ASSEMBLEA COSTITUENTE
XLI.
SEDUTA DI MERCOLEDÌ 19 FEBBRAIO 1947
PRESIDENZA DEL PRESIDENTE TERRACINI
INDICE
Sul processo verbale:
Finocchiaro Aprile
Presidente
Comunicazioni del Presidente:
Presidente
Annuncio di un disegno di legge costituzionale:
Presidente
De Vita
Interrogazione (Svolgimento):
Aldisio, Ministro della marina mercantile
Mazza
Nomina di una Commissione:
Presidente
Seguito della discussione sulle dichiarazioni del Presidente del Consiglio dei Ministri:
Bulloni
Pacciardi
Colitto
Togliatti
Bordon
Nomina di una Commissione speciale:
Presidente
Interrogazioni (Annunzio):
Presidente
La seduta comincia alle 15.
MOLINELLI, Segretario, legge il processo verbale della seduta precedente.
Sul processo verbale.
FINOCCHIARO APRILE. Chiedo di parlare.
PRESIDENTE. Ne ha facoltà.
FINOCCHIARO APRILE. Ho bisogno di chiedere un chiarimento al Presidente dell’Assemblea Costituente. Ieri noi abbiamo deliberato la nomina di una Commissione di inchiesta sui fatti da me denunciati nei giorni scorsi, deferendo all’onorevole Presidente la nomina della Commissione. Però, circa le attribuzioni di questa Commissione, non ho ben capito se esse siano soltanto quelle di verificare le cariche e gli uffici che hanno gli onorevoli deputati in istituti di carattere statale o parastatale o se non anche la Commissione debba soffermarsi sui fatti denunziati, riguardanti il Ministro Campilli. Ciò dico, perché mi pare, onorevoli colleghi, che il chiarimento offerto dal Ministro Campilli non sia punto sufficiente, in quanto che egli, per scagionarsi dei gravi addebiti, ha fatto circolare una lettera del Direttore generale del Tesoro, Ventura, il quale dichiara di essere stato lui ad inviare i due incriminati telegrammi.
L’inverosimiglianza della cosa è evidente ed io ho la precisa sensazione, e questa stessa sensazione hanno tutti al Ministero del tesoro ed ha il paese, che questa lettera sia compiacente ed insincera. (Commenti).
PRESIDENTE. Onorevole Finocchiaro Aprile, nella seduta di ieri, e ne fa testo il verbale, non si è pronunciata parola sopra i problemi riguardanti l’onorevole Ministro Campilli. La prego attenersi al processo verbale della seduta di ieri.
FINOCCHIARO APRILE. Ma io pensavo e penso che su questo grave argomento sia necessario soffermarci e che la Commissione non possa non occuparsene.
PRESIDENTE. Lei ponga il quesito, ed io le darò risposta.
FINOCCHIARO APRILE. Concludo rapidamente. Perché questa lettera…
PRESIDENTE. La prego di concludere. Si attenga al verbale della seduta di ieri.
FINOCCHIARO APRILE. Allora chiedo che la Commissione sia chiamata altresì a indagare sui fatti da me denunziati, riguardanti il Ministro Campilli. Ora, poiché è stata diffusa una lettera del Direttore generale del Tesoro, il quale dichiara di essere autore dei provvedimenti deplorati, io dichiaro che questa lettera non risponde a verità per le seguenti ragioni. Io dissi che il Ministro del tesoro Bertone…
PRESIDENTE. Onorevole Finocchiaro Aprile, resti nel tema. Se lei ha qualche cosa da specificare a questo proposito, chiederà di essere sentito dalla Commissione, la quale, d’altra parte, la inviterà a fornire gli elementi a sua conoscenza. In questo momento non è più in discussione il problema della Commissione. D’altra parte, poiché pare che ella non fosse presente ieri, quando si è votata la risoluzione, gliene do lettura, in modo che lei abbia conoscenza precisa del mandato che è stato affidato alla Commissione:
«La Commissione riferirà altresì alla Presidenza le proposte circa eventuali casi di incompatibilità morale e politica e circa l’opportunità di stabilire nel regolamento della futura Camera, o nella legge elettorale, norme riguardanti il problema generale delle incompatibilità».
Questo è il mandato che la Camera, all’unanimità, ha dato alla Commissione. Se ella ritiene di dover aggiungere nuovi compiti, la prego di farne argomento di una proposta formale.
FINOCCHIARO APRILE. Sta bene. Voglio semplicemente concludere: la giustificazione dell’onorevole Campilli, non giustifica nulla. Egli è pienamente responsabile. (Commenti).
PRESIDENTE. Non essendovi altre osservazioni, il processo verbale si intende approvato.
(È approvato).
Comunicazioni del Presidente.
PRESIDENTE. Comunico che, in seguito alla nomina di alcuni onorevoli colleghi a cariche di Governo, si sono determinati vari mutamenti della composizione delle Commissioni dell’Assemblea.
Ho, infatti, chiamato a far parte della Giunta del Regolamento, l’onorevole Cingolani, in sostituzione dell’onorevole Merlin Umberto; della Giunta delle elezioni, l’onorevole Caldera, in sostituzione dell’onorevole Carpano Maglioli; della prima Commissione permanente per l’esame dei disegni di legge, gli onorevoli Scoccimarro e Sullo, in sostituzione degli onorevoli Moscatelli e Galati; della seconda Commissione permanente, l’onorevole Scoca in sostituzione dell’onorevole Vanoni; della terza Commissione permanente, gli onorevoli Bovetti e Storchi, in sostituzione degli onorevoli Braschi e Cavalli.
Ho, poi, chiamato a far parte della Commissione per i Trattati internazionali, l’onorevole Saragat, in sostituzione dell’onorevole Silone dimissionario.
Annuncio di un disegno di legge costituzionale.
PRESIDENTE. Comunico che l’Ufficio di Presidenza dell’Assemblea ha preso l’iniziativa di un disegno di legge costituzionale per la proroga del termine di otto mesi previsto dall’articolo 4 del decreto legislativo 16 marzo 1946, n. 98, per la durata dell’Assemblea Costituente. II relativo stampato è in distribuzione da oggi.
È urgente che l’Assemblea lo esamini.
Invito pertanto l’Assemblea a procedere alla nomina di una Commissione speciale, che dovrebbe riferire oralmente nella seduta di domani.
Ha chiesto di parlare l’onorevole De Vita. Ne ha facoltà.
DE VITA. Propongo che la nomina della Commissione sia demandata all’onorevole Presidente dell’Assemblea.
PRESIDENTE. Se non vi sono osservazioni in contrario, resta così stabilito.
(Così resta stabilito).
Mi riservo di comunicare alla fine della seduta l’elenco dei componenti di questa Commissione.
Svolgimento di una interrogazione.
PRESIDENTE. L’ordine del giorno reca: svolgimento dell’interrogazione dell’onorevole Mazza, al Ministro della marina mercantile, «per conoscere l’esattezza della notizia pubblicata dai giornali dell’assegnazione di 46 navi Liberty all’armamento genovese contro 4 assegnate all’Italia meridionale».
L’onorevole Ministro della marina mercantile ha facoltà di rispondere.
ALDISIO, Ministro della marina mercantile. La notizia apparsa su qualche giornale circa l’assegnazione di 46 Liberty all’armamento genovese contro 4 assegnate all’Italia meridionale non è esatta, poiché, per il secondo lotto di navi Liberty che devono essere ancora cedute dagli Stati Uniti all’Italia, nessun piano di riparto è stato ancora approvato dal Ministero della marina mercantile. Detto piano, in base agli accordi con il Ministero del tesoro e con la Confederazione italiana degli armatori, deve essere predisposto da quest’ultima e poi approvato dal Ministero della marina mercantile.
Il Ministero, fino a questo momento, ha solo comunicato alla Confederazione italiana degli armatori i criteri di massima che devono essere seguiti nella predisposizione del piano predetto. E questi criteri sono:
1°) perdite subite a causa della guerra;
2°) tempo delle perdite stesse, così che coloro che hanno subìto delle perdite in data più remota, abbiano la precedenza su quelli che hanno perduto le loro navi in epoca più recente;
3°) precedente assegnazione di Liberty del 1° lotto;
4°) criterio regionale con speciale riferimento a raggruppamenti di piccoli armatori.
Il piano concreto di ripartizione sarà quello che risulterà dall’applicazione di questi criteri assolutamente obiettivi e eguali per tutti gli armatori delle varie Regioni d’Italia. Il criterio è stato adottato per assicurare che in ogni caso un’aliquota di navi, sia pure modesta, vada agli armatori minori, con equa ripartizione fra le varie Regioni.
PRESIDENTE. L’onorevole Mazza ha facoltà di dichiarare se sia sodisfatto.
MAZZA. Ringrazio l’onorevole Ministro della marina mercantile per le assicurazioni che mi ha dato. Ne sono lieto. Sono però lieto della notizia inesatta pubblicata dai giornali, e precisamente da tutti i giornali di Napoli, da quelli democratici-cristiani a quello comunista La Voce; sono lieto di questa inesattezza, perché ho così l’occasione, dopo aver rinnovato all’onorevole Ministro della marina mercantile infiniti ringraziamenti per le notizie fornite, e che mi lasciano assai sperare per l’avvenire, di far notare qualcosa in omaggio appunto al problema dell’Italia meridionale, che spessissimo in quest’Aula viene posto e che ieri l’onorevole Nenni ancora una volta denunciava come il più grosso scandalo italiano. Quindi, io mi permetto di pregare l’onorevole Ministro della marina mercantile di tener conto anche del problema politico nell’assegnazione di queste navi Liberty, e poi, a parte il problema politico, io prego di ricordare un’altra cosa, cioè, che queste navi sono state acquistate in America con dollari ricevuti in cambio, per lo meno il 25 per cento, di am-lire emesse dagli Alleati in Italia meridionale, am-lire che hanno contribuito a depauperare l’economia di questa Regione.
E poi mi permetto fare notare un’altra cosa. Il Ministro sa molto bene che il numero di disoccupati fra i lavoratori del mare nell’Italia meridionale è molto maggiore di quello dell’Italia settentrionale.
E c’è ancona da tenere in certo conto il fatto che, mentre gli armatori dell’Italia meridionale, con la rapida occupazione da parte degli Alleati, si sono trovati nell’impossibilità di continuare la navigazione, di continuare a tesaurizzare dei capitali, quelli dell’Italia settentrionale hanno potuto continuare a far navigare i loro mezzi ed hanno potuto continuare ad incassare dallo Stato italiano, in quell’epoca, le indennità per il naviglio perduto.
Tutto questo ha messo gli armatori della Italia settentrionale in una situazione di privilegio.
Termino ricordando la mia preghiera iniziale, relativa al problema politico dell’Italia meridionale.
Se vogliamo risolvere questo problema, una volta tanto, dobbiamo andare al di là del computo aritmetico delle percentuali e fare qualche cosa per l’Italia meridionale; altrimenti, non sarà mai risolto questo problema (che in quest’Aula ieri è stato definito uno scandalo), malgrado tutta la oratoria, che su di esso in quest’Aula inutilmente sarà sempre versata.
PRESIDENTE. Ha chiesto di replicare l’onorevole Ministro della marina mercantile. Ne ha facoltà.
ALDISIO, Ministro della marina mercantile. Devo dichiarare all’onorevole Mazza che il criterio di distribuzione regionale per una parte di ciascun lotto di Liberty è stato introdotto da me personalmente; altrimenti, qualche nave, che è arrivata col primo lotto, ai piccoli armatori non sarebbe stata assegnata; per il secondo lotto insisto su questo criterio, che spero possa appagare le attese e le aspirazioni dei piccoli armatori meridionali.
Insisterò, perché questo criterio sia rigorosamente osservato.
Per quanto riguarda la disoccupazione, effettivamente la situazione dei marittimi è dolorosa. C’è una disciplina rigorosissima: il turno di imbarco, eguale per tutto il Paese.
Il Ministero sta preparando un provvedimento per rendere sempre più equo e sicuro il turno di imbarco; e spero di potere annunziare presto le nuove disposizioni, adottate d’accordo coi rappresentanti dei lavoratori.
FINOCCHIARO APRILE. Finora non avete assegnato alla Sicilia nemmeno una Liberty. Le avete assegnate a Genova.
ALDISIO, Ministro della marina mercantile. Lei, al solito, dice delle cose non esatte.
GALLO. Le cose esatte le ha sempre dette lei!
ALDISIO, Ministro della marina mercantile. Devo dichiarare, a questo proposito che, per l’assegnazione del primo lotto di 50 Liberty, sono stati invitati tutti gli armatori italiani a chiedere Liberty. Disgraziatamente e dolorosamente, malgrado le mie sollecitazioni fatte agli armatori di Sicilia, non si è avuta che qualche domanda. Vi è stata una richiesta da parte di un aggruppamento di piccoli armatori di Messina e ad esso sono state assegnate due Liberty. (Approvazioni al centro – Commenti).
Nomina di una Commissione.
PRESIDENTE. Comunico all’Assemblea che, in relazione al mandato affidatomi, ho chiamato a far parte della Commissione di cui alle proposte dell’onorevole Natoli, approvate nella seduta di ieri, i seguenti Deputati: Bencivenga, Bertini, Bozzi, Calamandrei, D’Aragona, Fabbri, Grieco, Natoli, Pertini, Rubilli, Scotti Alessandro.
Invito gli onorevoli colleghi chiamati a far parte della Commissione, a riunirsi venerdì mattina alle ore 9.30 per costituire l’Ufficio di presidenza della Commissione stessa.
Seguito della discussione sulle dichiarazioni del Presidente del Consiglio.
PRESIDENTE. L’ordine del giorno reca il seguito della discussione sulle dichiarazioni del Presidente del Consiglio. È iscritto a parlare l’onorevole Bulloni. Ne ha facoltà.
BULLONI. Onorevoli colleghi, sulle dichiarazioni del Governo mi limiterò a brevi rilievi circa la politica interna.
L’onorevole Presidente del Consiglio ha dichiarato che nel settore economico è indispensabile un aumento della produzione, che deve avvenire in clima di efficienza tecnica e di perequazione sociale.
Voci autorevoli si sono levate in questa Assemblea per indicare, dal punto di vista prettamente tecnico e scientifico, le vie e i criteri per attuare lo scopo propostosi dal Governo di assicurare la stabilità economica.
A me, più modesto, si lasci affermare che vi è una inderogabile esigenza che condiziona tutta l’attività della Nazione, anche nel campo economico e della produzione, la cui sodisfazione crea l’ambiente favorevole al conseguimento dell’utile risultato.
Questa esigenza è costituita dalla stabilità morale e interna della Nazione, al consolidamento della quale il Governo deve dedicare le sue energiche cure, se si vuol essere proprio certi di interpretare fedelmente i bisogni e le aspirazioni del Paese in questo difficile momento della sua vita.
Stabilità morale, stabilità politica, innanzi tutto, sotto la guida di leggi sincere, chiare, strettamente necessarie e tali da intralciare il meno possibile l’iniziativa privata che il Governo si è proposto di sostenere ed incoraggiare.
Il Governo ha, dunque, elaborato un piano di emergenza, cui i Ministri sono vincolati a più evidente solidarietà. Devo però rilevare, che in detto programma non ho riscontrato traccia alcuna della indilazionabile necessità, che il Paese profondamente sente ed avverte, di perfezionare gli organi e gli istituti investiti del compito di assicurare il rispetto delle leggi e di garantire l’ordine. Né ho rilevato accenno alcuno in merito all’indirizzo che il Governo intende perseguire nel campo della politica strettamente interna.
Non voglio con questo fare irriverenza, né al Presidente del Consiglio, né ai signori Ministri, nel pensare e nel dire che tale necessità non sia presente ai loro propositi, tanto più che questi sono già stati energicamente affermati in altre occasioni, e in funzione dei quali è lecito ritenere che al nostro Paese siano derivate stima e considerazione, come può essere stato dimostrato dal viaggio del Presidente del Consiglio negli Stati Uniti. Sembra, però, che anche in questa occasione non doveva mancare la parola che rincuora e tranquillizza. Difatti, quale più emergente necessità di quella di liberare le strade e le case, gli uffici e i magazzini e, soprattutto, le persone dall’incubo della paura, dello scoramento, dell’incertezza? Quale più emergente necessità di quella di snidare implacabilmente i centri della corruzione e del vizio che propagano la contaminazione e macchiano il nostro buon nome? Quale più emergente necessità di quella di individuare e di reprimere anche i centri di corruzione politica, le manifestazioni e i propositi di aggressione ai nostri ordinamenti? Quale più emergente necessità di assicurare che tutti indistintamente gli italiani si chinino riverenti di fronte all’imperio della legge? Poiché, colleghi, non ci si nasconda una dolorosa realtà: nel Paese c’è chi si organizza e c’è chi si arma, fuori della legge e, quindi, contro la legge, per la lotta politica, che precipiterebbe nuovamente il Paese nell’abisso, dal quale faticosamente stiamo risalendo. E, quel che più preoccupa me, modesto, è il dover constatare che taluno si organizza e si arma, pretendendo di difendere e di assicurare il cosiddetto ordine sociale e politico. È dovere del Governo di rimuovere la fiducia nei pubblici poteri, anche se pretestuosamente lamentata, sapendo imporre in ogni istante il rispetto e il dominio dell’autorità e della legalità. Al quale fine, dovranno essere perfezionati e potenziati spiritualmente gli organi della polizia, per via di sicura selezione, innanzi tutto, dei quadri dirigenti, e di seria ed adeguata istruzione professionale, attraverso il completamento dell’equipaggiamento, dell’armamento e dell’accasermamento, che ne accrescono il decoro e ne assicurano il rendimento. A questo settore debbono essere rivolte le attenzioni del Governo, in vista della ricostruzione, come utile impiego per la ricostruzione, se esso vuole realmente far corrispondere le parole ai fatti; poiché programmi, iniziative, piani, attività, rimarranno senza risultato, o quanto meno saranno mortificati nei loro effetti, se prima non si creano le fondamenta morali, sulle quali costruire il nuovo edificio.
Né alcuno avrà a temere dall’efficiente organizzazione delle forze di polizia e dallo stretto coordinamento delle medesime, poiché queste dovranno rimanere ad esclusiva difesa e presidio della legge della repubblica, che vuole e deve essere la legge di tutti gli italiani che si stringono in mutuo patto di lavoro e di concordia per la resurrezione della Patria, sotto l’impulso della perequazione sociale, sotto l’impulso della giustizia sociale, la quale assicuri al lavoro, alla fatica e alla sofferenza, il prevalente riconoscimento nella ripartizione del reddito nazionale.
Onorevoli colleghi, il Paese – che presunzione farsi interprete del Paese! – reclama l’ossequio più scrupoloso del principio di legalità, quale elemento di moralizzazione del nostro costume, già tanto nobilmente invocata da precedenti oratori.
A questo punto, è mestieri che io accenni ad una dolorosa, ad una dannosa situazione, che non può più oltre durare, e in relazione alla quale il Governo, senza indugio, deve prendere netta e precisa posizione, particolarmente perché si verte in materia strettamente connessa con l’ordinamento pubblico. Accenno al giuoco d’azzardo, che va assumendo proporzioni ed aspetti preoccupanti quale facile veicolo di corruzione, di delinquenza, di obnubilamento delle coscienze, di perturbamento dei caratteri, specie tra la gioventù.
Il Governo deve conoscere che oggi in Italia si giuoca d’azzardo a San Remo, a Campione, a Venezia, in manifesta violazione delle norme contenute negli articoli 718 e seguenti del Codice penale, 92, 108 e 110 del Testo unico delle leggi di pubblica sicurezza, 209 e 210 del relativo regolamento.
Lo spreto della legge è causa di gravissimi mali, poiché «poter mal fare è al male fare invito».
L’unanime adesione dell’Assemblea all’intervento di ieri l’altro dell’onorevole Cevolotto e le assicurazioni del Ministro e i parziali adempimenti di dette assicurazioni, se mi liberano dalla necessità di indugiarmi in argomento da un punto di vista strettamente morale, non mi esimono dall’obbligo di dare ragione dell’affermata illegalità del giuoco d’azzardo, anche laddove si pretende sia regolato, anche laddove si pretende vi sia una adeguata autorizzazione.
La legge vieta, nelle norme penali ricordate, il giuoco d’azzardo ed aggrava le pene a carico dei promotori, dei tenutari del giuoco stesso. Ebbene, nessun’altra disposizione di legge giuridicamente valida stabilisce deroghe a dette norme, e quindi, se vogliamo rispettare il principio della legalità, deve trovare imperio assoluto il divieto stabilito nella norma penale.
Ricordo – brevissima parentesi – che il decreto 27 aprile 1924, n. 636, che consentiva, in deroga espressa agli articoli 484 e 485 del codice Zanardelli, la concessione dell’apertura di case da giuoco mediante decreto del Ministro dell’interno, non fu convertito in legge nei termini legali – biennio dal 1° febbraio 1926 – e, quindi, caducato a termini dell’ultimo comma dell’articolo 3 della legge 21 gennaio 1926, n. 100.
Senonché – e qui proprio mi permetto di richiamare l’attenzione del Governo – il legislatore fascista aveva trovato la maniera di eludere sfacciatamente l’ordinamento giuridico, con sistemi oggi universalmente condannati, di consentire l’apertura di locali a San Remo, a Campione e a Venezia, con provvedimenti intesi ad ottenere, col sotterfugio, quello che non aveva potuto ottenere per legge e coprenti il permesso di fondare case da giuoco.
Mi riferisco al decreto 22 dicembre 1927, n. 2448, convertito in legge il 27 dicembre 1928, n. 3125, in tema di provvedimenti a favore del comune di San Remo, successivamente estesi ai comuni di Campione e di Venezia.
Detto decreto, recita l’articolo 1°, dà facoltà al Ministro dell’interno di autorizzare, anche in deroga alle leggi vigenti, purché senza aggravio per il bilancio dello Stato, il Comune di San Remo ad adottare tutti i provvedimenti necessari per poter addivenire all’assestamento del proprio bilancio, ed alla esecuzione delle opere pubbliche indifferibili. L’autorizzazione del Ministro dell’interno, si dice ancora, ha efficacia giuridica anche in confronto ai terzi.
Non vi si legge, però, la deroga alla legge penale. Si accenna solo a provvedimenti di carattere amministrativo.
Io domando se a questo sistema giuridico possa dare adesione il Governo della Repubblica italiana. È evidente che il Governo di Mussolini ha messo il Parlamento di fronte al fatto compiuto, a cui non ha potuto ribellarsi nemmeno il Senato, dal quale erano partite nobili e vibrate proteste.
Ciò penso sia sfuggito ai Governi, che si sono succeduti nel nostro Paese dalla liberazione in poi, cosicché si giuoca d’azzardo in flagrante illegalità, con tolleranza all’imbroglio che, purtroppo, dà motivo alle voci ed alle sfavorevoli interpretazioni di cui si è fatto eco l’altro ieri anche l’onorevole Cevolotto.
In questa situazione, mi si consenta di dire, con la risolutezza che deriva dalla tranquillità di un sicuro convincimento giuridico, che il Governo deve prendere subito netta e precisa posizione colla urgenza imposta dalla materia.
Riterrà il Governo, in linea di fatto, di fronte all’incoercibile e dilagante vizio del giuoco e a seri motivi di carattere economico, che il giuoco stesso attinga in contingenti opportunità, se non una legittimazione di principio morale, una giustificazione pratica? Dovrà allora provvedere colla legge, sottoponendola all’Assemblea, senza, però, mettere questa davanti a fatti compiuti, o al mantenimento di situazioni illegali e di deplorevole privilegio.
La presenza del Ministro della giustizia mi suggerisce, a questo proposito, l’opportunità di raccomandargli vivamente di voler disporre una vigile inchiesta sulle cause che hanno travolto tanti giovani nella delinquenza di questi ultimi tempi, al fine di assicurare alla società il recupero dei molti, capaci di emenda e di riabilitazione. Il loro recupero è necessario. All’uopo, dovranno, poi, essere aiutate e favorite anche tutte le iniziative locali, come quella sorta nella mia città e di cui l’onorevole Ministro deve essere a contezza, per la intelligenza e lo zelo caritativo di quel cappellano delle carceri, circa l’istituzione di centri di rieducazione di giovani traviati e caduti, secondo gli insegnamenti scientifici più accreditati.
L’inchiesta deve essere vigile e paterna, né dovrà pretermettere che tra questi giovani caduti ve ne sono molti meritevoli di stima e di considerazione per il loro passato, perché a loro si stenda una mano generosa e soccorrevole.
Onorevoli colleghi, credo di non poter dare migliore conclusione alle mie parole, se non esprimendo l’augurio della educazione e della formazione della nostra gioventù, che è l’avvenire stesso della democrazia e della Patria. (Applausi al centro).
PRESIDENTE. È iscritto a parlare l’onorevole Pacciardi. Ne ha facoltà.
PACCIARDI. Onorevoli colleghi, vi assicuro che avrei volentieri rinunciato alla parola in questa Assemblea, che deve essere ormai satura di discorsi, se non avessi pensato che incombe su di me il dovere di precisare la posizione del Partito repubblicano italiano, e quindi del suo gruppo, alla Costituente dinanzi al Governo.
Poiché avevamo due rappresentanti nel Governo e li abbiamo ritirati, le mie dichiarazioni avranno forzatamente una intonazione critica e di opposizione. Ma io spero di poter dimostrare – e almeno in questo campo non sarà colpa mia se non riuscirò a dimostrarlo – che si può essere critici e anche oppositori del Governo, senza trasformare quest’aula in una taverna per il sollazzo, molto spesso osceno, di tutti coloro che hanno interesse a demolire le istituzioni democratiche e rappresentative. (Applausi).
L’esperienza che noi abbiamo fatto al Governo con l’onorevole De Gasperi e con i suoi collaboratori, ai quali vanno, s’intende, i nostri sentimenti di deferenza, perché sono certamente devoti all’interesse pubblico, l’esperienza che abbiamo fatta ci ha convinti che non siamo d’accordo sul carattere, sulla natura, sulla funzione di un Governo eccezionale come questo, cui la storia – è proprio questa volta il caso di dirlo, malgrado l’abuso retorico che si fa di questa espressione – ha commesso l’incarico di dirigere il Paese in uno dei suoi momenti più infelici; in un periodo sovra ogni altro delicatissimo e pieno di responsabilità, un periodo di vacanza della legalità costituzionale, un periodo di passaggio fra un regime morto e un regime che sta per nascere.
Io non so fino a qual punto il Governo abbia sempre la coscienza che rappresenta un popolo che ha rovesciato una monarchia millenaria. E torna ad onore del popolo, se l’ha rovesciata, obbedendo alle circostanze, sotto l’imperio dell’armistizio, in periodo di occupazione alleata, per maturità politica, per senso civico, con l’atto civile della scheda, malgrado che al vertice dello Stato morituro fosse ancora il re, malgrado che, specialmente nelle ultime settimane, si fosse scatenata una campagna, in cui hanno concorso tutte le forze del cielo e della terra. Questo non diminuisce nulla, anzi aumenta in consapevolezza la sostanza dell’atto rivoluzionario che ha compiuto. In altri termini, il Governo è di fronte ad una situazione rivoluzionaria oggettiva, ed ha le funzioni di una specie di «Governo provvisorio», che in queste congiunture opera normalmente il passaggio fra un regime morto e un regime che sta per nascere.
È forse un peccato che l’onorevole Presidente del Consiglio, con le sue dimostratissime qualità di statista, non le abbia potute dimostrare in periodo più tranquillo, in periodo normale.
C’è chi lo ha paragonato a Giolitti; per noi repubblicani non è un complimento, ma credo che per la maggioranza dei rappresentanti di questa Camera sia un complimento, e certamente l’onorevole De Gasperi lo avrà accettato come tale. (Si ride). Ma il Presidente del Consiglio si sente l’animo, la forza, la stoffa di affrontare questa situazione oggettivamente rivoluzionaria? Secondo me il problema della difficoltà dei rapporti tra i partiti sta nel fatto che non si sono potute risolvere, e nemmeno affrontare, alcune questioni fondamentali, come quella dell’indiscutibile disagio del Paese, perché il Governo ha avuto questa straordinaria abilità di scontentare un poco tutti i ceti e tutte le classi. Noi, fra le altre bigotterie, abbiamo avuto la bigotteria della continuità giuridica. È un paradosso, è un assurdo, che anche oggi i poteri di questa Assemblea, i poteri del Governo, i rapporti fra il Governo e l’Assemblea, le stesse prerogative del Capo Provvisorio della Repubblica, siano regolati da un decreto della monarchia! Quando noi eravamo intransigenti avversari della monarchia, qualcuno ci diceva, volendo insultarci, che aspettavamo la repubblica per decreto reale. Quasi, quasi ci siamo!
È evidente che il compito essenziale di questa Assemblea è quello di preparare la Costituzione; ma il giorno in cui, con un atto di sovranità popolare, che è la sola fonte legittima dell’autorità, questa Assemblea è nata nella vacanza della legalità costituzionale, ad essa dovevano andare fatalmente tutti i poteri. E siccome «ce que va sans dire c’est mieux de le dire», come diceva la buona anima di Talleyrand, così il nostro gruppo ha presentato nelle prime sedute dell’Assemblea Costituente una mozione per rivendicare una cosa che ci sembrava ovvia, per rivendicare la sovranità dell’Assemblea; ma questa mozione, come tante altre cose, dorme i sonni del giusto. Anziché spianare la via alla retta applicazione della Costituzione, come era il compito di questo Governo e di tutti i Governi che nascono in queste circostanze, noi abbiamo innestato una specie di regime provvisorio su una sopravvivente legalità monarchica, e secondo me, da questo pasticcio, non può nascere niente di bene per il buon andamento dell’Amministrazione del Paese.
Non so se molti Deputati sanno, per esempio, che il Senato regio, in Repubblica, vive ancora.
Il nostro Ministro del tesoro passa ancora l’indennità ai Senatori. Vi sembra cosa da niente? Ma Dio non lo voglia, se la nostra nascente Repubblica si trovasse in serie difficoltà, voi vedreste che razza di spaventose conseguenze potrebbe avere questo fatto.
Gli atti normali del nostro Governo repubblicano sono ancora controllati dagli organi amministrativi della monarchia, con le stesse persone della monarchia e del fascismo, come la Corte dei conti e il Consiglio di Stato. E, se non è stato cambiato nelle ultime settimane, il Presidente della IV Sezione del Consiglio di Stato è nientemeno che il signor Rocco, fratello del Ministro fascistissimo Rocco, autore dei Codici fascisti e delle leggi eccezionali e creatore del Tribunale speciale.
Per inveterata abitudine storica, noi teniamo gli occhi fissi al Quirinale, anche oggi che il suo inquilino normale è assente. Ebbene, parecchi mesi dopo l’avvento della Repubblica, al Quirinale c’erano ancora i corazzieri che montavano la guardia negli scaloni del palazzo. C’era perfino il servizio di polizia, con il Commissariato addetto alla persona del re. Oggi le cose sono leggermente cambiate. Ma l’onorevole De Gasperi, dovendo scegliere un commissario per amministrare i beni della corona, ha scelto naturalmente un ex podestà di Napoli, che dicono sia un brav’uomo e un galantuomo, ma è un monarchico…
BENEDETTINI. Ma se tutta l’Italia è ancora monarchica! (Rumori).
PACCIARDI. Questo giovane onorevole che grida sempre «viva il re» dall’altra parte dell’Assemblea, e che sembra il fidanzato deluso del re (Si ride), deve sapere invece che tutta l’Italia in questo momento è repubblicana…
BENEDETTINI. Ufficialmente.
PACCIARDI. …e comunque bisognerebbe che non vi illudeste troppo, perché se avvengono queste storture, ed in realtà sono storture, siamo in molti disposti ad impedire che continuino.
BENEDETTINI. Minacce?
TRULLI. Altrettanto da questa parte. Dodici milioni di italiani sono monarchici!
PACCIARDI. Adesso le cose al Quirinale sono cambiate; però avvengono fatti strani anche oggi. C’era una specie di segretario della regina madre, il commendatore Scalici, che era sotto mandato di cattura per alcune coserelle che aveva fatto durante il periodo repubblichino. Appena ha potuto liberarsi dal mandato di cattura, ha ricevuto dal Governo repubblicano un passaporto per andare e venire dall’Egitto a conferire con il re.
La prima persona che ho trovato a Rio de Janeiro, quando ero di passaggio per andare in missione al Cile, è stata l’aiutante di campo del re, il generale Infante, che ha avuto dal Ministero degli esteri repubblicano la possibilità di andare e venire dall’Italia.
Quando fummo costretti noi a varcare le frontiere, per sottrarci alle condanne fasciste, abbiamo almeno sfidato le pallottole della polizia confinaria che aveva l’ordine di sparare senza preavviso.
A Buenos Aires i vecchi amici antifascisti mi hanno detto che là da pochi giorni era arrivato l’ex capo dei fasci all’estero Pietro Parini, con relativo passaporto, rilasciato dal Ministero degli esteri, quando titolare del Ministero degli esteri era l’onorevole De Gasperi.
Una voce a destra. Ha fatto bene.
PACCIARDI. La Commissione dei 75 ha previsto la confisca dei beni della corona: è un provvedimento quasi di prammatica che le repubbliche prendono per i re decaduti. Ma che cosa confischeremo? Stanno vendendo tutto a villa Savoia e nessuno ha pensato al sequestro conservativo. Ma volete una idea, che è quasi esilarante, di questa Repubblica, come dire, buontempona? Oggi a palazzo reale il commissario posto dal Governo per l’amministrazione o per la liquidazione dei beni della corona, sta distribuendo i certificati di cavaliere e di commendatore che il re partendo non è riuscito a smaltire. Come si sa, li distribuiva a staia durante il periodo delle elezioni. (Si ride). Voi ridete, ho riso anche io; ma quando penso che siamo arrivati alla Repubblica attraverso una catastrofe, passando su migliaia di morti, il riso mi muore nella gola. (Applausi).
Se volgete lo sguardo un po’ intorno, troverete dovunque lo stesso andazzo. Al Ministero dell’interno, alla Direzione generale di pubblica sicurezza, nelle Prefetture, nelle Questure, trovate le stesse persone e i vecchi personaggi del regime che riemergono (e questo perfino nel Gabinetto del Presidente del Consiglio) e scalzano i rari antifascisti che in un periodo eccezionale erano riusciti ad arrampicarsi a qualche posto. Non parliamo del Ministero della guerra. Il Ministro Facchinetti, quando assunse il Ministero della guerra, mi diceva, scherzando, che la Repubblica incominciava nel suo ufficiò e finiva nel suo ufficio.
BENEDETTINI. L’unico repubblicano che vi era!
Una voce a sinistra. E quando ne è uscito?
PACCIARDI. Quando ne è uscito, la Repubblica per lo meno era avanzata nell’ufficio del capo di gabinetto del Ministro della guerra, che è oggi il generale Supino, un uomo che riscuote la generale approvazione. È stato anche cambiato il capo di Stato Maggiore dell’esercito che ora è il generale Marras; un ex monarchico, naturalmente: non ce ne sono molti di repubblicani fra i generali dell’esercito, ma è un soldato che si è portato molto bene a Berlino e che dà garanzia di fedeltà alla Repubblica. Però, in realtà, bisogna vedere le cose come sono.
Non c’è settore, si può dire, dell’Amministrazione italiana, che sia stato particolarmente curato dalla dinastia come l’esercito; non soltanto era monarchico, ma dinastico e piemontese.
C’è una casta monarchica e piemontese che domina anche oggi nell’esercito. E tutti lo sanno.
Io avevo un lungo elenco di ufficiali generali piemontesi della vecchia casta dinastica, che sono ancora ai posti di comando nell’esercito. Non lo trovo in questo momento, ma ricordo qualche nome a memoria.
Il Capo di Stato Maggiore Generale dell’esercito, il generale Trezzani, naturalmente monarchico e piemontese della vecchia casta, era un professore di tattica e il comandante effettivo delle Forze armate in Etiopia, sotto il vicerè: il Duca d’Aosta. Mi pare che i suoi insegnamenti di tattica li abbia applicali molto male, perché bastarono 30 mila inglesi per sconfiggerlo, malgrado avesse a disposizione forze armate più potenti, a difesa dell’Etiopia. (Rumori – Commenti).
Una voce a destra. È un eroe il Duca di Aosta; rispettate la memoria degli eroi.
PACCIARDI. L’Italia sarà in pace e spero perpetuamente; ma, se dovesse andare in guerra, non mi sentirei tranquillo con questi professori di tattica a capo dello Stato Maggiore. L’esercito è fuori causa. Qui si parla del generale Trezzani.
Il generale Chatrian, che è l’inamovibile Sottosegretario di Stato al Ministero della guerra, era monarchico e piemontese. Ora spero che sia lealmente repubblicano; non conosco i suoi meriti di guerra; è democristiano. Oggi è il Sottosegretario, vale a dire il ministro effettivo del Ministero delle Forze armate.
GASPAROTTO, Ministro della difesa. Non è esatto; è semplicemente Sottosegretario addetto al coordinamento dei vari servizi.
PACCIARDI. C’è il generale Amé, ex capo del S.I.M., anch’egli piemontese dinastico. Quando si è dovuto scegliere un generale come capo della Casa militare del Presidente della Repubblica… (Interruzioni) …si è scelto un altro generale dinastico piemontese. Persino un giornale monarchico ha protestato per la sopravvivenza di questa casta…
Una voce. Quale giornale?
PACCIARDI. Italia Nuova; citerò le sue parole.
Si doveva nominare un generale come capo delle guardie di finanza; è stato nominato il generale Oxilia; il generale Oxilia, che ha avuto meriti partigiani ed ha riscattato un passato meno commendevole, era il consigliere militare privato del più grande brigante della storia moderna, dopo Mussolini, che è Ante Pavelic. Anch’egli monarchico e piemontese.
Il giornale monarchico Italia Nuova, sotto la firma di Sertorius – credo, dalla competenza, che sotto questa firma si nasconda un generale dell’esercito – ha protestato contro questa casta provinciale che continua nel nuovo esercito nazionale italiano; ha protestato per questa catena – la chiama proprio così – che bisogna rompere.
Il comandante dei carabinieri è sempre lo stesso: cioè un monarchico. Non si vede proprio il passaggio dalla monarchia alla repubblica. In tutti i posti-chiave, dovunque ci si volga, si trovano generali e ufficiali monarchici.
Il Presidente del Consiglio sa che fin dalle prime trattative per la composizione dell’altro Ministero, io fui favorevole all’unificazione delle forze armate. Ma se l’unificazione si facesse con questo spirito, non servirebbe a niente: forse servirebbe ad aumentare la burocrazia militare, anziché a diminuirla.
Questa «catena» l’abbiamo vista nei suoi anelli svolgersi, praticamente quasi, quando tutti i generali dell’esercito sono andati a portare la loro testimonianza, che era solidarietà, al generale Baistrocchi, al Tribunale straordinario di guerra; ed era una catena abbastanza indecorosa, come è stata indecorosa l’assoluzione trionfale del Baistrocchi.
BENGIVENGA. Cerano i magistrati!
PACCIARDI. Già, c’erano i magistrati. Ma io vorrei che ci fosse un Ministro della guerra repubblicano che rivedesse un po’ anche i quadri di questi magistrati del Tribunale Supremo.
BENCIVENGA. Ahi, ahi! Non si toccano i magistrati!
PACCIARDI. Vorrei invece che il Ministro li cambiasse dopo aver constatato, come può constatare, con quale spirito emettono le loro sentenze. Per esempio, sono stato informato che tra i pochi, i pochissimi generali che hanno rifiutato di prestare giuramento ci sono alcuni generali del Tribunale Supremo. Può darsi che questo rifiuto faccia molto onore alla lealtà personale di questi generali, ma non dà proprio un senso di sicurezza alle istituzioni repubblicane.
Signori, volete un altro episodio per dimostrare lo spirito con cui si amministrano queste cose?
C’è stata una inchiesta per la cosiddetta mancata difesa di Roma. Da principio doveva essere un’inchiesta fatta da una commissione nominata dal Governo dell’esarchia, e se ne erano pubblicati anche i nomi. Poi è stata una inchiesta ristretta nell’ambito puramente militare, probabilmente per suggestione degli alleati.
Ma che cosa ne è derivato? Che per la mancata difesa di Roma non risponde il Capo supremo delle Forze armate di terra, di cielo, di mare e di sotto mare che era il re e che partì (non voglio dire fuggì, se no mi urlano da quella parte) (Commenti) per Pescara; non è responsabile della mancata difesa di Roma il Principe Umberto, che era generale in servizio in quei tempi; non lo è il generale Ambrosio, che era comandante supremo delle Forze armate; non il maresciallo Badoglio, che era generale lui stesso e Capo del Governo e Capo effettivo delle forze militari; non il generale Calvi di Bergolo, che si è sempre rifiutato, come comandante di un reparto di camicie nere di combattere contro i fascisti, e che ha firmato l’armistizio con i tedeschi; non il generale Sorice allora Ministro della guerra. No, signori; questi sono tutti lavati dalla commissione d’inchiesta militare. Il solo generale che deve rispondere della mancata difesa di Roma è il generale comandante del corpo motocorazzato di Roma, il generale Carboni, il solo generale che rimase nei guai a Roma. Si vestì in borghese per andare a Tivoli, mise il comando in una casa privata, ma insomma rimase a combattere mentre gli altri fuggivano. Non mi interessa specialmente il generale Carboni. Può darsi che anch’egli abbia appartenuto alla cricca monarchica come gli altri; ma mi interessa invece il caso di ingiustizia clamorosa che si compie ai suoi danni. O tutti, o nessuno, in galera per la mancata difesa di Roma che, del resto, non fu poi del tutto mancata, se ci furono più di mille morti e se alcune delle divisioni tedesche restarono inchiodate qualche giorno a Roma per l’azione dei nostri combattenti, la quale servì ad impedire che l’esercito tedesco, a Salerno, fosse rinforzato e rigettasse in mare gli anglo-americani ivi sbarcaci. Se vogliamo distendere il velo dell’oblio su questi fatti, distendiamolo pure, ma non facciamo pagare gli errori della difesa di Roma al solo generale che fece in Roma il suo dovere.
Però, parlando del Ministero della guerra, non era essenzialmente di questo, onorevole Presidente del Consiglio, che vi volevo intrattenere. Volevo soltanto rilevare la deficienza di uno spirito non dico rivoluzionario, ma per lo meno innovatore nell’Amministrazione delle Forze armate, come in tutte le Amministrazioni in questo momento eccezionale.
Badate che io considero, nel momento attuale, il Ministero della guerra non come voi probabilmente lo considerate, il paravento degli Stati Maggiori, ma come il Ministero più importante del vostro Gabinetto. L’Italia è disarmata; non si può considerare armato un paese al quale si sono lasciati 185.000 uomini, che sono anche troppi per un esercito permanente, ma sono nulla se sprovvisti, come sono, di armamento moderno. Non si può considerare armato un paese che ha 200 tanks e 200 aeroplani e praticamente non ha difese per le sue coste; che deve smantellare tutte le sue fortificazioni alle frontiere impegnandosi di tenere una fascia di 20 chilometri totalmente disarmata. Fra le dure clausole del trattato di pace queste sono forse le più dure. D’altra parte, la posizione dataci da Dio è estremamente infelice: noi siamo alla confluenza degli urti delle razze e degli imperialismi e pare che i quattro Grandi si siano messi d’accordo per lasciare una specie di terra senza padrone, no men’s land; ma noi non intendiamo la nostra neutralità e la nostra indipendenza in questo modo. Ci fu nell’antichità la terra di Tebe, la Beozia, che considerò la neutralità in questo modo; ma il salace spirito dell’Attica ha considerato i beoti poco meno che idioti. Noi non possiamo accettare la neutralità in questo modo. Lo sforzo dell’intelligenza e della genialità di un Ministro della guerra – che non deve essere preso con il criterio di servire da paravento alla cricca dinastica – deve esser teso verso altri scopi. Non so, vorrei farmi capire senza dire. Abbiamo 185.000 uomini nell’esercito: ripeto che sono anche troppi e che non servono a niente per la difesa delle frontiere. L’esercito della Repubblica d’altra parte non deve essere adibito che alla difesa degli interessi nazionali; non deve essere impiegato, come qualche volta la monarchia l’ha impiegato, a guadagnare allori sul sangue degli italiani. Questi 185.000 uomini sono anche troppi; ma gli alleati ci lasciano qualche aeroplano, ci lasciano qualche tanks. Si tratta di trasformare il nostro concetto della difesa nazionale, approfittando di queste circostanze; occorre un Ministro della guerra che sappia il fatto suo.
BENGIVENGA. Questi sono compiti degli Stati Maggiori.
GASPAROTTO, Ministro della difesa. Questo è un concetto rispettabilissimo, che ho adottato nel 1921, quando ero Ministro della guerra, andando contro l’elemento tradizionale.
PACCIARDI. Bravo! E più ci andrà contro, seguendo questi criteri innovatori, oggi che le circostanze ce lo impongono…
GASPAROTTO, Ministro per la difesa. Ed auspicando che l’esercito non sia mai al servizio della pubblica sicurezza, ma serva soltanto per dare la sicurezza allo Stato, per le sue frontiere; e in questo era d’accordo allora anche l’onorevole Bencivenga che diceva: un piccolo esercito, ma bene addestrato.
PACCIARDI. Sarà d’accordo anche ora, spero. Ad ogni modo, onorevole Presidente del Consiglio, mi scusi se mi rivolgo prevalentemente a lei: ma lo faccio perché, in certo senso, ella dà un tono e uno stile al suo Governo; io voglio arrivare sempre alla stessa dimostrazione. Mi potrei, non dico divertire, perché non è un divertimento, ma potrei, per la rigorosità della mia dimostrazione, passare in rivista tutti i Ministri che hanno l’onore di sedere accanto a lei e riscontrare lo stesso andazzo, le stesse deficienze, lo stesso metodo. Prenda, per esempio, le finanze: noi abbiamo ascoltato tutti con estremo interesse il discorso dell’onorevole Scoccimarro; indubbiamente, chi volesse negare che l’onorevole Scoccimarro si è trovato dinanzi a difficoltà estreme, in un Paese distrutto, in un Paese in cui tutti o quasi i documenti erano scomparsi, gli alloggi dispersi od occupati, chi volesse negare, dicevo, queste difficoltà, giudicherebbe con superficialità e con parzialità la sua opera. Però anche il Belgio si è trovato in questa situazione, anche la Francia, anche l’Inghilterra, si sono trovate nelle stesse condizioni; e in questi Paesi, tranne l’inglese, occupati e devastati, si è potuto effettuare, senza dirlo, il cambio della moneta; mentre da noi non si è potuto.
In quei Paesi, compreso l’inglese, si è potuto imporre un severo razionamento dei generi alimentari e da noi non si è potuto. Poi io ammetto che ci sia questa difficoltà di accertamenti per le imposte ordinarie nei riguardi della generalità dei cittadini; ma per i sopraprofitti di regime, che in fondo riguardavano alcune decine di persone, forse qualche centinaio, queste difficoltà obbiettivamente non potevano esistere: com’è allora che non si è incassato niente o ben poco per profitti di regime? E questo dico non perché tale incasso avrebbe rinsanguato molto le finanze dello Stato, ma perché avrebbe avuto una grande importanza psicologica.
C’è essenzialmente un fatto, signori miei, di cui dobbiamo essere tutti convinti: abbiamo perduto una guerra; siamo in condizioni tragiche; bisogna pagare tutti; bisogna cingerci tutti di questo cilicio. Però voi non potrete convincere gli operai, gli impiegati e i pensionati miserabili, questi in specie, che, non avendo possibilità di attacco e di resistenza contro lo Stato, che cede ormai soltanto alle categorie che possono attaccarlo, muoiono di fame, della necessità che ha lo Stato di lesinare il piccolo aumento di stipendio o di pensione, fino a quando essi vedranno la sfacciata abbondanza, fino a che constateranno che vi sono dei setaioli e dei cotonieri del Nord che guadagnano ancor oggi quattro o cinque milioni al giorno.
SCOCCIMARRO. Lei conosce, onorevole Pacciardi, i motivi del ritardo degli accertamenti dei profitti di regime?
PACCIARDI. Non li conosco.
SCOCCIMARRO. Se non li conosce, glieli farò conoscere, ed anche al popolo italiano. L’ultimo episodio è di un mese fa.
PACCIARDI. Ho molto piacere che lei li faccia conoscere, al pari dei motivi per cui non si è fatto il cambio della moneta. Ma tutto questo non cambia di un ette la mia dimostrazione che il Governo attuale sarà eccellente per tempi normali, ma non vale per tempi eccezionali come questi.
E vengo alla scuola. Mi dispiace che non sia presente il mio amico onorevole Gonella. Gli avrei fatto una dichiarazione affettuosa: è un uomo dei più intelligenti che io conosca. Ma avrei preferito che fosse un cretino. Egli, come clericale, sa troppo il fatto suo. La sua politica scolastica favorisce la scuola privata. Il fascismo si era presentato alla Chiesa con il manganello in una mano e nell’altra il catechismo. Nessun criterio innovatore – tolto il manganello – è stato portato nella scuola. Noi crediamo alla Repubblica e ci preoccupiamo della educazione delle nuove generazioni repubblicane. Credo che con il metodo dell’attuale Ministro della pubblica istruzione creeremo dei buoni chierichetti, ma non creeremo dei buoni repubblicani. (Proteste al centro – Applausi a sinistra).
Quanto ai lavori pubblici, chi può negare le sublimi virtù dell’amico Romita? Qualche volta egli ci sbalordisce. È capace di fare tutto. Lo avevano messo ad amministrare la luce elettrica, e forse la luce andava meglio allora, a malgrado che vi fosse la siccità e che gli impianti fossero completamente rovinati: meglio di ora che vi è abbondanza di pioggia e gli impianti si vanno ricostruendo. Lo hanno messo al Ministero dell’interno, e veramente l’ho ammirato. (Commenti a destra).
L’onorevole Romita mi ricordava che a un grande pittore del suo tempo – David – Napoleone comandò: dipingimi calmo sopra un cavallo infuriato. Ebbene, l’onorevole Romita come Ministro dell’interno, era perfettamente calmo fra le tempeste. E sono doti eccellenti.
BENEDETTINI. Gliene sia grato: ha fatto il referendum repubblicano! (Commenti).
PACCIARDI. È un uomo che se gli telefoni la mattina alle 8 è al suo posto, se gli telefoni alle 9 di sera è ancora al suo posto: è indubbiamente un infaticabile lavoratore; però che razza di burocrazia c’è al Ministero dei lavori pubblici! Capisco che occorre un piano nazionale. Noi stessi lo abbiamo richiesto. Ma nei limiti della loro competenza i Comuni, da soli, farebbero meglio. Oggi, i Comuni fanno un progetto, poi va alla Prefettura, poi al Provveditorato regionale, poi deve essere approvato a Roma, e quando il sindaco viene a Roma trova il più bel sorriso d’Italia che è quello dell’onorevole Romita, nonché molti milioni sulla carta, ma sono milioni che anch’essi ridono di lui perché il Ministero del tesoro non li dà mai!
L’Amministrazione dello Stato (ho letto) costa 190 miliardi all’anno, il che è qualche cosa di più della metà del gettito delle entrate ordinarie. Ora, questo è enorme. Bisogna pure un giorno falcidiare con l’accetta in questa mastodontica Amministrazione statale.
Ma torniamo allo stile del Governo. La sua debolezza, la sua condiscendenza, ha almeno servito a qualche cosa? Ha servito ad una maggiore pacificazione degli animi, ad una maggiore distensione, ad una maggiore unità nazionale? No, come sempre avviene in questi casi; la debolezza del Governo ha incoraggiato la iattanza delle forze monarchiche e fasciste. Guardate la stampa, specialmente quella di informazioni: è tornata in mano esattamente agli stessi gruppi finanziari che già una volta strozzarono le libertà democratiche in Italia e che tentano di fare altrettanto oggi nella Repubblica. Fascisti e neo-fascisti sono tanto più audaci quanto meno il Governo repubblicano è all’altezza dei suoi compiti.
Si era detto che la Repubblica sarebbe stata un salto nel buio, sarebbe stata un finimondo: forse i monarchici si aspettavano davvero che tutti gli scavezzacolli, in Repubblica, approfittassero della situazione, chissà per quali orgie. Ebbene, niente: non precipizio, non finimondo; anzi, è proprio da questa parte che sono venuti i tentativi di pacificazione, e reiterati. Sapete tutti che la epurazione è stata una farsa e, come se ciò non bastasse, abbiamo regalato l’amnistia. E badate che questo tentativo bisognava farlo, bisognava tentare di uscire da questa morsa delle fazioni – i guelfi e i ghibellini, i bianchi e i neri, i rossi e i turchini – che hanno sempre tormentato la vita italiana.
Ma l’amnistia è stata un errore – come dire? – tecnico. Credo che l’onorevole Togliatti lo riconoscerà, tanto più che non sarà suo, ma dei suoi funzionari. Ed è stata soprattutto un errore in questo: che ha fatto fiducia – immeritata – ai magistrati dell’antico regime.
Si sono aggiunti in questi giorni tentativi di fraternità, si può dire, sul campo, fra i partigiani e gli antichi militi delle brigate nere: e noi avremmo approvato, se si fosse trattato soltanto dei giovani; ma si sono mescolati subito a questi tentativi di pacificazione i gerarchi responsabili e profittatori.
Ebbene, bisogna riconoscere che la vostra politica, la nostra politica, in quanto noi ne abbiamo per un certo tempo condivise le responsabilità, non ha avuto l’effetto sperato e bisogna allora agire in conseguenza, ma agire subito.
Perché subito? Perché, il giorno in cui si applicherà la Costituzione repubblicana non sarete più in tempo.
Questa è la funzione dei Governi provvisori.
La Costituzione repubblicana garantisce certi diritti, certe prerogative inalienabili del cittadino; garantisce certe guarentigie dei funzionari e dei loro rapporti con lo Stato. La Costituzione, per esempio, dirà – e noi applaudiremo, noi vogliamo che lo dica – che la Magistratura è sacra, inviolabile, inamovibile, e guai a chi la tocca; nell’ambito del suo potere è sovrana.
Però che cosa avrete? Avrete la Magistratura del signor Pilotti. Quando lo cacciate via questo signor Pilotti, onorevole De Gasperi? (Applausi a sinistra).
Avrete la Magistratura dello stesso Presidente della Corte di Cassazione, che ha mancato al suo dovere, se non altro, di ospitalità e di educazione verso il Presidente della Repubblica. Quando andava Mussolini al Palazzo di giustizia lo spettacolo era diverso (Applausi a sinistra) e quando il re andò a Palazzo di giustizia, ed era Presidente della Corte di cassazione il padre di questo signor Pagano, potete leggere in tutti gli annali giudiziari il discorso ampolloso di saluto che questo Presidente gli diresse.
Va il Presidente della Repubblica, il Capo provvisorio dello Stato, e questi signori neanche se ne accorgono!
Avrete la Magistratura che ha applicato l’amnistia al boia Cristini, che ha applicato la stessa amnistia, forzando il senso e lo spirito della legge di Togliatti, a Vito Mussolini, a Caradonna e a tanti altri. (Interruzioni). Ebbene, bisognerà agire ora, agire subito.
Signori, se ho potuto parlarvi a nome del mio gruppo così liberamente, è perché noi non abbiamo più i rappresentanti al Governo. Noi non siamo adusati al mestiere del doppio giuoco; possiamo oggi dare al Governo quello che un partito di minoranza può dare: un contributo critico alla sua azione.
E, soprattutto, vogliamo tentare una chiarificazione politica nel Paese.
Secondo me, una delle profonde cause di debolezza di questa Repubblica democratica è nel fatto che le manca un grande partito, o un grande movimento repubblicano democratico. (Interruzioni a destra). Ma qualche cosa di nuovo c’è o mi pare di scorgere che ci sia nel nostro Paese: il Partito d’azione, che è stato un partito eroico – bisogna riconoscerlo – nel periodo clandestino e che ha esercitato una grande funzione, è in procinto di prendere delle risoluzioni coraggiose. E io so quanto siano coraggiose, perché so come ci si affeziona alla bandiera, al simbolo, alla etichetta, all’ente-partito. Ma tutto quello che serve all’unione delle forze repubblicane, quello che serve ad evitare questo frazionamento delle forze repubblicane, è da incoraggiare e da salutare come un beneficio per il nostro Paese.
Gli uomini del Partito d’azione che sono venuti, o che sono ritornati, nella nostra vecchia famiglia, non hanno rinnegato niente del loro passato, dei loro simboli, del loro modo di pensare, della loro fede. Un altro atto coraggioso, benché doloroso – lo riconosco – nelle attuali circostanze, lo hanno compiuto i colleghi che si sono aggruppati intorno al Partito socialista dei lavoratori italiani. Che cosa vogliono, se ho ben capito, in fondo? Vogliono che le riforme sociali indispensabili nel nostro Paese, si compiano nell’ordine repubblicano, nella democrazia e nella libertà. Ebbene, noi non pensiamo niente di diverso. Lo so che ci chiamano «storici»; e ci chiamano «storici» perché vorrebbero metterci nel museo delle glorie patrie. Ebbene, abbiamo già dato molte delusioni ai nostri colleghi monarchici. Una volta si diceva che eravamo i più onesti d’Italia, dei galantuomini: adesso siamo diventati dei malfattori anche noi. E ci saranno altre delusioni; quando si affronteranno i problemi sociali nel nostro paese, quando si affronteranno i problemi delle riforme agrarie, quando si affronteranno i problemi delle riforme industriali, voi vedrete sorgere da questi banchi uomini moderni, non uomini «storici».
LI CAUSI. Noi ne siamo convinti; occorre rivolgersi alla destra.
Una voce a destra. E noi in quel giorno usciremo dalle tombe!
PACCIARDI. Mi volgo a voi (verso l’estrema sinistra) non con spirito polemico. (Interruzioni).
Siamo un partito che potrà avere le sue idee particolari su questi problemi; ma vengano pure una Commissione, dieci Commissioni, mille Commissioni d’inchiesta: non troverete nessuno in questo gruppo legato a interessi particolari, ma tutti devoti agli interessi della Nazione. (Interruzioni a destra).
Dicevo, dunque, qualche cosa di nuovo si sta verificando nel nostro Paese; io credo che, se non in questa, nelle Camere successive, voi dovrete forzatamente fare i conti con un grande movimento repubblicano democratico laico e sociale che già si sta delineando nel nostro Paese. È già significativo che dinanzi alla crisi, dinanzi al problema del Governo, abbiamo preso tutti – e separatamente – lo stesso atteggiamento.
L’onorevole Sforza partecipa al Governo; vi partecipa come indipendente, come persona; ma i suoi addentellati, direi i suoi legami spirituali, col partito repubblicano sono più forti dei legami normali della tessera. Per cui mi pare doveroso dichiarare che in mente nostra la sua presenza ai banchi del Governo significa soltanto questo: che i problemi della politica estera della Nazione devono essere sottratti al giuoco, all’urto, al contrasto delle parti. Noi abbiamo dato questo esempio anche in monarchia. Molte volte abbiamo sacrificato gli interessi momentanei del nostro partito per ubbidire ad un dovere nazionale più alto.
E io spero che questo esempio faccia scuola per i superstiti monarchici del nostro Paese. È per questo che, alla Commissione dei Trattati internazionali, io fui uno dei primi ad esprimere la solidarietà, a nome del mio gruppo, col Governo che si assumeva il tragico, ineluttabile compito di firmare il Trattato di pace. Se c’è qualcuno in questa Assemblea che avrebbe potuto esimersi dall’assumere questa posizione, con una apparenza di legittimità, saremmo stati noi, perché noi fummo sempre avversari della monarchia. Noi ne denunciammo sempre la intima natura reazionaria, perché combattemmo sempre la sua involuzione fascista, perché mettemmo il cadavere di Oberdan fra l’Italia della Triplice alleanza e l’Austria, perché non partecipammo ai Governi di liberazione, e quindi non fummo nella dolorosa necessità di controfirmare l’armistizio, che avevano firmato il re e Badoglio in fuga. Avremmo potuto esimerci dal prendere questa posizione; ma a noi ripugnerebbe di fare questi miserabili giuochi di furberia sul cadavere disfatto della Nazione. La Nazione continua e abbiamo il dovere di sopportare la nostra parte di sacrifizî, abbiamo il dovere di percorrere il nostro tratto nel duro calvario.
Io proporrò – noi, del gruppo repubblicano proporremo: lo abbiamo detto al nostro Congresso e siamo stati lieti che l’amico Nenni si sia associato – di fare l’ultimo disperato tentativo di appello ai Parlamenti liberi delle Nazioni vincitrici.
Ma abbiamo fede. Il colpo più duro e più immediato che bisogna parare è il colpo ingiusto, iniquo, immeritato alla nostra flotta; perché sé sarà spartita, nessuno ce la renderà più. Ed è questa una delle clausole più orribili del nostro trattato. La nostra flotta non era preda di guerra; volontariamente, con la sua bandiera, aveva combattuto per la causa comune.
Si può essere, non dico tranquilli, ma fiduciosi anche per i problemi che più ci interessano, i problemi delle nostre frontiere. Non ci stancheremo mai di dire alla Francia che questa niaiserie, che questa sciocchezza, come Blum l’ha chiamata, rischia di compromettere la fratellanza latina che noi non da ora vogliamo. Non ci stancheremo mai di dire alla Francia che è scritto, come lo ha detto l’onorevole Presidente del Consiglio, nella sua Costituzione di oggi, che non può accettare ingrandimenti territoriali senza il consenso delle popolazioni.
A Tito, che è di una scuola assai positivista ed assai pratica, io terrei un linguaggio assai positivo ed assai pratico, un linguaggio che mi pare abbia cominciato ad intendere (e forse l’onorevole Togliatti stesso glielo ha tenuto quando è andato a Belgrado).
Questo territorio di Trieste è uno Stato che non può vivere.
Se le mie informazioni sono esatte, la Commissione economica internazionale ha intanto stabilito che avrà 10 miliardi di deficit nel bilancio normale dello Stato ed altri 8 o 10 miliardi di deficit nella bilancia dei pagamenti.
Vorremmo dire a Tito: non era forse meglio riconoscere all’Italia, non soltanto Trieste, che è indiscutibilmente italiana, e lo sa, ma anche Pola e l’Istria occidentale, che sono indiscutibilmente italiane, e lo sa; non valeva meglio di riconoscere questi territori all’Italia repubblicana, all’Italia democratica, all’Italia pacifista, all’Italia, comunque, disarmata? Piuttosto che immettere tra noi questo staterello, questo cuneo armato di interessi che sono estranei alle nostre contese? Io credo che un giorno i nostri amici slavi capiranno questo linguaggio. Ma, onorevoli signori, per affrontare questi problemi tremendi, interni e internazionali, occorre che l’Italia nel suo Governo, nei suoi rappresentanti, nei suoi funzionari, nei suoi magistrati, nel suo popolo, esca da questo carnevale, e si può anche dire da questo baccanale in cui impazziamo, e si dia un volto austero di dignità e di moralità. (Applausi).
Nomina di una Commissione speciale.
PRESIDENTE. In relazione al mandato che mi è stato conferito, chiamo a far parte della Commissione speciale per l’esame del disegno di legge costituzionale: «Proroga del termine di otto mesi previsto dall’articolo 4 del decreto legislativo 16 marzo 1946, n. 98, per la durata dell’Assemblea Costituente», gli onorevoli colleghi: Ambrosini, Bergamini, Cianca, Colitto, Corbino, Bordon, De Michelis, Grassi, Laconi, Lami Starnuti, Molè, Perassi.
Prego gli onorevoli membri della Commissione di volersi riunire domani, alle ore 9,30, per poter riferire oralmente nel pomeriggio stesso, dato che la discussione del disegno di legge sarà posta all’ordine del giorno della seduta di domani.
Si riprende la discussione sulle dichiarazioni del Presidente del Consiglio.
PRESIDENTE. Riprendiamo la discussione sulle dichiarazioni del Presidente del Consiglio dei Ministri.
È iscritto a parlare l’onorevole Colitto. Ne ha facoltà.
COLITTO. Su due punti soltanto del discorso dell’onorevole De Gasperi – che è stato insieme relazione di attività svolta ed esposizione di programma da svolgere – desidero richiamare, con la massima brevità, la benevola vostra attenzione.
Ne sento il dovere, specie dopo quanto è stato detto ieri da altri settori della Camera, in incidentale risposta a quanto già ebbe a rilevare nei giorni scorsi il collega onorevole Russo Perez.
Il primo punto del discorso è quello, in cui il Presidente del Consiglio, esponendo il programma del nuovo Governo, si è occupato del consolidamento e della difesa della Repubblica, ed il secondo quello, in cui, riferendo l’attività da lui svolta, si è, con accenti spesso commossi, occupato del Trattato di pace.
Primo punto. Dopo avere rilevato essere suo dovere fare opera di consolidamento ed, ove occorra, di difesa del regime repubblicano, l’onorevole De Gasperi ha voluto indicare la via, che il Governo si appresta a battere per raggiungere il fine propostosi. Il Governo intende per ora prendere, per ripetere le parole dell’onorevole Nenni, «poche misure», le seguenti, salvo che non si creda poi di seguire i drastici consigli dati ieri dall’onorevole Lussu e quelli dati oggi, perché si realizzi «lo spirito rinnovatore», dall’onorevole Pacciardi, che non ha saputo indicarci una sola persona, della quale egli sia contento:
1°) aggiornare e riformare alcuni articoli del Codice penale;
2°) richiamare in vigore, entro certi limiti ed opportunamente aggiornati, il decreto legislativo luogotenenziale n. 145 del 1945, che, come è noto, cessò di aver vigore il 15 maggio 1946, e continuare ad applicare il decreto 149 pure del 1945;
3°) regolare con una legge speciale la stampa.
Ora, io plaudo con la più schietta sincerità all’intendimento di aggiornare e congruamente riformare i pochi articoli del Codice penale indicati dal Capo del Governo: l’articolo 270, che si occupa delle associazioni sovversive, aventi aspirazioni dittatoriali e totalitarie, quelle associazioni che, come si esprime l’articolo 17 del Trattato di pace, hanno lo «scopo di privare il popolo dei suoi diritti democratici», l’articolo 274, che disciplina la partecipazione del cittadino, nel territorio dello Stato, ad associazioni, enti o istituti o sezioni di essi, di carattere internazionale, e gli articoli 276, 279 e 290, che prevedono rispettivamente gli attentati ai membri della casa già regnante, la lesa prerogativa della insindacabilità del Capo dello Stato ed il vilipendio delle istituzioni costituzionali.
Oso anzi – dato che ogni tanto si sente parlare purtroppo di democrazia progressiva, ma che «per progredire» dovrebbe «volgere le spalle alla legalità» – pregare il Governo di voler estendere l’aggiornamento e la riforma ad altri articoli: per esempio, all’articolo 289, che prevede gli attentati contro la libertà funzionale degli organi costituzionali dello Stato, anche in precedenza essendosi, del resto, rilevata l’erroneità della formula «esercizio della sovranità», dallo stesso usata, ed all’articolo 294, che prevede gli attentati contro i diritti politici del cittadino, attentati che non possono più evidentemente essere considerati delitti contro la personalità dello Stato, ma debbono essere di nuovo considerati, come li considerava il Codice del 1889, delitti contro la libertà.
Non sento, invece, in modo assoluto, di poter approvare il proposito di continuare ad applicare o, peggio, di richiamare in vigore i decreti luogotenenziali di sopra indicati, perché mi sembra evidente che, così operandosi, si persisterebbe – violandosi il sentimento di giustizia e pur anche il buon costume politico – nel grave errore di tenere ancora distinti non i galantuomini dai disonesti, ma dagli altri italiani milioni di italiani onestissimi, forze vive, attive, capaci, dalle quali il Paese – checché ne pensi l’onorevole Pacciardi – assolutamente non può prescindere; si riaprirebbero le troppe e troppo paurose crepe, che per tanto tempo hanno martoriato la compagine nazionale, mentre una pacificazione piena, sincera, leale per tutti gli italiani di buona volontà è più che mai necessaria; si darebbe, continuandosi – pieni di rancori cronici – ad adottare sistemi, che non manca chi qualifica liberticidi, tanto e da tante parte deprecati, la impressione che la democrazia è in Italia una aspirazione ancora da realizzare.
La Costituente si appresta a discutere il progetto della Costituzione, filtrato attraverso lo studio di una Commissione di 75 membri, di tre sottocommissioni e di comitati coordinatori. Ora, secondo il progetto, la nuova Italia democratica non dovrà avere più leggi retroattive (art. 20), non giudici speciali (art. 95), non confino politico (art. 8) (non si difende la Repubblica, ha detto ieri opportunamente l’onorevole Nenni, con leggi eccezionali e con persecuzioni di polizia) e la Magistratura dovrà essere indipendente dal potere esecutivo (art. 94). Bisognerebbe allora subito abrogare, non mantenere in vigore, le leggi retroattive, che in vigore ancora sono, e naturalmente guardarsi molto bene dal richiamare in vita quelle abrogate. Diversamente agendo, si opererebbero in anticipo gravissime lesioni costituzionali, si diventerebbe sabotatori della Costituzione prima addirittura della sua entrata in vigore, per cui – veramente sbalordito – ho sentito ieri l’altro dalla squisita delicatezza di una collega pregare il Governo di premere su di un procuratore della repubblica, perché revochi dei mandati di cattura spiccati contro individui, rei di delitti di competenza della Corte di assise. Or, se questo è, come si può pensare a continuare ad applicare o addirittura a richiamare in vigore i decreti luogotenenziali, indicati nel discorso del Capo del Governo?
E neppure sembrami che sia commendevole il proposito di disciplinare con legge speciale la stampa. Sì, la legge sarebbe redatta – ha detto l’onorevole De Gasperi – in armonia con i principî che l’Assemblea stessa vorrà, in materia di stampa, fissare nella Costituzione, fonte di ogni altra legge. Ma della Costituzione non vi è che uno schema, nel quale (art. 16) si afferma solennemente che «la stampa non può essere sottoposta ad autorizzazioni e censure», sì che non si comprende come sia possibile emanare una legge, che sia «speciale» (il significato dell’aggettivo è noto) e sia insieme in armonia con quello che nel progetto di Costituzione, in materia di stampa, si afferma e che certamente nella Costituzione si riaffermerà.
DE GASPERI, Presidente del Consiglio dei Ministri. Non legge eccezionale, ma speciale.
COLITTO. No. Per la stampa una legge speciale non occorre. La libertà di stampa, che è la madre di tutte le libertà, sacra in regime democratico, deve trovare i suoi limiti soltanto nella legge, che della libertà stabilisce i confini, cioè a dire nel Codice penale. Si vuole o non si vuole che la stampa sia libera? Si vuole o non si vuole che possa il cittadino manifestare la propria opinione, criticare il Governo, polemizzare con i partiti ed i loro rappresentanti, gridare che il tale Ministro è un disonesto e che il tale altro è un traditore – il che non è né rissa, né cannibalismo, come a qualcuno è piaciuto di scrivere, né un’insidia alla Repubblica? Se lo si vuole, non occorre davvero per la stampa alcuna legge speciale.
Non poniamo freni alla libertà di stampa. Sono assolutamente convinto che attraverso essa – oltre che attraverso questi nostri dibattiti, per i quali, anche quando «scendala eveniunt» – non si svilisce, ma si esalta la funzione del Parlamento, che non si trasforma affatto in una «taverna», come è piaciuto poco fa all’onorevole Pacciardi di dire – le epidermidi diventeranno via via meno dure e meno insensibili, a poco a poco rifiorirà la ipersensibilità degli uomini politici e la vita pubblica potrà moralizzarsi, ed una vita pubblica, diventata specchio terso di moralità, costituirà davvero un enorme passo fatto innanzi sulla via della ricostruzione, se, quando di ricostruzione si parla, ci riferiamo, e non possiamo non riferirci, anche, e soprattutto, a quella morale.
Secondo punto. Noto è il procedimento, maggiormente in uso nella pratica internazionale, perché si consegua l’accordo di volontà necessario per dar vita ad un trattato. Ciascuno degli Stati, che al trattato intenda partecipare, nomina suoi plenipotenziari, i quali, riunitisi, cercano di redigere un progetto, tale che possa incontrare l’approvazione dei rispettivi Stati. Se i plenipotenziari riescono in questo loro compito sottoscrivono, per accertarne il contenuto, il testo da essi redatto, e lo trasmettono agli organi competenti dei rispettivi Stati, ai quali spetta di ratificare o no l’operato dei plenipotenziari. Gli atti di ratifica vengono poi comunicati da ciascuno Stato agli altri contraenti (scambio delle ratifiche) oppure depositati presso lo Stato incaricato di raccoglierli e di ratificarli (deposito delle ratifiche). Con lo scambio o con il deposito delle ratifiche, nel modo e nel numero previsti dalla convenzione medesima, il trattato diventa impegnativo, secondo il diritto internazionale, per i soggetti fra i quali è intervenuto.
Chi legge ora l’articolo 90 del Trattato di pace con l’Italia riporta l’impressione che tali norme siano state obliate e che i suoi redattori abbiano voluto alla ratifica da parte dell’Italia assegnare un’importanza del tutto secondaria ed accessoria. Il Trattato deve essere, sì, ratificato, oltre che dalle potenze alleate ed associate, anche dall’Italia. Ma, giusta la dizione del detto articolo, «esso entrerà in vigore immediatamente dopo il deposito delle ratifiche da parte degli Stati Uniti d’America, della Francia, del Regno Unito di Gran Bretagna e d’Irlanda del Nord, e dell’Unione delle Repubbliche Sovietiche Socialiste».
Di deposito della ratifica da parte dell’Italia non parlandosi, sembra che tale ratifica non occorra perché il Trattato entri in vigore.
Io ho l’impressione, anzi, che il Trattato si stia già eseguendo, prima addirittura che abbia luogo il deposito delle ratifiche da parte delle potenze alleate ed associate. Le belle corazzate «Vittorio Veneto» ed « Italia », uscite dal canale di Suez, sono rientrate, agli ordini del comando alleato, in Patria per consegnarsi (vedi articolo 56 e allegato XII-A del Trattato) a chi le deve avere; la popolazione di Pola, di questa città, al cui altare accendiamo una lampada votiva che non si spegnerà, in questa città, che ci sta ora insegnando, bagliore di fiamma che si riverbera su tutta la Penisola, come si debba amare l’Italia – lascia (vedi articolo 19 e seguenti del Trattato) l’accogliente intimità della casa, i giardini ed il Foro, il Castello e lo Zaro, luoghi cari ed insostituibili, gli Sloveni della valle isontina, poiché la frontiera italiana verrà tracciata (vedi articolo 13 ed allegato V) entro lo stesso abitato di Gorizia, cercano rifugio in Italia, e si è già recata a Roma (vedi allegato X) la Commissione di studio inviata a Trieste dalle quattro grandi Potenze per esaminare i problemi economici del futuro «territorio libero» e per fare, poi, al Consiglio dei quattro Ministri degli esteri raccomandazioni circa il futuro regime monetario, finanziario, commerciale ed industriale, a quel «territorio» più adatto.
Non poteva ciò non essere tenuto presente dal Presidente del Consiglio, il quale avrebbe dovuto sempre pensare essere per lo meno possibile – data la dizione dell’articolo 90 del trattato – che per l’entrata in vigore dello stesso la firma, malgrado ogni riserva diplomatica, fosse «tutto» e la ratifica, anche se ampia ed esauriente, «nulla».
E di fronte a tale possibilità avrebbe dovuto ascoltare la parola dell’Assemblea. Avrebbe forse, col senso di equilibrio, che è nota caratteristica del suo temperamento, sottolineando e valorizzando motivi di prudenza e di preoccupazione (mero carattere formale della firma, possibilità di un peggioramento delle condizioni di pace, preclusione dell’Italia dai rapporti internazionali, rifiuto di crediti e di rifornimenti da parte degli alleati, prolungamento della occupazione militare alleata, ecc.), finito col convincerla della necessità o della opportunità della firma; ma avrebbe dovuto ascoltarla.
L’Assemblea è stata eletta anche per dire, in un’ora veramente drammatica della storia del Paese, la sua parola – alta, solenne, ammonitrice – proprio in merito al Trattato di pace senza pace; a questo complesso di clausole non proposte, ma imposte incondizionatamente, tutte unilateralmente decise e tutte inspirate dal desiderio di umiliarci.
Ma il Presidente del Consiglio non le ha purtroppo permesso di dirla.
Sono anche io profondamente convinto che l’onorevole De Gasperi, vivamente sollecito delle sorti del Paese, si fa sempre guidare, durante la sua via, da un immenso amor di Patria. Ma che per ciò? In regime di democrazia è il popolo, non il Capo del Governo, che deve pronunciarsi, a meno che non abbia egli ritenuto esatto, portandolo alle ultime conseguenze, quanto, a proposito dei rappresentanti del popolo, diceva Rousseau: «Un popolo, che ha dei rappresentanti, cessa di essere rappresentato».
È pure vero che l’articolo 3 del decreto legislativo luogotenenziale 16 marzo 1946, n. 98, demanda alla Costituente la formazione delle leggi di «approvazione» dei Trattati, il che potrebbe far pensare che la Costituente debba solo «ratificare» i trattati. Senonché, se anche questo fosse esatto, ove si fosse tenuta presente la ricordata disposizione dell’articolo 90 del Trattato, l’Assemblea avrebbe dovuto sempre essere ascoltata, non potendosi porre in dubbio che il legislatore volle all’Assemblea dare, in materia, un compito sostanziale e non puramente formale.
Desidero, infine, ricordare che, quando il 15 luglio 1946 ebbe ad esporre altro programma di Governo, l’onorevole De Gasperi, trattando della politica estera, disse giustamente dover essere di chiara e ferma difesa del diritto dell’Italia ad una pace giusta ed onesta e testualmente aggiunse: «Il Governo dichiara che non impegnerà la sua parola prima di aver consultato la Costituente». Ma le parole le porta via il vento, come gli stornelli, anche se sono quelle di un Capo di Governo: il Governo si è assunta la responsabilità di quello che è stato fatto, senza avere consultato la Costituente.
DE GASPERI, Presidente del Consiglio dei Ministri. Ma è stato detto: subordinatamente alla ratifica della Costituente.
COLITTO. Ciò vale quanto una riserva mentale.
DE GASPERI, Presidente del Consiglio dei Ministri. No, non mentale; ma scritta ed accettata dagli Alleati.
COLITTO. Ma ora la cosa è fatta. Le recriminazioni forse non giovano. Levata con dignitosa fermezza la protesta, non possiamo non unirci all’onorevole De Gasperi nell’augurarci che le grandi potenze, con la ratifica o senza la ratifica, non dimenticando l’insopprimibile primato dello spirito italiano ed imitando quel nobile Paese che è la Repubblica Argentina, sempre in prima linea al nostro fianco in questo angoscioso periodo, per cui sento di inviare ad Esso il mio modesto, ma vivissimo ringraziamento, si convincano della necessità di rivedere quello che è stato fatto, modificando le clausole, che offendono non solo la dignità della nostra Italia – di questa terra di santi e di condottieri, di artisti e di scienziati, che ha illuminato il mondo per secoli e secoli – ma la coscienza morale e giuridica dei popoli tutti. Io sono convinto, senza peraltro abbandonarmi ad un ottimismo, che sarebbe imprudente, che ciò si verificherà, tanto più se sapremo comportarci in guisa che il mondo veramente democratico veda in noi un popolo, che, non abbattuto, ma tonificato dalla sciagura, si è posto a lavorare per ricostruire e può, quindi, continuare ad essere elemento di armonia non trascurabile nel quadro delle potenze, in questo mondo, pervaso, come è stato giustamente scritto, da una inquietudine tormentosa ed affannosa, un popolo, che sa conciliare il rispetto sommo dell’individuo, considerato inviolabile nella sua eterna finalità, con il senso della socialità umana, un popolo, che abbia come suoi ideali etico-politici la libertà, che trova il suo equilibrio nella giustizia, e la giustizia, che non può essere piena, se dalla libertà non scaturisce. Ciò si verificherà: riconquisterà l’Italia, reinserendosi nel circolo economico mondiale, la sua unità nazionale, territoriale e spirituale, e, soprattutto, il suo prestigio. I nostri cuori sono profondamente fiduciosi.
Nell’attraversare la linea che il passato divide dal futuro, bisogna riconoscere che l’attivo supera il passivo. Imperversa, sì, un sorridente doppio giuoco – ricordate i «sì» ed i «no» di ieri dell’onorevole Nenni – nel tentativo di minare alle basi lo sforzo di rinascita. Certe tregue, in mancanza di una sincera volontà di collaborazione tra i partiti, restano pie intenzioni, che minacciano di lastricare l’inferno della ripresa politica; si pronunziano paroline, più o meno vermiglie, contro altissimi magistrati, contro l’esercito, contro tutta l’Amministrazione dello Stato; ma, malgrado le calamità enormi della politica, solo per merito dell’iniziativa privata (parlando della quale, penso agli agricoltori, ai ceti medi, alla borghesia, ai lavoratori in genere, a quanti con la vanga, fra le macchine e nelle libere professioni servono la Patria), siamo oggi, in fatto di produzione e di ricostruzione, al primo posto in Europa.
Per la resurrezione – verso la quale, con la nostra capacità produttiva rimasta intatta, virilmente e consapevolmente ci siamo avviati – le grandi potenze – ne è segno manifesto il recente viaggio in America dell’onorevole De Gasperi – sicuramente ci aiuteranno; ma tutto rinascerà e tutto rifiorirà anche per virtù innata di nostra gente, anche per la energia spirituale della nostra civiltà, anche per uno di quei non infrequenti miracoli di amore, che, nella terra cantata da Dante e benedetta da San Francesco, sono sorgenti di vita, lievito di ascesa, ala magnifica di inarrestabile volo. (Applausi a destra).
(La seduta, sospesa alle 17.35, è ripresa alle 17.55).
PRESIDENTE. È iscritto a parlare l’onorevole Togliatti. Ne ha facoltà.
TOGLIATTI. Signor Presidente, signore, onorevoli colleghi, mi hanno detto, e i vecchi conoscitori dei costumi di queste assemblee perdonino a me, tra gli ultimi venuti e certamente, quindi, ancora inesperto navigatore di questo mare, perdonino se la cosa non è esatta, mi hanno detto, ripeto, che sarebbe buona consuetudine parlamentare, quando ha luogo una crisi di governo e il nuovo governo si presenta all’Assemblea ed espone il proprio programma, che sarebbe buona consuetudine parlamentare occuparsi, non, come sembra che qualcuno dei nostri colleghi alle volte sia tentato di fare, di tutto un po’ e di qualsiasi cosa, non di tutte le cose possibili, insomma, ma soltanto ed essenzialmente di due cose: del modo come il governo è stato fatto, cioè del modo come la crisi governativa è sorta, è stata impostata, condotta, risolta, e del programma governativo.
Cercherò di occuparmi esclusivamente di queste cose, e cercherò di farlo il più brevemente che mi sarà possibile, anche perché mi pare che la discussione ormai sia giunta o stia giungendo al suo termine.
Una crisi di governo è sempre una cosa importante nella vita di un Paese, e specialmente di un Paese che vuole essere democratico. Non è un atto di ordinaria amministrazione, è un atto politico importante, il quale si deve giustificare, se non storicamente, per lo meno politicamente. E in sostanza è questa giustificazione che la nostra Assemblea, nel corso di questa discussione, sta cercando, e la sta cercando non soltanto per sé, ma per il Paese; perché il Paese stesso deve conoscere, perché una crisi c’è stata, perché un nuovo governo è stato formato, deve sapere, cioè, come si sviluppa la vita politica alla sommità delle istituzioni democratiche.
Comincerò, dunque, con il programma, che dovrebbe essere la cosa più importante, la pietra di paragone di questa nostra discussione, il punto di orientamento di tutto il nostro dibattito. Ora, ho confrontato il programma di questo governo col programma presentato dal governo precedente, anzi, dai due precedenti governi presieduti dall’onorevole De Gasperi, dopo la istaurazione del regime repubblicano, e ho trovato che differenze sostanziali non ce ne sono. Vi sono delle messe a punto, utili, apprezzabili; vi è qualche problema nuovo, concreto, che affiora ed è bene che vi sia; vi è una maggiore concretezza di formulazione, di esigenze, di rivendicazioni. Tutto questo è bene; le cose essenziali però, nella sostanza, si ripetono.
Si parlava, allora, di consigli di gestione, della necessità di avere una legge, la quale regoli questo importantissimo nuovo campo di attività delle masse lavoratrici e delle loro organizzazioni per il controllo della produzione; si parla dei consigli di gestione oggi.
Credo si parlasse già allora del lodo sulla mezzadria e della necessità che s’imponeva, per dare pace alle nostre campagne, di trasformare questo lodo in una legge. Adesso, la stessa cosa viene ripetuta.
Si parlava di introdurre nella direzione della vita economica del nostro Paese elementi di un piano direttore: lo si ripete adesso.
E non voglio continuare, perché è chiaro che, se queste e altre cose si ripetono, è perché non sono state fatte; e se non sono state fatte, onorevoli colleghi, forse, l’esposizione dei motivi per cui ciò è avvenuto potete trovarla in modo abbastanza chiaro nel discorso che io feci qui nel mese di luglio, quando il primo governo repubblicano dell’onorevole De Gasperi si presentò a noi e io gli dissi:
«Applicate il vostro programma»; ma, espressi il dubbio che, nella applicazione, sarebbero sorti seri ostacoli, che era necessario avere dell’energia per superare.
Ad ogni modo, è certo che se tutte queste cose si ripetono, vuol dire che non sono state fatte, e in questo si trova, senza dubbio, la migliore, anzi l’unica giustificazione della posizione che il nostro Partito ha avuto nei confronti del governo, all’interno e fuori di esso, nel corso degli ultimi mesi, posizione che ha voluto essere qualificata come doppio giuoco; ma doppio giuoco non era, in quanto era sempre ed esclusivamente un richiamo al programma governativo, alla necessità di applicarlo, cioè alla necessità che il governo desse prova di quella energia che è necessario che un governo abbia, quando ha davanti a sé un programma di quell’ampiezza, per la realizzazione del quale si è impegnato.
Non nego che nell’attuale programma governativo vi siano cose nuove, e l’ho già detto. Ve ne sono nel campo agrario, ve ne sono in vari altri campi di attività governativa. Cose nuove, proposte nuove che corrispondono senza dubbio a problemi nuovi, maturati dallo sviluppo stesso delle cose. Ripeto che è bene che queste cose nuove ci siano nel programma di questo governo e noi salutiamo il fatto che ci siano: esse dovevano esserci.
Mi sembra però, – o almeno rimane in me il dubbio – che queste cose nuove sono tutte tali che potevano essere inserite in un piano di lavoro governativo, senza che per fare ciò fosse necessaria una crisi di governo. Mi sembra, cioè, che l’onorevole Presidente del Consiglio non avrebbe trovato nella composizione precedente del suo governo un ostacolo a realizzare quelle cose nuove che egli ha inserito nel programma attuale.
L’esame del programma, quindi, non ci dà la chiave di cui abbiamo bisogno e che andiamo cercando; non ci dà la spiegazione della crisi: quindi, non ci dà quella giustificazione che dobbiamo dare a noi stessi, e al Paese.
Cerchiamo altrove. Forse la chiave è da cercare nella struttura del governo. Il numero dei posti ministeriali è stato ridotto. Debbo dire che in linea di principio noi comunisti non siamo favorevoli in questo momento della vita nazionale, – e anche in generale non siamo favorevoli – alla riduzione dei posti governativi. Un governo democratico il quale voglia avvicinarsi e si avvicini a quello che deve essere, cioè un serio e competente governo delle cose, un governo di buoni amministratori, i quali abbiano realmente nelle loro mani tutte le leve di comando della pubblica amministrazione e le manovrino a seconda della volontà popolare, un governo simile non può essere un governo di pochi ministri. Deve necessariamente essere un governo di molti Ministri, appunto perché è necessario che abbia nel suo seno molte competenze, molte persone capaci non soltanto di fare della politica in generale, ma di scendere ai dettagli, di controllare tutte le ruote della pubblica amministrazione, la quale oggi ha bisogno di essere diretta in questo modo. Per questo noi – ripeto – in linea di principio non siamo favorevoli alla riduzione dei posti ministeriali. Però non è questa oggi una questione tale, per la quale si possa, non dico aprire, ma nemmeno prolungare una crisi di governo. Quando avremo noi la responsabilità di organizzare un governo democratico – ed io mi auguro che questo istante venga più presto di quanto non credano molti di voi – ebbene, dimostreremo di saper fare meglio, di saper creare un governo più efficiente, più capace di prendere nelle mani e di dirigere effettivamente tutta l’amministrazione dello Stato. Ma oggi sarebbe stato assurdo che su una questione simile noi chiedessimo di aprire una crisi di governo, o ci rifiutassimo di chiudere il più rapidamente possibile una crisi non aperta da noi.
Per il resto non vedo differenze sostanziali. Che un comunista fosse prima Ministro delle finanze e un comunista sia oggi Ministro dei lavori pubblici, non è questione di sostanza. Vorrei, anzi, dire che tra la funzione di spremere il denaro ai contribuenti e quella di elargire il denaro per uso pubblico alle pubbliche amministrazioni, preferisco la seconda funzione; mi sembra sia meno antipatica. Ad ogni modo, neanche questo è un problema sostanziale. Così come per l’assistenza, una volta stabilito che i servizi assistenziali non devono essere ridotti – e su questo punto vi è una formale assicurazione del Presidente del Consiglio – stabilito questo, che esista una amministrazione centralizzata nelle mani di un Ministro o che esistano un contributo di diverse parti dell’amministrazione dello Stato e un controllo centralizzato che è in mano ad un Sottosegretario, per l’occasione comunista, diretto dal Presidente del Consiglio, è questa pure questione sulla quale si possono avere opinioni diverse, ma sulla quale nessun uomo ragionevole vorrà aprire o rifiutarsi di chiudere una crisi di governo, soprattutto, poi, quando, se si guarda agli uomini, e al peso relativo delle differenti correnti politiche nella precedente formazione governativa e in quella attuale, si trova che una differenza quasi non esiste. Anche qui, dunque, non riesco a trovare la spiegazione della crisi, né il motivo che la giustifichi.
E necessario che saliamo, o se volete, che scendiamo all’ambito della pura politica, ma anche qui non sarà facile muoversi, perché in realtà questa crisi non l’ha aperta questa Assemblea. Questa Assemblea non ha mai espresso un voto di sfiducia al precedente Governo presieduto dall’onorevole De Gasperi. La crisi è sorta al di fuori di noi. È, quindi, difficile per noi andare individuando fra le diverse interpretazioni che affiorano nei diversi organi dell’opinione pubblica, organizzata o non organizzata in partiti politici, quali sono le interpretazioni accettabili e quelle non degne di essere accettate.
Si è detto: la crisi sarebbe stata fatta, – e qui questa opinione è stata ripetuta – per tentar di escludere dalla direzione politica del Paese gli uomini del Partito comunista. In realtà, questa rivendicazione fu in modo chiaro, preciso, netto, ultimativo vorrei dire, quantunque il termine mi pare non si adatti a questo caso, presentata solo dai liberali, in qualche risoluzione o articolo dei loro giornali. Ed effettivamente esagererei se dicessi che quelle manifestazioni letterarie, chiamiamole così, del Partito liberale avessero preoccupato il nostro partito. E questo per due motivi. Il primo è che esse avevano luogo in un momento in cui per cento e più ragioni avevamo diritto di credere che l’opinione del Paese democraticamente espressa non si orientava contro di noi, ma a nostro favore. Cento e più ragioni, ho detto, e ve ne citerò una sola: il risultato delle elezioni del 10 novembre, le quali dettero smaglianti vittorie al nostro partito in tutti i grandi centri capoluoghi di Regione e di Provincia, che misero alla testa delle amministrazioni comunali delle più importanti città d’Italia maggioranze di comunisti alleati con i socialisti e sindaci comunisti, e li misero alla testa di queste amministrazioni in modo perfettamente legale e democratico.
Non abbiamo conquistato nessun Comune, signori della destra, come fecero i vostri predecessori, cacciandone le amministrazioni socialiste e comuniste nel periodo dal 1920 al 1923, con latte di benzina e dando l’assalto ai palazzi comunali. (Applausi a sinistra – Rumori a destra).
PATRICOLO. Quelli erano i vostri predecessori!
(Rumori a sinistra – Interruzioni).
BENEDETTINI. Misurate le parole. Le provocazioni non vengono da questo settore.
TOGLIATTI. Questo era il primo motivo pel quale non avevamo ragione per esageratamente preoccuparci delle manifestazioni del Partito liberale. Il secondo motivo era anche quello – e sia detto senza mancare di rispetto a questo partito – che esso sta diventando qualche cosa, che ha più del folcloristico che non della forza effettiva, reale.
Soltanto da questa parte venne la rivendicazione aperta ed esplicita di escludere noi dalla direzione politica del Paese. Non venne dall’onorevole De Gasperi. Devo dire che nel primo colloquio che, incaricato dal mio partito, io ebbi con l’onorevole De Gasperi chiamato dal Capo del Governo a preparare la costituzione del nuovo governo, l’onorevole De Gasperi, apertamente, sinceramente mi disse che non era in lui nessuna di queste intenzioni. Comprenderete che sarebbe stato non soltanto scortese, ma anche poco politico da parte mia non prestargli fede, e voglio aggiungere che ho già dato tanti di quei dispiaceri all’onorevole De Gasperi…
Una voce. Grattacapi!…
TOGLIATTI. …grattacapi, se volete, che in quel momento ritenni sarebbe stato anche inopportuno ricordargli, e ricordargli proprio in quel momento, la favola, che voi tutti conoscete, della volpe e dell’uva. Forse, se volete, possiamo ricordargliela qui ora, e non a scopo di scherzo, intendiamoci, ma per indicare che qualche cosa effettivamente di serio è avvenuto nella vita politica italiana nel corso degli ultimi mesi: un movimento, o un tentativo di movimento, il quale non è riuscito ad arrivare a una conclusione. Infatti, in un momento determinato abbiamo visto il partito della Democrazia Cristiana, col quale noi collaboravamo nel Governo, mettersi alla testa, oppure aderire alla cosiddetta campagna anticomunista, e sviluppare questa campagna, come essa può essere sviluppata, direi quasi senza misurare i colpi. Dopo che, a partire dal discorso nella Basilica di Massenzio fino al mese di gennaio, questa campagna si era così ampiamente sviluppata, era logico che l’opinione pubblica si attendesse che una conclusione politica venisse ricavata da tutto ciò che era stato detto e stampato. Questa conclusione politica invece non è stata ricavata; forse non ha potuto essere ricavata; forse non può essere ricavata. Nel momento cioè in cui l’azione avrebbe dovuto concludersi, il movimento si è arrestato, la velleità non ha potuto diventare volontà, il proposito non ha potuto tradursi in fatto politico.
E qui siamo arrivati veramente al nocciolo della questione; siamo arrivati a definire questa crisi, non come una crisi di questa Assemblea, forse nemmeno come una crisi di quella formazione governativa che prima esisteva e oggi si riproduce su quei banchi, ma una crisi vera e propria soltanto del partito della Democrazia cristiana, crisi delle sue contradizioni, dei suoi dubbi, delle sue incertezze, dei suoi casi di coscienza, e se permettete, anche dell’incapacità di questo partito di afferrare quali sono i termini veri del problema politico italiano di oggi, di afferarli con spirito di realtà e condurre una azione conseguente con le necessità della situazione, dando una soluzione giusta, democratica, repubblicana, coerente con se stessa, al problema che sta davanti a voi, davanti a noi, davanti all’Assemblea e davanti a tutto il Paese, che è quello di dare al Paese una direzione la quale corrisponda alla volontà della maggioranza.
E qui sono arrivato non soltanto al nocciolo della crisi, ma al nocciolo di tutta la situazione italiana, delle sue incertezze, della sua instabilità e anche dei suoi pericoli.
Che cosa è, parlamentarmente, una crisi di governo? Mi pare che essa non sia altro che la ricerca di una maggioranza. Ora, in un’Assemblea come questa, dove siedono 557 deputati divisi in un numero considerevole di partiti, è evidente che le maggioranze possono essere molte: vi può essere una maggioranza di sinistra e del centro, del centro e della destra, ed anche altre ipotesi possono essere fatte, anche altre combinazioni sono possibili. Badate, però, se in astratto tutte le maggioranze sono possibili in un’Assemblea come questa, in realtà esiste una sola maggioranza, la quale sia una maggioranza democratica. È democratica soltanto quella maggioranza che corrisponde alla maggioranza che esiste nel Paese, a quel blocco di forze, unite intorno a comuni aspirazioni e rivendicazioni, a comune necessità politiche ed economiche, che esiste nella realtà della nostra vita nazionale di oggi. Soltanto la maggioranza che corrisponde a questo blocco è una maggioranza democratica, una maggioranza legittima e, oltre che possibile, vitale e direi necessaria.
L’amico onorevole Molè parlava della unione degli affini. Questa è l’unione degli affini, quella che io chiamo la maggioranza democratica. Ma chi sono gli affini? Questo è il problema. Il problema è di scoprire chi sono gli affini. Ma, a questo scopo credo sia necessario e sufficiente guardare come si sono schierate le masse elettorali quando esse si sono pronunciate, cioè come si è espressa liberamente la volontà popolare. Ebbene, voi, colleghi del partito della Democrazia cristiana, avete fatto la campagna elettorale, sì, combattendo contro di noi, però, in pari tempo, avete fatto la campagna elettorale con alcune parole d’ordine che io ricordo molto bene e che ricordiamo tutti noi. Voi avete detto, approssimativamente: «Il vecchio ordinamento sociale capitalista è morto»; avete detto: «Bisogna creare un ordinamento sociale nuovo, un ordinamento politico ed economico, il quale tenga conto essenzialmente e in prima linea degli interessi del lavoro e delle masse lavoratrici»; avete detto: «Bisogna svecchiare l’Italia, bisogna distruggere i residui feudali, i residui di vecchi regimi, i residui fascisti»; avete detto: «Bisogna distruggere le possibilità di una rinascita del fascismo e per questo occorre organizzare in modo nuovo tutta la vita nazionale». Avete parlato, come noi, di nazionalizzazione; avete parlato, come noi, di riforma agraria; avete parlato, come noi, di leggi contro la speculazione e degli interessi delle masse consumatrici; avete detto, come noi, che bisogna spezzare la dittatura della ricchezza; avete parlato come noi, di libertà, di pace, di giustizia sociale.
Una voce al centro. Siete voi che avete parlato come noi!
TOGLIATTI. Questo avete detto voi, questo abbiamo detto noi, questo hanno detto i nostri compagni socialisti, del partito che ci è alleato e della nuova tendenza attualmente delineatasi e distaccatasi. Ecco, quindi, l’affinità, ecco gli affini ed ecco la maggioranza che si è determinata prima che in questa Assemblea, negli schieramenti del Paese; la maggioranza, che ha dato, credo, più di 15-16 o 17 milioni di voti a tre grandi partiti, i quali, quando hanno affrontato, non la polemica reciproca (la quale è sempre elemento necessario della lotta elettorale), ma i problemi di fondo, hanno sentito che di fronte alle masse, parlavano un linguaggio non sostanzialmente diverso.
E allora queste cose, che noi abbiamo dette, che i socialisti hanno dette e che voi, democristiani, avete dette, si tratta di realizzarle. Lo faremo? Lo farete? Daremo, ciascuno di noi, nell’ambito e nella misura delle nostre forze, il contributo che dobbiamo dare, voi, come partito oggi più numeroso e, quindi, legittimamente dirigente, noi, con l’apporto delle forze nostre ed i socialisti con l’apporto delle loro, daremo il contributo che è necessario, affinché un programma concreto rispondente a quelle affermazioni generali sia realizzato, daremo tutti questo contributo, lavoreremo alla realizzazione di questo programma? Allora non vi sarà crisi né in questa Assemblea, né nel Governo, né nel Paese.
Ma se non lo faremo, e se, particolarmente, voi verrete meno al compito che vi spetta, come il partito più numeroso e più forte, di dirigere l’azione di governo necessaria per la realizzazione di questo programma, allora sarete in permanente crisi voi, sarà in permanente crisi questa Assemblea, sarà in permanente crisi il Governo, sarà in permanente crisi il nostro Paese, e sarà inutile gridare che tutto questo sia conseguenza di un nostro preteso doppio giuoco, perché sarà invece unicamente la conseguenza del fatto che sarà stato reso impossibile a quella maggioranza, che nel Paese esiste, di governare o di vedere governato il Paese, a seconda della propria volontà e delle proprie aspirazioni democraticamente espresse.
Se poi cercherete di escludere noi dalla direzione politica del Paese – a parte che io credo che non ci riuscirete – farete opera antidemocratica, perché contribuirete a spezzare quella maggioranza democratica, la quale è la sola maggioranza legittima, che esista nel Paese, e possa esistere nell’Assemblea che lo rappresenta.
Onorevoli colleghi, questo, e solo questo intendevamo dire noi, quando abbiamo dichiarato nel corso della crisi che vedevamo con ostilità la formazione d’un governo, non solo, che escludesse noi e fosse costituito d’un blocco del partito democratico cristiano con altri partiti; ma anche d’un governo costituito esclusivamente dal partito democratico cristiano; perché giudicavamo e giudichiamo che la costituzione di un simile governo sarebbe stata antidemocratica, avrebbe recato danno alla democrazia, sarebbe stato un tentativo di spezzare quel processo di organizzazione della democrazia italiana, che, invece, è in corso e che deve essere in tutti i modi facilitato sopra una base unitaria.
Questo, e solo questo vogliamo dire, quando conduciamo la nostra lotta contro il cosiddetto «anticomunismo», il quale tende precisamente a escludere da questa maggioranza, che è la sola legittima, quell’ala, che è la più energica, la più consapevole, la più democratica, l’ala di coloro che rappresentano in modo preminente la classe operaia e le classi lavoratrici ad essa più vicine.
Questo, e solo questo noi vogliamo dire quando affermiamo e ripetiamo che un governo il quale voglia essere solido non può essere altro che un governo fondato su quell’asse fondamentale del «tripartito», che noi consideriamo non come una formula aritmetica o puramente parlamentare, ma come una formula politica derivante da una situazione reale, risultante dal confluire inevitabile di forze che tendono ad obiettivi analoghi o comuni.
Per questo la situazione che sta davanti a noi è diversa sostanzialmente da quella situazione a cui si riferiva il collega Pietro Nenni ieri, alla situazione dei primi decenni di sviluppo del socialismo, quando i nostri predecessori socialisti, trovandosi a scegliere fra Giolitti e Sonnino, giustamente, si può dire, preferivano Giolitti. La differenza fra quella situazione e quella di oggi, sta nel fatto che, se è verissimo che la maggioranza giolittiana di allora era, e il partito democristiano di oggi è, un blocco di forze eterogenee; se è verissimo che una parte delle forze di destra del blocco giolittiano di allora, corrisponde alle forze di destra del blocco attuale democristiano, è vero d’altra parte che nel partito democristiano vi sono forze le quali rappresentano masse lavoratrici sostanzialmente non differenti da quelle che seguono noi e il partito socialista, e unite alle masse nostre se non da una identità completa, per lo meno da una profonda comunità di rivendicazioni, di aspirazioni, e vorrei dire anche di ideali.
Questo è il risultato, del resto, di un lungo processo storico che oggi giunge alla sua conclusione. Da una parte sono arrivati ad essere grandi partiti che si affermano come partiti dirigenti nazionali, come partiti di Governo, le forze del socialismo, noi, il Partito socialista, il nuovo Partito socialista; e dall’altra parte è arrivato a maturazione il movimento sociale cattolico, il quale esso pure ebbe nei suoi primi momenti carattere democratico e sociale – la sua denominazione stessa lo dice – anche se in determinati periodi del suo sviluppo non riuscì ad adempiere una effettiva funzione progressiva e democratica nella vita nazionale.
Le convergenze tra queste due correnti furono nel passato molteplici. Tanto il movimento sociale cristiano quanto il movimento operaio socialista rappresentarono la stessa ribellione di masse lavoratrici contro il vecchio ordinamento che potremmo chiamare, tanto per intenderci, liberale; la stessa convergenza si notò nel giudizio della guerra del 1915-1918. E vi è una inevitabile convergenza oggi. Oggi, che quel vecchio ordinamento politico è crollato sotto il peso fatale degli errori delle vecchie classi dirigenti capitalistiche, liberali, conservatrici, reazionarie, errori diventati nello sviluppo storico, i delitti del regime fascista e della monarchia che ci hanno portato alla rovina, oggi spetta alle due grandi correnti di cui parlo ricostruire, anzi creare un’Italia nuova.
Per assolvere a questo compito è indispensabile che i Partiti, i quali sono filiazione diretta di queste correnti, si uniscano e collaborino stabilmente. Ed è per questo che il tripartito non è soltanto una formula matrimoniale o parlamentare, non è una tendenza occasionale, non è, né una coabitazione forzata, né un matrimonio di convenienza: ma è un blocco di forze storicamente e politicamente determinato, di forze le quali sanno, o per lo meno devono acquistare la consapevolezza che nella situazione concreta odierna di questo Paese, e nelle circostanze che attraversiamo e che abbracciano un periodo di tempo abbastanza lungo, esse hanno un lungo tratto di strada da percorrere in comune, un compito comune non contingente, né occasionale, ma un compito storico che debbono assolvere insieme, se vogliono tener fede alla loro ispirazione originaria, allo stato d’animo, agli ideali delle masse che li seguono, se vogliono tener fede, insomma, alle loro parole e ai loro programmi.
Ed ecco, onorevoli colleghi, il tema vero di questa crisi, il tema vero delle polemiche che l’hanno preceduta, il tema vero della precedente crisi che portò alla eliminazione dal Governo del Ministro liberale Corbino. Ecco il tema vero della politica italiana. Fino a che questa esigenza di collaborazione e unità tra le forze sociali e politiche che ho indicato non verrà sodisfatta, fino a che questa convergenza ideale e politica non diventerà una realtà nell’azione di Governo, una realtà nella direzione della vita politica ed economica del Paese, fino ad allora crisi come queste potremo sempre averne.
Ma se conveniamo, e credo non si possa non convenire, sulla necessità storica e politica di questa convergenza e collaborazione, siamo ora tratti a domandarci, colleghi della Democrazia cristiana e degli altri settori, che cosa può fare ostacolo ad esse, ostacolo alla creazione di una solida unità fra partiti che hanno programmi analoghi di rinnovamento economico, politico e sociale? Forse possono fare ostacolo le divergenze ideologiche? Non credo. Se guardo intorno a me in questa Assemblea vedo tante posizioni ideologiche diverse che ne rimango sbalordito. Dall’idealismo assoluto dell’onorevole Senatore Benedetto Croce, scusate, dell’avvocato Leone, Cattani che lo ha sostituito…
Una voce. Non ancora.
TOGLIATTI …no? Me ne compiaccio; avremmo perduto troppo nel cambio (Si ride); dall’idealismo, dunque, del Senatore Croce fino al razionalismo religioso dell’onorevole Gonella; dal liberalismo puro del professore onorevole Einaudi, all’eclettismo non sempre puro del collega Meuccio Ruini (Si ride); dal repubblicanesimo conservatore dell’onorevole Conti, al mazzinianesimo progressivo dell’onorevole Pacciardi; dalla democrazia conseguente di Emilio Lussu alla nuova demagogia, non sempre conseguente, del commediografo Giannini (Si ride), le posizioni ideologiche diverse sono così numerose che, se mi pongo dal punto di vista della ideologia, vedo una quantità di fossati dividere questa Assemblea. Vogliamo noi che ognuno di questi fossati diventi una trincea dietro la quale ci dovremmo combattere? Se volessimo fare così, è certo che non riusciremmo mai a dare un contributo effettivo alla creazione di una vera, solida, seria, direzione politica, democratica e repubblicana, nel nostro Paese.
Che cosa può impedire allora la creazione di questa unità, di cui io rivendico la necessità? Motivi forse di indole religiosa? Non credo nemmeno a questo.
L’onorevole De Gasperi, durante il suo viaggio negli Stati Uniti, parlò del nostro partito come di un partito il quale rivendicherebbe la libertà di lottare contro il cristianesimo. Comprendo il lapsus (e glielo perdono, perché immagino quanto egli sia stato assediato laggiù dai giornalisti); vorrei, anzi, aggiungere che quasi me ne compiaccio, se esso significa che l’onorevole De Gasperi ha voluto rendere una piccola bugia agli americani che ce ne mandano tante attraverso le loro agenzie di stampa e i loro giornali (Si ride). Però è bene ricordare che la bugia non è democratica ed è meglio dire le cose come stanno: che noi, cioè, non rivendichiamo affatto la libertà di lottare contro il cristianesimo: noi desideriamo la pace religiosa del nostro Paese e abbiamo già dimostrato di saper dare tutti i contributi che sono necessarî, perché questa pace religiosa non venga turbata. (Commenti al centro). Qualora da tutte le parti fossero stati dati gli stessi contributi, questi problemi non ci preoccuperebbero molto.
Riconosco però che le questioni di indole religiosa possono, sì, presentare qualche difficoltà per la soluzione del problema politico generale da me posto in precedenza; possono rendere difficile la realizzazione di quell’unità che ci è necessaria.
Io ho in proposito un’esperienza: l’esperienza del lavoro della Commissione e delle Sottocommissioni per la Costituzione, dove effettivamente, quando ci mettemmo a lavorare con alcuni colleghi della Democrazia cristiana per trovare insieme formule costituzionali che esprimessero, da un lato, l’esigenza comune a noi e ai democratici cristiani di rivendicare i diritti della persona umana, e, dall’altro, l’esigenza che sentivamo altrettanto comune dell’affermazione dei nuovi diritti sociali dell’uomo e del cittadino, trovammo l’accordo senza eccessiva difficoltà. Ci accorgemmo però, ad un certo punto, che il risultato raggiunto stava per perdersi e, in gran parte, infatti, fu perduto e ciò avvenne quando urtammo contro un grave problema: quello dei rapporti tra lo Stato e la Chiesa, quando cioè venimmo a discutere della questione dei Patti del Laterano e del Concordato, cioè degli strumenti con i quali lo Stato italiano e la Chiesa cattolica hanno regolato i loro rapporti.
Ma è veramente insuperabile la difficoltà che esiste in questo campo? Io non lo credo. Ne discuteremo quando verremo a quei capitoli della nuova Costituzione italiana. Mi permettano però gli onorevoli colleghi di fare una osservazione preliminare puramente politica. Esiste per noi una difficoltà consistente nel fatto che alcune clausole del Concordato urtano contro determinate esigenze della nostra coscienza civile. Abbiamo però sentito dire che non esistono neanche in questo campo difficoltà insuperabili. Non è d’altra parte in noi nessun desiderio di distruggere i risultati, che consideriamo definitivi, dell’opera di pacificazione religiosa, la quale ha, senza dubbio, fatto grandi passi in avanti con i Patti Lateranensi. Però io vorrei dire che forse questo problema sarebbe stato già risolto, anzi eliminato, non costituirebbe cioè più un ostacolo per nessuno, se negli anni dopo la liberazione non ci fosse stato alla testa del Governo il Capo della Democrazia cristiana, ma ci fosse stato un uomo democratico senza altri aggettivi, il quale avrebbe probabilmente compreso che la democrazia italiana non ha alcun interesse a riaprire problemi che già sono stati chiusi, ed ha anzi interesse a dimostrare, direi solennemente, che essa vuole che questi problemi rimangano per sempre chiusi, affinché la pace religiosa in Italia non sia turbata. Un uomo politico che fosse stato democratico senza altri aggettivi, avrebbe forse trovato la strada per fare quello che è necessario fare e che un giorno dovremo fare. Non parlo adesso dei ritocchi che possono essere discussi, trattati, accettati o no, ma essenzialmente di cambiare la firma che è sotto quei Patti, in modo che al posto di quello che per noi italiani è qualche cosa di infamante, la firma del fascismo, ci sia invece la firma della Repubblica Italiana, della nuova democrazia italiana, la quale è capace di assumersi molto più seriamente del fascismo l’impegno di realizzare stabilmente e di difendere la pace religiosa in Italia. (Applausi a sinistra).
Ci si trova cioè davanti a una difficoltà superabile e che se avessimo avuto una diversa iniziativa politica alla testa del Governo, sarebbe forse già stata superata.
Ad ogni modo nemmeno qui, nemmeno nelle questioni di indole religiosa, trovo qualche cosa che possa fare ostacolo al raggiungimento di quella unità che noi auspichiamo come base solida, incrollabile, di un Governo democratico rinnovatore.
Vediamo. Forse possono fare ostacolo le nostre concezioni generali e in particolare la concezione che noi abbiamo o avremmo della democrazia?
Desidero discutere, pacatamente, anche di questo problema, e non in tono esclusivamente polemico, perché questo lo abbiamo già fatto cento volte, e tutto il popolo è già illuminato a questo proposito. Noi siamo fra i partiti di questa Assemblea forse il solo partito che non può rimproverarsi nessun compromesso, nessuna fornicazione di nessun genere con le correnti antidemocratiche e tiranniche che portarono il nostro Paese alla rovina. (Commenti). Parlerò però, questa volta, in senso positivo e costruttivo. A coloro che ci chiedono che cosa intendiamo per democrazia siamo disposti a dirlo sempre, affinché scompaia quell’equivoco che può rimanere quando un termine viene adoperato da due parti opposte con concezioni e significati differenti. Quando, per esempio, l’onorevole Corbino ci esalta determinati regimi che ci presenta come modelli; ebbene noi diciamo che qui vi è effettivamente un equivoco. Noi non intendiamo la democrazia come la intende l’onorevole Corbino. Per noi un regime politico e sociale in cui i mezzi di produzione e la vita economica sono soggetti alla dittatura dei grandi gruppi capitalistici, al loro potere e al loro strapotere, un regime simile non è una democrazia (Applausi a sinistra) e non lo vogliamo. Noi lottiamo e sviluppiamo tutta la nostra azione affinché la democrazia in Italia diventi qualche cosa di diverso da un regime nel quale la ricchezza, i mezzi di produzione, la vita economica, siano soggetti alla dittatura dei gruppi monopolistici del capitalismo. Ma non vi è, in questo, una differenza tra noi e voi, amici della Democrazia cristiana, se ho bene inteso il succo delle vostre dottrine.
Democrazia è un regime in cui tutte le istituzioni politiche e sociali devono avere per scopo il miglioramento sociale, morale, intellettuale e fisico della classe più numerosa e più povera della Nazione, dei lavoratori. Questo è per noi democrazia. Ma questo, se non erro, dite di volerlo anche voi.
La realtà è che noi non abbiamo ancora un regime di questo genere. Non possiamo ancora dire di avere nel nostro Paese spezzato la dittatura dei gruppi dirigenti capitalistici sopra le forze della produzione e sopra la vita economica del nostro Stato, e combattiamo perché questo avvenga, e desideriamo che le grandi masse lavoratrici si uniscano e appoggino un Governo il quale conduca una energica azione diretta a creare questo regime veramente democratico.
Ma desidero dire qualche cosa di più: anche nel campo politico c’è una differenza. Per noi non è democrazia un regime che dà la libertà ai nemici della democrazia; democrazia è un regime nel quale ai nemici della democrazia si sbarra la strada.
Una voce a destra. O con noi o contro di noi! Ma questo è totalitarismo!
TOGLIATTI. E vorrei riferirmi qui alle espressioni di un autorevole uomo politico, – naturalmente non comunista – del signor Joseph Martin, repubblicano, eletto presidente alla Camera dei rappresentanti degli Stati Uniti, il quale, nel prendere possesso della propria carica, alcune settimane or sono, pronunciava un discorso in cui è detto esattamente così: «La libertà di parola, di riunione, o quella della stampa, non devono consentire ai nemici di questo Paese, del nostro popolo, di cospirare sotto la protezione della Costituzione». Questo l’ha detto il Presidente della Camera dei rappresentanti americano.
Orbene, il nostro popolo e il nostro Paese hanno pure dei nemici e questi sono coloro che ci hanno portato alla rovina, sono il fascismo, sono la monarchia e tutti coloro i quali cercano, attraverso la loro attività aperta o clandestina…
BENEDETTINI. Questo è fascismo!
TOGLIATTI. …di riportarci per quella identica strada alle stesse conseguenze. È per questo che abbiamo appreso con animo lieto che il Governo ha messo nel suo programma una legge, non di difesa, perché la Repubblica è salda nel cuore degli italiani, ma di consolidamento del regime repubblicano. Desideriamo che sollecitamente questa promessa del Governo sia realizzata.
Quali sono dunque i motivi che potrebbero fare ostacolo alla realizzazione dell’unità di cui parlo? Forse determinate impazienze o eccessi rivoluzionari, oppure, supponiamo, esagerate esigenze provenienti da parte nostra? Bisognerà esaminare anche questo argomento, perché campagne insistenti di calunnie, di provocazioni, di diffamazione vengono condotte, su tutta la stampa cosiddetta indipendente, per suscitare la impressione che il nostro Paese sia in preda al disordine, al caos. Si parla di ondate di scioperi, e di scioperi politici che avrebbero scosso e scuoterebbero la compagine nazionale.
Ho fatto in proposito una ricerca: noi siamo il paese dove hanno luogo meno scioperi. (Commenti). Non ha avuto luogo negli ultimi anni in Italia nessuno sciopero politico.
Una voce a destra. Che cosa vuol dire?
TOGLIATTI. Vuol dire che voi mentite. Ecco tutto. Questa è la realtà. Anzi, io desidero andare più in là: siamo un Paese nel quale le organizzazioni operaie hanno firmato una tregua salariale, cioè un patto che è unico nella storia del movimento sindacale, perché è un patto nel quale non si fissa un minimo, ma un massimo di salario, cosa questa che non era mai avvenuta, perché la classe operaia ha sempre lottato per dei minimi e non ha mai accettato dei massimi.
Orbene, questo patto l’hanno accettato i nostri operai, l’hanno firmato i nostri sindacati, e l’hanno firmato senza che dall’altra parte venisse preso un impegno di osservare un massimo di prezzi.
Questo è l’assurdo della situazione economica nella quale noi viviamo: da parte delle classi lavoratrici e dei sindacati operai si danno tutti gli esempi e si compiono tutti gli atti necessari per mantenere la disciplina della produzione, l’ordine e la pace sociale, per consentire la ricostruzione, mentre dall’altra parte un pugno di speculatori economici e politici approfittano di questa situazione per cercare di scardinare le basi del regime democratico e repubblicano.
Quanto alle proposte che noi avanziamo, signori, devo ancora sentire una critica concreta a ciò che noi proponiamo da mesi e che tende a dare un primo impulso alla riorganizzazione della vita economica su basi nuove, nell’interesse prima di tutto delle masse lavoratrici più bisognose.
Non è vero che noi richiediamo nazionalizzazioni a tutto spiano: chiediamo che venga nazionalizzato, per cominciare, quello che è indispensabile nazionalizzare per risolvere problemi urgenti, inderogabili, della nostra vita economica.
Non chiediamo pianificazioni totali di tipo socialista: chiediamo soltanto che il Governo introduca elementi di pianificazione nella nostra economia necessari, se non vogliamo essere preda, tutti, dei più infami e loschi speculatori.
Guardate attorno a voi, colleghi: quasi non vi è più paese dell’Europa che oggi non lavori sulla base di piani direttivi dell’economia.
Voi che esaltate tanto l’Argentina, ebbene, anche dall’Argentina ci viene notizia che hanno impostato un piano economico per il quale si prevede la durata di tre anni.
Da noi queste cose non vengono ancora fatte; queste cose vengono dette, scritte nei programmi ministeriali; ma poi, quando si passa alla realizzazione, c’è qualcuno che ferma il braccio di chi dovrebbe realizzare questa nuova politica economica, e rimaniamo ancora nel caos, rimaniamo abbandonati agli speculatori…
Una voce a destra. Al Governo ci siete voi!
TOGLIATTI. Rimaniamo in una situazione in cui i contrasti sociali si accentuano sempre di più, i poveri diventano sempre più poveri e piccoli gruppi di ricchi diventano sempre più ricchi, e maturano pericoli per tutta la nostra compagine politica, economica, sociale.
BENEDETTI. Perché non attuate, invece di enunciare soltanto? (Interruzioni).
TOGLIATTI. Lei ha capito qualche cosa di quello che ho detto finora? Allora stia attento!
E del resto che le proposte nostre, o almeno quel nucleo di proposte nella direzione del quale noi ci muoviamo e che riassumiamo parlando della necessità di un nuovo corso di politica economica, siano la sola cosa vitale nuova che in questo campo si è affacciata in questo albore di nuova democrazia italiana, è riconosciuto anche da autorevoli fonti straniere.
Ho in mano la rivista inglese «The Economist», la quale, dopo un esame della confusione in cui vive oggi il popolo italiano, conclude:
«I dirigenti comunisti – e qui si fa il mio nome – parlano della necessità di una nuova politica economica sufficientemente moderna e tecnicamente competente, per poter tener testa a problemi quali la produttività, la politica dei prezzi e dei costi, i vantaggi e gli svantaggi competitivi dell’industria italiana con l’industria straniera. Alcuni degli uomini più giovani fra i socialisti e i comunisti accettano la necessità di un tale modo di affrontare il problema e cercano di stabilire contatti con una più ampia cerchia di uomini di buona volontà e tecnici competenti. Il loro scopo è di elaborare… un programma pratico di sviluppo economico abbastanza ampio da creare una potente coalizione di centro-sinistra, abbastanza competente per governare bene… In questo sforzo essi sperano di assicurarsi l’appoggio dell’ala sinistra della Democrazia cristiana e del piccolo, ma efficiente gruppo di uomini precedentemente uniti nel Partito d’azione. Questi inizi non sono molto più grandi del palmo di una mano, ma sono nella giusta direzione e offrono l’unica maniera democratica di avanzare verso un Governo saldo e coerente».
Naturalmente vi è qualcosa di tendenzioso in questo giudizio: non credo vi sia soltanto il palmo di una mano in una coalizione, la quale potrebbe comprendere, e senza dubbio comprenderà, tre grandi partiti, come quelli che formano la maggioranza di questa Assemblea, e sarebbe appoggiata da una forza come sono i Sindacati italiani, forza nuova, in sviluppo, piena di slancio, piena di entusiasmo, di capacità di autodisciplina e di capacità costruttive. Questo è molto più del palmo di una mano: questa è la maggioranza del popolo italiano. Ma occorre che questa maggioranza si senta rappresentata al Governo, e abbia un Governo il quale effettivamente la diriga secondo la sua volontà.
Ma forse gli ostacoli, o i dubbi, o gli inconvenienti alla realizzazione della politica che noi ci auguriamo verrebbero dal fatto che una formazione di tre partiti, come si usa dire, significherebbe dispregio per quelle formazioni democratiche intermedie che seggono sui banchi del centro sinistro? Nemmeno questo io credo. Anzi, ritengo che l’unità che noi auspichiamo è la premessa necessaria, indispensabile, per una collaborazione con questi gruppi; e che la collaborazione di questi gruppi è indispensabile per lo sviluppo stesso di questa unità.
Onorevole Molè, interrompendola ieri io le ho detto: «Ma voi siete soli dieci; i democratici cristiani sono duecento». Non vi era nessuna tinta di dispregio in questa mia osservazione, ma una constatazione di fatto; constatazione che era accompagnata in me, direi, da un certo senso di amarezza. Abbiamo effettivamente visto con amarezza sbriciolarsi alcune di quelle formazioni democratiche di sinistra, dal cui sviluppo aspettavamo qualche cosa, e lo aspettiamo ancora. Ma per questo dovete unirvi; dovete essere uniti; non dovete essere tanti gruppi quanti sono tra di voi – e sono molti – gli uomini che hanno capacità direttive; né dovete credere che serva in questo momento il giuoco dell’opposizione, la critica unicamente distruttiva, onorevole Pacciardi. No! Le vostre masse, le masse repubblicane, che sono anche per la maggioranza masse di lavoratori, come sono le nostre, come sono quelle democratiche cristiane in gran parte, come sono quelle socialiste, chiedono un’attività costruttiva. La vostra critica è bene risuoni qui; ma molto meglio sarebbe se voi foste con noi ai seggi governativi, alla testa dell’amministrazione dello Stato, per dare il vostro contributo al rinnovamento, alla ricostruzione del Paese. Lo so benissimo, alle volte anche noi abbiamo sentito il disagio di sedere al Governo – perdoni, onorevole De Gasperi! – insieme al partito democratico cristiano, per l’eccessiva presunzione delle sue forze che ha questo partito, la quale molte volte lo porta a prendere atteggiamenti non desiderabili dai propri alleati e collaboratori. Però, questo è uno di quei mali necessari, è un inconveniente, e citare un inconveniente non è ribattere un argomento. Occorre collaborare; occorre unire le forze vostre alle nostre, a quelle socialiste, alle forze progressive della Democrazia cristiana, per creare una grande unità di forze democratiche progressive repubblicane, la quale abbia la capacità di saldamente reggere le sorti del Paese e guidarlo nella sua rinascita.
BENEDETTINI. Il popolo è stufo del Comunismo! (Interruzioni – Rumori a sinistra).
TOGLIATTI. Il popolo è così stufo del Comunismo, che ha nominato sindaco di Torino un qualunquista, di Milano un liberale, di Genova un altro qualunquista, come di Bologna, di Firenze, di Livorno, di Pisa e potrei continuare per un quarto d’ora. (Applausi a sinistra).
PATRICOLO. Ci rivedremo alle prossime elezioni!
PATRISSI. Le elezioni le avete fatte col Governo nelle vostre mani.
TOGLIATTI. Onorevoli colleghi, non desidero tediarvi più a lungo. Desidero concludere. E la mia conclusione è questa: se questa necessità di unità e di rinnovamento è nelle cose ed è nell’orientamento della maggioranza del popolo, se non riusciamo a trovare argomenti che ne infirmino la necessità o mettono in dubbio la possibilità della sua realizzazione, perché non riusciamo a lavorare su questa base?
Per due motivi: da un lato vi è una resistenza crescente delle vecchie classi dirigenti, responsabili del crollo e del fallimento del Paese, una resistenza di interessi egoistici, saldamente costituiti e solidamente difesi; dall’altro lato, mi pare sia mancata alla testa della direzione politica del Paese quell’energia che deve esserci in un Governo democratico e repubblicano. Da questo derivano le cose che non vanno, e che sono molte; da questo deriva il fatto che noi segniamo il passo in molti campi, e della politica e della economia; da questo deriva il malcontento di vasti strati delle classi lavoratrici e del popolo in generale.
Un Governo democratico e repubblicano, il quale ha in questa Assemblea e sa di avere nel Paese una base così solida e sicura, deve agire con energia, deve sentire che sedere oggi al Governo vuol dire sedere ad un posto di combattimento per dirigere la grande battaglia di tutto il popolo per la risoluzione dei problemi che stanno davanti ad esso, per un rinnovamento profondo della nostra vita nazionale.
Ecco ciò che è mancato alla direzione del Governo: quella attività, quella energia, quello spirito di iniziativa, che partendo dalla sommità dovrebbero diffondersi in tutte le nostre amministrazioni, mobilitando gli incerti, rianimando gli sbandati, coloro che non hanno fede, dando fede a coloro che stanno perdendola, facendo vedere che le difficoltà sono molte, ma che siamo in grado di superarle.
E la nostra democrazia allora si svilupperebbe, gli elementi infidi verrebbero isolati, eliminati, senza che ciò significhi aprire persecuzioni che noi non desideriamo.
Il nostro esercito dovrebbe rinnovarsi. Mi permetta però, onorevole Gasparotto, una osservazione, e me la permetta l’onorevole Pacciardi, il quale ha parlato delle difficoltà di rendere repubblicani gli uffici adiacenti a quello del Ministro della guerra repubblicano e ci ha detto che tutti i generali sono monarchici.
Ebbene, io rispetto i generali monarchici che giurano fede alla Repubblica, sperando che d’ora in poi saranno repubblicani. Ma io desidero ricordare una cosa: e i nostri partigiani? Non hanno essi esperienza? Non sono essi capaci di coprire posti di responsabilità nell’organizzazione del nostro esercito? (Rumori). Questi uomini sono i soli che hanno vinto battaglie per l’Italia! Gli altri le hanno perdute! (Applausi a sinistra – Rumori a destra – Commenti).
Oggi si tratta di riorganizzare l’esercito, di rianimare i quadri e le masse di uomini che affluiscono alle nostre caserme, che cercano l’istruzione militare e anche l’istruzione politica e civile che l’esercito può e deve dare. Ebbene, i capi partigiani sono qualificati per questo compito, sono anzi i più qualificati in Italia per portare uno spirito nuovo nel nostro esercito. Perché non si aprono loro le porte dei gradi anche superiori delle gerarchie militari? Fino a che non lo faremo, vuol dire che una volontà decisa di rinnovare l’esercito non l’abbiamo. (Applausi a sinistra – Proteste, commenti a destra).
BENEDETTINI. Altro che milizia fascista! Vi farebbe comodo mettere al posto di ufficiali gente che non ha nessuna preparazione.
PRESIDENTE. La prego di non interrompere.
PATRISSI. Le interruzioni vengono anche dall’altra parte.
RODI. Onorevole Togliatti, permette una parola? Nella mia qualità di invalido di guerra esigo che si dia atto che abbiamo vinto le battaglie anche nelle formazioni regolari dell’esercito italiano.
PRESIDENTE. Onorevole Rodi, le ricordo che per chiedere la parola deve rivolgersi al Presidente dell’Assemblea e non a colui che sta svolgendo il proprio discorso.
RODI. Io ho parlato da invalido di guerra che ha combattuto nelle formazioni regolari.
TOGLIATTI. Io rendo omaggio a tutti coloro che hanno combattuto, ma qui si parla di riorganizzazione e rinnovamento dei quadri, ed allora io dico: largo anche a coloro che hanno dimostrato nei combattimenti di saper tener fede sempre alla causa della patria, alla causa della libertà e della democrazia.
RODI. Ci voleva però quell’«anche».
Una voce a sinistra. Ma dove eravate voi?
RODI. Noi non siamo andati all’estero.
SERENI, Ministro dei lavori pubblici. Noi eravamo in galera!
PATRISSI. Taccia lei, che era in galera come assassino di soldati italiani!
SERENI, Ministro dei lavori pubblici. Lei è un mentitore! (Scambio di invettive fra l’onorevole Sereni e l’onorevole Patrissi – Rumori – Vivaci proteste – Agitazione).
PRESIDENTE. Onorevoli colleghi, non mi spiego questa improvvisa eccitazione. Gli iscritti a parlare potranno esprimere le loro opinioni anche su questo problema. Non è con queste interruzioni che essi possono difendere la loro causa. Onorevole Togliatti, continui pure.
TOGLIATTI. Onorevoli colleghi, io non desidero addentrarmi più oltre in questioni particolari, anche perché mi accorgo che se lo facessi forse ripeterei cose già dette, e ben dette, da altri colleghi, forse ripeterei cose già dette da me stesso in altra occasione. Ma è quest’ultima considerazione che mi richiama ad un ultimo avvertimento. I problemi che devono essere risolti, che il Governo a grandi linee ha individuato nel suo programma che noi lo stiamo aiutando a rendere anche più concreto e preciso, non possono nella loro soluzione essere ancora rinviati. Non possiamo troppo a lungo segnare il passo. Non possiamo, noi che per un anno e mezzo siamo stati paralizzati dalla situazione interna ed internazionale creatasi per l’Italia e non abbiamo quindi potuto compiere una rapida azione rinnovatrice, come sarebbe stato necessario, subito dopo la liberazione; noi che abbiamo atteso la Costituente e promessa la Costituente al popolo per iniziare quest’opera di rinnovamento, non possiamo adesso rinviare oltre e dire: «Va bene, incominceremo dopo le elezioni», e dopo verranno altre elezioni e altre ancora. Quando si inizierà dunque quell’opera rinnovatrice che il popolo, la grande massa lavoratrice attende e reclama con tanta insistenza? Non si può rinviare tutto in eterno. E non si può rinviare prima di tutto per motivi politici, perché, badate, di ogni nostra esitazione, di ogni nostra tendenza a segnare il passo quando invece bisognerebbe marciare spediti in avanti, vi è chi approfitta: sono forze che si organizzano apertamente o non apertamente, gruppi clandestini celati dietro i loro paraventi legali, giornali che pullulano e nei quali vediamo sfacciatamente fare l’apologia del fascismo, causa della rovina del nostro Paese.
È necessario agire in questa direzione e non divergere l’attenzione pubblica o creare diversivi evocando i fantasmi del banditismo rosso dell’Emilia, che non esiste (Interruzioni – Commenti), non stimolare le tendenze di gruppi reazionari della magistratura o di altre parti dell’Amministrazione dello Stato a fare il processo a quelli che hanno liberato l’Italia, ai nostri partigiani, mentre non si è fatto ancora il processo a Graziani, traditore e criminale di guerra numero uno. Occorre, insomma, nel campo politico una energia in chi dirige il Governo, e occorre anche nel campo economico perché anche qui noi sentiamo che i vecchi gruppi capitalistici reazionari, i quali una volta già hanno dato l’Italia in preda al fascismo, perché il fascismo soddisfaceva tutti i loro interessi e difendeva tutti i loro privilegi, si preparano a dare un’altra battaglia di quel genere.
Non dobbiamo perdere tempo, ed è compito del Governo, affinché non si perda tempo, organizzare, dirigere, trascinare dietro a sé tutte quelle forze, e sono la grande maggioranza del popolo italiano, le quali vogliono e chiedono che un’azione democratica, repubblicana, rinnovatrice finalmente venga impostata, sviluppata, condotta con decisione, fino a ottenere dei risultati, e sono disposte ad appoggiare quest’azione a fondo, a fare tutto il possibile affinché abbia successo.
E ho terminato. Non ho detto nessuna parola sui problemi della politica estera e in particolare sull’avvenuta firma, da parte di un nostro plenipotenziario, del Trattato di pace. L’ho fatto perché ritengo che questo non è il momento per una discussione di politica estera.
Nel corso delle trattative per la formazione del Governo l’onorevole De Gasperi francamente ci disse: «Ritengo sia giunto il momento di assumersi questa responsabilità. Entrate voi nel Governo che si assume questa responsabilità?» Abbiamo risposto: «Sì». Condividiamo, quindi, questa responsabilità. Comprendiamo la firma, – come ha detto l’onorevole De Gasperi – come un atto di politica estera, di cui possono valutare il peso, il valore, le conseguenze, forse meglio di noi, coloro i quali conoscono tutti i particolari dell’azione diplomatica che si sta svolgendo.
La discussione generale sulla politica estera del nostro Paese e quindi anche sul Trattato la faremo a suo tempo. Riserviamo per quel momento di esporre le nostre opinioni sul Trattato.
Il Trattato è quello che è. Voi già conoscete, però, la nostra convinzione, che avrebbe potuto essere migliore, se fossimo riusciti, durante gli ultimi due anni (dal marzo 1944, cioè da quando esiste un Governo italiano di tipo democratico) a condurre una politica estera più chiaroveggente, più aderente alle necessità nazionali e alla realtà della situazione nazionale e internazionale.
Questa è la nostra posizione, della cui giustezza abbiamo cercato di dare la prova concreta e riteniamo che la prova che abbiamo dato sia riuscita convincente per una grande parte del popolo.
Ad ogni modo, noi ci sentiamo amareggiati per il contenuto del Trattato, non demoralizzati.
Non condividiamo, d’altra parte, quel genere di sentimenti, che alle volte sentiamo esprimere, se non in questa Assemblea, in una parte della stampa, e in cui affiorano le nostalgie d’un passato, che, invece, vogliamo sia sepolto per sempre.
Non ci sentiamo demoralizzati, perché sappiamo cosa è stato quel passato e come esso non poteva non pesare sulle sorti del nostro disgraziato Paese.
E non ci sentiamo demoralizzati anche per altro motivo; perché, quando ci ricordiamo degli ultimi due, tre anni della nostra vita, della nostra storia, non troviamo motivo di demoralizzazione in quanto notiamo, pure tra le difficoltà, una marcia ascendente.
Ricordiamo l’agosto 1943, quando fu lanciata la parola d’ordine «la guerra continua» noi tremammo per il nostro Paese, perché sentimmo che quella parola d’ordine significava per l’Italia il pericolo di essere fatta a pezzi per tutto un periodo della sua storia. Ricordiamo l’ottobre del 1943 e l’ansia con cui attendemmo allora la prima decisione delle grandi potenze circa l’Italia, e la gioia profonda, con la quale salutammo quella decisione, perché vedemmo in essa almeno un primo inizio di garanzia che il nostro Paese non sarebbe stato fatto a pezzi, che la possibilità di difendere la sua unità e la sua indipendenza esisteva. E allora dicemmo – e in questo fu tutta la nostra politica dal 1944 in poi – uniamoci, uniamoci per sfruttare a fondo questa possibilità, creiamo un Governo democratico che ci consenta, unendoci nella guerra alle altre forze democratiche d’Europa e del mondo, di migliorare al massimo le sorti della nostra Patria.
È stato utilizzato il contributo che il popolo italiano ha dato alla guerra per la sua liberazione e contro il fascismo? È stato valorizzato come doveva? Lo sforzo del popolo italiano si è tradotto in una politica abbastanza intelligente e capace di correggere nella maggior misura possibile le conseguenze dei delitti del passato regime?
È il tema che affronteremo quando discuteremo a fondo della nostra politica estera.
Non siamo demoralizzati, perché abbiamo fiducia nella forza del nostro grande partito. Credo che fra tutti i partiti di questa Assemblea il nostro sia quello che ha meno fretta. Non abbiamo fretta, perché siamo sicuri della nostra vittoria e ne siamo sicuri tanto più perché il nostro partito è quello che si è cercato in tutti i modi di sopprimere, e che è sorto invece dalle persecuzioni e dall’oppressione col massimo delle proprie forze, col massimo delle proprie energie.
Non siamo demoralizzati, però, soprattutto perché abbiamo fiducia nel popolo italiano, nella sua energia, nella sua capacità di risollevarsi, di lavorare, di ricostruire, rinnovandolo, il proprio Paese.
Ma se non abbiamo fretta per noi, abbiamo fretta per il popolo italiano, perché vogliamo che le indicibili sofferenze di tanta parte della popolazione italiana possano terminare al più presto, che l’Italia il più presto possibile possa uscire dall’abisso in cui si trova, abisso di dolore, di umiliazione, di miseria, di ineguaglianza sociale e di oppressione.
Ma perché questo avvenga – e qui ritorno al tema del mio intervento – è necessario che la direzione politica del Paese sia quella direzione unita, energica, capace, combattiva, che corrisponda alla volontà della maggioranza del popolo; è necessario che una unità di forze democratiche repubblicane e di masse lavoratrici si realizzi, diventi il cardine, il canovaccio su cui sia tessuta tutta la nuova vita dell’Italia democratica e repubblicana.
Onorevole De Gasperi, se il suo Governo lavorerà per raggiungere questi obiettivi, avrà sempre in noi, nel nostro partito e nelle masse che lo seguono dei sinceri sostenitori e difensori. (Vivissimi applausi a sinistra – Congratulazioni).
PRESIDENTE. È iscritto a parlare l’onorevole Bordon. Ne ha facoltà.
BORDON. Onorevoli colleghi, prima di dire il mio pensiero sulle comunicazioni del Governo, desidero rilevare alcune censure che sono state rivolte alla Costituente, censure che ritengo ingiuste e infondate. Si è detto che la Costituente è apatica, remissiva, che non reagisce (qualche volta, invece, reagisce anche troppo), ma s’è dimenticato da costoro che la Costituente deriva da una legge che ha un peccato veniale. Abbiamo parlato per molte sedute di quel famoso decreto del marzo 1946, che legava le mani alla Costituente, ma si è avuto anche una altra circostanza – che non va dimenticata – cioè il risultato del 2 giugno. Ora, di fronte a questi due fatti io mi domando se la Costituente poteva fare diversamente di quanto ha fatto e se siano giuste le critiche mosse all’Assemblea. Molto più obiettivo e sereno è invece rilevare come la Costituente abbia atteso infaticabilmente al suo lavoro, ed un testo è stato presentato a voi; un testo che è un documento di nobiltà, di serenità e di saggezza.
Sulle comunicazioni del Governo avrei voluto soffermarmi a lungo, se l’ora non fosse tarda, ma sono facilitato nel mio compito dalle critiche fatte qui dall’onorevole Togliatti, critiche che non coincidono in tutto con quelle di altri onorevoli colleghi, fra cui quella nobilissima dell’onorevole Lussu.
Dice l’onorevole Togliatti, dopo aver cercato e frugato a destra e a sinistra per conoscere le cause di questa crisi, che la crisi stessa non può esser dovuta che alla necessità di una maggiore unione per realizzare il programma di tutte le forze democratiche. Dice invece, esattamente a mio avviso, l’onorevole Lussu che la crisi è stata un successo personale dell’onorevole De Gasperi, il quale della crisi si è servito per giovare al suo Partito. Se così non fosse, noi dovremmo avere un programma di Governo il quale dovrebbe rispondere agli obiettivi indicati dall’onorevole Togliatti. Ora questo programma non c’è. Basta leggere le dichiarazioni dell’onorevole De Gasperi per vedere come questo programma abbia un contenuto assolutamente generico. Da esso infatti appare come una quantità di bei problemi siano portati sul tavolo: la necessità di una maggior produzione, il sostegno all’iniziativa privata, l’elaborazione di un piano per la ricostruzione, lo sviluppo dell’economia, la collaborazione fra il capitale e il lavoro, i Consigli di gestione, il controllo del corso dei prezzi, i mezzi per contenerli o reprimerli, la composizione delle vertenze mezzadrili, la scuola, l’Università, ecc. È evidente che, se noi avessimo effettivamente un Governo che avesse allargato le sue basi per la realizzazione di un programma comune, noi avremmo dovuto avere un programma preciso, in cui venissero affrontati i problemi che non possono più essere rimandati. Il Paese ve li addita questi problemi principali e ve li addita la realtà: sono l’alimentazione, i provvedimenti finanziari, la disoccupazione. Questi tre problemi che dovrebbero essere la ragione del programma di emergenza, non sono neppure elencati. Ciò significa che sotto la crisi c’è evidentemente solo una ragione politica, che noi non possiamo approvare, e che è fonte di grande inquietudine.
Se una crisi è stata provocata senza che neppure l’Assemblea sia stata consultata, senza neppure che sia stato emesso un voto, se una crisi è avvenuta ad Assemblea chiusa e si è trascinata per ben tre settimane, in quanto è stata laboriosa, e se c’è ancora carenza di un programma, concreto, tutto ciò non può lasciar dubbi al riguardo. Ben dice l’onorevole Lussu: De Gasperi si dimostrò certamente abile, ma questo non significa che il Presidente del Consiglio si sia reso conto che il Paese in questo momento non desidera della politica, ma essenzialmente un programma in azione. Egli ha fatto della politica, e della politica a vantaggio del suo Partito, poiché si può dire tutto quel che si vuole, ma i dicasteri chiave sono nelle mani della Democrazia cristiana. E diciamo di più: abbiamo anche l’impressione che la Democrazia cristiana si sia rafforzata, approfittando della scissione del Partito socialista. La scissione incomincerebbe dunque a raccogliere questo primo frutto: un indebolimento della democrazia attraverso questa crisi.
Noi siamo preoccupati di constatare la carenza del Governo nei problemi che sono impellenti e che non si possono rimandare, primo fra tutti quello dell’alimentazione.
Manca il pane e viceversa la farina per fare i dolci c’è, e c’è anche quella per quel pane che va sulle mense dei ricchi. Lo zucchero c’è, ma alla borsa nera ed è tolto alle nostre famiglie. Si potrebbe continuare, per dimostrare che non vi è una vigilanza accurata da parte degli organi del Governo.
Circa la disoccupazione, noi siamo a queste cifre iperboliche: avremo presto dai due ai tre milioni di uomini che incroceranno le braccia e per di più di disoccupati sprovvisti di qualificazione di mestiere. Come si provvederà a risolvere questo angoscioso problema?
Ancora. Abbiamo sempre atteso i provvedimenti finanziari più volte annunziati. Sono passati ormai mesi ed anni dalla liberazione. All’onorevole Scoccimarro rendiamo omaggio per quanto ha fatto, ma certo è che questi provvedimenti finanziari non sono venuti alla luce, benché ripetutamente invocati dal Paese. Il provvedimento di cui si sentiva maggiormente il bisogno è quello che riguarda i profitti di guerra di regime. Anziché cercare di procurare allo Stato i mezzi finanziari con la avocazione di tali profitti, questi mezzi sono stati ricercati solo attraverso due prestiti, cosicché questi due prestiti sono i soli provvedimenti finanziari che abbiamo avuto in due anni, fiancheggiati contemporaneamente da uno stillicidio di imposte, specie di consumo, che hanno avuto il risultato di aumentare il costo della vita.
Onorevoli colleghi, se questo è, non possiamo dichiararci sodisfatti di un Governo il quale non soltanto espone programmi generici considerandoli quasi alla stregua di formalità parlamentari, ma che neppure è in grado di attuare.
Vi è un’altra fonte di inquietudine. L’articolo 3 del decreto 16 marzo 1946 dice testualmente nel suo primo comma: «Durante il periodo della Costituente e sino alla convocazione del Parlamento a norma della nuova Costituzione, il potere esecutivo resta delegato, salva la materia costituzionale, al Governo, ad eccezione delle leggi elettorali e delle leggi di approvazione dei trattati internazionali, le quali saranno deliberate dalla Assemblea».
Dunque, in base a questo articolo che cosa avrebbe dovuto fare l’Assemblea? Essa avrebbe due obiettivi soltanto: approvazione dei trattati internazionali e legge elettorale. Niente altro (tanto che si dovette provvedere a riparare, come ognuno ricorda, a tale lacuna).
Di fronte a questi due obiettivi noi diciamo: signori del Governo, non è giusto che voi defraudiate l’Assemblea del diritto che le compete per l’approvazione del Trattato. Io non intendo anticipare un giudizio di merito su di esso, ma dico che non è giusto che, avendo voi l’obbligo di portare questo Trattato all’Assemblea, possiate colla procedura adottata sottrarci questo diritto. Non è giusto neppure che voi diciate che nulla è pregiudicato da tale procedura, perché la vostra tesi non regge in base alle vostre stesse parole. Voi avete detto: il Ministero ha fatto un’inchiesta: è risultato che due almeno dei quattro Grandi sono per la ratifica. E se di questo avviso non fossero gli altri due? Evidentemente la ratifica da parte nostra non sarebbe necessaria e non avrebbe nessun effetto.
Non solo, ma l’articolo 90 del Trattato recita: «Il presente Trattato dovrà essere ratificato dalle Potenze alleate associate. Esso entrerà in vigore immediatamente dopo il deposito delle ratifiche da parte di tutte le Nazioni alleate».
Dunque, in base a questo articolo che cosa abbiamo? Che il Trattato può essere ratificato dall’Italia, ma indipendentemente da essa il Trattato entrerà in vigore il giorno in cui esso sarà stato ratificato dalle Potenze alleate.
In quale situazione ci troviamo noi? Se l’Italia, per ipotesi, non ratificasse in base all’articolo 90, il Trattato entrerà in vigore ugualmente.
Allora io domando all’onorevole De Gasperi: a che cosa serve questa ratifica? L’onorevole De Gasperi dice: «Essa varrà in Italia per l’Italia».
Ma evidentemente non è questo che ci interessa; non basta che la ratifica abbia solo valore per l’interno.
Si dice ancora: «Noi abbiamo firmato, ma voi dovete ratificare; voi sarete sempre padroni». Ma, stando così le cose, dato che la nostra ratifica ai sensi dell’articolo 90 non è ritenuta necessaria per l’esecuzione del Trattato, in quale situazione ci troviamo?
Ecco perché diciamo che questa non è soltanto questione di forma; ci battiamo contro una procedura illegale ingiusta che menoma la sovranità dell’Assemblea Costituente e i diritti ad essa spettanti in base all’articolo 3 del citato decreto. Per l’importanza della cosa, il Trattato doveva essere portato alla Costituente e non doveva il Governo mettere la Costituente di fronte a un fatto compiuto. Contro questa procedura noi insorgiamo e vi diciamo: «Voi dovevate passare alla Costituente questo Trattato, perché doveva avere l’approvazione dell’Assemblea e perché soltanto ad essa spettava tale diritto. Il nostro ambasciatore doveva andare a Parigi, con la delega dell’Assemblea e non prescindendo da essa».
Non possiamo non rilevare tutto il torto che si è fatto all’Assemblea da parte del Governo.
Sono dell’avviso che si debba avere della democrazia un altro concetto. Solo all’Assemblea Costituente spettava il diritto di decidere se questo Trattato doveva essere firmato o meno.
Viceversa, avendo voi già firmato, la ratifica diventerà una questione puramente accademica, poiché ci si dirà: «Va bene, voi non lo ratificate, ma noi l’abbiamo firmato».
Onorevoli signori, data l’ora tarda, non voglio indugiarmi oltre. Noi dobbiamo con amarezza chiederci quale è il nostro compito in questa Assemblea: non possiamo venire qui e prendere per buono tutto quello che ci è servito dal Governo, senza poter dire la nostra parola.
Questa non è democrazia.
Mi dispiace di usare questa parola aspra contro il Governo; ma intendiamo protestare contro questi sistemi.
DE GASPERI, Presidente del Consiglio dei Ministri. Le parole non sono aspre; ma il pensiero non è esatto. Lei lo presume, ma non è.
BORDON. È esattissimo. Voi dovete dirmi che quello che pensate in materia di ratifica non risponde al vero; allora avreste ragione; ma siccome voi stessi avete fatto delle riserve sulla nostra ratifica, e noi non sappiamo quale sarà il pensiero dei quattro e perché in base all’articolo 90 il Trattato entrerà in vigore anche senza la nostra ratifica, voi avete messo l’Assemblea nella condizione di non poter esprimere neppure il proprio pensiero.
RUSSO PEREZ. È superata questa questione.
DE GASPERI, Presidente del Consiglio dei Ministri. Non è esatto.
BORDON. Quando discuteremo, onorevole De Gasperi, il merito di questo Trattato, diremo qualche cosa di più. Noi sappiamo che il Trattato è quello che è; disgraziatamente è un trattato durissimo, un trattato che ci è stato imposto dai nostri vincitori; ma sul quale abbiamo qualche cosa da dire. È un trattato che è stato ottenuto, si dice, senza negoziazione da parte nostra: ma se è vero che non vi fu nessuna negoziazione e che esso ci venne imposto, voi foste però – se non erro – ammessi ad esprimere il vostro pensiero. Noi avremmo voluto che già fin da allora e prima di allora si fosse fatto qualche cosa; cioè che non si fosse trascurato di giuocare l’unica carta che avevamo in mano, cioè quella della guerra di liberazione.
Disgraziatamente il diritto di cobelligerante non è stato difeso adeguatamente. Voi avevate il dovere di far sentire che cosa fu per noi questa guerra di liberazione.
Non solo, ma poiché il nostro ambasciatore sarebbe andato a Parigi con un incarico di fare delle riserve, ha egli dichiarato, come avrebbe dovuto fare: «Firmo questo Trattato soltanto in quanto sia riveduto»? Evidentemente no.
RUSSO PEREZ. Proprio così.
BORDON. E allora si fanno delle riserve puramente platoniche e insufficienti anziché far valere il nostro sacrificio. Su questo bisognava puntare, questo doveva essere il nostro supremo sforzo.
DE GASPERI, Presidente del Consiglio dei Ministri. Se lo avessi scoperto prima, avrei mandato lei.
BORDON. Per questo diciamo fin da questo momento che la firma apposta dal vostro ambasciatore è nulla, perché voi non eravate autorizzato a farlo, tale diritto spettando solo a questa Assemblea.
Si dice che questo Governo ha anche il consenso e l’appoggio di questa parte; ma ciò perché essa non è seconda a nessuno nei suoi doveri verso il Paese. Il Paese è qualcosa di più e di diverso del Governo e questa è la ragione per cui, mettendo il loro interesse al disopra d’ogni cosa, ad essa tutti i partiti si fanno un dovere d’inspirare la loro opera pel bene supremo del Paese. (Applausi).
PRESIDENTE. Il seguito di questa discussione è rinviato a domani.
Interrogazioni.
PRESIDENTE. Comunico che gli onorevoli Gallo, Finocchiaro Aprile e Castrogiovanni hanno presentato la seguente interrogazione, chiedendo la risposta d’urgenza:
«Al Ministro dell’interno, per sapere quali provvedimenti intenda prendere contro l’Autorità di pubblica sicurezza, per avere eseguita una perquisizione nei locali della Sezione del M.I.S. di Caltagirone rifiutando di esibire la relativa autorizzazione del Magistrato e procedendo altresì al fermo del custode; e ciò ad evidente scopo di intimidazione».
L’onorevole Ministro dell’interno ha dichiarato che risponderà domani a questa interrogazione.
Si dia lettura delle altre interrogazioni pervenute alla Presidenza.
MOLINELLI, Segretario, legge:
«Il sottoscritto chiede d’interrogare il Ministro della difesa, per conoscere il provvedimento che intende prendere per le caserme di Diano Marina. Costruite nel 1939, occupate dalla truppa durante il periodo della guerra, dette caserme vennero poi abbandonate e si vanno gravemente deteriorando.
«La provincia di Imperia ha domandato il possesso di tali edifici per adibirli ad Ospedale psichiatrico, di cui è priva, ma non ebbe risposta.
«Ora o il Ministero della difesa intende conservare detti edifici per uso militare, e in tal caso provveda di urgenza a ripararli e rimetterli in assetto, o (com’è probabile) non debbono più servire ad uso militare, e, in questa ipotesi, voglia, per tramite della competente Amministrazione erariale, farne consegna alla Provincia di Imperia.
«Se non si adotta, senza ulteriori indugi, l’uno o l’altro di questi provvedimenti, quegli edifici, la cui costruzione costò ottanta milioni, saranno in breve ridotti a mucchi di macerie. (L’interrogante chiede la risposta scritta).
«Canepa».
«I sottoscritti chiedono d’interrogare i Ministri dei lavori pubblici e delle finanze e tesoro, per conoscere se e quali provvedimenti intendano adottare, perché alla martoriata città di Treviso siano dati alloggi per i senza tetto, tenendo presente che su 4600 fabbricati esistenti nell’anteguerra, solo 817 rimasero illesi, mentre la popolazione è salita da 55.000 a 62.000 unità; per conoscere, inoltre, se e quali somme intendano mettere a disposizione del Provveditorato alle opere pubbliche di Venezia, che quotidianamente ai molti postulanti deve ripetere che non ha fondi a disposizione, perché quasi tutto esaurito, rendendosi così preoccupante e criticissima la situazione dei 37.000 disoccupati della provincia di Treviso. (Gli interroganti chiedono la risposta scritta).
«Ferrarese, Franceschini».
PRESIDENTE. Le interrogazioni testé lette saranno iscritte all’ordine del giorno e svolte al loro turno, trasmettendosi ai Ministri competenti quelle per le quali si chiede la risposta scritta.
La seduta termina alle 20.
Ordine del giorno per la seduta di domani.
Alle ore 15:
- – Svolgimento delle seguenti interrogazioni:
Nobile. – Al Ministro della difesa. – Per sapere se non creda necessario comunicare all’Assemblea:
1°) i particolari sulle circostanze e le cause del grave disastro aviatorio che ebbe luogo il 15 febbraio al largo di Terracina;
2°) i motivi per cui per effettuare un trasporto privato era stato concesso un apparecchio militare.
Gallo (Finocchiaro Aprile, Castrogiovanni). – Al Ministro dell’interno. – Per sapere quali provvedimenti intenda prendere contro l’Autorità di pubblica sicurezza, per avere eseguita una perquisizione nei locali della Sezione del M.I.S. di Caltagirone, rifiutando di esibire la relativa autorizzazione del magistrato e procedendo altresì al fermo del custode; e ciò ad evidente scopo di intimidazione.
- – Esame del disegno di legge costituzionale d’iniziativa della Presidenza:
Proroga del termine di otto mesi previsto dall’articolo 4 del decreto legislativo 16 marzo 1946, n. 98, per la durata dell’Assemblea Costituente.
- – Seguito della discussione sulle dichiarazioni del Presidente del Consiglio dei Ministri.
- – Esame del progetto di Costituzione della Repubblica italiana.