Come nasce la Costituzione

SABATO 15 FEBBRAIO 1947

ASSEMBLEA COSTITUENTE

XXXVIII.

SEDUTA DI SABATO 15 FEBBRAIO 1947

PRESIDENZA DEL VICEPRESIDENTE CONTI

INDICE

Sul processo verbale:

Presidente                                                                                                        

Finocchiaro Aprile                                                                                         

Gronchi                                                                                                            

Campilli, Ministro delle finanze e del tesoro                                                       

Mentasti                                                                                                          

Petrilli, Sottosegretario di Stato per il tesoro                                                     

Restagno, Sottosegretario di Stato per i lavori pubblici                                      

Tripepi                                                                                                               

Micheli                                                                                                             

Chieffi                                                                                                              

Congedi:

Presidente                                                                                                        

Verifica di poteri:

Presidente                                                                                                        

Annuncio di nomina di Sottosegretari di Stato:

De Gasperi, Presidente del Consiglio dei Ministri                                               

Seguito della discussione sulle dichiarazioni del Presidente del Consiglio dei Ministri:

Bencivenga                                                                                                      

Li Causi                                                                                                            

Scotti Alessandro                                                                                          

Tumminelli                                                                                                       

Puoti                                                                                                                 

Martino Gaetano                                                                                           

Tremelloni                                                                                                      

Interrogazioni d’urgenza:

Presidente                                                                                                        

De Gasperi, Presidente del Consiglio dei Ministri                                               

Interrogazioni e interpellanza (Annunzio):

Presidente                                                                                                        

La seduta comincia alle 15.

RICCIO, Segretario, legge il processo verbale della sedata precedente.

Sul processo verbale.

FINOCCHIARO APRILE. Chiedo di parlare.

PRESIDENTE. Prima di dare la parola devo dire all’Assemblea, dopo la dolorosa seduta di ieri, che è nostro dovere ricordare che la libera critica deve trovare limiti, soprattutto nel linguaggio. Non si frappongono ostacoli all’espressione di qualunque pensiero, ma si chiede che tutti ricordino di essere i rappresentanti della Nazione, e di conservare in ogni momento il senso della dignità. (Approvazioni).

Io spero che tutti siano d’accordo nel deplorare gli incidenti verificatisi ieri e nell’assicurare che non si abbiano a ripetere. (Vivi, generali applausi).

L’onorevole Finocchiaro Aprile ha facoltà di parlare.

FINOCCHIARO APRILE. Rendo omaggio alla nobiltà delle dichiarazioni del nostro illustre Presidente.

Non è affatto mio proposito di agitare gli animi dell’Assemblea. Non intendo di ritornare su quello che avvenne ieri; né voglio neppure soffermarmi a protestare per la violazione del mio diritto alla libertà di parola; violazione che è stata compiuta dal Presidente Tupini, il quale si è rivelato partigiano (Commenti).

PRESIDENTE. Onorevole Finocchiaro Aprile, mi permetta di osservare che non le fu tolta la parola. Fu sciolta la seduta, a norma di Regolamento, per il tumulto che si era verificato: fu un dovere del Presidente. Continui.

FINOCCHIARO APRILE. Io avevo però la parola.

Ora ho un dovere, il dovere di dare una risposta all’onorevole Gronchi.

Perché l’onorevole Gronchi disse queste parole: «L’onorevole Finocchiaro Aprile, se è un galantuomo, deve precisare le generiche accuse fatte. Se non lo farà, avrà da scegliere solo fra la qualifica di pazzo commediante e quella di volgare mentitore».

Io desidero dare all’onorevole Gronchi e all’Assemblea la dimostrazione che, se vi è un pazzo e se vi è un commediante, se vi è un volgare mentitore, questi non sono certamente io.

Stia a sentire onorevole Gronchi: io dissi e ripeto, riferendomi alle parole nobilissime dell’onorevole Conti e riferendomi ad altre parole non meno giuste pronunciate, qualche tempo fa, in quest’aula dall’onorevole Nitti, che è necessario che i membri dell’Assemblea servano il Paese con piena dedizione di sé e con completa abnegazione, e che rifuggano dal ricercare e dall’occupare posti largamente rimunerativi. Affermando ciò, non ho fatto che portare nell’Assemblea il desiderio e la voce del popolo italiano. Aggiunsi che la Democrazia Cristiana raccoglie nelle sue fila il maggior numero dei profittatori. Onorevoli deputati, io confermo in pieno la mia dichiarazione. (Commenti).

PRESIDENTE. La prego di usare un linguaggio moderato, onorevole Finocchiaro Aprile!

FINOCCHIARO APRILE. M’incombe, pertanto, l’obbligo di darvi un elenco molto sommario dei deputati democratici cristiani che occupano cariche largamente retribuite.

Cominciamo: l’onorevole Pietro Campilli, esponente del Banco di S. Spirito, è amministratore delegato, con pieni poteri, della Società Italiana Condotte d’Acqua, con sede in Roma, collegata con varie altre società di acquedotti, tra cui quella dell’Acqua Pia, Antica Marcia, di Roma. (Commenti).

CAMPILLI, Ministro delle finanze e del tesoro. È falso!

GRONCHI. E una!

FINOCCHIARO APRILE. Non credo. L’onorevole Vanoni, nominato Commissario della Banca Nazionale di agricoltura, per undici mesi ha percepito quattro milioni di lire, valuta 1945. (Interruzioni).

Una voce al centro. È falso!

FINOCCHIARO APRILE. Non credo. L’onorevole Vanoni, lasciata la Banca, è stato nominato Presidente della Ferrobeton. (Interruzioni – Commenti).

Non l’avrei voluto dire, ma poiché qualcuno desidera saperlo…

Una voce al centro. Lo faccia per tutti i settori!

PRESIDENTE. Non interrompano! Chi vorrà, potrà domandare la parola.

FINOCCHIARO APRILE. …io dirò che la maggioranza delle azioni della Ferrobeton è nelle mani dell’ingegnere svizzero Hüber. Durante il regime fascista, la Società Ferrobeton esegui lavori di appalto per costruzioni edilizie e stradali (lavori in Italia, in Albania, in Africa Orientale), realizzando centinaia di milioni di lire di utili, che in una maniera o nell’altra trovarono modo di varcare la frontiera.

L’onorevole Vanoni si è fatto difensore presso il Governo degli interessi di questa società straniera, per aiutarla a liquidare i suoi crediti ingenti. È falso?

L’onorevole Spataro è stato nominato Presidente del Consiglio di Amministrazione della R.A.I.: parecchie centinaia di migliaia di lire al mese. Anche questo è falso?

L’onorevole Micheli, già Presidente dell’Istituto Nazionale delle assicurazioni e di molte altre aziende aventi rapporti con lo Stato, mantenne la prima carica fin dopo tre mesi la sua nomina a Ministro. L’onorevole Micheli era stato preceduto da un altro democristiano, l’onorevole Gilardoni, che fu materialmente cacciato via dagli impiegati dell’Istituto Nazionale delle assicurazioni.

L’onorevole Jacini è Presidente della Cassa di Risparmio delle province lombarde.

L’onorevole Restagno è Presidente della Banca Popolare di Novara.

RESTAGNO, Sottosegretario di Stato per i lavori pubblici. È falso!

FINOCCHIARO APRILE. L’onorevole Scoca è stato nominato Avvocato generale dello Stato, scavalcando 41 suoi colleghi, molto più capaci e meritevoli di lui.

L’onorevole Proia è Presidente dell’Associazione nazionale delle industrie cinematografiche.

PROIA. È una carica gratuita.

FINOCCHIARO APRILE. L’onorevole Paolo Bonomi è Presidente della Confederazione Nazionale dei coltivatori diretti. (Ilarità al centro).

L’onorevole Chieffì è amministratore del gruppo delle aziende dei carboni italiani.

L’onorevole Petrilli, un gabinettista che era ineleggibile e che diventò eleggibile cambiando semplicemente di stanza, è stato nominato Consigliere di Stato.

L’onorevole Colonnetti è stato nominato Presidente dell’Istituto delle ricerche e deputato, benché funzionario di Gabinetto.

L’onorevole Rodinò è Commissario del Consorzio nazionale per la canapa.

Gli onorevoli Arcaini e Balduzzi sono Direttori di banca.

Vi è di più. Con decreto 11 gennaio 1947, pubblicato sulla Gazzetta Ufficiale del 13 febbraio, n. 36, pag. 489, l’Alto Commissario Mentasti, in articulo mortis, ha nominato Commissario liquidatore del disciolto Ufficio centrale per la distribuzione dei cereali, farine e paste il signor Augusto De Gasperi. Egli, già Presidente della Confederazione dei cooperatori italiani, è incaricato del reperimento dell’olio.

Questo è un primo sommario e non certo preciso elenco. Mi riservo di depositare alla Presidenza della Camera fra pochi giorni un elenco quanto più sarà possibile completo dei deputati democratici cristiani, profittatori.

Non ho altro da dire. (Rumori – Commenti).

GRONCHI. Chiedo la parola per fatto personale.

PRESIDENTE. Ne ha facoltà.

GRONCHI. La prima constatazione è la seguente: per quanto ieri all’onorevole Finocchiaro Aprile io abbia chiesto di precisare, anche nei miei riguardi; ed egli abbia risposto: «Comincerò da te», oggi, come probabilmente domani, non è stato in grado di farlo.

FINOCCHIARO APRILE. Quando tu eri Sottosegretario di Stato di Mussolini, eri uno straccione. (Vivissime proteste al centro). Oggi hai i milioni. (Vivissimi rumori – Vivace scambio di apostrofi – Agitazione – Tumulto – Ripetuti richiami del Presidente).

PRESIDENTE. La seduta è sospesa.

(La seduta, sospesa alle 15.35, è ripresa alle 15.40).

Devo deplorare vivissimamente quanto è accaduto. Richiamo all’ordine l’onorevole Finocchiaro Aprile, che è trasceso in un linguaggio assolutamente deplorevole e non ammissibile in questa Assemblea. (Vive approvazioni).

Deploro vivamente anche l’onorevole Caiati, che dal suo banco si è mosso per procedere ad atti di violenza contro l’onorevole Finocchiaro Aprile. Lo richiamo all’ordine e invito tutti i colleghi all’osservanza della disciplina dell’Assemblea. Così non è possibile procedere. Se l’onorevole Finocchiaro Aprile mi darà motivo di altri richiami, sarò dolente di dover applicare il regolamento. (Approvazioni).

L’onorevole Gronchi ha facoltà di continuare a parlare.

GRONCHI. Nel riprendere la parola, mi verrebbe fatto di proporre alla Camera una iniziativa che solo all’apparenza è faceta, ma che, nella sostanza, farebbe al caso dell’onorevole Finocchiaro Aprile: vedere cioè se non sia opportuno di sottoporlo ad una perizia psichiatrica. (Rumori vivissimi – Commenti).

PRESIDENTE. Non ammetto assolutamente che si continui a parlare così! Onorevole Gronchi, prosegua, ma si contenga nel suo linguaggio.

GRONCHI. Per quanto mi riguarda personalmente posso permettermi di non rilevare l’ingiuria. Dirò solo che io sono a pienissima disposizione del signor Finocchiaro Aprile, quando egli si degni di presentare degli addebiti precisi. E stia sicuro che io non mi coprirò del mandato parlamentare; e altrettanto dovrà fare lui, quando gli potremo chieder conto delle sue attività politiche e politico-finanziarie.

FINOCCHIARO APRILE. Quali attività finanziarie?

GRONCHI. Non lo so; può darsi che, se lei ci consente, ne troviamo qualcuna. Potremmo avere dei documenti desunti da pubbliche dichiarazioni.

Ma veniamo al caso nostro particolare: la serietà delle cosiddette denunce e del cosiddetto elenco dell’onorevole Finocchiaro Aprile, è anzitutto documentata dal numero dei casi, che egli ha citati qui, dieci o dodici, mentre noi siamo 207 ed io vorrei vedere, se facessi, absit injuria, un esame dei vari settori della Camera… (Rumori – Proteste all’estrema sinistra).

PERTINI. Non abbiamo messo in dubbio la vostra onestà, mentre voi mettete in dubbio la nostra.

PRESIDENTE. Onorevole Gronchi, la prego di moderare i termini.

GRONCHI. Ho detto, non a caso, absit injuria, perché, secondo me, i casi indicati dall’onorevole Finocchiaro Aprile non costituiscono neppure lontanamente alcuna immoralità.

Per documentare poi l’inesattezza delle sue informazioni basterebbe che mi riferissi a quanto ha detto dell’onorevole Campilli e che questi ha smentito, mentre l’onorevole Finocchiaro Aprile non potrebbe sostenere con prove quello che ha dichiarato, e quello che ha detto nei riguardi del Sottosegretario onorevole Restagno, che è egualmente falso; dell’amico Proia, che è stato eletto a presiedere una libera associazione cinematografica senza un centesimo di retribuzione; dell’onorevole Bonomi: caso particolarmente curioso, quest’ultimo, perché io potrei dire che gli onorevoli Di Vittorio e Lizzadri sono nientemeno che i lautissimamente retribuiti segretari della Confederazione generale italiana del lavoro, insieme coll’altro profittatore onorevole Rapelli. (Rumori all’estrema sinistra – Approvazioni al centro – Commenti). Ed in ultimo l’ironia del suo sadismo ha voluto che egli nominasse Rodinò, non il nostro collega onorevole Ugo, ma il fratello Guido, non Deputato, che ieri sera un malore improvviso ha fatto decedere e che è stato soltanto per alcuni mesi Commissario del Consorzio nazionale canapa. Io rivendico a me, Ministro dell’industria, la responsabilità di averlo nominato, perché, avendo bisogno di un galantuomo e di un capace amministratore, io lo scelsi; e sfido chiunque a trovare qualcuno che mi possa indicare che nella sua gestione ci sia stata non solo la minima irregolarità, ma quanto meno l’assenza del più minuzioso scrupolo di retto e saggio amministratore. Tutto ciò vi dice quanto mai siano fondate le affermazioni dell’onorevole Finocchiaro Aprile. D’altra parte, credo che nessuno potrebbe negare che se noi procedessimo con un criterio rigoroso, tale da escludere che uno scienziato o un tecnico, solo perché Deputato, possa presiedere alcun ente, solo perché questo ha rapporti con lo Stato, evidentemente arriveremmo, per successivi inevitabili ampliamenti, ad escludere tutta la nostra Assemblea dal collaborare direttamente con le proprie energie intellettuali e con la propria volontà di lavoro a quelli che sono gli interessi generali del Paese.

Credo che i colleghi qui nominati avranno la possibilità di dimostrare dove sono le parecchie centinaia di migliaia di lire al mese a cui si è riferito l’onorevole Finocchiaro Aprile. Ma mi sia consentito incidentalmente di ripetere che, anche se tutto ciò fosse vero, cioè se 10 o 12 Deputati, quanti sono quelli che egli ha indicati su 207, occupassero, prestandovi il loro lavoro e mettendovi a contributo la loro capacità, dei posti retribuiti, non per questo ci sarebbe motivo per la stolta affermazione dell’onorevole Finocchiaro Aprile, che bolla il nostro partito come avido accaparratore di cariche e ne desume un giudizio inammissibile di disonore o di inferiorità politica. (Applausi al centro).

PRESIDENTE. Ha chiesto la parola per fatto personale l’onorevole Ministro delle finanze e del tesoro.

CAMPILLI, Ministro delle finanze e del tesoro. Rispondo all’onorevole Finocchiaro Aprile: primo, che non sono esponente, non faccio e non ho mai fatto parte del Banco di Santo Spirito, il quale (per chi non lo sappia) è in mano dell’I.R.I.

Secondo, che non sono consigliere delegato della Società per le condotte d’acqua, carica dalla quale mi sono dimesso prima delle elezioni politiche, secondo le buone norme. Oggi non ho nessuna relazione con detta Società, la quale, peraltro, è schiettamente privata.

Terzo, che non ho mai avuto nessuna relazione, né diretta, né indiretta, con la Società dell’Acqua Marcia, all’infuori di quella che ogni abitante della città di Roma ha con detta società, quale utente per il consumo di acqua.

E non dico altro! (Applausi al centro).

PRESIDENTE. Ha chiesto la parola per fatto personale l’onorevole Mentasti. Ne ha facoltà.

MENTASTI. L’onorevole Finocchiaro Aprile mi ha accusato di avere, in articulo mortis, nominato Commissario dell’U.C.E.F.A.B. il dottor Augusto De Gasperi.

Faccio presente, prima di tutto, che si tratta di uomo di competenza specifica, e di onestà preclara; ed a quel posto era necessario proprio un uomo dotato di queste qualità.

La retribuzione relativa è di poche migliaia di lire al mese, che non sarebbero neppure bastate per il dispendio di carattere personale di venire a Roma per quel servizio. Tanto è vero, che il dottor De Gasperi ha declinato l’incarico.

L’onorevole Finocchiaro Aprile deve sapere che il dottor De Gasperi, per il suo antifascismo, dovette abbandonare Trento ed i posti che ivi occupava – e non già per ragioni politiche – nel passato.

Il dottor De Gasperi, durante il periodo dell’attività clandestina, ha fatto parte dei C.L.N.A.I. e si è comportato veramente da valoroso. Poi è stato mandato dallo stesso Comitato in Valdossola, nel periodo di tempo in cui le pallottole fischiavano ed i partigiani combattevano.

Infine, l’onorevole Finocchiaro Aprile ha detto che il dottor De Gasperi ricopre anche la carica di Presidente della Confederazione dei cooperatori italiani. Ciò è vero, ma perché è stato nominato dalle federazioni cooperative dei vari partiti come uomo degno e capace, e come tecnico esperto e di onestà riconosciuta da tutti i cooperatori italiani.

Questo è quanto posso dire per la nomina da me fatta e di cui assumo tutta e piena la responsabilità. (Applausi al centro).

PRESIDENTE. Ha chiesto di parlare per fatto personale l’onorevole Sottosegretario di Stato per il tesoro.

PETRILLI, Sottosegretario di Stato per il tesoro. A me sono stati fatti due addebiti: anzitutto quello di essere stato nominato consigliere di Stato, onde sono stato qualificato profittatore.

Faccio presente, per chi non lo sappia, che a questa carica sono arrivato dopo 24 anni di servizio fedele ed onorato in favore dello Stato; e che già, quando fui nominato consigliere di Stato, avevo raggiunto l’altissimo grado di sostituto avvocato generale dello Stato.

Nominato magistrato nel lontano maggio del 1922, vinsi il concorso, quinto in graduatoria, tra 60 concorrenti di tutta Italia. Fui accolto, quarto in graduatoria, nell’Avvocatura dello Stato; e promosso sempre per meriti eccezionali.

Non devo dunque a nessuno, se non alla Provvidenza che mi ha dotato d’ingegno, (Applausi al centro) e alla forza di volontà che in un quarto di secolo ho sempre dimostrata, se ho raggiunto quel posto per il quale il Presidente Bonomi volle propormi al Consiglio dei Ministri, nonostante la mia riluttanza, come possono testimoniare tutti gli amici che ho frequentato alla Presidenza del Consiglio.

Quanto poi all’altro addebito di profittantismo perché avrei messo la mia candidatura a deputato subito dopo aver cessato dalla carica di capo di Gabinetto alla Presidenza del Consiglio, non vedo proprio come si possa parlare di profittantismo. Non la intendono così i miei elettori che mi hanno dato 50 mila voti preferenziali.

Io non ho profittato di nulla, perché mi sono dimesso, prima di porre la mia candidatura, non in modo formale, ma sostanziale. Comunque non si può, non è lecito, né giuridicamente, né moralmente, confondere una eventuale causa di incompatibilità ad essere eletto deputato con un profittantismo morale ed economico.

Per le cause di incompatibilità esiste anche la Giunta delle elezioni, che ha convalidato, con piena cognizione degli elementi di causa, la mia elezione. (Applausi al centro).

PRESIDENTE. Ha chiesto di parlare per fatto personale l’onorevole Sottosegretario di Stato per i lavori pubblici. Ne ha facoltà.

RESTAGNO, Sottosegretario di Stato per i lavori pubblici. Una semplicissima precisazione. L’onorevole Finocchiaro Aprile ha dichiarato che io sono il Presidente della Banca Popolare di Novara.

Tengo a chiarire che conosco la Banca Popolare di Novara per rapporti di carattere professionale, ma che non ho mai avuto occasione di interferire con essa per quanto concerne la sua Amministrazione, e che non ho mai salito le scale della sede centrale della Banca stessa, né come funzionario, né come membro del Consiglio d’Amministrazione, né, tanto meno, come Presidente.

A tale carica, a quanto mi risulta, è preposto l’Ambasciatore Cerruti; quindi la dichiarazione dell’onorevole Finocchiaro Aprile è assolutamente infondata e si basa su informazioni false e tendenziose.

Penso che il collega, prima di esporre alla Camera dichiarazioni di questa importanza, avrebbe avuto il dovere di controllarle. (Applausi al centro).

PRESIDENTE. L’incidente è chiuso.

TRIPEPI. E gli altri che cosa rispondono? Niente? (Vivi commenti).

PRESIDENTE. Onorevole Tripepi, ella non ha diritto di parlare.

TRIPEPI. Io, come rappresentante della Nazione, chiedo che cosa rispondono gli altri. Prendiamo atto del silenzio. (Interruzioni – Commenti).

MICHELI. Chiedo di parlare.

PRESIDENTE. Ne ha facoltà.

MICHELI. Ritenevo che fosse inutile da parte mia una risposta all’onorevole Finocchiaro Aprile; ma giacché un collega ha voluto insistere a questo riguardo, non ho per conto mio che da ricordare che dopo la liberazione i partiti politici, i quali facevano parte del Comitato di Liberazione Nazionale, hanno assegnato i varî posti più importanti delle amministrazioni in modo che ciascun partito avesse la sua rappresentanza. (InterruzioniCommenti).

PRESIDENTE. Non interrompano!

MICHELI. E come il Partito socialista ha avuto la Previdenza sociale e il partito comunista gli Infortuni (I.N.F.A.I.L.), così al Partito democratico cristiano è stato attribuito l’Istituto nazionale delle assicurazioni. E quando il Presidente, allora nominato, per particolari ragioni sue personali ha presentato le dimissioni, sono stato chiamato io a sostituirlo. La cosa è molto semplice: ed è evidente come non ci sia stata nessuna ragione di profittantismo né da parte mia, né da parte d’altri nelle mie condizioni.

Il Partito mi ha chiamato e io ho accettato il posto, come era mio dovere. Altre cariche sono aggiunte, sono unite per forza di cose all’Istituto medesimo, così come succede in altri grandi istituti: ad esempio, i rappresentanti dell’I.R.I., della Banca d’Italia, della Previdenza sociale entrano in tutte le compagnie collegate.

Quanto alle cifre accennate, debbo ricordare che l’I.N.A. è ancora uno dei pochi enti che hanno mantenuto le indennità dei tempi passati, non avendo fatto nessun ragguaglio monetario. Quindi, allorché si è parlato di cifre molto cospicue, certo si intendeva parlare di altri Enti, non di quello delle Assicurazioni, nel quale le rimunerazioni agli amministratori rappresentano cifre tali che non espongo nemmeno, perché sono troppo modeste. (Applausi al centro).

CHIEFFI. Chiedo di parlare.

PRESIDENTE. Ne ha facoltà.

CHIEFFI. Se da un deputato di destra non fosse venuto l’invito per un completo chiarimento da parte di tutti gli incriminati dall’onorevole Finocchiaro Aprile, io non avrei chiesto la parola. Debbo invece farlo, anche per adempiere alla richiesta di cui ho detto, proveniente da un qualunquista.

Sono stato nominato Commissario della Azienda Carboni Italiani oltre due anni fa, cioè quando non ero deputato. Ho trovato l’Azienda in condizioni tali che soltanto una capacità tenace ed una volontà ferrea (Commenti – Interruzioni) potevano portarla nelle condizioni in cui oggi essa è. Ho trovato le miniere sarde con una produzione di carbone di appena 28 mila tonnellate mensili e l’ho portata, con la collaborazione dei miei operai, a 108 mila tonnellate il mese, in poco più di un anno. (Approvazioni).

Una voce al centro. Questo è vero.

CHIEFFI. Debbo un’ulteriore precisazione all’onorevole Finocchiaro Aprile: quando fui chiamato a dirigere l’Azienda Carboni Italiani, non ero un individuo qualsiasi, ma provenivo da altra importante azienda industriale, ove per lunghissimi anni avevo ricoperto la carica di dirigente.

Credo di avere risposto esaurientemente all’onorevole Finocchiaro Aprile, aggiungendo soltanto che le laute prebende sono fissate dai Ministeri competenti che controllano l’Azienda e che, si riducono a ben modeste cifre. (Applausi al centro).

PRESIDENTE. Se non vi sono altre osservazioni, il processo verbale s’intende approvato.

(È approvato).

Congedi.

PRESIDENTE. Hanno chiesto congedo deputati: Valenti, Stella e Spataro.

(Sono concessi).

Verifica di poteri.

PRESIDENTE. Comunico che, in seguito alla morte dell’onorevole Achille Grandi, deputato per la Circoscrizione di Milano-Pavia (IV), fu chiamato a sostituirlo, e dalla Camera proclamato nella seduta del 12 dicembre 1946, l’onorevole Pietro Ferreri.

Contro la proclamazione dell’onorevole Ferreri è pervenuto un reclamo, che la Giunta delle elezioni, nella sua seduta odierna, ha ritenuto inconsistente, proponendo all’Assemblea Costituente la convalida della elezione.

Do atto alla Giunta di questa sua comunicazione e, salvo i casi di incompatibilità preesistenti e non conosciuti fino a questo momento, dichiara convalidata questa elezione.

Annuncio di nomina di Sottosegretari di Stato.

DE GASPERI, Presidente del Consiglio dei Ministri. Mi onoro informare l’Assemblea che il Capo provvisorio dello Stato, con decreti in data 14 corrente, ha nominato Sottosegretari di Stato:

per la difesa: l’onorevole avvocato Giuseppe Brusasca, deputato all’Assemblea Costituente; l’onorevole generale Luigi Chatrian, deputato all’Assemblea Costituente; l’onorevole Francesco Moranino, deputato all’Assemblea Costituente; l’onorevole avvocato Vito Mario Stampacchia, deputato all’Assemblea Costituente;

per la marina mercantile, l’onorevole ingegner Giosuè Fiorentino, deputato all’Assemblea Costituente.

Seguito della discussione sulle dichiarazioni del Presidente del Consiglio dei Ministri.

PRESIDENTE. L’ordine del giorno reca: «Seguito della discussione sulle dichiarazioni del Presidente del Consiglio dei Ministri».

È iscritto a parlare l’onorevole Bencivenga. Ne ha facoltà.

BENCIVENGA. Dobbiamo essere grati al Presidente onorevole De Gasperi di aver trovato finalmente quelle parole che tutti gli italiani, e particolarmente i reduci, attendevano, parole che suonano esplicito riconoscimento delle virtù militari dell’esercito, della marina e dell’aviazione.

Virtù militari a servizio della Patria e non di questo o di quel partito; poiché tradizione mai violata dalle Forze armate italiane è stata quella di tenersi al di fuori delle competizioni politiche, o meglio di trovare nella vita dei reggimenti, sulle navi e negli aeroporti un ambiente sereno nel quale un solo ideale si levava superbo, quello delle fortune della Patria.

Con profonda commozione abbiamo udito, dalla voce accorata del Presidente del Consiglio, la ingiusta condizione imposta all’Italia dal Trattato cosiddetto di pace.

Era ora che una parola così autorevole si levasse a far giustizia di tutte le assurde accuse rivolte, soprattutto all’esercito, quasi che esso fosse responsabile di una guerra sfortunata. Le Forze armate al servizio della Patria non hanno alcuna responsabilità dello scatenamento di una guerra che andava contro gli ideali del popolo italiano; ma, una volta dichiarata, esse si sono prodigate fino all’estremo limite del sacrificio. Quello che esse fecero ha del leggendario e mi auguro che presto gli Stati maggiori dell’esercito, della marina e dell’aviazione, faranno conoscere ciò che le nostre Forze armate fecero, nonostante l’inferiorità di mezzi, di armamenti, e nonostante l’assurda impostazione del piano di guerra aggravata dal fatto di avere virtualmente posto le nostre Forze militari alla dipendenza della Germania, per la quale il nostro contributo si può riassumere in una sola parola: sacrificio!

L’esercito soprattutto era talmente impreparato che, allorquando nel 1939 il Capo del Governo, capo delle Forze armate, prospettò l’eventualità di scendere in guerra nel 1943 (dico 1943), il nostro Stato Maggiore fu preso da un vero sgomento, e dichiarò essere impossibile in quattro anni circa, e nonostante l’offerta di larghi mezzi finanziari, mettere l’esercito in piena efficienza nei riguardi degli armamenti. È facile immaginare in quali condizioni noi siamo quindi scesi in campo nel giugno 1940! Non è esagerato affermare che il rapporto degli armamenti poteva paragonarsi a quello di un esercito armato di lance e frecce contro eserciti provvisti di armi da fuoco.

Si è detto da qualche pubblicista che l’Alto Comando si sarebbe dovuto opporre. È codesta un’affermazione pericolosa e che solo lo smarrimento dell’ora può giustificare. Le Forze armate sono a servizio dello Stato; ad esse non resta che obbedire, sia pure dopo aver manifestato la propria opinione. Del resto, anche la Costituzione elaborata dai nostri colleghi, sulla quale mi riservo di parlare a suo tempo, mantiene fermo quel principio ed anzi rimette all’Assemblea Nazionale la decisione di guerra.

Non dunque si può rimproverare ai capi delle Forze armate l’impreparazione. E neppure il piano di guerra.

Farei torto ai miei colleghi se ripetessi qui quello che ha lasciato scritto Clausewitz, che è il più grande teorico della guerra, traendo le sue deduzioni dalle campagne dei più celebri capitani, essenzialmente da quelle napoleoniche.

Secondo il grande filosofo, la guerra è la continuazione della politica con le armi alla mano, ed è assurdo far ricadere sui capi militari la responsabilità del piano di campagna. Tanto meno poi quando, come avvenne da noi nel 1940, il Capo del Governo è anche il comandante delle Forze armate. Si aggiunga altresì che l’Alta Direzione della guerra fu assunta virtualmente dallo Stato Maggiore germanico; ed alla Germania il nostro Paese dovette la perdita delle Colonie dell’Africa settentrionale per l’impulsività di Rommel e l’inettitudine di Kesserling, ed alla Germania si dovette altresì il disastro della campagna di Russia.

Io invito il popolo italiano a leggere la pubblicazione del nostro Stato Maggiore su questa campagna ed il libro del Maresciallo Messe dal titolo «Come finì la guerra in Africa», per avere una visione di quei tragici avvenimenti nei quali si rilevò tutta la brutalità del soldato germanico, eroe nella buona fortuna, vile nell’avversa. Quei soldati, non solo non dimostrarono nessuno spirito di cameratismo con i nostri, ma esercitarono su di essi violenza per strappare i mezzi di trasporto, impadronirsi dei magazzini viveri, lasciando morire di fame i nostri fratelli, negando ai feriti ogni soccorso, ed ai morti una pietosa sepoltura.

Eppure nel disastro che coronò le due campagne quanti atti di eroismo! La campagna in Africa Orientale poi, sostenuta soltanto dalle nostre truppe, costituisce una pagina meravigliosa e gloriosa delle nostre Forze armate. Gli stessi avversari resero omaggio a quei capi che sostennero la lotta fino a che rimase una goccia di acqua per dissetare le gole arse dei combattenti, un pezzo di galletta per non morire di fame, una cartuccia da sparare ed un proietto da lanciare dalle bocche da fuoco!

Nei Balcani la guerra ebbe un carattere selvaggio per la natura dei luoghi e la pratica di guerra seguita da quelle popolazioni; ed i nostri capi, spesso con forze insufficienti, sostennero l’onore delle nostre bandiere, senza trascendere nelle crudeltà insite in guerre di partigiani.

Io affermo, in piena coscienza, che in questa guerra le Forze armate hanno scritto pagine di cui i nostri figli potranno andare fieri.

È pura demagogia, che si manifesta sempre nei Paesi di scarse tradizioni militari, voler contrapporre, quando la guerra sia sfortunata, il valore delle truppe all’inettitudine dei capi! Si ignora con ciò l’aforisma che: tali sono le truppe quali i loro capi!

Ho detto che il fenomeno della denigrazione dei capi si ripete per i popoli di scarse tradizioni e di scarsa cultura militare. Infatti guardate il popolo francese! guardate il popolo germanico! La Francia ha sempre glorificato la campagna del 1870-71, nonostante la dura sconfitta subita; ed oggi si guarda bene dal sollevare querimonie contro il suo esercito, potente per mezzi e per numero, che, travolto sulla linea difensiva a nord, in una settimana circa perdeva tutto il territorio francese e si scioglieva come neve al sole!

È oggi una ironia del destino che quelle bandiere francesi che si trascinarono nel fango durante la ritirata, debbano sventolare su terre italiane che il diktat delle quattro Potenze ci ha imposto di cedere.

Noi, per contro, dimostriamo un vero accanimento nel diffamare esercito e capi. L’onorevole Lombardo nel suo discorso sentenziò che nessun generale italiano sarebbe ritornato nei ranghi. Non so se questo sia il pensiero del popolo italiano; certo, quelli che non torneranno saranno i 56 generali caduti sul campo dell’onore. (Applausi a destra).

Una voce a destra. Cinquantasette col generale Bellomo.

BENCIVENGA. Abbiamo perduto la guerra. È una realtà. Ma io chiedo che per fini politici non si disperda il patrimonio morale conquistato sui campi di battaglia!

Abbiamo perduto la guerra! ripeto, ma avremmo potuto salvare la pace, se i Comitati di salute pubblica che si sono succeduti dopo la liberazione di Roma non avessero favorito il disegno degli Alleati di non mantenere gli impegni presi di farci partecipare alla guerra con un vero e proprio esercito regolare. Fu pura demagogia da parte dei governi del Comitato di Liberazione Nazionale costituire la così detta guerra di partigiani, genere di guerra che non poteva dare che scarso rendimento sul nostro teatro di operazione così fittamente popolato di fronte ad un nemico come il tedesco… (Interruzioni a sinistra).

BENEDETTINI. Basta con questi sistemi! (Rumori – Commenti).

PRESIDENTE. Onorevole Benedettini, la prego!…

BENCIVENGA. …che aveva dimostrato con l’eccidio delle Fosse Ardeatine la misura della sua ferocia.

Se il Comitato di salute pubblica, invocato dal collega Nenni come pura reminiscenza romantica, avesse veramente voluto assolvere un compito eroico, invece di riempire le galere di uomini che altra colpa non avevano che quella di avere creduto a chi a prezzo della libertà prometteva una Patria più grande; se invece di dividere gli italiani in puri ed impuri avesse chiamato a raccolta tutti gli italiani al grido: «La Patria è in pericolo»! avremmo potuto pretendere di reclamare la stessa posizione della Francia che, pur avendo collaborato col tedesco, si era riscattata con poche truppe coloniali. (Commenti a sinistra).

BENCIVENGA. L’onorevole De Gasperi, nel suo accorato discorso ha detto che «purtroppo, dopo il disarmo che ci è imposto, la difesa delle nostre frontiere resterà affidata, soprattutto, al genio dei comandanti e al petto valoroso del nostro popolo in armi». E l’Assemblea ha calorosamente applaudito.

Mi permetta il Presidente di chiedergli se nella politica seguita dai Governi del Comitato di liberazione nazionale, ed anche seguita oggi, in confronto di capi e gregari reduci di guerra, sia la premessa utile alla realizzazione del suo nobilissimo pensiero!

Crede il nostro Presidente che l’aver cacciato in galera capi valorosi che la Magistratura, nella sua alta probità, ha poi rimesso in libertà, l’aver deferito al giudizio di commissioni arbitrarie l’esame della condotta di questi capi, sia tale da incoraggiare uomini di alto sentire e di fierezza di carattere ad assumere la funzione di capi? No!

Roma, che era maestra nel governo degli uomini dava ben altro esempio.

Ricorderò come dopo la disfatta di Canne il Senato romano movesse incontro al generale Varrone ringraziandolo di aver avuto fiducia nella Patria! L’amico Conti, appartenente a quei repubblicani che godevano di tante simpatie nel nostro esercito, perché primi in linea quando erano in giuoco le sorti della Patria, mi dirà che tutto quanto è avvenuto contro i nostri capi si è verificato prima dell’avvento della Repubblica.

Ma io penso che si sia ancora in tempo. E sono certo che se il compassionevole giuoco dei partiti politici non avesse costretto il Ministro Facchinetti ad abbandonare la direzione del Ministero della guerra, egli avrebbe portato nella soluzione del problema dei capi un nobile senso di umanità e giustizia.

Invero dall’insediamento dei Comitati di liberazione nazionale ad oggi è stato tutto un susseguirsi di leggi che nessun consenso hanno avuto dai rappresentanti del popolo italiano; leggi e disposizioni dettate da uno spirito fazioso che offende non solo l’alto senso di giustizia, ma la stessa sensibilità di nostra gente. Si afferma che si vuol, con tali mezzi, epurare l’esercito, ricostituirlo… No! Egregi colleghi, così lo si distrugge. Il disarmo imposto dagli alleati è cosa che non preclude l’avvenire; ma l’opera fin qui seguita compromette per sempre la rinascita di un esercito degno di questo nome.

Perché un esercito vive delle sue tradizioni, della fiducia che riscuote nel Paese; e quali tradizioni potrebbe vantare questo nuovo esercito? quale fiducia potrebbe riscuotere nel popolo, qualora si facesse strada il convincimento che quello sceso in campo, pur guidato da uomini che avevano dato prove di valore nella grande guerra, ha miseramente fallito alla prova?

Io giungo al paradosso affermando che pur se l’esercito fosse colpevole di tutti gli errori che gli si attribuiscono, carità di Patria dovrebbe indurre a nasconderli! Così hanno sempre fatto i paesi che tengono al loro prestigio guerriero!

La Francia, dopo la guerra 1870-71, si limitò a porre sotto giudizio, a senso dei regolamenti comuni ad ogni esercito, solo i generali che si erano arresi in campo aperto; a promuovere una inchiesta sul funzionamento di taluni servizi e nulla più! Essa onorò i generali dell’Impero, anzi taluni elevò alle supreme cariche dello Stato, come il MacMahon che, nel 1873, alla caduta di Thiers, fu Presidente della Repubblica!

Tuttavia io non contesto che il nostro Paese abbia il diritto di sapere come sono andate le cose e quali siano le responsabilità dei suoi capi; così come facemmo a Caporetto. Com’è noto, fu allora nominata una Commissione d’inchiesta costituita da alte personalità militari, politiche e giuridiche, che assolse il suo compito alla luce del sole!

Quale differenza col procedimento usato oggidì, in dispregio a tutti i principî di democrazia! Oggi nessuna Commissione d’inchiesta è stata nominata per far luce sulla responsabilità della dichiarazione di guerra e sul modo col quale la guerra fu condotta. Nessuna inchiesta sui fatti d’arme, ma una semplice Commissione, in prevalenza di uomini politici, è chiamata a dare il parere sulla conservazione in servizio degli altri generali; giudizio che, per disposizione recente, sarà esteso fino ai colonnelli!

Ciò in base ad un decreto in data 14 maggio 1946, emanato cioè alla vigilia delle elezioni di questa Assemblea! Il decreto non precisa quale debba essere questo parere e su che cosa fondato, quali inoltre debbano essere i costituenti della Commissione. Donde il legittimo sospetto di arbitrii e di errori.

Soprattutto di errori! Perché, egregi colleghi, non è cosa facile dare il giudizio sul comportamento in guerra di alti comandanti. Assai istruttiva, al riguardo è la lettura della relazione d’inchiesta su Caporetto. Quanti e quali giudizi contradittori da parte dei testi chiamati a deporre! E quanti in buona fede! Il testimone infatti è portato a generalizzare episodi nei quali fu coinvolto, ad esagerare ciò che colpì la sua fantasia, quando poi non si tratti di individui che, travolti dalla fuga, sono indotti a giustificare la propria condotta denunciando errori e deficienze che spesso non erano che nella loro fantasia alterata! Non si dimentichi poi che la fuga sui campi di battaglia comincia dal di dietro e che i fuggiaschi non possono sapere gli eroismi di coloro che sono ancora intenti a combattere sul fronte!

La riduzione dei quadri è una necessità assoluta, alla quale non possiamo sottrarci. Ad essa avremmo dovuto addivenire anche se vincitori! È ovvio che, per essa, debba prevalere il criterio della selezione. Ma a questa tragica necessità si deve pervenire attraverso la più rigida legalità.

Se, come ci si affanna a dire, abbiamo restaurato la democrazia, è al popolo, attraverso i suoi legittimi rappresentanti, che spetta definire i modi e gli organi, che debbono presiedere all’opera di selezione. È il Paese che deve dare il suo assenso alla scelta dei giudici. In sostanza: nulla deve restare nell’ombra, nulla deve essere lasciato all’arbitrio di uomini dei quali possiamo pur riconoscere la dirittura morale, ma dei quali non possiamo escludere l’incompetenza e la possibilità di errore!

Ho accennato innanzi all’accoglienza fatta ai reduci! La sensazione che essi hanno riportato al loro ritorno – sensazione condivisa dal Paese – è quella di essere riguardati quali colpevoli, complici dell’avventura fascista! Non voglio io, che rimprovero la demagogia negli altri, cadere nello stesso errore; e pertanto non insisterò sull’argomento limitandomi a far rilevare il diverso trattamento fatto ai partigiani, dei quali nessuno può disconoscere le benemerenze, ma dei quali non si deve sopravalutare il rendimento; non già per mancanza di buona volontà o di vigoria o di coraggio, ma perché non era loro possibile far di più, senza attirare sulle popolazioni crudeli rappresaglie e distruzioni selvagge sul nostro territorio!

MASSOLA. Non è vero!

BENCIVENGA. E veniamo alla costituzione del Ministero della difesa.

Non contesto al Capo del Governo la facoltà di sostituire i tre Ministeri militari con un unico Ministero; osservo però che di un provvedimento del genere, per le difficoltà d’ordine pratico che presenta, per le ripercussioni psicologiche e materiali che avrà, meglio sarebbe stato farne oggetto di preventiva approvazione dell’Assemblea.

A dire il vero, non so spiegarmi i motivi che hanno spinto il Capo del Governo a metterci di fronte a un fatto compiuto! Non posso dare che un valore letterario alla dichiarazione del Presidente di voler cancellare perfino il nome «Guerra» dalla terminologia di due dei tre preesistenti Ministeri! Dio volesse che una così nobile manifestazione di buona volontà trovasse eco nei popoli! Purtroppo l’orizzonte della pace è ancora coperto da folte nubi.

Se il motivo addotto dall’onorevole Presidente vuole essere davvero quello di dare la sensazione del nostro sentimento pacifista, mi permetto di fargli rilevare che la costituzione di un Ministero di difesa nazionale costituisce strumento tipico di una politica aggressiva, in quanto permette di coordinare in uno sforzo armonico e secondo un disegno operativo segreto, l’attività e lo sviluppo degli organi preposti all’Amministrazione dell’Esercito, della Marina e dell’Aviazione.

E difatti il Governo fascista costituì il Ministero di difesa nazionale proprio per quelle Campagne dell’Africa Orientale che segnarono il principio di quella politica di espansione che si concluse poi con la guerra mondiale!

Penso piuttosto che il Presidente del Consiglio abbia voluto, con la istituzione di un unico Ministero, dare un indirizzo nuovo ed uniforme, e soggiungo umano, alla liquidazione del passato (e sotto questo punto di vista non può non riscuotere il consenso di chi abbia carità di Patria), eliminando germi di malcontento capaci di insidiare l’opera di ricostruzione del nostro Paese!

E pertanto, a tranquillizzare tutti coloro che da una radicale trasformazione possono trarre danno, io vorrei che il Presidente accentuasse quel pensiero chiaramente espresso nel dare l’annuncio della fusione dei tre Ministeri, cioè che la trasformazione deve compiersi gradualmente e proporsi anzitutto di fondere insieme le virtù militari della Marina e dell’Aviazione, dopo l’altra guerra;

Sulla gradualità della trasformazione materiale io metterei un tale accento da ridurla per il momento ad una semplice fase di studi preliminari!

Perché, creda a me, che ho preso parte alle ampie e numerose discussioni sulla stampa relative a questo problema, esso non è facile, non è economico (come può apparire superficialmente) e soprattutto mal si concilia con un regime veramente democratico e parlamentare. E di fatto i Ministeri di difesa sono propri dei regimi autoritari.

Ed ora mi rivolgo al Ministro Gasparotto, preposto al Ministero della difesa, di cui conosco la elevatezza dell’animo, provato dalla sventura. Veda di rimediare al mal fatto fin qui; porti nel penoso lavoro al quale non possiamo sottrarci per l’imposizione del trattato di pace di riduzione dei quadri delle Forze armate, cuore e senso di giustizia e soprattutto di legalità. Eviti offese morali che incidono sugli animi più dei danni materiali.

E mi permetta di richiamare la sua attenzione su una questione che ritengo di somma importanza.

Per effetto della riduzione dei quadri avremo un gran numero di pensionati. Ebbene, bisogna, almeno per i più giovani, preoccuparsi di render loro possibile una attiva partecipazione alla vita civile.

Non debbo ricordare a voi, egregi colleghi, che furono i famosi «demis-soldes» (i cosiddetti pensionati dal Governo della prima restaurazione in Francia, dopo la caduta di Bonaparte ed il suo invio all’isola d’Elba) che ricondussero sul trono Napoleone!

Io non credo che i nostri pensionati coltiveranno simili propositi di restaurazione, ma è certo che nell’ozio potrebbero maturare propositi non sempre ragionevoli, specie se stimolati da esigenze materiali di vita.

Bisogna dunque preoccuparsi, come dicevo dianzi, che specie i più giovani possano trovar modo di esplicare la propria attività nella vita civile. Per la qual cosa io penso che si debba facilitare a questi pensionati la concessione di titoli accademici che permetta poi ad essi dedicarsi a professioni liberali. Il Ministro della pubblica istruzione potrà all’uopo suggerire gli opportuni provvedimenti.

Ed ora mi consenta, il Ministro Gasparotto, di portare la questione su un terreno, direi cosi, scottante. Quello degli ufficiali di fede monarchica!

Mi consta che in questo campo si va compiendo un lavoro di indagine con metodi addirittura inquisitori!

Le Forze armate non hanno mai fatto questioni di fede monarchica o repubblicana: ma di fedeltà alla Patria, di obbedienza allo Stato. Lo sanno i numerosi e valorosi repubblicani che hanno servito nelle Forze armate.

Coloro, tra i vecchi ufficiali di carriera, che oggi ostentano fede di repubblicani, sono quegli stessi che ieri ne ostentavano altrettanta per quella monarchica. Sono uomini di poco carattere e pertanto i meno meritevoli di coprire alti gradi nella gerarchia!

La Repubblica non deve temere delle nostalgie del passato. I nuovi regimi hanno da temere soltanto della delusione che provocano in coloro che avevano atteso con speranza la costituzione di un nuovo ordine; nel nostro caso la delusione è in coloro che, lottando per la restaurazione della democrazia, vedono ripetuti ed aggravati gli arbitri del regime dittatoriale fascista! (Interruzioni).

E concludo. La guerra è perduta; ma non dobbiamo lasciarci abbattere, né dobbiamo disperare del nostro avvenire! Altre grandi nazioni subirono disastri militari, e dovettero piegarsi alle imposizioni dei vincitori; ma, educate dalla sventura, risorsero più forti e vigorose di prima.

Se non fosse un po’ un paradosso, direi che dobbiamo essere grati alle Nazioni che ci hanno imposto condizioni di pace inique, che saranno di maggior stimolo alle nostre virtù.

Una pace iniqua – che offende il senso morale – non è una pace duratura. Versailles informi.

Allora il disarmo imposto alla Germania non servì a nulla. È infatti illusione ritenere di stringere in catene la vita di un popolo!

Oggi le quattro potenze hanno superato per crudeltà le imposizioni di Versailles.

Noi pure disarmeremo! Ma se le nostre divisioni verranno disciolte, noi daremo i loro nomi gloriosi ai nostri battaglioni; se ci saranno tolte le nostre superbe navi, onuste di gloria, noi battezzeremo coi loro nomi le più piccole imbarcazioni. Il culto del passato sarà il viatico del nostro calvario.

L’Italia, ne sono certo, risorgerà più bella, più grande di prima, se gli italiani sapranno tutti sentirsi figli di una stessa terra, se sapremo soffocare i risentimenti, i rancori, lo spirito di vendetta.

Quel giorno, che io mi auguro vicino, noi potremo guardare con disprezzo e disdegno quei vincitori che tradirono la bandiera e quegli ideali per i quali dissero al mondo di essere scesi in campo; e l’Italia tornerà ad essere quella grande Madre di civiltà che fu nel passato e nel mondo presente.

In alto dunque i cuori. La sventura abbatte i deboli, non i forti! Il nostro tricolore, cantato dai poeti, baciato dai morenti sui campi di battaglia, raccolga tutti gli italiani stretti da un vincolo di fratellanza, di amore, di solidarietà sociale, tutti uniti in una sola fede per la rinascita della Patria!

Erompa dai nostri petti, ora più che mai, il grido: «Viva l’Italia!». (Vivi applausi a destra – Si grida: «Viva l’Italia!»).

PRESIDENTE. È iscritto a parlare l’onorevole Li Causi. Ne ha facoltà.

LI CAUSI. Onorevoli colleghi, desidero richiamare l’attenzione di questa Assemblea su un avvenimento di importanza eccezionale che avrà luogo nel nostro Paese tra qualche settimana: le elezioni per l’autonomia regionale della Sicilia.

L’avvenimento, oltre che di grande importanza politica, certamente è di portata storica, poiché sta per essere finalmente risolto nel nostro Paese uno dei più gravi problemi che hanno agitato l’Italia fin dalla sua formazione ad unità: problema che è sorto e risorto continuamente in tutti i momenti in cui il nostro Paese ha attraversato una grave crisi politico-sociale, come la dimane del 1860, nel 1876, nel 1893-94, alla fine dell’altra guerra, alla fine di questa guerra. Vi sono, cioè, profonde ragioni di squilibrio che, per quanto ripetutamente denunziate e, soprattutto, poste in evidenza dalle agitazioni delle masse siciliane, con maggiore o minor vigoria in questi vari momenti storici, mai hanno trovato accoglienza né appagamento. Mai queste esigenze sono state avvertite come giustificate, come esigenze di tutto il Paese, senza sodisfare le quali noi non potremo mai pervenire ad uno stabile equilibrio nazionale.

La catastrofe provocata dalla guerra fascista ha posto la nostra Sicilia – prima fra tutte le. Regioni d’Italia – immediatamente di fronte a tutte le sue contradizioni politiche e sociali. Alla rottura dell’equilibrio, prodotto dallo sbarco degli alleati, il problema si è posto da prima in maniera quasi ingenua dinanzi alla coscienza del popolo siciliano. Vi era una frattura: la Sicilia materialmente, politicamente, economicamente separata dal resto d’Italia; ogni scambio fra la Sicilia e il continente interrotto.

La infausta parola d’ordine di Badoglio, «la guerra continua», accanto ai tedeschi, accese il separatismo, come sentimento ingenuo di tutto il popolo siciliano.

Intanto è importante tener presente la debolezza delle forze politiche democratiche, per il fatto che l’antifascismo in Sicilia non aveva avuto modo di temprarsi e di organizzarsi durante il ventennio; e allo sbarco in Africa degli alleati, preludio dello sbarco nell’isola, la classe possidente siciliana, gli agrari, lo strato più attivo di essi, che vedevano lontano, entrarono in relazione con gli anglo-americani. In Sicilia l’antifascismo attivo, oltre che da sparutissimi nuclei di sinceri democratici, venne allora rappresentato, in stretto legame con gli agrari, da quanti negli anni 1926-27 erano stati colpiti dall’azione del prefetto Mori: la mafia dispersa nelle carceri e nei confini di polizia. I mafiosi si dissero antifascisti continuando ad essere mafiosi e profittarono largamente della situazione di emergenza. Gli alleati poggiarono su queste forze per fondare il loro controllo sulla vita siciliana, impedendo, anche con mezzi estremi, composti movimenti dei contadini e la nascita di qualsiasi organizzazione sindacale, della formazione delle sezioni socialiste e comuniste. I contadini della Sicilia andavano incontro agli alleati liberatori con la bandiera della Patria, con le bandiere americana e inglese e con la bandiera della Unione Sovietica. Ebbene, tanto la bandiera dell’Unione Sovietica, quanto la bandiera italiana, venivano subito fatte ammainare e i contadini, che avevano sperato fiduciosi di liberarsi dagli eterni oppressori, di lenire le sofferenze della dittatura fascista, e che credevano in buona fede ai liberatori, si trovarono ricacciati nella schiavitù, esposti alla provocazione.

Essi hanno visto rimanere nelle amministrazioni locali (e voi sapete che cosa significhi nei nostri paesi detenere i municipi) coloro che vi erano stati nel ventennio fascista; hanno visto assurgere ad amministratori i loro vecchi sfruttatori, i mafiosi ammantati di antifascismo e protetti dagli alleati, subendo quella profonda delusione che doveva accendere il loro malcontento e spingerli alla rivolta.

Gravissima colpa delle classi dominanti siciliane è l’essersi adoperate perché il popolo dell’isola non partecipasse alla guerra di liberazione, vittima del separatismo malizioso.

Mi duole che l’onorevole Finocchiaro Aprile non sia presente; ma non posso non accennare alla sua opera rivolta ad impedire la partecipazione del popolo siciliano alla guerra di liberazione. Nella seconda metà del 1943 furono gli alleati ad opporsi a qualsiasi costituzione di formazioni volontarie siciliane combattenti; a cavallo del 1944-45 furono i separatisti, in combutta con fascisti vecchi e nuovi, con emissari tedeschi e repubblichini, a dare la parola d’ordine della rivolta contro la chiamata alle armi, per la partecipazione alla guerra di liberazione anche dei siciliani, del governo democratico nazionale.

E si ebbero i gravissimi e sanguinosi episodi della provincia di Ragusa e qua e là un po’ in tutta la Sicilia.

Ebbene, a contrapporsi ai rivoltosi, ai separatisti, che tentarono, in quel momento delicatissimo per la vita del nostro Paese, di determinare la frattura tra la Sicilia e l’Italia, di impedire che soldati siciliani potessero nel nuovo sangue versato cementare l’unità con i soldati delle altre regioni, con i partigiani del Settentrione, sono stati insieme con la parte più cosciente del popolo siciliano, in prima linea, permettete che lo dica, sono stati i giovani comunisti. Ma ecco che in quella situazione torbida, in cui l’antifascismo non si era chiaramente spiegato, le autorità di polizia, anziché procedere agli arresti dei separatisti e degli organizzatori delle rivolge, arrestarono i nostri giovani che con i loro petti ed a prezzo della vita difesero i municipi, gli edifici pubblici, dalle fiamme e dalla furia devastatrice dei separatisti, rimanendo in carcere fino a qualche settimana fa, e non tutti sono stati ancora scarcerati.

Questi episodi cosa vi dicono, onorevoli colleghi? Che nella vita siciliana è mancato e ancora non è avvenuto quel processo di chiarificazione – soprattutto politica – per cui, ad esempio, tutta l’azione delittuosa del separatismo è ignota al resto del Paese. Il quale ha invece un’immagine deformata di quello che accade in Sicilia, ora creduta terra di banditi, ove non sia possibile girare neanche di giorno, non solo per le campagne, ma anche in città, senza essere accoppati, ora descritta come oasi di idilliaca convivenza. Ieri dai banchi dell’altra sponda un deputato monarchico, mentre l’onorevole Di Vittorio denunziava gli assassinî a catena dei dirigenti contadini, interrompeva per dire che in Sicilia si uccidono i comunisti perché il popolo siciliano non vuole il comunismo.

A far diffondere questa immagine deformata della realtà siciliana ha contribuito il Governo, i passati Governi, che hanno impedito la chiarificazione politica, che sola avrebbe permesso di far piena luce sull’azione dei separatisti, sull’azione dei baroni siciliani impeciati nel separatismo. Con quale coerenza ieri l’onorevole Finocchiaro Aprile designava e invocava l’onorevole Nitti alla direzione del Governo, non è chiaro comprendere, poiché l’onorevole Nitti è contrario apertamente, non dico alla separazione della Sicilia dall’Italia, ma all’autonomia delle regioni, al decentramento amministrativo, ad ogni forma di federalismo e di confederazione.

Ci troviamo di fronte ad un giuoco multiplo dell’onorevole Finocchiaro Aprile, il quale qui fa il demagogo, mentre in Sicilia lascia che il movimento che dirige permanga, come già alla vigilia del 2 giugno, «agnostico», sia su terreno istituzionale che su quello sociale.

Vorremmo che egli, come non ha fatto all’ultimo congresso di Taormina, ci dicesse che pesce è.

E finché questa chiarificazione non avrà luogo, l’onorevole Finocchiaro Aprile può continuare il suo giuoco, le idee rimarranno confuse, la situazione pericolosamente torbida, i fenomeni, come quello della mafia, chiari nella loro origine e nel loro permanere rimarranno misteriosi, stranissimi e non potranno essere eliminati.

Ed è vitale, non solo per il popolo siciliano, ma per tutto il popolo italiano, sapere se le elezioni del 20 aprile dovranno farsi sotto il segno del blocco agrario alleato alla mafia, oppure sotto il segno della democrazia; se in Sicilia dovranno affermarsi le forze che consolideranno la Repubblica o quelle che vogliono minarla.

Un gravissimo fatto politico si è prodotto giorni fa in Sicilia. Vi è noto come, sotto l’impulso dell’Alto Commissario avvocato Selvaggi, giunto nell’isola in un momento di grave tensione per l’applicazione del decreto Segni, relativo alle terre incolte, si giunse ad un patto di concordia e di pacificazione fra proprietari terrieri e contadini senza terra. Il patto, applicato e rispettato nella sua lettera e nel suo spirito lealmente dai contadini, fu ripetutamente e continuamente violato dagli agrari.

Quando, di fronte al nuovo anno agrario, l’Alto Commissario convocò le parti per rassodare e sviluppare il precedente patto, dinanzi alla legittima richiesta dei contadini di riaprire i termini per la presentazione di nuove domande di assegnazione di terre incolte, gli agrari siciliani hanno rotto coll’Alto Commissario, decisi a non volere più l’applicazione del decreto Segni in Sicilia! «Ora avremo la nostra autonomia – dissero i baroni – e le leggi agrarie ce le faremo noi!». Ecco l’animo dei terrieri siciliani, ch’io denunzio, affinché tutto il Paese sappia come essi intendono l’autonomia regionale. Non solo la struttura feudale terriera dell’isola non deve essere toccata, ma l’avvento, al Governo della regione, del blocco agrario deve significare l’arresto di ogni sia pur minima riforma.

Un grosso proprietario terriero, uno dei tanti baroni di cui v’è dovizia nell’isola, si rivolse ad un tecnico agrario di grande valore per avere un piano di trasformazione fondiaria; presolo in esame concluse: il piano è ottimo, risponde agli interessi nazionali, ma non risponde ai miei particolari interessi. Se fossi costretto ad eseguire un piano simile, venderei la mia terra in Sicilia per comprarmene altra già trasformata nel continente.

Ecco la mentalità di gran parte dei grossi proprietari siciliani.

Essi dicono: le mie terre? Non ne so neanche l’estensione; non me ne sono mai occupato direttamente. Ho il mio amministratore che tratta coi gabellotti e pensano loro a vedersela coi contadini. A me ogni anno entrano tanti milioni.

Dunque, chiarissimo signor tecnico agrario, il suo piano è ottimo, è nell’interesse nazionale, ma non fa per i miei particolari interessi!

Ecco la mentalità che bisogna distruggere in Sicilia, senza di che nessuna possibilità vi è di porre un problema di rinascita per la Sicilia, di elevare i nostri contadini.

Non vedo neanche l’onorevole Vito Reale che l’altro giorno diceva: Non va questo doppio giuoco dei comunisti; il ricorso alla piazza, alle agitazioni. C’è un Parlamento, un Governo; tutto si svolga in questo semicerchio ovattato di Montecitorio. Cosa c’entrano le masse?

Si governa per il popolo, ma senza il popolo.

Onorevole Reale, onorevoli colleghi, credete voi che sarebbe stato possibile in Sicilia, non dico applicare, ma tentare di applicare i decreti Gullo, il decreto Segni, se i contadini non si fossero messi in movimento, se non avessero manifestato la loro decisa volontà di ottenere qualche cosa? In Sicilia anche elementi di partiti democratici hanno boicottato le leggi a favore dei contadini. Il decreto Gullo, essi dicevano, va bene per le altre parti d’Italia non per la Sicilia. Che ne sa il Ministro Gullo della nostra Sicilia? Dobbiamo esser noi siciliani a farci le nostre leggi sulla terra.

Ma chi è questo Gullo? facevano eco i marescialli dei carabinieri. Gullo non è più Ministro dell’agricoltura, quindi i suoi decreti non contano più.

Di fronte al movimento dei contadini gli agrari rimpiangono Crispi e il generale Morra di Lavriano; essi preferiscono che i contadini siciliani non si elevino dalle condizioni di lupi affamati, anche a costo di subire rivolte e devastazioni. Tanto poi si popolano galere e cimiteri, e per molti anni i contadini stanno tranquilli. Gli agrari paventano il movimento ordinato o organizzato dei contadini e ce l’hanno coi comunisti che li guidano nella lotta. Ebbene no! Abbiamo l’orgoglio di affermare qui, dinanzi a questa Assemblea, che dal 1944 in Sicilia non vi sono più rivolte di contadini, non vi sono più quelle esplosioni d’odio di masse sottoposte ad ogni abuso che non trovano ascolto presso nessuno. Il contadino siciliano non è arretrato; egli è tra i più laboriosi e intelligenti della terra ed ha piena e perfetta coscienza delle sue possibilità. «Finché c’è lei, veda, noi siamo contenti e tranquilli», mi dicono i contadini dei borghi delle zone latifondistiche. «Ma quando lei se ne va, chi ci difende da don tizio, dal maresciallo dei carabinieri, dal pretore? Io non posso andare a Caltanissetta, o a Palermo, e tanto meno a Roma. Dove ho i mezzi? e soprattutto chi mi darà l’anno venturo lo spezzone di terra che serve per nutrire i miei figli?»

Altro che arretratezza e ignoranza dei contadini siciliani; altro che arretratezza del nostro popolo lavoratore! Lo abbiamo visto, nel corso delle agitazioni per l’applicazione delle leggi Gullo e Segni; essi hanno espresso dal loro seno meravigliosi combattenti, come già in passato; ma la maffia, a tradimento, come per il passato, assassinò questi dirigenti, e alla schiera gloriosa di Lorenzo Panepinto, Giovanni Orcel, Sebastiano Bonfiglio, Bernardino Verro, Giuseppe Rumore e altri delle passate agitazioni, oggi si aggiungono i nuovi martiri, di cui il più forte e amato, Accursio Miraglia.

Che cos’è la mafia? Ce ne sono di diverse specie, a seconda dell’ambiente sociale in cui opera. Ma è necessario premettere che se questa organizzazione che si chiama mafia non sodisfacesse in certo modo a qualche esigenza della vita sociale, evidentemente non esisterebbe; nessun fenomeno sociale perdura e si riproduce, se non ha una sua ragione di essere. Non bisogna, dunque, giudicando della mafia, astrarre dalla funzione sociale che essa adempie.

Alla disgregazione sociale, all’atomismo dei lavoratori, all’isolamento che si vuole perpetuare con la violenza dei contadini, subentra l’intermediario, colui che tratta da una parte con i contadini e dall’altra col grande proprietario. Questo intermediario è di regola il mafioso che, non ha nulla a che vedere con l’imprenditore capitalista della Valle Padana, in quanto non impiega un soldo nella terra e sfrutta da perfetto parassita e i contadini e il proprietario.

Attraverso patti angarici strappa ai contadini il meglio del prodotto e spia il momento in cui il grosso proprietario si indebolisce per debiti contratti per ghermirgli il feudo. Il feudo passa in mano del mafioso o d’un gruppo di essi e lo sfruttamento dei contadini si perfeziona.

La «mafia dei giardini» fa da intermediaria tra i numerosi piccoli produttori della fascia costiera intensamente coltivata e chi detiene l’acqua per l’irrigazione, i mezzi di trasporti, il controllo dei mercati di sbocco e tutto quanto occorre a questi industri lavoratori.

Mafia delle città: l’episodio del cantiere navate di Palermo, che ha avuto risonanza nazionale ed ha stimolato il senso di solidarietà nazionale dei metallurgici, la illumina in pieno. In una città arretrata e disgregata come Palermo, i duemila e più operai del Cantiere, che fanno la loro esperienza di aggregazione nella disciplina della fabbrica, costituiscono un nucleo di forze sano, vitale. È un aggregato che a Palermo dà il tono politico nelle agitazioni e nelle manifestazioni.

Ebbene, c’è un impiegato di questo cantiere, già licenziato per le sue malefatte – il licenziamento è avvenuto d’accordo tra la FIOM e la Direzione – che intriga con la mafia del quartiere per esser riassunto. Questi mafiosi hanno il coraggio di presentarsi una mattina al cantiere, per imporre la riassunzione dell’impiegato aguzzino. Gli operai li individuano e, badate bene, avevano sbarre di ferro a loro disposizione; di fronte a questa gente armata che spara e ferisce mortalmente due giovani metallurgici, la massa non torce loro un capello, ma li consegna ai carabinieri. Ecco la mafia della città, forma diversa dell’unico fenomeno della disgregazione sociale, della intermediazione che sfrutta i lavoratori e fa pagare lo scotto anche agli industriali e ai commercianti, che rassicura contro i lavoratori e contro delinquenti non associati, indisciplinati.

Ebbene, è venuto il tempo di distruggere la mafia. E non, signori miei, come si invoca da qualche parte, con un nuovo prefetto Mori.

Nel 1926-27 sono stati gli agrari a dare l’elenco dei maffiosi al prefetto Mori, sicuri di avere le spalle al coperto del Governo fascista. E a migliaia, tra cui molti innocenti e traviati, i siciliani popolarono tutte le galere d’Italia.

Oggi, il problema della eliminazione della mafia devono porlo le forze democratiche, tutti i partiti sinceramente democratici. I partiti politici, per prima quei partiti politici che conservano i legami con la mafia – ed in Sicilia tutti sanno, in tutti i paesi si sa chi sono i partiti che hanno questi legami – debbono reciderli, o essere chiamati corresponsabili. Ebbene, di tutte le forze sociali capaci di accelerare questo processo di chiarificazione, la forza purificatrice, il movimento che ha posto questo problema e lo rende ora assolutamente inderogabile, è particolarmente il movimento contadino. I contadini in movimento costringono ceti e partiti ad assumere chiara posizione. Tutte le maschere cadono, ognuno è costretto a dire se è o no per la legge a favore dei contadini.

E niente di sovvertitore c’è nel programma dei contadini siciliani. Per prima cosa essi hanno detto: «Noi rispettiamo la piccola e media proprietà; escludiamo dalla richiesta di terre incolte la proprietà inferiore ai 100 ettari».

Ed hanno soggiunto: «Non possiamo continuare a produrre il frumento a 4-5 mila lire il quintale, perché fra qualche anno il frumento d’oltre oceano si potrà avere per molto meno e non vogliamo dannarci con gli operai, a spendere tutto il nostro salario per il solo pane. Vogliamo trasformare, bonificare questa terra. Datecene i mezzi. Via gli intermediari parassiti; via i proprietari assenteisti. Sappiamo che in Sicilia il capitale è scarso – la Sicilia è povera economicamente – siano benvenuti tutti coloro, ad incominciare dai proprietari, i quali hanno voglia di impiegare il loro capitale nella terra per questa opera di bonifica, per quest’opera di trasformazione».

Ebbene, di fronte a questa umana e civile posizione dei contadini, i signori della terra rispondono: «No». Essi si alleano colla mafia contro i contadini, e ostacolano in tutti i modi il consolidarsi delle cooperative che hanno avuto assegnate terre, creando un’atmosfera di sfiducia attorno ad esse: «Vedrete, dicono, i contadini non sapranno far nulla, non hanno preparazione tecnica, non hanno capitali, sono incapaci di affrontare la trasformazione».

Questa atmosfera di diffidenza influisce sulla magistratura, sugli organi di polizia, sugli strati intermedi, su quella «intelighentia», che in un Paese poverissimo, dove le industrie sono poco sviluppate, quasi sempre è al servizio di forze retrive.

In un Paese povero come la Sicilia, in cui i contrasti sociali si acuiscono, e tendono a trapassare repentinamente a forme violente, quale immensa, salutare azione potrebbero svolgere queste classi intermedie, questi intellettuali, questi tecnici, questi professionisti, questi magistrati; coloro, e sono molti delle classi medie, che avendo due o tre salme di terra, che non coltivano e da cui spremono quello che serve per far studiare i loro figli, per fare la dote alle figlie, che sono, permettetemi di dirlo, gli sfruttatori più esosi dei contadini, guardano con diffidenza, se non con ostilità, al moto redentore delle plebi rurali ! Essi cambierebbero atteggiamento, se avessero dinanzi a loro la visione che promovendo lo sviluppo economico della Sicilia, trasformando il latifondo, aprirebbero ai loro figli nuove strade che non siano quelle dell’impiego burocratico, del meschino posto in provincia. In Sicilia vi sono stati in ogni tempo ingegni doviziosi che, trovato l’ambiente favorevole, hanno dato tutto quello di cui erano capaci. Quale occasione migliore di questa, per i proprietari attivi, di rompere il vincolo avvilente che li asservisce alla maffia, quale compito politico e storico più alto di quello delle classi intellettuali di porsi accanto ai contadini, di aiutarne il movimento?

Questa situazione ho voluto brevemente lumeggiare, perché abbia risonanza in tutto il Paese e perché il Governo intervenga. Esso lo sa. Lo sa attraverso i carabinieri, l’Ispettorato di pubblica sicurezza, l’Alto Commissariato, e tutte le altre fonti d’informazioni.

Quando alla conferenza di organizzazione di Firenze del nostro partito, è giunta la notizia dell’assassinio del compagno Accursio Miraglia, Segretario della Camera del lavoro di Sciacca, una commissione nominata da quella assemblea è stata colà inviata. Ebbene, tra le molte testimonianze raccolte, la commissione ha assodato che l’elemento fortemente indiziato di aver fatto da palo nel momento dell’assassinio di Miraglia, è un confidente dei carabinieri; egli è inoltre gravemente indiziato di essere autore di una strage di sette contadini nello stesso territorio di Sciacca. Chi queste cose è venuto a riferire ai commissari soggiungeva: per carità non lo dite alla polizia; domani lo saprebbero i mafiosi e ci ammazzerebbero. Questo è stato detto da diecine e diecine di persone alla nostra commissione d’inchiesta, le cui conclusioni saranno rese pubbliche a giorni.

Perché questo avviene? Non è sul fatto in sé che io voglio richiamare la vostra attenzione, quanto sul sistema che rende possibile simili collusioni. Quando si fece il compromesso politico con i separatisti, quando si gettò un velo sul compromesso del generale Berardi con i grandi proprietari fondiari siciliani per assicurare in Sicilia il trionfo della monarchia, compromesso politico che portò alla scarcerazione immediata dei capi separatisti impeciati coi banditi; che diede mano libera alla polizia di sterminare le bande armate ormai abbandonate al loro destino dagli agrari, mafia e polizia hanno collaborato. Ora è evidente, in questo groviglio di responsabilità e di collusione, come volete che la gente sia tranquilla? Come volete che la gente affronti con serenità le elezioni del 20 aprile e non si preoccupi che l’autonomia consolidi il prepotere di queste forze antisociali? I siciliani vogliono conquistarsi l’autonomia, ma con una lotta affidata a metodi civili sul terreno democratico e che non abbiano ad ogni istante a temere l’insidia della collusione fra quel partito politico che dispone ai capi mafia protetti da una parte della forza pubblica. Qual è il timore che hanno le masse contadine? Di non essere sul piede eguale nella lotta politica, ma di essere invece, in partenza, in svantaggio, per cui i delitti perpetrati ai loro danni e che tanto hanno commosso l’opinione pubblica, delitti che nella stragrande maggioranza rimangono impuniti, gettino il discredito sullo Stato e sui suoi organi.

Allora, poiché si tratta non solo della prima elezione regionale, ma di una elezione di particolare importanza per l’autonomia della Sicilia, cioè del primo grandioso esperimento storico-politico del nostro Paese, della nostra Isola, che risponde alle esigenze profonde di rinnovamento del nostro popolo siciliano; poiché questo popolo siciliano vuole conquistarsi l’autonomia per sostanziarla delle sue aspirazioni, e vuole che in suo aiuto si schierino le forze democratiche di tutto il Paese per sbarazzare il cammino da tutte quelle incrostazioni feudali che finora hanno ostacolato il suo cammino, noi chiediamo che il Governo consideri con profondo senso di responsabilità la situazione siciliana, per salvaguardare in Sicilia, come in tutta Italia, l’istituto della Repubblica e la democrazia. (Applausi).

PRESIDENTE. È inscritto a parlare l’onorevole Scotti Alessandro. Ne ha facoltà.

SCOTTI ALESSANDRO. Onorevoli colleghi, cerco di interpretare davanti a questa Assemblea il pensiero di quella compatta famiglia di agricoltori – mezzadri, affittuari, piccoli e medi proprietari terrieri – che formano una delle più belle e benemerite categorie produttrici della Patria nostra e che sono politicamente orientate verso il partito dei contadini d’Italia. La gente rurale, sempre calma e serena nei suoi apprezzamenti, aveva aperto il cuore alla speranza nei giorni in cui l’onorevole De Gasperi era in America e sperava che, con l’aiuto di questa generosa nazione, il popolo italiano, moralmente unito, avrebbe ripreso sollecitamente la sua marcia ricostruttiva, rivalorizzando se stesso e la propria moneta. Invece, dopo il ritorno di De Gasperi si è avuta la crisi del Governo e con la crisi i giornali hanno dato in pascolo al buon popolo italiano tutte quelle notizie, più o meno vere e tendenziose, di beghe, di ambizioni di partiti e di persone che hanno fatto scomparire dal cuore della gente rurale la speranza di una rinascita vicina.

I rurali hanno intuito che i massimi esponenti delle varie correnti politiche non avevano nelle loro pupille l’immagine della Patria martoriata e sopraffatta dall’ingiustizia, ma le finalità propagandistiche dei rispettivi partiti, ed è dalla mancanza di questa visione degli interessi superiori della Nazione che deriva la mancanza di autorità del Governo presso il popolo, mancanza di unità e autorità che si è fatta sentire in tutti i Governi dal giorno della liberazione ad oggi.

La mancanza di unione del popolo italiano e dei partiti che lo rappresentano ha fatto svolgere al Governo una politica estera troppo remissiva nei confronti dei nostri vincitori, con i quali pure abbiamo collaborato negli ultimi diciotto mesi della guerra.

In forza dei loro sacrifici, delle loro sofferenze, delle loro case distrutte, delle loro stalle vuotate e soprattutto di tanto sangue versato nella guerra partigiana, gli agricoltori desideravano che i confini della Patria fossero stati difesi con più energia e che almeno allo Stato libero di Trieste fossero aggiunte le città rivierasche dell’Istria e specialmente Pola e Fiume; e avrebbero voluto che la Francia, questa Nazione che tanto sangue di origine italiana ha nelle proprie vene, sentisse un profondo disagio morale a valicare ed occupare quelle altissime vette che alimentano di acqua, di luce e di lavoro le nostre pianure e le nostre città piemontesi. È una spina che essa ci ha infitto nelle nostre carni vive togliendoci il Moncenisio, il Piccolo San Bernardo, Briga e Tenda, e finché questa spina resterà nelle nostre carni la fratellanza latina non potrà mai essere cordiale e sincera, ed è questo un grave danno morale e politico per le due nazioni sorelle.

Alla mancanza di prestigio dei passati Governi nei confronti con i vincitori dobbiamo lamentare la troppa arrendevole condiscendenza verso l’ordine interno motivata sempre dal fatto che i tre grandi partiti di massa non hanno trovato quella cordiale unità di propositi e di vedute che è necessaria per fronteggiare i gravi problemi sia della pace esterna, sia della ricostruzione interna.

Il fascismo, con la sua tirannide, ci aveva dato un ordine esteriore togliendoci la libertà; i Governi della liberazione ci hanno dato in molti settori la libertà, ma non sempre ci hanno dato l’ordine. Ora i rurali ritengono che al Paese sia necessario l’ordine e nell’ordine la libertà per tutti i cittadini.

È con amarezza che i piccoli agricoltori devono duramente constatare che, mentre l’autorità dello Stato è stata arrendevole verso tante categorie di cittadini che hanno scioperato anche fuori proposito; mentre ha concesso un’amnistia troppo generosa verso individui colpevoli di gravi delitti sociali – abuso di potere, dilapidazione del pubblico denaro, collaborazione aperta con il nemico, uccisione di partigiani e di contadini che li ospitavano – sia particolarmente severa ed ingiusta solo verso gli agricoltori, i quali hanno una sola colpa: quella di difendere il loro salario, che è il prezzo dei prodotti agricoli.

Essi constatano che mentre nessun controllo viene esercitato sui prezzi delle stoffe, delle scarpe, della biancheria, delle sementi, dei fertilizzanti, del solfato di rame, dello zolfo e di quanto altro occorre all’agricoltura; mentre nella città è lasciata la più assoluta libertà alla vendita dei prodotti razionati, una vigilanza armata esasperante è pronta a colpire nelle campagne i produttori ai quali è stata lasciata una razione insufficiente e tolto il mezzo di mangiare con tranquillità la polenta.

I piccoli agricoltori hanno chiesto come premio della Repubblica che ad essi fosse concesso mezzo quintale di granoturco pro capite, ma ad essi non fu risposto.

All’origine di ogni male sta il prezzo di imperio imposto ai loro prodotti senza tenere in alcun conto il loro duro lavoro ed i costi effettivi di produzione, mentre si sono abbandonati agli speculatori i grandi mercati di consumo.

Quello che in campagna è pagato dieci, in città è venduto cinquanta, e mentre si mette in prigione il piccolo coltivatore che si reca al mulino con qualche diecina di chili di grano in più per il mantenimento della sua famiglia, e gli si nega la libertà provvisoria e lo si multa con cifre così elevate che economicamente lo rovinano, si assolvono poi o si lasciano in libertà quelli che trasportano interi camions di grano con la complicità di agenti addetti agli ammassi, agli uffici della Sepral o dell’Upsea o delle medesime squadre di vigilanza.

Questa non è giustizia distributiva, e i piccoli proprietari chieggono unanimamente di ritornare al più presto possibile al regime di libertà. Quando un’azienda è passiva è interesse del proprietario di sopprimerla; ed io credo che se il Governo conteggiasse separatamente i milioni che giornalmente spende per mantenere vivi tutti gli uffici, a cominciare dall’Alto Commissariato per l’alimentazione, fino a tutti gli uffici accertamenti dei più piccoli comuni rurali; se conteggiasse il costo della benzina e le trasferte alle squadre volanti di vigilanza; se considerasse il tempo che perdono gli agricoltori a fare le lunghe code per la consegna dei prodotti e per la regolarizzazione delle tessere di macinazione; se considerasse il tempo che perde la gente per avere le tessere e gli impiegati per controllare i tagliandi, il Governo renderebbe al popolo italiano la sua libertà economica e con la libertà scomparirebbe ben presto la deprecata borsa nera, e tutti i milioni spesi in questa mastodontica bardatura di guerra potrebbero benissimo integrare il prezzo del pane a favore delle classi veramente povere.

Ho parlato di libertà economica, ma debbo pure dire che questa libertà è stata offesa anche per generi che non sono di prima necessità: così il Prefetto di Cuneo ha emanato un decreto che bloccava i bozzoli nella provincia; il prefetto di Alessandria ha tentato il blocco delle uve; il prefetto di Asti ha posto il blocco alle vinacce ed ai vinaccioli, ed anche il commercio delle sanse dell’olio non è libero. Ora, questi provvedimenti, presi dai signori prefetti con il tacito consenso del Governo, avevano ed hanno un solo scopo: quello di asservire l’agricoltore all’industria; ed è questo concetto che, applicato negli anni passati e da tutti i regimi, ha immiserito il nostro Paese e gli ha tolto le basi vere della sua prosperità.

Molte cose buone sono state dette dall’onorevole Presidente del Consiglio nelle sue dichiarazioni. È stato accennato all’aumento della produzione, ma nessun accenno è stato fatto alla benemerita categoria dei produttori agricoli, che pure attendevano che una buona parola li rassicurasse nel senso che i frutti del proprio lavoro, i prodotti agricoli, avranno un giusto ed equo prezzo, che saranno difesi dalle intemperie con l’assicurazione statale, che la previdenza sociale sarà applicata anche nei loro riguardi e che i loro piccoli risparmi saranno difesi dall’opera del fisco, il quale si accanisce contro chi possiede pochi ettari di terreno al sole, lasciando indisturbate tante ricchezze fasciste e borsaneriste, che sono e resteranno sempre all’ombra, senza che il fisco si preoccupi di scovarle.

Il popolo rurale avrebbe visto molto volentieri una legge finanziaria che avesse decimato le ricchezze di tutti quei grandi fascisti, anche se galantuomini, ma che per ambizioni personali di carica hanno collaborato a mantenere al potere per vent’anni e più il fascismo, il quale ha rovinato non solo moralmente, ma anche economicamente la patria nostra.

I rurali avrebbero voluto sentire affermare che l’agricoltura è la regina delle industrie nazionali, che è la ruota maestra intorno alla quale devono girare tutte le altre attività della nazione, affinché questa, contando sulle sue vere e naturali risorse, possa veramente risorgere senza troppo contare sull’esosa elemosina dello straniero.

I rurali avrebbero sentito volentieri una parola di promessa da parte del nuovo Governo che le industrie fittizie ed improduttive non risorgeranno più e saranno sostituite da industrie agricole e che invece di sussidiare industrie parassitarie, le quali non potranno mai ricompensare bene gli operai per la concorrenza di industrie straniere che posseggono le materie prime, sarà posto mano alla costruzione di bacini montani, alla canalizzazione dei nostri migliori fiumi, alla irrigazione delle nostre terre, opere tutte che dovrebbero occupare la mano d’opera disoccupata, o malamente pagata per non far nulla.

Nei campi c’è la vita, ed è un ritorno alla terra che il Governo dovrebbe favorire con tutti i mezzi, concedendo ai rurali tutte quelle moderne comodità che oggi sono accentrate nelle grandi città e che sono l’obiettivo per cui molti giovani rurali abbandonano le campagne, aumentando la crisi e la miseria della vita cittadina.

I rurali, caduto il fascismo, speravano di vedere nell’Italia un volto nuovo, un volto giovane e fresco; credevano di vedere scomparire tutte quelle istituzioni quegli ordinamenti e quegli uomini che rappresentavano il fascismo e che per venti anni avevano fatto vivere il popolo italiano in uno stato d’animo umiliante.

I rurali erano veramente stanchi delle molte, troppe, milizie fasciste: milizia stradale, milizia ferroviaria, milizia confinaria, milizia postale, milizia tributaria; tutte milizie che con fare autoritario e sprezzante trattavano ed azzannavano il popolo come il cane del pastore rincorre ed azzanna le pecore. Essi avrebbero volentieri visto scomparire queste istituzioni col ritorno a quelle semplici dell’anteguerra del 1914. Invece sono rimasti delusi; le istituzioni sono rimaste e non tutti gli uomini sono stati cambiati.

Oggi, in regime di libertà, i cittadini sentono che ancora troppe istituzioni, troppi ordinamenti, troppi uomini compromessi con il passato ci amministrano, ci governano e ci comandano con il medesimo tono del passato.

I rurali, da buoni agricoltori, desidererebbero che una mano energica procedesse ad una potatura radicale di questo vecchio albero che è la Patria nostra e che tante istituzioni, tanti uffici, che attualmente hanno funzioni inutili, fossero portati via quali rami non produttivi ed ingombranti. I rurali desiderano dalla nuova Costituzione ordinamenti semplici, desiderano che gli impiegati siano pochi, ben pagati e che lavorino.

Oggi in Italia dobbiamo constatare che si è troppo pochi a lavorare e produrre e troppi a consumare; per cui la razione diventa per ogni cittadino sempre più piccola.

Per dare sembianze nuove all’Italia essi desidererebbero che, almeno nei Comuni rurali, si procedesse al trasferimento di tutti quegli impiegati che hanno per troppo tempo e con troppo zelo servito il passato regime.

L’onorevole Presidente del Consiglio ha brevemente accennato di volere favorire la istruzione in tutti i campi. Io debbo però constatare come una circolare del Ministero della pubblica istruzione consigli ai provveditori, per ragioni di economia e di bilancio, di chiudere quelle classi che non raggiungono un minimo di 15 alunni. Questo provvedimento, apparentemente necessario ed innocuo, è invece molto grave e dannoso per l’istruzione nelle campagne.

Chiunque abbia conoscenza delle nostre vallate alpine ed appenniniche e della campagna in genere, sa che vi sono borgate che distano 5 e anche 6 e 10 chilometri dai centri rurali. In queste borgate vi è una scuola rurale che, molte volte, riunisce in una sola classe gli alunni delle cinque classi elementari; ebbene, questa scuola che, per causa della guerra – i giovani erano tutti in guerra – ha pochi alunni, dovrebbe ora essere chiusa, con la triste conseguenza che i genitori, data la distanza e l’impraticabilità delle strade nella stagione invernale, lasciano a casa i loro bambini favorendo così il deprecato analfabetismo.

Ritengo che sarebbe molto meglio, per premiare questi buoni agricoltori che furono sempre devoti alla Patria, inviare in questi piccoli centri rurali lontani da ogni comodità una delle tante maestre disoccupate, anche se gli alunni non sono esattamente 15! Vorrei inoltre richiamare l’attenzione del Ministro della pubblica istruzione sulla obbligatorietà che la legge impone ai genitori di mandare a scuola i fanciulli sino al loro 14° anno d’età. Ora, come possono assolvere a questo obbligo gli agricoltori dei piccoli centri rurali quando non esistono le scuole? Sarebbe quindi bene che in tutti i centri rurali fosse istituito il corso popolare post-elementare con carattere professionale, corso affidato non già a giovani professori o studenti universitari, bensì a maestri di ruolo specializzati in agraria o in artigianato che, oltre alle nozioni generali, insegnerebbero le materie professionali, secondo le colture agrarie e le industrie agricole delle varie regioni.

Sarebbe questo un adattamento molto semplice ed economico, che, mentre risolverebbe anche il problema dell’agronomo condotto, darebbe ai giovani agricoltori quella istruzione professionale e tecnica tanto necessaria per apportare nelle nostre campagne quel moderno rinnovamento agricolo, che migliorerebbe la quantità e la qualità della produzione nazionale.

L’onorevole Conti ha affermato la necessità di dare vita ai Comuni, ed è proprio dai Comuni rurali che si deve iniziare il movimento di rinascita.

È necessario che tutti i Comuni rurali comincino a lavorare, e con mezzi propri, senza dover attendere l’aiuto dello Stato; aiuto che, attraverso alle lunghe formalità burocratiche, non arriva mai o arriva sempre in ritardo.

Per assecondare la buona volontà delle nuove amministrazioni comunali, che sono tutte animate dal desiderio di fare qualche cosa di buono, di utile, di concreto per i loro paesi, è necessario dare loro i mezzi finanziari adatti. Quasi tutti i bilanci delle amministrazioni comunali rurali sono passivi, perché gli amministratori non sanno più a quali voci attingere i fondi per sopperire alle gravi spese degli aumenti degli stipendi agli impiegati, dei trasporti, della viabilità, della pubblica assistenza.

Vorrei suggerire al Ministro delle finanze un mezzo molto semplice per aiutare tutti i Comuni rurali a sanare i loro bilanci e cominciare veramente l’opera della ricostruzione: che autorizzasse, cioè, anzi rendesse obbligatoria, una modesta imposta d’uscita sul valore dei prodotti agricoli che vengono esportati dai Comuni.

Mediante tale imposta, che sarebbe più naturale e logica della tassa di entrata che favorisce solo i grandi centri urbani, i Comuni rurali comincerebbero a costruire scuole, ospedali, impianti elettrici, centralini per telefono; costruirebbero acquedotti locali per darsi l’acqua potabile, migliorerebbero la loro viabilità e si darebbero tutte quelle comodità moderne che sono l’aspirazione più sentita dalle nostre sane popolazioni rurali. Tutte queste opere, iniziate in tanti Comuni rurali, darebbero lavoro a migliaia di disoccupati di tutte le categorie sociali, a tutto l’artigianato; poiché quando la campagna si muove e lavora, è la ruota maestra della Nazione, che gira a beneficio di tutti.

Termino, onorevoli colleghi, ricordando al nuovo Governo che una sola grande classe ancora non ha scioperato, ma silenziosamente, con fede nell’avvenire della Patria, lavora, produce, risparmia e chiede al Governo di non essere più oltre tormentata con misure poliziesche e con gravami fiscali insopportabili, altrimenti sarà anch’essa costretta ad alzare la sua voce e sarà la voce dei migliori cittadini che chiederanno alla vanga, all’aratro, al trattore, a questi grandi strumenti di pace di lavoro e di benessere, giustizia ed onore. (Applausi).

PRESIDENTE È iscritto a parlare l’onorevole Tumminelli. Ne ha facoltà.

TUMMINELLI. Onorevoli colleghi, l’argomento per il quale ho chiesto di parlare è particolarmente specifico del programma di Governo.

Ma prima voglio esprimere il disgusto per le manifestazioni di ieri, che hanno infangato quest’Aula al cospetto di tutto il Paese e della stampa dei Paesi stranieri.

Abbiamo avuto un lungo discorso dell’onorevole Di Vittorio: discorso ritmato, massiccio, con la cadenza di quadrate truppe in movimento; tutta una critica in cui non ci sono altro che diritti e recriminazioni, reazione; da una parte la classe padronale, dall’altra la classe degli sfruttati. Infine, un nemico: il fascismo. Direi quasi che i colleghi comunisti, dopo la pausa di questi mesi, durante la quale pareva che veramente avessero intenzione di conformarsi al costume della democrazia, che si va predicando in Italia da molti mesi, avessero smesso questo motivo, ormai fritto e rifritto. Invece no. Non hanno fantasia, così come non hanno avuto l’accorgimento di stare almeno zitti di fronte allo spettacolo commovente di Pola, dei polesani, di una città che abbandona case, tradizioni, morti per sfuggire al giogo straniero, per non perdere il carattere della propria stirpe, per non perdere l’italianità.

Questo nostro discorrere, dopo le dichiarazioni del Governo, che abbiamo avuto due volte in otto mesi, a me dà l’impressione che quel distacco che si è verificato nel Paese fra Governo e popolo sia una nota dominante anche di questa Assemblea.

Non voglio darne colpa all’onorevole De Gasperi, per il quale ho una particolare stima e che ritengo veramente pensoso dei destini del Paese e veramente preoccupato del bene del popolo italiano. È forse l’eredità dell’esarchia che gli pesa troppo nell’esercizio quotidiano del Governo; ma in verità è probabile che la crisi stessa, di cui nessuno ha dato una ragione specifica, sia stata determinata da questo trauma psichico, da questa frattura che esiste tra l’Assemblea ed il Governo, tra il popolo e il Governo, frattura che viene dalle delusioni e dalle debolezze del Governo stesso, dalla mancanza di quella libertà che il popolo, qualunque popolo democratico, ritiene inderogabile e insostituibile, la libertà della vita serena, la libertà di poter lavorare, la libertà della sicurezza personale, la libertà di vedere finalmente avviata la ricostruzione, attraverso i mezzi offerti da una sana e saggia legislazione, verso quelle finalità che tutto il popolo italiano aspira, desidera e vuole.

Orbene, qui si è parlato di bastonate, di delitti, di crimini. Amici di tutti i banchi, il giorno 10 di novembre a Monza, in un congresso chiuso, per inviti, protetto da 50 guardie ausiliarie, io venni aggredito dai «compagni». Donne che erano nella sala furono prese per i capelli e trofei fatti da ciuffi di quei capelli, mostrati all’indomani nella città di Monza; furono gettati gas lacrimogeni, sparati colpi di rivoltella. Io ho presentato una interrogazione al Governo per sapere qual fosse l’esito dell’inchiesta sulla responsabilità di quel Commissario di pubblica sicurezza. L’interrogazione è nel fascicolo dell’ordine del giorno e non so quando verrà in discussione. Questo mio esempio personale non è il solo e altri potrei portarne. Non c’è luogo ove io in alta Italia abbia parlato in cui non mi si gridi: venduto; io non sono stato mai venduto a nessuno; non mi si gridi: fascista reazionario! A Mantova fui costretto a parlare con le spalle al muro contro un camino, nel quale non avrei avuto altro scampo che arrampicandomi per la canna fumaria. Eppure il mio linguaggio è stato sempre sereno. Questo, onorevole De Gasperi, è ciò che ha determinato e che determina la frattura tra Paese e Governo: questa mancanza di sicurezza, questa mancanza di reale esercizio del metodo democratico. Non basta dichiarare che vi è democrazia, perché la democrazia sia un fatto certo. La democrazia è un fatto di civiltà, è un fatto spirituale, e noi dobbiamo lavorare in questo senso. Noi dell’Uomo Qualunque non abbiamo paura di nessuna riforma sociale. Non temiamo il comunismo, ma temiamo i comunisti per il loro costume di violenza, per la dittatura a cui tendono.

Una voce. Non li temiamo affatto.

TUMMINELLI. Noi dichiariamo che se oggi esiste un fascismo in Italia e se il fascismo era un metodo, questo metodo è quello che essi esercitano in tutte le manifestazioni della vita nazionale.

Dopo di che passo all’argomento specifico per cui ho chiesto la parola. Uno dei passi delle dichiarazioni del Governo dice testualmente: «Convinti che l’Italia potrà rinascere dalla scuola, le cure del Governo, a mano a mano che crescono i mezzi, si rivolgeranno sempre più verso l’educazione del popolo».

Ottimamente. La rinascita è di ordine spirituale, le opere della ricostruzione sono fatti che lo spirito vuole, che lo spirito determina. La scuola è la sede di tutte le nostre tradizioni, è il solo presidio dove confluiscono tutte le virtù della stirpe, attraverso le opere del genio insuperato di nostra gente, della nostra antichissima civiltà.

Orbene, non basta esprimere propositi, occorre vedere come questa ricostruzione, che è opera prevalentemente spirituale, come questa ricostruzione di ponti, ferrovie, di case distrutte, possa avere il concorso morale, il concorso dei valori eterni dello spirito che trovano presidio nella scuola. In questi due ultimi anni noi non possiamo dire che ci sia stata un’azione legislativa e assistenziale da parte del Ministero della pubblica istruzione, che abbia incoraggiato l’attività scolastica.

Dobbiamo rendere atto all’onorevole Gonella che ha compiuto uno sforzo per uscire dai vincoli e dalle strettoie che aveva imposto alla scuola l’esarchia. Ma quanto ha potuto egli fare? Forse gli è mancato un po’ il coraggio di andare in fondo ai problemi e rimuovere gli ostacoli, e così è venuto probabilmente a dei compromessi che non curano il malato né alleviano la malattia.

La scuola ha bisogno innanzitutto di edifici. Molto bene ha fatto il Ministro. Gonella ad istituire mille scuole elementari, a dare i ruoli aperti ai maestri elementari, sicché essi possano avere un più alto tenore di vita. Ma come possono funzionare codeste mille nuove scuole elementari e le altre mille e mille di tutta Italia, della Sicilia, dell’Italia meridionale, centrale e settentrionale, se non hanno edifici a sufficienza? Il Ministro Gonella dovrebbe premere vivamente sul Ministro del tesoro e su quello dei lavori pubblici. E, per inciso, io lamento che sia stato sostituito un tecnico ai lavori pubblici, come l’onorevole Romita, con persona che non risulterebbe essere un tecnico. Dovrebbe insistere, perché questa ricostruzione e questa costruzione di edifici abbia luogo rapidamente e sullo stesso piano dei ponti e delle ferrovie. Vi sono edifici distrutti del tutto, altri che possono essere riparati, vi è necessità di costruirne dei nuovi, specialmente nell’Italia meridionale.

Orbene, per quale ragione queste spese per le scuole non devono esser fatte con la sollecitudine necessaria? Per quale ragione le scuole, che rappresentano il nocciolo della nostra civiltà, che sono la sede dove i nostri figli, i figli di tutto il popolo italiano, vivono l’intera giornata, non devono funzionare regolarmente? Nella scuola un ragazzo trascorre almeno 5 ore del giorno. Orbene, come si svolge la vita di questa scuola, come si possono istituire mille scuole elementari nuove, se mancano le sedi? Queste scuole funzionano con orari impossibili; e quindi con un disordine formale, che di necessità si ripercuote sull’ordine educativo, che è fatto soprattutto di sostanza, ma anche di forma.

Ma vi è di più. Nell’Italia settentrionale le condizioni delle scuole oggi non sono molto diverse di quelle di due anni fa. Esclusi gli allarmi ed i bombardamenti, la scuola ha ancora l’orario ridotto di tre quarti d’ora; e per due mesi quest’anno, come l’anno scorso, non si sono fatte lezioni, perché mancava il riscaldamento. In molti istituti di Milano, di Torino e di altre città mancano i vetri alle finestre.

Di conseguenza, la scuola non ha avuto e non ha regolare svolgimento.

Il Presidente del Consiglio, in altro passo del suo discorso programmatico, afferma:

«I prossimi concorsi per maestri e per professori permetteranno l’immissione di nuove giovani forze nella scuola ed una ristabilita severità degli esami servirà a rialzare il tono delle scuole secondarie, depresso dalle agevolazioni del periodo bellico».

Benissimo. Noi concordiamo.

La scuola ha bisogno di serietà e di severità, ha bisogno di avere restituito il suo volto integro, la sua funzione umana e austera.

Ma come si può parlare di serietà e di severità, quando la scuola sta chiusa per due mesi durante il periodo invernale?

Ed in quanto ai concorsi, noi sappiamo da voci indirette che si sta preparando un bando; ma non è improbabile che codesto bando non richieda ai candidati la stessa severità che si vuole per gli alunni, che influenze di carattere demagogico costituiranno una specie di lascia-passare a chi avrà particolari benemerenze. Orbene, signori del Governo, noi diciamo: La scuola per essere seria ha bisogno di insegnanti seri e ben preparati. I concorsi siano severi; i nuovi insegnanti che dovete assumere nei ruoli dello Stato siano scelti con criterio di vere virtù, di cultura e di esperienza.

La Patria, il Governo per essa, dia premi in denaro, dia riconoscimenti cartacei a chi ha benemerenze nazionali, ma non dia le cattedre se non a coloro che diano severo affidamento di saperle tenere con prestigio.

Vi sono difficoltà per un piano che possa dare subito alla Nazione le case degli alunni: difficoltà economiche; ma esse devono essere superate. Abbiamo avuto strappato tutto dalla guerra, fuorché la memoria della nostra gloria, delle nostre virtù, del genio nostro, fuorché il patrimonio culturale. È su questo che si ricostruirà la Patria.

I nostro ragazzi, i nostri intelligentissimi ragazzi, sono il patrimonio più sacro che oggi possediamo.

È su questo patrimonio che noi dobbiamo puntare tutte le armi della nostra rinascenza, di questo secondo Risorgimento della Patria. Su questi ragazzi noi dobbiamo portare i nostri cuori più puri, liberi delle passioni politiche; è a favore di questi ragazzi che dobbiamo portare il contributo di tutto il danaro possibile e perciò invochiamo dal Presidente del Consiglio e dal Ministro Gonella un’azione forte, perché presto siano ricostruiti gli edifici scolastici e possano funzionare integralmente le scuole.

Ma c’è di più. Io vorrei che il Ministro Gonella, uscendo dagli schemi tradizionali della burocrazia scolastica, si affidasse a quello che potranno fare i capi d’istituto, i direttori e i presidi delle scuole elementari e delle scuole medie d’Italia.

Noi abbiamo un materiale umano ottimo. Lo Stato ha nelle sue scuole capi d’istituto veramente valorosi. Ma costoro non possono operare con la libertà che sarebbe necessaria perché vi sono limitazioni legislative. Io sono certo che in Lombardia e in Piemonte, a Milano, a Torino, a Brescia, in tutte le città in cui le scuole sono rimaste chiuse per mancanza di riscaldamento, se le Autorità superiori avessero dato la facoltà ai presidi di fare appello al libero contributo delle famiglie per provvedere al carbone, le famiglie certo non si sarebbero rifiutate a concorrere per riscaldare le case di istruzione destinate ai loro figli e agli insegnanti dei loro figli.

Sono altresì sicuro che se la stessa prassi fosse applicata nei riguardi del materiale scientifico, specialmente a quello occorrente agli istituti tecnici e professionali, cioè agli istituti destinati in modo particolare al popolo, materiale scientifico, o distrutto dai bombardamenti, o insufficiente, o difettoso perché invecchiato, certamente un appello di questa natura avrebbe ottenuto un libero, generoso concorso. Se noi pensiamo che questi italiani immiseriti dalla guerra versano cento o centoventi milioni la settimana alla Sisal, possiamo arguire che qualche lira si possa ottenere anche per i gabinetti scientifici destinati alla creazione degli operai specializzati.

A questo proposito voglio dire che è urgente pensare al fenomeno dell’emigrazione e alla preparazione dei nostri emigranti.

Non facciamoci illusioni. Noi abbiamo in Italia forse più di molte centinaia di migliaia di nostri lavoratori che devono abbandonare il caro suolo della Patria per cercare all’estero pane e lavoro. Abbiamo quindi la necessità di porci il problema dell’educazione degli emigranti. Dobbiamo pensare che i nostri emigranti trovano in terra straniera costumi diversi, lingua diversa, tradizioni particolari diverse, cioè un mondo dove, specialmente nel primo tempo, avranno gravi difficoltà da superare.

Orbene, è necessario fondare, con provvedimento di urgenza, le scuole professionali per gli emigranti, scuole che diano ad essi emigranti una guida, che trasformato il bracciante in operaio specializzato. È noto che una piaga della nostra emigrazione all’estero era precisamente quella degli operai generici che non avevano un mestiere specifico su cui poter contare e perciò erano trattati nei Paesi stranieri come i cinesi, come i paria. È solo la seconda generazione di emigranti quella che poi si fa strada, che impone alto il nome della Patria. Ma nella seconda generazione si è verificato il fenomeno della ripulsa spirituale dei figli verso i padri, perché i figli erano più evoluti dei padri. È necessario che sia tolta questa macchia che grava sui nostri emigranti e che questi nostri fratelli, costretti a partire, escano dal Paese col conforto di un nutrimento culturale e tecnico che consenta loro di far valere la loro capacità produttiva e di avere coscienza di quel contributo che il nostro Paese, attraverso le loro braccia operose, dà alle nazioni di tutto il mondo dove fluisce il lavoro italiano che la patria non può assorbire.

Infine voglio fare un ultimo riferimento alle Università. Il nostro Paese ha una tradizione Universitaria di primissimo ordine. Le nostre Università hanno una tradizione gloriosa ed io mi sono meravigliato che i molti rettori che siedono nei banchi di questa Assemblea non abbiano levata alta la voce perché le Università escano dalla povertà e dalla quasi indigenza in cui si trovano. È necessario che siano dati molti mezzi alle Università, perché il patrimonio scientifico e spirituale del Paese, che trova il suo faro più alto nelle cattedre dei nostri antichi studi universitari, possa ritrovare tutto il fulgore di una volta.

Onorevoli colleghi, noi abbiamo perso con la guerra le colonie, abbiamo perso le navi da guerra, che onoratamente e valorosamente avevano solcato i mari di tutto il mondo; noi siamo costretti (obtorto collo), ad accettare balzelli gravissimi dai vincitori; abbiamo perso territori italianissimi che erano costati 600 mila morti nell’altra grande guerra – di cui io sono un reduce ed un ferito – e non abbiamo altro che la nostra tradizione, la nostra cultura, la nostra civiltà rinascimentale e cristiana. Non abbiamo altro che questa nostra civiltà, che nessuno potrà mai toglierci, non abbiamo altro che la nostra anima civile, che il nostro spirito di popolo maturo. Questa tradizione è l’eredità che noi non potremo negare ai nostri figli, ed è un dovere sacrosanto del Governo – con la pace interna e la sicurezza del cittadino – di dare anche i mezzi perché i nostri figli possano ereditare gli strumenti della rinascita in futuro. (Applausi).

PRESIDENTE. È iscritto a parlare l’onorevole Puoti. Ne ha facoltà.

PUOTI. Onorevoli colleghi, chi, come me, frequenta da pochi mesi questo austero palazzo, chi come me, ha sempre creduto che al di sopra di ogni interesse personale debba essere la Patria, chi ha servito questa Patria con sincerità ed onestà, rischiando la vita in guerra; chi, come me, è entrato ed entra in quest’Aula con quel giusto senso di rispetto che le nostre funzioni ci impongono, non può non rimanere profondamente scosso e turbato per quanto ha veduto e udito in quest’Aula nelle sedute di ieri e di oggi. E che cosa dirà il popolo italiano di noialtri? Vi ponete mai questa domanda, o signori? Questo è il punto grave su cui la mia coscienza di giovane parlamentare mi pone, è un interrogativo che mi tormenta, perché io so che il nostro popolo ci segue con enorme interesse e vorrebbe vedere da noi rinascere veramente quell’Italia, tormentata da una guerra combattuta onestamente e valorosamente.

Non ritengo che sia simpatico e conveniente che ci si accapigli, alle volte, per questioni di partito, o, peggio, per questioni personali.

Noi dobbiamo pensare che il momento è quanto mai difficile; che noi siamo venuti qui con un compito specifico e determinato. Siamo Deputati all’Assemblea Costituente per dare una nuova Carta costituzionale all’Italia e dobbiamo al più presto assolvere questo compito per tornare ai nostri lavori, alle nostre case, perché il popolo italiano possa governarsi con quella sincerità ed onestà di intenti che vuole, oggi, in questo nuovo clima democratico.

E quindi, o colleghi, mi sono permesso – come giovane – di esprimere questo mio vivo sentimento, credendo di interpretare il sentimento anche dei più anziani, i quali hanno una maggiore esperienza parlamentare. E penso che non siano abituati a simile spettacolo; almeno, me lo auguro sinceramente.

Non mi permetto di fare ulteriori divagazioni dalle dichiarazioni del Presidente del Consiglio, perché mi sembrerebbe di frustrare lo scopo per cui ognuno di noi chiede la parola. Voglio mantenermi il più possibile – e mi manterrò – nei limiti delle dichiarazioni del Presidente del Consiglio, perché vi sarà un momento in cui si potrà parlare di altri problemi: avremo da discutere la Carta costituzionale e, in tale occasione, potremo dire quelli che sono i nostri bisogni.

La mia brevissima esperienza parlamentare mi ha fatto formare il convincimento, però, che tutto quanto viene da questi banchi non sempre è ascoltato con attenzione da parte dei signori del Governo.

Comunque, reputo necessario esprimere qualche pensiero, perché anche il mio modestissimo contributo possa giungere alle orecchie del Governo e possa effettivamente portare qualche cosa di buono nell’opera che esso conduce alacremente, ma senza buoni risultati.

Il Governo, nella sua esposizione programmatica, si mantiene su linee di carattere generale che sono molto simili a quelle esposte nel programma del precedente Gabinetto ed è sicuro che, al termine di questa discussione, otterrà quel voto di fiducia che è necessario per governare, in quanto che il programma è stato stilato d’accordo fra i vari partiti che hanno la maggioranza in questa Assemblea, ed è quindi logico che il voto di fiducia sia dato in pieno.

Ma voglio far presente al Governo che questa maggioranza parlamentare non corrisponde esattamente e proporzionatamente alle concezioni politiche della maggioranza del popolo italiano, in quanto dal 2 giugno ad oggi queste correnti politiche si sono spostate in determinati sensi; e quindi, aver avuto una maggioranza di voti sul programma di Governo non significa che la maggior parte del popolo italiano sia sodisfatta dei suoi governanti. Perciò è bene che il Governo tenga presenti anche i risultati delle elezioni del 10 novembre, le quali potranno fornirgli un giusto indice e indurlo a tener conto di quelle che oggi sono le modestissime minoranze di destra, perché già vi è un certo sensibile spostamento in tale direzione. Il Governo dovrebbe, secondo me, limitarsi oggi ad una normale amministrazione e l’Assemblea dovrebbe, al più presto, condurre a termine il mandato che le è stato affidato, per potere giungere subito ad una nuova consultazione popolare da cui sorga una rappresentanza che sia la vera espressione della volontà del popolo.

L’onorevole De Gasperi, nelle sue dichiarazioni a proposito della firma del così detto Trattato di pace, ha tentato di dimostrare la imprescindibile necessità di firmare, accollando su se stesso e sul suo Governo tutta la responsabilità del grave atto e impedendo all’Assemblea di esprimere il proprio preventivo pensiero.

A me non sembra che questo gesto, secondo la concezione che ho della democrazia sia conforme ai criteri democratici cui dovrebbe ispirarsi l’attuale nostra politica. Se fossimo in regime dittatoriale la soluzione dell’onorevole De Gasperi sarebbe logica; ma oggi che si parla tanto di democrazia, si sarebbe dovuto consultare prima la rappresentanza ufficiale del popolo italiano, e poi, in base al risultato ottenuto, dire al nostro rappresentante a Parigi di firmare o non firmare un atto così grave e importante per tutti gl’italiani, che impone condizioni addirittura insopportabili.

Il volere sopravalutare la ratifica del Trattato di pace nei confronti della firma è stata una manovra del Governo per potere, ancora una volta, sfuggire al controllo della Assemblea.

Tutti conosciamo il testo dell’articolo 90, in base al quale basta la ratifica delle quattro potenze che ci hanno imposto il Trattato per farlo entrare in vigore. Ora se la nostra parola non ha alcun valore giuridico, mi auguro che abbia almeno un valore morale, qualora non fosse conforme a quella delle quattro potenze firmatarie.

Con una certa abilità, che senza dubbio non si può disconoscere al Presidente del Consiglio, nessun cenno è stato fatto circa i motivi che hanno determinata l’ultima crisi ministeriale, mentre da parte di tutti si attendeva una spiegazione quanto mai esauriente, anche perché vediamo seduti al banco del Governo quasi tutti i Ministri che vi sedevano prima della crisi. Ed ora che siamo in regime democratico, il popolo italiano esige da parte di coloro i quali hanno la massima responsabilità del Governo, di sapere quello che avviene.

La crisi è scoppiata a meno di 30 giorni dalla firma del cosiddetto Trattato di pace, quando cioè in tutto il Paese era una profonda aspettazione per la forma e la sostanza del Trattato stesso. Anche gli uomini politici che rappresentano il Paese avrebbero dovuto dimostrare di essere preoccupati per il grave atto che si stava per compiere. Invece essi hanno dato una sensazione poco gradita ed il popolo italiano è rimasto enormemente deluso.

Rilevo che il programma governativo non si differenzia da quello dei precedenti Ministeri. Esso non porta elementi nuovi al nostro esame e non ci dimostra di essere completamente aggiornato e coerente con quanto, a distanza di sei mesi, si è verificato nel Paese.

Il programma del Presidente del Consiglio ci parla di potenziamento dell’iniziativa privata nel campo dell’economia nazionale. Benissimo; ma non ci offre nello stesso tempo quelle necessarie garanzie affinché questa iniziativa possa tranquillamente svilupparsi, anzi la si vorrebbe conciliare con i consigli di gestione, la cui legge istitutiva non è stata ancora esaminata da questa Assemblea e quindi il popolo ufficialmente non la conosce ancora. Noi dovremmo trovare il modo per cui possano convivere l’iniziativa privata e i consigli di gestione.

Ritengo che il Governo dovrebbe redigere un più vasto e preciso programma sociale, perché in questo campo non si vada avanti a sbalzi e a piccoli passi con eccessivi slittamenti a sinistra, mentre sarebbe necessario e indispensabile che si sapesse quale è la nuova organizzazione sociale che il Governo democratico vuol dare all’Italia, affinché ognuno possa dare il proprio, contributo per la sua realizzaione. Si fanno leggi o troppo di sinistra, o troppo di destra, ma non si sa effettivamente quale è l’indirizzo governativo.

L’incertezza sull’avvenire che oggi abbiamo non si risolverà che col risorgere delle iniziative private, di cui oggi tutti lamentiamo l’assenza e che invece sono indispensabili per la ricostruzione del nostro Paese, che esce squassato da una dura guerra combattuta in casa e perduta, una guerra che ha messo a dura prova e i soldati combattenti e i pacifici cittadini nelle città e nelle campagne. Per questi combattenti e per coloro che sono tornati dopo anni di sofferenze, chiusi in recinti di filo spinato, per coloro che ancora son ristretti in campi di concentramento e di cui si ignora la sorte, è necessario che il Governo adotti seri provvedimenti, non istituendo o togliendo soltanto un Ministero dell’assistenza post-bellica, perché non è il nome che conta, ma dando una vera assistenza a coloro i quali hanno sofferto per l’Italia.

È necessario anche che si ottenga al più presto una vera e sana concordia fra tutti gli italiani e che di ciò il Governo faccia uno dei punti base del suo programma; che si ponga termine alle minacce e alle persecuzioni di parte; che si instauri e si agevoli un clima di maggiore fraternità, che non si pensi più a leggi eccezionali e a confino di polizia, che turbano la serenità di chi vuol provvedere a lavorare per il benessere della propria famiglia e della Patria e quindi del nostro risorgimento morale e materiale.

La crisi che attraversa il Paese, onorevoli colleghi, è crisi morale, oltre che materiale. Ogni guerra perduta o vinta genera sempre una molteplicità di problemi e il più grave è certamente quello che concerne il rilassamento dell’ordine pubblico e il conseguente aumento dei delitti contro la persona e contro il patrimonio. Io, che esercito la professione di avvocato, vi posso dire che la delinquenza minorile è quella che più preoccupa noi uomini onesti, perché, per ragioni professionali, ci dobbiamo occupare troppo spesso di giovani viziati, pervertiti e traviati, i quali voglio vivere con troppo facili guadagni. E quindi alla repressione dei delitti contro le persone e contro il patrimonio che il Governo deve rivolgere la maggiore attenzione ed ha l’obbligo di intervenire nella maniera più energica per garantire la tutela di tutti i cittadini.

Ma a questo gravissimo problema un altro se ne affianca non meno grave: la necessità, cioè, che i cittadini abbiano una fiducia piena nelle leggi stesse e nel Governo. Bisogna convenire che tale fiducia è ancora profondamente scossa nella gran parte del popolo italiano. Le leggi e i decreti da qualche anno sono alla mercé non di un unico e sano criterio informatore, ma delle varie tendenze e passioni politiche che hanno permesso la formulazione di assurdi giuridici, quali mai si sarebbero potuti concepire nella terra madre del diritto. Ora, se ciò poteva essere ammesso, ma non consentito, subito dopo la cosiddetta liberazione, quando regnava in pieno il disordine e gli uomini erano ancora presi dalla lotta di parte e lo stesso Governo e la Repubblica non avevano ricevuto il crisma ufficiale, oggi non è più ammissibile.

Onorevole colleghi, dopo un Trattato di pace del genere di quello che dovremo subire, bisogna esaminare tutti gli accorgimenti necessari per ottenere una rapida ricostruzione morale dell’Italia, la quale ha bisogno di tutti i suoi figli, di tutte le persone oneste, di tutti coloro che con onestà di intenti hanno il dovere e il diritto di contribuire a tale processo di ricostruzione.

Per ricostruire noi dobbiamo prima sanare una situazione che non crea fiducia, ma timore, che minaccia di approfondire un solco tra Governo e popolo, fra italiani e italiani, invece di colmarlo.

Bisogna avere del coraggio per affrontare le situazioni come si presentano e risolverle col migliore dei sistemi democratici, cioè seguendo la volontà del popolo.

Smobilitiamo, quindi, l’armamentario che impedisce agli italiani di ritrovarsi, eliminiamo i motivi di attrito, prepariamo gli animi ad una effettiva fruttifera collaborazione; creiamo le premesse di una intesa che ritorni ad unico vantaggio dell’Italia; pensiamo, insomma, a superare una volta per sempre un’antitesi che non ha ragione di essere se gli animi stessi sono sgombri di sentimenti faziosi.

Presentiamoci allo straniero che viene ad imporci le sue fredde decisioni, come un sol blocco di volontà, di fede e di serio intendimento ricostruttivo. Ricordiamoci, che siamo e dobbiamo essere solamente e unicamente italiani.

Questa è la base della nostra riscossa morale. Oltre questo non c’è che il pericolo di nuove lotte, di nuovo sangue, di nuovi lutti. Rifletta il Governo e riflettano soprattutto coloro ai quali può risalire un merito enorme o sui quali può ricadere una tremenda responsabilità.

Noi vorremmo che il nuovo Governo si presentasse al popolo e al mondo con un nuovo volto; che intorno ad esso potesse finalmente raccogliersi tutta la Nazione; che non le passioni di partito predominassero, ma una sola passione, quella dell’Italia, sovrastasse ogni azione degli uomini politici responsabili; che si risvegliassero tutte le energie e la Nazione assumesse infine quel volto di austero raccoglimento e di estrema decisione, così come la vorrebbero vedere tutti i nostri Morti, caduti non invano per un altissimo ideale sia in Patria che in terre straniere. (Applausi).

PRESIDENTE. È iscritto a parlare l’onorevole Martino Gaetano. Ne ha facoltà.

MARTINO GAETANO. Disse l’altro giorno l’onorevole Scoccimarro nel suo discorso che oggi c’è una sola esigenza: «l’esigenza di risolvere i problemi concreti della politica nazionale, cioè i problemi della ricostruzione».

Io intendo appunto occuparmi brevemente di alcuni aspetti di questo complesso problema della ricostruzione che si segnala in modo particolare all’attenzione del Governo.

Ho creduto, onorevoli colleghi, di trovare un barlume di speranza per la ricostruzione edilizia del Paese nella dichiarazione programmatica del Governo, là dove l’onorevole De Gasperi ha manifestato il proposito di stimolare l’iniziativa privata nella ricostruzione. È questo appunto che noi attendevamo, convinti come siamo che senza la molla dell’iniziativa privata è vano sperare nella ricostruzione edilizia dell’Italia.

Se questo si fosse fatto prima, io penso che contemporaneamente noi avremmo in parte risolto l’assillante e grave problema della disoccupazione operaia e forse avremmo potuto fare a meno di ricorrere, per combatterla, a quei tali lavori improduttivi per i quali, non so in verità con quanto sense of humour, è stata coniata la teatrale denominazione di «lavori a regìa». A proposito dei quali, io credo che sarebbe bene illuminare il Paese, attraverso il Parlamento, sui risultati dell’inchiesta che è stata eseguita: sarebbe opportuno il farlo, perché parecchie voci circolano nel Paese, voci che attendono o di essere smentite o di essere confermate.

Si dice, ad esempio, che nel corso dell’esecuzione di questi lavori a regìa l’Istituto della previdenza sociale sia stato frodato per centinaia di milioni di lire. Io non so se questo risponda a verità, ma credo che il Governo abbia il dovere di dire una parola al Paese, perché penso che sia bene restituire al Paese il costume democratico.

È certo che la ricostruzione edilizia langue; langue perché le misure finora adottate per accelerarla si sono manifestate inadeguate.

Come voi sapete, in virtù del decreto legislativo luogotenenziale 9 giugno 1945, n. 305, detto legge detta «dei senzatetto», lo Stato concorre alla spesa nella misura del 50 per cento (elevabile sino al 60 per cento per coloro che ricostruiscono entro un determinato tempo) per le ricostruzioni più modeste, e nella misura di un terzo per ricostruzioni di maggiore entità. Ora, a conti fatti, la ricostruzione edilizia con queste provvidenze non può avvenire, non avviene e non avverrà. Gli Istituti di credito fondiario, i quali dovrebbero fare l’operazione di mutuo, non possono per legge concedere mutui per importo superiore alla metà del valore del fabbricato, e lo Stato non concorre che fino al 33 per cento della spesa. Non solo, ma anche questa non è misura certa, perché la legge dice: «in misura non superiore ad un terzo». Ora, gli Istituti di credito fondiario hanno bisogno di dati certi, non possono contentarsi dei dati di probabilità. In ogni caso dunque è necessario che coloro i quali intendano ricostruire dispongano di mezzi propri, di finanza propria. E costoro rappresentano la minoranza dei proprietari di fabbricati. Nella maggioranza dei casi, i proprietari di fabbricati non hanno mezzi propri. Ma se pure essi li hanno, noi vediamo che non li investono nella ricostruzione del Paese.

Secondo uno studio intelligente eseguito da un Comitato provinciale per la ricostruzione della provincia di Messina, i proprietari di fabbricati non trovano convenienza ad impiegare i loro capitali nella ricostruzione edilizia, tenuto conto del tasso di ammortamento e degli interessi che occorre pagare agli Istituti di credito fondiario, degli oneri di imposte che gravano sui fabbricati ricostruiti e di quello che è il mercato dei fitti. Ciò appunto secondo i calcoli eseguiti dal Comitato, e che sono riferiti in una assai pregevole relazione, a firma dell’avvocato Pietro Tripodo.

La relazione dimostra che questa convenienza non si riscontra, a meno che lo Stato non intervenga per il 75 per cento nella spesa. Di modo che il problema da esaminare è quello della possibilità per lo Stato di intervenire in questa misura.

Pare che il concorso dello Stato nella misura del 75 per cento sia possibile. Si tratta di ricostruire complessivamente in Italia sei milioni e mezzo di vani. Secondo i calcoli fornitici giorni or sono dall’onorevole Nobile, l’importo complessivo sarebbe di seicento miliardi di lire; secondo i calcoli, invece, del Comitato provinciale per la ricostruzione di Messina, esso sarebbe di 775 miliardi.

Ora, se lo Stato concorresse col 75 per cento nella spesa della ricostruzione, alle condizioni di cui al decreto 9 giugno 1945, l’onere, per tasso di ammortamento ed interessi da pagare agli Istituti di credito fondiario, sarebbe di 35 miliardi l’anno, per 40 anni. Cifra cospicua, senza dubbio. Però, lo Stato deve già avere stanziato nel suo bilancio una somma per aiutare l’iniziativa privata nella ricostruzione edilizia; poiché ha emanato il provvedimento del 9 giugno 1945. Non credo infatti che, quando furono emanate queste disposizioni, lo Stato contasse sul fatto che la ricostruzione non dovesse avvenire. Di modo che, siccome il massimo che lo Stato ha pensato di poter dare alla ricostruzione edilizia è del 50 per cento, aumentabile di altro 10 per cento per coloro che ricostruiscono entro un determinato termine, praticamente i 4/5 di questa cifra complessiva (per la durata di 40 anni) lo Stato già si propone di spenderli. Ed allora, l’ulteriore aggravio al bilancio dello Stato non sarebbe che di sette miliardi di lire.

Ma dobbiamo fare un’altra considerazione: a mano a mano che la ricostruzione avviene, il capitale edilizio viene restituito al reddito, e quindi grava su questo capitale edilizio l’onere delle imposte. Quando sei milioni e mezzo di vani saranno tutti ricostruiti, sarà restituito al reddito un capitale di 1300 miliardi di lire; e l’onere complessivo delle imposte (senza tener conto naturalmente dell’imposta progressiva sul patrimonio o delle altre diavolerie suggerite dall’onorevole Scoccimarro) sarà di 26 miliardi di lire. Pertanto, in definitiva, resterà per lo Stato solo l’onere di 9 miliardi di lire (35 meno 26); che presumibilmente sarà bilanciato dalle imposte sulle attività industriali connesse con l’edilizia.

Esaminato attentamente il problema, è facile dunque rendersi conto che, in sostanza, quando lo Stato intervenga, sia pure in misura così elevata, nella ricostruzione edilizia del Paese, per esso non esiste un onere reale. Come afferma acutamente la relazione che ho ricordato, «l’edilizia crea da sé la propria finanza».

Io credo che il Governo dovrebbe esaminare attentamente questo problema e questo suggerimento, in armonia con l’enunciato stesso del Presidente del Consiglio che «occorre eliminare le spese superflue e graduare le altre secondo la loro capacità produttiva».

Ed a proposito della dichiarazione programmatica del Governo su questo punto, devo dire che ho rilevato con compiacimento il proposito espresso dall’onorevole Presidente del Consiglio di emanare leggi speciali per i centri più duramente colpiti dalla guerra. Con compiacimento, perché nel mio discorso del 19 luglio invocavo appunto queste leggi speciali per la città di Messina e per le altre città del continente, altrettanto od anche più duramente colpite. Leggi speciali – dicevo – occorrono per questi centri, provvidenze speciali, finanziamenti speciali.

E vorrei dire che leggi speciali occorrono in genere per tutti i centri terremotati, indipendentemente dai danni che essi hanno subìto per la guerra. Perché le leggi speciali sul terremoto impongono l’adozione di norme particolari per la ricostruzione con sistemi antisismici, il che importa, secondo quanto è riconosciuto dal testo unico di quelle disposizioni legislative, un aumento nel costo della costruzione pari al 35 per cento. In questi casi quindi bisognerebbe arrivare fino all’85 per cento nel concorso dello Stato.

Un altro aspetto del problema della ricostruzione, e che io ho pure segnalato con il mio ordine del giorno, è quello della ricostruzione sanitaria del Paese. A questo problema accennavo pure nel mio discorso del 19 luglio; e dopo di me vi faceva cenno anche l’onorevole Togliatti.

Il Presidente del Consiglio, in quella occasione, volle tranquillizzare l’onorevole Togliatti ed affermò che l’indice della mortalità infantile ha presentato un miglioramento sensibile negli ultimi tempi. Ciò è confortante; ma coloro che hanno qualche dimestichezza colla medicina non ignorano che la mortalità infantile non è che uno degli indici della salute del popolo. Molti altri ne esistono, ed è superfluo che io insista su questo punto. Tutti sanno, ad esempio, quanto pauroso sia oggi il dilagare della tubercolosi in Italia.

Ora, le condizioni sanitarie del popolo sono dipendenti, possiamo dire condizionate, da quelle della nutrizione. Ed è soprattutto a questo che noi dobbiamo guardare. Oggi, come tutti sapete, le condizioni della nutrizione sono poverissime in Italia, e non serve sventolare, come dopo l’altra, guerra, lo slogan di Francesco Saverio Nitti: «produrre di più e consumare di meno». Esso va invece, nelle attuali condizioni, così modificato: «produrre di più per consumare di più». È infatti urgente, indispensabile, se noi vogliamo salvare il nostro popolo, che i consumi aumentino.

Mi propongo di dare appena qualche cifra, cifra ufficiale, che ho rilevato dalla pregevole relazione del Governo al V Consiglio generale dell’U.N.R.R.A., pubblicata a cura del Ministro Campilli.

Ho letto in questa relazione che per il 1947 è prevista una distribuzione di generi razionati pari a 1320 calorie per uomo-medio, elevabili, con gli alimenti forniti dal mercato libero, fino a 2000 calorie. Ora 2000 calorie sono qualche cosa che sta molto al di sotto di quello che è da tutti considerato come il minimo fisiologico indispensabile per l’uomo medio, cioè 2700 calorie nette, pari a 3000 calorie lorde. È naturale che molti consumano di più; e credo che quanti siano qui consumiamo più di 2000 calorie al giorno. Ma questo significa che vi sono altri che consumano molto di meno; il che è ancora più grave, onorevoli colleghi. Noi dobbiamo preoccuparci, e seriamente, di questo fondamentale problema della nostra esistenza; problema che ancora più grave appare, se lo si considera non sotto l’aspetto quantitativo, ma sotto l’aspetto qualitativo.

Nella suddetta relazione ho rilevato anche la frase seguente: «Si è dovuto per quest’anno rinunciare alla distribuzione di generi razionati a base proteica, con grave pregiudizio della sanità del popolo». Vi è dunque non solo una deficienza quantitativa, ma anche, e dal punto di vista fisiologico ancora più grave, una forte deficienza qualitativa dell’alimentazione. Debbo dirvi che da questo lato le condizioni dell’Italia erano già gravi prima della guerra, perché anche allora i fisiologi segnalavano con preoccupazione il fatto che l’uomo medio italiano disponesse di appena 18 grammi di proteine animali al giorno, al posto dei 40 grammi che rappresentano il minimo fisiologico indispensabile. E, del resto, anche dalla lettura di questa relazione del Ministro Campilli potete rendervi conto di ciò, perché in essa sono pure le cifre relative alle disponibilità alimentari del 1938. Vi si legge che nel 1938 ogni cittadino italiano disponeva di kg. 8,400 di carne all’anno. Ebbene, in quell’epoca, prima appunto dell’ultima guerra, un cittadino francese disponeva di 34 chilogrammi di carne all’anno, un belga di 40, un tedesco o un inglese di 49, un americano degli Stati Uniti di 70, un argentino o un australiano di 107.

Voi vedete dunque quanto già allora era scarsa per noi la disponibilità del principale alimento animale. Ma oggi questa disponibilità si è ridotta notevolmente, perché – dice la stessa relazione – essa è oggi di 3 chilogrammi e mezzo di carne per abitante e per anno. La riduzione trova le sue cause ovviamente nella distruzione del patrimonio zootecnico operata dalla guerra, nella diminuzione della produzione dei foraggi, nella diminuzione di estensione dei pascoli (per l’aumento delle colture cerealicole) e forse – anzi, certamente – anche nella diminuzione delle importazioni di carne. Noi importavamo prima della guerra 700 mila quintali di carne all’anno; oggi importiamo, credo, 390 mila quintali.

Questo problema deve preoccuparci moltissimo, perché, onorevoli colleghi, le condizioni della nutrizione hanno una importanza enorme per la produzione, per il progresso, per l’esistenza stessa dei popoli. Nel secolo passato un filosofo tedesco, il Feuerbach, che fu, possiamo dire, l’araldo del materialismo scientifico nel campo filosofico, lanciò il noto aforismo: «L’uomo è ciò che mangia». (Interruzione dell’onorevole Saragat). Lo contestate? Io da fisiologo non lo contesterei, onorevole Saragat. Se Ella non avesse simpatia per gli aforismi germanici, potrei citarne un altro, britannico questo: «Se vuoi essere un leone, mangia da leone».

Disse a questo proposito una cosa molto esatta l’onorevole Conti, che pure si preoccupò di queste gravi condizioni della nutrizione nel Paese. Egli disse che a qualche accorgimento si può pensare, per migliorare lo stato delle cose. In effetti, noi non possiamo sperare, se pure è vero, come sembra, che il patrimonio zootecnico è andato aumentando in questi ultimi tempi, di portarlo ad un tale livello da renderci sodisfacente la disponibilità dell’alimento animale per il popolo italiano, perché, come vi dicevo, la situazione era già grave per noi prima della guerra. L’entità del patrimonio zootecnico, evidentemente, è condizionata dai foraggi disponibili e dalla estensione dei pascoli dei quali possiamo disporre. Qualche accorgimento bisogna dunque escogitarlo e concordo in ciò pienamente con l’onorevole Conti. Non concordo con lui nel ritenere utili a questo fine quegli accorgimenti che egli ha suggerito, cioè l’abolizione dei Commissariati e le autonomie regionali e comunali.

Non che io, da liberale, non apprezzi l’opportunità dell’abolizione dei Commissariati, cioè della bardatura pesante della economia controllata; non che io, da autonomista convinto, non desideri, come lui, che al più presto si realizzi la vera libertà amministrativa dei Comuni e delle Regioni. Ma io penso che, per questo problema specifico, non sarebbero utili né l’uno accorgimento né l’altro. Qualche cosa di diverso, invece, si può escogitare. Si può razionalizzare la nostra industria zootecnica, si può adattarla – in altre parole – alle nostre esigenze fisiologiche. Si può, come vorrebbe appunto l’onorevole De Gasperi, «disporre nel senso più utile per la collettività delle risorse locali».

Noi dobbiamo tener presente che gli animali domestici dei quali ci alimentiamo non sono che trasformatori dell’energia alimentare già esistente: essi sono, cioè, convertitori dell’alimento vegetale in alimento animale. E, da questo punto di vista, occorre rilevare che non tutti eseguono la conversione nella medesima forma; non tutti, cioè, sono ugualmente economici o ugualmente antieconomici. Tutti, in genere, sono convertitori antieconomici; ma alcuni lo sono di più, altri di meno. Per esempio, convertitori tipicamente antieconomici sono proprio i bovini, i quali hanno bisogno, per costruire un chilogrammo di alimento animale, di ben 64 chilogrammi di fieno; convertitori invece meno antieconomici sono gli ovini, che hanno bisogno di 24 chilogrammi di fieno per la costruzione di un chilogrammo di alimento animale.

Ma bisogna tener presente che i bovini diventano così antieconomici solo dopo aver raggiunto il completo sviluppo somatico: prima di tale stadio dello sviluppo essi sono convertitori relativamente economici della energia alimentare.

Occorre, quindi, allo scopo di accrescere la disponibilità della carne, imporre la macellazione dei bovini prima che sia raggiunto il completo sviluppo somatico, cioè durante il periodo dell’accrescimento, e limitare l’allevamento ulteriore soltanto alle vacche lattifere, le quali costruiscono un chilogrammo di alimento animale con soli 22 chilogrammi di fieno, ed ai maschi necessari per il lavoro e per la riproduzione.

Inoltre, c’è un’altra considerazione da fare: che una buona vacca è capace di fornire in un anno, col latte, una quantità di proteine doppia di quella contenuta in tutti i suoi tessuti e che essa può fornire in un anno, col latte, un numero di calorie pari a quello di tutti i costituenti chimici dei suoi tessuti. Conviene dunque favorire, incrementare, l’allevamento delle vacche lattifere, scegliendo quelle razze che sono più produttrici di latte; occorre cioè procedere ad una selezione imponendo l’allevamento delle vacche che siano più produttrici di latte e che presentino idoneità all’acclimatazione. Ed a questo scopo una sola cosa, a parer mio, è indispensabile: diffondere e rendere obbligatoria la fecondazione artificiale del bestiame.

Io penso che queste poche notizie possano essere utili a chi voglia effettivamente proporsi di migliorare, con provvidenze legislative, il patrimonio zootecnico italiano, sia dal punto di vista quantitativo che dal punto di vista qualitativo. E penso che questo dovrebbe essere considerato come un suo dovere preciso dal Governo, perché l’iponutrizione esercita effetti deleteri sul rendimento della macchina umana, e quindi anche tutta la ricostruzione del Paese soffre per la deficiente nutrizione degli uomini. E non solo la iponutrizione esercita effetti deleteri sul rendimento della macchina umana, ma essa esercita pure effetti altrettanto deleteri sul morale degli uomini.

Venticinque anni fa un nostro grande fisiologo, Filippo Bottazzi, scriveva che «la iponutrizione dispone l’animo alla sfiducia, al pessimismo; tarpa le ali ad ogni entusiasmo; rende l’uomo perfino dimentico dei suoi più sacri doveri verso la Patria e verso l’umanità». Se questo voi considerate, onorevoli colleghi, io penso che dovranno sembrarvi futili quegli espedienti che si vorrebbero escogitare per la difesa della Repubblica.

Noi parliamo ancora del giuramento, noi pensiamo ancora sempre al giuramento. Ma io non credo, onorevoli colleghi, che la coartazione della coscienza rappresenti davvero un mezzo efficace per la difesa della Repubblica. Perché la Repubblica non si difende che nella libertà. È stato già un errore il mantenere il giuramento politico. Il giuramento era una volta una cosa seria, una cosa sacra; oggi non lo è più. Oggi esso non è che un atto puramente formale, considerato superfluo da coloro i quali credono nella bontà della istituzione, considerato odioso da coloro i quali in questa non credono.

È stato un errore, ripeto, mantenere il giuramento. (Interruzione dell’onorevole Lussu). Io penso che la Repubblica avrebbe dovuto abolirlo. Abolendo il giuramento, onorevole Lussu, noi avremmo sottolineato una cosa che a parer mio è importante. Noi sappiamo che il giuramento storicamente deriva dal diritto di conquista, dal diritto della forza. Ebbene, noi avremmo sottolineato che questa Repubblica italiana, per nostra fortuna, non è stata partorita dalla conquista, non è scaturita dal diritto della forza, che essa è nata invece per la forza del diritto.

Il terzo punto del mio ordine del giorno riguarda il problema della scuola. Non desidero diffondermi su questo argomento, perché altri colleghi ne hanno già parlato e perché so che molto più autorevolmente di me si propone di parlarne l’onorevole Colonnetti.

Desidero dire solo questo: le condizioni dei nostri Istituti superiori, delle nostre Università sono gravissime. Esse sono state già denunciate in quest’Aula da due rettori di università: dall’onorevole Pellizzari nel suo discorso del 18 luglio e dall’onorevole Calamandrei in occasione di una sua interrogazione al Governo. Ciò mi esonera sia dal parlarne diffusamente, sia dal rispondere, quasi per fatto personale, all’onorevole Tumminelli che poco fa rimproverava ai rettori di Università presenti in quest’aula di non interessarsi sufficientemente all’argomento. Le condizioni delle Università sono gravissime ed è bene preoccuparsene, perché è ben vero quello che diceva l’onorevole De Gasperi, che l’Italia potrà rinascere solo dalla scuola. In effetti, se noi abbiamo contato qualche cosa nel passato, ciò è stato non soltanto per il braccio, ma soprattutto per l’ingegno dei nostri padri, cioè dei nostri artisti, dei nostri filosofi dei nostri letterati, dei nostri scienziati. Oggi le Università italiane sono tutte in condizioni così penose da doversi perfino affacciare alla mente del Senato Accademico o del rettore dell’Università l’ipotesi di una chiusura della scuola. Sono esse tutte, o quasi tutte, indebitate; e tutte sono creditrici dello Stato. Infatti i rimborsi annuali che lo Stato deve alle Università per varie ragioni, avvengono con una velocità incomparabilmente minore di quelle delle spese che l’università deve affrontare. E accade questo fatto paradossale, che le università sono costrette a fare da banchiere allo Stato. Credo che ciò non sia assolutamente tollerabile. Occorre restituire immediatamente la propria efficienza alle Università e agli Istituti di cultura superiore. Occorre restituire tutta la loro efficienza ai laboratori scientifici ed alle biblioteche, perché non bisogna dimenticare che il compito principale delle Università non è già quello di fabbricare i professionisti, cioè i medici, gli ingegneri o gli avvocati; ma di contribuire, con le indagini scientifiche o storiche, al progresso della scienza, al progresso delle idee. Le Università sono e, debbono essere soprattutto, i nostri efficienti «laboratori del pensiero».

Io credo che questo problema debba essere risolto al più presto, anche perché giustamente poco fa diceva l’onorevole Tumminelli, è questo un nostro grande patrimonio che dobbiamo preservare e potenziare; è forse il solo patrimonio che la guerra non ci ha tolto e che nessun trattato di pace ha potuto (o poteva) toglierci: il solo patrimonio che potrà consentirci di riprendere ancora una volta domani, e con dignità, il nostro posto nel mondo. (Applausi).

PRESIDENTE. È iscritto a parlare l’onorevole Tremelloni. Ne ha facoltà.

TREMELLONI. Mi limiterò a prendere in esame alcuni dei temi economici che si ricollegano a quelli accennati nell’esposizione dell’onorevole De Gasperi: e ciò perché, a mio avviso, l’azione sociale del Governo deve oggi, almeno per i tre quarti, essere azione economica. È questo forse il terreno nel quale – dalla liberazione in poi – si procedette con singolare improvvisato empirismo, con insufficiente valutazione della sua importanza. È mancato forse il coraggio di dire recisamente che le condizioni attuali, le quali limitano e condizionano la nostra politica economica, non si prestano alle prodigalità delle demagogie di ogni colore, e che dalle attese impossibili delle une, o dalle attese impossibili delle altre, si ottiene soltanto una ulteriore remora o nebulosità nella via di uscita. Così dalla liberazione in poi si è vissuti alla giornata, propinando cambiali in bianco a lunga scadenza, nei giorni pari alla destra, nei giorni dispari alla sinistra. I problemi economici di questo dopoguerra non si prestano a contemporanee alternate soluzioni, né – per la loro connessione coi problemi sociali – si prestano ad una delle astratte soluzioni-limite: compito di chi suggerisce ed attua brevi programmi di Governo è di condizionare il fine ai mezzi, scegliendo con chiarezza e senza pentimenti o reticenze una sola strada la cui linea di demarcazione, sebbene difficile a trovare in realtà, esiste. Ma, scelta che sia, bisogna su questa strada camminare, ed aver l’energia di non imboccare allettevoli viottoli laterali, cioè aver coraggio di determinare, nella gerarchia d’urgenze con cui occorre graduare la folla paurosa dei problemi immensi da risolvere, ciò che è fondamentale, e tralasciare ciò che è accessorio, anche se ha la parvenza del fondamentale.

Noi italiani – e non da oggi – bruciamo sull’altare della nostra povertà le nostre migliori energie per discutere, riaffermare e tentare immediate soluzioni di problemi insolubili a breve termine. La tragedia dei popoli poveri è questa, che essi sono spesso così lungimiranti da abbandonare l’attenzione sulle concrete modeste soluzioni del problema quotidiano e – se hanno un pesante bagaglio di teorie e di ideologie da trascinarsi dietro, come noi abbiamo – ragionano come gli Arcadi. Troppo spesso esaminiamo il problema economico e sociale italiano guardandolo a un chilometro di distanza, senza accorgerci che sarebbe forse più utile guardare al di qua delle macerie, alla distanza di pochi metri da noi. Questa presbiopia esalta le ideologie, ma in certi momenti, come l’attuale dopoguerra fallimentare, ci impedisce la soluzione dei problemi concreti e immediati. Così si allontanano, non si avvicinano, le mete ideologiche, e si compie il lavoro di Sisifo di fare e rifare i programmi per il duemila, lasciando all’empirismo quotidiano i programmi per il prossimo quadriennio. Così si procede a tentoni e ci si esaspera mutuamente, perché si danno schiaffi al vento, senza accorgerci che non è il vento che ne ha colpa.

L’essenziale sembra per ora di uscire in concreto dalla strozzatura, e di uscirne il più presto possibile senza vittime umane; non di discutere troppo astrattamente sulle formule o sui fantasmi, come usiamo noi italiani con particolare voluttà. È perdonabile ai partiti di usare ed abusare della politica degli slogan – anche se è desiderabile che non lo facciano – ma non deve questa politica diventare una formula di Governo. Non c’è un problema di massimalismo o di minimalismo: in termini concreti, oggi ci sono delle strade obbligate, che non sono né massimaliste né minimaliste.

Oggi il compito preminente ed essenziale è di rialzare il cosiddetto «livello di benessere» del popolo italiano, anche se questa parola è per noi ferocemente sarcastica. Il livello di benessere di un Paese non si accresce durevolmente, se il dividendo nazionale non si eleva; e il dividendo nazionale non si eleva se non utilizzando meglio la somma delle nostre energie.

Se è vero, come è vero, che il progresso economico si attua con gradualità ed in mezzo a costanti limitazioni, non dobbiamo promettere al Paese e al popolo più di quanto onestamente potremo offrire, anche se è più simpatico, più elettoralistico, meno impopolare promettere molto, lasciar lavorare di fantasia i nostri ascoltatori. Oggi la situazione è quella che è. Inutile nasconderla ai lavoratori, nasconderla al Paese. Fuor d’ogni pessimismo, non potremo portare il nostro livello di esistenza a quello del 1913 prima del 1950. Inutili le formule miracolistiche, inutili le bacchette magiche e i giuochi di azzardo, inutile e dannoso attizzar speranze e miraggi. Bisogna aver il coraggio di dirlo, e non soltanto di pensarlo o di convenirne a quattr’occhi. Tutto quel che ci rimane da fare – ed è moltissimo – è di evitare che questo livello del 1913 sia raggiunto nel 1960 invece che nel 1950; ma soprattutto di far sì che sia raggiunto col minimo di sacrifici per le classi lavoratrici. Chi promette di più bara; e mente sapendo di mentire.

I lavoratori italiani chiedono dunque che non si nasconda la reale condizione economica del Paese, né la concreta e non illusoria possibilità di migliorarla: la gran forza di un regime democratico è, o dovrebbe essere, la sincerità, che è una forza profondamente educativa. Il Paese è stato pochissimo informato, e spesso lo è stato in ritardo, di tutta la sua vita economico-finanziaria; talvolta non lo potevano essere neppure gli stessi membri del Governo. Uno sforzo organico di documentazione deve essere compiuto, e con ogni urgenza. Non si possono prendere decisioni – e spesso decisioni di somma importanza non effimera – se non si ha la più minuta tempestiva obiettiva conoscenza del panorama economico-sociale del Paese. In questa sagra di miliardi, che rappresentano le spese pubbliche di ogni mese, non si devono trovare – ad esempio – le pochissime decine di milioni annui perché l’Istituto centrale di statistica ridiventi un organo efficiente nelle rilevazioni economiche, attui un’ampia rapida indagine sulla nuova struttura che ha assunto questa vulcanicamente sconvolta nostra economia? Non si può vedere, con dati il meno possibile ritardati, quel Conto del tesoro, che esce ora soltanto per i nostri storici della finanza, quasi come la Gazzetta Ufficiale che pubblica i decreti-legge talvolta due o tre mesi dopo che sono entrati in vigore, e come le cifre del nostro commercio estero e della produzione industriale che durano almeno tre mesi per arrivare a conoscenza del Paese? Non si possono conoscere molti altri dati oggi quasi segreti, come ad esempio l’utilizzazione del fondo lire? Questo Paese – che subito dopo l’Unità, in un periodo stranamente somigliante all’attuale, sebbene ora i problemi siano esaltati geometricamente, dispose di una serie di indagini amplissime come l’inchiesta Jacini e l’inchiesta industriale, ha vivo desiderio di essere più rapidamente e più compiutamente informato di quanto non possa esserlo con la doccia scozzese delle interviste, spesso deformate superficiali e contradittorie, e terreno di polemiche mal fondate e più atte ad aumentare malcontenti che non a ragionevolmente sedarli.

La vita economica del nostro Paese, che sempre fu succube di una singolare sproporzione tra capitali e uomini, ma dove la guerra e l’autarchia hanno rincrudito questa cronica sproporzione, ha una struttura economica di estrema fragilità, d’una tale fragilità che la predispone in modo imponente ai regimi totalitari. Compito della democrazia è di risolvere questo problema, è di colmare questo hiatus tra l’ieri, incapace di assicurare, se non attraverso la dittatura e l’autarchia, condizioni di vita meno dure per la grande maggioranza del popolo, e il domani, che in tutto il mondo si avvia verso concezioni solidaristiche. Colmare questo hiatus costituisce la prova del fuoco della democrazia, ed è la prova del fuoco di tutti i Governi che desiderino di allontanare il pericolo di nuovi insuccessi della democrazia, col loro corteo inevitabile di nazionalismi, di autarchie, di guerre, di privilegi.

Dalla liberazione in poi lo sforzo di colmare la frattura cui accennavo dianzi non ha sortito un esito apprezzabile; la conciliazione tra l’economico e il sociale non si è risolta. Si è andata accentuando una somma di malcontenti – taluni giustificati, taluni ingiustificati – che può mettere in pericolo lo stesso istituto democratico. Vi siete mai chiesti le cause profonde di questo malcontento? Esse, a mio avviso, non risiedono soltanto nelle condizioni gravi in cui un lungo periodo di nazionalismi economici ha gettato l’Europa, ma anche nell’impotenza dei Governi di conciliare organicamente la libertà con la giustizia sociale, cioè nell’impotenza di affrontare il problema economico nei due aspetti contemporanei del clima produttivistico e del clima sociale. È innegabile che questi problemi si pongono in circolo, e mentre si cerca il punto in cui spezzarlo, non ci si accorge che occorre premere su tutti i punti del circolo con unità di intenti e di direttive: ciò che riesce sommamente difficile ai Governi di costituzione estremamente eterogenea. Essi non riescono a condurre una politica economica unitaria e univoca, e il loro sforzo di accontentare tutti finisce per scontentare tutti.

Mentre l’azione economica in favore dei lavoratori, in periodi normali, poteva essere condotta più vantaggiosamente attraverso una redistribuzione operata con la lotta sul solo terreno sindacale, in periodi di economia disastrata e di grave impoverimento collettivo come l’attuale, può e deve essere condotta anzitutto dagli organi di Governo.

Oggi non si tratta infatti di distribuire di più, ma di assicurare un minimo vitale per tutti, di evitare che il superfluo di taluno sia ottenuto a spese del necessario per gli altri. Occorre almeno assicurare un minimo di alimenti, di indumenti, di case per coloro che rischiano di non avere questa diga contro la più pericolosa miseria. Si chiede spesso: «Possiamo permetterci di farlo?». La domanda deve essere invece questa: «Possiamo permetterci il lusso e i danni di non farlo»?

Occorreva predisporre tempestivamente un piano organico generale per questa nostra ricostruzione, che non è soltanto edilizia. Ora il piano viene annunziato, e noi ci auguriamo che esso non si limiti a quelli parziali d’un solo o di pochi settori della vita economica del Paese. Deve trattarsi d’un ampio e precisato programma economico per quel prossimo quadriennio che sarà di un’importanza decisiva per l’avvenire dell’Italia: compito al quale quasi tutti gli altri Paesi si sono già accinti, imponendosi anche dei sacrifici notevoli per il raggiungimento di mete ben determinate. La ricostruzione esige infatti una somma di sacrifici: quali sono quelli – deve dirci il piano – che gli italiani possono sopportare, e come sarà suddiviso il loro onere?

Si capisce che tutti riluttano ai sacrifici, ma li accetteranno con minore amarezza, se sapranno a vantaggio di che è di chi andranno. I lavoratori devono potersi difendere del pericolo di vedersi addossati in troppo grande parte tali oneri, o dal pericolo che ci si fidi con eccessiva longanimità dei cosiddetti processi di aggiustamento a lunga scadenza, quando le facoltà di attesa dei singoli ceti sociali sono ben differenti. Per mettere in sesto la nostra economia, bisogna dotarla di beni strumentali più efficienti e numerosi – ferrovie, strade, macchine; – e quindi bisogna avere il coraggio di ridurre certi consumi voluttuari. Meno automobili fuori serie, meno profumi e meno liquori, meno pane bianco, più cemento, più ferro, più bonifiche, più centrali idroelettriche, più mezzi di trasporto. Non si può avere l’uno e l’altro. Guardate l’Inghilterra, onorevoli colleghi!

Essenziale ed urgente compito del Governo – se il piano è realmente in elaborazione – è quello però di renderlo pubblico, affinché possa essere utilmente discusso dal Paese, giacché rappresenta il più importante e decisivo atto di orientamento per la vita economica italiana di oggi e di domani. Ma l’attuazione di tal piano orientativo non potrà avvenire se manca la forza politica che dia unità di indirizzo, e soprattutto se il Governo non potrà o non saprà predisporre dei congegni adatti. Altrimenti il piano sarà stritolato dalla morsa degli interessi di gruppi e di classe, e l’interrogativo che ponevo all’inizio rimarrà ancora una volta irrisolto.

Il primo modo di allargare questa morsa, perché non ci strangoli, è quello di ripristinare i congegni dell’azione statale. Bisogna avere il coraggio di affrontare subito il problema del risanamento di questa macchina, da cui dipende quel ripristino dell’autorità statale il cui svilimento è motivo di compiacenza per i cittadini meno meritevoli della stima dei lavoratori.

La struttura tradizionale dei Ministeri economici non va più bene; non ha seguito quel processo, diciamo di «riconversione», che si intende programmare per le aziende. I Ministeri economici vanno in gran parte infatti mutati nei loro uomini, nei loro metodi, nella loro mentalità, per adattarli alle nuove esigenze della politica economica italiana. Il numero dei funzionari è eccessivo; occorre probabilmente averne meno, ma meglio scelti, meglio retribuiti, aggiornati con periodiche selezioni più severe. Lo Stato può avere degli ospizi benefici, ma essi devono essere altra cosa che non i Ministeri. Bisogna avere il coraggio di ripristinare subito l’autorità dello Stato perseguendo il fine della prontezza, della capacità, dell’agilità, della serietà, dell’onestà dei suoi strumenti. Badate che la macchina dello Stato si sta dissolvendo; sia per colpa d’una parte della burocrazia che è spesso lontana dalle esigenze concrete della nostra economia; sia per colpa di un’opinione pubblica che è avviata ad un fatalismo iconoclasta, dopo gli eccessi di statalismo totalitario, sia per colpa di un rinato individualismo miracolistico, che si manifesta in un pericoloso prevalere di irrequieti interessi di gruppo, di aspirazioni provinciali o regionali, di campanilismi eccitati, di egoismi dilaganti. Si lesinano i milioni per i Ministeri che si occupano delle cose economiche, e non si lesinano ancora oggi i miliardi per i Ministeri militari. Il Ministero dell’industria ha a disposizione mezzo miliardo di lire all’anno, meno, assai meno di quel che può spendere la Confindustria coi suoi uffici centrali e periferici; e meno di un ventesimo di quel che possono spendere i Ministeri militari in tempo di pace.

La condotta economica d’un Paese, da cui dipende la stessa possibilità di miglioramenti sociali – non può poi essere affrontata dai Ministeri a compartimenti stagni. È un ruotismo complicato di cui non basta affidare ogni singola ruota ad un partito o ad un uomo, lasciandogliela muovere come crede. Bisogna dunque che ogni ruota si muova in simpatia col moto delle altre. Questo, finora, non è accaduto nei due o tre anni del nostro dopoguerra italiano; e il Paese se ne accorge. Aboliti utilmente altri Ministeri (e io avrei fuso anche il Ministero del commercio estero con quello dell’industria e avrei istituito un sottosegretariato per le risorse energetiche), essenziale mi pareva dunque la formazione d’un Ministero degli affari economici, il quale – più che non il placido C.I.R. – sapesse rompere il circolo vizioso dei palleggiamenti di responsabilità, dello scoordinamento tra i vari Dicasteri, dello zero ottenuto per somma algebrica tra le opposte soluzioni dei singoli Ministri.

Non si può lasciare che il Ministro del commercio estero faccia una politica e quello dell’industria o dell’agricoltura un’altra, che altri Dicasteri redigano piani annunziando spese di centinaia di miliardi, e non si assicurino prima che i miliardi ci sono da spendere e che i materiali necessari esistono e possano essere procurati; che si faccia conto sulla disponibilità quantitativa di masse di lavoratori disoccupati e non si provveda a qualificarli convenientemente; che non ci si preoccupi se il risparmio del Paese o i prestiti esteri, e in che misura, possano seguire docilmente le esigenze di investimenti in beni strumentali e via numerando.

Non si può volere che una politica di blocco dei prezzi si attui, se il Comitato prezzi deve limitarsi ad agire come «machine à calculer» prendendo nota oggi di un aumento dei prezzi dei prodotti (il che ci ha condotti negli ultimi 6 mesi ad un salto dei 50 per cento nel livello dei prezzi), o affidandosi alle coreografiche «tregue», senza poter manovrare con le leve e sulla piattaforma di una ben definita politica economica generale; non si può non accostarsi intimamente alla politica monetaria, né ambire a questa, se non si risana il bilancio statale, se non si ottengono i necessari prestiti esteri, e via numerando.

Noi giriamo come una trottola, passando da un problema insolubile da solo, ad un altro insolubile da solo, soltanto perché non li affrontiamo con contemporaneità e unità di direttive. Non si salva la lira se non attuando un piano produttivo, e non si attua un piano produttivo se non sulla tesi solida di una moneta sana; si acuiscono le agitazioni sociali perché la spirale inflazionistica soffoca e riduce alla fame i lavoratori; si ritarda una politica di occupazione perché non si può attuare questo clima produttivistico.

In materia economica difficilmente si può ricercare se vi siano relazioni di causa ad effetto e di effetto a causa: vi è un’interdipendenza che rende difficile trovare il punto in cui far forza per spezzare i circoli viziosi. In questa problematica, se si vuole evitare rimbalzi da un tema all’altro, tra i primi è – in grado di urgenza – l’avviamento deciso ad un metro monetario meno folleggiante. Se ne è parlato in tutti i programmi di Governo, ma nessuna azione coordinata è stata compiuta finora, e questa Assemblea deve dire che il nuovo Governo la compia senza ritardi, perché senza una moneta relativamente stabile tutti i programmi economici sono edifici che si finisce per costruire su un piano inclinato e sdrucciolevole. I lavoratori ben sanno che il processo inflazionistico è l’imposta forse più insidiosa per contrarre silenziosamente il loro salario reale; che nessuna opera ricostruttiva, che nessun risanamento dei bilanci pubblici, che nessuna seria azione fiscale, che nessun piano a lunga scadenza, che nessuna politica produttivistica, che nessun risparmio nazionale sono possibili sul terreno franoso dell’erosione monetaria. Su un prossimo prestito interno – congegnato meglio del precedente – e che sarà inevitabile prima del secondo semestre, non si può far conto se non se ne farà la bandiera della stabilizzazione, e con la contemporanea assunzione d’un adeguato prestito estero.

Quanto a Bretton Woods, molto bene se le incognite numerose che si presentano con questo inserimento si giudicano dal Governo facilmente risolvibili. Ma è bene che il Paese sappia che Bretton Woods non è la panacea della nostra malattia monetaria; e che il risanamento della lira dipende da molte altre condizioni, da molti altri coordinati sforzi. La nostra stessa partecipazione a Bretton Woods ci impone di essere cauti nell’assumere impegni fino a che altri non ci abbiano dato la certezza di poterceli assumere attraverso l’adeguatezza di prestiti a lunga scadenza: e bisogna dire chiaro ai Paesi che ce li possono fornire che questa è una condizione di vita o di morte.

Non si può pensare che ad un’economia disastrata si prometta di venir incontro soltanto quando sarà risanata. È come promettere medicine al malato quando sarà guarito, o, peggio, quando sarà presumibilmente morto.

Noi socialisti, che non siamo internazionalisti solo a parole, poniamo in prima linea il tema della collaborazione economica internazionale. È una cooperazione che dobbiamo dare, ma che dobbiamo anche avere: e noi porremo in atto ogni sforzo perché tale scambio di solidarietà sia reciproco. Se si formerà una O.N.U. per il commercio internazionale, bisognerà esserne attivi collaboratori, incoraggiando gli scambi, purché questa solidarietà internazionale non si fermi alle merci, ma venga estesa agli uomini e ai capitali; altrimenti sarebbe una falsa, parziale e spesso iniqua libertà, mascherante delle limitazioni a danno dei paesi sovrapopolati come il nostro.

I grandi problemi che riflettono l’alta occupazione sono spesso irrisolvibili in sede nazionale, e il Governo deve studiarli e risolverli anche in sede internazionale, così come il problema di un più alto tenore di vita non può ricevere soluzione in sede di obbligate autarchie. Se gli altri Paesi desiderano realmente di raggiungere questi obiettivi – che noi riteniamo gli scopi più immediati d’una politica sociale inderogabile – non devono limitarsi alla formula del «mondo uno», ma realizzare praticamente i presupposti di questa esigenza, in un mondo diventato piccolo e desolatamente sperequato nella sua povertà. Non manca certo, né deve mancare, a noi la volontà di utilizzare gli strumenti internazionali che la pace offre, ma bisogna che questi strumenti siano veramente e interamente utilizzabili da tutti: altrimenti continueremmo a ripetere, con imperdonabile malvagità, gli errori dell’altra pace. Ancora oggi i più seri problemi del trattato di pace non sono soltanto quelli territoriali, ma in maggior misura quelli economico-sociali: i pericoli dei prossimi anni, più che nelle frontiere e nei chilometri quadrati delle zone d’influenza, risiedono soprattutto, a mio avviso, nella formazione di autarchie economiche e sociali, nella permanenza e nella prepotenza di gruppi e zone privilegiate sotto il velame delle conclamate solidarietà.

Le incognite della nostra bilancia dei pagamenti restano gravi anche dopo il viaggio dell’onorevole De Gasperi in America. È da escludere che si possa consentire un pareggio ottenuto attraverso una drastica riduzione del già ridottissimo livello di esistenza del popolo italiano. Poiché sarebbe estremamente pericoloso ridurre le partite passive (per quanto non sia indifferente la loro composizione qualitativa), bisogna dunque stimolare con ogni energia l’aumento delle partite attive; e ciò, più che nelle voci invisibili (il cui maggior contributo ci si potrà attendere verosimilmente non prima del 1948), nella bilancia commerciale. Noi dobbiamo raggiungere al più presto, e superare, il livello di esportazione d’anteguerra, facilitando in ogni modo il reinserimento nella vita economica internazionale, all’occidente e all’oriente.

Del bilancio dello Stato – il cui assestamento è una delle condizioni per ottenere il risultato d’una sana moneta, e io non sono così ottimista come l’onorevole Scoccimarro – occorre dire che difficilmente si potrà diminuire il capitolo delle spese. Gli ottocento miliardi di spese – cioè oltre un terzo del reddito nazionale – non devono essere però superati. E sarà necessario spenderli bene, cioè operare chirurgici tagli in alcune voci, a favore di altre inderogabili. Finora il Paese ha l’impressione che si sia speso male il danaro pubblico: senza cioè un giudizio severo sulle destinazioni, e senza un concertato programma-limite sulle destinazioni. Ascolteremo dal Ministro del tesoro come pensa di far fronte nel prossimo semestre alle esigenze della Tesoreria. Sebbene non si debbano suscitare grandi attese su una politica finanziaria straordinaria, è necessario però che essa si attui con ogni urgenza con il prelievo che deve colpire tutte le forme di ricchezza materiale, e soprattutto avendo riguardo alla stratificazione operatasi nelle rendite congiunturali; ma è al postutto la politica finanziaria ordinaria che consentirà – con una pressione fiscale distribuita secondo la capacità contributiva – di avviare al risanamento il bilancio dello Stato.

Ciò che è da raccomandare è di evitare che le imposte indirette assumano l’eccessiva importanza proporzionale che è stata loro oggi conferita: e che il congegno fiscale sia ripristinato e reso veramente efficiente, dopo lo scardinamento bellico e post-bellico.

Il programma del Governo ripete il desiderio d’una politica produttivistica. Anche questo è uno slogan che ha avuto fortuna, forse per la sua nebulosità., presso tutti i partiti. Ma cosa vuol dire? È un insieme di massimi contemporanei che mutuamente si condizionano. Vuol dire predisporre tutte le premesse necessarie e sufficienti perché le imprese abbiano lo stimolo e il clima per una maggiore produzione, ai fini d’un dividendo nazionale più alto; vuol dire utilizzare meglio e il più compiutamente possibile tutti i fattori produttivi disponibili; vuol dire operare quella «riconversione» della nostra economia che va svolgendosi con una lentezza tartarughesca. Su questo terreno, dalla liberazione in poi, non si può dire che si sia camminato a passi decisi, e nessun programma di riconversione è stato perseguito organicamente. Intende ora il Governo darci questo programma, oppure intende continuare a finanziare e puntellare quasi a caso imprese che si propongono – dopo di aver largamente guadagnato quando puntavano sul cavallo vincente – di guadagnare ora su quello che i loro calcoli giudicavano il cavallo perdente?

Il problema si farà più grave, molto più grave nei prossimi mesi, quando le effimere euforie dei mercati mondiali cesseranno, e la curva dei prezzi internazionali potrà subire una rapida inversione. Noi abbiamo imprese che producono a costi altissimi, sulle quali la spazzola di ferro non è ancora passata per togliere le scorie stratificate dall’autarchia e dall’inflazione.

Delle politiche protezioniste – che io ritengo tutte in minore e maggiore misura perniciose – la più cattiva è quella di proteggere senza scopi precisi, cioè di distribuire privilegi a piccoli gruppi e a spese della collettività. È perciò che mi preoccupa il significato vago di quegli «opportuni accorgimenti», di cui parla l’onorevole De Gasperi, per evitare che il reinserimento dell’economia italiana sul mercato internazionale abbia le ripercussioni temute. Perché, se una politica di sostegno occorre, e in via transitoria purtroppo occorrerà, essa non deve rischiare di distribuire extra-redditi ai pochi godenti di rendite di posizione, ma deve essere rigorosamente controllata, perché il sacrificio si attui veramente nell’interesse di tutti e non si tramuti in un’allegra prodigalità per i più svelti nell’assalto alla diligenza. Se lo Stato ritiene che sia di pubblico interesse intervenire, è condizione indispensabile che sia attrezzato e si attrezzi convenientemente perché nessuno singolarmente approfitti di posizioni monopolistiche, o goda di regali pagati dalla collettività.

Il grosso problema dell’Istituto di ricostruzione industriale, non ancor risolto, attende anch’esso la sua urgente soluzione. Occorre che lo Stato si impegni a condurre bene e organicamente le imprese che già possiede, e che tali imprese seguano la sua politica economica, ne siano gli strumenti ove occorra: questa è la premessa indispensabile per poter procedere oltre, nei settori ove si renda utile; e non bisogna aspettare che il temporale che si addensa sul mondo economico ci faccia trovare impreparati con troppi salvataggi da compiere e privi di congegni per quelli che si compirono.

E bisognerà che il Governo ci dica se intende, e come intende, operare una politica degli investimenti, giacché questo è il punto nevralgico che può compromettere anche il più allettevole piano produttivo.

Bisogna, in sostanza, attuare un certo grado di controllo sulla vita economica del Paese. Nessun obiettivo osservatore, che abbia un minimo di conoscenza della vita economica italiana e internazionale, può metterlo in dubbio: è una delle soluzioni «obbligate» in cui – salvo la misura e la durata – sono pressoché tutti d’accordo. Il problema – di fronte al quale il Governo non è riuscito finora a trovare la soluzione – è il problema dei limiti del controllo, dell’efficienza e della competenza dei controlli.

Ora, qui bisogna essere molto severi, e demolire ogni controllo inutile o che rischia di essere inefficiente ed arbitrario; ma non severi al punto da cadere nell’allegro fatalismo dei liberisti ad oltranza, i quali si coprono gli occhi di fronte al problema sociale, e non vogliono consentire che vi sono degli scopi morali nella vita economica.

Non ci si deve lasciar ingannare dagli attacchi bene organizzati, ma altrettanto interessati, dei gruppi che vogliono sfuggire non ai controlli pletorici o pleonastici, ma a ogni controllo sociale; e forse oggi si tratta di scegliere se siano meglio spese alcune centinaia di milioni per assicurare l’efficienza dei pochi ma ben congegnati strumenti di pace sociale, oppure decine di miliardi per mantenere un esercito che eviti la guerra civile.

L’esperimento del C.I.A.I., contro il quale si appuntarono tutte le armi munificamente dotate di non disinteressati avversari di ogni controllo, dovrebbe essere assunto come veramente innovatore. Non si tratta di far rivivere dei corporativismi, dove il giuoco era in mano di interesse di gruppi sotto la maschera dell’interesse collettivo, ma di ottenere proprio il contrario.

Il grosso problema di aree depresse, di categorie sociali depresse, che affiora in prima linea oggi nel nostro Paese, non è risolvibile se non con una politica economica solidaristica: ed essa non si attua se non si determinano, con nitida visione delle mete, gli strumenti per la sua attuazione. Lasciare al caso questa formazione dei congegni, ritenerla secondario compito, vuol dire rinunziare agli scopi, o dar vita a organi che a ragione possono essere qualificati bardature dannose. Bisogna che, una volta determinata una politica economica, essa abbia attuazione, anche se impone sacrifici o suscita doglianze in taluni gruppi potenti: e il potere esecutivo che ha di fatto, in questo momento, un’ampiezza eccezionale di mandato, non utilizzi le sue facoltà con grande disinvoltura e temerarietà in alcuni casi, con eccessiva prudenza in alcuni altri.

Occorre determinare con chiarezza gli obiettivi vicini da raggiungere; che il Paese li. sappia; che non siano obiettivi fantasiosi o nebulosi e il Paese sia convinto che non lo sono; che il Paese sia consapevole essere il Governo deciso a raggiungerli senza compromessi e senza debolezze o rimpianti.

Oggi viviamo in un’atmosfera di «autofagia democratica». È la democrazia che rischia di mangiare se stessa, perché confonde la decisione democratica con l’attuazione concreta del deliberato, perché è timida nel determinare i limiti dell’azione pratica delle maggioranze, perché non vuol scontentare nessuno. E ciò si risolve in provvedimenti parziali, contradittorî, e in effetto spesso più nocivi che utili; si risolve nella indecisione del potere esecutivo.

Noi dobbiamo uscire, ed al più presto possibile, da questa indecisione, da questo labirinto maledetto della povertà. E ciò che noi socialisti vogliamo oggi è che le masse lavoratrici non paghino tutto il pedaggio feroce di questa porta d’uscita dall’autarchia, dall’inflazione e dalla guerra: intendo dire non lo paghino con sofferenze che mettano in pericolo la stessa loro vita fisica oltreché la loro capacità produttiva.

Altrimenti, onorevoli colleghi, noi ci avvieremmo ad un alto grado di disordine distributivo, e quindi di disordine sociale; e quando le forze di disgregazione predominano, quando esse non riescono che a trasferire la loro energia nel lusso delle reciproche interiori violenze, è sempre il proletariato che sta peggio. Perché il proletariato non può sempre aspettare che il benessere futuro compensi la fame di oggi. Il processo è insanabilmente irreversibile, come purtroppo sappiamo tutti. Non ci saranno pagamenti di «arretrati» per coloro che frattanto si sono ammalati per fame.

Se il Paese non saprà uscire dal vortice, se noi non sapremo – anche sfidando effimere impopolarità – determinare i limiti del possibile, se non ci sapremo imporre un clima di lavoro – che non vuol dire, intendiamoci bene, una serra calda per qualcuno e la fame per gli altri – se non avremo la forza di far agire con minore inerzia la gran macchina dello Stato, ebbene allora sarebbe proprio il caso di concludere che le volontà suicide superano in noi le volontà di esistenza e che il popolo italiano è uscito da un carcere per entrare in un deserto. (Vivi applausi).

PRESIDENTE. Il seguito della discussione sulle dichiarazioni del Presidente del Consiglio è rinviato a martedì alle ore 15.

Interrogazioni d’urgenza.

PRESIDENTE. Comunico che l’onorevole Gallico Spano Nadia, anche a nome degli onorevoli Matteotti Carlo, D’Onofrio, Sansone, Minio, Massini, Vernocchi, Nobili, ha presentato chiedendo risposta di urgenza, la seguente interrogazione:

«Al Presidente del Consiglio dei Ministri e al Ministro dell’interno, per sapere: 1°) per quali motivi in alcuni paesi della provincia di Roma e precisamente a Nemi, Albano, Lanuvio e Monteporzio si sia proceduto in questi ultimi tempi a perquisizioni nelle case di elementi notoriamente democratici, con uno spiegamento di forze, che richiama il periodo dell’occupazione nazista (blocco delle strade, delle case, con mitragliatrici in assetto di guerra, ecc.). Mentre, in questi stessi paesi, elementi neo-fascisti possono impunemente inneggiare al passato regime e permangono indisturbati, anche quando sono trovati in possesso di armi e di esplosivi, i lavoratori iscritti ai partiti di sinistra vengono continuamente sottoposti ad angherie in un regime di terrore; 2°) quali provvedimenti si intenda prendere contro quei funzionari di polizia, i quali nell’esercizio delle loro funzioni: a) adoperano metodi brutali anche contro bambini; b) si permettono di pronunciare frasi tendenti a ledere il prestigio delle istituzioni repubblicane e dei ministri in carica».

Chiedo al Governo se e quando intende rispondere.

DE GASPERI, Presidente del Consiglio dei Ministri. Il Governo risponderà lunedì.

PRESIDENTE. L’onorevole Cevolotto ha presentato, chiedendo risposta d’urgenza, la seguente interrogazione:

«Al Ministro dell’interno, per sapere se risponde a verità quanto è affermato in un comunicato della «Direzione del Giardino Albergo di Russia», apparso sui giornali di Roma (Il Tempo, giovedì 6 febbraio 1947), cioè che il giuoco nel salone dell’Albergo di Russia è gestito dall’Associazione nazionale reduci, in seguito a regolare licenza delle Autorità di polizia.

«L’interrogante chiede, inoltre, se altre simili licenze sono state rilasciate alla stessa Associazione od a altri, in quali luoghi e in base a quali criteri di concessione e di distribuzione».

Chiedo al Governo se e quando intende rispondere.

DE GASPERI, Presidente del Consiglio dei Ministri. Il Governo risponderà lunedì.

PRESIDENTE. L’onorevole Benedettini ha presentato, chiedendo risposta di urgenza, la seguente interrogazione:

«Al Ministro dell’interno, per conoscere se è vera la notizia apparsa sulla stampa che da ieri sera sono state sospese le comunicazioni telegrafiche e telefoniche con la Sicilia, e nel caso affermativo, il motivo di tale provvedimento».

Chiedo al Governo se e quando intende rispondere.

DE GASPERI, Presidente del Consiglio dei Ministri. Il Governo risponderà lunedì anche a questa interrogazione.

Interrogazioni e interpellanza.

PRESIDENTE. Si dia lettura delle altre interrogazioni e di una interpellanza pervenute alla Presidenza.

SCHIRATTI, Segretario, legge:

«Il sottoscritto chiede di interrogare il Presidente del Consiglio dei Ministri e l’Alto Commissario per l’alimentazione, per conoscere i risultati degli accertamenti disposti sulle responsabilità nel fatto della distruzione avvenuta in Reggio Calabria di quintali 49,67 di latte evaporato, ed i provvedimenti adottati in conseguenza.

«Sardiello».

«Il sottoscritto chiede d’interrogare i Ministri dei trasporti e degli affari esteri, per sapere se loro consti che il Governo francese abbia emanato dei provvedimenti che stabiliscano delle tariffe preferenziali portuali e ferroviarie per il traffico delle merci dirette da Marsiglia verso la Svizzera, con il conseguente già avvenuto dirottamento di un piroscafo che faceva normalmente scalo nei porti italiani, e per conoscere quali misure di urgenza si intendano adottare, soprattutto per quanto concerne le tariffe ferroviarie, per salvaguardare e difendere i legittimi interessi, gravemente minacciati, dei porti di Savona e di Genova, che con grandi sforzi e a soddisfazione dei ricevitori svizzeri hanno creato e sviluppato un importante movimento di merci verso la loro Federazione Elvetica con il solidale concorso dei rispettivi Consorzi e delle maestranze portuali.

«Pera».

«I sottoscritti chiedono d’interrogare il Ministro della difesa, per conoscere i criteri che hanno presieduto nella concessione delle linee aeree civili.

«Chieffi, Murgia».

«Il sottoscritto chiede d’interrogare il Ministro della marina mercantile, per conoscere quali sono le ragioni per le quali, con la dovuta sollecitudine, non vengono accolte le domande per ottenere la licenza di pesca, inoltrate fin dal mese di dicembre alla Capitaneria di porto di Bari da parte di motovelieri di Rodi (Foggia).

«L’ingiustificato ritardo lascia nella disoccupazione centinaia di famiglie e priva la popolazione affamata di quell’aiuto che a noi offre il mare e lascia marcire un patrimonio di natanti e reti. Si sollecitano adeguati provvedimenti. (L’interrogante chiede la risposta scritta).

«Miccolis».

«Il sottoscritto chiede d’interrogare il Ministro dell’agricoltura e delle foreste, per conoscere se e quali provvedimenti sono stati presi in merito ad un ricorso avanzato dal Presidente dell’E.C.A. di Carpino (Foggia) il 19 novembre 1946 tendente a fare correggere l’estaglio affitto di un fondo rustico olivetato, assegnato alla Cooperativa di produzione, lavoro e consumo di Carpino stesso.

«Se ritiene che sia umano e giusto il sottrarre ad una Opera di beneficenza, a vantaggio palese di una organizzazione cooperativa, cui non può disconoscersi il fine speculativo, quel dippiù di affitto che tocca e servirebbe a lenire dolori e miserie della povera gente. (L’interrogante chiede la risposta scritta).

«Miccolis».

«I sottoscritti chiedono d’interrogare il Ministro della difesa, per sapere se realmente da tempo sia stato già disposto il congedamento per il 31 marzo 1947 di tutti gli ufficiali di complemento, trattenuti in servizio a domanda, perché domiciliati in territorio irraggiungibile (colonie, territori francesi dell’Africa settentrionale, regioni istriane). Nel caso affermativo, gl’interroganti chiedono quali provvedimenti di favore possano essere presi. Essi, dopo aver partecipato alla guerra, e molti alla guerra di liberazione, o provenienti dalla prigionia, com’è il caso di parecchi, si trovano in una situazione eccezionalmente grave, perché senza casa, senza impiego, e nell’impossibilità di una prossima sistemazione. Nessuno di loro ha potuto ancora ottenere la liquidazione dei danni di guerra subiti. Dato il loro numero esiguo (non sono più di trecento) apparrebbe giusto, qualora sia impossibile sistemarli nelle amministrazioni civili, inviarli in congedo almeno con due annualità di stipendio, sì che sia loro consentito attendere con decoro il reingresso nella vita civile. (Gli interroganti chiedono la risposta scritta).

«Lussu, Priolo, Pertini, Natoli, Molè, Canevari, Uberti, Amendola».

«Il sottoscritto chiede d’interrogare il Ministro della difesa, per sapere se intenda aderire alle ripetute richieste del comune di Fossano (Cuneo), dirette ad ottenere la cessione al comune stesso della parte dell’ex polverificio non adibita a caserma e da circa cinquant’anni totalmente inutilizzata, in guisa da non lasciare inoperosi e sterili alla periferia della città (che ha oltre mille disoccupati ed industrie costrette in limitati ambienti) sessanta ettari di terreno cintato e solcato da due canali, un centinaio di fabbricati, fra grandi e piccoli, che danneggiati e diroccati per il lungo tempo d’incuria e per i bombardamenti, ogni giorno più franano e cadono in rovina; due salti d’acqua generanti energia idraulica corrispondente a duecento cavalli. (L’interrogante chiede la risposta scritta).

«Badini Confalonieri».

«Il sottoscritto chiede d’interrogare il Ministro dell’interno, per sapere come intenda provvedere – di fronte alla tanto sbandierata autonomia comunale – nei confronti dei bilanci comunali, che sono strettamente vincolati e controllati nel procurarsi le entrate, ma non sono liberi di adeguare ad esse le spese; e se non reputi l’autonomia comunale incompatibile con provvedimenti di imperio emanati dal Governo, sui quali ai comuni non è neppure consentito interferire. Ad esempio, ed in particolar modo:

«Nell’approvare il bilancio preventivo per il 1946 molti comuni chiesero allo Stato un contributo integrativo per sanare i disavanzi precedenti, o quanto meno per pagare gli interessi passivi. Lo Stato lo negò nella considerazione che si sarebbe trattato di oneri eccedenti l’ordinaria amministrazione da fronteggiare con introiti straordinari, come se l’escogitare questi fosse cosa agevole, e come se quegli oneri non fossero residui passivi di precedenti bilanci per cui il contributo era riconosciuto e promesso. Non pochi comuni cercarono allora di risolvere il loro problema finanziario con i loro mezzi, e vi sarebbero probabilmente riusciti almeno in parte, specialmente imponendo taluni tributi su prodotti del comune, a’ sensi dell’articolo 41 del decreto-legge luogotenenziale 8 marzo 1945, n. 62. Ma quando detti tributi furono approvati dal competente Ministero e la situazione sembrava farsi più rosea, il Governo col decreto legislativo 25 ottobre 1946, n. 263, articolo 10, aumentò in maniera sensibilissima gli stipendi dei segretari comunali, per di più coll’ormai usuale effetto retroattivo al 1° settembre 1946, e praticamente anche degli altri dipendenti per evidenti ragioni di parità di trattamento; e le autorità statali periferiche ebbero cura di precisare che ciò dovevasi fare senza ricorrere a richieste di contributi statali. Ora è manifesto che, essendo i tributi sui prodotti del comune stati limitati allo stretto indispensabile, essi non erano più sufficienti a fronteggiare i nuovi oneri. A fine dello scorso novembre inoltre alcune Prefetture precisarono che gli oneri per il passato assunti dallo Staio e relativi agli emolumenti degli addetti ai servizi annonari non avrebbero potuto superare una cifra fissata per contingente e per ogni comune: e ciò a malgrado che il contingentamento avesse effetto fin dal semestre decorso e fosse stato annunciato cinque mesi dopo il suo inizio. Questo importa una maggior spesa per i comuni, dovuta al fatto che lo Stato non ha tenuti fermi i suoi impegni. (L’interrogante chiede la risposta scritta).

«Badini Confalonieri».

«Il sottoscritto chiede d’interrogare il Ministro dell’interno, per sapere se gli consta che nel clima fascista, subito dopo la marcia su Roma, nacque l’idea della spartizione del Trentino fra le provincie di Brescia, Verona, Vicenza e Belluno; la prima delle quali doveva ingrandirsi annettendo la Valle del Chiese; la seconda coll’annessione dei circondari di Rovereto, Ala e Mori; la terza comprendendo nei suoi confini l’Altipiano di Lavarone e le Alpi di Caldonazzo, Levico e Grigno e tutta la Valsugana fino ai laghi di Caldonazzo e di Levico; la quarta includendo nel suo territorio Ampezzo, Livinallongo e Primiero; che in particolare Vicenza voleva estendere il proprio confine alle sorgenti dell’Astico, onde comprendere nello stesso le sette montagne di Folgaria e aumentare di altrettanto il patrimonio del comune di Lastebasse, accampando il motivo che dette montagne erano state conquistate col sangue dei nostri soldati, mentre l’Austria le aveva usurpate a danno di Lastebasse e della Repubblica di Venezia; se è a sua conoscenza che il regime fascista, quantunque tirannico e violento, mai si azzardò di correggere il confine a danno di Folgaria, la cui causa fu difesa personalmente anche da quel principe vescovo di Trento monsignor Endrici, che fu internato dall’Austria per aver difesa la sua Diocesi dalle sopraffazioni pangermaniste; se gli è noto infine che nel gennaio ultimo scorso si verificava a danno delle selve di Folgaria un saccheggio di legname del valore di oltre mezzo milione da parte di una banda di Lastebassesi, mentre la benemerita e le guardie forestali, facendo l’intero loro dovere, intervennero con arresti e denuncie e sequestri di refurtiva; se non gli risulta evidente essere sommamente inopportuno che l’autorità politica si adatti a disseppellire e decidere riguardo a controversie già decise e passate in giudicato da secoli, specialmente quando l’intervento dell’autorità politica è invocato da una sola parte per ostacolare e rendere vana l’azione del tribunale ordinario o per giustificare l’offensore a danno dell’offeso. (L’interrogante chiede la risposta scritta).

«Carbonari».

«Il sottoscritto chiede d’interrogare i Ministri della difesa e delle finanze e tesoro, per sapere se non intendano prendere provvedimenti in favore di quei capi famiglia che, avendo raccolto bambini (orfani o meno) in tenera età, allevandoli ed educandoli come figli con notevoli sacrifici, facendo assegnamento sul loro aiuto negli anni della vecchiaia, nel caso in cui uno di tali giovani sia poi deceduto in servizio di guerra, non hanno la possibilità di ottenere un qualsiasi sollievo materiale da parte dello Stato, in quanto l’attuale legge sulle pensioni di guerra ha abolito la figura dell’allevatore, riconosciuta invece ed applicata dalla legislazione del 1918. (L’interrogante chiede la risposta scritta).

«Garlato».

«Il sottoscritto chiede d’interrogare il Ministro dell’interno, per richiamare la sua attenzione sul caso del signor Pisani Leonardo, in servizio presso la Casa di cura di Cipressa fin dal 1936, il quale nel 1941 fece domanda alla Direzione generale dell’I.P.S. (Servizio G.C.C.), per ottenere l’inquadramento tra il personale subalterno; ma la sua domanda fu respinta dalla Direzione generale, perché egli «non era iscritto al partito nazionale fascista». Successivamente, dopo la liberazione, il Pisani rinnovò la sua istanza, caldamente sostenuta dal Direttore della Casa di cura, che lo definiva «ottimo elemento»; ma la Direzione generale respinse il suo esposto, con lettera n. 11991, del 6 aprile 1946, perché a quella data egli aveva superato l’età massima prevista dalle vigenti disposizioni regolamentari. Né ulteriori istanze della Direzione della Casa di cura ottennero che si facesse diritto alla richiesta di quel valentuomo, vittima di una iniqua disposizione fascista.

«Ciò premesso, l’interrogante chiede all’onorevole Ministro se, fra le numerose disposizioni di indulgenza emanate a favore degli antichi gerarchi del fascismo, non se ne possa comprendere una a favore di chi fu e – a quanto pare – resta reo di non volere iscriversi al partito fascista. (L’interrogante chiede la risposta scritta).

«Pellizzari».

«Il sottoscritto chiede d’interrogare il Presidente del Consiglio dei Ministri, per conoscere quali provvedimenti intenda prendere in seguito agli avvenimenti occorsi a Galatina il giorno 3 febbraio 1947 ed al comportamento che nel fatto ha tenuto il Procuratore dello Stato della Procura di Lecce.

«Il giorno tre febbraio, alle ore 15, alcune tabacchine all’uscita dallo stabilimento Fedele in Galatina venivano aggredite da elementi estremisti e ridotte in gravi condizioni, tanto che le responsabili dell’aggressione erano, in seguito a mandato di cattura, tradotte in carcere a Lecce.

«Pochi giorni dopo, il segretario provinciale della Camera del lavoro di Lecce, indiceva un comizio, alla fine del quale si recava dal Procuratore dello Stato e, minacciandolo di rappresaglie, lo costringeva a rilasciare le detenute. (L’interrogante chiede la risposta scritta).

«Cicerone».

«Il sottoscritto chiede d’interrogare il Ministro delle finanze e del tesoro, per conoscere se non ritenga possibile e opportuno che si ammettano i danneggiati di guerra alla liquidazione immediata di congrui acconti mediante una corrispondente assegnazione di titoli del Prestito della ricostruzione. (L’interrogante chiede la risposta scritta).

«Spallicci».

«Il sottoscritto chiede di interrogare il Presidente del Consiglio dei Ministri ed i Ministri di grazia e giustizia e delle finanze e tesoro, per sapere se nello stato di disagio diffuso tra i magistrati, i quali si dibattono nelle strettoie di un trattamento veramente intollerabile, non creda il Governo di adottare provvedimenti urgenti, atti a far cessare una situazione così penosa, il cui prolungarsi verrebbe ad aggravare il disservizio giudiziario. Si annuncia, infatti, una legge che darebbe facoltà ai magistrati che non intendessero prestare il nuovo giuramento, di poter chiedere la liquidazione di quiescenza a condizioni favorevoli. Essi si troverebbero, quindi, indotti a profittare di tale circostanza per lasciare l’ufficio e dedicarsi ad una congrua attività professionale, più giustamente rimunerativa; mentre un ulteriore esodo di magistrati inciderebbe sulla crisi già preoccupante dell’Amministrazione della giustizia.

«In vista, dunque, di tale pericolo, occorre non frapporre indugi nel restituire la tranquillità ai magistrati, consentendo loro di svolgere con la dovuta serenità il proprio delicatissimo ufficio. (L’interrogante chiede la risposta scritta).

«Bertini».

«Il sottoscritto chiede di interpellare il Ministro delle finanze e del tesoro, per conoscere se risponde a criteri di giustizia ed all’interesse dello Stato il ricollocamento in congedo dei finanzieri richiamati i quali hanno prestato servizio con diligenza ed onore in difficile periodo; mentre contemporaneamente si provvede all’arruolamento di nuovo personale privo di addestramento.

«Candela».

PRESIDENTE. Le interrogazioni testé lette saranno iscritte all’ordine del giorno e svolte al loro turno, trasmettendosi ai Ministri competenti quelle per le quali si chiede la risposta scritta.

Così pure l’interpellanza sarà iscritta all’ordine del giorno, qualora i Ministri interessati non vi si oppongano nel termine regolamentare.

La seduta termina alle 20.10.

Ordine del giorno per la seduta di lunedì 17.

Alle ore 16:

  1. – Interrogazioni.
  2. – Svolgimento di interpellanze.