ASSEMBLEA COSTITUENTE
XLIV.
SEDUTA DI SABATO 22 FEBBRAIO 1947
PRESIDENZA DEL PRESIDENTE TERRACINI
indi
DEL VICEPRESIDENTE CONTI
INDICE
Congedi:
Presidente
Comunicazioni del Presidente:
Presidente
Interrogazione (Svolgimento):
Petrilli, Sottosegretario di Stato per il tesoro
Rescigno
Seguito della discussione sulle comunicazioni del Presidente del Consiglio dei Ministri:
Martino Enrico
Corbino
Mancini
Perassi
Scoca
De Mercurio
Interpellanza con richiesta d’urgenza:
Presidente
Segni, Ministro dell’agricoltura e delle foreste
Interrogazioni e interpellanza (Annunzio):
Presidente
La seduta comincia alle 15.
SCHIRATTI, Segretario, legge il processo verbale della seduta precedente.
(È approvato).
Congedi.
PRESIDENTE. Hanno chiesto congedo gli onorevoli D’Amico, Diego e Sardiello.
(Sono concessi).
Comunicazioni del Presidente.
PRESIDENTE. Gli onorevoli Persico, Caporali e Piemonte hanno comunicato di essersi iscritti al gruppo parlamentare del Partito socialista lavoratori italiani.
A far parte della Commissione per la Costituzione, in sostituzione degli onorevoli Merlin Umberto e Togni, nominati Sottosegretari di Stato, sono stati chiamati rispettivamente gli onorevoli Micheli e Caronia.
Svolgimento di una interrogazione.
PRESIDENTE. L’onorevole Sottosegretario di Stato per il Tesoro ha dichiarato di essere pronto a rispondere alla seguente interrogazione presentata ieri con carattere d’urgenza dall’onorevole Rescigno, ai Ministri dell’istruzione pubblica e delle finanze e tesoro, «per sapere quale provvedimento intendano subito adottare di fronte alle giuste richieste dei professori secondari, accompagnate dall’annuncio di sciopero per lunedì prossimo, come da pubblicazione di qualche giornale odierno». L’onorevole Sottosegretario di Stato per il tesoro ha facoltà di rispondere.
PETRILLI, Sottosegretario di Stato per il tesoro. Il Ministro delle finanze e tesoro assicura l’onorevole interrogante che, d’accordo con i rappresentanti sindacali della categoria interessata, è stato già predisposto il pagamento di acconti dell’indennità di presenza, in attesa della definizione di alcuni particolari aspetti della questione di merito sui quali continuano, in piena normalità, i rapporti fra il Ministero e le rappresentanze suddette.
PRESIDENTE. L’onorevole Rescigno ha facoltà di dichiarare se sia sodisfatto.
RESCIGNO. Io non posso dichiararmi pienamente sodisfatto. Si tratta di una soddisfazione subordinata ad una condizione direi sospensiva, perché le richieste giustissime della categoria dei professori secondari si riferiscono a due loro esigenze: innanzi tutto il sollecito bando ed espletamento dei concorsi e, poi, la indennità di presenza.
Si è in quest’aula parlato da vari oratori del problema scolastico. Il Ministro ha, in una conferenza stampa di ieri, parlato di franamento della Scuola media. Ebbene, bisogna convincersi che il problema non consiste tanto nel ristabilire la dignità e la serietà della scuola e degli istituti, attraverso un maggiore o minore rigore della disciplina o degli esami, ma consiste soprattutto in una maggiore dignità da dare alla classe degli insegnanti, e questa maggiore dignità si dà con una maggiore elevazione morale ed economica dei medesimi.
Vi sono migliaia di cattedre vacanti, vi sono decine di migliaia di professori che attendono di entrare in ruolo. Tutte le amministrazioni dello Stato, dopo la liberazione, hanno rinsanguato i loro quadri; solo per la scuola non si è ancora sentita questa necessità.
Il Ministro ha detto nella conferenza stampa: «Fra non molto».
Questa è una espressione che si sta adoperando da vari mesi, e, intanto, il bando dei concorsi non viene mai. Tutti i dipendenti dello Stato stanno percependo dal giugno 1946 la indennità di presenza; solamente per i professori si sta ancora studiando se le vacanze siano o non siano vacanze.
Questa è la questione grandissima, ponderosa, che sta allo studio dei Ministri e dei Sottosegretari: stabilire se ai poveri professori questa indennità debba spettare per il periodo delle vacanze, come se delle vacanze fossero essi responsabili e come se nelle vacanze non avessero bisogno di mangiare. Qui è questione di consapevolezza della funzione educatrice, della funzione scolastica dello Stato. Fino a che parleremo di missione nobilissima degli insegnanti per sola retorica, non si farà mai nulla; bisogna convincersi che al pari della difesa nazionale, al pari della giustizia, la funzione scolastica è funzione essenziale e vitale dello Stato.
Si parla in ogni momento di ricostruzione: la ricostruzione comincia dagli spiriti e dalle coscienze, e la ricostruzione degli spiriti e delle coscienze la fa la scuola. (Applausi al centro).
PETRILLI, Sottosegretario di Stato per il tesoro. Chiedo di parlare.
PRESIDENTE. Ne ha facoltà.
PETRILLI, Sottosegretario di Stato per il tesoro. Debbo osservare all’onorevole interrogante che, per la forma generica con cui era stata rivolta la interrogazione, non era possibile individuare con precisione il contenuto della medesima, perché si domandava se i Ministri della pubblica istruzione e delle finanze e tesoro non intendessero di adottare subito provvedimenti in relazione alle giuste richieste dei professori secondari.
Data la espressione generica, che non individuava questa o quella richiesta e non essendo facile – direi – «dare fondo a tutto l’universo» per quanto riguarda il problema dell’istruzione secondaria e del personale che ad essa è addetto, il Ministro del tesoro non ha potuto individuare, fra i vari problemi e le varie questioni che possono interessare il personale delle scuole secondarie, se non quello di maggiore attualità e per la risoluzione del quale erano avvenuti anche di recente scambi di idee tra me, in rappresentanza del Ministero delle finanze e tesoro, e la rappresentanza della categoria sindacale.
Ora, questi scambi di vedute avevano assunto un carattere di urgenza precisamente in ordine all’indennità di presenza, non alla questione dei concorsi. Quindi, se vi fosse stata una specificazione adeguata nelle interrogazioni, io avrei potuto dare anche su questo punto la risposta all’onorevole interrogante, salvo a lui di ritenerla più o meno sodisfacente.
Non è da escludersi che egli possa, con una ulteriore interrogazione, chiedere chiarimenti in ordine alla questione dei concorsi, e anche su questo gli sarò preciso.
Per quanto riguarda l’indennità di presenza bisogna tenere in particolare considerazione il fatto che la rappresentanza sindacale della categoria interessata era pienamente d’accordo col Ministero perché per ora si dessero degli acconti, e noi questi acconti abbiamo già disposti.
Nel merito devo dire che se vi è stato un indugio a risolvere la questione, non è dipeso dal Ministero del tesoro, ma dal testo della disposizione legislativa e dall’opportunità sentita dalla stessa categoria sindacale di avere numerosi e successivi scambi di idee con l’inoltro frequente di varie proposte, per poter far sì che fosse emanato il provvedimento particolare che doveva disciplinare la corresponsione della indennità di presenza alle categorie degli insegnanti di ogni ordine e grado, tranne quella degli insegnanti elementari, per i quali provvedeva direttamente il decreto legislativo presidenziale n. 19.
Bisogna al riguardo ricordare che questo stesso decreto, all’articolo 8, dichiarava che con separato provvedimento sarebbe stata regolata la corresponsione della indennità a tre categorie di personale, cioè ai magistrati, agli insegnanti di qualunque ordine e grado, tranne quelli elementari per cui provvede direttamente lo stesso articolo 8, e al personale assistente delle carceri e dei riformatori.
Recentemente un decreto legislativo ha regolato la corresponsione delle indennità di presenza ai magistrati.
Più difficile era la situazione degli insegnanti, perché l’Assemblea ricorderà certamente il contenuto, lo spirito informatore, e le espressioni di questo decreto legislativo, il quale ha mutuato dal rapporto d’impiego privato, e direi più precisamente salariale, un istituto che è stato introdotto nella disciplina dei rapporti d’impiego pubblico, l’indennità di presenza, così come l’istituto dell’indennità per lavoro straordinario.
Erano due indennità che nel rapporto d’impiego pubblico non avevano avuto cittadinanza fino al giugno dello scorso anno; erano indennità, invece, ben note agli impiegati e salariati dell’impiego privato.
Ora, lo scorso anno per la prima volta furono introdotte nella legislazione positiva italiana queste due indennità, di presenza e per lavoro straordinario.
L’indennità di presenza però fu atteggiata con questa configurazione e poggiata su questo espresso principio, che fosse cioè un compenso particolare da attribuire a quei dipendenti i quali, attraverso un maggiore zelo e un maggiore rendimento, avessero dato prova colla loro presenza in servizio di interessarsi effettivamente delle esigenze dello Stato e del loro impiego.
Fissato questo principio informatore e basilare del decreto legislativo, si disse che l’indennità di presenza andava corrisposta sempre e soltanto in relazione ai giorni di effettiva prestazione di servizio (prego fare attenzione su questa particolare espressione, che è testuale, della legge: «in relazione alla effettiva prestazione di servizio»).
E l’articolo 8 soggiunge: con esclusione di quelle giornate, in cui, per qualsiasi motivo, anche giustificato – richiamo anche qui l’attenzione dell’Assemblea – «non vi sia la prestazione di servizio».
In altri termini, il legislatore ha voluto che questa indennità non fosse una integrazione dello stipendio, ma, invece, un compenso, un premio – è chiamato anche premio di presenza – per coloro che, nei giorni in cui prestano effettivo servizio, dimostrino col loro zelo e col loro rendimento di preoccuparsi effettivamente delle esigenze della pubblica Amministrazione.
Dato questo principio legislativamente sancito ed assolutamente inequivoco, ci si è trovati di fronte a qualche difficoltà, per la particolare situazione della carriera dei maestri; i quali, a differenza degli altri dipendenti statali, non prestano servizio tutti i giorni dell’anno (sia pure esclusi i giorni di vacanza domenicali e gli altri giorni riconosciuti dallo Stato); ma non lo prestano neppure nelle vacanze cosiddette pasquali e natalizie, durante i quali periodi le scuole sono chiuse; non prestano servizio durante il periodo estivo che va dalla chiusura della sessione di esami all’inizio del periodo autunnale.
Ora, in relazione al principio basilare della legge, all’espressione letterale, che era in piena corrispondenza con questo principio informatore, ci siamo trovati di fronte a questa difficoltà, che non era superabile se non con un nuovo provvedimento legislativo, il quale avrebbe dovuto necessariamente infirmare il principio informatore del precedente decreto legislativo; cioè dare questa indennità di presenza, anche quando non si presta servizio, anche quando non si può dimostrare quello zelo, sovrattutto quel rendimento, che si può dimostrare soltanto attraverso l’effettiva prestazione.
Bisognava allora immettere nella nostra legislazione quest’altro principio legislativo, in pieno contrasto col precedente: che l’indennità di presenza non è indennità di zelo e di rendimento, ma una forma integrativa dello stipendio.
Ora l’Assemblea legislativa può anche disporre questo; il legislatore può anche modificare la legislazione attuale; ma non si può dire certamente che il Ministero del tesoro, (il quale è chiamato ad applicare, non a violare la legge, tenendo presente naturalmente anche la situazione del bilancio e tutelandola in corrispondenza all’adempimento ed alla applicazione delle norme di legge) abbia dimostrato una ingiustificata contrarietà alle aspirazioni della categoria magistrale.
Peraltro, premesso tutto ciò a chiarimento della situazione e per rispondere alle recriminazioni ed alle censure, un po’ generiche, ma calorosamente espresse dal collega e amico Rescigno, devo soggiungere che il Ministero del tesoro, appunto per venire incontro alle particolari esigenze della categoria magistrale, sta studiando con piena cordialità di rapporti – ed i rapporti vanno tra me personalmente ed il rappresentante della categoria sindacale, professore D’Abbiero – la possibilità di contenere nell’osservanza dello spirito della legge quelle riforme e quegli adattamenti che sono di gradimento della categoria magistrale.
Con ciò credo di avere, questa volta almeno, sodisfatto le apprensioni e le preoccupazioni del collega e amico Rescigno.
RESCIGNO. Ringrazio.
Seguito della discussione sulle dichiarazioni del Presidente del Consiglio dei Ministri.
PRESIDENTE. L’ordine del giorno reca: Seguito della discussione sulle dichiarazioni del Presidente del Consiglio dei Ministri.
È iscritto a parlare l’onorevole Martino Enrico. Ne ha facoltà.
MARTINO ENRICO. Onorevoli colleghi, cercherò di attenermi strettamente a quelle che sono state le comunicazioni del Capo del Governo, facendo qualche piccola incursione su affermazioni fatte in questa Camera da altri colleghi di vari settori.
Il Presidente del Consiglio ha dichiarato di aver provocato l’improvvisa crisi per cercare il massimo di collaboratori e di consensi e per aumentare la efficienza del Governo, vincolando i Ministri ad una maggiore solidarietà, ad una solidarietà più evidente. Al primo compito ha manifestamente fallito. Due partiti, il repubblicano e quello socialista dei lavoratori italiani, non fanno più parte del Governo. Ha raggiunto il secondo scopo, che era il più profondo e il più desiderato da tutti?
È appunto per la mancata efficienza governativa e per la mancata collaborazione fra i partiti al Governo che il Partito repubblicano, fin dal tempo della piccola, chiamiamola così, «crisi Corbino», aveva compilato la lettera consegnata dal Segretario del partito al Presidente del Consiglio; poiché nulla si era innovato nello spirito della compagine governativa, successivamente, nel dicembre scorso, è stato indirizzato ai Ministri un documento redatto dal Comitato centrale del partito. È la mancanza di questa concordia e di questa solidarietà dei partiti che ha messo in disagio profondamente il nostro partito, ma, prima ancora del nostro partito, il Paese. Perché il Paese non si sa render conto come mai partiti che sono nello stesso Governo, che formano una coalizione nel Governo, lottino poi tra di loro al di fuori del Governo e, qualche volta, contro il Governo. Per cui noi abbiamo sentito in quest’aula l’onorevole Giannini confessare forse l’unica verità del suo partito, cioè che la fortuna del partito dell’Uomo Qualunque è la mancanza di concordia dei partiti al Governo. Si è ora raggiunta questa concordia? Abbiamo qualche dubbio in proposito, e per le dichiarazioni del Presidente del Consiglio e, soprattutto, per i discorsi dell’onorevole Togliatti e dell’onorevole Nenni. Si ha l’impressione che il programma – e questo non è una sola impressione – sia stato redatto quando il Governo era stato già formato, e si ha anche l’impressione che il programma sia stato compilato dal Presidente del Consiglio, non sorto da una reale concordia dei tre partiti.
L’onorevole Togliatti e l’onorevole Nenni dicono: «Se il Presidente del Consiglio farà questo, se il Presidente del Consiglio farà quest’altro, noi daremo tutto il nostro appoggio»; lasciando intendere chiaramente che se non sarà fatto si tornerà al sistema precedente della lotta contro il Governo. Questo metodo non possiamo accettarlo, perché riteniamo che non sia metodo democratico.
Dobbiamo insegnare al Paese che cosa vuol dire democrazia, dobbiamo sapere quali sono i banchi, quali i luoghi dove si deve fare l’opposizione al Governo e chi può e deve fare questa opposizione. È per questo che noi abbiamo preso posizione al di fuori del Governo. Non possiamo ammettere che i partiti che sono al Governo rivolgano la loro azione contro l’autorità e il prestigio del Governo, e mi duole dovermi rivolgere a qualche partito di sinistra il quale, non dico che provochi, ma tollera o meglio non stigmatizza certi atti che sono contro il prestigio e l’autorità del Governo.
Accenno fra l’altro alla occupazione delle terre. Siamo favorevolissimi a dare terre ai contadini, ma quando c’è una legge e vi sono delle Commissioni che consentono questa immissione dei contadini nelle terre, non vediamo perché si debba sollecitare un movimento quando i partiti di sinistra, che sono al Governo, hanno tutto il diritto di esigere che queste terre siano date legalmente ai contadini.
Mi sono trovato personalmente, ad esempio, in una situazione di disagio quando al Ministero della guerra stavamo assegnando terreni demaniali a cooperative di contadini e accadde che, quando si erano già preparate le ripartizioni, parte della tenuta di Monte Maggiore venne occupata.
Appartenendo allora al Governo, ed avendo tutto il desiderio di accontentare questa gente, trovandoci anche in procinto di accontentarla, voi capite quale prestigio ne hanno tratto, non dico le nostre persone o il Ministero della guerra, ma lo stesso Governo, tanto più se si pensa che non erano terre di privati, ma demaniali. Queste terre potevano essere assegnate dal Ministero della guerra che aveva allora un Ministro repubblicano e dal Ministero delle finanze dove c’era un Ministro comunista. Non esagero questo fatto, non esagero nessuno di questi fatti, ma desidero invitare soltanto ad un maggior rigore in queste procedure, proprio per dar forza e autorità al Governo ed alle leggi.
D’altra parte non possiamo e non potevamo accettare la lotta tra i partiti che sono al Governo. A questo riguardo non voglio indagare se la responsabilità è di un partito o di un altro partito. È indubbio che la Democrazia cristiana dimostra talvolta una mentalità decisamente e pregiudizialmente anticomunista e da altre parti si dimostra talvolta di avere una mentalità forse elettoralistica. Comunque, non è uno spettacolo degno per la democrazia. Crediamo che il difetto vero di tutto questo – mi pare che sia stato già accennato del resto a questo argomento anche dagli onorevoli Scoccimarro e Togliatti – è che tutto si fa nel Governo, che tutto si fa nel Paese, ma non si fa viceversa in questa Assemblea.
Se voi tutti aveste accettato, come noi avevamo proposto, che l’Assemblea Costituente fosse veramente l’Assemblea sovrana, tale che avesse il diritto di legiferare completamente, allora queste leggi, che l’onorevole Togliatti lamenta che non sono fatte o applicate, attribuendone magari la colpa alla Democrazia cristiana, queste leggi sarebbero state discusse qui dentro, ogni partito si sarebbe assunto la propria responsabilità e non assisteremmo allo spettacolo di vedere un Ministro che accusa un altro Ministro, perché una determinata legge non è stata fatta, o perché una determinata legge non si applica. Qui, in questa aula, dove si deve avere il diritto e il dovere di discutere, si vedrebbe chi veramente è contrario o non è contrario ad una determinata legge.
E proseguo, venendo specificamente al programma esposto dell’onorevole De Gasperi, programma piuttosto generico.
Due punti soltanto sono stati accolti fra quelli che erano contenuti nel nostro documento del dicembre scorso: unificazione dei Ministeri militari, unificazione del Ministero del tesoro con quello delle finanze. Dico subito che noi siamo stati sempre favorevoli all’unificazione dei Ministeri militari e mi meraviglia come siano state fatte delle riserve a questo proposito. È evidente che, quando le forze militari siano ridotte, come sono ridotte, sia pure, purtroppo, per l’ingiusto Trattato, sarebbe assurdo mantenere una così vasta amministrazione rappresentata da tre Dicasteri.
Ma vi sono ragioni di condotta militare, di condotta bellica; ormai, nella guerra moderna – e ne abbiamo avuto dimostrazione in quest’ultima guerra – un’arma non agisce più indipendentemente dall’altra; ci vuole armonia, unità. Lo abbiamo visto specialmente nella ritirata di Dunkerque, lo abbiamo visto negli sbarchi in Francia e in tutte le battaglie combattute in terreno francese prima e in terreno tedesco dopo, tanto che tutte le nazioni, le grandi nazioni – che, nonostante tutto, manterranno grossi eserciti – vanno ormai avviandosi ad un unico Ministero della difesa.
Ma, poi, vi sono ragioni di organizzazione, di unificazione di servizi che si devono realizzare quando si è in pace, quando non c’è neppure il pericolo della guerra. Non deve più avvenire quello che è avvenuto nell’aprile del 1942 in Tripolitania, dove c’era una quantità enorme di coperte che andavano all’aeronautica mentre mancava anche il minimo di coperte per i nostri fanti. Non deve più avvenire quello che è avvenuto nel 1941 nell’isola di Creta, in cui, sulla stessa costa, c’erano due militari a fare la vigilanza e questi erano trattati diversamente, economicamente e moralmente, soltanto perché uno dipendeva dall’Amministrazione dell’esercito e l’altro dall’Amministrazione della marina. Senza dirvi quelle che sono state le sperequazioni e lo sperpero anche di carburanti, di automezzi; reparti che ne avevano di più, altri di meno, unicamente e sempre perché dipendevano da Amministrazioni diverse.
Poi, ci sono ragioni di economia. È evidente che potrà avvenire gradualmente una contrazione di tanti servizi ed uffici, e quindi graduale eliminazione di personale e di spese. Mi pare che sia indubbio che dobbiamo fare di tutto per economizzare sulle spese militari che, in questo momento, sono ancora enormi.
E infine ci sono ragioni politiche, di patriottismo. Tutte le nostre forze armate devono avere un’unica anima e che avessero anime diverse prima voi lo capite benissimo dal come si sono diversamente comportate in momenti gravi per il nostro Paese. Quindi, ci vuole una unica anima e, soprattutto, che sia l’anima nuova, l’anima democratica, l’anima repubblicana. Non è un mistero per nessuno che oggi alla Marina si ragiona unicamente in funzione monarchica e, quello che è peggio, all’Aeronautica si ragiona ancora in funzione fascista.
Plaudiamo quindi a questa unificazione che non è prematura, perché siamo in fase di ricostituzione delle Forze armate e quindi è proprio questo il momento in cui bisogna studiare i problemi in modo unitario. E non è prematura perché, se non si fosse cominciato col nominare un unico Ministro della difesa che si proponesse questi compiti, state pur tranquilli che all’unificazione non si sarebbe mai più arrivati, perché specialmente la Marina e l’Aeronautica – non è un mistero per nessuno – non ne vogliono sapere.
Il nuovo Ministro della difesa ha quindi un compito difficile che deve però condurre assolutamente a fondo. Il suo compito, specialmente per quanto riguarda l’esercito, è duplice: selezionare i quadri ed inserire le forze partigiane nell’esercito.
Mi dispiace di non vedere l’onorevole Condorelli, il quale ieri sera ha detto una serie di inesattezze; ha parlato di epurazione, di discriminazione, di sfollamento di quadri come se fossero affidati a delle commissioni, di politici che vi porterebbero uno spirito di parte e fazioso. Evidentemente l’onorevole Condorelli non è informato. Dico subito che l’epurazione, la discriminazione e lo sfollamento non sono stati voluti dai politici e dai civili, ma soprattutto ed anzitutto da quegli ufficiali che si sono ben comportati in questo ultimo triste passato.
BENEDETTINI. Non è vero!
MARTINO ENRICO. Questi ufficiali non vogliono aver niente a che vedere con quelli che si sono compromessi con la repubblica di Salò e con quelli che hanno perduto la dignità e l’onore e tentavano di farli perdere anche all’esercito. (Applausi a sinistra).
Diceva l’onorevole Condorelli, con voce pietosa, che i nostri reduci che tornano dalla Germania, dopo aver tanto patito, sono sottoposti a queste commissioni che farebbero strazio del loro onore. Dico innanzi tutto che per quel che riguarda la truppa non è stato mai fatto nulla; gli ufficiali invece sono stati tutti esaminati da generali e colonnelli dell’esercito, ma da nessun politico. Anche fra gli ufficiali che sono stati in Germania bisogna fare una distinzione; vi sono quelli che si sono comportati dignitosamente, fieramente e, per non aver voluto aderire né al fascismo né al nazismo, hanno sopportato una vita impossibile; mentre altri, purtroppo, per tornare alle loro case, hanno aderito alla repubblica sociale ed al nazismo e quando sono tornati non hanno ripreso le armi, ma si sono rifugiati nelle loro abitazioni o nei nascondigli. Questi ultimi non potevamo vederli nell’esercito, soprattutto per rispetto di coloro che si sono comportati bene; è giusto fare una differenza fra chi ha avuto dignità e onore e chi questa dignità e questo onore ha dimenticato, anche se in un momento triste.
Per quel che riguarda l’epurazione e la discriminazione, dico che viene fatta da commissioni di generali che rispondono ai nomi di Ago, Amantea, valorosissimi nell’altra guerra e che hanno un grande senso di dignità e di onore.
BENEDETTINI. Prendiamo atto.
MARTINO ENRICO. Poi è venuta la legge sullo sfollamento che risale al maggio del 1946.
Questa legge non è stata fatta da noi repubblicani, ma è stata fatta da un Governo in cui c’erano Ministri liberali, dello stesso partito, quindi, dell’onorevole Condorelli. Che cosa dice questa legge? Dice che è necessario operare uno sfollamento e ne dà facoltà al Ministro o al Consiglio dei Ministri, a seconda dei casi, disponendo che vengano allontanati dall’esercito, prima di tutto, quelli che si sono compromessi dopo l’8 settembre, poi coloro che hanno dimostrato di essere meno idonei, dato che tutti siamo oggi d’accordo nel ritenere che dobbiamo ridurre l’esercito e che non possiamo tenere alla testa di esso troppi generali, quando le truppe sono poche. Questa legge prevedeva quella tale commissione che dà tanto fastidio all’onorevole Condorelli; e la prevedeva soltanto per i generali d’armata e di Corpo d’armata. Ma questa Commissione è stata nominata per rendere severo lo sfollamento per favorire i generali? La legge ha voluto dare una garanzia a tutti i generali, così a quelli che resteranno, come a quelli che andranno via; ha voluto assicurarli che nessuno avrebbe potuto agire faziosamente. Per i generali di divisione, di brigata e per i colonnelli, la legge non prevedeva che i loro casi venissero deferiti a quella Commissione e lasciava al Ministro la facoltà dello sfollamento. Ma il Ministro Facchinetti, con quel senso di equilibrio che lo distingue, ha desiderato che questa Commissione prendesse in esame anche le situazioni dei generali di divisione, di brigata e dei colonnelli; proprio per dare a tutti la tranquillità che il lavoro sarebbe stato svolto con onestà e con serietà.
L’onorevole Condorelli afferma che questa Commissione è fuori posto; qui, signori miei, siamo in fase di autodepressione: autodepressione della Costituente e ora anche dei Ministri e dei Sottosegretari. Questa Commissione è costituita da tre generali e da tutti gli ex Ministri e gli ex Sottosegretari della guerra. Di questi Ministri, due li ha dati il Partito liberale; uno, l’ex Ministro Casati, non ha accettato; l’altro è l’ex Ministro Brosio, un altro è l’ex Ministro Jacini. Ora, questi uomini che sono stati alla testa del Ministero e che, quindi, hanno avuto ben altre responsabilità e facoltà, è mai possibile che non possano dare affidamento per esaminare, insieme con altre persone, i casi dei generali? E stia tranquillo l’onorevole Benedettini che nessun generale è stato mandato via sol perché monarchico. Capo di Stato Maggiore è stato nominato il generale Marras, perché ritenuto leale verso la Repubblica, pur essendo stato monarchico e per molti anni addetto a Berlino. E veniamo al problema dei partigiani. L’onorevole Togliatti si è doluto che non siano stati inseriti nell’esercito i capi partigiani. Desidero fare una dichiarazione preliminare; quando a capo del Dicastero c’era un mutilato invalido di guerra, come il Ministro Facchinetti, e quando il Sottosegretario era, modestissimamente, un uomo della resistenza, sia l’esercito che i partigiani potevano stare tranquilli che, nei limiti del possibile, sarebbe stato fatto tutto quanto era nelle loro facoltà.
L’onorevole Togliatti lamenta che non sono stati inseriti nell’esercito i partigiani. Mi permetto ricordare che quando siamo andati al Dicastero della guerra le leggi per i partigiani giacevano ancora sotto la polvere. Queste leggi, che risalivano, salvo errore, nei loro progetti, al tempo della presidenza Parri, erano state dimenticate, e fui io a meravigliarmi che i partiti di sinistra, che erano al Governo fin da allora, non avessero sollecitato la loro emanazione. Ancor prima dei movimenti di Asti io avevo fatto tutto il possibile, d’accordo col Ministro, per mandare avanti queste leggi, le quali sono state finalmente approvate; e se ancora non si sono inseriti i partigiani nell’esercito, è sol perché la Commissione centrale presso la Presidenza del Consiglio, presieduta dall’onorevole Longo, non ha mandato proposte. Solo da un mese e mezzo sono venute le prime tre o quattro proposte. Ora vi è una lista un poco più lunga, e mi risulta che il Ministro Gasparotto ha già firmato alcune promozioni. Questo per quel che riguarda gli ufficiali che sono stati partigiani. A quanto mi risulta a tutt’oggi da parte dei partigiani che non sono stati ufficiali e che pure hanno la possibilità di entrare nell’esercito, con i debiti esami, non è ancora pervenuta al Ministero una sola domanda. Ad ogni modo stia tranquillo l’onorevole Togliatti che per quanto è stato nel Ministro Facchinetti e in me abbiamo fatto tutto il possibile perché i partigiani venissero immessi nell’esercito.
TOGLIATTI. Onorevole Martino, la questione è che persino gli ufficiali monarchici, che furono partigiani, sono allontanati e considerati con diffidenza. Questa è la realtà.
RUSSO PEREZ. È il solito doppio giuoco.
MARTINO ENRICO. In un’intervista che concessi dopo che l’onorevole Togliatti ebbe pronunziato il suo discorso di Firenze, chiesi che mi si facessero dei casi specifici. Non me ne sono stati segnalati. Potrò tuttavia dire a lei in confidenza quando e dove abbiamo usato ufficiali partigiani, e in incarichi anche delicati. Ad ogni modo quello che tengo a dichiarare, specialmente dopo tante cose che sono state dette in quest’aula, è che noi non possiamo ammettere da nessuna parte, soprattutto dalla destra, che si ponga in dubbio quello che è il nostro spirito, lo spirito del nostro Partito, per quel che riguarda l’esercito. Il nostro Partito ha una troppo lunga tradizione di patriottismo e di interventismo nelle guerre di liberazione, perché si possa mettere in dubbio che uno solo del nostro Partito non riconosca quelle che sono state le glorie dell’esercito. E noi dobbiamo però riconoscere e dobbiamo in questo momento soprattutto esaltare quello che è stato il nuovo esercito. Qui vi è stata l’impressione che da una parte si tenda a deprimere l’esercito e dall’altra i partigiani. Ebbene, questo è un errore, perché tali forze sono le sole che ci consentono di rialzare il capo. Ricordiamo che noi possiamo fare questo discorso agli alleati: questa guerra per la libertà e per la democrazia dell’Europa contro la tirannide voi l’avete incominciata nel 1939, ma noi, con la resistenza, l’abbiamo incominciata il 28 ottobre 1922.
Dobbiamo ricordare che quando i nostri uomini antifascisti all’interno e all’estero dicevano agli altri: «Guardate, che nel Paese noi abbiamo un dittatore, che ci ha portati alla tirannide e ci porterà alla guerra», ci rispondevano che avevamo il Governo che ci meritavamo. Dobbiamo ricordare agli alleati che quando sono sbarcati in Sicilia noi potevamo stare anche fermi, inermi, perché ci avrebbero liberato lo stesso, ma che sono stati i nostri giovani, i nostri lavoratori, i nostri operai i quali, rinnovando a mille e mille le gesta garibaldine, si sono organizzati sui nostri monti per riscattare col loro sacrificio quella che era stata la vergogna di un passato che l’Italia non poteva tollerare. Ed è per i 55.000 morti, feriti e dispersi dell’esercito di liberazione, ed è per i 65.000 del corpo volontario della libertà, morti e feriti, che noi possiamo rialzare la fronte e pretendere che gli altri ci guardino in faccia con tutta la serietà e l’onore che ci si deve. (Applausi a sinistra).
E passiamo all’unificazione del Ministero delle finanze con quello del tesoro. Questo, tecnicamente, non credo che possa dare luogo a grandi difficoltà, perché, salvo errori, nel passato, formavano un Ministero solo. Mi sono meravigliato delle riserve che a questo proposito hanno fatto gli onorevoli Corbino e Scoccimarro, perché l’onorevole Corbino nel suo discorso del 20 settembre aveva dichiarato che era sorto un contrasto fra lui ed il Ministro Scoccimarro, per l’imposta straordinaria sul patrimonio. Aveva detto che egli voleva fare un’imposta che colpisse subito i grossi patrimoni, e rimandare a più tardi quella che colpisse i patrimoni inferiori. A questo pare non abbia aderito l’onorevole Scoccimarro e non se ne è fatto niente. Viceversa, l’onorevole Scoccimarro ha detto che lui avrebbe fatto il cambio della moneta, ma che l’onorevole Corbino non l’aveva voluto fare. Ora, io faccio il ragionamento dell’uomo della strada, che, cioè, se vi fosse stato un Ministro unico, il Ministro Corbino, per lo meno avremmo avuto l’imposta straordinaria sui grossi patrimoni, e che se fosse stato Ministro solo l’onorevole Scoccimarro, per lo meno avremmo avuto il cambio della moneta. Quindi, mi pare che sotto questo aspetto un qualche beneficio si sarebbe avuto. L’onorevole Scoccimarro oggi fa delle riserve dicendo che l’imposta sul patrimonio non si poteva fare, e che forse è meglio non averla fatta, perché altrimenti ne avrebbero beneficiato i possessori di forti capitali.
Non sono tecnico e non entro in questo argomento; però mi meraviglio che dopo due anni dalla liberazione non si sia fatto ancora niente, mentre dobbiamo ricordare che nel 1921, a neppure due anni dalla fine della guerra, attraverso tutti i provvedimenti presi, l’allora Presidente Giolitti poteva dichiarare di aver raggiunto il pareggio. Spero che il nuovo Ministero del tesoro e delle finanze decida questa questione. Non sappiamo come la risolverà perché il Presidente del Consiglio si è limitato a dire che la questione sarà decisa. Non sappiamo il valore di queste decisioni, perché in ogni Ministero, pur restando presso a poco gli stessi partiti e spesso gli stessi uomini al Governo, le decisioni sono sempre cambiate.
Mi auguro tuttavia che, per quello che riguarda il cambio della moneta, la decisione sia positiva. Non è più oramai una questione di politica economica, ma è una questione di serietà politica.
Ricordo che, in un commovente discorso a Genova, l’onorevole Corbino aveva dichiarato che il cambio della moneta era pericoloso, fra l’altro, perché lo si sarebbe venuto a sapere almeno 70 giorni prima del cambio e in quei 70 giorni sarebbe avvenuta la rivoluzione economica, perché tutti avrebbero acquistato merci, e sarebbe stato un disastro. Ma noi sotto questo incubo abbiamo tenuto tutti i capitali per più di due anni e tutti hanno lavorato, tutti hanno commerciato, hanno accaparrato sempre con questo incubo del cambio della moneta. Quindi, mi auguro che si decida di farlo, anche perché, se non lo si facesse, è probabile che la questione risorgerebbe nel prossimo Governo, mentre bisognerebbe non parlarne più perché è in giuoco la serietà del Governo. Quando si è lanciato il prestito avete fatto dire in tutte le città d’Italia che esso era legato al cambio della moneta; e da molti si è sottoscritto perché il cambio della moneta era un solenne impegno contenuto anche in quel programma che fu lanciato dal Comitato in cui erano i più illustri uomini politici di tutti i partiti.
E non credo che a questo riguardo serviranno le escogitazioni che l’onorevole Scoccimarro vuole sussurrare nelle orecchie del Ministro Campilli. Ormai non si può più dire: non facciamo il cambio, vi diamo qualche altro vantaggio.
Signori, è in giuoco non più il vostro prestigio, ma il credito dello Stato!
Soltanto quando avrete risolto questi due problemi si potrà cominciare veramente a pensare all’iniziativa privata. Il Presidente del Consiglio ha detto che la vuole favorire, ma non ha detto come.
Credo che bisogna cominciare a sgomberare il terreno finanziario ed economico da questi due grossi problemi. Togliete poi tutte la bardature e i vincoli, e poi mettetevi d’accordo sui complessi monopolistici da nazionalizzare o da sottoporre al controllo dello Stato, in modo che almeno gli altri settori possano essere tranquilli e possano lavorare.
Ora, per esempio, stiamo mettendo la cappa di piombo sull’industria elettrica e chissà per quanto durerà questa questione; mentre non abbiamo energia elettrica e mentre occorre assolutamente costruire e riparare gli impianti. Anche su questo mettetevi d’accordo e decidete; decidete, perché altrimenti il lavoro non andrà avanti. Ritengo che l’industria elettrica sia proprio una di quelle che possono essere nazionalizzate, ma anche qui vedete se non possa convenire di sottoporla per ora ad un controllo. Non siamo, per dottrina, favorevoli alla nazionalizzazione, perché non siamo marxisti. Riteniamo, tuttavia, che si possa e che si debba giungere anche alla nazionalizzazione, quando di fronte alle enormi industrie monopolistiche non vi possa essere altra soluzione. Ma ad ogni modo occorre decidere questa questione, tenendo conto, se sono esatti i calcoli fatti, che per fare tutti i necessari grandi lavori pare che occorrano 500 miliardi. Non so se in questo momento noi li possiamo spendere. Ma, se anche li avessimo, credete proprio che sia opportuno spenderli tutti nell’industria elettrica, quando abbiamo ancora migliaia di case a terra e milioni di gente che non lavora?
Questo è un problema grosso. Proponete una soluzione, perché anche qui altrimenti andiamo a mettere delle palle al piede che sono pericolose per la ricostruzione del Paese.
Passo ora alla legge in difesa e per il consolidamento della Repubblica.
L’onorevole Nenni ha detto che, se il Presidente del Consiglio farà questa legge, plaudirà al Governo. Ora questa legge non la farà, lo ha già dichiarato. Avete sentito la sua comunicazione? Ha detto che non c’è bisogno di nessuna legge eccezionale, che basta ritoccare, aggiornare alcuni articoli del Codice penale, sul quale ha sorriso persino l’onorevole Russo Perez. Non aspettatevi niente a questo proposito. E ha pure detto che i monarchici devono giurare; se non giurano, se ne andranno, e se giurano e verranno meno al giuramento, vi saranno provvedimenti disciplinari. Temo che possano essere tardivi. Meglio prevenire che reprimere.
Vogliamo chiarire il nostro pensiero. Non vogliamo nessuna epurazione, non fosse altro perché con l’epurazione siamo stati beffati una volta, e credo che sia stato il più grosso errore dell’antifascismo. Noi diciamo ai monarchici: se ci fosse la monarchia, una leva di comando la dareste in mano a noi? Evidentemente no. (Commenti).
Quindi epurazione nessuna, ma vi sono delle leve di comando che è indispensabile siano in mano ai repubblicani. Potete immaginare un ambasciatore monarchico all’estero?
Evidentemente farebbe una politica in funzione monarchica, e sarebbe assurdo che fosse un rappresentante della Repubblica italiana.
BENEDETTINI. Non è esatto.
MARTINO ENRICO. Dobbiamo spostare qualche persona, senza mandarla via, ma dobbiamo raccomandare all’onorevole De Gasperi, e soprattutto al Ministro degli interni, di provvedervi almeno ed intanto con le leggi normali.
C’è infatti una legge, che mi pare risalga al 1895, che consente di poter mettere a riposo prefetti e ambasciatori, riconoscendo loro un certo numero di anni agli effetti della pensione.
Abbiamo ancora dei funzionari che hanno già raggiunto il limite d’età. Ne abbiamo al Ministero della marina mercantile, alla ragioneria dello Stato e altrove. Allontaniamoli. Non so se sono monarchici o repubblicani, ma dobbiamo rinnovare l’ambiente, dobbiamo far venire avanti i giovani, dobbiamo creare veramente un nuovo clima democratico.
Avevamo chiesto che fossero scelti alcuni prefetti, e ciò la legge lo consente, fra persone non di carriera. C’è una legge che dice che il 25 per cento dei prefetti può essere scelto fra persone non di carriera. Abbiamo detto questo, perché abbiamo un poco di esperienza in materia. Sappiamo che quando era prefetto di Milano l’onorevole Lombardi, prefetto di Novara l’onorevole Fornara, e prefetto di Parma l’attuale Ministro Ferrari, certe persone, certi residui, certi rottami del passato non salivano neppure le scale delle prefetture. Oggi invece vi circolano, e con profitto.
Abbiamo chiesto prefetti non di carriera, perché essi non hanno la preoccupazione della carriera. Sappiamo che, mai come in questo momento, un prefetto è preoccupato di ogni minimo atto ai fini della sua carriera, e spesso avviene, il che è umano e naturale, che questi prefetti nelle varie Provincie si appoggino sulle correnti che sono più forti e, quindi, potete immaginare su quali forze essi riposino in alcune Provincie. Scegliete, quindi, almeno per un determinato periodo di tempo delle persone dal di fuori, che possano infondere un nuovo spirito. Non so se il Ministro dell’interno ha quest’animo, tanto più, se è vero quanto mi si dice, che un funzionario capace, di sentimenti repubblicani, che era al Gabinetto, prima nel Ministro Romita e poi con l’onorevole De Gasperi, uno dei pochi repubblicani del Gabinetto, è stato subito allontanato dal nuovo Ministro.
BENEDETTINI. Perché fra i pochi repubblicani? Sono tutti monarchici allora? E il referendum allora? (Commenti).
MARTINO ENRICO. È detto in quel nostro documento che la Repubblica si difende anche in altro modo, garantendo la sicurezza dei cittadini. Non è il caso di esagerare quando si parla di ordine pubblico; perché se si va a guardare quel che succede negli altri Paesi, ci si accorge che è molto peggio. Però i fatti ci sono, e di quel che il Capo del Governo intende fare per dare la sicurezza a tutti i cittadini non abbiano sentito da lui parola.
Non una parola abbiamo sentito sui fatti più gravi che hanno perturbato l’opinione pubblica, come i fatti del Viminale e dell’Emilia. Dica qualcosa il Governo, dica qualcosa il Ministro dell’interno. È possibile che dobbiamo rimanere all’oscuro mentre il Partito comunista fa una sua inchiesta? La faccia pure, fa bene a farla. Ma se il Partito comunista arrivasse a delle conclusioni più concrete e più precise delle vostre, che figura ci fareste voi?
Non una parola è stata detta sui gravi fatti in Sicilia. Eppure si tratta di sette lavoratori che sono stati assassinati a catena. E questo offende tutto il popolo italiano, non soltanto il Partito comunista. I comunisti fanno bene a fare la loro inchiesta, ma è necessaria un’inchiesta ufficiale, perché questi assassini tendono a sopprimere la nuova vita democratica del Paese. E, quindi, chiediamo al Governo che parli, che ci dica qualche cosa, che ci dia delle assicurazioni.
Passo ad altro argomento: la disoccupazione. Mi dispiace che non ci sia il Ministro Romita. La disoccupazione è forte, ma, come ha detto il Ministro Romita l’altro giorno, il dramma più grave è la mancanza di qualificazione degli operai. Ci sono delle industrie edili del nord che non assumono lavori perché non hanno muratori. Il Ministero della guerra deve licenziare 20.000 persone e dovrà poi riassumerne 9.000, perché le 20.000 non sono qualificate.
Quindi occorre provvedere, sia per l’interno, sia per le necessità e le esigenze della emigrazione.
So che il Ministro D’Aragona aveva preparato già un progetto per l’istituzione delle scuole. Ma in questo campo vorrei raccomandare di procedere un po’ più semplicemente nelle varie Provincie. Occorre, cioè mettersi d’accordo coi sindaci, coi prefetti, con le Camere del lavoro, affidando loro di costituire queste scuole e di costituirle rapidamente.
Già ho detto al Ministro Romita che dopo la liberazione a Genova abbiamo già fatto tre scuole, che vanno bene, ma che hanno avuto un solo difetto – ed è per questo che bisogna che intervenga lo Stato – cioè il difetto di non essere frequentate; i frequentatori sono pochi. Io mi ero rivolto a tutte le associazioni di reduci e alla Camera del lavoro. Da tutti ho avuto delle belle promesse. Gli alunni venivano pochi giorni, prendevano i pasti gratuiti, prendevano l’indennità, e poi non si vedevano più.
Che cosa è necessario? È necessario obbligarli a frequentare le scuole, subordinando il sussidio di disoccupazione alla frequenza.
Una parola sull’alimentazione, rapidamente.
Anche questo è contenuto nel nostro documento. Bisogna controllare le fonti della produzione, il controllo non bisogna farlo soltanto agli agricoltori, ma anche agli industriali; bisogna controllare le fatture, le quali sono quelle che permettono tutte le evasioni possibili. Così si potrà arrivare a qualche risultato.
Vorrei proprio consigliarvi, anche per una modesta esperienza, e consigliare i rappresentanti della Camera del lavoro: è inutile andare a dire che bisogna perseguire la borsa nera spicciola; questo non risolve niente; se non aumentate i conferimenti agli ammassi, non potete aumentare le razioni; ed una volta che la farina fuorvia dall’origine non andrà più in Piazza Vittorio, ma nelle case private direttamente; non si faranno le paste, ma le tagliatelle e le torte in casa, quella farina non la recupererete più. Veniamo alla realtà. Si potrà sopprimere la borsa nera, anche spicciola, soltanto distribuendo una sufficiente razione.
Neppure il fascismo e neppure la dittatura nazista hanno potuto impedire la borsa nera.
Diciamo francamente che lo facciamo per una ragione morale, per una ragione sociale; perché non è attraverso la persecuzione della piccola borsa nera che potete aumentare d’un grammo la razione.
Siamo oramai arrivati a questo: quando si calcolano i salari, si computa anche quello che il lavoratore deve comprare alla borsa nera.
Vi sono state le agitazioni a Milano e si sono messi i calmieri perché era aumentato il burro da 700 a 900 lire; e s’è tenuta una riunione ufficiale per poi stabilire che il burro in calmiere doveva essere a 700 lire.
Quando fate questo, come potete poi impedire che si venda il burro a Piazza Vittorio?
Torniamo alla realtà.
A Genova, queste questioni le lasciavo decidere alle Commissioni degli operai, che venivano da me, e siccome gli operai avevano razioni insufficienti, quando dicevo loro che intendevo vietare il pane bianco, essi rispondevano che lasciassi almeno la focaccia, per la colazione del mattino. Questa è la realtà. Ed allora facciamo una politica decisa, la sola possibile, andando alle origini, per aumentare le razioni; altrimenti, sarà ancora una volta un fallimento.
Una parola sulla marina mercantile.
Avevamo chiesto che fosse potenziato il Ministero della marina mercantile, che ad esso fossero trasferiti, oltre ai normali servizi di istituto, anche particolari servizi: pesca, istruzione nautica, navigazione interna. Abbiamo detto che bisogna riordinare le capitanerie di porto; bisogna che i funzionari facciano quello che devono fare, come dipendenti del Ministero della marina mercantile, e non la leva o il reclutamento, compito che costituisce una distrazione e che non rientra nelle competenze del Ministero.
Quando dicevamo di potenziare il Ministero della marina mercantile non credevamo però che il Ministro interpretasse la cosa nel senso di creare improvvisamente tre direzioni generali in luogo d’una, come era sempre stata, anche quando avevamo un tonnellaggio rispettabile.
Sul problema marittimo, l’onorevole Presidente del Consiglio ha dichiarato di voler aiutare i privati a costruire navi in Italia, per potere arricchire la nostra flotta.
Nobile intento! Qui abbiamo le due solite tesi: quella dei costruttori, da una parte, e quella degli armatori, dall’altra.
I costruttori, naturalmente, vogliono costruire, gli armatori vogliono comprare all’estero, perché comprano a miglior prezzo, in quanto possono acquistare navi usate; e siccome ci sono degli interessi da tutte e due le parti, è bene che il Governo faccia una politica nel vero interesse del Paese. Tenga però conto che costruire oggi in Italia non risolve il problema, perché, impostando una nave oggi, noi l’avremo fra un anno, un anno e mezzo o due anni; tenga conto che i cantieri stanno già lavorando per l’estero; che se noi abbiamo le navi subito, possiamo imbarcare molti disoccupati e possiamo realizzare, per esempio, noli, che in questo momento sono alti e preziosi, e che fra un anno non sapremo come saranno. Quindi, costruiamo pure per l’estero, anche con non grossi guadagni, ma cerchiamo, se è possibile, di comprare dall’estero navi usate – e ce ne sono molte e buone – che possono darci il duplice vantaggio di alleviare la disoccupazione e di incassare noli in valuta.
E ancora una parola su quello che per me è il problema più importante dalla liberazione in poi: accenno al problema dei «consigli di gestione»; consigli di gestione – ha detto l’onorevole De Gasperi – che servono per creare lo spirito di intraprendenza e un clima di interessamento e di cooperazione operaia. Sono sodisfatto di questa definizione. Quello che io desidero chiedere all’onorevole De Gasperi è che convinca di questa sua definizione anche gli industriali che, credo siano di un’altra opinione.
Perché i consigli di gestione sono malvisti? Perché sono soprattutto sostenuti dai comunisti. Diciamolo chiaro. Noi abbiamo rischiato di perdere la Repubblica col pericolo rosso; abbiamo rischiato di mettere in sospetto e in dubbio tutto il movimento partigiano, perché i comunisti vi hanno dato un larghissimo contributo. Oggi noi vediamo mettere in pericolo la realizzazione di una forma democratica come sono i consigli di gestione, sempre perché sono sostenuti dai comunisti. Ma è ora di finirla di vedere rosso in questa maniera! Ma se facciamo della politica, facciamola realisticamente, e vediamo se un determinato istituto politico, costituzionale, sociale, economico, corrisponde alle esigenze democratiche, oppure se, viceversa, è soltanto un mezzo per realizzare la politica di un partito.
Io sostengo i consigli di gestione, perché veramente così potremo realizzare una democrazia economica; ed è poi un dovere che noi abbiamo verso la classe lavoratrice. Perché se Giolitti, per corrispettivo di una guerra, aveva dato il suffragio universale, cioè la democrazia politica, noi abbiamo il dovere di dare ai nostri lavoratori che, per la prima volta nella storia, volontariamente sono andati sulle montagne a combattere per conquistarsi non solo l’indipendenza del Paese – diciamolo pure – ma anche il loro diritto alla vita avvenire, questa sodisfazione, che è nell’interesse del Paese, se non vogliamo veramente mantenere questa frattura impossibile tra capitalismo da una parte e lavoratori dall’altra.
Sosteniamo il consiglio di gestione, che per noi non è solo un istituto giuridico, ma anche un’istituzione che s’inserisce nella nostra rivoluzione, nella rivoluzione che noi abbiamo fatta; e l’abbiamo fatta per dare democrazia al popolo. In questo si sono impegnati tutti i principali partiti; si è impegnata la democrazia cristiana, che nei Comitati di liberazione nel nord ha presentato progetti talvolta anche più avanzati di quelli dei comunisti; si sono impegnati anche, in una certa forma, i liberali.
Si parla di Governo di amministrazione; deve essere un Governo di amministrazione, ma deve essere – e doveva essere già prima di ora – un Governo che sa interpretare le esigenze politiche e sociali che sono sgorgate da questa nostra rivoluzione, ed il primo modo di interpretazione era di attuare questi consigli di gestione, che in molte industrie funzionano già e che vanno benissimo.
Chi ha fatto il Prefetto vi potrà dire quale è la passione di questi operai quando vengono a chiedere qualche cosa, non per sé, ma nell’interesse della produzione e della collettività. Io e l’amico Faralli, pochi giorni fa, abbiamo avuto occasione di ricevere una Commissione da Cornigliano Ligure che chiedeva l’apertura di uno stabilimento, e bisogna vedere con quale entusiasmo, con quale interesse si chiedeva la realizzazione di questa giusta organizzazione! Questo deve fare il Governo: interpretare veramente quella che è una rivoluzione democratica avvenuta pacificamente, e non fateci rammaricare che sia avvenuta troppo pacificamente, ma il Governo deve saper realizzare questo, perché i lavoratori se lo sono conquistato. E quando noi chiediamo questo (non si spaventino le destre) non lo chiediamo pensando a Carlo Marx, ma pensando invece ad un grandissimo italiano, il primo che ha sentito veramente l’emancipazione sociale: Giuseppe Mazzini (Vivi applausi a sinistra e al centro).
PRESIDENTE. Ha chiesto di parlare per fatto personale l’onorevole Corbino. Ne ha facoltà.
CORBINO. Onorevoli colleghi, mi dovrete scusare se abuso per dieci minuti della vostra pazienza, non per un fatto personale con l’amico Martino, ma per rispondere un po’ a tutti i fatti personali che avrei potuto invocare nel corso di questa discussione.
Quando nel luglio scorso si presentò il Ministero De Gasperi dal quale io dovetti poi allontanarmi, il Presidente del Consiglio ebbe per me una frase molto lusinghiera, di cui io soltanto adesso capisco il significato. Egli disse: «Se Corbino non ci fosse, bisognerebbe inventarlo». In effetti io sono diventato una specie di diversivo, in confronto del bersaglio principale che talvolta è rappresentato dal Primo Ministro, tanto che mi domando se in qualche prossima crisi io non mi debba mettere in una specie di rapporto a percentuale col futuro Presidente del Consiglio per attirare su di me gli strali di coloro che vorrebbero colpirlo direttamente.
Ci sono alcuni punti sui quali desidero dare dei chiarimenti e desidero cogliere questa occasione per ringraziare il collega Scoccimarro delle parole gentili che ha avuto per me in maniera indiretta quando, me assente, egli ha pronunciato il discorso a cui in questo momento si è riferito l’onorevole Martino.
Per quanto riguarda la fusione dei due Ministeri, io dissi in settembre, e l’ho ripetuto in altre occasioni, che facevo qualche riserva sulla opportunità di questa fusione, perché da un punto di vista immediato la fusione non era, come non è, a mio giudizio, tecnicamente necessaria.
Il Ministero del tesoro oggi è strettamente collegato con tutti gli altri Ministeri e, può sembrare assurdo quello che vi dico, ma è così: se c’è un Ministero col quale si dovrebbe fondere è il Ministero dell’interno, perché è in funzione della politica interna del Governo che il Ministro del tesoro può fare una politica di Tesoro.
Ciò non vieta che per ragioni, credo, di carattere parlamentare, in questo momento si sia creduto opportuno di procedere alla rifusione dei Ministeri che erano stati distaccati da Bonomi.
Bisognava piuttosto porre a capo dei due Ministeri due uomini che la pensassero nello stesso modo. Questa era la necessità veramente tecnica che si sarebbe riflessa su quello che – come l’onorevole Martino ha rilevato – è il problema finanziario più scottante di questo momento, il problema cioè dell’imposta sul patrimonio.
Rispetto a questo problema io mi sono già espresso altre volte. In sede di formazione del Ministero De Gasperi del luglio, io proposi al Presidente del Consiglio e ai colleghi che con me esaminavano il programma economico e finanziario del Governo un’imposta sul patrimonio limitata, per il momento, ai grossi patrimoni.
Per me, l’imposta sul patrimonio – dal punto di vista tecnico – è un’imposta che non ha senso, perché le imposte sul patrimonio non si possono pagare che col reddito, e quindi le imposte sul patrimonio, in sostanza, non sono che delle imposte sul reddito ragguagliate al patrimonio di un certo istante. Però, ci può essere una ragione politica che giustifichi un’imposta sul patrimonio e, a mio giudizio, la ragione politica principale che la potrebbe giustificare è quella di portare ad una più equa distribuzione della ricchezza tagliando le cime più alte. Ecco perché io, che sono teoricamente contrario all’imposta sul patrimonio, divento politicamente favorevole all’imposta medesima, quando la si voglia considerare come uno strumento per eliminare coloro che hanno una ricchezza molto al di sopra della media delle ricchezze individuali italiane.
C’era anche una ragione di ordine finanziario che mi induceva a questo: ed è che un’imposta sul patrimonio a base larghissima sarebbe un’imposta che coinvolgerebbe, al minimo, tre milioni di contribuenti; e la nostra Amministrazione finanziaria non è in questo momento attrezzata per far dare ad un’imposta che procurerà tre milioni di denunce un gettito immediato ed uno svolgimento improntato a giustizia tributaria.
Collegato col problema dell’imposta è, strettamente, il problema, non del cambio della moneta, ma della imposizione dei valori mobiliari, di cui il cambio della moneta non è che lo strumento tecnico pregiudiziale.
Nelle discussioni, ormai, il cambio della moneta è diventato come una specie di pedana su cui io e Scoccimarro ci saremmo, ad un certo momento, battuti a pugni: io ho messo knock-out lui e il cambio non s’è fatto. Ma le cose non sono andate per nulla in questo modo.
La differenza tra me e gli altri, in materia di cambio della moneta, è questa: che io sono nettamente contrario al cambio e quindi, anche se le condizioni tecniche per farlo ci fossero state, io non lo avrei fatto. Gli altri, invece, sono favorevoli al cambio, e si ostinano a dichiarare che le condizioni ci sono state. Io mi domando: e perché non lo avete fatto?
Una voce a sinistra. Perché c’era lei!
CORBINO. Una volta che le condizioni tecniche ci sono state, perché non lo avete fatto? Perché non avete posto il problema come lo posi io?
Io dissi: o si fa e me ne vado; o non si fa ed io resto.
Gli altri potevano dire: o si fa e restiamo, o non si fa e ce ne andiamo. Mi pare che la situazione era molto semplice. Né si può dire che si mandasse a monte l’esarchia perché, in sostanza, è dubbio che i miei colleghi del Gabinetto, messi di fronte alle gravissime conseguenze politiche della rottura dell’esarchia, si sarebbero dimostrati talmente solidali, non con me, ma col rifiuto al cambio, da persistere nel non volere entrare in un’altra combinazione. Probabilmente, sarei stato sostituito con un altro liberale, e si sarebbe deciso di fare il cambio; ma non si sarebbe potuto fare. Questo è il problema fondamentale. Perché per fare il cambio non ci sono che due modi: o cambiare i biglietti o stampigliarli. Ora desidero su questo punto dare qualche notizia di fatti finora sconosciuti a chi non si è trovato, come mi sono trovato io, quando facevo parte del Governo Badoglio a Salerno. Una sera eravamo in queste condizioni: nelle casse del Ministero c’erano due milioni e non avevamo nessuna possibilità di aumentarli perché non avevamo le macchine per la stampa dei biglietti; i biglietti di cui potevamo disporre ce li dovevano dare gli alleati, ma un piroscafo con un carico di Am-lire era stato affondato nel Mediterraneo. Avevamo esaurito tutte le riserve di assegni bancari e di qualsiasi altro mezzo di pagamento. Vi dico questo per darvi una prova che già dal marzo 1944 noi avevamo delle difficoltà gravissime per sostituire i biglietti in circolazione o aumentarli.
Poi è venuta la liberazione di Roma, poi ancora la liberazione del resto della Penisola. Non avevamo carta; i clichés non si sapeva dove fossero andati a finire. Il cliché del biglietto da mille lire nuovo tipo della Banca d’Italia era stato distrutto dai tedeschi in maniera che non si potesse ricostruire, e non lo abbiamo potuto più ricostruire. Vi erano soltanto pronti i clichés dei biglietti da cinquemila e diecimila lire ed il vecchio cliché del biglietto da mille lire che veniva chiamato «carta da parato». Questa era la nostra disponibilità in macchine; in quanto a carta speciale per biglietti (perché capirete che i biglietti non si possono stampare su carta da giornale) non avevamo scorta maggiore di quella che occorresse per stampare cinque miliardi al mese. Questa la situazione nella quale si è trovato il Ministro Soleri, il quale, preoccupandosi della necessità di fare il cambio subito, aveva anche pensato di mandare a stampare questi biglietti in America; ed i clichés dei nostri biglietti furono spediti negli Stati Uniti (il paese che aveva la sola attrezzatura capace per la stampa) che ci fecero sapere che la fornitura della massa dei biglietti occorrenti per effettuare l’operazione del cambio non sarebbe stata completata prima del maggio 1946. Questo avveniva nel 1945. Ed allora il Soleri rinunciò ad effettuare subito il cambio con biglietti e pose allo studio una operazione di cambio mediante stampigliatura. Ma tutti gli esperimenti fatti dimostrarono che il sistema del cambio con la stampigliatura avrebbe dato luogo ad inconvenienti grandissimi ed avrebbe consentito a quei ladri che per caso fossero riusciti ad impadronirsi dei timbri per la stampigliatura di lucrare tutto o quasi tutto il vantaggio che avrebbe invece dovuto lucrare il tesoro. Aggiungete poi che, storicamente, di cambi di moneta importanti fatti con la stampigliatura non c’è stato che quello della Cecoslovacchia nel 1919, quando, per fronteggiare la inflazione austriaca delle corone, il Governo cecoslovacco, allora sorto, provvide a stampigliare nel giro di pochi giorni tutte le corone esistenti dentro il territorio ceco. Nelle regioni della Dalmazia e della Venezia Giulia la stampigliatura dei biglietti noi non la facemmo, perché non eravamo attrezzati.
In queste condizioni il cambio non era questione di volere o non volere; si trattava di non poterlo fare. Vi era poi un’altra difficoltà di ordine pratico, ed era questa: per fare il cambio bisognava distribuire i biglietti. Era stato previsto un piano per otto mila sportelli; bisognava far muovere qualche cosa come 20.000 impiegati bancari; bisognava organizzare le scorte dei biglietti e la loro custodia nelle casseforti delle banche locali. Il preventivo di forza pubblica necessario per tutte queste operazioni era stato calcolato in 110.000 uomini, ridotti poi, attraverso le nostre pressioni, ad un minimo di 70.000 uomini. Ora, domando a voi che siete vissuti in Italia l’anno scorso, se, a vostro giudizio, la nostra Direzione generale della pubblica sicurezza e il Ministero dell’interno sarebbero stati in condizioni di distrarre 70 mila uomini dalle loro disponibilità per mobilitarli, per 15 o 20 giorni, a custodire i biglietti di banca.
FARALLI. Vi avrebbero pensato direttamente i grandi comuni: nella riunione dei sindaci fu precisato questo.
CORBINO. Comunque, il Ministro dell’interno ha sorveglianza diretta ed egli avrebbe potuto dirmi: voi, signor Ministro del tesoro, di questo problema non vi occupate, perché la responsabilità l’assumo io. Ed io, se egli mi avesse parlato in tali termini, gli avrei risposto: assumila e poi vedremo quello che succederà. Ma il Ministro degli interni respinse una simile responsabilità.
TOGLIATTI. Non è esatto: egli fece semplicemente presenti degli inconvenienti, ma non respinse la responsabilità.
CORBINÒ. No, la respinse, perché c’erano le elezioni. Io, d’altra parte, ignoravo, in quell’epoca, questo fatto: che cioè, fino da tre mesi prima che io andassi al Tesoro, i clichés dei biglietti da 500 e da 1000 lire erano stati rubati. Questo è già un fatto che è venuto a notizia dell’Assemblea, e ciò per un puro caso: per un arresto dovuto ad altre ragioni effettuato nel mese di giugno 1946. Io ho assunto storicamente un’altra volta, e assumo oggi politicamente, tutta la responsabilità di non aver voluto il cambio. Se è una colpa, questa colpa me la assumo per intero; se è un merito, lo voglio dividere con tutti i colleghi del Gabinetto.
Una voce a sinistra. È una colpa.
CORBINO. Benissimo, allora me la assumo per intero e vado più in là: se avessi dieci occasioni di tornare al Governo, rifiuterei il cambio della moneta fino all’undecima volta.
Una voce a sinistra. Non ci tornerà.
CORBINO. Mi pare, del resto, di aver dato prova di non nutrire alcun attaccamento per quel posto, specie poi quando, ad un determinato momento, mi toccò veder profilarsi delle incompatibilità politiche che furono spinte sino alla minaccia di mandarmi sulla forca. (Si ride). Dopo ciò, francamente, non avevo più ragione di restarci. Ma anche senza arrivare a questo, sarebbe bastato un dissenso con i miei colleghi di Gabinetto appartenenti ad altri partiti politici, per farmi dire: me ne vado: il che io ho fatto il 2 settembre, e rispetto a quell’avvenimento mi sono già giustificato all’Assemblea nel mio discorso del 20 settembre.
Lascio a voi di considerare in quale situazione ci saremmo trovati oggi se, per caso, nel febbraio o nel marzo del 1946, fossero stati emessi biglietti da 500 e da 1000 lire di cui i clichés erano stati portati via. È una situazione che io non ho l’obbligo di considerare, perché, a torto o a ragione, per colpa o per merito, nel giugno 1946 i nuovi biglietti da 500 e da 1000 lire erano ancora dentro le cassette di sicurezza della Banca d’Italia; e credo che ci siano ancora.
In quanto all’avvenire, il Governo assumerà le sue responsabilità su tante cose, e le potrà assumere anche su questa.
Mio caro Martino, puoi essere sicuro di un fatto: che il giorno in cui il Governo si deciderà per il cambio della moneta, siccome in un paese come l’Italia non si può tenere un segreto di questo genere, che comporta la segretezza assoluta di più di 40 mila persone, puoi essere sicuro che da quel giorno la lira correrà pericoli così gravi rispetto ai quali quelli che corre oggi sono cosa veramente trascurabile. Oggi ancora, con una politica un po’ accorta, la lira si può salvare. Gli elementi tecnici per salvarla ci sono. Il guaio è che questi elementi tecnici purtroppo li indichiamo noi dell’opposizione, e potrà darsi che per la ragione di non fare quello che dice l’opposizione il Governo, scegliendo diametralmente l’opposto, seguirà una politica finanziaria di cui porterà veramente la responsabilità di fronte alle nostre generazioni future. Che se poi il Governo si attrezzerà in modo tale che questo benedetto cambio si possa fare una volta per sempre senza quel terremoto del quale Corbino dovrebbe essere una specie di sismografo ammonitore, vuol dire che fra tanta gente che si sbaglia nel mondo mi sarò sbagliato anche io. Vuol dire che il Governo farà il cambio della moneta e gli elettori dell’Italia faranno il cambio di un deputato, con che non si perderà proprio niente. (Applausi a destra – Commenti).
PRESIDENTE. È iscritto a parlare l’onorevole Mancini. Ne ha facoltà.
MANCINI. Onorevoli colleghi, il mio compito è assai limitato, perché dirò poche ma sentite parole su alcuni gravi ed urgenti problemi, che interessano il Mezzogiorno d’Italia, al quale il Presidente del Consiglio, nel suo discorso programmatico, ha dedicato brevi e fugaci parole.
Dichiaro francamente, pur con un senso profondo di amarezza, che preferisco questo silenzio alle promesse vistose, che rappresentano i motivi politici ornamentali di questi discorsi presidenziali, che oggi, come ieri, nell’epoca prefascista, hanno soltanto un merito: quello di aprire le cateratte dell’oratoria dell’Assemblea e quello di obliare ciò che si promette. Difatti, se qualcuno ha vaghezza o curiosità di ricordare o di rileggere ciò che il Presidente del Consiglio, onorevole De Gasperi, disse nel discorso di luglio, a proposito del Mezzogiorno d’Italia, confrontandolo con il nullismo, che ne fu il seguito, avrà la prova documentale della verità di quanto ho affermato.
Nessuno mi farà il torto di sospettare o di pensare che io voglia oggi affliggere l’Assemblea con una dissertazione sul Mezzogiorno. Anche se osassi, per un momento, sfidare la pazienza di chi mi onora di ascoltare, non lo farei per un doppio ordine di ragioni. In primo luogo perché bisogna finirla una buona volta con tutta la letteratura, gli studi, i convegni, le chiacchiere su questo trascurato Mezzogiorno. La polemica intorno ad esso per me si è chiusa con lo studio luminoso di Antonio Gramsci. Riaprirla significa rimasticare, o mal dire, ciò che fu ben detto. Bisogna finirla con il frastuono della letteratura, della sociologia, della filosofia, che si abbatte sulle nostre contrade. Alla gara delle parole deve succedere, una buona volta, la gara dei fatti. E, purtroppo, i fatti ancora non vengono.
La seconda ragione è la seguente: io non credo ad una questione meridionale; credo soltanto ad un problema nazionale, il quale presenta un doppio aspetto. Un aspetto generale, unitario, integrale, che ha per base e per fondamento tre elementi: la riforma giuridica del diritto di proprietà, la riforma tecnica del processo di produzione e la rivendica di tutti quei beni rustici, usi civici, monti frumentari, che rappresentarono la preziosa proprietà collettiva dei nostri Comuni e che al popolo furono usurpati dalla influenza tortuosa delle famiglie più doviziose del luogo.
E vi sono altri problemi, urgenti, indifferibili, i quali avrebbero dovuto suggerire al Governo un programma di emergenza assoluta. Onde è che nell’ultimo congresso del Partito Socialista Italiano, nell’Aula Magna dell’Università di Roma, fu presentato e approvato all’unanimità un ordine del giorno che invitava il Governo nazionale a istituire un Ministero del Mezzogiorno, alla stessa guisa di quello delle terre liberate, perché soltanto questo Ministero avrebbe potuto coordinare i diversi problemi regionali, organizzandoli in una linea unitaria nel quadro e nell’interesse della vita economica e morale della nazione.
Intanto il primo problema che denuncio all’Assemblea e sul quale richiamo l’attenzione del Governo, è quello della sanità fisica del lavoro. Il lavoratore meridionale, in qualsiasi latitudine, ha raggiunto il primato della parsimonia, dell’intelligenza, della forza di resistenza. Ora, queste invidiabili virtù stanno per essere compromesse dalla situazione alimentare, che angaria le classi lavoratrici del Mezzogiorno d’Italia. Infatti il tenore di vita giorno per giorno diviene più scarso. I beni meno infimi dell’esistenza sfuggono alla presa della classe lavoratrice. E non solo di essa; ma di altre categorie di cittadini come ceti professionisti e piccoli ceti borghesi, i quali sono sulla via della proletarizzazione; perché scendono inesorabilmente giorno per giorno la scala sociale fino a diventare miserabili; mentre la povertà, sovente occultata, comprime con l’indifferenza crudele dei prezzi elevati e del mercato nero la loro esterna dignità di cittadini e la loro intima dignità di uomini. Frotte di fanciulli, sottratti alle famiglie e alla scuola, sono immesse dolorosamente e necessariamente nelle criminose vie del piccolo commercio nero, esposte agli agguati, alle insidie, alla corruzione della strada. Donne avvizzite, non dagli anni ma dai disagi quotidiani, vanno alla ricerca di un tozzo di pane. Cameroni antigienici, caserme male attrezzate contro il freddo e la pioggia agglomerano, in una promiscuità pericolosa, un numero non indifferente di famiglie e di sinistrati senza desco e senza indumenti. La disoccupazione, nelle forme più assillanti, bussa al tugurio dell’operaio come alla porta dell’insegnante elementare, del diplomato, del ragioniere, del geometra, che salgono e scendono le scale altrui pitoccando un posto, accettando sovente umili occupazioni per guadagnare un onesto pane per sé e per la famiglia dolente.
Su tale quadro desolato si distende sinistra l’ombra insidiosa della tubercolosi e della malaria.
Il dramma sociale della guerra ha sviluppato queste malattie sociali. La lotta contro la tubercolosi rappresenta il problema più grave della sanità pubblica in quest’ora tormentosa della nostra ricostruzione.
La tubercolosi, come è noto, è una malattia a carattere sociale per la sua frequenza, per la sua diffusione, per la sua durata, per la gravità delle sue forme ed in specie per il pericolo che presenta la pubblica profilassi, in quanto non solo fa risentire dannosamente i suoi effetti sugli organismi giovani, che si trovano, quindi, nella fase della vita produttiva ed utile per la società; ma inficia anche l’integrità degli organismi allo sbocciar della vita stessa. Infatti ne risultano particolarmente colpiti i bambini, gli adolescenti, le giovani madri.
I servizi di lotta antitubercolare hanno risentito gravemente degli eventi della guerra, che ne hanno compromesso il funzionamento e la efficienza.
I consorzi provinciali antitubercolari e i relativi dispensari funzionano poco o non funzionano affatto, e non per colpa dei dirigenti, i quali centuplicano la loro operosità, ma soltanto per la mancanza di mezzi, per la scarsezza di arredamento igienico, per l’insufficienza dei nuovi locali sostituiti ai vecchi danneggiati o distrutti dai bombardamenti.
Io non voglio consentirmi la invida licenza di un raffronto, perché per me non esiste né il nord, né il sud; ma esiste soltanto l’Italia.
Ma quando io penso che ad Arco, in provincia di Trento, esistono 15 sanatori, mentre da Napoli, a Palermo ve ne sono appena 5 o 6 male attrezzati; che nella città di Cosenza fu costruito un preventorio, che fu adibito prima a caserma, poi ad ospedale della Croce di Malta, mentre oggi è chiuso ermeticamente, ho il diritto di denunciare all’Assemblea la ingrata parzialità regionale anche in fatto di tutela igienica.
Dichiaro subito che mi mancherebbe la possibilità di siffatti odiosi confronti; poiché i nostri naturali sanatori e preventori sarebbero le nostre ridenti spiagge ioniche e tirrene e le nostre ossigenate montagne, se il Governo si fosse ricordato di favorire e sviluppare le colonie marine e montane, che potrebbero sottrarre all’insidia del male falangi di fanciulli e di giovinetti indifesi.
Ora, quando il Presidente del Consiglio, con accorate parole a proposito della firma di questa pace ingiusta, elevava un inno al lavoro italiano e all’avvenire del nostro Paese, egli dimenticava che il lavoro ha per base e per fondamento la salute, e che l’avvenire del Paese è riposto nelle mani di questo garrulo esercito di fanciulli, che saranno domani il presidio e la forza della Patria.
Ma all’endemia tubercolare si aggiunge l’endemia malarica. L’endemia malarica, che fin dal 1941 aveva manifestato una netta e continua tendenza a sempre più circoscriversi ed attenuarsi, sì da giustificare le migliori speranze per il futuro, ha accusato ora paurose recrudescenze, che nel biennio ora trascorso hanno segnato delle punte mai raggiunte.
Parecchi sono i fattori che hanno determinato queste recrudescenze, per cui intere città, specialmente della Campania, della Calabria, delle Puglie e della Sicilia, sono colpite dal morbo, diventato endemico. Il quale sceglie le sue vittime dovunque: nella casa del ricco e nella stanza spoliata del povero.
Ebbene, io spero che quest’anno non si segua l’esempio dell’anno scorso, quando nessuna difesa igienica e profilattica si è adottata per il Mezzogiorno.
Il D.D.T., che tanti benefici effetti ha ottenuto altrove, e che oggi si presenta come l’unico mezzo per distruggere l’anofelismo diffuso ed imperante, è stato trascurato nelle nostre contrade. Il dottor Nicola Perrotti, meridionale, saprà certamente riguadagnarci il tempo perduto. Comunque, io vorrei invocare una parola rassicuratrice da parte del Presidente del Consiglio, tanto più che la sua vibrata e commossa apostrofe nei destini del Paese supera ogni ombra di retorica per piegarsi su questo esercito di sofferenti, che sarà domani l’esercito delle pacifiche fortune di Italia. (Applausi).
Un altro problema di straordinaria importanza, un problema che rappresenta una vergogna e un’onta per l’Italia tutta, è quello dell’analfabetismo.
Si è parlato della scuola dell’avvenire, e, nella interrogazione svolta or ora, dei legittimi diritti dei nostri insegnanti, ma si è dimenticato che nel Mezzogiorno dilaga l’analfabetismo, mentre esiste un numero non indifferente di insegnanti disoccupati. Contro un’aliquota del 2 per cento in Piemonte, del 4 per cento in Lombardia, si ha un’aliquota che arriva al 35 per cento nella Campania, al 40 per cento nelle Puglie, ed al 48 per cento nella Calabria, nella Sicilia, e nella Sardegna. E non ci sono soltanto gli analfabeti. C’è anche la categoria degli analfabelizzati, cioè quei fanciulli che compaiono per la prima volta nella prima classe elementare e scompaiono subito nella seconda e nella terza, e quindi, abbandonati a se stessi, si analfabetizzano.
Ebbene, io so, e ne fo personale attestazione, che il Ministro della pubblica istruzione aveva chiesto al tesoro i fondi per l’istituzione di 3000 scuole. Il Ministro del tesoro non rispose. La richiesta fu, quindi, ridotta a 2000 e alla fine furono concessi i fondi per 600 scuole.
Non commento.
Presidenza del Vicepresidente CONTI
Come si combatte l’analfabetismo? Come si inizia questa lotta implacabile, a cui dovrebbero partecipare tutti gli italiani con fervido cuore e con lena inesausta?
Il Ministro della pubblica istruzione avrebbe potuto in parte supplire alle deficienze del tesoro. Avrebbe dovuto cercare di incrementare le scuole serali, le scuole festive; avrebbe dovuto sviluppare, proteggere, controllare quelle piccole scuole sussidiarie, dove l’abnegazione dell’insegnante, il quale si sperde in una plaga o in una forra di monti chiamando a raccolta 10-15 fanciulli per aprire loro la mente alla luce dell’alfabeto, diventa eroismo civile e morale altamente apprezzabile. Connesso a questo problema vi è l’altro dell’edilizia scolastica. Non temo smentita, affermando dinanzi alla sovranità di questa Assemblea che non c’è città, o villaggio del nostro Mezzogiorno che possieda un edificio scolastico moderno, dal punto di vista igienico e pedagogico.
La vecchia legge dei tempi prefascisti non ha risposto al suo scopo, perché i Comuni si trovarono tutti nella impossibilità di contribuire per metà alle spese di costruzione e nella difficoltà di risolvere quello intrigo procedurale per ottenere finalmente la concessione del prestito. Cosa si è fatto? Cosa si farà intanto?
Il Ministro della pubblica istruzione avrà letto certamente le relazioni degli ispettori scolastici. Basta leggerne qualcuna: grondano lacrime. Se queste lacrime avrà raccolto, nel suo cuore cristiano, non potrà che ratificare e confermare le mie censure e la mia protesta. Occorre sollecitare l’edilizia scolastica, perché, cari amici di questa parte dell’Assemblea, non si scaccia dal solco la miseria, se non si scacciano dall’animo il pregiudizio e l’ignoranza.
Un secolo e mezzo fa il Belgio celebrava, con una festa nazionale, la fine dell’analfabetismo.
Il primo alto del Governo rivoluzionario russo fu quello di iscrivere all’ordine del giorno la lotta contro l’analfabetismo; e questa lotta vittoriosa spiega, in parte, l’eroismo in pace e in guerra di quel popolo; spiega le sue manifestazioni di responsabilità civica, la sua disciplina morale, i prodotti intellettivi e scientifici, che in ogni branca dello scibile umano, fin nell’arte della guerra, hanno sbalordito il mondo.
È una lotta fiduciosa che l’Italia dovrà ingaggiare, perché ha tutte le possibilità di poterla vincere; perché possiede un esercito di insegnanti valorosi, pronto a combattere, in nome dell’alfabeto, la malerba del pregiudizio, pronto a squarciare la tenebria dell’intelletto.
Ma vi è ancora un terzo problema, di una complessità eccezionale: il problema che riguarda le strade, le ferrovie, gli approdi, gli acquedotti, le fognature, la luce.
Beffa degli uomini e delle cose!
A due chilometri e mezzo passa l’elettrodotto, ad alto potenziale, che porta l’energia elettrica dalla Sila, oltre regione, e vi sono tre paeselli, Panettieri, Garlopoli, e una frazione di Serrastretta, che invano richiedono un filo di luce per poter vincere le lunghe notti invernali.
Le strade. Il marchese Tanucci, Ministro toscano del Borbone, promise che non ci sarebbe stato nessun paese del Regno delle Due Sicilie privo di strada rotabile. Sono passati centocinquant’anni e più da quel giorno, e abbiamo cinquecento fra paesi e frazioni, da Napoli a Palermo, che ancora sono privi di una modesta rotabile.
Io vorrei pregare chi mi onora di ascoltare, di rivolgere per un momento lo sguardo ad una carta geografica ferroviaria, dove è segnato con linee nere e con linee rosse il tracciato delle nostre strade ferrate. Volga lo sguardo prima in alto e poi in basso, prima al nord e poi al sud: da Napoli in giù vi sono due linee nere, che discendono per il Tirreno ed il Jonio verso Reggio Calabria.
A metà della litoranea tirrena si nota una piccola ferrovia, un breve tronco, a cui è attaccata la città di Cosenza, come ad un pendolo; e che viene chiamato la «ferrovia della morte», perché innumeri furono i disastri per le ascese e le discese ripidissime. Indi si intravvede una ferrovietta a scartamento ridotto, che si inerpica su per il massiccio silano e si arresta stancamente a Camigliatello. Questa ferrovia fu progettata trent’anni fa allo scopo di congiungere il porto di Crotone – che è destinato ad un grande avvenire, se lo Stato si deciderà di attrezzarlo, convenientemente – al porto di Paola, che ha inghiottito miliardi senza che nemmeno un sol metro di diga sia affiorato dalle acque tranquille. Oggi quelle popolazioni silane invocano la continuazione di questo misero tronco ferroviario Mi si dice che fra breve ne andrà in appalto la costruzione, che poi si arresterà a San Giovanni in Fiore.
Dovranno, perciò, trascorrere altri sei lustri, perché la costruzione ripigli il cammino verso Crotone. È la sorte beffarda di questa nostra terra! Ma vi è di più. Vi sono paesi senz’acqua e senza fognature, mentre l’acqua più limpida e più fresca ci scorre sotto il naso. C’è il massiccio Silano, che possiede una ricchezza idrica inestimabile. Il Presidente Nitti, in un suo libro, parlando del massiccio silano, lo definì un «Niagara». Ebbene, vi sono colà tredici fiumi, che scorrono placidamente e stanno in ozio come gran signori. Un giorno, per una calamità – perché le calamità scoprono il Mezzogiorno d’Italia – scese verso giù, verso la Calabria, nella Sila, un grande ingegnere italiano, Angelo Omodeo. Egli vide questi corsi d’acqua tranquilli, ed oziosi; osservò, col suo occhio linceo, che il sottosuolo silano era impermeabile ed ideò i due laghi silani, che danno oggi una massa di energia elettrica imponente.
Io, quando ressi per alcuni mesi il Dicastero dei lavori pubblici, avevo demandato ad un mio compaesano, professore d’idraulica all’Università di Roma, lo studio dello sfruttamento integrale delle acque della Sila. Approvvigionamento di acqua potabile per comuni e per zone rurali; irrigazione di zone agricole; produzione di forza motrice.
Basterebbe la costruzione di altre due centrali e quella del terzo lago, perché l’Italia riscattasse dall’estero, una buona volta, la sua servitù carbonifera. È una miniera inesauribile di carbone bianco, che si offre al Paese, è una immensa risorsa industriale che oltre a dare nuovi impulsi alle officine del nord, faciliterebbe il processo di industrializzazione del sud. Programma massimo, mi si dirà. Ebbene, limitiamoci al minimo.
Onorevoli colleghi, il programma minimo è il seguente: le acque reflue della centrale silana formano un ricco fiume. Queste acque si perdono nell’Ionio. Una ricchezza inghiottita dal mare. Se queste acque fossero raccolte in due serbatoi e venissero incanalate verso il cosidetto Marchesato di Crotone, muterebbero quella plaga feconda e sitibonda in uno dei verzieri più belli d’Italia. È necessario che il Governo rivolga lo sguardo verso le nostre sponde solatie, perché vi troverà risorse economiche di incalcolabile valore.
E troverà ancora risorse ed energie morali. Non abbiamo, laggiù, i comignoli che fumano, né le industrie che arricchiscono. Non abbiamo gli agi e gli splendori di una civiltà opulenta; la nostra vita è chiusa in un pugno: casa e lavoro, due concetti religiosi. Ma il lavoro non è mortificato da deficienze morali e la casa è il focolare inviolabile di severe norme morali. Le quali, tradotte in esperienza di vita, daranno nuove illuminazioni alla nostra terra e nuova forza economica e morale al Paese.
Onorevoli colleghi, vogliate indulgere alla mia passionalità e alle mie accese parole. Io non vi ho formulato oggi una protesta, né ho portato a voi il consueto grido di dolore. Io sento l’orgoglio della terra natia e sento che non debbo scoprire le sue piaghe per stimolare a pietà coloro che hanno il dovere di intervenire. Le mie parole sono soltanto un avvertimento. Ogni tanto si è colpiti da esplosioni di violenza, in Sicilia, Puglie, Calabria. Non addebitatele a nessun partito, perché vi sbagliereste di grosso. Esse rappresentano lo scoppio di una esasperazione incontenibile ed hanno una voce ed un significato: la protesta del Mezzogiorno contro la iniqua ingiustizia storica, che subisce dal giorno dell’unità italica. Questa esasperazione una volta era rappresentata dalle forti correnti emigratorie. Ora tali correnti sono interrotte, ed i nostri lavoratori restano dove nacquero; ma restando dove nacquero formano un esercito, che vorrebbe mettersi in marcia a fianco dei compagni del nord per concorrere, con virile animo, alla ricostruzione della Patria immortale.
Non lasciate a questo esercito segnare il passo. Non lasciate queste braccia inerti. L’inerzia, e l’abbandono sono due terribili consiglieri.
Il nostro Mezzogiorno ha pagato sempre lo scotto delle diverse situazioni politiche italiane. Ha pagato lo scotto in ricchezza ed in sangue.
Si pagava una volta l’aliquota di lire 3,70 per abitante per il debito pubblico e in un momento, quando fu dato un regno al sopraggiunto re, l’aliquota da 3,70 salì a 100 lire per abitante. Oggi raggiunge una cifra astronomica.
Avevamo una ricchezza immensa di spezzati di oro e d’argento: i segni monetari cartacei ci erano ignoti. Ad un certo punto la vendita dei beni dell’asse ecclesiastico rastrellò, in quei tempi, 775 milioni in oro e in argento, e concorse alla formazione di quel latifondo, che è stato ed è la rovina del Mezzogiorno d’Italia.
Avevamo ed abbiamo una situazione fiscale assai strana ed esosa. Non lo dico io, lo dice Maffeo Pantaleoni, il quale non pub essere sospettato di simpatia per i partiti marxisti.
Paghiamo il doppio di ricchezza mobile; pur non avendo redditi industriali. Abbiamo un’imposta fondiaria a carattere fisso, mentre il reddito è a carattere mobile. L’imposta fondiaria rappresenta una sperequazione, come tutte le altre imposte, che incidono sulla terra, dalla quale dovremo ripetere il nostro riscatto.
Avevamo, onorevole Nitti, quei tali rivoli d’oro, di cui nella sua inchiesta sui contadini del Mezzogiorno, e quei rivoli d’oro confluirono ad arricchire il tesoro dello Stato, che il fascismo ha disperso.
Avevamo nelle casse della Banca Italiana di Sconto, di infausta memoria, milioni e milioni di risparmio e la Banca truffatrice li ha polverizzati con la sua bancarotta.
Venne il fascismo, prodotto del nord, rubò a tutti la libertà, ci impose la tirannia. Il discorso di Pesaro, deflazionistico, ha portato danno esclusivamente al Mezzogiorno di Italia, provocando il fallimento di tutti i piccoli Istituti di credito e delle Casse rurali che costituivano una provvida rete economica nelle mani dei contadini.
Indi fu proclamata l’autarchia e le rimesse dei contadini dalle Americhe fronteggiarono i cambi. Oggi la nuova situazione politica, che costituì la nostra cocente speranza per venti anni, ha creato nuovi sacrifizi.
Io vorrei dire al Presidente del Consigliò: tu hai portato la lieta impressione che alla borsa politica di Washington i valori politici internazionali del nostro Paese comincino a quotarsi, ed hai portato con te cinquanta milioni di dollari che, a copertura di una parte delle am-lire, ti ha consegnato il Ministro del tesoro americano.
Ebbene io voglio dirti che su questi milioni di dollari il Mezzogiorno vanta un diritto di prelazione: perché si tratta di una parziale contropartita di beni concreti, che i soldati americani, spendendo am-lire, hanno prelevati dalle risorse economiche del Mezzogiorno.
Dalla Sila hanno asportato migliaia e migliaia di tonnellate di legname: oro zecchino in cambio di carta straccia.
Infine questa situazione ha portato sacrifici di sangue, perché nelle cinque guerre, che hanno insanguinato l’Italia nel trentennio, il contadino del Mezzogiorno non si è mai imboscato. Ha pagato silenziosamente di persona.
Vittorio Emanuele Orlando promise la terra ai contadini; e pur oggi, come ieri, abbiamo assistito al contrasto di un illustre professore, il quale ha posto la sua sapienza e la sua eloquenza in movimento per contrastare quel lodo del Presidente del Consiglio che ancora non si è trasformato in legge.
CONDORELLI. Non ne ho neanche parlato! (Commenti).
MANCINI. E c’è stato, qualche minuto fa, un repubblicano storico, nostro carissimo amico, il quale ha spuntato, pur lui, una lancia contro l’occupazione di qualche iugero di terreno da parte di questi nostri pazienti zappatori, che non hanno mai presentato alla Patria il conto del loro avere, mentre davano generosamente sangue, ricchezza o risparmi.
Arrivati a questo punto, voi potreste dirmi: D’accordo: avete scoperto un mondo, che si ignorava… ma come possiamo venire in aiuto, se la situazione del bilancio è quella che è? Centoventisei miliardi di denaro liquido, ha fruttato il prestito nazionale.
L’onorevole Corbino, or ora, ci ha fatto tremar le vene e i polsi con il suo fatto personale… (veramente il fatto personale era mio che ho per sua colpa aspettato quasi un’ora prima di iniziare il mio discorso) (Si ride). Ma io affermo – a dispetto di Corbino – che è facile risolvere anche il problema finanziario con un poco di buona volontà. Bisogna creare nel Mezzogiorno un ente finanziario, cercare di consorziare il Banco di Napoli, il Banco di Sicilia, la Cassa di Risparmio di Calabria ed altri istituti, perché il risparmio del Mezzogiorno deve servire a riscattare il Mezzogiorno.
Io comprendo, ma non discrimino, l’atteggiamento della monarchia, la quale aveva interesse che il Mezzogiorno d’Italia rimanesse in uno stato di inferiorità, perché rappresentava una miniera inesauribile di maggioranze governative – gli ascari, come si chiamavano allora – ma oggi no: l’Italia democratica e repubblicana ha un impegno d’onore verso il Mezzogiorno, perché il Mezzogiorno è l’Italia e l’Italia è nel Mezzogiorno; perché democrazia significa abolizione di ogni privilegio individuale di classe o di Regione e Repubblica significa eguaglianza di diritti, liberazione dal bisogno, rispetto alla parola data. (Vivi applausi – Congratulazioni).
PRESIDENTE. L’onorevole Perassi ha presentato un ordine del giorno. Se ne dia lettura.
SCHIRATTI, Segretario, legge:
«L’Assemblea Costituente, preso atto delle comunicazioni del Governo sulle condizioni nelle quali è stato firmato il Trattato di pace, afferma che il deposito della ratifica italiana, per la quale è costituzionalmente richiesta l’autorizzazione dell’Assemblea Costituente, costituisce – in conformità con le regole del diritto internazionale – un requisito essenziale per la perfezione e l’entrata in vigore del Trattato».
Perassi, Facchinetti, Conti, Parri, Pacciardi, Bellusci, Martino Enrico, Azzi, La Malfa, Natoli, Della Seta, Sardiello, Camangi, De Mercurio, Santi, Mazzei, De Vita, Bernabei, Dominedò.
PRESIDENTE. L’onorevole Perassi ha facoltà di svolgere questo ordine del giorno.
PERASSI. Il mio intervento in quest’ampia discussione avrebbe avuto esclusivamente il compito di svolgere, in maniera brevissima, l’ordine del giorno di cui è stata data lettura. È un ordine del giorno che, nella nostra ferma intenzione, non è destinato a quella che è la sorte di molti ordini del giorno che si presentano in queste occasioni, quella cioè di essere convertiti, all’ultima ora, in raccomandazione, su desiderio o su invito del Governo. Il nostro ordine del giorno, nella nostra intenzione, dovrà essere sottoposto al voto dell’Assemblea e noi ci auguriamo che l’Assemblea sarà unanime nel fare l’affermazione che in esso è formulata. Ciò premesso, in considerazione del fatto che per ragioni d’ufficio è assente il Ministro degli esteri, e poiché si tratta di una questione particolarmente delicata, che si ricollega ad alcune dichiarazioni fatte dal Presidente del Consiglio e dal Ministro degli esteri, ritengo opportuno di rinunziare, in questo momento, allo svolgimento dell’ordine del giorno, riservandomi di fare una breve dichiarazione quando insisteremo perché esso sia sottoposto al voto dell’Assemblea.
PRESIDENTE. È iscritto a parlare l’onorevole Scoca. Ne ha facoltà.
SCOCA. Onorevoli colleghi; mi occuperò, il più brevemente che mi sarà possibile, della politica finanziaria del Governo.
E stata notata da parecchi oratori la brevità delle dichiarazioni del Presidente del Consiglio su questo tema: ed effettivamente esse sono state sobrie e concise.
Ma in un tema così importante, non è la lunghezza delle dichiarazioni che possa contare, ma piuttosto il loro contenuto. Ora, le linee direttive generali della politica del Governo sono state accennate e l’entrare in maggiori particolari non sarebbe stato forse opportuno, dato il mutamento che si è avuto nella direzione dei due Dicasteri finanziari.
L’unificazione di questi è stato uno degli aspetti esteriori più importanti della recente crisi. Era necessario o non era necessario, era opportuno o non era opportuno, unificare i due Ministeri? È la domanda che alcuni si son fatta ed alla quale hanno risposto con molta perplessità. Indubbiamente necessaria era la unità di indirizzo della politica finanziaria, non essendo concepibile come si possa seguire una direttiva stando al Ministero delle finanze e seguire una strada divergente, o non assolutamente convergente, stando al Ministero del tesoro.
È vero che abbiamo sentito dichiarare dall’onorevole Scoccimarro che mai alcuna divergenza vi era stata fra lui e l’onorevole Corbino; ma dalla narrazione delle vicende del non eseguito cambio della moneta fatta da entrambi è risultato che almeno a questo proposito, che è di fondamentale importanza, in quanto si collega con l’imposta sul patrimonio e con tutta la direttiva della finanza straordinaria, un insanabile contrasto, più o meno apparente, c’è stato.
Era necessaria l’unità di indirizzo. Il problema si poteva risolvere, in astratto, anche senza ricorrere alla unificazione dei Ministeri: o, accogliendo la tesi che mi pare sia stata espressa altra volta dall’onorevole Nitti, considerando cioè il Ministro delle finanze quasi un subordinato di quello del tesoro, oppure mettendo alla direzione dei due Dicasteri due persone che la pensassero allo stesso modo. Ma era difficile trovare un Ministro delle finanze disposto a rimanere in posizione subordinata al Ministro del tesoro; ed era anche difficile, data la composizione tripartitica del Governo e le difficoltà di distribuzione dei portafogli, trovare due uomini di diverso partito aventi le stesse idee e disposti a seguire un’unica direttiva.
Per raggiungere l’unità di indirizzo non vi era dunque altra via che quella di affidare i due Ministeri ad una medesima persona.
Considerando il momento eccezionale della nostra vita pubblica attuale e la gravosità dei problemi da risolvere, non ci si può dissimulare l’onerosità del compito di colui che è diventato titolare dei due Ministeri unificati, e coloro che hanno senso di responsabilità debbono essere al suo fianco per sorreggerlo ed impedire che degli irresponsabili ne minino l’azione.
Mi sembra che per il momento l’unificazione debba considerarsi come una specie di unione personale e che si debba mantenere immutata la struttura amministrativa dei due Ministeri, rimandando a miglior tempo la soluzione definitiva del problema della loro fusione o della loro esistenza autonoma. La separazione, avvenuta appena qualche anno fa, dei servizi e dei ruoli del personale, richiese un notevole lavoro ed il superamento di molte difficoltà; oggi si incontrerebbero difficoltà ben maggiori se si volesse procedere alla rifusione.
Qual è, onorevoli colleghi, la nostra effettiva situazione finanziaria, quali le nostre prospettive e le nostre speranze?
Abbiamo qui sentito due voci autorevolissime, ma discordanti. L’onorevole Corbino, di cui si diceva che fosse molto ottimista quando era al Governo, ha parlato in tono pessimistico. Sostanzialmente egli ha detto, nel suo discorso di qualche giorno fa, che scarse sono le possibilità di aumentare le entrate, che non si può avere nessuna speranza di diminuzione delle spese, e che la situazione di tesoreria è assai grave perché occorrerebbero da 35 a 40 miliardi al mese in più di quelli riscossi mensilmente e in tutto 500 miliardi fino al dicembre 1947.
Egli si è domandato donde tanti miliardi potranno essere ricavati, senza dare una risposta a questo interrogativo.
Abbiamo poi sentito l’onorevole Scoccimarro, il quale in un accurato ed abile di scorso ha detto che il 1947 sarà l’anno del risanamento finanziario. Il quadro che egli ci ha fatto può essere riassunto in questi termini: nel prossimo esercizio avremo 400 miliardi di entrate ordinarie; un centinaio di miliardi ricavabili dall’imposta straordinaria sul patrimonio, sul totale di 400 miliardi di resa prevista per la stessa; un altro centinaio dal primo gettito del divisato riscatto dell’imposta ordinaria sul patrimonio e dai profitti di guerra, di regime e di speculazione. Il resto si dovrebbe procurare con provvedimenti di tesoreria vari, quali obbligazioni speciali per determinati settori, e buoni di imposta collegati con l’imposizione sulla rivalutazione degli impianti industriali.
Il quadro da lui fatto è sembrato di colorazione ottimistica.
Ma, al di fuori, onorevoli colleghi, di ogni pessimismo e di ogni ottimismo, bisogna riconoscere che la situazione, valutata nei suoi termini effettivi, non è una situazione allegra.
L’esercizio 1945-46 recò un disavanzo di 350 miliardi; l’esercizio 1946-47 avrà forse un disavanzo, secondo le previsioni più attendibili, di 500 miliardi. Sono, in complesso, 850 miliardi di deficit in due soli esercizi.
Non è la cifra delle spese che a me pare eccessiva. Nel 1938-39, che possiamo considerare l’ultimo esercizio normale prima della guerra, avemmo circa 40 miliardi di spese. Tenendo conto di un indice di aumento dei prezzi di 25 volte, quella somma corrisponde oggi a mille miliardi. E quello di venticinque è un indice prudenziale, perché l’Istituto Centrale di Statistica lo calcola in una misura maggiore. Quindi, lo Stato oggi spende molto meno di quanto spendeva prima della guerra. I 750-800 miliardi di oggi sono, tenuto conto della svalutazione monetaria, una somma di gran lunga inferiore ai 40 miliardi di allora.
Più eloquente diventa il raffronto fra le spese normali di oggi e quelle dell’anteguerra, perché oggi è rovesciato il rapporto fra spese normali e spese eccezionali. Ragguagliandole al potere di acquisto della lira nel 1938-39, le spese normali previste per l’esercizio 1947-48 equivalgono, secondo i calcoli della Ragioneria Generale dello Stato, ad appena 13 miliardi, contro i 33 del 1938-39.
Che cosa indica il divario? Indica, da una parte la minorazione effettiva di molti servizi pubblici; dall’altra il sacrificio di talune classi viventi di assegni fissi a carico dello Stato, ed in primo luogo dei pensionati, ai quali ebbe già ad accennare l’onorevole Scoccimarro.
Sono perfettamente d’accordo con lui che urge rivedere la loro posizione. Vorrei aggiungere di più. Vorrei dire che quello della revisione della posizione dei pensionati non è soltanto un problema contingente, perché non si tratta soltanto di aumentare l’ammontare della loro pensione con un provvedimento isolato e limitato, ma si tratta di rivedere organicamente tutta la legislazione che li riguarda.
Il trattamento di quiescenza degli impiegati pubblici rimonta ad una legge antica, ad una legge anteriore alla fine del secolo scorso, quando in materia di previdenza si era fatto ben poco cammino. Mentre per altre categorie, che allora non avevano nessuna previdenza, si è fatta parecchia strada, per la categoria dei pubblici impiegati le cose sono rimaste allo stesso punto in cui si trovavano nel 1895.
Abbiamo per esempio lo sconcio – non posso qualificarlo diversamente – che, quando un impiegato dello Stato ha la disgrazia di morire prima che abbia compiuto il ventesimo anno di servizio, lascia la famiglia senza la corresponsione di un minimo di pensione.
Ma questa è soltanto una breve escursione in un campo che non ha una stretta attinenza col tema che mi sono oggi proposto e che richiederebbe un apposito e lungo discorso. Ritorno all’argomento.
Dicevo che le spese ordinarie assommano in realtà a cifra assai minore di quella che si aveva nell’anteguerra e non hanno possibilità di contrazione.
Ciò che mi sembra del tutto inadeguato è la resa delle entrate ordinarie. Insisto sulle entrate ordinarie, perché l’ossatura solida del bilancio dello Stato non può essere costituita che dalle entrate di questa specie: sono esse che assicurano la perenne e sana vitalità della finanza pubblica, e non già le entrate straordinarie, che apportano un sollievo passeggero e possono rassomigliarsi alla cura ricostituente che fa l’ammalato in periodi critici, non al cibo di cui deve sempre nutrirsi l’organismo per vivere.
Le entrate effettive del 1945-46 furono di 133 miliardi. Quelle dell’esercizio in corso, con un andamento crescente che è andato dai 16 miliardi nel mese di luglio ai 24 miliardi e mezzo nel mese di dicembre, ammontavano in totale, alla fine di questo mese, a 125 miliardi. Si può calcolare sul rendimento, nell’intero esercizio, di 280-300 miliardi, sempre che il ritmo continui ad essere crescente. Ma quand’anche ricavassimo 300 miliardi nell’esercizio in corso, si tratterebbe sempre di una cifra esigua, pur tenendo conto della diminuzione attuale del reddito nazionale rispetto al periodo prebellico. Questo significa che la macchina tributaria non funziona a pieno rendimento.
Anche il gettito dell’esercizio prossimo che, per quanto ci ha rivelato l’onorevole Scoccimarro, è previsto in 400 miliardi, è sostanzialmente inferiore al gettito prebellico; ed indica che la pressione tributaria è minore di quella che vi era allora. I circa 30 miliardi dell’anteguerra equivarrebbero oggi a 800-850 miliardi. Poiché si calcola che il reddito nazionale sia diminuito, grosso modo, del 25-30 per cento, una identica pressione tributaria dovrebbe dare un gettito aggirantesi intorno ai 600 miliardi. Io penso che almeno a tale cifra bisogna tendere nei prossimi anni, perché a cifra non inferiore si assesterà il bilancio passivo ordinario. Né è un sogno sperarlo; ma è necessario per il raggiungimento dello scopo che si verifichino certe condizioni.
Anzitutto, occorre, a mio avviso, che si tolgano gradualmente le bardature di guerra e si mobiliti così nuova materia imponibile.
Vi sono molti settori che si potrebbero indicare, ma basta accennare soltanto a quello edilizio. Evidentemente, fino a quando si manterrà il regime vincolistico attuale, non vi è possibilità che aumentino i redditi delle case, e quindi la possibilità, a prescindere da altre considerazioni di carattere economico, che lo Stato possa fare affidamento su questo cespite.
Occorre che si incoraggi, o almeno che non si scoraggi, l’iniziativa privata, indispensabile per la ripresa produttiva, che equivale ad accrescimento degli affari e accrescimento del reddito.
Occorre che sì pongano in efficienza gli uffici e gli ingranaggi degli accertamenti e dei controlli. L’onorevole Scoccimarro ci ha detto come molto abbia fatto in questo campo; ma io penso che ancora molto resti da fare e si debba fare con rapidità. Bisogna mettere in sesto la macchina finanziaria; bisogna mettere in sesto gli strumenti fiscali, perché effettivamente possano dare il rendimento di cui sono capaci.
Occorre infine che si snellisca, per quanto è possibile, prima di affrontare organicamente la riforma, il sistema tributario, liberandolo da congegni che rendono troppo poco, per concentrare l’azione degli uffici sui congegni veramente redditizi. Abbiamo troppe imposte in ordine alle quali, se si fa un calcolo approfondito, deve concludersi che assorbono, per la loro amministrazione, troppa parte del loro rendimento. Senza dire dell’inutile fastidio che recano al contribuente.
Nell’esaminare i cespiti del gettito, si fa una constatazione assai poco confortante. Nella struttura legale del sistema tributario vi è stato qualche miglioramento, come il passaggio di categoria di piccoli agricoltori, commercianti e artigiani. Ma la struttura sostanziale, qual è rivelata dalle cifre, porta a questa non lieta constatazione, che oggi abbiamo una situazione finanziaria più antidemocratica di quella che si aveva prima della guerra.
E ne do la prova. Prima della guerra vi era una certa equivalenza dei tre grandi gruppi di tributi – imposte dirette, imposte sui trasferimenti e tasse sugli affari, ed imposte indirette sui consumi – e vi era anzi una qualche prevalenza del primo gruppo, ossia delle imposte dirette, almeno in confronto del secondo; mentre le cifre rivelateci dall’onorevole Scoccimarro sulle previsioni dell’esercizio 1947-48 alterano questa posizione a tutto svantaggio delle imposte dirette, poiché queste renderanno prevedibilmente solo 93 miliardi, mentre le tasse sullo scambio sono previste in 159 miliardi e le imposte di consumo, compresi i monopoli, in 130 miliardi. Le imposte dirette, quindi, renderanno non molto più della metà del gettito di ciascuno degli altri due gruppi di tributi.
Ciò indica che vi è una resistenza obbiettiva, derivante dalla realtà delle cose, la quale è superiore agli intendimenti ed ostacola anche l’azione di un Ministro, come l’onorevole Scoccimarro, che pur ha teso i suoi sforzi verso una struttura più democratica del sistema.
Vi sono cause transeunti di questo fatto e cause permanenti.
Una causa transeunte è costituita dalla struttura delle imposte dirette, le quali a causa dell’ingranaggio dell’accertamento, protraggono nel tempo il risultato della revisione degli imponibili.
Ma vi è anche un’altra causa più sostanziale, cioè la sparizione o diminuzione di taluni redditi, per effetto della guerra e del conseguente regime vincolistico.
A queste cause transeunti se ne aggiunge una di carattere ineliminabile, la bassezza dei redditi nel Paese a motivo della sua povertà e della costituzione della sua economia, per cui non si può sperare di alimentare seriamente il bilancio senza fare affidamento sulle imposte indirette. Qualunque cosa faremo, le imposte indirette saranno sempre la base del nostro sistema tributario.
Altra causa è l’eccessiva altezza delle aliquote, che irrigidisce lo strumento fiscale e lo rende inoperante. Il successivo elevarsi delle aliquote è un fenomeno che si verifica sempre durante le guerre: quando non è possibile rivedere gli accertamenti e si vuole un incremento delle entrate, si alzano le aliquote. Ma questo sistema, alla lunga, riesce inefficace e dannoso, perché porta alla conseguenza che i redditi non vengono accertati nella loro effettiva consistenza. Gli agenti del fisco ne sono ben consci e confessano che non accertano il reddito vero, ma soltanto un reddito che, compatibilmente con l’altezza delle aliquote, sia, a loro avviso, sopportabile.
Grave inconveniente, questo, che bisogna eliminare, perché oltre a tutto crea disparità di trattamento da caso a caso.
Occorre ridurre, e ridurre drasticamente, le aliquote delle imposte dirette, ed elevare gli imponibili, affinché gli accertamenti si avvicinino alla realtà. Oserei dire che questo rovesciamento dei fattori occorre farlo istantaneamente. Si potrebbe, ad esempio, con un provvedimento legislativo, ridurre le aliquote della categoria B e C1 dell’imposta di ricchezza mobile alla metà, e nello stesso tempo raddoppiare gli imponibili, con la sicurezza che nessuno sarà accertato, neppure con tale raddoppiamento, nella misura effettiva del suo reddito: senza spostare il gettito in atto appresteremmo un mezzo perché gli accertamenti e le revisioni successivi possano essere più aderenti alla realtà.
Occorre poi, a tempo opportuno, capovolgere l’attuale struttura del sistema. Se è vero che, data la povertà del Paese e la bassezza dei redditi, non è possibile non fare affidamento prevalente sulle imposte indirette, bisogna che le imposte dirette reali, che costituiscono la base e dànno la fisionomia del nostro sistema tributario, siano trasformate nel senso che ad esse si sostituisca, in tutto o prevalentemente, un’imposta personale sul reddito globale. La quale imposta personale non dovrebbe avere lo scopo di fornire un impossibile maggior gettito, ma di controbilanciare ed eliminare le ineguaglianze, le iniquità e le ingiustizie che crea l’imposizione indiretta sui consumi.
La sostituzione del criterio della personalità e della progressività applicato al reddito complessivo è necessaria anche per un’altra ragione. Molte volte le imposte dirette reali su singoli cespiti costituiscono solo apparentemente l’applicazione di un principio di giustizia tributaria, perché tali imposte non difficilmente si trasferiscono sul consumatore, e, quando ciò avviene, esse diventano in realtà imposte sul consumo come tutte le altre. E siccome fino a questo momento la scienza non ha saputo trovare un’imposta che si trasferisca di meno della imposta generale e personale sul reddito, è evidente la opportunità della sostituzione di essa alla varietà delle imposte dirette reali.
A questo punto mi domando: vi sono mezzi con i quali si può sperare di aumentare il gettito dei tributi? Si può fare qualche cosa a tale scopo?
Io ritengo che si può anzitutto operare utilmente nel campo legislativo.
Come ho detto che è necessario e urgente ridurre le aliquote delle imposte dirette, aumentando contemporaneamente gli imponibili, così dico che si debbono aumentare le imposte stabilite in somma fissa, le quali non si sono certamente adeguate allo svilio della moneta.
Durante l’anno scorso è stata fatta qualche cosa: per esempio è stata rivista la tariffa delle tasse sulle concessioni governative. Ma quella riforma fu preparata da funzionari, i quali hanno visto aumentare i loro stipendi in misura esigua e non hanno ancora la sensazione esatta di quella che è stata la svalutazione della lira; e forse perciò hanno aumentato la misura della tariffa appena di quattro volte in media, mentre la svalutazione è di gran lunga maggiore.
È necessario soprattutto agire nel campo amministrativo, rendendo efficaci i controlli. Mi riferisco in particolare all’imposta sull’entrata, che nel 1940-41, primo anno della sua applicazione in tutto l’esercizio, rese circa 5 miliardi: se oggi quell’imposta si pagasse effettivamente su tutto quanto è dovuta e nella misura dovuta, dovrebbe rendere parecchio più di cento miliardi, nonostante la riduzione degli affari, perché essa segue immediatamente l’aumento dei prezzi.
Un altro campo nel quale si può agire fruttuosamente è quello in cui lo Stato ha la veste di produttore di merci: bisogna intensificare e migliorare la produzione, fino a sodisfare la domanda. Ripeterei cose abusate, che tanti altri hanno ripetuto, se dicessi che non è certamente confortante il vedere che in qualche luogo si vende forse più tabacco fuori che dentro le rivendite. Occorre che l’amministrazione dei Monopoli si metta in condizione di produrre tutto il tabacco richiesto dai consumatori italiani e migliori la qualità.
Una parola sulla finanza straordinaria.
Tutti siamo d’accordo che si debba istituire e presto l’imposta straordinaria sul patrimonio. Meglio sarebbe stato istituirla subito dopo la liberazione del territorio nazionale, collegandola al cambio della moneta, come voleva Soleri. Non starò a confutare quello che è stato detto contro questa proposizione, perché mi sembra di chiara evidenza che quello fosse il momento più conveniente, anche sotto l’aspetto psicologico. Allora tutti attendevano questo tributo, mentre oggi la posizione morale e materiale è alquanto mutata. Ed il dato psicologico, per non parlare delle mutate condizioni economiche, è un dato della massima importanza per la buona riuscita di un tributo.
Vi sono due tipi di imposta, disse l’onorevole Scoccimarro a proposito dell’imposta straordinaria, ma non disse – o almeno io non l’intesi – quale fosse a suo giudizio il tipo preferibile.
Vi è un’imposta che si riscuote in un breve periodo di tempo, e vi è un’imposta che si riscuote in un lungo periodo di tempo. Del primo tipo fu l’imposta straordinaria istituita nell’altro dopoguerra, la quale si riscosse in un periodo di dieci o di venti anni, a seconda della prevalente composizione mobiliare od immobiliare del patrimonio del contribuente.
Penso che bisogna senz’altro preferire il secondo tipo. Naturalmente, io non accedo all’idea dell’onorevole Corbino, il quale diceva poco prima che l’imposta straordinaria è pur essa una imposta sul reddito, perché non può pagarsi che col reddito. Se arrivassimo a questa conclusione, se considerassimo l’imposta straordinaria sul patrimonio come un’imposta sul reddito, sarebbe meglio rinunziare ad istituirla e risparmiare l’immane lavoro degli accertamenti, potendosi agire o sull’imposta ordinaria sul patrimonio o aumentare in qualche maniera le vigenti imposte sui redditi.
Se l’imposta straordinaria sul patrimonio deve essere qualche cosa di veramente serio, deve essere una leva sul capitale, una imposta che non solo si commisura al patrimonio, ma si paga con la cessione allo Stato di parte di esso. Senza dire che un’imposta straordinaria sul patrimonio, concepita come un’imposta sul reddito, è un’imposta la quale mentre non apporta un apprezzabile sollievo immediato alle necessità urgenti del bilancio, risulta iniqua e ingiusta verso i contribuenti, come risultò iniqua e ingiusta l’imposta straordinaria dell’altro dopoguerra. E questo perché, in un lungo periodo di tempo, il valore della moneta cambia. Può cambiare in meglio; ma più spesso cambia in peggio. Comunque è evidente che chi paga l’imposta quando la moneta ha un certo valore, paga una quantità superiore in confronto di colui che la paga quando la moneta ha un valore minore.
Ammetto che la leva sul capitale, cioè quella imposta straordinaria di un certo rilievo che si riscuote in un breve periodo di tempo, arreca qualche inconveniente, quale il perturbamento del mercato dei valori immobiliari, per il fatto che molti sono costretti a vendere una parte del loro patrimonio per poterla pagare; ma in momenti eccezionali, come quelli che attraversiamo, non mi pare che la considerazione di questi inconvenienti – ai quali si può porre riparo con la ricerca di espedienti adeguati – debba avere tanto peso da farci deflettere da quella che ritengo la giusta linea di condotta.
Collegato col problema dell’imposta straordinaria è quello del cambio della moneta; cambio della moneta che oramai è diventato il tema di tante discussioni più o meno serene, più o meno approfondite, lo spauracchio o la speranza di molti. Sino a questo momento, non sappiamo se esso ci sarà o non ci sarà, perché il Presidente del Consiglio ha detto nelle sue recenti dichiarazioni che sarà deciso definitivamente in proposito in occasione dell’imposta straordinaria sul patrimonio.
Come per detta imposta, anche per il cambio della moneta, in quanto in essa inquadrato, dico che si sarebbe dovuto fare subito dopo la liberazione del territorio nazionale.
Abbiamo sentito accennare, dico meglio, abbiamo sentito discorsi piuttosto lunghi sulle difficoltà che presentava e presenta il cambio. Difficoltà indubbiamente ve ne erano e ve ne sono, né io voglio sottovalutarle. Ma faccio una sola domanda: «Se altri paesi, molti altri paesi, hanno fatto il cambio della moneta, è forse l’Italia in condizioni tanto inferiori ad essi che non possa fare la stessa cosa?».
L’onorevole Corbino poco prima ha detto che egli è decisamente contrario al cambio della moneta e si sarebbe dimesso da Ministro del tesoro se si fosse voluto fare; ma che, indipendentemente da ciò, vi furono delle difficoltà obbiettive che lo resero impossibile.
A me sembra evidente che chi si pone o si trova in questa posizione psicologica, in questo stato d’animo, in questa convinzione, chi ritiene che il cambio della moneta non si debba fare è portato necessariamente a sopravalutare le difficoltà che si frappongono all’operazione.
Quando si dice cambio della moneta si usa forse in una espressione impropria: si fissa l’attenzione sul mezzo e non sul fine. In fondo le difficoltà, se ci sono state e se ci sono, sono difficoltà per il cambio materiale di biglietti contro biglietti. Ma vi è un altro metodo, vi è la stampigliatura. Anche di essa si dice che presenta tanti inconvenienti. In realtà la stampigliatura presenta un solo inconveniente, la possibilità di falsificazioni. Ma che cosa importa questa possibilità di falsificazioni? Nient’altro che la possibilità di una evasione fiscale: evasione fiscale, peraltro, che sarebbe certamente inferiore alle evasioni fiscali che si verificano nelle altre imposte.
Se il cambio della moneta fosse stato fatto dopo la liberazione del territorio nazionale, avremmo avuto due enormi vantaggi: quello di acquisire alla imposizione i biglietti tenuti in deposito dagli arricchiti di guerra, da coloro che hanno fatto il mercato nero, o più o meno nero; e quello di impedire il rientro dei biglietti asportati indebitamente all’estero. Oggi il vantaggio che il cambio della moneta apporterebbe sarebbe di gran lunga inferiore; ma ciononostante (e qui esprimo una mia personalissima opinione) ritengo che esso dovrebbe farsi, sempre nell’ambito dell’imposta straordinaria sul patrimonio.
M’inducono in questo convincimento due ragioni. Vi è in primo luogo una ragione di ordine morale, l’impegno, almeno implicito, preso dal Governo. Non si può dimenticare che l’ordinamento tecnico dell’ultimo prestito, quale che sia il giudizio che se ne voglia dare, fu impostato sul presupposto che il cambio della moneta sarebbe stato fatto, o, per essere più esatti, che tutti i valori mobiliari sarebbero stati assoggettati all’imposta straordinaria sul patrimonio, come risulta dal fatto che ne furono esclusi specificamente e soltanto i titoli di esso prestito. Ciò implicava la necessaria conseguenza che i titoli degli altri prestiti, nonché gli altri valori, sarebbero caduti sotto l’imposta.
Ma soprattutto c’è un’esigenza di giustizia sociale. Se vogliamo che l’imposta straordinaria sia una cosa seria ed equa, essa deve colpire tutte le forme di ricchezze, siano mobiliari o siano immobiliari, e quindi anche la moneta in quanto essa denuncia una capacità contributiva, i depositi, ed i titoli dei prestiti pubblici. In caso diverso essa risulterebbe iniqua, perché si limiterebbe a colpire soltanto i beni immobili, con ingiustificato favore per talune classi di privilegiati.
Ci sono delle difficoltà a dare la più larga base all’imposta, ma non sono da ritenersi insuperabili.
Si potrebbe applicare in un primo tempo un taglio uniforme sia sulla moneta e sia sugli altri valori, salvo a rimborsare a coloro i quali non risulteranno soggetti alla imposta quanto hanno anticipato. La restituzione agli aventi diritto potrebbe avvenire o in un titolo di prestiti già emessi o in un titolo nuovo, oppure in buoni d’imposta liberamente commerciabili.
L’onorevole Scoccimarro ha proposto, come un mezzo, per quanto di scarsa entità, per venire incontro alle necessità urgenti del nostro bilancio, il riscatto dell’imposta ordinaria sul patrimonio.
Mi dispiace che egli non sia presente, perché devo dichiarare – e mi incoraggia ad una franca affermazione del mio pensiero la cordialità dei rapporti intercorsi fra noi durante il tempo in cui fui suo collaboratore al Ministero delle finanze – che sono nettamente contrario a questa operazione. L’imposta ordinaria sul patrimonio non è un’imposta transeunte, non è un’imposta creata in vista della guerra e per la durata della guerra; è un’imposta permanente, un’imposta che deve avere un posto duraturo nel nostro sistema tributario. Ed è un’imposta che ha carattere democratico, in quanto colpisce solo i beni fondati, con esclusione dei beni infondati, e la ricchezza improduttiva; e integra l’imposta complementare sul reddito con uno strumento che assicura un gettito più sicuro e continuo.
Penso, anzi, che l’imposta ordinaria sul patrimonio, adeguatamente riveduta e perfezionata, debba rimanere anche per un’altra ragione: perché sia possibile introdurre nel sistema tributario, in luogo di tante altre imposte inutili e vessatorie destinate a sparire, l’imposta sugli incrementi patrimoniali, non concepita – come certuni vanno dicendo e scrivendo – come uno strumento per scoraggiare il risparmio, ma esclusivamente come un mezzo per colpire gli arricchimenti rapidi ed ingiustificati e, più che tutto, per combattere l’evasione, la vera grande piaga della finanza italiana.
L’imposta sugli incrementi patrimoniali, anche se la denominazione è inesatta, è da me intesa come uno sbarramento scaglionato nel tempo, per costituire una misura controperante alle evasioni, nel senso che non vi andrà soggetto il cittadino il quale, pur avendo incrementato il suo patrimonio, dimostri di aver pagato annualmente sulla ricchezza via via accumulata le imposte normali dovute; mentre, viceversa, vi sarà soggetto il cittadino il quale si trovi dopo un certo periodo di tempo in possesso di una ricchezza maggiore di quella che aveva nel primo momento e non possa dimostrare di aver pagato le imposte dovute annualmente.
Bilancio passivo. È diffusa l’opinione che non sia possibile una contrazione delle spese. Io ho già detto – né rinnego quello che ho detto – che effettivamente lo Stato oggi spende molto di meno dell’anteguerra e che vi sono dei settori in cui è necessario ed urgente che si aumentino gli stanziamenti.
Peraltro ritengo che il bilancio passivo possa e debba essere alleggerito di alcuni carichi straordinari. Ne accenno qualcuno. Vi è il prezzo politico del pane che costa da 80 a 90 miliardi l’anno. Fu abolito dal compianto Soleri, ma, poi, le necessità furono tali che lo si dovette ripristinare. Si tratta di un regalo fatto alle classi abbienti, perché si fa pagar loro un prezzo inferiore a quello economico. Il problema dell’abolizione è certamente difficile; ma, come la maggior parte dei problemi, non è insolubile e bisogna affrontarlo con la volontà di risolverlo.
FACCIO. Bisogna ridurre il prezzo del grano.
SCOCA. Non è questo il problema, siamo in un campo diverso.
Il prezzo politico del pane occorre abolirlo. Bisogna naturalmente dare alle classi meno abbienti la possibilità di aumentare il loro potere di acquisto. Sono allo studio – se sono bene informato – la elevazione dei minimi imponibili per i redditi di lavoro e l’aumento dei sussidi di disoccupazione: è in relazione ed in contrapposizione a questi benefici, che si potrà studiare il problema. Comunque sarà sempre meglio corrispondere una indennità caro-pane alle categorie veramente bisognose, anziché mantenere in piedi il prezzo politico.
Altro settore che va considerato è quello delle aziende industriali dello Stato, quali le poste e le ferrovie. Esse intanto sono aziende autonome, intanto hanno una autonomia nell’ambito dell’amministrazione dello Stato, in quanto sono concepite come aziende industriali, in quanto cioè debbono essere rette con gli stessi criteri con cui un industriale regge la propria azienda. Ora non si concepisce che, a distanza di qualche anno dalla fine della guerra, esse abbiano un bilancio di esercizio in passivo di molti miliardi. Bisogna che si mettano in condizioni da fare sparire il passivo. Non c’entra qui il problema delle ricostruzioni e delle riparazioni; io parlo del bilancio di esercizio e non concepisco come queste aziende, essendo industriali, non si mettano alla pari con le altre di carattere privato, e non riescano ancora a pareggiare le entrate con le spese ordinarie, venendo così a gravare fortemente sui contribuenti. Perché, in sostanza, di questo si tratta. Quando si fa economizzare qualcosa sul prezzo economico a coloro che spediscono lettere o merci, provocando un deficit nel bilancio delle poste o delle ferrovie, la differenza, grava sui contribuenti. Al che si potrebbe aggiungere che, siccome la struttura attuale del nostro sistema tributario è antidemocratica, come ho dimostrato, e cioè le imposte pesano di più sulle classi povere per l’eccessivo peso comparativo delle imposte sui consumi, questa differenza di prezzo viene a gravare sulle classi meno abbienti.
Altro problema grave è quello dell’integrazione dei bilanci degli enti locali da parte dello Stato. Bisogna che si prendano provvedimenti idonei a mettere in condizione tali enti di vivere con i loro mezzi.
Questa è una esigenza finanziaria, in quanto bisogna liberare il bilancio dello Stato da oneri estranei. È una necessità amministrativa, in quanto l’abolizione delle integrazioni costringerebbe gli amministratori ad una maggiore parsimonia: se sanno che non possono ricorrere all’aiuto dello Stato, penseranno bene, prima di affrontare una spesa non coperta da entrata corrispondente. È una esigenza politica, per dare contenuto e sostanza alle autonomie, perché la prima autonomia è quella finanziaria e senza di essa non ci possono essere nemmeno le altre.
Una voce al centro. I Comuni debbono imporre i tributi.
SCOCA. Bisogna apprestare gli strumenti perché i Comuni e le Provincie possano vivere autonomamente. Il problema è allo studio da molti mesi, e si era predisposta una legge che non so perché tarda tanto a venire.
A proposito di sana amministrazione, accennerò ancora – ed ho quasi finito – alla azienda dei monopoli. Per molto tempo prima della guerra la quota industriale fu del venti per cento ed essa non solo bastava a coprire tutte le spese di produzione e di amministrazione, ma c’era di solito anche un supero che veniva versato al Tesoro. Tale quota è stata portata, qualche mese fa, al 35 per cento. Non mi sembra che si possa lodare il provvedimento, perché esso porta su un piano durevole delle difficoltà che bisogna augurarsi siano contingenti e destinate a cessare. Se prima della guerra le spese di produzione erano contenute nella misura del 20 per cento, bisogna fare in modo che si possa tornare a tale misura anche per l’avvenire.
Dopo questa disamina, arida come la materia importa, m’avvio alla conclusione. In principio ho notato come vi siano due correnti di opinioni contrastanti: l’una di ottimismo, l’altra di pessimismo. Io, per temperamento, inclino all’ottimismo e ritengo che le condizioni, quali risultano dalla mia esposizione, sono indubbiamente gravi, ma superabili. Le difficoltà veramente preoccupanti sono quelle del momento attuale e dell’immediato futuro, perché mentre occorre qualche anno per l’adeguamento delle entrate, le spese frattanto non possono essere contratte, o non possono esserlo che in misura scarsa. In questo periodo di congiuntura e di congiunzione bisogna fare ricorso al credito e ve ne è la possibilità, a patto che mettiamo la casa in ordine.
Sempre che diamo la convinzione di avviarci sulla via del risanamento finanziario, il che vuol dire anche risanamento monetario, possiamo fare affidamento sul credito interno ed anche estero. Si tratta di alimentare la fiducia, e ciò si può fare soltanto con una politica seria, chiaroveggente, decisa, unilineare.
Fra i tanti mali che la svalutazione ha portato a tante classi di cittadini vi è per lo meno un beneficio per il bilancio dello Stato. La svalutazione ha ridotto dell’80 per cento il peso degli interessi del debito pubblico, benché durante la guerra lo Stato si sia indebitato in misura molto notevole. Contro quasi sette miliardi dell’anteguerra, abbiamo oggi una spesa di circa 40 miliardi svalutati, che equivalgono ad un miliardo e un quarto di allora. Tali interessi assorbivano alla vigilia della guerra un quinto della spesa totale; oggi ne assorbono appena un ventesimo.
Altro fattore di risanamento è la riduzione graduale delle spese militari. Già nel bilancio 1947-48 queste spese, stanziate in 123 miliardi, rappresentano meno del 20 per cento della spesa totale, mentre rappresentavano il 25 per cento nell’esercizio 1938-39. Ma poiché le fisime imperialistiche di conquista, di espansione e di dominio sono tramontate, e tramontate per sempre, questo capitolo passivo del bilancio si andrà sempre più assottigliando.
Si può quindi avere la certezza che tra qualche anno il nostro bilancio si assesterà, col vantaggio che i due cespiti passivi delle spese militari e degli interessi del debito pubblico non avranno il peso comparativo del passato, anche se ci indebiteremo ancora, come dovremo sicuramente fare. E siccome le entrate indubbiamente raggiungeranno il livello di prima della guerra, quando il nostro reddito nazionale avrà raggiunto il livello di allora, dobbiamo ritenere che la riduzione di quelle spese improduttive o dannose darà luogo ad una rimanenza di entrate, la quale potrà essere impiegata per scopi di benessere, di civiltà e di progresso sociale. Questi devono essere gli obiettivi della nuova Italia rinata nel sistema democratico. (Applausi – Congratulazioni).
PRESIDENTE. È iscritto a parlare l’onorevole De Mercurio. Ne ha facoltà.
DE MERCURIO. Onorevoli colleghi, farò brevi rilievi e brevissime considerazioni sulle dichiarazioni del Presidente del Consiglio. L’ora tarda e la stanchezza evidente della Assemblea mi faranno essere molto conciso.
Intendo parlare su di un argomento che non è stato trattato da nessuno dei colleghi che mi hanno preceduto: il risarcimento dei danni di guerra. È un problema di carattere nazionale al quale sono interessati centinaia di migliaia di cittadini.
Io ricordo la dichiarazione resa dall’onorevole De Gasperi allorquando venne composto il primo Gabinetto, il 15 luglio 1946. Egli si espresse testualmente in questi termini: «Il risarcimento dei danni di guerra sarà affrontato con particolare riguardo alle categorie più sprovviste di mezzi ed alle esigenze della produzione industriale, estendendolo anche ai danni della rappresaglia».
Ho dovuto però rilevare, con sommo rincrescimento ed anche con meraviglia, che nelle dichiarazioni successive, rese allorquando vi fu la «piccola crisi» Corbino e in quelle ultime dell’8 corrente, l’onorevole De Gasperi non ha neppure richiamato le dichiarazioni allora fatte. Ora, il problema è così importante nell’interesse nazionale che merita se non profondissimo esame non indicato per il motivo dianzi enunciato, per lo meno un accurato esame.
Noi tutti sappiamo che, allorquando si parla di danni di guerra, bisogna distinguere danni di guerra cagionati alle persone per decesso o mutilazione, danni di guerra agli immobili, danni di guerra alle cose mobili.
La materia è regolata ancora dalla legge del 26 ottobre 1940, una legge ormai superata; superata perché essa era fondata su due presupposti che sono venuti meno: il presupposto che i danni fossero in misura limitata ed il presupposto che questi danni dovessero essere pagati dagli anglo-americani. Ciò non è avvenuto, ed allora bisogna guardare realisticamente la situazione quale essa si presenta.
Debbo rilevare che per quanto riguarda i danni cagionati alle persone, si è trovato il mezzo di venire incontro a questi disgraziati portando nella scia delle pensioni la soluzione del problema.
Per inciso ripeto quanto ieri mi riferiva un collega e cioè che solamente nel distretto del comune di Velletri vi sono ancora 3 mila domande che attendono di essere istruite. Mi dicono alla mia destra che questa è una questione di rallentamento burocratico; ma io intendo fare un esame analitico su tutto quanto possa riguardare la materia.
Dicevo dunque che nel settore immobiliare si è fatto poco, nel settore mobiliare non si è fatto nulla, ma quello che è più grave è che vi è una sperequazione nel trattamento usato in quel settore col trattamento fatto nell’altro settore. Alla legge da me citata del 1940 se ne è aggiunta un’altra, quella del 9 giugno 1945, che riguarda unicamente la materia immobiliare. Attraverso questa legge, fatta evidentemente per facilitare la ricostruzione in favore dei danneggiati, si è data a questa categoria una specie di opzione in questo senso: o il danneggiato di guerra intende usufruire puramente e semplicemente del contributo dello Stato, e allora questo contributo va dal 50 per cento al 75 per cento: rimanendo da stabilire in qual modo il danneggiato possa sopperire all’altro 25-50 per cento per ricostruire la propria abitazione. E allora si è pensato di far ricorso a una vecchia legge, se non sbaglio quella dell’agosto del 1930, che fu messa in essere in occasione del terremoto del Vulture, per cui agli istituti esercenti il credito fondiario venne data la possibilità di concedere mutui fondiari con una ipoteca sui generis, privilegiata, da valere, come diciamo con termine legale, erga omnes.
Ottima idea; però il legislatore ha peccato, e ha peccato duramente nei confronti dei danneggiati, perché nel mentre chi vuole avvalersi del contributo statale del 50 o del 75 per cento può conseguirlo in quella misura, allorquando invece intende ricorrere all’altra forma che lo Stato gli offre, nella forma cioè del mutuo fondiario, quella percentuale gli viene ridotta solamente al 33 per cento e quindi l’ipoteca che deve essere accesa sulla sua proprietà va elevata al 66 o 67 per cento delle spese occorrenti per la ricostruzione e se a tanto si aggiunge che il danneggiato deve pagare gli interessi in ragione del 4 o 5 per cento, a cui va aggiunto ancora il 0.70 per cento per diritto di commissione in favore dell’istituto mutuante, lascio a voi immaginare, onorevoli colleghi, a prezzo di quali oneri impossibili questo disgraziato potrà ricostruire la sua casa. È importante rilevare quindi il trattamento di sperequazione che viene fatto all’una e all’altra categoria, sperequazione che si accentua maggiormente allorquando andiamo nel settore mobiliare.
Qui, come dicevo, non si è fatto nulla, o presso a poco nulla, perché, a prescindere dal rallentamento che si è usato nelle istruttorie delle pratiche (io ricordo che tre anni or sono ho dovuto sostenere una lotta con un intendente di finanza il quale si era fissato in mente che i danni di guerra non dovessero essere pagati e aveva fatto una legislazione per conto proprio), in effetti queste pratiche hanno subito un eccessivo ritardo, fino a quando non si è creduto accedere, sia pure in parte, alle giustissime richieste di queste centinaia di migliaia di cittadini italiani, concedendo loro un acconto su quello che è stato dichiarato alla data dell’evento bellico che ha causato il danno. Ma in quale misura è stato dato questo acconto? È stato dato in base alla liquidazione parziale di quanto venne dichiarato al momento dell’evento bellico. Quindi, con tutte le disposizioni successivamente venute, attraverso le circolari del Ministero del tesoro alle Intendenze di finanza, attraverso tutte le raffinate torture, che sono state inflitte a questi disgraziati, si è arrivati a questa conclusione, che a chi ha dichiarato 800-900 mila lire o un milione di danni alla data del dicembre 1943, sono state corrisposte, nella migliore della ipotesi, 60-70 mila lire della moneta attuale: un acconto che ha tutto il sapore dell’elemosina.
Ora è evidente, onorevoli colleghi, che non vi è nessun raffronto fra il trattamento che ancora oggi viene eseguito nei confronti di chi ha avuto un danno in sede mobiliare rispetto a chi lo ha avuto in sede immobiliare. E mentre lo Stato ricostruisce oggi l’abitazione, al valore attuale, con i prezzi odierni e quindi dà quasi un riconoscimento di quella che è oggi la svalutazione della moneta, ciò non avviene in sede mobiliare. Questo trattamento sperequativo è così evidente che il Ministro del tesoro e delle finanze non può non prendere in seria considerazione quanto io dico in questo momento.
Mi si può rispondere: in qual modo lo Stato potrà far fronte a questi suoi impegni? È giusto; io ricordo però che ieri un autorevole oratore della Democrazia cristiana, l’onorevole Cappi, ha detto una cosa che mi ha fatto molto piacere. «Le conseguenze della guerra devono pagarle i ricchi».
Possiamo fare benissimo nostra la dichiarazione. Ma in qual modo? Io, pensavo in un primo tempo – la mia era non una illusione, ma un’idea profondamente maturata – di fare appello ad un gesto di umana solidarietà, di applicare una imposta specifica nei confronti di tutti i cittadini, in relazione appunto ai danni di guerra, tenendo presente la loro entità.
Non sappiamo quanto è stato distrutto in sede immobiliare; si parla di un milione e 672.000 vani, completamente distrutti, e di 4 milioni 165.000 vani danneggiati. Mancano dati precisi per quanto riguarda i danni in sede mobiliare; però, complessivamente essi possono ascendere a circa il 15,18 per cento del patrimonio mobiliare nazionale.
Presidenza del Presidente TERRACINI
Io penso che tutti debbano concorrere ad un atto di solidarietà umana nel campo nazionale.
Vi sono città, larghe zone che sono uscite indenni dal cataclisma che si è abbattuto sul Paese: sarebbe illogico, antisociale che queste zone-oasi non dovessero dare un maggior concorso alla ricostruzione del Paese. Tenendo per base il criterio di giustizia distributiva al quale ho fatto cenno dianzi, dicevo che avrei voluto chiedere che il Governo applicasse un’imposta specifica avente per causale l’oggetto dei danni di guerra, da imporsi a tutti i cittadini in ragione del maggiore o minor onere sopportato nell’evento bellico.
Ma se tale suggerimento poteva sodisfare il senso morale e imporsi all’attenzione del Ministero competente, certamente avrebbe trovato non lievi difficoltà per la sua pratica attuazione, per cui ritengo necessario rivolgere in subordinata una raccomandazione calda, che non dev’essere presa come una raccomandazione a sfondo etico, ma formale, perché il Governo dichiari esplicitamente in qual modo intenda far fronte ai suoi impegni verso i danneggiati della guerra. Raccomandando ancora che la istituenda imposta progressiva sul patrimonio tenga in doveroso conto in senso attivo e passivo di quei contribuenti che alla guerra hanno pagato un minor contributo, ai fini della capacità tassabile.
Sarà opportuno che frattanto, in attesa della liquidazione finale, venga corrisposto ai danneggiati di guerra nelle cose mobili un anticipo non inferiore almeno al 70 per cento dei danni accertati e che comunque la liquidazione finale, data la svalutazione della moneta, venga effettuata non in base alla denuncia, ma sul valore determinato all’atto della liquidazione stessa e, per quanto riguarda la ricostruzione degli immobili, siano estesi a coloro che intendono giovarsi dell’operazione creditizia gli stessi vantaggi che hanno quelli i quali intendono giovarsi del solo contributo da parte dello Stato, con un concorso sul pagamento degli interessi.
Attendo che il Governo dia precise assicurazioni in merito, e quando faccio questa richiesta, la richiesta cioè di una formale legislazione che sia più aderente alle effettive necessità e alla risoluzione integrale del grave improrogabile problema, io lo faccio soprattutto a nome delle popolazioni meridionali e di quelle della Sicilia che hanno sopportato i maggiori oneri della guerra, e del cui desiderio unanime io mi rendo interprete.
Farò altre due considerazioni, sempre nel campo economico, ed è perciò che continuo a rivolgermi al Ministro del tesoro e delle finanze.
Vi è un problema importante per il Mezzogiorno, un problema specifico per cui a suo tempo io ho fatto anche un’interpellanza con richiesta di risposta scritta: è il problema dell’amministrazione del Banco di Napoli. Il Banco di Napoli, come tutti sanno, oggi ha un’importanza che non è solamente meridionale; ma per la sua vasta rete di filiali in Italia e di corrispondenti all’estero assolve anche ad una funzione veramente rilevante non solamente nel campo meridionale ma in quello nazionale.
Il Banco di Napoli in questo momento non ha un’amministrazione efficiente.
L’attuale commissario straordinario del Banco fu nominato dal Duca di Addis Abeba nel 1943, ed è ancora in queste condizioni di precarietà.
Io chiedo al Governo ed al Ministro delle finanze e del tesoro che si venga subito incontro a questo bisogno ormai indifferibile del Banco di Napoli, che gli venga data un’amministrazione efficiente, la quale possa riportare il Banco, questo glorioso istituto, a quei fastigi, ai quali lo aveva portato un grande meridionale, Nicola Miraglia.
Un altro breve rilievo, anzi una segnalazione al Governo.
Mi è stato riferito – e lo cito, direi quasi, per dovere di coscienza – che l’A.R.A.R., questa azienda che noi meridionali definiamo un «carrozzone», in questo momento ha in giacenza nei suoi depositi, a Roma ed a Napoli, diecine di quintali, se non forse tonnellate, di medicinali e di materiali fotografici e radiofotografici. Se si pensa che oggi un tubetto di aspirina si paga 150 lire, mentre una pastiglia acquistata in quella sede verrebbe a costare pochi centesimi, è chiaro ed evidente il motivo per cui questa merce resta lì a deperire e non viene immessa al pubblico consumo.
Noi sappiamo altresì che gli ospedali non hanno materiale radiofotografico, il quale viene acquistato a prezzo di ultra-affezione, mentre vi sono forse tonnellate di questo materiale che si perdono.
Ed allora si vuol far perdere, penso, artatamente questo materiale, perché un bel giorno noi sapremo, leggeremo, sussurreremo, mormoreremo qui e fuori di qui, che è stato portato un campione di questa merce deteriorata e che quindi tutta la partita è stata venduta per licitazione privata ad un basso prezzo a Caio, Tizio o Sempronio.
Richiamo l’attenzione (l’A.R.A.R. è sottoposta a controllo governativo) perché si facciano questi accertamenti e ci si dica quale esito abbiano dato.
Avrei quasi finito, se non dovessi fare due brevi accenni: in materia di lavori pubblici ed in materia di leggi per il consolidamento della Repubblica.
Lavori pubblici. Prestando fede alle fantomatiche erogazioni di fondi fatte con tanta buona volontà dal Ministro del tempo, onorevole Romita, noi staremmo benissimo in tutte le provincie.
Dolorosamente i fatti non hanno seguito le parole.
Vi cito un caso che riguarda specificamente la mia provincia.
Per i lavori a sollievo della disoccupazione, sulla carta venivano dati un miliardo e 550 milioni.
Allorquando andammo alla riunione, perché invitati dal prefetto di Avellino – l’amico Scoca è buon testimone – apprendemmo che il miliardo e 550 milioni si era ridotto a 500 milioni; facemmo un po’ il viso amaro; in ogni modo era sempre qualche cosa!
Ma nemmeno i cinquecento milioni vennero dati: in una prima erogazione ne vennero dati solamente ottanta, elevati successivamente a poco più di 180-190. Ora, se lo Stato è in condizione di poter far fronte a questo impegno, allora va bene; ma illudere con promesse che poi non possono essere mantenute, non mi sembra serio. Quando si promette o si promettono dei lavori o qualsiasi altra cosa che viene da parte del Governo, deve essere, per serietà, mantenuta. Quando non si è in grado di adempiere ai propri impegni, non si governa!
Un breve rilievo per quanto riguarda le leggi di consolidamento della Repubblica. Se ne è già ampiamente dissertato e discettato, e quindi non avrei bisogno di aggiungere altre parole. Ma devo citare anch’io l’argomento perché sono un meridionale ed ho il dovere, appartenendo al gruppo del partito repubblicano, di far presenti anomalie che tuttora si verificano nel Mezzogiorno, e non solo nel Mezzogiorno. Devo anche citare, prendendo lo spunto da quanto diceva l’amico Pacciardi giorni or sono per quanto si riferiva all’allora Ministro della guerra Facchinetti, che la Repubblica cioè cominciava e finiva nel suo Gabinetto, devo dire all’Assemblea che sino a quattro mesi or sono in alcuni Ministeri vi era ancora il ritratto di Umberto II appeso alle pareti. E l’onorevole Cingolani, che è qui presente, sa che un giorno al suo Ministero dovetti insorgere, e a momenti mi colluttavo con un maggiore addetto all’Ufficio ispezioni – se non sbaglio – o all’Ufficio disciplina, perché non solo si ostinava nel voler mantenere il quadro al suo posto, ma addirittura insorgeva contro di me perché chiedevo che fosse tolto. Dovetti ricorrere all’amico Cingolani perché quello sconcio venisse eliminato.
E che cosa dire di quello che avviene da Napoli in giù? Io non sono per le leggi di eccezione, ma ogni Stato ha il diritto e il dovere di difendersi e lo Stato repubblicano si deve difendere, anzi si deve consolidare. Motivo per cui è assurdo pensare che tuttora a Napoli siano esposti dei fogliacci, sui quali si cerca di avvelenare artificiosamente la pubblica opinione con ricordi nostalgici e col ritorno di un re che non ritornerà mai più.
BENEDETTINI. Durante la monarchia, si lasciava esporre il ritratto di Mazzini.
DE MERCURIO. Non è la stessa cosa. Non vi vietiamo di essere monarchici, ma vi vietiamo di dire menzogne. Voi non potete scrivere che la monarchia un giorno ritornerà: è una vostra speranza, non una certezza.
BENEDETTINI. Ma ne avete scritte tante voi altri prima del 2 giugno!
DE MERCURIO. Allora vi era la tregua istituzionale, ma oggi lo Stato è repubblicano.
BENEDETTINI. Ma allora c’erano anche delle leggi, che non erano rispettate.
DE MERCURIO. Seguite ora le leggi e rispettatele. Oggi la Repubblica è una libera affermazione dei cittadini.
Vediamo esposte queste fotografie, le quali sono in antitesi con quello che è il sentimento invalso oggi nell’opinione pubblica.
BENEDETTINI. Esagerato!
DE MERCURIO. Esagero per lei, non esagero per me!
Ed ho finito, onorevoli colleghi, però debbo richiamare l’attenzione del Governo ancora su un altro dato di fatto. Nell’Italia meridionale ancora non mi risulta che sia stata fatta una circolare ai prefetti della Repubblica, perché siano rimosse le scritte monarchiche e le fotografie degli ex reali nei comuni. Noi ancora, passando per le strade, vediamo delle scritte che offendono il sentimento della maggioranza degli italiani.
BENEDETTINI. Ma non offendono! È quello lo spirito. Dovete persuadervene.
Una voce a destra. Il popolo meridionale è in prevalenza monarchico.
DE MERCURIO. Io chiedo che il Governo, il quale ha dato assicurazione di voler fare sul serio le leggi per il consolidamento della Repubblica, cominci almeno da un minimo: faccia una circolare ai Prefetti. (Applausi a sinistra – Commenti).
PRESIDENTE. Il seguito di questa discussione è rinviato a lunedì.
Desidero avvertire gli onorevoli colleghi che lunedì darò la parola secondo l’ordine di iscrizione e che gli assenti decadranno senz’altro dal diritto di parlare.
Interpellanza con richiesta d’urgenza.
PRESIDENTE. È stata presentata, con richiesta di risposta urgente, la seguente interpellanza dagli onorevoli Mastino Pietro, Lussu, Mastino Gesumino, Chieffi:
«Al Presidente del Consiglio dei Ministri e al Ministro dei lavori pubblici, per sapere se intendano, e quando, mantenere le promesse tante volte fatte alla Sardegna di provvedere all’esecuzione dei lavori pubblici, assolutamente necessari per le sue elementari esigenze e per lo sviluppo delle sue ricchezze naturali (strade, acquedotti, ecc.) ed in modo speciale la messa in efficienza dell’Ente Flumendosa».
Chiedo al Governo quando intende rispondere.
SEGNI, Ministro dell’agricoltura e delle foreste. Chiedo che sia discussa insieme con analoga interpellanza già presentata dallo onorevole Mannironi e da altri.
Interrogazioni e interpellanza.
PRESIDENTE. Si dia lettura delle interrogazioni e di una interpellanza pervenute alla Presidenza.
SCHIRATTI, Segretario, legge.
«Il sottoscritto chiede d’interrogare il Ministro della difesa, per conoscere – in relazione al punto terzo della risposta scritta 177-4.4.2-LD, del 15 gennaio 1947, a una precedente interrogazione, che si trascrive:
«In considerazione delle disposizioni di cui sopra, non è stato chiamato alle armi alcun cittadino od unico sostegno di famiglia, tranne che l’interessato abbia omesso di fare presente o di documentare tempestivamente la propria situazione» e «constatato che un numero non trascurabile di cittadini residenti sia in montagna che in campagna o in piccoli paesi ove la negligenza di qualche segretario comunale non ha portato a conoscenza del pubblico la disposizione contenuta nel punto secondo di detta risposta, si è presentato alle armi ed è tutt’ora alle armi – se non sia logico e, più che logico, umano, prendere in considerazione le eventuali domande di esonero che verranno presentate dagli interessati, in considerazione che i suddetti hanno già pagato la negligenza degli altri o la loro ignoranza della legge con più di sei mesi di servizio militare.
«L’interrogante sarebbe sorpreso di qualsiasi considerazione che si opponesse a tale invio in congedo. Mantenere ancora alle armi coloro che di dovere e di diritto dovrebbero rimanere a sostegno della loro famiglia, sarebbe un atto di ingiustizia e di parzialità. (L’interrogante chiede la risposta scritta).
«Vischioni».
«Il sottoscritto chiede d’interrogare il Ministro della pubblica istruzione, per sapere se non ritenga giusto riportare a 70 anni il limite di età per il collocamento a riposo dei professori medi assunti prima del 1935, per i quali la legge 24 aprile 1935, n. 585, abbassando per tutti i professori medi il detto limite di età da 70 a 65 anni, veniva a modificare a loro danno il contratto d’impiego vigente all’atto della loro entrata in servizio. (L’interrogante chiede la risposta scritta).
«Bertini»
«Il sottoscritto chiede d’interrogare il Ministro della pubblica istruzione, per sapere se non intenda dare disposizioni e promuovere le misure necessarie, affinché:
1°) le provvidenze, di cui al decreto-legge 19 ottobre 1944, n. 301, a favore dei dipendenti statali non di ruolo che non ottennero la sistemazione in ruolo, perché non iscritti al partito fascista, siano analogamente estese a tutti coloro che, pur essendo nel ruolo degli insegnanti elementari, non furono ammessi per motivi politici ai concorsi per direttore didattico espletati nel passato, sfociando in tale grado la carriera dell’insegnante elementare;
2°) sia sollecitato (nel caso non fosse possibile ottenere quanto sopra) il concorso speciale per titoli riservato a coloro che per motivi politici e razziali furono esclusi dai concorsi espletati nel passato, come un provvedimento legislativo, già in corso di approvazione sin dal novembre 1945, autorizzava a fare il Ministero della pubblica istruzione, affinché possa finalmente avere inizio, anche nel campo direttivo, quella opera di ricostruzione, che il bene della scuola e la giustizia reclamano da troppo tempo;
3°) sia data la precedenza assoluta ai concorsi per titoli per la sistemazione nel ruolo direttivo ai perseguitati politici in possesso dei requisiti. (L’interrogante chiede la risposta scritta).
«Pera».
«Il sottoscritto chiede d’interrogare il Ministro del lavoro e della previdenza sociale, per conoscere i motivi per i quali:
- a) non si è ancora provveduto ad adeguare al costo della vita le pensioni di fame che vengono attualmente corrisposte agli invalidi ed ai pensionati della Previdenza sociale, in una misura che varia da un minimo di lire 560 ad un massimo di lire 1200 al mese;
- b) non è stato concesso alla stessa categoria il premio della Repubblica. (L’interrogante chiede la risposta scritta).
«Paolucci».
«Il sottoscritto chiede d’interrogare il Presidente del Consiglio dei Ministri ed il Ministro delle finanze e tesoro, per sapere se e quando avranno cura di disporre che sia ripristinato, con opportuni aumenti proporzionati al costo della vita, il sussidio ai sinistrati della provincia di Chieti (che conta 44 comuni distrutti o semidistrutti dalla guerra), inspiegabilmente soppresso dall’aprile 1946. (L’interrogante chiede la risposta scritta).
«Paolucci».
«Il sottoscritto chiede d’interrogare i Ministri della difesa e delle finanze e tesoro, per sapere se e quando si decideranno ad apportare congrui, ragionevoli aumenti, adeguati al costo della vita, ai sussidi per i congiunti dei militari, stabiliti, attualmente nella misura, addirittura risibile oltreché inumana, di lire 13,60 alla moglie, di lire 3,40 ad uno dei genitori, di lire 5,10 per ogni figlio, più una indennità «caropane» di lire 95 al mese. (L’interrogante chiede la risposta scritta).
«Paolucci».
«Il sottoscritto chiede d’interrogare il Ministro delle finanze e tesoro, per sapere se i danneggiati di guerra debbano ormai rassegnarsi – di fronte all’assoluta inerzia del Governo – a deporre ogni speranza di conseguire l’indennizzo cui hanno diritto. Si rifletta che alla istruttoria delle 140.000 domande di risarcimento per la sola perdita di mobili e beni domestici in genere, presentate alla Intendenza di finanza di Chieti, attendono soltanto 20 impiegati e che finora sono stati versati esigui acconti ad appena 12.000 richiedenti. (L’interrogante chiede la risposta scritta).
«Paolucci».
«I sottoscritti chiedono d’interrogare il Ministro dell’interno, per chiedere che intervenga con estrema e sollecita energia presso la prefettura di Udine al fine di ottenere che sia dato immediato corso alla decisione di provvedere alla ricostruzione della carriera del segretario del comune di Sedegliano, Ettore Fortunati; e di impedire in via assoluta che la decisa riassunzione in servizio nello stesso comune dello stesso segretario sia frustrata, prima della ricostruzione della carriera, da trasferimenti prefettizi, per presunti motivi di ordine pubblico, a un comune di grado VII.
«Gli interroganti protestano energicamente contro simili tentativi compiuti in dispregio di ogni senso di giustizia, che rivelano spirito di bassa faziosità nei confronti di un funzionario sol perché si tratta di persona che ha partecipato alla lotta antifascista e al movimento di resistenza; dichiarano che non intendono accettare eventuali «fatti compiuti» e che, se il Ministro dell’interno non provvederà come deve provvedere, porteranno il dibattito all’Assemblea Costituente. (Gli interroganti chiedono la risposta scritta).
«Dozza, Grazia».
«Il sottoscritto chiede d’interrogare il Ministro della difesa, per conoscere la sorte di un centinaio di ufficiali italiani tenuti prigionieri in Jugoslavia e fin dai primi di gennaio 1947 riuniti nel campo di Versac e indi smistati, parte al campo di Ulsac, nei pressi di Belgrado, e parte al campo di Firoli (Spalato); questi ultimi dal 4 gennaio sono a Spalato in attesa d’imbarco.
«Ciò per rispondere alle famiglie dei prigionieri, che hanno fatto pervenire al Governo e ad alcuni deputati, numerose lettere, pregando di interessarsi della sorte dei loro congiunti e di provvedere al loro sollecito rimpatrio. (L’interrogante chiede la risposta scritta).
«Matteo Matteotti».
«Il sottoscritto chiede d’interrogare il Ministro dell’industria e del commercio, per sapere se, nell’attuale tregua dei salari e dei prezzi, l’improvviso decreto che, pur essendo giustificato per le fabbricazioni posteriori, applica immediatamente l’aumento indiscriminato del 65 per cento sui prezzi, già decuplicati nel 1946, di tutti i medicinali esistenti, coi relativi margini di guadagno, nei magazzini e nelle farmacie d’Italia, non si risolva in un sopraprofitto netto del 50 per cento (detratte le spese di trasporto e di recipienti, accollate finora ai consumatori) e se il medesimo debba essere incamerato dai proprietari come plusvalore o sopra guadagno, oppure avocato – previ rigorosi accertamenti – allo Stato (analogamente ai sopraprofitti di guerra e di regime), o ai comuni, a sollievo delle enormi spese sostenute per pagare i medicinali e le cure mediche ai numerosi iscritti nell’elenco dei poveri. (L’interrogante chiede la risposta scritta).
«Matteo Matteotti».
«I sottoscritti chiedono d’interrogare il Ministro dei lavori pubblici, per conoscere le ragioni per le quali non si sia ancora provveduto alla ricostruzione del ponte sul Carapelle, distrutto durante la guerra, la cui interruzione allunga e rende difficile il traffico tra il nord e le provincie meridionali. (Gli interroganti chiedono la risposta scritta).
«Grassi, Vallone».
«Il sottoscritto chiede di interpellare il Ministro della difesa, per sapere se – tenendo conto del contributo che gli ufficiali di complemento hanno dato nella lotta di liberazione, dopo aver assolto al loro duro dovere in guerra – intenda dare adeguato riconoscimento agli ufficiali di complemento dei quattro gruppi di combattimento italiani che, dopo lo scioglimento del C.I.L., entrarono in azione sul fronte, che si era arrestato alla linea gotica, concedendo:
1°) la qualifica di volontari della guerra di liberazione, con anzianità relativa al giorno in cui ciascuno si trovò a combattere contro i tedeschi;
2°) il rimborso delle somme corrisposte alle famiglie dalla pseudo repubblica di Salò e successivamente trattenute a fine guerra;
3°) un premio di smobilitazione, in relazione al numero di anni di servizio prestati;
4°) possibilità concrete di sistemazione nella vita civile o nei Corpi armati dello Stato (in quest’ultimo caso, riconoscendo lo stesso grado con cui gli ufficiali vennero congedati).
«Giacchèro».
PRESIDENTE. Le interrogazioni testé lette saranno iscritte all’ordine del giorno e svolte al loro turno, trasmettendosi ai Ministri competenti quelle per le quali si chiede la risposta scritta.
Così pure l’interpellanza sarà iscritta nell’ordine del giorno, qualora il Ministro interessato non vi si opponga nel termine regolamentare.
La seduta termina alle 19.15.
Ordine del giorno per la seduta di lunedì 24.
Alle ore 15:
- – Seguito della discussione sulle dichiarazioni del Presidente del Consiglio dei Ministri.
- – Esame del progetto di Costituzione della Repubblica italiana.