ASSEMBLEA COSTITUENTE
XXXVI.
SEDUTA DI GIOVEDÌ 13 FEBBRAIO 1947
PRESIDENZA DEL VICEPRESIDENTE CONTI
INDICE
Interrogazioni (Svolgimento):
Carpano, Sottosegretario di Stato per l’interno
Spano
Bettiol
De Gasperi, Presidente del Consiglio dei Ministri
Seguito della discussione sulle dichiarazioni del Presidente del Consiglio dei Ministri:
Presidente
Bonomi Paolo
Nobile
Cingolani Mario
Valiani
Saragat
Mazza
Caso
Interpellanze e interrogazioni d’urgenza:
Codacci Pisanelli
Presidente
Micheli
Pella, Sottosegretario di Stato per le finanze Gabrieli
Canevari
Romita, Ministro del lavoro e della previdenza sociale
De Gasperi, Presidente del Consiglio dei Ministri
Mastino Pietro
Priolo
Interrogazioni (Annunzio):
Presidente
La seduta comincia alle 15.
RICCIO, Segretario, legge il processo verbale della seduta precedente.
(È approvato).
Interrogazioni.
PRESIDENTE. L’ordine del giorno reca lo svolgimento della seguente interrogazione: Spano, Pratolongo, Pellegrini, Longo, ai Ministri dell’interno e degli affari esteri, «per conoscere per quale motivo non sono state prese le opportune precauzioni allo scopo di proteggere la sede della Delegazione Jugoslava presso la Commissione consultiva per l’Italia; e per sapere quali misure sono state adottate a carico dei funzionari sui quali ricade la responsabilità dei deplorevoli incidenti di lunedì, 10 febbraio».
L’onorevole Sottosegretario di Stato per l’interno ha facoltà di parlare.
CARPANO MAGLIOLI, Sottosegretario di Stato per l’interno. In occasione della firma del trattato di pace si sono svolte manifestazioni in molti centri d’Italia, senza dar luogo ad inconvenienti. A Roma, durante una cerimonia svoltasi all’altare della Patria, vi è stato un lieve incidente, che peraltro non ha avuto alcun rilievo, per la rimozione di una corona depostavi qualche giorno prima dall’Ambasciatore americano.
Per quanto riguarda i fatti accaduti in Via Quintino Sella, si deve premettere che in detta strada, al n. 56, ha sede un ufficio dipendente dalla Delegazione Jugoslava presso il Comitato Consultivo per l’Italia, la cui sede ufficiale si trova in Via Monte Parioli n. 24, e che non costituisce comunque sede coperta da immunità diplomatica.
Pertanto la Questura aveva disposto, a titolo puramente precauzionale, un servizio di vigilanza con due guardie di pubblica sicurezza in borghese, come da richiesta fattale ed un carabiniere, in relazione sia al carattere dell’Ufficio, sia anche alla opportunità di non richiamare su di esso l’attenzione del pubblico, cui non era noto anche per la mancanza di ogni segno esteriore.
Di fronte a tale Ufficio ha sede il Comando della Divisione dei Carabinieri e, non appena è apparsa la folla dei dimostranti, sono scesi fuori dalla Caserma 7 carabinieri armati di moschetto, oltre ad un maresciallo, ad un ufficiale dell’Arma, nonché un Commissario di pubblica sicurezza.
Il gruppo di dimostranti passava casualmente per Via Quintino Sella, di ritorno dalla cerimonia di Piazza Venezia, e l’attenzione sull’edificio fu attirata, nella particolare circostanza, dalla bandiera jugoslava, esposta per la prima volta in quel giorno.
I dimostranti ne chiedevano il ritiro, mentre circa un centinaio di essi, sopraffacendo le guardie ed i carabinieri che cercavano di opporvisi e travolto il Commissario di pubblica sicurezza, salivano la scala.
Al terzo piano costoro trovarono chiusa la porta che tentavano di forzare; veniva sparata dall’interno, dal personale degli uffici, una raffica di mitra a scopo intimidatorio; dopo di che i dimostranti si allontanavano.
Sul posto si recavano subito il Questore ed il Vice Questore; con l’ausilio di rinforzi fatti affluire si ristabiliva l’ordine.
Non si lamentano danni alle persone e si è verificata soltanto la rottura di due vetri.
Il Questore, immediatamente, ha espresso il suo rammarico per l’increscioso incidente al rappresentante jugoslavo, disponendo pure opportune misure di protezione.
Sono in corso, tuttavia, ulteriori accertamenti per valutare l’opera svolta dagli organi di polizia nell’incidente, soprattutto ai fini di stabilire la tempestività dell’intervento dei rinforzi disponibili, e per quei provvedimenti che al caso si ravvisassero opportuni.
PRESIDENTE. L’onorevole Spano ha facoltà di dichiarare se sia soddisfatto.
SPANO. Se fossimo stati in circostanze ordinarie e gli avvenimenti che noi abbiamo lamentato e sui quali abbiamo interrogato il Ministro dell’interno fossero avvenuti in circostanze ordinarie, forse per pura e semplice cortesia ci si sarebbe potuti dichiarare soddisfatti: E dico per cortesia, perché è difficile tuttavia dichiararsi soddisfatti di una informazione nella quale ci si dice che la folla è passata «casualmente» di fronte a una sede consolare, nella quale pare sia considerata una provocazione l’esposizione della bandiera di una delle Nazioni Unite.
Una voce a destra. Che cosa strana!…
SPANO. Che sia considerata una provocazione pare dal contesto stesso della risposta del Sottosegretario di Stato per l’interno; ma sta di fatto che noi non eravamo in quel giorno in circostanze ordinarie. Gravi e delicate erano le circostanze e grave è il fatto che gli episodi accaduti non possano essere considerati come isolati in una giornata in cui questi avvenimenti si sono svolti «casualmente», come dice il Sottosegretario di Stato. La verità è che quel giorno l’Italia protestava. Tutto il popolo italiano protestava nell’ordine e manifestava il suo cordoglio e la sua indignazione per l’ingiusto trattato che ci veniva imposto. Era particolarmente necessario quel giorno che questa protesta apparisse come la protesta di tutto il popolo italiano e della sua volontà di rinnovamento. Era particolarmente pericoloso che questa protesta si confondesse con provocazioni fasciste ed assumesse il volto della provocazione fascista. È proprio quello che le autorità di polizia non hanno saputo impedire. Questi incidenti, del resto, non sono stati uno solo, poiché si è rimosso un nastro di una corona americana, si è attaccato il Consolato Jugoslavo, si è manifestato in modo indegno contro le forze armate delle Nazioni Unite e alcuni rappresentanti di esse sono stati picchiati. Le reazioni a queste provocazioni fasciste non sono venute dalle forze di polizia, dalle quali sarebbero dovute venire, ma sono venute dalla spontanea indignazione delle masse popolari, dalla spontanea indignazione dei lavoratori, i quali, manifestando la loro protesta, intendevano darle un carattere di italianità e non un carattere fascista.
Ma, ripeto, sarebbe stata forse ancora soddisfacente la risposta del Sottosegretario di Stato per l’interno, se gli episodi di quel giorno fossero stati isolati e non avessero avuto precedenti. Disgraziatamente i precedenti ci sono, e gravi, talmente gravi da preoccupare tutto il Paese; e noi pensiamo che dovrebbero in primo luogo preoccupare il Ministro degli interni e le Autorità di polizia. Si sta creando, in Italia, o si sta ricreando, sulla base della giusta protesta e della giusta indignazione del popolo italiano, un’atmosfera pericolosa per il nostro Paese, un’atmosfera nella quale possono avvenire fatti come quelli lamentati non molti giorni fa a Pola, dove una impiegata italiana, inviata dall’Italia e alle dipendenze dell’addetto alla Commissione Pontificia, ha assassinato un generale inglese. (Rumori, proteste a destra e al centro – Interruzioni dell’onorevole Miccolis).
Poiché si leva da codesti settori una tale protesta, forse voi ne sapete qualche cosa di questa impiegata, assassina di un generale inglese. È evidente che ciò denuncia una complicità, per lo meno morale. (Rumori vivissimi – Proteste al centro e a destra – Interruzioni dell’onorevole Miccolis).
Sta di fatto che un generale inglese è stato assassinato a Pola da una fascista. (Vive proteste all’estrema destra – Interruzioni dell’onorevole Miccolis).
PRESIDENTE. Onorevole Miccolis, la richiamo all’ordine.
SPANO. Sta di fatto che un console jugoslavo è stato assassinato…
Una voce a destra. Ma da chi?
SPANO. D’altra parte, questi avvenimenti sono senza dubbio collegati con l’ambiente arroventato che si sta creando in queste settimane nelle regioni giuliane, dove tutti i democratici più in vista ricevono lettere minatorie a firma d’una sedicente divisione Gorizia o di altre organizzazioni, che si nascondono sotto le apparenze più tenebrose.
Sono avvenuti altri fatti: bombe sono state lanciate contro le abitazioni e contro le sedi di organizzazioni democratiche in queste ultime settimane a Monfalcone, Cormons, Gradisca e Gorizia.
Il fatto che questi avvenimenti si susseguono, e nella regione giuliana e nel resto del territorio italiano, ha conseguenze particolarmente gravi; il nostro Paese e il nostro Governo si trovano in questo momento di fronte alla necessità di creare un’atmosfera nella quale possano essere risolte le gravi questioni internazionali che si pongono alla popolazione giuliana ed al popolo italiano in generale.
Ora, i provvedimenti presi dalle Autorità di pubblica sicurezza, proprio nel giorno in cui il popolo italiano protestava contro il trattato di pace imposto, nella situazione che vivevamo in quei giorni, appaiono assolutamente insufficienti.
E non è a dire che il Ministero dell’interno potesse contare sullo zelo e sullo spirito di vigilanza della polizia italiana.
Da quello che ci risulta, i capi della polizia italiana sono ancora quelli che si sono preoccupati sovrattutto di emanare circolari contro il partito comunista negli ultimi mesi.
Sono ancora i signori inventori della «Troika». Noi non crediamo che il Ministero dell’interno possa in modo molto semplicistico affermare di avere fiducia in questi dirigenti della polizia, per la difesa del buon nome italiano. Vengano prese, pertanto, le misure necessarie ad evitare incidenti incresciosi per tutti gli sviluppi della politica italiana.
Per questo ci dichiariamo assolutamente insoddisfatti della risposta del Sottosegretario di Stato per gli affari interni.
BETTIOL. Chiedo di parlare.
PRESIDENTE. Non posso darle facoltà di parlare, perché siamo in sede di interrogazioni.
BETTIOL. Per fatto personale: si è parlato di Gorizia, Monfalcone, Gradisca; posso rispondere. (Commenti – Rumori).
PRESIDENTE. Non c’è il fatto personale. Ha chiesto di parlare l’onorevole Presidente del Consiglio. Ne ha facoltà.
DE GASPERI, Presidente del Consiglio dei Ministri. Egregi colleghi, sentiamo tutti dobbiamo sentire tutti la responsabilità nostra innanzi ad una situazione così tesa.
Innegabilmente il trattato ha portato nell’animo italiano una reazione che in altri tempi, senza la disciplina di cui va data lode alle masse popolari, ci avrebbe portato a ben diversi conflitti. (Applausi).
Io dico, ripetendo con ciò le dichiarazioni del Sottosegretario per l’interno, che è riservata ancora un’ulteriore inchiesta circa la sufficienza o l’insufficienza, la tempestività o non tempestività dei provvedimenti di polizia. Però non posso accettare l’interpretazione generica che, dopo una panoramica rassegna di fatti che hanno o non hanno connessione con quello che formava oggetto dell’interrogazione, conclude con un voto di sfiducia ai direttori della polizia sui propositi, sulle intenzioni, sulla mentalità di mantenere l’ordine a qualunque costo, contro chiunque lo disturbi, da qualunque parte venga. Su questo mi pare che anche nei riguardi dei dirigenti di polizia non si possa dubitare. Circa la sufficienza o l’insufficienza, abbiamo ancora da riesaminare la questione, come ha già detto il Sottosegretario di Stato per l’interno.
Devo aggiungere però che trovo del tutto inadeguato, fuori di proposito, che si citi il fatto gravissimo di Pola, per il quale abbiamo espresso il nostro profondo rincrescimento. Esso deve essere considerato sotto due aspetti: che la vittima è completamente fuori causa nella questione del trattato; che un’italiana sia ricorsa a simili mezzi per manifestare la propria indignazione. Complicità da parte delle autorità italiane o del pubblico italiano non ve ne possono essere. E c’è una prova, onorevole Spano, che finora non è ancora conosciuta, ma che è di una gravità particolare: le autorità alleate erano state avvertite che la signorina Pasquinelli aveva manifestato tali propositi, o propositi similari, ed erano state messe in guardia. Erano le autorità alleate responsabili dell’ordine pubblico nella città di Pola, non noi! (Applausi al centro e a destra).
Devo aggiungere ancora che, contrariamente a quello che è stato pubblicato su un giornale, non è vero che la signorina Pasquinelli sia stata delegata o mandata a Pola da qualsiasi organo statale o parastatale. Anzi, la signorina Pasquinelli, essendo conosciuta come una esaltata, era stata licenziata dal Comitato di liberazione nazionale di Trieste qualche tempo fa, e si era recata a Pola partendo da Milano. E in quella occasione era stato dato il monito, o l’avviso a cui mi sono riferito. A Pola s’era messa a disposizione del Comitato esodo, il quale è completamente indipendente, sia da qualsiasi altro centro di assistenza che si trovi in Italia, sia in modo particolare dal Comitato interministeriale che cerca di assistere coloro che hanno voluto, nonostante le sollecitazioni da parte del Governo, abbandonare Pola in uno stato d’animo che ci è stato assolutamente impossibile di frenare. Dinanzi a questa volontà energica, tragica, eroica, che cosa resta al Governo italiano, se non di fare di tutto perché essi siano bene accolti? (Applausi al centro e a destra).
Quindi, non tentiamo di allargare gli amari incidenti che sono avvenuti, collegandoli l’uno all’altro. C’è naturalmente, nello sfondo, la reazione contro il trattato di pace. Ma, lo ripeto, pensate, se ciò fosse avvenuto nell’immediato dopo-guerra dell’altra guerra, nel 1919 o nel 1918, quale sarebbe stato lo stato d’animo, quale l’effervescenza.
Riconosco che ciò è un merito, soprattutto della maggiore disciplina delle masse popolari, (Approvazioni a sinistra) ma devo dire che anche da parte degli organi dello Stato si è fatto di tutto per calmare una reazione. Lo stesso contegno, lo stesso atteggiamento che ha tenuto il Governo qui, e le istruzioni date alle autorità di pubblica sicurezza, ve ne fanno garanzia. Vi prego di non guastare questo atteggiamento con polemiche e discussioni tra fascismo e antifascismo. Non so se questa signorina sia stata o no fascista; il fatto è che, anche se non fosse stata fascista il fatto sarebbe purtroppo spiegabile anche da uno stato di eccitamento generale, anche al di fuori e al di sopra del fascismo. Comunque, deploriamo l’accaduto, ed uniamoci con un senso di pace e di responsabilità. (Vivi applausi al centro).
Seguito della discussione sulle dichiarazioni del Presidente del Consiglio dei Ministri.
PRESIDENTE. L’ordine del giorno reca: Seguito della discussione sulle dichiarazioni del Presidente del Consiglio dei Ministri.
Ricordo all’Assemblea quanto è stato convenuto ieri: che si debbano cioè contenere i discorsi in limiti quanto più è possibile sobri. Ricordo anche che chiunque sia iscritto non potrà rifiutarsi di parlare fino alle ore 20. Non sarà ammessa nessuna richiesta di rinvio.
È inscritto a parlare l’onorevole Bonomi Paolo. Ne ha facoltà.
BONOMI PAOLO. Onorevoli colleghi, parlo a nome della Confederazione nazionale dei coltivatori diretti. Mi riferirò unicamente alle dichiarazioni del Presidente del Consiglio, che riguardano problemi dell’agricoltura e problemi dell’alimentazione.
Tre mesi or sono, il Congresso nazionale della Confederazione dei coltivatori diretti, che interpreta i voti, i desideri e le aspirazioni della grande massa dei piccoli agricoltori e dei coltivatori diretti, discusse vari problemi importanti e li presentò all’attenzione del Governo, al quale chiese in modo particolare la proroga dei contratti e la perequazione dei canoni di affitto, la conversione in legge del lodo De Gasperi, l’estensione ai coltivatori diretti delle assicurazioni malattia, chirurgica, ospedaliera e tubercolosi. In quell’occasione, il Presidente del Consiglio, il Ministro dell’agricoltura e il Ministro del lavoro, intervenuti al Congresso, assicurarono ai coltivatori diretti che i loro desideri non sarebbero andati delusi. L’altro giorno, il Presidente del Consiglio, con le sue dichiarazioni, ha mantenuto le promesse. Con i provvedimenti annunciati, ritorna la pace nelle campagne, ritorna il sereno in mezzo ai lavori dei campi.
Il Presidente del Consiglio, l’altro giorno, ha assicurato che immediatamente uscirà il provvedimento per la proroga dei contratti d’affitto ed è necessario su questo problema dire una parola, perché, da tante parti, qualcuno incomincia già a protestare in nome di non so quale libertà. Vorrebbero tanti proprietari essere liberi, alla fine di quest’anno in corso, di fissare i canoni di affitto più convenienti per i proprietari terrieri, e non, logicamente, per gli affittuari. È vero che la proroga non è un provvedimento perfetto; è vero che la proroga può, in ultima analisi, essere considerata come un male minore, come il minore dei mali; ma quando si dice, da qualche parte, che continuare a prorogare i contratti di affitto danneggia la produzione, e che in qualche famiglia le unità lavorative sono aumentate, ed è quindi necessario, anzi indispensabile, passare a più vaste estensioni di terra, occorre tener presente anche il rovescio della medaglia. Se dovessimo lasciar liberi gli affitti in questo momento, dato che tanta gente vuol tornare alla terra e le domande di terra aumentano, vedremmo i canoni salire alle stelle: proprio questa è la ragione principale che spinge i proprietari terrieri a chiedere la libertà e a combattere la proroga.
Ma ai proprietari, e specialmente ai piccoli proprietari, io ricordo che la proroga è conseguenza della guerra. È vero che con la proroga guadagneranno meno – guadagneranno sempre, sia detto fra parentesi – ma è anche giusto che la guerra sia pagata da tutti. Finora chi paga la guerra? Le masse degli operai, degli impiegati, dei pensionati, di coloro, cioè, che dal lavoro, dallo stipendio, dal salario non ricavano l’indispensabile per vivere. Le conseguenze della guerra, le pagano anche i proprietari dei beni urbani, che non solo hanno la proroga dei contratti d’affitto, ma anche del quid dell’affitto, e dall’affitto ricavano oggi cifre irrisorie.
Per i proprietari terrieri non c’è, invece, il blocco dei canoni, ma soltanto la proroga dei contratti.
Già un anno e mezzo fa, attraverso il decreto Gullo, i canoni in danaro sono stati perequati: e non si dimentichi che se è vero che a causa della proroga in qualche caso i proprietari terrieri guadagnano poco, essi peraltro hanno un capitale che non è stato deprezzato, ma che è aumentato di dieci, di venti ed anche di trenta volte. Per questo noi chiediamo la proroga dei contratti d’affitto, e non per un anno ma per tre anni, perché la proroga per un solo anno significherebbe sfruttamento irrazionale della terra. Infatti, se il contadino non ha la certezza di restare sul fondo almeno per tre anni, finisce per praticare un’agricoltura di rapina.
Ma non è sufficiente il decreto di proroga dei contratti d’affitto: occorre qualche altra cosa. Ci vogliono le condizioni per l’equo canone d’affitto, quelle condizioni che il Ministro dell’agricoltura ha già preparato dopo averle discusse con le varie organizzazioni.
Perché, onorevoli colleghi, quelli di voi che hanno un po’ di pratica di questioni agricole, sanno in quali condizioni si trovano gli affittuari, ad esempio, delle provincie di Napoli e Caserta, dove vi sono affitti che arrivano al 60, al 65, e anche al 70 per cento della produzione lorda.
C’era nel periodo borbonico una precisa disposizione che vietava gli affitti, riferiti alla misura locale, a non più di due fasci di canapa. Oggi, nel ventesimo secolo, in qualche zona della provincia di Napoli e di Caserta, gli affitti sono saliti da due e mezzo a oltre tre fasci di canapa, più le onoranze.
Questa è la realtà.
In alcuni casi si è cercato di arrivare ad un accordo. L’Associazione degli agricoltori di Napoli aveva firmato un accordo per una riduzione del 25 per cento degli affitti. Però i proprietari si sono rifiutati di eseguire l’accordo e non intendono concedere alcuna riduzione. Questa è la realtà contro cui lottano oggi gli affittuari.
Questo non accade soltanto nelle provincie di Napoli e Caserta. Anche a Mantova e a Verona, per esempio, troviamo affitti che raggiungono le 70 o 75 mila lire per ettaro, affitti assolutamente insopportabili, affitti riferiti a uva, a latte, a formaggio, che non possono essere più pagati dagli affittuari. È necessario, quindi, che il Governo intervenga e intervenga con quelle Commissioni paritetiche presiedute da un magistrato, che potranno domani perequare gli affitti esagerati. E non dimentichiamo una cosa: un po’ tutti i partiti hanno detto e ripetuto, durante e dopo le battaglie elettorali, che vogliono il diffondersi, il potenziamento delle piccole aziende; ma andare di questo passo, se lasciate questi affitti, significa non diffondere e potenziare, ma distruggere le piccole aziende.
L’altro ieri, il collega Perrone-Capano si è lamentato della legge sulle terre incolte e mal coltivate; ha protestato e attaccato la legge Segni. Devo dire che l’onorevole Perrone-Capano aveva perfettamente ragione di lamentarsi, di gridare, di protestare. Per quale ragione? Per una ragione semplicissima: che, con questa seconda legge sulle terre incolte e mal coltivate, gli agrari e i grossi proprietari sono stati costretti realmente a dare la terra e, se volessimo consultare le statistiche, troveremmo che hanno dovuto concedere varie migliaia di ettari di terra. Con la precedente legge Gullo era troppo facile per il proprietario dire ed affermare che le terre incolte non c’erano o erano destinate al pascolo. È proprio quella dizione specifica messa dal Ministro Segni, cioè «per una coltura migliore», che costringe il proprietario a dare la terra. Terre incolte non ce ne sono: che interesse avrebbe il proprietario a pagare le tasse e mantenere le terre incolte? Che interesse avrebbero a fare altrettanto gli affittuari? Quindi, ai contadini non bisogna dare terre che non fruttano, ma quelle terre che sono suscettibili di una coltivazione più intensiva, di una produzione maggiore. Aveva perfettamente ragione il collega Perrone-Capano, ma non doveva attaccarsi ad una questione di forma, bensì ad una questione di sostanza.
Sia chiaro che su questa strada il Governo ha fatto qualche cosa, ma questo non è sufficiente. Bisogna andare ancora oltre, e non basta dare le terre ai contadini; bisogna dare anche i mezzi ai contadini per lavorare la terra: bisogna dare aratri e trattori. Qui è assente il Ministro dell’industria; ma, se non erro, ultimamente si trattava di importare dei trattori da dare ai contadini. Ebbene, gli industriali hanno riposto che non era necessario importare i trattori, perché l’industria italiana era in condizioni di produrre tutto quello che era necessario per lavorare la terra. E poi, voi andate in giro – come è capitato a me quindici giorni fa – nella zona di Cassino, martoriata dalla guerra, e vedete aggiogati all’aratro non buoi, né cavalli, ma la moglie e i figli del colono o del coltivatore diretto! Questa è la realtà!
Il Presidente del Consiglio si è dichiarato quasi soddisfatto dell’ammasso dei cereali, ma non altrettanto quasi soddisfatto della disciplina del latte e dei grassi. Io vorrei dire al Presidente del Consiglio e agli altri membri del Governo: la disciplina del latte non ha dato risultati soddisfacenti per quella ragione precisa che ancora una volta abbiamo fatto presente agli organi di Governo ed agli organi interessati prima ancora che la legge venisse emanata. Non si può, con una bella legge, con un articolo, regolare tutto, livellare tutto. Prima che questa disciplina andasse in vigore il prezzo del latte variava nelle diverse provincie da 16 lire a 65 lire il litro; improvvisamente si pensò che era possibile con una norma legislativa stabilire per tutte le provincie il prezzo di 28 lire, senza portare un beneficio al consumatore di latte alimentare e di prodotti caseari. È impossibile attuare questa disciplina, perché le provincie che già vendevano latte industriale a 55, a 60, a 65 lire il litro, difficilmente accetteranno le disposizioni ministeriali.
Ma c’è ancora qualcosa di peggio. Il decreto stabilisce il prezzo del latte a 28 lire alla stalla. Era stato stabilito negli accordi di Commissione 32 lire; non sappiamo per quale ragione è diventato 28 lire. Si stabilisce poi una integrazione, per una cassa conguaglio, giustamente al fine di non fare aumentare il prezzo alimentare delle grandi città, di 6 lire, di modo che il latte che andrà alla lavorazione, il latte industriale verrà pagato dai signori industriali non 28, ma 34 lire. Ma, io mi chiedo, come mi sono già chiesto e come ho già chiesto alla Presidenza del Consiglio, al Ministro Macrelli, che era Presidente di una Commissione per questo problema, come mi sono già chiesto anche alla terza Sottocommissione per l’esame delle leggi, dove un ordine del giorno preciso è stato presentato, mi chiedo questa cosa semplicissima: se il latte industriale non costa, non vale, in base alle quotazioni del burro e dei formaggi, 34 lire, ma vale 45, 50, 55, 60 lire, a beneficio di chi andrà la differenza? La risposta, onorevoli colleghi, è molto semplice. Non a beneficio del consumatore, perché, in questo caso, sarei pronto a dichiararvi che i produttori sarebbero lieti di sottoscrivere questa disciplina; ma invece fino ad oggi possiamo affermare senza tema di smentite che il beneficio va esclusivamente a favore dei grandi industriali caseari del latte. E se si compilasse una statistica – e vorrei che il Ministero delle finanze facesse questa statistica – si rileverebbe che chi acquista continuamente terreni da tutte la parti, ed offre invece di 2 o 3 milioni per un terreno anche 4, 5, 6 milioni, è la massa degli industriali caseari, prima che degli agricoltori.
Che cosa si può fare? Ho fatto già presente all’Alto Commissario del tempo, Mentasti, che bisognava modificare questa situazione; modificarla in questo senso: fermo restando il prezzo del latte alimentare per la popolazione meno abbiente, fermo restando il prezzo del burro da distribuire con la tessera, se gli industriali, attraverso la vendita dei prodotti caseari – e mi sia permesso di dire che nessuna disciplina riuscirà a regolarli attraverso i prezzi, attraverso i calmieri – se gli industriali guadagneranno di più attraverso i prodotti industriali, formaggi, grano e via di seguito, il prezzo del latte al produttore deve essere non un prezzo fisso di 28 lire, ma un prezzo riferito a quelli dei prodotti caseari.
L’onorevole Mentasti, assente quando è stata preparata questa disciplina, si è dichiarato d’accordo sul mio punto di vista e ha interessato il Presidente del Consiglio per la modifica della legge.
Non chiediamo al Governo di modificare il prezzo del latte alimentare, né il prezzo del burro; chiediamo soltanto di far sì che questa categoria di industriali non abbia a guadagnare sulle spalle di chi lavora, sulle spalle dei produttori agricoli. Nient’altro che questo.
Ammasso dell’olio. Anche il Ministro dell’agricoltura, Segni, si è dichiarato non sodisfatto del suo andamento. Avevamo chiesto noi di tentare un ammasso per contingente. Il Ministro ha accettato la nostra proposta e il Ministero tenta, con la collaborazione delle organizzazioni sindacali, di far riuscire questo ammasso per contingente. C’è qualche provincia però che ha fatto molto male. Ma mi sia permesso di dirlo, perché già l’ho scritto ai vari Ministri competenti, e quindi anche al Ministro Segni, che dal lavoro fatto dalle nostre Commissioni che si sono recate a Bari, a Reggio Calabria, a Firenze, risulta che l’intralcio alla realizzazione di questo ammasso per contingenti non è dato dagli agricoltori, dai produttori ed in special modo dai produttori piccoli, ma da certi frantoiani che nascondono l’olio e lo vendono alla borsa nera. Abbiamo richiamato l’attenzione del Ministro dell’agricoltura, del Ministro dell’alimentazione, dell’UPSEA. Bisogna provvedere perché, se si son messi ieri in prigione i contadini che non hanno consegnato qualche quintale di grano, si agisca con necessaria energia anche nei confronti di questi industriali frantoiani. (Applausi).
Ma sulla questione dell’ammasso, me lo permetta il Presidente del Consiglio, io qui ho oggi il dovere di esprimere anche quello che pensano i coltivatori diretti, la massa degli agricoltori italiani. L’ammasso del grano è andato discretamente bene: 22 milioni di quintali ammassati. Gli agricoltori hanno fatto il loro dovere.
Se voi andate in questo periodo a visitare le carceri, troverete, accanto ai delinquenti comuni, degli agricoltori, dei coltivatori, responsabili di aver trattenuto qualche quintale di grano in più dei consentiti due quintali per persona, assolutamente insufficienti per un contadino che lavora dieci, dodici e anche quindici ore al giorno.
C’è della gente in Italia che fa la borsa nera, che guadagna milioni, onestamente e disonestamente. Io mi chiedo, si chiedono i contadini di tutta Italia: se i momenti sono duri e difficili, se questo è il momento della solidarietà e non dell’egoismo, il momento in cui bisogna saper guardare indietro, a chi sta peggio, e non davanti, a chi sta meglio di noi, perché non si agisce con la necessaria severità anche nei confronti delle altre categorie?
Noi vediamo, ad esempio, che sotto le finestre del Commissariato dell’alimentazione, o poco lontano, si venda pubblicamente, sfacciatamente, a quintali, il pane (dico a quintali perché l’altro giorno, mentre passavo per il Trionfale, ho visto un carrettino con almeno mezzo quintale di «sfilatimi» di pane che scaricava sulle bancarelle di vendita), si vendono a quintali lo zucchero, la farina, l’olio. Perché non si agisce con severità anche nei confronti di costoro?
Ricordavo al Ministro Morandi, qualche giorno fa, che gli industriali tessili avevano assunto l’impegno preciso di lavorare quelle cotonate, quelle lane, quei pellami messi a disposizione, gratuitamente, dall’UNRRA e di consegnare la loro produzione in modo che potesse essere distribuita in settembre, ottobre e novembre alle diverse categorie lavoratrici. Ma risulta che gli industriali hanno fatto forte resistenza; poi hanno ceduto solo in parte. Hanno fatto resistenza perché conveniva loro molto di più lavorare per l’esportazione che per l’interno, perché, quelle scarpe o quei tessuti che possono produrre a 1200 lire il paio o a 1800 il metro, possono venderli in borsa nera ufficiale a 4-5 mila lire il paio o il metro, senza rischiare di andare in prigione.
Questa è la realtà in cui viviamo oggi. C’è una disciplina dei ristoranti; perché non la si fa osservare? Nessun ristorante chiede i bollini del pane. Quanto pane si potrebbe risparmiare! E allora chiedo, non a nome mio, ma a nome degli agricoltori, che, se si deve agire, bisogna agire anche nei confronti delle altre categorie.
A nome degli agricoltori e dei produttori, diciamo apertamente al Governo, come l’abbiamo detto nel nostro Congresso al Presidente del Consiglio: siamo pronti a sottoporci a qualunque vincolo, siamo pronti a qualunque opera di solidarietà (perché, prima di protestare, bisogna spezzare il pane con chi ne è senza, con chi è disoccupato), ma chiediamo: o libertà per tutti o libertà per nessuno.
E passiamo ai tabacchi. Mi rivolgo all’onorevole Scoccimarro. L’altra settimana sono venuti da me 4 o 5 contadini di Arpino, zona rovinata dalla guerra, perché intervenissi presso il Monopolio a scaricarli da una multa di 60 o 70 mila lire, inflitta loro perché avevano coltivato 10 o 15 piante di tabacco in più. Mi hanno fatto questo ragionamento: «Noi dobbiamo pagare 60 mila lire di multa, mentre, venendo da lei, abbiamo notato ad ogni 50 metri bancarelle colme di tabacchi, che si vendono liberamente; se c’è una legge che impedisce la coltivazione dei tabacchi, ve n’è pure un’altra che ne impedisce la vendita!».
Ora, se si può avere qualche scrupolo per stroncare la borsa nera del pane (perché qualcuno ha detto che, se no, saremmo morti di fame tutti), ritengo che certi scrupoli per le sigarette non ci dovrebbero essere. Bisognerebbe stroncare energicamente la borsa nera delle sigarette. Se è vero, come è vero, quanto ha detto l’onorevole Scoccimarro, che il Monopolio ci dà 70 miliardi, è altrettanto vero che, se si agisse con maggiore fermezza ed energia, i 70 miliardi, potrebbero diventare 100 o 120, perché ognuno di noi non si accontenta delle sigarette distribuite con la tessera, ma ogni giorno ne compra altre in borsa nera.
Il Presidente del Consiglio ha accennato al prezzo differenziato per il pane. Abbiamo partecipato alle discussioni su questo problema. Il Governo lo studi bene. Dai rilievi fatti risulta che per mettere in atto questa nuova disciplina, si spenderebbero, per stampati e burocrazia, circa 10 miliardi. Il giuoco vale la candela? E, poi, non ritengo sia il caso di dividere l’Italia in due. Se domani sarà proprio necessario, non facciamo la differenziazione del prezzo del pane, ma preoccupiamoci di assicurare il pane soltanto alle categorie meno abbienti; lasciamo stare le altre. Ma non facciamo una differenziazione del prezzo soltanto.
Mi vorrei ancora rivolgere all’onorevole Scoccimarro per un’altra questione, anche se non è più il Ministro delle Finanze. In questi giorni gli Uffici finanziari di alcune provincie – di Campobasso, Benevento; stamattina mi hanno telefonato da Alessandria e da Milano – stanno mettendo in atto quella legge sui profitti di speculazione. E qui mi viene un dubbio: il Ministero delle Finanze – non intendo dire il Ministro Scoccimarro – che è riuscito o non è riuscito ad avocare i profitti di guerra e di regime (e il perché non lo so: forse perché chi aveva fatto questi profitti di regime e di guerra ha alle spalle diversi milioni, e coi milioni si esce di prigione e si riesce a fare tante cose) oggi sta cercando di incassare ciò che non ha incassato coi profitti di regime e di guerra, coi profitti di speculazione. Giusto! Non intendo entrare nel merito della legge. Criterio giustissimo quello di colpire chi ha guadagnato disonestamente e senza scrupoli. Però c’è nella legge un criterio di presunzione. La voce di allarme che si raccoglie in questi giorni è questa: si va dai contadini senza nessun accertamento; si presuppone che abbiano fatto la borsa nera; si presuppone, per esempio, che, per ogni ettaro coltivato a grano, essi abbiano venduto sei o sette quintali alla borsa nera. E sei o sette quintali equivalgono a 60-70 mila lire. C’è poi la borsa nera del bestiame, e c’è qualche altra cosa. Gli uffici finanziari di Benevento hanno stabilito in certe zone 100 mila lire all’ettaro per profitti di speculazione. Credo che non si possa giuocare in simile modo, quando c’è di mezzo il sudore della povera gente. I contadini è vero, verissimo, che hanno fatto e fanno la borsa nera. Non sono io a dar loro la patente dell’onestà assoluta; ma io vorrei chiedere: chi è che non ha fatto la borsa nera? (Interruzioni – Commenti). Parlo delle categorie produttive, naturalmente. Il Ministro d’Aragona, certamente no, perché non è categoria produttiva. (Si ride).
È facile dire al contadino che non deve fare la borsa nera. Ma volete che il contadino che, ad esempio, quest’anno ha portato all’ammasso il grano turco a 1.600 lire il quintale, poi si compri il mangime per le bestie e la crusca a 4 o 5 mila lire al quintale? Perché il granoturco non è andato all’ammasso nelle provincie produttrici del Veneto e del Piemonte? Per questa ragione semplicissima: una volta, il contadino, coi danaro ricavato dalla vendita di un quintale di risone, comprava un paio di scarpe, comprava un vestito; adesso non più.
Quindi io credo di affermare una cosa giustissima: è verissimo che il contadino ha fatto la borsa nera; ma non l’ha fatta per fare il signore, per non più lavorare; l’ha fatta per avere i mezzi per continuare a lavorare, a produrre, per dare da mangiare a tutte le altre categorie.
Altro argomento: siamo a due anni e mezzo dalla liberazione, e certi regimi commissariali continuano a durare, sebbene si fissino le date per la loro fine. Voglio riferirmi agli Istituti assicurativi per le malattie, gli infortuni, la previdenza. Abbiamo chiesto molte volte ai Ministri competenti la trasformazione di questi istituti che il fascismo aveva creato, istituti mastodontici con centinaia e centinaia di impiegati, che assorbono gran parte di quanto i contribuenti pagano. A tutt’oggi non si fa ancora nulla.
E qui si innesta un’altra questione sulla quale richiamo l’attenzione del Ministro del lavoro: la questione dei contributi unificati. Un po’ da tutte le provincie ci vengono lamentele di questo genere: si fanno pagare i contributi unificati, anche qui, con un criterio di presunzione, ed ai contadini che non dovrebbero pagarli. Accenno soltanto a qualche dato. Siamo riusciti, in provincia di Lucca, a far esonerare dai contributi unificati circa 30 mila famiglie colpite abusivamente: tutti piccoli proprietari della montagna che non avevano mano d’opera e che erano stati colpiti dal contributo unificato.
Il Presidente del Consiglio ha sintetizzato il programma del Governo con la formula: aumentare la produzione. Le categorie agricole sono le prime che dovrebbero partecipare a questo aumento della produzione, per migliorare quelle che sono le condizioni della alimentazione; ma io qui devo dire che l’opera del Governo nei confronti dell’agricoltura è stata molto importante. Alle aziende agricole distrutte dalla guerra si è dato molto, molto poco. Ho accennato qualche minuto fa a Cassino dove tutto manca, dagli attrezzi al bestiame e ai concimi. È uscito recentemente il decreto del 1° luglio dello scorso anno che stabiliva lo stanziamento di 6 miliardi per rimettere in efficienza le aziende agricole. Di questi 6 miliardi, 500 milioni dovevano andare come contributo del 40 per cento per l’acquisto di bestiame ed attrezzi.
Mi risulta che di questi 6 miliardi si son potuti mettere a disposizione solo due miliardi e 750 milioni, ma per le industrie gli stanziamenti sono di gran lunga superiori. Soltanto nel mese di dicembre sono stati assegnati 8 miliardi all’Istituto per la ricostruzione industriale e 5 miliardi all’Istituto mobiliare italiano. Anche se non è un aiuto a fondo perduto, si tratta di una fonte di credito per l’industria, mentre per l’agricoltura si fa molto poco. Bisogna che tutti i Ministeri vengano incontro ai bisogni della agricoltura, incominciando da quello del tesoro, che ultimamente non voleva nemmeno darci la valuta necessaria per importare le patate da seme e il solfato di rame.
Si sono stanziate diverse decine di miliardi per i lavori pubblici. Ebbene io dico agli uomini di Governo: aiutate l’agricoltura, aiutate e ricostruite queste aziende, perché dal loro apporto alla produzione dipenderà il domani di questa nostra Italia.
È giusto aiutare l’industria; ma io ritengo di non errare se affermo che l’avvenire dell’Italia sta innanzi tutto nell’agricoltura.
Aiutiamo questa agricoltura. I contadini che hanno avuto le terre in concessione, quelli che le hanno già in affitto o in proprietà, non vi chiedono l’elemosina, non vi chiedono dei privilegi e dei favori: ma solo i mezzi per poter continuare a lavorare e a produrre.
È gente pacifica; è gente che non intende mettere in difficoltà il Governo; è gente che non intende dimostrare in modo rumoroso contro il Governo. No! assicura al Governo la sua collaborazione all’opera di produzione.
Dico quindi ai signori del Governo: aiutate questa categoria, che è quella che in Italia chiacchiera di meno e lavora di più per il bene della Patria. (Vivi applausi).
PRESIDENTE. È iscritto a parlare l’onorevole Nobile. Ne ha facoltà.
NOBILE. Mi permetto prendere la parola per richiamare la vostra attenzione su alcune cose concrete, che si riferiscono innanzi tutto alla politica dei lavori pubblici seguita fino ad ora dal governo. L’argomento merita la vostra attenzione, perché nelle condizioni in cui si trova oggi il nostro Paese – scarsezza di mezzi da un lato ed enormi bisogni dall’altro – il controllo dell’Assemblea Costituente sul modo con cui vengono spese le somme stanziate nel bilancio si impone.
Questo argomento fu oggetto da parte mia di una interrogazione presentata fin dal settembre scorso, nella quale denunciavo fra l’altro una situazione che dieci giorni dopo sboccò nei dolorosi fatti del Quirinale. A quella interrogazione non ho avuto mai risposta, come del resto non ne ho avuto mai ad altre rivolte allo stesso Ministro.
La spesa prevista per i lavori pubblici, aggiornata al 31 gennaio 1947, per l’esercizio 1946-47, ammonta a 110 miliardi circa, su una spesa totale dello stato di circa 750 miliardi. È molto per il nostro stremato bilancio, poco per i nostri bisogni. Se fosse possibile, vorremmo accresciute, e di molto, le somme stanziate per le opere pubbliche; ma, prima di ogni altra cosa, è nostro dovere esigere che i fondi siano spesi bene, che nulla vada sprecato.
I danni arrecati dalla guerra alle opere pubbliche dipendenti dal Ministero dei lavori pubblici ed ai fabbricati di proprietà privata, sono enormi. In base ai prezzi che correvano alla fine del 1945, essi furono valutati a 1800 miliardi. Oggi questa cifra andrebbe di molto aumentata. Basti considerare che, soltanto per ricostruire i sei milioni di vani di abitazione danneggiati dalla guerra, che sono ancora da riparare, occorrerebbe una spesa di oltre 600 miliardi, senza contare altri 900 miliardi per i 5 milioni di vani nuovi che si sarebbero dovuti costruire per il normale incremento edilizio.
Si giunge così ad una cifra notevolmente superiore a quella valutata nel 1945. Anche se si stanziassero nel bilancio dello Stato 300 miliardi l’anno per opere pubbliche, non basterebbero dieci anni per riparare completamente i danni della guerra. A ciò aggiungete i lavori per opere nuove, che non sempre si possono differire, e vi renderete conto che il bilancio dei Lavori Pubblici, per un’intera generazione, dovrà essere forse uno dei più importanti dell’Amministrazione statale. Oggi esso rappresenta un settimo del bilancio complessivo dello Stato, ma io credo che si debba giungere ad un quarto o un quinto.
Tutta questa grande massa di opere è affidata, come sapete, ai Provveditorati regionali, i quali, ricostituiti troppo sommariamente nel 1945, soltanto con un decreto del 25 giugno dell’anno scorso furono riordinati giuridicamente. Ma non si può dire che essi funzionino regolarmente e con soddisfazione, soprattutto a causa della mancanza di personale tecnico adeguato e per il cattivo trattamento economico che si fa a questo personale.
Sulla questione del personale del Genio civile, richiamai già l’attenzione del Governo con l’interrogazione che ho ricordata poco fa. Tale questione è di una gravità eccezionale. Il personale tecnico di ruolo è scarso, mentre abbonda quello avventizio. Migliaia di ingegneri e geometri sono stati assunti senza una rigorosa selezione: in gran parte per via di protezioni e raccomandazioni. Questo personale, il più delle volte, non ha la preparazione tecnica, che sarebbe pur necessaria, mentre d’altra parte è pagato insufficientemente, con la inevitabile conseguenza che, a contatto come si trova tutti i giorni con imprese avide di grossi guadagni e di pochi scrupoli morali, esso è esposto ad ogni genere di tentazione. È un male, al quale non sarebbe stato difficile, una volta segnalato, porre rimedio; ma non mi risulta che si sia in alcun modo provveduto. Una selezione di questo personale avventizio, licenziando i disonesti ed i tecnicamente poco idonei e trattando meglio, dal punto di vista economico, quelli che sono meritevoli di restare, è necessaria. Bisogna anche decidersi ad accrescere il numero degli ingegneri di ruolo e migliorarne decisamente il trattamento economico e di carriera. In questo campo il risparmio conduce all’effetto opposto. Bisogna che di ciò si convinca colui che in quest’aula, qualche mese fa, l’onorevole Einaudi chiamava l’orco, il ragioniere generale dello Stato.
Questi rilievi si riferiscono agli organi tecnici governativi incaricati di dirigere le opere pubbliche, ma altri non meno gravi van fatti all’azione generale del Governo.
È chiaro che non si può mettere mano sul serio, sistematicamente, alla ricostruzione del Paese senza un piano organico, senza un lavoro ben coordinato di tutti gli apparati statali ad essi interessati. Il problema, senza dubbio, fin dall’inizio si presentava doppiamente grave, perché, non si trattava solo di ripristinare le opere pubbliche danneggiate dalla guerra o le case private, ma anche di fronteggiare la disoccupazione. I due problemi, però, si integravano a vicenda: l’uno avrebbe dovuto risolver l’altro, a patto, beninteso, che fossero state prese in anticipo le misure occorrenti.
Nessuno vuol negare le difficoltà che si presentavano e si presentano tuttavia: la mano d’opera specializzata è insufficiente e più insufficienti ancora sono le materie prime. I manovali capaci di fare uno scarico od un trasporto di terra si possono improvvisare: basta avere buone braccia e voglia di lavorare; ma i muratori non si improvvisano con la stessa facilità: devono imparare.
Ma queste difficoltà non fanno, a mio parere, che accentuare la necessità da parte del Governo di un’azione organica. Non si può lasciare la decisione all’iniziativa dell’uno o dell’altro Provveditore regionale, dell’uno o dell’altro Ministro. Il piano organico di opere pubbliche, nelle circostanze attuali, richiede la collaborazione, oltre che del Ministero dei lavori pubblici e del tesoro, anche di quelli dell’agricoltura e foreste, del lavoro, dell’industria, dei trasporti, dell’interno. E non bisogna dimenticare la pubblica istruzione ed il commercio estero. La pubblica istruzione, perché deve provvedere all’istruzione dei lavoratori, il commercio estero perché vi sono da importare materie prime dall’estero. E consentitemi a questo riguardo di osservare di sfuggita che, nelle nostre condizioni economiche, noi non ci dovremmo permettere il lusso di importare un miliardo e duecento milioni di caffè all’anno, allorquando abbiamo bisogno di cemento o di carbone per fabbricare.
Il problema è complesso: programma di ricostruzione, distribuzione di mano d’opera, selezione di questa, istruzione professionale, importazione di materie prime: sono i suoi aspetti principali. Se mai vi fu un periodo della storia del nostro Paese, in cui doveva esservi un coordinamento degli sforzi dei vari dicasteri, era proprio questo. Tale coordinamento spettava, io penso, alla Presidenza del Consiglio. Non credo di sbagliarmi asserendo che esso o è mancato o è stato insufficiente.
Non si può ammettere che l’assegnazione stessa dei fondi per eseguire questa o quell’opera sia fatta, per così dire, alla giornata. Ottiene chi preme di più e sollecita di più, e più efficacemente. Vi sono progetti già bell’e studiati di opere che potrebbero mettersi in esecuzione, ma a questi se ne sostituiscono altri improvvisati per i quali i progetti non esistono o, se esistono, sono molto sommari.
È superfluo indugiarmi ad illustrarvi i danni che derivano da tale sistema: i fondi stanziati nel bilancio si spendono male; essi non danno il risultato che si dovrebbe conseguire. I soli che ne ricavano un beneficio reale sono i privati intraprenditori che spesso fanno guadagni favolosi. Bisogna finirla col sistema di concedere a chi preme più energicamente. I lavori e la loro priorità devono essere decisi su un piano nazionale, tenendo presenti tutte le varie circostanze inerenti alla mano d’opera, alle materie prime occorrenti ed alla gravità dei danni da riparare.
Occorre, nella politica delle opere pubbliche, un indirizzo chiaro e preciso, e visto che si cambiano i ministri ogni cinque o sei mesi (dall’agosto 1944 ad oggi siamo già, ai Lavori Pubblici, al sesto ministro) bisogna creare evidentemente un organo tecnico, amministrativo, economico, dotato dei poteri necessari, capace di assicurare una certa continuità di indirizzo, altrimenti non si riuscirà mai a risolvere né il problema di ricostruire presto ciò che è stato distrutto, né quello di dare lavoro ai disoccupati.
È precisamente nel modo come i Governi hanno affrontato il gravissimo problema della disoccupazione, dove si è palesato e si palesa tuttora la impreparazione e la mancanza di coordinamento fra i vari dicasteri.
Una riprova di quest’affermazione si ha esaminando le misure prese dal Governo qui a Roma per dare lavoro ai 70.000 od 80.000 disoccupati affluiti da ogni angolo di Italia.
Roma, oggi, è una specie di Mecca dove i disoccupati, i reduci, i sinistrati, ecc., affluiscono nella speranza di trovar lavoro. Si tratta di una massa eterogenea, nella quale son rappresentati i più svariati mestieri: fotografi, tappezzieri, pittori, camerieri, cuochi, studenti, diplomati e persino ufficiali e laureati. Numerosissimi tra essi sono i giovanissimi che non hanno avuto alcuna possibilità di apprendere un mestiere.
Per occupare tutti costoro si sono improvvisati lavori nei quali si può impiegare molta mano d’opera non specializzata, come sono i movimenti di terra occorrenti alla costruzione di strade; ma le strade così iniziate vengono poi lasciate incompiute, perché i lavori di completamento (massicciata, pavimentazione, fognatura ecc.), non permetterebbero più di assorbire una quantità rilevante di mano d’opera comune. Si tratta di lavori ai quali sono più adatti i terrazzieri, ma di questi, tra le decine di migliaia di disoccupati di Roma, ve ne sono pochi e non può recare meraviglia che il rendimento di tali lavori sia molto basso.
Inoltre, molti di essi vennero appaltati con quell’infausto sistema che si chiama «a regìa», che si risolve in guadagni scandalosi per gli impresari e nella più completa degradazione del personale operaio, che dagli impresari stessi viene incitato a non lavorare.
Il numero di questi cantieri a regìa salì molto rapidamente: in quattro o cinque mesi, tanto che nel settembre scorso a Roma ve ne erano una cinquantina con oltre ventimila operai. Oggi, grazie all’opera del passato Ministro, il numero di questi operai si è ridotto a tredicimila, essendosi cominciati a trasformare i lavori a regìa in lavori a misura.
ROMITA, Ministro del lavoro e della previdenza sociale. Non ce ne sono più; sono finite le regìe.
NOBILE. No, a me risulta che sono ancora molti. Comunque, bisognava aver preso già da gran tempo questo provvedimento. Però bisogna osservare che anche nei lavori a misura, data la composizione della mano d’opera, il rendimento è scarso, e, quindi, alto il costo dei lavori. Ma questo sarebbe ancora tollerabile, se non ci fossero le più gravi preoccupazioni per l’immediato avvenire.
A Roma si costruisce ora una grande strada di circonvallazione, che deve collegare le varie strade statali esterne in modo da liberare la città dal traffico dei veicoli di transito. Eccellente cosa in sé, sebbene si potrebbe obiettare che ci sono lavori molto più urgenti e necessari da fare. Per questa strada si sono stanziati sei miliardi, di cui due miliardi e mezzo sono impegnati per i lavori ora in corso. Si sono preparati inoltre progetti per costruzioni edilizie per due miliardi e trecento milioni. Un altro miliardo e mezzo è stato assegnato al Comune per lavori di interesse cittadino. Un miliardo e quattrocento milioni è stato destinato alla sistemazione del Tevere a monte di Roma. Infine, alcune centinaia di milioni sono stati stanziati per opere di bonifica. Si tratta in complesso di una cifra di dieci o undici miliardi, cifra che potrebbe apparire cospicua, ma che in realtà è irrisoria, se voi tenete conto che una parte di quei fondi dovrà servire a pagare lavori già eseguiti e che, per dare lavoro a tutti i disoccupati di Roma, occorrono per lo meno ventiquattro miliardi l’anno. Fra qualche mese, quindi, si presenterà il problema gravissimo: che cosa fare per dare lavoro a questa grande massa di disoccupati.
L’imprevidenza del Governo che si è lasciato prendere alla sprovvista da un fenomeno che pure era di così facile previsione, è stata poi aggravata dal fatto che il Provveditore di Roma, non avendo a disposizione i fondi necessari per pagare i lavori già eseguiti e quelli in corso, è stato assai spesso costretto a stornare fondi destinati ad altre opere ed a sospendere, quindi, altre attività, certamente più urgenti. Ne hanno risentito particolarmente le zone maggiormente devastate dalla guerra a sud di Roma, come quelle attorno a Formia e a Cassino, e ne hanno risentito altresì i lavori di riparazione di case, con la conseguenza di ostacolare ulteriormente la soluzione dei problemi edilizi, già ritardata da una legislazione difettosa.
Sulle spalle del nuovo Ministro è in realtà una responsabilità assai pesante, alla quale egli non potrà far fronte, se non gli sarà assicurata la collaborazione degli altri Ministeri. Questo di coordinare l’azione dei vari organi ministeriali interessati ai problemi della ricostruzione e della disoccupazione è compito che certamente spetta alla Presidenza, ed io confido che il Presidente del Consiglio, il quale nel suo discorso ha proclamato la necessità di ricostruire in un «clima di efficienza tecnica», vi provvederà.
I nostri ministeri economici oggi costituiscono dei compartimenti stagni: ognuno fa per sé. La cosa è aggravata poi dal continuo mutare di direzione politica in ognuno di essi. Ciò costituisce una causa di disordini e di sprechi non tollerabili. Oggi l’unicità di direzione dell’economia del Paese è assolutamente indispensabile. Si obietterà che vi è il Comitato interministeriale per la ricostruzione; ma esso finora si è occupato, più che altro, dei nostri rapporti con l’estero. Esso compila il piano del nostro fabbisogno di importazioni e quello delle possibili esportazioni; tratta con l’UNRRA e con le due banche internazionali esistenti per ottenere i mezzi finanziari occorrenti. Sono i piani cui si riferiva il Capo del Governo nella sua esposizione; piani essenziali, naturalmente, ma che non sono se non una piccola parte dei compiti assai più vasti che oggi dovrebbe avere un organismo centrale dello Stato, cui affluissero i piani dei singoli Ministeri economici, per coordinarli fra loro e per compilare in base ad essi un piano generale di ricostruzione e di sviluppo. Questo organismo non esiste ancora. È necessario formarlo al più presto possibile. Occorre un Comitato tecnico-economico che raccolga il meglio, il fior fiore, dei nostri esperti in materia economica e tecnica e che stia al centro della vita economica del Paese. Solo così si eviterà quello che è già avvenuto e che tuttora avviene: che il denaro pubblico vada sperperato per lavori non necessari e non redditizi.
E ora, onorevoli colleghi, permettetemi di intrattenervi brevemente su un’altra questione tecnica che concerne il Ministero della difesa, la cui costituzione ci è stata annunziata cosi laconicamente dal Capo del Governo.
Or sono sei mesi, in questa medesima aula, io stesso ne dichiarai l’opportunità; però feci osservare che all’unificazione dei tre Ministeri delle forze armate si sarebbe dovuto addivenire solo dopo che essi fossero stati smobilitati. Questa smobilitazione non ha avuto ancora luogo e in qualche Ministero, come quello dell’Aeronautica, si potrebbe perfino dire che essa è appena iniziata, o non ancora iniziata. Giudico, perciò, che sia stata prematura la decisione presa di fondere insieme i tre Ministeri, e che essa, probabilmente, ritarderà quella smobilitazione, anziché affrettarla.
Provvedimenti di tal genere non si possono improvvisare; non è durante una crisi ministeriale che un problema così grave e complesso quale l’istituzione di un Ministero della difesa possa venire risolto. Si tratta di tre dicasteri, i quali ancora oggi conservano in gran parte la complicata struttura del tempo di guerra. Il Capo del Governo avrebbe fatto, io penso, cosa assai più saggia formando un Comitato dì persone esperte che studiasse a fondo la questione, e decidesse quali servizi e in che modo si potessero unificare e quali lasciare tra loro distinti.
Sulla base del risultato degli studi di un tale comitato, si sarebbe potuto predisporre l’organizzazione del Ministero unico. Questa era la via maestra da seguire: il Capo del Governo ha preferito, invece, risolvere il problema sulla carta, con un tratto di penna.
Non è difficile prevedere che la cosa rimarrà, in buona parte, sulla carta; e poco di fatto seguirà.
Non si può invidiare il Ministro Gasparotto per il pesante fardello che gli è stato accollato: egli ha bisogno di tutta la nostra simpatia. Ma, nonostante la sua buona volontà, dubito che possa fare molto. È probabile che quando l’attuale Governo, fra alcuni mesi, avrà cessato di vivere, le cose saranno rimaste presso a poco come prima, con questo di peggiorato, però: che in ciascun Ministero, proprio nel momento in cui per la difesa della Repubblica si sarebbe dovuta rafforzare l’azione politica, questa azione politica è sostituita da quella dei tre Capi di Stato Maggiore, giacché – in ultima analisi – sarà precisamente questo il risultato immediato della fusione dei tre Dicasteri.
Ma, se si vuole, si è ancora in tempo a riparare e a trarre qualche vantaggio dalla decisione presa. Si dovrebbe dare ai singoli Sottosegretari l’autorità di veri e propri viceministri, di modo che il Ministro della difesa debba occuparsi delle tre forze armate solo attraverso le persone dei Sottosegretari. Ma dubito che il Capo del Governo vorrà fare questo o, per lui, l’onorevole Gasparotto.
DE GASPERI, Presidente del Consiglio dei Ministri. Facendo così, si farebbe quello che ha fatto Mussolini: i tre sottosegretari diventano tre ministri. E questo mi pare che sia tecnicamente errato.
NOBILE. E allora, che ci stanno a fare i tre sottosegretari?
DE GASPERI, Presidente del Consiglio dei Ministri. Quello che fanno i sottosegretari da per tutto: collaborano col Ministro.
NOBILE. Per quello che fanno ora tanto vale che non ci siano. In ogni modo, l’esistenza dei tre sottosegretari è in piena contradizione col fatto della fusione.
Io auguro di cuore al Ministro della Difesa di riuscire, nonostante le immense difficoltà che gli si parano avanti, ad organizzare questo Ministero o per lo meno ad iniziarne l’organizzazione. Ma, riuscire, secondo me, significa in questo caso, fra le altre cose, anche concentrare i tre organismi ministeriali. in un medesimo edificio (questa sembra una piccola cosa, ma non è per chi è pratico di amministrazione militare), e fondere insieme dopo aver riunite insieme le direzioni generali ed i servizi che si occupano di materie analoghe. Se questo non si facesse, non saprei proprio che significato possa avere il parlare di unificazione delle forze armate, né come si possa ridurre ad una percentuale tollerabile della spesa totale dello Stato la somma stanziata per i tre Ministeri, che nello stato di previsione 1946-47, aggiornato al 31 gennaio scorso, ammontava a 111 miliardi di lire, cioè 2500 per ogni cittadino italiano.
Ma, a mio avviso, l’unificazione dei tre dicasteri in nessun caso si sarebbe dovuta fare prima che fosse stato effettuato lo sfollamento del personale militare e civile. Ma, visto che esso non ha avuto ancora luogo, si dovrebbe sperare per lo meno che siano unificati i criteri e le modalità che dovranno regolarlo.
Mi sia a questo proposito permesso fare qualche breve rilievo.
Sono ormai trascorsi nove mesi dall’emanazione del decreto legislativo concernente lo sfollamento degli ufficiali generali e superiori dai quadri delle forze armate, ma fino ad oggi esso è ben lungi dall’essere completato. Anzi, per il Ministero dell’Aeronautica credo si possa dire che sia stato appena iniziato. Questo ritardo è un grave male, perché è causa di malcontento, di nervosismo, di apatia, di indifferenza al servizio da parte degli ufficiali stessi. È evidente che non si può prendere passione al proprio compito quando si teme di poter essere compresi fra quelli che dovranno lasciare l’Amministrazione. Questa spada di Damocle sulla testa di questi ufficiali già pende da quasi un anno.
Questa dolorosa operazione della riduzione dei quadri ai limiti consentiti dal trattato di pace, e anche dalle possibilità finanziarie del nostro Paese, si sarebbe dovuta fare rapidamente. Sarebbe stato un vantaggio per tutti.
Nell’applicazione del decreto 14 maggio 1946, vi è un punto basilare intorno al quale sono sorti gravi quesiti. L’articolo 2 di questo decreto stabilisce che il collocamento nella riserva o in ausiliaria di autorità, deve avvenire di massima per coloro i quali, pur essendo stati discriminati, hanno riportato sanzioni disciplinari per il loro comportamento dopo l’8 settembre 1943. Bisogna riconoscere che questa espressione «di massima», inserita nel decreto, è stata assai poco felice perché rende elastici i criteri di selezione e consente qualsiasi salvataggio. In un caso come questo dove la riduzione dei quadri deve essere operata su vasta scala, sarebbe stato preferibile un criterio rigido da applicarsi senza eccezioni, direi quasi meccanicamente. Ci sarebbero state anche meno lagnanze.
Si aggiunga a questo la considerazione del modo come sono formate le Commissioni alle quali è affidato il giudizio. Per i generali dei gradi più elevati, l’articolo 3 stabilisce che lo sfollamento deve aver luogo dopo che il Ministro abbia sentito il parere di un’apposita Commissione da lui nominata. Come debba essere costituita questa Commissione il decreto non dice.
Era ovvio pensare che la cosa più opportuna, in questo momento, fosse quella di nominare una Commissione parlamentare. Fu quella che io proposi, con interrogazioni e interpellanze rivolte ai tre ministeri competenti. La selezione nei gradi più elevati è cosa quanto mai delicata e importante. La Commissione parlamentare da me suggerita avrebbe dovuto non già giudicare del valore tecnico dei singoli generali – al che sarebbe stata incompetente – ma solo fissare, in modo preciso e categorico, i criteri da seguire nello sfollamento, criteri che in questo speciale momento della vita nazionale, quando si tratta di rafforzare le istituzioni repubblicane, devono essere anche, ed in primo luogo, io direi, politici. La necessità di una Commissione parlamentare estranea, che dettasse questi criteri, era suggerita dalla considerazione che commissioni costituite di elementi tratti esclusivamente dalle alte gerarchie militari, quali sono le Commissioni di avanzamento, non possono offrire garanzie di obiettività se non quando siano stati già stabiliti in modo preciso i criteri che esse devono seguire. Ora, il Ministro della Marina, ed in forma assai più ampia e soddisfacente quello della Guerra, accolsero, almeno in parte, la sostanza del suggerimento da me dato, e costituirono essi stessi delle Commissioni formate di parlamentari.
Certamente, manchevolezze non possono non esservi, dati anche i difetti intrinseci della legge. Mandar via di autorità, come essa stabilisce, tutti quelli che sono stati puniti per il loro comportamento dopo l’8 settembre, sta bene. È quello che è detto nell’articolo 2. Ma sta il fatto che i giudizi che condussero alle punizioni furono emessi da Commissioni differenti, variamente composte, ed in tempi diversi, per cui non si ha alcuna certezza di uniformità dei criteri che ispirarono le loro decisioni.
Un’altra grave obiezione è che dopo la pubblicazione del decreto, molte punizioni, in seguito a reclami quasi sempre appoggiati autorevolmente, furono dai Ministri ridotte o annullate, di loro arbitrio, senza che i vari casi fossero rinviati alle competenti Commissioni che li avevano prima giudicati. Mi riferisco, per questo, particolarmente all’Aeronautica, dove è avvenuto anche di peggio, perché potrei citare qualche esempio di encomio solenne dato per iscritto dal Ministro a personale che aveva aderito alla repubblica fascista. Come si può, allora, in tali condizioni parlare di equità di giudizio nello sfollamento degli ufficiali? È certo che si commetteranno molte ingiustizie. Da qui deriva la necessità di fissare con rigore i criteri che devono condurre all’eliminazione.
Ma questo non basta, perché quei criteri negativi devono essere poi integrati da criteri positivi di selezione, nel senso che si dovrebbero trattenere in servizio quegli ufficiali generali e superiori che hanno ben meritato del Paese nella guerra di liberazione, sia per essersi distinti militando nell’esercito regolare, sia per avervi partecipato come partigiani. I criteri di selezione tecnica, che si vorrebbero applicare anche in questi casi, sono troppo elastici per dare affidamento di obiettività.
Finora non sono noti i risultati per lo sfollamento fatto al Ministero della Guerra e quello della Marina, ma, per quello che ne so, è a buon punto. Altrettanto non si può dire del Ministero dell’Aeronautica.
Il Ministro onorevole Cingolani non ha creduto necessario nominare, come ha fatto il suo collega del Ministero della guerra, una commissione parlamentare, costituita prevalentemente di personalità estranee all’ambiente militare. In un’intervista concessa ad «Ala libera», egli dichiarò di non essere favorevole ad includere nella commissione elementi civili, parlamentari o magistrati che fossero. Aggiunse che, in casi di particolari qualità tecnico-professionali, egli pensava che un ufficiale, anche se compromesso dopo l’8 settembre 1943, avrebbe potuto continuare a rimanere in servizio…
CINGOLANI. Non precisamente così; ricordi la frase esatta.
NOBILE. Questo precisamente è detto nell’intervista pubblicata dall’«Ala libera».
L’onorevole Cingolani, dunque, a differenza dei suoi colleghi della Guerra e della Marina, ha lasciato che la Commissione per l’avanzamento procedesse da sola alla eliminazione.
Ora, di questa Commissione fa parte non solo un generale, che apertamente si dichiara monarchico (e di questa schiettezza bisogna fargliene lode), ma anche un altro, che fu in Spagna, a capo dell’aviazione legionaria, fatta, come si sa, di volontari. Non ritengo che una Commissione così composta possa dare affidamento di scrupolosa imparzialità. In più casi essa deve, per lo meno, trovarsi imbarazzata a giudicare.
Il fatto è che ho qui, davanti agli occhi, la lista degli ufficiali dell’Aeronautica, di cui fin oggi è stato deciso l’esodo. Vi sono compresi: 38 colonnelli, 102 tenenti colonnelli ed alcuni maggiori; ma non un solo generale. Quando si lascia decidere sullo sfollamento agli stessi generali, come ha fatto il Ministro dell’aeronautica, è chiaro che essi penseranno a sfollare se stessi il più tardi che sia possibile.
Ma non basta ancora. Qualcuno dei colleghi ricorderà che nel luglio scorso, in questa medesima aula, richiamai l’attenzione dell’Assemblea sul gran numero di generali allora in servizio in Aeronautica e sulla nomina fatta alcuni mesi prima di altri ventidue di essi. Fui molto ingenuo – oggi lo riconosco – a meravigliarmi del fatto; perché il Ministro dell’Aeronautica repubblicana ha ritenuto perfino insufficiente il numero di generali allora esistenti; ed infatti ne ha creati recentemente altri 10. Siamo così giunti, nel dopoguerra, alla bella cifra di 50 generali promossi nel giro d’un solo anno. Oggi, di questi 50 sono in servizio 32.
Quali importanti compiti essi disimpegnino io non saprei dire; ma il Ministro certamente lo sa.
Sono dell’opinione che la smobilitazione dell’Aeronautica, come degli altri ministeri militari, debba aver luogo prima di tutto negli alti gradi. Due anni fa (e a questo riguardo vorrei pregare l’onorevole Gasparotto di riesaminare la questione e provvedere secondo giustizia), due anni fa il Ministro della guerra del tempo non esitò a mettere sul lastrico da un giorno all’altro, con un semplice ordine di servizio, migliaia di operai degli stabilimenti militari, che, per non morire di fame, essi e le proprie famiglie, avevano dovuto lavorare alle dipendenze del Sottosegretariato dell’esercito fascista. Quando invece si tratta di mandare a casa con tutti gli onori e con tutti gli emolumenti uno di quei generali che l’8 settembre non seppero fare il proprio dovere e causarono con il loro contegno lo sbandamento degli ufficiali subalterni e delle truppe, ci si pensa a lungo, e magari lo si promuove.
Nell’Aeronautica – bisogna avere la franchezza di dichiararlo – le cose non vanno. I dodici miliardi annui che essa costa allo Stato (e non sarebbero molti se con essi si facesse veramente dell’aviazione) sono in gran parte spesi male. Vi è stato alla caserma Macao un fatto gravissimo, uno sciopero di avieri, per protestare contro le cattive condizioni in cui erano tenuti in quella caserma. La cosa, altamente deplorevole in se stessa, è un triste indizio dell’abbandono in cui sono tenute le truppe. Non è così che si risanano le nostre forze armate.
E nemmeno si risana l’Aeronautica coll’istituzione che il passato Ministro ha fatto di una nuova carica, quella di Segretario generale, varata proprio nell’imminenza della crisi ministeriale o forse quando la crisi era già aperta, perché il Foglio d’ordini sul quale compare l’istituzione della nuova carica porta la data del 15 gennaio 1947.
È una curiosa caratteristica dell’Aeronautica italiana di questo dopo-guerra che la sua struttura si ampli tutte le volte che sta per cambiare Ministro. Si vede che l’onorevole Cingolani non ha voluto essere da meno del suo predecessore, che in un periodo analogo aveva creato cinque nuove direzioni generali.
Ed eccomi, per concludere, ad una questione grave sulla quale richiamo per un minuto l’attenzione dell’Assemblea: quella degli ufficiali e sottufficiali in servizio permanente effettivo, mutilati o invalidi di guerra. Secondo le disposizioni vigenti, gli ufficiali mutilati di carriera, dichiarati permanentemente non idonei al servizio, sono collocati in pensione, se per gli anni di servizio prestato ne hanno acquistato il diritto; altrimenti vengono inviati a casa con la sola pensione privilegiata di guerra, la quale per una invalidità totale ammonta oggi per un capitano, compresi gli ultimi aumenti, a 10.849 lire al mese; e per un’invalidità dell’80 per cento – quasi totale – a 4.584 lire mensili. Così può avvenire che un giovane ufficiale, dopo aver versato il sangue in difesa del proprio Paese ed essere rimasto mutilato cosi gravemente da non potere, abbandonato il servizio, trovare altra occupazione, sia lasciato pressocché in preda alla miseria. Quando si confronta questo trattamento con quello che il decreto legislativo del maggio 1946 accorda ai generali che si compromisero dopo l’8 settembre 1943, si vede quanto esso sia iniquo.
Dopo la prima guerra mondiale vi furono disposizioni di legge a favore degli ufficiali mutilati di carriera, ai quali fu lasciata facoltà di continuare a prestare servizio nelle armi cui appartenevano.
A me non pare concepibile che la Repubblica possa essere meno generosa del Governo di quei tempi verso i mutilati. Perciò, a nome anche di altri numerosi colleghi, presento un ordine del giorno con cui invoco che sia riconosciuta anche agli ufficiali invalidi della seconda guerra la facoltà di rimanere in servizio, collocandoli fuori quadro in un ruolo speciale, come si è fatto dopo la passata guerra, in modo da non contrastare con le disposizioni del trattato di pace; e che misure adeguate siano prese per tutti gli altri mutilati a qualunque categoria appartengano.
L’articolo 49 del progetto di Costituzione stabilisce che la difesa della Patria è un sacro dovere. Ma non meno sacro è il dovere dello Stato di assistere i cittadini che per difendere il Paese hanno riportato gravi menomazioni fisiche.
In questo senso avevo proposto alla Commissione dei 75 un’aggiunta a quell’articolo, sembrandomi giusto che la Costituzione che proclama quel dovere dovesse sancire anche questo diritto.
La Commissione accettò all’unanimità quella mia proposta come raccomandazione da trasmettersi al Governo per preparare un disegno di legge destinato a provvedere in modo adeguato alla situazione di coloro che tutto diedero al Paese. Io spero che questo disegno di legge sia al più presto un fatto compiuto. (Applausi).
CINGOLATI MARIO. Chiedo di parlare per fatto personale.
PRESIDENTE. Ne ha facoltà.
CINGOLANI MARIO. Io sono iscritto a parlare, quindi la rettifica di molte cose che qui ha detto l’onorevole Nobile la darò al momento opportuno.
Non posso però non rettificare immediatamente alcune sue affermazioni.
Egli ha certo una grande passione per l’Aeronautica; ma io non sono secondo a lui in questa passione.
Posso dirvi subito, per quanto riguarda le cifre e i metodi dello sfollamento, che i criteri che hanno informato e Commissione e Ministro fino ad oggi sono stati questi: colpire innanzi tutto coloro che hanno tradito l’Italia e gli italiani passando al servizio della cosiddetta repubblica sociale di Salò. E posso dire anche all’onorevole Nobile che questa linea molto precisa e decisa, per cui in nessun caso si è tenuto conto di quell’«in massima» che c’è in quel tale articolo di quel decreto, ha determinato proteste, raccomandazioni, eccitamento a rivedere questa situazione da parte anche di onorevoli colleghi di ogni parte della Camera.
Comunque, di fronte ad un procedimento già iniziato, di fronte ai problemi che si presentavano al Ministro per l’applicazione del trattato di pace, io ho fermato lo sfollamento. E l’ho fermato per due motivi: il primo, perché ritenevo che in verità potessi accettare il suggerimento dell’onorevole Nobile di nominare una Commissione di carattere politico composta di ex ministri e di autorevoli parlamentari, tanto che parlai in proposito con l’onorevole Terracini, prima che sopravvenisse la crisi; l’altro, perché pensavo di poter studiare, anche con l’assenso della Sottocommissione alleata per l’aeronautica, la formazione di una aviazione di quadri che salvasse il pane quotidiano a più gente possibile.
Il progetto è rimasto in aria per la crisi sopravvenuta; ma è servito almeno a richiamare sul problema l’attenzione di un appassionato come l’onorevole Nobile e del nuovo Ministro della difesa.
Posso dire all’onorevole Nobile questo: che ho trovato il Ministero dell’aeronautica in condizioni quanto mai difficili, uno stato d’animo nel personale di malumore, di scoraggiamento, di furore. Ho cercato di fare del mio meglio, onorevole Nobile. Domandi lei ad uomini di ogni parte politica, militanti nelle file dei vari Partiti e facenti parte del Ministero: dopo appena sei mesi, credo di essere riuscito a dare una coscienza aviatoria patriottica repubblicana all’Aeronautica italiana. Interroghi il Comitato di concentrazione repubblicana, composto di rappresentanti dei partiti democratici. Quello che posso dire è che la disciplina rilassata, di cui è stato un episodio quello della caserma Macao, non è dipesa dalle condizioni di spirito dell’Aereonautica, ma dalla irrequietezza di elementi perturbatori operanti per fini non ben definiti.
L’Aeronautica è composta di elementi tutti dediti al loro dovere.
Ho potuto visitare tutti i campi d’Italia: c’è uno spirito altissimo, una serena aspettazione di quello che il Paese farà, soprattutto per quelli che hanno combattuto eroicamente negli stormi dell’Italia meridionale. Abbiamo avuto combattenti eroici, la cui storia è poco nota, e sono quelli che hanno appartenuto agli stormi che combatterono a fianco degli anglo-americani per venticinquemila ore di combattimento. (Applausi). Essi sono quelli che devono formare l’ossatura della nuova aviazione.
Guardi, onorevole Nobile; che ci sia nelle alte gerarchie un generale che sia stato in Spagna a me non risulta, comunque non ha importanza, se non vi sia andato volontario. Quello che importa è che di fronte all’obbligo del giuramento che ieri è stato prestato, un solo generale ha dichiarato che non avrebbe giurato, ed è stato subito mandato via. Gli altri hanno giurato.
Posso ripetere qui quello che già disse il collega Facchinetti in altro ambiente: ciò che vale è la lealtà della posizione presa ieri col giuramento. E oggi – se questi ufficiali, ieri sono stati monarchici in buona fede, se in buona fede oggi accettano di servire la Repubblica, ed è il caso del nuovo Capo di Stato Maggiore – non c’è nessuna ragione per non credere a quella fede e a quella parola. (Applausi).
Su questo è basata anche la ricostruzione delle forze armate, per la quale esprimo all’onorevole Gasparotto tutta la mia fiducia. Certo, il compito è molto difficile; ma egli sarà aiutato, onorevole Nobile, proprio da quei Segretari generali che ho imparato ad ammirare nel Ministero della marina, che funzionano al Ministero del lavoro e al Ministero degli esteri.
L’istituzione del Segretario generale non volevo davvero vararla tra una crisi e l’altra: io sono un ingenuo, malgrado le apparenze. Lo avevo preparato perché non immaginavo, il 15 gennaio, che la crisi sopravvenisse dopo pochi giorni: non avevo nessuna ragione di poterlo pensare o sperare o temere!
Io ho fatto il mio dovere studiando bene il funzionamento del Segretario generale, discutendone anche col Sindacato dei dipendenti civili e sono felice di averlo varato. Mi auguro che anche dal Dicastero della guerra possa venir fuori un Segretario generale, che renda molto più facile ed efficiente l’opera del Ministro Gasparotto.
Non ho altro da aggiungere per ora. Dirò all’onorevole Nobile che da ogni mia ulteriore dichiarazione, documentata, verrà fuori questo fatto: che gli informatori clandestini che può avere avuto l’onorevole Nobile – e che potrei facilmente domani avere io, se lo volessi – non sono certo la parte più nobile dell’Aeronautica italiana.
Tutti sanno che nel mio Ministero non c’era il «passi» per venire su dal Ministro: ché, dall’ultimo aviere fino al generale di squadra, potevano tutti venire a parlare liberamente. I nemici non del Ministro, ma dell’Aeronautica, sono dei subdoli informatori che tentano di gettare il fango su di una arma gloriosa, che ha sempre fatto il suo dovere. (Applausi).
(La seduta, sospesa alle 17,5, è ripresa alle 17,45).
PRESIDENTE. È iscritto a parlare l’onorevole Valiani. Ne ha facoltà.
VALIANI. Onorevoli colleghi, la grande maggioranza di questa Assemblea si attendeva che il Presidente del Consiglio, nelle sue dichiarazioni sulla politica del nuovo Governo, parlasse dettagliatamente dei risultati del suo viaggio negli Stati Uniti d’America e delle impressioni politiche che ne ha riportate. Questa aspettativa è andata delusa, perché l’onorevole De Gasperi si è limitato ad alcuni cenni sull’esistenza nei musei americani di molti capolavori della pittura italiana, che indubbiamente esistono e sono una gran cosa, ma esistono indipendentemente da questo come da qualsiasi altro Governo. Egli ha anche accennato all’esistenza di un sentimento patriottico, forte, fortissimo nella collettività italo-americana, che esiste indubbiamente ed è una magnifica cosa, ma esiste indipendentemente da questo o da qualsiasi altro Governo. Invece, dei problemi politici il Presidente del Consiglio non ha parlato, per quanto fosse evidente che, sia la prima parte del suo discorso, relativa alla firma del Trattato di pace, come la seconda parte, relativa alla politica economica che il nuovo Governo intende seguire, si trovavano strettamente connesse con quel viaggio in America.
Ed allora, in mancanza di delucidazioni da parte del Presidente del Consiglio, mi trovo costretto ad occuparmi di questa questione, che mi pare molto importante, sulla pura scorta dei giornali americani ed italiani, prendendo in esame in primo luogo i giornali più vicini al Governo.
Se guardiamo quello che hanno riferito i giornali al momento stesso dell’arrivo dell’onorevole De Gasperi negli Stati Uniti, vediamo che egli è stato accolto con cordialità e amicizia, dovute indubbiamente al nostro Paese, ma anche alla sua persona – e se lo è meritato – ma è stato anche accolto da un brindisi di Byrnes, in quel momento ancora Segretario di Stato degli Stati Uniti, il quale diceva che compito dell’onorevole De Gasperi, ospite dell’America, sarebbe stato quello di firmare. L’onorevole De Gasperi non rispose a questa che era una richiesta, che cioè si firmasse senz’altro. L’onorevole De Gasperi forse intendeva guadagnare tempo. E non sarò certamente io a rimproverarlo, perché si capisce che in questioni così gravi guadagnare anche qualche giorno può avere la sua importanza. Però, malgrado tutto, sarebbe stato preferibile se si fosse risposto, da parte del Presidente del Consiglio, in quella occasione o le volte successive, quando egli ebbe occasione di parlare al pubblico degli Stati Uniti, mettendo in rilievo che, a parte le pressioni materiali alle quali possiamo o non possiamo essere in grado di resistere, per persuaderci a firmare, alcune condizioni almeno dovevano essere adempiute da parte delle Potenze vincitrici. Condizioni così elementari che senza di esse io veramente mi domando come si sia potuto, pur nello stato di necessità, firmare il Trattato; condizioni che del resto erano state indicate abbastanza bene dall’onorevole De Gasperi nel suo discorso a Parigi, e che sono delle serie garanzie per la validità delle nostre nuove frontiere, per l’italianità dello Stato libero di Trieste e per la sorte della minoranza italiana che sarebbe rimasta sotto dominazione straniera.
Una volta, un anno fa, discutendosi alla Consulta, sia in seduta pubblica che in seduta di Commissione per gli affari esteri, la nostra politica estera, rispetto al Trattato di pace di cui già allora si intravvedeva la gravità, l’onorevole De Gasperi disse prima che si trovava senza carte e poi, nel corso della discussione, ammise che una carta tuttavia l’aveva, cioè quella di rifiutare la firma ad un Trattato che non sapesse per nulla di pace. Egli soggiunse che, tuttavia, quella carta si riservava di giocarla in tempo utile, perché giocarla prematuramente gli sembrava un errore.
Ho l’impressione – posso sbagliare, ma ho questa impressione – che la carta non sia stata giocata affatto, neppure in ritardo. Si è rinunciato a giocarla. Ora, evidentemente, ci possono essere dei motivi superiori di una tale gravità da obbligare il Governo a non giocare questa carta. Ma allora sarebbe meglio che questi motivi fossero esposti alla Costituente. Quali sarebbero state, ove avessimo tentato di giocare la carta del rifiuto, le pressioni americane su di noi, si può immaginare. Evidentemente sarebbero state pressioni di natura economica, ed io sarò l’ultimo a sottovalutarle. Dico di natura economica, riferendomi all’occupazione alleata con le sue spese, perché purtroppo quanto allo sgravio politico-militare della cessazione dell’occupazione alleata dopo la firma, mi pare che per il momento non se ne parli ancora, non essendo risolta nei suoi particolari la questione dello Stato libero di Trieste. Altre minori sanzioni ci sarebbero forse state applicate, e avremmo sofferto soprattutto la mancanza degli aiuti economici che ora ci vengono, anche grazie all’ultimo viaggio del Presidente del Consiglio.
Comunque, mentre il Presidente del Consiglio è stato piuttosto cauto sui risultati e sulle impressioni del suo viaggio, noi abbiamo invece visto in Italia i muri tappezzati da manifesti eloquenti in pro e contro, gli uni che dicevano che De Gasperi ci portava molte cose buone, farina, carbone e prestiti, e che, se mai, solo gli avversari interni – interni al Governo – impedivano all’onorevole De Gasperi di salvare il Paese (riferisco testualmente quel manifesto); gli altri che affermavano il contrario.
In sostanza, il Paese ha avuto l’impressione, e noi con il Paese, che le pressioni di natura economica e gli aiuti che viceversa sarebbero venuti ove avessimo firmato, fossero gli uni e gli altri di discutibile entità, anche perché sembra che fino a questo momento si tratti più di promesse che di aiuti reali. Non so, insomma, se condizionando la firma, se facendo un tentativo estremo, ma facendolo però possibilmente non all’ultimo momento, saremmo stati trattati veramente molto peggio.
Da un certo punto di vista, avrei quasi considerato come cosa buona se effettivamente ci fosse stato detto da parte americana che, senza la firma, avremmo veduto annullati degli aiuti, altrimenti concessici. Questo avrebbe significato che, avendo ora firmato, gli aiuti considerevoli li riceveremmo di sicuro.
In generale, gli aiuti che ci vengono dagli Stati Uniti vengono per parecchie cause: per la generosità di quel popolo, per il senso di interdipendenza economica mondiale, che hanno indubbiamente i governanti, gli uomini d’affari americani. Ci vengono per la presenza in America della collettività di origine italiana. Ed il fatto che ci vengano, in misura meno copiosa del resto che ad altri Paesi, dipende anche da una determinata politica estera degli Stati Uniti, quella di Byrnes, il quale pensava di poter risolvere i problemi che gli stavano a cuore, cioè i problemi della presenza politica dall’America in Europa, attraverso aiuti economici. Si dice giustamente che a cavallo regalato non si guardano i denti. Ed è chiaro che, se aiuti ci vengono, dobbiamo accettarli con riconoscenza, anche se fra i motivi che li determinano possono esserci motivi di natura politica, che noi non condividiamo.
Quindi, riconoscenza; però dobbiamo renderci conto, per non lasciarcene influenzare, di quei motivi che sono estranei alla nostra situazione e ai nostri interessi, e poi perché quella determinata politica non era destinata a durare eternamente.
Credo che la sostituzione del generale Marshall a Byrnes significhi l’inizio d’una progressiva rinuncia a quella politica; cosa, del resto, prevedibile da tempo e preveduta e sulla quale alcuni organi di stampa internazionali, forse anche italiani, hanno già attirato l’attenzione dei governi, anche del nostro.
Contrariamente a quello che scrivono molti giornali nostrani, che si sono specializzati nel volere scorgere in ogni cambiamento politico un appoggio alla loro tesi, la tesi del blocco antisovietico, credo che l’assunzione di Marshall – che ha coinciso per caso, ma forse non del tutto per caso, col viaggio dell’onorevole De Gasperi – non significhi una politica di ostilità nei confronti della Russia. Coloro che lo pensano o lo temono o lo sperano saranno delusi. Dal punto di vista dell’atteggiamento politico generale verso la Russia, non vi è differenza fra Byrnes e Marshall. Sono diversi i metodi dell’uno e dell’altro. Non è poi vero che il metodo di Marshall sia più affine ai metodi di coloro che propugnano un blocco occidentale antisovietico. È vero il contrario, come Marshall stesso l’ha dimostrato in Cina.
Da noi si è molto inclini a pensare che un generale non possa fare che una sola politica, quella dei generali che sono nazionalisti e sciabolatori per professione. Non è sempre così.
Il generale Marshall certamente affronterà con estrema energia i problemi che ritiene di interesse vitale per l’America; ma per tutto quello che si sa, la sua politica è quella di trattare tutti i problemi direttamente col Governo di Mosca, di porre tutti i problemi sul tappeto direttamente nei confronti di Mosca, e di dare minore importanza di quanta non ne desse Byrnes alle posizioni politiche americane nell’Europa occidentale e meridionale, da sostenere attraverso aiuti economici.
Io metto in guardia questa Assemblea contro l’illusione che quella determinata politica americana, di cui noi abbiamo approfittato – ripeto, senza condividerne i motivi – e che i suoi avversari hanno chiamato la «diplomazia del dollaro», possa durare ancora a lungo. La politica che l’America, a mio giudizio, si accinge a seguire, potrebbe essere per noi, inizialmente, dal punto di vista degli aiuti economici, anche meno favorevole. Appunto per questo mi pare che lasciar cadere così la carta relativa alla non firma del trattato di pace, per la sola promessa di aiuti economici e in un momento in cui cambia la politica americana incline a dare aiuti economici con finalità politiche, sia stata cosa un po’ affrettata. Forse ci conveniva resistere alle pressioni americane, proprio in previsione della politica estera del generale Marshall, che intende porre sul tappeto tutti i grandi problemi mondiali, e si sforzerà di trovare un modus vivendi generale nel quale noi dovremo ancora inserirci. Forse ci saremmo potuti inserire meglio se avessimo condizionata, riservata o ritardata ancora, per qualche mese o per qualche settimana, la firma del Trattato. Dico questo non per fare dei rimproveri all’onorevole De Gasperi e al Governo. Lungi da me questa intenzione: in politica estera non si devono mai fare recriminazioni. Di ciò il gruppo, a nome del quale vi parlo, vi ha dato la prova quando l’onorevole De Gasperi assunse il potere e noi ci trovammo in polemica politica acuta con lui (credo che avevamo ragione di trovarci in polemica con lui nella politica interna italiana), e tuttavia abbiamo sostenuto che la politica estera dovesse continuare ad avere la fiducia del Paese. Io lo scrissi anche sui giornali americani, trovandomi allora a New York. Anche ora sosterremo il Conte Sforza. Però dobbiamo metterlo in guardia contro questa abitudine di promettere una politica di ferro, di resistenza, e poi non farla. Allora è meglio non prometterla.
Quello che si è svolto qui fra Governo, Assemblea, Commissione dei trattati, Lupi di Soragna, firma o non firma, ecc., non ci ha giovato nell’opinione pubblica mondiale. Basta che leggiate i grandi giornali americani; non parliamo poi di quelli degli altri grandi paesi: hanno considerato queste cose come manovre puerili. O si fa sul serio una politica di resistenza, come l’onorevole De Gasperi aveva preannunciato di voler fare, o non la si auspica neppure. Se la si fa, bisogna farla sistematicamente, per parecchi mesi di seguito, per anni di seguito. Oscillare fra una politica e l’altra, non credo sia stato utile. E lo dico – ripeto – non per recriminazione, non per spirito di opposizione, ma semplicemente per il desiderio che d’ora in poi queste oscillazioni dannose vengano a cessare. Vorrei poi spiegare, senza spirito di acrimonia, per quale ragione sia caduta così, senza veramente fare le sue prove, la politica di resistenza che l’onorevole De Gasperi pur aveva preconizzato. Forse una delle spiegazioni si trova anche nel già citato brindisi di Byrnes. Byrnes salutò il Presidente del Consiglio come l’uomo che aveva guidato la resistenza al nazismo e al fascismo. Ora, effettivamente, a parte la questione personale, aveva ragione Byrnes. La politica di resistenza che egli temeva che l’Italia volesse fare sul terreno internazionale, era possibile solo nello spirito dell’altra Resistenza, quella che doveva influire sulla politica interna del Paese.
Invece, avendo il Governo, e in particolare la direzione del Governo, troppo presto rinunziato nella politica interna del Paese allo spirito della Resistenza, che faceva sì che noi, molto spesso, durante la guerra di liberazione partigiana, rifiutassimo le imposizioni che ci volevano fare gli angloamericani, dai quali pur ricevevamo aviolanci, si è giunti alla conseguenza naturale a cui sempre si perviene quando si smobilita lo spirito della Resistenza. Si è indebolita anche la politica di resistenza nel campo internazionale.
Dispiace che l’onorevole De Gasperi, nella sua visita in America, abbia trovato soltanto un’occasione per accennare alla Resistenza. A Chicago egli imputò alla guerra civile antifascista la crisi dell’apparato statale. Certamente, le deficienze dell’apparato amministrativo dello Stato sono dovute anche alla guerra civile che si è dovuta combattere contro il fascismo. Però la Resistenza partigiana è stata anche un grande elemento di forza, persino nei rapporti internazionali.
Che la possibilità per noi di riguadagnare sforza e prestigio nel campo internazionale dipenda dalla nostra guerra di liberazione, è dimostrato anche dal messaggio di Bevin che comincia col richiamarsi a Mazzini e Matteotti. Credo che questo messaggio noi dobbiamo accettarlo con la necessaria riserva di chi non può rallegrarsi per i soli complimenti sentimentali da parte di colui che lo ha trattato con la durezza con cui noi siamo stati trattati dagli inglesi. Ma bisogna anche che noi teniamo conto del permanere nel mondo di uno spirito democratico molto avanzato, spirito democratico che deve essere portato conseguentemente nella politica estera italiana, se si vuole ottenere qualche risultato. Altrimenti, si parlerà di resistenza all’ingiustizia, e, poi, si cederà sempre, senza neppure aver avuto qualche cosa in cambio.
Evidentemente la storia non è finita. Personalmente sono del parere di Don Sturzo, circa il valore della firma e della ratifica. Ma questa è materia assai opinabile e, anche accettando il parere di Don Sturzo, rimane il fatto che non bisogna sottovalutare l’azione diplomatica che il Governo può ancora condurre, avendo riservato il giudizio dell’Assemblea sulla ratifica. Mi auguro dunque che il Governo conduca l’azione adeguata per valorizzare questa nostra riserva; però credo che tale azione sarà coronata da successo – non da molto successo, perché i grandi successi sono lontani per il momento – soltanto se si sapranno mettere a fuoco e, direi, in una situazione gerarchica, alcuni pochi problemi.
Il primo è quello delle nuove frontiere. Il fatto più grave non è tanto che non abbiamo più un esercito o una flotta per difenderle; questo, che è doloroso, non sarebbe affatto grave se ci fosse una garanzia internazionale delle frontiere. Ma io ho letto due, tre, quattro volte il Trattato, ho letto la Carta delle Nazioni Unite e ho constatato che questa garanzia internazionale non esiste e, quindi, bisogna chiederla. E mi riferisco in modo particolare alla frontiera orientale. Mi riferisco senza astiosità in proposito, perché penso anzi che il mezzo fondamentale di ritrovare le vie dell’amicizia italo-jugoslava sia quello di far regnare chiarezza in proposito. È difficile che l’amicizia regni fra due popoli vicini, quando le rispettive frontiere non sono garantite. In altri tempi, le frontiere si garantivano con le fortificazioni; oggi si dovrebbero garantire con impegni internazionali. Bisogna chiederli di urgenza, prima della ratifica, giacché non le abbiamo chieste prima della firma. Dobbiamo avere garanzie sulla maggioranza italiana a Trieste libera.
E dobbiamo anche chiedere la protezione delle minoranze che restano nei territori che passano sotto il dominio altrui. Anche lì si lavora meglio alla distensione degli spiriti, se si è sicuri che questa garanzia ci sarà.
Città italiane, Fiume, Pola, Pisino, Zara ed altre, passano sotto la sovranità jugoslava. Io non dirò una sola parola patetica al riguardo; però dico che dobbiamo esigere, non solo noi giuliani, ma noi italiani, la Costituente italiana, il Governo italiano, opportune garanzie internazionali, prima della ratifica. Solo in questo modo potremo arrivare, dopo aver avuto le necessarie garanzie, alla rinascita dell’amicizia italo-jugoslava.
Un’altra questione essenziale è quella economica e io devo dire che, mentre sono sempre stato critico aspro della politica economica dell’onorevole Corbino come Ministro del tesoro, che poggiava su presupposti sbagliati, tuttavia condivido quello che l’onorevole Corbino va dicendo e scrivendo da due o tre giorni sulla prossima grave crisi monetaria internazionale. Problemi di svalutazione esistono per il dollaro e per la sterlina e la nostra economia, che noi pensiamo di averla salvata con la firma, andrà per aria, se non chiederemo tempestivamente garanzie internazionali. Inoltre, dobbiamo far sentire la nostra voce sul problema più grave, quello della Germania. L’economia europea non rinascerà mai finché non rinasce l’economia della Germania. È necessario che, tanto ad Oriente che ad Occidente, ci si renda conto di ciò.
Gli inglesi oggi sollecitano da noi un avvicinamento economico. Questo nuovo atteggiamento inglese è forse uno dei risultati positivi – indiretti – del viaggio dell’onorevole De Gasperi, perché evidentemente gli inglesi hanno avuto l’impressione che noi ci volevamo troppo legare all’America. Perciò oggi vengono a chiederci di lasciare la porta libera anche a loro. Gli inglesi vedono realisticamente il futuro della Germania, anche se tengono un atteggiamento pratico assai contradittorio.
Avevano costruito buoni progetti di socializzazione per la Germania, ma hanno ceduto davanti a resistenze capitalistiche interne.
Dunque anche agli inglesi io credo che possiamo avvicinarci. Ma dobbiamo farlo chiedendo sempre, apertamente, alcune garanzie; e non tanto garanzie di revisione delle clausole militari che oggi essi già ci offrono – stando almeno ai giornali di questa mattina – ma piuttosto altre garanzie, garanzie economiche e la garanzia appunto della nostra presenza nella definizione del problema tedesco. E poi anche questo: che ci si lasci fare, che non ci si impedisca, come più volte ci si è impedito, di fare una politica di amicizia anche verso l’Oriente.
Il Trattato di pace ha inciso sulla carne viva del territorio nazionale, peserà su una o due generazioni e ripeto perciò che avrei desiderato che non si fosse apposta la firma. Tuttavia, un risultato positivo ci può essere anche così ed è quello di creare all’Italia un’apertura verso l’Oriente, un’apertura cioè verso Paesi in cui non eravamo finora ammessi, o eravamo ammessi solo attraverso la porta di servizio, perché eravamo considerati come un Paese ancora legato alle responsabilità del fascismo, quindi ancora nemico. Ora questa condizione è mutata. Il nostro avvenire economico, poiché si dà tanta importanza alla questione economica da parte del Governo, a lunga scadenza non sta ad occidente. Dico ciò in base all’esperienza fra le due guerre mondiali, e in vista delle direzioni verso cui vanno gli investimenti di capitale statunitense e che sono l’America latina, la Cina, il Giappone, non l’Europa.
Il nostro avvenire economico sta sì in parte nell’America latina, per quanto concerne l’emigrazione, ma sta fondamentalmente nei rapporti con l’Europa orientale e centrale.
Ho avuto il privilegio di trascorrere alcune settimane, recentemente, nell’Europa danubiana e la prima constatazione che ho fatto è che il sipario di ferro non esiste, non esiste nulla che ci divida da quella parte del mondo, se non il residuo psicologico di una guerra che ora è finita.
Esistono delle incomprensioni, ma esistono colà dei regimi economici e politici di libertà, di democrazia e di progresso sociale, che possono essere diversi dal nostro, ma non sono tanto diversi da non permetterci l’integrazione con quelle economie e la rinascita, che ne deriva, di una politica estera italiana capace di iniziativa propria autonoma.
Se è ridicolo voler fare da mediatori, data la nostra forza modesta, tra tutto l’Occidente e tutto l’Oriente, fra Washington e Mosca, è però realistico creare una politica mediatrice tra Parigi, Roma, Praga, Budapest, Bucarest e anche Belgrado, Vienna, Berlino.
È qui che può rinascere la nostra politica estera. È qui che deve rinascere quello spirito della Resistenza, per cui abbiamo piegato persino gli alleati, quando volevano imporci la monarchia e immischiarsi nelle cose interne nostre.
Ci siamo trovati in guerra con le democrazie, ma grazie alla guerra di liberazione possiamo rialzare la testa. Quei paesi dell’Europa centrale possono avere bisogno di noi, come noi di loro. Noi possiamo avere bisogno degli Stati Uniti d’America, ma gli Stati Uniti d’America non hanno bisogno di noi; salvo che per il castello di carta di Byrnes, il quale si era immaginato, dopo il discorso di Churchill a Fulton, di doversi assicurare delle basi politiche particolari in Europa.
In realtà il problema dell’unità è all’infuori delle proposte di Churchill, è l’unità tra l’Europa occidentale e quella orientale. In questo senso noi valutiamo quel che il Conte Sforza ha messo nella sua nota dopo la firma del Trattato di pace, cioè l’accenno alla nostra sovrapopolazione, ai 45 milioni di italiani che non tutti trovano pane in questo Paese. Quella frase ha il suo valore rispetto all’emigrazione, ma venendo dal conte Sforza, che non è mai stato nazionalista, ha anche un valore politico, avrà un peso economico e politico quando si potrà riferire a masse che lavorano nelle nostre fabbriche e creano prodotti che sappiamo dove esportare; quando si riferirà ad un popolo forte, che si è riconquistato il suo prestigio e che sa farlo valere. Questo varrà soprattutto verso l’Europa centrale, in unione alla quale noi, 45 milioni di italiani, conteremo moltissimo.
Ed anche questa volta, come dopo il 1849, malgrado le delusioni che ci dà la democrazia internazionale – analoghe a quelle che ci davano allora la democrazia francese e il liberalismo inglese – questo Paese saprà risorgere con la sua propria forza di volontà, e grazie allo spirito democratico internazionale, che sopravvive nei popoli. (Vivi applausi).
PRESIDENTE. È iscritto a parlare l’onorevole Saragat. Ne ha facoltà.
SARAGAT. Abbiamo ascoltato con deferenza il discorso dell’onorevole De Gasperi ed abbiamo trovato in esso gli accenti che sono tipici della personalità del nostro Primo Ministro. La nota umana ha risuonato nel suo discorso, quando egli ha parlato dell’ingiusto dettato di pace; ha risuonato perché egli parlava di cose che sente profondamente.
De Gasperi è veramente, come è stato detto già da altri, l’uomo della marca di frontiera. Chi, come me, ha avuto l’onore di collaborare con lui a Parigi, intende il significato della sua emozione ed intende perché, quando Egli parlò di quei problemi, tutta l’Assemblea vibrò come un’anima sola. Ma sono stati solo pochi istanti di emozione.
Appena l’onorevole De Gasperi è passato dai problemi internazionali a quelli della politica interna, appena è passato a trattare della politica del Governo in materia sociale, siamo subito scesi al terreno dell’ordinaria amministrazione. Ed, in fondo, non poteva essere diversamente, perché, a differenza dell’uomo di Stato francese, che recentemente, presentando alla Camera di quel Paese il suo Governo, poteva dire che si trattava di qualche cosa di insolito, l’onorevole De Gasperi, presentando il suo Governo, non poteva dire altro che si trattava di cosa arcinota.
Il nuovo Governo, infatti, è la copia, leggermente modificata, non voglio dire, deformata, del Governo precedente.
Ed il programma di questo Governo – per valermi di un’immagine di cui si è valso lo stesso Presidente De Gasperi nel suo discorso ai 21 a Parigi – è come quella prefazione, che si scrive dopo che il libro è stato compilato. Il programma è stato fatto dopo la formazione del Governo. L’onorevole Tremelloni vi dirà in un discorso che deve tenere in questa Assemblea, cosa pensa il partito socialista dei lavoratori italiani del programma di questo Governo.
Non entriamo, quindi, nel dettaglio per questa parte, tanto più che ad illuminare intorno alle prospettive di quella che sarà l’azione di questo Governo, basta ricordare ciò che è stato fatto o meglio ciò che non è stato fatto nei mesi scorsi.
Basterà, del resto, dare uno sguardo alle cifre, a quelle cifre, di cui è stato detto che non si sa se governino il mondo, ma che ci dicono, però, se il mondo è bene o è male governato.
E stando alle cifre bisogna concludere su un giudizio non troppo favorevole intorno alla gestione del Governo degli ultimi mesi passati: né possiamo farci prospettive troppo rosee sulla gestione di questo Governo nei mesi prossimi.
È mancato, intanto, dal 2 giugno ad oggi, un serio coordinamento fra i progetti governativi coi dati della realtà effettiva del nostro Paese. Perché non basta, per esempio, parlare di centinaia di miliardi di lavori pubblici, quando non si sono prese le misure adeguate per raccogliere questi miliardi ed i materiali necessari per i lavori.
Un secondo elemento, che emerge dalla gestione del passato Governo, elemento che abbiamo la certezza di vedere risorgere anche nel Governo attuale, è che i Ministeri tecnici si sono trovati quasi sempre in contrasto fra di loro ed hanno neutralizzato reciprocamente la loro azione.
C’è stato, però, un elemento favorevole, che non dipende dal Governo.
C’è stata una congiuntura internazionale, che ha favorito le nostre esportazioni. C’è stata, sovrattutto, la qualità eccezionale di lavoro, delle nostre classi lavoratrici.
Ma – badate! – la congiuntura favorevole sul mercato internazionale non è eterna. Tra pochi mesi noi ci troveremo di fronte alla concorrenza dell’industria di altri Paesi e dovremo difendere duramente le posizioni oggi conquistate.
Badate, infine, che la pazienza ed il potere di sopportazione delle nostre classi lavoratrici non sono illimitati.
Nel giugno, l’onorevole De Gasperi aveva preso l’impegno di difendere la circolazione ad ogni costo.
La parola d’ordine allora qual era?
Si diceva: o prestito o inflazione. Abbiamo avuto il prestito e abbiamo avuta l’inflazione. In quanto al prestito, il meno che si possa dire è che non è stato organizzato con quegli accorgimenti che avrebbero potuto rendere più efficace il suo gettito; e, cosa peggiore, non è stato organizzato, con quegli accorgimenti che avrebbero permesso di non pregiudicare il nuovo prestito che fra qualche mese – lo vogliate o non lo vogliate – dovrà figurare all’ordine del giorno.
D’altro canto, la circolazione è passata dai 400 miliardi circa del mese di giugno, a 465 miliardi in novembre, e credo che oggi non si sia lontani dai 500 miliardi. I prezzi intanto, nello stesso periodo, sono saliti di oltre il 50 per cento.
Il Governo si era impegnato di potenziare i sistemi di accertamento delle imposte; di applicare l’imposta straordinaria sul patrimonio, di fare il cambio dei biglietti; di contenere in cifre ragionevoli il deficit. In un momento di euforia si è persino parlato di pareggio per il bilancio ordinario per l’esercizio 1947-48. Oggi la situazione qual è? Il deficit che era di circa 200 miliardi nel giugno 1946, oggi è presumibilmente intorno alla cifra di 500 miliardi; ed è in questa cifra tutto l’elemento problematico della situazione attuale.
Si era promesso anche di riorganizzare le finanze delle altre imprese pubbliche. Ora voi sapete che le ferrovie hanno un deficit di circa 25 miliardi. È pur vero che, dagli elementi che abbiamo, si può sperare che sarà ridotto.
E per carità di Patria vogliamo stendere un velo sulla gestione delle finanze comunali. D’altro canto, voi tutti sapete come le poste navighino in acque molto difficili. Si era promesso anche di decentrare i lavori pubblici; e questa promessa è rimasta allo stato di puro progetto.
Intanto i prezzi continuano a salire, e i due milioni di disoccupati che abbiamo in Italia attestano quanto sia irrisorio l’articolo 32 del nuovo progetto di Costituzione della Repubblica. E si potrebbe continuare in questo doloroso elenco.
Sono in fondo delle cose che tutti conosciamo, che tutto il Paese conosce. Ma ciò, che è grave, vedete, nella situazione attuale è appunto questo: non è già l’ignoranza che faccia velo; è l’inerzia ed è la sfiducia che paralizzano. Si ha quasi l’impressione oggi che la società italiana si installi passivamente in una situazione, nella quale in mancanza di un risveglio rapido e decisivo, non potrà che aggravarsi in modo forse irrimediabile. Questo vuol dire che il problema non è più di natura puramente tecnica, ma di natura sociale e politica. Il che non vuol dire che non ci siano le forze politiche suscettibili di risolvere questi problemi; vuol dire che manca la classe politica capace di dirigere queste forze o portarle alla risoluzione di questi problemi. E ciò che è più doloroso è la constatazione che alla caduta del fascismo esistevano le condizioni per ricostruire l’economia italiana su basi meno inique di quelle di fronte alle quali ci troviamo oggi.
In nessun paese d’Europa, se si eccettua la Spagna, forse, esistono differenze così offensive per il senso morale fra il livello di vita delle classi lavoratrici e quello dei ceti privilegiati; in nessun paese d’Europa esistono differenze così offensive fra il livello di vita di regioni italiane con altre regioni italiane. Il potere d’acquisto medio delle popolazioni dell’Italia meridionale è ancora oggi – voi lo sapete – circa la metà del potere d’acquisto medio delle popolazioni dell’Italia del Nord.
E che dire poi in generale della situazione dei lavoratori italiani di tutta la penisola, se si paragona a quella dei ceti privilegiati? Sapete che il potere di acquisto dei salari degli operai è circa la metà di quello che era prima della guerra; e sapete egualmente che il potere di acquisto degli impiegati è circa un quarto. C’è in questa solidarietà, nella miseria tra operai e impiegati, una ragione profonda che ci spinge a considerare la necessità dell’unione fraterna di tutte queste forze del lavoro italiano. (Applausi).
Queste inique differenze operano in Italia nel senso di una dissociazione di quello spirito unitario, nel senso di una lacerazione di quell’anima collettiva che deve essere il fondamento di ogni comunità democratica, perché nessuna democrazia può vivere e prosperare se, pur nelle differenze di classe inevitabili nel regime attuale, non esista un denominatore comune di ideali e di interessi, che saldi tutti gli uomini viventi sulla stessa terra in un patto unico di solidarietà e di fratellanza.
Ma quando la differenza di vita tra uomo ed uomo, fra regione e regione diventa troppo iniqua, come nel caso del nostro Paese, allora questo patto, che è il fondamento stesso della vita democratica, rischia di essere spezzato e ci vuole tutto il sentimento patriottico delle nostre classi lavoratrici, tutto il sentimento patriottico delle nostre popolazioni dell’Italia meridionale, per non reagire contro questa forza disgregatrice.
Ma esisteva, ripeto, alla caduta del fascismo, appunto per la decomposizione totale della società italiana, la possibilità di iniziare l’opera di ricostruzione secondo un piano generale che avrebbe dovuto essere ispirato al criterio di convogliare le forze della ricostruzione nel senso di determinare almeno un minimo di giustizia sociale.
Ci trovavamo allora nella situazione in cui si trova colui che è di fronte ad una città distrutta, alla cui ricostruzione è possibile provvedere secondo un piano regolatore che tenga conto delle esigenze degli abitanti. È avvenuto invece che per la carenza dell’apparato statale la ricostruzione si è determinata secondo la linea degli interessi privati e, quel ch’è peggio, secondo la linea di interessi egoistici di privilegiati a detrimento della collettività.
La vita certo riprende in Italia, e riprende in un modo che può stupire chi non conosce le immense risorse del nostro Paese. Ma riprende travolgendo o mettendo in condizioni di assoluta inferiorità il ceto economicamente più debole, cioè quello dei lavoratori.
Mi si può obiettare che la ricostruzione secondo un piano generale richiedeva lo strumento della pianificazione, e che lo strumento era lo Stato; ma che lo Stato doveva a sua volta essere ricostruito, perché in piena disgregazione.
L’osservazione è esatta. Ma che si è fatto in questi due anni per riorganizzare veramente la macchina dello Stato?
L’onorevole Tremelloni si intratterrà particolarmente su questo problema che è il problema fondamentale che in questi due ultimi anni non abbiamo saputo risolvere.
Ne volete una prova? In quasi tutti i paesi di Europa si è stati in grado di affrontare il delicatissimo problema del cambio della moneta. Per esempio, in Francia, il Ministero del tesoro è riuscito, per compiere questa operazione, a far aprire simultaneamente 40 mila sportelli. L’operazione è stata fatta due anni fa, se non erro. Ma noi dopo due anni non ci siamo riusciti. E non ci si venga a raccontare la storia dei clichès rubati. Non ci crediamo. Il cambio non l’abbiamo fatto perché lo Stato italiano non è ancora attrezzato a far quello che tutti gli altri paesi d’Europa hanno saputo fare.
Ma quello che è più grave, vedete, è che questa troppo lenta riorganizzazione della macchina statale – sono l’ultimo a pensare che sia deliberatamente voluta – asseconda quasi naturalmente come una tendenza ad accantonare quelle grandi riforme di struttura che sono indispensabili per rinnovare veramente il Paese. Anche qui, in quasi tutti i paesi d’Europa, si stanno apprestando risolutamente coraggiose riforme industriali, agrarie, coraggiose riforme nel mercato del credito; da noi si rinvia tutto alle calende greche. E dove questa volontà di procrastinare le necessarie riforme è emersa nel modo più evidente lo si è visto nella formazione della legge costitutiva di questa stessa Assemblea.
Quale sede sarebbe stata la più adatta per affrontare i grandi problemi di riforma di struttura che non un’Assemblea Costituente? Era un’occasione splendida per legare le grandi masse del popolo all’istituto rappresentativo della nuova Repubblica, per legare le classi lavoratrici allo Stato che sorge: e quella frattura dolorosa che constatiamo in Italia fra Stato e Paese avrebbe, forse, potuto essere saldata.
Questa frattura permane ancora, perché, appunto per procrastinare queste necessarie riforme, si è creata un’Assemblea Costituente, come quella che conosciamo, privata di ogni potere legislativo. Il che, vedete, ha avuto una doppia grave conseguenza. In primo luogo non s’è data una risposta efficace ed immediata ai bisogni delle classi lavoratrici. Per le classi lavoratrici la Repubblica non è soltanto la partecipazione attiva alla vita politica del Paese, ma anche partecipazione attiva alla sua vita economica e sociale.
Ma, in secondo luogo, svuotando questa Assemblea di ogni potere legislativo, si è determinata inconsciamente nel Paese una svalutazione dell’istituto parlamentare. Non nascondiamocelo, o colleghi; abbiamo un bel farci degli elogi reciproci sul funzionamento di questa Assemblea, abbiamo un bel riconoscere obiettivamente il lavoro magnifico che i nostri colleghi delle Commissioni hanno fatto. Ma dobbiamo dirci francamente: c’è un senso di sconforto; abbiamo l’impressione che questa Assemblea non sia quella che il popolo italiano avrebbe voluto.
BENEDETTI. Ma non era lei il Presidente?
SARAGAT. E ciò è avvenuto per colpa delle limitazioni che la legge stessa ci ha imposto all’atto della costituzione di questa Assemblea. (Commenti).
Avviene oggi, onorevoli colleghi, che la sostanza del potere politico permane fuori di quest’Aula. I partiti regolano i loro rapporti di forza fuori di qua; i Governi si fanno e disfanno fuori di qua. Nell’Assemblea si viene unicamente per prendere atto di quel che avviene fuori o, peggio ancora, nell’Assemblea i partiti vengono unicamente per portare lo strascico delle querele, delle loro giuste lotte che avvengono nel Paese. Si passa, nel seno di quest’Aula, a discussioni interessanti, ma quasi sempre monotone, a forma di agitazioni verbali violente; ma manca sempre in questa Assemblea l’elemento drammatico che scaturisce quando nel seno delle Assemblee politiche i partiti versano la sostanza del loro potere, dibattendo i problemi nazionali ed internazionali che interessano tutto il Paese.
Ci può essere in quest’Aula la passività, il diverbio: mancherà sempre quell’elemento drammatico che assume rilievo quando nelle Assemblee si discutono problemi nazionali e internazionali che interessano tutto il popolo.
Abbiamo creato un’Assemblea che ha tutti i difetti del sistema parlamentare, senza averne nessun vantaggio. E, signori, si è contribuito, così, ad allontanare dall’anima popolare un istituto che avrebbe potuto essere qualche cosa di veramente vivo e di veramente efficace.
E l’ultimo grave episodio di questa atonia dell’Assemblea, che è indipendente dalla volontà nostra, ma risulta dalla natura stessa delle cose in cui ci siamo venuti a trovare, lo si è visto nella storia della firma del trattato di pace. Singolare vicenda questa, che denuncia, non tanto la coraggiosa volontà del Governo di avocare a sé tutte le responsabilità, quanto la diffidenza nella capacità dell’Assemblea di avocare a sé questa responsabilità. Ha detto bene l’onorevole Lombardi che non è tanto la sostanza della cosa ad offenderci, quanto il modo: si era sempre pensato da tutti, ed anche da noi che siamo stati a Parigi di fronte ai 21, che questa Assemblea avrebbe dovuto essere investita della facoltà di decidere se firmare o meno. E lo pensava anche il Governo, pochi giorni fa, come risulta da un documento ufficiale del Ministero degli esteri; ma poi il Governo, per ragioni che noi non conosciamo, quand’anche possano essere eccellenti, ha cambiato idea ed oggi esso si presenta con l’aureola che gli deriva dall’essersi assunta la responsabilità.
Muoverò al Governo due obiezioni. La prima è che questo Governo ha avocato a sé la decisione, ma non è esatto che, fin dall’inizio, abbia evitato di impegnare la responsabilità dell’Assemblea.
La verità è che, attraverso la Commissione dei trattati, il Governo ha cercato di ottenere un avallo che, se fosse stato concesso, avrebbe pregiudicato gravemente la nostra libertà di azione.
DE GASPERI, Presidente del Consiglio dei Ministri. Non l’ho chiesto.
SARAGAT. Non siete voi che lo avete chiesto, ma l’onorevole Gronchi ed è la stessa cosa. (Commenti). Si deve alla fermezza della Commissione, se questo avallo non è stato concesso; e non ho bisogno di dire che questa linea di condotta del Governo non era la più felice. Due sarebbero state le strade che si sarebbero potute seguire: o investire l’Assemblea di tutte le responsabilità, oppure evitare che l’Assemblea fosse implicata in qualsiasi modo in questo problema, così da farle avere le mani pienamente libere all’atto della ratifica. Se ciò non è avvenuto, si deve alla saggezza della stessa Commissione dei trattati. La seconda osservazione è che, per un complesso di circostanze, onorevole De Gasperi, abbiamo ricavato l’impressione che, da parte vostra, in questa faccenda dell’avocazione di tutte le responsabilità al Governo, ci fosse, sì, certamente un desiderio patriottico di evitare di investirne l’Assemblea, ma anche qualche altra cosa: abbiamo assistito ad assicurazioni ed a contro-assicurazioni fra i membri di un grande partito che è al Governo. Da parte dell’onorevole De Gasperi, vi è stato, sì, un sentimento patriottico, ma anche qualche altra cosa: la volontà, sì, di sottrarre l’Assemblea da una troppo grave responsabilità, ma anche quella di evitare di porre un partito politico nella necessità di dover decidere.
Questa mi sembra la ragione che ha determinato l’onorevole De Gasperi ad assumere questo atteggiamento: atteggiamento che non è valso certo a rafforzare il prestigio dell’Assemblea di fronte al Paese. Qui noi non portiamo che l’eco di quella amarezza che oggi è nel cuore di tutti gli italiani.
Noi non ci siamo fatti e non ci facciamo nessuna illusione intorno alla possibilità di rimuovere sul piano diplomatico le implacabili decisioni dei quattro Grandi. Ed erra, a mio avviso, chi pensa che il Trattato di pace avrebbe potuto essere migliore di quello che è. Chi, come me, è stato testimone della gestazione di questo Trattato, sa quali forze e quali interessi erano in giuoco, che hanno soverchiato interamente la nostra debole condotta.
È stato detto giustamente che questo Trattato, più che Trattato di pace fra l’Italia e le Nazioni Unite, può essere considerato come un trattato di pace che i quattro Grandi hanno stipulato fra di loro. Ne parleremo, del resto, quando il problema della ratifica sarà posto all’ordine del giorno. Oggi ci limitiamo ad affermare che la voce di protesta di questa Assemblea non avrebbe certo modificato la sostanza delle cose. Lo sappiamo che non avrebbe certo modificato l’implacabile volontà degli Stati maggiori dei quattro grandi Stati. Ma siamo certi che la voce dell’Assemblea avrebbe trovato eco presso le Assemblee degli altri Paesi del mondo, ed oggi noi non possiamo rinunciare a nessuna di quelle cose che possono mettere i germi di una rinascita dello spirito di giustizia a domani. Del resto, il simbolo più espressivo di questa situazione assurda in cui noi ci siamo trovati (e ci siamo trovati per colpa dell’azione del Governo in questi giorni) è che l’atto più grande della storia italiana in questo periodo è stato solennizzato da noi non da una voce di protesta, non da un grido di protesta, ma da trenta minuti di silenzio. I dieci minuti di silenzio del popolo italiano sono stati profondamente eloquenti; i trenta minuti di silenzio di questa Assemblea sono stati unicamente la prova della nostra impotenza. Ed ancora una volta l’Assemblea non ha potuto dare una voce alla tragedia profonda che ha dominato in quel momento il popolo italiano.
Ma anche in questi casi, onorevoli colleghi, a che giova fare recriminazioni? Sono cose che tutti sentono, che tutti sanno. E la gravità della situazione è precisamente in ciò, che manca la volontà di reagire, di dare un’anima a queste istituzioni repubblicane che sono l’unica garanzia di rinascita al nostro Paese.
Gioverà, a questo proposito, onorevoli colleghi, ricordare la definizione che della repubblica ha dato un grande socialista il Faurés. Che cos’è la Repubblica? È un grande atto di fiducia. Instaurare la Repubblica è proclamare una riunione di uomini che sapranno tracciare, essi stessi, le regole comuni alle loro azioni. Se sapranno conciliare la libertà e la legge, il movimento e l’ordine, essi sapranno combattersi senza lacerarsi, perché le loro divisioni non andranno fino al colore cronico della guerra civile ed essi non cercheranno mai una dittatura, anche passeggera, una tregua funesta o un vile riposo.
L’onorevole Lombardi ha ricordato giustamente per noi delle sinistre, ha rivendicato per noi delle sinistre che non siamo al Governo, la funzione di veri oppositori. Questa funzione non la rivendichiamo, perché sentiamo che nel conformismo in cui si installava la maggioranza, il sistema democratico repubblicano si svuotava a poco a poco della sua sostanza più viva, della sua sostanza più ricca, che è appunto la fiducia delle masse popolari.
Certo, oggi, onorevole colleghi, l’orrore profondo per la dittatura fascista è tale, il ricordo dei suoi delitti è così scolpito nello spirito di tutti gli italiani, le conseguenze delle catastrofi che ha provocato sono così presenti e pesano così sul destino della nostra generazione, che la Repubblica democratica oggi può beneficiare di un largo, larghissimo margine di credito che la storia gli accorda. Ma badate però che non conviene abusarne, perché nessun regime può vivere unicamente in funzione degli orrori che suscita negli uomini il ricordo del regime che l’ha preceduto; la democrazia soprattutto non può veramente prosperare e vivere, se non trae la propria ragione d’essere in sé stessa, se non trae la propria forza dalla fiducia profonda delle classi popolari. Inazione, paralisi, ordinaria amministrazione, per un sistema democratico sono sintomi di decadenza, e la democrazia non può vivere se non dilata la sua sfera d’azione in campi sempre più vasti, se non passa, in altri termini, dalla sfera puramente politica alla sfera economica e sociale. Ma oggi noi assistiamo al riaffermarsi in Italia ed al consolidarsi di forze politiche e di forze economiche che hanno interesse ad arrestare, o quanto meno a frenare, questo moto democratico del nostro Paese. Sono le forze del capitalismo monopolistico, di cui ha parlato molto bene l’onorevole Riccardo Lombardi, le quali rapidamente riconquistano le posizioni che avevano perdute; sono le forze del parassitismo agrario, le quali riprendono in molte regioni il controllo che noi pensavamo aver potuto debellare per sempre.
È stato acutamente detto che, totalitarie fino a ieri, queste forze oggi si presentano con una maschera liberale. Viviamo in tempi in cui ognuno si riveste dell’armatura del proprio avversario per meglio combatterlo. Se noi ci attenessimo ai programmi dei vari movimenti sociali e politici che oggi ci sono in Italia, dovremmo considerare che viviamo veramente nell’epoca aurea della libertà democratica e della giustizia sociale.
Ma la realtà, purtroppo, è un po’ diversa. I veri amici della democrazia in Italia sanno che hanno ragione di essere turbati ed inquieti, e le ragioni dell’inquietudine non risiedono soltanto nelle difficoltà obiettive di fronte alle quali ci troviamo per risolvere i problemi economici e sociali del Paese. Le ragioni della inquietudine stanno in ciò che noi sentiamo oggi, che la sorte stessa della democrazia in Italia è in giuoco, e per non estendere troppo il dibattito, e per limitarlo alla sfera di rapporti tra Governo e partiti, possiamo dire che il problema essenziale, il problema centrale che dobbiamo affrontare è appunto quello di armonizzare l’attività del primo con l’attività dei secondi.
I partiti politici sono certo uno degli strumenti essenziali al funzionamento di una democrazia moderna. I partiti politici sono sorti storicamente per organizzare il suffragio universale, ed hanno visto in seguito la loro azione dilatarsi in sfere sempre più vaste, abbracciare zone sempre più larghe e comprendere tutto ciò che nell’individuo è sociale. Oggi i partiti politici appaiono come gli organismi che danno la risposta a tutti i problemi della vita collettiva. In essi il singolo trova la possibilità di lottare per i propri ideali, vi trova il luogo in cui può uscire dall’isolamento in cui la società attuale lo ha collocato, il modo di stabilire rapporti fraterni e umani con coloro che vivono nello stesso partito e di ricreare nel partito i rapporti di fraternità che il sistema economico nel quale viviamo esclude. Ciò vale soprattutto per i partiti di sinistra, che danno risposta al più profondo bisogno umano che è quello della giustizia. Come stupirsi, onorevoli colleghi, se in esso il singolo versa tutta la somma delle sue capacità, i suoi sacrifici, tutto il suo fervore; e se talvolta questo patriottismo di partito va a detrimento dei doveri che in una democrazia ogni cittadino deve avere verso lo Stato? Certo è, in ogni caso, che il loro sviluppo irresistibile rompe gli schemi delle vecchie democrazie parlamentari, le quali mal si adattano al sorgere di queste forze giovani che portano in sé come la speranza di un vero ordine nuovo.
Le stesse difficoltà di adattamento si trovano, appunto, per il funzionamento dei governi parlamentari. Una voce eloquente, molto eloquente, si è levata all’inizio dei lavori di questa Assemblea, per ammonire che questo appunto è il problema politico centrale del nostro tempo.
Come esso si risolverà non lo sappiamo.
Oggi ci troviamo in pieno travaglio di adattamento di queste forze, delle forze che la democrazia tradizionale ci ha legato e che le forze nuove devono trasformare dall’interno.
A noi spetta di assecondare questo moto di adattamento dei partiti all’apparato dello Stato, al funzionamento dei Governi moderni, salvando, però, il diritto inalienabile della responsabilità individuale, vale a dire la libertà umana.
Questa nozione di responsabilità può e deve evolversi e trasformarsi dalla nozione egoistica della responsabilità verso se stesso, che è tipica della cosiddetta libertà borghese, al sentimento più vasto della responsabilità che abbiamo verso i nostri simili, verso tutti gli uomini.
È quella che noi socialisti chiamiamo libertà sociale.
Ma il principio che deve permanere come valido in tutti i regimi liberi e che, in ultima istanza, è nell’intimità della coscienza dell’individuo, è che l’uomo deve potere decidere a trarre norme per la propria condotta, senza che una coercizione esterna gli tolga il diritto di giudicare e di agire nel quadro della legge democratica, in conformità di ciò che crede il giusto, di ciò che crede il bene.
Oggi è questo problema di conciliazione del bisogno di giustizia e del bisogno di libertà, che si traduce in termini politici sul piano dell’azione di Governo, nella possibilità di armonizzare le forze che più impetuosamente rispondono a questo bisogno di giustizia, che sono i partiti di sinistra, i partiti proletari, con quelle che sono legate ad interessi o ideali tradizionali, in cui non tutto naturalmente è da respingere.
In altri termini, il problema oggi è di armonizzare tra di loro, sul piano del Governo, partiti politici, ognuno dei quali è completo in se stesso, quasi Stato nello Stato, e tendenti, per impulso delle loro strutture, a modellare la società a loro immagine esclusiva.
Questa tendenza esclusivistica dei partiti politici, tendenza che è implicita in tutti i partiti e da cui alcuni sono dominati più ed altri meno, è il pericolo maggiore che insidia le democrazie moderne.
È da queste tendenze che derivano tutte le difficoltà dei Governi di coalizione e tutti i pericoli dei Governi di maggioranza.
È lo spettro di un’invadenza esclusivistica dei partiti che induce molti a considerare, quasi con apprensione, i Governi di maggioranza omogenea e portare quasi d’istinto a considerare come salvaguardia della democrazia dei Governi di coalizione, che necessariamente sono impotenti in ragione delle forze contrastanti, che si annullano nel loro seno.
La democrazia vive così sotto il segno dell’impotenza, come se questa fosse l’unica garanzia.
Ma è chiaro che questa situazione a lungo non può durare.
Quella che chiamiamo democrazia sul piano interno è, per molti aspetti, simile a quella che chiamiamo pace sul piano internazionale.
Come la pace che oggi conosciamo non è altro che equilibrio di forze antagoniste, in ognuna delle quali è contenuto un pericolo di guerra, così quella che chiamiamo nell’interno la democrazia, nell’Europa occidentale, non è altro che equilibrio dei partiti, in ognuno dei quali è contenuto, virtualmente, un pericolo di dittatura.
Questa non è la vera pace, come non è la vera democrazia.
Come la vera pace non potrà generarsi dall’equilibrio di forze opposte, ma dal concorso di forze convergenti e solidali, così la democrazia non può consolidarsi che se lo spettro dell’intolleranza in seno ai partiti viene bandito, e se la maggioranza potrà allontanare da sé l’ipoteca funesta dell’oppressione della minoranza, l’ipoteca funesta della dittatura.
Il Governo che sta di fronte a noi è l’immagine esatta della situazione che vi sto descrivendo. Esso ha quasi l’aria di dirci che la sua relativa impotenza è il prezzo che noi dobbiamo pagare per la salvaguardia del nostro Paese, per la salvaguardia della democrazia politica. Diciamo subito che nella situazione attuale il Governo esprime esattamente i rapporti di forze esistenti, e che pertanto nulla di molto diverso si poteva fare da quello che è stato fatto. Ma è appunto perché noi del Partito socialista dei lavoratori italiani non ci vogliamo installare in questa situazione – situazione che alla lunga porterebbe alla paralisi e alla dittatura – che noi abbiamo rifiutato la nostra collaborazione. E come nel campo internazionale noi socialisti invochiamo il sorgere di una forza popolare che rompa l’antitesi tragica che esiste oggi tra la pace di equilibrio e la guerra e assicuri all’Europa la pace vera – e pensiamo che questa forza di pace in Europa non può essere trovata nei consessi internazionali, ma deve essere suscitata nel seno delle masse popolari in virtù degli ideali della democrazia socialista – così sul piano politico interno pensiamo che sia assurdo cercare in una sapiente combinazione ministeriale fra i partiti esistenti la formula per uscire dalla contradizione in cui la democrazia italiana si dibatte oggi.
Noi pensiamo che per uscire da questa situazione occorra suscitare nel Paese una forza animata dal senso di giustizia sociale e profondamente dominata dall’ideale di libertà, che travolga questa contradizione nel moto congenito appunto della libertà e della giustizia sociale. L’impresa cui noi ci siamo accinti, onorevoli colleghi, è stata dettata dalla consapevolezza profonda che la democrazia italiana si è venuta a trovare in un vicolo cieco, e dalla volontà di riportarla sulla via maestra, quella via maestra della democrazia socialista che si richiama al pensiero e all’esempio di Filippo Turati, Giacomo Matteotti e Bruno Buozzi. Le forze popolari cui facciamo appello noi socialisti e che vogliamo organizzare devono poter proiettare nella vita politica del nostro Paese quell’elemento veramente risolutivo che darà impulso verso la giustizia sociale, eliminando gli ostacoli costituiti dal pericolo ideale o presunto della dittatura.
È quindi a tutte le classi lavoratrici che noi ci rivolgiamo: agli operai, ai contadini, ai tecnici, ai professionisti, agli impiegati, agli intellettuali, perché ci aiutino in questo lavoro di liberazione della democrazia italiana (Commenti); in questo compito che sgombrerà la strada che il nostro popolo percorre, affinché nulla lo arresti nella sua marcia in avanti verso quell’ordine nuovo di libertà, di giustizia sociale e di pace a cui, dopo gli orrori della guerra, della dittatura e della miseria, ha diritto di tendere per il proprio benessere e per il benessere dei propri figli. (Vivi applausi – Congratulazioni).
PRESIDENTE. È iscritto a parlare l’onorevole Mazza. Ne ha facoltà.
MAZZA. L’ora tarda mi avrebbe dovuto far rinunciare alla parola; ma dopo l’inizio della campagna elettorale dell’onorevole Saragat, io ardisco prenderla, anche essendo un novellino.
Poco fa, l’onorevole Saragat «in sé medesmo si volgeva coi denti», e tutto mordeva: il Governo, l’Assemblea Costituente, la democrazia dei partiti di sinistra; quella democrazia dei partiti di sinistra, della quale fino a ieri, egli è stato uno dei maggiori alfieri. Ora io mi domando: l’onorevole Saragat, che cosa rappresenta? L’ala sinistra della sinistra? L’ala destra della sinistra? Io non ci capisco più niente. (Si ride – Commenti).
In omaggio all’ora tarda accetterò il consiglio di sobrietà che il Presidente onorevole Conti ieri ci rivolgeva, ma non seguirò l’esempio dell’onorevole Conti oratore di giorni fa. (Si ride).
Dai discorsi degli oratori precedenti ho avuto l’impressione che tutti siano d’accordo sulla necessità della concordia nazionale. Necessità sentita nel Paese, espressa dai giornali, richiesta dalla popolazione. Necessità, quindi di ottenere questa concordia oltre che, attraverso la piena solidarietà ministeriale, anche attraverso la conciliazione dei partiti, attraverso un complesso di leggi valide a riconciliare gli italiani, atte a far dimenticare ogni differenza, ogni sperequazione fra nord e sud, atte a far ottenere anche la ricostruzione morale, psicologica degli italiani, perché solo attraverso questa politica unitaria si possono trovare le basi per la ricostruzione materiale della Patria.
Ciò si può ottenere, non parlando mai più delle leggi fasciste, del confino di polizia, del fermo di polizia, di leggi speciali per la stampa, di leggi retroattive. Se ci sono dei disonesti, dei criminali, degli infatuati, capaci di rinunciare alla sovrumana bellezza di questa libertà di parola che consente ad ognuno di noi di esprimere il proprio pensiero, ci sia per essi il Codice penale. Ma quelli che hanno solo la colpa di aver servito onestamente le loro idee, come ognuno di noi oggi serve la propria, per quelli nei dobbiamo ricordare la legge del perdono dettata dal Vangelo per ottenere la fratellanza nazionale. Il Governo deve altresì sentire il dovere di distribuire equamente il lavoro.
Oggi si verifica questo, che mentre al nord le industrie hanno tre turni quotidiani di lavoro, al sud o non si lavora, o si lavora poche ore alla settimana.
Bisogna estendere la cassa di integrazione salari che esiste solo al nord al di là della linea gotica, anche al sud, perché anche al sud gli industriali pagano i contributi e con gli industriali pagano i lavoratori.
Bisogna distribuire contemporaneamente e in maniera simile gli approvvigionamenti alimentari. A Napoli, o signori (e non ho nessuna intenzione di essere il nuovo Finocchiaro Aprile della mia Napoli) non abbiamo ancora ricevuto la pasta del mese di dicembre e, vi dirò di più, i signori della Sepral vorrebbero comodamente saltare a piè pari la distribuzione dell’arretrato di dicembre.
Bisogna che i sussidi siano distribuiti in egual misura in ogni Regione d’Italia.
Se noi vogliamo la concordia degli italiani, è necessario che il Governo difenda con leale giustizia non determinate classi sociali, ma tutte le classi e i loro discordanti interessi: bisogna che li difenda con giustizia senza demagogia.
Non si può dimenticare, onorevoli colleghi, che in Italia esiste un problema della ricostruzione edilizia: cinque milioni di piccoli proprietari vedono sparire la loro proprietà, perché oggi gli oneri fiscali sono maggiori delle entrate. In questa maniera si anticipa una eventuale abolizione del diritto di proprietà che forse la Costituzione non sancirà mai.
Bisogna affrontarlo e risolverlo questo problema, perché non si tratta soltanto del problema di cinque milioni di piccoli proprietari; ma si tratta di un problema economico che investe tutta la Nazione; perché, quando la ricostruzione edilizia rinasce, rinascono tutte le industrie e perché – non illudetevi, signori del Governo – voi non potrete mai combattere la tubercolosi e le malattie sociali, se gli italiani non avranno le loro case.
C’è un altro grave problema che riguarda la classe medica e le classi lavoratrici: il problema delle casse mutue. Succede questo, in Italia: gli operai pagano dei contributi; i medici ricevono il 6 per cento dei contributi pagati dagli operai; un altro 8 per cento viene speso per i medicinali, 6 più 8 uguale 14 per cento; l’86 per cento viene assorbito dai direttori amministrativi, dalle segretarie e dai ragionieri, dalle sopra strutture parassitarie, (Approvazioni) a danno della classe lavoratrice che non viene assistita e senza la possibilità per i medici di sfamare le loro famiglie.
Solo attraverso delle leggi umane, delle leggi giuste, uniche in Italia, si può arrivare a quell’abbraccio che, molto opportunamente, l’onorevole Conti si augurava di poter scambiare, abbraccio che io personalmente sono onorato di accettare, perché la mia sensibilità mi fa porre l’Italia – oggi repubblicana – al disopra di ogni mio sentimento. Ma perché il nostro abbraccio sia efficace, onorevole Conti, deve essere contemporaneo a quello di tutti gli italiani.
Una sola osservazione vorrei fare all’onorevole Riccardo Lombardi, il quale però, tenendo conto della mia nullità, si è dileguato. Gli vorrei chiedere: egli ha chiesto la punizione dei generali responsabili della nostra sconfitta ed io sono d’accordo con lui; se i generali sono colpevoli, devono essere puniti; ma in questo caso, onorevole Lombardi, devono essere puniti anche i politici e i propagandisti che ugualmente contribuirono alla nostra sconfitta. (Commenti a sinistra).
Non credo che questo volesse dire l’onorevole Lombardi, ma le sue parole hanno tradito gli intimi suoi pensieri.
Ieri, l’onorevole Scoccimarro si è posto un interrogativo: vorrà la rinascente democrazia italiana dare libero campo alle richieste della classe lavoratrice? Io rispondo sì, alla domanda dell’onorevole Scoccimarro. Ma pongo un interrogativo: onorevole Scoccimarro, il partito comunista italiano vorrà permettere, allorché avrà conquistato il potere – che Iddio ce ne liberi – l’esistenza di una opposizione democratica, libera di diventare democraticamente maggioranza? Che ne dice, onorevole Scoccimarro? (Commenti a sinistra). Egli ha detto pure: il Governo non ha fatto il suo dovere. Proprio quel Governo al quale egli ha appartenuto per due anni, ma non ha avuto, però, il coraggio di dire che quel che s’è fatto di buono in Italia è stato fatto dall’iniziativa privata.
In una sola cosa io sono d’accordo con l’onorevole Scoccimarro: è per la questione dei pensionati. Io non so se egli abbia ragione di dire che ieri non si poteva risolvere il problema; ma, se così è, si affronti questo problema e lo si risolva oggi che a suo dire è possibile farlo.
È con molto dolore che ieri io ho sentito parlare dall’onorevole Scoccimarro del doppio giuoco dei partiti al Governo; egli ha accusato i democratici cristiani; ho sentito le beccate democristiane accusare i comunisti e speravo che tutto ciò riguardasse il passato Governo e che, con le nostalgiche e autobiografiche dichiarazioni dell’onorevole Scoccimarro, si fosse posta la parola fine al sistema. Oggi però l’onorevole Saragat ha riposto in giuoco la questione. Oggi si verifica infatti un altro paradosso; che cioè al Governo vi è una sinistra e all’opposizione vi è un’altra sinistra. Non credo che la nazione possa comprendere questa strana solidarietà; voglio augurarmi viceversa che, onestamente, la Camera del lavoro vorrà farlo. E d’altra parte non credo che oggi la Confederazione generale del lavoro possa fare diversamente, perché scioperare contro il Governo, chiedere pane e lavoro, significa scioperare contro il compagno Cerretti e contro il compagno Sereni.
Onorevoli colleghi, ho finito. Ho veduto espressa da molti colleghi e da molti giornali la meraviglia per l’infame trattato inflittoci dagli alleati: permettetemi di dirvi che io sono sorpreso di questa meraviglia; non bisogna dimenticare che altri uomini delle stesse nazioni hanno già altra volta tradito ed umiliato la nostra vittoria. Voglio soltanto rivolgere all’assente Ministro degli esteri, onorevole Sforza, una viva preghiera. Egli, nella seduta del 26 settembre, nella sua dichiarazione di voto, dichiarò che il fascismo si è imposto in Italia con il plauso delle grandi nazioni europee. Questa corresponsabilità si deve ricordare allo straniero, come a coloro i quali ci accusano di avere svolto una politica di aggressioni, bisogna ricordare che tutta la storia inglese, tutta la sua politica imperialistica e coloniale, sta a dimostrare una politica di aggressioni. E ricordi pure alla Russia, onorevole Sforza; ricordi le aggressioni zariste, le aggressioni dell’ultimo decennio, i paesi baltici; ricordi le responsabilità nell’ultima guerra scatenatasi, perché le frontiere orientali germaniche erano garantite dal patto Molotov–Von Ribbentrop.
Uniamoci, onorevoli colleghi, nelle opere della ricostruzione, nel ricordo dei nostri morti, dei nostri grandi, delle arti e delle scienze, che sono gli unici veri grandi che la storia ricordi. (Applausi).
PRESIDENTE. È iscritto a parlare l’onorevole Caso. Ne ha facoltà.
CASO. Onorevoli colleghi, quasi tutti i problemi della vita odierna presentano il carattere d’urgenza e il difficile sta appunto nello stabilire una approssimativa graduatoria della loro risoluzione, non potendo avere naturalmente la pretesa di risolverli tutti di un colpo.
Primeggiano quelli della ricostruzione, la quale merita l’attento esame del Governo e degli uomini politici, perché sia all’altezza dei nuovi compiti che si è assunta l’Italia nel voler trarre dalle necessità contingenti ed impellenti della disoccupazione una parte almeno di opere che siano veramente produttive, non solo per la formazione di nuova ricchezza, ma per attaccare alle opere medesime, ultimate, il maggior numero possibile di lavoratori.
Desidero portare qui un contributo di fervida esperienza personale tratta da questi 7 mesi di attività politica ai fini di contribuire a rendere più agile e rispondente all’ora che viviamo (così piena di giustificata ansietà in tutti i campi) il meccanismo esecutivo centrale e soprattutto periferico della burocrazia.
A furia di controlli, di passaggi, di analisi e contro-analisi, di pareri e contro pareri si crea una fitta rete di interferenze che sistematicamente frustrano la tempestività e l’utilità della legge.
Il Governo fatto di uomini ultrapopolari, in tali evenienze, finisce perfino per passare per un Governo statico tanto, alcune volte, sembra insensibile all’aspettativa e alle aspirazioni del popolo che, nella sua più assoluta semplicità, non sa rendersi conto come mai un provvedimento emanato da Roma e pubblicato ufficialmente dai giornali impieghi alcuni mesi per essere attuato in Provincia, quando addirittura non cada nel dimenticatoio, com’è, ad esempio, per il ritardato o mancato riconoscimento ai vari indennizzi di guerra, di prigionia, di invalidità, di pensione che affliggono tanti nostri fratelli derelitti.
La colpa non è del Governo, che è vigile ed ansioso del bene del popolo, e non è della maggioranza dei funzionari ed impiegati che lavorano con intelligenza e fedeltà, pur fra ristrettezze economiche di ogni genere, ma è da addebitarsi al sistema opprimente e debilitante di quel grande macchinone che è la burocrazia italiana.
Per richiamare meglio l’attenzione del Governo citerò alcune mie impressioni ed osservazioni che, voglio augurarmi, siano condivise anche da altri Deputati, le quali, se confortate dalla convalida dell’Assemblea, potranno più agevolmente dar luogo ad un provvedimento riparatore di autentiche ingiustizie, seppure involontariamente perpetrate.
Il pubblico ha precisa questa impressione: che fra le intenzioni del Governo sollecitamente risanatrici e l’attuazione pratica dei provvedimenti intercorra un tempo ingiustificabile, e che finisce per far sospettare della bontà del provvedimento o del desiderio di evaderle le conseguenze benefiche.
In tema di lavori pubblici basta tener presente il mastodontico comitato tecnico dei Provveditorati alle opere pubbliche (il quale ha l’obbligo di studiare ed approvare tutti i progetti delle province ad esso sottoposte da un minimo di L. 200.000) e, in contrapposto, la mancata facoltà deliberante degli uffici provinciali del Genio civile per comprendere, attraverso il contrasto stridente del vantato decentramento e dell’attuato accentramento di pratiche negli uffici già di per sé plerotici dei Provveditorati, per comprendere, dicevo, come sia indispensabile promuovere provvedimenti che affrettino la conclusione dei problemi di emergenza, evitando tutti quegli inutili ritardi che annullano la bontà della legge. Ho presentato in proposito un’interrogazione al Governo in data 22 gennaio 1947. Ripeto qui in pubblico che le ragioni principali che, secondo me, determinano la lentezza nell’esecuzione dei lavori pubblici vanno ricercate, appunto, nel complicato sistema accentratore del Provveditorato alle opere pubbliche e nella mancata facoltà deliberante da parte del Genio civile, la quale da sé sola, costituirebbe già un atto di utile decentramento. Voglio ricordare qui l’alto senso di attaccamento al dovere di tutti i funzionari dell’uno e dell’altro organismo, sia pure nello sforzo impari ai bisogni del momento e per causa di forza maggiore estranea alla loro intelligenza, alla loro volontà e capacità tecnica, per fare apparire ancora più evidente la necessità per il Governo di intervenire, con adeguato provvedimento di urgenza, per non rendere vana quella che è la fase di attuazione periferica della ricostruzione.
Tenete, onorevoli colleghi, ben presente questa assurdità: quando la lira aveva un valore cinquanta volte superiore all’attuale, il Genio civile aveva facoltà di approvare i progetti sino a lire 50.000. Ora che la moneta è svalutata, può approvare progetti fino a 200.000 lire, laddove la sua competenza dovrebbe, secondo me, allargarsi di molto al di là del limite della svalutazione e comprendere progetti fino alla concorrenza di 7 o 8 milioni di lire attuali, se veramente vuole rendersi spedita la ricostruzione delle Province.
È consigliabile inoltre che quel comitato tecnico, formato da 35 membri presso i Provveditorati, oggi così pletorico e accentratore, sia suddiviso fra i vari uffici provinciali del Genio civile, che continuerebbero a svolgere, così, una più intensa ed efficace azione tecnica sotto la direzione dell’ingegnere capo, a sua volta fornito di maggiore responsabilità. Occorre inoltre semplificare il continuo andirivieni di lettere e progetti tra Genio civile e Provveditorato e fra quest’ultimo, la Ragioneria e la sezione staccata della Corte dei conti.
Immaginarsi che fra il richiamo di un progetto da parte del Provveditorato (da farsi in triplice copia dal Genio civile), la relazione e l’approvazione del comitato tecnico, la formulazione del decreto del Provveditore, il passaggio alla Ragioneria ed alla Corte dei conti e di qui al Genio civile (perché disponga l’appalto), e la consegna del progetto alla ditta appaltatrice trascorrono comodamente cinque o sei mesi nella migliore delle situazioni, quando non capiti di peggio come il rinvio o la sospensione definitiva, senza che ci sia verso di conoscerne le ragioni.
UBERTI. Non c’è che un rimedio: la Regione.
CASO. Facciamo qualche cosa per rendere attuabile quello che si decide al centro. Bisogna inoltre tener conto di un’altra contradizione nei termini riguardante il decreto sulla disoccupazione. A sentir dire che si faranno delle opere per combattere la disoccupazione ed a leggere i giornali che segnalano l’utilità e la tempestività del decreto medesimo, si crea nel pubblico, specie e logicamente in quello sensibilissimo dei disoccupati, l’impressione che le opere avranno sollecita esecuzione. Invece si verifica il contrario con grave danno del prestigio dello Stato. Con ciò non ho la pretesa che, in fretta, si debba spendere malamente il denaro del pubblico, ma vi è pure una via di mezzo sulla quale potersi accordare ed è quella di servirsi di mezzi sbrigativi e nello stesso tempo efficienti e liberali, alleggerendo il lavoro degli uffici tecnici ed affidando la progettazione a liberi professionisti che accettino le condizioni e diano le garanzie richieste dal Ministero dei lavori pubblici.
Attualmente esiste una disposizione in proposito, ma gli uffici del Genio civile sono molto restî a dare incarichi a professionisti privati e non li danno se non in quei rari casi di opere già finanziate. Questo modo di agire naturalmente ritarderà di mesi o di anni l’esecuzione delle opere, giacché bisognerà attendere i finanziamenti e l’autorizzazione dall’alto prima di dar corso alla progettazione.
A me pare che, in base a programmi ben definiti e sollecitamente approvati per ogni singola Provincia, converrebbe passare alla progettazione ed al visto degli organi tecnici contemporaneamente allo stanziamento di fondi o in attesa di questi. È, comunque, da scartarsi l’attuale sistema di iniziare la progettazione solo a stanziamento avvenuto presso i Provveditorati, il che crea ritardi enormi per le opere, che magari sono più urgenti, e privilegi per quelle non preventivate a seconda di protezionismi più o meno palesi. Occorre invece mettersi d’accordo presso le singole Prefetture, con l’intervento delle autorità politiche e dei funzionari tecnici, sopra un programma di lavori pubblici da attuare in base alla disponibilità finanziaria, e in un determinato periodo di tempo per ogni singolo paese, così da dare la sensazione che, sia pure in forma limitata, ogni popolazione è salvaguardata nelle sue esigenze ed è appagata nella sua graduale ricostruzione, riservando opere di più grande mole dove maggiore e più minacciosa è la disoccupazione.
Così facendo possiamo veramente agevolare l’esecuzione di opere pubbliche, non soltanto sostitutive di quelle distrutte, ma più efficaci e produttive per la nostra economia. L’onorevole Presidente del Consiglio ha detto nelle sue dichiarazioni nella seduta del giorno 8 febbraio: «Ai lavori pubblici necessari alla nostra ricostruzione dedicheremo tutte le risorse possibili». Mi spingo a raccomandare soprattutto la viabilità, le case operaie, gli edifici di istruzione e di educazione, gli acquedotti, le opere di assistenza e le nuove ferrovie di interesse nazionale limitate a brevi tratti di collegamento fra le linee principali, ma che rappresentano vantaggi per le più rapide comunicazioni fra i grossi centri e al tempo stesso economia nelle spese di esercizio. Valga a tale proposito il progetto di massima da me presentato al Ministero dei lavori pubblici fin dal 12 novembre 1946 per la costruzione di un allacciamento, che non interessa solo me, ma anche i deputati delle Puglie e del Lazio, fra la Roma-Napoli (Via Cassino) e la Napoli-Foggia, fra le due stazioni di Vairano-Caianello e Telese, allo scopo di economizzare tempo, anche rispetto alla Caserta-Formia, nella percorrenza fra le Puglie e Roma, creando, con appena 43 chilometri di nuova linea, la tanto auspicata direttissima Bari-Foggia-Cassino-Roma.
Al tempo stesso, con questa nuova ferrovia, si verrebbe a valorizzare una plaga industre ed ubertosa che, al presente, è provvista di qualsiasi comunicazione ferroviaria e, precisamente, la pianura del Medio Volturno. Questa mia proposta, nonostante abbia sollecitamente ottenuto il parere tecnico favorevole del Ministero dei trasporti, non ha avuto finora alcun esito positivo presso il Ministero dei lavori pubblici, se si eccettua la calda adesione orale e scritta del Ministro del tempo onorevole Giuseppe Romita, e malgrado che rappresenti un vivissimo sollievo per la disoccupazione della zona ed un sicuro vantaggio per la nazione.
Richiamo inoltre, in materia di comunicazioni, l’attenzione del Ministro dei trasporti sulla necessità non solo di provvedere alla ricostruzione della rete statale, ma anche delle ferrovie secondarie in concessione le quali hanno, per il passato, svolto un compito regionale molto importante. Ed a questo proposito ci tengo a far rilevare che, fra le strade ferrate secondarie della Campania, l’unica ferrovia non ancora ricostruita è la Napoli-Piedimonte d’Alife, nel suo tratto totalmente distrutto dai tedeschi in ritirata da S. Maria Capua Vetere a Piedimonte d’Alife, per la quale ho rivolto apposita interrogazione e svolto azione diretta presso la Camera di commercio di Caserta, sui giornali, nelle pubbliche adunanze, presso il Ministero dei trasporti, con la partecipazione entusiastica e solidale di tutti i Deputati del collegio Napoli-Caserta. Ho insistito ed insisto dinanzi all’autorità di questa Assemblea, visto lo stato di vivissima agitazione in cui si trovano circa 100 mila abitanti, i quali, dopo trascorsi tre anni dalla liberazione, hanno avuta la precisa sensazione che le autorità governative non solo non hanno affrontato il problema della ricostruzione della linea, ma intenderebbero rimandarla a tempo indeterminato, sostituendola, per ora, con servizi automobilistici del tutto inadeguati all’importanza ed al traffico della zona Alifana e della vallata del Medio Volturno.
Sono sicuro che il Governo risponderà alla giustificata richiesta delle popolazioni interessate, facendo sollecitamente ricostruire la ferrovia, soprattutto in base al diritto precostituito dei comuni della linea (fin dall’inizio della concessione, diritto che nessuno potrà mai contestare e che, voglio augurarmi, faccia escludere la ventilata possibilità di ricorso alla Magistratura per il suo riconoscimento.
Stando ai concetti espressi, la costruzione e la ricostruzione delle ferrovie, già da sé sole e per almeno due anni, assorbirebbero una gran parte dei disoccupati con grande vantaggio per loro e per il bene della Patria.
Ad esse andrebbero aggiunte la ripresa delle industrie esistenti e la creazione di nuove industrie, giusta l’incitamento e l’assicurazione dell’onorevole Presidente del Consiglio. Egli ci ha detto: «… nel settore economico l’esigenza fondamentale si riassume, come fu detto altrove, nella formula: produrre in un clima di efficienza tecnica e di perequazione sociale…». L’aumento della produzione è indispensabile per il mercato interno, affinché diminuiscano i prezzi, salgano i salari reali, cessi la disoccupazione e si disponga di mezzi per la ricostruzione… Il Governo intende incoraggiare e sostenere l’iniziativa privata… L’aumento della produzione sarà favorito anche da una collaborazione organica fra capitale e lavoro; senza il concorso di entrambi la ripresa della produzione è impossibile: premesse indispensabili sono lo spirito di intraprendenza ed un clima di interessamento e di cooperazione operaia». Profitto di tale impostazione programmatica per invitare l’onorevole Ministro dell’industria e commercio a rivedere la proposta di nuovi impianti industriali, per la lavorazione di fibre tessili in provincia di Caserta, fatta, tramite quella Camera di industria e commercio, dalla ditta Donagemma e Capuano e inopinatamente respinta. Eppure si trattava di assorbire 5 mila lavoratori!
Sono sicuro di un benevole accoglimento della proposta ora che, in un clima di concordia derivante dalla comune sventura, ci accingiamo per primi e da soli a dare la prova della nostra volontà di rinascita.
Per affrettare questa rinascita, anche sul terreno spirituale e morale, dobbiamo innanzitutto, nel campo del lavoro, preoccuparci di dare, a tutti coloro che lavorano, delle leggi di tutela e di assistenza che siano una autentica garanzia contro tutti i rischi professionali generici e specifici e non una lustra teorica.
Di qui la necessità della riforma dell’assistenza sanitaria e della previdenza sociale, cui con lena si accingono a contribuire tutti i medici italiani attraverso il referendum e la speciale commissione che speriamo di vedere una buona volta all’opera presso il Ministero del lavoro, la quale riforma, se non attuabile subito, per ovvie ragioni di studio e di ponderatezza, ci auguriamo che si manifesti per lo meno con qualche provvedimento di emergenza, onde evitare lo stridente contrasto fra gli obblighi assunti dallo Stato e la scarsezza e la povertà dell’aiuto assistenziale. Le pensioni di vecchiaia e di invalidità sono di per sé scarsissime, nonostante i recenti ritocchi.
Giorni or sono è stata concessa una pensione di lire 1790 annue, maggiorata dell’assegno temporaneo di carovita in lire 150 mensili, ai genitori di un valoroso caduto in guerra al seguito delle truppe inglesi presso Montevarchi. Ai sensi dell’articolo 27 della legge infortuni il salario annuo massimo di legge viene tuttora valutato in lire 12.000 e la rendita annua calcolata sui due terzi del salario, cioè su lire 8.000.
È mai possibile tutto ciò?
Senza attendere la riforma, si impone l’adeguamento dell’indennizzo e della rendita oltre che delle pensioni per una ragione di perequazione sociale, non altrimenti dimostrabile che col fatto concreto di una efficiente solidarietà legale.
E continuando a prospettare la necessità che, in attesa della riforma nel campo del lavoro, delle assicurazioni, dell’assistenza malattia, dell’istruzione pubblica, il Governo attui provvedimenti legislativi di attesa o di sospensiva anziché tollerare contraddizioni palesi fra le esigenze della vita che corre veloce e l’inadeguatezza della legge, raccomando vivamente di apportare modifiche quanto più larghe possibili in ogni branca della vita nazionale.
Il regolamento d’igiene del lavoro è ancora quello del 1929, per giunta non integralmente applicato; esso merita di essere aggiornato, per lo meno aumentando i poteri dell’Ispettorato medico del lavoro e istituendo un servizio medico quanto più decentrato possibile. Soltanto un servizio medico decentrato può assicurare l’assistenza continuativa e dare il senso preciso della fraternità operante ai lavoratori da parte di una società più civile e più giusta. Per valutare appieno l’importanza del servizio si tenga presente che l’ispettore medico dovrà compiere visite frequenti di controllo alle aziende industriali, agrarie, commerciali, artigianali (in queste comprese le aziende a tipo familiare), sorvegliare il lavoro delle donne e dei fanciulli, visitare spesso gli addetti alla produzione e smercio delle sostanze alimentari, vigilare il lavoro della mietitura, la risicoltura, il tabacco, le miniere, le industrie polverose, l’ammissione delle donne e dei fanciulli al lavoro (scartando i mestieri pericolosi allo sviluppo delicatissimo della maternità e della pubertà), collaborare in pieno coi medici di fabbrica. Questi dovrebbero, in tutte le aziende, essere assunti per pubblico concorso, col titolo preferenziale della specializzazione in medicina del lavoro e col rapporto di almeno un medico per ogni mille operai, scartando la forma dell’appalto, tuttora in vigore. Come medici e come uomini ci ribelliamo, nell’intimo della nostra coscienza, a vedere l’intelligenza e la capacità dei nostri valorosi colleghi strette nelle maglie della intraprendenza e della speculazione altrui.
Inoltre bisognerà estendere le voci dell’assicurazione contro le malattie professionali ed eliminare quelle, come il fosforismo, che si sono dimostrate inesistenti fin dall’inizio dell’Assicurazione e, come l’anchilostomiasi, che dà luogo all’assistenza per gli operai dei cantieri e dell’industria dei laterizi (i quali per lo più ne sono immuni), mentre che la esclude per gli ortolani ed in genere per i lavoratori agricoli, che facilmente ed a cagione del loro lavoro se ne contagiano.
Legata alle osservazioni qui sopra prospettate è la necessità di diffondere l’insegnamento della medicina del lavoro nelle Università, non solo per accrescere il prestigio scientifico ed umano di una branca tutta italiana, sorta tre secoli or sono ad opera di Bernardino Ramazzini, ma per produrre una schiera di medici specializzati da impiegare nelle varie attività di lavoro, quali utili collaboratori degli operai e delle aziende legati da un patto di comune solidarietà nella produzione.
In base al grande bene compiuto dalle Cattedre di medicina del lavoro a Napoli (Castellino, Caccuri e loro scuola), a Milano (Devoto, Vigliani ed allievi), a Bari (Ferrannini Luigi e la sua scuola), a Roma (Ranelletti e la sua scuola) a Padova (Maugeri, Pellegrini ed allievi), a Siena (Aiello ed allievi), da una notevole schiera di liberi docenti e di specialisti di tutta Italia, si ha il dovere di segnalare al Governo tali benemerenze e chiedere alcuni provvedimenti di urgenza per non pregiudicare quella che potrà essere l’intonazione della riforma, oltreché nei campi del lavoro, della previdenza, e dell’assistenza, anche in quello dell’istruzione superiore universitaria e professionale. Pertanto raccomando vivamente (e desidero assicurazioni in proposito) che venga sospesa l’istituzione di nuove cattedre universitarie in attesa del referendum in corso fra tutti i medici d’Italia sulla distinzione fra materie obbligatorie, fondamentali, complementari, postuniversitarie, ed in attesa inoltre di poter rendere obbligatorio in tutte le facoltà mediche l’insegnamento della medicina del lavoro ed il relativo esame. Frattanto suggerisco di scegliere adatte sedi per le scuole di perfezionamento in medicina del lavoro, fondamentali per l’istruzione dei medici, affidandole a professori di ruolo coadiuvati da liberi docenti e da insegnanti di materie affini. In tal modo si raggiunge un duplice scopo: rendere proficua la scuola specializzata e migliorare le condizioni del lavoro umano, senza peraltro compiere riforme affrettate che solo la lunga esperienza ed il concorso di coefficienti tecnici saggiamente elaborati possono portare ad utili e stabili conclusioni.
Onorevoli colleghi, proprio perché siamo in periodo di emergenza e di grande rinnovamento sociale, occorre che la legge si adegui, giorno per giorno, alle necessità del momento per non correre il rischio di veder compromesso lo sforzo ricostruttivo della Nazione e per dare a noi stessi ed al pubblico il senso vivo della fiducia che è la potente leva animatrice di ogni progresso. (Applausi).
PRESIDENTE. Il seguito di questa discussione è rinviato a domani.
Interpellanze e interrogazioni d’urgenza.
PRESIDENTE. Ha chiesto di parlare l’onorevole Codacci Pisanelli. Ne ha facoltà.
CODACCI PISANELLI. Chiedo al Governo quando intende rispondere ad una interpellanza da me presentata l’11 dicembre 1946, relativa alla revoca di concessioni per la coltivazione tabacco nel Salento. Analoga interpellanza fu presentata dall’onorevole Gabrieli.
PRESIDENTE. Rammento la decisione presa dall’Assemblea di rinviare lo svolgimento delle interrogazioni e delle interpellanze alla fine della discussione sulle dichiarazioni del Governo.
MICHELI. Chiedo di parlare.
PRESIDENTE. Ne ha facoltà.
MICHELI. Ricordo come negli antichi tempi vi fosse la consuetudine di discutere le interpellanze il lunedì. Penso che lunedì saremo liberi dalla discussione sulle dichiarazioni del Governo, in quanto le avremo terminate. (Commenti).
Consentano i colleghi che io nutra nel mio cuore questa speranza (Si ride); e se la discussione non sarà terminata, non sarà male inframezzarla con questo diversivo. Perciò chiedo che questa interpellanza e le altre di maggiore urgenza siano discusse nelle prime ore della seduta di lunedì.
PRESIDENTE. Credo che non vi sia alcuna difficoltà a riconoscere che l’onorevole Micheli abbia fatto una proposta ragionevole ed opportuna; ma faccio rilevare che gli iscritti a parlare sono ancora una sessantina e non so se per lunedì la discussione sarà esaurita. Se si riuscisse, come auguro, a restringere il numero degli oratori iscritti, e sabato si potesse passare ai voti, lunedì si potrebbero discutere le interpellanze.
Ad ogni modo, chiedo all’onorevole Sottosegretario di Stato per le finanze quando intende rispondere alle interpellanze degli onorevoli Codacci Pisanelli e Gabrieli.
PELLA, Sottosegretario di Stato per le finanze. Il Ministero è in grado di fornire notevoli assicurazioni in proposito. Sono pronto a rispondere anche subito.
PRESIDENTE. Si dia allora lettura delle interpellanze dell’onorevole Codacci Pisanelli e dell’onorevole Gabrieli.
RICCIO, Segretario, legge:
Codacci Pisanelli, al Ministro delle finanze, «circa i motivi che hanno indotto la Amministrazione autonoma dei monopoli di Stato a non rinnovare per il prossimo quinquennio numerose concessioni speciali per la coltivazione del tabacco in provincia di Lecce, sopprimendo in tal modo molti complessi industriali, con irreparabile danno per l’economia agraria della zona e minaccioso aggravamento della disoccupazione, specialmente invernale, per migliaia di operaie specializzate (tabacchine); circa l’opportunità di non ispirarsi a malintesi criteri di perfezionamento della produzione di un genere voluttuario come il tabacco, anche a costo di sottrarre i terreni più fertili delle altre regioni alla produzione di derrate alimentari di prima necessità, sconvolgendo in tal modo la già difficile situazione economico-sociale del Leccese, di cui viene colpita la fondamentale risorsa industriale; e circa la conseguente necessità di rinnovare tutte le concessioni speciali finora esistenti, attribuendole ad associazioni di coltivatori, preferibilmente dei comuni privi di simili concessioni, qualora gli attuali titolari se ne siano dimostrati immeritevoli».
Gabrieli, al Presidente del Consiglio dei Ministri e al Ministro delle finanze, «per conoscere le ragioni che hanno determinato il Governo a ridurre, nel Salento, di 1200 ettari la superficie autorizzata alla coltivazione del tabacco orientale. Tale provvedimento lede le condizioni economico-agricole della Regione salentina ed aggrava in maniera allarmante il fenomeno della disoccupazione, perché fa venire meno 1.300.000 giornate lavorative. Esso non tiene conto inoltre che gran parte della superficie coltivata a tabacco è costituita da terreni per cui non sono possibili altre colture».
PRESIDENTE. L’onorevole Codacci Pisanelli ha facoltà di svolgere la sua interpellanza.
CODACCI PISANELLI. Ho richiamato l’attenzione di questa Assemblea sul problema della coltivazione del tabacco nel Salento, che ha notevole importanza, inquantoché è stata iniziata al principio del secolo e, ormai da vari decenni, ha trasformato l’economia sociale della regione, dando possibilità di impiego a mano d’opera, specialmente femminile, durante tutto il periodo invernale.
Recentemente, dopo tentativi che si sono protratti per vari anni, l’Amministrazione autonoma dei Monopoli di Stato ha ritenuto di revocare ventuno concessioni in Provincia di Lecce ed altre due in provincia di Taranto e Brindisi.
Si tratta di oltre 660 ettari che non dovrebbero essere coltivati a tabacco l’anno prossimo.
Ma, oltre a questa riduzione, ve n’è un’altra del 10 per cento delle concessioni, le quali negli anni scorsi non hanno ricoperto la superficie per cui erano state autorizzate.
Il ragionamento dell’Amministrazione è questo: ho revocato le concessioni in quanto che, o i concessionari non avevano ricoperto la superficie disponibile, oppure non avevano coltivato il tabacco in maniera adeguata. In altri termini, o si tratta di riduzione per mancata coltivazione, oppure per motivi tecnici.
Quanto al primo punto, cioè alla mancata copertura della superficie autorizzata, mi permetto di rispondere che, in un passato abbastanza recente, l’Amministrazione autonoma faceva misurare, con la massima esattezza, la superficie coltivata e faceva spiantare anche una sola ara piantata in più dai coltivatori. Per conseguenza, i coltivatori si sono comportati con il massimo rigore successivamente e non hanno piantato nemmeno una pianta di più di quanto era stato loro consentito.
D’altra parte, nel periodo bellico, per necessità della produzione, si è adoperata una certa larghezza: si è consentito cioè di piantare quanto tabacco si credeva. Le misurazioni avvenivano con una certa latitudine; molto spesso, anche quando si era piantata una superficie superiore a quella autorizzata, ciò non risultava. Di qui la conseguenza che l’Amministrazione ha avuto dati non completamente esatti. Quello che mi interessa di far rilevare è che la mancata coltivazione è dovuta in gran parte alla mancanza di mano d’opera: molti lavoratori erano in prigionia o alle armi; molte famiglie, d’altra parte, pur di avere di che alimentarsi, preferivano coltivare il grano, sia pure in maniera antieconomica, perché, nelle nostre terre, la coltivazione del grano non è redditizia; preferivano cioè coltivare il grano piuttosto che darsi alla coltivazione del tabacco, il quale non avrebbe consentito loro di sfamarsi. Quanto poi alle ragioni tecniche, mi permetto di far rilevare che non è equo fondarsi su ragioni tecniche, dopo un periodo difficile come quello che abbiamo attraversato. Non era possibile ottenere concimi chimici, non era possibile ottenere i telai, le garze per i vivai per questa difficile coltivazione del tabacco. Ora non si può, dopo un periodo di guerra, dopo tante privazioni, rivolgersi ai concessionari e dire loro: – Voi non avete coltivato con sufficiente perizia il tabacco: è bene sottoporvi ad un nuovo esperimento. Ma quello che io chiedo è soprattutto questo: se i concessionari si sono portati male, vengano puniti, ma non si tolga questa lavorazione dalle nostre terre. Sono convinto che in altre parti d’Italia il tabacco può venire meglio; sono convinto che nel Salernitano sarà di qualità superiore e che il gusto dei fumatori italiani si va orientando verso i tabacchi a tipo americano. Ma non si dimentichi che è stata questa la regione dove, per la prima volta e con grande difficoltà, è stata introdotta la coltivazione del tabacco; non si dimentichi che, in quelle terre dove la roccia affiora, non è possibile introdurre altre coltivazioni che non sarebbero redditizie e non sarebbe possibile rimediare ad inconvenienti sociali che deriverebbero da una così grave menomazione di questa coltivazione nella nostra zona.
Non si dimentichi, d’altra parte, che, se tanti sacrifici si sono chiesti agli italiani, si potrà chiedere anche ai fumatori di contentarsi di un tabacco di qualità non troppo superiore, come hanno fatto dando all’erario sessanta – anzi settanta – miliardi di introito, come mi è stato confermato ieri. Viceversa, proprio in questo periodo, si va all’estero ad acquistare tabacco straniero, perché «nuove così vengan delizie, giovane fumatore, al tuo palato»! Non ritengo sia il caso di insistere tanto sul perfezionamento della qualità delle nostre sigarette, benché, senza dubbio, anche a questo occorra guardare. Ma non bisogna dimenticare l’importanza di questa coltivazione, per una zona che ha confidato sì nell’aiuto del Governo centrale, ma ha pensato che il problema del Mezzogiorno dovesse essere soprattutto risolto da ciascuno coi propri mezzi. Ed allora queste popolazioni che sono sobrie, che ricordano quasi Diogene, potranno dire a chi parla loro di grandi mezzi per risolvere i problemi del Mezzogiorno, potranno dire come Diogene ad Alessandro: – Non mi levare quello che non puoi darmi.
PRESIDENTE. L’onorevole Gabrieli ha facoltà di svolgere la sua interpellanza.
GABRIELI. Farò brevissime considerazioni. La direzione generale dei Monopoli, sopprimendo non 600 ettari solamente di superficie coltivata e tabacco, ma 1200, poiché, oltre ad abolire 23 concessioni, ha ridotto del 10 per cento anche le concessioni superstiti, ha commesso un grave atto di ingiustizia sociale, perché ha consolidato e confermato le grandi concessioni ai diritti dei grandi concessionari, di coloro che avevano migliaia di ettari e che quindi hanno accumulato milioni durante un ventennio di gestione dei tabacchi. E ha tolto queste 23 concessioni proprio ai piccoli coltivatori, a coloro che utilizzavano la loro piccola terra nella coltivazione dei tabacchi. Si è andati perciò contro quell’interesse economico-sociale che è stato assunto dall’attuale democrazia come indirizzo economico sociale prevalente.
Un altro aspetto del problema che noi abbiamo accennato costantemente agli organi ministeriali, ed anche in interrogazioni ed interpellanze a questo Governo che sta in questa Assemblea Costituente, è che il nostro Salento è afflitto dalla gravissima ed insanabile piaga della disoccupazione. In ogni piccolo comune, su una popolazione di 5, 6, 10.000 abitanti, vi sono per lo meno 1000 disoccupati agricoli al giorno che sono a carico della piccola e media proprietà, la quale è costretta a subire quella imposizione, venendo così ad esaurirsi quasi completamente, tanto che questi piccoli proprietari, non potendo più sostenere questo peso insostenibile, hanno deciso di emigrare dai paesi dove abitano per andare in zone dove questa piaga non potrebbe più attaccare. È per questa ragione che noi abbiamo svolto insieme agli altri colleghi un lavoro costante che serve solo per dare sfogo alla nostra fede ed al nostro compito di assistenza a quei lavoratori, che noi ci auguriamo che il Governo democratico italiano dia accoglimento a questa richiesta giusta che viene da tre milioni di popolazione della Puglia; cioè che queste 25 concessioni siano per questo anno restituite alla libera lavorazione, perché rappresentano l’unica risorsa di quella regione a cui è stato tolto l’olio e tutto quello che ha, per darlo alle altre regioni d’Italia. Rimaneva la risorsa del tabacco, e siccome il tabacco è sfruttabile in tutta la zona del Salento perché composta di rocce, come ben diceva il mio collega, il quale non è sfruttabile da altro, ho fiducia che anche da questo lato voi vogliate andare incontro alle esigenze dei piccoli agricoltori e delle piccole masse dei lavoratori, ai quali, con quel provvedimento caotico cervellotico ed arbitrario della direzione dei Monopoli, vengono ad essere tolte un milione e 300 mila giornate lavorative all’anno.
Mi affido più che alla sapienza ed alla saggezza, al cuore degli uomini di Governo.
PRESIDENTE. L’onorevole Sottosegretario di Stato per le finanze ha facoltà di rispondere.
PELLA, Sottosegretario di Stato per le finanze. Onorevoli colleghi, non posso aderire a taluno dei giudizi che sono stati dati sull’opera della Direzione generale dei monopoli e sullo spirito informatore dei provvedimenti da essa adottati. Comprendo però l’ardore con cui gli onorevoli colleghi hanno svolto le loro interpellanze, che è per lo meno pari all’ardore con cui hanno insistito per il rinnuovo delle concessioni, nelle frequenti visite agli uffici ministeriali.
Non posso accettare il giudizio molto sommario che è stato dato sull’opera della Direzione dei monopoli. L’Azienda dei monopoli è una vastissima azienda industriale che ha il dovere preminente di amministrarsi con criteri sanamente economici, che nella fattispecie si traducono in un principio fondamentale: acquistare le materie prime necessarie al minor costo possibile e nella qualità migliore.
Gli onorevoli interpellanti vorrebbero trasferire sulla Direzione dei monopoli un compito di ordine largamente sociale, di natura quasi assistenziale che evidentemente non può essere di sua competenza. La funzione assistenziale è sacrosanta, ma lo Stato deve assolverla coi mezzi più appropriati e attraverso le vie più adatte.
La Direzione dei monopoli non ha rinnovato le ventitré concessioni della provincia di Lecce, perché il tabacco presentato dai concessionari da diversi anni era qualificato di qualità mediocre.
Altre zone sono in grado di presentare, a parità di prezzo, tabacco di qualità migliore; queste zone premono per un allargamento delle concessioni e non sono accontentate.
Sarebbe stato, evidentemente, un delitto, ancora prima che un errore, mentre si respingono istanze di tali zone, accogliere invece quelle altre, perpetuando la situazione di concessionari che presentano qualità mediocri.
Siccome però dai due onorevoli amici è stato prospettato – e devo senza altro presumere che sia con fondamento di verità, in linea di fatto – che la classifica di mediocre derivava da cause di forza maggiore, verificatesi presso i singoli concessionari – (mancanza di concimi, assenza dei titolari, per ragioni di guerra o di dopoguerra ecc.) – ho l’onore di assicurare che proprio nella riunione di stamane il Consiglio di amministrazione della Direzione dei monopoli ha adottato questa decisione di massima: qualora i titolari di ciascuna di queste ventitré concessioni siano in grado di dimostrare – come essi hanno affermato attraverso l’autorevole parola dei due onorevoli amici – che effettivamente la consegna di qualità mediocre derivava da cause di forza maggiore, sia concesso, a titolo di esperimento, il rinnuovo della concessione ancora per un anno; che se invece questa dimostrazione non fossero in grado di dare, non potranno avere il rinnuovo.
Infatti, i casi sono due: se, come non dubito, gli interessati hanno affermato il vero, saranno accontentati; se, come non voglio pensare, avessero carpito la buona fede dei due onorevoli amici, è più che naturale che la loro richiesta sia respinta.
In questo senso spero che i due onorevoli amici siano sodisfatti.
PRESIDENTE. L’onorevole Codacci Pisanelli ha facoltà di dichiarare se sia sodisfatto.
CODACCI PISANELLI. Ringrazio l’onorevole Sottosegretario sia per la cortesia dimostrata in passato, durante le ripetute mie visite, sia per la risposta, che ha voluto darci adesso.
Ritengo di non essermi spiegato bene. Io non intendevo difendere tanto i concessionari, quanto i lavoratori. Sono d’accordo che i concessionari vengano puniti se non hanno presentato la qualità di tabacco desiderata; ma non vorrei che rimanessero puniti i numerosissimi lavoratori da loro dipendenti e che hanno preparato il terreno per la coltivazione. Se queste concessioni non venissero rinnovate, molti terreni rimarrebbero incolti e numerosissimi braccianti disoccupati.
È questa la ragione per cui ritengo che, qualora l’Amministrazione sia nella necessità di mantenere la revoca per coloro che non risultino degni di riavere la concessione, non debba portar via, però, questa superficie dalla provincia di Lecce, Taranto, Brindisi, ma faccia coltivare il tabacco ivi stesso, affidandolo a cooperative di lavoratori, secondo i saggi criteri industriali accennati.
L’Amministrazione autonoma preferisce avere a che fare con un solo concessionario, perché è più facile trattare, invece che con molti. Ma sarebbe più rispondente ai nostri attuali principî attribuire queste eventuali concessioni a cooperative di coltivatori.
In questa maniera gli utili industriali verrebbero più equamente ripartiti.
Soprattutto faccio presente che non rinnovando queste concessioni, i concessionari non vengono colpiti affatto, perché è gente che ha realizzato sufficienti guadagni. Ma si tratta di complessi industriali che vengono meno, di piccoli complessi industriali, nei quali oltre 3000 donne trovano lavoro; 3000 donne che rimarrebbero completamente disoccupate per il prossimo inverno e per gli inverni futuri.
È questa la ragione per cui non posso dichiararmi completamente sodisfatto, e sottolineo la necessità di non portare in terre dove vi è il grano una coltura che noi realizziamo in terre nelle quali non è possibile coltivare il grano. Sono d’accordo che altrove il tabacco viene meglio, ma viene meglio perché si tratta di terre fertili; e noi che abbiamo bisogno di grano, dobbiamo lasciare queste terre alla coltivazione del grano.
PRESIDENTE. L’onorevole Gabrieli ha facoltà di dichiarare se sia sodisfatto.
GABRIELI. Neanch’io posso dichiararmi completamente sodisfatto. Innanzi tutto questa prova documentale che si richiede ai poveri coltivatori che stanno a Lecce o nel Salento, richiede l’impiego di molto tempo che frustra ogni possibilità di coltivazione, e – come sanno bene quelli che presiedono la direzione dei monopoli – i termini per presentare le domande di coltivazione scadono nel mese di febbraio. Come è possibile che questa documentazione sia offerta in termini utili per poter rinnovare quelle coltivazioni cui hanno diritto un milione e 300 mila persone che devono lavorare un anno? Per questa ragione chiedo che, siccome la ragione della cattiva qualità del tabacco è dovuta a cause di indole generale che superano le forze individuali dei coltivatori, sia preso subito un provvedimento che per un anno di esperimento annulli il provvedimento di revoca dato per tutte le concessioni. Da domani noi dobbiamo essere in grado di comunicare alle nostre popolazioni che il Ministero ha emanato questo provvedimento che va incontro in maniera chiara e immediata a quelle che sono esigenze urgenti dei lavoratori che devono vivere, mangiare e lavorare in quelle coltivazioni.
PRESIDENTE. Ha chiesto di parlare l’onorevole Sottosegretario di Stato per le finanze. Ne ha facoltà.
PELLA, Sottosegretario di Stato per le finanze. Desidero brevemente replicare agli onorevoli amici Codacci Pisanelli e Gabrieli.
All’amico Codacci Pisanelli, con tutto il garbo possibile, vorrei dire che dobbiamo andare molto cauti prima di svolgere a fondo determinati a base sociale, poiché senza accorgercene scivoleremmo in un ragionamento autarchico, di cui in Italia purtroppo si sono fatte troppe prove, e non certamente con esito brillante per il benessere collettivo.
Molto spesso, un determinato risultato di ordine sociale, conseguito in un limitato settore, rappresenta un costo maggiore. Per questo insisto nel ritenere che il compito genericamente assistenziale molto meglio può essere svolto attraverso i mezzi normali, attraverso i canali naturali. Personalmente sono convinto che questo significhi un minor costo per la collettività.
Per quanto riguarda l’amico Gabrieli, osservo che egli chiede un atto di fede sopra le affermazioni dei ventitré concessionari. Evidentemente neanche l’onorevole Gabrieli si sentirebbe di avallare con la sua parola di uomo d’onore che sono esatte tutte quelle affermazioni: possono esserlo e possono non esserlo. Non è vero che chiediamo una prova documentale; chiediamo una dimostrazione con tutti i mezzi che possono essere a disposizione: si tratta quindi, di una dimostrazione che può esser data nel giro di pochi giorni.
Se l’onorevole Gabrieli porterà tutta la diligenza e tutto l’ardore dimostrati nella difesa delle questioni di principio, nel raccogliere le prove, sono sicuro che nel giro di pochi giorni risolveremo la questione.
PRESIDENTE. Ha chiesto di parlare l’onorevole Canevari. Ne ha facoltà.
CANEVARI. Chiedo se il Governo intende rispondere d’urgenza all’interrogazione da me presentata ai Ministri dei lavori pubblici e del lavoro e previdenza sociale, «per sapere: 1°) come sia stato possibile che una società con denominazione di «Consorzio Ricostruente» e mascherata come consorzio di cooperative di lavori, con sede in Roma, presieduta da un impresario e con la partecipazione di funzionari dell’Ufficio provinciale del lavoro, abbia potuto ottenere dallo Stato, mediante cottimi fiduciari, per lire 99.735.500 di lavori, e abbia pure ottenuto per circa lire 300 milioni di lavori a regìa; 2°) quali provvedimenti si intendono adottare con la maggiore urgenza perché siano colpiti con la giusta severità i colpevoli di simile truffa, e siano riparati i danni in tal modo causati allo Stato».
ROMITA, Ministro del lavoro e della previdenza sociale. Risponderò lunedì prossimo.
(Così rimane stabilito).
PRESIDENTE. È stata presentata con richiesta d’urgenza la seguente interrogazione dagli onorevoli Sullo, De Martino, Perlingieri, Lettieri, Caso, Colombo, Riccio, Froggio, Carratelli, Trimarchi, De Maria, Codacci Pisanelli, Gabrieli, Vinciguerra e Priolo, ai Ministri del lavoro e previdenza sociale e degli affari esteri, «per conoscere se risponda a verità la notizia, diffusa da alcuni giornali, che nel reclutamento dei lavoratori italiani che prossimamente si recheranno a lavorare in Francia, sarà data la precedenza ai lavoratori centro-settentrionali, con esclusione almeno per un primo momento dei meridionali, adducendosene a motivo la difficoltà climatica di ambientamento in Regioni fredde, specioso motivo perché larghe zone montane dell’Italia meridionale hanno abitatori temprati al freddo più di quelli di talune zone litoranee del nord d’Italia.
«Poiché i lavoratori che dovrebbero emigrare sono richiesti anche per l’edilizia, cioè per un settore in cui abbonda la mano d’opera disoccupata (qualificata e non) nell’Italia meridionale, si chiede ai Ministri interpellati se non intendano estendere la possibilità di emigrare sin dal primo tempo ai lavoratori dell’Italia meridionale».
Chiedo al Governo quando intende rispondere.
ROMITA, Ministro del lavoro e della previdenza sociale. Anche a questa interrogazione risponderò lunedì prossimo.
(Così rimane stabilito).
PRESIDENTE. L’onorevole Pertini ha chiesto lo svolgimento d’urgenza della seguente interrogazione, ai Ministri dell’interno e di grazia e giustizia, «per sapere: a) se a loro consta che organi della polizia, nel sottoporre ad interrogatorio indiziati di reati, usano metodi illeciti, disumani ed anche sevizie, le quali – come di recente qui in Roma – sono, talvolta, persino causa di morte dell’inquisito; b) quali provvedimenti intendano prendere per impedire nel modo più drastico che abbiano a ripetersi questi veri abusi d’ufficio, i quali, oltre a costituire una palese violazione della legge, offendono quel concetto della dignità umana, che deve stare a fondamento d’ogni vera democrazia».
Chiedo al Governo quando intende rispondere.
DE GASPERI, Presidente del Consiglio dei Ministri. Il Governo risponderà lunedì prossimo.
(Così rimane stabilito).
PRESIDENTE. Ha chiesto di parlare l’onorevole Mastino Pietro. Ne ha facoltà.
MASTINO PIETRO. Anche io presentai, chiedendo che ne fosse riconosciuta l’urgenza, la seguente interrogazione:
Mastino Pietro, Lussu, Mastino Gesumino, Bozzi, Laconi, Mannironi, Murgia, Falchi, al Ministro dell’aeronautica, «per sapere se sia vero che la società italo-americana di trasporti aerei (L.A.I.) abbia ottenuto, in regime di monopolio, l’esercizio della linea Cagliari-Roma, con esclusione di un’altra società, sorta per sviluppare e sostenere, principalmente, gli interessi isolani con capitali sardi, che già dal 1944 aveva avanzato richiesta di concessione della suddetta linea ed alla quale la possibilità di tale esercizio era stata riconosciuta. Ciò costituirebbe non solo disconoscimento di un giusto diritto di precedenza ed un danno sicuro per la società, che vi ha già impegnato ingenti capitali, ma annullerebbe anche le iniziative e danneggerebbe gli interessi dell’Isola».
Desidero sapere se il Governo sia disposto a rispondere lunedì.
PRESIDENTE. Chiedo al Governo se accolga tale richiesta.
DE GASPERI, Presidente del Consiglio dei Ministri. Il Governo è pronto a rispondere lunedì.
PRIOLO. Chiedo di parlare.
PRESIDENTE. Ne ha facoltà.
PRIOLO. Propongo che, per cercare di esaurire il grosso volume delle interrogazioni e interpellanze, la seduta di lunedì, dalle quindici fino alle venti o alle ventuno, sia tutta dedicata a questo scopo.
PRESIDENTE. Se ne riparlerà nella formazione dell’ordine del giorno di lunedì. Posso intanto preannunziare che così quasi certamente si farà, poiché se la discussione sulle dichiarazioni del Governo non potrà essere conclusa sabato, sarà rinviata a martedì.
Interrogazioni.
PRESIDENTE. Si dia lettura delle interrogazioni pervenute alla Presidenza.
RICCIO, Segretario, legge:
«I sottoscritti chiedono d’interrogare il Ministro dell’interno e l’Alto Commissario per l’igiene e la sanità pubblica, per sapere se non ritengano opportuno dare disposizioni, perché per la prossima primavera sia sgombrata dai profughi stranieri, attualmente residenti, la spiaggia di Santa Cesarea in provincia di Lecce, stazione termale di primaria importanza. Ciò è indispensabile nell’interesse dei numerosi pazienti che dalle Puglie e da varie altre parti d’Italia lì affluiscono per necessità sanitarie.
«Per i profughi si potrebbero eventualmente requisire altre spiagge che non adempiono finalità di pubblico interesse.
«De Maria, Codacci Pisanelli, Gabrieli».
«Il sottoscritto chiede d’interrogare il Ministro delle poste e delle telecomunicazioni, per sapere:
- a) i motivi che hanno determinato l’Amministrazione centrale dei telegrafi ad isolare sempre più nelle comunicazioni la città di Reggio Calabria (che sino al luglio 1943 era collegata direttamente con la Capitale e per tal mezzo istradava la corrispondenza anche con l’Alta Italia e l’estero), privandola pure della comunicazione celere multipla Reggio-Bari attivata nell’ottobre 1943; in conseguenza di che la corrispondenza da Reggio dev’essere ora istradata esclusivamente su Catanzaro, Messina e Catania:
- b) se sia vera la voce, riferita anche dalla stampa, della cessione dell’unico apparato telegrafico celere di cui Reggio poteva disporre ad un’altra città non della Calabria, e della asportazione dei dispositivi esistenti nelle amplificatrici in dotazione all’ufficio di Reggio Calabria; ed – in caso la voce risponda a verità – per quali motivi ciò è avvenuto;
- c) quali provvedimenti intende di adottare per riparare al più presto al danno della predetta città di Reggio Calabria che – superata in un quarantennio la tragedia del terremoto e della guerra con le prove migliori della volontà di risorgere – ha diritto di non vedersi ostacolata nella sua volontà di ripresa e danneggiata ulteriormente nei suoi interessi.
«Sardiello».
«Il sottoscritto chiede d’interrogare il Presidente del Consiglio dei Ministri ed il Ministro dei trasporti, per sapere con quali provvedimenti intendano frenare il progressivo peggioramento delle comunicazioni ferroviarie fra la Regione Salentina, da una parte, e Roma ed il Nord Italia, dall’altra.
«A parte i ritardi quotidiani, che ormai hanno assunto la stabilità di un orario e che oscillano fra le 16 e le 12 ore, è il materiale ferroviario usato esplicitamente per tali comunicazioni quello che maggiormente umilia e mortifica i viaggiatori, tanto esso è lurido, sconquassato, primordiale, con vetture anche di seconda classe, ove i sedili sono formati da assicelle sporche e con chiodi sporgenti, le porte mancanti dell’intero telaio di vetro, i vetri dei finestrini sostituiti da mal connesse tavolette e le lampadine mancanti.
«A questo devesi aggiungere, e mettere in rilievo, lo stato davvero deplorevole del cosiddetto scompartimento riservato ai deputati, il quale, oltre agli inconvenienti qui denunziati, è quasi sempre invaso ed occupato da tumultuanti viaggiatori, anche di terza classe, al cospetto del personale di servizio completamente inattivo. Il che è stato constatato e sperimentato personalmente da vari Deputati della Regione, i quali, perdurando tale stato di cose, si troveranno facilmente nella impossibilità di continuare a partecipare ai lavori dell’Assemblea.
«La Gravinese Pasquale».
«Il sottoscritto chiede d’interrogare il Ministro dell’agricoltura e delle foreste, per conoscere se e quale provvedimento intendasi prendere per la costituzione, nella regione dell’Albese e delle Langhe, di un centro specializzato di motoaratura per lo scasso dei terreni vitati per la ricostituzione dei vigneti fillosserati; il che appare tanto più urgente e necessario, in relazione all’eccessiva gravosità dei prezzi praticati dall’industria privata, alla poliennale stasi dovuta alla guerra ed all’intensificazione della invasione fillosserica.
«Bubbio».
«Il sottoscritto chiede d’interrogare il Ministro della pubblica istruzione, per sapere – riferendosi ad una precedente interrogazione sul funzionamento del Provveditorato agli studi di Siracusa e sull’opera del reggente provveditore professore Agosello – se ritiene lecito che il detto professore Agosello, traendo pretesto dalla cennata interrogazione, aggredisca per mezzo della stampa il Deputato interrogante, a causa e nell’esercizio della funzione parlamentare, trascendendo ad un libello oltraggioso ed esponendosi al conseguente deferimento al magistrato penale; e se ritiene ancora compatibile la sua permanenza nell’arbitraria reggenza del Provveditorato agli studi di Siracusa, specialmente dopo le precise segnalazioni dei giornali di diversi partiti sulla illegalità della sua posizione.
«Di Giovanni».
«Il sottoscritto chiede d’interrogare i Ministri delle finanze e tesoro e dell’industria e commercio, per sapere se non ritengano urgente provvedere con apposita legge al pagamento dei danni di guerra subìti dall’industria, con particolare riguardo alle piccole e medie aziende dell’Italia meridionale ed insulare che hanno subìto, prevalentemente nel 1943, danni valutati con i valori dell’epoca e non hanno ancora avuto alcun risarcimento, pur essendo trascorsi oltre tre anni, mentre gli industriali del Nord sembra abbiano ottenuto, sino alla occupazione degli Alleati, il pagamento dei danni di guerra in misura del 50 per cento sul danno totale ed in moneta meno svalutata della attuale. Questo invocato provvedimento consentirebbe a numerose industrie di ripristinare, almeno in parte, le rispettive attrezzature, favorendo l’assorbimento di numerosi disoccupati, che cesserebbero di essere a carico dell’assistenza, e facilitando la ricostruzione nazionale. (L’interrogante chiede la risposta scritta).
«Bonino».
«Il sottoscritto chiede d’interrogare il Ministro delle poste e telecomunicazioni, sui motivi che ostacolano il ripristino del normale recapito dei telegrammi e se la Direzione provinciale di Bari non provvede per propria passività o per ordini superiori. Si rileva che il telegramma recapitato dal portalettere perde la sua efficacia, più che indispensabile nella ripresa delle relazioni industriali e commerciali, specie in passi dove le attività produttive e di scambio sono rilevanti. (L’interrogante chiede la risposta scritta).
«Miccolis».
«Il sottoscritto chiede d’interrogare il Ministro della pubblica istruzione, per conoscere:
1°) i motivi per i quali l’articolo 18 del regio decreto 12 febbraio 1940, n. 740, non sia stato applicato nel suo spirito oltre che nella lettera a favore dei maestri elementari provenienti dalle scuole italiane all’estero, rimpatriati esclusivamente per causa di guerra. Risulta che, nei riguardi di molti insegnanti, non solo non si è interpretato il disposto dell’articolo 18 predetto, il quale garantisce agli interessati il diritto di scelta e di preferenza di sede (ad esempio i casi: Busi Maria, Gazzola Rosa, Lollis Giovanni, Toti Brandi Maria, Bertozzi Vera, Garlando Francesco, Lamonato Vanda ed altri), ma le relative pratiche sono trascinate da lunghi mesi ed i reclami motivati non sono presi in considerazione, con grave danno degli interessati che attendono con legittima ansia una definitiva sistemazione;
2°) per quali motivi non sia più data applicazione generale all’articolo 35 del regio decreto citato e alla decisione del Consiglio di Stato n. 357-941 (lettera del Ministero della pubblica istruzione n. 20736 del 20 aprile 1943), cosicché, mentre alcuni insegnanti hanno potuto usufruire dell’iscrizione in sedi già considerate di 1a categoria a’ sensi della legge 1° luglio 1933, n. 786, altri, invece, specie se rimpatriati per cause belliche negli ultimi anni, e già regolarmente assegnati a sedi di primaria importanza, sono stati improvvisamente trasferiti, ad arbitrio dei provveditori, ma su ordine del Ministero, in sedi già di 5a categoria, e i loro ricorsi non sono presi in considerazione dal Ministero, con grave danno economico e morale degl’interessati (ad esempio i casi: De Bernardo Arrigo, Corelli Francesca; Deste Antonio, Ferrari Riva Pasqua, Innocenti Ada, Messadaglia Maria ed altri).
«Considerato il numero e la complessità dei casi, l’interrogante chiede se non sia opportuno procedere alla domina di una Commissione mista (rappresentanti del Ministero degli affari esteri, della pubblica istruzione e dell’Associazione nazionale insegnanti all’estero) per la loro rapida ed equa soluzione, che metta termine ad una situazione di grave disagio. (L’interrogante chiede la risposta scritta).
«Cevolotto».
«Il sottoscritto chiede di interrogare il Ministro di grazia e giustizia, per conoscere per quali motivi siano stati esclusi dal concorso per esami e titoli ai posti di notaio, secondo l’articolo 2 del decreto del Ministro di grazia e giustizia 24 dicembre 1946, pubblicato sulla Gazzetta Ufficiale 30 dicembre 1946, n. 297, i militari reduci dall’internamento in Svizzera, essendo contemplati in tale articolo soltanto i reduci dalla prigionia e deportazione.
«L’interrogazione s’appalesa necessaria in quanto, trattandosi di norme eccezionali, non è possibile l’interpretazione analogica, e pertanto questa categoria ne viene esclusa, mentre si trova nelle medesime condizioni di quelle dei reduci dalla prigionia e deportazione, tanto è vero che il Ministero dell’assistenza post-bellica, il Ministero della guerra e l’Associazione nazionale reduci equiparano in modo assoluto le tre categorie.
«L’interrogante ritiene necessario il provvedimento che dichiari l’equiparazione dei militari reduci dall’internamento in Svizzera a quelli della prigionia e deportazione, ai fini del decreto ministeriale 24 dicembre 1946.
«Ritiene inoltre necessario procedere con la massima urgenza a riparare tale omissione, data la prossima scadenza dei termini per la presentazione delle domande. (L’interrogante chiede la risposta scritta).
«Cavallotti».
«Il sottoscritto chiede di interrogare il Presidente del Consiglio dei Ministri e il Ministro della difesa, per conoscere quali misure si intendano prendere per rapidamente liquidare le spettanze dei reduci, già residenti nell’Africa Italiana, ed ora provenienti dai campi di prigionia. (L’interrogante chiede la risposta scritta).
«Pellegrini».
«Il sottoscritto chiede d’interrogare il Presidente del Consiglio dei Ministri, per conoscere le ragioni per le quali a tutt’oggi non sono stati presentati alla Corte dei conti, per la debita registrazione, i decreti di nomina dei nuovi Ministri e per sentire come il Governo giustifica un tale deplorevole ritardo che determina il gravissimo arresto nel funzionamento dell’Amministrazione dello Stato nei suoi riflessi esterni. (L’interrogante chiede la risposta scritta).
«Marina».
«I sottoscritti chiedono d’interrogare il Ministro della pubblica istruzione, per conoscere le misure che intende prendere, perché nelle scuole professionali di Venezia sia proibito, quale libro di testo, il volume La luce del mondo, autore Onofrio Di Francesco, in cui si fa aperta apologia delle istituzioni monarchiche, del «re imperatore», e si offende la democrazia italiana, attraverso le volgari calunnie contro alcuni partiti democratici. (Gli interroganti chiedono la risposta scritta).
«Pellegrini, Ravagnan».
«Il sottoscritto chiede d’interrogare i Ministri dell’interno e dell’industria e commercio, per conoscere le cause che in questi ultimi tempi hanno determinato un gravissimo peggioramento nella distribuzione dell’energia elettrica nella Sicilia sud orientale e segnatamente nella provincia di Ragusa, dando luogo a deficienze ed irregolarità, che da un canto costituiscono un pericolo per la sicurezza pubblica e dall’altro paralizzano ogni attività, creando un disagio insopportabile in tutti gli ambienti, specialmente nei centri industriali e scolastici.
«L’interrogante chiede, altresì, di conoscere se, in presenza di tale situazione, non si reputi necessario un intervento urgente, con provvedimenti intesi almeno ad una più equa e razionale distribuzione tra le varie provincie e le varie città, ove non sia possibile incrementare subito la produzione di energia, e se nel contempo non si ritenga opportuna una inchiesta. (L’interrogante chiede la risposta scritta).
«Guerrieri».
«Il sottoscritto chiede d’interrogare il Ministro delle finanze e del tesoro, per conoscere se non ritenga opportuno elevare la misura degli «assegni di cura» di cui fruiscono attualmente gli invalidi di guerra affetti da tubercolosi, i quali non godano degli assegni di superinvalidità.
«Tale assegno, malgrado gli aumenti stabiliti dal 1923 ad oggi, attualmente non supera le otto lire giornaliere, cifra assolutamente inadeguata alle esigenze della cura della tubercolosi (superalimentazione, collassoterapia, ecc.).
«Sarebbe opera di umana solidarietà, oltre che un compito di profilassi sociale, adeguare gli assegni di cura agli indici della vita attuale, sulla base dei criteri seguiti nell’emanazione del decreto presidenziale 29 dicembre 1946, che non ha tenuto in alcun conto le particolari necessità della vasta categoria dei tubercolotici di guerra. (L’interrogante chiede la risposta scritta).
«Patricolo».
«Il sottoscritto chiede d’interrogare il Ministro dell’interno e l’Alto Commissario per l’igiene e la sanità pubblica, per sapere quali provvedimenti intendano prendere per risolvere urgentemente il gravissimo problema dell’Ospedale civile di San Donà di Piave, che, distrutto da bombardamento nel 1944, ha dovuto ricoverare gli ammalati in una villa, dove medicina, chirurgia e malattie infettive costituiscono – nonostante l’encomiabile zelo dei sanitari – tutto un insieme impressionante e di grave pericolo per la salute pubblica (ammalati due per letto, infettivi separati di pochi metri dai sani, una epidemia di tifo scoppiata in questi giorni e via dicendo); e se non ritengano opportuno di far iniziare subito la ricostruzione del nuovo ospedale, il cui progetto attende l’approvazione del Ministro dei lavori pubblici e della Direzione di sanità. (L’interrogante chiede la risposta scritta).
«Bastianetto».
«Il sottoscritto chiede d’interrogare l’Alto Commissario per l’igiene e la sanità pubblica, per sapere quali provvedimenti intenda immediatamente prendere per l’epidemia di tifo che va sempre più estendendosi a San Donà di Piave e paesi limitrofi e se non intenda inviare una ispezione, che accerti le cause di tale epidemia. (L’interrogante chiede la risposta scritta).
«Bastianetto».
«Il sottoscritto chiede d’interrogare il Ministro della pubblica istruzione, per conoscere se non ritenga opportuno e urgente estendere agli orfani della guerra 1915-18 il beneficio, di cui godono gli orfani della guerra ultima, nelle assunzioni in servizio, disposte dal decreto 4 agosto 1945. (L’interrogante chiede la risposta scritta).
«Basile».
«Il sottoscritto chiede d’interrogare il Ministro dell’interno, per sapere se non ritenga opportuno disporre il trasferimento dei 47 profughi che occupano l’edificio scolastico di Montalbano Ionico (Matera), accogliendo le richieste di quell’Amministrazione comunale, in modo da rendere possibile il funzionamento delle scuole e dell’asilo infantile; tanto più che i profughi attualmente a Montalbano potrebbero agevolmente essere trasferiti nei locali della colonia agricola della vicina Pisticci. (L’interrogante chiede la risposta scritta).
«Pignatari».
PRESIDENTE. Le interrogazioni testé lette saranno iscritte all’ordine del giorno e svolte al loro turno, trasmettendosi ai Ministri competenti quelle per le quali si chiede la risposta scritta.
La seduta termina alle 20.30.
Ordine del giorno per la seduta di domani.
Alle ore 15:
- – Seguito della discussione sulle dichiarazioni del Presidente del Consiglio dei Ministri.
- – Esame del progetto di Costituzione della Repubblica italiana.