione delle varie correnti socialiste, che sono, nel momento attuale, una delle più sicure garanzie di giustizia sociale anche per moltissimi lavoratori cattolici, che non dànno la loro fiducia né al suo Governo né al suo partito.

Tale esclusione – e conviene insistere su questo punto che è cruciale nell’attuale momento politico – costituisce un fatto grave, che ha provocato nel paese – e non poteva non provocare – una estrema tensione di spiriti, particolarmente giustificata quando si rifletta che il Governo detiene quasi integralmente nelle sue mani anche il potere legislativo in forza del famoso decreto luogotenenziale del febbraio 1946.

Nella delicata situazione costituzionale creata da questo decreto, un Governo monocolore al potere diviene, ipso facto, pressoché totalitario. Il solo controllo di una qualche efficacia, ma tuttavia insufficiente e facilmente eliminabile, è quello che può esercitare su di esso l’apparato burocratico.

Vecchio critico dell’esarchia e del tripartito, devo però riconoscere che ben altre garanzie di democrazia, in questo periodo di passaggio delle nostre istituzioni, ci venivano sino a qualche tempo fa assicurate dai Governi tripartitici o quadripartitici che fossero, i quali certamente erano rappresentativi di una massa ben altrimenti notevole di elettori e di tendenze.

Il Governo monocolore, inserendosi – e qui è il punctum saliens e il punctum dolens della mia critica – in questa situazione di grave carenza costituzionale, non può raccogliere la fiducia, onorevoli colleghi, di veri democratici.

Anche i democristiani, onorevole Piccioni, non sono dei santi, e neanche essi possono pretendere ad una patente di perfetto spirito democratico: e a fare le elezioni con loro soli al potere nessuno se la sente.

E perciò non vedo come potrebbe meritare una qualsiasi sanzione morale ogni forma di agitazione che si manifestasse anche fuori di quest’Aula, diretta a rovesciare l’attuale monopolio democristiano.

Tanto più che questo monopolio è particolarmente pericoloso nell’attuale situazione di tensione internazionale e potrebbe trascinare il Paese ad assumere atteggiamenti e decisioni di carattere irreparabile.

Questo Governo, sul piano internazionale, nacque con un’esigenza blocchista – venne concepito oltre oceano dall’onorevole De Gasperi – e sin qui ha operato in funzione di questa sua nativa esigenza, mettendo così in pericolo, a mio parere, i veri interessi del Paese, che sono quelli della più assoluta neutralità tra i due blocchi, e quelli di mediazione tra Occidente e Oriente.

In questo Governo monocolore non ho potuto sorprendere nessun gesto che potesse dinotare una politica di indipendenza, e che potesse scoraggiare chi si sia ad averci al suo fianco in caso di conflitto armato.

Quando l’onorevole Nenni toccò questo problema della nostra indipendenza politica, egli fu insolitamente prudente.

Egli ammise che il Governo potesse fare una politica verso ed anche con l’America, ed escluse in modo assoluto che l’America pretenda da noi una politica dell’America. La realtà, che nessuno ignora qua dentro e che nessuno ignora in America, è che l’America subordina i suoi aiuti in viveri e materie prime al nostro Paese, ad alcune determinate prestazioni politiche, nonché – naturalmente – alle maggiori possibili garanzie di carattere economico-finanziario. Se non sapessi di sfondare una porta aperta, vorrei pregare l’onorevole Nenni di leggere le dichiarazioni del senatore Taft proprio di questi giorni.

Mi vorrei tuttavia convincere, per il bene del mio Paese, di quanto l’onorevole Nenni ha affermato; e, con tutta franchezza, dirò che l’ingerenza americana nella nostra politica potrebbe avere un indice di sopportabilità qualora vedessi, all’attuale Governo, succedere un altro di concentrazione repubblicana e socialista che, bene inteso, non escludesse i comunisti.

Concludendo dirò che il Partito democratico cristiano, per gli interessi di ordine materiale ai quali si trova legato ed anche per una falsa impostazione pratica (e forse anche teorica) della crociata ideologica per cui intende combattere, è impotente, senza il freno ed il controllo attivo di altre correnti, a riportare il Paese sulla giusta strada, ed impari, se non sorretto e spronato e controllato direttamente da altri gruppi, ad adoperarsi per i veri interessi della Nazione e della pace, e per l’avvento di un vero ordine umano e cristiano, per il quale pur afferma di combattere.

Legato a massicci interessi di varia natura il Partito democratico cristiano è nel suo assieme impari, nonostante la presenza nel suo seno di autentiche anime evangeliche, ai compiti cristiani dell’ora che reclamano virtù eroiche di rinuncia e di coraggio.

Per tutte queste considerazioni voterò contro l’attuale sua posizione di monopolio al potere, come voterei contro ogni altro monopolio. (Applausi a sinistra – Congratulazioni).

PRESIDENTE. È iscritto a parlare l’onorevole Nitti. Ne ha facoltà.

NITTI. Poiché tutti gli argomenti in lungo e in largo sono stati trattati, io cercherò, senza divagare, di limitarmi alle comunicazioni del Governo. Sui motivi peraltro, che sono lo scopo dei proponenti la mozione lascio tutte le tesi che all’infuori di questo argomento sono state trattate.

Lascio anche da parte le discussioni se un popolo può morire o no, se la nostra civiltà sia socialista. Si è discusso seriamente se in questi periodi di grandi difficoltà e di grandi ansie sia meglio che economizzare, consumare di più e non risparmiare. Sono questi argomenti di indole generale in cui non mi sento il coraggio di entrare.

Noi siamo stati finora sotto il Governo del tripartito, e si è andati avanti per molto tempo fra uomini che erano di partiti opposti e che dovevano avere o mostrare di avere idee comuni. Si è prodotta qualche volta come una fusione di idee contrarie: ma più spesso un’azione disordinata in cui le due correnti nella realtà si paralizzavano, combattendosi, dopo pubbliche dichiarazioni di solidarietà.

Ho sentito sostenere perfino la tesi che il comunismo e il cristianesimo hanno la stessa morale e la stessa funzione, ed ho cercato invano di protestare contro questo errore storico e filosofico.

C’è stato anche l’equivoco di una specie di comunismo cattolico, per l’occasione, in cui si sono sostenute le tesi del cattolicesimo da scrittori e da oratori di natura contraria, soprattutto democristiani. Il Governo a base di unione di partiti in contrasto fu chiamato dai comunisti, non so bene perché, democrazia progressiva.

Dopo il viaggio dell’onorevole De Gasperi in America è avvenuta una mutazione di idee. Fra l’onorevole De Gasperi e i suoi avversari di oggi vi era stata molta cordialità. Avevano governato insieme, partecipato agli stessi errori e non pareva che il distacco dovesse essere così profondo e completo, e anche avvenire improvvisamente.

Pure il distacco era inevitabile, e siamo arrivati ad una crisi (non parlo di crisi ministeriale), siamo arrivati ad una crisi della situazione la quale deve essere chiarita.

Sinora si è andati avanti come si poteva: democristiani e comunisti, che hanno governato insieme, si sono abituati a vivere insieme – ciò che pare un paradosso – e ora il distacco pesa.

Nella mozione dell’onorevole Nenni come nella mozione dei comunisti non c’è l’attacco violento: c’è qualcosa come un dolce rimpianto di compagni che si distaccano. Si è troppo governato insieme. Non poteva durare questa comunanza, ma quando si è stati a lungo insieme non ci si distacca volentieri.

L’onorevole De Gasperi ha chiarito forse molte idee sulla situazione internazionale. Egli ha voluto dare alla nuova situazione un carattere che era evidentemente dato dal corso degli avvenimenti, di necessità.

Ora vi sono due punti fissi che regolano la situazione attuale. Non si può fare un grande Governo, un Governo solido, senza i democristiani. Non si può fare a meno, per la vita internazionale, dell’aiuto dell’America: sono due punti di fatto in cui bisogna orientare la situazione per riconoscerla com’è.

In fondo non è vero che i democristiani, come diceva l’onorevole Piccioni, sono la grande maggioranza del Paese. Noi non sappiamo ora quali sono le idee e i sentimenti del Paese. Nelle ultime elezioni generali politiche, vi sono stati 207 deputati del partito democristiano e 219 socialisti e comunisti. Quindi si può riconoscere che il partito democristiano è numericamente il più forte e il più saldo. Ma non si può dire che abbia la maggioranza nel Paese. Questo è un dato di fatto su cui è impossibile avere opinione diversa.

115 socialisti, 104 comunisti: erano il nucleo più numeroso; i democristiani rappresentavano un gruppo compatto di 207 voti che era però, sia pure di poco, meno numeroso del blocco rosso.

Il blocco rosso si è rotto. Di là è venuta tutta questa confusa situazione. Il blocco rosso si è diviso in due parti: una più moderata, l’altra aderente ai comunisti. Che cosa sarà ora la situazione? Noi non sappiamo. Le prossime elezioni amministrative in grandi città possono bensì darci una qualche impressione della realtà, ma non possono forse dirci tutto, perché nelle prossime elezioni amministrative entreranno molti elementi che sono anche spesso un poco distanti dalla realtà politica.

Quindi siamo sempre nella solita situazione: due blocchi, uno rosso e uno bianco. Ma il blocco rosso si è scisso, e la parte che poteva essere di moderazione e che poteva essere, per i comunisti e i socialisti più avanzati, un freno, si è allontanata.

Come ciò sia avvenuto voi conoscete assai meglio di me, dalla cronaca. Dunque vi sono adesso socialisti e comunisti separati fra loro. Ma i socialisti, divisi in due pezzi, rappresentano tendenze diverse e, vorrei dire, opposte. Vi sono i socialisti di Nenni, che si uniscono nel loro voto e nelle loro aspirazioni, se non in tutto, in una certa parte ai comunisti; e vi è un gruppo che fa capo all’onorevole Saragat che agisce in diversa direzione. L’onorevole Saragat ha dichiarato il suo pensiero in un ordine del giorno con un linguaggio aspro contro il Governo e ancora più duro degli ordini del giorno degli onorevoli Nenni e Togliatti. L’onorevole Saragat ha negato esplicitamente la fiducia e ha, non già formulato, ma lasciato intravedere un programma senza nulla precisare. Quale è questo programma? Egli l’ha formulato in aspirazioni non in idee, in affermazioni non in proposte concrete. Quale è la sua tesi che noi dovremmo accettare? Un Governo a direzione socialista. Un Governo dunque a direzione socialista che rappresenti l’elemento di moderazione, che possa unire il mondo dei lavoratori senza avere un carattere rivoluzionario.

Che cosa significa un Governo a direzione socialista? La direzione implica che i componenti siano della stessa natura di chi vuole dirigerli. Ora, se il partito dell’onorevole Saragat aspira a un Governo, deve avere un gruppo compatto, ma soprattutto, data la situazione attuale, uomini di altri partiti che siano disposti ad accettarne le idee e il programma. Ora, ciò è possibile? Che significa un Governo a direzione socialista? Parliamo con sincerità e non creiamo altri equivoci. «Socialismo» è una parola spesso indeterminata e imprecisa. È un sostantivo cui bisogna aggiungere quasi sempre un aggettivo. Comunismo è parola antica e ha avuto sempre lo stesso significato, sia pure con diverse interpretazioni. Socialismo è parola nuova inventata da Owen. Socialismo, voi lo sapete, è parola diffusa press’a poco un secolo e mezzo fa in Europa. Anche i grandi dizionari, due secoli fa non contenevano la parola «socialismo». Che cosa significa socialismo? È difficile dire.

Vuol dire non già una idea economica definita, ma una idea di solidarietà, una aspirazione di ordine morale: ciò almeno voleva dire quando nacque. E ora che cosa vuol dire? La sua indeterminatezza lascia posto a tutte le migliori aspirazioni, ma spesso anche a tutti gli equivoci. Si può arrivare al comunismo, ma anche spesso, come ora, all’anticomunismo.

A Vienna, nel mese di agosto del 1914 doveva essere fatto un grande congresso internazionale socialista. Si voleva dare all’avvenimento la più grande importanza. Doveva essere la più grande consacrazione delle tante vittorie socialiste in Europa. Si prepararono grandi pubblicazioni sulla storia del socialismo, sulla sua situazione in tutti i paesi civili, sulle sue opere, sulla sua organizzazione economica. Si fece un album dei grandi capi del socialismo: era composto di 50 fotografie. Ora quell’album è introvabile: è una pubblicazione che non ho avuto il piacere di ritrovare fra i miei libri sperduti. In questo album dei grandi socialisti, vi era Pilsudski e vi era perfino Mussolini. Il socialismo ha avuto molte mutazioni in questo periodo, ma è rimasto sempre una tendenza generale e rappresenta un orientamento dello spirito piuttosto che una precisa dottrina economica. In ciò è la sua forza, ma è anche spesso la sua debolezza. Basti pensare a quello che era la prima internazionale socialista con Marx e con tanti poveri emigrati e perseguitati, tutti uomini che vagavano nel mondo in cerca di sicurezza, se non di fortuna. E basti poi pensare che cosa è stata la seconda internazionale socialista, presieduta dal mio ottimo amico Vandervelde. Nella seconda internazionale era gran numero di Ministri in carica, sopra tutto del Nord di Europa, di ex Ministri, di futuri Ministri, e ben pochi di essi ricordavano nella loro azione e nelle loro manifestazioni i socialisti di Marx. Anche in Italia ora socialista è Nenni e socialista è Saragat. Come dovrebbe essere la direzione socialista?

Si parla ora di piani come di una novità, e questo è equivoco se non ignoranza. Il piano è non già cosa nuova, ma cosa vecchissima, di cui l’antichità ha avuto non solo conoscenza, ma di cui ha anche riso.

E ne han riso anche i più grandi pensatori, e perfino tra essi Aristotele.

Il socialismo da parecchio tempo ha perduto il suo carattere veramente rivoluzionario, ed allora ricerca tante cose, tante forme che paiono nuove e sono antiche, per trovare una ragione di esistenza: ora la forma nuova è diventata il piano. Si vuole o un piano generale o una serie di piani.

Io non so che cosa sia genericamente oggi il piano, e attendo che me lo spieghino coloro che tendono così fortemente ad essere pianisti o pianeggiatori. (Si ride). Non so come si possa dire seriamente «vogliamo dei piani», cioè cosa indeterminata, e non dire più semplicemente: vogliamo programmi chiari e precisi. Piano suppone sempre qualche cosa di misterioso, o almeno gli autori di piani lascian supporre che vi siano rimedi misteriosi. È una specie di mistica della speranza e dell’equivoco, e Aristotele aveva ben ragione di riderne.

Aristotele è stato princeps nella fisica e nella metafisica, maestro della umana ragione, degnissimo di fede e di obbedienza, come dice Dante.

La Chiesa ha in tanta parte l’opera di San Tommaso nella sua concezione filosofica, e San Tommaso e la scolastica sono Aristotele.

A differenza di Platone e del grandissimo Socrate, Aristotele non faceva volentieri tratti di spirito. Ma ne fece per gli autori dei piani. È da lui che abbiamo appreso che il primo autore di piani fu l’architetto Archidamo da Mileto. Archidamo fece dunque il suo piano che regolava tutta la vita della città. La parola piano è, dice Platone, del linguaggio architettonico. Archidamo da Mileto, il quale aveva tutto previsto nel suo piano: le leggi della città, l’ordinamento economico, la struttura dell’agricoltura e dell’artigianato, Archidamo, dice Aristotele, era l’uomo più vanitoso del mondo, teneva molto alla sua persona e coltivava con cura la propria chioma e la propria barba. Ebbene, questo Archidamo da Mileto è stato il precursore degli attuali pianisti o pianeggiatori (Si ride) ed ha fatto un piano su tutto: infatti la parola «piano» viene dall’architettura: Archidamo era un architetto. Aristotele ridendo dei piani ne comprendeva la vanità. Egli era veramente un princeps della fisica e della metafisica, uomo che sapeva tutta la scienza e tutte le filosofie del suo tempo, che aveva uno spirito profondo sempre vivo e sempre nuovo in tutte le sue manifestazioni. Che cosa è un piano? Archidamo da Mileto, architetto, lo usò perché appunto, come architetto, aveva le idee pianiste e pianeggianti (non so come si deve dire). Qual è la differenza fra piano e programma? Ogni uomo che ragiona ha il suo piano, che non è altro che il programma o un insieme di programmi: programma della giornata, programma del mese, programma dell’anno, ecc. Ogni negoziante fa il suo programma per i suoi affari. Ma ora in politica e in economia si dà l’idea del piano per indicare non soltanto ciò che si vuol fare, ma la trasformazione cui attraverso l’azione si vuole giungere. Così, si parla di piano a scopo socialista, di piano a scopo religioso, e vi è sempre nel piano un’idea che è diversa da quella del programma. Quindi vi sono migliaia di piani.

In Germania furono calcolati, prima che venisse Hitler, oltre diecimila piani. Quanti altri ne sono stati fatti? In ogni paese, in Belgio, in Francia (la Francia prima della guerra fu fertile in produzione di piani), in Inghilterra. Non se ne fece nulla ma i piani si seguirono ininterrottamente.

Il Belgio ebbe la fissazione dei piani, e trovò il pubblico socialista ben disposto ad accogliere seriamente l’idea dei piani. E vi fu uno studioso serio, de Man, che si entusiasmò per i suoi piani. Era uno scrittore di economia. Aveva viaggiato per gran parte di Europa e di America, aveva fatto l’operaio e lo scrittore, era serio economista, aveva conosciuto le fasi della vita economica e dovunque aveva grande reputazione. Ora, il popolo belga si entusiasmò talmente che 563.461 socialisti belgi dettero adesione al movimento Vandervelde, che fu eletto vicepresidente del Consiglio. E, naturalmente, del piano non si fece nulla, come per gran parte dei piani. Poi venne la guerra e seguì l’invasione del Belgio. De Man non si comportò molto bene. Era fiduciario della Regina Madre e divenne poi suo amministratore. Ebbe cura dei suoi interessi ed esaurì la sua azione politica.

Dovunque vi sono stati dei piani, dovunque se ne è voluto adottare qualcuno, dovunque non si è riusciti che ad aumentare confusione e disordine.

Che cosa vuol dire fare un piano? Vuol dire adattare all’idea di una forma sociale, di una forma economica non esistenti la situazione esistente per trasformarla. Ora, queste cose assai difficilmente riescono e spesso cadono appena nate.

L’onorevole Saragat si riferisce senza dubbio al piano che noi non abbiamo conosciuto sotto il nome di piano russo. Il piano russo, su cui esiste molta confusione, è stato soprattutto un piano di guerra, un piano di necessità, che la Commissione bolscevica costituì nel 1921 e che ha funzionato solo nel 1926-27 e più ancora nel 1929.

Vi sono dunque programmi e piani, e in Russia vi è stato soltanto il tentativo di un vero piano, cioè il tentativo di dirigere tutta la produzione.

In tutto il resto di Europa si è parlato spesso di piani, ma senza mai seriamente prepararli e organizzarli.

Il piano russo si basa sulla necessità di riparare alle distruzioni della rivoluzione e della guerra, in un Paese che aveva tutte le materie prime e tutte le condizioni più favorevoli. La Russia è il solo paese che può concedersi il lusso di avere un piano con probabilità di avere buoni risultati, anche perché non può avere facilmente forme libere di produzione che permettano di sviluppare utilmente tutte le risorse della Nazione. La Russia possiede terre in tale quantità, che in alcune zone il contadino potrebbe avere tanta terra quanto un grande proprietario. Vi sono tali ricchezze minerarie ancora sotto terra sepolte, da utilizzare, che basteranno per molti secoli a popolazione assai più grande.

Vi è infine una popolazione abituata all’obbedienza, passiva da secoli. Un piano suppone una disciplina forte, una forza di esecuzione che non ammette deviazione. La Russia aveva tutte le condizioni per avere un piano che rappresentasse un successo e la Russia difatti, pur producendo a costi così elevati, ha tentato ciò che altrove sarebbe stato impossibile. Il bolscevismo ha avuto il merito di realizzare, in forma autoritaria, progressi che non si sarebbero realizzati con la libertà, o si sarebbero realizzati assai più lentamente. In Russia, dove si parlano 83 lingue e innumerevoli dialetti, vi sono popolazioni cui Mosca ha dato perfino l’alfabeto e la grammatica. Quando si pensa allo sforzo che la Russia ha compiuto, bisogna rimanere ammirati della sua opera, anche se è stata spesso antieconomica e se il risultato non è stato pari allo sforzo.

Gli autori o i propugnatori del pianismo parlano di grandi opere da compiere con l’economia del piano. Che significano queste parole? Programmi per la produzione sono sempre esistiti e vi saranno sempre. Si tratta solo di vedere se è utile che siano coordinati per scopi politici, come quando si dice che devono servire a un Governo a direzione socialista, o se viceversa non possono costituire in questo caso materia di sperperi e di perdita.

Io non conosco grandi piani economici che non si siano risoluti in perdita.

L’economia del piano è essa stessa basata sul presupposto di un potere autoritario, perché richiede che non vi siano, per effetto della disobbedienza e dell’indisciplina, troppi sperperi. Mussolini e Hitler potevano concepire l’idea del piano, com’essa è naturale ed è stata anche in una certa fase necessaria in Russia ove ha anche ora fondamento nella realtà.

In paesi come la Francia e l’Italia è errore ed è destinata a fallire.

Un piano a direzione socialista, dove i socialisti non sono la massa della popolazione e non hanno anche essi la facile obbedienza passiva, è errore ed è soprattutto illusione.

Ciò non esclude che vi siano e vi possano essere programmi sociali anche utili.

Quando per effetto della scarsità della produzione e della mancanza di scambi e in conseguenza alla caduta della libertà, la vita economica è regolata per necessità in molta parte dallo Stato, si spiega l’illusione dei piani e la confusione che si fa tra piani economici, in vista di scopi sociali, e programmi economici, sia pure di lunga durata. Gli uomini competenti che fanno programmi economici sono ben lontani dal pretendere di trasformare le basi della società mediante i loro piani. Ogni vero piano sarebbe in Italia sicuro fallimento dopo disordini e sperpero.

Noi dobbiamo utilizzare le nostre modeste risorse nel modo più serio e migliore, senza fantasia e senza illusione.

L’onorevole Saragat ha dato consigli sul piano, ma non ha detto il piano. Ora non è utile dire di volere un piano da affidare a un Governo a direzione socialista. Ma chi vuole un piano non può chiedere un bill d’indennità preventivo. Deve dare non solo le linee del piano, ma indicare i mezzi di attuazione e le disponibilità da utilizzare e i sacrifizi da imporre al Paese. Lo stesso piano russo nelle condizioni più agevoli si potette attuare solo col sacrifizio di milioni di uomini. Tutto fu sacrificato ai grandi armamenti che i capi bolscevichi credevano necessari per dare alla Russia autonomia e libertà di fronte agli stranieri. Se l’onorevole De Gasperi vuole avere fiducia, io gli consiglio di non farsi tentare dall’idea di un grande piano: non avrebbe che disinganni.

Deve andare verso programmi che possano essere realizzati. Noi dobbiamo procedere con le nostre forze, con i nostri mezzi, e dobbiamo procedere in base a programmi sicuri che possano essere realizzati senza perdite. Da noi non vi è possibilità di un lusso qualsiasi. Ogni errore per noi è grave colpa, perché ci può mettere domani in una situazione insostenibile e dare sempre illusioni al popolo.

In ogni modo chi ha un piano di trasformazione sociale lo esponga subito. Per annunziare un piano e non limitarsi all’applicazione di programmi concreti e realizzabili, bisogna che il piano esista. E se già non esiste è male presentarlo come se esistesse.

E passiamo a ciò che più importa: la gravissima situazione finanziaria, che se non muta è ridicolo parlare di piani e di programmi che richiedono nuove grandi spese.

Io mi auguro che l’amico Einaudi faccia tutti i miracoli possibili per trarci dalle difficoltà della difficilissima situazione in cui siamo.

Egli ha assunto due funzioni le quali non rispondono alla nostra situazione: egli è vicepresidente del Consiglio dei Ministri ed è capo di un Ministero finanziario. Anche qui noi abbiamo una malattia costituzionale: la tendenza ad aumentare e a mutare ciò che esiste.

Noi avevamo fino a qualche mese fa due Ministeri, uno del tesoro e uno delle finanze.

Non era forse una divisione molto logica; ma esisteva da molti anni. Poi si trovò che non andava bene e si pensò che era meglio un solo Ministro del tesoro e delle finanze e si nominò l’onorevole Campilli, che era senza dubbio uomo intelligente. Egli rese, arrivando al Governo, un segnalato servizio. I Governi succeduti ad fascismo non avevano mai pubblicato un quadro della situazione finanziaria reale. L’onorevole Campilli fece questo quadro con onestà e io gliene fui grato. Disse tutto ciò che non si era detto prima e anche gli spiriti più amanti delle illusioni cominciarono a rendersi conto di quella dura realtà che non doveva essere dissimulata.

Poi Campilli dovette andar via e si nominarono tre Ministri, dove erano stati due e uno. Il pubblico non comprese: non due ma tre, e vide solo che le difficoltà andavano crescendo e crescevano sempre i corsi dei cambi all’estero e delle derrate all’interno. Il pubblico aveva torto di aspettarsi miracoli.

Ma la finanza è forse la sola cosa dove non vi sono miracoli. Vi è sempre la nuda realtà. L’onorevole Einaudi aveva assunto il titolo nuovo e non felice di Ministro del bilancio, ma non poteva mutare la situazione e tanto meno promettere di mutarla.

Ora il pubblico attende ancora il miracolo: ma il pubblico non può avere il miracolo. Dovremo avere ancora una penosa finanza e per molto tempo. Si tratta di vedere se ciò che si fa risponda col minor sacrificio possibile al massimo risultato, perché errori non ci sono consentiti.

Ora, senza fare una critica all’onorevole Einaudi (egli sa che io sono suo amico e che in me non vi può essere nessuna idea meno che amichevole) devo ricordare che quando assunse il Governo mi limitai ad alcune raccomandazioni.

L’onorevole Einaudi non ha potuto fare molte cose che io desideravo; e che gli dissi con sincerità. Io soprattutto desideravo che esistesse un vero bilancio e che si uscisse dal malcostume di disporre senza alcun controllo di fondi enormi.

Volevo che si giungesse presto a una relativa sincerità del bilancio e si arrivasse almeno al punto di sapere quali sono veramente le entrate e quali le spese, e che ci fosse un maggiore controllo. Ora, nessuna cosa è più necessaria di fare in guisa che il bilancio sia chiaro e basato sulla specialità delle spese e quindi in forma debita, diviso in capitoli, in tal modo che non sia possibile alcun abuso nella destinazione delle somme dello Stato.

Speravo, come dissi, che l’amministrazione finanziaria potesse rientrare nella legalità voluta dalla legge di contabilità e fossero rimesse in onore le norme classiche per una reale gestione che consentisse il minimo controllo.

Nessuna modificazione è stata apportata ai capitoli, mentre si deve a ogni costo tornare alla specializzazione. Si fanno ancora adesso spese ingenti autorizzando il Ministro proponente a inscriverle nel bilancio quando crede e vuole.

Non ci sarà mai da noi una restaurazione del bilancio se non se ne incomincerà a stabilire la chiarezza, soprattutto la divisione in capitoli che rappresentino la normalità.

Noi dobbiamo evitare che vi siano spese enormi non controllate e dobbiamo volere che non si trasformino i bilanci di competenza in bilanci di cassa, come si fa ora per i bilanci dei lavori pubblici: dobbiamo volere che non si faccia alcuna spesa che non sia autorizzata.

Ora la materia dei residui passivi diventa preoccupante, e si fanno leggi di pagamenti e finanziamenti differiti, è quindi a carico della cassa. Si fanno leggi di finanziamenti a pagamenti differiti, ma con la facoltà (in realtà necessità) di scontare le annualità o semestralità, e quindi a carico della cassa e dei mercati finanziari già iscritti.

A molte di queste cose che riguardano la chiarezza e il controllo del bilancio l’onorevole Einaudi può provvedere senza difficoltà. Egli ha assunto una carica che io non trovo troppo felice: quella di Ministro del bilancio. Non so perché gli sia stato conferito questo titolo, che non trovo in nessun altro paese. Una sola volta in Francia questo titolo esistette, ma durò pochissimo tempo.

Ma l’onorevole Einaudi e il Ministero troveranno ben altre difficoltà quando dovranno affrontare i grossi problemi che sopraggiungono.

La nostra Assemblea finirà con la data del 31 dicembre e questa volta è necessario che assolutamente si finisca. (Applausi). Io in quest’Aula assunsi la responsabilità di dire che la proposta di limitare, come il Governo voleva, a settembre i nostri lavori non era accettabile, perché non avremmo avuto la possibilità materiale di tenervi fede. Ma a dicembre dobbiamo assolutamente finire. Io vedo invece in una sia pure piccola parte di questa Assemblea un proposito indeterminato: la necessità di un nuovo termine. Tutte le assemblee desiderano la longevità e se possono la stessa stabilità. Ho udito perfino questa strana ipotesi: perché, se è necessario, questa nuova Assemblea Costituente non si trasforma in Assemblea legislativa e dura fino quando non vi saranno tempi più calmi?

Cose impossibili e non serie: noi dobbiamo finire il 31 dicembre. E dobbiamo fino allora avere esaurito il nostro compito essenziale: aver fatto la Costituzione, buona o cattiva che essa sia.

E dobbiamo, per quanto è possibile, non impegnare coloro che seguiranno, con atti e articoli della Costituzione, che riguardano le nostre idee e la nostra azione più che le necessità dello Stato. Noi non abbiamo altro diritto se non quello di fare la Costituzione. Ora, se nella Costituzione vogliamo mettere ciò che attiene veramente alla Costituzione e non cose che rappresentano interessi, idee e tendenze dei partiti dovremo terminare i nostri lavori senza incidenti spiacevoli che compromettano anche l’avvenire.

Io vedo la necessità che l’Assemblea Costituente prepari prima di tutto due serie Assemblee legislative, che avranno compiti molto gravi: e noi stiamo facendo di tutto per aumentare gli errori della proporzionale. Noi stessi esageriamo nel far male. La prima proposta del Governo era che vi fosse un deputato per ogni 80.000 abitanti. Troppi deputati. L’onorevole Conti propose giustamente la cifra di 150.000 abitanti per ogni deputato. Io, vedendo che la cosa riusciva ostica (molti colleghi pensavano di quanti posti si riduceva il nostro numero) proposi 100.000 abitanti. Mi aspettavo che a questa formula intermedia l’Assemblea aderisse; invece fu respinta la proposta dei 150.000, nonché quella dei 100.000, e si adottò quella degli 80.000. E sono sicuro che se si fosse proposto di avere un deputato ogni quarantamila abitanti, il numero di voti sarebbe stato ancora più grande, sopra tutto a scrutinio segreto. (Commenti). Tutto ciò è pericoloso e dannoso.

Io vi prego di riflettere che le più potenti assemblee del mondo, la Camera dei rappresentanti americana e il Senato americano, hanno fra l’uno e l’altra un numero di rappresentanti assai minore di quello che attualmente sono i rappresentanti di questa nostra Assemblea Costituente.

Dunque noi dobbiamo, se vogliamo dare esempio di serietà, finire per il 31 dicembre: se noi non ci prendiamo sul serio non ci prenderanno sul serio né all’estero, né in Italia i nostri stessi concittadini.

Finisce la Costituzione. Nel pensiero di tutti è: chi farà le elezioni? Vogliamo essere sinceri? Nella penosa discussione attuale domina il pensiero: chi farà le elezioni? Con quale Ministro? Con quali metodi?

Io ho avuto una strana idea: non solo credere nella libertà, ma praticarla. Sono stato Ministro dell’interno oltre che Presidente del Consiglio ed ho fatto nel 1919 elezioni generali. Ho voluto fare elezioni oneste senza intervento di Governo. È una idea che può parere anche ora paradossale. Delle elezioni volevo solo occuparmi per quanto riguardasse l’ordine pubblico e poi lasciare a tutti i partiti e a tutti i cittadini piena libertà di fare ciò che volevano. Diedi ordini a tutti i prefetti nello stesso tempo di non occuparsi di elezioni. Ma poiché si poteva credere che ciò che era detto pubblicamente fosse una finzione, chiamai a Roma i prefetti delle più grandi città e poi mandai a tutti telegrammi segreti in cifra. Ma voi sapete che i prefetti pensano che i telegrammi sono fatti per il pubblico, per rappresentare una difesa per l’avvenire. Feci perciò ad ognuno riservatamente un telegramma in cifra; in cui davo delle disposizioni dicendo che esse dovessero essere interpretate alla lettera e soggiungendo che avrei punito ogni prefetto che si fosse occupato di elezioni. Volevo soltanto che l’ordine pubblico fosse garantito e non altro.

Perché diedi queste disposizioni? Io sono convinto che sopra tutto dopo grandi movimenti umani come la guerra noi non dobbiamo restare attaccati alle vecchie formule nelle grandi manifestazioni della vita pubblica. Non è possibile che mentre muta sostanzialmente tutto, l’azione del Governo sia come prima dominata da interessi privati. Era allora mio Sottosegretario all’interno l’onorevole Grassi. Allora era un giovane Sottosegretario: ora non dirò che sia un vecchio Ministro, ma un Ministro solenne ed anziano, come conviene ad un Ministro guardasigilli. L’onorevole Grassi sa che io ordinai ai prefetti di fare lo stesso trattamento agli avversari come ai sostenitori, avendo un’arma potente nelle mani, la censura (che durava in pieno allora dopo la guerra), io diedi ordine alla censura che tutto quello che si stampava contro il Governo doveva essere lasciato libero, che gli insulti personali anche più oltraggiosi contro di me non dovessero essere mai in nessuna forma censurati. Al punto che Mussolini, a Milano, sapendo di questa disposizione, si divertiva a pubblicare articoli ove figurava: «il porco Nitti». Ebbene il «porco Nitti» dispose che anche quelle pubblicazioni dovessero passare senza censura! Ho sempre creduto che il Governo debba garantire il rispetto delle libertà fondamentali. Io disposi sempre il rispetto delle libertà fondamentali, anche a mio danno personale. Quindi non consentii mai alcuna cosa a danno degli avversari.

Le elezioni che io feci nel 1919 furono le sole, o fino ad ora le sole, contro cui nessuno presentò alcun reclamo contro il Governo! Tanto l’azione del Governo fu onesta e seria!

Quello che io feci consideravo come un dovere e come garanzia di giustizia e di onestà.

Ma i miei procedimenti parvero ai vecchi uomini pericolosi e inquietanti. Voler parlare di serietà, di onestà, di semplicità in materia elettorale parve ingenuità. Giolitti non era persuaso. Si dice che con quelle elezioni erano entrati alla Camera dei deputati troppi socialisti e, per la prima volta, più di cento democristiani, che allora si chiamavano popolari. E allora Giolitti che mi succedette (era stato mio grande amico e divenne mio grande nemico e ci separammo non senza grande dolore da parte mia) pensò di fare le elezioni con diverso metodo, e impose il solito metodo dell’intervento dei prefetti. Io avevo fatto le elezioni nell’autunno del 1919, Giolitti, senza necessità e mancando a un impegno presso la Commissione del bilancio, volle fare nuove elezioni a brevissima distanza nella primavera del 1921. Voleva una sua maggioranza ed escludere me e i miei dal Parlamento. Quale fu il risultato? Si diceva che io ero stato allora inabile facendo votare liberamente e non creando alcun ostacolo agli avversari. Io feci le elezioni nel 1919, egli nel 1921. Fu eletto press’a poco lo stesso numero di socialisti e di democristiani. E l’onorevole Giolitti, che aveva concentrato la lotta contro di me (dalla grande amicizia si passa spesso alla grande inimicizia) non raggiunse il suo scopo. Io ebbi elezioni trionfali non ostante tutte le violenze.

Quindi, prima cosa che dobbiamo evitare è questa.

L’onorevole Giolitti arrivò allora a tollerare che uno dei Ministri desse le armi ai fascisti, e non solo camion militari e materiale di trasporto, ma anche fucili. Lo stesso Ministro fu in lista con Farinacci e prese parte con lui a una festa fascista in cui si bruciavano le bandiere delle cooperative socialiste, che egli stesso aveva contribuito a fondare. Il Ministro della giustizia diede istruzione ai procuratori generali che non si dovessero istruire processi contro coloro che avevano commesso reati a scopo nazionale, cioè i fascisti. Era l’impunità del delitto voluta dal Governo. Il sottosegretario di Stato all’interno fece tutti gli inganni, mentì sempre a tutti ed elevò la falsità pubblica a un livello cui non si era mai giunti.

Ebbene, la sola differenza fra le elezioni del 1921 e quelle del 1919 fu che, essendo io Ministro dell’interno, non venne nessun fascista alla Camera.

Io avevo dato ordine al prefetto Flores, uno dei più intelligenti, che avevo mandalo a Milano apposta, di non fare alcuna persecuzione agli avversari in occasione delle elezioni. Quale fu il risultato? La lista di Mussolini a Milano fu miserabilmente battuta: appena quattromila voti (e fu oggetto di ilarità generale) nella città di Milano.

Tanto sono convinto che solo con la libertà, col rispetto dei cittadini, nel considerare l’avversario come uguale e non metterlo mai in condizione di veramente odiarti, si può arrivare alla pacificazione.

Del risultato che ebbe allora Giolitti io non gliene faccio colpa: fu un’aberrazione di un uomo inasprito da passati dolori e contro cui tutte le ingiustizie erano state commesse. Ma colpa di Giolitti fu, per inconsiderata esaltazione, aver introdotto il fascismo in Parlamento cioè di averne assicurata la vittoria.

Assai poco serve l’esperienza. Ma io spero che il Governo farà le elezioni prossime e le farà in modo che tutti gli avversari abbiano sempre e sopra tutto la libertà. I democristiani al Governo con i socialisti e comunisti avevano gli stessi vantaggi, ed erano sicuri di fare tutta la via insieme, o almeno pareva che dovessero farla. Ora una frattura si è prodotta. Voi dovete fare le elezioni da avversari. Io spero che voi vi regolerete con gli avversari come con gli amici, con gli stessi sentimenti di onestà e serenità che sono condizioni di vita civile.

Ma mi spiego l’inquietudine.

Un’altra ragione di inquietudine: voi del Governo avete un immenso potere; il bilancio dello Stato è nelle vostre mani e per lungo tempo, e cioè fin dopo le elezioni sia nelle forme attuali, sia nelle tradizionali per cui di molti fondi si dispone largamente e quasi si può disporre ad arbitrio. Voi potete così rendere favori o produrre danni. Io mi spiego che molti che si dicono oggi vostri avversari e che ieri erano vostri amici, abbiano motivi di preoccupazione. Conosco troppo i metodi per non esserne inquieto. Ma io confido che voi sentirete (e non vedo perché non lo sentireste) che è nel vostro stesso interesse di limitare la lotta e di difendere la vostra azione, se non con simpatia, con lealtà verso i vostri avversari.

Noi dobbiamo arrivare alla nuova Camera, e ci dovremo andare con un duro compito. Ci rimangono per la fine dell’anno meno di tre mesi e non abbiamo predisposto nulla ancora di quella che deve essere la vera parte importante, costituzionale nella nuova Costituzione. Il lavoro per questa parte è appena incominciato. Dobbiamo ancora fare tutte le leggi e tutti i preparativi necessari per arrivare alle elezioni. Sinora abbiamo fatto assai poco e abbiamo solo perduto tempo in discorsi.

L’onorevole Piccioni ha pronunziato stamane un discorso impressionante e ha fatto anche l’apologia dei proprio partito: è arrivato a dire che il Partito democristiano rappresenta la grande maggioranza nel Paese.

PICCIONI. No, la maggioranza relativa.

NITTI. E sia! Ma nel discorso dell’onorevole Piccioni vi è un po’ di esagerazione: c’è il tono del vincitore. Quello che mi ha colpito nel discorso dell’onorevole Piccioni, fino a ieri così semplice e cordiale, e anche moderato, è il tono di sicurezza e anche di fierezza. Permettete allora che io vi domandi: vi sentite voi democristiani veramente sicuri? Sapete voi quello che avverrà sino al mese di dicembre? Non vedete i pericoli cui andate incontro? Prevedete voi quali rivolgimenti ci potranno essere nell’economia nazionale, quali nella vita italiana e nelle condizioni dell’Italia? Avete questo sicuro sentimento di voi? Voi dovete volere la nostra collaborazione, almeno spirituale, e quella degli avversari.

Io non sono un avversario personale, sono soltanto un critico disinteressato. Ho il mio passato e la mia esperienza. Senza la collaborazione almeno spirituale da parte nostra voi non riuscirete. I vostri avversari possono con il loro contegno farvi riuscire o non farvi riuscire. Senza la nostra collaborazione voi non potrete risolvere molti problemi. Si tratta di cordialità sostanziale non formale.

Siate cauti nel vostro stesso interesse. Siamo in un momento in cui il bilancio dello Stato sarà nelle vostre mani e voi avrete mezzi potenti che vi verranno dai vostri amici. I partiti e i Governi sono una cosa terribile, perché richiedono fondi ingenti: decine, centinaia di milioni, forse domani data la svalutazione della moneta, miliardi. Chi deve dare i miliardi? Si trovano dove si trovano, e la lotta spingerà a cercarli. Voi avrete mezzi di lotta che gli altri non hanno. Anche i comunisti hanno finora trovato fra i loro simpatizzanti, e anche e sopra tutto fra i loro avversari, entrate rilevanti. Tutti hanno bisogno di fondi, e non si può fare nulla senza di essi: e il Partito democristiano, appunto perché più numeroso, deve averli in maggiore misura.

Avere fondi, vuol dire contrarre obblighi. L’onorevole Saragat ha fatto una cosa semplice: è andato in America. È evidente che gli americani di origine italiana non gli avrebbero dato nulla se avessero creduto che la sua politica potesse essere contraria a quella dell’America.

Doveva essere così: era necessario che fosse così. L’onorevole Saragat, dunque, ha dovuto ricorrere a quei mondi che non sono i più favorevoli alle tesi delle sinistre. L’onorevole Saragat ha in realtà una natura conservatrice; e non so spiegarmi perché si ostini ad essere ad ogni costo, se non rivoluzionario, amico dei rivoluzionari. (Si ride).

L’Italia e la Francia sono i due soli Paesi che hanno la follia dei partiti avanzati. Vogliono sopra tutto i conservatori sembrare estremisti. Io facevo notare spesso al mio amico Briand ed anche a Herriot che in Francia non vi è da molti anni un partito che si chiami conservatore, mentre perfino i radicali socialisti sono tutti conservatori.

In Inghilterra i conservatori, anche se hanno spirito liberale, si onorano di chiamarsi conservatori.

Ciò succede assai meno in Italia, dove nessuno osa lealmente dire di essere conservatore, e molti lo sono.

L’onorevole Saragat ha fatto bene a rivolgersi ai suoi amici di America: ma è chiaro che se le sue idee fossero state credute contrarie al programma americano, non avrebbe trovato aiuto, soprattutto dagli italiani di America.

Poche persone appartengono in America al movimento socialista. Ma non vi sono comunisti. Nessun comunista è nei Parlamenti, o deve dissimulare le sue idee.

È bene, è male? È inutile discutere, ma il fatto esiste. Forse muterà fra non molto tempo, forse anche non muterà. Ma è chiaro che un Governo che comprenda rappresentanti comunisti non troverà simpatia nel Governo americano e tanto meno aiuto.

Siamo noi perciò schiavi, come si dice, dell’America? Ciò è falso, e l’accusa che si muove all’onorevole De Gasperi e ai democratici cristiani di essere all’obbedienza dell’America, che pretenderebbe agire sulla nostra politica è falsa e ingiusta: l’America non tiene a nulla. L’America tiene ad agire nel suo interesse. (Approvazioni). L’America pensa a se stessa. Questa vecchia idea italiana che affinità politiche diano diritto ad aiuti politici ed anche economici è un’assurdità. Questa idea ha inquinato la nostra politica; ci ha rovinato subito dopo la guerra e dopo la fine del fascismo, quando abbiamo detto e ripetuto che diventati gli italiani repubblicani e democratici, tutte le repubbliche democratiche e tutti i democratici del mondo sarebbero stati per noi. Diventati noi repubblicani non furono per noi più di quello che non fossero stati prima, e qualche volta, come si è potuto vedere, furono anche meno cordiali di quello che erano stati quando ci reggevamo a monarchia. Non è vero che l’America, che ci ha dato vero aiuto economico, di cui le siamo grati, ci imponga condizioni di politica estera. È falso che ci avesse imposto rapidamente la ratifica del Trattato. È falso che voglia regolare le nostre condizioni di vita. Solamente non è disposta a darci aiuti economici se metteremo nel Governo rappresentanti di partiti che essi credono facciano parte del grande movimento che reputano a loro contrario o con cui almeno finora non hanno trovato alcuna possibilità di intesa.

Questa intesa può avvenire. Ma può anche non avvenire, e non è escluso che venga ancora la grande guerra sterminatrice e inutile, e perciò più scellerata.

I rapporti umani non sono mossi soltanto da idee, ma da passioni, da sentimenti e da interessi. Noi dobbiamo pensare solo a noi stessi ed aver fiducia in noi stessi e trovare in noi stessi le forze per la ricostruzione della nostra vita politica ed economica. E non debbo dire altro se non rivolgere un appello ai miei amici. Io ho notato le parole sdegnose dell’onorevole Piccioni: sdegnose e giuste. Chi vince ha ragione. Il suo partito è al Governo e si mostra compatto: egli ha quindi ragione quando dice con fierezza che il Governo democratico cristiano non ha bisogno dei programmi di nessuno. Ma può dirlo con sicurezza? Il suo concetto è che, in una situazione come l’attuale, il suo partito è così forte da non chiedere i programmi degli altri, perché ha un proprio programma e chiede soltanto l’adesione degli altri al proprio programma. Ora, io mi permetto di domandare all’onorevole Piccioni ed ai miei amici democratici cristiani: hanno essi una grande sicurezza in questo loro programma? Hanno la sicurezza che anche alla fine dell’anno l’Italia non sarà in tali condizioni che molte idee e molte situazioni non saranno sconvolte? Abbiamo noi la sicurezza che avremo un avvenire calmo? (Commenti). Io non ho questa sicurezza. Bisogna trovare il modo di vivere insieme e di evitare ogni grande conflitto. Io ho fiducia nella prudenza dell’onorevole De Gasperi, ma so anche che chi vince può essere sempre spinto ad abusare della propria vittoria.

PICCIONI. Non c’è questo pericolo.

NITTI. Spero di no. Altri uomini, altri partiti però, amici dei democristiani, credono a questo pericolo. A parte tutto ciò interessa noi tutti mantenere il più possibile la concordia. Voi avete detto sempre che io sono pessimista. Vi siete ingannati. Io sono stato fra voi il più grande ottimista. Ho detto sempre tutte le cose che si sono verificate e a cui non si voleva credere, e le ho dette piuttosto attenuando che esagerando i pericoli. Infatti tutte le cose che ho dette si sono verificate in forma assai più grave di come le avevo dette. Avete visto quindi che il mio pessimismo era tanto dubitabile quanto la vostra sicurezza.

L’onorevole Piccioni ha detto nell’orgoglio della vittoria democristiana che il suo partito non aveva nulla a temere e nulla doveva concedere del suo programma e della sua azione.

La vittoria non dà sicurezza durevole invece perché nessuna vittoria è qui dentro più sicura di tre mesi, e noi andiamo verso una situazione che fra tre o quattro mesi potrà darci le più grandi sorprese.

Noi non sappiamo. L’onorevole Piccioni, facendo le giuste lodi del suo partito, ha detto che attendeva, in fondo, l’adesione degli altri, che non va sollecitata. Sta bene. Ed allora, diciamo noi: nelle elezioni eravate lo stesso numero da quella parte e da questa; da quella parte ve ne aveva qualcuno di più: voi siete rimasti compatti; l’altra parte invece si è divisa, e si doveva dividere perché non era possibile che persone che concepivano così diversamente coabitassero a lungo insieme. Ma ci sono, al di fuori di qua e di là, ancora più di cento deputati, i quali non sono né da una parte né dall’altra. Questi deputati rappresentano spesso lo spettacolo più triste, di dividersi continuamente in partiti, partitoni, partitucci. Ogni indeciso ha trovato la sua via, suppongo sempre per scopo nobile, ma spesso le secessioni sono finite in qualche Sottosegretariato o in qualche concessione della stessa natura.

Ora, noi siamo la classe più colta, moderata, non reazionaria, non confessionale, non rivoluzionaria. Noi siamo il Paese nella parte più colta. Noi siamo i rappresentanti di quei ceti che contrariamente a ciò che si dice, ripetendo errori vecchi, e nuovi, aumenteranno non perderanno in importanza. Noi siamo il Paese. Signori, voi vi ingannate quando credete che le classi medie sono verso la fine. Io spero pubblicare presto, se i lavori di questa Assemblea me ne lasceranno il tempo, uno studio da lungo tempo preparato sulle classi medie e sulla loro importanza e sul loro avvenire. Vi sono momenti in cui sembra che le classi medie vengano sopraffatte: ma esse si rinnovano, aumentano e aumenteranno ogni giorno, perché le stesse classi operaie, che voi cercate di sollevare, entreranno nelle classi medie. Ed è da questo movimento che sorgerà quella nuova borghesia operosa, viva e intelligente, la quale renderà grandi servizi.

Accettando l’invito dell’onorevole Piccioni (perché io considero la sua critica come un incoraggiamento), io mi rivolgo a tutti gli uomini del mio ceto, della mia classe, delle mie idee per domandare loro se alla vigilia di fatti nuovi, come saranno le prossime elezioni politiche, non credano utile rompere questa massa di piccole paure, di piccoli partiti, e se non credano di trovare nella unione qualcosa che sia la vita e la forza. Questo non è né contro i democristiani, né contro i socialisti, ma è per la nostra esistenza, e confido che questo mio appello sincero sarà accolto.

L’Italia non può unirsi che in un grande programma nazionale contro l’antinazione e l’antilibertà che ora ancora avvelenano gli spiriti.

Solo un rinnovato e grande amore di patria contro l’oppressione della libertà mentale, contro il particolarismo, contro il grossolano materialismo di questo periodo, una unione nazionale a scopo di ricostruzione possono rinnovarci. Non si può ingannare a lungo il popolo. Grandi e dure sofferenze ci attendono ancora.

Entriamo nell’ora terribile in cui andranno in vigore in materia politica tutte le cattive leggi che abbiamo mantenuto o abbiamo preparato. Si verificheranno tutti gli inconvenienti che abbiamo preveduti. Dobbiamo essere preparati a lottare per la ricostruzione.

Questo appello che io rivolgo ai miei amici vicini e lontani, è diretto con purità di cuore, perché personalmente dopo tante lotte non aspiro più a nulla. E vi ringrazio di questa vostra cortesia e della sincerità con cui avete voluto ascoltarmi. (Vivi applausi – Molte congratulazioni).

PRESIDENTE. Onorevoli colleghi, ieri sera abbiamo sospeso la seduta per riprenderla però dopo due ore e portarla avanti ad un’ora assai tarda. Si potrebbe fare lo stesso questa sera; o forse potremmo scegliere un’altra soluzione.

Penso, però, che questa sera potremmo continuare senza interruzione sino alle 21 e poi rinviare a domani, anziché sospendere la seduta per poi riprenderla. Comunque questa sera dobbiamo fare ancora una parte del cammino, se corrisponde a verità, come non ne dubito, il desiderio espresso da tanti colleghi di vedere terminata domani sera questa discussione. E lo sarà se lavoriamo fino alle 21. (Approvazioni).

È iscritto a parlare l’onorevole Pajetta Giancarlo. Ne ha facoltà.

PAJETTA GIANCARLO. Onorevoli colleghe, onorevoli colleghi.

Ancora ieri uno degli oratori che si è levato a difesa di questo Governo ha accusato l’opposizione di valersi come ratio sistematica della piazza nella lotta politica e, prima di lui, un oratore sindacalista di parte democratica cristiana ci ha detto cose molto strane a proposito di una non meno sistematica azione che gruppi di operai di avanguardia condurrebbero nelle nostre officine per sabotare la produzione nazionale. Io stupisco che l’onorevole Crispo ci abbia parlato con tanto orrore della piazza; stupisco soprattutto che lo abbia fatto dopo il 20 settembre, perché si vede che non soltanto presta fede ai giornali quando immaginano e raccontano cose inverosimili su avvenimenti che non succederanno, ma ci crede anche dopo che le cose non sono successe. Ma forse l’hanno confermato nella sua opinione i manifestini che i democratici cristiani hanno fatto affiggere sui muri di Roma, nei quali si dice che, se il 20 settembre non c’è stata la rivoluzione, lo si deve al pugno di ferro dell’onorevole Scelba.

Noi vorremmo che si capisse però che non sempre piazza significa rivoluzione. È certo che i partiti di massa hanno dei metodi particolari di organizzazione, hanno degli obblighi verso i loro elettori che altri partiti non hanno. Noi, quando vogliamo prendere contatto con i nostri elettori, abbiamo bisogno di chiamarli, per esempio, a Piazza del Popolo; la stessa cosa sarebbe forse inutile al Partito liberale se volesse raccogliere i propri aderenti.

Noi crediamo che sia un metodo democratico quello di interrogare il Paese e permettergli di esprimersi, e non vorremmo che a queste domande che noi facciamo e alle risposte che ne vengono non prestassero orecchio gli uomini del Governo, che non possono attendere soltanto il responso elettorale, che non possono credere di sentirsi responsabili soltanto in quella occasione, ma che dovrebbero invece saper prevenire e capire come le situazioni vanno svolgendosi.

Secondo qualcuno dunque, la situazione sarebbe quasi normale nel nostro Paese, se non ci fossero dei sabotatori, se non ci fossero dei sobillatori che turbano le acque.

Ma è possibile che voi non intendiate che prima che discussione qui, c’è lotta nel Paese? È possibile che non intendiate la crisi, il dramma, che non ne vediate i personaggi? Qualche volta penso che forse il frastuono della polemica che si accende qui vivace, ma poi va placandosi nel Transatlantico, impedisce di sentire la voce del Paese, impedisce di sentire la voce stessa delle cose. Onorevole Scelba, lei che dovrebbe essere responsabile del mantenimento dell’ordine nel Paese e dell’azione contro i sobillatori e i sabotatori, mi permetta di ricordare qui qualche cosa di quello che sta accadendo a Milano e che forse interessa anche il Ministro del tesoro.

All’Isotta Fraschini non sono state fatte le paghe il giorno 24 né sono stati pagati gli stipendi il 30: 230 milioni di arretrati nei confronti dei lavoratori: si tratta di 7 mila dipendenti. Alla Cemsa di Saronno, anticipo il 9 per la quindicina del 24 agosto: si tratta di duemila dipendenti. Alla Caproni, un solo acconto il 24: sono quattromila dipendenti, e la Breda nelle stesse condizioni: ne dipendono 12 mila lavoratori. Sono questi soltanto, 25 mila lavoratori! E non sono avvenuti disordini, e non sono avvenuti incidenti. E davvero se non è avvenuta la rivoluzione, non credo che il merito sia esclusivamente suo o delle direttive che ella dà.

DE GASPERI, Presidente del Consiglio dei Ministri. …ma hanno avuto un miliardo e duecentomilioni a Milano!

PAJETTA GIANCARLO. Questa mattina soltanto! Forse, per la strana teoria che ha annunciato questa mattina l’onorevole Piccioni, che il Governo deve intervenire sempre dopo. È una teoria che possiamo accettare (Commenti al centro). Questa teoria noi l’accettiamo, tanto che facciamo le agitazioni proprio per farvi intervenire. Se voi interveniste a tempo, se voi non imponeste ai lavoratori lo sciopero, le agitazioni sarebbero tante di meno. (Applausi all’estrema sinistra – Proteste al centro).

DE GASPERI, Presidente del Consiglio dei Ministri. Gli industriali hanno fatto la richiesta l’altro ieri e stamane hanno avuto soddisfazione.

PAJETTA GIANCARLO. E del resto non si tratta soltanto di una teoria.

Quando l’onorevole Presidente del Consiglio ci ha parlato l’altro giorno, ci ha detto: «Gli agrari hanno ceduto al mio appello». Noi non abbiamo potuto fare a meno di domandarci se gli agrari avessero ceduto all’appello dell’onorevole Presidente del Consiglio soltanto dopo che questi aveva dovuto cedere a quel milione di braccianti che stavano già scioperando da dieci giorni, quando il Governo è intervenuto.

Ora noi troviamo in queste confessioni, nelle vostre teorie, la giustificazione delle agitazioni che sono in corso. Vuol dire che esse sono nella necessità delle cose, che sono le agitazioni che vi fanno sentire, quando la sentite, una voce alla quale altrimenti sareste sordi.

Stamane abbiamo sentito domandarci che cosa mai avverrebbe se non intervenisse il Governo; ebbene è semplice: le masse farebbero sentire più forte la loro voce. Ed è perché non intervenite se non a ritardo e sospinti, che queste voci di protesta si levano sempre più forte.

Quali possano essere i provvedimenti economici per far fronte alla situazione milanese, altri ha detto e forse altri ne dirà ancora.

Quello che mi interessa oggi qui è di fare alcune constatazioni politiche che derivano dall’esame di questa situazione. E la prima è l’azione condotta in comune dai lavoratori e dagli industriali milanesi. Voi, che cercate nella omogeneità di un Governo di partito e di classe l’unica possibilità di un efficace intervento, dovreste riflettere a quanto è avvenuto.

I rappresentanti dei lavoratori si sono raccolti intorno ai rappresentanti del Governo e sono venuti ad un accordo: unanimemente sono state accettate delle direttive. E non saremo certo noi a lamentarci che questa unanimità si sia raggiunta nella più decisa condanna della politica finanziaria dell’onorevole Einaudi.

DE GASPERI, Presidente del Consiglio dei Ministri. A carico dello Stato, onorevole Pajetta, vanno sempre d’accordo.

PAJETTA GIANCARLO. Ma io vorrei ricordarle, onorevole De Gasperi, che, quando lei ha fatto questo, quando lei ha voluto realizzare questa sua grande operazione, il suo intento proclamato era proprio quello di far sì che certi Ministri politici non mettessero più i bastoni fra le ruote alle sue buone intenzioni. (Commenti). E lei sa che prima c’era la garanzia che il Governo avrebbe sentito la voce dei lavoratori anche senza che questa dovesse ogni volta risonare nelle piazze.

E la seconda constatazione è che, fino a quando è possibile, i lavoratori non promuovono inutili agitazioni perché essi, fino a che hanno potuto, hanno lavorato.

CORBELLINI, Ministro dei trasporti. Hanno fatto quindici giorni di vacanza in agosto.

PAJETTA GIANCARLO. Ingegner Corbellini, l’onorevole Piccioni ci ha detto questa mattina che il Governo non soltanto ha fatto poco perché ha avuto a sua disposizione soltanto 79 giorni, ma è stato anche impedito dal fatto di essere stato una specie di Governo balneare e quindi ha dovuto prendersi un po’ di riposo. Non vedo proprio che vi sia un gran male che si siano riposati i lavoratori milanesi che il loro diritto alle ferie retribuite se lo sono conquistato.

Dicevo dunque che quando possono, gli operai, gli impiegati, i tecnici italiani lavorano: essi non sono dei sabotatori. Onorevole Scelba: se lei dovesse per avventura incaricare il prefetto di Milano di inquisire, di ricercare presunti sabotatori, di andare alle radici dei turbamenti economici e delle agitazioni dei lavoratori, noi dovremmo, io credo, esaminare qui la richiesta di autorizzazione a procedere contro l’onorevole Einaudi che è il vero sobillatore di questa situazione. (Proteste al centro ed a destra).

PRESIDENTE. Onorevoli colleghi, non interrompano, per favore.

PAJETTA GIANCARLO. Onorevoli colleghi, quando si tratta di esaminare un problema concreto spesso preferite gridare tutti insieme: non sarebbe invece meglio cercare di provvedere, cercare di fare onestamente quello che dovete almeno quando la piazza vi prende per il braccio e vi dice: qui c’è da fare questo e quest’altro?

Il Governo ha voluto dimostrare di credere che si tratti soltanto di problemi economici e finanziari; ma i problemi dell’economia, della produzione del nostro Paese si pongono oggi come problemi politici. E non possono non porsi come problemi politici, come problemi dei rapporti tra cittadini e Governo. Oggi siamo di fronte soprattutto a problemi politici, problemi dell’ordine democratico, problemi della difesa della Repubblica. Sono davanti a noi problemi di libertà a cui dovreste essere sensibili. Problemi di libertà e, quando li poniamo, non dovreste così facilmente irridere, perché così irridete a tutta la tragica situazione del nostro Paese. Perché, se i nostri lavoratori non avranno libertà, allora non avranno nemmeno il pane e nemmeno il nostro Paese potrà aspirare a risorgere.

Dico la verità, ho provato una meraviglia forse ingenua: forse, la meraviglia di un uomo, che non ha ancora avuto tempo di diventare un parlamentare consumato o logoro addirittura. Qui si è detto: è soltanto un manifesto strappato, è soltanto un comizio interdetto, è soltanto un arresto arbitrario.

Ma è la questione di principio! Cos’è questo manifesto? È giusto o non è giusto che sia strappato? È giusto o non è giusto che l’onorevole Scelba abbia preso questo o quel provvedimento? Se non è giusto che sia stato strappato un manifesto, è come se ne fossero strappati mille. Lei, onorevole Scelba, per esempio, andrà all’inferno lo stesso, anche se commette un solo peccato mortale senza voler pentirsene. Qui è una questione di giustizia, di diritto, è una questione di qualità della vostra politica.

Voi avete voluto oggi fare una questione di quantità in queste cose e noi abbiamo dovuto dolerci che non si sia dimostrata la sensibilità politica e morale necessaria. (Interruzioni al centro).

Io capisco, la nostra sensibilità, a proposito di questi problemi, vi par forse eccessiva. È evidente che il pensiero di un regime che impedisce la libertà – senza voler fare offesa a chicchessia – per il nostro compagno Scoccimarro, che è stato tanto tempo in carcere, sia considerato diversamente da come lo considera, con una esperienza tanto diversa, l’ingegnere Corbellini. Per noi queste cose hanno un diverso significato che per molti di voi. (Si ride – Interruzioni al centro). Sono disposto a credere che a qualcuno pesi oggi di più l’umiliazione di aver portato la camicia nera che non possa pesare a noi di aver sofferto in carcere per la causa della libertà. (Proteste al centro).

Comunque, se non vi pesa, me ne rammarico… (Rumori a destra e al centro – Approvazioni all’estrema sinistra – Interruzioni).

Ripeto che ce ne meravigliamo e ce ne doliamo. Vorremmo che quelli di voi che hanno occhi per vedere, vedessero; vorremmo che quelli che possono intendere la tragedia che ci può sovrastare, facessero in modo che questioni di prestigio di partito od una beccata parlamentare, o una interruzione non bastassero a nascondere i pericoli della situazione. Perché, vedete, quando parliamo di fascismo, quando ne parliamo e riusciamo a farci ascoltare, ci sentiamo dire: «fantasmi, spettri del passato!».

Ma c’è stato già un tempo in cui è stato detto questo. C’erano già allora di questi fantasmi e voi nel 1919, nel 1920, nel 1921, nel 1922 non avete saputo esorcizzarli. Nessuna delle vostre formule è bastata per esorcizzare questi fantasmi, ed un giorno essi vi sono stati vicini, diventati uomini in carne ed ossa, e allora avete creduto che l’unico metodo fosse quello di sedervi con loro allo stesso tavolo, allo stesso Ministero. E certo non è sembrato quello il metodo migliore. (Commenti).

Quegli uomini che credevate forse di rendere più mansueti, hanno portato alla rovina il nostro Paese, e anche, non dimenticatelo, il vostro partito e le vostre organizzazioni.

Oggi, l’onorevole Nitti ci ha ricordato quanto pochi fossero i voti di Mussolini nel 1919. Eccoli in dettaglio: 4.657 voti di lista, 2.420 voti preferenziali, 1987 voti racimolati in altre liste, secondo quanto permetteva il sistema elettorale di allora. Io non so: può darsi che l’onorevole Patrissi, nelle elezioni del 12 ottobre, ne raccolga di più. (Commenti).

FRESA. Certamente!

PAJETTA GIANCARLO. Ebbene, nel 1919 non si dovevano chiudere gli occhi, si doveva capire. Li avete chiusi; volete chiuderli ancora? (Accenna al centro).

Quello che ci preoccupa, quando parliamo di fascismo e di pericolo fascista, siete soprattutto voi. È il vostro atteggiamento che ci preoccupa. Se foste consapevoli, se dimostraste senso di responsabilità, se intendeste il pericolo non per un partito soltanto, ma per tutto il Paese; se comprendeste che bisogna far argine; se non rideste e diceste semplicemente «spettri», allora noi saremmo sicuri che il nostro Paese non ricadrà in questa tragedia.

Ma quello che ci preoccupa è che voi rifate troppo della strada antica; che non volete vedere; che non volete prevedere. Siete davvero peggio di quei dannati che vedevano soltanto quanto era ancora lontano; voi non volete vedere né vicino né lontano.

Che cosa si fece allora? Si ignorò il pericolo fascista; poi lo si minimizzò. Infine, le cose precipitarono, e furono veramente le lacrime delle cose: erano le nostre cooperative, erano le nostre camere del lavoro, erano i nostri morti che parlavano; allora si capì; ma non si ebbe il coraggio di trovare i mezzi. Quando una voce autorevole si levava, diceva: «Il fascismo colpisce più la democrazia che non il socialismo, e lo Stato borghese è impotente. Giolitti usò il suo metodo: quello di avvicinare ed accarezzare prima di intossicare, ma ne rimase prigioniero, dopo aver dato una parte dell’organismo statale in mano al fascismo.

«E così liberali e democratici, che avevano sperato di trovare una balda schiera di avanguardisti al fascismo…».

Chi diceva queste cose era Luigi Sturzo ed era il 18 gennaio 1922; quando non si poteva non vedere; ma si poteva ancora impedire che quello che si intravedeva diventasse veramente la tragedia di tutto il popolo italiano.

Ebbene, questo discorso è del 18 gennaio; due mesi dopo, a marzo, si riuniva la direzione del Partito popolare italiano, e che cosa deliberava? Votava una deplorazione per il patto di intesa che socialisti e popolari avevano concluso a Cremona. Votava una deplorazione per quello che poteva essere il germoglio di un albero, che forse avrebbe potuto far fronte alla tempesta. Dobbiamo riconoscere che qualche giorno dopo o prima anche la segreteria del Partito socialista deplorava lo stesso avvenimento.

Ma noi comunisti, che ricordiamo soprattutto l’insegnamento unitario del nostro capo, del nostro compagno Gramsci, che già allora operò sempre per l’unità; noi comunisti vogliamo avere l’umiltà di imparare dalla storia, vogliamo imparare dalla esperienza e anche dagli errori della classe operaia.

Se voi voleste imparare, se voi voleste almeno guardare se avete qualche cosa da imparare! E questo non pare, pare che sempre più siate spinti su una china antica, che già una volta ci ha portati, noi e voi, alla catastrofe.

Il fatto è che oggi questo Governo della Repubblica rappresenta un pericolo per la Repubblica. Questo Governo: il Governo di De Gasperi, il Governo di Scelba, il Governo di Grassi. Rappresenta un pericolo per quello che di illiberale ha fatto, questo Governo. Io non voglio insistere sull’argomento, perché altri oratori già lo hanno trattato. Ma questa mattina, vede, onorevole Scelba, l’onorevole Piccioni ci diceva che una delle funzioni del Governo è quella di impedire che ci sia il vilipendio, di impedirò che il prestigio di coloro, che rappresentano l’autorità della Repubblica, venga menomato. Ora, io credo che per impedire il vilipendio, per tenere alto il prestigio, la prima cosa sia quella di rifuggire dal ridicolo. E, mi permetta, lei c’è sfuggito molto raramente. Quando lei è venuto a Milano per dare il via ad una corsa automobilistica o motociclistica (cosa rispettabilissima), lei ha concesso ai giornali un’intervista per spiegare perché impediva che un giornale milanese pubblicasse un avviso pubblicitario. Ed ha svolto questo suo pensiero persino in termini filosofici: acquistare un giornale sarebbe un atto di volontà, leggere un manifesto è una… costrizione morale. E per un manifesto che porta l’effigie del Sommo Pontefice, secondo lei, non sarebbe sufficiente l’autorizzazione dalla questura di Milano, ma occorrerebbe quella della Santa Sede.

Quello che è certo è che lei ha ottenuto il risultato di coprirsi di ridicolo e di far vendere parecchie migliaia di copie di giornale in più. Eppure questi comunisti, che secondo lei disprezzerebbero la religione, avevano portato la copia ad autorevoli dirigenti del vostro partito dicendo: secondo voi offende questo il vostro sentimento religioso di cattolici? Quasi quasi abbiamo cercato l’imprimatur, e lei invece ha creduto di dovere intervenire con la sua insensibilità per ridicolizzare il prestigio del Governo. Io le domando sinceramente se questo è il mezzo migliore di seguire i consigli del segretario del suo partito.

Ma noi dobbiamo giudicare questo Governo per ciò che ha fatto, per quello che ha lasciato fare e per quello che ha suscitato d’insane speranze. La composizione di questo Governo ha suscitato un grido di gioia, non solo degli speculatori, ma dei fascisti!

Guardate: quando si leggono i giornali, e particolarmente quelli fascisti, ad un certo momento ci viene di domandarci: ma chi ci ha messo fuori dal Governo?

L’onorevole Giannini ha sostenuto che è stato l’Uomo Qualunque. Gli americani sostengono di avervi contribuito potentemente. I fascisti sostengono sui loro giornali che sono loro che hanno avuto la più grande vittoria, perché finalmente hanno trovato un Governo che mette da parte quelli che sono i loro nemici più pericolosi!

Ora, è certo che questo Governo è stato salutato con tripudio dai fascisti, e non solo con tripudio, ma anche con scariche di mitra e con esplosioni di bombe e con l’intensificarsi della loro azione, col moltiplicare la loro stampa.

Ora, noi vi domandiamo: credete di essere sulla via giusta, se i passi che fate permettono ai nemici comuni di fare altri passi?

Noi vorremmo che quando denunciamo le violenze, gli incendi, gli attentati alla libertà, non si osasse mai dire: troppo pochi! Noi vorremmo che ognuno intendesse che già una volta si è cominciato così!

Ma quello che è certo è che a Milano (dopo la liberazione!) sono stati uccisi dei partigiani, è stata uccisa una vecchia donna nella Camera del lavoro di Milano, un bambino è stato dilaniato da una bomba in una sede del Partito comunista! Quello che è certo è che gli spari contro le Federazioni comuniste e socialiste sono avvenimenti frequenti, se ancora per fortuna non sono divenuti consuetudine! E gli atti di provocazione si sono ripetuti: gagliardetti esposti, fiori a piazzale Loreto, e perfino le scritte luminose, i giornali luminosi, sono stati utilizzati dai fascisti! E credo che la bomba di cinque chili di tritolo messa contro la nostra casa a Milano possa aver fatto un rumore sufficiente perché almeno l’eco giungesse fino al Viminale!

L’altro giorno, quando il nostro compagno Togliatti stava parlando di tante violenze avvenute nei tenitori italiani di confine, qualcuno di voi ha creduto di assicurare tutti (mi pare fosse l’onorevole Bettiol), per la sua conoscenza geografica, che là non ci sono monti, il che distruggerebbe ogni nostra testimonianza. Ebbene, io ho una documentazione fotografica a sua disposizione per dimostrargli che l’edificio della Federazione comunista di Milano esiste realmente e che una bomba fascista vi è scoppiata.

Vorremmo noi che non avvenisse mai in un Parlamento italiano che si levasse una voce o vi fossero applausi che potessero essere considerati non dico come solidarietà, ma come una tolleranza, che potrebbe essere considerata come complicità.

È un fatto che questi delitti, queste provocazioni, hanno trovato l’impunità più assoluta. Quando parliamo con le autorità che rappresentano il Governo, quando parliamo col questore, col prefetto, essi ci dicono: non abbiamo leggi. E quando arrestano i fascisti, è soltanto se proprio li hanno sorpresi a mettere le bombe, e se non siamo noi a denunciarli, i fascisti, che sono inquadrati in organizzazioni clandestine, essi non vengono neppure arrestati; voi non riuscite a saper nulla di loro. E quando per caso li arrestate, dopo qualche giorno essi vengono messi fuori perché dimostrino che in Italia si può fare tutto, e che basta allontanarsi 100 metri dopo aver ucciso qualcuno per ritrovare l’incolumità.

Quando sentiamo i tutori dell’ordine rispondere: «siamo impotenti», noi ci vediamo costretti a chiedere ancora con insistenza la legge per la difesa della Repubblica. Badate, non per la difesa della nostra Federazione di Milano, per la nostra difesa, ma per la difesa della Repubblica di tutti gli italiani.

Ma non si tratta soltanto dell’impunità che viene dalla mancanza della legge. Si tratta anche delle direttive che provengono da voi. Lei, onorevole Scelba, ha provveduto a cambiare il prefetto di Brescia e il questore di Cremona: forse perché uno sciopero si era svolto nell’ordine più assoluto e la cosa era dispiaciuta agli industriali, e non si era neppure tirato sui dimostranti, il che era dispiaciuto ai fascisti. Queste sono le direttive di Roma che trasformano l’impotenza in complicità, l’impossibilità di agire in delittuosa tolleranza. Queste sono le vostre direttive, onorevole Scelba.

E se ella non può fare di più, certo non ne è impedito dalla presenza continua ai lavori parlamentari, perché ella non risponde alle interpellanze, non partecipa alle discussioni: e le dovrebbe restar dunque la possibilità di svolgere il suo lavoro.

Lei evidentemente non capisce quale sia in Italia il pericolo fascista, non capisce che la sua politica e il suo Governo rappresentano un pericolo per la Repubblica. (Commenti).

Noi siamo chiari; che cosa vogliamo noi? Che cosa vogliono i lavoratori? Noi vogliamo l’ordine. Noi vi domandiamo: che cosa volete? Perché non mettete fuori circolazione questi sovversivi che impediscono l’ordine nel Paese? Perché non vi rendete conto che il sovversivo più pericoloso è proprio il Ministro dell’interno! (Ilarità – Proteste al centro). È lui che, come è avvenuto nella lotta con gli agrari, ha fatto proteggere coloro che lottano contro i lavoratori.

Noi vogliamo l’ordine. Credo che i colleghi qualunquisti potrebbero darci atto che quando hanno creduto di poter fare a Cremona una grande parata, noi siamo intervenuti, e abbiamo fatto sentire al Governo la nostra voce, era la voce non dei comunisti soltanto, ma di tutti quelli che avrebbero decisamente agito per impedire qualsiasi parata militare. Ma quando poi è stato fatto il congresso dell’Uomo Qualunque, con delegati delle provincie è forse successo un solo disordine?

Una voce a destra. Allora avevate già flirtato.

PAJETTA GIANCARLO. Allora il congresso di Bologna, che è avvenuto prima?

D’altra parte voi avete tenuto congressi provinciali e adunate e vi abbiamo forse turbato con la violenza? (Interruzioni – Commenti).

Una voce. Erano centinaia di migliaia.

PAJETTA GIANCARLO. Lei crede davvero che se non ci sono dei disordini è perché abbiamo paura? (Applausi all’estrema sinistra). Ma vediamo quali sono le organizzazioni fasciste che sono fiorite sotto la vostra tutela. Noi abbiamo una certa documentazione, noi vi chiediamo di tener conto di quello che riusciamo a trovare noi se non siete capaci d’altro. Ecco qui sul mio banco giornali clandestini del partito democratico fascista, manifestini dove si dice: «Viva il fascismo! Torneremo»; altri dove si parla di bombe; ecco lo statuto del comitato centrale dei fasci di azione rivoluzionaria; ecco il rapporto, per esempio, di un partecipante alle squadre che hanno preparato attentati nelle ultime settimane. Ed ecco altre cose: persino i bracciali dell’organizzazione militare, di una organizzazione che avete legalizzato con il nome di Armata italiana di liberazione, come se di Armata italiana non ce ne dovesse essere una sola, quella della Repubblica. Ma dobbiamo indagare noi; e lo facciamo perché noi vogliamo proteggerci, dobbiamo pur difendere la vita, le nostre case. Noi non possiamo oggi fidarci del vostro Governo e della vostra polizia; e questo è grave, questo dimostra che state perdendo autorità nel Paese.

A Milano, per esempio, il sedicente partito democratico fascista che pubblica questo giornale, che trafuga la salma del duce, che organizza attentati contro la Federazione, che ha organizzato la faccenda del Giornale luminoso, è stato scompaginato dagli arresti che abbiamo provocato, documentando la sua azione, ma oggi potrebbe ricostituirsi perché tutti gli arrestati sono ormai fuori. Operano poi i fasci di azione rivoluzionaria, di cui potete, se vi interessa, leggere qui lo statuto; le SAM (squadre d’azione mussoliniana): queste sono alcune delle organizzazioni clandestine che pullulano a Milano e che voi non solo non trovate, ma finite per legalizzare, liberando quelli che sono arrestati.

Ma quante sono le organizzazioni che operano apertamente? Il Movimento sociale italiano, per esempio: e si tratta di fascisti repubblichini che sono rimasti fascisti.

Non lo diciamo noi, ma ci sono riviste di altri fascisti che dicono queste cose e le documentano e non è difficile capirlo se si esamina la loro stampa.

E al Movimento sociale italiano voi avete fatto l’onore di avere le sue liste per le elezioni di Roma; avete fatto l’onore a questi repubblichini, di oggi e non solo di ieri, di presentarsi sotto questa mascheratura molto trasparente. Quelli dell’«Armata italiana della liberazione» sono invece stati i liberali che li hanno presi nelle loro liste.

Sono essi che mandano in giro le squadre armate, che sporcano il nome della nostra Armata! Ebbene, gli arrestati di Milano per aver lanciato la bomba contro la Federazione sono tutti iscritti a questa specie di armata e con le bombe lanciano i manifesti che voi considerate legali.

Il movimento di Patrissi: noi diciamo che sono fascisti; l’abbiamo detto già, ma c’è anche Giannini, che li conosce più da vicino e li ha denunciati come fascisti: e anche loro hanno la loro lista a Roma.

Ora ci troviamo di fronte non soltanto al pullulare di organizzazioni clandestine, di gente che fa manifestazioni criminose, ma ci troviamo di fronte a qualcosa di peggio, al quale voi volete dare un paravento legale, e voi non ne tenete conto. Si è parlato dei canti provocatori a Roma. Ci compiacciamo che il Fronte dell’Uomo qualunque abbia dichiarato – per bocca dell’onorevole Giannini – che esso non farà coro a questi canti, pur volendo farsi alfiere di pacificazione.

Noi vogliamo essere molto espliciti a questo proposito. Noi condanniamo il fascismo: l’abbiamo combattuto e l’abbiamo vinto. Non permetteremo che esso risorga; ma questo non vuol dire che noi vogliamo la vendetta. Siamo noi il partito della riconciliazione. Siamo stati noi che abbiamo strappato al fascismo i suoi giovani anche quando questo voleva dire rischiare la libertà. Noi li abbiamo cercati, li abbiamo convinti ed abbiamo parlato loro. Allora non c’era voce di libertà, di insofferenza, di ribellione che si sollevasse nel nostro Paese, che non ci ha trovato attenti. Siamo stati noi che li abbiamo cercati nella «milizia», nei G.U.F., dovunque. Siamo andati a cercarli affinché la voce della libertà diventasse la voce di tutti gli italiani ed affinché tutti gli italiani ingannati potessero redimersi. Noi siamo il partito della riconciliazione e voi vi illudete di metterci in imbarazzo quando ventilate un ridicolo articolo che esclude dal diritto di voto gli ex littori o quando ci gridate i nomi di Alicata e di Ingrao. Uomini come Scoccimarro, come Longo, come Terracini si onorano di essere nello stesso partito accanto a questi uomini di cui voi ci gridate il nome credendo di metterci in imbarazzo. Io credo che i deputati che gridano il nome di Alicata, quando Mussolini è caduto non si trovavano ad ascoltare la notizia a «Regina Coeli», come questo nostro compagno. Io credo che questi uomini non hanno fatto come questi nostri compagni uno sforzo eroico per liberarsi e per battersi poi per liberare gli altri.

Noi siamo il partito della conciliazione nazionale. Per questo noi abbiamo chiamato alla democrazia questi giovani e durante la resistenza abbiamo conquistato alla guerra partigiana anche gli ufficiali della milizia (Commenti al centro e a destra) e ne abbiamo fatto gli eroi ed i martiri della indipendenza e della libertà italiana. Grave è invece la vostra responsabilità, la responsabilità di un partito che prende, invece, dei democratici sinceri, che hanno fatto onestamente il loro dovere, e li porta sulla strada della reazione. Noi abbiamo voluto l’amnistia pensando che questo fosse uno strumento per dare prestigio e forza alla democrazia. Anche i giovani illusi e sbandati, anche quelli che hanno avuto delle colpe e potrebbero redimersi. Anche i repubblichini lo potrebbero, soltanto se non pensassero a nostalgie ed a rancori. Ma sta a noi per questo di difendere ed aumentare il prestigio della Repubblica, di fare dell’Italia una Patria materna e anche severa verso i suoi figli.

Per questo che non facciamo nostre le divagazioni filologiche dell’onorevole Giannini: per noi amnistia non viene da amnesia. Abbiamo sofferto abbastanza per poter dire una parola di perdono; ma se noi dimenticassimo, avremmo sofferto invano; e non per questo abbiamo aspettato la caduta del fascismo in una cella del carcere di Civitavecchia piuttosto che in una biblioteca o in un ufficio di gestore delle ferrovie dello Stato! Abbiamo sofferto anche per voi, ma vogliamo che di questo gli italiani non si dimentichino. Se noi dimenticassimo dovremmo credere che i nostri morti sono caduti invano e che i nostri martiri si sono immolati inutilmente se non stabiliamo la giustizia, se non costituiamo una società basata sulla giustizia. (Vivi applausi a sinistra).

Per questo noi rifiutiamo le dichiarazioni per cui fascismo e antifascismo sono tutta una cosa. No, la tradizione dell’antifascismo è un patrimonio italiano; la tradizione della azione antifascista di sempre è un patrimonio non soltanto di un partito, ma dell’Italia, e se l’Italia conterà qualcosa, se sarà ancora una Patria per tutti i suoi figli, è perché questa tradizione si incorpora nella nostra storia.

Noi abbiamo una tradizione nazionale di conciliazione, abbiamo una tradizione nazionale di umanità.

Vi ricordate come Abba ci racconta di quei soldati borbonici di Calatafimi, che gridavano con quella voce lugubre: «Viva il re»? Ricordate come ne parlava?

Abbiamo tradizioni di tolleranza, di magnanimità. Nessuna persecuzione nel nostro Risorgimento, e adesso avete visto quanta larghezza. Del resto, sappiamo che un popolo non può essere fatto tutto di eroi. Abbiamo rifatto il nostro esercito, dopo il Risorgimento, con ufficiali, con generali che venivano dall’esercito borbonico, perfino con ufficiali che venivano dall’esercito austriaco. Pensate a Baldissera che ancora nel 1866 comandava un reggimento austriaco, cioè combatteva perché l’Italia non raggiungesse la sua unità. Poi divenne generale italiano e ricoprì cariche importanti.

Tradizioni di magnanimità. Non possono tutti i Baldissera essere dei fratelli Bandiera, non possono tutti quelli che sono stati in Austria essere dei Cesare Battisti; ma anche se non tutti sono dei Cesare Battisti, e se Baldissera non è la stessa cosa, nei nostri manuali del Risorgimento, dei fratelli Bandiera, quello che è importante è che per essere in Italia bisogna sentirsi italiani, per vivere nella Repubblica e riconciliarsi bisogna essere repubblicani. E vedete un po’, Baldissera non sfilava certo nell’anniversario di Custoza, ma il venti settembre. Non pretenderebbe un ex deputato austriaco che noi commemorassimo il centenario della Dieta di Vienna. Commemorerà la costituzione del nostro Parlamento qualunque sia la sua origine geografica. (Applausi a sinistra).

Voi non ci convincerete mai. Vedete, onorevoli colleghi dell’Uomo qualunque, non ci convincerete mai che il 25 aprile ed il 28 ottobre sono la stessa cosa e che quelli che sono repubblichini sfileranno il 28 ottobre e gli altri il 25 aprile. No. Non venite a dirci: «Non rompeteci più le scatole col fascismo e con l’antifascismo». Quelli che sono stati fascisti devono comprendere di aver peccato, comprendere che noi li abbiamo redenti col nostro sacrificio, e che noi perdoniamo loro perché siamo abbastanza forti per farlo. Questo è quello che il Governo d’Italia dovrebbe fare intendere, e noi vogliamo che l’Italia abbia un Governo.

Una voce al centro. Possono anche non essere comunisti.

PAJETTA GIANCARLO. Certo.

Perché ci preoccupa il pericolo fascista? Ci preoccupa non soltanto la vostra cecità, ma ci preoccupano le radici sociali del fascismo.

L’onorevole Calosso, che non so se si consideri ancora un marxista, ma non credo, perché è piuttosto un idealista, ci chiede che cosa sia il partito comunista, e non ha mai provato di fare l’analisi di quelle che sono le nostre radici sociali. Noi siamo invece abituati ad un altro metodo e per questo facciamo la domanda: ci sono radici sociali? Lo stesso pericolo si ripresenta perché ci sono gli stessi elementi. Purtroppo ci sono. È questa una questione dottrinale? Capisco che l’onorevole Corbellini che sta ridendo è ben lontano da queste cose, dalla politica e dalla analisi storica. Non è una questione dottrinale, si tratta dell’attività pratica.

TOGLIATTI. Ingegner Corbellini, rispetti l’Assemblea.

PAJETTA GIANCARLO. Elementi dottrinali, dicevo; cose che vi sono estranee e cose che l’onorevole Calosso, se è stato marxista, si è dimenticato? No, attività pratica. Quando gli agrari di Vercelli dicono: noi passeremo col nostro trattore sui nostri campi ma stroncheremo le organizzazioni operaie, ci sono ragioni di preoccupazione seria. Del resto tutte queste organizzazioni clandestine non sono fatte soltanto per distribuire manifestini o per buttare qualche bomba davanti alla porta di qualche ufficio. Ma sono fatte per lottare contro i lavoratori come si è visto durante lo sciopero dei braccianti. Ecco una lezione di materialismo storico, onorevole Calosso. L’Associazione della Armata della liberazione ha organizzato il crumiraggio: mille trecento lire al giorno, pranzo pagato e autocarri per andare a fare i crumiri. Questa è una cosa che faceva una volta il fascismo.

M.R.P.: un’altra organizzazione di sedicente sinistra e molto bene controllata dalle forze agrarie della provincia di Milano, ha organizzato autocarri di armati, altoparlanti, e reclutato crumiri (mi pare 300 lire in meno al giorno), durante lo sciopero ed il Movimento sociale italiano ha fatto la stessa cosa. Quando noi vediamo il delitto, quando noi vediamo le canaglie fasciste, quando noi vediamo l’attacco contro la Repubblica, unirsi a certi determinati interessi di ceti privilegiati, di ceti che hanno già una volta finanziato il fascismo, noi abbiamo il diritto di pensare che c’è un pericolo fascista in Italia che non è soltanto fantasma. Noi abbiamo imparato molte cose e chiediamo a voi se non d’imparare le cose che abbiamo imparato noi, di imparare magari alla vostra maniera, ma di non dimenticare la realtà. Noi abbiamo imparato come si conduce uno sciopero meglio di una volta. Non abbiamo permesso agli agrari di prendere i contadini e farne dei crumiri.

Io credo che i comunisti siano tutti dei militanti delle organizzazioni sindacali, non credo d’altra parte che tutti i liberali siano degli organizzatori di sindacati padronali. Noi abbiamo imparato anche un’altra cosa: che non permetteremo queste organizzazioni.

Vede, onorevole Scelba, quando i crumiri;. l’M.R.P., l’M.S. I. andavano in una cascina, noi li prendevamo e li facevamo tornare indietro togliendo la voglia di commettere un reato contro la classe operaia, evitando di fare delle violenze. E si sono accorti presto che la cosa non andava. Questo è quello che abbiamo fatto. Abbiamo imparato queste cose perché abbiamo un’esperienza di quando le abbiamo prese e di quando le abbiamo date. Abbiamo la volontà ferma di chi non vuole che il fascismo ritorni nel nostro Paese. Noi non soffriamo di amnesia; lei soffre, onorevole Scelba, invece, di cecità e questo è grave, perché un Ministro dell’interno dovrebbe vederci o almeno dovrebbe avere nei suoi uffici qualcuno che vedesse per lui.

Busto Arsizio è una piccola città e il giornale che vi si stampa, «Avanguardia sociale» è un giornale fascista. Non credo che ricavi introiti sufficienti dai suoi pochi lettori. Lei dovrebbe indagare su chi paga.

Ecco in un giornale una vignetta: un campo di concentramento (è gente che se ne intende, perché ha fatto la guardia ai campi dove i nostri son morti) e sotto c’è «Pronto per gli Agit-prop». È lei che li invita a sognare, li invita a credere che quel sogno potrà diventare realtà.

E vi è un altro giornale che esce in una grande città d’Italia. Sa cosa vi si dice fra l’altro? «Togliatti, Nenni, Calosso, Treves – ce n’è anche per voi, non dubitate – (Accenna al centrosinistra). Ma è possibile che non ci si decida finalmente a cacciare queste immonde carogne che ammorbano l’Italia»… E poi dice di Togliatti, di Longo, di Secchia: «Gente che ha avuto l a medaglia al valore lazzarone»!

Questo per i dirigenti. Per gli altri, per i partigiani, per quelli che fino a prova contraria il Governo riconosce come partecipanti alla liberazione del Paese: «Forse credono le Brigate Garibaldi di poter ripetere le eroiche gesta dell’aprile del 1945, quando dopo essersi specializzati in agguati…».

Già, noi ammazzavamo i tedeschi alle spalle, non affrontavamo i loro carri armati nelle Piazze di Milano!

«Quasi tutte quelle eroiche divisioni si sono poi distinte nei massacri, ecc., ecc.».

Questo è un giudizio che lei non condivide, ma lo lascia pubblicare perché vilipende gli eroi, e lei non se ne sente personalmente toccato, naturalmente. (Applausi a sinistra).

Ad un certo punto si scrive: «Il valore della Monterosa non ha nulla da invidiare a quello della Cremona…». Io vorrei che ci fosse qui il Ministro Cingolani che ha il dovere di difendere l’onore del nostro esercito. I nostri soldati eroici paragonati ai banditi, ai mercenari della Monterosa. E si continua: «Il valore della Legnano (un’altra divisione nostra) non ha nulla da invidiare alla San Marco…».

Onorevole Scelba, vuole che le mandi le fotografie degli impiccati dalla X Mas? Vuole che le mandi le fotografie di quello che hanno fatto queste divisioni?

SCELBA, Ministro dell’interno. Ha visto per le vie di Roma i manifesti contro l’esercito italiano?

PAJETTA GIANCARLO. Io non li ho visti, ma sono certo che nessun comunista ha affisso un manifesto contro l’esercito italiano. Credo che le cose che avevamo da dire all’esercito italiano le abbiamo dette combattendo, le abbiamo dette mandando i nostri volontari, le abbiamo dette cercando di fare la guerra quando a quell’esercito italiano, complici o tolleranti certi Ministri italiani, gli alleati hanno impedito di combattere come avrebbero voluto, come avrebbero saputo per la liberazione del nostro Paese. (Applausi a sinistra).

Qui è questione che interessa il Ministero dell’interno, la polizia. Vi danno la lista di quelli che dovrebbero essere arrestati, fanno una sottoscrizione, danno dei soldi per i gloriosi mutilati della repubblica sociale italiana. Sono cifre che si possono facilmente tradurre. Per il tal dei tali, «caduto per l’onore», cioè un repubblichino che sarebbe caduto per l’onore, ed infine, come se non bastasse, per questi sporchi rinnegati, per questi tedeschi, c’è uno che dà dei soldi. Capite? Un italiano che dà dei soldi, che si vanta di essere stato un volontario dell’esercito tedesco.

Lei ignora dunque che i nazisti italiani scrivono in tedesco sui giornali permessi da lei?

Vorrei sapere perché mai l’onorevole Del Vecchio contribuisce a pagare coi soldi dello Stato questo giornale.

Se non isbaglio, l’Alfa Romeo è dell’I.R.I.; e, se non isbaglio, come tutte le aziende dell’I.R.I., chiede spesso del denaro, dato lo stato di disorganizzazione in cui voi permanentemente le tenete. Ebbene, questo giornale pubblica la pubblicità pagata dall’Alfa Romeo.

Questo dunque è ciò che voi fate a favore del fascismo! E ci chiedete di non protestare, e ci chiedete di non intervenire, e ci chiedete di dimenticare tutto! No, noi non possiamo dimenticare; bisognerebbe piuttosto che voi imparaste a fare quello che ancora non avete imparato a fare. E si parla di conciliazione!

Sapete qual è la funzione di questa stampa fascista? Quella di denunziare uno per uno coloro che entrano nelle organizzazioni democratiche; di denunziarli come rinnegati e traditori. Ingegner Corbellini, si aspetti di trovare presto il suo nome su uno di questi giornali. (Si ride).

Ma di là dei doverosi provvedimenti che il Governo deve prendere, di là dei provvedimenti che non possiamo attendere più a lungo, c’è un’altra cosa che può vincere il fascismo: è lo spirito di unità degli italiani. Di là dei doverosi provvedimenti di un Governo che non può essere questo – voi lo avete dimostrato – c’è lo spirito di unità.

Ma, amici della Democrazia cristiana: noi non crediamo, no, che tutti quelli che non sono del nostro partito siano dei fascisti; amici della Democrazia cristiana, se voi volete che lo spirito di unità nazionale riviva, bisogna che questo Governo cada, bisogna che cada questo Governo della discordia, che è il Governo che ha permesso all’onorevole De Gasperi di spalancare quelle porte che insieme avremmo potuto far sì che restassero sprangate alla speculazione e al privilegio.

L’unità antifascista, no, non è morta; essa è una realtà dappertutto dove si sente questo pericolo. È una realtà che noi forse sentiamo di più perché l’abbiamo più sofferta, perché l’abbiamo conquistata in tanti anni di resistenza al fascismo; ma questa unità deve essere viva anche nel cuore di voi.

Io sento dire qualche volta dall’amico Merzagora: «Come erano belli quei tempi brutti! Si stava insieme; eravamo tutti uniti». Ma veramente cosa pensa l’onorevole Merzagora? Pensa egli proprio che debbano tornare quei tempi brutti perché si ritorni poi insieme nei Comitati di liberazione?

L’amico Malvestiti, quando una volta bussammo al muro di una cella di Regina Coeli e domandammo: «Che cosa fate? Chi siete?», rispose: «Siamo cattolici, siamo neoguelfi: aspettiamo, preghiamo». Ma, onorevole Malvestiti, pensa davvero veramente che si debba tornare in una cella di Regina Coeli a pregare? Ma dobbiamo veramente attendere che ritorni il fascismo? Non sarebbe meglio che lei potesse pregare in Chiesa e che tutti potessimo restare liberi?

No, noi. non pensiamo che tutti coloro i quali non sono comunisti siano fascisti, che tutti coloro i quali non sono comunisti non siano lavoratori; questo potrà servire per una boutade dell’onorevole Saragat: noi, per nostro conto, cerchiamo dovunque i lavoratori; anche dove ce ne siano pochi li cerchiamo, persino nel partito di Saragat.

Ma se voi non comprendete questo, potremmo avviarci verso una catastrofe.

E quando l’onorevole Piccioni dichiara che gli 8 milioni di voti che avrebbe preso non sono tutti di industriali e di agrari, gli rispondiamo che sappiamo abbastanza di statistiche, per non immaginare questo. Ci sono questi democratici in ogni partito, l’errore vostro di impedire che essi si intendano. Se le basi sociali del vostro partito ci spingessero senz’altro gli uni contro gli altri, non vi chiameremmo il Governo della discordia, non vi renderemmo responsabili di avere interrotto una intesa, che bisognava invece rafforzare, che può essere rinnovata.

Volevo dire alcune cose dei qualunquisti, e mi spiace che non sia presente l’onorevole Giannini. Ieri l’onorevole Giannini ha accusato i nostri compagni Spano e Grieco di aver fondato l’Uomo qualunque. Ma s’è accorto l’onorevole Giannini che noi non accusavamo a torto di fascismo il suo movimento? Quante cose ha cambiato l’onorevole Giannini, e si è accorto che abbiamo cambiato anche noi? Se fosse stato un nostro slogan, se fosse stato un capriccio di Spano, noi continueremmo a dargli del fascista. Non pensa, l’onorevole Giannini, che lo abbiamo anche aiutato a capire che aveva dei fascisti con sé? Non pensa di avere imparato qualche cosa dai comunisti, da qualche articolo del nostro compagno Togliatti? Non ha trovato forse nel suo partito qualche Giuda, dei Giuda che in parte ha scoperto col nostro aiuto?

Noi non diamo del fascista a chiunque non è con noi. Agli appartenenti al movimento dell’Uomo qualunque noi non abbiamo dato del fascista, quando abbiamo pensato che non do fossero.

Noi possiamo chiedervi di crederci, voi dovreste intendere la nostra onestà, provata col sacrificio, dovreste serbare nei nostri confronti quel tanto di onestà, che vi impedisca di attribuirci opinioni che non abbiamo mai espresse, intenzioni che non sono le nostre. È per questo che il Governo si deve togliere di mezzo; esso è come una trincea che ci divide.

Vogliamo dire a questo Governo che siamo forti abbastanza per non avere nessuna velleità di rompere la legalità democratica, che siamo forti abbastanza per svegliarvi, per farvi sentire quale è il vostro dovere, e che siamo forti abbastanza per difenderci, se qualcuno volesse rompere, contro di noi, questa legalità democratica! (Applausi a sinistra).

Ma non è certo con una minaccia che i comunisti vogliono concludere la loro partecipazione a questa discussione.

Noi vogliamo concludere con l’appello che si rinnova, che si rinnoverà sempre, finché avremo fede nella democrazia italiana, con l’appello agli italiani, ai lavoratori, agli antifascisti consapevolmente democratici: unità per lavorare insieme, unità per vivere liberi, unità perché sia salva l’Italia! (Vivissimi applausi all’estrema sinistra – Molte congratulazioni):

PRESIDENTE. È iscritto a parlare lo onorevole Macrelli. Ne ha facoltà.

MACRELLI. Onorevoli colleghi! Una recrudescenza nei postumi della ferita riportata sul campo dell’onore nella prima guerra mondiale ha obbligato il carissimo amico Cipriano Facchinetti a rinunziare al mandato affidatogli dal nostro Gruppo, di portare in questo appassionato dibattito la parola e il pensiero dei repubblicani. Tocca a me il compito di sostituirlo; e io lo adempirò, con frase meno alata e suggestiva, ma, io penso e spero, con la stessa serenità e obiettività.

Del resto, la mozione votata proprio in questi ultimi giorni dalla Direzione del partito repubblicano e dal Gruppo è così chiara, così lineare, che non ha bisogno di molte parole a commento, per spiegare la nostra condotta, il nostro atteggiamento di fronte al Governo.

Come sempre, anche oggi gli uomini del nostro partito, che traggono dalla dottrina morale di Giuseppe Mazzini l’imperativo categorico per la loro coscienza di repubblicani e di italiani, si pongono, o almeno cercano di porsi, al di sopra della mischia e, nel contrasto delle passioni e delle fazioni, intendono richiamare tutti, uomini e partiti, al senso del dovere e della responsabilità, individuale e collettiva, nell’interesse superiore del Paese e della Repubblica.

Anche noi potremmo attardarci in una disamina profonda e circostanziata di quella che è stata l’azione del Governo monocolore dell’onorevole De Gasperi; anche noi potremmo con la nostra critica investire in pieno quella che è stata la politica di questo Governo in ogni settore della sua attività.

Io mi fermerò invece a qualche breve, rapida osservazione che dirà in modo chiaro e preciso (almeno io credo e penso) quello che è il nostro intendimento nell’ora storica che stiamo attraversando e quella che è soprattutto la meta verso la quale noi tutti dobbiamo tendere, italiani e repubblicani.

Noi abbiamo già fatto conoscere in altro momento quella che doveva essere la linea del Governo, di ogni Governo, non solo di questo, ma anche degli altri, dopo le troppe crisi che hanno travagliato la vita politica nazionale.

Noi avevamo fissato dei termini precisi, avevamo anche segnato delle condizioni obiettive e dal punto di vista politico e dal punto di vista sociale e morale; ma la nostra – purtroppo! – è stata voce clamante in deserto! Come molto spesso accade per chi ha una idea, per chi ha una luce davanti a sé che indica la strada da battere, che indica la meta da raggiungere, siamo rimasti inascoltati!

Quando si presentò il governo De Gasperi nell’attuale formazione, noi facemmo conoscere soprattutto i pericoli della situazione, di una situazione che portava – come ha portato purtroppo! – la frattura fra noi, fra i partiti della democrazia!

E abbiamo compreso fin da quel momento che forse saremmo ancora ricaduti negli errori del passato e non avremmo potuto risparmiare alla vita tormentata della nostra povera Patria le sofferenze e le amarezze di oggi.

Io non ripeterò quello che hanno detto già altri; non richiamerò la vostra attenzione, onorevoli colleghi, sulla gravità dei fatti denunciati dall’ultimo oratore che ha parlato, fatti di una gravità eccezionale, fatti che vogliono da parte di un Governo, di qualsiasi Governo, provvedimenti per la difesa della Repubblica, per la difesa della democrazia, che vuol dire difesa del popolo italiano, difesa dell’Italia! (Applausi a sinistra).

Episodi dolorosi, anche recenti, stanno ad indicare che l’opera del Governo è stata negativa o, peggio, in certi casi (mi si consenta di dirlo apertamente) anche faziosa.

Si ritorna alle spedizioni punitive, si vilipendono pubblicamente le istituzioni e, anche, le più alte autorità dello Stato; si pubblicano libelli diffamatori, giornali che costituiscono un incitamento all’odio ed alla vendetta. E gli articoli portano le firme di uomini che dopo la mal congegnata e peggio applicata amnistia avrebbero dovuto almeno ritirarsi nell’ombra per far dimenticare il loro passato di vergogna e di responsabilità. (Applausi a sinistra).

E – prendendo le parole dalla mozione che è l’espressione della realtà e soprattutto della serenità e della obiettività del nostro giudizio nel confronto di tutti i partiti – aggiungo che la rottura dell’intesa repubblicana, dovuta alla politica del tripartito, ha aperto un periodo di agitazioni incomposte durante le quali gli obiettivi meramente politici hanno spesso superato le legittime esigenze economiche delle classi diseredate. Dolorosa realtà, ma realtà che abbiamo constatato anche recentemente. (Applausi).

Per quel che riguarda la situazione economica e finanziaria, le idee del Partito repubblicano sono note. Il Partito repubblicano ha voluto, ha preteso dai Governi una politica attiva di lotta contro l’inflazione. Esso l’ha richiesta nell’interesse supremo del Paese. Ora, questa politica, che già durante i Governi del tripartito era stata tracciata, ha avuto due importanti realizzazioni, due applicazioni: l’imposta straordinaria patrimoniale ed il controllo del credito.

Naturalmente, né l’imposta patrimoniale né il controllo del credito valgono di per sé soli ad assicurare il successo della lotta contro l’inflazione. Altri provvedimenti dovevano essere studiati e soprattutto occorreva non dare incentivo, attraverso l’azione diretta degli organi statali, all’aumento dei prezzi.

Questa è stata la base più debole dell’azione governativa.

Mentre l’imposta straordinaria ed il controllo del credito esercitavano una pressione anti-inflazionistica sul mercato, il Governo con l’aumento dei prezzi dei pubblici servizi, dei prodotti siderurgici, ecc. distruggeva da una parte quello che aveva edificato dall’altra.

Non solo, ma tutta la politica del commercio estero – come è già stato rilevato qui ampiamente da altri – nonostante l’intelligenza spiegata dal Ministro Merzagora, si orientava in senso diametralmente opposto alla politica del Ministro del Bilancio e del Ministro del tesoro.

L’aumento dei premi all’esportazione, rincarando il costo dei prodotti importati, contribuiva a frustrare i risultati raggiunti in altri campi.

La politica del commercio estero è apparsa una politica a sé stante, nel quadro della politica di compressione impersonata dall’onorevole Einaudi.

Le critiche, rivolte al sistema troppo automatico di controllo del credito, trovano la piena adesione del Partito repubblicano. Il controllo doveva assumere aspetto qualitativo e colpire quei rami che più specificamente hanno praticato il tesoreggiamento delle merci e la speculazione.

Ma, intendiamoci, qualunque critica si faccia al Governo, il Partito repubblicano resta fermo nella sua idea che questo ed altri strumenti di politica antinflazionistica debbono essere perfezionati e migliorati, ma non debbono essere accantonati.

Se critica all’azione del Governo significa condanna alla politica antinflazionistica, il Partito repubblicano non è d’accordo e combatte questa posizione.

La lira deve essere difesa con qualsiasi mezzo ed anche, con la lira, il potere di acquisto dei piccoli risparmiatori, dei piccoli ceti che costituiscono poi la massa del popolo italiano.

Il Governo va criticato per quello che non ha fatto e che non fa.

Certo, noi comprendiamo: dal punto di vista politico il Governo non si trova in una delle migliori posizioni.

Anche prima della nuova soluzione data dall’onorevole De Gasperi alla crisi del giugno scorso, avevamo segnalato i pericoli della situazione ed indicato i mezzi per affrontarla. Ho già detto: non fummo ascoltati ed allora, di fronte al Governo monocolore o quasi del capo della Democrazia cristiana, potemmo fissare chiaramente le responsabilità di uomini e di partiti che, preoccupati soltanto delle piccole contese di fazione, dimenticavano l’interesse superiore del Paese.

Oggi, ancora e sempre idealisti e sentimentali, noi pensiamo che una parola libera e serena da questi banchi, in cui siedono uomini che non hanno ambizioni né riserve mentali, possa giovare, richiamando tutti al senso del dovere.

Il Partito repubblicano risponde così implicitamente agli inviti che ci sono venuti da tante parti.

Vorrei aprire una parentesi. Attraverso i tempi questo partito «di orgogliosa minoranza», come è stato definito proprio in questi giorni, ha affrontato battaglie aspre e dure, dimenticando perfino quella che era la sua passione, la sua fede, pur di dare all’Italia, a questa nostra adorata Patria, che è la terra nostra e dei nostri avi, l’indipendenza e la libertà. Ad inviti ed appelli recenti e lontani non abbiamo risposto od abbiamo risposto negativamente: non potevamo dare il nostro consenso ai governi finché in Italia rimanevano l’onta e l’umiliazione di una monarchia e di una dinastia. Siamo rimasti fermi al nostro posto. Abbiamo accettato di assumere responsabilità durante la prima guerra mondiale, ma soltanto dopo il 2 giugno, proclamata la Repubblica, sorta dalla libera coscienza del popolo italiano, abbiamo partecipato per la prima volta al Governo: era un nostro diritto, era un nostro dovere. Poi, ad un certo momento, ci siamo allontanati. Voi conoscete le ragioni, conoscete i motivi, li abbiamo esposti chiaramente; l’onorevole De Gasperi soprattutto li conosce, perché a lui io andai a portare la parola ed il pensiero del Partito repubblicano alla vigilia della crisi di gennaio. Non potevamo rimanere nella compagine governativa. Ne uscimmo a fronte alta, con la coscienza tranquilla e serena per il dovere compiuto, e riprendemmo il nostro posto di opposizione nell’Assemblea, nel Paese. Opposizione però attiva e costruttiva, perché noi non pensiamo soltanto al partito che ci ha mandato qui, ma pensiamo soprattutto al Paese e alla Repubblica.

Orbene, se siamo stati avversari dei Governi che si sono succeduti da gennaio ad oggi, se abbiamo sentito da vari banchi altri appelli ed altri richiami, noi vi diciamo apertamente, sinceramente oggi, come è nostra abitudine: crediamo che sia possibile, anche nelle attuali circostanze, la creazione di un Governo a maggioranza stabile e sicura, con l’appoggio e la collaborazione di tutti i partiti repubblicani.

Questo è il nostro concetto sul quale richiamo la vostra attenzione, onorevoli colleghi. E se volete che specifichi di più vi dirò: noi pensiamo alla data del 2 giugno: è la data che resta ormai ferma, segnata nella storia dei destini d’Italia; orbene i partiti che in quel giorno vollero e fecero la Repubblica devono essere rappresentati al Governo con tutte le loro forze e con tutte le loro energie morali e materiali. (Applausi).

Ma occorre fissare le linee di un programma. Abbiamo sentito alte e profonde discussioni. In ogni campo, competenti di tutti i partiti hanno portato il segno della loro intelligenza, della loro passione, del loro animo. Troppe cose si sono chieste però a questo Governo, troppe cose si erano domandate agli altri Governi.

Ad ogni modo, vi sono due problemi che si impongono alla nostra attenzione; due problemi sui quali tutti dovremo portare il nostro sforzo comune: difesa della lira (e quando dico difesa della lira voglio dire difesa del lavoro, della fatica, del sudore dei nostri operai; quando parlo di operai intendo alludere a tutti i lavoratori, del braccio e del pensiero); difesa, o, meglio, consolidamento delle istituzioni repubblicane. Il Governo, comunque formato, deve partire da questa premessa logica e storica: che la Repubblica oggi è una realtà di fatto e di diritto che rimane nella vita del popolo italiano; che non si cancella perché non si torna più indietro.

È bene dirlo apertamente. (Commenti a destra – Interruzione del deputato De Mercurio).

Onorevoli colleghi, mosso dall’unica preoccupazione di creare stabili basi alla giovane Repubblica, non soltanto attraverso una decisa smobilitazione dell’apparato monarchico fascista, ma altresì attraverso una concorde e concreta politica tendente a risolvere, al di sopra delle ideologie e dello spirito di parte, i gravi problemi che affannano il popolo italiano, il Partito repubblicano, riprendendo del resto quello che già aveva precisato alla vigilia della crisi del gennaio scorso, afferma che il Governo, da lui auspicato, espresso dalla coscienza repubblicana dell’Assemblea, possa assolvere il suo compito in questo grave, difficile, delicato periodo della vita nazionale, soltanto a queste condizioni: 1°) che dal punto di vista personale e tecnico costituisca un meccanismo capace di azione unitaria; ) che l’attività ministeriale non sia un terreno su cui ciascun partito delimiti la sua zona di influenza senza nessun coordinamento e nessun adeguamento allo necessità generali. I partiti devono impegnarsi di sviluppare al Governo, una volta stabilito un programma comune, un’azione concorde al di sopra dei propri schemi ideologici, né devono sopraffare il Governo con le loro esigenze particolaristiche, ma devono tutelarne, proteggerne l’azione politica ed amministrativa; 3°) l’azione politica dei partiti al Governo deve svolgersi in seno al Consiglio dei Ministri e la loro eventuale critica deve essere compiuta nel Parlamento, evitandosi in modo assoluto che l’eventuale disaccordo tra partiti ed uomini della coalizione governativa scenda alla contesa polemica nella stampa o nei comizi e si arresti poi sulla soglia della Assemblea politica, unico organo idoneo a giudicare.

Perché indichiamo noi queste vie da battere? Perché, onorevoli colleghi, noi ci permettiamo, noi partito di minoranza, di fissare questi punti?

Per una esperienza personale. Ne abbiamo parlato in altre occasioni. Chiunque assuma la grave responsabilità del potere deve ad un certo momento dimenticare l’antico se stesso, le proprie idee e starei per dire le pregiudiziali ideologiche dalle quali è mossa la sua azione. Io ricordo alle volte le parole pronunziate un giorno da un grande italiano, triumviro della gloriosa Repubblica romana, Aurelio Saffi. Quando nel 1891 il Partito repubblicano vinse per la prima volta le elezioni amministrative a Forlì e salì da solo alla Casa del comune, Aurelio Saffi, che aveva tratto tutta la passione della sua vita dalla dottrina e dall’insegnamento di Giuseppe Mazzini, pronunciò un discorso che dovrebbe essere letto e meditato sempre e dovunque. Egli disse: «Noi non siamo venuti qui a rappresentare un partito. Noi abbiamo dimenticato alla porta della Casa comunale la nostra tessera. Qui noi rappresentiamo soltanto gli interessi dei cittadini, di tutti i cittadini».

Altrettanto devono fare i Ministri che assumono il peso del potere. Uomini di diversa fede, di diversi partiti, che vengono da origini diverse, che hanno principî e programmi in contrasto ed in antitesi, al Governo però devono ricordare di essere soltanto italiani, e noi aggiungeremo, perché complemento necessario, repubblicani.

Ecco l’appello che noi rivolgiamo a tutti i partiti della democrazia e della democrazia repubblicana in quest’ora solenne e decisiva per il nostro Paese. È una parola serena quella che noi rivolgiamo ai repubblicani che sono nell’Assemblea e nel Paese.

Noi crediamo di avere indicato la via da seguire e le mete da raggiungere, e vorremmo che tutti, superando un po’ quello che è il proprio intimo egoismo, quelle che sono le proprie aspirazioni ideologiche, vicine o lontane, si ricordassero che al di sopra di noi, e delle nostre passioni, è l’Italia, è la Repubblica. (Applausi – Congratulazioni).

Voci. Chiusura!

PRESIDENTE. È stata chiesta la chiusura della discussione. Domando se questa proposta è appoggiata.

(È appoggiata).

La pongo ai voti.

(È approvata).

Dichiaro pertanto chiusa la discussione generale.

Domani, nelle due sedute che si inizieranno alle 10 e alle 16, avranno la parola i presentatori delle mozioni e il Governo. Poi si passerà alle votazioni.

Interrogazione con richiesta d’urgenza.

PRESIDENTE. È stata presentata la seguente interrogazione con richiesta d’urgenza:

«Al Governo, per sapere:

se non ritenga necessario provvedere affinché la maggior parte delle somme stanziate per la pubblica assistenza (circa 50 miliardi, ripartiti nei bilanci di dieci diversi Ministeri o Alti Commissariati) più non si disperda in spese generali e di organizzazione, in questioni di competenza, in duplicazioni di uffici e interventi, a profitto degli speculatori e a detrimento dei veri bisognosi;

se, per l’esercizio in corso, non intenda rivedere le riduzioni previste e adeguare al valore della moneta gli stanziamenti disposti, così da evitare la più iniqua delle economie sui bisogni delle categorie più umili e provate;

se, infine, non consideri urgente predisporre e attuare un piano di sicurezza sociale che – unificando al centro e semplificando e coordinando gli Enti e Istituti periferici – possa assicurare ai non abbienti senza maggiori aggravi di bilancio, il diritto alla vita.

«Vigorelli, Cairo, Fietta, Calosso, Tremelloni, Ghidini, Filippini, Paris, Cartia, Gullo Rocco, Chiaramello, Zagari, Bianchi Bianca».

Chiedo al Governo quando intenda rispondere.

DE GASPERI, Presidente del Consiglio dei Ministri. Competente a rispondere a questa interrogazione è il Ministro dell’interno, il quale farà sapere lunedì prossimo se sarà in grado di farlo subito o quando potrà rispondere.

Interrogazioni.

PRESIDENTE. Si dia lettura delle interrogazioni pervenute alla Presidenza.

AMADEI, Segretario, legge:

«Il sottoscritto chiede d’interrogare i Ministri dell’agricoltura e foreste e delle finanze, per sapere quali provvidenze e quali agevolazioni intendano applicare e adottare in favore degli agricoltori di quei comuni di Forlì (Predappio, Castrocaro, Bertinoro, Portico, Rocca, ecc.), che per le recenti alluvioni perdevano quasi interamente i raccolti dell’uva e subivano danni ingenti nel foraggio e negli impianti. (L’interrogante chiede la risposta scritta).

«Braschi».

«Il sottoscritto chiede d’interrogare il Ministro di grazia e giustizia, per conoscere quali provvedimenti intenda adottare di urgenza per assicurare il regolare funzionamento della più parte degli uffici giudiziari della Corte di appello di Aquila, e cioè delle preture di Campli, Capestrano, Caramanico, Casoli, Castelvecchio Subequo, Catignano, Celenza sul Trigno, Civitella del Tronto, Guardiagrele, Gioia dei Marsi, Gissi, Lama dei Peligni, Loreto Aprutino, Montorio al Vomano, Notaresco, Orsogna, Pescina, Pizzoli, Pratola Peligna, San Demetrio ne’ Vestini, Tagliacozzo, Torricella Peligna e Trasacco.

«Tutte codeste preture sono da lungo tempo mancanti dell’unico magistrato prepostovi e talune di esse – come quelle di Campli, Celenza sul Trigno, Civitella del Tronto, Gioia dei Marsi, Lama dei Peligni, Nereto, ecc., sono altresì prive dell’unico funzionario di cancelleria.

«Tali vacanze per molte preture si protraggono da lungo tempo, come – ad esempio – in quella di Trasacco, che non ha più titolare da oltre cinque anni.

«Data l’accresciuta competenza delle preture – che si preannuncia debba essere ulteriormente ampliata – tale stato di cose perturba gravemente il funzionamento della giustizia in popolosi centri rurali, nei quali la funzione del pretore ha una particolare e saliente importanza, oltreché giudiziaria, anche sociale.

«L’interrogante chiede, altresì, di conoscere quali provvedimenti intenda adottare per assicurare il regolare funzionamento della Corte di appello degli Abruzzi che, degli undici magistrati ad essa assegnati per le due sezioni civile e penale – a prescindere dalla mancanza di uno dei due presidenti di sezione – attualmente ne conta soltanto tre in pianta, con applicazione temporanea di ben cinque magistrati, taluno dei quali sta per essere collocato a riposo per raggiunti limiti di età, mentre altri sono in procinto di raggiungere le proprie sedi ordinarie, per scadenza del termine di applicazione.

«Siffatto stato di cose è tanto più preoccupante in quanto dal novero dei consiglieri sono tratti e designati i presidenti dei Circoli di Corte di assise funzionanti nelle sedi di Aquila, Chieti, Pescara, Teramo e Lanciano, ed esige urgenti provvedimenti perché sia senz’altro rimosso. (L’interrogante chiede la risposta scritta).

«Lopardi».

«Il sottoscritto chiede d’interrogare il Ministro delle finanze, sull’opportunità che, nel determinare l’imposta straordinaria per profitti di guerra sopra gli alberi di olivo, si proceda con criteri di gradualità e di equanimità.

«Mi riferisco specialmente a ciò che accade nella zona di Taggia (Imperia), nella quale ogni albero di olivo viene tassato, per la ragione suddetta, con la somma di circa lire 1000, in modo che agli olivicoltori sono stati richiesti contributi varianti da lire 100 mila a un milione.

«Un’imposta così gravosa appare specialmente iniqua e dannosa all’economia nazionale per le seguenti ragioni:

1°) che l’olivo è l’unica risorsa per gran parte delle famiglie di Taggia e della zona retrostante;

2°) che, come è noto, l’olivo ha un ciclo di produzione biennale, ossia produce un raccolto adeguato solo una volta ogni due anni. Raccolti di speciale imponenza dà soltanto ogni dieci anni;

3°) la manutenzione e la concimazione assorbono, in terreno collinoso (ove solamente si trovano, per ora, coltivazioni d’olivo) notevole parte del ricavato in denaro;

4°) che i maggiori profitti dell’elevazione dei prezzi dell’olio sono andati, non già agli olivicoltori, bensì agli esercenti della borsa nera, non colpiti da nessuna imposta;

5°) che la gravezza di questa taglia costringe e costringerà ancor più i contadini della zona ad abbandonare la coltura degli olivi, e a vendere le piante come legna da ardere. Si tenga presente che durante la guerra mondiale, e immediatamente dopo, furono tagliati ben due milioni di piante.

«L’interrogante ritiene perciò necessario e urgente che l’onorevole Ministro dia istruzioni agli Uffici finanziari della provincia di Imperia, affinché diminuiscano sostanziosamente gli aggravi fiscali, che vanno, con improvvida durezza, applicando agli olivicoltori. (L’interrogante chiede la risposta scritta).

«Pellizzari».

«Il sottoscritto chiede d’interrogare il Ministro del tesoro, per sapere se non ritenga opportuno di provvedere ad un equo aggiornamento delle pensioni di guerra (dirette e indirette), troppo inadeguate al fabbisogno dei destinatari. (L’interrogante chiede la risposta scritta).

«Di Gloria».

«Il sottoscritto chiede d’interrogare il Ministro della pubblica istruzione, per sapere se non creda opportuno disporre la statizzazione della scuola di ceramica di Santo Stefano di Camastra (Messina) e se non creda di innovare, con criteri di modernità, l’indirizzo della pubblica istruzione che, mentre seguita a moltiplicare le scuole classiche – le quali divengono sempre più una fabbrica preoccupante di spostati e di disoccupati, condannando a una esistenza angosciosa ceti intellettuali che dopo tanti anni di studio non trovano possibilità di lavoro e di vita – trascura, poi, lo sviluppo di scuole tecnico-professionali che elevino le condizioni dell’artigianato popolare, che ha tradizioni così gloriose e onora l’arte e il genio italiano. (L’interrogante chiede la risposta scritta).

«Basile».

«I sottoscritti chiedono di interrogare il Presidente del Consiglio dei Ministri e il Ministro dell’interno, per sapere se, di fronte al disagio nel quale versano reduci, partigiani, mutilati e invalidi di guerra, e alla constatata lentezza nel disbrigo delle pratiche, sia di pensione che di liquidazione delle loro spettanze, non credano necessario ed urgente di unificare i diversi servizi ed uffici e dare ad essi un assetto organico, che valga ad esaudire gli interessi e diritti delle categorie interessate. (Gli interroganti chiedono la risposta scritta).

«Gasparotto, Vigorelli, Clerici, Scotti Francesco».

PRESIDENTE. Queste interrogazioni saranno trasmesse ai Ministri competenti per la risposta scritta.

La seduta termina alle 20.55.

Ordine del giorno per le sedute di domani.

Alle ore 10 e alle ore 16:

Seguito della discussione delle mozioni degli onorevoli Nenni, Togliatti e Canevari.

ANTIMERIDIANA DI VENERDÌ 3 OTTOBRE 1947

ASSEMBLEA COSTITUENTE

CCXLIII.

SEDUTA ANTIMERIDIANA DI VENERDÌ 3 OTTOBRE 1947

PRESIDENZA DEL VICEPRESIDENTE TARGETTI

indi

DEL PRESIDENTE TERRACINI

INDICE

Sul processo verbale:

Mariani Enrico

Presidente

Crispo

Mozioni (Seguito della discussione):

Sereni

Piccioni

La seduta comincia alle 10.

MAZZA, ff. Segretario, legge il processo verbale della precedente seduta antimeridiana.

Sul processo verbale.

MARIANI ENRICO. Chiedo di parlare.

PRESIDENTE. Ne ha facoltà.

MARIANI ENRICO. Signor Presidente, onorevoli colleghi, sento il dovere, come deputato e come cittadino, di protestare contro il linguaggio basso e volgare…

PRESIDENTE. Onorevole Mariani, non posso consentirle di continuare nel suo discorso. Ella sa benissimo che sul processo verbale si può parlare solo per proporvi una rettifica o per chiarire o correggere il proprio pensiero.

CRISPO. Chiedo di parlare sul processo verbale.

PRESIDENTE. Ne ha facoltà.

CRISPO. Onorevoli colleghi, ho chiesto di parlare sul processo verbale di ieri mattina per chiarire una espressione da me usata e che ha dato luogo ad una interpretazione del tutto erronea.

A proposito della mancata legge per la difesa della Repubblica, che contemplava fra l’altro l’azione violenta, armata, diretta alla eventuale restaurazione della monarchia, dissi che il regime repubblicano non avrebbe avuto evidentemente a temere e non correva alcun pericolo ad opera dei monarchici.

Dissi – e questa fu l’espressione che ha dato luogo all’interpretazione da me riferita – che i monarchici non avrebbero avuto il fegato di ricorrere ad un’azione violenta. Il mio pensiero era chiaro. Volevo dire che i monarchici hanno troppo vivo il senso civico per non agire unicamente nell’ambito delle libertà democratiche e del diritto di propaganda per svolgere il loro pensiero e la loro azione, e in questo senso rettifico – se una rettifica occorre – la mia espressione che ha potuto sembrare offensiva.

PRESIDENTE. Se non vi sono altre osservazioni, il processo verbale si intende approvato.

(È approvato).

Seguito della discussione di mozioni.

PRESIDENTE. L’ordine del giorno reca: Seguito della discussione di mozioni. È iscritto a parlare l’onorevole Sereni. Ne ha facoltà.

SERENI. Signor Presidente, onorevoli colleghi, io mi sforzerò di portare in questo dibattito, più ancora che la voce della mia parte politica, la voce e il punto di vista di tutta una importante parte d’Italia nei confronti dei problemi che sono in discussione.

Sono profondamente convinto che, al di sopra delle divisioni di partito, esiste una solidarietà di interessi del Mezzogiorno; e poiché sono altrettanto profondamente convinto che questi interessi del Mezzogiorno coincidono storicamente con gli interessi generali della democrazia e della Nazione italiana, è da questo particolare punto di vista che io cercherò di intervenire nel dibattito.

A questo punto della discussione, d’altra parte, mentre già i più autorevoli rappresentanti dei Partiti hanno impostato il problema della fiducia o della sfiducia nel Governo, credo che un intervento come il mio può esser giustificato soltanto se io riuscirò a portare un contributo specifico nella discussione politica generale. Mi limiterò perciò, senza diffondermi su problemi più generali, a toccare, dal punto di vista del Mezzogiorno, tre punti fondamentali che concernono le origini di questo Governo, la sua composizione, la sua struttura, e la sua opera.

È stato già sottolineato da varie parti il carattere ed il significato di classe del Governo che siede su quei banchi. Io vorrei ricordare, a questo proposito, qualche cosa che è stata accennata dall’amico e compagno Morandi, sia nella precedente discussione che nell’attuale, ma che forse non è chiara e non è nota neanche a tutta l’Assemblea. Vorrei ricordare quella seduta del 30 aprile, nella quale, dopo il suo discorso radio, per la prima volta l’onorevole De Gasperi manifestò in Consiglio dei Ministri la sua intenzione di aprire la crisi. Il collega Morandi ha ricordato a questo proposito la storia del «quarto Partito», ma credo non sia inopportuno precisare qui il senso di questa espressione. Nella seduta del 30 aprile, l’onorevole De Gasperi ci disse in sostanza: «Il Paese si distacca da noi. Noi abbiamo i Ministeri, abbiamo il Governo, ma il Paese gradatamente si allontana dal Governo».

Fu facile, allora, all’amico e compagno Cacciatore ed a chi vi parla, rispondere all’onorevole De Gasperi: «Guardiamo i fatti».

Erano recenti le elezioni all’Assemblea regionale siciliana, e potemmo facilmente dimostrare che l’adesione del Paese alla maggioranza governativa di allora, presa nel suo complesso, lungi dal restringersi, si era allargata.

Dicemmo allora all’onorevole De Gasperi: questa maggioranza è aumentata nel complesso, ma sono diminuiti i voti della Democrazia cristiana. Questo fatto esprime un malcontento che esiste effettivamente nel Paese contro il Governo, non perché il Paese non approvi il suo programma, ma perché constata una indecisione, una lentezza nell’applicazione di questo programma. E non è un caso che in tutte le consultazioni elettorali avvenute in quel periodo, i voti si spostassero dalla democrazia cristiana verso il Partito socialista e verso il Partito comunista. Questo non significa che in Sicilia, ad esempio, molte persone fossero diventate socialiste o comuniste, ma significa – dicemmo allora all’onorevole De Gasperi – che nella direzione democristiana del Governo e della maggioranza, le masse del popolo italiano riconoscono la causa prima delle insufficienze nella realizzazione del programma del Governo.

Bisogna dire che né in quella, né nelle successive sedute, in nessuna occasione, l’onorevole De Gasperi mise in dubbio la validità di queste nostre affermazioni. Ma l’onorevole De Gasperi rispose allora: «Sì; avete ragione; se andiamo a vedere i risultati elettorali, non notiamo un allontanamento delle masse dal Governo; noi abbiamo una larghissima maggioranza di voti – comunisti, socialisti, democristiani – come Governo; abbiamo i Ministeri, la posizione chiave della politica governativa italiana; ma non disponiamo della stampa così detta indipendente, la quale presenta sotto una luce scandalistica qualunque provvedimento che il Governo prenda. Noi – disse l’onorevole De Gasperi – siamo tre grandi partiti che raccolgono la grande maggioranza dei suffragi, ma non abbiamo nelle nostre file un quarto partito, il partito di coloro che hanno denaro e possono prestarne allo Stato che ne ha bisogno».

Non potemmo nascondere, ministri comunisti e socialisti del Governo di allora, la nostra stupefazione di fronte a queste argomentazioni. Ci trovavamo evidentemente di fronte ad una nuova concezione della democrazia, che non era quella alla quale eravamo abituati: nella quale il popolo tutto esprime la sua volontà attraverso consultazioni popolari, dalle quali sorge una direzione dell’«Esecutivo Nazionale» corrispondente a questa espressione popolare:

Ci trovavamo di fronte ad una nuova concezione secondo la quale il voto di «Pirelli» e di qualche altro magnate dei gruppi monopolistici conta più di 15 milioni di voti di elettori (lavoratori e borghesi, democristiani, comunisti, socialisti, repubblicani).

Io non voglio qui entrare nella discussione su questa nuova concezione della democrazia, né voglio discutere se il Presidente De Gasperi è un democratico o no. Se devo esprimere la mia opinione personale, direi che, per essere un uomo di Stato democratico, all’onorevole De Gasperi manca un elemento essenziale: la fiducia nel popolo. (Interruzioni al centro – Commenti).

DE GASPERI, Presidente del Consiglio dei Ministri. Se lei avesse avuto dal popolo i voti che ho avuto io, potrebbe essere sodisfatto.

SERENI. Questo tipo di «democratico» è un tipo che abbiamo incontrato studiando la storia del Risorgimento italiano e operando nella realtà politica del periodo della guerra di liberazione e in questo dopo-guerra così agitato. È un tipo che è frutto dell’insufficienza della classe dirigente italiana, manifestatasi già nel corso del Risorgimento. Ne parlava Goffredo Mameli quando scriveva «quei che contano gli eserciti – disser: l’Austria è troppo forte – ed aprirono le porte».

In Consiglio dei Ministri, l’onorevole De Gasperi pose il problema appunto così: «Il nemico è troppo forte; ha in mano la stampa indipendente ed il denaro. Ebbene, questo nemico non dobbiamo combatterlo come nemico, dobbiamo spalancargli le porte del Governo». Goffredo Mameli ammoniva, a proposito di questi «democratici», che «questa vil genio non sa – che se il popolo si desta – Dio si mette alla sua testa – la sua folgore gli dà».

Questa folgore, l’onorevole De Gasperi l’aveva nel suo arsenale, ma non ha voluto mai maneggiarla contro i nemici del popolo; ai nemici del popolo, l’onorevole De Gasperi – seguendo una tradizione che non è certo quella repubblicana, bensì quella dei repubblichini e degli austriacanti d’Italia – ha preferito spalancare le porte del Governo.

Alla folgore che Dio dà a chi cammina col popolo, l’onorevole De Gasperi ha preferito le circolari dell’onorevole Scelba e dell’onorevole Grassi. Ha creduto di aver inventato il parafulmine creando questo nuovo Governo. E certo, le circolari dell’onorevole Scelba e dell’onorevole Grassi, non rischiano di scalfire il muro d’argento, come alcune volte potrebbe fare la folgore che Dio dà al popolo.

Per aprire le porte al nemico bisognava però, questa volta, cacciar via dal Governo i rappresentanti di un’altra democrazia, di una democrazia che non è disposta ad inchinarsi, a prosternarsi di fronte al muro d’argento di una democrazia che si difende e che combatte i nemici del popolo. L’onorevole De Gasperi aveva sul terreno parlamentare la forza di farlo, e l’ha fatto: buon pro’ gli faccia. Ecco il Governo che abbiamo di fronte e che è uscito da questa impostazione dei problemi della lotta democratica del nostro Paese.

È stato sottolineato in vari interventi, in special modo dagli onorevoli Nenni, Morandi e Togliatti, il carattere di classe e di parte che il nuovo Governo ha assunto. Sono state denunciate in quest’Aula delle ingiustizie e delle illegalità compiute da questo Governo ai danni della democrazia. Debbo dire che non ho assistito senza meraviglia ai sorrisi con i quali, da varie parti in quest’Aula, si è ironizzato a proposito di manifesti e di attacchini.

Si dice: cosa è poi mai se si proibisce un manifesto? È strano che dopo la triste esperienza del fascismo vi sia ancora una così scarsa esperienza democratica per cui nel nostro Paese non si avverte il significato che assume la violazione delle libertà elementari del cittadino, che sono la base della democrazia. Io non voglio ripetere quel che è stato detto da altri, ma vorrei che l’onorevole Togliatti mi consentisse di ricordare che, a proposito di ingiustizia e di illegalità, vi è appunto tutta una parte d’Italia, che è stata da decenni sottoposta ad ingiustizie, che non si sono sempre espresse solo nella forma dell’illegalità, ma si sono anche espresse sotto la forma della legalità di un determinato tipo di Governo, che è esistito nel nostro Paese; questa parte è il Mezzogiorno.

Quando noi analizziamo il carattere di questo Governo, dobbiamo sforzarci di valutare sotto tutti i suoi aspetti il significato dell’operazione politica che l’onorevole De Gasperi ha condotto a termine. Non basta constatare, come è già stato fatto, che essa ha portato all’esclusione dei rappresentanti dei partiti che più direttamente si richiamano alle classi lavoratrici. Occorre sottolineare che, come conseguenza, d’altronde inevitabile, di questa esclusione, l’onorevole De Gasperi ha risolutamente indirizzato la sua politica nel senso della ricostituzione di un blocco industriale-agrario, la cui punta è rivolta contro il Mezzogiorno.

Illustri rappresentanti della democrazia cristiana, come Luigi Sturzo, accanto ad altri illustri esponenti di differenti correnti politiche, come Guido Dorso ed Antonio Gramsci, hanno illustrato nella nostra letteratura politica questa caratteristica del dominio storico della borghesia italiana. È noto come, già prima del fascismo, il dominio di classe della borghesia italiana abbia assunto la forma del blocco industriale-agrario; di una stretta alleanza, cioè, tra i grandi industriali e finanzieri del Nord ed i grandi latifondisti del Sud. Questa alleanza è caratterizzata da ciò, che i grandi proprietari terrieri del Mezzogiorno, per la loro arretratezza sociale, economica e politica, si sono trovati costantemente in una posizione di inferiorità di fronte ai grandi finanzieri e industriali del Nord, sicché non giunsero mai ad ottenere, con questa impostazione governativa, altro che la mano libera contro i loro contadini. In cambio della soddisfazione data a questi miopi interessi di classe, queste forze degli agrari del Mezzogiorno hanno sempre lasciato mano libera ai grandi finanzieri del Nord, ai grandi industriali del Nord, per tutto quanto riguarda le questioni fondamentali della politica nazionale. E così abbiamo visto il Mezzogiorno deliziato dall’ultraprotezionismo industriale, dalle guerre in cui i grandi capitalisti del Nord l’hanno trascinato; lo abbiamo visto deliziato da quella politica dei prezzi industriali e dei prezzi agrari, che è la causa più profonda della inferiorità economica del Mezzogiorno.

Tutto questo è avvenuto con la complicità necessaria di un ristretto gruppo delle classi dominanti del Mezzogiorno, ma il mestolo era tenuto in mano dai grandi industriali e dai grandi agrari del Nord.

Questo sistema, voi tutti lo conoscete, è stato portato al parossismo durante la dittatura fascista. È un sistema che comportava una tecnica parlamentale, quando c’era il Parlamento, ed una tecnica governativa. Questa tecnica e questo blocco governativo erano stati spezzati da quel grande fatto storico che è stata la liberazione del popolo italiano dal fascismo. Ora incomincia un nuovo sistema politico e proprio la partecipazione dei partiti di popolo, fra i quali riconosco senz’altro la Democrazia cristiana, al Governo, aveva spezzato questo sistema tradizionale.

Si dice male del tripartito e dei governi di coalizione democratica. È diventata una moda alla quale anche l’onorevole Presidente del Consiglio, che ha presieduto questi governi, troppo spesso si conforma. Io voglio, per una volta, dire bene del tripartito. Voglio anzi dirvi che in quelli che i giornali indipendenti, qualche volta anche Il Popolo, sogliono chiamare «gli ambienti degli agit-prop», è corsa, in questi ultimi tempi, una voce: secondo la quale il compagno Togliatti, nelle prossime elezioni di Roma, avrebbe voluto lanciare una parola d’ordine: «Torniamo ai prezzi del tripartito»; ma poi si è saputo che l’idea è stata abbandonata, perché una parola d’ordine di questo genere avrebbe trovato consensi troppo larghi tra le masse popolari, e avrebbe potuto eccitarle tanto da spingerle sulla via dell’insurrezione contro l’attuale Governo. E noi, che siamo un partito d’ordine, ci siamo perciò ben guardati dal lanciare una parola d’ordine così esplosiva. (Ilarità – Commenti al centro).

Si dice male del tripartito. Ebbene, io vorrei, esaminare qui quello che non solo il tripartito, ma in genere i governi di coalizione democratica, hanno fatto in questo senso dei rapporti fra Nord e Sud.

Non vi tedierò con troppe cifre. In un articolo dell’onorevole Einaudi sul Risorgimento liberale del 1° settembre 1946, l’onorevole Einaudi analizzava la distribuzione dei redditi e degli impieghi fiscali in Italia. Le conclusioni erano queste: che il supero dei versamenti sugli incassi del Tesoro nell’Italia meridionale ed insulare era di 24 miliardi, mentre nel triangolo industriale del Nord il supero degli incassi era di 48 miliardi. Era questa una inversione completa di un processo caratteristico che si era avuto e sotto il fascismo e nei periodi precedenti.

L’onorevole Lussu su L’Italia Libera del 4 dicembre 1946 faceva delle obiezioni all’elaborazione di Einaudi, obiezioni in parte giuste sul terreno tecnico.

Ma il 13 aprile 1947, un giornale democristiano di Napoli, Il Domani d’Italia, presentava una più precisa elaborazione di questi dati, secondo i criteri, appunto, che Lussu aveva consigliato. Anche da questa nuova e più precisa elaborazione l’inversione del processo tradizionale restava confermata.

Politica dei prezzi. Qualche volta si è esagerato, nel Mezzogiorno, nel credere che le ingiustizie di cui esso soffriva e soffre derivassero essenzialmente da una sperequazione fiscale ai suoi danni.

La realtà è che la divergenza nel livello dei prezzi dei prodotti industriali nel confronto con quelli agricoli ha avuto storicamente sull’economia del Mezzogiorno una influenza molto più grave che la politica fiscale. Ritroviamo qui gli effetti della politica protezionistica tradizionale. Cosa hanno fatto i governi di coalizione democratica in questo senso?

Prendo anche qui una fonte semiufficiale, lo studio interessantissimo del professore Albertario sulla situazione economica dell’agricoltura, in cui vengono analizzati i prezzi dal periodo anteguerra ad oggi. La base degli indici che io citerò è quella del 1938. Il rapporto fra l’indice dei prezzi dei prodotti venduti e rispettivamente acquistati dagli agricoltori a fine ’46 è 131. Non vi sto a citare tutte le cifre. Ma assistiamo anche in questo campo, ad opera dei governi del tripartito, ad una inversione del processo tradizionale. E vi è di più: mentre l’indice dei prodotti agricoli del Mezzogiorno sale a 191 rispetto al 1938, quello dei prodotti agricoli del Nord sale solo a 137. Molti fattori diversi intervengono, beninteso, a determinare questa divergenza. Quel che ci interessa, è valutare il risultato complessivo. Anche nel campo della politica dei prezzi c’è stata, nel periodo dei governi del tripartito, una inversione del processo tradizionale, che si svolgeva ai danni del Mezzogiorno.

Risparmio ed impieghi. Ognuno di voi sa che l’altra tradizionale inferiorità del Mezzogiorno deriva dal fatto che una parte notevole del risparmio veniva pompato dall’industria verso il Nord. Anche in questo campo gli ultimi dati disponibili indicano che l’indice dei depositi era salito nel Mezzogiorno a 1036 contro 647 soltanto nel triangolo industriale. Mentre la percentuale dei depositi nel Mezzogiorno sul totale è del 17 per cento, la corrispondente percentuale degli impieghi nel Mezzogiorno è del 19 per cento.

Anche in questo campo, così, assistiamo ad un processo di arresto del processo di pompamento del risparmio meridionale verso il Nord.

Ho voluto citare soltanto queste pochissime cifre, per mostrare come, sui tre punti che rappresentano le ragioni fondamentali dell’inferiorità economica del Mezzogiorno in conseguenza della politica tradizionale del blocco industriale agrario, i governi di coalizione democratica con la loro azione avessero cominciato a risalire la china.

Io concordo pienamente con quanto l’onorevole Lussu scriveva nell’articolo già citato, quando egli affermava che permanevano e permangono ancora delle gravissime cause di inferiorità del Mezzogiorno. Ma è fuori di dubbio che per la prima volta nella storia d’Italia, nel periodo dei governi di coalizione democratica, le classi lavoratrici venute con le loro rappresentanze al potere, avevano cominciato a far risalire al Mezzogiorno la china dell’inferiorità economica.

Non ci può stupire il fatto che, malgrado questo, proprio nel Mezzogiorno si manifestasse del malcontento verso il governo. Un giusto malcontento, perché i miglioramenti relativi si esprimevano in cifre assolute che pur sempre segnavano il generale deperimento dell’economia italiana. Noi sappiamo che nel Mezzogiorno anche una leggera flessione dell’attività economica provoca delle conseguenze malto più gravi che nel resto d’Italia, perché incide direttamente sulle possibilità più elementari di vita. Il malcontento del Mezzogiorno era rivolto ancora, d’altronde e giustamente, contro qualche altra cosa; era rivolto contro la insufficienza della direzione Democratico-cristiana dei Governi di coalizione. Al di sopra delle espressioni di partito, vanno considerati alla stessa stregua, in questo senso, fenomeni diversi, come il malcontento che si esprime nell’Uomo qualunque ed il malcontento che si esprime nei Blocchi del Popolo.

Non è un caso che entrambi i fenomeni siano nati nel Mezzogiorno; tutti e due esprimevano infatti un malcontento che si era manifestato e che perdurava nel Mezzogiorno. Se, infatti, si era incominciato a risalire la china, nessuna riforma strutturale era stata affrontata; e ciò perché si era cozzato con la resistenza pertinace della Democrazia cristiana nel Governo.

In questo senso, già nell’ultimo periodo dei governi di coalizione democratica, il Mezzogiorno si poteva dire che fosse all’opposizione; era all’opposizione con l’Uomo qualunque, era all’opposizione coi Blocchi del Popolo. Ebbene, che cosa ha fatto il nuovo Governo? Quale è stata la sua politica?

Io non considererò, onorevoli colleghi, il problema da un punto di vista di partito, ma dal punto di vista, appunto, degli interessi del Mezzogiorno, presi nel loro complesso.

È facile rilevare, in primo luogo, un grave mutamento nella composizione regionale, diciamo così, dell’attuale Governo. L’ultima crisi ha portato, infatti, all’esclusione di numerosi Ministri meridionali. E non parlo, badate, dei soli Ministri comunisti e socialisti.

C’è, per esempio, il caso dell’onorevole Aldisio. Basta vivere e ascoltare quel che si dice negli ambienti marittimi per sapere – non è vero onorevole Porzio? – che il fatto della sostituzione dell’onorevole Aldisio al Ministero della marina mercantile con l’onorevole Cappa non è senza significato e non resta senza conseguenze. Gli armatori hanno sentito che c’è una certa differenza col passaggio del Ministero della marina mercantile sotto la direzione di un uomo che senza dubbio è legato – non parlo di legami inconfessabili – ma senza dubbio è legato agli armatori genovesi: se ne sono accorti tutti. Se ne sono accorti soprattutto – non è vero onorevole Porzio? – gli armatori e i portuali napoletani, i piccoli armatori siciliani, che han visto i loro interessi sacrificati a quelli dei grandi armatori genovesi.

L’onorevole Segni è l’unico rappresentante dell’Italia Meridionale che sia rimasto in seno al Consiglio dei Ministri. Ora, io non voglio fargli dei complimenti, ma debbo riconoscere che egli è un uomo che indubbiamente ha una sensibilità democratica. Non è sempre colpa sua – o forse lo è anche in parte – se questa sua sensibilità democratica non si può esplicare sempre in un’azione democratica. Il guaio si è che l’onorevole Segni è stato mantenuto al Governo come solo Ministro meridionale in funzione – direi – preservativa. Egli è infatti il rappresentante di un’isola ove il movimento contadino non è ancora largamente sviluppato. Non è perciò sottoposto ad una pressione diretta troppo temibile, e non rischia di far scatti troppo pericolosi.

Ma, relativamente a questa questione dell’esclusione di alcuni Ministri meridionali, vi sono fatti ancor più caratteristici. V’è, ad esempio, l’esclusione dell’onorevole Gullo. Al momento della crisi, era in discussione il problema relativo alla liberazione dei contadini arrestati per le agitazioni agrarie del Mezzogiorno. Bisognava allora che al posto di un rappresentante dei lavoratori dell’agricoltura, dei contadini, fosse messo un rappresentante degli agrari. E l’uomo che è oggi al dicastero della giustizia dà in effetti la garanzia che non vi sarà giustizia per i contadini del Mezzogiorno.

Ancora, notate che nel Gabinetto gli unici Ministri meridionali sono l’onorevole Grassi e l’onorevole Scelba. Anche qui siamo ritornati alla politica classica del blocco industriale agrario. In questa politica i Ministri meridionali devono essere accuratamente esclusi dalle posizioni chiave economiche; devono essere messi nel Governo per fare i poliziotti, per cercare di impiantare in tutta Italia, se ci riescono, i metodi dei «mazzieri» pugliesi e dei «mafiosi» siciliani. Gli onorevoli Scelba e Grassi hanno fatto tutto il possibile per assolvere questo compito. (Applausi a sinistra).

L’onorevole Scelba ha risposto alle agitazioni dei contadini meridionali con delle manovre intimidatorie; con olimpica indifferenza egli ha ascoltato le interrogazioni e le interpellanze che gli sono state rivolte. Egli mi ha ricordato sempre (mi dispiace che non ci sia l’onorevole Giannini che vi potrebbe illuminare in proposito) una vecchia caratteristica figura napoletana: l’amico del marchese di Caccavone, il duca di Maddaloni, che parlando di un Ministro di allora diceva che «il Ministro dell’interno – ha di Dio le qualità. – Egli è provvido, egli è eterno – e sa solo quel che fa».

Ma c’era ancora qualche cosa di più: per stabilire e consolidare al Governo il blocco industriale agrario, non era necessario soltanto mettere nelle posizioni-chiave uomini – non voglio fare dello scandalismo, ma farò un’analisi politica – come l’onorevole Pella e l’onorevole Cappa ed altri, i quali rappresentano determinate sfere di interessi, che non sono certo quelli del Mezzogiorno e non sono certo nemmeno quelli delle masse popolari del Nord.

Non bastava questo. L’amico Merzagora si è lamentato con me, perché una volta un manifesto, un giornale comunista, aveva scritto che la sua signora era figlia dell’armatore Cosulich…

MERZAGORA, Ministro del commercio con l’estero. Mi avete dato due mogli! (Ilarità – Commenti al centro).

SERENI. Voglio dare pubblicamente atto al dottor Merzagora che questo è stato dovuto ad un errore. Del resto, gli armatori sono già sufficientemente rappresentati al Governo dall’onorevole Cappa, e non vi sarebbe stato nessun bisogno di ulteriori rappresentanze; non abbiamo perciò nessuna intenzione di costringerti a sposare la figlia di Cosulich.

Però, sebbene io sia un tipo portato per temperamento a credere sempre alla buona fede degli avversari, un tipo piuttosto ingenuo (Commenti al centro), non arrivo nella mia ingenuità a pensare che il dottor Merzagora sia stato chiamato a far parte di questo Governo proprio nella sua qualità di nostro vecchio collaboratore nel Comitato di liberazione alta Italia. Nel Governo vi era già il Presidente di quel Comitato, l’onorevole Morandi, e non vi era quindi nessun bisogno del dottor Merzagora. Io credo, piuttosto – me lo suggerisce la mia ingenuità – che egli sia stato chiamato al di fuori di ogni considerazione personale, perché era dirigente di una delle maggiori industrie, di uno dei maggiori gruppi monopolistici italiani. È questo, a parte ogni valutazione personale, risponde ad un determinato piano che l’onorevole De Gasperi, per la prima volta, bisogna dire, aveva sviluppato in un senso veramente conseguente; forse perché questa volta la composizione del Governo poteva realizzarsi su linee che rispondevano più ai suoi sentimenti.

L’entusiasmo col quale il nuovo Governo è stato accolto nel Mezzogiorno da tutti i borsaneristi, dagli speculatori e, in particolar modo, da tutti gli agrari, ha dato luogo a scene di vero tripudio. La libertà che questi egregi signori erano così fieri di aver riconquistato col nuovo Governo è la libertà alla quale inneggia, nella «Tempesta» di Shakespeare, Calibano ubriaco. Ricordate? Sciolto ormai da ogni vincolismo, direbbe un liberale, in quella famosa scena Calibano si scatena in una danza frenetica, balbettando nell’ebbrezza:

‘Ban,’Ban! – Ca – Caliban!

Get a new master – Get a new man!

«Un nuovo padrone! Un uomo nuovo!» Quello che faceva la parte del nuovo padrone di Calibano, la parte del marinaio Stefano, in questo caso sarebbe stato l’onorevole De Gasperi.

Era una scena veramente commovente, ma bisogna dire che adesso questi entusiasmi si sono un po’ calmati, perché persino quei signori si sono accorti che il nuovo padrone crea grossi rischi.

Questa composizione di un Governo, caratteristica del blocco industriale-agrario, in cui tutte le posizioni chiave sono affidate ai rappresentanti degli industriali del Nord, mentre i rappresentanti del Mezzogiorno sono confinati nella posizione di poliziotti, non sarebbe stata completa se l’onorevole De Gasperi non avesse trovato un’altra maniera di offendere il Mezzogiorno e di offendere la democrazia.

Badate, io non voglio giudicare il Ministro Corbellini, che non conosco personalmente. Non ho niente contro di lui e voglio ammettere senz’altro che sia uno dei migliori competenti tecnici. Voglio dire: che cosa significa questa operazione politica che l’onorevole De Gasperi ha fatto servendosi dell’onorevole Corbellini? Ognuno di noi, nel Ministero che ha diretto, ha utilizzato uomini con precedenti…

CORBELLINI, Ministro dei trasporti. Ma non avevo nessuna carica politica, nessuna! È tutto falso! Dimostrate che io ero sempre della milizia! È tutto falso! Dimostrate! Altrimenti potrei darvi querela per diffamazione! Avanti, dimostrate! (Commenti – Scambio di apostrofi fra il centro e la sinistra).

SERENI. Se l’ingegnere Corbellini smentisce questo, glie ne do atto; ma, l’onorevole De Gasperi – quando l’onorevole Togliatti parlò dei precedenti dell’ingegnere Corbellini – l’onorevole De Gasperi non fece nessuna smentita di questo genere.

CORBELLINI, Ministro dei trasporti. Ma nessuno aveva detto che ero ufficiale della milizia. (Interruzioni – Scambio di apostrofi fra il centro e la sinistra).

PRESIDENTE. Onorevoli colleghi di tutti i settori, permettano che continui la discussione.

SERENI. Onorevoli colleghi, mi pare di avere premesso e lo ripeto anche adesso, che in quello che io dico c’è lo scopo (non ho nessuna intenzione di insultare alcuno), c’è semplicemente lo scopo di fare un’analisi politica. Se quanto ha detto l’ingegnere Corbellini risponde a verità, io avrei voluto che l’onorevole Presidente del Consiglio l’altra volta lo avesse smentito, ma a dire il vero non venne nessuna smentita, il che può dunque far credere ad una conferma. Ma si tratta di tutt’altro. Quel che qui m’interessa è rilevare obiettivamente il senso dell’operazione condotta a termine dall’onorevole De Gasperi. Da molti mesi al Ministero lavorava in qualità di Sottosegretario una persona evidentemente idonea, l’onorevole Jervolino; ma l’onorevole Jervolino era soltanto napoletano, mentre qui si trattava di compiere un’altra operazione politica attraverso una nomina che doveva rappresentare un legame di questo Governo del blocco industriale agrario con quell’apparato dell’alta burocrazia fascista, la quale ha una lunga esperienza nel maneggio degli interessi del blocco stesso.

Certo, qualche volta questo maneggio si poteva svolgere sotto il fascismo in forme più drastiche; gli operai non avevano allora conquistato la cattiva abitudine di scioperare per difendere i propri diritti. La realtà è che noi assistiamo, ad opera di questo Governo, ad un rapido processo di rifascistizzazione negli alti gradi. Dobbiamo constatare che l’onorevole De Gasperi preferisce vedere, alla testa di importanti amministrazioni, uomini che hanno l’esperienza fascista, piuttosto che altri, che abbiano l’esperienza caratteristica degli uomini politici democratici.

Guardiamo agli effetti di questa politica. Non farò che una rapida scorsa. Anche qui io non parlo di intenzioni o di cattive intenzioni. Si tratta di risultati che derivano dalla struttura stessa del Governo. Ricordano l’amico Cacciatore, l’amico Gullo, l’amico Segni che quando in Consiglio dei Ministri si parlò di regime per il burro e di regime per l’olio, i Ministri meridionali dicevano: Si fa questo per il burro, ma che cosa accade per l’olio del Mezzogiorno? Non abbiamo mai trovato, bisogna riconoscerlo, una ostilità preconcetta nei colleghi settentrionali; e vi era allora, in Consiglio dei Ministri, qualcuno che portava la voce del Sud. Non è d’altronde per un caso, e non è nemmeno per merito personale che il compagno Cacciatore, il compagno Gullo, che chi vi parla eravamo stati messi dai nostri partiti nel Governo; bensì perché i partiti dei lavoratori, in questo periodo storico, hanno compreso che la soluzione della questione meridionale, della rappresentanza degli interessi meridionali è un elemento essenziale della ricostruzione…

Una voce al centro. Perché non se ne è ricordato lei quando era ai lavori pubblici?

SERENI. Ne parlerò subito. L’onorevole Morandi è stato l’organizzatore della Società per lo sviluppo del Mezzogiorno. (Interruzione al centro).

Uno degli atti più importanti del terzo Gabinetto De Gasperi, era stata la costituzione di una sezione meridionale del Comitato italiano della ricostruzione. Questa sezione meridionale aveva portato a conclusione nel breve periodo della sua attività, tre importanti decreti: il decreto per l’irrigazione delle Puglie, il decreto per l’Ente della Sila e quello per l’Ente elettrico siciliano. Ma ahimè! Col nuovo Governo, nella sua atmosfera nordista, il C.I.R. meridionale pare sia morto di inedia, perché nessuno se ne è più occupato.

Aumento del prezzo del pane. Anche qui ci troviamo di fronte ad un provvedimento che colpisce in modo particolare differenziato masse lavoratrici e disoccupati del Mezzogiorno che non hanno possibilità di rifarsi attraverso quelle forme che qualche volta, sia pure in parte, servono per i lavoratori industriali del Nord.

E vengo ai lavori pubblici. Nella mia attività di Governo – e l’ho detto pubblicamente e qui – mi sono trovato di fronte a questa situazione: che tutta la legislazione italiana del dopo-guerra era necessariamente impostata sulle riparazioni ai danni di guerra.

La grande maggioranza dei fondi stanziati per il Ministero dei lavori pubblici era attribuita ai danni di guerra. Ora, io ho rilevato – in pubblici Congressi e in riunioni al Consiglio superiore dei lavori pubblici ed al Consiglio dei Ministri – che era necessario un nuovo orientamento, e che quella inferiorità storica in cui il Mezzogiorno era stato mantenuto doveva essere alleviata, sia pure tenendo conto delle necessità dovute ai danni di guerra.

C’era una unica fonte, attraverso la quale potevano darsi stanziamenti per i lavori pubblici del Mezzogiorno: i fondi per la disoccupazione. Con la migliore volontà, qualsiasi Ministro era nell’impossibilità di assegnare stanziamenti a quelle città che non avessero il 40 per cento di danni. Il problema avrebbe dovuto essere discusso in Consiglio dei Ministri in sede di discussione del nuovo bilancio.

Non voglio prendere la difesa dei lavori della disoccupazione come tali. Credo di essere riuscito, dopo l’amico Romita, a liquidare quei famosi lavori a regìa di Roma; credo di avere fatto uno sforzo non piccolo, perché c’erano 60 mila disoccupati a Roma. Siamo riusciti a eliminare questo grave danno per la vita politica romana e per la vita finanziaria dello Stato. Ma, col nuovo governo, gli stanziamenti per la disoccupazione sono stati addirittura aboliti. Non so come il collega onorevole Tupini se la caverà per venire incontro ai bisogni del Mezzogiorno. Occorre sanare questa situazione: dobbiamo avere delle leggi che permettano di dare nel nuovo bilancio stanziamenti per la ricostruzione meridionale. A questo proposito non posso non rilevare che mentre in questo campo si è provveduto con un rigore veramente drastico all’arresto del torchio, non si è provveduto nello stesso modo a proposito del fatto scandaloso della revisione dei prezzi.

L’onorevole Campilli, che avrà i suoi difetti come ciascuno di noi, da buon romanaccio aveva tuttavia una certa sensibilità per i problemi del Mezzogiorno. D’accordo con lui mi rifiutai – e lo dissi pubblicamente e in Consiglio dei Ministri – di firmare certe proposte preparate dal Ministero nei confronti della revisione dei prezzi. Come ha fatto l’onorevole Romita, io ero intervenuto con numerose circolari a dichiarare che nessuna revisione dei prezzi dovesse essere pagata agli imprenditori finché non si fosse constatato che erano effettivamente pagati gli aumenti di salari. Non si tratta, onorevole Tupini, di quel che ella ha fatto scrivere sul Popolo. Nessuno ha mai negato che la revisione dei prezzi è necessaria; ma si tratta di stabilire che la revisione dei prezzi viene operata soltanto se vengono pagati gli aumenti di salari. Quando ebbi l’onore di accompagnare il Presidente della Repubblica a Cassino, potemmo constatare – ed io l’ho constatato anche in molti altri luoghi – che gli operai non ricevevano che un salario di misere 150 lire, mentre si pagava la revisione dei prezzi agli appaltatori sulla base di un salario di 400 lire giornaliere. Questo scandalo, al quale Romita prima, e poi io, credo con maggior decisione, abbiamo cercato di porre un termine, è stato ristabilito con un sol tratto di penna dall’onorevole Tupini. Noi denunciamo questo Governo come un governo che sa bene stringere i freni e fermare il torchio, quando si tratta di andare contro gli interessi dei lavoratori e contro quelli del Mezzogiorno in modo particolare, ma che li apre e li mette in moto a gran velocità quando si tratta di andare a favore di gruppi di grandi speculatori ed appaltatori.

Non parlo poi dell’imposta patrimoniale e degli effetti che essa ha sul Mezzogiorno, così come è stata approvata, vale a dire rifiutando la proposta dell’abolizione del segreto bancario. Questo significa che l’imposta patrimoniale verrà pagata soprattutto dalla proprietà terriera ed in particolar modo dal Mezzogiorno in cui essa è la forma dominante di proprietà. (Interruzioni al centro).

Una voce al centro. Perché, nelle altre parti d’Italia non c’è proprietà terriera?

SERENI. Se voi conosceste almeno elementarmente la struttura economica dell’Italia, sapreste che la percentuale della ricchezza terriera sulla ricchezza complessiva è nel Mezzogiorno assai più alta che nel Nord. Fareste bene ad andare a scuola. (Proteste al centro).

Voglio accennare poi al problema della valuta libera. Anche questi provvedimenti colpiscono in modo gravissimo non solo i lavoratori, ma il Mezzogiorno preso nel suo complesso. Ognuno di voi sa che la bilancia commerciale del Mezzogiorno con l’estero è una bilancia passiva. Questo vuol dire che quando i setaioli e i lanieri di Milano, di Biella e del Veneto esportano i propri prodotti, nella misura in cui almeno una parte del ricavato valutario va ad un fondo comune, le esigenze valutarie del Mezzogiorno possono essere sodisfatte; se invece, come ora, si lascia in misura molto maggiore la libera disponibilità della valuta agli esportatori industriali del Nord, il Mezzogiorno non avrà la valuta necessaria per sodisfare le più elementari esigenze valutarie delle sue importazioni industriali e agricole.

Non parlo poi di altre misure che colpiscono soprattutto il Mezzogiorno. Vedi, ad esempio, il fatto dei ridotti stanziamenti per le bonifiche. Faccio rilevare che come Ministro dei lavori pubblici, pur avendo interesse a tutelare le disponibilità del Dicastero che dirigevo, non esitai, in Consiglio dei Ministri ed in pubbliche riunioni, a dichiarare che ero pienamente d’accordo nell’aumentare il bilancio del Ministero dell’agricoltura a spese del bilancio dei lavori pubblici, perché si tratta di un’opera altamente produttiva che va a particolare profitto delle regioni meridionali. Anche qui si sono fatti decisi passi indietro anziché avanti. Non parlo poi di quello che avviene nelle aziende meridionali dell’I.R.I., a proposito della cui tragica situazione abbiamo chiesto un colloquio al Ministro del tesoro.

Questo è il frutto della politica di questo governo nel Mezzogiorno; frutto non di errori tecnici ma di una determinata struttura del governo dal punto di vista sociale e di classe e dal punto di vista regionale. Frutto di un governo che cerca di ristabilire al potere il blocco industriale-agrario che il popolo italiano ha cacciato via dal potere con la fine del fascismo. È un governo che, obiettivamente considerato, al di fuori di ogni buona o cattiva intenzione di chi lo compone, ha la sua punta rivolta soprattutto contro il Mezzogiorno. E questa caratteristica antimeridionale dei governi del blocco industriale agrario la rilevava non solo il comunista Gramsci, o l’azionista Guido Dorso, la rilevava anche Don Sturzo.

Per questo, onorevoli colleghi, noi pensiamo che il voto dei deputati meridionali, a qualunque partito essi appartengono, debba essere un voto di opposizione al Governo. Sappiamo che non da parte di tutti i deputati meridionali lo sarà, ma sappiamo che l’opposizione è per il Mezzogiorno oggi una necessità di vita che va al di sopra delle ideologie dei partiti.

Il Mezzogiorno è stato sempre, da quando esiste l’unità italiana, all’opposizione. Era all’opposizione quando votava per la sinistra storica; era all’opposizione anche quando la sinistra storica andò al potere; era all’opposizione quando gli «ascari» votavano in un determinato senso nel Parlamento italiano, ma quando già in forma primitiva i contadini del Mezzogiorno, gli abitanti dei centri popolosi, i braccianti, assaltavano i casotti del dazio. Una forma primitiva, spontanea, elementare, distruttiva di opposizione, allora. Era all’opposizione, il Mezzogiorno, sotto i governi di coalizione democratica perché l’opposizione del Mezzogiorno, anche con un Governo di coalizione democratica, è una necessità di vita. Era all’opposizione con l’uomo qualunque, era all’opposizione con i blocchi del popolo…

Ma, storicamente questa opposizione del Mezzogiorno è stata spesso sterile perché era un’opposizione che non si inquadrava su un piano nazionale. Oggi l’opposizione del Mezzogiorno non è più isolata ma si inserisce in un quadro assai più largo e nazionale. È l’opposizione che si inserisce nel quadro della lotta che le masse democratiche del Nord e del centro Italia, gli operai, gli intellettuali, la piccola borghesia, conducono oggi contro questo Governo. È una lotta che potrà avere qui, immediatamente, sul terreno parlamentare, questo o quell’esito. Noi guardiamo con grande interesse a questa lotta del Parlamento, ma sappiamo che questa non sarà ancora l’ultima parola; vi saranno altre lotte in Parlamento e nel Paese, alle prossime elezioni.

Il nostro sforzo sarà diretto a portare, al di sopra delle posizioni di partito, per gli interessi del Mezzogiorno, in una forma sempre più coerente, più chiara, più organizzata, sul piano democratico, il Mezzogiorno all’opposizione. (Applausi a sinistra – Congratulazioni).

Presidenza del Presidente TERRACINI

PRESIDENTE. È iscritto a parlare l’onorevole Piccioni. Ne ha facoltà.

PICCIONI. Onorevoli colleghi, io vorrei provarmi a ricondurre la discussione, così grave e così impegnativa, ai suoi termini essenziali. Dopo alcuni giorni di larga, diffusa discussione, che ha spaziato un po’ in tutti i campi della politica, dell’economia, della finanza, della storia, della sociologia, direi perfino della filosofia, dopo questo largo, abbondante discettare, mi pare che sia doveroso da parte nostra rintracciare i termini sostanziali del dibattito. Non già che io non sia sensibile a questo sforzo che viene fatto dalle tempre politiche più preparate di allargare i dibattiti secondo visioni e prospettive storicamente più elevate e più vaste. Ma io ritengo che quando il Paese è impegnato, come è impegnato oggi, in una dura lotta per la difesa della sua esistenza, i problemi vanno visti e ricondotti alla loro nuda e cruda essenza. In altra sede si può dare sfogo con diletto reciproco alle varie elucubrazioni storiche, filosofiche o sociologiche, ma in questa sede prettamente politica, dove ciascuno di noi ha una sua specifica, personale responsabilità, bisogna delineare nella maniera più netta, più semplice e comprensibile, i problemi politici nazionali.

Detto ciò io vorrei ricordare l’origine di questo Governo e delle critiche che si muovono alla sua azione, perché mi pare che sia stato un punto non sufficientemente messo in evidenza. È vero che costituì l’oggetto della larga discussione di tre mesi or sono, ma bisogna per un giudizio complessivo sull’attività varia del Governo, non perdere di vista questo determinato punto di partenza per dedurne le rispettive responsabilità.

Ora, onorevoli colleghi, questa formula di Governo è nata dal fallimento di un anno di esperienza di Governo tripartito. Fallimento dovuto a che cosa? Dovuto probabilmente alla incapacità funzionale ed organica di quella determinata formula tripartitica. È comodo dire oggi, come già fu detto allora, che il fallimento fu dovuto all’insufficienza della direzione di Governo, quando la direzione di Governo, in una combinazione di quel determinato genere, era necessariamente, direi fisiologicamente, condizionata alla stessa costituzione tripartitica del Governo. Il risultato maggiore dell’esperimento tripartitico fu, nella più benevola delle conclusioni, una forma di paralisi dell’attività di Governo che andava via via crescendo. Fu la ripercussione nell’ambiente del Paese, nella valutazione generale dell’opinione pubblica di questa paralisi, di questa insufficienza ed inefficienza del principio di unità e di forza di un Governo così fatto. Ed allora, poiché non si deve credere, onorevoli colleghi, che la Democrazia cristiana sia veramente un partito così famelico di potere come da alcuni si è inteso, la Democrazia cristiana stessa propose di adottare una formula di Governo diversa, fino al punto da rinunciare preventivamente alla direzione di un Governo diversamente costituito.

E si affacciò, come voi sapete, la formula di un Governo a larga base, di concentrazione nazionale. Ma questa formula raccolse l’ironia, se non il dileggio, di un esponente di una parte politica del Parlamento, dell’onorevole Nenni. Ricordo un suo primo discorso a Venezia all’indomani di una tale formale proposta; discorso nel quale egli ironizzava e dileggiava un tentativo di questo genere, dicendo che il tipo preferibile nell’interesse del Paese era quello della forma tripartitica o qualche cosa di simile.

E se il tentativo, quel tentativo non riuscì, nessuno ha potuto seriamente addebitare ciò a manovre, a insidie, a opposizioni diverse della Democrazia cristiana. Fallito quello, che cosa rimaneva? Tornare al tripartito, no. La Democrazia cristiana, su questo punto, fu esplicita e impegnativa: no, per il modo come il tripartito aveva funzionato, per gli effetti negativi che ne erano derivati, per impedire che, attraverso il tripartito, si consolidasse in Italia il predominio di una determinata corrente politica di minoranza.

E allora si ripiegò su una formula diversa, su una concentrazione diversa, la quale fallì non per difetto, al solito, della Democrazia cristiana, ma per una certa strana, insistente discordia di quella che allora fu detta spiritosamente la piccola intesa delle forze democratiche del centro sinistra. Questi sono elementi di fatto storicamente oggettivi e precisi, ai quali non si può, a mio avviso, opporre contestazione.

E allora la Democrazia cristiana – piaccia o non piaccia, dolenti o nolenti – siccome rappresenta qui, rappresenta nel Paese, il blocco più forte di energie politiche, rappresentative di larghissime zone dell’opinione pubblica, sentì, al di sopra e contro quella vaga debolezza costituzionale che da più parti veniva abbondantemente rimproverata alla Democrazia cristiana e sulla quale si speculava anche notevolmente nella funzionalità e nello sviluppo del tripartitismo, sentì che era venuto il momento di affrontare in pieno questo suo impegno, il quale derivava da un mandato esplicito e preciso che larghe correnti dell’opinione pubblica avevano ad essa affidato. (Interruzione dell’onorevole Lussu).

Non si tratta di orgoglio smodato dell’onorevole De Gasperi, a cui si rimproverano non so quali propositi reconditi di ambizioni sfrenate, personali, in contrasto anche con quello che sarebbe il sentimento unanime, generale del suo partito, che riconosce sempre in lui il massimo esponente, che del partito ha assunto, nelle ore più decisive di questa nuova storia democratica, le maggiori responsabilità (Applausi al centro), in perfetta consonanza con lo spirito, il sentimento e la volontà delle masse democristiane. Si è pensato a non so quale smodato orgoglio o ambizione della Democrazia cristiana.

Ma voi, onorevoli colleghi, potete stimarci così poco, giudicarci così infantili, o ciechi, da ritenere che in una situazione politica, economica, sociale, alimentare, come quella in cui si dibatte l’Italia, sia nostra brama quella di assumere, di assommare in noi soli le massime responsabilità della azione del Governo?

E pure noi avemmo il coraggio di assumerle, e di assumerle attraverso una formula i cui termini devono essere ribaditi oggi, per evitare che si equivochi su di essa e presso qualsiasi settore della Camera. La formula fu questa: la Democrazia cristiana, per la sua forza parlamentare e nel Paese, assume essa in pieno la direzione di tutta la politica del Governo. Chiede che cosa? Il contributo, l’apporto di elementi tecnici, anche appartenenti ad altri partiti. Implicando con ciò che cosa? La solidarietà politica dei partiti, ai quali gli elementi tecnici eventualmente collaboranti con la Democrazia cristiana appartenessero? No! Questo è stato detto e ridetto nelle prime comunicazioni e nelle ultime dichiarazioni del Presidente del Consiglio. Era un apporto di elementi tecnici dal punto di vista della collaborazione attiva, effettiva all’assieme del Governo. La responsabilità politica, la fiducia dei Gruppi eventuali a cui essi appartenevano sarebbe stata o un segno di preventiva fiducia, di preventiva stima nell’azione di un Governo siffatto, o il risultato di quello che sarebbe stato il giudizio sull’azione del Governo medesimo. E non ci furono trattative di programmi di nessun genere, con nessun Gruppo, neanche con quelli dei quali qualche membro partecipa al Governo. Non ci fu un impegno di concedere, di voler concedere, o di dare qualche cosa, nel programma o nell’azione, ad una formazione o ad un’altra che fosse disposta ad appoggiare il Governo; ci fu l’assunzione piena, aperta della responsabilità politica del Governo da parte della Democrazia cristiana. Questa responsabilità politica, oggi che ci avete chiamati a rendere conto, la manteniamo e l’assumiamo in pieno, senza condividerla con nessun altro Gruppo politico, di nessun colore o tendenza. (Applausi al centro).

Onorevoli colleghi, per il giudizio che vi accingete a dare sull’azione del Governo, io ricorderò che vi sono stati 79 giorni di azione di Governo effettiva. Il voto di fiducia a questo Governo fu dato il 21 giugno; il 9 settembre è stata presentata la mozione di sfiducia, con la richiesta di immediata discussione. Facendo i conti, si riduce – l’azione di Governo – a 78-79 giorni, intervallati da che cosa? Almeno dal Ferragosto, se mi consentite; intervallati da un’altra situazione politica particolare, dalla discussione cioè sulla politica estera e sulla ratifica del Trattato, la quale discussione tenne il Governo per 10-12 giorni in condizioni di non sapere se era al di qua o al di là, cioè tra la vita e la morte, come volgarmente si dice. E in quella discussione, se voi ben ricordate, la caratteristica bene individuata della responsabilità della Democrazia cristiana apparve in tutta la sua luce ed in tutta la sua pienezza. Ci fu un Gruppo, il Gruppo liberale, che ha dato al Governo apporti di alto valore tecnico – il quale Gruppo liberale si è orientato, indipendentemente da qualsiasi accordo preventivo, cioè in modo libero e autonomo anche nella impostazione della discussione odierna – che fu di parer contrario a quello del Governo.

Ci fu il Gruppo qualunquista che fu anch’esso di parere contrario. Ci furono Gruppi di opposizione che si comportarono ben diversamente. Questa è la riprova evidente che nessun impegno di solidarietà politica formale esisteva ed esiste alla base della costituzione del Governo. Ora – è un’osservazione banale; ma forse fra tante osservazioni di alta elucubrazione scientifica o pseudoscientifìca qualche osservazione banale pure ci vuole – consentitemi questo rilievo: volere formulare un giudizio definitivo attraverso tali vicende, attraverso questo periodo di tempo di 70-80 giorni di attività svolta nel modo che tutti sanno, onorevoli colleghi, permettete che io dica, mi sembra un po’ eccessivo e un po’ presuntuoso, tanto più in quanto l’attacco sostanziale viene mosso sul terreno economico finanziario.

Anche quelli che non sono ben addentro a questi intricati e difficili problemi, sentono che il problema economico finanziario ha bisogno di un certo periodo di tempo perché la direttiva si precisi, perché la manovra funzioni e dia risultati. Mi pare indispensabile da parte specialmente di chi prevede, come direttiva da imprimere alla situazione economica finanziaria, un impulso addirittura a largo respiro, uno sforzo programmatico in senso prospettico e a lunga portata, addirittura un piano. Ed infatti l’onorevole Nenni stesso, che ha presentato la mozione di sfiducia incentrandola essenzialmente su questo terreno, per non distaccarsi troppo da quello che deve essere il contatto con la realtà di qualsiasi uomo politico, specialmente se responsabile verso partiti di masse, premette a tutta la sua critica un’osservazione di carattere generale che è addirittura svalutatrice della sua impostazione. Riconosce che sussiste «una situazione di fatto allarmante la quale non dipende dal colore di Governo. Questa situazione ereditata dal fascismo, difficilmente modificabile da qualsiasi Governo, deve essere sottolineata», ecc. (Commenti a sinistra).

Questa la constatazione di fatto, questo il rilievo di una situazione che trascende qualsiasi possibilità e qualsiasi impegno decisamente risolutivo di un Governo monocolore o multicolore. L’esperimento lo avete fatto voi stessi stando per così lungo tempo al Governo senza aver contribuito a modificare sostanzialmente quell’allarmante situazione di fatto. E poiché pensate che se dovesse verificarsi un vostro ritorno di qualsiasi genere al Governo, la situazione di fatto si imporrebbe anche a voi, o a chi per voi, giustamente mettete le mani avanti per dire che quella situazione è qualche cosa che supera le capacità e le buone intenzioni di chicchessia. Ora, di questo elemento voi dovete dar atto anche all’azione di un Governo che si è mosso come si è mosso, ed in questo breve periodo di tempo in cui ha potuto lavorare. Non dovete rimproverare, come avete fatto, onorevole Nenni, che gli impegni assunti dal Presidente del Consiglio nelle sue comunicazioni non siano stati tutti mantenuti. Gli impegni sono stati mantenuti nella misura che le condizioni di una determinata situazione hanno consentito, così come quando eravate voi al Ministero, ciascuno nel proprio dicastero si poneva dei compiti e suggeriva delle soluzioni a questo o quel problema a ciascun dicastero pertinente, senza riuscire in definitiva a fare quello che ciascuno di voi avrebbe voluto fare. Io non voglio discutere partitamente i vari problemi di carattere economico-finanziario, anche perché abuserei in un certo modo della mia particolare situazione politica. Ne hanno parlato alcuni membri del Governo, altri ne parleranno. Io ripeterei male quello che essi hanno detto e non aggiungerei nulla di maggior peso politico a quello che i Ministri stessi hanno detto o diranno.

Dirò soltanto all’onorevole Togliatti che la sua impostazione di sfiducia è stata più specificatamente politica, condotta secondo una determinata valutazione della politica interna di questo Governo, ma anche a lui ricorderò, se me lo consente, cosa che d’altronde ha fatto da sé, che i fatti da lui lamentati erano in fondo la sostanza di una interpellanza presentata prima che l’Assemblea Costituente si mettesse in vacanza. Erano quindi fatti di un determinato momento politico ed avevano una particolare rilevanza tale, da suggerire la formulazione di una interpellanza, non di più. Egli ha detto: Siccome ora c’è la mozione di sfiducia di Nenni, perché non si elevi una suspicione contro di me, io ho trasformato l’interpellanza stessa in una mozione di sfiducia. Questo stesso fatto riduce l’importanza delle cose denunciate. E difatti io non vorrei far torto all’intelligenza politica dell’onorevole Togliatti, supponendo che egli ritenga veramente che i provvedimenti sui manifesti, i provvedimenti sui comizi di fabbrica, i provvedimenti su alcune amministrazioni comunali deroganti dalla legge, siano nel loro complesso indice di una politica interna limitatrice delle libertà democratiche e tale quindi da richiedere addirittura il rovesciamento di un Governo che si permette delle cose di questo genere.

L’onorevole Togliatti, che ha anche lui il senso dello Stato, ha ricordato che il Governo è fatto per governare e deve governare; e governare non significa soltanto favorire quelli della propria parte. Noi veramente non ci stiamo accorgendo di cosa di questo genere. Non so se esponenti di altri partiti abbiano in precedenza seguito un metodo e risultati di tale natura. (Approvazioni al centro – Commenti).

Ora, governare significa in termini usuali, evidentemente, niente altro che imporre il rispetto della legge e mantenere alto il prestigio del Governo. Io non so quale pratica di Governo possa essere quella che richieda in chi deve governare una salda autorità di Governo ed esponga nel medesimo momento chi governa per diritto democratico al dileggio o al vilipendio propagandato e organizzato. (Applausi al centro).

Io non so se il governare, in regime democratico, debba significare altro che non questo: mantenere il prestigio della legge, l’autorità del Governo, la garanzia delle libertà di tutti, il rispetto delle minoranze soprattutto. Ora, nei provvedimenti che si rimproverano all’onorevole Scelba, questo significato politico è presente in ciascuno di essi, cioè vi si salvaguarda il prestigio del Governo, si garantiscono le libertà di tutti e non si limitano o si comprimono a favore di una parte qualsiasi. (Applausi al centro – Proteste a sinistra).

PASTORE GIULIO. I sindaci comunisti cosa fanno dei nostri manifesti?

PICCIONI. Voi che vivete la vita politica quotidiana del nostro Paese in tutte le latitudini d’Italia, vi siete veramente accorti, avete veramente sentito ed osservato che per l’intervento del Governo ci sia una così profonda limitazione delle libertà elementari democratiche di propaganda e di agitazione, fino al punto…

PAJETTA GIULIANO. Sono le masse che ve lo hanno impedito e ve lo impediscono. (Vivi commenti al centro).

PRESIDENTE. Onorevole Pajetta, non interrompa!

PICCIONI. …fino al punto da richiedere, per la salvezza del Paese, il rovesciamento di un Governo?

Ma se le agitazioni sono innumerevoli e si manifestano e ripetono quotidianamente e dappertutto, le agitazioni di ogni tipo, di tipo sindacale, di tipo misto sindacale-politico, e di tipo unicolore politico vero e proprio, con un’abbondanza veramente unica e con una illimitata libertà di movimento e di circolazione di tutte le forze organizzate in tutti i settori e in tutti i sensi tale da far veramente dire a chiunque che in Italia una così larga ed illimitata libertà, sotto tutte le sue forme, non c’è mai stata neppure nel periodo precedente al fascismo!

A proposito di queste agitazioni, poiché si è voluto anche bollare questo Governo come un Governo reazionario, come un Governo di destra capitalista, all’ombra del quale non so quali loschi interessi si nascondono per sopraffare gli altri legittimi interessi della collettività (Rumori a sinistra), vi dirò quel che ha già detto il mio partito ufficialmente, cioè che certamente il contributo dato con il moltiplicarsi delle agitazioni e degli scioperi al superamento di quelle che sono le profonde necessità economiche e finanziarie del nostro Paese, è stato un contributo assolutamente negativo. Basti ricordare un solo elementare episodio al quale accennava ieri il Ministro delle finanze: l’azione penosa, l’azione di critica eccessiva, per non dir peggio, verso l’imposta straordinaria sul patrimonio, e più specificamente verso la proporzionale 4 per cento, fino al punto da consigliare e suggerire in qualche modo un’evasione forzata a quelli che sono gli obblighi che l’imposta comporta, fino al punto da porre insieme in qualche plaga – seguendo uno schema, una tecnica organizzativa, di cui mi occuperò più tardi rispondendo all’onorevole Lussu – non so quali comitati di difesa della piccola e media proprietà, come se la piccola e la media proprietà in una situazione come l’attuale (vedete come cerco di essere il meno possibile intriso di spirito demagogico od animato da fini elettoralistici) dovesse essere esonerata da quello che è il contributo che da tutte le fonti di reddito deve venire per dare la solidità e la salute finanziaria allo Stato. Questo, per quanto si riferisce alle agitazioni.

Ma vi è la taccia di Governo di destra, di Governo reazionario, di Governo nero, ed altre denominazioni che si adoperano secondo il momento e l’opportunità. Orbene io dirò che tutte le agitazioni di carattere genuinamente sindacale, concreto, positivo, di rivendicazione ragionevole di diritti legittimi delle classi lavoratrici, hanno trovato consenziente non solo la democrazia cristiana, la corrente sindacale cristiana, ma l’azione del Governo; io dirò che le vicende agitatorie di maggior rilievo hanno trovato la loro soluzione, il loro sbocco attraverso l’intervento deciso, attivo e fattivo del Governo reazionario. (Applausi al centro – Commenti a sinistra).

E aggiungerò che se ad un certo momento non ci fosse stato l’intervento autorevole del Governo…

Una voce a sinistra. Ad un certo momento!

PICCIONI. Naturalmente, non ci poteva essere prima dell’inizio delle agitazioni! (Ilarità al centro).

Se non ci fosse stato l’intervento autorevole del Governo, io non so, onorevoli colleghi, quale sarebbe stata la conclusione effettiva di queste agitazioni e di questi scioperi; io non so, se un Governo veramente reazionario non avesse avuto interesse a non intromettersi in cose di questo genere, e lasciare che il conflitto economico e sociale diventasse conflitto vero e proprio politico nell’interno del Paese. (Applausi al centro – Commenti a sinistra).

Questo il Governo l’ha fatto perché non è un Governo reazionario, perché è un Governo democristiano. E lasciate che vi dica una volta per tutte: la Democrazia cristiana (state tranquilli tutti, colleghi) non rinuncerà, in nessun modo, in nessuna forma, in nessuna misura, in nessuna occasione a quella che è la sua profonda caratteristica democratico-sociale. (Applausi al centro).

Noi sentiamo come vitale, per il partito nostro e per la nostra patria, questa ispirazione cristiana, che anima le nostre fatiche e la nostra attività. E in questa ispirazione cristiana (Interruzioni a sinistra. Proteste al centro) noi democratici cristiani sentiamo di avere questo caratteristico compito: di mettere in rilievo la profonda, intensa socialità dello spirito del Cristianesimo, operante nella vita collettiva. Noi tradiremmo la nostra fisionomia sociale e politica, tradiremmo la nostra coscienza di democratici cristiani che si è venuta formando ed elaborando non così improvvisamente, repentinamente come qualcuno mostra di credere, ma attraverso lunga meditazione, lunghi studi, lunghe riflessioni e lotte, noi tradiremmo questa nostra missione, questo nostro compito specifico se, per qualsiasi sfruttamento politico particolare, non tenessimo sempre presente questa profonda esigenza di giustizia sociale. (Applausi al centro). Ma poi siamo anche comprensivi dello spirito animatore della evoluzione storica fino al punto da avvertire bene nei movimenti profondi della storia anche questa corrente inarrestabile di rinnovamento sociale. Noi non siamo agganciati a posizioni economiche o di privilegio di nessun genere, noi sentiamo che la marcia dell’umanità si deve svolgere, non può non svolgersi, se non verso un avvenire migliore di giustizia sociale nel senso pieno, nel senso integrale. (Approvazioni). E noi poi, se consentite, sappiamo anche un’altra cosa che è stata ricordata anche l’altro ieri: non vogliamo inorgoglirci anche perché non lo sapremmo proprio. Vedete, ci credono sempre superbi ed invece dobbiamo fare sempre delle esercitazioni di modestia; noi ricordiamo gli otto milioni di voti riportati il 2 giugno soltanto a questo titolo: per dire che in quegli otto milioni di voti quelli che voi pensate o qualificate come espressione di forze della reazione o della plutocrazia o del capitalismo di qualsiasi genere, non so se ce ne fossero, ma se ce ne fossero rappresenterebbero una frazione trascurabile dinanzi alla immensità dei lavoratori, di ogni ceto e categoria, che ci seguono. (Applausi al centro – Interruzioni a sinistra).

LEONE GIOVANNI. Avete il monopolio voi?

PASTORE GIULIO. A Milano c’erano 50 mila lavoratori e a Roma 100 mila lavoratori autentici.

PRESIDENTE. Non abbiamo nessun interesse di sentire polemiche di tale natura in questa Assemblea. Prego tutti, ed anche lei, onorevole Pastore, di fare silenzio.

PICCIONI. Ora, superata, a mio avviso, questa particolare questione di un Governo così qualificato, ne rimane un’altra che è stata ripetutamente sottolineata negli interventi degli scorsi giorni, che cioè si tratta anche di un Governo della discordia.

Non so di quale discordia si tratti; in ogni modo vorrei dire, non già per artificio polemico, ma perché è la verità, che la discordia per ora è vivissima nel campo di Agramante. (Si ride). Che le opposizioni, così come si sono schierate e si vanno schierando nell’Assemblea, sono in perpetua discordia fra di loro, è pur necessario che io lo rilevo.

L’opposizione comunista è quella che è, con le sue peculiari caratteristiche. E, di fronte all’opposizione comunista la quale pone a noi un cosiddetto problema di unità nazionale, noi rispondiamo, dobbiamo rispondere: ma di quale unità si tratta? Che cosa vuol dire la formula dell’unità nazionale proposta e sottolineata dal Partito comunista?

Guardate: io non sono di quelli che considerano il Partito comunista con più o meno leggera superficialità. Se posso dirvi qualche cosa al riguardo, debbo dire, per iscarico di coscienza, che una riflessione continua io porto sul senso storico, sul significato rappresentativo, sulle possibilità di sviluppo nella vita nazionale ed internazionale che possono derivare dall’una o dall’altra affermazione del Partito comunista.

Ma io vi dico che la formula dell’unità nazionale avanzata dal partito comunista riproduce un po’ stranamente la formula dei pur gloriosi Comitati di liberazione nazionale, ai quali non si può non ripensare, da chi ne ha vissuta la vita intima e fraterna, se non con ispirito di vera e sentita commozione. Ma se, onorevoli colleghi, lo sviluppo dei Comitati di liberazione nazionale, quella specie di linea, di prassi politica che si determinò in funzione dei Comitati stessi, si è ad un certo momento troncata, si è spezzata, a che cosa dobbiamo noi imputarlo? Dobbiamo imputarlo a un predominio prevalente e progressivo del Partito comunista in seno ad essi. Sta bene, questo è nella vostra prospettiva, sta bene, questo è nella linea tecnica della vostra politica: ma sta bene per voi, non sta bene per noi. (Vivi applausi a centro).

Questa strana formula di unità nazionale nella concezione comunista non può avere altro fondamento, specie per quello spirito messianico che il Partito comunista porta sempre nella sua azione e nella sua propaganda, non può avere, dicevo, altro fondamento se non quello di un predominio del partito stesso sui vari raggruppamenti di forze eterogenee, non può avere altro fondamento se non quello di determinare e collaudare gli strumenti che abbisognano al comunismo per la sua politica interna ed internazionale. (Approvazione al centro).

Ora è chiaro, onorevoli colleghi, che ad una soluzione di questo genere noi non possiamo aderire, come non possiamo aderire ad un’altra strana impostazione dell’onorevole Togliatti che io mi sono appuntato. Egli ha detto: ma guardate che si porrà, si pone ad un certo momento il problema del Partito comunista, che ha – egli ha detto – il 60 per cento della classe operaia (non delle classi lavoratrici); che insieme con i socialisti ha l’80% della classe operaia (non delle classi lavoratrici). Cosa volete fare di questo partito?

Se ho bene inteso, questa è stata l’impostazione dell’onorevole Togliatti.

Io risponderò che viviamo in sistema democratico, in una ripresa di vita democratica, che noi vogliamo salvaguardare con tutte le nostre forze: mancheremmo a tutta la nostra azione passata, a tutte le promesse e garanzie del periodo di liberazione, al nostro stesso dovere, se non fossimo i custodi rigidi e inflessibili dei principii e delle forme di un’autentica democrazia. Io vi dico, onorevole Togliatti, non esiste un problema del Partito comunista in sede democratica, così come non esiste un problema della Democrazia cristiana o del Partito liberale o di qualsiasi altro partito: sarà la funzionalità interna del sistema democratico, nel rispetto della sua legalità, che determinerà quello che è il posto e la funzione di ciascun partito. (Applausi al centro e a destra).

E ai socialisti cosiddetti fusionisti io mi permetto di rivolgere un’altra domanda, in cambio della loro impostazione, domanda che io rivolsi ingenuamente anche un paio di anni fa, ma che mi permetto di rinfrescare dopo le esperienze trascorse. Si lamenta la insufficiente articolazione nel quadro delle forze politiche italiane di una forza come il partito socialista, il movimento socialista. Lussu ha detto ieri: «Ma guardate che in tutti gli Stati democratici, in tutte le Nazioni democratiche dell’occidente Europeo, i socialisti sono al potere». E sta bene; ma non ci sono i comunisti al potere, ci sono i socialisti. E se il socialismo delle altre Nazioni occidentali europee ha superata quella fase nella quale ancora è invischiato il socialismo dell’onorevole Nenni, fino al punto da costituire una forza politica autonoma, che ad un certo momento può assumere anche la direzione politica del paese, non è colpa di noi democristiani, se in Italia ciò non è. È un fatto interno dell’evoluzione della crisi socialista, che è tuttora viva e permanente, e che deve trovare una sua soluzione definitiva e concreta, se vuole operare seriamente, profondamente per il risanamento della vita politica nazionale.

Ora, qual è la crisi? Onorevole Nenni, permettete che io esprima il mio pensiero in questo modo conversativo. Qual è la crisi? Che cosa significa il partito socialista fusionista? (Commenti a sinistra – Interruzioni).

VERNOCCHI. Deve smetterla, onorevole Piccioni, con questa faccenda e con questa frase!

PICCIONI. Sta bene: dirò il Partito socialista italiano. Che significato ha politicamente la posizione del Partito socialista italiano? Noi non vediamo nell’azione pratica divergenze apprezzabili, sostanziali, con l’azione pratica del partito comunista. Voi direte che è nell’interesse delle classi lavoratrici. Noi non vediamo una qualsiasi differenziazione nella impostazione dei problemi, nel significato dei problemi politici fra voi ed il Partito comunista. (Commenti a sinistra).

VERNOCCHI. Ma la classe operaia è la classe operaia, socialista o comunista!

PICCIONI. Ma allora, permettete, perché non arrivate alla fusione? Per ragioni di tattica elettorale o di manovre politiche di vario genere, non lo so. In ogni modo se così non è, dovrebbe apparire chiaro a tutti – poiché si chiede conto a tutti gli altri partiti in regime democratico di dichiarare e chiarificare le proprie posizioni – quali sono i motivi differenziatori fra voi partito socialista italiano e partito comunista. Se voi siete distinti e volete mantenervi distinti, vuol dire che c’è qualcosa che vi distingue, qualcosa che non vi accomuna. In che cosa consiste questo qualche cosa? Questo vogliamo sapere, per sapere se la critica nostra al partito comunista è una critica che abbia anche un certo riscontro in posizioni e atteggiamenti di altri partiti, di altre forme politiche che si ritengono più strettamente legate alle classi lavoratrici ed alle classi operaie. Credete voi che il partito comunista non sia autenticamente democratico, cioè non persegua la democrazia come sistema ma soltanto come tattica, come metodo, e voi invece aderite alla concezione della democrazia che si debba sviluppare come sistema permanente d’una determinata società politica nazionale, oppure vi trattengono altre valutazioni di carattere esterno, di carattere internazionale? Ma quali sono i motivi, se i motivi sul terreno sociale non si distinguono, se i motivi sul terreno politico non si vedono, per cui voi volete mantenervi distinti dal partito comunista?

È questa una richiesta che mi pare legittima e che mi pare non possa offendere nessuno. (Commenti a sinistra).

PERTINI. Abbiamo risposto tante volte!

PICCIONI. Lo richiedo tanto più in quanto accanto a voi c’è un altro partito socialista che questa critica svolge in termini risoluti e decisi. Su quali basi svolge la critica il partito che vi sta accanto e che si denomina anch’esso socialista? Su per giù sulle stesse basi sulle quali si svolge la critica nostra, sulla esigenza della custodia della libertà, di tutte le libertà democratiche, sulla esigenza dell’autonomia di qualsiasi movimento politico nazionale e da qualsiasi intervento di qualsiasi genere.

PERTINI. Noi le sentiamo molto profonde queste esigenze, e lei lo sa, onorevole Piccioni! Le sentiamo in modo profondo!

PICCIONI. Mi dovrete dare atto di questa nostra incomprensione dei motivi distintivi fra le esigenze vostre (se intese in questo senso) e l’esigenza del Partito comunista…

PERTINI. Possiamo essere distinti, ma uniti nell’azione. Noi difendiamo la nostra fede ed abbiamo ragione di difenderla! (Commenti).

PICCIONI. Ora vedete che in tutto questo ci sono delle posizioni concordemente discordanti o, viceversa, anche nelle zone più estreme dello schieramento oppositorio, vi sono problemi, o spunti di problemi, più profondi che non sono stati completamente chiariti. La impostazione chiarificatrice del Partito socialista dei lavoratori italiani non mi pare che abbia trovato sufficienti suffragi negli altri schieramenti politici almeno intesa come visione integrale che dovrebbe dominare e disciplinare la ripresa economico-sociale e finanziaria del nostro Paese. È anche questo un punto di distinzione, non voglio dire di contrasto, fra le varie posizioni, ma è un punto fondamentale, un punto sostanziale, se fu quello che in un certo senso determinò, almeno apparentemente nel maggio scorso, il naufragio di una formazione centro-sinistra.

Ora, nei confronti del mio partito debbo sottolineare quanto esso abbia superato le formule dell’empirismo liberistico di cui si sentì ieri sera favoleggiare. Noi sentiamo invece l’esigenza di una disciplina, di un controllo perché si riconnette con quell’esigenza dell’intervento del potere sociale che è lo Stato, per disciplinare, per regolamentare, per convogliare gli sforzi produttivi della collettività, a vantaggio della collettività nazionale. E poiché noi siamo anche fra l’altro pregni di realismo cattolico, se mi consentite una espressione di questo genere, dobbiamo dire agli amici del Partito socialista dei lavoratori italiani, che un problema, come quello a loro particolarmente caro va posto nella sua contemperanza con le possibilità materiali oggettive della situazione economico-sociale interna ed internazionale del Paese. La pianificazione dunque non va bandita come una formula magica che possa risolvere così gravi e pesanti problemi: ma se non va affacciata come una formula magica che può avere questo grande potere, non può, non deve costituire un motivo sostanziale di dissenso politico contingente fino al punto da dare uno o un altro indirizzo ad una determinata formazione di governo. Non bisogna dimenticare quello che tutti sanno: che se «piano» vuol dire programma – evidentemente più modesto o largo, più realistico o più illusorio – di un programma sono tutti armati; e quanti governi passati non hanno fatto programmi più o meno concreti, particolaristici o diffusi, con l’approvazione di tutti e quei programmi poi non hanno potuto attuare?

CALOSSO. Oggi l’Europa usa la parola in senso nuovo.

PICCIONI. In senso nuovo. Rifrazione o complemento del più vasto piano della ricostruzione europea, lo si chiami col nome che si vuole, ebbene quello è in corso di effettuazione. Se vuol dire interventismo statale fino al punto di operare risolutamente, direttamente, sulla ripresa economica e produttiva del nostro Paese nella fase più delicata di ricostruzione dei tessuti elementari, vi dico che degli interventi eccessivamente drastici non vi farebbero ottenere quello che voi vorreste. È questione di misura, di equilibrio. In ogni modo l’indirizzo sostanziale, fondamentale della civiltà moderna non può non essere un indirizzo come quello auspicato. Mi pare che lo stesso onorevole Corbino l’altra sera salutava nostalgicamente le vecchie luci del liberalismo economico ormai tramontante. Volete proprio che noi democratici cristiani ci si soffermi in nostalgie di questo genere; non si abbia gli occhi aperti di fronte a quelle che sono le necessità sociali; non si intenda la funzione altamente sociale del potere di uno Stato moderno, di uno Stato veramente e sanamente democratico? Quindi, non un punto di dissenso nella sua realtà e concretezza può essere un tema di questo genere.

Ieri ho sentito con una certa commozione gli accenti con cui l’onorevole Lussu salutava la dipartita del Partito d’Azione dalla scena politica italiana. L’ho sentito con una certa commozione; perché credo che nessuno possa essersi dimenticato l’apporto degli amici del Partito d’Azione, apporto di intelletto e di fede nelle forze democratiche, durante le vicende e i travagli degli ultimi anni, apporto fortissimo da essi dato specialmente al movimento di liberazione. (Applausi). Quindi parlerò col senso della più fraterna comprensione anche per gli amici del Partito d’Azione. (Interruzione del deputato Lussu).

Ma se devo constatare che gli esponenti del Partito d’azione si sono quasi quadripartiti o tripartiti, mettendo in difficoltà anche la materiale attuazione di una divisione di questo genere in rapporto al loro numero, lo dico per notare il contrasto ideologico e politico che c’è tra gli stessi esponenti di un partito che finora ha contribuito non poco all’insieme degli scambi intellettuali e alla valutazione di tutti i nostri problemi, per dire cioè che il contrasto delle varie opposizioni si riflette anche nell’interno di un piccolo partito. Lo dico per concludere sulla difficoltà della diagnosi e della terapia dei problemi in sviluppo e sulla insondabilità di alcune posizioni e di alcuni aspetti della crisi economica, sociale e politica del nostro Paese.

Sugli amici demo-laburisti – se mi consentite – sorvolerei (Si ride) perché…

MOLÈ. Accomodatevi pure!

PICCIONI. …effettivamente una caratterizzazione della loro dottrina politica e della loro prassi politica tale da poter essere esaminata e discussa, forse per mia ignoranza, non sono riuscito ancora a coglierla. (Ilarità – Commenti).

MOLÈ. Non è colpa nostra se quando non vi fa comodo non volete capire.

PICCIONI. Si è profilata ieri sera, durante la discussione, l’impostazione di un’altra opposizione al Governo. Non ho capito se si tratti di una opposizione incipiente o di una opposizione condizionale o condizionata.

Certo è che ciascun Gruppo, come ho detto da principio, senza rompere nessun patto e venir meno a nessun accordo, perché tali patti e tali accordi non sono mai esistiti, gode della piena libertà e possibilità dei suoi movimenti; e quindi nessun appunto, sotto tale riguardo, a questa impostazione, che poteva sembrare, nella superficiale valutazione di qualcuno, come scandalistica, verificatasi nella seduta di ieri sera. Debbo fare soltanto alcune brevi precisazioni. Io non voglio tediare ulteriormente l’Assemblea, ma debbo dire che gli appunti mossi alla Democrazia cristiana come partito, per i rapporti avuti con altri partiti, non debbono qui affliggere la Costituente e non mi perderò in discussioni di questo genere che non riguardano minimamente né la Costituente né la questione della fiducia e della sfiducia verso il Governo.

Sono questioni di carattere particolare, non del tutto esatte, anche nei termini concreti, così come sono state riferite, e che, se mai, possono concludersi con una sola affermazione ed una sola proposizione, cosa che del resto penso i colleghi dell’Assemblea avranno già fatto per conto loro: cioè che il Partito democratico cristiano si muove autonomamente, da solo, sotto la sua esclusiva spinta organizzativa e sotto la sua esclusiva responsabilità di partito. (Applausi al centro). Noi non cerchiamo il dirigismo o l’impulso al dirigismo di chicchessia. Noi ci qualifichiamo e vogliamo essere nella pratica politica quotidiana un organismo politico autonomo, individuato, forte di vita propria, non orgoglioso, non prepotente, non sopraffattore, non violento, ma vogliamo essere e rimanere democratici cristiani, e basta. (Applausi al centro).

Ed un’altra cosa mi occorre dire: che noi abbiamo altissimo il rispetto per le nostre convinzioni cattoliche e per le convinzioni cattoliche di qualsiasi altro cittadino italiano. Noi abbiamo detto, io ho ridetto anche l’altra sera ed ho voluto riaffermarlo pubblicamente, che non aspiriamo a nessun monopolio di rappresentanza politica dei cattolici italiani. Ma se i cattolici italiani, o colleghi, preferiscono essere rappresentati in questa Camera dai democratici cristiani anziché dai liberali o dai comunisti, evidentemente questo è un loro diritto sacro ed elementare che non può essere messo in discussione. (Applausi al centro). Ed io devo dirvi ancora che per noi il rispetto della fede cattolica, della fede religiosa, è qualcosa di intimo, di profondo, di connaturato con la nostra coscienza e con la nostra vita, e non si riduce soltanto alla constatazione di un sentimento vago o indeterminato, ma è la profonda sorgente vitale di tutta la nostra vita, in tutte le sue espressioni. (Applausi al centro).

Detto questo, o amici, sulla valutazione politica del Governo, dalla quale può essere venuta fuori una presa di posizione oppositoria come quella di ieri sera, io debbo osservare che la Democrazia cristiana ha e mantiene il suo buon diritto di interloquire al riguardo, perché essa non si riduce ad una espressione personale, quale che sia, positiva o negativa, ma ha un suo peso politico particolare, individuato, che non può cedere a lusinghe, a promesse, a minacce di vario genere.

Quale sarà la conclusione di questo contrasto? Quale sarà lo schieramento di altri gruppi politici di questa Assemblea, che si residuano, se se ne toglie quello liberale, a quello repubblicano così detto storico? Nei confronti dei repubblicani, le osservazioni di carattere politico fatte per quanto si riferiva al Partito socialista dei lavoratori italiani hanno la stessa incidenza e la stessa rilevanza, salvo forse una certa divergenza fra essi per quanto si riferisce al programma economico; ma le esigenze di libertà, le esigenze di democrazia, le esigenze di autonomia anche di carattere nazionale sono vivissime anche nel Partito repubblicano e trovano rispondenza in quella che è la sua rappresentanza parlamentare.

Bisogna però non incantarsi o rimanere incantati a delle formulazioni astratte o a delle posizioni politiche contingenti, determinate da un certo complesso o di superiorità o di inferiorità, ma bisogna decidersi ed assumere in pieno le proprie responsabilità politiche coraggiosamente, liberamente, con la consapevolezza e con la coscienza di rendere un servizio al Paese, prima che alle proprie ideologie o alle proprie posizioni di partito, nel senso più ristretto della parola.

Quale può essere la conclusione di questo dibattito? Onorevoli colleghi, c’è, di fronte alla concordia discorde delle varie formazioni oppositorie, questo blocco, qui al centro, di deputati democristiani che non hanno intenzione di sopraffare chicchessia, ma che costituiscono veramente un blocco di forze che sono inserite nel centro dello schieramento politico, non soltanto nell’Assemblea, ma nel Paese. Bisogna che si decidano i colleghi più responsabili degli altri partiti a credere e a ritenere che la Democrazia cristiana non è già una forza manovrabile secondo le varie e differenti opinioni di chicchessia, non è già, come è stato detto, una piattaforma girevole che possa con estrema disinvoltura ruotare nei sensi più diversi ed opposti, che non è la destra dello schieramento sinistro o la sinistra dello schieramento destro, ma bisogna che si convincano che è una forza per sé stante, autonoma, con un programma proprio, con una propria visione dei problemi politici economici, nazionali, che cerca di risolvere sia pure con l’apporto di altre forze politiche, secondo questa sua direttiva di sintesi, finché avrà una preponderanza nello schieramento politico del Paese (Benissimo – Applausi al centro).

Ma io vorrei sapere, permettete un altro sfogo che può apparire banale, quando si rimprovera a noi una certa strafottenza o degnazione o strapotenza che non esiste in nessun modo, io vorrei sapere: che cosa avverrebbe in pratica, in concreto, se altri esponenti di altre correnti politiche avessero dietro di sé non i trenta, quaranta o cinquanta deputati, ma avessero i 207 deputati che abbiamo noi? (Vivi applausi al centro).

Ora, la conclusione, ed ho finito, è chiara, è netta, è onesta: il Governo costituito come fu costituito, con quella formula che bisogna tenere presente, in quella determinata situazione, senza vincoli di accordi e di impegni di nessun genere, questo Governo che si vuol dire di destra, mentre la destra insorge per non avere ricevuto nessun beneficio e nessun favore di nessun genere (Commenti a sinistra), questo Governo si ripresenta oggi democraticamente dinanzi all’Assemblea per dire: ho assunto questo grave dovere, questo grande impegno; ho fatto tutto quello che ho potuto fare in questi 78 giorni (sono apprezzabili e confortanti, sotto questo riguardo, ad esempio, le dichiarazioni dell’amico Pella di ieri sera): con l’animo fermo e la volontà di procedere al risanamento economico e finanziario del Paese, sono fedele agli impegni presi nei limiti delle possibilità concrete che sono a mia disposizione. Che cosa vuole l’Assemblea? Che cosa vogliono i Gruppi dell’Assemblea? Vogliono rinnovarmi la fiducia che mi dettero il 21 giugno, o vogliono togliermela? È affar vostro, di voi Gruppi parlamentari, di assumere questa grave responsabilità in quest’ora storica del nostro Paese, di rinnovare o di togliere la fiducia concessa al Governo per precipitare il Paese in non so quale nuova grave crisi. (Rumori a sinistra – Vivi applausi al centro).

Concludo dicendo una cosa sola: dal senso di responsabilità che manifesteranno i vari Gruppi di questa Assemblea e dal loro atteggiamento concreto, la Democrazia cristiana, in qualsiasi posizione potrà trovarsi a seguito di tale voto, trarrà argomento per rivendicare pienamente – contro qualsiasi illusione più o meno interessata – la propria libertà di atteggiamento e di azione. (Vivissimi, prolungati, reiterati applausi al centro – Moltissime congratulazioni).

PRESIDENTE. Il seguito della discussione è rinviato alle 16.

La seduta termina alle 12.30.

POMERIDIANA DI GIOVEDÌ 2 OTTOBRE 1947

ASSEMBLEA COSTITUENTE

CCXLII.

SEDUTA POMERIDIANA DI GIOVEDÌ 2 OTTOBRE 1947

PRESIDENZA DEL PRESIDENTE TERRACINI

indi

DEL VICEPRESIDENTE CONTI

INDICE

Mozioni (Seguito della discussione):

Scoccimarro

Pella, Ministro delle finanze

Giannini

Presidente

Rodinò Mario

Perrone Capano

Simonini

Quintieri Quinto

De Gasperi, Presidente del Consiglio dei Ministri

Interrogazione con richiesta d’urgenza (Svolgimento):

PRESIDENTE

De Gasperi

Gasparotto

Interrogazioni con richiesta d’urgenza (Annunzio):

Presidente

De Gasperi, Presidente del Consiglio dei Ministri

Dugoni

Interrogazioni (Annunzio):

Presidente

La seduta comincia alle 16.

MOLINELLI, Segretario, legge il processo verbale della precedente seduta pomeridiana.

(È approvato).

Seguito della discussione di mozioni.

PRESIDENTE. L’ordine del giorno reca: Seguito della discussione di mozioni.

È iscritto ha parlare l’onorevole Scoccimarro. Ne ha facoltà.

SCOCCIMARRO. Signor Presidente, onorevoli colleghi, è la prima volta che questa Assemblea è. chiamata a discutere non di quello che il Governo si propone di fare, ma di quello che ha fatto; non dei suoi propositi e delle sue intenzioni, ma della sua azione e dei risultati conseguiti. Ed è pure la prima volta che questa Assemblea è chiamata a decidere se la politica del Governo, e quindi anche il Governo, devono cambiare oppure no.

È bene, ed è necessario che sia così, poiché la situazione del Paese è tale per cui l’Assemblea deve assumere le sue responsabilità e risponderne dinanzi al popolo.

E l’Assemblea, che è l’organo di collegamento fra Governo e popolo, deve pure dire se condivide il giudizio che della situazione politica ed economica del Paese dà il Governo, così come appare dai discorsi dei Ministri intervenuti nella discussione, ma specialmente dall’ultimo radio-discorso del Presidente del Consiglio. Nel quale discorso l’onorevole De Gasperi, con un certo tono fra il compiaciuto e il sodisfatto, ci fa la cronaca di una serie di atti governativi, ma non dice una sola parola sul fatto grave che balza evidente agli occhi di tutti, cioè che invece della difesa della lira e, per lo meno, di un freno all’inflazione – come era nel programma del Governo – in questi ultimi 4 mesi abbiamo avuto un acceleramento del processo inflazionistico, tanto che siamo ormai ridotti all’ultima trincea nella quale rischiano di crollare le ultime fragili difese della nostra moneta.

Ed è veramente strano che l’onorevole De Gasperi, mentre nel maggio scorso diceva di vedere gli abissi dell’inflazione (e questo era eccesso di pessimismo), oggi, in una situazione ben più grave, egli è quasi ottimista, non vede il reale pericolo che ci sovrasta, e si consola dicendo che in definitiva i prezzi aumentano anche in altri paesi.

La qual cosa può anche avere il suo valore, ma non è pertinente al problema che qui si discute, che è la politica del Governo italiano in Italia, il cui aspetto economico-finanziario giustamente è stato posto in primo piano poiché esso è al centro della situazione politica ed economica del Paese. Di questo problema io essenzialmente mi occuperò.

E me ne occuperò mettendo da parte ogni apriorismo di dottrina, ogni divergenza ideologica, ogni preconcetto schematico, per guardare alla realtà, quale essa è, nei suoi aspetti positivi e negativi, e trarre da essa norma per un’azione diretta alla realizzazione dell’obiettivo che ci proponiamo: stabilizzazione dei prezzi, fine dell’inflazione.

Questo era pure il problema centrale del dibattito svoltosi in questa Assemblea quattro mesi or sono discutendo il programma del Governo. Anche allora si poneva il quesito: esiste nella situazione economica del nostro Paese la possibilità obiettiva di porre termine all’inflazione ed al continuo aumento dei prezzi? E con quale politica e quali provvedimenti si può eventualmente realizzare tale obiettivo?

A tale quesito, noi rispondemmo affermativamente ed indicammo quali, secondo noi, dovevano essere la politica da seguire ed i provvedimenti da prendere. Il Governo concordava sulle possibilità di arrestare l’inflazione (proprio per questo si era costituito), ma fu d’avviso diverso dal nostro sulle misure e sui provvedimenti a ciò necessari.

Oggi si ripresenta lo stesso problema, perciò questo dibattito si ricollega a quello di quattro mesi or sono, ed io lo riprendo al punto in cui si concluse col discorso dell’onorevole Einaudi.

Il Ministro del bilancio, commentando il mio giudizio sul bilancio di previsione per l’esercizio 1947-48, si esprimeva in questi termini: «Le argomentazioni dell’onorevole Scoccimarro sono esatte ad una condizione: che le previsioni di entrate e spese che si fanno oggi siano quelle stesse che si potranno fare domani. In realtà, se così fosse, il problema del bilancio italiano non sussisterebbe».

E più avanti: «Fra i pericoli ai quali si va incontro nello sforzo di far sì che sia mantenuto l’equilibrio parziale che oggi si è ottenuto, ne ricordo uno che sta nella inevitabilità di impostazioni di nuove spese in conseguenza di spese già deliberate. Per i pubblici appalti è stabilita la regola della revisione dei prezzi». Perciò l’onorevole Einaudi diceva espressamente di dover fare una riserva e pertanto il problema del nostro bilancio non era ancora risolto.

Giudizio esatto: di nessun bilancio di previsione si può dire che il problema del bilancio è risoluto, se si prevede che i dati previsti possono non realizzarsi. Ma, proprio qui si ritrova il principio del nostro dissenso dalla politica finanziario-economica del Governo.

Un bilancio di previsione non è solo l’indicazione di qualcosa che si realizza automaticamente, ed alla cui realizzazione noi assistiamo passivamente: esso afferma una possibilità, pone un obiettivo ed indica una linea d’azione diretta a creare le condizioni perché quella previsione divenga realtà. Quelle condizioni si concretano oggi per noi nella stabilizzazione dei prezzi: se questi continuano ad aumentare quella previsione viene a mancare di ogni fondamento. Infatti, la riserva dell’onorevole Einaudi sorgeva dal fatto che, continuando l’aumento dei prezzi, sarebbero necessariamente aumentate le spese in conseguenza di impegni precedentemente assunti, come avviene per la revisione dei contratti di appalto a cui si è tenuti per legge. Ma questo significa che il Governo non si poneva come obiettivo immediato la stabilizzazione dei prezzi: questo è il significato della riserva dell’onorevole Einaudi. Quell’obiettivo si poneva invece la politica che proponevo, ed è in relazione a quella politica che doveva considerarsi il mio giudizio sul bilancio. Qui appare chiaro il punto di divergenza: per me il problema del bilancio era strettamente connesso ad una politica di stabilizzazione dei prezzi, ritenuta possibile ed attuabile con i provvedimenti proposti. Per il Ministro del bilancio invece questo problema dei prezzi non si poneva come una esigenza immediata, ed il problema del bilancio non era connesso ad una politica di stabilizzazione dei prezzi. In sostanza, si doveva o non si doveva fare una politica di stabilizzazione? Per la difesa della lira e la lotta contro l’inflazione a me pareva questo un punto essenziale; all’onorevole Einaudi evidentemente no? Ora, io mi domando: è giusta l’impostazione che il Governo ha dato alla politica antinflazionista? A me pare di no, e l’esperienza di questi quattro mesi mi conferma in questo giudizio.

Invero, qual è il concetto informatore della politica economico-finanziaria del Ministro del bilancio? Esso può riassumersi nei seguenti termini.

Realizzare il pareggio del bilancio; conseguentemente si arresta l’aumento della circolazione monetaria per conto dello Stato; quindi cessa l’aumento dei prezzi e l’inflazione. In questo concetto la politica del Governo trova la sua spiegazione e giustificazione logica.

E quella è, in fondo, l’impostazione classica, tradizionale di una politica contro l’inflazione. Ma è l’impostazione giusta per situazioni in cui l’inflazione è essenzialmente un fenomeno di origine finanziaria e monetaria, nel quale i fattori extra monetari hanno valore ed influenza accidentali e secondarie che possono essere trascurati.

Ma l’inflazione di cui soffre oggi l’Italia non è soltanto la risultante di un fenomeno monetario e finanziario: essa è pure il riflesso degli squilibri profondi che esistono nella nostra economia, e i fattori extra monetari operanti in senso inflazionistico sono tutt’altro che accidentali e secondari, ed hanno valore e influenza essenziale nel processo inflazionistico. Quello schema logico lascia fuori di sé una parte troppo importante della realtà che non può essere trascurata: esso coglie l’aspetto finanziario-monetario e trascura quello economico.

La lotta contro l’inflazione deve perciò impostarsi su di un piano più vasto, comprensivo di tutti i fattori che concorrono a determinare l’inflazione e deve attuarsi con un’azione coordinata che operi simultaneamente in punti diversi dell’organismo economico, e capace di suscitare una molteplicità d’impulsi e di spinte che per vie diverse confluiscano allo stesso fine: stabilizzazione dei prezzi e del valore della moneta.

Ora, è chiaro che per risolvere un problema di questo genere non basta guardare solo al bilancio ed alla circolazione monetaria: bisogna pure tener conto della produzione e dei suoi costi, del consumo e quindi della distribuzione dei redditi, insomma di tutti i fattori determinanti dei prezzi sui quali bisogna agire con criteri e fine unitari. Quest’azione, secondo me, è assolutamente mancata nella politica economico-finanziaria del Governo. Ed è mancata perché la stabilizzazione dei prezzi e della moneta è stata sistematicamente concepita come la conseguenza del risanamento finanziario, mentre essa deve considerarsi anche come condizione del risanamento stesso. Questo potrà sembrare contradittorio dal punto di vista della logica formale; non è così nella realtà. La stabilizzazione dei prezzi e del valore della moneta in fase di avviamento al risanamento finanziario deve essere sostenuta da una politica di emergenza, direi quasi da puntelli che la sostengono fino a quando il risanamento è compiuto ed in esso troverà la base e le condizioni per la sua stabilità e durevolezza. Qui è il punto debole nella politica del Governo, e deriva dal fatto che questa ha considerato la stabilità dei prezzi e del valore della moneta solo come conseguenza del risanamento finanziario, e non pure come condizione del risanamento stesso. Lo stesso concetto ha espresso ieri l’onorevole Corbino, affermando che la stabilizzazione dei prezzi e della moneta devono considerarsi come un mezzo, uno strumento e non soltanto come un fine.

Si comprende facilmente che ogni provvedimento diretto al risanamento finanziario, che dia nuovo impulso alla spirale ascendente dei prezzi, mina e distrugge le basi stesse del risanamento, ed in definitiva il risanamento diviene un miraggio che ci sfugge sempre dinanzi, ogni qualvolta ci sembra di averlo avvicinato o raggiunto. A mio giudizio la politica del Governo si svolge in un circolo vizioso nel quale, se non ne usciamo, rischia di essere travolta la nostra moneta. Bisogna spezzare quel circolo ed avviarci per alta via. In qual modo e per quale via?

Il punto di attacco decisivo è quello dei prezzi: qui si può veramente spezzare il circolo vizioso in cui si dibatte l’azione del Governo. A tal fine occorre che per un certo periodo di tempo, si ponga la stabilizzazione dei prezzi come obiettivo centrale immediato al quale tutti i provvedimenti economico-finanziari dovrebbero essere rivolti e subordinati. Quale è la situazione del nostro Paese in questo campo? Tutti sanno che i prezzi dipendono da molti fattori: circolazione, produzione, consumo ecc. Se guardiamo alla realtà si constata che, sulla base dei dati attuali della produzione, della circolazione e del consumo, i prezzi si trovano ad un livello infinitamente superiore a quella che dovrebbe essere la giusta posizione di equilibrio in rapporto alla effettiva produzione, circolazione e consumo nel nostro Paese. E questo giudizio è vero anche tenendo conto di quel margine di scarto all’insù che c’è sempre nei prezzi in periodi di inflazione per effetto del loro più celere ritmo di aumento. Ma anche tenendo conto di questo margine, lo scarto che oggi esiste è troppo forte e rivela altre cause operanti in quel senso, per cui si pone un problema che la politica del Governo deve affrontare, cioè individuare quelle cause e cercare di eliminarle per riportare i prezzi a quel punto di equilibrio con la circolazione che la dichiarazione programmatica del Governo affermava di voler realizzare.

Ora, si calcola che quello scarto vada dal 30 al 50 per cento, il che vuol dire che tutti i prezzi comprendono un sovrapprezzo speculativo che in media si può ritenere al di sopra del 30 per cento.

Quali sono i fattori che determinano questa situazione? Io ho già altre volte accennato ad alcuni fattori speculativi operanti della nostra situazione economica e desidero ora completare quelle mie indicazioni.

Devo dire subito che non intendo riferirmi alla speculazione spicciola, quella che nasce necessariamente in periodi inflazionistici dal fatto che ogni cittadino che ne ha la possibilità fa qualche provvista, cioè fa acquisti che in altra situazione non avrebbe fatti; tali operazioni compiute da milioni di uomini esercitano una pressione sui prezzi. Questo fenomeno si elimina smobilitando la psicologia inflazionista diffusa nel Paese.

Mi riferisco invece a fattori speculativi di altra natura, che direi di speculazione all’ingrosso, organizzata, che si inserisce organicamente nel sistema di circolazione e di distribuzione delle merci, alterandone e deformandone il meccanismo funzionale.

Vediamo qualche esempio di fatto. Ho accennato altra volta ad alcune associazioni di produttori, per esempio dei cotonieri e dei lanieri, che hanno per legge la facoltà di imporre tributi. Per esempio, l’associazione dei cotonieri impone un contributo di quattro lire per ogni chilogrammo di cotone importato, e quella dei lanieri impone un contributo di dieci lire per ogni chilogrammo di lana importata.

Questi tributi si incorporano nel prezzo delle materie prime, e perciò sono un contributo obbligatorio a cui non ci si può sottrarre, perché quando si acquista la materia prima lo si paga necessariamente nel suo prezzo. E quel prezzo si ripercuote sui costi di produzione e quindi sui prezzi dei prodotti finiti.

Ma c’è di più. L’associazione dei cotonieri impone lire 1,80 per ogni fuso di filatura, lire 0,90 per ogni fuso di ritorcitura, lire 60 per ogni telaio installato, lire 100 o lire 60, secondo i casi, per ogni dipendente. Tutti questi tributi incidono sui costi di produzione e quindi sui prezzi.

Tutto ciò indipendentemente dalla quota di adesione dei soci che è di lire 3000 per ogni socio.

A quale scopo servono questi tributi? Alla ricostruzione della sede sociale, la quale poi è proprietà di una società immobiliare che ha recentemente aumentato il proprio capitale a 90 milioni. Ora io mi domando: se quelle Associazioni vogliono costruirsi un edificio perché non se lo pagano con i loro mezzi? Perché devono riversarne la spesa sui consumatori? Perché si deve consentire di aggravare i costi di produzione e quindi i prezzi? Si dice che si tratta solo di un metodo di riscossione di un contributo volontario: ma questo non è vero perché il produttore che acquista la materia prima non può sottrarsi al tributo. Senza dire poi che se vi fossero dei piccoli e medi industriali che osassero sottrarsi all’imposizione, sarebbero boicottati dai gruppi più forti dominanti nell’Associazione, e quindi si guardano bene dal farlo. Devono subire la legge del più forte. Si pensi che, con i soli tributi sulle importazioni, l’Associazione dei cotonieri e quella dei lanieri prendono un miliardo, che pagano i consumatori, e questo per la costruzione di un edificio che serve ad esse, ma che non sarà nemmeno di loro proprietà, bensì di una società immobiliare.

L’episodio è significativo: è uno di quei tanti residui di corporativismo fascista che sarebbe tempo venissero liquidati dalla nostra vita economica.

Passiamo ad altro campo: andiamo a vedere come è il mercato di alcune merci fondamentali: ferro, cemento, concimi ecc., come si distribuiscono fra i consumatori. Ebbene qui troviamo che fra produttori e consumatori si inseriscono degli intermediari speculatori, che talvolta sono Enti, gruppi monopolistici ecc., i quali bloccano la produzione, dominano monopolisticamente il mercato ed impongono prezzi che sono due, tre, quattro volte superiori a quelli che dovrebbero essere.

Ora il Ministro dell’industria ha deciso di bloccare il 60 per cento della produzione siderurgica. Ma che cosa avviene con questo provvedimento? Si danno dei buoni di assegnazione ma questi riescono ad averli coloro i quali non impiegano la merce e ne fanno mercato nero; così si crea un mercato dei «buoni» e la speculazione continua la sua opera di moltiplicare i prezzi per due, tre, quattro volte. Si veda quello che avviene per i cementi.

Poco tempo fa un giornale denunciava, come uno scandalo: «la forte ascesa dei prezzi dei cementi, dovuta ad una specie di mercato libero creatosi vicino al mercato ufficiale ed un forte commercio di buoni d’assegnazione».

Non parliamo dei concimi chimici, per cui i contadini che hanno bisogno di concime, se vogliono averlo, devono pagarlo con sovraprezzi speculativi sbalorditivi.

Se poi andiamo a guardare i generi alimentari, troviamo delle cose veramente inspiegabili. Io mi domando come è possibile, ad esempio, consentire una speculazione come quella che è denunciata da questi documenti: vi sono trafficanti i quali, ad esempio, sfruttano in Italia la diversa scadenza della saldatura nelle regioni, e mentre nelle prime settimane di maggio incettano grano nell’Italia centrale per i mercati meridionali, verso gli ultimi dello stesso mese corrono nelle campagne delle Puglie ad incettare grano per i mercati centrali ove la stagione è più tarda.

E poi, che dire di un nucleo di trafficanti del Nord che scendono sui mercati agricoli dell’Italia centrale e bloccano col rialzo dei prezzi tutti i capi di bestiame in vendita, li macellano e, si dice, esportano clandestinamente quella carne all’estero, in Francia e Svizzera, provocando un enorme rialzo dei prezzi delle carni all’interno?

Per le uova avviene questo fenomeno: nel mese di maggio, che è il mese di maggiore produzione, i prezzi in Italia sono passati dalle 15 mila lire per ogni migliaio nel maggio dello scorso anno a 31 mila lire nel maggio dell’anno corrente. Dove arriveranno in ottobre-novembre, quando la produzione scenderà alla metà? Anche qui speculazione, accaparramento.

E poi, se il Ministro dell’industria vorrà informarsi presso qualche Ente di consumo troverà che vi sono dei capitalisti, degli intermediari speculatori che bloccano la produzione olearia di intere regioni e non è possibile a quegli Enti comprare neanche un chilo di olio da vendere ai loro soci.

Vi faccio grazia di altri molti fatti del genere.

Ora, se mettiamo insieme l’azione di questa speculazione (che non è la piccola speculazione di chi i provvede di qualche riserva in casa) e facciamo i calcoli di quanto essa incide sull’aumento dei prezzi, noi troviamo, se non tutta, in gran parte, la spiegazione del fenomeno che ho denunciato.Qui si tratta del sistema di circolazione di distribuzione delle merci che viene alterato e deformato; si tratta di vere e proprie incrostazioni parassitarie e monopolistiche che fanno sentire il loro peso sui prezzi; si tratta delle speculazioni d’alto bordo, la cui attività è veramente nefasta. Orbene, quando il Governo si è costituito, noi abbiamo denunciato questi fenomeni e la necessità di un intervento contro di essi come un aspetto della lotta contro le speculazioni: che cosa si è fatto? Nulla, assolutamente nulla.

Ora, quando si pone il problema della lotta contro la speculazione, il primo compito è di riorganizzare il sistema di circolazione e distribuzione delle merci, eliminando – piccola o forte che sia – qualsiasi influenza di fattori speculativi. Il Ministro dell’industria non si è nemmeno posto tale problema. Ed ecco che, dopo quattro mesi, un bel giorno il Governo si è svegliato ed è venuto fuori un provvedimento del settembre nel quale si comminano fino a tre o sei anni di reclusione e fino a 10 e 20 milioni di multa per accaparramento di merci.

Ora, non sembri strano che proprio da questi banchi si dica al Governo che non bisogna aver troppa fiducia in queste misure; sono misure amministrative che non risolvono il problema e possono avere solo funzione ausiliaria di altri provvedimenti di carattere economico. Se questi mancano, anche quelle misure si risolvono in nulla. L’opera più efficace sarebbe che il Ministero dell’industria intervenisse allo scopo di riorganizzare tutto il sistema di circolazione e distribuzione delle merci, eliminando tutte le posizioni monopolistiche acquisite in questo campo, appoggiandosi ad organi cooperativi e ad Enti pubblici, per loro natura antispeculativi.

Se questo si facesse, sarebbe indubbiamente il primo grosso colpo contro la speculazione in Italia. Quali risultati si otterrebbero? Non certo una immediata ed automatica diminuzione dei prezzi; questi fanno presto a salire, ma sono poi sempre riluttanti a discendere. Ma, eliminando il margine speculativo, noi creiamo la premessa e la condizione obiettiva della stabilizzazione che potrebbe anche implicare una più o meno sensibile riduzione dei prezzi. Il punto di stabilizzazione potrebbe muoversi fra un massimo, che è il limite attuale, ed un minimo che sarebbe il limite di equilibrio, oggi superato dal sovraprezzo speculativo. E sarebbe politica di stabilizzazione, e non di deflazione, anche determinando una compressione dei prezzi, perché quelli che si eliminerebbero non sarebbero i profitti normali, ma solo quelli speculativi. Entro quei due limiti si potrebbe creare anche un maggior respiro alla circolazione monetaria, pur senza influenza inflazionista.

Perché non si è fatto nulla in questo campo?

Ce lo ha detto ieri lo stesso onorevole Ministro Togni, quando ha affermato che la speculazione sparirà quando avremo raggiunto il risanamento finanziario del Paese. Ma per raggiungere il risanamento finanziario del Paese, bisogna incominciare fin da ora a liquidare la speculazione organizzata. Ed è così vero che il Governo non si è nemmeno posto tale problema, che lo stesso Ministro dell’industria ci diceva che per impedire l’ulteriore aumento dei prezzi, quel che bisognerebbe fare è di abolire la scala mobile.

Ora, qui basta fare una semplice considerazione. Se il Governo si ponesse il problema di arrivare seriamente alla stabilizzazione dei prezzi, la scala mobile non dovrebbe preoccupare perché non avrebbe più nessuna influenza. Quando invece si pone come condizione essenziale del risanamento l’abolizione della scala mobile, vuol dire che si pensa ad ulteriori aumenti di prezzi e quindi ad un ulteriore sviluppo dell’inflazione. Proprio per questo noi non possiamo condividere la politica economica del Governo.

Onorevoli colleghi, la eliminazione della speculazione è solo la premessa per una efficace politica di stabilizzazione. L’azione concreta da svolgere riguarda la circolazione e il credito, i costi di produzione e il commercio estero.

Ora, non solo non si è realizzata la premessa necessaria di una politica di stabilizzazione, ma anche i provvedimenti concreti da prendere in quei diversi campi o sono mancati o sono stati delle mezze misure che non hanno risolto nulla, ed hanno invece aggravato il male di cui tutti oggi si lamentano: l’inflazione si è aggravata, la sana attività produttiva è stata posta in difficoltà, e la speculazione è divenuta sempre più virulenta e perniciosa. Infatti i calcoli rivelano che quel margine speculativo dei prezzi, di cui dianzi ho parlato, ha la tendenza a dilatarsi sempre più.

Quando questo Governo si è costituito si prevedeva che un certo aumento della circolazione era inevitabile, non però nella misura in cui è avvenuto.

A maggior ragione si imponeva di creare le condizioni perché quell’aumento di circolazione avesse la minore ripercussione inflazionista possibile nel paese. La prima condizione era quella di decurtare i sovraprezzi speculativi; la seconda condizione consisteva nel far sì che all’aumento di circolazione monetaria corrispondesse la eliminazione della circolazione creditizia per fini speculativi.

Anche qui – mi si consenta di dirlo – non si è fatto nulla. La circolazione monetaria è aumentata di un centinaio di miliardi, ma nello stesso tempo anche la circolazione creditizia si è dilatata oltre il giusto limite ed è divenuta inflazionista. Dal dicembre 1946 al luglio 1947 i depositi sono cresciuti di 258 miliardi e gli impieghi di 193 miliardi. Che cosa significano queste cifre? Significano che, pur tenendo conto dell’aumento nella produzione e nei prezzi, nella «creazione di depositi» da parte delle banche si è andati oltre il giusto limite, si è fatta dell’inflazione, si è imposto un «risparmio forzoso». Tanto che il Governo, ad un certo momento, ha dato l’allarme riconoscendo ed affermando che il risparmio forzoso in Italia è arrivato a un punto che pesa già in modo eccessivo sulle classi povere della popolazione.

Per chi non lo capisce, risparmio forzoso vuol dire inflazione; in questi mesi dunque, nello stesso tempo in cui la circolazione monetaria si dilatava, si consentiva che anche nel campo del credito si operasse in modo da dare un impulso all’inflazione.

Se poi andiamo a guardare come sono stati impiegati quei 193 miliardi di nuovi impieghi, cioè quanti sono stati impiegati produttivamente e quanti per scopi speculativi, dobbiamo riconoscere che non ne sappiamo nulla di preciso. Sappiamo però che impieghi speculativi si sono attuati in larga misura. Il popolo lavoratore si è trovato preso in un meccanismo infernale: da una parte l’inflazione gli ha imposto un abbassamento del tenore di vita, dall’altra, la speculazione si è servita di parte dei beni che gli sono stati sottratti per infliggergli un nuovo danno. Per combattere e porre termine a tale situazione, quattro mesi or sono, quando si è posto il problema della lotta contro l’inflazione, noi chiedemmo che non si perdesse tempo a porre un limite alla crescente espansione creditizia, tanto più che la circolazione monetaria si dilatava. E chiedemmo anche che si controllasse l’impiego del credito. A tal fine proponemmo che il controllo del credito non fosse solo quantitativo, ma anche qualitativo. Quando il progetto del Governo venne alla Commissione di finanze e tesoro di questa Assemblea, io dissi subito che quel provvedimento non era adeguato alle esigenze della situazione.

Ora, l’onorevole Einaudi, rispondendo a tale richiesta, dichiarò che non accettava la proposta di controllo qualitativo, perché questa è impresa molto delicata, in quanto l’istituto controllante dovrebbe ingiungere alle Banche di dare o non dare credito a questo o a quello, e se l’istituto controllante indica quali sono le persone alle quali si deve o non si deve far credito, la responsabilità si deve togliere a coloro che l’hanno e si deve darla a coloro che esplicano questa azione.

Onorevole Einaudi, non è questo il problema. Nessuno si è mai sognato di chiedere che l’Istituto di emissione si sostituisca alle Banche per valutare se il cliente che chiede il credito lo meriti o non lo meriti, dia o non dia garanzie. Il controllo qualitativo del credito vuol dire controllo della natura dell’impiego economico del risparmio nazionale, indipendentemente dalle valutazioni personali dei singoli clienti, che rimane sempre compito delle singole banche. Il Governo ha oggi il dovere di controllare in quale modo si impiega il risparmio nazionale. Questo non si è fatto e le conseguenze sono molto gravi, perché così si è lasciato via libera alla speculazione con tutte le conseguenze inflazioniste che ne derivano.

Con la richiesta del controllo qualitativo del credito, su cui insistiamo, noi in sostanza difendiamo l’attività produttiva contro l’attività speculativa; difendiamo le piccole e medie industrie contro la sopraffazione dei gruppi monopolistici; difendiamo l’industria sana, che risponde agli interessi generali del Paese, contro l’industria che punta sull’inflazione, sulla speculazione e simili espedienti; difendiamo il credito produttivo contro il credito speculativo. In sostanza noi vogliamo che il credito concorra alla stabilizzazione dei prezzi e della moneta.

Che cosa è avvenuto in pratica con il puro controllo quantitativo? È avvenuto che si danneggiano alcune attività produttive a beneficio di quelle speculative, poiché le banche – come denunciava ieri l’onorevole Corbino – per compensare il minor volume di affari, inclinano a impieghi speculativi perché più redditizi. Io so di interessi che vanno dal 14 al 35 per cento; qualche istituto è arrivato persino al 76 per cento, operando attraverso interposte persone. Quale è il produttore che può pagare questi saggi di interesse? E allora avviene che gli incettatori di merci, gli accaparratori, gli speculatori che possono pagarli, monopolizzano a loro beneficio il credito.

Onorevole Einaudi, ella ha dato particolari disposizioni alle banche in materia di riporti. Ora, sa quale scherzo le hanno fatto le banche? Invece dei riporti fanno operazioni staccate: invece del riporto tradizionale, si vende a fine mese corrente e si ricompra a fine mese successivo. Lo scarto del prezzo è il compenso della banca. Le posso dare qualche cifra. Solo su di un titolo, per la Fiat, si è determinato in queste operazioni uno scarto di 50 punti in un mese, e la banca ha avuto un reddito del 30 per cento. Si tratta di un finanziamento speculativo che sfugge ai divieti da lei posti per i riporti speculativi. Ma come si fa ad evitare questi fenomeni se non si instaura un controllo qualitativo del credito? Questo è un episodio, ma ve ne sono altri: i banchieri hanno più fantasia degli uomini di governo.

L’onorevole Einaudi pensava che con il controllo quantitativo del credito e il limite posto alla sua espansione quanti si sono serviti del credito per riempire i loro magazzini a fine speculativo, ora devono vendere e quindi l’aumento di offerta delle merci, farebbe ribassare i prezzi. Ma la reazione è stata ben diversa: si sono mantenuti pieni i magazzini e si tende invece a ridurre o ad arrestare la produzione con tutte le prevedibili conseguenze: così si continua sul binario inflazionistico.

Oltre a tutto ciò, noi dobbiamo constatare che si sono posti in gravi difficoltà piccoli e medi industriali e commercianti: i primi sacrificati, perché i meno influenti e meno provveduti di appoggi. E poi anche talune grandi industrie sane sono state poste in difficoltà, mentre la speculazione continua a infierire. Queste sono le conseguenze di una insufficiente realizzazione del controllo del credito. Le misure che dovevano servire a combattere l’inflazione servono invece a potenziarla e a svilupparla.

Ma io vorrei far presente al Ministro del bilancio una questione particolare, che mi pare abbastanza seria e meritevole di considerazione. La Banca d’Italia ha ripetutamente affermato che il nuovo sistema di disciplina del credito non comporta per i depositi in atto obblighi e limiti maggiori di quelli imposti dal sistema precedente che imponeva il versamento totale dei depositi che superavano il limite di 30 volte il patrimonio della Banca. Ma, se questo è vero per le grandi banche, non è vero per le piccole banche, per le cooperative locali. Cosa è avvenuto in questo campo? Le piccole banche, le cooperative che finanziano artigiani, piccoli bottegai e piccoli produttori, con una zona di attività limitata, in questi ultimi tempi hanno fatto questo: quando hanno visto che i loro depositi superavano il livello di 30 volte il loro patrimonio, hanno chiesto ai loro soci un sacrificio, cioè di versare nuove quote per portare il loro patrimonio al giusto livello. Dopo aver imposto tale sacrificio, ai suoi soci, è venuto il mutamento di sistema che impone anche alle piccole banche di versare alla Banca d’Italia una parte dei loro depositi che superano il decuplo del patrimonio. Ora avverrà che quelle attività artigiane, di piccoli e medi industriali, finanziate da quelle banche, si troveranno in grande difficoltà perché non hanno altri mezzi di finanziamento: la piccola e la media industria non emette azioni né obbligazioni, e tanto meno può ricorrere all’I.M.I. o al Consorzio imprese di pubblica utilità, perché notoriamente questi istituti servono solo alle grandi industrie. Molti piccoli e medi produttori si troveranno in una situazione disgraziata.

Io credo che i provvedimenti presi dalla Banca d’Italia in rapporto alla situazione delle banche cooperative locali debbano essere riveduti ed attenuati. Il problema del credito sta assumendo un aspetto drammatico nel Paese.

Oggi si leva gran clamore attorno al Ministro del bilancio: a molte di quelle voci che lo criticano noi non ci associamo. Però, constatiamo che vi sono dei produttori, che svolgono un’attività sana ed utile al Paese, ai quali è venuto a mancare il credito e le cui proteste sono giustificate; d’altra parte vi sono le banche che dicono che col nuovo sistema non possono far credito. La Banca d’Italia risponde che le misure imposte con la nuova disciplina non possono portare ad una restrizione del credito alla sana attività produttiva.

Chi ha ragione? Se le cose stanno così vuol dire che bisogna andare a vedere il modo in cui le banche impiegano il credito, oppure bisogna pensare ad un sabotaggio delle banche per far cadere i suoi provvedimenti, o ad una subdola manovra inflazionistica che cerca di prendere la mano al Governo. È possibile che queste ipotesi siano tutte vere. Ma come fa lei, onorevole Einaudi, a risolvere questo problema se non passa dal controllo quantitativo a quello qualitativo?

Bisogna controllare dove va a finire il risparmio nazionale, che è destinato ad incrementare la vita economica del Paese e non a sostenere attività speculative. Per fare questo occorre mutare sistema.

Occorre adottare il sistema che noi suggerimmo quattro mesi or sono e che il Governo non ha voluto applicare. Oggi è la realtà che lo impone. Oggi siamo arrivati a questo; che gli industriali più intelligenti, gli industriali che non puntano sulla speculazione, gli industriali che sono veramente gli organizzatori della produzione, vi chiedono di controllare qualitativamente il credito, perché non è giusto che lo si neghi a loro che operano nell’interesse del Paese, mentre si concede ad altri la cui attività rovina l’economia del Paese.

Questo è il problema. La critica che noi facciamo al Governo è che in questi quattro mesi ha lasciato andare le cose per questa via. Perché? Perché, onorevole Einaudi (e risalgo a dove sono partito), il problema del risanamento finanziario si è posto esclusivamente, prevalentemente, sul piano finanziario, perché si è considerata la stabilizzazione dei prezzi e della moneta solo come una conseguenza futura del risanamento finanziario e non pure come una premessa ed una condizione di una politica efficiente di risanamento economico e finanziario.

Bisogna mutare sistema ed adottare il sistema da noi suggerito. Di fronte alle richieste di allargare il credito, di annullare le decisioni già prese, noi chiediamo che si risponda in modo da sodisfare quanto vi può essere di giusto in quelle richieste senza però annullare i limiti posti, il che si ottiene mutando sistema, non togliendo il controllo, ma allargandolo e integrandolo, passando cioè dal puro controllo quantitativo anche a quello qualitativo. Il Governo ha il dovere di assicurare ai produttori l’utile impiego del risparmio nazionale: questo il Governo non lo ha fatto. Quali sono state le conseguenze? Speculazione, inflazione, aumento di prezzi, moneta svalutata: l’inflazione ha fatto un balzo avanti. Bisogna cambiar sistema.

E vengo ad altro problema essenziale: i costi di produzione.

Se il Governo si fosse posto seriamente l’obiettivo di stabilizzare i prezzi nel più breve tempo possibile, non avrebbe potuto ignorare che si poneva altresì il problema di stabilizzare i costi di produzione, evitando per un certo periodo tutti quei provvedimenti che potevano determinare l’aumento.

Qui si pone il problema dei prezzi politici. Ora, in tutti i grandi Paesi, specialmente nei Paesi occidentali, nel periodo della lotta contro l’inflazione si è ritenuto conveniente non sopprimere i prezzi politici, ma farne anzi uno strumento di manovra. L’esperienza fatta in altri Paesi poteva insegnare qualcosa anche a noi. Viceversa, in Italia si è ritenuto, in un momento culminante di svalutazione monetaria, di abolire o di avvicinarsi alla progressiva abolizione dei prezzi politici, pensando che questo provvedimento fosse una misura utile, necessaria e favorevole al riassetto generale dell’economia e non invece un nuovo impulso dato all’inflazione. Non si è tenuto presente che l’abolizione dei prezzi politici, specialmente di quei prezzi che concorrono a formare la razione alimentare delle masse, hanno un’influenza diversa se sono presi in una fase di inflazione, oppure di stabilizzazione dei prezzi.

Non si è pensato che per taluni prezzi politici il risparmio che il Tesoro fa con la loro abolizione può essere inferiore alla maggiore spesa che indirettamente deve sostenere per effetto dell’aumento dei prezzi,: che porta ad aumenti di stipendi e salari, a rivedere i contratti di appalto e via di seguito.

L’onorevole Del Vecchio, Ministro del tesoro, in un certo momento ha fatto alcune dichiarazioni che suonano testualmente così: «dopo due anni di guerra occorre ristabilire l’equilibrio tra i vari prezzi. I consumatori credono di trarre vantaggio pagando i prezzi politici. In realtà non si accorgono che questo vantaggio è scontato ad usura col pagamento, di ben più alti prezzi economici dei generi che sono costretti ad acquistare».

A questo ragionamento se ne può opporre un altro: lo Stato crede di trovare vantaggio abolendo i prezzi politici e non si accorge che tale vantaggio è scontato ad usura con l’aumento delle spese per stipendi, salari, lavori pubblici, conseguente ad un aumento di costi e di prezzi proporzionalmente superiore all’aumento dal prezzo politico al prezzo economico. E la conseguenza quale può essere? Che la circolazione aumenterà, i prezzi subiranno un nuovo aumento ed i consumatori pagheranno di più quel determinato bene e tutti gli altri beni; l’inflazione avrà fatto un altro passo avanti. È perciò che la politica di aumento del prezzo del pane, delle tariffe dei trasporti, delle comunicazioni ecc. è stata obiettivamente una politica inflazionista. Vorrei a questo punto esaminare un problema concreto, quello del pane. Quando si sono riunite le quattro Commissioni per discutere la relazione dell’ex Ministro Campilli, qualcuno ricorderà che in quella riunione io fui il solo ad esprimere parere contrario all’abolizione del prezzo politico del pane in quel momento. E questo perché mi pareva che i risultati potessero essere negativi.

Ora, se calcoliamo gli oneri finanziari dell’abolizione del prezzo politico del pane dobbiamo tenere presente questo: 1°) ciò che lo Stato paga come indennità caro-pane, ad impiegati, salariati di Enti pubblici e semi-pubblici ecc.; 2°) quello che pagherà successivamente per l’aumento di stipendi e salari, conseguente all’aumento di tutti i prezzi; 3°) quello che pagherà per revisione di contratti di appalto ecc. Tutto sommato, tenuto conto degli elementi positivi e negativi, l’onere finanziario è probabilmente superiore, anche se non figura più come prezzo politico. Accanto agli oneri finanziari bisogna considerare pure quelli economici:

1°) l’aumento del prezzo del pane, bene a domanda rigida ed universale, porta necessariamente all’aumento di tutti i costi di produzione in proporzioni moltiplicate: dal ciclo produttivo iniziale a quello finale di un bene, con le interferenze degli aumenti salariali, l’aumento si moltiplica con un crescendo continuo;

2°) che aumenti generali di costi e prezzi rendono i prezzi dei cereali all’ammasso insoddisfacenti, con una influenza negativa sulle future semine;

3°) che lo stesso costo di produzione del pane aumenta per l’aumento dei salari;

4°) il costo economico di scioperi ed agitazioni perché l’indennità di caro-pane non indennizza l’aumento di prezzo di tutte le altre merci;

5°) che si creano ostacoli ad iniziative ed attività produttive.

Ora, cosa hanno dimostrato i fatti? Quando il Governo ha aumentato il prezzo del pane, immediatamente vi è stato un rapido e forte aumento di tutti i prezzi, ed è stato tale da non far dubitare della sua connessione con l’aumento del prezzo del pane. Perché non si è voluto tener conto di questo insegnamento dei fatti? Si pensava forse che nonostante l’aumento dei prezzi si sarebbe impedito l’aumento di stipendi e salari? Questo rivelerebbe lo spirito e il contenuto reazionario di quella decisione.

Ora, a questo proposito vorrei dire una parola sulla speculazione di doppio giuoco che si è fatta contro di noi su tale questione. L’onorevole De Gasperi dovrebbe ricordare che noi fummo contrari all’abolizione del prezzo politico per le ragioni che ho esposto. Ci si assicurò che quella misura non avrebbe fatto aumentare gli altri prezzi, caso mai li avrebbe fatti diminuire, perché la maggiore spesa per il pane avrebbe provocato una contrazione nell’acquisto di altri generi. Non si è avvertito l’errore che si commetteva ragionando a quel modo, perché, semmai, si sarebbe avuto un aumento minore in talune merci rispetto ad altre. Tuttavia, finimmo per consentire, rimettendoci al verdetto dei fatti. Si fece un primo aumento del prezzo del pane: i fatti ci diedero ragione. Tutti i prezzi aumentarono: si verificarono le conseguenze da noi previste. Veniva così a mancare la condizione essenziale dell’impegno per ulteriori aumenti. Perciò all’atto del secondo aumento, giudicando che il provvedimento era dannoso, non ci sentimmo più di approvarlo. Dov’è il doppio giuoco? E se qualcuno è mancato all’impegno siete voi, che avete proceduto al secondo aumento nonostante che le condizioni previste non si fossero realizzate.

Una volta constatati gli effetti del primo aumento era opportuno fermarsi: non lo avete fatto e avete commesso un errore. Vi illudevate forse di evitare i conseguenti aumenti di stipendi e salari? Questa è in sostanza la tendenza della vostra politica, altrimenti non avrebbe senso. Ma è una politica irrealizzabile e perciò sbagliata.

Io potrei fare un’analisi analoga per l’aumento del prezzo dei trasporti; non la farò per brevità. Ma tutti questi provvedimenti che tendono ad aumentare i costi di produzione in un momento in cui, per la lotta contro l’inflazione, ci si doveva porre per obiettivo la stabilizzazione dei prezzi, o sono una contradizione, oppure sono la conseguenza del fatto che non si è posta la stabilizzazione dei prezzi e della moneta come una condizione del risanamento finanziario. Se questo si fosse fatto, questi provvedimenti non si dovevano adottare in quel momento: bisognava rinviarli.

E vengo all’ultimo problema: il commercio estero. Il Ministro Merzagora l’altro giorno ci ha detto che fa tutto il possibile per aumentare le esportazioni e provvedere il Paese di quanto ha bisogno e che, se non tutto si può realizzare, non è colpa della politica del Governo, poiché le difficoltà e le impossibilità sono nelle cose.

Ora, qui non si tratta della buona volontà e della diligenza del Ministro del commercio estero, né delle difficoltà o impossibilità che indubbiamente esistono; né si pretendono miracoli da nessuno: qui si discute la politica che si attua in questo campo in relazione alla politica economico-finanziaria del Governo ed all’obiettivo della lotta contro l’inflazione. È su questi problemi che il Ministro avrebbe dovuto parlare.

Il primo problema che si pone è quello del regime valutario. È noto che, fin dal gennaio, vi sono stati dei partiti, fra i quali il nostro, i quali hanno posto il problema se, nella nuova situazione che si andava determinando, non fosse opportuno ritornare al sistema del controllo totale dei cambi. Il Governo non ha mai creduto di rispondere a tale quesito. Perché all’inizio del 1947 noi abbiamo posto tale questione? Perché un sistema di scambi nel quale l’industria nazionale riceve, per ciò che vende, una moneta – il dollaro – che vale meno di quella che usa per ciò che compera, poteva mantenersi in piedi finché esisteva una situazione come quella del 1946, quando abbiamo esportato, in regime di valuta 50 per cento, per il 74,2 per cento ed abbiamo importato con lo stesso regime solo per il 5 per cento. Ma, quando la situazione si rovescia, e le importazioni superano le esportazioni, allora è lecito nutrire il dubbio che quel sistema non convenga più. Perché il principio assurdo che il dollaro di chi vende debba valere meno del dollaro di chi compera, fa balzar fuori tutte le contradizioni del sistema. E infatti, a quali conseguenze porta quel sistema?

Anzitutto, gli esportatori tendono a non esportare nei Paesi coi quali i pagamenti avvengono a cambio ufficiale e preferiscono esportare invece nei Paesi in cui i pagamenti avvengono a cambio libero, anche vendendo a prezzo minore.

Viceversa gli importatori trovano convenienza ad importare dai Paesi in cui i pagamenti avvengono a cambio ufficiale ed evitano di importare dai Paesi in cui i pagamenti avvengono a cambio libero. Quali sono dunque le conseguenze di tale situazione? La prima è che noi vendiamo a basso prezzo i nostri prodotti e quindi il nostro lavoro e comperiamo ad alto prezzo quelli degli altri; la seconda è che la riduzione delle esportazioni verso un determinato Paese comporta di necessità una riduzione delle importazioni da quello stesso Paese e viceversa una riduzione di importazioni da un dato Paese riduce anche le possibilità di esportazione in quel Paese: questo è tanto più vero in regime di scambi compensati, come largamente avviene oggi. Quando noi, ad esempio, esportiamo poco in Polonia per le ragioni dette sopra, si riducono in pari tempo anche le possibilità di importare dalla Polonia: ecco perché non si è importato la metà del carbone che la Polonia ha messo a nostra disposizione, nonostante il bisogno che ne abbiamo.

La conseguenza di tale stato di cose è abbastanza grave, perché i Paesi con i quali noi abbiamo scambi compensati e con pagamento al cambio ufficiale si trovano quasi tutti nell’Europa orientale, cioè proprio nella zona che costituisce il mercato naturale per l’economia italiana, ed è proprio con quei Paesi che i nostri scambi stentano ad avviarsi e tendono a divenire sempre più difficili. Quando il Ministro Merzagora ci dice che con quei Paesi abbiamo fatto una quantità di accordi e ne faremo ancora degli altri, e, se poi in pratica non si ottengono risultati, non sappiamo cosa farci, noi rispondiamo che è compito del Ministro ricercare le cause per le quali quegli accordi non danno i risultati che dovrebbero dare, ed eliminarle. Se si fa tale esame si vedrà che una delle cause è nella nostra politica valutaria; e se quella politica si cambiasse anche le condizioni delle nostre esportazioni ed importazioni cambierebbero.

Una seconda conseguenza è che, lasciando anche soltanto il 50 per cento di valuta libera ed accentrando solo su di essa lo squilibrio fra cambio ufficiale e cambio di equilibrio, ne viene raddoppiata l’incidenza con una duplice conseguenza:

1°) i più alti corsi di mercato della valuta di esportazione fanno apparire un indice di svalutazione della moneta superiore alla realtà, influenzando il giudizio sulla svalutazione della moneta in contrasto con la politica di difesa della lira;

2°) rincarano in misura anormale tutte le importazioni finanziate con valute di esportazione, da cui aumento di costi di produzione, di prezzi e quindi spinta all’inflazione;

3°) talune industrie pagano la materia prima con un dollaro che vale, ad esempio, 900 e la rivendono nel prodotto finito ricavando un dollaro che vale 500: questo porta ad aggravare i costi di produzione, i prezzi e quindi ad aumentare l’inflazione.

Altre conseguenze si potrebbero rilevare e tutte di carattere inflazionista, il che è in aperto contrasto con la politica di lotta contro l’inflazione che il Governo dichiara di voler seguire. Se il sistema del 50 per cento di valuta libera è in contrasto con le esigenze di una politica anti-inflazionista, perché non si cambia?

Il Ministro dice: per talune categorie io l’ho già mutato, ho concesso ad alcune categorie non il 50 per cento, ma il 75 per cento ed anche il 90 per cento. Ma non è quella la via da seguire, onorevole Ministro, bisogna andare per la via contraria. A quel modo si aggrava il male, non lo si guarisce. Perché, quando lei concede il 75 per cento di valuta libera, lei crea e moltiplica la diversità dei cambi invece di tendere ad eliminarla. Bisogna arrivare al cambio unico.

E bisogna ristabilire il controllo integrale delle valute, perché non si controllano le importazioni ed esportazioni senza il controllo totale delle valute, come non si controllano le valute senza il controllo totale delle importazioni ed esportazioni. Questa è l’esigenza che impone oggi una efficace politica antiinflazionista.

Ma io desidero porre una questione specifica per le concessioni che sono state fatte. I tessili, ad esempio, sono, fra le categorie degli industriali, quelli che hanno guadagnato di più durante la guerra fascista, che hanno avuto minori danni di guerra e maggiori sopraprofitti, che l’anno scorso hanno fatto notevoli utili. Come mai proprio ai tessili si è fatta tale concessione?

So che le esportazioni dei prodotti tessili quest’anno hanno incontrato difficoltà e, là dove è necessario, io sono d’accordo che bisogna sostenere le nostre esportazioni, ma in questo caso mi vengono dei gravi dubbi. Quando lei, onorevole Ministro, afferma che i prezzi di esportazione sarebbero stati troppo bassi rispetto ai costi, una delle due: o le hanno dato dei dati inesatti, oppure lei ha fatto un favore che non doveva fare. Perché, dai dati che io ho, non risulta affatto che gli industriali tessili italiani non potessero esportare. È vero che gli utili diminuivano, ma guadagnar meno non vuol dire perdere. A me risulta infatti che all’esportatore rimaneva sempre un utile netto di almeno lire 185,50 per ogni chilo di filato. Certo, tale utile è inferiore a quello ricavato sul mercato interno che è di lire 308, ma esso dimostra non esser vera l’asserita impossibilità di poter vendere all’estero allo stesso prezzo degli americani. E tanto più spiacevole è la concessione che si è fatta, per le conseguenze che ha avuto negli accordi già realizzati dalla missione Lombardo, secondo i quali si riducevano alla metà i tributi doganali di tutti i nostri esportatori negli Stati Uniti, e dopo la concessione fatta ai tessili, in conseguenza di questa differenziazione di cambi, quell’accordo è caduto e i nostri esportatori pagano oggi come tributo doganale il doppio di quello che avrebbero pagato. Ora, è giusto che per l’interesse particolare di una categoria si debba sacrificare l’interesse generale di tutti gli esportatori verso gli Stati Uniti d’America? Che politica è mai questa?

Un secondo problema a cui desidero accennare è quello dell’aumento del cambio del dollaro da 225 a 350.

Io mi domando: in una situazione in cui le importazioni superano le esportazioni ed il Governo si propone di fare una politica anti-inflazionista, è stato opportuno un provvedimento di quel genere? Si è voluto facilitare le esportazioni e sta bene, ma non si poteva provvedere a ciò altrimenti, con misure che non fossero in contrasto con la politica che il Governo dice di voler perseguire? Che non si riflettessero a danno delle importazioni e quindi dei consumatori? Si sono esaminate le ripercussioni di quel provvedimento nei rapporti della lira, non solo con il dollaro, ma con tutte le altre monete? Non avviene forse oggi che, per avere la stessa quantità di beni, per esempio, dalla Francia o da altri Paesi, dobbiamo dare una quantità maggiore di beni italiani, oppure per la stessa quantità di beni italiani noi riceviamo in cambio oggi una minore quantità di beni dagli altri Paesi? Se così è, è chiaro che quel provvedimento ha determinato un aumento dei costi di produzione e quindi ha esercitato una influenza inflazionistica nel Paese. Bisogna proprio riconoscere che l’esigenza di non far salire i costi di produzione era assente dalla politica del Governo. Ciò è confermato da un altro provvedimento assai significativo: l’aumento improvviso del diritto di licenza al 10 per cento sul valore delle merci ammesse all’importazione. Ora questo porta all’aumento dei costi di produzione, e quindi dei prezzi e dell’inflazione.

Era proprio questo il momento opportuno per un tale provvedimento, quando bisognava fare una politica di stabilizzazione di costi e di prezzi? In verità tutto conferma che questa esigenza non si poneva nella politica del Governo, e questo in conseguenza della impostazione generale che guarda essenzialmente al bilancio, all’aspetto finanziario e monetario della situazione e trascura quello economico.

Ad un ultimo problema voglio rapidamente accennare: si tratta dei molti miliardi evasi all’estero.

I giornali parlano di 60 milioni di dollari che corrisponderebbero a 30 miliardi di lire. Il Ministro Merzagora dice che sono anche di più. Noi dobbiamo ad ogni costo far rientrare questi capitali in Italia. Certo, coloro che hanno compiuto quest’opera sono estremamente biasimevoli. Ma con i biasimi e le invettive non si risolve nulla. Ed il Paese è con l’acqua alla gola ed ha bisogno di rastrellare tutto quello che è possibile. Orbene, noi abbiamo concesso l’amnistia a tanti criminali, potremmo anche concedere una sanatoria a quei capitali emigrati clandestinamente e sollecitarli a rientrare. Un mezzo potrebbe essere di consentire le importazioni «franco valuta»: io non vi sarei contrario.

In definitiva, anche per il commercio estero, risorge il quesito: con quali criteri si attua la politica antinflazionista? Anche qui vediamo che la politica in atto porta a conseguenze inflazioniste: un suo mutamento si impone.

Ora, il problema generale che si pone è questo: si vuol fare una politica contro l’inflazione? Ed allora la via seguita finora non è quella giusta. Bisogna cambiare strada. Dall’esame di alcuni aspetti della nostra politica economica e finanziaria risulta che il Governo considera la stabilizzazione dei prezzi e della moneta solo come conseguenza e non pure come condizione del risanamento finanziario. Accettare questo principio significa mutare tutta la politica finora seguita, come mi pare di avere dimostrato. Ma con ciò si pone anche il problema della stabilizzazione come un obiettivo immediato. A tal fine potrebbe essere utile attuare qualche provvedimento di tecnica monetaria diretto a facilitare il processo di stabilizzazione: si tratta di inserire nella situazione economica e finanziaria un primo elemento di stabilizzazione. L’anno scorso si era pensato per altri fini ad un progetto di «Buoni di imposta» collegato al problema della rivalutazione degli impianti industriali. Io credo che se in gennaio si fosse realizzato quel progetto, esso avrebbe avuto successo. Oggi avrei dei dubbi, perché non esistono più le condizioni di gennaio. Penso però che quell’idea potrebbe essere integrata da un elemento nuovo che potrebbe renderla attuabile. Lo Stato dovrebbe assicurare a quel titolo stabilità di valore, non già nel senso che ci imponga di risolvere oggi definitivamente il problema del valore della nostra moneta, ma nel senso che lo Stato ne garantisce il valore che ha al momento dell’emissione, in modo da essere messo al riparo dalle eventuali successive svalutazioni monetarie.

Si tratta in sostanza di creare uno strumento di stabilizzazione capace di anticipare ed accelerare le ripercussioni benefiche di una politica quale è quella che vi ho delineato, indebolendo i movimenti speculativi e determinando una smobilitazione psicologica degli operatori al rialzo di merci e valori, ed offrendo un punto di sicuro approdo ai risparmiatori che oggi, come diceva l’onorevole Corbino, non portano nemmeno più i loro risparmi in banca. Non è questa la sede per sviluppare tecnicamente una simile proposta. Io conosco tutte le obiezioni che si potrebbero muovere, ma mi pare che tali obiezioni non sono insuperabili. Se ci si pone seriamente il problema della stabilizzazione dei prezzi e della moneta e si opera secondo un piano organico nel senso, indicato, io credo che tale politica può avere successo.

Onorevoli colleghi, di fronte all’inflazione vi sono due politiche possibili.

Quella seguita dal Governo fino ad oggi è, obiettivamente, una politica inflazionistica. Essa si basa sull’attesa di una soluzione automatica della corsa alla svalutazione ed all’aumento dei prezzi per effetto del pareggio del bilancio, di prestiti esteri ed altri eventi favorevoli. È una politica che direi di «attesismo finanziario»: come quella di coloro che pensano che il miglior modo di combattere l’inflazione è quello di attenderne la fine. Ma l’esperienza storica dimostra che una volta avviati sul piano inclinato dell’inflazione non si è mai ristabilito automaticamente un nuovo equilibrio senza passare attraverso un collasso economico-finanziario.

L’altra politica che vi proponiamo rifugge da ogni forma di attesismo e propugna un intervento attivo nella vita economica, con l’obiettivo immediato della più rapida stabilizzazione dei prezzi e della moneta come condizione del risanamento finanziario. È la sola politica che, a mio giudizio, può trarci dalla attuale situazione evitando il collasso economico-finanziario, che è la minaccia più grave che pesa oggi su di noi. Cosa significa un tale evento? Basti pensare alla Germania del 1923: significa immiserimento delle grandi masse lavoratrici, espropriazione in massa dei ceti medi, rovina dei piccoli produttori, miseria crescente da una parte, accumulazione e concentramento di ricchezze dall’altra, violente convulsioni politiche e sociali. È come una sferzata violenta sul corpo della Nazione, e le conseguenze per noi sarebbero ben più gravi di quelle che furono per la Germania nel 1923, perché più grave è il disastro che ha colpito noi e diverse sono le condizioni politiche e sociali del tempo. Vero che taluni pensano di sfuggire a tali conseguenze diluendole nel tempo, pur che si riesca ad evitare che alla progressiva svalutazione si accompagni un adeguamento di salari e stipendi, cioè dei redditi di consumo. Questo è in fondo il senso vero della politica attuale.

Le classi padronali d’Italia hanno ben compreso il senso di quella politica; hanno infatti tentato e tentano di opporre una assoluta intransigenza alle richieste dei lavoratori, come si è visto nello sciopero dei braccianti, ed il Governo le ha aiutate come ha potuto. Si è persino tentato di mobilitare l’opinione pubblica contro di noi, qualificandoci come «sobillatori» dello sciopero: ma l’unico e vero sobillatore è stato il Governo con la sua politica. (Applausi a sinistra).

E la Confederazione dell’industria riflette ancora più chiaramente il senso di quella politica quando prospetta la necessità dell’abolizione della «scala mobile» e ieri il Ministro dell’industria e commercio ha riecheggiato l’identico pensiero quando ha detto che in Italia il problema da risolvere è quello della scala mobile. Cosa vuol dire ciò? Vuol dire che i prezzi possono salire ma i salari e gli stipendi devono restare fermi. Questo è il pensiero della Confederazione dell’industria, questo è il pensiero del suo rappresentante onorevole Togni. E se non ci fossero altri motivi, solo per questo io voterei contro il Governo.

Una voce al. centro. Può dire anche l’inverso.

SCOCCIMARRO. Ma, a parte che anche questa misura sarebbe insufficiente per le ripercussioni indirette che essa determinerebbe, sta di fatto che essa è inattuabile. Non fatevi illusioni, signori, di strappare alle classi lavoratrici una tale misura di garanzia delle loro più elementari condizioni di esistenza: non vi riuscirete. Bisogna convincersi che salari e stipendi non sono più oltre comprimibili. Stando così le cose la politica attuale minaccia di portarci al collasso. Per questa via si preparano giorni tristi per il nostro Paese.

Ora, fra queste due politiche che ho delineato la divergenza non è o per lo meno non è solo tecnica, ma politica. Ciascuna ha un suo proprio contenuto e significato economico e sociale. L’onorevole Corbino ci diceva che siamo arrivati al momento della liquidazione dei conti della guerra e del disastro economico: ora si pone il problema di chi deve pagare. Non v’è dubbio che con la politica attuale si tende a rovesciare il maggior costo del risanamento sulle classi lavoratrici. Per tale scopo si sono create le condizioni politiche necessarie con la formazione di questo Governo. Però badate: dopo la guerra 1914-18, per realizzare un tale obiettivo, ci volle il fascismo. Le classi padronali si sentono di ritentare la prova? Questa volta mi pare che l’operazione difficilmente può riuscire. Tuttavia le velleità non mancano. Intanto, per ora, devono accontentarsi di questo Governo.

UBERTI. Non c’è paragone!

SCOCCIMARRO. La politica che noi vi proponiamo fa ricadere i sacrifici della ricostruzione su tutte le classi sociali secondo un principio di equità e, a nostro avviso, con più sicura possibilità di evitare il crollo della moneta con tutte le nefaste conseguenze che ne derivano. Lo condizioni politiche necessarie per realizzare questa politica esigono un nuovo Governo.

Ieri l’onorevole Corbino si è dichiarato ottimista. Ci ha detto che i popoli non muoiono mai ed essendo noi in fase di convalescenza, anche noi non moriremo e tutto andrà per il meglio.

L’onorevole Corbino è veramente troppo ottimista. Se è vero che nella storia non vi sono situazioni senza vie di uscita, il problema però, è di sapere quale sarà la via di uscita: se sarà una via che ci consenta di fare un passo avanti oppure se sarà una via di uscita che ci obbligherà a fare un passo indietro: anche quella è una via di uscita. Ma è proprio nella scelta della via d’uscita che sta il senso di questo dibattito. A mio giudizio, dopo la liberazione non ci siamo mai trovati in una situazione così difficile, così pericolosa come quella in cui ci troviamo oggi. Lo spettro dell’inflazione distende la sua ombra nel paese e diviene sempre più minaccioso: siamo ormai ridotti a dare l’ultima battaglia per la salvezza della nostra moneta. In passato si sono perdute buone occasioni in cui si sarebbe potuto operare efficacemente al risanamento finanziario: è perciò che oggi la situazione è particolarmente grave. Pesano sulla situazione attuale le conseguenze di quello che si sarebbe dovuto fare e non si è fatto. Oggi si presenta forse l’ultima occasione per tentare di salvare la nostra moneta: fate che anche questa non vada perduta. Bisogna cambiare politica e bisogna cambiare Governo.

In un momento così grave della vita nazionale le classi lavoratrici, a nostro mezzo, offrono la loro collaborazione con tutte le forze sane del Paese: sappiate valutarne tutto il valore e l’importanza. Non respingetela a cuor leggero. Il voto che ognuno di noi darà in questo dibattito implica una grave responsabilità dinanzi al Paese.

L’Italia è dinanzi ad un bivio: noi vi abbiamo indicato la via giusta. Sta a voi il decidere se seguirla o no. (Vivi applausi a sinistra – Molte congratulazioni).

PRESIDENTE. Ha facoltà di parlare l’onorevole Ministro delle finanze.

PELLA, Ministro delle finanze. Onorevoli colleghi, ai fini dell’ampio dibattito che si sta svolgendo da alcuni giorni e che investe tutti gli aspetti della vita economica e finanziaria della Nazione, il Governo ritiene doveroso, quale contributo alla discussione, procedere ad una rapida illustrazione del settore fiscale, anche perché l’Assemblea soltanto di scorcio – in occasione della chiusura della discussione generale sopra l’imposta sul patrimonio – ha avuto occasione di avere una rapida visione della situazione del Dicastero che mi onoro di presiedere.

Desidererei attraverso questa rapida esposizione portare una nota di virile e cosciente ottimismo e, soprattutto, portare in primo piano la figura di un tipo d’italiano, che forse troppo dimentichiamo nelle nostre discussioni: la figura del contribuente, a cui io ritengo (e questa sarà la conclusione della mia rapida esposizione) si debba oggi rivolgere un sentimento di viva riconoscenza.

Voi conoscete gli estremi del problema. Ancora l’esercizio 1946-47, chiuso da poco, cominciato con una previsione di tributi ordinari di 148 miliardi, concludeva con un consuntivo di entrate di poco superiore a 300 miliardi, confermando così quel disavanzo di oltre 600 miliardi che, mesi fa, aveva veramente impressionato l’opinione pubblica italiana. Però la situazione, attraverso gli sforzi di quanti ebbero l’onore di reggere le finanze italiane in questi ultimi mesi, può dirsi veramente mutata in modo radicale in quanto, già al mese di giugno, si potevano contabilizzare circa 40 miliardi di tributi ordinari, passati a 47 miliardi nel mese di luglio ed all’incirca mantenutisi in tale cifra per il mese di agosto, nonostante la consueta flessione del periodo di ferragosto.

Potevamo inoltre contabilizzare nel mese di giugno 6 miliardi e 600 milioni di imposta proporzionale 4 per cento, 7 miliardi nel mese di luglio, circa 12 in quello di agosto. Cosicché il gettito tributario totale passava rapidamente da 44 a 56 miliardi.

Desidero, ancora, premettere che, ai fini del risanamento finanziario, dobbiamo essenzialmente polarizzare la nostra attenzione sui risultati della finanza ordinaria, perché deve essere ancora una volta affermato che lo scopo prevalente della finanza straordinaria non è, oggi, quello del gettito tributario, ma è uno scopo duplice di ordine anti inflazionistico e di ordine sociale.

Il problema delle entrate deve fondamentalmente risolversi nel quadro della finanza ordinaria.

Appunto su questo quadro noi possiamo oggi scorgere delle luci che, ancora qualche mese addietro forse, non speravamo di vedere: luci le quali ci permettono di affermare che certamente noi, nel corso di questo esercizio, arriveremo a un gettito complessivo di tributi ordinari non inferiore ai 650 miliardi. (Applausi al centro).

La finanza straordinaria potrà mettere a disposizione del Paese 100-150 miliardi e, poiché la valutazione dei 650 miliardi di tributi ordinari, a mio avviso, può considerarsi prudenziale, io credo che si possa contare su un gettito totale di 800 miliardi per l’esercizio 1947-48. (Approvazioni al centro). Sono 800 miliardi nei confronti dei 300 con cui si concludeva l’esercizio testé decorso; sono dunque 500 miliardi di maggiori entrate su cui l’esercizio in corso può fare assegnamento.

È bene, onorevoli colleghi, che noi ci poniamo ad analizzare questi dati, poiché ancora troppo facilmente si ripete fra noi – e non soltanto fra noi – lo slogan secondo cui il contribuente italiano ha perso l’abitudine di pagare le imposte. Se noi vogliamo considerare il totale dell’incidenza tributaria degli 800 miliardi sull’economia nazionale, rispetto alla pressione prebellica, ci troveremo a dover paragonare gli 800 miliardi attuali con i 23 miliardi e mezzo circa incassati nell’esercizio 1938-39.

Il rapporto sarebbe ancora più favorevole se prendessimo come base la media del quinquennio ante-bellico che contabilizzò 19 miliardi. Ma anche partendo dai 23 miliardi e 400 milioni, oggi ci troveremmo davanti ad una pressione fiscale che è 34 volte quella dell’anteguerra: e poiché la situazione in termini di reddito, di capitale, di volume di scambi, probabilmente non è superiore al 70 per cento dell’anteguerra (naturalmente sono cifre molto approssimative soprattutto richiamate per dare il senso della dimensione del fenomeno) noi arriveremmo alla conclusione che la pressione è 48 volte l’anteguerra rendendo omogenei i dati. Se volessimo fare il confronto soltanto rispetto ai tributi ordinari, potremmo concludere che la pressione attuale è 40 volte quella prebellica; un rapporto di moltiplicazione superiore allo stesso rapporto di aumento della circolazione cartacea e che sfiora all’incirca l’indice dell’aumento del prezzo all’ingrosso. E allora, onorevoli colleghi, io credo veramente venuto il momento di proclamare dinanzi alla Nazione e dinanzi al mondo che il contribuente italiano sta facendo tutto il suo dovere.

Tutto ciò premesso rispetto alle dimensioni globali del fenomeno, vale la pena di procedere ad un ulteriore esame di natura qualitativa del fenomeno fiscale. Si dice che la pressione fiscale gravi essenzialmente sul settore dei consumi, che il gettito è determinato essenzialmente dalle imposte indirette, mentre invece una finanza democratica dovrebbe prevalentemente mirare alle imposte dirette sui redditi.

Non è esatto. Io non voglio qui indugiarmi a ricordare la distinzione fra imposte non trasferibili ed imposte trasferibili sul consumatore (distinzione che porta ad affermare una superiorità delle imposte dirette sui redditi, principalmente se a carattere personale, in quanto non si trasferiscono sul consumo, mentre tutte le altre imposte finiscono per trasferirsi sul consumatore) – non voglio indugiarmi a ricordare che questa distinzione presuppone un’offerta di merci sul mercato che equilibri la normale domanda.

In una situazione come l’attuale mi chiedo se oggi abbia significato concreto la distinzione fra tributi che si trasferiscono e tributi che non si trasferiscono, in quanto, purtroppo, tutto il carico tributario, diretto ed indiretto, tende a trasferirsi sul consumatore, in sede di prezzo di vendita. Perciò il problema dell’analisi del gettito totale non ha tanto importanza per oggi, quanto per domani, cioè per il momento in cui la normalità degli scambi raggiunga tutto il suo significato.

Ma è già confortante constatare che, contrariamente a quanto si ritiene dall’opinione pubblica non completamente informata, noi abbiamo raggiunto oggi, come incidenza di imposte dirette sui redditi, il grado di incidenza dell’esercizio 1938-39.

Infatti nell’esercizio 1938-39 le imposte dirette sui redditi rappresentavano il 27 per cento del carico totale; l’analisi del gettito del mese di agosto 1947, ultimo mese, presenta lo stesso preciso rapporto del 27 per cento, con un progresso notevole rispetto all’esercizio 1946-47 in cui il rapporto era disceso al 16 per cento.

Quindi non sarebbe esatto affermare che non ci sia lo sforzo costante dell’Amministrazione finanziaria di arrivare all’attuazione di quei postulati di finanza democratica i quali suggeriscono di portare all’estremo il gettito delle imposte dirette e di moderare, per quanto possibile, compatibilmente con le necessità di bilancio, il settore dell’imposizione dei tributi indiretti che gravano immediatamente sul consumo. E badate che questo ripristino dell’incidenza rispetto all’anteguerra è stato ottenuto nonostante che l’imposta fabbricati praticamente non esista nel quadro fiscale. Prima della guerra essa dava 350 milioni all’anno, oggi dà 330 milioni, per il combinato concorso e del blocco dei fitti e delle distruzioni belliche. Si è raggiunto questo risultato nonostante che dal 1° luglio 1947 (e quindi per il mese di agosto preso in considerazione) sia stata completamente soppressa la categoria C-2, gravata sopra gli stipendi degli impiegati di Stato. Cosicché, se rendessimo omogenei i dati di comparazione, noi potremmo veramente concludere che attualmente l’incidenza delle imposte dirette è superiore a quella dell’anteguerra. Oggi ogni italiano paga 18 mila lire a testa all’anno di tributi, contro 520 lire d’anteguerra. Questi sono gli estremi del problema. Onorevoli colleghi, dobbiamo cominciare a pensare veramente al contribuente e metterlo in primo piano, all’ordine del giorno della Nazione.

Sarei ora tentato (ma ho firmato una cambiale in ordine alla durata della mia esposizione), sarei tentato di passare in rassegna con una certa profondità i diversi settori del dicastero che ho l’onore di rappresentare, ma mi limiterò ad alcuni cenni, soprattutto per venire incontro ad osservazioni che la bontà degli onorevoli colleghi non ha ancora portato nell’Aula, ma che hanno avuto occasione di manifestarsi nel Paese attraverso a comunicati di associazioni, attraverso ad articoli di stampa, attraverso ad altri mezzi.

Nel settore delle imposte dirette in cui speriamo di raggiungere e superare i 120 miliardi e forse di avviarci verso i 140 miliardi, esiste oggi il problema dell’adeguamento degli imponibili di ricchezza mobile per industriali e commercianti.

Si è provveduto a pubblicare un decreto che porta ad una rivalutazione automatica con aumento del 200 per cento o del 50 per cento a seconda della data di nascita dell’imponibile. Era un decreto necessario in quanto la revisione dei redditi fatalmente va a rilento per un complesso di ragioni. Tutto questo però non deve preoccupare affatto il mondo dei contribuenti interessati poiché dichiaro nel modo più formale che non si intende, attraverso a questa forma automatica di revisione, impedire che il singolo (soprattutto il piccolo ed il medio contribuente) abbia la possibilità di ottenere quella giustizia individuale che deve essere un caposaldo di una corretta politica valutaria.

Sul settore della ricchezza mobile occorre sottolineare il coraggioso provvedimento preso allo scopo di andare incontro alle istanze delle categorie interessate, non soltanto colla soppressione della ricchezza mobile categoria C-2 per i funzionari dello Stato, ma bensì anche colla elevazione del minimo di esenzione a lire 240.000 annue per tutti i prestatori d’opera, impiegati e operai, alle dipendenze di aziende private, provvedimento al quale con recente disposizione è stata data la decorrenza del 1° luglio 1947. Abbiate la bontà, onorevoli colleghi, di tener presente che questa disposizione di sgravio costa per il bilancio dello Stato da 22 a 23 miliardi; ed era questa una delle ragioni per cui si rimase per lungo tempo perplessi sulla possibilità o meno di arrivare ad uno sgravio così ingente e la conclusione affermativa fu dettata soprattutto dai risultati che, in genere, accusava il gettito tributario degli ultimi mesi.

È all’ordine del giorno il problema dell’imposta complementare. L’imposta complementare sul reddito oggi non assolve al suo compito: è praticamente ferma a posizioni molto arretrate. Occorre avere il coraggio di una revisione di tabelle che forse oggi non sono applicabili a seguito della intervenuta svalutazione, ed occorre affrontare il problema degli accertamenti con criteri forse più svelti, più rapidi di quelli seguiti finora.

Ritengo che il problema di un accertamento del reddito globale e personale di ogni cittadino abbia una importanza che va molto al di là di quello che è il gettito tributario che può derivare dall’imposta. È di supremo interesse sul piano politico e sociale di avere finalmente un censimento degli italiani in termini di reddito globale personale: ed è in questo senso che la Commissione finanziaria intende rivolgere i suoi sforzi nel prossimo futuro.

Il settore della tasse e delle imposte indirette può assicurare contro i 142 miliardi incassati nel decorso esercizio un gettito complessivo di almeno 240 miliardi. Caposaldo di questo settore è l’imposta sull’entrata la quale va procedendo da qualche mese con un gettito che non esito a definire superbo.

La riduzione dell’aliquota dal 4 al 3 per cento ha dato ancora una volta la riprova che il problema di un copioso gettito è anche – e starei per dire, soprattutto – in funzione della sopportabilità delle aliquote. È un tributo che potrà ancora andare molto oltre. Desidero però affermare, come ho avuto occasione di sottolineare in questa Assemblea alcune settimane fa, che il rendimento dell’imposta sull’entrata, ridotti i termini ad omogeneità, è oggi superiore a quello dell’imposta sugli scambi di anteguerra. Quindi il problema dell’evasione all’imposta entrata è un problema che oggi presenta dimensioni non maggiori di quelle dell’anteguerra. Probabilmente tali dimensioni sono ancora cospicue. L’amministrazione finanziaria farà di tutto per colpirle. La Guardia di finanza, che sta in questi mesi perfezionando i suoi ordinamenti e la sua organizzazione, ha veramente apportato un contributo notevole contro l’evasione; e vorrei avere qui il tempo per potervi riportare le cifre che dimostrano i risultati conseguiti.

Sempre in ordine al gettito dell’imposta, in prima linea, non soltanto in cifra assoluta, ma anche in linea relativa, credo che si debba annoverare il compartimento di Milano, il quale da solo fornirà forse un terzo del gettito dell’intera imposta.

L’esame del settore delle imposte indirette e delle tasse sugli affari mi permette di dichiarare che non è esatto che il Ministero delle finanze abbia intenzione di rivedere il problema della sovraimposta di negoziazione 4 per cento, che colpisce le contrattazioni di borsa. È questa un’imposta che dà oggi un gettito mensile superiore al mezzo miliardo e che potrebbe anche sfiorare il miliardo.

Non penso che essa arrechi un grave turbamento all’economia generale della Nazione. Non sembra vi sia oggi ragione sufficiente per prendere in esame il problema ai fini di una eventuale abolizione.

Voi sapete che il sistema della imposta di negoziazione presentava l’inconveniente di alcune deficienze di valutazione che sono state corrette con un provvedimento in data 5 settembre 1947 in corso di pubblicazione. Con tale provvedimento abbiamo inteso portare sullo stesso piano, come criteri di valutazione ai fini dell’imposta ordinaria di negoziazione e dell’imposta straordinaria sul patrimonio, le società quotate in borsa e le società non quotate in borsa. Nessun’altra intenzione ci ha guidato e tanto meno una minore fiducia negli organi preposti alla valutazione, che vengono, tuttavia, integrati con rappresentanti della finanza, i quali già prima partecipavano in veste consultiva.

Il settore dazi ed imposte di fabbricazione ha pure camminato con ritmo sodisfacente. Molte tariffe sono state ritoccate e tributi nuovi sono stati istituiti tra cui l’imposta di fabbricazione sui filati che, configurata inizialmente per un gettito di dieci miliardi ed impostata per quindici miliardi, sta oggi dando un gettito mensile di circa un miliardo ed ottocento milioni. Con un largo margine rispetto alle previsioni iniziali.

Abbiamo ritoccato il diritto di licenza sulle importazioni e so di sfiorare un punto delicato. Quando si sono concessi agli statali i noti aumenti si è chiesto al Ministro delle finanze di compiere qualche sforzo di fantasia per finanziare il nuovo onere di spesa. Gli sforzi hanno portato a due inasprimenti: uno sul settore delle importazioni; l’altro sul settore dei monopoli di cui parlerò più oltre.

Per quanto riguarda le importazioni, voi conoscete la coesistenza di dazi specifici con l’imposta di licenza, che è un vero dazio «ad valorem». Il dazio specifico è regolato dalla vecchia tariffa doganale del 1921, che oggi praticamente è inefficace agli effetti fiscali perché, – inizialmente stabilita in lire oro – è stata allineata soltanto con la moltiplicazione per 3,66, a seguito della legge monetaria del 1927: nulla più si è fatto, poi, neanche a seguito del nuovo allineamento monetario del 1936, e tanto meno si è proceduto ad ulteriori allineamenti nel dopoguerra.

Sicché, se noi oggi volessimo portare, in termini di lire attuali, le lire espresse da quella tabella, dovremmo moltiplicare forse per cinquanta la generalità dei dazi specifici contemplati nella tariffa doganale. Ciò, naturalmente, sarebbe molto seducente per il Ministro delle finanze il quale vedrebbe automaticamente moltiplicato per cinquanta l’attuale gettito di circa 600 milioni mensili dei dazi doganali.

Senonché, un problema di questo genere avrebbe significato ricostruire una barriera doganale che la svalutazione monetaria aveva abbattuto: ricostruirla in funzione fiscale, ma anche in funzione economica e cioè protezionista. E dato e non concesso che il grado di protezione adottato nel 1921 nei confronti dei diversi settori economici, effettivamente corrispondesse ad una esigenza di giustizia per i singoli settori, resterebbe pur sempre da dimostrare che dal 1921 ad oggi il grado di necessità di protezione dei diversi settori si sia mantenuto nello stesso rapporto.

Cosicché, si è rimasti perplessi dinanzi alla possibilità di un provvedimento di questo genere e si è ritenuto più opportuno, nel senso di errare di meno, procedere ad una revisione del diritto di licenza di importazione, che praticamente è stato moltiplicato per quattro, con un incremento di gettito di 30 miliardi.

So che il provvedimento ha gettato lo allarme in molti settori interessati e non escludo che con l’andar del tempo esso possa essere ripreso in esame in funzione di un primo adeguamento della tariffa doganale, quando abbiano avuto luogo tutte le più ampie discussioni, necessarie al riguardo. Affermo, però, che in tale attesa, è precisa intenzione dell’amministrazione finanziaria di attenuare gli inconvenienti che possono essere derivati dalla moltiplicazione per quattro del diritto di licenza. Si è portato dal cinque al dieci per cento l’aliquota, ma anziché applicarla sul dollaro a corso legale, si applicherà sul corso medio. Non escludo che nel frattempo si possa arrivare a temperamenti attraverso una migliore disciplina dell’istituto della temporanea importazione e del cosiddetto Draw-back, soprattutto per le categorie che esportano prodotti in cui debba entrare in larga misura la materia prima importata e sulla quale incida in misura insopportabile la quadruplicazione di questo diritto di licenza di importazione.

Onorevoli colleghi, so che non debbo abusare della vostra cortesia, so che la materia non è delle più divertenti, so che vi sono quindi molte ragioni perché il mio esame debba essere rapido, volendo conchiudere in settimana le nostre discussioni. Perciò rinuncio a molti argomenti. Ho accennato al problema dei monopoli e debbo qui rispondere ad alcune osservazioni che si fanno intorno alla loro gestione.

Si è protestato, in primo luogo, contro lo aumento dei prezzi andato in vigore, se non erro, col 27 luglio 1947. Ricordate come si presentava il problema, quale lo abbiamo visto in quest’Aula un mese fa, quasi preannunciando il provvedimento che sarebbe venuto? Noi ci trovavamo ad avere dei prezzi di vendita dei tabacchi che erano 24 volte quelli anteguerra, mentre pagavamo il tabacco (materia prima) 50 volte l’anteguerra; la mano d’opera era 35-36 volte superiore al livello prebellico: coi recenti aumenti siamo arrivati a 55 volte. Non era possibile continuare a vendere effettivamente sotto-costo il prodotto di monopolio ed è per questo che ci sembrò veramente necessario arrivare a un adeguamento che ha significato portare a 32, rispetto all’anteguerra, il livello dei prezzi. E può darsi che non sia neanche l’ultimo limite a cui si arriverà. (Commenti).

I      fumatori forse hanno questa disgrazia che da qualche tempo si avvicendano ai Ministeri finanziari Ministri che non fumano. (Si ride).

Quando si spingono al massimo tutti i tributi, ed in una determinata circostanza occorre incrementare il gettito per una determinata cifra, come è successo allo scopo di finanziare l’aumento degli impiegati dello Stato, penso che un ritocco al prezzo a carico dei fumatori, che pagano notevolmente meno rispetto all’anteguerra, non sia davvero un delitto.

RUBILLI. Questo per concorrere alla discesa dei prezzi!

PELLA, Ministro delle finanze. No, il problema, onorevole collega, è molto più vasto. Il problema è questo: premesso che ai prezzi a cui si vendeva allora i monopoli erano industrialmente passivi, sorge l’interrogativo se convenga lasciare una azienda di Stato in condizioni di disavanzo, con le conseguenze rispetto al volume della circolazione che non sta a me illustrare, o se non convenga invece arrivare ad una ulteriore pressione per sanare il deficit. Questo è il problema in termini generali.

Il disavanzo di un’azienda statale quasi sempre è padre di un incremento di circolazione per conto dello Stato. La pressione fiscale non sempre costituisce causa di incremento di circolazione e se la costituisce quasi sempre è un incremento di circolazione per conto del commercio. Tale concetto è applicabile a tutte le aziende statali, compresa quella dei monopoli, la quale continuava a sanare il conto economico a spese dell’imposta erariale gravante sui generi di sua produzione.

Il settore dei monopoli ha avuto altre critiche: perché si vendono le sigarette a borsa nera? Perché non le vende lo Stato? Perché bisogna comprare le sigarette estere lungo le strade di Roma e di altre città italiane e non si possono comprare dal tabaccaio?

Domande molto ovvie, a cui però si possono dare risposte altrettanto ovvie. In primo luogo (e non si consideri spregiudicata la mia affermazione) il problema della borsa nera del tabacco è un problema di grande importanza sul piano morale, ma non ha altrettanta importanza sul punto di vista economico immediato.

Infatti, per un fenomeno che è consueto in tutti i periodi di guerra e del dopoguerra e che viene aiutato dal sistema delle tessere, l’aumento di consumo di tabacchi è stato del 30 per cento rispetto all’anteguerra. Oggi i monopoli (produzione di luglio 1947) producono e vendono il 10 per cento più dell’anteguerra nonostante le distruzioni di stabilimenti e di magazzini e delle scorte relative.

Vi è un venti per cento di squilibrio tra la domanda e l’offerta in cui si inserisce la borsa nera. Il problema non è grave oggi, dal punto di vista economico, ma lo diventerà domani quando, o per diminuito consumo, o per incremento certo della produzione, il monopolio sarà in grado di portare sul mercato un’offerta uguale alla domanda. Ed allora per un prodotto che almeno per due terzi (anzi, dovrebbe esserlo per i quattro quinti), che per quattro quinti è imposta e per un quinto (oggi è un terzo) è costo industriale, voi vedete quale largo margine vi sarà di concorrenza in quel giorno ai danni dello Stato, in funzione di vero e proprio contrabbando.

Per allora la borsa nera dovrà essere definitivamente stroncata ed è per questo che da alcune settimane, col concorso di altri Dicasteri, soprattutto quelli della Giustizia e dell’interno, sono allo studio provvedimenti per cominciare un’azione di repressione veramente efficace. (Commenti).

GIANNINI. Adesso sì che aumenta il prezzo!

PELLA, Ministro delle finanze. Se la lettura del verbale di così autorevole Assemblea potrà, fra le righe, far capire al Ministro delle finanze che vi può essere una sfumatura di desiderio in qualche altra direzione, se questo dovesse succedere, può darsi che il grado di diligenza nell’attuazione del provvedimento possa anche essere in funzione di tale desiderio.

Ma, onorevoli colleghi, il problema della borsa nera è soltanto del nostro settore? Siamo proprio sicuri che vi siano dei settori economici in Italia in cui il problema della borsa nera si presenti con un ordine di grandezza inferiore al 20 per cento? Questa è la domanda che vi faccio. Per quanto riguarda il problema delle sigarette estere, il collega Merzagora sa che da un anno i Monopoli bussano alla porta del suo Dicastero. È un desiderio comune dei fumatori e del Monopolio di poter adottare formule di importazione e di vendita di sigarette estere. Il problema è di ordine valutario, direttamente o indirettamente, e non può che essere risolto in funzione delle possibilità valutarie. Potrei ancora attardarmi su altri settori della finanza ordinaria. Non lo faccio perché non posso esimermi, in questo scorcio di tempo che mi resta a disposizione, di fare alcuni accenni alla finanza straordinaria: settore in cui troviamo vecchi tributi, tipo l’avocazione dei profitti di guerra, l’avocazione dei profitti di speculazione e di regime, accanto a nuovi tributi, come quelli contemplati dal decreto 29 marzo 1947 – da voi esaminato e da voi perfezionato – cioè l’imposta progressiva straordinaria sul patrimonio, l’imposta proporzionale 4 per cento, l’imposta sugli enti collettivi.

Per quanto riguarda l’avocazione dei profitti di guerra, l’avocazione dei profitti di regime e di speculazione, io devo ancora una volta ripetere che è grande peccato che l’amministrazione finanziaria non abbia potuto nel passato, con la necessaria tempestività, arrivare alla loro applicazione sollecita. Oggi ci troviamo in enorme ritardo; oggi dobbiamo risolvere questi problemi soprattutto in funzione del tempo, in quanto ogni mese che passa rende più difficile il raggiungimento di concreti risultati. Abbiamo adottato in sede legislativa dei perfezionamenti; forse altri ne adotteremo in prosieguo di tempo. Nessuna intenzione ci guida di vessare determinate categorie di contribuenti, ma solo l’intenzione precisa di compiere serenamente giustizia con spirito di benevolenza nei confronti dei minori interessati. Ma soprattutto non si ritenga che l’involontario ritardo nell’applicazione possa significare archiviazione di questi tributi.

Per quanto riguarda l’imposta progressiva sul patrimonio, gli uffici si stanno attrezzando per la sua applicazione. Il termine per la presentazione delle dichiarazioni è stato portato al 31 ottobre e ritengo che veramente non debba parlarsi di altre proroghe.

Per questo tributo, veramente straordinario, io voglio soltanto formulare un augurio ed è che il Ministro delle finanze del tempo in cui il tributo sarà riscosso possa veramente iniziare la riscossione in un quadro di stabilità monetaria: perché, se così non fosse, noi avremmo finito per compromettere inutilmente uno degli strumenti più efficaci della finanza straordinaria.

Per quanto riguarda la proporzionale 4 per cento, onorevoli colleghi, quante discussioni sono state fatte! Io avrei sperato, veramente, in una maggiore solidarietà ed onestà, in termini politici, attorno a tale imposta, la quale era nata nella notte dal 28 al 29 marzo 1947, col consenso unanime e colla firma dei Ministri del tripartito allora al potere. Posso dire che la riscossione procede felicemente, senza inconvenienti; ma quello cui io volevo accennare e che forse costituirà una rivelazione per l’Assemblea, sono gli effetti che la riscossione ha avuto in senso favorevole sulla circolazione per conto dello Stato.

Il Ministro del bilancio e il Ministro del tesoro forniranno certamente degli ampi dati sul problema della circolazione; io voglio limitarmi a ricordare che nei mesi di marzo, di aprile, di maggio, vi era stato un incremento di circolazione per conto dello Stato di un ordine di grandezza che andava dai 12 ai 15 miliardi: nel mese di giugno invece – primo mese di riscossione di questa imposta 4 per cento – la circolazione non è aumentata, per conto dello Stato, se non nella misura della cifra insignificante di 500 milioni. Nel mese di agosto – mese in cui ha avuto luogo la riscossione della seconda rata – non soltanto la circolazione per conto della Stato non è aumentata, ma è diminuita di ben 4 miliardi.

Questa, onorevoli colleghi, è l’importanza che ha assunto questo tributo, il quale ha dato un efficacissimo contributo, come abbiamo visto dalle cifre, a frenare l’aumento della circolazione per conto dello Stato, che costituisce una delle maggiori preoccupazioni.

L’Amministrazione dello Stato si fa carico di andare incontro a tutte le esigenze dei piccoli e dei medi contribuenti; ma non vorrei che si esagerasse nel prospettare le dimensioni del fenomeno. Ricordiamoci – sono cifre che già si conoscono, ma ripetiamole – che su 10 milioni di articoli di ruolo dell’imposta terreni, 8 milioni 600 mila non hanno niente a che vedere coll’imposta 4 per cento, in quanto essi si trovano tutti al di sotto di quel limite delle 100 mila lire che, per essere espresso in termini di lire anteguerra, moltiplicate soltanto per dieci, significa oggi certamente molto di più di 100 mila lire. Quindi, soltanto un 15 per cento degli articoli di ruolo si trova ad essere interessato a questa imposta.

Inoltre, fino a 750 mila lire di imponibile vi è quella rateazione triennale, che praticamente, intesi i patrimoni in termini di valore attuale, può significare rateazione fino a due milioni-due milioni 500 mila di valore attuale.

Se vi sono state delle revisioni intermedie in aumento, per cui la moltiplicazione per dieci o la moltiplicazione per cinque abbiano significato una palese sperequazione, voi lo sapete che sono già state date disposizioni al riguardo per i terreni e per i fabbricati allo scopo di eliminare le sperequazioni stesse. Prossimamente sarà presentato un provvedimento che concederà a tutti i titolari di redditi di categoria B) di chiedere la loro revisione in diminuzione, ai fini del 4 per cento, entro il 31 dicembre di quest’anno, allo scopo di eliminare gli effetti delle accennate revisioni intermedie e sempre quando esse non siano state determinate da aumentate dimensioni dell’azienda.

Per quanto riguarda l’imposta sugli enti collettivi, ormai non ho più bisogno di ripetervi che davanti al problema di applicare un tributo addizionale sul settore delle società azionarie, io avrei considerato più equo e più corretto, da un punto di vista di giustizia tributaria, tassare quella parte dei saldi di rivalutazione dell’attivo che rappresentano un vero incremento patrimoniale; ad esclusione, cioè, dei saldi che sono semplice contropartita della rivalutazione del capitale e delle riserve.

L’Assemblea, nella sua sovranità, ha adottato la formula del tributo globale sul patrimonio dell’ente, e con questo – ed è la dichiarazione che desidero fare a nome del Governo – è certamente sepolto il problema della tassazione delle rivalutazioni dal punto di vista fiscale: poiché costituirebbe una evidente duplicazione riproporre il problema in termini fiscali.

Dinanzi al suggerimento dell’onorevole Valiani di arrivare ad una rivalutazione degli impianti, egli parlava addirittura di un coefficiente 25, io vorrei, fra i due estremi, della formale ampia proposta dell’onorevole Valiani e del diniego assoluto – così mi sembra avere inteso – dell’eminente collega Merzagora, affermare che esiste ancora un problema delle rivalutazioni sotto un profilo di politica del tesoro e sotto un profilo di maggiore sincerità dei bilanci. Di tale problema il Governo deve farsi carico, e non è escluso che esso possa essere esaminato in funzione di una opportuna mobilitazione anticipata dell’imposta sugli enti collettivi, con criterio facoltativo, allo scopo di accogliere, se possibile, le istanze dei colleghi dei lavori pubblici e dell’agricoltura, che stanno bussando per un complesso di loro opere che, alla vigilia dell’inverno, desiderano mettere in cantiere.

Qualsiasi maggiore dettaglio, voi comprendete, su questo argomento non sarebbe oggi possibile.

Arrivati a questo punto, debbo ancora ricordare che esiste un problema della finanza locale, il quale sta diventando nuovamente scottante.

Esisteva un fondo di integrazione, e questa è materia del Tesoro, che col 31 dicembre di quest’anno deve avere termine.

I bilanci dei comuni e delle provincie devono trovare il loro assestamento con mezzi propri: concetto che non può essere rifiutato, perché non c’è ragione che un comune delle Alpi debba pagare per un comune della Sicilia, o viceversa un comune della Sicilia per quello delle Alpi.

È compito dei singoli amministratori preposti alla amministrazione di un comune o di una provincia di assumersi la responsabilità del punto limite di equilibrio fra programma di spese e programma di pressione fiscale, rispondendone direttamente agli amministrati.

Voci dall’estrema sinistra. E i mezzi?

PELEA, Ministro delle finanze. Proprio in questi giorni il Ministro delle finanze ha tenuto – con i sindaci delle maggiori città – riunioni che si concluderanno tra breve per fornire gli strumenti idonei ai comuni perché possano – qualora lo ritengano – applicare i tributi necessari per raggiungere il pareggio del proprio bilancio. (Commenti).

Cioè, il potere centrale deve dare gli strumenti: spetta agli amministratori locali decidere se applicarli o meno. (Commenti).

Ora io ritengo che debba la finanza locale avocare a sé determinate categorie di tributi, che malamente possono essere applicate dall’Amministrazione centrale.

Tutta la tassazione dei consumi voluttuari, a mio modesto avviso, potrebbe essere, molto più opportunamente, demandata agli enti locali, sia per la relatività di consumo voluttuario da regione a regione anche in termini di limiti di spese, sia per il più efficace controllo che l’ente locale può esercitare.

So però – e questo hanno detto a chiare note principalmente gli amministratori dei grandi comuni – che non v’è molta fiducia nell’esito di questi tributi.

Io non condivido questo pessimismo. L’imposta sulle spese non necessarie è uno strumento che non è detto non possa essere applicato con revisioni magari radicali.

Io vorrei fosse qui presente il sindaco della mia città, l’onorevole Luisetti, per dargli atto che in una piccola città di 42 mila abitanti si sono notificati circa 200 accertamenti, mentre in grandi città se ne sono fatti da 10 a 15.

Non nego che sia più facile l’accertamento in piccoli centri piuttosto che in grandi centri. Però la difficoltà non esime dall’obbligo di cercare i mezzi per superarla.

O il sistema – e questo è il problema che sarà dibattuto nella prossima riunione – è di possibile applicazione attraverso determinati perfezionamenti, ed allora perfezioniamolo ed applichiamolo, oppure aboliamo la legge.

Una voce a sinistra. È un inutile duplicato dell’imposta di famiglia. Un inutile e dannoso duplicato.

PELLA, Ministro delle finanze. Dovremmo dimenticare allora quel concetto di progressività che non si esprime soltanto nella forma elementare di una tabella di imposte con aliquote progressive, ma che si può esprimere anche con la coesistenza di due tributi, uno principale e l’altro collaterale.

E d’altra parte, l’imposta sulle spese non necessarie è un’imposta tipica che non vuole colpire tutto il reddito, come l’imposta di famiglia, ma che vuole colpire quella parte di reddito consumato (mentre l’imposta di famiglia colpisce consumato e risparmiato) che eccede il limite normale di consumo. Questo è il concetto.

Per quanto riguarda l’incidenza della finanza locale, ricordo che nel 1946 l’ammontare dei tributi comunali è stato di 29 miliardi, contro 4 miliardi e mezzo del 1939. Quindi si ha la sensazione che la pressione della finanza locale si esprima in termini notevolmente minori di quelli della finanza erariale.

Per quanto riguarda le provincie, da un miliardo del 1939 siamo passati a 3 miliardi e 700 milioni.

Vi è un tarlo roditore (in termini fiscali) della finanza locale ed è l’impossibilità di far rendere la sovrimposta fabbricati a seguito del blocco dei fitti. Questo è veramente uno degli aspetti fondamentali del problema, problema di natura eminentemente transitoria e che suggerirà quindi di dare carattere transitorio ad alcune delle provvidenze che saranno studiate in questi giorni per arrivare ad una sistemazione del bilancio delle entrate locali.

Onorevoli colleghi, dall’ulteriore corso della discussione io potrei attendermi da voi un’osservazione d’ordine generale: «ma tutto questo significa camminare sui vecchi solchi della finanza, tutto questo ha significato non affrontare quel problema generale della riforma del sistema tributario che pure è richiesto da anni e da studiosi e da tecnici».

L’osservazione sarebbe esatta principalmente se dovesse rivolgersi al futuro, nell’ipotesi che il Governo non si facesse carico di un problema di questo genere. Per il passato ritengo che sarebbe stato un errore arrivare ad una riforma strutturale del sistema che incidesse troppo profondamente. Qualsiasi riforma del sistema tributario significa un rischio in ordine al gettito totale. Tali riforme si fanno o quando il gettito è quasi nullo (quindi, in ipotesi, nel 1944-45, ma evidentemente non le si poteva affrontare), oppure occorre attendere che i vecchi sistemi diano, in termini di gettito, quel limite massimo a cui si può arrivare; cosicché, adottando le cautele necessarie, perché nel frattempo il gestito non si affievolisca, impostare il problema della riforma generale. Ed è proprio questo che il Ministro delle finanze sta facendo attraverso la nomina di una apposita Commissione, la quale dovrà studiare il problema della riforma, sia in funzione di quel principio di progressività proclamato dalla Costituzione, sia in funzione del nuovo ordinamento regionale che naturalmente avrà delle incidenze profonde su tutto il sistema.

MICHELI. E allora il collega Merzagora cosa dice?

PELLA, Ministro delle finanze. Nel frattempo, onorevoli colleghi, l’amministrazione finanziaria si propone di affinare i suoi strumenti, di migliorare i mezzi di cui dispone, perché il gettito di 650 miliardi di tributi ordinari progressivamente migliori. Ho, però, la sensazione che l’incremento dipenderà soprattutto dal naturale incremento della ripresa economica, cioè dal passaggio dall’accennato indice 70 per cento ad un indice prossimo al 100 per cento: cosicché il gettito dei tributi ordinari potrà avviarsi verso il traguardo dei mille miliardi. La finanza farà tutti gli sforzi necessari: credo che i risultati conseguiti finora possano dare sufficiente affidamento per il futuro.

Onorevoli colleghi, se nelle notizie che vi ho comunicato vi può essere motivo di compiacimento, la nostra gratitudine deve essere rivolta in due direzioni: verso il contribuente e verso i funzionari dell’Amministrazione. L’Amministrazione finanziaria ha saputo resistere ai diversi cicloni che si sono abbattuti; ha saputo, attraverso privazioni di ogni genere dei funzionari dai gradi più alti ai minori, dare una collaborazione di cui oggi vediamo i frutti concreti.

A questi funzionari io sono in dovere di rivolgere – e penso anche a nome vostro – il mio riconoscente ringraziamento. (Applausi al centro ed a destra – Molte congratulazioni).

PRESIDENTE. È iscritto a parlare l’onorevole Giannini. Ne ha facoltà.

GIANNINI. Signor Presidente, onorevoli colleghi, questo dibattito presenta un equivoco iniziale, perché è fondato su alcune mozioni di sfiducia che sono state presentate da chi non aveva precedentemente fiducia, e anzi aveva precedentemente dichiarato la sua sfiducia al Governo.

Molto più interessante sarebbe stato forse, se si fosse chiesto a chi aveva avuto fiducia se questa fiducia ha ancora, se ce l’ha piena o condizionata, se per caso l’avesse perduta del tutto.

Un altro elemento disorientante è che fino adesso noi non abbiamo ancora avuto un vero e proprio discorso d’opposizione.

Il solo vero discorso di opposizione fino a oggi ci è sembrato quello del ministro Merzagora.(Si ride), al quale facciamo le nostre congratulazioni per il suo felice debutto oratorio in questa Assemblea.

Gli altri si sono lagnati di cose varie. L’onorevole Nenni vorrebbe il monopolio dei cambi, e colpire i redditi al di sopra di un livello alimentare. Ha detto, tra l’altro, una frase qualunquista (Si ride). Per respingere l’accusa di voler andare al governo a scopo elettorale, ha detto che il Governo non può influire sulle elezioni, oggi, con il suffragio universale e con il voto alle donne. Questa è un’idea nostra, espressa dentro e fuori l’Aula, e ringraziamo l’onorevole Nenni per il prezioso riconoscimento d’una situazione di fatto su cui anche noi fondiamo le nostre migliori fortune.

Egli ha proposto anche un’altra cosa importantissima, fondamentale, di cui però mi occuperò in seguito. Comunque la conclusione del suo discorso, in sostanza, è stata questa: Alcide, riprendimi con te! (Viva ilarità).

L’onorevole Togliatti non ci ha meno sorpresi. Egli si è indispettito perché gli disturbano l’affissione dei manifesti. Si potrebbe dire, con una freddura molto elementare, che non è giustificato un attacco per degli attacchini. (Si ride). Ci sembra poco. L’onorevole Togliatti se l’è presa anche con un certo articolo 290, ed ha sciolto un inno alla libertà. Siamo veramente lieti di aver convertito alla libertà un così eminente collega e, se egli è realmente convinto di ciò che dice, la libertà, tra lui, noi e l’onorevole Corbino, non correrà più nessun pericolo. (Si ride). È inutile rilevare, tra l’altro, che il suo felicissimo dire è ordinaria amministrazione. La disavventura dell’onorevole Pratolongo è la disavventura del nostro onorevole Mastrojanni. «Il bene – si dice al mio paese – spesso al male si assomiglia, e chi va per questi mari, questi pesci piglia».

Il Ministro degli interni – s’è lagnato l’onorevole Togliatti – mi dà del fascista. Beh, capita a tutti! Egli si lagna poi dei disordini di Gorizia. Deploro che il Ministro degli interni non gli abbia detto, a proposito di questi disordini, che molti di coloro che sono andati, diciamo così, a disordinare contro gli slavi, erano buoni comunisti: ci sono andati con bandiere rosse, con le mani che prudevano, perché erano sì, comunisti, ma prima d’essere comunisti erano goriziani. (Approvazioni). Non capisco perché il Ministro Scelba non abbia fornito all’onorevole Togliatti questa preziosa informazione.

Egli vuole – Santo Cielo, anche lei onorevole Togliatti! – una legge in difesa della Repubblica ma, subito dopo averla chiesta, riconosce che il Governo finisce sempre per fare quello che vuole. Ed allora che bisogno c’è di fare questa legge? Comunque, anche il ruggibondo parlare dell’onorevole Togliatti, si conclude con la richiesta d’un posticino. «Anch’io son figlio di Dio». (Si ride).

Saragat. Anche lui non ha fiducia, e almeno formalmente anche lui non l’ha mai avuta. Vuole un governo a direzione socialista, però è contro i comunisti, dimenticando che il comunismo è la quintessenza del socialismo. Ora, noi respingiamo il socialismo che secondo noi è errore, ma crediamo che più grave errore sia quello di voler fare del socialismo senza i socialisti. La realizzazione del socialismo senza la disciplina sociale prevista dal comunismo è impossibile. Si può realizzare quel socialismo americano di cui parlava l’onorevole Labriola: ma quello non è socialismo, è il nostro liberalismo progredito, ossia è la borghesia che s’è messa a ridisperdere il suo danaro fra le masse. È tutt’altra cosa. Comunque, anche Saragat vuole andare al Governo, e quando l’onorevole Togliatti gli oppone che egli non ha seguito, Saragat risponde: il seguito verrà. Il meno che gli si possa dire è di aspettare che venga (Si ride), perché non è mica detto che debba venire.

Il giovane e valente collega Valiani ci ha dato qualche vocabolo qualunquista, che ci ha abbastanza entusiasmati, ma non ha fatto però il discorso che ci aspettavamo, dopo la premessa di quei vocaboli. A un certo punto ha detto: «Credo che basti una dichiarazione di neutralità per evitarci i guai in un prossimo conflitto». Ha soggiunto che vuol tenere le porte aperte (ho inteso precisamente «porte aperte») verso gli Stati Uniti e verso la Russia. Mio caro Valiani, oggi porte non ce ne sono più. È inutile pensare a tenerle aperte o chiuse quando c’è l’aeroplano senza pilota che parte da un ufficio postale americano o russo e arriva come un pacco postale direttamente davanti al portone di casa sua (Si ride). Ha voglia di chiuderlo, il suo portone!

In ogni modo, nemmeno Valiani sembra volere la morte del Governo presieduto dall’onorevole De Gasperi. Il suo è stato un discorso di consigli e non di opposizione vera e propria.

Corbino. Corbino ha incominciato col dichiarare che i liberali voteranno a favore del Governo, con che l’opposizione è bella e finita e non se ne parla più. Ho avuto l’impressione, ieri, che avessero cambiato il mio vecchio Corbino e che lo avessero sostituito, lui a cui voglio tanto bene, con un Corbino un po’ falso, un po’ demagogo, nemico del lusso e delle spese voluttuarie, sostenitore di quell’austerità di cui per tanti anni abbiamo avuto stufa la cicoria da un regime che non era affatto austero, come tanti predicatori, d’austerità. Francamente, ci stupisce un Corbino che biasima il lusso, il quale dà vita alle industrie di lusso, e pane a milioni di lavoratori.

Una voce a sinistra. Vecchia storia!

GIANNINI. Mi dispiace di vedere Corbino contrario ai 350 mila romani, sia pure proletari, che sono andati a tuffare la loro arroventata anatomia nel Tirreno durante questa estate. Quei proletari, caro Corbino, hanno dato vita alla ferrovia Roma-Ostia, hanno dato pane a Ostia, hanno permesso che funzionassero le trattorie di Ostia, i bagnini ed i bagni di Ostia, e fatto vivere tutti coloro che guadagnano con Ostia. Per qual ragione non vuoi che questi 350 mila proletari o gran signori che siano, vadano ad Ostia? Lasciamo che si bagnino, lasciamo che si divertano, lasciamo che vivano, perché la vita è movimento. La vita vera non può essere austerità, né conventuale, né militare; quelle sono altre vite, a parte; sono oasi nella vita ordinaria.

Lussu. Devo innanzi tutto ringraziare questo leale avversario e prendere atto con commozione del suo elegante e generoso senso di cavalleria. Egli ha toccato l’argomento pacificazione sul quale non siamo d’accordo, e spiegherò perché non siamo d’accordo.

L’ottimo collega Scoccimarro ha fatto un discorso tecnico, uno di quei bellissimi discorsi tecnici che si stanno a sentire volentieri, che forse non si capiscono interamente perché non tutti siamo tecnici, ma si ascoltano e si meditano: e si rileggono per capirli meglio.

A questo punto del dibattito ci troviamo nella curiosa situazione che, se un discorso di opposizione non è fatto almeno da noi, il dibattito non avrà discorsi d’opposizione, e l’onorevole Presidente del Consiglio vincerà per capitolazione incondizionata degli oppositori.

Su che cosa si fonda questa nostra opposizione? Sul Governo? Sì, ma fino a un certo punto.

Potremmo lagnarci del Ministro dell’interno? Certamente no. Appunto perché se ne lagnano Nenni e Togliatti.

Dobbiamo anzi lodarci di questo Ministro, al quale non possiamo rimproverare altro che la gola nella quale la sua voce qualche volta si sperde e gorgoglia come un vortice.

Possiamo lagnarci dei tecnici Merzagora, Corbellini, uomini qualunque? Fanno quello che possono.

Se potessi ardire una citazione volterriana in questo ambiente democristiano, senza offendere la suscettibilità, direi che sono i migliori tecnici nel miglior Ministero democristiano possibile.

Ugualmente potremmo dire degli altri Ministri singolarmente considerati, dall’onorevole De Gasperi che fa il suo mestiere di tirare avanti, all’onorevole Grassi che cerca di uscire dal rotto della cuffia dei suoi imbarazzi, tra una Magistratura che vuol essere Magistratura e altri che vorrebbero trasformarla in Tribunale di parte. (Applausi a destra). Senonché è nello spirito che anima questo Governo che il Governo non ci piace. Esso ci appare incerto, esitante, brancola fra destra e sinistra; e non come l’equilibrista che bene o male brancolando avanza, ma come il giocoliere che s’è fermato al centro della catenaria. L’ingegnere Corbellini mi corregga. La catenaria è quella che forma la corda sospesa a due poli: la curva che il suo peso istesso traccia: l’acrobata arriva facilmente al centro discendendo, poi deve risalire, e lì incomincia la difficoltà. Mi sembra che questo Governo si sia proprio fermato al centro della catenaria.

Da dove promana questo spirito che rende imbarazzata e imbarazzante l’azione di Governo? Dal suo Partito, onorevole Presidente dei Consiglio, dal suo Partito, il quale ripete il mito dell’asino di Buridano, con questa sola differenza: che quell’asino morì di fame fra due fasci di fieno non sapendo su quale dei due avventarsi per primo, mentre l’asino moderno sembra aver tutta l’intenzione di mangiarli tutti e due, a destra e a sinistra (Si ride). È da ciò che nascono l’imbarazzo e la preoccupazione.

Noi non siamo contro la Democrazia cristiana; noi l’abbiamo aiutata sempre e non ne abbiamo avuto, in cambio, che colpi, ingiurie e, il più delle volte, qualche cosa di peggio: della degnazione.

Mi limito a ricordare un discorso, del resto confermato da un recente articolo, dell’onorevole Cappi, che, in occasione del nostro incidente di Cremona – risoltosi poi con quel Congresso tenuto nel massimo ordine e senza nessun disturbo da parte di nessun Partito – ebbe l’aria di raccoglierci con il fazzoletto, come un oggetto che fosse necessario raccattare, ma che era sporco, maculato.

Questa curiosa maniera di considerarci della Democrazia cristiana ha segnato una punta veramente drammatica in quella che si può chiamare la polemica per le elezioni amministrative di Roma, capitale, d’Italia, ma anche sede del Papato.

Non credo che sia utile né necessario diffondermi sul significato delle elezioni amministrative di Roma. Esse hanno sempre un profondo significato politico e, in questa occasione, lo hanno ancora di più. Noi abbiamo fatto le elezioni di Roma, nelle quali abbiamo avuto la disgrazia di battere, di qualche corta testa, la Democrazia cristiana. Sono cose che capitano; si può vincere con cento punti come con novanta: non bisogna irritarsene. Il certo è che noi, per quel peccato, non abbiamo potuto costituire, come sarebbe stato possibile, l’amministrazione comunale di Roma. La Democrazia cristiana, pur di non compromettersi, pur d’evitare fastidi, pur di non aver guai, pur di non sporcarsi con il sozzo qualunquismo, ha preferito mandare all’aria l’amministrazione regolare di Roma e far venire un Commissario prefettizio.

Abbiamo invitato in seguito, e pubblicamente, visti vani tutti gli altri tentativi, la Democrazia cristiana, a voler prendere in considerazione una nostra proposta o a farcene una sulle elezioni amministrative di Roma, che noi vogliamo siano vinte da un partito cattolico, dai cattolici, per ragioni che non starò qui a spiegare di più, non essendo il caso di fare della demagogia sul cattolicesimo.

Non è stato possibile, non dico fare accettare una proposta, ma avviare una discussione.

Leggemmo un articolo dell’onorevole Piccioni nel quale ci si parlava di liste bloccate e si insisteva sul pericolo che le liste bloccate possono presentare per i partiti che si fondono. Noi rispondemmo con un altro articolo nel quale affermavamo che non era il caso di parlare di liste bloccate; che non avevamo inteso parlare di liste bloccate; che intendevamo soltanto prendere contatto con la Democrazia cristiana per tentare di dare a Roma un’amministrazione come noi la vogliamo, cioè cattolica.

Nella tema che questo articolo avesse potuto per avventura sfuggire alla Direzione della Democrazia cristiana, pregammo l’onorevole Tieri, segretario generale del nostro partito, di scrivere una lettera ufficiale alla Democrazia cristiana, ripetendo l’invito a trattare: ciò che il nostro amico Tieri subito fece. Ma la Democrazia cristiana non credette d’onorarlo d’una risposta; e questo, consentitemi, onorevoli colleghi, ch’io lo dica francamente, è oltretutto una mancanza di riguardo. (Commenti al centro).

Ci si è detto: ma voi potete fare anche un accordo dopo le elezioni. Perché dopo? A elezioni fatte, a risultati raggiunti, non è detto che l’accordo si debba farlo obbligatoriamente con i democristiani. Aspettiamo di conoscere come andranno le elezioni, e «dopo» ci regoleremo in conseguenza: non c’è più ormai alcuna ragione per impegnarci in anticipo; come non c’è alcuna ragione d’impegnarci sempre a dare e non mai a ricevere.

C’è una leggenda intorno alla mia stampa ed è quella delle mie famose parolacce, le quali parolacce hanno urtato tante suscettibilità, ma hanno avuto pure qualche risultato concreto. Ma la stampa della Democrazia cristiana – che non dice parolacce – ci accusa però – e faccio il preciso nome del giornale: il Gazzettino di Venezia – ci accusa, dicevo, di aver votato nelle commissioni a favore del divorzio.

Questa accusa mossa dal Gazzettino di Venezia ha dato poi la stura alla sua ripetizione pedissequa da parte di tutti i bollettini parrocchiali del Veneto. Si è sparsa questa calunnia come un grande Papa diceva che si sparge il contenuto d’un cuscino di piume: per riparare al male che fa bisognerebbe recuperare tutte le piume a una a una. Ho dovuto allora pregare l’onorevole Russo Perez, l’onorevole Mastrojanni di riprendere i verbali delle commissioni e scrivere una smentita formale in base a quei documenti.

Ma ho dovuto poi incomodare un onesto sacerdote, padre Martegani, il quale cortesemente m’ha accontentato dopo aver preso visione dei miei documenti, e ha pubblicato sulla sua autorevole rivista Civiltà Cattolica, una smentita.

Io so che mi si dirà che il Gazzettino di Venezia non è della Democrazia cristiana.

Una voce a sinistra. Sì, sì, lo è, lo è!

GIANNINI. Spero che non si insista su questo, perché sono troppo buon giornalista per non sentire a fiuto di chi sono i giornali. Onorevoli colleghi, ci sono poi cose che veramente m’infastidiscono a dire, ma che pure bisogna ch’io dica, perché io ho un Partito dietro di me, e ho quindi degli obblighi. Sono stato accusato, in ambienti democristiani della Calabria nientemeno che di questo: se sarò sindaco a Roma – il che non sarò mai – istituirò molte case di tolleranza perché i turisti che vengono a Roma in pellegrinaggio possano trovare il sollazzo che desiderano nella Capitale. (Si ride – Commenti).

Una voce al centro. Chi ha detto questo?

GIANNINI. Chi l’ha detto? Caro collega, se lei dubita di me, e suppone sia una mia spiritosa invenzione, la prego di rivolgersi a un nobilissimo e illustre sacerdote, dal quale molti presenti in questa Assemblea hanno avuto ospitalità, mangiato la minestra e condiviso i pericoli, e gli domandi se è vero ch’egli ha dovuto smentire questa diceria, e smentirla autorevolmente, perché conoscendomi bene sa che non sono queste le industrie che preferisco. (Commenti).

C’è un esclusivismo della Democrazia cristiana. Non si deve fare nulla di buono in Italia che non promani da questo Partito. Vi darò un esempio. Abbiamo fatto una Commissione parlamentare napoletana presieduta dall’onorevole Porzio. Fui incaricato di studiare il problema della Mostra d’Oltremare, la quale fu fatta dal fascismo, ma era una gran bella cosa; ed è un peccato che sia stata distrutta. Si è parlato della utilizzazione di quella Mostra, utilizzazione alla quale mancava innanzi tutto un’idea – perché il danaro si trova sulle idee: almeno io lo so trovare sull’idea.

Ebbi questa idea: esaltiamo il 1848 napoletano, esaltiamo il 15 maggio napoletano, giornata in cui fu combattuta la più bella battaglia per la libertà italiana; creiamo, in questa Mostra d’Oltremare del fascismo, la Mostra internazionale della libertà; facciamo convergere in essa tutto quanto riguarda e illustra la libertà di tutti i Paesi e a consacrazione dell’eroismo napoletano del 15 maggio 1848, celebriamone il centenario. M’impegno io a scrivere e a montare tutto quello che ci vuole – e voi sapete che se voglio fare l’agente di pubblicità, lo so fare – per interessare tutto il mondo a questa Mostra. Riusciremo a risuscitarla.

Ma di questo non s’è potuto parlare pubblicamente, perché nella nostra Commissione di deputati napoletani, i deputati democristiani hanno preteso che non se ne parlasse. Perché non se ne dovesse parlare, non si sa. Mi sono impegnato a non parlarne sui giornali e non ne ho parlato: ma poiché non mi sono impegnato a non parlarne in Assemblea ne parlo in Assemblea, senza mancare alla mia parola.

Ci sono state e ci sono continuamente nella Democrazia cristiana queste preoccupazioni d’umiliarci in tutti i modi.

Si è tenuto un Convegno internazionale a Gstaad, dove, in seguito alla mia campagna per gli Stati Uniti d’Europa, ero stato elencato come quinto oratore, immediatamente dopo Paul Reynaud. Praticamente ero il secondo, perché il primo oratore era il Presidente dell’Assemblea, Léon Maccas, il secondo il Segretario generale, Coudenhove Kalergi, il terzo un membro del Consiglio federale svizzero che dava il benvenuto ai congressisti. Praticamente Paul Reynaud parlava per primo: io seguivo Paul Reynaud. Nossignori! Ciò non è stato possibile. Ho dovuto diventare undicesimo, perché si è dovuto distinguere, si è dovuto fare una questione di partito anche là. Conclusione: il nostro Paese, che indegnamente e per la mia modesta figura, aveva il quinto posto ha finito per avere il decimo. Ha parlato l’onorevole democristiano Giacchero, e poi io: e prima di noi, in seguito a quel pettegolezzo, altri sei oratori europei.

Oggi sulla cattolicità, che per noi è un sentimento e non un affare, nasce un’altra polemica, condotta dal Quotidiano, e alla quale deve rispondere, brillantemente ma anche con infinita pazienza, il collega onorevole Tieri. Io, che sono un polemista, non gli invidio questa polemica, appunto per le prove di pazienza ch’egli deve dare, per le tortuosità nelle quali egli si deve infilare, perché in sostanza si tratta dell’ennesimo tentativo d’identificarci come quinta colonna del Partito comunista e così danneggiarci elettoralmente. (Si ride – Commenti).

Ora io ho detto, e confermo, che quando il Partito comunista pretende una più equa giustizia sociale, un più diffuso e più giustamente distribuito benessere, quando pretende l’elevazione degli umili, nessuno di noi è contrario al Partito comunista.

Ciò non vuol dire che non ci siano differenze. È chiaro che se, oltre a queste identità, il Partito comunista si dichiarasse cattolico, si permeasse di spiritualità cattolica, diventasse un partito nazionale, si liberasse da certe appendici che a noi non piacciono, non ci sarebbe bisogno di fare due partiti, e a me non resterebbe che offrire la presidenza del comun-qualunquismo all’onorevole Togliatti e liberarmi dalla scocciatura di dirigere un partito.

È logico che se fra due partiti vi sono tre addentellati, su questi tre addentellati si cerchi di collaborare.

Poiché ho già avuto una polemica su questo argomento, con un avversario più aspro, ma certamente più sincero, non invidio all’onorevole Tieri la sua ingrata fatica.

Si direbbe insomma che questo grande Partito sia talmente preoccupato di noi da volerci sbarrare il cammino in ogni modo. Per esempio, è venuta fuori, a proposito di questa che non è ancora una crisi, onorevole signor Presidente del Consiglio, è venuta fuori una pregiudiziale, non so da chi messa in giro (ma le pregiudiziali più o meno si sa bene a quali sorgenti attingano) che bisogna fare un Governo dichiaratamente repubblicano, un Governo dichiaratamente democratico.

Onorevoli colleghi, la nostra corrente è agnostica. Credo che nessuno mi possa dare del monarchico. Ma non mi dichiaro repubblicano, perché il mio partito è un partito agnostico. Come tale s’è impegnato coi suoi elettori, come tale ha vinto la sua battaglia elettorale: non può mutare bandiera, non può cambiare. Dobbiamo forse pensare che per questo nostro agnosticismo siamo sospetti alla Repubblica molto di più di quanto non possano essere le compagini valenti della Democrazia cristiana, nella quale non c’è nemmeno un monarchico? O dobbiamo cercare i monarchici della Democrazia cristiana e denunciarli sulla colonna infame?

In materia di democraticità. Abbiamo tenuto un Congresso, onorato da visitatori che ringraziamo ancora, e ai quali speriamo ci sarà concesso di ricambiare la visita (Commenti), un Congresso nel quale è stata eletta non una direzione del Partito soltanto, onorevoli colleghi, ma un Parlamento del Partito, un parlamentino, con facoltà di discutere e di rovesciare il Governo del partito ogni tre mesi, cioè ogni volta che si aduna. Non c’è nessun partito politico europeo che si trovi in queste condizioni. Quindi, a chi ci parla di democraticità, noi oggi siamo in grado di dire: noi vi abbiamo mostrato le nostre carte, mostrateci le vostre e vediamo chi è più democratico.

Tutto ciò mi fa pensare che la Democrazia cristiana è scontenta che noi siamo cattolici. Forse se fossimo scintoisti ci amerebbe di più. C’è la storia della questione sociale cristiana. Essi «differiscono». Differiscono da noi in che cosa? C’è un mezzo cristiano per risolvere la questione sociale? Io non ne conosco che uno: il Vangelo, e nel Vangelo, Cristo ha detto ai suoi: «Dona tutto ai poveri e vieni meco».

Sarei lieto d’aver l’elenco di quei democristiani che hanno donato tutto ai poveri! (Applausi a sinistra).

Devo dunque pensare che si tratti d’una lotta sul mercato della religione? Ma appunto per non fare questa lotta sul mercato della religione, io, personalmente, avevo proposto al signor Mosconi, rappresentante della Democrazia cristiana in Roma, di fare le elezioni insieme con la Democrazia cristiana, mettendoci, insieme, sotto l’egida della civiltà italica. Dissi chiaramente: voi non avete nessuna fiducia in noi e non volete fare la lista bloccata; vi assicuro che noi non abbiamo nessuna fiducia in voi e non vogliamo fare la lista bloccata. Però siamo due partiti cattolici, mettiamo le nostre due liste, se volete vi cediamo la destra, mettiamo queste due liste una a fianco dell’altra sotto l’egida della civiltà italica, la quale raccomanderà entrambe le liste perché entrambe cattoliche. In questo modo noi saremo divisi solo da questioni politiche, amministrative, sociali, ma non dovremo colluttare sul sacro terreno della religione. Questa proposta è stata fatta da me al signor Mosconi, e non mi costringete a dire in quale sede, perché se no ve lo dico. (Ilarità). Non ho avuta nessuna risposta, né un sì né un no: la proposta è stata ignorata. (Ilarità a sinistra – Commenti).

Il nostro appoggio sia al Governo che al Partito democristiano è considerato coatto. «Voi dovete votare per noi» – ci si dice – «voi non potete votare per altri. Non votando per noi voi votate per Togliatti, per il comunismo, per le forche, per la Siberia»! (Si ride).

Su questo punto, onorevoli colleghi, è bene dire una volta di più che se noi siamo stati contro l’antifascismo di maniera siamo anche contro l’anticomunismo di maniera. Oggi è facile fare dell’anticomunismo; bisognava farlo prima, cioè nel momento in cui erano scagliati tuoni e fulmini da quei due veri ed autentici fondatori del qualunquismo che sono stati gli onorevoli Spano e Grieco. (Si ride).

Allora bisognava fare dell’anticomunismo. Oggi è troppo facile e troppo semplice, ed è fors’anche ridicolo, come sono ridicoli coloro che vanno cantando inni provocatori per le strade di Roma, e non solo di Roma: cantanti ai quali, caro Lussu, noi non facciamo coro, anzi!

D’altra parte, non è possibile vivere eternamente sotto l’assillo d’un ricatto politico.

A un certo punto ci si ribella. Se mi permettete tenterò di esprimervi questo concetto con una brevissima storiella. (Si ride).

Voce al centro. Un altro somaro!

GIANNINI. Non si tratta d’un somaro (Si ride), si tratta d’un pappagallo, il quale viveva in una famiglia di monarchici spagnoli, una famiglia hidalga, fierissima del suo sentimento monarchico. Sapete come vanno le cose nella Spagna: ogni tanto i repubblicani si avventano sui monarchici e viceversa. Questa famiglia subì assalti da parte dei repubblicani di fresco tornati al potere.

Spaventata dalle conseguenze che avrebbe potuto avere l’eccessiva loquacità del pappagallo, la famiglia hidalga aveva preso l’abitudine di nasconderlo ogni volta che avvenivano le perquisizioni, e lo metteva sotto la gonna della nonna perché stesse più tranquillo. Per una volta, per due, il povero pappagallo ha resistito al mefitico ambiente (Si ride) di quella gonna così come il Gruppo parlamentare qualunquista resiste eroicamente sotto la tonaca democristiana. (Si ride). Ma alla terza volta non ne ha potuto più, e con un colpo di becco ha spaccato la gonna della nonna ed è uscito gridando: prefiero la muerte, viva el rey! (Vivissima ilarità). Ora se un pappagallo ha avuto tanto coraggio, noi qualunquisti riteniamo di non poter essere da meno dell’ardimentosa bestiola che a un certo momento, come noi, non ne ha potuto più.

Quale situazione si pone in questo nostro discorso? Il Governo deve decidere, deve assumere una linea di chiarezza, deve tenere una condotta o liberale o socialista: tutte e due non può tenerle. Noi vogliamo la prima, che non è quella dell’onorevole Corbino, ma è l’idea liberale, progredita.

Sgombriamo il terreno da un primo ostacolo: la pacificazione. L’onorevole Lussu si è lagnato delle manifestazioni inconsulte che si sono fatte a Roma ed in altre parti d’Italia. Nessuno lo comprende più di noi; nessuno ne soffre forse più di me, che so quanto false e bugiarde siano la gran parte di quelle manifestazioni, fatte unicamente in funzione elettorale e con la speranza di raccattare voti che forse non ci saranno. Ma a quelle manifestazioni, caro amico Lussu, dànno pretesto precisamente le remore alla pacificazione. L’onorevole Togliatti ha firmato l’amnistia: bisogna dargliene atto; è stato un grande atto politico. Ma dopo quell’amnistia continua e pesa ancora una mentalità, un errore, cause di qualche reazione giusta intorno alle quale s’innestano le speculazioni.

Abbiamo ancora delle leggi eccezionali, abbiamo ancora veri e propri Tribunali speciali, ancora una sedicente folla che urla nelle aule dei giudizi, abbiamo ancora il confino. Si venga alla pacificazione, si abolisca perfino il nome di «confino» e gli si dia il suo vero nome di domicilio coatto.

Si proclami che non c’è più né fascismo né antifascismo, si perdoni, si dimentichi: amnistia viene da amnesia. Dimentichiamo: e si diano venti e trent’anni di reclusione a chi infrange questa tregua, questa pace, sia esso comunista, sia esso socialista, azionista, qualunquista! Nessuno deve avere più il diritto di tormentare il suo fratello italiano perché durante la guerra ha assunto un atteggiamento o un altro durante la guerra civile. Soltanto Dio può giudicare.

LUSSU. Ma non deve essere più repubblichino dichiarato e non più fascista, altrimenti… (Proteste al centro e a destra).

GIANNINI. Ho detto questo, onorevole Lussu: aboliamo la legislazione speciale e diamo trent’anni di reclusione a chi ci rompe ancora le scatole con queste cose che non vogliamo più ascoltare e sopportare. (Applausi). Dico quello che dice lei. Basta applicare il Codice penale per ottenere tutto questo. E mi fermo su questo argomento: non vorrei che il mio discorso diventasse provocatorio, perché in materia di pacificazione bisogna tenersi nei suoi ristretti limiti senza oltrepassarli.

I piani. Noi non vogliamo piani. Anche qui una divisione è più sulle parole che sui fatti. Piano significa programma, e niente altro. Come si può non volere un programma? Certamente c’è un programma: ma non si può volere che uomini di destra applichino un programma di sinistra. È un’assurdità nell’assurdo. Il Governo sta applicando un programma di sinistra: Einaudi toglie danaro dalla circolazione; Merzagora limita le esportazioni e le importazioni.

Si tratta – essi dicono – d’impedire una speculazione; ma, onorevoli colleghi, quando una speculazione dura da 10 o 15 anni, non è più una speculazione: è un mezzo ed è un sistema. Sarebbe come se l’ottimo, amico Pella volesse abolire da un giorno all’altro il contrabbando delle sigarette americane: farebbe morire di fame migliaia di persone che vivono su quel contrabbando.

Ora, tutto quello che accade in questa materia (e per cui si esigono piani e si esigono programmi d’una vastità tale che non credo possano essere affrontati da cervelli ordinari ed in circostanze straordinarie), tutto ciò dipende dalla situazione internazionale in cui si trovano il nostro Paese e tutti gli altri Paesi. A questo proposito mi domando: si parla e ripete spesso in questa Aula d’indipendenza. Di quale indipendenza si tratta? C’è una discussione appassionata in questo momento in tutta Europa sulla Unione europea, sugli Stati Uniti d’Europa, discussione alla quale partecipano i più grandi politici non in attività di servizio, ma non per questo completamente decaduti dal firmamento politico europeo. Perché non se ne parla anche da noi? Perché il nostro Governo non prende posizione, in un senso o nell’altro, su questo grandissimo problema? È vero che nessun Governo ha preso posizione ufficiale sul problema degli Stati Uniti d’Europa; ma perché non potremmo essere noi i primi?

Una politica estera dignitosa, protagonista non di storia – come si diceva un tempo – ma di azione, perché non si può farla? Questo sì che sarebbe un piano. Invece, noi facciamo del timido socialismo e non contentiamo le sinistre e scontentiamo le destre. Noi vorremmo che il Governo parlasse chiaro e dicesse (come è sua ferma intenzione e suo fermo proposito): un piano, quale voi lo intendete, no! Controllismo, permessismo sono aberrazioni che portano unicamente al commercio dei permessi e dei controlli.

Io spero che l’onorevole De Gasperi non mi chieda delle prove materiali per quanto starò per dirgli: ma per avere un vagone, per avere un permesso, per avere un’autorizzazione, onorevole signor Presidente del Consiglio, bisogna pagarli. Merzagora ha detto che ha diecimila domande di importazione al mese nel suo Ministero, alle quali non riesce nemmeno a rispondere. Sorge spontanea la domanda: e perché non abolisce il suo Ministero se è così d’inciampo? In questo, e in altri Ministeri, ci sono impiegati, a poche migliaia di lire al mese, che non riescono a vivere: e noi pretendiamo, con un sistema di controlli e di piani che questi disgraziati amministrino miliardi. Non è nemmeno cristiana questa pretesa, perché uno dei doveri del buon cristiano è quello di non indurre il prossimo in tentazione. (Si ride).

Ci vogliono misure generali e libertà. Si ha paura di concederla questa libertà, ed allora si gira, si cincischia, si ciurla nel manico.

Ho sentito parlare di risparmio. Come si fa a risparmiare un biglietto da mille che perde valore ogni giorno? Come si fa a mettere da parte del danaro che oggi vale cinque, domani varrà quattro e mezzo, dopo domani quattro? È assurdo il solo enunciarlo, e coloro che, incauti, o ignoranti, fanno tesaurizzazione della moneta in questo momento, sono degli inconsapevoli collaboratori del nostro Ministro del tesoro: perché in sostanza fanno una deflazione automatica tenendo chiuso tutto quel danaro che per fortuna non circola e che forse è fortuna se perde di valore.

Si parla di ridurre i consumi e non si capisce che questa è una crisi di consumo, non di produzione. Si dovrebbe consumare di più, e benedetti quei 350 mila proletari che sono andati a Ostia!

Udiamo parlare con leggerezza spaventevole di toccare i meccanismi economici, di fare piani da uomini ai quali sinceramente io vorrei pigliarmi il gusto di affidare l’amministrazione dei miei giornali per vedere come ne caverebbero le mani.

Si tuona contro l’edilizia di lusso. Ma chi lavora a fare quelle case di lusso? Dei marchesi? Dei conti? Il mio amico Lucifero? Il mio ancora più nobile amico Negarville? Lavorano dei muratori. Saranno case di lusso, ma lavorano dei muratori. Si tratta di togliere danaro dalle tasche di gente che l’ha guadagnato per contingenze di guerra, in un modo o nell’altro. Onorevoli colleghi, non c’è nessun mezzo per levar loro dalle tasche quel danaro, se non facendoglielo spendere. Le avocazioni, le tassazioni, le pressioni, tutte le illusioni di tutti i Ministri delle finanze e del tesoro non servono a niente. Fate spendere liberamente quel danaro Quando quel danaro sarà speso sarà restituito in modo fruttifero alla circolazione, ed è questo che importa.

Si teme l’inflazione. Io credo che ce ne sia una sola di inflazione: l’inflazione dei professori d’economia. (Si ride). Ce ne sono troppi in questa materia che nessuno conosce. Finirò col porre la mia candidatura al Ministero del bilancio col solo titolo di non capirne niente e credo che forse me la caverò bene. (Si ride).

La verità è (è questa un’osservazione che dedico particolarmente ai colleghi comunisti) che la vita fiorisce per intima forza. Il regime capitalistico, dopo il suo glorioso ciclo dell’800 che ha cominciato col creare voi, perché ha creato il proletariato e ha creato il socialismo, trova la sua moderazione e limitazione nel consumo, nel maggior consumo che si stabilisce appunto per la maggiore produzione, e per l’industrializzazione creata unicamente dal regime capitalistico.

È il proletariato che consuma oggi, non più la ristretta classe aristocratica. E consumando esso diventa capitalista e spezzetta il capitale. (Si ride).

È proprio così. Avete riso spesso di quello ch’io vi dicevo; poi siete venuti a ripetere, dopo un anno o due, le mie parole qui dentro.

In confronto a questo naturale fenomeno di spezzettamento di capitale e di elevazione del proletariato attraverso il consumo e il maggior guadagno, il capitalismo di Stato sovietico è un’amplificazione della regola conventuale, di quel convento in cui può star bene solo chi per vocazione c’entra, e volontariamente ci rimane. Ciò è tanto vero che per risolvere il problema sociale in senso pianificativo e socialista, Nenni chiede un Ministero di salute pubblica, ossia una dittatura.

Ha ragione, ha ragione Nenni, perché solo quel Ministero può pianificare. Ma noi vi ci opporremmo con tutti i mezzi, perché siamo stanchi di dittature.

Non si stupisca l’onorevole Lussu se dopo avere minacciato trent’anni di reclusione a chi parla di fascismo, ne riparlo ancora io.

Si tratta di fascismo come fenomeno economico. È fenomeno squisitamente socialista, perché Mussolini venne di là, dalle vostre file! (Indica la sinistra).

CALOSSO: Come Giuda!

GIANNINI. Sono affari che a noi non riguardano, ma è dalla vostra parte che venne. (Interruzioni a sinistra).

CALOSSO. Giuda è la prova di Cristo.

GIANNINI. A noi non interessano questi argomenti polemici, sono vostri affari interni, nei quali noi siamo troppo bene educati per ficcare il naso. (Interruzione a sinistra). Onorevole Calosso, lei ha detto la sua freddura, non insista. Mussolini venne dai vostri ranghi. O Giuda o non Giuda a me che me ne importa? È da voi che venne; Giuda o non Giuda che ci posso fare? Peggio per lei che aveva Giuda in casa e non se ne è accorto. (Si ride).

Che cosa ha detto Nenni reclamando la pianificazione e chiedendo che si mettesse sotto disciplina la borghesia produttrice, tutta la classe industriale, tutte le classi? A un certo momento Nenni (mi corregga se sbaglio) ha detto all’incirca queste parole: (me le sono appuntate) «Siamo disposti a disciplinare (dunque obbligare) anche il lavoro, come il capitale, come esige la civiltà attuale».

Questo ha detto Nenni.

NENNI. Lo stanno facendo in Inghilterra che è un Paese abbastanza avanzato.

GIANNINI. Comunque lei lo ha detto. Ne prendo atto. Però questo è corporativismo.

Anche Valiani vuole un controllo della economia, vuole un controllo del lavoro, vuole di più – e me lo sono appuntato – vuole «lo sviluppo delle gerarchie». Di che cosa si tratta? Si tratta della Confederazione dell’industria, della Confida, della Confederazione del lavoro e della Federterra chiuse in un solo campo di concentramento. Ma questo lo aveva già fatto il fascismo e noi, borghesia, non lo permetteremo più, perché lo abbiamo già conosciuto questo regime e non lo rivogliamo. (Interruzione dell’onorevole Di Vittorio). Che vuole onorevole Di Vittorio?

CALOSSO. Mussolini era liberista nel 1919! (Commenti a sinistra).

GIANNINI. Non m’inganna con i suoi giochi d’artificio, Mussolini, noi lo conosciamo…

CALOSSO. Ma nel 1919!… (Commenti).

GIANNINI. Lasci andare il 1919! Quello che volete oggi voi, l’ha fatto Mussolini, prima di voi.

PRESIDENTE. Onorevole Calosso, lei è iscritto a parlare; parlerà dopo, la prego.

GIANNINI. Certo è che esiste – e noi ne abbiamo avuto una prova col fascismo – una materiale impossibilità del controllo. Lo afferma anche Merzagora; e dunque perché controllate e, peggio ancora, perché fingete di controllare? Il vincolismo non produce che speculazione. Ne abbiamo un esempio con le pigioni. Fra le mie molte fortune ho quella di non essere proprietario che di tre stanze, a Napoli, che comprai per i miei genitori, quando si potevano comprare stanze, e la sorte me li ha fatti morire, così ho fatto anche una spesa inutile. Queste sono tutte le mie proprietà…

Una voce al centro. Oltre la casa editrice!

GIANNINI. Sì, oltre la casa editrice, va bene. Ma c’è gente che paga poche centinaia di lire per grandi appartamenti. Io, per esempio: io non pago il valore del mio appartamento. Ora su questa vincolazione, su questo schiacciamento degli affitti s’innesta, oltre alla violazione del diritto del singolo proprietario, s’innesta la speculazione del subaffittuario. Il padrone della casa non guadagna e paga le tasse, l’inquilino si subaffitta le camere. C’è, in sostanza, godimento di bene altrui, in omaggio a quella legge, umana ma infame, che si può riassumere così: fatta la legge, trovato l’inganno.

Ogni trasformazione violenta dà risultati imprevedibili.

Prendo per un attimo in esame, con la mia incompetenza di semplice scrittore di fantasie, un fatto finanziario. Animato dalle più nobili intenzioni, l’onorevole Einaudi ha fatto quello che ha fatto con la restrizione del credito. Cos’è accaduto praticamente? È accaduto che il credito è stato negato alle persone che facevano operazioni normali, ma lo speculatore, il giocatore, colui che è abituato a considerare e ad immaginare affari sui quali si guadagna il mille per cento, ha il credito lo stesso, perché lo paga il venti o il trenta per cento di più.

E allora, cosa ha prodotto questa nobilissima fatica dell’onorevole Einaudi? Semplicemente questo: il mercato nero del credito e della moneta.

L’onorevole Einaudi potrebbe dirmi: «Perché non me l’ha detto prima, questo»? Non l’ho detto prima perché non lo potevo dire prima; perché – a parte la mia incompetenza specifica – nessuno può prevedere che cosa accade quando si prendono questi provvedimenti speciali, drastici, draconiani, fascisti. (Commenti).

Mi viene segnalato – perché, onorevoli colleghi, voi sapete benissimo che quando si parla qui si ripetono gli echi di milioni di voci che giungono dal Paese – mi viene segnalata una reazione suscitata da una frase pronunciata dall’onorevole Merzagora a proposito delle Regioni. C’è chi gli dà ragione e chi gli dà torto, ma indubbiamente questo provvedimento delle Regioni, attesissimo nella Sicilia, respinto altrove, che cosa ha portato? Ha portato, nella stessa Sicilia, a questo: che il ricavato delle tasse, che la Sicilia s’è rifiutata di consegnare al Governo centrale assumendo che servivano per lei, pare – dico pare –: poi l’onorevole Pella mi dirà se ho sbagliato o no – che siano molto inferiori al fabbisogno della Sicilia.

Abbiamo un’altra voce dall’esterno: le famose cooperative agricole. Onorevoli colleghi, entrare in una cooperativa agricola significa assicurarsi 240 chili di grano a testa all’anno per sé e per i propri familiari. Avviene così che ogni barbiere, ogni sartore, ogni farmacista, ogni segretario comunale che entri in una cooperativa si assicura, per sé e per i suoi 240 chilogrammi di farina all’anno. Ecco come s’inflaziona la categoria degli agricoltori: ed ecco come noi facciamo sì che tutta la farina nostra, a poco per volta, non arriverà neppure a sodisfare le esigenze di tutti gli agricoltori che la producono, veri o falsi che siano.

È facile fare i piani a tavolino: è quando si debbono applicare che succedono i guai. Noi ci lagniamo di questo Governo perché è troppo pianificatore, è troppo socialista. (Viva ilarità). Noi guardiamo freddamente ai fenomeni economici e sociali, e non c’impressiona chi ride.

SCOCA. A Dio spiacenti ed a’ nimici sui.

GIANNINI. Non ho ancora finito. Si parla della Jugoslavia che ha comperato, o avrebbe comperato, il nostro grano a un prezzo anche forte. Da che cosa dipende questo fenomeno? È innegabile, onorevoli colleghi, che se la Jugoslavia non ha abbastanza grano deve comprarlo dove ne trova. Ed è evidente che se la Jugoslavia possedesse grano in quantità sufficiente, non avrebbe nessun bisogno di comperarne fuori dei suoi confini. (Commenti).

Ecco perché la crisi è internazionale e non è risolvibile da un singolo Governo il quale, appunto per ciò, non si deve arbitrare a far piani che non potrebbero inserirsi in quella che è la pianificazione generale del mondo, e sarebbero destinati a fallimento completo e forse nemmeno clamoroso; perché moriremmo d’inedia e d’inazione in questo fallimento.

Gli Stati Uniti d’Europa sono la chiave di questa soluzione e dovrebbero essere anche la chiave della nostra politica estera. Io non so perché non ne facciamo davvero il perno della nostra politica estera, facendo una politica estera originale italiana, con dignità e con fierezza.

Con dignità ho detto, onorevoli colleghi, e con fierezza. Si può essere fieri senza iattanza; si può essere contegnosamente, gelosamente italiani senza isterismo.

C’è in questo momento una angosciosa tragedia che volge verso il suo ultimo atto: la tragedia della marina italiana. È necessario che il Governo, che l’Assemblea col Governo, dicano ai nostri marinai, due volte traditi, che la Patria apprezza il loro senso del dovere, così come ha apprezzato il loro senso d’eroismo. La Patria non ha bisogno d’altre gesta da parte dei suoi marinai che, inferiori per mezzi e per numero, hanno tenuto in iscacco per tre anni le più potenti flotte del mondo. Molto più preoccupati e sconcertati dei nostri si troveranno quegli equipaggi stranieri che presidieranno navi ormai troppo cariche di gloria, non conquistate o catturate, ma guadagnate su una carta del gioco politico, in cui ha vinto il più dovizioso, non il più eroico.

S’è parlato di trattative fra il mio Partito e la Democrazia cristiana, fra il mio Partito e il Governo. Non crediamo che il Governo possa far trattative sotto l’assillo del voto; non sarebbe morale. Noi ci sentiremmo davvero imbarazzati a dire all’onorevole De Gasperi: vogliamo questo in cambio dei nostri 33 voti. Non sappiamo che cosa De Gasperi ci risponderebbe; sappiamo, però, quali parolacce diremmo noi al suo posto a chi ci venisse a fare simili offerte.

Per questo, e in regime democratico, noi facciamo pubblicamente le nostre richieste, in modo che non abbiano né carattere di trattativa né aspetto di ricatto o, comunque, d’intimidazione.

Noi vogliamo la pacificazione fra gli italiani. (Approvazioni a destra). La condanna o l’invio al domicilio coatto di chiunque la turbi con atti o anche soltanto con parole o scritti, quale che sia il partito cui appartenga, a cominciare dal nostro.

Noi vogliamo una condotta liberale progredita del Governo. Empirismo, onorevole Presidente del Consiglio, perché oggi si vive «a ora» nel mondo; non si possono fare previsioni che oltrepassino il tempo limite di una settimana o di due. Tutto cambia da un momento all’altro, in tutto il pianeta.

Noi vogliamo l’applicazione di questo empirismo politico, finanziario, industriale, monetario, monetario specialmente, caso per caso, circostanza per circostanza.

Noi esigiamo la smobilitazione, graduale e rapida, dell’economia di guerra; il ritorno alla maggiore libertà possibile, nel più breve tempo possibile.

Noi vogliamo l’europeismo a fatti e non a parole; e constatiamo che mancano gli uni e le altre.

Noi vogliamo vigilare dentro il Governo, per impedirne le deviazioni. Quello che chiediamo, è una partecipazione adeguata all’amministrazione del Paese. (Commenti a sinistra).

Una voce a sinistra. Anche voi!

GIANNINI. Devo adesso chiedere una cosa molto seria: noi chiediamo che uno di questi Ministeri sia quello dell’Unione europea, Unione europea che noi dobbiamo dirigere, perché abbiamo il diritto almeno di tentare di riportare il nostro Paese, spiritualmente, alla testa di questo continente la cui civiltà si è formata al lume della fiaccola che splendeva nel nostro Paese!

Noi abbiamo il diritto almeno di tentare di riconquistare questo primato spirituale che non è nazionalismo, che non è fascismo, che è semplicemente quel sano europeismo che noi avevamo mille anni fa, e che abbiamo fatto male a lasciar sperdere.

Questo è il nostro discorso d’opposizione, queste le nostre critiche e le nostre richieste.

Giustamente l’onorevole Lussu ha detto oggi che la sorte del Governo non è nelle mani dell’Uomo qualunque, ma in quelle della Democrazia cristiana. Da quanto ci risponderà l’onorevole Presidente del Consiglio (il solo col quale desideriamo avere a che fare) dipenderà il nostro voto su questa discussione. (Applausi a destra – Congratulazioni).

PRESIDENTE. Sospendiamo ora la seduta, che sarà ripresa alle 22. Faccio presente che sono iscritti a parlare nell’ordine: gli onorevoli Simonini, Varvaro, Quintieri Quinto e Rodinò Mario.

RODINÒ MARIO. Rinuncio.

PRESIDENTE. Segue allora l’onorevole Perrone Capano.

PERRONE CAPANO. Rinuncio.

PRESIDENTE. E allora segue l’onorevole Sereni.

(La seduta, sospesa alle 20.25, è ripresa alle 22).

Presidenza del Vicepresidente CONTI

PRESIDENTE. Si riprende la discussione sulle mozioni.

È iscritto a parlare l’onorevole Simonini. Ne ha facoltà.

SIMONINI. Io assicuro l’onorevole Presidente che non prenderò parte alla gara di resistenza che è stata inaugurata in questa Assemblea in occasione di questo dibattito. E senza fare l’elogio del discorso breve, spero di riuscire a dimostrare, facendo un discorso breve, che la brevità è il più grande pregio di un discorso. Si potrebbe dire che questo dibattito, al quale io partecipo avendo ancora una grande fiducia nel Parlamento nonostante le enormità che ho udite qui dentro due ore fa, si è svolto un po’ contro di noi. Se la son presi tutti con noi, da destra e da sinistra. Critiche e consigli: Lussu, Corbino, Morandi. Anche l’onorevole Crispo ha voluto partecipare alla gara. L’onorevole Lussu, di cui abbiamo apprezzato il discorso, non ha voluto essere da meno e ci ha consigliato un viaggio a Mosca per non lasciare non si sa quali ombre su quel viaggio in America che nostri rappresentanti hanno recentemente fatto. Possiamo assicurare l’onorevole Lussu, i nostri amici e i nostri avversari che noi siamo andati in America puliti e liberi e siamo ritornati liberi e puliti. Potremmo anche andare a Mosca e tornare puliti… (salvo l’esito di eventuali polmoniti che possono capitare in occasione di viaggi così lunghi!).

Una voce a sinistra. Che arguto!

SIMONINI. Ma io voglio, se è possibile, sorvolare sopra queste note polemiche e inserirmi nella discussione modestamente, come può fare un uomo come me che non ha nessun altro titolo se non la fedeltà e la coerenza alla sua idea, per dire qualche cosa non di nuovo, ma che si ricolleghi a ciò che già è stato detto e che suppongo potrà essere detto, se la discussione non sarà prima chiusa, da altri miei compagni ed amici. Ho detto prima che non è il caso di polemizzare. Evidentemente non voglio lasciar passare senza una osservazione l’affermazione dell’onorevole Crispo (mi dispiace che non sia presente) circa il fatto che l’onorevole Saragat, – in questo caso il nostro Partito avendo Saragat parlato per il Partito, – non ha inventato la terza via. Noi non apparteniamo alla categoria degli inventori né dei fondatori: c’inseriamo modestamente in un processo politico che è tanto più grande di noi; cerchiamo di comprendere e di metterci nella posizione che ci consente, difendendo le nostre idee, di difendere, con la modestia che è dovuta al modesto valore del nostro Partito, gli interessi che presumiamo di rappresentare in questa Assemblea e nel Paese. L’onorevole Scoccimarro, oggi, iniziando il suo lungo discorso prevalentemente tecnico, sul quale io non l’ho potuto seguire per confessata, confessabile e, credo, non disonorante incompetenza, ha detto che questo dibattito si ricollega al precedente dibattito che in questa stessa Assemblea fu fatto quando questo Ministero si presentò al nostro giudizio.

Io ritengo, onorevoli colleghi, che si possa andare più in là. Io ritengo che si possa affermare che questo dibattito si ricollega a tutti quelli che noi abbiamo sovente sostenuti in questa Assemblea durante la vita dell’Assemblea Costituente; ma anche oltre, perché tale fu sempre il tono di questi dibattiti; anche a quelli che si svolsero dal 25 settembre 1945 in poi nella Consulta prima e nell’Assemblea Costituente dopo, perché – e qui mi trovo a concordare pienamente con l’amico Lussu – evidentemente di natura politica è la crisi che travaglia il nostro Paese. E politica non può che essere la soluzione, come politico non può che essere lo strumento che porrà rimedio a questa crisi che il Paese attraversa.

Mancherebbero al loro scopo i dibattiti nostri, egregi colleghi, se noi perdessimo di vista la necessità di individuare e ricercare, attraverso le nostre discussioni, questo strumento politico con il quale affrontare e tentare di risolvere la crisi stessa.

Io ho detto prima che non so se riuscirò a portare un contributo efficace a questa discussione. Arrivo quasi alla fine del dibattito, quando tante cose interessanti sono state dette da uomini rappresentanti i partiti; uomini e partiti più qualificati di quel che io non possa essere e forse di quel che non possa essere il mio stesso Partito il quale trae le sue origini da un avvenimento politico, quale la scissione del Partito Socialista di Unità Proletaria, e che parlamentarmente è rappresentato da un pugno di uomini che non si sa ancora in quale misura rappresentino un tantum della popolazione italiana, come evidentemente non si sa in quale misura gli altri – rimasti al di là – rappresentino un tantum della popolazione italiana.

PRIOLO. Solo Dio vi può perdonare! (Commenti).

SIMONINI. Ad ogni modo, prima del giudizio di Dio noi aspettiamo il giudizio del corpo elettorale per vedere se abbiamo avuto ragione o torto quando siamo arrivati a quella decisione. Dopo tanti luminari che hanno parlato in questo dibattito politico è ammesso anche per i questori avere passioni, specialmente quando l’Assemblea è calma come è calma in questo momento. (Si ride).

PRIOLO. Non si può non avere passione quando si è socialisti dall’età di sedici anni. (Commenti).

SIMONINI. I discorsi che hanno aperto questo dibattito sono stati fatti a porte chiuse: non so se le porte siano state chiuse al solo scopo che fuori non si sentisse quel che si diceva qua dentro. Di questo speciale riguardo ha beneficiato l’amico Nenni, arrivato poco prima di Togliatti, mentre a porte aperte è stato tenuto il discorso di Saragat, il quale ha avuto per lo meno il pregio di essere breve. Spero che almeno questo pregio – se non altri – gli vorrete riconoscere. Del resto, è stato questo l’unico discorso di opposizione che qualcuno ha fatto qua dentro. È stato detto che si è trattato di un «discorso di opposizione alle opposizioni», ma è stato anche un discorso di opposizione ad una determinata politica od all’assenza di una determinata politica del Governo.

È certo che, non avendo nessun’altra preoccupazione che quella di dire che considera la verità, facendo un discorso che doveva porre in luce la situazione in cui vive il popolo italiano, quindi di opposizione, non poteva non investire coloro che poco più di tre mesi fa assumevano, in solidarietà con coloro che sono oggi al banco del Governo, la responsabilità dell’amministrazione del Paese. Se poi si pensa che sia possibile – come mi pare sia difficile dimostrare e nessuno abbia dimostrato – che sia cominciata esattamente una vita nuova tre mesi fa, che non abbia nessuna relazione con la precedente, il problema si pone in modo diverso; ma se io non ho mal capito mi sembra che tanto Nenni quanto Togliatti questo non abbiano esattamente sostenuto.

Noi abbiamo prospettato una soluzione che è stata indicata come una terza via. Abbiamo la presunzione di credere di essere nel vero, ed in fondo lo stesso vostro discorso amici di sinistra, o che supponete di essere comunque alla nostra sinistra (Si ride), ha dimostrato che anche voi nel fondo siete alla ricerca della terza via. Nessuno di voi avendo sostenuto che alla crisi politica che travaglia il Paese si possa opporre un rimedio con la ricostituzione del tripartito, avendo semplicemente sostenuto, come sosteniamo noi, che si debba andare alla ricerca di un’altra formula, che non sia l’attuale, ma non sia la precedente, voi, così facendo, vi siete messi alla ricerca evidentemente della terza via, come tutto il mondo. La quale via esiste per coloro che non accettano la visione apocalittica della situazione italiana prospettata dall’amico Nenni, il quale ha detto che vede un baratro aprirsi dinanzi a noi, e non vede che cosa potrà accadere se i partiti che egli considera i legittimi rappresentanti della classe lavoratrice non saranno domani al Governo.

Ora, io non dico una cosa nuova se affermo che sono d’accordo con coloro che sostengono che un’adeguata rappresentanza della classe lavoratrice debba essere investita delle responsabilità e dei problemi del Governo. Forse qualche sciocco può pensare che potessimo essere su un terreno diverso. Non credo che vi siano qui molti legittimi rappresentanti, per le loro origini, della classe lavoratrice, quale per esempio è colui che vi parla, che ha conosciuto veramente il lavoro, non su i libri di testo, ma nelle officine, ed ha conservato l’animo di un lavoratore.

Una voce a sinistra. Questo è esagerato!

SIMONINI. Lo so che per conservare l’animo di un lavoratore, secondo voi, oggi bisogna obbedire, credere e combattere, ed io non ho mai ubbidito, creduto e combattuto (Applausi al centro e a destra – Commenti a sinistra). Perfettamente indifferente ai commenti ed agli applausi, non sono dell’opinione di Enrico Ferri, che affermava che quando gli applausi-venivano dagli avversari voleva dire che aveva sbagliato.

Vi sono delle verità che appartengono agli uomini di tutti i partiti. Solo voi credete di essere in possesso della verità assoluta e credete di poter trinciare giudizi, come quelli che voi trinciate. (Indica la sinistra).

Io ho affermato che non ho perso nulla di ciò che avevo nell’animo mio quando sui 16, 17, 18 anni, lavorando nelle officine, ai più umili mestieri ai quali ero stato indotto dalle condizioni di famiglia, io ho cominciato a credere in questa idea nella quale credo ancora avendo varcato il mezzo secolo di età, e alla quale ho conservato fedeltà quando era difficile conservare fedeltà alla propria idea, senza contare su una fortuna personale e a costo di miserie e mortificazioni che molti fra voi conoscono.

Comunque non è delle nostre persone che si discute qui oggi.

Io dico che non credo a questa visione apocalittica prospettata da Nenni e condivido in parte, per temperamento forse, non per affinità di idee, l’ottimismo di Corbino.

Io credo che noi dovremo puntare alla conclusione del dibattito avendo presente ciò che è stato detto dall’amico Lussu, e penso che in questo Lussu abbia colpito nel segno quando ha detto che la natura di questa crisi è eminentemente politica e che politici devono essere i rimedi ai quali dovremo guardare. Noi dovremo puntare su alcuni obiettivi che non dovrebbero essere difficili da raggiungere. E questi sono, a mio modesto avviso, il ritorno del popolo italiano, della nostra vita politica, a quel senso di equilibrio, a quell’aderenza alla realtà che è sempre stata una caratteristica particolare della vita nostra in altri tempi, prima che ad alterarla venisse l’esperimento fascista che ha tradotto tutti i rapporti sociali e politici in termini esasperati ed esasperanti, termini esasperati ed esasperanti dei quali noi tutti siamo forse ancora le vittime inconsapevoli. Ritornare a ciò vuol dire riaprire possibilità di ripresa della nostra vita politica e sociale. Il prevalere di un certo senso di equilibrio e di una adeguata aderenza alla realtà permetterà di evitare in avvenire errori che si sono commessi e che forse non sono irreparabili se il rimedio arriverà in tempo.

Noi abbiamo provato infinite delusioni. È stato ricordato qui da qualcuno, da molti anzi, come si guardava, e con quanta fiducia, alla possibilità di rinascita del nostro Paese sotto l’ispirazione e l’orientamento di dottrine e di idee che avrebbero potuto dare al popolo italiano ciò che purtroppo non ha mai avuto: libertà sicura, democrazia effettiva, e non soltanto formale, non soltanto sulla carta, giustizia sociale.

Noi abbiamo provato una infinità di delusioni che un po’ forse sono la conseguenza, è vero, di una situazione che è più forte di noi. Ma un po’ ce le siamo fabbricate anche noi con le nostre mani. Io non so se ciò che ho provato io in quest’Aula possa essere condiviso da voi.

Io ricordo di avere visto un giorno, quando qui sedeva quella Consulta che si inaugurò, quale prima Assemblea libera dopo 25 anni di oscurantismo, col discorso di quel vecchio, ma saldo cuore di Gregorio Agnini, che per il primo da quella tribuna lanciò il grido della Repubblica al popolo italiano, ed è stato forse l’unico grido di vero, sano, genuino, italico entusiasmo che si sia sentito in quest’Aula in tre anni; ricordo, dicevo di aver visto allora entrare in quest’Aula un uomo nel quale avevo creduto per venti anni, come tanti altri italiani, perché rappresentava una bandiera della lotta antifascista ai tempi della nostra giovinezza. Attendevamo quest’uomo all’opera, noi uomini non più giovani, ma non esperti della lotta politica, attendevamo quest’uomo all’opera di collaborazione e di ricostruzione di questa vita civile del popolo italiano. Quest’uomo ascoltava, con quel sorriso sprezzante, irritante ed ironico, che gli è proprio, tutti i discorsi che provenivano dai più opposti campi. Quella Consulta è stata trattata tanto male. E pure rappresenta qualche cosa nella storia moderna del nostro Paese: (è stata trattata tanto male, onorevoli colleghi, che si è creduto perfino di parificare i consultori ai deputati fascisti nell’escluderli dal permesso di entrare a Montecitorio) (Commenti). Rappresentavano qualche cosa quei Consultori: erano nominati dai partiti, erano designati dai partiti, non erano degli eletti come qualcuno presume di essere fra noi; ma rappresentavano la lotta che il popolo italiano aveva condotto nella sua enorme maggioranza, i sacrifici che gli operai italiani specialmente avevano fatto per la lotta di liberazione.

Quest’uomo, Francesco Saverio Nitti, abbandonò l’Aula nel giorno stesso in cui il dibattito si concludeva per andare al Teatro San Carlo a fare il primo discorso qualunquista nel nostro Paese.

Forse, ciò che si può dire di Nitti si può dire di qualcun altro fra i vecchi alfieri della democrazia e dell’antifascismo italiano, che sono mancati alla nostra aspettativa. E certo una somma di delusione doveva aggiungersi dopo, per un’infinità di errori commessi anche da noi, per cui oggi siamo qui a dover accettare per buona – non possiamo fare diversamente – l’affermazione di Nenni che sostiene essere «liquidata ormai la lotta fra fascismo e antifascismo». Ma liquidata come? Col fallimento dell’epurazione, con l’amnistia, col caso Basile. Liquidata, ma liquidata in passivo per le forze della democrazia, perché non è vero (anche se è lungi da me l’idea di lanciare il grido di guerra contro le generazioni fasciste), che si sia inteso, da parte di coloro che avrebbero dovuto pagare, il gesto di generosità compiuto dal regime repubblicano e democratico nei confronti di chi aveva assunto tremende responsabilità durante il fascismo, e particolarmente durante l’occupazione tedesca. Ripeto, non è mia intenzione qui chiedere che si riapra la lotta e accetto quanto il Nenni ci propone: consideriamo liquidata la lotta tra fascismo e antifascismo. Non credo invece risolta la polemica fra democrazia e totalitarismo. Anche per quanto riguarda la democrazia, bisognerebbe intendersi molto sul valore delle parole. L’altro giorno, assistendo ad una discussione fra il nostro vecchio D’Aragona e un nostro giovane compagno…

Una voce a destra. Perché vecchio?

SIMONINI. Vecchio d’età, ma giovane di spirito: forse anzi il più giovane di noi sotto questo punto di vista. Si andava dunque in cerca del significato della parola «reazionario» e gli dicevo che bisognerebbe rifare il vocabolario. Ed infatti, quando noi eravamo giovani, le parole avevano un significato stabile. L’onorevole Calosso reputa che siano reazionari i comunisti: io confesserò che non so fare i paradossi e non posso quindi seguirlo in questa sua affermazione; ma è certo che per qualcuno è reazionario chiunque non la pensi come lui.

Ritorniamo dunque ad un costume democratico in cui imperi il rispetto, la tolleranza. E, soprattutto, la lotta sia civile, la competizione si svolga in modo civile, così come erano possibili le competizioni ai tempi della giovinezza del nostro Tonello, il quale, nonostante sia qui considerato un mangiapreti, è stato anche – voi forse non lo sapete – il bravo Fabbriciere dell’insigne Basilica di San Petronio (Si ride), ed è riuscito in quell’epoca a filare in perfetto accordo con il futuro papa Benedetto XV quando era ancora Cardinale arcivescovo di Bologna.

Nessuno di noi ha evidentemente il diritto di mettere in dubbio la buona fede di chicchessia; e, circa la libertà di parola e di politica nelle fabbriche, rivendicata dall’onorevole Togliatti, l’onorevole Saragat ha detto già qualche cosa ed io spero sia consentito anche a me di dire qualcosa in argomento.

La libertà è un bene indivisibile: se si vuole che essa resista, deve essere un bene per tutti come la giustizia, ancora più della giustizia, se è possibile. E allora il rispetto e la tolleranza non dovrebbero essere più soltanto parole; si dovrebbe poter ragionare, parlare liberamente.

Onorevoli colleghi, io non starò a ricordarvi ora quello che è capitato a me in qualche parte d’Italia, e che puzzava più assai di organizzazione che non di manifestazione spontanea. Ma vi citerò semplicemente quello che è accaduto alla mia modesta compagna Bianca Bianchi, due giorni or sono in Roma, quando tre ondate successive di disturbatori, cicliste, motociclista e camioniste, le hanno impedito di parlare.

Qui, signori, sta la base della democrazia; ma qui sta anche un grande pericolo per la democrazia (Approvazioni). Specialmente durante le lotte elettorali. Si può comprendere che nel pubblico si manifesti, specialmente in tempi di assenza di educazione e di preparazione politica, in tempi arroventati come quelli che noi viviamo, si determini – e io arrivo persino a comprendere e a spiegarmelo data l’incapacità in cui si può trovare una parte della massa operaia di comprendere il significato dell’atteggiamento politico che noi abbiamo assunto – se può essere comprensibile che una parte, una minoranza o, se volete, una maggioranza in un determinato momento si scateni e urli e fischi; quando noi assistiamo all’evidente organizzazione di questa masturbazione, di questa violazione delle libertà altrui, noi diciamo che così non si può continuare senza far correre gravi rischi alla democrazia.

Ma io dico anche al Governo, e voglio dire al Ministro Scelba, che il suo primo dovere non dovrebbe essere quello di impugnare il regolamento di polizia, di scatenare i suoi carabinieri o i suoi poliziotti e mettere le mani addosso a chi eventualmente fa un discorso senza avere il regolare permesso, come aveva minacciato di fare con me all’epoca del discorso di Guastalla.

Guai se di fronte a questi problemi il Governo si dovesse lasciar trascinare soltanto considerando i problemi stessi come problemi di polizia. Vi è qualche cosa al fondo che deve essere compreso. Vi è una funzione che dovrebbe essere, più che del Governo, soprattutto dei partiti politici, di tutti i partiti politici (che io considero siano mancati a questa loro funzione). È loro dovere quello di illuminare la classe lavoratrice, di parlare un linguaggio franco, onesto, di dire la verità. La verità che non è mai stata detta in vent’anni; che non è mai stata scritta e detta né sui giornali né sui libri in vent’anni; illuminare la classe operaia, non pretendere di guidarla, ma illuminarla, perché essa impari, essa stessa, a camminare, e sia domani la politica che i partiti della classe operaia faranno, l’espressione della volontà che sale dalla base, dal basso, il risultato della maturazione, della convinzione, della preparazione della massa operaia stessa.

Ciò che avevamo fatto un tempo, e che non è ora stato fatto, bisogna riprenderlo, e far sì che queste masse intendano che questa vita nuova che noi vogliamo instaurare nel nostro Paese, potrà essere domani, soprattutto se esse masse ne saranno la base e lo strumento costruttivo. Tutti i partiti sono mancati a questa loro funzione. È mancato a questa funzione, anche e soprattutto, il partito che oggi sta al Governo.

DOSSETTI. Perché?

SIMONINI. L’onorevole Dossetti mi attendeva ad un altro traguardo. Sulla sua orgogliosa sicurezza ha contato l’onorevole De Gasperi: otto milioni di voti, 207 deputati, buttati sulla bilancia in un certo momento, hanno portato il partito ad assumere delle responsabilità, delle responsabilità che sono sproporzionate a quella che è la sua reale efficienza nel paese, a quello che è il suo peso politico effettivo, e che l’hanno costretto ad accettare dei compagni di viaggio molto pericolosi che Io potranno portare ad affrontare e a fare affrontare al Paese (se questa situazione perdurerà) delle pericolose avventure, pericolose non soltanto per il partito, ma purtroppo per il paese stesso!

Noi abbiamo sostenuto già nelle precedenti discussioni, e particolarmente nell’ultima discussione sulle dichiarazioni del Governo, che una certa azione del Governo dovesse rispondere ad un determinato piano. Ma hanno paura del piano tutti!

Adesso hanno paura del piano anche da questa parte, se devo giudicare da quanto ha detto Morandi ieri. Ha paura del piano Corbino, il quale ha scoperto nientemeno che la carestia minaccia il mondo da quando i Governi si sono assunti il compito di pianificare la vita dei popoli. Ma l’onorevole Corbino si è dimenticato di una cosa: che i Governi sono stati costretti ad occuparsi dell’amministrazione di ciò che serve alla vita dei popoli in conseguenza del maggiore consumo e della diminuzione della produzione che è conseguenza della guerra, e non era possibile evidentemente far pervenire ad una parte delle popolazioni ciò che serve alla vita delle famiglie, particolarmente alla parte economicamente più debole delle popolazioni stesse, se non attraverso un regime vincolistico, una disciplina, o – se volete – un piano.

Noi lamentiamo non che il piano non ci sia stato. Volete forse sostenere che un piano ci sia stato nel nostro Paese, specialmente in materia alimentare?

Non c’è stato un piano. Non solo: ma non c’è stata mai, neanche in questa Assemblea, una discussione sulla politica alimentare del Governo, discussione che servisse a far sentire al popolo italiano che qualcuno pensava a questi problemi.

Benché la terza Commissione permanente dell’Assemblea Costituente – che io ho l’onore di presiedere – abbia chiesto più volte che la politica alimentare del Paese fosse portata qui in discussione, il Governo ha fatto sempre orecchio da mercante. Perché? Perché io ebbi il torto forse di chiedere che questa discussione fosse qui portata in occasione di una certa legge, di una certa leggina della Presidenza del Consiglio che dava valore di legge a certe disposizioni dell’Alto Commissariato per l’alimentazione su quello che fu lo scandalo del formaggio grana, sul quale per carità di patria sarà forse bene non tornare.

La politica alimentare non si è potuta discutere qui e credo che sia stato un gravissimo errore non dare la sensazione al popolo italiano delle difficoltà verso le quali marciava e dell’interessamento che chi aveva il dovere di farlo portava al problema del suo pane quotidiano. Si parla di mercato nero. Ma mercato nero in questa materia non esiste! Si può dire che è mercato bianco! Voi andate fuori di questo palazzo ed imboccate il primo vicolo a sinistra o a destra, e trovate che si vende pane bianco, mentre leggete sui giornali che ci sono città senza grano e senza farina!

La disciplina manca perché manca il senso del civico dovere (è vero) che è preminente presso altre Nazioni di Europa; ma alla disciplina bisognava sostituire l’intervento dell’autorità che doveva agire come non ha mai agito. E voglio ricordare un piccolo episodio. Per un modesto pacchetto di sigarette venduto alla borsa nera, noi abbiamo visto nella nostra città, una donna vedersi sottratta la licenza di privativa e nello stesso giorno abbiamo visto scatenata per la città la polizia tributaria, la guardia di finanza a mettere in contravvenzione, a requisire tutto ciò che incontrava e che puzzava di tabacco. Sono tornato a Roma col cuore aperto alla speranza ed ho detto: finalmente cominciamo a fare sul serio in questa materia!

Ma arrivato a Roma ho visto che le sigarette si continuano a vendere liberamente dappertutto. E lo Stato è assente ed ignora questa truffa che si esercita, ai danni di chi? Ai danni dello Stato stesso.

DE GASPERI, Presidente del Consiglio dei Ministri. Non ne possiamo produrre abbastanza.

SIMONINI. In questa materia io non sono molto profondo, perché non sono un fumatore. La legge però, onorevole De Gasperi, è uguale per tutti. Perché volete imprigionare in una città e lasciare libero il commercio nelle altre? È questa una disuguaglianza nell’applicazione della legge che determina il dispregio per la legge stessa, perché nulla è più dannoso del fare una legge per non applicarla, come nulla è più dannoso che applicare una legge con misure diverse.

Una voce a sinistra. La legge è uguale per tutti; la giustizia non è uguale per tutti.!

SIMONINI. Grazie, avvocato!

E qui entriamo su quel terreno della pianificazione. Per esempio, a Milano ed anche a Roma e dappertutto è stato detto che si costruiscono case, palazzi e poi vengono venduti gli appartamenti a vani che vengono a costare 2 milioni, due milioni e mezzo ciascuno. Ha detto Giannini che dobbiamo lasciar fare perché in questo modo si dà da lavorare agli operai. È vero che sono gli operai che costruiscono i palazzi, ma si usano mattoni, cemento, calce che mancano per fare le case popolari e la gente continua a vivere nei tuguri. Provate, onorevoli deputati, a fare un giro a cinque o sei chilometri dal centro di questa grande città, andate fuori, nei piccoli quartieri a vedere come vive certa povera gente. E del resto, perché dovrei insistere su questo argomento se siamo su ciò tutti d’accordo? Ma intanto il piano continua a fare paura. Come i consigli di gestione. È una magnifica legge elaborata dai Ministri Morandi e D’Aragona, con una bellissima relazione introduttiva. Ma non se ne parla più. Quando se ne parlerà? Se ne ha paura. Ma a torto.

Immediatamente dopo la liberazione un industriale mio amico, della mia città, venne da me perché gli era stato presentato un progetto di consiglio di gestione di sette articoli. Il settimo era quello aggiunto dalla commissione interna della sua fabbrica dove la massa operaia si sentiva più portata a questa ardita conquista. I primi sei elaborati dalla Camera del lavoro erano, dirò così, giudiziosi, accettabilissimi anche da parte dell’industriale. Diceva però il 7°): «Qualora si determini un contrasto fra il consiglio di gestione e il proprietario privato, il consiglio di gestione estrometterà il proprietario e continuerà la gestione per conto suo». Era spaventato. Io gli dissi: «abbia fiducia del senso di equilibrio che è innato nel popolo italiano. Porti questa gente a vedere veramente come l’industria si conduce, e vedrà che non la metteranno mai fuori». Infatti è ancora oggi padrone della sua azienda.

Ma, dice giustamente l’amico Morandi (l’autore di quei 14 punti che sono pure un piano, anche se cucito con filo bianco, ma pure sempre un piano che il Governo ha accettato e non so in che misura veramente applicato), se noi attendiamo quell’avvio che dovrebbe venire dal Consiglio economico nazionale, attenderemo per venti anni. Penso ce ne vorranno molti di più, a giudicare da quello che ho avuto occasione di sentire durante i primi due giorni di discussione e da quello che ho avuto occasione di vedere nelle relazioni introduttive che sono state preparate dal Governo. Vi sono dei problemi che non possono attendere le elaborazioni e le inchieste del Consiglio economico nazionale. C’è un problema pesante nel nostro Paese: quello della disoccupazione. Qui occorre un intervento deciso. Noi abbiamo approvato l’altro giorno un provvedimento di legge che parla d’imposizione di mano d’opera in agricoltura. Bisogna camminare in questa direzione se si vuole assorbire in gran parte quella mano d’opera disoccupata che oggi costituisce preoccupazioni per l’onorevole Scelba, ma anche una grande preoccupazione per coloro che hanno a cuore gli interessi della classe operaia, perché è tutta gente che non ha da mangiare a casa propria.

Bisogna guardare soprattutto alla possibilità di sviluppo della nostra agricoltura. Quando noi pensiamo e sentiamo parlare di riforma agraria, vediamo molta gente allargare e aprire occhi ed orecchie e spaventarsi. Si fa una gran confusione fra riforma agraria e riforma fondiaria. Effettivamente bisogna riconoscere che in questa materia una grande chiarezza non c’è mai stata; ma non dimentichiamo quello che ci hanno detto coloro che in essa sono profondi. Mi appello ad uno che non è certamente dei nostri, Arrigo Serpieri, che ci consiglia di avvicinarci con cautela e rispetto all’agricoltura; di parlare con cautela di riforma agraria. Ma ci indica anche la possibilità di trasformazioni, di miglioramenti della condizione agraria nel nostro Paese, tanto da poter offrire una maggiore possibilità di collocamento di mano d’opera, di assorbimento di bracciantato, e permetterci di affrontare e risolvere – se non in tutto, in parte – in attesa che si aprano le grandi correnti d’emigrazione, il problema del collocamento di quel bracciantato agricolo che tante preoccupazioni ha dato in questi giorni al Paese, e specialmente al Ministro Scelba. Bisogna aumentare le possibilità di immissione delle grandi masse alle compartecipazioni agricole. Ciò potrà essere il risultato della realizzazione di un ardito piano di sviluppo delle bonifiche che sin’ora si sono svolte con piani non sempre ben ordinati, ma che dovranno essere oggetto di cura d– parte di questo Governo o del Governo più rispondente agli interessi della classe lavoratrice e dei nostri tempi, che all’attuale dovrà succedere.

Pensate soprattutto, signori del Governo, alla immensa miseria che imperversa nel nostro Paese in certe zone. L’onorevole Corbino ci parla dei 350.000 bagnanti di Ostia, e io sono ben lieto che ad Ostia siano potuti andare, in ragione di un terzo, i romani e sarò più lieto quando saprò che tutti potranno andare a Ostia, perché vuol dire che almeno a casa essi hanno da mangiare se hanno soldi da spendere per recarsi ad Ostia. Ma guardiamoci intorno; non dirò di Milano; ma specialmente di Roma e di Napoli: siamo circondati continuamente da bambini i cui volti tradiscono patimenti e miseria. Non mi si venga a dire che esiste una organizzazione dell’accattonaggio. Può anche esser vero, ma la miseria si vede lo stesso in quelle povere ossa, che spuntano spesso da camicie stracciate e lacere: peggio ancora se c’è anche l’ignominia dell’organizzazione dell’accattonaggio che fa leva su tutta questa miseria. Sono questi problemi grossi: bisogna pensare ad essi e guardare a questi problemi, ai quali guarda soprattutto – ed è suo dovere – la Confederazione generale del lavoro. La Confederazione generale del lavoro, che è oggi una grande forza politica nel nostro Paese, e che deve essere preservata da possibili scissioni. Io colgo l’occasione volentieri, io che sono tra coloro che per diverse ragioni (che qui non ho da ripetere, perché non è questa la tribuna da cui possano essere esposte determinate idee) si sono trovati e si troveranno ancora lungo la strada in polemica con gli attuali dirigenti della Confederazione, colgo l’occasione per dire che l’unità sindacale è oggi una forza basilare della nostra Nazione e penso altresì che se la classe operaia fosse disunita e l’unità sindacale spezzata, ciò porterebbe ad un enorme aumento delle difficoltà del nostro Paese.

Quindi noi siamo per l’unità, ma vorremmo che la Confederazione generale del lavoro diventasse uno strumento veramente capace di inserirsi nella lotta, attrezzato per contare e pesare nella risoluzione dei problemi della vita del nostro Paese e fare una sua politica. Chiediamo che essa sia apartitica e domandiamo che nella sua azione non senta l’influenza ed il peso delle decisioni e della volontà dei partiti, ma vorremmo che la Confederazione facesse una sua politica e prospettasse le soluzioni dei problemi della categoria e della classe nel quadro dell’interesse nazionale, sì da far coincidere gli interessi di quella determinata categoria e della classe con gli interessi nazionali, così come si è sempre fatto e sempre si fa dovunque esiste un movimento sindacale veramente forte, che sa dire il suo pensiero sui gravi problemi politici dell’ora. Vorremmo che la Confederazione ci prospettasse il suo pensiero sul problema delle grandi riforme di struttura di cui si parla alle masse operaie da tre anni a questa parte, senza mai riuscire a indicare nulla di concreto.

Molto spesso la Confederazione del lavoro ha appoggiato la soluzione di determinati problemi prospettati dai partiti politici, mentre è verso essa e verso le sue soluzioni che dovrebbe convergere l’appoggio dei partiti politici. Ma, compagni (l’abitudine di parlare nelle assemblee socialiste mi ha portato a chiamarvi compagni, una parola che mi è cara, anche se da qualche parte è respinta), onorevoli colleghi, al partito politico può essere possibile prospettare la soluzione di un problema che si proietta nell’avvenire, ed il partito politico può anche essere sconfitto e trovare nella sconfitta una ragione di più per rafforzarsi nella sua convinzione e resistere alla battaglia.

Ma alla classe lavoratrice, che ha determinati diritti da difendere e precisi interessi che sono quelli rappresentati dal pane delle famiglie dei lavoratori, alla classe lavoratrice non è consentito prospettare una soluzione, un’impostazione, una battaglia che sia fuori dalla possibilità della realizzazione. Non è consentito cioè associare la sua sorte alla sorte del partito politico.

Qualcuno ha affermato che la classe operaia è stata battuta. Io affermo che la classe operaia non è stata ancora battuta, anche se la situazione che si è creata nel Paese può far credere che determinati partiti politici possano trovarsi in condizioni diverse o di minor prestigio di quelle di ieri.

Ma la classe operaia potrebbe essere battuta se questa situazione non avesse un rimedio. Ed è a questo rimedio che noi dobbiamo guardare. Questo rimedio noi lo possiamo trovare se riusciremo a individuare lo strumento che ci permetta la soluzione che dovrebbe correggere l’attuale crisi.

E mi riallaccio a quanto ho detto inizialmente facendo mia l’affermazione di Lussu. Come? Ecco il punto. Ne parliamo nei corridoi tutti i giorni. Ma prima di addentrarmi all’esame rapido, che vi porterà via pochi minuti, di questo problema eminentemente politico, io voglio dire ancora una parola su quello che è il problema del giorno: l’occupazione delle terre incolte. Ho letto stamane sul giornale che non vi sono terre incolte nel Lazio. Io non lo so. Può darsi, ma non conosco questa regione. Certo, terre incolte in Italia ve ne sono, ma vi sono soprattutto molte terre mal coltivate, ed è in quella direzione che dovrebbe puntare la riforma agraria, una riforma agraria intelligente che offra prospettive e possibilità di lavoro e, attraverso l’utilizzazione del suolo nazionale, anche la possibilità di dare al popolo italiano quel pane che gli manca. Ecco il grande problema. Confederazione del lavoro e Governo potrebbero fare molto in questo campo. Dare lavoro agli italiani e aumentare la produzione agraria si può, pensando in tempo, predisponendo un piano, creando grandi cooperative, disciplinando l’occupazione delle terre mal condotte, immettendovi, attrezzate debitamente, queste cooperative. Vi sono nel nostro Paese migliaia di tecnici agrari che non attendono che di essere utilizzati, come vi sono migliaia di braccia che non attendono che essere avviate al lavoro. Dare sementi, dare concimi, dare macchine, dare credito a questa gente organizzata in forma cooperativa. Questa è la riforma agraria. Una riforma modesta alla quale il Governo e la Confederazione dovrebbero chiamare a collaborare, se non vengono al richiamo della convinzione, con quello della legge, le classi proprietarie. Ed allora molte cose nel nostro Paese che oggi sembrano difficili diventeranno più facili. Ma occorrerebbe soprattutto che si intendesse una grande verità: che nel nostro Paese vi sono delle forze sociali retrive, arretrate, che noi dobbiamo battere in breccia se vogliamo affrontare uno qualsiasi di questi grandi problemi e soprattutto se vogliamo affrontare il problema grave, centrale, basilare della crisi politica del nostro Paese. Queste forze sociali sono il latifondismo, i monopoli industriali, la dittatura del capitale finanziario che sono una pesante ipoteca, come è stato dimostrato da tanti oratori, sull’azione del Governo, o di una parte del Governo. Non dirò su quella dell’onorevole Gonella, sul quale pesa invece l’accusa di una specie di ipoteca clericale. (Proteste al centro).

Lo dimostreranno, caso mai, i tecnici che interverranno in questa discussione. Contro queste forze noi dobbiamo lottare, queste forze dobbiamo battere in breccia, se vogliamo aprire la strada ad una democrazia nel nostro Paese che non sia solo formale. Non sono larve del passato, onorevole Dossetti. Sono realtà presenti nel nostro Paese. Ma, come ho detto: noi dovremmo andare alla ricerca di questo strumento politico. Io non farò, come l’onorevole Giannini, un tentativo di mercato in pubblica seduta. (Si ride a sinistra). È abitudine, è consuetudine nel nostro Paese di risolvere questi problemi nei corridoi, fuori da quello che è l’ambiente nel quale dovrebbero essere risolti, e l’ambiente dovrebbe essere questa Aula.

È un peso che porteremo ancora, io spero, per poco tempo, perché credo, spero, mi auguro che il popolo italiano possa arrivare a correggere la formazione di questa Assemblea. Non credo però alla possibilità del trionfo di un solo partito. Evidentemente non è nelle prospettive dell’immediato domani e vorrei quasi dire: è augurabile che non sia nelle prospettive dell’immediato domani questa soluzione. Dove troveremo la base per la creazione di questo strumento politico, di questo Governo nuovo, diremo così, per intenderci meglio? Ma vediamo di non vendere la pelle dell’orso prima di averlo ammazzato, perché sembra che il Governo non abbia nessuna intenzione di andarsene e nessuno deve credere sul serio che sia compromessa per sempre la solidarietà dei qualunquisti. Ma è certo che se il Governo vuole porsi nella condizione di assumere una determinata maggiore autorità nei confronti delle classi del lavoro, deve allargare la sua base in questa parte dell’Assemblea. (Commenti al centro).

Una voce al centro. Fin dove?

SIMONINI. È una domanda che ci è stata posta da qualcun altro: «fin dove?». Non dirò cosa ho risposto: il problema è di sapere quello che si vuole fare e di incontrarci fra uomini che vogliono giovare veramente, realmente al Paese! Il mio partito in questa materia non ha pregiudiziali di sorta, non prende l’iniziativa di nessuna esclusione, non intende precludersi nessuna possibilità: ciò che urge oggi è trovare la formula che dia lo strumento politico che ci permetta di superare l’inverno e di arrivare alla primavera, perché in primavera il popolo italiano ci giudicherà e, se avrà giudizio, forse ci manderà a spasso tutti. Ma l’importante è che il Governo e il Paese non ignorino che vi sono dei problemi oggi, e sono propri di quella enorme massa di italiani che noi presupponiamo di rappresentare, chi più, chi meno. Perché, colleghi comunisti, ha ragione Saragat quando vi dice che voi non dovete arrogarvi il diritto di essere gli unici e soli rappresentanti della classe operaia. E io voglio correggere anche ciò che egli ha detto concludendo il suo discorso e riferendosi ad una certa frase di Rosa Luxemburg: noi riteniamo non di essere sulla strada che ci permetterà di incontrarci con la classe lavoratrice, ma riteniamo di essere oggi sul terreno, sulla piattaforma di un’azione politica e sociale che ci permette di difendere gli interessi della classe lavoratrice! In quell’azione, che il vostro Togliatti ha definito di «unità nella ricostruzione», noi non poniamo, come ho detto, il problema della esclusione di alcuno, ma pensiamo che la classe lavoratrice oggi potrebbe bene essere efficacemente difesa anche da un Governo al quale non partecipasse il Partito comunista. (Commenti).

E quanto ha affermato l’onorevole Presidente di questa Assemblea domenica, in una grande adunata a Bologna, vi dà la riprova e la conferma di ciò che io affermo. Egli ha detto, parlando alle masse organizzate che erano affluite alla festa della stampa democratica, che «in uno Stato moderno i lavoratori così compattamente organizzati possono sorvegliare lo sviluppo della vita nazionale anche se, per intanto, gli uomini che esprimono più direttamente il loro pensiero (in questo caso sareste voi) non seggono al centro dello Stato».

La vostra funzione è la funzione di un grande partito, diremo così di estrema sinistra, che non si deve esaurire, non si può esaurire nella ricerca affannosa di posti al Governo è può pesare lo stesso nella politica del Paese, se realmente ha il consenso di grandi masse consapevoli.

Una voce a sinistra. Allora volete andare voi al Governo…

SIMONINI. Noi non ci siamo ancora andati.

So che voi volete dare alla classe lavoratrice ciò che noi pure le vogliamo dare e che non può essere il risultato di una improvvisazione (Commenti – Interruzioni all’estrema sinistra) né il frutto di un colpo di bacchetta magica: tutte le grandi conquiste sono faticose a realizzarsi ed io voglio fissare qui un pensiero espresso sempre dal Presidente di questa Assemblea in quella adunanza di Bologna, pensiero altamente nobile, istruttivo, indicativo, che ci permette di perdonargli d’aver rotto la tradizione secolare di questo Parlamento che vedeva il Presidente estraniarsi dalla vita politica attiva. (Approvazioni al centro).

Egli parlava, in quell’adunanza, del travaglio di un secolo, riferendosi al tempo in cui a Torino era stato promulgato lo Statuto. E concludeva: «Quei lontani nostri progenitori di un secolo fa, anch’essi lottando, erano nelle loro lotte impazienti e credevano che nel giro di pochi anni avrebbero raggiunto le loro mete e consolidato le nuove istituzioni degli italiani». Egli sottolineava appunto quale complesso di destini, di gioie, di dolori abbia rappresentato quest’era che l’anno prossimo troverà la sua conclusione.

Queste cose, onorevoli colleghi, diciamo noi oggi, convinti, profondamente convinti, di rappresentare collegialmente gli interessi della classe lavoratrice italiana: e sono cose che nel nostro Paese si dicono da molti anni. C’è stata una bufera, c’è stata un’interruzione che è durata un quarto di secolo, durante il quale non abbiamo più potuto parlare questo linguaggio alle classi operaie: ma è pur sempre questo il linguaggio che noi dobbiamo rivolgere alle masse lavoratrici.

Concludendo, vi prego permettermi di leggere alcune parole che ha qui pronunziato, in questa stessa Aula, mentre si discuteva intorno ad un Governo Zanardelli, colui che io considero come mio maestro per aver vissuto a lui accanto e per aver appreso da lui quel poco che so, Camillo Prampolini…

Una voce all’estrema sinistra. Ma che adesso hai dimenticato.

SIMONINI. …e voi vedrete, colleghi comunisti, quanto siano di attualità in questo momento le parole di quell’uomo: «Confrontate l’alba del movimento operaio inglese con quest’alba di redenzione del nostro proletariato. Quella inglese fu un’agitazione che si iniziò e si svolse specialmente presso il proletariato industriale, e la nostra invece comprende già molta parte del proletariato agricolo, meno preparato, più rozzo, più misero dell’altro. Eppure, ciò nonostante, la lotta fra i padroni ed i lavoratori in questi ultimi tempi ha proceduto in Italia quasi senza scosse, quasi senza incidenti gravi; cioè in modo veramente mirabile e di cui abbiamo tutti il diritto di essere orgogliosi se lo paragoniamo a ciò che durante lo stesso periodo dell’organizzazione della resistenza avvenne in quell’Inghilterra, della quale tutti siamo soliti a menar vanto per la sua civiltà».

Non vi sembra che queste parole possano inquadrarsi nella nostra situazione attuale? Non è un’alba questa che sorge? Non è vero che in questi due anni la classe operaia italiana ha dato dimostrazione di alto senso di civismo per il modo con cui ha affrontato le dure battaglie del momento?

Ma concludeva Camillo Prampolini affermando che «i lavoratori sono maturi alla libertà». Non insultateli (onorevole Scelba, queste parole andrebbero bene anche per lei) dicendoli immaturi alla libertà; i fatti vi hanno smentito; ma non ostinatevi nel proposito folle di togliere loro la libertà; essi potranno abusarne qualche volta, anzi, ne abuseranno certamente, cioè commetteranno inevitabilmente qualche errore – chi di noi non ha errato e non erra? – Ma voi stessi li spingereste fatalmente al massimo errore, o meglio, al massimo danno, nostro, vostro, di tutti, perché li costringereste alla violenza sistematica, voluta, premeditata, organizzata, se, dimentichi del passato della vostra stessa classe e dei principi di diritto pubblico da voi stessi proclamati, precludeste loro le vie dell’azione nell’ambito della libertà».

Sono parole queste che noi possiamo ancora ripetere e ricordare a monito dei governanti di oggi e ad insegnamento per noi.

Noi guardiamo all’avvenire come all’armonica visione di una società civile, di una nuova società civile italiana che risorge, nella quale si affermano i diritti del lavoro, mentre cadono privilegi e pregiudizi, e nasce il nuovo ordine socialista. (Applausi – Congratulazioni).

PRESIDENTE. L’onorevole Quintieri Quinto ha presentato il seguente ordine del giorno, firmato anche dagli onorevoli Lucifero, Condorelli, Fabbri, Cifaldi, Bellavista, Villabruna, Cortese e Perrone Capano:

«L’Assemblea Costituente, preso atto delle comunicazioni del Governo, ne approva le attuali direttive politiche ed economiche, raccomandando che i provvedimenti necessari per riportare alla normalità la produzione e la vita del Paese siano accompagnati da tutte le cautele atte ad attenuare gli inevitabili contraccolpi di un cambiamento di congiuntura, e passa all’ordine del giorno».

L’onorevole Quintieri ha facoltà di svolgere il suo ordine del giorno.

QUINTIERI QUINTO. Non premetto la promessa consuetudinaria di brevità, fatta anche dal nostro collega che abbiamo ascoltato con interesse, ma che abbiamo ascoltato per un’ora e mezzo; non mi sento quindi di dare agli amici una sensazione di freddo con una promessa che i fatti hanno mostrato fallace.

Cercherò, poiché al nostro Governo sono state date delle idee in ogni campo, sono stati forniti argomenti di meditazione in ogni direzione, di limitarmi soltanto a poche e precise cose, per vedere su quali punti si possa imperniare e precisare il dissenso e su quali punti invece noi possiamo essere d’accordo.

Tutti hanno detto che la crisi attuale è una crisi politica. Esattissimo! In questo momento si tratta di una crisi esclusivamente politica.

Ma le basi, ma gli argomenti, ma gli spunti sono economici.

E poiché il mio mestiere è quello di occuparmi di qualche questione economica, mi limiterò esclusivamente al mio campo.

Confesso che questa Assemblea non mi sembra, per come è sorta, per le sue tradizioni, per i suoi sentimenti, l’ambiente più adatto per trattare delle questioni economiche. Questo era uno strumento forgiato per altri compiti. Qualche ricordo scolastico mi suggerirebbe, forse, una funzione completamente diversa, perché ricordo che, quando Giovanni Senza Terra dovette subire dai suoi baroni l’imposizione della Magna Charta, fu per tutelate i mercanti, i commercianti, diremo i capitalisti, della City, dalle imposizioni che il fisco faceva gravare sulle loro spalle.

Ora, il nostro Parlamento ha una funzione del tutto diversa. C’è qualche cosa che rende difficile l’uso di questo prezioso e delicato strumento per affinare e discutere le questioni economiche. E questo qualche cosa (perdonate!) è la mancanza di moderazione, è la mancanza di obiettività, è soprattutto la mancanza d’una facoltà che io risento: la facoltà di poter dire agli avversari, tutte le volte che vorrei, che hanno ragione, e naturalmente di sentire dall’altra parte le stesse ammissioni.

Ci sono molti punti nelle questioni finanziarie sui quali non vedo come non ci possano essere divergenze, penso dunque che queste divergenze siano dovute talora solo alle posizioni reciproche dei contendenti, in questa Aula, perché vedo che quando i colleghi che stanno nell’emiciclo passano al banco del Governo difendono qualche volta opinioni opposte a quelle che sostenevano quando stavano nell’emiciclo, e viceversa.

Ho promesso che avrei trattato problemi precisi; vengo, quindi, al più attuale di essi.

Restrizione del credito. C’è stata in questi ultimi tempi, specialmente da poche settimane, una certa apprensione nel paese per delle pretese restrizioni del credito. Vorrei cominciare col dire che si è evidentemente fraintesa qualche frase, forse non felicissima, da parte dei preposti al regolamento del credito e soprattutto alla situazione bancaria.

Siccome altra volta ho definito delicata la condizione delle banche, mi sembra che, anche adesso (sebbene siano le undici e mezzo di sera) valga la pena di dirne qualche parola.

La svalutazione monetaria ha profondamente alterato il funzionamento del meccanismo creditizio. Le ragioni sono profonde. È svanito il capitale liquido, quello che le aziende non avevano investito in beni reali. Non c’è la possibilità di smobilitare quella parte di capitali ancora esistente nelle aziende, investita in beni reali, sia per le difficoltà delle vendite e i rischi che ancora sono collegati con la moneta, sia perché una parte di questi beni è necessaria al funzionamento della banca.

Quindi vi sono, in pratica, gli istituti che hanno salvato parte del loro capitale ma lo hanno immobilizzato, e quelli che non hanno salvato nulla. Le banche hanno visto accrescersi fortemente i loro depositi; con questi siamo a circa 17-18 volte le cifre dell’anteguerra perché a fine luglio si è arrivati a quasi 1000 miliardi di fondi di terzi. Ma questo accrescimento di depositi ha anche portato con sé uno spostamento fra le varie specie di essi. Sono aumentate soprattutto quelle che erano somme a vista, somme da tenere a disposizione della clientela bancaria.

Ora, è avvenuto questo fenomeno: siccome non si dànno più interessi sui depositi, la gente non ha nessun interesse di depositare le somme di cui dispone. Sono invece gli assegni circolari ed i vaglia che si sono accresciuti per delle somme enormi, perché mentre i depositi non sono aumentati che 17-18 volte, gli assegni ed i vaglia sono aumentati di 200-250 volte l’ammontare dell’anteguerra. Notate che l’assegno circolare permette di costituire una forma di conto corrente completamente anonimo. Può andare qualsiasi sconosciuto a fare un vaglia. Si può anche fare un vaglia ad un nome inesistente e poi si conserva nel cassetto questo titolo di credito che si potrà esigere in ogni momento. E non c’è modo di rintracciarne il beneficiario; non è possibile raggiungerlo in nessuna maniera, specialmente se il titolo di credito è stato emesso con un nome falso. In questa situazione, con questa mole di depositi non garantiti da capitali propri degli istituti, con questa massa di assegni circolari pagabili a vista, le banche evidentemente devono usare la massima prudenza. Ora, in un anno, dal luglio dell’anno scorso, abbiamo avuto un incremento di circa 460 miliardi di depositi, 460 miliardi che sono stati assorbiti interamente dalla richiesta della clientela delle banche. C’è stata in tale senso una pressione fortissima. Evidentemente abbiamo avuto nel nostro Paese, negli ultimi 18 mesi, un forte sviluppo in tutti i rami dell’attività economica – dirò poi per quali ragioni – e quindi le banche hanno risentito al massimo di questa pressione. C’è qualche cosa di più; le banche non riescono a fare il loro bilancio economico perché le spese sono salite in proporzioni maggiori di quella in cui si siano accresciute le risorse. Si è andati così avanti per cercare di incrementare gli utili di gestione che le banche non funzionano più neppure nel regime di monopolio che è quello attuale, perché hanno a mano a mano, ridotti zero i tassi dei depositi che venivano loro portati (e quindi non c’è più nessun tornaconto da parte del pubblico a portare il denaro agli istituti di credito). D’altro canto si sono elevati al massimo gli interessi sulle cambiali e sui fidi.

In questa situazione le banche hanno investito tutto quello che potevano investire. Ora, di recente, la Banca d’Italia ha detto ai direttori degli altri Istituti: Signori, voi conoscete il mestiere; vi renderete conto di che cosa significa investire più del 70-75 per cento delle vostre disponibilità, disponibilità di cui dovete tenere una parte pronta in ogni circostanza ed in ogni momento perché, data la delicatezza della situazione, possono esservi prelievi imprevisti ai quali dover far fronte; qualunque incrinatura al credito delle banche, che fortunatamente oggi è alto, potrebbe avere ripercussioni serie. Quindi, con il fido alla clientela, voi più in là di quanto abbiate fatto non potete andare. Su questo ragionamento convengo in pieno con l’istituto di emissione.

Nella stessa riunione si è anche detto alle Banche: voi dovete aiutare lo Stato. Qui debbo osservare che non vi è organismo finanziario il quale abbia i mezzi, in questo momento, di aiutare lo Stato, perché effettivamente i bisogni del commercio e dell’industria sono così elevati, che le possibilità bancarie di aiutare lo Stato si riducono a ben poca cosa. Ma c’è anche un’altra questione: in questi ultimi mesi la congiuntura finanziaria ha avuto una variazione nella sua andatura. Infatti, fino a qualche mese fa, fino a luglio, c’è stato un incremento dei depositi, incremento che con il mese di luglio è finito. Io vorrei richiamare l’attenzione, soprattutto dei Ministri finanziari, sul fatto che l’accrescersi del gettito fiscale è senza dubbio benefico, però dobbiamo tener presente che rappresenterà altrettanti mezzi sottratti all’economia privata. Quindi nell’ordine del giorno di fiducia al Governo raccomando di fare la maggiore attenzione, per mitigare i contraccolpi inevitabili, od almeno possibili, data la massa ingente di circolante che non affluisce più all’industria ed al commercio.

Se il commercio e l’industria si troveranno messi alle strette, ricorreranno, per sottrarsi alle difficoltà, ad ogni pressione sullo Stato. Occorre essere preparati per resistere in una forma ragionevole e ridurre i danni che anche soltanto un inizio di deflazione può provocare. C’è poi un altro punto importante in discussione ed è questo: la selezione delle operazioni delle banche. Richiamo l’attenzione su di un fatto: 1’80 per cento e più, forse, dei depositi bancari è sotto il controllo dello Stato, perché è lo Stato che esercisce oggi l’industria bancaria; pensate, a tale proposito, alle banche di diritto pubblico, o a quelle di interesse nazionale ed alle loro collegate, alle Casse di risparmio, alle Casse postali. Oltre 1’80 per cento, dunque, come ho detto, delle riserve bancarie italiane sono in mano dello Stato. E allora in che cosa può consistere questo controllo? Questo controllo dovrebbe essere affidato alla Banca d’Italia che ha, per esercitarlo, a sua disposizione un mezzo efficace classico: quello del risconto. Senza contare il diritto che le dà la legge per la tutela del risparmio e per l’esercizio del credito di seguire le operazioni di fido. Quando una banca ha bisogno dell’appoggio della Banca d’Italia, questa ha modo di controllare gli investimenti. Le ordinarie disposizioni per la tutela del risparmio dànno, come ho detto, alla Banca d’Italia la possibilità di esaminare le operazioni in cui cambiali sono presentate al risconto dai diversi Istituti che le hanno fatte. Aumentare ed integrare questa specie di sorveglianza, in questo momento, può essere una cosa utile sia per mitigare le operazioni speculative, sia per poter rispondere alle lamentele ed alle proteste che, più o meno in buona fede, verranno fatte a questo proposito.

Venendo poi alla parola «speculazione», alla quale parola ed alla quale tendenza l’onorevole Scoccimarro mi pare abbia dato una importanza eccessiva, dirò questo: è evidente che in un momento di svalutazione monetaria vi sia della speculazione. Ma che cosa intendete per speculazione? Non credo si possa considerare strettamente colpevole e speculatore l’industriale o il commerciante che vede ridursi il suo capitale giorno per giorno, se cerca di difendere i suoi mezzi di lavoro, perché per l’industriale e per il commerciante il capitale rappresenta un mezzo di lavoro come la biblioteca per il professionista, e gli attrezzi per l’artigiano.

Ammetto però che insieme con questi ce ne sono altri che allargano gli impianti, che migliorano le scorte facendo debiti e confidando, per pagarli, solo sulla svalutazione del denaro. Lì è opportuno intervenire, con moderazione e con criterio, ma bisogna intervenire; un’azione governativa si può perfettamente approvare, su per giù con le direttive seguite fin’ora. Questo è l’argomento principale sul quale volevo intrattenervi. Mi pare di non essermi troppo dilungato.

Dirò poche parole sulla deflazione. Bisogna amarissimamente piangere sulla inflazione e sulla ingiustizia profonda e la nequizia della inflazione. Badate però che la deflazione sarà qualche cosa di peggio. Io ricordo il sogno del Faraone delle sette vacche grasse e delle sette magre. Le magre le metterei a simboleggiare la deflazione. Bisogna cercare di evitare contraccolpi psicologici, perché questi potrebbero portare un arresto notevole in tutta la produzione; tanto più che si specula non solo al rialzo, ma anche al ribasso dei prezzi, perché infine, i primi ad essere colpiti da tutte queste ripercussioni economiche sarebbero i ceti più modesti. La differenza di opinioni non può vertere che sui mezzi come attutirli. Ora, nella deflazione, tutti immaginano che i prezzi scenderanno e che si potrà comprare; che si potrà comprare più di quanto non lo si possa oggi perché ognuno potrà disporre del denaro che possiede ora, con prezzi più bassi.

Purtroppo, se i prezzi scendono di una certa aliquota, il denaro che affluisce nelle tasche di ciascuno diminuisce molto di più: quindi, nuove, enormi difficoltà. Alla deflazione non ha retto nemmeno l’economia americana, che è stata duramente scossa nella grande crisi del 1929-1931, che ha visto diverse migliaia di istituti bancari fallire, ed ha sentito scricchiolare tutta la compagine finanziaria e sociale di quell’immenso Paese. Anche gli americani si son dovuti adattare a svalutare il dollaro ed a fare tutta una gamma di operazioni inflazionistiche perché la moneta non voleva scendere sufficientemente nei confronti dell’oro; tutto al contrario, per questo punto, di quanto accade da noi. Quindi, come vedete, la deflazione è molto pericolosa. Il rallentamento della congiuntura favorevole dei mercati internazionali – a cui accennava l’onorevole Corbino e che è in effetti da attendersi più o meno presto, perché da due anni a questa parte non si distrugge più, ma si è invece cominciato a costruire – è stato iniziato per il soddisfacimento almeno parziale dei bisogni più impellenti del pubblico di tutto il mondo. Anche questo fenomeno per noi avrà le sue luci e le sue ombre, giacché è bene tener presente che la nostra economia è, almeno parzialmente, basata sulle punte dell’economia altrui. Quando gli altri lavorano per il 110 per cento della loro potenzialità, per l’ultimo 10 per cento chiedono la nostra mano d’opera e le nostre merci. A mano a mano che la loro produzione sodisfa in più larga misura i loro bisogni, avremo dall’estero richieste diminuite e le nostre difficoltà economiche si accentueranno; dovremo prepararci quindi ad una aspra concorrenza sui mercati esterni.

Vorrei precisare per ultimo due o tre questioni di cui ho sentito parlare. La prima di queste è il mercato nero. Ci si è scagliati contro di esso, senza tener presente che il mercato nero ha una sua precisa funzione economica, cioè quella di portare i prezzi ad un livello tale che risponda alle necessità del momento, ed al reale valore della moneta. Ci dicono: vedete, c’è il mercato nero, nel quale si possono trovare pasta, pane, dolci e tutto. Ma non è esatto: il mercato nero c’è soltanto per una piccola aliquota di acquirenti ai quali è consentito raggiungere quei determinati prezzi. Si dice: ma il mercato nero ha l’odiosa caratteristica di sodisfare soltanto alcuni consumatori, lasciandone molti altri nell’indigenza. Vorrei far presente all’onorevole Scoccimarro, a questo proposito, che il danno del prezzo politico del pane non è costituito dai miliardi che costa al Governo il prezzo basso di vendita; il danno principale del prezzo politico del pane è costituito dal cattivo uso, dallo sciupio, che si fa del pane. Se si potesse dare il pane di grano, realmente, a tutti al 20 per cento o al 30 per cento del suo valore, esso finirebbe all’alimentazione del bestiame o sciupato in cento altri modi, perché è soltanto il prezzo che può, evidentemente, ridurne in modo efficace il consumo.

Quindi il mercato nero ha una sua funzione economica precisa: quella di portare i beni al loro prezzo effettivo, al loro corso di mercato libero. Perciò esso si è diffuso in tutto il mondo e si riproduce dovunque con gli stessi aspetti.

Ho qualcosa da dire in difesa di un’altra nostra concezione economica: della concezione economica fondamentale del Partito liberale. Ha detto l’onorevole Morandi – e sono perfettamente certo dell’esattezza della sua affermazione – che gli industriali tessili non hanno dato nemmeno un centesimo ai loro lavoratori dei miliardi che hanno guadagnato.

Io dico però che bisognava essere altrettanti San Francesco d’Assisi per dare qualcosa ai lavoratori. Era evidente che nessun tessile – fatta naturalmente qualche rara eccezione – avrebbe dato qualcosa ai propri operai. Ma su che linea deve essere indirizzato il nostro sforzo? Esso deve essere rivolto a ridurre questi margini eccessivi di utile dell’industria attraverso la concorrenza; è solo la libera concorrenza delle forze produttive che può fare da argine all’egoismo degli imprenditori. Ecco l’esigenza della nostra economia; ecco perché noi diciamo: non alterate i prezzi; non fate violenza al naturale equilibrio di essi. Se li alterate, accadrà questo, che quando le cose vanno male per loro gli esponenti dell’industria vi chiederanno aiuti e sussidi a spese della collettività; quando invece andranno bene, allora guadagneranno molto ma non vi daranno un soldo. Io non voglio così, a precipizio, addentrarmi in discussioni sul sistema liberale; ma mi sembra che l’unico mezzo per ridurre gli utili esagerati dei produttori risieda nella possibilità di far funzionare liberamente il giuoco delle forze economiche. A questo proposito cito un ultimo fenomeno. Specialmente nel Nord abbiamo tassi di interesse per operazioni di prestito elevatissimi: si parla del 15, 20, 30 per cento.

Questo è uno di quei tali elementi che possono frenare la speculazione e possono far ritornare in Italia i capitali emigrati fuori e naturalmente attirare anche il capitale estero. Io ho più fiducia in questo fenomeno che in tutto quello che può essere pressione, coercizione e controllo sui cambi. Il danaro è avido e pavido. Bruttissimi difetti, ma è così. Noi dobbiamo, finché vogliamo lasciare agire, nell’attuale struttura del paese, il gioco delle forze economiche, tener conto di queste attitudini.

Ora davvero un’ultima osservazione ed ho finito. Noi abbiamo tutti un grande interesse a che le condizioni economiche del nostro Paese non vadano peggiorando, perché è da queste condizioni economiche che dipende l’indipendenza di esso. Devo dire che ho sentito qui con una certa preoccupazione il Ministro Merzagora descrivere in una forma pittoresca la nostra situazione nei riguardi degli scambi con l’estero, e principalmente con l’America. È verissimo, ma io non credo che il nostro Paese, che è un grande Paese, che ha mostrato qualità eccezionali di lavoro, di tenacia, di resistenza, voglia adattarsi a vivere con questo cordone ombelicale. Anche fisiologicamente è una cosa che va fin quando l’organismo può stare nel grembo materno, ma poi il cordone si deve tagliare. Ora, su questo punto avremmo voluto sentire qualche cosa di più sui programmi del Ministro Merzagora per il futuro. Egli ci ha descritto la situazione e ci ha spiegato i diversi rimedi adottati per fronteggiarla e per riparare ai guai più imminenti. Io mi rendo conto della necessità dell’adozione dei cambi multipli fatta per cercare di incrementare le nostre esportazioni. Ma un programma a lunga scadenza non c’è. Su questo punto richiamo l’attenzione del Governo data la gravità della situazione, che poi non è soltanto una difficile situazione italiana, ma è comune a diversi altri Paesi europei che, come il nostro, sono legati agli scambi con l’estero. L’Inghilterra è nella stessa situazione. I mercati che ci fornivano le materie prime li abbiamo in parte perduti, perché sono i mercati dell’Europa orientale con i quali ancora non abbiamo potuto riprendere i contatti. E sono giustissimi tutti gli sforzi fatti per riattivare gli scambi con la Jugoslavia, con l’Ungheria e con tutti i paesi dell’Europa centrale, orientale e sud-orientale, che sono poi i nostri naturali mercati di sbocco, perché purtroppo gli scambi con l’America, mettendo da parte la forma del tutto particolare della beneficenza, della quale dobbiamo essere grati, gratissimi anzi, gli scambi con l’America in forma reciproca, credo, non saranno facilissimi. L’America è un venditore per eccellenza; è tanto un ricco, un generoso venditore, che regala perfino i beni, ma sarà per noi un cattivo compratore. Quindi, occorre esser cauti nel nutrire grandi speranze di stabilire un duplice scambio di prodotti con l’America.

Ho detto che avrei finito e mantengo la promessa. C’è soltanto una cosa che mi lascia un po’ perplesso e che vorrei chiedere agli amici della sinistra: noi abbiamo una situazione difficile economicamente e tale che può compromettere la difesa della indipendenza del nostro Paese alla quale sono sicuro teniamo tutti. Tale indipendenza politica ed economica evidentemente non è favorita e non è agevolata dagli scioperi, dalle interruzioni dell’attività lavorativa, che portano tra le masse operaie ed i dirigenti, che sono tutti e due elementi egualmente importanti per la produzione, strascichi di rancori e di cattivi rapporti dolorosi e dannosi. Ho saputo che domani noi avremo, per esempio, uno sciopero generale a Roma. Mi permetto di interrogare a questo proposito il Presidente del Consiglio per avere una parola di assicurazione. Se avremo, come spero, una risposta favorevole, credo di aver chiuso bene il mio discorso. (Applausi – Congratulazioni).

DE GASPERI, Presidente del Consiglio dei Ministri. Chiedo di parlare.

PRESIDENTE. Ne ha facoltà.

DE GASPERI, Presidente del Consiglio dei Ministri. Vorrei dire all’Assemblea una parola tranquillante. La tenace opera di mediazione dei colleghi Segni e Marazza è riuscita stasera a fare rinviare la decisione e l’attuazione dello sciopero generale in Roma, la cui minaccia era incombente. Credo che domani si potrà avere una risposta definitiva da parte degli agricoltori e confido che essa sarà tale da dare soddisfazione alle più essenziali richieste dei contadini. Spero che questa decisione possa essere presa domani, in modo da evitare uno sciopero generale che sarebbe senza dubbio molto funesto per la nostra città. (Applausi al centro e a destra).

PRESIDENTE. Il seguito della discussione è rinviato a domani.

Svolgimento di interrogazione.

PRESIDENTE. Gli onorevoli Gasparotto, Pajetta Gian Carlo, Malagugini e Vigorelli hanno presentato la seguente interrogazione con richiesta di risposta urgente:

«Al Governo, per sapere quali provvedimenti abbia preso in questi giorni o intenda prendere, perché siano dati alle industrie milanesi, che si trovano nella condizione di non poter far fronte al pagamento degli stipendi e dei salari al personale, i mezzi di credito necessari per fronteggiare la situazione e assicurare la normale attività produttiva»,

Chiedo al Governo quando intenda rispondere.

DE GASPERI, Presidente del Consiglio dei Ministri. Credo che domani, nel corso della discussione delle mozioni, il Vicepresidente Einaudi sarà in grado di esporre i termini generali della questione, anche per ciò che si riferisce alle industrie milanesi. Per quello che particolarmente riguarda la Breda, posso dire che lo Stato, essendo interessato alla puntuale esecuzione delle proprie forniture, che concernono specialmente il materiale ferroviario, ha potuto già rendere agevole e liquida la situazione.

PRESIDENTE. L’onorevole Gasparotto ha facoltà di dichiarare se sia sodisfatto.

GASPAROTTO. Prendo atto di questa dichiarazione e parzialmente sono sodisfatto, nel senso che essa segnala un avviamento alla soluzione. Il problema è vasto, e interessa solidalmente i datori ed i prestatori di lavoro. Noi non ci siamo preoccupati degli interessi personali degli industriali; ci preoccupiamo degli interessi della produzione e soprattutto del lavoro, perché si minaccia niente meno che la mancata corresponsione dei salari e degli stipendi. Ora, sta bene che si siano già presi provvedimenti. Ieri ho preso atto della risposta scritta ad una interrogazione mia e dei colleghi bergamaschi al Ministro Corbellini, nella quale ci si assicura che sono in via di attuazione elettrificazioni delle linee ferroviarie che da Milano irradiano verso Bergamo, per un miliardo e trecento mila lire.

Parimenti, ho preso atto di una dichiarazione verbale fattami stamane dal Ministro della difesa, il quale intende obbligare o quanto meno sollecitare le ditte concessionarie delle linee aeree civili a dare commesse di aeroplani alle società costruttrici italiane, che minacciano di licenziare interamente le loro maestranze, con che si verrebbe alla dispersione, anzi alla distruzione, di una attrezzatura industriale che domani richiederebbe non un anno ma forse un decennio per essere rimessa in assetto. Quindi il problema si presenta complesso, grave e soprattutto urgente e riguarda una volta tanto gli interessi solidali degli industriali e dei lavoratori.

Io non domando al Governo che arrivi a sovvenire gli industriali perché possano pagare gli operai. Potrei dire, anzi, che i grandi industriali, detentori di cospicui pacchi azionari, i quali hanno realizzato larghi profitti in passato, dovrebbero incominciare essi ad anticipare alle loro aziende le somme occorrenti.

Vista così, la questione riguarda tutta la Lombardia e forse anche tutta l’Italia, perché ove mancasse alle imprese il fido cambiario, tutta la produzione industriale di ditte specializzate in grandi opere verrebbe a subire irreparabili paralisi.

Annunzio di interrogazioni con richiesta d’urgenza.

PRESIDENTE. Sono pervenute alla Presidenza le seguenti interrogazioni con richiesta di risposta urgente:

«Al Ministro dell’interno, per conoscere in base a quale criterio o in base a quale ordine superiore ha agito il prefetto di Campobasso nel disporre un imponente servizio di ordine pubblico, con quasi occupazione militare del centro della città, in occasione di un pacifico comizio popolare colà svoltosi il 28 settembre, creando così uno stato di intimorimento e di panico in quella pacifica e laboriosa popolazione.

«Per conoscere, altresì, perché mai lo stesso signor prefetto in occasione della giornata popolare del 20 settembre (nella quale in Campobasso non vi fu comizio) ebbe a far installare su un balcone della Prefettura una mitragliatrice pesante, senza che vi fosse alcun motivo di ordine pubblico, perseguendo così una politica di intimorimento ai danni della popolazione.

«Sansone, Assennato, Azzi».

«Al Ministro del tesoro, per conoscere le ragioni per le quali, contrariamente alle assicurazioni date alle organizzazioni sindacali dei dipendenti dello Stato ed agli interroganti, di estendere il trattamento dell’indennità di caroviveri concesso al personale residente nei centri capoluoghi di provincia a tutto il personale residente nella provincia, si sia disposto, col decreto legislativo n. 778 del 5 agosto 1947, pubblicato sulla Gazzetta Ufficiale del 21 agosto 1947, n. 190, all’articolo 14, di estendere tale indennità solo ai dipendenti aventi sede di servizio nei comuni della provincia che non siano distanti più di 30 chilometri dal capoluogo misurati su via ordinaria fra le rispettive sedi comunali.

«Dato lo stato di agitazione esistente fra questi dipendenti, chiedesi risposta urgente.

«Morelli Luigi, Arcaini».

«Ai Ministri dell’interno e di grazia e giustizia, per sapere:

1°) se sia a loro conoscenza che da quattro anni la popolazione di Montelepre è posta in blocco fuori legge dalle autorità di polizia preposte alla lotta contro il banditismo, le quali si comportano – e talvolta lo dichiarano senza infingimenti – come se tutti i seimila abitanti di quella cittadina fossero dei banditi o dei loro complici; senza tener conto del fatto che la stragrande maggioranza è costituita da galantuomini e onesti agricoltori e che di essa fanno parte uomini che onorano i pubblici impieghi, la Magistratura e la scienza. Che nel corso delle indagini e dei rastrellamenti indiscriminati vengono commessi soprusi di ogni genere, senza alcun rispetto per la libertà, per il domicilio, per la proprietà e per la vita stessa dei cittadini;

2°) che questo avvenga per ordini del Ministero dell’interno e in quale misura è voluto, permesso o tollerato dalla Magistratura;

3°) se e quali provvedimenti intendano adottare perché a Montelepre si ripristinino la legalità e il rispetto della legge;

4°) se non intendano provvedere all’accertamento imparziale e severo dello stato di cose denunziato, dandone mandato a funzionari non suscettibili di influenze di ufficio, solleciti soltanto della ricerca della verità e ispirati dal sentimento del dovere.

«Varvaro».

Chiedo al Governo quando intenda rispondere.

DE GASPERI, Presidente del Consiglio dei Ministri. Nella seduta di lunedì farò sapere quando il Governo intende rispondere.

DUGONI. Chiedo di parlare.

PRESIDENTE. Ne ha facoltà.

DUGONI. Sollecito dal Presidente del Consiglio la risposta ad una interrogazione riguardante la delegazione italiana presso l’U.N.R.R.A. Questa delegazione costa circa 500 mila lire al giorno. Siccome i soccorsi U.N.R.R.A. sono cessati, avevo chiesto di spiegare le ragioni per cui viene conservata questa delegazione.

DE GASPERI, Presidente del Consiglio dei Ministri. Chiedo di parlare.

PRESIDENTE. Ne ha facoltà.

DE GASPERI, Presidente del Consiglio dei Ministri. Anche per questa interrogazione farò sapere lunedì quando il Governo intenda rispondere.

Interrogazioni.

PRESIDENTE. Si dia lettura delle interrogazioni pervenute alla Presidenza.

MATTEI TERESA, Segretaria, legge:

«Il sottoscritto chiede d’interrogare il Ministro del tesoro, per conoscere le ragioni per le quali il concorso per la copertura dei posti vacanti nel ruolo degli agenti di cambio delle Borse valori italiane, bandito il 16 ottobre 1946, non è stato ancora concluso. Il ritardo inspiegabile, e che ha dato luogo a congetture non favorevoli nei confronti dell’Amministrazione, congetture raccolte anche dalla stampa tecnica (Il commercio – 24 ore di Milano in data 14 settembre 1947 e Agenzia economica finanziaria di Roma in data 13 settembre 1947); oltre a ledere interessi privati, lede anche gravemente l’interesse pubblico, poiché gli organi ministeriali preposti alla vigilanza sulle Borse valori ritennero già nel 1946 che per normalizzare i mercati finanziari italiani dal punto di vista professionale occorressero un maggior numero di agenti di cambio, pubblici ufficiali. Si riconobbe, cioè, un’esigenza pubblica che era urgente sodisfare. Invece, ad oltre un anno di distanza dal bando, ciò non è stato fatto.

«L’interrogante chiede, inoltre, di conoscere quali provvedimenti si intenda prendere per arrivare ad una sollecita e definitiva risoluzione della questione.

«Marinaro».

«Il sottoscritto chiede d’interrogare il Ministro di grazia e giustizia, per conoscere se non sia equo disporre l’aumento delle retribuzioni dei sanitari delle carceri mandamentali (attualmente disciplinate dalla tabella C allegata alla legge 29 novembre 1941, n. 1405). (L’interrogante chiede la risposta scritta).

«Caccuri».

«Il sottoscritto chiede d’interrogare il Ministro dei lavori pubblici, per conoscere se abbia preso visione della lettera indirizzata, in data 15 settembre scorso, dal sindaco di Cassino al provveditore delle opere pubbliche del Lazio, nella quale si denunciano le condizioni intollerabili in cui si trova ancora quella città, dopo tre anni e mezzo dalla sua completa distruzione, e quali provvedimenti intenda prendere urgentemente al riguardo. (L’interrogante chiede la risposta scritta).

«Persico».

«Il sottoscritto chiede d’interrogare il Ministro dei trasporti, per conoscere perché si sia dato un così breve termine di tempo per il concorso di appalto per l’assunzione dei servizi della navigazione sul Lago Maggiore, e linee automobilistiche che convergono e partono da diversi centri di detto lago. La data di appalto è del 19 settembre 1947 e la scadenza è del 10 ottobre 1947.

«Se si calcola il tempo necessario perché arrivi in provincia la comunicazione, sono meno di venti giorni per un appalto che ammonta a molte centinaia di milioni, e che impone la costruzione di un battello che serva da traghetto e il trasporto del cantiere da Arona al centro lago, in cui le ditte dovranno prendere intese anche coi Comuni interessati.

«Vi è poi una lacuna negli appalti ed è il trasporto merci da Verbania stazione a Verbania città, Pallanza ed Intra, in cui hanno contribuito fortemente or sono 20 anni a costruire detta linea per servire le industrie e che la Società Verbano ha lasciato andare e sta liquidando con il consentimento colpevole dei funzionari addetti al controllo. Veda l’onorevole Ministro se non è più opportuno di rinviare l’asta e nominare un commissario per la navigazione per sei mesi, affinché d’intesa coi Comuni interessati possano disciplinare ed organizzare maggiormente questi importanti servizi soprattutto, che peserebbero sull’economia della Regione per 20 anni. (L’interrogante chiede la risposta scritta).

«Zappelli».

«Il sottoscritto chiede di interrogare l’Alto Commissario per l’igiene e la sanità pubblica, per conoscere:

  1. a) se siano fondate le voci secondo le quali ancora una volta si penserebbe di sospendere i concorsi per posti vacanti di medico, veterinario ed ostetrico condotti, come tante volte senza ragione si è praticato in passato;
  2. b) se non ritenga opportuno disporre che ai concorsi per le condotte vacanti del 1938 e del 1939 possano partecipare anche i laureati prima di detta epoca e non quelli che hanno conseguito la laurea in seguito e perfino non hanno sostenuto l’esame di Stato;
  3. c) se non ritenga opportuno riservare ai sanitari, che sono stati richiamati nel 1939 e trattenuti fra servizio militare e campi di prigionia fino al 1946, almeno il 50 per cento dei posti, come, del resto, era stato promesso al tempo del richiamo, od almeno che il servizio militare obbligatorio sia considerato, ai fini del concorso, con un punteggio di molto superiore a quello che possa toccare ai concorrenti, che, mentre gli altri erano alle armi, prestavano servizio con grande tranquillità nell’interno del paese;
  4. d) se non ritenga opportuno, per i posti vacanti al 1939, bandire il concorso solo per titoli. (L’interrogante chiede la risposta scritta).

«Colitto».

«Il sottoscritto chiede d’interrogare il Ministro dei trasporti, per conoscere le ragioni per le quali l’Amministrazione delle ferrovie dello Stato ha preso la deprecabile abitudine di avviare nel Molise, per il servizio viaggiatori, quasi esclusivamente carri bestiame, tutti sforniti di sedili e insufficienti, per cui giorni fa – alla stazione di Campobasso – il Vescovo della diocesi dovette essere invitato da un cortese funzionario a prendere posto nel bagagliaio, donde peraltro fu poi fatto discendere, tra lo stupore dei presenti, da altro troppo zelante funzionario, e costretto a salire e a rimanere in piedi in un carro bestiame. (L’interrogante chiede la risposta scritta).

«Colitto».

«Il sottoscritto chiede di interrogare l’Alto Commissario per l’igiene e la sanità pubblica, per conoscere le ragioni per le quali pare che non si intenda, nei confronti dei veterinari interinali, applicare la circolare del Ministero dell’interno – Direzione generale amministrazione civile – n. 15700/15/49607 del 7 giugno 1942, richiamante il decreto 8 luglio 1941, n. 863, che riguarda la sistemazione degli avventizi combattenti dell’ultima guerra, e non si intenda, quindi, nominarli in pianta stabile. (L’interrogante chiede la risposta scritta).

«Colitto».

«Il sottoscritto chiede d’interrogare il Ministro del lavoro e della previdenza sociale, perché consideri se non sia opportuno accertare presso gli Uffici provinciali del lavoro il grado di istruzione delle pratiche riguardanti gli italiani, che desiderino emigrare, ed altresì disporre che tali pratiche siano distribuite per categorie e per Comuni, procedendosi anche ad una graduatoria sulla base di criteri, che da esso Ministero potranno essere fissati, tenendosi conto, ad esempio, del numero di persone a carico, degli anni di appartenenza del lavoratore, che desidera emigrare, alla categoria, dello stato di bisogno, evitandosi che la scelta degli operai, che possono emigrare, abbia luogo mediante estrazione a sorte, perché ciò potrebbe, a parte ogni altro rilievo, portare anche turbamenti nell’ordine pubblico. (L’interrogante chiede la risposta scritta).

«Colitto».

«Il sottoscritto chiede d’interrogare il Ministro della difesa, perché consideri se non sia opportuno promuovere il provvedimento legislativo, per il quale il trattamento assicurativo, che, giusta l’articolo 11 del regio decreto-legge 12 aprile 1946, n. 320, si applica al personale specializzato infortunato durante i lavori di bonifica, venga esteso a coloro che, ammessi alla frequenza dei corsi per la formazione del personale specializzato, restino infortunati per lo scoppio di ordigni esplosivi durante lo svolgimento dei corsi, e ciò con effetto dal giorno in cui entrò in applicazione il decreto n. 320 del 1946, innanzi ricordato. (L’interrogante chiede la risposta scritta).

«Colitto».

«Il sottoscritto chiede d’interrogare il Ministro dei lavori pubblici, sulla deficiente assegnazione di fondi per la esecuzione di opere, pur indispensabili ed urgenti, nel Molise. Si dovrebbero ivi costruire case per i senzatetto, case popolari, edifici scolastici, ricostruire ponti ed edifici pubblici, sistemare acquedotti e cimiteri. Ogni tanto, si preparano piani più o meno grandiosi che riportano tutte le prescritte approvazioni, ma è molto difficile, purtroppo, che si passi poi alla fase della esecuzione, mentre a tale fase si passa molto agevolmente in altre regioni d’Italia, profittandosi che il Molise – laborioso e tranquillo – non conosce la accesa protesta. (L’interrogante chiede la risposta scritta).

«Colitto».

«Il sottoscritto chiede d’interrogare il Presidente del Consiglio dei Ministri e i Ministri del tesoro, del lavoro e previdenza sociale e dell’industria e commercio, per conoscere le ragioni che hanno determinato il Governo ad escludere l’organizzazione sindacale dalla Commissione che dovrà presiedere all’assegnazione dei cinquantaquattro miliardi stanziati dal Governo a favore della ripresa dell’industria metallurgica.

«L’interrogante fa notare che i lavoratori non possono essere sufficientemente garantiti nell’erogazione del pubblico denaro da una Commissione quasi esclusivamente composta di funzionari e chiede che la FIOM – quale organizzazione dei lavoratori – sia invitata a nominare uno o più rappresentanti nella predetta Commissione. (L’interrogante chiede la risposta scritta).

«Roveda».

«Il sottoscritto chiede d’interrogare il Ministro della pubblica istruzione, per conoscere se non ritenga opportuno che il provvedimento del collocamento a riposo dei vecchi maestri che hanno superato al 1° ottobre 1947 il 70° anno di età venga effettuato con decorrenza dal 30 settembre dell’anno prossimo e ciò per un senso di umanità, perché, nonostante i recenti miglioramenti, le pensioni rappresentano ancora nel loro complesso circa un terzo del già insufficiente trattamento corrisposto a chi è in servizio. (L’interrogante chiede la risposta scritta).

«Spallicci».

«Il sottoscritto chiede d’interrogare il Ministro di grazia e giustizia, per sapere quanto dovrà ancora indugiare l’annunciato provvedimento che aumenterebbe le diarie di missione dei magistrati, essendo addirittura insostenibile la loro esiguità (lire 1100 giornaliere ai magistrati di terzo grado e lire 1200 a quelli di quarto grado), in relazione alle spese correnti di trasferta e di mantenimento, tanto da rappresentare, un tale trattamento, una perdita evidente per gli interessati e il disdoro per l’Amministrazione della giustizia. (L’interrogante chiede la risposta scritta).

«Bertini».

«I sottoscritti chiedono di interrogare il Ministro delle finanze, per sapere quali provvedimenti intenda adottare a favore dei pensionati assegnati, per effetto della legge Majorana, alla Cassa depositi e prestiti ed aventi un trattamento di grave inferiorità rispetto a tutte le altre categorie. La pensione più alta sorpassa appena le 5000 mensili, mentre le altre non superano le 3000. Si chiede un intervento sollecito da parte dello Stato. (Gli interroganti chiedono la risposta scritta).

«Bianchi Bianca, Sapienza».

«La sottoscritta chiede di interrogare il Presidente del Consiglio dei Ministri e il Ministro delle poste e delle telecomunicazioni, per sapere quali solleciti provvedimenti intenda prendere per l’allacciamento del telefono a tutti i paesi del Mugello e dell’alta Romagna.

«È oltremodo doloroso per una popolazione, che ha subito tante distruzioni, constatare come a due anni dalla guerra gli organi governativi non siano riusciti a comporre inspiegabili dissidi sorti con la Società telefonica TETI per il ripristino della linea. Si tratta di una vasta zona montana progredita e feconda, avente importanti miniere di lignite e numerose industrie ed aziende agricole, ma scomoda e lontana dai maggiori centri cittadini, per cui non è più possibile dilazionare il ripristino del detto servizio. (L’interrogante chiede la risposta scritta).

«Bianchi Bianca».

«Il sottoscritto chiede di interrogare i Ministri del tesoro e dei lavori pubblici, per conoscere se e quando la Commissione sedente presso l’Istituto nazionale per le case degli impiegati statali (I.N.C.I.S.) e preposta alla assegnazione delle case ai funzionari dello Stato, intenda applicare il disposto dell’ultima parte dell’articolo 2 del decreto legislativo luogotenenziale 9 giugno 1945, n. 387, nei confronti di quegli impiegati che, per ragioni di servizio, sono stati segnalati dalle proprie Amministrazioni per l’assegnazione dell’alloggio con ogni precedenza. (L’interrogante chiede la risposta scritta).

«Sapienza».

PRESIDENTE. Le interrogazioni testé lette saranno iscritte all’ordine del giorno e svolte al loro turno, trasmettendosi ai Ministri competenti quelle per le quali si chiede la risposta scritta.

La seduta termina alle 24.

Ordine del giorno per le sedute di domani.

Alle ore 10 e alle ore 16:

Seguito della discussione delle mozioni degli onorevoli Nenni, Togliatti e Canevari.

ANTIMERIDIANA DI GIOVEDÌ 2 OTTOBRE 1947

ASSEMBLEA COSTITUENTE

CCXLI.

SEDUTA ANTIMERIDIANA DI GIOVEDÌ 2 OTTOBRE 1947

PRESIDENZA DEL VICEPRESIDENTE BOSCO LUCARELLI

indi

DEL PRESIDENTE TERRACINI

INDICE

Mozioni (Seguito della discussione):

Crispo

Scoccimarro

Presidente

Lussu

La seduta comincia alle 10.

SCHIRATTI, Segretario, legge il processo verbale della precedente seduta antimeridiana.

(È approvato).

Seguito della discussione di mozioni.

PRESIDENTE. È iscritto a parlare l’onorevole Crispo. Ne ha facoltà.

CRISPO. Onorevoli colleghi! Parlerò brevemente sulla mozione del partito comunista per esporre le ragioni per le quali ritengo che le censure e le accuse mosse alla politica interna del Governo non siano tali da giustificare un voto di sfiducia, e, quindi, la condanna del Governo stesso.

Considero questa mozione come un atto di lealtà politica, non solo opportuno, ma soprattutto utile per il Paese, perché si è con essa trasferito il dibattito sulla politica interna del Governo dal tumulto delle vie e delle piazze e dall’asprezza della polemica di stampa nella sede sua propria, secondo il metodo democratico.

Pareva nei giorni scorsi che addirittura dovesse incombere sul Paese la minaccia di una insurrezione di piazza. Né, per verità, il discorso pronunciato dall’onorevole Togliatti il 7 settembre a Modena fu ritenuto come il più adatto a diradare questa atmosfera e ad eliminare quel senso di ansia, di sgomento, di inquietudine, un po’ diffuso in tutto il Paese. L’indomani, anzi, veniva proclamato lo sciopero generale dei braccianti, e l’onorevole Pastore, nella sua qualità di Segretario generale democristiano della Confederazione generale italiana del lavoro, ne denunziava i motivi esclusivamente politici. Sopraggiungeva poi il comunicato della Direzione della democrazia cristiana, la quale denunziava al Paese che le manifestazioni, gli scioperi, i movimenti, le agitazioni si inquadravano in un movimento a carattere politico, inteso ad indebolire il Governo e ad abbatterlo, contro ogni metodo democratico.

Ed è evidente che questa presa di posizione democristiana dovesse suscitare la necessaria reazione dei partiti estremi, onde il conflitto derivatone, nel quale gli uni venivano denunziati come volgari Cleoni, mestatori, sobillatori e peggio, e gli altri venivano designati come gli esponenti di un governo di parte, reazionario, sollecito soltanto degli interessi egoistici di categorie privilegiate a danno della classe dei lavoratori.

La mozione giunge, adunque, veramente opportuna ed utile a diradare questa atmosfera greve addensatasi sul Paese. Occorre dire subito che, a base dell’attuale tensione, sta la formazione particolare del Governo.

Non è il caso di riandare le ragioni che determinarono tale formazione, essendo noto che non può addebitarsi all’onorevole De Gasperi la impossibilità della formazione di un Governo di centrosinistra. Ma, checché sia di ciò, quando gli onorevoli Nenni e Togliatti condannano il Governo e lo condannano per la sua formazione, in quanto esso, cioè, non comprende i comunisti e i socialisti, arrancano nel vuoto di una questione inesistente.

Mi spiego. Io penso che, se un partito non può identificarsi col Governo nel fine del bene comune, proprio di un Governo, è, d’altra parte, innegabile che esiste per qualunque partito un patrimonio comune di pensieri, di sentimenti, di azioni, in un superiore spirito di comprensione dei bisogni della collettività; onde la nota differenziale, l’interesse particolare, la peculiarità sociale propria di un partito cedono alla coscienza di un superiore compito statale, che prescinde dagli interessi particolari di un gruppo o di un partito.

L’espressione, difatti, «partito di governo» vuole esprimere precisamente i concetti della specie e del genere che s’integrano e si fondono, ed indicano quella maturità politica, per la quale una parte può rappresentare le ragioni ideali della totalità. Se non è, dunque, un’associazione di avventurieri politici, un partito giunto al potere non governa per sé ma per tutti.

Questa attitudine alla concezione della universalità della funzione del governare è stata espressa dal liberalismo in due forme fondamentali, l’una giuridica, lo Stato di diritto, cioè, che significa eguale, uniforme legalità per tutti; l’altra politica, il sistema parlamentare, cioè, che garantisce a tutti i partiti la possibilità di assumere il governo dello Stato, e per mezzo della opposizione, offre il modo di vigilare che il governo che detiene il potere governi nell’interesse di tutti i cittadini. Le democrazie anglosassoni hanno riconosciuta questa verità, assegnando egualmente uno stipendio e al capo del Governo e al capo dell’opposizione.

Quando, adunque, si dice che il Governo non può sodisfare le esigenze fondamentali del paese, perché non comprende anche socialisti e comunisti, che, pertanto, è necessariamente antidemocratico e reazionario, non si dice nulla, perché il Governo non può concepirsi e non si concepisce in una funzione unilaterale, particolare, privatistica.

Ed è per questo che, nella vita politica, la forma che ha rappresentato la più alta volontà di una ben ordinata convivenza è la democrazia liberale. Il liberalismo è il principio di diritto pubblico secondo il quale il potere pubblico, non ostante la sua onnipotenza, si autolimita, perché possano coesistere con esso tutti coloro che non pensano come pensano le maggioranze: convivenza di maggioranze e di minoranze, ossia dei più forti coi più deboli.

È questo forse il più nobile appello che abbia risuonato nel mondo. Era inverosimile che il genere umano avesse attinto un principio così alto e così nobile! Ed è forse per questo che i nuovi difensori della libertà si sforzano oggi di indurlo ad abbandonarlo, ed è forse per questo che diminuiscono sempre più i Paesi, nei quali esista la opposizione, e dove i Petkov non siano assassinati.

Ecco la verità che bisogna avere il coraggio di proclamare.

Occorre aggiungere che diverso dal concetto di partito è il concetto di classe. Il concetto classista, quando informa la struttura di un partito, non soltanto è concetto unilaterale, ma crea – badate bene – necessariamente una mentalità partigiana la quale non può sboccare se non nella dittatura di una classe, negazione di ogni coscienza politica perché nel conflitto che determina costringe a quella difesa legittima, per la quale nelle altre classi si degrada la coscienza generale della funzione di governo in una coscienza a sua volta particolaristica di interessi contrapposti ad interessi.

Ecco perché vi dicevo che per me la questione è mal posta. D’altra parte, non si riuscirebbe ad intendere perché questo governo possa avere, comunque, interesse, nel momento attuale, gravido di fermenti rivoluzionari, di dividere il Paese in due settori, quasi che la tragedia che noi oggi viviamo sia soltanto la tragedia dei lavoratori, nel senso che i nostri amici dell’estrema sinistra danno a questa parola, e non sia, invece, la tragedia di tutti i lavoratori, e, soprattutto, dei ceti medi, che non stanno fra borghesia e proletariato, ma sono più vicini al proletariato, e spesso vivono una vita inferiore a quella che vive il proletariato.

Esiste, adunque, un problema soltanto: quello dei rapporti fra Governo e opposizione. È evidente, difatti, che la minoranza, per fare una opposizione seria e feconda, ha bisogno di un sistema saldamente costituito di libertà politiche, di stampa, di parola, di associazione, e, soprattutto, delle garanzie della libertà del suffragio. Ed è evidente, d’altra parte, che queste libertà devono conciliarsi col diritto della maggioranza di comandare. Occorre, dunque, che vi sia equilibrio tra governo e opposizione, tra autorità e libertà. Senza tale equilibrio, il dualismo tra governo e opposizione è destinato ad accentuarsi per sboccare nella calunnia, nella diffamazione, nella denigrazione, fino al conflitto più aspro, alla impossibilità d’intendersi, alla necessità della distruzione.

Epperò, più civili sono quei popoli che, obbedendo alla legge, rendono inutile l’applicazione della forza. Quando, pertanto, l’onorevole Togliatti sostiene che tutte le correnti politiche debbono essere espresse nel governo per la necessità d’una formula unitaria, egli confonde evidentemente la formula unitaria che suppone la universalità dei consensi, alla quale pensava Rousseau, nel presupposto che le maggioranze possono sbagliare; confonde quella formula con la formula coalizionistica i cui risultati sono sempre la transazione e il compromesso, e che, come coabitazione forzosa e sediziosa, ha fatto la sua nefasta esperienza, tanto nefasta che nessuno dovrebbe auspicarne la reincarnazione in una trinità governativa.

La questione è, dunque, tutta qui: nei rapporti fra Governo e opposizione, e, in sostanza, così la poneva, infine, anche l’onorevole Togliatti.

Voi siete – egli diceva – un Governo di parte, che ha manomesso le libertà, che ha soppresso le garanzie di esse, che ha violato le leggi; un governo antidemocratico, reazionario che non rispetta il diritto della opposizione, e rinnega le origini comuni dalle quali è sorto il regime repubblicano.

Queste sono, adunque, le accuse specifiche che l’onorevole Togliatti muove al Governo?

Basterà esaminarle per intenderne tutta la inconsistenza.

Io non nego che le agitazioni e gli scioperi, organizzati nel quadro della lotta contro il caro-vita, pur nella loro funzione negativa e controproducente, possono spiegarsi come mezzi diretti a tendere l’attenzione sul problema alimentare che incombe sulla vita del Paese.

Ma essi assumono ben altro significato quando si svolgono come si svolsero recentemente a Terni, dove la massa dei lavoratori procedeva in corteo, con grandi cartelli, le cui diciture erano: «Abbasso il Papa», «Il Papa è un affamatore», «Il Papa è alleato della reazione», «La forca a De Gasperi».

LUSSU. Ma Pasquino le ha sempre dette!

CRISPO. D’accordo, ma Pasquino può anche essere la voce di un partito, onorevole Lussu, e qualcuno può nascondersi dietro la figura di Pasquino.

In casi simili, siamo di fronte a manifestazioni che hanno un evidente contenuto politico, che si esprimono con grida e scritti sediziosi, e costituiscono un evidente pericolo per l’ordine pubblico, per l’unità degli stessi lavoratori, e per la pacifica convivenza dei cittadini.

Del pari, è di pochi giorni or sono l’affissione di manifesti nei quali l’onorevole Einaudi, l’onorevole Pella, l’onorevole Grassi e l’onorevole De Gasperi venivano additati in effige come gli affamatori, gli sfruttatori, i nemici del popolo.

Per tal modo, la propaganda diviene libello, intesa non solo ad esporre al disprezzo pubblico, ma, soprattutto, ad eccitare l’odio pubblico per l’effetto che può produrre e che produce in tutti coloro – e sono i più – che, mancando degli elementi di un giudizio, fanno proprio il giudizio insidioso espresso dalla passione di parte.

Non si tratta, adunque, soltanto di vilipendio e l’articolo 290 sarebbe evidentemente applicabile, anche se in esso si contempli il vilipendio al governo del Re, in mancanza di altra norma, ma si tratta di qualche cosa di più grave, dell’eccitamento degli animi e di quella dissensio civium che già Cicerone additava essere la conseguenza inevitabile di manifestazioni sediziose.

Le lagnanze dell’onorevole Togliatti sono, adunque, infondate, e mi sembra, d’altra parte, inconcepibile che si possa chiedere la condanna del Governo perché, per esempio, un funzionario di polizia compiendo il proprio dovere, ha preteso di controllare il contenuto d’un manifesto, prima di autorizzarne la pubblicazione e l’affissione.

Nel suo discorso di Modena, l’onorevole Togliatti disse: «Siamo arrivati al punto che delle donne in una città italiana, per affiggere un manifesto nel quale denunziano le condizioni in cui vivono le loro famiglie, debbono passare per l’ufficio del commissario di polizia o del questore. Ecco la montagna, che partorisce il topo, il ridicolo topo!

LUSSU. In Francia è caduta la dinastia per questo.

CRISPO. Vorrei dire all’onorevole Lussu che egli è di quelli che si ricongiungono a quel movimento massimalista francese che intorno al 1900 creò la parola e la pratica dell’azione diretta.

Tornando al manifesto ricordato dall’onorevole Togliatti, pur non conoscendosene il contenuto, appare subito la stranezza del caso di povere donne che, per protestare contro la miseria, ricorrono ad una così costosa forma pubblicitaria. E questa stranezza non poteva non preoccupare un qualunque commissario di polizia. Comunque, vi è o no una legge di pubblica sicurezza? E perché non si deve applicare? Perché – dice l’onorevole Togliatti – si tratta di una legge di pubblica sicurezza fascista! Che cosa rispondere ad una simile osservazione? Ma tutta la legislazione italiana è in gran parte tuttora legislazione fascista, e non per questo la Repubblica italiana dovrebbe reggersi sulla… carenza della legge. Mentre è evidente, d’altra parte, che una legge, non più corrispondente al clima nel quale fu emessa, ove non sia abrogata, continuerà a vigere in tutte le parti che non sono in contrasto con le esigenze del mutato clima storico e politico.

L’onorevole Togliatti si è anche aspramente doluto della violazione della libertà del comizio di fabbrica.

Siamo, innanzi tutto, dinnanzi ad una concezione democratica del tutto soggettiva, unilaterale, tale, per verità, che un partito non può pretendere d’imporla alla maggioranza.

L’operaio, quando va a lavorare, sa di andare alla fabbrica, non già all’arengo. E basta che ad uno solo repugni che la fabbrica si trasformi in comizio, perché non si abbia il diritto di imporgli di tollerare la propaganda politica nella fabbrica. (Commenti a sinistra).

D’altra parte, se si riconosce la libertà del comizio nelle fabbriche, perché non la si dovrebbe riconoscere, per esempio, nelle udienze dei tribunali, nei ministeri, nelle chiese, nelle carceri e così via?

TOGLIATTI. Quanti ne ha fatti lei di comizi nelle aule?

CRISPO. Nessuno, onorevole Togliatti.

Comunque, il Governo non ha vietato il comizio nemmeno nelle fabbriche, ma ha preteso soltanto il preventivo avviso, per concedere o non, secondo i casi, la necessaria autorizzazione.

Occupiamoci ora dei sindaci comunisti che sarebbero stati giudizialmente perseguiti, senza il rispetto delle garanzie di legge. Leggo il testo del discorso dell’onorevole Togliatti:

«Io non discuto – sono queste le sue parole – se quei determinati sindaci della provincia di Bologna che vennero accusati di aver trasgredito a determinate norme della legge sugli ammassi fossero colpevoli: in realtà non erano colpevoli».

Noi non abbiamo gli elementi per giudicare di ciò e non è su questa piattaforma che si può accusare il Governo. Per altro, quanto all’affermazione dell’onorevole Togliatti che il reato di quei sindaci non cagionò danno, ma, bensì, un vantaggio, penso che un legislatore comunista possa tenerne conto per il futuro codice penale. (Ilarità).

L’onorevole Togliatti si lamenta, infine, della procedura che fu adottata. Egli dice: «Prima di iniziare un procedimento contro un sindaco, occorre la sospensione della garanzia amministrativa che deve essere chiesta dal Ministro dell’interno al Ministro Guardasigilli, il quale a sua volta sollecita il parere del Consiglio di Stato. Se il Ministro Guardasigilli può negare o concedere la sospensione contro il parare del Consiglio di Stato, allora la cosa va al Consiglio dei Ministri. Nulla di tutto questo viene fatto quando si tratti di sindaci comunisti o socialisti; basta un telegramma del Ministro dell’interno ed il sindaco è sospeso, o minacciato d’arresto, o arrestato per atti della sua amministrazione che egli ha compiuto in qualità di sindaco».

Comincio col rilevare che il sindaco come capo dell’amministrazione comunale, non è protetto da alcuna garanzia amministrativa.

La legge non ha una disposizione propria per il sindaco, diciamo meglio per il podestà, perché nella legge comunale e provinciale vigente si parla ancora del podestà. La legge ha una disposizione per i prefetti e i sottoprefetti. Credo inutile ricordarvi che il prefetto e il sottoprefetto sono definiti dalla legge come i rappresentanti del potere esecutivo.

Di conseguenza, quando l’articolo 22 copre della garanzia il prefetto o il sottoprefetto per gli atti che egli compie nella sua funzione di rappresentante del potere esecutivo, ha riguardo esclusivamente a questa funzione di ufficiale del Governo. (Interruzioni a sinistra).

Stabilisce l’articolo 22: «Il Prefetto o chi ne fa le veci non possono essere chiamati a rendere conto dell’esercizio delle loro funzioni fuorché dalla superiore autorità governativa, né sottoposti a procedimento per alcun atto del loro ufficio senza l’autorizzazione del Re previo parare del Consiglio di Stato, tranne il caso di imputazione di reati elettorali».

Sicché per l’articolo 22 mi sembra evidente che la garanzia amministrativa copre l’esercizio delle mansioni del prefetto e del sottoprefetto come ufficiali del Governo.

TOGLIATTI. Questa è la sua interpretazione.

CRISPO. No, non ce n’è altra, perché qui l’articolo 22 ha riferimento esclusivamente al prefetto, e il prefetto, onorevole Togliatti, è il più alto ufficiale del Governo nella Provincia.

PASTORE RAFFAELE. Ma quando applica l’articolo 19 contro gli agrari, allora non lo è più.

PRESIDENTE. Non interrompa, lasci parlare.

CRISPO. Ora, l’articolo 51 della legge comunale e provinciale stabilisce che la disposizione di cui all’articolo 22 è applicabile al podestà e a chi ne fa le veci.

Pertanto, poiché il sindaco ha funzioni come sindaco, come capo, cioè, dell’amministrazione comunale, ed ha funzioni come rappresentante del Governo, è evidente che, quando l’articolo 22 copre di garanzia amministrativa gli atti del prefetto e l’articolo 51 estende la garanzia di cui all’articolo 22 al sindaco, gliela estende nella qualità di ufficiale del Governo, e non gliela estende nella qualità di sindaco. È chiaro?

Una voce a sinistra. Il sindaco è anche ufficiale di polizia.

CRISPO. L’interruttore dimostra di non conoscere la legge, perché, se la conoscesse, saprebbe che la legge stabilisce e determina le funzioni del sindaco come tale e stabilisce e determina le funzioni del sindaco come ufficiale del Governo. È evidente, per le ragioni che ho già dette e che non occorre ripetere, che la garanzia amministrativa si riferisce alle funzioni del sindaco come ufficiale del Governo, ma non si riferisce alle funzioni del sindaco come capo della pubblica amministrazione. Ed è evidente che il sindaco che provvede alle esigenze alimentari del proprio paese agisce come capo della pubblica amministrazione e non come ufficiale del Governo. Quindi, nei casi ricordati dall’onorevole Togliatti, l’autorizzazione non occorreva. (Interruzioni a sinistra).

PRESIDENTE. Onorevoli colleghi, non interrompano.

CRISPO. Vorrei, peraltro, ricordare agli amici dell’estrema sinistra che la sospensione di un sindaco non deve essere necessariamente determinala da un procedimento penale, perché la sospensione può aver luogo ad insindacabile discrezione del prefetto, per motivi d’ordine pubblico. E se un prefetto volesse abusare della propria autorità, gli sarebbe facile, senza bisogno di alcun procedimento, ottenere lo stesso effetto che voi denunciate.

Non intendo occuparmi dei fatti di Gorizia. Essi furono oggetto di un ampio dibattito in sede d’interrogazione.

Dirò il mio pensiero sulla mancata legge della difesa della Repubblica. Vi furono due disegni di legge: uno dovuto (ed è titolo di merito del quale gli do atto) all’amico Gullo, nella sua qualità di Ministro della giustizia: «Modificazioni al Codice penale per la difesa delle istituzioni repubblicane», in cui veniva modificata la struttura delle disposizioni del Codice penale fascista in rapporto al regime repubblicano. Evidentemente l’onorevole Togliatti non ha inteso riferirsi al progetto Gullo, ma ha inteso riferirsi al progetto che va sotto il titolo: «Norme per la repressione dell’attività fascista e dell’attività diretta alla restaurazione dell’istituto monarchico».

Questo disegno di legge è dovuto esclusivamente alla iniziativa dell’onorevole De Gasperi, e fu presentato il 17 marzo ultimo scorso. Ora, non mi pare che debba cadere il mondo se nei tre mesi dal giugno ad oggi questo progetto non sia venuto all’esame della Costituente, dato che dal marzo 1947 fino alla formazione del Governo attuale comunisti e socialisti – che pur partecipavano al Governo – non sollecitarono che questo disegno divenisse legge.

Se una colpa si rimprovera all’attuale Governo, la stessa colpa si potrebbe fare al Governo precedente o all’Assemblea Costituente.

Comunque, questa accusa a De Gasperi di mancata difesa della Repubblica, a De Gasperi, badate, che ha sempre rivendicato la qualità di socio fondatore della Repubblica, questa accusa è tanto assurda che davvero non mette conto occuparsene.

Ma crede davvero l’onorevole Togliatti che vi siano in Italia monarchici che pensano alla restaurazione violenta della monarchia? La legge reprime, difatti, una simile violenza, e i monarchici italiani hanno troppo vivo amore per il Paese, per pensare a rivendicazioni diverse da quelle che possono avvenire nell’ambito d’una lotta democratica.

TOGLIATTI. Avellino!

CRISPO. Mi perdoni se osservo che, continuandosi a ripetere che la Repubblica è in pericolo, si induce qualcuno ad offenderla veramente. Non si preoccupi, onorevole Togliatti, la Repubblica sarà quale i repubblicani la faranno.

La Repubblica sarà forte, se sarà sana e aperta a tutti i cittadini.

Io sono monarchico, ma obbedisco e sento il dovere di obbedire alle leggi della Repubblica, dopo che la volontà popolare la volle nella elezione del 2 giugno.

COVELLI. Il che non è vero: l’onorevole Romita insegna.

CRISPO. Intendo, infine, ricordarvi che gli uomini amano adattarsi al fatto compiuto.

All’avvento della monarchia, tutti i più accesi repubblicani divennero monarchici. Giovanni Nicotera divenne Ministro del re; Benedetto Cairoli divenne Presidente del Consiglio ed accompagnò il re nel viaggio di riconoscimento ufficiale. Agostino Depretis e Francesco Crispi sostennero la monarchia, ed il filosofo Giuseppe Ferrari tramontò nel Senato regio. (Commenti). Giosuè Carducci, dopo aver cantato le glorie giacobine della Rivoluzione, finì con l’appendere dei serti poetici sulla fronte della prima regina d’Italia. Non si preoccupi, adunque, l’onorevole Togliatti. Una Repubblica ben ordinata, pacifica, tranquilla, in cui siano garantiti i diritti di tutti i cittadini, sarebbe destinata a durare quanto le piramidi di Egitto. Non è su questo terreno che si può chiedere un voto di sfiducia per l’attuale Governo.

Credo di aver esaminato uno per uno i punti fondamentali del discorso dell’onorevole Togliatti. Vorrei ora permettermi di chiedergli se egli annoveri tra le libertà democratiche anche l’appello alla piazza, l’appello al popolo.

TOGLIATTI. E perché no?

CRISPO. Io intendo che l’azione diretta, talvolta, può esprimere anche un’istanza di giustizia, ma, in tal caso, l’azione diretta deve essere l’ultima ratio contro la contraria volontà dispotica d’un governo incapace di governare, e stagnante nella morta gora di egoismi e privilegi di parti. Deve essere la «ratio ultima», non la «ratio sistematica» perché se diventa sistematica, allora è chiaro che non si tratta più di un dualismo tra governo ed opposizione, e non si tratta più delle rivendicazioni delle libertà democratiche, ma si tratta di un conflitto, di una rivolta, e, in tal caso, il Governo ha il diritto e il dovere di reprimerla. (Applausi al centro e a destra – Commenti a sinistra).

Voglio dire un’ultima cosa, con grande sincerità.

L’onorevole Togliatti ha detto che il Partito comunista è un partito italiano. Prendo atto con grande soddisfazione di tale dichiarazione, perché evidentemente l’onorevole Togliatti non ha voluto dire che il Partito comunista è formato di cittadini italiani, ma ha voluto dire che esso si distingue da tutti gli altri Partiti comunisti europei. Orbene, tutti questi partiti hanno dato la loro collaborazione, e l’hanno realizzata attraverso i fronti, i comitati, i blocchi, le unioni. Il risultato, però, è stato sempre lo stesso: isolamento e liquidazione delle opposizioni. Kovacs ed Arany, Nagy e Tildy in Ungheria, Maniu in Romania, Mihailovic in Jugoslavia, Petkof in Bulgaria, sono non solo le vittime del processo di bolscevizzazione russa, ma stanno a dimostrare che la rivoluzione comunista ha dovunque soppresso ogni forma di libertà.

Il caso più recente è quello di Petkov. E Petkov non è Mussolini. Petkov ha combattuto contro tutti i Mussolini; Petkov è lo spirito dell’opposizione; Petkov era un patriota; Petkov è il Matteotti bulgaro, ed io invio un pensiero reverente alla sua memoria. (Approvazioni – Commenti a sinistra).

Ed allora, io ho compreso questo, che il Partito comunista italiano in tanto, è italiano in quanto non si può confondere con gli altri partiti comunisti, perché il Partito comunista italiano difende le libertà democratiche e, nello spirito di esse, offre la sua collaborazione.

Non nego al Partito comunista le benemerenze che esso conquistò nella lotta contro l’invasore e contro il fascismo, per il consolidamento del regime repubblicano. Ma un partito non si esaurisce in un programma contingente, imposto da determinate condizioni.

Ed io chiedo di sapere che cosa vuole per l’avvenire il Partito comunista, e fino a qual punto la democrazia politica ed economica di esso possa conciliarsi con le esigenze di una democrazia liberale, e fino a qual punto la struttura politica economica sociale che esso vagheggia possa conciliarsi con la struttura economica e sociale dello Stato liberale. (Commenti). Altrimenti la collaborazione che ci si offre non è che una vana parola. Nessuno di noi liberali insiste più sulle posizioni del liberalismo del ’700 e dell’800: posizioni ormai superate da tempo, e sarebbero state superate anche senza l’anticapitalismo.

Noi siamo ad una svolta tragica della storia, e mai come in questo momento è necessario che l’idea liberale si rafforzi, ed abbia i suoi apostoli ed anche, se occorre, i suoi martiri. (Interruzione dell’onorevole Russo Perez).

Come superare, adunque, la crisi? La crisi non d’un governo, e nemmeno di un paese; la crisi del mondo. Alcuni hanno risposto: la crisi si supera nell’idea cristiana. Altri hanno risposto: la crisi si supera nell’idea socialista.

Io non ripeterò la bestemmia di Federico Nietzsche per il quale l’umanità sconta la colpa di essere stata per duemila anni cristiana. Ed era una bestemmia perché attribuiva al Cristianesimo la colpa di non aver avvinto l’uomo per i millenni.

Ma, d’altra parte, non è possibile, come avvertiva Jacob Burckhardt, «un nuovo impianto artificiale di Cristianesimo per fini rappresentativi».

Né la crisi può essere risoluta dal socialismo, come lo intendono i partiti estremi. Non vi è che una sola soluzione: l’idea dinamica del liberalismo evolventesi fino al socialismo, ma al socialismo liberale che è liberalismo sociale, inteso, soprattutto, come vero umanesimo. (Interruzione del deputato Pastore Raffaele). Ma che ne sa lei, onorevole Pastore, di queste cose? Occorre fondere le esigenze della libertà con le esigenze della giustizia sociale. È questa la terza via sulla quale uomini di grande intelletto e di buona volontà si piegano per dire al mondo una parola nuova: la parola della resurrezione e della pace. (Applausi).

PRESIDENTE. È iscritto a parlare l’onorevole Scoccimarro. Ne ha facoltà.

SCOCCIMARRO. Prima di iniziare il mio discorso, vorrei permettermi di fare una proposta. Data la natura degli argomenti che mi propongo di trattare, ho l’impressione che non avrò il tempo sufficiente, dato che sono già le undici e mezza.

Se l’Assemblea non avesse nulla in contrario, pregherei che mi si consentisse di iniziare la mia esposizione nel pomeriggio.

PRESIDENTE. L’onorevole Scoccimarro pregherebbe di rimandare la seduta al pomeriggio. (Commenti). Se l’Assemblea non è favorevole, potremmo pregare un collega di sostituire l’onorevole Scoccimarro. Onorevole Lussu, sarebbe disposto a parlare ora, cedendo il suo turno all’onorevole Scoccimarro?

LUSSU. Mi rimetto a lei, onorevole Presidente.

PRESIDENTE. Rivolgo allora la preghiera personale all’onorevole Lussu di parlare adesso.

LUSSU. Onorevoli colleghi, non essendo io mai stato di carattere pessimistico, anche se non ho il temperamento gioioso e ottimistico dell’onorevole Corbino, credo di appartenere a quel numero di colleghi che in quest’Aula sono assai preoccupati e che non vedono solo questa crisi come crisi di Governo, ma come crisi di democrazia. Questa è, in realtà, crisi di democrazia. Non solo. Ma, a parere di molti, e io sono fra questi, la democrazia, oltre ad essere in crisi, è in pericolo. La democrazia corre pericolo.

Certo i problemi attuali sono essenzialmente economici, finanziari e sociali: disordine economico, disordine finanziario, disoccupazione, inflazione, fame delle classi popolari. Ma la natura di questa crisi è puramente politica.

In ciò concordo con l’onorevole Corbino; concordo con lui cioè nel ritenere che è politico il problema e che politica deve esserne l’impostazione. Manca lo strumento politico necessario per risolvere queste difficoltà che sono crescenti; manca un piano di intesa politica, un piano organico omogeneo politico per risolvere queste difficoltà con volontà e capacità; manca cioè un Governo alla democrazia: quindi crisi politica.

La democrazia è in pericolo, non già perché il partito su cui pesa la principale responsabilità di questo Governo voglia distruggere la democrazia: sarebbe un insulto gratuito l’affermarlo; ma perché, per ragioni complesse, esso è incapace di difenderla, di arrestarne il regresso già iniziato, di consolidare infine quei deboli, ma notevoli risultati che si sono finora ottenuti.

Quando l’onorevole Giannini, nel recente Congresso dell’Uomo Qualunque, ha offerto alla democrazia cristiana la continuazione dell’alleanza o la guerra, nessuno di noi ha creduto che si trattasse veramente di una sfida.

Contro la guerra sta innanzitutto il buonsenso dell’Uomo Qualunque. (Commenti). Ma che guerra! A che scopo, e con quale vantaggio? E contro la guerra e a favore del perdurare della alleanza sta anche il buonsenso della Democrazia cristiana, che vuole rimanere al potere e che quindi ha bisogno del perdurare dell’alleanza coll’Uomo Qualunque. Sono leggi di natura politica, che non consentono eccezioni di sorta. La destra ha il diritto di chiedere, di chiedere sempre e sempre di più; e il Governo ha l’obbligo di concedere, di concedere sempre, di concedere sempre di più. Pena la vita.

I fatti denunciati in questa Assemblea sono i risultati tangibili di queste concessioni. Sicché la preoccupazione di quanti seguono da vicino l’azione politica di questo Governo è tutt’altro che accademica. E fra quelli che hanno assistito nell’altro dopoguerra al verificarsi di questi scherzi, credo vi sono molti che hanno ragione di essere preoccupati; e si ha il diritto di chiedere dove si vada a finire. Marcia su Roma? Ad avventure di questo genere, con belle legioni quadrate – peraltro mai esistite – credono solo gli imbecilli fascisti, marcia, antemarcia, sciarpelittorio, repubblichini professionisti; ma non ci credono che costoro. La verità è che a Roma le forze da cui trae vita materiale e morale il fascismo, a Roma quelle forze ci sono già: sono dentro allo Stato.

Come contenerle, e come metterle lentamente ma sicuramente fuori? Ecco il problema della democrazia in questo momento.

Questo è un Governo non già di centrodestra, come con autorevole e amabile eufemismo ha detto l’onorevole Saragat, ma un Governo di destra, un Governo di destra così come la situazione presente oggi lo consente; Governo di destra relativamente alla capacità e alla forza della destra. La situazione non consente un Governo più a destra di questo. Insomma oggi, più a destra di così, nella situazione attuale, con lo schieramento attuale delle forze, è impossibile andare. Neppure l’onorevole Benedetti e l’onorevole Benedettini possono sperare logicamente una cosa di questo genere.

I portafogli richiesti durante il Congresso dell’Uomo Qualunque, l’uno o i due portafogli richiesti al Governo…

MAZZA. Chi li ha chiesti?

LUSSU. I giornali ne hanno parlato, compresi i vostri: io li leggo tutti. …Sono una battuta teatrale, polemica; a meno che non sia un espediente interno dell’Uomo Qualunque per tacitare o frenare gli istinti turbolenti dell’onorevole Russo Perez, al quale, mi pare, sarebbe stato offerto il portafoglio…

MAZZA. Ma lei sogna ad occhi aperti.

LUSSU. La verità è che i portafogli dell’Uomo Qualunque, per delega e rappresentanza, esplicita o tacita – chiedo scusa –, sono a quei banchi (Indica i banchi del Governo).

Come si esce da questa situazione? E se ne può uscire? (Interruzione dell’onorevole Mazza).

Due grandi difficoltà si oppongono.

Innanzi tutto la composizione organica della Democrazia cristiana. Io non voglio qui discutere (cosa che farà domani lo storico) se la costituzione della democrazia cristiana dopo l’altra guerra, sotto la veste di partito popolare, sia stata un bene o un male. Personalmente io ritengo che sia stata un male. La società italiana è in conflitto da secoli con la Chiesa e, quando un partito politico, direttamente o indirettamente, si riallaccia ad essa, si è in crisi politica.

Se durante il Risorgimento italiano i cattolici si fossero costituiti in partito politico, noi non avremmo avuto l’unità nazionale, (Proteste a destra e al centro) che più tardi e in altra forma.

Una voce al centro. Noi siamo italiani più di ogni altra cosa, soprattutto e prima di tutto!

PRESIDENTE. Onorevoli colleghi, non interrompano.

LUSSU. E se l’Italia, da Cavour all’altra guerra, ha potuto seguire il suo difficile ma sicuro sviluppo – nei termini in cui lo consentivano lo Stato monarchico e la società nazionale – lo si deve al fatto che non si è avuta la costituzione dei cattolici in partito politico.

Che avverrebbe oggi in Inghilterra, dove i cattolici sono tutt’altro che in forze irrilevanti, se essi si costituissero in partito politico? (Commenti al centro e a destra).

Ciascuno di voi vede che è una questione politica e non religiosa.

Comunque, poiché la Democrazia cristiana esiste ed è il più grande partito nel Paese e per giunta è al Governo, non c’è niente da dire e meno ancora niente da fare. Tutt’al più io potrei dire che, se la Democrazia cristiana non esistesse, certamente un centinaio o 150 di quei deputati (accennando al centro) siederebbero oggi in questi banchi e l’onorevole Jacini ed i suoi amici, che tengono – del resto tanto lealmente – alta la bandiera conservatrice, siederebbero soddisfatti in quei banchi, in mezzo ai colleghi dell’estrema destra, egualmente soddisfatti di essere con loro.

Voce al centro. Da qui la nostra funzione di centro.

LUSSU. Ed io aggiungo, secondo il calcolo delle probabilità, con l’onorevole Jacini, anche l’onorevole De Gasperi. (Commenti al centro).

La Democrazia cristiana si definisce costituzionalmente partito di centro. Se dobbiamo rispettare il significato delle parole – come mi pare doveroso – partito di centro dovrebbe significare un partito, che ha in sé la maggioranza parlamentare che lo renda capace, con le sue sole forze, di stare al Governo, senza l’estrema destra e senza l’estrema sinistra, equidistante dall’una e dall’altra, garanzia a questa e a quella.

È questa la Democrazia cristiana? No, certamente.

Non è dunque partito di centro in senso assoluto.

Ma io aggiungo che non lo è neppure in senso relativo… (Interruzioni al centro) …poiché la democrazia cristiana ha una avversione costituzionale per un raggruppamento politico di estrema che non è precisamente di estrema destra, e una simpatia per un altro raggruppamento che non è precisamente di estrema sinistra. La democrazia cristiana ha in orrore i partiti marxisti in genere, tranne qualche speranzosa riserva verso il marxismo di Saragat (Commenti a sinistra), per cui l’onorevole De Gasperi ha una fiducia – per adoperare l’espressione cara ai teorici della democrazia cristiana – prevalentemente ispirata alla cultura francese-pluralista.

L’onorevole Nitti ci ha spiegato qui, dottrinariamente, questa permanente e assoluta incompatibilità tra cattolicismo e comunismo. A torto, a mio parere, poiché prima dei soviet sono esistite, certamente non marxiste, ma certamente comuniste, due società collettiviste: una ideale e l’altra reale. L’ideale è la nota «Città del sole» di Tommaso Campanella, cattolico, per quanto non iscritto alla democrazia cristiana di quell’epoca (Ilarità); e la società reale è stata la non meno nota Repubblica dei gesuiti nel Paraguay.

Comunque, il grave è che il teorico di questa incompatibilità fra cattolicismo e comunismo, l’onorevole Nitti, è disposto ad andare al Governo e con la Democrazia cristiana e con i comunisti, ma la Democrazia cristiana non accetta più che del Governo faccia parte il partito comunista. La Democrazia cristiana è portata violentemente a sbarazzarsi (Commenti), ma con sistemi dolcissimi (Ilarità), del partito comunista e del partito socialista, che all’uopo è chiamato fusionista: partiti che sono di estrema. Il che fa sì che la democrazia cristiana sia automaticamente non già un partito di centro, ma di centro-destra, anzi di destra. Partito tendenzialmente di destra, poiché la ripugnanza che la democrazia cristiana ha per l’estrema sinistra non l’ha per l’estrema destra, per la quale ha invece trasporti d’amorosi sensi.

Ebbene, questo, a mio parere, non è secondo la natura della democrazia cristiana, partito politico moderno. Direi anzi che appare o può apparire il contrario.

Perché, se vi è nella Democrazia cristiana una base clericale, quindi conservatrice, attorno alle esclusive organizzazioni della Chiesa, questa non è politicamente militante: politicamente è irrilevante. E se vi è nella Democrazia cristiana un’altra forza, di base sociale, quella che rappresenta l’onorevole Jacini, questa non è la gran parte della Democrazia cristiana, anzi è minoranza.

Ma vi è nella Democrazia cristiana una base, che è la principale sua base sociale e politica, quella verso la quale abbiamo espresso sempre la nostra fiducia; è la base fatta di intellettuali, di uomini di cultura, di tecnici, di professionisti, di contadini, di operai, di mezzadri, di artigiani, di piccoli proprietari e di tanti strati di gente minuta del lavoro, che, inquadrati nella Confederazione generale del lavoro, combattono contro quegli stessi interessi che nella Democrazia cristiana sostiene e rappresenta l’onorevole Jacini. (Commenti al centro e a destra).

È questa la base politica che per noi ha rappresentato, nel periodo eroico della lotta oscura e tragica clandestina, una speranza per noi. C’è nella Democrazia cristiana una base che ha partecipato degnamente, quanto tutti noi, alla lotta della resistenza, ed ha dato il suo contributo alla guerra eroica partigiana, e compatta militava agli ordini dei Comitati di liberazione nazionale, di questi gloriosi e capaci organismi nazionali rivoluzionari di lotta e di Governo. Chi, come me, dopo la liberazione del Nord ha partecipato alle prime riunioni, in Milano, del Comitato di liberazione nazionale in cui figuravano i vostri massimi esponenti partigiani, ed ha partecipato, come me, alle prime riunioni del Comitato di liberazione nazionale in Roma, non può dimenticare che noi tutti abbiamo guardato a questi nostri compagni democratici cristiani come ai più sicuri ed intransigenti assertori e costruttori della nuova democrazia repubblicana.

È questa base politica che, al primo Congresso nazionale del partito democratico cristiano a Roma, ha votato, nella sua grande maggioranza, per la Repubblica. Ed è questa base politica che ha votato il 2 giugno per la Repubblica: è questa base politica – noi ne siamo tutti certi – che oggi costituisce un sostegno sicuro della Repubblica.

Il problema è tutto qui: è in grado la Democrazia cristiana di dare valore politico alla sua vera e sola forza politica? Vano è adattare formule fatte a situazioni nuove: la democrazia italiana non consente un partito generico di centro il quale, nei momenti decisivi, si rivela di destra. L’antidemocrazia e la monarchia erano a destra; la democrazia e la Repubblica sono a sinistra e non a destra, perché sono le sinistre e non le destre che le hanno create.

La crisi, che investe la società e lo Stato, è sempre di natura sociale, ma l’azione che può affrontarla e risolverla è politica. Sono lo schieramento delle forze politiche e la condotta politica che determinano una situazione nuova, non la tecnica; la tecnica che non sia subordinata ad una condotta politica va a naufragio. Anche la pianificazione, concepita solo tecnicamente, caro Saragat, non approda ad un bel niente, neppure se in Italia vi fossero non uno, ma quaranta o quarantamila Tremelloni. (Si ride).

CALOSSO. Non abbiamo mai detto questo!

LUSSU. Tecnica e pianificazione, se non sono concepite e realizzate in funzione di democrazia, cioè se non sono capite e sostenute dalle masse dei lavoratori, animati ed avvinti da un superiore ideale di democrazia, non risolvono la crisi, ma l’esasperano. Anche Mussolini e Hitler (chiedo scusa se faccio i nomi di questi due avventurieri dopo quelli di tanti galantuomini) hanno avuto la loro tecnica e la loro pianificazione, a modo loro. Ma Roosevelt, con il New Deal, sostenuto dai sindacati, ha saputo non solo risolvere la crisi paurosa di quell’epoca ma, da quelle realizzazioni, sicuramente esprimere tale forza popolare consapevole di democrazia per cui l’America volle la partecipazione alla guerra e fu fra i sommi artefici della vittoria.

Tutta la chiave della situazione è, pertanto, nella Democrazia cristiana, non nel l’Uomo Qualunque. Mi dispiace per le pretese dell’Uomo Qualunque! Io dicevo al mio collega ed amico Scoccimarro che mi doleva parlare stamani, perché avrei preferito, come il turno d’altronde indicava, parlare dopo il leader dell’Uomo Qualunque. La chiave della situazione non è nell’Uomo Qualunque o nel Partito liberale; la chiave della situazione è esclusivamente nella Democrazia cristiana.

In tutti quei paesi in cui i partiti della Democrazia cristiana, o i partiti cattolici organizzati, si sono allontanati dalle sinistre in tutti i paesi, nessuno escluso – e mi dispenso dall’elencarli perché più volte da varie parti sono stati, ed anche da me, ricordati qui – in tutti quei paesi, nessuno escluso, si è avuto non la democrazia, ma la catastrofe della democrazia. E quale democrazia sarebbe oggi possibile nei paesi d’Europa senza la partecipazione delle sinistre al governo? Ieri l’onorevole Corbino ci ha fatto l’elenco di tutte le Nazioni che hanno un governo socialista. Egli, da liberale, naturalmente, diceva «dramma del problema»; noi diciamo «razionalità del problema». Egli ci ha elencato tutti i paesi: la Finlandia, i due Paesi scandinavi, la Danimarca, l’Olanda, il Belgio, la Francia, l’Inghilterra, che hanno un governo socialista. Hanno un governo socialista perché la democrazia moderna, uscita da questa catastrofe, non consente altre forme di democrazia.

Paesi che fanno eccezione, la Spagna e il Portogallo. Tutta l’Europa civile, democratica, in senso occidentale, è retta da governi socialisti.

E sarebbe mai possibile una democrazia in Italia senza le sinistre? In Italia, non solo le forze proletarie (sarebbero rilevanti ma non sufficienti), ma le forze popolari hanno vinto. Non perduto ma vinto. Vinto nella guerra partigiana e vinto nella sovrana espressione popolare del 2 giugno. Esse, queste forze popolari, ci hanno dato la liberazione e la Repubblica. La nostra democrazia è basata su questa vittoria delle classi popolari, nelle quali si è avuta l’esplosione della profonda coscienza nazionale. Senza questa vittoria, onorevole De Gasperi, senza questa vittoria tu non saresti Presidente del Consiglio per la quarta volta, senza questa vittoria tu saresti certamente in galera o peggio morto e non di morte naturale. (Ilarità).

Io ho il dovere di dire che questa crisi nostra della democrazia è, non in modo trascurabile, dovuta al temperamento personale, psicologico e politico, dell’onorevole De Gasperi. L’onorevole De Gasperi ha una sua bussola politica, che è regolata da un ago magnetico a due frecce estremamente semplici. In una c’è scritto: «la Democrazia cristiana sempre al Governo». Spiegabile, perché la Democrazia cristiana è il più grande partito del Paese. Si può discutere, ma è spiegabile. E nell’altra freccia c’è scritto: «Presidente del Consiglio, sempre l’onorevole De Gasperi». (Ilarità).

Se l’onorevole De Gasperi scrivesse le sue memorie – e sarebbero certamente infinitamente interessanti perché egli è stato partecipe attivo della distruzione di due imperi – io credo che egli ci confesserebbe che, quando era bambino, cioè nell’età in cui tutti sogniamo di essere ammiragli, generali, poeti, vescovi, premio Nobel, io credo che egli ci confesserebbe che in quell’età sognava di essere Presidente del Consiglio. (Ilarità).

Noi, per quanto amici suoi – e questo è un nostro onore – siamo molto lontani, ma voi colleghi della Democrazia cristiana siete amici vicini e lo conoscete più di noi. Personalmente non credo che l’onorevole De Gasperi abbia dell’ambizione, ma, se dovessimo dare retta a parecchi fra di voi, non sarebbe da escludere che l’ambizione possieda una parte notevole, e non la migliore, dell’onorevole De Gasperi. La psicologia dell’onorevole De Gasperi è tutta in quel discorso fatto alla radio, mi pare nell’aprile scorso, in cui disse: «quando si è in cordata non si litiga, altrimenti si precipita tutti».

Quando si è in cordata, onorevole De Gasperi, non si litiga mai e, se si litiga, è sempre colpa del capo cordata. Noi siamo in molti in quest’Aula che abbiamo una buona esperienza dell’alta montagna e sappiamo che, quando si è in cordata, se si litiga, se le cose vanno male, è sempre per colpa del capo cordata.

In quei casi, un capo cordata, cui stia a cuore la sorte di tutti, un capo cordata responsabile, cede la direzione della cordata ad un altro più forte o più capace o più fiducioso di lui.

Che cosa ha fatto, invece, l’onorevole De Gasperi? Si è afferrato alla roccia, col capo della corda e con la picozza, ha tirato di tasca il suo coltello da montagna ed ha tagliato la corda; e sono precipitati giù tutti… (Commenti al centro).

E sono precipitati giù tutti: per primo Togliatti.

Togliatti ha troppo spirito perché non mi consenta di fare il suo nome a fianco di un re, di un re di Francia per giunta. Enrico IV è andato a messa, ma ha avuto Parigi e tutta la Francia. Togliatti è andato a messa, ma ha avuto solo la messa! (Ilarità).

La seconda difficoltà è costituita dal differente modo di valutare il fascismo, o neofascismo che dir si voglia.

Dalla liberazione di Roma, mai come con questo Governo i fascisti si sono sentiti a casa loro. È tutto un pullulare di giornali, di riviste, di organizzazioni, di manifestazioni petulanti e provocatorie di fascisti fanatici e di repubblichini prezzolati. Riconciliazione? Essi non sanno che farsene. Essi vogliono la rivincita.

Che cosa sono questi neofascisti? Sono anche un pericolo, o semplicemente un insulto per la democrazia repubblicana?

Credo, in primo luogo, che parecchi di noi debbano fare ammenda pubblica – ed io la faccio – di un giudizio molto affrettato espresso sull’onorevole Giannini, leader dell’Uomo Qualunque.

L’onorevole Giannini, dopo aver scolpito il suo nome nella storia del teatro e del film, rischia (ed io glielo auguro) di scolpirlo anche nella storia politica, nella storia della democrazia.

Egli ha indubbiamente il merito di aver detto ai suoi seguaci, in massima parte ex fascisti: non parliamo più di fascismo.

A me pare doveroso parlare con rispetto di un uomo che, avendo sofferto molto personalmente – e chi di noi non lo sapeva se n’è accorto in quest’Aula, quando egli parlò qui, nella discussione sul Trattato – che avendo molto sofferto personalmente, ha individuato nella sua tragedia personale e familiare tutta la tragedia nazionale, e ha dichiarato: non più fascismo e non più guerra. Io penso perciò che se egli subisse – privilegio degli uomini illustri – un attentato, l’autore non andrebbe cercato in queste file, ma in quelle dei nemici-amici, come si chiamano nel campo dell’Uomo Qualunque. Io credo che anche la partecipazione dell’onorevole Togliatti al Congresso dell’Uomo Qualunque, seguita dalla visita del nostro Presidente dell’Assemblea, pure comunista, abbia avuto questo significato di affermazione di benevolenza.

Ma non è detto tuttavia che l’onorevole Giannini sia tutto l’Uomo Qualunque. Potrebbe accadere all’onorevole Giannini, per ipotesi, in avvenire, ciò che accadde ai mistici predicatori della quarta crociata, i quali predicarono la conquista della Terra Santa, di Gerusalemme, mentre poi i loro eserciti, nonostante le bolle di scomunica di Innocenzo III, occuparono e misero a sacco prima Zara, città cristiana, e poi attaccarono e presero Costantinopoli, città cristianissima. E ai mistici predicatori non rimase altro che accettare il fatto compiuto e installarsi nelle città conquistate.

Ogni democratico si augurerebbe, io credo, che tutto l’Uomo Qualunque seguisse l’esempio dell’onorevole Giannini, il quale, fra l’altro, ha l’onore persino di una figlia partigiana. Ma si ha l’impressione che ci sia ancora molta strada da fare.

E poi, oltre l’Uomo Qualunque, noi sappiamo che cosa c’è fuori.

Si ha l’impressione che l’Uomo Qualunque e gli stessi altri gruppi liberali e monarchici pecchino di eccessivo zelo nel difendere una tesi cara ai fascisti, ai fascisti autentici: quella della discriminazione assoluta e della cosiddetta riconciliazione.

Quando si grida alla faziosità nostra di antifascisti radicali, non sarebbe tempo perduto, io penso, andare a controllare quanto è avvenuto ed avviene in Francia, nazione meno numerosa della nostra, in cui il fascismo c’è stato per minor tempo e in forma meno canagliesca. In Francia, dove il «Mouvement Républicain Populaire» – i vostri colleghi della democrazia cristiana (Accenna ai banchi democristiani) – sono stati al potere dalla liberazione ad oggi. Qui si strilla perché mille fascisti repubblichini sono stati deportati: ma in Francia, senza contare tutti quelli che sono stati passati per le armi, senza contare quelli condannati all’ergastolo, a trent’anni o ad altre lunghe pene detentive, e quelli che sono stati condannati a meno di dieci anni raggiungono la cifra di 8.000 e sono nei campi di concentramento. Dopo le evasioni scandalose dai campi di Noé e di Carré, si stanno per mettere tutti in carceri chiuse, e il provvedimento è reclamato innanzitutto dal «Mouvement Républicain Populaire», dai vostri colleghi di Francia. (Accenna ai banchi democristiani).

E in Francia continuano implacabili i processi e non si assiste allo scandalo di revisioni, di sentenze di Corte di cassazione, che sono un affronto ingiurioso alla giustizia, e una sfida alla nostra coscienza democratica. (Vivi applausi a sinistra).

Noi non abbiamo avuto né un’epurazione seria né sanzioni. Riconciliazione? Ma certamente. Saremmo dei cani idrofobi se non la volessimo, saremmo dei macellai di professione se la rifiutassimo. Chi non vorrebbe la riconciliazione, riconciliazione piena e pacificatrice, sicché la nuova vita democratica italiana cominciasse dal 2 giugno?

Ogni generazione ha i suoi dei falsi e bugiardi; e la società che ne espia le colpe è portata all’indulgenza; si aprano le porte al figliuol prodigo, che ritorna alla casa paterna. Ma la riconciliazione esige un cambiamento di condotta e di vita; la riconciliazione esige innanzitutto, da parte di quelli che la invocano, una coscienza profondamente modificata; senza di che la riconciliazione sarebbe un turpe mercato nero, morale e politico. Non ci si riconcilia, innanzitutto, coi grandi responsabili, con i ladri, i furfanti e i criminali. La pietà – diceva giustamente uno dei vostri (Accenna ai banchi democristiani) dei più eroici nella lotta clandestina contro i fascisti ed i nazisti tedeschi – nasce dalla giustizia. Non ci si riconcilia con chi afferma che se Mussolini avesse avuto collaboratori più capaci, il fascismo avrebbe trionfato. Non ci si riconcilia con chi trae vanto dall’essere stato fascista militante e repubblichino professionista, pronti tutti a ricominciare da capo. Con costoro nessuna riconciliazione, né morale né politica, è possibile. (Approvazioni a sinistra). Per costoro non ci sono due vie o tre vie: c’è una via sola. In tempi di legalità democratica, come la nostra, la legge penale e civile (Approvazioni a sinistra); e in tempi eccezionali, l’arma con cui i nostri partigiani li hanno affrontati e messi a terra. (Applausi a sinistra).

Ebbene, questo Governo pare sia il Governo di questa riconciliazione intollerabile. Quando nelle piazze di Roma, Roma capitale d’Italia, sede del Governo, mentre l’Assemblea Costituente siede, scorrazzano, cantando gli inni macabri della pazzia, fascisti e repubblichini…

Una voce a sinistra. Lo consente Scelba!

LUSSU. …quando a Roma, nelle manifestazioni pubbliche, si arrestano quelli che gridano «Viva la Repubblica» e si difendono e si proteggono quelli che cantano inni fascisti, c’è una seria ragione per preoccuparci in tutti i settori. (Approvazioni a sinistra). In Inghilterra, paese classico della libertà, e per tutti, collettiva e individuale, quando i ridicoli fascisti di sir Oswald Mosley escono a manifestare, le masse di Londra, la gente pacifica e rispettosa di Londra, li piglia a sassate e a bastonate. In Inghilterra, paese libero. E noi, che nel nostro Paese abbiamo avuto un fascismo che ha tutto distrutto, moralmente e materialmente, noi, per i quali il fascismo è stata la più immane tragedia della nostra storia, noi dobbiamo assistere, tranquilli e pacifici, indifferenti, liberalmente indifferenti?

I fatti che sono stati denunciati qui sono gravi: ogni provincia ha i suoi fatti gravi. Noi usciamo da venticinque anni di fascismo, e l’abbiamo ancora tutti nel nostro ricordo. Chi ha assistito al disordine delle vicende di 25 anni fa, ed è spettatore di nuovo di queste disordinate vicende, credo abbia il dovere di dire e di fare qualche cosa per tentare di rompere l’incantesimo di questi corsi e ricorsi storici. È un nostro dovere! De Gasperi, è un dovere di tutti! È una cosa troppo seria! Ciascuno comprende che queste mie parole non sono espedienti di manovre elettorali. È una cosa seria!

L’altro giorno Saragat ha svolto la sua mozione di sfiducia in mezzo alla nostra più grande attenzione. Ascoltando il suo discorso di opposizione, in cui tutto questo problema non appariva, di cui non ha fatto il minimo accenno, come se fosse arcaicità del periodo degli etruschi o della civiltà greco-sicula o della preistoria, io mi sono spaventato. Ho il dovere di dirlo ad un vecchio grande amico socialista, la cui grande formazione ed esperienza politica si è fatta a Vienna coi socialisti, in mezzo agli operai di Vienna proletaria e socialista, guidata da Otto Bauer, che ha scritto nella gloriosa resistenza una delle pagine più grandi della storia della democrazia europea. Io sono rimasto spaventato. L’espressione – molti di noi lo ricordano – è la stessa adoperata da Léon Blum, in un celebre congresso socialista, rivolto a Renaudel, capo del gruppo dell’Ariete, animato da magnifiche intenzioni non meno che l’onorevole Saragat; Renaudel, al quale una morte precoce, pia e benigna, ha tolto la possibilità di vedere la catastrofe del suo movimento.

Egli è stato tutto assorbito dalla questione dei comunisti e della terza via.

Dei comunisti non ho niente da dire, se non rievocare le esperienze personali e culturali comuni: che cioè la democrazia, oggi, nel nostro tempo, senza il proletariato, è contro il proletariato. La democrazia, senza il proletariato, non è democrazia, oggi! Questo in Italia e in ogni Paese del mondo, in cui il proletariato è organizzato!

Certo, ci sono difficoltà notevoli, grandi, ma sarebbe contro natura che non ci fossero. Personalmente, io non nascondo che preferirei in Italia un grande, unico Partito socialista, con tutte le correnti socialiste, che avesse qui in Assemblea tre o quattrocento deputati, quanti ne ha il partito laburista in Inghilterra.

Personalmente io preferirei che il Partito comunista fosse un piccolo partito. (Commenti a sinistra). Ma, così non è. Non è un piccolo partito, e nessuno può fare che non sia quello che è, neppure l’onorevole Scelba, Ministro dell’interno, che credeva di possedere gli strumenti per ridurlo a suo piacere.

E allora bisogna risolvere le difficoltà nei modi in cui è possibile risolverle: solo nei limiti in cui è possibile risolverle.

All’onorevole Saragat, che è uomo di cultura, consiglierei di leggere o rileggere il discorso di Ibreo a Entedemo che non è il caso di rievocare qui.

Una terza via! Si può essere tutti d’accordo, ma ci sono parecchie cose da dire. Io all’onorevole Saragat mi permetterei anzitutto di dire questo: che dopo la sua prima visita in America, non ne faccia – come egli promette o minaccia – una seconda nella stessa America. Gli consiglierei di fare la seconda a Mosca, altrimenti noi sostenitori della terza via saremmo preoccupati che egli coltivi e percorra una via che non è precisamente la terza. (Applausi a sinistra).

L’Italia, nell’eventualità che lo schieramento dei due blocchi perduri, non deve accodarsi né all’uno né all’altro blocco. Se così non fosse, noi perderemmo la nostra indipendenza nazionale. Il che significa la nostra libertà collettiva di popolo sovrano, e non avremmo più democrazia.

La nostra democrazia presuppone la nostra indipendenza nazionale. La nostra indipendenza è nella terza via. Una terza via significa volerla sin da ora, senza equivoci, sempre pronti a difenderla, a difenderla anche con le nostre armi infinitamente modeste e con il sacrificio del nostro sangue. Pronti e decisi a difendere la nostra indipendenza. Il che vuol dire che, nella catastrofica eventualità di una guerra, noi non saremmo mai gli ausiliari e i vassalli di nessuno, peraltro risoluti a schierarci a fianco di uno di quei blocchi la cui potenza nemica violasse per prima la integrità del nostro territorio nazionale.

Questa è la terza via. All’infuori di questa, c’è truffa e commedia. Questa è la terza via, e credo che dovremmo volerla tutti, perché i destini del nostro Paese sono legati esclusivamente ad essa. Dovremmo volerla anche se costasse sacrifici penosi a noi individualmente ed al popolo che rappresentiamo e che abbiamo il dovere di guidare nelle ore del pericolo.

Anche su questo problema il Governo non ci dà nessuna garanzia.

Non già che esso lavori per una sola via che non sia la terza. Il dirlo sarebbe un affronto ed un’offesa all’onore dei nostri rappresentanti ed alla verità. Il Governo non lavora per questa, e tanto meno il Ministro degli Esteri la cui indipendenza personale e politica è nota ed arcinota. Ma le forze politiche e sociali che questo Governo protegge, rappresenta e incrementa, sono per una sola via, che non è la terza.

Grave dunque è la vostra responsabilità, o colleghi della democrazia cristiana. È grave la decisione che vi ha portato a formare questo Governo. Noi lo notiamo ogni giorno, nelle conversazioni personali che abbiamo con voi, poiché amicizie profonde legano molti di noi a molti di voi. Sentiamo questa posizione vostra d’imbarazzo. Voi dite: «ma è provvisorio», «passerà», «non può durare così fino alle prossime elezioni», «ci accomoderemo, naturalmente». Si sente che neppure voi siete contenti. Lo si sente persino attraverso i vostri stessi oratori deboli e incerti. Io voglio sentirlo, starò qui ad ascoltarlo il vostro «leader» politico, l’onorevole Piccioni, la cui formazione politica si è fatta intorno a «Rivoluzione Liberale» di Gobetti. Io starò ad ascoltarlo, ma ho l’impressione che anche egli sarà debole, come è stato debole l’altra volta, quando parlò qui uno dei massimi vostri oratori, il nostro magnifico compagno Cappi; Cappi, l’umano e l’eroico, che a Cremona, fossa dei leoni, dei serpenti e delle vipere, ha vissuto i vent’anni fascisti; Cappi, che quando parla esprime la stessa democrazia nella sua essenza. Ebbene, il discorso di Cappi fu il più infelice di quanti un parlamentare possa fare: non già perché, a difesa di questo Governo, gli manchi l’intelligenza o la preparazione politica (egli è maestro a molti di noi), ma è la fede che gli manca. Egli ci ha citato qui, e l’ha rievocato con fine volo letterario, lo scudo pesante di Uguccione della Fagiola. Ebbene, cari compagni della Democrazia cristiana, non è con quello scudo che sarete in grado di difendere la formazione politica di questo Governo e la vostra posizione per la responsabilità che su di voi cade. Non è con quello scudo – ne potreste avere cento o mille di simili – che vi difenderete. A voi manca un altro scudo, quello che non è necessario sia temprato di acciaio o cesellato d’arabeschi. A voi manca lo scudo infinitamente più semplice, che può con nulla costruire persino un modesto artigiano; è quello che conta e che solo vale per voi uomini dalla vita a fondamento morale: a voi manca a difesa di questo Governo – mi sia permesso senza offesa – a voi manca l’usbergo del sentirvi puri. (Rumori al centro).

Né vale il fatto che costituzionalmente voi avete le carte in regola. Certo, costituzionalmente voi avete le carte in regola: l’hanno ricordato anche i colleghi liberali che hanno parlato: Cortese, Corbino ed anche, poc’anzi, l’onorevole Crispo. Le vostre carte costituzionali sono in regola, ma non avete a posto le vostre carte politiche: quelle non sono in regola.

Da voi, dal Presidente De Gasperi, dall’onorevole Scelba principalmente e da altri, si è sentito ripetere: noi non abbiamo paura. Molti tra di noi rispondono: neppure noi abbiamo paura.

Io dichiaro, francamente, di avere paura di questo Governo. Paura, non tanto per me, personalmente, ché la mia persona è una cosa irrilevante in un Paese che a momenti ha 50 milioni di cittadini. Non ho paura neppure per la mia corrente politica, assai modesta e che forse ha compiuto il suo ciclo storico, rispondendo degnamente per vent’anni all’appello della democrazia italiana e battendosi per essa. (Applausi). Io ho paura per qualcosa di più: per la vita del nostro Paese, il quale, io credo, avrà molte cose da dire nei millenni che verranno. Io lo confesso: questo Governo mi fa paura per il nostro Paese. (Vivissimi applausi a sinistra – Molte congratulazioni).

Presidenza del presidente TERRACINI

PRESIDENTE. Onorevoli colleghi, il seguito della discussione è rinviato al pomeriggio. Desidero far presente che, aderendo all’invito rivolto ieri sera, numerosi iscritti hanno rinunciato a parlare. Io auspico che ancora qualche collega venga nel pomeriggio a notificarmi la sua rinuncia. Siccome restano comunque sempre ancora una ventina di oratori, e poi dovranno parlare i presentatori delle mozioni e alcuni membri del Governo, questa riduzione del numero degli iscritti non è sufficiente ad esonerarci dalla seduta serale prolungata. Prego pertanto i colleghi di tenerne conto nel regolare l’impiego delle loro ore.

La seduta termina alle 12.40.

POMERIDIANA DI MERCOLEDÌ 1° OTTOBRE 1947

ASSEMBLEA COSTITUENTE

CCXL.

SEDUTA POMERIDIANA DI MERCOLEDÌ 1° OTTOBRE 1947

PRESIDENZA DEL PRESIDENTE TERRACINI

INDICE

Sul processo verbale:

Cappa, Ministro della marina mercantile

Comunicazioni del Presidente:

Presidente

Domande di autorizzazione a procedere in giudizio:

Presidente

Mozioni (Seguito della discussione):

Morandi

Togni, Ministro dell’industria e commercio

Corbino

Interrogazioni e interpellanza con richiesta d’urgenza (Annunzio):

Presidente

De Gasperi, Presidente del Consiglio dei Ministri

Angelucci

Grassi, Ministro di grazia e giustizia

Macrelli

Sui lavori dell’Assemblea:

Presidente

De Gasperi, Presidente del Consiglio dei Ministri

Interrogazioni (Annunzio):

Presidente

La seduta comincia alle 16.

MOLINELLI, Segretario, legge il processo verbale della precedente seduta pomeridiana.

Sul processo verbale.

CAPPA, Ministro della marina mercantile. Chiedo di parlare sul processo verbale.

PRESIDENTE. Ne ha facoltà.

CAPPA, Ministro della marina mercantile. Nella seduta di ieri sera, avendo il Ministro Merzagora affermato che il Governo ha ridato la libertà agli armatori, l’onorevole Aldisio ha interrotto affermando, secondo quanto reca il resoconto stenografico: «Ora gliela avete levata, però. Il provvedimento fondamentale che ha dato questi risultati lo avete abolito».

Desidero chiarire rapidamente come stiano realmente le cose, perché credo che l’onorevole Aldisio sia caduto in un equivoco. In realtà, penso che egli accenni alla soppressione dell’articolo 3 del decreto ministeriale 20 agosto 1946. Con questo decreto ministeriale si concedevano agevolazioni valutarie ad armatori e noleggiatori italiani di navi mercantili, sulla cessione di valuta proveniente da noli ricavati dall’esercizio della navigazione. Questo decreto, all’articolo 3, recava una disposizione in favore degli armatori italiani che acquistavano navi con valuta libera, cioè affermava e disponeva che «l’ufficio italiano dei cambi metterà a disposizione degli armatori italiani che acquistino o abbiano acquistato navi mercantili, battenti bandiera estera, mediante finanziamenti esteri in valuta libera, l’intero ammontare dei noli netti di valuta libera ricavato dall’esercizio della navigazione delle navi come sopra acquistate». Aggiungeva l’articolo 3 che «le disponibilità in valuta di detti conti potranno essere utilizzate dai rispettivi titolari, unicamente per il regolamento dei finanziamenti ottenuti per l’acquisto delle navi».

All’articolo 1, invece, questo decreto lasciava un accreditamento del 50 per cento nei conti a disposizione degli armatori italiani e dei noleggiatori italiani di navi mercantili. Questo 50 per cento doveva essere utilizzato in pagamenti all’estero per acquisto di navi mercantili, in trasferimento di un conto analogo intestato ad altri armatori e noleggiatori italiani, purché si utilizzasse per gli scopi di cui sopra. Insomma, con questo decreto, mentre si lasciava il 50 per cento della valuta estera acquistata coi noli, a disposizione degli armatori di navi mercantili, si concedeva la totalità della valuta proveniente dai noli agli armatori e ai privati, i quali acquistassero navi battenti bandiera estera e le trasferissero sotto bandiera italiana, fino al pagamento totale della somma che in valuta libera era stata destinata all’acquisto di queste navi. Ad un anno di distanza e cioè il 6 agosto scorso, visti i risultati di questa operazione, e tenuto conto delle necessità da parte del Ministero del commercio estero di trattenere il maggior numero possibile di valuta derivante dal commercio con l’estero, per gli acquisti del nostro Paese, si è provveduto con tale decreto del Ministero del commercio estero, d’accordo col Ministero della marina mercantile, alla soppressione dell’articolo 3, cioè si è ridotta la disponibilità di valuta acquisita con i noli delle nostre navi mercantili al 50 per cento.

Questo è stato il provvedimento che si è preso, date le necessità assolute del nostro Ministero del commercio estero. Però in compenso si è consentito agli armatori di disporre di questo 50 per cento di valuta non solamente per l’acquisto di navi all’estero, ma per l’acquisto di merce che ritenessero di importare dall’estero. Non penso, onorevoli colleghi, che con questo si possa dire di avere limitato la libertà di acquisto da parte di armatori italiani di navi estere; non credo che questo provvedimento potrà portare ad una restrizione di questi acquisti. Ritengo che il provvedimento sia stato preso dopo di aver valutato la situazione di fatto, tenendo ben conto dell’opportunità di favorire in tutti i modi, come il Governo sta favorendo, l’acquisto di navi all’estero anche da parte di privati e di liberi armatori, contemperando però questa utilità e questa necessità da parte del nostro Paese di acquistare navi, con quelle che sono le esigenze di valuta da parte del commercio estero.

PRESIDENTE. Se non vi sono altre osservazioni, il processo verbale si intende approvato.

(È approvato).

Comunicazioni del Presidente.

PRESIDENTE. Comunico di aver chiamato a far parte:

della Commissione pei Trattati internazionali l’onorevole Eugenio Reale, in sostituzione dell’onorevole Mario Montagnana, dimissionario;

della terza Commissione permanente l’onorevole Agostino Novella, in sostituzione della onorevole Adele Bei, dimissionaria.

Domande di autorizzazione a procedere in giudizio.

PRESIDENTE. Comunico che il Ministro di grazia e giustizia ha trasmesso sei domande di autorizzazione a procedere in giudizio:

contro i deputati Spano, Bonfantini, Villani e Zanardi, per il reato di cui all’articolo 595, secondo capoverso, in relazione all’articolo 57 n. 1 del Codice penale;

contro il deputato Tega, per il reato di cui all’articolo 18 del regio decreto 18 giugno 1931, n. 773;

contro il deputato Gullo Rocco, per i reati previsti dell’articolo 1 del regio decreto-legge 17 giugno 1937, n. 1084, dall’articolo 3 della legge 6 agosto 1940, n. 1278 e dai decreti luogotenenziali 31 agosto 1945, n. 579, 9 novembre 1945, n. 776 e 1° marzo 1945, n. 177.

Saranno inviate alla Commissione competente.

Seguito della discussione di mozioni.

PRESIDENTE. L’ordine del giorno reca il seguito della discussione di mozioni.

È iscritto a parlare l’onorevole Morandi. Ne ha facoltà.

MORANDI. Onorevoli colleghi, mi occuperò della situazione economico-finanziaria, o per meglio dire di alcuni degli aspetti più preoccupanti che essa presenta. Io non intendo riproporre su questo piano i motivi generali della nostra opposizione, che vi sono ben noti, e non mi attarderò – dopo che altri oratori dell’opposizione l’hanno fatto, e molto efficacemente stamane l’onorevole Lizzadri – a sviluppare le contradizioni massicce che hanno divorato le enunciazioni programmatiche, sulla base delle quali questo Governo ottenne già un voto di fiducia dall’Assemblea.

Ritengo del resto che in questi quattro mesi, l’indirizzo effettivo che questo Governo segue, le idee che ha e la volontà che lo anima si siano schiariti a sufficienza al Paese, perché sia di qualche utilità ancora aprire un processo ai programmi che non sono venuti ad attuazione. Noi tutti sapevamo in fondo che il quarto Gabinetto De Gasperi si presentava con un programma che non aveva alcuna seria intenzione di realizzare.

Andiamo, dunque, direttamente ai fatti e risaliamo da questi alle responsabilità che si possono stabilire nei confronti dell’azione di Governo.

Alcuni di essi, che sono pure di una portata oggettiva estremamente grave, trascendono in parte le responsabilità di questo Governo, o per lo meno possono lasciare esitanti nello stabilirle a pieno.

Così è del fatto che la circolazione di Stato è andata incessantemente aumentando; non vogliamo contestare che si siano presentate delle necessità alle quali il Ministro del Tesoro ha dovuto piegarsi. Così è del fatto che l’incremento delle entrate è stato completamente assorbito da maggiori, ovvero nuove spese, compromettendo in questo modo le buone intenzioni di portare a pareggio il bilancio. Così è di altre spiacevoli cose che non sto qui ad enumerare, per quanto io debba dire che potevamo attenderci dal Ministro del bilancio una cura ed una energia più grandi nel tentativo di mettere ordine ai bilanci dello Stato, giacché veramente il disordine non è mai stato più grande.

Ma vi sono, onorevoli colleghi, altri fatti che scoprono invece delle deviazioni e degli errori specifici dell’azione di Governo, fatti che segnalano pericoli tali da esigere, a parer nostro, un radicale ed immediato mutamento di rotta.

Tali sono:

l’ascesa continua, con progressione accelerata, dei prezzi;

una politica valutaria radicalmente errata, che qualcuno definisce addirittura suicida, che ci induce a dover troncare da un momento all’altro le nostre importazioni essenziali, e costituisce la causa prima dello svilimento continuo della nostra moneta;

il ritorcersi di una pratica malsana di favoritismi e di protezioni, che è alla radice del regresso impressionante della nostra esportazione;

il collasso in atto dell’I.R.I., dopo tanti moniti rivolti al Governo;

le conseguenze di un tentativo inutile di deflazione che si ripercuotono su tutto il nostro sistema produttivo, in particolare sulle industrie;

e l’abbandono sempre più accentuato degli organi dell’Amministrazione all’influenza e alle pressioni interessate di gruppi affaristici.

Tutti questi fatti – e i miei riferimenti non pretendono ad alcuna completezza – sommano in un solo termine: l’inflazione.

L’inflazione ha fatto passi giganteschi nel corso di questi quattro mesi, ed essa potrebbe passare, da un momento all’altro, dalla fase dello «slittamento», alla fase fatale dello «avvitamento», come i tecnici usano dire, della nostra moneta. Io non dirò di certo che il Governo consapevolmente tenda all’inflazione, non sosterrò che la vogliano gli uomini che seggono a quel banco. Ma altri – e questo è il punto – la vogliono per essi; ed è sotto l’influsso di questa volontà tenebrosa che non si scopre, che il Governo opera.

L’inflazione, onorevoli colleghi, è un termine pauroso, come la guerra; nessuno arriverà mai al cinismo di ammettere e di dichiarare che la desidera e la vuole: eppure all’inflazione non si arriverebbe, coi mezzi di intervento di cui oggi dispone lo Stato, come non si arriverebbe mai alle guerre, se non vi fossero delle forze e degli interessi che vi sospingono.

Aperti e dichiarati avversari della concezione economica e dei principî politici dell’onorevole Einaudi, noi non vogliamo farne il capro espiatorio di questa politica; noi non vogliamo giudicarlo alla stregua delle responsabilità schiaccianti che egli porta dinanzi al Paese come Ministro del bilancio, come coordinatore supremo dei dicasteri economici, come Governatore della Banca d’Italia. Noi arriviamo sino al punto di voler distinguere fra la sua posizione di Governatore dell’Istituto di emissione e la sua funzione di Governo.

Se, infatti, così non fosse, dovremmo attribuire all’onorevole Einaudi un piano veramente diabolico: quello di condurci all’inflazione, non risparmiando al Paese le torture della deflazione e così, esasperando fino all’estremo il conflitto degli interessi, flagellare le varie categorie una dopo l’altra per coalizzarle tutte alla fine contro gli interventi dello Stato, quasi ad assicurare il trionfo delle tesi liberiste.

Io non gli imputo ciò, perché conosco quale sia la caratteristica condotta politica del nostro Presidente del Consiglio, il quale ama un poco il gioco dell’altalena e, in questo modo, a parer nostro, ha anche sprecato la miglior carta che aveva in mano: la carta Einaudi. Egli non è riuscito a rovesciare quella situazione psicologica, cui pure si fece riferimento per giustificare il cambiamento di Governo. Non si crede dal Paese, non si crede dai finanzieri, dagli industriali, che l’onorevole Einaudi possa durare e riuscire nel suo tentativo di contrastare all’inflazione.

Penso, più semplicemente, che l’onorevole Einaudi da un pezzo abbia dovuto rinunziare alle funzioni che gli sono state attribuite in seno al Governo, per accontentarsi di quelle di Governatore della Banca d’Italia. Questo io ho voluto anticipare sulle accuse che noi muoviamo al Governo, perché, se è vero che noi abbiamo forti riserve da fare sulle direttive che segue l’Istituto di emissione, non per questo noi ammettiamo che queste riserve siano confuse con le critiche di ben altra origine che investono oggi aspramente il Ministro del bilancio. Per nessun motivo – anche se oggi ce ne potesse derivare un vantaggio politico – noi vogliamo essere confusi con chi da tempo ha puntato sull’inflazione, la vuole ed è deciso ad averla. Ma l’onorevole Einaudi avrebbe pur dovuto accorgersi a quest’ora che siede in un Gabinetto inflazionista! Egli inoltre porta delle responsabilità abbastanza definite per quel che è la politica valutaria e la politica dei prezzi, su cui dovrò poi intrattenermi.

Onorevoli colleghi, perché e da chi si vuole l’inflazione?

Sono state citate delle cifre che valgano a misurare approssimativamente il costo economico della guerra. Effettivamente la guerra, oggi, dopo aver seminato di lutti il Paese, presenta il suo conto economico, e il costo della ricostruzione risulta enorme. Esso è tanto più grave, in quanto il nostro reddito nazionale, alla fine della guerra, si era ridotto a circa la metà del livello prebellico, ed è poi risalito molto lentamente. Si ritiene così che l’onere della ricostruzione, se fosse ripartito in un periodo di quindici anni, assorbirebbe non meno del 22 per cento del reddito nazionale. Come dividere questo peso, che è costituito dallo squilibrio tra potenziale di consumo e possibilità di investimento, dallo squilibrio tra investimenti di carattere privato e investimenti di carattere pubblico? L’inflazione è il mezzo più idoneo, più efficace e più rapido per far ricadere tale peso sulle spalle delle categorie lavoratrici. Essa ne decurta i redditi reali e ne contrae la capacità di consumo fino all’estremo limite; e consente di rinviare la stabilizzazione del bilancio fino al punto in cui queste categorie della popolazione saranno state depauperate di tutte le loro risorse, e sarà stato depresso al massimo il loro tenore di vita.

Onorevoli colleghi, come tutti i Governi pretendono di essere tutori della pace fino al momento in cui non dichiarano la guerra, così tutti i Governi asseriranno sempre di sentirsi impegnati alla più strenua difesa della moneta, finché non saranno stati abbandonati gli ultimi spalti.

Ma che cosa fa questo Governo per difendere la moneta? Tiene dei discorsi, ispira degli articoli, si preoccupa di procurarsi un alibi morale; ma i fatti parlano ben altrimenti.

Una sola eccezione pare presentare questa linea di condotta ed è rappresentata dalle restrizioni del credito, che sono state già oggetto di varia considerazione in questo dibattito. In piena inflazione noi abbiamo visto il Governatore della Banca d’Italia sferrare un violento attacco al settore creditizio, determinando dure restrizioni del credito da parte delle Banche. È un tentativo di deflazionare drasticamente un settore della nostra economia, che manca disgraziatamente di ogni connessione con la politica economica che si svolge, ed anzi è, per molti aspetti, contraddetta da essa. Così può, alla fine, anche ritorcersi in effetti inflazionistici. Prendendo motivo e spunto da queste restrizioni, dagli ampi commenti di stampa cui essi danno luogo, il Presidente del Consiglio ha creduto ad un certo momento di poter candidamente annunziare prossima una crisi di deflazione e la gente, che vede salire i prezzi ogni giorno, si domanda in che mondo campa.

Di deflazione veramente io non vedo come si possa parlare, dal momento che la circolazione monetaria si è accresciuta solo fra aprile e agosto di un centinaio di miliardi, ossia di quasi una quinta parte, mentre è nelle previsioni del Tesoro che essa debba ulteriormente espandersi nei prossimi mesi in proporzione molto più grande. A meno che per politica deflazionista non si intenda semplicemente il fatto di causare – per soprammercato ai nostri guai – una serie di fallimenti.

L’onorevole Einaudi ha affermato di essersi trovato dinanzi ad una cruda alternativa: o accrescere l’emissione o creare il caos economico. È una condizione di cose, questa, è uno stato di necessità che egli – a parer nostro – poteva prevedere. Ed è cosa che dovrebbe capacitarlo ad ogni modo della inanità e della pericolosità di contendere il terreno all’inflazione con mezzi puramente finanziarì. Le misure adottate nel settore creditizio potrebbero avere la loro efficacia se connesse ad un complesso sistematico di interventi rivolti a diminuire il fondamentale divario fra consumo, produzione e importazione, fra investimenti e risparmi, fra le diverse categorie di consumo e di investimenti; prese a sé stanti, non fanno che aggravare – come noi riscontriamo – la situazione.

Sorge legittimo allora in noi il dubbio che ci si voglia servire di esse per un’opera di disintegrazione liberistica e capitalistica della nostra economia, la quale è caratterizzata da una sempre accentuata estensione del settore pubblico nella sua recente evoluzione.

La deflazione del credito costituisce in ogni modo un mezzo di emergenza per accrescere il gettito del mercato monetario a favore del Tesoro, ma essa viene anche ad accentrare nelle mani del Tesoro e dell’Istituto di emissione il finanziamento dell’economia, limitando l’opera di finanziamento autonomo degli istituti privati (il che comporta qualche contradizione con l’ideologia liberista). È da chiedersi allora a qual fine questo accentramento delle possibilità e della capacità di finanziamento sarà indirizzato, mancando un analogo accentramento e controllo delle forze produttive, mancando un programma.

Prima di conseguire degli effetti deflazionistici (effetti deflazionistici che dovrebbero consistere nella riduzione delle scorte, nelle vendite forzate), queste restrizioni, applicate come misure isolate e indiscriminate, potrebbero convertirsi – come ho già detto – in cause concorrenti di inflazione. Infatti, esse accentuano l’attività speculativa, accorciando il ciclo produttivo colpiscono i settori più vitali della nostra ricostruzione, aumentano enormemente i costi del credito rialzando i costi di produzione ed i prezzi.

Ciò parrebbe provato dalla crescente tensione al rialzo che è registrata da tutti gli indici, contrariamente a quel che ha sostenuto stamane l’onorevole Quarello. In ogni caso questa ascesa dei prezzi dimostra un accentuato dinamismo delle forze inflazioniste che sfuggono alla manovra finanziaria.

Onorevoli colleghi, da quando si è costituito un Gabinetto omogeneo, da quando si è istituito l’ufficio di coordinatore dei vari Dicasteri economici, noi non sappiamo più capire chi sia veramente che conduce la nostra finanza: se il Tesoro, se la Banca d’Italia o il Commercio estero.

Dall’onorevole Einaudi noi vorremmo sapere a quale indirizzo obbedisce la nostra politica valutaria. Noi non abbiamo avuto delle spiegazioni a questo riguardo ieri dal Ministro Merzagora. Quello che noi vediamo è che il Ministro Merzagora, da quel valente uomo di affari che è, considerandosi un tecnico applicato alle esportazioni, si dà a tutt’uomo a favorire gli esportatori, incurante degli strattoni che dà in questo modo alla nostra vacillante moneta.

Io mi soffermerò un po’ sulla nostra politica valutaria, perché considero che essa sia veramente al centro di tutti i nostri mali attuali.

Il Ministro Merzagora si è dimostrato uno dei Ministri più dinamici di questo Gabinetto ed a lui dobbiamo tutta una serie di innovazioni: la modifica del tasso ufficiale del cambio, le varianti introdotte nel sistema del cinquanta per cento di valuta, la reintroduzione ufficiale, direi, del franco-valuta e delle lavorazioni per conto, sistemi che erano già stati accantonati per i disastrosi risultati che avevano dato. A lui, disgraziatamente, non a lui in quanto persona, ma alla politica che è stata svolta in questi mesi dal Commercio estero, dobbiamo anche il depauperamento totale delle nostre scorte valutarie in dollari.

Abbiamo appreso dai giornali, onorevoli colleghi, che si sono dovute disdire le importazioni di carbone, così che noi avremo per i prossimi mesi soltanto un anticipo sui rifornimenti post-U.N.R.R.A. gratuiti, e pare addirittura che ci si trovi in serie difficoltà per assicurare semplicemente il pagamento dei noli nell’effettuare il trasporto di questo carbone.

Il Ministro Merzagora ha pronunciato ieri un discorso politico fortemente polemico, nonostante tutto il garbo e certa levità delle sue espressioni. Noi ci attendavamo qualcos’altro, che ci desse, come piuttosto gli competeva di fare, la spiegazione su un piano tecnico del perché si insiste in un sistema carico di vizi.

È comodo, signor Ministro, addurre le responsabilità del tripartito. Il tripartito certo ha le spalle grosse. Ma che forse non è sempre stato questo, nei Governi precedenti, il punto di massima divergenza nostra col Partito democristiano e con il Governatore della Banca d’Italia?

Ministro Merzagora, noi avremmo voluto capire perché si è portato il dollaro, per esempio, a 350. Per quello che io so, il Ministro del Commercio estero aveva chiesto di portarlo a 450. Poi si è contrattato: «è troppo, allora potrebbe essere 400, via, fissiamolo a 350»! Questo vuol dire che nessun criterio è stato preso a base della determinazione del nuovo tasso.

Accorciare le distanze, si dice. Ma che cosa significa? Accorciare delle distanze che sono andate continuamente aumentando proprio per effetto di questo sistema, che è venuto spostando incessantemente la quotazione libera del dollaro! Ridate corso alle importazioni di lana e di cotone, e voi vedrete dove può avanzare la valuta libera. Col sistema vigente, questa modifica del tasso di cambio, che non aveva nessuna ragione di farsi come misura isolata, non rappresenta affatto un adeguamento della quota effettiva. Essa si è tradotta puramente in un premio contingente agli esportatori.

Il Ministro Merzagora non ha saputo spiegare la ragione di una serie di circolari, che il suo Ministero ha emanato, sulla base delle quali è stata variata la quota di disponibilità che gli esportatori hanno sulla valuta ricavata dalle esportazioni; perché si sia differenziata nei confronti dei lanieri e di altre categorie; così che oggi egli si trova investito da tutte le parti, dagli alimentaristi, dai setaioli, da ogni categoria che comincia invariabilmente in partenza col chiedere il cento per cento, per poi transare, chi sul 75, chi sull’80, chi sul 90 per cento. Così si creano i cosiddetti cambi multipli. A questo modo – già è stato detto, ma è il caso che lo ripeta e vi insista – è stata compromessa una delle convenzioni più interessanti e più giovevoli alla nostra economia, che la nostra missione in America aveva potuto concordare. La così detta «certificazione dei cambi» da parte degli Stati Uniti è andata a monte. Che cosa è questa certificazione dei cambi?

È cosa molto semplice. Si trattava di ottenere che gli americani applicassero i dazi doganali ad valorem sulla base non del cambio ufficiale, ma del cambio medio. Avviene che quando i nostri esportatori introducono in America una merce del valore di 450 o 500 lire, per essi quel 450-500 rappresenta un dollaro, poiché tale è il cambio medio del dollaro in Italia; per gli americani rappresenta invece, alla stregua del cambio ufficiale, due dollari, i diritti doganali sono, quindi applicati su due dollari. È stato valutato da esperti americani, i quali hanno un certo occhio in queste valutazioni, che con la mancata certificazione di cambio noi possiamo scapitare di un centinaio di milioni di dollari per maggiori esportazioni che potremo fare.

Questi cambi multipli cullano nell’inerzia i nostri industriali, i quali si guardano bene dal limare i costi, o ridurre i propri profitti; sotto questo aspetto, quindi, possono ritorcersi alla lunga in un danno alla nostra esportazione. Con questa moltiplicazione dei cambi non è più possibile seguire la effettiva, reale ragione di scambio nel commercio con l’estero.

Si vuol dar nome di conti valutari a questi trattamenti privilegiati, ma ciò è assolutamente improprio. I conti valutari dovrebbero assicurare all’esportatore italiano il reintegro della valuta necessaria per coprire esattamente quel tanto che costa la materia prima, che egli deve importare.

Per applicare correttamente questo sistema, occorrerebbe avere dei controlli, occorrerebbe sapere, per esempio, quanto di lana un fabbricante mette nel tessuto che produce: se ne mette il 50, il 20 o il 5 per cento. Quindi, nel caso dei provvedimenti adottati non si può proprio parlare di conti valutari, poiché si tratta piuttosto di «forfetizzazioni» grossolane, e quindi semplicemente di ritocchi, per chiamarli con questo eufemismo, del sistema del cinquanta per cento di valuta libera.

Anche per quanto concerne il franco-valuta e la lavorazione per conto, il Ministro Merzagora avrebbe dovuto darci delle giustificazioni. Perché, ad un certo punto, nel gennaio scorso, questi sistemi furono abbandonati? Perché si ristabiliscono oggi? Non vale addurre delle ragioni generali, ossia la opportunità di rastrellare la valuta trafugata. Il fatto è che il franco-valuta, quando mancano mezzi di controllo efficaci, si risolve in un nuovo incentivo alla fuga di valuta, in un incentivo a quella tale sotto fatturazione, che è il grande male del nostro commercio estero: i nostri esportatori fatturano per dieci il valore della merce che essi esportano e che è 50 o 100, per accantonare valuta all’estero.

Si favorisce e si incrementa il commercio delle valute e tutti sappiamo come e dove si fa il commercio dei falsi attestati di credito che vengono a testificare che, per esempio, un tizio, prima del marzo 1946, aveva presso una banca svizzera un certo credito. Gli effetti di questo sistema vengono scontati dal consumatore, che paga prezzi più elevati per i prodotti che vengono importati, perché si cerca di sfruttare al massimo quella valuta, e di attingere quei cambi stellari che si sono già toccati in passato: 5000 o 8000 lire sul dollaro, introducendo magari delle penne stilografiche o altri beni voluttuari.

Il Ministro Merzagora ci ha piuttosto confermato quale sia l’empirismo e l’arbitrio che impera sul nostro commercio con l’estero. Egli ha citato delle cifre che dovrebbero farci rabbrividire: domande di licenza per decine e decine di migliaia. Sappiamo benissimo che soltanto una piccolissima parte di queste domande può essere evasa, e solo una parte delle domande accolte va poi a buon fine, ossia è utilizzata. Sappiamo quale commercio si faccia di queste licenze.

Quello che noi avremmo potuto domandare all’onorevole Presidente del Consiglio nel momento in cui si è costituito questo Governo, lo potremmo domandare ancora in questo momento: perché cessata la ragione di bilanciare la posizione dei socialisti all’industria, si è tenuto ancora in piedi il Ministero del commercio estero. Tutti voi sapete, onorevoli colleghi, come questo Ministero sia nato; fu per cavarsi da un imbarazzo nella distribuzione dei portafogli tra tanti partiti che partecipavano al Governo, che si pensò a un certo momento di dar vita ad un Ministero staccato. Naturalmente, istituito il Ministero, esso poi ha cercato di giustificare la sua funzione moltiplicandosi nei propri organi. In che modo? Tagliando sempre più nettamente quei rapporti che dovrebbero avere l’Amministrazione del commercio estero col Tesoro e soprattutto con l’Amministrazione dell’industria e del commercio interno. Ne è derivata questa informe struttura che ogni giorno di più aggrava i suoi difetti e aumenta i danni che si ripercuotono nella nostra economia.

Su una questione, già propostagli dall’onorevole Nenni, il Ministro Merzagora, mi permetta di farglielo amichevolmente osservare, se l’è cavata troppo alla spiccia. Egli ha detto che per i setaioli non si è fatto nulla di straordinario, ma quello che si è sempre usato fare in questi casi. No, egregio Ministro, qui si tratta di una misura di vero e proprio protezionismo, sulla quale io richiamo l’attenzione dell’onorevole Einaudi, patrono già, ai bei tempi, dell’industria della seta, che combatteva allora una strenua lotta contro i protezionisti. Vi faccio osservare che i setaioli non sono i contadini che coltivano il filugello… (Interruzioni al centro), ma sono gli industriali della seta, i filandieri, che hanno accumulato guadagni, dirò per lo meno ingenti, in questi ultimi tempi e costituiscono una delle categorie più arretrate della nostra industria. Essi hanno dichiarato, uno di questi giorni, che non erano più disposti a cedere, a condizione di favore, una parte di valuta allo Stato. Vedete quale inversione si verifichi nella logica di questo sistema del 50 per cento che, come è stato già ricordato, era stato adottato per ragioni eccezionali e contingenti. Gli industriali considerano che questo 50 per cento non sia già una facilitazione concessa loro, ma invece una condizione di favore che essi fanno allo Stato e non ne vogliono più sapere.

Con gli accordi stipulati dal Ministro Merzagora, i setaioli potranno intraprendere delle operazioni di compensazione, ma noi vorremmo sapere a quali prezzi saranno venduti sul mercato interno i prodotti che essi importeranno, perché evidentemente essi intendono di coprirsi di quel margine che dicono mancare loro nella produzione.

Insomma, ci si è solo preoccupati di favorire l’esportazione, anzi di favorire gli esportatori, quando invece la preoccupazione maggiore avrebbe dovuto essere quella di servire le importazioni essenziali, come il carbone ed il grano, per le quali oggi ci troviamo repentinamente in disperate difficoltà. Certo, in questo entra per la sua parte l’inconvertibilità del fondo sterline che noi avevamo a disposizione, ma questo non diminuisce le responsabilità nei confronti di un uso così poco oculato delle risorse ih dollari.

Veramente, ci si deve chiedere se a questo modo non si vuole deliberatamente mettere il Paese alla mercé di chi lo deve aiutare a campare.

La prima misura che noi consideriamo essere necessario e urgente a prendere è il controllo integrale della valuta, e questo anche se si avesse in vista di passare domani a forme libere di scambio.

Io vorrei invitare l’onorevole Presidente del Consiglio a sentire il parere dei migliori funzionari ed esperti del Commercio estero e dell’Ufficio dei cambi. Essi sono tutti concordi nel ritenere che non sia più possibile procedere con i sistemi in uso, e che non è per queste vie tortuose che noi possiamo tendere all’allineamento dei prezzi interni a quelli dei mercati internazionali.

Così, la politica valutaria che si è fatta e la prassi che si è seguita al Commercio estero sono, a parer mio, la ragione prima dell’inflazione, perché per questa via si caricano sui prezzi interni i premi accordati indirettamente agli esportatori, che pesano come vere e proprie tasse sull’importazione; si favorisce l’accumulazione di scorte a prezzi elevati (che domani naturalmente resisteranno ad ogni inversione di congiuntura); si favorisce la introduzione di beni superflui sui quali è possibile spuntare i cambi più alti; si incita, infine, come ho detto, alla fuga della valuta.

Onorevoli colleghi, questa è la grande operosa centrale inflazionistica in seno al Gabinetto. Ma un’altra centrale di inflazione è rappresentata dalla regolamentazione ufficiale dei prezzi, sia dei servizi che dei prodotti bloccati. Ci si è dati ad una corsa sfrenata negli aumenti dei servizi (ferrovie, imposte), mentre avrebbero dovuto essere più ragionevolmente contenuti, non considerando che in questo modo si dava una spinta materiale e psicologica all’ascesa di tutti i prezzi. Si sono inforcati i trampoli, onorevole Einaudi, del protezionismo più acceso a favore dei siderurgici e degli zuccherieri, quelli che una volta ella chiamava i trivellatori della nostra economia. Io sfido qualsiasi tecnico a dimostrare la necessità dei recenti aumenti accordati alla siderurgia, dopo che molto rilevanti erano stati quelli deliberati soltanto pochi mesi prima.

Che meraviglia dunque, onorevoli colleghi, se con questo andazzo, e col formarsi, per giunta, di una borsa nera del denaro, per effetto delle restrizioni creditizie, gli indici dei prezzi alla produzione segnino impressionanti aumenti i quali si moltiplicano attraverso ogni sorta di mediatorati e di bagarinaggi ripercotendosi sui prezzi al minuto? Gli indici segnano un aumento a progressione accelerata, poiché, se riscontriamo nel primo trimestre, da gennaio a marzo, un aumentò di 152 punti, noi vediamo che nel trimestre successivo si ha un nuovo scarto di 864 punti ed un nuovo balzo all’insù si riscontra all’inizio di questo mese. Cosicché dalla fine di marzo ai primi di settembre sono (stando ai calcoli del professor Livi) 1886 punti che incrementano l’indice dei prezzi all’ingrosso.

Ogni azione è mancata da parte del Governo per infrenare questa ascesa dei prezzi. Che cosa si può fare? Siamo sempre daccapo. È una questione che è stata trattata infinite volte già davanti a questa Assemblea e al Consiglio dei Ministri. Ad un dato momento ci si era trovati però d’accordo su qualche punto: la necessità di provvedere ad importazione in massa di derrate alimentari da gettare sul mercato. Ma non proponendosi di farlo, così come si espresse il collega Quarello stamane, «nei limiti del possibile». No, questo deve essere un obiettivo preciso dell’azione del Governo. E mentre oggi il Ministro Merzagora non ha più un dollaro da spendere, e affida le importazioni di grassi alle onerose compensazioni dei setaioli, io dico che si sarebbero dovuti coprire a tutti i costi i contingenti assegnatici, assicurandone la importazione in vista di agire sul mercato interno. Ci si era trovati d’accordo anche su un altro punto.

La necessità di intensificare l’azione per l’approvvigionamento diretto dei grandi centri urbani, che agiscono da pompa aspirante sulla campagna; assicurare un rifornimento il più largo possibile dei centri cittadini, vuol dire poter dominare in un primo tempo e poi poter comprimere l’andamento generale dei prezzi. Noi dobbiamo bene da qualche parte agganciare questa situazione che è caratterizzata da una fondamentale carenza di beni, la quale viene esasperata dalla grande facilità che ha la speculazione ad innestarsi nel processo distributivo.

Degli enti comunali di consumo non ho il coraggio di parlare, perché non so da quanto tempo si dice che questi enti stanno per essere messi in grado di agire, e pure da tutti si riconosce che essi potrebbero essere un mezzo efficace di calmierazione. Ma nulla di serio finora è stato fatto per questo. Ci si era trovati anche d’accordo su una certa disciplina dei mercati e dei magazzini generali, e qui non vi può essere questione di divario ideologico; si tratta semplicemente di volontà di fare.

Noi ci troviamo, onorevoli colleghi, nel viluppo di una politica vincolista a rovescio, intesa a rincorrere gli interessi delle diverse categorie, le quali trovano il patrocinio da parte dei singoli Dicasteri e si determinano, in questo modo, le sfasature più gravi per il nostro sistema produttivo.

Attendiamo di ascoltare l’esposizione del Ministro dell’agricoltura. Ma io non vedo che fino ad oggi si sia fatto qualche cosa di utile e di serio per dare un orientamento ai produttori; all’opposto, si sono aumentate le incognite.

Nell’industria la situazione è anche più grave. Vi sono situazioni pericolosamente stagnanti. Un intero vitale settore, quello dell’industria meccanica e cantieristica, è andato in questi mesi sprofondando nel marasma per l’inazione governativa.

È stato di recente approvato dal Consiglio dei Ministri in gran furia, con la formula della massima urgenza – per quanto da molto tempo esso fosse allo studio e in preparazione – un provvedimento a favore dell’industria meccanica. Riconosco che esso potrebbe giovare ad equilibrare certi effetti più nocivi della deflazione creditizia: tutto dipenderà, però, da come sarà applicato, da come questo strumento sarà usato, se si preleverà su questi stanziamenti la congrua parte per l’industria di Stato, se si sarà più o meno rigorosi nell’assumere le garanzie, che dovrebbero essere rappresentate soprattutto da programmi ragionevoli di produzione, non soltanto da titoli che possono anche ridursi a pezzi di carta.

Se non ci si varrà di questo mezzo per assicurare a determinate aziende troppa comodità nel coprire aumenti di capitale, che esse forse non sarebbero in grado di collocare sul mercato. Non c’è bisogno che io faccia dei riferimenti circostanziati: tutti sanno in quali difficoltà oggi si dibattano alcune delle nostre più grosse aziende meccaniche private.

E, per quello che riguarda il merito di questo provvedimento, osservo che esso si origina da un progetto di portata più vasta e generale che era stato studiato allorché si pensò di mettere il fermo a un certo sistema seguito in passato nell’erogare questi prestiti. Ma il provvedimento in discorso limita di molto le garanzie che lo Stato può esigere. Fra l’altro, abbiamo visto che possono essere assunte azioni senza diritto di voto, ciò che rappresenta un titolo di garanzia che può in pratica svanire molto facilmente.

Questo provvedimento taglia fuori, nel suo congegno di applicazione, l’I.R.I.; mentre quello che era stato messo allo studio nel passato Governo, che si riferiva all’industria tutta nel suo insieme, prevedeva, proprio per il settore meccanico, il funzionamento di una commissione mista di rappresentanti dell’I.R.I. e dell’I.M.I., ad evitare che si potesse comunque svolgere – in presente o in avvenire – un’azione rivolta allo svuotamento dell’I.R.I. attraverso le garanzie assunte dall’I.M.I.

È singolare anche un altro aspetto di questo provvedimento: il fatto che siano investiti di facoltà deliberativa dei funzionari e degli esperti, mentre risultano completamente tagliati fuori i Ministri responsabili. Si tratta di un comitato composto di tre esperti estranei all’amministrazione e di quattro direttori generali di diversi Ministeri i quali decidono, mentre ai signori Ministri non resterà che da apporre la firma sotto la decisione presa da costoro.

EINAUDI, Ministro del bilancio. Perché la firma?

DE GASPERI, Presidente del Consiglio dei Ministri. No, neanche la firma.

MORANDI. Tanto meglio, se ne avete per lo meno nella forma salvaguardata la dignità.

In connessione a questa situazione dell’industria meccanico-cantieristica, anzi al centro di essa, sta la situazione pazzesca dell’I.R.I.

Onorevoli colleghi, da quanto tempo noi, in ogni occasione che si presenta di discutere di questioni economiche, ricadiamo a parlare dell’I.R.I.! È venuta però l’ora per il Governo di provvedere ed esso deve assumere tutte le responsabilità che gli competono di fronte alla situazione che si è venuta a creare.

L’I.R.I. è un istituto che ha un patrimonio valutato ad oltre cento miliardi – la valutazione più recente si aggira sui 120-130 miliardi – e che non ha fondi di cassa, che non riesce più ad assicurare le paghe ai suoi dipendenti. Esso ha già dovuto richiedere all’I.M.I., prima ancora che il decreto fosse pubblicato, anticipazioni su questo fondo di 55 miliardi, allo scopo di pagare i salari; ed è ridotto a campare su un giro interno di cambiali e di sconti fra le diverse aziende e le aziende e le Banche, con degli aggravi spaventosi nelle spese di gestione. E in queste condizioni l’I.R.I. continua ad essere ostinatamente ignorato dal Governo.

Noi abbiamo sentito come si è espresso di recente il Ministro del tesoro: l’I.R.I., a parer suo, è un problema risolto, dopo che si è provveduto a nominarvi un Commissario. Infatti nel mese di giugno, mentre nel precedente Governo si era arrivati a fissare un certo orientamento per la riorganizzazione dell’istituto e si trattava semplicemente di passare alla realizzazione di quel programma; a giugno, dico, tutte queste cose sono state lasciate cadere, e si è addivenuto alla nomina di un Commissario. Il Commissario non ha tardato a presentare la sua relazione al Governo fin dai primi di luglio. Ma il Governo, per quello che mi consta, fino ad oggi non v’ha dato risposta.

Intanto si presentano delle situazioni aziendali che arrivano veramente allo spasimo, come è la situazione dell’«Ansaldo». Così si possono pregiudicare, definitivamente forse, le sorti del settore più interessante e promettente della nostra economia industriale, anche se si tratta di quello dove più gravi sono gli oneri della riconversione. È sullo sviluppo della nostra industria meccanica che si fonda l’avvenire del nostro sistema industriale, e questa trascuranza da parte del Governo è cosa che veramente non si sa in che termini deplorare.

Io direi che il Governo – qualunque sia la composizione, il suo colore – è sempre in dovere di tutelare gli interessi dello Stato; e qui non è questione di seguire una ideologia liberalista o collettivista. Non si può chiudere gli occhi alla realtà delle cose, che è rappresentata – come prima dicevo – dall’estensione che ha avuto il settore pubblico della nostra economia. Non è lecito dilapidare in questo modo un patrimonio di ricchezza e di lavoro che è dello Stato, che è della collettività.

Ed è veramente inconcepibile, onorevole Einaudi, onorevole Togni, il disordine che è cresciuto nell’amministrazione di questi beni dello Stato: i conflitti che si sviluppano in seno all’I.R.I., tra le banche e le industrie dell’I.R.I., tra la Finsider, raggruppamento siderurgico dell’I.R.I., e le aziende meccaniche dell’I.R.I.

È scandaloso il mancato coordinamento e le collisioni che si verificano oggi fra 1’I.R.I, 1’I.M.I. e la Banca d’Italia. Un tale assurdo stato di conflitto, che si è acutizzato sempre più in questi mesi, dobbiamo ben domandarci dove ci porterà.

È in ogni modo uno stato di cose che dimostra – a parer mio – una cosa molto semplice: che questo Governo amministra male!

Onorevoli colleghi, voglio rilevare che una tale situazione è tanto più pericolosa in quanto mai, come dalla costituzione di questo Governo, è stata così grande la possibilità di influenza e di comando dei gruppi e degli aggregati capitalistici. Essi hanno trovato la via libera in tutti gli organismi dell’amministrazione, anche in quelli che sono più vicini alla Presidenza del Consiglio, e vi hanno annidato i loro uomini. Sono essi che tirano i fili dei molti Comitati e delle troppe Commissioni, sono essi che spadroneggiano negli uffici come non mai! Lo Stato abdica alla condotta della siderurgia e cede ai ricatti di questi gruppi: ha uno strumento possente per dominare, e sono le aziende siderurgiche dell’I.R.I.; ma i consorzi di approvvigionamento che si chiamano Campsider, Camfond… questi, onorevoli colleghi, sono nelle mani di agenti dell’industria privata!

E avrei voluto citare a questo punto la tracotanza dei nostri armatori, ma sono rimasto sconcertato dalle spiegazioni che il Ministro Cappa è stato un momento fa così sollecito a dare all’onorevole Aldisio.

Già, lo sappiamo come sono messi a profitto i dollari ricavati dai noli, che questi armatori dicono dovrebbero servire al pagamento delle navi che sono state loro assegnate! Quando invece, le navi Liberty sono state cedute dall’America, con pagamento ventennale a un tasso molto basso (il 2% per cento mi pare) e tutti sanno che i nostri armatori, dopo un anno e mezzo o due anni di corsa sono in grado pagarle per intero, o di comprarsi un’altra nave che possa magari viaggiare sotto bandiera straniera.

È uno scandalo questo, e non lo diciamo noi per fare della demagogia, ma lo dicono i vostri consiglieri aulici, gli addetti americani. Voi lo sapete benissimo, voi che siete al Governo, che avete contatti continui con queste persone, voi sapete che se un rimprovero ci si fa da parte del Dipartimento di Stato americano è lo sperpero della valuta ed il protezionismo folle che noi accordiamo agli armatori. Non meravigliamoci, poi, che questa gente possa foraggiare così abbondantemente i giornali, in vista di influire sull’opinione pubblica. (Applausi a sinistra).

In verità, mai come in questo Governo omogeneo e tecnico si è riscontrato una mancanza di coordinamento ed una contraddittorietà più grande nell’azione di Governo. A chi si connette, onorevole Presidente del Consiglio, la nostra Delegazione a Parigi? Noi sappiamo di un conflitto con la burocrazia del Ministero degli esteri. Noi sappiamo che la burocrazia del Ministero degli esteri si affatica a mettere su un suo piccolo C.I.R. in contrapposto al grande C.I.R. Intanto i Dicasteri vanno ognuno per conto suo e la Banca d’Italia tende ad obiettivi suoi propri, trapassando di forza tutti i diaframmi ministeriali.

Questo è un quadro a tinte molto attenuate della nostra situazione, dei risultati che ha dato in pochissimi mesi la politica di questo Governo. Io voglio tacere delle prospettive che ci si aprono… Ma un’analisi come questa, l’analisi dei fatti, non scopre tutta la portata del male. È qualche cosa che si avvicina ad una vera e propria disintegrazione dello Stato. È una società che minaccia di essere smagliata attraverso l’esasperazione di tutti i contrasti e conflitti di interessi, attraverso la cieca politica di parte che si fa.

È una situazione dalla quale bisogna al più presto uscire, perché essa potrebbe originare un grave processo degenerativo tale da compromettere l’attività vitale del nostro Paese.

Onorevoli colleghi, tiriamo le somme ed io arrivo alla conclusione.

Che cosa imputiamo noi a questo Governo?

Gli imputiamo:

di avere in questi quattro mesi enormemente aggravato la nostra situazione economica e finanziaria, rinunziando ad ogni azione sistematica per fronteggiare l’inflazione;

di avere svolto azione contradittoria e incoerente nei settori della politica creditizia, valutaria e dei prezzi, causando così sofferenze inutili, esasperando i vizi di un sistema che è da abbandonare, inserendo spinte dirette all’ascesa dei prezzi;

di non aver sentito l’imperativo di tutelare il patrimonio economico del Paese, rinunciando ad esigere anche un minimo di disciplina, dalla popolazione; mettendo in crisi una struttura nostra peculiare come è l’I.R.I.; riducendosi, come oggi avviene, a mendicare il carbone dall’America; accettando uno stato di minorità e di sudditanza col fatalismo con cui si esprimeva ieri il Ministro del commercio;

di essere sordo ai patimenti e all’accresciute sofferenze delle categorie lavoratrici, e proni invece alla prepotenza del capitale (Applausi a sinistra); di favorire l’invadenza dei gruppi affaristici; di respingere la volontà manifestata dai lavoratori di collaborare alla soluzione dei problemi più ardui della produzione (ricordo all’onorevole Togni certe promesse per i Consigli di gestione…); di avere accettato delle condizioni – se non si vogliono chiamare ricatti – dalle associazioni padronali (ancora intendo riferirmi ai Consigli di gestione); di praticare il liberismo dove si richiederebbe un controllo, e il vincolismo dove la libertà dei rapporti potrebbe giovare ai consumatori.

Onorevoli colleghi, in questo rovinio noi pensiamo che sia urgente raggiungere delle posizioni di sicurezza: semplicemente questo. Intendiamoci, noi restiamo convinti che non è con mezzi di ripiego, né con espedienti che si risolvono i grandi problemi della ricostruzione. Soltanto una impostazione di larghe vedute, una impostazione di essi che corrisponda alle esigenze dei tempi mutati ed affronti arditamente l’esigenza di profonde riforme e profonde innovazioni strutturali, ci può schiudere nuovamente la via del progresso.

E qui dirò, a questo proposito, che noi dobbiamo fieramente protestare contro il modo che si usa oggi dai sostenitori del Governo e perfino dalla stessa Democrazia cristiana, di scaricare sul tripartito la responsabilità di non avere affrontato questi problemi, di non avere recato in atto mai una politica organica, quando invece questo fu lo sforzo costante e tenace dei partiti di minoranza al Governo, tagliati fuori come erano da certi posti di comando o tallonati in modo da elidere le loro forze. Del resto, quale ragione ebbe la crisi di aprile, se non la deliberata volontà della Democrazia cristiana di sottrarsi a questa pressione?

Ormai noi consideriamo che sul conto di questi problemi si debba pronunciare il popolo nelle prossime elezioni; e non è nelle condizioni in cui versiamo, in questo scorcio di vita dell’Assemblea Costituente, in un’ora conturbata da così accesi contrasti, che questo tema delle grandi riforme strutturali si pone per noi.

L’onorevole Saragat ha espresso al riguardo un suo punto di vista diverso dal nostro. Prendendo le distanze dall’estrema sinistra – da socialisti e comunisti – egli ha offerto alla Democrazia cristiana i buoni uffici di qualche provetto pianificatore. Anche questa è un’idea, che presumo troverà però degli intoppi per realizzarsi negli interessi e nella volontà della Democrazia cristiana. Passare di punto in bianco alla pianificazione, è una bella idea, bellissima anzi per noi socialisti, ma l’onorevole Saragat dovrebbe sapere, che disgraziatamente con lo schieramento attuale delle forze politiche, dopo la rottura causata dall’impennata della Democrazia cristiana ad aprile, questo è possibile solo nella esatta misura, in cui il compito di pianificare è stato proposto a quella specie di accademia bizantina, la quale vi può lavorare attorno vent’anni prima di concludere qualcosa.

Da qui alle elezioni, dalle quali faremo tutto il possibile perché ci vengano suffragi bastevoli a darci la forza necessaria a recare in atto un’economia programmata; da qui a primavera noi ci appaghiamo di mettere il Paese al riparo dall’inflazione, di salvare i lavoratori dalle miserie e dalla desolazione che essa seminerebbe.

Gli obiettivi del momento tutti si concentrano in questo programma fondamentale: consolidare i salari reali, per spezzare la spirale dei prezzi e salari. Ed io penso che, dopo tanto discutere, e con tanto scetticismo che si è radicato nella popolazione, la questione sia di cercare un valido punto di attacco. Questo può essere rappresentato da un mutamento radicale della nostra politica valutaria.

È questa, io ritengo, la via più diretta che oggi noi si possa tenere, e l’azione più pronta che si possa svolgere, per la difesa dei salari e della moneta.

Il controllo integrale della valuta e una opportuna manovra degli scambi è il mezzo più efficace per spezzare le reni alla speculazione, ed influire beneficamente sui prezzi. Questa azione deve essere rincalzata da uno sforzo serio di regolamentazione dei settori più facilmente manovrabili della produzione e del consumo, attraverso soprattutto un indirizzo, che deve essere segnato agli investimenti ed al credito.

Bisogna poi applicarsi con energia estrema e con il massimo impegno nell’azione fiscale. Noi, onorevole Pella, la vorremmo più dura.

È necessario, poi, intraprendere un’azione diretta sull’andamento dei prezzi delle derrate alimentari e dei generi di più largo consumo.

Non si può differire più la riorganizzazione dell’I.R.I., che è uno strumento di importanza capitale per un Governo che voglia sviluppare una politica economica.

Si deve assicurare allo Stato la partecipazione fattiva dei lavoratori, perché lo sforzo che ci si impone non può essere superato con i mezzi comuni dell’amministrazione.

Ma – se a questo si possono ridurre le esigenze imperiose del momento – io mi domando: sono queste, cose che possa fare l’attuale Governo?

La nostra risposta la conoscete già: no, nettamente no! Questo Governo ha già fallito – e non poteva non fallire – nel compito di difendere la moneta, perché si è estraniato dal popolo e dalle categorie lavoratrici per operare sotto la suggestione di quelle esigue minoranze che il Presidente del Consiglio, non io, ha battezzato efficacemente come il «quarto governo».

Non è questo un Governo che possa più raddrizzare il corso pericoloso della politica svolta fin qui. Lo potrà fare solo un nuovo Governo che riscuota la fiducia dei ceti popolari e che sia in grado di determinare, prima di ogni altra cosa, una benefica distensione politica come premessa all’azione di difesa e di consolidamento della nostra economia;

la fiducia di chi dovrà sempre, in definitiva, sopportare i sacrifici maggiori e gli oneri più gravi;

la fiducia di chi conserva l’orgoglio della sua terra e del proprio lavoro, e non di chi ha spirito rinunciatario. (Vivi applausi a sinistra – Molte congratulazioni).

PRESIDENTE. Ha chiesto di parlare l’onorevole Ministro dell’industria e commercio. Ne ha facoltà.

TOGNI, Ministro dell’industria e commercio. Molto si è parlato e molto si è criticato circa l’andamento dei prezzi, troppo spesso in funzione polemica, esaminando il fenomeno nei suoi aspetti puramente apparenti e superficiali, omettendo di valutarlo con quel senso di doveroso realismo che, al disopra e al difuori di ogni concezione o posizione politica, deve essere tenuto presente nell’apprezzamento di così rilevanti e vasti fenomeni economici.

Infatti, l’aumento dei prezzi in Italia non è che un aspetto particolare di un fenomeno generale che in questo dopoguerra si è manifestato, può dirsi, nel mondo intero.

Negli stessi Stati Uniti d’America, dove la produzione industriale ha raggiunto nel 1946-1947 livelli assai prossimi a quelli massimi del periodo .bellico, l’indice dei prezzi all’ingrosso è passato da 144 pel luglio 1946 a 163 nel dicembre dello stesso anno, e a 170 nel maggio del 1947.

In Francia l’indice dei prezzi all’ingrosso è passato da 648, media annuale del 1946, a 946 nel maggio 1947, e continua a salire, fatto cento il 1939.

Negli altri paesi il fenomeno è meno accentuato, ma la tendenza all’aumento è comune.

In Italia, su uno sfondo determinato dalla situazione mondiale, si sono inseriti fattori locali che hanno esasperato il fenomeno. È principio universalmente accettato che vige una ferrea interdipendenza fra i prezzi della massa dei prodotti disponibili sul mercato ed il volume della circolazione, con cui i primi si devono scambiare. Se la circolazione aumenta e a tale aumento, come nel nostro caso, non corrisponde un’adeguata maggiore produzione, i prezzi fatalmente si elevano.

Fra i fattori che in concomitanza con l’aumento della circolazione hanno contribuito all’aumento dei livelli dei prezzi, sono da annoverare essenzialmente: l’insufficiente incremento della produzione, collegato anche ad una scarsa produttività del lavoro; la speculazione, la cui esistenza sarebbe assurdo negare; l’inasprimento di un livello dei cambi nella scorsa primavera e di cui si risentono gli effetti con qualche mese di ritardo in relazione al periodo di tempo richiesto dal ciclo produttivo; l’adozione della scala mobile che opera in una sola direzione e consolida aumenti, che in condizioni normali potrebbero essere riassorbiti dalla dinamica del mercato.

L’aumento dei prezzi non ha certo inizio dal giugno 1947. A partire dall’estate del 1946, infatti, dopo un periodo di stasi, i prezzi riprendevano il movimento di ascesa, con ritmo dapprima moderato, poi, via via, più veloce, come dimostra l’indice dei prezzi all’ingrosso calcolato dall’istituto centrale di statistica, che ha avuto il seguente andamento: settembre 1946, 3.011; ottobre 3.176; novembre 3.376; dicembre 3.677; gennaio 1947, 3.754; febbraio 3.891; marzo 4.139. Onorevole Morandi, ascolti anche l’indice di aprile e quello di maggio che lei ha dimenticato di ricordare nel suo discorso: aprile 4.533; maggio 5.203; giugno 5.329; luglio 5.779. (Interruzione del deputato Morandi); agosto 5876. Dal settembre 1946, quindi, l’indice ha subito un aumento di quasi il 95 per cento. Ma è da rilevare che il 78 per cento di questo aumento si era già verificato fin dal giugno del 1947. (Approvazioni al centro).

Per l’indice del costo della vita per la sola voce alimentazione, l’aumento dell’agosto 1947 rispetto al settembre 1946 è dell’82 per cento, ma nel giugno si era già al 70 per cento.

MORANDI. Perché non prende gli altri mesi del 1947?

TOGNI, Ministro dell’industria e commercio. Non si sono ancora calcolati gli indici per tutto il mese di settembre, ma gli indici decadali dei principali generi alimentari, calcolati dall’Istituto centrale di statistica, mostrano per le ultime decadi calcolate una stazionarietà per i prezzi legali di mercato libero, ed una lieve diminuzione dei prezzi del mercato nero dovuta essenzialmente al ribasso dei prezzi dell’olio e dello zucchero. (Commenti a sinistra).

Inoltre un esame degli indici dei prezzi all’ingrosso ufficiali ed effettivi dei mesi di luglio e agosto (qui bisogna distinguere i tre prezzi calcolati dall’Istituto di statistica, il quale calcola il primo indice sui prezzi bloccati, il secondo indice così detto dei prezzi effettivi in base agli altri prezzi liberi perché non bloccati, il terzo indice è quello del cosiddetto mercato nero, vale a dire dei prezzi bloccati e che sono soggetti alla regolamentazione) mostra una tendenza che non si può essere autorizzati ad interpretare come un miglioramento, ma che potrebbe costituire il presupposto di una posizione più riflessiva che può preludere anche ad inversione del fenomeno.

Difatti il rallentamento dei movimenti di ascesa degli indici dei prezzi ufficiali all’ingrosso palesatosi nel mese di giugno ha avuto il seguente andamento:

Incremento di giugno rispetto al maggio + 2,90

di luglio rispetto a giugno 43,80;

di agosto rispetto a luglio + 0,9.

L’aumento del mese di luglio rispetto al precedente è dovuto specialmente all’aumento del prezzo ufficiale del grano deciso dal Governo in relazione al voto espresso dal Governo precedente per l’abolizione dei prezzi politici.

Le variazioni percentuali dell’indice dei prezzi ufficiali di categoria nei mesi di luglio ed agosto rispetto ai mesi precedenti sono le seguenti:

materie grezze: luglio, aumento percentuale rispetto a giugno + 19,5; agosto, aumento percentuale rispetto a luglio + 1,2;

materie semi lavorate, luglio + 0,90; agosto + 2;

prodotti lavorati, luglio + 14,5; agosto + 0,1.

Gli incrementi sono quindi decrescenti, fatta eccezione per i semi lavorati per i quali si è verificato un lieve aumento a causa della variazione dei prezzi dei materiali siderurgici.

È difficile affermare – dato anche il breve periodo di tempo esaminato, in quanto non bisogna dimenticare che tre mesi e mezzo di Governo sono pochi, troppo pochi, perché si possa, non dico giudicare i risultati raggiunti sul piano economico, ma anche e semplicemente impostare una critica obiettiva e serena sugli stessi – se questi sintomi possono essere considerati come effetto dell’azione del Governo, anche perché interferiscono in questo periodo cause di carattere stagionale. Tuttavia se si volesse polemizzare si potrebbe affermare che l’impazienza dei critici è veramente eccessiva, perché, indipendentemente da questi sintomi favorevoli, è chiaro che qualsiasi provvedimento, specialmente quando deve operare in un periodo così delicato e in un momento come quello che attraversa il popolo italiano, ha bisogno di un minimo di tempo per divenire operante. L’attuale Governo si è trovato difatti, come del resto tutti i precedenti, nella necessità di dover contemperare le esigenze di carattere economico con quelle di carattere sociale, esigenze che – come è noto – sono il più delle volte contrastanti, ed alle quali non ha inteso, ovviamente, sottrarsi.

Peraltro, quando il Governo ha cercato di porre in qualche modo rimedio al deficit del bilancio aumentando le tariffe ferroviarie e postali e il prezzo dei generi di monopolio e adeguando parzialmente il prezzo del pane – in relazione anche al deliberato del precedente Governo – la stampa di opposizione ha messo il campo a rumore ed ha presentato questi aumenti come causa di ulteriori aumenti.

Se ciò può esser vero, in linea assoluta, non bisogna trascurare in questi problemi il senso della proporzione. È sufficiente, invero, considerare l’incidenza di queste tre voci sui bilanci familiari per convincersi che esse non possono avere influito in misura apprezzabile sull’indice del costo della vita, né possono, quindi, essere state causa di grandi squilibri nel sistema dei prezzi, come si vorrebbe far credere.

Vi è da considerare, inoltre, il fenomeno della speculazione. Non si può negare che il fenomeno della speculazione esiste; ma non si può nemmeno dimenticare che la speculazione – che in condizioni normali è un fenomeno marginale – è in sostanza, ora, la conseguenza e non la causa prima dell’aumento dei prezzi. La speculazione tende a sparire o a restringersi entro certi limiti quando la moneta è stabilizzata e quando la produzione sodisfa le esigenze del mercato. Fino a che il bilancio dello Stato non sarà risanato, sarà difficile parlare in Italia di stabilizzazione; ma condizione prima perché il bilancio possa risanarsi è di avere un periodo di normalizzazione e di stabilità sociale.

Nella situazione attuale è naturale riconoscere che le critiche sono facili e a queste non intendiamo sottrarci, quando, soprattutto, diano un apporto costruttivo. Ma è deplorevole quella critica che sotto l’apparenza tecnica tramuta ì problemi e, inconsciamente o consciamente, confonde in un gioco intricato la causa e l’effetto, come è estremamente facile nel campo economico, disorientando l’opinione pubblica.

È sulle cause prime che bisogna agire e non sui sintomi: e il fenomeno dei prezzi è un sintomo e non una causa e quando si agisce sui sintomi di una malattia la guarigione non è mai immediata, anzi una guarigione che avesse come risultato la scomparsa dei sintomi non sarebbe tale. Facendo questo, ammettendo cioè che un’azione sulla causa prima produce effetto a scadenza relativamente lunga, si ammette implicitamente che l’azione del Governo deve agire anche direttamente sul fenomeno dei prezzi, escogitando rimedi che agiscano il più possibile prontamente su di esso.

Infatti, il Governo ha deciso alcune misure miranti ad istituire un severo controllo dei prezzi. Il Comitato interministeriale ha dovuto affrontare, subito dopo il suo insediamento nella nuova composizione governativa, problemi che o erano rimasti in sospeso, o erano conseguenze di provvedimenti adottati in precedenza o, comunque, erano stati lasciati in eredità a rima obbligata dal precedente Governo. E le questioni da risolvere sono state esaminate con spirito restrittivo, ma obiettivo, non potendosi prolungare oltre uno stato di disagio e un marasma che rendevano inoperante una disciplina ed un controllo dei prezzi.

Abbiamo ritenuto doveroso affrontare alcuni problemi da tempo sospesi che ben sapevamo si sarebbero prestati a facile e superficiale critica, ma che il nostro senso di responsabilità, al di sopra di ogni interesse elettoralistico, ci imponeva di affrontare decisamente e di risolvere decisamente, nell’interesse obiettivo di una sana economia.

Sono ben noti i provvedimenti adottati nel settore agricolo, ed in particolare il parziale adeguamento al prezzo di costo del prezzo del grano, in ottemperanza – come abbiamo già detto – ad una precedente decisione del Governo in materia di prezzi politici. È bene qui ricordare che i prezzi attuali del pane non sono stati ancora allineati con l’effettivo costo del grano del nuovo raccolto e di importazione e che è rimasto a carico del bilancio dello Stato un onere ancora notevolmente elevato, il quale costituisce la preoccupazione del Ministero del tesoro.

In relazione al prezzo delle barbabietole, stabilito nel mese di marzo del corrente anno e degli aumentati costi di lavorazione, è stato fissato il prezzo provvisorio dello zucchero della corrente campagna in lire 155 al chilogrammo. Allo scopo poi di rendere meno gravoso l’aumento per il consumo diretto, il Comitato ha deciso di fissare in lire 120 al chilogrammo il prezzo dello zucchero destinato all’alimentazione mediante tessera, facendo gravare la differenza rispetto al prezzo medio dello zucchero destinato agli usi non soggetti alla disciplina del tesseramento. L’aumento per l’alimentazione mediante tessera è stato perciò di lire 45 al chilogrammo, anziché di lire 80 come sarebbe risultato applicando il prezzo medio generale.

Nel settore dei prodotti industriali, si è dovuto riconoscere, alla metà di giugno del corrente anno, un aumento di lire 1.000 a tonnellata per il carbone di importazione, in relazione alle mutate condizioni di acquisto; aumento che è stato contenuto in lire 500 a tonnellata per il carbone destinato alle officine da gas. In conseguenza di ciò, è stato aggiornato il prezzo del coke, il che ha evitato un aumento del prezzo del gas.

L’aumento del carbone era già maturato fino dal maggio del corrente anno, in relazione al costo dei noli e al nuovo sistema di approvvigionamento del carbone attraverso l’Ente approvvigionamento carboni, sistema questo che richiede un’esposizione di capitali maggiore di quella che si aveva con il sistema delle vendite effettuate dall’Ufficio centrale carboni.

È opportuno ricordare che la valutazione del prezzo dei carboni è stata fatta con il dollaro a 400 lire e che, in una prima fase, i prezzi stabiliti risultavano alquanto inferiori agli effettivi costi. Il favorevole andamento del mercato dei noli ha portato una riduzione nei costi del carbone, tanto da tranquillizzare su una stabilità dei prezzi interni per l’immediato avvenire.

Nello stesso mese di giugno, si è dovuto apportare un modesto aumento al prezzo dei carburanti e precisamente in ragione di lire quattro al litro per la benzina e di lire 2,50 al litro per il gasolio, sempre in relazione alle mutate condizioni di acquisto. Del resto anche questo aumento era già maturato nel mese di maggio, in relazione ai maggiori costi all’origine.

La valutazione dei prezzi dei carburanti è stata mantenuta in lire 400 per dollaro, nonostante che la media dei prezzi risultasse allora superiore a detta cifra. Un sensibile ribasso nel corso del dollaro libero ha neutralizzato l’aumento del corso ufficiale del dollaro, tanto che oggi la media tra il corso libero e quello ufficiale è all’incirca di lire 500 per dollaro ed è quindi da ritenersi che non vi saranno ulteriori aumenti in questi prodotti.

La revisione dei prezzi dei concimi chimici si è resa necessaria in relazione all’aumento dei costi delle materie prime, del materiale di consumo e della mano d’opera. Sarà anzi opportuno tener presente che la fissazione del prezzo dei concimi vale per il periodo della campagna primaverile ed autunnale.

Sullo stesso piano va considerato il prezzo del carburo di calcio, prodotto che serve alla produzione dei concimi chimici, per la quale, peraltro, si è ottenuta la parificazione del prezzo per tutte le stazioni franco destino a lire 65 al chilogrammo, in confronto ai prezzi di lire 41, 46, 51 al chilogrammo, che erano stati stabiliti nelle varie zone nell’aprile del corrente anno.

Altro settore che ha richiesto una particolare sistemazione è stato quello dei prodotti siderurgici, nel quale settore si era ormai affermata una completa indisciplina sia nei riguardi dei prezzi, sia nei riguardi dell’obbligo della consegna del 60 per cento della produzione agli usi preferenziali per le amministrazioni di Stato. E proprio le aziende che in prevalenza sono dell’I.R.I., sono state quelle che hanno fatto maggiori pressioni, in quanto le loro situazioni economiche richiedevano effettivamente un intervento in questo senso.

Per accelerare le consegne necessarie alla ricostruzione del Paese è stato deciso, a titolo di esperimento, di creare due listini di prezzi: un listino ufficiale, per i prodotti siderurgici, circa il 60 per cento, destinati alle quote preferenziali; un listino dei prezzi liberi autocontrollati dall’associazione di categoria, per i prodotti siderurgici destinati ad altri consumi.

Con tale provvedimento si è inteso assicurare il regolare rifornimento per le quote preferenziali e nel contempo, attraverso gli impegni assunti dai produttori, di ottenere una riduzione nei prezzi della cosiddetta «borsa nera». L’aumento dei prezzi, attuato il 27 agosto, per la quota preferenziale è di circa il 25 per cento su quelli del maggio del corrente anno; mentre i prezzi della quota libera non dovrebbero superare del 20 per cento quelli ufficiali.

Naturalmente, oltre le ragioni su esposte, hanno contribuito alla revisione dei prezzi l’aggiornamento del costo dei rottami, dei combustibili e della mano d’opera. Come già detto, la soluzione adottata ha carattere sperimentale. Il Comitato interministeriale dei prezzi è deciso di adottare dei provvedimenti di controllo generale, nel caso che i risultati non corrispondessero alle aspettative.

In relazione alla nuova valutazione del cambio del dollaro, applicata alle materie prime impiegate nella fabbricazione dei pneumatici, si è dovuto procedere all’aggiornamento dei prezzi di vendita per questi prodotti, tenendo conto delle pure variazioni intervenute nei vari elementi di costo. L’aumento in media è stato del 30 per cento rispetto al febbraio 1947. In occasione di tale aumento è stato disposto un recupero a favore dello Stato sulle giacenze fabbricate a costi inferiori, che ha fruttato alcune centinaia di milioni.

Il settore dei pubblici servizi era stato in passato particolarmente compresso in relazione ai principî generali che ne informavano la revisione, senza tener conto delle adeguate quote per il rinnovamento degli impianti. Ciò ha causato perdite ingenti da parte di numerose pubbliche amministrazioni, e in particolare di aziende comunali, le cui amministrazioni, appunto, all’infuori di ogni colorazione politica, hanno costantemente fatto pressioni per un sollecito adeguamento.

Se criteri restrittivi potevano essere giustificati in un periodo di modesti aumenti dei materiali, essi potevano diventare deleteri in una fase di sensibili spostamenti e specialmente per la durata della loro applicazione. Già il Governo in varie riprese s’era espresso in senso favorevole alla abolizione dei prezzi politici, e tale principio ha trovato applicazione nell’aggiornamento delle tariffe delle Ferrovie dello Stato, dei telegrafi e delle poste. Con tali nuovi criteri dovevano perciò essere rivedute le tariffe dei servizi pubblici.

Prima del giugno del corrente anno sono stati aggiornati i prezzi del gas, in relazione agli aumenti intervenuti nei costi. E a tale proposito si ricorda che il Comitato decise di non concedere la retroattività per l’aumento del gas a Roma, consentito a fine luglio.

Con i nuovi criteri è stata esaminata la situazione delle tariffe degli acquedotti ed è stato concesso un aumento di circa il 50 per cento sulle tariffe del gennaio del corrente anno.

Con tale autorizzazione le tariffe degli acquedotti (nella quasi totalità di gestione comunale) presentano, secondo i casi, aumenti da dieci a quindici volte rispetto alla base 1942.

Per le tariffe dell’energia elettrica la questione si presentava più complessa, in quanto la precedente autorizzazione di aumenti era scaduta al 30 aprile corrente anno, senza che il Comitato avesse provveduto per una nuova decisione. I successivi rinvii avevano portato notevole perturbamento nelle aziende elettriche, che anche per assicurare l’esecuzione di nuovi impianti, avevano bisogno di stabilire l’equilibrio dei loro conti economici. Dopo numerose riunioni nelle quali il problema venne esaminato sotto tutti gli aspetti, è stato deciso di raddoppiare le tariffe precedentemente consentite, autorizzando una maggiorazione fino a 1300 per le imprese elettriche dell’Italia settentrionale e fino a 1500 per le altre imprese del Continente. Gli aumenti di cui sopra sono sempre riferiti ai prezzi bloccati del 1942, che praticamente risalgono al 1936, e in definitiva i nuovi prezzi sono pari a quattordici volte e, rispettivamente, a sedici volte il prezzo base del 1936. È opportuno far presente che per gli utenti di energia ad usi industriali, i suddetti coefficienti sono di molto inferiori a quelli risultanti per altre fonti di energia, come carbone e carburanti in genere.

Il Comitato si è preoccupato di salvaguardare le necessità degli utenti privati, per cui nello stesso provvedimento è stato deciso l’esonero dal nuovo aumento delle prime 30 Kwh annue per energia destinata all’illuminazione privata.

Si è fatto su questo dell’ironia, ma ci stiamo avvedendo in questi giorni, dalle richieste e dalle pressioni che vengono da ogni parte d’Italia, quanta importanza e quanto rilievo abbia questa esclusione che riguarda esercizi interi di alcune compagnie della nostra penisola. Il miglioramento concernente le tariffe dell’energia elettrica è stato collegato al formale impegno che le stesse aziende hanno assunto di portare a compimento i programmi dei nuovi importanti impianti per assicurare al Paese la necessaria disponibilità di energia elettrica e, insieme, un forte assorbimento diretto e indiretto di mano d’opera. Non si esclude perciò un riesame della decisione, nel caso che l’esecuzione di tali impegni fosse di molto ritardata.

Per le stesse considerazioni è stato apportato l’aumento del 40 per cento sulle tariffe telefoniche urbane ed extraurbane, obbligando le società concessionarie ad adeguare gli impianti per il soddisfacimento delle richieste dei nuovi utenti.

Nel settore dei trasporti ferrotramviari in concessione, il Comitato ha affermato il principio che le tariffe per persone e cose non potranno superare quelle decise per le ferrovie dello Stato.

Dall’esame di quanto sopra risulta che, nel settore dei prezzi controllati, gli aumenti autorizzati sono contenuti al minimo indispensabile e sono dipendenti da valutazioni intervenute nella valutazione dei cambi e degli aumenti della mano d’opera e delle materie prime, in gran parte di importazione.

La prima fase dell’azione del Comitato, rivolta ad armonizzare i prezzi delle merci e dei servizi, che si trovavano sfasati rispetto alle nuove condizioni dell’economia generale, può considerarsi chiusa.

La nuova azione del Comitato si dovrà indirizzare in avvenire a comprimere le punte dei prezzi di quelle merci, non ancora controllate, che hanno raggiunto dei limiti eccessivamente elevati.

Inoltre, compatibilmente con l’andamento generale dei mercati, anche mondiali, e delle principali fonti di rifornimento, quest’azione dovrebbe essere diretta verso una generale compressione.

Difatti non si è voluto finora turbare eccessivamente l’economia del Paese, in fase di delicato consolidamento, ma la constatazione di alcune anomalie intervenute in determinati settori, induce a un riesame della situazione, tanto più che in altri Paesi sorgono voci autorevolissime per un ripristino del controllo dei prezzi, forse prematuramente abolito. Su tale piano devono essere considerate le disposizioni impartite ai Comitati provinciali dei prezzi, con invito a provvedere alla regolamentazione dei prezzi di vendita nelle rispettive provincie, e a esercitare il massimo controllo per il rispetto dei prezzi stabiliti.

Ancora un provvedimento che viene incontro anche ad una osservazione fatta testé dall’onorevole Morandi, è quello relativo alla istituzione del Corpo dei periti accertatori, i quali dovranno appunto appurare nelle aziende i prezzi di costo e la situazione economica delle varie industrie. È fermo proposito del Governo di dare ampia applicazione alle norme contenute nel decreto ed è bene che gli speculatori sappiano tale intendimento, per regolare la loro azione con le direttive generali che saranno applicate in tutti i settori.

Non voglio poi dilungarmi sul tema speculazione, perché l’onorevole Nenni ha dato atto al Governo delle ferme intenzioni con cui la lotta è stata intrapresa e dei risultati conseguiti, che, aggiungo, non sono disprezzabili, dato il limitato periodo di tempo avuto a disposizione e considerate tutte le difficoltà.

Da quanto esposto ritengo possa dedursi che il Governo non ha scientemente trascurato alcun possibile mezzo per agire sulla causa dell’ascesa dei prezzi. È chiaro tuttavia che un ulteriore miglioramento della situazione è essenzialmente connesso all’intensificazione dell’azione intrapresa, che ha di mira l’obiettivo fondamentale dell’aumento della produzione. Nei confronti dello scorso anno tale aumento si è indubbiamente realizzato, ma in misura inferiore alle aspettative per l’ancora insufficiente disponibilità di materie prime, di valuta pregiata, di capitale e di energia elettrica e termica.

Orbene, noi dovremo continuare a spingere la produzione verso quote sempre più alte mediante l’importazione di maggiori quantitativi di materie prime, mediante la riduzione dei costi, il perfezionamento e il rimodernamento dell’attrezzatura industriale, ed infine, oserei dire, con una maggiore e più ordinata produttività delle maestranze. Quale cammino abbia percorso l’attuale Governo per un raggiungimento dello scopo fondamentale dell’aumento della produzione, è illustrato dai seguenti dati di fatto.

Nel gennaio e nel febbraio del 1947 l’attività dell’industria italiana ha raggiunto il livello più basso dell’anno, avendo toccato il livello minimo il numero indice 43-42, fatto 100 quello del 1938, dopo la diminuzione che ebbe inizio nell’ottobre dello scorso anno. In quei mesi la produzione industriale fu quasi eguale nel suo complesso a quella dell’aprile del 1946. Ma bisogna considerare che nella primavera dello scorso anno si risentivano ancora gli effetti della grave situazione che dominò per quasi tutto l’anno 1945 l’industria italiana, come conseguenza diretta del conflitto. Sono note le cause fondamentali che dettero luogo ad una diminuzione del ritmo produttivo dello scorso autunno e dell’inverno: diminuita disponibilità dell’energia elettrica e di combustibile, materie prime fondamentali insufficienti ai fabbisogni, diminuzione delle esportazioni, originata dall’aumento dei costi e dal riapparire sui mercati mondiali della produzione di alcuni Paesi concorrenti.

La diminuita esportazione fu origine a sua volta di un ulteriore aumento dei costi, e si manifestò come causa concomitante dell’aumento dei salari e del prezzo delle materie prime fondamentali importate. Cominciava anche a risentirsi nei primi mesi dell’anno in corso la diminuzione degli arrivi del rifornimento U.N.R.R.A., che a partire dal secondo trimestre 1946 aveva dato un considerevole contributo all’economia italiana ed all’industria in particolare. A partire dal marzo 1947, la maggiore disponibilità di energia elettrica e più abbondanti arrivi di carbone dall’America, e in minor misura da altre fonti, dettero un forte impulso all’aumento della produzione industriale, cosicché il numero indice passò da 47 nel marzo a 52 nell’aprile ed a 61 nel maggio, raggiungendo così in tal mese il livello più elevato dopo la fine del conflitto.

Parametro fondamentale che regola la produzione industriale italiana è, come è noto, il carbone: talché si è potuto constatare in questi ultimi tempi, quando si sono verificate notevoli discontinuità nei rifornimenti e quando il fenomeno era macroscopicamente rilevabile, una quasi proporzionalità fra disponibilità di carbone, indice della produzione e occupazione operaia. Ecco perché nel mese di giugno, quando il Governo portò in causa il problema del necessario rifornimento di carbone, fu da noi considerato come uno degli obiettivi fondamentali nonostante che in quel periodo si manifestassero serie difficoltà non solo di carattere valutario ma anche di trasporto dall’America in Italia e da porti italiani ai luoghi di consumo. Tali difficoltà si sono volute superare e si sono superate.

Nei mesi di giugno, luglio e agosto, infatti le importazioni di carbone si sono aggirate, poco più poco meno, intorno al milione di tonnellate. Nel mese di giugno la cifra del milione di tonnellate mensili, che da tempo costituiva una specie di limite alle più ardite aspirazioni, è stata superata di cento mila tonnellate circa. Complessivamente, nel trimestre giugno, luglio, agosto, si sono importati 2.940.000 tonnellate contro 1.545.000 tonnellate del corrispondente periodo del 1946.

L’aumento è stato quindi del cento per cento, circa. Contemporaneamente nulla si è trascurato per aumentare al massimo possibile la produzione dei combustibili nazionali: carbone sardo e ligniti; per quanto è noto che, specie per il primo, difficoltà di ordine tecnico non consentono di spingere la produzione al di là di certi limiti. Nello stesso periodo considerato, la produzione di carbone sardo è stata di 318 mila tonnellate contro 276 mila nello stesso periodo del 1946, con un aumento del 20 per cento. Non è molto, ma le miniere sarde non possono dare per il momento molto di più, almeno fino a quando non sarà possibile attivare altre miniere secondo un programma elaborato in tutti i suoi particolari e che prevede di triplicare nei prossimi tre anni la produzione. La situazione del carbone è da considerare ora con una certa tranquillità e – a meno che non intervengano perturbamenti estranei alle nostre possibilità come gli scioperi nei luoghi di origine – ci consente di prevedere per il prossimo mese di ottobre una distribuzione di oltre un milione di tonnellate fra carbone d’importazione e nazionale; e per i prossimi mesi invernali, l’assegnazione, per la prima volta dopo il conflitto, di combustibile per il riscaldamento domestico. Provvedimenti atti a far pervenire ai consumatori un idoneo tipo di combustibile sono ora allo studio, mentre è stato deciso un aumento del potere calorifico del gas da 3200 a 3500 calorie e di sbloccare l’orario di erogazione. Una nota difficoltà, particolarmente sentita al presente e che ci lascia molto perplessi, è portata dalla ricerca dei mezzi valutari occorrenti per l’acquisto e per il trasporto di quasi 9 decimi dell’intero quantitativo dall’America, trasporto che richiede 9 dollari per tonnellata. Ma ciò costituisce una difficoltà di carattere generale che incide nel complesso dei rifornimenti dei materiali basilari per l’economia del Paese, compresi i prodotti alimentari. D’altra parte i rifornimenti che ci pervengono dagli Stati Uniti, a titolo gratuito, sotto forma di aiuti post-U.N.R.R.A., alleviano sensibilmente questa condizione di disagio.

Incidentalmente, aggiungo che il problema di un conveniente rifornimento di carbone è problema non soltanto italiano, ma europeo: a Parigi, durante le discussioni che si sono avute per il Piano Marshall, questo problema, la cui soluzione è per la nostra economia di capitale importanza, perché consentirebbe di ridurre notevolmente la spesa in valuta pregiata per il rifornimento di combustibile che ci è necessario, è stato ampiamente esaminato. Una maggiore produzione di carbone europeo ed un auspicabile spirito di collaborazione tra i paesi europei potranno risolvere, a non troppo breve scadenza però, questo importantissimo problema che domina la nostra produzione e la nostra economia.

Altra fonte di energia alla quale è strettamente legata la nostra produzione è l’energia elettrica. La stagione è da alcuni anni ormai eccezionalmente avversa, ma la produzione, confrontando periodi annuali corrispondenti, è in aumento. La produzione del trimestre giugno-agosto è stata di 5 miliardi e 283 milioni di Kwh, contro 4 miliardi 159 milioni prodotti nello stesso periodo dello scorso anno. L’aumento è stato quindi del 27 per cento. Purtroppo, alle deficienze idrologiche, si devono aggiungere quelle dovute alla mancata costruzione di impianti elettrici nel periodo bellico ed in quello immediatamente post-bellico, aggravate dal fatto che i consumi di energia elettrica sono notevolmente aumentati e non sono oramai più soddisfatti da una produzione che ha già raggiunto il livello prebellico.

Il problema di disporre di adeguati quantitativi di energia per far fronte alle richieste in continuo aumento non può essere risolto che in una sola direzione: intensificare la costruzione di nuove centrali e di nuovi serbatoi. I programmi esistono e le buone intenzioni anche; così, negli scorsi mesi, superando notevoli difficoltà collegate in gran parte alla scarsa disponibilità di materie prime, si è dato inizio ad importanti lavori idroelettrici, che gli industriali elettrici si sono formalmente impegnati di proseguire. Gli aumenti delle tariffe sono stati concessi anche, come già rilevato, per questo impegno, e noi non esiteremmo a rivedere la situazione delle tariffe accordate se questo impegno non dovesse essere mantenuto.

Naturalmente i finanziamenti esteri, necessari in tutti i settori, ma soprattutto in questo, potrebbero, se concessi tempestivamente, contribuire potentemente alla soluzione di questo altro problema, che costituisce un altro assillo ad ogni ritorno della stagione invernale.

Basti rilevare che, per il raggiungimento del potenziale di 40 miliardi di Kwh, che costituisce la unità prefissaci, occorrono oltre mille miliardi di lire.

I prodotti petroliferi costituiscono una altra fonte di risorse energetiche di grande importanza. L’approvvigionamento e la distribuzione dei quali, nonostante le difficoltà che si devono quotidianamente superare, hanno avuto, in questi ultimi mesi, un andamento soddisfacente, soprattutto quando si consideri che la richiesta di essi non solo ha superato notevolmente quella dello scorso anno, ma per il gasolio e gli olii combustibili è maggiore financo di quella prebellica. I consumi medi mensili di benzina, petrolio, gasolio ed olii combustibili sono stati, rispettivamente, nel primo semestre del 1947 di 29.801 tonnellate, 12.457 tonnellate, 32.718 tonnellate e 134.252 tonnellate e, percentualmente, rispetto a quelle del 1938: 83,2 per cento, 83,8 per cento, 148,5 per cento e 161,50 per cento. Sono notevolmente aumentati, come si vede, i consumi di gasolio e di olì combustibili a causa delle maggiori richieste dei mezzi di trasporto su strada azionati con motori a gasolio, dell’agricoltura e degli impianti industriali. Questi ultimi hanno trasformato molti impianti di combustione dall’alimentazione a carbone a quella ad olio combustibile.

Nei recenti mesi i prodotti petroliferi distribuiti hanno raggiunto livelli ancora più alti di quelli del primo semestre in relazione alle aumentate esigenze ed all’incremento della produzione industriale, per cui oggi si distribuisce per la benzina 1’83 per cento, per il petrolio il 133 per cento, per il gasolio il 215 per cento e per l’olio combustibile oltre il 200 per cento di quanto si distribuiva nel 1938.

Nel soddisfacimento del fabbisogno di codesti prodotti si rileva quindi un progressivo miglioramento e si comprende quale sforzo organizzativo e tecnico si deve compiere in questo settore per superare le difficoltà di carattere valutario e quelle collegate ai trasporti ed allo stesso reperimento dei prodotti petroliferi sui mercati mondiali. La produzione delle raffinerie italiane ha portato, dalla fine dello scorso anno, un contributo apprezzabile per ogni fabbisogno di prodotti finiti petroliferi, contributo che è in continuo miglioramento e consente di risparmiare valuta pregiata.

La produzione delle nostre raffinerie, che nel trimestre giugno-agosto è stata di 336.310 tonnellate di prodotti lavorati, ha raggiunto così il 75 per cento del livello della produzione del 1938. Nel complesso si può affermare che la situazione energetica del Paese nel secondo trimestre dell’anno e, più ancora nel terzo trimestre, è andata progressivamente migliorando ed ha contribuito fortemente allo sviluppo del ritmo della produzione industriale. L’inverno, non molto lontano, porterà inevitabilmente minori disponibilità di energia elettrica, ma le restrizioni che si prospettano fino ad ora saranno attenuate da disponibilità più adeguate al fabbisogno di carbone e di combustibili liquidi e da una più oculata distribuzione. Il miglioramento della situazione energetica ha avuto – come è stato detto – immediati riflessi sul livello della produzione industriale il cui indice generale, riferito alla media del 1939 fatta uguale a 100, che era disceso a 42 nel mese di febbraio, si è elevato a 61 nel mese di maggio ed a 68 in quello di giugno. Non sono stati ancora calcolati gli indici per i mesi di luglio e di agosto, ma valutazioni approssimative indicano che in questo periodo l’indice è salito a 72-75 per cento rispetto alla media dello stesso periodo dello scorso anno: si ha quindi un miglioramento di oltre 20 punti, e ciò costituisce un risultato veramente apprezzabile, quando si considerino le difficoltà di tutti i generi che l’industria italiana e gli organi di Governo hanno dovuto affrontare.

A questa migliorata situazione ha contribuito la produzione dell’acciaio che è stata, nel bimestre giugno-luglio, di 329.516 tonnellate contro 215.381 tonnellate nel corrispondente periodo del 1946 (aumento 53 per cento); della ghisa: tonnellate 80.337 contro 48.251 (aumento 67 per cento); del cemento: tonnellate 592.000 conto 337.000 (aumento 79 per cento); dei tessili artificiali (aumento del cento per cento); della soda; dei prodotti chimici; dei fertilizzanti.

Le autovetture prodotte nello stesso periodo sono state 4.516 contro 1.697 (aumento 165 per cento); gli autocarri 3.418 contro 2.980 (aumento 15 per cento); i pneumatici 165.557 contro 120.620 (aumento 38 percento).

L’industria tessile ha conservato, nel trimestre maggio-luglio, un’attività produttiva all’incirca uguale a quella del corrispondente periodo del 1946, durante il quale questo settore industriale lavorò a pieno ritmo. Precisamente, durante i mesi di maggio, giugno, luglio, il cotone entrato in mischia nella filatura ammontò a 43.665.338 chilogrammi, col quale si produssero 38.678.109 chilogrammi di filati. 13.000.000 di chilogrammi di filati furono consumati come tali all’interno o destinati all’esportazione; i rimanenti furono impiegati nella tessitura che ha prodotto, nello stesso periodo, 22.000.000 di chilogrammi circa di tessuti, cioè una produzione corrispondente all’incirca alla capacità di trasformazione dei normali anni pre-bellici,

E qui ritengo necessario accennare alla produzione dei tessili U.N.R.R.A., che per il suo considerevole volume non potrà non esercitare, quando sarà immessa al consumo nella sua totalità, un benefico influsso. È da notare che di recente vi sono state alcune polemiche della stampa, molto precipitose nella forma e nella sostanza, che volevano criticare dei provvedimenti presi da noi, nel senso di migliorare l’amministrazione dell’U.N.R.R.A. tessile e di completare la sua attrezzatura interna. Il programma prevede, come è noto, l’allestimento di tessuti di cotone, lana, matasse per maglierie, ecc. ed un limitato quantitativo di scarpe. Senza dilungarci in questa descrizione, preciso che, nel complesso, dal programma del cotone dovranno essere ricavati 150 milioni di metri di tessuti. Il programma del cotone è già a buon punto: oltre una metà è stato distribuito ed attualmente è in corso la distribuzione proprio nella provincia di Roma. Il programma della lana è in ritardo, in quanto è stato più difficile fare la cernita della produzione e la distribuzione alle industrie, le quali hanno assunto l’impegno di mettere a disposizione per queste lavorazioni il 30 per cento del loro potenziale.

Ma nel complesso, data la nuova organizzazione, che è stata completata più snella, più agile, più efficace nei suoi controlli e nel suo funzionamento, noi riteniamo di poter affrettare, accelerare il programma U.N.R.R.A., sicché anche la distribuzione di tutto il quantitativo della lana, che ammonta a circa 38 milioni di metri, possa essere distribuito ancora nella prossima primavera.

Dai dati in precedenza esposti si è rilevato come un notevole aumento della produzione si è quindi avuto ed in alcuni settori esso è stato di entità considerevole. Purtroppo però alle migliorate condizioni di produzione e alla diminuzione dei costi unitari conseguente all’aumento del volume della produzione non ha fatto finora riscontro una generale e decisa diminuzione dei prezzi. E ciò, a mio parere, perché il benefico risultato è stato più che neutralizzato, assorbito da quel complesso di cause agenti in senso contrario, già citate.

Vi è infine un’ultima causa a cui voglio accennare, ed è quella dell’aumento di taluni consumi. Questi difatti, se nel loro complesso sono notevolmente inferiori a quelli prebellici, in alcuni settori, in ispecie quelli voluttuari, e per alcuni strati della popolazione, sono aumentati, come si rileva da una recente pregevole pubblicazione del professore Albertani.

Quando affermo ciò non vorrei essere frainteso, perché è noto che il tenore di vita del popolo italiano si è nel suo complesso fortemente abbassato, ma intendo dire che la corsa ai consumi in determinati settori ed in casi ben definiti ha sottratto beni e capitali che avrebbero dovuti essere destinati a scopi ben più produttivi. Questo ha influito, e non poco, sulla formazione del risparmio che non aumentando come sarebbe stato logico, è stato causa non ultima dell’attuale critica situazione creditizia.

Da alcuni è stato fatto osservare che non vi è ora uomo politico in Italia in grado di convincere alcune categorie di italiani a ridurre certi determinati consumi. È una affermazione che ha il suo sfondo di verità, specialmente quando si tenga conto di quella ben nota atmosfera psicologica che si determina in tutti i Paesi del mondo e in tutti i dopoguerra; ma non voglio essere così pessimista; affermo che è solo una questione di tempo e di convinzione. Che nella attuale condizione non vi sia Governo o uomo politico o partito che sia in grado di modificare radicalmente la situazione nel volgere di poche settimane o di due o tre mesi, questo credo fermamente; ma il problema che si prospetta è quello di agire gradualmente col metodo, di convincere i riottosi con la ragione, con la forza della legge se è necessario. Occorre che quei ben individuati strati della popolazione che mostrano preferire ad un oculato risparmio un incremento di consumi voluttuari, comincino a considerare che finanche nei Paesi vincitori, sia ad economia liberistica che vincolistica, esiste tuttora una notevole contrazione dei consumi rispetto ai livelli prebellici.

Per raggiungere l’obiettivo di una maggiore, migliore e più economica produzione, occorre infine essenzialmente che continui l’afflusso dall’estero di capitali e di beni strumentali senza cui nessun progresso potrebbe essere realistico.

Cessati o quasi i generosi aiuti finora erogatici, tale afflusso è subordinato all’ottenimento del credito.

Abbiamo e continueremo ad avere per lungo tempo assoluto bisogno di credito ed il credito si concede quando si ha fiducia nella solvibilità di chi lo riceve.

Il Governo si è sforzato in questi ultimi tempi di rinforzare all’estero la fiducia sulla capacità del popolo italiano e sulla buona volontà di lavoro dello stesso, si è avvalso senza preconcetti ideologici di uomini che, bisogna riconoscerlo, hanno saputo assolvere il compito loro affidato con dignità ed alta capacità tecnica; ma non si può costruire faticosamente da una parte e scalzare il terreno dall’altra.

Qui è bene affermare che le agitazioni permanenti non sono certo i mezzi più idonei per ottenere beni dall’estero…

Una voce a sinistra. Ma dove sono?

TOGNI, Ministro dell’industria e commercio. …beni che possono venire dall’Occidente come dall’Oriente.

La partecipazione italiana alla compitazione del piano Marshall a Parigi, dove l’Italia è stata accolta per la prima volta in un consesso internazionale a parità di condizioni, le trattative condotte a buon fine con l’Export Import Bank, il lavoro con la Banca Internazionale per la ricostruzione e lo sviluppo, il prestito canadese e quello argentino, costituiscono la trama di un lavoro che non deve essere interrotto da agitazioni inconsulte e da critiche che troppo sovente… (Interruzione del deputato Di Vittorio – Applausi al centro) …sfruttano il motivo dell’indipendenza economica e politica del nostro Paese e quello della dignità nazionale perché possano credersi del tutto disinteressate o obiettive.

Quasi tutti i paesi d’Europa, la Francia, la stessa Inghilterra hanno immediato bisogno dell’aiuto esterno: l’Italia ha bisogni ancora più urgenti ed ha bisogno di aumentare la sua produzione industriale ed agricola per dare un tenore di vita più degno ai suoi figli e per risanare le ferite di una guerra eccezionalmente rovinosa.

Solo a questa condizione potremo ritrovare la nostra salvezza ed un relativo benessere; ma tutto è subordinato ad un maggiore sforzo produttivo, ad una situazione di maggiore stabilità politica e sociale e ad un concorso dello spirito di sacrificio, che mostrino un’Italia conscia delle difficoltà che deve ancora superare, ma decisa a ritrovare la sua via ed a riconquistare quella posizione che la storia e la civiltà le hanno assegnato. (Commenti a sinistra).

L’onorevole Saragat, fra gli altri oratori, ha parlato della necessità di una pianificazione, con riferimento in modo particolare al cosiddetto piano Marshall.

Ora, questo rilievo necessita di maggiore chiarezza, perché noi siamo perfettamente d’accordo sulla necessità di orientare la politica economica del nostro Paese e, in particolare, la politica industriale che ne è l’elemento prevalente, in relazione ad un ordine di priorità, di necessità, di possibilità e di interesse generale. Ma ritengo molto difficile nella sua realizzazione e dubbia nella sua utilità una pianificazione nel senso stretto della parola, la quale presuppone un’organizzazione amministrativa nelle varie fasi di controllo, di distribuzione, di repressione, di interventi in genere, che il nostro Paese non ha e per la quale esiste, direi, una naturale intolleranza del nostro popolo, come dimostrano tutti gli esperimenti…

PASTORE RAFFAELE. Sono gli industriali che non vogliono il controllo! (Commenti).

TOGNI, Ministro dell’industria e commercio. …che sono stati fatti nel periodo fascista e in quello post-bellico. Ma, soprattutto, una pianificazione intesa in tale stretto senso presuppone una sicurezza ed una regolarità di rifornimenti di materie prime e di capitali che noi siamo ben lungi dall’avere.

D’altra parte, ogni popolo deve tener conto delle caratteristiche particolari delle proprie attitudini: attitudine fondamentale del popolo italiano è quella dell’iniziativa, intimamente connessa ad un deciso senso di individualità.

E qui mi sia consentito ricordare come i produttori in genere del nostro Paese hanno, in più di un caso e indipendentemente da qualsiasi pur lodevole tentativo dirigistico dei Governi, fatto risorgere industrie, negozi ed attività in genere con mezzi di fortuna, spesso con risorse e possibilità minime, sempre con una gran fede e una grande sicurezza nei risultati dei loro sforzi. (Interruzioni a sinistra).

I Ministri che mi hanno preceduto, l’onorevole Gronchi che ha dovuto creare ex novo il Ministero dell’industria e commercio, e l’onorevole Morandi, che, con tanta passione, ne ha consolidato la rinascente struttura, possono per primi testimoniare come al di sopra e al di fuori di ogni intervento e, molto spesso, di ogni aiuto, l’industria e il commercio italiani hanno trovato nella propria capacità e nella propria fede quelle risorse che hanno consentito una così rilevante rinascita che, è doveroso affermare, ha meravigliato gli stessi ambienti europei. (Vivi applausi al centro).

Né vuole significare questo una condanna di principio verso la pianificazione integrale o, tanto meno, un inno al liberismo economico; ma soltanto un doveroso riconoscimento di quel sano interventismo economico, là, dove e quando, nella diversità dei settori e nella successione dei tempi, esso si manifesti necessario.

Le condizioni attuali non consentono infatti di scegliere decisamente fra una forma di economia puramente liberista o una forma di economia puramente controllata; ma richiedono invece una estrema oculatezza che consenta di adeguare la nostra condotta alle mutevoli vicende dell’economia mondiale, traendo profitto dalle congiunture favorevoli.

La nostra politica economica deve essere quindi soprattutto vigilante e, se mi fosse concesso un paragone che mi sembra calzante, vorrei dire che, nel campo economico, ci si dovrebbe orientare verso qualche cosa di analogo a quanto dai più si ritiene necessario nel campo politico, nel quale le libertà non debbono essere lasciate abbandonate a se stesse, bensì vigilate e difese. (Rumori a sinistra).

L’intervento dello Stato quale organo regolatore della economia di un Paese deve manifestarsi tutte quelle volte che è richiesto per difendere l’economia da quei fenomeni patologici come monopoli, oligopoli, superdimensioni industriali, tutte le volte che essi si manifestano. In questo è la differenza tra l’indirizzo che ritengo più opportuno e quell’altro indirizzo, ormai sorpassato per ammissione dei più, del liberismo dottrinario antico.

Abbiamo detto – e ci piace ripetere – che la nostra politica economica vuole essere una politica produttivistica, vale a dire orientata nel senso di facilitare la produzione e gli scambi in ogni loro forma e possibilità, sia col rimuovere gli ostacoli di ogni genere che, soprattutto in questi difficili tempi, si frappongono alle iniziative e alle attività in genere, sia intervenendo, nei limiti del possibile, e soprattutto con la maggiore celerità, per i rifornimenti delle indispensabili materie prime, e ancora preoccupandoci in modo concreto ed efficace delle difficoltà di ordine finanziario che colpiscono le imprese produttrici, anche economicamente sane.

In merito è anzi di particolare attualità il problema del credito alle industrie, che il Governo ha parzialmente affrontato e che non dubito il Governo ulteriormente dovrà esaminare, preoccupato com’è di mantenere intatto e anzi, di nulla trascurare per integrare il potenziale produttivo del nostro Paese.

Il mio Ministero che segue, com’è suo stretto dovere, le possibilità industriali della nostra economia, non mancherà di porre ogni sua iniziativa e interessamento anche alla soluzione di questo problema.

E in questa preoccupazione non può non trovare una parte che direi prevalente il gruppo I.R.I., che non è, egregio onorevole Morandi, un frutto di stagione, perché la situazione dell’I.R.I. si va maturando da molto tempo. (Interruzione a sinistra). E, seppure oggi siamo arrivati al momento critico, noi possiamo assicurare che il Governo è seriamente intenzionato a risolvere il problema dell’I.R.I., del quale noi siamo i primi ad essere preoccupati. (Commenti a sinistra).

Una voce a sinistra. Ci pensa l’associazione degli industriali a risolverlo!

TOGNI, Ministro dell’industria e commercio. Ma su questo il Governo farà, nel corso della discussione, ulteriori e più complete dichiarazioni. L’importanza di questo gruppo, anche agli effetti di quel sano e opportuno intervento dello Stato in determinati settori della produzione, non ha bisogno di essere sottolineata in modo particolare. Unanime il riconoscimento e unanime, posso affermare, l’intenzione del Governo di fare ogni possibile sforzo per realizzare il risanamento e il potenziamento del gruppo stesso e delle sue aziende che, non va dimenticato, rappresentano una risorsa vitale per un numero notevole di tecnici e operai. Lungi il concetto ormai di un’economia intesa in senso stretto, l’azione di tutela dello Stato e dei suoi organi deve svilupparsi appunto anche nel senso che potremmo definire sociale, e cioè di salvezza delle iniziative ancora economicamente sane. (Approvazioni).

L’economia del nostro Paese può dirsi ora passata da una fase transitoria ad una fase di consolidamento, e forse le critiche, i dubbi e le preoccupazioni che si stanno sviluppando sono proprio una dimostrazione di questa fase di crescenza dell’industria italiana e, diremmo, di consolidamento. Molto è stato fatto; molto, però, resta ancora da fare. Doverosamente riconosciamo il merito, dai capi ai gregari, che sempre più compresi dell’importanza della loro funzione, aumentano e armonizzano i loro sforzi, per aumentare e migliorare la produzione dei prodotti italiani, di questi prodotti, che oggi già si vanno affermando in tutto il mondo, che vengono apprezzati e che certamente un giorno potranno in gran copia affermarsi nei mercati del mondo. Diamo atto di questa volontà, di questa fede: elementi sicuri di successo, che tendono al potenziamento della nostra economia in funzione sociale.

Noi seguiamo questo sforzo, lo fiancheggiamo, senza frasi o discorsi altisonanti, senza provvedimenti ad effetto, ma cercando realisticamente di facilitare lo sforzo e di spianare la strada. Contro ogni difficoltà noi proseguiremo in questo compito finché la vostra fiducia non ci verrà meno. Sentiamo in questo di essere affiancati, direi di essere all’unisono, con tutte le categorie, dagli industriali ai dirigenti, agli operai, alle maestranze, le quali sentono, effettivamente sentono (Interruzioni a sinistra) come hanno già in altri momenti sentito col loro sacrificio…

Una voce a sinistra. Ci parli dei consigli di gestione!

TOGNI, Ministro dell’industria e commercio. …sacrificio diretto, l’importanza delle aziende, l’importanza del loro lavoro, l’importanza del sacrificio ch’essi compiono. Essi soprattutto, uniti in un grande sforzo, si sono resi conto che la salvezza delle industrie e dell’economia nazionale è la salvezza del loro lavoro e del loro pane ed è effettivamente l’unico elemento per l’indipendenza del nostro Paese! (Vivi applausi al centro e a destra – Molte congratulazioni).

PRESIDENTE. È iscritto a parlare l’onorevole Corbino. Ne ha facoltà.

CORBINO. La discussione che si svolge in questa Assemblea fin dalla settimana scorsa ha, a mio giudizio, una importanza che supera quella che potrebbe collegarsi con la sorte di un Ministero.

L’iniziativa dei colleghi di parte socialista, di parte comunista, del Gruppo del Partito socialista dei lavoratori italiani, di porre il problema della fiducia o della sfiducia nel Governo presso l’Assemblea, è servita infatti a spalancare un po’ le finestre della nostra Aula e farvi entrare l’eco di tutto ciò che, nel settore politico e nel settore economico, accade un po’ fuori dell’Aula, nel Paese, fuori del Paese in Europa, fuori dell’Europa in tutti gli altri continenti.

Il mio temperamento, notoriamente ottimista, mi accompagna anche in questa occasione, perché là dove gli altri vedono segni di turbamento, segni di perplessità per chissà quali tempeste dovranno ancora venire, io vedo segni di guarigione.

Sì, segni di guarigione, colleghi (Interruzione del deputato Scoccimarro), perché l’economia del mondo è un po’ nelle condizioni degli organismi che prima della scoperta dei sulfamidici e della penicillina erano attaccati da polmonite. Chi ha avuto la disgrazia di avere dei cari parenti affetti da quella malattia, sa che al quinto, al settimo giorno avveniva quella che si chiamava la crisi, crisi che poteva portare o alla morte dell’ammalato, o alla fine del male, all’inizio della convalescenza. Ora, nelle malattie dei popoli non è ammissibile l’ipotesi della morte: i popoli non muoiono mai. Possono coloro che appartengono ad una popolazione, in uno degli anni del suo svolgimento, stare più o meno bene, più o meno male, ma i popoli sopravvivono, ed allora è evidente che dall’inizio della crisi, del quale noi ora cominciamo a soffrire, noi usciremo, e siccome come popoli non possiamo morire, evidentemente ne dovremo uscir bene. Questo è il punto di partenza dal quale noi dobbiamo esaminare la situazione. (Applausi a destra).

Oggi il mondo è malato soprattutto in due cose: vi è una deficienza di generi alimentari che crea dappertutto lo spettro della carestia; le statistiche sono diventate la fonte della nostra preoccupazione: un giorno ci fanno allargare il cuore alla speranza che non moriremo di fame; il secondo giorno ci ripiombano nel più nero pessimismo. Io vorrei far rilevare ai critici, che possono avere talvolta ragione dell’economia liberale, che nel secolo di economia liberale pericolo di carestia non ce ne fu mai. Il pericolo di carestia l’abbiamo da quando i Governi nei vari Paesi del mondo si sono assunti il compito, insopportabile per le loro modeste spalle, di dar da mangiare alla gente.

Ma nella sostanza accade questo, che noi in Europa abbiamo in gran parte esaurite le scorte, per cause che tutti conosciamo, e nel resto del mondo, per una serie di vicende climatiche non sempre favorevoli, non vi è stato quell’eccesso di produzione che sarebbe occorso per farci vivere con maggior larghezza e per farci ricostituire le scorte. Il problema più angoscioso che da questo lato si pone ai vari paesi europei è quello della ricostituzione delle scorte. Non si potrà fare nessuna politica alimentare seria, se ciascun paese non potrà disporre di scorte sufficienti per almeno tre mesi di consumo della propria popolazione. È questo un elemento indispensabile della stabilità alimentare. Ma intanto si profila all’orizzonte una crisi opposta nel settore agricolo; tanto ciò è vero, che alcuni dei paesi notoriamente produttori di cereali cominciano a sentire il timore di un’inversione della congiuntura, e già il Canada quest’anno ha ridotto di oltre il 10 per cento la superficie destinata alla produzione cerealicola.

Il secondo problema che, in collegamento con il primo, affligge l’economia mondiale è quello della produzione dell’energia. Noi siamo divoratori di carbone, e non ne produciamo tanto quanto ne occorrerebbe per rimettere in sesto tutta la macchina produttiva del mondo, e specialmente quella dell’Europa. Eppure prima della prima guerra mondiale l’Europa era il solo Paese del mondo che esportasse carbone dappertutto: oggi l’Europa è il Paese del mondo che riceve carbone da tutti i continenti. Vi sono ragioni di carattere economico che spiegano questo capovolgimento, ma vi sono anche ragioni di carattere politico nel senso più alto della parola. La produzione tedesca, per il mancato raggiungimento di un accordo tra i Quattro Grandi, non ha potuto ancora svilupparsi fino ai quantitativi che sarebbero necessari per soddisfare il fabbisogno di carbone dell’Europa. Che cosa è accaduto nel frattempo? Che la deficienza di carbone ha spinto all’elettrificazione di tutti gli impianti industriali o per uso domestico; e allora in tutta Europa avvertiamo una deficienza di energia idroelettrica, resa più grave dal diverso gioco dei prezzi del carbone rimasti liberi in alcuni settori, e dell’energia elettrica vincolata in altri settori o in altri paesi.

Vi è poi un problema di inutilizzazione della mano d’opera, quello che gli inglesi chiamano il «man power», che durante la guerra era stato oggetto degli studi più accurati da parte degli Uffici di mobilitazione britannici e nord-americani al fine di utilizzare al massimo le risorse produttive di quei paesi nell’immenso sforzo richiesto dalle necessità belliche. Noi usciamo dalla guerra con una popolazione europea globale presso a poco nelle stesse cifre del 1939; ma con una Francia che deve ancora adoperare oltre 400 mila prigionieri tedeschi, ripetendo nel 1948 una forma schiavistica di lavoro che noi ci stupiamo di leggere nei nostri libri di storia, per quello che accadeva all’epoca delle guerre fra i popoli civili della Grecia o di Roma ed i popoli barbari da esse conquistati. L’Inghilterra ha ancora prigionieri tedeschi sul suo suolo. Vi sono prigionieri giapponesi e tedeschi in Russia. Vi sono, in altri termini, deficienze di «man power» in alcuni dei più grandi paesi industriali del mondo; mentre vi sono alcuni paesi che hanno una relativa abbondanza di mano d’opera, e, non potendo assorbirla integralmente con attività produttive all’interno, vedono i loro costi elevati dalla necessità di aggiungere a quello che è il costo economico, collegato con lo sforzo produttivo in senso stretto, il costo politico dipendente dal mantenimento dei disoccupati.

Quando parlo di disoccupati, non intendo riferirmi a coloro i quali vorrebbero lavorare e non trovano lavoro, ma anche a quella massa enorme, che non potendo fare nulla, è allocata o presso le industrie o presso lo Stato o presso gli enti locali, per risolvere in questo modo il proprio problema riversando così sulla collettività, attraverso le imposte, l’onere del mantenimento di chi non può, per ragioni di disfunzionamento del sistema economico, provvedervi diretta mente.

DI VITTORIO. Conseguenza del sistema capitalistico.

CORBINO. Potrebbe darsi che sia conseguenza del sistema capitalista, onorevole Di Vittorio. Faccio osservare però, che, quando il sistema capitalistico era in pieno vigore, non vi è stata mai disoccupazione così vasta e duratura come quella avuta dal 1919 in poi. L’Inghilterra non ebbe mai 2.000.000 di disoccupati per 10 anni fino al 1914. Ma io non voglio fare la difesa del sistema capitalistico; non è questa la sede più opportuna. Non parlo qui per cercare quello che nelle nostre ideologie potrebbe contribuire ad invelenire una situazione, che è già abbastanza avvelenata. Noi dobbiamo cercare in uno sforzo concorde di conciliare le ideologie contrapposte, perché oggi non si discute della sopravvivenza di una ideologia o di un’altra, ma della sorte di tutti i popoli civili, e come uomini abbiamo il dovere di preoccuparcene.

Vi è infine il problema più grave, che oggi complica la vita economica e che è il sintomo più importante della crisi in atto: ed è la deficienza di capitali, che si manifesta non soltanto in Italia o in Francia ma dappertutto, anche nei Paesi più ricchi, compresi gli Stati Uniti d’America, dove la trasformazione del debito fluttuante in debito a più lontana scadenza si sta effettuando gradualmente, ma con un rialzo notevole del costo dell’interesse: siamo passati da uno e sette ottavi per cento a due e tre ottavi; e certamente non ci fermeremo lì. Del resto, non ci voleva un grande spirito profetico, per credere che, prima o dopo, a questa deficienza di capitale il mondo dovesse essere esposto. Dal 1939 al 1945, in uno sforzo che era il risultato di una specie di follia collettiva, e andava dal polo nord al polo sud, facendo il giro del mondo, l’umanità non ha fatto che distruggere ricchezza, distruggere capitali accumulati. Oggi, passata l’euforia del periodo immediatamente post-bellico, noi cominciamo a sentire gli effetti di questa distruzione, finora velati agli occhi dei più dal fenomeno inflazionistico.

Noi non ci siamo accorti della distruzione dei capitali perché l’inflazione ci dava l’illusione dell’arricchimento. Ma se l’inflazione fosse una fonte di capitali noi potremmo veramente dire di essere fortunati, perché voi sapete che per fare l’inflazione basta la rotativa di un giornale. Noi avremmo così risolto il più grave, il più duro ed il più angoscioso dei problemi che oggi affliggono l’universo.

L’Italia si collega al resto del mondo attraverso questi quattro punti nevralgici del sistema economico mondiale. Vi si collega con la sua deficienza di materie prime e di generi alimentari; vi si collega con la necessità della ricostruzione; vi si collega con l’eccesso di mano d’opera e vi si collega, infine, con la deficienza dei capitali. Ma quello che sembra soltanto un problema italiano, è anche un problema francese e britannico ed è anche un problema dei piccoli Paesi come il Belgio, l’Olanda, la Svizzera, la Svezia, la Norvegia, la Danimarca, paesi ricchissimi che oggi sono intenti a guardare quello che accade tra i grandi colossi dell’economia mondiale, per sapere come regolarsi e per conoscere da quale lato debbono aspettarsi sorprese ed in quale direzione dovranno tendere i loro sforzi produttivi. Oggi nel mondo è incominciata o sta per cominciare la deflazione. Questa è l’inizio della crisi, o signori, e ne volete una prova? Noi qui discutiamo della capacità di un Ministero a governare, ed è la terza volta, nel giro di un anno, che ne discutiamo. In Francia il Governo socialista di Ramadier ha dovuto chiedere, nel giro di pochi mesi, ben cinque voti di fiducia al Parlamento ed il Governo laburista – pur avendo alle sue spalle una maggioranza omogenea e formidabile quale mai nessun partito al potere ha avuto nella Gran Bretagna – ha anch’esso la sua crisi. È di ieri l’annuncio dei primi mutamenti della compagine governativa ed essi non saranno gli ultimi. Il Governo laburista deve fronteggiare come noi – che abbiamo un Governo monocolore, e se avessimo un Governo pluricolore sarebbe lo stesso – gli stessi problemi che dobbiamo fronteggiare noi, che sono, poi, i problemi della convalescenza ed i problemi della guarigione.

Ora, in questa situazione che cosa accade? Sì, il liberismo è finito; possiamo anche essere d’accordo che il liberismo, come sistema politico, sia finito. Io vi posso dire che, a mio giudizio, il liberismo è finito quando, durante la prima guerra mondiale, la borghesia accettò di mettersi al servizio dei militari e della burocrazia per cercare di vincere la guerra. Si disabituò allora all’azione direttrice della vita economica e politica del mondo, e quando la guerra finì tutti i grandi borghesi – intendendo sotto questo nome i veri capitani dell’industria – si trovarono imbarazzati, non sapendo più camminare da soli, perché per sei anni avevano camminato sostenuti dalle dande della politica governativa: allora è finito probabilmente, dal punto di vista storico, il regime capitalistico e il regime liberista. (Interruzioni a sinistra).

Il resto, che si impone anche oggi alla politica di tutti i Governi del mondo, non è liberismo o vincolismo o protezionismo. Il resto – abbiate pazienza, o colleghi dell’estrema sinistra – è buon senso; il resto è riconoscimento dell’istinto degli uomini, i quali possono talvolta essere capaci dei più grandi sacrifici per le più grandi idealità, ma sono poi incapaci di piccoli sacrifici per idealità forse ugualmente grandi. La natura umana è lenta ad evolversi, la natura umana non cammina come cammina la tecnica. Ed è questo il guaio dell’umanità contemporanea, perché con scoperte nuove diamo ad un solo uomo il mezzo di fare tanto male all’umanità, mentre per poter fare del bene gli uomini devono essere in molti, e devono essere strettamente collegati gli uni con gli altri. (Applausi a destra).

Ora, qual è la realtà? Voi osservate in Inghilterra un Governo laburista; in Francia un Governo socialista, in Italia abbiamo avuto fino a tre mesi fa un Governo in cui i socialisti erano magna pars (Commenti a sinistra)Non voglio ricercare responsabilità. Credete pure che non c’è nell’animo mio nessun desiderio di acredine verso chicchessia, perché parto dal presupposto che tutti possiamo aver sbagliato, ma, se abbiamo sbagliato, abbiamo sbagliato in buona fede.

Qual è la realtà? La realtà è che per un effetto psicologico della guerra noi vogliamo imprimere alla società un movimento di trasformazione molto più celere di quello che la situazione consenta. Il socialismo è una gran bella teoria e l’umanità deve molto alla diffusione delle teorie socialiste e all’influenza che queste teorie hanno esercitato nei rapporti fra gli uomini appartenenti a diverse classi sociali. Ma, secondo me, Marx, che era un critico formidabile, era un uomo che non aveva una fantasia molto fervida, era un uomo il quale prevedeva una società statica, mentre la società è dinamica, era un uomo il quale prevedeva il concentramento del capitale in poche mani, mentre lo sviluppo dell’anonima ha polverizzato il capitale nelle mani dei più, era un uomo il quale, per quanto considerasse la guerra come uno degli elementi essenziali per la definitiva devoluzione del potere dalle classi capitaliste alle classi proletarie, non poteva prevedere che questa devoluzione dovesse aver luogo dopo una guerra che ha distrutto quasi un terzo del patrimonio produttivo dell’umanità. In maniera che voi, se voleste raccogliere l’eredità del mondo borghese, ai termini delle previsioni di Carlo Marx, a mio giudizio fareste un cattivo affare. Per lo meno vi converrebbe sempre di accettare col beneficio d’inventario. (Applausi a destra – Commenti a sinistra).

In questa situazione si innesta il rapporto di collegamento stretto fra l’economia, e la società europea, l’economia e la società orientale, l’economia e la società occidentale.

Qual è questo rapporto? Non mi riferisco ai rapporti politici. I rapporti politici, che possono dare luogo a contrasti, e che non si possono sistemare sul piano della collaborazione economica, si sistemano sul piano del contrasto bellico.

Ora, io sono convinto che al contrasto bellico non si arriverà. Potremo forse rasentare la minaccia, la paura di una guerra, ma ne usciremo come se avessimo toccato la coda della cometa di Harley che apparve nel 1913. Il ruolo dell’America è un altro: è il solo Paese del mondo il quale possa in questo momento consentire agli Stati dell’Europa, tutti gli Stati dell’Europa, di superare questa crisi transitoria che all’economia deriva dagli avvenimenti e dalle cause che io vi ho dianzi accennato.

Una voce a sinistra. Siamo in via di guarigione!

CORBINO. Il presupposto degli aiuti non è politico, non può essere politico, non può essere che economico. E vi dico che non può essere che economico anche per un’altra ragione: quando si parla di aiuti americani ci si dimentica del modo con cui questi aiuti potranno venire. La via è questa: l’America deve produrre certe merci; ci vorrà il Governo americano che stabilirà dei crediti a spese dei contribuenti americani perché queste merci siano comperate e siano cedute a credito o a fondo perduto ai vari Paesi di Europa. Ma in sostanza saranno sempre gli americani quelli che pagheranno, e non gli abitanti di un altro pianeta. Ora, 5 miliardi di dollari all’anno, per esempio, costituiscono il 2 e mezzo per cento del reddito americano. Il che significa che, a prescindere da quelli che possono essere i fenomeni di traslazione dei tributi, ogni cittadino americano, sia mister Vanderbilt o sia lo scaricatore del porto di New York, su cento dollari che riceve ogni anno ne dovrà sborsare due per aiutare la economia europea. Questa è la realtà concreta. Quale il corrispettivo? Si dice comunemente: gli americani hanno bisogno di esportare perché altrimenti chissà che cosa succederebbe. Ma se essi dovessero produrre per forza, non avrebbero nessun obbligo di dare a noi europei l’eccesso di quello che producono: basterebbe che lo caricassero sui piroscafi per buttarlo in alto mare. L’obiettivo della produzione e della esportazione sarebbe stato raggiunto egualmente. Per darlo a noi da che cosa devono essere spinti? Essi devono sentire che c’è una solidarietà fra i continenti che va al di sopra delle ideologie, che va al di sopra degli interessi di carattere materiale e che lega l’Europa considerata come un continente produttore all’America considerata come un altro continente produttore. (Applausi al centro e a destra).

Ora vediamo un po’ di passare dal grande al piccolo e di trovare nei nostri riguardi i riflessi di questa situazione.

Di che cosa abbiamo bisogno noi? E quando dico «noi» non intendo parlare dell’Italia, ma intendo parlare di tutti i paesi che domandano aiuti all’America.

Evidentemente, abbiamo bisogno di ordine. Ma ordine – intendiamoci sul significato di questa parola – non significa sparare; ordine significa capacità, attitudine e possibilità di produrre al massimo, secondo le disponibilità dei mezzi tecnici dei quali ogni paese gode in un determinato istante; significa stabilizzazione monetaria.

Taluno considera la stabilizzazione monetaria come un fine. Ma no! La stabilizzazione monetaria è uno strumento, è un mezzo, è il mezzo pregiudiziale per costruire, perché voi non potrete avere mai una chiara visione del mondo economico, delle sue necessità, delle sue possibilità, se prima non avrete provveduto alla stabilizzazione monetaria.

Ed abbiamo infine bisogno di un’altra cosa: dell’incremento del risparmio, per ricostituire capitali che ci mancano.

Avete notato che risparmiamo poco? Non intendo riferirmi soltanto alle classi più ricche, che sono veramente deplorevoli nella loro condotta in questo periodo, perché mostrano di non avere nessuna sensibilità per i problemi più immediati dell’ora. (Vivi applausi). Noi abbiamo troppi locali di lusso aperti, troppi; molti di più di quanti non ce ne fossero nel 1939, locali nei quali della gente che ha guadagnato del denaro senza sapere come lo ha guadagnato, lo sperpera in una maniera indegna, che io qui – anche se voi credete che da questi banchi non si possa parlare in favore delle classi più misere – deploro nella forma più dura che possa uscire dall’animo di uomo. (Applausi).

Ma, credete pure che non sono soltanto i ricchi coloro che hanno perduto l’attitudine al risparmio. Gli è che ciascuno di noi, nel suo piccolo, non intende rinunziare alla soddisfazione dei bisogni che fino a qualche tempo fa potevano costituire un lusso. E questo accade anche in larghissimi strati di quei ceti che più sentono le difficoltà del momento attuale.

Mi è stato detto – non so fino a qual punto la cifra sia esatta – che la ferrovia Roma-Ostia ha avuto un traffico giornaliero di bagnanti che, in alcune giornate, ha toccato la cifra di 250 mila persone, a cui si aggiungevano circa 100 mila persone trasportate dalle camionette. Ora, sentite, Roma ha un milione e 200 mila abitanti: che ce ne siano 300 mila che giornalmente si possano permettere il lusso di andare ad Ostia per il bagno io lo ammetto, ma dovete anche ammettere con me che è impossibile che a Roma ci siano 300 mila ricchi signori e tutti gli altri siano dei pezzenti.

Evidentemente, questa abitudine di spendere esiste anche in altri strati della popolazione. Ora, io dico che noi ci dovremmo proporre tutti, come meta fondamentale da raggiungere, quella di dare al popolo italiano il volto di una vita più austera, il volto di una vita molto più morigerata.

GIANNINI. Il fascismo ci ha annoiato con questa vita austera: finiamola! Non si salva l’Italia con queste sciocchezze. (Commenti).

CORBINO. No, onorevole Giannini, non sono sciocchezze.

E qualunque Governo, qualunque sistema economico, che voglia veramente ripristinare le abitudini al risparmio, deve incominciare proprio da lì, deve incominciare a tagliare sui consumi voluttuari. Non dovrà evidentemente colpire tutto ciò che è necessario, non dovrà colpire tutto ciò che è indispensabile all’esistenza. Ma, che io mi sappia, fino al 1914, non credo ci fossero 350.000 persone che da Roma andavano a fare il bagno ad Ostia; eppure gli italiani erano così robusti che sono stati capaci di andare a Vittorio Veneto. (Commenti).

Innestata con il problema dei risparmio è la politica del credito, perché è evidente che, se voi non avete il risparmio, su che cosa basate la politica del credito? Tutti i tecnici che conoscono la struttura delle nostre organizzazioni bancarie vi dicono che oggi le banche si trovano in una situazione economica veramente preoccupante. Perché questo? Perché, mentre i depositi sono cresciuti nei rapporti di uno a dodici o quindici, le spese sono cresciute invece secondo l’indice del costo della vita; c’è quindi uno squilibrio fra il costo della organizzazione bancaria e il rendimento dei depositi bancari.

Noi siamo arrivati all’assurdo che i depositi bancari sono trattati come all’epoca del banco di Amsterdam o del banco di San Giorgio, quando i depositanti pagavano qualche cosa all’istituto bancario. Oggi i depositanti ricevono formalmente l’uno e mezzo per cento; però vi sono tanti elementi di spesa che si sottraggono all’interesse, per cui, alla fine del semestre, quando si esamina la situazione del proprio conto corrente, si vede che si è perduto qualche cosa.

E allora ognuno comincia a domandarsi se non sia preferibile trasformarsi da depositante presso una banca in depositante presso sé medesimo, o – peggio ancora – se non sia il caso di fare quel tale mercato nero del credito cui hanno già fatto allusione alcuni colleghi nell’Aula, e l’onorevole Morandi nel suo discorso di oggi.

Che cosa, in sostanza, sta accadendo? Sta accadendo che la banca, la quale finora era indubbiamente lo strumento più efficace della distribuzione dei capitali dal risparmiatore a chi ne avesse bisogno, sta diventando uno strumento più costoso, e noi corriamo alle operazioni di credito diretto. Questo non è progresso né sul settore economico né sul settore tecnico, né nel settore liberista né nel settore socialista: è regresso nel senso più assoluto della parola.

Una voce al centro. Faremo tutti gli usurai.

CORBINO. Onorevole collega, veda, il problema della lotta all’usura affligge il mondo fin dall’epoca di San Tomaso d’Aquino. Noi avevamo nell’Italia meridionale i famosi «monti frumentali», sorti appunto per combattere l’usura, che davano il grano a misura rasa, per averlo poi a misura colma. A poco per volta, con l’aumento del risparmio, l’usura era stata debellata (Interruzioni), ma posso assicurare il collega che mi interrompe che oggi in alcuni settori noi siamo ritornati a tassi veramente usurai. Per esempio in qualcuna delle borse-valori si pagano oggi anche 4.500 lire al giorno per un milione di capitale dato in prestito, il che significa un tasso annuo del 180 per cento.

Ora, onorevoli colleghi, guardate che questo problema è collegato al precedente, della stabilità monetaria. La gente che non ha fiducia nella stabilità monetaria vuole tenere merci, e molti di coloro che strillano contro recenti restrizioni del credito gridano perché non vogliono essere costretti a vendere le loro riserve di merci (Applausi al centro e a destra). Credo che il Governo debba tener duro su questo punto. Mentre ammetto che le restrizioni non debbano incidere sulle forme di attività economica a carattere veramente produttivo, in tutte le forme nelle quali, dietro la parvenza di una attività produttiva, si nasconda un’attività speculativa, fondata sul presupposto della svalutazione monetaria, il Governo deve agire con la massima energia. Non si preoccupi delle conseguenze: ci saranno dei fallimenti. Ma, benedetto Iddio, che i fallimenti siano nell’ordine naturale delle cose è provato dal fatto che la legge sui fallimenti risale al di là del 1882, il che vuol dire che i fallimenti c’erano anche allora; e c’è un libro del Codice civile che contempla i fallimenti, ciò che vuol dire che i fallimenti sono nell’ordine naturale della vita economica.

La questione oggi ha un altro aspetto, perché nelle nostre classi industriali e commerciali si sono infiltrati molti elementi che si sono abituati a lavorare nel periodo dell’inflazione, quando tutto si volgeva in guadagno, e che quindi ignorano che c’era un tempo in cui gli industriali ed i commercianti qualche volta guadagnavano, ma qualche volta anche perdevano. È bene che coloro che si sono infiltrati con questa mentalità siano eliminati, con le buone o con le cattive; e gli altri, che la stessa mentalità hanno acquisito per cattiva abitudine, ritornino alle buone abitudini che avevano anteriormente al 1939. Il Ministro Guardasigilli provveda ad organizzare opportunamente le Sezioni di fallimento dei Tribunali. (Commenti).

E allora, mi avvio alla parte conclusiva: perché ad una conclusione ci si deve arrivare, e la conclusione non può essere soltanto tecnica.

Io ho sentito vari discorsi di carattere tecnico in questa Assemblea; ho sentito le risposte che già sono state date da alcuni membri del Governo. Vi confesso che nel dettaglio tecnico della critica o della difesa non intendo entrare. Non mi pare che sia opportuno entrarvi. Noi siamo qui Assemblea politica, è il problema politico che dobbiamo affrontare! Qual è questo problema?

C’è un Governo. Dicono alcuni che questo Governo non va e che bisogna rovesciarlo.

Bene: tutte le opinioni sono rispettabili; e quando queste opinioni si trasformeranno in cifre, in dati, allora ne verrà fuori una statistica: X voti favorevoli, X voti contrari, e il risultato della statistica dirà se il Governo se ne dovrà andare, se il Governo potrà restare, o se il Governo debba considerare l’opportunità di restare con qualche modificazione. (Commenti).

Per il momento non voglio entrare in questo. Ma quando un Governo cade e cade sotto un voto di sfiducia del Parlamento, o quando, anche senza arrivare al voto di sfiducia, il Governo sente che sarebbe opportuno, per esempio, che se ne andasse (io non dico con questo che se ne debba andare, perché dichiaro senz’altro che voterò a favore del Governo), noi dobbiamo tener conto di un fatto, e cioè della situazione difficile dalla quale sono partito e che dovrebbe essere considerata come il punto di partenza per il riesame della situazione.

Le necessità fondamentali del Paese sono due: la prima è di rimanere collegati col mondo esterno, perché vi è ormai un avviamento in tal senso. La stessa ripresa dei traffici tende a riequilibrare i prezzi, tende a sovvertire i sistemi monetari, tende a ridistribuire le forze produttive nel mondo. Ciò esige che l’Italia abbia un Governo che possa conservare questi rapporti. Vi è poi l’altra necessità fondamentale: cioè a dire un Governo che riesca a conservare all’interno quel minimo di ordine (non dirò di disciplina perché l’amico Giannini mi potrebbe ricordare che anche i fascisti parlavano di disciplina), quel minimo di ordine, di disciplina spontanea, di autodisciplina (chiamiamola così) che corrisponde alle esigenze generali del Paese in questo momento.

Come si può formare questo Governo?

La situazione non è agevole, perché, per quelle tali virtù o per quei tali vizi atavici dell’uomo – che tende sempre a seguire il principio edonistico, e cioè di ottenere il massimo risultato col minimo sforzo – la mia impressione è che uno degli elementi più notevoli dell’attuale crisi in Europa, soprattutto nelle grandi democrazie europee (Inghilterra, Francia, Italia) è questo: che la realtà economica imporrebbe quelli che si potrebbero chiamare governi di destra – ma badate bene, non Governi di destra nel senso «pelluniano» della parola, ma nel senso «minghettiano», cioè a dire Governi che mantengono un’atmosfera di serenità. Senonché i parlamenti sono fatti in maniera che non possono sprigionare che governi di sinistra, donde deriva il contrasto tragico nel quale si dibatte il complesso delle democrazie occidentali. Noi vediamo il laburismo in Inghilterra obbligato a fermare le sue riforme: ha nazionalizzato le miniere, ha nazionalizzato l’acqua, la luce, il gas, ha nazionalizzato i trasporti ed ora è lì fermo, tentennante, perché se dovesse continuare con il suo sistema, dovrebbe estendere il controllo ad altri settori della vita economica, e l’estensione del controllo esige l’impiego di strumenti tecnici e di personale tecnico che in Inghilterra mancano.

Qualcuno di voi, che forse vive più a contatto di quello che non abbia potuto farlo io col mondo inglese, sa che oggi l’Inghilterra ha deficienza di burocratici.

Per amor di Dio, non offriamo i nostri (Commenti), perché i risultati che abbiamo avuto da noi non sono eccessivamente brillanti e in Inghilterra vogliono burocratici di quelli che fanno sul serio!

In Francia avviene la stessa cosa, ed il Governo Ramadier è obbligato ad agire tortuosamente perché sente che per salvare il franco, per salvare la situazione, dovrebbe fare una politica di destra. Ma non la può fare per il suo colore politico, sicché nei suoi movimenti è continuamente impacciato.

Ed anche in Italia abbiamo avuto il caso del Governo De Gasperi, che si è presentato annunciando nel suo programma i 14 punti di un programma preesistente del precedente Ministero pluricolore. Ed allora come si può fare un Governo, che debba operare, sia pure transitoriamente, con direttive di destra, quando invece le maggioranze sono formate da partiti di sinistra? Noi abbiamo sentito il discorso di Saragat, il quale in certi punti in materia di politica economica è andato anche al di là dell’onorevole Togliatti, pur essendo al di qua in materia di politica generale, e probabilmente Morandi è più vicino a noi di quello che teoricamente potrebbe esserlo Tremelloni. I contrasti della situazione sono gravi perché ciascuno di noi ha una divisa e vuole agire secondo quella divisa; ma poi ha una logica e vuole agire secondo la logica, e quindi stiamo facendo quello che Pirandello avrebbe potuto chiamare il gioco delle parti. Ciascuno non fa la parte sua. Ora, ci vogliamo mettere d’accordo per vedere di tirar fuori questo Paese dalla situazione attuale?

Io una volta, per conto mio, e per conto dei colleghi del mio partito, feci una esclusione. Era una esclusione che rispondeva per una piccola parte (e di questo ne chiedo perdono a tutti) ad un sentimento di carattere personale.

Ero stato estromesso, ed allora era umano che io rispondessi con lo stesso sistema. E di questo, per quel che concerne il sentimento di carattere personale, dico che ho fatto male; perché in politica gli uomini dovrebbero sempre guardare al Paese e mai a risentimenti di carattere personale. Ma c’era una parte sostanziale che ci divideva e che potrebbe darsi che, su un terreno di collaborazione completa, ci continuerebbe a dividere. La parte sostanziale è questa: che chi ha una mentalità orientata nel senso di una politica liberista non può evidentemente agire bene nell’interesse generale se deve continuamente transigere con coloro che hanno una mentalità orientata in senso differente. È questa la ragione per la quale la formazione generale di un Governo come quello vaticinato dall’onorevole Nenni o come quello vaticinato dall’onorevole Togliatti credo non sia possibile. E mi duole che non sia possibile, perché ammetto e riconosco che diminuire la tensione, come diceva testé l’onorevole Morandi, creare un’atmosfera di concordia, sarebbe un gran risultato, potrebbe avere per il Paese benefici immensi. Ma, giunto a questo punto, io mi domando: se la mia diagnosi sulle direttive indispensabili di politica è esatta, vi conviene proprio di partecipare a questo Governo di coalizione?

SCOCCIMARRO. A noi no! Al Paese sì!

CORBINO. Scusate se una volta tanto entro nei fatti vostri. Vi sono infinite maniere di collaborare. Non è assolutamente necessario stare gomito a gomito nel Consiglio dei Ministri. La collaborazione deve avere per presupposto la garanzia delle pubbliche libertà. E credo che qui non ci sia nessuno che possa accettare lontanamente l’ipotesi di entrare in una qualsiasi combinazione nella quale il presupposto del rispetto delle pubbliche libertà per tutti su un piano di perfetta uguaglianza non sia da tutti riconosciuto. (Approvazioni). Dunque, il terreno della collaborazione, a mio giudizio, va trovato nell’atmosfera generale che deve regolare i nostri rapporti; va trovato in uno sforzo di reciproca comprensione, in una specie di tregua delle battaglie ideologiche fino al giorno in cui il corpo elettorale non si sarà pronunciato e avrà dato al partito, che a giudizio del popolo lo merita, la maggioranza necessaria per governare il Paese per i cinque anni di vita del prossimo Parlamento.

In sostanza, se siamo tutti d’accordo che l’ordine è necessario, che la produzione debba essere intensificata, che il risparmio debba essere stimolato colpendo quei consumi – a cominciare soprattutto dai consumi di lusso che sono quelli che più oggi colpiscono la fantasia dei più poveri – se siamo d’accordo su questo, non dovrebbe essere impossibile trovare una formula che consenta a tutti di collaborare in perfetta armonia di intenti per questo scorcio di 6-8 mesi che ci separa dal giorno delle elezioni. Voglio aggiungere qualche cosa di più: noi – e credo di interpretare in questo il pensiero anche degli amici del Partito liberale – non porremo condizioni di sorta. Siamo disposti ad escluderci automaticamente, se questa esclusione fosse necessaria per dare al Paese un Governo, che governi fino al giorno delle elezioni. E con questa esclusione, credetelo pure, onorevoli colleghi, noi avremmo la coscienza di interpretare il liberalismo, nel senso più alto della parola; perché oggi in Italia non è in giuoco la sorte di una classe o di un’altra, ma la libertà. E se il Partito liberale dovesse sparire per salvare la libertà in Italia, esso non avrebbe fatto che la più piccola parte del suo dovere. (Vivi applausi al centro e a destra – Molte congratulazioni).

PRESIDENTE. Il seguito della discussione sulle mozioni è rinviato a domani.

Interrogazioni e interpellanza con richiesta d’urgenza.

PRESIDENTE. Sono pervenute alla Presidenza due interrogazioni con richiesta di risposta urgente. La prima è quella degli onorevoli Volpe e Aldisio, al Ministro dell’interno, «sui fatti di Mussomeli, Villalba e comuni viciniori».

Questa interrogazione sarà abbinata all’altra, sullo stesso argomento, degli onorevoli Musotto e Fiorentino, annunziata nella seduta pomeridiana di ieri.

Chiedo al Governo quando intenda rispondere.

DE GASPERI, Presidente del Consiglio dei Ministri. Il Governo risponderà nella seduta di lunedì.

PRESIDENTE. La seconda interrogazione è la seguente:

«Al Ministro dell’interno, per sapere quale fondamento abbia la notizia data dalla stampa, circa la costituzione di Commissioni di conciliazione per superare il grave turbamento sociale, sorto in seguito alla occupazione delle terre in alcune regioni d’Italia e, se la notizia è vera, per sapere quali siano le funzioni delle suddette Commissioni, le quali, secondo l’avviso dell’interrogante, dovrebbero tendere non solo a stabilire rapporti legali fra proprietari ed occupanti, ma altresì a tenere presenti le esigenze di quelle organizzazioni cooperative e di quei contadini che, pur bisognosi di terra, si sono astenuti da azioni illegali per non turbare la tranquillità sociale, fondamento della ricostruzione del Paese.

«Angelucci».

DE GASPERI, Presidente del Consiglio dei Ministri. Questa interrogazione potrebbe essere rivolta piuttosto al Ministro dell’agricoltura che a quello dell’interno.

ANGELUCCI. La estendo anche al Ministro dell’agricoltura.

PRESIDENTE. Interpellerò i Ministri competenti perché facciano sapere quando intendano rispondere.

Comunico che è stata presentata anche la seguente interpellanza, con richiesta di svolgimento urgente:

«Ai Ministri dell’interno e di grazia e giustizia, per conoscere le ragioni che hanno spinto il primo a disporre che il prefetto di Caltanissetta sciogliesse arbitrariamente le Commissioni per l’assegnazione delle terre incolte o mal coltivate alle cooperative di contadini, provocando anche la protesta del presidente di quel Tribunale; e il secondo a consentire che il procuratore della Repubblica di detta città facesse rinviare – con aperta violazione del principio della indipendenza della Magistratura – ogni decisione sull’ex feudo Polizzello, richiesto regolarmente dalla cooperativa di Mussomeli; comunque, se intendano revocare le disposizioni anzidette, aventi lo scopo di coartare la volontà delle Commissioni giudicanti in danno dei contadini e di impedire che abbiano pratica attuazione le decisioni già prese da dette Commissioni, specie quelle riguardanti l’ex feudo Polizzello, che una regolare ispezione della Commissione competente e una relazione tecnica del perito hanno dichiarato parzialmente incolto e parzialmente mal coltivato.

«Li Causi, Montalbano, D’Amico, Fiore».

Chiedo al Governo quando intenda rispondere.

GRASSI, Ministro di grazia e giustizia. Farò sapere lunedì quando il Governo potrà rispondere.

MACRELLI. Chiedo di parlare.

PRESIDENTE. Ne ha facoltà.

MACRELLI. Presentai tempo fa al Ministro dell’interno un’interrogazione con carattere di urgenza. Egli mi aveva promesso che avrebbe risposto in una successiva seduta. Ma finora ciò non è stato fatto. Continuano ad accadere incidenti dolorosi e gravi, nelle Marche ed in Romagna, per l’occupazione delle case del partito fascista. Di ciò tratta la mia interrogazione. Sarebbe opportuno che il Governo rispondesse di urgenza anche prima di lunedì perché sono in corso operazioni di polizia e giudiziarie. A questo proposito c’è un progetto di legge da me presentato che è passato per tutti i Ministeri ma non è ancora arrivato all’esame dell’Assemblea.

PRESIDENTE. Se io fossi al posto suo pregherei il Governo di rispondermi rapidamente per iscritto.

Poiché nella sua interrogazione è richiamato il progetto di legge da lei elaborato, il Governo potrebbe dirle così a che punto se ne trova l’esame.

MACRELLI. Io chiederei frattanto che il Governo emettesse, in via di urgenza, i provvedimenti necessari onde evitare dolorosi incidenti. Si fa una sospensione di dieci o quindici giorni e non si ottiene nulla, e frattanto accadono incidenti dolorosi e gravi.

PRESIDENTE. Ma le ho già detto che secondo me l’importante sta nel fatto che il Governo esprima il suo avviso sull’argomento e che ciò può essere fatto dal Ministro al quale l’interrogazione è diretta anche per iscritto.

MACRELLI. Trasformerei allora l’interrogazione in interrogazione con richiesta di risposta scritta, diretta al Ministro dell’interno, e vorrei estenderla anche al Ministro di grazia e giustizia, dato l’intervento dell’autorità giudiziaria nei lamentati incidenti.

DE GASPERI, Presidente del Consiglio dei Ministri. D’accordo.

Sui lavori dell’Assemblea.

PRESIDENTE. Vorrei richiamare l’argomento di cui abbiamo brevemente trattato stamattina e ieri sera. Poiché abbiamo constatato che col ritmo attuale possono essere ascoltati due oratori per ogni seduta ed in più l’esposizione di un Ministro, penso che da domani dovremo cominciare a tenere sedute serali. (Approvazioni – Commenti). È una necessità, onorevoli colleghi. Così abbiamo fatto alcune volte nel passato. Due sedute formalmente, una mattutina e una pomeridiana, ma quest’ultima verrà sospesa ad una certa ora, per essere poi ripresa dopo un certo tempo e protrarsi nella tarda serata.

DE GASPERI, Presidente del Consiglio dei Ministri. Se i Gruppi fossero disposti a ridurre il numero degli oratori iscritti, anche gli interventi dei Ministri potrebbero essere limitati, ed io mi impegnerei al riassumere nel mio discorso – salvo l’intervento del Ministro del bilancio – gli argomenti che dovrebbero essere trattati ancora da altri Ministri.

PRESIDENTE. Questo non dipende da me. Dipende dai Gruppi limitare il numero degli oratori. Gli iscritti a parlare sono ancora 42. (Commenti). È evidente che se il numero degli oratori si riduce, così come si ridurrebbe il numero dei Ministri attraverso il metodo che il Presidente del Consiglio sarebbe disposto a adottare, potremmo anche rinunciare alle sedute serali. Comunque, anche se questo avvenisse, domani sera prolungheremo la seduta.

(Così rimane stabilito).

Interrogazioni.

PRESIDENTE. Si dia lettura delle interrogazioni pervenute alla Presidenza.

SCHIRATTI, Segretario, legge:

«I sottoscritti chiedono di interrogare i Ministri delle finanze e del tesoro, per sapere se non ritengano opportuno emanare provvedimenti perché le città di Agrigento, Canicattì, Licata e Porto Empedocle, gravemente danneggiate dagli eventi bellici, abbiano il loro giusto riconoscimento di centri danneggiati; e quali i motivi che fino ad oggi hanno determinato il detto mancato riconoscimento, causa del diffuso malcontento tra la popolazione, ben considerato che tale riconoscimento è stato già fatto per centri meno danneggiati.

«D’Amico, Li Causi, Montalbano, Fiore».

«Il sottoscritto chiede d’interrogare il Ministro dell’agricoltura e delle foreste, per conoscere se non ritenga indispensabile procedere ai lavori di bonifica del secondo lotto del comprensorio dell’Urana-Saima (provincia di Udine) e al relativo finanziamento, se non si vuole che il dispendio fatto per completare i lavori del primo lotto corra il rischio di andare completamente perduto in seguito alle alluvioni, molto probabili, sia nel corrente autunno sia nella prossima primavera. (L’interrogante chiede la risposta scritta).

«Piemonte».

«I sottoscritti chiedono di interrogare i Ministri dei trasporti e della marina mercantile, per conoscere come intendano fronteggiare la grave situazione denunciata dalla Compagnia lavoratori portuali e dal Consiglio di amministrazione del Provveditorato al porto di Venezia.

«In seguito alla confortante ripresa di arrivi di vapori, carichi specialmente di carbone, necessita che l’insufficienza, ora aggravata, di carri ferroviari, anche per la prolungata sosta di ingenti quantitativi di carbone in depositi a terra, non comprometta l’attività del porto di Venezia; necessita che i due Ministeri, dei trasporti e della marina mercantile, oltre ad adoperarsi perché con ogni urgenza venga assicurata giornalmente una adeguata assegnazione di carri ferroviari, che consenta continuità nel lavoro di scarico e rapido sgombro dei depositi, pongano contemporaneamente ogni attenzione al problema della migliore e più razionale utilizzazione dei trasporti per le vie acquee interne. (Gli interroganti chiedono la risposta scritta).

«Ghidetti, Ravagnan».

«Il sottoscritto chiede d’interrogare il Ministro dei trasporti, per sapere se è a conoscenza, e come intenda rimediarvi, dell’ingiusta disparità di trattamento che l’applicazione del regio decreto 7 dicembre 1923, articolo 5, ultimo comma, determina tra il personale attualmente in quiescenza, già dipendente dal Ministero delle comunicazioni.

«Scomposto quest’ultimo, con la fine del fascismo, e restituiti i post-telegrafonici all’apposito Ministero, per il criterio adottato dal Ministero dei trasporti, si ha questa assurda situazione: i dipendenti ferrovieri licenziati durante la guerra e contemporaneamente riutilizzati, e con la fine della guerra nuovamente licenziati, si trovano ad avere un trattamento di pensione che esclude l’ultimo periodo di servizio come riutilizzati; periodo che invece è stato riconosciuto ai post-telegrafonici, e ciò per evidenti ragioni di giustizia. (L’interrogante chiede la risposta scritta).

«Ghidetti».

«Il sottoscritto chiede di interrogare i Ministri della difesa e del tesoro, per conoscere se non ritengano equo ed opportuno ammettere i militari, membri delle disciolte bande musicali, al godimento della pensione riservata ai militari di carriera, tenuto presente:

che i membri delle bande musicali disciolte nel 1923 erano militari di carriera (come dimostra la loro assunzione per concorso e ad esempio, l’autorizzazione a prender moglie), anche se il regolamento disponeva che non potessero superare il grado di caporal maggiore, qualunque fosse la loro anzianità; che essi sono stati collocati in pensione con gli assegni «tabellari» che competono ai militari di leva e non di carriera, poiché alla data del provvedimento ciò non li danneggiava, non esistendo il «caro-viveri» di recente istituzione;

che le altre categorie di militari di truppa, di carriera”(carabinieri, finanzieri, ecc.), godono di pensione non tabellare;

che l’aggravio che ne deriverebbe al Tesoro sarebbe minimo, considerato l’esiguo numero di questi ex-militari. (L’interrogante chiede la risposta scritta).

«Scarpa».

«Il sottoscritto chiede d’interrogare il Ministro ad interim dell’Africa italiana, per conoscere quali provvedimenti intenda prendere per rendere più sollecite e più semplici l’istruttoria e la liquidazione delle domande di risarcimento di danni di guerra subiti dai nostri connazionali in Africa Orientale Italiana ed in Libia.

«Migliaia di profughi, rientrati in Patria completamente spogliati di ogni loro avere, vivono in estrema indigenza ed attendono, con l’ansia resa sempre più acuta dal crescente bisogno, la predetta liquidazione.

«L’espletamento delle pratiche, nonostante il lodevole spirito di sacrificio dei preposti, la loro abnegazione e la loro competenza, procede con ritmo veramente esasperante, in dipendenza, soprattutto, dell’insufficienza e della angustia dei locali, della mancanza di materiali per una razionale attrezzatura degli uffici (scaffali, raccoglitori, cartelle, ecc.) e della lenta e complessa procedura burocratica. (L’interrogante chiede la risposta scritta).

«Pat».

«Il sottoscritto chiede d’interrogare il Ministro della difesa, per sapere se sia vero che è stato disposto il trasferimento del 46° fanteria da Messina a Palermo e quale sia in tal caso l’utilità di un provvedimento che importerebbe un notevole dispendio, dato che a Messina dovrebbe trasferirsi un reggimento, che ha l’attuale sede a Palermo. (L’interrogante chiede la risposta scritta).

«Basile».

PRESIDENTE. Le interrogazioni testé lette saranno iscritte all’ordine del giorno e svolte al loro turno, trasmettendosi ai Ministri competenti quelle per le quali si chiede la risposta scritta.

La seduta termina alle 20.10.

Ordine del giorno per le sedute di domani.

Alle ore 10 e alle ore 16:

Seguito della discussione delle mozioni degli onorevoli Nenni, Togliatti e Canevari.