Come nasce la Costituzione

Come nasce la Costituzione
partner di progetto

VENERDÌ 21 FEBBRAIO 1947

ASSEMBLEA COSTITUENTE

XLIII.

SEDUTA DI VENERDÌ 21 FEBBRAIO 1947

PRESIDENZA DEL PRESIDENTE TERRACINI

indi

DEL VICEPRESIDENTE PECORARI

INDICE

Congedo:

Presidente                                                                                                        

Costituzione di una Commissione:

Presidente                                                                                                        

Seguito della discussione sulle dichiarazioni del Presidente del Consiglio dei Ministri:

Cappi                                                                                                                 

Giua                                                                                                                  

Targetti                                                                                                           

Condorelli                                                                                                      

Presentazione di un disegno di legge:

Gullo, Ministro di grazia e giustizia                                                                   

Presidente                                                                                                        

Interpellanza (Annunzio):

Presidente                                                                                                        

Segni, Ministro dell’agricoltura e delle foreste                                                    

Interrogazioni con richiesta d’urgenza:

Presidente                                                                                                        

Segni, Ministro dell’agricoltura e delle foreste                                                    

Interrogazioni e interpellanze (Annunzio):

Presidente                                                                                                        

La seduta comincia alle 15.

MATTEI TERESA, Segretaria, legge il processo verbale della seduta precedente.

(È approvato).

Congedo.

PRESIDENTE. Comunico che ha chiesto congedo il deputato Martino Gaetano.

(È concesso).

Costituzione di una Commissione.

PRESIDENTE. Comunico che la Commissione speciale, da me nominata per mandato dell’Assemblea, in seguito alle proposte dell’onorevole Natoli, ha proceduto stamane alla sua costituzione, nominando Presidente l’onorevole Rubilli, Vicepresidente l’onorevole Natoli, Segretario l’onorevole Bozzi.

Seguito della discussione sulle dichiarazioni del Presidente del Consiglio.

PRESIDENTE. L’ordine del giorno reca il seguito della discussione sulle dichiarazioni del Presidente del Consiglio dei Ministri.

È iscritto a parlare l’onorevole Cappi. Ne ha facoltà.

CAPPI. Parlo a nome del Gruppo della Democrazia cristiana, il quale – credo che la notizia non recherà molto stupore – approva le dichiarazioni del Governo e voterà la fiducia. È anche però notorio, e fu ricordato in quest’Aula, che il Gruppo seguì con vivaci discussioni lo svolgersi e il risolversi della crisi e non sempre i pareri furono concordi: segno evidente di vitalità e di democrazia. Anche di queste discussioni dirò con molta schiettezza, senza le ambagi e le cautele che sono tante volte proprie dello stile parlamentare; e ciò perché io sono nuovo in questa Aula e guardo – né credo che sia male – più al Paese che alla Camera. Del resto, è una condizione nella quale ci troviamo molti di noi, che o la giovinezza o la virilità abbiamo forzatamente vissuto lontano dalla vita pubblica, esuli oltre i confini o esuli in patria; e di questo non ci doliamo, perché ciò accadde per non aver piegato. Siamo fieri, come è fiero il soldato degli anni che ha speso combattendo una giusta guerra. Però, prima di parlare della crisi e di altre cose, debbo spendere una parola per ciò che riguarda il Trattato di pace. Non l’avrei spesa se, uno o due giorni fa, un nostro collega non avesse con molto impeto criticato l’atteggiamento del Governo su questo punto. Anche su questo punto, il Gruppo della Democrazia cristiana ha discusso, e non è un mistero che vi furono anche autorevoli dissensi. Ma io credo che la critica sia dipesa da un’errata visione del problema. Siamo stati tutti vittime di una concezione che dirò privatistica del diritto, secondo la quale la firma è l’atto conclusivo, impegnativo, di un rapporto giuridico.

Questo non è nel diritto internazionale: nel diritto internazionale – e sono concordi gli autori nostri e, ciò che più importa, gli autori recentissimi di Francia, d’Inghilterra e d’America – le parti non sono impegnate dalla firma. La firma fa ancora parte delle fasi formative e preliminari del Trattato, il quale diventa impegnativo per lo Stato solo quando intervenga l’approvazione o la ratifica. Né l’obiezione dell’onorevole Bordon può valere. Si dice che con la ratifica dei quattro Grandi (io li chiamerei «potenti», che non è la stessa cosa) il Trattato diventa esecutivo. È vero. Ma vi è questa differenza abbastanza sostanziale: finché esso non è approvato nelle forme costituzionali dall’altro Stato, rimane un atto unilaterale; lo si esegue come si esegue un atto di forza. Dal che discende una conseguenza giuridica chiara ed importante: se lo Stato che non lo ha approvato resistesse al Trattato, non potrebbe essere accusato di violare un contratto.

RUSSO PEREZ. Senza firmarlo, il Trattato sarebbe stato anche più unilaterale.

Una voce dal centro. Questa è una frase che non significa niente.

RUSSO PEREZ. Per me significa molto.

CAPPI. Non so concepir gradi nell’unilateralità. Se il collega vuole, porterò i testi in lingua francese e in lingua inglese. Ad ogni modo, la critica mossa al Governo di avere defraudato l’Assemblea dei suoi diritti per non avere portato innanzi ad essa la questione della firma non mi pare fondata. Vi è ancora tra gli italiani l’abitudine alle parole grosse. Proprio dalla destra si è parlato, spero per celia, di colpo di Stato quando il nostro Vicepresidente, onorevole Conti, tolse la seduta. Riserviamo queste parole grosse a fatti più importanti. Per esempio, a quanto accadde in quest’Aula il 3 gennaio 1925.

Ora pare a me che il Governo sia da approvare per la linea di condotta seguita in merito al problema della firma. Dall’atteggiamento dei vari partiti – è inutile nasconderlo – già si sapeva che la maggioranza dell’Assemblea avrebbe approvato l’apposizione della firma; e se così fosse avvenuto, non dico che l’Assemblea sarebbe stata, giuridicamente, non più libera di negare l’approvazione, ma è evidente che un certo vincolo, un tal quale inceppo a questa libertà vi sarebbe stato, se la firma fosse stata apposta non soltanto sotto la sola responsabilità del Governo, ma in seguito alla approvazione, dopo apposita discussione, da parte dell’Assemblea.

E veniamo alla crisi. Fu necessaria, fu utile? Segnò una vittoria dell’onorevole De Gasperi, e quindi del partito che egli impersona, o fu uno scacco cocente?

Le opinioni sono diverse. Degli avversari, chi ha parlato di vittoria strepitosa, chi di scacco.

Le cose, secondo me, stanno così. Che la crisi fosse necessaria, o per lo meno opportuna, mi sembra evidente, perché la situazione politica italiana era cambiata dopo il ritorno dell’onorevole De Gasperi dall’America. Erano intervenuti fatti nuovi, dei quali non si può negare l’importanza. Cerano state le dimissioni dell’onorevole Nenni. Un nuovo partito, e notevole, era sorto. Vi era stato un atteggiamento preciso dei repubblicani. E vi era in tutto il Paese un desiderio di chiarificazione, vi era quel desiderio di cose nuove, rerum novarum cupido, che è caratteristico dei momenti di disagio e che il poeta ricordava parlando dell’ammalato il quale «…con dar volta, suo dolore scherma».

Era un dato psicologico che ha la sua importanza. Quindi, la crisi, a mio avviso, fu opportuna. Quali risultati ebbe? Risultati tecnici, indubbiamente; questi furono riconosciuti da quasi tutte le parti dell’Assemblea: unificazione dei Ministeri militari, delle finanze e del tesoro. Il risultato forse più notevole, sebbene meno appariscente, fu quello di aver sollevato il Presidente del Consiglio dal Dicastero dell’interno ed aver limitato la sua attività alla Presidenza, rendendo così possibile una più energica azione direttiva e coordinatrice dell’opera del Ministero. I risultati politici furono inferiori a quelli che ci eravamo proposti. È bene dirlo schiettamente; ma furono inferiori perché? Perché, per loro particolari ragioni, specialmente due partiti ritennero di non far parte della compagine governativa. E che l’intervento di questi due partiti potesse essere utile, lo ha riconosciuto l’onorevole Togliatti, quando ha detto che sarebbe stata desiderabile una concentrazione di tutte le forze democratiche.

Ho accennato al Partito repubblicano, al Partito socialista dei lavoratori italiani; l’onorevole Togliatti accennò ad un altro partito, accennò all’onorevole Molè. Ora, l’onorevole Molè, se non sbaglio, fu invitato a salire a bordo, ma non volle, o il suo partito non volle. E perché noi volevamo quello che si è chiamato allargamento della compagine ministeriale? Lo volevamo appunto per rispondere a quella esigenza che fu tante volte ripetuta e che è una esigenza giusta, profondamente sentita nel Paese, che cioè il Governo sia più omogeneo ed abbia un’efficienza di azione maggiore. Quando questi altri partiti si rifiutarono di entrare nel Governo, il nostro Gruppo si propose le varie alternative, le varie soluzioni. Fare un Ministero con le destre, con tutte le destre? (perché altrimenti non avremmo avuto neanche quella esigua maggioranza che avrebbe potuto consentire la vita, anche di un giorno, del Ministero). Questo non sarebbe stato opportuno perché, per quanto dal 2 giugno in poi siano avvenuti cambiamenti nell’opinione pubblica e nel rapporto di forze fra i vari partiti, non è possibile affermare che sia avvenuto tale rovesciamento di posizioni da giustificare un diverso schieramento dei partiti al Governo. Fare un Governo da soli? Questo ce lo siamo proposto, ma anche questo Governo, per vivere stentatamente, avrebbe dovuto appoggiarsi sui voti di alcuni, anzi di tutti i settori della destra. Ciò non avrebbe risposto alla situazione politica del Paese ed avrebbe – non ce lo siamo nascosto – potuto gettare dei semi di discordia, avrebbe potuto costituire un pericolo per l’ordine pubblico. Si è detto giustamente da quella parte (destra) che codesto minacciare e paventare disordini non è democratico; ma la politica deve guardare la realtà quale è, non quale dovrebbe essere; e la realtà effettiva è che a sei mesi di distanza dal 2 giugno – quando ci troviamo ancora in un clima un po’ arroventato – un Ministero formato solo dalla Democrazia cristiana, con l’appoggio esclusivo della destra, compresa anche la parte monarchica, avrebbe indubbiamente scatenato nel Paese gravi agitazioni. Ed allora vi fu fra di noi chi pensò che fosse opportuno per il nostro Partito rinunciare al mandato e lasciar libera via ad un Ministero tutto di sinistra. Anche qui però vi erano, secondo noi, gli stessi pericoli. Un Ministero esclusivamente di sinistra non avrebbe corrisposto alla situazione politica del Paese e avrebbe potuto provocare quei disordini ai quali ho accennato poc’anzi.

Vi era, ripeto, qualcuno di noi che lo desiderava, e lo desiderava, lo dico schiettamente, nell’interesse del Partito, perché alcuni osservavano, ed in linea di fatto non avevano torto, che, insomma, questo nostro Partito, stando al Governo, si logora.

Da una parte, tutti i provvedimenti impopolari che era costretto a prendere erano addebitati ad esso, erano addebitati al suo capo contro il quale non si risparmiavano sanguinose accuse. Dall’altro canto, vi era una certa parte, non lo nascondiamo, del corpo elettorale del 2 giugno, il quale aveva dato il voto a noi perché allora altre bandiere non si erano levate nel Paese. Certa parte del nostro corpo elettorale, la quale aveva ritenuto ritrovare in noi solo un argine di conservazione, cominciava a dar segni di inquietudine. Perché è vero che noi, nella propaganda elettorale, avevamo parlato di giustizia sociale e d’altre cose del genere, e l’onorevole De Gasperi, mi pare a Civitavecchia, disse una frase che era grave o poteva essere grave per le conseguenze, quando parlò di «redistribuzione del possesso agrario». Ma gli elettori sono smaliziati. Credevano alcuni di essi che si trattasse di frasi elettorali. Quando poi videro quelle diavolerie del lodo De Gasperi e dei decreti Segni, allora cominciarono ad allarmarsi ed a staccarsi da noi. Gli amici che fra noi vedevano questa realtà, questo sfaldarsi delle due ali della nostra compagine, credevano che fosse utile per noi abbandonare il Governo. Allora intervenne l’onorevole De Gasperi, il quale, democraticamente, era sempre intervenuto alle sedute del Gruppo. Io vorrei che quelle sedute del Gruppo nelle quali egli parlò, invece di essere state limitate a noi, fossero state estese a tutti i membri di questa Assemblea; perché l’onorevole De Gasperi (il quale fu accusato di giolittismo e di freddezza ed invece gli arde nel cuore una fiamma ardente di passione e di sentimento) seppe portare di un balzo più in alto il tono della discussione. Ci disse che noi dovevamo non badare esclusivamente alle fortune del nostro partito; che vi era l’Italia, la quale attraversava un momento pericoloso e, fragile ancora com’era, non aveva bisogno di altre agitazioni e discordie. Che se noi – egli disse – raggiungeremo questo bene comune, questa pace sociale, anche a detrimento delle nostre fortune elettorali, noi avremo conquistato la più bella e la più degna delle nostre vittorie. Ed il Partito, consentitemi che ne sia fiero, aderì unanimamente a questo pensiero e a questo sentimento dell’onorevole De Gasperi. (Applausi).

Noi che cosa volevamo? L’ho già detto: un Governo più omogeneo, un Governo in cui le convergenze superassero le divergenze. In parole piane, noi volevamo un Governo che nella persona del suo Capo e nel suo programma fosse un Governo di centro.

E veniamo al famigerato «centrismo», oggetto sino a ieri, e forse fino ad oggi, di aspre critiche. Forse oggi una critica spero mancherà da quei banchi, perché è sorto un nuovo partito il quale, con una ambizione che è degna di un partito nuovo, manifesta il proposito di diventare esso il partito di centro della nuova Italia.

Poiché io ritengo necessaria questa funzione centrista, auguro all’onorevole Saragat che, qualora la Democrazia cristiana fallisse in questa sua funzione – il che, bene inteso, non mi auguro – egli trovi nel suo cammino meno spine e meno amarezze di quelle trovate da noi.

Ma forse ha già cominciato a sentire anche lui qualche spina…

Centrismo: io credo che anche qui i nostri avversari siano vittime di un errore di prospettiva. Centrismo, secondo loro, vuol dire equilibrio, vuol dire opportunismo, quando non venga dipinto con aggettivi più pittoreschi. Orbene, tutto questo nasce da un errore.

Si crede che la Democrazia cristiana sia sorta dopo gli altri partiti e si sia inserita fra di essi, prendendo un po’ da destra e un po’ da sinistra, pasticciando così un programma suo intermedio, allo scopo di raccogliere voti da tutte le parti.

Non è così. Se il Partito democratico cristiano, come formazione politica specifica, è recente, la dottrina democratica cristiana, sociale cristiana, ha preceduto di gran tempo gli altri partiti, affonda le sue radici nel Vangelo e nei Padri, ed è una dottrina la cui sostanza viva è quella che si può ben chiamare centrismo.

Non mi voglio dilungare, ma qualora si pensi al programma nostro in materia di rapporti fra Stato e individuo, fra proprietà e funzione sociale della proprietà, fra liberismo e statalismo, e, se vogliamo salire nel campo filosofico, fra idealismo e materialismo, coloro che hanno lume di ragione e conoscenza di dottrine capiscono come il programma nostro non sia un programma raffazzonato col raccattare pezzi di altri programmi, bensì un programma nostro originale. E noi crediamo che questo programma sia e rappresenti una funzione vitalissima di salvezza sociale, specialmente in questo momento del nostro Paese.

Un’altra accusa che si muove, e questa si può dire universalmente, salvo l’onorevole Togliatti, alla soluzione della crisi, è che essa ha portato ancora ad un Governo tripartito, ad un Governo di coalizione.

Non è per amore avvocatesco di affrontare le cause difficili che io mi sentirei di fare una lunga arringa in difesa del tripartitismo e dei Governi di coalizione in genere. Io credo che questo «slogan» di accusa al Governo di coalizione sia un segno di pigrizia mentale.

È nel carattere della nostra intelligenza italiana e latina di voler trovare la spiegazione logica pronta di un fatto, il nesso chiarissimo di causa ad effetto.

I francesi esprimono questa loro forma mentis in un detto che io ricordo dai tempi della scuola: «Si je tombe par terre, c’est la faute à Voltaire. Si je tombe dans le ruisseau, c’est la faute à Rousseau». E già Leonardo ammoniva che la realtà è ben più complessa e diceva che «in natura sono molte più cose che non siano in dottrina e in esperienza».

Fosse vero che tutte le cause del travaglio che attraversiamo fossero dovute al tripartitismo! È una illusione. Se la nave rulla e beccheggia, non è perché a bordo vi siano due o tre piloti, ma perché il mare è grosso.

E poiché qui si sono portate delle immagini, come quella dei cavalli che vanno uno da una parte e uno dall’altra, come quella dell’asino di Buridano che muore di fame non sapendo scegliere «tra duo cibi distanti e moventi d’un modo», anche un’altra immagine si potrebbe portare tratta dalla fisica: quella che dalle forze componenti nasce la risultante, lungo la quale si sviluppa il moto.

Ma sono tutte immagini: il fatto è che oggi la realtà sociale, economica, politica è difficilissima, tanto che se anche vi fosse al Governo un solo partito, un solo uomo, pensate forse che avremmo una politica univoca e rettilinea? Non credo. L’onorevole Tremelloni ha ammonito che bisogna scegliere una via e una volta scelta seguirla decisamente. Ma la difficoltà sta nella scelta! E noi vediamo uomini di Governo di tutti i partiti che su certi problemi oggi sono di un parere e domani di un altro. Non possono fare altrimenti, perché bisogna adeguare l’azione del Governo alla mutevole realtà. Il «tirare diritto» può, in certi casi, essere pericolosa ostinatezza e superbia.

Quindi ripeto che le coalizioni non sono soltanto una necessità aritmetica, ma una conseguenza della situazione sociale e politica del nostro Paese.

Ed hanno anche un vantaggio, al quale accennava indirettamente l’onorevole Saragat quando giustamente diceva che oggi tutti i partiti sono esclusivisti, sono intransigenti, sono settari; vogliono, in ciò che credono l’interesse del Paese, applicare integralmente il proprio programma. E lo farebbero, se fossero soli al Governo. Con la conseguenza di reazioni violente degli altri, di urto delle passioni e degli interessi; e quindi pericoli per questo nostro Paese, la cui vita è ancora in un periodo di tanto fragile consistenza.

Le accuse contro il tripartitismo non sono dunque giuste.

Molti colleghi hanno individuato il difetto maggiore del tripartitismo nella inefficienza dell’azione di Governo; e l’onorevole Togliatti, con una critica forse più cortese ma più penetrante, disse addirittura che la Democrazia cristiana e il suo Capo non hanno una direttiva di Governo.

Rimprovero grave. Ma non credo che sia confortato dai fatti. Se volessi fare una battuta polemica potrei dire: se questo Governo mancava di direttiva, di bussola, se non sapeva dove arrivare, come poterono onestamente gli uomini di sinistra continuare a restarvi?

Ma, ripeto, questa è una battuta polemica. La realtà è che anche qui si esagera e si dicono parole troppo grosse quando si parla di paralisi del Governo.

Il Governo qualche cosa ha ben fatto! Non starò a leggere l’elenco dei disegni di legge approvati: ve ne furono parecchi. Vi furono i decreti in materia di alimentazione, in materia di affitti, in materia agraria; saranno stati più o meno approvabili, ma un’azione vi fu ed ebbe notevole valore politico.

Vi fu il decreto di amnistia. Dite niente? Poteva il Governo, senza una direttiva politica, emanare quel decreto? (Interruzioni – Commenti).

Io non entrerò nel merito; ma potete criticare (anch’io ero contrario a tanto smisurata amnistia), non dire che il Governo non aveva una direttiva politica? (Interruzioni).

Ad ogni modo, vi potrei ricordare altre cose. Non si può dire che il Governo abbia mancato di direttiva politica, quando seppe, senza neppur l’ombra di quella guerra civile che scoppiò in altri Paesi, portare il nostro Paese alle elezioni della Costituente ed alla risoluzione del gravissimo problema istituzionale. Prima del 2 giugno e dopo, il Governo e l’onorevole De Gasperi personalmente non si può dire che non abbiano avuto una precisa direttiva politica, specialmente quando, dopo il 2 giugno, l’onorevole De Gasperi, con una dirittura e con una forza di decisione ben ferme, seppe opporsi alle tergiversazioni del mal consigliato re.

Per finire questa difesa del Governo di coalizione, mi permetto di osservare che una direttiva politica può consistere anche in atti di omissione, nel non fare. Non so se sia presente nell’Aula l’onorevole Einaudi. Ricordo che egli, con quella sua arguzia inimitabile, disse che l’opera più utile del Governo è quella di non fare leggi. Talché, quando si stava discutendo d’un certo congegno della nuova Costituzione, avendo alcuni detto che quel congegno rendeva più difficile l’emanazione di leggi, l’onorevole Einaudi col suo candore esclamò: «Appunto per questo, io lo approvo».

A parte questo, è certo che anche l’omettere di fare qualche cosa, anche il resistere a pressioni, che possono venire da una parte o dall’altra, per certi provvedimenti, il resistere – come diceva l’onorevole Tremelloni – alla prodigalità d’ogni colore, e via discorrendo, anche questo non fare può essere una non meno utile direttiva politica.

Perciò, ripeto, è per lo meno assai eccessiva l’accusa di deficienza mossa al Governo di coalizione.

Mi affretto, perché vi è sopra quei banchi (Accenna a sinistra) persona cui devo risposta.

Una parola sul programma sociale del Governo. Non entrerò nei particolari; ma credo che l’atto forse più coraggioso e più onesto del nuovo programma governativo è il rinvio al nuovo Parlamento delle profonde riforme di struttura nel campo agricolo, industriale, bancario.

Su questo punto, non per artificio polemico (non vorrei cioè prendere le armi dall’arsenale avversario), io vorrei ricordare ciò che ha detto l’onorevole Tremelloni, in contrasto – è una verità evidente, non è malizia ricordarlo – in netto contrasto con ciò che disse il suo compagno di partito e capo, onorevole Saragat. L’onorevole Tremelloni espose un programma economico che – io credo – il Partito della Democrazia cristiana potrebbe sottoscrivere. Io non ve lo sto a ripetere. Ma egli parlò di posizioni di centro, di compromesso fra liberismo e statalismo; disse che ci si deve proporre una disciplina concreta, onde creare un clima produttivistico; che occorrono modeste soluzioni dei problemi quotidiani; che non si tratta di trovare degli «slogan», delle formule miracolistiche, ecc.

Ora, credete voi sul serio, onorevoli colleghi che avete criticato il Governo perché non ha proceduto a queste grandi riforme strutturali, credete sul serio che sarebbe stato bene fare queste riforme oggi? Ma come si possono costruire istituti nuovi sulle sabbie mobili di un’economia, che con efficace neologismo l’onorevole Tremelloni chiamò «economia disastrata», sulle sabbie mobili di una situazione sociale ed economica che è tutta instabilità ed incertezza? Sarebbe stato improvvido, vorrei quasi dire disonesto, da parte del Governo, procedere a queste riforme in queste condizioni; perché – badate – una riforma improvvisata, intempestiva, non solo nuoce all’interesse generale, ma nuoce, quando fallisce, a quelle stesse classi alle quali vorrebbe giovare.

Però, detto questo, noi protestiamo contro l’accusa che, almeno da parte della Democrazia Cristiana, il rinvio significhi un proposito ritardatore od elusore delle riforme e, in genere, di quel rinnovamento economico-sociale che anche noi abbiamo promesso ai nostri elettori e che continuiamo a ritenere utile per il nostro Paese. (Commenti a sinistra).

Noi approviamo l’ardita politica assistenziale e sociale del Governo, e i miei colleghi socialisti e comunisti della circoscrizione di Cremona sanno che queste cose io non le dico qui per opportunismo o per un certo centrismo; le ho dette durante la lotta elettorale e le ho dette a scapito di quella che poteva essere la mia piccola fortuna elettorale. Ho detto che le conseguenze della guerra le devono pagare i ricchi; e le devono pagare non – forse in questo ci differenziamo da alcuni altri colleghi – per una sanzione punitiva, ma per necessità, per giustizia sociale. Dopo le guerre del Risorgimento, le spese le pagò esclusivamente o quasi esclusivamente la povera gente. Chi vi parla visse – figlio di un povero medico condotto – nelle campagne lombarde fra il 1890 e il 1900 e ricorda la miseria disumana, le condizioni nefande in cui vivevano i contadini di quelle terre; la miseria che fece strage con la pellagra e con altre malattie, e spinse questa gente ad emigrare, a morire di febbre gialla nelle «fazendas» del Sud-America. Questa, signori, non è demagogia, è la realtà. Oggi ciò non è più possibile, non sarebbe più possibile, non solo per la grande forza che oggi hanno le classi lavoratrici, le quali non permetterebbero simile sperequazione, ma non è possibile per un senso di giustizia sociale. E non è possibile nello stesso interesse delle classi abbienti, perché fu in quella miseria che allignarono i germi di quell’odio, di quell’aspra lotta sociale che tanti lutti arrecò al nostro Paese e che ancora oggi non è spenta.

Perciò noi diciamo al Governo che da gran tempo si doveva istituire l’imposta straordinaria sul patrimonio. Le giustificazioni che al riguardo furono date, personalmente non mi sodisfano, perché sono giustificazioni di carattere tecnico.

Ora, io vorrei dire all’onorevole De Gasperi che egli in questo dà prova di soverchia probità. Egli, ritenendo di non avere una specifica competenza in materia, si affida ai tecnici. I tecnici (escludendo pure ogni proposito di ostruzionismo) spesso non vanno d’accordo fra loro, vogliono la perfezione, vogliono congegnare un’imposta senza un neo, alla quale nessun cespite sfugga. In questi momenti però non conviene affidarsi troppo ai tecnici; è meglio un provvedimento imperfetto, ma tempestivo, che non un provvedimento perfetto ma che viene quando il momento favorevole è passato. (Applausi).

SCOCCIMARRO. Sarebbe stato molto comodo per le classi ricche questo sistema.

CAPPI. Onorevole Scoccimarro, lei mi invita a sconfinare da quello che voleva essere il campo della mia discussione; ma, benché non abbia grande competenza in materia, permetta le dica che la giustificazione da lei data circa il ritardo dell’istituzione dell’imposta patrimoniale non mi ha convinto. Lei ha detto con molta chiarezza che l’imposta sul patrimonio avrebbe dato uno scarsissimo frutto al Tesoro dello Stato, se non fosse stata accompagnata dal cambio della moneta, cambio che lei voleva e che l’onorevole Corbino non voleva.

CORBINO. Non l’hanno fatto, nemmeno quando me ne sono andato io; eppure il Ministro del tesoro voleva il cambio della moneta!

CAPPI. Per applicare l’imposta patrimoniale – l’onorevole Scoccimarro ha detto – è necessaria la stabilità monetaria e per raggiungere questa stabilità occorre il cambio della moneta. Questa è stata la vostra giustificazione. Mi riesce arduo pensare che lei veramente ritenga che a dare la stabilità monetaria in un Paese basti il cambio della moneta.

SCOCCIMARRO. Era soltanto un mezzo, l’anno scorso.

CAPPI. Secondo lei era il mezzo principale. Ora, contra factum non valet argumentum: è un brutto latino, ma una grande verità. In tanti paesi fu fatto il cambio della moneta, ma la stabilità monetaria non fu affatto raggiunta. Non solo, ma nell’altro dopoguerra noi abbiamo istituito l’imposta sul patrimonio undici mesi soltanto dopo la cessazione delle ostilità, quando ben lontana era la stabilità della moneta.

SCOCCIMARRO. Infatti, non ha reso nulla, è stato un mezzo fallimento; e voi volevate ripetere il fallimento anche in questo dopoguerra.

CORBINO. Ha reso 20 miliardi nel 1919, il che significa oltre 400 miliardi di oggi.

CAPPI. Onorevole Scoccimarro, io non ho i dati statistici a sua disposizione; però, anche nella mia modesta esperienza, io ritengo che qualche cosa abbia reso, a giudicare dalle molte cartelle esattoriali che ho visto, anche personalmente, ritirare e pagare.

Ad ogni modo, io concludo su questo punto dicendo che nel campo della politica sociale la Democrazia cristiana darà la propria approvazione a tutti quei provvedimenti, anche i più arditi, i quali valgano a dare allo Stato i mezzi per una politica previdenziale e provvidenziale, che possa elevare la situazione economica delle classi lavoratrici.

Non parlo a voi, rappresentanti della destra, ma ad una certa vostra base elettorale.

Tutti noi, partiti, abbiamo, disgraziatamente, una base elettorale che, alle volte, non è all’altezza di noi rappresentanti.

Una voce. Viceversa!

CAPPI. Ora, ripeto, badate: voi parlate dei valori dello spirito, e voi potete immaginare con quanta soddisfazione da questa parte si sono sentiti elogiare ed auspicare questi valori. Ma sappiate che quando la miseria è estrema anche le forze ed i valori dello spirito si affievoliscono e si spengono. (Applausi al centro).

Ed ora io devo una risposta all’onorevole Togliatti. «Et honor et onus», perché è tutt’altro che facile polemizzare con l’onorevole Togliatti e, in genere, con lo stile comunista.

Permettano questi nostri colleghi di dir loro che, per quanto essi siano gli uomini dell’oggi, anzi, forse del domani, si direbbe che abbiano studiato la più sottile precettistica oratoria ellenica e romana.

Anzitutto, la dulcedo loquendi; alla quale sarebbe però bene seguisse anche la dulcedo agendi. Un famoso precetto dell’arte poetica di Orazio: «Si vis me fiere, dolendum est primum ipsi libi» lo hanno tradotto così: «Se vuoi convincere, mostrati convinto». E difatti, essi, nei loro discorsi, anche parlando dei problemi più ardui, più problematici e più dubbiosi, usano tale accento di candida convinzione che sembrerebbe alle volte cima di scortesia sollevare dubbi sulla esattezza di quello che affermano. (Approvazioni al centro).

L’onorevole Togliatti, dunque, ha preso a partito – scusate il gallicismo – la Democrazia cristiana. Verrò al nocciolo della questione, là dove egli – e io gli sono grato, tutta l’Assemblea deve essergli grata – ha portato la disputa in un terreno molto elevato, al disopra della politica contingente parlamentare, toccando i problemi della politica generale, sfiorando anche gli acrocori della filosofia.

Però, mi consenta prima qualche rilievo particolare; e, prima ancora, lasci che io esprima l’effetto che a me, e credo a molti, dentro e fuori di qui, ha provocato questo suo discorso, come tanti altri che ella ha fatto, come quello – dinanzi ad una folla veramente oceanica – che ho ascoltato durante la battaglia elettorale nella mia Cremona. Il senso che ha lasciato è questo: perplessità. È dunque questo il comunismo? Questo il comunismo quale apprendemmo dai testi? Quale vediamo realizzato in vane Nazioni e nei più piccoli nostri paesi? E se non è questo, qual è?

Ma torniamo ai rilievi particolari. L’onorevole Togliatti ha detto che il Partito comunista non ha fatto e non fa il doppio giuoco; ha chiesto soltanto e chiede che il programma in base al quale ha collaborato al Governo sia realizzato, rendendo effettiva ed utile la collaborazione. Questo sarebbe un suo diritto; un’utile funzione stimolatrice. Ma, davvero, si è limitato a questo, nelle parole e nei fatti, il Partito comunista? Certi discorsi e certi articoli, certi manifesti e certe manifestazioni, hanno di molto sorpassato il limite tollerabile. Anche qui, restiamo perplessi.

TOGLIATTI. In questo campo siete dentro le mura e fuori le mura.

CAPPI. Già: «Intra iliacos muros peccatur et extra». (Si ride).

Lei, onorevole Togliatti, ha cercato quale sia stata la chiave della crisi. Ha onestamente escluso che vi fosse nell’onorevole De Gasperi il proposito di eliminare dal Governo i comunisti. Gliene diamo atto. Però, quella favoletta della volpe e dell’uva… (Questi ricordi classici alle volte giuocano scherzi poco simpatici)… Perché quella favoletta? Non è un po’ un dire e disdire, non vi è quella ambiguità, che voi rimproverate a noi e noi troviamo che non è rara in voi? Restiamo perplessi. Comunque, veniamo al nodo.

Voi avete parlato della crisi ed avete detto che non è crisi di Governo, non è crisi del Paese, ma è crisi della Democrazia cristiana. Io ho qui il testo delle vostre parole; per brevità non lo leggo, ma il succo lo riporto fedelmente. Incertezza, ambiguità, incapacità di afferrare i temi del problema politico italiano; di tutto questo dà prova la Democrazia cristiana. È una squalifica politica in regola. E la censura poi si aggrava, diventa una accusa di inganno e quasi di tradimento. Voi asserite – ed è vero – che noi abbiamo detto che il vecchio capitalismo è morto; ci vuole un nuovo ordinamento sociale, bisogna spezzare i residui feudali, bisogna spezzare la dittatura della ricchezza ed altre cose di questo genere. Ma voi poi dite: Lo avete fatto? Lo farete?

Quanto al «farete», noi non tolleriamo, per la dignità del partito, dubbi sulle nostre intenzioni; e quanto poi al passato ci sembra di aver fatto, con leggi e proposte, quanto s’è potuto fare nel campo economico e sociale. Se di più non abbiamo fatto, ciò lo si deve alle ragioni alle quali ho accennato pochi minuti fa. Di una cosa può esserci testimonio lo stesso onorevole Togliatti. Nella formazione della nuova Costituzione, per ciò che riguarda la parte sociale, forse che i democratici cristiani si sono mostrati pavidi, forse che, molte e molte volte, non abbiamo anzi solidarizzato con voi? Ma, onorevole Togliatti, la di lei prodigiosa e giovanile memoria è qui venuta meno. Noi, nel programma elettorale, abbiamo detto le cose ricordate da lei; ma ne abbiamo dette anche delle altre, che non s’accordano con voi. Abbiamo detto che, dando loro una funzione sociale, crediamo ancora utili la proprietà e l’iniziativa privata. Abbiamo detto di non volere la lotta di classe; abbiamo invece parlato di solidarismo. L’onorevole De Gasperi, al Congresso del nostro partito, ha usato proprio questa espressione, che è stata ripetuta l’altro giorno dall’onorevole Tremelloni. Noi abbiamo parlato anche, riecheggiando l’intervista del 1924 di Turati, sulla quale mi spiace che si stia facendo la congiura del silenzio, di libertà di insegnamento; soprattutto, abbiamo parlato di libertà di credenza e di attività religiosa; di opposizione ad ogni totalitarismo, perché vogliamo lo Stato a servizio dell’uomo, non il rovescio. Anche a questo programma abbiamo tenuto fede. Ed ora consentite un’altra battuta polemica; noi questo programma politico lo abbiamo esposto; siete voi sicuri di avere rivelato con altrettanta sincerità e compiutezza il vostro programma? Ma, in sostanza, voi ci tendete la mano; voi fate un nuovo appello alla concordia, all’unità, perché, secondo voi, nulla o quasi nulla ci dividerebbe. Non è esatto. Eppure badi, onorevole Togliatti, noi desideriamo porre l’accento sui motivi di convergenza anziché su quelli di divergenza; noi desideriamo la collaborazione, che in questo particolare momento riteniamo utile. Nessun dubbio su ciò. Se mi è lecito un ricordo personale, chi vi parla compilò a Cremona, nel 1921, di fronte alla minaccia fascista, che là aveva nome Farinacci, un patto di intesa con i socialisti, cui prese anche parte un deputato socialista che siede tuttora su questi banchi. Io cercai poi di estendere sul terreno nazionale quel patto, ma da alcuni dei vostri, a Roma, mi fu risposto che era contro natura. Va bene; il fatto «secondo natura» venne poi e si chiamò fascismo! Collaborazione, sì, dunque; ma collaborazione non significa confusione; la collaborazione deve essere chiara e leale, altrimenti vi è l’equivoco che, anche in politica, è infecondo e diseducatore. Voi avete detto che fra voi e noi non vi sono quasi differenze ideologiche, filosofiche o religiose. (Commenti a sinistra).

DI VITTORIO. No, questo sarebbe un po’ troppo.

TOGLIATTI. Sarebbe esagerato.

CAPPI. Almeno, credete che non siano essenziali e ritenete di averle superate col vostro concetto di libertà e di pace religiosa: questo, sì, lo avete detto. Ora, nelle Commissioni per la Costituzione io vi do atto che, in notevole misura, voi avete seguito questo proposito di pace religiosa. Altrettanto tenace però fu l’atteggiamento contrario di tutti gli altri partiti di sinistra. Quanto ciò è triste ed angusto!

Ora voi affermate che non avete detto che non vi sia, tra noi e voi, una differenza ideologica profonda. Sta bene. Ma ad evitare confusioni non sarà male che brevissimamente io dica come la nostra collaborazione deve avere dei limiti. Vi era già un contrasto per quanto riguardava il materialismo storico; più grave oggi è il contrasto con il vostro materialismo dialettico, il quale, sotto l’apparente innocuità di questo aggettivò, cela il più pieno ed assoluto materialismo.

SCOCCIMARRO. Lei è in arretrato di molto!

CAPPI. Non credo. E poiché voi vi siete compiaciuti di indugiarvi sulla natura del vostro anticlericalismo, io non scenderò agli episodi, ma dirò che la vostra concezione in materia ci lascia perplessi, assai più che perplessi, perché il vostro non è tanto l’anticlericalismo calunnioso, pornografico, quale appare su certi fogli e titilla i bassi istinti di certi strati deteriori del popolo, quanto una terribilmente logica conseguenza della vostra dottrina. Voi ritenete che l’uomo non sarà veramente libero e non potrà raggiungere la pienezza del suo sviluppo, dirò spirituale, se non sarà liberato da ciò che voi chiamate o ritenete superstizione religiosa. Noi invece crediamo che quella che voi chiamate superstizione è la forza che fa veramente libero l’uomo, lo fa da effimero eterno, può far fiammeggiare fino ad altezze sublimi la divina scintilla che è in lui. (Applausi al centro).

Ma scendiamo dalla stratosfera filosofica e veniamo sul terreno politico. Vi è la concezione stessa di democrazia che ci distingue. Era un processo logico fatale il differenziarsi di quel concetto. Per venti anni la democrazia si chiamò e fu antifascismo. Vi era allora un elemento negativo unificatore. Abbattuto il fascismo, sono sorti i vali aggettivi: democrazia liberale, cristiana, progressiva, del lavoro. Questi aggettivi non sono etichette messe a scopo reclamistico; rispondono a differenze di sostanza. La vostra democrazia è progressiva, ed anche qui l’aggettivo pare innocuo, ma è un po’ ambiguo; ci lascia perplessi. Vorremmo sapere: progressiva verso dove e fin dove? Non forse fin verso il regime sovietico?

Tuttavia vi è anche una certa convergenza con noi, perché la democrazia cristiana, oltre che per un suo particolare fondamento etico, si differenzia notevolmente da quella liberale, che è meramente politica. Noi, già lo dissi, vogliamo dare alla democrazia un contenuto sociale. Le libertà civili e politiche, secondo noi, sono illusorie se non sono accompagnate da una certa indipendenza economica, in mancanza della quale il povero sarà tratto a cedere e a barattare le sue libertà. Dove è la nera miseria, ivi il mercenario è pronto a seguire ogni bandiera.

In questo abbiamo un notevole punto di contatto con voi, ma ci sono dei limiti che noi non vogliamo superare.

L’onorevole Nenni forse è stato più impulsivo, più, diciamo così, romagnolo. (Ilarità). Si è qualche volta scoperto di più. Chi si scoprì ancor di più fu l’onorevole Basso, a Bologna, quando, di recente, parlò di necessità della violenza, di legalità, direi, dell’illegalità. Queste frasi mi ricordano altre frasi sentite. Mi ricordano una frase sentita dall’ex duce nel contradittorio che ebbi con lui nella campagna elettorale di Pescarolo, del 1914. Egli disse allora che la violenza era la levatrice della storia. (Si ride).

Una voce a sinistra. Ma questo è Carlo Marx!

Una voce a destra. Ne prendiamo atto.

CAPPI. E ricordo un’altra frase più truculenta, come era nel suo stile. Disse che bisognava immergere – disse proprio così e credo che fosse presente anche l’onorevole Caporali – l’ultima spada nel ventre dell’ultimo borghese e poi trasformare le spade in zappe, in pacifici strumenti di lavoro. (Ilarità – Commenti).

Un anno dopo, non le spade si trasformarono in zappe, ma le zappe, e perfino le pie campane, si trasformarono in spade. (Applausi al centro – Commenti a sinistra).

E vengo ad alcune frasi dell’onorevole Togliatti. Voi avete esposto una concezione del diritto delle maggioranze che non può essere da noi condivisa. Avete detto al Governo: «Osate; giacché avete dietro di voi 18 milioni di elettori, avete la maggioranza». Noi crediamo che vi siano dei diritti e dei principî di giustizia che nessuna maggioranza, neppure la totalità meno uno, può violare. (Applausi al centro).

Per noi la democrazia significa libertà indivisibile. Voi avete detto: non libertà per i nemici della libertà. Prima di voi, onorevole Togliatti, lo disse, un secolo fa, un legittimista francese: «Noi domandiamo a voi – e parlava ai liberali di allora – la libertà, perché questa è la vostra dottrina. Quando saremo al potere ve la negheremo, perché questa è la nostra dottrina». Queste proposizioni ci lasciano perplessi. Anzi, le respingiamo.

Una voce a sinistra. Per questo ci preoccupa l’onorevole Gonella.

CAPPI. Voi – forse perché il concetto vi sembrava di non facile accoglimento – avete citato in appoggio il signor Martin, americano, eletto testé presidente della Camera dei rappresentanti degli Stati Uniti; ma la citazione mi pare non giovi. A parte che l’onorevole Calamandrei vi direbbe che è incivile scegliere da un testo una aliqua particula, l’andare cioè pinzettando delle frasi, quella da voi citata dice: «La libertà di parola, di riunione e quella di stampa non devono consentire ai nemici di questo Paese, del nostro popolo, di cospirare sotto la protezione della Costituzione».

Ora, a me pare evidente che qui si faccia riferimento ai nemici stranieri o a quelli che sono al servizio dello straniero, non ai cittadini che professano – senza cospirare – determinate opinioni, fossero pure monarchiche o assolutiste. Io ho esposto in breve il mio pensiero, che credo condiviso dal mio Gruppo.

Eppure, nonostante questo, ripeto: vi è qualche elemento unificatore che può consentire e rendere utile la collaborazione fra noi e voi, su certi punti concreti. Dopo il 2 giugno il regime repubblicano ha il diritto di essere difeso e consolidato. In questo noi saremo al vostro fianco, anche se riteniamo che la democrazia e la Repubblica, assai meglio che con le leggi di eccezione e con le forze di polizia, si difendono e si consolidano bene operando. Vorrei avere ben più alta autorità di quella che ho, per ammonire che se noi trasformeremo la competizione politica in una indecorosa rissa, allora quella fiamma di democrazia e di libertà, cui non valse a spegnere la reazione fascista, non valse a estinguere la ferocia tedesca, quella soffocheremo noi con la nostra angustia mentale, con la nostra miseria morale (Applausi).

Al vostro fianco ci avrete ancora nella lotta per elevare materialmente, intellettualmente e spiritualmente, le più umili classi. E a proposito di queste più umili classi, di questo povero popolo, vi è un più alto motivo di convergenza, di tregua. Perdonate se l’immagine forse è barocca; ma si è parlato tanto, a proposito della crisi, di matrimoni di convenienza. Ebbene, lasciate, ripeto, che ricorra ad un’immagine forse barocca. Tante volte non avviene che coniugi lontani, separati, discordi si ritrovino al capezzale di una persona cara, malata o ferita? Oggi la persona cara a tutti, malata e ferita, vi è, ed è – senza sua colpa – il popolo italiano, che è anche un grande fanciullo. Al suo capezzale possiamo tutti fare una certa tregua e trovarci uniti. Dopo, riprenderanno quei contrasti di pensiero che sono tormenti e gloria dello spirito umano, il segno della sua libertà e della sua dignità. Tutti hanno qui manifestata la loro fede nella rinascita del popolo italiano. È giusto. Risorgimento è parola e realtà italiana. Bisogna che abbiamo questa fede. Rievoco il poeta di nostra gente: «Ogni viltà convien che qui sia morta».

Bisogna scrollarci di dosso la viltà; avere coraggio anche verso di noi, anche contro ciascuno di noi, contro certi nostri elettori. Ripetere al popolo le alte parole: «Leva su, vinci l’ambascia, con l’animo che vince ogni battaglia».

Permettetemi; siamo molti qui dentro non più giovani. Permettete che la mestizia del tramonto si colori di una luce di aurora, di speranza per l’avvenire della nostra Patria. Questa Italia, questa millenaria viandante della storia, tante volte precipitata nell’ombra della valle, e tante risalita nella luce delle vette, possa, nell’operosa concordia dei suoi figli, riprendere infaticata il suo cammino verso le mete, che la storia, il destino, le condizioni geofisiche ed economiche le hanno assegnato; e permettete che io dica, con l’avita nostra Fede, verso le mete che Dio le ha segnate (Vivissimi applausi al centro – Molte congratulazioni).

PRESIDENTE. È iscritto a parlare l’onorevole Giua. Ne ha facoltà.

GIUA. Onorevoli colleghi, il gruppo del Partito socialista italiano mi ha affidato il compito di fare alcune osservazioni sul programma scolastico dell’attuale Ministero, ma nell’accettare questo incarico, mi sono trovato perplesso per le argomentazioni che sono state fatte e per l’impostazione di determinati problemi, che mi sembrano anche in contrasto con le affermazioni dell’onorevole De Gasperi.

Nel suo discorso l’onorevole De Gasperi ha accennato al problema scolastico, dalle scuole universitarie a quelle elementari. Nello stesso tempo, nel prendere in esame i problemi della difesa, ha accentuato determinate posizioni che riteneva dovessero essere sorpassate dopo la sconfitta e il disastro nazionale.

E anche dai banchi della destra, quando l’onorevole Bencivenga ha ripreso questo argomento della difesa nazionale, egli si è riportato ad accenti che potevano trovare eco nella politica di Boulanger. Ma un altro rappresentante dello stesso partito, l’onorevole Tumminelli, quando ha preso in esame il programma del Governo ha accentuato invece il problema della scuola e si è riferito, nel fare un confronto, a quella che era stata la grandezza del popolo italiano nel periodo della rinascita, periodo in cui l’Italia fu veramente grande.

E questo Confronto è stato affermato anche da un uomo di destra francese, François Mauriac, in un articolo recente, in cui la grandezza del popolo italiano dopo la sconfitta viene riportata a quella del Rinascimento italiano.

Quando affrontiamo il problema della rinascita in questo momento, ed impostiamo l’argomento della scuola, dobbiamo prendere in esame i metodi che il popolo italiano deve seguire per creare una scuola veramente efficiente, e allora dobbiamo fare un confronto con quei mezzi che devono venire da altre parti che non siano le entrate ordinarie del bilancio, ma che necessariamente derivano dallo spostamento delle spese di altri Ministeri. E appunto a questo riguardo avrei desiderato che, a proposito del bilancio della guerra, l’onorevole De Gasperi fosse stato più preciso.

Perché il problema della guerra non interessa soltanto il Ministro della difesa, ma tutto il popolo italiano. È un problema che dobbiamo prendere in esame.

Un popolo come il nostro, che sta per risorgere, si trova nell’impossibilità di fare la guerra. E guardate che quando giungo a questa conclusione non mi pongo dal punto di vista socialista: farei delle affermazioni inutili per voi. Mi pongo dal punto di vista degli italiani e, permettete anche, del tecnico che ha studiato alcuni anni sulla guerra, ed allora dico che per il popolo italiano, esaminando lo sviluppo moderno e le condizioni di una nazione in guerra, il tempo della guerra è passato, sì che la rinascita italiana si può trovare soltanto difendendo la grandezza del pensiero: è questo il vero riferimento che potrà permettere la vera rinascita.

Onorevoli colleghi, è molto semplice oggi fare un confronto tra le possibilità di fare una guerra moderna e la possibilità di avere un esercito adeguato.

Anche per i non competenti è facile la conclusione che quelle nazioni che non posseggono disponibilità di materie prime, come carbone e petrolio, non si trovano più nelle condizioni di poter fare la guerra.

Ed è su questo punto che il Ministero attuale ed anche i precedenti avrebbero dovuto impostare il problema della difesa nazionale, perché su questo punto la storia potrà permettere al popolo italiano di risollevarsi per altra via che non sia quella della rivincita.

Io non entro nei particolari, perché un esame delle forze che hanno vinto il fascismo, che hanno battuto prima l’Italia, poi la Germania ed infine il Giappone, ci porta alla constatazione che non sono le forze di molti eserciti, numerosi, ma sono anche le forze della materia bruta, trasformata in mezzi bellici: sono le materie prime in abbondanza, che hanno permesso all’Inghilterra, agli Stati Uniti d’America, di potere opporre una forza maggiore a quella organizzata dalla Germania.

Anche se noi prendiamo in esame la resistenza dell’unica nazione socialista esistente al mondo, la Russia, a parte la considerazione che si possa fare dal punto di vista etico sul combattente socialista, dobbiamo giungere a questa conclusione: che se la Russia ha potuto resistere in un primo tempo all’assalto della Germania ed in un secondo tempo ha potuto stroncare la Germania, questo è avvenuto anche e sovrattutto per la grande disponibilità di materie prime. L’U.R.S.S. è una Nazione che possiede dovizie di carbone, che possiede anche in notevoli quantità giacimenti petroliferi; l’U.R.S.S., con la sua organizzazione industriale, non l’organizzazione del supercapitalismo di Stato, ma con le sue organizzazioni industriali moderne, è stata posta nelle condizioni di potere abbattere la Germania proprio sul piano della tecnica.

Quindi, noi italiani dobbiamo volgerci ad altre considerazioni, quando pensiamo alla nostra ricostruzione.

Ed io vorrei che il Ministero della difesa, invece di pensare alla riorganizzazione di quell’esercito di transizione, che ci viene lasciato dal Trattato di pace, pensasse invece alla smobilitazione, alla riduzione, vale a dire, ad un piccolo gruppo di forze, che permetta la difesa, ma che sia lontano dall’organizzazione classica dell’esercito di conquista; e nello stesso tempo, le economie che si possono fare, riorganizzando la difesa, devono andare appunto alla ricostruzione.

La critica che possiamo fare oggi alla politica scolastica del Ministero De Gasperi è la critica che facciamo a una valle di lacrime, di cui la mentalità del Ministro della pubblica istruzione, onorevole Gonella, è un riflesso sacro.

Permettete che io, come profano, prenda in esame la politica del Ministro Gonella. Si esagera quando si dice che il Ministro Gonella non ha fatto una politica scolastica. E si esagera, perché il Ministro Gonella ha fatto una politica scolastica, che è in relazione col suo partito, direi, colla politica anche del Vaticano. Se noi prendiamo in esame quella che è stata la più grande delle riforme fasciste, quelle della scuola, la riforma Gentile, certo non so se al partito democristiano convenga sostenerne i principî su cui si basa tale riforma; non so se il trascendentalismo della filosofia di Gentile, corrisponda al trascendentalismo della Chiesa e dello stesso Partito democristiano.

Credo che vi sia una notevole differenza. Tuttavia, con la riforma Gentile e colle modificazioni fatte dei Ministri succeduti a Gentile alla pubblica istruzione, è avvenuto l’inserimento della politica del fascismo nella politica del Vaticano… soprattutto per quello che riguarda l’insegnamento. Ed ecco perché, se il Ministro Gonella si trova oggi nella posizione di considerare la riforma Gentile come un totem, si trova, vale a dire, in una posizione totematica, gli è perché questa riforma Gentile salva dalla responsabilità di una riforma democratica della scuola, e permette al Ministro della Democrazia cristiana di fare una politica che sia in coerenza coi principî del suo Partito.

Certo, un Ministro democratico avrebbe potuto pensare ad una riforma sostanziale della scuola, avrebbe potuto prendere in esame i problemi della scuola elementare, quelli che sono i problemi della scuola secondaria, e, soprattutto, quelli che sono i problemi della cultura superiore. Questo avrebbe richiesto molto tempo; avrebbe richiesto mezzi; e noi oggi ci troveremmo dinanzi ad una posizione critica rispetto al Ministro Gonella, se egli avesse cercato di fare quello che poteva fare coi mezzi che aveva a disposizione. La politica invece del Ministro Gonella è stata una politica volta alla difesa della scuola libera; la quale scuola libera si era accentuata proprio in funzione della riforma Gentile, della riforma fascista, la quale era stata attuata per affermare il potere dello Stato e per accentrare nello Stato tutti i poteri, aveva dovuto accordare alla politica del Vaticano molto… e in quello che aveva accordato vi era anche la scuola libera.

Ora, se i colleghi della Democrazia cristiana si ponessero, o ci ponessero – noi della sinistra – dinanzi al problema della libertà della scuola, noi ci troveremmo imbarazzati, ci troveremmo nell’impossibilità di negare, dal punto di vista teorico, quello che si chiama il problema della libertà della scuola, perché noi socialisti siamo per la libertà, e, quindi, non possiamo negare la libertà della scuola. Ma il problema non è un problema teorico, direi, non è un problema filosofico: è un problema concreto, è un problema della storia del popolo italiano; è un problema che noi possiamo risolvere solamente se prendiamo in esame che cosa significa oggi in Italia una scuola libera.

Questa scuola libera significa scuola confessionale; significa la scuola degli ordini religiosi; quindi, la difesa della scuola libera significa la difesa della scuola confessionale.

È evidente che, impostato il problema da questo punto di vista, noi socialisti non possiamo essere per la libertà della scuola; e non possiamo esserlo, perché non possiamo essere per una scuola confessionale. E poiché il nostro Stato è uno Stato democratico, noi riconosciamo a questo Stato democratico il diritto di organizzare la scuola di Stato.

Quando noi socialisti esaminiamo il problema della scuola in questo determinato momento storico, vediamo che possiamo risolvere questo problema anche dal punto di vista della libertà. Ma, ponendolo da questo punto di vista, bisognerebbe che tutte le classi si trovassero nelle stesse condizioni di partenza. Ora, queste condizioni non esistono per altri gruppi che possono organizzare scuole private. Quindi, noi siamo per la scuola di Stato in questo momento, perché riconosciamo che allo Stato compete il compito di organizzare l’unica scuola che sia adatta per il popolo italiano. Non vi è altra soluzione.

Ora, quando noi leggiamo una specie di memoriale presentato al Governo, consistente in una serie di dichiarazioni fatte da cittadini, genitori ed insegnanti aderenti all’Associazione Nazionale per la Scuola Italiana, che dicono dipendere direttamente dal partito democristiano, vediamo affermarsi questi due punti: la scuola in Italia ha bisogno di una opportuna autonomia per essere veramente viva ed operante; si richiede quindi che siano emanate soltanto le norme riguardanti le condizioni per il funzionamento delle scuole, le direttive di ordine generale necessarie per una conveniente uniformità, sia per quanto riguarda l’ordinamento degli studi, sia per quanto riguarda i programmi di esami ecc., nonché per favorire e garantire l’iniziativa privata degli enti morali, riconoscendo alle scuole medie una parità legale, economica, didattica e pedagogica con le scuole governative.

Onorevoli colleghi, questi problemi noi li credevamo sorpassati ormai dal punto di vista culturale ed anche politico.

L’oratore precedente della Democrazia cristiana ha accennato a noi socialisti (egli si riferiva ai comunisti, ma credo che si sia rivolto anche a noi) riferendosi al fatto che il nostro materialismo nega i valori morali e, quindi, anche i valori religiosi.

Io non risponderò con le solite affermazioni che noi socialisti siamo religiosi; risponderò invece dicendo che noi, socialisti, dal punto di vista della religione, ci poniamo su un piano perfettamente neutro e pensiamo che possiamo, come socialisti, anche essere non religiosi; ma questo non significa che dal punto di vista pedagogico e politico dobbiamo fare la politica della Democrazia cristiana. Per noi la religione è una questione privata; ma noi siamo giunti a questa conclusione partendo anche da alcune affermazioni materialistiche.

Certo, l’onorevole Cappi era in arretrato quando accennava al materialismo storico e alla religione. Il problema è stato impostato dal Marx nel 1844, allorché ha detto che la religione era l’oppio dell’umanità. È una frase che noi socialisti non accettiamo più, e non l’accettiamo, perché lo studio ulteriore del fenomeno religioso ci ha condotti a porre questo fenomeno all’infuori del piano scientifico e filosofico. Noi riconosciamo alla religione e alla fede il campo che le compete, ed è sul piano dell’irrazionale che noi pensiamo che ogni uomo può credere o non credere. Ma da questo argomento, che dirò di importanza puramente teorica, all’accusa che ci vien fatta di essere antireligiosi, ci corre molto.

Noi socialisti ci siamo trovati, in passato, implicati nella propaganda anticlericale. Uno dei maggiori esponenti di questa lotta anticlericale è stato un iscritto al partito socialista. Ma questo non era un problema socialista: era un problema di politica contingente del popolo italiano. Quella politica anticlericale era sorta in Italia non come una derivazione filosofica, come una derivazione teorica della lotta politica, ma per le contingenze della politica italiana, per gli errori che la politica del Vaticano aveva commessi in Italia e, soprattutto, era in relazione con la politica del clero: l’anticlericalismo è sempre in relazione con gli errori che il clero fa.

Ecco perché noi socialisti siamo al di fuori della lotta anticlericale; siamo, momentaneamente, al di fuori di questa lotta.

Evidentemente, le masse potranno rispondere ed impostare nuovamente questo problema, se il clero farà in Italia una politica che richiamerà i principî della storia della Chiesa, quei principî che sono in contrasto con lo sviluppo democratico del popolo.

Quindi, onorevoli colleghi, non è da questo lato che noi siamo sensibili; siamo sensibili, invece, al problema dello sviluppo della democrazia, ed è per difendere i principî della democrazia che noi oggi combattiamo la politica scolastica dell’onorevole Gonella.

E potremmo fare anche delle obiezioni, andare al contingente della politica dell’onorevole Gonella.

Non mi soffermo su quello che il Ministro non ha fatto per la difesa della scuola elementare, per dare il combustibile necessario per il riscaldamento delle scuole durante l’inverno: sono problemi così particolari che non incidono sulla politica del Governo. Molte di queste responsabilità, più che al Ministero della pubblica istruzione, vanno attribuite agli stessi Comuni o agli Enti che hanno l’incarico di provvedere al riscaldamento delle scuole.

Non è su questo piano che moviamo delle critiche alla politica dell’onorevole Gonella; mentre da un punto di vista, anche particolare, noi possiamo farne sul funzionamento delle scuole elementari oggi, per il fatto che il Ministero non si è più occupato di aumentare le scuole elementari, applicando la legge, cioè rendendo obbligatorio il sorgere di scuole elementari in tutti i Comuni di Italia per combattere l’analfabetismo.

E la frase del Ministro De Gasperi secondo cui durante la guerra l’analfabetismo è aumentato, è una frase che non scusa la politica scolastica dell’onorevole Gonella. Vi è una grande massa di insegnanti elementari che aspettano il posto, appunto per dedicare all’insegnamento quella che è la loro attività abituale; ma mancano i fondi. Si dice: vi sono le scuole private. Queste scuole non sono in tutti i centri e richiedono, talvolta, agli insegnanti l’accettazione di principî che contrastano col loro pensiero e con la loro mentalità. Questi insegnanti chiedono, quindi, allo Stato che provveda, creando le scuole che deve creare, applicando la stessa legge.

Per le scuole secondarie abbiamo da lamentare diversi altri fatti. Prima di tutto, però, devo rendere omaggio al Ministro Gonella per aver conservato in molti Comuni – mi riferisco ai Comuni dell’Alta Italia – molte scuole che erano state spostate da varî centri, a causa della guerra, e che erano state mandate in piccoli centri. Questi piccoli centri hanno veduto la necessità, l’opportunità di mantenere queste scuole staccate e ne hanno fatta domanda al Ministero.

Almeno per alcune scuole, che riguardano la provincia di Torino, posso ringraziare il Ministro Gonella per avere assecondato per quest’anno scolastico il mantenimento di queste scuole staccate.

Ma, quando passiamo dal mantenimento di queste scuole al pareggiamento di molte scuole private, allora non possiamo non fare delle critiche al Ministro Gonella. Queste scuole che vengono oggi pareggiate sono, per la massima parte, a carattere confessionale; gli insegnanti di queste scuole sono generalmente dei religiosi, ed allora noi ci troviamo al punto di partenza, vale a dire a difendere la scuola di Stato, perché così facendo permetteremo al popolo italiano di avere una scuola che sia in relazione con lo sviluppo della democrazia e con lo sviluppo stesso della civiltà.

La scuola universitaria richiederebbe una trattazione particolare. Si potrebbe muovere la solita obiezione al Ministero della pubblica istruzione che in Italia ci sono molte università; io credo che questa accusa sia priva di fondamento. Anche le piccole università possono essere difese; anche le piccole università hanno avuto in Italia, hanno, ed avranno in avvenire, una funzione importante. Ma quello che non ha fatto il Ministro Gonella è di aiutare le università italiane le quali hanno sofferto, ancora di più della scuola media ed elementare, della politica del fascismo. Le università hanno sofferto dal punto di vista del reclutamento degli insegnanti ed hanno anche conseguito quella elefantiasi per la immissione di una grande massa di studenti che non possono essere convenientemente educati. Il problema degli insegnanti è in relazione con l’epurazione: l’epurazione non è stata fatta e gli insegnanti sono ancora nelle università e continueranno a fare gli insegnanti. Ma di questo non ha colpa il Ministro Gonella, il quale non ha neanche colpa se le università italiane non hanno ancora ottenuto i mezzi sufficienti per potersi sviluppare.

Presidenza del Vicepresidente PECORARI

Ho assistito l’altro giorno all’interpellanza dell’onorevole Colonnetti sulla ricerca scientifica ed ho trovata inadeguata la risposta del Ministro. Ma l’onorevole Colonnetti non ha impostato il problema come doveva essere impostato. Egli doveva vedere se le università italiane siano oggi in condizioni di potersi sviluppare dal punto di vista della cultura moderna, ed abbiano alla loro direzione uomini all’altezza del compito. Dal punto di vista del materiale sono d’accordo con l’onorevole Colonnetti, sulla necessità di aiutare la ricerca scientifica, in quanto questa non serve solamente da un punto di vista educativo, ma è la base anche dello sviluppo industriale della nazione. L’Italia non potrà rinascere, se l’istruzione superiore e la ricerca scientifica non saranno sviluppate in modo adeguato. Ma per far questo è necessario che i nostri laboratori abbiano i mezzi sufficienti per far progredire la ricerca scientifica, e questi mezzi devono esser tolti anche da altri Ministeri e soprattutto da quello della guerra. I1 problema impostato dall’onorevole Colonnetti riguarda il Consiglio nazionale delle ricerche, che avrebbe oggi in Italia il compito di farsi dispensiere degli aiuti alla ricerca scientifica. Ma io ritengo che questo non sia un compito adatto per il Consiglio nazionale delle ricerche. La ricerca scientifica in Italia, per svilupparsi, ha bisogno che a capo del Ministero della pubblica istruzione vi sia un competente, che comprenda quale è la vera funzione della ricerca. Il Consiglio nazionale delle ricerche può assumere invece una funzione di consulenza verso molti dicasteri che ne hanno bisogno. Esso può inoltre svilupparsi ulteriormente, specializzandosi in un determinato campo della ricerca scientifica. È inutile che io vi accenni come in Italia, proprio a causa della politica del fascismo, sia venuta a crollare una delle scuole più importanti, quella della ricerca atomica…

DUGONI. Non si può organizzare, da noi.

GIUA. Ciò si deve al fatto che moltissimi scienziati, specie per la campagna razziale, dovettero abbandonare l’Italia. È per questo che un uomo competente è necessario; quest’uomo, che può essere il professor Colonnetti, potrebbe organizzare un laboratorio di ricerche che può essere un centro di studi. Noi, ha detto or ora l’onorevole Dugoni, non possiamo organizzare un centro di studi sulla bomba atomica: rispondo che non potremo creare le bombe, ma possiamo pur sempre intraprendere ricerche sulla fisica atomica per le applicazioni tecniche. Ecco quindi che, anche per questo lato, il Consiglio nazionale delle ricerche può essere utile. Esso non può essere confrontato, per la sua funzione, col Collège de France, né con i grandi istituti inglesi e americani che affiancano la tecnica nella ricerca: può tuttavia creare un centro di specializzazione scientifica, incrementando molto tale specializzazione.

Questa, onorevoli colleghi, è una parte della critica che noi moviamo alla politica scolastica del Ministero De Gasperi. Ma noi socialisti vediamo questo problema dell’educazione anche da un nostro punto di vista, che è la negazione delle condizioni che permettano uno sviluppo relativo della ricerca scientifica e dell’istruzione della società presente, limitatamente alla società borghese. Noi poniamo a fondamento di questo problema, un altro problema: quello economico, senza la cui soluzione, per noi socialisti, non si può risolvere quello scolastico. Dobbiamo permettere a tutti i migliori di poter frequentare la scuola, cosicché essi diano al Paese quel contributo di intelligenza che è nelle loro possibilità, perché lo sviluppo dell’intelligenza non è un privilegio, ma è un dovere. Noi potremo avere, attraverso gli aiuti dello Stato, la spinta verso la ricerca, ma non possiamo porre il problema della scuola sulla vera base che è quella di aprire le scuole di qualsiasi grado a tutti i capaci. Questa è la base della nostra riforma scolastica; questa è la base che noi poniamo, anche dal lato del contributo che può portare alla creazione di quella grande umanità in cui il libero sviluppo del singolo sia condizione dello sviluppo di tutta l’umanità. Questo è il programma nostro, programma al quale noi tendiamo e al quale vogliamo dare il massimo sviluppo.

Devo rispondere all’onorevole Cappi anche a proposito del problema, che egli ha impostato, della violenza. L’onorevole Cappi evidentemente è in arretrato sugli studi dello sviluppo della storia del socialismo. Quando egli si è riferito a certe frasi dette da un socialista nel 1914, ignorava certamente che quel socialista si faceva eco non della teoria socialista vera, ma di una parte della dottrina del marxismo che era ormai degenerata, vale a dire del sorellismo. Quando Marx si fece promotore della teoria della violenza, previde una notevole distinzione tra forza e violenza. Lo stesso Sorel ha scritto un volume per rilevare tale differenza. L’onorevole Cappi si tranquillizzi in merito alla posizione di noi socialisti rispetto a questo problema. Marx aveva detto che la violenza è la levatrice della storia, e non intendeva riferirsi soltanto alla storia del passato, ma anche e soprattutto a quella dell’avvenire. Noi socialisti siamo per la democrazia, lavoriamo per la democrazia, cerchiamo di immettere nella nostra società borghese i sistemi di lotta democratici, che non dovrebbero essere quelli della violenza. Se poi, per determinate contingenze, questo sistema ordinario, normale, può trasformarsi in sistema di forza, ciò non è colpa dei socialisti e nemmeno delle classi lavoratrici organizzate. Soltanto la storia può dare una giustificazione dei problemi che in un determinato periodo di tempo spingono le classi lavoratrici a ricorrere alla forza. Noi non possiamo fare altro che prospettare il problema. Noi socialisti non possiamo far altro che dire che siamo per la democrazia, quando essa è possibile; sentiamola vitalità del nostro ideale, che è un ideale di emancipazione delle classi lavoratrici, le quali trovano nelle loro organizzazioni le ragioni sufficienti per dimostrare se, nella storia, è la legalità che deve sempre trionfare o se qualche volta è la forza che si deve imporre. (Applausi a sinistra).

Nell’avviarmi alla conclusione, vorrei pregare il Ministro Gonella di aprire scuole per coloro che attendono da tempo il ritorno alla scuola stessa; di indire concorsi, in modo che alla scuola possano ritornare non solo gli alunni ma anche gli insegnanti, che ben numerosi attendono i concorsi per potersi dedicare ad una vita professionale.

Alcuni amici medici mi hanno fatto osservare che un problema importante e attuale è quello della destinazione dei materiali della ex G.I.L. Questo materiale è non di rado conteso da tre Ministeri: quello della pubblica istruzione, quello dell’interno e quello del tesoro. Intanto questo materiale deperisce, ed è, quindi, necessario che il Ministro della pubblica istruzione, che è il più interessato, intervenga e metta da parte qualche volta anche i diritti degli altri due Ministeri e soprattutto di quello del tesoro.

Ebbene, onorevoli colleghi, se noi da questa impostazione del programma volgiamo lo sguardo su quello che dovrebbe essere il risanamento morale e materiale dell’Italia, certo pensiamo che in questo regime democratico lo sviluppo della democrazia deve servire appunto per risollevare il popolo italiano alla condizione di popolo non solo libero, ma anche di popolo che ha il diritto di avere il suo posto nel mondo, con il lavoro, con il pensiero, con l’arte e con la scienza.

E se ci poniamo da questo punto di vista ed interroghiamo il passato, noi possiamo vedere anche i grandi italiani che hanno dato al popolo italiano una eredità: nell’arte, nella scienza e nel pensiero; se interroghiamo il passato vediamo molte tombe scoprirsi e molti uomini levarsi, e sopra tutti vediamo «colui che aprì per primo le vie del firmamento». E poi vediamo i Malpighi, i Volta, i Galvani, gli Avogadro e tutti quei grandi che arricchirono l’Italia nel pensiero e nella scienza e che dettero un nome al popolo italiano, una posizione preminente nello sviluppo della cultura e del pensiero.

Ma se indaghiamo ulteriormente, sentiamo che questi grandi pongono al popolo italiano un interrogativo, chiedono al popolo italiano perché esso, tralasciando le vie del passato che sono state le vie del disinganno e del disastro, non si porti una buona volta sulla via maestra del pensiero, dell’arte e della scienza.

Onorevoli colleghi, a questo interrogativo noi socialisti abbiamo risposto da tempo. (Applausi a sinistra).

PRESIDENTE. È iscritto a parlare l’onorevole Targetti. Ne ha facoltà.

TARGETTI. Onorevoli colleghi, si è sempre detto che i cattivi esempi sono contagiosi. Ma, in compenso, è benefica la forza di persuasione di un buon esempio, qual è quello che ora mi ha dato il caro collega onorevole Giua, che mi spinge ad imitarne la concisione. Parlerò, quindi, il più brevemente possibile di un punto solo delle dichiarazioni del Presidente del Consiglio. Mi sembra sia stato il buon amico onorevole Saragat che, nell’indicare le motivazioni dell’atteggiamento del suo nuovo gruppo, ebbe a dire, fra l’altro, che questo Ministero si è formato prima della formazione del suo programma. La formazione del Ministero avrebbe preceduto, invece che seguire, l’accordo su un programma. Non è esatto, anzi, vorrei dire che è proprio vero l’opposto. Il nostro gruppo, prima di qualsiasi accenno alla eventuale distribuzione, come suol dirsi, di portafogli, avanzò delle richieste, alcune delle quali si chiamarono, durante le trattative per la risoluzione della crisi, improrogabili e inderogabili, nel senso che dovevano essere accettate e senz’altro soddisfatte. Rappresentarono delle condizioni per la partecipazione del Partito socialista anche a questo terzo Ministero della Repubblica. Si dirà che tre Ministeri in pochi mesi sono troppi, ma, onorevoli colleghi, si dovrebbe da tutti obiettivamente riconoscere che anche maggiori e ben gravi sono le difficoltà che inevitabilmente si incontrano quando si vuol dar vita ad un Ministero che corrisponda alla configurazione politica di quest’Assemblea Costituente, quale risultò dalla consultazione elettorale del 2 giugno dell’anno scorso. In quel giorno la volontà popolare non si espresse in modo da indicare quale partito dovesse da solo governare l’Italia, ma indicò soltanto l’orientamento che avrebbe dovuto avere la nuova Repubblica. E a voi, egregi colleghi della Democrazia cristiana, è avvenuto su per giù quello che accadde a noi socialisti, se pure in altro clima storico, nel 1919, cioè siete venuti in troppi – e non vi è sapore di scortese rammarico in questo mio rilievo – perché si possa governare senza di voi e non siete venuti abbastanza numerosi e, di questo, non possiamo esser noi a dolerci, perché voi possiate governare da soli, né tanto meno senza di noi. Dicevo, quindi, che fra questi punti programmatici, fra le altre condizioni per la nostra partecipazione anche a questo terzo Ministero della Repubblica italiana, vi fu quello che, con espressione un po’ forte, si è chiamata difesa della Repubblica, e che il Presidente del Consiglio chiama consolidamento della Repubblica. In realtà che cosa noi abbiamo chiesto? Abbiamo chiesto anzitutto di aggiornare la legislazione penale. Su questo credo si debba essere tutti d’accordo. Mi sembra che perfino quella parte dell’Assemblea più facile al disaccordo che all’accordo debba convenire che leggendo certe disposizioni del nostro Codice penale senza sapere a quale nazione appartenga, nessuno potrebbe mai immaginare che si tratti di una Repubblica! Non c’è dubbio che bisogna aggiornare senza indugio il Codice in questa parte, prima ancora che si provveda alla riforma del Codice stesso, abolendo tutte le disposizioni che contiene a difesa e sostegno dell’istituzione monarchica. Lasciamo pure che alcuni egregi colleghi di quella parte dell’Assemblea (Accenna all’estrema destra) sognino ancora la resurrezione della monarchia. Io non voglio amareggiarli dimostrando loro come e perché io… ci creda poco! Ma è certo che a molte disposizioni del Codice penale è venuto a mancare, come si dice in termine giuridico, il soggetto passivo del reato; la monarchia, il re, le istituzioni fasciste.

Abbiamo, anche chiesto che si completasse la legge già approvata dal nostro parlamento, relativa al giuramento, legge che stabilisce obblighi senza sanzioni. Si deve ancora discutere la questione del giuramento? Io comprendo l’onorevole Bencivenga che si è dichiarato contrario a questi provvedimenti, perché ciò è in perfetta coerenza con l’atteggiamento che egli ha tenuto quando si è discusso del giuramento. Ma quando c’è una legge approvata a grande maggioranza da questa Assemblea Costituente che stabilisce l’obbligo del giuramento, è logico e necessario che vi siano delle disposizioni relative al mancato giuramento ed altre relative alla mancata fede al giuramento prestato.

Siamo tutti d’accordo, egregi colleghi, che non è attraverso un giuramento che si possano modificare le nostre convinzioni, ma è attraverso un giuramento che si può vincolare le nostra azione. Il funzionario, il dipendente dallo Stato, e tanto più l’ufficiale dell’esercito, che ha giurato, ha fatto sue quelle che sono state le dichiarazioni che risuonarono unanimi in questa Assemblea Costituente, fin dalle sue prime sedute e che partirono anche da monarchici di fede convinta, affermazioni, cioè, di lealismo, di riconoscimento, che oggi con la Repubblica si identifica la Patria, e la Patria si identifica con la Repubblica. Chi presta questo giuramento, se è un uomo d’onore, al giuramento deve rimaner fedele. Questo ha diritto di presumere, di esigere lo Stato, la collettività. (Approvazioni).

Abbiamo chiesto – e questa è la parte nella quale il disaccordo fra noi ed altri settori dell’Assemblea ha una ragione d’essere – che si restituisse vigore (forse perché questo vigore hanno perduto o perché non lo hanno mai avuto?) a talune disposizioni intese ad impedire la ricostituzione del fascismo e ad altre che prevedono sanzioni contro i fascisti politicamente pericolosi all’esercizio delle libertà democratiche. A questo proposito si è protestato dai banchi della destra, e nella protesta si è messo tanto ardore da arrivare all’audacia di dire: badate, con queste sanzioni contro i fascisti pericolosi all’ordine repubblicano, al nuovo ordine, voi violate il principio della non retroattività della legge penale, mentre il fascismo vi aveva dato l’esempio di come questo principio va sempre rispettato!

Quando la passione di parte tocca certi limiti, accieca e fa negare la realtà.

Come dimenticare che una delle più tristi caratteristiche del regime fascista è stata quella di violare tutti i principî fondamentali di qualsiasi legislazione di un Paese civile?

Per esempio, il confino fu minacciato ed applicato a cittadini, a fior di galantuomini, colpevoli soltanto di essere stati socialisti, comunisti, liberali, antifascisti, di non aver voluto associarsi, aderire, non ad un determinato partito politico, ma a quella specie di criminalità associata che fu l’attività fascista in Italia.

E di questo io credo che qui tutti si debba convenire, perché non ho sentito in quest’aula una sola parola in difesa di tanta vergogna. Ma si è imprudentemente voluto dire che il fascismo non ha mai violato il principio della non retroattività della norma penale.

Ma ditemi, onorevoli colleghi, e le inique condanne pronunziate dal Tribunale speciale, non appena instituito, che fecero tante vittime, tutte quelle condanne non colpirono forse fatti avvenuti prima che fossero stati dichiarati reati?

Io mi sorprendo che questo sia stato dimenticato da qualche collega che ha partecipato a questa discussione e di cui non faccio il nome, perché non lo vedo presente. Ancora; come dimenticare che nel regime fascista vi fu un giorno che con una pura e semplice mozione parlamentare si dichiarò la decadenza di 126 Deputati, che, per la maggior parte, nella notte susseguente, furono arrestati e poi deportati al confino? (Applausi a sinistra).

Neppure la solennità di una legge avrebbe potuto cancellare il fondamentale diritto dell’immunità parlamentare. Questa impudente violazione, onorevoli colleghi, è uno di quei tristissimi ricordi che è bene talvolta rievocare. Non devono gli accusati diventare accusatori e gli accusatori accusati. Questa vergogna avvenne qui, in quest’aula, su proposta di Augusto Turati, di Farinacci, di Starace, di Ricci Renato e di altri compari. Così in un attimo fu tolta l’immunità parlamentare a 126 galantuomini, per esporli, indifesi, alle persecuzioni poliziesche.

PRIOLO. La sera stessa furono arrestati.

TARGETTI. Forse qualcuno di voi, egregi colleghi, che ha nell’animo una grande fede religiosa, può anche pensare ad un decreto divino. Noi pensiamo ad una nemesi storica. Alcuni dei più grandi colpevoli non sono più: hanno già espiato. Molti dei perseguitati li ha riportati o mandati qui per la prima volta la volontà popolare, non appena ha potuto liberamente manifestarsi. Anche i caduti sono con noi, vivi nel nostro perenne ricordo e nel nostro rimpianto. (Applausi).

Onorevoli colleghi, che cosa noi abbiamo chiesto? E che cosa, in parte, ci ha promesso il Presidente del Consiglio?

Che la Repubblica faccia quello che hanno fatto tutti i regimi. Non credo che nella storia si sia mai instaurato un regime attraverso difficoltà, attraverso sacrifici, attraverso tanti morti, perché, all’indomani della sua vittoria dovesse offrire il suo corpo indifeso a tutti gli strali del vinto.

Questo si chiama essere animati da propositi di persecuzione?

Eppure si reagisce contro norme che si vogliono stabilire in difesa della Repubblica. Io non penso, e credo di interpretare anche in questo il pensiero del mio gruppo, io non penso ad una persecuzione dell’idea monarchica, come tale. L’onorevole Benedettini, appena sente la parola monarchico, sorride come potrebbe sorridere ad un sogno d’amore. Io invidio questa freschezza di sentimento, di entusiasmo, anche se non riesco a rendermene ragione. Sono passati troppi secoli da quando i cavalieri morivano per il re come per la donna del loro cuore. Ma un entusiasmo che noi non comprendiamo, dobbiamo sforzarci di rispettarlo il più possibile per evitare di non rispettarlo abbastanza.

Non penso che la Repubblica debba vietare, perseguire l’idea monarchica. Anzitutto perché non c’è nessuna idea, che abbia ceduto dinanzi ad una persecuzione. Ma ci sarà lecito cercare di impedire una propaganda intesa alla restaurazione del regime monarchico-fascista.

BENEDETTINI. Non confondiamo.

TARGETTI. Veda, onorevole Benedettini, se confondiamo, se la rifaccia con casa Savoia, che ha confuso la monarchia col fascismo. (Applausi).

BENEDETTINI. È inesatto.

TARGETTI. Onorevole collega, lei si assume la grande responsabilità di fronte all’Assemblea di fare prolungare il mio discorso. Non mi stuzzichi su questo punto, perché sono tanti gli argomenti che si possono portare a dimostrazione di quanto ho detto. Incominciando dalla marcia su Roma…

Egregio collega, lei crede proprio che quelli eroici marciatori su Roma, che si erano prudentemente fermati a varie diecine di chilometri dalla città eterna, ci sarebbero mai entrati, se Vittorio Emanuele non ne avesse loro spalancate le porte? Lei sarebbe poco al corrente della nostra storia recentissima, se non sapesse che senza la complicità della monarchia il fascismo non sarebbe nato, non si sarebbe affermato e, quello che è ancora più grave, senza questa correità, non sarebbe rimasto al potere anche quando si era macchiato del sangue dei nostri martiri! (Applausi).

BENEDETTINI. È stato sempre per evitare spargimento di sangue. (Commenti – Interruzioni a sinistra).

SGOCCIMARRO. C’è un limite anche nell’ingenuità.

TARGETTI. Per questa stessa ragione, non ci si attribuisca il pensiero di volere limitare la libertà di stampa. Specialmente noi socialisti della vecchia guardia abbiamo sempre lottato per la libertà di stampa; abbiamo subito le conseguenze della mancata libertà di stampa. Con quale coerenza potremmo dire: ora che siamo al potere, non diamo quella libertà che ci fu negata e per la quale ci siamo sempre battuti?

Si tratta di altro: noi abbiamo chiesto che, in attesa dell’approvazione d’una legge sulla stampa… Non ricordo chi di voi; mi sembra l’onorevole Russo Perez, che pure è un valoroso penalista, si è scandalizzato della richiesta di una legge speciale per la stampa, come si trattasse di una legge eccezionale.

BENEDETTINI. Io.

TARGETTI. Lei è più scusabile, perché non è avvocato.

Ma la stampa è stata sempre regolata non dal Codice penale, ma da leggi particolari. L’editto Albertino, che si chiamava l’editto sulla stampa, non regolava altro che l’esercizio della stampa.

Non abbiamo mai chiesto leggi eccezionali, ma una legge sulla stampa e d’urgenza, sì.

In modo particolare insistiamo su la riforma delle norme procedurali, per la persecuzione dei delitti di diffamazione. Perseguitare prontamente il delitto di diffamazione, quando si è riconosciuta al querelato la facoltà di provare i fatti addebitati, accelerare la procedura, è nell’interesse dell’ingiustamente colpito, è nell’interesse della stampa onesta, ed è al tempo stesso contro quelli che si meritano censura e appunti. Perché tutti sanno che chi si azzardi a dare una querela con facoltà di prova, se non ha come suol dirsi, le carte in regola – e alle volte non basta neppure avere le carte in regola – si presta al giuoco del suo accusatore.

Noi non chiediamo nessuna restrizione della libertà di censura; chiediamo soltanto che i delitti che si commettono per mezzo della stampa e che poi, in fondo in fondo, quando non sono delitti di pensiero, sono delitti comuni aggravati, vengano prontamente repressi. E questa necessità, onorevoli colleghi, la devono sentire tutti gli onesti, in quest’ora. Lo scandalismo è cosa del tutto diversa dalla censura. Lo scandalismo è contro la libertà e contro la democrazia. È disfattismo. La libera censura è a favore della libertà e della democrazia. Se noi rendiamo più pronta, più agile l’azione punitiva del diffamatore, colpiremo come si merita lo scandalista, non colpiremo in nessun modo il censore, che agisce in piena buona fede, che persegue un nobile fine.

E a noi sembra che chiedendo questo non si chieda niente di più di quello che è strettamente necessario a qualsiasi regime di libertà: alcune disposizioni nuove; l’applicazione, l’aggiornamento di disposizioni esistenti che, pur essendo recenti, sembrano già vecchie, perché hanno già perso di valore, di vitalità.

Chiediamo anche al Governo – l’assenza dell’onorevole De Gasperi che rincresce a tutti, perché dovuta a ragioni di salute, è ben compensata, anche per la natura dell’argomento, dalla presenza del Ministro di grazia e giustizia, l’onorevole Gullo – anzi richiamiamo il Governo ad una sua antica promessa: emettere leggi e provvedimenti che portino alla restituzione del maltolto a tutte le associazioni operaie, alle cooperative, alle società di mutuo soccorso, alle leghe, alle Case del Popolo.

Anche voi, colleghi della Democrazia cristiana, avete fatto la dolorosa esperienza dei metodi fascisti. Anche voi sapete che in questo nostro disgraziatissimo Paese ci fu un periodo in cui i fascisti, le camicie nere, santificavano la festa a modo loro, la sconsacravano, anzi, dedicando i pomeriggi festivi alle devastazioni di tutte le istituzioni che la fede del popolo, seguendo varie ideologie, aveva costruito. Bisogna riparare, colleghi del Governo, quanto più è possibile ed il più presto possibile, queste ingiustizie, questi danni. (Applausi).

Ed ora, onorevoli colleghi, io non vi nascondo un certo imbarazzo nel dover toccare un tasto che io per il primo so e sento quanto sia delicato.

Facciamo conto che questa legislazione protettrice della Repubblica sia emanata, e che provvedimenti di polizia, anche questi, siano emanati. A questo proposito vi confesso che sarà forse una debolezza sentimentale, non approvabile in un uomo di parte, ma io non riesco a vincere una certa repulsione per l’applicazione del confino, forse perché questo provvedimento di polizia ridesta in noi il ricordo di troppe sofferenze. Ma, d’altra parte, a quanti di voi, onorevoli colleghi, dite «il confine, no», io osservo: pensate però alle conseguenze prodotte dall’applicazione dell’amnistia. L’onorevole Togliatti, che ha sentito tante critiche astiose a questo proposito, lasci che io, con obiettività, gli dica che quel decreto non fu certo un modello di tecnica legislativa. Quel decreto tecnicamente imperfetto ebbe però una interpretazione arbitraria, faziosa, reazionaria, che ne falsò lo spirito, concedendo delle impunità vietate, che non solo hanno offeso il sentimento pubblico, ma che, rimettendo in circolazione elementi pericolosi, hanno turbato e potranno turbare ancora la tranquillità pubblica.

Onorevoli colleghi, si è applicata l’amnistia ai più perfezionati e celebri lestofanti del regime passato, a veri criminali, che non meritavano indulgenza e tanto meno perdono.

Quando l’onorevole Pertini parlò, con quella fiamma di fede che mai l’abbandona, di questo argomento, fu il primo a riconoscere che questo non era nello spirito animatore del decreto di amnistia. L’onorevole Togliatti nella sua relazione aveva detto: non abbiamo voluto accedere alla richiesta di concedere il beneficio dell’amnistia a chi abbia commesso delitti la cui traccia è lungi dall’essere cancellata, giacché altrimenti si andrebbe incontro certamente a conseguenze per tutti incresciose. Ma gran parte della Magistratura ha creduto, ciononostante, di poter mettere in libertà spie, delatori, rastrellatori, ed uomini a cui risalivano le più gravi responsabilità.

Una voce a sinistra. Anche seviziatori ed assassini!

TARGETTI. Con quali risultati onorevoli colleghi? Di aprire ancora delle piaghe che forse il tempo stava per rimarginare.

Io vi citerò, fra i tanti, se me lo permettete, un episodio solo che è a mia conoscenza. In una tristissima notte del marzo del 1944, in un piccolo paese della Toscana, furono rastrellati 11 individui: giovani, vecchi, colpevoli soltanto di non essere fascisti. Non avevano fatto neppure manifestazioni contrarie, si erano soltanto rifiutati di dichiararsi a favore della occupazione nazifascista e furono rastrellati. Alle famiglie che imploravano notizie sopra il destino che a questi sciagurati stava per esser riservato fu risposto: «Partiranno domani; che v’importa di saper dove andranno? Non torneranno più». E nessuno tornò.

Fra gli altri, nei campi della morte in Germania rimase il figlio del più mite degli uomini, un medico condotto. Quest’uomo nella sua sciagura era stato assistito dalla speranza che, un giorno, gli assassini del suo figliuolo avrebbero espiato il loro grande delitto. Fu facile scoprirli; furono arrestati, furono rinviati a giudizio, stavano per essere giudicati. Ma furono amnistiati ed immediatamente scarcerati. Pare che la Magistratura non abbia avuto incertezze in proposito! Eppure era purtroppo evidente che quei disgraziati erano stati rastrellati e deportati con la previsione e la volontà del loro destino.

Allora quel padre non ebbe più pace, non fu più lui. Ha battuto a mille porte, si è raccomandato a tutti per avere giustizia. Quando ha perso ogni speranza di ottenerla, si è armato di un potente budello di bue che non l’abbandona mai. Va in giro per le vie del suo paese, deciso a farsi giustizia da sé, se un giorno incontrerà qualcuno degli assassini del suo povero figliuolo. Gli sembrerebbe di offenderne la memoria lasciando che i suoi carnefici tornassero a passeggiare, come si diceva volessero fare, per le vie del paese, dove il suo figliuolo non tornerà più. Così si arriva non alla pacificazione, ma all’inasprimento degli animi.

Questi stati d’animo non si curano con qualche provvedimento di polizia. Ma è necessario tenerne conto e fare in modo di non provocarli. È necessario anche preoccuparsi dal pericolo sociale che presenta la liberazione di tanti delinquenti.

Noi, galantuomini, che non avevamo fatto male a nessuno, non ci si era approfittati di nulla, non si era commessa alcuna violenza, si dovette a suo tempo sottostare all’obbligo delle impronte digitali. Siamo stati diffidati, pedinati, sorvegliati, limitati nella nostra libertà per tutto il periodo fascista. Persino uomini come il mio grande amico, l’onorevole Filippo Meda, fino all’ultimo giorno della sua vita, fu sorvegliato nei suoi movimenti, perché il regime voleva sapere in qualsiasi ora di qualsiasi giorno dove si trovasse, che cosa facesse.

E noi, noi non si deve avere neppure la curiosità di sapere dove sono questi barattieri, questi rastrellatori, questi omicidi, nella volontà se non nell’azione diretta, questi elementi pericolosi? Hanno essi forse il diritto di essere trattati come dei galantuomini, di agire ed agitarsi, di riunirsi, complottare dove e come meglio credono?

Questo chiediamo al Governo, non come persecuzione, ma come opera di giustizia, di difesa. (Approvazioni).

Un’ultima cosa devo dirvi, onorevoli colleghi. Ci si chiama «onorevoli colleghi» per tradizione, ma siamo qui tutti in confidenza, tanto che ci diamo tutti del tu. Vi chiedo, quindi, confidenzialmente di farmi comprendere con qualche segno quando la vostra sopportazione sta per raggiungere il suo massimo limite, ed io cercherò senz’altro di concludere.

Però vorrei richiamare la vostra attenzione su un argomento che è strettamente collegato con questo di cui ho avuto l’onore di occuparmi.

Provvedimenti di polizia. Mi dicono che l’onorevole Scelba non abbia bisogno di incitamenti per essere deciso e severo nel farli applicare.

Applicazione di vecchie e nuove norme di legge. Io ho un grande rispetto per la Magistratura; ho vissuto la parte più bella della mia vita in continuo contatto con essa; ho stretto delle amicizie che mi sono care e tali sempre rimarranno; ho avuto dalla Magistratura, amichevole, fraterna accoglienza anche quando dimostrarmi stima e simpatia non era, per un magistrato, un titolo che potesse facilitare la sua carriera: ho vissuto da vicino la vita della Magistratura, una vita, onorevoli colleghi, in gran parte di eroi: eroi del bisogno, eroi della povertà. Questi uomini, che sono arbitri delle nostre fortune, e, quello che importa tanto di più, della nostra libertà, del nostro onore, questi uomini voi li vedete costretti, persino nell’apparenza, ad un tenore di vita che mortifica noi più che loro. Questo bisogna riconoscere ed a questo bisogno decidersi a riparare una buona volta!

Questo grande rispetto rimane in me superstite ad ogni critica che alcuni magistrati possono meritare. Ma è certo che, per vari sintomi, una fiducia illimitata (uso un eufemismo) nell’opera della Magistratura non riusciamo in questo momento ad averla. Mi pare di avere esordito accennando ai cattivi ed ai buoni esempi. Buono per me l’esempio della brevità del collega Giua, molto cattivo l’esempio del Procuratore generale (del re, egli vorrebbe poter dire, e non della Repubblica). Se n’è parlato già altre volte; non farò anch’io la voce grossa per quest’episodio, ma chiedo a voi, onorevoli colleghi, se non siete tutti persuasi, lo chiedo al Governo e per esso all’onorevole Gullo che ben lo rappresenta, che non si può restare ancora in questa situazione.

Quel procuratore generale bisogna che si persuada, anche contro la sua volontà, che per rimanere al suo posto bisogna sentirsi procuratori della Repubblica. È la Repubblica che gli dà decoro, onori, che gli dà anche emolumenti. Non per rimpiccolire la questione, ma non si può essere procuratori generali di una Repubblica, stare a capo della Magistratura, non dico avendo conservato in un cantuccio molto nascosto del proprio pensiero simpatia per l’ideologia monarchica, ma se non si riconosce il nuovo regime che si ha l’obbligo di servire. Vorrei, colleghi dell’estrema destra, che anche voi riconosceste che faccio di tutto per essere sereno ed obiettivo. Io rinunzio persino a discutere il suo atteggiamento nella questione del referendum. Per lui scheda nulla e scheda bianca significano espressione di volontà. Per lui hanno votato validamente anche quelli che non hanno detto nulla. Rimanga con questa sua persuasione. Può esserci indifferente. Tanto più che tutti sanno come, anche tenendo conto delle schede nulle e bianche per determinare la maggioranza, la Repubblica l’avrebbe anche in questo caso ottenuta e superata, per somma disgrazia del suo procuratore generale. Si può, quindi, anche non dare gran peso a questo suo atteggiamento, se lo si considera in se stesso, come la manifestazione di un convincimento giuridico. Il diritto si presta anche, certe volte, ad interpretare le cose come ci piace di più. Ma v’è l’episodio della inaugurazione dell’anno giuridico che è persino penoso rievocare. Quella fu proprio una ostentazione di disconoscimento della forma del nuovo Governo. Cerco di prescindere dalla persona, tanto cara a tutti noi, di Enrico De Nicola. Dico solo che mi fa quasi pietà questo magistrato italiano, che crede di essere veramente degno di tale nome, mentre verso Enrico De Nicola, una delle più belle e nobili figure del Foro italiano, tiene quello atteggiamento irrispettoso (Vivissimi prolungati applausi). Non mi occupo di questo, ma quel Procuratore generale, all’inaugurazione dell’anno giuridico, mi dicono che si intrattenne lungamente a proposito dell’attività dalla Corte suprema svolta nella risoluzione di alcune questioni inerenti alla successione nel diritto di esercitare una farmacia. Ora, con tutto il rispetto per i farmacisti – non so se qualcuno ve ne sia qua dentro – l’argomento sarà molto importante, ma il Procuratore generale dimenticò di dire che, durante quel periodo di tempo, oltre alla questione delle farmacie, c’era stato il referendum, istituzionale, c’era stato l’intervento della Cassazione nel proclamare l’avvenimento storico della modificazione della forma dello Stato, nella proclamazione della Repubblica italiana. Che cos’è ciò, se non una manifestazione di volontà contraria alla Repubblica? Se non un disconoscimento della Repubblica? Che cos’è questa, se non una offesa, indiretta, ma chiara, del prestigio e del decoro del nuovo regime? Che cosa dovete fare, signori del Governo? Non dovete aver bisogno che ve lo suggerisca io. Penso che ci sia in voi qualche preoccupazione di non voler fare delle vittime. Ma alla peggio, che cosa accadrà? Accadrà che quel magistrato, che forse altrimenti non sarebbe mai venuto a sedere in questi banchi, troverà il modo di venirci, come una presunta vittima del regime repubblicano, ed andrà a prender posto accanto all’onorevole Venditti. Poco male. Ma la questione è che non si deve dare alla Magistratura questo pessimo esempio di insubordinazione, d’incomprensione dei più elementari doveri del proprio ufficio. Che cosa si potrà rimproverare all’uditore giudiziario, al pretore, ad un sostituto procuratore della Repubblica se, con poco buon gusto, dimostrerà qualche nostalgia monarchica, quando il suo supremo capo gerarchico si è dichiarato antirepubblicano nell’esercizio delle sue funzioni? Non credo di aver la competenza di poter indicare che cosa altro si possa fare per ottenere da parte della Magistratura una corretta, imparziale applicazione della legge.

Noi dobbiamo essere tutti gelosi dell’indipendenza della Magistratura, non tanto nell’interesse del magistrato, quanto in quello di tutta la collettività, nell’interesse del Paese. Bisogna evitare qualsiasi atto che, neppure per la sua apparenza, possa essere interpretato come un’ingerenza governativa nell’opera dell’amministrazione della giustizia. Forse non si può fare altro che indagare, rendersi conto della realtà. Mi dicono, per esempio, molti colleghi del Mezzogiorno che colà si dà questa particolare situazione. A causa delle devastazioni, delle distruzioni di abitazioni nelle loro sedi dell’Italia settentrionale e centrale, molti magistrati nati in Sicilia, in Calabria, in altre parti del Mezzogiorno d’Italia, hanno cercato e ottenuto di ritornare nei loro paesi d’origine. Si è venuta così a costituire una Magistratura regionale, che forse al carissimo amico onorevole Lussu può anche andar bene, ma che non può piacere a chi non è federalista. Bisogna a questo proposito tener anche presente che, se qualche volta accade di incontrare un medico, un sacerdote, un ufficiale, un avvocato, che sono figli di operai o di contadini, non so perché, (sarebbe una indagine troppo complessa ricercarne la ragione) voi non troverete un magistrato che provenga da queste umili categorie di lavoratori. Almeno io non ricordo di averne incontrati. I magistrati appartengono di regola alla media borghesia. Non dico che, per questo, abbiano un sentimento antiproletario, antioperaio, ma risentono spesso l’influenza di una tradizionale incomprensione, quando non è avversione, verso le idee più ardite di rinnovamento sociale. Si sentono conservatori, sebbene il passato non abbia avuto per loro che il disconoscimento della loro opera, mortificazioni, dolori. Vanno questi magistrati in residenze, dove hanno i propri parenti, gli affini, gli amici, che non sono certo operai, né contadini, ma piccoli o medi possidenti, legati tutti per abitudini di vita alla borghesia locale. Forse è difficile resistere all’influenza, anche inavvertita dell’ambiente. Ed ecco perché si dice che nel Mezzogiorno vi è una giustizia di classe. Spesso si finisce col favorire il ricco ed essere severi con il povero. Nei reati per violazione delle norme sugli ammassi si lasciano spesso impunite le più gravi violazioni, mentre si fa la faccia truce verso la piccola infrazione di un povero contadino. (Proteste –Commenti).

Una voce a destra. Si dice, ma non è vero.

TARGETTI. Si dice da più parti, con molta insistenza. Bisognerebbe, quindi, indagare. È nello stesso interesse della Magistratura. La Magistratura italiana rivendica un assoluto autogoverno. La quistione sarà discussa, discutendosi la Costituzione. Intanto, senza nessun provvedimento che possa offenderne con ragione la suscettibilità bisognerebbe riuscire a persuadere la Magistratura stessa della necessità di autodisciplinarsi, di migliorarsi. Questa la via maestra per incamminarsi verso le maggiori rivendicazioni di autonomia, mentre starà a noi assicurarle, senza altri indugi, degne condizioni di vita.

Domando scusa agli onorevoli colleghi di essermi trattenuto troppo su questo argomento, che non entrava neppure tra i temi delle dichiarazioni del Presidente del Consiglio; ma forse è stato proprio per questo che ho sentito la necessità di insistervi per richiamare su di esso tutta l’attenzione del Governo e dell’Assemblea. Al di sopra della diversità dei principî che non può che dividerci, dovremmo tutti sentire l’interesse generale, collettivo, umano, di restituire al popolo la fede nella giustizia. Grande è la difficoltà, la fatica, che il popolo italiano deve superare e compiere per la sua resurrezione. Se sarà assistito dalla fiducia nell’opera della giustizia, questa fatica sarà più lieve e più sollecito il raggiungimento della mèta. (Applausi – Congratulazioni).

Presidenza del Presidente TERRACINI

PRESIDENTE. È iscritto a parlare l’onorevole Condorelli. Ne ha facoltà.

CONDORELLI. Onorevoli colleghi, sebbene la discussione sulle dichiarazioni del Governo vada per le lunghe e rischi di distrarre ancora per lungo tempo i governanti dalle gravi questioni che in questo momento incombono sul Paese, pur tuttavia sento che non è possibile sottrarsi a questo dovere di democrazia di dire schiettamente il proprio pensiero circa i vari problemi che le dichiarazioni del Governo hanno posto.

Noi desidereremmo che, data la gravità dei compiti di politica estera e di politica interna che attendono il Governo, questi fosse confortato dalla fiducia unanime del Parlamento. Ma, purtroppo, pur sentendo viva questa esigenza, non possiamo non negargli il nostro voto.

Il nostro dissenso è totale. È totale sul modo con cui è stata composta la crisi, è totale sul programma, è totale anche per quello che il programma non dice.

Secondo noi questa crisi doveva risolversi con la formazione di un Governo omogeneo, un Governo omogeneo che obbedisse a questa esigenza: di eliminare i rapporti di tensione che esistono fra uomini dei diversi partiti che formano lo stesso Governo, tensione che necessariamente si deve determinare e che non può non infiacchire l’azione del Governo.

Questo non significava affatto che il Governo non dovesse tener conto delle esigenze dei partiti che sarebbero venuti a formare la maggioranza parlamentare, perché è bene intendersi sul concetto della formula di Governo. Si è trovata ora questa espressione per ammantare di un tono scientifico quelle che poi non sono altro che pratiche empiriche e manipolazioni parlamentari. Ma una formula di governo non può e non deve essere, seriamente, che composizione di idee, composizione di programmi, formula che non presuppone necessariamente una combinazione, anche eterogenea, di uomini e soprattutto una combinazione di uomini che sono nell’incapacità di attuare un programma.

I partiti concorrano alla formazione di un Governo che deve attuare il programma, che questi partiti insieme hanno concordato; vi concorrano con uomini del Parlamento, se li hanno; o cercandoli nelle loro file, al di fuori del Parlamento, nel Paese; cercandoli fra indipendenti, che si obblighino a seguire quel programma di governo, che del resto va eseguito sotto la sorveglianza del Parlamento. Ma non è mica detto che per attuare la formula i Governi si debbano costituire insufficienti ed incapaci tecnicamente, ed anche per la eterogenea combinazione degli uomini.

Io penso che se in questo momento nel Parlamento italiano ci fosse un Cavour, probabilmente egli non potrebbe essere membro del Governo se il suo partito non facesse parte della combinazione.

Questo è un momento nel quale bisogna pensare a cose molto più serie di questi dosaggi di uomini e di partiti. Questi sono momenti in cui ci troviamo di fronte a problemi formidabili della nostra politica estera e della nostra politica interna, e la necessità dei tecnici è inderogabile.

È per questo che noi siamo contrari a questo Governo, come saremo inflessibilmente contrari a tutti i Governi che nell’avvenire si potessero formare, quod Deus avertat, con questi stessi sistemi.

Ma la nostra opposizione riflette anche il programma.

E non vi meravigli, anzi non se ne meraviglierà nessuno, che io cominci proprio dal Ministero della difesa.

Malgrado la nostra situazione di nazione sconfitta, anzi proprio per questa situazione di nazione sconfitta, il problema della ricostituzione delle Forze armate è per noi dominante. In teoria ne convengono tutti, perché questo secolo ferrigno ha dato purtroppo la più clamorosa delle smentite alle ideologie pacifiste che determinarono gli antimilitarismi dei primi lustri del 900. E proprio in Italia si è avuta una dura lezione che insegnerà per sempre ed a tutti a non manomettere questo patrimonio più geloso e più alto del sentimento nazionale. È quello che avvenne nel 1920-21: la reazione dell’intera nazione. Gli attacchi, che andavano dall’oltraggio all’uccisione dei nostri soldati, furono repressi soprattutto dall’insorgenza unanime del sentimento nazionale. Anche per questo oggi quelle forme di attacco alle nostre Forze armate non si presentano più. Però questo spirito irriducibilmente antimilitarista, ma che poi è in sostanza antinazionale, si presenta sotto diversi aspetti: prima di tutto con la sistematica denigrazione delle nostre Forze armate, della quale abbiamo sentito l’eco anche in quest’aula.

PAGCIARDI. Io ho accusato i responsabili, non le Forze armate. Ho tre medaglie al valore (Interruzioni – Commenti).

CONDORELLI. Si parla dei generali considerandoli responsabili della sconfitta, e non si pensa che così ci ricolleghiamo al costume cartaginese di crocifiggere comunque i generali sconfitti.

Una voce a sinistra. E facevano bene!

CONDORELLI. Non si pensa che questi nostri generali, dei quali si parla con tanta facilità, contro i quali si legifera con tanta leggerezza, hanno avuto 56 morti sul campo di battaglia su 550 generali impiegati in formazioni mobilitate, il che importa una mortalità di oltre il 10 per cento, infinitamente superiore a quella delle truppe stesse, infinitamente superiore a quella che può essere stata la mortalità bellica di tutti i tempi moderni. Questo mostra che i generali d’Italia, anche questa volta, hanno fatto eroicamente il loro dovere ed aspettano il riconoscimento dell’opinione pubblica italiana perché dall’opinione pubblica mondiale l’hanno già ricevuto (Approvazioni a destra).

E poi si è passato a vagliare l’esercito con i processi di epurazione. Già questi si sono avventati contro tutte le amministrazioni, ma proprio in questo settore bisognava essere più cauti.

Li pensate voi, questi giudici borghesi, che dovevano domandar conto delle loro azioni ai soldati che tornavano dopo quattro, cinque, sei anni di prigionia, con le carni lacerate?

Accanto al giudizio militare, che è inevitabile per accertare la condotta dei militari in guerra, il giudizio politico nel quale si doveva chieder conto a questi giovani che avevano dato il loro sangue, la loro giovinezza per la Patria o, se volete, anche per il loro ideale, se nei guf o nei littoriali avessero fatto i fascisti! Irrisione!

E poi la lunga serie dei giudizi, dei ricorsi al Consiglio di Stato e in caso che il Consiglio di Stato rispondesse negativamente, la possibilità di ricorrere al Ministro per aver tolta la punizione, insomma la creazione di uno stato di tensione continuo fra questi nostri ufficiali e le loro gerarchie.

Che cosa si poteva fare di più per dissolvere l’esercito? Ma sarebbe stato meglio, di fronte alle benemerenze che questi fedeli soldati avevano acquisito servendo la Patria, non indagare su questo passato, compensando opportunamente i meriti che ogni combattente ha con i possibili eventuali molto discutibili demeriti politici.

Ma non ci si è fermati qui: vi è stata la legge per lo sfollamento!

Prima di tutto si è pensato alle leggi per lo sfollamento degli alti gradi e si è costituita la Commissione mista per giudicare i generali d’Armata e di Corpo d’Armata, Commissione in cui tre ufficiali generali dell’esercito sono stemperati in un numero doppio di civili: tutta la serie non sempre illustre di Ministri e di Sottosegretari alla guerra che devono giudicare della condotta di questi generali, sovvertendo tutte le regole della disciplina, che è poi la base dell’esercito. Abbiamo visto i nostri generali alla mercè di uomini politici, che tante volte appartengono a degli schieramenti costituzionalmente antimilitaristi, che sono pieni di querele e di querimonie contro questi generali.

Si poteva infliggere una umiliazione più grave?

Si disse che non c’era altro mezzo, perché non si poteva trovare un numero sufficiente di ufficiali di pari grado o di grado più elevato che potessero assolvere questa funzione. Ma gli ufficiali giudicabili di grado così alto non sono molti. Bastava fare la commissione di cinque membri, di tre generali con il Ministro della Guerra ed il Sottosegretario in carica. Sarebbero bastati questi, ma viceversa si vollero raggiungere palesemente altre finalità.

E poi non è bastato: questa legge, senza ragioni di sorta, si è voluta estendere anche ai generali di Divisione, di Brigata ed ai colonnelli.

Si è fatto perché si è voluto fare. Si è fatto a fini evidentemente oppressori.

Badate, non voglio dire che queste finalità fossero operanti nella coscienza di colui che fece questa seconda legge, persona della quale io riconosco l’alto patriottismo. Ma è il marasma diffuso che ci raggiunge anche a nostra insaputa, agendo sul nostro subcosciente e che non ci fa comprendere, tante volte, l’inammissibilità di ciò che si compie, anche nella più limpida convinzione di non far niente di male.

Se di questo doloroso fenomeno volete un esempio evidente, basta che consideriate una legge in sostanza insignificante ma che non può non avere una triste significazione morale: l’abolizione del grado di Maresciallo d’Italia. Questa legge dice che coloro che sono insigniti di questo grado lo conservano, che conservano anche gli emolumenti, ma che sono collocati a riposo ed il grado è soppresso per l’avvenire.

Ci si domanda: quali sono le ragioni di questa legge? C’è, per caso, una ragione economica? Evidentemente no, perché economicamente nulla si sposta. È per impedire che nuovi Marescialli si nominino aggravando la finanza dello Stato? Evidentemente no, perché i marescialli si nominano per fatti di guerra e non è possibile pensare ad una tale eventualità dopo una guerra finita come la nostra.

E allora qual è la ragione? Può essere soltanto una ragione sanzionatoria nei riguardi dell’Esercito italiano, che viene privato della più alta dignità, che pure esiste in tutti gli eserciti grandi e piccoli, monarchici o repubblicani, tanto negli eserciti di Sua Maestà Britannica, quanto in quelli di Stalin e di Tito. Oppure la ragione è quella di prestare anticipata e – perciò – maggiormente deplorevole acquiescenza a questo inqualificabile trattato che vuol ridurre l’esercito italiano ad un esercito da guardia, e anche meno?

Perché, in fondo, questa sola giustificazione si può presentare: l’esercito italiano diventa così minuscolo che il grado di maresciallo non avrebbe ragione di essere. Non si è pensato che fare un decreto come questo prima di esservi costretti dalle disposizioni del trattato era un’anticipata acquiescenza al principio informatore di questo trattato che, disarmando l’Italia e rendendola facile preda di qualsiasi cupidigia, crea una causa di nuove guerre.

Comunque, perché dovevamo aderire, senza prima esservi costretti, con quest’atto di acquiescenza anticipata, al trattato che demilitarizzava l’Italia?

Con la costituzione poi dell’unico Ministero della difesa si continua esattamente in questa stessa linea. In questa decisione, di creare il Ministero della difesa unificando in esso tutti i Ministeri militari, c’è un solo elemento positivo: il patriottismo indiscutibile di colui che è stato preposto a questo Dicastero. Patriottismo certo, come è certo il patriottismo di chi ne ha fatto suprema testimonianza, combattendo per la Patria ed educando i figli nella religione che fiammeggiò nel martirio del figliuolo del nostro Ministro.

Ma, tolto questo lato, tutto è negativo. Tutto è negativo, dalla scelta, dal punto di vista tecnico, del Ministro, al quale non si fa certo torto dicendo che egli, avvocato, non ha la competenza tecnica occorrente per restaurare le sorti delle Forze armate italiane, alla stessa idea della fusione di questi Ministeri. Perché è evidente che l’azione di questo Ministero unificato non potrà rafforzare la ormai sminuita forza. Sarebbe stato meglio che ognuna delle tre Forze armate fosse rimasta col suo competente Ministro. La fusione dei tre Ministeri porterà necessariamente alla minimizzazione delle due branche delle Forze armate meno cospicue: quelle che faranno le spese saranno la marina e l’aeronautica. Prevarrà certamente l’esercito. Eppure per noi quelle altre due branche hanno importanza straordinaria.

Guardate anche la composizione di questo Ministero.

Giacché si era messo un politico a capo del Ministero della difesa, era molto meglio mettere dei tecnici come Sottosegretari. Anche questa volta la scelta è avvenuta con criteri diametralmente opposti a quello delle competenze.

Si sono scelti due avvocati ancora ed un pubblicista. C’è un generale. Questi è il Sottosegretario della difesa, quello che dovrebbe essere il vero e proprio Ministro.

Ma, con tutto il rispetto dovuto al nostro collega, va notato che egli è soltanto generale di divisione. Né io so che sia un generale che abbia particolarmente illustrato la storia militare d’Italia. Io non so comprendere sotto quale aspetto egli fosse proprio l’uomo del caso. Non si poteva trovare un generale del suo stesso valore, ma che avesse un maggiore prestigio sulle Forze armate d’Italia?

E poi da questa situazione nasce un’infinità di problemi, uno più grave dell’altro.

Sappiamo tutti che c’è uno Stato maggiore generale alle dipendenze del Presidente del Consiglio. Poi ci sono i tre Stati maggiori delle tre Forze armate, che stanno accanto al rispettivo Ministro.

Ora, quali saranno in questa nuova situazione i rapporti fra questi quattro Stati maggiori fra di loro e rispettivamente di ciascuno di essi col Presidente del Consiglio, col Ministro della difesa e coi Sottosegretari?

È una quantità di problemi di organizzazione, che sorgeranno, e che era necessario risolvere prima della fusione, perché, studiando questi problemi ad unificazione avvenuta, ne conseguirà un disorientamento, che potrà durare mesi e mesi, forse sino a quando, di seguito ad un’altra crisi, si ricomporranno i vari Ministeri.

Io scommetterei che il Presidente del Consiglio non ha neanche chiesto su questo punto il parere del Capo di stato maggiore generale. Questi avrebbe certamente sconsigliato la fusione o comunque avrebbe detto che prima bisognava fare la riforma e poi la fusione.

Viceversa, come al solito, probabilmente per risolvere una situazione parlamentare, una questione di formula, secondo il gergo in voga, si è pensato di attuare la fusione. Non ci può essere stato nessun altro motivo.

Ed il disorientamento determinato nelle Forze armate si constata anche in tutte le altre branche dell’attività dello Stato, in tutte le branche dell’attività della Nazione.

Noi abbiamo qui sentito il discorso euforico dell’onorevole Scoccimarro; discorso euforico e anche molto abile, perché, se mette in evidenza la grande fattività di questo Ministro, mette anche – o vorrebbe mettere – in evidenza questo: che di problemi non se ne è risoluto veramente nessuno, ma che l’uscente lascia il Ministero nel momento in cui sono creati i presupposti per risolverli tutti. Di modo che, se non si risolveranno, la colpa non sarà sua, ma sarà del suo successore.

Ora, noi non condividiamo questa sua euforia e questo suo giudizio. Indubbiamente noi non siamo pessimisti; noi pensiamo che tutti i problemi, e particolarmente quelli dell’economia e della finanza, in Italia si possono risolvere di fronte alla magnifica prova di potenza di recupero che ha dato il popolo italiano.

Ma il popolo italiano ha bisogno di essere governato.

Vedete: in sostanza si è riusciti ad aumentare le entrate – e di questo noi possiamo senz’altro dar lode al Ministro delle finanze – probabilmente si è predisposto quello che è necessario per aumentarle ancora di più. Però, l’aumento delle entrate è veramente irrisorio di fronte all’aumento delle spese. Era lì che bisognava agire anche, e con molta energia. Viceversa le spese aumentano vertiginosamente; e non soltanto perché, data la direttiva di continuo ampliamento degli interventi dello Stato nei fatti dell’economia, le spese irrefrenabilmente devono aumentare, ma anche per la svalutazione della moneta, alla quale nulla si è saputo contrapporre.

Anzi, vorrei dire, che si è fatto di tutto perché il processo continuasse inesorabile. Basterebbe pensare a tutto quello che si è fatto in rapporto al cambio della moneta, cioè a tutto quello che si è detto, perché di fare non si è fatto niente.

Tutto quello che si è detto! Ma è la prova della maggiore disorganizzazione, della più chiara, completa mancanza di una linea di condotta.

Da questi banchi era venuta l’esortazione perché di questo cambio di moneta non si parlasse, perché il cambio di moneta è sopra tutto antidemocratico, in quanto colpisce allo stesso modo, nella stessa proporzione, il detentore della mercede di una settimana, o di quanto gli può bastare per vivere quindici giorni o un mese, e il detentore di milioni. E poi colpisce essenzialmente i piccoli, quelli che conservano il denaro sotto la piastrella del pavimento, nel bottiglione; non colpisce i grossi capitalisti, i quali non tengono mai il denaro in mano, neanche un’ora; lo investono, ne fanno depositi bancari, acquistano preziosi, hanno comunque grossi volumi di crediti commerciali. Imposta palesemente ingiusta!…

Ma comunque, quale che fosse il giudizio finale circa l’opportunità di fare questo cambio, era troppo chiaro che era necessario non parlarne, se lo si voleva fare. Ancora da questi banchi, da una voce autorevole che lungamente ha illuminato il Governo, venne l’avvertimento: «Non fate questo cambio, e soprattutto non lo annunciate». Perché? Perché se la moneta sarà cambiata, prima che facciamo il cambio, la gente la cambierà in merci. Ed è proprio quello che è avvenuto: dalla piccola massaia, che è corsa a fare tanti acquisti quanti più ne ha potuti fare per il timore che il suo denaro venisse falcidiato dal cambio della moneta, dai commercianti che preferiscono conservare anziché vendere, ai grossi industriali che preferiscono tener valuta estera anziché valuta italiana, tutti quanti hanno cercato di disfarsi di questa nostra minacciata moneta e di comperare più che hanno potuto. Magari non sarà stata questa la causa unica dell’aumento dei prezzi, ma certamente deve essere stata una causa largamente concomitante. Su questo punto bisognerebbe che il Governo avesse una direttiva: o non parlarne più del cambio o farlo immediatamente, e se immediatamente non si può fare, nell’interesse del popolo italiano bisogna rassicurare i cittadini, la collettività, rassicurare che il denaro non sarà cambiato e facilitare il riacquisto della fiducia nella moneta. Perché, altrimenti, col permanere di questa minaccia, si creerà certamente un maggiore disagio.

Eppoi: si è riconosciuto ormai da tutti che la nostra vita nazionale, la nostra economia, non si possono ricostruire che sulla base della iniziativa privata e che la produzione, data la nostra situazione, non può prescindere dal binomio capitale-lavoro. Ma allora, se è così, bisognava non inceppare e non spaventare l’iniziativa privata, e bisognava non deprimere e non perseguitare il capitale.

Ora, io non dico che sia stato veramente perseguitato il capitale, ma si è sempre minacciata una politica così drastica, soprattutto si è data una qualificazione così sfavorevole ai detentori di capitale, che si è determinato il criterio di non mostrare il capitale, di non investirlo, perché, si diceva e si dice: non si sa quello che può avvenire, non si sa come reagisce l’opinione pubblica contro chi ha del denaro e lo spende, lo utilizza, lo mette in circolazione suscitando delle attività. Si pensava e si pensa che ciò facendo si guadagni subito la qualifica di elemento antisociale, di sfruttatore.

Voi convenite che questa atmosfera non è la più invogliante perché questo capitale e questa iniziativa privata collaborino alla rinascita del Paese. Tutte questo bisognerebbe vederlo e noi vi parliamo in vista di questa situazione.

Noi evidentemente non siamo contro la pressione fiscale: la pressione fiscale deve essere quella che deve essere per restaurare le finanze dello Stato.

Naturalmente il denaro necessario non potete chiederlo se non a chi lo ha, chi lo ha deve pagare.

Non siamo nemmeno contrari ad una politica che faciliti le conquiste del lavoro. Se voi, amici della sinistra, siete fautori di queste conquiste, per convinzione filosofica, scientifica, economica, noi lo siamo non soltanto per questo, ma soprattutto perché è un dettame della nostra coscienza religiosa e morale e perciò lo siamo indubbiamente più di voi, più perfettamente di voi, perché ciò non è per noi, come per voi marxisti, il risultato necessario di un determinismo economico, ma un comandamento di Dio.

Ma noi vi diciamo soltanto questo: non continuate nell’errore di bipolarizzare la società in lavoratori e in capitalisti, come se ci fosse in questo mondo qualcuno che non lavora. Anche i capitalisti lavorano e lavora anche chi non è né capitalista né lavoratore nel senso vostro. Lavora per il fatto che è vivo, mangia e pensa.

La bipolarizzazione va fatta tra detentori dei mezzi di produzione e coloro che prestano il lavoro ai detentori di questi mezzi di produzione, partecipando così al processo produttivo. Ma fra queste due categorie – che poi non sono la maggioranza, anzi in Italia sono una minoranza – esistono i cosiddetti ceti medi, composti di produttori autonomi nell’ordine dello spirito o della materia, quei tali ceti che si chiamano medi, non perché stiano nel mezzo come una categoria economica più avvantaggiata della inferiore e meno prospera della superiore, chè, sotto questo aspetto, sono assai spesso gli ultimi: stanno nel mezzo un pochetto come sta una materia in un torchio, compressa da tutte e due le facce. Così, noi dei ceti medi stiamo nel mezzo. E vi stiamo anche in questo senso: perché in noi confluiscono le esigenze della intera collettività che noi riusciamo ad esprimere, poiché siamo forse più capaci di sentimenti metaegoistici.

Noi diciamo: è necessario che questo conflitto si componga scegliendo la forma economicamente più utile di produzione, perché di questo conflitto siamo noi che essenzialmente paghiamo le spese. E vi diciamo: basta con questa lotta, pensate che avete il dovere di produrre. Si trovi la formula più economica, la quale è naturalmente quella che maggiormente facilita la produzione nell’interesse collettivo, sempre sotto la legge della giustizia.

Così, per noi, va impostato il problema e, credetelo, così solo si risolve.

Ma ormai la formula vostra non è che la lotta di classe. Ora, la lotta di classe è una verità di fatto, che si constata come si può constatare un’altra più generale verità che drasticamente si esprime col famoso homo homini lupus. In verità, c’è un rapporto di tensione costante non soltanto fra gli uomini conclusi in formazioni collettive, ma anche fra gli individui; non soltanto reciprocamente fra le classi sociali e fra le Nazioni, ma anche fra gli uomini singoli, financo fra gli appartenenti alla stessa famiglia. Ma la collettività consiste proprio in questo: nella conciliazione di questo stato di tensione, che è necessario fra gli uomini ma non deve divenire regola di condotta. (Approvazioni).

La lotta di classe è una constatazione che si fa; ma non può assurgere a precetto di vita sociale.

Giustizia, giustizia! Giustizia che noi invochiamo molto spesso anche contro di noi.

Ma guardate, per esempio, la giustizia che si determina oggi nelle città e nei campi, con questi blocchi mal congegnati di alcuni fitti urbani e di alcuni prodotti agricoli.

Tutti questi blocchi dei prezzi erano concepibili quando c’era un totale blocco dei prezzi per le merci ed i servizi.

Quando cominciò questa avventura di guerra, fu congegnato il provvedimento del blocco totale dei prezzi. Era un provvedimento assurdo, assurdo come l’articolo 131 della nuova Costituzione che vuole consacrare per tutti i tempi la repubblica.

Così era assurdo il provvedimento che voleva pietrificare la situazione economica che è fluida per sua natura. Era assurdo, comunque poteva essere giusto; ma quando questo blocco è caduto quasi ovunque, non è assurdo mantenerlo così rigidamente solo per alcuni generi? Non vedete che ci sono alcune categorie di persone che si costringono a pagare per tutti, creando una situazione di ingiustizia veramente insopportabile? Ora, la maggior parte di noi siamo inquilini, ma non possiamo non prospettarci la situazione dei disgraziati proprietari di immobili. È notorio che anche gli stipendi della classe più infelice, quella di noi impiegati dello Stato, sono aumentati di 10 volte, i salari sono aumentati di trenta volte, il costo della vita sarà aumentato di una cinquantina di volte, mentre per i fitti si parla di aumenti del 20, 30 o al massimo del 70 per cento. Poi l’ingiustizia appare ancor più clamorosa quando si pensi che questi blocchi riguardano persino gli immobili destinati al commercio. Si può quindi dare e si dà frequentemente in fatto questa assurda situazione, che è contraria ad ogni ragione economica, sociale e morale, che il proprietario muoia di fame mentre il suo inquilino, conduttore di una bottega con affitto bloccato, guadagna milioni o centinaia di milioni. Qual è l’esigenza sociale che richiede che si perpetui una situazione simile? Io non riesco a individuarla.

Ma perché non si affronta la situazione? Davvero si paventa l’aumento di prezzi? Ma, mio Dio, tanta ingenuità economica oggi, in pieno 1947, non può esistere. Noi sappiamo che i prezzi in tempi di rarità di merci non sono commisurati al costo di produzione, bensì appunto a questa rarità. Le merci raggiungono i prezzi che possono raggiungere senza nessuna relazione con quel che le merci o i servizi costano. E voi pensate che potrebbe influire sui prezzi il fatto che un esercente paghi qualche migliaio di lire di più al mese per l’affitto della bottega?

Se siamo tutti convinti di no, perché non si rimedia a questa grave ingiustizia che è ingiustizia contro una classe ormai veramente espropriata almeno di un buon terzo del suo capitale, dato che, praticamente, non percepisce da sette anni alcuna rendita?

Un altro aspetto di questa vostra politica economica, che dovrebbe essere di giustizia e di pacificazione sociale, e che invece finisce con l’aizzare la lotta fra le classi sociali nelle campagne.

Guardate la legge Gullo del 19 ottobre 1944. Non pensi il Ministro che io muova un attacco a fondo contro la sua legislazione agraria. Ne sono invece un fautore, ma solo desidero dei perfezionamenti. Ma la legge Gullo, a cui ho accennato, accusa, secondo me, un errore di impostazione, un pochetto di demagogia della quale non faccio colpa al temperatissimo Ministro dal quale prende nome, ma ne faccio colpa all’ambiente ed al tempo in cui viviamo. In fondo siete venuti in soccorso di una classe che non ne ha bisogno perché tutti sanno che i mezzadri, i compartecipanti, i coloni sono spesso arcimilionari o per lo meno hanno costituito una piccola borghesia che vive nell’abbondanza. Che bisogno c’era di fare una legge simile? Io veramente non sono riuscito a capirlo, ma il guaio si è che avete scatenato una vera guerra. Si fosse almeno trattato di una legge perentoria: i proprietari non prendono più niente, oppure prendono l’uno per cento o il trenta per cento.

No!

Con quella legge, avete avuto l’abilità di far diventare campo di battaglia ogni podere. Nasce infatti in primo luogo la questione: ti tocca il 20 o il 40 per cento? Così infatti è congegnata la legge: noi tutti ben la conosciamo. Ciò è stato essenzialmente causa del gonfiamento delle Commissioni che voi avete istituito, le quali hanno prolificato e sono diventate ora un’infinità. I contadini e i proprietari, invece di lavorare, pensano ad azzuffarsi e, in fondo, finiscono tutti col guadagnar poco o nulla, perché una parte dei loro guadagni se li prendono gli avvocati.

Questo forse è il solo lato favorevole della legge: è una classe molto infelice quella degli avvocati! Ma non v’è certamente altro lato favorevole oltre questo. Alcune volte per poche lire, si fa una questione dinanzi ad una Commissione e poi la soluzione è inevitabilmente che l’una e l’altra parte dovranno pagare alcune migliaia di lire a quel povero professionista che li avrà difesi. Ma le leggi, onorevoli colleghi, debbono essere fatte in modo da non creare inconvenienti più gravi di quelli contro cui si intende provvedere. Così anche fra inquilini e proprietari di case, dato che per le pigioni non si sono sempre stabiliti degli aumenti fissi.

SEGNI Ministro dell’agricoltura e delle foreste. Lei esagera: ha un’opinione troppo filosofica.

CONDORELLI. No, mi occupo anche di cause civili e le so dire che realmente si fanno di queste barbine cause. Si è creata una tensione tale tra padrone di casa ed inquilino che non sembra vero ad entrambi di avere un argomento per accapigliarsi. Ma, per tornare al campo dell’agricoltura, ricorderò che c’è quel famoso articolo 3 della legge Gullo, che si riferisce ai terreni migliorati, relativamente ai quali è possibile la riduzione della quota del concedente, nel caso in cui la Commissione accerti la rottura dell’equilibrio economico. In genere, quasi tutti i concessionari o coloni considerano rotto l’equilibrio economico e vanno a promuovere la causa. Avete reso un bel servizio all’agricoltura! In complesso, io credo che il Ministro Segni sarà concorde con me nel ritenere che la colonna fondamentale, centrale della economia agraria italiana sia la mezzadria, alla quale, con questa legge, è stato inferto un colpo gravissimo.

GULLO, Ministro di grazia e giustizia. Ma questo decreto non riguarda la mezzadria.

FABBRI. Riguarda il lodo De Gasperi.

CONDORELLI. La mezzadria classica esiste in poche regioni d’Italia; altrove esistono invece le cosiddette mezzadrie improprie ed altre forme di compartecipazione. L’onorevole Aldisio mi darà atto che la mezzadria propria in Sicilia non esiste. Ora, queste altre mezzadrie sono diventate tutte quante dei campi di battaglia, delle ragioni di lotta. Voi non dovevate toccarlo questo campo. E penso che non vi era nessun bisogno di toccarlo.

GULLO, Ministro di grazia e giustizia. Secondo lei, i contratti di mezzadria impropria nel Mezzogiorno d’Italia sono intangibili?

CONDORELLI. Io mi riferisco alla coscienza pubblica.

GULLO, Ministro di grazia e giustizia. La coscienza pubblica dei proprietari?

CONDORELLI. No: è stato detto proprio dai banchi dell’estrema sinistra che si è formata una piccola borghesia agraria di fittavoli e di mezzadri.

GULLO, Ministro di grazia e giustizia. Vi sono contratti vergognosi!

CONDORELLI. Si dice da tutti che si sta formando una nuova borghesia. È un ceto medio che si è costituito.

GULLO, Ministro di grazia e giustizia. Ma lei è del Mezzogiorno d’Italia, oppure no?

CONDORELLI. Io sono siciliano. Favorisca l’onorevole Ministro a Catania, a Paternò, e vedrà che razza di mezzadri vi troverà. Questa dunque è una legge fatta a favore di ceti medi, non per i lavoratori nel senso classico della parola. Questo per lo meno per il novanta per cento.

Una voce a sinistra. Vi sono quelli che lavorano anche se ricchi!

CONDORELLI. Ma allora passiamo ad un altro argomento. Qui si tratta di fare un calcolo di giustizia. Si è detto che anche quando viene pattuita la divisione degli utili in ragione del cinquanta per cento questa proporzione non c’è mai per il proprietario, perché la quota del compartecipante è in ogni caso non inferiore al 67 per cento: per tutti i vantaggi che si hanno vivendo in campagna, tenendo animali da corte, utilizzando i sottoprodotti. (Commenti).

Sentite, non fermiamoci su questo punto. Siamo tutti gente che, più o meno, queste cose le conosce. Per ragioni elettorali dite pure tutto quello che volete, ma tra di noi giuochiamo a carte scoperte.

Vi parla una persona che non ha interesse di difendere una parte o l’altra, ma ha solo l’interesse di difendere la pace sociale.

Ora voi avete cercato di raggiungere questa pace sociale con la concessione delle terre. Riguardo a quest’altro ordine di provvedimenti, sono perfettamente d’accordo. Tali provvedimenti sono quanto mai opportuni, perché vengono incontro ad una sentita esigenza del contadino, il quale aspira al possesso della terra che lavora. Dunque ben vengano provvedimenti legislativi in questo senso.

E, poi, c’è un’altra finalità non meno importante: quella di far produrre di più le terre e di incrementare la produzione, perché queste concessioni riguarderebbero i terreni incolti o male coltivati.

Ma anche questa materia – mi scusi il legislatore – deve essere organizzata meglio. Prima di tutto, se veramente si fosse voluto raggiungere un fine di pacificazione, si sarebbe dovuta aggiungere una disposizione par rendere incapaci o indegni di queste concessioni gli enti o i singoli che avessero ricorso ad occupazioni violente. Questo nella prima legge non l’avete messo; lo potreste aggiungere perché così non si verificherebbero più questi casi violenti.

E noi, in Sicilia, di queste cose abbiamo una certa esperienza. Io, con enorme stranimento, mi son sentito dire da un prefetto che questi democratici cristiani sono veramente dei gonzi, perché lasciano passare avanti gli altri. Poi ad un certo punto i buoni parroci sono costretti a raccogliere le vesti ed a correre anche loro. E lo fanno riluttanti. Non lo vorrebbero fare, ma oltre tutto il farlo diventa una necessità. Ora, vi pare necessario stabilire questo palio a chi la fa più grossa?

Una voce a sinistra. Più grossa la fanno le Commissioni.

CONDORELLI. Lasciamo stare questo argomento che si riconnette all’opinione che il collega poco fa mostrava di avere dei magistrati. (Si ride).

Piuttosto, guardiamo le cose realisticamente. Differenze sostanziali fra di noi ce ne sono poche. Quando ci parliamo a quattro occhi ci intendiamo. I guai sono i comizi elettorali, perché in Italia non c’è nessuno che non intenda certe esigenze.

Ora, se si volevano veramente raggiungere fini di pacificazione, sapendo che questi sono fatti collettivi che conducono necessariamente a delle agitazioni, la prima norma del decreto doveva stabilire la incapacità ad avere concessioni di terreni per gli enti ed i singoli che ricorressero ad occupazioni violente. Questo non è stato fatto.

Poi, era necessario creare una possibilità di adesione dei proprietari, perché quando questi disgraziati devono avere un’indennità del venti per cento del prodotto medio del precedente quinquennio, evidentemente si sentono espropriati. Con tutto quello che promettete, e l’imposta sul patrimonio e gli altri cataclismi, evidentemente il proprietario deve considerare questa concessione ai contadini come una rovina sua e della sua famiglia, e reagirà come potrà. Fate leggi umane, se volete che siano rispettate, ed eseguite. Penso che se aveste fatto una cosa economicamente possibile, probabilmente vi sarebbero stati molti proprietari che avrebbero preferito delle cooperative di contadini ai loro affittuari.

Circa il criterio dell’assegnazione delle terre, il mettere sullo stesso piano le terre incolte e quelle insufficientemente coltivate, è un errore. Si ha infatti l’effetto della corsa alle terre che si dicono insufficientemente coltivate e la mancata richiesta delle terre veramente incoltivate. Almeno, in Sicilia, questo è avvenuto, signor Ministro. Si è verificato che le terre incolte rimangono lì, mentre sono richiestissime quelle cosiddette insufficientemente coltivate. Ora, se si voleva raggiungere la finalità di incrementare la produzione bisognava incominciare dalle terre incolte, per poi passare a quelle insufficientemente coltivate. Perché, vedete, di due agricoltori, tutti e due capaci di coltivare insufficientemente le terre, uno, quello a cui la terra è stata tolta, resta con le mani in mano e l’altro lavora, e i terreni incolti rimangono non coltivati.

Una voce all’estrema sinistra. Dicono le Commissioni che non ce ne sono più di terre incolte!

CONDORELLI. Bisogna informarsi meglio; comunque questo dato di fatto non elimina l’inconveniente della legge. Quanto io ho rilevato la legge non lo ha previsto, ed è un errore che deve essere riparato. Ed anche su questo concetto di terre insufficientemente coltivate avete avuto un criterio per il quale ogni terra può dirsi insufficientemente coltivata. Anzi vi dico: tutto il territorio nazionale è insufficientemente coltivato. Usciamo da una guerra di cinque anni durante la quale non si sono avute macchine, non si sono avuti concimi, sono mancati gli uomini.

Io, che, vi ripeto, faccio l’avvocato, nelle cause per risoluzione di contratti agrari, ho spesso sentito dire ai periti, ai consulenti tecnici che non si poteva parlare di inadempienza neanche se la terra fosse stata malissimo coltivata, perché si era coltivata come si era potuta coltivare. Questo è stato detto per i vigneti della mia Sicilia, per gli agrumeti della mia Sicilia, che in genere sono coltivati come dei vasi da fiori. Ma i consulenti molto opportunamente hanno detto: in questi tempi di guerra le terre non si possono coltivare meglio di così. Se in una vigna invece di fare quattro zappature se ne fa una sola, il concedente non se la può prendere con il mezzadro perché oggi non si può fare meglio.

Una voce all’estrema sinistra. Oggi, con l’abbondanza di mano d’opera che c’è, non si può far meglio?

CONDORELLI. Nel 1945-46, quando si andavano ad applicare queste leggi, si scontavano ancora le conseguenze della guerra.

Si dice: ancora non si sono totalmente scontate?

Ancora oggi mancano le macchine agricole e spesso difettano i concimi. Comunque tutte le terre in Italia sono state insufficientemente coltivate sino a pochi mesi addietro.

Ancora io vi chiedo: avete fatto parecchie leggi per le proroghe dei fitti ai coltivatori diretti, dicendo, fra l’altro, che queste proroghe si devono concedere salvo mancato pagamento del fitto o inadempienze gravi. Però un’inadempienza non grave, lieve, media, se non toglie il diritto alla proroga del contratto, mette il fondo in condizioni tali da presentarsi come insufficientemente coltivato. E allora, questo povero proprietario che ha avuto le mani legate, che non è responsabile in nessun modo dello stato in cui si trova il suo fondo, viene fatalmente ad essere privato del possesso della sua terra. E la giustizia, cui è particolarmente sensibile l’animo cristiano dell’insigne giureconsulto che in questo momento regge le sorti dell’agricoltura italiana, dovrebbe portare necessariamente ad una revisione di queste leggi.

Il Ministro sorride, perché comprende forse di trovarsi dinanzi ad una impossibilità politica…

SEGNI, Ministro dell’agricoltura e delle foreste. Sorrido per i complimenti che mi ha fatto.

CONDORELLI. Gliene hanno fatto sempre.

SEGNI, Ministro dell’agricoltura e delle foreste. Ora che sono Ministro non me ne hanno fatti più.

CONDORELLI. Consentitemi un’altra osservazione sulla quale, scusatemi, non posso fare a meno di intrattenermi. Un altro punto specifico delle dichiarazioni del Governo: consolidamento della Repubblica e difesa della Repubblica.

Io, veramente, penso che questo problema del consolidamento della Repubblica non vi sia più. Ormai, lo hanno risoluto i 75 con l’articolo 131 della Costituzione.

La Repubblica è definitiva, non è possibile la revisione della legge costituzionale su questo punto. Dunque l’avete consolidata per l’eternità con una legge! Perché ancora vi preoccupate del consolidamento della Repubblica?

Io mi rammarico di una sola cosa: che non abbiate pensato ad impedire i terremoti nella mia Sicilia, o magari ad assicurare una vita, se non immortale, più lunga, a noi deputati e alle nostre famiglie.

Non mi pare che dopo questa legge vi dovrebbe più essere questo problema del consolidamento della Repubblica. Siete andati anche oltre quelli che comunemente si ritengono i confini della potestà legislativa.

Mi ricordo di quei tale caporale austriaco, il quale a chi gli aveva rapportato che un giorno, dopo un acquazzone, era apparso in cielo il tricolore italiano, rispose:

Prafe soldate, patria serfìr con zelo, ma sin ora Radescki tanto pone nicht proipire tricolore in celo.

Voi avete proibito che questa birichina sovversiva della Storia faccia uno scherzo alla vostra Repubblica, e siete convinti di avere servita sufficientemente la Repubblica con questa sapientissima legge, tanto che ho avuto la consolazione di sentire, e dal Presidente del Consiglio e dall’onorevole Togliatti e dall’onorevole Nenni, che non occorrono più leggi per la difesa della Repubblica. In generale sono tutti contrari a tali leggi e di questo va data lode sinceramente.

L’onorevole Nenni chiedeva una cosa sulla quale il suo bollente animo romagnolo non è disposto a transigere: mai, però, l’apologia dei Savoia!

Questa, credo che egli la voglia vietare.

La facciano pure questa legge!

Ma qui, io, malgrado le insolenze che ha rivolto ieri o l’altro ieri alla mia Sicilia – ha usato espressioni veramente poco gentili – vorrei pregarlo di avere la longanimità, che ebbe Radetzski, di non impedire il tricolore in cielo.

Vorrà lui cancellare la storia di un millennio dell’Europa e dell’Italia? Ma l’apologia dei Savoia è fatta da un millennio di storia! Dopo che avrete fatta questa legge, l’apologia dei Savoia si eleverà da ogni zolla della Patria da loro unificata. Questa apologia salirà da ogni cuore autenticamente italiano (Rumori all’estrema sinistra), da ogni uomo civile e sensato, salirà soprattutto dal cuore dei soldati d’Italia, vivi o morti, che da mille anni combattono (Interruzioni), sempre sulle vie del destino della Nazione, guardando a quella croce bianca dei Savoia.

Fate pure queste leggi, anzi vi dico che, come monarchico, le desidero (Interruzioni). Come italiano non posso desiderarle, perché farebbero poco onore alla sapienza giuridica e politica del nostro Paese.

Ed ora consentitemi di dire qualche cosa in rapporto ad un problema che non ha trovato una parola nelle dichiarazioni del Governo.

Finora me la son presa col Governo per quello che ha detto, ora me la prendo per quello che non ha detto.

Non si è parlato del Mezzogiorno. Forse non se ne è parlato perché si è fatto sufficientemente. Io non me ne sono accorto.

Ce ne hanno parlato invece gli onorevoli Nenni e Saragat, che, forse per ragioni di concorrenza fra loro, si volgono ambedue con molto zelo alla questione del Mezzogiorno. Siccome ne ha trattato il Partito socialista numero due, era naturale che ne volesse trattare anche il Partito numero uno per non rimanere indietro.

Sebbene come meridionale io sia lieto che questi partiti pongano la questione all’ordine del giorno, non posso però esser grato all’onorevole Nenni della particolare menzione fatta della mia Sicilia.

Probabilmente fu determinata, come sempre avviene, dalle cose dette da un siciliano: l’onorevole Li Causi. Perché, in realtà, quelli che determinano questi stati d’animo nei confronti della Sicilia, siamo tante volte noi siciliani stessi, che ne diciamo male forse per il desiderio di meglio.

L’onorevole Li Causi ha fatto una descrizione tenebrosa di un’alleanza che unisce mafia e baroni per conculcare gli interessi dei poveri contadini.

Di fronte a questa descrizione di sapore medioevale poteva essere giustificato il giudizio dell’onorevole Nenni. Ma anche questo non è dovuto al bollente spirito siciliano dell’onorevole Li Causi?

Quanto ai baroni come classe sociale, posso assicurarvi che in Sicilia questa classe sociale esiste molto meno che altrove. Coloro che non sono stati mai in Sicilia hanno modo di vedere i baroni siciliani negli uffici delle ipoteche, negli uffici del registro, nelle cancellerie, perché in Sicilia ne sono rimasti ben pochi, e quelli che sono rimasti sono stati assimilati dalle altre classi sociali.

I baroni detentori dei latifondi si contano ormai sulla punta delle dita. Vi prego di aggiornarvi anche su questo.

Una voce a sinistra. Ci parli degli assassinî!

CONDORELLI. Grazie, signore. Così arriviamo lontano nelle nostre conversazioni! Con questa reciproca comprensione!

Se esistono baroni in Sicilia, forse sono baroni tutti i siciliani, compreso l’onorevole Li Causi, il quale probabilmente lo è più degli altri, perché in lui spiccano quella spavalderia un po’ guascona, quel senso di rispetto di sé e degli altri, che si estrinseca in un contegnoso riguardo delle forme che dà a molti siciliani, anche ai popolani, l’aria di hidalgos. Ma l’idea di questi baroni contrapposti come classe sociale alla classe dei contadini è un’idea anacronistica, di almeno 100 anni, perché è noto che lo scioglimento dei fidecommessi fece quasi scomparire questa classe nel giro di pochissimi lustri.

Esiste però la mafia.

Quanto alla mafia, vi dichiaro che non mi sento di controbattere l’onorevole Li Causi, perché io vivo nella Sicilia orientale.

È una terra prodigiosa, non soltanto per la bellezza naturale, ma perché la nobiltà degli uomini supera questo stesso immenso prodigio.

La stessa impressione l’ho anche avuta andando nella Sicilia occidentale.

D’altro canto, non sono sufficientemente vecchio per ricordarmi della mafia, prima che fosse stroncata dal prefetto Mori. Non vi saprei, difatti, dire dei tempi di prima.

La mafia dalle parti nostre non è riapparsa; forse è riapparsa in quel di Palermo.

Sono convinto che si tratta di un fenomeno locale.

Non confondiamo, nessuno di voi confonderà, la mafia col banditismo: sono cose totalmente diverse.

La mafia è un’associazione di persone che si difendono reciprocamente, che formano una specie di Stato dentro lo Stato, che si proteggono a vicenda e che in generale non ricorrono alla violenza fisica, ma solo alla intimidazione, al più alla minaccia. Si presentano con parole contegnose, com’è stile dei siciliani, raccomandando che una persona non si disturbi, che un’altra si faciliti, che un’altra si licenzi o si assuma; non ricorrono quasi mai ad atti di violenza, perché generalmente sono ascoltate.

Invece, il banditismo è altra forma.

La mafia è veramente alleata dei ceti agrari?

lo veramente spererei di no, perché, siciliano e aclassista come sono, amo tutta la Sicilia, senza distinzione di classi, perciò non so infierire contro alcuno. Mi auguro, dunque, di no.

Se esiste questo legame, la colpa non è tanto dei siciliani, quanto di alcune leggi o del modo in cui quelle leggi sono state applicate.

Perché, quando si verificano casi come quelli che ha qui dipinti l’onorevole Bellavista, che, del resto, sono noti a tutti, di occupazione a mano armata… pensate che proprio in Sicilia sia nato il detto Vim vi repellere licet?

In fondo, se dovessi proprio scegliere nella tranquillità della mia coscienza, io preferirei, come insegnò Socrate, subire la violenza, anziché farla. A sangue caldo, non so. Ma, teoricamente, potrei preferire di subire un male fisico, anziché fare un male morale. Ma, comunque, umanamente, mi spiego come siciliani, non protetti dallo Stato nei loro diritti, si siano potuti rivolgere anche a delle associazioni illecite. Certo che atti di violenza sono venuti a conoscenza anche del signor Ministro. Ed allora, se non c’è la difesa dello Stato, si ricorre alla difesa privata.

Una voce a sinistra. C’era anche prima: non invertiamo le cose; era già prima al servizio degli agrari, prima che i contadini domandassero la terra.

CONDORELLI. Esisteva, poi fu estirpata. Ho detto che la mafia è uno Stato dentro lo Stato. Quando c’è uno Stato forte, la mafia può essere anche estirpata come fu estirpata. Quando l’autorità dello Stato è in crisi, rinasce la mafia in Sicilia. Altrove nascerà con altri nomi, che io non posso identificare, perché non ho avuto il piacere…

BOSI. In altri posti si chiamano squadristi!

CONDORELLI. O se no l’opposto, che è circa la stessa cosa!

Questa è la verità. Quando c’è la crisi dello Stato, la crisi della legalità, si verificano questi fenomeni. Ma non facciamo un quadro particolarmente tenebroso della Sicilia; non ripaghiamo questo nobile paese della dimenticanza, dell’oblio in cui è stato lasciato da tutta l’Italia col dileggio e parlando di una scarsa civiltà di questo Paese, che ha civiltà da trasferire. Io non so se il collega che mi sorride, mi sorrida per ironia…

BOSI. No, no! Sono persuaso; ed è un peccato che i grandi proprietari siciliani abbiano soffocato lo sviluppo di questa civiltà. Questa è la situazione!

PRESIDENTE. Onorevole Bosi; non interrompa!

CONDORELLI. I grandi proprietari siciliani? Ho fatto già la distinzione. La ricchezza ha già circolato; non vi sono più i baroni. D’altro canto anche fra questi baroni – se l’onorevole si aggiornasse sui casi della Sicilia, lo apprenderebbe – vi sono veramente dei grandi bonificatori. È gente che non si è fermata a bonificare la sola Sicilia, ma è passata dall’altro lato ed ha bonificato Tripoli, Bengasi, Derna. C’era tutto il popolo siciliano, rappresentato da tutte le classi, e anche da quei baroni che hanno saputo trovare i residui delle virtù della loro vecchia razza. (Applausi a destra).

BOSI. Adesso lasciamo stare il passato! (Commenti – Interruzioni – Rumori).

CONDORELLI. Sono apparsi di questi baroni sull’orizzonte della vita nazionale. Oh, io non vi vado a ricordare le glorie di Archimede o di Epicarmo; io vi parlo delle glorie di oggi…

BOSI. Allora ci sono i baroni. (Rumori).

CONDORELLI. È apparso un Verga, che se non era proprio un barone, era un aristocratico; ed era un aristocratico nella persona e nello spirito. Credo di non far ingiuria a nessuno, affermando che è il nome più illustre delle lettere che abbia avuto la Terza Italia!

È emerso nella vita nazionale un altro siciliano, che si chiamava Antonino di San Giuliano. Questi non era barone, ma era marchese. E questi fu un inarrivabile, un veramente nobile servitore dello Stato. E io vorrei che fosse sempre innanzi agli occhi di tutti noi quest’uomo che, quando gli fu comunicata la morte del suo unico figlio, non lasciò la Consulta, perché si era nel periodo della nostra neutralità, preparatrice dell’intervento. Non lasciò la Consulta neanche per un minuto, e tre mesi dopo seppe morire nella Consulta stessa, senza allontanarsi dai telefoni che lo mettevano in contatto con le capitali del mondo. E l’indomani della sua morte, della morte di questo barone, la sua famiglia dovette vendere il palazzo magnatizio per pagare i debiti che si erano accumulati, mentre Antonino di San Giuliano adempiva al suo dovere di Ministro d’Italia. (Applausi a destra).

E non voglio parlare di vivi che sono in quest’aula, e che tutti quanti conosciamo come maestri di scienza, di vita, di virtù e di patriottismo. (Approvazioni a destra).

Questa, o signori, è la vera Sicilia, nel quadro che vi devo fare, correggendo quello fantasioso dell’amico Li Causi.

Amici, credo di avervi parlato a lungo e ve ne chiedo venia; però ho ancora poche cose da dire, che, credo, meritino la vostra attenzione, per cui ve la chiedo per altri cinque minuti.

In questi giorni si è verificato un evento di eccezionale importanza nella storia del nostro Paese, evento veramente storico, la firma del Trattato di pace.

Noi, che siamo stati testimoni oculari delle vicende che hanno preceduto e succeduto questo atto, sappiamo che questo atto è stato compiuto mentre la Costituente era adunata, senza che si consultasse la Costituente stessa.

Io sono lungi dal dubitare del senso di patriottismo e della cura gelosa dell’interesse dello Stato che hanno determinato la condotta dei nostri attuali governanti. Io, sebbene sia di parere contrario – e questo parere, non essendomi stata concessa la parola, lo gridai abusivamente da questo banco – non dubito della rettitudine delle vostre intenzioni, e sarei pronto magari ad esaminare le vostre ragioni, che peraltro conosco. Io personalmente rimango sempre di quella opinione.

Io ho un vanto: che gli studi di storia e di sociologia, di cui in qualche modo sono nutrito, mi hanno messo al coperto da una illusione che si determinò in molti italiani: che questa guerra e questa pace potessero essere diverse dalle guerre e dalle paci che si sono avute dacché l’umanità vive questa sua tremenda tragedia. Non mi sono mai creato illusioni sulla sorte di vinti che ci era riservata. Io so che ancora, chissà per quanto tempo, la legge internazionale sarà la legge della jungla. Però io dico che a tutto si può giungere, tranne che al sacrificio dell’onore. Alla luce del XX secolo non è ammissibile che degli esseri umani, che dei cittadini, vengano barattati come bruti di armento.

Ho parlato della mia Sicilia. Consentite che vi dica ancora una parola per narrarvi un episodio che, secondo me, scolpisce quell’anima siciliana che ho tentato di illustrarvi. Due anni addietro, in un casolare di campagna vivevano alcuni contadini, il padre settantacinquenne e tre suoi figliuoli, di cui uno scemo. Una notte quella casa, come tante altre case della Sicilia, fu visitata dai briganti ed il vecchio, prudente, inibì ai figliuoli di resistere, ed assistette impassibile, nella sua grande, nobile anima, alla messa a soqquadro ed al saccheggio della propria casa.

Furono asportati denari, prodotti agricoli, le povere masserizie, e il buon vecchio rimase tranquillo. Ma bastò che uno di quei masnadieri, in un momento di stizza, desse uno schiaffo al figliuolo scemo, perché il vecchio desse di piglio ad una scure e li uccidesse tutti e tre.

Noi non avevamo una scure da impugnare, ma non dovevamo renderci corresponsabili e complici, sia pure con una firma necessitata, di quello scempio, di quell’obbrobrio con cui degli italiani sono ceduti allo straniero violando il diritto sacro non degli italiani, ma di tutti gli uomini, consacrato dalla coscienza civile del secolo nostro: l’autodecisione dei popoli.

Ad ogni modo, non è di questo che volevo parlarvi.

Sta di fatto che un Governo che si dice democratico ha compiuto un atto di una importanza irraggiungibile per la vita nazionale, senza consultare l’Assemblea, che era riunita.

Non perché non valga aver riservato il diritto dell’Assemblea a ratificare questo trattato, non perché non valga, amico Segni: so che giuridicamente questo ha la sua importanza e spero che ne abbia molta e che l’abbia decisiva…

SEGNI, Ministro dell’agricoltura e delle foreste. La ratifica è tutto.

CONDORELLI. Sissignori; però l’atto della firma è sempre un atto di una irraggiungibile importanza ed era necessario, secondo i dettami universalmente riconosciuti della democrazia, che l’Assemblea legislativa, depositaria della volontà popolare, che ha appunto la funzione di dirigere il Governo, venisse consultata…

MASTINO GESUMINO. …e si compromettesse anticipando il giudizio. Dovreste comprendere almeno questo!

CONDORELLI. Chi dice questo non ha fiducia nella democrazia!

MASTINO GESUMINO. Noi abbiamo fiducia piena, tanto che riserviamo all’Assemblea il suo giudizio.

CONDORELLI. Consentitemi; si vede che pensavate che questa Assemblea non fosse sufficientemente matura per assumere il contegno che doveva assumere. Evidentemente, c’è del paternalismo nei confronti di questa Assemblea e questo paternalismo è il motivo comune degli antidemocratici.

MASTINO GESUMINO. Questo è spostare l’argomento, non è rispondere! Si chiamerebbe una petizione di principio…

CONDORELLI. Badate, che il fatto è di una portata immensa.

Coloro che si occupano di studi sanno che il diritto costituzionale di un Paese non è scritto tutto nelle costituzioni; non è contenuto tutto nelle consuetudini, ma vi è una norma basilare che è stata chiamata dalla nostra scienza il «diritto tacito fondamentale» che nasce dall’atteggiamento reciproco che assumono i poteri costituzionali dello Stato.

Per esempio, tutti sappiamo che lo Statuto Albertino predisponeva un Governo rappresentativo. Questo Governo rappresentativo diventò un Governo parlamentare. Perché? Per il diverso atteggiamento che presero i poteri nelle varie crisi governative a cominciare dal 1849.

Questi fatti hanno un potere di conformazione sulla struttura costituzionale del Paese.

Bene, io vi dico che il giorno 10 febbraio, allorquando si compì un atto così importante, senza avere inteso l’Assemblea Costituente – cioè un’Assemblea particolarmente qualificata, che forse mai più si presenterà nella storia d’Italia – si è inferto un colpo irreparabile alla democrazia. (Commenti.).

MASTINO GESUMINO. Questa è retorica.

CONDORELLI. Vi prego di riflettere. Quanto è avvenuto potrà servire come precedente ad una infinità di casi, perché è difficile che si presenti un fatto altrettanto importante in avvenire. E se è stato lecito non sentire la volontà dell’Assemblea Costituente d’Italia in tale circostanza, sarà sempre lecito trascurare il Parlamento in avvenire. Se volete difendere la democrazia, non lasciate passare questo incidente altrimenti vi rendete complici di una usurpazione di poteri.

Badate, io voglio ancora una volta riconoscere la buona fede e l’alto patriottismo di coloro che così si sono comportati. Ma quando si ha la disavventura di trovarsi in una situazione simile, si compie tutto il proprio dovere andando incontro a tutte le conseguenze e poi ci si dimette, perché bisogna che rimanga fermo nella storia parlamentare che questo fatto politico, contrario alle leggi fondamentali della democrazia, per quanto compiuto col migliore dei sentimenti, ha trovato la sua sanzione.

E vi è un altro aspetto del problema nei riflessi di carattere internazionale. Che cosa varrebbe la protesta che ha fatto la nazione sospendendo il lavoro per 10 minuti; che cosa varrebbe la sospensione per mezz’ora della nostra seduta se, a distanza di 15 giorni, noi dessimo il voto di fiducia al Governo che ha firmato quella pace?

UBERTI. È questo ciò che le preme!

CONDORELLI. A questo punto io voglio fare appello principalmente a voi, onorevoli colleghi dello schieramento governativo; a voi comunisti, a voi socialisti, a voi democristiani, perché sono convinto di non rivolgermi invano quando mi appello alla vostra coscienza democratica e nazionale. In questo momento non vi chiedo né consensi né dissensi; io vi chiedo di riflettere, nell’intimità della vostra coscienza, sui problemi che vi ho posto. Riflettete pensando che le soluzioni possono essere decisive per la nostra vita nazionale.

Questi problemi sono: è necessario, per la conservazione della democrazia, che un voto dell’Assemblea sottosegni la sanzione di questa invasione dei suoi poteri, pur deferendo totalmente alle finalità che hanno mosso chi ha commesso questo atto di usurpazione? È necessario, perché la nostra protesta abbia un maggior significato all’estero, che si sappia che il Governo che, pur con tutte le riserve, ha messo quella firma, non aveva allora, e non ebbe neanche dopo, la fiducia dell’Assemblea Costituente?

A voi la risposta; nell’intimità della vostra coscienza assumete la vostra responsabilità. Io l’ho assunta col dire no a questo Governo. (Applausi a destra – Commenti).

PRESIDENTE. Il seguito di questa discussione è rinviato a domani.

Presentazione di un disegno di legge.

PRESIDENTE. L’onorevole Ministro di grazia e giustizia ha facoltà di presentare un disegno di legge.

GULLO, Ministro di grazia e giustizia. Per incarico del Presidente del Consiglio, mi onoro di presentare all’Assemblea Costituente il seguente disegno di legge: «Partecipazione dell’Italia agli accordi internazionali di Bretton Woods».

PRESIDENTE. Do atto all’onorevole Ministro di grazia e giustizia della presentazione di questo disegno di legge che sarà inviato alla Commissione competente.

Interpellanza.

PRESIDENTE. Comunico che l’onorevole Grilli ha presentato la seguente interpellanza con richiesta che lo svolgimento ne sia fissato lunedì 24 corrente:

«Interpello il Presidente del Consiglio sui risultati della inchiesta già promessa in risposta alla interrogazione urgente svolta nella seduta del 10 corrente, a proposito dell’accusa di corruzione ad un Ministro contenuta nel settimanale L’Europeo del 9 corrente, tanto più che un altro giornale si è permesso di precisare l’accusa suddetta gettando discredito sopra un membro del Governo».

Chiedo al Governo di voler dichiarare se accetta che lo svolgimento avvenga lunedì.

SEGNI, Ministro dell’agricoltura e delle foreste. Chiedo che l’interpellanza sia svolta dopo la chiusura della discussione in corso.

PRESIDENTE. Rimane allora inteso che questa interpellanza sarà svolta nella seduta destinata appunto alle interpellanze ed interrogazioni urgenti, che sarà tenuta subito dopo la chiusura della discussione sulle dichiarazioni del Presidente del Consiglio dei Ministri.

Interrogazioni con richiesta d’urgenza.

PRESIDENTE. È stata presentata dall’onorevole Rescigno, con richiesta d’urgenza, la seguente interrogazione:

«Ai Ministri della pubblica istruzione e del tesoro, per sapere quali provvedimenti intendano subito adottare di fronte alle giuste richieste dei professori secondari, accompagnate dall’annunzio di sciopero per lunedì prossimo, come da pubblicazione di qualche giornale odierno».

È stata pure presentata con richiesta d’urgenza dagli onorevoli Canepa, Rossi Paolo, Pera, Caronia, Viale, Giua, la seguente interrogazione:

«Al Ministro dei lavori pubblici, per sapere se intende provvedere all’assegnazione dei fondi necessari per la costruzione dell’acquedotto e della fognatura di Diano Marina, lavori urgenti da compiersi prima dell’inizio della stagione estiva per scongiurare il ripetersi della epidemia di tifo che nell’estate scorsa cagionò a quella cittadina tante sventure e tanti lutti.

«I progetti tecnici per detti lavori sono pronti; il Provveditore delle opere pubbliche per la Liguria li ha approvati e trasmessi al Ministero.

«Non si aspetta che l’assegnazione dei fondi per metter mano ai lavori, necessari per la sanità della Riviera ligure e urgentissimi».

Chiedo al Governo quando intende rispondere.

SEGNI, Ministro dell’agricoltura e delle foreste. Interesserò i Ministri competenti, affinché dichiarino quando potranno rispondere.

Interrogazioni e interpellanze.

PRESIDENTE. Si dia lettura delle altre interrogazioni e delle interpellanze pervenute alla Presidenza.

CGHIRATTI, Segretario, legge:

«Il sottoscritto chiede di interrogare il Ministro di grazia e giustizia, per conoscere quali provvedimenti abbia preso nei confronti dei responsabili della evasione dalle carceri di Mantova dell’ex brigante nero Marcello Vaickievich, seviziatore e assassino di patrioti, condannato a trent’anni di reclusione; fuga avvenuta il 18 febbraio in circostanze sbalorditive; per chiedere se il Ministro non creda opportuno emanare disposizioni tendenti ad evitare il ripetersi di troppo frequenti evasioni consimili che ridicolizzano l’Amministrazione della giustizia, e che in definitiva costituiscono un imprevisto ampliamento della già tanto deprecata amnistia.

«Dugoni».

«I sottoscritti chiedono di interrogare il Ministro della pubblica istruzione, per chiedere se sia a conoscenza che la Missione italiana per la restituzione dei materiali artistici e scientifici asportati dai tedeschi ha sospeso da tre mesi la propria attività, che si avviava a soddisfacente conclusione, per l’interferenza d’interessi estranei all’Amministrazione dello Stato; se gli risulti che, di conseguenza, siano state abbandonate indagini già in corso per il recupero di alcuni celebri pezzi artistici, ed altro prezioso materiale recuperato, ed insufficientemente custodito, rischi di essere asportato; quali provvedimenti, infine, intenda immediatamente adottare, per tutelare gli interessi del nostro patrimonio artistico ed il nostro prestigio presso le Autorità di occupazione in Germania.

«Codignola, Binni, Longhena, Bianchi Bianca, Treves».

«Il sottoscritto chiede di interrogare il Ministro di grazia e giustizia, per conoscere:

1°) se corrisponde ad esattezza che l’attuale trattamento economico del presidente, del cancelliere capo e dell’usciere di un tribunale della Repubblica sia quello rivelato dalle cifre sottoindicate.

«Il presidente (grado V), con moglie ed un figlio a carico, percepisce complessivamente nette lire 25.108, e cioè: per stipendio, lire 16.014; per caroviveri, lire 5675 e per indennità di carica, lire 3419.

«Il cancelliere capo (grado VII), con pari carico di famiglia, percepisce nette lire 18.150 e cioè: per stipendio, lire 12.515; per caroviveri, lire 5675; oltre le quote dei proventi che in media possono calcolarsi intorno alle lire 4000 mensili.

«L’usciere, sempre con lo stesso carico di famiglia, percepisce lire 12.115 e cioè: per stipendio, lire 6440; per caroviveri, lire 5675; oltre i proventi incerti e taluno col godimento gratuito dell’alloggio;

2°) se non ritenga assolutamente indispensabile ed urgente, in attesa della soluzione definitiva in sede di Costituzione, porre riparo a questa critica insostenibile ed indecorosa situazione economica, in cui sono venuti a trovarsi i magistrati dell’Ordine giudiziario, situazione denunciata anche dalla stampa;

3°) se non creda opportuno all’uopo proporre l’adeguamento dell’indennità di carica che al tempo della concessione (decreto legislativo luogotenenziale 8 febbraio 1946, n. 65) rappresentava un notevole aiuto mentre, in relazione all’attuale costo della vita, è diventato, nell’originario e mantenuto ammontare, assolutamente irrisorio.

«Macrelli».

«Il sottoscritto chiede di interrogare il Ministro delle finanze e del tesoro, per sapere perché le indennità dovute ad enti, istituti e privati in dipendenza della avvenuta requisizione di beni mobili ed immobili, da parte delle forze armate germaniche occupanti, non vengano considerate alla stessa stregua delle analoghe indennità per requisizioni, da parte delle Forze Armate Alleate, e se non si intenda emanare opportune disposizioni in modo da evitare tale ingiustificata diversità di trattamento.

«Pat».

«Il sottoscritto chiede d’interrogare il Ministro della pubblica istruzione, per sapere se ritenga opportuno anticipare, nei confronti dello scorso anno, la decisione sul mantenimento o meno delle scuole governative staccate, di qualsiasi ordine e grado, al fine di evitare l’inconveniente, verificatosi in passato, che una troppo tardiva decisione ponga gli interessati nella situazione di non poter predisporre in tempo la loro iscrizione alle scuole staccate e li costringa a ricorrere alle centrali, con evidente maggior dispendio.

«Pat».

«Il sottoscritto chiede d’interrogare il Ministro delle finanze e del tesoro, per conoscere le ragioni per le quali il Comando della Legione dei carabinieri di Bari non corrisponde ai sottufficiali e militari di truppa l’indennità di missione dovuta a tutti i dipendenti statali, come disposto dalla circolare a stampa del Ministero del tesoro, Ragioneria generale dello Stato, Ispettorato generale per gli ordinamenti del personale, in data 26 giugno 1946, avente per oggetto: «Missioni e trasferimenti dei dipendenti statali», n. 139009; indennità, invece, che è stata corrisposta solamente agli ufficiali e marescialli maggiori comandanti di sezione e che, a causa di questo trattamento di sperequazione, ha dato origine a un vivo malcontento fra i militari della categoria. (L’interrogante chiede la risposta scritta).

«Motolese».

«I sottoscritti chiedono d’interrogare il Ministro dei trasporti, per sapere quali provvedimenti intenda adottare per una più celere comunicazione ferroviaria fra Torino-Genova-Roma. Risulta, per vero, che mentre altri centri sono collegati con Roma da mezzi rapidi, la linea Torino-Roma presenta notevoli disservizi con un impiego di tempo eccessivo ed ingiustificato. (Gli interroganti chiedono la risposta scritta).

«Bovetti, Scotti Alessandro, Bellato, Bertola, Quarello».

«I sottoscritti chiedono d’interrogare il Ministro dell’interno, per sapere se non intenda promuovere, di concerto con gli altri Ministri interessati, la rinascita dell’istituzione «Garaventa», benemerita e cara ai genovesi, la quale, prima che la nave «Redenzione» andasse distrutta per bombardamento, raccolse, istruì, inviò al lavoro del mare migliaia e migliaia di fanciulli abbandonati o traviati. (Gli interroganti chiedono la risposta scritta).

«Rossi Paolo, Canepa, Pera».

«Il sottoscritto chiede d’interrogare i Ministri del lavoro e previdenza sociale e delle finanze e tesoro, per sapere se intendano provvedere alla tristissima situazione in cui si trovano cittadini italiani infortunati sul lavoro durante la loro residenza in Germania e beneficiari di pensioni di Società assicurative, che non vennero più corrisposte dopo l’8 settembre 1943. Finita la guerra i pagamenti di dette rendite sono stati ripresi dagli Stati con i quali l’Italia ha riallacciato i rapporti diplomatici, mentre rimangono tuttora sospesi da parte della Germania per la mancanza di detti rapporti. Si chiede se non sia possibile che il Governo italiano conceda direttamente le pensioni potendo poi operarne rivalsa all’atto della ripresa dei pagamenti da parte delle Assicurazioni. (L’interrogante chiede la risposta scritta).

«Binni».

«Il sottoscritto chiede d’interrogare il Ministro dell’agricoltura e delle foreste, per conoscere – in relazione alla risposta scritta data all’interrogante in data 19 febbraio, secondo la quale il Ministero dell’agricoltura e delle foreste avrebbe richiesto uno stanziamento di circa 120 milioni, per miglioramenti nelle sistemazioni delle valli da pesca della provincia di Venezia – quale parte di questi fondi sarebbe devoluta ad opere di sistemazione idraulico-lagunare attinenti a interessi pubblici della navigazione, e quale parte alla produzione ittica delle valli chiuse di proprietà privata. E per conoscere, altresì, se gli organi competenti, negli stanziamenti in favore delle valli chiuse, hanno fatto il calcolo di quali vantaggi potranno portare alla produzione ittica i relativi lavori, e quali sono le cifre esatte di questo calcolo. (L’interrogante chiede la risposta scritta).

«Matteotti Carlo».

«Il sottoscritto chiede d’interpellare il Ministro di grazia e giustizia, perché siano posti allo studio ed attuati i provvedimenti e le riforme, più volte invocati e diretti a procurare alla Magistratura italiana quelle garanzie giuridico-morali e quella situazione economica indispensabili per il prestigio ed il decoro di quanti debbono essere gli interpreti e gli esecutori delle leggi dello Stato democratico.

«Perché sia garantito un più organico ed equo funzionamento dell’amministrazione del Fondo per il culto, evitando i ritardi e le inframmettenze che intralciano il regolare svolgersi delle pratiche, provvedendosi ancora ad assicurare e urgentemente un più equo trattamento economico al clero italiano.

«Perché si provveda senza ulteriori indugi, ed in attesa di una definitiva riforma, a ripristinare quegli organismi giudiziari soppressi o modificati dal defunto regime e in primo luogo le Corti di cassazione regionali, che vantano una così insigne tradizione nella storia giuridica italiana.

«Perché siano senza indugi abolite tutte quelle giurisdizioni speciali, attraverso le quali si polverizza l’unità giurisdizionale dello Stato.

«Bovetti».

«Il sottoscritto chiede d’interpellare il Ministro dei lavori pubblici, sulla opportunità di includere fra i lavori urgenti di pubblica utilità:

  1. a) la costruzione di una camionale che da Novara, seguendo il tracciato delle attuali strade provinciali asfaltate, attraversi il Po con ponte stabile a Pieve del Cairo, e giunga a Tortona;
  2. b) la costruzione di una camionale, con ponte stabile sul Ticino e Bereguardo, la quale, staccandosi da Binasco e seguendo il tracciato delle attuali strade provinciali, per Garlasco, Sannazzaro de’ Burgondi e Castelnuovo Scrivia, giunga a Tortona.

«Canevari».

«Il sottoscritto chiede d’interpellare il Ministro dell’interno, per sapere che cosa aspetti per trasferire il Prefetto di Mantova, il quale:

per quanto non riesca a dirigere né gli uffici da lui dipendenti, né quelli sottoposti alla sua tutela ed alla sua vigilanza, come dimostrano gli scandali a ripetizione della Sepral, della Questura, dell’Ufficio autotrasporti, e l’assoluta carenza di considerazioni in cui egli è caduto presso i suoi stessi funzionari di Prefettura;

per quanto, portato dai suoi errori ad essere in rapporti insostenibili con i tre partiti di massa e con la Camera del lavoro;

per quanto abbia lasciato svuotare gli ammassi granari, sino a ridurre le scorte a meno di 1000 quintali di grano, suscitando una gravissima inquietudine tra la popolazione della provincia;

per quanto sommerso nel ridicolo da una sbalorditiva evasione dalle locali carceri di un fascista condannato per omicidi multipli ed efferate sevizie a trent’anni di reclusione; continua ad essere protetto e tenuto nella più alta considerazione dai burocrati che al Viminale detengono più che mai saldamente il potere.

«Dugoni».

PRESIDENTE. Le interrogazioni testé lette saranno iscritte all’ordine del giorno e svolte al loro turno, trasmettendosi ai Ministri competenti quelle per le quali si chiede la risposta scritta.

Così pure le interpellanze saranno iscritte all’ordine del giorno, qualora i Ministri interessati non vi si oppongano nel termine regolamentare.

La seduta termina alle 19.45.

Ordine del giorno per la seduta di domani.

Alle ore 15:

  1. – Seguito della discussione sulle dichiarazioni del Presidente del Consiglio dei Ministri.
  2. – Esame del progetto di Costituzione della Repubblica italiana.