Come nasce la Costituzione

POMERIDIANA DI MARTEDÌ 10 GIUGNO 1947

ASSEMBLEA COSTITUENTE

CXLIV.

SEDUTA POMERIDIANA DI MARTEDÌ 10 GIUGNO 1947

PRESIDENZA DEL PRESIDENTE TERRACINI

INDICE

Commemorazione di Giacomo Matteotti:

Targetti                                                                                                           

Canepa                                                                                                              

Bolognesi                                                                                                         

Merlin Umberto                                                                                              

Rubilli                                                                                                              

Valiani                                                                                                             

Molè                                                                                                                 

Colitto                                                                                                             

Sardiello                                                                                                         

Bergamini                                                                                                         

De Gasperi, Presidente del Consiglio dei Ministri                                               

Presidente                                                                                                        

Risposte al Messaggio dell’Assemblea Costituente:

Presidente                                                                                                        

Discussione sulle comunicazioni del Governo:

Presidente                                                                                                        

Ruini                                                                                                                 

Foa                                                                                                                    

Presentazione di un disegno di legge:

De Gasperi, Presidente del Consiglio dei Ministri                                               

Presidente                                                                                                        

Gasparotto                                                                                                      

Presentazione di una relazione:

Gronchi                                                                                                            

Presidente                                                                                                        

Sui lavori dell’Assemblea:

Mastino Gesumino                                                                                          

Presidente                                                                                                        

Scoccimarro                                                                                                    

Lussu                                                                                                                

Lucifero                                                                                                           

Mazzoni                                                                                                            

De Gasperi, Presidente del Consiglio dei Ministri                                               

Interrogazioni (Annunzio):

Presidente                                                                                                        

La seduta comincia alle 16.

SCHIRATTI, Segretario, legge il processo verbale della precedente seduta pomeridiana.

(È approvato).

Commemorazione di Giacomo Matteotti.

TARGETTI. Chiedo di parlare.

PRESIDENTE. Ne ha facoltà.

TARGETTI. Onorevoli colleghi, in questi ultimi giorni, da un capo all’altro dell’Italia, dinanzi ad adunate folte, solenni, significative, anche forse ammonitrici, è stato rievocato il martirio di Giacomo Matteotti.

Oggi noi, in quest’ora, chiediamo a voi, signor Presidente, chiediamo ai colleghi tutti che ci sia consentito di ricordare Giacomo Matteotti anche in quest’Assemblea. Ricordarlo vuol dire già commemorarlo, vuol dire anche esaltarlo.

I colleghi sanno che fin dal giugno del ’45, proprio agli albori della resurrezione italiana, allora, quando appena appena il nostro disgraziato Paese era riuscito a scuotere il doppio giogo, la tirannia domestica rappresentata dal fascismo, la tirannia straniera rappresentata dal nazismo, non in quest’Aula, ma nel palazzo di Montecitorio, per iniziativa dell’onorevole Orlando, ebbe luogo una solenne commemorazione di Giacomo Matteotti, di Giovanni Amendola, di Antonio Gramsci, i tre parlamentari, che avevano pagato con la vita l’ardimento di avere condotto anche sul terreno parlamentare la grande battaglia per la libertà.

Ricordare il nostro fratello caduto, oggi, qui, in quest’ora, che fu quella della sua morte, è per noi un bisogno dell’animo; ricordarlo, qui, in quest’Aula, ricordarlo, o colleghi, proprio da questi banchi, dai quali Egli parlò in modo da segnare la propria condanna, da andare incontro al martirio, ci è sembrato doveroso e degno per questa nostra Assemblea, giacché egli cadde difendendo la libertà di parola, cadde per avere in quest’Aula parlato da uomo libero.

Egli fu il più temuto avversario, perché fu l’avversario, più implacabile e temibile, del regime, fascista. Oltre che per ragioni politiche, per ragioni di sentimento e per ragioni morali, per istinto, per la sua stessa natura. Tutto concorreva a fare del nostro Giacomo l’antitesi di quello che era il fascismo e che il fascismo voleva.

Onorevoli colleghi, noi ci troviamo qui a ricordarlo proprio nelle ore, in cui, in un giorno ormai lontano ma che nel ricordo accorato ci pare oggi, egli lasciò per l’ultima volta la sua casa, baciò per l’ultima volta la donna sua e i suoi bambini, non perché spinto da nessun particolare triste presentimento, ma perché così faceva ogni giorno, perché questo rappresentava una necessità dell’animo suo e non tornò più né alla famiglia, né al partito, né alla vita. Per la strada stavano in agguato i sicari del regime.

Egli segnò col suo sacrificio una grande pagina nella storia del nostro Parlamento.

L’uomo, che un genio del male fece arbitro dei destini d’Italia, si vantò di non avere trasformato questa nostra Aula in un bivacco per le sue camicie nere, ma egli, il Parlamento l’offese nella sua essenza, nel suo significato, nella sua missione. Riuscì a fare del Parlamento italiano uno strumento ed una maschera della sua dittatura.

Una pagina gloriosa Giacomo Matteotti segnò, col suo sacrificio, non soltanto nella storia del nostro Parlamento, ma anche in quella tanto più vasta dell’istituto parlamentare, che di pagine gloriose non è ricca. Gli usurpatori della libertà, i dittatori, trovarono in tutti i paesi, molto spesso, facile la via ad assoggettare la volontà dei Parlamenti, ai quali non chiedevano ma imponevano il consenso. Noi pensiamo quindi che debba essere, onorevoli colleghi, con un sentimento comune di gratitudine che qui si commemori la sua memoria. E a noi, a noi non resta che un privilegio; il mesto privilegio del rimpianto, del dolore fraterno. E quando parlo di noi, vi assicuro, colleghi, che è lontano dall’animo mio, dalla mia mente, il piccolo e meschino pensiero di restringere la significazione della parola, nei confini del mio partito. Quando dico che a noi resta il mesto privilegio di un particolare rimpianto e cordoglio che si sente tanto più vivo in queste ricorrenze, intendo dire, intendo riferirmi, a tutti quelli che prima di una vecchia scissione, o prima di un recente dissenso, formarono con noi l’antica famiglia socialista, sentendosi avvinti tra loro da quei legami che i dissensi posteriori non potranno mai riuscire ad infrangere: quella grande famiglia socialista di cui Giacomo Matteotti fu uno dei migliori, uno dei prediletti, uno dei beniamini, eppoi fu onore, fu vanto.

Questi sono i sentimenti che hanno ispirato il nostro intervento. E noi vorremmo, noi vogliamo sentirci sicuri che quanti sono qui, amanti della libertà, si siano compiaciuti che oggi, per la prima volta, il sacrificio di Giacomo Matteotti sia stato rievocato dinanzi ai veri, ai diretti rappresentanti della volontà popolare. Tutti, egregi colleghi, a qualsiasi partito si appartenga, si venga da una riva o dall’altra, si abbia dietro di noi delle folle o delle modeste schiere; tutti siamo qui mandati per una libera espressione di una libera volontà, ed è quindi augurale che per la prima volta dinanzi agli eletti della volontà del popolo sia rievocato ed onorato il nome dell’uomo che in difesa di questa volontà, di questa libertà, consacrò la sua opera, fece il sacrificio della sua vita. (Vivissimi, generali applausi).

CANEPA. Chiedo di parlare.

PRESIDENTE. Ne ha facoltà.

CANEPA. A nome del Gruppo parlamentare del Partito socialista dei lavoratori italiani mando un devoto saluto alla memoria di Giacomo Matteotti. I suoi principî ed i suoi metodi noi li professiamo, e sentiamo per lui come un affetto di famiglia.

Domenica scorsa tutta Italia lo ha commemorato, ed il nostro Presidente si è associato alla commemorazione con un nobile telegramma. Non è dunque più il caso di ricordare le sue mirabili virtù, non è il caso di ricordarne la ferma fede nell’ideale di giustizia e di libertà, il costante, generoso lavoro per la emancipazione dei lavoratori, gli occhi fermi in alto e il senso della realtà radicato in una vasta cultura, l’aborrimento di ogni demagogia, il saldo carattere, una intemerata vita privata.

Ma qualcuno che non l’ha conosciuto può dubitare: Nasce il mito? È un panegirico? No, o signori. Non è un mito, non è panegirico, non è agiografia. Fra tutti i ritratti tracciati di Giacomo Matteotti il più parlante è quello che ne ha fatto qui, in una di queste sale, il primo giorno che si è radunato l’Aventino, Filippo Turati. Egli, diceva, aveva uno sguardo in cui balenavano insieme a vicenda la bontà del fanciullo, la tenerezza del mistico, la volontà ferma, accigliata, dell’uomo che non piega, che esige da tutti il dovere, e prima da sé stesso. Si occupava di tutto, spronava a tutto e poiché pochi sentivano il pungolo, egli faceva tutto: lo studioso, lo scrittore, il pensatore, il preparatore di libri di maggior lena, il polemista, l’oratore, l’organizzatore.

Mito, agiografia, panegirico? No, perché queste cose che Turati ha detto poco dopo che Matteotti era morto, molte volte in altre parole le disse a me quando Matteotti era pieno di vita. Quante volte, dopo un’adunanza di Gruppo, o dopo una conversazione amichevole, quando Matteotti se ne andava, Turati, battendomi sulla spalla, diceva: «Fortuna che abbiamo lui!»

E allora l’aureola del martirio non c’era! Era realmente uomo straordinario, era degno figlio di questa «magna parens virum saturnia tellus» ed oggi potrebbe ancora essere vivo ed in età valida. Oh, potessimo averlo con noi! potesse egli lavorare alla resurrezione del nostro disgraziato Paese!

Dieci giorni prima della sua morte, il 20 maggio, da questi banchi, egli pronunziò il discorso che gli costò la vita, e, badate, non era un discorso consueto di opposizione, non era un attacco al sistema, alla violenza generica del fascismo, era una dettagliata e precisa esposizione dei mezzi con i quali il Governo fascista aveva falsato l’esito delle elezioni sostituendo schede a schede, e con ogni altra sorta di diavolerie. Aveva quindi colpito il fascismo in ciò che aveva di più detestabile, perché la frode e la calunnia dal popolo sono più detestabili della stessa violenza la quale è barbara sì, ma almeno è aperta, mentre la frode è codarda, e la frode colpiva tutto il popolo italiano e lo faceva credere, di fronte al mondo, come un popolo di pecore asservite al pastore che le conduceva al macello. Egli ha svelato l’inganno, la frode, la calunnia!

Allora il fascismo si è sentito veramente colpito, ed è per questo che il capo della masnada ne ha decretato la morte, avvenuta dieci giorni dopo al Lungotevere Arnaldo da Brescia.

Ed è, o colleghi, in questo punto dove io vi parlo adesso… (Interruzione dell’onorevole Lopardi) …sì, parlò di lì, ma in questo passaggio, quando stava uscendo, noi gli ci facemmo incontro, a stringergli la mano, a felicitarlo, ad abbracciarlo, ed egli ci disse allora col consueto suo arguto sorriso: «Sì, ma potete anche prepararmi la necrologia!». Questa è la grandezza sua. Per questo, nell’elenco purtroppo folto dei martiri che la nuova Italia deve contare, egli occupa il primo posto, perché è andato incontro alla morte sapendo di andarci e per la più nobile delle cause.

Questa è la ragione per cui il suo nome ha varcato i confini. Oggi, in tutto il mondo, il nome di Giacomo Matteotti è riconosciuto ed è ammirato come il nome di un grande martire, ed è riconosciuto ed ammirato come tale insieme al riconoscimento ed alla ammirazione del popolo italiano. Anche per questo, noi gli dobbiamo una grande, una immensa gratitudine.

E pare proprio che il destino abbia voluto marcare questo giorno 10 giugno a significare che, di delitto in delitto, si arriva poi alla catastrofe, quando un altro 10 giugno (1940) lo stesso capo della masnada che aveva ordinato l’assassinio di Giacomo Matteotti, ha scagliato l’Italia in quella guerra catastrofica che l’ha portata al punto in cui siamo ed in cui il regime fascista ha trovato la sanzione suprema.

Pensando quale onda di sangue e di dolore ha costato la riconquista della libertà è da che nobile sangue è sorta la Repubblica, onorevoli colleghi, ripromettiamo a noi stessi di fare il possibile, ognuno attraverso le proprie rispettabili ideologie, per vincere tutte le debolezze e per dedicare tutte le nostre forze all’ascensione umana, alla Patria immortale.

Questo è il mio voto, questa è la preghiera che si innalza certamente dai cuori di tutti noi, questa è la suprema aspirazione nostra. (Vivissimi, generali applausi).

BOLOGNESI. Chiedo di parlare.

PRESIDENTE. Ne ha facoltà.

BOLOGNESI. Onorevoli colleghi, oltre un mese fa questa Assemblea Costituente commemorava la morte del Capo del partito comunista italiano, Antonio Gramsci, ieri i fratelli Rosselli, oggi 10 giugno il 23° anniversario dell’assassinio del deputato socialista Giacomo Matteotti. Domani, o comunque durante il corso dell’anno, noi dovremo ricordare e commemorare altre eminenti personalità, delle quali il fascismo volle la morte, soltanto perché non abiurarono la loro fede, soltanto perché non vennero meno alla lotta contro un regime che violentemente aveva privato il Paese delle più elementari libertà, contro la folle politica del connubio agrario-capitalista che portava il Paese alla rovina.

Sono, indubbiamente, questi eroi l’avanguardia, i pionieri che tracciano ai lavoratori la strada da seguire, che indicano al popolo italiano che la via della salvezza risiede nella lotta ad oltranza contro le forze del regresso e della schiavitù.

Benché la posizione sociale di Giacomo Matteotti non fosse quella di proletario e tanto meno quella dei miseri braccianti del Polesine, egli fin da giovinetto sposa la loro causa e ben presto ne diventa il capo amato, il dirigente indiscusso. E sono migliaia e migliaia di braccianti che egli organizza nelle file del partito socialista, sono le leghe di resistenza che, sotto la sua spinta e la sua guida, sorgono in ogni paese della provincia, in difesa degli interessi dei lavoratori; è con la sua intuizione ed il suo amore verso il Polesine, infestato dalla malaria e dalle acque stagnanti, che egli anima, organizza e dirige gli scioperi dei braccianti, tesi nello sforzo di rendere produttiva quella ferace terra i cui sornioni possessori si opponevano con tutta la loro grettezza, sordi come erano ad ogni innovazione progressiva.

La parte più reazionaria della borghesia italiana, i grossi agrari del Polesine non perdonarono mai a Giacomo Matteotti, lui pure possessore di terreni, di aver risvegliato nell’animo dei lavoratori della terra la certezza che la loro emancipazione era un problema di organizzazione, di fede e di lotta.

Giacomo Matteotti alle qualità di studioso, di organizzatore, di socialista, univa quella di educatore di masse. E quando le squadracce fasciste iniziarono la loro opera di distruzione e di morte, quando le organizzazioni operaie, cooperative, camere del lavoro, circoli socialisti venivano dati alle fiamme, la sua opera di maestro educatore aveva plasmato gli umili e i timidi braccianti in giganti della fede in una società migliore, di uomini coscienti e disposti a ogni sacrificio, i cui nomi si chiamano Fei di Santa Maria Maddalena, Gherardini di Pincara, Masin di Granzette e tanti altri che i briganti fascisti trucidarono alla presenza dei familiari.

Ed in uno degli ultimi colloqui che io ebbi con lui, alla Università proletaria di Milano, ricordo l’espressione del suo dolore nello scandire i nomi dei caduti, ma nello stesso tempo i suoi gesti repentini, la parola franca e vivace, i suoi propositi per l’avvenire, lasciavano all’ascoltatore la netta impressione che Giacomo Matteotti non solo avrebbe fatto seguire alle parole l’azione, ma che questa avrebbe portata alle estreme conseguenze.

E così, come tutti gli uomini che abbracciano una fede per servirla, che non disgiungono il pensiero dall’azione, il maestro, l’educatore dell’idea socialista affrontò a viso aperto il feroce nemico, pur sapendo che la sorte sarebbe stata uguale a quella dei suoi compagni caduti.

A 23 anni di distanza dal suo assassinio, i caduti prima e dopo di lui, costituiscono il più formidabile atto di accusa contro la classe dominante del nostro Paese, la quale pur di salvare privilegi politici ed economici, al fine di impedire l’incedere delle classi lavoratrici verso la loro completa emancipazione, nel vano tentativo di far fare il cammino a ritroso alla storia di un popolo, non rifuggì dal commettere i più obbrobriosi delitti coprendosi d’infamia e d’ignominia.

Quelle forze che premeditarono, organizzarono e freddamente fecero eseguire l’assassinio di Giacomo Matteotti, oggi si ritengono ancora in diritto di organizzare e fare eseguire altri assassini (la Sicilia insegni).

Ma esse dimenticano che il sacrificio di tanti dei nostri ha fatto sì che gradatamente si è cementata e rafforzata l’unità di tutti i lavoratori, alla cui testa vi è la schiera dei nostri morti, che ci additano il cammino da percorrere.

Sono questi i sentimenti coi quali a nome del Gruppo parlamentare comunista e mio personale, sicuri interpreti del pensiero di tutti i lavoratori del Polesine, noi ci associamo alla commemorazione di Giacomo Matteotti. (Applausi).

MERLIN UMBERTO. Chiedo di parlare.

PRESIDENTE. Ne ha facoltà.

MERLIN UMBERTO. Onorevoli colleghi, il Gruppo parlamentare della Democrazia Cristiana mi affida l’alto onore di parlare all’Assemblea in questa circostanza così solenne, che vuol ricordare a noi ed a tutti gli italiani, il sacrificio generoso di un uomo, il cui nome è già salito alla storia d’Italia e del mondo.

Una unica ragione (io penso) può aver deciso il mio Gruppo a questa scelta: l’esser io nato nella stessa terra del Polesine, che gli diede i natali, per cui io porto in questa celebrazione l’omaggio rispettoso e riconoscente di tutto il mio gruppo e l’affettuoso ricordo della dolce terra natia che Egli amò profondamente ed onorò con le opere.

Giacomo Matteotti invero, nato a Fratta, fu un socialista, che visse e lottò per la redenzione dei lavoratori del suo Polesine.

Egli era buono, profondamente buono, umano e generoso, fermo nella difesa delle sue idee, ma rispettoso del pensiero altrui.

Fummo compagni di scuola, le nostre idee divergevano profondamente, eppure la nostra amicizia fu sempre profonda e sincera.

Venuto alla Camera nel 1919, egli dette subito prova del suo alto ingegno, dei suoi studi profondi, della sua vasta cultura; fu una rivelazione ed era una immancabile promessa.

Per poterlo trovare non si doveva cercarlo nei corridoi o nel salone, ma all’ultimo piano, in biblioteca, ove egli studiava sempre per perfezionare e completare la sua già vasta cultura.

La Camera ascoltava poi i suoi discorsi con quella attenzione che solo è riservata ai grandi oratori.

Per disgrazia nostra e del nostro Paese nacque il fascismo e questa dottrina funesta scelse le sue vittime proprio tra i lavoratori. Giacomo Matteotti, fu il combattente aperto e risoluto contro questa dottrina, senza attenuazioni e senza riserve.

Fu perciò che il fascismo lo ritenne come il più forte avversario, e lo volle abbattere, illudendosi di vincere con ciò la sua battaglia.

Il discorso forte e coraggioso, severo ma giusto, audace ma consapevole, che egli pronunciò in quest’Aula il 10 giugno 1924, fu l’ultima manifestazione della sua oratoria politica, ma fu anche il suo volontario sacrificio per difendere la causa sacra della comune libertà.

Egli lo sapeva; e il suo compagno di fede e maestro che lo amava come un figliolo, Filippo Turati, ci ha poi raccontato che i suoi stessi compagni gli avevano manifestato le loro ansie e i loro timori.

Ma egli parlò ugualmente, perché le elezioni del 1924 erano state una beffa atroce, da diventar tragedia e perciò meritavano di essere annullate non in parte, ma per tutto il Paese. Finito il discorso, fra le continue ed irose interruzioni dei fascisti presenti, il folle uscì nella famosa frase: «Quell’uomo non deve più circolare». E i varî Dumini non si fecero ripetere il comando due volte.

Perciò egli fu colpito; perciò egli è morto. La nuova storia d’Italia nasce dal suo sacrificio perché, dopo di esso, ogni possibilità di contatto e di collaborazione col fascismo fu rotta e il suo sangue generoso fu la barriera che divise il Paese in due campi: quello di coloro che vollero vivere da uomini liberi e quello di coloro che vollero vivere da schiavi.

I primi furono sopraffatti; non importa: il loro sacrificio fruttò egualmente. Quando essi vollero uscire da quest’Aula per salire l’Aventino, si scrisse che commettevano un errore politico. Potrà essere; ma coloro che parteciparono a quel movimento non furono mossi da calcolo politico. Essi sentirono una cosa sola, sentirono il comando morale che impediva loro di rimanere a contatto con coloro i quali erano o gli esecutori o i mandanti, o quanto meno moralmente i responsabili di aver fatto spargere il sangue generoso di Giacomo Matteotti.

La politica del resto deve fondarsi su saldi principî morali di difesa e di rispetto della persona umana. Ecco perché, colleghi, ricordando il sacrificio di luì, noi fermamente pensiamo e crediamo che l’olocausto di Giacomo Matteotti non sia stato vano, ma sia stato anzi il seme fruttuoso della lontana riscossa.

Qualunque cosa accada, il popolo italiano, dopo il duro servaggio, dopo le rovine che ha tratto con sé, ricorderà sempre quale bene prezioso sia la libertà, vero dono di Dio, profumo della vita, senza del quale la vita non merita nemmeno di essere vissuta. Noi stessi, pur divisi dalle nostre ideologie, siamo usciti migliori dalla grande bufera: più tolleranti e più buoni; e soprattutto persuasi che le lotte di partito devono trovare un limite nel rispetto del pensiero e dell’azione degli altri.

Ecco perché, onorevoli colleghi, la figura di Giacomo Matteotti grandeggia nel mondo. Il suo sangue generoso, come quello di Giovanni Amendola che venne dopo di lui, di Giovanni Minzoni, sacerdote di Cristo, che lo ha preceduto, costituisce il cemento più solido con il quale il popolo italiano sta ricostruendo, con la sua fatica e il suo lavoro, le fortune immancabili della Patria immortale. (Vivi applausi).

RUBILLI. Chiedo di parlare.

PRESIDENTE. Ne ha facoltà.

RUBILLI. Il partito liberale, per mio mezzo, si associa alla solenne commemorazione, alle nobilissime parole che da ogni parte sono state pronunziate e rivolte alla memoria di Giacomo Matteotti. Perché Giacomo Matteotti non appartiene ad un partito soltanto; appartiene a tutti i partiti, appartiene alla storia, appartiene all’umanità.

Mentre rivolgo commosso il mio pensiero alla sua memoria, io rievoco in pari tempo quei momenti – più che momenti – quegli anni tristi e dolorosi che attraversammo; e ricordo nell’epoca di Giacomo Matteotti che cosa era quest’Aula. Oggi, nella solennità di questo ambiente, noi liberamente discutiamo e pensiamo a risolvere con tutte le nostre forze, con tutta coscienza e sincerità i problemi che maggiormente interessano la Nazione. E siamo lieti che ci sia consentito l’adempimento di questo grande dovere, per tranquillità della nostra coscienza, per la garanzia dei legittimi interessi del popolo. Ma che cos’erano i tempi di Giacomo Matteotti? Qui non si viveva; qui non si aveva un momento di tregua e di respiro; qui non c’era calma per pronunciare una parola: aggressioni continue da tutte le parti; tentativi di strozzare ogni voce, la quale si levasse nel nome del popolo inneggiando alla libertà. Ed io ricordo i momenti più difficili, in cui si votavano leggi che rappresentavano l’annientamento di ogni libertà e di ogni ideale democratico; quando i deputati dell’opposizione erano costretti a rimanere qui, girando pensosi per i corridoi, per il salone, per le sale di Montecitorio, ed aspettando che si facesse l’ora in cui si chiudeva il palazzo – allora si chiudeva alla mezzanotte – per poter uscire per vie segrete e per salvarsi da eventuali aggressioni.

Io rievoco la scena che si svolse in quest’Aula, quando si ebbe la notizia dell’assassinio di Giacomo Matteotti. Rivedo Gonzales da quei banchi, nella pienezza delle sue forze, con la grande commozione dei suoi sentimenti nobilissimi e sinceri, rivolgersi al capo del Governo, che era a capo chino, e dirgli: «Dunque, si assassina per le vie d’Italia!» E un silenzio funebre, triste regnava nell’Aula. Io li ricordo quei momenti tristi e dolorosi.

Una voce. Chiesa disse: «Il Governo tace!».

RUBILLI. Ricordo anche questo. D’altronde ho di già detto che il governo taceva e vi era silenzio dovunque, allorché alla frase di Gonzales seguì quella di Chiesa: «Il Governo tace».

LOPARDI. E aggiunse: «Dunque è complice».

RUBILLI. Sì, così disse: «Il Governo tace; dunque è complice». E se non l’avesse detto, si comprendeva. Non era un delitto individuale; era un delitto politico, non c’era dubbio. Si ebbe il coraggio di dirlo, in quest’Aula, Ecco la grandezza degli uomini di quel tempo. Ma quel che si disse, si era di già intuito; era nella coscienza del popolo italiano.

E Giacomo Matteotti non venne spento soltanto per il discorso coraggioso che ebbe a pronunciare in quest’Aula. Sarebbe un errore il dirlo. Sì, quel discorso rappresentò l’occasione, forse, dell’assassinio, rappresentò la causa immediata, diciamo così; ma non per questo egli venne assassinato; Giacomo Matteotti fu ucciso perché era un uomo assai temibile.

Noi ricordiamo la sua fede, il suo carattere; ricordiamo più specialmente la sua inflessibilità che tante volte lo metteva anche contro il partito, che egli non aveva nessuna difficoltà ad osteggiare, quando era sospinto dai suoi saldi principî e dalla sua coscienza.

Era un uomo che per la sua tempra si rivelava veramente come un poderoso avversario per il fascismo; non per il discorso in sé stesso, che poteva anche passare immediatamente o essere dimenticato, ma appunto perché il discorso medesimo era uno di quei segni rivelatori che dimostravano un carattere ed una inflessibilità capaci di rappresentare un serio pericolo per il regime.

E poco dopo venne un altro episodio, ugualmente triste: l’assassinio di Giovanni Amendola, eseguito con le stesse modalità, per la stessa ragione. Perché, è vero, anche Giovanni Amendola pronunciò nel giugno o nel luglio – non ricordo bene – da questi banchi, da questi settori appunto, da questi primi posti proprio qui vicini, un discorso poderoso contro il regime; ed immediatamente dopo si sospese la seduta e ampi, larghi furono i commenti che per il salone e per i corridoi si facevano; ma più che pel discorso rimase vittima di violenta premeditata aggressione, perché era l’uomo più indicato a poter fronteggiare il fascismo, a guidare le masse, a scendere all’azione veramente efficace. Per questo, qualche mese dopo il discorso, fu assassinato Giovanni Amendola!

È desidero ricordare anche, onorevoli colleghi, che dal sangue di Matteotti, come avviene spesso dall’olocausto dei martiri, stava per derivare la salvezza della Patria nostra.

LOPARDI. Tradì la monarchia!

RUBILLI. No, fummo deboli tutti quanti! Ma lasciamo stare, non è questo il momento di fare processi politici. Colpe vi saranno state da tutte le parti, ma questo lo accerterà la storia in momenti più calmi e più sereni in cui si potrà meglio giudicare quali le colpe della monarchia, quali quelle degli altri. Lasciate che rivolgiamo commossi, in questo momento, soltanto il pensiero alla memoria di Giacomo Matteotti! (Applausi).

Solo mi è sembrato utile aggiungere e ricordare che il sacrificio della sua nobile vita poteva anche salvare la Patria dalla rovina che ne seguì. Perché, se ho rievocato tempi in cui si viveva di minacce, e di violenze, non posso fare a meno di ricordare anche l’estate del 1924, quando il popolo rimase così commosso, dall’assassinio di Giacomo Matteotti, che, se fosse stato ben guidato, senza dubbio sarebbe stato pronto ad una legittima reazione e avrebbe indiscutibilmente abbattuto il fascismo. Fu debolezza dei dirigenti di tutte le parti – lasciamo stare! – ma non colpa di popolo. Il popolo aveva aperto gli occhi, aveva capito, e il regime era completamente avvilito, consapevole della sua caduta, consapevole della sua disfatta di fronte al sentimento quasi unanime della Nazione. Basti dire che si nascondevano i distintivi, nessuno camminava più per le vie col distintivo, s’imponevano sentimenti di preoccupazione e di prudenza. Ma si ritenne a torto che il pericolo fosse svanito, non si seppe valutare l’eventuale atteggiamento degli avversari in una disperata ripresa di forze e di audacia; alla debolezza dei dirigenti si aggiunse la discordia, e dopo pochi mesi le sorti mutarono, col ritmo di più tristi vicende politiche.

Ma facciamo almeno che dalla memoria di questi grandi martiri si possano trarre voti augurali, sicuri auspici oggi per un’opera concorde la quale veramente concorra alla salvezza ed all’avvenire dell’Italia nostra. (Vivi applausi).

VALIANI. Chiedo di parlare.

PRESIDENTE. Ne ha facoltà.

VALIANI. Il movimento di Giustizia e Libertà, a nome del quale mi onoro di parlare, nella sua prima forma ancora embrionale, sorse dalla rivolta morale della parte più sensibile della giovane generazione del tempo contro il Governo tirannico che aveva fatto assassinare Giacomo Matteotti. L’antifascismo preesisteva al sacrificio di Matteotti. Discorsi politici importanti contro la dittatura furono pronunciati anche prima di quello con il quale il Segretario generale del Partito Socialista unitario aveva segnato la propria condanna a morte. Decine di militanti del movimento operaio italiano furono trucidati ancor prima del 10 giugno 1924. Ma il sangue sparso in Lungotevere Arnaldo da Brescia ebbe la virtù di formare veramente lo spartiacque, di obbligare tutti a prendere irrevocabilmente posizione.

Molti uomini della democrazia parlamentare che avevano avuto fino a quel momento un atteggiamento cauto, talvolta addirittura possibilista, dovettero schierarsi in un atteggiamento di irriducibile opposizione. Alcune migliaia di giovani repubblicani, comunisti socialisti, giellisti, libertari trassero dal martirio dì Matteotti la convinzione che fosse ormai inevitabile, indispensabile, scendere sul terreno sul quale la dittatura desiderava condurre la battaglia: il terreno della lotta armata per la libertà. Nei venti anni successivi al 10 giugno ’24 noi abbiamo condotto la lotta armata contro il fascismo, e per la maggior parte di questo periodo l’abbiamo condotta in condizioni disperate. Non l’abbiamo fatta volentieri, non l’abbiamo fatto per crudeltà; ma solo perché sapevamo che l’albero della libertà fiorisce solo dove è irrorato periodicamente dal sangue dei martiri e dei tiranni. Questa lotta iniziata nel nome di Giacomo Matteotti ha avuto la sua conclusione con l’insurrezione dell’aprile 1945.

Questa doverosa constatazione storica, non la faccio per spavalderia: ogni sentimento d’odio e di rancore esula ormai dalla nostra anima. Se Giacomo Matteotti fosse qui tra noi, egli, capo del socialismo democratico, inteso come idea di emancipazione umana, sarebbe fautore di una riconciliazione con quanti in buona fede combatterono dalla parte a noi avversa e opposta e che oggi conoscono per dura esperienza il valore della Libertà. La durissima, sanguinosa lotta che abbiamo sostenuto anche per vendicare Giacomo Matteotti, ma soprattutto per mantenere integre le sue idee, è cosa che oggi dobbiamo rievocare, perché, a due anni di distanza dal momento in cui quegli ideali parvero trionfare, rialzano la testa gli spettri della guerra, dell’oppressione, della manomissione dell’indipendenza degli individui e dei popoli inermi da parte dei potenti. A queste nuove minacce che sono nella situazione internazionale, ma che non mancano del tutto in quella interna italiana, noi opponiamo le idee di Giacomo Matteotti, il socialismo, la libertà, l’Internazionale dei lavoratori che sono sopravvissuti al fascismo e sopravviveranno anche alla più moderna politica di potenza. (Applausi).

MOLÈ. Chiedo di parlare.

PRESIDENTE. Ne ha facoltà.

MOLÈ. Non era necessario che, per commemorare Giacomo Matteotti, parlassero, in nome dei diversi partiti, tanti oratori.

La religione della libertà, santificata dal martirio, non ha partito. E quando un morto è più vivo dei vivi, e ha consegnato il suo nome alla storia ed è stato dalla morte consacrato alla immortalità; quando le vicende della sua vita sono nella coscienza, nel ricordo, nella venerazione, non solo del popolo italiano, ma di tutti i popoli civili, non è necessario aggiungere parole di celebrazione, che possono sembrare inutili, vane, e forse irrispettose.

Una sola cosa io voglio qui dire ed è qualcosa che dal passato si riverbera nell’avvenire.

Io voglio in quest’aula, da cui Egli mosse verso il sacrificio e donde originò il delitto orrendo, che commosse la coscienza civile universa, ricordare l’insegnamento che a noi viene dal martirio di Giacomo Matteotti.

Da qui, per avere Egli fatto risonare quest’Aula della sua implacabile critica, mosse verso il sacrificio; e da qui, come affermò Filippo Turati in una commemorazione, che fu la rievocazione dell’Uomo, nella interezza della Sua personalità, da qui partì il grande mandato, che fu l’invito ad uccidere un deputato, perché deputato, per fare ammutolire la sua parola fustigatrice e per impedire, con la funzione della critica, l’esercizio e la ragione stessa del mandato parlamentare.

Ecco quello che dobbiamo ricordare oggi, o signori, in quest’Aula, nel giorno anniversario della morte di Giacomo Matteotti.

La soppressione di Giacomo Matteotti fu il primo tentativo di sopprimere la tribuna parlamentare. Egli iniziò la serie gloriosa e sanguinosa dei deputati martiri, ma altri lo seguirono: Giovanni Amendola, Antonio Gramsci, che perirono in maniera meno drammatica, ma con più lenta e forse maggiore perfidia uccisi perché deputati, uccisi a causa del mandato, uccisi nell’esercizio del mandato. Così fu compiuta la soppressione del mandato parlamentare e la voce della tribuna fu soffocata.

Prendiamo insegnamento, onorevoli colleghi di tutte le parti dell’Assemblea, a qualsiasi corrente politica o ideologica apparteniamo, prendiamone insegnamento, per rinnovare la nostra fede negli istituti rappresentativi.

La tribuna parlamentare è il grande megafono, che raccoglie la voce saliente delle moltitudini e la fa arrivare ai governanti come incitamento, orientamento, monito; è il grande strumento insostituibile della sovranità popolare. Il giorno in cui la tribuna tace, è l’inizio della dittatura. Il giorno in cui la tribuna non ha voce, finiscono le correnti politiche, il movimento delle idee, l’urto dei partiti, l’attrito delle forze ideali, che illuminano la coscienza civile e indirizzano l’opera di governo. E allora la democrazia agonizza. Muore la libertà. Questo avviene quando la tribuna non ha più voce. Perché la tribuna parlamentare non avesse più voce, il fascismo assassinò Matteotti, Amendola, Gramsci. E la tribuna parlamentare tacque. E quando la tribuna parlamentare tace, il popolo diventa inerme o inerte. E quando il popolo è inerme o inerte, i dittatori ne profittano, per arrampicarsi sui cadaveri delle libertà strangolate.

Questo oggi dobbiamo ricordare. Il sangue dei martiri non fu versato invano, se noi ricordiamo che la tribuna parlamentare non si tocca, è inviolabile; se noi, traendo lezione dal passato, nel nome di questi morti insigni e degli altri oscuri ed ignoti, i partigiani senza sepolcro, i morti senza nome, i gloriosi senza gloria e senza posterità, riaffermiamo che la sovranità popolare è intangibile e che bisogna difendere ad ogni costo lo strumento insostituibile di questa sovranità.

Questo è il monito che si leva dal martirio di Giacomo Matteotti,.(Vivi applausi).

COLITTO. Chiedo di parlare.

PRESIDENTE. Ne ha facoltà.

COLITTO. Anche da questo settore, in quest’ora particolarmente delicata del nostro Paese, si leva, sottilmente velata di commozione, una parola, la mia, rievocatrice, a nome del Gruppo, della bellezza radiosa dell’anima di Giacomo Matteotti. Dinanzi alla memoria incancellabile di lui, che fu milite fedele e nobilissimo di un’idea e la vita tanto preziosa sacrificò per la libertà, noi ci inchiniamo reverenti e non esitiamo a dichiarare di sentirci migliori, perché, parlando di lui, sentiamo di attingere le vette, donde è possibile spaziarsi ad osservare l’orizzonte infinito dello spirito. Egli ha alimentato col suo sangue, goccia a goccia, la fiamma, e questa, pur fra delusioni, dolori, contrasti, ha finito col guizzare, vivida e sicura, verso il cielo. Nell’ammirare questa fiamma, estatici, perché in essa noi vediamo vibrare tutti i valori etici, che in mirabile armonia inghirlandano le anime superiori, noi traiamo da essa nuovo ideale alimento per i nostri cuori, nuovo fervido incitamento a sempre meglio operare e nuova vivida fede nel rispetto da parte di tutti della libertà, nel trionfo della democrazia, nella resurrezione della Patria. (Applausi).

SARDIELLO. Chiedo di parlare.

PRESIDENTE. Ne ha facoltà.

SARDIELLO. Reco a questa rievocazione di Giacomo Matteotti l’adesione di sentimento e di pensiero del Gruppo parlamentare repubblicano. Del Gruppo parlamentare repubblicano che, nella parola e nell’opera indimenticabili di Giacomo Matteotti, risente anche l’eco della battaglia antifascista intrapresa in quest’Aula da uno dei suoi più alti e più degni componenti di allora: da Eugenio Chiesa.

È profondamente triste, ma è grandemente ammonitore, questo tornare, di giorno in giorno, di ricordi così solenni, di date tragiche così profondamente incise nell’anima del popolo. «Sparsa è la via di tombe; ma com’ara ogni tomba si mostra: – la memoria dei morti arde e rischiara – la grande opera nostra». Morti da tutte le parti, caduti per una causa sola, grande ed eterna, per cui Giacomo Matteotti, attraverso il suo sacrificio, non è più vostro soltanto, o amici socialisti, non è nostro e non è di quella parte o di un’altra: è dell’Italia; è delle conquiste della civiltà e della libertà nel mondo. La gloria di Giacomo Matteotti viene da un anelito vivo e profondo alla libertà, ed è per questo la consacrazione di una fede, di una idealità sinceramente, chiaramente democratica; viene, attraverso il sacrificio, dal fiotto di sangue nel quale hanno cercato di soffocare la sua grande voce; ed è perciò condanna eterna, inobliabile contro la violenza quando vuole sostituirsi al libero dibattito delle idee nelle lotte civili. Per questo significato, per queste note essenziali, il sacrificio ed il ricordo di Giacomo Matteotti ammoniscono ancora, sono presenti ancora, comandano ancora – oggi forse più che ieri – richiamando tutte le libere forze della democrazia, che vogliono ogni rinnovamento nella luce della libertà e della giustizia sociale, a rivolgersi tutte, come una forza sola, ad un comune compito, sopra una stessa strada, verso un solo destino, perché l’Italia viva ancora! (Applausi).

BERGAMINI. Chiedo di parlare.

PRESIDENTE. Ne ha facoltà.

BERGAMINI. Con viva commozione ricordo la tristezza di questo giorno, 10 giugno di 23 anni fa, quando a sera tarda trapelò la prima notizia oscura su Giacomo Matteotti. La prima notizia diceva che egli non era tornato alla sua casa, ove lo aspettavano ansiosamente i suoi cari: era misteriosamente scomparso. Nei circoli giornalistici e politici vi fu un presentimento fosco, angoscioso, che, ahimè, ebbe la sua conferma. Il giorno dopo, la notizia più dolente, e temuta, fu certa e si sparse suscitando accorata impressione. Socialista devoto alla sua fede, studioso, coscienzioso, sagace ed acuto critico del bilancio dello Stato e – perché sagace e acuto – molesto al regime, che era insofferente di opposizione; un suo franco onesto severo discorso segnò la sua fine: «meritava una lezione!»

L’onorevole Canepa ha or ora rammentato alcune tragiche parole riferite dal grande maestro di Matteotti, Filippo Turati, parole che io avevo dimenticato, e che fanno sentire un brivido. Il Turati raccontava che Giacomo Matteotti agli amici festosi e congratulanti per il suo poderoso discorso, rispose stoicamente: «Grazie, ma preparate la mia necrologia».

Grande fu l’impressione che subito seguì: per l’orrendo delitto profondo il rimpianto per la nobile vittima, diffuso il senso di protesta e di rivolta della coscienza pubblica. A mano a mano che si conoscevano gli atroci particolari del delitto e mentre si cercava affannosamente, disperatamente, un cadavere che non si trovava, l’indignazione pubblica contro il regime salì a tale grado, che ad un tratto sparirono tutti i distintivi fascisti e Palazzo Chigi, sede del capo del Governo, fu disertato ed abbandonato.

Si disse allora, è vero, onorevole Rubilli, che cinquanta uomini di coraggio e di vigore avrebbero potuto rovesciare il fascismo. Non fu rovesciato, non cadde: ma il delitto di Matteotti impresse al fascismo un marchio di vituperio, indelebile: marchio che è rimasto come una colpa abominevole. «Più che un delitto – gridò al Senato Filippo Crispolti, rievocando una frase storica – più che un delitto, è stato un errore». La verità è che fu soprattutto un brutale delitto, ripugnante alla civiltà, alla umanità italiana ferita, umiliata, abbassata.

Con la commozione di quei giorni lontani ma vicini al mio spirito, anch’io saluto la memoria di Giacomo Matteotti: per impulso del mio cuore, e perché l’onorevole Targetti, che ha pronunziato un così alto e vibrante discorso, sia assicurato che in certe ore della storia, dinanzi a certi olocausti e a certe figure che si impongono per la loro grandezza, siamo tutti uniti nel culto, nella ammirazione, nell’amore. Vivrà perenne la memoria di Giacomo Matteotti nella luce del sacrificio; vivrà sempre riverita, finché siano onorati, nel nostro paese, il carattere, l’ingegno, la cultura, la devozione al proprio ideale. (Applausi).

DE GASPERI, Presidente del Consiglio dei Ministri. Chiedo di parlare.

PRESIDENTE. Ne ha facoltà.

DE GASPERI, Presidente del Consiglio dei Ministri. Il sacrificio di Matteotti fu, come ricordiamo, in un primo periodo il segnale di raccolta di tutti gli uomini che in questo atto di violenza videro un pericolo per la libertà. Parve, nel primo periodo, che portasse senz’altro al rovesciamento della dittatura e alla rivendicazione dei diritti parlamentari. Ricordiamo invece con tristezza il secondo periodo, immediatamente seguito, quando si ebbe l’impressione che per inefficienza di uomini o per brutalità di eventi la battaglia fosse perduta e che il sacrificio fosse stato vano. Ed invece no; quella che poteva apparire una sconfitta parlamentare fu nel Paese una grande scossa ed una grande riscossa morale. Rimase nella coscienza popolare il ricordo ed il senso di giustizia, e la reazione morale alimentò, provocò e promosse l’antifascismo. Creò la solidarietà nella libertà, rese possibile l’unione nella democrazia. Ecco dunque l’insegnamento: la violenza – e la dittatura è violenza – incontra sempre nella storia, presto o tardi, una nemesi. Bisogna resistere alla suggestione della violenza, bisogna resistere alle suggestioni dei mezzi rapidi e dittatoriali, anche nei momenti più critici, bisogna ricordare che la violenza, oltre che ingiusta, è anche infeconda, e che essa, alla fine, nella storia perde la partita. Ci unisca, onorevoli colleghi, tutti dell’Assemblea e del Governo, in questo omaggio a Giacomo Matteotti, il proposito di onorare in lui la libertà, l’indipendenza, la dignità della nostra Nazione. (Vivi, generali applausi).

PRESIDENTE. (Si leva in piedi, e con lui si levano in piedi i componenti del Governo, i deputati e il pubblico delle tribune). Il fascismo, fra tante eredità di miserie e di rovine, una ricchezza ci ha lasciato: di memorie tragiche, di tombe su cui raccoglierci dolorando, di martiri da onorare: nati da ogni Regione italiana, sorti da ogni ceto sociale, aderenti ad ogni fede politica che fosse appena colorita da amore di libertà e da sensi di fraterna solidarietà umana.

Ma Giacomo Matteotti, fra tanto olocausto, è stato prescelto dal popolo come simbolo di tutte le vittime che il fascismo ha sacrificato alla torbida e bestiale avventura cui, venticinque anni or sono, una turpe brama di incontrollato dominio spinse gli egoismi e i privilegi che si sentivano posti in forse dalla civile e progressiva ascesa popolare.

Ed il suo nome – dal giorno in cui, a delitto appena compiuto, fu pronunciato in quest’Aula, fatta gelida dall’orrore, dal maggiore assassino che, paventando l’ira vendicatrice, giocava la spregevole commedia dello stupore addolorato – intessé, nel lungo tempo di vita che l’insania e la pavidità concessero poi ancora alla nostra onta nazionale, da orecchio ad orecchio, da cuore a cuore, la rete fitta, tenace, indistruttibile di odio sacro e di commossa pietà che tenne unito, nell’attesa quasi fatalistica dell’espiazione e nel bisogno sempre più insofferente del riscatto, il popolo italiano.

Ma ognuno di questi morti, che di giorno in giorno, alla nostra evocazione, sorgono dalla folla delle ombre insanguinate che popoleranno per sempre nel nostro ricordo la storia dolente del ventennio, ci reca, fra l’onda di pietà, un suo particolare grande insegnamento, che sarebbe grande colpa ignorare, misconoscere.

Giacomo Matteotti è caduto, può ben dirsi, sui banchi di quest’Aula. Egli ebbe, dei compiti di un’Assemblea popolare elettiva, un concetto che parve, mentre egli vi sedeva, strano a tanti che attorno a lui presumevano di rappresentarvi tutta la saggezza dei tempi e che, in definitiva, non riuscirono, con tutta la loro furbizia, che ad umiliare le tradizioni antiche ed a tradire l’avvenire incombente. Per Giacomo Matteotti il Parlamento doveva essere, infatti, non solo fucina di leggi, ma sorgente di verità morali; non solo fondamento di governi, ma tribunale di popolo; non solo custode dei diritti acquisiti, ma preparatore consapevole della nazione ai diritti nuovi che urgono alle porte di ogni popolo civile.

Egli fu colpito perché nella sua opera quotidiana, contro ogni minaccia ed ogni lusinga, servì questa sua convinzione che rinnovava, nobilitandola, la vita politica del nostro Paese. Oggi non vi è rischio nel riprendere e realizzare il suo insegnamento. Ma se anche dovesse, per insidia o malvagità o follia di uomini e di gruppi, riaddensarsi sul nostro popolo tanta tempesta rovinosa, è da attendersi che il Parlamento italiano saprà, senza contrasti e scissioni, e manovre e calcoli interessati, rivalità, timori e viltà, stare saldo, tutto unito a difesa delle libertà popolari. Noi lo dobbiamo a noi stessi, ai cittadini che ci delegarono, noi lo dobbiamo ai morti che ricordiamo: a Giacomo Matteotti, oggi sortito dalla schiera dolente ed eroica per dare stimolo e conforto al nostro severo lavoro. (Vivissimi, generali applausi).

 

Risposte al Messaggio dell’Assemblea Costituente.

 

PRESIDENTE. Comunico che il Presidente della Grande Assemblea nazionale di Turchia ha fatto pervenire la seguente risposta al Messaggio dell’Assemblea Costituente italiana:

«I membri dell’Assemblea Nazionale hanno espresso i loro voti perché l’Italia possa riprendere prossimamente, in seno alla famiglia delle Nazioni, il posto di cui è degna e riparare, grazie alle sue alte capacità e al suo lavoro, i gravi danni da essa subìti.

«La Grande Assemblea Nazionale turca sarà felicissima di vedere la Turchia e l’Italia effettuare un’attiva cooperazione nel campo politico e in quello economico».

Anche la Commissione di politica estera del Senato brasiliano ha formulato il voto che l’Italia, consolidando le sue istituzioni democratiche e repubblicane, prenda rapidamente posto «tra quelle Nazioni che affrontano la guerra solo allorché questa diviene una misura inevitabile di difesa o per contribuire all’opera comune della conservazione della pace».

L’Assemblea Nazionale del Venezuela ha pure risposto con parole di calda simpatia al Messaggio della Costituente. (Vivissimi, generali applausi).

Discussione sulle comunicazioni del Governo.

PRESIDENTE. L’ordine del giorno reca: «Discussione sulle comunicazioni del Governo». È iscritto a parlare l’onorevole Ruini. Ne ha facoltà.

RUINI. Onorevoli colleghi, ho esitato a parlare perché io sono fuori dei gruppi politici, e sono inchiodato alla croce della Commissione per la Costituzione…

Una voce al centro. Splendente croce!

RUINI. Ho ritenuto doveroso, perché ho vissuto cinquant’anni tra le leggi e i bilanci, portare una parola chiara e concreta sopra il nucleo centrale delle comunicazioni del Presidente del Consiglio, cioè sul problema della ricostruzione economica e finanziaria del Paese. Vi sono al riguardo aspetti politici, ed i vari gruppi e tutti noi dovremo prendere un atteggiamento; ma non è male che la discussione si apra con un esame obiettivo dei problemi della ricostruzione nel loro contenuto economico e finanziario.

Ricordo come in Inghilterra si seguano le discussioni finanziarie; quando il cancelliere dello scacchiere fa la sua esposizione, Westminster è circondata dalla folla, che vuole udire e sapere. I problemi economici hanno un interesse altissimo; e – se economia e politica sono inscindibili – le risoluzioni ed i voti non possono prescindere dalle necessità tecnicamente accertate. Avviene talvolta che, da gruppi o partiti, si sorvoli sopra i programmi, e si accettino o si respingano punti o puntini, per preconcetto o senza pensarvi troppo su; bisogna invece mettere i punti sugli «i»; cercar di essere precisi, e di sostituire alle frasi correnti: antinflazionismo, difesa della lira, ecc., qualche cosa di ben determinato.

Spero di avviare la discussione per questa via. Sarò molto semplice. Ad esempio, non vi meravigliate se ridurrò le cifre ad ordini di grandezza, e le arrotonderò a centinaia di miliardi. Il popolo ha bisogno di capire e deve essere messo in grado di capire. Vedrò di esporre cose tecnicamente ineccepibili, ma comprensibili da tutti. E farò, dopo qualche cenno alle direttive generali, proposte pratiche, che si possono prestare quasi immediatamente ad una formulazione in disegni articolati di legge.

Per la ripresa economica occorrono tre cose: un programma, un governo capace di attuarlo, la fiducia all’interno ed all’estero. Questo è il filo del mio discorso.

Lo sforzo di ripresa economica è oggi più difficile e duro che quando, alla fine del 1945, liberata tutta l’Italia, si presentavano le condizioni di una vigorosa politica finanziaria d’emergenza. Ripresa della nostra produzione, verso cui si volgevano altri paesi bisognosi di merci; aiuti degli alleati per il cibo e le materie prime; flessione di prezzi e l’afflusso di merci alleate; larga disponibilità per la tesoreria di denaro, non ancora richiesto da industrie private. Si presentavano congiunture favorevoli per condurre una politica d’emergenza che avrebbe potuto, – rinforzando il gettito delle imposte ordinarie e ricorrendo alla triplice manovra del cambio della moneta, della leva sul capitale e di un prestito ponte – mettere insieme una massa di mezzi necessari (oltre cinquecento miliardi di lire) per portare ad avviamento la ricostruzione economico-finanziaria, fino al momento nel quale l’Italia, passando ad una politica di stabilizzazione, avrebbe potuto e dovuto ancorare la sua moneta ed i suoi traffici nel mercato internazionale.

Era possibile far questo. Io non ho rimorso. Ho presentate precise proposte in seno al Governo ed anche in discorsi ed articoli. Avevo costituito il Ministero ed il Comitato della Ricostruzione. Ho lasciato il Governo, quando ho visto che le mie idee non erano seguite.

L’occasione fu perduta; si contò che la situazione provvisoria d’euforia durasse all’infinito e non si fece nulla. Illusione, euforia, nullismo. Si determinò un’inversione di situazione; ed oggi che ci affacciamo a Bretton Woods e stringiamo accordi di scambio con gli altri paesi, le circostanze sono per più aspetti peggiori. Vi è maggiore incertezza, si accentuano la svalutazione della moneta e l’ascesa dei prezzi; dilagano disordinatamente le spese; vengono meno i soccorsi diretti dall’America, e dobbiamo procurarci noi il nostro pane, mentre, proprio ora, con l’aumento dei costi di produzione, si aggrava la difficoltà di esportare. Ecco le condizioni nelle quali siamo costretti a svolgere una politica tardiva d’emergenza che ci propone oggi il governo, in un momento nel quale avremmo potuto e dovuto entrare nella politica definitiva. Grave è la responsabilità dei governi passati.

Da ciò si trae un senso d’amarezza, che non deve essere però disperato sconforto. In questa materia si sente chiedere dalla gente: «Come vanno le cose? Siete ottimista o pessimista? Cosa pensate? Il malato è grave?». Come si trattasse di una diagnosi medica. È molto difficile rispondere con una frase e con un sì od un no. Mio convincimento, ad ogni modo, è che non incombe su noi un imminente pericolo di baratro, di disastro, di apocalisse finanziaria-economica, quale è temuta da alcuni. Certamente, se si ritarda ancora e si continua in una paralisi di azione, si avranno forti slittamenti; e sarà suicidio; perché il baratro si può evitare. Ma, nello stesso tempo che non bisogna essere pessimisti fino alla disperazione, si deve riconoscere che vi sono difficoltà gravissime; e pur senza che avvenga lo sfacelo, ci troveremo male. Non siamo ancora all’acme della crisi, e non possiamo guardare ad un orizzonte sempre migliore; le difficoltà si andranno accumulando sempre più; e saranno lunghe e profonde, come cercherò di dimostrare in questo mio intervento. Non si tratta di una crisi sia pur travolgente, ma rapida e transitoria. Sono le stesse basi permanenti della nostra economia che ritornano in questione, dopo che ottant’anni di risorgimento unitario le avevano assestate. È venuto il fascismo e la sua guerra, che ha disfatto quell’assetto; e dobbiamo riprendere una lenta fatica.

Senza scoramento, ma senza illusioni. Perfida è la depressione, come l’illusione, che in essa facilmente tramuta. Dobbiamo sopratutto evitare le autoillusioni, nelle quali purtroppo siamo recidivi. Non risalgo a quella iniziale della cobelligeranza, che traducemmo, col nostro desiderio, solo col nostro desiderio, in alleanza. Vi sono altri casi più recenti. Quando l’onorevole Presidente del Consiglio tornò dall’America, vi fu un’ondata di illusione; in realtà, dopo vari mesi, le promesse, del resto anteriori, del prestito da parte dell’Export-Import Bank non sono attuate. Ed ecco che, dopo la missione di Menichella in Inghilterra, si ebbero nel pubblico almeno interpretazioni eccessive, fino al rabbuffo del Cancelliere dello Scacchiere. Così pel viaggio in Argentina di Bracci, che ottenne affidamenti; ma sembrò che si fosse già fatto quanto si deve ora definire. Brutta abitudine è il credere d’avere in tasca quanto è ancora da conquistare.

Baratro no; ma aspra e dolorosa la via. Ed è urgente mettersi all’opera. Ripeto: occorre un piano, un governo capace, la cooperazione fiduciosa del Paese.

Occorre un piano. Avete paura della parola? Se volete diremo programma. Il piano per alcuni è un feticcio, per altri uno spauracchio. Non deve essere né l’uno né l’altro. Non è da attribuire virtù taumaturgica all’intervento pianificatore; né da attendere ogni salvezza dalla ricetta formale dei piani; ma è cecità respingerli con una scomunica in blocco, quando sono già in atto sotto i nostri occhi; e si tratta di farli nel modo migliore.

I piani li abbiamo già a casa nostra. Appena il Governo fu a Roma, approfittando di qualche buona intenzione dei rappresentanti americani che erano allora i nostri controllori e dirigenti in ogni atto della nostra amministrazione, riuscii ad organizzare le piccole sedute al Grand Hôtel, ove sedevano alla pari alcuni ministri e quei rappresentanti ad esaminare e decidere i nostri problemi. La prima cosa che ci chiesero fu: avete dei piani? Se ottenemmo da loro assegnazione di viveri e di merci, fu dopo che potemmo d’accordo redigere dei piani.

Non vi è all’estero Paese che non abbia dei piani. La differenza con l’Italia è che noi non abbiamo un piano unico e complessivo della nostra attività economica, e che il nostro Parlamento non se ne è mai occupato. Negli altri Paesi piani generali sono stati portati all’esame ed alla discussione del Parlamento. Cercai di provvedere in questo senso al Ministero della Ricostruzione: e sono lieto di vedere qui l’amico Del Vecchio, che avevo appunto chiamato a presiedere la Commissione del piano. Quando lo lasciai, il Ministero della ricostruzione fu soppresso, perché, mi disse cortesemente l’onorevole De Gasperi, era troppo legato alla mia persona. Ma no; era una necessità, almeno nel suo compito, ed altri poteva, meglio di me, continuare in un’azione che fu del tutto abbandonata.

Piani generalmente vi sono all’estero. Così in Francia il piano Schumann, che il Parlamento ha discusso; in Inghilterra il libro bianco Morrison (si chiama libro bianco ogni atto che si presenta al Parlamento) sulla mano d’opera e sulla ricostruzione; negli Stati Uniti d’America il messaggio presidenziale Truman, che è un piano annuale economico.

Bisognerebbe farli conoscere anche in Italia. Sono piani che non spaventerebbero. Il popolo deve avere, ancora una volta, alcuni chiarimenti elementari. Il piano di ricostruzione non va confuso con l’attuale vincolismo che ha i segni della guerra e della carestia. Non vi potrebbe essere nulla di peggio, nelle nostre prospettive di ricostruzione, che un vincolismo senza piano.

Non si può poi pensare oggi, in Italia, a piani di tipo russo; lo ha detto, con molta chiarezza, anche l’onorevole Togliatti. Vi sono piani perfettamente compatibili con l’economia di mercato, che in Inghilterra si chiamano piani guida, e non distruggono l’iniziativa privata; la presuppongono, la indirizzano, la potenziano; così noi intendiamo i piani.

Il piano generale di ricostruzione, che chiediamo al Governo, deve essere chiaro, organico, e nello stesso tempo elastico ed adattabile alla realtà. Poliennale, per raggiungere una stabile meta. Con leve multiple di azione, da manovrare nei vari campi dell’economia e della finanza, che sono inscindibili fra loro.

Anche come piano di emergenza, deve dare al paese il convincimento che si tratta di sacrifici urgenti ed indispensabili; ed insieme sufficienti a raggiungere una certa meta. Il popolo deve sapere che, dopo che li avrà sopportati, sarà sulla riva della salvezza. Qui è la base della fiducia.

Ed occorre qualcosa di più; occorre che i sacrifici siano ripartiti fra tutti i fattori della produzione: occorre un piano generale, che dia un’impressione di giustizia distributiva. Badate bene: qualunque cosa si faccia, il massimo sacrificio per la ricostruzione sarà sostenuto dagli operai e soprattutto dagli impiegati, con la sofferenza delle inadeguate retribuzioni e del troppo basso tenore di vita. Questo è il significato della tregua per i salari e per gli stipendi; questo è il contributo che le classi lavoratrici danno al grande sforzo della ricostruzione. Noi siamo abituati in Italia a dire male di noi stessi; ma se penso – e ne va riconosciuto il merito alle organizzazioni sindacali ed ai loro dirigenti – che abbiamo evitato lo sciopero dei ferrovieri, dilagante in Francia, e che proprio il giorno dopo la costituzione di un Gabinetto, che poteva essere criticato da alcune correnti, si è firmata la tregua salariale, in verità vi dico che il nostro Paese ha dato prove di serietà, di compostezza, di consapevolezza, che devono essere per noi di auspicio a poter uscire da queste difficoltà. (Vivi applausi).

Una voce a sinistra: Il merito è degli operai!

RUINI. Ma sì; l’ho detto, lo ripeto; e non credo che il mio pensiero sia poco chiaro…

Una voce a sinistra: No, è chiaro!

RUINI. I grandi sacrificati sono gli operai, ed ancor più gli impiegati. È indispensabile che anche i ceti abbienti debbano contribuire coi loro mezzi all’onere della ricostruzione. Questa sensazione era più viva e consapevole qualche tempo fa, quando io volevo che si iniziasse lo sforzo della ripresa. I ceti abbienti erano più pronti ad adeguati sacrifici; e la compagine dei partiti e lo spirito della liberazione erano più orientati in tal senso. Anche qui l’occasione fu perduta; ma pur oggi il loro presidente Costa dichiara che per gli industriali (e per tutti gli abbienti) è l’ora dei giusti sacrifici. Questo principio va tradotto in realtà; e come caposaldo nella ricostruzione, si deve trovare una linea di giustizia distributiva, senza la quale non sarebbe possibile fare un efficace cammino.

Ho detto del piano. Occorre, oltre ad esso, un inventario completo dei bisogni, delle risorse, delle possibilità del Paese, quale si è fatto ora nei paesi stranieri; ed anche da noi, nell’altro dopo guerra.

Occorre infine il coordinamento dell’azione economico-finanziaria. L’esigenza del coordinamento si sente dovunque, nell’attuale discrasia; non si può farne a meno per nessun ramo di vita dello Stato. In Inghilterra (potrei citare tanti altri paesi) esiste un Comitato-guida, composto di Ministri, che dirige l’attività economica e presiede ai piani. A suo fianco funziona un Segretariato di Gabinetto, Sezione economica, ove sono altri elementi tecnici e rappresentativi, che concorrono al coordinamento. Inoltre sir Cripps ha istituito il pianificatore generale. Vi sono così vari organi, ma insomma lo sforzo di coordinamento è in atto. Che cosa avviene in Italia?

C’era una volta il Ministero della ricostruzione, di cui vi ho ricordato la scomparsa. È rimasta la mia creatura, alla quale più tengo, il C.I.R., Comitato interministeriale della ricostruzione; un po’ in sonno, finché non lo risvegliò nei suoi primi tempi l’onorevole Campilli; è tornato poi a dormire, ed ora dalle dichiarazioni del Presidente del Consiglio sembra, e ne sono contento, che debba ritornare in efficienza. Il C.I.R. deve e può essere l’organo coordinatore dei Dicasteri finanziari ed economici, nel quadro dell’unità politica del Gabinetto; può e deve agire come tale, fornito dei necessari poteri, e fiancheggiato in via consultiva da esperti ed esponenti dell’economia nazionale. I provvedimenti concordati nel C.I.R. sono portati alle decisioni del Consiglio dei Ministri, di cui in tal modo non si sopprime o limita, ma si prepara ed agevola l’esercizio di sua competenza. È la via più semplice e nello stesso tempo più completa.

Invece di seguirla linearmente, l’attuale Gabinetto ha aggiunto due cose: ha istituito un Ministero del bilancio; il che non coincide con la affermazione fatta nell’altra crisi dall’onorevole De Gasperi di concentrare i dicasteri finanziari. Il neo dicastero è affidato ad Einaudi, e ciò conforta; ma non si arriva bene a comprenderne la necessità e le funzioni. È un dicastero che riassume e sublima i compiti ed il profilo della Ragioneria generale e della vigilanza sulla spesa. Il Presidente del Consiglio ci ha annunciato che non si assumeranno impegni superiori al miliardo, senza che il Ministro del bilancio abbia dato il suo consenso. Che cosa c’è di nuovo? In passato non si è mai autorizzato nessun impegno di spesa senza il consenso di chi era più modestamente il Ministro del tesoro. Qui vi è una supervisione, un ulteriore intervento del Ministro del bilancio, con che, se non si sopprime, si duplica e si svuota la funzione, pur rimasta in piedi, di un Ministro subordinato del tesoro, al quale d’altra parte, non si lascia, come vedremo, un’adeguata funzione economica. Sembra a me che la istituzione di un Ministro del bilancio con dignità preminente e centrale rispecchi una concezione un po’ arcaica, del secolo scorso, che dava ogni saliente risalto al punto di vista, certamente importantissimo, della spesa e della finanza dello Stato, che non può disgiungersi e rientra nel complesso della visione e della politica economica.

Vi è bensì oggi la seconda aggiunta, cioè un Comitato economico che è stato affidato per la presidenza all’onorevole Vanoni. Si potrebbe vedervi già un profilo di pianificatore generale. Bisogna precisare i rapporti che debbono essere di consulenza e non di doppione col C.I.R., il cui presidente dovrebbe stare a capo, sia pure con un vicepresidente, del nuovo organo ausiliario. Né il Ministro del tesoro o il super Ministro del bilancio vanno tagliati fuori o messi in seconda linea nel congegno, che presieda, coordini, diriga, saldandole insieme, l’economia e la finanza. Non vorrei che per coordinare vengano creati pezzi di macchina non coordinati fra loro. Meglio che un Ministero-Ragioneria generale sarebbe stato rifare un Ministero della ricostruzione o del coordinamento economico (nomi ed esempi che vi sono all’estero) e farlo funzionare, con funzioni di propulsione e di sintesi dei piani.

Ciò che soprattutto importa è di muovere contemporaneamente tutte le leve necessarie di azione. L’onorevole De Gasperi ha giustamente osservato che la nostra Amministrazione, nel dissesto post-bellico, non ha ancora ben assestate le leve di comando. Sono da riorganizzare, o da creare ex novo. Ma non sia intanto un alibi per continuare nei provvedimenti slegati ed a spizzico, che il Paese condanna; esso vuole una politica simultanea di insieme che agisca nei settori intercomunicanti.

Settore della finanza, della moneta e del credito, dei prezzi e consumi, della bilancia dei pagamenti e dei costi di produzione. Ecco i problemi da affrontare con la maggiore concretezza, problemi che sono tutti difficili, ma presentano una scala di difficoltà relativamente minore per le finanze; e poi crescente, sino a culminare nei pagamenti internazionali.

Finanza. Io faccio formale proposta che si presentino tre bilanci di previsione:

Primo. Un bilancio ordinario nel quale siano messe le spese permanenti dello Stato rigorosamente consolidate.

Secondo. Un bilancio straordinario che deve comprendere due ordini di spese, quelle di assistenza post-bellica e quelle di ricostruzione.

Terzo. Un bilancio economico, anch’esso annuo, delle disponibilità e dello svolgimento dell’economia nazionale.

Conosco le obiezioni formali che sì fanno alla distinzione dei due bilanci finanziari: si dice che sempre si sono distinte e si distingueranno le spese e le entrate ordinarie e straordinarie; né giova farne due entità staccate. Rispondo che si tratta ora di spese eccezionali, in dipendenza della guerra, e che una sia pur transitoria distinzione dei due bilanci serve all’esatta conoscenza delle cose; anche agli effetti della difesa della lira e delle nostre richieste agli alleati.

Infatti noi siamo vicini, e già in vista del pareggio fra le spese e le entrate ordinarie. Ciò deve avere il suo effetto di (chiamiamola così) psicologia valutaria. Il bilancio straordinario si comporrà a sua volta di due parti: potrà essere per un minimo di spese, fra cui quelle decrescenti di assistenza, coperto dal supero delle entrate ordinarie e dal gettito di imposte straordinarie e di operazioni all’interno su cui si è assolutamente sicuri di contare, per provvedere ad una parte almeno delle esigenze della nostra ricostruzione. E poi vi sarà un’altra parte più elastica, che rappresenta per noi sempre un bisogno, perché, se non ricostruiamo tutti i nostri impianti distrutti, non potremo riattivare in pieno la nostra produzione, ma ci è indispensabile a tale riguardo un finanziamento estero. Qualunque sforzo si faccia, resta sempre nella nostra finanza un vuoto, un buco, uno scoperto: da rimettere alle risorse che dovremo procurare all’estero. Ad ogni modo, avere una chiarezza cristallina, un sincero panorama di spese e di entrate è necessario per la esatta conoscenza da parte del popolo.

È inutile che io ripeta quanto ho detto sul bilancio o piano economico che in Inghilterra si chiama appunto di «conoscenza», e sia di tipo Morrison, o Schumann, o Truman, è fattibilissimo, non come annuario statistico, ma come indicazione in base approssimata di cifre, di problemi, di soluzioni e direttive per il nostro Paese. Si porti anche questo bilancio al Parlamento e si interessi il popolo non soltanto a leggere attraverso i giornali le violenze di parte, con polemiche vistose, ma problemi di cifre e di realtà; sarà anche un passo di educazione politica.

Proposte concrete per le finanze statali.

È possibile dare subito un colpo di spalla ed avviare gradualmente al pareggio, che potrebbe essere raggiunto in un triennio o in un quinquennio, del complesso di spese ed entrate dei due bilanci. Arrotonderò le cifre, come ho detto, per essere capito anche dal popolino.

Ecco i dati dell’on. Campilli per l’esercizio 1946-47: 900 miliardi di spesa, 300 miliardi di entrata, dunque 600 miliardi di disavanzo. Lo stesso Campilli ha preparato il bilancio per il 1947-48, dal quale si ricava: 800 miliardi di spesa, 500 miliardi di entrata, 300 miliardi di disavanzo. Le previsioni si fanno sempre con una certa elasticità di approssimazione. Noi tecnici, ed io ho fatto così fin da giovane, aumentavamo del 10 per cento le previsioni di spesa e diminuivamo del 10 per cento quelle di entrata. Speriamo che si continui a fare in questo modo, per quanto i motivi di variazione siano oggi più forti. Le spese hanno una forza continua di dilatazione. Sta comunque, e non è sogno irrealizzabile, che spese ed entrate dei due bilanci si possano incontrare in una cifra di 700-800 miliardi.

È cifra ammissibile che corrisponde da un quarto ad un terzo del reddito nazionale, la cui valutazione oscilla da 2300 a 3000 miliardi. Nel suo libro sulle finanze dell’altra guerra l’onorevole Einaudi ha scritto che negli anni 1914-18 sarebbe stato tollerabile un carico tributario del 39 per cento sul reddito, dato che in anni di minor tensione patriottica, come il 1931, il Paese sopportò un onere del 29 per cento. Bisogna naturalmente tener conto, oltre che dei tributi statali, di quelli degli enti locali e parastatali; ma in complesso anche 1000 miliardi non sono previsione paurosa. Credo che una spesa pubblica, che raggiunga il terzo del reddito nazionale, sia indispensabile per la difesa della lira e per la ricostruzione e non sia insostenibile per il paese. La cifra non fa paura, ma deve costituire un limite, che non si può superare. Se si gravasse di più la mano, per le destinazioni ad investimenti pubblici, si inaridirebbero gli investimenti privati del reddito sino a compromettere la produzione nazionale.

Per l’incontro ed il pareggio a 700-800 miliardi è indispensabile una sistematica e drastica revisione delle spese e delle entrate.

Revisione delle spese. Troviamo, sul limitare, la palla di piombo dei residui passivi che ci trasciniamo dietro in più esercizi. È una grave preoccupazione che allarma molto il collega La Malfa, mentre Scoccimarro la minimizza. Per mio conto, senza nascondermi il pericolo della loro accumulazione, ritengo che si possa fare una certa pulizia dei residui, con una chiarificazione di elementi eterogenei che si annidano nelle cifre della Ragioneria Generale. Il collega Scoca ha detto che vi sono passività fittizie ed inconsistenti. Parte dei residui rappresenta titoli di pagamento maturati o maturanti nell’esercizio in corso, e non resta che pagare; un’altra parte pagamenti che matureranno e verranno a gravare su esercizi futuri; una terza parte non è di impegni già avvenuti, ma di semplici autorizzazioni, e propositi e disegni di spesa che si possono anche eliminare. La pulizia dei residui attenuerà, non dissiperà la preoccupazione.

Veniamo alle spese di competenza, nei bilanci su cui Campilli ha già incominciato ad esercitare l’accetta. Se si cancellano, come è proposto, i 25 miliardi delle integrazioni dei bilanci provinciali e comunali che erano un incoraggiamento a tendenze spenderecce (e ciò è possibile mettendo gli enti locali in grado di provvedere con entrate proprie); se si riducono subito e si avviano a soppressione i 35 miliardi di integrazione dei bilanci delle aziende speciali di Stato (come si sta facendo, ad esempio, col ricorso a finanziamenti speciali, già bene iniziato con i 25 miliardi di obbligazioni per le ricostruzioni ferroviarie); se si fanno oculati e giusti tagli nel coacervo di 60-70 miliardi di spese di assistenza, e se, come dirò, si rivedono o sistemano meglio le spese per i lavori pubblici, la cifra limite dei 700-800 miliardi di spesa non è impossibile meta.

I tre fomiti principali di spesa sono i bilanci militari, i lavori pubblici, il personale civile. Per spese militari si superano ancora i 150 miliardi. Comprendo benissimo che tanto più con l’aumento attuale dei prezzi non si può passare la spugna su queste spese. Ma sulla Gazzetta Ufficiale ho trovato dei concorsi nei ruoli dell’Amministrazione militare. Alle forze armate non si deve rinunciare. Esistono problemi di riassetto e sistemazione in base ai trattati. Ma vi è innegabilmente, nei dicasteri militari, una forza di resistenza tenace a quella che già potrebbe e dovrebbe essere smobilitazione di spesa. Mi sembra necessario che una Commissione, con rappresentanti della nostra Assemblea, intervenga, per questo lato, nel chiuso campo militare.

I lavori pubblici rappresentano ormai oltre il terzo della spesa complessiva. Più ancora che spendere molto, si è speso male ed alla leggera. Si sono commessi molti errori. Errori tecnici ed amministrativi. Ci siamo dimenticati la frase che amava ripetere papà Luzzatti: «la inesorabile lentezza del tempo tecnico». Non si possono fare lavori se non si dispone di cemento, ferro, e per averli di carbone e materie prime. Si è promesso ciò che non si poteva mantenere. Si sono eseguiti lavori inutili e fittizi, senza attenersi ad un piano di ricostruzione. Si è ricorso a metodi di gestione e di appalto irrazionali e rovinosi; il sistema dei lavori a regìa è diventato un assurdo sistema di abusi. Vi erano e vi sono enormi difficoltà, di fronte alle schiere minacciose dei disoccupati; ma io, che sono stato per 15 anni impiegato e direttore generale ai Lavori pubblici, ed ho, dopo l’altra guerra, presieduto il Comitato dei lavori contro la disoccupazione, mi sento di affermare che molti inconvenienti, oggi verificati, si potevano evitare.

L’onorevole Scoca, con un intervento nelle Commissioni riunite, ha ricordato i metodi migliori seguiti nell’altro dopo guerra. Il Comitato da me presieduto (ero allora Sottosegretario al lavoro) provvedeva soprattutto all’assegnazione di opere su domande e progetti presentati dagli enti locali, ma aveva criteri e programmi complessivi e di priorità per tutti i lavori anche di Stato; ed io quasi ogni giorno facevo il riepilogo e portavo al Presidente del Consiglio, onorevole Nitti, proposte di autorizzazione che non avevano corso, se egli non le approvava da un punto di vista unitario.

Le proporzioni e le difficoltà erano allora minori di oggi. Ma criteri analoghi possono applicarsi anche nel nostro dopo guerra. Ne feci formale proposta nel 1945. Come Ministro dei lavori pubblici avevo disposta la compilazione, sotto la guida dell’ingegnere Visentini, di un piano di ricostruzione e di priorità dei lavori. Proposi poi, come Ministro della ricostruzione, che si formasse un comitato di sottosegretari, presieduto dall’amico Persico, che doveva coordinare l’attività ricostruttiva dei dicasteri dei lavori pubblici, dei trasporti, dell’agricoltura (per le bonifiche) e preparare le concessioni agli enti locali. Un progetto di legge in questo senso fu approvato in Consiglio dei Ministri, ma quando andai via non se ne fece nulla.

Le concessioni agli enti locali meritano il più ampio sviluppo. L’amministrazione centrale ed il genio civile non possono bastare a tutto. Bisogna utilizzare le capacità e gli uffici tecnici, spesso bene attrezzati, degli enti locali. Ciò scaricherà anche Ministri e Ministeri dagli assalti di disoccupati. Abbiano Provincie e Comuni e Consorzi di tali enti, l’assegnazione di gruppi e progetti di opere, naturalmente con l’alta approvazione e sorveglianza tecnica dello Stato. Potranno procurarsi più facilmente i mezzi finanziari. Non dirò che sia l’uovo di Colombo, ma è soluzione abbastanza facile, che gli enti facciano operazioni di credito con gli istituti del luogo, scontando le annualità corrisposte sul bilancio statale. Ne ho parlato, in concreto ieri, con rappresentanti di Torino, nei riguardi del Banco di S. Paolo. D’accordo: le disponibilità del credito sono quelle che sono e si esauriscono, comunque vi si attinga; ma non sarà male che i più adatti enti locali applichino il metodo che è in corso per le ricostruzioni ferroviarie. Il bilancio dello Stato, corrispondendo annualità, ridurrà ad una metà o ad un terzo l’attuale spesa per i lavori pubblici. E sarà anche questo un contributo al pareggio.

Molto ingente è la spesa complessiva del personale civile. Per verità il Tesoro, sembra strano, non conosce il numero degli impiegati dello Stato; si sa che sono cresciuti in modo impressionante: da 600 mila d’ante guerra ad un 1.100.000; e se si aggiungono gli impiegati di enti locali e parastatali si supera il milione e mezzo. Per quaranta italiani vi è un impiegato. Il problema non è solo quantitativo ma qualitativo; sembra che il numero degli avventizi si accosti al cinquanta per cento del totale; in certi casi su dieci impiegati ve ne sono due stabili ed otto avventizi. Infinita è la pietà per questo esercito dolente ed affamato che sta peggio degli operai, perché la media degli stipendi reali è il quaranta, dei salari il 60-80 per cento di fronte al preguerra. Il miglioramento sufficiente, sicuro, definitivo del trattamento per gli impiegati verrà dalla loro riduzione numerica.

Ma come fare oggi in Italia? Non si può imitare la Russia, che ha trasferito quasi un milione d’impiegati al lavoro delle officine e dei campi; né la Francia, ove un Comitato centrale provvede, ogni mese, a licenziamenti di migliaia e decine di migliaia d’impiegati. In quei paesi non vi è la disoccupazione che esiste in Italia, e che ha spinto paradossalmente a riempire di reduci e disoccupati gli uffici amministrativi già inflazionati. Non si può, finché vi è il fermento acuto della disoccupazione, contare da noi sopra una sensibile riduzione numerica. Anche quella del 5 per cento all’anno, promessa dal Governo, sarà difficilmente mantenuta.

Ciò che si può fare – ecco un’altra proposta concreta – è di bloccare senza eccezioni ruoli e concorsi (si cerca invece, ogni giorno, di sviluppare e continuare quello che ai miei tempi si chiamava «industria degli organici»); e d’istituire un Comitato del tipo francese con poteri attivi, per attuare la riforma, man mano che sia possibile, ed intanto per trasferire il personale dai rami dove sovrabbonda ad alcuni dove può essere molto utile; basta ricordare gli uffici tributari. Se poi il Comitato avrà anche poteri di perseguire e colpire casi di rilassamento morale, la sua opera sarà più benefica. Noi siamo molto lontani dal costume di paesi come il Nord America, dove, ha scritto Nitti, la corruzione è tradizionale ed onorata. Ma, per gli stessi stipendi di fame, vi sono germi e forme di male; e bisogna sradicarli.

Revisione delle entrate. Anch’essa sistematica e completa, come delle spese.

Ecco le cifre pel prossimo esercizio: 400 miliardi d’entrate ordinarie; 100 di straordinarie; siamo a 500, ed in via di maggiore espansione. Quando si vedono le ultime situazioni mensili – oltre i 35 e verso i 40 miliardi – si comincia a respirare. Qualcosa si è fatto. Si poteva fare di più. Ma pensiamo a quella che era l’attrezzatura degli uffici tributari dopo la liberazione (ne ricordo uno semidistrutto, che non aveva neppure carta da scrivere); mentre i contribuenti si erano abituati a non pagare; l’evasione fiscale era un dovere verso il nemico. I 500 miliardi aumenteranno con l’umile e meritoria fatica di curare i mezzi di esazione. La maggior salvezza è qui. Esorto l’onorevole Pella ad avere la mano forte. Ed a ritoccare, assieme ai congegni, i vecchi tributi, imitando l’onorevole Campilli che si è messo sulla buona via.

Un maestro di scienza finanziaria, il professor Einaudi, ci ha insegnato che il nostro sistema tributario assorbirebbe in certi casi il 100 per cento del reddito, se non soccorresse l’evasione e l’insufficienza dell’accertamento. Verissimo; dovremo rifare non poche cose. Ma, intanto, in una situazione d’emergenza, dove per la svalutazione monetaria schiere di contribuenti pagano troppo poco, bisogna aggiustare gli accertamenti, ed occorrendo elevare grossamente le aliquote. Adoperare ciò che si ha sottomano. D’altra parte bisogna colpire i consumi non necessari (qui siamo a posto con le teorie einaudiane). E comunque, ricavare dalla tassa sull’entrata, che è di consumo, 200 miliardi, come è possibile con cure ed avvedimenti di riscossione.

Quella che per me rappresenta una nota dolente ed amara è la partita dei profitti di regime, cui vanno aggiunti i profitti di guerra e di congiuntura.

Si credeva di ricavare qualche centinaio di miliardi; ed era possibile; perché, se al tempo dei salutari timori si chiedeva ai profittatori una parte cospicua della loro fortuna, l’avrebbero data volentieri, in via di concordato. Fu un’altra occasione perduta. Si fece ricorso a sequestri generali: a decine di migliaia; e si immobilizzarono aziende che avrebbero potuto lavorare per la ricostruzione. I sequestrati han finito per riavere le loro cose; e si sono intanto messi in grado di resistere agli accertamenti ed ai concordati, che sono venuti troppo tardi, con lunghe e complesse procedure.

Tant’è che io vedo scritti in bilancio 18 miliardi di previsione, mentre la cifra poteva essere senza confronto maggiore.

SCOCCIMARRO. Sono cominciate le riscossioni.

RUINI. Sì; per ben poco; e si prevedono 18 miliardi. Io non faccio allusioni all’onorevole Scoccimarro.

SCOCCIMARRO. Chi ha proposto il concordato?

RUINI. Lo ha proposto Meuccio Ruini d’accordo con tutti, anche con Togliatti a Salerno; e la prima legge sulle sanzioni contro il fascismo si ispirava a tale criterio; che fu poi abbandonato, malgrado le mie vivaci proteste, quando era Alto Commissario l’onorevole Sforza, per il demagogico e antieconomico sistema dei sequestri, propizio in definitiva ai colpiti. Il concordato…

SCOCCIMARRO. Chi l’ha fatto diventare legge?

RUINI. L’onorevole Scoccimarro ha ripreso la via del concordato; ma troppo tardi, e con risultati scarsi.

Veniamo ora alle «straordinarie» vere e proprie, alle imposte generali sul patrimonio. Ho sentito dal Presidente del Consiglio che il Governo mantiene le due «gemelle» di Campilli, la progressiva e la proporzionale. Approvo.

Sbucano fuori in questi giorni, e talvolta da parti impensate, per farsi popolarità presso i contribuenti, le facili e consuete critiche contro questi tipi d’imposta. Ve ne risparmierò la ripetizione. So anch’io che, pur commisurate sul patrimonio, debbono incidere solo sul reddito; se no perturbano l’economia. So che possono apparire mezzi di fortuna, nei paesi dove basta una pressione più forte sui ben congegnati sistemi di tributi ordinari per aver quanto occorre anche nei momenti più gravi. Da noi non è così. Aggiungo che le nostre «straordinarie» vengono nel momento meno opportuno, a metà del pendio. Sarebbe stato meglio che fossero venute in principio, quando si potevano considerare come un’altra bomba caduta dal cielo a decurtare il patrimonio; o meglio che venissero dopo il pendio, all’inizio della stabilizzazione. I difetti del progetto Campilli dipendono in gran parte dal ritardo, il solito ritardo, dei governi che non li hanno presentati prima. Un altro caso per la collana delle occasioni perdute. Ma oramai non si può più rinviare, per esigenze finanziarie ed etico-politiche. Lo ha dichiarato anche il presidente della Confederazione industriale. Bisogna dare la sensazione che, oltre al sacrificio dei poveri, vi è un contributo degli abbienti. Quando ascolto querule voci che si lagnano, mi sembra di sentir Bertoldo, il quale chiedeva di scegliere l’albero a cui doveva essere appiccato.

Certamente, come viene ora, la maggiore straordinaria, la progressiva, è zoppa, perché le sfugge in gran parte la ricchezza mobiliare; ed è zoppa, perché non è stata preceduta da un cambio della moneta. Il cambio della moneta ha attraversato, secondo me, tre fasi. Era possibilissimo nel senso più pieno di coscrizione e di accertamento nominativo della ricchezza fino al 1945 ed anche più in là. Poi venne un’epoca in cui, se non si voleva spaventare ormai l’allarmato mercato, si poteva, ed io lo suggerii, fare il cambio o taglio anonimo della moneta. Se il detentore presentava mille lire allo sportello e ne riceveva indietro 800, o 900 in biglietti nuovi, se una banca che aveva 100 milioni di depositi a risparmio ne pagava 20 o 10 allo Stato e poi li ripartiva nel segreto bancario fra i depositanti, non vi sarebbero state paure e difficoltà. Si sarebbe messa insieme una somma cospicua; così da risparmiare oggi, almeno nelle forme attuali, la seconda delle «gemelle» di Campilli, la straordinaria proporzionale; che è dura pei minori proprietari; e poteva essere sostituita, subito dopo il cambio della moneta, come si è fatto in Francia, Belgio ed Olanda, da un’altra straordinaria sugli incrementi patrimoniali nell’ultimo decennio, che avrebbe colpito borsari neri e nuovi ricchi. Oggi pel cambio della moneta siamo arrivati al grottesco di averne assunto l’impegno nell’ultimo prestito, e di mancare alla parola; grave è la responsabilità dei governi che non l’hanno fatto; ma ora un cambio o stampigliatura della moneta non si può far più. Solleverebbe difficoltà psicologiche immense, spingerebbe alla corsa verso i beni reali, ed all’aumento della circolazione.

Resta ben fermo e ben chiaro che se l’attuale straordinaria è zoppa, lo si deve al fatto che non si è provveduto, come si doveva e si poteva provvedere, a tempo opportuno.

SCOCCIMARRO. È cieca oltre che zoppa.

RUINI. In occasione di straordinaria si è parlato di rivalutazione degli impianti. Il tema merita rilievo a sé, con molta cura. È chiaro che la rivalutazione ha necessità tecniche. Questo tavolo non lo posso iscrivere in bilancio con la cifra di prima della guerra perché la corrispondente quota di ammortamento in moneta svalutata non consentirebbe di ammortarlo e rinnovarlo nel tempo necessario.

Vi è poi la spiegabile pretesa degli azionisti ad urla adeguazione di valori con la situazione odierna; che non ha solo ragioni formali ma può essere di sostanziali guadagni. E qui bisogna stare attenti. La rivalutazione degli impianti, come spesso avviene, si accompagna con aumenti di capitale che si chiedono al mercato senza che lo Stato si disturbi come ha fatto (ed ha fatto male) a finanziare e garantire imprese private. Se si tratta di aumenti di capitale, utili e necessari in questo momento per l’attività produttiva, giova – vigilando sempre la circolazione – non ostacolarli ed anzi favorirli, ad esempio, come è stato proposto, elevando il limite oltre il quale i dividendi sono più colpiti.

Alle rivalutazioni si collegano altri aspetti, né tutto si riduce ad aggiornare scritturalmente le cifre. Saltano fuori riserve occulte; quelle riserve occulte che ai nostri buoni tempi antichi si aveva la manica larga a tollerare, attendendole al varco appunto quando saltavano fuori. È oggi frequente la distribuzione di azioni gratuite, che anche se han l’aria innocente di regolazioni formali si prestano a speculazioni e movimenti al rialzo. Sta poi, in via generale, che la ricchezza mobiliare, facile a sfuggire alle imposte, va quando è possibile colpita. Né può dimenticarsi che, mentre i titoli privati approfittano così della congiuntura, i pubblici hanno esposto chi ebbe fede nello Stato a perdite gravissime.

Confido che si prenderanno provvedimenti, tenendo conto di tutti i lati del problema, e si vedrà se e come sia il caso di tassare i saldi di rivalutazione; e più particolarmente le azioni gratuite. Anche qui il mio rilievo, col ritornello del ritardo, è che si è aspettato a regolare queste materie, quando è ormai avvenuta una serie di rivalutazioni e piogge di titoli gratuiti.

Una parola sui buoni d’imposta, cari all’onorevole Scoccimarro, che li vagheggia non alla tedesca, ma come buoni con un piccolo aggio che si darebbero ad appaltatori ed a fornitori, e si accetterebbero poi a pagamento d’imposte. Per mio conto temo che gli appaltatori e i fornitori siano più spesso nella impossibilità di far senza più diretti pagamenti; e dubito che mettendo tali buoni sul mercato si venga ad allargare la circolazione. Ad ogni modo si studi anche questo avvedimento; tutto ciò che può rafforzare le entrate sia benedetto.

Ho parlato finora del bilancio dello Stato, e vi ho fatto intravedere il pareggio, fra un certo tempo. Vi sono sembrato troppo ottimista? Non lo sono. Vi ho detto che vi è sempre uno scoperto – il «buco» – per le spese più straordinarie di ricostruzione. E poi resta un formidabile «se». Il pareggio è possibile se i prezzi non continuano ad aumentare. Mentre le entrate hanno un ritmo più pigro di aumento, le spese sono soggette ad una scala mobile. Non solo per quella degli stipendi e per la revisione degli appalti, ma per il costo di tutti i servizi, essendo lo Stato per i servizi pubblici il più grande consumatore di merci; e come tale il primo ad essere travolto nel vortice dei prezzi.

Eccoci entrati (queste materie si tengono strettamente fra loro) nell’altro campo dei prezzi; che implicano i problemi della moneta, del credito, del risparmio. Il popolo ricordi e tenga davanti a sé alcune cifre più vistose. Circolazione monetaria 550 miliardi (salvi i non cessati aumenti), debito pubblico 500 miliardi di consolidato e redimibile, 800 di fluttuante. Risparmi a deposito, da 800 a 900, compresi i postali.

Il Presidente del Consiglio ha insistito, sopratutto sull’antinflazionismo, e sulla barriera per la circolazione. Parliamo pure, se volete, di Piave della circolazione; è una parola che ricorda ed avviva. Non si dovrebbe aumentare la circolazione, se non altro, per non scatenare la tempesta dell’effetto psicologico. Ma bisogna evitare due miti. Quello della mano tagliata, che ricorda, mi sembra, un miracolo di santa Modestina. L’onorevole Corbino, quando andò al Tesoro, giurò che si sarebbe tagliata la mano prima di emettere una sola lira di più. Ne emise per più decine di miliardi; ma non ebbe bisogno del miracolo di far rispuntare la mano; perché non se la era tagliata mai (così pure l’altro giuramento della lesina, malgrado il quale varò molte spese, e tra esse il prezzo politico del pane).

L’altro mito è dell’onorevole Einaudi, che per giustificare gli aumenti di carta disse «è il fato». Ma che cosa è questo fato? Io ricordo (scusate un piccolo aneddoto e poi ritornerò alle noiose cifre) che un giorno salivo su per il declivio di Monte Cassino con il vecchio abate Diamare fierissimo contro gli americani che non avrebbero dovuto distruggere il sacro asilo. Sentiva parlare attorno a sé: dicevano che tutto era accaduto per colpa del fato. Egli si voltò, alzò il bastoncello e disse: lo chiamano fato; mettete in una pentola gli errori, le deficienze, le colpe, mescolatele insieme e vien fuori il fato. Io credo in Dio, e perciò credo alla responsabilità. Le difficoltà sono oggi più grandi che gli uomini ed i loro governi; ma non si può trincerarsi dietro il fato. L’amico Einaudi, al suo nuovo posto, combatterà contro il fato.

Una cosa bisogna ribadire al popolo: che non si spaventi, e nessuno si tagli la mano, se si dovrà temporaneamente ricorrere a qualche manovra d’emissione, ad esempio per gli ammassi del grano; purché si provveda al ritiro appena possibile, per quanto deve essere recuperato. Se no, onorevole Einaudi, sarà la recidiva del fato. Bisogna frenare la circolazione ed impedirne gli aumenti; ma non sono questi la sola causa (sono anche l’effetto) della inflazione dei prezzi. I quali sono infatti cresciuti sensibilmente più che la quantità della moneta. La pura teoria quantitativa mi è sempre apparsa insufficiente. Vi sono altri fattori: la scarsità, l’occultamento, l’accaparramento delle merci. Vi sono non una ma più inflazioni e tutte solidali fra loro. Non basta fronteggiarne una sola: bisogna fronteggiarle tutte insieme; l’azione del Governo deve essere larga ed integrale.

Debito pubblico. La cifra di 1300 miliardi non è paurosa, come valore reale di fronte all’altro dopoguerra; e si può aumentarla. Non buona è la distribuzione, né cauta l’apoteosi del fluttuante, che è un debito a vista. Errori, grossi errori tecnici, vennero fatti nell’ultimo prestito pubblico, che – malgrado l’onorevole Einaudi sia ancora di opinione contraria – costituì un vero insuccesso. La tesi del basso interesse non ebbe fortuna; tant’è che per arginare il declino delle quotazioni si dove mettere a posteriori il 5 per cento d’interesse, che non si era voluto dare prima, e si ebbe così il bel risultato di assumere un onere, senza averne i vantaggi alla sottoscrizione.

I depositi a risparmio sono molto ridotti: il terzo, in valore reale, di quello che erano prima della guerra. Questa, sì, è cifra allarmante, anche se si tien conto dell’autofinanziamento, che contribuisce alla ricostruzione, come avviene pel bestiame nelle campagne. Non vi è da meravigliarsi se con la contrazione del reddito nazionale e coi turbamenti di mercato, anche il risparmio si assottiglia. Mancano a noi i metodi drastici della Russia, che è il paese più… capitalista, nel senso che lascia al consumo una quota minore del reddito nazionale; ed investe il rimanente come capitale. Ma vi sono da noi in certi ceti guadagni, puri o no, che bisogna utilizzare, se non con le imposte, nelle vie del risparmio e del credito.

Molta importanza ha la politica creditizia, ed ho sentito con grande piacere che il governo, finalmente, comincia a pensarvi. Uno dei paradossi italiani è che 1’87 per cento dei depositi è presso istituti pubblici o in mano dello Stato, come è delle tre grandi Banche dell’I.R.I.; e non vi è invece una politica nazionale di credito. Lo lamentano anche i liberali e fra essi il professor Turroni: i laburisti inglesi hanno ora nazionalizzata la Banca d’Inghilterra, per fare una politica creditizia. Noi che avevamo nazionalizzata, o quasi, la Banca d’Italia nel 1936 e costituito un comitato di controllo, ci affrettammo dopo la liberazione a distruggere il comitato e fu vera stoltezza: perché – io lo dissi – non si debbono buttar giù i ponti del Tevere che ha costruito il fascismo.

Le mie proposte le feci nel 1945. Non soffocare la libera attività delle banche; si tratta pur qui di vigilare e dar direttive, piani guida, non ingerenze nelle operazioni; ed occorre un organo attento alla sostanza, ed agile, non intralciante, di controllo. Se lo contendono il Tesoro e la Banca d’Italia. Poiché queste due cariche le riassume binariamente l’onorevole Einaudi, le difficoltà potranno essere superate. Altra mia proposta: che le tre grandi Banche d’interesse nazionale passino dall’I.R.I. alla Banca d’Italia o almeno – se non si vuole che questa da controllata diventi controllante – formino un’holding autonoma o articolata a sé. Terzo punto; pur non togliendo autorità al suo alto comando, si veda di dare alla Banca d’Italia un organo collegiale, nel quale seggano, a fianco del Governatore e del Direttore Generale, pochissimi altri, ad esempio i capi dell’I.R.I. e dell’I.M.I. Non tengo al dettaglio, e, ripeto, voglio salvaguardare l’iniziativa delle Banche; ma insomma vi sia una politica creditizia, e ci garantisca, a sua volta contro i mali e gli abusi della speculazione!

L’onorevole De Gasperi ha accennato ad una azione del Governo in questo senso. D’accordo. Il Paese ha bisogno d’impostazioni e di atti ben chiari. Intendiamoci bene: la funzione economica della speculazione è nell’attuale società indispensabile, tanto che discutendosi nel Comitato per la costituzione delle cooperative, e proponendo alcuni che non potessero fare atti speculativi, l’onorevole Togliatti, disse: perché non ne dovrebbero fare? Anche in un regime comunista, che non sopprima del tutto l’economia di mercato, vi sarà in forme diverse una certa funzione speculativa. La speculazione è previsione ed adattamento di prezzi al futuro; ed ha nell’ambiente economico odierno il suo massimo organo, delicato ed efficace, nella Borsa; né alcuno si propone di sopprimere la Borsa. Ma non vi è neppure nessuno che neghi allo Stato il diritto ed il dovere di vigilarla ed impedirne gli effetti dannosi.

Il popolo, nella sua valutazione, che è anche eticopolitica, distingue l’imprenditore dallo speculatore puro. L’imprenditore è un lavoratore qualificato, che organizza la produzione, e come tale specula, ma non va confuso con chi giuoca sulle «differenze» e guadagna stando alla finestra.

CORBINO. Ma può anche perdere.

RUINI. Perde o vince, ma la distinzione vi è, onorevole Corbino, nella coscienza comune, e mi sembra che oggi, mentre cerchiamo qualche denominatore comune dell’azione democratica, possiamo fare una politica di riguardo e di aiuto all’imprenditore, e di freno e diffidenza verso il mero speculatore, quando con le sue manovre compromette la difesa della lira.

Abbiamo assistito, di questi giorni, a fenomeni, diciamo così, di psicologia economica. Alcuni veri e profondi. Quando si parlava di un Ministero Nitti si ebbe un impeto generale di fiducia; ed io ho desiderato con tutto il cuore che questa fonte viva di forza fosse captata ed utilizzata per il bene del Paese. Alla base di una ripresa vi è spesso (vedi Germania di Schacht) una scossa ed una inversione psicologica. Anche la Borsa è un indice. Napoleone aveva paura di una sola cosa: dell’«ingiuria anonima delle Borse». Ondate di sfiducia finanziaria hanno rovesciato i Gabinetti di Henriot e di Blum in Francia, di Mac Donald in Inghilterra. Da noi si sono avute, piuttosto, caricature. A chi voleva fare della Borsa un potere dello Stato, da mettere in un articolo della Costituzione, si poteva rispondere: ma non è una cosa seria! Si voleva dar valore decisivo e generale a transitorie ed effimere psicosi e frenesie come per la S.I.S.A.L., quando tutti giocavano in Borsa, comprese le donnette. È stato il solito giuoco del cerino che passa di mano in mano e l’ultimo si brucia le dita. Non se le sono bruciate i pochi speculatori in grande stile che hanno pescato con la loro rete i miliardi.

Si dice che le Borse si riequilibrano e vanno a posto da sé. Il male è che, mentre impazziscono per titoli privati, si deprimono quelli pubblici, e ne ha danni la lira. Il disordine va impedito anche in Borsa. Domando all’onorevole Einaudi se è vero che la maggior parte degli agenti di cambio non abbia registri e carnets in regola. Se notevole parte dei riporti delle Banche era destinato a questi giuochi di borsa. Vi sono nelle Banche romane salotti e borsini dove vanno le signore che giuocano.

Ripeto che le Borse non vanno chiuse; ma altre volte, quando si sono verificate situazioni analoghe, si sono temporaneamente sospesi i contratti a termine. In situazioni analoghe si limitano e si impediscono i riporti speculativi delle Banche. Un’altra proposta (non è mia, mi viene da un agente di cambio) è che, riprendendo e modificando provvedimenti un tempo adottati, gli agenti di cambio, per tanti titoli privati che acquistano, siano tenuti ad acquistare anche un certo numero di titoli del tesoro. Non sottoscrivo senz’altro questa proposta; ma qualcosa, ove occorra, bisogna fare. E non credo dire cosa eretica o demagogica, chiedendo che si riveda con intenti non stroncatori, ma di effettiva vigilanza, la legislazione sulle borse.

Quanto alla borsa nera delle valute estere, domando se è giusto che, quando attraverso piazza Colonna per venire al mio lavoro, io debba vedere in funzione un mercato proibito, Saranno untorelli, di fronte ai grossi manipolatori di manovre valutarie; ma, insomma, se si desse qualche esempio, tanto meglio in alto, il popolo tirerebbe un sospiro di soddisfazione. Anche questa sarebbe psicologia economica! Le forze produttrici, le aziende sane avrebbero tutto il vantaggio – gli imprenditori contro gli speculatori tarati – perché, colpendo gli abusi, si potrebbe lasciare più ragionevole libertà alla produzione.

Prezzi e consumi. Rivive oggi la politica dei prezzi che fu propria del Medioevo e di tempi antichi, con le ricorrenti carestie ed i mercati che non comunicavano tra loro; così che vi erano necessari vincoli e calmieri. Congegni grevi e poco efficienti; oltre ai quali vi è da una parte un’azione diretta dello Stato che approvvigiona e distribuisce i mezzi di vita, e dall’altra un’azione meno diretta che va incontro ad iniziative e sforzi di consumatori.

Dovunque i governi cercano di combattere l’ostinata curva dei prezzi che sale. Il vero rimedio è l’aumento della produzione, e l’immissione anche dall’estero di maggiori merci in mercato. Intanto i governi non rinunciano alle campagne pel ribasso, che hanno a base, diceva Blum, uno choc psicologico, e sono tentate anche in altri paesi, oltre la Francia, con la speranza di ottenere una sosta ed un rallentamento, più che un ritmo sensibilmente regressivo dei prezzi.

Da noi la campagna annunciata dal precedente gabinetto è fallita. È mancato l’ambiente di fiducia; sono mancati i provvedimenti, ai quali doveva essere coordinata. Non abbiamo avuto che una serie di ridicole «grida».

Occorre rendere effettiva la lotta contro gli sprechi ed i lussi, che può dar scarsi risultati di maggiore quantità di beni per i bisognosi; ma si rende necessaria per ragioni etiche, ed anche indirettamente per ragioni economiche; giacché la ostentazione di ricche e grosse merci ed il godimento sfrenato di pochi, accanto alla fame dei più, fanno pessima impressione agli stranieri che ci dovrebbero aiutare, e che abituati nella casa loro – casa dì vincitori e di potenti – al pane bigio ed al rigoroso tesseramento provano sdegno e ritegno nel valutare i nostri bisogni e le nostre richieste. Ero ad una colazione offerta a Laski da un nostro Ministro; e vedevo l’ospite diventar nero, mentre venivano l’antipasto, il dolce, lo spumante; ricordava che i suoi compaesani hanno ancora, oltre la tessera per i cibi, i punti per l’abbigliamento e se vogliono comprare una tovaglia debbono ottenere il permesso dagli uffici; si sono assoggettati ad un complesso di sacrifici, per poter ancora esportare e riprendere i loro traffici nel mondo. Da noi il male è nel costume, ed ha radice in una indisciplina profonda e diffusa; né sono sufficienti l’apparato ed i mezzi di repressione; ma è questione di serietà; ed occorre qualcosa di più che le «grida» rientrate.

In situazioni che sono ancora di scarsità e di carestia non è possibile abbandonare d’un tratto sistemi vincolistici – tessere ed ammassi – senza condannare molti italiani a più aspre sofferenze; ma è necessario ridurre gli interventi coattivi di politica annonaria a pochi generi essenziali e limitarne l’area di applicazione ai soli ceti che ne sono bisognosi. Per certi generi il vincolo non è conducente, o è troppo costoso. Un esempio, l’olio: nello scorso anno si sono ammassati 36 milioni di litri e poiché i tesserati sono 36 milioni si è dato un litro a testa per anno; ossia 180 grammi al mese; poco più di un cucchiaio di olio per settimana, ciò che non può bastare nemmeno per un lassativo (Ilarità).

Si deve pensare al pane ed alla pasta; tanto più per lo scarso raccolto, che ci costringe a chiedere all’estero 30 milioni di quintali; e sarà difficile trovare il grano ed i dollari per pagarlo. Come criterio generale, all’interno sarà da concentrare l’intervento coattivo a favore di chi ne ha vero bisogno (in questo senso va inteso il tesseramento differenziale). Si potrà ricorrere a mezzi più efficaci di contingentamento e prelievo, con prezzi economici da produttori e mercanti che, acquistando derrate all’estero, debbano lasciarne una quota all’annona, liberi di disporre della rimanente. Se coesisterà con la zona di approvvigionamento e distribuzione statale il mercato libero, e la borsa nera diventerà bianca, una graduale smobilitazione accompagnerà il ritorno alla sufficienza di produzione e di traffici per un più largo consumo.

Accanto alla politica di vincolismo e di più diretto intervento, vi è una politica più elastica a favore dei consumatori; e lo Stato deve svolgerla immettendo appunto prodotti in mercato, ed aiutando con finanziamenti ed in altri modi enti di consumo e cooperative. Vi è una legge di due anni fa che prometteva 5 miliardi di lire per aiutare a vivere ed agevolare i consumi degli impiegati. Non si è fatto nulla, al momento in cui vi parlo. Non si è visto un soldo. Ed esiste oggi il Co.N.D.A.S., consorzio delle cooperative di consumo degli impiegati dello Stato, un organismo da me presieduto che per la prima volta raccoglie centinaia di migliaia di impiegati e, con loro famiglie, milioni di italiani. Finalmente Campilli e Petrilli hanno dato affidamenti di applicare la legge. È stato errore e stoltezza non sviluppare più ampiamente e sistematicamente queste «contropartite», mentre si resiste alle domande di adeguamento degli stipendi.

Vengo agli ultimi anelli della catena, nella serie di fatti economici su cui dobbiamo agire. Mentre per il bilancio finanziario dello Stato, da cui ho cominciato, vi sono apparso forse troppo ottimista (e non lo sono), trovo il massimo delle difficoltà nella bilancia dei pagamenti.

Quanto siamo distanti dal tempo antico, nel quale provvedevamo ai nostri bisogni d’importazione nel 60-70 per cento con le esportazioni e nel rimanente con le partite invisibili dell’emigrazione, del turismo, dei noli! Era un miracolo che ci doveva dare un brivido d’orgoglio, di fronte ad altri paesi che avevano più grandi risorse e disponevano di esportazioni massicce ed essenziali; mentre noi, con l’avvedimento di minute e sottili risorse, riuscivamo – ecco il miracolo – al pareggio. Il fascismo con il suo fasto spendereccio e con l’autarchia ha intaccata la nostra faticosa conquista ed ha vissuto a spese del capitale, finché ci ha, con la sua guerra, ridotti a condizioni che fanno paura.

Le cifre sono, in questa materia, delicatissime; e tacerei, se non ne avesse parlato il Presidente del Consiglio, al quale debbo chiedere alcuni chiarimenti. Secondo il C.I.R., che ha continuato nelle rilevazioni da me iniziate, avremo bisogno quest’anno di 1200 milioni di dollari d’importazioni contro 600 di esportazioni e partite invisibili. Lo scoperto sarebbe di 600 milioni. È chiaro che si possono ridurre di poco le importazioni perché si tratta del pane per la nostra vita (né riusciamo ad assicurare ad ogni italiano 1000 calorie al giorno, mentre ne avrebbe bisogno di 2500); si tratta di pane per le nostre industrie (carbone, materie prime; pure insufficienti alle possibilità); mentre le esportazioni scemano al disotto del previsto.

L’onorevole Presidente del Consiglio, lanciando un S.O.S., ha detto che per la seconda metà di quest’anno ci occorrono e ci bastano 200 milioni di dollari per equilibrare la bilancia. Prevede, nel semestre, esportazioni per 300 milioni di dollari; e non sembra possibile perché la media mensile non supera i 30 milioni. Non voglio entrare in dettagli e passare in rassegna le cifre della relazione Einaudi per la Banca d’Italia; rimanenza U.N.R.R.A.; code post-U.N.R.R.A.; conti sospesi con gli alleati; trattative con l’Ex-Import Bank…; si può continuare; i calcoli sono problematici e discutibili; e possiamo aver tutti ragione; ma vorrei che l’onorevole De Gasperi chiarisse le sue valutazioni.

Certo è che per alcuni anni, forse cinque, l’Italia ha bisogno di un apporto dall’estero che si può stimare, grosso modo, in 500 milioni di dollari all’anno. Che faranno gli alleati? Avremo dagli americani l’apporto finanziario che ci è indispensabile? Quando non avevamo bilancia dei pagamenti perché non esportavamo nulla, ci hanno aiutato a vivere, e ci hanno dato prima con le somministrazioni del loro esercito, poi con l’U.N.R.R.A., la grande Samaritana, alla quale abbiamo attinto (sebbene per testa d’abitante in misura minore ad altri paesi). Credo che continueranno a darci non solo per ragioni politiche, non solo in contrapposto ad altre influenze, e per impedire lo sfacelo d’Europa e per contagio del mondo, ma ci daranno anche per ragioni economiche, dal loro punto di vista.

Hanno avuto nel 1946 un supero delle esportazioni sulle importazioni, per sette miliardi di dollari. Ne avranno uno, nel 1947, di 10 milioni; vogliono, per evitare una crisi interna, mantenere in efficienza i loro impianti ed il livello delle loro esportazioni. Dovranno a tal fine dare ai paesi europei i mezzi per ricostruirsi e comperare. Continueranno a far in definitiva ed in altre forme, ciò che hanno fatto con gli affitti-prestiti e con l’U.N.R.R.A. Gli aiuti all’Europa rientrano nel piano della loro economia.

Ma ci daranno come e quando vorranno loro; e non dobbiamo illuderci (specialmente noi italiani che non contiamo molto ai loro occhi) di avere come e quando vogliamo noi, a date scadenze, quasi per una cambiale. Il nostro contegno non deve esaurirsi in querule richieste, e nella sola dimostrazione che abbiamo bisogno di tanto; dobbiamo dimostrare la nostra capacità ed i nostri piani per impiegare quello che ci daranno ai fini della ricostruzione italiana, della ricostruzione europea, del vantaggio anche di loro americani.

Il nostro atteggiamento sia ben chiaro; né di illusorie euforie, né di sconforti umiliati. Se non è opportuno né giusto, parlare degli americani come di negrieri o d’imbecilli, non è neppure opportuno e giusto fare verso di loro una politica di «sciuscià». (Vivissimi applausi).

Lo ho detto dal 1944, fra gli altri, all’Ambasciatore Kirk, al capo dei servizi economici O’Dwyer, e l’hanno apprezzato; abbiamo tutto da guadagnate se non gonfiamo le gote, ma teniamo la schiena diritta. Prescindiamo pure, per un momento, dalla nostra rivolta ai tedeschi e dal nostro contributo di cobelligeranza. Sta di fatto, sul terreno economico, che la loro non è tanto un’elemosina quanto una contropartita ed in parte una restituzione. Dai dati che raccolsi dal C.I.R. (e vennero poi completati) risulta che tutto ciò che essi ci hanno dato arriva complessivamente (con le somministrazioni militari, con l’U.N.R.R.A., con la F.E.A., con le restituzioni per le am-lire) ad un miliardo e mezzo di dollari. D’altro lato, senza calcolare il lavoro che utilizzarono dei soldati nostri nelle retrovie, limitandosi a calcolare le requisizioni, i trasporti, i lavori di civili, le am-lire, si arriva a qualcosa di più che la stessa cifra.

Ciò che ci daranno in più lo restituiremo, appena ci sarà possibile. Intanto fronteggeremo, col loro aiuto, la gravissima situazione del commercio estero. Chi si affaccia al mercato internazionale, ha detto Lippmann, vede un paesaggio lunare di devastazione e di sconvolgimento, di deviazioni e di trincee. Si intrecciano i più complessi rapporti: di traffici a valuta libera, di clearings, di compensazioni, ed anche (noi vi siamo ricorsi) di baratti di uomini con merci. La posizione dei paesi che hanno più bisogno è dura: non trovano le merci che loro occorrono; e per collocare le proprie, sono costretti a ricevere in cambio cose per loro meno necessarie e superflue, come noi gli orologi dalla Svizzera.

Libertà, libertà, gridano gli interessati. Ma la libertà dei traffici internazionali dove sta di casa? La luce non viene da Ginevra, dove una convenzione dell’U.N.O. sta studiando nuovi accordi doganali; e c’è la tendenza americana ad abbassare i dazi; ma quel grande paese, in sostanza, vuole libertà di commercio per gli altri più che per sé stesso.

Mi appello anche ai liberali. Un giovane valoroso, lo Storoni, che ha lavorato con me al C.I.R., dichiara che – se è assurdo ed impossibile un monopolio del commercio estero, quale è nella Russia comunista ed estesa come un continente – è egualmente assurdo ed impossibile, nell’attuale congiuntura di carestia, lasciare assoluta libertà di traffici e valuta; «non si può lasciare che introducano calze Nylon e macchine Packard, quando con la nostra scarsa valuta non si può acquistare abbastanza pane e carbone».

Chiedo al Governo di riesaminare il sistema del 50 per cento di valuta che si lascia libera agli esportatori. Finché fui al C.I.R. mi opposi. Ammisi che il cambio del dollaro fosse portato a 220 e poi di mano in mano, occorrendo, aumentato, ma conservando sempre i conti individuali. Si ricorse in seguito allo espediente del 50 per cento e si ebbe all’inizio uno stimolo che parve benefico, ma vennero gli inconvenienti che avevo previsto, con la doppia quotazione del dollaro libero d’importazione (che è oggi ad 800) e di quello di esportazione (che nel cambio medio fra 800 e 220 diventa di 500); e con la scala mobile che ne deriva, non favorevole alla nostra valuta. Si sono suggeriti vari emendamenti; dare il 50 per cento anche agli importatori; dare a questi libertà, ma con l’obbligo di consegnare quote di valuta, graduate a seconda della maggiore o minore necessità delle merci; sistemi che sollevano dubbi. Domando al Governo di togliere o modificare adeguatamente l’attuale 50 per cento.

Faccio ancora proposta concreta di rivedere la struttura del Ministero del commercio estero, e le sue procedure ingombre di intralci e di vincoli eccessivi, che i commercianti hanno ragione di lamentare. Rapidità, ma effettive garanzie. Al formalismo della burocrazia ed all’arbitrio personale del Ministro è da sostituire la pronta decisione di Comitati ristretti, d’esperti (ne abbiamo anche nell’Assemblea), che funzionino quasi da magistratura amministrativa e diano precisa pubblicità alle licenze accordate.

Una voce a sinistra. E le false fatture?

RUINI. Non tema che non ne parli: io vado in ordine logico. È un’altra domanda che rivolgo al Governo: perché non colpisce seriamente gli esportatori che denunciano d’aver venduto a 10 ed hanno diritto a metà della valuta; mentre vendono a 20 e a 50 e tengono tutta la differenza all’estero? Non è, purtroppo, il solo caso di quel paradosso, un altro paradosso per cui l’Italia, che è uno dei paesi più poveri di capitali, è alla testa per la fuga e l’evasione del capitale.

Una voce a sinistra. È logico.

RUINI. No, sono paradossi di una situazione anormale e patologica. Bisogna punire chi dice il falso, chi porta fuori il denaro; perché non ha fiducia nel suo Paese. Bisogna dare esempi come non si fece finora; il popolo, per avere a sua volta fiducia nel governo, vuole atti di energia. E ne avranno vantaggi i commercianti onesti, perché si potranno risparmiare vincolismi e bardature inutili, concentrandosi in quelle necessarie che sboccano a salutari sanzioni.

Vengo da ultimo alla produzione; che è per importanza il primo dei settori di politica economica. Nessuno contesta la verità di un motto all’onorevole Nitti «produrre di più e consumare di meno». Ma è difficile consumare di meno; siamo di già in uno stato diffuso di sottoconsumo e di sottoalimentazione. Produrre di più; né basta; bisogna produrre a costi che consentano d’esportare.

Il male di questo momento è che i costi di produzione aumentano, e s’assottigliano le nostre esportazioni. È ingiusto attribuire come alcuni fanno il fenomeno unicamente alla mano d’opera. Povera di materia prima, l’Italia si è fino ad oggi difesa per la sua maggiore sobrietà ed il minore salario, esportando lavoro anche attraverso prodotti finiti. I salari non sono cresciuti col ritmo dei prezzi; un nostro operaio è oggi pagato, in moneta reale, meno che avanti guerra, quando era pagato due terzi in confronto d’un operaio francese, ed un sesto d’un inglese. L’aumento dei costi dipende da molteplici cause che vanno dalla inutilizzazione parziale dei nostri vecchi, spesso troppo vecchi, impianti e dalla scarsezza ed irregolarità della forza motrice e degli approvvigionamenti di materie prime, alla minor resistenza al lavoro dei meno nutriti operai ed alla minore resa – che è impressionante – del loro lavoro. Vi è in tutto il mondo, come sempre negli immediati dopoguerra, una stanchezza ed un’ondata di pigrizia. Ad esempio, nell’austera Inghilterra, gli operai non vogliono fare più i minatori. Da noi il fenomeno della minor resa non è più grave che altrove, ma incide di più perché la nostra maggior riscossa è il lavoro.

E poi vi è il fenomeno della disoccupazione, che in un paese a sovrapopolazione come l’Italia, tende a tradursi in fenomeno di falsa occupazione e di inflazione della mano d’opera occupata. Un altro paradosso, che avviene tipicamente nelle industrie coi blocchi dei licenziamenti e nell’agricoltura con l’imponibile della mano d’opera, in misura eccessiva. Il disoccupato in fabbrica influisce anche sulla minor resa degli altri lavoranti. L’esuberanza di personale che era propria dell’Amministrazione pubblica minaccia di estendersi, per contagio, negli opifici è nelle fattorie. Dove prima lavoravano due, si lavora oggi in tre! I blocchi dei licenziamenti non sono più imposti da leggi o concordati nazionali; non sono di diritto, ma di fatto, per le pressioni operaie ed anche per ragioni di umanità, al di fuori del dato economico. Un grande industriale mi diceva: come faccio a licenziare questa gente; se la mando via morrà di fame! D’altra parte, bisogna notare che in regimi di carestia ove non funziona in pieno l’economia di mercato, imprenditori e lavoratori possono mettersi d’accordo a spese dei consumatori.

L’eccesso di mano d’opera è un fenomeno che va al di là del sistema socialista e del sistema liberista, né si rimedia al male con le nazionalizzazioni o le sovvenzioni alle imprese. Se il male si perpetua, la nostra diventerà un’economia mussulmana, ove nella ciotola che bastava a due mangeranno tre, mangeranno tutti; in una stagnante ed avvilente depressione. Dobbiamo reagire, per quanto è possibile.

Si deve ridare sincerità ai costi delle aziende. Io sono stato uno degli autori dello slogan: «niente sussidi, diamo lavori pubblici!». Me ne ricredo. In certi casi è meglio una sovvenzione collegata all’obbligo di frequentare scuole professionali di rieducazione e d’avviamento, per qualificare i nostri operai, come sono richiesti anche dall’estero. Un fondo di disoccupazione sarà in definitiva meno gravoso allo Stato delle integrazioni salariali, dei sussidi agli industriali e delle false spese per lavori pubblici.

Il problema dei problemi, onorevoli colleghi, è nel grande numero della nostra popolazione. Siamo 46 milioni di italiani in confronto ai 43 milioni del pre-guerra. I francesi sono diminuiti d’un milione e mezzo, gli inglesi di mezzo milione. Saremo fra non molto la Nazione più numerosa d’Europa, dopo la Russia e la infranta Germania. Ma non c’è da gonfiarsi le gote d’orgoglio demografico. Siamo poveri. Il mio maestro Nitti ha mostrato più volte la povertà delle nostre risorse. Non abbiamo terra che basti al nostro pane. Il nostro sottoterra è privo dei due diamanti neri della produzione moderna: il carbone ed il petrolio. Eravamo riusciti, pazientemente, miracolosamente, ad organizzare la nostra produzione e raggiungere un modesto tenore di vita. Il fascismo e la sua guerra l’hanno distrutto.

Dobbiamo ricostruire. Affrontare il problema dell’occupazione. Posto che, con ritmo normale, ogni anno l’Italia cresce di 400 mila unità, come potremo occupare la nuova schiera di lavoratori? L’Italia non ha – come la Francia nel piano Monnet – un piano di ricostruzione e di riconversione della sua attività produttiva. Io avevo, quando diedi vita al C.I.R., incaricato un Comitato, presieduto da un uomo di valore, l’ingegner Casini, di studiare un piano di questo genere – prima ancora che in Francia si parlasse di piano Monnet –; so che vennero fatti studi; perché non sono pubblicati?

Le difficoltà di occupazione sono gravissime. Secondo le statistiche l’agricoltura, dal 1880, non è aumentata di braccia, l’applicazione dei mezzi tecnici tende a diminuire il numero di chi lavora nei campi. L’industria, per quanto si faccia, non potrà assorbire il margine nuovo di braccia disponibili ogni anno. E, badate bene, per occupare un nuovo operaio occorrono nuovi impianti che richieggono una spesa da due a cinque milioni; ed è cifra non in eccesso, ma piuttosto in difetto, fra quelle oggi calcolate anche in altri paesi.

Così entriamo nel problema degli impianti che è di ricostruzione, ed anche di nuove costruzioni e di rinnovamento degli impianti vecchi. Secondo i calcoli Casini, a quel che so, occorrerebbero almeno 400 miliardi all’anno per gli impianti industriali (e non assorbirebbero tutta la mano d’opera disponibile). Bisogna aggiungere 100 miliardi all’anno per la forza motrice, ed anche qui le previsioni sono modeste; i 20 miliardi di kilowattora, che avevamo prima della guerra, sarebbero diventati, con lo stesso ritmo d’aumento, 50 nel 1956; faremo ora gran fatica ed occorreranno 100 miliardi di lire all’anno, per portarli a 40 miliardi di kilowattora (mentre il piano Monnet, per l’elettricità, prevede 5 anni). Le nostre previsioni non sono rosee; occorre ad ogni modo che l’Assemblea ed il Paese ne abbiano comunicazione.

Bisogna che sappiano cosa si potrà fare con tutte le altre risorse, anche marginali, dell’Italia. Con l’emigrazione. Altri paesi han bisogno di nostre braccia; e le daremo; ma senza illuderci che si possa per questa via provvedere al supero della nostra mano di opera. E senza altre illusioni. In un intervento durante la discussione della Costituzione ho detto che non dobbiamo dimenticare i nostri fratelli lontani; che saranno legati a noi da una doppia cittadinanza; ma, non dobbiamo riecheggiare l’accento dei fasci italiani all’estero; sono necessari (potrebbe dirlo l’onorevole Morelli, che fu Sottosegretario appunto per gli italiani all’estero) molti riguardi per non far del male a questi fratelli. Quali sono le direttive ed i piani del governo per l’emigrazione?

E pel turismo? L’onorevole De Gasperi ha annunciato provvedimenti: li aspettiamo. Confesso e spero sovratutto in qualche organizzazione privata, come quella ideata da un italiano lungimirante, il Gualdi, per tutti gli aspetti dell’industria turistica. Ed i noli? Sono oggi molto redditizi; e converrà fabbricar navi; e comprarne delle vecchie, subito, per fare come i greci l’industria dei tassì del mare. Dovremo pensare, meglio che fino ad ora, ad una politica dell’artigianato, così italiano; è suscettibile di aver maggiore sviluppo; nello sforzo che è indispensabile dare a tutte le risorse, grandi o piccole del nostro Paese, in un piano integrale di ricostruzione.

Per la politica produttivista, ha decisiva importanza l’atteggiamento verso le imprese private. Tutte le correnti, anche le estreme, riconoscono che per la ricostruzione del Paese è indispensabile l’iniziativa e l’impresa dei privati. Da ciò si trae, come corollario, che bisogna non spaventare, ma dar fiducia a tali imprese. Il che non significa continuare nelle elargizioni che vennero fatte ad esse – con la bacchetta magica dell’onorevole Corbino – di mutui e sovvenzioni del tesoro o di garanzie a buon fine. Tanto più che ora, con le rivalutazioni e le nuove emissioni di titoli, non ne hanno bisogno. Non si deve ricorrere più ad un sistema antieconomico di favori. E tutti coloro che fanno fuggire i capitali, che evadono coi loro mezzi ed impianti, vanno duramente colpiti.

Le imprese private hanno ragione quando chiedono che si tolgono molti vincoli. Né può risorgere, in un modo o nell’altro, il corporativismo, che servì ai pesci grossi contro i piccoli. Le bardature e gli intralci inutili devono cadere; e gli interventi ridursi a quelli che sono indispensabili, in quest’economia di assegnazione da parte dello Stato di carbone e di materie, ad esempio dell’U.N.R.R.A., che le imprese debbono lavorare e rivendere a giusti prezzi. L’avvenire è ad una maggiore libertà. Ci saranno, sì, piani-guida; ma io penso che meglio di un vincolismo generale occorra una rettifica di frontiera fra i due settori, quello ove è necessità di controllo, e magari di nazionalizzazione, e l’altro dove può esser lasciata maggior libertà di movimento. Neppure i partiti estremi propongono nazionalizzazioni immediate; che pur potrebbero essere possibili, come per le industrie elettriche, ma per completare l’assetto italiano in questo campo occorrono molti miliardi ed organizzazioni pronte e capaci; e non si deve tardare ed essere espliciti; dare un termine alle imprese elettriche perché trovino i fondi e provvedano subito alle costruzioni. Se no, assuma lo Stato direttamente il compito, con una nazionalizzazione, sia a tipo integrale, sia a tipo inglese per la distribuzione. Altri ritardi a decidere non sono ammissibili. Così per 1’I.R.I.

L’I.R.I. è un enigma economico; e, sotto un certo aspetto, un altro dei paradossi che ho rilevati nella vita italiana. Come è sorto? Abbiamo nazionalizzate provvisoriamente le imprese, non perché avessero i caratteri obbiettivi per essere gestite dallo Stato, ma perché andavano a male. Fallimento, aria d’ospedale che non è sparita fin’ora. Poi Mussolini rese definitiva la nazionalizzazione per ragioni, egli disse, di autarchia e di preparazione bellica.

È un complesso poderoso ed eterogeneo di aziende che vale oggi più di 100 miliardi, né sarebbe un cattivo affare, anche se i 5 miliardi che è costato in origine, in lire d’allora, non valgano di meno. Vero è che l’ospedale continua ad aprirsi ad ospiti nuovi, con oneri allo Stato, e la gestione non può dirsi economica. Gli amici delle nazionalizzazioni si esaltano per l’etichetta e l’insegna luminosa, ma permangono nell’I.R.I. vecchie posizioni di industriali un giorno falliti, che vi stanno come topi nel formaggio. E 250 mila operai delle sue maestranze vi esercitano la loro pressione e lo considerano come campo proprio con effetto non sempre benefico (come con i blocchi dei licenziamenti e la resa del lavoro). Vi sono rami che vanno bene; altri che sono un disastro.

Che fare? Non liquidare e distruggere tutto; ma neppure continuare così. Un grande sostenitore dell’I.R.I., l’onorevole Scoccimarro, ha detto, al contrario del nobilomo Vidal: peggio di così non «la podaria andar». Bisogna sollevare i veli, precisare i compiti amministrare bene. Auguro all’onorevole Paratore, che ha tanta capacità ed esperienza, di riuscire nell’opera di sistemazione che si impone.

L’I.R.I. abbraccia aziende, che non hanno nessun carattere pubblicistico; vi era la selleria che sta davanti al Quirino, vi sono dolcerie, negozi, alberghi, tenute fondiarie; e per queste aziende si potrebbe decidere (salvo scegliere il momento e le occasioni più opportune) una smobilitazione, che darebbe una ventina di miliardi e servirebbe ai bisogni immediati di altre aziende.

Per ciò che resta, sono indispensabili idee chiare. Non vedervi un ponte, checché sia, per la nazionalizzazione universale delle industrie. Non parlare genericamente di razionalizzare la produzione, o d’impianti piloti o di controllo, senza che questa funzione sia in verità adempiuta. Si vuole fare dell’I.R.I. l’ufficio studi e il gestore unico di tutte le imprese economiche gestite da ministeri o da enti speciali (come la COGNE); ed in certi casi giova coordinare o dare all’I.R.I. alcune di tali aziende; per le quali – tutte – occorre una revisione sistematica. Ma più ancora che ingrassare e confondere, la tendenza, dentro e fuori dell’I.R.I, deve essere alla specificazione ed all’«articolazione».

Vi sono, nell’I.R.I., settori che possono stare a sé, come il bancario, passino o no le tre grandi banche a quella d’Italia, o formino insieme una Holding. Il settore della Stel va bene, e potrebbe dar luogo ad un riordinamento generale, più in mano dello Stato, di tutti i telefoni. Il sistema delle Holding fu già seguito: per la Finmare, e qui si presentano i problemi dello sviluppo futuro della nostra organizzazione. E si presentano i problemi dell’industria cantieristica, così italiana, che tutti ammirano, perché sappiamo costruire navi così belle. Tali problemi possono richiedere organizzazioni speciali, distintamente amministrate, se anche coordinate, come direttive generali e finanziarie, nell’I.R.I. Per il settore più pesante, le meccaniche e le siderurgiche, è pur da pensare ad articolazioni ed a soluzioni che possono andare anche alla nazionalizzazione integrale che fu, mi sembra, proposta per le cosidette industrie di guerra, da liberali come Einaudi.

Insomma non distruggere alla cieca, ciò che ormai esiste; ma non fermarsi perché c’è l’etichetta dello Stato e non dire: questo deve essere tabù. Qui, proprio in un buono e vantaggioso ordinamento di questa nazionalizzazione in atto, nella quale abbiamo precorso, più o mano consciamente, altri paesi, sta la prova della capacità economica dello Stato.

Finisco dove ho incominciato; occorreva un piano, un Governo, la fiducia.

Ci avete dato un programma d’emergenza. Il vostro è un Governo d’emergenza. Vi daremo una fiducia di emergenza. Non dispiacetevi dell’espressione che scaturisce logicamente dalle premesse.

Molti di noi avremmo desiderato un Governo di unione nazionale, o almeno di più larga concentrazione, che fosse insieme a direzione unica. Due cose che non sono inconciliabili tra loro, specialmente per la direttiva economico-finanziaria.

Non è stato possibile. La colpa è forse di tutti i partiti. Ci si presenta ora un Governo che si assume la responsabilità di sanare il bilancio, di contenere i prezzi, di ottenere aiuti dall’estero. L’Assemblea non si può assumere la responsabilità di aprire una nuova crisi; di mutare il chirurgo quando urge operare.

Io ricordo una frase che dissi molto tempo fa e che l’onorevole De Gasperi qualche volta ripete: tutti noi siamo alpinisti legati ad una cordata. Dobbiamo reagire ad un oscuro malcontento che sale; al senso di distacco, e quasi di ingiusto dispregio verso la Costituente che i nemici della Repubblica alimentano nel Paese.

Caro De Gasperi, quando noi vivevamo insieme, nell’epoca clandestina, dividendo fraternamente i pericoli, pensavamo all’Italia di domani, con uno stato d’animo che fu espresso così in Francia dopo il 1870: «Quanto era bella la Repubblica sotto l’impero!». Vi sono ancora gravi difficoltà, ma la Repubblica è bella, e vinceremo le difficoltà facendo ciascuno il proprio dovere.

Io l’ho fatto sul Carso e ringrazio l’onorevole Nitti che lo ha ricordato, lo ho fatto durante la lotta di resistenza, credo di aver compiuto anche ora un modesto dovere, recando a questa discussione un contributo, che spero non trascurabile, di cifre e di proposte concrete. (Vivissimi applausi Molte congratulazioni).

(La seduta sospesa alle 19.10, è ripresa alle 19.40).

PRESIDENTE. È iscritto a parlare l’onorevole Foa. Ne ha facoltà.

FOA. Onorevoli colleghi. Le dichiarazioni del Presidente del Consiglio che noi abbiamo udite ieri in quest’Aula non hanno mutato il giudizio negativo mio e dei miei amici del partito d’azione sui moventi e sul modo della crisi e sulla formula di governo che ne è uscita. Dirò anzi che le dichiarazioni programmatiche del Presidente del Consiglio hanno aggravato il giudizio negativo, e non soltanto per la genericità delle dichiarazioni stesse, comune del resto alle dichiarazioni dei precedenti governi, genericità che fa sì che il programma del Governo rimane come sospeso a mezz’aria tra la formulazione di un chiaro metodo di azione politica e la formulazione di precisi progetti sulle singole materie.

Vi è stato nelle dichiarazioni del Presidente del Consiglio un elemento che indubbiamente contribuisce ad accrescere la preoccupazione e ad aggravare il giudizio sfavorevole che era già stato formulato in precedenza. Questo elemento è consistito nel fatto che le dichiarazioni del Governo riproducono sostanzialmente gli elementi programmatici del precedente Governo. E, dirò di più, li riproducono ponendo l’accento in modo prevalente su quella parte dei programmi dei precedenti Governi che formarono oggetto delle richieste e delle rivendicazioni dei partiti di sinistra, soprattutto dell’estrema sinistra, lasciando invece nell’ombra e sorvolando su alcuni di quei provvedimenti che possono, anche oggi, essere ritenuti necessari e che possono dare una impressione di sfavore alle sinistre.

Questo fatto è, a mio giudizio, un elemento di non completa sincerità: si è avuta l’impressione, dalle dichiarazioni dell’onorevole De Gasperi, che si sia voluta mascherare la sostanza effettiva della crisi, che si sia voluta mascherare la natura effettiva del nuovo Governo, e che, infine, si sia voluta mascherare quella che io considero – me lo consentano gli amici democristiani – non già una vittoria, bensì una sconfitta del partito democratico cristiano.

Dico questo senza spirito polemico: lo dico con molta serenità: credo che il partito democratico cristiano, che è un grande partito, con legami profondi coi bisogni popolari, sia uscito sconfitto da questa crisi. Credo che sia uscito sconfitto perché con la soluzione adottata per questa crisi, il partito democratico cristiano, ha, evidentemente, ceduto alle pressioni che da lungo tempo si esercitavano sulla classe dirigente del governo democratico italiano. Ha ceduto dopo lunga resistenza, una resistenza che durava dal tempo del primo governo De Gasperi, ha in definitiva ceduto, abbandonando i vecchi compagni di strada. È stato sconfitto perché ora il governo è caratterizzato dagli uomini nuovi e dalle forzo nuove che vi sono entrate.

Quali sono queste forze? Esse sono, dal punto di vista della democrazia parlamentare, forze irresponsabili che da molto tempo premevano contro il Governo democratico, e cercavano di metterne in paralisi i progetti, di impedirne l’applicazione, e che infine da qualche mese a questa parte, hanno esercitato un’azione diretta nel senso della crisi. Queste forze molto facilmente si identificano con quella parte (modesta come numero e come entità produttiva ma dotata di enorme potenza) del cosiddetto mondo degli affari che prende il nome di oligarchie e di monopoli finanziari ed industriali. Sono forze che non solo sono in diretto contrasto col mondo dei lavoratori, ma sono in antagonismo con tutto il resto del mondo produttivo dei piccoli e medi produttori, in una lotta feroce a coltello per esercitare una preponderanza economica che tende a diventare facilmente preponderanza politica per monopolizzare tutto quello che è il regime vincolistico, oggi ancora necessariamente così forte nello stato italiano, per controllare la manovra delle assegnazioni, dei prezzi, del credito. Sono le forze monopolistiche di cui abbiamo avuto occasione di leggere in recenti pubblicazioni dati precisi su quella che è la concentrazione patrimoniale, la capacità di manovra e la effettiva consistenza della potenza economica e quindi politica.

Ora, se noi consideriamo quale è stata la lotta che queste forze hanno condotto, fino dalla liberazione del nostro territorio, vediamo che la loro offensiva si è sviluppata con crescente energia. Esse erano politicamente battute alla fine della guerra di liberazione, perché i loro interessi erano stati costantemente in stretto legame col regime che è stato abbattuto dall’insurrezione. Esse erano inoltre economicamente screditiate di fronte al Paese e di fronte al mondo, perché sempre avevano avuto bisogno di sussidi, di aiuti, di sovvenzioni e protezioni di ogni genere. Esse hanno rialzato la testa allora, dopo la primavera del 1945, ed hanno condotto una politica coerente e sistematica. Devo dire chiaramente che i governi di coalizione, ed in particolare il governo tripartito, non hanno saputo opporre a questi attacchi una sufficiente resistenza. La loro azione politica si è mantenuta ai margini, alla superficie della politica, mentre queste forze potevano mantenere il loro dominio, consolidarlo e preparare il loro attacco finale. Effettivamente, noi abbiamo oggi, guardando dietro di noi, la precisa sensazione che la pura e semplice presenza dei partiti di sinistra nel governo non era di per sé una condizione sufficiente per lottare contro queste forze che si consolidavano, quale che fosse la composizione politica del governo. La pressione politica trovava sbocchi politici, ma, nel contempo, le forze politiche democratiche della democrazia cristiana e degli altri grandi partiti di massa non hanno potuto o saputo limitare questa offensiva, non hanno saputo limitare questo consolidamento crescente, di cui oggi noi sentiamo le conseguenze, di cui la democrazia cristiana per prima ha dovuto fare le spese. La tecnica dell’assalto di queste forze era molto semplice: si trattava di controllare positivamente le effettive leve di comando del potere statale, di liquidare, ammantandosi di un liberismo economico, cui esse più non credono assolutamente, quel tanto di intervenzionismo programmato nell’interesse generale che tanto la democrazia cristiana quanto gli altri partiti della coalizione governativa si erano sforzati di fare.

Il manto di liberismo ha servito molto bene a queste forze, anche in altri settori, perché esse effettivamente hanno potuto giovarsi di un atteggiamento, che io giudico di piena e perfetta buona fede, di un atteggiamento, che, per esempio nel settore del credito, ha fatto sì che si sia lasciata libertà di azione proprio nel periodo in cui il governo della democrazia italiana si proponeva di controllare e orientare determinati indirizzi economici e finanziari, ha fatto sì che proprio in quel periodo quel settore sia rimasto scoperto, e quindi molte forze speculative abbiano potuto costituirsi liberamente. E la sistematicità dell’azione di questi gruppi di potenza è stata molto superiore a quella dei partiti democratici. Noi assistiamo a questo fatto, per esempio, che mentre in meno di due anni si è cambiato ben sei volte nel governo democratico italiano il ministro del Tesoro – e tutti sanno cosa vuol dire il mutamento nella direzione del Tesoro e quali danni arreca – nello stesso periodo di tempo noi abbiamo avuto un solo governatore della Banca d’Italia, la quale era man mano diventata una grande potenza politica, sia pure negativa, limitativa nei confronti del governo democratico italiano.

Se noi vediamo come queste forze sono venute all’attacco, io richiamo alla mente la crisi, che pare ormai lontana nella memoria, del governo Parri. Anche allora, a giudizio mio e dei miei amici, quella crisi era strettamente connessa con il proposito dello Stato italiano di procedere ad una azione energica e sistematica nel campo dell’economia e della finanza, proposito che è stato frustrato. L’onorevole Scoccimarro, direttamente interessato, me ne può dare conferma. Venendo a tempi più vicini, io credo che difficilmente si possa contestare che, anche nel mese di gennaio di quest’anno, qualche cosa del genere sia successo. I provvedimenti Scoccimarro stavano per passare dalla fase di progettazione a quella di applicazione. Potevano essere discutibili ma erano un fatto positivo. Con la crisi tutto è stato rimesso in alto mare.

Quando parlo di queste cose, amici della democrazia cristiana, vi assicuro che io considero il vostro partito come un partito che organicamente non ha alcuna ragione di cedere a queste pressioni, anche se purtroppo vi ha di fatto ceduto. E se io fossi convinto che questo cedimento, questa alleanza, nel governo, del vostro partito con quelle posizioni di monopolio fossero definitivi io non parlerei qui o mi esprimerei in termini diversi. Ma io sono invece convinto che si tratta di un cedimento, di un’alleanza di carattere episodico e rimediabile.

Ma credo di dover dire anche una serena ed obiettiva parola su quello che è successo dopo, su quella cioè che è stata l’opera del ministro Campilli, il quale, nonostante la grave menomazione che derivava alla sua libera azione politica dalla campagna scandalistica che è stata ingiustamente condotta nei suoi confronti, seppe tuttavia fare qualche cosa, seppe, se non altro, mettere in moto la macchina. E se la gestione del tesoro è stata insufficiente come le gestioni precedenti (ciò che è comprensibile, data la campagna scandalistica che ha paralizzato l’azione del ministro) nella gestione delle finanze qualche cosa è stato fatto. Noi abbiamo avuto l’imposta patrimoniale straordinaria e abbiamo avuto l’impegno da parte del Governo di stabilire, con un articolo della legge, che l’Assemblea dovesse ratificare quel provvedimento, data la sua importanza. E se la Commissione di finanza non ha accettato, a maggioranza, alcune delle modificazioni più gravi e, a mio giudizio, più serie che sono state proposte, come l’accertamento diretto dei cespiti mobiliari e la tassazione delle società per azioni, è vero però che la Commissione di finanza si è assunta la responsabilità di proporre altre importanti variazioni le quali – notate bene, onorevoli colleghi – avevano la virtù di spaventare maggiormente quegli ambienti paurosi, non tanto perché esse venissero ad aggravare il peso della patrimoniale, quanto perché esse perseguivano l’intento di cercar di impedire la massa delle evasioni.

Ora, quando l’onorevole Presidente del Consiglio dice che il Governo accetterà i suggerimenti e le modifiche proposte dalla Commissione di finanza dell’Assemblea, io credo di dover interpretare questa assicurazione come l’impegno di portare al più presto all’Assemblea il disegno di legge.

In ogni modo non dubito, e a nessuno di noi è lecito dubitare, della sincerità e della buona volontà dell’onorevole De Gasperi, quando alla fine di marzo aveva deciso di inviare, per la sua approvazione, il disegno di legge in Assemblea, collegandolo ad una discussione generale sulla situazione economica e finanziaria, dalla quale si sapeva che doveva derivarne una spinta verso una vasta azione concreta; ed anche attraverso la relazione esemplare dell’onorevole La Malfa appariva evidente che tale discussione doveva rappresentare un elemento utile per un inquadramento ordinato di finanza, impostato su provvedimenti di emergenza. Invece della discussione, abbiamo avuto un periodo di tergiversazioni e successivamente la crisi.

Anche se oggi il Governo presentasse il disegno di legge entro breve termine alla Assemblea, è chiaro che avremmo comunque perduto altri tre mesi nonostante l’applicazione immediata del progetto ministeriale di cui do elogio all’onorevole Pella; noi abbiamo perduto altri tre mesi, e crede l’onorevole De Gasperi che le forze, le quali impunemente hanno premuto in ogni modo per ostacolare questo provvedimento e per mettere in crisi il Governo (le quali forze in questi ultimi tempi si sono ulteriormente rafforzate) non insceneranno qualche pretesto per allontanare ancora questa discussione e questo pericolo che le minaccia?

Tanto più se a questo aggiungiamo che in seno alla Commissione di Finanza era stato invitato l’onorevole Campilli (e l’onorevole Campilli non solo aveva accettato ma aveva dato prova di avere in gran parte provveduto) a portare a conclusione alcuni importanti provvedimenti integrativi della patrimoniale avviati, credo, parzialmente dall’onorevole Scoccimarro, come il provvedimento sulla rivalutazione del patrimonio delle società per azioni, come quello sulla revisione dell’organo e dei metodi di accertamento per l’imposta di negoziazione (che interessa i Titoli non quotati in Borsa), come infine il disegno di legge sull’Ispettorato del credito, di cui si è parlato da parte del Presidente del Consiglio e dell’onorevole Ruini, e per il quale non basta mettere qualcosa sulla carta, ma bisogna sapere quale ne sarà l’applicazione, con quali metodi e criteri.

È chiaro dunque che c’è stata una pressione per uno spostamento dell’asse del Governo ed è chiaro che in questa pressione il partito della democrazia cristiana (nolente e suo malgrado) è stato sconfitto.

Di fronte alla situazione che si è creata, sia pure dopo l’apertura della crisi, io credo che all’onorevole De Gasperi si aprivano davanti due strade: una che è quella di collaborare con le forze della destra economica; l’altra era quella di collaborare con le forze di sinistra, ma sulla base di un programma che il centro sinistra gli forniva e che era un programma che comprendeva l’uso e la pratica dell’interventismo statale nella misura limitata e richiesta dalle circostanze, comprendeva cioè una precisa volontà di intervento nel settore finanziario-economico in vista del risanamento del bilancio e della ricostruzione dell’economia.

Ma le strade che l’onorevole De Gasperi ha mostrato di seguire dopo l’apertura della crisi, non erano né l’una né l’altra conformi alla logica della crisi stessa; perché, nonostante che io condivida in pieno la preoccupazione che era stata espressa dall’onorevole De Gasperi circa l’inefficienza del governo tripartito e nonostante che proprio da questi settori si sia sempre levata una voce serena di critica costruttiva al governo tripartito (voce che tornerebbe a levarsi di nuovo in circostanze analoghe), le soluzioni proposte dall’onorevole De Gasperi non erano tali da sodisfare le esigenze che egli aveva formulato. La soluzione di unità nazionale, di unione sacra, non faceva che moltiplicare gli elementi di reciproca interna paralisi, anziché risolverli, a meno che non si fosse accettata la nostra proposta di una direzione economica unitaria nei metodi e nel fine.

E la seconda impostazione che ha ricercato l’onorevole De Gasperi, quella cioè del governo di minoranza omogenea del partito democristiano – ipotesi che in teoria mi sembrerebbe accettabile, perché ritengo che in certe circostanze si debba anche affrontare una responsabilità del genere – questa impostazione era illusoria, perché, nonostante il grande valore di molti uomini del partito e del gruppo parlamentare della democrazia cristiana, uomini intellettualmente preparati e modernamente orientati sui problemi economici, la democrazia cristiana non aveva, come tale, formulato una sua linea di politica economica al Paese, tanto che l’onorevole De Gasperi si è visto costretto ad andare alla ricerca dei tecnici.

In realtà, egli non andava alla ricerca di tecnici, perché li avrebbe trovati molto facilmente nel suo gruppo, tecnici numerosi e di valore erano a sua disposizione in questo settore, se egli fosse andato alla ricerca dei tecnici. L’onorevole De Gasperi andava alla ricerca di una alleanza politica, e fra le due alleanze che gli si sono offerte, quella della sinistra con una direzione omogenea propostagli da questo settore, e quella della destra che dietro un apparente rispetto dei principî di liberismo e di spontaneità e nonostante le persone dei suoi uomini più responsabili, in particolare dell’onorevole Einaudi, assolutamente e sinceramente disinteressati, rappresenta però degli interessi che nulla hanno a che vedere né con la spontaneità né con la libertà economica, la scelta l’onorevole De Gasperi l’ha fatta.

E questo credo che sia stato il suo errore politico.

La critica che io faccio all’onorevole De Gasperi è una critica politica e penso, con umana simpatia, che egli sia piuttosto la vittima che il responsabile morale di questa situazione.

Vi è stato, onorevoli colleghi, un aspetto internazionale del problema che vorrei, col dovuto senso di responsabilità, ricordare. Io credo che con le mie modeste forze abbia il dovere di contribuire, così come ogni cittadino italiano, a dissipare una impressione creata attraverso una gigantesca montatura propagandistica: l’impressione cioè che determinate condizioni per poter ricevere aiuti dall’America fossero condizioni politiche specifiche.

So che alcuni colleghi della democrazia cristiana sono persuasi, in buona fede, che vi sono delle condizioni politiche specifiche per ottenere dei prestiti dall’America. Orbene, questo convincimento è il frutto di una gigantesca montatura propagandistica, che è consistita nel non dire le cose, ma nel lasciarle capire. Ed è stata una campagna di una abilità sopraffina, che io ammiro: queste cose si sono lasciate capire, come cose che non si dovevano dire, che bisognava non dire, ma che erano vere.

Ora, queste condizioni non esistono, non esistono condizioni specifiche di questo tipo, di quel tipo che si è cercato di profilare fondendo una posizione obiettiva con i desideri di alcuni gruppi di interessi. Esistono dei limiti obiettivi imposti dalla situazione, che impedirebbero una prevalenza di dominio governativo alle forze estreme e inoltre, ne siamo tutti coscienti, esiste un limite dato dal nostro bisogno di aiuti.

Ma credo che, se da questa constatazione serena che tutti possiamo fare, si passa a presentare come specifica volontà straniera quello che è invece il desiderio di alcune parti interessate del popolo italiano, credo che si commetta veramente un grande e pericoloso errore; perché veramente ci si dispone in uno stato d’animo di subordinazione inutile e nociva.

Io sono convinto che, con una osservanza del limite obiettivo posto dalla situazione internazionale, noi possiamo collaborare col libero popolo americano e con tutti gli altri liberi popoli, senza rinunciare alla nostra autonomia di decisione.

E penso che questo è l’aspetto più pericoloso della nostra politica economica interna sotto il profilo dei pretesti di politica estera.

Perché veramente, se noi anche dal punto di vista economico mostriamo di essere in anticipo disposti ad accettare come legge qualunque manifestazione di volontà particolare, francamente credo che si possa rinunciare ad essere uomini politici, a dirigere in qualunque forma, grande o piccola, gli italiani.

Questo credo sia veramente un grande errore, una colpa verso l’Italia; e se il Governo democratico italiano fosse rimasto maggiormente fedele nella sua politica interna a quello che è stato lo spirito della resistenza e della lotta contro il fascismo, queste cose non sarebbero successe, perché quella lotta era stata impostata con assoluta, fraterna solidarietà coi grandi popoli che hanno aiutato a liberare l’Europa, ma è sempre stata impostata come autonoma e libera decisione del popolo italiano verso tutti. Questo è stato il significato di quella lotta. L’aver disperso anche nei confronti della politica economica quei valori ha avuto gravi danni anche nei riguardi dell’estero. E credo che da questo punto di vista la presenza dell’onorevole Sforza – di cui noi tutti apprezziamo non soltanto l’esperienza, l’intelligenza, ma la ferma, alta idealità – non è una garanzia sufficiente, perché l’onorevole Sforza potrà fare tutti gli sforzi che vuole, ma non potrà realizzare, se gli vengono meno nel regime interno economico le condizioni per poterla sviluppare, quella politica della testa alta che è nei suoi e nei nostri desideri, e non certo meno nei desideri del presidente del consiglio e del partito della democrazia cristiana.

Dovendo dare un giudizio preciso su questo Governo, io dico che oltre all’elemento di contradizione che ho segnalato in principio, grave elemento di contradizione, per cui il partito della democrazia cristiana si vede costretto a colorire di rosso i suoi progetti, si vede costretto a servire di copertura contro il suo temperamento, contro i suoi interessi di partito, ad una politica che non è la sua, all’infuori di questa contradizione credo esista anche un’altra grave contradizione nell’interno stesso di quella destra parlamentare che per la prima volta è entrata nel governo nella forma più nobile attraverso la persona dell’onorevole Einaudi, ma non direi nella forma più adeguata alle necessità della situazione.

L’onorevole Einaudi è la persona che tutti conosciamo. Dirò subito che non mi preoccupano i suoi sentimenti monarchici: egli è un sincero liberale che in seno al Consiglio dei Ministri in qualunque circostanza fosse necessario difenderà la libertà. Non mi preoccupano neppure le sue idee liberistiche. Mi preoccupa quel metodo che è suo, e che è inutile cercare nei suoi libri, ma che possiamo riconoscere facilmente attraverso la sua esperienza come Governatore della Banca d’Italia.

Mi rincresce che l’onorevole Einaudi non sia presente. Ho ad ogni modo verso di lui un debito di sincerità assoluta per la devozione antica che mi lega alla sua persona ed anche per l’affetto profondo e costante. E questo debito di sincerità fa sì che le mie critiche, che sono critiche politiche, debbano essere senza veli.

Io mi domando come l’onorevole Einaudi, che è un liberista – un puro, sincero liberista – si troverà con coloro che in ogni modo oggi, da quella parte del mondo cosiddetto degli affari, di cui ho parlato prima, e da parte della stampa cosiddetta indipendente, con quelle caratteristiche che sappiamo, lo acclamano e lo appoggiano, giacché hanno tutt’altre idee delle sue, anzi hanno idee e propositi esattamente opposti.

Se fossi stato presente quando si è discusso l’emendamento proposto dall’onorevole Einaudi contro i monopoli, avrei votato a favore. Mi domando ora come si troverà l’onorevole Einaudi accanto ad uno dei più alti e tipici esponenti del monopolio al tavolo del Consiglio dei Ministri.

Le critiche che io credo di poter fare alla politica dell’onorevole Einaudi – è stato veramente un peccato che l’onorevole Einaudi non abbia esposto qui il suo programma, le sue idee, non abbia formulato chiaramente il suo metodo di azione – le critiche che si possono fare al presunto programma dell’onorevole Einaudi sono di due ordini. La prima è questa: non vorrei, per lui personalmente, e non vorrei per il nostro Paese, che egli si imbarcasse in una nuova esperienza di spontaneità economica. Questa sarebbe la peggiore illusione possibile, illusione pericolosa e costosa. Noi abbiamo già fatto una volta con l’onorevole Corbino questa esperienza. Formalmente il programma appariva limpido: si trattava di dare libero giuoco alle forze della spontaneità economica, di permettere che si creasse una materia imponibile per i tributi e, una volta che l’economia fosse avviata, si sarebbe trovato modo di fare un buon prestito interno e poi un importante prestito estero per il risanamento definitivo della nostra moneta. Programma perfetto, che non teneva nel minimo conto due elementi di rigidità assoluta.

Il primo è questo: vi è un limite sociale invalicabile che dipende dai bisogni immediati dei lavoratori di tutte le categorie. A questi bisogni immediati oggi si è aggiunto un nuovo elemento di natura psicologica.

Consideri l’onorevole De Gasperi che questo Governo può significare o almeno ha significato (io spero caldamente che sia solo in apparenza) una frattura. Veramente è mancato quell’elemento di garanzia che bene o male fin’ora il governo di coalizione rappresentava. Il governo di coalizione rappresentava l’elemento di garanzia e di sicurezza per coloro a cui si chiedevano i sacrifici. Ora, questo elemento di frattura – mi creda l’onorevole De Gasperi – è uno degli aspetti più penosi e pericolosi della situazione, anche per coloro che si sentono impegnati ad impedire questa frattura, a dare tutto il loro concorso per impedire questa frattura.

C’è un altro elemento di rigidità che non è più giustificato come il precedente: è l’elemento di rigidità che deriva dai gruppi speculatori monopolistici, che sono gruppi disposti a dare tutto il loro appoggio all’onorevole Corbino o all’onorevole Einaudi, finché si lasci loro fare, ma non appena il Ministro del Tesoro o del Bilancio accennerà a toccare i loro interessi, ogni solidarietà pregiudiziale non ci sarà più.

CORBINO. Si mandano via.

FOA. È andato via lei, onorevole Corbino! È proprio per quella esperienza che non possiamo affrontare quella via.

Ora, questo elemento rigido l’onorevole Einaudi deve tenere presente.

Vi è un secondo oggetto di critica. Mi pare che l’unico significato possibile del fatto che un uomo chiamato come tecnico abbia assunto la vicepresidenza del consiglio ed il ministero del bilancio (che immagino non dovrà essere una Ragioneria generale dello Stato alzata a rango politico con funzioni contabili) indubbiamente, dicevo, l’unico significato possibile è che quest’anno l’onorevole Einaudi abbia un compito direttivo generale sulla finanza e sull’economia italiana.

Ora io mi permetto di dubitare che questo illustre e venerato uomo di scienza possa essere veramente adeguato a dei compiti che non corrispondono alla sua mentalità, alle sue inclinazioni e al suo cuore.

Si è parlato di controllo del credito. Questo problema è importantissimo sotto un duplice profilo: è essenziale nei rapporti dello Stato, del tesoro. Noi sappiamo benissimo che non si può sanare il bilancio con le imposte, sappiamo benissimo che c’è bisogno di credito.

Ed è importantissimo e decisivo per un altro aspetto; per quel tanto di programmazione che è necessaria e sulla quale io credo che neanche gli amici della democrazia cristiana abbiano obiezioni da sollevare. Da due anni, questo settore del credito è rimasto scoperto non per indolenza o incapacità, ma per una austera, dogmatica posizione del governatore della Banca d’Italia, posizione austera e dogmatica… (Interruzione dell’onorevole Ministro del tesoro).

Signor ministro del tesoro, io credo che nella mia esposizione devo riferirmi agli uomini di governo come se essi fossero presenti. Questo è, mi pare, un mio dovere di rappresentante. Non posso rinunziare a quello che volevo dire per l’assenza eventuale di un membro del governo dato che il Governo nel suo complesso è presente nell’Aula (Commenti). È una critica politica…

DE GASPERI, Presidente del Consiglio dei Ministri. Domani è convocata la Commissione per l’approvazione del progetto.

FOA. Non basta creare l’ispettorato del credito; si deve fare un controllo e si faccia; che venga esercitato dalla Banca d’Italia o dagli organi burocratici del tesoro, è un problema tecnico. Quello che conta è l’effettivo contenuto pratico che si vuol dare alla politica del credito. Ricordo due soli elementi: l’atteggiamento del governatore rispetto ad un problema come quello della sospensione del segreto bancario e l’atteggiamento del governatore rispetto alla funzione ordinaria di controllo e di direzione del credito.

Ora, sul primo punto credo che non sia un segreto per nessuno la posizione che l’onorevole Einaudi ha assunto con alta dignità e che ha esposto pubblicamente. Egli è sempre stato contrario ad una sospensione del segreto bancario anche provvisoria, sospensione che appariva necessaria perché i provvedimenti di finanza straordinaria fossero perequati e non uscissero invece, come la patrimoniale, zoppicanti. Sotto quel punto di vista sono convinto che nessun interesse può premere su un uomo come Einaudi. È una pura posizione dogmatica, che io critico, posizione dogmatica che si traduce in effetti dannosi dal punto di vista politico. Mi pare infatti che in una situazione ordinaria è perfettamente comprensibile che il risparmiatore, che vuole dare la sua fiducia, voglia sentirsi garantito e non vedere l’agente del fisco mettere gli occhi nei suoi affari. È perfettamente vero, come è logico che in una situazione ordinaria un risparmiatore dia tanta importanza ai saggi passivi della banca. Ma in una situazione come questa, io mi domando che incremento possiamo dare ai depositi fiduciari, semplicemente garantendo che il fisco non indagherà sui conti delle banche o che i saggi di interesse saranno o non saranno aumentati, quando ciò che determina veramente l’elemento di sfiducia del risparmiatore è il fatto che la lira si svalorizza.

Ora, quando un provvedimento di sospensione provvisoria del segreto bancario fosse stato preso in connessione di un piano generale di risanamento monetario, io sono convinto che un provvedimento di questo genere sarebbe stato bene accettato dai risparmiatori. Questo è un esempio in cui una posizione dogmatica incide negativamente sulla situazione politica e vorrei aggiungere che questo dovrebbe essere chiaro a tutti noi dato che in un Paese come l’Olanda, che è la culla del sistema bancario, ed in altri Paesi, come la Norvegia, la Svezia e la Danimarca, si è, senza tanti inconvenienti, adottato questo provvedimento di sospensione che non ha per nulla interrotto il flusso del credito fiduciario. Questo perché si sapeva che il Governo aveva una volontà: intendeva risanare la moneta. Questo provvedimento è stato positivo.

Secondo punto: se si vuol fare una politica del credito non ci si può limitare alla pura e semplice osservanza del controllo dell’operato dei singoli fattori bancari nei confronti del cartello bancario o dei regolamenti bancari. Certamente una certa importanza la mantiene anche questo sistema di controllo: il controllo sul limite di eccedenza dei fidi, sull’apertura di nuovi sportelli, sull’apertura di nuovi istituti in zone territorialmente delimitate, ecc. Sono convinto che anche la manovra del saggio attivo e passivo possa avere un modesto interesse: ma mi pare che oggi hanno maggiore importanza le forme d’intervento attive nel sistema bancario le quali sono purtroppo sempre mancate in questi due ultimi anni. E quando sentiamo lamentare (lo abbiamo sentito dallo stesso Presidente del Consiglio, il quale si propone di rimediare) che nel settore del credito bisogna evitare le operazioni speculative che vi si fanno – speculazioni sui riporti, sulle merci, speculazioni mascherate sulle valute che avvengono attraverso le banche – mi domando come si può pensare senza profonde riforme a provvedere ad un’azione di questo genere e come si può provvedere ad un’azione assai più importante com’è quella di orientare (non dico di determinare punto per punto) le linee generali d’investimento? Come si può fare questo se ci si limita burocraticamente al puro e semplice controllo di osservanza del cartello bancario? Come si può fare questo, quando, per esempio, di fronte al problema dei saggi d’interesse, che è un problema di modesta importanza ma per cui appunto nei limiti della sua importanza bisognava impostare un’azione manovrata, abbiamo sentito formulare questa alternativa rigida: o il mantenimento integrale del cartello bancario o l’abolizione del cartello stesso?

Riferisco dei fatti obiettivi, e penso che sotto il rapporto programmatico che l’onorevole De Gasperi ha stabilito (ed al quale non do importanza) vi è una incongruenza con la politica che noi tutti abbiamo il diritto di presumere coerente e che è quella che farà l’onorevole Einaudi.

Credo veramente che oggi si pongano dei compiti di emergenza. Non so se il significato che do alla parola è lo stesso che vi dà il Presidente del Consiglio. La situazione economica è indubbiamente grave. I dati che abbiamo uditi dall’esposizione finanziaria alla fine di marzo da parte dell’onorevole Campilli può darsi che siano stati dalla Ragioneria generale dello Stato in qualche modo gonfiati secondo un costume che indubbiamente è ingiustificato, perché suona disistima verso i ministri ed i rappresentanti del popolo. In ogni modo, a parte la valutazione di quei dati i quali potrebbero essere anche corretti in senso ottimistico, io credo che la valutazione pessimistica data allora dal ministro Campilli e dalla Commissione finanze e tesoro, sia più che giustificata. Perché quello che conta e soprattutto contava in quel momento, che era di forte ascesa dei prezzi, non era l’analisi del dato come cifra assoluta, ma era il ritmo di movimento dei dati e, in un processo dinamico come quello che si presentava alla fine di marzo, indubbiamente i dati della situazione finanziaria risultavano inficiati dal processo stesso. Quello che conta è il ritmo ascendente. Non lasciamoci illudere da questa provvisoria bonaccia, perché certe tendenze si possono arrestare o invertire per un moto di fiducia: ma il risultato non è stabile se non si provvede con elementi obbiettivi. Ora credo veramente che noi abbiamo parecchi gravi sintomi sulla serietà della nostra situazione finanziaria e monetaria.

Mi limiterò a citarne un paio. Il primo sintomo è questo: il fatto che, comunque si manovri il regime di emissione, abbiamo un livello di prezzi dei prodotti alimentari fortemente superiore alla capacità ordinaria di acquisto dei consumatori. Questo elemento di per sé è un elemento inflazionistico. Consegue da questa domanda di beni, che si innalzano i prezzi in misura assai superiore alla circolazione monetaria anche sommata alla circolazione bancaria, e in misura superiore alle cifre ponderate fra le due circolazioni e la diminuzione dei prodotti; vi è uno scarto fortissimo fra il rialzo dei prezzi e le cifre che risultano da questa ponderazione di elementi. Vi è un fenomeno che si può chiamare come si vuole, di speculazione o di velocità di circolazione, che si può più banalmente definire di scottatura della moneta.

Assistiamo oggi a forme tipiche di mercato del venditore con l’impossibilità di livellare l’offerta dei beni alla concorrenza, perché nelle operazioni interviene come elemento preponderante il rischio di svalutazione monetaria, che non viene livellato, perché è diverso fra i singoli operatori.

Lo vediamo continuamente; è un sintomo grave.

Altro sintomo, più pericoloso e sul quale penso che veramente deve operare il governo di emergenza. In un momento in cui molte persone, molti strati di popolazione, di fronte alla situazione creatasi – e che potrebbe ricrearsi ancora – avranno modo di cautelarsi e di garantirsi contro questa svalutazione, lo Stato è il solo soggetto economico, che, pur potendosi cautelare, non si cautela, e si pone nelle stesse disgraziate condizioni dei milioni di cittadini italiani, possessori di redditi fissi, i quali tutti sappiamo in che modo verranno colpiti dall’ascesa dei prezzi e dallo slittamento della lira.

Vediamo che lo Stato né nel settore tributario né nel settore creditizio, ha finora operato o prospettato delle linee di azione, perché in caso di rapida ascesa dei prezzi e dei pericoli che si creassero, esso riuscisse a controllare questi movimenti e, sovratutto (e questo è molto importante), a neutralizzare le zone di stimolo all’inflazione.

So che soluzioni di questo tipo non si improvvisano. Ma credo che un problema come questo debba stare nella coscienza di ciascuno di noi.

Se le condizioni attuali permarranno, noi possiamo coi metodi normali pensare di sanare la situazione.

Ma noi abbiamo una sola esperienza di inflazione che conosciamo bene attraverso i libri: quella tedesca. La Germania, prima di arrivare alla fase acuta, è passata attraverso fasi di bonaccia, altrettanto tranquille e serene come la nostra attuale. Non facciamoci illusioni su questo punto. Il Governo e gli uomini politici devono essere pronti, nell’eventualità d’una situazione difficile (che può determinarsi indipendentemente da valutazioni di previsione), a cautelarsi.

Ho detto queste cose per chiarire che, in una situazione come questa, si richiede una mentalità, un organismo, un gruppo di uomini, una forza politica, la quale deve decidersi ad intervenire.

Io ho profonda fiducia nei nuovi ministri, personalmente, e so benissimo che essi sapranno mirabilmente rispondere di no alle inutili richieste di spese. Ma io credo che oggi il problema non è soltanto quello di rispondere di no, ma quello di fare qualche cosa, di intervenire, di modificare gli elementi del mercato. Questa disposizione noi non l’abbiamo stabilita. Questa è la constatazione più profonda e la ragione più acuta della nostra sfiducia.

Un’ultima cosa e poi ho finito. Si è parlato di dare la fiducia a certi ambienti economici. È giusto dare la fiducia agli operatori economici, agli imprenditori, ma, guardate, dare la fiducia significa una cosa sola: dare la certezza per quel limite di tempo che è umanamente prevedibile. È un elemento di certezza. Se non sbaglio, fu il collega La Malfa il quale disse un giorno che un governo fermo riuscirà a farsi pagare. Quando si vedrà questa certezza e fermezza non verrà meno la fiducia dei cosidetti produttori, ma non vorrei che si parlasse soltanto di fiducia verso quella parte.

Noi possiamo anche concepire come una cosa profondamente ingiusta una ricostruzione fatta ad opera esclusivamente delle classi popolari, con esclusione dei ricchi, ma non possiamo concepire l’opposto. Siamo sicuri, ed è un’amara verità, che la ricostruzione, come è avvenuto nel passato, e come avverrà in futuro, si realizzerà soltanto se pagheranno le masse popolari. Questa è un’amara realtà. Sappiamo che non sarà possibile fare nulla, se non pagherà la povera gente. Quando si parla di grandi ondate di fiducia e sfiducia e si riflette che queste ondate provengono da ambienti molto ristretti e con previsioni molto limitate e che possono essere anche false, quando si parla di queste ondate e si guarda alla loro fonte, diciamo: non confondiamo la opinione temporanea della Borsa di Milano colla volontà del popolo italiano! Curiamo la fiducia anche verso il popolo.

Questo, mi pare, è un dato morale, oltre che politico, che noi dobbiamo rispettare nei nostri rapporti economici. Quindi il problema della fiducia è reciproco ed oggi si pone seriamente.

Vi è un solo punto nel quale il Governo avrebbe potuto trovare la piena unanimità di consensi e mi sono stupito che nelle dichiarazioni programmatiche non ne sia stato fatto cenno. Tutti quanti saremmo stati d’accordo, penso, se il Governo avesse fatto conoscere all’Assemblea ed avesse impegnato l’Assemblea su questo punto: di iniziare seriamente con un atto di volontà politica nuova, robusta, un’opera di risanamento dei settori malati dell’Amministrazione.

Questo è un problema che non possiamo più tralasciare. Non si tratta più di generiche voci. Esso ha formato oggetto di un rapporto ufficiale parlamentare, di quella relazione che, assolvendo i ministri Campilli e Vanoni, ha affermato che esistono dei settori amministrativi malati e quel che è più grave che esistono rapporti di corruzione fra il mondo politico e l’amministrazione.

Ora io vi dico, onorevoli colleghi, che questo problema non impegna la sola responsabilità del Governo, ma anche la responsabilità indivisibile di tutti noi; è una responsabilità uguale per tutti: il Governo e l’Assemblea, la maggioranza e la minoranza, il capo di un partito di massa e l’ultimo militante di un piccolo partito quale io sono. Questo è un problema che è moralmente uguale per tutti noi, quale che sia la sua sfera di azione pratica. E veramente è un compito difficile, lungo e laborioso; ma per il settore politico è un compito preciso nostro ed indilazionabile.

Considerate, colleghi, che è forse possibile concepire, ed è un’ipotesi contro la quale noi combattiamo con tutte le nostre energie, un fallimento, sul piano politico, del nostro comune tentativo di ricostruzione democratica. Noi possiamo fallire per i nostri errori politici o perché il corso storico ci è contrario. Questa ipotesi si può fare e noi combattiamo contro di essa; ma è una ipotesi assolutamente inconcepibile che la democrazia italiana possa fallire sul piano morale. Questo non lo dobbiamo ammettere, neppure come ipotesi.

Su questo punto, proprio su questo punto, l’unanimità di consensi l’onorevole De Gasperi l’avrebbe avuta. (Vivi applausi – Molte congratulazioni).

PRESIDENTE. Il seguito della discussione è rinviato a domani.

Presentazione di un disegno di legge.

DE GASPERI, Presidente del Consiglio dei Ministri. Chiedo di parlare.

PRESIDENTE. Ne ha facoltà.

DE GASPERI, Presidente del Consiglio dei Ministri. Mi onoro di presentare all’Assemblea il disegno di legge: «Proroga del termine previsto dall’articolo 4 del decreto legislativo 16 marzo 1946, n. 98, per la durata dell’Assemblea Costituente».

PRESIDENTE. Do atto al Presidente del Consiglio della presentazione di questo disegno di legge.

GASPAROTTO. Chiedo di parlare.

PRESIDENTE. Ne ha facoltà.

GASPAROTTO. Poiché si tratta di un disegno di legge di eccezionale importanza e poiché, d’altronde, è desiderio comune che alla sua approvazione si addivenga con particolare sollecitudine, seguendo una consuetudine praticata in passato, con la dovuta discrezione, propongo che l’Assemblea deleghi al Presidente la nomina di una Commissione speciale per l’esame, nel termine più breve che sia possibile, del disegno di legge e ne riferisca all’Assemblea.

PRESIDENTE. Se non vi sono obiezioni alla proposta dell’onorevole Gasparotto, mi riservo di comunicare domani mattina i nomi dei componenti la Commissione.

(Cosìrimane stabilito).

Presentazione di una relazione.

GRONCHI. Chiedo di parlare.

PRESIDENTE. Ne ha facoltà.

GRONCHI. Mi onoro di presentare la relazione della Commissione sul disegno di legge «Approvazione degli accordi commerciali e di pagamento stipulati a Roma fra l’Italia e la Svezia il 24 novembre 1945».

PRESIDENTE. Sarà stampata e distribuita.

Sui lavori dell’Assemblea.

MASTINO GESUMINO. Chiedo di parlare.

PRESIDENTE. Ne ha facoltà.

MASTINO GESUMINO. Vorrei ricordare la proposta dell’onorevole Bozzi di rinviare la discussione a dopodomani. Domani, quindi, non vi dovrebbe essere seduta.

PRESIDENTE. La proposta Bozzi di rinviare la discussione a dopodomani non significava rinviare a dopodomani tutto il lavoro dell’Assemblea.

Desidero fornire all’Assemblea un dato affinché l’onorevole Mastino e gli altri si convincano della opportunità o meno del rinvio. Sono iscritti a parlare sulle comunicazioni del Governo 75 oratori. Se propongo quindi all’Assemblea di proseguire domani i nostri lavori, spero che nessuno farà obiezioni.

SCOCCIMARRO. Chiedo di parlare.

PRESIDENTE. Ne ha facoltà.

SCOCCIMARRO. Domani vi sono le Commissioni e se vi sarà seduta, non si avrà la possibilità di partecipare ai lavori delle Commissioni.

PRESIDENTE. Domattina non vi saranno votazioni. Del resto le Commissioni convocate sono costituite, sì, da valentissimi colleghi, ma questi rappresentano solo una piccolissima parte dell’Assemblea. Sarebbe cosa molto bella, se tutti gli altri che non fanno parte delle Commissioni convocate domattina sedessero nell’Aula durante la prosecuzione della discussione sulle dichiarazioni del Governo!

LUSSU. Chiedo di parlare.

PRESIDENTE. Ne ha facoltà.

LUSSU. Credo che si potrà arrivare ad una soluzione utile per tutti. Penso che sia cosa possibilissima che ì rappresentanti dei vari Gruppi si riuniscano per stabilire la diminuzione del numero degli oratori. (Rumori – Interruzioni). Io credo che questa Assemblea non guadagnerà in interesse politico e neppure in dignità se conserverà i settantacinque oratori inscritti invece di portarli a venti o trenta. Ed allora permettano – e la mia è una espressione ottimistica – che si possa ridurre il numero degli oratori e far sì che la mattina non si abbiano sedute, perché vi sono riunioni di Commissioni e di Gruppi che debbono accordarsi in merito a questa crisi, tanto più che c’è chi pensa che questo Governo non dovrà vivere… (Si ride – Rumori).

PRESIDENTE. Onorevole Lussu, nessuno impedisce ai Gruppi di prendere le iniziative che vogliono. Il numero degli oratori potrà di conseguenza diminuire o crescere, ma questa è cosa che non può influire sull’ordine dei lavori.

SCOCCIMARRO. Chiedo di parlare.

PRESIDENTE. Ne ha facoltà.

SCOCCIMARRO. Desidererei partecipare ai lavori delle Commissioni e non intenderei, d’altro canto, perdere neanche un’ora della discussione sulle dichiarazioni del Governo. Chiedo che la Presidenza me ne dia la possibilità.

LUCIFERO. Chiedo di parlare.

PRESIDENTE. Ne ha facoltà.

LUCIFERO. Il numero degli oratori non mi spaventa eccessivamente. Una recente esperienza ci ha dimostrato che, anche senza una riunione dei Gruppi, il numero degli oratori si riduce notevolmente. Ne abbiamo visti decadere a diecine. È questo un limite che le Assemblee si pongono da sé, e non mi preoccupa affatto. Mi preoccupa invece, e mi associo a quanto ha detto l’onorevole Scoccimarro, la presenza del Governo perché, per discutere le dichiarazioni del Governo, è necessario che il Governo sia presente e che soprattutto sia presente il Presidente del Consiglio. Il Governo deve governare però, e se vogliamo costringerlo qui dalla mattina alla sera, i Ministri giustamente saranno assenti, e si ripeterà quanto è successo altre volte che, quando qualcuno ha fatto le sue osservazioni in sede di discussione politica, il Governo era assente.

PRESIDENTE. Rispondo all’onorevole Lucifero e all’onorevole Scoccimarro. Ciascuno valuta i problemi a seconda della posizione in cui si trova ed a seconda dei compiti che deve assolvere.

Io personalmente sono dell’avviso che il compito più urgente che si pone in questo momento è quello di esaurire la discussione sulle comunicazioni del Governo, per dare al Governo o la certezza delle sue funzioni o, secondo l’onorevole Lussu, l’annuncio della sua fine. (Si ride).

Credo che tutto il resto debba cedere di fronte a questa esigenza che non è soltanto dell’Assemblea, ma, evidentemente, di tutto il Paese.

Il Governo deve essere presente alla discussione. L’amministrazione pubblica, purtroppo, è stata per tre settimane senza il diretto controllo dei Ministri responsabili; questo stato di cose può durare ancora per due o tre giorni. D’altra parte, onorevole Lucifero, lei m’insegna che il Ministro che non è ancora sicuro della sua autorità, non prende iniziative le quali vadano al di là dell’ordinaria amministrazione (Interruzione dell’onorevole Lucifero). Onorevole Lucifero, lei ha esposto la sua opinione, io espongo la mia.

Per quanto concerne il lavoro delle Commissioni, certamente utilissimo, mi pare che si possa sodisfare la giusta esigenza fatta presente dall’onorevole Scoccimarro. Le Commissioni si potranno riunire domani mattina, anticipando di un’ora la propria convocazione e noi, a nostra volta, potremmo ritardare l’inizio della seduta: ci potremmo convocare una mezz’ora o un’ora più tardi.

Faccio presente che le lamentele per il modo come si trascinano i nostri lavori, io le sento troppe volte nel «Transatlantico», ma troppo poco nell’Aula.

Comunque, vi sono delle proposte che io pongo in votazione.

MAZZONI. Chiedo di parlare.

PRESIDENTE. Ne ha facoltà.

MAZZONI. Non ho parole sufficienti per lodare la solerzia accanita del nostro ottimo Presidente nel farci lavorare, al di là di quello che è lecito lavorare (Commenti).

PRESIDENTE. Non esageri, onorevole Mazzoni.

MAZZONI. Mi associo, comunque, alla proposta Scoccimarro. Noi siamo tutti d’accordo nel non perdere tempo, ma faccio presente all’onorevole Presidente che anche gli uomini hanno un coefficiente di resistenza. (Commenti).

Non vi è stato mai lo scandalo dei corridoi sempre pieni e dell’Aula vuota. Qui, evidentemente, c’è il fatto che da un po’ di tempo a questa parte – e qui dentro non sono tutti giovanotti – siamo sottoposti ad un regime un po’ troppo intenso di lavoro: di mattino, di pomeriggio e di notte… (Interruzioni – Commenti).

LUCIFERO. Chiedo di parlare.

PRESIDENTE. Ne ha facoltà.

LUCIFERO. Mi associo alla proposta Scoccimarro. Chiedo, intanto, una risposta, che ancora non ho avuto, Signor Presidente, perché lei ha espresso la sua autorevolissima opinione personale, della quale prendo atto, sulla presenza o non del Governo, ma desidero sapere se il Governo crede di poter essere presente o no. È evidente che in assenza del Governo le discussioni sulle comunicazioni del Governo non si possono fare.

DE GASPERI, Presidente del Consiglio dei Ministri. Chiedo di parlare.

PRESIDENTE. Ne ha facoltà.

DE GASPERI, Presidente del Consiglio dei Ministri. Io metterò tutto il coefficiente della mia diligenza per non mancare in Assemblea. Domani il Governo potrà essere presente sia al mattino, che nel pomeriggio.

MAZZONI. Bisogna ricondurre la Camera al lavoro regolare, come si è sempre fatto.

Una voce al centro. Bisognerebbe avere quattro anni di tempo!

PRESIDENTE. Onorevole Mazzoni, io desidero osservare, in merito ai suoi rilievi, che, in piena coscienza, non credo che l’Assemblea sia sovraccarica di lavoro. Se facciamo, ad esempio, un confronto con tutti i nostri collaboratori, i funzionari e dipendenti tutti dell’Assemblea, dobbiamo constatare che essi lavorano lo stesso tempo nostro e forse assolvono anche un maggiore orario. Noi non abbiamo fino ad oggi mai raggiunto le otto ore giornaliere (Commenti – Applausi).

Non si stupiscano se io adopero questi argomenti: fuori di qui sono spesso invocati contro di noi.

Ora, c’è una proposta precisa, non tenere seduta domattina. Faccio presente che si tratta, con altre motivazioni, di una proposta fatta stamani dall’onorevole Bozzi.

Pongo ai voti la proposta dell’onorevole Scoccimarro, appoggiata dall’onorevole Mazzoni e dall’onorevole Lucifero, di non tenere seduta domattina.

(Non è approvata).

Domani vi saranno dunque due sedute: alle 10.30 e alle 16.

Interrogazioni.

PRESIDENTE. Si dia lettura delle interrogazioni pervenute alla Presidenza.

RICCIO, Segretario, legge.

«Il sottoscritto chiede d’interrogare il Ministro dell’interno, per conoscere in base a quale disposizione vigente ed a quale criterio di opportunità e convenienza civili, sia consentito al Prefetto di Treviso (città devastata dalla guerra nella misura del 63 per cento dei suoi edifici per abitazione), di emettere decreto di requisizione di una casa privata attualmente occupata da ben sei famiglie di inquilini, le quali non potranno trovare sistemazione in altro alloggio, per collocarvi gli uffici della divisione Folgore, ordinando altresì alle famiglie occupanti l’edificio di renderlo in ogni caso libero e disponibile entro il giorno 15 giugno prossimo venturo.

«Costantini».

«Il sottoscritto chiede d’interrogare il Ministro dell’interno, per conoscere quali provvedimenti sono stati presi o saranno presi a carico degli organi di polizia della provincia di Salerno per i deplorevoli fatti verificatisi il 16 ed in giorni precedenti dello scorso maggio a Nocera Inferiore, dove, in occasione di uno sciopero di lavoratori dell’alimentazione (conservieri) originato dall’ostinata ed ingiustificata resistenza di industriali meridionali alla richiesta di perequazione del trattamento economico dei lavoratori del Mezzogiorno di Italia a quello dei lavoratori del Settentrione, agenti di pubblica sicurezza, per tassativi ordini prefettizi, dopo avere cercato di rompere la compattezza degli scioperanti a vantaggio degli industriali mediante intimidazioni d’ogni specie, usarono gravi ed ingiustificate violenze contro pacifici lavoratori, facendo uso non solo di manganelli, ma anche di armi automatiche, ferendone alcuni con pericolo di più luttuose conseguenze, che furono evitate unicamente dal pronto intervento di organizzatori sindacali ed uomini politici, che riuscirono, mercé opera di persuasione, a far ritornare la calma.

«E a deplorarsi anche che alcuni agenti, al comando del commissario di pubblica sicurezza di Nocera Inferiore, caricarono i lavoratori al grido di «Savoia», generando disgusto in tutta la popolazione di quella industre cittadina democratica e repubblicana.

«Sicignano».

«Il sottoscritto chiede d’interrogare il Ministro della pubblica istruzione, per sapere se non trova opportuno l’emanazione di disposizioni in virtù delle quali sia fatto obbligo agli enti locali – che sono tenuti a fornire il personale amministrativo degli Istituti tecnici ai sensi dell’articolo 24 della legge 15 giugno 1931, n. 889 – di corrispondere a detto personale il trattamento economico stabilito per quello a carico dello Stato, non essendo equo, né compatibile, che ad eguali obblighi di servizio corrisponda diverso trattamento.

«Non tutte le Amministrazioni provinciali, come ad esempio quella di Treviso, hanno parificato il trattamento economico dei segretari economici degli Istituti tecnici aventi autonomia amministrativa, con quello degli statali stabilito dal decreto legislativo presidenziale 27 giugno 1946, n. 107; né dal Ministero potrà essere preso in seria considerazione l’argomentare in uso di talune Amministrazioni – che denuncia indolenza ed incomprensione, oltreché violazione dello spirito della legge – secondo le quali mentre si riconosce la giustezza delle richieste, si ama far ricorso ai più svariati pretesti – primo fra tutti, l’intenzione di attuare nel futuro, più o meno prossimo, una revisione generale della pianta organica – ai quali soltanto l’intervento del Ministero, che l’interrogante sollecita, potrà mettere termine. (L’interrogante chiede la risposta scritta).

«Ghidetti».

«Il sottoscritto chiede d’interrogare il Ministro del tesoro, perché venga vagliato con senso di giustizia e umana considerazione la esclusione da ogni aumento passato, presente e futuro dei locali tenuti in subaffitto da sinistrati di guerra.

«Si consideri che non è da ritenersi opportuno gravare ancora su dei disgraziati, che tutto farebbero per riavere la propria casa, e che al danno originario hanno aggiunto nuovi danni ed altri ancora saranno costretti a subirne, ove non intervengano equi provvedimenti. (L’interrogante chiede la risposta scritta).

«De Mercurio».

«Il sottoscritto chiede d’interrogare il Ministro dei trasporti, per conoscere se, in considerazione del voto unanime delle popolazioni dei comuni di Casalbore, Buonalbergo, Paduli, ecc., non si palesi l’assoluta necessità di rinnovare la conclusione sino a Napoli (via Caserta) dell’autoservizio Casalbore-Buonalbergo-Paduli-Benevento, che faciliterebbe i traffici con Caserta e Napoli di studenti, impiegati e commercianti.

«Giova tener presente che, data l’esistenza di altro servizio, che pone in comunicazione i centri di Montefalcone, Castelfranco, Ginestra degli Schiavoni con Casalbore, il rinnovo della concessione agevolerebbe i trasporti di questi comuni con quelli del Casertano e del Napoletano. (L’interrogante chiede la risposta scritta).

«De Mercurio».

«Il sottoscritto chiede d’interrogare il Ministro del tesoro per conoscere quali siano i motivi per i quali non viene più dato corso alle pratiche di cessione del quinto dello stipendio.

«Si aggiunga che la Sezione credito, presso il detto Ministero, nega o rallenta la concessione del nulla osta per dette operazioni di cessione, con grave pregiudizio della classe impiegatizia, che ricorre al credito spesso per motivi di assoluta e indifferibile necessità.

«Qualora esigenze tecniche o di altro motivo non consiglino il rapido espletamento di tali operazioni, si prega vagliare la opportunità di devolvere alle banche il servizio, col rilascio del nulla osta da parte del Ministero. (L’interrogante chiede la risposta scritta).

«De Mercurio».

«Il sottoscritto chiede d’interrogare i Ministri della difesa e del tesoro, per conoscere se non ritengano necessario provvedere d’urgenza a sistemare la posizione dei reduci di guerra e più specificatamente:

premere sui Distretti militari, perché procedano alla liquidazione dei rilievi di conto in favore degli ex prigionieri ed al risarcimento per gli oggetti e valori sequestrati in prigionia;

disporre perché le pratiche di pensione privilegiata di guerra ai mutilati, invalidi e alle famiglie dei caduti, dispersi e irreperibili, vengano espletate con maggior diligenza e sollecitudine e siano resi più semplici e facili i rapporti fra gli interessati e gli uffici appositi;

aiutare con assegni di prigionia gli ex prigionieri che, entro i 60 giorni di licenza, non hanno trovato lavoro o ripresa la vecchia posizione nella vita civile;

provvedere il più rapidamente possibile al processo di discriminazione degli ufficiali, affinché venga deciso sul loro avanzamento, sulle competenze amministrative, decorazioni, adeguamenti di pensione, ecc.

«Se non credano insomma, opportuno, prestare d’urgenza un sollievo ai reduci che, per aver servito la patria, hanno diritto alla riconoscenza nazionale. (Il sottoscritto chiede la risposta scritta).

«Grilli».

«Il sottoscritto chiede d’interrogare il Ministro dei trasporti, per sapere quali sono le ragioni che ritardano la ricostruzione della stazione ferroviaria della città di Rovigo, e quali provvedimenti il Ministero intenda prendere per affrettarne la ricostruzione particolarmente necessaria in un capoluogo di provincia, in cui vi è forte movimento di merci e di passeggeri. (L’interrogante chiede la risposta scritta).

«Matteotti Carlo».

«I sottoscritti chiedono d’interrogare i Ministri della pubblica istruzione e dell’interno, per conoscere le ragioni che hanno determinato il Ministero della pubblica istruzione a sconsigliare al Ministero dell’interno l’accoglimento della delibera dell’Amministrazione della provincia di Venezia, avuto presente:

1°) che l’Amministrazione della provincia di Venezia ha, da tempo, deliberato «di assumere gli oneri di legge derivanti dall’eventuale istituzione di un liceo scientifico in Chioggia», rendendosi conto della giusta esigenza di quella popolazione, concretata in formale richiesta alle autorità superiori con l’approvazione unanime del Consiglio comunale;

2°) che di fronte alla controversa questione dì competenza fra le due autorità provinciali – amministrativa l’una, e scolastica l’altra – è opportuno che il Ministero della pubblica istruzione non si limiti a rilevare che non sono stati osservati i modi ed i termini previsti dalla legge nell’avanzare la necessaria istanza per avere il comune di Chioggia dovuto decidersi a presentare domanda direttamente al Ministero, bensì che dia alle autorità scolastiche della provincia di Venezia chiare istruzioni per far cessare il poco edificante contrasto che si trascina da mesi. (Gli interroganti chiedono la risposta scritta).

«Ghidetti, Ravagnan».

«Il sottoscritto chiede d’interrogare il Ministro di grazia e giustizia, per conoscere se non ritenga opportuno o integrare con una nuova norma o interpretare con una circolare le disposizioni dei decreti legislativi luogotenenziali 20 gennaio 1944, n. 26 e 12 aprile 1945, coi quali venivano date disposizioni in favore di quanti perché perseguitati da leggi razziali avevano posto in essere investimenti o trapassi di proprietà fittizi, consentendo loro di compiere ì necessari atti senza pagamento di una successiva tassa di registro. Infatti l’autorità giudiziaria ed i notai si rifiutano di applicare tali facilitazioni a chi, avendo fatto acquistare con danari propri un immobile a persona non soggetta alle leggi razziali, oggi – assentendo il prestanome – vorrebbe far ripassare l’immobile a proprio nome.

«Sostengono i notai e gli uffici di registro che questi trapassi debbono esser fatti a mezzo di sentenza; sostengono le autorità giudiziarie che mancando la prova della conoscenza della frode da parte del venditore non possono applicarsi le soprarichiamate disposizioni legislative.

«È evidente, invece, che la conoscenza della frode da parte del venditore non poteva esistere appunto perché si tentava di sottrarsi ad una legge severissima ed applicata con crudeltà e, pertanto, il patto doveva essere segretissimo tra il vero acquirente ed il suo prestanome.

«Pertanto dette disposizioni legislative in questo caso restano inapplicabili e quanti per sottrarsi alla persecuzione razziale hanno acquistato a nome altrui ora, passata la bufera, se vogliono ritornare alla normalità debbono assoggettarsi ad una nuova gravosa spesa. (L’interrogante chiede la risposta scritta).

«Tozzi Condivi».

«Il sottoscritto chiede d’interrogare il Ministro di grazia e giustizia, per conoscere quante sono le sedi notarili vacanti in Italia e se non ritenga necessario ed urgente provvedere alla copertura di almeno due terzi di esse:

  1. a) elevando il numero dei posti messi a concorso per titoli con decreto ministeriale 7 giugno 1946, nonché quelli del concorso per esami bandito con decreto del 24 dicembre 1946;
  2. b) disponendo per un sollecito espletamento del primo, cui hanno partecipato oltre duemila concorrenti e per la cui definizione pare nulla sia stato ancora fatto. (L’interrogante chiede la risposta scritta).

«Pat».

«Il sottoscritto chiede d’interrogare il Ministro dell’interno, per conoscere quali sono i motivi che lo hanno consigliato a diramare la circolare telegrafica del 25 marzo 1947, numero 15700, a tutti i prefetti, nella quale è dato ordine tassativo di privare gli enti comunali di consumo dell’assegnazione dei generi razionati da distribuirsi al consumo, in pieno contrasto con norme interpretative emanate in precedenza con una circolare firmata dal Presidente del Consiglio e con analoghe disposizioni dell’Alto Commissario all’alimentazione.

«Se non ritenga che tale circolare costituisca un’interpretazione del tutto arbitraria dell’articolo 1 del decreto legislativo 13 settembre 1946, n. 90, il quale necessariamente prevede la facoltà agli enti di consumo «di provvedere mediante reperimento diretto, all’approvvigionamento di prodotti e derrate non razionati».

«Infatti, se non fosse fatta menzione dei prodotti e derrate razionati, si dovrebbe intendere che gli enti di consumo devono reperire anche i generi razionati. Ma ciò è assurdo perché questa funzione è esercitata dallo Stato, mediante gli ammassi. La stessa affermazione non esclude poi che gli enti di consumo possano svolgere attività collaterali e complementari, tendenti a potenziare gli enti stessi e a moralizzare il consumo.

«Il contenuto della circolare 25 marzo 1947 tende a diminuire notevolmente l’efficienza degli enti di consumo, mentre il decreto 13 settembre 1946, a cui essa si riporta, fu emanato dal Consiglio dei Ministri per consentire agli enti di consumo garanzie statali, onde essi potessero sopperire alle difficoltà finanziarie, in riconoscimento della loro particolare funzione calmieratrice sui prezzi dei generi di prima necessità.

«Se da un lato il decreto ha servito a provocare la circolare limitativa dell’attività degli enti, sembra opportuno che l’onorevole Ministro pensi a promuovere le condizioni perché il decreto stesso trovi finalmente la sua attuazione, dopo nove mesi di attesa.

«L’interrogante nel chiedere ancora se vi siano state interferenze da parte della Federazione nazionale commercianti, tendenti a sollecitare le misure di cui alla circolare 25 marzo ed in che modo esse si fossero manifestate, pensa che sarebbe estremamente opportuno affidare in esclusiva ai comuni, agli enti di consumo o alle cooperative, ove essi siano sufficientemente attrezzati, la distribuzione ai dettaglianti dei generi razionati, dal momento che essa è un’operazione non commerciale che non comporta nessun rischio per i commercianti che, per il suo carattere di emergenza, trova negli organismi periferici menzionati i naturali interpreti degli scopi che si prefiggono gli ammassi statali. (L’interrogante chiede la risposta scritta).

«Landi».

«I sottoscritti chiedono di interrogare il Ministro del lavoro e della previdenza sociale, intorno alla necessità di provvedere con la massima urgenza a riaprire lo sbocco emigratorio verso l’Austria, che in precedenza era stato assicurato dai competenti organi periferici e ostacolato fino a chiuderlo del tutto dal potere centrale, con palese incomprensione dei bisogni che assillano le masse operaie disoccupate delle provincie nord-orientali. (Gli interroganti chiedono la risposta scritta).

«Gortani, Piemonte, Garlato, Ferrarese, Schiratti, Carbonari, Pat, Franceschini, Conci Elisabetta, Fantoni, Cimenti».

«Il sottoscritto chiede d’interrogare il Ministro della pubblica istruzione, per conoscere se intenda istituire anche in una delle Università siciliane la facoltà di lingue. L’interrogante segnala che l’Istituto orientale di Napoli ha 5000 studenti siciliani iscritti, che sono costretti ad affrontare disagi morali e materiali per proseguire il loro corso di studi. (L’interrogante chiede la risposta scritta).

«Musotto».

«Il sottoscritto chiede di interrogare i Ministri della pubblica istruzione e dell’interno, per conoscere quali provvedimenti di urgenza intendano prendere per restituire al Convitto nazionale Longone di Milano, la sede di sua proprietà, abusivamente requisita nel dicembre del 1943, a favore della Questura centrale di Milano, che ancora la occupa.

«Fa presente l’interrogante l’urgenza di restituire alla cittadinanza milanese il solo Convitto di Stato della provincia, e uno dei pochissimi di tutta l’Alta Italia, senza ulteriore indugio, così che esso possa essere messo in condizione di funzionare per l’anno scolastico 1947-48. (L’interrogante chiede la risposta scritta).

«Tumminelli».

PRESIDENTE. Le interrogazioni testé lette saranno iscritte all’ordine del giorno e svolte al loro turno, trasmettendosi ai Ministri competenti quelle per le quali si chiede la risposta scritta.

La seduta termina alle 20.50.

Ordine del giorno per le sedute di domani.

Alle ore 10.30 e alle ore 16:

Seguito della discussione sulle comunicazioni del Governo.

ANTIMERIDIANA DI MARTEDÌ 10 GIUGNO 1947

ASSEMBLEA COSTITUENTE

CXLIII.

SEDUTA ANTIMERIDIANA DI MARTEDÌ 10 GIUGNO 1947

PRESIDENZA DEL PRESIDENTE TERRACINI

INDICE

Congedi:

Presidente                                                                                                        

Progetto di Costituzione della Repubblica italiana (Seguito della discussione):

Presidente                                                                                                        

Ambrosini, Relatore                                                                                          

Bozzi                                                                                                                 

La seduta comincia alle 10.

MATTEI TERESA, Segretaria, legge il processo verbale della precedente seduta antimeridiana.

(È approvato).

Congedi.

PRESIDENTE. Comunico che hanno chiesto congedo gli onorevoli Carboni e Rumor.

(Sono concessi).

Seguito della discussione del progetto di Costituzione della Repubblica italiana.

PRESIDENTE. L’ordine del giorno reca il seguito della discussione del progetto di Costituzione della Repubblica Italiana.

Concluso lo svolgimento degli ordini del giorno relativi al titolo V del progetto di Costituzione, ha facoltà di parlare il Relatore, onorevole Ambrosini.

AMBROSINI, Relatore. Onorevole Presidente, onorevoli colleghi, l’argomento che ci interessa è indubbiamente il più grave di tutto il progetto di Costituzione, giacché riguarda la trasformazione della struttura amministrativa ed, entro certi limiti, la trasformazione della stessa struttura politica dello Stato. E se, come diceva l’onorevole Grieco, la prima parte del progetto, che l’Assemblea ha già approvata, deve considerarsi inerente a quello che è il contenuto della Costituzione, la parte che andiamo a trattare la sopravanza indubbiamente di importanza per due ordini di ragioni.

In primo luogo, perché tutti gli istituti che abbiamo approvato, tutte le dichiarazioni di principio, tutti gli impegni che nella prima parte suddetta questa Assemblea Costituente ha assunto, possono considerarsi principalmente come altrettanti riconoscimenti. Infatti, anche quando la Costituzione fosse rimasta silenziosa su molti degli argomenti trattati nella prima parte del progetto, nessun dubbio sarebbe sorto su quella che è l’essenza del diritto, su quelle che sono le aspirazioni legittime del popolo al mantenimento delle situazioni esistenti e al progresso. Chi avrebbe potuto negare il diritto di associazione, i diritti fondamentali di libertà civile e politica? Tuttavia abbiamo voluto sancire questi diritti, perché riconoscerli e dichiararli è già un atto solenne col quale l’Assemblea Costituente, la rappresentanza del popolo italiano, dice al Paese e dice al mondo quale è il nuovo volto d’Italia. E se è vero che i padri della Costituzione americana non avevano creduto necessario di dichiarare diritti fondamentali di libertà nel testo approvato dalla convenzione di Filadelfia, perché ritenuti acquisiti ed insiti nella filosofia della Costituzione, è anche vero che, passati alcuni anni, i rappresentanti di questo grande popolo sentirono la necessità di proclamarli espressamente coi primi undici emendamenti alla Costituzione.

Bene ha fatto dunque quest’Assemblea Costituente a dichiarare nella prima parte della Costituzione i diritti fondamentali dell’individuo, dei gruppi sociali e della società nazionale nel suo complesso. Ma, se andiamo a guardare il progetto nel suo complesso, dobbiamo rilevare che la parte relativa all’ordinamento delle «Regioni» – per la quale tanto si è discusso e che tanto ha destato l’attenzione vigile nostra e del popolo italiano – sopravanza di molto l’importanza degli stessi altri titoli della seconda parte del progetto riguardanti l’ordinamento dello Stato. È chiaro che in regime democratico deve esistere un potere legiferante composto da una o due Camere, e che deve esservi un Capo dello Stato, un Governo, un’organizzazione giudiziaria; istituti tutti che provengono dalle organizzazioni politiche preesistenti, e per i quali non può quindi procedersi ad innovazioni ab imis. La proposta riforma regionale importa invece una innovazione profonda. E di ciò, chi vi parla ed il Comitato di Redazione e la Sottocommissione e poi la Commissione dei 75, si resero completamente conto, sentendo tutta la gravità dell’onere e della responsabilità cui erano stati chiamati.

Io vorrei sperare, onorevoli colleghi, di poter qui delimitare il campo delle mie osservazioni finali, per mettere in luce i punti venuti maggiormente in discussione, e per doverosamente occupandomi delle critiche fatte al progetto, sia da un punto di vista pregiudiziale, che si attiene al modo di nascita del progetto stesso, alla composizione della Commissione e all’attitudine dei membri che ne hanno fatto parte, sia per quanto si riferisce al merito ed alla sostanza della riforma.

E vorrei qui ripetere la frase che l’onorevole Nitti, nel suo aureo libro, che fu il nostro testo per la Scienza delle Finanze, nei lontani anni in cui frequentammo le sue lezioni all’università di Napoli, richiama nella prefazione, riportando il detto del Santo Monaco di Todi: «Dov’è chiara la nota, non fare oscura chiosa». Io cercherò, nell’affrontare argomenti così complessi e spinosi, di poterne fare una chiarificazione, perché i vari aspetti del problema possano essere prospettati in tutta la loro entità e nello stesso tempo con immediatezza di comprensione.

Mi sarà impossibile rispondere individualmente a tutti gli eminenti colleghi che si sono occupati dell’argomento. Tutti hanno visto con quale doverosa attenzione sono stato al mio posto per seguire ì vari discorsi, e mi duole che il tempo non mi consenta di rispondere ad ognuno. Noi siamo sospinti dal tempo; e debbo in proposito dire che si deve allo sprone ed alla delicata tirannia che il Presidente della Commissione dei 75, onorevole Ruini, esercitò durante tutti i mesi passati, se si è arrivati a presentare il progetto di Costituzione. Non si è giusti quando si parla con sopportazione del risultato dei lavori della Commissione, la quale si è invece sottoposta ad un lavoro improbo, nella calura dell’estate e nel freddo dell’inverno. Ed io stesso, quando fui chiamato alla Presidenza del ristretto Comitato di redazione degli articoli che riguardano il titolo dell’autonomia, ero continuamente sollecitato, premuto, sospinto, a volte anche seccamente… (Interruzione dell’onorevole Bordon) ...dall’onorevole Ruini, tanto da sollevare qualche volta (e l’onorevole Bordon lo sa) le rimostranze dei miei colleghi, che mi vedevano sottoposto e si sentivano a loro volta sottoposti, alle pressanti richieste di questo egregio uomo…

RUINI, Presidente della Commissione per la Costituzione. Lei sa quanta stima ho per lei.

AMBROSINI. …il quale voleva che al giorno e all’ora fissata si presentasse il progetto. Il che fu fatto sorpassando tutte le difficoltà. Felix culpa quella dell’onorevole Ruini, il quale una volta insistette con tanta veemenza, che l’onorevole Lussu credette di rivendicare i diritti della Commissione dicendo che quando si arrivava alle undici di sera anche i deputati eletti dal popolo avevano non il diritto ma il dovere di andare a riposare, perché altrimenti il giorno appresso non avrebbero potuto continuare il lavoro. (Applausi).

Onorevoli colleghi, il Paese deve sapere che le Commissioni hanno lavorato incessantemente, con abnegazione, facendo quanto era possibile fare, sottoponendosi a tutte le fatiche.

Uno dei nostri egregi colleghi ha detto nel suo discorso, specialmente a proposito di questo Titolo della Costituzione che si riferisce all’ordinamento regionale, che si tratta di un progetto abborracciato, fatto frettolosamente.

RUINI, Presidente della Commissione per la Costituzione. Quattro letture vi sono state.

AMBROSINI, Relatore. Ma quante sedute, onorevole Ruini!

RUINI, Presidente della Commissione per la Costituzione. Cento sedute.

AMBROSINI. Relatore. È bene che l’Assemblea sappia che, avuto dalla Sottocommissione l’incarico di redigere e articolare il progetto relativamente a questo punto, io non esitai, presentando al Comitato di Redazione il mio lavoro, a sottoporlo io stesso a critiche, perché sapevo bene quale era il rovescio della medaglia. E queste critiche io le feci, non vi è niente di segreto, anche in seno al Gruppo della Democrazia Cristiana, ed invocai da tutti osservazioni e rilievi, perché, egregi colleghi, noi non vogliamo varare una riforma qualsiasi, ma vogliamo varare una riforma che risponda agli interessi del popolo italiano e che sia eseguibile. Ed è per questo che, quando taluni si meravigliavano che io, che avevo elaborato il progetto, ne rilevavo, facendo la parte dell’avvocato del diavolo, le ombre, è per questo che io potevo rispondere che più critiche vi erano e meglio era, perché così si sarebbe potuto più agevolmente perfezionare il progetto. E ciò ripeto avanti a questa Assemblea.

Vi è ancora un altro punto pregiudiziale, che occorre chiarire. È stato osservato che la redazione del progetto fu affidata al più acceso regionalista, e, per giunta, siciliano. Precisiamo. I membri della seconda Sottocommissione, della Commissione dei 75 e tutti i colleghi coi quali ho parlato ed ai quali ho chiesto ausilio, sanno che io non sono affatto estremista, sanno che ho proceduto con massima prudenza. Quando la Commissione mi diede l’incarico di elaborare ed articolare il progetto sulla base dell’ordine del giorno Piccioni, che aveva una portata molto lata, fui io che incominciai a restringere, ad imbrigliare, direi, alcuni istituti, in modo da arrivare a presentare un progetto elle non portasse a salti nel buio e potesse raccogliere il maggior numero di consensi. Ed il risultato è stato che parecchi colleghi, e fra questi lo stesso onorevole Piccioni, hanno giudicato il mio progetto come inadeguato, scialbo, non rispondente appieno ai principî affermati nell’ordine del giorno suddetto. Altro che carattere acceso ed estremista del progetto! Nel redigerlo io mi sono inoltre preoccupato che rispondesse alla psicologia del popolo.

Le Costituzioni basate su schemi teorici non reggono. Sicuramente Mario Pagano fece una Costituzione magnifica, ma era frutto del suo cervello e dei suoi studi. Bisogna tener conto delle particolari condizioni dell’ambiente, delle particolari esigenze del momento. Dicendo ciò intendo rispondere alle critiche che hanno voluto vedere nel progetto una affermazione di tendenze di scuola, di preconcette teoriche. No. Nella sua relazione il Presidente Ruini mi ha fatto l’onore di citare un mio studio sullo Stato regionale. Tutti i Colleghi mi daranno atto che a questo mio libro ed alla mia teoria mai accennai nel corso dei lavori. Io non ho mai difeso delle mie idee personali, perché ritenevo e ritengo che bisogna lavorare sulla materia concreta, sulle esigenze reali quali sono dalla generalità sentite e valutate. Se avessimo invocato teorie astratte, ci saremmo allontanati dalla realtà. Ed alla realtà, alla dura realtà, come io, s’intende, la vedevo, ho cercato, mi sono sempre sforzato di attenermi. Io sono nato in un paese di provincia, ho vissuto in mezzo a contadini, zolfatari, piccoli agricoltori, artigiani, so quali sono le pene del popolo della provincia. Tutto ciò ho tenuto presente nello studio del problema. Né diversamente, io credo, hanno fatto gli egregi colleghi che più dirottamente hanno lavorato con me nella preparazione del progetto, che viene ora in discussione.

La Commissione si è preoccupata di proporre una riforma che potesse corrispondere (naturalmente è difficile fare le cose perfette) a quelle che sono le effettive e complesse esigenze della vita della società e dello stato, al centro ed alla periferia.

Dal punto di vista pregiudiziale va ancora rilevato che il progetto è stato investito dalle critiche più contrastanti, con argomenti polemici, a volte addotti dallo stesso oratore, tra loro elidentisi. Si è detto: il progetto non regge, perché, o dà alla Regione un potere legislativo, ed allora si va al federalismo, o non le dà nessun potere legislativo, ed allora non c’è più autonomia. Ancora: o si lascia in vita la provincia e allora la Regione non ha motivo di esistere; o si sopprime la provincia come ente autarchico, e allora si sostituisce all’accentramento statale l’accentramento regionale con danno delle popolazioni della periferia e di tutti i capoluoghi di provincia.

Ma tali osservazioni sono infondate o, comunque, molto esagerate. La verità è che il progetto, che l’Assemblea può e deve certamente perfezionare, costituisce una linea mediana, rappresenta un punto di incontro fra le varie esigenze concrete alle quali si è cercato di dare soddisfazione.

Nelle critiche fatte al progetto, si è a volte guardato più ad un sistema astratto generale, che non alla sua struttura concreta. Un nostro egregio collega, nel criticare specialmente quella parte del progetto che si riferisce al potere normativo della Regione, ha detto che non si occupava della questione in concreto, ma dal punto di vista concettuale e teorico per quella che poteva essere in appresso l’evoluzione ed il tralignamento del principio affermato. Ma così non mi pare che siamo sul terreno giusto. Il progetto bisogna giudicarlo per quello che è, per la sua struttura concreta. Io e la Commissione abbiamo voluto attenerci alla realtà delle cose ed abbiamo creduto di elaborare una riforma che nei suoi istituti specifici evita o presenta comunque i mezzi e congegni adeguati per evitare i prospettati tralignamenti. L’Assemblea potrà perfezionarli mantenendosi aderente alla realtà, così come ha cercato di fare la Commissione.

Alle critiche pregiudiziali, si aggiungono naturalmente le critiche di sostanza. Da varie parti ci si è domandato quali siano i principî informatori di questo progetto. Qualcuno, come il collega onorevole Zuccarini, ha continuato a dire: Per la mania della conciliazione, per volere a tutti i costi raggiungere una maggioranza, l’onorevole Ambrosini ha forzato la situazione, creando degli istituti improntati a principî non completamente coerenti, rettilinei.

Ripeto in proposito che io e poi la Commissione ci siamo preoccupati di conciliare le opposte tendenze, di trovare un punto di incontro, di accordo, seguendo il metodo che era stato adottato per l’elaborazione e l’approvazione della parte prima della Costituzione. Il sistema presenta certamente degli svantaggi assieme ai vantaggi; ma questi, secondo il nostro avviso, superano quelli; e perciò mi sono sforzato di arrivare, nei limiti del possibile, ad un punto dì incontro e di conciliazione.

Se non si fosse seguito questo metodo, non si sarebbe pervenuti a nessuna conclusione, perché non si sarebbe ottenuta neppure una maggioranza qualsiasi. Ebbene, il progetto va esaminato anzitutto nella sua sostanza, nelle sue linee direttive, salvo a perfezionarne l’applicazione. Dobbiamo in coscienza decidere: se siamo convinti che la riforma è necessaria, allora sicuramente non possiamo arrestarci di fronte ad ostacoli di indole tecnica, a contrasti sulle modalità di applicazione. Qui può e deve intervenire la conciliazione e la transazione in modo da creare la possibilità di arrivare a una soluzione che raggiunga la maggioranza dei consensi.

Sì, è questione di coscienza. Se la nostra coscienza ci dice, dopo aver valutato con ponderazione il problema, che la riforma è necessaria per restaurare e stabilire su nuove basi l’assetto strutturale dello Stato, allora dobbiamo attuarla, sia pur attraverso alle transazioni che sono state tanto criticate.

Quindi io e i colleghi della Commissione, io credo, assumiamo la responsabilità di questo sistema, che abbiamo consapevolmente voluto. Ora il sistema consacrato nel progetto va esaminato, ripeto, per gli istituti che concretamente instaura, per quella che è la sua portata effettiva, normale, non per quelli che possono essere gli sviluppi immaginari, tralignanti, ad impedire i quali ci vuole il senso vigile dei costituenti, il senso vigile dei futuri legislatori, e, anzitutto, il senso continuamente vigile del popolo, se esso vuole impedire la tirannia e mantenere la libertà e più ancora essere degni della libertà, giacché è proprio vero quello che disse Faust, che «della vita è degno, di libertà è degno sol chi sappia a ciascun di farsene acquisto».

Ordunque, andiamo ad esaminare il progetto per quello che è. Ci è stato domandato a quali principî si ispira. Partiamo dal presupposto: l’accentramento e l’uniformità hanno causato e causano danni e inconvenienti ineliminabili. Io non starò ad enumerarli, perché sono stati indicati da me nella relazione scritta, e poi più ampiamente illustrati da oratori di tutti i settori di questa Assemblea, senza distinzione. Salvo qualche collega, sia pur autorevolissimo ma isolato, tutti – e se non è così, è bene che io sia ripreso – tutti hanno affermato che la congestione dell’amministrazione statale, che l’uniformismo normativo hanno causato dei danni al Paese, che hanno reso pesante e a volte inefficiente il funzionamento dei poteri pubblici, non solo riguardo alle amministrazioni e agli interessi locali, ma anche per le amministrazioni centrali. Ora, basta un minimo di esperienza con i Ministeri per sapere che non è colpa dei funzionari, che nella loro grande maggioranza meritano rispetto e considerazione. È il sistema, che fa ammucchiare carte su carte. E quando il Deputato, giustamente sollecitato dagli elettori, va a sua volta a sollecitare i funzionari per il disbrigo di una pratica sepolta da altre, fa del bene al poverello che ha invocato il suo intervento, ma, egregi colleghi, diciamocelo onestamente – a volte ho avuto quasi un rimorso di coscienza – fa male a tutti gli altri poveri interessati che avevano la loro pratica sopra (Applausi) e che quindi sono sorpassati.

Ora questo è uno dei mali ai quali noi dobbiamo fare di tutto per porre rimedio.

Non è questo il momento di trattarne, basterà per ora averlo segnalato. Non occorre nemmeno che mi soffermi sulle altre conseguenze dannose dell’accentramento, che tutti o quasi tutti hanno riconosciuto e lamentato non solo riguardo all’amministrazione centrale dello Stato, ma anche riguardo alla legislazione, sì, anche riguardo alla legislazione, che si manifesta difettosa per lo stesso sistema di formazione delle leggi e a volte per il loro carattere uniforme di fronte alla varietà delle situazioni ed esigenze regionali siccome è stato rilevato dagli onorevoli Conti, Mannironi, Uberti, Bellavista ed altri colleghi, e per ultimo dall’onorevole Ruini nel suo intervento dell’altro ieri. Si tratta di un sistema che ha danneggiato il Mezzogiorno e le isole in modo gravissimo.

Da tutte le parti – compreso l’onorevole Nobile – si è riconosciuto che occorre un decentramento. Ma quale decentramento?

Quello burocratico o altrimenti detto gerarchico, che importa il dislocamento di organi statali dal centro alla periferia per l’esercizio di funzioni che rimangono statali, non è adeguato alle necessità delle popolazioni, i cui interessi resterebbero affidati a funzionari statali legati alle direttive del centro ed aventi comunque una mentalità centralistica.

Né completamente adeguata sarebbe la soluzione del decentramento autarchico territoriale o istituzionale, giacché esso, pur importando il passaggio di funzioni dalla competenza dello Stato a quella di enti locali, si limita, secondo il sistema tradizionale, al campo amministrativo, e non anche all’altro della produzione delle norme giuridiche. Ora è anche a questo campo che bisogna estendere, sia pur con limiti di sostanza e di forma, l’innovazione. Così si passerà dall’istituto dell’autarchia a quello dell’autonomia, che vorremmo posto a base della riforma regionale.

Alcuni colleghi hanno osservato che gli enti locali hanno già un qualche potere normativo. È vero, ma non basta. Bisogna che dalla competenza regolamentare si passi all’attribuzione di una potestà legislativa, limitata – s’intende – a materie d’interesse puramente locale.

Se è vero che riguardo a tali materie non agevole o non del tutto efficiente è il funzionamento del potere legislativo centrale, è chiaro che si rende opportuno l’affidamento del potere legislativo alle Regioni, giacché i rappresentanti delle rispettive popolazioni ne conoscono a fondo i bisogni e sono in grado di provvedervi meglio e con maggiore responsabilità del Parlamento nazionale. Questo è il nostro punto di vista.

E qui sorge la questione dell’ampiezza o meno del potere legislativo, della quale discutevamo ancora stamane nel Comitato di redazione, prima dell’apertura della seduta dell’Assemblea.

Data la necessità o l’opportunità o comunque l’utilità di operare la deflazione del potere legislativo centrale, si presenta naturale la soluzione di affidare l’elaborazione delle norme giuridiche, che riguardano le collettività locali e che importano interessi puramente locali, ai rappresentanti delle stesse collettività. Vengo a parlare della maggiore o minore ampiezza di queste norme.

ZANARDI. Ma non ci sono già gli organi locali?

AMBROSINI. Le rispondo subito dandole le precisazioni che opportunamente mi richiede. Noi infatti siamo qui per avvertire e soddisfare le esigenze delle popolazioni, non per fare questioni di dottrina o di partito: noi consideriamo le questioni dal punto di vista nazionale. Lei domanda perché non si ricorre agli Enti locali esistenti? Ecco la risposta: perché la circoscrizione comunale sarebbe troppo ristretta in relazione agli interessi ed agli scopi che si vogliono perseguire; e troppo ristretta sarebbe ugualmente la circoscrizione provinciale.

Ci sono dei servizi che per il loro più adeguato esercizio comportano e necessitano una circoscrizione più ampia. Naturalmente, egregi colleghi, non c’è nulla di assoluto e di tassativo. Siamo sempre nel campo del relativo. Ma è indubbio che ci sono dei servizi che dal punto di vista tecnico e da quello economico possono meglio essere adempiuti in una circoscrizione più ampia.

MICCOLIS. Lo stesso ragionamento può farsi per la Regione. (Commenti Interruzioni).

PRESIDENTE. Onorevoli colleghi, non interrompano.

AMBROSINI. Io avrò dei difetti, ma credo di non peccare di mancanza né di obiettività, né di conciliabilità. Esaminerò la questione obiettivamente.

Io potrei, cari colleghi, rispondere alle vostre interruzioni riportandomi sul terreno sul quale si mise l’onorevole Priolo l’altro giorno; potrei cioè leggere i passi di uno dei più celebrati autori inglesi sul governo locale in Inghilterra, giacché il problema è attualmente in discussione, quantunque su base diversa, anche nel Paese tradizionalista d’oltre Manica. Il Finer ne tratta ampiamente.

CRISPO. In Inghilterra c’è la Contea, non la Regione.

PRESIDENTE. Onorevole Crispo, non interrompa. Non facciamo sfoggio di erudizione!

AMBROSINI. C’è la Contea, ma c’è un movimento regionalista. Lo vedremo. Quando faccio delle citazioni, mi potreste anche credere sulla parola. Ma in una questione così grave ho portato i testi. (Commenti). È mio dovere di onestà e di opportunità. Leggerò appresso i passi più importanti.

Mi avete domandato inoltre di quali servizi si tratta. Rispondo: parecchi.

Cominciamo dall’energia elettrica. Indubbiamente la circoscrizione del Comune o della Provincia si dimostra spesso troppo ristretta. Può darsi che la Regione non sia nemmeno sufficiente. Ma è più logico che si vada alla Regione quando non appaia necessario ricorrere ad una circoscrizione più vasta. Comunque può essere opportuno prendere normalmente come base la Regione.

Una voce a destra. Non è esatto.

AMBROSINI. Cari colleghi, non c’è niente, ripeto, di assoluto: si tratta di valutazioni, che dovranno farsi quando si tratterà del dettaglio. Vi sono i servizi relativi agli acquedotti, alle strade, alle bonifiche, ai trasporti, ecc., per i quali si dimostra spesso inadeguato il territorio del comune e della provincia. Inadeguata è comunque la circoscrizione degli enti locali esistenti per quanto si riferisce all’esercizio della funzione normativa. Se già molti sono spaventati del potere legiferante da affidare ad una regione, sicuramente spaventatissimi diventerebbero se si dovesse affidarlo alla provincia. Io stesso sarei contrario. Solo nella circoscrizione più ampia di più provincie costituenti una regione può trovarsi la base sufficiente per l’adeguato esercizio di un potere normativo.

Uno dei precedenti oratori (ho qui tutti gli appunti), parlando della Toscana, proprio a proposito dell’argomento attuale, disse volgendosi a me: «Ma credete che Firenze, Arezzo, Siena e Pisa abbiano le stesse caratteristiche?». Al che io credo si possa rispondere: indubbiamente c’è una varietà, ma ugualmente è indubbio che tra Firenze, Siena, Arezzo e Pisa sommate assieme c’è una uniformità maggiore di quella che non ci sia tra Firenze e Caltanissetta. Se è sufficiente la circoscrizione della Regione toscana o siciliana per l’attribuzione di una certa potestà legislativa, rappresentando ognuna di tali Regioni un complesso uniforme – insufficiente sarebbe la circoscrizione delle singole provincie, malgrado la loro eventuale varietà, comprese nella stessa Regione; assolutamente e manifestamente inadeguato, e senz’altro da scartarsi è il territorio del Comune; quindi non può esservi che la Regione.

Una voce. Perché non può essere la Provincia?

UBERTI. Perché è troppo piccola.

Una voce. È piccola anche la Regione.

AMBROSINI. Il nostro criterio è questo: specialmente per quanto si riferisce alla potestà legislativa o normativa, qualunque estensione o qualunque restrizione si voglia in proposito adottare, la circoscrizione della provincia è inadeguata. L’Assemblea è naturalmente arbitra di valutare e decidere. Io ho fatto il mio dovere nell’esporre quello che è il punto di vista mio e della Commissione.

Per combattere il principio regionalistico si è detto inoltre che l’Italia è un paese mediterraneo dotato di una uniformità che non comporta la distinzione in Regioni e specialmente la creazione di una varietà di legislazione regionale. Ma è facile rispondere che se c’è un Paese caratterizzato da estreme varietà, dal Nord al Sud, questo Paese è sicuramente l’Italia.

E questo è uno dei motivi fondamentali per cui abbiamo proposto come ente da costituire la Regione, perché semplicemente per mezzo dell’Ente Regionale, noi vediamo la possibilità di realizzare le innovazioni che ci sembrano necessarie per ovviare ai mali dell’accentramento statale.

Andiamo all’esame della struttura concreta del progetto.

Io, naturalmente, non mi soffermerò sugli articoli. Sono gli istituti genericamente considerati che devo ora riguardare. Alla Commissione si presentò un primo quesito.

Era opportuno adottare il sistema della Regione facoltativa o quello della Regione obbligatoria? La questione era stata già posta dai costituenti spagnuoli e risolta nella costituzione repubblicana del 1931 con l’adozione del sistema della Regione facoltativa. Ma in senso diverso si è pronunciata la nostra Commissione ritenendo che, se la riforma appariva utile, bisognava applicarla in tutto il territorio nazionale.

Secondo quesito: struttura regionale uniforme o non uniforme?

Anche qui naturalmente sorse una grave discussione, in vista della condizione diversa delle Regioni, ed in considerazione specialmente della particolarissima condizione di taluna di esse, che consigliavano di arrivare ad una struttura differenziata. Si arrivò infatti a questa soluzione.

Devo procedere rapidamente, pur tenendomi a disposizione di chi volesse farmi delle domande anche fuori dell’Assemblea, perché chiarire la situazione è nostro dovere di cittadini e di rappresentanti; ed è dovere ancora più grave e sentito per me, che ho l’onere e l’onore di essere il relatore e uno di coloro sui quali è maggiormente gravato il compito di elaborare la proposta riforma. Fu adunque adottata una struttura differenziata. Siccome vi erano delle situazioni prestabilite dal punto di vista giuridico o dal punto di vista di fatto e politico, il che in questa sede deve considerarsi quasi lo stesso, per la Val d’Aosta, per la Sicilia, per la Sardegna e per il Trentino Alto Adige, non era opportuno, non era possibile sorpassarle nella Costituzione. Sì, onorevole Nitti, mio maestro illustre, vedo i suoi dinieghi, ma le dico che non si poteva, né si può né si deve tornare indietro.

Io sento di fronte a lei, onorevole Nitti, l’affetto e la riverenza dell’antico discepolo, che nell’università di Napoli la ebbe correlatore della sua tesi di laurea insieme a Francesco Scaduto; ed io non ho mai dimenticato le parole di incoraggiamento che allora lei mi rivolse come non ho mai dimenticato che lei è l’autore de «L’Europa senza Pace» e dell’altro libro «Disgregazione dell’Europa».

Una voce a sinistra. «Timeo Danaos et dona ferentes!»

AMBROSINI. Da me non c’è nulla da temere. (Applausi al centro). Ma, nella mia onestà, devo dire, anche in riguardo al maestro onorevole Nitti, che amicus Plato, sed magis amica veritas.

Dunque, siccome c’era per le suddette Regioni una posizione prestabilita, la Commissione, nella sua saggezza, ritenne di dover fare nelle sue proposte una differenziazione, stabilendo un sistema genericamente uniforme per tutte le Regioni d’Italia, e riconoscendo o ammettendo (sono termini che adopero intenzionalmente perché «riconoscere» si riferisce alla Sicilia e alla Val d’Aosta, e «ammettere» si riferisce alla Sardegna e al Trentino-Alto Adige) le situazioni prestabilite dal punto di vista giuridico e politico.

Ci furono forti obiezioni per considerazioni di opportunità e di principio. Lo stesso onorevole Grieco, che riconosceva la posizione speciale delle quattro Regioni, domandò all’inizio della discussione generale se l’attribuzione ad esse di una condizione giuridica particolare non sarebbe potuta sembrare un monstrum ai giuristi.

Ma io, per conto mio, lo rassicurai, dicendo che nel campo del diritto pubblico non si creano dei mostri quando si fa luogo ad istituti complessi, che rispecchiano la varietà e complessità delle situazioni e degli interessi a cui bisogna dare soddisfazione. Di fronte alla realtà complessa sarebbe assurdo e dannoso dar vita ad istituti solo formalmente armonici, ma non corrispondenti alle concrete esigenze della vita sociale. Bisogna contentarsi di creare istituti elastici, adattabili alle necessità diverse, se pur non inquadrabili in un sistema uniforme e tale da apparire logico fino alle estreme conseguenze. È questo criterio di relatività e di adattabilità alle attuali complesse esigenze dell’amministrazione statale e locale che la Commissione ha cercato di seguire.

Veniamo al punto più controverso, quello della potestà legislativa da attribuirsi alla Regione. È a causa dell’attribuzione di un tale potere che si esce dal campo della autarchia per passare a quello dell’autonomia; istituto che è più specialmente connesso con la potestà di produrre norme giuridiche, legislative. Questa è la dottrina prevalente, alla quale mi attengo per semplificare i termini della discussione ed indicare la differenza fra l’autarchia e l’autonomia. Si tratta, s’intende, di nozioni relative, di indicazioni a cui ci riferiamo per aver modo di intenderci.

È opportuno accennare a quanto chiarii nella parte generale della mia relazione scritta: che la differenza tra i due istituti, notevole dal punto di vista concettuale e teorico, può ridursi a ben poca cosa, quando venga circoscritta a materie limitate la potestà normativa dell’Ente autonomo. Rimandando in proposito alla relazione, debbo qui mettere in rilievo che la seconda Sottocommissione, prima di votare l’ordine del giorno Piccioni, in cui si parla esplicitamente della potestà «legislativa» della Regione, esaminò la questione ampiamente su iniziativa dell’onorevole Fabbri. L’onorevole Fabbri infatti, se ben ricordo, si era opposto alla proposta di attribuzione alla Regione di una tale potestà «legislativa», ed aveva proposto di sostituire l’espressione con quella di potestà «normativa».

La Sottocommissione respinse l’emendamento Fabbri, e votò per la potestà «legislativa». Fra le due parole non può dirsi che ci sia differenza dal punto di vista della sostanza; ma il fatto che dopo lunga discussione fu prescelta la parola «legislativa» sta ad indicare che si volle parlare della facoltà di emanare norme giuridiche di carattere non soltanto regolamentare, ma assurgenti al rango di leggi formali.

Quando fui incaricato di tradurre in uno schema articolato i principî affermati nell’ordine del giorno Piccioni, dovevo quindi prevedere per le Regioni l’attribuzione di una potestà «legislativa»; e ciò feci proponendo due tipi di legislazione: una piena e l’altra di integrazione.

Sul primo tipo, che si trova fissato nell’articolo 109 dell’attuale progetto, sorsero e continuano ad esserci le più gravi dispute ed obiezioni, per la preoccupazione che possa derivarne pericolo per l’unità dello Stato.

Ma a questo eventuale pericolo io stesso avevo pensato e posto preventivamente rimedio; circoscrivendo la portata dell’ordine del giorno Piccioni, e ponendo dei limiti di sostanza e di forma all’esercizio da parte della Regione della potestà legislativa in questione; per il che sono stato quasi accusato di avere mortificato e compresso l’istituto dell’autonomia.

La lettura pacata del testo dell’articolo 109 dovrebbe fare scomparire le preoccupazioni suaccennate. Le materie attribuite alla competenza legislativa della Regione sono poco numerose e di interesse puramente locale, tanto che l’onorevole Einaudi ed altri colleghi hanno criticato l’articolo 109 per la sua limitatezza.

Ma più notevoli sono le restrizioni di sostanza. Infatti, anche per le materie poco numerose indicate nell’articolo 109, la Regione non può emanare norme legislative, se non in armonia con la Costituzione ed i principî generali dell’ordinamento dello Stato, e se non rispettando gli obblighi internazionali dello Stato ed inoltre (è opportuno metterlo in rilievo per la sua importanza) «gli interessi della Nazione e delle altre Regioni».

Dovrebbe quindi cadere l’appunto fondamentale mosso all’articolo 109, a proposito del quale si è incorso, io credo, in un equivoco quando si è creduto che tale articolo prevede un tipo di legislazione «esclusiva». A mio modo di vedere, la legislazione dell’articolo 109 non è «esclusiva», perché è condizionata dalle suddette restrizioni preventive di sostanza e dalle altre successive restrizioni derivanti dalla facoltà attribuita dal successivo articolo 118 al Governo centrale di sospendere l’efficacia ed impugnare le norme legislative deliberate dalla Regione.

Di legislazione «esclusiva» può parlarsi, secondo me, solo negli Stati federali riguardo alle materie attribuite dagli Stati membri allo Stato composto, secondo il sistema che cominciò ad attuarsi nella Costituzione degli Stati Uniti d’America del 1787, che è la prima Costituzione federale. Tale sistema fu allora affermato, pur senza adoperare l’espressione di cui ora discutiamo. Questa espressione di «legislazione esclusiva» fu adottata dalla Costituzione di Weimar del 1919, la quale all’articolo 6 dice che il Reich ha, nelle materie ivi indicate, la «legislazione esclusiva» (ausschliessliche Gesetzgebung).

Ora è evidente, a me pare, che per il tipo di legislazione previsto dall’articolo 109 del nostro progetto di Costituzione non possa adoperarsi la qualifica di «esclusiva» adoperata dall’articolo 6 della Costituzione di Weimar.

Senza preoccupazione era stato considerato il secondo tipo di legislazione regionale che io avevo proposto nel progetto originario: la legislazione di integrazione ed attuazione delle leggi dello Stato (sempre per materie tassativamente indicate).

Le preoccupazioni sorsero quando la seconda Sottocommissione ampliò, per scrupolo di precisazione, lo schema da me proposto ed approvato dal Comitato di redazione, passando ad adottare i due tipi di legislazione previsti negli attuali articoli 110 e 111 del progetto.

L’articolo 111, che parla di «legislazione di integrazione ed attuazione», è generalmente accettato.

Fortemente criticato ed oppugnato è invece l’articolo 110, il quale dispone che, per le materie in esso indicate, «la Regione ha potestà di emanare norme legislative nei limiti del precedente articolo (l’art. 109) e con l’osservanza dei principî e delle direttive che la Repubblica ritenga stabilire con legge, allo scopo di una loro (cioè delle materie indicate) disciplina uniforme».

In proposito debbo dire che, se non fui favorevole alla innovazione apportata con questo tipo di legislazione rispetto al sistema del mio progetto, non posso d’altra parte condividere le aspre critiche che sono state fatte all’articolo 110.

Tali critiche derivano principalmente dal fatto che si considera la legislazione ivi prevista come avente carattere di legislazione «concorrente» con quella dello Stato. Io non ritengo esatta questa qualifica.

Legislazione «concorrente» è quella prevista dalla Costituzione di Weimar, la quale, dopo di avere parlato all’articolo 6 del potere legislativo «esclusivo» del Reich, e di essere passata nell’articolo 7 ad occuparsi di un potere legislativo del Reich, non qualificato «esclusivo» su altre materie, aggiunge in seguito, e precisamente all’articolo 12, che fino a quando il Reich non usa del suo potere legislativo rispetto alle materie non attribuite alla sua competenza esclusiva, tale potere può essere esercitato dai singoli Paesi (Länder).

Questa, sì, è legislazione «concorrente», non quella attribuita alla Regione dall’articolo 110 del nostro progetto di Costituzione, che può qualificarsi soltanto «complementare», perché presuppone che ci sia già la legge dello Stato… (Interruzione dell’onorevole Bozzi).

Se lei, caro Bozzi, come magistrato, dovesse applicare questo articolo, finirebbe per dargli il significato al quale io accenno. Comunque, l’Assemblea potrebbe, se ha dubbi, eliminarli con una lieve variante, sostituendo all’espressione della prima parte dell’articolo 110 «…ritenga stabilire» la parola «stabilite». Così si affermerebbe, senza possibilità di equivoci, che la Regione può legiferare quando già esiste una legge dello Stato «con l’osservanza dei principî è delle direttive stabilite con legge dello Stato». Il carattere non «concorrente», ma soltanto «complementare» della legislazione di cui all’articolo 110 sarebbe riaffermato in modo tassativo e tale da eliminare qualsiasi dubbio. Indubbiamente si tratta di una facoltà legislativa che si avvicina a quella prevista dal successivo articolo 111, tanto che parecchi colleghi hanno proposto la fusione dei due articoli.

È stato il punto, questo, più dibattuto nella Sottocommissione, nella Commissione dei settantacinque, nel Comitato dei diciotto. Nel Comitato dei diciotto se ne discuteva ancora su stamane, prima dell’inizio della seduta dell’Assemblea. E forse si arriverà – ce lo auguriamo tutti – a trovare una formula che possa conciliare il maggior numero di consensi.

E andiamo ora all’interferenza del potere centrale sulla legislazione regionale, disciplinata dall’articolo 118 del progetto del quale assumo tutta la responsabilità. Quando formulai quell’articolo, il mio egregio e caro collega onorevole Perassi, pur restando silenzioso, mi guardò male (Ilarità), perché ritenne di vedere compressa l’autonomia della Regione. Si è che tutte le obiezioni, che l’illustre maestro Nitti e gli altri onorevoli colleghi hanno mosso, me le ero fatte anch’io, ed avevo cercato di superarle avvisando ai mezzi di impedire le eventuali possibilità di straripamento da parte delle Regioni. Avevo in proposito proposto ben cinque sistemi diversi.

La Commissione ha prescelto quello che è consacrato nel testo dell’articolo 118, deliberato a grande maggioranza grazie anche alle chiarificazioni avutesi in seguito all’intervento dell’egregio Presidente Ruini. Ebbene, quale è il sistema dell’articolo 118? Quando l’Assemblea regionale ha votato una legge, questa deve essere comunicata al governo centrale, il quale ha la possibilità di rimandarla con le sue osservazioni all’Assemblea regionale. Se questa insiste, la legge non è ancora esecutiva, perché il potere centrale ha la possibilità di impugnarla sia davanti alla Corte costituzionale per motivi di legittimità, sia davanti al Parlamento nazionale per motivi di merito, quando la legge regionale non rispetti l’interesse della Nazione od anche soltanto quello di altre Regioni.

Il progetto inoltre prevede – nessuno ne ha ancora parlato, ma è bene che l’Assemblea lo tenga presente – l’istituzione di un Commissario del Governo nel capoluogo delle Regioni (art. 116). L’articolo 117 instaura un altro istituto a garanzia della vita nazionale, consacrando la facoltà del potere centrale di sciogliere l’Assemblea regionale quando compia atti contrari al principio unitario o gravi violazioni di legge, e quando invitata a procedere alla sostituzione della deputazione regionale che abbia compiuti analoghi atti, non dia corso alla richiesta del Governo. Quindi, sia dal punto di vista legislativo, che da quello amministrativo e politico, i poteri della Regione sono infrenati per impedirne le eventuali esorbitanze.

E veniamo alla questione dell’autonomia finanziaria. Le critiche più aspre sono state dirette anche contro questo punto. Si è detto tra l’altro che il progetto consacra un sistema assolutamente ibrido, pericoloso, e comunque incompleto.

Naturalmente, noi non ci ritenevamo nella possibilità di risolvere il problema anche nei dettagli, e ci siamo quindi limitati a stabilire il principio, cioè a riconoscere l’autonomia finanziaria della Regione, devolvendo ad una legge speciale di natura costituzionale la coordinazione della finanza delle Regioni con quella dello Stato, dei Comuni ed, eventualmente, delle Provincie. È evidente, egregi colleghi, che il contribuente è sempre lo stesso, che i servizi, dei quali lo Stato si sgrava per passarli eventualmente alla Regione o anche alla Provincia, importano delle spese, che quindi debba esserci un passaggio a tali enti di entrate statuali, o che, comunque, debba procedersi da parte dello Stato in favore di essi alla corresponsione delle somme necessarie per l’attuazione degli scopi e dei servizi di cui lo Stato viene sgravato.

Come, egregi colleghi, poteva la Commissione dettagliatamente decidere su questo punto, che si riconnette poi a quella che è la necessaria riforma di tutto il sistema tributario dello Stato? Noi crediamo di essere arrivati alla soluzione più avveduta, devolvendo ad una legge speciale il regolamento di tutta la materia, ma affermando intanto il principio dell’autonomia finanziaria della Regione.

E che dire della critica fatta all’ultimo capoverso dell’articolo 113, nel quale si stabilisce che sono proibiti i dazî di importazione, di esportazione o di transito fra una Regione e l’altra, e che non possono prendersi provvedimenti che ostacolino in qualsiasi modo la libera circolazione da una Regione all’altra delle persone e delle cose? Qui si è evitata la stessa possibilità di costituzione di una circoscrizione economica chiusa. Senonché, da coloro che criticano il sistema della Commissione, ci è stato detto: «Ma il fatto che avete nell’ultimo capoverso dell’articolo 113 previsto un eventuale pericolo, significa che il pericolo può esserci».

No, rispondiamo, giacché con l’articolo 113 noi abbiamo appunto dettato una norma che toglie alla Regione la possibilità e la tentazione di trascendere.

Provincie: non mi intratterrò molto su questo punto, perché l’Assemblea ha sentito ampiamente dibattere la questione. Ho però il dovere di dire che il progetto della Commissione regge alle critiche.

In fondo (qualche collega l’ha detto) c’è qui un grave equivoco in quanto si confonde spesso la provincia come ente autarchico e la provincia come circoscrizione amministrativa statale, la Prefettura. Ora, anche scomparendo l’ente, tutti i servizi attuali che si riferiscono all’esercizio di funzioni governative sono mantenuti (e non potrebbe essere diversamente). Quindi nessun pregiudizio sostanziale ne verrebbe alle popolazioni locali in base al sistema del nostro progetto. La Commissione ha adottato un sistema concordato di convergenza degli opposti punti di vista che sostanzialmente manterrebbe tutte le funzioni che ora la Provincia possiede sia come ente autarchico che come prefettura, ed anzi le aumenterebbe in quanto si prescrive che la Regione esercita normalmente le sue funzioni amministrative a mezzo di uffici nelle circoscrizioni provinciali.

L’articolo 107 deve essere guardato in connessione con l’articolo 120 e col 122.

Noi ci preoccupammo di evitare che la riforma portasse ad un accentramento regionale, e crediamo di aver raggiunto lo scopo giacché con le disposizioni degli articoli succitati sono completamente salvaguardate le esigenze delle popolazioni locali e quelle dei capoluogo di provincia. Vedrà l’Assemblea se è o no il caso di modificare il sistema del progetto in modo da corrispondere meglio allo stato d’animo degli interessati; ma tenga presente che innovando al sistema della Commissione, si apporterebbe un grave spostamento a tutto il sistema del progetto. Mantenere nella Regione l’ente autarchico provincia importerebbe duplicazione di rappresentanza, di bilancio e di spese ed altri inconvenienti, che il sistema del progetto della Commissione elimina, pur mantenendo la circoscrizione provinciale. Il cambiamento del nostro sistema escluderebbe l’esistenza delle piccole Regioni.

Un altro istituto, che, secondo il nostro intendimento, dovrebbe assumere un’importanza fondamentale, è quello del referendum previsto dall’articolo 119. Il primo comma dispone che gli Statuti regionali potranno regolarne l’esercizio in armonia coi principî stabiliti nella Costituzione. Ugualmente per il diritto di iniziativa popolare. Il secondo comma aggiunge che «gli Statuti regionali regolano altresì il referendum su determinati provvedimenti amministrativi». Noi riteniamo che così le popolazioni parteciperanno con un controllo effettivo all’opera dei loro amministratori, anche per quanto riguarda gli impegni di forti spese.

A questo proposito rammento che in Inghilterra mi colpì molto, andando per varii borghi ed esaminando i programmi elettorali per le elezioni amministrative, un ammonimento ed incitamento rivolto agli elettori, che suonava ad un dipresso così: «Domanda al tuo consigliere di contea o di distretto qual è il bilancio, quali le entrate, come vengono spese, quali sono i provvedimenti adottati, ecc.». Non sarebbe proprio male che simili incitamenti si rivolgessero ai nostri elettori. Gioverebbero in definitiva agli amministratori elettivi ed agli impiegati. Riferendomi al costume inglese, rammento inoltre che, se interrogate un qualsiasi impiegato di qualsiasi amministrazione per sapere che cosa succede quando cambia la rappresentanza elettiva, vi sentite rispondere nel modo più sorpreso: «niente». Niente, perché l’impiegato obbedisce alla legge.

A ciò dobbiamo anche noi tendere per attuare la giustizia. Piena libertà dev’essere lasciata, s’intende nell’ambito della legge, agli amministratori, agli impiegati, che non devono subire pressioni ed abusi che si risolvono unicamente in danno delle popolazioni. (Applausi).

Egregi colleghi, debbo avviarmi alla fine. Naturalmente il compito che mi è stato dato era ben grave. Io non so se l’Assemblea vuole che parli ancora.

Voci. Parli! Parli! Ascoltiamo, è interessante.

AMBROSINI. E allora, egregi colleghi, sempre con obiettività e col desiderio di mostrare quale è la soluzione che ci sembra migliore per il Paese e sulla quale voi giudicherete col vostro ingegno e colla vostra coscienza, io vengo ad esaminare le gravi obiezioni di principio che sono state fatte al progetto.

Si è detto da varie parti che mancano precedenti nella legislazione comparata. Qualcuno, come l’onorevole Priolo, ha accennato all’Inghilterra.

Onorevoli colleghi, io non mi dilungherò nell’esaminare le varie legislazioni. Mi basterà riferirmi solo a due paesi. Comincio dalla Unione delle Repubbliche Socialiste Sovietiche. Quando l’onorevole Lussu ne fece cenno, gli fu obiettato che si trattava di grandi formazioni nazionali, che giustificavano quella formazione federativa. Sì, ma ciò non è tutto. La questione s’innesta anche nel contrasto fra Stalin e Trotski, quando si stabili il nuovo regime russo, giacché, mentre la concezione trotschista avrebbe portato all’accentramento o al mantenimento almeno di un unitario complesso politico, quella staliniana propugnava il più largo e profondo decentramento. Fu Stalin che richiese fin dal primo momento la costituzione di uno Stato federalista, e fu egli il primo Commissario per gli affari nazionali, cioè un Ministro per le nazionalità. Ma non si fermò a ciò. Con l’approvazione di Lenin, estese l’applicazione del principio decentralista dell’autonomia alla struttura interna delle singole Repubbliche federate che compongono l’Unione sovietica; le quali singole Repubbliche federate si ripartono a loro volta in successive formazioni politico-territoriali autonome.

Questo sistema è espressamente sancito anche nell’ultima Costituzione sovietica, quella staliniana del 1936, agli articoli 22-29 bis. Ai varî minori enti autonomi esistenti nell’ambito delle Repubbliche federate, quali le Repubbliche autonome, le Regioni autonome e i Distretti, è attribuita una propria rappresentanza nel Soviet delle nazionalità, secondo le prescrizioni dell’articolo 35 della Costituzione. Il sistema autonomistico è così applicato nell’Unione Sovietica fino alle ultime conseguenze possibili.

Per un altro verso, ma non meno interessante, riesce lo studio dell’evoluzione dell’amministrazione locale in Inghilterra. È stato detto da varie parti che in Inghilterra non si è mai parlato di regionalismo. Dico subito che non è così. L’amministrazione locale inglese deriva dalla tradizione storica. Nella antica Contea, per mezzo di concessioni di carte reali, si vennero costituendo della città, dei borghi, delle municipalità aventi singolarmente un proprio status, a seconda delle concessioni fatte dai Sovrani.

Nel 1888 fu operato un vasto riordinamento consistente principalmente in ciò di permettere la elevazione di borghi e di città comprese nella circoscrizione di una contea allo status di contea, rimanendo le contee divise in distretti urbani e rurali, in borghi municipali e in parrocchie.

Questo sistema frastagliato di enti locali, derivanti dalla tradizione, ma irrazionale in rapporto all’evoluzione dei tempi, fece affermare l’esigenza di ricorrere a formazioni territoriali più vaste per l’esercizio di taluni servizi pubblici di importanza fondamentale.

Come fecero per raggiungere lo scopo? Gli inglesi sono pratici, andarono di volta in volta costituendo dei Joint Committees, dei Joint Boards, dei consorzi, diremmo noi, che riunivano i delegati degli interessati di varie Contee, ma sempre per la cura di servizi particolari.

Quali furono gli obiettivi che vennero per primi in considerazione? La questione dei bacini idrici, la questione dei trasporti stradali, la questione dell’elettricità, la questione del drenaggio dei fiumi, la questione della pianificazione delle città, ecc. Venne così manifestandosi e man mano affermandosi un movimento per la nuova sistemazione, in taluni rami, dell’amministrazione locale su base regionale.

Egregi colleghi, io ho portato i libri. Naturalmente non posso leggere, ma li lascio a disposizione di quelli che vogliono controllare quanto dico. Nel libro del Finer sono elencati molti Atti del Parlamento, che prevedono e dispongono la costituzione di organismi del tipo di quelli a cui ho accennato.

Ma dalla coesistenza in una stessa area di vari Committees, chiamati a volte Comitati regionali (si affermò così anche in quel Paese la Regione: non siamo noi che l’abbiamo inventata), sorsero inconvenienti e la necessità che si operasse un coordinamento. Siccome questi singoli Comitati gestivano un solo servizio pubblico ed avevano potere di disporre imposizioni a carico degli utenti, si venne verificando una molesta interferenza delle varie imposizioni.

I Ratepayers cominciarono ad infastidirsi. Onde le richieste di un coordinamento e della fusione dei vari servizi in questione, e la proposta di affidarli ad un solo organo rappresentante degli interessi di tutta la collettività regionale.

Attraverso alle affermazioni empiriche e alla continuata esperienza sorsero le dispute e si iniziarono le discussioni ed i contrasti circa il modo migliore di operare una riforma organica in questa materia.

Si manifestarono specialmente due correnti: una per il mantenimento del sistema dei Comitati speciali, l’altra per la costituzione di una entità regionale.

Il primo sistema, detto delle Special Authorities, presenta il vantaggio tecnico del miglior rendimento ed il vantaggio politico di operare la riforma piece-meal, a pezzi e bocconi, senza suscitare eccessive preoccupazioni e proteste da parte degli enti locali esistenti (proteste simili a quelle da noi avanzate nelle provincie); ma d’altra parte presenta l’inconveniente di disintegrare l’amministrazione, di infastidire i «Ratepayers», e di non consentire la coordinazione dei vari servizi pubblici.

Il secondo sistema, detto delle Regions, diremmo noi della riforma regionale, evita tali inconvenienti, ma è più difficile ad attuare per le resistenze degli enti locali esistenti.

Queste le ragioni pro e contro all’uno o l’altro sistema di riforma, che sono state addotte e dibattute in Inghilterra.

Come vedete, egregi colleghi, si tratta di argomentazioni che si fanno ugualmente da noi. Comunque, mi pare non possa negarsi, che quantunque su basi diverse da quelle da cui parte il nostro progetto di riforma, un movimento regionalista esista anche in Inghilterra.

Debbo aggiungere che il problema è stato trattato anche negli Stati Uniti da Thomas H. Reed, in uno studio pubblicato a Chicago nel 1930 sul governo delle aree metropolitane. Parlando dei varî servizi (sono gli stessi problemi che interessano noi) dice che non è possibile, oggi, considerare in modo separato e distinto i varî servizi. È opportuno riportare un passo citato dal Finer: «I problemi dei varî servizi non possono essere risolti indipendentemente l’uno dall’altro». «Voi (dice il Reed, quasi rivolgendosi agli oppositori) non potete trattare il problema dei trasporti metropolitani, senza occuparvi della pianificazione regionale, della costruzione delle strade principali e del regolamento del traffico. Voi non potete trattare il problema della salute pubblica, senza occuparvi dei problemi della cura dei poveri e del problema della sanità in genere. Qui, adunque, è la ragione reale del governo regionale di carattere generale».

Sono parole testuali, che pare siano state scritte per noi.

Il Reed così continua: «Un tale Governo regionale significa riconoscimento dell’unità, dell’area, cioè della circoscrizione. E ciò non è in contrasto col mantenimento dei governi locali nell’ambito delle unità locali esistenti, che possono continuare ad occuparsi delle materie che non hanno una importanza regionale».

Ora, io vi domando, onorevoli colleghi, se è possibile trovare (e la voce viene dai paesi anglosassoni) delle argomentazioni più calzanti in favore della riforma regionale. Si può esservi contrari, ma non invocando la mancanza di precedenti nella legislazione comparata.

Lo stesso credo debba dirsi circa i riferimenti che sono stati fatti alla tradizione nell’interno del nostro Paese.

Voi già conoscete i precedenti in Italia, voi già conoscete l’idea del Mazzini, il più grande unitario, il creatore del pensiero dell’unità d’Italia. Nel 1831 il Mazzini aveva scritto il noto articolo per l’unità d’Italia, dove lanciava anatemi contro i federalisti. Fu un articolo che rimase incompiuto. Guardatelo, è nel secondo volume degli scritti politici, edizione Imola del 1907. L’articolo dice che l’Italia non poteva essere federale, e che, qualora lo fosse divenuta, sarebbe stata una disgrazia. Critica in modo asprissimo i federalisti, forse andando al di là di quello che quei valentuomini meritavano, e tratta duramente il Sismondi, il quale sicuramente è uno scrittore di grande levatura, e a noi non discaro, avendo rilevato quelle che sono le nostre memorie comunali. Mazzini completò l’articolo trenta anni dopo, sostenendo fra l’altro che fra il Comune e lo Stato vi è la Regione, e indicando i motivi, senza entrare nel campo giuridico, per i quali bisogna crearla, non ultimo quello di garantire la libertà e di spingere gli elementi locali a formare la classe politica.

Dei progetti Farini e Minghetti del 1860-1861 mi occupai nella relazione scritta, e non occorre riparlarne, anche perché ne hanno discusso qui varî colleghi.

È stata creata ora in Sicilia una amministrazione regionale. I componenti di questa amministrazione sono quasi tutti miei allievi, di quando insegnavo a Palermo. Alcuni di essi avrebbero dovuto venire in questa Assemblea, ed avrebbero sicuramente fatto onore a loro stessi ed al paese natio; ma io penso che sia bene che siano rimasti lì, perché qui avrebbero indirizzato il loro ingegno e le loro fatiche alle questioni di indole generale, ed avrebbero perduto il contatto con i problemi che nascono e si sviluppano nella stessa località, che si raggruppano in modo omogeneo nella Regione. Il mio cuore di maestro, che li ha seguiti con animo trepido, ora gioisce nel vedere che immediatamente hanno affrontato i problemi concreti della Sicilia, con slancio, serietà e senso di responsabilità, che li porterà certamente al successo. Per questa loro nobile fatica formulo i voti più fervidi nell’interesse dell’Isola.

Rispondo ora ad un’altra obiezione, avanzata da varie parti contro la riforma: il mondo moderno tende alla costituzione di grandi unità economiche e politiche. Indubbiamente. Ci sarà da dire se questo è bene o è male; forse sarà più male che bene, ma nessun uomo, per quanto di genio, e nessun popolo può arrestare il fatale andare delle cose.

Appunto per questo, che noi non possiamo estraniarci dalla corrente mondiale, sarebbe stolto, pur seguendo questa tendenza e pur cercando di metterci sulla direttiva del raggiungimento di scopi unitari dal punto di vista economico e politico, appunto per questo, noi dobbiamo rimanere sgomenti di fronte al terribile potere che gli organi centrali di questi complessi unitari sempre più vasti verrebbero ad assumere. Perché noi, o signori, non vogliamo diventare delle macchine che più non pensano; né vogliamo, anche se il nostro pane quotidiano aumentasse di un po’, perdere in cambio la nostra iniziativa e la nostra libertà; noi vogliamo servire quegli scopi unitari, ma ci domandiamo se, appunto per ciò, non sia necessario ed opportuno di guardare ai mezzi più idonei per perseguire quegli stessi scopi.

Ebbene, il decentramento e l’autonomia, a nostro modo di vedere, costituiscono uno degli strumenti più idonei perché, mentre non ci estraniamo da questo sistema unitario generale, ci danno la possibilità di un libero movimento delle nostre energie, e ci dànno il coraggio, ci dànno la speranza, ci dànno la gioia di vivere la nostra vita, di vederla regolata, per quanto è possibile, da noi stessi.

Appunto perché c’è questa tendenza innegabile alla formazione delle grandi unità politico-territoriali, noi abbiamo la necessità di guardare ai mezzi che possono evitare i mali più gravi che derivano da questo fenomeno che nessuno può arrestare.

Onorevoli colleghi, non posso non dire una parola circa i pretesi mali che si dice verrebbero al Mezzogiorno d’Italia. È questo un problema che abbiamo riguardato da italiani. Ma è pur certo però che noi isolani, noi meridionali, siamo ben solleciti degli interessi della nostra terra. Di fronte pertanto all’obiezione che l’innovazione possa ferire gli interessi della nostra terra, noi siamo rimasti in un primo momento sgomenti. Io vi parlo sempre con onestà; io ho il dovere di parlare così.

Ma aggiungo anche che la prima impressione deve essere sempre sostituita dal ponderato ragionamento, da quello che è l’esame delle obiezioni e delle controbiezioni. Ebbene, egregi colleghi, il problema del Mezzogiorno si discute da decine d’anni: non è stato risolto.

Io non ho mai invelenito né mai dirò parola che possa acuire il contrasto. Mi limiterò qui a parlare a nome mio, assolutamente personale, come se fossi io solo ad aver sofferto della situazione. Ora io vi dico che leggi in favore del Mezzogiorno ci sono state, ma non sono state attuate, e la colpa è stata del potere centrale e nostra, anche nostra.

Perché? Vi dirò: due o tre mesi or sono, in una riunione per un’industria meridionale, di fronte all’esame della grave situazione, un nostro egregio collega, l’onorevole Cartia, ci venne a dire: «Ma come? Nel bilancio dello Stato c’è ancora un miliardo, o una frazione di esso, non attribuito, per sussidiare le industrie». Osservai io allora: «Ma come mai non è stata avanzata alcuna richiesta?». Vi fu qualcuno che rispose: «Quasi non lo si sapeva».

Ma questo avveniva anche, rammento, al tempo della mia giovinezza. Io ero allora segretario al Ministero della Giustizia. Nei paesi della mia provincia c’erano edifici di scuole elementari da far vergogna. Ebbene, i miei colleghi del Ministero della pubblica istruzione mi dicevano: «Provvederemo; il Ministero ha i fondi ed ha approntato anche i piani degli edifici». Ma gli edifici scolastici della mia provincia, almeno in molti paesi, sono ancora quelli che erano allora. Molti fatti consimili potrebbero citarsi per denotare le manchevolezze delle stesse amministrazioni locali.

Si è che il sistema dell’accentramento aveva talmente depresso le energie locali, che queste rimanevano talvolta inattive e finivano per non usufruire delle provvidenze legislative esistenti, aspettando tutto dall’alto. Ciò deve finire.

Vengo alla conclusione. Questa riforma metterà noi e i nostri rappresentanti nelle regioni con le spalle al muro (Applausi al centro e alla destra); questa riforma darà loro la responsabilità grave di dover esaminare i problemi concreti, di doverli affrontare e risolvere. E badate, qui si deve fare una osservazione di indole più generale. Eccola: noi rappresentanti del popolo in questa grande Assemblea, possiamo elaborare leggi buone o cattive, ma, quando la seduta è finita e la Assemblea è sciolta, nessuno ne ha la responsabilità personale, e il popolo impreca o mormora contro tutti in generale, contro l’istituzione. Ma un’Assemblea regionale, sia pure la più numerosa, è sempre composta da un numero limitato di persone. Quei rappresentanti non potranno sfuggire alle loro responsabilità; essi conoscono gli interessi del paese; essi possono osservare quotidianamente quali sono i mezzi migliori per risolvere i problemi, ma debbono assumere la responsabilità della soluzione. E se la soluzione è cattiva, essi, che restano a vivere nelle loro città o nei loro paesi, saranno riguardati dalla popolazione con ammirazione o con sfiducia, e sentiranno che la loro responsabilità è più profonda e più grave, ed assume un carattere più personale e continuativo; essi avranno sempre l’approvazione o la disapprovazione dei loro cittadini. Ci sarà veramente la gara per far bene e per impiegare nel modo più redditizio e adeguato le proprie energie.

Egregi colleghi, ho finito. Concludo con la stessa affermazione che ho fatto in principio: noi della Commissione abbiamo riguardato il problema dal punto di vista assolutamente nazionale, senza preoccupazioni particolaristiche, al di sopra degli stessi interessi regionali; e abbiamo configurato ed elaborato un progetto di riforma che, potenziando la Regione, secondo il nostro intendimento, deve servire a potenziare la Nazione in generale; deve servire a far confluire tutte queste energie, che spesso sono abbandonate e latenti, verso la risoluzione dei singoli problemi locali; perché dalla risoluzione di questi problemi verrà la soluzione del problema nazionale, e verrà la risurrezione e il progresso del Paese. Questo nostro Paese di lavoratori, malgrado il rovescio subito, ha diritto al rispetto del mondo e deve avere un ordinamento che sia degno della sua grandezza. (Vivissimi, prolungati applausi Moltissime congratulazioni).

PRESIDENTE. Onorevoli colleghi, si tratterebbe ora di passare alla votazione degli ordini del giorno, ma stante l’ora tarda ritengo che sia opportuno rinviare alla prossima seduta l’inizio di questo momento importante dei nostri lavori.

BOZZI. Chiedo di parlare.

PRESIDENTE. Ne ha facoltà.

BOZZI. Vorrei proporre all’Assemblea di iniziare la votazione degli ordini del giorno non domani, ma dopodomani, e ciò per guadagnare tempo, in certo senso, perché – come ella sa, onorevole Presidente, e come può attestare il Presidente del Comitato di redazione – sono in corso intese e scambi di punti di vista che, dopo la lucida e perspicua relazione dell’onorevole Ambrosini, si rendono quanto mai indispensabili, al fine di vedere se si può trovare una linea d’intesa. Il voto di un ordine del giorno di carattere pregiudiziale è influenzato dalla linea di intesa che si potrà raggiungere o no durante i contatti e gli scambi di vedute. Ora, quindi, credo che se l’Assemblea soprassedesse di un giorno si farebbe cosa utile per l’esame del sistema di norme che andiamo ad esaminare. Propongo quindi che l’inizio della votazione abbia luogo giovedì alle 10.

PRESIDENTE. Onorevole Bozzi, io non avevo ancor detto che la votazione si iniziasse domani! Mi permetta tuttavia, onorevole Bozzi, di dire ai colleghi che mezz’ora fa lei si sarebbe accontentato che non si votasse oggi, ma domani; avendo visto il mio atteggiamento favorevole a votare domani, ella ha ora raddoppiato la sua richiesta domandando di differire a giovedì. (Si ride). Comunque, penso che non sia necessario insistere su questo. Oggi nel pomeriggio decideremo, anche in relazione al grado di maturazione raggiunto dai contatti e dagli accordi che si stanno prendendo. Io sarei lieto se nel pomeriggio si potesse dire di procedere alla votazione domani.

La seduta termina alle 12.20.

LUNEDÌ 9 GIUGNO 1947

ASSEMBLEA COSTITUENTE

CXLII.

SEDUTA DI LUNEDÌ 9 GIUGNO 1947

PRESIDENZA DEL PRESIDENTE TERRACINI

INDICE

Congedo:

Presidente                                                                                                        

Costituzione del Gabinetto:

De Gasperi, Presidente del Consiglio dei Ministri                                                

Commemorazione dei fratelli Carlo e Nello Rosselli:

Calamandrei                                                                                                   

Cevolotto                                                                                                        

Giua                                                                                                                  

Maffi                                                                                                                

Macrelli                                                                                                          

Tumminelli                                                                                                       

Corbino                                                                                                            

Gronchi                                                                                                            

Fietta                                                                                                               

Einaudi                                                                                                             

Bergamini                                                                                                         

De Gasperi, Presidente del Consiglio dei Ministri                                                

Presidente                                                                                                        

Dichiarazioni del Governo:

De Gasperi, Presidente del Consiglio dei Ministri                                                

Presidente                                                                                                        

Sulla proroga dei poteri dell’Assemblea Costituente:

Benedetti                                                                                                         

De Gasperi, Presidente del Consiglio dei Ministri                                                

Presidente                                                                                                        

Lussu                                                                                                                

Giannini                                                                                                            

Macrelli                                                                                                          

Fabbri                                                                                                               

Tonello                                                                                                            

Persico                                                                                                             

Grassi, Ministro di grazia e giustizia                                                                   

Ruini, Presidente della Commissione per la Costituzione                                      

Corbino                                                                                                            

Interrogazioni (Annunzio):

Presidente                                                                                                        

La seduta comincia alle 16.

RICCIO, Segretario, legge il processo verbale della precedente seduta pomeridiana.

(È approvato).

Congedo.

PRESIDENTE. Comunico che ha chiesto congedo il deputato Pellizzari.

(È concesso).

Costituzione del Gabinetto.

DE GASPERI, Presidente del Consiglio dei Ministri. Comunico che il Capo provvisorio dello Stato, con decreti in data 31 maggio 1947, ha accettato le dimissioni che gli sono state da me presentate anche a nome dei colleghi Ministri Segretari di Stato ed ha, altresì, accettato le dimissioni dalla carica rassegnate dai Sottosegretari di Stato.

Con altro decreto pari data, il Capo provvisorio dello Stato mi ha incaricato di comporre il nuovo Ministero.

In relazione a tale incarico, con decreti del 31 maggio 1947, il Capo provvisorio dello Stato mi ha nominato Presidente del Consiglio dei Ministri, Primo Ministro Segretario di Stato e Ministro, ad interim, per l’Africa Italiana, e, su proposta del Presidente del Consiglio dei Ministri, ha nominato Ministri Segretari di Stato per:

le finanze ed il tesoro, con le funzioni di Vicepresidente del Consiglio dei Ministri: l’onorevole professore Einaudi Luigi, deputato all’Assemblea Costituente;

gli affari esteri; l’onorevole dottore Sforza Carlo, deputato all’Assemblea Costituente;

l’interno: l’onorevole avvocato Scelba Mario, deputato all’Assemblea Costituente;

la grazia e giustizia: l’onorevole professore avvocato Grassi Giuseppe, deputato all’Assemblea Costituente;

la difesa: l’onorevole professore dottore Cingolani Mario, deputato all’Assemblea Costituente;

la pubblica istruzione: l’onorevole professore Gonella Guido, deputato all’Assemblea Costituente;

i lavori pubblici: l’onorevole avvocato Tupini Umberto, deputato all’Assemblea Costituente;

l’agricoltura e le foreste: l’onorevole professore Segni Antonio, deputato all’Assemblea Costituente;

i trasporti: il dottore ingegnere professore Corbellini Guido;

le poste e le telecomunicazioni: l’onorevole avvocato Merlin Umberto, deputato all’Assemblea Costituente;

l’industria ed il commercio: l’onorevole professore Togni Giuseppe, deputato all’Assemblea Costituente;

il lavoro e la previdenza sociale: l’onorevole professore Fanfani Amintore, deputato all’Assemblea Costituente;

il commercio con l’estero: il dottore Merzagora Cesare;

la marina mercantile: l’onorevole avvocato Cappa Paolo, deputato all’Assemblea Costituente.

Con altro decreto in data 31 maggio 1947, il Capo provvisorio dello Stato ha incaricato di reggere per interim il Ministero del commercio con l’estero l’onorevole professore Togni Giuseppe, Ministro dell’industria e del commercio, durante la temporanea assenza del dottor Merzagora Cesare.

Con decreto, poi, del Capo provvisorio dello Stato, in data 4 giugno 1947, sono stati ricostituiti il Ministero delle finanze ed il Ministero del tesoro, e con decreto legislativo in data 4 giugno 1947 si è provveduto alla istituzione del Ministero del bilancio e ne sono state determinate le attribuzioni.

Conseguentemente il Capo provvisorio dello Stato, con decreto 6 giugno 1947 ha, su proposta del Presidente del Consiglio dei Ministri, nominato il Vicepresidente del Consiglio dei Ministri, onorevole professore Einaudi Luigi, Ministro Segretario di Stato per il bilancio; l’onorevole professore dottore Pella Giuseppe Ministro Segretario di Stato per le finanze ed il professore Del Vecchio Gustavo Ministro Segretario di Stato per il tesoro.

Con decreti in data 4 giugno 1947, sentito il Consiglio dei Ministri, sono stati nominati Sottosegretari di Stato per:

la Presidenza del Consiglio dei Ministri, con le funzioni di Segretario del Consiglio stesso: l’onorevole dottore: Andreotti Giulio, deputato all’Assemblea Costituente;

la Presidenza del Consiglio dei Ministri (assistenza ai reduci e partigiani): il professore Martino Edoardo Angelo;

gli affari esteri: l’onorevole avvocato Brusasca Giuseppe, deputato all’Assemblea Costituente;

l’interno: l’onorevole avvocato Marazza Achille, deputato all’Assemblea Costituente;

il tesoro: l’onorevole avvocato Petrilli Raffaele Pio, deputato all’Assemblea Costituente;

i trasporti: l’onorevole professore avvocato Jervolino Angelo Raffaele, deputato all’Assemblea Costituente;

la difesa: l’onorevole generale dottor Chatrian Luigi.

Infine, con decreto del Capo provvisorio dello Stato, in data 4 giugno 1947, su proposta del Presidente del Consiglio dei Ministri, il dottor professore Ronchi Vittorio è stato nominato Alto Commissario per l’alimentazione, in sostituzione dell’onorevole Cerreti Giulio.

Commemorazione dei fratelli Carlo e Nello Rosselli.

CALAMANDREI. Chiedo di parlare.

PRESIDENTE. Ne ha facoltà.

CALAMANDREI. Signor Presidente, onorevoli colleghi, all’inizio d’una seduta piena di attesa e di tensione può sembrare inopportuno e indiscreto che io vi chieda cinque minuti per ricordare un argomento che non ha immediata attinenza con l’evento parlamentare che qui ci aduna. Ma forse il tema è meno lontano di quel che sembri dalle ragioni profonde del nostro lavoro. Ed io penso che mancherei ad un dovere, non solo di amicizia e di fedeltà personale, ma anche di coscienza e di riconoscenza nazionale, se oggi, 9 giugno 1947, non ricordassi a questa Camera che 10 anni fa, il 9 giugno 1937, forse in questa stessa ora in cui io vi parlo, furono assassinati in Francia, a Bagnoles-de-l’Orne, due italiani: Carlo e Nello Rosselli.

Noi li ricordiamo in questo primo decennale, non per imprecare contro i loro assassini. Non vogliamo pensare deturpati dalle ferite e dalla morte i loro volti. Vogliamo ricordarli sereni e sorridenti, pieni di fierezza ma incapaci di odio, quali furono sempre in vita. E le ombre dei sicari e dei loro sinistri mandanti le disperda il vento!

E neanche li ricordiamo per fare di loro una celebrazione occasionale, come si fa con le grandi figure del passato ormai rimaste dietro di noi nella storia.

I Rosselli non sono ancora passati alla storia, il loro lavoro non è concluso, la loro giornata non è finita. Non sono ancora rimasti alle nostre spalle in modo che per vederli ci si debba volgere indietro; ma sono ancora più avanti di noi e ci indicano con gesto fraterno la via del lavoro di domani.

No, noi li ricordiamo unicamente per trarre da essi ispirazione e conforto, per avere da loro la conferma che non s’è spenta mai, neanche nel funesto ventennio, questa vocazione italiana di valore universale, per la quale in ogni tempo sono partite dai nostri pensatori e dai nostri uomini d’azione quelle grandi idee, quelle grandi correnti di giustizia e di redenzione umana che poi hanno viaggiato nel mondo e segnato il cammino della civiltà per tutti i popoli.

Questi due fratelli, che fin da giovanetti rinunciarono consapevolmente alla ricchezza e alla comodità degli studi per dedicare tutte le loro forze e il patrimonio e la vita a combattere per la giustizia e per la libertà, furono per diverse vie, che alla fine si ricongiunsero nel sacrificio, i due rappresentanti tipici di due aspetti dell’Italia antifascista: Carlo del fuoruscitismo che combatté a viso aperto dal di fuori, Nello dell’antifascismo clandestino che rimase in Italia a preparare la riscossa dal di dentro. Ed il loro programma comune fu tutto in quel motto che fu trovato da Carlo nel ’25 in una casa di Via Giusti in Firenze ove ieri fu posto un ricordo marmoreo: «Non mollare!» Non mollare; non transigere, non indulgere, non scoraggiarsi, non rassegnarsi. Da allora questa intransigenza morale, prima verso sé stessi che verso gli altri, questa coerenza serena del pensiero con l’azione fu per tutti e due, come per Mazzini, regola mai tradita di vita. Quella spietata critica fatta da Carlo al vecchio liberalismo di maniera e insieme al vecchio marxismo di scuola, quello sforzo di capire il fascismo non come episodica e transitoria degenerazione di un regime sano, ma come sintomo rivelatore del disfacimento di tutta una società minata irrimediabilmente nelle basi economiche, quella sua intuizione del fermento di libertà che è nel socialismo, quel generoso proposito di vivificarlo e rinnovarlo con spirito di idealismo e di volontarismo, tutto questo sarebbe rimasto nel campo delle inutili teorie, se le teorie non fossero state testimoniate giorno per giorno dall’azione, dal sacrificio, dalla morte. «Non mollare!». Confino, prigionia, esilii per tutti e due; il romanzesco espatrio di Turati, la prodigiosa fuga da Lipari, il processo di Savona, il processo di Bellinzona; il movimento di Giustizia e Libertà; la guerra di Spagna; e poi l’imboscata e l’assassinio. In questa Camera, in diversi settori, seggono i compagni ed i testimoni (e il Presidente di questa Assemblea è uno di essi) di quelle prigionie, di quegli esilii, di quelle imprese che sembrano già oggi leggendarie; essi sanno che i motti di «socialismo liberale» e di «Giustizia e libertà» che oggi sembrano luoghi comuni a disposizione di tutti i comizianti, costarono allora, quando furono da loro indelebilmente impressi nella storia della nostra redenzione, persecuzioni, agguati, torture, galere e sangue.

Da Carlo Rosselli esule vennero in quegli anni, attraverso la stampa clandestina e la radio, quelle parole presaghe, che a rileggerle oggi hanno il misterioso fascino delle previsioni. Ricordate: nel 1933, appena Hitler si fu impadronito del potere, il monito, che le democrazie non seppero raccogliere: «la guerra viene; la guerra verrà»… È poi nel ’36, quella voce italiana che annunciava dalla radio di Barcellona: «Oggi in Spagna, domani in Italia».

Prima che il vaticinio si compiesse, i Rosselli furono assassinati. Ma quando spuntò l’alba, si videro al loro posto, nei monti e nelle pianure d’Italia, mille e mille giovinetti con il loro stesso volto: accanto alle brigate Garibaldi ed alle brigate Matteotti, le brigate che sulla fiamma portavano scritto: «Giustizia e Libertà», si chiamarono «Brigate Rosselli».

Rosselli, Gobetti, Gramsci, triade giovanile che ha salvato per venti anni la continuità del pensiero italiano nel mondo; diverse ideologie, ma una comune ispirazione morale; diverse soluzioni, ma lo stesso problema, lo stesso impegno, la stessa dedizione, la stessa religione.

Attraverso figure come queste l’avvenire dell’Europa e del mondo, che sarà socialista e internazionale, si ricongiunge colle tradizioni più alte e più umane del nostro risorgimento, liberale e nazionale. I fratelli Bandiera, i fratelli Ruffini, i fratelli Cairoli; e poi, nell’altra guerra, i fratelli Garroni, i fratelli Stuparich; e così continua nel sacrificio dei fratelli Rosselli questa tradizione luminosa di gentile eroismo fraterno, che segna e distingue la nostra storia.

Permettetemi, onorevoli colleghi, che io mandi da qui un pensiero di riverenza alla loro mamma, alla signora Amelia Rosselli.

Ella ebbe tre figli: il primo cadde nel 1916 sul Pal Piccolo, tenente degli alpini; gli altri due caddero dieci anni fa in Francia; ma tutti e tre per la stessa causa, per fare l’Italia libera e giusta.

Nella nostra povertà di popolo, non dimentichiamo che queste sono ricchezze, che nessuno può toglierci; questo rinnovarsi di esempi, questa mai interrotta capacità di sacrificio per un’idea generosa ed umana. Non rammarichiamoci della nostra povertà; mentre l’oro tenta di ricattare la nostra libertà, ritroviamo in questi morti la ragione indistruttibile per difendere la nostra indipendenza e la nostra dignità di popolo libero e giusto. (Vivissimi generali applausi).

CEVOLOTTO. Chiedo di parlare.

PRESIDENTE. Ne ha facoltà.

CEVOLOTTO. A nome del mio gruppo, mi associo al commosso ricordo dei fratelli Carlo e Nello Rosselli, assassinati 10 anni fa in Francia per ordine del governo fascista.

Il sacrificio di questi giovani, che tutto diedero alla Patria, all’idea, sacrificando una posizione economica favorevole, rinunziando alla cattedra, rinunziando agli agi ed all’affetto delle loro famiglie, appena formate, dimostra come nella nostra gioventù fosse anche allora fiero, forte il sentimento del dovere verso la Patria, per resistere, in nome della libertà, al governo che ci opprimeva.

Il ricordo di questo sacrificio è in noi e ci animerà anche in seguito, per resistere a qualunque tentativo, da qualunque parte venisse, per sacrificare questa nostra repubblica, che è nata e che resta per la libertà del popolo italiano (Applausi).

GIUA. Chiedo di parlare.

PRESIDENTE. Ne ha facoltà.

GIUA. Il gruppo parlamentare socialista si associa alla commemorazione di Carlo e di Nello Rosselli.

Il sacrificio di Carlo Rosselli è la conseguenza diretta della vita spesa da questo giovane socialista nella lotta contro il fascismo.

Carlo Rosselli fu veramente un socialista. Io lo ricordo direttore di «Quarto Stato» insieme al nostro compagno Nenni ed al compagno Basso. Ma io lo ricordo anche a Parigi, nel 1933, e alcuni amici si ricordano di quella riunione in casa di Carlo Rosselli e la discussione sulla possibilità di eliminare fisicamente il capo del fascismo. E ricordo anche il consiglio d’un socialista, il quale disse che ormai il popolo italiano era stanco di tentativi, che non raggiungevano il risultato positivo.

E ricordo anche le osservazioni di Carlo Rosselli e degli altri; i quali dissero che l’emigrazione italiana era povera e che non era possibile fare diversamente.

È un problema questo impostato da Carlo Rosselli, che non è il problema, onorevole De Gasperi, di ordinaria delinquenza; è un problema politico mazziniano che io vorrei fosse ricordato da tutti coloro che da quei banchi avessero intenzione di attentare alla libertà e alla democrazia del popolo italiano. (Applausi a sinistra).

Ma Carlo Rosselli rappresentava ancora qualche altra cosa: Carlo Rosselli rappresentava lo spirito socialista e lo spirito antifascista nello stesso tempo. Il fascismo ha stroncato fisicamente i fratelli Rosselli. Il socialismo ricorda Carlo Rosselli e mette questo nome accanto a quello del nostro grande martire, perché vede, dal sacrificio di Giacomo Matteotti a quello di Carlo Rosselli e di tanti e tanti altri socialisti, una continuità spirituale, che non è sola emancipazione politica, ma che è anche emancipazione economica e sociale del popolo italiano. (Applausi).

MAFFI. Chiedo di parlare.

PRESIDENTE. Ne ha facoltà.

MAFFI. Il gruppo comunista si associa alla nobile commemorazione dei fratelli Rosselli. Essi sono vivi più che mai oggi nel cuore di tutti coloro che hanno non solo una fede, ma una coscienza, una conoscenza di ciò che è il periodo storico che sta svolgendosi, periodo storico pieno di pericoli, di nostalgie delittuose. È in noi vivo il ricordo di questi veri eroi, di questi veri martiri, ricordo che viene da tutti i luoghi di esilio, da tutte le isole di confino, da tutte le carceri, da tutti i luoghi di tortura, ricordo che viene come un monito, poiché coloro che hanno creduto, sopprimendo i fratelli Rosselli di spegnere l’idea della libertà e di rivendicazione dei diritti dei lavoratori, hanno commesso il più grande errore. I fratelli Rosselli sono vivi in noi in questo momento in cui si cerca di seminare discredito, diffidenza, disfattismo nel popolo italiano, che ha diritto a risorgere. (Applausi).

MACRELLI. Chiedo di parlare.

PRESIDENTE. Ne ha facoltà.

MACRELLI. Onorevoli colleghi, la commemorazione di Nello e Carlo Rosselli assume oggi un significato speciale, perché coincide quasi col primo anniversario della proclamazione di quella Repubblica italiana per la quale essi lottarono affrontando anche il supremo sacrificio.

La loro vita, soprattutto nelle ore buie e dure della storia d’Italia, fu una continua battaglia per quegli ideali di libertà politica, di libertà umana, di giustizia sociale, che noi, rappresentanti del popolo, abbiamo consacrato ormai nella Carta costituzionale della Repubblica.

Il gruppo repubblicano ed il mio partito si associano all’alta ideale rievocazione che in questa ora solenne di raccoglimento accomuna tutti quanti i caduti per la nuova Italia, noti ed ignoti, e per ciascuno dei quali oggi possiamo ripetere la strofa dettata dal grande poeta di nostra gente:

È della storia…

Della civile storia d’Italia

è quest’audacia tenace…

che posa nel giusto ed a l’alto

mira e s’irradia nell’ideale.

(Applausi).

TUMMINELLI. Chiedo di parlare.

PRESIDENTE. Ne ha facoltà.

TUMMINELLI. A nome del gruppo qualunquista mi associo alle nobili parole dell’onorevole Calamandrei per la commemorazione dei fratelli Rosselli. La violenza contro gli uomini che sono vessilliferi di una idea non può far morire le idee e perciò la nostra adesione trascende il fatto puramente formale per esaltare nei fratelli Rosselli l’idea ed i cavalieri dell’idea che essi rappresentano. (Applausi).

CORBINO. Chiedo di parlare.

PRESIDENTE. Ne ha facoltà.

CORBINO. A nome del gruppo parlamentare liberale mi associo a quanto è stato testé detto per Carlo e Nello Rosselli, coi quali ebbi la ventura di collaborare nella lotta contro il fascismo in quel periodo in cui una lotta aperta fu possibile ancora in Italia. I due giovani, animati dall’ideale della libertà, dalla fiamma della libertà, sostenuti da quanti intorno a loro condividevano lo stesso ideale, ed erano arsi dalla stessa fiamma, hanno spinto la loro azione fino al sacrificio, dandoci così ancora un esempio delle rinunce massime a cui uomini e popoli che tengono alla libertà devono essere pronti in qualsiasi momento. Carlo e Nello Rosselli, dunque, sono nostri nel senso che sono di tutti gli italiani che desiderano una Italia libera, con cittadini liberi. (Applausi).

GRONCHI. Chiedo di parlare.

PRESIDENTE. Ne ha facoltà.

GRONCHI. Non può mancare la nostra piena, sincera adesione di omaggio alla memoria dei fratelli Rosselli. Chi vi parla, non essendo più fra i giovani di questa Assemblea, ricorda direttamente quanto nobile, coraggioso, alto fu l’apostolato di questi uomini che credettero nella libertà, quando il credervi rappresentava anche il rischio supremo della vita. Ed i giovani succeduti a noi forse difficilmente comprendono che cosa fosse questo apostolato, perché assai difficilmente valutano come tremenda fosse la difficoltà di difendere la libertà quando lo spirito della libertà era spento non solo nelle classi dirigenti del nostro Paese, ma era anche ottuso ed offuscato negli strati più umili. Essi credettero nella libertà, e per la libertà testimoniarono col sacrificio supremo. E questo gruppo, e questo movimento, che rimane assertore e custode di libertà, si inchina a questi esempi di devozione ad una idea di una più alta umanità. (Applausi).

FIETTA. Chiedo di parlare.

PRESIDENTE. Ne ha facoltà.

FIETTA. Onorevoli colleghi, non per aggiungere parole alla nobile ed elevata eloquenza dell’onorevole Calamandrei ed a quanto dissero gli altri colleghi che si sono uniti nella commemorazione, ma per associarmi a nome del mio gruppo, dico una parola in memoria dei fratelli Rosselli. Vorrei rievocare un episodio a cui ho personalmente partecipato nei momenti più difficili della oppressione. Nella casa ospitale di via Borghetto in Milano si poterono radunare nel lontano 1926 oltre 150 uomini, tutti decisi alla grande lotta; nella casa di quei due giovani, che erano gli antesignani e che avevano posto a disposizione della lotta per la resistenza e per la libertà tutto ciò che essi possedevano oltre il coraggio, lo spirito di intraprendenza e l’ingegno. Ed anche consentitemi di dirvi come, qualche anno dopo, quando mi fu possibile andare in terra di Francia, il mio primo omaggio sia stato quello di portare un fiore sulle ceneri vigilato dei Rosselli.

Oggi è per me grande ventura, onorevoli colleghi, rendere in quest’Aula omaggio alla loro memoria; omaggio in nome del popolo italiano che anche dal sacrificio dei Rosselli ebbe la sua libertà, la quale mi auguro gli sia sempre conservata. (Applausi).

EINAUDI. Chiedo di parlare.

PRESIDENTE. Ne ha facoltà.

EINAUDI. Consentite, onorevoli colleghi, che io mandi alla memoria di Carlo Rosselli il saluto di chi ha avuto con lui lunga consuetudine di studio e di discussione, io insegnante, lui mio assistente nell’Istituto di economia dell’Università Bocconi di Milano. In quell’epoca, come ancora dopo, il tormento ideale della sua vita, era di cercare la conciliazione e la sintesi tra il socialismo e la libertà.

Quelle erano discussioni feconde in cui noi convenivamo i nostri giovani allievi dell’Università di Milano. Ed il ricordo di quei giorni che mi torna dinanzi alla mente mi fa augurare che quei problemi che ci assillavano allora ed ancora ci assillano tuttavia siano, grazie alla sua memoria, fecondi di nobili risultati e di una sintesi necessaria ed utile per l’avvenire del nostro Paese. (Applausi).

BERGAMINI. Chiedo di parlare.

PRESIDENTE. Ne ha facoltà.

BERGAMINI. Anche da questi banchi, anzi da questo banco, si leva una parola reverente e affettuosa per la memoria dei fratelli Rosselli, giacché, dinanzi al loro fulgido sacrificio, non vi sono divisioni di partito e contrasti di opinioni, ma siamo tutti uniti in un sincero sentimento di ammirazione e di pietà. E siamo concordi nel trarre dallo olocausto dei fratelli Rosselli forza e fede per un’Italia migliore di quella oppressa, mortificata, dolorante dei venti anni, un’Italia dove le forme selvagge e sanguinose delle competizioni politiche siano ripudiate perché disonorano un Paese, perché offendono la civiltà e l’umanità. (Applausi).

DE GASPERI, Presidente del Consiglio dei Ministri. Chiedo di parlare.

PRESIDENTE. Ne ha facoltà.

DE GASPERI, Presidente del Consiglio dei Ministri. Il Governo, che ha pregato l’onorevole Cianca di rappresentarlo alla solenne commemorazione dei due fratelli Rosselli a Parigi, si unisce anche alle parole celebrative pronunciate qui per le due vittime della libertà politica, e aderisce all’auspicio che tutti ci uniamo nel culto e nella difesa della libertà politica e della giustizia sociale. (Vivi applausi).

PRESIDENTE. (Si leva in piedi e con lui si levano in piedi tutti i componenti del Governo, i deputati e il pubblico delle tribune). Questa Assemblea Costituente, che per prima ha dato voce al pensiero ed ai sentimenti popolari sciolti dai ceppi della dittatura, ha già solennemente celebrato nell’Aula la memoria di molti che furono membri del Parlamento italiano e che, avendolo con l’opera loro onorato, caddero nella lotta contro il fascismo e contro il tedesco.

L’età giovanile ed il rapido declino delle nostre libere istituzioni tolsero ai fratelli Rosselli di poter assurgere alla dignità di legislatori. Ma di altra dignità, luminosa ed imperitura, essi hanno circonfuso il loro nome, fattisi ambasciatori all’estero della nostra certezza di resurrezione politica e di liberazione sociale per propria elezione e con tacita delega di quanti, in Italia, ancora conservavano altezza e nobiltà di spiriti.

Dignità per dignità, il fascismo non perdonava però a nessuno che una ne rivestisse, per servire la causa del bene popolare. E non perdonò ai fratelli Rosselli, contro i quali giunse ad armare in terra straniera mani omicide. Ma il sangue dei fratelli Rosselli, se anche versato lontano dall’Italia, fecondò potentemente le virtù italiane; e tutti, da subito, avvertirono che il loro sacrificio era incitamento a perseverare nell’impresa cui essi avevano dato sin dall’inizio adesione contro la dittatura.

Così i fratelli Rosselli si sono acquistati titolo a riconoscenza riverente non solo di fronte al nostro popolo, ma anche di fronte all’Assemblea Costituente la quale, gettando i primi fondamenti dello Stato repubblicano, sa di placare un’attesa fervida che fu anche la loro. E pertanto, dopo le parole pronunciate da ogni parte dell’Assemblea, posso ben dichiarare che nel ricordo della loro morte eroica e pietosa si raccoglie la riverenza di tutti i rappresentanti del popolo italiano, che saprà custodirne gelosamente il lascito prezioso di civili e umane virtù. (Vivissimi generali applausi).

Dichiarazioni del Governo.

PRESIDENTE. Ha chiesto di parlare l’onorevole Presidente del Consiglio dei Ministri. Ne ha facoltà.

DE GASPERI, Presidente del Consiglio dei Ministri. (Segni di viva attenzione). Onorevoli colleghi, presentandomi dinanzi all’Assemblea con un nuovo Governo e dopo tante accese polemiche che hanno investito anche me personalmente (Commenti a sinistra), non pretendo da voi nessun pregiudizio favorevole alla mia persona che si riferisca al passato, né in nome delle battaglie in questa stessa sede del Parlamento combattute per la libertà politica e per la dignità e sovranità della Rappresentanza popolare, né per la lunga resistenza alla dittatura, né per la cordiale collaborazione fra i partiti antifascisti nel periodo cospirativo, e nemmeno per l’opera triennale che da Salerno a Roma abbiamo svolto assieme a tanti uomini e partiti della democrazia rappresentati nei Comitati di liberazione, nell’Assemblea consultiva e poi in questa Costituente, uscita dal suffragio popolare del 2 giugno. Questi riferimenti appartengono alla storia e non all’apologetica odierna, e voi avete diritto di giudicare sui propositi e sugli uomini come si presentano oggi. Tuttavia forse tali riferimenti, se non in mio favore personale, possono essere invocati innanzi al Paese, in favore della democrazia e in favore di questa Repubblica (Applausi al centro) che, dopo un anno di consolidamento, abbiamo testé celebrata riuniti attorno al suo illustre e benemerito Capo (Vivissimi applausi), come il regime permanente e definitivo della nuova democrazia italiana, che non può e non deve essere messo in discussione per mutamenti di Governi e di maggioranze.

Colleghi, al di sopra delle nostre differenze momentanee, constatiamo innanzi al mondo che l’unità nazionale va rifacendosi sotto la bandiera repubblicana, che le forze più solide del Paese, le tradizioni più nobili, militari e civili, confluiscono e concorrono lealmente al servizio della Repubblica italiana; noi rientriamo nella vita internazionale con un’Italia unita; il nostro stesso spasimo della rinascita e della ricostruzione, pur negli accesi dibattiti, e ci avvicina e ci riunisce, e ne è esempio il Congresso sindacale di Firenze, chiusosi dopo immenso travaglio con un’affermazione unitaria.

Giudicate, come volete, la crisi che abbiamo attraversata, ma essa è venuta, per quanto mi riguarda personalmente, da questo sforzo, da questa passione unitaria che anima tutto il Paese, alla quale unità (Commenti Vivi applausi al centro Interruzioni all’estrema sinistra) e concordia esso chiede la salvezza e attinge la fede nel suo avvenire.

Ho collaborato con lealtà con i miei colleghi dei passati Ministeri, ed essi allo sforzo comune dedicarono ingegno e fatica in modo degno di riconoscimento e un accordo era stato possibile su linee programmatiche e d’azione immediata; e purtuttavia ho avuto la sensazione che esigenze psicologiche e politiche richiedessero una collaborazione più ampia (Commenti), che fosse di tregua generale e di raccolta di tutte le forze su di un programma di salvezza. (Interruzioni Commenti all’estrema sinistra). Un giorno, in seguito ad accurato esame della situazione economico-finanziaria e a segni concreti di sfiducia, ho creduto di vedere il fondo dell’abisso dell’inflazione, abisso che hanno già toccato Nazioni a noi non lontane. Come riacquistare la fiducia all’interno e all’estero? Da questa domanda è nata la crisi, ma non da questa sola; altre cause e occasioni ne hanno determinato lo scoppio ed il corso. Personalmente non ho cercato questa quarta responsabilità, speravo che la concordia venisse raggiunta sotto direzione diversa. Non entriamo per ora in particolari.

Affermo solo che questo Ministero serve la stessa causa della solidarietà nazionale, e anche se non può rappresentare visibilmente l’unità ricercata, la vuole rappresentare nella risultante dei suoi sforzi lungo una linea mediana fra le ali opposte.

Il Ministero è un atto di fiducia verso l’Assemblea, perché non solo esso si sottopone al suo giudizio (Commenti all’estrema sinistra), ma è disposto, in quanto l’Assemblea lo consenta, a facilitare in tutti i modi il compimento dell’alto dovere, comune a tutti noi, di assicurare rapidamente alla Repubblica le sue permanenti istituzioni rappresentative. A tal uopo il Governo, sempre interpretando i propositi della Assemblea, presenterà un disegno di legge in base alla richiesta e alle indicazioni della vostra Presidenza, e concorrerà, in quella forma e misura che sarà desiderata, a facilitare la sollecita deliberazione della legge elettorale per le due Camere.

A proposito del tenore del progetto elettorale, ora innanzi alla Commissione, va osservato che esso non si può considerare come un progetto impegnativo per il Governo in tutti i suoi elementi.

La questione, ad esempio, dell’utilizzazione dei resti o di altri particolari di struttura, non vincola il Governo e i partiti che intendono sostenerlo. Tutto quello che accelera le elezioni e le rende possibili e attuabili in autunno, rientra nelle intenzioni del Governo, il quale farà tutto il possibile perché si affretti la consultazione popolare.

Il Governo intende con ciò rimettere al verdetto del popolo tutto quello che ci divide come ideologia e come partito, tutto ciò che appartiene ad un programma d’azione non urgente, ma di lunga lena e che ha bisogno per riuscire a compimento del voto e della collaborazione delle Camere.

Il Governo d’oggi rappresenta uno sforzo di collaborazione per i problemi d’urgente soluzione e per la preparazione tecnica necessaria alla soluzione dei problemi di domani.

Se economisti come Einaudi e Del Vecchio hanno dato il loro consenso a collaborare in questo Ministero, vuol dire che, da uomini di coscienza e di merito, hanno sentito che li invitavo a servire non un partito, ma il Paese. (Vivi applausi al centro e a destra).

Ed ecco a spiegarvi il nostro impegno di Governo che mal si giudicherebbe dal punto di vista della topografia parlamentare o delle ideologie di scuola o di partito.

Ho sostenuto anche nei colloqui durante la crisi che in questo momento esiste un programma comune, un binario obbligato, una procedura di emergenza, che s’impone a chiunque voglia salvarci. (Interruzioni all’estrema sinistra).

Ve ne do la prova dichiarando che il nuovo Ministero assume senz’altro la responsabilità dei provvedimenti finanziari a voi sottoposti dal cessato Governo o da esso direttamente promulgati (comprese le imposte sugli utili di congiuntura, sui consumi voluttuari e sui titoli azionari) e in modo particolare fa suo il progetto dell’imposta straordinaria patrimoniale, sulla quale è pronto ad accettare le deliberazioni o i suggerimenti della Commissione di finanza e di codesta Assemblea.

La patrimoniale costituisce un contributo necessario delle classi abbienti alle spese di guerra.

Queste imposte e tasse rappresentano complessivamente per l’anno finanziario un peso ulteriore sui contribuenti di 200 miliardi.

Come è noto, il Ministero precedente nella seduta conclusiva di una lunga tornata del 4 aprile accoglieva un programma economico di 14 punti, elaborato in parte sulla base di proposte presentate dall’onorevole Morandi. Alcuni di questi punti sono già trasfusi in decreti o disegni di legge presentati all’Assemblea. Il Governo attuale accetta questi punti già codificati e si propone di attuare gli altri sulla base della stessa direttiva che il Consiglio dei Ministri antecedente del 4 aprile così formulava. (Commenti all’estrema sinistra).

Il Governo svolgerà l’azione più strenua per la difesa della lira secondo queste fondamentali direttive:

risanamento progressivo del bilancio;

contenimento massimo degli aumenti che più direttamente incidono sul costo della vita;

compressione dei consumi non essenziali e stroncamento della speculazione;

disciplina razionale degli scambi, degli investimenti e del credito;

potenziamento della produzione mediante un maggiore rifornimento delle materie prime essenziali ed una rigorosa graduazione delle spese pubbliche, secondo il criterio della massima produttività economica.

Non vi è dunque, per quanto riguarda l’azione immediata e di emergenza, né per la direttiva di marcia, una soluzione di continuità; vi è invece una concentrazione degli sforzi su precisi punti d’attacco.

Tutto si tiene nel meccanismo economico e non è possibile agire su un punto senza determinare mutamenti vasti e talora profondi in tutti gli altri punti della struttura economica del Paese. Ora, è possibile che un Governo nelle condizioni di incipiente riorganizzazione in cui si trova il Paese tenti di operare contemporaneamente su tutti i punti, in modo che la manovra agisca, con effetti concentrici?

Bisognerebbe possedere, sin d’ora, organi perfetti di rilevazione statistica; organi di deliberazione di enti competenti affiatati fra loro ed organi di attuazione immediata ed elastica che noi non abbiamo mai posseduto e che tanto meno possediamo ora, usciti appena dallo sconquasso della guerra, organi che ora appena si stanno faticosamente, e non sempre con successo, assicurando in Paesi meglio organizzati e disciplinabili del nostro. Bisogna prepararli ed organizzarli questi organi che servono ad un’azione coordinata e programmata. Perciò accanto al Comitato interministeriale per la ricostruzione ci proponiamo di attuare il Consiglio economico consultivo, già proposto nelle ultime sedute del cessato Governo, la cui direzione effettiva sarà affidata ad un uomo esperto non assorbito da cure ministeriali; perciò tutto quello che riguarda prestiti esteri verrà preparato e coordinato sotto la cura dell’ex Ministro del tesoro e infine, al medesimo scopo, il Comitato dei prezzi verrà riorganizzato nel suo organo centrale e nei suoi strumenti periferici. Il Consiglio consultivo economico abbraccerà tutte le organizzazioni dell’economia e del lavoro allo scopo di farne un organo di solidarietà nazionale. Così ci prepareremo per il momento in cui potremo affrontare i problemi con una visione ed un’azione integrale.

Ma intanto bisogna agire subito, scegliendo immediatamente i punti d’attacco. Il nemico più pericoloso è l’inflazione ed il punto più dolente quello monetario.

Il Governo non vuol dire con ciò che la lira sia alla radice di tutto, e che esistano rimedi taumaturgici atti a sanare sicuramente e rapidamente i mali infiniti i quali derivano dalla svalutazione della lira. Si dice solo che, «puntando sulla lira, la soluzione degli altri problemi sarà meno ardua».

Se si riuscisse, anche solo nei pochi mesi che ci separano dalle elezioni generali, a raggiungere lo scopo di rendere meno ardua al Governo, il quale sarà designato dalla volontà popolare, la soluzione di tanti problemi i quali angustiano ed angustieranno per lungo tempo ancora il nostro Paese, noi riterremmo di non essere venuti meno in tutto all’adempimento del nostro dovere.

Sinora il fabbisogno della Tesoreria è stato fronteggiato con la disponibilità di cassa, che dopo la emissione del Prestito di ricostruzione ammontava al 31 gennaio scorso a lire 31 miliardi, con i normali mezzi di Tesoreria e con una mobilitazione di vari crediti dello Stato, senza aumentare le anticipazioni straordinarie della Banca d’Italia al Tesoro. Sulla via della mobilitazione dei crediti dello Stato si dovrà proseguire alacremente, e giova sperare che per tal modo il conto corrente del Tesoro continui a chiudersi con un saldo attivo e non dia luogo, perciò, ad aumenti della circolazione.

Ma qui il nostro Vicepresidente, con la sua autorità indiscussa, ci ha fatto rilevare che quel che importa non è di fermare la circolazione su una cifra precisa, quanto di ristabilire un equilibrio fra circolazione e prezzi, che non sia spinto all’insù da forze estranee. Bisogna agire su tali cause fra le quali la prima si sostanzia nei continui bisogni della Cassa dello Stato.

Questo è il fatto essenziale il quale ci ha persuasi della necessità propostaci dall’onorevole Einaudi di ricorrere all’espediente tutto affatto temporaneo della creazione del nuovo Ministero del bilancio. Rimanendo invariata l’attribuzione dei due Ministeri delle finanze e del tesoro, riconosciuta la necessità assoluta di non perdere un tempo prezioso col modificare con attriti imprevedibili l’organizzazione ed il funzionamento degli organi ministeriali e l’applicazione delle leggi relative all’amministrazione del patrimonio ed alla contabilità generale dello Stato, il Ministro del bilancio, aiutato da pochi uomini tratti dalle altre amministrazioni statali, eserciterà un controllo generale sulla spesa e sull’entrata pubblica. Senza il suo consenso preventivo non potranno essere presentati i disegni di legge di approvazione dei bilanci preventivi e dei rendiconti consuntivi. Le leggi le quali importino impegno di spese ordinarie di carattere generale a carico di bilanci di più Ministeri dovranno essere proposte di concerto con lui, e così pure sarà necessario concertarsi col Ministro del bilancio prima di assumere impegni di spese straordinarie, quando l’importo da autorizzare sia superiore ad un miliardo di lire. Il Ministro del bilancio potrà, inoltre, prendere ogni altra iniziativa diretta a promuovere dai Ministri competenti i provvedimenti intesi a controllare e a incrementare, anche mediante l’istituzione di nuove fonti, il gettito delle entrate, nonché a regolare e a contenere gli impegni e le erogazioni delle spese.

Naturalmente, con la nuova istituzione non ci si propone di conseguire il risultato che da un lato sarebbe assurdo e dall’altro sarebbe contrario al fine della ricostruzione di ricoprire colle imposte tutte indistintamente le spese, anche quelle in conto capitale, anche le spese, ad esempio, di ricostruzione delle ferrovie o di lavori pubblici necessari e produttivi, che sono destinate ad incremento del patrimonio dello Stato. Si dovrà continuare a ricorrere al credito, purché si tratti di credito fornito da risparmio sia nazionale, sia estero.

Ma questa energica autodisciplina che ci imponiamo, noi, Amministrazione dello Stato, sarà un esempio al Paese che ha tanto bisogno di disciplina, perché gli interessi particolari non soverchino quelli della comunità e tutti siano coordinati al bene comune.

Sarà soprattutto per l’istituzione stessa e per merito dell’illustre uomo che la dirige, un elemento di fiducia.

In base alla relazione Campilli, alla fine di aprile, la situazione del bilancio con 920 miliardi di spese e 310 di entrate aveva un deficit di 610 miliardi. Il bilancio di previsione invece per il 1947-48, in seguito ai nuovi provvedimenti fiscali, alla abolizione dei prezzi politici e alla compressione delle spese in tutti i bilanci, si poteva calcolare in 832 miliardi di spese e 520 di entrate con un deficit di 312 miliardi. In questo preventivo le entrate ordinarie sono state valutate in 384 miliardi, ma se faremo una politica fiscale veramente severa che faccia pagare anzitutto i tributi ordinari a chi guadagna e può pagare, le entrate fiscali ordinarie, che sono già cresciute da 25,6 miliardi in gennaio a 32 miliardi e mezzo nello scorso aprile, speriamo possano toccare durante l’anno prossimo la media di 40 miliardi.

In quanto ai tributi straordinari oltre alla patrimoniale, per la quale il termine inderogabile della denuncia scade il 13 luglio, termine che sarà mantenuto fermo, il Governo si propone di condurre a fondo al più presto e con criteri di severa giustizia l’avocazione dei profitti di regime e degli utili di guerra, nonché l’imposizione straordinaria dei profitti eccezionali di congiuntura.

In relazione al sodisfacente ritmo negli incassi dei tributi ordinari si potrà esaminare anche la possibilità di accordare più larghe e sostanziali esenzioni a favore dei redditi di lavoro.

Resta la questione altrettanto grave dell’equilibrio della bilancia dei pagamenti con l’estero.

Economisti e studiosi, fra cui qualche collega che siede sui banchi dell’Assemblea, calcolano che nei tre o quattro anni prossimi avremo bisogno di un notevole apporto di dollari all’anno per pareggiare la nostra bilancia di pagamento. È ad ottenere un equivalente prestito che dobbiamo tendere, onde poter assicurare la nostra ricostruzione e dare lavoro e pane al nostro popolo. È a tale meta che in tutti i contatti che prendiamo dobbiamo mirare facendo tutti i preparativi di rilevazione tecnica e di programmazione che sono necessari. Ho accennato che tali preparativi dovranno ora venire coordinati e condotti organicamente.

Ma intanto si impone d’urgenza il problema del secondo semestre 1947.

Per arrivare alla fine del 1947, mantenendo l’attuale andamento della produzione industriale, noi dobbiamo importare per 430 milioni di dollari, in materie prime industriali, ed al minimo per 240 milioni di dollari in generi alimentari, cifra che purtroppo non sembra sufficiente date le ultime notizie sull’andamento del raccolto granario.

A fronte pertanto di un bisogno valutario per coprire le importazioni (compresi i rifornimenti per l’agricoltura e la sanità) di 685 milioni di dollari, potremo contare su esportazioni per circa 300 milioni di dollari, cui potranno aggiungersi 35 milioni di dollari per partite invisibili.

Resta quindi da fronteggiare lo scoperto nella bilancia commerciale di 350 milioni di dollari per il prossimo semestre.

Ora, anche ritenendo di poter attingere largamente al fondo post-U.N.R.R.A., testé votato dal Congresso americano, calcolata una rimanenza attiva dei conti di occupazione e tenuti presenti gli importi risultanti dallo scongelamento dei beni italiani all’estero e da altri contributi minori, possiamo ancora considerare incerta la copertura dei fabbisogni per una cifra approssimativa di 200 milioni di dollari.

È qui che dobbiamo puntare con tutte le forze, perché all’estero, e specie il popolo americano, al quale dobbiamo la maggior parte di aiuti, che ci hanno sostenuto dalla fine della ostilità in qua, non neghi al popolo italiano, sobrio e laborioso, amante della pace e della libertà democratica, un contributo ricostruttivo che metta l’Italia in condizione di ritornare ad essere una Nazione libera ed indipendente, e la sua economia trovi nel reddito del lavoro il modo di fare onore ai suoi impegni. Anche qui, dunque, questione di fiducia reciproca.

Se sapremo inspirare questa fiducia, i prestiti all’estero gioveranno dal canto loro a raggiungere l’equilibrio nel bilancio dello Stato. Prestito vuol dire acquisto di prodotti, di macchinari a pagamento differito; ma i prodotti acquistati e venduti sul mercato interno, contro lire esistenti, procacciano frattanto all’Erario entrate atte ad integrare quelle da imposte senza premere sulla circolazione.

Ma accanto alla moneta cartacea, alle lire uscite dall’Istituto di emissione, vi è un’altra specie di moneta, quella creditizia, che può diventare fonte di inflazione e di svalutazione monetaria quanto e forse più della moneta cartacea.

Nel mondo moderno, accanto ai depositi provenienti da risparmio propriamente detto, ci sono depositi i quali nascono dalle aperture di credito concesse dalle Banche. Operazione normale e feconda entro certi limiti; pericolosa ove quel limite sia oltrepassato. Vi sono indizi i quali fanno ritenere che in Italia, se non è ancora raggiunto quel limite, ci si stia avvicinando. L’incremento appare tuttavia ancora sano, ma potrebbe facilmente degenerare.

Sta dinanzi alla Commissione delle Finanze e del Tesoro dell’Assemblea un disegno di legge sulla ricostruzione dell’Ispettorato del credito, al quale non appena gli sia restituito, il Governo intende dare sollecita e rigorosa applicazione. Gli strumenti posti oggi a disposizione del Tesoro e della vigilanza sul credito sono divenuti antiquati e si sono perciò arrugginiti.

Importa per far fronte alle imminenti esigenze che il Comitato dei Ministri abbia l’autorità di adottare ed applichi con energia provvedimenti atti a frenare, finché sia in tempo, l’inflazione creditizia e a vigilare perché i depositi delle banche non vengano utilizzati dalla speculazione. La difesa della moneta è la premessa di ogni altra politica. Nulla può essere costrutto, nessuna società può sussistere sulla sabbia mobile della moneta instabile. Il Governo che uscirà fuori dalla consultazione popolare dovrà accingersi all’opera integrale della costruzione di una migliore Italia. Unica nostra ambizione è quella di rendere ad esso meno aspro il cammino.

Rapidamente ancora alcuni accenni sulla particolare azione immediata e preparatoria di alcuni Dicasteri. Abbiamo affidato il Dicastero annonario al miglior tecnico dell’alimentazione che possieda l’Italia. (Commenti). Il Governo accetta il proposito espresso già nel quarto dei quattordici punti «di estendere il sistema di tesseramento differenziato e preferenziale per il pane, la pasta, i grassi e altri generi alimentari allo scopo di garantire il fabbisogno necessario alla popolazione meno abbiente». In quanto alle possibili immediate applicazioni e alla loro misura, il professore Ronchi si riserva di fare delle comunicazioni quando avrà completa visione del materiale statistico raccolto dall’inchiesta Cerreti. È evidente che una applicazione integrale del sistema ci porterà anche all’ammasso contingentato, invece che all’ammasso totalitario dei cereali. Per il raccolto di quest’anno dato il termine stagionale si è dovuto provvedere d’urgenza all’ammasso totale; ma è certo che bisogna esaminare subito l’eventualità di predisporre per l’anno prossimo il sistema di contingentamento, mirando anche allo scopo di riprendere parte del terreno perduto.

Sono circa 800.000 ettari di minori coltivazioni a grano dal 1941 ad oggi che bisogna in parte riguadagnare se si vuole limitare le importazioni ad una media di 10 milioni di quintali annui. Ma è chiaro che per il sistema contingentato converrà predisporre una adatta organizzazione sia per il reperimento che per il controllo della distribuzione.

Qui l’azione dei Dicasteri dell’agricoltura, dell’alimentazione e del commercio estero sono in stretta connessione per cui essi dovranno agire di conserva e secondo un piano organico.

Se si riuscisse, ad esempio, ad importare un quantitativo sufficiente di carne argentina buttandola massimamente sui principali centri di consumo, si avrebbero senza dubbio una flessione dei prezzi, ora altissimi e fuori di ogni proporzione, del bestiame, e un arresto dell’estendersi dell’erbaio e del prato a detrimento dei cereali.

L’agricoltura è affidata alle mani esperte del professore Segni: il quale insiste a ragione per l’esecuzione del programma delle bonifiche, irrigazioni e miglioramenti, come preliminare indispensabile alla riforma agraria che dovrà attuare il prossimo Parlamento.

Tra i problemi di particolare urgenza, che sono giunti a maturazione attraverso molte discussioni nel C.I.R. e che sarebbe dannoso rinviare, è quello dei nuovi impianti per la energia elettrica: dovremo deliberare su un progetto già concordato in seno al C.I.R., a scanso di compromettere tutto il nostro avvenire industriale nei prossimi anni. Dobbiamo fare dei passi avanti anche nell’organizzazione del turismo e dell’emigrazione, provvedendo al primo con un organismo snello e semplice che utilizzi parte del personale dell’ex Ministero della cultura popolare, e risolvendo il problema della valuta; costituendo per l’altro un Consiglio superiore, e assicurando il coordinamento dell’opera dei due Ministeri che se ne occupano.

Il Ministro del lavoro trova tutta una serie di provvedimenti già pronti o in corso di elaborazione riguardanti il collocamento, l’istruzione professionale in rapporto alla disoccupazione e all’emigrazione, la cooperazione, gli Istituti di assistenza ed altri.

Egli cercherà di sodisfare questi ed altri postulati rapidamente in base allo spirito della Costituzione ed ai voti del Congresso sindacale.

Nella recente rinnovata tregua fra Confederazione del lavoro e Confindustria si è raggiunto un accordo sulle funzioni delle commissioni interne; sarà utile che, prima della regolamentazione per legge, si tenti un accordo interconfederale anche circa le funzioni dei «consigli di gestione».

Alla marina mercantile si continuerà lo sforzo per promuovere l’aumento del tonnellaggio. Si sta trattando per nuovi acquisti; si mira a favorire l’armamento privato e le cooperative dei marittimi.

La nomina di uno dei più valorosi Comandanti partigiani della Guerra di liberazione al Sottosegretariato per reduci e partigiani (Commenti) significa che anche il presente Governo intende rivolgere tutte le cure possibili alle necessità dei reduci, dei partigiani, dei pensionati di guerra, dei mutilati e degli ex combattenti, verso i quali la Patria, pur nelle sue presenti strettezze, è legata da obblighi consacrati nel sangue.

È nostro dovere di non dimenticare i danneggiati di guerra. Le erogazioni finora effettuate a favore dei vari settori di attività nazionale per riparare gli enormi danni prodotti dalla guerra e dalla cobelligeranza ammontano a circa 900 miliardi di cui circa 200 rappresentano la spesa per riparazione e ripristino di proprietà private e costruzioni di case per gli sfollati e per i senza-tetto. Si è elaborato un provvedimento legislativo organico che il Governo esaminerà per poter accertare entro quali limiti di tempo e di misura è possibile fare uno sforzo più intenso e più sistematico.

Onorevoli colleghi, il permanere dell’onorevole Sforza (Commenti a sinistra) alla direzione della politica estera ha già di per se stesso il significato che essa non muta né può mutare. (Applausi).

I problemi di politica estera sono essenzialmente gli stessi che ebbi ad illustrare in quest’Assemblea l’8 febbraio scorso. Né sono in nulla mutate quelle direttive che voi stessi, onorevoli colleghi, avete mostrato di approvare nelle varie occasioni in cui esse sono state esposte sia in quest’Aula sia alla Commissione dei Trattati.

Per quanto riguarda il Trattato di pace, il problema della firma è diventato quello della ratifica, o meglio, secondo quanto è previsto dalla nostra legge, dell’approvazione. Le informazioni che ci giungono da Londra, Mosca, Parigi e Washington fanno ritenere come non lontano il momento in cui voi, onorevoli colleghi, sarete chiamati nella vostra libera e sovrana potestà a deliberare su questa materia, di vitale importanza per l’avvenire dell’Italia, sul piano dei rapporti internazionali.

Altra questione di grande rilievo è quella della nostra ammissione all’O.N.U., ammissione che, come vi è noto, il Ministro degli affari esteri ha chiesto con formale domanda il 19 maggio scorso. L’accoglienza del Consiglio di Sicurezza alla nostra richiesta è stata favorevole all’unanimità. Ora la domanda stessa è all’esame della competente Commissione.

Al problema principale della nostra ammissione si innesta quello della applicabilità ed interpretazione degli articoli 53 e 107 dello Statuto delle Nazioni Unite, articoli relativi agli Stati ex nemici. È da tempo in corso un’azione diplomatica di chiarificazione e piena assicurazione a questo proposito. E noi non nutriamo dubbi; l’Italia vivrà ed opererà all’O.N.U. pari tra pari.

In questi ultimi tempi sono stati raggiunti sodisfacenti accordi colla Gran Bretagna, l’Uruguay, la Turchia, la Polonia, la Svezia, l’Olanda, il Belgio, la Francia, la Danimarca e la Grecia. Sono prossimi a conclusione accordi con l’Argentina e con la Cecoslovacchia, accordi condotti nello spirito della tradizionale amicizia che è sempre esistita tra l’Italia e quelle due Nazioni; anche con il Portogallo, la Jugoslavia, e le zone di occupazione in Germania sono state iniziate trattative che si spera di concludere quanto prima. Noi confermiamo la nostra speranza che si possano presto riprendere con la Russia quei traffici commerciali che si svolgevano nell’anteguerra a vantaggio dei due Paesi.

Le trattative condotte a Washington dalla Missione diretta dal nostro collega Ivan Matteo Lombardo sembrano ormai giunte ad una fase molto avanzata.

Sempre più vigile, sempre più sollecita, esclusivamente ispirata ai desideri e agli interessi delle nostre masse lavoratrici, sarà l’azione del Governo ai fini di una soluzione sodisfacente del problema della nostra emigrazione.

A tale scopo perseguiamo la conclusione di appositi accordi con tutti gli Stati interessati ad accogliere i lavoratori italiani, accordi il cui spirito non potrà essere che di rispetto e dignità per i nostri fratelli che emigrano.

Questi per sommi capi i principali problemi della nostra politica estera.

Il collega Sforza parlerà presto con più ampi ragguagli circa le più gravi questioni. Egli vi indicherà le direttive che il Governo della Repubblica si propone di seguire per assicurare la dignità ed il benessere del nostro popolo, dignità e benessere che sono indissolubilmente legati al mantenimento ed allo sviluppo della pace tra le Nazioni.

Come vedete, in questa rassegna di Dicasteri, ho accennato quasi soltanto ai problemi economici più urgenti perché tale è la cura più immediata e più incalzante del nuovo Governo. Non intendiamo però venir meno agli impegni e alle direttive che abbiamo assunto per gli altri Dicasteri, sui quali i Ministri rispettivi potranno prendere la parola durante o alla fine del dibattito.

Onorevoli colleghi, in questa esposizione, forse arida, ma oggettiva, ho evitato di fare della polemica rilevando le accuse che mi sono state rivolte (Interruzioni Commenti a sinistra), questo non vuol dire che io mi senta in fallo o non abbia la tranquilla coscienza di poterle fronteggiare; ma mi è parso doveroso nella gravità della situazione del Paese di non prendere per mio conto l’iniziativa di una polemica parlamentare che si imperniasse sul corso della crisi. Mi tengo, tuttavia, a disposizione. (Applausi al centro e a destra).

Domani noi celebreremo la memoria di Matteotti. Ricordo di lui ch’Egli, alla vigilia della minaccia fascista, dopo i lunghi dibattiti del suo Gruppo, venne ad annunziarmi che almeno parte dei suoi colleghi, una settantina circa, aveva deciso di rompere la tradizionale consegna negativa e di partecipare ad un Governo coi popolari e con altri Gruppi. Accolsi con gioia tale annunzio come segno di un’epoca nuova, che, purtroppo, in quel momento non si iniziò. Ma amici ed avversari sanno che quella gioia era sincera, perché corrispondeva alla mia sempre professata convinzione che se le masse, alle quali era stato predicato il socialismo, avessero accolto lealmente il metodo dello Stato democratico, si sarebbe compiuto un secolare progresso. (Interruzioni all’estrema sinistra). Tale convinzione si è rafforzata nel dopo-guerra attraverso il cameratismo antifascista nel periodo costruttivo dello Stato democratico; né vi vengo meno oggi presentando un Ministero di emergenza che vuole fare uno sforzo supremo per evitare la rovina economica e finanziaria che colpirebbe in prima linea i lavoratori e i ceti medi (Vivissimi applausi al centro e a destra Commenti a sinistra) e per assicurare rapidamente e col vostro concorso l’accesso del popolo alle nuove istituzioni repubblicane. (Vivissimi, prolungati applausi al centro e a destra Commenti all’estrema sinistra I deputati del centro si levano in piedi gridando: Viva l’Italia!).

PRESIDENTE. La discussione sulle comunicazioni del Governo avrà inizio domani alle 16. (Commenti).

Una voce a sinistra. Perché?

PRESIDENTE. Per una ragione semplicissima, onorevoli colleghi: perché, se non si rinviasse la seduta, vi sarebbe certamente la richiesta di sospenderla per dare modo ai Gruppi di riunirsi allo scopo di esaminare le comunicazioni testé fatte dal Governo.

Nella stessa giornata di domani, alle ore 10, si avrà una seduta per il seguito della discussione del progetto di Costituzione.

Non vorrei che si dimenticasse che abbiamo anche il compito di esaminare il progetto di Costituzione. Domani mattina dovranno svolgersi e votarsi gli ordini del giorno presentati sul problema della Regione. Lo dico perché ci si renda conto della importanza della seduta di domani mattina, nella quale avverranno votazioni di carattere molto importante e grave.

Sulla proroga dei poteri dell’Assemblea Costituente.

BENEDETTI. Chiedo di parlare.

PRESIDENTE. Ne ha facoltà.

BENEDETTI. Signor Presidente, io ricordo che il 24 giugno terminano i poteri di questa Assemblea. Abbiamo soltanto 15 giorni di tempo e in questi 15 giorni è necessario che noi decidiamo se i nostri poteri debbono effettivamente cessare, come stabilisce la legge, oppure se possono essere prorogati.

La questione non è irrilevante neanche ai fini della discussione sulle dichiarazioni del Governo e sul prossimo voto. E spiego perché non è irrilevante. Se io sono un uomo sano e debbo scegliere un amministratore dei miei beni, penso che avrò il tempo di controllare quello che questo amministratore farà. Io non mi curerò gran che di sapere se l’amministratore è completamente idoneo. Dirò: beh, in fin dei conti, i miei occhi sono lunghi, avrò tempo di vedere e di provvedere a sostituirlo.

Se io ritengo, invece, che fra quindici giorni potrò essere morto, diverrò molto più cauto nella scelta, e prima di accordare la mia fiducia a qualcuno, vaglierò con estremo scrupolo tutte le circostanze pro e contro.

Se, onorevole Presidente, la nostra vita sta per finire, se la nostra vita cesserà il 24 giugno, è evidente che la cura nel dare un voto di fiducia al Governo deve essere molto più attenta: perché potrebbe darsi che si instaurasse, con quel voto, un regime dittatoriale. Il Governo funzionerebbe con poteri dittatoriali, con piena libertà, al di fuori del controllo e delle decisioni dell’Assemblea ormai inesistente.

È per questa ragione che il sapere se il 24 giugno cesseremo dalle nostre funzioni o se i nostri poteri saranno prolungati, è anche influente sulla nostra coscienza nel dare o non dare il voto in favore del Governo. È per questa ragione che io mi domando se non fosse più opportuno, anziché portare nella seduta mattutina di domani il progetto di Costituzione, portare un disegno di legge che determini se e per quanto tempo questa Assemblea sarà prorogata. Desidero da voi, signor Presidente, e dal Governo stesso, una dichiarazione esplicita, affinché non capiti che si giunga al termine dei nostri poteri senza avere più il tempo di decidere, trovandoci così ad avere aperto la via alla dittatura.

DE GASPERI, Presidente del Consiglio dei Ministri. Chiedo di parlare.

PRESIDENTE. Ne ha facoltà.

DE GASPERI, Presidente del Consiglio dei Ministri. Il Governo acconsente, in seguito all’iniziativa presa dal Presidente della Assemblea, interprete della volontà dell’Assemblea stessa, a presentare un disegno di legge concernente la proroga dei poteri della Costituente. Ricordo di aver fatto appello alla collaborazione dell’Assemblea per stabilire il nuovo termine, tenendo conto dell’esigenza di indire nel prossimo autunno le elezioni.

PRESIDENTE. Il Governo presenterà quindi nei prossimi giorni un progetto per la proroga dei poteri della Assemblea Costituente. All’Assemblea spetterà di decidere, in ultima istanza, sul termine di questa proroga.

BENEDETTI. Mi devo dichiarare non sodisfatto di questa risposta. La mia domanda mirava a fare stabilire la data precisa di presentazione del progetto di legge con il quale si determinerà la proroga dei lavori di questa Assemblea o ne sarà confermata la fine alla data del 24 giugno.

PRESIDENTE. Ella ha sempre diritto di presentare un progetto di iniziativa parlamentare, nel caso le paresse che il Governo tardi troppo nel presentare il progetto annunziato.

LUSSU. Chiedo di parlare.

PRESIDENTE. Ne ha facoltà.

LUSSU. Nella riunione che alcuni giorni fa avemmo coi rappresentanti dei gruppi parlamentari presso la Presidenza, con l’intervento di autorevoli membri, che sono anche cultori di diritto pubblico, se non erro, fu concluso che la questione della proroga dovesse essere esclusiva espressione di questa Assemblea. (Approvazioni).

Ora, è vero, così come ci viene annunciato, che il Governo presenterà un disegno di legge in seguito all’intervento dell’autorevole Presidente della nostra Assemblea; però è evidente che, in ciascuno di noi, è legittima la preoccupazione di distaccare la discussione sulle comunicazioni del Governo dalle deliberazioni che prenderemo sulla proroga. (Approvazioni). In altre parole non dovrebbe mai sorgere il dubbio che la questione della proroga di questa Assemblea possa essere debitamente od indebitamente legata alla costituzione di questo Governo. Io chiedo pertanto – ed esprimo la preoccupazione di molti colleghi, che siedono in questa aula – che la questione della proroga sia affrontata e risolta prima che l’Assemblea si pronunzi con la fiducia o no sulle dichiarazioni del Governo. (Applausi).

GIANNINI. Chiedo di parlare.

PRESIDENTE. Ne ha facoltà.

GIANNINI. Ci associamo a quanto ha detto l’onorevole Lussu. (Commenti).

PRESIDENTE. Torno a far presente ai colleghi in generale, ed all’onorevole Lussu in particolare, ciò che ho detto ora all’onorevole Benedetti. I gruppi dell’Assemblea o colleghi isolati godono del diritto di iniziativa, e dovrei ricordare che se ad un certo momento mi sono fatto partecipe di un’iniziativa del genere è perché, da lunghissimo tempo, constatavo che nessuno intendeva valersi di questo diritto, e la mia diligenza si è avviata sull’unica strada che le era aperta, sboccando poi nell’impegno preso dal Governo di presentare esso stesso questo progetto di proroga. Se l’Assemblea, o qualche suo membro, ritiene di presentare un disegno di proroga può ancora sempre farlo.

LUSSU. Chiedo di parlare.

PRESIDENTE. Ne ha facoltà.

LUSSU. Propongo che concretamente l’onorevole Presidente convochi nel suo ufficio, questo stesso pomeriggio, tutti i rappresentanti dei vari Gruppi parlamentari, per decidere sulla questione.

PRESIDENTE. L’onorevole Lussu sa che, ove io accettassi – e, per cortesia consuetudinaria, non vorrei respingere la sua proposta, – sarebbe la terza volta che i rappresentanti dei Gruppi si riunirebbero presso di me per deliberare in proposito. Ma l’onorevole Lussu sa anche che nelle due volte precedenti non fu possibile raggiungere l’intesa fra tutti i partiti. Per questa ragione, la Presidenza dell’Assemblea ha ritenuto di non poter prendere ancora una volta l’iniziativa. Se i rappresentanti degli undici Gruppi parlamentari in cui sono divisi i membri dell’Assemblea avessero raggiunto un’intesa, la Presidenza se ne sarebbe fatta esecutrice. Ritiene l’onorevole Lussu che l’accordo, non realizzato pochi giorni fa, possa realizzarsi oggi? Se così è, potrei aderire alla proposta; ma poiché, personalmente, non spero nel successo, riterrei più opportuno evitare una terza dimostrazione delle nostre impossibilità di accordo.

LUSSU. Io riterrei di togliere al Governo questa iniziativa.

PRESIDENTE. Lei può togliere al Governo questa iniziativa, prendendola lei.

GIANNINI. Chiedo di parlare.

PRESIDENTE. Ne ha facoltà.

GIANNINI. Signor Presidente, onorevoli colleghi, io credo che la proposta dell’onorevole collega Lussu possa essere messa in pratica, solo se così modificata: invitando cioè l’onorevole Presidente del Consiglio dei Ministri a presenziare alla riunione dei Capi dei Gruppi. Si potrà così prendere una decisione.

BENEDETTI. Chiedo di parlare.

PRESIDENTE. Ne ha facoltà.

BENEDETTI. Onorevole Presidente, io so benissimo che ella ha adunato nei giorni scorsi, per ben due volte, i rappresentanti dei Gruppi, al fine di trovare un accordo in merito alla proroga di questa Assemblea. L’accordo non è stato trovato evidentemente perché ognuno ha la preoccupazione di dire che desidera una proroga e che questa deve essere, meglio che di due mesi, di sei mesi o di un anno. E questa preoccupazione è giustificata dal fatto della ripercussione che una proroga, e tanto più una lunga proroga, può avere sull’opinione pubblica. Ma io trovo che la questione è mal posta e trovo che il continuare discussioni segrete, sui due o i sei o i dodici mesi, nel chiuso del suo Gabinetto, al di fuori di questa Assemblea…

PRESIDENTE. Vi erano undici testimoni!

BENEDETTI. …sia fuori luogo, perché la questione è un’altra, La questione fondamentale è di sapere se il termine del 24 giugno deve essere rispettato o non deve o può non essere rispettato. Per chiarire questo punto, io trovo che lei, signor Presidente, nella sua autorità e rappresentanza di tutta l’Assemblea, ha il diritto di porre, di sua iniziativa, la questione, senza riunioni particolari. Se questa Assemblea decidesse, per avventura, che si dovesse prorogare il termine della propria validità, sarà allora questione di stabilire se deve esservi proroga per due mesi, per sei mesi o per un anno, ma intanto – ripeto – si tratta di stabilire, in linea pregiudiziale, se la proroga ci deve o non ci deve essere. Comunque, io sono dell’opinione che non ci deve essere e che il termine dei nostri poteri scade il 24 giugno. Lei, signor Presidente, ha il diritto, e potrei dire anche il dovere, di mettere all’ordine del giorno la questione in questi precisi termini: se la Costituente deve o non deve prolungarsi oltre il 24 giugno.

MACRELLI. Chiedo di parlare.

PRESIDENTE. Ne ha facoltà.

MACRELLI. La preoccupazione dell’Assemblea è questa: che sia sottratta al Governo la iniziativa per la presentazione di un progetto di proroga.

Ora, noi ci siamo riuniti – e lo ha già detto l’illustre Presidente – due volte in rappresentanza dei vari Gruppi per affrontare il problema. Si sono manifestate due tendenze. Sulla proroga si sono dimostrati perfettamente d’accordo tutti. Al punto in cui siamo arrivati, non è possibile esaurire il compito specifico che spetta all’Assemblea Costituente, e tanto meno affrontare la discussione di altri progetti di legge. D’accordo, quindi, sulla proroga. L’urto, o meglio il dissenso, si è manifestato sul termine: alcuni hanno proposto il 15 settembre, altri invece, persuasi che non sia possibile, nemmeno entro questo termine, di esaurire il nostro compito, hanno proposto il 31 dicembre. È tutto qui il dissenso che, naturalmente, incide su un altro problema gravissimo: quello delle elezioni.

PRESIDENTE. Non anticipi, onorevole Macrelli, la discussione che sarà fatta quando il progetto sarà presentato.

MACRELLI. Mi permettevo soltanto di far notare che il dissenso era esclusivamente sulla data.

Io penso che dai banchi della nostra Assemblea, da parte dei vari Gruppi, possa venire una proposta di iniziativa nostra, ed assicuriamo il Presidente dell’Assemblea ed il Presidente del Consiglio, che questo sarà fatto. Fra breve una proposta sarà presentata: l’Assemblea discuterà, deciderà ed emetterà il suo voto per il termine fra il 15 settembre e il 31 dicembre. (Commenti Approvazioni).

FABBRI. Chiedo di parlare.

PRESIDENTE. Ne ha facoltà.

FABBRI. Data la distinzione fondamentale – durante il sistema vigente – fra la materia costituzionale di esclusiva competenza di questa Assemblea, e la materia strettamente legislativa di competenza del Governo, io dubito molto che una disposizione relativa alla proroga dei poteri di questa Assemblea Costituente rientri nella iniziativa e nelle facoltà del Governo. La mia tendenza è per negare questo. Ritengo invece che la iniziativa e la discussione su questa materia di natura strettamente costituzionale siano di competenza specifica di questa Assemblea Costituente.

Ed allora, piuttosto che la inorganica, e starei per dire casuale proposta, di uno o di un altro dei singoli componenti di questa Assemblea, come pure le iniziative dei Presidenti dei Gruppi parlamentari, i quali, per il modo unitario onde sono rappresentati, non danno la ripercussione del dinamismo e della composizione numerica delle forze politiche che si contrastano in questa Assemblea, io mi domando se la Commissione dei 75 (la quale, volere o no, e nonostante tutto il male che ne è stato detto, ha una competenza specifica, non ne è stata in nessun modo svestita ed ha attuale facoltà di riunirsi ad opera del suo Presidente, in ordine a proposte di carattere costituzionale) non sia l’organo più adatto ed immediato per risolvere, in seno a quella Commissione, i modi e i termini di questa eventuale proposta di proroga. Il Comitato di redazione o la Presidenza della Commissione dei settantacinque, dopo un’unica riunione potrebbero addivenire ad una proposta concreta di progetto di legge da essere sottoposto all’Assemblea Costituente.

In quest’ordine di idee, la mia proposta precisa è questa: l’Assemblea richieda che l’onorevole Presidente della Commissione dei Settantacinque, che è il riflesso numerico proporzionale dei vari partiti, convochi la Commissione stessa e sottoponga ai suoi componenti questo problema, portando immediatamente dopo le proposte concrete di maggioranza all’Assemblea, per le relative deliberazioni. (Commenti).

TONELLO. Chiedo di parlare.

PRESIDENTE. Ne ha facoltà.

TONELLO. Esprimo il mio dissenso sulla proposta di convocare i «soloni» per decidere in merito alla proroga. Non vorrei che tirassero tanto per le lunghe quelli che hanno interesse a non risolvere questo problema, che urge sul Paese.

Noi vogliamo che al più presto possibile il Paese sia interrogato; vogliamo che siano gli elettori, sia il popolo italiano a manifestare la sua volontà. Fate in qualunque modo, ma in due o tre giorni decidete, perché questo tirare in lungo le cose, questo lasciar sospeso il popolo italiano danneggia tutti i partiti.

Il Governo ha detto che farà la proroga; ma dietro di voi, onorevole De Gasperi, vi sono anche altre forze che potrebbero darvi dei cattivi suggerimenti (Commenti). Sapete cosa voglio dirvi: molte volte venite con buone intenzioni, ma avete anche dei diavoli neri che suggeriscono cattive cose. (Commenti Interruzioni).

Sarà bene che questo problema si risolva. I «soloni» riposino i loro sonni in pace, tranquilli nella loro coscienza. Dobbiamo decidere noi, se si deve andare a casa presto e chiamare il popolo a dire il suo pensiero.

PERSICO. Chiedo di parlare.

PRESIDENTE. Ne ha facoltà.

PERSICO. Onorevoli colleghi, mi sembra che abbiamo resa complicata una questione semplicissima. Domattina non si tenga seduta; dopo domani mattina discuteremo una proposta che ci impegniamo di presentare noi, una qualsiasi proposta perché, superato l’ostacolo della necessità della proroga, si tratta soltanto di stabilire un termine.

Ora, basta che un Gruppo qualsiasi proponga un termine qualsiasi sul quale si discuterà: si proporrà più corto o più lungo, si voterà e si delibererà.

Mercoledì mattina alle dieci noi presenteremo una proposta che potrà essere il canovaccio della discussione, senza incomodare la Commissione dei settantacinque, né i Gruppi. Su questa proposta ogni Gruppo voterà come meglio crede. Mi sembra che questa soluzione sia lapalissiana e credo che tutti noi potremo accettarla.

GRASSI, Ministro di grazia e giustizia. Chiedo di parlare.

PRESIDENTE. Ne ha facoltà.

GRASSI, Ministro di grazia e giustizia. L’Assemblea mi consenta di ricordare che della questione della proroga dovrà certamente occuparsi, in quanto è convinzione di tutti e anche del Governo, per le dichiarazioni fatte dal Presidente del Consiglio, che una proroga è indispensabile affinché questa Assemblea possa portare a termine il suo compito, per il quale è stata eletta.

Il Governo ha già pronto il disegno di legge; è un disegno di legge che si compone di due articoli. Esso sarà presentato al più presto all’Assemblea e questa potrà apportarvi tutti gli emendamenti che crederà.

Il Presidente del Consiglio ha già detto che tale disegno di legge è predisposto nel senso che la proroga sia compatibile con la possibilità che le elezioni abbiano luogo nel mese di novembre. In ogni modo, su questo punto, l’Assemblea è sovrana e potrà prendere le sue determinazioni.

Mi pare sia quindi inutile discutere su chi debba prendere l’iniziativa della presentazione di tale disegno di legge e se possa essere d’iniziativa parlamentare. Il disegno di legge è predisposto e verrà comunque presentato quanto prima all’Assemblea. (Commenti).

Ricordo che il Governo ha preso l’impegno, in seguito a richiesta del Presidente dell’Assemblea, di presentare il disegno di legge e il disegno di legge sarà presentato; e sul disegno di legge l’Assemblea, sovrana, prenderà le sue decisioni.

PRESIDENTE. Onorevoli colleghi, vorrei, se mi permettono, riassumere la discussione e trarne la conclusione. È evidente che non soltanto le notti, ma anche i giorni portano consiglio, ed infatti, benché ancora soltanto dieci minuti fa, tutti i colleghi fossero all’oscuro della procedura stabilita, nessuno ha sollevato obiezioni.

Onorevole Benedetti, è naturale che lei sia invece contrario a questa procedura, ma solo perché lei è contrario alla proroga; ma tutti coloro che sono favorevoli alla proroga non possono avere preoccupazioni al riguardo: si tratta solo di trovare la procedura idonea.

Mi sembra comunque sufficiente l’avere udito le dichiarazioni dell’onorevole Benedetti per dire che non può la Presidenza stessa farsi iniziatrice della proposta di proroga, perché la Presidenza o parla a nome di tutta l’Assemblea, o non parla. La Presidenza, d’altronde, non vuole correre per la quarta volta il rischio di essere sconfessata una volta ancora dall’Assemblea.

Non restano quindi che le due alternative: o un’iniziativa parlamentare, o un’iniziativa del Governo. Onorevoli colleghi, la strada di un’iniziativa parlamentare è sempre stata aperta e vi è da stupirsi, avendo udite esprimere oggi tante preoccupazioni per gli altri metodi, che questa strada non sia stata finora imboccata.

Faccio presente all’onorevole Persico, che ha voluto però mostrarcela come la più semplice, che c’è un capitolo – il XVII – del Regolamento della Camera dei deputati, il quale insegna che quella strada è invece la più lunga. Dice infatti l’articolo 133:

«Allorché una proposta di legge d’iniziativa di uno o più deputati è annunziata, la Camera fissa il giorno in cui essa può essere svolta».

E l’annunzio di cui qui si parla non è l’annunzio familiare, quale quello che ci ha fatto in questo momento l’onorevole Persico. L’annunzio di una proposta di legge d’iniziativa parlamentare deve seguire infatti una determinata procedura, la quale occupa non certo dei mesi, non delle settimane, ma probabilmente più delle ventiquattr’ore di cui poco fa ci si è parlato.

È vero che il Regolamento aggiunge che «è in facoltà del proponente di rinunziare allo svolgimento e di chiedere che la proposta stessa sia subito trasmessa alla Commissione competente».

Comunque bisognerebbe annunziare che c’è una proposta dell’onorevole Persico e l’Assemblea dovrà allora determinare il giorno in cui essa può essere svolta. Nel giorno fissato, il proponente svolgerà i motivi della proposta e un altro oratore potrà parlare contro la presa in considerazione. Il proponente avrà diritto di replicare, dopo di che l’Assemblea deciderà se prendere o meno in considerazione la proposta.

Ciò però non costituisce ancora la discussione del progetto di legge, il quale dovrà andare alla commissione competente.

Onorevoli colleghi, anche sul piano parlamentare vi possono essere, come vedono, degli errori di prospettiva e di ottica e strade che paiono le più brevi ma che sono in realtà le più lunghe.

Ma se, come l’onorevole Ministro della giustizia ha preannunciato, il progetto di legge per la proroga sarà presentato dal Governo – il Governo, su invito dell’Assemblea, potrebbe anche indicarne il giorno: domani, dopodomani, fra tre giorni – noi ne saremo subito investiti e l’Assemblea sarà tranquillizzata al proposito. Chiedo quindi all’onorevole Ministro della giustizia se egli ritiene di poter presentare nella giornata di domani il suo progetto.

GRASSI, Ministro di grazia e giustizia. Senz’altro.

PRESIDENTE. Il progetto sarà immediatamente messo all’ordine del giorno dell’Assemblea, il che non ci esonera, onorevoli colleghi, dall’impiegare utilmente la mattina di domani nel senso che ho indicato.

Non credo infatti che si voglia rinviare la ripresa dei lavori della Costituzione sino a quando non sia ultimata la procedura relativa al progetto di legge per la proroga; anzi, sino a che non sia approvata la proroga. La proroga ci sarà, onorevole Benedetti, purtroppo; ma, non è questa una buona ragione perché noi perdiamo inutilmente i giorni residui dell’investitura di poteri che abbiamo ricevuto in precedenza.

Se in questo modo e secondo queste indicazioni l’Assemblea accetta la procedura prospettata, e alla quale il Governo si è impegnato, penso che non vi sia altro da aggiungere. Se vi sono proposte contrarie, chiedo che si facciano in maniera formale.

FABBRI. Io l’avevo fatta.

PRESIDENTE. Onorevole Fabbri, lei ha sufficiente esperienza delle possibilità di decisione della Commissione dei Settantacinque. (Commenti).

RUINI, Presidente della Commissione per la Costituzione. Chiedo di parlare.

PRESIDENTE. Ne ha facoltà.

RUINI, Presidente della Commissione per la Costituzione. Voglio ricordare come si è svolta la discussione su questo tema in seno alla riunione dei rappresentanti dei Gruppi, alla quale io assistevo come invitato dal Presidente.

Si è messo anzitutto in chiaro che il diritto di decisione in questa materia è pieno ed assoluto dell’Assemblea Costituente. Io espressi chiaramente questo punto di vista e volli che fosse escluso ogni pur inammissibile dubbio a proposito dell’annunciata presentazione d’un progetto di legge da parte del Governo sulla proroga dei nostri lavori. La presentazione non può in nessun modo implicare che, perché l’Assemblea possa prendere le sue decisioni, sia necessario un atto del Governo che promuova tali decisioni. Restammo perfettamente intesi tutti e non vi fu nessun dubbio che la competenza è esclusivamente dell’Assemblea Costituente, e che non occorre, non è necessario nessun atto, nessuna proposta del Governo, perché sia eccitata questa facoltà assoluta dell’Assemblea.

Premesso questo, si presentava una questione di procedura. Il Presidente dell’Assemblea ha dichiarato che non si sentiva di presentare una proposta di proroga, perché non vi era il consenso unanime di tutti i Gruppi sulla data della proroga. Di fronte alla dichiarazione del Presidente non restava che inchinarsi. E allora, quali sono le vie aperte? Sono queste: l’iniziativa di un qualsiasi deputato, non dico di un Gruppo dell’Assemblea Costituente, o l’iniziativa del Governo, che, lo ripeto, non è affatto necessaria; ma il Governo può sempre, come un deputato o come un Gruppo presentare una sua proposta. E può essere opportuna questa forma per investire più rapidamente l’Assemblea dei suoi poteri. Mi pare che la questione sia di una chiarezza cristallina.

La sostanza è questa: l’Assemblea desidera e chiede di essere investita del tema della proroga, sul quale le spetta decidere. Il Governo presenta un disegno di legge. È importante che il Guardasigilli abbia dichiarato che lo presenterà domani stesso, prima del voto sulla fiducia al Governo. Ciò conferma il carattere meramente formale dell’atto del Governo, che non ha bisogno, per farlo, di aver già ottenuto la fiducia. Subito dopo la presentazione del progetto, il Presidente dell’Assemblea potrà nominare una Commissione straordinaria con procedura d’urgenza (che è permessa dal Regolamento) e poi tutte le correnti dell’Assemblea si faranno avanti e la perfetta sovranità dell’Assemblea sarà rispettata.

PRESIDENTE. Poiché l’onorevole Fabbri ha comunicato di non insistere nella sua proposta e poiché abbiamo la dichiarazione formale del Ministro Guardasigilli, resta inteso che il Governo presenterà nella giornata di domani il progetto per la proroga e l’Assemblea deciderà se adottare la procedura d’urgenza. Se non vi sono osservazioni, rimane così stabilito.

(Così rimane stabilito).

 

La seduta è rinviata a domattina alle 10 per il seguito della discussione del progetto di Costituzione.

CORBINO. Chiedo di parlare.

PRESIDENTE. Ne ha facoltà.

CORBINO. Non credo che sia opportuno tenere la seduta antimeridiana. Io ho sempre sostenuto che l’Assemblea deve lavorare, ma la discussione sulle Regioni è subordinata alla durata della proroga dei lavori dell’Assemblea e allora conviene rimandare a dopo la decisione.

PRESIDENTE. Onorevole Corbino, siamo sempre allo stesso malinteso: io invito l’Assemblea a fare proposte eventuali in un tema concreto, e Lei ne avanza su una questione diversa che non si sta discutendo. Stavamo parlando della presentazione del disegno di legge sulla proroga, e non dell’ordine dei lavori dell’Assemblea. Desiderò ancora una volta sottolineare, onorevoli colleghi, che – anche nella prospettiva della proroga – non dobbiamo pensare che, poiché avremo un maggior tempo del previsto a disposizione non ci incomba il dovere di intensamente lavorare. Aggiungo che non ritengo assolutamente possibile rinviare la discussione del progetto di Costituzione a dopo risolta la questione della proroga.

Per ora, è ancora sempre la scadenza del 24 giugno che ci deve orientare.

Non essendovi altre osservazioni, la seduta è rinviata a domani alle 10.

Interrogazioni.

PRESIDENTE. Si dia lettura delle interrogazioni pervenute alla Presidenza.

RICCIO. Segretario, legge.

«Il sottoscritto chiede d’interrogare il Ministro per il commercio con l’estero, per conoscere perché non sono stati ripartiti i contingenti di grassi concessi all’Italia dagli Stati Uniti d’America fin dallo scorso dicembre. Il ritardo della importazione determina un grave danno economico per quanto riguarda i prezzi all’origine, che nel frattempo hanno subito un aumento del 10-20 per cento con conseguente maggior esodo valutario.

«Marinaro».

«Il sottoscritto chiede di interrogare i Ministri dell’industria e commercio e dei trasporti, per sapere se non ritengano di dovere direttamente approvvigionare di carbone la città di Siracusa per evitare l’inconveniente, già altre volte verificatosi, che a causa del mancato tempestivo arrivo di carbone da Catania, tanto la ferrovia Siracusa-Vizzini, quanto le industrie locali, hanno dovuto sospendere la loro attività, con grave pregiudizio economico di quelle laboriose popolazioni.

«Tale invio periodico di carbone, per un quantitativo minimo di 3000 tonnellate mensili, consentirebbe di alleviare la forte disoccupazione fra i portuali di quella città, le cui misere condizioni hanno determinato legittime agitazioni con conseguente turbamento dell’ordine pubblico.

«Terranova».

«Il sottoscritto chiede d’interrogare il Ministro della marina mercantile, per conoscere se non ritenga di dovere ripristinare le linee di navigazione con l’Egitto e la Libia, con scalo nei porti siciliani, tenuto conto che essi si trovano sulle rotte che dai porti dell’Italia settentrionale, centrale e meridionale conducono ai suaccennati Paesi d’oltremare.

«In particolare l’interrogante chiede che sia considerato, qualora si addivenga al ripristino delle suddette linee, come uno degli scali principali, il porto di Siracusa, che per tradizione, posizione geografica e attrezzatura ha rappresentato nel passato e rappresenterà nell’avvenire il porto capo-linea delle comunicazioni fra l’Italia e i Paesi del nord-Africa.

«La richiesta riattivazione di linee risponde anche alle esigenze dell’intensificata produzione agricola siciliana, che, come nel passato, trova nei paesi d’oltremare il suo naturale sbocco e un largo mercato di consumo.

«Terranova».

«Il sottoscritto chiede d’interrogare il Presidente del Consiglio dei Ministri, per conoscere:

1°) perché il Ministro dell’agricoltura e delle foreste ha ritenuto di disporre che i produttori agricoli della provincia di Viterbo possano versare grano ai granai del popolo dietro il corrispettivo del doppio di granoturco;

2°) se corrisponde al vero che personale dell’Unione cooperative di Roma si sia recato nel territorio della provincia di Viterbo per acquistare a prezzi di mercato nero 800 quintali di grano dai vari detentori, consenziente l’Alto Commissariato per l’alimentazione;

3°) se sia compatibile, con le vigenti disposizioni di legge che hanno duramente e giustamente colpiti tanti contravventori, legalizzare l’abusiva detenzione e vendita di grano di alcuni produttori e consentire la compravendita di genere contingentato per legge e quindi fuori commercio.

«Perugi».

«Il sottoscritto chiede d’interrogare il Presidente del Consiglio dei Ministri ed i Ministri delle finanze e del tesoro, per sapere se non ritengano indilazionabile ormai – a due anni dalla fine della guerra – di affrontare e risolvere il problema del risarcimento danni di guerra e della ricostruzione nazionale, tenendo presenti le proposte contenute nella Relazione predisposta per iniziativa del Comitato studi danni di guerra di Genova e distribuita ai membri della Camera, e cioè:

che sia sancito il principio per cui chiunque sia stato danneggiato dalla guerra ha diritto al risarcimento da parte dello Stato, in base ad un concetto mutualistico accettato anche dalle Carte costituzionali straniere, come quella francese;

che pertanto vengano immediatamente ricostituite le Commissioni provinciali di accertamento e liquidazione danni guerra;

che si provveda a pagare subito, in contanti, i danni più lievi; venendo così incontro al più presto ai più bisognosi;

che per i danni più gravi si provveda mediante il rilascio di fedi di credito scontabili ed ammortizzabili da parte dello Stato;

che il ricupero dei fondi occorrenti per tali pagamenti venga fatto mediante imposta o meno, per un numero di anni da determinarsi; e che a tale scopo venga costituito un fondo autonomo dal bilancio ordinario in modo che si esaurisca con l’assolvimento del suo compito speciale, senza interferenze con la ordinaria contabilità.

«Colitto».

«Il sottoscritto chiede d’interrogare il Ministro dell’agricoltura e delle foreste, per conoscere quando provvederà a disporre lo sblocco della rimanenza dell’olio di oliva nella provincia di Campobasso in conformità degli impegni assunti nel novembre scorso, essendo stata non solo raggiunta, ma largamente superata, in detta provincia, la quota stabilita per il contingentamento, ponendosi termine con lo sblocco allo stato di gravissimo disagio nel quale, per le incertezze governative, trovasi la tanto laboriosa disciplinata popolazione molisana.

«Colitto».

«I sottoscritti chiedono di interrogare il Ministro della marina mercantile, per conoscere se, di fronte al ripetersi di gravi e dolorose sciagure, non si ritenga necessario ed urgente di intensificare il rastrellamento delle mine, che rendono malsicura la navigazione nei nostri mari.

«Per conoscere altresì se ed in qual modo si intenda provvedere in ordine ai danni alle persone ed alle cose prodotti dalle mine, fra cui è da annoverarsi il recentissimo naufragio del motoveliero «Cuore di Gesù» del Compartimento marittimo di Siracusa, nel quale trovò la morte l’intero equipaggio.

«Guerrieri Emanuele, Vigo».

«Il sottoscritto chiede d’interrogare l’Alto Commissario per l’alimentazione, per conoscere se sia giusto che una regione come la Calabria continui ad essere trascurata come ai tempi del suo predecessore.

Infatti risulta che per solo pane la provincia di Cosenza ha un arretrato di oltre 17 mila quintali di farina; mentre le altre due provincie, pur avendo un fabbisogno giornaliero superiore, hanno ciascuna un arretrato di 11 mila quintali di farina.

«Si fa osservare che il grano proveniente dal piroscafo Nazzimi di cui nella risposta a una precedente interrogazione, non è stato sufficiente a coprirli perché si sarebbe dovuto sospendere la corresponsione delle razioni correnti.

«Per saldare gli arretrati bisogna corrisponderli in aggiunta alla razione giornaliera.

«Mancini».

«Il sottoscritto chiede d’interrogare il Ministro dei trasporti, per conoscere se non creda doveroso mettere in esercizio sull’elettro-treno Roma-Reggio Calabria lo stesso materiale ferroviario in uso sull’elettro-treno Roma-Milano, aggiungendovi, come in questo, qualche vettura di seconda classe.

«L’interrogante chiede ancora che venga concessa, soddisfacendo i voti delle popolazioni cosentine e catanzaresi, una vettura diretta sul diretto che parte da Roma alle ore 19.10.

«Mancini».

«Il sottoscritto chiede d’interrogare il Ministro dell’agricoltura e delle foreste, per conoscere se, data l’insufficienza e la inefficacia del sistema del contingentamento provinciale, non sia opportuno disporre il versamento negli oleari del popolo di quella quantità di olio rimasta a disposizione dei grossi produttori, i quali o sono venuti meno ai loro obblighi di contingentamento o hanno trovato il modo di evadere la loro produzione per scopi speculativi, producendo un vertiginoso rialzo di prezzi.

«Mancini».

«Il sottoscritto chiede d’interrogare il Ministro dell’interno, per sapere se non creda opportuno intervenire tempestivamente presso il Prefetto di Bari, a che provveda che non venga chiusa la mensa degli impiegati di quella città.

«Pastore Raffaele».

«Il sottoscritto chiede d’interrogare il Ministro dei lavori pubblici, per sapere se non crede opportuno procedere a una inchiesta per il crollo delle volte delle case dei senzatetto di Foggia, onde assodare le responsabilità ed evitare possibili salvataggi.

«Pastore Raffaele».

«Il sottoscritto chiede d’interrogare il Ministro della pubblica istruzione, per conoscere se non creda opportuno diminuire la severità delle norme emanate con ordinanza 3 maggio ultimo scorso sugli esami di maturità; laddove specialmente si escludono dagli esami orali coloro che abbiano riportato negli scritti un voto di «evidente insufficienza», mentre prima della guerra si escludevano quelli che avessero riportato un’insufficienza «molto grave»; e si estende tale norma, oltre che all’italiano, anche a tutte le materie per le quali siano richieste prove scritte; e là dove prescrive la presenza di quattro membri estranei nelle Commissioni delle scuole non governative; e ciò, tenendo conto che le norme giungono a pochi giorni dagli esami; e che gli esaminandi hanno iniziato il loro corso di studi nei tempi difficilissimi della guerra o dell’immediato dopo-guerra.

«Adonnino».

«Il sottoscritto chiede d’interrogare il Presidente del Consiglio dei Ministri, per conoscere quali provvedimenti intenda adottare al fine di impedire il continuo esodo di capi bovini dalla Sicilia, che minaccia già seriamente l’esistenza del patrimonio zootecnico dell’Isola.

«Martino Gaetano».

«Il sottoscritto chiede d’interrogare il Presidente del Consiglio dei Ministri ed il Ministro degli interni, per sapere se non ritengano necessario ed urgente emanare un provvedimento legislativo che stabilisca l’incompatibilità dell’esercizio del mandato parlamentare con la qualità di membri di un’Assemblea regionale, incompatibilità già prevista dalla legge elettorale che trovasi all’esame dell’Assemblea Costituente.

«Caronia».

«Il sottoscritto chiede d’interrogare il Presidente del Consiglio dei Ministri e l’Alto Commissario per l’igiene e la sanità pubblica, per sapere se non ritengano opportuno e doveroso nei confronti della tutela della sanità pubblica intervenire per gli accertamenti scientifici del caso ed, eventualmente, per contribuire al finanziamento per la fabbricazione del preparato AF 2 del dottor Guarnieri. Tale prodotto avrebbe spiccata azione anti-cancerigna.

«Il provvedimento ha carattere di estrema urgenza, poiché col 5 giugno prossimo il dottor Guarnieri sospenderà la distribuzione gratuita del medicinale per difficoltà d’ordine economico.

«De Maria».

«I sottoscritti chiedono d’interrogare il Ministro della difesa, per sapere se non ritenga opportuno di modificare la motivazione della medaglia d’oro al valor militare alla memoria del capitano di fregata Vittorio Meneghini, là dove essa dice che quell’ufficiale col suo eroico contegno a Lero fra l’8 settembre e il 17 novembre 1943 «riconfermava in tal modo sublime i diritti della Patria su quelle terre lontane».

«Schiavetti, Cianca, Lussu».

«Il sottoscritto chiede d’interrogare il Ministro dell’interno, per conoscere quali provvedimenti sono stati o saranno adottati a favore delle famiglie dei Martiri trucidati dai nazi-fascisti, e se non ritenga opportuno e doveroso che, accanto ad una pronta assistenza generica e sanitaria, siano adottate forme più proficue di assistenza economica, che possano gradualmente reinserire nel lavoro produttivo tutti gli assistiti idonei e capaci.

«Di Giovanni».

«I sottoscritti chiedono d’interrogare il Presidente del Consiglio dei Ministri ed il Ministro del tesoro, per sapere se non ritengano opportuno anticipare al Governo della Regione siciliana i mezzi necessari per l’istituzione e per l’inizio del funzionamento degli organi dell’amministrazione; e ciò anche in vista degli obblighi derivanti dall’applicazione degli articoli 36 e 38 dello Statuto della Regione siciliana ed in considerazione del tempo che ancora ci separa dall’inizio dell’esercizio finanziario.

«Martino Gaetano, Bellavista, Galioto».

«Il sottoscritto chiede d’interrogare il Ministro della pubblica istruzione, per conoscere se non ravvisi l’opportunità di riesaminare, con urgenza, la situazione economica, del tutto disastrosa, dei dipendenti dai convitti nazionali a causa della legge Gentile del 1923 che potrebbe, quanto meno, essere modificata nella parte che riflette la integrazione dei bilanci, così come avveniva prima, da parte dello Stato.

«Sia il personale subalterno, che gli insegnanti delle scuole annesse ai convitti, riscuotono stipendi addirittura insufficienti alle necessità di vita.

«Trulli».

«Il sottoscritto chiede d’interrogare il Ministro del tesoro, per sapere se non reputi necessario apportare – urgentemente – modificazioni alle norme vigenti sul trattamento di quiescenza ai dipendenti dello Stato, in vista della lentissima procedura attualmente in vigore che pone i pensionandi in tristissime condizioni di vita.

«Sia nel caso di pensioni dirette che indirette, si potrebbero ovviare alle difficoltà burocratiche, assegnando agli interessati un’anticipazione provvisoria ed immediata, desunta, con criteri proporzionali, dai proventi complessivi riscossi all’atto della cessazione dal servizio.

«Molti di questi funzionari dopo avere, per tanti anni, lavorato sono condannati a soffrire letteralmente la fame, proprio nel momento in cui dovrebbero godere il meritato riposo, perché, per la liquidazione della pensione, viene impiegato, nei casi più favorevoli, almeno un anno.

«Trulli».

«I sottoscritti chiedono di interrogare il Ministro dell’interno, per sapere quali provvedimenti intenda adottare per venire incontro alle impellenti necessità delle popolazioni della Calabria, che hanno sofferto danni alle case e alle persone, in dipendenza del recente terremoto. (Gli interroganti chiedono la risposta scritta).

«Zagari, Tremelloni».

«I sottoscritti chiedono di interrogare il Ministro dell’interno, per conoscere quali provvedimenti intenda adottare in seguito alle gravi circostanze emerse – in occasione del tragico incendio della «Minerva Film» in Roma – circa il funzionamento dei servizi anti-incendi e la tutela dei lavoratori e dei centri abitati contro disastri di tale natura. (Gli interroganti chiedono la risposta scritta).

«Zagari, Tremelloni».

«Il sottoscritto chiede d’interrogare il Ministro del lavoro e della previdenza sociale, per sapere se non creda opportuno, e ciò per una superiore ragione di equità e di giustizia sociale, di estendere alle famiglie diretto-coltivatrici, le previdenze già in atto per tutte le altre categorie, e cioè: assicurazione infortuni, assicurazione malattie, compresa l’assistenza ospitaliera, nonché tutte le altre forme di previdenza sociale. (L’interrogante chiede la risposta scritta).

«Scotti Alessandro».

«Il sottoscritto chiede d’interrogare il Ministro della pubblica istruzione, per conoscere se è vero che il preside di un liceo della Capitale ha mobilitato insegnanti ed allievi, chiedendo a questi dolciumi e liquori, per organizzare nei locali della propria scuola feste danzanti e se ciò vale a restituire all’insegnamento la perduta serietà, disciplina e dignità. (L’interrogante chiede la risposta scritta).

«Miccolis».

«La sottoscritta chiede d’interrogare il Ministro della pubblica istruzione, per sapere se intenda revocare sollecitamente la nomina testé avvenuta del Provveditore agli studi di Padova nella persona di un ex squadrista e fedelissimo della Repubblica fascista. Tale nomina, offensiva per una città che si è distinta nella lotta di liberazione, porterà a questo assurdo: che l’11 giugno prossimo, in occasione del primo anniversario della Repubblica italiana, la consegna delle onorificenze agli studenti caduti e alle vittime del nazifascismo debba avvenire alla presenza di un capo degli studi che ha diretta responsabilità nelle manifestazioni criminali del regime fascista. (L’interrogante chiede la risposta scritta).

«Merlin Angelina».

«La sottoscritta chiede d’interrogare il Ministro della pubblica istruzione, per sapere se sono state emanate disposizioni atte ad impedire che nelle scuole siano usati libri nei quali ricorrano passi esaltanti il regime fascista.

«In particolare risulta alla interrogante che presso l’Istituto Santa Maria in Roma è in uso per la prima media il volume primo degli esercizi latini di A. Oldani, editore F. Mariani, nel quale, a pagina 75, esercizio XL; a pagina 80, esercizio XLIII; a pagina 115, esercizio LXIII, si leggono frasi esaltatrici la figura di Mussolini.

«Si chiede quali provvedimenti si intenda adottare contro gli ostinati adoratori di un nefasto regime, i quali vogliono continuare nell’Italia democratica l’opera di diseducazione della gioventù. (L’interrogante chiede la risposta scritta).

«Merlin Angelina».

«Il sottoscritto chiede di interrogare i Ministri delle poste e telecomunicazioni, delle finanze e del tesoro, per sapere se non ritengano doveroso mettere termine allo stato di disagio in cui è venuto a trovarsi il personale delle ricevitorie, il quale, da anni ormai, attende siano corrette le ingiustizie ed i torti patiti per il prepotere fazioso del governo fascista.

«È dal maggio dell’anno scorso che uno schema di decreto è stato predisposto, quale giusta e urgente riparazione, per la riassunzione in servizio e la ricostruzione della carriera del personale delle ricevitorie, danneggiato moralmente e rovinato economicamente per motivi esclusivamente politici dal governo fascista; schema di decreto che il Governo democratico della Repubblica italiana ha l’imperioso dovere morale – di fronte a fedeli impiegati postelegrafonici che tanto hanno sofferto – di rendere al più presto esecutivo. (L’interrogante chiede la risposta scritta).

«Ghidetti».

«Il sottoscritto chiede d’interrogare il Ministro dell’interno, per conoscere se è vero che è in corso di preparazione un progetto di legge, contenente una disciplina di carriera dei segretari comunali e provinciali del tutto contrastante con lo stato giuridico di funzionari statali. (L’interrogante chiede la risposta scritta).

«Riccio Stefano».

«Il sottoscritto chiede d’interrogare il Ministro dei trasporti, perché dica se non trova di giustizia che ai ferrovieri residenti in località oltre i 5 chilometri dalla periferia di Napoli, pur avendo la loro sede amministrativa e di lavoro a Napoli, sia concessa la indennità giornaliera per le città dichiarate sinistrate.

«Questo trattamento, di spettanza o non, di detta indennità, è stato applicato dalle sole ferrovie dello Stato,mentre tutti gli altri Enti statali e Ministeri hanno considerato questa minima percentuale (3 per cento) di operai ed impiegati sotto altro punto di vista. Nella zona di Napoli provincia, durante tutto il periodo di guerra e di emergenza, si è sofferto di più dagli impiegati, che si sono continuamente sacrificati, nonostante i bombardamenti, per raggiungere con tutti i mezzi la loro sede di lavoro. Economicamente, oggi, la provincia offre per gli impiegati maggiori difficoltà. Basta poi controllare i prezzi e la differenza di trattamento fatta dalla SEPRAL tra Napoli e i comuni della provincia.

«Il decreto legislativo luogotenenziale 11 gennaio 1946, n. 18, articoli 2 e 4, porta ad una differenza di trattamento fra lavoratori ed impiegati delle stesse officine e degli stessi uffici, creando malcontenti e discordie. (L’interrogante chiede la risposta scritta).

«Notarianni».

«I sottoscritti chiedono di interrogare il Ministro dell’interno, per conoscere se sia stata costituita una Commissione di studio per le riforme da apportare alla legge comunale e provinciale e, nel caso affermativo, per sapere quali motivi abbiano impedito di aderire alla richiesta avanzata dall’Associazione nazionale dei comuni perché fosse chiamata a parteciparvi una rappresentanza dell’Associazione stessa, la quale avrebbe apportato alla preparazione del progetto il contributo della conoscenza diretta delle aspirazioni ed esigenze delle Amministrazioni comunali interessate alla formazione di una legge, che deve regolarne la vita e le attività. (Gli interroganti chiedono la risposta scritta).

«Dozza, Fedeli Aldo, Quintieri Adolfo».

«Il sottoscritto chiede di interrogare i Ministri delle finanze e del tesoro, per conoscere le risultanze dell’inchiesta ultimamente condotta in merito all’assorbimento del Monte di Pietà di Pistoia da parte della Cassa di risparmio di Pistoia e Pescia. (L’interrogante chiede la risposta scritta).

«Di Gloria».

«Il sottoscritto chiede d’interrogare il Ministro della pubblica istruzione, per sapere se non ritenga opportuno consentire che partecipino ai concorsi per titoli, che saranno prossimamente banditi per i maestri elementari, anche gli insegnanti provvisori con almeno cinque anni di insegnamento. (L’interrogante chiede la risposta scritta).

«Colitto».

«Il sottoscritto chiede d’interrogare il Ministro del lavoro e della previdenza sociale, perché consideri se non sia opportuno – per riparare ad una situazione di vera ingiustizia – autorizzare l’Ufficio contributi unificati e per esso le Commissioni comunali, di cui all’articolo 4 del decreto legislativo luogotenenziale 8 febbraio 1945, n. 75, a redigere elenchi di lavoratori agricoli a giornata, suppletivi degli elenchi compilati per l’anno agrario 1940-41, essendosi accertato che moltissimi lavoratori, che pure erano braccianti agricoli, non chiesero l’iscrizione ignorando, per il loro tenore di vita, le relative disposizioni, ed a redigere gli elenchi base per l’annata predetta nei Comuni, in cui non lo furono affatto. (L’interrogante chiede la risposta scritta).

«Colitto».

«Il sottoscritto chiede d’interrogare il Ministro della pubblica istruzione, perché consideri se non sia opportuno consentire che si presentino ai prossimi esami di maturità classica anche privatisti nati nel 1929, pur non avendo trascorsi tre anni dal conseguimento della licenza ginnasiale.

«Opportuno il provvedimento potrebbe essere ritenuto pel fatto che nell’anno scolastico 1943-44, a causa degli eventi bellici, molti licei restarono chiusi, per cui molti alunni per un anno non potettero attendere ai loro studi. (L’interrogante chiede la risposta scritta).

«Colitto».

«Il sottoscritto chiede d’interrogare il Ministro dei trasporti, per conoscere se – in considerazione del fatto che il nuovo orario ferroviario peggiora le comunicazioni nella zona Ancona-Bologna, specialmente fino a Rimini – non creda necessario ed opportuno di far proseguire – almeno fino a Rimini – il treno in arrivo in Ancona da Pescara alle ore 22, per rendere possibile la coincidenza a Falconara col rapido da Roma delle ore 22.30, che altrimenti lascia ivi i viaggiatori fino alle ore 1.40 per prendere il treno Lecce-Milano, sempre gremitissimo, avvertendo che tale enorme disagio si aggraverà nella stagione estiva, quando i viaggiatori provenienti dalla linea di Roma dovranno recarsi in gran numero nelle stazioni balneari di Senigallia, Fano, Pesaro, Cattolica, Riccione, Rimini. (L’interrogante chiede la risposta scritta).

«Filippini».

«I sottoscritti chiedono di interrogare i Ministri delle finanze e del tesoro, per sapere se – in considerazione del ritardo e delle difficoltà verificatesi nel funzionamento normale degli organi di accertamento e giurisdizionali dei valori in base ai quali vengono applicate le tassazioni ordinarie e di plus valore sugli atti di trasferimento – non sia equo ed opportuno prorogare fino al 30 giugno 1947 la facoltà agli Uffici del registro di accordare la riduzione del terzo per i concordati di accertamento valore nei trasferimenti avvenuti fino a tutto marzo 1945. (Gli interroganti chiedono la risposta scritta).

«Piemonte, Lami Starnuti, Momigliano».

«Il sottoscritto chiede d’interrogare i Ministri delle finanze e del tesoro, per sapere che cosa si opponga alla emanazione della tanto attesa «modifica al regio decreto-legge 10 marzo 1938, n. 330, recante agevolazioni all’industria delle costruzioni navali e dell’armamento», che, approvata dalle Commissioni legislative permanenti fin dal 13 marzo 1947 è tosto inviata al Governo, attende tuttora che questi provveda alla sua pubblicazione; col rilievo che questo ingiustificato e deplorevole ritardo sta rendendo sempre più vana la misura di corresponsione del premio per la ricostruzione della marina, in conseguenza della progressiva svalutazione della moneta. (L’interrogante chiede la risposta scritta).

«Minio».

«Il sottoscritto chiede d’interrogare il Presidente del Consiglio dei Ministri e il Ministro dell’interno, per sapere se sia vero che una notevole quantità di D.D.T., già assegnata alla Sardegna, sia stata invece destinata ad altra Regione, riducendo così la disponibilità dei mezzi essenziali alla prosecuzione della lotta antianofelica, mentre da più parti si manifestano seri timori di recrudescenze malariche in rapporto specialmente all’eccezionale esistenza di focolai acquitrinosi che permangono in dipendenza della eccessiva piovosità invernale. E per conoscere quali provvedimenti il Governo intenda adottare per assicurare che la lotta antimalarifera in Sardegna prosegua secondo i programmi prestabiliti e le effettive esigenze dell’Isola. (L’interrogante chiede la risposta scritta).

«Chieffi».

«Il sottoscritto chiede d’interrogare il Ministro della pubblica istruzione, per conoscere i motivi che hanno consigliato la revoca del provvedimento che consentiva agli studenti iscritti alla Facoltà di scienze coloniali e lingue presso l’Università di Napoli, di sostenere i relativi esami presso l’Università di Roma.

«Poiché il provvedimento era stato consigliato dalle enormi difficoltà economiche e logistiche che, dati i tempi eccezionali, i numerosissimi studenti residenti a Roma avrebbero incontrato nel trasferirsi a Napoli per sostenere gli esami, non si vede la giustificazione della revoca, essendo le predette gravi condizioni per nulla migliorate, ma al contrario, peggiorate. (L’interrogante chiede la risposta scritta).

«Mastrojanni».

«Il sottoscritto chiede d’interrogare il Ministro della difesa (esercito), per conoscere quali provvedimenti siano stati presi nei confronti degli studenti universitari che hanno frequentato i corsi allievi ufficiali in seno alla milizia universitaria.

«Il Governo Badoglio li ammise ad un campo d’armi, al termine del quale avrebbero conseguito il grado di caporali maggiori-allievi ufficiali, come gli altri studenti che frequentarono i pre-corsi allievi ufficiali. E per chiedere, inoltre, quali siano i provvedimenti relativi alla posizione militare di quanti frequentarono sia i pre-corsi allievi ufficiali terminati l’8 settembre 1943, sia i campi d’armi, sostenendo, al termine, gli esami per la nomina a caporali maggiori-allievi ufficiali. (L’interrogante chiede la risposta scritta).

«Mastrojanni».

«Il sottoscritto chiede d’interrogare il Ministro della difesa, per conoscere:

1°) se intenda prendere provvedimenti per migliorare l’indennità di riserva (articolo 48 della legge sullo stato degli ufficiali, n. 369, del 9 maggio 1940), agli ufficiali collocati in tale posizione: miglioramento attuato in favore di tutti i salariati, in dipendenza della diminuita capacità di acquisto della moneta;

2°) se, qualora il miglioramento non sia stato effettuato per mancata assegnazione di fondi da parte del Ministro del tesoro, come il Ministro della guerra accennava sette mesi fa nella risposta ad una precedente analoga interrogazione, non ritenga doveroso (per la tutela che ogni Ministero deve avere per i propri amministrati), di indurre l’anzidetto Ministro del tesoro a rompere il suo tenace ed inesplicabile silenzio, che suona offesa a numerosi ufficiali che servirono fedelmente ed a lungo la Patria in pace e in guerra. (L’interrogante chiede la risposta scritta).

«Perugi».

«I sottoscritti chiedono di interrogare il Ministro del lavoro e della previdenza sociale, per sapere se non ritenga necessario, al fine di eliminare un trattamento iniquo nei confronti dei piccoli agricoltori conduttori diretti nel campo dei contributi unificati in agricoltura, di portare allo studio la riforma della legge attuale che regola questa materia, modifica intesa nel senso che i contributi unificati non siano più corrisposti dagli agricoltori in base all’ettaro-coltura, ma sulla effettiva occupazione di mano d’opera extra-familiare.

«È noto infatti che il sistema dell’ettaro-coltura, se può essere gradito per i grandi agricoltori, non può più essere sopportato dai piccoli perché, non impiegando essi lavoratori avventizi o salariati al di fuori del proprio nucleo familiare, si prodigano nei campi a seconda della stagione e dell’urgenza dei lavori.

«Cade quindi con ciò il dato tecnico dell’ettaro-coltura nei riguardi della conduzione del terreno.

«La cura e la custodia del bestiame è per i piccoli agricoltori conduttori diretti un lavoro sempre compiuto extra orario (al mattino presto e a sera molto inoltrata) affinché non vengano distolti i membri della famiglia dai lavori dei campi.

«Con il sistema dell’ettaro-coltura si vengono a colpire così molte aziende che, pur non collocando nessun lavoratore durante la intera annata, sono assoggettate a pagare contributi per lavoratori ipotetici aggiudicati loro dopo le detrazioni di legge delle giornate lavorative concesse ai conduttori diretti.

«È per questo che queste aziende chiedono che venga applicata loro non la legge dell’ettaro-coltura ma quella della reale occupazione di mano d’opera. In questo modo ogni azienda, sia grossa sia piccina, pagherà effettivamente il contributo che le compete. (Gli interroganti chiedono la risposta scritta).

«Bertola, Pastore Giulio».

«Il sottoscritto chiede di interrogare i Ministri dell’interno, delle finanze e del tesoro, per conoscere i motivi che hanno consigliato la formulazione degli articoli 3 e 4 del decreto legislativo 13 dicembre 1946, n. 531, compiendosi con ciò un grave atto di ingiustizia che colpisce solo i dipendenti degli Enti locali.

«Gli articoli 3 e 4 tolgono a questi impiegati modesti benefici economici goduti spesso da molti anni ed acquisiti in dipendenza di precise norme di regolamenti e di organici, benefici però che vengono invece conservati ai dipendenti dello Stato.

«Per conoscere anche quali provvedimenti si intenda di emanare per sanare la determinazione presa che ha apportato, in questi gravi momenti, una diminuzione di retribuzione ad una benemerita categoria di lavoratori, che, pur vivendo nelle stesse sedi, specialmente nei grandi Comuni, sembra non abbiano, secondo l’ingiusto provvedimento, le stesse esigenze degli impiegati dello Stato.

«Si aggiunge che in molti Comuni, Provincie od Enti, dove sono comandati impiegati statali, a questi vengono corrisposti, a carico dei bilanci degli Enti, quegli assegni che sono stati invece tolti e negati ai dipendenti degli Enti stessi. (L’interrogante chiede la risposta scritta).

«Di Fausto».

«Il sottoscritto chiede d’interrogare il Ministro della difesa, per conoscere i motivi per cui non sono stati fatti pervenire regolarmente ai relativi Distretti militari i nulla osta di discriminazione per i militari che dopo l’armistizio sono stati soggetti ad interrogatori, e poi discriminati.

«Data l’obbligatorietà della presentazione di detto documento per qualsiasi assunzione, si ritiene doveroso, verso chi ha sacrificato anni al servizio della Patria, regolarizzare al più presto questa situazione. (L’interrogante chiede la risposta scritta).

«Mazza».

«Il sottoscritto chiede d’interrogare il Presidente del Consiglio dei Ministri, per conoscere i motivi per cui non si è provveduto alle assegnazioni delle borse di studio che i reduci universitari vincitori del concorso bandito dal Ministero dell’assistenza post-bellica hanno regolarmente vinto dopo la compilazione delle graduatorie e la proclamazione dei vincitori.

«Si chiede di provvedere con urgenza anche perché la quasi totalità dei vincitori versa in condizioni economiche disastrose e non è in condizioni di continuare gli studi. (L’interrogante chiede la risposta scritta).

«Mazza».

«Il sottoscritto chiede d’interrogare il Ministro della pubblica istruzione, per sapere se intenda stabilire a favore dei geometri la ammissibilità ai corsi universitari della Facoltà di agraria. (L’interrogante chiede la risposta scritta).

«Di Gloria».

«Il sottoscritto chiede di interrogare i Ministri dei lavori pubblici e dell’agricoltura e foreste, per sapere se siano state accertate le cause per le quali i lavori predisposti dal Genio civile non valsero ad impedire che a brevissima distanza di tempo si rinnovasse nella medesima località la rottura dell’argine del canale Bisatto, con il conseguente allagamento di una superficie molto estesa di terreno nei comuni di Lozzo Atestino e Vò Euganeo (Padova), dove le campagne e le colture subirono gravissimi danni.

«L’interrogante chiede inoltre se i Ministeri competenti intendano predisporre di urgenza in quella zona una radicale sistemazione idraulica atta a eliminare per sempre la minaccia di nuovi sinistri del genere e quali provvidenze saranno prese allo scopo di alleviare i gravi danni economici subiti dagli agricoltori nei due allagamenti succedutisi nella corrente stagione. (L’interrogante chiede la risposta scritta).

«Guariento».

«Il sottoscritto chiede d’interrogare il Ministro delle finanze, per conoscere a quale criterio si sia ispirata l’Amministrazione dei monopoli di Stato nel fissare i prezzi da corrispondere ai produttori di tabacco d’Abruzzo, in confronto di quelli stabiliti per i produttori del Lazio e di altre Regioni.

«Risulta, infatti, dalla circolare 9 agosto 1946, n. 1-6221, servizio I, che per la varietà «Perustitza» il prezzo relativo per la produzione abruzzese è stato fissato in lire 68.000 al quintale, là dove per il Lazio è di lire 75.000; il che importa una maggiorazione a favore dei produttori laziali di lire 7.000, corrispondente a circa un decimo del prezzo globale.

«Tale inesplicabile disparità è accresciuta dal fatto che, mentre è consentito alla commissione di perizia di variare il prezzo, a seconda della qualità intrinseca del tabacco, dall’1 al 20 per cento, per la varietà «Iaka» nel compartimento di Lecce e per quella «Perustitza» nel Lazio, tale facoltà è limitata dall’1 al 10 per cento, per le stesse varietà prodotte in altre regioni, tra le quali è da annoverare l’Abruzzo. Il che danneggia i produttori abruzzesi, in quanto la varietà «Perustitza» e quella similare «Ova» rappresentano circa l’80 per cento delle varietà da essi prodotte.

«È opportuno rilevare che, per le vicende belliche, che hanno funestato le zone particolarmente produttrici di tabacco in Abruzzo, i costi di produzione debbono ritenersi equiparati a quelli delle altre regioni, poiché – dopo sette mesi di devastazione che distrussero innumeri case coloniche, l’uccisione di bestiame, la distruzione di alberature, vigneti, masserizie – ne è derivata anche la perdita di ogni attrezzatura utile alla coltura del tabacco (telaini, tavolame per semenzai, ecc.).

«Pertanto, giustizia avrebbe voluto che, se quote preferenziali si fossero dovute stabilire, esse in nessun caso avrebbero dovuto escludere la produzione di tabacco abruzzese, che investe l’attività di oltre 10.000 coltivatori, disseminati nelle provincie di Chieti, Pescara e Teramo, e che producono in 54 comuni per la A.T.I., in 30 per la «Buccolini» di Pescara, in 22 per la S.A.L.T.O. di Vasto, e per altre numerose ditte in comuni minori.

«Né sarebbe possibile obbiettare, a giustificazione della lamentata differenza di prezzo, la diversità del tabacco prodotto in Abruzzo, in confronto a quello leccese o laziale, essendo a tutti noto che l’Azienda tabacchi italiani – che è la maggiore concessionaria nella nostra regione – esporta il nostro prodotto nelle Americhe, in concorrenza alle ditte concessionarie del Leccese, in quanto gli acquirenti stranieri preferiscono il tabacco di Abruzzo.

«Alla stregua di tali rilievi si confida che codesto Ministero sottoponga a revisione i prezzi stabiliti dalla suaccennata circolare, adeguandoli in misura uniforme così per i produttori di Abruzzo, come per quelli del Lazio e del Leccese. (L’interrogante chiede la risposta Scritta).

«Lopardi».

«Il sottoscritto chiede d’interrogare il Ministro della pubblica istruzione, per conoscere quali provvedimenti ritiene equo adottare, per assicurare un più umano trattamento ai benemeriti istitutori assistenti del Convitto nazionale «Damiano Chiesa» di Bolzano. Abbandonati senza riconoscimento giuridico, con uno stipendio mensile – dicesi mensile – di circa millecinquecento lire, essi non sono considerati né statali, né avventizi, né lavoratori a giornata. (L’interrogante chiede la risposta scritta).

«Ghidetti».

«II sottoscritto chiede d’interrogare il Ministro della difesa, per conoscere le ragioni che si oppongono al saldo dei risparmi fatti dagli ex prigionieri militari addetti a lavoro retribuito in Inghilterra, autorizzato dal Ministero del tesoro con nota 176733 sin dal 31 dicembre 1946. (L’interrogante chiede la risposta scritta).

«Piemonte».

«Il sottoscritto chiede di interrogare il Governo, per sapere se siano state sottoposte a rigoroso esame le notizie recate a più riprese da connazionali e stranieri, e divulgate anche ultimamente dalla stampa quotidiana, sulla presenza di italiani ancora trattenuti come prigionieri di guerra in Russia e come prigionieri o internati civili in Jugoslavia; e per avere la certezza che nulla di quanto è umanamente possibile viene trascurato dall’Italia per fare luce su questo argomento dolorosissimo e ottenere che i suoi figli le siano restituiti. (L’interrogante chiede la risposta scritta).

«Gortani».

«Il sottoscritto chiede d’interrogare il Ministro della difesa, per sapere se non ritenga urgente sollecitare il pagamento delle indennità di requisizione e dei danni subìti dai proprietari della zona di Barcellona Pozzo di Gotto, dove fu costruito un campo di aviazione per le truppe anglo-americane, nel 1943. (L’interrogante chiede la risposta scritta).

«Basile».

«Il sottoscritto chiede d’interrogare il Ministro dell’interno, per conoscere i motivi per i quali nelle Amministrazioni pubbliche dell’Emilia e Romagna (Provincie, Comuni ed Opere Pie), nei confronti di moltissimi ex dipendenti, regolarmente discriminati con le formule più ampie, e tra i quali parecchi reduci e combattenti della guerra di liberazione, non vengono applicate le norme vigenti contenute nel decreto legislativo luogotenenziale 26 marzo 1946, n. 138, che sanciscono l’obbligo per le Amministrazioni suddette di riassumere i reduci con il pagamento integrale degli assegni arretrati secondo gli articoli 134 e seguenti del suddetto decreto. (L’interrogante chiede la risposta scritta).

«Selvaggi».

«Il sottoscritto chiede d’interrogare il Ministro dell’industria e del commercio, per sapere se e come s’intenda provvedere a che le Camere di commercio, industria ed agricoltura possano finalmente addivenire alla elezione degli organi camerali, soddisfacendo le vive aspirazioni dei ceti economici interessati e ponendo termine ad uno stato di cose che da troppo lungo tempo contraddice alle esigenze più elementari di un regime democratico. (L’interrogante chiede la risposta scritta).

«Coppi».

«Il sottoscritto chiede d’interrogare il Ministro di grazia e giustizia, per sapere se non creda affrettare i lavori di scrutinio del concorso notarile, chiuso da oltre un anno e di cui non è previsto l’esito se non tra parecchi mesi, con grave iattura dell’interesse pubblico per la vacanza delle sedi notarili e con evidente disagio dei concorrenti. (L’interrogante chiede la risposta scritta).

«Bertini».

«Il sottoscritto chiede d’interrogare il Ministro del tesoro, sulle effettive ragioni per le quali non è stato approvato il decreto di omologazione del nuovo regolamento organico del comune di Messina. (L’interrogante chiede la risposta scritta).

«Martino Gaetano».

II sottoscritto chiede d’interrogare il Ministro dell’agricoltura e delle foreste, per sapere se intende dare opportune e tempestive disposizioni perché venga fin d’ora stabilito, e reso noto agli agricoltori, che, per la prossima campagna di produzione granaria 1947-1948, all’attuale sistema degli ammassi totalitari, sarà sostituito quello più logico e più utile economicamente degli ammassi per contingente. (L’interrogante chiede la risposta scritta).

«Persico».

«Il sottoscritto chiede d’interrogare il Ministro dei trasporti, per sapere se è possibile accelerare l’inizio della costruzione della ferrovia elettrica a scartamento ridotto Napoli-Aversa, che, diramandosi dall’attuale linea Napoli-Nola-Baiano, toccherebbe i comuni di Afragola, Caivano, Frattamaggiore, Grumo, S. Antimo, Cesa ed Aversa. L’attuazione di tale linea ferroviaria, già progettata dalla Società strade ferrate secondarie meridionali, sarebbe di vitale importanza per lo sviluppo economico di una importantissima zona agricola che ha eccezionali possibilità produttive, con vantaggio non solo della popolazione interessata, ma dell’intera Nazione. (L’interrogante chiede la risposta scritta).

«Persico».

«Il sottoscritto chiede d’interrogare il Ministro dei trasporti per sapere se non intenda dare al più presto opportune disposizioni per provvedere di decenti vetture la linea ferroviaria Roma-Napoli (via Cassino), sulla quale, oltre a poche vetture di terza, si agganciano pel servizio viaggiatori dei veri e propri carri bestiame. (L’interrogante chiede la risposta scritta).

«Persico».

«Il sottoscritto chiede d’interrogare il Ministro dei lavori pubblici, per conoscere per quali ragioni non si siano ancora iniziati i lavori di costruzione del ponte sul Volturno, ove ora si trova la scafa di Caiazzo (Caserta), che è reclamato urgentemente dalle popolazioni dell’Alifano per ricollegarsi col capoluogo della Provincia.

«Ad analoga interrogazione ebbe a rispondere favorevolmente il Ministro dell’epoca fin dal 27 settembre 1946, e recentemente la Camera di commercio, industria e agricoltura di Caserta ha fatto pervenire un voto al Ministero perché si provveda nel minor tempo possibile. (L’interrogante chiede la risposta scritta).

«Persico».

«Il sottoscritto chiede d’interrogare il Ministro della difesa, per sapere quando sarà risolta definitivamente l’annosa questione del ritorno dell’Accademia aeronautica alla sua storica sede di Caserta, soddisfacendo all’ardente desiderio di quella nobilissima città. Ciò in aderenza a quanto ebbe ad assicurare, in risposta ad analoga interrogazione, fin dal 20 agosto 1946, l’allora Ministro dell’aeronautica ed attualmente della difesa. (L’interrogante chiede la risposta scritta).

«Persico».

«Il sottoscritto chiede d’interrogare il Ministro delle finanze, per sapere se intende ripristinare al più presto l’Ufficio del registro e bollo a Trentola (Caserta), soddisfacendo ai bisogni della popolazione della zona, riparando una ingiustizia commessa dal Governo fascista e sopra tutto rendendo più difficili le evasioni e meno sproporzionate le applicazioni di tasse. (L’interrogante chiede la risposta scritta).

«Persico».

«I sottoscritti chiedono,di interrogare il Ministro dei trasporti, per sapere:

  1. a) se non ritenga di assoluta necessità e della massima urgenza sollecitare la ricostruzione, anche in muratura o cemento armato, qualora non vi sia sufficiente disponibilità di prodotti ferrosi, del ponte sul fiume Magra, sulla linea Parma-Spezia, tra le stazioni di Verrano Ligure e Santo Stefano, al fine di evitare l’attuale obbligato ed antieconomico allungamento di percorso, via Sarrana, che gravemente ostacola non solo il movimento del traffico merci e passeggeri, ma anche la normale ripresa della funzionalità del porto mercantile della città di Spezia;
  2. b) se allo stesso fine non ritenga altrettanto urgente e necessario procedere al totale ripristino della trazione elettrica della linea stessa sollecitandone i lavori di riattivazione già in corso;
  3. c) se non riconosca altresì l’opportunità e l’utilità di studiare ed attuare lavori di raddoppiamento del binario di corsa, ove possibile, nonché l’adozione degli accorgimenti tecnici ritenuti idonei allo snellimento del traffico sull’intera linea in oggetto, anche in considerazione del sempre crescente sviluppo di scambi e di attività commerciali tra i due grandi centri di Parma e Spezia cui essa fa capo. (Gli interroganti chiedono la risposta scritta).

«Guerrieri Filippo, Gotelli Angela».

«Il sottoscritto chiede d’interrogare il Ministro delle finanze, per sapere se non sia opportuno venire incontro alle legittime richieste degli agricoltori della provincia di Caserta, i quali si trovano per speciali condizioni nella assoluta impossibilità di versare il riscatto dell’imposta ordinaria sul patrimonio nei termini fissati, ratizzando in 24 rate anziché in 10 il pagamento stesso. (L’interrogante chiede la risposta scritta).

«Persico».

PRESIDENTE. Le interrogazioni testé lette saranno iscritte all’ordine del giorno e svolte al loro turno, trasmettendosi ai Ministri competenti quelle per le quali si chiede la risposta scritta.

La seduta termina alle 18.5.

Ordine del giorno per le sedute di domani.

Alle ore 10:

Seguito della discussione del progetto di Costituzione della Repubblica italiana.

Alle ore 16:

Discussione sulle comunicazioni del Governo.

SABATO 7 GIUGNO 1947

ASSEMBLEA COSTITUENTE

CXLI.

SEDUTA DI SABATO 7 GIUGNO 1947

PRESIDENZA DEL PRESIDENTE TERRACINI

indi

DEL VICEPRESIDENTE CONTI

INDICE

Congedi:

Presidente                                                                                                        

Progetto di Costituzione della Repubblica italiana (Seguito della discussione):

Presidente                                                                                                        

Lami Starnuti                                                                                                  

Conti                                                                                                                

Ruini, Presidente della Commissione per la Costituzione                                      

Cassiani                                                                                                            

Grieco                                                                                                              

Russo Perez                                                                                                      

Caccuri                                                                                                            

Martino Enrico                                                                                               

La seduta comincia alle 10.

MOLINELLI, Segretario, legge il processo verbale della precedente seduta antimeridiana.

(È approvato).

Congedi.

PRESIDENTE. Comunico che hanno chiesto congedo i deputati Natoli, Bertoni, Ferreri e Giacchero.

(Sono concessi).

Seguito della discussione del progetto di Costituzione della Repubblica italiana.

PRESIDENTE. L’ordine del giorno reca il seguito della discussione del progetto di Costituzione della Repubblica italiana.

Si è dato ieri inizio allo svolgimento degli ordini del giorno.

L’ordine del giorno dell’onorevole Nobile è già stato svolto. Esso è del seguente tenore:

«L’Assemblea Costituente,

considerato che la questione dell’ordinamento regionale per la sua gravità imporrebbe non solo la più ampia discussione generale, ma anche un esame approfondito, sia tecnico che politico, di ognuno dei singoli articoli che costituiscono il Titolo V del progetto di Costituzione,

considerata l’opportunità di affrettare i propri lavori,

delibera:

di abolire il Titolo V e di inserire nel progetto un articolo che rinvii l’ordinamento regionale ad una legge avente valore costituzionale da discutersi ed approvarsi dal futuro Parlamento».

Segue l’ordine del giorno dell’onorevole Nobili Tito Oro:

«L’Assemblea, visto il titolo V della Parte II del progetto di Costituzione (articoli 106-131), rileva che la creazione dell’ente regione è ancora immatura nella coscienza del popolo; ritiene che, comunque, essa non debba essere proclamata prima di aver fatto tesoro dei risultati degli esperimenti in corso per le autonomie regionali già deliberate dal Governo.

«Ma, riaffermando, fin d’ora, che è compito della Repubblica riordinare l’Amministrazione in via legislativa sulla base delle autonomie locali e di un razionale decentramento, approva l’articolo 106 del progetto, come garanzia della osservanza di tale indirizzo».

L’onorevole Nobili Tito Oro in questo momento è impegnato per i lavori della Giunta delle elezioni e quindi non può svolgere il suo ordine del giorno.

Segue l’ordine del giorno dell’onorevole Rubilli:

«L’Assemblea Costituente,

considerato che l’istituzione dell’Ente Regione non risponde ad alcuna necessità che si sia realmente manifestata, e non può seriamente ritenersi in alcun modo richiesta o reclamata dal popolo italiano;

che i giusti ed opportuni criteri di decentramento potranno essere attuati indipendentemente dalla creazione di enti regionali;

che ad ogni modo, per ora almeno, una grande riforma come quella che si prospetta per le Regioni non appare, anche secondo il progetto, ben ponderata nelle sue non lievi conseguenze dal punto di vista politico, amministrativo e specialmente finanziario, sicché non sembra possibile, di fronte alle enormi difficoltà del periodo che si attraversa, lanciarsi con leggerezza incontro ad incognite preoccupanti e pericolose;

delibera, anche senza affermazioni vaghe e generiche, le quali potrebbero rappresentare inopportuni ed affrettati vincoli, che sia rinviato senz’altro alla Camera legislativa l’esame di pratici, concreti e completi progetti di legge, sia pure di carattere costituzionale, per un oculato decentramento che giunga, se possibile, anche ad una riforma regionale, ed intanto sia stralciato dalla Costituzione in esame l’intero Titolo V, relativo alle Regioni e ai Comuni».

Non essendo l’onorevole Rubilli presente, s’intende che abbia rinunciato a svolgerlo.

Segue l’ordine del giorno dell’onorevole Abozzi, già svolto:

«L’Assemblea, convinta che l’istituzione dell’Ente Regione non risponde alle attuali necessità politiche, economiche e sociali della Nazione,

che l’Ente Provincia – aggruppamento di interessi locali unitari e naturali – deve essere allargato e potenziato;

delibera di affermare in un articolo di Costituzione che la Repubblica attuerà un largo decentramento a base provinciale».

Segue l’ordine del giorno dell’onorevole Zuccarini, già svolto:

«L’Assemblea Costituente considera la Regione come elemento essenziale della nuova struttura democratica dello Stato italiano, le cui possibilità di vita e di funzionamento dipenderanno specialmente da una immediata e profonda riforma dell’attuale apparato burocratico, ad attuare la quale dovranno essere subito presi i provvedimenti necessari».

Segue l’ordine del giorno dell’onorevole Lami Starnuti:

«L’Assemblea, riconosciuta la necessità di far luogo al decentramento amministrativo dello Stato a mezzo di un Ente autarchico territoriale a carattere regionale, delibera di passare alla discussione degli articoli compresi nel Titolo V della seconda parte del progetto di Costituzione».

L’onorevole Lami Starnuti ha facoltà dì svolgerlo.

LAMI STARNUTI. Mantengo quest’ordine del giorno, ma rinuncio a svolgerlo.

PRESIDENTE. Segue l’ordine del giorno dell’onorevole Conti, così concepito:

«L’Assemblea Costituente, considerata la decisiva importanza dell’adozione dell’ordinamento regionale per la realizzazione della struttura democratica dello Stato, delibera di passare alla discussione degli articoli».

L’onorevole Conti ha facoltà di svolgerlo.

CONTI. Onorevoli colleghi, la prova migliore della necessità della riforma che noi propugniamo è data anche da questo spettacolo: aula spopolata. Siamo di fronte oggi, come fummo nel passato, alla decadenza, si può, anzi, dire di più, alla fine del sistema parlamentare.

Il sistema parlamentare è finito in Italia e in Europa. Non se ne accorgono i vecchi parlamentari e meno ancora i parlamentaristi, e, direi, quasi tutti coloro che si occupano di problemi politici.

Quando si è ricostituita la Camera in questa forma di Costituente, si sono celebrati i sistemi parlamentari. Abbiamo udito, sempre con molto piacere, il nostro maestro, maestro nel senso più elevato, l’onorevole Orlando. Lo abbiamo ascoltato con commozione negli ultimi suoi interventi e quando fu ricordato il cinquantenario del suo ingresso nella vita politica, definirsi il «parlamentare». Lo ha fatto legittimamente. L’onorevole Orlando è un vecchio parlamentare che va verso il tramonto con il sistema che egli ha sostenuto ed amato.

Se il sistema parlamentare è finito, bisogna provvedere alla creazione di nuovi istituti rappresentativi. I tempi consigliano, naturalmente, adattamenti, che non possono essere diversi da quelli della democrazia diretta. È il popolo che deve essere chiamato a governarsi.

Quando si è detto qui dentro da più oratori che con la forma regionalista si vuol creare la democrazia, si è detta una grande verità. Non si è illustrato il concetto, ma grande verità è questa che si è affermata. Con la riforma regionale si va verso l’organizzazione di un sistema rappresentativo utile ed efficace. Se non provvederemo all’attuazione del sistema regionale, noi ritorneremo nel nullismo statale e parlamentare in cui siamo stati nel passato. Ho qui un vecchio articolo di Napoleone Colajanni su II Secolo di Milano. È del 1902. In questo articolo egli denunciava il pericolo di fronte al quale si trovavano le istituzioni parlamentari. Parlo del 1902, del 1903, di un tempo interessante, che si evoca spesso con rimpianto. Potete sfogliare le collezioni di qualunque giornale del tempo: vedrete che si verificava allora questo fenomeno scandaloso: la Camera era questa che è oggi, l’Assemblea viveva, allora, così, senza vita, senza interessamento per tanti problemi. Colajanni, affrontando il problema ed esaminando le critiche che si facevano su tutti i giornali, le denunzie dell’impotenza e dell’incapacità della Camera a provvedere agli interessi del Paese, diceva che l’unico provvedimento che ci poteva essere era una grande riforma federalistica. Bisogna andare al federalismo, far sorgere stati regionali. Oggi diciamo: «facciamo vivere almeno le regioni». Colajanni elencava tutti i danni del sistema accentratore; ed elencava le tredici, quattordici buone ragioni per cui bisognava dare il nuovo sistema, e diceva i vantaggi del nuovo sistema.

Che vi illudete possa fare la Camera dei Deputati che sarà eletta, se avrà le funzioni dell’antica Camera? Accademia, oppure contrasti permanenti tra i partiti ostinati nel continuare «a fare la politica». Purtroppo noi facciamo politica, facciamo disegni, cioè ci inganniamo, ci portiamo per il naso, facciamo cospirazioni, giuochi di corridoio. Onorevoli colleghi, questa scandalosa vita viviamo qua dentro anche oggi. Se così dovesse continuare, se la Repubblica ci dovesse dare un sistema come quello del passato, vi giuro che sentirei di aver sprecato gli anni migliori della mia vita per vedere tradito il sogno della mia gioventù. Se la Repubblica dovesse essere, per questo aspetto almeno, quella che fu la monarchia, non saprei rassegnarmi. La Repubblica deve essere conquista della democrazia; la Repubblica deve crearla, deve, cioè, far vivere politicamente il popolo, al quale, purtroppo, non crede quasi nessuno. Purtroppo non credono nel popolo gli amici, qui a sinistra; voi non credete nell’uomo: voi manovrale la massa; organizzate le masse e procedete: duci in testa, massa dietro ai duci. Questa è la situazione: ed ecco perché voi ed anche tanti altri dell’Assemblea parlate della necessità di creare in Italia la nuova classe dirigente. Perché una classe dirigente?

COSTANTINI. Se non c’è.

CONTI. Non ci deve essere, caro il mio amico democratico. Lei, onorevole Costantini, e altri molti siete democratici nel senso paternalistico della parola, siete democratici al modo giolittiano; siete democratici come Giolitti, che del resto sopravanzava tanti nel credere alla libertà ed alla democrazia. Bisogna essere giusti, dopo un certo tempo, anche con coloro che abbiano combattuto. Molti dei rivoluzionari di oggi sono, quanto a democrazia, dei poverelli, sono gretti conservatori in confronto di Giovanni Giolitti.

Si vuole, dunque, creare la classe dirigente, e restare sempre allo stesso punto: popolo che bela e dirigenti che comandano: gerarchie. Questa è la situazione alla quale andiamo incontro, se procediamo come abbiamo proceduto fino ad oggi. Ma non vedete cosa è questa Assemblea Costituente? Qui interessano le interrogazioni. Si interroga il Ministro dei lavori pubblici per sapere come qualmente non è stato costruito il ponte fra Scaricalasino e Piticchio: si interroga per piccoli interessi locali. Questi sono i problemi che interessano. Ma volete un’idea della effettiva funzione dell’antica Camera dei Deputati? Prendete un momento quei tre volumi che sono vicini al tavolo del nostro direttore di Segreteria, il bravo ed illustre professor Migliore. Sono indici legislativi. Guardateli: levatevi la curiosità. Io ho preso degli appunti. Di che cosa si occupava la Camera dei Deputati quando funzionava trionfalmente?

Ma prima, consentitemi il ricordo di un episodio. Eravamo nel periodo fascista. Un giorno salii al Tribunale civile di Roma, all’ultimo piano del palazzo di giustizia. Allo sbocco della porticella dell’ascensore trovai in cordiale conversazione l’amico onorevole Finocchiaro Aprile, l’amico onorevole Molè e non ricordo quale altro collega delle vecchie legislature. Erano in piena euforia questi tre colleghi carissimi. Ah! Conti – mi dissero in coro – ricordi che bella Camera! Che bei discorsi? Ah! Che bellezza! – Come non ricordo: dissi io. Ma che cosa era quella Camera se non un’accademia? Che cosa elogiate? Elogiate l’impotenza organizzata, il nullismo? Sì, signori, era proprio questa la constatazione che dovevo fare. In Italia abbiamo avuto sempre una Camera composta di uomini illustri. Grandi uomini sono passati qui dentro. Io conosco questo ambiente da quando ero ragazzo: avevo otto, dieci anni quando ero nelle tribune della vecchia aula. Ho visto Crispi al banco del Governo. Pugno di ferro e pugni del banco del Governo… (Ilarità). Grandi uomini sono stati alla Camera italiana. Gli uomini ricordati con i marmorei busti che sono lassù, al primo piano, sono una modesta rappresentanza. Potremmo riempire tutti i corridoi con busti di altri grandi uomini e ripetere il verso di Pascarella: «Ma quelli busti prima d’esse busti, so’ stati tutti quanti ommini veri». (Ilarità). Sicuro, alla Camera sono passati, dal ’60 in poi, grandissimi uomini: Minghetti, Farini il dittatore, Sella, Lanza (notate una cosa, che ha la sua importanza: Lanza era medico, Sella era uno scienziato, mi pare che fosse geologo). Ho citato nomi di uomini che hanno restaurato la finanza nazionale ed hanno impresso i segni della serietà alla vita politica nazionale, benché uomini chiusi, moderati, incapaci di capire i tempi e di muovere verso l’avvenire. Ho nominato ed elogiato questi uomini di scienza perché qua dentro siamo troppi avvocati.

Una voce. Siamo molto meno di prima.

CONTI. Qui sono passati tanti altri uomini veramente illustri: Ruggero Bonghi, che, spesso, mi ricorda Nitti, per le contradizioni, ma uomo di ingegno gigante, di erudizione senza confronti, spirito libero soprattutto, capace di giudizi aspri e difficilmente capace di lodare: uomo forte; e Sonnino e Salandra e Zanardelli e Giolitti e Ferdinando Martini e Luigi Luzzatti e all’estrema: Bertani, Giovanni Bovio, Cavallotti, Imbriani, Turati, Bissolati.

Ebbene, io dicevo a Finocchiaro Aprile e a Molè: Che state dicendo! Grandi uomini sono passati alla Camera; grandi discorsi; tutto quello che volete; ma non si è concluso niente. L’Italia è stata impotente a risolvere i suoi problemi fondamentali politici, economici, in ogni momento della sua vita. Cosa sono tutti gli elogi del passato che si pronunziano tanto spesso da tanti. «Ai nostri tempi», diceva l’amico Rubilli e faceva elogi. Ma che nostri tempi! Sono stati bassi tempi e mediocrissimi tempi. Tutte le questioni serie qua dentro si sono risolte nel nulla; non si è concluso mai niente; non si è potuto mai concludere niente. Alcuni colleghi qui presenti possono ricordare come fu trattato qui dentro, nel 1922, un grande problema: quello del latifondo siciliano. Erano presenti, e mi fanno testimonianza, l’onorevole Fantoni, l’onorevole Finocchiaro Aprile: pochi e svogliatissimi deputati e squallide erano le sedute antimeridiane, pur presiedute dal nostro amatissimo Presidente De Nicola. Eravamo di fronte a un progetto di legge, lavoro notevolissimo, preparato da studiosi del partito popolare, portato alla Camera da un Ministro popolare dell’agricoltura, dall’onorevole Bertini. Alcuni di noi, appassionati di problemi sociali ed agrari, eravamo al nostro posto. Grande austerità e severità nel lavoro diretto da un Presidente severo e fermissimo quale era De Nicola.

In una seduta noi eravamo dodici. Oggi abbiamo fatto qualche progresso. (Si ride). Troppo ampia questa parentesi…

Prendete, dunque, quei volumi, sono indici legislativi. Vedrete di che cosa si occupava la Camera. Una legge e qualche leggina ogni tanto, tra le discussioni dei bilanci; ma normalmente interrogazioni, interrogazioni, interrogazioni, interpellanze, interpellante, interpellanze, mozioni, mozioni, mozioni: e di tanto in tanto grande burrasca, per l’assalto alla diligenza ministeriale. Ricordo l’attività del nostro carissimo Modigliani. Alla fine di una seduta: domando la parola, squillava l’onorevole Modigliani dal suo banco. E sollevava una questione quasi sempre procedurale per la quale tutto il mare di Montecitorio diveniva burrascoso!

Sfogliate quei volumi. Vi troverete elenchi, elenchi, elenchi di decreti legge che venivano alla Camera per la convalida. Nessuna discussione: o veloci deliberazioni, o proteste. Mille, duemila, cinquemila decreti convalidati. Era questa la vita parlamentare.

MAZZA. Ma questa è l’apologia del regime!

CONTI. Vi leggo, onorevoli col leghi, alcuni miei appunti.

Provvedimenti relativi ai residui disponibili della somma di lire 65.000 concessi dal comune di Acerenza con la legge 7 luglio 1901; conversione in legge del decreto 5 maggio 1918.

Legge per l’acquario di Napoli.

Piano regolatore di Ancona, nella zona esterna a Piazza Cavour. Legge 4 dicembre 1914.

Interrogazione sui premi ai contadini per l’allevamento dei bachi da seta. Provvedimenti per il migliore assetto dell’osservatorio bacologico di Cosenza… (Commenti).

Ordinamento della regia stazione sperimentale della gelsicoltura di Ascoli Piceno.

Convalida di decreto-legge che istituisce in Rovigo una stazione sperimentale di pollicoltura.

Regolarizzazione del corso di acque montane in Sicilia.

Sistemazione del torrente di Modica.

Interrogazione per i cantonieri stradali, per il mancato pagamento di stipendio al medico condotto di Mirto.

Non vi voglio annoiare; ma voglio offrirvi ancora una caratteristica indicazione: istituzione in Roma di un ufficio speciale idraulico forestale per la Calabria e la Basilicata. Ufficio in Roma, capite? non nella regione interessata! Potrei continuare, ma voi potete divertirvi e meditare quanto vorrete leggendo quelle pagine. Ed allora, se questa è la realtà, bisogna cambiare, riformare, trasformare con i criteri suggeriti dall’esperienza, con una concezione dell’ordinamento dello Stato veramente democratica.

Ma qui ci troviamo di fronte ad una situazione graziosissima e stupefacente. I conservatori della vecchia Italia, dei vecchi organismi, dei vecchi ordinamenti, delle vecchie assurdità, non sono là a destra soltanto, sono anche qui… in questi settori detti di estrema.

COSTANTINI. Noi non vogliamo conservare niente. Noi non vogliamo creare la Regione per dare ad essa l’autonomia. La diamo alla Provincia ed è lo stesso.

CONTI. Onorevole Costantini, Lei non ha compreso che la soluzione regionale si impone per la riforma del sistema rappresentativo. Voi siete conservatori del sistema parlamentare.

COSTANTINI. Se non viene al mondo Mussolini un’altra volta. (Rumori).

Una voce al centro. Allora abolite i partiti!

CONTI. È inutile che mi si interrompa.

COSTANTINI. Lei polemizza e poi vuole che non lo si interrompa.

PRESIDENTE. Onorevole Costantini, la prego di non interrompere.

CONTI. Voi, onorevole Costantini, avete, purtroppo, un proposito politico nella vostra avversione all’autonomia regionale, e mi duole veramente di non vedere dall’altra parte un atteggiamento diverso. Conservatori di qua e conservatori di là: è incredibile.

TONELLO. Rivoluzionari al centro? Avete fatto mai la rivoluzione, voi?

CONTI. Rivoluzionario io lo sono stato quando voi eravate piatti riformisti!

TONELLO. Voi non siete mai stati in mezzo ai contadini, ad affrontare i loro problemi! (Rumori).

PRESIDENTE. Onorevole Tonello, la prego di non interrompere.

TONELLO. Voi siete vissuti sempre di sante memorie, siete vissuti sempre col vostro mantello delle sante memorie.

MACRELLI. Vuol dire che non ci conoscete.

TONELLO. Siamo stati uomini del nostro tempo.

CONTI. Non posso perdere tempo, onorevole Tonello.

TONELLO. Ha ragione; non può perdere tempo perché non ci può confutare.

CONTI. E allora dico che chi ignora non può essere confutato. Bisogna lasciar tranquillo nelle sue convinzioni chi difetta di conoscenze. Ma io continuo a dire che si è avuto il torto, da parte di molti pseudo rivoluzionari, di voler conservare posizioni che debbono essere rimosse. Oggi i sedicenti rivoluzionari assumono la grande responsabilità di mantenere in Italia le organizzazioni e le istituzioni che sono state le organizzazioni e le istituzioni che hanno negata e resa impossibile la democrazia.

Qui non si tratta tanto della creazione della Regione, ripeto per l’onorevole Costantini…

PRESIDENTE. Onorevole Conti, non interpelli a nome i suoi colleghi; altrimenti essi si sentono impegnati a risponderle.

COSTANTINI. Facciamo dei dialoghi, sarebbe molto meglio.

CONTI. …qui si tratta di costituire un istituto rappresentativo che sia efficace ed utile; si tratta di trasformare l’istituto rappresentativo attuale, di deflazionarlo, di renderlo capace di funzionare, di renderlo attivo, vivo ed agile: si tratta di attribuirgli compiti che possa veramente esercitare. Non riuscirete mai allo scopo se non riserverete alla Camera dei Deputati, alla seconda Camera e agli organi centrali dello Stato, solo alcuni limitati compiti. Questi compiti sono quelli che vennero indicati da tutti gli uomini che si sono occupati di questo problema.

L’onorevole Nitti ieri ha detto che di problema regionale in Italia non si è mai parlato.

È questa dell’onorevole Nitti un’altra delle molte affermazioni arbitrarie.

Noi abbiamo imparato tante cose da lui: io sono stato vicino a lui nei miei più giovani anni. Tengo cara una fotografia di questo mio vecchio maestro, mandatami, da lui, al fronte nel 1916. Nitti è stata una fortuna per me nel momento della mia formazione intellettuale. Ero anche io invasato di romanticismo garibaldino, e vedevo anch’io le cose astrattamente e fantasticamente come si vedono a 18-20 anni, ed è stato Nitti che mi ha condotto sul terreno della realtà e degli studi positivi con i suoi libri, con le sue opere. Nitti ha dunque il nostro rispetto e il nostro affetto: noi siamo lontani da lui, perché abbiamo controllato molte sue idee, e abbiamo imparato vivendo nella vita pratica. Ci lasci, dunque, raccogliere le nostre esperienze, quelle raggiunte con il metodo che ci ha insegnato.

Chi di voi non ha raccolto da anni le proteste degli amministratori dei nostri Comuni, le proteste della gente che vive nelle provincie, di chi vorrebbe fare, lavorare, agire, e che non si può muovere per questo o quel provvedimento che non arriva da Roma, per questo o quel provvedimento che si aspetta da anni? Chi di noi non ha raccolto queste proteste che vengono dai rappresentanti locali? Perdiamo, dunque, a Roma, qui dentro, il senso della realtà? Purtroppo qui si vive di politica, perché a sinistra si è assunto un atteggiamento avverso alle autonomie regionali. Gli onorevoli Zuccarini e Varvaro hanno parlato di quelli che sono stati nel passato i programmi del partito socialista, dei socialisti siciliani. Tutti hanno detto: autonomie, autonomie. I socialisti siciliani formularono un progetto di statuto per la loro regione: il 2 giugno il partito socialista si è battuto per l’autonomia. In questo 1947, qui dentro, mentre si tratta di dare una Costituzione al Paese, di far vivere l’Italia, non di pensare ai comizi elettorali soltanto, non di preparare lo scontro elettorale, mentre si tratta di preparare la Costituzione e non di preparare lo spirito pubblico a movimenti e ad agitazioni, mentre qui si tratta di preparare per l’Italia una Costituzione la quale presenti, per l’avvenire, la base di tutto il funzionamento nazionale, la base per il funzionamento dei Comuni, delle Regioni, dello Stato: mentre si tratta di organizzare il Paese, una volta per sempre, qui si fa tutto quello che è necessario per preparare determinati avvenimenti, quelli che più interessano uomini e partiti.

Ha scritto Nenni nell’Avanti!, rispondendo a Don Sturzo: «Effettivamente noi temiamo che la Regione al di là di una ragionevole autonomia amministrativa ed economica, possa, specialmente nel Mezzogiorno, ostacolare il processo delle nazionalizzazioni, delle statizzazioni, delle socializzazioni, che in Italia, più che altrove, non possono concepirsi se non per iniziativa ed impulso del centro».

Dunque, è una ragione politica quella che vi muove! La stessa posizione hanno assunto i colleghi comunisti.

Non arrivo a capire la posizione assunta dai colleghi liberali. Anch’essi sono in contradizione con loro stessi. Ieri è stata ricordata dall’onorevole Piccioni una pubblicazione di parte liberale intorno alle autonomie. Io ho qui l’opuscolo edito dal «Movimento liberale italiano» dal quale derivò il partito liberale. Credo di conoscere l’autore di questo scritto, che è, però, ancora coerente: credo che anche l’onorevole Einaudi lo conosca. Eccolo qua: è intitolato «L’autonomia regionale». Non vi leggo le pagine, ma vi leggo i titoletti:

«L’autonomia regionale è garanzia di libertà». Si aggiunge: «non ci sembra che la riforma presenti quei pericoli che a molti uomini del Risorgimento fece apparire necessario quel rigido accentramento che pure era sembrato necessario ad uomini di tendenze come Jacini e Minghetti».

Spero che il nipote Stefano Jacini sia d’accordo col nonno.

JACINI. Certamente.

CONTI. Leggo ancora: «Fra le conseguenze dannose, possiamo anzitutto notare che il rigido accentramento ha favorito la tendenza verso l’onnipotenza dello Stato accentratore burocratico e reso quindi meno sicura la difesa delle libertà fondamentali».

Altro titoletto: «L’autonomia regionale combatte le tendenze separatiste». C’è una conclusione che raccoglie i pensieri che sono enunciati nei singoli capitoli.

Non so, perché ora i liberali la pensino in modo diverso.

L’onorevole Ruini, che non è presente, si è fatto un po’ mediatore fra i regionalisti e gli anti regionalisti.

Una voce al centro. Ha sempre fatto così.

CONTI. Ma in questo modo non si giova all’Italia. Ben disse ieri l’onorevole Zuccarini che se l’autonomia regionale non sarà organizzata, noi vivremo perennemente in uno stato di agitazione in Italia. Fanno dunque male coloro – e ne risponderanno alla loro coscienza – che cercano di ridurre presso che a niente questo progetto che è stato tanto sapientemente elaborato dai nostri colleghi col caro amico onorevole Ambrosini. L’onorevole Ruini deve essere coerente. Di lui andate a leggere la pregevolissima relazione sui lavori pubblici in Calabria, presentata all’onorevole Sacchi nel 1913. È un capolavoro. Quest’uomo, può avere tanti difetti: tanti, ed io l’ho ferocemente combattuto quando con voi era tanto felice nel Comitato di Liberazione Nazionale e nei Ministeri che quel Comitato formò. Ebbene, quest’uomo pieno di erudizione, di conoscenze profonde, passato da giovane attraverso i Ministeri, e pervenuto ai più alti gradi, oggi fa l’uomo politico e non sa star fermo e vuole tutto sistemare per transazioni. Egli è nelle spire del parlamentarismo, come lo sono i nostri colleghi più giovani. (Questo è un ambiente nel quale la malattia delle combinazioni, dei compromessi si attacca in modo formidabile, in modo spaventoso. Bisognerebbe curarla).

Ebbene, l’onorevole Ruini voi lo dovete conoscere attraverso la sua relazione sui lavori pubblici nelle Calabrie. Andate a leggerla e troverete le sue affermazioni regionaliste.

Non v’è soltanto quella relazione a documento delle convinzioni di Ruini. V’è un discorso del 18 maggio 1914, del quale vi leggo soltanto un brano, che fu ascoltato tra vive approvazioni:

«Questa tradizione della Regione – e mi dispiace che non ci sia Nitti, il quale sarebbe saltato sulla sedia sentendo parlare di tradizione…

RUINI, Presidente della Commissione per la Costruzione. Ma c’era Mazzini, c’era Cavour.

CONTI. …«questa tradizione della Regione credo sia lo sbocco naturale della legislazione sulla vita locale in Italia». (Approvazioni).

«Ed io lo credo profondamente, perché se c’è un’obiezione è quella di creare un organismo nuovo, una quinta ruota del carro; ma, qualunque preoccupazione antiunitaria deve cadere ormai che la tavola dei valori nazionali si è così bene irrobustita». E ci sono state due guerre, caro Ruini, aggiungo io, che hanno irrobustito in modo straordinario questa compattezza nazionale, l’anima nazionale.

Ma diceva l’onorevole Ruini concludendo: «E soprattutto dobbiamo sentire che c’è un modo soltanto di vincere il regionalismo in ciò che può avere di eccessivo: quello di metterlo a fronte, a muso duro, con i problemi della realtà, di darli a risolvere a lui stesso. Noi non vinceremo il regionalismo in Italia se non istituendo degli organi regionali». (Applausi al centro).

RUINI, Presidente della Commissione per la Costituzione. In che cosa mi sono mutato? Cerco di salvare la Regione dagli abusi vostri e dagli eccessi, che la porteranno probabilmente a finir male. O troviamo qui l’accordo, o si compromette tutto.

MACRELLI. Resti coerente a se stesso.

RUINI, Presidente della Commissione per la Costituzione. Chiedo di parlare per fatto personale.

CONTI. E allora, onorevole Ruini, le rivolgo un appello e una preghiera: l’appello è di confermare quanto ha scritto; e la preghiera, di non fare il mediatore. Ci lasci tranquilli nel contrasto. Siamo sicuri che alla fine anche molti di questi colleghi si convinceranno che il regionalismo significa la possibilità per tutti i partiti, per tutte le forze sociali vitali, per tutte le forze che devono realizzare riforme le quali sono mature nella vita del Paese, di realizzarle veramente. Tutti si persuaderanno, anche gli amici di questa parte (Accenna alla sinistra), a riconoscere che nella regione si possono attuare tutte le riforme che si vogliono, si può fare tutto quello che è possibile fare: e può essere ben fatto, per le attitudini, per la capacità di tanti competenti, di uomini pratici, di tecnici che sono esclusi da questa Assemblea, e che nelle Regioni possono portare i tesori del loro valore, della loro preparazione, delle loro altissime attitudini, uomini che saranno sempre esclusi da questa Assemblea per tanti motivi, quasi tutti lodevoli; moltissime volte per la loro timidezza, per la mancanza di spirito espansivo, per qualche cosa che li trattiene nel natio loco, per qualche cosa che non li spinge nella lotta politica, anche per antipatia della lotta politica, che in Italia è divenuta lotta di fazioni, lotta di passioni, lotta degli istinti meno buoni degli uomini.

Una voce a sinistra. Non esageriamo!

CONTI. Onorevoli colleghi, per la seria, organica, pratica trasformazione del sistema politico e amministrativo, creiamo, dunque, la Regione! Nella Regione siano trattati tutti i problemi che interessano da vicino le popolazioni: i problemi della viabilità, dell’agricoltura, dell’industria, del commercio: i problemi della vita economica delle popolazioni.

Allo Stato, al Parlamento si attribuiscano la politica internazionale, i grandi lavori pubblici, la difesa nazionale, la politica monetaria, poche altre materie. Soltanto quando si attribuiranno al Parlamento nazionale i grandi problemi nazionali e internazionali, solo allora avremo una Camera nella quale i competenti e i preparati alla trattazione dei grandi problemi, potranno risolverli con competenza e con dignità.

Non vi illudete, onorevoli colleghi, che si possa fare diversamente. Vi sono problemi regionali che impressionano ai quali noi non sapremmo dare soluzione. Due giorni or sono ho avuto una conversazione con rappresentanti della Regione trentina. Ho con essi parlato di tante cose. Su molti problemi era facile intendersi, perché le soluzioni erano possibili, anche per noi. Per altri problemi abbiamo avuto delle rivelazioni. L’onorevole Bonomi e l’onorevole Perassi, che hanno avuto la bontà di intrattenersi lungamente con quei rappresentanti del Trentino, hanno udito da questi esperti considerazioni di grandissima importanza sul problema delle acque, considerazioni che fanno molto riflettere sulle riserve che l’onorevole Einaudi ha fatto anche nel suo ultimo decorso in questa Assemblea. Si tratta lassù di affrontare un monopolio capitalistico, che determina e decide la fine di tante organizzazioni e imprese locali di lavoro e di produzione. Ma io non debbo occuparmi ora del problema… I medesimi rappresentanti del Trentino hanno esposto osservazioni di grandissima importanza sul sistema tributario. Dicevano quei valentuomini che il sistema tributario deve essere adattato alla regione. Ieri, parlando con un rappresentante della Val d’Aosta, ho ascoltato osservazioni analoghe sullo stesso problema.

I nostri interlocutori citavano, ad esempio, l’applicazione dell’imposta su coloro che abitano ad altezza superiore ai 500 metri e rilevavano la perdita di tributi che dal sistema tributario, non adeguato alle condizioni della regione, deriva all’erario. Sulle malghe del Trentino non sono possibili tassazioni a norma della legge vigente che vale, indiscriminatamente, in ogni più diversa regione d’Italia.

Roma, onorevoli colleghi, è incompetente, e detta regole che rovinano le popolazioni e l’amministrazione; regole che continuano a far vivere questo povero popolo italiano in uno stato di contigua agitazione e di protesta, nello stato che voi ben conoscete fuori di qui, e che qui non avete più presente ai vostri occhi.

Ieri mattina l’onorevole Roselli, con un interessantissimo intervento, ha dimostrato quello che può essere per il proletariato l’organizzazione della Regione e come gli interessi dei lavoratori potranno essere curati nella Regione in modo utile e non più in modo generico. I nostri lavoratori hanno bisogno di assistenza immediata, di educazione viva, immediata; hanno bisogno della risoluzione dei loro problemi. Che importa, ad esempio, qui a Roma al Ministero del lavoro o al Ministero dell’industria e commercio, delle condizioni dell’artigianato del Trentino, o del Varesotto, o delle Marche, o della Sicilia, o del Molise, o di altre regioni d’Italia? È impossibile che si possa concepire un’organizzazione al centro capace di provvedere alle più lontane, e anche alle più vicine terre della Penisola. E allora organizziamo le Regioni!

Come? Quando? Sul come, ripeto, non ho niente altro da dire. Il progetto offre la possibilità d’una organizzazione regionale che risponda agli interessi del Paese. Avremo una organizzazione regionale per la quale molti interessi saranno bene trattati. Si potrà far di più e di meglio aprendo, con la Costituzione, la porta a miglioramenti, ed io spero, ad ampliamenti della competenza delle Regioni. La Regione potrà avere le competenze previste e potrà averne anche altre nell’avvenire. Aprite la via e non tornate indietro (come si vorrebbe da qualcuno): non riducete il progetto, ma tracciate il cammino che si potrà fare ancora. Questo sarà prudente ed opportuno.

Ma ho sentito taluni che dicono: la Regione è un salto nel buio! Che ammoniscono solenni: andiamo a finir male! Abbiamo udito oratori annunciare la guerra fra le Provincie per via dei capoluoghi! Questa è storia allegra. È lo spauracchio della guerra dei campanili, della guerra per la secchia rapita! Qualche cosa di questo genere! Non esageriamo e non scherziamo: le guerre si fanno con le armi. Per i capoluoghi vi saranno guerre di parole, e poi tutti saranno placati e pacificati, quando, da Roma, si dirà: basta, bisogna osservare la legge. Gli italiani sono buoni: diventano cattivi soltanto quando sono sobillati. Purtroppo molta colpa è nostra; perché noi li eccitiamo, li spingiamo in un senso o nell’altro, mentre essi vorrebbero stare tranquilli a casa loro e sul loro lavoro.

L’onorevole Nitti, da parte sua, predica la pace e l’unione.

All’onorevole Nitti avrei voluto rileggere una pagina interessante di un libro interessantissimo: «Il partito radicale e la nuova democrazia industriale». C’è una pagina nella quale egli fa l’elogio della discordia, dicendo che la vita è lotta, e che senza la lotta nulla si conclude, e si vive nell’apatia. È una verità assoluta. E perché vuole rinunziare ai contrasti, alle rivalità che derivano dalle diversità regionali, e perché proprio lui, che ci ha insegnato a credere nell’utilità delle competizioni, ci vuole trasformare in automi senza vita?

Io dico che il sistema regionalista porterà gli italiani su un terreno di emulazione, li sveglierà e li pacificherà.

Leggete altre pagine magnifiche che Nitti ha scritto contro certa sonnolenza del popolo meridionale.

Nitti ha detto che le popolazioni meridionali devono svegliarsi. Ma come si fa a svegliare quelle mirabili popolazioni, se sono state abituate ad aspettare da Roma il bene e il male?

Vi sono state purtroppo generazioni di deputati (e mi copro, nella critica che faccio, con l’autorità di Nitti e di Napoleone Colajanni), vi sono state generazioni di deputati che hanno assunto la funzione di promettere, promettere, promettere, essendo sempre d’accordo col Governo che non manteneva mai una sola delle promesse fatte dai deputati.

Bisogna dunque svegliare l’Italia, e allora non avremo più l’Italia che proprio l’onorevole Nitti qualificò accattona.

Un importante richiamo è venuto dall’onorevole Nitti: attenzione alla questione finanziaria, egli ha ammonito.

Ier sera l’amico Piccioni su questo punto ha detto, con poche parole, quello che si doveva dire per tagliar corto con le discussioni su questo quesito preoccupante. Abbiamo tecnici valorosi: essi risolveranno anche la questione dell’ordinamento finanziario.

Ho sentito da un gruppo di amici del Trentino, che si è discusso dei problemi finanziari nella Commissione per la preparazione dello statuto della Regione Trentino-Alto Adige, e ho sentito che con interventi di uomini di valore, Einaudi e Vanoni, si è trovata la soluzione razionale del problema per quella Regione.

Una voce a sinistra. L’hanno trovata a Roma, non nella regione.

CONTI. Sì a Roma, ma con esperti della regione.

Con l’onorevole Nitti abbiamo di fronte altri oppositori.

Dico a coloro che domandano il rinvio del titolo quinto: «No!» E domando: perché invece di dire «rinviamo» non si dice francamente «non vogliamo il sistema regionale autonomista; votiamo contro»?

Bisogna essere finalmente onesti di fronte ad un problema così importante; bisogna essere leali. Apprezzo la lealtà dell’onorevole Nenni: «Non vogliamo il sistema regionale, perché il sistema regionale contrasta, dice lui, le riforme che noi vogliamo fare»: e va bene.

Non abbiamo saputo il perché dell’avversione della maggioranza dei liberali. Abbiamo avuta, per contro, un’espressione liberale autentica nel discorso dell’onorevole Bellavista, il quale ha detto cose che io sottoscrivo e con le quali concludo. L’onorevole Bellavista ha detto: «Se questa Repubblica deve essere un fatto decisivo nella vita italiana, essa deve essere un fatto rivoluzionario e trasformare la vita italiana». Così deve essere. Il Paese con la riforma regionale deve essere trasformato.

Mi associo pienamente alle parole dell’onorevole Bellavista.

Dobbiamo trasformare l’Italia; trasformarla, oggi, nelle istituzioni con una organizzazione che risponda ai bisogni del Paese e domani nella sua moralità e nei suoi costumi e nei suoi atteggiamenti spirituali. Vogliamo un popolo libero; non un popolo di pecore che continui a camminare dietro a pastori, che continui a marciare secondo comandi dall’alto. Vogliamo che il popolo viva la sua vita là dove è stato mandato da Dio a viverla. Vogliamo che nei luoghi dove esso dimora, dove lavora, trovi le ragioni del godimento della vita, le ragioni per le quali l’uomo si senta finalmente cittadino della Repubblica italiana. (Applausi).

RUINI, Presidente della Commissione per la Costituzione. Chiedo di parlare per fatto personale.

PRESIDENTE. Ne ha la facoltà.

RUINI, Presidente della Commissione per la Costituzione. L’onorevole Conti ha letto alcuni brani di un mio discorso del 1914 che non posso che confermare, perché non ho mutato in nulla le mie idee per ciò che riguarda la Regione. (Commenti).

Ho sempre ritenuto – e questo perché ho cominciato studiando il pensiero di Mazzini che era un regionalista, come regionalista era il Cavour – che l’ente Regione si potesse istituire in Italia. E tanto più credetti che ciò fosse opportuno quando, dopo l’altra guerra, apparve rinsaldata e fortificata l’unità italiana in modo che non si poteva neppur pensare a discrasie e disfacimenti dell’unità nazionale. Non rinuncio all’idea della Regione neppure ora che, dopo la sconfitta, è più necessario salvaguardare l’Italia da fermenti particolaristi; e non compromettere la saldezza unitaria dello Stato.

Venne la Commissione dei Settantacinque che sono stato chiamato a presiedere. Lunghe discussioni. In seno alla Commissione vi fu unanimità (meno uno) nel riconoscere che sarebbe stato opportuno istituire la Regione. I rappresentanti di ciascuna parte aderirono a questa idea. Vi furono due correnti di pensiero. Naturalmente l’amico Conti che oggi ha attaccato così fieramente il totalitarismo non ammetterà che tutti pensino, anche quelli che sono per la Regione, con una data forma mentale. Vi furono due correnti. Come era mio compito di presidente, ho cercato di portare chiarezza e semplificare più che fosse possibile l’ampio materiale predisposto dalla Sottocommissione; ho cercato che si ponessero due rotaie fra cui l’Assemblea Costituente potesse poi scegliere.

Una tendenza riteneva che per l’istituzione della Regione bastasse attribuire a questo Ente dei poteri di legislazione, non primaria, non diretta, ma integrativa, di attuazione dei principî generali stabiliti dalle leggi della Repubblica. Ciò va messo in relazione con un’esigenza che ho avuto più volte occasione di mettere in luce, anche davanti a voi. Noi dobbiamo, onorevoli colleghi, trasformare profondamente il metodo della legislazione italiana (come del resto avviene anche in altri Paesi). Qualche tempo fa alla Costituente francese Herriot disse che come una Camera incapace di governare direttamente deve avere un Governo, sia pure di sua fiducia, così è incapace ormai di legiferare direttamente in un modo completo. Alle vecchie comunità, che legiferavano e governavano assieme, in una piazza, in un prato, sono succeduti i Parlamenti ed i governi che sono sempre a base dello Stato popolare, ma qualcosa deve essere mutato nel modo di lavoro per la legislazione.

Se tiro giù dallo scaffale della mia biblioteca una raccolta delle leggi dopo il 1870, trovo che non erano molte, decine o centinaia all’anno; oggi sono migliaia. La funzione legislativa si dilata, inevitabilmente per lo stesso sviluppo dello Stato. Credete che le Camere possano adempiere a questa funzione minutamente, con gli stessi metodi del passato? Abbiamo visto cosa è avvenuto, qui, nella discussione dei ritocchi della legge comunale e di quella sulla cinematografia. Sarà necessario, come anche in altri paesi, adottare un altro metodo. Le leggi approvate dai Parlamenti stabiliranno principî e direttive generali, secondo il tipo delle Rahmengesetzen di cui ci parlavano i giuristi tedeschi; e nei limiti di queste «leggi cornice» potranno essere emanate dalle Regioni norme legislative secondarie, integrative, di applicazione, per poter adattare quei principî alle esigenze ed alle condizioni locali.

Ecco la prima tendenza alla quale io diedi personalmente il mio voto, in perfetta coerenza con la tesi che ho sempre sostenuto, non solo nei miei discorsi di tanti anni fa, ma in uno studio pubblicato di recente, dopo la nostra liberazione; con due concetti base; podestà di legislazione integrativa della Regione; passaggio graduale ad essa di funzioni amministrative.     

Vi fu nella Commissione una seconda tendenza, che credeva di attribuire alla Regione anche un potere di legislazione primaria, diretta, esclusiva, sia pure entro i limiti della Costituzione, dell’ordinamento giuridico generale dello Stato, e nel rispetto degli interessi nazionali e delle altre Regioni. Non sarebbe dunque una legislazione illimitata: ma pei sostenitori della prima tendenza presentava il pericolo di intaccare la sovranità legislativa dello Stato e di far sorgere conflitti di attribuzione e diversità di ordinamenti troppo radicali fra le leggi delle varie Regioni.

Erano due tesi. Si venne alla votazione in seno alla Commissione dei settantacinque. La tesi più spinta vinse per due voti. Anche l’altra tesi aveva dunque con sé un rispettabile patrimonio di idee e di aderenti. Era stata proposta da tre commissari: da Bozzi, liberale democratico del gruppo di Nitti, da Laconi, comunista, da Lami Starnuti, socialista (allora il partito socialista era unico). Era una tesi regionalista, sebbene in grado diverso dall’altro.

Cosa avviene ora? La questione è portata qui. Sorge prima di tutto il problema della Provincia. Si sente e si riconosce da molte parti, credo di poter dire da tutti, che non si può sgretolare e distruggere la Provincia, ente che, pur avendo funzioni ristrette, ha una sua organizzazione e tradizione, sentita e difesa dalle popolazioni, e non si può metterlo nel nulla. La conservazione della Provincia porta a modificazioni nel sistema approvato dilla Commissione.

Ciò, d’altra parte, può portare un bene, perché dà occasione a rivedere tutte le funzioni non solo della Provincia, ma anche dei Comuni. La Costituzione dovrà, a mio avviso, dare con una sua norma rilievo e dignità ai Comuni, alle Provincie, alle Regioni: rinviando ad apposita legge di valore costituzionale la determinazione e la distribuzione delle loro funzioni e dei loro servizi amministrativi. Sarà un’opportuna revisione, se alla Provincia, che ha oggi magri compiti e buoni uffici, verranno affidati altri servizi che oggi, ad esempio, sono adempiuti meno efficientemente dai Comuni (ad esempio per le strade). Alla Regione saranno attribuiti servizi propri da compiere – almeno normalmente – mediante ed attraverso gli uffici provinciali e comunali, in modo da evitare una nuova burocrazia, una quinta ruota del carro, come dicevo nel discorso del 1914, che L’onorevole Conti mi ha fatto l’onore di citare. Si aggiunga che, nella mia concezione, alle Regioni sarebbero da affidare, oltre e direi più che funzioni proprie, funzioni di coordinamento delle attività amministrative provinciali e comunali. Queste le idee che espongo qui, dal mio seggio di deputato, e non da quello di presidente della Commissione dei settantacinque. Sono idee di oggi, in piena coerenza con quelle di ieri e di domani.

Venuta la questione davanti alla Costituente, oltre alle due soluzioni di prima, se ne è aggiunta una terza; che, sotto le forme più o meno amabili d’un rinvio, importa quello che l’onorevole Conti ha qualificato come un seppellimento di prima classe. Io desidero evitarlo, ed ecco il mio intervento che l’onorevole Conti depreca, ma che non solo corrisponde ai miei doveri di presidente; è anche, onorevole Conti, il modo migliore, a mio avviso, di salvare la Regione.

Il Presidente doveva, e lo ha fatto, convocare i diciotto per l’esame degli ordini del giorno e degli emendamenti: e di fronte alle varie proposte doveva, e l’ha fatto, chiedere se si potesse realizzare un accordo. Si tratta sopratutto di vedere quali possano essere le funzioni legislative della Regione. Vi è tutta una serie di formule, su cui hanno insistito, anche eccessivamente, i giuristi. Sembra che gli ultraregionalisti siano disposti a rinunciare alla competenza «esclusiva». Non è impossibile, anche se non sarà troppo facile. Mi auguro che si riesca per salvar la Regione.

Se questa non è coerenza, non so cosa dire. L’onorevole Conti anela alla battaglia, al rischiar il tutto per tutto. Io desidero, e sono in questo più regionalista di lui, evitar la battaglia, perché non trionfi la terza tesi, il rinvio, e la Regione non sia seppellita. Che cosa avverrà, ove non si trovi un’intesa? Una delle due; o rinvio e seppellimento, e l’onorevole Conti non potrà esserne lieto; o accettazione, sia pure, della tesi estrema a lui cara con una maggioranza di pochissimi voti. La Regione uscirà da una battaglia furiosa fra molto malcontento e non sarà questa, io credo, la via migliore per darle vita.

Ricordo, ero appena ragazzo, quando Carducci parlò, alla morte di Garibaldi, e rivolgendosi a tutti i partiti diceva: Se volete veramente che la Patria progredisca, sappiate gettare nel rogo qualcosa delle vostre idee particolari. Vi sono intemperanze ed eccessi, di cui bisogna sapersi spogliare, se si vuol che trionfi la propria idea.

Dico, come deputato, non come Presidente della Commissione, ma sono in ogni caso coerente: Vedete, se possibile, di trovare una formula che avvii e fondi la Regione. Sarà un buon modo di servire e di consolidare la Repubblica. Non accendete un duello che potrebbe compromettere un’idea, che mi fu cara nella mia giovinezza e che ora non rinnego. (Vivi applausi Congratulazioni).

PRESIDENTE. È iscritto a parlare l’onorevole Cassiani. Ne ha facoltà.

CASSIANI. Onorevoli colleghi. Nel punto in cui è giunta la discussione non può essere consentito, io penso, un discorso sistematico sull’argomento, ma forse è ancora utile cogliere aspetti particolari e significativi sulla trattazione di questo grave tema delle autonomie regionali che forse è il più grave fra quanti ne contiene il progetto di Costituzione.

Io guarderò alla riforma in rapporto alla situazione del Mezzogiorno d’Italia, dove il Governo dello Stato si è veramente collocato, in maniera che non esito a definire crescente, dal giorno della unità fino ad oggi, fuori dalla vita fino al punto da non interessare alla sua la vita delle popolazioni meridionali. È un fenomeno che diventa ogni giorno più notevole; si allarga, si dilata, in un terreno franoso per le particolari circostanze del momento e perché in quelle regioni sono sovvertiti gli elementi primi della civiltà ed è compresso lo sviluppo di quella coscienza collettiva, politica e sociale, che è la sostanza vera dello stato moderno.

Dopo la prima guerra mondiale, le voci di agitazione reclamanti le autonomie regionali partirono dal Mezzogiorno: esse ripresero il pensiero di Cavour e il tentativo sfortunato di Minghetti (che oggi non potrebbe costituire i termini del problema per le mutate esigenze pubbliche), esse richiamarono l’impegno assunto dal Capo dello Stato all’atto della apertura del primo Parlamento.

Il fascismo compresse questo insorgente desiderio nel momento in cui esasperò l’accentramento statale, ma non ne dimenticò l’ardenza fino al punto da additare il regionalismo tra i postulati della Repubblica Sociale. Il fascismo della seconda maniera tentava così di cancellare il ricordo dell’ingombrante e prepotente Stato burocratico e di polizia. Tentava cioè di rassicurare gli italiani sul pericolo di un rinnovarsi di quello Stato.

Lo faceva attraverso l’affermazione del principio regionalistico, e attraverso il vano tentativo di dare voci all’istinto regionalista delle genti nostre.

Gli è che l’anelito verso le autonomie è nato col Risorgimento e nel Mezzogiorno, ha resistito al torpore dei governi prima, ed alla raffica della violenza armata dopo.

L’anelito si svegliò dopo essersi assopito nel ventennio. Nel ventennio infatti subì la sorte di tutte le aspirazioni collettive, ma non si spense, perché aveva salde le radici, e queste aveva fondate nel terreno di una realtà dolorante.

L’onorevole Gullo, in quest’Aula, ha sostenuto l’indifferenza della coscienza pubblica del Mezzogiorno d’Italia davanti al problema. Egli, evidentemente, confondeva due cose tanto diverse: la impostazione del problema, e la soluzione dello stesso.

Le popolazioni del Sud il giorno 2 giugno 1946 hanno innegabilmente affidato a questa Assemblea l’inventario dei propri dolori e delle proprie speranze, collega Gullo, senza indicare, beninteso, la via da battere. Siamo noi che crediamo di intravedere quella strada nelle autonomie regionali; siamo noi che crediamo così di essere gli interpreti del sentimento collettivo e dell’esigenza popolare. Del resto, onorevoli colleghi, di questa verità ieri, nell’Aula, ha reso testimonianza autorevole l’onorevole Nitti, quando ha detto: «Sfidando la impopolarità, io incitai i miei conterranei a non parlare di autonomie regionali».

«Problema politico, squisitamente politico» ha detto in quest’Aula l’onorevole Orlando. Dunque: stato d’animo; esigenza di giustizia; ragione di opportunità; anelito verso il meglio.

E noi discutiamo infatti di un problema che fu posto, innegabilmente, dalla coscienza del Paese, nel momento in cui veniva raggiunta l’unità della Patria. Cavour – e dico cosa non detta da altri colleghi – fu uno dei pochi uomini di Stato che abbiano affrontato con occhio indagatore, ed anzitutto di italiano, il problema del Mezzogiorno. Parlando delle provincie meridionali, egli disse: «io le governerò con la libertà e mostrerò cosa possono fare di quelle belle contrade dieci anni di libertà: fra venti anni esse saranno le più ricche d’Italia».

Una voce a destra. Questo lo disse anche Mussolini!

CASSIANI. Cavour morì prima di realizzare il suo sogno, e la sua morte determinò il naufragio dei quattro progetti redatti da Farini e da Minghetti insieme. Un naufragio che fece dire ad un uomo politico italiano: «La Regione in Italia non fu mai giudicata, ma soltanto condannata».

Da allora il problema non fu mai risolto, ma l’urgenza del decentramento fu costantemente sentita dagli uomini di Stato italiani, così che nella seduta parlamentare del 23 maggio 1924 Giovanni Giolitti dichiarava, senza contrasti, la necessità di una soluzione del problema in senso positivo. È da osservare che forse non ultima ragione tra le tante che impedirono il risolversi di questo problema, fu l’estrema instabilità dei governi succedutisi sulla scena politica italiana dal 1919 al 1922.

Ebbene, io penso, onorevoli colleghi, che le ragioni le quali militavano in favore delle autonomie regionali sono aumentate per il Mezzogiorno d’Italia.

In un precedente intervento, parlando in quest’aula di problema della terra, a proposito sempre del progetto di Costituzione, dicevo: «Il problema del Mezzogiorno non fu mai così lontano dalla sua realizzazione come oggi». Questa non è la sede più adatta per approfondire il problema, ma desidero qui ricordare uno solo dei motivi del dramma dell’Italia meridionale dipendente dal fatto che mai come oggi lo Stato fu pressato ai fianchi da una minoranza di cittadini la quale, inevitabilmente e involontariamente, ostacola i diritti della maggioranza, che è fatta di lavoratori della terra, cioè degli abitatori del Mezzogiorno d’Italia.

Ma vi è uno ostacolo di natura geografica e geologica alla soluzione del problema: permane, oggi come ieri, quella profonda varietà che caratterizza le varie regioni d’Italia e che, non regolata, si manifesta come ostacolo a ogni opera regolatrice del Governo centrale e si manifesta, qualche volta, anche attraverso un mal celato contrasto fra Nord e Sud. Quella varietà che è servita – pare strano – all’onorevole Nenni come argomento di dubbio per la bontà della tesi, questa stessa varietà, onorevoli colleghi, rappresenta evidentemente l’argomento più caldo per gli assertori delle autonomie regionali e del federalismo, dei quali ultimi noi non condividiamo il pensiero.

Le testimonianze vanno – nessuno di noi lo ignora – da Mazzini a Cattaneo, da Alberto Mario a Cavour, da Sonnino a Giolitti. Infatti noi ci siamo trovati permanentemente nell’impossibilità di veder risolti, in maniera unitaria, problemi che variano da regione a regione, con aspetti qualche volta allarmanti. Chi non sa che i problemi dell’agricoltura della Calabria e della Basilicata non hanno alcun rapporto, nemmeno il più lontano, con i problemi dell’agricoltura della Campania? Parlo, come vedete, di regioni dello stesso Mezzogiorno: la Calabria e la Basilicata hanno una agricoltura arretrata, mentre la Campania ha una agricoltura che ha raggiunto forme di perfezione. Questa situazione, obiettivamente certa, ha piegato molte volte il Governo sull’urgenza di provvedimenti, che, secondo me, rappresentano la conferma più eloquente dell’esigenza regionalista: così la legge speciale per Napoli del 1904, per la Basilicata del 1905, per la Calabria del 1907 e la legge del Mezzogiorno del 1906, altro non sono se non la prova di una insopprimibile esigenza regionalista, di una esigenza regionalista fallita come un conato vano e inconsistente, perché, pare incredibile, quelle leggi non furono mai eseguite, così che ad onta della loro esistenza, dopo circa quattro decenni, i paesi della Calabria e della Basilicata sono ancora oggi privi di strade e privi di acque.

La legge speciale del 1904 tendeva a fare di Napoli un centro industriale. Essa prevedeva: l’utilizzazione per le industrie di 16 mila cavalli idraulici; l’esenzione completa dalle imposte per 10 anni per le industrie di nuovo impianto; l’esenzione dei dazi doganali per 10 anni per le occorrenze dei nuovi impianti industriali; una zona franca ad oriente dalla città; maggiore sviluppo dell’istruzione tecnico-industriale.

La legge del 1906 per la Basilicata prevedeva: una cassa provinciale di credito agrario al 4 per cento; casse comunali agrarie e monti frumentari al 5 per cento; viticoltura, caseifici, zootecnia, premi ai costruttori di case coloniche, opere di sistemazione idraulica, opere idrauliche per acqua potabile, limitazione delle tasse sul bestiame, ecc. e c’era una commissione per la esecuzione delle opere pubbliche prevista con legge 1906. L’esecuzione di queste opere, l’attuazione di queste leggi, come di quelle speciali per la Calabria, la Basilicata e la Sardegna fu quasi irrilevante, qualche volta pressoché inconsistente, fino al punto che si levò la protesta, eccezionalmente vivace, di Sidney Sonnino.

Vale qui ricordare, ai fini del problema che ci interessa, quello che si discusse un certo momento, se cioè, allo scopo di riparare a quella frastagliata legislazione sociale, non sarebbe stato per caso utile di farne una legislazione unica. Perché si diceva: si faccia una legge, una volta per tutte, e si applichi in quelle regioni italiane che sono sullo stesso piano di urgente necessità. La tesi ebbe un sostenitore autorevolissimo, uno degli uomini più notevoli della vita politica italiana: l’onorevole Majorana. Ebbene, quella tesi fallì, non fu accolta, perché esigenze politiche, sentimentali, di opportunità, reclamavano una legislazione regionalistica, che purtroppo però fu un conato vano ed insufficiente.

La esigenza regionalista ebbe anche altre conferme con la istituzione dei commissari civili previsti dalla legge speciale per la esecuzione delle opere pubbliche nelle province meridionali, che costituì una larvata e timida forma di decentramento.

La esigenza regionalistica ebbe anche una altra conferma con la istituzione dei Provveditorati alle opere pubbliche creati per il Mezzogiorno e le Isole. Si costituirono ad un certo momento questi nuovi organismi per tutti i lavori di esclusivo interesse regionale, ma ciò durò brevissimo tempo, dal 1925 al 1930, ed oggi le condizioni di una parte della Calabria sono quelle stesse che impressionarono l’onorevole Ruini quando egli, in quella relazione ricordata nel suo magnifico discorso anche dall’onorevole Conti, condusse nel 1913 quella inchiesta non dimenticata, sulla sventurata regione. Come ieri, anche oggi, mancano le premesse ed ancora oggi, onorevole Ruini, in quella regione mancano le strade e l’acqua e, come allora, anche oggi vi sono paesi che d’inverno attendono inutilmente il medico, la posta, il sale. E nelle sventurate regioni del Mezzogiorno gli organismi regionali hanno problemi scottanti, vivi ed urgenti da mettere a fuoco: allacciare, per esempio, i comuni isolati alle prossime reti stradali esistenti, costruire una rete tranviaria nelle zone più vicine ai grossi centri, dove più trova modo di svilupparsi l’industria agricola, che rappresenta la fortuna del Mezzogiorno e dell’intera Italia; inoltre portare acqua agli assetati, affrontare il problema della bonifica, che ha delle caratteristiche rigorosamente regionali, come ha ricordato in quest’Aula autorevolmente l’onorevole Conti.

Si dice: riforma agraria. E sia, onorevoli colleghi; ne ho accennato anch’io, con passione, in un mio precedente intervento. Ricordo che un giorno l’onorevole Conti, interrompendo non so più quale oratore, disse: La faremo noi qui la riforma. Non poteva dir meglio, ma egli sa però più di quanto io non sappia ed è certamente più convinto di me, che vi sono aspetti di quella riforma che qua dentro saranno insolubili.

Un esempio: un problema urgente che si trascina da decenni, ma da molti decenni, intendiamoci, e che soltanto, a mio parere, le assemblee regionali potranno forse affrontare e risolvere, è il problema dei beni demaniali nel Mezzogiorno d’Italia. A proposito dei quali, non pochi sono stati i progetti dovuti all’iniziativa del Governo e del Parlamento, portati alla Camera negli ultimi venticinque anni che precedettero il fascismo. Badate alle cifre, che anche questa volta hanno un loro linguaggio allarmante: dico negli ultimi venticinque anni che precedettero il fascismo. Ebbene, non uno di questi progetti arrivò in porto. Finanche una commissione parlamentare fu incaricata di riferire sull’argomento, ma tutto finì in sul nascere e il problema è rimasto senza soluzione.

Solo chi non sa, onorevoli colleghi, qual è la vastità delle terre demaniali del Mezzogiorno, spesso usurpate dai latifondisti, può non comprendere l’estrema importanza di una possibile ripartizione di queste terre fra i contadini poveri del Mezzogiorno d’Italia. Si tratta di uno dei problemi più decisivi sul terreno della riforma agraria.

Dovrebbero essere riprese quindi le proposte di coloro i quali richiedevano la creazione di speciali istituti a favore delle classi rurali per la gestione dei demani, ovvero la creazione di commissioni composte di competenti che abbiano soprattutto la convinzione profonda del grande valore sociale del problema.

C’è, ad esempio – e non mi discosto per niente, dicendo queste cose, dalla materia del progetto di Costituzione – c’è, dicevo, il problema della malaria: problema assillante, per il quale fu scritto che non può intendere la storia del Mezzogiorno d’Italia colui che non conosce la storia della malaria. Questo problema ha l’aspetto più notevole nelle immense estensioni di terra che sarebbero, a giudizio dei competenti, non mio, il granaio d’Italia, se la malaria non le flagellasse.

Ebbene, io vedo la soluzione anche di questo problema nell’ordinamento regionale. I dati statistici sono al riguardo veramente desolanti. In Belgio, con la stessa unità territoriale dell’Italia, si ha una produzione doppia di grano e in Germania, in tempi normali, una produzione tripla.

I tecnici affermano che nell’Italia meridionale, anche a voler fare astrazione dai terreni refrattari ed anche a voler considerare che quei terreni presentino, nientemeno, una percentuale del 90 per cento, considerando cioè migliorabile soltanto il 10 per cento, basterebbe che questo 10 per cento venisse appunto migliorato perché la produzione agraria italiana – badate che dico italiana e non soltanto meridionale – potesse aumentare dal 40 al 90 per cento.

Lasciate dunque che io dica come soltanto l’ignoranza spaventosa del problema delle regioni da una parte e di questa farraginosa macchina dell’assolutismo accentratore dall’altra ha potuto ritardare fino ad ora la soluzione di problemi siffatti.

Ecco come la questione meridionale si inserisce, direi quasi automaticamente, nel problema, in un piano di interesse nazionale. Ecco come, a nostro parere, le autonomie regionali diventano il cemento vero della unità nazionale: non come espressione retorica, ma con cifre, con fatti, col problema della produzione. Ecco come si rinsalda l’unità nazionale.

Che c’entra, mi direte, l’autonomia regionale con le tue chiacchiere? Ma sì che c’entra. Infatti un Ministro dei lavori pubblici, alto di pensiero e di probità – citato l’altro ieri dall’onorevole Nitti – il Ministro Sacchi, dichiarava un giorno candidamente che nel Mezzogiorno l’opera di bonifica è stata niente altro che una fatica di Sisifo per la ignoranza dei problemi regionali. Si sono mandati alla malora – diceva Sacchi – somme ingenti perché nessuno si è accorto che laggiù mancano le Alpi e i ghiacciai e non c’è che l’opera anarchica dei torrenti al posto dei fiumi, cosicché si applicò, stupidamente – la parola non è mia: è di Sacchi – alle bonifiche meridionali il tipo della bonifica padana, dove sono i fiumi perenni e le irrigazioni già in atto. Insomma, condizioni diametralmente opposte a quelle del Mezzogiorno. (Commenti).

Così ancora oggi l’Italia continua ad ignorare tutte le ricchezze che si potrebbero trarre dal Mezzogiorno se non si ignorassero i problemi regionali: tacciono per questo nel Mezzogiorno le industrie, che potrebbero essere fiorenti. Filippo Turati nell’aula del Parlamento italiano diceva: «Tutto un ben di Dio – è l’espressione dì Turati – che noi lasciamo perdere pazzescamente e la cui produzione rimetterebbe in pochi anni in equilibrio il nostro bilancio nazionale» (Approvazioni).

L’onorevole Orlando ha accennato a una dolorante e pur nobile ricchezza del Mezzogiorno d’Italia: le rimesse degli emigranti. Io mi permetto di aggiungere un rilievo, anche questo dell’onorevole Ruini, in quella relazione alla quale accennavamo dianzi l’onorevole Conti ed io: la gran parte delle rimesse è sempre andata alla Casse di Risparmio, agli Istituti di credito, ha servito al finanziamento dello Stato, alla conversione della rendita, al sostenimento delle spese coloniche, ma non si è investita in trasformazioni colturali o nelle industrie del Mezzogiorno. Ecco i termini del problema che può essere affrontato e risolto soltanto dagli organi regionali: come e fino a qual punto l’azione legislativa possa agevolare il buon uso a favore diretto del Mezzogiorno d’Italia, del tesoro raccolto dai suoi figli nei lunghi esili transoceanici.

La verità è questa, onorevoli colleghi: lo Stato e il Parlamento in clima di democrazia hanno coltivato l’arte del dire fuori da ogni realtà inerente al loro mandato parlamentare; in clima di dittatura, distrutto il Parlamento, lo Stato si è chiuso per un ventennio, nella deliberata ignoranza e nella inconsapevole follia.

Il fatto stesso che la soluzione del problema meridionale, che è problema italiano, si rinvia da ottant’anni – il fatto stesso che tutti i governi, dal giorno dell’unità ad oggi, ne hanno fatto uno dei punti del loro programma e si sono trovati evidentemente davanti ad un ingranaggio statale che non ha loro consentito di tenere fede alla parola data – sta a dimostrare che la questione meridionale non è una semplice questione di sperequazione finanziaria, di tariffe doganali, di dare e avere fra quelle forme e il governo centrale, ma è questione che involge fondamentalmente il sistema politico dello Stato italiano (Approvazioni).

Del resto, questa verità hanno sempre avvertita tutti gli studiosi del problema e infatti essi hanno concordemente affermato, in assenza delle autonomie regionali, la necessità di una legislazione speciale (o regionale, come dicono altri), cioè qualche cosa che sia fuori dalla macchina burocratica e legislativa dello Stato italiano.

Io comprendo le apprensioni: tutte le idee da attuare, in sostanza, anche quelle che hanno radici profonde nella coscienza pubblica, fanno correre il pensiero di molti – diciamo la verità – al rischio e al rapporto di proporzioni tra il gioco e la posta.

Io penso però che questa volta le apprensioni trovino la loro radice in un quadro che è fuori dalla realtà del progetto.

Non è chi non veda come la soluzione proposta sia lontanissima da ogni forma di autonomia federalista, essendo di parziale autogoverno amministrativo e legislativo: basta infatti soffermarsi sugli articoli 110 e 111, dove sono elencate le materie sulle quali cade la potestà dell’Ente Regione, per dedurne, per convincersi che si tratta di una potestà prevalentemente regolamentare.

È allo Stato repubblicano che spetterà la prerogativa di dettare leggi, intese queste come comando pieno emanante dall’attività superiore, intese come «iussus populi». Ed è per questo, penso, che l’onorevole Piccioni diceva, da regionalista convinto, che personalmente ne era scontento.

Se è vero che il regolamento è la norma stabilita dal Governo in virtù del suo potere discrezionale e trova il suo limite nel diritto nazionale, evidentemente la dizione dell’articolo 110 e l’altra dell’articolo 111 non possono avere altro significato che non sia in prevalenza quello del regolamento inteso secondo i dettati del diritto costituzionale; del regolamento il quale, per dire uno degli aspetti più comprensivi della sua natura, vincola l’autorità solo condizionalmente, cioè in quanto non sia contrario al diritto nazionale.

Tutto ciò per tacere di un altro aspetto più grave: quello di una limitazione gravissima derivante dal fatto che è previsto il controllo delle leggi da parte dello Stato, controllo che non è soltanto di legittimità, come potrebbe apparire a prima vista, ma giunge anche al merito quando, nell’articolo 118, si manifesta attraverso la facoltà del Governo centrale di esaminare e di impugnare i disegni di legge approvati dal Consiglio regionale.

PRESIDENTE. Mi permetta, onorevole Cassiani, di osservarle che chi presenta un ordine del giorno si prestabilisce l’argomento. Ella entra nell’esame dettagliato degli articoli, mentre il suo ordine del giorno parla di ragioni storiche e politiche in rapporto al problema del Mezzogiorno.

CASSIANI. È un rapidissimo accenno, onorevole Presidente. Concluderò presto. Pensavo di dire qualche cosa sull’autonomia finanziaria ma il suo giusto richiamo mi induce a saltare l’argomento.

Concludo dicendo che, al pari degli onorevoli sostenitori dell’autonomia regionale che mi hanno preceduto, io vedo nell’autonomia regionale non soltanto la fine del sistema accentratone che è alla base della struttura liberale dello Stato italiano, ma vedo anche il frantumarsi di ogni conato di dottrina liberticida – come quella reazionaria del nazionalismo, diventata più tardi dottrina del fascismo e attinta ai grandi capolavori della scienza tedesca, opera dei teorici dell’imperialismo tedesco aggressivo che provocò due volte la catastrofe nello spazio breve di pochi decenni.

Io vedo nelle autonomie regionali il limite e il freno allo strapotere del Governo e alle deviazioni del Parlamento attraverso la partecipazione diretta e vicina del popolo al governo della cosa pubblica – partecipazione che culmina nell’istituto del referendum introdotto in tutte le costituzioni moderne dopo la prima grande guerra.

Lo Stato repubblicano, attraverso le autonomie regionali, presterà ossequio alla voce della storia e dirà che non vuole condannarsi all’impotenza e alla morte. (Vivi applausi Congratulazioni).

PRESIDENTE. Segue l’ordine del giorno presentato dagli onorevoli Grieco e Laconi, del seguente tenore:

«L’Assemblea Costituente riconosce la necessità di effettuare un ampio decentramento amministrativo democratico dello Stato, a mezzo della creazione dell’Ente Regione, avente facoltà legislativa di integrazione e di attuazione per le materie da stabilirsi, onde adattare alle condizioni locali le leggi della Repubblica;

riconosce la necessità della conservazione e del potenziamento dell’Ente Provincia;

decide che il Titolo V si limiti ad affermare i principî costituzionali dell’Ente Regione, rinviando ad una legge speciale la regolamentazione delle funzioni del nuovo Ente e dei suoi rapporti con le Provincie, i Comuni e lo Stato».

L’onorevole Grieco ha facoltà di svolgerlo.

GRIECO. Nell’ordine del giorno che ho presentato insieme all’onorevole Laconi, ho condensato i concetti essenziali che mi permetterò di illustrarvi. È evidente che il mio ordine del giorno è un ordine del giorno politico, e questo lo dico al collega Conti, in quanto noi siamo in un’Assemblea politica. Forse per l’onorevole Conti la parola «politica» ha un significato deteriore. Ma in questo caso bisognerà che ogni qual volta egli usa questa parola vi aggiunga un codicillo, per evitare equivoci. Io do alla parola «politica» un altro senso, un senso elevato; ed è in questo senso e mantenendomi al livello di questa parola, che intendo illustrare il mio ordine del giorno.

Onorevoli colleghi, con la discussione, ormai esaurita, sul titolo V della seconda parte del progetto costituzionale, siamo entrati nel vivo della materia che riguarda l’ordinamento della Repubblica. Ora per me è ovvio che non è possibile considerare l’ordinamento della Repubblica come qualcosa a sé stante, distaccata dai principî che informano la Costituzione. Dico questo perché ho sentito affermare qui da autorevoli costituzionalisti, che la seconda parte della Costituzione sarebbe la «vera» Costituzione. Può darsi che questo modo di esprimersi sia conforme all’ortodossia giuridica. Ciò nonostante vorrei ribadire la nostra opinione già espressa altra volta, secondo la quale l’ordinamento dello Stato deve essere un mezzo, uno strumento, capace di tradurre nella pratica i diritti, i principî affermati nella nostra Carta costituzionale, nella prima parte della nostra Costituzione. Noi abbiamo già approvato nei titoli che trattano i diritti, che trattano dei rapporti civili, dei rapporti etico-sociali, dei rapporti economici e politici, alcuni principî fondamentali. Abbiamo dato importanti direttive al legislatore. Ora dobbiamo stabilire in che modo, con quali mezzi, il legislatore potrà realizzare, concretamente quei principî e quelle direttive.

Secondo noi, la seconda parte della Costituzione dipende necessariamente dalla prima. Non abbiamo dunque nelle due parti una «più vera» o una «meno vera» Costituzione; ma abbiamo una sola Costituzione coerente in tutte le sue parti. In questa seconda fase della nostra discussione la nostra preoccupazione, io credo, deve essere quella di dare alla democrazia italiana strumenti facili da maneggiare, in modo che la democrazia ed il legislatore non trovino ostacoli, nella struttura dello Stato o nella formulazione delle leggi, quando dovranno passare a tradurre i principî e le direttive in azione pratica, in leggi ordinarie.

Il richiamo alla necessaria coerenza fra le due parti è indispensabile anche nel momento in cui ci avviamo alla conclusione della nostra discussione sul Titolo V. Giacché una delle cause della decadenza di certe democrazie mi pare che sia da ricercare nella contradizione fra i principî da esse affermati e l’azione pratica del potere nelle sue diverse funzioni, che non è sempre conforme a quei principî. Questa contradizione genera sfiducia nel popolo, genera diffidenza, genera anche l’avversione verso le istituzioni ed apre la via alle rivoluzioni. Naturalmente non sarà la Carta Costituzionale a garantirci in modo assoluto dal cadere nella morsa di una simile contradizione. Quello che decide in ultima analisi è il costume democratico. Ma dobbiamo evitare che quella fatale contradizione possa trovare stimolo in un ordinamento incerto, difficoltoso, pesante dello Stato. Dobbiamo elaborare un ordinamento della Repubblica che non ponga limiti allo sviluppo della democrazia, che estenda anzi la democrazia ed agevoli così la formazione delle leggi e – quello che c’interessa soprattutto, quello che è uno dei problemi fondamentali della nostra epoca – aiuti la formazione di una nuova classe dirigente, onorevole Conti, legata intimamente agli interessi ed agli sviluppi della democrazia e del progresso della nostra società.

Io ritengo quindi che le nostre conclusioni sull’ordinamento regionale devono restare fedeli a questa preoccupazione fondamentale. In altre parole, dobbiamo esaminare se e in quali condizioni una organizzazione regionale dello Stato possa contribuire a risolvere i problemi della nostra ricostruzione, possa contribuire a migliorare e snellire il funzionamento democratico dello Stato, possa favorire il necessario profondo rinnovamento democratico del nostro Paese. Se si segue un’altra via, mi sembra che ci si mette su una via sbagliata. Se ci addentrassimo in una ricerca astratta del miglior tipo di organizzazione statale, faremmo opera vana. E del resto quale è il miglior tipo di organizzazione statale? Se non sbaglio, esso è quello che meglio serve alle necessità nazionali in un determinato periodo dello sviluppo del Paese.

Non è possibile, secondo me, fare astrazione, nella trattazione della materia costituzionale, dagli obiettivi concreti che ci stanno di fronte e al cui raggiungimento dovranno volgersi la nostra e la futura generazione, e forse anche più di una generazione, per un lungo periodo della vita nazionale.

Noi abbiamo avuto l’occhio fisso a questi obiettivi nel corso della prima parte delle discussioni sui diritti. Tanto più, mi pare, non dobbiamo distogliere il nostro sguardo da questi obiettivi entrando nel campo dell’ordinamento dello Stato e, quindi, affrontando il tema della creazione dell’Ente Regione. Da quello che ho detto risulta evidente che noi non abbiamo nessuna posizione preconcetta, né contro la creazione della Regione, né a favore di essa. Noi insomma non abbiamo un mito regionale da coltivare, né abbiamo del resto la fobia delle innovazioni, se queste innovazioni sono necessarie. Per noi questa questione non è questione di principio. Però ci sono delle questioni di principio anche in questo campo. È una questione di principio quella che mosse noi a sostenere, e non da oggi e non solo negli ultimi anni, un regime regionale particolare per la Sicilia e la Sardegna. I motivi di questa nostra posizione vanno al di là delle circostanze venutesi a creare in Italia e nelle due Isole dopo la grande sciagura che ha colpito il nostro Paese. Ciò che è accaduto era prevedibile e noi l’avevamo previsto. Era del tutto prevedibile che nel momento in cui il Paese fosse caduto in un collasso grave, il movimento autonomistico sarebbe riaffiorato alla superficie nelle due Isole e specialmente in Sicilia. Non si tratta di un caso. Ci stupisce che uomini di valore, appartenuti alla vecchia classe dirigente, si siano meravigliati del movimento, sorto dopo la guerra in Sicilia. Eppure vi era e vi è tutta una letteratura politica e romantica, nell’ultimo secolo, per non parlare della storia anteriore, per esempio, della Sicilia, la quale ha fatto conoscere agli italiani, agli uomini politici, agli intellettuali ed anche agli uomini della strada il dramma delle popolazioni siciliane.

D’altra parte vi è un secolo di lotte sociali in Sicilia, che hanno posto con forza, in un modo o nell’altro, il problema del profondo rinnovamento della vita siciliana. Ed ogni volta che si è aperta una grave crisi politica nella società italiana, come nell’ultimo decennio del secolo scorso, come dopo l’altra guerra, come dopo la catastrofe recente, le spinte autonomistiche si sono manifestate in Sicilia in modo chiaro ed evidente. Qualche volta di questo malessere siciliano hanno approfittato le classi reazionarie dirigenti isolane per innestarvi tendenze separatiste; ma l’autonomismo fu sempre democratico e ricordo che esso penetrò nel primo decennio di questo secolo anche nel partito socialista, il quale in Sicilia subì precisamente una crisi autonomistica, ed una scissione, a capo della quale erano uomini come De Felice ed altri, movimento che in fondo era un movimento sicilianista, sociale e democratico. Credo che se il partito socialista del tempo avesse studiato a fondo la questione siciliana, avrebbe evitato quella scissione e si sarebbe arricchito nello stesso tempo di nuove capacità di espansione fra gli strati popolari dell’Isola.

Per la Sardegna il movimento autonomistico si è organizzato come movimento di massa in un’epoca più recente, ma anche esso, come in Sicilia, è sorto come una protesta contro la trascuratezza colpevole dello Stato verso le popolazioni isolane e verso i problemi dell’Isola.

Noi, comunque, abbiamo riconosciuto che la concessione di statuti speciali alle due Isole era ed è un atto di riparazione dell’Italia verso di esse; e siamo certi che se le popolazioni della Sicilia e della Sardegna sapranno adoperare l’autonomia regionale come mezzo complementare e diretto per accelerare i tempi della loro rinascita, l’autonomia avrà come conseguenza il rafforzamento dell’unità che sta tanto a cuore a noi, quanto ai siciliani ed ai sardi.

Il movimento autonomistico della Val d’Aosta è effettivamente la conseguenza del fascismo e della guerra fascista. Quella stupida politica del fascismo che ha tanto contribuito a dividere gli italiani, ha anche inasprito, colla sua azione, la minoranza valdostana, colla quale avevamo sempre avuto eccellenti rapporti. Ecco perché i valdostani hanno chiesto, ad un certo momento, alla nuova Italia democratica, particolari garanzie costituzionali ed anche un particolare regime autonomistico. Noi abbiamo riconosciuto lo statuto particolare per la Val d’Aosta e resteremo fedeli all’impegno assunto.

Siamo certi che i Valdostani difenderanno la libertà loro concessa dalla nuova democrazia italiana, per rafforzare i vincoli di fratellanza col popolo italiano, del quale essi sono una parte, e per ricostruire con noi l’Italia e consolidare insieme a noi la Repubblica democratica italiana.

Diversa e particolare è la situazione dell’Alto Adige. Anche qui il fascismo ha condotto una stupida politica di repressione, di snazionalizzazione e di offesa al sentimento nazionale del popolo alto-atesino che era entrato a far parte del nostro Stato dopo la guerra del 1915-18. La democrazia italiana di allora – riconosciamolo – non seppe o non fece a tempo a fondere queste popolazioni col popolo italiano. In fondo, quelle popolazioni si sono sempre sentite spiritualmente come il distaccamento di una collettività nazionale esterna. Tanto che, quando Mussolini, iniziando l’opera di tradimento degli interessi nazionali, ammise, per servire Hitler, l’esistenza di un problema dell’Alto Adige, ed accettò di risolverlo, secondo il volere di Hitler, col sistema dell’opzione, moltissimi furono gli alto-atesini che optarono per la nazionalità germanica, sebbene parecchi, dopo aver optato, restassero nell’Alto Adige a fare i loro affari ed anche talora a preparare le condizioni per l’occupazione hitleriana del territorio, al momento opportuno.

Il modo come la guerra recente si è svolta e conclusa ha imposto la soluzione che conosciamo al problema della nostra frontiera settentrionale. Noi avevamo il diritto di rivendicare il mantenimento della nostra frontiera del Brennero, perché, ancora una volta nella nostra storia, l’invasione dell’Italia fu tedesca, venne dal Nord, sia pure favorita dal tradimento fascista, che aprì le porte all’invasore. Ma si è verificato un altro fatto, del quale non potevamo non tener conto. Ed è che nel corso delle lotte recenti del popolo italiano contro gli invasori tedeschi e i traditori fascisti loro complici, l’Austria è rimasta al fianco della Germania, ha combattuto fino all’ultimo sotto le insegne naziste ed i suoi soldati sono venuti in Italia a battersi contro i patrioti, i partigiani, i soldati dell’Armata Italiana di liberazione. Non abbiamo visto sorgere in Austria un movimento di massa antinazista, che abbia condotto una lotta armata di liberazione contro i nazisti germanici ed austriaci. Dovevamo, dunque, premunirci per l’avvenire e la nostra richiesta del mantenimento della frontiera settentrionale al Brennero è stata assolutamente giusta, dal punto di vista degli interessi nazionali e statali italiani.

Ma è chiaro che il nostro atteggiamento verso le popolazioni alto-atesine deve essere oggi assolutamente diverso da quello che è stato nel passato. Il governo italiano concluse con il governo austriaco un accordo, nel settembre 1946, relativo al regime ed alle libertà che l’Italia riconosce e si impegna di osservare nell’Alto Adige.

Ritengo che la Repubblica Italiana avrebbe avuto coscienza dei suoi doveri, in questa parte del suo territorio, pur senza lo stimolo, non necessario, e forse anche pericoloso, di un accordo internazionale. La questione della sistemazione regionale da dare a questa regione è allo studio ed io non mi pronuncerò su di essa in questo momento. Ci auguriamo vivamente che le popolazioni di lingua tedesca e sopratutto le popolazioni lavoratrici comprendano l’interesse di edificare assieme a noi in Italia una democrazia solida e veramente popolare, la quale garantisca loro tutte le libertà alle quali hanno diritto, e ci aiutino nell’opera di democratizzazione della Regione altoatesina, la cui situazione, dal punto di vista politico, non è ancora esente dal destare preoccupazioni nei democratici italiani ed europei.

Una rivendicazione regionale si affacciò già nella seconda Sottocommissione e poi nella Commissione dei settantacinque, e fu quella volta a creare una Regione friulana, ma non una Regione speciale. Noi fummo dapprima contrari alla costituzione di questa Regione, data la nostra posizione avversa in generale alla creazione di piccole Regioni. Ma fummo battuti. Nella Commissione dei settantacinque fu l’onorevole Fabbri, se non erro, che propose la creazione di una regione Friuli-Venezia Giulia, con l’aggregazione al Friuli della parte della Venezia Giulia che i trattati lasciano all’Italia. Noi accedemmo a questo punto di vista. La proposta fu approvata con riserva di esaminare ulteriormente se ad una tale regione dovesse essere accordato o meno un regime speciale. Io non mi addentrerò in questa questione, ora.

Se, come ho ricordato, tutte le autonomie speciali hanno una loro origine particolare, dovremo vedere se anche in questa parte del territorio nazionale italiano non vi siano, come io credo, motivi particolari che consigliano uno speciale regime regionale già da noi ammesso per altre regioni a minoranza linguistica o mistilingui.

In questa Assemblea si sono levate delle voci anche autorevoli contro le posizioni speciali, dette «di privilegio», che la nostra Costituzione assegnerebbe ad alcune parti della popolazione italiana, attraverso speciali statuti regionali. Si è detto anche che questa sarebbe una ingiustizia verso le altre parti della popolazione, escluse da un analogo trattamento.

Debbo riconoscere che nessun collega, nemmeno l’onorevole Rubilli, antiregionalista integrale, neppure lui ha proposto di sopprimere le autonomie speciali. Contrariamente all’opinione espressa da alcuni colleghi ritengo, per i motivi esposti, che un regime regionale egualitario sarebbe un errore; vorrebbe dire negare i motivi che ci hanno portato a concedere le autonomie speciali e sarebbe una ingiustizia verso le popolazioni interessate.

Riconosco che dobbiamo rivedere con attenzione alcuni punti di questi Statuti. Non ci è consentito di trascurare alcune acute osservazioni, che sono state fatte da vari colleghi qui, per quanto riguarda, ad esempio, lo Statuto siciliano e lo Statuto della Val d’Aosta.

In sede di coordinamento degli statuti speciali con la Costituzione della Repubblica, dovremo tener presente la preoccupazione di tutelare in ogni campo il principio inderogabile dell’unità dello Stato. Dico questo a quegli oppositori degli statuti speciali, che non si limitano a criticare, come sarebbe loro dovere, gli errori e certe esagerazioni contenuti in questi statuti, ma sostengono che i regimi delle regioni speciali costituirebbero un pericolo per l’unità dello Stato. Secondo me simile preoccupazione è infondata. Chi ha una simile preoccupazione dimentica che abbiamo concesso questi statuti precisamente per far argine a certe deplorevoli tendenze centrifughe e per rinsaldare l’unità dello Stato. E ciò compresero anche gli avversari decisi di ogni forma di autonomie regionali. Non è vero che sempre ed in ogni caso un ordinamento regionale rappresenti un pericolo per l’unità statale. Tutto sta a vedere quando questo pericolo esiste, quando un regime particolare è, invece, condizione dell’unità dello Stato.

Di fronte a simili problemi non mi pare che ci si possa legare a degli schemi, di nessuna specie. Noi crediamo che il pericolo denunciato esisterebbe se i vari statuti speciali diventassero tipi di statuti generalizzati per tutte le Regioni italiane; ed in fondo, il progetto, che è al nostro esame, dell’ordinamento regionale tende, più o meno, a questa generalizzazione. Perciò non l’abbiamo approvato come non lo approveremo. Qui siamo di fronte, onorevoli colleghi (ed è stato già rilevato da vari oratori), ad un progetto che mal nasconde una sua tendenza federalistica.

Ci è stato detto che il federalismo è altra cosa, e siamo d’accordo. È certo altra cosa: per questo parlo di tendenza federalistica, di orientamento federalistico. Dico questo perché l’esercizio delle potestà, che sono sancite per la Regione in questo progetto, porterebbero, prima o dopo, ad indebolire, a rompere, a spezzare il sistema politico unitario dello Stato.

Ed io ritengo che passare in Italia oggi (perché non sono a priori antifederalista o federalista) dallo Stato unitario allo Stato federale, o di tipo federale, sarebbe contrario agli interessi dello Stato e agli interessi del popolo, e delle stesse regioni. Convengo perfettamente con l’onorevole Piccioni che una classe dirigente, nel senso cioè di quello strato di uomini che sono investiti di responsabilità, di funzione o di rappresentanza dirigente, debba avere la sensibilità di porre e di risolvere problemi ancora latenti nella coscienza della popolazione. Vorrei che questa sensibilità fosse sempre viva negli uomini che governano il nostro Paese, e specie per risolvere problemi che non sono latenti, ma che sono espressi, e spesso in forma drammatica, come ad esempio, la riforma agraria. Ma sarebbe inesatto affermare che le popolazioni italiane abbiano, sia pure allo stato latente, la coscienza della disintegrazione dell’unità legislativa del Paese. Se per dannata ipotesi esistesse questa coscienza, mi pare che il nostro dovere sarebbe di dimostrarne l’errore e convincere le popolazioni dell’errore, non già di favorirlo.

Onorevoli colleghi, tutti i riferimenti storici, fatti con notevole corredo di cognizioni, da numerosi sostenitori del progetto, sono stati riferimenti a studi, a progetti, ad intenzioni di singoli studiosi ed uomini politici, i più interessanti dei quali appartengono al Risorgimento o all’immediato post-Risorgimento. In generale questi studi, questi proponimenti di singoli uomini di valore, sono antichi, onorevoli colleghi, non ci servono più, non trovano vita e consenso nella realtà attuale, nella nostra Italia di oggi. Perché man mano che lo Stato unitario si è andato consolidando (ed io ammetto che il processo di consolidazione sia ancora in corso, come provano molti fatti) si sono andati attutendo, o sono andati scomparendo, quelle incomprensioni e quei dissensi dovuti al modo come gli italiani erano vissuti per secoli.

Nel corso degli ultimi 85 anni di vita unitaria, si è creato un unico mercato nazionale, si è creata una economia nazionale (sia pure con molte contraddizioni e disfunzioni), si è andata sviluppando una cultura nazionale sempre più larga, si è creata una coscienza nazionale, che è coscienza degli interessi comuni a tutta la collettività nazionale (ed è un fatto di notevole portata storica): da tutto questo sono scaturiti sentimenti nuovi, che non esistevano prima, o non potevano essere ancora né estesi né profondi.

È facile, onorevoli colleghi, avere un successo di approvazioni, quando si tocca il tasto del sentimento nazionale; ma mi sembrerebbe un atto di slealtà verso di voi muovere questo tasto, in una discussione fra italiani, ciascuno dei quali vuol gareggiare con tutti gli altri nel portare al più alto livello questo che è uno dei sentimenti fondamentali nella vita morale e politica degli uomini.

Noi disputiamo su un altro terreno, è bene inteso. Ma il fatto che interessi unitari, di ordine materiale, culturale, sentimentale se volete, sono sorti negli scorsi decenni, attraverso successi e sciagure che ci sono stati comuni, attraverso l’esperienza dell’unità che, malgrado tutto, è stata positiva, con le sue angosce e coi suoi errori, spiega perché non sono sorti in Italia, nelle nostre popolazioni, movimenti rivolti a disintegrare la unità politica del Paese.

Abbiamo sentito, è vero, in questi mesi ed anche in questa Assemblea, sollevarsi terribili accuse contro lo Stato unitario e politicamente centralizzato, chiamato a rispondere di tutti i mali che abbiamo sofferto dopo l’unificazione e chiamato a rispondere dello stesso fascismo. Io vi confesso che non ho mai sentito rivolgere simili accuse da parte delle popolazioni. Non ho mai sentito dire che se avessimo avuto in Italia uno Stato federale con larghe autonomie regionali, non avremmo subito il danno e la vergogna del fascismo.

Non ho mai sentito dire queste cose perché esse non corrispondono alla verità storica.

I nostri mali sono derivati non già dal fatto che l’Italia si organizzò, nel secolo scorso, in Stato unitario ma dal modo con il quale si è sviluppato il capitalismo nel nostro Paese, e dai rapporti sociali che ne sono derivati. All’origine vi è, in sostanza, il modo stesso come siamo giunti all’unità nazionale, senza una rivoluzione democratica profonda, sociale, popolare, contadina, senza condurre a fondo la rivoluzione antifeudale. La nuova borghesia italiana ha patteggiato con le vecchie classi feudali e da questo patto ne è venuta fuori una unità relativa, rachitica, uno Stato che si è dimostrato incapace di risolvere i problemi fondamentali interni, diretto da una classe timorosa della democrazia, priva di coraggio veramente democratico.

Sotto la incombenza dei problemi sociali, innanzitutto del problema agrario, la cui soluzione avrebbe sviluppato in modo coerente la industrializzazione del Paese, su tutto il territorio nazionale, e potenziato il mercato interno, le classi dirigenti si sono gettate nelle guerre coloniali aggravando le contradizioni e le differenziazioni interne, aumentando le differenziazioni tra Nord e Sud. I nostri mali, e lo stesso fascismo, sono derivati non già dal fatto che noi avevamo uno Stato unitario, e centralizzato politicamente, ma dal fatto che esso fu poco unitario, nel senso sostanziale e non formale della parola. Il fascismo è stato il logico sviluppo di questa politica anteriore delle vecchie classi dirigenti italiane. Io non so se esse volessero proprio il fascismo, non è interessante saperlo. È certo che esse hanno visto nel fascismo il minor male, e lo hanno aiutato per il timore di essere costrette ad un profondo rinnovamento strutturale e politico della società italiana, e quindi se ne sono servite egregiamente contro il popolo e le sue libertà, e contro la Nazione. Non esistevano federalismi o regionalismi capaci di frenare il fascismo. Lo poteva solo l’unione attiva del popolo, capace cioè di imporre le profonde riforme necessarie al Paese. Del resto il fascismo ha vinto provvisoriamente, tanto in Stati monarchici quanto in Stati repubblicani, tanto in Stati unitari quanto in Stati federali o regionali. Ciò è la conferma che non è una forma determinata di organizzazione statale che può impedire la tirannia, bensì la forza del potere democratico, la coscienza democratica del popolo, che abbia conquistato una maggiore giustizia sociale. Il problema è di sostanza, non di forma.

D’altra parte lo Stato centralizzato è un prodotto dello sviluppo delle forze economiche. Non vi è nessun paese civile al mondo che non abbia visto, nell’ultimo cinquantennio, rafforzarsi il potere dello Stato, passare allo Stato facoltà che una volta non gli erano attribuite. Gli Stati moderni sono organizzati in modi diversi, ma la interpenetrazione fra l’economia e la politica è diventata sempre più stretta, ciò che ha enormemente aumentato il loro potere. È questo un dato storico obiettivo che sfugge ad ogni valutazione morale. Non è possibile tornare indietro, perché non è possibile tornare alla piccola industria, alla manifattura, all’arcolaio, al dolce tempo in cui Berta filava. Che ci siano deformazioni morbose in questo processo, è indubbio, che il parassitismo dei monopoli fiorisca velenosamente nella nostra società è certo; ma la macchina poderosa dello sviluppo produttivo moderno è un fatto positivo, è la civiltà in marcia. Questo fatto non può orientarci verso lo spezzettamento di questa macchina; esso è il segno che nella storia matura una nuova epoca.

Questa centralizzazione accresciuta del potere dello Stato, non è detto che debba portare inevitabilmente alla tirannia e al fascismo. Se i gruppi del capitale monopolistico si impadroniscono dello Stato e si servono di esso come della propria organizzazione economica e politica, allora sì, noi abbiamo la tirannia, il fascismo. Ma se le grandi forze produttive ed i grandi monopoli sono padroneggiati dalla società nazionale e lo Stato diventa l’organizzatore di queste forze, nell’interesse sociale, collettivo, nazionale, allora noi facciamo avanzare la società, sviluppiamo le forze materiali e culturali della società, sviluppiamo cioè la democrazia.

Onorevoli colleghi, la questione che oggi la vita ci pone non è quella della frantumazione del potere dello Stato, quanto quella della partecipazione più larga delle masse popolari alla costruzione del Paese, alla direzione del Paese. Bisogna decentrare quindi le funzioni dello Stato per avvicinarle alla popolazione, per chiamare a responsabilità più diretta le popolazioni negli affari dello Stato, per sviluppare e controllare le iniziative locali. Queste sono le esigenze del nostro rinnovamento politico, così come sono poste dalla realtà. E corrispondere a queste esigenze vuol dire concorrere alla ricostruzione del nostro Paese nel modo più largo.

Già qualche anno fa noi aderimmo agli studi rivolti a dare una organizzazione regionale allo Stato italiano. Ma non accettammo la definizione di «Stato regionale», elaborata da quanti vagheggiavano autonomie spinte fino alla potestà legislativa primaria. Convenimmo, però, allora, e conveniamo adesso che la soluzione dei grossi problemi della ricostruzione del Paese sarebbe stimolata, sarebbe aiutata da forme ampie di decentramento amministrativo statale.

Onorevoli colleghi, di fronte alla crisi profonda nella quale si trova il nostro Paese, di fronte all’esigenza di riparare al più presto i danni e di ricostruire l’Italia, noi siamo persuasi che potremo lavorare a quest’opera, risolvendo, nel corso della ricostruzione, i problemi più angosciosi della società nostra, solo con la partecipazione più larga dei cittadini.

La Costituzione ci dà l’orientamento per le grandi riforme; noi sappiamo che gli obiettivi fissati dalla prima parte della Costituzione potremo però realizzarli soltanto nel quadro di una legislazione unitaria e coerente.

Ora io mi domando: c’è forse contradizione fra questa necessità e la disarticolazione delle funzioni statali? Non è forse opportuno, ai fini della ricostruzione, disarticolare le funzioni dello Stato, delegando tutte quelle che opportunamente possono essere delegate, ad enti periferici di una certa ampiezza territoriale? Non è forse opportuno chiamare la periferia a collaborare all’opera utilissima della applicazione delle leggi generali, sul piano degli interessi locali, dando a degli organi periferici facoltà di integrazione ed attuazione delle leggi generali?

Noi rispondiamo che simile decentramento, entro questi limiti, è opportuno, è utile, è necessario alla ricostruzione ed allo sviluppo democratico del nostro Paese.

Da ogni parte vengono sollevate critiche al centralismo burocratico dello Stato, il quale ignora e soffoca le utili iniziative della periferia. Ebbene, queste critiche sono giuste; e non è detto che uno Stato unitario e politicamente centralizzato escluda un decentramento delle funzioni statali. Noi pensiamo che numerose questioni possano venir risolte non più a Roma, ma in centri periferici, in centri esecutivi periferici dello Stato.

Intendiamoci, noi non prevediamo un decentramento burocratico, ma un decentramento democratico, affidato ad organi elettivi locali: consiglio regionale, deputazione regionale, presidente regionale.

Io credo che una simile riforma regionale sia pure moderata, offra grandi vantaggi di ordine amministrativo e politico. E ciò tanto più, se teniamo presente il diritto di iniziativa legislativa dei consessi regionali.

È stato detto: ma un simile decentramento suppone necessariamente la creazione dell’Ente Regione? Lo scopo che noi perseguiamo, non potrebbe essere realizzato meglio con la Provincia? È stato detto perfino che la regione non esiste ed io mi sono meravigliato che l’onorevole Nitti abbia negato che in Italia esista la regione. Sono d’accordo con l’onorevole Piccioni il quale ci ha dato nel suo discorso di ieri una caratterizzazione storica della regione.

Ma facciamo attenzione! Decentralizzare non vuol dire polverizzare. Io non sono d’accordo con quanti propugnano la formazione della grande Regione; sono però contrario anche alla creazione delle piccole Regioni.

Contro la grande Regione, secondo me, milita la concezione stessa che io ho dell’Ente Regione come organo amministrativo di decentramento. Alla grande Regione, con i suoi «baricentri» – come dice l’onorevole Persico – si arriva da una concezione parafederalistica, la quale mira alla costituzione di zone economiche affini, di autosufficienza. Io non credo che noi possiamo abbandonare utilmente il principio dell’unità economica nazionale. E per questo abbiamo anche combattuto la Regione ideata dall’onorevole Micheli.

Ma siamo contrari anche alla creazione della piccola Regione. Ed è probabile che il fatto che manteniamo in vita la Provincia farà cadere molte richieste giunteci da varie parti, per mettere in piedi le piccole Regioni. La piccola Regione mi pare tolga ogni valore alla riforma regionale, la quale, secondo me, ha un senso solo se ci aiuta a superare i particolarismi locali. Parlo di «particolarismi» locali, non di «particolarità»; queste devono assolutamente essere tenute presenti, come non sempre avviene oggi; anzi, la riforma regionale, mi pare abbia il compito precipuo di considerare e mettere al giusto posto le particolarità locali, molto meglio di quanto non abbia fatto lo Stato sino ad oggi. In questo io vedo il carattere autonomistico della riforma.

Onorevoli colleghi, una delle cause…

PRESIDENTE. Onorevole Grieco, veda, la prego, di attenersi allo svolgimento del suo ordine del giorno.

GRIECO. Io volevo concludere in questo modo. Mi pare che tra gli elementi positivi che sono emersi dalla lunga discussione uno abbia valore predominante: quello cioè della possibilità che ci si presenta, attraverso la creazione dell’ente Regione, nei limiti da me prospettati, di favorire lo sviluppo delle forze democratiche in Italia, di aiutare il crearsi di una nuova classe dirigente del Paese, attraverso l’esercizio più largo del sistema democratico nella pubblica amministrazione, mediante il quale il popolo sarà costretto a decidere non più solo nel campo ristretto delle funzioni comunali e provinciali, ma in un campo più vasto. Ciò ha un valore non solo didattico; ha un valore enormemente più importante dal punto di vista politico.

In questa discussione abbiamo mostrato la volontà di tener conto di certe preoccupazioni agitate da uomini politici e dalle popolazioni italiane. Spero che i nostri colleghi, che hanno posizioni più lontane dalla nostra, vorranno tener conto anch’essi delle nostre preoccupazioni, che sono quelle di una parte importante del nostro popolo. Mi auguro, cioè, che potremo realizzare un incontro per trovare punti comuni, e, concretamente, rifare il Titolo V, limitandolo – come ho proposto nel mio ordine del giorno – alle questioni essenziali da introdurre nel testo costituzionale, rinviando tutto il problema della organizzazione interna della Regione e dei suoi rapporti con la Provincia, i Comuni e lo Stato, ad una legge speciale. Io sono ottimista dinanzi all’esperimento regionale, sempre però nei limiti da me indicati. Credo che fra qualche anno, alla prova dei fatti, potremo dire che la creazione dell’ente Regione – ente di decentramento amministrativo dello Stato – avrà avuto benefiche conseguenze nella riorganizzazione del nostro Paese, e dal punto di vista della soluzione dei problemi immediati della ricostruzione e da quello della soluzione dei più importanti e fondamentali problemi di struttura.

Con questa certezza rinnovo l’invito fatto precedentemente dall’onorevole Ruini a tutti coloro che tengono alla creazione dell’Ente Regione, perché penso anch’io che l’Ente Regione può passare in questa Assemblea, alla condizione che esso moderi le sue esigenze e si presenti come qualche cosa di possibile dinanzi alle popolazioni e si giustifichi come uno strumento utile della nuova democrazia italiana. (Applausi).

PRESIDENTE. Poiché la Giunta delle elezioni ha terminato da oltre un’ora i suoi lavori, l’onorevole Nobili Tito Oro potrebbe svolgere il suo ordine del giorno, del quale è stata già data lettura.

Non essendo presente, si intende che abbia rinunciato a svolgerlo.

L’onorevole Russo Perez ha presentato il seguente ordine del giorno:

«L’Assemblea Costituente ritiene che, ferme restando le autonomie già concesse alla Sicilia, alla Sardegna, al Trentino, all’Alto Adige e alla Valle d’Aosta, con forme e condizioni particolari, altri gruppi di provincie potranno, mediante normali provvedimenti legislativi, essere costituiti in Regione, secondo le norme del Titolo V della Costituzione, quando essi ne avranno sentito ed espresso il bisogno mediante la richiesta di tanti Consigli comunali che rappresentino almeno due terzi delle popolazioni interessate e tale proposta sia stata approvata con referendum dalla maggioranza delle popolazioni stesse».

L’onorevole Russo Perez ha facoltà di svolgerlo.

RUSSO PEREZ. Non ho voluto prender parte alla discussione generale per non aumentare di un altro combattente la schiera già troppo numerosa dei giostratori pro e contro la Regione, col rischio di fare della facile retorica. Qui non dobbiamo fare della letteratura, ma delle leggi; possibilmente delle buone leggi. Ecco perché mi sono limitato a preparare degli emendamenti, che ho trasformato nell’ordine del giorno di cui il Presidente ha dato lettura.

Io tento quell’opera di conciliazione fra le opposte tendenze, di cui hanno parlato diversi oratori, una specie di compromesso. Santo Alcide anticrisi mi assista! (Si ride).

Per sostenere la mia tesi, e, cioè, che le Regioni possano costituirsi, ma non debbano infliggersi alle popolazioni, io posso far miei tutti gli argomenti che sono stati svolti dagli oratori favorevoli al progetto.

Infatti io non sono contrario alla Regione. Penso soltanto che un gruppo di Provincie possa e debba costituirsi in Regione quando le sue popolazioni ne abbiano sentito il bisogno e l’abbiano espresso in un modo particolare, che ho copiato dall’emendamento Recca (se non sbaglio), cioè con la richiesta di tanti comuni che rappresentino i due terzi delle popolazioni interessate, e, quindi, col referendum.

Notate ancora che l’autonomia di cui al Titolo V potrà, non dovrà, essere concessa a questi gruppi di Provincie. Quindi, in fondo, finirà con l’essere arbitro il Parlamento di concedere o non concedere l’unificazione regionale.

Così posso anche far miei tutti gli argomenti svolti contro la Regione, perché sono contrario alla sistemazione regionale quando le popolazioni interessate non ne abbiano sentito il bisogno e di tale bisogno, di tale necessità, non abbiano data una rassicurante documentazione.

Allorché si tratta di decentramento, noi possiamo concederlo senza che sia chiesto, o per lo meno, senza che sia espressamente chiesto, perché è notorio che tutti gli italiani sono d’accordo sulla necessità di un largo decentramento amministrativo. E si comprende perché: l’Italia è in quella tal forma costituita da Dio, per cui nelle scuole ci dicevano che somiglia ad uno stivale. E poi noi abbiamo una tendenza alla burocrazia, la quale burocrazia, se normalmente è tardigrada, da noi è addirittura stagnante. Un brillante scrittore ha chiamato estasi amministrativa l’indugiarsi del funzionario allo sportello con tronfia sufficienza.

Dunque, per rendere più snelli i rapporti fra cittadini, Comuni, Provincie e Stato, bisogna senza dubbio accedere a larghe forme di decentramento amministrativo.

Ma per la Regione le cose si presentano diversamente. Non starò a ripetere gli argomenti già trattati da altri. Ma domanderei ai regionalisti convinti, i quali ci dicono che sicuramente la regionalizzazione dell’Italia sarà un bene, se questo possono dircelo a guisa di profezia od a guisa di speranza.

È una speranza, amici miei, onorevoli colleghi; ma non può essere una certezza, mentre i vantaggi dello Stato unitario sono conosciuti da tutti.

Io penso, io sento, io temo che l’Italia tornerebbe ad essere quella che abbiamo imparato a conoscere sui banchi della scuola: un assembramento di piccoli staterelli. Gli oratori che hanno parlato contro la Regione hanno additato i pericoli che sarebbero in questo progettato spezzettamento del territorio nazionale.

Vorrei fare, però, una proposta d’indole pratica: se per caso l’Assemblea Costituente approvasse così com’è il Titolo che riguarda le Regioni, si dovrebbe cogliere l’occasione per scaricare negli enti regionali tutti gli impiegati della SEPRAL e di tutti quegli altri gruppi di lettere alfabetiche che tengono la Nazione come in una camicia di Nesso.

Per giustificare il mantenimento in vita di questi Istituti sono stati fatti vari argomenti, ma il vero argomento non è stato mai confessato, ed è questo: che i loro impiegati non possono andare a casa a far niente. Quindi hanno bisogno di avere un’altra occupazione; e potrebbero trovarla nella burocrazia regionale. Avremmo così il vantaggio di togliere finalmente alla Nazione la pastoia di codesti enti, che sono come una ingessatura posta intorno ad una gamba sana. Levate l’ingessatura, levate questo strumento ortopedico, e vedrete che le gambe torneranno a camminare speditamente.

Ho finito per quanto riguarda la mia proposta di conciliazione.

Ma qualcuno potrebbe trovare strano che io siciliano, che sono stato, per quanto riguarda la mia Regione, un fervido autonomista, fino a sfiorare i confini del separatismo (ma non li ho mai varcati: l’amico Finocchiaro lo sa) mi trovi in questa apparente contradizione: regionalista per la Sicilia e unitario per il resto d’Italia. Consentite che, a questo punto, io dia una risposta all’onorevole Nitti, il quale, parlando dell’autonomia già concessa alla Sicilia, trovò assurda l’istituzione della Corte di Cassazione regionale; perché soltanto con la Corte nazionale unica, egli disse, si può avere l’unicità della giurisprudenza. Io mi appello al nostro grande maestro Vittorio Emanuele Orlando. Egli ci può dire se veramente la Cassazione unica importi unicità di giurisprudenza. Sono diverse sezioni e quindi spesso si ha diversità di giudicati. Se i giudicati sono differenti, non ha importanza che le sezioni della Corte Suprema che li hanno emessi si siano riunite in due aule dello stesso palazzo di giustizia a Roma, oppure una a Roma, l’altra a Palermo e l’altra a Torino. Sappiamo per esperienza che nella stessa sezione della Corte Suprema basta che cambi un magistrato perché cambi la giurisprudenza della sezione. Quindi non è esatto che la Corte unificata abbia dato l’unicità della giurisprudenza, ma è vero il contrario. Basta sfogliare qualsiasi rivista di giurisprudenza per averne la conferma.

Riguardo all’autonomia siciliana, l’onorevole Nitti ha detto qualche altra cosa che mi è sembrata ancora più strana. Essere reverenti verso i più anziani è un privilegio ed un dovere dei più giovani; e difatti, quando parlano questi nostri maestri, li ascoltiamo sempre con reverenza, anche se dicono cose che, se fossero dette dall’onorevole Calosso o da qualche altro, farebbero ridere. Così quando l’onorevole Nitti ha detto che la Sicilia ha cominciato a parlare di autonomia quando ne hanno parlato i valdostani…

NITTI. Non ne ha parlato: ha sentito il movimento.

RUSSO PEREZ. Questo nostro movimento è secolare. Francesco Paolo Perez, nel 1860, insieme agli altri illustri siciliani del suo tempo, voleva per la Sicilia l’autonomia, nel senso che essa dovesse essere federata all’Italia. Viceversa il furbo Cavour pensò all’annessione. E poi più che di Regione avremmo dovuto parlare di nazione. La Sicilia è stata un Regno per dodici secoli. Prima che Umberto Biancamano fosse principe, la Reggia di Palermo ospitava dei Re.

NITTI. Umberto Biancamano è una leggenda.

RUSSO PEREZ. Leggenda più leggendaria è quella per cui la Sicilia abbia pensato alla Regione dopo che ci hanno pensato i valdostani. Ieri l’amico Finocchiaro Aprile mi ha inviato un opuscolo veramente prezioso. Non ricordo il nome dell’autore, ma vi sono riportati dei passi d’antichi autori come il «Monitore», che è del Seicento (non è leggenda) e il padre Gioacchino Ventura, nei quali si afferma che la Sicilia è stata sempre un regno. L’onorevole Nitti sa bene che l’italiano è tanto figlio del toscano quanto del siciliano. Dante ha detto che tutto quello che prima di lui veniva scritto in volgare era chiamato siciliano. Dunque vi sono per la Sicilia quelle premesse delle quali non so quale collega parlava ricordando Filippo Meda, cioè esigenze storiche ed esigenze attuali. La concessione della autonomia alla Sicilia è, quindi, una correzione delle ingiustizie che le sono state fatte sempre da tutti i governi succedutisi in Italia dal ’60 ad oggi. E questo è riconosciuto da tutti i settori, da tutti gli studiosi di ogni contrada d’Italia, da tutti i partiti.

Anche oggi, se il Ministro dei trasporti volesse venire in Sicilia, troverebbe un elettrotreno composto di vetture di terza classe trasformate in prima; starebbe in uno spazio assolutamente angusto e, con gli scossoni che riceverebbe, arriverebbe a Palermo tramortito.

FUSCHINI. È vero, ha ragione.

RUSSO PEREZ. Invece, se prende il treno per Milano, su percorso molto più breve, ha una magnifica vettura di prima classe con molto spazio per i suoi riposi e una vettura ristorante per i suoi pasti. Questo è il trattamento che tutti i governi hanno fatto sempre alla Sicilia dal ’60 ad oggi.

Dunque, anzitutto un atto di giustizia, in secondo luogo, un atto di saggezza politica. La continua e denegata giustizia ha fatto nascere il separatismo, che diventava una cosa veramente pericolosa per l’unità della patria. I migliori siciliani, la maggior parte dei siciliani, pensavano che, se fosse stata a noi concessa l’autonomia regionale, noi ci saremmo avvicinati col cuore, con l’anima, con lo spirito, oltre che con gli interessi, alla Madre comune, mentre, a negare questa autonomia, ci saremmo sempre più allontanati. In fondo, non vi sembri assurdo: erano i separatisti, gli autonomisti, che lavoravano in favore della unità della Patria. Quando fu imprigionato l’onorevole Finocchiaro Aprile, il mio amico Aldisio fece sorvegliare per più giorni anche me. Non gliene faccio colpa, date le sue funzioni. Egli faceva il suo dovere. Le informazioni della Questura erano che io fossi un capo separatista. L’onorevole Finocchiaro Aprile sa che non lo ero, ma le informazioni erano queste. Ora, se gente con la testa sulle spalle, che per l’unificazione della Patria ha dato qualche cosa di se stesso, si avvicinava con simpatia a quel movimento, era necessità politica, saggezza politica, concedere l’autonomia alla Sicilia per togliere l’ardenza, il mordente al pericoloso movimento separatista. Adesso il movimento c’è ancora. Io penso che abbia una funzione. Adesso sono molti i partiti che si arrogano il merito della autonomia concessa alla Sicilia, anche quelli che l’hanno ostacolata. Ricordate la proposta Nasi-La Malfa per il rinvio delle elezioni in Sicilia, sostenuta dai partiti di sinistra.

Il partito democristiano si è arrogato tutto il merito della concessione. Indiscutibilmente, esso ha il merito di averla fatta approvare dal governo. Sono fatti storici che non si discutono. Ma è anche vero che, se il movimento separatista siciliano, di cui ho sempre condannato le forme morbose, non avesse posto alla ribalta della Nazione, come una necessità nazionale, il problema dell’autonomia, credo che l’avremmo aspettata e continueremmo ad aspettarla invano.

Una voce. Noi avremmo lavorato ugualmente.

RUSSO PEREZ. Ho il dovere di credere alla parola d’un gentiluomo, ma non si può dire che cosa sarebbe avvenuto.

Ora c’è ancora un partito repubblicano. Ma non c’è forse la Repubblica?

I repubblicani diranno: «Noi siamo la guardia disarmata della Repubblica».

I separatisti saranno la guardia disarmata dell’autonomia.

Io parlo da estraneo, non ho mai fatto parte, l’ho detto, di quel movimento; si è trattato soltanto d’una simpatia; nient’altro che questo; ho disapprovato, in alcuni dei suoi dirigenti più autorevoli, certe degenerazioni del separatismo siciliano, certi atteggiamenti. Ma sono convinto che, quando la Sicilia si sarà accorta, col trascorrere del tempo, che ciò che fu concesso forse a malincuore, e che forse alcuni vorrebbero ritogliere, sarà mantenuto, sarà offerto dall’Italia con cuore aperto e fraterno; quando i siciliani vedranno che l’Italia, nostra Patria comune, continuerà a sorreggerli ed aiutarli, allora voi avrete raggiunto, attraverso l’autonomia regionale, quella perfetta fusione tra Sicilia e Italia, che era stata incrinata dalla denegata giustizia dei governi italiani. Ecco perché, amici miei, non vi è contradizione fra il mio filoregionalismo, per quanto riguarda la Sicilia, ed il mio antiregionalismo condizionato per quanto riguarda il resto della Nazione.

Una voce. E la Sardegna?

RUSSO PEREZ. Per la Sardegna c’è Abozzi che si accapiglia con Lussu. Sono due sardi.

FUSCHINI. Fate lo stesso voi.

RUSSO PEREZ. Sull’autonomia della Sicilia siamo stati sempre tutti d’accordo.

Una voce. Abozzi ha sempre fatto propaganda autonomista in Sardegna.

RUSSO PEREZ. Ad ogni modo, non importa. Io dico: quello è il mio ordine del giorno. Quando un altro gruppo di provincie avrà dimostrato di avere le stesse esigenze storiche e le stesse esigenze attuali della Sicilia, sarà anch’esso costituito in regione. Ma sarà una possibilità, non una certezza.

Non tutte le regioni italiane devono avere l’autonomia, come è stabilito dal Titolo V.

In fondo, tra i vari motivi per cui sono contrario alla generalizzazione delle Regioni, ve n’è una sentimentale, che si può piuttosto sentire che esprimere a parole.

Vi dirò che il mio filoseparatismo, dirò meglio il mio autonomismo, ricevette un fiero colpo il giorno in cui il Governo italiano credette opportuno – ed era inopportuno – di firmare il trattato di pace. Quando ci veniva strappata Trieste, io pensai che, nel momento in cui lembi preziosi di territorio nazionale venivano staccati dalla madre Patria, questo distacco di staterelli regionali fosse come una cattiveria, una cattiva azione; mi parve come se ognuno di noi volesse piangere soltanto sulle proprie sventure e rifiutarsi di piangere sulle sventure della Patria.

Amici democristiani, non fate questione di principio, accogliete questo temperamento.

Le Regioni «potranno» essere, ma non «dovranno» essere.

Credo che sia proprio quella la soluzione vagheggiata dell’onorevole Ruini e da altri illustri parlamentari.

Se farete così, avremo veramente raggiunto l’obiettivo. (Applausi a destra e al centro).

FANTONI. L’onorevole Ruini è regionalista.

RUSSO PEREZ. Io auspico un componimento delle varie tendenze.

Presidenza del Vicepresidente CONTI

PRESIDENTE. L’onorevole Caccuri ha presentato il seguente ordine del giorno:

«L’Assemblea Costituente, nel riconoscere che l’autonomia regionale risponde ad esigenze di democrazia e di libertà, auspica però che le unità territoriali delle Regioni tendano a coincidere con unità geografiche, etniche ed economiche e che, per evitare la creazione di organismi istituzionali insufficienti ad adempiere i propri compiti, non sia accolta la richiesta di frazionamento della Puglia, che vedrebbe aggravata la già penosa inferiorità della sua terra di fronte alle più progredite e salde compagini regionali dell’Italia centro-settentrionale».

Ha facoltà di svolgerlo.

CACCURI. Onorevoli colleghi, la mia discussione, in riferimento all’ordine del giorno presentato, sarà limitata essenzialmente ai criteri di formazione delle circoscrizioni regionali, con speciale riguardo alla regione pugliese.

Non m’intratterrò perciò (sia perché l’argomento è stato già da altri esaurientemente trattato, sia per la brevità del tempo a disposizione) né sulla struttura, né sui pregi dell’ordinamento regionale, espressione di libertà politica imposta dalla necessità di avvicinare l’amministrazione al popolo e di eliminare i gravi inconvenienti della burocratizzazione.

Accennerò soltanto, brevemente, a qualcuna delle obiezioni sollevate in ordine all’opportunità delle autonomie delle Regioni, lieto se la mia modesta parola potrà contribuire ad eliminare le ombre di dubbi artificiosamente create, dentro e fuori di questa Assemblea, contro la proposta istituzione.

Il primo argomento (che era il più forte e che determinò il fallimento di tutti i progetti precedenti) è costituito dalla preoccupazione che la riforma possa rappresentare un pericolo per l’unità nazionale.

È facile però innanzi tutto rispondere che se tale pericolo poteva sussistere nel 1860, al tempo dei progetti Farini-Minghetti, è oggi completamente inesistente; oggi che l’unità della Patria, conquistata, difesa, cementata dal sangue italiano, è ormai salda nella coscienza popolare, è ormai sacra ed intangibile nel cuore, nello spirito, nella volontà di tutti.

La Patria, invero, è una come la vita, e non sono le libertà locali, le autonomie regionali che possono infirmare la coscienza dell’unità nazionale, la quale anzi rimane rafforzata quando si agisca sul piano unitario della nazione.

D’altra parte l’esame del progetto rivela tale una serie di controlli alla potestà delle Regioni (controlli che vanno dall’esame di legittimità degli atti, previsto dall’articolo 122, al rinvio dei disegni di leggi (art. 118) in contrasto con gli interessi nazionali o di altre Regioni, all’impugnativa per incostituzionalità ed allo scioglimento (art. 117) dei Consigli Regionali); tali controlli e temperamenti, dicevo, da togliere ogni dubbio ed ogni timore a coloro che paventano la minaccia per l’unità politica e legislativa.

Si è parlato pure di esaltazione del campanilismo. Ma anche qui bisogna intendersi: se il campanilismo si identifica con le piccole beghe locali indubbiamente è da combattersi come espressione di ristrettezza mentale e di immaturità politica; ma, se campanilismo vuol dire attaccamento alla propria terra e conseguente desiderio di affermarne le virtù, di metterne in luce le capacità, allora esso sfocia nella emulazione, che è impulso a migliorare e progredire; e noi vediamo in una sana emulazione regionale, in una nobile gara di superamento, un fattore nuovo di feconde realizzazioni e di prosperità non solo locali, ma nazionali.

Riconosciuta così la necessità dell’autonomia regionale, che risponde veramente ad esigenze di libertà e di democrazia, come è stato largamente dimostrato da tanti onorevoli colleghi che mi hanno preceduto, occorre stabilire come in concreto debbano essere formate le circoscrizioni politico-amministrative delle Regioni, poiché, come ben diceva l’onorevole De Pretis, fra le prime e più importanti questioni che si affacciano nel dare opera ad una riforma degli ordini politico-amministrativi dello Stato, è indubbiamente quella delle circoscrizioni.

Ritengo che nella determinazione delle circoscrizioni occorra innanzi tutto tenere presenti le ragioni geografiche-tradizionali, per cui le unità territoriali amministrative dovrebbero tendere a coincidere con unità geografiche, etniche, economiche.

Occorre cioè evitare le creazioni artificiose, ed adeguare le circoscrizioni politico-amministrative alle Regioni naturali, cioè a quei tratti di paese – per dirla con la definizione dei geografi – che si individuano in sé e si distinguono dagli altri per i loro caratteri di insieme.

Altro elemento che occorre tener presente è la vitalità della Regione, l’autosufficienza: autosufficienza, si intende, in senso relativo, poiché, in realtà, nessuna Regione può avere un’autosufficienza piena. Tale autosufficienza sarà tanto più certa, quanto più vasta e completa sarà la struttura economica della Regione, e quanto più il complesso regionale sarà dotato di capacità contributive, il cui coefficiente, in ultima analisi, è in relazione alla massa della popolazione, all’estensione del territorio ed all’entità delle risorse. Pertanto sono particolari caratteri geomorfologici, climatici, antropologici, insieme a criteri industriali, agricoli e commerciali, quelli che serviranno a individuare la Regione. Ora, non mi pare che a tali criteri si sia ispirata, nei confronti della Puglia, la seconda Commissione che ha inteso dividere in due tronconi la Regione Pugliese. (La Daunia oggi vorrebbe ancora un’ulteriore suddivisione). La seconda Commissione, dicevo, che ha voluto dividere in due tronconi la Regione, che invece ha caratteri etnici, economici e geomorfologici veramente unitari.

Anche il più sintetico esame dei caratteri della Puglia, invero, rivela nel suo complesso, da un lato una uniformità ed una omogeneità, e dall’altro una originalità che valgono veramente ad individuare in sé questa Regione, a darle una fisionomia tutta propria, a differenziarla ed a distinguerla nettamente dalle regioni circostanti ed a saldarne in unità le varie parti.

Innanzi tutto si rivela una uniformità (tranne lievi differenze, che si notano più fra il litorale e l’interno che non fra nord-ovest e sud-est) negli stessi elementi climatici, poiché se è vero che le piogge raggiungono alcuni massimi ai due estremi, cioè sul Gargano e sul Capo, il clima è dovunque semiarido e la siccità estiva fortemente accentuata; uniforme è pure la stessa costituzione geomorfologica (anche l’uomo della strada sa che caratteristica della Regione Pugliese è la monotonia delle forme e la grande uniformità del terreno); uniforme è anche l’idrografia, per cui è sorto ed è stato risolto sul piano regionale il gravissimo problema della deficienza dei corsi d’acqua, con la grandiosa costruzione dell’acquedotto pugliese, che è uno dei più efficaci elementi dell’unità della Puglia. Ed uniformi sono anche i caratteri antropologici (tranne la diversità dei dialetti nel Salento), così come caratteristica è la densità della popolazione e l’agglomeramento nei centri abitati. Che anche nella Puglia esistano delle differenziazioni interne non si può negare, e d’altra parte, se per taluni aspetti si notano delle differenze nella Capitanata e nel Salento, appaiono differenziati, dentro la stessa Capitanata, il Gargano ed il Tavoliere, e dentro il Salento la Regione delle Serre e quella del Capo, e così via; ma più che di contrasti, più che di nette differenziazioni, si tratta di gradazioni degli stessi caratteri principali, sfumature che non annullano i caratteri omogenei della Regione.

E così omogenea è nella Puglia l’economia rurale, fondata dappertutto nell’agricoltura: caratteristica (dolorosa caratteristica) la grande diffusione del bracciantato. Tipiche anche le colture (il mandorlo, la vite, l’ulivo). E se è vero che esistono problemi agricoli particolari nel Foggiano, nel Leccese, nel Tarantino (così come esistono in ogni Provincia e forse anche in ogni Comune), vi sono indubbiamente poderosi problemi generali della irrigazione, della cerealicoltura, delle colture industriali, delle foraggere e connesso allevamento, del latifondo e del bracciantato. Problemi, la cui soluzione si impone su un piano regionale, unitario, coordinato, e non su piani isolati, frammentari, disarticolati.

Anche nel campo dell’industria, più che problemi isolati, limitati al Salento, alla Capitanata, al Barese, esiste un grande problema generale: l’industrializzazione della Puglia, che è un aspetto del problema generale dell’industrializzazione del Mezzogiorno; l’industrializzazione della Puglia, ove (tranne gli stabilimenti per la cellulosa a Foggia e per l’idrogenazione dei combustibili liquidi a Bari) mancano le grandi industrie ed esistono soltanto piccole imprese sparse ed esercizi industriali oleari e vinicoli.

Pure i problemi del commercio sono essenzialmente problemi pugliesi, problemi unitari, che invano si potrebbero distinguere in problemi salentini, foggiani, baresi; e la Puglia, sia nel commercio col Nord Italia, sia con l’estero, si comporta come unità non solo per le mandorle, ma per gli olii e per gli stessi vini, di cui il più importante contributo viene proprio dal Salento.

E la scarsa differenziazione interna della Puglia si rivela finanche nel sistema delle reti di comunicazioni, che hanno dovunque lo stesso carattere: grandi direttrici di movimento, ma deficienti le vie di allacciamento alle borgate e alle campagne.

Perfino i porti appaiono, non per volontà degli uomini, ma per sviluppo spontaneo delle situazioni, ordinati in sistema nelle Puglie, ove i due grandi porti commerciali, Bari e Brindisi, hanno armonicamente divisi i compiti mercantili; il primo dedito al maggior sviluppo del movimento del commercio, sia per effetto della sua posizione sia per l’attività commerciale della sua piazza; l’altro adibito specialmente come porto di velocità per passeggeri e corrieri postali. Attorno a questi porti maggiori, altri sussidiari (che si seguono da Barletta a Gallipoli) ne integrano in modo davvero armonico l’attività.

Nessuna regione pertanto più della regione pugliese presenta, sotto tutti gli aspetti, caratteri più omogenei ed uniformi, nessuna più della Puglia (che il Migliorini, nel suo studio La terra e gli Stati, in epoca non sospetta, porta ad esempio di regione naturale ben delimitata), nessuna più della Puglia, dico, deve rimanere unita per risolvere sul piano regionale problemi vitali (come quello già effettuato dell’acquedotto e quello che sta per risolvere dell’Ente irrigazione).

Spezzare in tronconi distinti l’unità della Puglia (i cui caratteri unitari sono stati invece riconosciuti da economisti e geografi insigni da Colamanico a Bertacchi a Sacco), spezzare, dicevo, l’unità della Puglia, significa spezzare la vitalità della regione pugliese, significa arrestarne il processo di espansione industriale, agricola e commerciale, significa disperdere nel contempo un patrimonio di esperienze ed un complesso di organismi già esistenti, poiché, fra l’altro, numerosissimi sono gli enti a carattere regionale con competenza su tutta la Puglia, che esistono nella regione pugliese. D’altra parte, soltanto Lecce (e neppure tutta) delle tre provincie che dovrebbero costituire la nuova regione salentina, rivendica l’autonomia del Salento. Taranto invece sostiene che, se una seconda regione pugliese dovesse sorgere, questa dovrebbe essere la regione ionico-salentina con capoluogo Taranto e con estensione sul litorale ionico verso la Calabria, in modo da comprendere un certo numero di comuni della provincia di Matera e di quella di Cosenza. Anche Brindisi si è solo preoccupata della conservazione della sua provincia, ma non si è affatto occupata del problema regionale salentino; il che fa ritenere ch’essa propenda verso l’unica regione pugliese, economicamente più salda e capace di far fronte ai propri impegni.

La rivendicazione della Provincia di Foggia, poi, come si rileva dalle stesse precisazioni del Presidente del Comitato di agitazione, onorevole Ruggiero, sorge soltanto di rimbalzo e come correttivo delle conseguenze della secessione salentina; ma mancano di consistenza le ragioni addotte per sostenere l’individualità geoeconomica della Daunia.

A pro della regione salentina vengono anche addotte ragioni storiche e si richiama alla memoria l’esistenza di una contea di Taranto; ma è facile rispondere che il passato rievocato è superato fra l’altro dall’opera secolare dell’unitario Regno di Napoli, che per secoli ha dato al territorio della Puglia, che va dal Gargano a Santa Maria di Leuca, un trattamento di unità; invocare pertanto reminiscenze storiche per un ritorno all’antico feudo di Taranto come base di una nuova regione, significa non accogliere le ragioni e gli insegnamenti della storia, significa andare contro il moto dei tempi.

Inoltre, va rilevato che se si seguissero le tendenze separatiste in oggetto, si darebbe in sostanza un ordinamento regionale a quello che era l’antico ordinamento provinciale prefascista; si farebbero cioè assurgere a regioni le tre provincie in cui prima del fascismo era divisa la Puglia.

L’onorevole Codacci Pisanelli, in sede di Sottocommissione, dichiarava che con il distacco della zona del Salento dal resto della Puglia non si avrebbe, fra l’altro, più una sola regione di così eccessiva lunghezza come l’attuale regione pugliese; ed aggiungeva che se la città di Brindisi dovesse continuare a far parte di una stessa regione, con centro la città di Bari, il porto di Brindisi, che è uno dei più sicuri sul litorale adriatico, sicuramente non verrebbe sfruttato. Ma, come rilevava l’onorevole Presidente, l’estensione della Puglia poteva essere nel passato un motivo per indurre a costituire più regioni nell’ambito dell’attuale circoscrizione pugliese; non più oggi col grande sviluppo dei mezzi di comunicazione.

Lo stesso Presidente rilevava che, per quanto riguarda il traffico dei porti, sarebbe assai dannoso allo sviluppo economico della Nazione se le regioni tentassero, con proprie disposizioni interne, di deviare le correnti del traffico dalle loro vie normali, poiché (sono sempre le parole dell’onorevole Presidente) non è già per migliorare soltanto le condizioni economiche delle regioni, ma anche soprattutto per avvantaggiare l’economia unitaria del Paese che oggi si vuole instaurare un ordinamento dello Stato su base regionale.

Lasciamo perciò, amici di Foggia e di Lecce, i gretti interessi personali, che ci fanno perdere la visione d’insieme, mettiamo da parte le citazioni di Plinio e di Strabone, ed anziché affannarci, contro gli interessi economici e sociali delle popolazioni, a spezzettare la Puglia in due o più organismi regionali che, per la scarsità delle risorse potenziali ed attuali, avrebbero necessariamente una vitalità grama, cerchiamo invece, nel comune interesse, di potenziare sempre più la naturale unità di quella regione che, attraverso la volontà tenace della sua gente, potrà trovare nel nuovo ordinamento regionale gli elementi certi di una rinascita feconda e luminosa.

Non possiamo accedere alle vostre pretese, o amici della Capitanata e del Salento, perché non possiamo consentire che le autonomie regionali, che dovranno costituire prove decisive per la nuova democrazia italiana, abbiano sul nascere cause d’intrinseca e fatale debolezza, ed appaiano a priori destinate a parziali insuccessi. Con la creazione delle Regioni, in vero, si deve dar vita ad organismi che abbiano la capacità di autogoverno, di alleggerire lo Stato di alcune funzioni, e di dare impulso ad attività locali, sia economiche che amministrative, libere dagli impacci burocratici centrali e dalla gravosa tutela statale.

Come invece si potrebbero raggiungere tali fini con complessi regionali privi in sé dei necessari requisiti di vitalità e di forza?

Si avrebbero delle autonomie illusorie.

Questo è stato ben sentito in tanta parte d’Italia, ove il ricordo di antiche signorie non vale a dividere ma a cementare sempre più la moderna compagine di regioni come il Piemonte e la Lombardia.

Perché tutto ciò non deve avvenire in Puglia? Noi non disconosciamo, amici di Lecce, né il fervido ingegno delle vostre popolazioni, né il lustro delle vostre tradizioni gentilizie e di cultura; noi non vi domandiamo neppure in virtù di quale diritto Lecce, città di appena 50 mila abitanti, vuole costituirsi a capoluogo di una regione, in cui dovrebbe, contro la sua volontà, entrare Taranto con i suoi 137 mila abitanti; noi non vi rimproveriamo tanta eccessiva ambizione, specie se posta a confronto con altre città d’Italia ricche di benessere e di storia, che pur non hanno esitato a rinunziare a posizione di preminenza regionale. Diciamo soltanto che mancano le condizioni opportune per la creazione delle regioni Salentina e Dauna, e che è nell’interesse di tutti evitare il sorgere di regioni piccole ed anemiche in un sistema di regioni vaste e salde. Evitiamo, dunque, ogni frazionamento che aggraverebbe definitivamente la già penosa inferiorità di queste terre di fronte alle più progredite e fortunate regioni dell’Italia centrosettentrionale, e facciamo che la Puglia, una e concorde, dalle estreme pendici dell’Appennino abruzzese alla punta del Gargano ed al Capo di S. Maria di Leuca, costituisca, nell’indistruttibile unità della Patria, un saldo e complesso organismo istituzionale, un imponente centro d’iniziative economiche e di forze politiche e sociali; costituisca nel contempo un centro di espansione economica dell’Italia verso l’Oriente.

Ve lo chiedo nell’interesse delle vostre provincie; nell’interesse delle vostre popolazioni, amici del Salento, cui procurereste un maggior isolamento all’estremo sud-est della Penisola, insieme ad un notevole onere finanziario connesso all’organizzazione regionale; nel vostro interesse, amici della Daunia, ove la stessa vastità dei problemi di trasformazione fondiaria, da voi in particolar modo accentuata, in un complesso privo di industrie, e di elementi economici equilibratori, peserebbe assai gravemente sulla vitalità della Regione; ma soprattutto ve lo chiedo nell’interesse dell’Italia, che nella saldezza delle Regioni dovrà trovare una sicura base per il suo divenire. (Applausi al centro).

PRESIDENTE. L’onorevole Martino Enrico ha presentato ora il seguente ordine del giorno:

«L’Assemblea Costituente,

udita la discussione generale sul Titolo V del progetto di Costituzione, che ha portato un notevole contributo al chiarimento del concetto dei poteri e dei limiti dell’ente Regione;

ritenuto che è indispensabile che il nuovo ente trovi il suo fondamento e la sua regolamentazione istituzionale nella Costituzione della Repubblica italiana

delibera

di passare alla discussione degli articoli del progetto di Costituzione».

Ha facoltà di svolgerlo.

MARTINO ENRICO. Rinuncio a svolgerlo.

PRESIDENTE. Dichiaro chiusa la discussione generale, riservando la parola al Relatore ed al Presidente della Commissione.

Il seguito della discussione sarà ulteriormente fissato.

Lunedì alle ore 16 vi saranno le dichiarazioni del Governo.

La seduta termina alle 13.35.

Ordine del giorno per la seduta di lunedì 9 giugno 1947.

Alle ore 16:

Comunicazioni del Governo.

POMERIDIANA DI VENERDÌ 6 GIUGNO 1947

ASSEMBLEA COSTITUENTE

CXL.

SEDUTA POMERIDIANA DI VENERDÌ 6 GIUGNO 1947

PRESIDENZA DEL PRESIDENTE TERRACINI

indi

DEL VICEPRESIDENTE TARGETTI

INDICE

Progetto di Costituzione della Repubblica italiana (Seguito della discussione):

Belotti                                                                                                             

Bruni                                                                                                                

Nitti                                                                                                                  

Zuccarini                                                                                                         

Piccioni                                                                                                             

La seduta comincia allo 16.

MOLINELLI, Segretario, legge il processo verbale della precedente seduta pomeridiana.

(È approvato).

Seguito della discussione del progetto di Costituzione della Repubblica italiana.

PRESIDENTE. L’ordine del giorno reca: seguito della discussione del progetto di Costituzione della Repubblica italiana.

Riprendiamo la discussione generale del Titolo V relativo alle Regioni.

È iscritto a parlare l’onorevole Belotti: ne ha facoltà.

BELOTTI. Onorevoli colleghi, il Titolo V del Progetto di Costituzione ha trovato, nel corso di questa lunga discussione, uno schieramento di oppositori, per non dire di negatori in radice, ch’io ritengo significativo. Di fronte ai democratici cristiani ed ai repubblicani storici, alfieri strenui e convinti del regionalismo, alcuni colleghi della destra sono insorti, definendo il regionalismo come una rivoluzione foriera di frutti di cenere e tosco; mentre i colleghi dell’estrema sinistra, solidali (una volta tanto) coi loro classici oppositori, hanno parlato non di rivoluzione (parola cara ai marxisti), ma di reazione all’unità italiana ed al progresso civile, sociale e politico della Nazione. In realtà, mi pare che il lungo dibattito sulle pregiudiziali abbia già sufficientemente dimostrato che non si tratta, nella fattispecie, né di rivoluzione né di reazione: si tratta di realizzare, finalmente, la democrazia. Del resto, è questione d’intendersi sul significato e sulla portata delle parole. Se per rivoluzione si vuole intendere un pacifico radicale rinnovamento del Paese in senso democratico attraverso una riforma strutturale e funzionale dello Stato, noi regionalisti siamo decisamente rivoluzionari; se per reazione si vuole intendere opposizione implacabile alla concezione fascista del dispotico centralismo statale che, mentre finge di servire il popolo e di soffrire i dolori del popolo, in realtà fa del popolo un gregge, uno sgabello per tutte le follie, fino a giocarsi le sorti della Nazione così come si giocano dei numeri della ruota della fortuna, noi restiamo fieramente reazionari. E non è forse sotto questa insegna, questa nobilissima reazione, che è nata e si è sviluppata la lotta clandestina e la resistenza all’oppressore?

Ieri eravamo concordi e solidali nella distruzione dell’ancien regime; oggi, trattandosi di fissare il piano regolatore del nuovo Stato repubblicano, ci troviamo, a quanto pare, in dissidio fin dalle fondamenta. Mi limito ad una breve rassegna critica dei maggiori cavalli di battaglia lanciati in campo dagli opposti settori dell’Assemblea. Si è detto e ripetuto, da molti oppositori, che l’idea dell’autonomia regionale non è sentita dal popolo: più che ad una convinzione radicata e ragionata, secondo costoro, essa sarebbe dovuta a propaganda artificiosa di partito, a speculazioni demagogiche a fini elettorali, a programmi politici anacronistici che sfruttano il profondo, ma passeggero, senso di sfiducia nella sinistrata burocrazia statale. L’obiezione non risponde al vero. Prima e immediatamente dopo la liberazione del Paese, tutti i partiti hanno fatto professione di regionalismo, proprio per rispondere ad una delle istanze più sentite e più diffuse nel popolo nostro.

Non è esatto affermare che si tratti di un’idea antistorica: il relatore onorevole Ambrosini l’ha chiaramente dimostrato nella sua pregevole relazione.

Fin dagli inizi del Risorgimento, per risolvere il problema della unificazione dell’Italia furono agitate due soluzioni in contrasto: la federalista e la unitaria. Il prevalere di questa ultima non liquidò, ma assopì semplicemente la questione regionale. Svanito il sogno neoguelfo, furono proprio i due massimi assertori del principio unitario contro l’idea federalista, Mazzini e Cattaneo, i quali si opposero alla prospettiva di uno Stato uniformizzato e centralizzato, auspicando uno Stato strutturalmente unitario e organicamente regionalista.

Se la tesi mazziniana, ripresa poi dal Minghetti con l’assenso di Cavour, poté essere accantonata come controproducente in quegli anni lontani in cui «l’Italia venivasi con tanta fatica costituendo», non vedo sufficienti e convincenti ragioni di contrastarla oggi, nel nuovo ordinamento repubblicano dello Stato, dopo la soffocante centralizzazione burocratica e politica del periodo umbertino, e, più vicino a noi, dopo un’esperienza totalitaria disastrosa come quella del tragico ventennio mussoliniano.

È per lo meno singolare la sfiducia in un autogoverno nell’ambito regionale e con potere derivato e circoscritto, espressa dalle ali estreme di questa massima Assemblea di rappresentanti del popolo!

«S’ode a destra uno squillo di tromba – a sinistra risponde uno squillo»: i due versi manzoniani possono essere applicati a questa offensiva contro l’autonomia regionale.

Ma non può essere, evidentemente, uno squillo di tromba contro la democrazia senza aggettivi.

Si tratta, probabilmente, di un’offensiva contro mulini a vento, o quanto meno di incomprensione dei termini essenziali del problema.

Si è affermato da altri oppositori che l’esperienza negativa di una tradizione politica di accentramento e di centralismo burocratico, finita con la bancarotta fascista, non è motivo sufficiente per valorizzare tendenze centrifughe a sfondo regionalistico, che presentano o nascondono insidie antiunitarie.

Sta di fatto che una coscienza nazionale unitaria non è alimentata, ma soffocata dal centralismo burocratico e da uno Stato despota.

La democrazia esige coscienza, spirito di dedizione alla cosa pubblica e alla causa comune, ma soprattutto senso di responsabilità da parte dei cittadini.

Quando questi si rassegnano a quel fatalismo che direi «mussulmano», caratteristico del tempo fascista, ossia dell’inerzia di chi si abitua a ricevere tutto dall’alto e rimane fuori da ogni sforzo costruttivo come un peso morto, e, spesso, inevitabilmente, ostile, è finita per la democrazia.

Oggi tutti siamo concordi nel lamentare l’assenteismo di larghi strati del popolo dalla vita politica e dall’amministrazione della cosa pubblica, nel ritenere urgente e indispensabile la preparazione di una nuova classe dirigente, di una nuova burocrazia, più aderente alle reali esigenze periferiche.

Ma non pretendiamo direttamente dallo Stato o dai partiti il miracolo della rinnovazione auspicata! Il fenomeno di attrazione, di osmosi deve cominciare più vicino alle «cose di casa»: in modo capillare, nei comuni, nelle provincie, nei parlamenti regionali.

La prima coscienza civica e nazionale va formata a immediato contatto di quelle piccole realtà, che nel loro complesso formano l’unità, grande ma viva perché articolata, del Paese.

Non commettiamo l’errore di incominciare dal tetto a ricostruire la casa!

Altri ancora obiettano che l’istituzione dell’ente Regione non servirebbe che a valorizzare quel campanilismo anacronistico e superato dai tempi, fonte di antagonismi locali, che lo Stato non saprebbe poi fronteggiare e dominare.

Io vedo questo vieto campanilismo solo nel tentativo di moltiplicare le Regioni, più per sodisfare piccole ambizioni locali che per reali e sentite necessità.

Sento di avere contro molti colleghi di questa Assemblea, anche del mio stesso partito, ma affermo che bisogna essere inesorabili contro tesi e tentativi che rasentano il ridicolo. Molti colleghi hanno compiuto ricerche quasi archeologiche per rimettere in vetrina nomi romani o addirittura etruschi di pseudo-regioni allo stato potenziale, di aspiranti-regioni. Vorrei dire: lasciamo stare i nomi romani: portano sfortuna!

Limitiamo il riconoscimento alle 22 Regioni elencate all’articolo 123 del Progetto (se proprio non sia ravvisabile alcuna ponderata esclusione) e conveniamo sulla saggezza dei compilatori dell’articolo 125, relativo alle condizioni per la creazione di nuove Regioni.

Una delle obiezioni più consistenti è senza dubbio rappresentata dal timore di un ritorno all’economia chiusa, all’economia curtense, come la chiamano gli storici dell’economia. Le condizioni ambientali di questo nostro tormentato dopoguerra – si dice – dovute anche alle difficoltà dei trasporti, hanno contribuito a creare l’illusione che ogni Regione possa fare da sola. Non appena i traffici avranno raggiunto la normalità, si avvertirà che la Regione non è che una inutile e pesante sovrastruttura che non permette di mobilitare, per la ricostruzione, sul piano unitario, tutte le forze e le risorse economiche della Nazione. È una obiezione di rilievo. Gli stessi compilatori del Progetto, in considerazione di questo pericolo, hanno messo le mani avanti, con l’ultimo comma dell’articolo 113, riguardante il divieto di provvedimenti regionali che in qualsiasi modo ostacolino la libera circolazione delle persone e delle cose dall’una all’altra Regione.

Tuttavia, a parte la considerazione che l’epoca contemporanea, ed in particolare il difficile periodo postbellico in cui nasce la nostra nuova Costituzione, sono tutt’altro che propizi al risorgere di autarchie regionali nel settore economico e che la paventata (od auspicata) autosufficienza regionale non è che un assurdo economico, sta di fatto che rimane intatta e sovrana, nelle materie di essenziale importanza, la competenza dello Stato come coordinatore, arbitro superiore e propulsore di tutta l’economia nazionale.

Molti colleghi hanno prospettato, spesso drammatizzando, le difficoltà in cui la riforma verrebbe a lanciare le Regioni povere, soprattutto del Mezzogiorno.

Ma è chiaro che lo Stato non potrà negare ad esse, in relazione alla riforma tributaria e volta per volta a ragion veduta, i necessari contributi integrativi. L’articolo 113 del Progetto stabilisce appunto: «Il gettito complessivo dei tributi erariali è ripartito in modo che le Regioni meno provviste di mezzi possano provvedere alle spese necessarie per adempiere alle loro funzioni essenziali. Allo stesso scopo possono essere istituiti fondi per fini speciali, in base a leggi della Repubblica che determinano i contributi dello Stato e delle Regioni, e la gestione e la ripartizione dei fondi».

Ma anche le popolazioni meridionali si sentiranno stimolate dalla riforma a non attendere tutto dalla sempre inadeguata comprensione del Governo centrale. La libertà piace e deve piacere anche ai poveri!

Da ultimo vi sono i paventatori del federalismo, anche solo larvato o mascherato.

Stamane abbiamo sentito esprimere dal collega siciliano onorevole Vàrvaro una esigenza di federalismo.

Una voce isolata in quest’aula; poche voci di indipendentisti, nella stessa generosa terra di Sicilia, la quale, come hanno dimostrato le recentissime elezioni di quel parlamento regionale, vuol rimanere quello che è sempre stata, e cioè parte viva dell’Italia unita.

L’attribuzione all’ente Regione di un potere normativo vero e proprio (pur limitato e circoscritto), oltre al potere di amministrazione, ha messo in allarme la destra e la sinistra.

Il relatore onorevole Ambrosini, nella sua relazione, ha chiaramente esposto le sostanziali differenze tra Stato regionale (più esattamente: tra Stato organizzato sulla base delle autonomie politiche Regionali) e Stato federale.

Si tratta, in sostanza, guardando alla genesi, di un procedimento inverso.

Nello Stato federale sono i singoli Stati membri che, in base ad un patto, attribuiscono alla federazione funzioni e poteri ben circoscritti; nello Stato regionale è lo Stato stesso che crea le Regioni, ne configura e ne circoscrive l’autonomia, determinandone, in concreto, le funzioni e i poteri.

L’onorevole Mannironi ha magistralmente lumeggiato che la potestà legislativa della Regione ha e deve mantenere carattere «derivato», ossia deve mantenersi subordinata al potere statale. Già in partenza, con la duplice limitazione concernente la materia e l’efficacia territoriale, lo Stato circoscrive la potestà legislativa regionale. Infine, mentre le leggi regionali non potranno, in via assoluta, abrogare o derogare a leggi statali, queste ultime potranno abrogare leggi regionali o derogare ad esse, in vista di particolari interessi di carattere nazionale. Quanta apprensione in quest’Aula, onorevoli colleghi, per l’unità d’Italia!

Se Mazzini avesse potuto assistere alle nostre schermaglie polemiche dei giorni scorsi, avrebbe certo sorriso di compiacimento davanti a tanta preoccupazione, anche da parte dell’estrema sinistra, per l’esigenza unitaria del Paese, ma non avrebbe potuto evitare un senso di accorato disappunto nel vedere osteggiato il suo sogno regionalistico. Certo il problema più delicato e importante è quello di determinare quali siano, in concreto, gli interessi di natura limitatamente regionale per i quali sia opportuna una regolamentazione specificamente regionale, in modo da non pregiudicare gli interessi di carattere generale e nazionale, per i quali non siano ammissibili un frazionamento e una diversificazione nella disciplina giuridica.

Ed è proprio alla luce di questa esigenza fondamentale che io vorrei passare in rassegna, brevemente, alcuni articoli del Titolo in esame.

Sull’articolo 109 s’appuntano le maggiori critiche. Esso infatti attribuisce alla Regione un potere di legislazione esclusiva; esso implica una rinunzia integrale da parte dello Stato a legiferare su determinate materie ritenute di esclusivo interesse regionale.

È proprio per questa, che mi pare la più ardita e la più innovatrice delle riforme (quella che più d’ogni altra contribuisce a dare un contenuto elettivo all’autonomia regionale), che molti paventano pericoli all’unità d’Italia ed alla integrità dei poteri legislativo ed esecutivo dello Stato. Eppure, mi sembra che non sia concepibile una autonomia regionale priva della potestà primaria di legiferare in materia di ordinamento degli uffici ed enti amministrativi regionali, di modificazione delle circoscrizioni comunali, di fiere e mercati, urbanistica, strade, lavori pubblici di esclusivo interesse regionale. Condivido invece le eccezioni che sono state mosse alla inclusione della beneficenza pubblica tra le materie nelle quali lo Stato non può emanare leggi. La definizione degli istituti pubblici di assistenza e beneficenza ed i requisiti per il loro riconoscimento, la responsabilità e il controllo sull’operato dei loro amministratori, la proprietà, gli acquisti degli enti morali e la manomorta, sono tutti argomenti nei quali appare anche a me consigliabile non lasciare pieno arbitrio alla Regione.

L’articolo 110 riguarda la cosidetta legislazione concorrente: nelle materie elencate lo Stato può fissare soltanto principî e direttive, quando lo ritenga opportuno, allo scopo di realizzare una disciplina uniforme. A proposito della legislazione concorrente, sembra che ci sia accordo in linea di principio: i dissensi riguardano solo talune materie, per le quali non è giudicato consigliabile limitare a semplici direttive l’intervento dello Stato. Così ad esempio a proposito delle cave, che non agevolmente possono essere nettamente distinte dalle miniere (contemplate al successivo art. 111), la cui vigente disciplina giuridica sul piano nazionale è frutto di unificazione dei sistemi legislativi preesistenti, diversi da zona a zona.

L’onorevole Einaudi, nel suo intervento, ha accennato alla inopportunità della inclusione delle acque pubbliche tra le materie elencate all’articolo 110, la cui utilizzazione su piano nazionale è stata unitariamente e sapientemente regolata dalla legge Bonomi.

Analogo rilievo può essere fatto in materia di produzione, trasporto e distribuzione di energia elettrica. Già in via pregiudiziale va notato che non è agevole scindere la regolamentazione degli usi irrigui e di bonifica da quella degli usi delle acque per produzione di forza motrice, appunto per la strettissima connessione tra i diversi usi delle acque.

Sta di fatto che raramente tutta l’energia elettrica consumata da una Regione viene in essa prodotta, e viceversa. Esiste una complementarità, sia pure imperfetta, tra i regimi idraulici delle zone alpine e delle zone appenniniche: mentre le prime sono ricche di acqua in estate, i corsi d’acqua delle seconde sono in piena nel tardo autunno e nell’inverno, prima che inizi la piena dei fiumi alpini. Appunto per questo le reti italiane sono interconnesse, escluse quelle insulari: talune Regioni, come la Toscana ad esempio, ricevono alternativamente da nord e da sud il proprio fabbisogno di energia. Né l’ubicazione degli impianti dipende dalla vicinanza delle località di consumo: le centrali termiche (e quelle geotermiche della Toscana meridionale) adempiono ad una funzione esclusivamente nazionale. Sul piano internazionale, si fa strada oggi la tendenza a considerare l’intero complesso alpino come un unico bacino idroelettrico. L’interconnessione delle reti è una necessità tecnica che, realizzata, si traduce in un vantaggio economico: maggior equilibrio dei carichi e conseguente possibilità di diminuzione dei prezzi.

Appunto in base a questi criteri la riforma del 1918-1919 giunse a definire le acque pubbliche «ricchezza nazionale» ed a coordinare sul piano nazionale il loro sfruttamento.

È vero che lo stesso articolo 110 del Progetto, proprio per le acque pubbliche e l’energia elettrica, diversamente che per le atre materie, stabilisce che la regolamentazione regionale non deve «incidere» sull’interesse nazionale e su quello di altre Regioni, ma è altrettanto vero che i contrasti, in materia, tra Regione e Regione saranno, prevedibilmente, frequentissimi.

Né io penso che l’Italia possa seguire, in materia, il cammino inverso rispetto a quello di altre Nazioni (Svizzera, Francia, Stati Uniti). Nella Nazione elvetica si sta passando da una legislazione cantonale ad una legislazione unica federale.

In Francia si è arrivati addirittura alla nazionalizzazione delle imprese idroelettriche. Il problema della nazionalizzazione dei grandi complessi monopolistici, delle cosidette «industrie-chiavi», è oggi sul tappeto in tutti i Paesi. Io sono d’avviso che occorre andare cauti prima di impossessarsi, a nome dello Stato, di aziende realmente solide, per disporre dei ricavi a beneficio di una politica contingente. Certo, in Italia sono riusciti deleteri gli «annunzi a vuoto» di nazionalizzazione dei grandi compiessi idroelettrici, così come, nel settore finanziario, quelli del tanto auspicato e non mai realizzato cambio della moneta.

Non bisogna, comunque, dimenticare che, in Italia, in base alle norme vigenti, tutte le forze idrauliche sono di proprietà dello Stato: la concessione a privati ha la durata di sessant’anni: scaduto il termine, tutte le opere eseguite dal concessionario per produrre energia elettrica, passano automaticamente e gratuitamente in proprietà dello Stato.

Una più ampia disamina del problema esulerebbe dal mio assunto.

Mi limito a prospettare, in conclusione, alla Commissione e all’Assemblea la opportunità di trasferire la materia delle acque pubbliche e dell’energia elettrica dall’articolo 110 al successivo articolo 111, relativo al potere legislativo, attribuito alla Regione, a titolo di integrazione e di attuazione delle leggi dello Stato, «per adattarle alle condizioni regionali». Ai termini di detto articolo, lo Stato deve lasciare un congruo margine alla Regione, quando legifera nelle materie espressamente indicate; può lasciare detto margine nella misura e coi limiti che ritenga opportuni, in qualsiasi altra materia; può, infine, affidare alla Regione un circoscritto potere regolamentare.

A proposito delle materie elencate all’articolo 111, ritengo fondate e giustificate le preoccupazioni espresse dall’onorevole Einaudi in merito alla disciplina regionale del credito, dell’assicurazione e del risparmio. Una legge speciale dello Stato sulla tutela del risparmio e l’esercizio del credito che, in qualche punto particolare, non lasciasse alcun margine d’integrazione alla Regione, potrebbe, per questa parte, essere impugnata come incostituzionale. In sintesi, io ritengo che gli auspicati ritocchi ai tre articoli 109, 110 e 111 non siano affatto di tale entità da compromettere la grande riforma.

Non mi sembra ragionevole che l’Assemblea si areni su questioni di dettaglio che, di comune accordo, possono essere agevolmente superate.

Rimane, piuttosto, da risolvere una questione che, a torto, i compilatori del Progetto hanno, evidentemente, giudicato di secondo ordine: quella della Provincia. Nel Progetto, la Provincia appare come evanescente Cenerentola, tollerata più che adeguatamente considerata, per ragioni di compromesso coi numerosi e accesissimi suoi difensori.

Questo nostro lungo dibattito ha dato modo di constatare che la Provincia, oltre che nella mente, è viva nel cuore della grande maggioranza dei colleghi.

Come centro dogli interessi del proprio territorio, il capoluogo di provincia è, almeno allo stato attuale, un dato insopprimibile: trasferire d’emblée uffici e servizi dell’ente provinciale, che ha un’ossatura, una dinamica e un’esperienza proprie e aderenti alle esigenze capillari, nel capoluogo di Regione, significherebbe, oggi, tra l’atro, aggravare il disagio dei cittadini di gran parte dei Comuni d’Italia.

Né risponde al vero per tutte le terre d’Italia quell’assenza di seria e convincente tradizione storica che l’onorevole Einaudi ha lumeggiato per le provincie piemontesi: in Lombardia, ad esempio, l’ente Provincia ha tradizioni anteriori al Risorgimento.

Né mi pare assuma carattere perentorio il dilemma posto, una volta tanto, non dallo specialista onorevole Nenni, ma dallo stesso onorevole Einaudi: «Dato che i due enti territoriali Regione e Provincia storicamente non preesistono alla disciplina che si vorrà dare alle autonomie locali, bisognerà creare ex novo un ente territoriale, e l’Assemblea potrà scegliere tra la Provincia e la Regione».

A me pare che, dal momento che il sistema dell’autonomia comporta l’attribuzione non del solo potere di amministrazione, ma anche di un certo potere normativo (e in questo potere sta appunto il substrato della riforma, che non si limita al semplice decentramento gerarchico o burocratico, né al più vasto, ma non ancora sufficiente, decentramento autarchico, sia territoriale che istituzionale), Regione e Provincia possano coesistere con funzioni proprie. Non è pensabile l’attribuzione del potere normativo alla Provincia, né, tanto meno, che esso possa essere esercitato se non nella più ampia sfera regionale. Io vedo, a grandi linee, la Regione con poteri normativi e di coordinamento; vedo la Provincia come ente autarchico, con poteri di amministrazione. Non v’ha dubbio che, a questo proposito, il testo dell’articolo 120 del Progetto debba essere profondamente modificato, per rispondere all’esigenza di una più netta e precisa configurazione dell’ente Provincia.

C’è un notevole pericolo da superare: quello della maggiore elefantiasi burocratica. Ma sono convinto che l’annoso e tormentoso problema della burocrazia statale non sia risolubile su un piano di centralismo. Bisogna articolare la pubblica amministrazione, per renderla più efficiente e più aderente alle esigenze periferiche. Bisogna togliere allo Stato per dare alla Regione, alla Provincia, al Comune. La Regione, a sua volta, non deve uccidere la Provincia. La difficoltà sta nell’ingranare Regione, Provincia e Comune nel complesso statale unitario, in modo che, al posto di una sola gigantesca burocrazia inefficiente e soffocatrice, non subentrino quattro burocrazie mal congegnate, che fatalmente porterebbero al caos. È questo il problema più delicato da risolvere. È necessario che la Commissione e l’Assemblea raffrontino con decisione e con ponderazione.

Ultima nella mia modesta rassegna critica, ma certo in primissima linea per importanza, la vexata quaestio dell’autonomia finanziaria.

La possibilità di autofinanziamento è senza dubbio condizione e presidio della autonomia politico-amministrativa.

L’articolo 113 del Progetto contiene l’affermazione generica del principio dell’autonomia finanziaria, limitata però (e a mio avviso, giustamente) in virtù del previsto coordinamento con le finanze dello Stato.

Intanto sembra chiaro (anche se non risulta esplicitamente) che i tributi a favore della Regione saranno istituiti soltanto con legge dello Stato. La materia è (ovviamente) rinviata a leggi speciali di carattere costituzionale. Queste dovranno aver cura di realizzare la semplificazione, evitando l’appesantimento del già troppo intricato e macchinoso sistema tributario italiano. Altro scoglio da evitare: l’eccessivo inasprimento del gravame fiscale complessivo, in un Paese come il nostro, a pressione fiscale già molto forte.

La ripartizione del gettito complessivo dei tributi erariali, a mio avviso, dovrebbe essere regolata secondo i servizi che Stato, Regione, Provincia, Comune dovranno rendere ai cittadini e non secondo un criterio di erogazione ad libitum della volontà centrale, pur non trascurando l’esigenza di integrazione a favore delle Regioni più povere.

Non bisogna sottovalutare il pericolo che il previsto coordinamento con la finanza dello Stato venga, di fatto, a risolversi in un potere discrezionale, o in una nuova tutela.

Ciò premesso, io vedo anche nel principio dell’autonomia finanziaria, cardine dell’autonomia regionale, un potente contributo allo sviluppo del senso di responsabilità nel cittadino, alla migliore misurazione delle possibilità effettive al metro delle reali possibilità contributive.

E lo vedo oggi, soprattutto: in questo tormentoso periodo di emergenza, in cui tutti, cittadini ed enti, bussano a denari alle casse dello Stato, come se il Tesoro fosse una specie di pozzo di san Patrizio.

In conclusione, onorevoli colleghi, io penso che, se i milioni di fine secolo decimonono e i miliardi dell’allegra finanza fascista, anziché nelle guerre grandi e piccole, fossero stati in parte tesaurizzati e in parte spesi nell’incremento igienico, agricolo, industriale e culturale delle Regioni d’Italia, specie delle più povere e delle più abbandonate, oggi il nostro Paese sarebbe alla testa dei Paesi civili.

Dando voce reale, effettiva e libera al popolo nostro, non solo attraverso l’elettorato, ma altresì attraverso la rappresentanza regionale, noi renderemo un grande servizio alla causa della democrazia. Precostituendo zone di interessi locali autonomi, noi otterremo il temperamento dei monopoli statali dell’amministrazione e della finanza, rendendo più difficili le manomissioni del pubblico denaro e le diversioni del Tesoro verso speculazioni nazionaliste! (Applausi Congratulazioni).

PRESIDENTE. È iscritto a parlare l’onorevole Bruni. Ne ha facoltà.

BRUNI. Onorevoli colleghi, nessuno di voi ignora come, con l’affermazione in Europa, alla fine del secolo XV, dei regimi monarchici, incominciasse a prevalere un tipo di organizzazione sociale che si andò facendo sempre più rigorosamente unitaria sotto la sovranità dello Stato. A cominciare dalla fine del secolo XV la vita sociale fu sottoposta in Europa, quasi dappertutto, ad un processo di statizzazione sempre più profondo. La struttura giuridica assunta dallo Stato moderno, anche là dove esso si proclama liberale e democratico, è diventata tanto massiccia, che ha posto gli altri gruppi sociali in una condizione di quasi assoluta dipendenza dal potere politico.

Si può affermare che lo Stato moderno consideri gli altri gruppi sociali come dei semplici mezzi rispetto ai suoi fini. Attualmente questi gruppi costituiscono come delle porte spalancate attraverso le quali agli uomini di governo è possibile recare ancora troppe offese alla persona. Ciò rivela senza dubbio uno degli aspetti più notevoli dell’attuale crisi sociale.

Anche da questa Assemblea ho udito levarsi delle voci a favore d’una concezione «univoca» dell’autorità e della sovranità.

È certamente facile riconoscere come l’uomo concreto non viva che in società. Ma è altrettanto vero che la sua vocazione sociale non può esaurirsi nella società statuale, e che perciò, oltre quella statuale, ci sono altre autorità ed altre sovranità che parimenti devono essere riconosciute e garantite.

L’esigenza dell’unità sociale, di cui tanto si parla, deve rimanere, soprattutto, un fatto di coscienza, e, strutturalmente, deve essere realizzata incominciando col riconoscere, a ciascuna forma sociale, la sua particolare fisionomia, i suoi particolari scopi, la sua specifica sovranità.

Sottoporre ad un gioco gerarchico questa pluralità di sovranità e di giurisdizioni spetterà quindi alla sovranità dello Stato che è, specificamente, sovranità ed unità d’ordine, in modo che ne emerga in questa divisione la fondamentale sovranità della persona, con le sue caratteristiche extra-territoriali e metasociali.

Non c’è dubbio che l’uomo, per essere uomo, deve entrare in un processo di socializzazione. Ma non in un processo di socializzazione che non sia «comunione», che cioè non sia articolazione estrema di forze sociali, e quindi libertà nella vita associata.

Bisogna pertanto denunciare ogni tentativo di socializzazione meccanica, imposta dall’alto. Il nostro lavoro costituzionale, onorevoli colleghi, se vorrà essere veramente efficace e costituire un’utile novità per la vita del nostro Paese, dovrà segnare la fine del tentativo, che da tempo si è assunto lo Stato, di monopolizzare la vocazione sociale dell’uomo.

I risultati di un ordinamento pluralistico della società si faranno sentire ben presto.

Lo Stato, una volta divenuto una istituzione puramente giuridica, a giurisdizione più che sia possibile limitata alla difesa dell’ordine interno ed esterno ed al coordinamento dei diversi gruppi sociali, non costituirà più la cappa di piombo che tutt’ora soffoca l’uomo.

La tecnica sociale non mortificherà più lo spirito e, per ciò stesso, gli uomini si verranno a trovare nelle condizioni esteriori assolutamente necessarie per un’effettiva vita in comune.

La società italiana, specie col riconoscimento delle autonomie regionali e comunali, si avvia a diventare una società a tipo pluralista.

In Italia lo Stato demo-liberale sta per essere finalmente smobilitato e finalmente dissacrato: esso dovrà cedere ai Comuni e alle Regioni parte di quelle attribuzioni sin qui da esso esercitate.

Agli antichi diritti di libertà e di eguaglianza, riconosciuti all’individuo dalla rivoluzione francese, si vengono ora ad aggiungere delle garanzie di carattere sociale.

II cittadino non è più il soggetto astratto di diritti e di doveri, ma il soggetto più concreto di diritti e di doveri sociali.

Così l’uomo viene meglio raggiunto; e la democrazia si realizza in forme molto più concrete.

Il metodo del centralismo statale, con il quale – dopo il 1870 – si tentò di unificare gli italiani e di salvaguardarne le libertà, non ha dato certamente frutti molto brillanti. Dov’è ora la nostra unità? E dove sono, ora, le nostre libertà, onorevoli colleghi?

Il pluralismo sociale non è antiunitario: la preoccupazione unitaria costituisce una delle sue preoccupazioni fondamentali. Esso è però dominato dall’idea di vivificare l’unità con un esercizio più concreto delle libertà.

Il metodo del centralismo statale è produttore di servitù e di unità in gran parte fittizia; il metodo del pluralismo sociale vuol essere produttore di libertà concreta e di unità. Sono perciò autonomista, per l’amore che porto all’unità e alla libertà del popolo italiano. Il segreto d’una struttura democratica, veramente superatrice dell’attuale democrazia di forma, sta nella creazione di un organo costituzionale base a cui si attribuiscano determinate potestà sovrane, aventi inoltre una certa consistenza economico-sociale e che, quanto ai suoi limiti territoriali e funzionali, risulti, come ora si dice, a misura d’uomo.

Il progetto di Costituzione ritiene di poter sodisfare le esigenze autonomistiche che sono, giova ripeterlo, le esigenze della libertà e dell’unità, con la creazione dell’ente Regione e delle autonomie comunali. A mio parere il progetto segna bensì un notevole passo avanti sulla via della smobilitazione dello Stato moderno, ma è insufficiente e non è tale da poter raggiungere adeguatamente lo scopo prefisso.

Evidentemente qui non si tratta di creare un ente autarchico solo amministrativamente. L’autonomia comunale è sufficiente a tale scopo. Qui si tratta di creare un altro ente distinto, ma non separato dallo Stato, ente che, entro certi limiti, possegga potestà legislativa, quella potestà che il Progetto, del resto, riconosce alle Regioni.

Questo ente politico primordiale, nella maggioranza dei casi, non potrà essere circoscritto nel Comune, che non possiede sufficiente potestà economica e sociale per poter godere di una, sia pur limitata, effettiva autonomia.

D’altra parte la Regione è troppo vasta perché possa divenire uno strumento veramente efficace per portare l’uomo all’autogoverno che è il fine che le autonomie vogliono raggiungere.

La Regione, territorialmente e funzionalmente, non è davvero a misura d’uomo. L’accentramento regionalista costituisce un pericolo che non deve essere sottovalutato, presentandosi, per molti aspetti, peggiore di quello statale.

È necessario compiere un altro passo in avanti nella strada delle autonomie. Oratori che mi hanno preceduto hanno messo in rilievo l’importanza ormai divenuta tradizionale, a loro parere, della Provincia, e perciò la convenienza di farla sopravvivere e anche di potenziarla avviandola al grado di ente autarchico fondamentale, invece di limitarne la funzione, come pare voglia fare il progetto di Costituzione, a quella di semplice organo di decentramento amministrativo della Regione.

Dirò subito che questa non è idea che la Commissione e l’Assemblea potranno scartare senza averci meditato sopra molto. Ma mi sia lecito di far conoscere su questo punto tutto il mio pensiero. Io sono del parere che la stessa Provincia, e specie alcune provincie, non sono in grado di rispondere adeguatamente all’esigenza autonomistica. L’idea di elevare ad ente autarchico fondamentale un ente più piccolo della Regione, ravvisandolo nella Provincia, è un’idea ottima come sentimento, ma a mio parere ancora insufficiente come soluzione concreta. È assolutamente necessario che l’ente autarchico fondamentale, che la cellula primigenia dell’ordinamento politico ed economico sociale sia più piccolo della Provincia, sia veramente a misura di uomo, in modo che possa prendere visione diretta dei problemi che è chiamato a risolvere.

È necessario, e in ciò sono d’accordo con quanto ha scritto Adriano Gretti, che esso non abbia limiti territoriali più ampi di quelli del circondario, del distretto militare, della diocesi.

L’articolo 107 del progetto non è affatto chiaro nei riguardi delle provincie.

Secondo un mio emendamento andrebbe così modificato: «La Repubblica si riparte in Regioni, Circondari e Comuni».

L’articolo 120 sembra prevedere il decentramento circondariale ma ciò non appare sufficientemente chiaro.

Ho, perciò, proposto la sostituzione di questo articolo nel seguente:

«La Regione esercita normalmente le sue funzioni a mezzo delle circoscrizioni circondariali che risultano dalla divisione delle provincie».

Conseguentemente, al 2° comma di questo articolo, alla dicitura «circoscrizioni provinciali» dev’essere sostituita quella di: «circoscrizioni circondariali».

Naturalmente questi emendamenti delle dizioni già adottate rappresentano un compromesso con il testo progettato e ciò che a mio parere, sarebbe l’ideale. Infatti, in via di principio non sarebbe da adottare la dizione: «la Regione esercita… le sue funzioni… a mezzo di uffici nelle circoscrizioni circondariali…», e simili, in quanto l’ente autarchico «circondario», qualora si introducesse nella nostra Carta, non deriverebbe affatto la sua autonomia da una concessione della Regione o dello Stato, ma dalla libera volontà dei suoi abitanti.

Se si accettasse questo punto di vista, se, cioè, l’autonomia primigenia investisse un ente dell’ampiezza territoriale, per esempio, del circondario, non avrebbero più ragion d’essere i timori, non del tutto infondati, espressi da tanti, che l’autorità della Regione possa rivolgersi contro la sovranità dello Stato. L’autonomia di enti territorialmente così limitati, oltre a risolvere in modo più concreto il problema di un regime di democrazia diretta (ch’è nel voto di tutti), farebbe da utile contrappeso all’autorità della Regione, in quanto questa autorità verrebbe ad essere ristretta alla sola funzione coordinatrice dei diversi enti autarchici compresi nella sua giurisdizione, e non intralcerebbe il necessario movimento centripeto dello Stato.

Per completare il quadro di questo decentramento e per andare incontro ad alcune giuste osservazioni fatte, per esempio, questa mattina dall’onorevole Priolo, le elezioni del Consiglio regionale dovrebbero essere di secondo grado, attraverso quelle circondariali, e la capitale della Regione essere scelta in qualche cittadina, ora di seconda importanza.

Devo anche aggiungere che le proposte dell’onorevole Priolo, relative al decentramento delle grandi città, sono meritevoli della più grande considerazione.

Sento poi il dovere di reagire contro il frantumamento regionale codificato nell’articolo 125 del progetto di Costituzione. La Regione, per raggiungere il suo compito di democratizzare sempre più le nostre strutture politiche ed amministrative, deve essere di tale ampiezza territoriale e di tale consistenza economica da costituire una «vivente» e non soltanto «giuridica» entità autarchica. Di qui la necessità di rivedere l’elenco delle Regioni alle quali il progetto vorrebbe concedere l’autonomia, e di almeno triplicare il quoziente minimo di popolazione fissato in 500.000 abitanti perché ulteriori richieste di autonomia possano essere sodisfatte.

Mi sia permessa una osservazione finale. Questa struttura politica ed amministrativa di democrazia decentrata fino a raggiungere il singolo, se è assolutamente necessaria per trasformare in una «società di uomini» la nostra società, che è ancora prevalentemente una società di interessi, non è tale da poter ancora raggiungere tutte le sue mete. Non illudiamoci!

Questa struttura giuridica, onorevoli colleghi, non lo dimentichiamo, deve essere riempita da due contenuti, ambedue indispensabili: da un contenuto economico e da un contenuto spirituale.

L’ideale di una «comunità», del quale si nutre l’esigenza autonomistica, non potrà assumere forme concrete, se non s’intende sostenuto dalla riforma costituzionale, e perciò obbligatoria per tutte le regioni, dell’attuale esercizio del diritto di proprietà. Ho sentito questa mattina esclamare da un collega democristiano: la libertà ci salverà! Ciò è vero solo se si tratterà della libertà socialista, ma non certo della libertà liberale.

Votando alcuni articoli del Titolo III, sono del parere che l’Assemblea abbia purtroppo sciupato in partenza i migliori effetti che potevamo attenderci dalle autonomie. La sopravvivenza dell’attuale regime economico di classe inficia alla radice i risultati personalisti, come ora si dice, e comunitari, che con le autonomie ci ripromettevamo di raggiungere.

Solo una società che metta in comune tutti i mezzi di produzione e di scambio potrà pienamente beneficiare delle autonomie politiche, mentre, d’altra parte, solo queste autonomie potranno salvare l’uomo dalla tirannide di un ordinamento economico integralmente statizzato.

D’altra parte, niente potrà resistere a lungo delle strutture politiche, amministrative, ed anche economiche, se queste non saranno sostenute da un contenuto spirituale, se in esse l’uomo non sarà presente; se non sarà l’uomo a sostenerle col suo spirito di intraprendenza e col suo amore disinteressato per la libertà e la giustizia.

Il successo del nostro compito costituzionale, pur rimanendo sempre arduo, onorevoli colleghi, dovrà essere tuttavia sempre inteso strettamente legato al mistero delle anime e alla formazione intellettuale e morale dell’uomo.

Haec meminisse iuvabit, per il nostro lavoro, per la nostra umile ricerca del meglio! (Applausi).

PRESIDENTE. L’onorevole Nitti ha presentato un ordine del giorno del seguente tenore:

«L’Assemblea Costituente, tenendo conto della incertezza emersa dalla discussione dinanzi al problema della autonomia regionale, riconoscendone la gravità e l’importanza, delibera di rinviarne l’esame alla futura Camera legislativa».

L’onorevole Nitti ha facoltà di svolgerlo.

NITTI. Di questo argomento io intendo parlare senza nessuna preoccupazione di ordine politico. Questo argomento infatti, benché considerato con particolare simpatia da una parte della Camera, non implica necessariamente una orientazione politica. Si può però essere pro o contro le Regioni, si può essere anche indifferenti, ma non si può negare l’importanza del problema.

Non è in questo momento che il problema delle Regioni sarà seriamente risoluto, e se io mi sono deciso a presentare questo ordine del giorno, che ne rinvia la discussione alla prossima Assemblea, è anche perché credo che ora seriamente non si possa pensare di arrivare a una conclusione.

Devo però dire le mie preoccupazioni. Noi siamo in un periodo in cui un farraginoso lavoro ci spinge a decidere argomenti gravissimi senza sufficiente preparazione e senza che, per alcuni di essi, ve ne sia necessità. Vi prego di considerare quanto io dirò, come all’infuori della situazione ministeriale e politica. Questo argomento, per il Governo che ci regge in questo momento, non involge alcuna responsabilità. Si può votare contro, si può votare in favore essendo amici o avversari del Ministero. Questo è un argomento che, nel mio concetto, deve essere esaminato obiettivamente. Ma alcune cose che sembrano innocue io considero sempre con grande diffidenza. In Italia si tende sempre ad esagerare. Vedete che cosa è avvenuto per la proporzionale. La proporzionale era cosa savia ed innocua, permettete di dirlo a me che ne sono stato l’autore, e che nel 1919 la volli. Quando mi decisi, invitai tutti i parlamentari più importanti e di ogni parte politica perché mi esprimessero sinceramente la loro opinione. Vi erano uomini di estrema sinistra e di estrema destra. Accettai la proporzionale e la feci votare: avevo allora come sottosegretario di Stato l’onorevole Grassi, ora Ministro della giustizia, e come relatore del disegno di legge ebbi l’onorevole Micheli: dunque i democristiani possono riconoscere che io non agivo in ambiente nemico.

La proporzionale che si applicò era discreta e temperata. Non asserviva l’uomo al partito e non soffocava la libertà dell’individuo.

Si trovò modo di equilibrare le varie tendenze, ed alla proporzionale arrivammo senza urto. Avvennero le elezioni con la proporzionale. Io diedi un ordine preciso ai prefetti del tempo: non vi occupate di elezioni (ragionamento che ora pare molto strano), non vi occupate di elezioni, non intervenite, fate che tutti votino come vogliono. Non abbiate preoccupazioni di quello che sarà il risultato politico. Diedi alla censura un altro ordine (allora avevo ancora la censura): fate pubblicare tutto, tranne quanto accenna alle conseguenze della guerra fatta con gli alleati. Fate pubblicare tutto, soprattutto divieto assoluto di togliere ogni cosa che sia insulto alla mia persona. E feci pubblicare tutto. Feci anche pubblicare a Mussolini le volgari violenze in cui ero definito col più volgare titolo di «porco». Mussolini non poté mai perdonarmi che io allora non lo prendessi sul serio e che ridessi di lui, e nelle elezioni di Milano furono proclamate tutte le infamie del «porco Nitti».

Al prefetto Flores ordinai di lasciar pubblicare tutto quanto era insulto a me. Posso dire di aver agito allora con temperanza e di aver evitato possibili conflitti per motivo mio personale. La proporzionale non diede attriti. Elezioni fatte liberamente portarono alla Camera una ondata di socialisti, e, per la prima volta, entrarono numerosi i democratici cristiani, che allora si chiamavano «popolari».

Applicai sempre la proporzionale in un regime di libertà, ma in un clima ancora caldo delle passioni e degli odi di guerra.

Ora dunque, io non sono nemico della proporzionale e ho diritto di dire che sono proprio io che le ho dato diritto di cittadinanza in Italia.

Ma debbo constatare che in Italia, dove si tende sempre all’esagerazione (il fascismo torbido e l’antifascismo violento, la reazione e l’anarchia), si passa da un eccesso all’altro. Ora vi è l’orgia della proporzionale. L’onorevole Micheli, nella sua relazione sulla proporzionale all’Assemblea consultiva che l’ha votata, dedicò la prima pagina a sostenere che la cosa più saggia, per evitare l’errore di improvvisazione, era di accettare la proporzionale del 1919. Credo che si sarebbe agito con prudenza e con saggezza tornando all’antico. Invece, i responsabili della nuova proposta, i suoi autori, di cui alcuni erano in quel tempo anche ministri, quando li interrogai mi dichiararono che non sapevano nulla della proporzionale italiana del 1919. E passò un tipo di proporzionale, che non è stato certo il più fortunato; e passò anche la malattia della proporzionale, considerata come una specie di nuovo idolo, da applicare dovunque e comunque.

Da allora fu lo sfacelo dell’amministrazione, dell’ordine interno politico, perché si volle fare tutto con la proporzionale. I partiti vollero la proporzionale ad uso interno e ad uso esterno, nelle elezioni politiche, nelle elezioni amministrative, nelle amministrazioni comunali e provinciali. E quando entrarono nell’Assemblea vollero stabilire la proporzionale, e quando furono distribuite poi le cariche del Governo prevalse l’idea della proporzionale. Non vi è nulla di più folle e di più dannoso.

Ora, come è venuta questa ondata di simpatia improvvisa per la Regione? È un fenomeno della stessa natura.

Io devo dichiarare sulla mia coscienza che nessuno mi aveva mai parlato in Italia della Regione; si parlava di decentramento, anche da alcuni uomini contrari al regime monarchico, si parlava da parte di elementi reazionari di separazione di alcune zone dall’Italia, ma come vuoto discorso, non mai come un programma.

Ora, è venuta improvvisamente la proposta della creazione delle Regioni e questa è cosa che mi ha profondamente turbato.

Noi abbiamo in Europa tre grandi Paesi vincitori e numerosi Paesi vinti. Fra i tre grandi vincitori nessuno ha voluto adottare la proporzionale, il nuovo tipo di proporzionale assurda dell’Italia. Tutti hanno conservato il collegio uninominale. Nessuno poi ha parlato di divisioni interne, di regioni e nessun movimento autonomista è sorto in alcun Paese serio.

Presidenza del Vicepresidente TARGETTI

NITTI. Com’è venuta fuori la Regione?

In quest’Assemblea sono entrati i grandi partiti di massa e tutti poi, partecipando al Governo, si sono distribuiti proporzionalmente anche le funzioni e i posti e i benefizi dello Stato. In questa decadenza politica e morale determinata dalla proporzionale, se vi saranno autonomie regionali non vi sarà limite al disordine e allo sperpero.

Si è voluta la proporzionale con tutte le sue esagerazioni. Si è prodotta la situazione più assurda. Nella comune diffidenza che avevano i partiti, che governavano insieme ma erano sempre pronti a detestarsi e a denigrarsi in pubblico, la proporzionale è stata introdotta anche negli uffici e nei Ministeri, al punto che, se un Ministro era comunista, il Sottosegretario doveva essere conservatore, o, se il Ministro era democristiano, il Sottosegretario doveva essere socialista. Questa cosa molto strana e nuova paralizzava ogni azione di Governo. Ma quella parea che dovesse essere la proporzionale democratica! Tutti ora in Italia si dicono democratici. Signori, io sono forse un pedante; ho scritto due enormi volumi sulla democrazia, tradotti in parecchie lingue; ma dacché sono qui, io stesso non capisco più che cosa è democrazia. Tutti la invocano in ogni momento, anche quando non vi è democrazia, anche quando si tratta di governi stranieri, che non sono in realtà democratici. Così, si è giunti al punto ormai che abbiamo l’incubo delle autonomie regionali. Nessuno mi sa spiegare e nessuno ha spiegato perché si vogliono avere Regioni autonome.

Perché questa improvvisa eccitazione?

Alla mia età ho conosciuto tanta gente, ho visto tanti Governi, tante situazioni. Non avevo mai assistito ad una aberrazione come questa delle autonomie regionali.

Domando ai vecchi parlamentari, che sono qui, se qualcuno di essi aveva mai parlato di Regione.

In Italia un uomo eminente, veramente competente in materia, Luigi Bodio, milanese, grande statista, fondatore della statistica italiana, diceva che le regioni sono una finzione statistica, per raggruppare alcune province e alcuni territori in quadri statistici. La Regione non è mai esistita, essa è stata finora una finzione statistica. Le grandi isole avevano senza dubbio fisionomia speciale: ma nel resto d’Italia dove erano separazioni nette?

Dunque, nessuno dei grandi italiani aveva parlato di Regione e tanto meno di autonomia regionale. Studiate a fondo Mazzini, studiate Cattaneo, studiate Ferrari, non troverete mai idee di autonomia regionale. Come questo fungo del disordine è venuto fuori? Non si può dire. Si è pensato forse da qualcuno ai cantoni svizzeri. La Regione non ha niente di comune con i cantoni, che hanno vita secolare, alcuni quasi millenaria. I cantoni svizzeri sono una formazione storica spesso arcaica e spontanea. Conservano tutte le vecchie forme. Chi di voi è stato in Isvizzera ha potuto assistere anche in quei cantoni a spettacoli quasi medioevali. Si presentano i cittadini per votare, coi vecchi costumi, spesso in rozze giacche, ma hanno la sciabola al fianco, per ricordare avvenimenti lontani, quando dovevano difendere con le armi il loro diritto e la loro indipendenza. Che cosa le autonomie regionali che si sono ideate hanno di comune con la realtà storica di altri Paesi? Precedenti così strani la Francia non ha mai avuti, o forse vi fu in Francia un solo tentativo. Quando Napoleone fu battuto (Napoleone aveva fatto tutto un ordinamento nuovo in Francia e aveva rovesciato tutto ciò che rappresentava la vecchia Francia), un certo Fievée, uomo di modesta intelligenza ma grande agitatore, pensò di instaurare in Francia qualcosa che somigliava alla Regione. Ma non volle darle il nome di Regione; ne parlò in alcuni preamboli, ma non volle mai dare il nome di Regione che non rispondeva a nessun sentimento francese. Quel movimento, dopo la caduta di Napoleone, parve che dovesse essere importante, ma non ebbe alcun seguito, e finì nell’indifferenza.

In Francia, pochi anni or sono, dopo la grande disfatta, il maresciallo Pétain ebbe l’idea poco felice di creare la Regione. Gliene mancò il coraggio. Fece allora i prefetti regionali, i quali non avevano altra funzione che quella di capitanare, diciamo così, due, tre e quattro provincie e di dare loro una direzione generale; sempre, s’intende, nelle idee del maresciallo. E da allora la cosa non ha più avuto seguito. Nessuno ha pensato, dopo Pétain, che si potesse parlare di Regione.

In Italia si parlò di Regione solo dopo la catastrofe della guerra e la caduta del fascismo. Prima non se ne era mai parlato, perché si erano fatte tante opposizioni al fascismo, ma teoricamente, praticamente e politicamente nessuno aveva mai messo fuori l’idea della Regione. Com’è venuta fuori questa idea? Venuta improvvisamente, senza sapere il perché, e, se permettete, è venuta in antipatia di Roma. Roma aveva ospitato il fascismo, era stata trionfante col fascismo, e nei primi tempi – io venivo dall’estero allora – la prima cosa che mi colpì, prendendo i primi giornali, fu quella che non solo essi parlavano della Regione, ma alcuni di essi giungevano perfino a parlare della capitale Milano. Questa fu una cosa che mi spaventò. Era possibile parlare sul serio?

Eppure se ne parlava sul serio. Bisognava distruggere la città, dal punto di vista politico, la città che aveva dato il trionfo al fascismo. Veramente Roma, come l’Italia meridionale, non erano state responsabili del fascismo. Il fascismo era stato di origine lombardo-emiliana. Io che ero a capo del Governo nel periodo 1919-1920 posso dire più degli altri come si è formato. L’Italia meridionale e la Sicilia non erano responsabili del fascismo, né della guerra. In questa diffidenza che venne per l’Italia meridionale e per Roma, venne anche l’idea di trovare qualche cosa di meglio e di più sano, e si cominciò a parlare di spostare la capitale, di introdurre nuovi ordinamenti, ecc.; tutto ciò non era conseguenza di logica, ma rispondeva a un periodo di cattivo umore e di malessere.

L’Italia meridionale fu sempre ostile al fascismo e a Mussolini. Nella mia Provincia, dove non si riusciva nemmeno a trovare i podestà fascisti, fu necessario inviarli da ogni parte d’Italia: molti in quest’Aula ricordano che essi furono mandati da Mussolini in deportazione. La mia Provincia, considerata come una Nuova Caledonia dai fascisti, ospitò molti fascisti e alcuni di essi sono anche in quest’Aula.

Ma nel nord d’Italia, dove ciò non si conosceva o si conosceva poco, si continuò da molti a considerare la sede del Governo fascista come il centro vitale del fascismo, che fu, ripeto, fenomeno nordico della vita italiana; almeno nelle sue origini e nel suo primo sviluppo.

Un professore molto intelligente, che fece parte di questa Assemblea, o che per meglio dire fece parte della precedente Assemblea, la Consulta, il compianto professore Adolfo Omodeo, storico veramente notevole, ha scritto pagine assai importanti sull’equivoco delle Regioni e delle autonomie regionali.

Quando fui la prima volta Ministro (tempi lontani, del 1911) vi erano 69 provincie; ed io (con la mania che mi ha sempre perseguitato della economia delle spese di Stato) pensavo già che, se fossi stato Presidente del Consiglio e Ministro dell’interno le avrei potute ridurre a 50. Quando venne Mussolini, fu l’orgia della follia (in tutta l’azione di Mussolini non vi è già la malvagità che gli si attribuisce, quanto la follia di grandezza e di vanità). Trovò 69 provincie ed immediatamente le aumentò, portandole poi fino a 92. Ingrandì tutto, aumentò tutto, volle sempre essere spettacolare. I prefetti, che erano dinanzi ai Ministri modesti funzionari, ebbero i titoli più pomposi, anche quello di eccellenza. Era una cosa comica. Erano, secondo il decreto di Mussolini, eccellenze all’interno della provincia e non lo erano fuori; cosicché quando arrivavano a Roma si trovavano spogliati del titolo dorato e vano.

Le 69 provincie d’Italia, aumentate fino a 92, nella loro vita normale non avevano dato cattiva prova. Mussolini volle, alle provincie italiane, unire quelle della Libia, cosicché vi furono quattro prefetti per la Libia, con a capo due viceré, per un certo tempo, e poi uno. Pensate che per una zona arida e che non ebbe mai alcuna produttività e in cui si sperperavano miliardi, per quella povera zona vi erano dei viceré e alla loro dipendenza erano prefetti. Tutta l’amministrazione fu sconvolta da queste forme di stravagante follia e di stravagante vanità.

Come, caduto il fascismo, dopo la follia di grandezza si è arrivati al sogno di dissoluzione delle autonomie regionali, nelle quali tutto dovrebbe essere elettivo, e tutto ciò che è elettivo dovrebbe essere amministrato con il sistema della proporzionale, che non può praticamente funzionare ovunque è applicato?

Da noi, non solo tutte le provincie, ma gran parte dei comuni vivono sull’equivoco di una loro finanza che poi, in gran parte, ricade a carico dello Stato. Come si farà questa organizzazione delle Regioni e quali saranno le spese necessarie e chi le sopporterà? Quale diffidenza inevitabile e quali lotte fra le Regioni autonome e lo Stato!

Io, quando son tornato in Italia, sono stato sorpreso di vedere anche sulle mura prove della follia dissolvitrice. I francesi dicono: «la muraille c’est le papier de la canaille»; ma qualche volta le mura esprimono delle passioni e dei sentimenti di folle. Una delle cose che mi sorprese fu quella di trovare una certa diffidenza per tutto ciò che rappresentava l’organizzazione dello Stato nella sua forma antica – spontanea, è vero – che ha avuto da secoli. Io alloggiavo allora nella modesta casa della mia vecchissima madre e delle mie vecchie sorelle, in Via Spontini. Tutte le mura, per un certo tempo, erano tappezzate non solo di iscrizioni che, come meridionale, mi offendevano, ma anche di iscrizioni veramente strane. Quella nel quartiere più diffusa, era: «Viva le donne del Nord». Io non potevo spiegarmi quale differenza esistesse tra le donne del Nord e le donne del Sud. Ora, in questo stato, in questa atmosfera, è nata l’idea delle Regioni autonome.

L’autonomia regionale è intesa, in fondo, come un distacco di cui si possono avere tutti i vantaggi della unità senza il peso (Commenti al centro). Presto o tardi, potete essere sicuri, si arriverà alla separazione, e voi, che siete più giovani di me, ne vedrete le terribili conseguenze. La Regione autonoma, con amministrazioni basate sulla proporzionale, non può sboccare che nella diffidenza, e la diffidenza non può sboccare che nella difficoltà della convivenza. Vedete già gli atteggiamenti che vi sono nei Paesi dove ci sono i cosiddetti movimenti autonomisti: si cominciano a fare i conti: come ci regoleremo? Alcuni rimproverano agli altri le cose di cui forse dovrebbero rimproverare se stessi, ma nessuno porta una nota amica.

Io ho trovato l’Italia meridionale inquieta sull’esempio del Nord. A rischio di sciupare quella popolarità che avevo diritto di avere dopo tanti anni di lontananza e dopo tante sofferenze, ho resistito e ho detto: non parliamo di autonomie e di Regione. Noi saremo perduti se ci separeremo; la mia convinzione è che in Italia non ci deve essere nessun sentimento che non sia d’italianità. Se noi, in quest’ora terribile in cui siamo – e che non diventerà migliore per qualche tempo – ci separeremo spiritualmente e anche materialmente, come si vuole, noi ne avremo le più tremende conseguenze.

L’Italia, che non ha che scarse ricchezze naturali, che non può produrre se non con grande difficoltà, l’Italia non sarà forte se non sarà unita in un solo sentimento, in una sola passione e anche in una sola comunanza d’interessi. È nell’idea della vita nazionale che noi ci salveremo. Ci salveremo con il sentimento della Nazione che uccide la fazione che finora ci ha soffocato e che prevale ancora.

Disgraziatamente ci sono stati parecchi cattivi esempi. Come è cominciata infatti questa tragica farsa delle autonomie regionali? Non voglio darne la colpa neppure solo ai democristiani. La farsa tragica è cominciata con un liberale. Un liberale, di cui non avevo mai sentito il nome, e che si chiamava, credo, Brosio e che, quando tornai qui, trovai indicato nei giornali come Vicepresidente del Consiglio, titolo che non esisteva e credo non esista nella legge italiana, propose la cosa più spaventevole e più assurda. Questo singolare studioso, che ora credo sia ambasciatore in Russia, non so per quali studi speciali (Si ride), trovò che vi era un paese a cui occorreva proprio dare subito l’autonomia: la Val d’Aosta.

Io non avevo mai sentito, in tanti anni di studio e di Governo, alcuno che mi avesse mai parlato della Val d’Aosta come di un paese che dovesse avere una propria autonomia. Anche sotto la Casa Savoia, la Val d’Aosta aveva conseguito certi vantaggi locali, ma nessuno mai aveva parlato di autonomia.

Quando, dopo la vittoria del 1918, vi furono le conferenze della pace, cui come Primo Ministro ebbi l’onore di partecipare per l’Italia, giunsero alcuni rappresentanti della Valle di Aosta che chiesero non l’autonomia, ma qualche cosa di simile. E si rivolgevano alle nazioni vincitrici, cosa che mi fece una cattiva impressione, per avere garantito uno speciale regime politico.

E così, per l’opera di quel certo Brosio, il Governo, senza averne diritto, concesse la così detta autonomia. E ora? Io non voglio farvi perdere tempo, ma, se non avessi questo timore, vorrei leggervi i documenti che riguardano il regime attuale, non certamente di spirito italiano, dei reggitori della Valle di Aosta.

In questa storia della Val d’Aosta troppe cose sono inspiegabili e strane. Io ho qui i programmi delle scuole: la lingua italiana è di fatto abolita. Mi pare che soltanto per il disegno, o per qualche altra materia affine, sia consentito l’insegnamento in lingua italiana.

Non per colpa dei democristiani, ma per colpa di un liberale dunque. Ora, riflettete un momento: riflettete alle isole grandi, ad isole come la Sicilia e la Sardegna. La Sicilia era piena di rancore per il fascismo; la Sicilia non si era piegata mai al fascismo. Mussolini pensava di separarla dall’Italia perché voleva metterla in situazione speciale; e di fatto fece un decreto in base al quale tutti gli impiegati statali siciliani (solo quelli siciliani!) non potevano risiedere in Sicilia!

E arrivò all’estremo della follia, di chiedere a tecnici eminenti se si potesse fare un ponte il quale rendesse possibile comunicare per terra con la Sicilia per togliere anche ad essa il privilegio insulare. Dunque da follia a follia.

Quando si è data l’autonomia alla Val d’Aosta, voi vi meravigliate perché la Sicilia, la Sardegna e altre zone hanno chiesto anche la loro autonomia regionale. Perché, di fronte all’assurdo, cioè alla autonomia concessa alla Val d’Aosta, sarebbe stato ben strano che ci si opponesse alla richiesta di Regioni che avevano ben più diritto all’autonomia per la loro natura insulare, dato il principio…

RUSSO PEREZ. La Sicilia ha chiesto sempre l’autonomia, prima ancora della Val d’Aosta.

NITTI. Questo vedremo: è materia di indagine storica. Ma a me non risulta che mai gli uomini importanti e autorevoli che ebbe in gran numero la Sicilia abbiano parlato veramente di autonomia siciliana. Certo nessuno di essi, pur essendo a capo del Governo, ne fece proposta. Prima la Sicilia e poi la Sardegna; poi vennero altre regioni: ora vi sono progetti di autonomie regionali non solo per la Sicilia e la Sardegna, ma per il Trentino e l’Alto Adige (voi ne comprendete le difficoltà e il pericolo e il danno sicuri), per il Friuli e per la Venezia Giulia. Pensate alle difficoltà di organizzare queste autonomie regionali tra persone che hanno diverse lingue, origini diverse di nazionalità, e che devono regolare la loro vita in comune esse stesse con una vera facoltà legislativa, come quella che si è ideata. E pensate a quali inevitabili inconvenienti ciò porterebbe. Quante Regioni! Nella relazione si enumerano, credo, ventidue Regioni da rendere autonome. Io non ho osato raccogliere tutte le innumerevoli pubblicazioni che mi son venute da ogni parte. Si è cominciato con l’idea delle grandi autonomie regionali e poi si è discesi a mano a mano. Perché solo la grande Regione? E perché una grande Provincia non poteva dichiararsi Regione? E perché non anche le piccole Regioni autonome? E allora le Provincie hanno cominciato esse stesse a dichiararsi Regioni. Volevano essere Regioni: cambiava solo il titolo; la Provincia voleva essere Regione autonoma e non cambiava le altre istituzioni. E poi, cosa ancora più inverosimile ed assurda, si arrivò al punto che nel territorio della stessa provincia vi furono proposte di divisione in differenti Regioni autonome. Si divideva la Provincia in due o tre Regioni. Non vi farò l’elenco, ma ho tutta la raccolta, veramente comica, di tutte le ragioni che servirono a spiegare le nuove Regioni. Quali strane cose! Si risvegliarono tutti quanti i vecchi popoli, i longobardi, i normanni, gli arabi; si invocarono diritti storici che nessuno più ricordava; si invocarono perfino precedenti storici, per cui all’interno di una Provincia dovevano essere create due o tre Regioni. Voi ricordate che in provincia di Roma si parlò perfino della Tuscia e della Sabinia da costituire in Regioni. Niente pareva più piacevole che elevarsi a Regione autonoma.

E si è andato a mano a mano degenerando, per cui le Regioni auspicate erano diventate così numerose che ogni pezzo d’Italia pareva dovesse diventare una Regione. Nessuno si domandava: come vivrà? che cosa farà questo ammasso di Regioni? come si organizzerà? con quali mezzi? quale sarà la sua finanza? Questo problema della finanza pare che non abbia interessato nessuno; è una cosa che ai fantasiosi autonomisti regionali sembra indifferente. La finanza, vi è qualcuno che ci pensa? Adesso i Comuni vivono sullo Stato, almeno in gran parte.

Vi riferirò in proposito, forse in una prossima occasione, perché ora non posso dilungarmi, quale guazzabuglio sia oggi la finanza locale in Italia. Pensate che cosa sarà con le Regioni autonome! Anche ora è uno strano miscuglio, una stranissima finanza in cui il contribuente è unico. Si può appena immaginare ciò che, nella inevitabile disunione, sarà la finanza di Regioni autonome, governate da elementi elettivi designati in base alla proporzionale.

Non vi parlo delle autonomie che si vogliono instaurare dettagliatamente: andrei troppo per le lunghe e sarebbe vana cosa. Voi credete che anche la Sicilia e la Sardegna vivranno tranquillamente, diventando regioni autonome e che avranno unità di propositi e unità di azione? Io ho molti motivi per dubitarne. Difficile l’accordo fra le varie parti della Sicilia. E la Sardegna, la povera Sardegna? Si crede che sia facile fare una Regione autonoma della povera Sardegna. Ma sarà veramente facile farla funzionare come autonoma, regolata dalla proporzionale?

L’onorevole Ruini, che era nel 1911 nel gabinetto del mio collega il Ministro Sacchi, ricorderà il disegno di legge che io presentai per opere idrauliche in Sicilia e in Sardegna, progetto che doveva provvedere a un’opera di grande importanza. Quel disegno di legge doveva darmi le simpatie dei sardi e svegliò invece le loro diffidenze. Per la Sardegna riguardava il grande bacino idrico del Tirso. Quando il disegno di legge fu presentato, tutti i sardi della provincia di Sassari mi tolsero il saluto. Vi era fra essi un uomo veramente buono e stimabile, l’onorevole Pala. Era il più buon uomo del mondo, ma ombroso e fiero e sempre disposto a credere a un inganno o a una offesa: passava dinanzi a me come un orso. Un giorno lo affrontai e gli chiesi: Perché questo tuo odio o rancore? Mi rispose turbatissimo: hai voluto il bacino del Tirso che è in provincia di Cagliari. E che si fa per Sassari? Gli dissi che per Sassari avrei studiato in seguito la possibilità di un lago artificiale, il Coghinas. Non si calmò; mi disse: Mai Cagliari prima di Sassari! Dovevate presentare due progetti insieme o niente per nessuno!

Credete che questi sentimenti di diffidenza siano del tutto scomparsi? Credete che le autonomie regionali, risvegliando i sentimenti di diffidenza, non determineranno più grandi assurdità di contrasti locali?

L’Italia non può avere che un nome, un’anima unica nazionale. Noi non possiamo rompere il nostro paese in pezzetti e governarlo con l’assurdo delle Regioni e poi sprofondare le Regioni nelle lotte e nelle diffidenze delle proporzionali.

Volete fare la Regione: ogni cosa sarà materia di contrasti e di diffidenze. Bisogna darle una piccola capitale e dovete nominare la capitale. Tante pubblicazioni ho ricevuto su questo argomento e oramai le butto via. Ma sono una massa enorme! Semplice argomento. Quale è la capitale della Regione? In Sardegna, Cagliari o Sassari? e perché non Nuoro? In Abruzzo, Aquila o Chieti? In Calabria, Catanzaro o Reggio? Altri contrasti, altre lotte!

Sono sorte, come ricordavo, speranze di Regioni nuove, dalla Daunia alla Tuscia e alle fantasticherie che vogliono essere geografiche o storiche. Tutte cose che non hanno nessuna serietà, nessuna possibilità.

La creazione delle Regioni sveglia nuovi desideri, nuove domande di spese e creazione di istituti che non vi erano più. A Palermo si domanda già una Corte di cassazione e si richiede la ricostituzione di istituti scomparsi. La prima richiesta è la Cassazione.

Ebbene, due insigni giuristi che furono anche Ministri, Ludovico Mortara e Vittorio Scialoja, non desideravano che la Cassazione unica, che realizzò un vero progresso. (Interruzione dell’onorevole Russo Perez).

In Francia nessuno ha mai osato chiedere la ricostituzione delle vecchie corti regionali. Il danno non dipende solo dal fatto che ci troveremo di fronte a tante richieste sempre crescenti. Dopo Palermo possiamo essere sicuri che anche Firenze e Torino vorranno le loro Corti di cassazione. E così sarà per tanti altri istituti. Il personale, moltiplicandosi, sarà poi una spesa enorme. Voi pensate che in questo tempo, in cui i magistrati sono, non dirò la parola famelici, per non offendere il Ministro di giustizia, ma sono in una grave situazione, e fanno vita povera, voi pensate che in questo momento noi possiamo pensare a fare altre Cassazioni o altre Corti e dobbiamo essere costretti a fare altre magistrature (Commenti) come quella assurda delle Corti supreme, assurdo che non esiste in nessun Paese, che è una pura follia. Questa Corte suprema, mal ideata e per puro equivoco, che confonde ordinamenti diversi degli Stati Uniti di America, della Germania e della Svizzera, che non hanno a che fare con la Corte suprema, ideata per vivere una vita incerta, che dovrebbe servire a scopi diversi e indefiniti, è soprattutto determinata a risolvere i conflitti fra lo Stato e i cosiddetti parlamenti o diete delle singole autonomie regionali. Quale assurdità! L’organismo della Corte costituzionale, come è stato concepito, rappresenta per me non solo un’assurdità, ma una cosa ridicola. Nessuno mi può spiegare il meccanismo né la ragione di un così bizzarro progetto. Noi abbiamo bisogno di serietà ed è soprattutto il ridicolo che ci minaccia dopo il discredito e il danno.

Io vedo che si ritorna ai contrasti locali, alle cattive tradizioni del passato, che avvelenarono la vita italiana per secoli, alle piccole repubbliche del Quattrocento. Mi pare di rileggere Dante, le contese fra i Comuni, nello stesso Comune (ora la proporzionale), l’odio fra le varie città. Intanto si va contro la logica, contro la scienza.

Fra le altre cose non dobbiamo dimenticare che l’Italia è un piccolo paese di 310 mila chilometri quadrati appena, per cui si va in meno di un’ora, in aeroplano, da una parte all’altra della penisola. I treni vanno a cento chilometri di rapidità, nelle nostre ferrovie, meravigliosamente riparate; esse formano l’orgoglio dell’amministrazione italiana, perché, con pochi mezzi, è riuscita ad attuare una non facile ricostruzione. Anche adesso si può andare sulle ferrovie da una parte all’altra dell’Italia in poco tempo, e noi vogliamo fare ordinamenti che corrispondono ai bisogni e alle tendenze di tempi lontani. Pensate che (colmo di stupidità) vogliamo dare alla Regione la materia delle acque. Vi è nulla di più paradossale? È anzi la più grande assurdità che ai tempi nostri possa esistere! È un paradosso di stupidità. È una materia che deve essere unificata e regolata con unità di vedute, perché una parte d’Italia compensa l’altra, ed il Nord d’Italia e il Sud d’Italia hanno diversi periodi di magre dei fiumi e la rete idroelettrica deve essere unificata e regolata con unità di vedute.

Il problema delle miniere non può essere considerato anch’esso con criteri locali e qui si parla invece di affidarlo all’ente regionale. E dove sono i tecnici e chi sono? Una materia come quella delle miniere e combustibili fossili, date le poche miniere che sono in Italia, deve essere organizzata nel modo migliore e più economico. Ora quali sono i criteri che può avere una organizzazione locale? Nessuno mi ha voluto spiegare quali saranno le entrate finanziarie della Regione, non volendosi far scomparire del tutto la Provincia quale ente intermedio. Se volete far scomparire la Provincia, quali saranno le entrate della Regione differenti da quelle dello Stato? Come se ne disporrà? Non voglio invelenire le dispute, ma vi pare serio che si facciano come dei trattati fra una Regione e l’altra per regolare alcune materie? Vi pare serio che si arrivi in questa materia regionale all’assurdo di pensare di disporre delle risorse dello Stato a proprio beneficio e di contribuire il meno che si può allo Stato? Non voglio inacerbire la questione, parlandone, ma non è possibile non tenerla presente.

Vi potrei far vedere, con esempi sicuri, se non temessi di urtare la suscettibilità, come si concepisce la Regione. Lo Stato paga per l’ente Regione, che è disposto al minor sacrificio. Tutto ciò che si dice e si chiede non può essere materia di seria discussione. Noi abbiamo fatto una proposta di ordinamento della Repubblica la quale richiede una revisione. Siamo ora a esaminare la parte più importante, a discutere quello che avremmo dovuto discutere da principio, la vita dello Stato. Questa è cosa ben più importante di quelle discussioni fra teologiche e rivoluzionarie che hanno formato la base dei Titoli precedenti. Questo è il punto principale: la funzione dello Stato, la vita e i rapporti dello Stato. Finite le discussioni su cose fantastiche, noi dobbiamo regolare questa materia con la più grande serietà. Il Presidente, onorevole Terracini, comprendendo che questa materia delle Regioni poteva dar luogo a controversie, l’ha voluta mettere per prima nell’ordinamento dello Stato. Noi siamo venuti qui con l’idea che le Regioni prendessero uno, due, tre giorni al massimo. Ora, benché i nostri amici democristiani abbiano voluto prendere la Regione come una loro figlia naturale… (Interruzioni commenti).

Una voce al centro. Legittima!

NITTI. Lasciamo stare la legittimità.

Una voce al centro. Don Sturzo!

NITTI. Sturzo era nell’economia astrale, non era alla Camera. Nessuno mi ha mai parlato di Regione se non letterariamente. (Interruzioni).

Se Sturzo mi avesse proposto l’autonomia regionale e insieme la forma assurda dall’attuale proporzionale io avrei considerato ogni proposito inaccettabile.

FUSCHINI. Si incominciò con le Camere regionali di agricoltura.

NITTI. La Regione non può realizzarsi se non nel disordine e nel disfacimento dell’Italia.

DE VITA. Quando non ne parlava nessuno, ne parlava proprio lei. Quando lei parlava della Sicilia, a quale entità si riferiva? Lei sta smentendo quello che ha detto pochi anni or sono.

NITTI. Lei non conosce i miei libri, e Nord e Sud, che suscitò tante discussioni: nel quale, pur riconoscendo e indicando le perdite dell’Italia meridionale, dicevo che solo il regime unitario poteva, tenendo conto di ciò che vi era da correggere, salvare l’Italia e creare una grande Italia. Era l’apologia dell’unione contro ogni idea di divisione. Abbiamo davanti a noi un breve periodo di tempo e questi sono i giorni più difficili. Dobbiamo finire l’esame della Costituzione nel più breve tempo, perché i termini della nostra esistenza sono limitati dal tempo che ci è dato dalla legge, termini che dovremo necessariamente prorogare. Ma dobbiamo anche, se vogliamo prorogare questo termine, agire in modo che la discussione dei grandi problemi possa avvenire pacatamente e seriamente. Finora non abbiamo discusso niente di quel che riguarda la vita dello Stato. Di tutto si è parlato, tranne che della vita dello Stato. Ora vengono tutte le controversie fondamentali che riguardano la vita nazionale. Abbiamo dunque un termine assegnato e dobbiamo trovare seriamente il tempo per lavorare. Vi sono alcuni nostri colleghi che dicono che sia obbligo di onore (non so che c’entri l’onore) di far le elezioni presto; e che i nostri poteri dovrebbero finire il 24 giugno. Perché questi termini sono improrogabili? Possiamo essere in condizione di fare le elezioni prima di esaminare tutti i problemi più essenziali che interessano la vita dello Stato?

All’infuori delle logomachie su ogni genere di argomento, non abbiamo ancora parlato dello Stato, delle sue istituzioni, della nomina e dei poteri del Presidente della Repubblica, della Camera dei deputati e delle sue forme di elezione; del Senato – se esisterà o no – dei suoi poteri e delle sue forme di elezione. E poi quanti altri grandi problemi da esaminare e quante difficoltà da risolvere!

Solo parecchi mesi di vero e serio lavoro (non come quello in cui le Sottocommissioni hanno perduto tanto tempo) ci metteranno in grado di esplicare compito sì enorme.

Noi dobbiamo, dunque, decidere del nostro lavoro nell’interesse dello Stato e della Nazione. Partiti discordi, in questa materia, onestamente non devono esistere.

Per decidere sulle autonomie regionali, io ho proposto che se ne parli nella nuova Camera, senza nulla compromettere per ora.

Sento troppo parlare di esperienze. Si dice: facciamo una esperienza. Le esperienze si fanno sui conigli e sulle cavie. Io so che si deve fare un’azione di Stato solo quando si ha la sicurezza dei risultati. Cosa sarebbe l’esperienza quando parecchie di queste zone, che si contenderanno il malefico nome di Regione, si inabisseranno nel disordine?

Ed allora il dubbio mi assale e ne soffro, perché mi pare che si vaneggi.

Intanto, speriamo che non si pensi ad abolire i prefetti. Il Presidente del Consiglio ed il Governo non hanno bisogno del mio consiglio. Ma io devo dir loro: non state a sentire coloro che suggeriscono di preparar subito quei Consigli regionali, che non agiranno mai forse seriamente. Non pensate che si possa intanto fare a meno dei prefetti. Senza i prefetti nessun ordine: voi non contereste nulla, né voi né noi. Non avremmo né elezioni né ordine. Se i prefetti in questo periodo dovessero scomparire rapidamente, sarebbe un vero disastro. Spero che l’onorevole De Gasperi e il suo Governo manterranno l’ordine come ora, valendosi dei prefetti, cui bisogna dar prestigio, raffermandone l’autorità. Quando si è nella vita e nella lotta, bisogna tenere i piedi su qualche cosa e posarli stabilmente.

Cosa volete fare con le Regioni improvvisate, coi Consigli elettivi e improvvisati, coi funzionari elettivi e ancor più improvvisati, tutti agitati dalle passioni locali? Lasciate i prefetti.

CALOSSO. È dei regimi coloniali. In Inghilterra…

NITTI. Tutto il contrario. Ma troppo mi domandereste chiedendomi di spiegare che cosa è l’organizzazione dell’Inghilterra. Il prefetto in Italia non è una superfetazione né i prefetti sono materia da trascurare o da abolire per sostituirli con meccanismi più o meno fantastici, ideati da persone incompetenti.

I prefetti sono ancora spesso funzionari seri e preparati, se vengono dall’Amministrazione. Poi vi sono stati cattivi prefetti nominati dal fascismo e prefetti non meno cattivi e incapaci nominati dal regime antifascista che è seguito.

Ritornati al regime normale, i prefetti sono garanzia di serietà e di ordine.

Naturalmente i prefetti sono buoni o cattivi e fanno bene o male secondo i Governi da cui dipendono. Un Ministro dell’interno onesto ha risultati diversi nell’opera dei prefetti di un Ministro senza scrupoli.

Io tracciavo una rigida disciplina ai prefetti ed essi, in generale, si comportavano onestamente. Vi furono Ministri che richiedevano ai prefetti che invece si occupassero di elezioni e di intrighi. Ma, in una democrazia seria e decente e dove esistono parlamenti, tutto ciò si corregge. Nelle autonomie regionali, quale è il modo di evitare gli errori e il disordine e anche la disonestà? Non vi possono essere che contrasti in permanenza e nessuna stabilità.

È sempre questione di uomini e cioè di capi in qualunque Regione. L’Italia ha avuto anche grandi prefetti in passato: ne ricordo due di Sardegna, ora che se ne parla tanto –mi duole che non sia presente l’onorevole Lussu – so quale opera sociale essi svolsero in Sardegna. I prefetti rappresentano ancora la stabilità, dove non è nulla.

Aspettiamo, dunque, che vi sia il nuovo ordinamento votato da una Assemblea più calma e non così frettolosa: per ora è meglio non mutare.

II Governo non potrebbe fare nulla se i prefetti venissero a scomparire o si limitassero ad azioni locali, che non avrebbero nessuna efficacia. Io, dunque, devo esprimere tutto il mio desiderio e vorrei dire una frase che mi pare antipatica. Io in questa materia ragiono come il nostro grandissimo Verdi, il quale diceva della musica: torniamo all’antico, sarà un progresso.

Non voglio nessuna forma antica che non sia necessaria, ma non voglio nessuna forma che non si basi sulla realtà e che sia improvvisazione di incompetenti.

Noi ci troviamo di fronte al terribile problema che involge tutta la discussione; siamo vicini alla fine della nostra Assemblea. Quale sarà la durata dell’Assemblea? Normalmente, si dice che dovrà finire il 24 giugno. Non l’ho mai creduto possibile, nessuno ci crede che sia ora possibile. Dunque, una proroga è necessaria. A spaventare coloro i quali parlano di proroga, parecchi mesi fa osai dire la cosa in questa Assemblea ed incorsi nel furore dell’onorevole Nenni, che trovò questa idea abominevole. Ma siccome la logica è più grande dei ragionamenti fatti dalla passione politica, la proroga avverrà perché è inevitabile e necessaria, e anche utile. Ora la questione non è la proroga, ma quale proroga. Noi, al 24 giugno, non avremo finito niente.

Si dice come uno spauracchio, perché non si vuole parlare spesso delle cose più vere, che, se non si fa entro il 24 giugno la chiusura dei lavori della Costituente, il mio affettuoso ed eminente amico De Nicola si rassegnerà dall’ufficio. Io non lo credo, perché l’onorevole De Nicola saprebbe compiere il sacrificio di restare al suo posto.

Noi non possiamo fare le elezioni il 24 giugno. E allora quando dovremo farle? La realtà è superiore alle nostre idee, e alle nostre divergenze. Ora la nostra proroga, che è necessaria, non può essere al minimo che al 31 dicembre, perché così avremo almeno un termine conveniente per riunirci, per rivedere questo abbozzo di Costituzione, per vedere ciò che ancora debbiamo fare, che è assai più di quello che abbiamo fatto. E non pensare a vacanze estive, a vacanze comode. Noi dobbiamo seguire l’invito del Presidente Terracini e lavorare indefessamente.

Una voce. Occorrerebbe un po’ di riposo.

NITTI. Io sono rassegnato anche a non riposarmi, perché per tutta la vita non ho mai riposato. Ora, il nostro dovere è di essere qui e di lavorare. Il pubblico non ci ama, diciamo la verità, il pubblico si è distaccato da noi; dobbiamo dare questo esempio di coraggio, di civismo è di moralità. Dunque, io vi dicevo, per ora niente autonomie regionali e soprattutto realtà, realtà. Io sono angosciato da tante e tante ipotesi assurde di quello che faremo. Sto seguendo, i miei amici della Sicilia me lo consentano, l’esperimento della Sicilia (parliamo di esperimento) con amichevole curiosità. Abbiamo visto a cosa ci porta la proporzionale, a quali conseguenze ci ha portato. Ora non si può governare, e nessun Paese che ha la proporzionale vera, esageratamente come l’Italia, può governare, perché sorgono tante difficoltà nell’ordine positivo. Altro è mettersi dietro un tavolo e scrivere delle disposizioni, altro è seguire gli uomini che sono in lotta fra loro. Ora, qual è la situazione che si è determinata? È assai difficile governare seriamente e noi non governiamo. Ditemi in quale comune d’Italia si può fare un’amministrazione durevole. Forse in qualcuno del Nord appena, dove si può avere una maggioranza di un qualsiasi partito. Ma a Roma siete mai riesciti a fare un’amministrazione municipale? Ora, come Roma vi sono tante altre città, tante altre amministrazioni. In Sicilia si è fatto il parlamento regionale. Ebbene, qual è la conclusione? In questo parlamento quarantasei rappresentanti sono da una parte e quarantaquattro dall’altra. Quale Governo serio, solido e stabile si può fare con quarantasei e quarantaquattro? La composizione dei quarantasei e dei quarantaquattro è naturalmente tale che non crea una unità seria. Il nuovo Stato autonomo siciliano non ha mezzi per funzionare. Esso vorrà almeno in principio, dallo Stato italiano, forse da cinque a sei miliardi.

Credete che la Sicilia non avrà problemi urgenti anche di ordine interno, anche della sua vita politica interna che le sarà difficile risolvere? Non crediate che questi problemi si risolvano con facilità. La Sicilia avrà presto le sue difficoltà e le avranno anche tutti gli altri Paesi che entrano in questo ordine politico di autonomia. Io non vi ho detto di abolire ciò che già esiste, vi ho detto di rinviare tutto alla prossima Assemblea, cioè a una nuova Camera eletta. Questa prossima Assemblea deve pur fare qualche cosa. Vogliamo noi adesso decidere, leggermente impreparati come siamo, su tutti i problemi del presente e dell’avvenire, fra tante confusioni? Vogliamo noi, in queste condizioni di disordine politico, regolare tutta la vita dei nostri successori?

Io vi prego di non preoccuparvi delle nostre contese e di pensare che l’Italia esiste e che noi la dobbiamo lasciare, a quelli che vengono dopo di noi, compromessa il meno che sia possibile.

Viva l’Italia unita! (Vivi applausi Molte congratulazioni).

(La seduta, sospesa alle 18.15, è ripresa alle 18.30).

PRESIDENTE. L’onorevole Zuccarini ha presentato il seguente ordine del giorno:

«L’Assemblea Costituente considera la Regione come elemento essenziale della nuova struttura democratica dello Stato italiano, le cui possibilità di vita e di funzionamento dipenderanno specialmente da una immediata riforma dell’attuale apparato burocratico, ad attuare la quale dovranno essere subito presi i provvedimenti necessari».

Ha facoltà di svolgerlo.

ZUCCARINI. «L’unitarismo assurdo, sotto forma di unità legislativa, è la spoliazione ridotta a sistema, è la volontaria depressione del Sud. Ora, avanzando l’ipotesi economica che il Mezzogiorno si separasse dal resto d’Italia, non si possono che rilevare i vantaggi del distacco, derivanti dall’impulso delle proprie risorse».

Era l’onorevole Nitti che scriveva queste parole.

Una voce. Il Nitti di un tempo.

ZUCCARINI. Già, potremmo dire: «di un tempo», giacché l’onorevole Nitti non è stato mai conseguente con se stesso!

MICHELI. È una malattia costituzionale!

ZUCCARINI. Io appartengo ad una generazione che è cresciuta alla vita politica anche attraverso la lettura dei libri di Francesco Nitti e che lo ha seguito durante tutta la sua azione. Francesco Nitti non è un costruttore, è un demolitore, è un uomo che ama le tesi assolute e le porta sempre fino all’esasperazione. (Commenti). Questa è la verità, che abbiamo potuto sempre constatare. Mi dispiace dovere iniziare il mio discorso con questo accenno personale a Francesco Nitti. Non sospettavo nemmeno di dover parlare ora, dopo il suo lungo discorso. Riferendomi a lui posso dire questo: che in noi, che siamo cresciuti nella vita democratica…

Una voce a sinistra. Può aggiungere repubblicana!

ZUCCARINI. …le aspirazioni e molte delle stesse idee, che oggi manifestiamo, si sono formate e maturate anche attraverso la lettura dei suoi libri. Ci ha però fatto sempre una strana impressione la indifferenza con cui egli trattava, dopo qualche tempo, le tesi che aveva prima sostenuto. Al regionalismo del Mezzogiorno, se di esso dobbiamo trovare un ispiratore, e cioè un punto di partenza, e molti elementi e argomenti per combattere la sua battaglia, li troviamo proprio in Francesco Nitti. «Nord e Sud» fu uno dei suoi primi lavori che più ci colpirono, appunto per la dimostrazione che egli vi dava della sperequazione esistente nella ripartizione delle entrate e delle spese dello Stato, nella diversa distribuzione degli oneri e delle attività dello Stato tra alcune regioni più ricche, che avevano di più di quanto non dessero, ed altre più povere, che davano invece di più e ricevevano di meno. Che le cose siano poi andate diversamente, non lo discuto. Ed è ancora da accertare se siano andate proprio diversamente. Io ne dubito. È certo, ad ogni modo, che il regionalismo, se deve a qualcuno i motivi della sua polemica e del suo sviluppo, li deve anche a Francesco Nitti.

C’è un’altra constatazione da fare: che Nitti ha sempre dimenticato il giorno dopo quello che aveva sostenuto il giorno prima. Lo ha dimenticato perfino nella sua opera di Governo. Ricordo benissimo quando agitò il problema del rimboschimento d’Italia. Era, secondo lui, il problema essenziale. Non ce n’era altro così importante e necessario per la risurrezione economica dell’Italia: boschi, boschi, boschi! Poco tempo dopo, egli diventava Ministro dell’agricoltura. Ebbene, dimenticò completamente tutto quello che sulla materia aveva sostenuto, e non ne fece niente. Ricordo altresì la sua ostilità ai monopoli, e certi suoi scritti in senso decisamente contrario. Ebbene, fu proprio Nitti che, improvvisamente, creò in Italia il monopolio di Stato delle assicurazioni. E non ebbe neanche il coraggio di difenderlo poi a viso aperto. Si limitò a darne la giustificazione in un piccolo libretto, che forse alcuno di voi possiederà ancora, ma che, dal punto di vista tecnico e teorico, lasciava parecchio a desiderare. Ad ogni modo, egli andò al monopolio senza convinzione, sapendo anzi di andare contro le proprie idee.

Questo è l’uomo, l’uomo che, quando l’abbiamo ascoltato poco fa, credo abbia dimostrato – a chi lo abbia seguito con qualche attenzione – quanto sia stato bene per l’Italia che con le sue idee, anzi con le sue non idee, con il suo pessimismo organizzato a sistema, con la sua mania di demolire tutto e tutti, e col suo porsi anche contro la realtà storica, non sia riuscito a formare un Governo. Delle sue effettive capacità politiche abbiamo avuto del resto, in altro periodo, una prova che tutti ricordiamo, quanti abbiamo vissuto la vita politica di quel periodo. Positivamente, non poteva essere Nitti l’uomo che avrebbe realmente salvato l’Italia dal disastro nel quale è precipitata e nel quale tutti viviamo!

Francesco Saverio Nitti ha detto, fra le altre cose straordinarie, che nessuno ha mai parlato fin qui della Regione. Ne avrebbe parlato, per la prima volta, il liberale Brosio; la Regione sarebbe addirittura una invenzione sua. Se ne è parlato invece fin dal 1860.

Una voce al centro. Anche prima.

ZUCCARINI. Vi aveva pensato, ad ogni modo, Cavour, il quale non credeva affatto che le Regioni potessero mettere in pericolo l’unità d’Italia, anzi le vide come un mezzo per cementare l’Italia, per togliere ad una piccola parte degli italiani la nostalgia e le intenzioni di un ritorno ai vecchi sistemi, alle vecchie artificiose costruzioni politiche.

Della Regione se ne è parlato attraverso il progetto Farini, nel primo Parlamento italiano; se ne è parlato quindi attraverso Minghetti; se ne è parlato infine in tutti i momenti importanti della vita politica nazionale, e se ne è parlato, non già perché la Regione potesse essere qualcosa di artificioso, che non esisteva e che nessuno conosceva, ma appunto perché a Regione è nella realtà stessa della vita italiana.

È vero, non è mai stata una unità amministrativa e politica ma, anche oggi, ci riconosciamo più facilmente come siciliani, come napoletani, come emiliani che come italiani. Ci sono affinità che sono non soltanto nel linguaggio, ma soprattutto dovute agli interessi, relative al modo di vedere e di considerare le cose e ad un insieme di situazioni economiche particolari, tanto è vero che anche nelle statistiche ufficiali (e non soltanto dal punto di vista statistico) la Regione venne sempre riconosciuta come una realtà italiana. Se si è adottato, anche attraverso le statistiche, il criterio della Regione, è perché esso rispondeva a una realtà effettiva; e noi infatti studiamo anche oggi i nostri problemi proprio attraverso queste statistiche, che ci presentano l’Italia economicamente e socialmente divisa in un determinato numero di Regioni.

Della Regione si è parlato in tutti i tempi, e non già per creare qualche cosa di artificioso, ma in relazione alla necessità di migliorare, modificandola, la costituzione politica, amministrativa, dello Stato italiano, la quale, se non sembrava fosse la costituzione ideale 60 anni fa, tanto meno sembra – almeno a noi – che possa essere la costituzione da mantenere e da stabilizzare oggi, dopo il fascismo.

Il problema fu sentito anche da Mazzini il quale, dopo il 1860 ed anche prima, si ribellò contro il sistema accentratore piemontese che si voleva imporre, e s’impose infatti, a tutta l’Italia, e ne vide fin da allora tutte le conseguenze. «Non è questa l’Italia che io sognavo» – egli disse – e pensò alla Regione e al Comune; anzi, al Comune prima della Regione.

Si ripresentò poi il problema della Regione ai congressi dei nostri comuni allorché sorse il movimento per l’autonomia del Comune da realizzare, coll’abolizione intanto di quel prefetto che l’onorevole Nitti, così moderno nelle sue idee e proteso verso l’avvenire, vorrebbe conservare anche oggi, nonostante che le dichiarazioni contrarie al suo mantenimento siano venute da tutti i settori della Camera!

Se c’è infatti una necessità, una esigenza sulla quale credo che non si siano manifestate divergenze, in questa Camera, è quella di abolire il prefetto. Bisogna togliere questo strumento del potere politico, che ha dato tutto quello che poteva dare di cattivo nella vita politica italiana, e che continuerà ad essere cattivo, nonostante tutto quanto dice di pensarne ora l’onorevole Nitti. L’onorevole Nitti invece crede essenziale non soltanto di conservarlo, ma anche di aumentarne i poteri.

Il problema della Regione si è ripresentato, ripeto, attraverso l’Associazione per l’autonomia dei comuni, ed è riferendosi ad essa che l’onorevole Tessitori ci ha ricordato il dissenso che su tale problema si manifestò in seno a quell’Associazione tra l’onorevole Sturzo e l’onorevole Bonomi. Il problema della Regione, basato proprio sull’autonomia del Comune, fu agitato infine dai socialisti, e ne parlò anche l’onorevole Caldara, sindaco di Milano, il quale, dopo l’altra guerra, si fece promotore di vari convegni di amministratori socialisti, che conclusero pure essi col reclamare la Regione.

Dopo la guerra chiusasi nel ’18, il problema si era imposto all’attenzione generale: ne parlavano tutti, era nel programma dei gruppi di rinnovamento, ma anche nel programma di molti altri. Anzi, apparve così vivo e presente nell’opinione pubblica che se ne fece assertore e propugnatore il Partito popolare – che era un grande partito anche allora – decisamente favorevole all’istituzione dell’ente Regione. Tutti ricordano i discorsi e gli scritti di Don Sturzo e i programmi del Partito popolare. A propugnare la stessa soluzione c’era il modesto Partito repubblicano, sempre fedele alla soluzione regionalista. Tutta la democrazia, tutti i partiti di avvenire si dichiararono infine favorevoli alla Regione. Tanto l’opinione generale era favorevole che nel 1921, in questa stessa Aula, Giovanni Giolitti disse che era proprio il caso di provvedere alla sua istituzione. Lo disse qui dentro e lo disse appena uscito dal Governo: aggiungendo anche questo, che l’istituzione della Regione non poteva rappresentare nessuna minaccia per l’unità dell’Italia.

Ebbene, io sono convinto che se allora (eravamo nel 1921) non fosse intervenuto il fascismo con le sue rapide vittorie e se, come ne aveva l’intenzione, Giovanni Giolitti fosse ritornato qua dentro a riprendere in mano il potere, egli avrebbe compiuto il miracolo di dare la Regione all’Italia, non solo, ma anche di convertire tutta la Camera.

E perché? Perché l’opinione di Giolitti aveva la virtù di diventare immediatamente l’opinione di una gran parte della Camera. Si verificava allora, per una parte della Camera, quello di cui ci ha dato recentemente l’esempio l’onorevole Togliatti: che cioè una opinione del Capo diventa subito anche l’opinione indiscussa dei suoi seguaci. Io mi auguro che questo miracolo l’onorevole Togliatti, come l’ha fatto per l’articolo 7, lo faccia anche per la Regione. (Si ride).

In ogni modo, il problema della Regione diventò vivo, vivissimo, e fu agitato subito dopo l’avvento del fascismo: allora si capì veramente che cosa poteva rappresentare per la libertà nella vita politica di uno Stato un ordinamento a base regionale. Si vide quello di cui non s’è accorto, nemmeno oggi, l’onorevole Nitti: cosa rappresenti cioè Roma nella vita politica italiana, Roma, la capitale dello Stato, la capitale in cui sono concentrati tutti gli uffici e tutti i poteri e dove bastò che Mussolini arrivasse con le sue camicie nere. C’è stata la marcia su Roma, onorevoli colleghi, non su Palermo o su Napoli o su altre città, nelle quali non avrebbe avuto conseguenze politiche. La marcia su Roma invece, sì, poteva averle e le ebbe, appunto perché, quando c’è l’accentramento statale come c’era e c’è in Italia, è molto facile mettere la mano sulle leve di comando e assoggettare tutto il Paese.

È un vecchio avvertimento della democrazia ed è una vecchia esperienza. Quando in un solo punto stanno concentrati tutti i poteri e tutte le forze è assai facile – e lo avvertì un giorno Cattaneo – a chi riesce a mettere le mani sul potere stabilire la dittatura.

Ed infatti l’antifascismo si orientò istintivamente verso la soluzione regionale; e vi si orientò valutandola sotto l’aspetto di una soluzione di democrazia e di libertà nello Stato. Nessuno fra di noi, che ne facemmo argomento della nostra battaglia, pensò alla Regione di per se stessa, come ad un organismo separato e indipendente dalla vita della Nazione. La vedemmo invece, proprio nel periodo del fascismo, come una soluzione democratica.

E alla Regione non si pensava di arrivare, come si pensa di arrivare oggi, per una concessione dall’alto: si pensava di arrivarci, invece, attraverso le autonomie comunali e con un sistema di collegamento tra comune e comune, che facesse della Regione non già un organismo per sé stante, ma un mezzo, una specie di ponte di passaggio fra le autonomie locali e l’autorità dello Stato.

Quest’idea della Regione, intesa non già come un organismo indipendente e separato da tutti gli altri ma come un organo di collegamento, di trasferimento della sovranità dal basso verso l’alto, fu compresa e accettata da tutti. Io ricordo, avendo stampato un libro in quel tempo, che «Critica Sociale» diede, almeno da parte di qualcuno dei suoi collaboratori, ampio riconoscimento a questa concezione nuova e democratica della struttura dello Stato; e ricordo altresì che quelle mie tesi furono apertamente sostenute anche da un altro giornale socialista che era allora diretto, oltre che dal Rosselli, dall’onorevole Nenni, «Il Quarto Stato», e molto esplicitamente.

Anche dopo, durante il fuoruscitismo, il programma di agitazione e di lotta che s’intendeva svolgere contro il fascismo e contro la dittatura fu impostato da tutti i partiti – dico da tutti i partiti – sul terreno delle autonomie. Dirò di più: spaventatevi pure, fu impostato sul terreno del federalismo. Persino dai comunisti, come ha ricordato del resto l’onorevole Lussu!

Sul regionalismo, inteso come problema di sovranità che si diffonde dal basso verso l’alto, si manifestarono concordi pure altri uomini politici di varia provenienza: potrei citare il Gobetti, che aderì completamente alle nostre idee; potrei ricordarvi Guido Dorso, rievocato e celebrato anche oggi, che, sulla base della esigenza autonomista e anticentralista, impostò quella che egli chiamò la rivoluzione meridionale.

Il problema fu ripreso e agitato, durante la liberazione d’Italia. Anche allora tutti i partiti si pronunziarono a favore della Regione. Così il partito liberale – mi riferisco all’organizzazione liberale del periodo clandestino – fu decisamente per l’ordinamento regionale. I socialisti, anche più tardi e persino nel loro manifesto per le elezioni del 2 giugno, hanno affermato e sostenuto la loro adesione al sistema delle Regioni. Tutti insomma furono fautori della Regione.

TONELLO. Il Partito socialista ha sostenuto il decentramento amministrativo, le autonomie locali; non la Regione.

ZUCCARINI. La Regione era nel suo programma elettorale.

Avvenute le elezioni, io credetti di potermi fare promotore qui dentro di una unione di deputati per le autonomie locali e per la Regione. Ricordo quanto numerosi fossero subito gli aderenti, e con quale entusiasmo arrivarono le adesioni, anche da partiti molto diversi. Fra gli aderenti ricordo l’onorevole Oro Nobili, il quale ebbe forse allora una concezione sbagliata della Regione. Un progetto di Regione ternana, per la monopolizzazione a favore di quella ristretta zona dell’energia elettrica, credo sia uscito proprio dalla mente dell’onorevole Tito Oro Nobili. (Applausi al centro). Almeno così mi riferirono. (Commenti).

NOBILI TITO ORO. Sapete bene che fu il sindaco di Terni; non lo nascondete, lo sapete benissimo!

ZUCCARINI. Non lo so, ma ricordo che fu giustificata la sua assenza dal convegno dei sindaci dell’Umbria per il fatto appunto che l’onorevole Oro Nobili aveva un’altra idea: quella di fare dell’Umbria un’altra Regione più ristretta e più rispondente a certi suoi orientamenti particolari: la Regione ternana.

Ma, lasciamo andare. Ripeto che le adesioni vennero dalle parti più diverse. Sono rimasto perciò sorpreso nel vedere l’onorevole Abozzi, allora fervido regionalista – almeno secondo le dichiarazioni che ebbe a fare a me – farsi proprio lui promotore addirittura della proposta di soppressione del Titolo. Egli ha partecipato infatti a diverse nostre riunioni, e vi ha partecipato non già quando si parlava anche dell’autonomia dei comuni, ma anche quando si parlava esplicitamente della Regione.

CHIEFFI. La propaganda in Sardegna l’ha fatta tutta sull’autonomia!

ZUCCARINI. Mi ricordo anche di altri aderenti del Gruppo qualunquista. L’onorevole Colitto si era sempre dichiarato favorevole alla Regione. È stata quindi una sorpresa per me sentirlo parlare qui, giorni addietro, contro la Regione; forse perché ha pensato che, dal momento che l’idea di costituire una Regione del Molise si presentava difficile, tanto valeva conservare la provincia! Ma la sua adesione alla Regione egli l’ha data, dimostrandosi, almeno nelle nostre riunioni, fervido sostenitore della proposta. E, infine, nella nostra Commissione dei settantacinque (Interruzione dell’onorevole Micheli) – permettetemi questa divagazione – siamo stati tutti favorevoli alla Regione! Con una sola eccezione: quella dell’onorevole Nobile. Il quale, però, rimase solo, perché, dalla parte comunista alla parte più moderata, tutti hanno concordato in quell’ordine del giorno dell’onorevole Piccioni, dopo del quale la questione doveva quindi essere considerata come cosa ormai decisa.

Perché allora oggi questo cambiamento di scena? Perché oggi della Regione non si vuole più parlare, da una parte almeno di questa Camera?

Perché? Era la domanda che io mi proponevo di fare qui a questa Assemblea, dove non mi aspettavo affatto, in questo mio intervento, di dover ripetere i motivi per i quali io sono regionalista, e tanti altri lo sono con me. Gli argomenti infatti sono stati qua dentro, nei giorni passati, sviluppati così abbondantemente, ed anche così eloquentemente, che se una cosa sorprende è che l’onorevole Nitti non ne abbia avuto notizia, tanto non ne ha tenuto conto affatto. Più o meno tutti i motivi fondamentali della riforma che si vuole attuare furono detti qui dentro.

Ecco perché non mi sembrava e non mi sembra necessario insistere su di un argomento che tuttavia mi ha appassionato per tanti anni. Non mi sembra anche per non ripetere cose dette bene e abbondantemente da altri. Mi propongo invece di porre qua dentro un quesito politico. Voglio domandare, facendo appello alla loro sensibilità e alla loro coscienza politica, a coloro che in questa Assemblea se ne son fatti iniziatori, se essi sentano la gravità delle proposte che stanno facendo.

Qui non dobbiamo elaborare un progetto. Siamo invece di fronte ad un progetto già fatto, elaborato in tutti i suoi particolari ed elaborato con la partecipazione di tutti i Gruppi di questa Camera. È un progetto che dovrebbe trovare per questo, almeno nelle sue linee essenziali, il consenso unanime dell’Assemblea. Non si capisce altrimenti perché sia stato fatto un progetto solo. Se ne potevano fare benissimo due o magari tre!

La Regione è entrata in questo progetto come una soluzione democratica del problema dello Stato. Io posso anche ammettere che tale soluzione possa essere discutibile.

Posso riconoscere che non sia proprio (voglio arrivare anche a questo) la soluzione ideale. Però è una soluzione! Avrei capito che a tale soluzione se ne fosse allora contrapposta un’altra, che ad un sistema si fosse contrapposto un altro sistema. Avevate un progetto migliore? Avevate delle soluzioni più rispondenti allo scopo? Dovevate portarle qui, anzi avreste dovuto portarle, ma dovevate portarle prima. Ma ora, così, proponendovi di togliere tutta una parte di questa Costituzione e la più importante, vi siete almeno domandati che cosa rischiate di fare? La Regione è uno dei pilastri della Costituzione, così come essa è stata preparata. Togliete quel pilastro e la Costituzione precipita. La Costituzione diventa un’altra cosa, cessa di essere democratica, vi impone tutto un altro lavoro, tutta un’altra elaborazione, vi pone di fronte ad altri problemi.

Una voce a sinistra. Esagerato!

ZUCCARINI È utile questo? È opportuno? Volete dare al Paese ancora questa impressione di disorientamento che nuoce più ancora che non nuoccia l’incapacità del Governo a provvedere a certe esigenze? È quanto io vi domando. Ed è appunto la questione che mi permetto di sottoporre all’Assemblea. E voglio pure spiegare a me stesso, ma domandandolo a voi, come mai sia avvenuto che durante questo periodo molte opinioni si sono cambiate, e molti dubbi ora si presentono, che prima non esistevano affatto, e molte preoccupazioni sono sorte. Perché? Che cosa è mutato? Che cosa è che non soddisfa più? E non posso non farmi la domanda se non vi siano, per caso, altri motivi e ragioni più fondate che spieghino tutto il fenomeno, che altrimenti resterebbe incomprensibile.

Se il fascismo fosse caduto per una rivoluzione, per una insurrezione cioè, anziché per il risultato di una guerra perduta, noi non staremmo certo a discutere di queste cose. Saremmo già sul terreno delle attuazioni.

Abbiamo invece atteso ad arrivarvi e abbiamo dimenticato e dimentichiamo – e credo che facciamo male – che usciamo dal fascismo e che il fascismo ci ha posto inequivocabilmente il problema della organizzazione dello Stato, e che la organizzazione dello Stato è sempre, adesso mentre ne discutiamo, quella che abbiamo trovato. E non è solo quella organizzazione centralistica e parassitaria di venti anni addietro che ha reso possibile il fascismo e che ci sembrava già allora insopportabile; è quella invece che il fascismo nei suoi venti anni ha sviluppato con tutti i suoi organi, con tutte le sue organizzazioni, con tutte le sue conseguenze.

Volete mantenerla in piedi? Volete lasciar lo Stato così com’è? Credete che in questo Stato la democrazia possa comunque esercitarsi? Oppure non si presenta anche a voi, come si presenta, e non soltanto in Italia, ma in Europa, nel mondo, un problema nuovo, che del resto venne sempre sentito, ma che non si era presentato mai nelle condizioni attuali e nella gravità attuale, il problema cioè dello Stato egocentrico e monolitico, di troppe funzioni, dello Stato burocratico, dello Stato senza organi rappresentativi capaci di funzionare e soprattutto senza alcuna aderenza alla realtà e ai bisogni della popolazione? Ma non vi accorgete che, attraverso la disfunzione dello Stato, c’è la incapacità degli attuali organismi burocratici e amministrativi, come il fascismo li ha sviluppati, a funzionare efficacemente? E non vi accorgete che abbiamo una organizzazione, anzi uno Stato, che è una prigione per tutti; per cui, se non provvederemo ad una sua diversa organizzazione interna, se non andremo verso una profonda trasformazione non solamente dell’organismo dello Stato, ma anche dei compiti e delle funzioni stesse dello Stato, verso una diversa distribuzione cioè degli organi rappresentativi, verso una più larga ed effettiva partecipazione dei cittadini alla vita pubblica per la difesa dei propri interessi, noi non risolveremo il problema della democrazia?

Il problema, ho detto, non è particolare in Italia. È un problema che si impone ora in tutta Europa. Non vi accorgete infatti che abbiamo vinto, sì, teoricamente, il fascismo, ma che di fatto l’imperialismo, e le tendenze dittatoriali, anzi le forze dittatoriali e gli organismi dittatoriali sono sempre dominanti in tutto il mondo? E se ciò è, voi vedete anche che il problema che si pone all’Italia, della democrazia nello Stato, è lo stesso problema che si pone o si porrà in tutti i paesi del mondo e che, presto o tardi, dovrà essere risolto. Ed è necessario che sia risolto. Perché se non sarà risolto, noi ritorneremo fatalmente, con gli organismi che abbiamo, verso nuove e forse peggiori dittature!

Oggi sono le dittature dei partiti in funzione che si neutralizzano a vicenda, mentre nel nostro organismo statale, in questo sistema di rapporti fra i cittadini e lo Stato, sono in potenza, e molto più forti di ieri, le possibilità dittatoriali. Verrà il momento in cui queste forze spiritualmente dittatoriali e destinate, per la organizzazione stessa dello Stato, a funzionare internamente dittatorialmente, verrà il momento, dico, in cui non riusciranno a neutralizzarsi più (è nel fatto che oggi si neutralizzino che noi possiamo illuderci di avere la democrazia in funzione!), e allora avverrà quello che è avvenuto in altri Stati, quello che abbiamo visto in Germania e altrove, e cioè che uno di questi tre o quattro o sei o dieci partiti che oggi agiscono sulla scena politica finirà col prevalere sugli altri ed in quel momento li seppellirà tutti e si impadronirà della direzione dello Stato (Applausi).

Ed allora, di fronte a questa possibilità, dobbiamo noi, proprio noi che abbiamo il compito di costruire il nuovo organismo dello Stato, lasciare in piedi una organizzazione la quale fatalmente ci porterà verso la dittatura, anzi verso una dittatura peggiore? Questi sentimenti, queste agitazioni autonomiste di cui ora vi spaventate come di forme di disgregazione dello Stato, come forme di ribellione allo Stato, non vi sembra invece che siano il risultato positivo di quell’opera disgregativa dell’unità del sentimento nazionale, fatta proprio da quello stato centralista, anzi fascista, che voi vi ostinate a voler tenere in piedi? Non vi siete dunque accorti che, dopo tre o quattro anni dalla liberazione, tutto è rimasto in piedi come prima, e, se non provvederemo ad una diversa organizzazione della vita dello Stato, non faremo la democrazia, ma non andremo nemmeno più avanti? Interrogate la vostra coscienza, onorevoli colleghi, pensate a quello che è il fenomeno di ogni giorno, a quello che avviene nella vita del nostro popolo, a questo distacco evidente e progressivo fra l’animo e la volontà del Paese e coloro che lo governano.

La indifferenza dei cittadini, sempre più manifesta per l’opera di questo Parlamento e per l’opera dello Stato, non vi dice dunque nulla? Cresce il malcontento; e cresce con esso il sentimento, anzi il desiderio di autonomia. Ne avete la dimostrazione nella tendenza stessa dei nostri comuni a riacquistare la loro autonomia, e della popolazione a crearne di nuovi ancora più piccoli. Non vi sembra anche ciò una manifestazione evidente di questo bisogno che è nel popolo, e nelle campagne, e cioè nell’Italia rurale che è la vera Italia, di liberarsi dall’oppressione dello Stato, di essere più liberi e soprattutto di imprimere la propria volontà nella vita pubblica per la tutela dei propri interessi? Signori, qui è il problema della democrazia nello Stato, la quale non si è mai positivamente ed effettivamente realizzata. È nostro compito realizzarla. Infatti, se andiamo a vedere, tutti gli Stati, così come sono oggi organizzati, riproducono esattamente l’organizzazione dei vecchi Stati autoritari, per grazia divina. Domandatevi perché la rivoluzione francese sia finita così rapidamente in una dittatura, anzi in una serie di dittature. La risposta è che la rivoluzione ebbe questo torto: di proclamare i diritti dell’uomo, ma di mantenere in piedi, dei vecchi organismi, il sistema amministrativo; e il vecchio sistema naturalmente, dopo pochi anni, diede Napoleone e le altre dittature. È il sistema stesso che vige anche oggi in Francia, nonostante la Repubblica. È il centralismo e cioè il potere che viene dall’alto e che vuole governare dall’alto tutte le cose. Finché rimarremo su questo piano, finché vorrete fare dal centro il Governo di tutte le cose, voi non realizzerete la democrazia ma preparerete il terreno a nuove dittature. Il problema è in Italia più grave che altrove. E lo è perché usciamo dal fascismo. E proprio il fatto che il fascismo ha rappresentato per noi una grande esperienza ci dovrebbe rendere più sensibili ai problemi dell’organizzazione dello Stato.

Domandiamoci adesso che cosa dovrebbe essere la Regione nella organizzazione dello Stato.

Ho sempre pensato – e credo che lo pensino tutti, anche se il progetto di Costituzione non ha risolto la questione nel modo migliore – che la democrazia dello Stato possa realizzarsi solamente così: con una larga autonomia ai comuni, con comuni collegati quindi fra di loro in circoscrizioni relativamente più grandi, per passare all’ente Regione e da questo allo Stato.

Non si tratta dunque solamente di un problema di decentramento e di snellimento, si tratta di articolare meglio le membra dello Stato. Ed è problema di democrazia.

Si tratta in sostanza di attuare un sistema di democrazia, che non è federalismo, come viene comunemente ed arbitrariamente inteso il federalismo. È un diverso sistema di organizzare la sovranità dei cittadini, anzi il solo modo possibile di organizzarla e che può riuscire efficace ed interessare le popolazioni alla loro vita. In questo modo io ho visto la soluzione regionale.

Il progetto dell’amico Ambrosini risponde fino ad un certo punto a questo modo di vedere. E vi risponde solo fino ad un certo punto perché è stato un progetto di conciliazione.

Il collega Ambrosini, se di una cosa si è preoccupato, fu di ottenere nell’elaborazione del suo progetto l’unanimità dei consensi. Ed è per questo – devo dirlo chiaramente – che questo progetto ha offerto il fianco proprio a quelle critiche, a quelle obiezioni, che gli sono state comunemente rivolte coll’intento di buttarlo in aria. In ciò è il vero difetto del progetto: di avere fatto troppe concessioni al centralismo e ai motivi meno giustificati e seri degli antiregionalisti.

Mi limiterò a poche osservazioni.

L’onorevole Ambrosini ha usato, ad esempio, alcune espressioni non troppo felici; ha parlato tra l’altro di una legislazione «concorrente».

AMBROSINI. Non sono stato io.

ZUCCARINI. È vero. L’ha introdotta la Sottocommissione. «Concorrente» vuol significare in effetti, nel senso che fu adoperato nel progetto, che coopera al perfezionamento della legge. L’espressione è stata presa invece nel senso più deteriore. E si è voluto interpretarla nel senso di legislazione in… gara con quella dello Stato!

Si pensava poi, originariamente, di dare alla Regione un tipo solo di facoltà legislativa. Si sono inventati invece tre tipi di facoltà legislativa ed una potestà regolamentare. La potestà legislativa vera e propria è stata però ridotta ad una irrisione. L’onorevole Einaudi ha detto quanto effimera, ridicola nella sua realtà effettiva sia questa potestà legislativa riconosciuta alla Regione. Si tratta in sostanza di facoltà che vennero sempre riconosciute senza contestazione ai Comuni ed agli enti più piccoli! E valeva allora la pena di usare la espressione di legislazione primaria o esclusiva e di creare 3-4 facoltà legislative? In fatto lo scopo per cui furono adottate fu di limitare, di ridurre al minimo l’autonomia della Regione, fu uno scopo limitativo cioè e non già estensivo come si pensa e si sostiene da chi bada alle parole e non alla sostanza, che è, invece, quella che conta.

Per enti non destinati a vivere separati, ma a collaborare intimamente alla vita dello Stato, io pensavo che bastasse una legislazione sola, la quale devolvesse alla Regione tutto ciò che lo Stato non credesse di rivendicare a se stesso.

Questo per quanto si riferisce alla delimitazione dei compiti e delle funzioni dello Stato. Lo Stato stabilisce lui cioè quello che in campo nazionale vuol fare e lascia tutto il resto alle Regioni, alle Provincie, se vogliamo parlare delle Provincie, od altri organi circondariali, che pure io ritengo necessari, indispensabili. A questi spetterà di stabilire poi il modo in cui dovrà svolgersi la loro azione nel campo della loro particolare attività.

Si è parlato, inoltre (altro difetto del progetto), insistendovi molto, della possibilità di conflitti tra Stato e Regione, come della unità e indivisibilità dello Stato per rispondere in tal modo alle preoccupazioni che venivano da varie parti. Ora, proprio perché si è parlato di provvedimenti da prendere nel caso che le Regioni si mettessero in conflitto, per la possibilità di un conflitto ammessa implicitamente nel progetto regionale, invece di togliere i sospetti, invece di sgomberare il terreno dalla preoccupazione che la Regione possa rappresentare un elemento di disgregazione dello Stato, il progetto ha finito col valorizzare quelle critiche e quelle preoccupazioni. Dal momento che si ammette tale possibilità, e ce se ne preoccupa, si ha ragione di pensare e di ritenere che il pericolo effettivamente esista e sia serio. In tal modo il progetto giustifica e accredita le preoccupazioni e le critiche che sono state fatte alla istituzione dell’ente Regione.

C’è un altro difetto, un altro punto, sul quale ci sarebbe parecchio a discutere. Si è creduto di dover mettere, accanto al Presidente della Regione, un Commissario del Governo. Che cosa può essere questo Commissario? Che cosa vuol dire la sua presenza negli affari della Regione? È una garanzia per lo Stato o non è un pericolo per l’autonomia? Non si è intanto legittimato con ciò il sospetto che possa crearsi nella Regione un altro centralismo, un’altra burocrazia accanto alla burocrazia centrale? E non era preferibile, anzi consigliabile, evitare tale possibilità? La Regione, dal momento che entra nell’organismo dello Stato come organo dello Stato e di ripartizione delle funzioni dello Stato, assolve, deve poter assolvere, anche tutte le funzioni dello Stato. Si eviterebbe così il pericolo di una burocrazia che si aggiunga all’altra burocrazia.

Devo rinunziare a molte altre osservazioni che pure mi ero proposto. Purtroppo l’intervento dell’onorevole Nitti mi rende ora impossibile, per il tempo che dovrei occupare, quell’ordinato svolgimento del discorso che mi proponevo di pronunziare. Andrò quindi d’ora in avanti molto sinteticamente.

È stato, nel progetto, dimenticato il Comune. Il Comune non vi ha avuto quella trattazione particolareggiata che gli doveva essere data. Ed è stato un altro motivo di critica che poteva essere evitato. Sono stato il solo che, col mio progetto, abbia sostenuto la necessità di dare al Comune determinate garanzie di autonomia. Il Comune doveva, secondo me, avere nella Costituzione una considerazione speciale. Si è avuto il torto di non dargliela.

Non si è poi parlato della Provincia in modo sufficientemente preciso. La Provincia è, si è detto qua dentro, un consorzio di Comuni. Effettivamente non lo è. La Provincia, così come fu costituita ed è rimasta, non rappresenta nulla. È un organismo arbitrario, determinato dalla volontà del potere esecutivo che l’ha creata come ha voluto. Attraverso il tempo, naturalmente, nel capoluogo di Provincia si sono venuti a stabilire determinati interessi; quindi, in un certo senso, la Provincia è diventata un organo quasi naturale di collegamento; è però sempre un organo artificioso, la cui costruzione, essendo venuta dall’alto, risponde anche oggi, in molte parti, a tale criterio arbitrario, senza tener conto delle esigenze e delle preferenze dei comuni che vi appartengono.

Ora che si tratta di fare la Regione, si reclama anche il mantenimento della Provincia. E per la Provincia ci si è mossi da diverse parti. Ed allora dico: conserviamo pure il nome, perché la sostanza non c’è stata, e diamo pure alle Provincie quell’autonomia che chiedono. Anzi direi di più: se fosse possibile, se servisse a rendere più facile l’organizzazione della Regione, facciamo pure della Regione una federazione di Provincie. Diamo però alle Provincie anche la facoltà di delimitarsi come vogliono. Quello che è artificioso nella Provincia di oggi è infatti che molti comuni sono incorporati a Provincie a cui non hanno interesse né desiderio di appartenere. Le Provincie poi che sono una costruzione del tutto artificiosa, e il fascismo molte ne creò per motivi puramente politici e con criteri politici, bisogna abolirle.

Passo subito alle altre cose essenziali e che più mi premeva di prospettare. Debbo farlo di volo.

La Regione, pure così incompleta, nonostante tutte le critiche, anzi approfittando di tutte le critiche che sono state fatte, può essere tuttavia perfezionata, migliorata in ciò che nel progetto ha di difettoso, e potrà rappresentare un elemento rinnovatore nella vita politica italiana.

La creazione della Regione porrà, intanto, sul tappeto, ed imporrà, una immediata risoluzione del problema della burocrazia in Italia, problema che non si è mai risolto, che non si è mai potuto risolvere. Non serviranno a risolverlo ora gli studi, le commissioni, i progetti, tutte le iniziative e le buone intenzioni che volete; solamente la costituzione della Regione può imporre la riforma burocratica. Non se ne potrà fare a meno. Solo in vista di tale risultato, che altrimenti non si otterrebbe, io dico che dovremmo votare per la creazione della Regione. Dobbiamo esigere, che con la creazione della Regione, si attui immediatamente la trasformazione del sistema burocratico dello Stato. Si tratta, badate bene, del problema più imponente e più grave della nostra vita politica, e che si presenta sotto una infinità di aspetti. Dirò che è il problema stesso dello Stato. Per valutarne l’importanza basta tener conto solo del numero degli impiegati dello Stato che oggi costituiscono la burocrazia. Tra i molti e gravi, esso è il più urgente problema che si sia posto fra quelli della nostra vita politica.

C’è un altro problema che solo la Regione può risolvere: quello della funzionalità del Parlamento nazionale. Ma francamente crede l’Assemblea parlamentare, con l’esperienza che ne ha fatto in questo periodo, di essere in condizioni di affrontare e risolvere convenientemente tutti i problemi della vita dello Stato? Crede veramente, prendendo nota di tutte le leggi che vengono sfornate giorno per giorno e di cui ci dà notizia la Gazzetta Ufficiale, di poter assolvere alla sua funzione legislativa? O pensa invece, appunto per lo svilupparsi dei compiti dello Stato, appunto perché lo Stato si occupa oggi di troppe cose, di troppe minuzie, che non sia indispensabile ridurre la sua funzione legislativa a pochi compiti essenziali, di carattere veramente nazionale, demandando tutti gli altri compiti più minuti alle Assemblee delle Regioni, le quali su certe materie, oserei dire in tutte le materie, potranno con maggior competenza, con maggiore interessamento, con maggiore capacità risolvere ed affrontare i problemi che direttamente ci riguardano e che sono i quattro quinti almeno di tutta la legislazione?

Non si tratta con ciò, badate, di distruggere l’unità della legge, non significa creare nuovi particolarismi, non significa nemmeno impedire che certe grandi riforme si applichino in un terreno più vasto della Regione. Nulla impedisce che alcune Regioni si uniscano per affrontare insieme certi problemi, che ugualmente le interessino. Opere di bonifica, di distribuzione idrica, di irrigazione, di comunicazioni possono interessare più Regioni finitime, che per esse possono benissimo intendersi e collegarsi.

È molto diverso che certi problemi vengano risolti a Roma, o che invece siano risolti nel luogo dove sono sentiti!

Altri benefici possono derivare dall’istituzione della Regione: benefici politici che oggi devono essere tenuti in particolare considerazione, e oggi per oggi, non fra due, tre, o quattro anni! Sappiamo, infatti, come vanno a finire le riforme che non si attuano subito. Non si fanno più. Noi abbiamo invece urgente bisogno di uscire dalla presente situazione.

Tra i vantaggi che la soluzione della Regione offre, uno poi ce n’è che è fondamentale. L’ho sentito indicare da un deputato qualunquista in una delle nostre riunioni, ed esso solo basterebbe, secondo me, a stabilire la convenienza immediata della istituzione della Regione. Esso consiste nel solo fatto che una pratica, per essere sbrigata, non richiederebbe un tempo maggiore del viaggio da una località della Regione al capoluogo della Regione stessa. E sarà economia di spese, perché chiunque partecipa alla vita amministrativa e burocratica dello Stato sa quanto sia costosa, in tempo perduto e in spesa effettiva, la trafila, lunghissima, estenuante che debbono fare oggi tutte le pratiche. Un altro vantaggio altresì: possibilità di seguire e trattare più da vicino i propri interessi.

Altro beneficio: assemblee più competenti, e trattazioni e decisioni più aderenti alla realtà.

Un altro beneficio ancora: moralizzazione della nostra vita politica, la quale se è corrotta lo è soprattutto per un fenomeno che è proprio in dipendenza dal centralismo, e dallo sviluppo che hanno avuto tutte le attività dello Stato: la scomparsa intanto del fenomeno dell’impiegatomanìa, che ha portato i soli impiegati dello Stato a 1.100.000 individui, e che continuerà a svilupparsi ancora. Si sottraggono così energie alle nostre attività produttive e alla nostra vita.

Se mi fosse ancora possibile e se i limiti di tempo non fossero già per me superati, vorrei infine parlare della Regione in relazione ai problemi del Mezzogiorno e di tutto ciò che l’introduzione dell’ente regionale può rappresentare per essi.

Vengo infine all’ultimo motivo, il più importante, fondamentale anzi, per il quale, se pure tutti gli altri non esistessero, dovremmo egualmente arrivare all’accettazione della soluzione regionale. Abbiamo dato le autonomie ad alcune Regioni e zone d’Italia, e le abbiamo solennemente riconosciute. Queste autonomie debbono restare, debbono restare se la nostra parola, e l’impegno preso dal Governo, preso dall’Assemblea, preso da tutti i partiti, hanno qualche valore. Cosa vorreste ora fare, sopprimendo la Regione per tutto il resto d’Italia? Fare due Italie: una autonomista, ed una unitaria governata dal centralismo? Due diverse Italiette? Non vi accorgete che i veri separatisti sono proprio coloro che, mentre accettano le autonomie per alcune zone di Italia, vorrebbero rifiutarle a tutte le altre? Credete forse che le Regioni che hanno avuto l’autonomia, e che dovrebbero vederla coordinata con l’ordinamento delle altre Regioni d’Italia – e che dovranno vederla consacrata nella Costituzione – credete che il giorno in cui avrete rimandato alle calende greche il problema per tutte le altre Regioni d’Italia, ciò che vuol dire non risolverlo più, si riterranno sicure di godere una stabile situazione autonoma e di quanto avete loro concesso? Non lo potete pensare. Quelle Regioni avranno ogni ragione di temere e di sospettare che le promesse fatte non saranno mantenute, che possa avvenire per esse quanto è avvenuto per le terre conquistate o riconquistate all’Italia dopo la guerra del ’18, che ebbero, sì, promessa di autonomia o del mantenimento delle autonomie amministrative di cui godevano già, ma le godettero solo fino al giorno in cui venne il fascismo. Il fascismo venne e le soppresse tutte!

Non mettiamoci, per carità di Patria, in questa situazione di sospetto; non creiamo, proprio con la buona intenzione di non spezzare l’unità di spirito e di volontà degli italiani, nuovi elementi di diffidenza e di agitazione. Né crediate che questa volontà di liberarsi dall’oppressione, dai legami dello Stato, sia limitata a poche zone e sia così trascurabile fatto come voi pensate. No. Per ora si tratta delle Regioni più lontane che, appunto perché lontane dalla capitale, maggiore hanno sentito il distacco fra i loro interessi ed il Governo di Roma. Però il distacco esiste ed è sentito, più o meno compiutamente, più o meno evidentemente, in molte altre Regioni d’Italia. Direi in tutte.

Il fatto che, dal momento che la Regione fu ritenuta di prossima attuazione, vi siano richieste per la istituzione di sempre nuove Regioni, il fatto che tutti si muovano e si commuovano per essa, magari per deprecarla, vi dice che la Regione è sentita. Più o meno intensamente, ora, giorno per giorno, sarà sentita di più, e tanto più sarà richiesta se voi annullerete anche questa prima promessa di autonomia e di libertà che avete annunciato nella Costituzione dello Stato. Badate, quindi, o Costituenti, ai pericoli di una vostra azione. Pensate se, con la vostra intenzione di rimandare tutto, voi non creerete in Italia un altro motivo di malcontento e di agitazione. Il problema è sentito, ripeto, ed è sentito non solo come problema della Regione, ma in quanto tutti gli italiani sono stanchi dell’oppressione dello Stato. Tutti oggi si sentono vincolati e legati, troppo! Tutti avvertono che non è più possibile andare avanti così, e che lo Stato opprime invece di garantire la libertà. Badate, dunque, se con la vostra intenzione di rimandare tutto non darete alimento e ragion d’essere ad una più vasta, più potente, e, lasciatemelo dire, ad una più violenta reazione.

Il problema dell’autonomia non può finire così. O voi date ad esso una soluzione o altrimenti voi avrete l’agitazione autonomista in tutta l’Italia. Non sarà più l’agitazione per le Regioni. Sarà l’agitazione contro lo Stato, la lotta contro lo Stato. Non crediate, dunque, di aver superato il problema. Questa lotta contro lo Stato si manifesterà, si accentuerà, s’inasprirà, ed allora noi, che abbiamo voluto veramente contribuire con questo progetto della Regione a creare in Italia un ambiente nuovo di vita e di tranquillità portando il cittadino all’assolvimento delle sue funzioni e all’esercizio dei suoi diritti, noi pure ci schiereremo contro lo Stato, in questa nuova lotta per la libertà. La lotta può finire qui: ma di qui può anche incominciare. E allora si potranno veramente temere per l’Italia giorni peggiori di quanto oggi non si possa nemmeno sospettare.

Ho assolto più o meno bene, e più male che bene, il compito che mi ero proposto. Volevo soprattutto richiamare la vostra attenzione sull’importanza delle decisioni che state per prendere. Non seppellite, vi prego, quello che è stato il risultato del lavoro della vostra Commissione. Perfezionatelo, miglioratelo e date all’Italia la sicurezza di uscire dall’attuale situazione e di creare a se stessa un ambiente di libertà e di democrazia, un ambiente in cui non siano più possibili, in avvenire, né le dittature né i governi dispotici dall’alto. Questo è il mio augurio, questa è la speranza con cui noi tutti partecipiamo ai lavori di questi giorni e per la quale vogliamo sentirci riconfortati in questo grande amore che abbiamo per il nostro Paese, l’Italia! (Vivi applausi Molte congratulazioni).

PRESIDENTE. Ha facoltà di parlare l’onorevole Piccioni per svolgere il seguente ordine del giorno:

«L’Assemblea Costituente riconosce, per il rinnovamento democratico e sociale della Nazione, la necessità di far luogo alla creazione – sancita dalla Costituzione – dell’ente Regione, come ente autarchico, autonomo, rappresentativo degli interessi locali su basi elettive ed anche dotato di autonomia finanziaria».

PICCIONI. Onorevoli colleghi, debbo premettere che, al punto al quale è arrivata la discussione, dopo numerosi e abbondanti interventi di colleghi di varie parti dell’Assemblea, si sente un certo imbarazzo per inserirsi nel vivo della discussione; perché la fluttuazione incessante delle tesi e delle controtesi è stata veramente assai notevole ed in qualche momento sconcertante.

Io vorrei richiamare soprattutto i punti più semplici e fondamentali della impostazione del problema regionale.

Vorrei ricordare, se l’Assemblea me lo consentirà senza vedere in questo nessuna punta di irriverenza, come la Commissione dei 75 (questa Commissione un po’ troppo forse bistrattata nelle critiche e nelle esegesi che sono state fatte abbondantemente dei suoi lavori) per volontà unanime di tutti si è trovata, all’inizio dei propri lavori, a porre come pregiudiziale, come essenziale, l’esame della questione delle autonomie. Erano rappresentati tutti i partiti, se non erro, attraverso lo scrupolo del Presidente che aveva dato vita alla Commissione; eppure si sentì, prima di qualsiasi altra necessità, quella di rivolgere la propria attenzione, per trovare una soluzione o positiva o negativa, al problema delle autonomie.

L’onorevole Nitti, questa sera, con quel suo tono tra l’umoristico ed il corrosivo che nasconde certamente il proposito di cose serie e profonde – e questo lo dico con la più assoluta e personale convinzione di riguardo e di riverenza verso l’insigne uomo di Stato – l’onorevole Nitti questa se a si è stupito del perché e del come, a un certo momento, si sia posto il problema delle autonomie e il problema – soprattutto – dell’autonomia regionale. Ha dato l’impressione, con quell’aria volutamente trasognata, di venire, non so, da un altro mondo, diverso da questo, e si stupiva di trovare delle novità così originali, così inusitate, così imprevedute come la questione regionale.

Ora, non era proprio il caso di rivolgersi soltanto al mio partito, non soltanto al partito dei repubblicani storici; io devo ricordare, anche per non prendere noi tutto il merito o il demerito di questa iniziativa e per ripartire equamente il merito o il demerito, che tutti i partiti, dico tutti, dalla liberazione in poi hanno fatto, chi più profondamente, chi più estesamente e chi meno, professione di regionalismo.

Io ho qui una pubblicazione, direi ufficiale, che è quella del Ministero della Costituente che era diretto a quel tempo da un non sospetto di eccessivo regionalismo – parlo dell’onorevole Nenni – che riassume le posizioni dei singoli partiti in ordine al problema regionalistico. E comincia proprio col ricordare l’onorevole Togliatti per le sue affermazioni fatte al V° Congresso nazionale del Partito comunista, mi pare nel dicembre del 1945; egli dice: «Noi siamo regionalisti, nel senso delle autonomie locali più ampie, nel senso che riconosciamo che può e deve essere data una personalità alle regioni, nel senso di poter più facilmente risolvere determinati problemi economici, agrari e industriali, i quali hanno un particolare rilievo e una particolare impronta regionale».

Il programma del Partito socialista italiano, che fu ricordato l’altro giorno da un mio collega di Gruppo e che suscitò il fastidio visibile del l’onorevole Tonello, dice esattamente così – è il programma ufficiale per l’impostazione delle elezioni amministrative –: «Tutta la pubblica amministrazione deve volgersi verso un sano decentramento, consigliato anche dalle conseguenze belliche. Allo Stato devono restare le funzioni unitarie e indivisibili – diritto, giustizia, difesa, politica estera ed ecclesiastica –; alla regione e ai comuni devono essere assegnate le funzioni più attinenti alla vita locale, secondo il rispettivo raggio di azione – edilizia, viabilità, sanità, alimentazione, assistenza, opere pubbliche». «Non si ravvisa altro organo intermedio fuorché la regione, tra il comune e lo Stato, che si presenta nel quadro nazionale come una completa unità economica, culturale, geografica e storica». E aggiunge poi alcuni dettagli particolari per quanto si riferisce alla vessata questione del problema finanziario e propone quale fulcro del sistema tributario la seguente ripartizione fondamentale delle imposte dirette: allo Stato l’intera imposta di ricchezza mobile, alla Regione l’intera imposta sui terreni, al Comune l’intera imposta sui fabbricati, e così via.

Il Partito d’azione, per quanto rappresentato da una piccola pattuglia, ma agguerrita e sempre vivace in questa Assemblea, ha sempre fatto solenne professione di regionalismo e di un regionalismo, direi, anche più esteso, più integrale del nostro: non dico di quello dei repubblicani storici, perché quello fu il numero uno nella lista delle preferite impostazioni regionalistiche.

Ma – e c’è da stupire veramente – ci sono anche gli altri partiti: il partito liberale, come ha anche recentemente ricordato la Voce Repubblicana, ha fatto anch’esso pubblicare nel ’44 un opuscolo intitolato «L’autonomia regionale», nel quale si delinea presso a poco, direi anzi in misura più profonda e particolareggiata, quello che è lo schema più sintetico che ha trovato poi ricetto nel progetto dell’amico Ambrosini.

E il partito demolaburista, del quale sono qui presenti alcuni amici? Vi sono degli articoli pubblicati dall’onorevole Persico. (Commenti).

Una voce al centro. Non è più demolaburista adesso.

PICCIONI. L’onorevole Persico dunque, a meno che l’evoluzione politica non abbia implicato anche un’evoluzione diversa nei confronti di questo problema, con una serie di articoli intitolati «Democrazia e regionalismo», pubblicati su Ricostruzione, non si discosta menomamente da quelle che sono le idee fondamentali degli esponenti del regionalismo.

AMBROSINI. E Paresce allora, che è uno degli esponenti maggiori?

FUSCHINI. Come Crispo per i liberali.

PICCIONI. Stavo per ricordare infatti anche Paresce. Ma c’è anche il Partito democratico italiano, del quale non so se sia qui qualche rappresentante: il Partito democratico italiano, sull’Italia Nuova dell’11 aprile ’45, aderiva senz’altro alla concezione regionalistica, senza riserve.

Ora, questo, onorevoli colleghi, perché io l’ho riesumato? Non certo per mettere in imbarazzo i colleghi di altri Gruppi politici, perché io riconosco naturalmente l’evoluzione delle idee, dei punti di vista, delle posizioni che si possono prendere anche se troppo rapide e totali; ma l’ho ricordato unicamente per rispondere in un certo senso allo stupore dell’onorevole Nitti e di altri di fronte all’insorgenza di tale problema, nell’insieme della riforma politica e amministrativa dello Stato italiano.

Vuol dire che, fin da prima della liberazione, per la parte d’Italia precedentemente liberata, e subito dopo la liberazione per le restanti, non soltanto l’impulso spirituale del popolo italiano, ma la visione dell’avvenire politico del nostro Paese si accentrava su questo fulcro del rinnovamento dello Stato italiano.

E perché questo avveniva? Perché era il riflesso diretto del ricordo del vecchio Stato liberale democratico prefascista; perché era la reazione incontenibile contro l’esasperazione di quel vecchio Stato liberale democratico, compiuta dalla dittatura fascista. (Applausi).

Non dimentichiamo, onorevoli colleghi: quando si sono fatte le elezioni per la Costituente, i problemi politici fondamentali di struttura e di riforma dello Stato erano sul tappeto. I programmi dei partiti che si presentavano alla competizione – in prima linea il mio partito, che credo non abbia mai dimenticato nella propaganda elettorale di insistere su questo problema delle autonomie regionali – e in genere, tutta la impostazione della campagna elettorale per la Costituente, si proposero di trascinare la volontà popolare verso una riforma radicale dell’ordinamento dello Stato, non già verso un rabberciamento provvisorio purchessia; vi fu anche questa precisa intonazione rivolta alla Costituzione di uno Stato diverso, del quale premessa fondamentale fosse l’autonomismo, e l’autonomismo regionalistico. Cosicché, anche se – nella fase conclusiva – per necessità di cose e per impulsi insopprimibili, la campagna elettorale si polarizzò poi prevalentemente intorno al problema istituzionale, si deve pur riconoscere ed ammettere che la posizione dei partiti attraverso la presentazione dei loro programmi era non soltanto incline, ma nettamente favorevole a tener conto di questo dato oggettivo della riforma strutturale dello Stato italiano. E allora è stata una successione logica di cose. Quando i primi 75 Costituenti si sono radunati (qualche collega ha detto – credo l’onorevole Dugoni –: «Ma erano, tutti i 75, i più esagerati regionalisti!»; non credo proprio che l’onorevole Presidente, che li ebbe a nominare, avesse inteso fare la cernita dei regionalisti più intransigenti) si trovarono unanimi nel dire che bisognava risolvere preliminarmente il problema delle autonomie. Perché? Perché sulla soglia della costruzione del nuovo Stato democratico bisognava che si sapesse quale via si dovesse prendere per fissare i lineamenti, le mura maestre del nuovo Stato.

Si doveva prendere la via dell’autonomia? Allora il disegno del nuovo Stato si svolgeva in un certo modo. Si doveva rinunziare al principio delle autonomie e reimbarcarsi nella vecchia struttura centralizzatrice dello Stato liberale democratico prefascista? E allora il disegno e l’opera sarebbero stati ben diversi. Fu l’iniziativa di pochi rappresentanti della Costituente, fu un’iniziativa interessata di qualche Gruppo, o fu una convinzione meditata di tutti i rappresentanti dei Gruppi? Fu questo; perché nessuno obiettò nulla sulla collocazione in via preliminare dell’esame e della decisione del problema.

E, quando la Commissione dei settantacinque si divise nelle varie Sottocommissioni, la seconda Sottocommissione – quella alla quale era precisamente affidato il compito di precisare l’ordinamento del nuovo Stato democratico – affrontò, in esecuzione di quanto era stato fissato nell’Assemblea plenaria, il problema delle autonomie. E quella discussione veramente tenuta su un piano di responsabilità da parte di tutti coloro che vi partecipavano, e di maturazione, si concluse con l’ordine del giorno firmato da me e che l’onorevole Gullo qualificò l’altro giorno come un ordine del giorno demagogico. Risponderò che fu votato anche dai membri del Partito comunista e che questa impressione, questa valutazione di spirito demagogico animante l’ordine del giorno non fu posta in luce da parte di nessuno. Ma, perché demagogico? Demagogico è ciò che potrebbe essere e che non risponde alla realtà dei fatti, oppure ciò che si lancia così, avventatamente, fantasiosamente, per illudere, senza pensare alle delusioni successive.

Ma questo è un problema serio, vitale, concreto; è il problema fondamentale del nuovo ordinamento dello Stato! Questa è una riforma realizzabile, che deve essere realizzata se si vuole creare una nuova autentica democrazia in Italia! (Applausi al centro).

Ho detto autentica democrazia in Italia. Perché io ho creduto e credo fermamente nella nuova Repubblica italiana, ma ho inteso e intendo la Repubblica italiana come rinnovamento delle strutture, del costume politico, come apportatrice di forza e di garanzia per quelle che sono le inalienabili, fondamentali libertà del cittadino! E la riforma regionale ha per noi soprattutto questo alto significato politico: noi vediamo in essa, dopo le esperienze precedenti, uno dei baluardi (non l’unico, s’intende, non siamo così ingenui!) che più sono destinati a resistere nella difesa della libertà, di tutte le libertà; e mi stupisce assai che a questo riguardo coloro che si qualificano ancora liberali siano fra i più fieri avversarî della riforma regionale, perché, se liberalismo vuol dire, come deve dire, sviluppo, oltre che garanzia, della libertà o delle libertà dei cittadini, il liberalismo (me lo consentano i colleghi e gli amici che sono in quest’Aula) non può essere inteso come uno schema che ad un certo momento, nell’evoluzione e nel movimento storico, si cristalizza intorno alle sole libertà individuali tradizionalmente intese, ma deve sentire che queste, anche le più gelose, nell’evoluzione della vita sociale moderna per vivere devono essere integrate, si devono ampliare in forme di libertà più vaste, alle quali è direttamente interessato il cittadino, quella della famiglia, quella del comune, quella del sindacato e quella degli altri organismi che noi amiamo chiamare naturali. La Regione noi la concepiamo appunto come un dato non soltanto storico, ma come un dato naturale della nostra vita nazionale.

Mi ha stupito molto sentire ancora oggi negare l’esistenza della Regione in Italia; negarla anche dal punto di vista geografico, storico, economico, etnico, anche linguistico (in certo senso); dal punto di vista della genialità italiana, che trova una sua espressione e una sua nota attraverso le variazioni regionali che distinguono in maniera palese quello che è il genius loci.

Non mi riferisco soltanto alla Toscana, ove questo è più visibile, forse, che altrove; ma ognuna delle Regioni storiche ha un suo modo di vedere la vita, di esprimerla e di dare sfogo a quelli che sono i sentimenti, le fantasie e gli impulsi creativi delle nostre popolazioni.

Ora, la Regione esiste in Italia, malgrado i 78 anni di vita livellatrice e burocratica: esiste attraverso tutte queste espressioni, esiste anche attraverso strutture economiche e sociali differenziate da Regione a Regione. E se esiste, e se non è soltanto un dato per rilievi statistici, ma è, malgrado tutto, qualche cosa che ha mantenuto la sua vitalità e la sua individualità, perché non si deve potenziarla, non si deve vivificarla, non si deve utilizzarla allo scopo di una maggiore possibile coesione, sviluppo, integrazione della attività dello Stato, perché non si deve consentire che essa renda la vita locale più armoniosamente intensa ed operante e che contribuisca per tal modo ad una vita generale di tutta la Nazione più alta e più degna? È per questo che la Regione, anche senza i richiami storici che sono stati abbondantissimi e che io ometto radicalmente, deve essere sentita, e concepita come un coefficiente vivo ed operante, tale che nella ricostruzione e nel rinnovamento dello Stato democratico non può e non deve essere ancora una volta dimenticato, ma deve essere invece inserito in quella che è la circolazione vitale che noi dovremmo creare per lo sviluppo veramente progressivo della vita dello Stato e della Nazione italiana. Il Comune – siamo d’accordo – è elemento primigenio fondamentale la cui espansione, la cui vitalità, la cui libertà deve essere potenziata, non c’è dubbio. Ma i problemi del Comune sono diversi come diversi sono i problemi della Provincia.

Incentrare la riforma dello Stato – come da qualcuno dell’estrema sinistra è stato ribadito – soltanto sul potenziamento dell’autonomia e della libertà comunale è troppo poco, evidentemente, di fronte al respiro ampio che la vita sociale politica di un Paese moderno deve avere.

La Provincia, altro elemento che sta fra lo Stato e il Comune. Per la Provincia bisogna intendersi, onorevoli colleghi.

Io riconosco, anche in armonia col modo di vedere il problema di alcuni dei miei amici di Gruppo, io riconosco che la Provincia non ha esaurito il suo compito; ed essa, in questa fase di assestamento e di riordinamento della nuova vita democratica del Paese, può ancora assolvere a compiti importanti, ma non può e non deve essere assunta, così come non lo può il Comune, come dato fondamentale della riforma dello Stato, cioè come strumento e nello stesso tempo istituzione, che operi una trasformazione della vita politica dello Stato, cui noi miriamo, per una esigenza genuinamente ed autenticamente democratica. Perché, oltre tutto, i problemi della Provincia hanno il limite nella sua estensione territoriale. Ed è chiaro che, nel groviglio dei rapporti della vita sociale ed economica moderna, il limite che racchiude la provincia non è di tale respiro da consentire un ritmo più ampio e più vasto per la soluzione dei problemi, delle necessità, dei bisogni locali, in largo senso.

Ecco perché nel progetto non si cancella la Provincia, la si concepisce come organo di decentramento di taluni servizi dello Stato e di altri servizi della Regione.

A taluni può sembrare un’offesa grave alla Provincia attualmente esistente scoronarla di quella che è la modesta prerogativa dell’autarchia provinciale; e noi possiamo condividere, anche per questo spirito civico che anima le contrade d’Italia, una preoccupazione di questo genere. Ma, se le attribuzioni e le competenze specifiche della Provincia, ente autarchico, devono rimanere quelle che sono state sin qui, evidentemente al fondo della questione c’è un equivoco: quello di scambiare la Provincia, ente autarchico, amministrazione provinciale, con la Provincia prefettura, organo del potere centrale.

Perché, se fosse ben chiaro, di fronte a tutti, che, se la prefettura nel nuovo ordinamento dovesse sparire, rimarrebbe solo la deputazione provinciale, la delusione sarebbe veramente grave, perché comunemente per Provincia si intende più la prefettura che l’amministrazione provinciale vera e propria.

Ed a questo riguardo l’onorevole Gullo, il quale, con schietta presa di posizione, mi pare sia stato l’unico, affiancato forse da qualche suo collega, che abbia spezzato più di una lancia a favore del centralismo statale, del centralismo inteso nel senso vero della parola, del centralismo e dei meriti del centralismo statale italiano, anche per ciò che riguarda il suo passato storico, mi pare sia caduto in una qualche contradizione, quando si è dichiarato per l’abolizione del prefetto e della prefettura. Ed allora che cosa rimane del centralismo? Allora si peggiora la situazione, si indebolisce la funzionalità dello Stato centralizzato. Allora lo Stato centralizzato rimarrebbe soltanto come un organo pletorico, adiposo, pigro, quello costituito da tutti i Ministeri, da tutta la burocrazia romana; e non avremmo neanche questo tramite diretto con la periferia e con la provincia, che è il prefetto, il quale prefetto questa sera dal discorso dell’onorevole Nitti ha avuto un caldo elogio. Ma bisogna intendersi. Se si vuole mantenere la organizzazione dello Stato centralizzato, bisogna consentire alla funzionalità di un tale Stato tutti i mezzi e strumenti necessari perché assolva i suoi compiti: fra questi strumenti, indiscutibilmente, in prima linea è il prefetto, a meno che al prefetto non si intenda sostituire qualche dirigente locale che possa derivare la sua autorità da posizioni particolari di partito!

Ma, signori, se dovesse rimanere l’ordinamento centralizzato, potrebbe esso seriamente ordinare e disciplinare tutta l’amministrazione? Hanno risposto molti altri colleghi: centralizzato sì, ma decentrato amministrativamente. E siamo al tema del decentramento amministrativo. Il decentramento amministrativo inteso come decentramento burocratico, non è un decentramento, ma la proliferazione di uffici che il centralismo statale deve adoperare per controllare tutta la vita nazionale. È un centralismo tentacolare quello di cui si parla in questo senso, perché se si concepisce il decentramento amministrativo come elemento vero di differenziazione delle complesse attività dello Stato centrale, per restituire quelle che devono essere a contatto con gli interessi e con i bisogni locali delle popolazioni, che questi interessi e questi bisogni sentono e vivono più direttamente, allora non siamo più allo Stato centralizzato, allora siamo allo Stato autonomista, a quello che vogliamo noi, a quello a cui tende la istituzione dell’ente Regione. Ma, purtroppo, si concepisce soltanto il decentramento amministrativo come decentramento burocratico, così come hanno mostrato non pochi colleghi quando hanno parlato di decentramento amministrativo. Allora siamo in pieno sviluppo, in pieno allargamento del tipo di Stato che con noi la coscienza pubblica intende trasformare radicalmente, almeno quella coscienza pubblica che più conta, quella più avvertita e più sensibile a questi che sono i problemi della struttura e delle funzionalità dello Stato. Poiché, o colleghi, anche l’altro motivo, che è ricorso frequentemente nella discussione, di un distacco della coscienza pubblica su questo problema, è evidentemente inconsistente.

La coscienza pubblica in riferimento a questi problemi di struttura, di riforma della struttura dello Stato, si esprime attraverso quelle che sono le classi politiche dirigenti del Paese. Ma volete veramente che si facciano delle agitazioni popolari intorno al problema del decentramento amministrativo istituzionale o burocratico funzionale? Evidentemente è un pretendere troppo. La sensibilità, la sensibilizzazione della coscienza pubblica intorno a questi problemi non può essere data che dalle classi politiche dirigenti, anche da quelle modeste classi politiche dirigenti in formazione di cui ciascuno di noi fa parte. Ed allora non è un elemento, un motivo valido quello di dire che la coscienza non è sensibilizzata a questo riguardo. Sta alla nostra responsabilità, alla nostra coscienza, a questo mandato dato all’Assemblea Costituente, di risolvere tale problema. Si dice da alcuni colleghi che questo non è il momento meglio adatto per fare una riforma di questo genere, perché ci sono altri problemi più gravi e più urgenti. Ma noi che cosa stiamo a fare qui? Ma questa è Costituente o non è Costituente? E la Costituente ha il mandato specifico di occuparsi della nuova struttura dello Stato o no? Come si può dire che un problema che si inserisce nettamente nel nostro ordinamento, che condiziona una struttura o l’altra dello Stato democratico sia un problema che si possa rinviare perché non è il momento di affrontarlo, perché ci sono altre cose da fare? Ma le cose da fare sono precisamente queste, e lo studio di questi problemi è un nostro obbligo, un nostro dovere morale per accettarli o per respingerli, ma non già per lasciarli sospesi a mezz’aria o rinviarli alle Assemblee future che sono molto meno di noi indicate per risolvere problemi di questa natura.

Quindi ci vuole il coraggio necessario da parte di tutti per affrontare risolutamente, decisamente, il problema della costituzione dell’ente Regione, e per risolverlo.

Il progetto che è davanti a noi come è stato predisposto? Io mi permetto, aderendo a ciò che ha detto l’amico Zuccarini, di far rilevare che la prima impostazione data dalla Commissione dei 75, attraverso quel discusso mio ordine del giorno che parlava di autarchia, di autonomia attraverso la potestà legislativa, e di autonomia finanziaria, ha avuto un’applicazione piuttosto ridotta.

Comunque, anche così com’è, a me sembra che da non pochi antiregionalisti lo si sia intravisto e considerato come qualcosa di molto diverso. Io mi sono stupito a sentir parlare di federalismo o di quasi federalismo, introdotto nel progetto così come è stato redatto. Mi sono stupito molto a sentir parlare dell’autonomia del progetto come di una bomba atomica che manda addirittura all’aria l’unità politica, economica e sociale del Paese. In base a che cosa, si dice questo? Probabilmente deriva da una impressione vaga, superficiale e generica, generata dalla prevenzione ostile di quello che è contenuto effettivamente nel progetto. Se lo si pondera adeguatamente, ci si avvede che esso è il meno adatto a sollevare paure e timori di questo genere: è appena adeguato a quella che è una seria riforma dell’ordinamento dello Stato, ma privo assolutamente di ogni germe di dissolvimento o di frantumamento dell’unità dello Stato. In che cosa potrebbe rintracciarsi tutto ciò? Nella potestà legislativa – si dice – soprattutto nella potestà legislativa, quella triplice potestà contenuta nel progetto. Se mi è consentito, io penso che si tratti del riflesso d’uno scrupolo scientifico (e anche un po’ politico, ma in senso inverso) quello che può spiegare tale distinzione, ma non già il frutto di intenzioni o di posizioni tali che possano sconfinare nel federalismo o, in qualsiasi modo, in qualcosa che possa diventare pericoloso per l’unità della Nazione.

La prima potestà legislativa, quella che appare più grave – ripeto cosa già detta e perciò sorvolo – va esaminata, prima di tutto, in relazione alle competenze ed alle materie cui si riferisce. Queste attribuzioni e queste competenze sono così modeste e secondarie che il pretendere di vedere in esse una possibilità di far saltare o di incrinare l’unità della Nazione è cosa quanto mai risibile. Sono confortato in questo dal fatto che, prima di me, l’onorevole Einaudi ha detto precisamente la stessa cosa. Ma anche le altre facoltà legislative sono subordinate nettamente, anche troppo per la mia concezione, all’intervento e al controllo dello Stato. Ci sono tali vincoli, tali controlli e tali interventi, anche per spontanea iniziativa del Governo, in nome dell’interesse nazionale e dell’interesse delle altre Regioni, del rispetto dei principî generali dell’ordinamento giuridico dello Stato, e così via, che anche i più caldi (vorrei dire esaltati, ma non lo posso per non mostrare di essere irriverente verso la cosa, in sé, tanto alta) fautori e custodi dell’unità nazionale possono dormire veramente sonni tranquilli. Mi pare proprio che non ci può essere sotto questo aspetto nessun timore di incrinatura dell’unità nazionale, se le cose si vedono obiettivamente e concretamente. Se poi si creano dei fantasmi, ed in funzione di quelli si argomenta e si conclude, allora le cose cambiano!

Non nego che questa materia della legislazione riconosciuta all’ente Regione possa essere meglio ordinata e disciplinata, e possa avere magari una formulazione più adeguata e più inerente alla funzionalità della Regione stessa, ma non può certo essere ridotta alla semplice funzione regolamentare o a quella semplice funzione di integrazione delle leggi generali dello Stato, di cui taluni sono fautori. Allora sparisce la vera originalità della creazione dell’ente Regione; allora è lo Stato che continua da solo a disciplinare qualsiasi settore della vita nazionale, anche quelli più particolari e secondari, come le fiere ed i mercati, la caccia e la pesca. Ma l’esperienza non è stata tale da far concludere che uno schema di ordinamento così previsto non è quello che possa rispondere alle necessità nazionali? Il 1911, a cui si riferiva l’onorevole Nitti, è molto diverso dal 1947. Le funzioni che lo Stato aveva, le attribuzioni che lo Stato esercitava allora si sono largamente moltiplicate per necessità di cose. E credete che sia possibile che uno Stato così concepito possa adeguatamente funzionare oggi, se inefficiente era anche allora? Ma questa ripresa dello Stato, così concepito attraverso la visione liberal-democratica in questo dopo guerra, in questo dopo liberazione, come si è detto, vi pare che abbia fatto una prova tale da poter supporre che esso possa provvedere a tutte le necessità del Paese? Io questo lo domando con estrema remissività, ma mi pare che la disfunzionalità dello Stato, quella forma di discrasia lamentata tanto e giustamente dall’onorevole Nitti, sia qualcosa di costituzionalmente patologico. Bisogna fare un altro viaggio, percorrere un’altra strada per ricostruire la coscienza dell’autorità insieme con quella indissociabile della libertà. Che cosa ha potuto fare lo Stato in questi due anni e mezzo a questo riguardo? È riuscito a creare nei cittadini il senso dell’autorità, il rispetto delle leggi, il sentimento della legalità? Vi sono molte altre cause della disfunzionalità dello Stato, ma, evidentemente, dopo l’esasperazione dell’accentramento fascista, c’è anche questa riluttanza del cittadino, come reazione, a piegarsi a quelle che sono le imposizioni dello Stato. E come volete ovviare a questo stato di cose, a questo stato di coscienze, che è al di fuori di tutte le strutture politiche che si possono immaginare, se non rieducando le coscienze dei cittadini? Quando si parla di rieducazione si pensa ad una cosa lunga e interminabile; ma bisogna incominciare, e per cominciare bisogna mettere il cittadino a contatto diretto con l’autorità, con gli organismi che esprimono pubblicamente l’autorità, con la responsabilità concreta e visibile. Ed il contatto diretto voi lo avete soltanto attraverso gli enti locali.

Il Comune, se potesse funzionare in pieno, potrebbe essere la prima scuola di questa rieducazione civica della coscienza dei cittadini. Sarebbe un modo per sentire questo senso dell’autorità, attraverso l’autorità del Comune, che è la più diretta, la più immediata e controllata; sentire, cioè, che l’autorità non è una imposizione dall’alto, ma è un complemento necessario, indissolubile, della libertà di ciascuno. Eppoi dal Comune passare alla Provincia, se volete, e dalla Provincia passare alla Regione.

Io ricordo di avere letto in periodo sospetto un libro del Thomas Mann, libro che circolava assai difficilmente in Italia, intitolato Avvertimenti all’Europa, tradotto recentemente anche in Italiano. Il Thomas Mann, spirito liberale nel senso più alto della parola, si poneva il problema del perché e del come si fossero potute affermare in Italia ed in Europa delle dittature così tiranniche come quella fascista e quella nazista. Senza alcuna intenzionalità di giustificazione di nessun genere, arrivava a dire che, in fondo, storicamente almeno, queste dittature erano il prodotto della immissione delle grandi masse nella vita politica del Paese. Non vi era più il problema delle minoranze o élites che costituivano le protagoniste della vita politica nei singoli paesi. Il suffragio universale, questa necessaria, giusta riforma confacente allo sviluppo della vita sociale ed economica del nostro tempo, ha immesso invece questi fiotti enormi di cittadini, uomini e donne, nel circolo della vita politica nazionale. E che cosa hanno trovato? Delle strutture fragili, lievi, non adatte a disciplinare e a convogliare le masse sulla via giusta in un modo operante, normalizzante, e ne è venuto fuori quel solito fenomeno di reazione esagerata, di forme di dittatura che hanno imposto dall’esterno una forma qualsiasi di disciplina che compisse il processo di assorbimento delle masse stesse, attraverso il loro asservimento. Ricordo questo per dire che 28 milioni di elettori italiani voi non li sodisferete nella loro coscienza di cittadini consentendo ad essi soltanto questa lontana ed inadatta partecipazione al potere centrale, che tutto assorbe e tutto fa attraverso il voto dato ogni quattro o cinque anni.

Il problema della democrazia moderna è questo: far sì che la maggiore massa di cittadini si autogoverni e partecipi permanentemente e direttamente alla vita economica e sociale del Paese (Applausi al centro).

I grandi partiti di massa adempiono a questo compito indispensabile, insostituibile, ma non basta: bisogna far sì che il popolo, tutto il popolo, i 28 milioni di elettori in particolar modo, si sentano interessati, associati quasi permanentemente a quello che è lo sviluppo della vita pubblica locale e nazionale. Questo voi lo raggiungerete attraverso il Comune, la Provincia se volete, attraverso la Regione, che costituisce appunto quell’elemento di passaggio che c’è tra lo Stato e la Nazione, largamente intesi, e gli altri enti minori, che non possono essere tali fino al punto da essere considerati sterili di funzionalità, o atrofizzati nella loro espressione di concreta attuazione degli scopi sociali e politici che si propongono.

Io ho finito. La questione finanziaria è, evidentemente, uno dei punti più sensibili della costruzione dell’ente Regione e io non voglio riprendere i motivi già contenuti a questo riguardo nel programma del Partito socialista italiano. Voglio dire soltanto che di difficoltà, evidentemente, ce ne sono per qualunque cosa si voglia fare. Vedremo, andando avanti, che ci sono anche non minori difficoltà per realizzare una nuova struttura democratica dello Stato, anche per altri aspetti. Tra queste difficoltà, quella di carattere finanziario, evidentemente, è una delle maggiori; ma è tale da far rinunziare alla trasformazione dello Stato in questo senso? No, non è tale. Perché la finanza dello Stato è quella che è ed è quella che potrà essere, ma c’è anche una finanza degli enti locali, è prevista in quel determinato modo che noi sappiamo; è prevista e deve essere elaborata anche la riforma generale tributaria.

Ora, in una nuova visione della situazione tributaria finanziaria del Paese credete proprio (io qui vorrei ricorrere ai tecnici, che sono oggi così di moda, ai tecnici finanziari, in modo particolare) credete proprio che i tecnici non abbiano risorse tali da inquadrare anche la finanza regionale in quello che è il più ampio sistema finanziario dello Stato? Mi pare che non sia una prospettiva fuori della realtà e delle possibilità.

Si dice: «Ma è un nuovo carico che voi imponete allo Stato attraverso la creazione di questo ente».

Ma lo Stato non può essere inteso come quello che è attualmente, non deve rimanere imperturbato, così come è; lo Stato può e deve trasformarsi. Noi non vogliamo creare l’ente Regione perché, creato l’ente Regione a sé stante, l’organismo dello Stato continui a vivere così come ha vissuto finora: questo sarebbe assolutamente sterile e fuori di ogni evoluzione storica. Noi concepiamo l’ente Regione come lo strumento determinante per una trasformazione, per una riduzione dei compiti e dei servizi dello Stato, perché lo Stato si snellisca, diventi più agile e più pronto e risponda meglio a quelle che sono le sue specifiche alte funzioni il cui potenziamento può garantire in maniera veramente seria e concreta l’unità e l’avvenire del Paese.

E allora, in rapporto con questi fattori, che sono concomitanti, che non possono evidentemente essere valutati distaccati, anche la questione dell’impostazione finanziaria deve essere superata; può essere superata.

Ma non c’è soltanto la questione finanziaria vera e propria, c’è un’altra distinzione grave che viene fatta, sempre dagli antiregionalisti, contrapponendo le Regioni ricche alle Regioni povere.

Le Regioni povere sarebbero quelle dell’Italia Meridionale, in particolar modo. Qui il discorso diventerebbe un po’ troppo lungo, se si volesse approfondire. Ma io mi limito soltanto a dire: ebbene, signori, se l’ente Regione, nella peggiore delle ipotesi, non si dovesse realizzare, delle Regioni povere e delle Regioni ricche che cosa succede? Non rimarrebbero le Regioni povere e le Regioni ricche così come sono state per settanta, per ottanta anni?

Mentre la costituzione dell’ente Regione, anche nelle Regioni povere, questo vuol dire in definitiva: suscitare, eccitare le energie locali latenti; e ce ne sono nel Mezzogiorno tante quante nel Nord. Ordinarle, coordinarle, sospingerle, questo deve essere il nostro intento e questo lo scopo che persegue l’istituzione dell’ente Regione, perché il progresso economico e sociale non è un patrimonio che si debba considerare monopolio di una sola parte d’Italia. (Vivi applausi).

Né si deve temere che, attraverso l’ente Regione, quelle che sono le cristallizzazioni di privilegi economici e sociali si rafforzino, questo è un altro motivo che viene dall’estrema sinistra. Le folle contadine del Mezzogiorno soffrono sotto il feudalesimo resistente ancora nell’Italia Meridionale: ma ha resistito nei settanta, negli ottanta anni di centralismo statale e non credete voi che questa forma di autonomia, questa forma di autogoverno, questa forma di risveglio della coscienza politica, oltre che economica e sociale, non debba essere un mezzo per ridurre e debellare quelle che voi chiamate le forze della reazione, se tali realmente sono?

È una forma di democrazia viva ed operante quella da noi auspicata. Voi non potete rinnegare, nella previsione che le forze locali più abbienti soffochino gli impulsi delle classi e delle forze lavoratrici, voi non potete rinnegare, dicevo, questa funzione di progresso e di elevazione insita nel suffragio universale.

Voi avreste ragione se l’ente Regione si organizzasse in un altro modo; ma se l’ente Regione si organizza in base al suffragio universale, io penso che il suo risultato sia un’arma maggiore di elevazione anche per le folle dimentiche dei contadini del Mezzogiorno. (Vivi applausi).

E se non fosse così, se non si vedesse nell’ente Regione uno strumento di progresso anche sociale ed economico, vi dico francamente che, per quanto personalmente io me ne dorrei, vi rinunzierei agevolmente.

Ma sono sicuro perché credo nella democrazia e nella sua forza di rinnovamento e di progresso, credo che l’ente Regione, il quale è essenzialmente un’espressione di democrazia, dovrà avere anche questa forza di trasformazione, questa forza di rinnovamento sociale ed economico anche nel Mezzogiorno.

Onorevoli colleghi! Qui si tratta di assumere una grande responsabilità; qui si tratta di dare un indirizzo nuovo, una strada nuova, un’ala nuova alla vita politica e sociale del nostro Paese. Non crediate che io faccia della retorica o che voglia esagerare dicendo che l’ente Regione per me è uno degli strumenti più validi e più possenti di questo rinnovamento, di questo progresso economico e sociale, per il quale tutti noi lavoriamo. (Vivissimi applausi Molte congratulazioni).

PRESIDENTE. Il seguito della discussione è rinviato a domani.

La seduta termina alle 20,20.

Ordine del giorno per la seduta di domani.

Alle ore 10:

Seguito della discussione del progetto di Costituzione della Repubblica italiana.

ANTIMERIDIANA DI VENERDÌ 6 GIUGNO 1947

ASSEMBLEA COSTITUENTE

CXXXIX.

SEDUTA ANTIMERIDIANA DI VENERDÌ 6 GIUGNO 1947

PRESIDENZA DEL PRESIDENTE TERRACINI

INDICE

Congedi:

Presidente                                                                                                        

Progetto di Costituzione della Repubblica italiana (Seguito della discussione):

Presidente                                                                                                        

Varvaro                                                                                                           

Cremaschi Carlo                                                                                             

Roselli                                                                                                             

Priolo                                                                                                               

La seduta comincia alle 10.

CHIEFFI, Segretario, legge il processo verbale della precedente seduta antimeridiana.

(È approvato).

Congedi.

PRESIDENTE. Hanno chiesto congedo gli onorevoli Miccolis, Mariani, Murgia, Lussu, Schiavetti e Sardiello.

(Sono concessi).

Seguito della discussione del progetto di Costituzione della Repubblica italiana.

PRESIDENTE. L’ordine del giorno reca: Seguito della discussione del progetto di Costituzione della Repubblica italiana.

Riprendiamo la discussione generale del Titolo V relativo alle Regioni.

È iscritto a parlare l’onorevole Paris. Non essendo presente, s’intende che vi abbia rinunciato.

È iscritto a parlare l’onorevole Varvaro. Ne ha facoltà.

VARVARO. Onorevoli colleghi, non presumo di dire delle parole nuove su questo argomento che ha formato oggetto di elevati discorsi.

Io appartengo ad un movimento regionalista accentuato – o vivace, come fu detto in una riunione della Consulta nazionale – e precisamente al Movimento indipendentista siciliano. È quindi intuitivo che io sono favorevole all’assetto regionale. Non solo: ma io ritengo che sia stato un errore che non sia avvenuto oggi in Italia quello che l’onorevole Vittorio Emanuele Orlando recriminava in un suo recente discorso, e cioè che non si sia voluto fare nemmeno questa volta un’Italia federale. Ha detto l’onorevole Orlando: «Sarebbe stato meglio che l’Italia fosse nata federale. Ma non essendo ciò avvenuto, credo che non sia il caso di tornare indietro».

Or se, a parere dell’onorevole Orlando, sarebbe stato meglio che l’Italia fosse nata come federazione, vuol dire che egli ha trovato nell’assetto unitario un errore rispetto all’assetto federale; e allora io non comprendo perché non si debba fare oggi e non si sia fatto oggi quello che avrebbe dovuto essere fatto allora, secondo un’opinione tanto autorevole come quella dell’onorevole Orlando. Opinione che del resto non rimane isolata, perché vi è tutta una letteratura autorevolissima in questa materia. Io non starò a richiamarla, anche perché sono convinto che questo problema non si risolve sul terreno dottrinale.

Io ho fatto un’osservazione che credo ogni cittadino comune farà leggendo il progetto costituzionale. Noi avremo, in Italia, cinque, anzi sei, statuti regionali tutti diversi l’uno dall’altro: per la Sicilia ve n’è uno, uno per la Sardegna che credo sarà identico o simile, uno diverso per la Valle d’Aosta, un altro per il Trentino e forse un altro ancora per la Venezia Giulia. Infine vi è lo Statuto delle altre diciassette Regioni, che sarà uguale per tutte ma diverso da quegli altri. E così l’aspetto costituzionale dell’Italia sarà, non dirò grottesco, ma certamente di un colorito forse troppo contraddittoriamente vario e disarmonico.

Questo dal lato della prospettiva. Ma vi è il lato funzionale. Statuti così dissimili creeranno rapporti tanto diversi e difficili tra lo Stato e le Regioni, da determinare gravi e pericolose difficoltà funzionali.

D’altra parte un sistema così discorde e disarmonico di autonomie giustifica talune delle preoccupazioni che sono state espresse da oratori contrarii al progetto della Commissione.

S’è parlato di fenomeno centrifugo e di pericolo di disgregazione. Ora io dico subito senza infingimenti (se anche questo può apparire contrario alla mia tesi), dico subito che il pericolo centrifugo esiste, ed esiste proprio in funzione di queste disparità, sia perché tali disparità determineranno delle gelosie tra le Regioni, sia perché mancherà quella uniformità legislativa centrale che costituisce l’armonia dello Stato federale che può essere molto più unitario e coesivo di qualunque stato accentratore, come dimostra, del resto, l’aspetto del mondo. Ed infatti nei paesi dove l’unità nazionale è più sentita e ha dato prove di una solidità straordinaria fino a superare vittoriosamente i cataclismi della guerra, là vi è proprio il sistema federale; non escluso lo stesso impero inglese che è costituito su basi di larghissime autonomie, legate in forma sostanzialmente federale nella persona del sovrano. Quindi io credo che bisognerebbe proprio dare all’Italia un aspetto federale. Non è stato fatto e non c’è un oratore che possa sperare che quest’Assemblea si prospetti oggi il problema in senso concreto. Questo è da escludere perché qui, se non vado errato, se vi è mai qualche tendenza prevalente è proprio in senso contrario. Gli antiregionalisti fanno riferimento alla dottrina; e noi abbiamo ascoltato l’onorevole Nenni il quale con la sua notevole autorità ha detto: «Ma che Cattaneo! Bisogna rifarsi a Mazzini. Lo Stato italiano, secondo la volontà del Mazzini, doveva nascere unitario, come è nato».

Ma io non credo che egli vada d’accordo in ciò con i repubblicani, perché (non voglio esprimere idee mie in proposito: sarebbe immodesto quando vi sono qui, nel Partito repubblicano storico, i più autorevoli interpreti del Mazzini) ho sentito oratori del Partito repubblicano affermare che il Mazzini non voleva affatto l’uniformità dell’amministrazione statale, bensì un’unità italiana che riconoscesse le autonomie regionali. Eppoi, signori, questa faccenda del risolvere le questioni politiche, più palpitanti di vita attuale, andando a svegliare i dormienti pur illustri scrittori nelle biblioteche, mi sembra proprio un metodo sbagliato. Situazioni che potevano essere cinquanta o sessant’anni or sono tali da essere vedute in un certo modo da intelligenze superiori, possono essere oggi, come lo sono, radicalmente mutate. Bisogna vedere il problema dal punto di vista attuale, della vita che noi viviamo politicamente oggi, in quest’oggi tanto diverso dal passato, e dobbiamo essere noi a mettere il nostro pensiero e la nostra esperienza al servizio della soluzione che riteniamo migliore nell’interesse della Patria. Io ho sempre ammirato gli uomini di scienza; ma ho sempre diffidato della scienza quando essa viene a contatto con la politica. Basti ricordare quel che è avvenuto nel periodo fascista. Noi abbiamo veduto, purtroppo, il pensiero filosofico italiano non solo acclimatarsi ma addirittura costruirsi scientificamente sulla volontà del duce. Pareva che tutti quei pensatori attingessero ai grandi filosofi del passato per creare, con rigore scientifico, il pensiero moderno e, invece, non facevano che affermare la dottrina della forza e dello Stato padrone, adattandosi alla conveniente opportunità di creare alla dittatura fascista quella dottrina che essa non aveva.

E la stessa diffidenza io manifesto di fronte alle scienze economiche. La scienza dell’economia, sì, è certamente una bella cosa nelle scuole! Ma se volete risolvere i problemi economici e finanziari d’un Paese sulla base delle dottrine economiche, io credo che gli errori saranno quasi sempre inevitabili. Perché al disopra della dottrina vi è il fenomeno, incontrollabile ed imprevedibile, della realtà.

Basterebbe osservare che in questa stessa Assemblea noi abbiamo veduto battersi sul grosso e scottante problema della ricostruzione finanziaria ed economica dell’Italia autorevoli rappresentanti delle dottrine più disparate e sostenere ciascuno, appassionatamente, la bontà della sua propria teoria come il solo rimedio capace di guarire i mali della Nazione. Ma quale sarà il rimedio vero?

Io credo ancora e sempre che la politica è soltanto materia di vita che sfugge a tutti gli schemi. Perciò, collegandomi a questo mio pensiero, a coloro che dicono che l’assetto regionale autonomistico e, peggio ancora, l’assetto federalistico d’uno Stato porti alla disgregazione – e fra questi, purtroppo, vi è autorevolissimo l’onorevole Nitti – io mi permetto di osservare che la conseguenza delle loro premesse conduce alla conservazione e all’esaltazione del sistema unitario accentratore e a niente altro.

Ebbene, se è così veniamo alla prova dei fatti, esaminiamo le conseguenze dello Stato accentratore, non già su ciascuna Regione – che questo è altro problema – ma globalmente, in tutto il Paese, rispetto alla coesione delle varie Regioni tra loro. Vediamo se l’accentramento ha fatto buona prova. Finché l’Italia si imbarcò in avventure che andarono bene, l’unità resistette; ma resistette, in certi paesi, a prezzo di inaudite violenze poiché dove le leggi non erano comprese o non erano adatte, si insegnava a comprenderle e si faceva in modo che fossero adatte per forza; comunque, l’unità resistette. Ma, alla prima grande prova, appena la sciagura cadde sul nostro amato Paese, l’impulso – che non è da attribuire a questa o a quella persona; dobbiamo essere sinceri e leali – l’impulso istintivo delle collettività regionali fu quello della disgregazione; perché, in fondo, si intese un po’ dappertutto che a quel punto si era arrivati per effetto dell’unità accentratrice per la quale un campanello solo da Roma poteva nello stesso istante obbligare tutte le città, tutti i borghi d’Italia a fare la medesima cosa. E questo è ciò che facilitò la dittatura e permise che senza il consenso dei popoli si facessero delle guerre folli e ingiuste. Quindi, la sventura della Patria grande e delle piccole patrie regionali era dovuta al sistema accentratore, che aveva permesso l’avvento e la glorificazione del fascismo e, infine, la sciagura collettiva. E dall’altro canto, rifacendo i conti, le Regioni meno favorite, le Regioni più deluse, più dimenticate, proprio quelle meridionali (non parlo ancora appositamente della Sicilia, perché non credo che in questo vi sia disparità), rifecero il bilancio del passato e videro che, in fondo, forse, la colpa di quelle guerre era da attribuire anche all’assetto industriale del Paese, che aveva creato in poco spazio del Nord potenti complessi industriali parassitari e protetti per i quali vivere e sviluppare significava preparare la guerra.

Non è possibile che un Paese continui a fabbricare cannoni ed armi e che di questi si faccia poi un pacifico museo storico. Questo anche intesero le popolazioni. E poi fecero anche un altro bilancio, e compresero che là dove si era accentrato il benessere, là dove la ricchezza affluiva da anni, anche per effetto delle esigenze belliche, là si era costituito, non per colpa di uomini, intendiamoci, tutto un complesso organismo economico, che a poco a poco andava assorbendo tutte le risorse del Paese facendone, non dirò un egoistico monopolio, ma una ragione di vita. E che tale funesto organismo non tollerava più turbamenti, perché un complesso economico siffatto, una volta creato, doveva vivere in tutta la sua intelaiatura. E proprio questo fenomeno portava di conseguenza (questo e non quello che affermava l’altro giorno l’onorevole Colitto) al decadimento dei paesi meridionali. Questi paesi hanno avuto sì delle modeste possibilità industriali specialmente nel campo della trasformazione della loro stessa produzione agraria o mineraria. Ma queste stesse piccole possibilità, o che fossero state attuate o che fossero in via di attuazione, perirono o languirono tutte quante, perché, evidentemente, ogni attività industriale creata nel Meridione d’Italia o nelle isole trovava ostacoli, concorrenze o potenti ed oscuri divieti in quanto veniva a ferire il complesso economico del Nord nell’ormai acquisito diritto di esercitare integralmente l’attività industriale della Nazione. Non che il singolo uomo volesse portare la miseria in questa o in quella zona meridionale o isolana, ma era fatale che l’industria colpita o messa in pericolo si difendesse sul terreno economico. È la brutale crudeltà delle leggi economiche di fronte alle quali non si può fare appello alla pietà. E così noi abbiamo visto, nei nostri paesi meridionali, a poco a poco, ma continuamente e inesorabilmente, inaridirsi ogni fonte di produzione fino a quando le nostre popolazioni si sono ridotte a vivere soltanto dell’agricoltura e dell’attività mineraria elementare, proprio elementare, quasi senza macchina; il che vale a concretare, se io non erro, un sistema di vita che è proprio caratteristico della colonia. Produrre solo materia prima e comperare prodotti manufatti. Che è questo se non il modo di vivere di una colonia? Ora, tutto questo è avvenuto, tutto questo è stato constatato dalle nostre popolazioni, tutto questo è l’effetto di un accentramento amministrativo, l’effetto della costituzione unitaria dello Stato, e tutto questo ha portato di conseguenza al sorgere delle aspirazioni autonomistiche regionali, delle aspirazioni indipendentiste, e, dove il male fu più grave, delle tendenze separatistiche.

Quindi gli uomini politici pensosi della Patria, che non hanno voglia di venire a delle risse personali, che tali fenomeni guardano con senso di responsabilità, non devono preoccuparsi già delle manifestazioni, che ne costituiscono più o meno nervosa espressione, ma devono guardare alle cause profonde.

Se oggi si volesse curare una tubercolosi somministrando soltanto della canfora, io credo che chiunque direbbe che questa è una cura da ridere: bisogna vedere se vi è il rimedio perché si uccida il microbo di questa gravissima malattia. Il rimedio c’è, signori, il rimedio esiste ed io lo accennerò. Siccome devo arrivarci parlando di un problema che mi interessa più da vicino, voglio per il momento fare qualche osservazione su quello che è stato detto di più rilevante contro il sistema autonomistico.

Vi è un’opinione contraria dell’onorevole Colitto il quale, pur concludendo alla fine con la richiesta di una Regione per conto suo, ha detto presso a poco: facciamo l’esperimento in corpore vili, facciamo l’esperimento siciliano e vediamo quello che viene fuori. Ma ricordatevi – egli ha soggiunto – che quando Roma ha dato alla Sicilia (la vecchia Roma imperiale) una posizione giuridica particolare, la Sicilia andò al decadimento, andò alla miseria. Io non conosco questo esempio storico e credo che tale esempio non esiste, o per lo meno, che se esiste un esempio storico del genere, che cioè Roma abbia dato qualche volta un assetto giuridico autonomo alla Sicilia, deve essere così insignificante da sfuggire alle mie nozioni. Ma certamente tutti conosciamo qualche cosa di molto grave a proposito di Roma; conosciamo che quando il sistema romano fu accentratore – e lo fu sempre – la Sicilia fu costantemente spogliata, la Sicilia ebbe Verre, e non solo un Verre, ma molti, una serie di Verre. Quindi non credo che questo esempio possa calzare.

Un’osservazione invece che mi ha fatto molta impressione, che è comune sia all’onorevole Nenni sia all’onorevole Assennato, il quale l’ha espressa in bellissima forma, tale da creare qualche perplessità (e lo dico io che ho affrontato la questione indipendentista senza mezzi termini), è questa: guardate che, se noi costituiamo delle autonomie regionali nel Meridione d’Italia, dove noi abbiamo una situazione sociale così arretrata, noi facciamo il giuoco dei conservatori e degli agrari, perché, attraverso la legislazione autonomistica, costoro impediranno il libero circolare della linfa del progresso democratico. Questa, credo, sia l’impostazione dell’argomento.

E l’argomento è veramente serio. Lo dico perché, o signori, ne ho avuta una prova personale. Qualche mese fa io partecipai ad una riunione presso l’Alto Commissario per la Sicilia. La questione che si dibatteva era questa: se si dovesse riprendere l’applicazione del decreto Segni per il nuovo anno agrario 1947.

Con molte argomentazioni furono espressi vari pareri, in un senso o nell’altro. Naturalmente, tutti positivi quelli dei socialisti, dei comunisti e delle democrazie in generale, e tutti negativi quelli dei conservatori e degli agrari. Ad un certo punto vi fu un ricco feudatario che si alzò e disse: «Io chiedo che non si dia applicazione al decreto Segni, perché la Sicilia è in regime autonomistico e quindi non è Roma che deve obbligarci ad applicare questa legge, ma siamo noi siciliani; siamo noi che dobbiamo constatarne, esaminarne e deciderne l’opportunità».

È superfluo dire, che espressi parere nettamente contrario, in forma così decisa che allora mi si qualificò più comunista dei comunisti. Ma la verità è che questo è stato detto e che l’idea di servirsi dell’autonomia per sabotare le riforme sociali risponde forse – ecco dove sono d’accordo – al segreto pensiero delle classi plutocratiche e arretrate dei paesi meridionali. Può darsi che tali classi contino o sperino di potere, con le autonomie delle Regioni, impedire il circolare di quella linfa di riforme e di progresso di cui parlava tanto bene il collega Assennato!

TONELLO. Ed è proprio quello che noi non vogliamo!

VARVARO. Onorevole Tonello, credo che non bisogna mai affidarsi alle idee preconcette. A me ha fatto impressione, e lo ripeto all’onorevole Tonello che ha tanta fede nelle sue idee socialiste. Ma la verità è questa: che la questione, prospettata da quell’agrario, non passò. C’è poi una constatazione da fare, onorevoli colleghi, che in certo qual modo nega questa presa di posizione: noi siamo in regime autonomistico in Sicilia, da più di due anni, poiché l’Alto Commissario in Sicilia aveva i poteri dei Ministri, come li hanno oggi i vari assessori della Giunta; ebbene con l’Alto Commissario per la Sicilia si sono fatte le elezioni del 2 giugno 1946, da cui venne fuori questa Assemblea, e con l’Alto Commissario, in regime autonomistico, si sono fatte le elezioni del 20 aprile per l’assemblea siciliana. Quali sono i risultati? I risultati sono che le sinistre hanno avuto molti più voti il 20 aprile di quanto non ne abbiano avuto il 2 giugno.

Il blocco del popolo, ad esempio, ha raddoppiato, e forse più che raddoppiato, i voti del 2 giugno 1946. Che cosa dice questo? Secondo me, dice, o signori, che non si può, attraverso una amministrazione autonomistica, fermare il corso degli eventi; non è possibile. La Sicilia, come del resto altre regioni del meridione, era tra le più addormentate, dal punto di vista sociale ed anche dal punto di vista elettorale. La Sicilia, prima del fascismo (durante il fascismo vi fu un letargo addirittura) elettoralmente non aveva che clientele. E comandavano soltanto quelli che avevano un patrimonio. Bastava avere, in un paese, l’appoggio del cavalier Tizio o del commendator Caio, per avere la stragrande maggioranza dei voti; non c’era bisogno di fare nemmeno un comizio, bastava un banchetto!

Oggi no, autonomia o non autonomia, vi sono dei fenomeni che dobbiamo guardare in faccia. Io non credo che qui bisogna fare della poesia o della letteratura: qui bisogna fare soprattutto della realtà. Vi sono delle cose che hanno rivoluzionato il mondo; oltre le guerre, che per se stesse sono ragione di rivoluzione degli spiriti e delle leggi, vi sono altre cose che non c’erano nei tempi scorsi: vi è il cinematografo, vi è la radio, che arriva, vera linfa inarrestabile e vitale, dovunque, in ogni vena, in ogni arteria dell’organismo nazionale, anche nelle più minuscole e capillari; vi è la stampa che oggi è libera e giunge dovunque; vi sono, infine, i partiti, ai quali qualunque governo regionale reazionario non potrà mai impedire la propaganda. Nessuno impedirà ai partiti di conservare, anche in regime di autonomia, come anche in regime federalistico, la loro organizzazione unitaria. E anche se essi si snodassero in organizzazioni regionali, credete voi che, ad esempio, una federazione comunista o una federazione socialista siciliana penserebbe diversamente dalla federazione socialista o comunista romana, o toscana, o lombarda? Non credo che vi sia, perciò, alcun pericolo. Ma se pericolo vi fosse, allora io vorrei dire una cosa grave: il pericolo avrebbe due facce, perché noi abbiamo due aspetti completamente diversi del paese fra nord e sud. Se si teme che il meridione autonomista possa chiudersi in un sistema feudale, in un sistema arretrato, ugualmente si può e si deve temere che il nord possa con le autonomie creare delle repubbliche rosse. Perché no? Ma se non vi è questo pericolo, non vi è nemmeno l’altro. Io credo che la linfa del progresso della democrazia girerà dappertutto nonostante le autonomie e non saranno certamente le piccole assemblee delle Regioni che potranno impedire questo suo benefico fluire.

Vi è una questione – e veramente in questo momento non fa piacere parlarne – che sorge dalla tendenza agli spezzettamenti delle Regioni in Regioni ancora più piccole.

E questa, o signori, è proprio colpa della incertezza del progetto di Costituzione. Se si fosse fatto un progetto a più largo respiro, a tipo federalistico, noi avremmo avuto, non la tendenza allo spezzettamento della regione, ma all’unione di talune di esse in complessi territoriali più estesi aventi comunità d’interessi economici e di tradizioni che avrebbero meglio risolto i loro problemi in quella semisovranità che è caratteristica degli Stati federali.

Io debbo occuparmi adesso di una questione che mi interessa molto da vicino, e cioè a dire di quello che potrebbe accadere, se non subito, domani, o più tardi, o fra un anno, qualora fosse approvato uno dei due ordini del giorno, che sono stati autorevolmente presentati, l’uno dell’onorevole Rubilli e l’altro dell’onorevole Nitti. Tutti e due, in sostanza, tendono a rimandare sine die la questione delle autonomie. Il che vale quanto dire archiviarla. Su questo punto soccorre anche la storia parlamentare, ed è stato accennato, credo dall’onorevole Macrelli, al famoso progetto Minghetti che per amor di patria fu ritirato e per amor di patria seppellito.

Ora l’Italia non è interessata soltanto ai fenomeni economici e sociali, l’Italia è molto interessata anche ai problemi costituzionali ed istituzionali. Ormai in Italia vi è una coscienza (anche, se volete, nell’Italia del Sud, da Napoli in giù, più che in quella del Nord) una notevole coscienza autonomistica.

Non può la Costituente rispondere alle aspettative delle popolazioni con un rimando al futuro Parlamento, ossia con una promessa di cui tutti comprenderanno il significato. La cosa per me non ha soltanto importanza da questo lato, essa ha un’importanza particolare, per quello che riguarda la Sicilia. Né vale dire – come taluni affermano – che la Sicilia ha ormai il suo Statuto e non corre alcun pericolo. Non è così. Se voi osservate la relazione che fu scritta dalla Giunta nominata dal Presidente della Consulta Nazionale per l’esame del progetto governativo dello Statuto siciliano, troverete che fu proposto un emendamento all’articolo 42, nel quale si disse che lo Statuto sarebbe stato mandato più tardi alla Costituente per essere coordinato con la nuova Costituzione.

Nel proporre questo emendamento, la relazione adombra (potremmo dire meglio illumina) un dubbio che sembra un dubbio scientifico, un dubbio dottrinario o di esegesi, ma che è un dubbio politico grave, e cioè a dire il dubbio se la dizione adottata dal progetto del governo all’articolo 42, che cioè, in seguito, lo Statuto sarebbe stato sottoposto alla Costituente, debba intendersi nel senso puramente cronologico, oppure nel senso che lo Statuto siciliano abbia vigore fino a quando esso non pervenga all’esame dell’Assemblea Costituente alla quale resterebbero salvi i diritti sovrani di revisione.

D’altra parte, nel progetto della Commissione che stiamo discutendo è stabilita, all’articolo 108, la costituzione, con statuto speciale, della Regione siciliana.

E allora sorge l’interrogativo, quali sarebbero le conseguenze di una soppressione del Titolo riguardante le regioni? Noi avremmo, in tal caso, uno Statuto della Regione siciliana avulso dalla Costituzione dello Stato e non ratificato dall’assemblea Costituente. Cioè una legge statutaria non costituzionale, resa ancor più discutibile e precaria dalle riserve cui ho sopra accennato e da quelle successive, a tutti note, del Consiglio di Stato. E se questa e non altra verrebbe ad essere la fisionomia giuridica dello Statuto siciliano, non mi sorprenderei che il Parlamento italiano pretendesse domani di rivederlo o di sopprimerlo addirittura.

Ecco perché io debbo richiamare l’attenzione della Commissione e dell’Assemblea su questo quesito, tanto più che l’Assemblea, che deciderà alla fine queste questioni, può non essere fino ad oggi – e, badate, dico fino ad oggi, dopo tanto tempo! – può non essere, dicevo, sufficientemente edotta di quello che sia la questione siciliana.

Né vi sembri questa un’eresia; pensate che fino a pochi mesi fa non si sapeva qui da molti che ci fosse già uno Statuto siciliano e ci si meravigliava che la Sicilia volesse un suo Parlamento.

La questione siciliana è conosciuta sin’ora sotto un aspetto un po’ convulsionario. Dev’essere, invece, conosciuta sotto un altro aspetto, sotto quello della storia e dei diritti della Sicilia.

La Sicilia ha sempre avuto una sua autonomia, o meglio una sua sovranità di Stato. Si può fare eccezione soltanto per i tempi di Roma antica, durante i quali essa era una provincia romana, perché anche nel Medioevo, se è pur vero che vi si succedevano dei re stranieri, è anche vero, però, che la successione derivava dalle leggi feudali e che essa non scuoteva la sovranità del regno alla quale i re giuravano fedeltà.

Questa è storia innegabile che dà alla Sicilia fisionomia di nazione.

Tuttavia nessuno, certo, vuol oggi tentar di restaurare una Sicilia medievale e settecentesca: per carità! Ma è storia ed è perciò un fatto che incide sulla psicologia della popolazione. A questo proposito io interpreto in modo forse un po’ originale il voto che è stato dato al partito monarchico in Sicilia. Mi permetto di affermare che nella stragrande maggioranza i voti dati ai monarchici in Sicilia sono stati dati proprio dagli analfabeti, proprio dalle donnicciuole, da chi non sa, ancora, né leggere né scrivere – purtroppo c’è ancora questo fenomeno in Sicilia. Questo terreno elettorale è stato fertile per i monarchici, perché nella coscienza tradizionale del popolo siciliano vi è ancora il ricordo di un «riuzzo», di un piccolo suo re. Questa idea è quella che fa presa, non già la coscienza che la monarchia possa essere migliore della repubblica, o le malinconie per i Savoia, che ritengo ormai confinate tra gli ori ammuffiti di qualche vecchio palazzo. Ora, dicevo, una coscienza della vecchia sovranità nazionale nel popolo siciliano c’è. Ed è questa coscienza, soprattutto, che fu sempre in contrasto con lo Stato accentratore in quanto un tale Stato la mortificò sempre senza volerla comprendere e la represse violentemente ogni volta che essa ebbe espressioni più o meno vivaci. Quando venne il fascismo, il popolo di Sicilia ebbe moti di vera insurrezione morale perché esso esasperò al massimo grado l’accentramento costituzionale, perché creò quella uniformità di obbedienza mortificante, per la quale al centro era il dominio e alla periferia la schiavitù. Quando il fascismo menava vanto di provvidenze per le scuole, per la istruzione di colonie montane e marine, di beneficenza o assistenza ai bambini, ai vecchi e ai poveri, ecc., tutto questo non era che coreografia di Roma e di poche altre grandi città; ma nella nostra Sicilia non si vide nulla di tutto questo o forse qualche ombra di un’ombra, e forse anche soltanto quando veniva ad onorarci il duce; per il resto era miseria, erano lacrime, sangue ed oppressione. E nient’altro.

Questo fu il lievito della rivolta morale; e quando un tal sistema accentratore mortificante giunse alla follia della guerra, giunse proprio a distruggere tutto, allora quella coscienza prese forma concreta in quello che fu il Movimento indipendentista; che fu un Movimento di minoranza, sì, di pochi uomini, ma che costituiva, tuttavia, l’espressione dello stato d’animo collettivo. E credo di averlo definito onestamente.

Ma c’è ancora un equivoco da eliminare; l’equivoco diffuso che il Movimento indipendentista siciliano sia stato o sia contro l’Italia, che operi in odio all’Italia. Errore madornale! Io sono stato fra gli elementi direttivi del Movimento indipendentista; nessuno ama l’Italia come me, o meglio, più di me. Io per questa Italia ho dato il mio sangue nella guerra del 1915; ho fatto il mio dovere, e me ne vanto, ed è uno dei miei maggiori vanti. Ma io, come tanti altri, ho voluto dar vita a questo Movimento. Non c’è quindi niente contro l’Italia. Esso ha semplicemente posto sul tappeto un problema di giustizia e di libertà, perché non si può negare che tutta una zona dell’Italia si è sempre più arricchita, mentre un’altra zona, nella quale è compresa la Sicilia, sempre più si è immiserita.

È quindi un problema economico che si vuole risolvere; e i problemi economici non si risolvono con le paternali o con le parole patriottiche; bisogna trovare dei mezzi concreti. Io non credo, ad esempio, che vi sia al mondo un Ministro della giustizia o un Ministro degli interni che possa ottenere da un popolo di non violare le leggi con un bel discorso patriottico! Quando vi è il fenomeno della delinquenza (e vi è dappertutto) bisogna provvedere con la legge.

Ugualmente se v’è un fenomeno economico morboso per cui ineluttabilmente avviene un drenaggio di ricchezza a tutto favore, ad esclusivo vantaggio di alcuni col corrispondente danno di altri, lì bisogna fare la legge, perché non sarà mai coi discorsi patriottici ed elevando inni all’unità della Patria che noi vi troveremo rimedio. E questa legge invocava l’indipendentismo siciliano. Ho inteso dire dall’onorevole Nenni che prima di parlare di autonomie bisogna attendere che sia creata nei popoli meridionali una coscienza sociale altrettanto elevata come quella del nord Italia e che le riforme sociali portino le popolazioni del Sud allo stesso livello di quelle del Nord.

No, onorevole Nenni, se questo potesse avere un’importanza bisognerebbe che voi mi provaste come questo fenomeno potrà avvenire con l’amministrazione centralizzata. Io invece vi do il documento della storia più recente dell’Italia dal 1860 ad oggi, della storia che abbiamo vissuto. Che cosa è venuto dal progresso industriale, commerciale ed economico moderno alle popolazioni dell’Italia meridionale? Nulla, soltanto miseria! Il problema meridionale è stato studiato profondamente e si è tentato inutilmente di risolverlo nell’ambito dell’unità accentratrice. Quindi, onorevole Nenni, l’argomento non regge.

Tornando al Movimento indipendentista siciliano dirò che vi è un fatto che pochi conoscono in questa Assemblea ed è questo: che esso nacque da germe e linfa socialista. Furono i socialisti che ebbero l’iniziativa, e precisamente la Federazione socialista siciliana che si costituì a Palermo subito dopo l’entrata degli Alleati. Il più bel progetto di autonomia della Sicilia, il migliore, il più snello, il più largo e il più conseguente è proprio quello che è stato redatto e approvato dalla Federazione socialista siciliana. Di quella Federazione socialista siciliana io facevo parte e con me ne facevano parte uomini che per il novantacinque per cento appartengono oggi ai partiti socialisti, allora dicevamo al partito socialista italiano.

Non vi leggerò tale progetto. Accennerò solo che prevedeva: un sistema giudiziario completo, dalla infima magistratura sino alla Cassazione, un sistema di polizia regionale, un sistema scolastico che andava dalla istruzione primaria fino agli istituti superiori, senza pregiudizio del diritto dello Stato di creare in Sicilia istituti speciali d’istruzione tecnica o scientifica, prevedeva un dipartimento del commercio e dell’industria, un dipartimento delle poste, dei telegrafi e dei telefoni, un dipartimento delle finanze e del Tesoro e uno delle dogane il cui regime passava alla Regione. Prevedeva che la Sicilia rimanesse legata all’Italia con vincolo unitario (non si parlava nemmeno di Federazione) e la rappresentanza del Governo italiano con un suo Commissario avente diritto di veto sulle leggi ingiuste. La Sicilia avrebbe riscosso tutti i tributi con legislazione propria obbligandosi a pagare allo Stato un annuo contributo.

Era questo un progetto snello ed attuabile, mentre non si può dire lo stesso dello Statuto vigente del quale vedremo presto le insufficienze e l’incapacità funzionale. Proprio in questo momento mi arrivano notizie che il massimo delle entrate in Sicilia sarà di cinque miliardi circa, mentre cinque miliardi è già la spesa prevista per i soli impiegati. Mi fate il piacere di dire come deve funzionare questa autonomia?

Un tale Statuto dovrà essere modificato in ogni caso, anche se non lo sarà subito. Badate, però, che la modifica non può avvenire nel senso di diminuire le libertà della Sicilia; questo non si potrà mai più fare: sarebbe un salto nel buio, un errore irreparabile. Le modifiche devono rendere lo Statuto funzionabile, fino ad eguagliare almeno quel progetto della Federazione socialista siciliana, che forse avrebbe avuto altra fortuna, se non fosse avvenuto quello che è avvenuto e che dirò in breve.

Per adesso mi fermo sulla necessità che l’Assemblea Costituente ratifichi quel che è già stato concesso.

Per quanto riguarda il Parlamento di domani, esso dovrà per forza rivedere in senso positivo lo Statuto siciliano, altrimenti si avranno dei pronunciamenti locali secondo i bisogni che si andranno determinando giorno per giorno; e allora la situazione peggiorerà a causa dei conflitti che ne seguiranno. Molto meglio sarebbe rendersi conto che siamo di fronte ad una legge manchevole che bisognerà ampliare.

Si dirà: ma quando avremo ampliato lo Statuto, quando avremo previsto un tipo diverso di rapporti fra la Sicilia e l’Italia, quando avremo modificato i rapporti doganali per snellire e far più libero il commercio siciliano, non avremo creato una federazione? Abbiamo dunque paura delle parole? Sarà autonomia, sarà federazione, poco male. Non sono le definizioni quelle che contano.

Bisogna a questo punto rilevare l’inesattezza dall’affermazione che la Sicilia non è in grado di provvedere a se stessa. L’argomento sembra in contrasto con quanto dicevo prima. Ma se è vero che le entrate in Sicilia non possono oggi bastare par la sua amministrazione autonoma, è vero altresì che i dati tributari, da soli, non dimostrano la capacità finanziaria di un paese. Coloro i quali in quest’Assemblea hanno detto che in fondo la Sicilia ha un gettito di imposte minore di quanto l’Italia spende per essa non hanno detto nulla di rilevante. L’errore dell’enunciazione si rivela subito, osservando che oggi qualunque regione d’Italia ha un gettito minore di quanto lo Stato spende per essa per l’intuitiva ragione che il bilancio dello Stato è deficitario. Quindi se l’Italia spende per tutte quante le regioni 600-700 miliardi all’anno in più di quello che incassa, è segno che questo deficit viene distribuito fra tutte le Regioni; e potremmo dimostrare facilmente che la minor parte va proprio al meridione e alla Sicilia. Ma io mi fermo ad un altro concetto, che mi sembra ancor più importante: la questione della Sicilia non va soltanto esaminata dal punto di vista del gettito delle imposte, ma, soprattutto, dal punto di vista economico. Se oggi la Sicilia ha un gettito meschino di tributi, questo significa che il reddito dei siciliani è misero e lo è perché si è immiserito o, per lo meno, non è aumentato nel corso di questi ultimi 87 anni, come invece è avvenuto in altre Regioni. Si tratta dell’effetto di un male che dobbiamo curare, e che come tale non può divenire motivo per negare alla Sicilia qualsiasi speranza di soluzione.

Guardiamo il fattore economico. Prendiamo un dato. La Sicilia è un paese che nel 1945 ha nella sua bilancia commerciale una eccedenza di nove miliardi 935 milioni; e nel 1946, primo semestre, una eccedenza di ben 7 miliardi e 842 milioni. Ma vi è di più: la Sicilia ha negli Stati Uniti d’America qualche cosa come quattro milioni di emigrati, i quali hanno inviato ai loro cari, cioè alla Regione, nel 1945, ben 7 milioni 716 mila e 640 dollari (notate che i grandi prestiti a cui noi corriamo dietro sono appena di 100 milioni di dollari) e nel primo semestre del 1946, 3 milioni 852 mila dollari. Ora questi sono dati che non giocano negli argomenti degli antiautonomisti, ma son dati economici che, in un sistema di autonomia più ampio, possono essere utilizzati dalla Sicilia per il suo progresso industriale e agricolo, che, elevando il tono del reddito, produrrà ben più largo gettito di tributi e con esso la possibilità di coprire tutte le spese pubbliche.

Ritornando al progetto d’autonomia della Federazione socialista siciliana, io devo dirvi, come ho promesso, perché essa perdette la iniziativa del Movimento indipendentista che era stata, indubbiamente, un suo grande titolo verso la Sicilia. Ad un certo punto si costituì a Bari, o a Salerno – non ricordo esattamente – il partito socialista. Per essere preciso nella esposizione – perché questo interessa molto i partiti di sinistra – mentre la Federazione socialista siciliana si costituiva a Palermo, nella stessa Palermo si costituiva una piccola, minuscola sezione di socialisti nuovi, salvo pochi, che non avevano avuto contatti coi vecchi socialisti della Federazione; era un piccolo fungo, che veniva fuori localmente, proprio in opposizione al vecchio socialismo della Federazione socialista siciliana; ed in quanto la Federazione assunse atteggiamento autonomista o, se volete, indipendentista, quella sezione diventò antiautonomista ed antindipendentista, solo perché si faceva una questione di bottega o di concorrenza ai vecchi uomini del socialismo antifascista.

Noi ci battemmo decisamente perché l’iniziativa del Movimento indipendentista siciliano restasse al socialismo. Ma ad un certo punto arrivava da Salerno un ispettore del partito recante una nota della direzione, nella quale si diceva che non potevasi consentire che un socialista fosse anche indipendentista, perché i termini erano antitetici.

VERNOCCHI. Nel senso separatista.

VARVARO. Nel senso indipendentista.

VERNOCCHI Noi abbiamo parlato sempre di separatisti, mai di indipendentisti; questo lo posso assicurare, perché io ero nella direzione del partito.

VARVARO. Io dirò che l’ispettore venne nel mese di marzo o aprile del ’44 e che il progetto di autonomia siciliana era del 18 gennaio del 1944; e quel progetto non era certamente separatista, perché prevedeva non solo l’unità d’Italia, ma la presenza in Sicilia, accanto al governo, d’un Commissario del governo centrale.

VERNOCCHI. Non era da noi conosciuto; eravamo ancora divisi dalla Sicilia.

VARVARO. È stata una disgrazia, una sventura. Certa cosa è che noi socialisti della Federazione socialista siciliana, che avevamo, al tempo stesso, la fede nel socialismo – del resto mai venuta meno e che mai verrà meno – e la fiducia di combattere una battaglia nobile per la nostra terra dimenticata, fummo messi colle spalle al muro, fummo messi in condizione di dover rinunziare ad una delle due fedi. Io pensai che restare nel partito socialista, ubbidendo all’ingiunzione di lasciare quel Movimento, significava volgere le spalle alla battaglia di redenzione della Sicilia, mentre continuare questa battaglia e dover subire di non poter far parte del partito socialista non significava abbandonare la fede nel socialismo che nessuno ci può togliere e non consiste di certo in una tessera. Perciò ho preferito rimanere nella battaglia per la Sicilia con l’amarezza nel cuore. Io sono, peraltro, troppo una modesta persona e quindi è stato poco male per il partito socialista che io non abbia potuto restare con esso.

VERNOCCHI. Ritornerai.

VARVARO. Ma il grave fu questo: aver perduto l’iniziativa di quel Movimento indipendentista che poteva essere quanto di più nobile si possa costruire; e, in un certo modo, aver permesso che elementi reazionari stratificatisi nelle sue file – mi si permetta l’apparente improprietà del termine – consumassero il tentativo di farsene arma politica contro la luce del progresso democratico e contro lo stesso socialismo. Ecco qual è stato l’errore politico; errore che io ho subito più di tutti, e che mi ha costretto ad altra più aspra battaglia.

Ma non posso e non credo di dover continuare su questo argomento che la benevolenza del nostro Presidente mi ha permesso di trattare a lungo, e che esula un poco, ma non troppo, dall’oggetto che noi trattiamo. Mi ci fermerò solo un momento ancora per dire che io ho cercato di riprendere queste forze indipendentiste, che sono repubblicane, che sono socialiste, che sono democratiche, queste forze che non abbandoneranno la loro battaglia per la Sicilia, ci tengo a dirlo, ma per una Sicilia che vuole, con le libertà costituzionali, anche ed insieme le più ardite riforme sociali per elevare le miserevoli condizioni del suo popolo lavoratore ed eroico.

L’onorevole Assennato, che io ho ascoltato con molta attenzione e simpatia, ha osservato che la maggior parte degli oratori inscritti a parlare sulle Regioni è meridionale. Veramente è un fatto notevole.

La spiegazione, secondo me, è questa: l’Italia non ha potuto mai risolvere il problema meridionale. Non dirò che non ha saputo risolverlo, perché farei torto a uomini di fama riconosciuta e preclara, che hanno combattuto per una soluzione di essa, in questa stessa aula, strenue e indimenticabili battaglie. Nessuno di noi può ammettere che mancasse ai deputati e agli uomini di Stato, che per decenni affrontarono la questione meridionale, il talento per risolverla. Se non la si è risolta, vuol dire che qualche cosa lo ha impedito, qualche cosa che ha superato l’intelligenza e la decisa volontà degli uomini. Ed io penso che questo impedimento sia da ricercare proprio nel sistema accentratore dell’Amministrazione dello Stato. È proprio ed unicamente questo che, privando le popolazioni meridionali di qualsiasi iniziativa, faceva perder loro anche la visione dei loro problemi e dei loro stessi interessi.

Adesso, invece, tutti cominciano a capire. È bastato che le autonomie locali fossero progettate, perché tutti cominciassero a conoscere i loro problemi ed a proporne soluzioni concrete.

Certo non vi è dubbio che il problema regionale è una maniera con cui risorge la questione meridionale. In sostanza oggi la questione meridionale si ripresenta sotto la fisionomia e l’aspetto autonomistici. È questa una constatazione decisiva che noi dobbiamo affrontare. Vorremo noi dell’Assemblea Costituente chiudere la porta contro le aspirazioni dei popoli meridionali di risolvere finalmente il tormentoso problema e dar loro la sensazione che sono condannati ad un’eterna inferiorità? Io credo che questo noi non vogliamo. Ed allora, facciamo sì che questi popoli possano tentare da se stessi un supremo sforzo verso una migliore giustizia economica e civile, ciò che è poi, se non l’unica, certo la loro più grande speranza. (Applausi – Congratulazioni).

PRESIDENTE. È iscritto a parlare l’onorevole Carlo Cremaschi. Ne ha facoltà.

CREMASCHI CARLO. Onorevoli colleghi, ormai credo che il problema dell’autonomia regionale sia stato ampiamente e diffusamente trattato. Credo che sia stato ampiamente trattato anche per il fatto che molti di coloro che erano iscritti a parlare vi hanno rinunciato, e da ciò si vede che ritengono che tutto sia stato detto. Io che non ero iscritto e che non intendevo iscrivermi, e che, anzi, avevo solo il desiderio di sentire tutti gli iscritti, penso oggi invece di portare sia pure un modesto contributo alla discussione cercando di risolvere i dubbi che io stesso ho, convinto come sono che nessuno dei dubbi degli altri (io li chiamo dubbi ma per i singoli non sono dubbi, sono certezze) potranno essere risolti per quante discussioni si facciano qui dentro, ché ormai ognuno ha preso il suo atteggiamento e non si arrenderà.

Critiche sono state fatte al progetto di autonomia regionale da tutte le parti.

L’altro giorno mi è capitato d’incontrarmi con un mio vecchio maestro di università, professore di geografia, con cui avevo studiato appassionatamente questa materia nel senso più profondo della parola, con cui avevo studiato i problemi dei popoli, oltreché i problemi della linguistica. Ora quest’uomo interrogato da me sul problema della Regione mi rispose senz’altro: «Bisogna accettarlo, però io l’accetto con tremore perché vedo che può essere un ostacolo a quella federazione europea a cui io penso».

Mi ha lasciato perplesso questa obiezione del mio maestro e ho dovuto faticare per dimostrare che questa sua obiezione non reggeva. Ma vedremo in seguito come si risponde ad una obiezione simile.

Un’altra obiezione mi è capitato di cogliere da miei colleghi fuori di quest’aula. Mi hanno detto: «Capirei l’ente regionale se non ci fosse in precedenza lo Stato, ma dal momento che c’è lo Stato in Italia perché tornare alla autonomia regionale?»

Mi hanno detto: «È un passo indietro. È un regresso». Ora, per rispondere a queste, che sono alcune delle tante osservazioni che sono state mosse qui o fuori di qui al progetto di Costituzione, credo sia necessario studiare profondamente la vera natura del decentramento: vederne effettivamente il valore nella realtà è compito di altri colleghi che mi seguiranno; a me interessa vederne alcuni riflessi nella storia, con riferimenti alla psicologia del popolo e degli individui. Dicono gli avversari del decentramento: «perché tornare indietro nella storia, visto che c’è lo Stato, perché tornare alle Regioni?» Credo che valga la pena di guardare profondamente l’evoluzione storica, prendendo come esempio la storia della letteratura di qualsiasi popolo.

Sorge dapprima la poesia epica: così in India coi poemi del Veda e del Rigveda, così in Grecia con i poemi di Omero, ed in Roma, con il Bellum poenicum di Nevio e con gli Annales di Ennio, così in Spagna col Cid Campeador, e finalmente con la Divina Commedia, in Italia, la grande epica di tutta una umanità, in cammino verso i mondi ultraterreni. In un primo tempo sorse quindi la poesia epica, la poesia dei popoli, la poesia dell’oggettività; solo più tardi sorgerà la lirica, la poesia dell’individualità. Certo è difficile stabilire dove l’epica finisca, e dove cominci la lirica; ma non questo problema noi ci poniamo; constatiamo un fatto: prima nacque l’epica, poesia della collettività, poi sorse la poesia lirica, quella dell’individuo, il vero cantico della personalità individuale.

Per noi italiani la cosa non è tanto semplice perché da noi il nostro individualismo molto accentuato ci porta a confondere i due momenti dell’epica e della lirica. Ma si può dire che anche in Italia l’epica precedette la lirica, e credo che la stessa cosa accada anche per la politica, che è una forma di poesia, la poesia del popolo. Credo che l’epica sia rappresentata dall’accentramento che precedette il decentramento lirico del popolo italiano. Da questo esempio come da tanti altri si può dedurre che il decentramento non rappresenta un regresso rispetto a uno stadio precedente, ma forse, se non sono troppo presuntuoso nel mio giudizio, forse potrebbe rappresentare uno dei tanti sviluppi logici della dialettica della storia. Ma come si spiega questo movimento evolutivo della storia?

È stato detto e ripetuto in Italia, che si era fatta la Nazione, ma non si erano fatti i cittadini, non si erano fatti gli italiani. Ciò può essere anche vero. Certamente però è strano, perché se vi è un popolo che è individualista questo popolo è il nostro, insofferente di disciplina, di imposizioni, poco incline agli adattamenti. Non vogliamo essere un gregge, ci ribelliamo all’inquadramento che si usa e si può usare con le pecore. Ognuno si sente nel proprio io qualcosa di grande; ognuno di noi, sia detto con buona pace dei colleghi, sente in sé almeno la possibilità di diventare Presidente del Consiglio. Questa personalità prepotente che è in ciascuno di noi, ha dato alla storia esempi fulgidi di intraprendenza e di genialità. Guardate questo popolo nel corso della storia, piegato da alterne vicende, quasi soffocato ed ucciso, non mai vinto, vedetelo risorgere dal pianto e dalle rovine, e, cantando il suo sublime inno di vita, riprendere come la sua primavera, a rifiorire nel tempo con le sue creazioni. Siamo individualisti perché siamo dotati di una prepotente personalità, ma non siamo isolazionisti. Amiamo unirci socievolmente, nei nostri Comuni, nelle nostre Provincie, nelle nostre Regioni, nella Patria nostra, l’Italia, per poi unirci ancora di più in un insieme ancora più vasto e potente, in una federazione di Stati, che finalmente attui il sogno del Poeta: «Tutti fatti sembianza di un solo, – tutti figli di un solo riscatto, – in qual ora e in qual parte del suolo – trascorriamo quest’aura vital, – siam fratelli, siam stretti ad un patto, – maledetto colui che l’infrange – che s’innalza sul fiacco che piange – che contrista uno spirto immortal».

Così il nostro sogno di impenitenti regionalisti: non una rottura, non una frattura, non un frazionalismo, ma anzi l’unione, l’unità nell’armonia, in questa poesia di vita.

Voi ricordate, nel secolo primo avanti Cristo, il grido di Lucrezio: non esiste che l’atomo? Poi si è scoperto che l’atomo è un sistema, quasi un piccolo sistema solare, con elettroni, neutroni e protoni, e che questa compattezza dell’atomo sta nell’armonia, nell’avvicinarsi, nel giro vorticoso di queste particelle che lo compongono. Così, per noi in questo momento, in questo tragico momento, in cui la civiltà è così avanzata, si eleva un grido: non esiste che l’atomo; così noi sentiamo che l’unità di uno Stato coordinato non si può realizzare se non attraverso una armonia di parti, un compenetrarsi, un aiutarsi, un dividersi i compiti, un collaborare tutti insieme, fraternamente, concordemente: Comuni, Provincie, Regioni, Nazione, per quella grandezza ancora più vasta che potrebbe essere la Federazione.

Così rispondevo al mio vecchio professore di geografia incontrato per caso qui a Roma.

Ma ci si dice che noi vogliamo rompere l’unità di Italia, ci si è chiamati frammentaristi, quasi che un feroce iconoclastismo avesse invaso le menti, in questo dopo guerra tormentato. Ma, è possibile questo? Onorevoli colleghi, raccoglietevi un momento in voi e meditate su questo fenomeno regionalistico, che non è nato soltanto in questo dopo guerra: cercatene le cause. Qualcuno ha cercato di trovare le cause di questo fenomeno nella volontà individualistica, che è propria degli italiani. Io non credo che soltanto questa sia la causa atta a spiegare il fenomeno. Voi ricordate, onorevoli colleghi, quando fuggiaschi sui monti o rinchiusi in quattro mura, noi combattevamo vivendo nella speranza di un domani migliore, di un domani di libertà? Ebbene, notate un particolare: accanto al sardo combatteva il lombardo, accanto al siculo c’era il bergamasco. E come è sorta l’idea di un decentramento, di un regionalismo, dopo questa fraternità d’armi, dopo questa comunanza di affetti e di sforzi per dare all’Italia una libertà? Da questa guerra, onorevoli colleghi. Dal modo come questa guerra è stata condotta, è sorta l’idea del regionalismo e dell’autonomia; anzi, diciamo meglio, è risorta. Fino a quando l’accentramento aveva soffocato, inquadrato, eguagliato tutti, gli spiriti prepotenti non potevano allontanarsi dalla vita politica; ma quando la lotta ha messo in luce la genialità, le qualità più genuine del nostro popolo, allora si è risvegliato in noi il senso di un dovere sopito, ma non morto, si è sentito il vero valore della parola «res publica», per cui ognuno sente il desiderio di portare il contributo proprio all’amministrazione della cosa pubblica. Frazionamento questo o potenziamento, onorevoli colleghi? Mi appello alla vostra sincerità. Ognuno di voi, per esperienza, può e deve dire come l’esser piovuto qui in mezzo a tanti che provengono da tante Provincie, questo ha rappresentato per noi, e forse rappresenta ancora oggi, un inceppamento. Quanto furore sacro si disperde e muore, ogni giorno, nelle morte gore del centralismo; quanti strali noi non scagliamo contro la burocrazia, quel capro espiatorio obbligato di tanta lentezza?

Ma perché non vogliamo essere sinceri ed ammettere che la lentezza e la remora è rappresentata proprio da questa fatale lontananza dei problemi dal centro? Quando il problema urge, quando preme con la sua necessità e immediatezza, e fa sentire la sua attualità, allora lo si può risolvere con tempestività e con senso di concretezza in loco. Queste ragioni io ritengo che non siano le sole; ce ne sono molte altre, che sono state richiamate da molti colleghi. Il problema, del resto, non è soltanto di questi tempi: il Mazzini si pronunziava già in favore della Regione; poi vi fu il progetto del Farini del 1860, ripreso dal Minghetti, progetto che decadde su relazione del Tecchio una settimana dopo la morte di Cavour. Poi vennero le guerre, poi il dopoguerra, poi il fascismo, e dopo il centralismo fascista la storia ci riporta a questo desiderio di far rinascere l’autonomia regionale, ci riporta a questa concreta realtà che ci ricollega ai migliori uomini del Risorgimento. E cerchiamo allora di comprendere le voci che ci provengono dalla storia, di comprendere questo problema e di risolverlo.

Per quanto riguarda la Provincia si è detto qui che la Provincia esiste soltanto nella realtà dei dati statistici, e che non è qualche cosa di concreto. A me pare che non sia proprio così. Lo si può vedere, senza ricollegarsi al nome di provincia che, secondo Festo, deriva dal fatto che «Provinciae appellabantur a quod populus Romanus eas provicit, id est ante vicit», dall’antichità dell’istituto «provincia», come si può vedere dal fatto che nello Stato pontificio, fin dal secolo XIII-XIV, ogni provincia aveva un «rector», e successivamente lo Stato sardo, la Val d’Aosta, la Val di Susa ebbero delle circoscrizioni militari e giudiziarie corrispondenti agli attuali circondari. Nel Lombardo-veneto l’ordinamento provinciale si affermò nel secolo XVIII, ed il Granducato di Toscana si divise in compartimenti, che poi divennero distretti. Noi vediamo, in sostanza, che la provincia è una realtà storica anteriore all’unità d’Italia, ma è anche una realtà etnica, linguistica, economica. Noi sappiamo che il centro provinciale è sorto anche per ragioni economiche; e che le provincie hanno anche tradizioni etniche, linguistiche e storiche. Per questo noi crediamo che non si possa dire che la Provincia esiste soltanto nei dati statistici. Essa è una realtà, concreta e palpitante. E non è campanilismo questo, è senso di unione fra coloro che sentono di difendere gli stessi interessi, fra coloro che parlano la stessa lingua, e che sono affratellati da una stessa storia. Ed allora, fare scomparire completamente la Provincia, oppure togliere alla Provincia quelle che saranno le sue caratteristiche, per demandarle alla Regione, mi pare un nonsenso, perché questo non sarebbe un decentramento ma un accentramento. La Provincia è di per se stessa un elemento di decentramento.

D’altra parte, se sfogliate i dati statistici delle 91 Provincie italiane, voi vedrete che la superficie va da un massimo di 9228 chilometri quadrati nella provincia di Cagliari ad un minimo di 984 chilometri quadrati per la provincia di La Spezia; ma la media nazionale della superficie della Provincia si mantiene sui 3265 chilometri quadrati, un’entità dunque abbastanza grande dal punto di vista della popolazione e degli interessi economici, e tale da avere diritto di resistere a questa lotta che le si fa.

Io credo quindi che si debba da parte di tutti essere concordi nel voler mantenere la Provincia, nel voler cioè articolare la nostra autonomia sulla Provincia, conferendo ad essa alcuni compiti oltre quelli che già possiede.

Un’altra osservazione. Proprio per quella paura, proprio per quell’obiezione che è stata accennata da molti, secondo cui la Regione potrebbe rappresentare il frammentarismo dell’unità italiana, io ritengo che si dovrebbe bandire l’appellativo di Parlamento regionale che noi vogliamo dare a quel consesso che dovrebbe reggere la Regione, il quale invece potrebbe molto più opportunamente chiamarsi Consiglio regionale, con una Giunta composta di assessori.

Il Parlamento infatti deve essere uno solo, i deputati devono essere soltanto i deputati del Parlamento nazionale, i Ministri e il Governo debbono essere solo quelli centrali. Così, anche in queste che possono sembrare delle questioni di lana caprina, ma che pure hanno la loro importanza e il loro valore, perché, anche se si tratta di parole, le parole in certi casi possono assumere veste di realtà, noi veniamo ad evitare delle confusioni che potrebbero anche nuocere.

Se poi verrà accettata anche un’altra proposta, che ho sentito formulare da alcuni colleghi, che cioè non si facciano delle elezioni appositamente per i Consigli regionali, ma che vengano elette le Giunte provinciali, le Giunte provinciali riunite formino il Consiglio regionale, noi avremo allora anche semplificato di molto il problema dal punto di vista rappresentativo ed elettorale.

Se così faremo, noi potremo veramente andare incontro a questa che è un’innovazione sentita perché risponde ad esigenze storiche e psicologiche, con animo fidente e sereno.

Ma è stata mossa l’ultima obiezione: perché il decentramento deve essere instaurato proprio oggi che ci troviamo in una terribile disfunzione dal punto di vista degli organi amministrativi? Ebbene, io credo che sia proprio opportuno oggi addivenire a questa riforma, appunto perché c’è questa disfunzione; infatti dal momento che si deve procedere ad una riforma di tutto il complesso strutturale, è opportuno appunto che venga in questo momento innestata questa innovazione.

Se noi riusciremo a far passare questo progetto di decentramento e di autonomia regionale, se noi riusciremo effettivamente a mettere a contatto i cittadini con la cosa pubblica, ad innestare ciascuno di noi, ciascun italiano, nell’interesse della società, allora noi avremo gettato profonde basi per la democrazia. Se invece continueremo sulla vecchia strada del centralismo, buttando ai margini le popolazioni, non creando questi interessi, non cercando di sollecitare tutte le forze che possono contribuire alla rinascita della Patria, allora noi avremo demeritato della Patria.

Cerchiamo, onorevoli colleghi, di deporre tutte le nostre intemperanze faziose; ritorniamo al concetto iniziale: si era fatta l’Italia un tempo e non si erano fatti gli italiani; oggi, con sacrificio, con sangue, abbiamo rifatto l’Italia: onorevoli colleghi, cerchiamo di fare anche gli italiani. (Applausi – Congratulazioni).

PRESIDENTE. È iscritto a parlare l’onorevole Morelli Renato. Non essendo presente, si intende che vi abbia rinunciato.

Seguono nell’ordine gli onorevoli Romano, Perlingieri, Cannizzo, Ruggiero, Rognoni, De Palma, Di Giovanni, Lopardi, Persico. Non essendo presenti, si intende che abbiano rinunciato a parlare.

È iscritto a parlare l’onorevole Roselli. Ne ha facoltà.

ROSELLI. La questione, onorevoli colleghi, che stiamo trattando, credo sia risolubile al di là di ogni divergenza in una maturazione comune, concorde, con senso di equilibrio. Si tratta di creare una costellazione di forze nuove, di enti nuovi, che vogliamo introdurre nella vita amministrativa e politica dello Stato. Si tratta di trovare i loro limiti, il modo di regolare i loro rapporti, di eliminare eventuali contrasti, in modo da permettere ad ognuno di essi una vita, uno sviluppo, che chiami tutti i cittadini alla responsabilità della storia della Nazione: responsabilità che comincia dalla fabbrica, dall’impresa in cui si lavora, dalla casa in cui si vive, arriva al Comune, sale alla Provincia, alla Regione, alla Nazione, all’internazione, seguendo una collana di enti che è già stata citata in questa Assemblea. Un equilibrio, quindi, politico, affinché di tale questione non si faccia il monopolio di un partito contro altri partiti, ma se ne faccia una ricerca comune, un equilibrio di valutazione, schivando quelle frasi che qui si sono dette: «La Provincia non esiste!». Io vengo dalla Provincia di Brescia, che dal ’400 in vecchie carte della Repubblica veneta è già delimitata nei suoi attuali confini: dal passo del Tonale, fra i due laghi d’Iseo e del Garda, fra l’Oglio e il Mincio, delimitata a nord dalle Alpi e a sud dal Po; un territorio di 170 Comuni, che ha una vita così omogenea, un dialetto così caratteristico, uno sviluppo economico e sociale così chiaro, un equilibrio insomma che ancora è conservato fra centomila lavoratori dell’industria e centomila lavoratori dei campi. Un terzo della Provincia è montano, un terzo collinare, un terzo è di quella feconda pianura padana, ricca di produzione agricola, di messi e di bestiame. Ebbene, pensare che questa Provincia non abbia radici storiche, un’omogeneità e caratteristiche sue nel clima della Lombardia è assurdo. E questo ci deve ricordare anche a non fare in modo che la Regione opprima questa vita provinciale, perché in base ad un articolo finale di questo progetto, se le Provincie si sentiranno soffocate, avremo in Italia ottanta Regioni invece delle sedici caratteristiche, perché ogni Provincia soffocata avrà in sé gli elementi per farsi Regione. Per esempio, la Provincia di Brescia, che pure è lombarda e legata a Milano, se Milano dovesse sviluppare un suo senso autocratico, accentratore, immediatamente chiederebbe di poter vivere lavorando da sola. Orbene, questo lo abbiamo già visto, per esempio, in un decreto del prefetto di Milano, dopo la liberazione, che impedì e proibì a tutti i lavoratori di entrare nella Provincia di Milano. E si capisce: si trattava di difendere dalla disoccupazione i milanesi, di permettere ai milanesi di andare al lavoro. Ma se in un decreto come questo, pur originato da giusti motivi, non si contemperano le esigenze delle altre Provincie, l’Italia si dividerà in compartimenti stagni.

Questo equilibrio che andiamo ricercando, dato che dobbiamo fissare nuovi termini alle Regioni, deve essere affrontato qui in sede sostanziale, fondamentale, a grandi linee, e nella prossima Assemblea, poi, in senso più concreto, più dettagliato, in termini legislativi, in termini geografici, in termini di organizzazione della vita della Nazione e in termini amministrativi. A tale proposito si parla spesso dello Stato. Io mi chiedo se noi ci siamo accorti dal nostro posto che si ha ancora paura dello Stato, che c’è ancora il senso di timore e di diffidenza per lo Stato. Basta aver visto le Commissioni intere che vengono a Roma a chiedere qualche cosa ai Ministeri, basta sentire la delusione quasi perenne che esse provano quando entrano in contatto con gli organi governativi, per capire che il popolo nostro è pieno di attività, ha delle cose da lanciare nel futuro, ha onesti interessi da difendere nella sua vita quotidiana, ma ha ancora il senso dell’oppressione statale. Con questo non voglio dare al termine tutto il peso che vi sarebbe linguisticamente conferito, ma voglio dire che c’è il senso di uno Stato «x», d’uno Stato divinità inaccessibile che si trova nei Ministeri e dinanzi a cui i cittadini non si trovano a loro agio.

Io ritengo che i concetti dì decentramento, di autonomia, di indipendenza siano concetti relativi. Ogni ente è indipendente dall’altro. Ma non si tratta di esasperare le differenze e l’assolutismo fra ente ed ente. Come la famiglia, così la nazione è una somma di elementi: una somma di Regioni, e la Regione una somma di Provincie e la Provincia una somma di Comuni e il Comune una somma di famiglie. Però è una somma che non sta tutta negli addendi, una somma alla quale si aggiunge un elemento unitario, un elemento che nasce dal sentimento e dal bisogno. L’elemento sentimentale nasce dalla religione, dal dialetto, dalle tradizioni, dai problemi e dai costumi locali. Il bisogno è rivolto alla conservazione, all’esaltazione e allo sviluppo della persona umana. È un bisogno oggi, nei nostri Comuni, che si manifesta soprattutto con la ricerca del lavoro e col miglioramento locale delle condizioni dei lavoratori e con i lavori pubblici nei quali il nostro popolo vede da una parte una garanzia contro la disoccupazione e dall’altra parte la possibilità di migliorare il tenore di vita ed il livello sociale dei Comuni, delle Provincie e via dicendo.

Per quanto riguarda questa parola decentramento, io ritengo che non esprimiamo esattamente il pensiero. Si tratta in realtà di trovare dei nuovi centri, di impiantare delle forze che erano magnetizzate e quasi oppresse, quasi vincolate, e costrette da un centro che abusava della sua posizione di centro; si tratta in realtà di creare una costellazione di equilibrio fra le varie forze, equilibrio statico per quanto riguarda l’essenza delle cose, ma equilibrio dinamico per quanto riguarda l’espressione della vita. E dobbiamo preoccuparci molto, dobbiamo far sì che questi enti lascino spazio libero agli uomini che vi abitano e ai popoli affinché essi possano muoversi ed agire in una organizzazione in cui noi vogliamo che la politica nasca dal focolare, in cui vogliamo che gli uomini salgano dai Comuni alle responsabilità nazionali.

Le strade che questa Costituzione ha scelto a tale fine sono due: una che passa per le elezioni nazionali (il popolo elegge la sua Assemblea); l’altra è quella che passa attraverso i Consigli comunali ed i Consigli provinciali ai quali sarebbe bene aggiungere le forme rappresentative o elementi rappresentativi degli enti produttivi, economici, sindacali, culturali ecc. Ai Consigli provinciali e regionali è bene aggiungere tutte le rappresentanze in cui si organizza la vita provinciale in senso economico e culturale od altro. Da questo Consiglio regionale si prevede, mi pare, un apporto a quella che dovrebbe essere la seconda Camera, che dovrebbe essere integrata anch’essa da elezioni popolari. Io ritengo che una organizzazione di tal genere, chiaramente fatta conoscere al nostro popolo, potrebbe essere utile alla vita nazionale e potrebbe permettere agli uomini, attraverso questo sistema elettorale di primo e di secondo grado, di esprimere veramente la loro volontà. Naturalmente, quando noi definiamo queste linee non possiamo pretendere di avere definito l’ordinamento regionale che è un ordinamento che richiede tempo, esperienza e collaborazione; e richiede quell’applicazione graduale, non transitoria, delle sue parti fondamentali: transitoria forse semmai in qualche parte accessoria. Richiede inoltre la concordia comune. Ebbene, con questa dinamicità che esige dagli elementi che localmente dovranno stabilire e definire la loro volontà, io ritengo si ottenga un elemento di sana agitazione politica nel nostro Paese, che possa rappresentare qualche cosa di nuovo.

Poiché l’ordinamento nuovo, come tutto il resto della Costituzione scritta sulla carta, dovrà tradursi in opera, esigerà questo lavoro avvicinato, questo lavoro che passi da una visione macroscopica ad una visione normale, ed esigerà che non si porti l’esasperazione; che non si porti, nella campagna elettorale, l’ambizione, l’egoismo, la tendenza all’egocentrismo, ma si porti quella feconda gara che tutti cerchiamo per il bene della Nazione.

Mi pare che i cittadini abbiano conquistato la libertà allo Stato, ed è giusto che lo Stato dia questa libertà e la faccia correre negli organi della Nazione. Ricordo un esempio per far vedere come sarebbe consigliabile che lo Stato si limitasse a dare norme generali nelle sue leggi. Ricordo quanto si è patito e si pena, per esempio, in materia di consigli di gestione; e come si sia detto, anche altre volte, che non è possibile che da Roma parta una legge che diriga tutto sui consigli del lavoro, ma come sia necessario solo l’indirizzo generale; e come sia necessario che localmente le Provincie, le Regioni, le fabbriche e le aziende, di diverso ordine, organizzino questa penetrazione della partecipazione della responsabilità dei lavoratori nelle aziende.

Vorrei soffermarmi un momento sull’esame del progetto. Nell’articolo 107 sono saltate le Provincie: gli emendamenti invece portano questa parola. Ma occorre completare la definizione, perché nell’articolo 121 si parla del «Comune autonomo», ma non si parla di Provincia. Quindi non basta introdurre la Provincia nell’articolo 107, ma bisogna dire che cosa è la Provincia.

Per quanto riguarda gli articoli 109 e 111, col lungo elenco, in parte criticabile, di materie, è importante che siano interpretati con molta cautela e buon senso. Ad ogni modo i principî fondamentali stanno bene. Si riconosce alla Regione una certa possibilità di legislazione primaria. Non si può pretendere che questo articolo contenga tutto, ma non comprendo, per esempio, perché l’artigianato sia escluso dalla possibilità della legislazione primaria della Regione. In sostanza mi pare che l’articolo sia da interpretare in senso indicativo, più che limitativo, esatto ed esclusivo.

Mi pare preoccupante l’articolo 117, che prevede un estremo urto fra la Regione e lo Stato, e mi sembra pericoloso che si debba così facilmente prevedere un urto di questo genere, che si debbano prevedere casi di così gravi violazioni di leggi, per cui lo Stato debba ricorrere allo scioglimento del Consiglio regionale o alla deposizione del presidente. Quando effettivamente si verificasse tale scontro, sarebbero da vedere le conseguenze. Non mi pare possibile lasciare arrivare la Regione alla possibilità di così gravi violazioni per farla trovare improvvisamente di fronte all’urto con lo Stato. Perché, delle due l’una: o il Consiglio regionale ha ragione, e allora in base alla Costituzione ha il diritto di opporsi; o ha torto e allora io chiedo come può arrivare ad aver torto con una facilità così grande quale potrebbe essere costituita nel risultato dell’articolo 117. Ritengo che siano necessarie delle cautele, delle filtrazioni per impedire che il Consiglio regionale arrivi ad una situazione così grave.

Quanto all’articolo 118, non mi sembra del tutto chiara l’organizzazione: si tratterebbe di trovare una formula più espressiva.

L’Assemblea regionale prepara le norme da consegnare al Governatore, il Governatore deve mettere il suo visto ed esprimere il parere, in modo che il Governatore o il Commissario sia egli stesso già investito di una sua responsabilità nel giudizio dell’atto governativo. I disegni di legge dovrebbero così passare al Governo, e questi li dovrebbe restituire con la convalida perché diventino esecutivi. C’è poi la possibilità d’impugnazione da parte del Governo davanti alla Corte costituzionale od all’Assemblea Nazionale.

Sono i casi di divergenza. Mi pare che questa organizzazione dovrebbe essere un po’ chiarificata; e così pure la questione degli statuti regionali di cui parlano gli articoli 119 e 124, in quanto l’Assemblea Nazionale dovrebbe dare uno statuto che fosse d’indirizzo generale alla Regione, lasciando larghi limiti per comprendere le esigenze locali. Ma l’indirizzo occorre, e potrebbe essere dato da uno statuto modello.

Quanto all’articolo 123, ritengo che sia necessario definire le Regioni d’Italia, e sono lieto di vedere come ci si sia fermati veramente, tranne qualche piccolo caso, alle Regioni storiche fondamentali. Non mi parrebbe conveniente lasciare adito ad aggiunte non ben ponderate. Mi parrebbe pericoloso uscire dalla situazione tradizionale italiana; questa stabilizzazione delle Regioni forse esigerebbe una leggera variazione dell’articolo 125, in quanto il minimo di 500 mila abitanti lascia prevedere la possibilità di fondare 90 Regioni teoriche; quindi ritorneremmo alle 90 Provincie.

Altro argomento, estremamente affascinante, ma molto difficile: quali l’indirizzo e la posizione del proletariato nella questione della Regione?

Come viene o come verrà a trovarsi il proletariato in questa nuova istituzione?

Il proletariato è costituito di famiglie e di uomini, che vivono di lavoro precario, con una retribuzione che dovrebbe essere proporzionata alla quantità di lavoro fornita. Esso è la base della vita nazionale italiana ed attende non solo il suo riscatto e la sua redenzione, ma di portare avanti la storia d’Italia, di cui è stato ed ancora sarà elemento fondamentale.

Come sempre è stato affermato, esso è stato portato nelle trincee, senza nulla aver chiesto. Questo proletariato deve poter guidare la sua storia.

Evidentemente, il senso di classe è forte nel nostro proletariato.

Si può presentare questo problema: la classe proletaria – operai, contadini, piccoli impiegati, piccoli proprietari, artigiani; tutta gente di lavoro, di mestiere – condurrà meglio la sua battaglia, condurrà meglio la sua storia con uno Stato centralizzato o con un fronte frammentato, che gli dia possibilità di frammentarsi nei Comuni, nelle Provincie e nelle Regioni?

Se si trattasse di scegliere, se ci fosse una alternativa, per cui una scelta escludesse l’altra, ritengo che con l’unità e con la comunità dello sforzo il proletariato sarebbe meglio salvaguardato. Ma il senso di massa, il fronte unico è salvaguardato dall’Assemblea Nazionale e dalla diretta possibilità politica del proletariato.

Io ritengo che sia una buona cosa, coll’unità di indirizzo, la possibilità di frammentare la battaglia, di portarla sul piano concreto, laddove le istituzioni sono visibili, chiarificabili e stabili, vicine alla casa; ritengo che il proletariato ne abbia tutti i vantaggi.

Non ritengo che, come è stato detto, il latifondista siciliano, in regime autonomista, possa eludere la legge Segni, che costituisce un principio fondamentale dello Stato e l’inizio della battaglia del latifondo. Non c’è possibilità per l’autonomia siciliana di uscire dall’indirizzo generale dello Stato.

Il proletariato deve conoscere da vicino tutti gli elementi, che dirigono le aziende, i Comuni, le Casse mutue, gli ospedali e tutte quelle istituzioni locali che interessano il popolo.

Troppe volte si ha l’impressione di trovare irresponsabilità nel funzionario, il quale a chi si presenta nel suo ufficio per una pratica risponde: «La tua pratica è a Roma, è sospesa», oppure: «Non posso evadere la tua richiesta per questo o quel motivo; io non sono responsabile». Troppe volte, insomma, manca veramente la mira al povero che chiede la giustizia e se invece il senso di responsabilità viene diffuso alla Provincia, ai Comuni, alla Regione, quando anche i funzionari vedranno che, pur dovendo essere collegati a Roma, saranno ambientati in una organizzazione che dia loro maggiore responsabilità, maggiore possibilità di autonomia e verranno in fine dei conti considerati come un qualunque impiegato privato che quando dirige una fabbrica, una azienda, se sbaglia, sbaglia personalmente e non può appellarsi ad un Consiglio di amministrazione, orbene, quando ci saranno uomini responsabili di fronte alla massa, io credo che la massa ne avrà un grande utile e ne avrà un vantaggio anche sotto la forma della sua educazione. L’educazione politica della massa richiede che si diffonda il senso della responsabilità, che si diffonda il senso della partecipazione effettiva alla vita dello Stato. E molte volte la massa è stata tenuta al buio e si ritiene ingannata o delusa o illusa. Per di più si hanno delle incertezze nelle masse che ritengono, a causa dei loro bisogni, a causa delle loro debolezze, a causa delle loro ristrettezze, lo Stato loro nemico. Io credo che questa inimicizia fra Stato e proletariato sia fatale all’uno e all’altro. Io credo che bisogna che il proletariato viva nello Stato sentendolo come cosa sua, come suo è il proprio focolare.

Ebbene, uno Stato che si liberi e che porga ai suoi cittadini, ai più poveri, le possibilità della risoluzione dei suoi problemi, ritengo che può essere veramente l’amico del proletariato e considerare il proletariato come la più solida, più forte base. Se parliamo di tali problemi, l’elenco si smarrisce: casa, alimentazione, abbigliamento, istruzione del proletariato, assistenza, previdenza, questi enti di previdenza dai quali il proletariato ha l’impressione di essere ingannato sempre, anche se questi enti sono passivi, insufficienti a sopperire ai bisogni dell’assicurato indipendentemente da loro difetti o colpe. Il proletariato ha sempre l’impressione di essere un po’ truffato da queste grandi organizzazioni centrali. Ebbene, io ritengo che questo decentramento debba arrivare anche lì. Per esempio, le mutue hanno appena aperto i loro bilanci e provincialmente i bilanci mutualistici oggi sono controllati dai lavoratori. Questo senza distruggere quel senso mutualistico nazionale che deve rimanere, anche nelle mutue provinciali o indipendenti. Ma è bene che il proletariato sappia quello che avviene nei vari uffici.

Prima della guerra le mutue non conoscevano i loro bilanci. Non li conosceva nemmeno il direttore. Si conoscevano i bilanci in sede nazionale e non si sapeva perché si pagavano lire 15,50, o lire 12,30 o perché fosse possibile dare questo e non quello. Ebbene, questo sviluppo di responsabilità, questo allargamento di base in tutte queste questioni, ritengo sia molto utile a tutti noi.

Finisco dicendo anche che molte questioni prima d’essere di portata nazionale, sono di portata locale.

Per esempio, in provincia di Brescia avevamo 45.000 disoccupati e la nostra mano d’opera agricola era di otto-nove unità, su 33 ettari; l’imponibile di mano d’opera era in genere controllato molto dall’alto, ma le trattative non erano libere.

Dopo la liberazione, le libere trattative fra Federterra e Confida e l’intervento di uffici locali dello Stato hanno permesso alla provincia di Brescia di arrivare a 14 unità su 33 ettari e l’imponibile di mano d’opera si è quasi raddoppiato. Queste 14 unità nella Provincia di Brescia hanno eliminato 5 o 6 mila disoccupati che sono purtroppo ancora salariati. Ma è meglio poter lavorare con una retribuzione fissa e stabilita da contratti e controllata da autorità sindacali e di Stato. È meglio risolvere localmente e nei limiti del possibile una questione di grande importanza come questa della disoccupazione, anziché aspettare la manna dall’alto.

E così per i mezzadri e così per la compartecipazione, così per le cooperative, così per i permessi delle attività locali. Sono mille piccole questioni sociali che producono, se non risolte, gravi stati di malessere e di disagio, mentre invece se risolte da uomini chiari ed onesti producono viceversa la pace e sono di esempio al centro che molte volte riprende iniziative localmente già varate e spinte nell’interesse di tutti.

Concludo dicendo che, se avremo fiducia nella libertà come l’hanno avuta i nostri morti, quella libertà ci salverà e ci darà modo di fondare veramente uno Stato di cittadini e di lavoratori onesti, coscienti e responsabili del loro Paese. (Applausi).

PRESIDENTE. Sono iscritti a parlare gli onorevoli Cevolotto, Da Caro, Codignola, Targetti, Vicentini, Mattarella.

Non essendo presenti, si intende che vi abbiano rinunciato.

È iscritto a parlare l’onorevole Priolo. Ne ha facoltà.

PRIOLO. Onorevoli colleghi, vi dirò in rapida sintesi il mio pensiero, che è nettamente contrario alle autonomie regionali; quindi, caro Uberti, preparati ad interrompermi.

UBERTI. Ti ascolteremo affettuosamente; abbiamo bisogno di sentire difendere il centralismo.

PRIOLO. Vedi, liberti, non è il centralismo che difendo; se c’è uno che odia – odiare veramente no, perché non ho mai odiato nessuno e neppure il centralismo – ma che ripudia nettamente qualunque forma di accentramento sono proprio io, però penso che in questo particolare momento della vita nazionale la creazione della Regione possa costituire un grave errore.

Il collega onorevole Bellavista, al quale da ieri voglio più bene di prima per la sua coraggiosa ed aperta dichiarazione di lealismo repubblicano, diceva che noi antiregionalisti parliamo di pericolosi salti nel buio, così come si faceva durante la campagna istituzionale da parte dei monarchici.

Ma allora si trattava di affermazioni campate assolutamente in aria e sostenute per puro artifizio dialettico perché era stata invece proprio la monarchia che, dimentica delle sue funzioni ed asservita al fascismo, ci aveva fatto fare una teoria interminabile di salti nel buio – e che buio! – fino a quello ultimo e tragico, che ha sprofondato la Nazione nella rovina e nella miseria. (Applausi).

Ora sta di fatto che autorevoli colleghi, esponenti di partiti, lontani fra loro per concezioni sociali e politiche, ma tutti ugualmente animati da alto senso di responsabilità verso il Paese, hanno manifestato sulla stampa ed in questa Assemblea il loro pensiero contrario alle autonomie regionali, che essi ritengono possano pregiudicare la unità morale e politica della Nazione nell’attuale periodo della vita italiana, determinando nuove difficoltà economiche e finanziarie, nuovi incentivi a particolarismi municipali, nuove cause di disgregazione e di malessere alle molte di forza maggiore che già ci angustiano e che costituiscono la triste eredità di venti anni di sgoverno dittatoriale, conchiusi con una tragica disfatta.

Però quasi tutti gli oppositori delle autonomie hanno preferito esaminare la questione da punti di vista prevalentemente politici e finanziari, mentre io mi propongo di trattare l’argomento anche, e sopratutto, dal lato amministrativo e pratico, per dimostrare che l’ordinamento, previsto dagli articoli 106 e seguenti della Costituzione ha solo l’apparenza formale dell’autonomia, ma non la sostanza, e che, comunque, esso è prematuro, intempestivo, non necessario, talché il progresso teorico, che potrebbe derivare dalla sua applicazione, sarebbe annullato da una serie di danni e di inconvenienti pratici.

Affinché la mia dimostrazione risulti chiara anche all’uomo della strada, le cui idee sono state confuse da troppi dibattiti generici, e che attende perciò da questa Assemblea parole persuasive e decisioni orientatrici, consentitemi, onorevoli colleghi, di fissare preliminarmente la reale portata dei termini «autonomia» e «decentramento», i quali vengono spesso scambiati o adoperati impropriamente, tanto nell’uso comune quanto nella legislazione. Ciò potrà apparire a prima vista scolastico e superfluo, ma onorevoli colleghi, se avrete la pazienza di seguirmi, vi renderete conto che è indispensabile ai fini della mia dimostrazione. Per evitare equivoci, dunque, è assolutamente necessario tener presente che autonomia significa facoltà di darsi delle leggi, che tale facoltà deve distinguersi nettamente da quella di autoamministrarsi, cui corrisponde il termine autarchia, e, infine, che decentramento vuol dire sì trasferimento di attribuzioni e servizi statali dal centro alla periferia, ma che per centro non deve intendersi necessariamente la capitale dello Stato, sì bene qualunque altra città, nella quale siano concentrati poteri di governo e di amministrazione, ma che, comunque, sia lontana dalle unità circoscrizionali periferiche rappresentate dai Comuni.

Da coteste precisazioni essenziali, parmi risultare evidente, anche per chi non sia versato nelle materie amministrative, e senza bisogno di alcuna dimostrazione, che la facoltà di darsi delle leggi e cioè l’autonomia non possa essere esercitata da chi non possegga già la facoltà e capacità di autoamministrarsi, e cioè l’autarchia, e non goda già del decentramento amministrativo statale, dappoiché autarchia e decentramento si abbinano e convergono nella facoltà complessiva dell’autogoverno locale.

L’autonomia degli enti locali (siano essi Regioni, Provincie o Comuni) costituisce pertanto la fase ultima e conclusiva di una serie di ordinamenti liberi e progressivi, che si iniziano con l’autarchia, si sviluppano col decentramento, si perfezionano e completano nell’autogoverno locale.

Da ciò si rileva che introdurre oggi nell’ordinamento della Repubblica Italiana l’autonomia, quando ancora gli enti locali sono molto lontani dall’autarchia e dal decentramento, e cioè dai presupposti logici e giuridici dell’autogoverno, sarebbe lo stesso che Costruire il tetto prima delle fondamenta di un edificio, rinunziare alla realtà per amore dell’artificio. (Approvazioni).

A tale riguardo, mi sia consentito ricordare che l’ordinamento locale dell’Inghilterra, che è fra i più moderni e democratici nel mondo, rappresenta appunto la felice risultante di una radicale applicazione del decentramento e dell’autarchia, che gl’inglesi chiamano selfgovernment, il quale assicura agli enti locali le più ampie libertà, dappoiché affida agli organi elettivi delle parrocchie, dei distretti rurali, dei distretti urbani, delle contee, non solo l’amministrazione degli interessi strettamente locali, ma anche quasi tutte le funzioni ed i servizi statali, compresi quelli dell’igiene, della istruzione, della polizia e sicurezza ed in parte anche della giustizia.

In Inghilterra, pertanto, non esistono prefetture né prefetti, e quel popolo ignora che cosa sia il controllo e l’ingerenza governativa negli affari locali del Regno Unito, mentre fa largo uso di tali controlli nei territori soggetti dell’impero.

AMBROSINI. Non è esatto.

PRIOLO. Ascoltami, Ambrosini, quanto io espongo l’ho appreso nelle aule del glorioso Ateneo romano, il cui semplice ricordo fa vibrare il mio cuore e maledire ancora una volta di più il fascismo, che mortificò le nostre Università, disperdendo nobili tradizioni di cultura e di libertà. (Applausi). Ora proprio in questi giorni ho voluto rinfrescare la memoria sugli argomenti di cui discuto: se poi tu hai delle cognizioni diverse e più moderne ascolterò con tutta deferenza la tua voce autorevole, lieto sempre di apprendere.

Dunque, dicevo, in Inghilterra non vi sono autonomie regionali, vi è invece decentramento ed autarchia e, ripeto, il popolo ignora che cosa sia il controllo e l’ingerenza governativa.

RODI. Non è così. L’importanza del selfgovernment sta in questo intervento continuo dello Stato, fatto però in maniera abile e democratica.

PRIOLO. Queste affermazioni mi sorprendono: la tua, caro Rodi, può essere una interpretazione non so quanto esatta.

RODI. Perché, se no, in che consiste la caratteristica del selfgovernment?

PRIOLO. La frase selfgovernment ti dice tutto: traduci esattamente ed avrai la spiegazione che chiedi. E ti soggiungo che Antonio Salandra, mio illustre maestro, quando pronunziava le sue magnifiche lezioni di diritto amministrativo all’università di Roma, elogiava il selfgovernment anche e soprattutto per la nessuna ingerenza del potere centrale.

Ora, non ostante l’esercizio di così ampie libertà locali, in Inghilterra non sono state introdotte ancora le autonomie regionali, e ciò perché gl’inglesi sono abituati a porsi i problemi della vita pubblica su basi realistiche ed a risolverli in termini concreti, prescindendo dagli schemi ideologici, che formano la passione ed il tormento di noi italiani.

Essi, traendo ispirazione dalla loro mentalità pratica, non avvertono la necessità di estendere le libertà locali fino alla estrema fase dell’autonomia, che a ragione giudicano superflua, o almeno inutile agli enti locali del Regno Unito, la cui libertà è largamente assicurata dall’autogoverno, fondato sul decentramento, sull’autarchia e sul suffragio popolare.

Senonché, i più tenaci sostenitori della autonomia ad oltranza in Italia si appoggiano all’esempio della Svizzera, degli Stati Uniti e di talune repubbliche del Sud America, dove, dicono, le autonomie sono vive, operanti, e proficue.

TONELLO. Vanno scomparendo anche là.

PRIOLO. Costoro non considerano, però, che in quegli Stati le autonomie sono imposte da peculiari condizioni geografiche, linguistiche, religiose o economiche, e che sono sorte cogli Stati medesimi, e spesso, anzi, li hanno preceduti nell’ordine costituzionale e amministrativo, così che l’unità federale è stata escogitata colà come un correttivo cementatore delle tendenze centrifughe e dei danni dell’isolamento e dello slegamento autonomistico.

In Italia sarebbe stato logico, e forse anche utile politicamente, che le autonomie regionali fossero state istituite nel 1861, quando cioè esse furono patrocinate dal Minghetti e dal Cattaneo, come freno alle esorbitanti pretese del Piemonte.

Ma allora fu temuto che le autonomie compromettessero l’unità nazionale ancora recente, che si volle invece consolidare mediante un ordinamento accentrato, che ripartì il territorio nazionale in circoscrizioni amministrative comunali, circondariali e provinciali, rette rispettivamente da sindaci, da sottoprefetti, e da prefetti, i quali, però, amministravano non già quali rappresentanti del popolo delle rispettive circoscrizioni, sì bene per conto del Governo centrale e della monarchia.

Mancando troppi elementi per una esatta valutazione, e soprattutto statistiche attendibili, non è facile stabilire oggi se sia stato un bene o un male quello che fu definito allora da taluni meridionali la «piemontizzazione forzata dell’Italia» che fece pure le sue vittime negli avversi campi in cui si divise la Nazione, e più specialmente nel Mezzogiorno. (Commenti prolungati).

Una voce a destra. Ci tolse la libertà.

PRIOLO. Non concordo con l’interruttore; pur riconoscendo che l’unità costò al Mezzogiorno molti sacrifici bisogna avere però il coraggio di affermare che dall’unità il Mezzogiorno trasse anche notevoli vantaggi. E la Nazione italiana riuscì a rafforzare la propria impalcatura politica ed economica e ad imporsi alla considerazione ed al rispetto del mondo, affrontando e superando, dal 1915 al 1918, una grande guerra, culminata in una gloriosa vittoria. (Applausi).

Ma dopo quel periodo di progresso, sopravvenne purtroppo quello della tirannia fascista, durante il quale la Nazione fu avvilita, oppressa e trascinata colla forza all’isolamento, alla guerra ed all’estrema rovina, le cui macerie ci sforziamo oggi di sgombrare, per ricostruire l’edificio crollato della Patria. (Approvazioni).

Ora io domando, onorevoli colleghi, se in un momento così grave, e mentre ancora il nostro popolo si trascina piagato ed immiserito sotto i colpi dell’avverso destino, non sia doveroso e necessario affrontare il grave problema dell’ordinamento regionale col metodo pratico, che è caratteristico degli inglesi, e cioè prescindendo da pregiudiziali teoriche o di partiti, ed ispirandoci unicamente alla realtà attuale del Paese ed alle esigenze di pubblico bene, che risultino assolutamente improrogabili al lume della trascorsa esperienza.

Se con tali propositi sereni noi esamineremo il titolo quinto della Costituzione, giungeremo sicuramente, con larga maggioranza, alla conclusione che l’autonomia delle regioni (eccezion fatta per la Sicilia, la Sardegna, Trentino-Alto Adige e la Val d’Aosta) non è imposta oggi da alcuna sostanziale ed urgente esigenza; che essa non risulta neanche necessaria o utile, e potrà anzi provocare difficoltà e suscitare nel Paese malcontenti e delusioni la cui responsabilità sarà attribuita a buon diritto a questa Assemblea; che, quindi, per prevenire ogni danno e per conseguire sostanziali benefici, convenga rinviare almeno per quattro anni ogni decisione sulle autonomie, in attesa della prova che esse faranno là dove sono state concesse; che intanto sia urgente promuovere ed attuare con estrema larghezza il decentramento dell’amministrazione statale e la riforma autarchica degli enti locali, ed in una parola quell’autogoverno, che risulta già sperimentato positivamente in Inghilterra, la cui immediata applicazione a tutta l’Italia agevolerà anche la riuscita dell’esperimento autonomistico delle isole e delle zone mistilingui, dove la legislazione fascista ancora in vigore ostacola ed annulla il funzionamento delle autonomie. (Applausi).

Nelle Commissioni della Costituzione ed in questa Assemblea, discutendosi una riforma a scartamento ridotto della legge comunale e provinciale, sono stati già riconosciuti unanimemente gli eccessi, gli anacronismi, gli errori dell’ordinamento instaurato dal regime fascista, il quale a fini polizieschi e tirannici ha esasperato l’accentramento amministrativo dello Stato ed ha negato, violato, annullato le libertà locali esistenti nel 1922, arrestando l’evoluzione democratica, cui esse erano felicemente avviate.

Ricordate, onorevoli colleghi, che il fascismo abolì i sindaci, soppresse i consigli comunali, sostituendoli con i podestà e con le famose consulte, che si riunivano ogni sei mesi per battere le mani e fare il saluto al duce – veramente anche in quest’aula si faceva lo stesso saluto e si cantava «giovinezza» (Commenti) – abolì consigli e deputazioni provinciali e creò i presidi ed i rettori, di nomina governativa, designati dai segretari federali, che imperversavano in ogni provincia, assumendo pose eroicomiche di ducini.

Una voce a sinistra. Animali!

PRIOLO. Dica piuttosto ignoranti, presuntuosi, criminali, che la nostra sventurata Italia ha dovuto purtroppo subire per venti anni. E dire, onorevoli colleghi, che ancora vi sono anime nostalgiche, che palpitano e sognano torbidi ritorni! (Commenti).

Una voce a sinistra. Sappiamo chi sono; stanno freschi! (Applausi a sinistra).

PRIOLO. Restiamo in argomento, affermando ancora una volta e solennemente che una delle precipue cause del disagio morale e del malessere politico del Paese, nonché delle immani difficoltà che ostacolano la ricostruzione nazionale ed il consolidamento della Repubblica, si deve ricercare proprio nell’ordinamento fascista, che ancora vige in pieno, e che costituisce una pericolosa arma di sabotaggio, di cui si vale largamente quella parte di burocrazia che è apertamente e subdolamente ostile alla Repubblica e più specialmente alla democrazia. (Applausi).

Ora, il necessario ed urgente rinnovamento su basi di libertà democratiche della amministrazione fascista dello Stato e degli enti territoriali non è agevolato, ed anzi è intralciato, dalle autonomie regionali previste dalla Costituzione, per i motivi che accenno di volo:

1°) perché le Regioni previste dalla Costituzione non sarebbero autonome, ma controllate da commissari governativi, così come l’Inghilterra fa solo nelle sue colonie.

All’ingerenza, che il Governo esercita oggi nelle Provincie a mezzo dei prefetti, si sostituirebbe nelle Regioni l’ingerenza del Commissario governativo, il quale diventerebbe il contro altare dei governi regionali elettivi, ed il punto di appoggio di tutti coloro i quali, sconfitti nelle elezioni, farebbero leva sul Governo centrale per ottenere intromissioni ed appoggi negli affari locali (Interruzioni al centro);

2°) perché le Regioni, come circoscrizioni amministrative dello Stato, si aggiungerebbero alle Provincie, complicando ulteriormente l’attuale macchinosa organizzazione burocratica, così che in pratica si verificherebbe che taluni poteri e servizi statali resterebbero a Roma, altri andrebbero alle Regioni, ed altri ancora alle Provincie, per modo che all’odierno unico accentramento della capitale se ne aggiungerebbe un secondo nei capoluoghi di Regione: accentramento, che allontanerebbe i poteri e servizi statali dai Comuni e moltiplicherebbe, insieme con gli uffici e i funzionari, anche la possibilità di sabotaggio burocratico volontario e involontario, gli oneri dello Stato, il disagio e le spese dei privati e degli enti, i quali sarebbero costretti a seguire gli affari dagli uffici comunali, ai provinciali, ai regionali, ed infine ai Ministeri. (Approvazioni – Commenti prolungati).

3°) perché le Regioni, come enti locali, assorbirebbero e sostituirebbero le Provincie e quindi allontanerebbero anche in questo campo gli amministratori dagli amministrati, creando una grave lacuna per i servizi, che i Comuni non possono assolvere ciascuno per proprio conto, e che oggi l’ente Provincia disimpegna per conto di tutti, e cioè il mantenimento degli esposti, la manutenzione delle strade provinciali, il ricovero dei folli, i servizi di igiene e di profilassi, quelli antitubercolari, antitracomatosi e della maternità, i quali, sebbene affidati formalmente a consorzi, poggiano di fatto sulle Provincie e sui loro organi. Dopo ottantasette anni di esistenza l’ente autarchico Provincia, sorto come circoscrizione territoriale artificiale, è divenuto una circoscrizione tradizionale e naturale, che quando anche non sia caratterizzato, come lo è in molti casi, da fatturi geografici, è però chiaramente delineata dall’orientamento e dall’organizzazione della viabilità, delle comunicazioni, le quali fermano la rete vascolare del territorio provinciale, e che perciò convergono ai capoluoghi di provincia come ai centri e agli sbocchi necessari e non sostituibili di tulle le correnti ed energie economiche ed amministrative della vita sociale. (Approvazioni a sinistra – Interruzioni – Commenti al centro).

Per il bene delle popolazioni interessate, è quindi necessario che l’orientamento e l’organizzazione oggi esistenti ed operanti a base provinciale non siano in alcun modo modificali, e che anzi siano ulteriormente utilizzati, agevolati e sviluppati, tanto nel campo del decentramento amministrativo, quanto nel campo autarchico. (Approvazioni).

Tirando lo somme e traducendo in parole povere i risultati pratici della istituzione dell’ente Regione, così come è prevista dalla Costituzione, si avrebbe quindi un peggioramento sostanziale dell’attuale ordinamento dello Stato e degli enti locali in cambio di una apparente autonomia; si creerebbero inconvenienti reali in cambio di benefici illusori; si applicherebbero, alla macchina statale, sovrastrutture, che renderebbero più lenti e difficili i movimenti, più forti e frequenti gli attriti; mentre tutti sappiamo che occorre rivestire il corpo della Nazione con un abito tagliato su misura, comodo ed elastico, che aderisca alle sue membra, che agevoli il funzionamento dei vari organi, che consenta rapidità e snellezza di movimenti, libertà, forza, dinamicità di vita. (Applausi).

Ed un’ultima cosa, onorevoli colleghi, voglio dirvi prima di giungere alla conclusione, dolente di avervi già tediato abbastanza.

LABRIOLA. No, no; ascoltiamo con piacere. (Approvazioni).

Una voce a sinistra. Sono cose molto serie. (Approvazioni).

PRIOLO. Vi ringrazio, siete molto buoni con me, onorevoli colleghi, certo gli è perché voi sentite che vi sto parlando con competenza modesta, ma col cuore alla mano e con onestà e lealtà di intenti, le uniche cose alle quali mi sforzo sempre di improntare tutte le azioni della mia vita. (Approvazioni).

Vedete, io penso con profondo senso di amarezza, e nello stesso tempo di terrore, ai contrasti, alle rivalità, alle gelosie, alle quali andremo incontro, creando le Regioni.

Voi tutti ricevete come me una infinità di opuscoli e di pubblicazioni varie, contenenti voti di assemblee provinciali e comunali, appelli talvolta disperati e preoccupanti con ì quali si chiede la creazione di nuove regioni (Lunense, Daunia, Salentina, ecc.), richieste che pongono problemi inquietanti e di non facile soluzione.

Ma non basta! Fissate le Regioni, quale dovrà essere il capoluogo di ciascuna? E davanti ai miei occhi si profila subito tremendo un tale problema particolarmente per ciò che attiene alla mia terra di Calabria, come quella che mi riguarda più da vicino e dove già da un pezzo sono cominciate le discussioni, talvolta purtroppo degenerate in rivalità, gelosie o diatribe.

Mi duole non vedere il collega Silipo, ma appunto con lui alcuni giorni fa discutevamo nel corridoio dei passi perduti della questione, discussione amichevole, che si svolgeva fra lui da una parte e l’onorevole Musolino e me dall’altra. Naturalmente egli sosteneva che capoluogo delle Calabrie dovesse essere Catanzaro, mentre Musolino ed io eravamo per Reggio.

Interloquirono gli onorevoli Nasi e Preziosi: «E Cosenza? Abbiamo stamane ricevuto un opuscolo, redatto dalla Deputazione provinciale di quella città, nel quale si sostiene invece il buon diritto di Cosenza ad essere il capoluogo della Regione calabrese».

Difatti è vero, e l’opuscolo è qui nelle mie mani, e ve ne risparmio la lettura; ma lo riceverete anche voi onorevoli colleghi e vedrete come il problema, che io pongo, è reale ed inquietante perché, comunque risolto, lascerà strascichi dolorosi e rivalità e gelosie dannosissime. Il collega Preziosi ieri l’altro portava qui in aula l’eco accesa di quella discussione per trarne motivi antiregionalisti: cosa che faccio pure io.

Perché, onorevoli colleghi, la disputa, apertasi in Calabria, ma che mi consta esistere ed aspra anche in altre Regioni, assume ogni giorno toni più vivaci.

Ed il mio cuore, credetemi, onorevoli colleghi, sanguina!

Io amo la sventurata ma forte e generosa terra di Calabria ed unisco nello stesso palpito di amore le città di Catanzaro, Cosenza e Reggio.

Catanzaro, nobile per tradizioni storiche, rocca dove fanno nido le aquile, come ebbe ad affermare con legittimo orgoglio qui in Parlamento il grande Bernardino Grimaldi, che onorò la sua città, la terra di Calabria e l’Italia intera; Catanzaro, che mi accolse profugo dall’immane disastro tellurico che distrusse la mia città, ed a cui mi legano ricordi inobliabili della mia prima giovinezza. Cosenza, che i secolari boschi della Sila serrano come in un abbraccio materno, culla di insigni filosofi e di letterati illustri. Reggio, la mia Reggio, che il tragico 28 dicembre 1908 rase al suolo, spegnendo migliaia e migliaia di vite innocenti, ma che per volontà tenace dei suoi figli risorse industre, ridente, moderna, luminosa a specchio dello stretto, lungo il quale si stende divinamente bella.

E vorrei, e lo affermo con tutta la forza del mio sentimento, che il contrasto venisse evitato e che tutti, tutti noi calabresi delle tre Provincie, ognuna delle quali ha le sue nobili tradizioni, i suoi geni, i suoi martiri, i suoi eroi, le sue incommensurabili bellezze, i suoi traffici e le sue attrattive, fossimo invece uniti nello sforzo comune, concorde, solidale, teso a risolvere non un problema di preminenza vana, causa di dissensi e di amarezze, ma un più vasto problema, quello cioè del Mezzogiorno, l’unico per cui vale la pena battersi strenuamente, perché dalla sua risoluzione verrà alla nostra Calabria benessere, lavoro, giustizia sociale. (Approvazioni).

Concludo, onorevoli colleghi, sintetizzando il mio pensiero in una specie di decalogo. L’onorevole Ruini è stato il Solone od il Licurgo della Costituzione…

LABRIOLA. E tu il Mosè.

RUINI, Presidente della Commissione per la Costituzione. Già, tu sei il Mosè.

PRIOLO. Senza barba, però. (Si ride).

Ed ecco il decalogo. Propongo:

1°) Che la Costituzione, uscendo dalle formule generiche, statuisca almeno le grandi linee dell’ordinamento statale decentrato e di quello autarchico locale. Ciò è indispensabile per fissare in termini non equivoci ciò che la Costituente intenda per decentramento amministrativo ed autarchico, e per far sì che il Governo e la Camera futuri, che dovranno tradurre in testi legislativi i nuovi ordinamenti costituzionali, possano interpretare ed attuare fedelmente la volontà della Costituente.

2°) Che il decentramento dei servizi statali si attui per Provincia, badando, però, di far coincidere rigorosamente le circoscrizioni amministrative con quelle autarchiche e di autogoverno. Ciò è conforme ai precetti della scienza amministrativa, ed è necessario per evitare interferenze e complicazioni, cui darebbe luogo l’ordinamento previsto dalla Costituzione, che stabilisce circoscrizioni provinciali solo per l’Amministrazione statale, e circoscrizioni regionali per l’ordinamento autarchico, e per quello autonomo e di autogoverno.

3°) Che ai Ministeri siano riservate solo le alte direttive dei servizi statali, trasferendo per contro il maggior numero dei servizi stessi, ed i funzionari addettivi, nei capoluoghi di Provincia, abolendogli inutili, dispendiosi, ingombranti uffici regionali sorti sotto il fascismo. Attribuendo in compenso tutte le competenze degli uffici regionali agli uffici provinciali, e facendo assistere questi da organi elettivi e da tecnici locali specialmente per quanto riguarda i lavori pubblici. Una volta stabiliti la circoscrizione ed il decentramento amministrativo a base provinciale, gli uffici statali regionali sarebbero superflui, e servirebbero solo a creare un accentramento intermedio fra la Provincia e Roma, richiedendo personale che potrebbe invece essere risparmiato o trasferito in parte negli uffici provinciali, per dare a questi maggiore efficienza.

4°) Delegare alle Provincie, ai Comuni, alle Camere di commercio tutti quei servizi statali che gli enti locali possono disimpegnare più rapidamente, più convenientemente e più economicamente, come quelli dell’economia, dell’agricoltura, della sanità, dell’assistenza, della beneficenza, ecc.

5°) Far partecipare gli enti locali alle decisioni della burocrazia centrale mediante pareri obbligatori degli organi locali sugli affari più importanti, che per il loro carattere generale debbono restare di competenza dei Ministeri.

6°) Nel campo autarchico abolire tulle le ingerenze e i controlli governativi sulle amministrazioni locali, assicurando contemporaneamente a queste, e più specialmente ai Comuni medi e piccoli, mezzi ed organi efficienti di autoamministrazione e di autocontrollo. I Comuni, che in Italia hanno tradizioni gloriose, perché preesistettero allo Stato, ed in molti casi furono essi stessi lo Stato, debbono essere sollevati dalle attuali condizioni, miserevoli sotto tutti i punti di vista, ed essere posti in grado di funzionare in modo indipendente, di autocontrollarsi in primo grado con organismi di controllo propri, ed in secondo grado di essere controllati da organi elettivi provinciali, idonei a comprendere ed a valutare le esigenze locali.

7°) Conservare la Provincia non solo come circoscrizione amministrativa ma anche come ente autarchico, coordinandone il funzionamento con quello dei Comuni e degli uffici provinciali statali ed appoggiandone ad essa gli organi di autogoverno locale.

8°) Istituire l’autogoverno locale, affidandolo a governatori eletti dai Consigli provinciali, distinti e al di sopra dei presidenti delle Deputazioni provinciali, con i poteri, le funzioni e attribuzioni di governo, che le varie leggi demandano oggi ai prefetti funzionari di Stato, ivi compresa la direzione della polizia e il coordinamento e la vigilanza su tutti gli uffici governativi provinciali;

9°) Istituire le Giunte provinciali amministrative elettive quali unici e supremi organi di autocontrollo locale, affidandone la presidenza ai governatori.

10°) Sul modello, ad esempio, di Londra, divisa nella City e in trenta borghi, aggiornare e decentrare modernamente l’ordinamento delle grandi città come Roma, Napoli, Milano, Torino ecc. (che hanno una popolazione uguale a quella di più provincie sommate insieme) concedendo loro una amministrazione, un autogoverno ed una rappresentanza provinciale distinti dalla amministrazione e rappresentanza dei singoli rioni da organizzarsi invece ed elevarsi a dignità di Comuni distinti e separati.

L’istituzione dell’autogoverno locale decentrato e libero, cui ho accennato, e sul quale tutti i partiti si sono trovati concordi nelle commissioni di riforma, renderà superflua, come in Inghilterra, l’innovazione delle Regioni autonome, conservando invece la circoscrizione e l’istituto Provincia, collaudati oramai da circa ottanta anni di vita unitaria, i quali, se hanno messo in evidenza manchevolezze, hanno anche rilevato notevoli pregi.

Un’elementare saggezza consiglia quindi di conservare i benefici conseguiti e di correggere le storture dell’ordinamento attuale, prima di avventurarsi in un altro, che rivelerebbe a sua volta inconvenienti non meno gravi e numerosi.

Vi prego, onorevoli colleghi, di valutare obiettivamente le proposte che vi ho illustrato, le quali sono suggerite da pratica conoscenza della organizzazione centrale e locale dello Stato e dall’intima profonda convinzione che noi realizzeremo in Italia una genuina democrazia, solo quando riusciremo a far sì che la pubblica amministrazione cessi di essere una macchina mostruosa, complicata, assente dalla vita ed ostile agli individui, per divenire una forza amica e benefica, che interpreti e sodisfi i bisogni del popolo, promuova e tuteli il benessere materiale e morale, avviando così la Repubblica sulle vie chiare e luminose della libertà, della giustizia e del lavoro. (Vivissimi prolungati applausi – Molte congratulazioni).

PRESIDENTE. Il seguito di questa discussione è rinviato alle 16. Avverto che oggi parleranno gli ultimi tre iscritti e che successivamente si passerà allo svolgimento degli ordini del giorno.

La seduta termina alle 12.50.

POMERIDIANA DI MERCOLEDÌ 4 GIUGNO 1947

ASSEMBLEA COSTITUENTE

CXXXVIII.

SEDUTA POMERIDIANA DI MERCOLEDÌ 4 GIUGNO 1947

PRESIDENZA DEL PRESIDENTE TERRACINI

indi

DEL VICEPRESIDENTE CONTI

INDICE

Commemorazione di Bruno Buozzi:

Vernocchi                                                                                                        

Macrelli                                                                                                          

Cappi                                                                                                                 

Piemonte                                                                                                          

Pajetta Giancarlo                                                                                          

Russo Perez                                                                                                      

Lussu                                                                                                                

Ruini                                                                                                                 

Bergamini                                                                                                         

Quarello                                                                                                         

Presidente                                                                                                        

Progetto di Costituzione della Repubblica italiana (Seguito della discussione):

Presidente                                                                                                        

Di Fausto                                                                                                          

Di Gloria                                                                                                          

Spallicci                                                                                                          

Macrelli                                                                                                          

Preziosi                                                                                                            

Medi                                                                                                                  

Adonnino                                                                                                         

Titomanlio Vittoria                                                                                       

Sull’ordine dei lavori:

Cevolotto                                                                                                        

Presidente                                                                                                        

La seduta comincia alle 16.

AMADEI, Segretario, legge il processo verbale della precedente seduta pomeridiana.

(È approvato).

Commemorazione di Bruno Buozzi.

VERNOCCHI. Chiedo di parlare.

PRESIDENTE. Ne ha facoltà.

VERNOCCHI. 4 giugno, onorevoli colleghi, data da ricordare. Ricordo di speranze, di passioni, di dolore. Ricordo di vita e di morte. 4 giugno 1944: i tedeschi, incalzati dalle truppe alleate e martellati dalle formazioni partigiane, fuggono disordinatamente da Roma. È il giorno precedente la liberazione, la vigilia della agognata libertà. Ma il 4 giugno 1944 le belve in fuga, assetate di sangue, traggono dalle celle di via Tasso, che risuonano ancora dei lamenti dei cento e cento torturati, 14 patrioti che avevano lottato per la libertà, ed a pochi chilometri da Roma selvaggiamente li uccidono. Tra questi patrioti, tra questi martiri, era Bruno Buozzi, il capo riconosciuto e qualificato di tutto il proletariato italiano, il socialista che per oltre quarant’anni, in Italia e fuori, aveva combattuto tutte le battaglie per la redenzione degli oppressi, il sindacalista che, attraverso la sua predicazione appassionata, dopo il 25 luglio 1943, era riuscito a realizzare il sogno della sua vita di organizzatore: la unità sindacale della Confederazione generale italiana del lavoro, che doveva essere la sintesi di tutte le forze del lavoro nella lotta per la loro emancipazione. Tutta la vita di Bruno Buozzi è sacrificio e combattimento. Sia gloria a Lui e sia gloria ai compagni che gli fecero corona nella lotta e nel sacrificio: uomini nostri, onorevoli colleghi, uomini che appartennero ai nostri partiti, uomini che lottarono nella coscienza del sacrificio. Le tigri tedesche uccisero e fuggirono, senza contaminarli oltre. Uccisero e fuggirono e non si resero conto che il loro ultimo delitto aveva soppresso l’uomo che rappresentava la speranza di tutti i lavoratori italiani, e non si resero conto che il loro ultimo delitto avrebbe pesato sull’avvenire della nostra Patria.

Ma il proletariato di tutti i Paesi lo comprese ed il suo singulto ebbe una eco dovunque: fu come un velo di lutto steso sulla terra che strinse in un unico patto tutti i lavoratori italiani e li strinse particolarmente in un giuramento solenne. Questo giuramento non si è ancora adempiuto, lo ricordino coloro che hanno già dimenticato. Ma noi non abbiamo dimenticato: ecco perché noi non commemoriamo, ma ricordiamo. Di commemorazioni ne abbiamo avute fin di soverchie e in questo nostro Paese, che è quasi oppresso dalle memorie, è tempo di volgere lo sguardo verso l’avvenire, ma ricordando quello che è in noi di più degno, ricordando quello che è insegnamento e monito.

Onorevoli colleghi, dal giorno in cui il socialismo si mise in cammino e diffuse fra le plebi sofferenti e oppresse la parola della speranza nella giustizia, da quel giorno il delitto gli si collocò alle calcagna e lo seguì nella sua strada con una lunga e interminabile striscia di sangue. E la strada della nostra lotta, la strada della lotta combattuta contro il fascismo dagli uomini dei partiti che rappresentiamo su questi settori, è seminata di croci che ricordano il nostro calvario e ricordano il sacrificio di coloro che furono nostri e che si sono immolati per la libertà e per la giustizia.

Onorevoli colleghi, la tirannia fascista è imprigionata fra due date: 10 giugno 1924-4 giugno 1944: Giacomo Matteotti e Bruno Buozzi. Lo ricordino coloro che hanno dimenticato. Ecco perché noi non commemoriamo, perché le commemorazioni hanno sempre sapore accademico, ma ricordiamo: ricordiamo coloro che sono morti per noi e per la nostra libertà. Noi desideriamo che i nostri martiri – che segnano il cammino della nostra storia – non siano obliati e desideriamo che questo ricordo nella sua grandezza non pesi come una condanna, particolarmente su coloro che, attratti da nuove formule o dalla speranza di nuove esperienze, tentassero distruggere le memorie e le glorie, quei valori spirituali inestimabili che ci unirono nella lotta comune contro il nemico comune, quei valori spirituali insopprimibili che ci ammoniscono ancora che la nostra opera non è finita, perché le mete che noi additammo, e che durante i giorni della cospirazione, prima e dopo la caduta del fascismo, giurammo insieme di raggiungere, non sono state ancora raggiunte: la libertà e la giustizia sociale nella Italia repubblicana. (Vivi, generali applausi).

MACRELLI. Chiedo di parlare.

PRESIDENTE. Ne ha facoltà.

MACRELLI. A nome del Gruppo repubblicano mi associo alle parole commosse pronunciate dal collega Vernocchi in rievocazione di una figura luminosa della vita politica italiana: Bruno Buozzi. Io fui accanto a lui nelle ore ultime della lotta clandestina. Alla vigilia del suo arresto, assieme, partecipammo ad una delle tante riunioni in cui convenivano i rappresentanti dei partiti della democrazia italiana e delle organizzazioni operaie, strette in un solo pensiero: quello di liberare l’Italia, definitivamente, dal giogo del fascismo e del nazismo. Noi, anche in quelle ore, aggiungevamo un altro pensiero: quello di liberare il Paese dall’onta e dall’umiliazione della monarchia sabauda. E accanto a noi era lo spirito animatore di Bruno Buozzi. Noi lo rammentiamo nelle ore di libertà come nelle ore buie della servitù, della schiavitù morale e materiale, pronto ad affrontare il sacrificio, pronto sempre alla lotta ed alla battaglia. Quando giunse la notizia dell’arresto, poi l’altra più tragica della sua fine, i nostri animi furono pervasi da un senso di commozione profonda.

Oggi lo stesso senso è ancora nel nostro spirito e nel nostro animo. Rievocare oggi la figura di Bruno Buozzi significa non soltanto fare una commemorazione, significa soprattutto avere di fronte a noi il suo esempio, che deve servire di monito e di incitamento per le future battaglie e per le future vittorie. (Applausi).

CAPPI. Chiedo di parlare.

PRESIDENTE. Ne ha facoltà.

CAPPI. Il Gruppo democristiano si associa al ricordo e alla memoria del martire Bruno Buozzi. La data della liberazione di Roma suonò fausta, specialmente a noi del Nord, che quasi per un altro anno dovevamo ancora soffrire e combattere per la liberazione. Noi rivolgiamo il nostro pensiero reverente e riconoscente a tutti coloro che, per la liberazione di Roma, per la liberazione d’Italia, per la liberazione del mondo, per la difesa di quei principî che rendono degna la vita di essere vissuta, hanno sofferto e sono caduti. Eleviamo il pensiero reverente a tutte le forze materiali che per questo combatterono, e quindi il nostro pensiero va ai nostri partigiani, va ai soldati degli eserciti alleati, che nella terra d’Italia trovarono gloriosa tomba per un alto ideale di libertà.

Rendiamo omaggio a tutte le forze spirituali che per la liberazione combatterono; e sia lecito che, insieme a tutti gli altri ideali, noi ricordiamo anche la grande forza spirituale del principio cristiano di fratellanza e di libertà e ricordiamo l’opera coraggiosa e pietosa, qui in Roma e nel mondo, del Capo della Cristianità. (Applausi).

PIEMONTE. Chiedo di parlare.

PRESIDENTE. Ne ha facoltà.

PIEMONTE. Onorevoli colleghi. I deputati del Gruppo socialista dei lavoratori italiani si associano di tutto cuore in questo ricordo del nostro Buozzi. Nato dal popolo, fu operaio; piano piano conquistò il bastone di maresciallo del proletariato nella sua categoria e ne diresse le sorti in un momento difficile. Basta pensare cosa era la categoria dei metallurgici dopo la prima guerra: una quantità enorme di gente della campagna si era introdotta nelle industrie per le necessità belliche; una massa enorme di operai non ancora qualificati, o qualificati da poco, non rotti alle discipline del nucleo organizzato preesistente. Difficoltà enormi di direzione. Buozzi superò quella prova magnificamente. Quando il fascismo rese irrespirabile l’aria italiana, venne all’estero e all’estero io gli fui vicino per oltre 20 anni.

Fu sempre uguale a se stesso. Trasportò l’idea sindacalista e la Confederazione Nazionale del Lavoro in Francia, e L’operaio italiano, organo ufficiale di essa, che egli dirigeva, era la miglior palestra del sindacalismo italiano.

Fu presente in tutti i convegni internazionali difendendovi il lavoro italiano e non tralasciando occasione per porre a nudo il turpe inganno e tradimento del proletariato che erano fondamento delle corporazioni fasciste. Si interessò dei problemi di emigrazione. Tenne sempre alta la bandiera della libertà, della democrazia e del socialismo. Poi, rimpatriò e noi che eravamo ancora in esilio rimanemmo profondamente colpiti, addolorati, accasciati di fronte alla ferale notizia che ci pervenne della sua tragica morte.

Oggi, ricordando la sua vita passata, l’opera che prestò ai lavoratori italiani, diciamo che noi siamo gloriosi che dal socialismo sorgano questi autodidatti, questi uomini che dal niente si creano una vita e la creano agli altri.

È nell’atmosfera del socialismo democratico che sorgono gli eroi, i miti moderni; Matteotti è il primo pilastro, Buozzi è l’ultimo della lotta contro la dittatura e il fascismo. Alla memoria di questi nostri morti deponiamo il nostro fiore di lutto e di orgoglio ad un tempo. (Applausi).

PAJETTA GIANCARLO. Chiedo di parlare.

PRESIDENTE. Ne ha facoltà.

PAJETTA GIANCARLO. Il Gruppo comunista si associa al ricordo del compagno Buozzi.

Ricordiamo in lui l’operaio che ha inteso la funzione liberatrice dei lavoratori, che ha conquistato la conoscenza e la dottrina, che è diventato un amico, un dirigente dei nostri compagni di lavoro, che ha sentito e praticato la solidarietà.

Ricordiamo in Bruno Buozzi l’organizzatore sindacale che, quando qualcuno volle ammainare la bandiera della Confederazione generale del lavoro, fu tra i pochi che risposero «no» alle lusinghe e alle intimidazioni.

Ricordiamo in questo organizzatore sindacale uno di quegli uomini che intesero e vollero che fosse intesa come poteva essere la democrazia, non soltanto nelle forme dello Stato, ma nella vita delle organizzazioni, nella vita delle classi lavoratrici.

Fu uno di quegli uomini che preparò, già sotto la tirannide, già nelle vecchie forme della democrazia, una democrazia nuova, la democrazia che noi vogliamo che viva in questa Repubblica fondata sul lavoro.

Nel nome di Buozzi noi ricordiamo gli sforzi vittoriosi per ridare ai lavoratori italiani l’unità sindacale, per costituire la loro forza organizzata.

Oggi coloro che vivono la battaglia dei lavoratori italiani ricordano questo martire. Lo dimenticano coloro che, fatti immemori, cercano di portare la divisione là dove egli ed i suoi compagni di lavoro vogliono l’unità; lo dimenticano coloro che vogliono e credono di poter ignorare la funzione liberatrice, la funzione di guida, la funzione di governo dei lavoratori italiani.

Noi ricordiamo un combattente, noi ricordiamo un martire e auspichiamo che la sua memoria si possa associare al proposito di resistenza e di lotta dei lavoratori italiani. (Applausi).

RUSSO PEREZ. Chiedo di parlare.

PRESIDENTE. Ne ha facoltà.

RUSSO PEREZ. Si commemora qui un uomo che ha servito sino al sacrificio, sino al martirio un’idea, in quanto tutti sanno, anzi tutti sappiamo, che Bruno Buozzi fu un puro al servizio di una purissima idea: l’elevazione dei lavoratori, la giustizia per tutti i diseredati, l’amore verso tutti i sofferenti. Noi quindi non possiamo che associarci con tutto il cuore alle nobili parole pronunciate dall’onorevole Vernocchi, dall’onorevole Macrelli e dagli altri oratori che mi hanno preceduto. (Applausi).

LUSSU. Chiedo di parlare.

PRESIDENTE. Ne ha facoltà.

LUSSU. Il mio Gruppo si associa alla rievocazione del caro e grande compagno e collega Buozzi e vuole mandare alla sua vedova, alle sue due figliole, alla sua piccola famiglia superstite, l’espressione della sua affettuosa devozione. Noi vediamo in Buozzi una delle grandi figure che sono guida della rinascita del nostro Paese.

Insieme con gli altri che lo hanno preceduto nel sacrificio, egli è una delle fiamme accese nel cammino comune; e sentiamo che egli, con i suoi compagni di lotta e di sacrificio, è la guida ed è l’annunzio della grande democrazia di domani. (Applausi).

RUINI. Chiedo di parlare.

PRESIDENTE. Ne ha facoltà.

RUINI. Adempio ad un dovere dello spirito dicendo una brevissima parola per Bruno Buozzi.

Io gli fui vicino negli ultimi momenti. Ricordo ancora le ansie della sua famiglia, quando egli non si trovava ad uno di quei ritrovi che, in casa altrui, avevamo negli ultimi giorni. La sua morte ha un significato tragico per la coincidenza dell’ora, essendo avvenuta quando Roma fu liberata.

Su lui veramente, negli ultimi tempi, agiva quasi un destino, un fato. Egli fu arrestato in una casa dove andavano a cercare un altro; arrestato sotto un altro nome.

Si cercò di liberarlo, mettendo insieme del denaro: la corruzione dilagava dappertutto nei ranghi del nazi-fascismo. Si ottenne un mandato di scarcerazione. Ma quando si presentò questo mandato al carcere e si disse il nome che copriva il Buozzi, si fece avanti un altro che aveva veramente quel nome: una seconda fatalità.

Vi fu ancora chi, imprudente, fece sapere che quel tale che portava un nome diverso era in realtà Bruno Buozzi. Fu così che, identificatolo, lo trattennero come il vessillifero della nostra idea.

Venne poi l’alba livida della fuga dei nazi-fascisti da Roma. Un gruppo di prigionieri fu trascinato su un camion. Buozzi fu spinto avanti; salì: venne fucilato quando stavano per sopraggiungere gli alleati. Gli altri che non avevano trovato posto ebbero salva la vita.

E la tragedia si svolse più impressionante, per la coincidenza coll’ora della liberazione.

Ma io non voglio ricordare in Buozzi soltanto lo spirito animoso che nei giorni del pericolo e della lotta ci fu vicino. Quando in una piccola camera di via Adda, mentre cadevano le prime granate tedesche al momento dell’occupazione, proposi che il Comitato antifascista si costituisse in Comitato della liberazione nazionale, egli non assisteva a quella adunanza ma fu il primo ad approvare. E quando, in un altro momento – ed è un vanto nella mia vita modesta – proposi il nome di Corpo dei volontari della libertà al Corpo dei gloriosi partigiani, lo feci dopo aver parlato con Bruno Buozzi.

Tutto questo noi non lo dobbiamo dimenticare mai. Ma noi sbaglieremmo se non risalissimo ancora più indietro nel tempo; se non ricordassimo il semplice operaio del metallo, autodidatta che diventò un grande organizzatore, un capo del movimento dei lavoratori; e non si lasciò spezzare; e fu esule, accanto a Filippo Turati, che morì nella povera casa d’esilio di Bruno Buozzi.

Sono risuonati qui accenni nobilissimi da tutti i banchi sulla figura di Bruno Buozzi. Io penso che se fosse vissuto più a lungo e fosse ancora tra noi, noi ritroveremmo più facilmente attorno a lui qualche nota d’accordo, qualche possibilità di azione comune. Perché? Perché noi che andiamo lacerando noi stessi, ed abbiamo il gusto di farci piccini nelle nostre contese, abbiamo note e sentimenti comuni.

Le ritroveremmo in Bruno Buozzi, che molto tempo fa riunì insieme due movimenti, due correnti ideali, che noi abbiamo riassunto nel nostro progetto di Costituzione, affermando in una indissolubile sintesi i principî della democrazia e del lavoro. È un binomio che è anche al di sopra di noi e che trascina anche chi non sentisse il dovere di essergli fedele. Noi abbiamo ereditato da Bruno Buozzi e se egli fosse qui vivo tra noi, ci stringeremmo attorno alla sua figura. (Applausi).

BERGAMINI. Chiedo di parlare.

PRESIDENTE. Ne ha facoltà.

BERGAMINI. Ebbi la notizia del sacrificio di Bruno Buozzi a San Giovanni in Laterano; la ebbi dall’onorevole Nenni e dall’onorevole Saragat che mi raccontarono, commossi e desolati, i particolari dell’orrendo delitto e rimpiangevano profondamente il loro nobile valoroso compagno di lavoro e di ideali. Grande fu anche la mia commozione. Quel giorno, per tutti i rifugiati in San Giovanni in Laterano, fu un giorno di dolore comune, fu un giorno di lutto senza distinzione di partito, in un fremito concorde della nostra anima. Per il vivo ricordo dell’amarezza di quel giorno io chiedo ai compagni di fede di Bruno Buozzi il consenso di inviare anch’io – uomo di altra fede – una parola sincera di saluto alla sua memoria. Vi sono uomini di animo elevato, di vita intemerata e degna che si impongono al rispetto, alla reverenza di ogni partito qualunque sia la sua idealità.

E uno di questi uomini che ha lasciato nella storia della nostra liberazione una traccia luminosa, perenne, è certamente Bruno Buozzi. E il suo sacrificio, il suo martirio ci trova uniti nel doloroso rimpianto. Se non fosse così, dispererei della civiltà umana. (Applausi).

QUARELLO. Chiedo di parlare.

PRESIDENTE. Ne ha facoltà.

QUARELLO. Ho il dovere di ricordare qui l’amico Bruno Buozzi. Gli fui compagno nell’agosto 1943 quando unitamente all’onorevole Roveda assumemmo la direzione della Confederazione italiana del lavoro. In quel periodo breve di tempo, nel quale riprendemmo l’attività sindacale, dopo tanti anni di assenza, ricordavamo assieme le lotte passate, anche su campi e in posizioni diverse. Io mi ricordavo di Buozzi come d’un maestro dal quale molto ho imparato nelle lotte quotidiane e, per quanto si sedesse su diversi banchi e per quanto si militasse sotto diverse bandiere, ho seguito intensamente e con molta passione i suoi insegnamenti e devo dichiarare che, del poco che so, molto ho imparato dalla sua tecnica, dalla sua pratica, dalla sua esperienza.

Conservammo sempre l’amicizia personale, anche in anni in cui la vicinanza non era possibile, e quando ci ritrovammo a Torino alla fine del luglio 1943 per riprendere insieme l’attività sindacale, ricordo che Buozzi mi disse: speriamo che l’esperienza del passato ci serva per l’avvenire e che possiamo superare quelle piccole fasi dialettiche che talvolta ci inceppano l’azione e che per il lavoratore italiano si possa avere una nuova epoca, nella quale possa conquistare decisamente i propri diritti.

In quel momento ci siamo stretta la mano e ci siamo abbracciati convinti che avremmo trovato insieme la via comune. Oggi l’abbiamo trovata e non c’è oggi che da augurarsi che nel suo ricordo si possano superare le contrarietà e uscire dai contrasti, continuando così l’ascesa del popolo lavoratore e raggiungendo nell’unità degli sforzi la grande opera di giustizia che abbiamo intrapresa. (Applausi).

PRESIDENTE. (Si leva in piedi e con lui si levano tutti i deputati ed il pubblico delle tribune). Alla memoria di Bruno Buozzi si doveva questo tributo di affettuoso e commosso ricordo che non è se non la sensibile espressione di un tenace, amarissimo cordoglio che, per trascorrere di anni, non può dissolversi dall’animo nostro. Bruno Buozzi ha rappresentato, nella storia del nostro Paese, il tipo migliore del dirigente nuovo, sorto dal popolo, foggiato nel lavoro duro, educatosi alla volontà indomita di più apprendere per più utilmente agire: antesignano di quella nuova classe dirigente politica che, umiliando l’intera Nazione, ci si illuse di soffocare nelle generose latebre del popolo rifatto schiavo, ma cui la libertà democratica e repubblicana aprirà larga la via dell’ascesa e dell’affermazione. Nel suo risucchio torbido e rovinoso, l’ultima sanguinosa ondata del fascismo, armato contro la Patria, lo travolse ed uccise. Rammentando oggi, per loro rossore, ai facili obliosi questo delitto spietato fra gli spietati, ammoniamo noi stessi di non mancare a quei compiti per il cui assolvimento Bruno Buozzi seppe oscuramente, ma con generosa risolutezza, morire. (Vivissimi, generali applausi).

Seguito della discussione del progetto di Costituzione della Repubblica italiana

PRESIDENTE. L’ordine del giorno reca il seguito della discussione del progetto di Costituzione. Riprendiamo la discussione del Titolo V relativo alle Regioni. L’onorevole Pera è iscritto a parlare. Non essendo presente, s’intende che vi abbia rinunciato.

È iscritto a parlare l’onorevole Di Fausto. Ne ha facoltà.

DI FAUSTO. Mi sia consentito anzitutto di associarmi, come Deputato di Roma, alla commossa rievocazione della liberazione gloriosa dell’urbe.

A Roma, dove tutto si placa, nulla però si dimentica. È qui il senso della sua eternità.

E passo al tema in discussione.

Quando la miseria siede sulla soglia delle case di milioni di italiani, con particolare riguardo per le case degli italiani migliori, io non so appassionarmi a temi i quali non abbiano carattere di urgenza o meglio non abbiano capacità risolutiva di tanto gravi esigenze. Intervengo in questa discussione per quella particolare situazione che ha portato me, unico e solo «cultore di arte», in seno a questa Assemblea dove problemi del genere sono poco discussi e (è doloroso dirlo) sono poco sentiti. Questa è un’amara constatazione dalla quale discendono più amare deduzioni. Io mi occupo quindi della Regione solo, e in quanto, se realizzata, essa possa interferire nel settore dei monumenti, degli scavi, delle opere d’arte e delle bellezze naturali. Mi riferisco, cioè, agli articoli 109, 110, 111 del progetto di Costituzione che regolano questa materia. L’articolo 109 conferisce alla regione potestà legislativa piena; l’articolo 110 conferisce potestà legislativa limitata; l’articolo 111 conferisce potestà legislativa integrativa per adattare le leggi della Repubblica alle esigenze peculiari delle varie regioni. Tra le materie di competenza di questi tre articoli sono: l’urbanistica, l’antichità, e le belle arti. Si infirma quindi il principio basilare, quello della diretta tutela unitaria, da parte dello Stato, del più eccelso patrimonio della Nazione; patrimonio il quale trascende non solamente il carattere regionale, ma spesso anche il carattere nazionale per assurgere a importanza mondiale. Questo patrimonio costituisce infatti nel suo complesso il più alto contributo dello spirito all’umanità cosicché noi possiamo considerarci in qualche modo i depositari e i consegnatari responsabili di così incomparabile tesoro. Ecco spiegato l’omaggio costante e concorde di tutti i tempi e di tutti i popoli all’Italia. Vale a questo punto ricordare quel lontano luglio 1902 quando il telegrafo portò al mondo l’annuncio improvviso e angoscioso del crollo del Campanile di San Marco. In poche ore uno solo fu il voto espresso dai più lontani angoli della terra, con l’offerta dei mezzi relativi: che il campanile risorgesse quale era e nello stesso luogo così come lo aveva visto l’architetto Sebastiano Buon. Coronato dall’Angelo d’oro svettò nuovamente nei cieli a riprendere la sua vita millenaria interrotta per breve giornata. Comunque, la particolare legislazione vigente ha corrisposto egregiamente ai suoi scopi arginando l’egoismo privato, le velleità comunali e i naturali orgogli regionalistici. Oggi, in piena emergenza, dopo le gravi ferite della guerra, è stata deplorata vivamente la soppressione di quel Sottosegretariato alle Arti che avrebbe dovuto essere l’organo coordinatore e propulsore di tutte quelle iniziative affini dalle quali l’Italia dovrebbe attendersi il più valido contributo alle necessità immani della sua ricostruzione. La evidenza dei fatti s’imporrà con ritardo, ma il danno non sarà stato lieve. All’attuale Direzione generale delle belle arti fanno capo cinquantasette Sovrintendenze le quali sono integrate da Commissioni provinciali e da Ispettori onorari. Il complesso di questa organizzazione culmina nell’organo supremo consultivo tecnico: il Consiglio Superiore delle antichità e belle arti che nel progetto del Ministro Gonella diviene elettivo e più rispondente alle esigenze del momento, tale da garantire cioè che tutto quanto interessa il patrimonio nazionale sia sottratto all’arbitrio ed agli interessi particolari di privati di enti e di comuni.

A questo punto esorto il Ministro Gonella…

RUSSO PEREZ. La Regione non potrebbe proteggere ugualmente questi interessi?

DI FAUSTO. Vedremo dalle mie conclusioni che non sarà possibile.

Esorto il Ministro Gonella, dicevo, a sollecitare la ricostituzione di questo supremo organo moderatore. Maturano problemi gravissimi derivanti dalla guerra – problemi che attendono l’esame e il giudizio del Consiglio prima che essi siano insidiati da bassi interessi e irrimediabilmente compromessi.

Accenno così di passaggio al Palazzo della Ragione a Ferrara, venduto dall’amministrazione ad una impresa di costruzioni, per la demolizione e la ricostruzione di un grande edificio a fianco all’insigne Cattedrale; accenno al Palazzo del Tribunale a Vicenza; all’ex Palazzo Reale di Milano; al restauro del Duomo di Modena; al progettato grattacielo sul golfo di Napoli; alle Mura urbane di Piacenza; alla ricostruzione del Ponte di mezzo e dei quartieri interni a Pisa; alla ricostruzione dei Borghi intorno al Ponte vecchio di Firenze, ove l’equivoco fra urbanistica ed architettura minaccia di snaturare il carattere di questa capitale delle arti a vantaggio esclusivo della speculazione; cosicché già in America si è diffuso il modo di dire: «Firenze non è più quella di prima; non vale la pena andarvi»; con evidente premeditato maggior danno per quel nostro turismo, che continua a morire nel più misterioso isolamento, già da me ripetutamente ed inutilmente denunciato.

E sorvolo sui problemi peculiari di Roma, dei quali mi occupai altra volta, solo accennando alla minaccia che si infirmi il vincolo panoramico della Appia Antica.

E per quanto si riferisce alle vecchie città, pur non convenendo col Berençon, che sostiene di ricostruire le cose distrutte così come esse erano, né col critico inglese Mortimer, che giudica «obbrobriose ed orrende» le opere architettoniche dell’ultimo ventennio in Roma, concordo con uno dei più attenti nostri studiosi, il Bellonci, affermando la necessità di mettere il nuovo «in scala» col vecchio, rispettando i fondamentali rapporti di spazio. Anch’io sento che l’insidia maggiore è nella possibilità che si trasformi un piano di ricostruzione in piano regolatore.

Ecco evidente la necessità di non disgiungere in Italia la tutela delle antichità e delle arti da quella delle bellezze naturali, ripetendo l’opportunità di regolamentazione legislativa unitaria.

Questo abbiamo assicurato con l’approvazione contrastata dell’articolo 29 del Titolo II del progetto di Costituzione quando l’onorevole Marchesi (in nome dell’Accademia dei Lincei) ed io (in nome dell’Accademia di San Luca) sostenemmo quella esigenza.

Fu proprio di quei giorni la minaccia dello scempio di uno dei luoghi più suggestivi del mondo, Villa Rufolo in Ravello, nella quale, dopo peregrinazioni europee, sostò Riccardo Wagner per scrivere il secondo atto del Parsifal. La via carrozzabile di attraversamento progettata dall’amministrazione locale, per la tempestività di una mia interrogazione e più ancora per il pronto intervento del Ministro Gonella, non sarà altro che una modesta strada di raccolto carattere paesano, che si snoderà occultata fra gli ulivi.

Passo al delicato problema del restauro, che deve esser visto esso pure con criterio unitario.

Decenni di esperienze e di studi assai contrastanti hanno condotto a fissare chiaramente l’assioma da seguire.

Il restauro è opera conservativa e non innovativa, consolidamento dell’opera d’arte e non ripristino dell’opera d’arte.

Si accede però a queste verità solo attraverso affinamento di cultura storica e stilistica e più ancora con l’ausilio di una spiccata sensibilità.

Stralcio da una relazione del Direttore generale delle Belle Arti, professore Bianchi Bandinelli: «si presume abitualmente di riprendere la storia al punto in cui si interruppe, pretendendo di continuare monumenti incompiuti o riportarli ad un ipotetico pristino stato, cancellando le fasi storiche che il monumento attraversò e che sono spesso insigni memorie e fulgide stimmate d’arte, anche se rappresentano una aggiunta posteriore al primitivo complesso».

L’anarchia si scatenerebbe attraverso gli orgogli e gli interessi di parte per poco che la vigilanza centrale venisse a cedere, con la compromissione evidente della dignità della nostra cultura. Peraltro nulla vieta che alla Regione si dia competenza sui musei e sulle gallerie comunali, sull’arte contemporanea, sugli istituti di arti e mestieri e sul vasto settore del folklore.

Concludendo, chieggo la soppressione delle voci «urbanistica» dall’articolo 109 e «antichità e belle arti» dall’articolo 111 del progetto di Costituzione, confermando il senso dell’articolo 29 già approvato: che la tutela del patrimonio artistico resti integralmente nell’ambito dell’ordinamento nazionale.

Nel convegno di fine maggio in Roma, i soprintendenti delle Belle Arti in un ordine del giorno, che porta 40 firme, dicono: «I soprintendenti italiani fanno voto che ove l’ordinamento regionale venga sancito nelle norme della nuova Costituzione, la competenza della tutela nel campo delle Belle Arti resti affidata al potere centrale anziché demandata alle amministrazioni regionali, non escluse la Sicilia e la Val d’Aosta».

Debbo a questo punto sottolineare il significato altissimo e il senso della universalità dell’interesse verso il patrimonio artistico italiano, che trova vasto ausilio dal richiamo della Chiesa cattolica sedente in Roma.

La Chiesa ha sempre portato e porterà sempre la maggiore cura, qualunque sia la legislazione che noi andremo a stabilire, alla tutela di quella cospicua parte del patrimonio d’arte che gravità nella sua giurisdizione.

Antichi e fermi canoni del suo codice sapientemente disciplinano tanto delicata materia.

E debbo infine fare ancora accenno a Venezia.

Chiedo anzi pochi minuti ancora di particolare attenzione nell’interesse di uno dei monumenti più insigni della civiltà e della cristianità: la Basilica di San Marco.

È mio dovere di formulare una ipotesi per la quale già la mia stessa parola è percorsa da un brivido.

Dio non voglia che in tempo non lontano un più angoscioso appello debba essere affidato alla radio per il pericolo che sovrasta la Basilica d’oro ferita nelle sue strutture e nei suoi preziosi paramenti decorativi.

È necessario un rapido cenno che ci riporti alle origini della Basilica perché sia compresa la estrema delicatezza e la difficoltà estrema della sua conservazione.

La Basilica trae la sua prima forma latina nell’829 – Doge Giustiniano Partecipatio. Risorge, dopo un incendio, sempre in forma latina, nel 976 – Doge Pietro Orseolo il Santo. Si sviluppa e si integra a croce greca nel 1043 – Doge Domenico Contarini.

Sono tre epoche, sono tre fasi di trasformazioni, sono tre organismi che si fondono e solo nella terza fase si raggiungono le forme struttive attuali con i grandi sostegni degli archi delle volte e delle cupole.

Ma tutto gravita senza omogeneità di carico su palafitte e zattere in quercia – affondate nel fango lagunare.

Con la conquista di Bisanzio giungono successivamente dall’oriente pietre lavorate, colonne, frammenti decorativi, marmi preziosi e porfidi coi quali la Basilica fu vestita internamente ed esternamente del suo paludamento regale al quale i vasti campi musivi danno l’incomparabile atmosfera sinfonica di policromie e di ori.

Tutti elementi eterogenei però, distribuiti con senso pittorico, senza preoccupazioni statiche, così da dare all’insieme, per le asimmetrie e l’irrazionale, un senso di vivo di palpitante e di irreale.

Magia di quest’opera.

Ma avvengono distacchi e si denunciano cedimenti riflessi.

L’insidia delle strutture portanti, celate dalle incrostazioni decorative, le insidie della inevitabile azione salsoiodica sui metalli e sui marmi, l’insidia delle fondazioni celate nel fango lacustre, si rivelano nella disgregazione dei muri di ambito, dei pilastri, degli archi e delle cupole. I muri di ambito, i pilastri, gli archi e le cupole cedono dunque con moto accelerato alla usura dei secoli?

Sento che l’allarme deve essere espresso solennemente in quest’Aula perché ad ogni costo sia dato senza indugio nuovo apporto alla organizzazione, nella Basilica, del suo ufficio d’arte, del suo studio del mosaico e della sua officina del restauro con maestranze specializzate per la vigilanza diuturna, e la esecuzione delle provvidenze di emergenza.

Che se poi la fatalità si levasse improvvisa ed inevitabile, io ho certezza che da tutte le anime – che da tutti i cuori che si sono aperti agli incanti delle volte musive e delle cupole aeree sotto il cielo fremente di voli instancabili, sorgerebbe unanime il voto e l’offerta dei mezzi a che un prodigio di tecnica soccorra l’incomparabile prodigio di arte e di fede perché la Basilica d’oro sia conservata alla gioia alla gloria ed alla esaltazione delle generazioni a venire. (Applausi).

PRESIDENTE. Onorevole Di Fausto, le consiglio di fare una interrogazione urgente al Governo su questa materia, perché il suo appello possa venir preso in considerazione.

DI FAUSTO. La ringrazio. La farò.

PRESIDENTE. Sono iscritti a parlare gli onorevoli La Malfa, Avanzini, Caccuri, Cassiani, Fuschini. Non essendo presenti, si intende che vi abbiano rinunziato.

È iscritto a parlare l’onorevole Di Gloria. Ne ha facoltà.

DI GLORIA. Onorevoli colleghi, la parte del progetto di Costituzione relativa alla Regione è la più rivoluzionaria, dal punto di vista squisitamente politico, non tanto per quello che potrebbe succedere nell’immediato futuro, quanto per quello che potrebbe accadere nel futuro remoto. L’esigenza per la quale si è impostato il problema della Regione è un’esigenza di democrazia effettiva, di autogoverno dei cittadini, di pienezza di vita pubblica per tutti.

Nessuno può non condividere tale esigenza, ma (come sempre avviene quando dall’ordine delle idee si passa all’ordine dei fatti) le difficoltà di attuazione di un maggiore autogoverno a noi sembrano aumentate traverso la Regione, anziché diminuite. Considerando varie regioni, per esempio la Lombardia, il Piemonte, le Marche, l’Emilia, noi troviamo in esse accanto a territori eminentemente agricoli, dei territori eminentemente industriali; accanto a delle zone di una economia eminentemente montana, delle zone di pura e semplice industrializzazione turistica. Come poter conciliare dal punto di vista amministrativo tali territori così difformi e così dissimili? Occorrerebbe per esempio smembrare le attuali regioni, ma a noi sembra che le Province, in quanto enti autarchici territoriali, sarebbero più idonee alla tutela degli interessi locali di un qualsiasi ente regionale di nuova, ultimissima creazione. Qualcuno ha pensato di affidare a Consorzi di Comuni la tutela degli interessi protetti oggi dalle Province, ma anche in questo caso è molto sconsigliabile abbandonare il certo per l’incerto senza dire che, in caso di mancato accordo dei Comuni interessati, ne verrebbe un grave pregiudizio per gli interessi intercomunali. L’onorevole Ambrosini vorrebbe che la Provincia fosse ridotta a semplice circoscrizione amministrativa della Regione ovvero divenisse l’organo esecutivo dell’attività della Regione nel territorio provinciale. Quale sorte subirebbero gli uffici statali esistenti nella Provincia? Non tutti potrebbero essere soppressi, ed allora accanto agli organi burocratici statali ne sorgerebbero di quelli regionali con grave appesantimento della vita pubblica. Ed in materia economica e finanziaria le difficoltà non sarebbero minori poiché noi potremmo trovarci di fronte a varie finanze: ad una finanza, per esempio, statale, ad una regionale, ad una provinciale e ad una comunale. Tutta questa sindrome di bilanci non finirebbe con l’essere inopportuna e antieconomica? A noi pare di sì.

Il progetto approvato dalla Commissione vorrebbe conservata la Provincia, non già come ente autarchico territoriale, sibbene come circoscrizione amministrativa di decentramento statale e regionale. A parte la negazione di un’efficace rappresentanza degli interessi provinciali, essendo inidonee, a mio avviso, le Giunte di cui all’articolo 120, avremmo un’elefantiasi burocratica rimanendo intatto il complesso burocratico provinciale.

Non è vero, come qualcuno ritiene, che la Provincia, in quanto ente autarchico, si occupi solo di una esigua materia, cioè solo di strade, manicomi e brefotrofi. Complesse sono le competenze per materia della provincia: dalla sanità alla viabilità minore, dall’igiene alle bonifiche e agli imboschimenti. Tali funzioni, che a volta sono obbligatorie ed a volta sono facoltative, vengono sempre adempiute dalla provincia o direttamente o attraverso istituzioni aggregate, a seconda delle sue possibilità finanziarie.

Si tratterebbe, se mai, di completare e potenziare tutte queste attività della Provincia al fine di renderla atta ai bisogni esistenti nel proprio territorio. In conclusione, si arriverebbe, a mio avviso, ad una soluzione migliore del problema di decentrare amministrativamente lo Stato col mantenimento della Provincia, anziché con la sua soppressione. Basterebbe dare alla Provincia più larghe possibilità finanziarie, maggiore indipendenza rispetto ai controlli governativi, maggiore ampiezza di funzioni. Alla Regione, ammesso che la si voglia creare, dovrebbe essere riservato solo il potere normativo su determinate materie nell’ambito territoriale proprio.

Ho detto che l’esigenza per la quale si è impostato il problema della Regione è una esigenza di democrazia effettiva, è un vivo desiderio di evitare da qui in avanti una ricaduta nella dittatura attraverso il centralismo amministrativo. Se è vero che un sistema di amministrazione decentrata può costituire domani un ostacolo fisico al sorgere d’una dittatura è anche vero che si potrebbe assistere, per mancanza di spirito civico e di abito democratico, al sorgere graduale di piccole dittature regionali più o meno larvate e ad un urto indomabile di egoismi particolaristici.

Si lavori dunque per il più razionale decentramento della nostra vita amministrativa; ma non ci si dimentichi che un vero decentramento si può avere solo quando c’è vivo il senso dell’autodisciplina e fortissimo il potere dell’autodeterminazione e che la migliore e la più sicura difesa della libertà contro la tirannide riposa e riposerà sempre nella ferma volontà di ognuno di noi di non cedere mai agli allettamenti del potere incontrollato ed incontrollabile. Si riformi strutturalmente lo Stato ma si proceda con cautela. I veri, i grandi riformatori sono sempre stati moderati. In fatto di vero progresso la via più breve è sempre quella più lunga perché è la sola. (Applausi).

PRESIDENTE. Poiché non sono presenti, s’intende che abbiano rinunziato a parlare gli onorevoli: De Mercurio, Castiglia, Crispo, Gullo Rocco, Murgia, Rubilli, Bernini, Gelati, Camposarcuno, Cairo, Fusco, Adonnino, Sicignano, Cuomo, Chieffi, Mancini, Laconi, Corbino, Bozzi, Caroleo, Micheli, Cartia, Longhena, Perrone Capano, Mazzei, Veroni, Iotti Leonilde, Sardiello, Musolino, Damiani, Grieco, Fietta, La Rocca, Negarville, Jacini.

È iscritto a parlare l’onorevole Spallicci. Ne ha facoltà.

SPALLICCI. A giudicare dal numero dei presenti si dovrebbe convenire che l’argomento che stiamo trattando è di scarso interesse, eppure siamo divisi in due parti ben distinte, onorevoli colleghi, l’una favorevole e l’altra contraria alle autonomie regionali.

Tutti rammentiamo una frase che poco prima del compimento dell’unità nazionale preparò la strada ai disertori dalle file repubblicane: la monarchia ci unisce, la repubblica ci dividerebbe. È ben noto a tutti che la frase era stata dettata da uno statista siciliano che fu elevato sugli scudi dal fascismo, dico da Francesco Crispi.

Oggi qualcuno ha l’aria di parafrasare quell’asserzione: l’accentramento statale ci unisce, le Regioni ci dividerebbero.

Ora è proprio il caso di meditare su quanto è accaduto fra noi dopo un ottantennio di vita unitaria. Siamo andati a repentaglio di disgregare l’unità dopo l’ultima guerra. In alcune Regioni la parola autonomia pareva avesse avuto significato di separazione. Adunque non credettero alla verità della frase crispina né i nostri nonni né i nostri padri e non vi abbiamo creduto neppure noi che non annettiamo nessuna importanza alla parafrasi di coloro che vorrebbero vedere nell’accentramento l’unica salvezza della Nazione.

Si diceva allora: popolo immaturo, e il ritornello si ripete ancora e passa da un banco all’altro di tutti i settori di quest’Aula. Il popolo, si dice, non sente la necessità di questa riforma. Io credo che le innovazioni non si compirebbero mai se si dovesse attendere la maggioranza più uno, se come nelle mobilitazioni del passato alla domanda del generale: siamo pronti? si dovesse rispondere mano alla visiera e battuta di tacchi: generale non manca un bottone alle note. Possiamo marciare domani a battaglia in ordine chiuso.

Non saremmo arrivati neanche all’indipendenza e avremmo lasciato Giuseppe Mazzini e la sua Giovane Italia a isterilirsi in una lotta che sarebbe rimasta un martirologio eroico soltanto. Mentre il mito dell’unità bandito da quegli eletti è venuto svolgendosi man mano nella realtà della storia. Se i partiti, se i rappresentanti del popolo non hanno la coscienza di essere gli antesignani e gli interpreti dei bisogni anche inespressi del popolo, interpreti di una nuova concezione della vita e della storia nazionale, hanno fallito al loro compito. Alcuni si preoccupano di non turbarne l’unità e di non perderne il favore. Qui ci si deve preoccupare se la riforma giovi o non giovi al Paese.

La verità è che noi ci troviamo di fronte ad un Paese che è sopratutto conservatore, direi quasi codino malgrado certi atteggiamenti giacobini. V’è in lui una pigrizia mentale che lo consiglia al piede di casa in tutte le cose. Di fronte all’incalzare degli avvenimenti sceglie quello che giudica il minor male, cioè quello che non gli impone un lavoro più serio e gravoso. Riforma? Ohibò, disse il popolo italiano, abbiamo la vecchia Chiesa Cattolica Apostolica Romana, sia pure scaduta nella nostra considerazione e nella nostra fede, tiriamo a far finta di crederci e non pensiamo ad altro.

Repubblica? Compie un anno, ricordate? Verrà il diluvio poi. Se siamo andati avanti con più infamia che con lode con la monarchia savoiarda tiriamo avanti con questa. E per paura del salto nel buio dieci milioni di elettori hanno fatto le corna alla Repubblica.

Regioni oggi? Ma c’è quel baraccone squallido e solitario della Provincia che bene o male sta in piedi da tanti anni, ebbene manteniamo e consolidiamo quella.

La Regione non è sentita, si dice. La Regione è oltre che una necessità che varrà a snellire la vita nazionale nel campo amministrativo e sotto certi aspetti anche nel campo politico, un’affermazione sentimentale che vive della vita degli affetti. Di questi sentiamo la forza passionale quando ne siamo privati. La famiglia, la piccola e la grande patria giganteggiano nell’esilio. Allora sentiamo prepotente la necessità di ritrovarci tra gente che parla la stessa nostra lingua materna. Ricordate le famiglie regionali nelle nostre grandi città, le venete, le abruzzesi, le piemontesi, le romagnole, a Milano, a Roma.

Il fascismo colla grossolana brutalità che gli era propria, le disperse. Ora si vanno ricomponendo. Erano e sono società che intendono coltivare le loro tradizioni, riparlare dell’anima e dell’arte della terra lontana, rivivere nelle memorie caratteristiche regionali. Si può malignare che tutto ciò sa di grettezza provinciale, sa di «piccolo mondo antico», sa di figurine dell’800 come ninnoli sotto la campana di vetro nei salotti della nonna. O non è invece un’ancora di salvezza per salvare la propria originalità e non naufragare nel grigiore uniforme del cosmopolitismo?

È stato da alcuno deprecato che all’estero vi siano famiglie regionali e non nazionali. Un reduce dall’Argentina mi parlava con rincrescimento di aver trovato una famiglia ligure e non una famiglia italiana. Ma, amici miei, credete proprio che questi nostri liguri, pugliesi, lombardi, romagnoli che hanno fatto cerchio attorno alla pietra calda del focolare, non vedano profilarsi attraverso il campanile tutte le torri della patria comune? Quando qualcuno a Natale ha messo nella ruota del grammofono il disco della canzone del paese lontano, non è forse stato per lui come per i suoi conterranei come il piffero di Cyrano che faceva rivedere ai cadetti tumultuanti per fame il profilo della savoiarda alpe natia, il volto della piccola che si confondeva e si fondeva nel volto della grande Patria?

Vorrei, se non potesse sembrare immodestia. ricordarvi che io ho cercato nelle antiche canzoni della mia Romagna l’anima della mia terra e, assieme a musicisti di gran valore, ho desiderato rinverdire quel vecchio ceppo attraverso quelle società che furono chiamate dei canterini di Romagna. E a noi risposero contemporanei, talvolta predecessori, attorno al Castello di Udine i canterini friulani e i vecchi cantori di Aggius recati da Bertieni sui palcoscenici d’Italia, e i canterini siciliani di cui l’amico Nino Martoglio curava la formazione prima che una tragica fine lo togliesse al suo teatro isolano. Era nostra intenzione formare in tutte le Regioni delle società del genere per poter fornire un panorama canoro e dare in questo meraviglioso amalgama la misura della divina varietà dell’anima italiana. Perché vorreste vederle l’un contro l’altra armate se nella Regione risiede la vera essenza della Nazione, se dal Boccaccio al Goldoni, dal Manzoni al Fogazzaro, dal Verga alla Deledda, letteratura e teatro sono regionali in Italia? Perché non vedere la gara, una nobile gara nel concerto delle regioni? Il mio emendamento vuole appunto tener calcolo di questa virtù. «La Repubblica italiana una ed indivisibile, riconosce e promuove le autonomie locali, stimolandone lo spirito di emulazione a profitto della Patria comune».

Non dividere, ma affratellare vogliono le Regioni. Non confini né staterelli, ma ogni terra messa avanti ai suoi problemi e al suo avvenire. L’onorevole Einaudi ci ha, con parola di maestro, sottolineato il pericolo degli egoismi di una regione in cui sorgano ad esempio centrali elettriche e che vogliano limitarne l’uso alle circostanti.

Abbiamo però veduto le regioni produttrici di grano dare largamente agli ammassi ciò che mancava alle più povere. Dovremo noi costituenti, noi rappresentanti del popolo, incoraggiare questo spirito di solidarietà che affratella le genti d’Italia. Il fiume che passa è il fiume della Patria che dà colle sue dighe e colle sue turbine l’energia per tutte le industrie, ognuno dovrà alimentare il ruscello che arriva al mare comune.

Se l’emulazione spinge a prodigi di valore le nostre unità militari di reclutamento regionale, e sulle doline del Carso e sulle sponde del Piave la Brigata Sassari, e i Lupi di Toscana, della Bergamasca, e i Gialli del Calvario di Romagna e gli alpini delle vallate di confine, gareggiarono nel sacrificio, perché dovremmo scordarlo?

Quando si doveva balzar fuori dal parapetto della trincea e si sentiva la parola dell’ufficiale e dell’amico che suonava nel patrio dialetto come un richiamo materno, era come se tutta quanta la Patria fosse alle nostre spalle a sospingerci all’attacco. Se nel momento supremo in cui abbiamo fissato la morte abbiamo sentito questo spirito di emulazione (e i sardi gridavano: avanti Sardegna, e i bergamaschi gridavano: Berghem, e i romagnoli: avanti Romagna! e il pais degli alpini si alternava al cumpà dei pugliesi, ai fratuzzi di Sicilia, ai burdell di Romagna) se, dico, in quei momenti supremi abbiamo sentito la voce e veduto il volto della Patria, perché non dovremmo sentirla e vederla nell’ora del lavoro e della fatica, nel momento in cui siamo chiamati ad assumere la nostra responsabilità e personalità di cittadini?

L’onorevole Micheli ha prospettato l’eventualità di un’Emilia Lunense che aggregherebbe alla sua Parma, con Piacenza, Reggio e Modena, anche la provincia di La Spezia, lasciando le antiche quattro legazioni pontificie a formare la Romagna con Bologna, Ferrara, Ravenna e Forlì.

Io non voglio spezzare una lancia per la mia piccola Regione perché constato che prevale il concetto della grande più che della piccola Regione ma voglio pur accennare a questa che Dante ben definì ne’ suoi confini, fra il Po, il monte, la marina e il Reno (e forse Dante vi includeva anche Bologna). Tralascio i suoi vanti e le memorie che mi paiono superflue qui, ma voglio pur dire che forse in Italia, non insulare, non v’è altra terra meglio individuata della Romagna. La caratteristica viva e passionale del suo senso politico sempre vigile dai primi albori del Risorgimento ai giorni nostri, la fede e l’ardore combattivo de’ suoi migliori da Andrea Costa a Antonio Fratti (e nel tempo stesso la serena equanimità di Aurelio Saffi) le conferiscono un’anima tutta sua. Può sembrare strano che la Romagna non abbia rivendicato il diritto di governarsi in modo autonomo. Non l’abbiamo rivendicato, perché la terzina dantesca scolpisce ancora la sua vita e la sua storia: Romagna non fu mai senza guerra, oggi non più nel cuor de’ suoi tiranni ma nel cuore delle sue città rivive l’orgoglio del comune antico ed esse si crederebbero sminuite se dovessero concedere a qualunque altra città l’onore della capitale.

Ma guariremo dei vecchi mali che ereditammo dal guelfìsmo e dal ghibellinismo e ritroveremo noi stessi. La Romagna rimane anche se si vorrà farne coll’Emilia una sola regione. E libera, all’aria e al vento la bandiera della sua passione per tutte le cause giuste. Passione orchestrata nel vento che trascorre su tutta la Penisola. È il suo canto. Sarebbe stolto privarnela come sarebbe stolto avversarne il dialetto. Sarebbe come combattere contro i mulini a vento. Un collega della mia parte repubblicana, l’onorevole Della Seta, disse un giorno in questa Aula: qualcuno ha voluto persino far entrare i dialetti nella scuola, questo no! Io mi permetto di dissentire dall’amico Della Seta.

Quando un Ministro dell’istruzione, sia pure fascista, credette opportuno introdurre il vernacolo nella scuola pensò alla possibilità di far entrare nella scuola la viva espressione della parlata popolare tradotta dal maestro nell’idioma nazionale.

Il maestro che dovrebbe sempre conoscere la tradizione e la lingua del luogo che lo ospita deve fare il dizionario vivente e far aderire alla realtà la frase che lo scolaretto gli porta dalla strada dove vive, soffre, gioisce e si agita il popolo. Noi di Romagna pur vivendo presso alle fresche e dolci acque che dal Casentino vanno ad ingrossare il letto d’Arno, siamo di una famiglia glottologica ben lontana dalle armonie dell’idioma nazionale. Dove dovrebbero andare a cercare i nostri scolaretti la vivezza della lingua? Il Porta la cercava nella scuola del verziere milanese e il nostro ragazzo la coglierà nella casa, nel campo, nel mercato e verrà dal maestro perché gliela converta in italiano. Così il vernacolo conferisce maggior brio e vivacità alla lingua.

Non sul libro soltanto dove la parola è come la farfalla assicurata con una spilla alla vetrina dell’entomologo, ma soprattutto nella strada dove il popolo vive c’è modo di farsi padroni di una lingua. Non nel museo adunque ma nell’aria della libertà. Dialetti, canti, tradizioni, tutta la meravigliosa gamma della nostra varietà nazionale della nostra «gente dalle molte vite» avranno modo di rifiorire liberamente colle autonomie regionali. Come nel momento tragico della difesa della vita della Patria così nella pace feconda di lavoro questa parola «emulazione» sarà il monito e l’orgoglio delle Regioni italiane. (Applausi).

PRESIDENTE. È iscritto a parlare l’onorevole Macrelli. Ne ha facoltà.

MACRELLI. Onorevoli colleghi, nessuna premessa, o quasi, d’ordine storico ideologico e politico. Ormai sotto questo triplice aspetto molti oratori hanno esaminato il problema grave e delicato della Regione. Io mi limiterò soltanto ad alcune osservazioni, ad alcuni rilievi che credo possano meritare l’attenzione dell’Assemblea. Però i colleghi mi vogliano permettere di esprimere prima di tutto il mio più vivo compiacimento ad uno dei relatori della Sottocommissione e precisamente al caro amico onorevole Ambrosini, il quale, per affrontare e risolvere i dubbi che forse tormentavano la sua squisita anima di italiano «unitario» ha sentito il bisogno di ricorrere al pensiero di Giuseppe Mazzini. Egli giustamente, nella sua relazione, ha ricordato le parole del grande apostolo. Troppe volte in quest’Aula e fuori, nella stampa e nella parola, contro di noi che crediamo di essere i modesti ma fedeli assertori e continuatori della scuola filosofica e politica, sociale e morale di Giuseppe Mazzini, si è elevata l’accusa di aver dimenticato la nostra storia e la nostra tradizione; e di aver soprattutto dimenticato la lotta aspra, tenace, appassionata di Giuseppe Mazzini per l’unità della Patria. Orbene la risposta, la migliore risposta alle accuse, ai rimproveri, ai moniti che ci sono venuti anche in questi giorni da molti banchi, si trova proprio nelle parole del veggente di Staglieno che ha ricordate il collega Ambrosini. Egli già accenna ad un articolo famoso, scritto fin dal 1831 da Giuseppe Mazzini, intitolato Dell’Unità d’Italia, in cui si parlava non soltanto della necessità dell’unità italiana dalle Alpi alla Sicilia, e della realizzazione dell’unità nazionale, ma anche del riconoscimento delle Regioni. E 30 anni più tardi, riprendendo quell’articolo, Giuseppe Mazzini così scriveva: «Il fatto mi ha dato ragione. La potente, unanime voce del popolo d’Italia ha dichiarato ai letterati teorizzatori che la nostra utopia di 30 anni addietro era intuizione politica dei suoi bisogni, delle sue aspirazioni, della sua vita segreta, del suo avvenire».

E poi, col suo stile lapidario e preciso, fissava quelli che, secondo lui, erano e sono anche per noi oggi i termini per la soluzione del problema politico-amministrativo della Repubblica italiana:

«…il Comune, unità primordiale, la Nazione, fine e missione di quante generazioni vissero, vivono e vivranno fra i confini assegnati visibilmente da Dio a un Popolo, e la Regione, zona intermedia indispensabile tra la Nazione ed i Comuni, additata dai caratteri territoriali secondari, dai dialetti e dal predominio delle attitudini agricole, industriali o marittime».

Pochi anni dopo, quando la capitale d’Italia da Torino era trasferita a Firenze, un uomo politico, non della nostra dottrina e della nostra scuola, ma della scuola liberale (e purtroppo oggi i liberali dimenticano troppo spesso le parole, gli insegnamenti, gli ammonimenti dei loro grandi uomini), Marco Minghetti, figlio della eroica Bologna, che aveva conosciuto la vita italiana, soprattutto attraverso la esperienza dell’amministrazione pubblica in quel tormentato periodo della vita nazionale, sentiva che, per cementare l’unità faticosamente raggiunta, e non per intero, allora, e soprattutto per trovare una base alla permanenza nello stesso complesso politico nazionale di Regioni fino allora separate e divise (perché facevano parte di Stati sovrani), era necessario almeno un largo decentramento, che avrebbe portato, poi, anche alle autonomie locali.

Recentemente, in proposito, uno di vostra parte, colleghi liberali, ha scritto di Marco Minghetti e della battaglia sostenuta dalla scuola liberale italiana, queste parole che io mi son voluto segnare e che dovrebbero servire sopratutto oggi non tanto a noi quanto ad altri: «l’ultimo tentativo opposto dal pensiero liberale e dagli uomini migliori del Risorgimento alla brutalità accaparratrice della monarchia e al piemontesismo schematico e soffocatore della burocrazia avida dei più vasti confini fu il progetto Minghetti, progetto serio, meditato, preparato per dare una articolazione alle regioni già comprese nei distrutti Stati italiani e che mal sopportavano economicamente i pesi della recente unità, sorta da operazioni militari quasi sempre disgraziate e da plebisciti quanto mai fraudolenti».

Eppure quel progetto fu dovuto ritirare con parole amare dal Minghetti stesso, perché le forze monarchiche militari e burocratiche furiosamente agitarono la bandiera del patriottismo preconizzando estremi mali per l’unità ancora fragile, se le nuove idee avessero trovato ascolto fra i legislatori.

La storia, a quanto pare, si ripete anche oggi. Comunque, in favore della Regione non militano soltanto quelle ragioni d’ordine storico, demografico, sociale, economico di cui hanno parlato molti dei nostri colleghi, ma sono anzitutto quelle politiche sulle quali io richiamo ancora una volta la vigile attenzione dell’Assemblea e che in fondo si possono riassumere in questa affermazione: noi siamo contro lo Stato accentratore; noi siamo per la libertà, per le autonomie locali. Gli enti periferici devono vivere la loro vita, coi loro mezzi, colle loro istituzioni, con le loro leggi, senza l’intervento paternalistico o coatto dello Stato, che, attraverso la burocrazia, ha sempre soffocato le legittime aspirazioni e le libere iniziative dei Comuni e anche delle Provincie; comunque, degli enti locali.

In linea di principio vi dirò che noi possiamo anche trovarci d’accordo sulla impostazione del problema Regione fatta nel progetto della Costituzione. È una struttura non nuova quella che è stata accettata dalla Sottocommissione prima, e poi dai Settantacinque.

Infatti non è la prima volta, in Europa, che si parla di quello che ormai dal punto di vista giuridico-costituzionale si chiama lo Stato regionale. Basta riferirsi alla riforma repubblicana austriaca del 1919, alla stessa Costituzione di Weimar, alla Costituzione repubblicana della Spagna del 1931 dove, accanto allo Stato unitario, sono le Regioni con propria autonomia, quindi con leggi, con istituti propri, caratteristici, rispondenti alle necessità, alle tradizioni, alle aspirazioni locali. Certo il progetto così come è stato presentato all’esame dell’Assemblea Costituente si presta a critiche, forse anche di non lieve entità.

Io confesso che la lettura degli articoli che riguardano la Regione non mi ha convinto perfettamente. Ho l’impressione che si sia affrontato il problema, sia pure con una preparazione dottrinaria non indifferente, però con una certa semplicità, e forse con un certo superficialismo per quanto ne riguarda la pratica attuazione.

Consentitemi innanzi tutto alcune parole sull’ente Provincia. Qui abbiamo sentito varie opinioni. Si è parlato della Provincia come di un ente creato soltanto nel periodo napoleonico, trasportato poi anche in Italia. Altri invece hanno accennato alla Provincia come ad Ente nato prima della Rivoluzione francese; sicuramente prima del Risorgimento. Non mi fermerò a discutere sulle origini storiche della Provincia: certo è però che questa è una realtà dalla quale noi non possiamo prescindere. Abbiamo sentito i colleghi di varie parti, ne sentiremo altri, che parleranno ancora della Provincia, della necessità di mantenerla, di darle vita autonoma, autarchica, ma io vorrei richiamare i colleghi sul pericolo che si verificherebbe se la Provincia fosse mantenuta con quelle caratteristiche che le si vogliono dare, a detrimento della Regione. Se voi affidate delle attribuzioni particolari alla Provincia, se la Provincia diventa veramente un ente autarchico indipendente, autonomo, deve pure avere le sue istituzioni, deve pure avere le sue leggi, le sue norme: orbene tutto questo va ad incidere su quella che dovrà essere la funzione e l’attività della Regione.

Ad ogni modo noi non intendiamo astrarci dalla realtà della vita e comprendiamo che – se non necessario – è almeno opportuno non dimenticare gli interessi, le tradizioni, le caratteristiche ormai affermatesi – attraverso il tempo – per la Provincia, e non ci dorremo se una formula di intesa (non voglio chiamarla di compromesso) sarà trovata fra le opposte tendenze. (Applausi).

Vi dicevo prima, egregi colleghi, che gli articoli contenuti nel progetto di legge e che riguardano la Regione, a me son sembrati piuttosto confusi, non chiari, non precisi: è necessario invece che dalle decisioni della Assemblea Costituente la Regione si affermi netta e precisa nella sua struttura giuridico-costituzionale in modo da non prestarsi ad equivoci pericolosi ed insidiosi per la sua stessa vita e per la vita della Nazione.

Ecco perché io vorrei che la discussione non si fermasse soltanto sulle linee generali del progetto, ma che si addentrasse nel vivo del problema, esaminandolo sotto i suoi molteplici aspetti, e li risolvesse in maniera che domani risulti chiara e precisa la volontà dell’Assemblea, che è volontà del popolo, di fare dell’Italia uno Stato, sì unitario, ma uno Stato che comprenda i bisogni, le necessità, le aspirazioni dei Comuni e delle Regioni. (Applausi).

I problemi più gravi, che meritano una maggiore considerazione, e una più profonda attenzione da parte dell’Assemblea, sono quelli che si riferiscono alla potestà legislativa della Regione e alla autonomia in materia finanziaria.

Problemi delicati, che la Commissione ha risolto in una maniera non molto chiara, tanto da prestarsi a interpretazioni equivoche e pericolose.

Così per quanto riguarda la potestà legislativa il progetto ha adottato un sistema tutt’altro che semplice.

La triplice ripartizione non è stata certo molto felice, e le critiche fatte e quelle che ancora si faranno rispondono a criteri di serietà, che non nascondono neanche una giusta preoccupazione.

L’articolo 109 stabilisce che «la Regione ha potestà di emanare… norme legislative che siano in armonia con la Costituzione e con i principî generali dell’ordinamento dello Stato, ecc.».

Come si vede, mentre le norme costituzionali offrono una precisa e valida consistenza giuridica, che, sia pure in tono minore, non manca nell’altro limite costituito dai principî generali dell’ordinamento giuridico dello Stato, con la considerazione degli interessi nazionali e delle altre regioni, la linea di confine assume una notevole elasticità ed un aspetto essenzialmente politico.

Ora bisogna notare che la divergenza, la quale potrebbe sorgere tra l’organo legislativo nazionale e quello regionale, rientra nella figura del conflitto d’interessi previsto dall’articolo 118; perciò la risoluzione del conflitto spetterebbe all’Assemblea nazionale. Non è da escludere, quindi, che questa possa praticamente finire con l’annullare o ridurre a ben poco la funzione legislativa della Regione.

Per un altro gruppo di materie invece la potestà legislativa della Regione è subordinata a quella dello Stato.

In alcune (art. 110) la subordinazione è soltanto eventuale, nel senso che essa sussiste se nella materia v’è una legislazione unitaria, a cui, peraltro, spetta soltanto di fissare i principî direttivi; nella seconda (art. 111) si presuppone la presenza di una legislazione nazionale che la legge regionale integra.

Avevamo quindi ragione di definire tale sistema, nell’insieme, tutt’altro che semplice.

Anche dal punto di vista tecnico-legislativo si possono muovere delle valide critiche: così per esempio non si comprende perché a proposito delle acque pubbliche (art. 110) si è indicato il limite dell’interesse nazionale e delle altre regioni, già espressamente richiamato per tutte le materie contemplate nel 1° capoverso dello stesso articolo 110; così non è facile intendere il motivo per cui alcune materie strettamente connesse ad altre hanno avuto una assegnazione diversa: per esempio l’articolo 109 parla della beneficenza pubblica, e l’articolo 110 comprende la assistenza ospedaliera.

Ora che differenza c’è fra le due materie, per quanto riguarda la loro posizione nell’ambito della legge?

Perché la beneficenza pubblica deve essere oggetto di norme legislative primarie, mentre invece le norme relative all’assistenza ospedaliera devono far parte di un altro complesso di leggi, di natura secondaria? Sarebbe opportuno, a mio avviso, che a questo proposito la Commissione chiarisse il suo pensiero. Il mio è un rilievo critico; può essere superficiale, ma ha il suo valore e dimostra, ancora una volta, la giustezza di quanto ho già detto ed ora ripeto: che cioè si sono create delle norme tali che potrebbero portare domani a pericolosi equivoci di interpretazione, o, peggio ancora, di applicazione. (Applausi).

Altro problema: l’autonomia finanziaria. Anche su questo punto il progetto supera le difficoltà, fissa dei semplici principî, e, naturalmente, non è chiaro e si presta a quelle interpretazioni equivoche, cui accennavo prima, a proposito della potestà legislativa.

L’articolo 113, infatti, si limita a dire questo: «Le regioni hanno autonomia finanziaria nelle forme e nei limiti stabiliti da leggi costituzionali che la coordinano con la finanza dello Stato e dei Comuni. Alle Regioni sono assegnati tributi propri e quote di tributi erariali…». Successivamente, l’articolo parla del demanio, del patrimonio delle regioni. Ora, tutto questo è generico, non è specifico; sono direttive di ordine generale, non si fissano, non si stabiliscono delle norme, pur accennando al sistema tributario, che dovrebbe basarsi su di un duplice criterio: la Regione avrà imposte proprie ed aliquote di imposte erariali.

Ora io penso che – invece di lasciare ad un’altra legge costituzionale il compito di fissare i criteri fondamentali in questa materia molto delicata – sarebbe stato forse più opportuno affrontare il problema in questa sede.

Ad ogni modo, di fronte alla posizione assunta, siccome la Regione non potrà vivere ed iniziare la sua vita se prima non saranno approvate quelle leggi costituzionali che coordinino l’autonomia finanziaria della Regione con la finanza dello Stato e dei Comuni, si dovrà provvedere d’urgenza alla formazione di tali leggi, altrimenti noi creeremmo un corpo inerte, senza vita e senza vitalità.

Un’altra osservazione riguarda il contributo dello Stato ai fondi d’integrazione delle finanze regionali. Qui cadiamo un po’ nel paradosso: parliamo di autonomia e chiediamo l’intervento dello Stato; naturalmente questo sarà accompagnato da opportuni controlli, nell’interesse nazionale, perché sin d’ora si pensa che forse il peso maggiore sarà sostenuto dallo Stato.

Noi sappiamo infatti che per la integrazione dei loro bilanci gli enti locali, nell’esercizio finanziario ’44-’45, hanno gravato per oltre 20 miliardi sul bilancio statale.

Tutto ciò io ho inteso rilevare perché la riforma, da noi auspicata, non risulti una beffa all’autonomia regionale e un danno alla Nazione. (Applausi).

Onorevoli colleghi, il mio turno non era fissato per oggi, io avrei dovuto parlare in altro giorno, ed avrei forse potuto portare un contributo maggiore e migliore alla discussione. Comunque credo di aver detto qualche cosa che possa giovare.

Scusate se, terminando questa rapida disamina e critica del progetto di Costituzione a proposito della Regione, io ricordo quel senso di duplice preoccupazione che sembra pesi su grande parte della Assemblea. Si è parlato qui del problema delle autonomie, come di un problema non sentito dal popolo italiano; si è insistito qui sul pericolo di un ritorno ad un passato ormai cancellato dalla storia e dal destino della Patria.

L’altra sera l’amico onorevole Fausto Gullo – che mi spiace di non vedere presente – portò qui la eco appassionata delle esigenze e delle aspirazioni del suo tormentato Mezzogiorno. Ad un certo momento egli disse – ripetendo, in fondo, quello che era stato il concetto di altri oratori, concetto espresso anche in ordini del giorno (che noi dovremo esaminare a suo tempo) – che nelle sue peregrinazioni lungo la terra aspra di Calabria non aveva sentito nessuna invocazione alle autonomie locali. Tutti gli avevano parlato di riforme agrarie, di altre necessità del momento, più urgenti: ma nessuno aveva mai accennato all’autonomia, nessuno aveva mai richiesto autonomie.

Mentre ascoltavo con profonda attenzione le parole dell’amico e collega, io ripensavo – l’accostamento, intendiamoci, non è fatto con male intenzioni – ripensavo al discorso di un altro uomo, fatale per l’onore e la vita d’Italia, il quale, di ritorno da un viaggio in Sicilia, dove era stato applaudito, acclamato dalle solite folle oceaniche, diceva: «Io ho sentito parlare il popolo; mi hanno chiesto ponti, strade, scuole, ma nessuno mi ha domandato la libertà».

Orbene, onorevoli colleghi, è lo stesso per le autonomie: non le chiede il popolo a voce alta nei comizi, nelle riunioni elettorali, quando si parla di problemi contingenti che interessano la vita del momento. Ma il popolo ha sempre sentito, profondamente sentito il problema della autonomia e, anche quando voi, signori, come rappresentanti dei vostri collegi, non soltanto dei vostri partiti e della Nazione, andate a bussare alle porte dei ministeri per risolvere i problemi delle Provincie, della Regione, dei Comuni, venite già automaticamente a riconoscere la necessità della soluzione di questo problema, che non insidierà mai l’unità della Patria.

Vi sono, lo dicevamo prima, delle ragioni morali, e altre molteplici di natura diversa che militano in favore della nostra tesi. Ma ce n’è una, sopratutto, particolarmente politica, che ha il suo valore, che ha la sua importanza, dopo la dolorosa ventennale esperienza che abbiamo fatto.

Io, onorevole Presidente, ho sentito giorni fa un richiamo dal suo banco, un richiamo al dovere dei deputati. Lei diceva, a proposito di una discussione sul regolamento dell’Assemblea, che forse nessun deputato, nessun rappresentante del popolo in questa Assemblea aveva sentito la necessità di presentarsi agli elettori e ai cittadini d’Italia per spiegare la Carta costituzionale. Orbene, io mi auguro che ci siano state delle eccezioni. Io costituisco una di quelle eccezioni: io ho parlato un po’ dovunque, nella mia terra di Romagna, nell’Emilia, nelle città, nei villaggi, ovunque, spiegando la Carta costituzionale, sopratutto spiegando la grande conquista che abbiamo compiuto attraverso la Repubblica e affermando che soltanto attraverso la Repubblica si poteva raggiungere questo spalto ultimo della nostra libertà e della nostra indipendenza.

Orbene, io ho detto una frase che amo ripetere anche qui, per spiegare appunto politicamente la necessità della regione: per me, le regioni sono come degli scompartimenti stagni, sono delle paratie che servono di fronte ai pericoli delle dittature.

Se in un certo momento dovesse balzare alla ribalta della storia qualcuno per imporre ancora una volta la legge della violenza e ricacciare nel buio di un passato di umiliazione la nostra vita, le Regioni saprebbero difendere la loro libertà e la libertà della Patria.

Ricordatevi di quello che diceva Alberto Mario a proposito dello stato federale, il quale non è, intendiamoci, lo stato regionale, ma che però riassume il nostro pensiero, la nostra tradizione e la nostra passione. Egli diceva che a Berna e a Washington non è possibile un re: ebbene, noi ripetiamo che in uno stato regionale italiano, repubblicano, come il nostro, creato dalla fede del popolo e creato da noi, rappresentanti del popolo, non sarà possibile il risorgere di una dittatura. (Vivi applausi Congratulazioni).

PRESIDENTE. È iscritto a parlare l’onorevole Preziosi. Ne ha facoltà.

PREZIOSE Onorevole signor Presidente, onorevoli colleghi! Anch’io, un po’ come il collega Macrelli, devo dire che avrei preferito parlare in un altro giorno per portare un maggior contributo a questo argomento così dibattuto dalla nostra Assemblea. Ma, poiché la sorte mi costringe a parlare, dovrò limitarmi a brevi osservazioni, così come vengono, diciamo, un po’ a braccio.

L’onorevole Macrelli, concludendo il suo discorso pieno di fuoco sacro, oserei dire a favore della Regione, ha parlato di essa come dello spalto ultimo delle nostre libertà. Mi è sembrato invero il suo dire un po’ esagerato, così come esagerato è stato il concetto che egli ha voluto esprimere, quando ha spiegato che, se fosse esistito in Italia un ordinamento regionale, non ci sarebbe stata l’avventura del fascismo.

In verità, egli prendeva lo spunto da quella che era stata la magnifica orazione del collega Mastino quando, qualche giorno fa, parlando a favore dell’ordinamento regionale, diceva: Si è negato che l’Italia, se fosse stata ordinata in Regioni nel 1922, non avrebbe subito il sopravvento del fascismo. E si è portato l’esempio della Germania, alla quale Hitler poté imporre il suo dominio malgrado l’ordinamento federale di quello Stato.

Dunque, i difensori della Regione, a sostegno della necessità che in Italia ci sia un ordinamento regionale, affermano, come l’onorevole Macrelli: La Regione è lo spalto ultimo della nostra libertà. Se ci fosse stato l’ordinamento regionale il fascismo non si sarebbe verificato in Italia. E dimentica l’onorevole Macrelli, egli che fu uno dei protagonisti di quel periodo – e non dovremmo essere noi giovani a rimproverarlo – che se il fascismo sorse in Italia, se il fascismo riuscì a mettere ancora più profonde radici nella nostra Patria, fu un po’ colpa, se non molto colpa, del Parlamento che non seppe reagire, e soprattutto fu colpa di quell’Aventino che non seppe compiere un atto rivoluzionario, un atto di forza, perché in quel momento… (Interruzioni Commenti).

MAZZONI. L’Aventino non è la piazza!

PREZIOSI; …se si fosse scesi sulla piazza e si fosse difesa la libertà colle armi l’articolo 50 della nostra Costituzione verrebbe meno. (Interruzione dell’onorevole Conti).

Se fosse esistito l’ordinamento regionale in Italia, voi dite, non ci sarebbe stato il fascismo. (Interruzioni).

MACRELLI. Non conosce la storia di quel periodo.

PREZIOSI. Io ricordo, caro Macrelli, giacché vuol venire ai ricordi, che nel 1922, mentre avveniva la marcia su Roma io, ad Avellino, piccolo capoluogo di provincia, segretario a sedici anni di quella Federazione giovanile repubblicana, in una sede del vostro partito ero oggetto di certe non gradite cortesie da parte di certi squadristi del posto. Come vede, anche se non avevo la sua età, potevo sapere qualche cosa degli avvenimenti di quel periodo.

Ma, comunque, ritorniamo a quello che è il nostro ragionamento: all’ordinamento regionale. Quali sono le ragioni a sostegno di questo ordinamento regionale, che si considera da parte di tanti illustri colleghi come una specie di toccasana per le disgrazie del nostro Paese, come una specie di miracolo che all’improvviso – come lo specifico di quel tale medico Guarnieri, di cui tanto si è parlato in questi giorni sui nostri giornali, per la lotta contro il cancro – dovrebbe rimettere in piedi l’Italia, guarirla dalle sue piaghe, dalle sue ferite, farla veramente un esempio ideale di Nazione libera? Le ragioni a sostegno sono ragioni le quali una per una possono essere smontate. Io penso che giustamente diceva il collega Assennato in un suo magnifico discorso di pochi giorni fa che il problema bisogna porlo su tre quesiti: 1°) se storicamente sia mai esistito un problema politico della Regione; 2°) se la creazione dell’ente Regione possa imprimere impulso democratico per accelerare il progresso sociale e per rendere più compatto e più unito il popolo italiano; 3°) in quali condizioni di fatto si verrà ad inquadrare la nuova istituzione.

Già, onorevoli colleghi, anche qualcuno dei più accesi regionalisti, come l’onorevole Bosco Lucarelli, stigmatizzava quello che era stato il deliberato della seconda Sottocommissione, di non tenere in alcuna considerazione l’ente Provincia. L’onorevole Bosco Lucarelli che, convinto regionalista, non può dimenticare le benemerenze della Provincia in Italia, che ha tutta una tradizione luminosa, una tradizione che si diparte dalle origani comunali nostre, dalle libertà comunali, e va sino al periodo del nostro Risorgimento, ad un certo momento era costretto ad affermare nel suo discorso (che pur voleva essere – ripeto – una specie di sostegno magnifico per l’ordinamento regionale) che la Regione peraltro non dev’essere concepita come un organo accentratore dei poteri dei Comuni e delle Provincie e che, quindi, la Provincia come ente autarchico territoriale dev’essere mantenuta per evitare un nuovo accentramento.

E ancora lo stesso onorevole Bosco Lucarelli parlava della creazione di una Regione con la conservazione della Provincia, in modo che si evitasse di fare della Regione un organismo pletorico e pesante, attuando quel decentramento amministrativo da tutti auspicato e dichiarato quale uno scopo della Repubblica dall’articolo 106 del progetto di Costituzione.

Dunque noi abbiamo una prova a favore della Provincia, abbiamo la prova che gli stessi convinti regionalisti, cioè coloro che sostengono l’ordinamento regionale come il toccasana della Patria, sono contrari, sono ostili al parere della Sottocommissione quando si parla della abolizione della Provincia. E difatti la Regione non sarebbe che la negazione delle autonomie locali. Per me la Regione non è qualche cosa che sorge a difesa delle libertà locali, onorevoli colleghi; a me pare che il primo passo, che il grave passo verso l’accentramento non fu creato dallo Stato unitario, ma fu creato dal fascismo allorché abolì quelle Sottoprefetture le quali erano tanto utili e tanto portavano il popolo più vicino a quella che era la giustizia amministrativa dello Stato. Il fascismo ha forse fatto sentire ad un certo momento a voi il bisogno della Regione perché durante il ventennio fascista si era creato lo Stato come organismo accentratore che soffocava le libertà e le autonomie locali.

Ma il fascismo è scomparso; e allora le Provincie ricominciano ad assumere il loro ruolo vero e proprio. E allora le Provincie potrebbero avere, oltre alle prefetture, le sottoprefetture per portare la giustizia dello Stato più vicina al popolo.

Come potete voi pensare alla creazione di un Ente Regione il quale fin da ora crea dei sordi rancori, delle inimicizie fra Provincia e Provincia vicina? Io assistevo, tre o quattro giorni fa, ad un simpatico diverbio nel «corridoio dei passi perduti» fra l’onorevole Priolo e l’onorevole Silipo; l’onorevole Priolo e l’onorevole Silipo nella paventata eventualità della creazione della Regione calabra affermavano uno che il capoluogo della Regione dovesse essere Reggio, l’altro Catanzaro.

Ora, essi sostenevano quelle loro affermazioni con così grande concitazione che stava a dimostrare quelli che in effetti sono i sentimenti delle Provincie di Reggio Calabria, di Cosenza o di Catanzaro.

Nel suo interessante intervento l’onorevole Cifaldi disse che era indispensabile la creazione di una Regione sannita affermando che le popolazioni di Campobasso, di Avellino e di Benevento erano ansiose di vedere sorgere la Regione sannita stessa, aggiungendo che con la sua costituzione si risolvevano annosi problemi locali di grande importanza. L’onorevole Cifaldi, convinto assertore della Provincia, dimenticava che la creazione di una Regione sannita è mal vista da Avellino e Campobasso, città che hanno loro rivendicazioni e che non sopportano la creazione di una Regione con capoluogo Benevento così lontana dalle nostre necessità ed aspirazioni.

È necessario che io ripeta qui che la Provincia di Avellino è ostilissima ad una regione del Sannio. L’esempio da me addotto è evidente prova di come l’istituzione dell’Ente Regione, invece di creare uno spirito unitario della Patria, crea uno spirito di disaccordo nelle diverse Regioni e Provincie. Ci sono tali e tanti rancori fra Provincia e Provincia che questi non sono stati sopiti neanche dai lunghi anni di dominazione fascista, per cui noi non possiamo parlare di Regione. Parlare di Regione significa andare contro quelli che sono i sentimenti delle nostre popolazioni.

Io, ad un certo momento, potrei ammettere anche il sistema regionale; ma se si parlasse di sistema regionale a grande raggio, e non di spezzettamento, come chiaro si manifesta in queste discussioni che si svolgono da giorni nella nostra Assemblea. E poi, onorevoli colleghi, diciamo chiaramente che, se mai, si poteva forse parlare di ordinamento regionale nella nostra Italia solo nel 1870 o nel 1880. Volete parlare di ordinamento regionale in Italia nel 1947 senza considerare la povertà delle nostre Provincie meridionali? Ma si dice: il sistema regionale ammette senz’altro l’indipendenza economica. E si dimentica che l’indipendenza economica, nel caso specifico, non ci può essere in alcun modo. È stato dimostrato da altri oratori come una indipendenza economica vera e propria non ci possa essere. Lo hanno detto gli onorevoli Assennato e Cifaldi, diversi colleghi ancora; e lo dirà poi bravamente, col suo valore, l’onorevole Nitti, quando parlerà, al termine di questa nostra discussione, del problema che è da considerarsi il vero ostacolo alla creazione di queste autonomie regionali: il problema finanziario.

Signori, volete o no capire che molte Regioni sono povere nel senso più assoluto della parola? Come potete, voi che sapete quali fondi lo Stato deve erogare a integrazione dei bilanci comunali – anche dei piccoli comuni – non voler considerare il problema finanziario? Insomma sarebbe un fallimento nel suo sorgere perché noi sappiamo che non si può concedere un prestito ad un negoziante fallito o che sta per fallire. Bisogna metterlo in condizioni non soltanto di poter sopperire a quelle che sono le sue necessità quotidiane; bisogna metterlo non soltanto in condizione da pagare i suoi debiti, ma in condizione di avere nelle sue tasche i denari che gli bastino per iniziare di nuovo l’impresa del suo commercio. Ora nel caso specifico della nostra Nazione, tutti sappiamo in quali condizioni siamo e quali sarebbero i rancori fra Regione e Regione con le autonomie che dal nostro progetto sono previste. Noi avremmo Regioni ricche le quali non vorrebbero in alcun modo pensare alle Regioni più povere; e non sarebbe certo lo Stato che potrebbe venire in aiuto a queste Regioni più povere; sappiamo come in altri periodi, assai recenti, ordini prefettizi locali impedivano l’esportazione di prodotti dalle Provincie più ricche alle Provincie che ne avevano bisogno.

Cosa avverrà se l’ordinamento regionale sarà approvato?

Ma questo ordinamento previsto dal progetto è, in certo modo, condannato dalle norme stesse contenute negli articoli 117 e 118.

Infatti l’articolo 117 dice: «Il Consiglio regionale può essere sciolto quando compie atti contrari all’unità nazionale o altre gravi violazioni di legge; e quando, non ostante la segnalazione fatta dal Governo, non procede alla sostituzione della Deputazione o del Presidente della deputazione, che hanno compiuto analoghi atti e violazioni.

Lo scioglimento è disposto con decreto motivato del Presidente della Repubblica su proposta del Consiglio dei Ministri e deliberazione conforme della Camera dei senatori, presa a maggioranza assoluta dei suoi membri, con l’astensione dal voto dei rappresentanti della Regione interessata».

Dunque, l’articolo 117 prevede atti gravissimi contrari all’unità della Patria, contemplati poi dall’articolo 118:

«I disegni di legge approvati dal Consiglio regionale sono comunicati al Governo centrale, e promulgati trenta giorni dopo la comunicazione, salvo che il Governo non li rinvii al Consiglio regionale col rilievo che eccedono la competenza della Regione o contrastano con gli interessi nazionali o di altre Regioni.

«Ove il Consiglio regionale li approvi nuovamente a maggioranza assoluta dei suoi membri sono promulgati, ma non entrano ancora in vigore, se entro quindici giorni dalla comunicazione il Governo li impugna per incostituzionalità davanti alla Corte costituzionale o nel merito, per contrasto di interessi, davanti all’Assemblea Nazionale. In caso di dubbio la Corte decide se competente a pronunciarsi sia essa stessa o l’Assemblea».

Anche l’articolo 118 prevede, dunque, un gravissimo conflitto tra le Regioni e lo Stato.

In questo articolo è configurata la possibile, anzi la certa ribellione di Regioni allo Stato centrale. Le Regioni possono promulgare leggi, lo Stato si può opporre, ma le Regioni possono riconfermarle col loro voto; ed allora esse entrano in conflitto con lo Stato; tanto vero che si sente il bisogno di ricorrere ad una Corte Costituzionale che non sappiamo come sarà formata: essa sarà veramente il confusionismo del diritto italiano.

Noi abbiamo sempre detto che nella Camera legislativa, oggi nell’Assemblea Costituente, risiede la sovranità popolare, perché essa rispecchia la volontà della Nazione.

Ora, competente a dirimere i conflitti fra gli organi giurisdizionali delle regioni e gli organi dello Stato centrale non sarebbe l’Assemblea legislativa, in cui risiede la sovranità popolare, ma una Corte costituzionale, non eletta dal popolo.

Ed allora, arriviamo ad un assurdo. Voi, ad un certo momento, ammettete l’Ente Regione, cioè consacrate nella Carta Costituzionale dello Stato il diritto a queste Regioni di legiferare, il diritto cioè di avere alcune potestà di giurisdizione per cui sono queste Regioni in un certo momento le sole che possono giudicare meglio, e poi le spogliate del loro potere. Come lo spiegate voi questo conflitto delle Regioni con lo Stato centrale, e quando avviene questo conflitto, come fate a non farlo dirimere da coloro i quali sono i rappresentanti legittimi della Nazione, ma ad affidarlo ad una incerta Corte Costituzionale?

UBERTI. È una magistratura.

PREZIOSI. Amico mio, ma la magistratura è forse un’espressione di volontà popolare? Forse si è in America ove il magistrato è eletto dal popolo e può rappresentare quindi l’espressione del popolo stesso? (Interruzione dell’onorevole Bellavista).

Queste vostre interruzioni, onorevoli colleghi, mi stanno a dimostrare che ho toccato un punto difficile della nostra Costituzione, un punto controverso nella sua apparente solidità, un punto su cui bisogna ragionare, altrimenti noi creeremo confusione con gli Enti Regione, confusione ancora maggiore con la Corte Costituzionale. E credetemi pure, che questa unità della Patria se ne va per conto proprio; questa unità della Patria non la ritroverete attraverso i vostri sostenuti Enti Regione. Noi non dobbiamo perdere di vista l’importanza della funzione che ha avuto la Provincia in tutti i periodi della nostra storia civile e politica. Abolire la Provincia significa, sul serio, abolire l’unità della Patria, perché voi mettete in contrasto Provincie contro Provincie, mettete in contrasto interessi di alcune Regioni contro interessi di altre Regioni, mettete in essere quella scarsezza di altruismo, che purtroppo esiste al fondo di tutte le cose umane, per cui una Regione più ricca non vorrà provvedere alla Regione più povera e quando lo Stato vorrà intervenire per costringere questa Regione più ricca ad avere del senso di solidarietà, del senso di altruismo per la Regione più povera, colleghi, si verificheranno quei tali contrasti previsti dagli articoli che vi ho letto. E quando la sentenza della Corte Costituzionale si avrà, essa non servirà più a nessuno.

Onorevoli colleghi, io credo che anche voi, accesi regionalisti, se trionfasse in questa Assemblea l’ordinamento regionale, non dovreste dimenticare che un Ente Regione, con l’abolizione delle province, significa un ente accentratore il quale compie indubbiamente opera non meritoria a favore del paese e non fa l’interesse delle provincie. Io penso che la Provincia debba rimanere, che l’ordinamento regionale non possa in nessun modo essere votato dall’Assemblea. La Provincia ha, in fondo, tutta la tradizione del nostro Risorgimento, tutta la tradizione del periodo più bello della nostra libertà. Questa tradizione non possiamo in alcun modo distruggere perché sarebbe un po’ ammainare la bandiera delle libertà del nostro Risorgimento. (Applausi).

PRESIDENTE. È iscritto a parlare l’onorevole Medi. Ne ha facoltà.

MEDI. Questa discussione ricca di contrasti suggerisce una constatazione immediata. Quando le cose sono veramente importanti e capaci di produrre delle conseguenze gravi, condizione necessaria perché sia affermata questa importanza è che l’attenzione delle persone responsabili venga richiamata sopra il problema che si discute.

Quindi la condizione necessaria – non sufficiente – affinché il problema della Regione sia un problema di primissimo ordine, e quindi contenga in sé delle cose veramente buone, è già stata dimostrata dal fatto che più di cento deputati si sono iscritti per parlare su questo argomento.

È necessario procedere al secondo termine del nostro ragionamento, cioè la condizione sufficiente perché il concetto dell’autonomia regionale venga approvato e difeso da questa nostra Assemblea.

Mi fermerò solamente sopra tre punti non di carattere tecnico e specifico ma di carattere generale, psicologico e sociale.

Il primo concetto che porrei come base per l’istituzione della Regione è il concetto di democrazia, sul quale dobbiamo sempre insistere affinché venga chiarito questo vocabolario che fa ripetere le medesime parole sotto sensi così diversi e così contrastanti. Il concetto di democrazia lo potremmo anche definire in queste parole: la democrazia è una libertà nell’ordine ed è un ordine nella libertà.

Una libertà nell’ordine. Cosa significa il concetto di libertà presa per conto suo ed avulsa da ogni concezione di corrispondenza e di solidarietà? È creare una società molecolare, atomistica, non vitale ma corrispondente alla teoria cinetica dei gas. Non si costruisce una società se a fondamento ed a limite delle libertà non si pone l’ordine, l’ordine che contiene in sé l’idea di finalità e di sistemazione, richiede disposizioni di mezzi per raggiungere certi determinati fini. A me sembra che il problema della Regione debba rispondere a questo concetto democratico della società, che è vita, che non è un concetto di elemento distaccato, altrimenti facciamo della chimica inorganica. Non è neppure concezione di blocco, come a prendere una pietra, un masso in cui vediamo le sue varie parti unite, agglomerate, non libere, in altre parole, di muoversi secondo una propria personalità. Invece, prendete il concetto della vita che è altissimo: una pianta, l’uomo – tenuto conto che i paragoni non si adattano sempre perfettamente – ed avete l’idea della libertà nell’ordine e l’idea di autonomia nel senso vero della parola «autos»: vedete, per esempio, questa mano che si stringe e si apre, ubbidiente ad ordini centrali, e prendete anche degli organi che funzionano senza bisogno di aspettare una giurisdizione centralizzata. Anch’essi hanno la loro autonomia, la loro capacità di vivere e la loro personalità da sviluppare, e tutti, a loro volta, armonizzati nel benessere generale dell’organismo. (Approvazioni al centro). Il concetto di Regione che vogliamo introdurre è nettamente distinto dal concetto di separazione, perché l’organo separato fa soffrire l’organismo e muore. C’è un senso di soffocamento, perché tutto ciò che restringe ed è centripeto non è in armonia con la vita che tende a espandersi. Il concetto della vita è questo: potenziare tutti gli organi che insieme concorrono al più grande benessere della società e della patria.

Vedete, quando ci troviamo di fronte a certi fenomeni e a certi spaventi di gente che qui dentro si è terrorizzata del regionalismo perché teme che sia compromessa l’unità della nostra terra, ci vien fatto di dire: amici miei, volete fare dell’Italia un blocco di cemento, od una quercia che liberamente spande le sue fronde e i suoi rami rigogliosi? Cosa volete: costringere e spezzare la vita invece di creare un’umanità automoventesi, che ha dentro di sé una forza interiore che la alimenta, la fa fruttificare e procedere nella via della storia? La nostra concezione sociale mi sembra sia la più corrispondente al meccanismo della natura di cui la società è la riproduzione, su un piano più elevato e più perfetto. Questo ci sembra democrazia. E noi parliamo tanto di democrazia e voi la volete distruggere. Tanto meglio essa vivrà se avremo delle Regioni con propria vita e con propria autonomia, altrimenti facciamo dei bambini in fasce e non dei bimbi che sanno percorrere i primi passi! Noi tutti siamo dei papà – permettetemi di parlarvi in un modo così familiare – ma ricorderete certo la nostra gioia quando nostra moglie ci disse: il bambino cammina da solo! Noi, quando sentimmo che egli era capace di camminare da sé, e quindi aveva la sua autonomia, non piangemmo, temendo che il bambino andasse incontro a pericoli, ma fummo lieti perché il bambino era finalmente entrato nel centro vitale della famiglia, partecipando alla sua vita e collaborando alla famiglia, sia pure con la nostra collaborazione. E voi, professori di università, ricorderete certo il giorno della laurea! Ed io ricordo il giorno intenso di commozione quando, il dì di Pentecoste, mi son trovato all’Assemblea siciliana: mi sembrava che alla Sicilia fosse data la laurea della vita, delle sue capacità politiche e del suo ingresso nella marcia che la Patria stava compiendo! Quella era gioia e commozione! Come può nascere spavento e invidia e gelosia di fronte alla laurea dei nostri popoli e della nostra gente? Io penso che dinanzi a questa estrinsecazione del libero pensiero ci si senta uniti ed affratellati, non per creare privilegi, ma per far sì che le persone si amino e si intendano. Allora sì che la famiglia è bella, quando intorno a questo desco familiare della Patria si uniscono figli e genitori, e tutti insieme lavorano e tutti portano il loro contributo. Così concepisco, o amici, il problema regionale. Non perché un figliuolo si è laureato in legge, un altro in agraria ed un altro in medicina essi diventano nemici; anzi, ognuno porta il proprio contributo. Che cosa rappresenta un povero figliuolo tenuto chiuso in casa, che non è capace di uscire se non è accompagnato dalla madre, o dal precettore o dal padre?

Questa è la libertà che noi dovremo adottare nelle nostre Regioni.

Secondo aspetto: da un punto di vista politico si lamenta che il popolo italiano non è preparato politicamente. Tutte le volte che vi è una crisi, si dice sempre che mancano gli uomini. Ma questi uomini bisogna pure formarli. Ve ne sono, fra uomini, donne e bambini, 45 milioni; ma se non li formate dovete sempre dire che mancano. E quale palestra di formazione politica si potrebbe pensare migliore delle Assemblee regionali? Questo impegnare, come in Sicilia, novanta persone per studiare problemi politici, tecnici, economici, lo studiare sul posto i problemi locali, con diretta responsabilità, responsabilità verso gli uomini che ci conoscono e ci guardano, per cui non vi è possibilità di assentarsi e di scusarsi, dicendo che a Roma, al Ministero, hanno bocciato il progetto, o non lo hanno capito, l’esaminare sul posto i vari problemi della vita locale, tutte queste cose rappresentano la vera palestra per una salda preparazione politica. Ho visto, in quei quindici giorni che hanno preparato l’Assemblea regionale siciliana, che le questioni venivano impostate e risolte con vera coscienza e responsabilità. Ora, tutto questo è preparazione. Dopo alcuni anni di questi allenamenti, si formerà la classe politica che in un domani dirigerà il nostro Paese. Per me, queste sono vere palestre di scuola politica.

Questo è potenziamento della democrazia, altrimenti quando gli elettori verranno chiamati alle urne, un 2 giugno o un 24 ottobre qualsiasi, daranno il loro voto, e poi chi si è visto si è visto, perché per quattro anni non se ne parla più e si ricade in un letargo politico delle masse che si accontentano di leggere un giornale e di imprecare più o meno contro l’Assemblea. Ma quando vi è un parlamentino regionale, queste cose non avvengono. I giornali locali hanno una sensibilità acutissima; le persone che circondano gli eletti sono pronte a richiamarli al loro dovere dando loro, quindi, un maggior senso di responsabilità. Naturalmente, se si vogliono evitare le discordie si ammazzano tutti e in un cimitero non vi sarà discordia; noi, invece, creando l’autonomia regionale, pur creando possibilità di contrasti, diciamo che non abbiamo paura del contrasto ideale, perché se si vuole costruire si deve affrontare anche il rischio di questa costruzione. Prepariamo uomini vigorosi, piuttosto che patiti, che non hanno la forza di stare in contrasto. Con questi presupposti, noi possiamo vedere il grande vantaggio, anche dal punto di vista politico, di questa nostra istituzione regionale.

Terzo aspetto: punto di vista sociale. Vedete, quando si vuol fare la nazionalizzazione dei cervelli, i cervelli devono adattarsi ad una sola cosa, cioè a morire. Poiché il mio cervello non è adatto ad essere nazionalizzato, così credo che il cervello di nessun uomo, che abbia capacità cerebrali, sia adatto ad una standardizzazione, ad una collettivizzazione, ad una rinuncia. Ed allora, ecco che madre natura pone dinanzi agli uomini tanta molteplicità di problemi, per nostra fortuna, pone tanti misteri diversi, complicati, nel mondo fisico, psicologico, biologico, naturale, storico, tutto quello che volete. Ognuno di questi problemi ha nel luogo dove si realizza la propria caratteristica e va studiato in loco. Perché voi guardate e sentite sul posto il problema nelle sue sfumature e nelle sue particolarità; altrimenti si fa dell’apriorismo, altrimenti si assiste a quelle incomprensibili contraddizioni della vita sociale, della Patria, che sono di danno. Che cosa succede per esempio in una terra alla quale mi considero di appartenere, in Sicilia? In terra di Sicilia ci sono problemi straordinariamente belli ed appassionanti, e non soltanto dal punto di vista politico e sociale, ma anche dal punto di vista economico, scientifico, tecnico, della ricchezza del sottosuolo, della utilizzazione delle sue energie ecc. Vi è tutta una infinità di cose meravigliose, come il problema del turismo, per esempio, e tutti questi problemi vengono qui nei Ministeri di Roma. Si dice: qui tutto si affoga. Ora, è colpa del Ministero? No; perché vengono portati qui questi problemi senza l’esperienza diretta, senza cioè che chi li studia vi ponga la passione che vi mette invece chi sa di essere anche responsabile di questi problemi sul luogo. Un conto è affidare un problema ad altri e un conto è dire: io lo studio, io lo conosco, io lo risolvo, anche perché ne ho la piena responsabilità.

Quando ad una Regione voi avete dato questo senso di diretta responsabilità che poggia sui propri uomini, allora voi veramente avrete di fronte problemi che vengono affrontati in modo deciso, direttamente, e risolti.

Quindi, anche da questo punto di vista, così grave ed importante per la società e per il bene generale, io vedo un potenziamento necessario della Regione, un potenziamento da cui risulta e deriva poi un vantaggio per tutti.

Come si fa a stabilire una economia quando un arto è malato? Non è possibile tirare avanti con arti malati ed un semplice adattamento porterebbe ad una mostruosità. Bisogna quindi prendere tutte queste Regioni e vederle crescere, elevarsi, sollevarsi nella loro libertà, cosicché ciascuno di questi ceppi vitali abbia la possibilità di una sua crescita, di un suo sviluppo; così faremo una unione di potenza e di gloria, così veramente otterremo un’Italia degna di sé e di tutti i suoi figli. Perciò è un appello che credo venga naturale dal nostro popolo, quello di cercare sempre di moltiplicare e potenziare le energie periferiche, perché queste rappresentano la salvezza del nucleo centrale che è quello dello Stato.

Abbiamo detto: libertà nell’ordine, ma bisogna aggiungere: ordine nella libertà. Se uno volesse ridurre questa concezione regionale ad un federalismo o ad una dissociazione, noi siamo contrari, perché mancherebbe l’ordine in questa libertà, perché avremo tanti elementi, ciascuno dei quali camminerebbe per una direzione diversa. Questo noi vogliamo evitare.

Quindi, imprimere in questa libertà regionale l’ordine, è una necessità. Mi sembra che il progetto proposto dalla Commissione abbia appunto questo fine: che i vari sforzi vengano convogliati verso un unico fine; cioè: senso di unità nel concetto di Patria ed ordine nella unità di tutte le Regioni.

Detto questo, data la nostra brevità matematica (che io ho voluto rispettare in ossequio al richiamo del Presidente) facciamo un appello dicendo: da questa Assemblea uscirà l’ordinamento regionale…

TONELLO. No, no!

MEDI. …ma guardate che implica una responsabilità troppo grave perché venga preso con leggerezza. L’ordinamento regionale tenderà a potenziare il vostro senso di responsabilità individuale e collettiva affinché ogni Regione non creda, per il fatto che c’è un Parlamento che possa agire per conto suo, di sentirsi libera, capace di camminare per la propria strada. No, attenta; la tua economia deve essere armonizzata con l’economia di tutta la Nazione. Se senti dentro di te una necessità di aiuto, ricordati che anche tu dovrai aiutare gli altri.

Quindi, in questo momento, c’è un dovere nazionale di aiutare quelle Regioni che si trovano in decadenza o che sono deficitarie, per portarle sul medesimo piano. Non è giusto il criterio che vediamo usato nei Ministeri, il criterio dell’equipartizione statistica: tanti abitanti la Sardegna, tanti abitanti la Puglia, tanti abitanti la Lombardia, distribuzione equipartimentale statistica. Non è giusto questo criterio: dobbiamo fare una distribuzione ponderale, nel senso di pondus. Quando questa distribuzione avrà riportato al livello dovuto le varie parti di questa nostra grande nave, allora si potrà camminare con un equilibrio statistico.

Questo è il nostro programma: che la grande famiglia italiana veda sorgere i figli intorno alla sua mensa; che intorno al ceppo paterno si raccolgano le Regioni d’Italia nella loro dignità, nella loro personalità, nella loro libertà. E questa libertà nell’ordine, e questo ordine nella libertà, per iniziare così, insieme, la nostra marcia, il nostro cammino senza sospetti, ma nella certezza che più saremo uniti, meglio ci intenderemo e meglio armonicamente marceremo per le vie della storia. (Vivi applausi al centro).

Presidenza del Vicepresidente CONTI

PRESIDENTE. È iscritto a parlare l’onorevole Adonnino. Ne ha facoltà.

ADONNINO. Onorevoli colleghi, ormai questa discussione ha avuto così ampio e profondo sviluppo, che, come concetti generali, non ci sarebbe altro da esporre. Ci sarebbe soltanto da raccogliere le fila.

Ma c’è, forse, da fare qualche precisazione su qualche punto particolare. In sostanza, succede così: nelle discussioni generali si abbonda, normalmente, in concetti generali mentre ci sarebbero tanti punti specifici, determinati, che forse sarebbero quelli che meglio inquadrerebbero praticamente e positivamente il problema nei suoi termini veri.

Io credo, onorevoli colleghi, che il problema vero e reale della Regione stia in una parola sola: limiti, cioè moderazione.

Non si può dire, in maniera aprioristica e assoluta: hanno ragione coloro che sono per la Regione, hanno ragione coloro che sono contro la Regione. Tutto sta a vedere quali sono i limiti, quale è la moderazione con cui questa Regione si crea. E credo che questi limiti giusti siano necessari, credo che grande moderazione sia necessaria. Ritengo anche che nel progetto che ci è stato presentato dalla Commissione si possa scorgere una sufficiente moderazione. Si potrà discutere sui punti particolari, ma nell’aspetto generale, credo sia un tentativo moderato, prudente di formulazione della Regione, che non ha riscontro nelle altre Costituzioni. Questo tentativo dunque è profondamente lodevole perché è perfettamente moderato.

Come siciliano, però, onorevoli colleghi, permettetemi che io vi dica una parola su questo benedetto statuto dell’autonomia siciliana, che ora vediamo applicare e prosperare tanto bene in questi primi giorni della sua felice nascita. Io credo che sia un precedente buono per le nostre Regioni e per la discussione che stiamo per fare ed ho sentito con preoccupazione, un po’ con dolore, una parola autorevolissima levarsi in quest’Aula, giorni addietro, a porre delle ombre su questo Statuto siciliano e sulle conseguenze che esso potrebbe avere sul nuovo sistema regionale che noi adesso creiamo. Ho detto: «una parola autorevolissima», e infatti si tratta della parola dell’onorevole Einaudi. Egli non si è dimostrato assolutamente contrario, perché un uomo della sua levatura assolutamente contrario non può essere, ma i suoi rilievi sono di tal natura che non possono non lasciare preoccupati.

Ora, io ho pensato molto a questi rilievi che vengono da una così autorevole fonte: e mi permetto di fare ad essi delle osservazioni. Due sono essenzialmente i punti che hanno formato oggetto di critica da parte dell’onorevole Einaudi.

Il primo punto è quello che riguarda la questione dell’integrazione che lo Stato deve pagare alla regione siciliana per compensarla di quel meno che lo Stato stesso dà ad essa di fronte alle altre Regioni, specie alle settentrionali.

Badate, onorevoli colleghi, che io qui mi pongo – e sono sicuro che tutti noi ci poniamo quando si fa la distinzione tra regioni settentrionali e regioni meridionali – non già da un punto di vista di astioso contrasto, ma da un punto di vista amichevole e non solo amichevole, ma fraterno, perché siamo tutti figli di una grande Madre, tanto amata quanto sventurata. È necessario che noi sentiamo vivamente la potenza di questa fraternità specialmente quando discutiamo di punti in cui siano in contrasto i rispettivi interessi. Nessun atteggiamento di urto, quindi, o di antipatia.

Ma non si può negare, che lo Stato dia senza dubbio molto di più delle sue complessive entrate e delle sue forze economiche generali al Settentrione che non al Meridione e alla Sicilia: deve dare; non dico che faccia male a dare; ma senza dubbio dà molto di più.

Si pensava pertanto, quando si fece lo Statuto siciliano, a quelle integrazioni salariali in base alle quali, mentre agli operai del Nord che per disoccupazione involontaria non riescono a lavorare 40 ore la settimana, si pagano in tutto o in parte le ore che fanno in meno, agli operai meridionali si pagano soltanto le ore fatte in meno dalle 24 alle 40.

E che dire, onorevoli colleghi, se pensiamo a quegli aiuti che dà ed è giusto che dia in questo momento quell’istituto di cui si è tanto parlato, ma che è un istituto benefico, l’I.R.I., alle industrie settentrionali, mentre in sostanza alle industrie meridionali dà poco, per non dire che non dà nulla?

Ora, io non credo si possa lontanamente negare che delle forze generali dello Stato, delle forze che lo Stato trae da tutti i membri della sua comunità, una parte molto maggiore vada all’Italia settentrionale e una parte molto minore vada all’Italia meridionale e alla Sicilia. Ora dunque se, quando si è fatto lo Statuto siciliano, si è detto: lo Stato compensi, in parte almeno, questo di più che dà alle Regioni settentrionali rispetto alle meridionali, che male c’è, onorevoli colleghi? Mi pare così giusto, così evidente!

Si dice che si tratta di entrate che non sono comparabili: e perché? Si tratta di ore di lavoro per l’Italia settentrionale e di ore di lavoro per l’Italia meridionale; di molte industrie per l’Italia settentrionale, di poche industrie per l’Italia meridionale, cui del resto fa riscontro un maggior apporto di prodotti agricoli per quello che riguarda l’Italia Meridionale stessa. Si tratta di entrate che sono perfettamente comparabili.

Non si può dunque negare un’integrazione che lo Stato debba dare alla Regione siciliana.

Il secondo punto trattato dall’onorevole Einaudi è quello che riguarda il cosiddetto potere di battere moneta. Egli lo diceva naturalmente portando le cose all’assurdo; ma il punto logico su cui egli conduceva il suo ragionamento era quello della stanza di compensazione in Palermo, in Sicilia, per la valuta pregiata che a noi viene dalle esportazioni di prodotti siciliani.

Ora, anche qui bisogna rifarsi al concetto cui accennavo prima, che cioè l’Italia Settentrionale è più ricca e quindi ha maggiori apporti. Ma anche da questo punto di vista, che cioè l’Italia settentrionale ha molto di più di quello che noi non abbiamo, mi pare, per giustizia fondamentale e inoppugnabile, che noi siciliani abbiamo diritto di utilizzare per noi e di avere per noi quella valuta pregiata che a noi viene dall’esportazione dei nostri prodotti. Non facciamo male a nessuno; non togliamo a nessuno gran cosa; ma che resti a noi quello che è nostro. L’onorevole Einaudi criticava da pari suo il meccanismo pratico; egli diceva: «Ma se voi create una stanza di compensazione a Palermo, allora voi avete un potere d’acquisto della lira siciliana diverso dal potere d’acquisto della lira italiana». Ora io dico: se questi poteri d’acquisto saranno lasciati perfettamente liberi, poiché non c’è nessun sipario di ferro, poiché non vi è nessuna barriera tra l’Italia e la Sicilia, si equiparano questi valori, come per la teoria dei vasi comunicanti. Ché se invece prende consistenza il timore manifestato dall’onorevole Einaudi, nulla impedisce che lo Stato, con un monopolio dei cambi, fissi esso tanto per l’Italia quanto per la Sicilia un eguale valore determinato per la lira, che sarà perciò uguale sia come lira italiana sia come lira siciliana.

Dunque, si tratta di atteggiamenti, di modalità pratiche; ma il concetto in se stesso, l’organizzazione fondamentale che si è data nello Statuto siciliano per sopperire a queste necessità di evidente giustizia, mi pare, onorevoli colleghi, che sia assolutamente inoppugnabile.

Fatti i precedenti rilievi su questo punto che tocca da vicino il cuore di noi siciliani e che tocca lo Statuto siciliano, e riaffermato che per noi lo Statuto siciliano non è qualche cosa di immutabile, di fisso, di perfetto, ma che è un cospicuo primo passo che può servire opportunamente da schema per quello che adesso noi faremo e che va migliorato e sviluppato in seguito, io, per alcune osservazioni sul progetto della Regione che sta adesso dinanzi a noi – osservazioni che, lo dico apertamente, rispecchiano qualche mio punto di vista prettamente personale – vorrei richiamarmi a quelle che sono le giustificazioni logiche, fondamentali della Regione. Perché noi diciamo che è giusto creare le Regioni? Perché diciamo che non tutte le condizioni economiche, sociali, politiche, psicologiche in Italia sono uguali. Altre sono le condizioni della Lombardia, altre quelle della Sicilia, altre quelle del Lazio. Ora, se così è, onorevoli colleghi, nello stabilire quante e quali Regioni si debbano creare, bisogna vedere quali sono quei territori in cui si possa dire esista un’uguaglianza, una parità di condizioni psicologiche, intellettuali, sociali, economiche.

E allora io credo che le molte Regioni che si vorrebbero creare sono troppe, perché noi non troveremo una profonda disparità per giustificare la creazione di esse; non la troviamo, per esempio, tra Piemonte e Lombardia, non la troviamo tra Umbria e Marche, non la troviamo tra Lucania e Puglia. Insomma, la distinzione che vi è tra Lombardia e Sicilia, non vi è tra Calabria e Lucania, non vi è tra Lazio e Abruzzi.

Il concetto mio generale, onorevoli colleghi, è questo: che nel formare queste Regioni si debba formarne di larghe, comprensive, non fermarci a quelle che sono le Regioni storicamente fissate. E purtroppo secondo le proposte, non formeremmo solo queste, ma tante nuove, ne formeremmo. Si vuole la moltiplicazione, la filiazione delle Regioni. Bisogna invece fare poche Regioni comprensive e vaste. Dico che ove si arrivasse a sette od otto Regioni, grandi Regioni, io credo si sarebbe perfettamente nel vero; credo si corrisponderebbe così a quella che è la necessità logica della creazione delle Regioni. Se queste debbono essere delle entità geografiche veramente sentite come unità dal popolo, forse si potrebbe pensare che le Regioni, come ora sono, non sono sentite. E allora avrebbe ragione un oratore dei giorni scorsi il quale diceva che le tradizioni popolari non richiedono il riconoscimento delle autonomie regionali e che dai pugliesi e dai lucani la Puglia o la Lucania non sono sentite come regioni a sé. Ma quando parliamo di una regione siciliana, quando parliamo di una regione meridionale che comprendesse quattro o cinque delle antiche regioni (Puglia, Calabria, Lucania, Campania) allora la tradizione c’è. La lingua, le vicende storiche, tutto quello che è il passato di un popolo può concentrarsi ed affinarsi nel largo spazio della Regione così come io la concepisco. Allora sì che la Regione – in questo senso intesa e così creata – risponderebbe ai desideri, all’animo, alle tradizioni del popolo.

E da questa configurazione della Regione come Regione larga, importanti conseguenze deriverebbero su tanti punti speciali relativi all’organizzazione di essa. Primo punto e quel che riguarda la burocrazia.

Io sono autonomista convinto e regionalista convinto, ma non mi sono mai dissimulato che il problema della burocrazia è un problema gravissimo, è uno degli ostacoli più cospicui che dagli avversari della Regione si possano ad essa frapporre. Si dice infatti: badate, non v’illudete che spostando una parte delle attività statali dal centro alle nuove regioni, gli impiegati diminuiranno di molto. Sarà il contrario. Aumenteranno. E dove andremo a finire con questa pletora d’impiegati? E se poi pensiamo al Comune, alla Provincia, alla Regione, allo Stato, ci persuaderemo che dovremo avere un vero esercito di impiegati, che avrà la sua grande influenza sull’entità delle pubbliche spese.

Io ho grande fiducia nella burocrazia. La burocrazia è una di quelle cose di cui si dice tanto male, ma che sono tanto necessarie. Essa ha grandi meriti, ma è certo che occorre massimamente preoccuparsi di non ingigantirla, perché le conseguenze finanziarie, specialmente negli attuali difficili momenti, sarebbero gravissime.

Dunque io vi dico che se noi, anziché creare 22 o 30 Regioni, creiamo 7 od 8 grandi Regioni, larghe, comprensive, questo problema sarà di molto diminuito nella sua importanza.

Non solo: ma questo problema potrà essere diminuito ancora per l’ordinamento che si darebbe alle Provincie. Anche questo punto è gravissimo ed è stato profondamente discusso qui.

Onorevoli colleghi, io credo che la Provincia, come Ente di amministrazione centrale di un gruppo di paesi, non si può e non si deve neanche pensare a toglierla, principalmente perché non si può obbligare della povera gente a fare centinaia di chilometri per arrivare al capoluogo della Regione. Allora sì che si turberebbero gli usi antichi e le tradizioni da cui nessuno vuole distaccarsi!

Quindi la Provincia rimanga, anche con qualche compito accresciuto, per tutti gli organi di decentramento burocratico, per tutti gli organi di amministrazione locale. E rimanga inoltre per continuare a compiere la sua importantissima funzione di controllo sui Comuni.

Badate, esprimo un parere personale. Credo che gli organi provinciali, che hanno compito di controllo, non dovrebbero avere funzioni elettive. Le elezioni sono una bella cosa, perché sono il fondamento della democrazia, l’intervento diretto della volontà popolare nell’amministrazione della cosa pubblica, ma, come tutte le cose belle, hanno bisogno di un limite. Troppe elezioni! Pensate voi alle elezioni comunali, alle elezioni provinciali, alle elezioni regionali, alle elezioni per i deputati, alle elezioni per i senatori? Gli stessi elettori potranno dire: lasciateci in pace, non ci seccate!

Io credo che una delle ragioni principali dell’astensionismo, che certe volte noi vediamo in Italia in certe elezioni, è proprio questa, che la gente si secca, e specialmente nelle belle giornate preferisce di andare a fare una scampagnata, piuttosto che fare la fila per esercitare il suo sacro diritto elettorale. Perciò non facciamo molte elezioni.

L’Ente provincia io lo vedo come un decentramento amministrativo. Gli Uffici provinciali li vedo come una longa manus o come organi dell’Amministrazione dello Stato per quelle materie che restano allo Stato, o come organi o come longa manus delle Amministrazioni regionali per quelle materie che passano alla Regione, e inoltre come organi di controllo, perché il controllo ci vuole. Una eccessiva autonomia comunale la ritengo pericolosa. Sono d’un paese meridionale, non sono di quelli che gridano sempre alla nostra deficiente educazione politica. Anzi, grandi sforzi abbiamo fatto e andiamo facendo.

Ma un controllo vi deve essere ed io ritengo che debba essere controllo non di organi elettivi, ma controllo di organi burocratici.

Io vi posso dire, e voi tutti lo sapete per la vostra pratica di deputati, che in tante questioni delicate e complicate che sono determinate da rivalità e faziosità politiche, la parola che porta il funzionario (chiamatelo prefetto, a me non fa paura, chiamatelo con altro nome, poco mi importa) è la vera parola dell’equilibrio, è la parola della ragionevolezza, è l’armonia delle necessità di legge con l’opportunità politica, impedisce tanti eccessi, che farebbero male alla vita individuale e alla vita politica di tutto il Paese. Quindi organi di controllo, ma organi di controllo burocratico. Sarà da vedere, se di legittimità o di merito; sarà la legge costituzionale che lo stabilirà. Quelli che non farei risorgere sono i Circondari: ormai sono fuori dalle nostre abitudini, e a farli rinascere, si creerebbero organi ingombranti, e uffici troppo capillari e numero eccessivo di impiegati. Se è da conservare dunque la Provincia come organo di decentramento amministrativo e come organo di controllo, credo si debba abolire come ente autarchico. Come tale, minime sono le sue funzioni essenziali, strade, brefotrofi, alienati, funzioni che sarebbero trasferite alla Regione o ad altri enti. Come ente autarchico la Provincia è piuttosto un organo politico, ma ora l’organo politico si trasferisce alla Regione. Venute meno le Provincie come ente autarchico si avrebbe una sensibile diminuzione d’impiegati, che si potrebbero trasferire alla Regione per i nuovi servizi in essa creati.

Ecco quindi come si possono armonizzare la funzione della Provincia ed il problema burocratico, dando un novello fondamento più robusto e più forte a questa creazione nuova della Costituzione italiana che è la Regione.

Due parole per quanto riguarda la finanza. È un punto gravissimo. Si può osservare che l’articolo 113 del nostro progetto è in un certo senso vago, ma vago deve essere, onorevoli colleghi.

Sarà la legge successiva a specificare. Ora, la paura fondamentale in questo campo, quale può essere? Può essere quella di un eccessivo aggravio ai contribuenti. E quello di cui bisogna preoccuparsi è la possibilità delle multiple imposizioni. Tra Stato e Stato si solleva ora il problema delle doppie imposizioni. Se non si andasse parchi nell’organizzare l’autonomia delle finanze regionali, si cadrebbe nelle imposizioni non duplici ma multiple. Specialmente adesso, col nuovo sviluppo delle industrie e dei commerci, con la mobilità che hanno individui e capitali e per il fatto che molta gente possiede in molte parti d’Italia industrie o commerci, non vi pare che questo sia un grave problema che deve farci guardinghi? Questo complesso d’imposizioni che s’intrecciano le une con le altre può gravare moltissimo i contribuenti. Il vero guaio è il nostro sistema tributario: è una fontana in cui tutti quelli che vanno aprono e prendono acqua ognuno indipendentemente dall’altro. Ma la fontana è una sola e bisogna pur preoccuparsi che non s’inaridisca perché, inaridendosi, tutta la vita del Paese s’inaridisce. A questo punto bisogna ovviare, e non aumentare questi inconvenienti che aumenterebbero con le Regioni. Però mi pare sia opportunissimo il primo comma dell’articolo 113 quando dice: «Le Regioni hanno autonomia finanziaria nelle forme e nei limiti stabiliti da leggi costituzionali che la coordinano con la finanza dello Stato e dei Comuni». Serva come monito per agire con grande prudenza. Che poi ci debbano essere fonti addette esclusivamente alle Regioni e fonti per lo Stato, è perfettamente naturale. Noi troviamo anche naturale che lo Stato con i fondi che riceve dai contributi erariali possa aiutare questa o quella Regione. Torniamo sempre al concetto che siamo tutti membri di un unico organismo e figli di un’unica famiglia: non dobbiamo dividerci, non dobbiamo essere armati l’uno contro l’altro, ma l’afflato della fraternità deve sempre vigere e ricordare a tutti il principio supremo dell’unità della Patria.

Mi pare che un altro punto andrebbe chiarito su questo articolo. Dice esso, molto opportunamente, che non possono istituirsi dazî di importazione ed esportazione o di transito tra Regione e Regione: tutto deve essere libero. Aggiunge opportunamente che non si possono prendere provvedimenti che ostacolino in qualsiasi modo la libera circolazione delle persone e delle cose. Bisognerebbe aggiungere che questa libertà di spostamento e di circolazione è pure per i commerci e per le industrie. Un provetto amministratore e commerciante mi diceva: «Io avrei paura che domani una Provincia mettesse tali restrizioni all’impianto di nuovi tipi di commerci o di industrie nel suo interno, che a uno di fuori – di un’altra Regione – fosse impedito di andarvi». Ora questo è un punto grave che bisognerebbe forse specificare: lo sottometto alla Commissione che ha organizzato con tanta oculatezza questo progetto. In sostanza non vi deve essere nessuna barriera né per i capitali, né per le merci, né per le persone, né per le industrie, né per i commerci. Unico corpo siamo e unico dobbiamo permanere. Noi dobbiamo tendere a un decentramento burocratico e amministrativo: dobbiamo tendere ad una legislazione che si adatti alle necessità speciali di larghi territori che chiameremo Regioni. Questa è la Regione che noi vogliamo fondare; in questi limiti modesti e ristretti; ma che aprano nuove vie alla storia d’Italia e diano nuovo impulso al bene comune. (Applausi).

Presidenza del Presidente TERRACINI

PRESIDENTE. È iscritta a parlare la onorevole Titomanlio Vittoria. Ne ha facoltà.

TITOMANLIO VITTORIA. Onorevoli colleghi, alcuni concetti intorno alla autonomia regionale.

Non mi fermerò sull’autonomia della Provincia e del Comune, perché, avendo lavorato per lunghi anni per la Regione e conoscendo un po’ le esigenze, le possibilità di questa autonomia, sento anche il dovere di portare il mio modesto contributo.

In questi giorni è stato lungamente discusso di autonomia e di unità nazionale, come se l’autonomia dovesse distruggere l’unità nazionale.

Comprendiamo benissimo – anche perché lo hanno dimostrato tanti onorevoli colleghi – che l’autonomia può esistere, rispettando l’unità nazionale. Anzi, l’autonomia è una conseguenza della libertà e della democrazia, così come è stato dimostrato dall’onorevole Medi.

Abbiamo bisogno però di fare alcune considerazioni pratiche, tenendo presenti alcuni presupposti: il bene delle popolazioni, le esigenze locali, le possibilità.

Il bene delle popolazioni. È stato detto che il popolo italiano non ha bisogno di questa autonomia, che esso non sente il problema, o almeno non dimostra di sentirlo.

Io faccio notare che le popolazioni non possono neppure supporre come noi possiamo portare sul piano concreto dell’azione certe esigenze, che esse popolazioni mostrano a noi attraverso il contatto diretto.

Non siamo sufficientemente maturi, non lo sono le nostre popolazioni, per poterci chiedere l’autonomia regionale. Esse ci dicono soltanto che hanno dei bisogni locali; ed allora noi, rispondendo a questa richiesta, possiamo dire che soltanto sul piano regionale possiamo studiare alcuni problemi, così come è stato dichiarato nei giorni precedenti.

Si è detto che vi sono delle perplessità, in ordine all’autonomia regionale. Io mi domando: se perplessità ci sono per ammettere l’autonomia regionale, perché non ci devono essere perplessità nel non ammetterla; se vi sono delle perplessità e delle responsabilità, in ordine al potere legislativo ed amministrativo della Regione, perché non ci devono essere delle responsabilità quando, superate le difficoltà sul terreno pratico dell’attuazione cioè dal punto di vista legislativo ed amministrativo, noi possiamo realmente rispondere a queste esigenze locali?

Senza dire, poi, che affiorano certi bisogni, attraverso sintomi che possiamo discutere.

Abbiamo organizzato in molti posti i centri economici, i quali hanno il compito di studiare il problema e di presentarlo allo Stato; ma poi essi devono aspettare che lo Stato, attraverso un complesso di altre attività, porti sul terreno della discussione queste esigenze e queste richieste.

Un altro sintomo: nei vari collegi vediamo che i deputati, appartenenti non ad una sola provincia, ma a tutta la Regione, sentono il bisogno di intendersi per discutere alcuni problemi locali.

Ora questo che cosa ci dice? Ci dice che è qualche cosa di sentito non soltanto nella popolazione, ma perfino in noi, che vogliamo incontrarci, discutere, portare anche quello che è sul piano nazionale sul piano concreto regionale: provvedimenti, studi e disposizioni.

Vi sono delle possibilità anche nella Regione, possibilità in potenza: come nell’individuo umano vi sono delle possibilità in potenza che si traducono in atto attraverso lo sforzo dell’individuo, attraverso tutto quel complesso di aiuti che vengono all’individuo stesso, così nella Regione vi sono delle possibilità di sviluppo in tanti campi, che si pongono in atto quando la Regione opera indipendentemente da altre, si autogoverna e chiede ad altri il consiglio, il contributo.

Io non posso trattare alcune cose pratiche, però richiamo l’attenzione su alcuni punti degli articoli 109, 110 e 111. Ed è logico che una donna debba fermarsi particolarmente sul problema della scuola.

L’onorevole Einaudi, autorevolmente, ha dato il suo contributo in ordine alla scuola ed ha detto che l’insegnante non deve essere un impiegato dello Stato; ha detto che l’insegnante deve sentirsi un apostolo, deve essere del luogo. Il che significa che bisogna vedere la scuola, secondo il pensiero dell’onorevole Einaudi, sul piano locale. Purtroppo noi sappiamo che i maestri, a qualsiasi ordine e grado appartengano, hanno fatto degli sforzi per diventare degli impiegati dello Stato e non vorrebbero adesso dipendere dal Comune, dalla Provincia o dalla Regione.

Conosciamo questa esigenza dell’insegnante, però vi sono alcuni punti della scuola, alcune riforme scolastiche che una volta studiate dal Ministero dell’istruzione, possono e devono attuarsi localmente, tanto più che abbiamo nella riforma scolastica da aggiungere altri particolari, che potrebbero variare nella organizzazione stessa da un punto all’altro. Senza dire poi che si notano nel fanciullo delle differenze, da luogo a luogo, seguendo le tradizioni, le abitudini, le influenze dell’ambiente, che fanno sentire particolarmente la necessità di seguire un metodo, specialmente in materia didattica, che risponda più agevolmente alle sue esigenze, e raggiungere quell’obiettivo verso il quale noi ci orientiamo, cioè la formazione completa dell’individuo, che meglio serva sé e la Nazione, in modo da evitare di trovarsi quindi di fronte a degli spostati che pretendono di raggiungere una meta o una carriera senza avere la preparazione necessaria.

E allora in materia di organizzazione noi vogliamo in primo luogo la scuola materna.

Oggi gli asili dipendono in gran parte dai Comuni e si sono fatti molti sforzi, perché gli asili possano essere portati come dipendenti dello Stato. E sopratutto questa richiesta viene fatta dalla classe insegnante.

Invece, uscendo dall’autonomia comunale, o dalla dipendenza dello Stato, ma portandoci invece sul piano della Regione, noi ci troveremmo di fronte alla realizzazione di due benefici: cioè il beneficio dell’insegnante che tiene ad essere riconosciuto particolarmente nella sua carriera da un ente che è superiore al Comune medesimo, e rientreremmo anche in quella esigenza del fanciullo il quale, specialmente da punto di vista didattico, deve essere curato con quei mezzi che più rispondono alle possibilità ed alle esigenze del luogo. Vi sono poi, nella scuola primaria, delle altre necessità. Abbiamo in alcuni punti che i corsi non sono completi, arrivano soltanto alla terza classe elementare ed è stata prospettata questa necessità di integrazione perché il fanciullo possa arrivare almeno alla quinta classe elementare.

Ma si domanda: è possibile questa realizzazione, è necessaria in tutti i punti d’Italia? Abbiamo nel programma della riforma scolastica le classi post-elementari perché attraverso lo studio dei commissari ed attraverso gli articoli che sono stati già approvati, abbiamo sentito la necessità di prolungare gli anni di studio del fanciullo. Le classi post-elementari dovrebbero portare probabilmente ad otto anni la frequenza scolastica obbligatoria: obbligatorietà che potrebbe non essere richiesta in tutti i punti d’Italia. Da regione a regione variano queste esigenze.

Senza dilungarmi per quanto riguarda la scuola primaria, e quindi senza accennare alle scuole sussidiarie ecc., faccio solo notare un’altra cosa nel campo della scuola professionale o, meglio, seguendo l’articolo 115, in quanto riguarda l’istruzione tecnico-professionale. Nell’Italia meridionale, per esempio, noi abbiamo una abbondanza di scuole classiche: seguendo una statistica, che potrebbe essere portata a conoscenza di tutti, notiamo una scarsezza, in alcuni punti, di corsi agrari, di scuole o di istituti agrari, laddove l’elemento è eminentemente rurale. Abbiamo alcune città o zone in cui vi è una scarsezza di scuole o corsi o istituti di indole industriale.

Questo dice che, pur rientrando questa riforma tecnico-professionale nel programma generico che è stato per lo meno elaborato dal Governo, noi dovremo molto attendere per la sua realizzazione mentre più sentita è questa richiesta nell’Italia meridionale e più se ne sollecita la immediata soluzione.

Oltre quello che riguarda la scuola, aggiungo qualche cosa per quanto riguarda il problema femminile nel campo del lavoro e dell’assistenza. Vi sono luoghi in Italia in cui le donne si dedicano particolarmente ad alcuni lavori maschili, per esempio la donna contadina dedita ai lavori specifici dei campi, cioè non la massaia, ma la donna che sostituisce l’uomo anche nel più duro lavoro campestre.

Ora, la preparazione della donna, dal punto di vista tecnico non c’è, non c’è nessuna scuola che la prepari, non c’è alcun ente che l’assista nei suoi vari molteplici bisogni relativi al lavoro e alla sua vita familiare e sociale. Vi sono donne operaie (fabbriche, stabilimenti): le troviamo in alcune città e capoluoghi di provincia e non in piccole località. Anche in questi casi mancano gli enti di assistenza. Vi sono le donne artigiane: in alcune zone c’è la lavorazione della canapa, in altre zone ci sono le risaiole. Di qui la necessità di assistere le une e le altre, sia con la preparazione tecnica che con l’assistenza benefica, morale e sociale. Vi sarebbero altri punti da ricordare, dal punto di vista femminile: almeno l’igiene, la sanità pubblica, di cui troviamo tante variazioni da una zona all’altra d’Italia.

Ora, onorevoli colleghi, di ognuno di voi, che ha avuta la possibilità di ascoltare tanti bravi oratori i quali si sono particolarmente soffermati a studiare queste difficoltà e i modi di risolvere questi problemi e queste esigenze, soprattutto dal punto di vista legislativo ed amministrativo, io come donna richiamo l’attenzione, specialmente, di tutti coloro che sono ora disposti a dare un voto negativo a questo progetto, e particolarmente l’invito a studiare il duplice problema della donna e del fanciullo, o fanciulla che sia, e magari, dal punto di vista generico, esaminata la cosa, potremo anche intenderci e scambievolmente riconoscere la sincerità, la bontà e l’opportunità di questa riforma. Ma, nello studio degli emendamenti, prego i colleghi di tenere presenti alcune considerazioni, perché nell’omettere, o anche nel modificare gli articoli, nulla si faccia a detrimento della popolazione, a detrimento di questa ricostruzione italiana che, dalla fondazione della Repubblica, ha assunto un carattere di moralizzazione costante nelle possibilità individuali e collettive. Che possa la popolazione italiana trovare in noi questo aiuto e tutta la collaborazione, in modo da rendere l’Italia molto più produttiva, molto più dinamica, soprattutto mediante il contatto dei dirigenti col popolo, mediante il continuo contatto dei responsabili del popolo stesso con i loro amministrati. Da questo intimo contatto – dicevo – possa uscire una meravigliosa riforma ed una meravigliosa attuazione che dia grandezza al nostro popolo e contribuisca al miglioramento della nostra popolazione e soprattutto allo sviluppo di quelle possibilità che sono in potenza nel nostro popolo. E quando queste possibilità saranno studiate da vicino e portate sul concreto piano di attuazione, allora potremo aspettarci un migliore avvenire dal punto di vista generale e sociale, ma anche e soprattutto dal punto di vista politico ed economico! (Applausi).

PRESIDENTE. Sono iscritti a parlare gli onorevoli Bovetti, Zerbi, Mastino Gesumino, Ponti, Giacchero. Non essendo presenti si intende che vi abbiano rinunciato.

Sull’ordine dei lavori.

CEVOLOTTO. Chiedo di parlare.

PRESIDENTE. Ne ha facoltà.

CEVOLOTTO. Vorrei proporre, data l’ora tarda, di rinviare la seduta.

PRESIDENTE. Onorevole Cevolotto, l’Assemblea ha deciso di cominciare le sedute alle 16, appunto per non finire alle 20, ma alle 21!

CEVOLOTTO. Spiego la mia domanda. Oggi, siamo alla vigilia di una festa; essendo decaduti molti oratori, gli altri supponevano che avrebbero parlato altro giorno, e non sono venuti all’Assemblea perché credevano che vi fossero altri oratori presenti che avrebbero parlato. Si sono sbagliati: hanno fatto male; ma siamo alle ore 20, hanno parlato parecchi deputati, ne sono decaduti moltissimi altri e penso che non vi sia più ragione di continuare. Lasciamo che, rinviando la seduta a venerdì, qualcuno possa avere il modo di esprimere la sua opinione, tanto più che vi sono alcuni oratori iscritti, la cui opinione molti colleghi desiderano conoscere.

PRESIDENTE. Onorevole Cevolotto, ho ascoltato con molta attenzione quanto ha detto. L’errore dei colleghi, che non sono presenti e sono decaduti, non è di aver fatto male il loro calcolo, ma è di aver creduto che all’Assemblea Costituente si debbano fare dei calcoli, mentre vi è un solo obbligo preciso: quello della presenza. I colleghi hanno, in gran numero, dimenticato questo perché ritengono necessaria la loro presenza soltanto nel momento in cui parlano, ma nel momento in cui parlano gli altri 553 deputati, non ritengono necessaria la loro presenza (Approvazioni). È questa la ragione per la quale ritengo che le sue considerazioni non debbano essere tenute presenti. Io credo che lei, onorevole Cevolotto, non conosca l’elenco di coloro ancora iscritti a parlare, per quanto l’elenco sia affisso fuori ogni mattina. Io lo so che alcuni colleghi, ad esempio, gli onorevoli Nitti e Piccioni, hanno presentato degli ordini del giorno, rinunciando a parlare nel corso della discussione generale per svolgere poi i loro ordini del giorno, a tempo opportuno, nel breve limite di tempo fissato.

CEVOLOTTO. Probabilmente, non lo avrebbero fatto se avessero saputo che la seduta era rinviata a venerdì.

PRESIDENTE. L’hanno fatto prima, tanto è vero che se ne sono andati. Sono colleghi che si rendono conto che in seno all’Assemblea Costituente, come in seno a qualsiasi altro Collegio, non vi è che un solo obbligo: seguire i lavori con una certa diligenza, come fa lei ed i colleghi presenti in quest’Aula. Siccome non vi è un’assoluta urgenza di concludere, venerdì mattina sarà ancora peggio di stasera.

CEVOLOTTO. Onorevole Presidente, insisterei perché la seduta fosse rinviata a venerdì.

PRESIDENTE. Mi permetta, onorevole Cevolotto, l’Assemblea non deve prendere questa abitudine: che, se vi sono 24 ore di riposo, queste si debbano trasformare in 36 o 48; tanto più che non conosciamo ancora la nostra sorte. In questo momento so una cosa sola: che fra venti giorni non avremo più diritto di sedere di fronte al popolo italiano; ed è per questo che non possiamo accettare di rinunziare a nessuna seduta che sia possibile di tenere.

CEVOLOTTO. Il fatto che l’Aula sia spopolata dipende da una circostanza che lei conosce benissimo: siccome domani è festa, vi sono molti deputati i quali sono partiti per raggiungere le loro case, cosa questa plausibile. Saranno stati poco diligenti, ma si sono regolati in questo modo.

PRESIDENTE. Mi permetta, onorevole Cevolotto, il deputato è tenuto a fare il suo dovere. Sarebbe come se lei mi dicesse che gli operai, poiché domani hanno vacanza, oggi pomeriggio potevano non andare in fabbrica e venerdì mattina ugualmente. Sono, queste, argomentazioni che abbiamo sentito troppe volte, per avallarle ancora con l’autorità dell’Assemblea.

Comunque, la discussione è rinviata.

La prossima seduta, salvo che i colleghi presenti mostrino diverso avviso, sarà tenuta venerdì mattina alle ore 10 e nel pomeriggio alle ore 16.

(Così rimane stabilito).

La seduta termina alle 20.5.

Ordine del giorno per le sedute di venerdì 6 giugno 1947.

Alle ore 10 e alle ore 16:

Seguito della discussione del progetto di Costituzione della Repubblica italiana.

ANTIMERIDIANA DI MERCOLEDÌ 4 GIUGNO 1947

ASSEMBLEA COSTITUENTE

CXXXVII.

SEDUTA ANTIMERIDIANA DI MERCOLEDÌ 4 GIUGNO 1947

PRESIDENZA DEL VICEPRESIDENTE CONTI

INDICE

Congedi:

Presidente                                                                                                        

Progetto di Costituzione della Repubblica italiana (Seguito della discussione):

Rodi                                                                                                                  

Bellavista                                                                                                       

Recca                                                                                                                

La. seduta comincia alle 10.

RICCIO, Segretario, legge il processo verbale della precedente seduta antimeridiana.

(È approvato).

Congedi.

PRESIDENTE. Comunico che hanno chiesto congedo i deputati Lucifero e Angelini.

(Sono concessi).

Seguito della discussione del progetto di Costituzione della Repubblica italiana.

PRESIDENTE. L’ordine del giorno reca: Seguito della discussione del progetto di Costituzione della Repubblica italiana.

Riprendiamo la discussione generale del Titolo V relativo alle Regioni.

È iscritto a parlare l’onorevole Rodi. Ne ha facoltà.

RODI. Illustre Presidente, onorevoli colleghi! Noi abbiamo affrontato il problema delle autonomie regionali in un momento particolarmente difficile della nostra storia. Il problema, come tutti sanno, non è nuovo; esso è penetrato in quell’immenso travaglio che è stato il nostro Risorgimento e si è prolungato nell’Italia unita, stimolando gli studiosi alla ricerca di una fisionomia politica che meglio rispondesse alle esigenze e al temperamento del popolo italiano.

Poi vi sono stati alcuni anni di silenzio e, dopo questo silenzio, il problema ridiventa attuale: ridiventando attuale esso rinnova quell’ansia di ricerche cui già attesero storici, filosofi e giuristi, sempre nell’intento di cercare di determinare, nella prassi politica internazionale, il volto di questa Italia che unita sorgeva nella storia.

Io credo che sia opportuno, a proposito del problema autonomistico, di fare un’inchiesta storica per sapere in qual modo nasce, si sviluppa e si afferma questo problema autonomistico.

L’Italia, come sapete, ha sofferto lungamente per le dominazioni straniere e per le lacerazioni intestine. E questo stato di fatto incominciò a formare nel nostro popolo un sentimento, un profondo bisogno di determinare una individualità politica, la quale fosse basata sull’ideale comune di un popolo, di un popolo sempre eguale a se stesso e soprattutto sullo stimolo proveniente da un illustre passato. E sappiamo che lo spirito di indipendenza del popolo italiano nacque e si affermò fortemente soprattutto nel periodo della dominazione spagnola, che è una delle più tristi che l’Italia abbia subito.

Ora noi possiamo tralasciare tutto quel periodo che va da Dante in poi e che produsse tutta una serie di formulazioni politiche di carattere teorico e di tentativi di principi illuminati. E tralascio questo periodo, perché il nostro punto di partenza deve essere fissato in un filosofo rivoluzionario, Tommaso Campanella. Nella gigantesca utopia della città solare del Campanella vi è già un’esigenza politica, cioè l’esigenza di un federalismo, di una federazione di Stati italiani capeggiata da un sommo sacerdote, che doveva rappresentare l’autorità massima ed efficiente, capace di superare tutti i contrasti e di conciliarli nel senso religioso del nostro popolo. Ora, come si vede, dalla monarchia universale concepita da Dante alla federazione di Stati italiani concepita dal filosofo calabrese, vi è già un’enorme distanza. La monarchia universale può essere, per dir così, sublimata in un pensiero, sto per dire, cosmico, in una teoria che aleggia soltanto nella poesia della nostra gente, mentre in Tommaso Campanella vi è già un’esigenza politica immediata, vi è già la traduzione di un’esigenza profonda di un popolo, il quale, oppresso da dominazioni e lacerazioni, sente già il bisogno, sia pure confuso, di un ideale politico e di un’assoluta indipendenza.

Dopo questo periodo abbiamo il Settecento, nel quale molti scrittori si occupano di federalismo e sembrano vicini a questo ideale politico. Però nel ’700 sorge improvvisamente – dico improvvisamente, perché è come un’eccezione – la dottrina politica di Melchiorre Gioja, il quale voleva una Repubblica unitaria, liberale, democratica, indivisa e indivisibile, sostenuta di vincoli geografici, storici, religiosi, economici; ed egli escludeva, per la formazione di questa Repubblica, la violenza e ammetteva invece il graduale consenso del popolo.

L’onorevole Conti è regionalista, forse anche federalista; tuttavia, quando io ricordavo questa espressione di Melchiorre Gioja, non so perché, la sua immagine si formava nella mia mente. Non volevate voi una Repubblica così fatta? repubblica una, indivisa e indivisibile, che non si affermasse con la violenza, ma con il graduale consenso? Ebbene, la dottrina del Gioja fu dichiarata dagli studiosi avveniristica, troppo lontana dal ’700; e forse quell’avvenire, quel quadro formatosi nella mente di un filosofo, oggi è una realizzazione concreta, pratica. Onde io, monarchico, affermo che la Repubblica è venuta in Italia senza violenza, e affermo altresì che il consenso graduale del popolo è la manifestazione più profonda di una civiltà politica e democratica.

L’800 invece è stato vivacemente federalista, e sappiamo che in questo secolo campeggia la dottrina del Gioberti, un neo guelfismo sostenuto autorevolmente dal Rosmini, cioè da uno schietto e sincero filosofo. Però dobbiamo pur riconoscere che il concetto federalistico del Gioberti fu sconfitto dalla storia e non soltanto dalla storia, perché si era ormai sviluppato nel popolo italiano, pronto a redimersi dalla schiavitù straniera, il senso profondo dell’unità.

Avemmo pure nello stesso tempo un federalismo democratico che fa capo, come sapete, al Cattaneo; e il Cattaneo è in certo senso estremista, perché egli si ferma ancora al concetto che l’individuo non può ignorare la singola Patria, cioè la sua regione; ed anzi egli pensa, egli teme che l’unità italiana sia addirittura sorgente di dissensi e di guerre civili.

Anche qui possiamo affermare che il Cattaneo fu sconfitto dalla storia, perché il popolo italiano ha fatto la sua unità credendo in sé e trovando in se stesso il proprio senso solidale e il proprio amor di patria.

Vi è stato anche il federalismo liberale democratico che faceva capo al Balbo e al D’Azeglio e vi è stato un federalismo rivoluzionario che faceva capo a Giuseppe Ferrari. Ma qui dobbiamo notare che Ferrari era più un cittadino francese che italiano, non perché di origine francese, ma perché amantissimo della sorella latina, e quindi egli parlando d’un federalismo rivoluzionario chiedeva niente di meno che questo federalismo fosse attuato con l’intervento della Francia. Il Ferrari purtroppo si lasciava influenzare dalle teorie del Proudhon, il quale vedeva nell’unità italiana un pericolo per l’impero francese; ma il Proudhon vedeva anche nel federalismo italiano qualche cosa di ibrido e di incostante che non avrebbe mai preoccupato la Francia.

E così, a poco per volta, siamo arrivati alla forma di decentramento, alle teorie che fanno capo al Farina e al Minghetti; ma la storia del Risorgimento italiano si è conclusa con l’unità, quell’unità che faceva capo a menti come quelle di Cavour, di Mazzini e di Garibaldi.

Ora noi possiamo chiederci se questa unità sia stata formata per l’intelligenza e la grandezza di uomini come Cavour, Garibaldi e Mazzini, o se piuttosto non vi sia stata una intensa collaborazione fra i grandi e lo spirito del popolo, quello spirito che sogliamo trascurare e che tuttavia costituisce non soltanto la fisonomia del popolo, ma costituisce soprattutto il suo particolare istinto che si manifesta in mille modi e che a noi uomini politici, storici, filosofi, giuristi spetta il compito di precisare e sopratutto di interpretare prima di assumerci la responsabilità di innovare qualche cosa, di creare una nuova legge. In questa nostra storia abbiamo poi avuto una dittatura, la quale ha soffocato la libera evoluzione del pensiero; ed in questo periodo tutto tace, perché tutto si accentra intorno ad una sola idea politica, intorno a questo sistema dittatoriale, per il quale la voce del pensatore è costretta a frenare la sua impazienza.

Ma la dittatura portò ad una sconfitta. La sconfitta naturalmente ha ripristinato vecchi valori e ne ha portati di nuovi, e fra i nuovi valori abbiamo questo che si chiama ormai «Stato regionale», cioè qualche cosa che sta fra lo Stato unitario e lo Stato federale. Lo Stato regionale, cioè, ripudia l’uno e l’altro, tentando una via di mezzo, una medietas che sia costruita su un’idea nuova e nello stesso tempo tragga, e dallo Stato unitario e da quello federale, tutto ciò che in queste due fasi politiche estreme vi può essere di buono. E, credendo di interpretare in questo modo lo «Stato regionale», io penso che idealmente esso è forse la formulazione più perfetta di uno Stato democratico, prima di tutto perché la medietas risponde al temperamento del popolo italiano ed in secondo luogo perché un’idea, anche originale, non può prescindere dal passato né dalle altre concorrenti formazioni politiche. E penso che questa idea nuova più trae dall’esperienza del passato, più trae dalle formazioni politiche concorrenti alimento per se stessa; e più è un’idea che può essere valorizzata dalla storia e dalla prassi.

Però, sente il nostro popolo la necessità di questo «Stato regionale»? A questa mia domanda hanno risposto due oratori di parte avversa, e cioè l’onorevole Gullo Fausto e l’onorevole Uberti. L’onorevole Gullo sosteneva chiarissimamente di non avere percepito nelle folle italiane il senso dell’autonomia regionale. L’onorevole Uberti dichiarava, anch’egli chiarissimamente, che negli stessi comizi e nelle stesse folle aveva colto il desiderio regionalistico del nostro popolo. Sono due dichiarazioni contrarie, schiettamente contrarie, e noi abbiamo il dovere di credere tanto all’onorevole Uberti che all’onorevole Gullo. E se queste visioni della folla, del popolo, vengono portate in seno a questa Assemblea, ci accorgiamo che l’Assemblea stessa è divisa in due parti forse uguali; vale a dire che lo Stato regionale non ha, nella concezione della nostra Assemblea, una maggioranza assoluta, come sembra che l’antiregionalismo non abbia la maggioranza assoluta.

In altri termini qui le formule si equivalgono, ed allora la nostra prudenza ci può anche consigliare di soprassedere su questo problema regionale, visto che le forze sono uguali e contrarie, e di preferire lo statu quo.

Però in queste due tendenze vi può essere un uguale pericolo; cioè nell’ordinamento regionale è racchiuso e nascosto il pericolo del federalismo.

Lo chiamo pericolo e dico che questo pericolo è nascosto; perché non voglio sottolineare arbitrariamente la certezza che l’ordinamento regionale darà un federalismo.

Ma è chiaro che noi facciamo un esperimento di questa portata in un momento un po’ troppo vivace, in un momento in cui la passione politica può avere intorbidato la nostra vista. Ciascuno di noi crede di sentirsi sicuro e sereno; ma, ove ciascun deputato si sollevi al disopra delle questioni contingenti, sentirà di non possedere una vera serenità. E naturalmente la preoccupazione aumenta quando a questo pericolo nascosto del federalismo si contrappone un’apologia dello Stato accentratore così come è stata fatta dall’onorevole Gullo: un’apologia impressionante, che ci ha fatto tacere e ci ha immobilizzato al nostro posto; perché noi non possiamo concepire che in uno Stato democratico, in uno Stato che esce dalla luce della libertà, si possa parlare di uno Stato accentratore con tanto entusiasmo. Tanto più che l’onorevole Gullo ha fatto un’operazione chirurgica sottilissima: egli ha diviso il centrismo dal fascismo. Il centrismo è ottima cosa, ma di esso mal si servì il fascismo; e quindi, la colpa della dittatura non è il centrismo ma il fascismo che di esso si servì in senso dittatoriale.

Ora io queste operazioni chirurgiche così sottili, sebbene filosofo, non so farle e non posso farle; dico soltanto una cosa: che il centrismo è centrismo, e qualsiasi partito che si serva di esso è portato ad accentrare; e chi è portato ad accentrare è già in piena dittatura. Però desidero anche avvertire che ogni formulazione politica nuova – e nuovo dobbiamo considerare l’ordinamento regionale – trova il suo battesimo nella realtà. Vi sono formulazioni politiche nuove che sono scontate dopo una più o meno lunga attuazione. Noi diciamo per esempio che la rivoluzione francese è riuscita ad abbattere una monarchia millenaria per una semplicissima ragione: perché il popolo francese non credeva più nel diritto divino del Re. Quindi il diritto divino della monarchia era già scontato nell’opinione pubblica. E così possiamo spiegarci perché in brevissimo tempo la Russia ha demolito l’impero zarista: lo Zar non era più nella concezione degli intellettuali russi e forse nemmeno in quella dei contadini e degli operai, il responsabile di Dio in terra: era un uomo. Il potere trascendente cadeva, si frantumava, e rimaneva una nuova realtà la quale, in quei casi da me citati, si è tradotta in due forme profondamente rivoluzionarie. Ma vi sono formulazioni politiche che si scontano senza la pratica attuazione, e mi sembra che in questo caso debba rientrare l’ordinamento regionale. Questo ordinamento, sia pure sotto forma di federalismo, è nato e si è sviluppato nel nostro Risorgimento ed è stato sconfitto. Il popolo non ha sentito questa frantumazione, perché il popolo era già preso dal senso dell’unità; il popolo ha rigettato le teorie di un Gioberti, di un Cattaneo, d’un Balbo, il popolo ha rigettato le teorie di quelli che erano i rappresentanti d’una libertà e d’una redenzione. Ed io penso, comunque, che l’ordinamento regionale è già scontato in anticipo, è rimasto una dottrina che la storia non ha voluto tradurre in atto e che noi, forse, oggi non abbiamo il diritto di richiamare in vita per imporla ad un popolo già lontano circa un secolo dalla sua redenzione.

Signori, c’è una famosa proposizione del Tocqueville, che conoscete certamente; egli affermava – e l’affermazione in un certo senso è singolare – che in politica bisogna accentrare, e decentrare, invece, in amministrazione.

Naturalmente, pronunziando una proposizione simile, io potrei essere anche accusato col solito epiteto di reazionario, d’un reazionario che cerca un accentramento politico. Però, la frase del Tocqueville, lanciata così, nell’esteso elogio che egli fa della democrazia americana, ci lascia, in certo senso, perplessi e ci invita ad esaminarla, dal nostro punto di vista, affinché noi si possa dare ad essa una interpretazione particolare.

E quindi io vedo in questa proposizione del Tocqueville il fatto che la direzione politica del Paese deve essere accentrata e che da questo centro politico devono partire tutti quegli organismi, destinati a dare alla periferia una libera amministrazione, una cosciente responsabilità, una divisione di lavoro, che corrisponda alle esigenze di un popolo.

È questo, anche se non trovo l’adesione di qualcuno, direi quasi un fenomeno naturale, che si è sviluppato e che si forma ancora nella nostra storia. Perché noi non dobbiamo dimenticare il cammino della storia. Noi siamo usciti da uno Stato feudale, per entrare in uno Stato burocratico o Stato moderno. E quando noi abbiamo formato, attraverso l’evoluzione storica, questo Stato burocratico, abbiamo separato le attività dello Stato: le attività militari da quelle finanziarie e giudiziarie, ecc.; cioè, abbiamo fatto in modo che lo Stato burocratico sia una specie di raggiera, in cui ciascuna competenza attende precisamente al suo compito. E questa rottura del sistema feudale, questo trapasso nel sistema burocratico, è una evoluzione recente, nella quale viviamo ancora. Ed io credo che non sia lecito superare o tentare di superare il corso della storia; o, addirittura, come potrebbe accadere nel nostro caso, tornare indietro e creare un sistema autonomistico, che rischierebbe di identificarsi con lo Stato feudale o con lo Stato federale.

UBERTI. Così si arriva al centralismo.

RODI. Onorevole Uberti, io ho sentito la difesa veramente generosa e strenua che lei ha fatto della Regione: però, se lei dice che io con queste mie parole arrivo al centralismo per altra via evidentemente lei non mi ha ascoltato con attenzione.

UBERTI. Speriamo bene.

RODI. Accade ora nell’opinione dei regionalisti che chi è contro il regionalismo non può essere che accentratore; ma io forse riuscirò a dimostrare che si può essere antiregionalisti e liberali a oltranza.

UBERTI. E questo è il difficile. A ogni modo, sentiamo.

RODI. Sì, la prego. (Si ride).

Un’altra domanda vorrei porre: questo regionalismo che si vuole applicare in Italia ha il consenso della massa? Ho già detto che l’onorevole Gullo ha risposto no, mentre l’onorevole Uberti ha risposto sì.

FUSCHINI. E allora si faccia un referendum.

RODI. Un momento! Io ho parlato di una formazione nuova, ho parlato di qualche cosa che deve modificare radicalmente, completamente la nostra struttura politica. Negli altri Titoli, guardi, c’è il trapasso graduale da un sistema all’altro, ma l’ordinamento regionale verrebbe a modificare radicalmente la nostra fisionomia politica, la nostra struttura politica. Ed allora io per questo chiedo: c’è il consenso della massa o si tratta della volontà di un gruppo organizzato che esige l’autonomia regionale?

E badate che questa mia domanda ha un significato preciso, cioè quel significato per il quale alcuni membri della società, intellettualmente superiori, profondi studiosi delle condizioni politiche di un Paese, a un certo momento ritengono giusto, ritengono addirittura santo che si attui una determinata riforma, ed allora il gruppo organizzato crede sinceramente di interpretare il desiderio della massa. Ecco perché io ho fatto la mia domanda: è desiderio della massa o è concezione intellettualistica di un gruppo organizzato? E per «organizzato» intendo un gruppo che si sia in un certo senso chiuso nell’ambito dei suoi studi politici.

Ieri sera, per esempio, l’onorevole Bubbio ha detto: sì, il nostro popolo sente il regionalismo, ma non lo chiama regionalismo. Il nostro popolo dice: fatemi vivere in pace, fate che la burocrazia non pesi sulle mie spalle, fate che per avere un certificato io possa non perdere tanto tempo. E con queste parole l’onorevole Bubbio traduceva il significato della parola regionalismo. Non solo, ma egli esasperava il suo concetto fino a chiedere la rinascita del circondario, cioè di quella formazione amministrativa che è morta, perché autocondannata, che è morta, perché non riusciva più a vivere, perché le mancava l’alimento, perché le mancava l’ossigeno.

Badate che nelle nostre formazioni politiche qualche cosa muore perché la uccidiamo, ma vi sono cose che muoiono per vecchiaia, muoiono perché non possono più vivere.

Ora io non capisco come questo popolo possa semplificare la sua vita attraverso la Regione, la Provincia, il Circondario e naturalmente il Comune. Ciò potrebbe essere anche implicitamente un aggravio della burocrazia, di quella burocrazia che vogliamo combattere con armi leali, con armi schiette. Ma noi dobbiamo disciplinare la burocrazia e non si può disciplinare la burocrazia creando enti nuovi che, fra l’altro, sono stati già condannati. Questa è la mia opinione.

Comunque se il circondario è morto per altre ragioni, qualcuno lo dirà con maggior competenza della mia.

Piuttosto la nostra preoccupazione è quella di snellire la burocrazia e si può snellire senza ricorrere a riforme di carattere rivoluzionario.

Basta dare agli enti locali, agli enti periferici una maggiore competenza, un maggior numero di attribuzioni, lasciare, in altri termini, che il prefetto possa respirare; lasciare che la libertà sia concessa veramente agli organi periferici senza bisogno di ricorrere addirittura ad un sistema che ho definito rivoluzionario nell’intento di dare per quella via la libertà che si può dare per la via più breve.

Per me gli enti locali devono essere organi autarchici, ma organi dell’amministrazione dello Stato, poiché in me si è formato il concetto che il corpo dello Stato è un organismo solo e semplice. E se manteniamo il concetto di questo organismo solo e semplice è molto più facile che da questo organismo semplice e chiaro partano le libertà che debbono giungere alla periferia.

Siamo d’accordo che bisogna rompere l’accentramento statale, ma siamo d’accordo non soltanto perché l’accentramento è segno di dittatura…

UBERTI. C’è un solo mezzo…

RODI. No, le vie della Provvidenza sono infinite e se lei crede di poter giungere al suo intento per una sola via, ahimè, questo è egoismo bello e buono.

Non si può dire che in un solo modo si può risolvere il problema dello Stato, perché vi sono tanti modi per quanti sono gli uomini o, almeno, per quanti sono i gruppi politici.

Siamo dunque d’accordo nel rompere l’accentramento, non solo perché esso presenta il pericolo della dittatura, ma anche perché il decentramento burocratico autarchico amministrativo è sentito dal popolo. È quello che diceva l’onorevole Bubbio ieri sera: è soffocante l’idea di dover chiedere oggi un certificato. È soffocante ed il popolo ha sentito il desiderio di liberare la periferia da certe forme burocratiche. Ed allora quando il popolo esprime questo suo desiderio, a noi uomini politici riesce più facile creare una legge che vada incontro ai suoi desideri.

Ma quando noi siamo animati da questa ottima intenzione e quasi per fare di questa intenzione un dono aureo vogliamo superare i limiti impostici da quel desiderio profondo del popolo, allora noi dobbiamo attentamente esaminare questa nostra generosità che oltrepassa il desiderio del popolo.

Ecco perché, secondo me, il decentramento deve essere autarchico, burocratico, amministrativo; deve essere qualcosa che vada incontro al desiderio della massa e del popolo, ma, signori miei, senza passare il limite, perché se passiamo quel limite, dando a questi organi periferici potestà legislativa e fisionomia politica, entriamo in un nuovo campo, trasformiamo la nostra società. Piuttosto voi potete obiettarmi che questa trasformazione è necessaria, che la storia ormai ha maturato questa trasformazione; allora debbo dirvi che questa trasformazione non è ancora matura; allora debbo mettervi sull’avviso, affinché voi vediate con occhio più sereno l’impulso generoso, non dico del vostro cuore, ma della vostra mente, perché voi avete studiato il problema.

L’ordinamento regionale è un rinnovamento profondo, e su questo credo siate d’accordo anche voi: la storia insegna che questi innovamenti profondi sono determinati e creati da gruppi organizzati, e possono sembrare anche imposizioni di carattere dittatoriale; oppure questi rinnovamenti si fanno con la rivoluzione; ma in Italia non c’è senso rivoluzionario, anche se alcuni vogliono creare artificiosamente un’atmosfera rivoluzionaria. Questa atmosfera non c’è, manca, e credo sia impossibile ad una legge, sia pure una legge costituzionale, vale a dire molto più larga delle altre, fare quel rinnovamento profondo che sta o nelle mani di un forte gruppo organizzato o che si opera attraverso una rivoluzione di popolo.

Senza contare, signori miei, che il momento in Italia è pericoloso: c’è in giro nella nostra atmosfera una morbosità politica di cui non sappiamo ancora liberarci; e c’è un pericolo finanziario ed economico; ma c’è sopratutto la povertà dell’Italia che non consente un ordinamento regionalistico, se non altro per l’osservazione fatta da un oratore di cui non ricordo il nome: che le Regioni povere saranno sempre asservite e vincolate al potere centrale per necessità finanziarie. Noi creeremo uno squilibrio fenomenale fra Regioni bisognose e Regioni non bisognose; ed il legislatore, si è tanto preoccupato di questo squilibrio economico, che ha sentito il bisogno di sancire il divieto di inalzare barriere e creare dazi, perché ha sentito il pericolo del dazio e della barriera di cui è ancora recente in Italia il ricordo. Questo divieto è teorico e non basterà per impedire la creazione di barriere tra Regioni e Regioni, barriere di carattere economico, cioè barriere che provengono da quella forza non del tutto imponderabile… (Interruzione dell’onorevole Uberti).

Se lei vuol dire che io non ho nemmeno letto il progetto, la ringrazio di questa patente di ignoranza.

UBERTI. Non ho detto questo!

RODI. L’assicuro che l’ho letto ed anzi l’ho meditato, il progetto!

ROSELLI. Noi non vogliamo creare barriere tra Regione e Regione!

RODI. Ho detto solo che il legislatore ha intuito che lo squilibrio economico può aumentare e condurre alle barriere doganali tra Regione e Regione.

Infine, vi è in Italia una diversa educazione politica, che porterebbe a varî inconvenienti. Ma io ne temo uno più importante: lo Stato di domani sarà forte o debole: se sarà debole, la periferia riuscirà a sopraffare lo Stato, e noi avremo un sistema anarchico (una periferia a cui manchi la direzione è naturalmente anarchica); se lo Stato sarà forte, esso, per impulso istintivo, non consentirà mai l’attuazione autonomistica. Allora ad un certo momento verrà fuori la super-regione, che sfrutterà le altre con la sua prepotenza e con la sua preponderanza.

Del resto, il pensiero dell’onorevole Ambrosini mi sembra chiaro. Egli dice che il decentramento è «trapasso, trasferimento, delegazione di poteri», è chiaro che lo Stato delega alla periferia una parte dei suoi poteri. Il timore dell’onorevole Ambrosini è nella revocabilità di questi poteri; cioè teme che lo Stato ad un certo momento possa revocare i poteri che ha delegato alla periferia, e soggiunge che «nello Stato regionale i poteri diventano proprî della periferia e sono sopratutto irrevocabili». In questo nuovo ordinamento, l’indipendenza della periferia è tale che i poteri non soltanto sono proprî, ma anche irrevocabili. Ora, in questo vi è qualcosa di stridente che vedo fra la periferia e lo Stato, il quale, probabilmente, non potrebbe in nessun modo intervenire per infrenare eventualmente le prepotenze e l’esuberanza della periferia. E così soggiunge l’insigne onorevole Ambrosini: «nello Stato unitario la Provincia è una entità amministrativa, mentre nello Stato autonomistico la Provincia è anche un ente politico», il quale sta di fronte allo Stato, sia pure, soggiunge lo scrittore, «subordinatamente». Il pericolo, per me, sta in questa entità politica. Quindi, trasferimento alla periferia di poteri che diventano proprî della periferia; concetto della irrevocabilità di questi poteri; concetto di una subordinazione della Regione autonoma di fronte allo Stato. La subordinazione qui, secondo me, finisce di esistere perché non può essere subordinata una Regione provvista di poteri proprî e di irrevocabilità dei poteri stessi.

Signori, il nostro ciclo storico è unitario ed esso deve ancora compiersi. Lasciamo, dunque, che si compia, perché non è consentito superare la storia, tanto più che noi abbiamo guadagnato di recente il dono della libertà, ed io credo che sia un dono questo da prendere a porzioni, e non da aggredire. E l’ordinamento regionale è un’aggressione.

BELOTTI. È un potenziamento, non una aggressione.

RODI. È stato già osservato dall’illustre collega Colitto che l’autonomia regionale può rappresentare anche una forma di accentramento più grave, e voi sapete per esperienza che cosa sono le dittature periferiche: sono più gravi, sono più intollerabili di quelle centrali, forse perché sono più vicine al cittadino.

GRAVINA. Se l’autonomia regionale funzionerà elettivamente questo pericolo non v’è.

RODI. Non si tratta nemmeno qui di questione elettiva, perché può anche accadere che un uomo eletto diventi ad un tratto dittatore.

In un momento come il nostro, attuare questo ideale di libertà è spingere le cose oltre il normale, e perciò dall’impulso generoso di questi uomini potrebbe nascere una nuova dittatura. Si tratta di storia: la storia deve creare il regionalismo, e soltanto allora noi crederemo in esso. Ed io dico che la storia non creerà più un sistema regionalistico, perché basta osservare la fisionomia politica del mondo odierno per accorgerci che la frantumazione, il frazionamento, non è più una possibilità contemporanea.

Forse io sono troppo audace, perché intendo levarmi al di sopra dei miei tempi per giudicarli, pur sapendo che il giudizio storico può essere dato soltanto sugli avvenimenti passati. Tuttavia io mi accorgo, attraverso lo sviluppo politico, che ciascuno tende ad eliminare il frazionamento. Direi quasi che si apre nella storia l’era di un nuovo accentramento, che rifugge dalle periferie, da certe periferie che non possono e non sanno più adattarsi al centro per coordinare la loro opera con quella statale.

Io credo che il vostro regionalismo è un rimpicciolire il concetto della stona contemporanea.

Uno storico francese, il Quinet…

UBERTI. Va fuori strada in pieno.

RODI. Perché mai? Io ho sentito attentamente il discorso dell’onorevole Uberti e, se mi fosse rimasto un po’ di tempo, avrei fatto una critica serrata alle sue idee.

UBERTI. È difficile sconfiggere la fede.

RODI. Onorevole Uberti, lei ha parlato con il sentimento, io parlo con la ragione.

Dunque, dicevo, che uno storico francese, il Quinet, nel 1857 affermava che il male dell’Italia è uno solo, gravissimo: quello di non esistere; cioè, questo storico francese, che molti di voi conosceranno, diceva: «Io vedo i resti delle antichità romane, vedo l’arte del rinascimento, vedo la grandezza del genio italiano, ma non vedo l’Italia o meglio il popolo italiano».

Qui però non si tratta di aver visto male o bene, o di aver visto con occhi francesi; qui si tratta di un esame dell’Italia di quel tempo; prova ne sia che, nel 1874, lo stesso Quinet, in un’appendice al suo libro, annunciava la nascita dell’Italia. (Commenti).

Ed ho citato questo particolare perché, in un certo senso, esso riflette la storia di quest’ultimo secolo. (Commenti Interruzioni). Ma possibile che non vi sembri questa una cosa chiara? Il Quinet ha visto con occhi francesi, siamo perfettamente d’accordo. Possiamo dire che egli ha esagerato perché ha visto con occhi di gallo; però, se noi dobbiamo tradurre in termini italiani questo giudizio, che cosa dobbiamo dire? Dobbiamo dire che l’Italia in quel tempo era in travaglio e che successivamente il Quinet stesso, avendo visto il completarsi di quel travaglio, asseriva, nel 1874, che l’Italia era nata.

Ma noi italiani dobbiamo dire che la nostra storia unitaria è molto recente, perché si possa pensare che il nostro ciclo storico si sia concluso. Io sono convinto che questo cammino, interrotto dalla dittatura, debba essere ripreso con lo stesso senso unitario di una volta. E ad ogni modo, qualunque sia la decisione che prenderà l’Assemblea intorno all’ordinamento regionale, io mi auguro che ciascuno di noi, e specialmente i regionalisti, abbia in mente che sono in gioco gli interessi e l’avvenire dell’Italia. (Applausi a destra).

PRESIDENTE. È iscritto a parlare l’onorevole Bellavista. Ne ha facoltà.

BELLAVISTA. Onorevole Presidente, onorevoli colleghi! Il mio intervento odierno vuole essere un atto di fede regionalistica, e da liberale e da italiano di Sicilia. Sottolineo quelli «italiano di Sicilia», perché, oltre che un atto di fede regionalistica, il mio vuol essere un atto di fede unitaria; e credo a questo punto di dover tentare di snebbiare quello che a me pare un equivoco, che tanto spesso ricorre nei dotti discorsi dei colleghi costituenti.

Qui con troppa frequenza si fa del «regionalismo» un quid antiunitario, che è fuori di ogni realtà giuridica. In realtà, se non ho male interpretato quello che ho udito e quello che ho letto – mi riferisco ai lavori della Commissione – le posizioni distintive vanno prospettate su un piano diverso. Qui, da una parte, ci sono gli «unitarî regionalisti», dalla altra gli antiregionalisti non già, o non soltanto, «unitarî», ma, diciamo francamente la parola, «uniformitari» che da ottantasette anni hanno sgovernato l’Italia. Se c’è per quello che io chiamo «uniformitarismo» un processo di giustificazione storica iniziale, ora questa giustificazione più non esiste, ed è vano richiamarla in vita.

Prima di allora l’Italia era una realtà soltanto geografica, e quello che nella intenzione del Metternich voleva essere un insulto, per me è un titolo d’onore, perché nella espressione geografica soltanto i segni sono stati scritti da Dio nei monti, nei fiumi, nella lingua, nei costumi. Fuori dalla «espressione geografica» siamo avanti alla mera creazione politica, ad essa incomparabilmente inferiore.

Dicevo che gli uniformitari avevano allora ragione, perché a raggruppare tuttavia le sparse membra attraverso i plebisciti era necessario che quella formula di uniformità, che quella che passò come «formula piemontese», si imponesse. Era un processo di riduzione, direbbe un chirurgo, un processo di riduzione di una frattura, di più fratture comminute: ci voleva l’ingessatura, perché non si muovesse quello che si veniva a riunire per forza spontanea guidata non soltanto da una finalità di unità, ma guidata, oserei anche dire, soprattutto dal desiderio di indipendenza e di libertà, esasperato in alcune regioni come la mia Sicilia.

Le condizioni, però, da allora ad ora sono cambiate, e bisogna intendersi una volta per tutte sulla terminologia, quando questa racchiude nell’espressione simbolica il concetto, quando essa è raccordabile ad un suo contenuto. Non è affatto vero che il regionalismo sia un concetto da opporre al concetto dell’unitarismo. È un concetto di specificazione, sottordinato a quello dell’unità, che è a sua volta un concetto che nettamente si differenzia, per motivi che verrò ad esaminare, dal concetto di uniformità. Quanto questo sistema uniformitario sia stato essenziale per lo sviluppo politico di tutte le regioni d’Italia, 87 anni di storia, 87 anni di cronico fallimento, lo dimostrano chiaramente. Ma il mio, vi aggiungo, non vuole essere soltanto un atto di fede. La nostra attività parlamentare si frantuma ogni giorno in atti di giudizio; e come ogni atto di giudizio, prima di essere un atto di volontà, è un atto di intelligenza, il mio, il nostro vuole e deve essere, soprattutto, un atto di intelligenza.

È con queste premesse, dunque, che prendiamo le mosse per entrare nel vivo della materia del contendere. C’è un solo punto fermo, fortunatamente, un punto nel quale tutti sono stati d’accordo: lo Stato dell’ottantasettennio non ha trovato laudatores temporis acti. Ho guardato i verbali della seconda Sottocommissione; ho letto le opinioni espresse da coloro che oggi assumono un più deciso orientamento antiregionalistico, che allora non assunsero, forse perché adesso la moda sembra cambiata; ed ho visto che tutti sono stati d’accordo su un punto fondamentale: che lo Stato uniformitario ed accentratore aveva fallito la sua esperienza, che il rinnovamento era necessario. E qui si è accennato che si possono suggerire due species diverse di rimedi, che ho inteso, purtroppo, confusi, e che confusi non debbono essere. Contro lo Stato accentratore si può bene opporre come rimedio idoneo, capace, lo Stato decentratore; ma contro lo Stato uniformitario il decentramento è come la illusoria panacea della pomata per gli arti inferiori per chi ha mal di denti. Non c’è dubbio che non sia affatto il rimedio idoneo, il rimedio capace di guarirci da questo male, da questa sindrome patologica politica che ha afflitto per 87 anni la vita italiana.

Non bisogna confondere i due mali e le due terapie.

E guardiamo un po’ all’eziologia, alla causa di questi mali. Ma la causa dell’insuccesso dell’uniformitarismo è scritta in «rerum natura», nella stessa natura delle cose, ed è vana fatica ricercarla altrove. Ora, domandatelo a chi è costretto per assolvere al suo mandato a venire su ogni volta dalla Sicilia fin qui. Sono venti ore di viaggio. È un dovere che si continuerà ad adempiere, ma che rappresenta, nel campo degli oneri e degli obblighi, qualche cosa di sacrificio superiore a quello di chi è più vicino. È scritta questa causa dell’insuccesso uniformitario nella stretta e lunga e magnifica Italia. Domandatelo a chi possa venire con un servizio aereo dalla neve che indugia certe volte a marzo per le vie di Milano alla nostra valle dei templi di Agrigento fiorita di mandorli e luminosa di sole. Questa diversità è scritta nella natura, fa parte di quella geopolitica che il legislatore non può, non deve ignorare sotto pena di tradire, nel suo ordine precostituito, la funzione massima che ha il diritto. E non si è sempre insegnato, e non si crede da tutti che il diritto abbia a seguire la sua natura «epifenomenica», che esso debba adattarsi cioè alla natura delle cose che va a regolare? Il diritto migliore, il diritto perfetto dovrebbe essere invero quello che, togliendo qualche cosa alle imprescindibili necessità di generalità e astrattezza, si assomigli al famoso regolo lesbio aristotelico che si piega e consente a tutte le sinuosità del masso, ogni cosa regolando secondo l’arte del buono e dell’equo.

In sostanza, a questo si riduce la battaglia di noi «unitari regionalisti» contro gli «antiregionalisti uniformitari», contro coloro cioè che hanno voluto regolare per 87 anni con lo stesso metro, che non assomiglia affatto al regolo aristotelico, regioni lontane come l’Aosta e la Sicilia. Noi postuliamo il bisogno, la necessità del riconoscimento di questa differenziazione, di questo metro diverso, e con ciò non intacchiamo affatto il principio unitario. Questo principio ha valore «erga barbaros», contro lo straniero, e non già esclusivamente «erga cives». Siamo e saremo unitarî anche se differenziati, sopra tutto se differenziati.

Per quanto riguarda lo Stato accentratore, e non già per quello anche uniformitario (e tutti e due questi mali noi abbiamo insieme purtroppo goduto!), si può dire quello che in patologia medica si dice del «cor bovinum», e cioè di un cuore il cui muscolo sia stato così sfruttato e iperteso da determinare un fatale scompenso cardiaco, che da un momento all’altro può condurre alla morte. Da 87 anni nello Stato italiano questo «cor bovinum» è rimasto a Roma e l’insufficienza cardiaca è visibile, visibilissima!

Parlandovi, e pour cause, come italiano di Sicilia, debbo dirvi subito che alla periferia le onde del sangue di questo «cor bovinum» arrivano lente e scarse. Non è il caso, e non ne avrò il cattivo gusto, di impantanare una questione nazionale, quale è quella regionale, nel pettegolezzo o nel cortile del campanilismo. Ma molte delle osservazioni che ho udito risentono di questa lamentata insufficienza. Create – dato che l’organismo è siffatto – altri cuori per tutte le periferie e restituite Roma alla grande dignità che essa deve avere, alla grande sufficienza che essa deve avere, fatela veramente il «cor cordium» di tutta l’Italia!

Ciò facendo affermerete, e legittimamente, che non ci può essere unità sulle ingiustizie regionali; che l’unità, la vera e giusta unità non si fonda sul sacrificio di alcuni e sul vantaggio di pochi.

Onorevoli colleghi, il decentramento amministrativo è la terapia adatta contro l’accentramento, ma non risolverà il problema dell’uniformitarismo, l’altro problema, «in nuce». L’attività decentrata non finirà per questo di essere attività prevalentemente amministrativa; non finirà di essere attività prevalentemente esecutiva: soddisfarà certamente una esigenza largamente sentita.

Ma niente più di questo, anche se ci sarà decentramento giurisdizionale. Io mi rendo conto (solleverò lo scandalo degli uniformatoristi giusprudenziali) che quando l’Italia riavrà le Cassazioni interregionali che funzionarono benissimo, e che la legge Oviglio volle sopprimere, non ne soffriranno la giurisprudenza e la dottrina italiana, ma avremo il grandioso vantaggio di non rendere vana e vuota la formula di Jhering, che non c’è peggiore ingiustizia della giustizia tardiva. Ma per distruggere i mali che l’uniformitarismo ha prodotto non c’è che un rimedio: l’autonomia regionale.

Del resto ho ascoltato, con l’attenzione che meritavano, gli uniformatoristi e gli antiregionalisti (per me i termini si equivalgono) e posso distinguerli in due categorie: quelli che sono, o mostrano di essere, contro la Regione per la questione di principio, e per certe preoccupazioni che esamineremo; e quelli che, a ben guardare, sono non contro l’ordinamento regionale ma contro alcuni dettagli strutturali del progetto e finiscono con l’accettare questa autentica rivoluzione costituzionale.

Noi siamo, infatti, davanti una vera e propria rivoluzione giuridica che è l’unica e vera grandiosa rivoluzione.

Ora, chi ha attaccato il dettaglio ha implicitamente accettato il principio. Vediamo, invece, le obiezioni che questo principio intaccano. Di una abbiamo già accennato. Ho inteso illustri miei colleghi fare una confusione penosa fra il concetto di Stato federale ed il concetto di Stato regionale: la confusione non è ammissibile. È vero che la nostra letteratura giuridica su questo nuovo tentativo rivoluzionario è nuova e scarsa; ma c’è tuttavia qualche volume molto chiarificatore sull’argomento. Il metodo della dogmatica giuridica, che non si distacca da quello della logica formale, pone il problema nei termini seguenti: a quale dei due archetipi è accostabile lo Stato regionale? A quello federale od a quello unitario?

Non c’è dubbio che esso rappresenta un tertium quid raccostabile più al secondo che non al primo. Nello stesso concetto di autonomia regionale è insita l’affermazione del principio di subordinazione. Non si può prescindere da quella che è questione di architettura giuridica.

Noi abbiamo un elemento originario, che primo era in principio e sarà sempre tale: l’ordinamento statale; e poi l’ordinamento subordinato, che esso crea: l’ordinamento regionale.

Una volta io usai l’espressione dell’investitura del vassallo verso il valvassore. È lo Stato che dà questo potere «derivato» alla Regione. La Regione oggi lo ha con la procedura costituzionale; se l’esperimento fallisce, quel potere può essere tolto, con la stessa procedura.

Né ha seria consistenza la preoccupazione che riecheggia negli interventi dell’onorevole Togliatti e dell’onorevole Laconi in seno alla seconda Sottocommissione, cui risposero gli onorevoli Perassi ed Ambrosini. Anche per le cosidette materie di competenza esclusiva è chiaramente riaffermata nell’articolo 109 del progetto questa subordinazione della legislazione regionale alla legislazione di principio dello Stato. Tutti coloro che hanno a cuore gli interessi della classe lavoratrice e tutti coloro che hanno la preoccupazione che l’autonomia si risolva in quel feudalismo, cui accennava poc’anzi il collega onorevole Rodi, son dimentichi che ben più grave è il feudalismo della burocrazia accentratrice in questo momento.

Abbiamo un documento precostituzionale, che dovrà essere raccordato alla Costituzione: lo Statuto della autonomia siciliana. In quello statuto è chiaramente detto che tutta la legislazione sociale e le riforme agrarie ed industriali non potranno discostarsi da quella che è la legislazione di principio dello Stato. Ed allora qual è il vero autentico valore di questo stato di libertà, che, con l’autonomia, si riconosce alla Regione? È quello del regolo aristotelico. Si riconosce che non si può (tranne dai soliti sapientoni, i quali sono a tutto abili ed a tutto incapaci) da chi ignora le condizioni agronomiche, per esempio, della Valle Padana, pretendere di legiferare su di essa; non si può da chi ignora le condizioni agronomiche e culturali della Sicilia pretendere che l’onorevole Bordon venga a legiferare giù da noi. C’è la stessa interditio legittima della natura delle cose, che impedirebbe a me di andare a legiferare in Val d’Aosta. Può non ritenersi logico tale principio?

Contro il progetto si è poi appuntata una questione di natura squisitamente politica: la preoccupazione che si possano accentuare gli impulsi delle forze centrifughe che minacciano l’unità dello Stato.

Dicevo, all’inizio del mio intervento, che vi parlavo da italiano di Sicilia, perché sono convinto e rendo testimonianza che è vero solo quanto è perfettamente contrario a questa preoccupazione. A essere storicamente onesti e a non avere preoccupazioni non rispettabili, deve dirsi chiaro, e una volta per tutte, che alla radice del cosidetto «movimento separatista» non c’era che una formidabile esasperazione regionale. Quando questa ansia giustificata da ottantasette anni, specialmente per la Sicilia, di mal governo, è stata placata dalla autonomia, il separatismo ha ridotto notevolmente i suoi quadri, anche nella sua rappresentanza all’Assemblea regionale. Dunque l’antidoto contro le forze centrifughe (le quali non sono invenzioni politiche arbitrarie, ma il frutto di uno stato di fatto che pretende il suo rimedio, non col cannone, con le baionette, o con la galera, ma con sagge leggi) è appunto costituito dalle autonomie regionali. Queste avranno la funzione che i latini attribuivano al mare: non dividit sed copulat.

Attraverso le autonomie le forze centrifughe raggiungeranno il giusto equilibrio con le forze centripete, con vantaggio di tutti e di ognuno.

E non riesco a darmi spiegazione nemmeno di un intervento dell’onorevole Togliatti presso la seconda Commissione. Egli ha detto che era contrario al progetto perché con la costituzione dello Stato regionale «viene sbarrata la strada per la quale la ricchezza del Nord potrebbe andare ad elevare il livello economico del Sud». Ora, quando nella tecnica navale fu istaurato il principio del compartimento stagno, non si pensava di rendere un servizio ai caratisti autorizzandoli ad affettare la nave, sicché ognuno di essi in salotto potesse portare un pezzo di prora o un pezzo di poppa; si cercava soltanto di non rendere possibile il totale affondamento della nave, ed il compartimento stagno è anche, ed insieme, l’applicazione del principio dei vasi comunicanti, quando questo è possibile. E poi, mi consenta l’assente onorevole Togliatti, egli parla di impossibilità di potenziale drenaggio, via Nord-Sud, di capitali, ma è smentito dalla realtà obbiettiva. Basta leggere il Bollettino Economico del Banco di Sicilia per convincersi che da quando la Sicilia ha avuto l’autonomia regionale (certo per cause che l’onorevole Togliatti non si è soffermato ad esaminare funditus) c’è invece questo drenaggio simpaticissimo del capitale del Nord che affluisce verso il Sud. È segno codesto che, quanto meno, determinati strati della popolazione sentono profondamente il vantaggio che può derivare per il capitale da un aggiustato ordinamento regionale.

Ma la preoccupazione dell’onorevole Togliatti, almeno per il passato, è anche contro la storia anche perché l’uomo onorato ed illustre che oggi è così ferocemente, tetragonalmente antiregionalista, l’onorevole Francesco Saverio Nitti, ci ha insegnato, in una opera immortale sulla quale abbiamo molto meditato, per arrivare a conseguenze diverse da quelle alle quali egli oggi arriva, che il drenaggio c’è stato, ma ha preso la via degli uccelli a primavera, dal Sud è volato ed è salito verso il Nord…

Anche questo argomento, dunque, ha valore minore di quanto a prima vista non possa sembrare.

Ma c’è poi anche qualche antiregionalista il quale si è trincerato dietro preoccupazioni di ordine meramente finanziario.

Per quanto riguarda il dramma eterno – ricchi e poveri – per quanto riguarda le Regioni ricche e le Regioni povere, risponde il progetto, che attua quel principio superiore di solidarietà nazionale per cui per le Regioni povere la Costituzione ha sancito l’obbligo del soccorso. La Regione povera avrà il suo «salario minimo», e sarà certamente «salario giusto».

Ma c’è la preoccupazione che questo nuovo ente contribuisca a render più pesante la pressione tributaria.

Io non capisco come questa preoccupazione possa venire dagli onesti rappresentanti delle classi lavoratrici.

Si dice in un proverbio siciliano che due sono i potenti della terra: chi possiede molto e chi non ha nulla. Le classi lavoratrici non potranno mai sopportare alcun serio peso derivante da questa nuova necessità finanziaria tributaria che sorge dall’applicazione della nostra Costituzione e dalla creazione degli enti regionali. Le classi abbienti sopporteranno, come è logico e doveroso per chi ha ed è, perciò, il naturale destinatario di ogni imposta.

Ma, in sostanza, quando si pone in questi termini la questione, il problema assume carattere di comparazione tra costo e vantaggio, diventa un problema di utilità comparativa. Ha la struttura regionale idoneità ad assicurare determinati vantaggi? Costano in senso economico questi vantaggi più o meno dei sacrifici imposti? Il problema, come ho detto, si riduce a una questione di utilità comparativa. Io credo che qualsiasi sacrificio, e qualsiasi aumentata pressione tributaria, sia lautamente pagato da quel grande bene che verrà dalla riforma strutturale dello Stato, se avrete il coraggio di non essere conservatori e di attuarla (Approvazioni al centro). Ho inteso dire che la riforma autonomistica non è sentita nel Paese. In Italia, dove manca l’istituto Gallup, si ricorre troppo spesso alla interpretazione astatistica dei dati fluidi del sentimento popolare. Come un buon relatore, che non entri ancora in camera di consiglio e perciò perfettamente frigido, l’onorevole Rodi ha posto la questione in questi termini: Gullo afferma, Uberti nega.

Ergo: in dubiis non liquet! Mi succedeva, quando ero giovanotto al Liceo, di restare perplesso tra l’argomentazione del sofista e quella di Socrate contradittore, ma il maestro urgeva alla mia soluzione e non si contentava del non liquet, cui ha fatto ricorso l’onorevole Rodi. Se debbo addentrarmi nell’argomento, debbo affermare, sì, che il problema è diversamente sentito, onorevole Priolo, ma non possiamo con tanta sicumera dire che esso non è sentito. Domandiamolo a chi è ancora in carcere in Sicilia per aver esasperato questo problema! Il problema è sentito. Prova e controprova! Il buon amico Colitto, mi perdoni, ieri, da bravo avvocato, dopo aver fatto una magnifica arringa chiedendo l’assoluzione della vecchia struttura statale, ha finito per chiedere, in subordinata, che anche per il Molise fosse affermato il principio dell’autonomia regionale. Vi è una contradizione in termini e noi non la possiamo accettare! (Approvazioni al centro). Cosa sono queste Daunie – mi dicono si tratti della Provincia di Foggia –, cosa sono questi Salenti e queste Emilie Lunensi e lunatiche che spuntano come funghi dopo la pioggia? Sono la prova che il problema è sentito. Il collega Priolo è ipersensibile, e se volete la verità, c’è anche per voi, collega Priolo! Talora la verità non si rivela nelle discussioni quasi accademiche delle Assemblee, ma si illumina in un viaggio in treno od in una conversazione privata. Mi consenti, caro Abozzi: tu ieri avevi reso omaggio con obiettività alla buona fede ed alla coscienza dell’autonomista Lussu. Avevi detto che, non della coscienza di Lussu volevi parlare, ma della sua subcoscienza. Io non pratico culti freudiani, ma se debbo addentrarmi nel subcosciente di certi antiregionalismi, debbo dire che essi si rivelano piuttosto come campanilismo di Reggio contro Cosenza, di Cagliari contro Sassari! (Commenti). Tanto è vera questa realtà che vediamo che l’istinto giuridico americano ha fatto sì che non ci sia una capitale di Stato che risieda in un grande città.

Perché? Perché Buffalo sarebbe gelosa di New York, che ha tredici milioni di abitanti, e la capitale è la piccola Albany. In Pennsylvania, c’è la cittadina di Harrisburg come capitale, e non la metropoli Filadelfia o la grande industre Pittsburgh.

C’è purtroppo questa radice subcosciente, o addirittura cosciente, per quelli meno metafisici, della gelosia campanilistica che è stata un danno per l’Italia, e che deve essere ridotta e silenziata dalle soluzioni che vorrete accettare. Ma sia chiaro che non si può, sulla gelosia e sui provincialismi, negare quello che è palmare e limpido come la luce del sole. (Applausi).

ABOZZI. È la Regione che li esaspera.

BELLAVISTA. Lo vedi che accusi il colpo? Ma, in psicologia, i sentimenti si sublimano, si devono sublimare. Quando Messene e Sparta litigano, si va a Tebe. Ma non si deve rinunciare ad una innovazione profonda.

Ed allora, ciò chiarito, a che cosa altro si riduce tutta la questione? Nell’accettare le oneste critiche sull’atomizzazione del principio regionale, sulla polverizzazione del principio, su quello che può essere legittimato come pressione di interessi locali che non si allargano al di là di un terreno provinciale? E sia. Dobbiamo fare, forse, un passo avanti ancora, dobbiamo, in relazione alle preoccupazioni di unità di interessi economici e finanziari, promuovere l’allacciamento sotto forma di consorzio, di ingrandimento di alcune Regioni che non potrebbero forse essere autosufficienti ed alle quali non si volesse dare quel fondo di solidarietà nazionale che il progetto prevede.

Ma, fatto questo, noi dobbiamo difendere questo grandioso principio. Onorevoli colleghi, il 2 giugno io votai per la monarchia, e nondimeno ora mi sento, e sono cittadino della Repubblica. Chi mi conosce sa che non lo dico per ricevere ringraziamenti: come tendenza, per natura, sono contrario alle piaggerie. Ma se questa Repubblica deve e vuole, come già nel ’70 la monarchia, attrarre a sé tutti gli uomini di buona volontà (perché l’onestà, si è detto, non ha punti cardinali), allora la Repubblica deve essere veramente ed altamente rivoluzionaria, deve cambiare questo vecchio Stato di 87 anni, deve fargli vertebre e strutture nuove. E quando la Repubblica sarà in pericolo, onorevoli colleghi, i sardi della Brigata Sassari – chiedetelo a Lussu –, i siciliani del Generale Cascino saranno ancora alla frontiera e difenderanno la Repubblica. (Applausi Molte congratulazioni).

PRESIDENTE. È inscritto a parlare l’onorevole Recca. Ne ha facoltà.

RECCA. Dopo che parecchi colleghi hanno ampiamente parlato su questo Titolo V, di cui ci stiamo occupando, e dopo che il campo è stato magistralmente mietuto, non resta a noi che li seguiamo, che la spigolatura; quindi sarò breve. L’atteggiamento, onorevoli colleghi, di certe Provincie che, pur non avendo i requisiti necessari, chiedono disperatamente di diventar Regioni, non è affatto una conseguenza del problema della istituzione dell’ente Regione, messo in discussione, ma è conseguenza non solo della condotta tenuta nel passato da alcuni capoluoghi di attuali Regioni, accentratori di realizzazione di opere pubbliche a discapito dei piccoli centri provinciali, ma anche di un legittimo allarme prodotto dal nostro progetto di Costituzione che regola la materia di cui ci stiamo occupando.

Perché, quando noi leggiamo nell’articolo 8 delle disposizioni finali e transitorie del progetto di Costituzione: «Leggi della Repubblica regolano per ogni ramo della pubblica amministrazione il trapasso delle funzioni statali attribuite alle Regioni e quello di funzionari e dipendenti dello Stato, anche centrali, che si rende necessario in conseguenza del nuovo ordinamento. Alla Regione sono trasferiti, nei modi da stabilire con leggi della Repubblica, il patrimonio, i servizi ed il personale delle Provincie», e quando noi leggiamo nell’articolo 107 del progetto di Costituzione: «La Repubblica si riparte in Regioni e Comuni. Le Provincie sono circoscrizioni amministrative di decentramento statale e regionale», noi dobbiamo dedurre che, secondo il progetto stesso, la Provincia dovrebbe cessare di esistere e diventare solamente una circoscrizione amministrativa, che può essere anche, come prevede l’articolo 120, «suddivisa in circondari per un ulteriore decentramento». Ed in queste sedi, in queste circoscrizioni, cosidette provinciali, ed in questi circondari, come dice l’articolo 120, dovrebbero esistere degli uffici, dipendenti dalle Regioni, per l’esercizio delle funzioni amministrative di quest’ultime, e dovrebbero essere istituite delle Giunte nominate dai Corpi elettivi.

Che compiti avranno queste Giunte, che poteri avranno, come saranno elette? Non si sa ancora. Continua infatti l’articolo 120: «Nelle circoscrizioni provinciali sono istituite Giunte nominate dai Corpi elettivi, nei modi e coi poteri stabiliti da una legge della Repubblica».

Una cosa però è certa: la Provincia non deve essere un ente autarchico, e la Giunta non dovrebbe legiferare. Questo risulta dallo spirito della dizione, piuttosto che dall’analisi della dizione stessa. Infatti, secondo il nostro progetto, la Provincia sarà una circoscrizione amministrativa; in essa ci saranno degli uffici regionali, ci sarà una giunta che non avrà poteri deliberativi, e quindi non ci sarà un decentramento amministrativo tra la Regione e il Comune, perché, tutt’al più, si potrà parlare di un decentramento burocratico tra la Regione e il Comune, di uno smistamento di uffici tra la Regione e la Provincia. Ma questa non avrebbe mai un’autonomia finanziaria ed amministrativa, non avrebbe mai degli enti autarchici sul posto, perdendo così ogni potere ed ogni forza propulsiva.

Alla Regione invece la potestà di emanare norme legislative nelle materie specificatamente descritte negli articoli 109 e 110 del progetto; e poi norme legislative di integrazione ed attuazione delle disposizioni di legge della Repubblica, onde adattarle alle condizioni ambientali regionali, in altre materie, meglio descritte nel successivo articolo 111. E poi ancora alla Regione la facoltà di provvedere all’amministrazione nelle materie indicate negli articoli 109 e 110 ed in altre ancora, delle quali lo Stato le delega la gestione; alla Regione, con i successivi articoli, vengono affidati, oltre che i poteri legislativi, poteri amministrativi ed anche di controllo di legittimità sugli atti dei comuni e degli altri enti locali compresi nella sua giurisdizione e circoscrizione (art. 122); alla Regione finalmente la facoltà di proporre disegni di legge al Parlamento nazionale (art. 115).

Non immaginate voi come dovrebbe essere fantastica e colossale – ed io la vedo anche impossibile da un punto di vista pratico – quest’organizzazione regionale, così come è prevista dal progetto costituzionale?

Noi avremmo nelle Regioni dei ministeri provvisti di facoltà legislative, amministrative e di controllo; e si sa, per esperienza, come sia quasi impossibile, in pratica, esercitare contemporaneamente le due riferite facoltà: la legislativa e la amministrativa.

Ma se si arrivasse a quell’organizzazione regionale, negandosi alla Provincia il carattere di ente autarchico e la possibilità di un suo funzionamento, il pericolo dell’accentramento, che si vorrebbe evitare, si accentuerebbe invece di gran lunga, giacché per qualsiasi provvedimento, per la risoluzione di un qualsiasi problema, si dovrebbe ricorrere all’organo centrale regionale, ed ogni cittadino, per la tutela dei proprî interessi e per l’emissione di un quid qualsiasi in campo regionale, dovrebbe, se volesse riuscire nei proprî intenti, raggiungere la sede regionale ed adire quell’organizzazione regionale, con grande dispendio di tempo e di denaro; e così, invece di avvicinare l’amministrazione al cittadino, si allontanerebbe sempre più questo da quella.

Ed ecco perché l’opinione pubblica è allarmata; ed ecco perché si giustificano il movimento e le agitazioni dei congressi di Firenze, di Modena, di Bologna, di Venezia, di Frosinone, di Salerno, della Lombardia, ed ecco perché si giustifica l’ordine del giorno votato a grande maggioranza dall’Unione nazionale delle camere di commercio d’Italia; ed ecco perché le Province vogliono erigersi a Regione, pur non avendo i requisiti necessari.

Cosa che non si verificherebbe, se la Provincia restasse come ente autarchico, coadiuvando, in via autonoma, la Regione, e quindi restasse la Provincia, ma con autonomia finanziaria e con organi elettivi che l’amministrassero sia pure sotto il controllo, se del caso, della Regione. Né si può dire che, restando la Provincia con l’auspicata funzione autarchica, si verrebbe a moltiplicare la burocrazia locale, giacché, anche in previsione di quanto è contenuto nel progetto di Costituzione, si riconosce la necessità di far esistere nelle circoscrizioni provinciali, e quindi nei centri provinciali, degli uffici sia pure regionali, ond’è che cambierebbe la denominazione dell’ente da cui dovrebbero dipendere gli uffici stessi, ma resterebbe sempre il fattore burocratico.

Quindi l’esistenza della Provincia, come ente autarchico, rappresenta per l’opinione pubblica, per i rilievi suesposti, nel nuovo ordinamento dello Stato, una vera e propria necessità insieme all’ente Regione; e questa Assemblea, che rappresenta la volontà del popolo italiano e l’espressione di questa volontà, deve sentire questa necessità ed inserire nella Carta costituzionale dello Stato, accanto alla Regione, anche la Provincia come ente autarchico. Alle leggi successive poi le funzioni da attribuirsi alla stessa e le norme per la formazione degli organi elettivi che la debbono amministrare.

Un’altra considerazione di carattere generale. Noi non possiamo condividere che, per disporre la fusione di Regioni esistenti e la creazione di nuove, debbano essere sentiti i Consigli regionali interessati. Perché i giudizi, i pareri di questi Consigli regionali non possono essere mai disinteressati, non possono mai fondarsi su valutazioni obiettive, ma saranno sempre dettati da quel famoso spirito di campanilismo, cui alludeva poco fa il collega Bellavista. E questi pareri, o non arriveranno mai, o, se arriveranno per la fissazione di un termine, non saranno mai spassionati. Certo che, per garantire la serietà di un movimento, è necessario che quella percentuale di un terzo della popolazione, rappresentata dai consigli comunali, venga elevata perlomeno a due terzi. Ed allora, approvata poi la proposta, per referendum, dalla maggioranza della popolazione stessa, a garanzia della volontà popolare per il raggiungimento dello scopo, il parere dei Consigli regionali si rende superfluo e frustraneo.

Ma, onorevoli colleghi, una volta riconosciuto e stabilito nella Costituzione il principio delle autonomie locali, che per alcuni colleghi può frantumare l’unità della nazione, perché essi confondono il separatismo con l’autonomia regionale e dimenticano quanto è sancito nell’articolo 106, cioè che la Repubblica italiana è una e indivisibile, una volta riconosciuta, nel nostro progetto di Costituzione, l’erezione di nuove Regioni (articolo 123), perché non si deve lasciare a questa Assemblea la possibilità di indagare se, oltre alle dette nuove Regioni, di cui parla l’articolo 123, non ci siano altre circoscrizioni che abbiano quelle caratteristiche, quei requisiti necessari per essere costituite in Regioni? Noi, amici cari, non possiamo assolutamente fare due pesi e due misure. Noi, se giustamente riconosciamo le nuove regioni del Friuli, dell’Emilia lunense, del Molise, del Salento, non possiamo, nella maniera più assoluta, per un senso di giustizia, e per un senso – direi quasi – di umanità, non possiamo tralasciare l’analisi di requisiti e attribuzioni e circostanze ambientali che rendano degna una circoscrizione di assurgere a Regione.

E badate che anche la Commissione mi dà ragione. Mi dà ragione perché, in una nota a pagina 31 all’articolo 123, dice di sospendere ogni altra decisione in attesa di elementi di giudizio, da inchiesta in corso presso gli organi locali delle Regioni di nuova istituzione.

Non solo: ma, scorrendo il lavoro della Sottocommissione, relativamente alla compilazione del ripetuto articolo 123, si nota che altre nuove circoscrizioni territoriali, pur avendo tutti i requisiti richiesti, non sono state riconosciute ed incluse nel citato articolo, per difetto di alcuni elementi, che non erano stati approntati, forse perché ritenuti superflui. Ond’è che, trovandosi in possesso di quegli elementi di giudizio di cui alla nota della Commissione, trovandosi in possesso di quegli altri elementi, ritenuti, per i proponenti, superflui, e necessari, invece, per la Sottocommissione, trovandosi in possesso ancora di tutto il materiale già valutato favorevolmente dalla stessa Sottocommissione, alcune circoscrizioni possono oggi chiedere che venga riconosciuta la loro autonomia regionale.

E fra queste circoscrizioni c’è la Daunia! Daunia! “Carneade, chi era costui?”. Così disse, o, per lo meno, così voleva dire l’onorevole Nitti, quando parlò in questa Aula sui principî informatori della nuova Carta costituzionale della Repubblica italiana. Non è colpa nostra, se all’onorevole Nitti, allo studioso Nitti sia sfuggito il nome storico della Daunia o Capitanata, se a lui siano sfuggite le esigenze di questa Daunia nettamente distinte e separate da quelle delle altre Regioni finitime, e dalle altre – ora – Provincie finitime.

Ma quando si parla di altre nuove Regioni, come il Friuli, il Molise, il Salento, nessuno si scandalizza, mentre quando si parla della Daunia tutti fanno finta di scandalizzarsi.

Eppure voi avete notato l’accento con cui vi ha parlato, poco fa, l’onorevole Rodi; io vi prego di rilevare il mio e di ricordare quello con cui, qualche volta, vi parla l’onorevole Pastore, dai banchi di sinistra. Questi è del barese, io del foggiano, l’altro è del Salento. Tre dialetti distinti, tre accenti distinti e tutti dell’attuale Puglia.

E quando l’Italia meridionale stava sotto l’amministrazione del Governo alleato, quando l’A.M.G. costituì la cosidetta regione meridionale, la ripartì in sei zone con capoluoghi a Napoli, Salerno, Catanzaro, e poi Foggia, Bari, Taranto.

Eppure bastava che l’A.M.G. avesse preso una qualsiasi carta geografica delle scuole elementari, dove esistono le divisioni regionali diversamente colorate, per vedere che la Regione pugliese era una sola. Invece no: è stata divisa in tre zone, con tre capoluoghi: Bari, Foggia, Taranto, perché tre circoscrizioni distinte, tre economie distinte, tre territori distinti.

Noi possiamo concordare con l’onorevole Nitti e con altri colleghi, se ci dicessero di non aver mai inteso parlare di questa Daunia, come richiedente una costituzione regionale. E come e quando si potevano fare di queste richieste, se non in questo nuovo periodo storico, in cui si discute la nuova forma dello Stato, in cui si parla, nella nuova Costituzione, dell’ente Regione? E proprio in questo momento in cui si parla del problema delle autonomie regionali, vien fuori tutto il ricordo, che rappresenta una realtà, dell’abbandono della nostra Provincia, da parte dello Stato accentratore, o da parte del capoluogo dell’attuale nostra Regione, più accentratore ancora dello Stato.

Che cosa, in cambio delle enormi entrate ricavate dallo Stato per la distribuzione del sale prodotto nelle saline di Margherita di Savoia e distribuito in tutta Italia e all’estero, ha dato lo Stato a quella cittadina? Margherita di Savoia ha delle acque salsoiodiche miracolose e lo Stato ha sempre permesso che queste acque madri, sigillate in appositi recipienti, fossero trasportate a Salsomaggiore e Montecatini, ha solo permesso che diventassero regie e governative queste terme di Salsomaggiore e Montecatini, ma non ha mai pensato alla valorizzazione delle terme di Margherita, abbandonandola soltanto nella malaria. Ma oggi queste terme, che io chiamo non terme di Margherita, ma terme del Mezzogiorno, incominciano a funzionare, ed il sogno di tanti e tanti anni di una desolata popolazione è diventato realtà, non per merito dello Stato, ma per volontà di quella Daunia che si vuole ignorare.

E lo stesso dicasi per la produzione del vino e del grano.

S’è sempre pensato a permettere che il famoso vino di Trinitapoli, di San Severo, di Cerignola, fosse mandato in alta Italia per la fabbricazione del vermouth, del marsala; per la sua imbottigliatura in fiaschi con l’etichetta «Chianti» e fosse ritornato in quei luoghi per una vendita a prezzo maggiorato, ma non s’è mai pensato ad incoraggiare in quei luoghi un’industria per la fabbricazione, con quel vino, del marsala e del vermouth.

S’è sempre ricorso alla Daunia, specie negli ultimi anni, per la giuntura del grano fra un raccolto e l’altro, e questa Daunia ha sempre risposto all’appello con il suo prodotto ed il suo lavoro, ma non ha mai pensato lo Stato ad incoraggiare una cultura intensiva di quel suolo tanto fertile e benedetto. Tutto ha dato, ma niente ha ricevuto questa Daunia, sia dallo Stato che dal Capoluogo dell’attuale regione pugliese che ha sempre pensato ad accentrare tutto nel proprio interesse, e la Daunia è rimasta con la sua malaria, con le sue strade indecenti, con i suoi comuni con scarsissime comunicazioni e con case in cui non possono vivere nemmeno le bestie.

Sono questi dei problemi che solo l’ente Regione potrà risolvere, sono questi dei problemi che saranno risoluti solo se la Daunia sarà costituita in Regione.

Potete aver ragione quindi, onorevoli colleghi, se dite di ignorare la Daunia come richiedente un’autonomia regionale, ma non potete asserire di ignorarla, come nome storico, perché basta aprire una qualsiasi enciclopedia, un qualsiasi vocabolario scientifico e cercare quel nome per trovare scritto: «antica regione» (si noti: regione) della Puglia, confinante a nord col fiume Fortore (antico Frento), a sud con l’Ofanto, ad oriente con l’Adriatico, ad occidente con l’Appennino.

Questi limiti sono citati da Plinio e Strabone, e così sono rimasti oggi.

Per opera dei Bizantini, dal 1018, la Daunia venne chiamata Capitanata, appositamente e sempre tenuta staccata dal resto della Apulia che è stata sempre costituita in tre regioni: la Daunia o Capitanata (zona di Foggia) la Pucezia (terra di Bari) ed il Salento (terra di Otranto).

Ed anticamente voi vedete come la Daunia sia stata riconosciuta come regione a sé stante (così, come risulta dagli studi ad hoc fatti dalla Camera di Commercio di Foggia, specie per opera del suo segretario generale dottor Longo), con le molteplici dogane e con la istituzione della Gran Dogana da parte di Alfonso I d’Aragona, con il tribunale della dogana di Foggia con giurisdizione su Aquila, Sulmona, Lanciano, Castellaneta, Taranto, Cosenza; con la Fiera di Foggia, istituita da Federico II; con la Camera Consultiva di Commercio; con cattedre universitarie; con il Senato della Daunia, suprema magistratura, con altre caratteristiche istituzioni che danno prova di una impronta circoscrizionale sui generis.

Ma quanto il suo territorio, quanti gli abitanti? La sua superficie è di chilometri quadrati 7.184.000, e quindi superiore alla Liguria (543.625), all’Umbria (843.668), alle Marche (968.828), alla Lucania (998.731).

La sua popolazione è di 580.870 abitanti (censimento 31.12.42) distribuiti in 60 comuni. Superiore quindi alla Lucania (513.712) e per sei volte più grande della Val d’Aosta, di recente istituzione.

Con regioni antiche, vecchie, nuove ed istituende della nostra Italia, la Daunia può reggere al confronto, anche perché, a differenza delle altre, essa contiene nel suo ambito tutto il desiderabile assortimento di varietà e complementarietà ambientali. Essa infatti ha il mare ed i monti, laghi ed isole, i corsi d’acqua e la grande pianura (il famoso tavoliere), i boschi ed i pascoli; le culture erbacee e le specializzate; gli allevamenti stanziali ed i transumanti; le industrie in atto e quelle in certa prospettiva; le miniere e le saline; le attrazioni turistiche e di commercio; gli scali marittimi delle grandi arterie terrestri che della regione fanno centro di confluenza e di irradiazione di imponenti traffici terrestri.

L’agricoltura è così intensificata, da farla figurare in testa non a gruppi di Provincie, ma addirittura a gruppi di intiere Regioni. Il tempo non ci consente di presentare a voi delle statistiche, ma mettiamo a disposizione degli onorevoli colleghi tutto quanto teniamo a sostegno della nostra tesi, basata su un principio di una sana giustizia.

Che dire delle industrie? Quella vinicola in primo piano e poi quella delle famose saline di Margherita di Savoia, con la produzione del sale, del bromo, del bromuro di potassio e di sodio; le miniere di bauxite, le industrie della carta, delle cave, laterizi e le miniere boschive che non hanno fatto mai punto nella loro ascesa e nella loro perfezione, aiutate tutte dall’impulso dinamico di un ente, che rappresenta il termometro economico della Daunia, e cioè di quella Camera di commercio, con analitici studi che mettiamo a disposizione, ripetiamo, di tutti. E questa Daunia, centro strategico di comunicazioni come è a tutti noto, si appresta, dopo i danni ingenti subiti dalla guerra, ad incrementare e far rifiorire quelle industrie dei trasporti e turistiche, che le daranno una impronta speciale e caratteristica.

Ma se il più rilevante coefficiente da tener presente per il riconoscimento di una nuova Regione è quello riflettente l’autonomia finanziaria, possiamo con sicura coscienza constatare che anche questo coefficiente non manca per il riconoscimento della Regione dauna.

Tenendo presente infatti che i cespiti cui la Regione è prevedibile che possa attingere le sue risorse finanziarie, sia direttamente sia in partecipazione con lo Stato o altri enti, sono le tradizionali fonti imponibili: e cioè i terreni, i fabbricati, redditi passibili di imposta erariale e talune imposte personali, noi abbiamo che i redditi imponibili iscritti nei ruoli 1937, agli effetti dell’imposta sui terreni e sui fabbricati, ammontavano, per la Capitanata, a L. 67.804.360, e quindi a più di quelli risultanti per la intera Calabria (67.446.281); per l’intiero Abruzzo (58.880.884); per tutta l’Umbria (51.719.485); per tutta la Lucania (29.943.783); per tutto il Molise (25.408.848); per tutta la Val d’Aosta (17.534.981). Ed i redditi di solo capitale (categoria A) è quelli industriali e commerciali (categoria B) e quelli professionali (categoria C), iscritti sempre nei ruoli 1937, ammontavano, per la Capitanata, a L. 54.558.702 e quindi a più di quelli risultanti per l’intiera Lucania (32.350.864), per l’intiero Molise (25.465.447), per tutta la Val d’Aosta (43.391.784).

Ma, così come risulta dal resoconto dei lavori della Sottocommissione, la proposta della erezione a Regione della Daunia sarebbe stata approvata, se, oltre alla dimostrazione già offerta dei requisiti di cui sopra, si fosse data la prova della volontà popolare della Capitanata, per l’autonomia regionale della Daunia. Questa prova, che non si è potuta fornire alla Sottocommissione perché non si è fatto in tempo, oggi esiste, così come risulta dalla documentazione inviata a tutti i colleghi di questa Assemblea.

La Camera di commercio con la sua Giunta; la Deputazione provinciale: 58 consigli comunali sui 60 componenti la Daunia; tutti i partiti politici, ivi esistenti, ad eccezione di quello comunista; i dipendenti di enti locali; l’associazione commercianti; agricoltori, artigiani, mutilati ed invalidi; unioni sportive; universitari; sindacati post-telegrafonici; associazioni combattenti, reduci e perseguitati politici; coltivatori diretti; associazione periti industriali, lavoratori del catasto, degli uffici del registro, delle imposte dirette e dipendenti tasse ed affari; ordini dei medici, avvocati e procuratori dei Tribunali di Foggia e Lucera; nucleo ferrovieri: unanimemente hanno invocato, spesso in comizi popolari, il riconoscimento della regione Dauna, inviando telegrammi ad hoc al Capo provvisorio della nostra Repubblica, all’onorevole Presidente di questa Assemblea, all’onorevole Presidente del Consiglio dei Ministri, ed una apposita commissione è stata anche ricevuta, per lo scopo, da S.E. De Nicola e dall’onorevole Presidente del Consiglio.

Se questa è la volontà di tutta una laboriosa popolazione, questa volontà deve trovare eco in questa Assemblea, e la Regione dauna deve essere inserita nell’articolo 123 della nuova Costituzione. (Applausi Congratulazioni).

PRESIDENTE. Il seguito della discussione è rinviato alle 16.

La seduta termina alle 12.10.

MARTEDÌ 3 GIUGNO 1947

ASSEMBLEA COSTITUENTE

CXXXVI.

SEDUTA DI MARTEDÌ 3 GIUGNO 1947

PRESIDENZA DEL PRESIDENTE TERRACINI

INDICE

Congedi:

Presidente                                                                                                        

Sui lavori dell’Assemblea:

Tonello                                                                                                            

Presidente                                                                                                        

Messaggio del Presidente del Governo regionale siciliano:

Presidente                                                                                                        

Progetto di Costituzione della Repubblica italiana (Seguito della discussione):

Presidente                                                                                                        

Colitto                                                                                                             

De Vita                                                                                                             

Assennato                                                                                                        

Abozzi                                                                                                               

Bubbio                                                                                                              

La seduta comincia alle 16.

RICCIO, Segretario, legge il processo verbale della precedente seduta pomeridiana.

(È approvato).

Congedi.

PRESIDENTE. Comunico che hanno chiesto congedo i deputati Persico, Mastino Pietro e Pignatari.

(Sono concessi).

Sai lavori dell’Assemblea.

TONELLO. Chiedo di parlare.

PRESIDENTE. Ne ha facoltà.

TONELLO. Onorevole Presidente, abbiamo ancora poche settimane di tempo e i nostri lavori prendono una piega sempre più lunga ed estenuante, con tutti questi discorsi che dureranno ancora chissà quanto. Avremmo piacere di uscire da questo stato d’incertezza: vi sarà proroga od il 24 giugno la Costituente cesserà i proprî lavori? Vorremmo sapere qualche cosa, signor Presidente.

PRESIDENTE. Sarebbe piacere e dovere per noi sapere; ma è certo che non passerà molto tempo per poter rispondere alla domanda dell’onorevole Tonello. Importante è, intanto, che per i nostri lavori ci sia concretezza.

Messaggio del Presidente del Governo regionale siciliano.

PRESIDENTE. Comunico che il Presidente del Governo regionale siciliano mi ha fatto pervenire il seguente messaggio:

«A nome mio e del Governo regionale saluto nell’Assemblea Costituente da lei presieduta l’Italia rinnovata nei suoi ordinamenti nella volontà di garantire la libertà riconquistata nella fiducia verso l’Isola che inizia con l’antico senso unitario la sua autonomia».

Ho risposto col seguente telegramma:

«A nome dell’Assemblea Costituente ricambio il saluto che per suo mezzo il primo Governo regionale della Sicilia ha inviato alla Rappresentanza nazionale all’inizio del suo lavoro che auguro fecondo per il bene dell’Isola italianissima e per il migliore avvenire della Patria».

Seguito della discussione del progetto di Costituzione della Repubblica italiana.

PRESIDENTE. L’ordine del giorno reca il seguito della discussione del progetto di Costituzione della Repubblica italiana. Riprendiamo la discussione generale sul Titolo V, relativo alla Regione. Gli iscritti a parlare sono saliti a novantuno.

È iscritto a parlare l’onorevole Colitto. Ne ha facoltà.

COLITTO. Insigne Presidente, onorevoli colleghi, io non credo di ingannarmi se affermo che gli oratori i quali prima di me, con competenza e con dottrina, hanno sottoposto al loro illuminato esame l’organizzazione politico-amministrativa dello Stato, si sono trovati d’accordo nel riconoscere la necessità di un maggiore decentramento, cioè a dire di un maggiore spostamento delle potestà deliberative dal centro alla periferia.

È intollerabile – si è giustamente detto – che per qualunque cosa si debbano chiedere lumi al centro: la periferia deve avere pur essa il senso della propria dignità, il senso della propria responsabilità. La periferia, del resto, è senza dubbio assai più del centro in grado di vedere quali soluzioni siano più adeguate ai vari problemi, nessuno potendo negare che meglio i problemi sono trattati e risolti da chi meglio li conosce. Il centro è sempre apparso un po’ a tutti come una pompa assorbente delle energie locali, strumento deformatone delle varie questioni in un viluppo burocratico paralizzatore. Trasferendo le potestà deliberative, nel miglior modo possibile, dal centro alla periferia, si rendono anche più facili la educazione politica delle masse e la formazione di una nuova classe dirigente, e può aver luogo altresì una migliore utilizzazione degli ingegni, delle energie, delle personalità: si compie, insomma, opera squisitamente democratica. Di qui la necessità, da tutti sentita ed affermata, di spezzare le bardature del centralismo e di fare maggiore affidamento sulle forze locali.

Ma in qual modo?

A questo interrogativo il progetto di Costituzione, che costituisce indubbiamente una elaborazione di notevole rilievo, risponde che, se vogliamo veramente spezzare le bardature del centralismo, bisogna intensificare il decentramento burocratico, intensificare il decentramento autarchico, attuare un decentramento politico.

Avviciniamoci, onorevoli Colleghi, al progetto di Costituzione. Noi leggeremo in esso una più precisa risposta alla mia domanda. In qual modo? Il progetto risponde che, se si vuole spezzare le bardature del centralismo, bisogna: 1) attuare nei servizi, che dipendono dallo Stato, un ampio decentramento amministrativo, a seguito di che le provincie diventeranno circoscrizioni amministrative appunto di decentramento statale; 2) riconoscere e promuovere le autonomie locali, per cui lo Stato si dividerà in comuni, enti autonomi «nell’ambito dei principii fissati dalle leggi generali della Repubblica» ed in enti che ci vengono presentati con grande precisione scientifica, quali enti autarchici autonomi, rappresentativi degli interessi locali, dotati di autonomia finanziaria.

Nulla ora, onorevoli colleghi, da obiettare relativamente al proposito di intensificare il decentramento gerarchico o burocratico. Si porti pure quanto più è possibile, come si diceva una volta, il Governo alla porta degli amministrati. I miei rilievi attengono alla nuova organizzazione politico-amministrativa che si vorrebbe dare alla periferia del Paese.

Prima osservazione. Il progetto di Costituzione – come ho già detto – mira alla creazione di un ente, che si chiama Regione, ma contemporaneamente distrugge l’ente che si chiama provincia.

Ora a me pare evidente che, se, a seguito della costituzione delle Regioni, dovranno essere trasportati nel capoluogo della stessa tutti, o in gran parte, gli attuali uffici provinciali, si attuerà una forma non di decentramento, ma di accentramento, con inconvenienti che è superfluo indicare. A ciò solo in parte si ovvierebbe facendo della provincia una circoscrizione amministrativa di decentramento, non solo statale ma anche regionale, perché non è a dubitare che innumeri pratiche, che attualmente possono essere disbrigate nel capoluogo della provincia, cioè alla periferia, dovrebbero essere disbrigate, una volta costituite le Regioni, nel capoluogo della Regione, cioè al centro. L’articolo 120 del progetto dispone che «la Regione esercita normalmente le sue funzioni amministrative a mezzo di uffici nelle circoscrizioni provinciali». «Normalmente» dunque. Restano le eccezioni. Ora per queste almeno non parmi dubbio che bisogna nella proposta riforma vedere la fonte – sembra strano, ma è così – non di un decentramento, ma di un accentramento, che da tutti gli interessati – è inutile sottolinearlo – sarebbe quanto mai deprecato.

Seconda osservazione. La Regione ci viene presentata come un ente autarchico. Si vuole evidentemente con essa realizzare quella forma di decentramento amministrativo che va appunto sotto il nome di decentramento autarchico. Ma dire autarchia senza precisare il campo in cui essa si manifesta ed opera, è come parlare di un contenente senza specificare il contenuto.

Ora, io sono profondamente convinto che nel pensiero dei redattori del progetto è il proposito, creando la Regione, di dar vita ad un ente il quale alla periferia svolga una rilevante attività autonoma nel campo economico sociale.

Un ente, che non avesse la possibilità di svolgere una rilevante attività politico-amministrativa autonoma, proprio non avrebbe ragione di essere. Potrò, ora, essere in errore ma io vedo enormemente limitate, per le Regioni, le possibilità pratiche di una attività rilevante, che sia veramente autonoma, nel campo economico-sociale.

I più importanti lavori pubblici, infatti, ed i più importanti servizi pubblici non possono, soprattutto nelle attuali condizioni d’Italia, essere compiuti o gestiti se non secondo piani nazionali e non con vedute limitate a singole Regioni.

Già l’onorevole Einaudi, in una delle scorse sedute, fece rilievi importantissimi, dimostrando come sia assurdo lasciare alla ristretta attività amministrativa delle Regioni affidate l’agricoltura, le foreste, le acque pubbliche, l’energia elettrica. Alle parole dell’illustre uomo desidero aggiungere qualche cosa. L’aggiungerò a proposito delle strade. Voi sapete come nel campo delle opere pubbliche le strade, nelle amministrazioni provinciali, avevano una importanza preminente. Può dirsi, anzi, che il campo delle strade era il più vasto dell’attività provinciale. Ma tale importanza ebbe a diminuire allorquando, con la legge 17 maggio 1928, n. 1094, ebbe luogo l’istituzione dell’Azienda autonoma statale della strada, per cui molte delle strade, che prima erano provinciali, passarono allo Stato ed altre, di secondaria importanza, ai comuni.

Ci troviamo di fronte ad un’altra forma di decentramento, il decentramento istituzionale, che si ha, come è noto, quando si dà vita ad enti (parastatali) e ad aziende per la gestione di servizi di portata nazionale che diversamente sarebbero gestiti dallo Stato.

Bisogna resistere contro il moltiplicarsi di tali enti, a questa specie di entomania, che non possiamo negare ci sia; bisogna resistere, perché…

RUINI, Presidente della Commissione per la Costituzione. È ottima l’Azienda della strada!

COLITTO. E chi ne dubita? Mi lasci dire… perché ci troviamo spesso di fronte a false attuazioni di decentramento.

RUINI, Presidente della Commissione per la Costituzione. No, l’Azienda della strada è ottima.

COLITTO. D’accordo. Lo sto dicendo. Vi sono, infatti, dei casi in cui è necessario dar vita ad aziende o ad enti di estensione nazionale per la gestione di determinati servizi.

Quale conseguenza intendo trarre da ciò? Questa: che l’istituzione dell’ente Regione non può né sostituire né ridurre di molto il ricorso al decentramento istituzionale su basi nazionali. Si può essere certi, ad esempio, che, se alcune strade, passate allo Stato, dovessero essere attribuite alla Regione, si verificherebbe per esse un sicuro peggioramento. Ed anche nei casi in cui, per la natura specifica dell’opera, questa può essere limitata ad una Regione (ad esempio in materia di bonifiche), ben poco potrà farsi senza l’intervento economico e disciplinatore dello Stato.

UBERTI. E perché? Se ne ha i mezzi.

COLITTO. L’onorevole Uberti deve avere la bontà di seguirmi, perché…

RUINI, Presidente della Commissione per la Costituzione. Ha torto l’onorevole Uberti.

COLITTO. …perché egli già si vuole occupare nella Regione quale ente dotato di una autonomia finanziaria. Non mancherò di occuparmene. Abbia la bontà di seguirmi.

Io non starò qui, signori, a ripetere quel che di solito in modo generico si afferma e cioè che per lo sviluppo ed il progresso delle attività economiche occorrono il più ampio respiro e la più vasta zona di espansione; io guardo, invece, alla realtà palpitante, e questa mi dice che, specie nell’attuale situazione dell’Italia, la Regione non può prescindere da organizzazioni economico-amministrative di opere pubbliche e di pubblici servizi di portata nazionale. Qualora se ne prescindesse, molte Regioni subirebbero un sicuro regresso: certo che si accentuerebbe la distanza nel campo economico e nel campo sociale attualmente esistente fra Regione e Regione.

Ora, se questo è, bisogna riconoscere che in sostanza i compiti amministrativi della Regione, quali sono indicati negli articoli 109 e 110 del progetto, richiamati dal successivo articolo 112, non sono e non possono essere più estesi, né più efficienti, di quelli che attualmente sono assegnati all’ente provincia dal testo unico del 1925 e da altre leggi speciali. E vale allora la pena di sopprimere la provincia per creare la Regione? Per me proprio non ne vale la pena, se nel campo amministrativo i poteri dell’una non sono, non possono essere, su per giù, che i poteri dell’altra.

Terza osservazione. La situazione, onorevoli colleghi, si complica, se all’Assemblea, alla quale ho l’onore di parlare, parrà opportuno accogliere il grido di dolore che si leva da ogni parte d’Italia per le provincie, accogliere il voto, che da tutte le provincie d’Italia si è levato, che nel nuovo ordinamento della Repubblica italiana sia conservata la provincia quale ente autarchico.

Parliamo con franchezza. Se si vuole creare l’ente Regione, bisognerebbe abolire l’ente provincia. È noto che il provvedimento col quale venne estesa al territorio nazionale la legge Rattazzi del 1859, a seguito di che l’Italia fu coperta, d’improvviso, dalla veste amministrativa delle provincie, ebbe questo significato storico: segnare – respingendo i progetti regionalistici – la conversione di un problema politico (quello del vecchio federalismo) in un problema amministrativo.

Si vuole ora operare la conversione del problema amministrativo in problema politico ed istituire le Regioni? Allora bisogna sopprimere la provincia.

Ma chi avrà questo coraggio? Chi saprà resistere alle sollecitazioni, alle premure e – sarei per dire – alle minacce che ci vengono da ogni parte d’Italia?

Ho qui sotto gli occhi un ordine del giorno del Sindacato dipendenti di una Amministrazione provinciale. Sentite. Si legge in esso: «Solo chi non conosce la vita e l’attività che esplica questa Amministrazione provinciale può pensare alla sua soppressione. Pensate, onorevoli costituenti, ciò che avvenne a Caserta, quando il regime, che ancora dominava la nostra Patria, abolì quella provincia. Oltre che chiudersi in lutto, i cittadini di quel capoluogo bruciarono gli emblemi del fascismo e ne maledirono il capo!» (Commenti).

Nessuno di noi, penso, vorrà essere oggetto di maledizioni né essere bruciato neppure in effigie. Anche perché, onorevoli colleghi, bisogna riconoscere due cose: che la provincia, la quale ha ormai un secolo quasi di vita, è stata, bene o male, un elemento essenziale della nostra organizzazione amministrativa e politica, e che fra le provincie esistono ormai tali differenze, per cui non è opportuno che ne siano soppressi i confini.

Resti pure, quindi, la provincia.

Ma allora? Quali compiti alla Regione, ente autarchico, saranno assegnati, distinti e diversi dai compiti, che ha o che saranno assegnati alla provincia, ente autarchico?

All’interrogativo il progetto di Costituzione naturalmente non risponde, perché il progetto è stato redatto sul presupposto della scomparsa della provincia quale ente autarchico.

Nella relazione elaboratissima dell’onorevole Ruini sono scritte queste parole: «Il comune, unità primordiale, la Regione zona intermedia e indispensabile fra la Nazione e i comuni». E non so, per la verità, quale risposta potrà dare la Commissione allorquando si porrà il problema. A mio modesto avviso, potrà rispondere in un solo modo. Questo. Se si vuole conservare l’ente provincia come ente autarchico non è possibile dar vita alla Regione. La Commissione, che è formata di insigni e sottili giuristi, non può dimenticare che l’imperativo per eccellenza in questa materia è di evitare la moltiplicazione degli enti, perché una delle maggiori calamità, in materia di riforme, è il sistema, per dirla con una vecchia formula filosofica, dell’ente che crea l’interesse e la funzione, invece di essere esso il prodotto della accertata esistenza di interessi concreti e definiti. Questi interessi concreti e definiti mancano. Niente Regioni, quindi, restando la provincia. Se al di sopra della provincia fosse posta la Regione, si avrebbe una nuova moltiplicazione di burocrazia nella Regione, senza diminuzione della centrale, e la funzione politico-amministrativa del Governo regionale sarebbe senza dubbio sentita e giudicata dagli appartenenti alla Regione solo come un inutile, un opaco, un ritardatore diaframma frapposto lungo la via già lenta ed interminabile delle pratiche amministrative.

Quarta osservazione. La Regione ci viene presentata oltre che quale ente autarchico, anche quale ente autonomo. Quando parliamo di autonomia ci poniamo senz’altro nel campo normativo, perché l’autonomia è, come è noto, la facoltà che alcuni enti hanno di organizzarsi giuridicamente e di crearsi un proprio diritto.

A proposito dell’autonomia regionale io non devo fare altro che riallacciarmi a quello che ho detto considerando la Regione come ente autarchico. Ho rilevato innanzi che l’attività amministrativa regionale non può non essere in massima parte collegata con le organizzazioni nazionali di pubbliche opere e di pubblici servizi. Che cosa da ciò deriva? Deriva che anche in quelle materie, nelle quali potranno attribuirsi compiti amministrativi propri alla Regione, non vi è possibilità di una attività legislativa, che non sia collegata con l’attività legislativa dello Stato. L’onorevole Ruini scrive nella sua relazione che «il campo lasciato alla legislazione regionale è per ogni aspetto vigilato e contenuto». Io dico che addirittura non vi è possibilità di un’attività legislativa, che non sia collegata con l’attività legislativa dello Stato. E, se questo si afferma per le materie nelle quali possono attribuirsi compiti amministrativi propri alle Regioni, che cosa bisogna dire per la materia di carattere generale, che normalmente forma oggetto di disciplina legislativa? Tutta l’autonomia della Regione si riduce così a poco più di una facoltà regolamentare. Dirò di più. Per alcune materie forse neanche una potestà regolamentare può essere consentita. L’onorevole Einaudi nei giorni scorsi vi ha parlato di questa impossibilità per la disciplina del credito, dell’assicurazione e del risparmio. Io mi permetto di richiamare la vostra attenzione, a questo proposito, sull’igiene e sulla sanità pubblica. L’argomento, voi lo sapete, va collegato col riordinamento, che s’impone, di tutto il nostro sistema di amministrazione sanitaria. Vi è la grave questione della organizzazione delle mutue e del loro coordinamento con l’istituto della condotta medica. È noto come, in periodo fascista, il sistema delle mutue produsse moltiplicazioni di spese, eccessiva burocrazia e scarsa soddisfazione degli assistiti. Il problema continua ad esistere e nessuno si può illudere di sopprimerlo con dei tratti di penna. D’altra parte, da decenni i comuni reclamano per le proprie finanze un alleggerimento delle spese di sanità e di spedalità. Siamo anche qui di fronte a un complesso di problemi, che si collegano ad esigenze di riorganizzazione generale di un ramo della pubblica amministrazione. Ed allora come possono le Regioni, ciascuna per conto suo, dettare in materia norme, sia pure soltanto, per ripetere le parole dell’articolo 111 del progetto, di integrazione e di attuazione? Non basta. Da un lato questa autonomia si riduce a una ristretta potestà regolamentare, e dall’altro questa potestà regolamentare può dar vita ad inconvenienti, che non bisogna sottovalutare. Ecco. Io sono perfettamente convinto che, pure essendo ristretto il campo di azione, la produzione legislativa sarà abbondantissima.

Una volta costituiti gli organismi regionali con i relativi parlamenti, essi saranno fatalmente portati a moltiplicare le leggi, a regolare di nuovo con norme speciali quello che al centro è stato regolato con norme generali, a disciplinare a modo proprio al sud quello che è stato disciplinato a modo proprio al nord, a fare a Campobasso quello che è stato fatto a Benevento, anche non essendovene bisogno.

Ora vi è un’esigenza molto modesta, ma molto sentita non solo e non tanto dagli uomini di legge, quanto dall’uomo comune, dal professionista, dal commerciante, dall’industriale. L’esigenza è questa: ridurre al minimo possibile le disposizioni legislative, porre un argine alla farragine delle leggi, evitare il sistema – per dirla con Dante – «dei troppo sottili provvedimenti», per cui «a mezzo novembre non giunge quel che tu di ottobre fili».

È perciò che tante volte si è parlato di snellezza nelle future legislazioni regionali. Io non lo credo. Sono profondamente convinto invece, che si accresceranno i mali che si vorrebbero evitare. Si avrà, a mio avviso, un prolisso farraginoso complesso di norme, che può anche avere i suoi riflessi negativi sulla formazione di una coscienza giuridica nazionale, di quella coscienza la quale, come senso della legalità, dell’altezza e della maestà della legge, è forse il solo fondamento di una vera educazione politica (Approvazioni a destra).

Quinta osservazione. L’ente Regione ci viene presentato anche come rappresentativo, su basi elettive, degli interessi locali.

Per questo il progetto di Costituzione prevede la formazione, su basi elettive, di un Consiglio regionale in ogni Regione.

Avremo, quindi, in Italia, tutta una serie di piccoli parlamenti. E, poiché il sistema elettorale è quello proporzionalistico, si verificherà, in dimensioni più ridotte, in ciascuno di essi, quanto si verifica nella nostra così ben costrutta Assemblea. Ne risulterà una carta geografica dell’Italia, nella quale le varie regioni appariranno con colorazioni diverse e con le più varie gradazioni di colori. Io non dico che questo è un male: può essere anche un bene. Perché, per esempio, se in un parlamento regionale si avrà la prevalenza d’un partito più accentuata di quella che si abbia nell’assemblea nazionale, potranno essere evitati di più gli equivoci, potrà farsi di meno ricorso ai compromessi. Ma non è questo, o colleghi, il punto che interessa. Non è il funzionamento interno dei parlamenti regionali quello che interessa. Quello che interessa è vedere quale peso ciascun parlamento regionale avrà sul governo centrale, ed accertare fino a qual punto il governo centrale potrà realizzare l’armonia fra le azioni e le richieste delle varie Regioni, nell’interesse superiore, economico e morale, della Nazione.

Troppe sono presentemente le cause che possono spingere le Regioni ad esacerbare le loro gelosie, le loro invidie, i loro egoismi, e, quindi, a combattersi fra di loro e, persino, a rivoltarsi contro lo Stato. Ora chi può con coscienza, parlando col cuore alla mano, dire la parola definitiva, la parola che non ammette dubbi, che non lascia perplessità?

Sesta osservazione. La Regione ci viene indicata anche, finalmente, come ente dotato di «autonomia finanziaria».

Autonomia finanziaria? Si domanda lo insigne onorevole Ruini. E subito aggiunge che «non è agevole a congegnarsi». Cinque parole, Signori, e non proprio di colore oscuro.

Ora per me basterebbero queste cinque parole a fare fermare tutti sulla soglia del regionalismo, pieni di dubbi e di perplessità.

A questo proposito giova rileggere l’articolo 113. L’articolo 113 è redatto così: «Alle Regioni sono assegnati tributi propri e quote di tributi erariali». Ma in che modo saranno assegnate queste quote di tributi erariali?

AMBROSINI. Mediante une legge costituzionale, alla quale il progetto rinvia.

COLITTO. È esatto. Ma l’articolo 113 determina così «il modo». Dispone: «in modo che le Regioni meno provviste di mezzi possano provvedere alle spese necessarie per adempiere alle loro funzioni essenziali».

Ah no, signori!

Le regioni vogliono non soltanto vivere, non soltanto vegetare, ma progredire.

Con questa norma le Regioni povere resteranno eternamente povere e quelle che sono state in passato neglette, o si considerano neglette, resteranno in eterno abbandonate e neglette. Ah no! Le zone neglette e povere protestano e si ribellano. Niente Regioni! Ma come? In un momento nel quale si stanno rivedendo valori e posizioni, invece di restare ed affermarci più che mai al centro della vita nazionale, con tutta la forza del nostro diritto, per ottenere alfine dallo Stato quanto è necessario per risollevarci, noi tranquillamente ci ritiriamo, per così dire, sotto la tenda? Nel momento in cui noi poniamo allo Stato il nostro problema di vita, quando è giunto il momento in cui sembra che lo Stato voglia impegnarsi a fondo a vantaggio nostro, vogliamo allora noi tirarci in disparte? Questa è follia! E ci dovremmo tirare in disparte non solo per non avere nulla, ma unicamente per prepararci a subire nuovi oneri finanziari? Perché questa è la sola cosa certa, signori, che, con la costituzione delle Regioni aumenteranno gli oneri finanziari non fosse altro che per provvedere ai nuovi organi e servizi regionali. Non so quanti milioni si sono spesi solo per impiantare il parlamento siciliano. Chi pagherà allegramente questi milioni?

Settima osservazione. Come vedete, io non ho sottolineato per affatto le esigenze di alta idealità, cui hanno fatto appello altri oratori in questa Assemblea. Perché sono anche io profondamente convinto che gli Italiani hanno il culto della Patria una e indivisibile, quale ci fu tramandata dai nostri padri, e tale culto è nelle nostre coscienze e non nelle circoscrizioni territoriali. Io penso, anzi – ed in questo aderisco a quanto diceva l’onorevole Cicerone, parlando della Sicilia – che, se le Regioni di confine, a popolazione mista, non fossero state offese da forme esasperate di centralismo, e si fossero, invece, ad esse accordate autonomie, comprendenti la facoltà di legiferare su materie di interesse locale, molti dei problemi più gravi della rinascita e della vita italiana, quelli delle nostre frontiere, non esisterebbero o non sarebbero almeno posti con la gravità con cui sono posti. I separatismi locali non devono essere combattuti con forme, sia pure attenuate, di accentramento. Lo debbono essere, invece, con intelligenti concessioni, facendo alle aspirazioni locali per quanto più è possibile buon viso, perché, in tal caso, una volta sodisfatte quelle aspirazioni, i movimenti disgregatori non avrebbero più seguito nelle popolazioni, e l’integrità del Paese ne risulterebbe fortemente rinsaldata. Non bisogna, però, esagerare sottovalutando certi rilievi. In un quadro di interdipendenza e di solidarietà nazionale è proprio da escludere nel modo più assoluto che il sentimento unitario non sarà destinato ad affievolirsi, ove ciascuna Regione si proponga, in certo senso, di isolarsi? Una volta costituite le Regioni è assolutamente da escludersi che esse non si disarticoleranno da quello che è l’organismo nazionale, cui sono fisiologicamente incorporate, spezzandosi quella tradizione unitaria che vanta quattro secoli di storia, quanti ne corrono da Niccolò Machiavelli ai nostri giorni? È da escludere nella maniera più assoluta? Io posso anche dire di sì. Ma l’interrogativo resta, ed è un tremendo, pauroso interrogativo. Perché, o colleghi, è evidente che il giorno in cui la unità della Patria, da cui dipendono la sua indipendenza e la libertà dei cittadini, si perdesse di vista, si convertirebbero, senz’altro, in strumenti di disgregazione e di tirannia quelli che oggi noi vogliamo foggiare come strumenti di democrazia e di libertà.

Bisogna, a mio avviso, procedere a gradi con cautela, con prudenza, con circospezione. «Trattasi – si legge nella relazione – di una innovazione, che può avere portata decisiva per la storia del Paese». Il problema è quindi delicatissimo. La sua soluzione, perciò, va graduata nel tempo, perché siano evitate scosse ad un Paese che esce da un periodo quasi secolare di vigoroso centralismo. Esso esige, da parte di tutti gli uomini responsabili, nervi a posto, fantasia imbrigliata, serietà, lealtà, misura. Tutto quello che si deve fare deve poggiare su basi solide ed essere ordinato in modo che sorga sano, proceda vigoroso, si affermi perfetto.

Ma non vi è già in Italia una Regione, la quale è un ente autonomo, autarchico, rappresentante su basi elettive degli interessi locali e dotato di autonomia finanziaria: la Sicilia? Perché non possiamo ora noi attendere questo esperimento siciliano prima di estendere a tutto il territorio nazionale l’ordinamento regionale? Voi saprete bene che vi fu un periodo (il periodo romano, in cui l’Italia era un’unità politica) in cui alla Sicilia fu assegnato uno stato giuridico speciale. Ebbene quello stato giuridico speciale fu causa per la Sicilia di decadenza politica, di immiserimento, di corruzione. Certo, il passato non è il presente ed il presente non è l’avvenire. Ma perché, se questo ci dice il passato, non dovremmo attendere l’esito dello esperimento? Da esso potrebbe venir fuori tanto materiale di critica e di condanna da sconcertare, e definitivamente, ogni più acceso regionalista.

Questo è a dire sopratutto dopo le critiche impressionanti che l’onorevole Einaudi ebbe a fare nei giorni scorsi agli articoli 36, 38 e 40 dello Statuto siciliano. Mi dispiace che tocchi proprio alla Sicilia, che è stata tanto provata, di fare le spese di questo esperimento. Ma poiché il destino ha voluto così, attendiamo che l’esperimento sia fatto. Ne verranno certamente benefici per la verità e per la comunità degli uomini.

Onorevoli colleghi, ho parlato con la maggiore serenità, facendomi guidare soltanto della mia coscienza e del vivo desiderio di non recare danno al Paese, che mi ha dato l’onore di entrare in questa insigne Assemblea.

Io sono del Molise, ed il Molise trovasi indubbiamente tra le Regioni d’Italia in una condizione particolare. Con i suoi poggi ridenti, la chiarità luminosa del cielo, le sue strade, che corrono sui tracciati romani, coi profili corrucciati dei suoi vecchi castelli, con i suoi abitanti tenacemente laboriosi, il Molise è il Molise, cioè a dire una entità a sé stante, separata e distinta dalle altre: separata e distinta dagli Abruzzi, così come gli Abruzzi hanno lealmente e signorilmente riconosciuto; separata e distinta dalla provincia di Benevento, come nel loro intimo non possono non riconoscere i colleghi di quella industre terra, e dalla provincia di Avellino, come esplicitamente risulta dagli emendamenti proposti dai rappresentanti della verde Irpinia. Tale è stata riconosciuta anche di recente, allorquando è stata costituita la unione interregionale delle Camere di commercio per la Campania e il Molise, quando fu costituito il compartimento della viabilità per la Campania e per il Molise, quando la direzione centrale dell’Istituto di assistenza per le malattie dei lavoratori e la Commissione centrale dell’industria hanno voluto che il Molise avesse i propri rappresentanti. Può questa unità costituire una Regione? Noi abbiamo indicato alla Commissione ragioni a iosa per giustificare il nostro assunto, ed altre ragioni potremo indicare, per le quali una Regione potrebbe il Molise costituire. E, se il progetto sarà approvato dall’Assemblea, noi insisteremo con tutte le nostre forze, perché il Molise costituisca come una stella nella costellazione regionale italiana. Ma è l’attuazione di questo ordinamento, con le sue incognite preoccupanti e pericolose, che mi turba non poco. E perciò ho parlato come ho parlato. Che debbo dire, concludendo? Dico all’Assemblea che Iddio illumini le menti di tutti nel momento in cui bisognerà prendere la decisione. Che questa sia, in ogni caso, non solo per il Molise ma per tutte le terre d’Italia, il punto di partenza di un avvenire più luminoso; non solo per il Molise, ma per tutte le terre d’Italia, sia il lievito particolarmente fecondo di migliore destino. (Applausi a destra Congratulazioni).

PRESIDENTE. È iscritto a parlare l’onorevole De Vita. Ne ha facoltà.

DE VITA. Onorevoli colleghi, è stato affermato da precedenti oratori che una tradizione regionalistica in Italia non esiste. Ciò non è esatto.

Il problema regionale in Italia non è nuovo: sorse all’epoca stessa dell’inizio del nostro Risorgimento. Tra la tendenza federale e la tendenza unitaria è prevalsa quest’ultima soltanto perché un tardo, discontinuo e confuso risveglio dell’idea unitaria portò a concepire sub specie dell’intera penisola il Risorgimento nazionale, confinando la tendenza federale fra le grette ubbie, con lo sprezzante nome di «regionalismo». Ma è davvero così spregevole questo regionalismo, o non è piuttosto un elemento naturale delle società complesse, sul quale meglio varrebbe contare, anziché sormontarlo con una unità equivoca e confusionaria, per mantenere la quale spesso si è costretti a ricorrere allo stesso artificio dell’assolutismo?

Per aver dovuto profittare di circostanze casuali e di forze favorevoli interne con troppa fretta, il Risorgimento nazionale è stato dominato da un grosso equivoco, dall’equivoco dello Stato unitario accentratore. Spesso si sostiene, erroneamente, che la tendenza regionalistica è nata per l’immaturità dell’idea unitaria. Non l’immaturità dell’idea unitaria fece fiorire nella prima fase della nostra vita nazionale la tendenza regionale, né l’indebolimento dello stato unitario l’ha fatta rivivere in questi ultimi anni; ma allora, come oggi, una più cocente aspirazione alle libertà civili, una più ansiosa ricerca dei presidi per difenderle sotto la pressione di sofferenze patite.

A chi ritiene che noi repubblicani vogliamo apportare innovazioni così profonde nella struttura dello Stato perché abbiamo una tradizione di partito da difendere, perché vogliamo ancora fare della letteratura romantica, perché abbiamo ancora una mentalità quarantottesca, è facile rispondere che in Italia – e non è una scoperta! – in Italia lo Stato accentratore ha fatto una pessima prova.

La mentalità centralistica, plasmata da una congerie di interessi particolari, che s’erano cristallizzati attorno alla metropoli che esauriva lo Stato, ha procurato alla vita politica e sociale dell’Italia inconvenienti molteplici. Interessi malsani vennero ad assorbire non poca parte dell’attività della rappresentanza nazionale, falsando la vita politica e l’indirizzo stesso dell’amministrazione dello Stato. La nostra sistematica sfiducia nel regime unitario accentratore non è, quindi, una pregiudiziale aprioristica o arbitraria, ma una irrefutabile conclusionale, che poggia sopra una verità di fatto che deve imporsi ad ogni intelletto sincero, in quanto ha la evidenza della prova compiuta. Ecco perché noi riteniamo che il tanto disprezzato regionalismo debba essere rivalutato e posto per la prima volta tra gli elementi componenti la nostra Costituzione.

Ogni Regione – il concetto è del nostro grande maestro Carlo Cattaneo – può avere molti interessi da trattare in comune con le altre Regioni; ma vi sono interessi che può trattare essa sola, perché essa sola li sente, perché essa sola li intende; e vi è inoltre in ogni popolo delle singole Regioni la coscienza del suo essere, la superbia del suo nome ed anche la gelosia della sua terra. Di qui il diritto regionale che deve essere posto accanto al diritto della Nazione, accanto al diritto dell’umanità.

Oltre al fine di perequare meglio per tutto il territorio nazionale i beni comuni, intesa l’espressione in senso lato, non ultimo fine della Regione è appunto quello di diffondere i benefici della civiltà non alle sole città tentacolari, ma anche alle campagne e alle montagne.

Ma coloro i quali ritengono che il problema regionale possa risolversi col decentramento amministrativo sono, a mio avviso, vittime di una illusione. La soluzione regionale in senso amministrativo non risolve praticamente il problema essenziale dei compiti e delle attribuzioni dello Stato; il suo difetto fondamentale sta nel fatto che, invece di supporre uno Stato nuovo e diverso, implica la riforma dello Stato esistente, mantenendone intatta la struttura.

Un organismo regionale puramente governativo, per quanto precise possano essere le norme con le quali si vuole assicurarne l’autonomia, finisce sempre per trasformarsi in un semplice e docile strumento del potere centrale, in un nuovo ingranaggio di trasmissioni che serve soltanto nel maggior numero dei casi a rendere ancora meno spedita e redditizia la già pesantissima macchina burocratica.

Si è sentito parlare sempre di decentramento; ma, dai provvedimenti finora adottati, non si è visto, in ultima analisi, sortire altro effetto che quello di portare alla creazione di un nuovo organo, con conseguente duplicazione di funzioni e aggravio di lavoro presso il corrispondente organo centrale.

Allorquando, con leggi speciali, si è creduto di decentrare certi rami della pubblica amministrazione e di venire così incontro ad esigenze particolari di determinate zone territoriali, la burocrazia centrale, in definitiva, sotto veste di invigilare, di coordinare, di disciplinare, ha finito sempre per inceppare, per impedire ogni libera iniziativa degli uffici, riuscendo sempre, attraverso successive stratificazioni burocratiche, ad ingigantire il suo potere.

Se vogliamo dunque che la Regione abbia una funzione veramente vitale in seno alla Nazione e serva soprattutto a correggere il sentimento più diffuso in Italia: l’avversione al Governo, occorre concepire questa riforma come la valorizzazione delle migliori forze regionali attraverso un nuovo rapporto con lo Stato; occorre dare alla Regione la potestà di legiferare in tutte quelle materie che rientrano nella sua amministrazione, in tutte quelle materie che riguardano il suo territorio.

Mentre la soluzione propugnata da alcuni partiti, che potrei chiamare «centralista», parte dal centro dello Stato, da dove si diffonde verso la periferia, la soluzione da noi propugnata parte dal Comune autonomo per passare alla Regione e quindi allo Stato. La Regione dovrebbe entrare nel nuovo ordinamento politico ed amministrativo come un ente avente caratteristiche, funzioni e diritti propri. Non ci dovrebbe essere un ordinamento regionale unico per tutte le Regioni, con gli stessi organi, le stesse funzioni. Fissati i limiti dell’azione dello Stato e i diritti che devono essere salvaguardati e tutelati dalle singole legislazioni regionali, dovrebbe restare compito esclusivo della Regione il modo di raggrupparsi e di governarsi. In tal modo le energie locali e quelle regionali in ispecie sarebbero valorizzate attraverso una nuova sintesi, attraverso nuovi rapporti con lo Stato, inteso come unità nazionale. In altri termini, non basta che si formi un ente chiamato Regione; occorre dargli anima e vitalità, perché diventi uno strumento di lavoro e di progresso nella vita regionale; occorre organizzare la Regione in modo che possa provvedere da sé, con i propri mezzi, al sodisfacimento dei propri bisogni.

L’onorevole Colitto ha fatto un’osservazione; egli ha detto: «Si crea la Regione e si abolisce la Provincia; ma così non si decentra, così si accentra».

È ovvio, onorevole Colitto; ma noi non desideriamo che la Provincia sia mantenuta. La Provincia deve essere abolita: soltanto così noi possiamo veramente decentrare.

Atterrisce la struttura federalistica dello Stato italiano, per la possibile disgregazione della tanto faticosamente raggiunta unità nazionale. Ma coloro che temono questa possibilità dimenticano che l’aspirazione ad una più libera vita regionale, sciolta dai troppo opprimenti vincoli accentratori, non ha alcuna manifestazione di separatismo antiunitario. Trattasi soltanto di aspirazione a sentirsi diversi nella Patria una. La mirabile stabilità politica e sociale propria della Svizzera non sta forse ad indicare come in quel paese sia stato possibile raggiungere un magnifico e perfetto equilibrio tra la libera vita cantonale e l’unità federale?

Si dice che il regionalismo implica gravi pericoli specie in un paese come il nostro ove le disuguaglianze economiche e sociali sono fortissime tra le varie Regioni e dove quindi lo sforzo del legislatore dovrebbe tendere a colmarle per evitare che esse degenerino nella resurrezione di staterelli rivali ed opposti.

E in questa conclusione empirica, la quale non oltrepassa la buccia delle cose, convengono anche i più ortodossi zelatori del Mezzogiorno, come per esempio l’onorevole Fausto Gullo e – credo – anche l’onorevole Colitto. Essi non sanno pensare ad altra soluzione all’infuori d’un dispotismo illuminato che agisca dal di sopra e dal di fuori. Essi non sanno uscire dal circolo vizioso d’un regime autoritario applicato alla loro terra come a terra di conquista, val quanto dire di un regime che il meridione ha subito fin qui.

Ma come si possono colmare le disuguaglianze economiche con lo Stato unitario accentratore?

Qualcuno ha lamentato che l’Assemblea si è trovata dinanzi ad una pletora di richieste provenienti da Regioni le quali per il passato non avevano mai avanzato rivendicazioni regionalistiche; ma io ritengo che invece di lamentarsi bisognerebbe spiegare il fenomeno. La verità è che, quando i popoli sono liberi di manifestare la loro volontà all’infuori di qualsiasi compressione statale, essi sono presi dall’ansia di far rinascere i piccoli paesi, di proclamarne l’indipendenza, di fare rinascere la Regione, la piccola patria.

Il pericolo vero per l’unità della patria non sta nel riconoscere apertamente che le Regioni d’Italia sono diverse economicamente, politicamente e socialmente, ma nell’ostinarsi a non volere riconoscere queste differenze, nell’ostinarsi a voler governare allo stesso modo il Piemonte e la Sicilia, il Veneto e la Campania.

Versano in un grave errore coloro i quali sostengono che l’Italia è un Paese a struttura unitaria. Il nostro Paese è dotato di una grande varietà. Pochi popoli come il popolo italiano hanno da natura il dono di una grande varietà antropologica e psicologica. Questa grande varietà antropologica e psicologica del nostro popolo costituisce la sua bellezza fisica e potrebbe anche costituire la sua perfezione sociale.

La bancarotta dell’attuale regime unitario di fronte ai problemi regionali, dopo tanti anni di esperienza storica, mi pare non possa onestamente mettersi in dubbio. Nessuno può onestamente sostenere che la politica economica, la politica finanziaria, la politica doganale non abbiano operato un enorme spostamento di ricchezza da Regione a Regione. A questo punto dovrei, da meridionale quale sono, pronunciare parole amare. Ma io non intendo porre il problema in termini stridenti, perché, come ieri ho difeso l’autonomia della Sicilia, così oggi difendo l’autonomia di tutte le altre Regioni italiane. Noi siciliani amiamo la Sicilia di un amore profondo e sincero ed amiamo l’Italia dello stesso profondo e sincero amore.

Anche oggi, dopo i movimenti separatisti, dopo che la Sicilia ha ottenuto la sua autonomia, ancora oggi siamo costretti a notare che provvedimenti legislativi consumano delle enormi ingiustizie, non solo nei confronti della Sicilia, ma di tutto il meridione. Posso dare qualche esempio. La Sicilia ha dovuto esportare gli agrumi attraverso la ditta S.V.E.A. di Verona ed alcune organizzazioni milanesi, le quali, esportando prodotti siciliani, hanno ottenuto come contropartita le materie prime indispensabili alla ricostruzione delle provincie del nord. Nemmeno una piccola parte delle materie prime importate come contropartita è stata assegnata alla Sicilia. E poiché questa è la verità, bisognerebbe buttar giù la maschera. Vedremmo allora il ghigno beffardo di coloro che hanno sfruttato l’Italia meridionale e la Sicilia!

BULLONI. Che parole grosse! Smettetela con questo sfruttamento. Se andate a Milano vi troverete 300 mila siciliani!

DE VITA. Alle ditte siciliane non è possibile esportare direttamente. (Interruzioni Commenti).

Ma c’è un altro esempio: l’imposta di fabbricazione sui vermuth e sugli aperitivi a base di vino. È un’imposta in base a due gradi alcoolici; imposta apparentemente uguale tanto per il vermuth fabbricato con i vini meridionali quanto per il vermuth fabbricato con i vini settentrionali. Ma i vini settentrionali hanno una gradazione che non supera i 10 gradi, mentre i vini siciliani arrivano a sedici e diciotto gradi. Per fare il vermuth e il marsala con i vini siciliani spesso non è nemmeno necessario aggiungere due gradi alcoolici, mentre per fabbricare il vermuth ed il marsala con vini settentrionali bisogna aggiungere anche sei gradi di alcole. Perché l’imposta deve essere uguale? Non è questa una ingiustizia?

Ed allora, data questa situazione di fatto – che si può deplorare quanto si vuole, ma che non si può eliminare con le chiacchiere, con i rimpianti, con la compassione e con la filantropia, di cui non abbiamo bisogno – sorge un problema fondamentale: come eliminare questa sperequazione? Con le leggi speciali? Coloro che concludono per l’affermativa, coloro che ritengono che si debbano adottare provvedimenti speciali, provvedimenti di favore per determinate regioni, aspettano il miracolo da un Governo provvidenza. Ma l’attuale struttura dello Stato, l’attuale regime politico non ci hanno dato che governi vampiro. Nessuno si è mai chiesto: da chi saranno fatte e votate le leggi speciali? Da chi ed in quali condizioni di ambiente esse saranno applicate? Questo è il punto sostanziale che costituisce lo scoglio contro il quale sono destinate a naufragare tutte le illusioni degli empiristi, tutti i tentativi degli uomini politici ortodossi. Invano si dirà che uomini di governo abili sapranno conciliare questi opposti interessi, sapranno orientarli verso il bene comune. Quale zelo potrebbe raccogliere, attorno a provvedimenti legislativi speciali per determinate Regioni, una maggioranza di individui che devono il loro mandato ad altre Regioni? Con lo Stato unitario accentratore, la maggioranza favorita voterà in perpetuo contro la minoranza aggravata. Noi riteniamo che la legislazione speciale sarà utile, sarà veramente efficace, allorquando sarà emanata da assemblee legislative regionali libere e sovrane per tutto quanto riguarda la materia della loro amministrazione. Ecco perché noi riteniamo che ormai è venuto il tempo di procedere a quel decentramento politico e legislativo dal quale l’Italia può attendere la sua fortuna.

E potrei terminare, se non ritenessi doveroso soffermarmi su alcune obiezioni di carattere generale sollevate dall’onorevole Einaudi e da qualche altro collega in ordine al progetto della Commissione. L’onorevole Einaudi ha rilevato che la determinazione delle competenze regionali non è stata sufficientemente meditata. Certamente non è facile distinguere gli interessi locali dagli interessi generali ai fini della determinazione delle funzioni e delle attribuzioni dello Stato e degli enti locali. Ma, a mio avviso, il problema non va posto soltanto in questi termini. Il vero problema è quello di conciliare i valori politici e democratici del governo autonomo, che sono essi stessi condizioni di responsabilità e quindi di efficienza economica, con i valori economici del governo in comune, che sono essi stessi condizione di vita democratica progredita. Tuttavia io ritengo che un valido apporto alla soluzione di questo problema può essere efficacemente dato da alcune considerazioni di ordine tecnico ed economico. Astrattamente, ciascun pubblico servizio ha una area di offerta che è di dimensioni economicamente ottime. Se noi riuniamo i pubblici servizi secondo questi criteri di economicità e secondo altri criteri, politici e sociali, possiamo ottenere l’area economica regionale.

È da tener, però, presente che, sebbene i progressi della tecnica premano verso una direzione ed un controllo unitari dell’impiego più proficuo delle risorse della collettività, tuttavia alcuni pubblici servizi non possono essere unificati, perché occorre per essi un contatto umano diretto, occorre che siano esattamente e sufficientemente valutate le particolari condizioni di determinate zone territoriali. L’onorevole Einaudi ha rilevato, inoltre, la incongruenza del sistema tributario, con particolare riferimento allo Statuto siciliano.

Mi consenta – non è presente l’onorevole Einaudi – che io faccia alcune brevi considerazioni al riguardo.

Tutta la storia della finanza italiana risente del contrasto fra l’accentramento statale e l’autonomia degli enti locali.

Già nel 1866 il Busacca e, successivamente, l’Errera, il Maestri ed il Conigliani rilevavano come, da una parte, lo Stato riversasse sui comuni quanto più era possibile delle sue spese e, dall’altra, togliesse quanto più era possibile delle loro entrate. È stata una esperienza veramente disastrosa. Da questa esperienza della finanza locale dipendente dalla finanza statale appare evidente la necessità di creare un ordinamento tributario regionale per una migliore perequazione del carico tributario, e per una maggiore efficienza tecnica del sistema stesso.

In base al principio per cui l’imposta deve seguire l’economia, ciò che sovratutto si richiede ad un sistema tributario, che del sistema finanziario costituisce la parte più importante, è un grado massimo di elasticità, ben difficile da ottenersi col sistema unitario accentratore.

È evidente la necessità di tenere debito conto delle condizioni non solo economiche delle singole Regioni, ma anche delle tradizioni, dei costumi, delle caratteristiche delle popolazioni.

Soltanto in questo modo si potrebbe cambiare l’attitudine del contribuente nei confronti dell’imposizione, si potrebbe trasformare l’imposta, da onere prelevato colla forza, in contributo volonterosamente dato dal cittadino, accessibile al sentimento di solidarietà collettiva.

MALAGUGINI. È un po’ difficile.

DE VITA. Questa può sembrare un’affermazione teorica. Ma io vi do un esempio.

Per dare un’idea del come la legislazione svizzera tiene conto non solo delle particolari condizioni economiche, ma anche delle caratteristiche e dei costumi delle popolazioni, vi dirò che l’imposta personale, che è applicata in quasi tutti i cantoni della Svizzera, varia da cantone a cantone e dal semplice testatico, applicato a tutti i cittadini senza distinzione di sesso e di nazionalità, va ad una speciale forma di imposizione sui cittadini di sesso maschile, cosidetti attivi, cioè che fruiscono del diritto elettorale. Ma anche l’aliquota varia da cantone a cantone. In alcuni cantoni è molto forte, come nel cantone di Waadt, dove supera i mille franchi a testa. L’imposta sul patrimonio, la quale era applicata nella quasi totalità dei cantoni ed ancora costituisce la base fondamentale del sistema tributario di alcuni cantoni, è stata in numerosi cantoni sostituita dalla imposta sul reddito. Ma vi sono cantoni, come quello del Schwyz, onorevoli colleghi, dove non è stato finora possibile introdurre l’imposta sul reddito, perché la popolazione è contraria a questa forma di imposizione. Questa è vera democrazia, questa è vera libertà.

L’ordinamento della Svizzera è questo. Non mi dicano che la Svizzera non è un paese democratico; non mi dicano che in Svizzera la vita non si svolge secondo i principî della democrazia e della libertà.

L’imposta sul reddito varia da cantone a cantone e non soltanto per l’aliquota, ma anche per i criteri di progressività, di detrazione e di accertamento del reddito imponibile. Tali esempi dimostrano sino all’evidenza come in materia di imposizione l’uniformità di trattamento non soltanto non è una necessità inderogabile, ma è piuttosto l’espressione di un tradizionalismo eccessivamente egualitario ed accentratore; e come, d’altra parte, il criterio regionale risponde ai principî della logica, della pratica efficienza e del successo.

Ritengo pertanto che bisogna andare oltre il progetto della Commissione. Ritengo che da un punto di vista veramente razionale non ci può essere che una finanza regionale; soltanto così potranno essere sodisfatte le ragioni della equità e della giustizia.

Desidero chiudere questo mio discorso ricordando a coloro i quali combattono la Regione perché temono per l’integrità dello Stato, che la Sicilia, la Sardegna, la Toscana, le Marche, e l’Umbria mai arsero di tanto d’amore per l’unità della patria come negli anni sacri del 1859, 1860, 1861, quando erano ancora amministrativamente e politicamente distinte.

Allora, onorevoli colleghi, l’idea unitaria appariva bella e luminosa. Facciamo che questa idea appaia bella e luminosa, come allora, spoglia dei dolori che allora non si avvertivano. Manteniamo ferma e salda l’unità della Patria, la quale è talmente consolidata, che non teme alcun pericolo, ma togliamoci questa camicia di forza che costringe ad una uniformità di norme, di vita, di movimento, uomini e cose che hanno tendenze, costumi ed aspirazioni tanto diverse. Rendiamo omaggio alla natura ed alla forza delle cose; rendiamo omaggio alla distinzione nell’unità, alla differenziazione nella compagine dell’insieme. Le energie sopite si ridesteranno per un migliore avvenire della Patria nostra. (Applausi).

PRESIDENTE. È iscritto a parlare l’onorevole Binni. Non essendo presente, si intende che vi abbia rinunziato.

Il successivo iscritto a parlare è l’onorevole Codignola, il quale ha inviato alla Presidenza un telegramma con il quale prega di scusarlo per la sua assenza e di dargli modo di parlare in una delle prossime sedute. Accederemo al suo desiderio.

È iscritto a parlare l’onorevole Assennato. Ne ha facoltà.

ASSENNATO. Onorevoli colleghi, il tema della Regione è stato trattato con tanta maestria da così numerosi colleghi, e per il mio Gruppo dall’onorevole Fausto Gullo con tanta dottrina e passione, che io inizio con una certa esitazione, preoccupato di porre limiti e confini al mio dire e di non percorrere la strada che è stata già da altri autorevolmente percorsa. Porrò, pertanto, alcuni punti fermi, ai quali antepongo due obiezioni di carattere preliminare.

A me pare che sia sfuggito che il solo fatto di aver impostato il problema della Regione ha determinato alcuni significativi effetti. Appena infatti tale problema è stato posto, si sono prodotti effetti sui quali conviene intrattenersi. Uno di questi effetti è tale da far seriamente sollevare il dubbio sulla opportunità di insistere sulla creazione dell’ente Regione per lo meno nei termini del progetto. Molte provincie si sono risvegliate per rivendicare un diritto alla loro promozione a Regioni. Così è avvenuto nelle Puglie e nel Molise, in cui più di una provincia rivendica il diritto di diventare Regione autonoma, e financo l’onorevole Micheli pare che intenda estrarre dalla sua Emilia non so quale altra Regione. È questo – senza dubbi – un aspetto deteriore e degenerativo, non certo democratico, poiché la democrazia coinvolge e richiede espansione; per lo meno non è incoraggiante per una sana democrazia il risveglio di vanità e di meschine ambizioni locali.

MICHELI. A quale provincia intende alludere: alla mia od alla sua?

ASSENNATO. Lei può anche sorvolare sulla cosa, se non torna di suo gradimento, ma nessuno può nascondersi che la sola impostazione del problema regionale ha risvegliato rivalità ed ambizioni provincialistiche e che questo costituisce un effetto negativo. Vi è un altro effetto ed è che il numero degli oratori che hanno svolto o si propongono di svolgere intervento sul problema della Regione per la maggior parte è costituito da deputati meridionali. Ciò dà giusto motivo di ritenere che sia diversa la misura dell’interesse che il problema suscita nei rappresentanti politici: molto interesse, nel senso positivo o negativo, da parte dei rappresentanti politici del Mezzogiorno; nessuno o poco interesse, nel senso positivo o negativo, da parte degli altri rappresentanti politici. Sono questi due aspetti preliminari che ci devono preoccupare e mettere in stato di suspicione. La constatazione di tali effetti ci deve avvertire che vi è in questo problema, così come è posto dal progetto di Costituzione, qualcosa che svolge una funzione più retriva che progressiva, più, direi, di contenimento che di sviluppo degli impulsi democratici.

Pur tuttavia, a prescindere da queste che possono essere preoccupazioni preventive, che pur devono essere tenute presenti come orientamento, io mi terrò a tre quesiti di carattere fondamentale:

1°) se storicamente la Regione sia mai esistita nel Mezzogiorno come ente politico, come reggimento autonomo, poiché non possiamo pretendere di suscitare nelle coscienze del popolo quello che non vi è né per tradizione né per vocazione;

2°) se questa nuova istituzione, così come progettata, possa imprimere impulso democratico per accelerare il livellamento del progresso sociale, cioè per rendere più compatto e più unito tutto intero il corpo sociale della Nazione;

3°) se l’attuale struttura sociale delle Regioni del Mezzogiorno potrà essere modificata dall’ente progettato, e se potrà giovare al processo unitario il frazionamento della Regione pugliese.

Circa la prima osservazione, premetto subito che storicamente la Regione nel Mezzogiorno non è mai esistita, come reggimento politico autonomo. L’impulso popolare è stato più unitario che regionale: più volte espresso in forme tumultuose, vaghe ed incerte, la natura di questo movimento popolare è stato a tendenza unitaria, mai regionalistica.

Da quel grande ricettacolo di stirpi diverse che sono calate, come acque che calano nel fondo di un bacino, nel Mezzogiorno, da quella confusione di popoli diversi, pur tuttavia sono sempre partiti impulsi, specie dalle plebi rurali, di carattere unitario e se non si poté pervenire agli sviluppi che si raggiunsero nelle regioni del settentrione d’Italia, fu perché si trovò costantemente una barriera insormontabile che solo il volger dei secoli ha potuto dissolvere.

Bisanzio, già abbarbicata sulle nostre coste pugliesi, vi ritornò nell’800, rimanendovi per due secoli e diffondendo i suoi costumi ed i suoi riti nelle nostre contrade; pur tuttavia, il sentimento popolare della plebe rurale fu vivamente ostile agli occupatori bizantini, ed il popolo li odiò come odiò gli occupatori saraceni, e quando la plebe insorse per liberarsi dal potere bizantino, è vero che usufruì dell’aiuto iniziale dei Normanni, è vero che usufruì dell’appoggio di principi e della Chiesa, ma la rivolta esplose esclusivamente o prevalentemente per l’impulso dei ceti locali ed ebbe carattere unitario. Nella cacciata dei bizantini da Bari, vicino al nome di Melo da Bari si unisce quello di Arduino Lombardo.

Quando più tardi i saraceni si impossessarono di Brindisi, di Canne ed a Bari stabilirono il «sultano di Bari», gli storici dicono che le città pugliesi insorsero per impulso di popolo, moto che non assunse carattere regionale, ma carattere meridionale, manifestando cioè tendenza unitaria. Ed agli aiuti che alla insurrezione diedero i principi e la Chiesa si unirono quelli della repubblica veneta per la Puglia e delle altre repubbliche marinare per le altre regioni del Mezzogiorno.

Ed il moto popolare che infiammò le città pugliesi sorse non solo dal sentimento di indipendenza dall’invasore ma anche e soprattutto dal sentimento sociale perché le plebi rurali accolsero l’aiuto dei Normanni come liberatori anche dai grandi feudatari sostenuti dal Papato.

I Normanni riuscirono a dare solidarietà alla loro monarchia soltanto perché seppero rivolgersi alla forza della Puglia rurale, seppero cioè dare la certezza a queste plebi che esse potevano contare sul loro aiuto per difendersi dal prepotere dei principi feudali, sempre rivolti e tesi alle sollecitazioni che venivano di fuori dal potere papale. Ed il popolo sostenne i Normanni combattendo con essi contro il Papa Leone IX, che a capo di truppe proprie e tedesche venne sconfitto a Civitella.

E se la monarchia normanna decadde fu perché non avendo potuto evitare il risveglio della potenza feudale ad opera della Chiesa perde l’appoggio delle plebi rurali.

Durante il suo reggimento la monarchia normanna divise il territorio del Paese non in Regioni, ma in Provincie, che chiamò «giustizierati», e cioè in terra d’Otranto, terra di Bari, terra di Capitanata, e quando quella monarchia decadde, e sopravvennero gli svevi, tale divisione del territorio venne mantenuta ferma attribuendosi al «giustizierato» il nome di «provincia», ecco perché questa si trova così radicata nella coscienza del popolo che appena è stato posto il problema della creazione della Regione con la soppressione delle provincie, ogni provincia si è fatta a pretendere l’elevazione a Regione.

Anche nel mezzogiorno l’interesse del popolo è stato sempre diretto verso il reggimento del governo comunale, e sia pure in circostanze storiche ambientali del tutto diverse e quindi con diverso sviluppo, pur tuttavia l’amore del popolo è sempre stato vivo per il proprio comune, ed anche ora è verso quella direzione che deve convergere tutta la buona volontà del legislatore per la più efficiente sua democratizzazione.

Consentitemi di leggervi un documento che mi è caro, perché ivi è contenuta, redatta da un frate, la storia delle vicende municipali del mio paese: Brindisi.

«Era fino a quel tempo – 1562 – stato confermato – scrive il monaco – che nella elezione di sindaco non si facesse differenza fra il nobile e il popolare, dell’uno e dell’altro ordine dei cittadini, secondo il modo che preferito aveva il Re. Insorse in quell’anno una nuova ambizione in ambedue le parti di appropriarsi di quel magistrato che era comune, e pretendevano i nobili che, essendo il sindaco capo della città, dovesse pigliarsi dal loro ordine come più degno e conveniente, e i popolari d’altro canto pretendevano che consistendo la maggior parte della città del numero loro, come era invero, doveva il sindaco prendersi da loro. Ma finalmente, nell’anno 1562, il collaterale consiglio vi pose silenzio, stabilendo che perpetuamente il sindaco si dovesse eleggere un anno dai nobili e due dal popolo. Nonostante il predetto decreto, hanno tentato sempre i nobili di intorbidare le acque a loro pro, per ottenere l’alternativa in detta elezione».

«Ma questa – ammonisce il monaco – è stata cagione di maggiormente trincerarsi e fortificarsi da parte dei cittadini per il mantenimento del loro possesso».

Sono passi di cronaca che rivelano il tradizionale attaccamento del popolo verso la propria istituzione comunale, cioè il suo istinto di democrazia, e, d’altra parte la tenace pretesa degli abbienti, dei privilegiati di ogni secolo, di tenere soggetto il popolo e le sue istituzioni, ossia il loro istinto antidemocratico.

Queste nostre popolazioni rivierasche, che tante invasioni e distruzioni han subito nei secoli ad opera di razze e genti diverse venute dal mare, dopo che di esse si furono liberate, intrapresero rapporti di traffici così intensi che molte città pugliesi si strinsero in patti con le città della sponda opposta, e piace citare il patto intercorso, per esempio, fra Barletta e Ragusa, testualmente definito di «mutuo affetto». E che ciò non debba attribuirsi all’origine veneta delle popolazioni dell’altra riva, consentitemi di documentarlo con altro passo della citata istoria: «Dispose il principe che nel governo della repubblica brindisina queste tre nazioni avessero luogo e che il greco, lo schiavone e l’albanese potesse subentrare negli onori del magistrato e del governo… Ora dirò che la repubblica è governata da 15 deputati, così come sono chiamati gli eletti, e un sindaco, dei quali tre fossero gli uditori. E nel numero di otto vi fossero due della nazione greca, albanese o schiavone».

Ho citato tanto perché l’esperienza mi ha dato modo di constatare la permanenza di tale sentimento fra le popolazioni pugliesi: circa un mese fa, trovandomi a Mola di Bari, cittadina di pescatori e contadini, riferii in piazza il saluto che un deputato della repubblica jugoslava dal suo parlamento aveva mandato al «piccolo mondo dei pescatori e marinari pugliesi o chioggioti». L’applauso che coronò la fine della citazione mi manifestò chiaramente la permanenza degli antichi sentimenti, contro i quali vanamente ora si vanno appuntando i risorgenti sentimenti nazionalistici.

Sentimento di indipendenza territoriale e sociale, impulso unitario, attaccamento al governo della casa comunale, amore tradizionale per la propria provincia, tradizione di affetti con le popolazioni dell’altra riva, questo si riscontra nella storia delle popolazioni pugliesi; manca qualsiasi traccia di reggimento politico in forma regionale. La progettata Regione non trova nel popolo né uno stato di invocazione per tale istituzione né nella sua storia nulla che possa paragonarsi a coscienza di una tradizione.

Può in tali condizioni deliberarsi una riforma?

Vincenzo Cuoco ammonisce che ogni politico, ogni governante, ogni uomo di responsabilità, prima di disporre nuove riforme deve «conoscere ciò che tutto il popolo vuole e farlo: allora il popolo seguirà: distinguere ciò che vuole il popolo da ciò che vorreste voi». Fuori dalla tradizione o dalla coscienza popolare non vi è che lo schema intellettualistico e cioè la sovrapposizione della volontà propria, il che non appare un felice esordio di democrazia.

LUSSU. Ieri mi è arrivato l’opuscolo sui lavori di un convegno nel Mezzogiorno con l’adesione anche…

ASSENNATO. Aspetti, onorevole Lussu: può darsi che non l’abbia ricevuto soltanto lei.

Secondo punto: se questo ente Regione, considerato così come è formulato nel progetto del quale si discute, se questo ente Regione dunque può imprimere un impulso democratico.

Non v’è dubbio che ognuno che si occupi di questo problema, che partecipi a questa discussione, non si ispiri al proponimento di favorire, di rendere più agevole il progresso della democrazia, di far sì cioè che il sentimento democratico si svolga sempre più ampiamente e uniformemente fra le popolazioni del nostro paese.

Per me è molto dubbio che l’istituzione dell’ente Regione, così come è formulata nel progetto, possa produrre questo effetto ed imprimere questo impulso. Io non mi permetterò di accusare i colleghi del Partito repubblicano-storico, di peccare di acrisia storica, ma a me pare che il collega De Vita con eccessiva disinvoltura abbia accennato al fatto che l’istituto Regione come ente politico sia stato rivendicato nel Risorgimento, per legittimarne ora l’attuazione.

Non v’è dubbio che quella sia l’origine, ma non è certo sufficiente la sola nobiltà dell’origine di un pensiero per pretenderne l’attuazione dopo circa un secolo.

In quell’epoca la creazione dell’ente Regione rispondeva ad una duplice necessità. Una di carattere «tattico»: tutti coloro che si sentivano attaccati alle tradizioni dei vecchi staterelli, pur sensibili all’influsso della nuova idea, l’unificazione, ne erano trattenuti temendo di perdere questa loro autonomia in un’Italia unita. A sospingerli nel processo unitario molto contribuì la convinzione che in un’Italia unificata quelle autonomie sarebbero state conservate con la ripartizione del territorio in Regioni.

L’altra necessità fu d’indole strategica, sostanziale; cioè fu dettata dal proposito di premunirsi, con la creazione dell’ente politico Regione, dal pericolo dell’espansione del Piemonte, ossia dall’unificazione sotto la forma di piemontesismo.

La creazione dell’Ente Regione, con i poteri legislativi attribuiti dal progetto e con la soppressione della provincia, manifesta la volontà di creare condizioni tali da evitare quel male; ma essendosi esso verificato, e in tutta la sua estensione e con tutti gli effetti disastrosi che sperimentiamo e scontiamo, non si può più pretendere l’applicazione di un’istituzione che fu concepita come avente funzione preventiva; è inutile proporre ora, dopo la verifica del danno, quel vecchio congegno che doveva parare quel pericolo in quel momento.

Occorre invece fissare meglio l’attenzione sulle cause che allora fecero temere l’espandersi del piemontesismo, della conquista regia.

Una volta ben identificate le cause, il rimedio lo si troverà facilmente nell’aiutare quelle forze di difesa, quelle forze sane che durante il decorso della malattia il Paese abbia spontaneamente prodotto. E a identificare quelle cause più che una dissertazione vale un documento che tutto esprime e riassume: in una istruzione segreta del 12 febbraio 1859, dal conte di Cavour mandata al La Farina, è fermato il germe del male di cui abbiamo sì a lungo patito.

Scriveva il conte: «bisogna ordinare le agitazioni in modo che l’avvenire rimanga intatto, che si fondi più sopra idee di nazionalità e di indipendenza che sovra principî di libertà».

Le istruzioni segrete palesano il volto e manifestano le intenzioni più che mille discorsi al Parlamento: per il conte di Cavour l’unità doveva significare soltanto unificazione territoriale, ma non già emancipazione del popolo nella libertà. L’unità siffatta equivarrà ad unità in senso di superficie, di separazione di confini da altri popoli, ma non già in senso di profondità e cioè di una sempre più progrediente compattezza ed uniformità di tutto il corpo sociale; non si volle cioè che la libertà facesse dei vari e molto separati strati sociali un amalgama, il più omogeneo. Non si volle cioè la libertà.

Passano gli anni ed i decenni ed in questo stesso Parlamento un uomo – l’onorevole Grippo – che pure aveva grandezza di ingegno e larga preparazione – quando nelle piazze di Andria e in quelle di Minervino, come in Sicilia, si spargeva sangue sotto la cavalleria regia, egli, espressione vera della classe dirigente che pur si nomava liberale, ripeté apertamente quanto il Cavour segretamente aveva confidato al La Farina: «siamo pronti a sacrificare la libertà all’unità», illuso che libertà e unità fossero due cose diverse l’una dall’altra. E quando più tardi, nel 1919, il Paese poteva avviarsi alla conquista della libertà, in un primo tempo sacrificata per la indipendenza territoriale e in appresso sacrificata nuovamente per una mala intesa unità, la classe al potere fece ricorso a una pretesa grandezza imperiale per reprimere nel popolo il suo mai spento anelito alla libertà, cosicché Mussolini spudoratamente si dié vanto di esser pronto a passare col suo cocchio trionfante sul cadavere della libertà.

Come infatti avvenne.

L’attuale sfacelo quindi trova la sua causa nel lungo permanere nella vita del Paese di quell’originario germe di illibertà che di proposito non si volle espellere dal suo corpo, ed a salvarlo non può ora valere un rimedio ormai superato e fuori dalla coscienza del popolo, quale è l’Ente Regione, così come progettato, con l’abolizione della Provincia.

FUSCHINI. Non c’è nemmeno la coscienza dello Stato.

ASSENNATO. Non bestemmi.

È certo che ci vuole buona volontà perché sia possibile comprendere nuove situazioni e disincantarsi da affezioni e tradizioni intellettuali, ci vuole buona volontà perché si possano abbandonare antiche posizioni, ma è necessario scavare nella realtà per scoprire che il male risiede non nella forma costituzionale ma nel dislivello, nella diversità tra il modo con il quale la trasformazione sociale si verificò nel nord e quello col quale essa si verificò nel sud.

L’onorevole Cicerone nel suo discorso ha parlato della vita italiana nel Mezzogiorno prima del ’99 in termini presso che nostalgici, attribuendo la rovina di quella per lui invidiabile vita, alle nuove idee, quelle ultramontane, che a suo dire avrebbero sconvolto il progredire civile del Mezzogiorno. Io non so donde l’onorevole Cicerone abbia attinto i motivi di questa sua estasi borbonica, può darsi che il fascino, che il sorriso delle gote regali lo abbia stregato e reso dimentico della sua modesta origine contadina, ma io gli voglio ricordare che senza il ’99, senza le leggi reversive della feudalità, è assai probabile che oggi egli non si troverebbe qui a laudare il malo tempo antico, ma starebbe a grattare la terra arsa in quel di Foggia, a maggior vanto e dovizia delli Signori.

Il fatto è che a prescindere dalle affezioni intellettualistiche e da atteggiamenti personali più o meno snobistici, la questione della Regione va impostata sulla diversità del processo di trasformazione sociale fra il nord ed il sud, diversità molto bellamente illustrata fin dal ’95, dall’onorevole Nitti in una sua relazione esposta a Firenze. Egli illustrò convenientemente che mentre le nuove idee riuscirono ad espandersi pacificamente nelle regioni settentrionali, nel Mezzogiorno invece trovarono viva resistenza e poterono entrare soltanto a prezzo di sangue, lasciando sopravvivenze feudali che hanno impedito nel Mezzogiorno il rapido formarsi di una borghesia imprenditrice, resistenze che purtroppo perdurano. Quod deus avertat!

Che le idee nuove mai più entrino nel Mezzogiorno sotto quella forma: allora vennero vituperati ed esecutati come negatori e traditori della Patria quelli che la Patria oggi rispetta e venera: e fu consumato delitto infame, perché gli uomini che propugnano idee nuove di libertà non possono mai essere contaminati da nessun contatto, traducendo e rivendicando essi i bisogni più profondi e le speranze sempre deluse dei popoli.

Gli effetti di questa originaria discordanza nel progredire sociale fra nord e sud, permangono in massima parte avendo gli agrari del Mezzogiorno consentito alla classe capitalistica del nord piena libertà di prosperare all’ombra del protezionismo statale per ottenere in cambio aiuto e sostegno a vegetare nella loro arretratezza, dimentichi così che quel progredire in buona parte del nord veniva a pesare sullo sviluppo del Mezzogiorno.

E se il dislivello nel tempo si è andato attenuando gli è che nel corso del processo storico il premere delle forze nuove più sviluppate nella parte avvantaggiata del Paese, ha potuto attraverso lo Stato unitario espandersi in tutto il Paese, sicché i ceti popolari del Mezzogiorno a giusta ragione sentono che è soltanto attraverso lo Stato unitario che possono avanzare verso la democrazia.

In tale situazione voler creare l’ente Regione con gli ampi poteri legislativi e finanziari attribuiti dal progetto, significa in realtà isolare le regioni del Mezzogiorno e impedire il libero fluire ed espandersi in esse, attraverso lo stato unitario, del flusso democratico sempre più premente e convergente sullo Stato.

E questo timore non deve essere valutato in funzione del Settore politico da cui parte, perché è un timore espresso anche da eminenti esponenti della vecchia classe dirigente, quali il Fortunato, che nella istituzione della Regione autonoma con soppressione delle provincie, previde «la certezza di vedere accrescere da per tutto i guai di oggi, e l’infeudamento e il prepotere delle consorterie locali e il loro iniquo procedere in tutte le manifestazioni della vita amministrativa».

E per quanti sostengono che con la creazione dell’ente Regione si potrà pervenire alla riduzione dell’intervento dello Stato, valga anche il monito di Giustino Fortunato, non certo sospetto di statolatria. Egli ammonì: «Tutto il moto della civiltà presente, piaccia o dispiaccia a individualisti e liberisti, tutta la vita politica della società moderna conduce fatalmente ad una estensione sempre maggiore e sempre più larga della funzione dello Stato».

Ed è monito che per il suo pulpito deve far stare pensosi quanti, dopo tanto scorrere di tempo e di amarezze, si illudono di rinverdire individualismo e liberismo.

I locali potentati agrari che finora hanno sempre subito quel tanto che la democrazia ha ottenuto agendo attraverso lo Stato unitario, soltanto essi saranno lieti di sottrarsi e di creare argini, attraverso l’autonomia dei governi regionali, al fatale progredire della democrazia, e per conseguenza il faticoso processo di livellamento delle disuguaglianze tra Nord e Sud subirà, se non un arresto, un rovinoso rallentamento.

Terzo punto: se l’attuale struttura sociale delle regioni del Mezzogiorno potrà essere modificata in senso democratico dall’Ente regione progettato, e se potrà giovare al processo di unificazione sociale il frazionamento della regione pugliese.

Prendo ad esempio due paesi, due cittadine della provincia di Bari. Gravina: ettari 30.396 coltivabili; 149 aziende da 20 a 100 ettari per 6.696 ettari; 55 aziende che comprendono 16.310 ettari, sicché il 50 per cento del territorio appartiene a 55 individui, 20 per cento a 149 individui; dei 30.000 ettari 22.000 ettari sono riservati a 149 aziende, e ove si pensi che vi è qualcuno che ha più di una azienda, che non esistono aziende sociali e che molti hanno anche larghi possedimenti in altri territori, si deve constatare che più del 75 per cento è in mano a meno di 149 persone.

Altro paese: Gioia del Colle: ettari 17.745: 145 aziende da 20 a 100 ettari per 5.800 ettari; 25 aziende da oltre i 100 ettari per un totale di circa 4000 ettari; su 17.000 circa 10.000 ettari sono in mano soltanto a 170 persone.

Non si tratta di paeselli: Gravina ha circa 30.000 abitanti, e ancor più popolosa è Gioia del Colle. La maggior parte vive nell’agricoltura, nel senso che lavora, suda, soffre la fame e quando si è mossa per rivendicare un diritto ha sempre trovato dapprima i mazzieri con a capo De Bellis, poi gli squadristi, quelli che assassinarono Di Vagno perché rivendicatore dei diritti dei contadini, ed ora trovano tentativi o speranze in un risorgente squadrismo. Ma quei 149, quei 170 privilegiati sfruttatori collezionisti di eredità non si illudano (Interruzioni dell’onorevole Russo Perez) di riuscire a rinverdire lo squadrismo, perché se i contadini non conoscono i canoni della storiografia, hanno però appreso dalla troppo lunga e sanguinosa esperienza la necessità di esser decisi nell’impedire ad ogni costo che quella triste storia debba mai più ripetersi.

Voi che protestate, ascoltate, collega Russo Perez. Ad Andria, i contadini che sono stati malfamati come rivoltosi e sanguinari sono i più pazienti e i più calmi, i più coscienti e i più contenuti. Ascoltate! Essi, col consenso del Prefetto, hanno lavorato in una masseria di proprietà della Provincia che non aveva somme per i rinnovamenti, ed hanno lavorato disciplinatamente a turno una settimana su quattro. L’onorevole De Gasperi può testimoniarlo: io sono andato a sollecitare perché si inviassero fondi alla prefettura, ma si deve ancora pagare – dopo un mese – l’ultimo terzo dei salari, giacché per i primi due terzi su mia sollecitazione l’onorevole De Gasperi provvide a far tenere alla Prefettura i relativi fondi.

Ebbene, quei contadini, dopo aver tanto lavorato, si sentono frodati dallo Stato, perché attendono ancora i loro salari per un importo complessivo di 13 milioni, e l’ineffabile Scelba ha dichiarato di non voler dare un soldo, giacché non trova regolari ma abusivi, perché non autorizzati formalmente, i lavori eseguiti.

Quei contadini attendono che il Ministro democristiano ricordi che fra i peccati mortali v’è quello di frodare la mercede all’operaio.

Infinitamente pazienti: vi sono tre cittadine, tre macchie vergognose della nostra civiltà: Matera, Gravina, Andria.

La maggior parte della popolazione lavoratrice di Matera vive stipata nelle grotte tufacee, in uno sprofondamento detto il Sasso, quella di Gravina ammassata in grotte tufacee nei margini di un burrone detto Fondo Vico, quella di Andria nelle grotte di uno sprofondamento detto Sant’Andrea; tutti in condizioni inconcepibili come abitazioni, come ricetto di esseri umani.

Queste popolazioni sono stufe di essere oggetto di visita di studiosi e di turisti, tutte, queste, persone di buon cuore che si inteneriscono fino alle lacrime nel vedere tanta miseria, ma tutte persone di debole memoria perché appena fuori se ne dimenticano.

La ragione di Fondo Vico, le Grotte, e il Sasso, è che intorno a Gravina, Matera, Andria vi sono troppe masserie in poche mani. Troppe masserie in provincia di Lecce nelle mani di un Tamborrino, troppe collazioni di eredità nelle mani di un solo Grassi, e quei cognomi che il neo Guardasigilli mano a mano aggiunge al proprio come grani in un rosario, non rappresentano soltanto parole o blasoni ma tanti pezzi di Puglia che vanno ad aumentare la propria collezione. Troppe masserie in provincia di Brindisi nelle mani di un Dentice di Frasso, troppe nelle mani del marchese Granafei, troppe nelle mani di un marchese Zeuli o dei Ceci ad Andria, del marchese Tripputi a Bisceglie e dei Petrilli a Lucera.

Sono tutti costoro degli sperticati difensori della personalità umana, tutti liberali o qualunquisti o democristiani di parte destra, e tutti dimentichi che la acquisizione per successione rappresenta l’aspetto più negativo ed umiliante della personalità umana. Orbene costoro, i loro avvocati, professori, i loro politici insomma, nulla tralasceranno di intentato perché l’ente Regione diventi strumento di difesa dei loro interessi contro il progredire delle riforme: l’ente Regione così come progettato lascia ampia possibilità o di aperta opposizione e di resistenza ed ostruzionismo.

I poteri politici, i poteri legislativi attribuiti a Regioni aventi siffatta struttura sociale costituiranno ostacolo al libero fluire della linfa democratica, perché gli agrari, nobili, nobilastri, antichi o neo ricchi che siano, ai quali vanno aggiunti tutti i loro «perniciosi curiali» (come li chiama Nitti) hanno accumulato troppa tradizione di frodi, intrighi e violenze, troppa inciviltà, per non sentirsi tentati, come già avvertono, di fare nuova esperienza, protetti dalla limitatezza di una vita politica regionale che confidano di dominare agevolmente. La struttura sociale delle Regioni del Mezzogiorno è tale che è aberrante sperare che la creazione dell’Ente Regione, come progettato, possa contribuire alla soluzione delle difficoltà sociali.

Le difficoltà stanno nel dislivello che si perpetua, nei residui feudali che ancora permangono, nella perdurante tendenza degli agrari a trovare aiuti, suggestioni in eventi che possano tenere impegnato il paese in altre vicende; tengono ben tese ora costoro le orecchie per stare in ascolto se a conferma dei loro privilegi non abbiano a verificarsi certi eventi, e sospirano e fan quanto è in essi perché ciò si avveri, e i loro scribi e corifei ripetono suoni che vengono da lontano, e tutti nostalgicamente sperano che chissà, fra un mese o un altro, non venga tempo che si possa ripetere la volgare strofa:

Viva lu Papa Santu

ch’à mannato li cannoncini

pé ammazzare li giacobini!

Viva la forza e Mastro Donato

Sant’Antonio sia lodato!

Non vi è nulla di più sinistro di questa attesa e incitamento a rivolgimenti internazionali per consolidare un vacillante dominio e prepotere.

Non è nell’ente Regione, e di quel tipo, la soluzione della malattia.

Mi duole osservare al collega repubblicano che mi ha preceduto, onorevole De Vita, che è del tutto superata l’impostazione contabile della questione. L’affermazione che la Regione è necessaria per evitare che il Mezzogiorno continui a patire un trattamento fiscale ingiusto e un’ingiusta distribuzione di fondi per lavori pubblici, non può più reggere dopo che gli studi del Nitti sono stati discussi e brillantemente smentiti proprio dal repubblicano Ghisleri: non è una partita contabile quella del Mezzogiorno, ma una questione politica nazionale.

Mi consenta il collega di segnalargli che è in errore lì dove lamenta che il Governo ora dimissionario, perché espressione di Stato unitario, non avrebbe favorito l’esportazione degli agrumi in Cecoslovacchia in compensazione di marmellate, per proteggere l’industria conserviera.

È proprio in collaborazione con il repubblicano onorevole Chiostergi, che io ho favorito quello scambio superando ogni difficoltà, appunto per agevolare la esportazione dei prodotti dalla Sicilia.

No, no, non è lì, nella Regione, la soluzione.

Il collega ha posto la questione in termini contabili. Molto saggiamente ha rilevato l’onorevole Gallo che non è su quella via che si risolve il problema. Non è da vedere quante tasse abbia assorbito lo Stato dalle regioni del Sud e quante ne abbia pompato dal Nord.

Nei lavoratori del Mezzogiorno si è risvegliato un senso di solidarietà che circola per tutta l’Italia, fluisce in tutte le contrade: ogni contadino avverte ormai di poter avere con sé tutta la plebe italiana, gli uomini delle officine e dei campi di tutta Italia. Questo preannunzia la vera unità. L’unificazione non si ha soltanto nel territorio, ma la si raggiunge con l’appianamento dei dislivelli sociali fra le varie Regioni, e questa è l’unità che porterà alla emancipazione. Non bisogna creare barriere e filtri per impedire il libero scorrere di questa linfa democratica: lì dove essa scorre libera in tutto il corpo sociale del paese, la vita da stagnante e retriva riprende corso franco e spedito: non l’assenza della ripartizione politica regionale rese possibile il fascismo, ma l’insufficiente solidarietà fra i lavoratori del Settentrione e quelli del Mezzogiorno, e il nostro compito non sta nel ripetere tentativi dei nostri nonni, ma nel creare le condizioni perché questa unità e solidarietà si cementi sempre più e divenga condizione e fondamento del progredire del nostro Paese. Nuovo risorgimento non può nomarsi il rappezzamento delle falle del primo, ma il raggiungimento di una più forte e composta unità, quella sociale, rimedio che spontaneamente il Paese ha già espresso dal suo seno. Qualora si elevino le Regioni ad enti autonomi con poteri legislativi, come è nel progetto, si avrà che per la struttura sociale di molte di esse, il processo verso il livellamento, verso la sincronia del progredire sociale generale, subirà un colpo d’arresto, ed è per tale ragione che noi ci opponiamo all’approvazione del progetto.

Potrà giovare al processo di unificazione sociale il frazionamento della Regione pugliese?

A me sembra che dalla semplice impostazione dell’interrogativo scaturisca naturale la risposta negativa.

In una civiltà caratterizzata dall’espansione e cioè dalla progrediente fusione e unificazione anche fra unità più ampie e diverse, costituisce fenomeno deplorevole la pretesa di disarticolare piccole Regioni per crearne altre più piccole. Storicamente la Puglia è sempre stata quella che è, ed è sempre stata indicata come tale. Ricordo a me stesso che nell’epoca in cui i pugliesi godevano pessima reputazione per valore bellico e per amore della verità, Federico II si portò a Brindisi per lusingare quegli abitanti, quali pugliesi, dichiarando che egli si sentiva fiero del suo titolo di Rex Apuliae.

Da Federico in poi non vi è notizia di nessun avvenimento storico che abbia determinato una scissione tale da escludere la qualifica di pugliese agli abitanti di Brindisi, Taranto o Lecce. È ancora da ricordare che Federico, avendo appreso che le popolazioni pugliesi e lucane avevano proposte e lagnanze da sottoporgli, convocò in Corte generale a Gravina tutti i rappresentanti delle provincie pugliesi e lucane, il che conferma, non solo la unità della Regione pugliese, ma anche l’interdipendenza tra questa e la Regione lucana, interdipendenza che anche di recente tutti abbiamo constatato nei lavori per la costituzione dell’Ente dell’irrigazione.

Ai lavori partecipammo tutti i rappresentanti politici pugliesi e lucani sotto la presidenza dell’onorevole Nitti, che dolcemente, ma con fermezza, richiamò il suo «caro Reale», che pretendeva per la Lucania la creazione di un altro e apposito Ente di irrigazione. Sorte che capitò anche all’onorevole Stampacchia, che pretendeva la creazione di un altro e apposito Ente per il Leccese, e ciò per la progettata Regione del Salento.

Il problema regionale lusinga e sollecita la mente di alcuni intellettuali che in esso riversano un esagerato amore per la loro città provinciale; ma i lavoratori, ed è questo quel che conta, non avvertono nella loro coscienza il problema regionale e tanto meno della suddivisione regionale.

I contadini pugliesi han sempre chiesto e chiedono terra: chi è stato nella mia Regione avrà visto che essa è tutta percorsa, sia nella zona murgiosa che piana, da una rete di muretti a secco.

Quei muretti a secco, che vanno dal Gargano al capo di Leuca, rappresentano lo sforzo di generazioni di contadini che – curvi su quella terra nei secoli – l’hanno epurata dando terra, prodotti e ricchezza agli altri, pietra a se stessi.

I muretti a secco, monumento imperituro che i lavoratori si sono eretti, più che di pietra son fatti d’ossa, perché quei contadini son sempre morti di fame nutrendosi appena di bucce di mellone o di pomodori sfatti. Tutta raccolta nella rete di quei muretti, resa feconda dal sacrificio dei suoi figli, la Puglia è una.

Più piccola sarà la Regione, più forte sarà la prevalenza degli agrari: lo ricordino questo il compagno Stampacchia, che sostiene il Salento, il compagno Fioritto che sostiene la Daunia. Nei lontani decenni, voi Stampacchia e Foritto, col compianto Carlo Mauro e con Altro, dal nome caro che non posso pronunciare perché ne porto il nome e il sangue, e con voi superstite di tante battaglie, seguendo l’esempio animatore di Nicola Barbato e di Canio Musacchio, spendeste nobilmente la vostra giovinezza per dare coscienza e libertà alle plebi rurali pugliesi: non vi era allora che un solo proposito, quello dell’unione di tutti i lavoratori pugliesi.

Perché ora scindervi? Chi trarrà profitto da tale vanità? Una provincia arretrata può trarre vantaggio d’impulso democratico dall’appartenenza a una Regione ove concorrano provincie più progredite e fortunate: sola, elevata a Regione, resterebbe nello stato di arretratezza.

La Puglia è una e va dal Gargano a Leuca, e la Regione è una innovazione accettabile soltanto come ente di coordinamento fra le varie provincie perché ormai la vita è diventata più intensa, i lavori pubblici non si possono più condurre nell’ambito del comune e non si possono amministrare e contenere nell’ambito della provincia; è necessario un coordinamento, non di più. Niente potere legislativo e niente abolizione della provincia, perché non si deve mai distruggere quel che è radicato nella coscienza del popolo. In tale direzione l’ente Regione, così profilato, potrà svolgere opera utile; ma non sbarrate con artificiose autonomie il libero fluire della linfa democratica nel corpo tuttora sofferente della Nazione.

Non calzate con disinvoltura il coturno delle autonomie locali: potreste trovarvi a calpestare la libertà con scarponi ferrati. Non abbiate timore se il contadino alza forte e nudo il suo braccio: è gesto non di minaccia né di violenza, ma di confidenza nell’unità della Patria, che va compresa non solo in termini fisici di geografia, ma anche e soprattutto in termini umani di libertà e compattezza sociale.

Lasciate che il lavoratore stenda la sua mano benefattrice e sempre benedicente: egli solo può accorrere con piena passione e franco cuore a sanare le ferite della grande tormentata, della gran madre comune, Italia. (Applausi).

PRESIDENTE. È iscritto a parlare l’onorevole Abozzi. Ne ha facoltà.

ABOZZI. Onorevoli colleghi, avrei rinunciato a parlare se non fossero in giuoco, in duro giuoco, le sorti della Sardegna, se non sentissi il preciso dovere di sfatare una leggenda pericolosa tra quante se ne possono narrare in terra sarda: la leggenda che tutti in Sardegna sono autonomisti, dal bambino che vagisce al vecchio che rantola. E questo non e vero. Voi potete anche credere che io esageri per difetto, come si può credere che l’onorevole Lussu esageri per eccesso; ma in quest’Aula si è levata una voce libera, la voce dell’onorevole Grazi. Grazi conosce perfettamente la Sardegna ed è stato nostro ospite stimatissimo per anni e anni. Egli ha detto che i sardi sono indifferenti al problema dell’autonomia regionale, anche se è vero che in Sardegna esiste un partito autonomista.

Io parlerò contro l’Ente Regione ed a favore di un decentramento che consenta quel tanto di autonomia che si può ragionevolmente pretendere. L’onorevole Tessitori, polemizzando con i sostenitori del decentramento amministrativo (decentramento nel senso classico della parola), disse che in Italia si è parlato di decentramento dal 1860, ma che non se ne è fatto niente. Mi permetto di rispondere all’onorevole Tessitori che di questo non si può far colpa all’idea: se fosse buona rimarrebbe buona, anche se gli uomini non hanno saputo o potuto attuarla. E aggiungo per debito di giustizia che se l’idea dell’ente Regione fosse buona, tale rimarrebbe anche se la Costituente non l’approvasse.

Ma il problema non va messo in questi termini. Il problema è questo: quale delle soluzioni, la più mite (decentramento) o la più radicale (ente Regione) è accolta dalla coscienza pubblica? Quale delle due soluzioni, la più mite o la più radicale, si adatta al momento politico ed economico attuale? Questo il problema. E quanto al rigurgito di carte dalla periferia al centro, di cui parlava l’onorevole Tessitori, rigurgito che è caratteristico dello Stato accentratore, io vorrei dire che le carte continueranno a correre, e la Regione non farà risparmiare un solo soldo di carta. Continuerà a correre dalla periferia al capoluogo, invece che a Roma: il viaggio sarà più corto, ma questo solo è il vantaggio.

L’onorevole Tessitori disse ancora che una delle categorie di persone che più si oppongono all’ente Regione è composta dai paurosi, dai timidi, forse avrebbe voluto dire dai vili, da quelli che temono il famoso salto nel buio; e usò un paragone, che è stato già rilevato dall’onorevole Preti: se un uomo attendesse la perfetta sistemazione della sua posizione economica per prender moglie non la prenderebbe mai. Io sono d’accordo con l’onorevole Preti nel ritenere che se un uomo ricco di un cuore e di mezza capanna vuole rompersi l’osso del collo è padrone di farlo; ma quando si tratta delle sorti della Nazione, allora la prudenza s’ha da chiamar prudenza e non sono lecite quelle esperienze, che gli uomini di scienza chiamano esperienze «per vedere».

Ma, ribadisce l’onorevole Sullo, anche per la Repubblica si temeva il salto nel buio, e la Repubblica è un fatto. L’analogia non regge, perché sul problema istituzionale si è pronunciato il popolo, ed il popolo non si è pronunciato sulle autonomie regionali. Né si dica che l’Assemblea è il popolo: l’Assemblea rappresenta il popolo, ma non è il popolo, e non vi è un solo deputato di questo mondo che possa credere che l’elettore abbia detto di sì a tutti i punti del suo programma. Ricordiamo quello che è accaduto in Francia: i deputati hanno detto sì e gli elettori hanno detto no.

Se la Democrazia cristiana credesse di aver raccolto i numerosi voti che ha raccolto per il suo programma autonomistico…

UBERTI. Anche per quello.

ABOZZI. …sbaglierebbe di grosso: li ha raccolti perché voleva essere un partito di centro, fondato sulla morale e sulla religione di Cristo. Ecco perché gli elettori hanno votato.

Una voce al centro. Hanno votato per un programma.

ABOZZI. Gli autonomisti in Sardegna hanno votato per il partito sardo di azione che è un partito autonomistico, e gli autonomisti hanno avuto nella migliore ipotesi 78.543 voti su 463.736 schede valide: poco più di un sesto. Ho detto nella migliore ipotesi, perché in Sardegna i risultati non rappresentano la forza reale dei partiti: si vota l’uomo; i risultati rappresentano la forza reale del partito accresciuta delle forze dell’uomo.

LUSSU. Avete fatto tutti gli autonomisti, tutti i partiti hanno fatto gli autonomisti e ci avete assassinato.

ABOZZI. Non è esatto. Ti dirò poi quale è la nostra autonomia. La prudenza, quella che io chiamo prudenza e che l’onorevole Tessitori vorrebbe chiamare viltà, è tanto più doverosa in quanto anche l’onorevole Nitti, denunciando i gravi pericoli dell’autonomia regionale, ha usato, non parole, ma cifre. E le cifre non si discutono, le cifre prevarranno sempre contro la povera logica umana, che conclude da parola a parola, tanto più quando la parola è questa: autonomia. Parola equivoca, non univoca; parola carica di significati. C’è l’autonomia comunale, la provinciale, la regionale, l’amministrativa, la politica. Una di quelle parole che il Fogazzaro chiamerebbe «pneumatiche».

LUSSU. Noi diciamo: autonomia e riforma agraria; ecco perché tu sei contro.

ABOZZI. Non è vero. Non portare qui delle questioni personali.

LUSSU. Non personali.

RUSSO PEREZ. Sardo anche tu sei, non mi inganni…

ABOZZI. Antonio Fogazzaro chiamava «pneumatiche» certe parole, forse intendendo che nel vuoto si può mettere l’aria che si vuole, e nel vuoto della Costituzione è stata messa l’aria regionale. Ed è a questo ente Regione, non al principio autonomistico, che io mi oppongo, come italiano e come sardo, e con questo non intendo affatto dar valore allo Stato accentratore.

I miei emendamenti e il mio ordine del giorno parlano chiaro. Io penso che si possa mutare la forma dello Stato, anche in un giorno, ma non se ne muta in un giorno la struttura. Tanto meno si può mutare in quanto è lecito credere che la riforma non sia nella pubblica coscienza. I miei emendamenti vogliono tener conto di due esigenze: una esigenza di decentramento, che è profondamente sentita nel Paese e profondamente sentita in Sardegna; ed una esigenza che non sia attuato l’ente Regione, perché non apparisce né una riforma sentita né una riforma opportuna oggi. Mi limito a dire «oggi», non pregiudico l’avvenire; oggi, no.

LUSSU. Però il rappresentante dell’Uomo Qualunque al Congresso agricolo sostiene l’autonomia, a vostro nome!…

ABOZZI. Senti, Lussu; io non ti ho mai interrotto, ed avrei potuto farlo mille volte, non una.

Pur rendendo omaggio alla fatica della Commissione, pare a me che un progetto di autonomia avrebbe richiesto un lavoro lungo, molto lungo, paziente, meditato, starei per dire meticoloso: quale non poteva farsi in limiti perentori di tempo. Non dico che anche in breve tempo non possano essere proposte riforme che intacchino istituti che rimangono invariati nella loro essenza: il Capo dello Stato, il Parlamento, il Governo. Ma in tema di. autonomia, onorevoli colleghi, si tratta di creare dal nulla, si emula il Padre Eterno, e la fatica che è riuscita così felicemente al Padre Eterno non è detto che altrettanto felicemente riesca a noi.

Da quando l’Italia è unificata, si è sempre cercato di unificarla anche come spirito, e si è sempre combattuto contro tutte le tendenze regionalistiche che pareva dovessero turbare l’unità della Patria. D’improvviso, quel regionalismo, che sembrava l’avanzo di una triste eredità storica di lotte e di divisioni, è diventato la suprema esigenza nazionale. O si è sbagliato prima o si sbaglia adesso; ma qual è il tempo dell’errore? È inutile scrivere: «la Repubblica è una e indivisibile» quando in realtà è divisa in 22 aggruppamenti Regionali che hanno tutta l’aria di staterelli, sia pure attenuati, vorrei dire di staterelli denicotinizzati; ma sempre staterelli. L’unità è data dalla realtà effettuale, non dall’ostentazione delle parole.

L’onorevole Zotta disse che non si può parlare di Stati perché non c’è sovranità. Giusto, non si contesta questo; ma la paura è un’altra, la paura è che – come nei Promessi Sposi si parla di un borgo che s’incammina a diventare città – così si possa parlare in avvenire di Stati attenuati pronti a caricarsi di quella nicotina che adesso non hanno.

È strano il fatto che molti autonomisti di oggi in tempi non lontani erano federalisti. E l’onorevole Lussu si è lasciato scappare una parola rivelatrice…

LUSSU. Sono chiamato in causa, allora!

ABOZZI. Si, ma garbatamente. L’onorevole Lussu ha detto che in Francia esiste un movimento federalista «che purtroppo è limitato ad un gruppo di intellettuali»: quel «purtroppo» è rivelatore. L’onorevole Lussu ha sempre detto che non è federalista. Io sono disposto a credergli, perché penso che sia un uomo di buona fede, e non faccio il processo alla sua coscienza. Faccio invece il processo alla sua subcoscienza: capisco che è arbitrario questo freudismo politico, ma io me lo permetto. Nasce il forte sospetto che molti autonomisti abbiano una coscienza regionalista e una subcoscienza federalista.

LUSSU. Se la sua coscienza avesse la prevalenza, lei non parlerebbe così!

Una voce a destra. Perché non parlerebbe?

PRESIDENTE. Onorevole Lussu, la sua coscienza ha parlato l’altra sera per un’ora e mezzo! (Si ride).

ABOZZI. Alla mia coscienza penso io: mi limito a dire che forse molti autonomisti, senza saperlo e senza volerlo, sono federalisti. Si dice che la Regione è un aggruppamento unitario naturale e che, parlando di diverse Regioni, non si fa in fondo altro che seguire il dettato stesso della natura.

Ma neppure scientificamente è facile stabilire quello che sia la Regione. Tuttavia io sostengo che la regione non è affatto un aggruppamento naturale, unitario, con bisogni e risorse uguali in tutte le parti delle zone territoriali che le formano, con uno spirito uguale dal nord al sud e da occidente ad oriente.

E la prova è questa: che si creano sempre nuovi aggruppamenti regionali, che si fanno da tutti impensate richieste di impensate Regioni. E non è uno scandalo, onorevoli colleghi: è naturalissimo quello che accade, perché sono proprio i bisogni non riconosciuti, sono i particolarismi oppressi che vogliono venire alla luce, sono le provincie che tendono alla loro naturale e giusta vendetta.

È notate una cosa: che il progetto di Costituzione, consentendo la formazione di nuove Regioni, riconosce che le Regioni elencate non sono né unitarie né naturali. È stato detto più volte in quest’Aula – ma io, come sardo, sento la necessità di ripeterlo – che il sistema decentratore è stato violato, perché l’ente Regione, come ben diceva l’onorevole Colitto, si risolve in un accentramento nel capoluogo, con la conseguenza di una lotta fra il capoluogo stesso e le provincie detronizzate.

Ma che cosa dico? Non si tratta soltanto di una lotta fra il capoluogo di Regione e le provincie detronizzate; si tratta anche di una lotta tra Regione e Regione, di una lotta tra Regioni povere e Regioni ricche.

L’onorevole Zotta ha detto che le Regioni povere debbono potenziare le loro attività – cito le precise parole – stimolando le possibilità autoctone, così da pervenire ad un equilibrio economico. Parole nobilissime, come tutte quelle che pronuncia l’onorevole Zotta, ma parole che non tengono conto della realtà. Se l’onorevole Zotta varcasse il nostro inquieto Tirreno e toccasse la dolente isola sarda, si convincerebbe in un’ora che, nonostante i potenziamenti, nonostante lo stimolo delle possibilità autoctone, cento ettari di terreno delle nostre plaghe desolate varranno sempre meno di un solo ettaro di terreno della Val Padana e le nostre povere, le nostre misere industrie sono a distanza stellare dalle industrie del Nord.

L’autonomia è una tal cosa che tende a fare da sé e per sé. Io non so se non debbano sorgere gravi competizioni fra Regione e Regione per la spartizione di quei fondi, non troppo precisati, di cui parla l’articolo 113 del progetto di Costituzione.

Dicendo queste cose, credete, io non voglio fare del vieto campanilismo, voglio anzi oppormi a quelle conseguenze di troppa cruda rivalità che fatalmente nascerebbero in Sardegna dal sistema regionalistico. Ma voglio subito aggiungere che se «campanilismo» significa la rivendicazione di diritti oppressi, e di particolarismi non riconosciuti, ebbene, ho il coraggio di dire che sono campanilista.

E considerando la portata finanziaria della riforma, come può considerarla l’uomo che paga le imposte e non si occupa di politica, io dico che il lusso del parlamentino, dei deputati, dei ministri o consiglieri di governo, dei ministeri, dei Presidenti delle Regioni, graverà forte sul bilancio dell’ente Regione e sarà dalla Regione pagato caro. E poiché la Regione in un certo senso è un’astrazione, ma non sono invece astratti quelli che si chiamano volgarmente contribuenti, questo lusso graverà sul contribuente. Su quei contribuenti che sono chiamati oggi ad un enorme sforzo, a sacrifici che fanno volentieri per la ricostruzione della Patria, ma che non sono affatto disposti a finanziare le spese voluttuarie della Regione. Un tempo il popolo pagante aveva uno strano nome: lo si chiamava «Pantalone»; ma col sistema finanziario della Regione, che è questo: la Regione arriva fino a dove arriva, dove non può arrivare, arriva lo Stato e paga, si è creato un nuovo «Pantalone», e questo Pantalone è lo Stato. Strana autonomia questa – scriveva or non è molto uno studioso sardo di parte liberale – che vive alla mercé della elargizione dello Stato!

Se si volesse attuare un razionale decentramento, si dovrebbe scegliere la provincia come centro vitale. La provincia che ha una grande tradizione storica, la Provincia che si è affermata nella struttura amministrativa dello Stato, potrebbe sostituire quel centro che si vuole vedere nella Regione: potenziata, s’intende, e svincolata per quanto è possibile dal centro. I Consigli provinciali potrebbero eleggere rappresentanti in egual numero i quali potrebbero provvedere alla regolamentazione delle leggi dello Stato. E poiché un regolamento non è solo un qualche cosa che chiarifica la legge, ma contiene anche norme che discendono logicamente dalla legge, esisterebbe un campo giuridico sufficientemente largo per provvedere ai bisogni della Regione. Ed ecco quella che io chiamo un’autonomia regionale. Con questo vantaggio: che un organo regionale così composto peserebbe ben poco sul bilancio della provincia.

Non si intende dunque mettere al bando i problemi dell’autonomia. I problemi non sorgono a caso, ma rispondono sempre a esigenze sentite: si intende attuare quella autonomia che è nella coscienza nazionale e nulla più: un largo decentramento che non turbi la struttura dello Stato. Questa volontà di decentramento è giusto sia consacrata nella Costituzione; ma non è giusto che sia approvato con quella stessa facilità con cui si dice «buon giorno» lo statuto Sardo ormai già conosciuto dal Governo e dai deputati. Si è formato uno strano stato di spirito. Si dice: «le autonomie regionali sono discutibili, ma sono discutibili in campo continentale; in campo sardo no». L’autonomia della Sardegna non si può discutere, perché? Perché – ha detto l’onorevole Bonomi in un articolo apparso qualche giorno fa in un giornale della sera – perché la Sardegna la vuole. La Sardegna non vuole nulla, dico io, o vuole molte cose; e fra queste molte cose non c’è certo l’autonomia.

A parte l’opinione mia a quella dell’onorevole Lussu o dell’onorevole Grazi, c’è un modo molto semplice per sapere se la Sardegna vuole o no l’autonomia: si parla nello Statuto sardo di referendum; ebbene, si faccia il referendum e si saprà quel che la Sardegna veramente vuole.

E a parte questo, lasciate che io vi denunci uno strano criterio politico: concedere riforme unicamente perché sono volute. Ma un governo che rispetta se stesso concede riforme soltanto quando sono necessarie, quando le ritiene veramente opportune, non quando sono volute. Che cosa direste di un padre di famiglia che concedesse ai figli qualunque cosa essi volessero, senza curarsi se quella qualunque cosa è buona o cattiva?

Una voce. Ma questo è paternalismo!

LUSSU. Ma tutti i partiti si sono battuti per l’autonomia della Sardegna! È una truffa politica inaudita, inaudita!

ABOZZI. Nessuna truffa. Nel caso nostro i figlioli, che sono i sardi, non chiedono l’autonomia: più grave dunque la responsabilità del Governo.

Io non sono qui per discutere in questa sede il progetto di autonomia sarda, ma voglio pregustarlo. Se si trattasse di legiferare nelle piccole materie, nelle modeste materie che ha citato l’onorevole Einaudi, il male non sarebbe grave.

Ma non è così: compete alla Regione, come competenza primaria, la potestà legislativa in materia di agricoltura, foreste, piccole bonifiche, di disciplina dei diritti demaniali sulle acque pubbliche, di disciplina dei diritti demaniali e patrimoniali indisponibili relativi alle miniere, di disciplina degli istituti di credito regionali, di lavori pubblici a carico della Regione; e la potestà legislativa concorrente si riferisce all’antichità e belle arti, all’industria, commercio ed esercizio industriale, all’igiene, alle opere di grande e media bonifica.

E le norme di integrazione sono emanate in materia di lavoro, di istruzione di ogni ordine e grado, e ordinamento degli studi. Ed è questo, quest’ultimo titolo che ha sollevato le proteste – non mie, onorevole Lussu– ma del corpo accademico di Sassari che parla di male intesa autonomia regionale con una lettera mandata a tutti i deputati sardi (poiché anch’io l’ho ricevuta) nella quale si fanno voti affinché dallo Statuto venga depennata ogni e qualsiasi ingerenza in materia di ordinamento degli studi e di ordinamento universitario.

BELLAVISTA. Non sono sardi e temono di non essere trasferiti in Continente. Li conosco.

ABOZZI. Non è questa la ragione della giusta protesta. Nell’articolo 64 si sancisce il diritto di fermare l’attività legislativa dello Stato sospendendo l’applicazione delle leggi statali evidentemente dannose nel territorio della Regione.

Voi comprendete che le parole «evidentemente dannose» corrono il pericolo d’una interpretazione soggettiva: e quello che sembra evidente alla Regione potrebbe sembrare oscurissimo al centro. S’infirma così l’autorità dello Stato.

Per l’articolo 68 le leggi che il Governo avrà rinviate all’Assemblea regionale entrano in vigore ove l’Assemblea le approvi ancora, se entro 15 giorni dalla nuova comunicazione il Governo della Repubblica non le impugni davanti alla Corte costituzionale. Voi vedete quali fastidi potrebbe dare un’Assemblea che troppo sentisse la sua autonomia. E non basta ancora. Qualora il progetto di modifica dello Statuto da parte del Governo repubblicano sia stato approvato in prima lettura e l’Assemblea regionale dichiari la sua opposizione, la seconda lettura sarà preceduta da un referendum regionale.

Quindi bisogna fare il referendum regionale, senza del quale la Camera non passerà alla seconda lettura. E se il referendum è anch’esso contrario al progetto di modifica? Il referendum avrebbe il potere di impedire il passaggio alla seconda lettura dando vita ad un contrasto fra Assemblea regionale e Governo? E anche se non avesse questo potere, rimarrebbe un preoccupante contrasto tra Camera e Regione.

L’articolo è per me terrificante. (Proteste Commenti). Non sono un uomo che volga le cose al tragico: tutt’altro. Sono un uomo che vuol notare l’ironia insita in queste disposizioni. E l’ironia è questa: che fortunatamente i progetti di legge possono essere approvati con un procedimento che non è quello delle tre letture, e allora l’ostacolo è bell’e girato.

Concludendo: o si dà alla Sardegna una autonomia così radicale come quella proposta dalla Consulta Sarda, e si corre il rischio di separare l’isola dalla Patria; o si limita la concessione ad una piccola autonomia, e allora non si comprende che necessità ci sia di formare la pomposa Regione per legiferare in materia di pesca, di caccia, di guardie e di tramvie, e neppure si comprende perché si debba creare tutta l’impalcatura richiesta dall’autonomia, con l’elezione di deputati, con ministri e ministeri, con vari presidenti, ecc. La Sardegna è molto attaccata alla madre Patria, ma non bisogna correre il rischio di allentare questi vincoli; non dimenticate, onorevoli colleghi, che un largo tratto di mare divide la Sardegna dal Continente.

L’onorevole Lussu ha detto che la Regione sarebbe stata una grande barriera contro la dittatura perché i prefetti andrebbero a spasso e ha aggiunto anche che se l’onorevole Giannini volesse fare una nuova marcia su Roma non potrebbe farla, arrestato dall’ente Regione. L’onorevole Giannini ha molte qualità, ma non ha le physique du rôle per fare il conduttore degli eserciti marcianti su Roma o su altrove. La snellezza dell’onorevole Lussu e la sua audacia spirituale sarebbero molto più adatte.

La Regione non fa da barriera né alla epidemia né alla dittatura. Di qual barriera si vuol parlare se la Repubblica è una e indivisibile: se l’ordinamento giuridico è uno; uno, l’ordinamento costituzionale? E se c’è un commissario del Governo che vigila, secondo le direttive generali del Governo, gli atti dell’amministrazione regionale e presiede a quelli riservati allo Stato? Evidentemente quel Commissario è un iperprefetto: e l’onorevole Lussu non pensa che 22 commissari siano più maneggiabili di 90 prefetti.

L’articolo 107 del progetto di Costituzione dice chiaramente che la provincia è mantenuta: ma di nome; di fatto non c’è più; e così, con nove parole, si distrugge una tradizione: perché, parliamoci chiaro, o la provincia ha un suo bilancio, una sua assemblea, un suo patrimonio e allora è qualche cosa giuridicamente; o non ha assemblea, non ha patrimonio, non ha bilancio, e non è nulla. Non può essere certo quella Giunta, di cui parla l’articolo 120, a dar vita ad un cadavere che la Commissione ha già composto nella bara. Le provincie hanno un patrimonio che vogliono amministrare da sé. La mia provincia, relativamente all’estrema miseria della Sardegna, ha un patrimonio cospicuo e vuole amministrarselo da sé. Le questioni teoriche sulla provincia sono confinate nei trattati di diritto amministrativo, perché la pratica degli interessi reali della provincia si è affermata. Ho parlato d’interessi reali, e voglio citare un solo esempio. Si può veramente credere che le Assemblee regionali possano tutelare gli interessi delle comunicazioni, che sono così importanti per le provincie? Ci sono i rappresentanti provinciali anche nell’Assemblea regionale, ma la maggioranza dell’Assemblea regionale si curerà e sentirà i problemi della viabilità delle zone vicine al centro, non di quelli della lontana Gallura. L’onorevole Lussu, in un discorso alla Consulta sarda, disse che la provincia aveva tre soli compiti: curare i pazzi, eleggersi un presidente e provvedere alle strade. Io ritenni inesatta allora quest’affermazione dell’onorevole Lussu e la ritengo inesatta adesso. Non starò ad elencare i numerosi compiti della provincia: dico soltanto che essi dovrebbero anche aumentare perché le molte funzioni che sono ora della Prefettura, se le Prefetture verranno soppresse, passeranno alla provincia: cito ad esempio le funzioni del veterinario e del medico provinciale. Una domanda io faccio all’onorevole Lussu: come mai egli possa aver dimenticato che la provincia provvede anche ai tubercolosi, ai tracomatosi ed ai malarici: malaria, tracoma e – in provincia di Sassari – tubercolosi sono tre piaghe della Sardegna.

LUSSU. Io sono stato consigliere provinciale parecchi anni; ho amministrato e so di che si tratta.

In quella seduta, alla quale il collega ha fatto già riferimento, egli ha esaltato la mia azione politica ed autonomistica ed ha reso omaggio…

ABOZZI. Ho reso omaggio ad altra tua qualità, che nessuno ti può contestare e alla tua tenacia nel difendere le idee che sono le tue e non le mie.

LUSSU. L’onorevole Abozzi teme che Sassari non sia più capoluogo di provincia.

ABOZZI. Esattissimo. Ebbene?

Una voce al centro. Campanilismo.

ABOZZI. Campanilismo giusto. E molti democristiani non sono forse favorevolissimi alla provincia? Sono per questo campanilisti?

RUSSO PEREZ. È forse parola di offesa «campanilismo»?

ABOZZI. Onorevole Lussu, mi meraviglia come si possa sorridere del problema delle strade, quando si sa che il problema sardo è anche problema di strade. (Interruzione dell’onorevole Lussu).

E c’è, onorevoli colleghi, un’altra ragione per mantenere la provincia, una ragione di psicologia: il medico deve intendere le variazioni del polso dei suoi malati, il politico deve intendere le variazioni delle coscienze. Non bisogna fare nascere dissensi tra capoluogo e provincie spodestate; dissensi che certamente nascerebbero con la formazione dell’ente Regione.

E d’altra parte, anche a mettermi dal punto di vista regionale – rispondo all’onorevole collega che mi interrompe – non capisco in che cosa la provincia possa turbare l’ordinamento regionale. Come la regione vive nell’orbita dell’ordinamento giuridico dello Stato, così la provincia può vivere nell’orbita dell’ordinamento giuridico della regione.

Una prova generale dell’ente Regione è in atto in Sardegna. C’è l’Alto Commissario e la Consulta. Quali i risultati della prova? Questi: che le provincie di Sassari e di Nuoro hanno fatto vivere la Regione. È noto infatti che le attività del bilancio regionale sono dovute al concorso dello Stato ed ai fondi derivanti dai permessi di esportazione. L’olio, i formaggi, il bestiame provengono in massima parte dalle provincie di Sassari e di Nuoro, in pochissima parte dalla provincia di Cagliari e in nulla dalla città di Cagliari. Sassari, da una parte, ha contribuito grandemente al mantenimento della Regione e, dall’altra, continua a perder milioni per l’obbligo del conferimento del suo olio agli ammassi. La prova generale non promette una buona rappresentazione: togliere a Sassari la provincia peggiorerebbe – e di molto – la non lieta situazione.

Se l’istituzione dell’ente Regione sarà approvata, ebbene, dirò che Dio vuole quel che il popolo vuole, e non se ne parli più.

A me non resterà che la santa virtù della rassegnazione; manteniamo, però, la provincia come ente autarchico territoriale.

L’Italia ha bisogno di spiriti concordi; non creiamo figli e figliastri; e se figliastri ci hanno da essere, sia la natura a crearli, non la volontà degli uomini, non la legge improvvida. (Applausi a destra).

PRESIDENTE. È iscritto a parlare l’onorevole Bubbio. Ne ha facoltà.

BUBBIO. Onorevoli colleghi, dopo aver sentito i discorsi eloquenti pronunciati dall’onorevole Assennato e dall’onorevole Abozzi, entrambi contrari alle Regioni, vorrei discutere a lungo e a fondo delle loro acute osservazioni, se non mi fossi prefisso un compito assai più modesto e pratico, quello di trattare alcune questioni inerenti all’organizzazione della Regione. Tuttavia, vogliate permettere che io mi limiti ad obiettare all’onorevole Abozzi che noi non concepiamo una Regione che debba nascere come Minerva armata dalla testa di Giove; né si può pretendere che nella Costituzione siano indicati tutti gli organi, tutte le funzioni, tutti i mezzi con cui la Regione deve attuarsi e organizzarsi. E d’altra parte quando sentivo l’onorevole Assennato accennare ai precedenti storici della Regione e paventare, giustamente paventare, in ipotesi, un ritorno del federalismo, che mai è esistito se non come cogitazione storica e dottrinale, io che appartengo al Piemonte, che è una Regione per eccellenza, per tradizione storica, per lingua, per costumi, per economia, sento il dovere di dichiarare con perfetta coscienza per la responsabilità del peso e dell’onere che mi incombe, che i deputati piemontesi della Democrazia cristiana non paventano il federalismo, perché altro è la funzione a cui esso mirava, altra è la finalità con cui esso era sorto.

Ancora una volta dichiariamo che non si vuole approfondire il distacco fra il Nord ed il Sud e che per non approfondirlo occorre, appunto, creare la Regione come strumento per cui gli interessi localistici possano essere fatti valere e trovare la loro attuazione.

Dissertare oltre del problema delle autonomie in genere, e di quelle regionali in ispecie, all’tavo giorno della discussione generale, dopo che decine di oratori l’hanno con acume ed eloquenza approfondito e dopo tanta colluvie di pubblicazioni in punto, mi pare un fuori d’opera, giacché per vero non si potrebbero portare elementi nuovi decisivi.

Faccio perciò grazia di ogni argomentazione di carattere generale, prescindendo dalla trattazione che avrebbe dovuto in origine costituire la parte più importante del mio discorso.

Mi si permetta però unicamente di ricordare, se pur fosse d’uopo, che il problema trascende ogni interesse di partito; che se la Democrazia cristiana la si vuole più decisamente impegnata, per l’apostolato per tanti decenni sviluppato in tal senso dai suoi uomini maggiori, parmi del tutto infondata la supposizione che essa sia portata a tale affermazione impegnativa dall’influenza esercitata dalla tradizione della Chiesa, che ha una organizzazione locale inspirata a principî di autonomia; e peggio ancora che la Democrazia cristiana caldeggi l’autonomia regionale in quanto si riprometta da essa un consolidamento delle sue forze. Nulla di meno esatto, sia perché nessuna stretta analogia è prospettabile tra Chiesa e Stato, che deve provvedere alla tutela non soltanto dei valori dello spirito, ma soprattutto di quelli sociali ed economici dei cittadini e per la quale si richiede tutta un’organizzazione profondamente diversa; mentre per ciò che riguarda il maggiore consolidamento del partito, non è chi non veda che, se il decentramento può essere utile alla Democrazia cristiana, né sappiamo in quale modo, gli stessi beneficî verisimilmente sarebbero raggiunti ed acquisiti anche da qualunque altra organizzazione politica.

Se i rappresentanti democratici cristiani si sono uniti in compatta falange anche in questa dura battaglia, gli è perché, con senso realistico, essi vogliono riguardare l’autonomia regionale come il sicuro rimedio al male che mina lo Stato alla sua radice. Essi non vogliono soltanto portare il Governo alla porta degli amministrati col decentramento burocratico amministrativo, ma porre gli amministrati, come dice il Presidente della Commissione nella sua luminosa relazione, al governo di se medesimi; con l’abolizione della legislazione unica e del fiscalismo uniforme, con la diretta corrispondenza della norma alle esigenze particolari, con la possibilità, alfine, della formazione di una classe media politica, della cui carenza la nazione indubbiamente soffre; e soprattutto intendono con la Regione attuare una riforma che abbatta l’accentramento da cui deriva ogni totalitarismo.

Né si dica che la riforma non sia sentita dal popolo; che se, come ha qui dichiarato l’onorevole Gullo, gli elettori gli hanno richiesto non l’autonomia regionale, ma lavoro (non diversamente dalla massaia romana ché, vedendo il capannello della gente a leggere ai canti delle vie la copia dell’Unità affissa, domandava sarcastica: «ci sono finalmente li spaghetti anco per noantri?»), non è men vero che ogni giorno tutti i deputati sentono lagnanze innumeri sull’impossibilità di ottenere dallo Stato l’adempimento regolare di quelle funzioni che gli sono commesse. Né è con la sola logica del ventre che si può educare il popolo al progresso! L’onorevole Assennato ha dipinto a colori che sanno di sanguigno la posizione del problema agrario della sua generosa terra; ma è evidente che l’argomento si ritorce contro di lui, perché lo Stato difficilmente potrà risolvere tali questioni, cui potrà provvedere solo l’ente regionale, diretto ed autorevole tutore dei locali interessi. Bisogna quindi tentare altri mezzi; e noi sosteniamo la Regione perché essa solo possa costituire il mezzo per la risoluzione di questioni ormai secolari di carattere locale.

Ed aggiungo ancora che non ho cominciato ad essere favorevole alla Regione dalla data di iscrizione al Partito popolare prima ed alla Democrazia cristiana poi, o da quando nel 1920 e nel 1947 ne ho parlato da questi banchi, dappoiché, e mi si perdoni il ricordo personale, tale mia convinzione, frutto di personale esperienza, si era in me radicata fin da quando nel duro cimento dei primi passi della carriera burocratica locale avevo potuto constatare gli esiziali inconvenienti della centralizzazione totale e del soffocamento delle autonomie; e già in una mia pubblicazione del 1915 affermavo tale convinzione portando il modesto contributo delle mie osservazioni.

Chiudendo la parentesi, seguo piuttosto il consiglio autorevolmente datomi dall’onorevole Ambrosini, che è il benemerito ed eloquente relatore della Regione, cui ha dato tutta la sua fede e l’acutezza del suo ingegno, di soffermarmi su qualche punto specifico del problema, sotto un punto di vista prevalentemente pratico.

Questo sistema mi pare, almeno a questo punto della discussione generale, anche il più opportuno per sgombrare talune delle più ricorrenti eccezioni degli oppositori.

Ed invero da alcuni di essi si è sentito ripetere che anch’essi sono in linea di principio favorevoli alla regione, ma la loro prevenzione ed il loro timore derivano dalla considerazione delle difficoltà di pratica concretazione. Mi soffermerò quindi sulla burocrazia regionale e sulla finanza del nuovo ente, nonché sul decentramento amministrativo.

Una prima e più generale eccezione riguarda la burocrazia del nuovo ente; con la creazione della Regione, come scriveva anche recentemente l’antesignano del regionalismo Luigi Sturzo, gli avversari dicono: «oggi abbiamo una burocrazia centrale, domani ne avremo una centrale e venti regionali». Risponde questo autore che l’obiezione è dovuta alla mentalità centralista che deve essere modificata da un aspetto più realistico, giacché anche nelle Regioni si dovrà comprendere che la burocrazia dovrà essere limitata e selezionata e che i servizi tecnici dovranno essere inspirati al tipo dell’azienda privata, con pochi dipendenti, efficienti e responsabili e, aggiungiamo noi, compensati giustamente.

Ancora l’altro ieri da un autorevolissimo parlamentare sentivo ripetere come una verità di fede: «non si potrà ottenere la contrazione dell’apparato burocratico centrale; nessuno si moverà da Roma…!».

Siamo d’accordo che la macchina burocratica è tra le più complesse e complicate che si conoscano; che essa ogni giorno aggiunge una ruota e un ingranaggio ai suoi congegni; che toccarla in una parte equivale a rallentamento e a fermate; che è sommamente difficile dividerla e smontarla.

Ma è evidente che si tratta anche di frasi fatte e che esse, come tutti gli slogan, quanto meno peccano di esagerazione.

Ora in rapporto agli organi funzionali della Regione si deve porre ben chiaro il principio che non si deve creare una nuova burocrazia specializzata, ma che si deve usufruire in ogni caso di quella governativa già esistente, trasferendola ai ruoli locali.

L’affermazione non è semplicistica, ma è strettamente adesiva alla realtà, per cui, assumendo la Regione parte delle funzioni dello Stato, è matematicamente certo che dovrà in corrispondenza verificarsi al centro un eccesso di dipendenti.

Lo Stato, ritornato finalmente forte, almeno lo speriamo, non avrà quindi che da prendere un complesso di provvedimenti di ovvia opportunità, e che qui senza pretesa di precisione elenchiamo:

1°) interdire allo Stato la assunzione di nuovo personale, anche avventizio, per un periodo prefissato prorogabile;

2°) stabilire il principio che il dipendente, conservati i diritti acquisiti, possa essere trasferito da un’amministrazione governativa ad un’altra, non solo, ma dal ruolo centrale al ruolo locale, alle dipendenze tanto dello Stato che della Regione;

3°) operare con i trasferimenti lo sfollamento da Roma dei dipendenti non legati da matrimonio;

4°) interdire agli enti locali per un certo periodo l’assunzione di personale in modo diretto, fino ad assorbimento di quello esuberante governativo;

5°) agevolare con qualche concessione i dipendenti che intendono trasferirsi dal centro spontaneamente;

6°) stabilire per i posti locali la precedenza a favore dei dipendenti statali che siano oriundi della regione in cui i posti sono vacanti; e tale molta ho ragione di ritenere sarà talmente potente che ci saranno certamente più aspiranti al trasferimento che non posti disponibili;

7°) se infine tutti questi mezzi e quegli altri che si possono escogitare non fossero sufficienti, lo Stato dovrà avviarsi alle misure drastiche della smobilitazione delle sue eccessive legioni di dipendenti, dietro indennizzo; qualche facoltà di soppressione dei posti indubbiamente deve spettare allo Stato per legge organica.

D’altronde, si faccia o non si faccia la Regione, la riforma della burocrazia si imporrà ugualmente, non essendo concepibile l’ulteriore mantenimento di questa mostruosa e leviatanica macchina, per cui, come già accennava l’onorevole De Gasperi in un suo luminoso radiodiscorso di giorni sono, non può oltre essere ammissibile che un abitante su 43, neonati e vegliardi compresi, sia alle dipendenze del Governo; e ciò con le ben note conseguenze paradossali che più cresce il numero degli agenti e meno perfettamente le funzioni pubbliche sono esplicate.

Partiamo adunque dal presupposto che l’ente Regione, sia in modo diretto che attraverso gli organi provinciali, non dovrà accrescere di una unità sola la falange burocratica, ma dovrà usare della burocrazia governativa già esistente.

D’altra parte, è pregio dell’opera ricordare che anche molti di coloro, che avversano la creazione della Regione, si affermano di contro favorevoli ad un largo decentramento territoriale delle funzioni statali, e in ciò trovano anzi il succedaneo del nuovo istituto; quindi già a tale finalità sarà necessario che lo Stato disponga per l’emanazione di norme per i trasferimenti dal centro alla periferia, per la riduzione del numero, per i collocamenti a riposo ecc.; onde il problema praticamente è quello stesso che si presenterebbe per l’assegnazione della burocrazia alla Regione, ove venisse istituita; non diventa cioè un problema peculiare per tale eventualità, ed una particolare difficoltà da superare.

Ritengo poi che sia frutto di preconcetto il dire che l’organamento della Regione richieda un numero ragguardevole di dipendenti. È ovvio anzitutto rilevare che continuerebbero a dipendere dallo Stato le numerose schiere dei dipendenti di quei servizi che continuano ad essere esplicati dallo Stato (della polizia alle ferrovie, dall’esercito alle poste ecc.) e che assorbono centinaia di migliaia di unità.

Di più, almeno nel primo periodo organizzativo ed anzi costitutivo del nuovo ente, è verisimile che si tratti di personale assai ridotto, che potrà incrementarsi con l’intensificarsi delle funzioni. Né si può dimenticare che mentre per lo Stato, data la sua multiformità e la discontinuità dei Ministeri, non è sempre possibile proporzionare esattamente il numero, dei dipendenti al fabbisogno ed arginarne la proliferazione, per la Regione invece sarà possibile l’attuazione di una gradualità e di una proporzionalità assai maggiore, data l’immediatezza del problema, la limitata sua portata, la maggiore possibilità di una precisa conoscenza di esso, la continuità e l’efficacia del controllo locale.

Non è pure fuori luogo rilevare che è di scienza comune, che per un complesso di cause a tutti note, a parità di numero di dipendenti, il rendimento degli uffici periferici è maggiore di quello degli uffici centrali; basta pensare alla somma di lavoro esplicato dai segretari provinciali e comunali, tanto per dare un esempio, accanto a quelli di ogni capo ufficio governativo locale; ed anche questo elemento può essere posto a vantaggio della soluzione dell’ente Regione contro il paventato pericolo dell’eccesso della burocrazia.

Aggiungasi infine che comunque tale pericolo è ipotetico nella prima fase, che è meramente sperimentale ed organizzativa, mentre in tratto successivo sarà agevole studiare tempestive soluzioni atte a parare il pericolo; né si dimentichi che, mentre in rapporto ai problemi della burocrazia centrale l’opinione pubblica per un complesso di fatti è piuttosto disarmata ed inoperante (ed io ricordo la tenzone oratoria nel 1921 durata per tante sedute in questa aula, cui anch’io ho partecipato, e che si è risolta nella vox clamantis in deserto), nei centri regionali e provinciali gli organi della pubblica opinione sono indubbiamente più vicini a questi problemi e più direttamente collaborano coi rappresentanti per la denuncia e la eliminazione degli eventuali eccessi.

E valga un ultimo argomento: ammettasi per un momento che la Regione importi, malgrado tutto, un incremento di burocrazia; ma di contro la possibilità di ottenere con la istituzione del nuovo ente un più vicino, più comodo, più sollecito, più economico esercizio delle pubbliche funzioni, costituirà tale vantaggio alla pubblica ed alla privata economia che il maggiore onere si troverebbe di gran lunga compensato.

Tuttavia ciò abbiamo creduto rilevare causidicamente, quasi quale argomento per assurdo, giacché abbiamo la ferma convinzione che il regionalismo dovrà portare ad una riduzione della burocrazia; nel che ha autorevolmente convenuto anche l’onorevole Zuccarini, che con il relatore, onorevole Ambrosini, è stato tenace assertore della Regione con la iniziativa della costituzione di quel Comitato parlamentare per le autonomie, che se ha visto qualche diserzione e peggio qualche voltafaccia, è accanto alla Democrazia cristiana e al Partito repubblicano una delle forze più vive ed operanti per il trionfo dell’idea. Scriveva adunque recentemente il precitato collega nella Voce Repubblicana del 28 maggio ultimo scorso che «se può darsi che la Regione non riesca a spezzare definitivamente il centralismo, la sua importanza sta soprattutto nel fatto che con la Regione il problema della burocrazia dello Stato dovrà essere affrontato e risolto una buona volta». Se anche nella elaborazione delle leggi speciali e nella pratica attuazione sarà mantenuta ed alimentata l’attuale passione autonomista e se continuerà ad essere il problema riguardato come forse il più importante per il nuovo assetto dello Stato, possiamo essere certi che l’attuale battaglia sarà coronata.

Ancora su d’un punto, se non abuso della pazienza dell’Assemblea, vorrei soffermarmi: quello della finanza della Regione.

Quale potestà finanziaria deve essere riconosciuta al nuovo ente? quali i rapporti con la finanza statale? quali i rapporti con la finanza degli altri enti locali?

Quesiti complessi e gravi, che hanno formato oggetto di discussione talora profonda in seno alla Commissione ed anche all’Assemblea, se pure è doveroso dire che il punto è stato trattato piuttosto in sottordine, di fronte alla apparente maggiore gravità dei problemi sulla creazione della Regione, sulle sue funzioni e sui controlli.

In tesi generale è ovvio rilevare che tutti i fautori della Regione hanno affermato la necessità della autonomia finanziaria; e ciò come premessa logica all’autonomia regionale e come indeclinabile esigenza per il suo funzionamento; diversamente essa rimarrebbe abbandonata alla discrezionalità del potere centrale; il che equivarrebbe a negazione della sostanza dell’autonomia. L’esperimento non sortirebbe buon fine, non potendosi tutto limitare ad un decentramento amministrativo in rapporto al territorio, ma dovendosi pervenire al riconoscimento delle funzioni proprie delle Regioni. Esse debbono quindi avere un bilancio proprio, che non può essere un capitolo di quello dello Stato.

Se i quesiti sono complessi e gravi, può di contro parere eccessiva la critica affiorata circa la mancanza di idee chiare e definitive in proposito, quasi che si dovesse fin d’ora dare la elencazione dei tributi applicabili!

È evidente che prima bisognerà fissare le funzioni e preparare i mezzi in conseguenza; sarà questione di gradualità, in rapporto alle progredienti necessità ed in rapporto alle risultanze dell’esperimento. Anche qui bisognerà scendere in progresso di tempo dal semplice al complesso, come è di ogni cosa importante e grande che crescit eundo. Ciò corrisponde del resto alla logica delle cose, per cui prima almeno teoricamente si costituisce, anzi esiste, l’ente, ed in successione logica si organizzano i mezzi per la vita dell’ente stesso.

Tuttavia, se ciò è utile osservare in via pregiudiziale, è pure sempre necessario che già nella Costituzione siano affermati almeno i principî generali regolanti la materia.

È ovvio che in materia finanziaria non esiste una soluzione unica, ma che praticamente si ha un coacervo di sistemi e di mezzi, frutto di esperienza talora secolare e risultato spesso di concetti teorici commisti a criteri empirici; e spesso anzi vi affiora anche l’espediente, che pur non dovrebbe mai fare buona prova.

Sovviene anche la considerazione che la materia finanziaria, per il moltiplicarsi delle funzioni pubbliche e dell’estendersi delle fonti di reddito, è destinata a complicarsi ogni giorno di più, fino a quando in periodo di minore pressione risulterà possibile abbattere con la scure questa selva selvaggia ed aspra e forte, e ritornare alla concezione basilare della finanza tributaria che tutta si compendia nella verità apodittica che ciascuno deve contribuire in proporzione al proprio reddito comunque formato.

Qualcuno ha proposto di limitarsi all’affermazione dell’autonomia finanziaria della Regione, rimandando tutto il resto alla riforma generale tributaria dello Stato; soluzione invero semplicistica, che è anche troppo comoda, in quanto non tiene presente, fra l’altro, che la Regione nell’auspicata sollecita sua costituzione avrà subito bisogno di mezzi propri e che la riforma generale predetta si può prevedere tutt’altro che prossima, in rapporto alle gravissime esigenze attuali della pubblica finanza ed alla interdipendenza dei diversi tributi.

Intanto, è senz’altro da scartare che il finanziamento della Regione possa essere fatto con i contributi dei comuni, come nel regno di Napoli esisteva, a quanto afferma l’onorevole Einaudi; e ciò sia per la ragione sostanziale che i comuni piegano ormai sotto il fondo dei crescenti oneri e richiedono essi stessi l’integrazione dei propri bilanci da parte dello Stato, sia per la ragione morale della gara cui si abbandonerebbero i comuni per provare la loro insufficienza finanziaria.

Del pari è da escludere il sistema opposto, ugualmente semplicistico, per cui si propone che sotto forma di contributo annuo lo Stato debba fornire alla Regione i mezzi necessari alle sue esigenze; e ciò per le stesse ragioni dianzi accennate, sia perché lo Stato non potrebbe mai sottostare ad un onere così grave, sia sopratutto perché non è concepibile una gara tra le Regioni nel riparto dei fondi, gara in cui prevarrebbero quelle che hanno maggiore influenza politica ed anche quelle che, per maggiore grado di progresso, in concreto avrebbero forse maggiori esigenze.

La soluzione ideale, più adesiva al concetto base dell’autonomia finanziaria, sarebbe l’istituzione di un’imposta speciale regionale. Questa soluzione fu peraltro subito abbandonata dalla primitiva Commissione anteriore a quella dei settantacinque per la pratica impossibilità di congegnare un nuovo tributo, che da una parte avesse a fornire un gettito imponente e dall’altra non interferisse con i tributi già esistenti.

L’onorevole Einaudi, che prima che per ogni altro titolo debbo venerare come mio maestro del glorioso ateneo torinese, pur riconoscendo la genialità del fisco italiano, che non ha tralasciato espediente per le sue finalità., ha scritto che non è possibile immaginare un sistema che sia proprio alla Regione, dappoiché Stato, Regione, provincie e comuni colpiscono sempre la medesima materia imponibile (e cioè il reddito del contribuente) e si deve aver riguardo non ai singoli tributi, ma al loro insieme, in una visione globale e generale, se non si vuole inaridire la fonte e portare all’estremo gli inconvenienti della supertassazione e della generalizzazione della frode e della evasione fiscale.

Per brevità, tralasciando altre osservazioni, che logiche sorgono dalla lettura degli atti preparatori, non vi è chi non veda come il sistema ideato dalla Commissione e fissato nell’articolo 113 del progetto di Costituzione corrisponda alle necessità logiche e pratiche del problema.

Tale articolo parte dalla chiara formulazione del riconoscimento dell’autonomia finanziaria delle Regioni, nelle forme e nei limiti stabiliti da leggi costituzionali che la coordinano con la finanza dello Stato e dei comuni; e fatta tale premessa, di ovvia logicità attesa la unicità teorica della fonte del tributo e della interdipendenza dei sistemi dai diversi enti attuati, stabilisce che alle Regioni sono assegnati tributi propri e quote di tributi erariali.

Viene così ad essere attuato un sistema che può chiamarsi misto e che potrà anche essere praticamente attuato sotto forma di compartecipazione a tributi già esistenti locali o statali; il che non contrasta evidentemente al principio dell’autonomia finanziaria, che implica solo la esistenza della potestà fiscale indipendentemente dalle forme in cui essa è esplicata.

Come si è detto, una prima fonte di entrate dovrà essere data dall’assegnazione di tributi propri, che dovrebbero praticamente costituire la parte più importante. La prima commissione di studi, mentre non proponeva la istituzione di alcuna imposta speciale, concepiva un sistema di addizionali alle imposte già esistenti in conformità con quello seguito per la provincia; ed in più in caso di necessità proponeva un’addizionale all’imposta sulle entrate, ritenendo con ciò possibile l’attuazione di un livellamento tra gli enti più poveri e quelli più ricchi; ed ove neppure con questa fosse possibile il pareggio, la Regione avrebbe potuto essere autorizzata ad istituire speciali diritti sui generi di larga produzione locale, esclusi quelli oggetto di monopolio dello Stato.

Riteniamo in via generale che il primo mezzo possa essere costituito dalle addizionali alle imposte reali terreni e fabbricati, la cui subbietta materia ha stretta relazione territoriale alla circoscrizione territoriale; e ciò come avviamento a quella già ventilata riforma generale per cui le imposte reali dovranno in toto essere deferite agli enti locali, che dovrebbero ripartirsele.

Ma poiché le solite addizionali per intanto non basteranno, bisognerà scegliere tra l’imposta sulle industrie commerci e professioni (sostitutiva anche per i comuni dell’addizionale ai redditi di ricchezza mobile), o la partecipazione alle imposte sui redditi che si formano nel territorio, sotto forma di sopraimposizione che secondo taluni dovrà costituire il nucleo essenziale.

Si tratta di idee naturalmente di gran massima, che leggi speciali dovranno concretare, in rapporto allo studio approfondito delle funzioni cui la Regione è chiamata; ed è ovvio rilevare che anche, anzi specialmente nella materia finanziaria, il sistema non può essere riguardato sub specie aeternitatis.

Accanto ai tributi dovrà funzionare il contributo dello Stato, sia pure sotto la forma di quote di tributi erariali.

La primitiva Commissione di studio aveva limitato il contributo statale alla ipotesi della esecuzione di opere pubbliche di notevole entità ed alla condizione che la Regione non pervenisse a coprire il fabbisogno neppure ricorrendo al contributo di miglioria.

Lo Stato deve dare un primo contributo (e ciò corrisponde anche a un principio di giustizia) a titolo di rimborso di quelle spese finora sostenute da esso.

Invero cade in esame la pregiudiziale ed emergente considerazione che il nuovo ente sorge anzitutto per esplicare sul piano locale una parte di quelle stesse funzioni che finora sono addemandate allo Stato. Quindi in concreto si attua una sostituzione dell’uno all’altro ente nella competenza passiva delle spese inerenti alle dette funzioni e servizi, salvo quell’incremento che sarà per derivare dalla maggiore adesività delle une e degli altri alle necessità locali. Di qui è logico che lo Stato assegni alla Regione quella somma che rappresenta la quota spese attualmente incontrata per i servizi e le funzioni locali e che, ove la Regione non fosse costituita, continuerebbe ad essere a carico del centro. La difficoltà sta nel determinare questa entità; ma il calcolo, che necessariamente verrà fatto sui grandi numeri e per ordine di grandezza di milioni, non presenta radicale impossibilità.

Già esistono precedenti in materia, giacché non è infrequente il caso in cui lo Stato nell’assegnare al Comune taluni servizi, finora gestiti dal centro o dallo stesso direttamente finanziati, ha in modo globale e definitivo fissato una somma, corrispondente grosso modo all’entità reale della spesa. Dirò, tra parentesi, che talora lo Stato stabilisce cifre globali piuttosto a suo vantaggio, come è avvenuto ultimamente per le spese del servizio di razionamento, in cui lo Stato, che negli anni anteriori aveva pagato a piè di lista personale e stampati, ha ora stabilito un’aliquota spese pro capite; ed il conto purtroppo non torna più, e vane sono tornate le opposizioni degli enti e le stesse interrogazioni parlamentari di chi vi parla, rimaste… senza risposta e ulteriormente rinnovate!

In sostanza qui si attua un mero rimborso, che non è neppure un contributo vero e proprio.

Infine, nella facile ipotesi che neppure queste fonti di entrata siano sufficienti, e sempre tenuto anche conto dei proventi dei beni demaniali della Regione e del suo patrimonio, dovrà subentrare a pareggio il contributo integrativo dello Stato.

Ciò risponde a criterio di necessità ed ha per risultato anche un equo livellamento tra Regioni di diverso sviluppo e di diversa capacità economica.

Non è qui mia intenzione di stabilire rapporti tra le entrate e le spese di ciascuna Regione secondo la contabilità data dallo Stato da un punto di vista quasi esclusivamente di cassa; quindi non si possono tenere presenti tale risultanze agli effetti della integrazione, trattandosi di termini non analoghi.

Si deve prescindere insomma dallo sbilancio di cassa in relazione ai tributi e spese dello Stato per ciascuna Regione, ma si deve riguardare in concreto lo spareggio del bilancio della Regione ed integrarlo.

Anche qui sarà questione di limiti e di controlli, probabilmente in relazione ad una distinzione analoga a quella in vigore per i Comuni tra spese obbligatorie e spese facoltative; se pure la distinzione potrà essere mantenuta, per la rinnovata tendenza autonomistica degli enti locali.

L’istituto del contributo integratore ha precedenti anche nell’attuale sistema, che ammette entro certi limiti la integrazione dei bilanci comunali e provinciali, con somme che in questi anni hanno toccato cifre elevatissime.

Dirò d’incidenza che anche qui può spesso sopperire lo spirito d’iniziativa degli amministratori locali, che talora trovano certo più comodo presentare i bilanci in passivo, anziché adoperarsi al pareggio mediante riduzione di spese ed incremento delle entrate, anche a costo di perdere un po’ della loro popolarità.

La Commissione si è trovata concorde nello stabilire questa fonte di entrata, ma l’ha concepita, a quanto pare, all’infuori del concetto di integrazione di bilancio ai fini del pareggio, in dipendenza di un vero e proprio diritto ad un contributo, per cui si attuano una collaborazione tra Stato e Regione e una effettiva solidarietà tra le Regioni, tanto che da qualche Commissario si è parlato quasi di una stanza di compensazione, cui dovrebbe essere preposta una commissione composta da un rappresentante per ogni Regione, e presieduta da persona nominata dal Parlamento.

Questa è questione di dettaglio, è vero, ma il principio stabilito all’art. 113 che «il gettito complessivo dei tributi erariali è ripartito in modo che le Regioni meno provviste di mezzi possano provvedere alle spese necessarie per adempiere alle loro funzioni essenziali» appare perfettamente logico e rispondente a quel criterio di giustizia e di solidarietà cui si è accennato.

Il sistema del contributo integratore ha anche precedenti all’estero; e gli atti della Commissione riportano il caso della Svizzera, in cui i Cantoni sotto forma di rivendicazioni possono richiedere l’intervento finanziario della Confederazione; il che è destinato a verificarsi con qualche frequenza, attesa la diversità delle condizioni tra i Cantoni alpestri e quelli che godono di un rilevante progresso industriale.

Del pari appare fondato l’altro capoverso dello stesso articolo, che contempla l’istituzione di fondi per fini speciali in base a leggi che determinino i contributi dello Stato e delle Regioni e la gestione e la ripartizione dei fondi.

Adunque: entrate demaniali e patrimoniali; tributi propri; contributo dello Stato sia per rimborso che per integrazione; fondi per fini speciali; è un sistema necessariamente composito, che, come si è detto, se non si può dire peculiare e caratteristico, non vulnera affatto il principio dell’autonomia finanziaria, che è il presupposto ed il vero presidio dell’autonomia della Regione.

È stato autorevolmente eccepito che l’articolo 113, che tale sistema enuclea, è frutto di un compromesso, giacché mentre si sarebbe affermata genericamente l’autonomia, contemporaneamente la si sarebbe limitata in dipendenza di un coordinamento con le finanze dello Stato; il che pare quanto meno ininfluente, essendo ovvio che, trattandosi di enti pubblici, i quali debbono incidere coi loro tributi sul reddito del cittadino, che è sempre lo stesso qualunque sia la forma con cui esso si dimostra ed è colpito, si deliba cercare di armonizzare e coordinare nel limite del possibile le finanze dello Stato con quelle degli enti locali.

Come già ho osservato, forse il problema sarà semplificato dal fatto che in un primo periodo le spese saranno di modesta portata; d’altronde siffatti problemi di riparto si prospettano già in parte in rapporto alle quattro Regioni cui è già stata assicurata l’autonomia, mentre qualche anno fa lo Stato ha dovuto risolvere la questione della creazione di diverse nuove provincie. Ad ogni modo, ripetesi che è questione di gradualità, e attraverso il collaudo della esperienza anche il sistema tributario della regione troverà la sua definizione.

L’ora tarda mi impedisce di trattare della provincia e del circondario, che taluni avversano, sostenendo piuttosto l’incremento delle funzioni del comune, come abbiamo sentito dall’onorevole Sullo e dall’onorevole Cifaldi, dimentichi forse che, accanto agli interessi strettamente locali e comunali, vi sono interessi che toccano la plaga e la regione in senso generale e collettivo. Va da sé che ritengo assolutamente necessaria la conservazione della provincia, quale ente autarchico, come pure ritengo necessaria la ricostituzione dei circondari, soppressi dal fascismo, e che attuavano un utile decentramento delle funzioni governative. Quindi non è da dubitarsi che in questi due punti sarà raggiunta l’unanimità dei consensi.

Prima di chiudere queste mie parole, consentano i colleghi che io insista perché, contemporaneamente alla creazione della Regione ed al riconoscimento delle autonomie locali, sia attuato per le funzioni che permarranno allo Stato il maggiore decentramento, condizione essenziale per uscire dall’attuale marasma e dall’eccesso burocratico accentratore che ritarda e soffoca ogni iniziativa privata.

Il principio del decentramento è stato affermato solennemente nella Costituzione; ed anche chi è contro la Regione ha rilevato la somma urgenza di addivenire quanto meno a rigorosi provvedimenti decentratori, per eliminare almeno in parte gli inconvenienti innumeri attualmente deprecati.

Chi ha anche una piccola pratica di amministrazione si è formata non da ora la convinzione che nell’attuale situazione non è possibile continuare, e tutti invocano d’urgenza le necessarie provvidenze.

Nel groviglio burocratico bisogna tagliare senza pietà; il popolo che lavora, ogni giorno più manifesta questa esigenza; il suo grido è ormai incontenibile, soprattutto di fronte al pericolo che i mali dell’accentramento abbiano ancora ad aumentare, con l’incremento delle funzioni pubbliche e con la applicazione della politica pianificata.

Non mi attardo a far passare i diversi rami dei servizi, come già avevo intrapreso ad esaminare, raccogliendo qualche dato significativo, per indicare quali si potrebbero decentrare, quali concentrare, quali sopprimere; ne faccio grazia alla pazienza dei colleghi, ognuno dei quali potrebbe peraltro portare in materia infiniti casi frutto della sua esperienza.

Gli è che il criterio accentratore o meglio centralizzatore è duro a morire ed anche nelle cose più semplici gli accentratori non disarmano; ed io stesso qualche seduta fa in questa stessa Aula non senza difficoltà ho potuto svolgere un ordine del giorno con cui facevo voti perché la concessione delle autorizzazioni all’apertura di nuove sale cinematografiche fosse addemandata a commissioni provinciali o regionali, senza accentrarla a Roma; il quale ordine del giorno, se ha riscosso l’approvazione calorosa di molti colleghi, che l’avevano anche firmato, ha trovato l’opposizione della Commissione e anche dell’onorevole Proia, preoccupati della necessità di un criterio informativo generale, col quale criterio non v’ha chi non veda che potranno silurarsi tutte le iniziative di decentramento burocratico, quasi che i criteri informativi non potessero essere emanati con chiare norme ad uso degli organi locali.

Non da ora penso che un senso di maggior fiducia animi la metodologia burocratica, con il riconoscimento di quadri direttivi che abbiano competenza e senso di responsabilità, ai quali possano essere addemandate la decisione e la esecuzione dei provvedimenti senza eccessi di forme e di controlli.

In un mio discorso del 1921 lessi qui, da questo stesso banco, la copia fedele di un mandato di pagamento emesso dal Compartimento delle Ferrovie dello Stato di Torino relativo alla corresponsione della somma di lire venti al capo pompiere di un comune piemontese quale compenso per la visita annuale alle pompe incendi della stazione locale; ebbene, horresco referens, tale mandato di venti lire recava diciannove, dico diciannove, firme di funzionari delle Ferrovie, dal centro alla periferia. Non so se da allora qualcosa sia mutato, ma, ad esempio, ancora attualmente una qualunque trasferta di cancelliere della Pretura ad una sezione distaccata deve essere liquidata dal Ministero, con tutti i ritardi e le complicazioni relative; al che fa per altro contrappeso il fatto che, talora per l’erogazione di milioni, si perviene all’eccesso opposto!

Accanto al maggiore senso di fiducia del superiore verso l’inferiore deve soprattutto affermarsi un maggiore sentimento del dovere nella massa dei dipendenti, di cui una parte, sia pure minima, ha perduto la visione della missione che le è commessa e non sente lo spirito di dedizione al pubblico interesse.

Ché se il trattamento economico non sempre è adeguato, è ovvio che solo nella rinnovata dedizione al servizio il dipendente può raggiungere la triplice finalità di una più sollecita cura degli interessi dei cittadini, di una maggiore considerazione nella pubblica opinione, di una riduzione delle unità, con conseguente possibilità di ottenere miglioramenti economici meglio adeguati alle esigenze. Quando il foglio di presenza è eluso, quando con l’orario unico l’attività lavorativa è fatalmente ridotta, quando nell’orario d’ufficio si provvede alle cento necessità familiari, annonarie ed organizzative ecc., quando le feste nazionali e quelle locali si ripetono in teoria eccessiva, quando da tutte le parti si attende per mesi e per anni lo svolgimento delle pratiche, e si ricorre al Deputato od all’amico per snidarle, per far eseguire loro un piccolo passo, salvo nuovo arenamento subito dopo, ognun vede come sia assolutamente indifferibile questa riaffermazione della necessità che ciascuno compia sempre ed ovunque il proprio dovere.

Spetta anche al Governo di fare in questa materia il suo dovere, più direttamente occupandosi dei dipendenti in rapporto alle loro necessità e cercando sempre e comunque di evitare l’assunzione di nuovo personale; solo così non sarà più dato leggere nei verbali della Commissione legislativa finanziaria le tristissime osservazioni fatte in punto dai colleghi Camangi e Vicentini.

Sono peraltro perfettamente d’accordo con quanti hanno osservato che gli inconvenienti non sono dovuti a difetto degli uomini, ma a difetto del sistema organizzativo, dovendosi riconoscere che la massa ha zelo, competenza e disciplina, e convengo pure con l’onorevole Lussu, il quale alla Commissione ha rilevato che tutti i funzionari sono in buona fede, che la maggior parte sono onesti ed intelligenti; ma sono anche con lui d’accordo quando drasticamente afferma che «la burocrazia come istituto è un po’ la negazione della vita e che essa non si può trasformare se non si trasforma tutta l’organizzazione dello Stato, dato che essa al centro è la effettiva detentrice di tutto il potere». Parole forse un po’ grosse e dure, come talora sa dire l’illustre collega, ma che sono sapide di verità, se pure più limitatamente abbia ragione di ritenere che il problema della burocrazia è anche problema di disciplina, da cui dipende il rendimento; questo il punto. Ma deve essere auto-disciplina, disciplina che discende da rinnovato senso di responsabilità; e ciò dico a ragione veduta, non fosse altro perché sento ancora l’iraconda voce di un capo divisione di un nostro ministero (che per sua natura doveva essere uno dei più moderni) il quale, costretto a ricercare di propria mano in archivio una pratica di cui per ragioni pubbliche e nella mia qualità di sindaco, prima che di deputato, urgentemente lo richiedevo, ebbe, a denunciarmi l’ingiustificata assenza dei tre archivisti, gridando: «qui occorre il bastone fascista, o il bastone comunista, o il bastone tedesco»; e mi sorrise con aria di benevolenza quando gli dissi che il popolo italiano non ha più bisogno del bastone e neppure della carota… e che deve ritrovare in se stesso la sua forza e la sua fiducia, nell’autodisciplina e nel rinnovato senso del proprio dovere.

E se pur ricordo ancora a me stesso l’orario che il 26 settembre 1906 il capo stazione di Acqui mi prescriveva quale avventizio in ore undici e mezza di duro servizio in tre turni e senza riposo festivo e con la mercede di lire tre giornaliere, gravate di imposta di ricchezza mobile (quantum mutatus ab illo…!), e comprendo che i paria delle amministrazioni hanno finalmente potuto ottenere in tanti anni di lotta dignità di vita e umanità di orario, penso tuttavia che ora come allora è sempre ed ognora questione di fede e di lavoro. Vorranno gli onorevoli colleghi perdonare questa digressione, che pure concerne il problema del decentramento, dalla cui attuazione si attendono il risanamento del bilancio e la migliore tutela degli interessi dei cittadini.

E termino con il rivendicare ancora una volta l’autonomia locale e comunale in ispecie, come una delle forze più vive per l’affermazione della democrazia contro l’accentramento statale sul quale, sono parole di un grande regionalista, si basa ogni totalitarismo di destra o di sinistra. Solo così sarà posto un argine contro il ritorno della dittatura, solo così sarà possibile creare una classe politica media degna delle antiche tradizioni cui spetterà un gran compito per il cammino ascensionale del popolo.

Questa invocazione viene da chi è figlio di quel Piemonte che, per tradizioni, lingua, storia, costumi, interessi, natura, è, dopo le isole, la regione più unitaria e più rispondente a quell’ideale cui i fautori dell’autonomia regionale si sono inspirati; viene dal sindaco di quella città di Alba che fin dal Novecento, nell’alta notte medioevale, si eresse a libero comune contro il Sacro Romano Impero e che, mentre dava il suo nome alla Lega Lombarda, nel Regestum Communis Albae e nel Libro della Catena copiava anche per i posteri i suoi trattati di pace e di guerra ed i suoi Statuti secolari. In questo ideale di originaria autonomia nato ed educato, auspico che la regione, l’autonomia, il decentramento siano presto fatto compiuto per il risorgere della Nazione.

La Sicilia per la prima va attuando con giovanile entusiasmo la sua conquistata autonomia; lasciate, o colleghi, che io elevi l’augurio che quel forte popolo sappia coronare col successo il suo esperimento, che sarà per noi tutti di monito e di esempio, nella fermezza del principio unitario della Patria.

Due anni or sono, smobilitandosi le formazioni partigiane che avevano liberato Alba e le Langhe dall’oppressione nazifascista, ebbi l’onore a nome del Comitato di liberazione nazionale, di cui ero membro per la Democrazia cristiana, di porgere il saluto al gruppo dei partigiani Siciliani che dopo l’otto settembre 1943 avevano sposato la grande causa; e fra l’altro e soprattutto io li esortai a mantenersi fedeli all’unità italiana; ed essi ad una voce risposero che appunto per tale idealità avevano combattuto e vinto.

Essi sono stati interpreti della fierezza e del patriottismo di quella nobile isola, e noi Piemontesi siamo animati dalla stessa fede e dalla stessa idealità: la Regione non dividerà gli Italiani: essa abolirà anzi quelle dolorose competizioni tra Nord e Sud che, lungi dall’essere sopite, verrebbero ad esacerbarsi se ulteriormente si mantenesse il deprecato centralismo.

Non mi nascondo che molte sono tuttora le opposizioni; ma mi assiste la intima coscienza di fare così il bene per il popolo; ed è con questa fede che si vince ogni battaglia.

Se anche questa sola riforma la Costituente avrà attuato essa bene avrà meritato. (Vivi applausi Congratulazioni).

PRESIDENTE. II. seguito della discussione è rinviato a domani alle 10. Avverto che si terrà seduta anche alle 16.

La seduta termina alle 20.40.

Ordine del giorno per le sedute di domani.

Alle ore 10 e ore 16:

Seguito della discussione del progetto di Costituzione della Repubblica italiana.

SABATO 31 MAGGIO 1947

ASSEMBLEA COSTITUENTE

cxxxv.

SEDUTA DI SABATO 31 MAGGIO 1947

PRESIDENZA DEL VICEPRESIDENTE CONTI

INDICE

Congedi:

Presidente                                                                                                        

Domanda di autorizzazione a procedere in giudizio:

Presidente                                                                                                        

Progetto di Costituzione della Repubblica italiana (Seguito della discussione):

Presidente                                                                                                        

Bordon                                                                                                             

Pignatari                                                                                                         

Grazi                                                                                                                

Lussu                                                                                                                

La seduta comincia alle 9.10.

DE VITA, Segretario, legge il processo verbale della seduta antimeridiana del 14 maggio.

(È approvato).

Congedi.

PRESIDENTE. Comunico che hanno chiesto congedo i deputati Cairo, Ghidini e Rubilli.

(Sono concessi).

Autorizzazione a procedere.

PRESIDENTE. Comunico che il Ministro di grazia e giustizia ha trasmesso una domanda di autorizzazione a procedere in giudizio contro Angelo De Giglio, per il delitto di cui all’articolo 290 del Codice penale (vilipendio delle istituzioni costituzionali).

Sarà inviata alla Commissione competente.

Seguito della discussione del progetto di Costituzione della Repubblica italiana.

PRESIDENTE. L’ordine del giorno reca il seguito della discussione del progetto di Costituzione della Repubblica italiana.

Riprendiamo la discussione generale sul Titolo V relativo alle regioni.

È iscritto a parlare l’onorevole Bordon. Ne ha facoltà.

BORDON. Onorevoli colleghi.

Come la discussione svoltasi fin qui sembra aver dimostrato, il progetto di autonomia ha contro di sé due nemici: la prevenzione e la retorica.

Una certa prevenzione può essere in qualche modo giustificata: si tratta d’una riforma importante, profondamente innovatrice: si parla di un salto nel buio, si ha paura del nuovo.

Vi sono, anzi, colleghi che si spaventano persino della nomenclatura del progetto. Mi pare che non più tardi di ieri un collega, che è pure avvocato, diceva da questi banchi: «Ma la regione farà concorrenza allo Stato in materia legislativa…».

Il secondo nemico, la retorica, dovrebbe essere ancora meno preoccupante, perché si tratta di retorica che ha fatto ormai il suo tempo. Già, quando questa riforma era stata portata alla ribalta della vita parlamentare, per la prima volta, i suoi avversari dicevano: badate, voi disgregate l’unità nazionale…

Era retorica che ha tambureggiato per molti anni, perché vi era chi aveva interesse di farlo: la monarchia non sapeva dir altro, perché essa non sentiva i bisogni del popolo, essendo questa nostra riforma squisitamente democratica.

Fin dall’indomani però dell’unificazione vi furono uomini, che pur essendo stati unitarî, avevano avvertito la necessità della regione.

Cavour stesso, nella sua grande e illuminata coscienza, fu l’inspiratore del progetto Minghetti, che, non a caso, venne discusso dopo la sua morte. Non è vano ricordare, che nella tornata del 28 giugno 1860 il Minghetti non esitava di dichiarare che «la centralità francese è un prodotto della storia di quel Paese, mentre la storia d’Italia sembra indicarci un andamento diverso e sembra farci preferire il sistema del decentramento amministrativo, che porta il grandissimo vantaggio di essere più favorevole alla libertà».

Facendo eco a tali parole, da parte sua, il Farini, quale membro della Commissione costituita il 24 giugno 1860 per l’esame di tale progetto, si domandava: «Non dovremmo conoscere che le Provincie italiane si aggruppano naturalmente e storicamente fra loro in altri centri più vasti ed hanno avuto ed hanno tutt’ora ragione di esistere nell’organizzazione italiana? Questi centri possiedono notevolissime tradizioni fondate su varie condizioni naturali e civili. La politica italiana fra i Comuni e le Repubbliche del Medioevo ha trovato in essi una precisa forma e disciplina di Stato: la stretta colleganza politica e sociale ha portato particolari risultamenti di civiltà che ad ognuno sono cari e preziosi. Al di sopra della provincia e al di sotto dello Stato, io penso che si debba tener conto di quei centri, i quali rappresentano quelle antiche autonomie, che fecero sì nobile omaggio di sé all’unità della nazione».

Ma, oltre i suddetti, altri grandi spiriti del nostro Risorgimento hanno scritto pagine memorabili in questo campo.

L’unità nazionale non poteva consistere soltanto nell’unità territoriale e tanto meno nell’unità amministrativa, in un Paese come il nostro, così diverso da regione a regione.

Non contrario al regionalismo era pure Giuseppe Mazzini, che, nella sua opera: «L’unità italiana», vagheggiava la creazione di 12 regioni.

Federalista era Cattaneo, le cui parole e il cui pensiero hanno oggi la grandezza di una divinazione profetica.

Così infine Garibaldi stesso.

Trovandosi egli a Napoli, in una circostanza, in cui vi si trovava pure Carlo Cattaneo, egli chiese a Mario Alberto: «Come un tant’uomo è federalista ed è così fiero avversario dell’unità?». «È unitario, gli rispose l’Alberto, in quanto vuole in mano del governo nazionale gli interessi generali, è federalista in quanto vuole in mano dei governi regionali tutti gli interessi regionali, locali e particolari». «Allora, non possiamo che trovarci d’accordo», rispose Garibaldi, e nessuno dimentica che egli, prima di morire, scrisse da Caprera: «Io sono federalista».

Ma onorevoli colleghi, l’unità nazionale intesa nel vero senso della parola, quale noi la intendiamo, esula completamente dal problema in esame, come del resto è ammesso da non pochi dei nostri avversari stessi.

Il Vitta, autore di un pregevole scritto sul regionalismo, dice a pag. 130: «Che se poi si desidera la mia opinione dal lato politico, qualunque valore essa possa avere, io dichiaro francamente che un pericolo per l’unità nazionale, come introduzione del regionalismo non mi sembra serio. E non è quindi sotto questo aspetto che il regionalismo può essere avversato. Ben s’intende che, in fatto di unità, tutto ciò che sapeva di ricordo delle antiche separazioni, poteva portare il sospetto così forte da essere anzi senz’altro scartato, ma dopo un esempio tanto evidente di vita unitaria, quando ad esempio scrivevano il Bartolini e il Saredo, il pericolo si era già grandemente attenuato ed oggi appare secondo me del tutto scomparso. Oltre mezzo secolo d’esistenza dello Stato italiano, la prova vittoriosa che esso ha subito, l’affratellamento delle genti che lo compongono, dimostrato nell’ultima guerra lunga ed aspra, rendono tranquilli. Le istituzioni unitarie non sono suscettibili di alcuna minaccia e qualunque riforma, anche la più ardita, non ne scuoterebbe le sicurissime basi».

È un avversario del regionalismo che parla.

Dopo questo, possiamo dunque, onorevoli colleghi, procedere oltre. Noi autonomisti convinti, che vediamo nel problema dell’autonomia non un problema di semplice amministrazione, ma un problema di libertà e di democrazia, siamo in buona compagnia.

L’unità nazionale che noi vogliamo è un’unità nazionale fondata sul rispetto e sullo spirito di tutti i popoli, sul diritto delle minoranze e sulla fusione democratica di tutti gli italiani.

L’onorevole Nobile (il quale attraverso tutti i lavori della Commissione si è mostrato più realista del re) è venuto nel suo ultimo discorso a queste conclusioni: egli ammette che un decentramento, dopo tutto, è necessario. È tempo di liberarsi da questa struttura che soffoca il Paese, che mette gli uni contro gli altri, che lascia tutti scontenti. Anche in base a questa ammissione sintomatica, si deve convenire che il clima storico, che ci ha dato la Repubblica, deve darci l’altra riforma, quella dell’ordinamento regionale, perché essa è riforma di progresso e di democrazia. (Approvazioni).

Né essa può spaventare alcuno, poiché se fosse da alcuni avversata in quanto ritenuta federalista, la verità è che una tale valutazione sarebbe errata.

Penso che la nuova struttura dello Stato, sull’esempio di quella Svizzera, avrebbe dovuto improntarsi al principio federalista ma la maggioranza del Comitato dei dieci e della seconda Sottocommissione, come risulta dai verbali dei lavori, si pronunciò contro l’idea federalista.

Le vostre preoccupazioni sono pertanto fuori di posto.

Nel progetto in esame non soltanto è rigettata l’idea federalista, ma purtroppo anche quella d’una vera autonomia. Non si può parlare di autonomia, svuotandola della libertà, che ne è l’anima.

Che non si tratti di una struttura federalista basta tener presente le linee del progetto, raffrontandole con gli insegnamenti della dottrina sul regionalismo.

A pagina 11 del suo libro succitato, il Vitta scrive: «Nella realtà pratica si vede che si sono tradotte tre gradazioni dell’idea regionalistica.

«Vi è la estrinsecazione più forte, più caratteristica e radicale del regionalismo, che si manifesta nello Stato federale, come in Germania, Svizzera, Nord America e Brasile; qui ad un ente superiore sono riservate soltanto talune fra le attribuzioni che ha altrove lo Stato italiano, cioè quelle essenziali alla difesa della società in ispecie dai nemici esterni e la legislazione in talune fondamentali materie di diritto pubblico o privato, mentre le altre funzioni, per quanto sempre in minor numero, restano di spettanza dei singoli stati in esso incardinati.

«Vi è una forma intermedia, transeunte di regionalismo, come era nell’ex Impero di Austria: essa consiste nel riconoscere a taluni enti, che sono del resto il rimasuglio di antichi Stati e che tornano spesso col tempo a formare nuovi enti (come ad esempio la Boemia), qualcuna delle attribuzioni, come l’intervento nella legislazione, che si trovano altrove esercitate dallo stato unitario: a codesti enti, in cotesto stadio di ordinamento, non si dà più il nome di stati, ma sibbene di minori persone di diritto pubblico, per quanto abbiano talune note che in parte li fanno ancora somigliare agli antichi stati.

«Vi è infine la forma più tenue del regionalismo, come è attribuita in Prussia, laddove la regione, perduto ogni vestigio statale, ogni ingerenza legislativa, è l’ente destinato dallo stato unitario a funzioni amministrative».

Dunque, secondo questi insegnamenti, delle tre gradazioni, in cui l’idea regionalista può concretarsi, solo la prima è federalista ed anzi, stando alla dottrina del Rehm, neppure questa.

«Taluno, dice il Vitta, riferendosi alla teoria del Rehm, ritiene che lo Stato per essere degno di quel nome debba avere non solo poteri suoi proprî, non da altri attribuitigli, ma bensì anche sovrani, cioè ad altri poteri non sottoposti, in sostanza lo Stato è sovrano oppure non esiste».

Sulla scorta di questi principî, a quali di queste tre forme risponde la riforma regionalista adottata dal progetto?

Alla prima, a quella federalista (che secondo il Rehm neppure sarebbe tale)? Evidentemente no, poiché se fosse la struttura federalista quella adottata, occorrerebbe che la regione venisse eretta a dignità di Stato, con poteri suoi propri, non da altri attribuiti, che essa non fosse sottoposta ad alcun altro potere e che in conclusione essa avesse piena sovranità.

Ora come potrebbe essere sovrana una regione, sottomessa al controllo del potere centrale, che trae i suoi poteri dallo Stato, che ha poteri normativi delegati, che, anche per le materie di legislazione primaria, deriva questa facoltà non dalla sovranità propria, ma dalla sovranità dello Stato e tale facoltà non può esercitare se non nei limiti e modi fissati dalla Costituzione?

Questi interrogativi bastano a dimostrare come sia assurdo parlare di un regionalismo federale.

A nessuno potrebbe venire in mente, in base al progetto in esame, di sostenere che la regione sia un ente sovrano.

Risponde esso alla seconda formula, cioè a quella intermedia, transeunte, in cui perduto ogni vestigio statale, la regione non è che una minore persona di diritto pubblico, che conserverebbe però ancora note particolari da farla assomigliare agli antichi Stati?

La risposta non sembra possa essere che negativa anche per questa forma intermedia, poiché alle regioni che si creerebbero, la Costituzione non conferirebbe affatto tali note particolari.

La risposta non può essere dunque affermativa che per la terza forma, per cui non solo, secondo il Rehm, il regionalismo che si creerebbe non sarebbe mai federalismo, ma la struttura progettata non assumerebbe in pratica che il valore di un decentramento autarchico.

Questi rilievi bastano a fugare tutti i fantasmi che si sono voluti drizzare contro il progetto.

Da cui si spiega perfettamente perché anche l’onorevole Einaudi non siasi sentito di pronunciarsi contro la riforma. Egli affermò di non essere contrario al principio regionista ed io mi auguro che egli non si fermi a metà strada.

Qualcuno ha interpretato erroneamente il suo pensiero, affermando che egli avrebbe additato gli articoli 110 e 111 del progetto come fonte di pericoli per l’unità nazionale, confondendo questa con l’unità dell’economia nazionale, il che è altra cosa. Ma anche sul terreno dell’economia nazionale, nessuno intende ledere siffatto principio, purché esso non serva semplicemente a mascherare privilegi privati o monopoli di società capitalistiche.

Voci. Bene, bravo!

BORDON. A questo punto si pone un quesito; l’ordinamento regionale dovrebbe essere uniforme per tutte le regioni? Evidentemente no, poiché esso non può non tenere conto delle singole condizioni locali ed in modo diverso deve essere congegnato quello spettante alle regioni che rappresentano peculiari etniche linguistiche geografiche inconfondibili.

Sarebbe un errore considerare tutte le autonomie alla stessa stregua, poiché vi sono autonomie ed autonomie.

Vi sono autonomie che sono profondamente sentite ed altre che non lo sono affatto. L’onorevole Gullo, per esempio, contesta che esse abbiano fondamento nel mezzogiorno. Per contro sarebbe negare la realtà disconoscere che vi siano regioni particolari, in cui le radici dell’autonomia sono radicate nel sottosuolo stesso della loro storia, zone in cui l’autonomia è nell’intima coscienza della popolazione, in cui l’autonomia è sempre stata un diritto vissuto, affermato e praticato attraverso tutti i secoli, zone in cui l’autonomia è sentita come un bisogno di libertà insopprimibile, che si identifica con la lotta stessa da esse combattuta per rispetto di questo sacrosanto diritto.

Prima, fra tali regioni, è la Valle d’Aosta, di cui tanto si è parlato, a torto e a traverso.

Sono stato tra i primi, fin dal periodo cospirativo, quale membro del Comitato di liberazione nazionale clandestino, a difendere la sua autonomia, che è una condizione di vita per essa, date le sue condizioni speciali, ma la nostra autonomia – e voglio dirlo ben chiaro da questo seggio – non ha mai avuto né ha nulla di comune né col separatismo, né con altre forme sacrileghe. (Approvazioni).

L’onorevole Nitti diceva un giorno in quest’aula che, nel suo esilio, aveva appreso come a Parigi si stampasse da un prete un giornale: La Vallèe d’Aoste, col quale veniva fatta una propaganda sistematica contro l’Italia.

Ma l’autonomia della Valle d’Aosta non ha nulla a che fare con tale giornale e se è vero che la sua campagna è condotta da un prete, anzi da due preti, sarebbe un errore identificare con costoro la maggioranza stessa del clero valdostano.

L’onorevole Nitti non conosce la Val d’Aosta: se egli la conoscesse, non confonderebbe, la nostra autonomia, con alcun movimento annessionista o separatista.

Noi autonomisti non ci confondiamo con quei signori, di cui ha parlato l’onorevole Nitti.

Noi difendiamo i nostri diritti sacrosanti di libertà e rigettiamo, con disprezzo, lontano da noi tutto ciò che non risponde a questi nostri sentimenti chiari e onesti.

La storia della Valle d’Aosta non è conosciuta da molti di voi che per sentito dire.

Esso è un piccolo popolo che in tutti i tempi ha lottato sempre strenuamente per la sua libertà e indipendenza.

La sua libertà è la sua vita.

Mai essa, attraverso tutta la sua storia, si piegò di fronte ad alcuno e anche quando col Vaud, con Nizza, con la Savoia, col Piemonte, accettò volontariamente la protezione della casa Savoia, essa ne dettò però le condizioni.

Fin dal 1161 ha la sua carta di libertà, negoziata fra il vescovo di Aosta e il conte Tomaso I e tale carta viene rinnovata e rispettata per sette secoli, fino a che fu violata dalla Casa Savoia stessa.

Fin dal secolo XII essa crea i suoi ordinamenti, ha il suo «Consiglio Generale di Tre Stati», il suo «Conseil des Commis», che provvedono saggiamente al suo governo.

Tale è la sua indipendenza e la sua autonomia che il 4 aprile 1537, piccola ma indomita, difende la sua libertà e stringe con la Francia un trattato di neutralità, in virtù del quale non temerà di tener fronte a tutti.

«Le clauses en sont – dice l’abate Henry, nella sua storia sulla Valle d’Aosta – que les français ne rentreront point dans la vallèe».

Difatti quando Francesco I re di Francia, farà chiedere alla Valle d’Aosta di passare con le sue truppe, la Valle non esiterà di respingere la sua domanda.

Quando nel 1554 Enrico II, re di Francia, rinnoverà il tentativo, esso avrà lo stesso esito del primo.

I patti non si violano, per questo grande popolo annidato come un’aquila fra le sue montagne superbe, che sono la sua forza e la sua gloria. Nulla le è più caro che la sua libertà ed esso la difenderà sempre in tutti i secoli «ch’a cousta lon ch’a cousta».

Ne è prova anche il responso del 2 giugno: a grande maggioranza il suo voto fu per la Repubblica. La Valle d’Aosta libera, democratica ed antifascista non può volere che un’Italia del popolo.

Difendendo la sua autonomia, non difende solo le sue tradizioni, la sua civiltà, la sua storia, ma altresì la sua individualità etnica, linguistica, geografica, giuridica, economica e culturale.

Per questi riflessi provvide furono le leggi del 7 settembre 1945 colle quali venne ad essa riconosciuto il diritto di autonomia, che le spetta in virtù delle sue particolari condizioni, e il diritto di zona franca.

Due anni sono quasi trascorsi da allora, e di fronte a coloro che l’attuale riforma vedono con perplessità, voglio dire qui una parola rassicuratrice di fiducia e di esperienza.

In base all’autonomia riconosciutale, la Valle d’Aosta ha oggi una amministrazione libera, un autogoverno democratico, che non mancherà di rispondere ancora meglio alle sue esigenze, quando al suo diritto acquisito saranno date quelle maggiori potestà che sono necessarie per l’esercizio di una vera autonomia e per l’applicazione dei diritti, che sono ad essa connessi.

Per tali considerazioni, l’ordine del giorno del compagno Nobili Oro, nel quale si chiede lo stralcio, dal progetto di Costituzione, dell’ordinamento regionale sino ad esito del risultato delle autonomie concesse, diventa perfettamente ozioso.

L’esperienza affermativa dei due anni già trascorsi per la Valle d’Aosta, è decisiva al riguardo, per cui non v’è ragione che la riforma debba essere oltre rimandata.

Per questi riflessi, onorevoli colleghi, vi domando di dare il vostro consenso alla riforma, come vi domando, quando vi sarà sottoposto nelle prossime sedute, di approvare l’articolo 108 del progetto, che consacra e garantisce costituzionalmente i particolari diritti della Valle, che ho l’onore di rappresentare.

Farete in tal modo opera saggia ed illuminata, di cui la Valle d’Aosta, la terra dei nostri eroici alpini, è ben meritevole e degna, per i sacrifizi che generosamente essa ha fatto sempre in ogni tempo verso la Madre Patria. (Applausi Congratulazioni).

PRESIDENTE. È iscritto a parlare l’onorevole Pignatari. Ne ha facoltà.

PIGNATARI. Onorevoli colleghi, uno Stato veramente democratico deve essere soprattutto uno Stato anti-demagogico. Ma non mi sembra, purtroppo, che i partiti politici, nessuno escluso, e la stessa nostra Assemblea dimostrino di voler estirpare del tutto dalla vita nazionale questo pericoloso bacillo, che può minare la vita della democrazia, e con essa la stessa vita e l’unità della Patria.

Ma, intendiamoci: quando parlo di demagogia, non intendo riferirmi al concetto che se ne ha volgarmente, di promesse mirabolanti fatte con la consapevolezza di non poterle mantenere. Questa è una forma deteriore da cui rifuggono – ne sono sicuro – tutti i componenti della nostra Assemblea, anche quando, portati forse dal loro entusiasmo, vedono nel nuovo ordinamento regionale la panacea per tutti i mali e la soluzione quasi automatica di quei problemi del Mezzogiorno, di quella questione meridionale di cui si parla ormai da tre quarti di secolo, ma che non è stata mai organicamente e seriamente affrontata dai governi accentratori del nostro Paese, e di cui guerre e calamità hanno impedito la soluzione, anche quando si erano create le condizioni obiettive, oltre che morali e psicologiche, che ne avrebbero permesso la soluzione.

La demagogia più pericolosa consiste nel porre sul tappeto dei problemi che non sono sentiti dalla coscienza nazionale e la cui soluzione è o difficile o controproducente, principalmente per le conseguenze e per le reazioni che ne possono derivare.

Ora, io esaminerò il problema dell’ordinamento regionale esclusivamente come uomo del Mezzogiorno d’Italia, di questa nostra terra che si trova purtroppo in una situazione di inferiorità per la mancanza di vie di comunicazione, per la mancanza di assistenza igienica e sanitaria, per i suoi torrenti che straripano senza che si provveda ad arginarli e a bonificare le terre, per lo stato primordiale in cui vive la sua agricoltura, per l’analfabetismo, per la mancanza di scuole professionali. E se si tengano presenti le condizioni in cui vivono principalmente i nostri contadini, che rappresentano la grande maggioranza della popolazione meridionale, se si tenga presente che essi vivono ancora in capanne o in stamberghe che dovrebbero far vergogna alla civiltà umana, se si tenga presente d’altra parte lo spirito laborioso di queste popolazioni (qualcuno ha accennato in quest’Aula ad una forma di apatia e ad una mancanza di laboriosità: orbene, i contadini del Mezzogiorno d’Italia sono dei lavoratori che non temono con alcun altro il confronto!); ebbene, si deve soltanto a questo spirito di laboriosità, si deve soltanto a questo spirito di sacrificio se essi coltivano ancora una terra infeconda vivendo, come ho detto, in capanne o in stamberghe, nutrendosi soltanto di cereali e di verdura!

Ebbene, fra le loro capanne, fra le loro stamberghe troneggia il castello semidistrutto o riattato dal borghese arricchito, simbolo di una feudalità che non è ancora scomparsa! Al vecchio feudatario si è sostituito ieri il podestà e il segretario politico. C’è il pericolo oggi che vi si sostituisca il sindaco o il deputato alla rappresentanza provinciale.

Perché, onorevoli colleghi, allorquando si è voluto indagare sulle cause che hanno ridotto il nostro Mezzogiorno d’Italia in una situazione d’inferiorità di fronte alle altre regioni d’Italia, si è stati forse esclusivisti e si è voluto guardare da un lato solo il problema: la classe dirigente, contro la quale giustamente lanciava i suoi strali l’onorevole Gullo. Sì, la classe dirigente ha le sue colpe: la clientela è uno dei mali dell’Italia meridionale. Questa classe dirigente che, secondo quanto scriveva Dorso, ha creduto di risolvere il suo problema sociale col contratto di fitto quando si è tramutata in una borghesia terriera; questa classe dirigente che non partecipa alla direzione e alla conduzione della terra, che è formata in gran parte o di quei cosiddetti galantuomini (che non sono i gentiluomini di campagna) che vivono nell’ozio e nell’ignavia, o dei grandi proprietari terrieri assenteisti che vivono nelle città e conoscono i loro fondi soltanto per poterne esigere le rendite.

Certo, a questa classe dirigente risale in parte la colpa delle condizioni di inferiorità in cui si trova il Mezzogiorno d’Italia.

Altri ha voluto ricercarne le cause nello accentramento statale. Vi è certo bisogno di un largo e radicale decentramento. Ma a questo decentramento bisogna concorrere coi fatti, non bisogna soltanto invocarlo a parole. Noi abbiamo degli organi di decentramento. Abbiamo, per esempio, un Provveditorato alle opere pubbliche. Ora, non v’è cosa più pericolosa, specialmente nel Mezzogiorno d’Italia, che voler creare delle illusioni.

Nella mia povera terra, nella terra di Basilicata, si fece un programma seducente: sette miliardi dovevano essere spesi per i lavori pubblici. Fu un’euforia: ogni comune presentava i suoi progetti; e si parlava di bonifiche, si parlava di costruzione di edifici scolastici, di arginature di torrenti, di consolidamento degli abitati. Poi i sette miliardi per i quali tanti programmi di utilizzazione erano stati stesi, si ridussero a qualche centinaio di milioni e, quel che è peggio, il programma redatto dal Provveditorato per le opere pubbliche, che teneva presenti le reali necessità e le più urgenti esigenze della regione, fu invece manipolato dal centralismo governativo. Si è così assistito a questo: una nostra cittadina, Venosa, nota non fosse altro che per essere stata patria di Orazio, aveva con stenti e sacrifici costruito un ospedale. Mancavano cinque milioni per poterlo ultimare, e cinquantamila cittadini avrebbero finalmente ottenuto il nosocomio che rispondeva alle loro esigenze. Ebbene, onorevoli colleghi, non voglio dire che sia stato per ragioni politiche o per influenza di Tizio o di Caio; ma il fatto è che i cinque milioni non sono stati dati a Venosa, che aspetta ancora il suo ospedale.

Parlo del centralismo che, siamo d’accordo, è la rovina d’Italia, che è stata una delle cause maggiori delle tristi condizioni nelle quali si trova il nostro Mezzogiorno; ma che non è l’unica causa; né si creda che abolendo i prefetti verranno meno le clientele. Il male è molto più profondo, il male è alla radice. Bisogna anzi riconoscere che molte volte il prefetto è un elemento moderatore, perché si trova al di fuori delle consorterie locali. Quando saranno istituiti i parlamenti regionali con gli ampî poteri che saranno loro dati, il fiore oscuro della clientela vegeterà non più nell’ombra, ma fiorirà alla luce del sole.

Per andare alle cause della depressione del Mezzogiorno d’Italia bisogna farne l’esame da un punto di vista economico, da un punto di vista sociale e da un punto di vista politico.

Dopo la formazione dell’unità d’Italia, quante speranze non sorsero, quante speranze non si ravvivarono! E non si chiedeva molto. Sarebbe stata sufficiente una rete di strade che avesse unito fra loro i vari centri della regione; un rinnovamento della cultura, una educazione popolare. Ma una prima maledizione cadde sul Mezzogiorno d’Italia: il brigantaggio, le cui conseguenze furono deleterie, perché attorno a questi ribelli e fuori legge si riunirono tutte le consorterie politiche che avevano dominato sotto il regime borbonico; e per dieci anni la vita del Mezzogiorno d’Italia divenne insicura: le campagne furono disertate, i contadini si ritirarono nei borghi e l’emigrazione, che oggi è invocata come un rimedio dei nostri mali, fu purtroppo una delle cause del disagio in cui venne a trovarsi il Mezzogiorno d’Italia, perché la terra rimase spopolata, alcuni paesi videro addirittura ridotti a metà i loro abitanti e la coltura rimase una coltura intensiva senza che la depressione economica, dovuta al nuovo sistema tributario dello Stato italiano, potesse sollevarsi. Noi siamo un po’ (noi del Mezzogiorno) le vittime del capitalismo; abbiamo risentito tutti i danni del capitalismo senza poterne risentire vantaggi.

In questo paese dall’agricoltura primitiva e con una pressione fiscale e tributaria che viene sempre aumentando, quelle stesse classi dirigenti, favorite d’altra parte dalla loro ignavia, si trovarono quasi nell’impossibilità di poter investire i loro capitali nella terra: e così la industrializzazione della terra è rimasta un sogno o un’aspirazione di pochi. Si è continuato come prima e peggio di prima, ed ora ci affliggono due mali: da un lato il latifondo, e dall’altro la polverizzazione della terra. Perché lo polverizzazione della terra rende impossibile una cultura progredita; la polverizzazione della terra rende assolutamente impossibile una direzione tecnica in queste aziende frazionate e, come giustamente osservava ieri il compagno onorevole Canepa, si sono soppresse perfino, durante il regime fascista, quelle Cattedre ambulanti d’agricoltura che tanto bene avevano fatto, non per la esposizione di principî teorici che lasciano il tempo che trovano, ma per l’insegnamento pratico che esse potevano dare agli agricoltori. Ora la popolazione è aumentata e, naturalmente, come comprendete di leggieri, è enormemente aumentato il disagio. Oggi le colture sono le stesse, ma vi è la fame della terra e la distruzione dei nostri boschi. Molto abbiamo dato di quel poco che avevamo quando la Patria ne aveva bisogno. La Lucania, regione boscosa, la Lucania che doveva vivere e doveva incrementare principalmente l’industria armentizia, perché l’industria granaria è in gran parte antiproduttiva, ebbene la Lucania ha avuto i boschi distrutti, e l’agricoltura abbandona le pendici montane dove infuria la malaria e le frane si ripetono con un crescendo pauroso. Ed a tutto questo quali rimedi arrivano dal Governo centrale? Il decreto Segni. Ma il decreto Segni ha avuto e può avere delle gravi conseguenze. Perché, onorevoli colleghi, con la fame di terra che vi è in Lucania e in molti altri paesi nel Mezzogiorno, invece di risalire alle cause, di incrementare l’agricoltura, di cercare, dove possibile, di tramutare l’agricoltura estensiva in intensiva, si concedono le cosiddette terre incolte, che non esistono, si distruggono i pascoli, e quindi la riserva della nostra regione, che non è adatta alla coltura granaria. Né si affidano questi terreni alle Cooperative, che esistono soltanto di nome, perché non si pensa a fornirle di mezzi; ma si continua nel vieto sistema di polverizzare ancora più la terra, con conseguenze davvero disastrose.

Ed allora, per tentare di risolvere questo problema, vi è bisogno d’una trasformazione agraria e fondiaria, tenendo presenti i tre mali che affliggono la nostra agricoltura, e cioè: deficienza tecnica della coltura del suolo, polverizzazione della terra, coltura estensiva del latifondo.

Occorre bonificare i terreni, arginare i fiumi, fare opere di irrigazione o di viabilità, che facciano sorgere attorno al vecchio latifondo piccole, medie ed anche grandi aziende consorziate.

Lo Stato deve intervenire, in via indiretta, per porre, cioè, le condizioni necessarie alla restaurazione dell’agricoltura, della viabilità, del risanamento dalla malaria, della irrigazione, dell’igiene, dell’istruzione elementare e tecnica; in via diretta, dando i fondi necessari per agevolare la trasformazione delle aziende agrarie.

Con il miglioramento delle colture potrà sorgere nella nostra regione un’industria che possa utilizzare i prodotti della terra.

Non fa pena al cuore attraversare per diecine e diecine di chilometri la nostra regione, senza scorgere nel lontano orizzonte un fumaiolo che sia segno di attività industriale?

Noi abbiamo, ad esempio, vini ed uve pregiate, le uve del Vulture. Ebbene, ogni anno vengono gl’industriali del Piemonte a prelevare queste uve, che ritornano poi sotto forma di Barbera e Grignolino.

Non è sorta una cantina sperimentale, non vi è un solo vino tipico nostro.

Noi abbiamo legno in abbondanza ed anche legni pregiati.

Durante la grande guerra, e durante l’ultima guerra, il legno della Lucania è servito per costruire i compensati degli aeroplani; viene prelevato per essere portato nei grandi mobilifici industriali. Non vi è, onorevoli colleghi, una sola industria che utilizzi queste materie prime.

Abbiamo olii pregiati. Non vi è una sola raffineria.

I prodotti della nostra terra non servono come mezzo di consumo; servono come mezzo di speculazione.

E questa è un’atra delle cause che, purtroppo, hanno dato al Mezzogiorno d’Italia il marchio ed il sigillo di inferiorità.

E vi è un altro pericolo: la politica tributaria, la politica fiscale.

Noi non abbiamo altre risorse, mentre nel nord d’Italia vi è il flusso della esportazione ed il riflusso delle monete pregiate; da noi si sentirà soltanto il peso e il danno delle necessarie imposizioni fiscali, le quali, se non saranno applicate con opportune esenzioni, con idonee facilitazioni tributarie, finiranno col recidere ed esaurire le fonti stesse della produzione. E vanamente cercheremo di creare un movimento di industrializzazione della terra e di far sorgere l’industria. Per cui, quello che oggi è un solco profondo, che divide il Nord e il Sud, potrà diventare domani un baratro davvero incolmabile.

Ora, qui sorge il problema: per noi del Mezzogiorno d’Italia il nuovo ordinamento regionale è un bene o è un male?

Una voce. È un bene.

PIGNATARI. Non credo che possa essere un bene. Dovremmo essere regionalisti, noi del Mezzogiorno, per protesta, per un innato spirito di ribellione contro lo stato di inferiorità in cui ci hanno lasciato. Ma credete davvero che con l’instaurazione, con l’adozione dello ordinamento regionale, la nostra situazione possa avviarsi verso una favorevole soluzione? Troppo imponenti sono i problemi e vi è bisogno di una concezione unitaria, la quale potrà avviare la questione meridionale alla sua soluzione, attraverso un profondo decentramento amministrativo.

Io non sono aprioristicamente contrario all’ordinamento regionale: ne vedo i vantaggi, ma ne vedo i danni che possono derivare al Mezzogiorno d’Italia.

Si parla, onorevoli colleghi, di un fondo di solidarietà nazionale, perché tutti i nostri bilanci saranno deficitari. Non facciamoci illusioni.

Un oratore della democrazia cristiana diceva ieri: anche oggi lo Stato deve spendere e dare 30 miliardi per cercare di sanare i dissestati bilanci delle provincie e dei comuni. E malgrado questo fondo di integrazione, siamo quasi in uno stato preagonico. Vi dovrebbe essere un fondo di solidarietà nazionale, ma l’egoismo è purtroppo la molla delle azioni umane e l’egoismo è anche la molla dei vari particolaristici aggregati sociali.

La perequazione dei bilanci delle future amministrazioni regionali dell’Italia Meridionale (come pure di quelle del Nord) sarebbe soprattutto un atto di giustizia e di riparazione sol che si tenga presente che nei momenti del bisogno e del pericolo l’Italia meridionale ha dato le scarse materie prime di cui disponeva per requisizioni disposte dal Governo centrale nell’interesse del Paese.

Il Mezzogiorno soffre soprattutto per la sua stessa scarsa economia, per la inesistente attrezzatura industriale, oltreché per la pavidità dei suoi risparmiatori che preferirono l’investimento in titoli dello Stato, la cui dolorosa svalutazione costituisce altra causa della fuga del capitale.

Noi siamo come un naufrago e ci troveremo domani nelle condizioni di non aver aiuti da nessuno. È inutile farsi illusioni. La lotta è fra lo Stato e le regioni, fra le regioni e le provincie. Ne abbiamo la prova nello Statuto siciliano. Faccio una parentesi: perché è stato concesso lo Statuto siciliano, l’autonomia alla Sicilia? Diciamolo con franchezza: perché vi era un movimento separatista che si è voluto fronteggiare, non perché la Sicilia avesse bisogno della sua autonomia. Ma la Sicilia, onorevoli colleghi, ha un suo Statuto che servirà di esempio a tutte le altre regioni d’Italia. Quando nello Statuto siciliano noi leggiamo che lo Stato riscuoterà soltanto le entrate di produzione e i proventi dei monopoli e che lo Stato contribuirà con un fondo speciale in favore della Sicilia, lo Statuto siciliano sarà preso ad esempio da tutte le regioni. Allo Stato verranno a mancare i mezzi per poter far fronte alle richieste e vanamente si chiederà alle fortunate regioni del Nord di venire incontro ai nostri bisogni, e quell’antagonismo che purtroppo affiora tra Nord e Sud diventerà ancora più manifesto, renderà ancora più insuperabile la barriera che minaccia di separare queste due parti.

Ed allora, onorevoli colleghi, io mi domando: potrà lo Stato, cui verranno meno i mezzi, provvedere alla soluzione di questo grande problema meridionale che è il problema che interessa la stessa vita e la stessa unità della Patria?

Potrà lo Stato creare davvero questa industria manifatturiera nel nostro Mezzogiorno, che è problema unitario e non potrà essere risolto dai singoli parlamenti regionali? Potrà, onorevoli colleghi, provvedere, sia direttamente che indirettamente, a creare quelle condizioni che possono permettere il risorgere delle industrie locali?

A Napoli si è tenuto un interessante convegno, un congresso per lo studio dei problemi del Mezzogiorno, le cui conclusioni non hanno avuto la diffusione che avrebbero meritata. Premetto che in questo convegno si è espresso un volo favorevole al problema dell’autonomia regionale, ma vi è stata una deliberazione che suona così: «Chiediamo che il passaggio al nuovo ordinamento regionale sia attuato con gradualità e che, fino al completo risanamento della vita economica nazionale e soprattutto meridionale, lo Stato concorra mediante congrue istituzioni, sia pure provvisorie e con concessioni opportune, specie tributarie, alla perequazione finanziaria degli enti regionali del sud con quelli del nord».

Ora, io avevo proposto un ordine del giorno in cui riassumevo questi concetti. Se la nostra Assemblea approverà l’ordinamento regionale, bisognerà andar cauti e procedere per gradi. Bisogna cercare di eliminare questa profonda sperequazione che vi è tra nord e sud; bisogna mettere i nostri parlamenti e le nostre amministrazioni regionali in condizioni di poter vivere e di poter espletare le loro mansioni, in condizioni di poter raggiungere i compiti che essi si propongono di raggiungere. E bisogna andar cauti perché, specialmente nel Mezzogiorno d’Italia, sorgerà la lotta tra provincia e provincia e, siatene sicuri, anche in quest’Aula. Ne abbiamo avuto le prime avvisaglie nel progetto originario della Sottocommissione. Non si parlava dell’ente provincia, ma l’ente provincia è risorto poi pericolosamente nel progetto definitivo. Oggi che avviene? Vi è un fermento: ogni provincia aspira a diventare capoluogo di regione. Sento dei nomi, e – lo confesso – li ricordo vagamente come lontane reminiscenze dei miei studi liceali: i Danni, i Peuceti; mi sono domandato chi fossero, credo che siano i baresi, i quali aspirano ad avere il loro capoluogo di provincia come capoluogo di regione; e Taranto e Lecce sono in lotta tra loro, e, se andiamo in Abruzzo, vi sono Aquila e Pescara «l’un contro l’altra armate»; Sassari e Cagliari; Avellino e Salerno, città della quale così simpaticamente parlava l’altro giorno l’amico Rescigno. Tutto questo si verifica soprattutto nel Mezzogiorno, perché dove non vi è coscienza politica elevata, dove la coscienza politica sorge ora, vi è ancora il campanile e la fazione che si ammantano a volte di rosso e a volte di nero, per mettere innanzi vecchi uomini e per sostenere le vecchie clientele: il capoluogo della regione deve costituire il mezzo perché le clientele possano vivere e prosperare, a mezzo delle leggi e dei regolamenti, spandendo i loro tentacoli nell’intera vita regionale.

Ma tutta questa, signori, è roba deteriore. Sono inconvenienti che passeranno col passare del tempo. Mettiamo questo nostro Mezzogiorno d’Italia, questo povero Mezzogiorno d’Italia, in condizioni di poter vivere: non è soltanto un problema che riguarda il Mezzogiorno, ma riguarda tutta l’Italia. (Applausi).

PRESIDENTE. È iscritto a parlare l’onorevole Grazi. Ne ha facoltà.

GRAZI. Io sono uno di quei socialisti, cui alludeva il compagno Bordon, che non capiscono la regione. Non capisco la regione, perché effettivamente non so in che cosa consista in Italia. Può darsi che gli oratori che hanno sostenuto con grande calore la regione, di cui uno è stato Bordon – ed è logico che lo sia perché è un valdostano e la Val d’Aosta è stata sempre una regione, mentre è stata elevata a provincia pochi anni fa – abbiano le loro ragioni per sostenere la creazione del nuovo ente. Un altro che ha creduto di poter creare la regione è stato l’onorevole Tessitori, perché lui confonde la regione con la provincia di Udine. Ho sentito molti altri regionalisti che confondono la regione con la provincia. Io non farò la storia né della regione né della provincia, perché sarebbe una cosa di poco buon gusto; però osservo che i più sinceri ed accaniti assertori dell’Ente regione sono proprio quelli che assimilano la regione alla provincia. Naturalmente, fra questi, ci sono anche gli onorevoli Lussu e Mastino, ma essi sono degli isolani, quantunque io non condivida le loro opinioni, perché se non sono isolano nato lo sono di adozione, perché ho vissuto tanti anni in Sardegna, e la Sardegna la conosco così bene che vi posso assicurare che il movimento sardista è tutt’altro che un movimento a carattere regionale. È un movimento che è nato e che ha avuto il suo periodo di grande splendore nel 1919, 1920 e 1921, quando i sardi, dopo la guerra vittoriosa, si sono accorti e si sono convinti che effettivamente la Sardegna era stata trascurata dal governo centrale. Poi, il movimento sardista si trasformò in un movimento di ribellione vera e propria contro il fascismo, e si identificò in quegli uomini che abbiamo anche al Parlamento: Lussu, Mastino ed altri, che effettivamente rimasero fedeli a questi principî. Non cito quelli che si sono sbandati, ma quelli che hanno mantenuto effettivamente al movimento sardista quel carattere di antifascismo che è stato veramente tipico. Lussu e Mastino sono stati perseguitati, e Lussu è dovuto andare perfino all’estero. E così tanti altri ancora di cui mi sfugge il nome. In ogni modo, però, il fenomeno sardista è andato attenuandosi quando è caduto il fascismo, è andato attenuandosi attraverso una grande crisi, perché il sardismo era un movimento idealistico, era un movimento di protesta e racchiudeva sotto le sue larghe ali tutti i sardi, dal latifondista Pietro Paolo Comida al servo pastore. C’era gente di tutte le categorie, e francamente il movimento non poteva essere che un movimento creato anche per ragioni di carattere particolare. In Sardegna ci sono moltissimi paesi che erano sardisti al cento per cento e che ora non lo sono più: ora sono democristiani, comunisti, socialisti, qualunquisti ecc., e del resto lo dimostra il fatto delle elezioni.

CHIEFFI. Perché tutti i partiti hanno fatto una propaganda autonomistica.

GRAZI. Effettivamente oggi il fenomeno del sardismo si è riportato nei suoi giusti termini e non ci sono più tanti equivoci: abbiamo visto una differenziazione per cui ognuno, secondo i propri interessi, si è tirato da una parte o dall’altra. Si può dire che il sardismo esiste ancora in quanto esistono uomini come Mastino, Lussu e qualche altra figura che tengono vivo questo movimento. Questo vi dice che la tendenza regionalistica non esiste nemmeno in Sardegna. In Toscana poi non esiste affatto.

LUSSU. È accaduto che i comunisti, per esempio, per costituirsi in partito, hanno dovuto dichiararsi autonomisti.

GRAZI. Di questo le do ragione.

LUSSU. In realtà il partito sardo di azione è stato creato perché tutti i partiti hanno fatto dell’autonomismo.

GRAZI. Io le auguro che il suo partito di azione conservi a lungo uomini come Lussu e Mastino; ma effettivamente bisogna convenire che non esiste una coscienza regionalistica in Sardegna.

Quale è il vantaggio della costituzione della regione? È quello di costituire sostanzialmente un apparato burocratico ed una legislazione più aderente ai bisogni locali. Ma lei crede, onorevole Lussu, che in Sardegna, con l’autonomismo sardo, sia possibile fare una legislazione più aderente di quella che si può fare a Roma?

LUSSU. Io sono per l’unità nazionale, ma le dico che se la Sardegna potesse avere una organizzazione tipicamente federale, per cui tutti i problemi venissero affrontati e risolti in Sardegna, sarebbe l’ideale per la Sardegna e per l’Italia.

GRAZI. La Sardegna vive essenzialmente del suo allevamento di bestiame, del carbone Sulcis (fino a che non ci saranno le concorrenze straniere), vive dei minerali di zinco e di piombo e nient’altro; perché il rame non è utilizzabile in Sardegna, così come non è utilizzabile il manganese, e non estraibile nemmeno il ferro. E le dirò di più, onorevole Lussu: che la Sardegna se, per disgrazia, come ricordava anche l’onorevole Mastino, dovesse avere gli operai in sciopero avrebbe la fame, morirebbe di fame. E così anche per quanto riguarda il bestiame, lei sa che c’è una moria, delle pecore specialmente: perché, quando c’è troppa siccità, il bestiame muore di fame ed è colto da particolari malattie.

LUSSU. Scusi, perché questo?

GRAZI. La Sardegna non è affatto autosufficiente.

LUSSU. Ma permetta: io sono, come parecchi in quest’Aula, amico intimo dei massimi rappresentanti del Canton Ticino che è uno dei più poveri, ed è forse per questo che il Canton Ticino non entra in quella solidarietà nazionale che sarebbe auspicabile, come è naturale? (Commenti Interruzioni).

PRESIDENTE. Onorevole Lussu, non interrompa.

GRAZI. L’onorevole Lussu diceva che, se la Sardegna avesse una sua amministrazione propria, essa sarebbe felice. Ora, io non ho dubbi sul sentimento italiano dei sardi: su questo sarebbe inutile discutere. Ma io voglio dire un’altra cosa, ed è che non sono pei niente convinto che un’amministrazione creata per la Sardegna dagli stessi sardi sarebbe più provvida che non un’amministrazione creata dal potere centrale. Io, in altri termini, non accedo al criterio che i sardi sarebbero in grado di creare per loro una legislazione più aderente ai bisogni del luogo che non sia quella creata dal potere centrale per tutte le altre parti d’Italia.

È da notare inoltre che le varie zone della stessa Sardegna presentano caratteristiche diverse ed è quindi, anche sotto questo aspetto, inutile che legiferi Cagliari per tutta l’isola.

Io vedo per esempio la stessa Toscana, che ha caratteristiche così diverse: vedo che, quando vengono disposizioni relative agli ammassi del grano, si verifica questo: si dà il premio a chi ha meno faticato perché favorito dalla natura e chi porta dopo il grano, come quel disgraziato che lavora in montagna, dove la resa è di sei o sette per uno e anche di meno, non ha il premio. Eppure quelle disposizioni sono state attuate localmente.

È difficilissimo quindi poter fare una legislazione aderente alle località, solo perché legiferano Firenze o Cagliari anziché Roma.

Si potrà studiare, sì, localmente l’adattamento delle leggi, ma non si dovrà legiferare ex novo. La regione, così come voi la volete configurare, non è né carne né pesce.

Io vedo nella regione, così come essa è concepita nel progetto di Costituzione, un pericolo gravissimo. Che cosa facciamo noi infatti? Per limitare quella burocrazia di cui abbiamo tanta paura, per tagliare ad essa le unghie, noi facciamo una cosa semplicissima: creiamo ancora dell’altra burocrazia.

Che cosa avverrà poi? Avverrà che il numero delle regioni finirà col diventare inverosimile, perché tutti o pressoché tutti i capoluoghi delle attuali provincie aspireranno a formare una regione. Noi creeremo allora una burocrazia mastodontica, soffocante, costosa.

Mi meraviglia soltanto una cosa, che cioè l’onorevole Einaudi, il quale fece un esame così acuto dei pericoli che può rappresentare la regione, non si sia soffermato – lui, economista – su quello che è il costo della nuova burocrazia che si costituisce, il costo di tutti questi nuovi Parlamenti, non dico «parlamentini», perché non voglio disprezzare quelli o questi che verranno. Ma tutto questo quanto ci costerà? Io non mi voglio indugiare su tutti gli altri inconvenienti che ci possono essere; dico semplicemente questo: che noi, per evitare questi pericoli, per cercare di fare una riforma della burocrazia, per snellirla, ne facciamo dieci, venti o trenta, secondo quante saranno le regioni.

E quando si sono fatti gli esperimenti del decentramento anche amministrativo sotto certe forme, proprio sul modello ministeriale, sono successe delle catastrofi; perché io ho vissuto in Sardegna prima dell’istituzione del Provveditorato delle opere pubbliche e dopo: si stava molto meglio quando il Provveditorato non c’era. Alcuni hanno confuso il Magistrato delle acque di Venezia come un organismo meraviglioso di decentramento amministrativo. Il Magistrato delle acque è una cosa vecchia quanto la Repubblica veneta, è un organismo particolare che ha una mansione speciale, quella di disciplinare le acque – problema fondamentale del Veneto, con la laguna e tutti i suoi fiumi – e niente altro. Ma il giorno in cui al Magistrato delle acque si dovesse dare la caratteristica che si dà al Provveditorato, noi otterremmo questo risultato meraviglioso: invece di avere una sola Corte dei conti, avremmo la Corte dei conti centrale e venti Corti dei conti periferiche. Io so per esperienza, perché ho lavorato coi Provveditorati, quanto mi è costato incassare quattro soldi; perché un mandato deve prima passare dall’ufficio revisione alla Corte dei conti impiegando una settimana; ma per uscire dalla Corte dei conti, caro mio, ce ne voleva! Poi quando si tratta di cifre più imponenti, non basta più il Provveditorato ma devi ricorrere al Ministero. È tutta una complicazione tale che fa paura. Poi, si prenda un altro esempio: è stata fatta una prova coi Provveditorati agli studi in campo regionale: è stato un altro fallimento.

AMBROSINI. Perché hanno soppresso quelli provinciali! (Commenti).

GRAZI. Non voglio parlare della Regione per il gusto di parlare contro: voglio portarvi qualche cosa di concreto. Io sono un sindaco, oggi, amministro una città modesta, capoluogo di provincia. Ho fatto il consigliere comunale quando ero giovanotto, nel 1919-1920 circa; quindi so un pochino come vanno le cose. E vi dico perciò: voi avete fatto un progetto per stabilire tutta la regolamentazione di una regione, e vi siete dimenticati di mettere un articolino, piccolo piccolo, relativo all’autonomia dei comuni. Voi mi risponderete facilmente che sarà una legge, una legge speciale che vi provvederà. D’accordo. Però vi dico che il problema della creazione di un ente nuovo è un problema grave, più di quello della regolamentazione di un ente che bene o male ha funzionato. E voi oggi volete che vi dica che questa regolamentazione va bene? Io vi dico di no.

Il collega Bordon ha fatto presente magnifiche situazioni storiche e ha detto tante belle cose, ma che si riferiscono solo alla Val d’Aosta. Io per fare la stessa documentazione di Bordon dovrei riferirmi al comune di Firenze, al comune di Siena, per quanto si riferisce alla Toscana; e così potrei portare esempi anche per i comuni della Venezia e di altre regioni d’Italia. E allora identifichiamo la regione col comune meridionale, e su questo posso essere d’accordo con voi. Ma quel comune è la provincia di oggi e non è vero che la provincia di oggi sia un ente inventato per il gusto di inventare. Per esempio, la Toscana: nell’opinione pubblica è assolutamente radicata la convinzione che la Toscana sia omogenea, sia qualche cosa di perfettamente definito. Si dice: la Toscana è la terra dove si parla la vera lingua. Ebbene: io, toscano e senese, vi dico che neanche in provincia di Siena si parla la vera lingua. C’è una notevole differenza fra un paese e l’altro. Molti, anche persone assai colte, credono che sia così. Ma non è così, e la ragione c’è: perché la Toscana è stata caratterizzata essenzialmente, dopo la caduta dell’impero romano e le invasioni barbariche, dai comuni che l’hanno riordinata, che hanno stabilito delle caratteristiche; i comuni si sono affermati in determinati spazi vitali, chiamiamoli così, che hanno notevole omogeneità dal punto di vista geofisico, che hanno dialetti e tradizioni comuni, che hanno tutte quelle caratteristiche che erano le caratteristiche del comune toscano e sono la provincia di oggi.

Ora, io capirei perfettamente che le autonomie si potessero reclamare per provincia. E quando voi mi dite che la provincia non ha mai funzionato, io sono d’accordo con voi. La provincia non ha funzionato per molte ragioni, perché la provincia, intanto, è stata organizzata come un qualche cosa di estraneo al comune. Fino al 1888 la provincia mi pare avesse un’ingerenza su quello che era l’andamento dei comuni, ma dopo quella data la provincia è stata un organismo a sé che non ha avuto più niente a che fare col comune. E, quindi, la presenza del prefetto e la confusione fra prefettura e provincia. È una confusione che molti hanno fatto, poiché molti identificano, per esempio, il medico provinciale con un funzionario della provincia. Ed ecco l’odio contro il prefetto, che è stato visto sempre come la mano governativa, come l’oppressione di quelle libertà più elementari reclamate e sentite da tutti i comuni. Per tutte queste ragioni la provincia è stata sempre quasi disprezzata.

Non vi farò citazioni storiche perché sarebbe fuori luogo e sarebbe pura retorica, perché noi non dobbiamo guardare la storia oltre certi limiti, ma dobbiamo guardare a quella che è la realtà delle cose e a quella che è la reale esperienza. Noi dobbiamo dire che la provincia può essere un ente di grande utilità, a patto che la provincia si trasformi in un elemento coordinatore dell’attività dei comuni. (Interruzione dell’onorevole Targetti).

Il consorzio no; il consorzio è una cosa troppo aleatoria ed ho una esperienza in proposito di consorzi che si fanno per le strade comunali, per le condotte veterinarie ecc. Non funzionano mai.

UBERTI. Ma io non ci tengo al consorzio.

GRAZI. Benissimo, se noi partissimo dal comune al quale si desse una vera autonomia finanziaria, noi potremmo coordinare l’azione dei Comuni, con un organismo del quale facessero parte anche i rappresentanti dei Comuni, ma dando il carattere provinciale a questo organismo, affinché si occupasse di tutti quei problemi che sono insolubili nell’ambito comunale come per esempio il problema ospedaliero. È insolubile perché tutti i Comuni, piccoli e grandi, hanno la pretesa di avere degli ospedali che sono in genere sproporzionati alle loro possibilità. Il Comune piccolo quindi è insufficiente a tenere l’ospedale, mentre il Comune grande è insufficiente a tenerlo così come dovrebbe esser tenuto. Perché è insufficiente? Perché all’ospedale affluisce gente di altri Comuni, che non paga la quota di spedalità.

Quindi se la provincia, così concepita, provvedesse alla organizzazione di tutto il servizio ospedaliero, creando un ospedale sufficiente nel capoluogo della provincia e riducendo le proporzioni degli ospedali periferici, istituendo posti di pronto soccorso, posti di degenza per malattie brevi, si potrebbe ottenere una compensazione delle spese, ed allora si potrebbero organizzare veramente ospedali funzionanti e rispondenti. (Interruzione dell’onorevole Uberti).

Oggi siamo nella situazione per cui in molte città e in molti capoluoghi di provincia si deve ricorrere al capoluogo di regione se si vogliono determinate cure. Questa è una realtà.

Vi è ancora un problema molto serio. Noi abbiamo le imposte di consumo. La esazione delle imposte nei Comuni poco progrediti si fa in economia diretta. Bisognerebbe quindi creare uno strumento provinciale che facesse tutto questo servizio di imposte e di tasse sfuggendo allo strozzinaggio degli esattori comunali, ai guadagni troppo grossi che fanno gli appaltatori attuali. Non si incapperebbe nell’altro guaio di avere alle dipendenze dirette dei Comuni un personale che finisce per adattarsi alle situazioni e per non fare più bene il suo servizio. Su basi provinciali si avrebbero le caratteristiche di una burocrazia quasi nazionale con la snellezza e la facilità di controllo che si può avere nell’ambito della provincia. Bisognerebbe quindi studiare una organizzazione, una riorganizzazione su queste basi.

Non pretendo di fare il legislatore all’impronta. Non pretendo di portare la panacea a tutti i mali. Sono suggerimenti che non credo siano inutili. Se noi facessimo una cosa del genere, noi arriveremmo ad organizzare un qualche cosa di veramente decentrato, di veramente serio, che potrebbe avere un carattere provinciale e potrebbe assumere addirittura quell’importanza che oggi si vuole dare alla regione. Non discuto i limiti dei poteri che devono essere dati. Non li so. Non ho la pretesa di saperli, perché credo che chiunque dica «si deve fare così» sia un presuntuoso.

Giudicare su un problema di questa importanza semplicemente su articoli che sono stati esposti e non domandarsi di quelle che possono essere le conseguenze nel campo pratico, è un errore fondamentale.

Non ho paura di federalismi, io. Ma dico: per arrivare a questo, guardiamoci bene dentro in questo problema; cerchiamo di farlo e invece di fare un esame affrettato (se noi pretendessimo di fare un esame affrettato ci vorrebbero sei mesi)…

Una voce. Sono sessanta anni che si studia.

GRAZI. Ma non è stata mai proposta una soluzione pratica. Io vi dico: invece di andare a fare grandi considerazioni ed a spendere tante parole mettiamoci d’accordo e diciamo: stabiliamo il principio di creare questi enti nuovi (la ripartizione in regioni non saremmo noi che riusciremo a farla, perché prima di stabilire quali devono essere le regioni ed i capoluoghi di regione noi saremmo seppelliti di lettere); diciamo, inoltre, in modo molto semplice: ammettiamo in linea di principio la costituzione di questi nuovi enti e demandiamo al futuro legislatore l’organizzazione di essi. A questa cosa, con un po’ di buona volontà, oggi, si può arrivare.

Io, per esempio, sono un fautore dell’autonomia della Venezia Tridentina, perché effettivamente c’è della gente che vuole l’autonomia. Noi, quell’autonomia l’abbiamo concessa volentieri perché speravamo nella contropartita: l’autonomia della Venezia Giulia.

Le autonomie, come sono impostate nel nostro Statuto, sia per la Sardegna che per la Sicilia, non le concepisco: sono due aberrazioni. Capisco, per quanto riguarda la Sardegna, che si conceda l’autonomia a Sassari, Cagliari e Nuoro, ma quando si concede a tutta la Sardegna!… (Commenti, interruzioni).

LUSSU. Ha visto la Sardegna?

GRAZI. La realtà è questa.

LUSSU. Porterò i bollettini segreti dell’Ente nazionale per le ricerche scientifiche e vedrete il miserabile sfruttamento che questo centralismo ha fatto in Sardegna. Parlerò in questa sede.

GRAZI. Io ho detto, e non intendo ripetere quello che hanno detto altri; la base dello Stato è il Comune; e l’autonomia dei Comuni deve essere studiata, come si deve; poi è desiderabile che, al di sopra del comune, ci sia un organismo coordinatore dell’azione dei comuni; io l’ho già creato, ho fatto la Lega provinciale dei comuni, alla quale aderiscono indistintamente tutti i comuni della provincia, che studiano insieme tutti i problemi che ciascun comune non può risolvere per conto proprio.

Per la provincia vedere quale sistema seguire per darle autonomia.

Io non sono in grado di improvvisare e ritengo nessun altro; chi pretende di farlo, probabilmente è presuntuoso.

Questo problema è grave ed importante, perché interessa l’organizzazione nuova dello Stato.

Mi si diceva l’altro giorno che Caldara era per l’autonomia delle regioni; Zanardi, che è stato sindaco valente quanto Caldara, è contrario all’autonomia regionale.

Quindi, uno la pensa in un modo, l’altro in un altro.

Io posso pensarla a modo mio.

E vedo che l’organizzazione dello Stato su basi nuove non si può fare altrimenti che valorizzando l’autonomia dei Comuni e poi delle provincie, quali organi coordinatori dei comuni.

La regione è creazione completamente artificiosa. Se volete, cambiamo per regione le provincie, e così sarete contenti. (Applausi a sinistra Congratulazioni).

PRESIDENTE. Il seguito della discussione è rinviato a martedì 3 giugno alle ore 16.

La seduta termina alle 11.40

Ordine del giorno per la seduta di martedì
3 giugno 1947.

Alle ore 16:

Seguito della discussione del progetto di Costituzione della Repubblica italiana.