ASSEMBLEA COSTITUENTE
CXLIV.
SEDUTA POMERIDIANA DI MARTEDÌ 10 GIUGNO 1947
PRESIDENZA DEL PRESIDENTE TERRACINI
INDICE
Commemorazione di Giacomo Matteotti:
Targetti
Canepa
Bolognesi
Merlin Umberto
Rubilli
Valiani
Molè
Colitto
Sardiello
Bergamini
De Gasperi, Presidente del Consiglio dei Ministri
Presidente
Risposte al Messaggio dell’Assemblea Costituente:
Presidente
Discussione sulle comunicazioni del Governo:
Presidente
Ruini
Foa
Presentazione di un disegno di legge:
De Gasperi, Presidente del Consiglio dei Ministri
Presidente
Gasparotto
Presentazione di una relazione:
Gronchi
Presidente
Sui lavori dell’Assemblea:
Mastino Gesumino
Presidente
Scoccimarro
Lussu
Lucifero
Mazzoni
De Gasperi, Presidente del Consiglio dei Ministri
Interrogazioni (Annunzio):
Presidente
La seduta comincia alle 16.
SCHIRATTI, Segretario, legge il processo verbale della precedente seduta pomeridiana.
(È approvato).
Commemorazione di Giacomo Matteotti.
TARGETTI. Chiedo di parlare.
PRESIDENTE. Ne ha facoltà.
TARGETTI. Onorevoli colleghi, in questi ultimi giorni, da un capo all’altro dell’Italia, dinanzi ad adunate folte, solenni, significative, anche forse ammonitrici, è stato rievocato il martirio di Giacomo Matteotti.
Oggi noi, in quest’ora, chiediamo a voi, signor Presidente, chiediamo ai colleghi tutti che ci sia consentito di ricordare Giacomo Matteotti anche in quest’Assemblea. Ricordarlo vuol dire già commemorarlo, vuol dire anche esaltarlo.
I colleghi sanno che fin dal giugno del ’45, proprio agli albori della resurrezione italiana, allora, quando appena appena il nostro disgraziato Paese era riuscito a scuotere il doppio giogo, la tirannia domestica rappresentata dal fascismo, la tirannia straniera rappresentata dal nazismo, non in quest’Aula, ma nel palazzo di Montecitorio, per iniziativa dell’onorevole Orlando, ebbe luogo una solenne commemorazione di Giacomo Matteotti, di Giovanni Amendola, di Antonio Gramsci, i tre parlamentari, che avevano pagato con la vita l’ardimento di avere condotto anche sul terreno parlamentare la grande battaglia per la libertà.
Ricordare il nostro fratello caduto, oggi, qui, in quest’ora, che fu quella della sua morte, è per noi un bisogno dell’animo; ricordarlo, qui, in quest’Aula, ricordarlo, o colleghi, proprio da questi banchi, dai quali Egli parlò in modo da segnare la propria condanna, da andare incontro al martirio, ci è sembrato doveroso e degno per questa nostra Assemblea, giacché egli cadde difendendo la libertà di parola, cadde per avere in quest’Aula parlato da uomo libero.
Egli fu il più temuto avversario, perché fu l’avversario, più implacabile e temibile, del regime, fascista. Oltre che per ragioni politiche, per ragioni di sentimento e per ragioni morali, per istinto, per la sua stessa natura. Tutto concorreva a fare del nostro Giacomo l’antitesi di quello che era il fascismo e che il fascismo voleva.
Onorevoli colleghi, noi ci troviamo qui a ricordarlo proprio nelle ore, in cui, in un giorno ormai lontano ma che nel ricordo accorato ci pare oggi, egli lasciò per l’ultima volta la sua casa, baciò per l’ultima volta la donna sua e i suoi bambini, non perché spinto da nessun particolare triste presentimento, ma perché così faceva ogni giorno, perché questo rappresentava una necessità dell’animo suo e non tornò più né alla famiglia, né al partito, né alla vita. Per la strada stavano in agguato i sicari del regime.
Egli segnò col suo sacrificio una grande pagina nella storia del nostro Parlamento.
L’uomo, che un genio del male fece arbitro dei destini d’Italia, si vantò di non avere trasformato questa nostra Aula in un bivacco per le sue camicie nere, ma egli, il Parlamento l’offese nella sua essenza, nel suo significato, nella sua missione. Riuscì a fare del Parlamento italiano uno strumento ed una maschera della sua dittatura.
Una pagina gloriosa Giacomo Matteotti segnò, col suo sacrificio, non soltanto nella storia del nostro Parlamento, ma anche in quella tanto più vasta dell’istituto parlamentare, che di pagine gloriose non è ricca. Gli usurpatori della libertà, i dittatori, trovarono in tutti i paesi, molto spesso, facile la via ad assoggettare la volontà dei Parlamenti, ai quali non chiedevano ma imponevano il consenso. Noi pensiamo quindi che debba essere, onorevoli colleghi, con un sentimento comune di gratitudine che qui si commemori la sua memoria. E a noi, a noi non resta che un privilegio; il mesto privilegio del rimpianto, del dolore fraterno. E quando parlo di noi, vi assicuro, colleghi, che è lontano dall’animo mio, dalla mia mente, il piccolo e meschino pensiero di restringere la significazione della parola, nei confini del mio partito. Quando dico che a noi resta il mesto privilegio di un particolare rimpianto e cordoglio che si sente tanto più vivo in queste ricorrenze, intendo dire, intendo riferirmi, a tutti quelli che prima di una vecchia scissione, o prima di un recente dissenso, formarono con noi l’antica famiglia socialista, sentendosi avvinti tra loro da quei legami che i dissensi posteriori non potranno mai riuscire ad infrangere: quella grande famiglia socialista di cui Giacomo Matteotti fu uno dei migliori, uno dei prediletti, uno dei beniamini, eppoi fu onore, fu vanto.
Questi sono i sentimenti che hanno ispirato il nostro intervento. E noi vorremmo, noi vogliamo sentirci sicuri che quanti sono qui, amanti della libertà, si siano compiaciuti che oggi, per la prima volta, il sacrificio di Giacomo Matteotti sia stato rievocato dinanzi ai veri, ai diretti rappresentanti della volontà popolare. Tutti, egregi colleghi, a qualsiasi partito si appartenga, si venga da una riva o dall’altra, si abbia dietro di noi delle folle o delle modeste schiere; tutti siamo qui mandati per una libera espressione di una libera volontà, ed è quindi augurale che per la prima volta dinanzi agli eletti della volontà del popolo sia rievocato ed onorato il nome dell’uomo che in difesa di questa volontà, di questa libertà, consacrò la sua opera, fece il sacrificio della sua vita. (Vivissimi, generali applausi).
CANEPA. Chiedo di parlare.
PRESIDENTE. Ne ha facoltà.
CANEPA. A nome del Gruppo parlamentare del Partito socialista dei lavoratori italiani mando un devoto saluto alla memoria di Giacomo Matteotti. I suoi principî ed i suoi metodi noi li professiamo, e sentiamo per lui come un affetto di famiglia.
Domenica scorsa tutta Italia lo ha commemorato, ed il nostro Presidente si è associato alla commemorazione con un nobile telegramma. Non è dunque più il caso di ricordare le sue mirabili virtù, non è il caso di ricordarne la ferma fede nell’ideale di giustizia e di libertà, il costante, generoso lavoro per la emancipazione dei lavoratori, gli occhi fermi in alto e il senso della realtà radicato in una vasta cultura, l’aborrimento di ogni demagogia, il saldo carattere, una intemerata vita privata.
Ma qualcuno che non l’ha conosciuto può dubitare: Nasce il mito? È un panegirico? No, o signori. Non è un mito, non è panegirico, non è agiografia. Fra tutti i ritratti tracciati di Giacomo Matteotti il più parlante è quello che ne ha fatto qui, in una di queste sale, il primo giorno che si è radunato l’Aventino, Filippo Turati. Egli, diceva, aveva uno sguardo in cui balenavano insieme a vicenda la bontà del fanciullo, la tenerezza del mistico, la volontà ferma, accigliata, dell’uomo che non piega, che esige da tutti il dovere, e prima da sé stesso. Si occupava di tutto, spronava a tutto e poiché pochi sentivano il pungolo, egli faceva tutto: lo studioso, lo scrittore, il pensatore, il preparatore di libri di maggior lena, il polemista, l’oratore, l’organizzatore.
Mito, agiografia, panegirico? No, perché queste cose che Turati ha detto poco dopo che Matteotti era morto, molte volte in altre parole le disse a me quando Matteotti era pieno di vita. Quante volte, dopo un’adunanza di Gruppo, o dopo una conversazione amichevole, quando Matteotti se ne andava, Turati, battendomi sulla spalla, diceva: «Fortuna che abbiamo lui!»
E allora l’aureola del martirio non c’era! Era realmente uomo straordinario, era degno figlio di questa «magna parens virum saturnia tellus» ed oggi potrebbe ancora essere vivo ed in età valida. Oh, potessimo averlo con noi! potesse egli lavorare alla resurrezione del nostro disgraziato Paese!
Dieci giorni prima della sua morte, il 20 maggio, da questi banchi, egli pronunziò il discorso che gli costò la vita, e, badate, non era un discorso consueto di opposizione, non era un attacco al sistema, alla violenza generica del fascismo, era una dettagliata e precisa esposizione dei mezzi con i quali il Governo fascista aveva falsato l’esito delle elezioni sostituendo schede a schede, e con ogni altra sorta di diavolerie. Aveva quindi colpito il fascismo in ciò che aveva di più detestabile, perché la frode e la calunnia dal popolo sono più detestabili della stessa violenza la quale è barbara sì, ma almeno è aperta, mentre la frode è codarda, e la frode colpiva tutto il popolo italiano e lo faceva credere, di fronte al mondo, come un popolo di pecore asservite al pastore che le conduceva al macello. Egli ha svelato l’inganno, la frode, la calunnia!
Allora il fascismo si è sentito veramente colpito, ed è per questo che il capo della masnada ne ha decretato la morte, avvenuta dieci giorni dopo al Lungotevere Arnaldo da Brescia.
Ed è, o colleghi, in questo punto dove io vi parlo adesso… (Interruzione dell’onorevole Lopardi) …sì, parlò di lì, ma in questo passaggio, quando stava uscendo, noi gli ci facemmo incontro, a stringergli la mano, a felicitarlo, ad abbracciarlo, ed egli ci disse allora col consueto suo arguto sorriso: «Sì, ma potete anche prepararmi la necrologia!». Questa è la grandezza sua. Per questo, nell’elenco purtroppo folto dei martiri che la nuova Italia deve contare, egli occupa il primo posto, perché è andato incontro alla morte sapendo di andarci e per la più nobile delle cause.
Questa è la ragione per cui il suo nome ha varcato i confini. Oggi, in tutto il mondo, il nome di Giacomo Matteotti è riconosciuto ed è ammirato come il nome di un grande martire, ed è riconosciuto ed ammirato come tale insieme al riconoscimento ed alla ammirazione del popolo italiano. Anche per questo, noi gli dobbiamo una grande, una immensa gratitudine.
E pare proprio che il destino abbia voluto marcare questo giorno 10 giugno a significare che, di delitto in delitto, si arriva poi alla catastrofe, quando un altro 10 giugno (1940) lo stesso capo della masnada che aveva ordinato l’assassinio di Giacomo Matteotti, ha scagliato l’Italia in quella guerra catastrofica che l’ha portata al punto in cui siamo ed in cui il regime fascista ha trovato la sanzione suprema.
Pensando quale onda di sangue e di dolore ha costato la riconquista della libertà è da che nobile sangue è sorta la Repubblica, onorevoli colleghi, ripromettiamo a noi stessi di fare il possibile, ognuno attraverso le proprie rispettabili ideologie, per vincere tutte le debolezze e per dedicare tutte le nostre forze all’ascensione umana, alla Patria immortale.
Questo è il mio voto, questa è la preghiera che si innalza certamente dai cuori di tutti noi, questa è la suprema aspirazione nostra. (Vivissimi, generali applausi).
BOLOGNESI. Chiedo di parlare.
PRESIDENTE. Ne ha facoltà.
BOLOGNESI. Onorevoli colleghi, oltre un mese fa questa Assemblea Costituente commemorava la morte del Capo del partito comunista italiano, Antonio Gramsci, ieri i fratelli Rosselli, oggi 10 giugno il 23° anniversario dell’assassinio del deputato socialista Giacomo Matteotti. Domani, o comunque durante il corso dell’anno, noi dovremo ricordare e commemorare altre eminenti personalità, delle quali il fascismo volle la morte, soltanto perché non abiurarono la loro fede, soltanto perché non vennero meno alla lotta contro un regime che violentemente aveva privato il Paese delle più elementari libertà, contro la folle politica del connubio agrario-capitalista che portava il Paese alla rovina.
Sono, indubbiamente, questi eroi l’avanguardia, i pionieri che tracciano ai lavoratori la strada da seguire, che indicano al popolo italiano che la via della salvezza risiede nella lotta ad oltranza contro le forze del regresso e della schiavitù.
Benché la posizione sociale di Giacomo Matteotti non fosse quella di proletario e tanto meno quella dei miseri braccianti del Polesine, egli fin da giovinetto sposa la loro causa e ben presto ne diventa il capo amato, il dirigente indiscusso. E sono migliaia e migliaia di braccianti che egli organizza nelle file del partito socialista, sono le leghe di resistenza che, sotto la sua spinta e la sua guida, sorgono in ogni paese della provincia, in difesa degli interessi dei lavoratori; è con la sua intuizione ed il suo amore verso il Polesine, infestato dalla malaria e dalle acque stagnanti, che egli anima, organizza e dirige gli scioperi dei braccianti, tesi nello sforzo di rendere produttiva quella ferace terra i cui sornioni possessori si opponevano con tutta la loro grettezza, sordi come erano ad ogni innovazione progressiva.
La parte più reazionaria della borghesia italiana, i grossi agrari del Polesine non perdonarono mai a Giacomo Matteotti, lui pure possessore di terreni, di aver risvegliato nell’animo dei lavoratori della terra la certezza che la loro emancipazione era un problema di organizzazione, di fede e di lotta.
Giacomo Matteotti alle qualità di studioso, di organizzatore, di socialista, univa quella di educatore di masse. E quando le squadracce fasciste iniziarono la loro opera di distruzione e di morte, quando le organizzazioni operaie, cooperative, camere del lavoro, circoli socialisti venivano dati alle fiamme, la sua opera di maestro educatore aveva plasmato gli umili e i timidi braccianti in giganti della fede in una società migliore, di uomini coscienti e disposti a ogni sacrificio, i cui nomi si chiamano Fei di Santa Maria Maddalena, Gherardini di Pincara, Masin di Granzette e tanti altri che i briganti fascisti trucidarono alla presenza dei familiari.
Ed in uno degli ultimi colloqui che io ebbi con lui, alla Università proletaria di Milano, ricordo l’espressione del suo dolore nello scandire i nomi dei caduti, ma nello stesso tempo i suoi gesti repentini, la parola franca e vivace, i suoi propositi per l’avvenire, lasciavano all’ascoltatore la netta impressione che Giacomo Matteotti non solo avrebbe fatto seguire alle parole l’azione, ma che questa avrebbe portata alle estreme conseguenze.
E così, come tutti gli uomini che abbracciano una fede per servirla, che non disgiungono il pensiero dall’azione, il maestro, l’educatore dell’idea socialista affrontò a viso aperto il feroce nemico, pur sapendo che la sorte sarebbe stata uguale a quella dei suoi compagni caduti.
A 23 anni di distanza dal suo assassinio, i caduti prima e dopo di lui, costituiscono il più formidabile atto di accusa contro la classe dominante del nostro Paese, la quale pur di salvare privilegi politici ed economici, al fine di impedire l’incedere delle classi lavoratrici verso la loro completa emancipazione, nel vano tentativo di far fare il cammino a ritroso alla storia di un popolo, non rifuggì dal commettere i più obbrobriosi delitti coprendosi d’infamia e d’ignominia.
Quelle forze che premeditarono, organizzarono e freddamente fecero eseguire l’assassinio di Giacomo Matteotti, oggi si ritengono ancora in diritto di organizzare e fare eseguire altri assassini (la Sicilia insegni).
Ma esse dimenticano che il sacrificio di tanti dei nostri ha fatto sì che gradatamente si è cementata e rafforzata l’unità di tutti i lavoratori, alla cui testa vi è la schiera dei nostri morti, che ci additano il cammino da percorrere.
Sono questi i sentimenti coi quali a nome del Gruppo parlamentare comunista e mio personale, sicuri interpreti del pensiero di tutti i lavoratori del Polesine, noi ci associamo alla commemorazione di Giacomo Matteotti. (Applausi).
MERLIN UMBERTO. Chiedo di parlare.
PRESIDENTE. Ne ha facoltà.
MERLIN UMBERTO. Onorevoli colleghi, il Gruppo parlamentare della Democrazia Cristiana mi affida l’alto onore di parlare all’Assemblea in questa circostanza così solenne, che vuol ricordare a noi ed a tutti gli italiani, il sacrificio generoso di un uomo, il cui nome è già salito alla storia d’Italia e del mondo.
Una unica ragione (io penso) può aver deciso il mio Gruppo a questa scelta: l’esser io nato nella stessa terra del Polesine, che gli diede i natali, per cui io porto in questa celebrazione l’omaggio rispettoso e riconoscente di tutto il mio gruppo e l’affettuoso ricordo della dolce terra natia che Egli amò profondamente ed onorò con le opere.
Giacomo Matteotti invero, nato a Fratta, fu un socialista, che visse e lottò per la redenzione dei lavoratori del suo Polesine.
Egli era buono, profondamente buono, umano e generoso, fermo nella difesa delle sue idee, ma rispettoso del pensiero altrui.
Fummo compagni di scuola, le nostre idee divergevano profondamente, eppure la nostra amicizia fu sempre profonda e sincera.
Venuto alla Camera nel 1919, egli dette subito prova del suo alto ingegno, dei suoi studi profondi, della sua vasta cultura; fu una rivelazione ed era una immancabile promessa.
Per poterlo trovare non si doveva cercarlo nei corridoi o nel salone, ma all’ultimo piano, in biblioteca, ove egli studiava sempre per perfezionare e completare la sua già vasta cultura.
La Camera ascoltava poi i suoi discorsi con quella attenzione che solo è riservata ai grandi oratori.
Per disgrazia nostra e del nostro Paese nacque il fascismo e questa dottrina funesta scelse le sue vittime proprio tra i lavoratori. Giacomo Matteotti, fu il combattente aperto e risoluto contro questa dottrina, senza attenuazioni e senza riserve.
Fu perciò che il fascismo lo ritenne come il più forte avversario, e lo volle abbattere, illudendosi di vincere con ciò la sua battaglia.
Il discorso forte e coraggioso, severo ma giusto, audace ma consapevole, che egli pronunciò in quest’Aula il 10 giugno 1924, fu l’ultima manifestazione della sua oratoria politica, ma fu anche il suo volontario sacrificio per difendere la causa sacra della comune libertà.
Egli lo sapeva; e il suo compagno di fede e maestro che lo amava come un figliolo, Filippo Turati, ci ha poi raccontato che i suoi stessi compagni gli avevano manifestato le loro ansie e i loro timori.
Ma egli parlò ugualmente, perché le elezioni del 1924 erano state una beffa atroce, da diventar tragedia e perciò meritavano di essere annullate non in parte, ma per tutto il Paese. Finito il discorso, fra le continue ed irose interruzioni dei fascisti presenti, il folle uscì nella famosa frase: «Quell’uomo non deve più circolare». E i varî Dumini non si fecero ripetere il comando due volte.
Perciò egli fu colpito; perciò egli è morto. La nuova storia d’Italia nasce dal suo sacrificio perché, dopo di esso, ogni possibilità di contatto e di collaborazione col fascismo fu rotta e il suo sangue generoso fu la barriera che divise il Paese in due campi: quello di coloro che vollero vivere da uomini liberi e quello di coloro che vollero vivere da schiavi.
I primi furono sopraffatti; non importa: il loro sacrificio fruttò egualmente. Quando essi vollero uscire da quest’Aula per salire l’Aventino, si scrisse che commettevano un errore politico. Potrà essere; ma coloro che parteciparono a quel movimento non furono mossi da calcolo politico. Essi sentirono una cosa sola, sentirono il comando morale che impediva loro di rimanere a contatto con coloro i quali erano o gli esecutori o i mandanti, o quanto meno moralmente i responsabili di aver fatto spargere il sangue generoso di Giacomo Matteotti.
La politica del resto deve fondarsi su saldi principî morali di difesa e di rispetto della persona umana. Ecco perché, colleghi, ricordando il sacrificio di luì, noi fermamente pensiamo e crediamo che l’olocausto di Giacomo Matteotti non sia stato vano, ma sia stato anzi il seme fruttuoso della lontana riscossa.
Qualunque cosa accada, il popolo italiano, dopo il duro servaggio, dopo le rovine che ha tratto con sé, ricorderà sempre quale bene prezioso sia la libertà, vero dono di Dio, profumo della vita, senza del quale la vita non merita nemmeno di essere vissuta. Noi stessi, pur divisi dalle nostre ideologie, siamo usciti migliori dalla grande bufera: più tolleranti e più buoni; e soprattutto persuasi che le lotte di partito devono trovare un limite nel rispetto del pensiero e dell’azione degli altri.
Ecco perché, onorevoli colleghi, la figura di Giacomo Matteotti grandeggia nel mondo. Il suo sangue generoso, come quello di Giovanni Amendola che venne dopo di lui, di Giovanni Minzoni, sacerdote di Cristo, che lo ha preceduto, costituisce il cemento più solido con il quale il popolo italiano sta ricostruendo, con la sua fatica e il suo lavoro, le fortune immancabili della Patria immortale. (Vivi applausi).
RUBILLI. Chiedo di parlare.
PRESIDENTE. Ne ha facoltà.
RUBILLI. Il partito liberale, per mio mezzo, si associa alla solenne commemorazione, alle nobilissime parole che da ogni parte sono state pronunziate e rivolte alla memoria di Giacomo Matteotti. Perché Giacomo Matteotti non appartiene ad un partito soltanto; appartiene a tutti i partiti, appartiene alla storia, appartiene all’umanità.
Mentre rivolgo commosso il mio pensiero alla sua memoria, io rievoco in pari tempo quei momenti – più che momenti – quegli anni tristi e dolorosi che attraversammo; e ricordo nell’epoca di Giacomo Matteotti che cosa era quest’Aula. Oggi, nella solennità di questo ambiente, noi liberamente discutiamo e pensiamo a risolvere con tutte le nostre forze, con tutta coscienza e sincerità i problemi che maggiormente interessano la Nazione. E siamo lieti che ci sia consentito l’adempimento di questo grande dovere, per tranquillità della nostra coscienza, per la garanzia dei legittimi interessi del popolo. Ma che cos’erano i tempi di Giacomo Matteotti? Qui non si viveva; qui non si aveva un momento di tregua e di respiro; qui non c’era calma per pronunciare una parola: aggressioni continue da tutte le parti; tentativi di strozzare ogni voce, la quale si levasse nel nome del popolo inneggiando alla libertà. Ed io ricordo i momenti più difficili, in cui si votavano leggi che rappresentavano l’annientamento di ogni libertà e di ogni ideale democratico; quando i deputati dell’opposizione erano costretti a rimanere qui, girando pensosi per i corridoi, per il salone, per le sale di Montecitorio, ed aspettando che si facesse l’ora in cui si chiudeva il palazzo – allora si chiudeva alla mezzanotte – per poter uscire per vie segrete e per salvarsi da eventuali aggressioni.
Io rievoco la scena che si svolse in quest’Aula, quando si ebbe la notizia dell’assassinio di Giacomo Matteotti. Rivedo Gonzales da quei banchi, nella pienezza delle sue forze, con la grande commozione dei suoi sentimenti nobilissimi e sinceri, rivolgersi al capo del Governo, che era a capo chino, e dirgli: «Dunque, si assassina per le vie d’Italia!» E un silenzio funebre, triste regnava nell’Aula. Io li ricordo quei momenti tristi e dolorosi.
Una voce. Chiesa disse: «Il Governo tace!».
RUBILLI. Ricordo anche questo. D’altronde ho di già detto che il governo taceva e vi era silenzio dovunque, allorché alla frase di Gonzales seguì quella di Chiesa: «Il Governo tace».
LOPARDI. E aggiunse: «Dunque è complice».
RUBILLI. Sì, così disse: «Il Governo tace; dunque è complice». E se non l’avesse detto, si comprendeva. Non era un delitto individuale; era un delitto politico, non c’era dubbio. Si ebbe il coraggio di dirlo, in quest’Aula, Ecco la grandezza degli uomini di quel tempo. Ma quel che si disse, si era di già intuito; era nella coscienza del popolo italiano.
E Giacomo Matteotti non venne spento soltanto per il discorso coraggioso che ebbe a pronunciare in quest’Aula. Sarebbe un errore il dirlo. Sì, quel discorso rappresentò l’occasione, forse, dell’assassinio, rappresentò la causa immediata, diciamo così; ma non per questo egli venne assassinato; Giacomo Matteotti fu ucciso perché era un uomo assai temibile.
Noi ricordiamo la sua fede, il suo carattere; ricordiamo più specialmente la sua inflessibilità che tante volte lo metteva anche contro il partito, che egli non aveva nessuna difficoltà ad osteggiare, quando era sospinto dai suoi saldi principî e dalla sua coscienza.
Era un uomo che per la sua tempra si rivelava veramente come un poderoso avversario per il fascismo; non per il discorso in sé stesso, che poteva anche passare immediatamente o essere dimenticato, ma appunto perché il discorso medesimo era uno di quei segni rivelatori che dimostravano un carattere ed una inflessibilità capaci di rappresentare un serio pericolo per il regime.
E poco dopo venne un altro episodio, ugualmente triste: l’assassinio di Giovanni Amendola, eseguito con le stesse modalità, per la stessa ragione. Perché, è vero, anche Giovanni Amendola pronunciò nel giugno o nel luglio – non ricordo bene – da questi banchi, da questi settori appunto, da questi primi posti proprio qui vicini, un discorso poderoso contro il regime; ed immediatamente dopo si sospese la seduta e ampi, larghi furono i commenti che per il salone e per i corridoi si facevano; ma più che pel discorso rimase vittima di violenta premeditata aggressione, perché era l’uomo più indicato a poter fronteggiare il fascismo, a guidare le masse, a scendere all’azione veramente efficace. Per questo, qualche mese dopo il discorso, fu assassinato Giovanni Amendola!
È desidero ricordare anche, onorevoli colleghi, che dal sangue di Matteotti, come avviene spesso dall’olocausto dei martiri, stava per derivare la salvezza della Patria nostra.
LOPARDI. Tradì la monarchia!
RUBILLI. No, fummo deboli tutti quanti! Ma lasciamo stare, non è questo il momento di fare processi politici. Colpe vi saranno state da tutte le parti, ma questo lo accerterà la storia in momenti più calmi e più sereni in cui si potrà meglio giudicare quali le colpe della monarchia, quali quelle degli altri. Lasciate che rivolgiamo commossi, in questo momento, soltanto il pensiero alla memoria di Giacomo Matteotti! (Applausi).
Solo mi è sembrato utile aggiungere e ricordare che il sacrificio della sua nobile vita poteva anche salvare la Patria dalla rovina che ne seguì. Perché, se ho rievocato tempi in cui si viveva di minacce, e di violenze, non posso fare a meno di ricordare anche l’estate del 1924, quando il popolo rimase così commosso, dall’assassinio di Giacomo Matteotti, che, se fosse stato ben guidato, senza dubbio sarebbe stato pronto ad una legittima reazione e avrebbe indiscutibilmente abbattuto il fascismo. Fu debolezza dei dirigenti di tutte le parti – lasciamo stare! – ma non colpa di popolo. Il popolo aveva aperto gli occhi, aveva capito, e il regime era completamente avvilito, consapevole della sua caduta, consapevole della sua disfatta di fronte al sentimento quasi unanime della Nazione. Basti dire che si nascondevano i distintivi, nessuno camminava più per le vie col distintivo, s’imponevano sentimenti di preoccupazione e di prudenza. Ma si ritenne a torto che il pericolo fosse svanito, non si seppe valutare l’eventuale atteggiamento degli avversari in una disperata ripresa di forze e di audacia; alla debolezza dei dirigenti si aggiunse la discordia, e dopo pochi mesi le sorti mutarono, col ritmo di più tristi vicende politiche.
Ma facciamo almeno che dalla memoria di questi grandi martiri si possano trarre voti augurali, sicuri auspici oggi per un’opera concorde la quale veramente concorra alla salvezza ed all’avvenire dell’Italia nostra. (Vivi applausi).
VALIANI. Chiedo di parlare.
PRESIDENTE. Ne ha facoltà.
VALIANI. Il movimento di Giustizia e Libertà, a nome del quale mi onoro di parlare, nella sua prima forma ancora embrionale, sorse dalla rivolta morale della parte più sensibile della giovane generazione del tempo contro il Governo tirannico che aveva fatto assassinare Giacomo Matteotti. L’antifascismo preesisteva al sacrificio di Matteotti. Discorsi politici importanti contro la dittatura furono pronunciati anche prima di quello con il quale il Segretario generale del Partito Socialista unitario aveva segnato la propria condanna a morte. Decine di militanti del movimento operaio italiano furono trucidati ancor prima del 10 giugno 1924. Ma il sangue sparso in Lungotevere Arnaldo da Brescia ebbe la virtù di formare veramente lo spartiacque, di obbligare tutti a prendere irrevocabilmente posizione.
Molti uomini della democrazia parlamentare che avevano avuto fino a quel momento un atteggiamento cauto, talvolta addirittura possibilista, dovettero schierarsi in un atteggiamento di irriducibile opposizione. Alcune migliaia di giovani repubblicani, comunisti socialisti, giellisti, libertari trassero dal martirio dì Matteotti la convinzione che fosse ormai inevitabile, indispensabile, scendere sul terreno sul quale la dittatura desiderava condurre la battaglia: il terreno della lotta armata per la libertà. Nei venti anni successivi al 10 giugno ’24 noi abbiamo condotto la lotta armata contro il fascismo, e per la maggior parte di questo periodo l’abbiamo condotta in condizioni disperate. Non l’abbiamo fatta volentieri, non l’abbiamo fatto per crudeltà; ma solo perché sapevamo che l’albero della libertà fiorisce solo dove è irrorato periodicamente dal sangue dei martiri e dei tiranni. Questa lotta iniziata nel nome di Giacomo Matteotti ha avuto la sua conclusione con l’insurrezione dell’aprile 1945.
Questa doverosa constatazione storica, non la faccio per spavalderia: ogni sentimento d’odio e di rancore esula ormai dalla nostra anima. Se Giacomo Matteotti fosse qui tra noi, egli, capo del socialismo democratico, inteso come idea di emancipazione umana, sarebbe fautore di una riconciliazione con quanti in buona fede combatterono dalla parte a noi avversa e opposta e che oggi conoscono per dura esperienza il valore della Libertà. La durissima, sanguinosa lotta che abbiamo sostenuto anche per vendicare Giacomo Matteotti, ma soprattutto per mantenere integre le sue idee, è cosa che oggi dobbiamo rievocare, perché, a due anni di distanza dal momento in cui quegli ideali parvero trionfare, rialzano la testa gli spettri della guerra, dell’oppressione, della manomissione dell’indipendenza degli individui e dei popoli inermi da parte dei potenti. A queste nuove minacce che sono nella situazione internazionale, ma che non mancano del tutto in quella interna italiana, noi opponiamo le idee di Giacomo Matteotti, il socialismo, la libertà, l’Internazionale dei lavoratori che sono sopravvissuti al fascismo e sopravviveranno anche alla più moderna politica di potenza. (Applausi).
MOLÈ. Chiedo di parlare.
PRESIDENTE. Ne ha facoltà.
MOLÈ. Non era necessario che, per commemorare Giacomo Matteotti, parlassero, in nome dei diversi partiti, tanti oratori.
La religione della libertà, santificata dal martirio, non ha partito. E quando un morto è più vivo dei vivi, e ha consegnato il suo nome alla storia ed è stato dalla morte consacrato alla immortalità; quando le vicende della sua vita sono nella coscienza, nel ricordo, nella venerazione, non solo del popolo italiano, ma di tutti i popoli civili, non è necessario aggiungere parole di celebrazione, che possono sembrare inutili, vane, e forse irrispettose.
Una sola cosa io voglio qui dire ed è qualcosa che dal passato si riverbera nell’avvenire.
Io voglio in quest’aula, da cui Egli mosse verso il sacrificio e donde originò il delitto orrendo, che commosse la coscienza civile universa, ricordare l’insegnamento che a noi viene dal martirio di Giacomo Matteotti.
Da qui, per avere Egli fatto risonare quest’Aula della sua implacabile critica, mosse verso il sacrificio; e da qui, come affermò Filippo Turati in una commemorazione, che fu la rievocazione dell’Uomo, nella interezza della Sua personalità, da qui partì il grande mandato, che fu l’invito ad uccidere un deputato, perché deputato, per fare ammutolire la sua parola fustigatrice e per impedire, con la funzione della critica, l’esercizio e la ragione stessa del mandato parlamentare.
Ecco quello che dobbiamo ricordare oggi, o signori, in quest’Aula, nel giorno anniversario della morte di Giacomo Matteotti.
La soppressione di Giacomo Matteotti fu il primo tentativo di sopprimere la tribuna parlamentare. Egli iniziò la serie gloriosa e sanguinosa dei deputati martiri, ma altri lo seguirono: Giovanni Amendola, Antonio Gramsci, che perirono in maniera meno drammatica, ma con più lenta e forse maggiore perfidia uccisi perché deputati, uccisi a causa del mandato, uccisi nell’esercizio del mandato. Così fu compiuta la soppressione del mandato parlamentare e la voce della tribuna fu soffocata.
Prendiamo insegnamento, onorevoli colleghi di tutte le parti dell’Assemblea, a qualsiasi corrente politica o ideologica apparteniamo, prendiamone insegnamento, per rinnovare la nostra fede negli istituti rappresentativi.
La tribuna parlamentare è il grande megafono, che raccoglie la voce saliente delle moltitudini e la fa arrivare ai governanti come incitamento, orientamento, monito; è il grande strumento insostituibile della sovranità popolare. Il giorno in cui la tribuna tace, è l’inizio della dittatura. Il giorno in cui la tribuna non ha voce, finiscono le correnti politiche, il movimento delle idee, l’urto dei partiti, l’attrito delle forze ideali, che illuminano la coscienza civile e indirizzano l’opera di governo. E allora la democrazia agonizza. Muore la libertà. Questo avviene quando la tribuna non ha più voce. Perché la tribuna parlamentare non avesse più voce, il fascismo assassinò Matteotti, Amendola, Gramsci. E la tribuna parlamentare tacque. E quando la tribuna parlamentare tace, il popolo diventa inerme o inerte. E quando il popolo è inerme o inerte, i dittatori ne profittano, per arrampicarsi sui cadaveri delle libertà strangolate.
Questo oggi dobbiamo ricordare. Il sangue dei martiri non fu versato invano, se noi ricordiamo che la tribuna parlamentare non si tocca, è inviolabile; se noi, traendo lezione dal passato, nel nome di questi morti insigni e degli altri oscuri ed ignoti, i partigiani senza sepolcro, i morti senza nome, i gloriosi senza gloria e senza posterità, riaffermiamo che la sovranità popolare è intangibile e che bisogna difendere ad ogni costo lo strumento insostituibile di questa sovranità.
Questo è il monito che si leva dal martirio di Giacomo Matteotti,.(Vivi applausi).
COLITTO. Chiedo di parlare.
PRESIDENTE. Ne ha facoltà.
COLITTO. Anche da questo settore, in quest’ora particolarmente delicata del nostro Paese, si leva, sottilmente velata di commozione, una parola, la mia, rievocatrice, a nome del Gruppo, della bellezza radiosa dell’anima di Giacomo Matteotti. Dinanzi alla memoria incancellabile di lui, che fu milite fedele e nobilissimo di un’idea e la vita tanto preziosa sacrificò per la libertà, noi ci inchiniamo reverenti e non esitiamo a dichiarare di sentirci migliori, perché, parlando di lui, sentiamo di attingere le vette, donde è possibile spaziarsi ad osservare l’orizzonte infinito dello spirito. Egli ha alimentato col suo sangue, goccia a goccia, la fiamma, e questa, pur fra delusioni, dolori, contrasti, ha finito col guizzare, vivida e sicura, verso il cielo. Nell’ammirare questa fiamma, estatici, perché in essa noi vediamo vibrare tutti i valori etici, che in mirabile armonia inghirlandano le anime superiori, noi traiamo da essa nuovo ideale alimento per i nostri cuori, nuovo fervido incitamento a sempre meglio operare e nuova vivida fede nel rispetto da parte di tutti della libertà, nel trionfo della democrazia, nella resurrezione della Patria. (Applausi).
SARDIELLO. Chiedo di parlare.
PRESIDENTE. Ne ha facoltà.
SARDIELLO. Reco a questa rievocazione di Giacomo Matteotti l’adesione di sentimento e di pensiero del Gruppo parlamentare repubblicano. Del Gruppo parlamentare repubblicano che, nella parola e nell’opera indimenticabili di Giacomo Matteotti, risente anche l’eco della battaglia antifascista intrapresa in quest’Aula da uno dei suoi più alti e più degni componenti di allora: da Eugenio Chiesa.
È profondamente triste, ma è grandemente ammonitore, questo tornare, di giorno in giorno, di ricordi così solenni, di date tragiche così profondamente incise nell’anima del popolo. «Sparsa è la via di tombe; ma com’ara ogni tomba si mostra: – la memoria dei morti arde e rischiara – la grande opera nostra». Morti da tutte le parti, caduti per una causa sola, grande ed eterna, per cui Giacomo Matteotti, attraverso il suo sacrificio, non è più vostro soltanto, o amici socialisti, non è nostro e non è di quella parte o di un’altra: è dell’Italia; è delle conquiste della civiltà e della libertà nel mondo. La gloria di Giacomo Matteotti viene da un anelito vivo e profondo alla libertà, ed è per questo la consacrazione di una fede, di una idealità sinceramente, chiaramente democratica; viene, attraverso il sacrificio, dal fiotto di sangue nel quale hanno cercato di soffocare la sua grande voce; ed è perciò condanna eterna, inobliabile contro la violenza quando vuole sostituirsi al libero dibattito delle idee nelle lotte civili. Per questo significato, per queste note essenziali, il sacrificio ed il ricordo di Giacomo Matteotti ammoniscono ancora, sono presenti ancora, comandano ancora – oggi forse più che ieri – richiamando tutte le libere forze della democrazia, che vogliono ogni rinnovamento nella luce della libertà e della giustizia sociale, a rivolgersi tutte, come una forza sola, ad un comune compito, sopra una stessa strada, verso un solo destino, perché l’Italia viva ancora! (Applausi).
BERGAMINI. Chiedo di parlare.
PRESIDENTE. Ne ha facoltà.
BERGAMINI. Con viva commozione ricordo la tristezza di questo giorno, 10 giugno di 23 anni fa, quando a sera tarda trapelò la prima notizia oscura su Giacomo Matteotti. La prima notizia diceva che egli non era tornato alla sua casa, ove lo aspettavano ansiosamente i suoi cari: era misteriosamente scomparso. Nei circoli giornalistici e politici vi fu un presentimento fosco, angoscioso, che, ahimè, ebbe la sua conferma. Il giorno dopo, la notizia più dolente, e temuta, fu certa e si sparse suscitando accorata impressione. Socialista devoto alla sua fede, studioso, coscienzioso, sagace ed acuto critico del bilancio dello Stato e – perché sagace e acuto – molesto al regime, che era insofferente di opposizione; un suo franco onesto severo discorso segnò la sua fine: «meritava una lezione!»
L’onorevole Canepa ha or ora rammentato alcune tragiche parole riferite dal grande maestro di Matteotti, Filippo Turati, parole che io avevo dimenticato, e che fanno sentire un brivido. Il Turati raccontava che Giacomo Matteotti agli amici festosi e congratulanti per il suo poderoso discorso, rispose stoicamente: «Grazie, ma preparate la mia necrologia».
Grande fu l’impressione che subito seguì: per l’orrendo delitto profondo il rimpianto per la nobile vittima, diffuso il senso di protesta e di rivolta della coscienza pubblica. A mano a mano che si conoscevano gli atroci particolari del delitto e mentre si cercava affannosamente, disperatamente, un cadavere che non si trovava, l’indignazione pubblica contro il regime salì a tale grado, che ad un tratto sparirono tutti i distintivi fascisti e Palazzo Chigi, sede del capo del Governo, fu disertato ed abbandonato.
Si disse allora, è vero, onorevole Rubilli, che cinquanta uomini di coraggio e di vigore avrebbero potuto rovesciare il fascismo. Non fu rovesciato, non cadde: ma il delitto di Matteotti impresse al fascismo un marchio di vituperio, indelebile: marchio che è rimasto come una colpa abominevole. «Più che un delitto – gridò al Senato Filippo Crispolti, rievocando una frase storica – più che un delitto, è stato un errore». La verità è che fu soprattutto un brutale delitto, ripugnante alla civiltà, alla umanità italiana ferita, umiliata, abbassata.
Con la commozione di quei giorni lontani ma vicini al mio spirito, anch’io saluto la memoria di Giacomo Matteotti: per impulso del mio cuore, e perché l’onorevole Targetti, che ha pronunziato un così alto e vibrante discorso, sia assicurato che in certe ore della storia, dinanzi a certi olocausti e a certe figure che si impongono per la loro grandezza, siamo tutti uniti nel culto, nella ammirazione, nell’amore. Vivrà perenne la memoria di Giacomo Matteotti nella luce del sacrificio; vivrà sempre riverita, finché siano onorati, nel nostro paese, il carattere, l’ingegno, la cultura, la devozione al proprio ideale. (Applausi).
DE GASPERI, Presidente del Consiglio dei Ministri. Chiedo di parlare.
PRESIDENTE. Ne ha facoltà.
DE GASPERI, Presidente del Consiglio dei Ministri. Il sacrificio di Matteotti fu, come ricordiamo, in un primo periodo il segnale di raccolta di tutti gli uomini che in questo atto di violenza videro un pericolo per la libertà. Parve, nel primo periodo, che portasse senz’altro al rovesciamento della dittatura e alla rivendicazione dei diritti parlamentari. Ricordiamo invece con tristezza il secondo periodo, immediatamente seguito, quando si ebbe l’impressione che per inefficienza di uomini o per brutalità di eventi la battaglia fosse perduta e che il sacrificio fosse stato vano. Ed invece no; quella che poteva apparire una sconfitta parlamentare fu nel Paese una grande scossa ed una grande riscossa morale. Rimase nella coscienza popolare il ricordo ed il senso di giustizia, e la reazione morale alimentò, provocò e promosse l’antifascismo. Creò la solidarietà nella libertà, rese possibile l’unione nella democrazia. Ecco dunque l’insegnamento: la violenza – e la dittatura è violenza – incontra sempre nella storia, presto o tardi, una nemesi. Bisogna resistere alla suggestione della violenza, bisogna resistere alle suggestioni dei mezzi rapidi e dittatoriali, anche nei momenti più critici, bisogna ricordare che la violenza, oltre che ingiusta, è anche infeconda, e che essa, alla fine, nella storia perde la partita. Ci unisca, onorevoli colleghi, tutti dell’Assemblea e del Governo, in questo omaggio a Giacomo Matteotti, il proposito di onorare in lui la libertà, l’indipendenza, la dignità della nostra Nazione. (Vivi, generali applausi).
PRESIDENTE. (Si leva in piedi, e con lui si levano in piedi i componenti del Governo, i deputati e il pubblico delle tribune). Il fascismo, fra tante eredità di miserie e di rovine, una ricchezza ci ha lasciato: di memorie tragiche, di tombe su cui raccoglierci dolorando, di martiri da onorare: nati da ogni Regione italiana, sorti da ogni ceto sociale, aderenti ad ogni fede politica che fosse appena colorita da amore di libertà e da sensi di fraterna solidarietà umana.
Ma Giacomo Matteotti, fra tanto olocausto, è stato prescelto dal popolo come simbolo di tutte le vittime che il fascismo ha sacrificato alla torbida e bestiale avventura cui, venticinque anni or sono, una turpe brama di incontrollato dominio spinse gli egoismi e i privilegi che si sentivano posti in forse dalla civile e progressiva ascesa popolare.
Ed il suo nome – dal giorno in cui, a delitto appena compiuto, fu pronunciato in quest’Aula, fatta gelida dall’orrore, dal maggiore assassino che, paventando l’ira vendicatrice, giocava la spregevole commedia dello stupore addolorato – intessé, nel lungo tempo di vita che l’insania e la pavidità concessero poi ancora alla nostra onta nazionale, da orecchio ad orecchio, da cuore a cuore, la rete fitta, tenace, indistruttibile di odio sacro e di commossa pietà che tenne unito, nell’attesa quasi fatalistica dell’espiazione e nel bisogno sempre più insofferente del riscatto, il popolo italiano.
Ma ognuno di questi morti, che di giorno in giorno, alla nostra evocazione, sorgono dalla folla delle ombre insanguinate che popoleranno per sempre nel nostro ricordo la storia dolente del ventennio, ci reca, fra l’onda di pietà, un suo particolare grande insegnamento, che sarebbe grande colpa ignorare, misconoscere.
Giacomo Matteotti è caduto, può ben dirsi, sui banchi di quest’Aula. Egli ebbe, dei compiti di un’Assemblea popolare elettiva, un concetto che parve, mentre egli vi sedeva, strano a tanti che attorno a lui presumevano di rappresentarvi tutta la saggezza dei tempi e che, in definitiva, non riuscirono, con tutta la loro furbizia, che ad umiliare le tradizioni antiche ed a tradire l’avvenire incombente. Per Giacomo Matteotti il Parlamento doveva essere, infatti, non solo fucina di leggi, ma sorgente di verità morali; non solo fondamento di governi, ma tribunale di popolo; non solo custode dei diritti acquisiti, ma preparatore consapevole della nazione ai diritti nuovi che urgono alle porte di ogni popolo civile.
Egli fu colpito perché nella sua opera quotidiana, contro ogni minaccia ed ogni lusinga, servì questa sua convinzione che rinnovava, nobilitandola, la vita politica del nostro Paese. Oggi non vi è rischio nel riprendere e realizzare il suo insegnamento. Ma se anche dovesse, per insidia o malvagità o follia di uomini e di gruppi, riaddensarsi sul nostro popolo tanta tempesta rovinosa, è da attendersi che il Parlamento italiano saprà, senza contrasti e scissioni, e manovre e calcoli interessati, rivalità, timori e viltà, stare saldo, tutto unito a difesa delle libertà popolari. Noi lo dobbiamo a noi stessi, ai cittadini che ci delegarono, noi lo dobbiamo ai morti che ricordiamo: a Giacomo Matteotti, oggi sortito dalla schiera dolente ed eroica per dare stimolo e conforto al nostro severo lavoro. (Vivissimi, generali applausi).
Risposte al Messaggio dell’Assemblea Costituente.
PRESIDENTE. Comunico che il Presidente della Grande Assemblea nazionale di Turchia ha fatto pervenire la seguente risposta al Messaggio dell’Assemblea Costituente italiana:
«I membri dell’Assemblea Nazionale hanno espresso i loro voti perché l’Italia possa riprendere prossimamente, in seno alla famiglia delle Nazioni, il posto di cui è degna e riparare, grazie alle sue alte capacità e al suo lavoro, i gravi danni da essa subìti.
«La Grande Assemblea Nazionale turca sarà felicissima di vedere la Turchia e l’Italia effettuare un’attiva cooperazione nel campo politico e in quello economico».
Anche la Commissione di politica estera del Senato brasiliano ha formulato il voto che l’Italia, consolidando le sue istituzioni democratiche e repubblicane, prenda rapidamente posto «tra quelle Nazioni che affrontano la guerra solo allorché questa diviene una misura inevitabile di difesa o per contribuire all’opera comune della conservazione della pace».
L’Assemblea Nazionale del Venezuela ha pure risposto con parole di calda simpatia al Messaggio della Costituente. (Vivissimi, generali applausi).
Discussione sulle comunicazioni del Governo.
PRESIDENTE. L’ordine del giorno reca: «Discussione sulle comunicazioni del Governo». È iscritto a parlare l’onorevole Ruini. Ne ha facoltà.
RUINI. Onorevoli colleghi, ho esitato a parlare perché io sono fuori dei gruppi politici, e sono inchiodato alla croce della Commissione per la Costituzione…
Una voce al centro. Splendente croce!
RUINI. Ho ritenuto doveroso, perché ho vissuto cinquant’anni tra le leggi e i bilanci, portare una parola chiara e concreta sopra il nucleo centrale delle comunicazioni del Presidente del Consiglio, cioè sul problema della ricostruzione economica e finanziaria del Paese. Vi sono al riguardo aspetti politici, ed i vari gruppi e tutti noi dovremo prendere un atteggiamento; ma non è male che la discussione si apra con un esame obiettivo dei problemi della ricostruzione nel loro contenuto economico e finanziario.
Ricordo come in Inghilterra si seguano le discussioni finanziarie; quando il cancelliere dello scacchiere fa la sua esposizione, Westminster è circondata dalla folla, che vuole udire e sapere. I problemi economici hanno un interesse altissimo; e – se economia e politica sono inscindibili – le risoluzioni ed i voti non possono prescindere dalle necessità tecnicamente accertate. Avviene talvolta che, da gruppi o partiti, si sorvoli sopra i programmi, e si accettino o si respingano punti o puntini, per preconcetto o senza pensarvi troppo su; bisogna invece mettere i punti sugli «i»; cercar di essere precisi, e di sostituire alle frasi correnti: antinflazionismo, difesa della lira, ecc., qualche cosa di ben determinato.
Spero di avviare la discussione per questa via. Sarò molto semplice. Ad esempio, non vi meravigliate se ridurrò le cifre ad ordini di grandezza, e le arrotonderò a centinaia di miliardi. Il popolo ha bisogno di capire e deve essere messo in grado di capire. Vedrò di esporre cose tecnicamente ineccepibili, ma comprensibili da tutti. E farò, dopo qualche cenno alle direttive generali, proposte pratiche, che si possono prestare quasi immediatamente ad una formulazione in disegni articolati di legge.
Per la ripresa economica occorrono tre cose: un programma, un governo capace di attuarlo, la fiducia all’interno ed all’estero. Questo è il filo del mio discorso.
Lo sforzo di ripresa economica è oggi più difficile e duro che quando, alla fine del 1945, liberata tutta l’Italia, si presentavano le condizioni di una vigorosa politica finanziaria d’emergenza. Ripresa della nostra produzione, verso cui si volgevano altri paesi bisognosi di merci; aiuti degli alleati per il cibo e le materie prime; flessione di prezzi e l’afflusso di merci alleate; larga disponibilità per la tesoreria di denaro, non ancora richiesto da industrie private. Si presentavano congiunture favorevoli per condurre una politica d’emergenza che avrebbe potuto, – rinforzando il gettito delle imposte ordinarie e ricorrendo alla triplice manovra del cambio della moneta, della leva sul capitale e di un prestito ponte – mettere insieme una massa di mezzi necessari (oltre cinquecento miliardi di lire) per portare ad avviamento la ricostruzione economico-finanziaria, fino al momento nel quale l’Italia, passando ad una politica di stabilizzazione, avrebbe potuto e dovuto ancorare la sua moneta ed i suoi traffici nel mercato internazionale.
Era possibile far questo. Io non ho rimorso. Ho presentate precise proposte in seno al Governo ed anche in discorsi ed articoli. Avevo costituito il Ministero ed il Comitato della Ricostruzione. Ho lasciato il Governo, quando ho visto che le mie idee non erano seguite.
L’occasione fu perduta; si contò che la situazione provvisoria d’euforia durasse all’infinito e non si fece nulla. Illusione, euforia, nullismo. Si determinò un’inversione di situazione; ed oggi che ci affacciamo a Bretton Woods e stringiamo accordi di scambio con gli altri paesi, le circostanze sono per più aspetti peggiori. Vi è maggiore incertezza, si accentuano la svalutazione della moneta e l’ascesa dei prezzi; dilagano disordinatamente le spese; vengono meno i soccorsi diretti dall’America, e dobbiamo procurarci noi il nostro pane, mentre, proprio ora, con l’aumento dei costi di produzione, si aggrava la difficoltà di esportare. Ecco le condizioni nelle quali siamo costretti a svolgere una politica tardiva d’emergenza che ci propone oggi il governo, in un momento nel quale avremmo potuto e dovuto entrare nella politica definitiva. Grave è la responsabilità dei governi passati.
Da ciò si trae un senso d’amarezza, che non deve essere però disperato sconforto. In questa materia si sente chiedere dalla gente: «Come vanno le cose? Siete ottimista o pessimista? Cosa pensate? Il malato è grave?». Come si trattasse di una diagnosi medica. È molto difficile rispondere con una frase e con un sì od un no. Mio convincimento, ad ogni modo, è che non incombe su noi un imminente pericolo di baratro, di disastro, di apocalisse finanziaria-economica, quale è temuta da alcuni. Certamente, se si ritarda ancora e si continua in una paralisi di azione, si avranno forti slittamenti; e sarà suicidio; perché il baratro si può evitare. Ma, nello stesso tempo che non bisogna essere pessimisti fino alla disperazione, si deve riconoscere che vi sono difficoltà gravissime; e pur senza che avvenga lo sfacelo, ci troveremo male. Non siamo ancora all’acme della crisi, e non possiamo guardare ad un orizzonte sempre migliore; le difficoltà si andranno accumulando sempre più; e saranno lunghe e profonde, come cercherò di dimostrare in questo mio intervento. Non si tratta di una crisi sia pur travolgente, ma rapida e transitoria. Sono le stesse basi permanenti della nostra economia che ritornano in questione, dopo che ottant’anni di risorgimento unitario le avevano assestate. È venuto il fascismo e la sua guerra, che ha disfatto quell’assetto; e dobbiamo riprendere una lenta fatica.
Senza scoramento, ma senza illusioni. Perfida è la depressione, come l’illusione, che in essa facilmente tramuta. Dobbiamo sopratutto evitare le autoillusioni, nelle quali purtroppo siamo recidivi. Non risalgo a quella iniziale della cobelligeranza, che traducemmo, col nostro desiderio, solo col nostro desiderio, in alleanza. Vi sono altri casi più recenti. Quando l’onorevole Presidente del Consiglio tornò dall’America, vi fu un’ondata di illusione; in realtà, dopo vari mesi, le promesse, del resto anteriori, del prestito da parte dell’Export-Import Bank non sono attuate. Ed ecco che, dopo la missione di Menichella in Inghilterra, si ebbero nel pubblico almeno interpretazioni eccessive, fino al rabbuffo del Cancelliere dello Scacchiere. Così pel viaggio in Argentina di Bracci, che ottenne affidamenti; ma sembrò che si fosse già fatto quanto si deve ora definire. Brutta abitudine è il credere d’avere in tasca quanto è ancora da conquistare.
Baratro no; ma aspra e dolorosa la via. Ed è urgente mettersi all’opera. Ripeto: occorre un piano, un governo capace, la cooperazione fiduciosa del Paese.
Occorre un piano. Avete paura della parola? Se volete diremo programma. Il piano per alcuni è un feticcio, per altri uno spauracchio. Non deve essere né l’uno né l’altro. Non è da attribuire virtù taumaturgica all’intervento pianificatore; né da attendere ogni salvezza dalla ricetta formale dei piani; ma è cecità respingerli con una scomunica in blocco, quando sono già in atto sotto i nostri occhi; e si tratta di farli nel modo migliore.
I piani li abbiamo già a casa nostra. Appena il Governo fu a Roma, approfittando di qualche buona intenzione dei rappresentanti americani che erano allora i nostri controllori e dirigenti in ogni atto della nostra amministrazione, riuscii ad organizzare le piccole sedute al Grand Hôtel, ove sedevano alla pari alcuni ministri e quei rappresentanti ad esaminare e decidere i nostri problemi. La prima cosa che ci chiesero fu: avete dei piani? Se ottenemmo da loro assegnazione di viveri e di merci, fu dopo che potemmo d’accordo redigere dei piani.
Non vi è all’estero Paese che non abbia dei piani. La differenza con l’Italia è che noi non abbiamo un piano unico e complessivo della nostra attività economica, e che il nostro Parlamento non se ne è mai occupato. Negli altri Paesi piani generali sono stati portati all’esame ed alla discussione del Parlamento. Cercai di provvedere in questo senso al Ministero della Ricostruzione: e sono lieto di vedere qui l’amico Del Vecchio, che avevo appunto chiamato a presiedere la Commissione del piano. Quando lo lasciai, il Ministero della ricostruzione fu soppresso, perché, mi disse cortesemente l’onorevole De Gasperi, era troppo legato alla mia persona. Ma no; era una necessità, almeno nel suo compito, ed altri poteva, meglio di me, continuare in un’azione che fu del tutto abbandonata.
Piani generalmente vi sono all’estero. Così in Francia il piano Schumann, che il Parlamento ha discusso; in Inghilterra il libro bianco Morrison (si chiama libro bianco ogni atto che si presenta al Parlamento) sulla mano d’opera e sulla ricostruzione; negli Stati Uniti d’America il messaggio presidenziale Truman, che è un piano annuale economico.
Bisognerebbe farli conoscere anche in Italia. Sono piani che non spaventerebbero. Il popolo deve avere, ancora una volta, alcuni chiarimenti elementari. Il piano di ricostruzione non va confuso con l’attuale vincolismo che ha i segni della guerra e della carestia. Non vi potrebbe essere nulla di peggio, nelle nostre prospettive di ricostruzione, che un vincolismo senza piano.
Non si può poi pensare oggi, in Italia, a piani di tipo russo; lo ha detto, con molta chiarezza, anche l’onorevole Togliatti. Vi sono piani perfettamente compatibili con l’economia di mercato, che in Inghilterra si chiamano piani guida, e non distruggono l’iniziativa privata; la presuppongono, la indirizzano, la potenziano; così noi intendiamo i piani.
Il piano generale di ricostruzione, che chiediamo al Governo, deve essere chiaro, organico, e nello stesso tempo elastico ed adattabile alla realtà. Poliennale, per raggiungere una stabile meta. Con leve multiple di azione, da manovrare nei vari campi dell’economia e della finanza, che sono inscindibili fra loro.
Anche come piano di emergenza, deve dare al paese il convincimento che si tratta di sacrifici urgenti ed indispensabili; ed insieme sufficienti a raggiungere una certa meta. Il popolo deve sapere che, dopo che li avrà sopportati, sarà sulla riva della salvezza. Qui è la base della fiducia.
Ed occorre qualcosa di più; occorre che i sacrifici siano ripartiti fra tutti i fattori della produzione: occorre un piano generale, che dia un’impressione di giustizia distributiva. Badate bene: qualunque cosa si faccia, il massimo sacrificio per la ricostruzione sarà sostenuto dagli operai e soprattutto dagli impiegati, con la sofferenza delle inadeguate retribuzioni e del troppo basso tenore di vita. Questo è il significato della tregua per i salari e per gli stipendi; questo è il contributo che le classi lavoratrici danno al grande sforzo della ricostruzione. Noi siamo abituati in Italia a dire male di noi stessi; ma se penso – e ne va riconosciuto il merito alle organizzazioni sindacali ed ai loro dirigenti – che abbiamo evitato lo sciopero dei ferrovieri, dilagante in Francia, e che proprio il giorno dopo la costituzione di un Gabinetto, che poteva essere criticato da alcune correnti, si è firmata la tregua salariale, in verità vi dico che il nostro Paese ha dato prove di serietà, di compostezza, di consapevolezza, che devono essere per noi di auspicio a poter uscire da queste difficoltà. (Vivi applausi).
Una voce a sinistra: Il merito è degli operai!
RUINI. Ma sì; l’ho detto, lo ripeto; e non credo che il mio pensiero sia poco chiaro…
Una voce a sinistra: No, è chiaro!
RUINI. I grandi sacrificati sono gli operai, ed ancor più gli impiegati. È indispensabile che anche i ceti abbienti debbano contribuire coi loro mezzi all’onere della ricostruzione. Questa sensazione era più viva e consapevole qualche tempo fa, quando io volevo che si iniziasse lo sforzo della ripresa. I ceti abbienti erano più pronti ad adeguati sacrifici; e la compagine dei partiti e lo spirito della liberazione erano più orientati in tal senso. Anche qui l’occasione fu perduta; ma pur oggi il loro presidente Costa dichiara che per gli industriali (e per tutti gli abbienti) è l’ora dei giusti sacrifici. Questo principio va tradotto in realtà; e come caposaldo nella ricostruzione, si deve trovare una linea di giustizia distributiva, senza la quale non sarebbe possibile fare un efficace cammino.
Ho detto del piano. Occorre, oltre ad esso, un inventario completo dei bisogni, delle risorse, delle possibilità del Paese, quale si è fatto ora nei paesi stranieri; ed anche da noi, nell’altro dopo guerra.
Occorre infine il coordinamento dell’azione economico-finanziaria. L’esigenza del coordinamento si sente dovunque, nell’attuale discrasia; non si può farne a meno per nessun ramo di vita dello Stato. In Inghilterra (potrei citare tanti altri paesi) esiste un Comitato-guida, composto di Ministri, che dirige l’attività economica e presiede ai piani. A suo fianco funziona un Segretariato di Gabinetto, Sezione economica, ove sono altri elementi tecnici e rappresentativi, che concorrono al coordinamento. Inoltre sir Cripps ha istituito il pianificatore generale. Vi sono così vari organi, ma insomma lo sforzo di coordinamento è in atto. Che cosa avviene in Italia?
C’era una volta il Ministero della ricostruzione, di cui vi ho ricordato la scomparsa. È rimasta la mia creatura, alla quale più tengo, il C.I.R., Comitato interministeriale della ricostruzione; un po’ in sonno, finché non lo risvegliò nei suoi primi tempi l’onorevole Campilli; è tornato poi a dormire, ed ora dalle dichiarazioni del Presidente del Consiglio sembra, e ne sono contento, che debba ritornare in efficienza. Il C.I.R. deve e può essere l’organo coordinatore dei Dicasteri finanziari ed economici, nel quadro dell’unità politica del Gabinetto; può e deve agire come tale, fornito dei necessari poteri, e fiancheggiato in via consultiva da esperti ed esponenti dell’economia nazionale. I provvedimenti concordati nel C.I.R. sono portati alle decisioni del Consiglio dei Ministri, di cui in tal modo non si sopprime o limita, ma si prepara ed agevola l’esercizio di sua competenza. È la via più semplice e nello stesso tempo più completa.
Invece di seguirla linearmente, l’attuale Gabinetto ha aggiunto due cose: ha istituito un Ministero del bilancio; il che non coincide con la affermazione fatta nell’altra crisi dall’onorevole De Gasperi di concentrare i dicasteri finanziari. Il neo dicastero è affidato ad Einaudi, e ciò conforta; ma non si arriva bene a comprenderne la necessità e le funzioni. È un dicastero che riassume e sublima i compiti ed il profilo della Ragioneria generale e della vigilanza sulla spesa. Il Presidente del Consiglio ci ha annunciato che non si assumeranno impegni superiori al miliardo, senza che il Ministro del bilancio abbia dato il suo consenso. Che cosa c’è di nuovo? In passato non si è mai autorizzato nessun impegno di spesa senza il consenso di chi era più modestamente il Ministro del tesoro. Qui vi è una supervisione, un ulteriore intervento del Ministro del bilancio, con che, se non si sopprime, si duplica e si svuota la funzione, pur rimasta in piedi, di un Ministro subordinato del tesoro, al quale d’altra parte, non si lascia, come vedremo, un’adeguata funzione economica. Sembra a me che la istituzione di un Ministro del bilancio con dignità preminente e centrale rispecchi una concezione un po’ arcaica, del secolo scorso, che dava ogni saliente risalto al punto di vista, certamente importantissimo, della spesa e della finanza dello Stato, che non può disgiungersi e rientra nel complesso della visione e della politica economica.
Vi è bensì oggi la seconda aggiunta, cioè un Comitato economico che è stato affidato per la presidenza all’onorevole Vanoni. Si potrebbe vedervi già un profilo di pianificatore generale. Bisogna precisare i rapporti che debbono essere di consulenza e non di doppione col C.I.R., il cui presidente dovrebbe stare a capo, sia pure con un vicepresidente, del nuovo organo ausiliario. Né il Ministro del tesoro o il super Ministro del bilancio vanno tagliati fuori o messi in seconda linea nel congegno, che presieda, coordini, diriga, saldandole insieme, l’economia e la finanza. Non vorrei che per coordinare vengano creati pezzi di macchina non coordinati fra loro. Meglio che un Ministero-Ragioneria generale sarebbe stato rifare un Ministero della ricostruzione o del coordinamento economico (nomi ed esempi che vi sono all’estero) e farlo funzionare, con funzioni di propulsione e di sintesi dei piani.
Ciò che soprattutto importa è di muovere contemporaneamente tutte le leve necessarie di azione. L’onorevole De Gasperi ha giustamente osservato che la nostra Amministrazione, nel dissesto post-bellico, non ha ancora ben assestate le leve di comando. Sono da riorganizzare, o da creare ex novo. Ma non sia intanto un alibi per continuare nei provvedimenti slegati ed a spizzico, che il Paese condanna; esso vuole una politica simultanea di insieme che agisca nei settori intercomunicanti.
Settore della finanza, della moneta e del credito, dei prezzi e consumi, della bilancia dei pagamenti e dei costi di produzione. Ecco i problemi da affrontare con la maggiore concretezza, problemi che sono tutti difficili, ma presentano una scala di difficoltà relativamente minore per le finanze; e poi crescente, sino a culminare nei pagamenti internazionali.
Finanza. Io faccio formale proposta che si presentino tre bilanci di previsione:
Primo. Un bilancio ordinario nel quale siano messe le spese permanenti dello Stato rigorosamente consolidate.
Secondo. Un bilancio straordinario che deve comprendere due ordini di spese, quelle di assistenza post-bellica e quelle di ricostruzione.
Terzo. Un bilancio economico, anch’esso annuo, delle disponibilità e dello svolgimento dell’economia nazionale.
Conosco le obiezioni formali che sì fanno alla distinzione dei due bilanci finanziari: si dice che sempre si sono distinte e si distingueranno le spese e le entrate ordinarie e straordinarie; né giova farne due entità staccate. Rispondo che si tratta ora di spese eccezionali, in dipendenza della guerra, e che una sia pur transitoria distinzione dei due bilanci serve all’esatta conoscenza delle cose; anche agli effetti della difesa della lira e delle nostre richieste agli alleati.
Infatti noi siamo vicini, e già in vista del pareggio fra le spese e le entrate ordinarie. Ciò deve avere il suo effetto di (chiamiamola così) psicologia valutaria. Il bilancio straordinario si comporrà a sua volta di due parti: potrà essere per un minimo di spese, fra cui quelle decrescenti di assistenza, coperto dal supero delle entrate ordinarie e dal gettito di imposte straordinarie e di operazioni all’interno su cui si è assolutamente sicuri di contare, per provvedere ad una parte almeno delle esigenze della nostra ricostruzione. E poi vi sarà un’altra parte più elastica, che rappresenta per noi sempre un bisogno, perché, se non ricostruiamo tutti i nostri impianti distrutti, non potremo riattivare in pieno la nostra produzione, ma ci è indispensabile a tale riguardo un finanziamento estero. Qualunque sforzo si faccia, resta sempre nella nostra finanza un vuoto, un buco, uno scoperto: da rimettere alle risorse che dovremo procurare all’estero. Ad ogni modo, avere una chiarezza cristallina, un sincero panorama di spese e di entrate è necessario per la esatta conoscenza da parte del popolo.
È inutile che io ripeta quanto ho detto sul bilancio o piano economico che in Inghilterra si chiama appunto di «conoscenza», e sia di tipo Morrison, o Schumann, o Truman, è fattibilissimo, non come annuario statistico, ma come indicazione in base approssimata di cifre, di problemi, di soluzioni e direttive per il nostro Paese. Si porti anche questo bilancio al Parlamento e si interessi il popolo non soltanto a leggere attraverso i giornali le violenze di parte, con polemiche vistose, ma problemi di cifre e di realtà; sarà anche un passo di educazione politica.
Proposte concrete per le finanze statali.
È possibile dare subito un colpo di spalla ed avviare gradualmente al pareggio, che potrebbe essere raggiunto in un triennio o in un quinquennio, del complesso di spese ed entrate dei due bilanci. Arrotonderò le cifre, come ho detto, per essere capito anche dal popolino.
Ecco i dati dell’on. Campilli per l’esercizio 1946-47: 900 miliardi di spesa, 300 miliardi di entrata, dunque 600 miliardi di disavanzo. Lo stesso Campilli ha preparato il bilancio per il 1947-48, dal quale si ricava: 800 miliardi di spesa, 500 miliardi di entrata, 300 miliardi di disavanzo. Le previsioni si fanno sempre con una certa elasticità di approssimazione. Noi tecnici, ed io ho fatto così fin da giovane, aumentavamo del 10 per cento le previsioni di spesa e diminuivamo del 10 per cento quelle di entrata. Speriamo che si continui a fare in questo modo, per quanto i motivi di variazione siano oggi più forti. Le spese hanno una forza continua di dilatazione. Sta comunque, e non è sogno irrealizzabile, che spese ed entrate dei due bilanci si possano incontrare in una cifra di 700-800 miliardi.
È cifra ammissibile che corrisponde da un quarto ad un terzo del reddito nazionale, la cui valutazione oscilla da 2300 a 3000 miliardi. Nel suo libro sulle finanze dell’altra guerra l’onorevole Einaudi ha scritto che negli anni 1914-18 sarebbe stato tollerabile un carico tributario del 39 per cento sul reddito, dato che in anni di minor tensione patriottica, come il 1931, il Paese sopportò un onere del 29 per cento. Bisogna naturalmente tener conto, oltre che dei tributi statali, di quelli degli enti locali e parastatali; ma in complesso anche 1000 miliardi non sono previsione paurosa. Credo che una spesa pubblica, che raggiunga il terzo del reddito nazionale, sia indispensabile per la difesa della lira e per la ricostruzione e non sia insostenibile per il paese. La cifra non fa paura, ma deve costituire un limite, che non si può superare. Se si gravasse di più la mano, per le destinazioni ad investimenti pubblici, si inaridirebbero gli investimenti privati del reddito sino a compromettere la produzione nazionale.
Per l’incontro ed il pareggio a 700-800 miliardi è indispensabile una sistematica e drastica revisione delle spese e delle entrate.
Revisione delle spese. Troviamo, sul limitare, la palla di piombo dei residui passivi che ci trasciniamo dietro in più esercizi. È una grave preoccupazione che allarma molto il collega La Malfa, mentre Scoccimarro la minimizza. Per mio conto, senza nascondermi il pericolo della loro accumulazione, ritengo che si possa fare una certa pulizia dei residui, con una chiarificazione di elementi eterogenei che si annidano nelle cifre della Ragioneria Generale. Il collega Scoca ha detto che vi sono passività fittizie ed inconsistenti. Parte dei residui rappresenta titoli di pagamento maturati o maturanti nell’esercizio in corso, e non resta che pagare; un’altra parte pagamenti che matureranno e verranno a gravare su esercizi futuri; una terza parte non è di impegni già avvenuti, ma di semplici autorizzazioni, e propositi e disegni di spesa che si possono anche eliminare. La pulizia dei residui attenuerà, non dissiperà la preoccupazione.
Veniamo alle spese di competenza, nei bilanci su cui Campilli ha già incominciato ad esercitare l’accetta. Se si cancellano, come è proposto, i 25 miliardi delle integrazioni dei bilanci provinciali e comunali che erano un incoraggiamento a tendenze spenderecce (e ciò è possibile mettendo gli enti locali in grado di provvedere con entrate proprie); se si riducono subito e si avviano a soppressione i 35 miliardi di integrazione dei bilanci delle aziende speciali di Stato (come si sta facendo, ad esempio, col ricorso a finanziamenti speciali, già bene iniziato con i 25 miliardi di obbligazioni per le ricostruzioni ferroviarie); se si fanno oculati e giusti tagli nel coacervo di 60-70 miliardi di spese di assistenza, e se, come dirò, si rivedono o sistemano meglio le spese per i lavori pubblici, la cifra limite dei 700-800 miliardi di spesa non è impossibile meta.
I tre fomiti principali di spesa sono i bilanci militari, i lavori pubblici, il personale civile. Per spese militari si superano ancora i 150 miliardi. Comprendo benissimo che tanto più con l’aumento attuale dei prezzi non si può passare la spugna su queste spese. Ma sulla Gazzetta Ufficiale ho trovato dei concorsi nei ruoli dell’Amministrazione militare. Alle forze armate non si deve rinunciare. Esistono problemi di riassetto e sistemazione in base ai trattati. Ma vi è innegabilmente, nei dicasteri militari, una forza di resistenza tenace a quella che già potrebbe e dovrebbe essere smobilitazione di spesa. Mi sembra necessario che una Commissione, con rappresentanti della nostra Assemblea, intervenga, per questo lato, nel chiuso campo militare.
I lavori pubblici rappresentano ormai oltre il terzo della spesa complessiva. Più ancora che spendere molto, si è speso male ed alla leggera. Si sono commessi molti errori. Errori tecnici ed amministrativi. Ci siamo dimenticati la frase che amava ripetere papà Luzzatti: «la inesorabile lentezza del tempo tecnico». Non si possono fare lavori se non si dispone di cemento, ferro, e per averli di carbone e materie prime. Si è promesso ciò che non si poteva mantenere. Si sono eseguiti lavori inutili e fittizi, senza attenersi ad un piano di ricostruzione. Si è ricorso a metodi di gestione e di appalto irrazionali e rovinosi; il sistema dei lavori a regìa è diventato un assurdo sistema di abusi. Vi erano e vi sono enormi difficoltà, di fronte alle schiere minacciose dei disoccupati; ma io, che sono stato per 15 anni impiegato e direttore generale ai Lavori pubblici, ed ho, dopo l’altra guerra, presieduto il Comitato dei lavori contro la disoccupazione, mi sento di affermare che molti inconvenienti, oggi verificati, si potevano evitare.
L’onorevole Scoca, con un intervento nelle Commissioni riunite, ha ricordato i metodi migliori seguiti nell’altro dopo guerra. Il Comitato da me presieduto (ero allora Sottosegretario al lavoro) provvedeva soprattutto all’assegnazione di opere su domande e progetti presentati dagli enti locali, ma aveva criteri e programmi complessivi e di priorità per tutti i lavori anche di Stato; ed io quasi ogni giorno facevo il riepilogo e portavo al Presidente del Consiglio, onorevole Nitti, proposte di autorizzazione che non avevano corso, se egli non le approvava da un punto di vista unitario.
Le proporzioni e le difficoltà erano allora minori di oggi. Ma criteri analoghi possono applicarsi anche nel nostro dopo guerra. Ne feci formale proposta nel 1945. Come Ministro dei lavori pubblici avevo disposta la compilazione, sotto la guida dell’ingegnere Visentini, di un piano di ricostruzione e di priorità dei lavori. Proposi poi, come Ministro della ricostruzione, che si formasse un comitato di sottosegretari, presieduto dall’amico Persico, che doveva coordinare l’attività ricostruttiva dei dicasteri dei lavori pubblici, dei trasporti, dell’agricoltura (per le bonifiche) e preparare le concessioni agli enti locali. Un progetto di legge in questo senso fu approvato in Consiglio dei Ministri, ma quando andai via non se ne fece nulla.
Le concessioni agli enti locali meritano il più ampio sviluppo. L’amministrazione centrale ed il genio civile non possono bastare a tutto. Bisogna utilizzare le capacità e gli uffici tecnici, spesso bene attrezzati, degli enti locali. Ciò scaricherà anche Ministri e Ministeri dagli assalti di disoccupati. Abbiano Provincie e Comuni e Consorzi di tali enti, l’assegnazione di gruppi e progetti di opere, naturalmente con l’alta approvazione e sorveglianza tecnica dello Stato. Potranno procurarsi più facilmente i mezzi finanziari. Non dirò che sia l’uovo di Colombo, ma è soluzione abbastanza facile, che gli enti facciano operazioni di credito con gli istituti del luogo, scontando le annualità corrisposte sul bilancio statale. Ne ho parlato, in concreto ieri, con rappresentanti di Torino, nei riguardi del Banco di S. Paolo. D’accordo: le disponibilità del credito sono quelle che sono e si esauriscono, comunque vi si attinga; ma non sarà male che i più adatti enti locali applichino il metodo che è in corso per le ricostruzioni ferroviarie. Il bilancio dello Stato, corrispondendo annualità, ridurrà ad una metà o ad un terzo l’attuale spesa per i lavori pubblici. E sarà anche questo un contributo al pareggio.
Molto ingente è la spesa complessiva del personale civile. Per verità il Tesoro, sembra strano, non conosce il numero degli impiegati dello Stato; si sa che sono cresciuti in modo impressionante: da 600 mila d’ante guerra ad un 1.100.000; e se si aggiungono gli impiegati di enti locali e parastatali si supera il milione e mezzo. Per quaranta italiani vi è un impiegato. Il problema non è solo quantitativo ma qualitativo; sembra che il numero degli avventizi si accosti al cinquanta per cento del totale; in certi casi su dieci impiegati ve ne sono due stabili ed otto avventizi. Infinita è la pietà per questo esercito dolente ed affamato che sta peggio degli operai, perché la media degli stipendi reali è il quaranta, dei salari il 60-80 per cento di fronte al preguerra. Il miglioramento sufficiente, sicuro, definitivo del trattamento per gli impiegati verrà dalla loro riduzione numerica.
Ma come fare oggi in Italia? Non si può imitare la Russia, che ha trasferito quasi un milione d’impiegati al lavoro delle officine e dei campi; né la Francia, ove un Comitato centrale provvede, ogni mese, a licenziamenti di migliaia e decine di migliaia d’impiegati. In quei paesi non vi è la disoccupazione che esiste in Italia, e che ha spinto paradossalmente a riempire di reduci e disoccupati gli uffici amministrativi già inflazionati. Non si può, finché vi è il fermento acuto della disoccupazione, contare da noi sopra una sensibile riduzione numerica. Anche quella del 5 per cento all’anno, promessa dal Governo, sarà difficilmente mantenuta.
Ciò che si può fare – ecco un’altra proposta concreta – è di bloccare senza eccezioni ruoli e concorsi (si cerca invece, ogni giorno, di sviluppare e continuare quello che ai miei tempi si chiamava «industria degli organici»); e d’istituire un Comitato del tipo francese con poteri attivi, per attuare la riforma, man mano che sia possibile, ed intanto per trasferire il personale dai rami dove sovrabbonda ad alcuni dove può essere molto utile; basta ricordare gli uffici tributari. Se poi il Comitato avrà anche poteri di perseguire e colpire casi di rilassamento morale, la sua opera sarà più benefica. Noi siamo molto lontani dal costume di paesi come il Nord America, dove, ha scritto Nitti, la corruzione è tradizionale ed onorata. Ma, per gli stessi stipendi di fame, vi sono germi e forme di male; e bisogna sradicarli.
Revisione delle entrate. Anch’essa sistematica e completa, come delle spese.
Ecco le cifre pel prossimo esercizio: 400 miliardi d’entrate ordinarie; 100 di straordinarie; siamo a 500, ed in via di maggiore espansione. Quando si vedono le ultime situazioni mensili – oltre i 35 e verso i 40 miliardi – si comincia a respirare. Qualcosa si è fatto. Si poteva fare di più. Ma pensiamo a quella che era l’attrezzatura degli uffici tributari dopo la liberazione (ne ricordo uno semidistrutto, che non aveva neppure carta da scrivere); mentre i contribuenti si erano abituati a non pagare; l’evasione fiscale era un dovere verso il nemico. I 500 miliardi aumenteranno con l’umile e meritoria fatica di curare i mezzi di esazione. La maggior salvezza è qui. Esorto l’onorevole Pella ad avere la mano forte. Ed a ritoccare, assieme ai congegni, i vecchi tributi, imitando l’onorevole Campilli che si è messo sulla buona via.
Un maestro di scienza finanziaria, il professor Einaudi, ci ha insegnato che il nostro sistema tributario assorbirebbe in certi casi il 100 per cento del reddito, se non soccorresse l’evasione e l’insufficienza dell’accertamento. Verissimo; dovremo rifare non poche cose. Ma, intanto, in una situazione d’emergenza, dove per la svalutazione monetaria schiere di contribuenti pagano troppo poco, bisogna aggiustare gli accertamenti, ed occorrendo elevare grossamente le aliquote. Adoperare ciò che si ha sottomano. D’altra parte bisogna colpire i consumi non necessari (qui siamo a posto con le teorie einaudiane). E comunque, ricavare dalla tassa sull’entrata, che è di consumo, 200 miliardi, come è possibile con cure ed avvedimenti di riscossione.
Quella che per me rappresenta una nota dolente ed amara è la partita dei profitti di regime, cui vanno aggiunti i profitti di guerra e di congiuntura.
Si credeva di ricavare qualche centinaio di miliardi; ed era possibile; perché, se al tempo dei salutari timori si chiedeva ai profittatori una parte cospicua della loro fortuna, l’avrebbero data volentieri, in via di concordato. Fu un’altra occasione perduta. Si fece ricorso a sequestri generali: a decine di migliaia; e si immobilizzarono aziende che avrebbero potuto lavorare per la ricostruzione. I sequestrati han finito per riavere le loro cose; e si sono intanto messi in grado di resistere agli accertamenti ed ai concordati, che sono venuti troppo tardi, con lunghe e complesse procedure.
Tant’è che io vedo scritti in bilancio 18 miliardi di previsione, mentre la cifra poteva essere senza confronto maggiore.
SCOCCIMARRO. Sono cominciate le riscossioni.
RUINI. Sì; per ben poco; e si prevedono 18 miliardi. Io non faccio allusioni all’onorevole Scoccimarro.
SCOCCIMARRO. Chi ha proposto il concordato?
RUINI. Lo ha proposto Meuccio Ruini d’accordo con tutti, anche con Togliatti a Salerno; e la prima legge sulle sanzioni contro il fascismo si ispirava a tale criterio; che fu poi abbandonato, malgrado le mie vivaci proteste, quando era Alto Commissario l’onorevole Sforza, per il demagogico e antieconomico sistema dei sequestri, propizio in definitiva ai colpiti. Il concordato…
SCOCCIMARRO. Chi l’ha fatto diventare legge?
RUINI. L’onorevole Scoccimarro ha ripreso la via del concordato; ma troppo tardi, e con risultati scarsi.
Veniamo ora alle «straordinarie» vere e proprie, alle imposte generali sul patrimonio. Ho sentito dal Presidente del Consiglio che il Governo mantiene le due «gemelle» di Campilli, la progressiva e la proporzionale. Approvo.
Sbucano fuori in questi giorni, e talvolta da parti impensate, per farsi popolarità presso i contribuenti, le facili e consuete critiche contro questi tipi d’imposta. Ve ne risparmierò la ripetizione. So anch’io che, pur commisurate sul patrimonio, debbono incidere solo sul reddito; se no perturbano l’economia. So che possono apparire mezzi di fortuna, nei paesi dove basta una pressione più forte sui ben congegnati sistemi di tributi ordinari per aver quanto occorre anche nei momenti più gravi. Da noi non è così. Aggiungo che le nostre «straordinarie» vengono nel momento meno opportuno, a metà del pendio. Sarebbe stato meglio che fossero venute in principio, quando si potevano considerare come un’altra bomba caduta dal cielo a decurtare il patrimonio; o meglio che venissero dopo il pendio, all’inizio della stabilizzazione. I difetti del progetto Campilli dipendono in gran parte dal ritardo, il solito ritardo, dei governi che non li hanno presentati prima. Un altro caso per la collana delle occasioni perdute. Ma oramai non si può più rinviare, per esigenze finanziarie ed etico-politiche. Lo ha dichiarato anche il presidente della Confederazione industriale. Bisogna dare la sensazione che, oltre al sacrificio dei poveri, vi è un contributo degli abbienti. Quando ascolto querule voci che si lagnano, mi sembra di sentir Bertoldo, il quale chiedeva di scegliere l’albero a cui doveva essere appiccato.
Certamente, come viene ora, la maggiore straordinaria, la progressiva, è zoppa, perché le sfugge in gran parte la ricchezza mobiliare; ed è zoppa, perché non è stata preceduta da un cambio della moneta. Il cambio della moneta ha attraversato, secondo me, tre fasi. Era possibilissimo nel senso più pieno di coscrizione e di accertamento nominativo della ricchezza fino al 1945 ed anche più in là. Poi venne un’epoca in cui, se non si voleva spaventare ormai l’allarmato mercato, si poteva, ed io lo suggerii, fare il cambio o taglio anonimo della moneta. Se il detentore presentava mille lire allo sportello e ne riceveva indietro 800, o 900 in biglietti nuovi, se una banca che aveva 100 milioni di depositi a risparmio ne pagava 20 o 10 allo Stato e poi li ripartiva nel segreto bancario fra i depositanti, non vi sarebbero state paure e difficoltà. Si sarebbe messa insieme una somma cospicua; così da risparmiare oggi, almeno nelle forme attuali, la seconda delle «gemelle» di Campilli, la straordinaria proporzionale; che è dura pei minori proprietari; e poteva essere sostituita, subito dopo il cambio della moneta, come si è fatto in Francia, Belgio ed Olanda, da un’altra straordinaria sugli incrementi patrimoniali nell’ultimo decennio, che avrebbe colpito borsari neri e nuovi ricchi. Oggi pel cambio della moneta siamo arrivati al grottesco di averne assunto l’impegno nell’ultimo prestito, e di mancare alla parola; grave è la responsabilità dei governi che non l’hanno fatto; ma ora un cambio o stampigliatura della moneta non si può far più. Solleverebbe difficoltà psicologiche immense, spingerebbe alla corsa verso i beni reali, ed all’aumento della circolazione.
Resta ben fermo e ben chiaro che se l’attuale straordinaria è zoppa, lo si deve al fatto che non si è provveduto, come si doveva e si poteva provvedere, a tempo opportuno.
SCOCCIMARRO. È cieca oltre che zoppa.
RUINI. In occasione di straordinaria si è parlato di rivalutazione degli impianti. Il tema merita rilievo a sé, con molta cura. È chiaro che la rivalutazione ha necessità tecniche. Questo tavolo non lo posso iscrivere in bilancio con la cifra di prima della guerra perché la corrispondente quota di ammortamento in moneta svalutata non consentirebbe di ammortarlo e rinnovarlo nel tempo necessario.
Vi è poi la spiegabile pretesa degli azionisti ad urla adeguazione di valori con la situazione odierna; che non ha solo ragioni formali ma può essere di sostanziali guadagni. E qui bisogna stare attenti. La rivalutazione degli impianti, come spesso avviene, si accompagna con aumenti di capitale che si chiedono al mercato senza che lo Stato si disturbi come ha fatto (ed ha fatto male) a finanziare e garantire imprese private. Se si tratta di aumenti di capitale, utili e necessari in questo momento per l’attività produttiva, giova – vigilando sempre la circolazione – non ostacolarli ed anzi favorirli, ad esempio, come è stato proposto, elevando il limite oltre il quale i dividendi sono più colpiti.
Alle rivalutazioni si collegano altri aspetti, né tutto si riduce ad aggiornare scritturalmente le cifre. Saltano fuori riserve occulte; quelle riserve occulte che ai nostri buoni tempi antichi si aveva la manica larga a tollerare, attendendole al varco appunto quando saltavano fuori. È oggi frequente la distribuzione di azioni gratuite, che anche se han l’aria innocente di regolazioni formali si prestano a speculazioni e movimenti al rialzo. Sta poi, in via generale, che la ricchezza mobiliare, facile a sfuggire alle imposte, va quando è possibile colpita. Né può dimenticarsi che, mentre i titoli privati approfittano così della congiuntura, i pubblici hanno esposto chi ebbe fede nello Stato a perdite gravissime.
Confido che si prenderanno provvedimenti, tenendo conto di tutti i lati del problema, e si vedrà se e come sia il caso di tassare i saldi di rivalutazione; e più particolarmente le azioni gratuite. Anche qui il mio rilievo, col ritornello del ritardo, è che si è aspettato a regolare queste materie, quando è ormai avvenuta una serie di rivalutazioni e piogge di titoli gratuiti.
Una parola sui buoni d’imposta, cari all’onorevole Scoccimarro, che li vagheggia non alla tedesca, ma come buoni con un piccolo aggio che si darebbero ad appaltatori ed a fornitori, e si accetterebbero poi a pagamento d’imposte. Per mio conto temo che gli appaltatori e i fornitori siano più spesso nella impossibilità di far senza più diretti pagamenti; e dubito che mettendo tali buoni sul mercato si venga ad allargare la circolazione. Ad ogni modo si studi anche questo avvedimento; tutto ciò che può rafforzare le entrate sia benedetto.
Ho parlato finora del bilancio dello Stato, e vi ho fatto intravedere il pareggio, fra un certo tempo. Vi sono sembrato troppo ottimista? Non lo sono. Vi ho detto che vi è sempre uno scoperto – il «buco» – per le spese più straordinarie di ricostruzione. E poi resta un formidabile «se». Il pareggio è possibile se i prezzi non continuano ad aumentare. Mentre le entrate hanno un ritmo più pigro di aumento, le spese sono soggette ad una scala mobile. Non solo per quella degli stipendi e per la revisione degli appalti, ma per il costo di tutti i servizi, essendo lo Stato per i servizi pubblici il più grande consumatore di merci; e come tale il primo ad essere travolto nel vortice dei prezzi.
Eccoci entrati (queste materie si tengono strettamente fra loro) nell’altro campo dei prezzi; che implicano i problemi della moneta, del credito, del risparmio. Il popolo ricordi e tenga davanti a sé alcune cifre più vistose. Circolazione monetaria 550 miliardi (salvi i non cessati aumenti), debito pubblico 500 miliardi di consolidato e redimibile, 800 di fluttuante. Risparmi a deposito, da 800 a 900, compresi i postali.
Il Presidente del Consiglio ha insistito, sopratutto sull’antinflazionismo, e sulla barriera per la circolazione. Parliamo pure, se volete, di Piave della circolazione; è una parola che ricorda ed avviva. Non si dovrebbe aumentare la circolazione, se non altro, per non scatenare la tempesta dell’effetto psicologico. Ma bisogna evitare due miti. Quello della mano tagliata, che ricorda, mi sembra, un miracolo di santa Modestina. L’onorevole Corbino, quando andò al Tesoro, giurò che si sarebbe tagliata la mano prima di emettere una sola lira di più. Ne emise per più decine di miliardi; ma non ebbe bisogno del miracolo di far rispuntare la mano; perché non se la era tagliata mai (così pure l’altro giuramento della lesina, malgrado il quale varò molte spese, e tra esse il prezzo politico del pane).
L’altro mito è dell’onorevole Einaudi, che per giustificare gli aumenti di carta disse «è il fato». Ma che cosa è questo fato? Io ricordo (scusate un piccolo aneddoto e poi ritornerò alle noiose cifre) che un giorno salivo su per il declivio di Monte Cassino con il vecchio abate Diamare fierissimo contro gli americani che non avrebbero dovuto distruggere il sacro asilo. Sentiva parlare attorno a sé: dicevano che tutto era accaduto per colpa del fato. Egli si voltò, alzò il bastoncello e disse: lo chiamano fato; mettete in una pentola gli errori, le deficienze, le colpe, mescolatele insieme e vien fuori il fato. Io credo in Dio, e perciò credo alla responsabilità. Le difficoltà sono oggi più grandi che gli uomini ed i loro governi; ma non si può trincerarsi dietro il fato. L’amico Einaudi, al suo nuovo posto, combatterà contro il fato.
Una cosa bisogna ribadire al popolo: che non si spaventi, e nessuno si tagli la mano, se si dovrà temporaneamente ricorrere a qualche manovra d’emissione, ad esempio per gli ammassi del grano; purché si provveda al ritiro appena possibile, per quanto deve essere recuperato. Se no, onorevole Einaudi, sarà la recidiva del fato. Bisogna frenare la circolazione ed impedirne gli aumenti; ma non sono questi la sola causa (sono anche l’effetto) della inflazione dei prezzi. I quali sono infatti cresciuti sensibilmente più che la quantità della moneta. La pura teoria quantitativa mi è sempre apparsa insufficiente. Vi sono altri fattori: la scarsità, l’occultamento, l’accaparramento delle merci. Vi sono non una ma più inflazioni e tutte solidali fra loro. Non basta fronteggiarne una sola: bisogna fronteggiarle tutte insieme; l’azione del Governo deve essere larga ed integrale.
Debito pubblico. La cifra di 1300 miliardi non è paurosa, come valore reale di fronte all’altro dopoguerra; e si può aumentarla. Non buona è la distribuzione, né cauta l’apoteosi del fluttuante, che è un debito a vista. Errori, grossi errori tecnici, vennero fatti nell’ultimo prestito pubblico, che – malgrado l’onorevole Einaudi sia ancora di opinione contraria – costituì un vero insuccesso. La tesi del basso interesse non ebbe fortuna; tant’è che per arginare il declino delle quotazioni si dove mettere a posteriori il 5 per cento d’interesse, che non si era voluto dare prima, e si ebbe così il bel risultato di assumere un onere, senza averne i vantaggi alla sottoscrizione.
I depositi a risparmio sono molto ridotti: il terzo, in valore reale, di quello che erano prima della guerra. Questa, sì, è cifra allarmante, anche se si tien conto dell’autofinanziamento, che contribuisce alla ricostruzione, come avviene pel bestiame nelle campagne. Non vi è da meravigliarsi se con la contrazione del reddito nazionale e coi turbamenti di mercato, anche il risparmio si assottiglia. Mancano a noi i metodi drastici della Russia, che è il paese più… capitalista, nel senso che lascia al consumo una quota minore del reddito nazionale; ed investe il rimanente come capitale. Ma vi sono da noi in certi ceti guadagni, puri o no, che bisogna utilizzare, se non con le imposte, nelle vie del risparmio e del credito.
Molta importanza ha la politica creditizia, ed ho sentito con grande piacere che il governo, finalmente, comincia a pensarvi. Uno dei paradossi italiani è che 1’87 per cento dei depositi è presso istituti pubblici o in mano dello Stato, come è delle tre grandi Banche dell’I.R.I.; e non vi è invece una politica nazionale di credito. Lo lamentano anche i liberali e fra essi il professor Turroni: i laburisti inglesi hanno ora nazionalizzata la Banca d’Inghilterra, per fare una politica creditizia. Noi che avevamo nazionalizzata, o quasi, la Banca d’Italia nel 1936 e costituito un comitato di controllo, ci affrettammo dopo la liberazione a distruggere il comitato e fu vera stoltezza: perché – io lo dissi – non si debbono buttar giù i ponti del Tevere che ha costruito il fascismo.
Le mie proposte le feci nel 1945. Non soffocare la libera attività delle banche; si tratta pur qui di vigilare e dar direttive, piani guida, non ingerenze nelle operazioni; ed occorre un organo attento alla sostanza, ed agile, non intralciante, di controllo. Se lo contendono il Tesoro e la Banca d’Italia. Poiché queste due cariche le riassume binariamente l’onorevole Einaudi, le difficoltà potranno essere superate. Altra mia proposta: che le tre grandi Banche d’interesse nazionale passino dall’I.R.I. alla Banca d’Italia o almeno – se non si vuole che questa da controllata diventi controllante – formino un’holding autonoma o articolata a sé. Terzo punto; pur non togliendo autorità al suo alto comando, si veda di dare alla Banca d’Italia un organo collegiale, nel quale seggano, a fianco del Governatore e del Direttore Generale, pochissimi altri, ad esempio i capi dell’I.R.I. e dell’I.M.I. Non tengo al dettaglio, e, ripeto, voglio salvaguardare l’iniziativa delle Banche; ma insomma vi sia una politica creditizia, e ci garantisca, a sua volta contro i mali e gli abusi della speculazione!
L’onorevole De Gasperi ha accennato ad una azione del Governo in questo senso. D’accordo. Il Paese ha bisogno d’impostazioni e di atti ben chiari. Intendiamoci bene: la funzione economica della speculazione è nell’attuale società indispensabile, tanto che discutendosi nel Comitato per la costituzione delle cooperative, e proponendo alcuni che non potessero fare atti speculativi, l’onorevole Togliatti, disse: perché non ne dovrebbero fare? Anche in un regime comunista, che non sopprima del tutto l’economia di mercato, vi sarà in forme diverse una certa funzione speculativa. La speculazione è previsione ed adattamento di prezzi al futuro; ed ha nell’ambiente economico odierno il suo massimo organo, delicato ed efficace, nella Borsa; né alcuno si propone di sopprimere la Borsa. Ma non vi è neppure nessuno che neghi allo Stato il diritto ed il dovere di vigilarla ed impedirne gli effetti dannosi.
Il popolo, nella sua valutazione, che è anche eticopolitica, distingue l’imprenditore dallo speculatore puro. L’imprenditore è un lavoratore qualificato, che organizza la produzione, e come tale specula, ma non va confuso con chi giuoca sulle «differenze» e guadagna stando alla finestra.
CORBINO. Ma può anche perdere.
RUINI. Perde o vince, ma la distinzione vi è, onorevole Corbino, nella coscienza comune, e mi sembra che oggi, mentre cerchiamo qualche denominatore comune dell’azione democratica, possiamo fare una politica di riguardo e di aiuto all’imprenditore, e di freno e diffidenza verso il mero speculatore, quando con le sue manovre compromette la difesa della lira.
Abbiamo assistito, di questi giorni, a fenomeni, diciamo così, di psicologia economica. Alcuni veri e profondi. Quando si parlava di un Ministero Nitti si ebbe un impeto generale di fiducia; ed io ho desiderato con tutto il cuore che questa fonte viva di forza fosse captata ed utilizzata per il bene del Paese. Alla base di una ripresa vi è spesso (vedi Germania di Schacht) una scossa ed una inversione psicologica. Anche la Borsa è un indice. Napoleone aveva paura di una sola cosa: dell’«ingiuria anonima delle Borse». Ondate di sfiducia finanziaria hanno rovesciato i Gabinetti di Henriot e di Blum in Francia, di Mac Donald in Inghilterra. Da noi si sono avute, piuttosto, caricature. A chi voleva fare della Borsa un potere dello Stato, da mettere in un articolo della Costituzione, si poteva rispondere: ma non è una cosa seria! Si voleva dar valore decisivo e generale a transitorie ed effimere psicosi e frenesie come per la S.I.S.A.L., quando tutti giocavano in Borsa, comprese le donnette. È stato il solito giuoco del cerino che passa di mano in mano e l’ultimo si brucia le dita. Non se le sono bruciate i pochi speculatori in grande stile che hanno pescato con la loro rete i miliardi.
Si dice che le Borse si riequilibrano e vanno a posto da sé. Il male è che, mentre impazziscono per titoli privati, si deprimono quelli pubblici, e ne ha danni la lira. Il disordine va impedito anche in Borsa. Domando all’onorevole Einaudi se è vero che la maggior parte degli agenti di cambio non abbia registri e carnets in regola. Se notevole parte dei riporti delle Banche era destinato a questi giuochi di borsa. Vi sono nelle Banche romane salotti e borsini dove vanno le signore che giuocano.
Ripeto che le Borse non vanno chiuse; ma altre volte, quando si sono verificate situazioni analoghe, si sono temporaneamente sospesi i contratti a termine. In situazioni analoghe si limitano e si impediscono i riporti speculativi delle Banche. Un’altra proposta (non è mia, mi viene da un agente di cambio) è che, riprendendo e modificando provvedimenti un tempo adottati, gli agenti di cambio, per tanti titoli privati che acquistano, siano tenuti ad acquistare anche un certo numero di titoli del tesoro. Non sottoscrivo senz’altro questa proposta; ma qualcosa, ove occorra, bisogna fare. E non credo dire cosa eretica o demagogica, chiedendo che si riveda con intenti non stroncatori, ma di effettiva vigilanza, la legislazione sulle borse.
Quanto alla borsa nera delle valute estere, domando se è giusto che, quando attraverso piazza Colonna per venire al mio lavoro, io debba vedere in funzione un mercato proibito, Saranno untorelli, di fronte ai grossi manipolatori di manovre valutarie; ma, insomma, se si desse qualche esempio, tanto meglio in alto, il popolo tirerebbe un sospiro di soddisfazione. Anche questa sarebbe psicologia economica! Le forze produttrici, le aziende sane avrebbero tutto il vantaggio – gli imprenditori contro gli speculatori tarati – perché, colpendo gli abusi, si potrebbe lasciare più ragionevole libertà alla produzione.
Prezzi e consumi. Rivive oggi la politica dei prezzi che fu propria del Medioevo e di tempi antichi, con le ricorrenti carestie ed i mercati che non comunicavano tra loro; così che vi erano necessari vincoli e calmieri. Congegni grevi e poco efficienti; oltre ai quali vi è da una parte un’azione diretta dello Stato che approvvigiona e distribuisce i mezzi di vita, e dall’altra un’azione meno diretta che va incontro ad iniziative e sforzi di consumatori.
Dovunque i governi cercano di combattere l’ostinata curva dei prezzi che sale. Il vero rimedio è l’aumento della produzione, e l’immissione anche dall’estero di maggiori merci in mercato. Intanto i governi non rinunciano alle campagne pel ribasso, che hanno a base, diceva Blum, uno choc psicologico, e sono tentate anche in altri paesi, oltre la Francia, con la speranza di ottenere una sosta ed un rallentamento, più che un ritmo sensibilmente regressivo dei prezzi.
Da noi la campagna annunciata dal precedente gabinetto è fallita. È mancato l’ambiente di fiducia; sono mancati i provvedimenti, ai quali doveva essere coordinata. Non abbiamo avuto che una serie di ridicole «grida».
Occorre rendere effettiva la lotta contro gli sprechi ed i lussi, che può dar scarsi risultati di maggiore quantità di beni per i bisognosi; ma si rende necessaria per ragioni etiche, ed anche indirettamente per ragioni economiche; giacché la ostentazione di ricche e grosse merci ed il godimento sfrenato di pochi, accanto alla fame dei più, fanno pessima impressione agli stranieri che ci dovrebbero aiutare, e che abituati nella casa loro – casa dì vincitori e di potenti – al pane bigio ed al rigoroso tesseramento provano sdegno e ritegno nel valutare i nostri bisogni e le nostre richieste. Ero ad una colazione offerta a Laski da un nostro Ministro; e vedevo l’ospite diventar nero, mentre venivano l’antipasto, il dolce, lo spumante; ricordava che i suoi compaesani hanno ancora, oltre la tessera per i cibi, i punti per l’abbigliamento e se vogliono comprare una tovaglia debbono ottenere il permesso dagli uffici; si sono assoggettati ad un complesso di sacrifici, per poter ancora esportare e riprendere i loro traffici nel mondo. Da noi il male è nel costume, ed ha radice in una indisciplina profonda e diffusa; né sono sufficienti l’apparato ed i mezzi di repressione; ma è questione di serietà; ed occorre qualcosa di più che le «grida» rientrate.
In situazioni che sono ancora di scarsità e di carestia non è possibile abbandonare d’un tratto sistemi vincolistici – tessere ed ammassi – senza condannare molti italiani a più aspre sofferenze; ma è necessario ridurre gli interventi coattivi di politica annonaria a pochi generi essenziali e limitarne l’area di applicazione ai soli ceti che ne sono bisognosi. Per certi generi il vincolo non è conducente, o è troppo costoso. Un esempio, l’olio: nello scorso anno si sono ammassati 36 milioni di litri e poiché i tesserati sono 36 milioni si è dato un litro a testa per anno; ossia 180 grammi al mese; poco più di un cucchiaio di olio per settimana, ciò che non può bastare nemmeno per un lassativo (Ilarità).
Si deve pensare al pane ed alla pasta; tanto più per lo scarso raccolto, che ci costringe a chiedere all’estero 30 milioni di quintali; e sarà difficile trovare il grano ed i dollari per pagarlo. Come criterio generale, all’interno sarà da concentrare l’intervento coattivo a favore di chi ne ha vero bisogno (in questo senso va inteso il tesseramento differenziale). Si potrà ricorrere a mezzi più efficaci di contingentamento e prelievo, con prezzi economici da produttori e mercanti che, acquistando derrate all’estero, debbano lasciarne una quota all’annona, liberi di disporre della rimanente. Se coesisterà con la zona di approvvigionamento e distribuzione statale il mercato libero, e la borsa nera diventerà bianca, una graduale smobilitazione accompagnerà il ritorno alla sufficienza di produzione e di traffici per un più largo consumo.
Accanto alla politica di vincolismo e di più diretto intervento, vi è una politica più elastica a favore dei consumatori; e lo Stato deve svolgerla immettendo appunto prodotti in mercato, ed aiutando con finanziamenti ed in altri modi enti di consumo e cooperative. Vi è una legge di due anni fa che prometteva 5 miliardi di lire per aiutare a vivere ed agevolare i consumi degli impiegati. Non si è fatto nulla, al momento in cui vi parlo. Non si è visto un soldo. Ed esiste oggi il Co.N.D.A.S., consorzio delle cooperative di consumo degli impiegati dello Stato, un organismo da me presieduto che per la prima volta raccoglie centinaia di migliaia di impiegati e, con loro famiglie, milioni di italiani. Finalmente Campilli e Petrilli hanno dato affidamenti di applicare la legge. È stato errore e stoltezza non sviluppare più ampiamente e sistematicamente queste «contropartite», mentre si resiste alle domande di adeguamento degli stipendi.
Vengo agli ultimi anelli della catena, nella serie di fatti economici su cui dobbiamo agire. Mentre per il bilancio finanziario dello Stato, da cui ho cominciato, vi sono apparso forse troppo ottimista (e non lo sono), trovo il massimo delle difficoltà nella bilancia dei pagamenti.
Quanto siamo distanti dal tempo antico, nel quale provvedevamo ai nostri bisogni d’importazione nel 60-70 per cento con le esportazioni e nel rimanente con le partite invisibili dell’emigrazione, del turismo, dei noli! Era un miracolo che ci doveva dare un brivido d’orgoglio, di fronte ad altri paesi che avevano più grandi risorse e disponevano di esportazioni massicce ed essenziali; mentre noi, con l’avvedimento di minute e sottili risorse, riuscivamo – ecco il miracolo – al pareggio. Il fascismo con il suo fasto spendereccio e con l’autarchia ha intaccata la nostra faticosa conquista ed ha vissuto a spese del capitale, finché ci ha, con la sua guerra, ridotti a condizioni che fanno paura.
Le cifre sono, in questa materia, delicatissime; e tacerei, se non ne avesse parlato il Presidente del Consiglio, al quale debbo chiedere alcuni chiarimenti. Secondo il C.I.R., che ha continuato nelle rilevazioni da me iniziate, avremo bisogno quest’anno di 1200 milioni di dollari d’importazioni contro 600 di esportazioni e partite invisibili. Lo scoperto sarebbe di 600 milioni. È chiaro che si possono ridurre di poco le importazioni perché si tratta del pane per la nostra vita (né riusciamo ad assicurare ad ogni italiano 1000 calorie al giorno, mentre ne avrebbe bisogno di 2500); si tratta di pane per le nostre industrie (carbone, materie prime; pure insufficienti alle possibilità); mentre le esportazioni scemano al disotto del previsto.
L’onorevole Presidente del Consiglio, lanciando un S.O.S., ha detto che per la seconda metà di quest’anno ci occorrono e ci bastano 200 milioni di dollari per equilibrare la bilancia. Prevede, nel semestre, esportazioni per 300 milioni di dollari; e non sembra possibile perché la media mensile non supera i 30 milioni. Non voglio entrare in dettagli e passare in rassegna le cifre della relazione Einaudi per la Banca d’Italia; rimanenza U.N.R.R.A.; code post-U.N.R.R.A.; conti sospesi con gli alleati; trattative con l’Ex-Import Bank…; si può continuare; i calcoli sono problematici e discutibili; e possiamo aver tutti ragione; ma vorrei che l’onorevole De Gasperi chiarisse le sue valutazioni.
Certo è che per alcuni anni, forse cinque, l’Italia ha bisogno di un apporto dall’estero che si può stimare, grosso modo, in 500 milioni di dollari all’anno. Che faranno gli alleati? Avremo dagli americani l’apporto finanziario che ci è indispensabile? Quando non avevamo bilancia dei pagamenti perché non esportavamo nulla, ci hanno aiutato a vivere, e ci hanno dato prima con le somministrazioni del loro esercito, poi con l’U.N.R.R.A., la grande Samaritana, alla quale abbiamo attinto (sebbene per testa d’abitante in misura minore ad altri paesi). Credo che continueranno a darci non solo per ragioni politiche, non solo in contrapposto ad altre influenze, e per impedire lo sfacelo d’Europa e per contagio del mondo, ma ci daranno anche per ragioni economiche, dal loro punto di vista.
Hanno avuto nel 1946 un supero delle esportazioni sulle importazioni, per sette miliardi di dollari. Ne avranno uno, nel 1947, di 10 milioni; vogliono, per evitare una crisi interna, mantenere in efficienza i loro impianti ed il livello delle loro esportazioni. Dovranno a tal fine dare ai paesi europei i mezzi per ricostruirsi e comperare. Continueranno a far in definitiva ed in altre forme, ciò che hanno fatto con gli affitti-prestiti e con l’U.N.R.R.A. Gli aiuti all’Europa rientrano nel piano della loro economia.
Ma ci daranno come e quando vorranno loro; e non dobbiamo illuderci (specialmente noi italiani che non contiamo molto ai loro occhi) di avere come e quando vogliamo noi, a date scadenze, quasi per una cambiale. Il nostro contegno non deve esaurirsi in querule richieste, e nella sola dimostrazione che abbiamo bisogno di tanto; dobbiamo dimostrare la nostra capacità ed i nostri piani per impiegare quello che ci daranno ai fini della ricostruzione italiana, della ricostruzione europea, del vantaggio anche di loro americani.
Il nostro atteggiamento sia ben chiaro; né di illusorie euforie, né di sconforti umiliati. Se non è opportuno né giusto, parlare degli americani come di negrieri o d’imbecilli, non è neppure opportuno e giusto fare verso di loro una politica di «sciuscià». (Vivissimi applausi).
Lo ho detto dal 1944, fra gli altri, all’Ambasciatore Kirk, al capo dei servizi economici O’Dwyer, e l’hanno apprezzato; abbiamo tutto da guadagnate se non gonfiamo le gote, ma teniamo la schiena diritta. Prescindiamo pure, per un momento, dalla nostra rivolta ai tedeschi e dal nostro contributo di cobelligeranza. Sta di fatto, sul terreno economico, che la loro non è tanto un’elemosina quanto una contropartita ed in parte una restituzione. Dai dati che raccolsi dal C.I.R. (e vennero poi completati) risulta che tutto ciò che essi ci hanno dato arriva complessivamente (con le somministrazioni militari, con l’U.N.R.R.A., con la F.E.A., con le restituzioni per le am-lire) ad un miliardo e mezzo di dollari. D’altro lato, senza calcolare il lavoro che utilizzarono dei soldati nostri nelle retrovie, limitandosi a calcolare le requisizioni, i trasporti, i lavori di civili, le am-lire, si arriva a qualcosa di più che la stessa cifra.
Ciò che ci daranno in più lo restituiremo, appena ci sarà possibile. Intanto fronteggeremo, col loro aiuto, la gravissima situazione del commercio estero. Chi si affaccia al mercato internazionale, ha detto Lippmann, vede un paesaggio lunare di devastazione e di sconvolgimento, di deviazioni e di trincee. Si intrecciano i più complessi rapporti: di traffici a valuta libera, di clearings, di compensazioni, ed anche (noi vi siamo ricorsi) di baratti di uomini con merci. La posizione dei paesi che hanno più bisogno è dura: non trovano le merci che loro occorrono; e per collocare le proprie, sono costretti a ricevere in cambio cose per loro meno necessarie e superflue, come noi gli orologi dalla Svizzera.
Libertà, libertà, gridano gli interessati. Ma la libertà dei traffici internazionali dove sta di casa? La luce non viene da Ginevra, dove una convenzione dell’U.N.O. sta studiando nuovi accordi doganali; e c’è la tendenza americana ad abbassare i dazi; ma quel grande paese, in sostanza, vuole libertà di commercio per gli altri più che per sé stesso.
Mi appello anche ai liberali. Un giovane valoroso, lo Storoni, che ha lavorato con me al C.I.R., dichiara che – se è assurdo ed impossibile un monopolio del commercio estero, quale è nella Russia comunista ed estesa come un continente – è egualmente assurdo ed impossibile, nell’attuale congiuntura di carestia, lasciare assoluta libertà di traffici e valuta; «non si può lasciare che introducano calze Nylon e macchine Packard, quando con la nostra scarsa valuta non si può acquistare abbastanza pane e carbone».
Chiedo al Governo di riesaminare il sistema del 50 per cento di valuta che si lascia libera agli esportatori. Finché fui al C.I.R. mi opposi. Ammisi che il cambio del dollaro fosse portato a 220 e poi di mano in mano, occorrendo, aumentato, ma conservando sempre i conti individuali. Si ricorse in seguito allo espediente del 50 per cento e si ebbe all’inizio uno stimolo che parve benefico, ma vennero gli inconvenienti che avevo previsto, con la doppia quotazione del dollaro libero d’importazione (che è oggi ad 800) e di quello di esportazione (che nel cambio medio fra 800 e 220 diventa di 500); e con la scala mobile che ne deriva, non favorevole alla nostra valuta. Si sono suggeriti vari emendamenti; dare il 50 per cento anche agli importatori; dare a questi libertà, ma con l’obbligo di consegnare quote di valuta, graduate a seconda della maggiore o minore necessità delle merci; sistemi che sollevano dubbi. Domando al Governo di togliere o modificare adeguatamente l’attuale 50 per cento.
Faccio ancora proposta concreta di rivedere la struttura del Ministero del commercio estero, e le sue procedure ingombre di intralci e di vincoli eccessivi, che i commercianti hanno ragione di lamentare. Rapidità, ma effettive garanzie. Al formalismo della burocrazia ed all’arbitrio personale del Ministro è da sostituire la pronta decisione di Comitati ristretti, d’esperti (ne abbiamo anche nell’Assemblea), che funzionino quasi da magistratura amministrativa e diano precisa pubblicità alle licenze accordate.
Una voce a sinistra. E le false fatture?
RUINI. Non tema che non ne parli: io vado in ordine logico. È un’altra domanda che rivolgo al Governo: perché non colpisce seriamente gli esportatori che denunciano d’aver venduto a 10 ed hanno diritto a metà della valuta; mentre vendono a 20 e a 50 e tengono tutta la differenza all’estero? Non è, purtroppo, il solo caso di quel paradosso, un altro paradosso per cui l’Italia, che è uno dei paesi più poveri di capitali, è alla testa per la fuga e l’evasione del capitale.
Una voce a sinistra. È logico.
RUINI. No, sono paradossi di una situazione anormale e patologica. Bisogna punire chi dice il falso, chi porta fuori il denaro; perché non ha fiducia nel suo Paese. Bisogna dare esempi come non si fece finora; il popolo, per avere a sua volta fiducia nel governo, vuole atti di energia. E ne avranno vantaggi i commercianti onesti, perché si potranno risparmiare vincolismi e bardature inutili, concentrandosi in quelle necessarie che sboccano a salutari sanzioni.
Vengo da ultimo alla produzione; che è per importanza il primo dei settori di politica economica. Nessuno contesta la verità di un motto all’onorevole Nitti «produrre di più e consumare di meno». Ma è difficile consumare di meno; siamo di già in uno stato diffuso di sottoconsumo e di sottoalimentazione. Produrre di più; né basta; bisogna produrre a costi che consentano d’esportare.
Il male di questo momento è che i costi di produzione aumentano, e s’assottigliano le nostre esportazioni. È ingiusto attribuire come alcuni fanno il fenomeno unicamente alla mano d’opera. Povera di materia prima, l’Italia si è fino ad oggi difesa per la sua maggiore sobrietà ed il minore salario, esportando lavoro anche attraverso prodotti finiti. I salari non sono cresciuti col ritmo dei prezzi; un nostro operaio è oggi pagato, in moneta reale, meno che avanti guerra, quando era pagato due terzi in confronto d’un operaio francese, ed un sesto d’un inglese. L’aumento dei costi dipende da molteplici cause che vanno dalla inutilizzazione parziale dei nostri vecchi, spesso troppo vecchi, impianti e dalla scarsezza ed irregolarità della forza motrice e degli approvvigionamenti di materie prime, alla minor resistenza al lavoro dei meno nutriti operai ed alla minore resa – che è impressionante – del loro lavoro. Vi è in tutto il mondo, come sempre negli immediati dopoguerra, una stanchezza ed un’ondata di pigrizia. Ad esempio, nell’austera Inghilterra, gli operai non vogliono fare più i minatori. Da noi il fenomeno della minor resa non è più grave che altrove, ma incide di più perché la nostra maggior riscossa è il lavoro.
E poi vi è il fenomeno della disoccupazione, che in un paese a sovrapopolazione come l’Italia, tende a tradursi in fenomeno di falsa occupazione e di inflazione della mano d’opera occupata. Un altro paradosso, che avviene tipicamente nelle industrie coi blocchi dei licenziamenti e nell’agricoltura con l’imponibile della mano d’opera, in misura eccessiva. Il disoccupato in fabbrica influisce anche sulla minor resa degli altri lavoranti. L’esuberanza di personale che era propria dell’Amministrazione pubblica minaccia di estendersi, per contagio, negli opifici è nelle fattorie. Dove prima lavoravano due, si lavora oggi in tre! I blocchi dei licenziamenti non sono più imposti da leggi o concordati nazionali; non sono di diritto, ma di fatto, per le pressioni operaie ed anche per ragioni di umanità, al di fuori del dato economico. Un grande industriale mi diceva: come faccio a licenziare questa gente; se la mando via morrà di fame! D’altra parte, bisogna notare che in regimi di carestia ove non funziona in pieno l’economia di mercato, imprenditori e lavoratori possono mettersi d’accordo a spese dei consumatori.
L’eccesso di mano d’opera è un fenomeno che va al di là del sistema socialista e del sistema liberista, né si rimedia al male con le nazionalizzazioni o le sovvenzioni alle imprese. Se il male si perpetua, la nostra diventerà un’economia mussulmana, ove nella ciotola che bastava a due mangeranno tre, mangeranno tutti; in una stagnante ed avvilente depressione. Dobbiamo reagire, per quanto è possibile.
Si deve ridare sincerità ai costi delle aziende. Io sono stato uno degli autori dello slogan: «niente sussidi, diamo lavori pubblici!». Me ne ricredo. In certi casi è meglio una sovvenzione collegata all’obbligo di frequentare scuole professionali di rieducazione e d’avviamento, per qualificare i nostri operai, come sono richiesti anche dall’estero. Un fondo di disoccupazione sarà in definitiva meno gravoso allo Stato delle integrazioni salariali, dei sussidi agli industriali e delle false spese per lavori pubblici.
Il problema dei problemi, onorevoli colleghi, è nel grande numero della nostra popolazione. Siamo 46 milioni di italiani in confronto ai 43 milioni del pre-guerra. I francesi sono diminuiti d’un milione e mezzo, gli inglesi di mezzo milione. Saremo fra non molto la Nazione più numerosa d’Europa, dopo la Russia e la infranta Germania. Ma non c’è da gonfiarsi le gote d’orgoglio demografico. Siamo poveri. Il mio maestro Nitti ha mostrato più volte la povertà delle nostre risorse. Non abbiamo terra che basti al nostro pane. Il nostro sottoterra è privo dei due diamanti neri della produzione moderna: il carbone ed il petrolio. Eravamo riusciti, pazientemente, miracolosamente, ad organizzare la nostra produzione e raggiungere un modesto tenore di vita. Il fascismo e la sua guerra l’hanno distrutto.
Dobbiamo ricostruire. Affrontare il problema dell’occupazione. Posto che, con ritmo normale, ogni anno l’Italia cresce di 400 mila unità, come potremo occupare la nuova schiera di lavoratori? L’Italia non ha – come la Francia nel piano Monnet – un piano di ricostruzione e di riconversione della sua attività produttiva. Io avevo, quando diedi vita al C.I.R., incaricato un Comitato, presieduto da un uomo di valore, l’ingegner Casini, di studiare un piano di questo genere – prima ancora che in Francia si parlasse di piano Monnet –; so che vennero fatti studi; perché non sono pubblicati?
Le difficoltà di occupazione sono gravissime. Secondo le statistiche l’agricoltura, dal 1880, non è aumentata di braccia, l’applicazione dei mezzi tecnici tende a diminuire il numero di chi lavora nei campi. L’industria, per quanto si faccia, non potrà assorbire il margine nuovo di braccia disponibili ogni anno. E, badate bene, per occupare un nuovo operaio occorrono nuovi impianti che richieggono una spesa da due a cinque milioni; ed è cifra non in eccesso, ma piuttosto in difetto, fra quelle oggi calcolate anche in altri paesi.
Così entriamo nel problema degli impianti che è di ricostruzione, ed anche di nuove costruzioni e di rinnovamento degli impianti vecchi. Secondo i calcoli Casini, a quel che so, occorrerebbero almeno 400 miliardi all’anno per gli impianti industriali (e non assorbirebbero tutta la mano d’opera disponibile). Bisogna aggiungere 100 miliardi all’anno per la forza motrice, ed anche qui le previsioni sono modeste; i 20 miliardi di kilowattora, che avevamo prima della guerra, sarebbero diventati, con lo stesso ritmo d’aumento, 50 nel 1956; faremo ora gran fatica ed occorreranno 100 miliardi di lire all’anno, per portarli a 40 miliardi di kilowattora (mentre il piano Monnet, per l’elettricità, prevede 5 anni). Le nostre previsioni non sono rosee; occorre ad ogni modo che l’Assemblea ed il Paese ne abbiano comunicazione.
Bisogna che sappiano cosa si potrà fare con tutte le altre risorse, anche marginali, dell’Italia. Con l’emigrazione. Altri paesi han bisogno di nostre braccia; e le daremo; ma senza illuderci che si possa per questa via provvedere al supero della nostra mano di opera. E senza altre illusioni. In un intervento durante la discussione della Costituzione ho detto che non dobbiamo dimenticare i nostri fratelli lontani; che saranno legati a noi da una doppia cittadinanza; ma, non dobbiamo riecheggiare l’accento dei fasci italiani all’estero; sono necessari (potrebbe dirlo l’onorevole Morelli, che fu Sottosegretario appunto per gli italiani all’estero) molti riguardi per non far del male a questi fratelli. Quali sono le direttive ed i piani del governo per l’emigrazione?
E pel turismo? L’onorevole De Gasperi ha annunciato provvedimenti: li aspettiamo. Confesso e spero sovratutto in qualche organizzazione privata, come quella ideata da un italiano lungimirante, il Gualdi, per tutti gli aspetti dell’industria turistica. Ed i noli? Sono oggi molto redditizi; e converrà fabbricar navi; e comprarne delle vecchie, subito, per fare come i greci l’industria dei tassì del mare. Dovremo pensare, meglio che fino ad ora, ad una politica dell’artigianato, così italiano; è suscettibile di aver maggiore sviluppo; nello sforzo che è indispensabile dare a tutte le risorse, grandi o piccole del nostro Paese, in un piano integrale di ricostruzione.
Per la politica produttivista, ha decisiva importanza l’atteggiamento verso le imprese private. Tutte le correnti, anche le estreme, riconoscono che per la ricostruzione del Paese è indispensabile l’iniziativa e l’impresa dei privati. Da ciò si trae, come corollario, che bisogna non spaventare, ma dar fiducia a tali imprese. Il che non significa continuare nelle elargizioni che vennero fatte ad esse – con la bacchetta magica dell’onorevole Corbino – di mutui e sovvenzioni del tesoro o di garanzie a buon fine. Tanto più che ora, con le rivalutazioni e le nuove emissioni di titoli, non ne hanno bisogno. Non si deve ricorrere più ad un sistema antieconomico di favori. E tutti coloro che fanno fuggire i capitali, che evadono coi loro mezzi ed impianti, vanno duramente colpiti.
Le imprese private hanno ragione quando chiedono che si tolgono molti vincoli. Né può risorgere, in un modo o nell’altro, il corporativismo, che servì ai pesci grossi contro i piccoli. Le bardature e gli intralci inutili devono cadere; e gli interventi ridursi a quelli che sono indispensabili, in quest’economia di assegnazione da parte dello Stato di carbone e di materie, ad esempio dell’U.N.R.R.A., che le imprese debbono lavorare e rivendere a giusti prezzi. L’avvenire è ad una maggiore libertà. Ci saranno, sì, piani-guida; ma io penso che meglio di un vincolismo generale occorra una rettifica di frontiera fra i due settori, quello ove è necessità di controllo, e magari di nazionalizzazione, e l’altro dove può esser lasciata maggior libertà di movimento. Neppure i partiti estremi propongono nazionalizzazioni immediate; che pur potrebbero essere possibili, come per le industrie elettriche, ma per completare l’assetto italiano in questo campo occorrono molti miliardi ed organizzazioni pronte e capaci; e non si deve tardare ed essere espliciti; dare un termine alle imprese elettriche perché trovino i fondi e provvedano subito alle costruzioni. Se no, assuma lo Stato direttamente il compito, con una nazionalizzazione, sia a tipo integrale, sia a tipo inglese per la distribuzione. Altri ritardi a decidere non sono ammissibili. Così per 1’I.R.I.
L’I.R.I. è un enigma economico; e, sotto un certo aspetto, un altro dei paradossi che ho rilevati nella vita italiana. Come è sorto? Abbiamo nazionalizzate provvisoriamente le imprese, non perché avessero i caratteri obbiettivi per essere gestite dallo Stato, ma perché andavano a male. Fallimento, aria d’ospedale che non è sparita fin’ora. Poi Mussolini rese definitiva la nazionalizzazione per ragioni, egli disse, di autarchia e di preparazione bellica.
È un complesso poderoso ed eterogeneo di aziende che vale oggi più di 100 miliardi, né sarebbe un cattivo affare, anche se i 5 miliardi che è costato in origine, in lire d’allora, non valgano di meno. Vero è che l’ospedale continua ad aprirsi ad ospiti nuovi, con oneri allo Stato, e la gestione non può dirsi economica. Gli amici delle nazionalizzazioni si esaltano per l’etichetta e l’insegna luminosa, ma permangono nell’I.R.I. vecchie posizioni di industriali un giorno falliti, che vi stanno come topi nel formaggio. E 250 mila operai delle sue maestranze vi esercitano la loro pressione e lo considerano come campo proprio con effetto non sempre benefico (come con i blocchi dei licenziamenti e la resa del lavoro). Vi sono rami che vanno bene; altri che sono un disastro.
Che fare? Non liquidare e distruggere tutto; ma neppure continuare così. Un grande sostenitore dell’I.R.I., l’onorevole Scoccimarro, ha detto, al contrario del nobilomo Vidal: peggio di così non «la podaria andar». Bisogna sollevare i veli, precisare i compiti amministrare bene. Auguro all’onorevole Paratore, che ha tanta capacità ed esperienza, di riuscire nell’opera di sistemazione che si impone.
L’I.R.I. abbraccia aziende, che non hanno nessun carattere pubblicistico; vi era la selleria che sta davanti al Quirino, vi sono dolcerie, negozi, alberghi, tenute fondiarie; e per queste aziende si potrebbe decidere (salvo scegliere il momento e le occasioni più opportune) una smobilitazione, che darebbe una ventina di miliardi e servirebbe ai bisogni immediati di altre aziende.
Per ciò che resta, sono indispensabili idee chiare. Non vedervi un ponte, checché sia, per la nazionalizzazione universale delle industrie. Non parlare genericamente di razionalizzare la produzione, o d’impianti piloti o di controllo, senza che questa funzione sia in verità adempiuta. Si vuole fare dell’I.R.I. l’ufficio studi e il gestore unico di tutte le imprese economiche gestite da ministeri o da enti speciali (come la COGNE); ed in certi casi giova coordinare o dare all’I.R.I. alcune di tali aziende; per le quali – tutte – occorre una revisione sistematica. Ma più ancora che ingrassare e confondere, la tendenza, dentro e fuori dell’I.R.I, deve essere alla specificazione ed all’«articolazione».
Vi sono, nell’I.R.I., settori che possono stare a sé, come il bancario, passino o no le tre grandi banche a quella d’Italia, o formino insieme una Holding. Il settore della Stel va bene, e potrebbe dar luogo ad un riordinamento generale, più in mano dello Stato, di tutti i telefoni. Il sistema delle Holding fu già seguito: per la Finmare, e qui si presentano i problemi dello sviluppo futuro della nostra organizzazione. E si presentano i problemi dell’industria cantieristica, così italiana, che tutti ammirano, perché sappiamo costruire navi così belle. Tali problemi possono richiedere organizzazioni speciali, distintamente amministrate, se anche coordinate, come direttive generali e finanziarie, nell’I.R.I. Per il settore più pesante, le meccaniche e le siderurgiche, è pur da pensare ad articolazioni ed a soluzioni che possono andare anche alla nazionalizzazione integrale che fu, mi sembra, proposta per le cosidette industrie di guerra, da liberali come Einaudi.
Insomma non distruggere alla cieca, ciò che ormai esiste; ma non fermarsi perché c’è l’etichetta dello Stato e non dire: questo deve essere tabù. Qui, proprio in un buono e vantaggioso ordinamento di questa nazionalizzazione in atto, nella quale abbiamo precorso, più o mano consciamente, altri paesi, sta la prova della capacità economica dello Stato.
Finisco dove ho incominciato; occorreva un piano, un Governo, la fiducia.
Ci avete dato un programma d’emergenza. Il vostro è un Governo d’emergenza. Vi daremo una fiducia di emergenza. Non dispiacetevi dell’espressione che scaturisce logicamente dalle premesse.
Molti di noi avremmo desiderato un Governo di unione nazionale, o almeno di più larga concentrazione, che fosse insieme a direzione unica. Due cose che non sono inconciliabili tra loro, specialmente per la direttiva economico-finanziaria.
Non è stato possibile. La colpa è forse di tutti i partiti. Ci si presenta ora un Governo che si assume la responsabilità di sanare il bilancio, di contenere i prezzi, di ottenere aiuti dall’estero. L’Assemblea non si può assumere la responsabilità di aprire una nuova crisi; di mutare il chirurgo quando urge operare.
Io ricordo una frase che dissi molto tempo fa e che l’onorevole De Gasperi qualche volta ripete: tutti noi siamo alpinisti legati ad una cordata. Dobbiamo reagire ad un oscuro malcontento che sale; al senso di distacco, e quasi di ingiusto dispregio verso la Costituente che i nemici della Repubblica alimentano nel Paese.
Caro De Gasperi, quando noi vivevamo insieme, nell’epoca clandestina, dividendo fraternamente i pericoli, pensavamo all’Italia di domani, con uno stato d’animo che fu espresso così in Francia dopo il 1870: «Quanto era bella la Repubblica sotto l’impero!». Vi sono ancora gravi difficoltà, ma la Repubblica è bella, e vinceremo le difficoltà facendo ciascuno il proprio dovere.
Io l’ho fatto sul Carso e ringrazio l’onorevole Nitti che lo ha ricordato, lo ho fatto durante la lotta di resistenza, credo di aver compiuto anche ora un modesto dovere, recando a questa discussione un contributo, che spero non trascurabile, di cifre e di proposte concrete. (Vivissimi applausi – Molte congratulazioni).
(La seduta sospesa alle 19.10, è ripresa alle 19.40).
PRESIDENTE. È iscritto a parlare l’onorevole Foa. Ne ha facoltà.
FOA. Onorevoli colleghi. Le dichiarazioni del Presidente del Consiglio che noi abbiamo udite ieri in quest’Aula non hanno mutato il giudizio negativo mio e dei miei amici del partito d’azione sui moventi e sul modo della crisi e sulla formula di governo che ne è uscita. Dirò anzi che le dichiarazioni programmatiche del Presidente del Consiglio hanno aggravato il giudizio negativo, e non soltanto per la genericità delle dichiarazioni stesse, comune del resto alle dichiarazioni dei precedenti governi, genericità che fa sì che il programma del Governo rimane come sospeso a mezz’aria tra la formulazione di un chiaro metodo di azione politica e la formulazione di precisi progetti sulle singole materie.
Vi è stato nelle dichiarazioni del Presidente del Consiglio un elemento che indubbiamente contribuisce ad accrescere la preoccupazione e ad aggravare il giudizio sfavorevole che era già stato formulato in precedenza. Questo elemento è consistito nel fatto che le dichiarazioni del Governo riproducono sostanzialmente gli elementi programmatici del precedente Governo. E, dirò di più, li riproducono ponendo l’accento in modo prevalente su quella parte dei programmi dei precedenti Governi che formarono oggetto delle richieste e delle rivendicazioni dei partiti di sinistra, soprattutto dell’estrema sinistra, lasciando invece nell’ombra e sorvolando su alcuni di quei provvedimenti che possono, anche oggi, essere ritenuti necessari e che possono dare una impressione di sfavore alle sinistre.
Questo fatto è, a mio giudizio, un elemento di non completa sincerità: si è avuta l’impressione, dalle dichiarazioni dell’onorevole De Gasperi, che si sia voluta mascherare la sostanza effettiva della crisi, che si sia voluta mascherare la natura effettiva del nuovo Governo, e che, infine, si sia voluta mascherare quella che io considero – me lo consentano gli amici democristiani – non già una vittoria, bensì una sconfitta del partito democratico cristiano.
Dico questo senza spirito polemico: lo dico con molta serenità: credo che il partito democratico cristiano, che è un grande partito, con legami profondi coi bisogni popolari, sia uscito sconfitto da questa crisi. Credo che sia uscito sconfitto perché con la soluzione adottata per questa crisi, il partito democratico cristiano, ha, evidentemente, ceduto alle pressioni che da lungo tempo si esercitavano sulla classe dirigente del governo democratico italiano. Ha ceduto dopo lunga resistenza, una resistenza che durava dal tempo del primo governo De Gasperi, ha in definitiva ceduto, abbandonando i vecchi compagni di strada. È stato sconfitto perché ora il governo è caratterizzato dagli uomini nuovi e dalle forzo nuove che vi sono entrate.
Quali sono queste forze? Esse sono, dal punto di vista della democrazia parlamentare, forze irresponsabili che da molto tempo premevano contro il Governo democratico, e cercavano di metterne in paralisi i progetti, di impedirne l’applicazione, e che infine da qualche mese a questa parte, hanno esercitato un’azione diretta nel senso della crisi. Queste forze molto facilmente si identificano con quella parte (modesta come numero e come entità produttiva ma dotata di enorme potenza) del cosiddetto mondo degli affari che prende il nome di oligarchie e di monopoli finanziari ed industriali. Sono forze che non solo sono in diretto contrasto col mondo dei lavoratori, ma sono in antagonismo con tutto il resto del mondo produttivo dei piccoli e medi produttori, in una lotta feroce a coltello per esercitare una preponderanza economica che tende a diventare facilmente preponderanza politica per monopolizzare tutto quello che è il regime vincolistico, oggi ancora necessariamente così forte nello stato italiano, per controllare la manovra delle assegnazioni, dei prezzi, del credito. Sono le forze monopolistiche di cui abbiamo avuto occasione di leggere in recenti pubblicazioni dati precisi su quella che è la concentrazione patrimoniale, la capacità di manovra e la effettiva consistenza della potenza economica e quindi politica.
Ora, se noi consideriamo quale è stata la lotta che queste forze hanno condotto, fino dalla liberazione del nostro territorio, vediamo che la loro offensiva si è sviluppata con crescente energia. Esse erano politicamente battute alla fine della guerra di liberazione, perché i loro interessi erano stati costantemente in stretto legame col regime che è stato abbattuto dall’insurrezione. Esse erano inoltre economicamente screditiate di fronte al Paese e di fronte al mondo, perché sempre avevano avuto bisogno di sussidi, di aiuti, di sovvenzioni e protezioni di ogni genere. Esse hanno rialzato la testa allora, dopo la primavera del 1945, ed hanno condotto una politica coerente e sistematica. Devo dire chiaramente che i governi di coalizione, ed in particolare il governo tripartito, non hanno saputo opporre a questi attacchi una sufficiente resistenza. La loro azione politica si è mantenuta ai margini, alla superficie della politica, mentre queste forze potevano mantenere il loro dominio, consolidarlo e preparare il loro attacco finale. Effettivamente, noi abbiamo oggi, guardando dietro di noi, la precisa sensazione che la pura e semplice presenza dei partiti di sinistra nel governo non era di per sé una condizione sufficiente per lottare contro queste forze che si consolidavano, quale che fosse la composizione politica del governo. La pressione politica trovava sbocchi politici, ma, nel contempo, le forze politiche democratiche della democrazia cristiana e degli altri grandi partiti di massa non hanno potuto o saputo limitare questa offensiva, non hanno saputo limitare questo consolidamento crescente, di cui oggi noi sentiamo le conseguenze, di cui la democrazia cristiana per prima ha dovuto fare le spese. La tecnica dell’assalto di queste forze era molto semplice: si trattava di controllare positivamente le effettive leve di comando del potere statale, di liquidare, ammantandosi di un liberismo economico, cui esse più non credono assolutamente, quel tanto di intervenzionismo programmato nell’interesse generale che tanto la democrazia cristiana quanto gli altri partiti della coalizione governativa si erano sforzati di fare.
Il manto di liberismo ha servito molto bene a queste forze, anche in altri settori, perché esse effettivamente hanno potuto giovarsi di un atteggiamento, che io giudico di piena e perfetta buona fede, di un atteggiamento, che, per esempio nel settore del credito, ha fatto sì che si sia lasciata libertà di azione proprio nel periodo in cui il governo della democrazia italiana si proponeva di controllare e orientare determinati indirizzi economici e finanziari, ha fatto sì che proprio in quel periodo quel settore sia rimasto scoperto, e quindi molte forze speculative abbiano potuto costituirsi liberamente. E la sistematicità dell’azione di questi gruppi di potenza è stata molto superiore a quella dei partiti democratici. Noi assistiamo a questo fatto, per esempio, che mentre in meno di due anni si è cambiato ben sei volte nel governo democratico italiano il ministro del Tesoro – e tutti sanno cosa vuol dire il mutamento nella direzione del Tesoro e quali danni arreca – nello stesso periodo di tempo noi abbiamo avuto un solo governatore della Banca d’Italia, la quale era man mano diventata una grande potenza politica, sia pure negativa, limitativa nei confronti del governo democratico italiano.
Se noi vediamo come queste forze sono venute all’attacco, io richiamo alla mente la crisi, che pare ormai lontana nella memoria, del governo Parri. Anche allora, a giudizio mio e dei miei amici, quella crisi era strettamente connessa con il proposito dello Stato italiano di procedere ad una azione energica e sistematica nel campo dell’economia e della finanza, proposito che è stato frustrato. L’onorevole Scoccimarro, direttamente interessato, me ne può dare conferma. Venendo a tempi più vicini, io credo che difficilmente si possa contestare che, anche nel mese di gennaio di quest’anno, qualche cosa del genere sia successo. I provvedimenti Scoccimarro stavano per passare dalla fase di progettazione a quella di applicazione. Potevano essere discutibili ma erano un fatto positivo. Con la crisi tutto è stato rimesso in alto mare.
Quando parlo di queste cose, amici della democrazia cristiana, vi assicuro che io considero il vostro partito come un partito che organicamente non ha alcuna ragione di cedere a queste pressioni, anche se purtroppo vi ha di fatto ceduto. E se io fossi convinto che questo cedimento, questa alleanza, nel governo, del vostro partito con quelle posizioni di monopolio fossero definitivi io non parlerei qui o mi esprimerei in termini diversi. Ma io sono invece convinto che si tratta di un cedimento, di un’alleanza di carattere episodico e rimediabile.
Ma credo di dover dire anche una serena ed obiettiva parola su quello che è successo dopo, su quella cioè che è stata l’opera del ministro Campilli, il quale, nonostante la grave menomazione che derivava alla sua libera azione politica dalla campagna scandalistica che è stata ingiustamente condotta nei suoi confronti, seppe tuttavia fare qualche cosa, seppe, se non altro, mettere in moto la macchina. E se la gestione del tesoro è stata insufficiente come le gestioni precedenti (ciò che è comprensibile, data la campagna scandalistica che ha paralizzato l’azione del ministro) nella gestione delle finanze qualche cosa è stato fatto. Noi abbiamo avuto l’imposta patrimoniale straordinaria e abbiamo avuto l’impegno da parte del Governo di stabilire, con un articolo della legge, che l’Assemblea dovesse ratificare quel provvedimento, data la sua importanza. E se la Commissione di finanza non ha accettato, a maggioranza, alcune delle modificazioni più gravi e, a mio giudizio, più serie che sono state proposte, come l’accertamento diretto dei cespiti mobiliari e la tassazione delle società per azioni, è vero però che la Commissione di finanza si è assunta la responsabilità di proporre altre importanti variazioni le quali – notate bene, onorevoli colleghi – avevano la virtù di spaventare maggiormente quegli ambienti paurosi, non tanto perché esse venissero ad aggravare il peso della patrimoniale, quanto perché esse perseguivano l’intento di cercar di impedire la massa delle evasioni.
Ora, quando l’onorevole Presidente del Consiglio dice che il Governo accetterà i suggerimenti e le modifiche proposte dalla Commissione di finanza dell’Assemblea, io credo di dover interpretare questa assicurazione come l’impegno di portare al più presto all’Assemblea il disegno di legge.
In ogni modo non dubito, e a nessuno di noi è lecito dubitare, della sincerità e della buona volontà dell’onorevole De Gasperi, quando alla fine di marzo aveva deciso di inviare, per la sua approvazione, il disegno di legge in Assemblea, collegandolo ad una discussione generale sulla situazione economica e finanziaria, dalla quale si sapeva che doveva derivarne una spinta verso una vasta azione concreta; ed anche attraverso la relazione esemplare dell’onorevole La Malfa appariva evidente che tale discussione doveva rappresentare un elemento utile per un inquadramento ordinato di finanza, impostato su provvedimenti di emergenza. Invece della discussione, abbiamo avuto un periodo di tergiversazioni e successivamente la crisi.
Anche se oggi il Governo presentasse il disegno di legge entro breve termine alla Assemblea, è chiaro che avremmo comunque perduto altri tre mesi nonostante l’applicazione immediata del progetto ministeriale di cui do elogio all’onorevole Pella; noi abbiamo perduto altri tre mesi, e crede l’onorevole De Gasperi che le forze, le quali impunemente hanno premuto in ogni modo per ostacolare questo provvedimento e per mettere in crisi il Governo (le quali forze in questi ultimi tempi si sono ulteriormente rafforzate) non insceneranno qualche pretesto per allontanare ancora questa discussione e questo pericolo che le minaccia?
Tanto più se a questo aggiungiamo che in seno alla Commissione di Finanza era stato invitato l’onorevole Campilli (e l’onorevole Campilli non solo aveva accettato ma aveva dato prova di avere in gran parte provveduto) a portare a conclusione alcuni importanti provvedimenti integrativi della patrimoniale avviati, credo, parzialmente dall’onorevole Scoccimarro, come il provvedimento sulla rivalutazione del patrimonio delle società per azioni, come quello sulla revisione dell’organo e dei metodi di accertamento per l’imposta di negoziazione (che interessa i Titoli non quotati in Borsa), come infine il disegno di legge sull’Ispettorato del credito, di cui si è parlato da parte del Presidente del Consiglio e dell’onorevole Ruini, e per il quale non basta mettere qualcosa sulla carta, ma bisogna sapere quale ne sarà l’applicazione, con quali metodi e criteri.
È chiaro dunque che c’è stata una pressione per uno spostamento dell’asse del Governo ed è chiaro che in questa pressione il partito della democrazia cristiana (nolente e suo malgrado) è stato sconfitto.
Di fronte alla situazione che si è creata, sia pure dopo l’apertura della crisi, io credo che all’onorevole De Gasperi si aprivano davanti due strade: una che è quella di collaborare con le forze della destra economica; l’altra era quella di collaborare con le forze di sinistra, ma sulla base di un programma che il centro sinistra gli forniva e che era un programma che comprendeva l’uso e la pratica dell’interventismo statale nella misura limitata e richiesta dalle circostanze, comprendeva cioè una precisa volontà di intervento nel settore finanziario-economico in vista del risanamento del bilancio e della ricostruzione dell’economia.
Ma le strade che l’onorevole De Gasperi ha mostrato di seguire dopo l’apertura della crisi, non erano né l’una né l’altra conformi alla logica della crisi stessa; perché, nonostante che io condivida in pieno la preoccupazione che era stata espressa dall’onorevole De Gasperi circa l’inefficienza del governo tripartito e nonostante che proprio da questi settori si sia sempre levata una voce serena di critica costruttiva al governo tripartito (voce che tornerebbe a levarsi di nuovo in circostanze analoghe), le soluzioni proposte dall’onorevole De Gasperi non erano tali da sodisfare le esigenze che egli aveva formulato. La soluzione di unità nazionale, di unione sacra, non faceva che moltiplicare gli elementi di reciproca interna paralisi, anziché risolverli, a meno che non si fosse accettata la nostra proposta di una direzione economica unitaria nei metodi e nel fine.
E la seconda impostazione che ha ricercato l’onorevole De Gasperi, quella cioè del governo di minoranza omogenea del partito democristiano – ipotesi che in teoria mi sembrerebbe accettabile, perché ritengo che in certe circostanze si debba anche affrontare una responsabilità del genere – questa impostazione era illusoria, perché, nonostante il grande valore di molti uomini del partito e del gruppo parlamentare della democrazia cristiana, uomini intellettualmente preparati e modernamente orientati sui problemi economici, la democrazia cristiana non aveva, come tale, formulato una sua linea di politica economica al Paese, tanto che l’onorevole De Gasperi si è visto costretto ad andare alla ricerca dei tecnici.
In realtà, egli non andava alla ricerca di tecnici, perché li avrebbe trovati molto facilmente nel suo gruppo, tecnici numerosi e di valore erano a sua disposizione in questo settore, se egli fosse andato alla ricerca dei tecnici. L’onorevole De Gasperi andava alla ricerca di una alleanza politica, e fra le due alleanze che gli si sono offerte, quella della sinistra con una direzione omogenea propostagli da questo settore, e quella della destra che dietro un apparente rispetto dei principî di liberismo e di spontaneità e nonostante le persone dei suoi uomini più responsabili, in particolare dell’onorevole Einaudi, assolutamente e sinceramente disinteressati, rappresenta però degli interessi che nulla hanno a che vedere né con la spontaneità né con la libertà economica, la scelta l’onorevole De Gasperi l’ha fatta.
E questo credo che sia stato il suo errore politico.
La critica che io faccio all’onorevole De Gasperi è una critica politica e penso, con umana simpatia, che egli sia piuttosto la vittima che il responsabile morale di questa situazione.
Vi è stato, onorevoli colleghi, un aspetto internazionale del problema che vorrei, col dovuto senso di responsabilità, ricordare. Io credo che con le mie modeste forze abbia il dovere di contribuire, così come ogni cittadino italiano, a dissipare una impressione creata attraverso una gigantesca montatura propagandistica: l’impressione cioè che determinate condizioni per poter ricevere aiuti dall’America fossero condizioni politiche specifiche.
So che alcuni colleghi della democrazia cristiana sono persuasi, in buona fede, che vi sono delle condizioni politiche specifiche per ottenere dei prestiti dall’America. Orbene, questo convincimento è il frutto di una gigantesca montatura propagandistica, che è consistita nel non dire le cose, ma nel lasciarle capire. Ed è stata una campagna di una abilità sopraffina, che io ammiro: queste cose si sono lasciate capire, come cose che non si dovevano dire, che bisognava non dire, ma che erano vere.
Ora, queste condizioni non esistono, non esistono condizioni specifiche di questo tipo, di quel tipo che si è cercato di profilare fondendo una posizione obiettiva con i desideri di alcuni gruppi di interessi. Esistono dei limiti obiettivi imposti dalla situazione, che impedirebbero una prevalenza di dominio governativo alle forze estreme e inoltre, ne siamo tutti coscienti, esiste un limite dato dal nostro bisogno di aiuti.
Ma credo che, se da questa constatazione serena che tutti possiamo fare, si passa a presentare come specifica volontà straniera quello che è invece il desiderio di alcune parti interessate del popolo italiano, credo che si commetta veramente un grande e pericoloso errore; perché veramente ci si dispone in uno stato d’animo di subordinazione inutile e nociva.
Io sono convinto che, con una osservanza del limite obiettivo posto dalla situazione internazionale, noi possiamo collaborare col libero popolo americano e con tutti gli altri liberi popoli, senza rinunciare alla nostra autonomia di decisione.
E penso che questo è l’aspetto più pericoloso della nostra politica economica interna sotto il profilo dei pretesti di politica estera.
Perché veramente, se noi anche dal punto di vista economico mostriamo di essere in anticipo disposti ad accettare come legge qualunque manifestazione di volontà particolare, francamente credo che si possa rinunciare ad essere uomini politici, a dirigere in qualunque forma, grande o piccola, gli italiani.
Questo credo sia veramente un grande errore, una colpa verso l’Italia; e se il Governo democratico italiano fosse rimasto maggiormente fedele nella sua politica interna a quello che è stato lo spirito della resistenza e della lotta contro il fascismo, queste cose non sarebbero successe, perché quella lotta era stata impostata con assoluta, fraterna solidarietà coi grandi popoli che hanno aiutato a liberare l’Europa, ma è sempre stata impostata come autonoma e libera decisione del popolo italiano verso tutti. Questo è stato il significato di quella lotta. L’aver disperso anche nei confronti della politica economica quei valori ha avuto gravi danni anche nei riguardi dell’estero. E credo che da questo punto di vista la presenza dell’onorevole Sforza – di cui noi tutti apprezziamo non soltanto l’esperienza, l’intelligenza, ma la ferma, alta idealità – non è una garanzia sufficiente, perché l’onorevole Sforza potrà fare tutti gli sforzi che vuole, ma non potrà realizzare, se gli vengono meno nel regime interno economico le condizioni per poterla sviluppare, quella politica della testa alta che è nei suoi e nei nostri desideri, e non certo meno nei desideri del presidente del consiglio e del partito della democrazia cristiana.
Dovendo dare un giudizio preciso su questo Governo, io dico che oltre all’elemento di contradizione che ho segnalato in principio, grave elemento di contradizione, per cui il partito della democrazia cristiana si vede costretto a colorire di rosso i suoi progetti, si vede costretto a servire di copertura contro il suo temperamento, contro i suoi interessi di partito, ad una politica che non è la sua, all’infuori di questa contradizione credo esista anche un’altra grave contradizione nell’interno stesso di quella destra parlamentare che per la prima volta è entrata nel governo nella forma più nobile attraverso la persona dell’onorevole Einaudi, ma non direi nella forma più adeguata alle necessità della situazione.
L’onorevole Einaudi è la persona che tutti conosciamo. Dirò subito che non mi preoccupano i suoi sentimenti monarchici: egli è un sincero liberale che in seno al Consiglio dei Ministri in qualunque circostanza fosse necessario difenderà la libertà. Non mi preoccupano neppure le sue idee liberistiche. Mi preoccupa quel metodo che è suo, e che è inutile cercare nei suoi libri, ma che possiamo riconoscere facilmente attraverso la sua esperienza come Governatore della Banca d’Italia.
Mi rincresce che l’onorevole Einaudi non sia presente. Ho ad ogni modo verso di lui un debito di sincerità assoluta per la devozione antica che mi lega alla sua persona ed anche per l’affetto profondo e costante. E questo debito di sincerità fa sì che le mie critiche, che sono critiche politiche, debbano essere senza veli.
Io mi domando come l’onorevole Einaudi, che è un liberista – un puro, sincero liberista – si troverà con coloro che in ogni modo oggi, da quella parte del mondo cosiddetto degli affari, di cui ho parlato prima, e da parte della stampa cosiddetta indipendente, con quelle caratteristiche che sappiamo, lo acclamano e lo appoggiano, giacché hanno tutt’altre idee delle sue, anzi hanno idee e propositi esattamente opposti.
Se fossi stato presente quando si è discusso l’emendamento proposto dall’onorevole Einaudi contro i monopoli, avrei votato a favore. Mi domando ora come si troverà l’onorevole Einaudi accanto ad uno dei più alti e tipici esponenti del monopolio al tavolo del Consiglio dei Ministri.
Le critiche che io credo di poter fare alla politica dell’onorevole Einaudi – è stato veramente un peccato che l’onorevole Einaudi non abbia esposto qui il suo programma, le sue idee, non abbia formulato chiaramente il suo metodo di azione – le critiche che si possono fare al presunto programma dell’onorevole Einaudi sono di due ordini. La prima è questa: non vorrei, per lui personalmente, e non vorrei per il nostro Paese, che egli si imbarcasse in una nuova esperienza di spontaneità economica. Questa sarebbe la peggiore illusione possibile, illusione pericolosa e costosa. Noi abbiamo già fatto una volta con l’onorevole Corbino questa esperienza. Formalmente il programma appariva limpido: si trattava di dare libero giuoco alle forze della spontaneità economica, di permettere che si creasse una materia imponibile per i tributi e, una volta che l’economia fosse avviata, si sarebbe trovato modo di fare un buon prestito interno e poi un importante prestito estero per il risanamento definitivo della nostra moneta. Programma perfetto, che non teneva nel minimo conto due elementi di rigidità assoluta.
Il primo è questo: vi è un limite sociale invalicabile che dipende dai bisogni immediati dei lavoratori di tutte le categorie. A questi bisogni immediati oggi si è aggiunto un nuovo elemento di natura psicologica.
Consideri l’onorevole De Gasperi che questo Governo può significare o almeno ha significato (io spero caldamente che sia solo in apparenza) una frattura. Veramente è mancato quell’elemento di garanzia che bene o male fin’ora il governo di coalizione rappresentava. Il governo di coalizione rappresentava l’elemento di garanzia e di sicurezza per coloro a cui si chiedevano i sacrifici. Ora, questo elemento di frattura – mi creda l’onorevole De Gasperi – è uno degli aspetti più penosi e pericolosi della situazione, anche per coloro che si sentono impegnati ad impedire questa frattura, a dare tutto il loro concorso per impedire questa frattura.
C’è un altro elemento di rigidità che non è più giustificato come il precedente: è l’elemento di rigidità che deriva dai gruppi speculatori monopolistici, che sono gruppi disposti a dare tutto il loro appoggio all’onorevole Corbino o all’onorevole Einaudi, finché si lasci loro fare, ma non appena il Ministro del Tesoro o del Bilancio accennerà a toccare i loro interessi, ogni solidarietà pregiudiziale non ci sarà più.
CORBINO. Si mandano via.
FOA. È andato via lei, onorevole Corbino! È proprio per quella esperienza che non possiamo affrontare quella via.
Ora, questo elemento rigido l’onorevole Einaudi deve tenere presente.
Vi è un secondo oggetto di critica. Mi pare che l’unico significato possibile del fatto che un uomo chiamato come tecnico abbia assunto la vicepresidenza del consiglio ed il ministero del bilancio (che immagino non dovrà essere una Ragioneria generale dello Stato alzata a rango politico con funzioni contabili) indubbiamente, dicevo, l’unico significato possibile è che quest’anno l’onorevole Einaudi abbia un compito direttivo generale sulla finanza e sull’economia italiana.
Ora io mi permetto di dubitare che questo illustre e venerato uomo di scienza possa essere veramente adeguato a dei compiti che non corrispondono alla sua mentalità, alle sue inclinazioni e al suo cuore.
Si è parlato di controllo del credito. Questo problema è importantissimo sotto un duplice profilo: è essenziale nei rapporti dello Stato, del tesoro. Noi sappiamo benissimo che non si può sanare il bilancio con le imposte, sappiamo benissimo che c’è bisogno di credito.
Ed è importantissimo e decisivo per un altro aspetto; per quel tanto di programmazione che è necessaria e sulla quale io credo che neanche gli amici della democrazia cristiana abbiano obiezioni da sollevare. Da due anni, questo settore del credito è rimasto scoperto non per indolenza o incapacità, ma per una austera, dogmatica posizione del governatore della Banca d’Italia, posizione austera e dogmatica… (Interruzione dell’onorevole Ministro del tesoro).
Signor ministro del tesoro, io credo che nella mia esposizione devo riferirmi agli uomini di governo come se essi fossero presenti. Questo è, mi pare, un mio dovere di rappresentante. Non posso rinunziare a quello che volevo dire per l’assenza eventuale di un membro del governo dato che il Governo nel suo complesso è presente nell’Aula (Commenti). È una critica politica…
DE GASPERI, Presidente del Consiglio dei Ministri. Domani è convocata la Commissione per l’approvazione del progetto.
FOA. Non basta creare l’ispettorato del credito; si deve fare un controllo e si faccia; che venga esercitato dalla Banca d’Italia o dagli organi burocratici del tesoro, è un problema tecnico. Quello che conta è l’effettivo contenuto pratico che si vuol dare alla politica del credito. Ricordo due soli elementi: l’atteggiamento del governatore rispetto ad un problema come quello della sospensione del segreto bancario e l’atteggiamento del governatore rispetto alla funzione ordinaria di controllo e di direzione del credito.
Ora, sul primo punto credo che non sia un segreto per nessuno la posizione che l’onorevole Einaudi ha assunto con alta dignità e che ha esposto pubblicamente. Egli è sempre stato contrario ad una sospensione del segreto bancario anche provvisoria, sospensione che appariva necessaria perché i provvedimenti di finanza straordinaria fossero perequati e non uscissero invece, come la patrimoniale, zoppicanti. Sotto quel punto di vista sono convinto che nessun interesse può premere su un uomo come Einaudi. È una pura posizione dogmatica, che io critico, posizione dogmatica che si traduce in effetti dannosi dal punto di vista politico. Mi pare infatti che in una situazione ordinaria è perfettamente comprensibile che il risparmiatore, che vuole dare la sua fiducia, voglia sentirsi garantito e non vedere l’agente del fisco mettere gli occhi nei suoi affari. È perfettamente vero, come è logico che in una situazione ordinaria un risparmiatore dia tanta importanza ai saggi passivi della banca. Ma in una situazione come questa, io mi domando che incremento possiamo dare ai depositi fiduciari, semplicemente garantendo che il fisco non indagherà sui conti delle banche o che i saggi di interesse saranno o non saranno aumentati, quando ciò che determina veramente l’elemento di sfiducia del risparmiatore è il fatto che la lira si svalorizza.
Ora, quando un provvedimento di sospensione provvisoria del segreto bancario fosse stato preso in connessione di un piano generale di risanamento monetario, io sono convinto che un provvedimento di questo genere sarebbe stato bene accettato dai risparmiatori. Questo è un esempio in cui una posizione dogmatica incide negativamente sulla situazione politica e vorrei aggiungere che questo dovrebbe essere chiaro a tutti noi dato che in un Paese come l’Olanda, che è la culla del sistema bancario, ed in altri Paesi, come la Norvegia, la Svezia e la Danimarca, si è, senza tanti inconvenienti, adottato questo provvedimento di sospensione che non ha per nulla interrotto il flusso del credito fiduciario. Questo perché si sapeva che il Governo aveva una volontà: intendeva risanare la moneta. Questo provvedimento è stato positivo.
Secondo punto: se si vuol fare una politica del credito non ci si può limitare alla pura e semplice osservanza del controllo dell’operato dei singoli fattori bancari nei confronti del cartello bancario o dei regolamenti bancari. Certamente una certa importanza la mantiene anche questo sistema di controllo: il controllo sul limite di eccedenza dei fidi, sull’apertura di nuovi sportelli, sull’apertura di nuovi istituti in zone territorialmente delimitate, ecc. Sono convinto che anche la manovra del saggio attivo e passivo possa avere un modesto interesse: ma mi pare che oggi hanno maggiore importanza le forme d’intervento attive nel sistema bancario le quali sono purtroppo sempre mancate in questi due ultimi anni. E quando sentiamo lamentare (lo abbiamo sentito dallo stesso Presidente del Consiglio, il quale si propone di rimediare) che nel settore del credito bisogna evitare le operazioni speculative che vi si fanno – speculazioni sui riporti, sulle merci, speculazioni mascherate sulle valute che avvengono attraverso le banche – mi domando come si può pensare senza profonde riforme a provvedere ad un’azione di questo genere e come si può provvedere ad un’azione assai più importante com’è quella di orientare (non dico di determinare punto per punto) le linee generali d’investimento? Come si può fare questo se ci si limita burocraticamente al puro e semplice controllo di osservanza del cartello bancario? Come si può fare questo, quando, per esempio, di fronte al problema dei saggi d’interesse, che è un problema di modesta importanza ma per cui appunto nei limiti della sua importanza bisognava impostare un’azione manovrata, abbiamo sentito formulare questa alternativa rigida: o il mantenimento integrale del cartello bancario o l’abolizione del cartello stesso?
Riferisco dei fatti obiettivi, e penso che sotto il rapporto programmatico che l’onorevole De Gasperi ha stabilito (ed al quale non do importanza) vi è una incongruenza con la politica che noi tutti abbiamo il diritto di presumere coerente e che è quella che farà l’onorevole Einaudi.
Credo veramente che oggi si pongano dei compiti di emergenza. Non so se il significato che do alla parola è lo stesso che vi dà il Presidente del Consiglio. La situazione economica è indubbiamente grave. I dati che abbiamo uditi dall’esposizione finanziaria alla fine di marzo da parte dell’onorevole Campilli può darsi che siano stati dalla Ragioneria generale dello Stato in qualche modo gonfiati secondo un costume che indubbiamente è ingiustificato, perché suona disistima verso i ministri ed i rappresentanti del popolo. In ogni modo, a parte la valutazione di quei dati i quali potrebbero essere anche corretti in senso ottimistico, io credo che la valutazione pessimistica data allora dal ministro Campilli e dalla Commissione finanze e tesoro, sia più che giustificata. Perché quello che conta e soprattutto contava in quel momento, che era di forte ascesa dei prezzi, non era l’analisi del dato come cifra assoluta, ma era il ritmo di movimento dei dati e, in un processo dinamico come quello che si presentava alla fine di marzo, indubbiamente i dati della situazione finanziaria risultavano inficiati dal processo stesso. Quello che conta è il ritmo ascendente. Non lasciamoci illudere da questa provvisoria bonaccia, perché certe tendenze si possono arrestare o invertire per un moto di fiducia: ma il risultato non è stabile se non si provvede con elementi obbiettivi. Ora credo veramente che noi abbiamo parecchi gravi sintomi sulla serietà della nostra situazione finanziaria e monetaria.
Mi limiterò a citarne un paio. Il primo sintomo è questo: il fatto che, comunque si manovri il regime di emissione, abbiamo un livello di prezzi dei prodotti alimentari fortemente superiore alla capacità ordinaria di acquisto dei consumatori. Questo elemento di per sé è un elemento inflazionistico. Consegue da questa domanda di beni, che si innalzano i prezzi in misura assai superiore alla circolazione monetaria anche sommata alla circolazione bancaria, e in misura superiore alle cifre ponderate fra le due circolazioni e la diminuzione dei prodotti; vi è uno scarto fortissimo fra il rialzo dei prezzi e le cifre che risultano da questa ponderazione di elementi. Vi è un fenomeno che si può chiamare come si vuole, di speculazione o di velocità di circolazione, che si può più banalmente definire di scottatura della moneta.
Assistiamo oggi a forme tipiche di mercato del venditore con l’impossibilità di livellare l’offerta dei beni alla concorrenza, perché nelle operazioni interviene come elemento preponderante il rischio di svalutazione monetaria, che non viene livellato, perché è diverso fra i singoli operatori.
Lo vediamo continuamente; è un sintomo grave.
Altro sintomo, più pericoloso e sul quale penso che veramente deve operare il governo di emergenza. In un momento in cui molte persone, molti strati di popolazione, di fronte alla situazione creatasi – e che potrebbe ricrearsi ancora – avranno modo di cautelarsi e di garantirsi contro questa svalutazione, lo Stato è il solo soggetto economico, che, pur potendosi cautelare, non si cautela, e si pone nelle stesse disgraziate condizioni dei milioni di cittadini italiani, possessori di redditi fissi, i quali tutti sappiamo in che modo verranno colpiti dall’ascesa dei prezzi e dallo slittamento della lira.
Vediamo che lo Stato né nel settore tributario né nel settore creditizio, ha finora operato o prospettato delle linee di azione, perché in caso di rapida ascesa dei prezzi e dei pericoli che si creassero, esso riuscisse a controllare questi movimenti e, sovratutto (e questo è molto importante), a neutralizzare le zone di stimolo all’inflazione.
So che soluzioni di questo tipo non si improvvisano. Ma credo che un problema come questo debba stare nella coscienza di ciascuno di noi.
Se le condizioni attuali permarranno, noi possiamo coi metodi normali pensare di sanare la situazione.
Ma noi abbiamo una sola esperienza di inflazione che conosciamo bene attraverso i libri: quella tedesca. La Germania, prima di arrivare alla fase acuta, è passata attraverso fasi di bonaccia, altrettanto tranquille e serene come la nostra attuale. Non facciamoci illusioni su questo punto. Il Governo e gli uomini politici devono essere pronti, nell’eventualità d’una situazione difficile (che può determinarsi indipendentemente da valutazioni di previsione), a cautelarsi.
Ho detto queste cose per chiarire che, in una situazione come questa, si richiede una mentalità, un organismo, un gruppo di uomini, una forza politica, la quale deve decidersi ad intervenire.
Io ho profonda fiducia nei nuovi ministri, personalmente, e so benissimo che essi sapranno mirabilmente rispondere di no alle inutili richieste di spese. Ma io credo che oggi il problema non è soltanto quello di rispondere di no, ma quello di fare qualche cosa, di intervenire, di modificare gli elementi del mercato. Questa disposizione noi non l’abbiamo stabilita. Questa è la constatazione più profonda e la ragione più acuta della nostra sfiducia.
Un’ultima cosa e poi ho finito. Si è parlato di dare la fiducia a certi ambienti economici. È giusto dare la fiducia agli operatori economici, agli imprenditori, ma, guardate, dare la fiducia significa una cosa sola: dare la certezza per quel limite di tempo che è umanamente prevedibile. È un elemento di certezza. Se non sbaglio, fu il collega La Malfa il quale disse un giorno che un governo fermo riuscirà a farsi pagare. Quando si vedrà questa certezza e fermezza non verrà meno la fiducia dei cosidetti produttori, ma non vorrei che si parlasse soltanto di fiducia verso quella parte.
Noi possiamo anche concepire come una cosa profondamente ingiusta una ricostruzione fatta ad opera esclusivamente delle classi popolari, con esclusione dei ricchi, ma non possiamo concepire l’opposto. Siamo sicuri, ed è un’amara verità, che la ricostruzione, come è avvenuto nel passato, e come avverrà in futuro, si realizzerà soltanto se pagheranno le masse popolari. Questa è un’amara realtà. Sappiamo che non sarà possibile fare nulla, se non pagherà la povera gente. Quando si parla di grandi ondate di fiducia e sfiducia e si riflette che queste ondate provengono da ambienti molto ristretti e con previsioni molto limitate e che possono essere anche false, quando si parla di queste ondate e si guarda alla loro fonte, diciamo: non confondiamo la opinione temporanea della Borsa di Milano colla volontà del popolo italiano! Curiamo la fiducia anche verso il popolo.
Questo, mi pare, è un dato morale, oltre che politico, che noi dobbiamo rispettare nei nostri rapporti economici. Quindi il problema della fiducia è reciproco ed oggi si pone seriamente.
Vi è un solo punto nel quale il Governo avrebbe potuto trovare la piena unanimità di consensi e mi sono stupito che nelle dichiarazioni programmatiche non ne sia stato fatto cenno. Tutti quanti saremmo stati d’accordo, penso, se il Governo avesse fatto conoscere all’Assemblea ed avesse impegnato l’Assemblea su questo punto: di iniziare seriamente con un atto di volontà politica nuova, robusta, un’opera di risanamento dei settori malati dell’Amministrazione.
Questo è un problema che non possiamo più tralasciare. Non si tratta più di generiche voci. Esso ha formato oggetto di un rapporto ufficiale parlamentare, di quella relazione che, assolvendo i ministri Campilli e Vanoni, ha affermato che esistono dei settori amministrativi malati e quel che è più grave che esistono rapporti di corruzione fra il mondo politico e l’amministrazione.
Ora io vi dico, onorevoli colleghi, che questo problema non impegna la sola responsabilità del Governo, ma anche la responsabilità indivisibile di tutti noi; è una responsabilità uguale per tutti: il Governo e l’Assemblea, la maggioranza e la minoranza, il capo di un partito di massa e l’ultimo militante di un piccolo partito quale io sono. Questo è un problema che è moralmente uguale per tutti noi, quale che sia la sua sfera di azione pratica. E veramente è un compito difficile, lungo e laborioso; ma per il settore politico è un compito preciso nostro ed indilazionabile.
Considerate, colleghi, che è forse possibile concepire, ed è un’ipotesi contro la quale noi combattiamo con tutte le nostre energie, un fallimento, sul piano politico, del nostro comune tentativo di ricostruzione democratica. Noi possiamo fallire per i nostri errori politici o perché il corso storico ci è contrario. Questa ipotesi si può fare e noi combattiamo contro di essa; ma è una ipotesi assolutamente inconcepibile che la democrazia italiana possa fallire sul piano morale. Questo non lo dobbiamo ammettere, neppure come ipotesi.
Su questo punto, proprio su questo punto, l’unanimità di consensi l’onorevole De Gasperi l’avrebbe avuta. (Vivi applausi – Molte congratulazioni).
PRESIDENTE. Il seguito della discussione è rinviato a domani.
Presentazione di un disegno di legge.
DE GASPERI, Presidente del Consiglio dei Ministri. Chiedo di parlare.
PRESIDENTE. Ne ha facoltà.
DE GASPERI, Presidente del Consiglio dei Ministri. Mi onoro di presentare all’Assemblea il disegno di legge: «Proroga del termine previsto dall’articolo 4 del decreto legislativo 16 marzo 1946, n. 98, per la durata dell’Assemblea Costituente».
PRESIDENTE. Do atto al Presidente del Consiglio della presentazione di questo disegno di legge.
GASPAROTTO. Chiedo di parlare.
PRESIDENTE. Ne ha facoltà.
GASPAROTTO. Poiché si tratta di un disegno di legge di eccezionale importanza e poiché, d’altronde, è desiderio comune che alla sua approvazione si addivenga con particolare sollecitudine, seguendo una consuetudine praticata in passato, con la dovuta discrezione, propongo che l’Assemblea deleghi al Presidente la nomina di una Commissione speciale per l’esame, nel termine più breve che sia possibile, del disegno di legge e ne riferisca all’Assemblea.
PRESIDENTE. Se non vi sono obiezioni alla proposta dell’onorevole Gasparotto, mi riservo di comunicare domani mattina i nomi dei componenti la Commissione.
(Cosìrimane stabilito).
Presentazione di una relazione.
GRONCHI. Chiedo di parlare.
PRESIDENTE. Ne ha facoltà.
GRONCHI. Mi onoro di presentare la relazione della Commissione sul disegno di legge «Approvazione degli accordi commerciali e di pagamento stipulati a Roma fra l’Italia e la Svezia il 24 novembre 1945».
PRESIDENTE. Sarà stampata e distribuita.
Sui lavori dell’Assemblea.
MASTINO GESUMINO. Chiedo di parlare.
PRESIDENTE. Ne ha facoltà.
MASTINO GESUMINO. Vorrei ricordare la proposta dell’onorevole Bozzi di rinviare la discussione a dopodomani. Domani, quindi, non vi dovrebbe essere seduta.
PRESIDENTE. La proposta Bozzi di rinviare la discussione a dopodomani non significava rinviare a dopodomani tutto il lavoro dell’Assemblea.
Desidero fornire all’Assemblea un dato affinché l’onorevole Mastino e gli altri si convincano della opportunità o meno del rinvio. Sono iscritti a parlare sulle comunicazioni del Governo 75 oratori. Se propongo quindi all’Assemblea di proseguire domani i nostri lavori, spero che nessuno farà obiezioni.
SCOCCIMARRO. Chiedo di parlare.
PRESIDENTE. Ne ha facoltà.
SCOCCIMARRO. Domani vi sono le Commissioni e se vi sarà seduta, non si avrà la possibilità di partecipare ai lavori delle Commissioni.
PRESIDENTE. Domattina non vi saranno votazioni. Del resto le Commissioni convocate sono costituite, sì, da valentissimi colleghi, ma questi rappresentano solo una piccolissima parte dell’Assemblea. Sarebbe cosa molto bella, se tutti gli altri che non fanno parte delle Commissioni convocate domattina sedessero nell’Aula durante la prosecuzione della discussione sulle dichiarazioni del Governo!
LUSSU. Chiedo di parlare.
PRESIDENTE. Ne ha facoltà.
LUSSU. Credo che si potrà arrivare ad una soluzione utile per tutti. Penso che sia cosa possibilissima che ì rappresentanti dei vari Gruppi si riuniscano per stabilire la diminuzione del numero degli oratori. (Rumori – Interruzioni). Io credo che questa Assemblea non guadagnerà in interesse politico e neppure in dignità se conserverà i settantacinque oratori inscritti invece di portarli a venti o trenta. Ed allora permettano – e la mia è una espressione ottimistica – che si possa ridurre il numero degli oratori e far sì che la mattina non si abbiano sedute, perché vi sono riunioni di Commissioni e di Gruppi che debbono accordarsi in merito a questa crisi, tanto più che c’è chi pensa che questo Governo non dovrà vivere… (Si ride – Rumori).
PRESIDENTE. Onorevole Lussu, nessuno impedisce ai Gruppi di prendere le iniziative che vogliono. Il numero degli oratori potrà di conseguenza diminuire o crescere, ma questa è cosa che non può influire sull’ordine dei lavori.
SCOCCIMARRO. Chiedo di parlare.
PRESIDENTE. Ne ha facoltà.
SCOCCIMARRO. Desidererei partecipare ai lavori delle Commissioni e non intenderei, d’altro canto, perdere neanche un’ora della discussione sulle dichiarazioni del Governo. Chiedo che la Presidenza me ne dia la possibilità.
LUCIFERO. Chiedo di parlare.
PRESIDENTE. Ne ha facoltà.
LUCIFERO. Il numero degli oratori non mi spaventa eccessivamente. Una recente esperienza ci ha dimostrato che, anche senza una riunione dei Gruppi, il numero degli oratori si riduce notevolmente. Ne abbiamo visti decadere a diecine. È questo un limite che le Assemblee si pongono da sé, e non mi preoccupa affatto. Mi preoccupa invece, e mi associo a quanto ha detto l’onorevole Scoccimarro, la presenza del Governo perché, per discutere le dichiarazioni del Governo, è necessario che il Governo sia presente e che soprattutto sia presente il Presidente del Consiglio. Il Governo deve governare però, e se vogliamo costringerlo qui dalla mattina alla sera, i Ministri giustamente saranno assenti, e si ripeterà quanto è successo altre volte che, quando qualcuno ha fatto le sue osservazioni in sede di discussione politica, il Governo era assente.
PRESIDENTE. Rispondo all’onorevole Lucifero e all’onorevole Scoccimarro. Ciascuno valuta i problemi a seconda della posizione in cui si trova ed a seconda dei compiti che deve assolvere.
Io personalmente sono dell’avviso che il compito più urgente che si pone in questo momento è quello di esaurire la discussione sulle comunicazioni del Governo, per dare al Governo o la certezza delle sue funzioni o, secondo l’onorevole Lussu, l’annuncio della sua fine. (Si ride).
Credo che tutto il resto debba cedere di fronte a questa esigenza che non è soltanto dell’Assemblea, ma, evidentemente, di tutto il Paese.
Il Governo deve essere presente alla discussione. L’amministrazione pubblica, purtroppo, è stata per tre settimane senza il diretto controllo dei Ministri responsabili; questo stato di cose può durare ancora per due o tre giorni. D’altra parte, onorevole Lucifero, lei m’insegna che il Ministro che non è ancora sicuro della sua autorità, non prende iniziative le quali vadano al di là dell’ordinaria amministrazione (Interruzione dell’onorevole Lucifero). Onorevole Lucifero, lei ha esposto la sua opinione, io espongo la mia.
Per quanto concerne il lavoro delle Commissioni, certamente utilissimo, mi pare che si possa sodisfare la giusta esigenza fatta presente dall’onorevole Scoccimarro. Le Commissioni si potranno riunire domani mattina, anticipando di un’ora la propria convocazione e noi, a nostra volta, potremmo ritardare l’inizio della seduta: ci potremmo convocare una mezz’ora o un’ora più tardi.
Faccio presente che le lamentele per il modo come si trascinano i nostri lavori, io le sento troppe volte nel «Transatlantico», ma troppo poco nell’Aula.
Comunque, vi sono delle proposte che io pongo in votazione.
MAZZONI. Chiedo di parlare.
PRESIDENTE. Ne ha facoltà.
MAZZONI. Non ho parole sufficienti per lodare la solerzia accanita del nostro ottimo Presidente nel farci lavorare, al di là di quello che è lecito lavorare (Commenti).
PRESIDENTE. Non esageri, onorevole Mazzoni.
MAZZONI. Mi associo, comunque, alla proposta Scoccimarro. Noi siamo tutti d’accordo nel non perdere tempo, ma faccio presente all’onorevole Presidente che anche gli uomini hanno un coefficiente di resistenza. (Commenti).
Non vi è stato mai lo scandalo dei corridoi sempre pieni e dell’Aula vuota. Qui, evidentemente, c’è il fatto che da un po’ di tempo a questa parte – e qui dentro non sono tutti giovanotti – siamo sottoposti ad un regime un po’ troppo intenso di lavoro: di mattino, di pomeriggio e di notte… (Interruzioni – Commenti).
LUCIFERO. Chiedo di parlare.
PRESIDENTE. Ne ha facoltà.
LUCIFERO. Mi associo alla proposta Scoccimarro. Chiedo, intanto, una risposta, che ancora non ho avuto, Signor Presidente, perché lei ha espresso la sua autorevolissima opinione personale, della quale prendo atto, sulla presenza o non del Governo, ma desidero sapere se il Governo crede di poter essere presente o no. È evidente che in assenza del Governo le discussioni sulle comunicazioni del Governo non si possono fare.
DE GASPERI, Presidente del Consiglio dei Ministri. Chiedo di parlare.
PRESIDENTE. Ne ha facoltà.
DE GASPERI, Presidente del Consiglio dei Ministri. Io metterò tutto il coefficiente della mia diligenza per non mancare in Assemblea. Domani il Governo potrà essere presente sia al mattino, che nel pomeriggio.
MAZZONI. Bisogna ricondurre la Camera al lavoro regolare, come si è sempre fatto.
Una voce al centro. Bisognerebbe avere quattro anni di tempo!
PRESIDENTE. Onorevole Mazzoni, io desidero osservare, in merito ai suoi rilievi, che, in piena coscienza, non credo che l’Assemblea sia sovraccarica di lavoro. Se facciamo, ad esempio, un confronto con tutti i nostri collaboratori, i funzionari e dipendenti tutti dell’Assemblea, dobbiamo constatare che essi lavorano lo stesso tempo nostro e forse assolvono anche un maggiore orario. Noi non abbiamo fino ad oggi mai raggiunto le otto ore giornaliere (Commenti – Applausi).
Non si stupiscano se io adopero questi argomenti: fuori di qui sono spesso invocati contro di noi.
Ora, c’è una proposta precisa, non tenere seduta domattina. Faccio presente che si tratta, con altre motivazioni, di una proposta fatta stamani dall’onorevole Bozzi.
Pongo ai voti la proposta dell’onorevole Scoccimarro, appoggiata dall’onorevole Mazzoni e dall’onorevole Lucifero, di non tenere seduta domattina.
(Non è approvata).
Domani vi saranno dunque due sedute: alle 10.30 e alle 16.
Interrogazioni.
PRESIDENTE. Si dia lettura delle interrogazioni pervenute alla Presidenza.
RICCIO, Segretario, legge.
«Il sottoscritto chiede d’interrogare il Ministro dell’interno, per conoscere in base a quale disposizione vigente ed a quale criterio di opportunità e convenienza civili, sia consentito al Prefetto di Treviso (città devastata dalla guerra nella misura del 63 per cento dei suoi edifici per abitazione), di emettere decreto di requisizione di una casa privata attualmente occupata da ben sei famiglie di inquilini, le quali non potranno trovare sistemazione in altro alloggio, per collocarvi gli uffici della divisione Folgore, ordinando altresì alle famiglie occupanti l’edificio di renderlo in ogni caso libero e disponibile entro il giorno 15 giugno prossimo venturo.
«Costantini».
«Il sottoscritto chiede d’interrogare il Ministro dell’interno, per conoscere quali provvedimenti sono stati presi o saranno presi a carico degli organi di polizia della provincia di Salerno per i deplorevoli fatti verificatisi il 16 ed in giorni precedenti dello scorso maggio a Nocera Inferiore, dove, in occasione di uno sciopero di lavoratori dell’alimentazione (conservieri) originato dall’ostinata ed ingiustificata resistenza di industriali meridionali alla richiesta di perequazione del trattamento economico dei lavoratori del Mezzogiorno di Italia a quello dei lavoratori del Settentrione, agenti di pubblica sicurezza, per tassativi ordini prefettizi, dopo avere cercato di rompere la compattezza degli scioperanti a vantaggio degli industriali mediante intimidazioni d’ogni specie, usarono gravi ed ingiustificate violenze contro pacifici lavoratori, facendo uso non solo di manganelli, ma anche di armi automatiche, ferendone alcuni con pericolo di più luttuose conseguenze, che furono evitate unicamente dal pronto intervento di organizzatori sindacali ed uomini politici, che riuscirono, mercé opera di persuasione, a far ritornare la calma.
«E a deplorarsi anche che alcuni agenti, al comando del commissario di pubblica sicurezza di Nocera Inferiore, caricarono i lavoratori al grido di «Savoia», generando disgusto in tutta la popolazione di quella industre cittadina democratica e repubblicana.
«Sicignano».
«Il sottoscritto chiede d’interrogare il Ministro della pubblica istruzione, per sapere se non trova opportuno l’emanazione di disposizioni in virtù delle quali sia fatto obbligo agli enti locali – che sono tenuti a fornire il personale amministrativo degli Istituti tecnici ai sensi dell’articolo 24 della legge 15 giugno 1931, n. 889 – di corrispondere a detto personale il trattamento economico stabilito per quello a carico dello Stato, non essendo equo, né compatibile, che ad eguali obblighi di servizio corrisponda diverso trattamento.
«Non tutte le Amministrazioni provinciali, come ad esempio quella di Treviso, hanno parificato il trattamento economico dei segretari economici degli Istituti tecnici aventi autonomia amministrativa, con quello degli statali stabilito dal decreto legislativo presidenziale 27 giugno 1946, n. 107; né dal Ministero potrà essere preso in seria considerazione l’argomentare in uso di talune Amministrazioni – che denuncia indolenza ed incomprensione, oltreché violazione dello spirito della legge – secondo le quali mentre si riconosce la giustezza delle richieste, si ama far ricorso ai più svariati pretesti – primo fra tutti, l’intenzione di attuare nel futuro, più o meno prossimo, una revisione generale della pianta organica – ai quali soltanto l’intervento del Ministero, che l’interrogante sollecita, potrà mettere termine. (L’interrogante chiede la risposta scritta).
«Ghidetti».
«Il sottoscritto chiede d’interrogare il Ministro del tesoro, perché venga vagliato con senso di giustizia e umana considerazione la esclusione da ogni aumento passato, presente e futuro dei locali tenuti in subaffitto da sinistrati di guerra.
«Si consideri che non è da ritenersi opportuno gravare ancora su dei disgraziati, che tutto farebbero per riavere la propria casa, e che al danno originario hanno aggiunto nuovi danni ed altri ancora saranno costretti a subirne, ove non intervengano equi provvedimenti. (L’interrogante chiede la risposta scritta).
«De Mercurio».
«Il sottoscritto chiede d’interrogare il Ministro dei trasporti, per conoscere se, in considerazione del voto unanime delle popolazioni dei comuni di Casalbore, Buonalbergo, Paduli, ecc., non si palesi l’assoluta necessità di rinnovare la conclusione sino a Napoli (via Caserta) dell’autoservizio Casalbore-Buonalbergo-Paduli-Benevento, che faciliterebbe i traffici con Caserta e Napoli di studenti, impiegati e commercianti.
«Giova tener presente che, data l’esistenza di altro servizio, che pone in comunicazione i centri di Montefalcone, Castelfranco, Ginestra degli Schiavoni con Casalbore, il rinnovo della concessione agevolerebbe i trasporti di questi comuni con quelli del Casertano e del Napoletano. (L’interrogante chiede la risposta scritta).
«De Mercurio».
«Il sottoscritto chiede d’interrogare il Ministro del tesoro per conoscere quali siano i motivi per i quali non viene più dato corso alle pratiche di cessione del quinto dello stipendio.
«Si aggiunga che la Sezione credito, presso il detto Ministero, nega o rallenta la concessione del nulla osta per dette operazioni di cessione, con grave pregiudizio della classe impiegatizia, che ricorre al credito spesso per motivi di assoluta e indifferibile necessità.
«Qualora esigenze tecniche o di altro motivo non consiglino il rapido espletamento di tali operazioni, si prega vagliare la opportunità di devolvere alle banche il servizio, col rilascio del nulla osta da parte del Ministero. (L’interrogante chiede la risposta scritta).
«De Mercurio».
«Il sottoscritto chiede d’interrogare i Ministri della difesa e del tesoro, per conoscere se non ritengano necessario provvedere d’urgenza a sistemare la posizione dei reduci di guerra e più specificatamente:
premere sui Distretti militari, perché procedano alla liquidazione dei rilievi di conto in favore degli ex prigionieri ed al risarcimento per gli oggetti e valori sequestrati in prigionia;
disporre perché le pratiche di pensione privilegiata di guerra ai mutilati, invalidi e alle famiglie dei caduti, dispersi e irreperibili, vengano espletate con maggior diligenza e sollecitudine e siano resi più semplici e facili i rapporti fra gli interessati e gli uffici appositi;
aiutare con assegni di prigionia gli ex prigionieri che, entro i 60 giorni di licenza, non hanno trovato lavoro o ripresa la vecchia posizione nella vita civile;
provvedere il più rapidamente possibile al processo di discriminazione degli ufficiali, affinché venga deciso sul loro avanzamento, sulle competenze amministrative, decorazioni, adeguamenti di pensione, ecc.
«Se non credano insomma, opportuno, prestare d’urgenza un sollievo ai reduci che, per aver servito la patria, hanno diritto alla riconoscenza nazionale. (Il sottoscritto chiede la risposta scritta).
«Grilli».
«Il sottoscritto chiede d’interrogare il Ministro dei trasporti, per sapere quali sono le ragioni che ritardano la ricostruzione della stazione ferroviaria della città di Rovigo, e quali provvedimenti il Ministero intenda prendere per affrettarne la ricostruzione particolarmente necessaria in un capoluogo di provincia, in cui vi è forte movimento di merci e di passeggeri. (L’interrogante chiede la risposta scritta).
«Matteotti Carlo».
«I sottoscritti chiedono d’interrogare i Ministri della pubblica istruzione e dell’interno, per conoscere le ragioni che hanno determinato il Ministero della pubblica istruzione a sconsigliare al Ministero dell’interno l’accoglimento della delibera dell’Amministrazione della provincia di Venezia, avuto presente:
1°) che l’Amministrazione della provincia di Venezia ha, da tempo, deliberato «di assumere gli oneri di legge derivanti dall’eventuale istituzione di un liceo scientifico in Chioggia», rendendosi conto della giusta esigenza di quella popolazione, concretata in formale richiesta alle autorità superiori con l’approvazione unanime del Consiglio comunale;
2°) che di fronte alla controversa questione dì competenza fra le due autorità provinciali – amministrativa l’una, e scolastica l’altra – è opportuno che il Ministero della pubblica istruzione non si limiti a rilevare che non sono stati osservati i modi ed i termini previsti dalla legge nell’avanzare la necessaria istanza per avere il comune di Chioggia dovuto decidersi a presentare domanda direttamente al Ministero, bensì che dia alle autorità scolastiche della provincia di Venezia chiare istruzioni per far cessare il poco edificante contrasto che si trascina da mesi. (Gli interroganti chiedono la risposta scritta).
«Ghidetti, Ravagnan».
«Il sottoscritto chiede d’interrogare il Ministro di grazia e giustizia, per conoscere se non ritenga opportuno o integrare con una nuova norma o interpretare con una circolare le disposizioni dei decreti legislativi luogotenenziali 20 gennaio 1944, n. 26 e 12 aprile 1945, coi quali venivano date disposizioni in favore di quanti perché perseguitati da leggi razziali avevano posto in essere investimenti o trapassi di proprietà fittizi, consentendo loro di compiere ì necessari atti senza pagamento di una successiva tassa di registro. Infatti l’autorità giudiziaria ed i notai si rifiutano di applicare tali facilitazioni a chi, avendo fatto acquistare con danari propri un immobile a persona non soggetta alle leggi razziali, oggi – assentendo il prestanome – vorrebbe far ripassare l’immobile a proprio nome.
«Sostengono i notai e gli uffici di registro che questi trapassi debbono esser fatti a mezzo di sentenza; sostengono le autorità giudiziarie che mancando la prova della conoscenza della frode da parte del venditore non possono applicarsi le soprarichiamate disposizioni legislative.
«È evidente, invece, che la conoscenza della frode da parte del venditore non poteva esistere appunto perché si tentava di sottrarsi ad una legge severissima ed applicata con crudeltà e, pertanto, il patto doveva essere segretissimo tra il vero acquirente ed il suo prestanome.
«Pertanto dette disposizioni legislative in questo caso restano inapplicabili e quanti per sottrarsi alla persecuzione razziale hanno acquistato a nome altrui ora, passata la bufera, se vogliono ritornare alla normalità debbono assoggettarsi ad una nuova gravosa spesa. (L’interrogante chiede la risposta scritta).
«Tozzi Condivi».
«Il sottoscritto chiede d’interrogare il Ministro di grazia e giustizia, per conoscere quante sono le sedi notarili vacanti in Italia e se non ritenga necessario ed urgente provvedere alla copertura di almeno due terzi di esse:
- a) elevando il numero dei posti messi a concorso per titoli con decreto ministeriale 7 giugno 1946, nonché quelli del concorso per esami bandito con decreto del 24 dicembre 1946;
- b) disponendo per un sollecito espletamento del primo, cui hanno partecipato oltre duemila concorrenti e per la cui definizione pare nulla sia stato ancora fatto. (L’interrogante chiede la risposta scritta).
«Pat».
«Il sottoscritto chiede d’interrogare il Ministro dell’interno, per conoscere quali sono i motivi che lo hanno consigliato a diramare la circolare telegrafica del 25 marzo 1947, numero 15700, a tutti i prefetti, nella quale è dato ordine tassativo di privare gli enti comunali di consumo dell’assegnazione dei generi razionati da distribuirsi al consumo, in pieno contrasto con norme interpretative emanate in precedenza con una circolare firmata dal Presidente del Consiglio e con analoghe disposizioni dell’Alto Commissario all’alimentazione.
«Se non ritenga che tale circolare costituisca un’interpretazione del tutto arbitraria dell’articolo 1 del decreto legislativo 13 settembre 1946, n. 90, il quale necessariamente prevede la facoltà agli enti di consumo «di provvedere mediante reperimento diretto, all’approvvigionamento di prodotti e derrate non razionati».
«Infatti, se non fosse fatta menzione dei prodotti e derrate razionati, si dovrebbe intendere che gli enti di consumo devono reperire anche i generi razionati. Ma ciò è assurdo perché questa funzione è esercitata dallo Stato, mediante gli ammassi. La stessa affermazione non esclude poi che gli enti di consumo possano svolgere attività collaterali e complementari, tendenti a potenziare gli enti stessi e a moralizzare il consumo.
«Il contenuto della circolare 25 marzo 1947 tende a diminuire notevolmente l’efficienza degli enti di consumo, mentre il decreto 13 settembre 1946, a cui essa si riporta, fu emanato dal Consiglio dei Ministri per consentire agli enti di consumo garanzie statali, onde essi potessero sopperire alle difficoltà finanziarie, in riconoscimento della loro particolare funzione calmieratrice sui prezzi dei generi di prima necessità.
«Se da un lato il decreto ha servito a provocare la circolare limitativa dell’attività degli enti, sembra opportuno che l’onorevole Ministro pensi a promuovere le condizioni perché il decreto stesso trovi finalmente la sua attuazione, dopo nove mesi di attesa.
«L’interrogante nel chiedere ancora se vi siano state interferenze da parte della Federazione nazionale commercianti, tendenti a sollecitare le misure di cui alla circolare 25 marzo ed in che modo esse si fossero manifestate, pensa che sarebbe estremamente opportuno affidare in esclusiva ai comuni, agli enti di consumo o alle cooperative, ove essi siano sufficientemente attrezzati, la distribuzione ai dettaglianti dei generi razionati, dal momento che essa è un’operazione non commerciale che non comporta nessun rischio per i commercianti che, per il suo carattere di emergenza, trova negli organismi periferici menzionati i naturali interpreti degli scopi che si prefiggono gli ammassi statali. (L’interrogante chiede la risposta scritta).
«Landi».
«I sottoscritti chiedono di interrogare il Ministro del lavoro e della previdenza sociale, intorno alla necessità di provvedere con la massima urgenza a riaprire lo sbocco emigratorio verso l’Austria, che in precedenza era stato assicurato dai competenti organi periferici e ostacolato fino a chiuderlo del tutto dal potere centrale, con palese incomprensione dei bisogni che assillano le masse operaie disoccupate delle provincie nord-orientali. (Gli interroganti chiedono la risposta scritta).
«Gortani, Piemonte, Garlato, Ferrarese, Schiratti, Carbonari, Pat, Franceschini, Conci Elisabetta, Fantoni, Cimenti».
«Il sottoscritto chiede d’interrogare il Ministro della pubblica istruzione, per conoscere se intenda istituire anche in una delle Università siciliane la facoltà di lingue. L’interrogante segnala che l’Istituto orientale di Napoli ha 5000 studenti siciliani iscritti, che sono costretti ad affrontare disagi morali e materiali per proseguire il loro corso di studi. (L’interrogante chiede la risposta scritta).
«Musotto».
«Il sottoscritto chiede di interrogare i Ministri della pubblica istruzione e dell’interno, per conoscere quali provvedimenti di urgenza intendano prendere per restituire al Convitto nazionale Longone di Milano, la sede di sua proprietà, abusivamente requisita nel dicembre del 1943, a favore della Questura centrale di Milano, che ancora la occupa.
«Fa presente l’interrogante l’urgenza di restituire alla cittadinanza milanese il solo Convitto di Stato della provincia, e uno dei pochissimi di tutta l’Alta Italia, senza ulteriore indugio, così che esso possa essere messo in condizione di funzionare per l’anno scolastico 1947-48. (L’interrogante chiede la risposta scritta).
«Tumminelli».
PRESIDENTE. Le interrogazioni testé lette saranno iscritte all’ordine del giorno e svolte al loro turno, trasmettendosi ai Ministri competenti quelle per le quali si chiede la risposta scritta.
La seduta termina alle 20.50.
Ordine del giorno per le sedute di domani.
Alle ore 10.30 e alle ore 16:
Seguito della discussione sulle comunicazioni del Governo.