Come nasce la Costituzione

POMERIDIANA DI MERCOLEDÌ 4 GIUGNO 1947

ASSEMBLEA COSTITUENTE

CXXXVIII.

SEDUTA POMERIDIANA DI MERCOLEDÌ 4 GIUGNO 1947

PRESIDENZA DEL PRESIDENTE TERRACINI

indi

DEL VICEPRESIDENTE CONTI

INDICE

Commemorazione di Bruno Buozzi:

Vernocchi                                                                                                        

Macrelli                                                                                                          

Cappi                                                                                                                 

Piemonte                                                                                                          

Pajetta Giancarlo                                                                                          

Russo Perez                                                                                                      

Lussu                                                                                                                

Ruini                                                                                                                 

Bergamini                                                                                                         

Quarello                                                                                                         

Presidente                                                                                                        

Progetto di Costituzione della Repubblica italiana (Seguito della discussione):

Presidente                                                                                                        

Di Fausto                                                                                                          

Di Gloria                                                                                                          

Spallicci                                                                                                          

Macrelli                                                                                                          

Preziosi                                                                                                            

Medi                                                                                                                  

Adonnino                                                                                                         

Titomanlio Vittoria                                                                                       

Sull’ordine dei lavori:

Cevolotto                                                                                                        

Presidente                                                                                                        

La seduta comincia alle 16.

AMADEI, Segretario, legge il processo verbale della precedente seduta pomeridiana.

(È approvato).

Commemorazione di Bruno Buozzi.

VERNOCCHI. Chiedo di parlare.

PRESIDENTE. Ne ha facoltà.

VERNOCCHI. 4 giugno, onorevoli colleghi, data da ricordare. Ricordo di speranze, di passioni, di dolore. Ricordo di vita e di morte. 4 giugno 1944: i tedeschi, incalzati dalle truppe alleate e martellati dalle formazioni partigiane, fuggono disordinatamente da Roma. È il giorno precedente la liberazione, la vigilia della agognata libertà. Ma il 4 giugno 1944 le belve in fuga, assetate di sangue, traggono dalle celle di via Tasso, che risuonano ancora dei lamenti dei cento e cento torturati, 14 patrioti che avevano lottato per la libertà, ed a pochi chilometri da Roma selvaggiamente li uccidono. Tra questi patrioti, tra questi martiri, era Bruno Buozzi, il capo riconosciuto e qualificato di tutto il proletariato italiano, il socialista che per oltre quarant’anni, in Italia e fuori, aveva combattuto tutte le battaglie per la redenzione degli oppressi, il sindacalista che, attraverso la sua predicazione appassionata, dopo il 25 luglio 1943, era riuscito a realizzare il sogno della sua vita di organizzatore: la unità sindacale della Confederazione generale italiana del lavoro, che doveva essere la sintesi di tutte le forze del lavoro nella lotta per la loro emancipazione. Tutta la vita di Bruno Buozzi è sacrificio e combattimento. Sia gloria a Lui e sia gloria ai compagni che gli fecero corona nella lotta e nel sacrificio: uomini nostri, onorevoli colleghi, uomini che appartennero ai nostri partiti, uomini che lottarono nella coscienza del sacrificio. Le tigri tedesche uccisero e fuggirono, senza contaminarli oltre. Uccisero e fuggirono e non si resero conto che il loro ultimo delitto aveva soppresso l’uomo che rappresentava la speranza di tutti i lavoratori italiani, e non si resero conto che il loro ultimo delitto avrebbe pesato sull’avvenire della nostra Patria.

Ma il proletariato di tutti i Paesi lo comprese ed il suo singulto ebbe una eco dovunque: fu come un velo di lutto steso sulla terra che strinse in un unico patto tutti i lavoratori italiani e li strinse particolarmente in un giuramento solenne. Questo giuramento non si è ancora adempiuto, lo ricordino coloro che hanno già dimenticato. Ma noi non abbiamo dimenticato: ecco perché noi non commemoriamo, ma ricordiamo. Di commemorazioni ne abbiamo avute fin di soverchie e in questo nostro Paese, che è quasi oppresso dalle memorie, è tempo di volgere lo sguardo verso l’avvenire, ma ricordando quello che è in noi di più degno, ricordando quello che è insegnamento e monito.

Onorevoli colleghi, dal giorno in cui il socialismo si mise in cammino e diffuse fra le plebi sofferenti e oppresse la parola della speranza nella giustizia, da quel giorno il delitto gli si collocò alle calcagna e lo seguì nella sua strada con una lunga e interminabile striscia di sangue. E la strada della nostra lotta, la strada della lotta combattuta contro il fascismo dagli uomini dei partiti che rappresentiamo su questi settori, è seminata di croci che ricordano il nostro calvario e ricordano il sacrificio di coloro che furono nostri e che si sono immolati per la libertà e per la giustizia.

Onorevoli colleghi, la tirannia fascista è imprigionata fra due date: 10 giugno 1924-4 giugno 1944: Giacomo Matteotti e Bruno Buozzi. Lo ricordino coloro che hanno dimenticato. Ecco perché noi non commemoriamo, perché le commemorazioni hanno sempre sapore accademico, ma ricordiamo: ricordiamo coloro che sono morti per noi e per la nostra libertà. Noi desideriamo che i nostri martiri – che segnano il cammino della nostra storia – non siano obliati e desideriamo che questo ricordo nella sua grandezza non pesi come una condanna, particolarmente su coloro che, attratti da nuove formule o dalla speranza di nuove esperienze, tentassero distruggere le memorie e le glorie, quei valori spirituali inestimabili che ci unirono nella lotta comune contro il nemico comune, quei valori spirituali insopprimibili che ci ammoniscono ancora che la nostra opera non è finita, perché le mete che noi additammo, e che durante i giorni della cospirazione, prima e dopo la caduta del fascismo, giurammo insieme di raggiungere, non sono state ancora raggiunte: la libertà e la giustizia sociale nella Italia repubblicana. (Vivi, generali applausi).

MACRELLI. Chiedo di parlare.

PRESIDENTE. Ne ha facoltà.

MACRELLI. A nome del Gruppo repubblicano mi associo alle parole commosse pronunciate dal collega Vernocchi in rievocazione di una figura luminosa della vita politica italiana: Bruno Buozzi. Io fui accanto a lui nelle ore ultime della lotta clandestina. Alla vigilia del suo arresto, assieme, partecipammo ad una delle tante riunioni in cui convenivano i rappresentanti dei partiti della democrazia italiana e delle organizzazioni operaie, strette in un solo pensiero: quello di liberare l’Italia, definitivamente, dal giogo del fascismo e del nazismo. Noi, anche in quelle ore, aggiungevamo un altro pensiero: quello di liberare il Paese dall’onta e dall’umiliazione della monarchia sabauda. E accanto a noi era lo spirito animatore di Bruno Buozzi. Noi lo rammentiamo nelle ore di libertà come nelle ore buie della servitù, della schiavitù morale e materiale, pronto ad affrontare il sacrificio, pronto sempre alla lotta ed alla battaglia. Quando giunse la notizia dell’arresto, poi l’altra più tragica della sua fine, i nostri animi furono pervasi da un senso di commozione profonda.

Oggi lo stesso senso è ancora nel nostro spirito e nel nostro animo. Rievocare oggi la figura di Bruno Buozzi significa non soltanto fare una commemorazione, significa soprattutto avere di fronte a noi il suo esempio, che deve servire di monito e di incitamento per le future battaglie e per le future vittorie. (Applausi).

CAPPI. Chiedo di parlare.

PRESIDENTE. Ne ha facoltà.

CAPPI. Il Gruppo democristiano si associa al ricordo e alla memoria del martire Bruno Buozzi. La data della liberazione di Roma suonò fausta, specialmente a noi del Nord, che quasi per un altro anno dovevamo ancora soffrire e combattere per la liberazione. Noi rivolgiamo il nostro pensiero reverente e riconoscente a tutti coloro che, per la liberazione di Roma, per la liberazione d’Italia, per la liberazione del mondo, per la difesa di quei principî che rendono degna la vita di essere vissuta, hanno sofferto e sono caduti. Eleviamo il pensiero reverente a tutte le forze materiali che per questo combatterono, e quindi il nostro pensiero va ai nostri partigiani, va ai soldati degli eserciti alleati, che nella terra d’Italia trovarono gloriosa tomba per un alto ideale di libertà.

Rendiamo omaggio a tutte le forze spirituali che per la liberazione combatterono; e sia lecito che, insieme a tutti gli altri ideali, noi ricordiamo anche la grande forza spirituale del principio cristiano di fratellanza e di libertà e ricordiamo l’opera coraggiosa e pietosa, qui in Roma e nel mondo, del Capo della Cristianità. (Applausi).

PIEMONTE. Chiedo di parlare.

PRESIDENTE. Ne ha facoltà.

PIEMONTE. Onorevoli colleghi. I deputati del Gruppo socialista dei lavoratori italiani si associano di tutto cuore in questo ricordo del nostro Buozzi. Nato dal popolo, fu operaio; piano piano conquistò il bastone di maresciallo del proletariato nella sua categoria e ne diresse le sorti in un momento difficile. Basta pensare cosa era la categoria dei metallurgici dopo la prima guerra: una quantità enorme di gente della campagna si era introdotta nelle industrie per le necessità belliche; una massa enorme di operai non ancora qualificati, o qualificati da poco, non rotti alle discipline del nucleo organizzato preesistente. Difficoltà enormi di direzione. Buozzi superò quella prova magnificamente. Quando il fascismo rese irrespirabile l’aria italiana, venne all’estero e all’estero io gli fui vicino per oltre 20 anni.

Fu sempre uguale a se stesso. Trasportò l’idea sindacalista e la Confederazione Nazionale del Lavoro in Francia, e L’operaio italiano, organo ufficiale di essa, che egli dirigeva, era la miglior palestra del sindacalismo italiano.

Fu presente in tutti i convegni internazionali difendendovi il lavoro italiano e non tralasciando occasione per porre a nudo il turpe inganno e tradimento del proletariato che erano fondamento delle corporazioni fasciste. Si interessò dei problemi di emigrazione. Tenne sempre alta la bandiera della libertà, della democrazia e del socialismo. Poi, rimpatriò e noi che eravamo ancora in esilio rimanemmo profondamente colpiti, addolorati, accasciati di fronte alla ferale notizia che ci pervenne della sua tragica morte.

Oggi, ricordando la sua vita passata, l’opera che prestò ai lavoratori italiani, diciamo che noi siamo gloriosi che dal socialismo sorgano questi autodidatti, questi uomini che dal niente si creano una vita e la creano agli altri.

È nell’atmosfera del socialismo democratico che sorgono gli eroi, i miti moderni; Matteotti è il primo pilastro, Buozzi è l’ultimo della lotta contro la dittatura e il fascismo. Alla memoria di questi nostri morti deponiamo il nostro fiore di lutto e di orgoglio ad un tempo. (Applausi).

PAJETTA GIANCARLO. Chiedo di parlare.

PRESIDENTE. Ne ha facoltà.

PAJETTA GIANCARLO. Il Gruppo comunista si associa al ricordo del compagno Buozzi.

Ricordiamo in lui l’operaio che ha inteso la funzione liberatrice dei lavoratori, che ha conquistato la conoscenza e la dottrina, che è diventato un amico, un dirigente dei nostri compagni di lavoro, che ha sentito e praticato la solidarietà.

Ricordiamo in Bruno Buozzi l’organizzatore sindacale che, quando qualcuno volle ammainare la bandiera della Confederazione generale del lavoro, fu tra i pochi che risposero «no» alle lusinghe e alle intimidazioni.

Ricordiamo in questo organizzatore sindacale uno di quegli uomini che intesero e vollero che fosse intesa come poteva essere la democrazia, non soltanto nelle forme dello Stato, ma nella vita delle organizzazioni, nella vita delle classi lavoratrici.

Fu uno di quegli uomini che preparò, già sotto la tirannide, già nelle vecchie forme della democrazia, una democrazia nuova, la democrazia che noi vogliamo che viva in questa Repubblica fondata sul lavoro.

Nel nome di Buozzi noi ricordiamo gli sforzi vittoriosi per ridare ai lavoratori italiani l’unità sindacale, per costituire la loro forza organizzata.

Oggi coloro che vivono la battaglia dei lavoratori italiani ricordano questo martire. Lo dimenticano coloro che, fatti immemori, cercano di portare la divisione là dove egli ed i suoi compagni di lavoro vogliono l’unità; lo dimenticano coloro che vogliono e credono di poter ignorare la funzione liberatrice, la funzione di guida, la funzione di governo dei lavoratori italiani.

Noi ricordiamo un combattente, noi ricordiamo un martire e auspichiamo che la sua memoria si possa associare al proposito di resistenza e di lotta dei lavoratori italiani. (Applausi).

RUSSO PEREZ. Chiedo di parlare.

PRESIDENTE. Ne ha facoltà.

RUSSO PEREZ. Si commemora qui un uomo che ha servito sino al sacrificio, sino al martirio un’idea, in quanto tutti sanno, anzi tutti sappiamo, che Bruno Buozzi fu un puro al servizio di una purissima idea: l’elevazione dei lavoratori, la giustizia per tutti i diseredati, l’amore verso tutti i sofferenti. Noi quindi non possiamo che associarci con tutto il cuore alle nobili parole pronunciate dall’onorevole Vernocchi, dall’onorevole Macrelli e dagli altri oratori che mi hanno preceduto. (Applausi).

LUSSU. Chiedo di parlare.

PRESIDENTE. Ne ha facoltà.

LUSSU. Il mio Gruppo si associa alla rievocazione del caro e grande compagno e collega Buozzi e vuole mandare alla sua vedova, alle sue due figliole, alla sua piccola famiglia superstite, l’espressione della sua affettuosa devozione. Noi vediamo in Buozzi una delle grandi figure che sono guida della rinascita del nostro Paese.

Insieme con gli altri che lo hanno preceduto nel sacrificio, egli è una delle fiamme accese nel cammino comune; e sentiamo che egli, con i suoi compagni di lotta e di sacrificio, è la guida ed è l’annunzio della grande democrazia di domani. (Applausi).

RUINI. Chiedo di parlare.

PRESIDENTE. Ne ha facoltà.

RUINI. Adempio ad un dovere dello spirito dicendo una brevissima parola per Bruno Buozzi.

Io gli fui vicino negli ultimi momenti. Ricordo ancora le ansie della sua famiglia, quando egli non si trovava ad uno di quei ritrovi che, in casa altrui, avevamo negli ultimi giorni. La sua morte ha un significato tragico per la coincidenza dell’ora, essendo avvenuta quando Roma fu liberata.

Su lui veramente, negli ultimi tempi, agiva quasi un destino, un fato. Egli fu arrestato in una casa dove andavano a cercare un altro; arrestato sotto un altro nome.

Si cercò di liberarlo, mettendo insieme del denaro: la corruzione dilagava dappertutto nei ranghi del nazi-fascismo. Si ottenne un mandato di scarcerazione. Ma quando si presentò questo mandato al carcere e si disse il nome che copriva il Buozzi, si fece avanti un altro che aveva veramente quel nome: una seconda fatalità.

Vi fu ancora chi, imprudente, fece sapere che quel tale che portava un nome diverso era in realtà Bruno Buozzi. Fu così che, identificatolo, lo trattennero come il vessillifero della nostra idea.

Venne poi l’alba livida della fuga dei nazi-fascisti da Roma. Un gruppo di prigionieri fu trascinato su un camion. Buozzi fu spinto avanti; salì: venne fucilato quando stavano per sopraggiungere gli alleati. Gli altri che non avevano trovato posto ebbero salva la vita.

E la tragedia si svolse più impressionante, per la coincidenza coll’ora della liberazione.

Ma io non voglio ricordare in Buozzi soltanto lo spirito animoso che nei giorni del pericolo e della lotta ci fu vicino. Quando in una piccola camera di via Adda, mentre cadevano le prime granate tedesche al momento dell’occupazione, proposi che il Comitato antifascista si costituisse in Comitato della liberazione nazionale, egli non assisteva a quella adunanza ma fu il primo ad approvare. E quando, in un altro momento – ed è un vanto nella mia vita modesta – proposi il nome di Corpo dei volontari della libertà al Corpo dei gloriosi partigiani, lo feci dopo aver parlato con Bruno Buozzi.

Tutto questo noi non lo dobbiamo dimenticare mai. Ma noi sbaglieremmo se non risalissimo ancora più indietro nel tempo; se non ricordassimo il semplice operaio del metallo, autodidatta che diventò un grande organizzatore, un capo del movimento dei lavoratori; e non si lasciò spezzare; e fu esule, accanto a Filippo Turati, che morì nella povera casa d’esilio di Bruno Buozzi.

Sono risuonati qui accenni nobilissimi da tutti i banchi sulla figura di Bruno Buozzi. Io penso che se fosse vissuto più a lungo e fosse ancora tra noi, noi ritroveremmo più facilmente attorno a lui qualche nota d’accordo, qualche possibilità di azione comune. Perché? Perché noi che andiamo lacerando noi stessi, ed abbiamo il gusto di farci piccini nelle nostre contese, abbiamo note e sentimenti comuni.

Le ritroveremmo in Bruno Buozzi, che molto tempo fa riunì insieme due movimenti, due correnti ideali, che noi abbiamo riassunto nel nostro progetto di Costituzione, affermando in una indissolubile sintesi i principî della democrazia e del lavoro. È un binomio che è anche al di sopra di noi e che trascina anche chi non sentisse il dovere di essergli fedele. Noi abbiamo ereditato da Bruno Buozzi e se egli fosse qui vivo tra noi, ci stringeremmo attorno alla sua figura. (Applausi).

BERGAMINI. Chiedo di parlare.

PRESIDENTE. Ne ha facoltà.

BERGAMINI. Ebbi la notizia del sacrificio di Bruno Buozzi a San Giovanni in Laterano; la ebbi dall’onorevole Nenni e dall’onorevole Saragat che mi raccontarono, commossi e desolati, i particolari dell’orrendo delitto e rimpiangevano profondamente il loro nobile valoroso compagno di lavoro e di ideali. Grande fu anche la mia commozione. Quel giorno, per tutti i rifugiati in San Giovanni in Laterano, fu un giorno di dolore comune, fu un giorno di lutto senza distinzione di partito, in un fremito concorde della nostra anima. Per il vivo ricordo dell’amarezza di quel giorno io chiedo ai compagni di fede di Bruno Buozzi il consenso di inviare anch’io – uomo di altra fede – una parola sincera di saluto alla sua memoria. Vi sono uomini di animo elevato, di vita intemerata e degna che si impongono al rispetto, alla reverenza di ogni partito qualunque sia la sua idealità.

E uno di questi uomini che ha lasciato nella storia della nostra liberazione una traccia luminosa, perenne, è certamente Bruno Buozzi. E il suo sacrificio, il suo martirio ci trova uniti nel doloroso rimpianto. Se non fosse così, dispererei della civiltà umana. (Applausi).

QUARELLO. Chiedo di parlare.

PRESIDENTE. Ne ha facoltà.

QUARELLO. Ho il dovere di ricordare qui l’amico Bruno Buozzi. Gli fui compagno nell’agosto 1943 quando unitamente all’onorevole Roveda assumemmo la direzione della Confederazione italiana del lavoro. In quel periodo breve di tempo, nel quale riprendemmo l’attività sindacale, dopo tanti anni di assenza, ricordavamo assieme le lotte passate, anche su campi e in posizioni diverse. Io mi ricordavo di Buozzi come d’un maestro dal quale molto ho imparato nelle lotte quotidiane e, per quanto si sedesse su diversi banchi e per quanto si militasse sotto diverse bandiere, ho seguito intensamente e con molta passione i suoi insegnamenti e devo dichiarare che, del poco che so, molto ho imparato dalla sua tecnica, dalla sua pratica, dalla sua esperienza.

Conservammo sempre l’amicizia personale, anche in anni in cui la vicinanza non era possibile, e quando ci ritrovammo a Torino alla fine del luglio 1943 per riprendere insieme l’attività sindacale, ricordo che Buozzi mi disse: speriamo che l’esperienza del passato ci serva per l’avvenire e che possiamo superare quelle piccole fasi dialettiche che talvolta ci inceppano l’azione e che per il lavoratore italiano si possa avere una nuova epoca, nella quale possa conquistare decisamente i propri diritti.

In quel momento ci siamo stretta la mano e ci siamo abbracciati convinti che avremmo trovato insieme la via comune. Oggi l’abbiamo trovata e non c’è oggi che da augurarsi che nel suo ricordo si possano superare le contrarietà e uscire dai contrasti, continuando così l’ascesa del popolo lavoratore e raggiungendo nell’unità degli sforzi la grande opera di giustizia che abbiamo intrapresa. (Applausi).

PRESIDENTE. (Si leva in piedi e con lui si levano tutti i deputati ed il pubblico delle tribune). Alla memoria di Bruno Buozzi si doveva questo tributo di affettuoso e commosso ricordo che non è se non la sensibile espressione di un tenace, amarissimo cordoglio che, per trascorrere di anni, non può dissolversi dall’animo nostro. Bruno Buozzi ha rappresentato, nella storia del nostro Paese, il tipo migliore del dirigente nuovo, sorto dal popolo, foggiato nel lavoro duro, educatosi alla volontà indomita di più apprendere per più utilmente agire: antesignano di quella nuova classe dirigente politica che, umiliando l’intera Nazione, ci si illuse di soffocare nelle generose latebre del popolo rifatto schiavo, ma cui la libertà democratica e repubblicana aprirà larga la via dell’ascesa e dell’affermazione. Nel suo risucchio torbido e rovinoso, l’ultima sanguinosa ondata del fascismo, armato contro la Patria, lo travolse ed uccise. Rammentando oggi, per loro rossore, ai facili obliosi questo delitto spietato fra gli spietati, ammoniamo noi stessi di non mancare a quei compiti per il cui assolvimento Bruno Buozzi seppe oscuramente, ma con generosa risolutezza, morire. (Vivissimi, generali applausi).

Seguito della discussione del progetto di Costituzione della Repubblica italiana

PRESIDENTE. L’ordine del giorno reca il seguito della discussione del progetto di Costituzione. Riprendiamo la discussione del Titolo V relativo alle Regioni. L’onorevole Pera è iscritto a parlare. Non essendo presente, s’intende che vi abbia rinunciato.

È iscritto a parlare l’onorevole Di Fausto. Ne ha facoltà.

DI FAUSTO. Mi sia consentito anzitutto di associarmi, come Deputato di Roma, alla commossa rievocazione della liberazione gloriosa dell’urbe.

A Roma, dove tutto si placa, nulla però si dimentica. È qui il senso della sua eternità.

E passo al tema in discussione.

Quando la miseria siede sulla soglia delle case di milioni di italiani, con particolare riguardo per le case degli italiani migliori, io non so appassionarmi a temi i quali non abbiano carattere di urgenza o meglio non abbiano capacità risolutiva di tanto gravi esigenze. Intervengo in questa discussione per quella particolare situazione che ha portato me, unico e solo «cultore di arte», in seno a questa Assemblea dove problemi del genere sono poco discussi e (è doloroso dirlo) sono poco sentiti. Questa è un’amara constatazione dalla quale discendono più amare deduzioni. Io mi occupo quindi della Regione solo, e in quanto, se realizzata, essa possa interferire nel settore dei monumenti, degli scavi, delle opere d’arte e delle bellezze naturali. Mi riferisco, cioè, agli articoli 109, 110, 111 del progetto di Costituzione che regolano questa materia. L’articolo 109 conferisce alla regione potestà legislativa piena; l’articolo 110 conferisce potestà legislativa limitata; l’articolo 111 conferisce potestà legislativa integrativa per adattare le leggi della Repubblica alle esigenze peculiari delle varie regioni. Tra le materie di competenza di questi tre articoli sono: l’urbanistica, l’antichità, e le belle arti. Si infirma quindi il principio basilare, quello della diretta tutela unitaria, da parte dello Stato, del più eccelso patrimonio della Nazione; patrimonio il quale trascende non solamente il carattere regionale, ma spesso anche il carattere nazionale per assurgere a importanza mondiale. Questo patrimonio costituisce infatti nel suo complesso il più alto contributo dello spirito all’umanità cosicché noi possiamo considerarci in qualche modo i depositari e i consegnatari responsabili di così incomparabile tesoro. Ecco spiegato l’omaggio costante e concorde di tutti i tempi e di tutti i popoli all’Italia. Vale a questo punto ricordare quel lontano luglio 1902 quando il telegrafo portò al mondo l’annuncio improvviso e angoscioso del crollo del Campanile di San Marco. In poche ore uno solo fu il voto espresso dai più lontani angoli della terra, con l’offerta dei mezzi relativi: che il campanile risorgesse quale era e nello stesso luogo così come lo aveva visto l’architetto Sebastiano Buon. Coronato dall’Angelo d’oro svettò nuovamente nei cieli a riprendere la sua vita millenaria interrotta per breve giornata. Comunque, la particolare legislazione vigente ha corrisposto egregiamente ai suoi scopi arginando l’egoismo privato, le velleità comunali e i naturali orgogli regionalistici. Oggi, in piena emergenza, dopo le gravi ferite della guerra, è stata deplorata vivamente la soppressione di quel Sottosegretariato alle Arti che avrebbe dovuto essere l’organo coordinatore e propulsore di tutte quelle iniziative affini dalle quali l’Italia dovrebbe attendersi il più valido contributo alle necessità immani della sua ricostruzione. La evidenza dei fatti s’imporrà con ritardo, ma il danno non sarà stato lieve. All’attuale Direzione generale delle belle arti fanno capo cinquantasette Sovrintendenze le quali sono integrate da Commissioni provinciali e da Ispettori onorari. Il complesso di questa organizzazione culmina nell’organo supremo consultivo tecnico: il Consiglio Superiore delle antichità e belle arti che nel progetto del Ministro Gonella diviene elettivo e più rispondente alle esigenze del momento, tale da garantire cioè che tutto quanto interessa il patrimonio nazionale sia sottratto all’arbitrio ed agli interessi particolari di privati di enti e di comuni.

A questo punto esorto il Ministro Gonella…

RUSSO PEREZ. La Regione non potrebbe proteggere ugualmente questi interessi?

DI FAUSTO. Vedremo dalle mie conclusioni che non sarà possibile.

Esorto il Ministro Gonella, dicevo, a sollecitare la ricostituzione di questo supremo organo moderatore. Maturano problemi gravissimi derivanti dalla guerra – problemi che attendono l’esame e il giudizio del Consiglio prima che essi siano insidiati da bassi interessi e irrimediabilmente compromessi.

Accenno così di passaggio al Palazzo della Ragione a Ferrara, venduto dall’amministrazione ad una impresa di costruzioni, per la demolizione e la ricostruzione di un grande edificio a fianco all’insigne Cattedrale; accenno al Palazzo del Tribunale a Vicenza; all’ex Palazzo Reale di Milano; al restauro del Duomo di Modena; al progettato grattacielo sul golfo di Napoli; alle Mura urbane di Piacenza; alla ricostruzione del Ponte di mezzo e dei quartieri interni a Pisa; alla ricostruzione dei Borghi intorno al Ponte vecchio di Firenze, ove l’equivoco fra urbanistica ed architettura minaccia di snaturare il carattere di questa capitale delle arti a vantaggio esclusivo della speculazione; cosicché già in America si è diffuso il modo di dire: «Firenze non è più quella di prima; non vale la pena andarvi»; con evidente premeditato maggior danno per quel nostro turismo, che continua a morire nel più misterioso isolamento, già da me ripetutamente ed inutilmente denunciato.

E sorvolo sui problemi peculiari di Roma, dei quali mi occupai altra volta, solo accennando alla minaccia che si infirmi il vincolo panoramico della Appia Antica.

E per quanto si riferisce alle vecchie città, pur non convenendo col Berençon, che sostiene di ricostruire le cose distrutte così come esse erano, né col critico inglese Mortimer, che giudica «obbrobriose ed orrende» le opere architettoniche dell’ultimo ventennio in Roma, concordo con uno dei più attenti nostri studiosi, il Bellonci, affermando la necessità di mettere il nuovo «in scala» col vecchio, rispettando i fondamentali rapporti di spazio. Anch’io sento che l’insidia maggiore è nella possibilità che si trasformi un piano di ricostruzione in piano regolatore.

Ecco evidente la necessità di non disgiungere in Italia la tutela delle antichità e delle arti da quella delle bellezze naturali, ripetendo l’opportunità di regolamentazione legislativa unitaria.

Questo abbiamo assicurato con l’approvazione contrastata dell’articolo 29 del Titolo II del progetto di Costituzione quando l’onorevole Marchesi (in nome dell’Accademia dei Lincei) ed io (in nome dell’Accademia di San Luca) sostenemmo quella esigenza.

Fu proprio di quei giorni la minaccia dello scempio di uno dei luoghi più suggestivi del mondo, Villa Rufolo in Ravello, nella quale, dopo peregrinazioni europee, sostò Riccardo Wagner per scrivere il secondo atto del Parsifal. La via carrozzabile di attraversamento progettata dall’amministrazione locale, per la tempestività di una mia interrogazione e più ancora per il pronto intervento del Ministro Gonella, non sarà altro che una modesta strada di raccolto carattere paesano, che si snoderà occultata fra gli ulivi.

Passo al delicato problema del restauro, che deve esser visto esso pure con criterio unitario.

Decenni di esperienze e di studi assai contrastanti hanno condotto a fissare chiaramente l’assioma da seguire.

Il restauro è opera conservativa e non innovativa, consolidamento dell’opera d’arte e non ripristino dell’opera d’arte.

Si accede però a queste verità solo attraverso affinamento di cultura storica e stilistica e più ancora con l’ausilio di una spiccata sensibilità.

Stralcio da una relazione del Direttore generale delle Belle Arti, professore Bianchi Bandinelli: «si presume abitualmente di riprendere la storia al punto in cui si interruppe, pretendendo di continuare monumenti incompiuti o riportarli ad un ipotetico pristino stato, cancellando le fasi storiche che il monumento attraversò e che sono spesso insigni memorie e fulgide stimmate d’arte, anche se rappresentano una aggiunta posteriore al primitivo complesso».

L’anarchia si scatenerebbe attraverso gli orgogli e gli interessi di parte per poco che la vigilanza centrale venisse a cedere, con la compromissione evidente della dignità della nostra cultura. Peraltro nulla vieta che alla Regione si dia competenza sui musei e sulle gallerie comunali, sull’arte contemporanea, sugli istituti di arti e mestieri e sul vasto settore del folklore.

Concludendo, chieggo la soppressione delle voci «urbanistica» dall’articolo 109 e «antichità e belle arti» dall’articolo 111 del progetto di Costituzione, confermando il senso dell’articolo 29 già approvato: che la tutela del patrimonio artistico resti integralmente nell’ambito dell’ordinamento nazionale.

Nel convegno di fine maggio in Roma, i soprintendenti delle Belle Arti in un ordine del giorno, che porta 40 firme, dicono: «I soprintendenti italiani fanno voto che ove l’ordinamento regionale venga sancito nelle norme della nuova Costituzione, la competenza della tutela nel campo delle Belle Arti resti affidata al potere centrale anziché demandata alle amministrazioni regionali, non escluse la Sicilia e la Val d’Aosta».

Debbo a questo punto sottolineare il significato altissimo e il senso della universalità dell’interesse verso il patrimonio artistico italiano, che trova vasto ausilio dal richiamo della Chiesa cattolica sedente in Roma.

La Chiesa ha sempre portato e porterà sempre la maggiore cura, qualunque sia la legislazione che noi andremo a stabilire, alla tutela di quella cospicua parte del patrimonio d’arte che gravità nella sua giurisdizione.

Antichi e fermi canoni del suo codice sapientemente disciplinano tanto delicata materia.

E debbo infine fare ancora accenno a Venezia.

Chiedo anzi pochi minuti ancora di particolare attenzione nell’interesse di uno dei monumenti più insigni della civiltà e della cristianità: la Basilica di San Marco.

È mio dovere di formulare una ipotesi per la quale già la mia stessa parola è percorsa da un brivido.

Dio non voglia che in tempo non lontano un più angoscioso appello debba essere affidato alla radio per il pericolo che sovrasta la Basilica d’oro ferita nelle sue strutture e nei suoi preziosi paramenti decorativi.

È necessario un rapido cenno che ci riporti alle origini della Basilica perché sia compresa la estrema delicatezza e la difficoltà estrema della sua conservazione.

La Basilica trae la sua prima forma latina nell’829 – Doge Giustiniano Partecipatio. Risorge, dopo un incendio, sempre in forma latina, nel 976 – Doge Pietro Orseolo il Santo. Si sviluppa e si integra a croce greca nel 1043 – Doge Domenico Contarini.

Sono tre epoche, sono tre fasi di trasformazioni, sono tre organismi che si fondono e solo nella terza fase si raggiungono le forme struttive attuali con i grandi sostegni degli archi delle volte e delle cupole.

Ma tutto gravita senza omogeneità di carico su palafitte e zattere in quercia – affondate nel fango lagunare.

Con la conquista di Bisanzio giungono successivamente dall’oriente pietre lavorate, colonne, frammenti decorativi, marmi preziosi e porfidi coi quali la Basilica fu vestita internamente ed esternamente del suo paludamento regale al quale i vasti campi musivi danno l’incomparabile atmosfera sinfonica di policromie e di ori.

Tutti elementi eterogenei però, distribuiti con senso pittorico, senza preoccupazioni statiche, così da dare all’insieme, per le asimmetrie e l’irrazionale, un senso di vivo di palpitante e di irreale.

Magia di quest’opera.

Ma avvengono distacchi e si denunciano cedimenti riflessi.

L’insidia delle strutture portanti, celate dalle incrostazioni decorative, le insidie della inevitabile azione salsoiodica sui metalli e sui marmi, l’insidia delle fondazioni celate nel fango lacustre, si rivelano nella disgregazione dei muri di ambito, dei pilastri, degli archi e delle cupole. I muri di ambito, i pilastri, gli archi e le cupole cedono dunque con moto accelerato alla usura dei secoli?

Sento che l’allarme deve essere espresso solennemente in quest’Aula perché ad ogni costo sia dato senza indugio nuovo apporto alla organizzazione, nella Basilica, del suo ufficio d’arte, del suo studio del mosaico e della sua officina del restauro con maestranze specializzate per la vigilanza diuturna, e la esecuzione delle provvidenze di emergenza.

Che se poi la fatalità si levasse improvvisa ed inevitabile, io ho certezza che da tutte le anime – che da tutti i cuori che si sono aperti agli incanti delle volte musive e delle cupole aeree sotto il cielo fremente di voli instancabili, sorgerebbe unanime il voto e l’offerta dei mezzi a che un prodigio di tecnica soccorra l’incomparabile prodigio di arte e di fede perché la Basilica d’oro sia conservata alla gioia alla gloria ed alla esaltazione delle generazioni a venire. (Applausi).

PRESIDENTE. Onorevole Di Fausto, le consiglio di fare una interrogazione urgente al Governo su questa materia, perché il suo appello possa venir preso in considerazione.

DI FAUSTO. La ringrazio. La farò.

PRESIDENTE. Sono iscritti a parlare gli onorevoli La Malfa, Avanzini, Caccuri, Cassiani, Fuschini. Non essendo presenti, si intende che vi abbiano rinunziato.

È iscritto a parlare l’onorevole Di Gloria. Ne ha facoltà.

DI GLORIA. Onorevoli colleghi, la parte del progetto di Costituzione relativa alla Regione è la più rivoluzionaria, dal punto di vista squisitamente politico, non tanto per quello che potrebbe succedere nell’immediato futuro, quanto per quello che potrebbe accadere nel futuro remoto. L’esigenza per la quale si è impostato il problema della Regione è un’esigenza di democrazia effettiva, di autogoverno dei cittadini, di pienezza di vita pubblica per tutti.

Nessuno può non condividere tale esigenza, ma (come sempre avviene quando dall’ordine delle idee si passa all’ordine dei fatti) le difficoltà di attuazione di un maggiore autogoverno a noi sembrano aumentate traverso la Regione, anziché diminuite. Considerando varie regioni, per esempio la Lombardia, il Piemonte, le Marche, l’Emilia, noi troviamo in esse accanto a territori eminentemente agricoli, dei territori eminentemente industriali; accanto a delle zone di una economia eminentemente montana, delle zone di pura e semplice industrializzazione turistica. Come poter conciliare dal punto di vista amministrativo tali territori così difformi e così dissimili? Occorrerebbe per esempio smembrare le attuali regioni, ma a noi sembra che le Province, in quanto enti autarchici territoriali, sarebbero più idonee alla tutela degli interessi locali di un qualsiasi ente regionale di nuova, ultimissima creazione. Qualcuno ha pensato di affidare a Consorzi di Comuni la tutela degli interessi protetti oggi dalle Province, ma anche in questo caso è molto sconsigliabile abbandonare il certo per l’incerto senza dire che, in caso di mancato accordo dei Comuni interessati, ne verrebbe un grave pregiudizio per gli interessi intercomunali. L’onorevole Ambrosini vorrebbe che la Provincia fosse ridotta a semplice circoscrizione amministrativa della Regione ovvero divenisse l’organo esecutivo dell’attività della Regione nel territorio provinciale. Quale sorte subirebbero gli uffici statali esistenti nella Provincia? Non tutti potrebbero essere soppressi, ed allora accanto agli organi burocratici statali ne sorgerebbero di quelli regionali con grave appesantimento della vita pubblica. Ed in materia economica e finanziaria le difficoltà non sarebbero minori poiché noi potremmo trovarci di fronte a varie finanze: ad una finanza, per esempio, statale, ad una regionale, ad una provinciale e ad una comunale. Tutta questa sindrome di bilanci non finirebbe con l’essere inopportuna e antieconomica? A noi pare di sì.

Il progetto approvato dalla Commissione vorrebbe conservata la Provincia, non già come ente autarchico territoriale, sibbene come circoscrizione amministrativa di decentramento statale e regionale. A parte la negazione di un’efficace rappresentanza degli interessi provinciali, essendo inidonee, a mio avviso, le Giunte di cui all’articolo 120, avremmo un’elefantiasi burocratica rimanendo intatto il complesso burocratico provinciale.

Non è vero, come qualcuno ritiene, che la Provincia, in quanto ente autarchico, si occupi solo di una esigua materia, cioè solo di strade, manicomi e brefotrofi. Complesse sono le competenze per materia della provincia: dalla sanità alla viabilità minore, dall’igiene alle bonifiche e agli imboschimenti. Tali funzioni, che a volta sono obbligatorie ed a volta sono facoltative, vengono sempre adempiute dalla provincia o direttamente o attraverso istituzioni aggregate, a seconda delle sue possibilità finanziarie.

Si tratterebbe, se mai, di completare e potenziare tutte queste attività della Provincia al fine di renderla atta ai bisogni esistenti nel proprio territorio. In conclusione, si arriverebbe, a mio avviso, ad una soluzione migliore del problema di decentrare amministrativamente lo Stato col mantenimento della Provincia, anziché con la sua soppressione. Basterebbe dare alla Provincia più larghe possibilità finanziarie, maggiore indipendenza rispetto ai controlli governativi, maggiore ampiezza di funzioni. Alla Regione, ammesso che la si voglia creare, dovrebbe essere riservato solo il potere normativo su determinate materie nell’ambito territoriale proprio.

Ho detto che l’esigenza per la quale si è impostato il problema della Regione è una esigenza di democrazia effettiva, è un vivo desiderio di evitare da qui in avanti una ricaduta nella dittatura attraverso il centralismo amministrativo. Se è vero che un sistema di amministrazione decentrata può costituire domani un ostacolo fisico al sorgere d’una dittatura è anche vero che si potrebbe assistere, per mancanza di spirito civico e di abito democratico, al sorgere graduale di piccole dittature regionali più o meno larvate e ad un urto indomabile di egoismi particolaristici.

Si lavori dunque per il più razionale decentramento della nostra vita amministrativa; ma non ci si dimentichi che un vero decentramento si può avere solo quando c’è vivo il senso dell’autodisciplina e fortissimo il potere dell’autodeterminazione e che la migliore e la più sicura difesa della libertà contro la tirannide riposa e riposerà sempre nella ferma volontà di ognuno di noi di non cedere mai agli allettamenti del potere incontrollato ed incontrollabile. Si riformi strutturalmente lo Stato ma si proceda con cautela. I veri, i grandi riformatori sono sempre stati moderati. In fatto di vero progresso la via più breve è sempre quella più lunga perché è la sola. (Applausi).

PRESIDENTE. Poiché non sono presenti, s’intende che abbiano rinunziato a parlare gli onorevoli: De Mercurio, Castiglia, Crispo, Gullo Rocco, Murgia, Rubilli, Bernini, Gelati, Camposarcuno, Cairo, Fusco, Adonnino, Sicignano, Cuomo, Chieffi, Mancini, Laconi, Corbino, Bozzi, Caroleo, Micheli, Cartia, Longhena, Perrone Capano, Mazzei, Veroni, Iotti Leonilde, Sardiello, Musolino, Damiani, Grieco, Fietta, La Rocca, Negarville, Jacini.

È iscritto a parlare l’onorevole Spallicci. Ne ha facoltà.

SPALLICCI. A giudicare dal numero dei presenti si dovrebbe convenire che l’argomento che stiamo trattando è di scarso interesse, eppure siamo divisi in due parti ben distinte, onorevoli colleghi, l’una favorevole e l’altra contraria alle autonomie regionali.

Tutti rammentiamo una frase che poco prima del compimento dell’unità nazionale preparò la strada ai disertori dalle file repubblicane: la monarchia ci unisce, la repubblica ci dividerebbe. È ben noto a tutti che la frase era stata dettata da uno statista siciliano che fu elevato sugli scudi dal fascismo, dico da Francesco Crispi.

Oggi qualcuno ha l’aria di parafrasare quell’asserzione: l’accentramento statale ci unisce, le Regioni ci dividerebbero.

Ora è proprio il caso di meditare su quanto è accaduto fra noi dopo un ottantennio di vita unitaria. Siamo andati a repentaglio di disgregare l’unità dopo l’ultima guerra. In alcune Regioni la parola autonomia pareva avesse avuto significato di separazione. Adunque non credettero alla verità della frase crispina né i nostri nonni né i nostri padri e non vi abbiamo creduto neppure noi che non annettiamo nessuna importanza alla parafrasi di coloro che vorrebbero vedere nell’accentramento l’unica salvezza della Nazione.

Si diceva allora: popolo immaturo, e il ritornello si ripete ancora e passa da un banco all’altro di tutti i settori di quest’Aula. Il popolo, si dice, non sente la necessità di questa riforma. Io credo che le innovazioni non si compirebbero mai se si dovesse attendere la maggioranza più uno, se come nelle mobilitazioni del passato alla domanda del generale: siamo pronti? si dovesse rispondere mano alla visiera e battuta di tacchi: generale non manca un bottone alle note. Possiamo marciare domani a battaglia in ordine chiuso.

Non saremmo arrivati neanche all’indipendenza e avremmo lasciato Giuseppe Mazzini e la sua Giovane Italia a isterilirsi in una lotta che sarebbe rimasta un martirologio eroico soltanto. Mentre il mito dell’unità bandito da quegli eletti è venuto svolgendosi man mano nella realtà della storia. Se i partiti, se i rappresentanti del popolo non hanno la coscienza di essere gli antesignani e gli interpreti dei bisogni anche inespressi del popolo, interpreti di una nuova concezione della vita e della storia nazionale, hanno fallito al loro compito. Alcuni si preoccupano di non turbarne l’unità e di non perderne il favore. Qui ci si deve preoccupare se la riforma giovi o non giovi al Paese.

La verità è che noi ci troviamo di fronte ad un Paese che è sopratutto conservatore, direi quasi codino malgrado certi atteggiamenti giacobini. V’è in lui una pigrizia mentale che lo consiglia al piede di casa in tutte le cose. Di fronte all’incalzare degli avvenimenti sceglie quello che giudica il minor male, cioè quello che non gli impone un lavoro più serio e gravoso. Riforma? Ohibò, disse il popolo italiano, abbiamo la vecchia Chiesa Cattolica Apostolica Romana, sia pure scaduta nella nostra considerazione e nella nostra fede, tiriamo a far finta di crederci e non pensiamo ad altro.

Repubblica? Compie un anno, ricordate? Verrà il diluvio poi. Se siamo andati avanti con più infamia che con lode con la monarchia savoiarda tiriamo avanti con questa. E per paura del salto nel buio dieci milioni di elettori hanno fatto le corna alla Repubblica.

Regioni oggi? Ma c’è quel baraccone squallido e solitario della Provincia che bene o male sta in piedi da tanti anni, ebbene manteniamo e consolidiamo quella.

La Regione non è sentita, si dice. La Regione è oltre che una necessità che varrà a snellire la vita nazionale nel campo amministrativo e sotto certi aspetti anche nel campo politico, un’affermazione sentimentale che vive della vita degli affetti. Di questi sentiamo la forza passionale quando ne siamo privati. La famiglia, la piccola e la grande patria giganteggiano nell’esilio. Allora sentiamo prepotente la necessità di ritrovarci tra gente che parla la stessa nostra lingua materna. Ricordate le famiglie regionali nelle nostre grandi città, le venete, le abruzzesi, le piemontesi, le romagnole, a Milano, a Roma.

Il fascismo colla grossolana brutalità che gli era propria, le disperse. Ora si vanno ricomponendo. Erano e sono società che intendono coltivare le loro tradizioni, riparlare dell’anima e dell’arte della terra lontana, rivivere nelle memorie caratteristiche regionali. Si può malignare che tutto ciò sa di grettezza provinciale, sa di «piccolo mondo antico», sa di figurine dell’800 come ninnoli sotto la campana di vetro nei salotti della nonna. O non è invece un’ancora di salvezza per salvare la propria originalità e non naufragare nel grigiore uniforme del cosmopolitismo?

È stato da alcuno deprecato che all’estero vi siano famiglie regionali e non nazionali. Un reduce dall’Argentina mi parlava con rincrescimento di aver trovato una famiglia ligure e non una famiglia italiana. Ma, amici miei, credete proprio che questi nostri liguri, pugliesi, lombardi, romagnoli che hanno fatto cerchio attorno alla pietra calda del focolare, non vedano profilarsi attraverso il campanile tutte le torri della patria comune? Quando qualcuno a Natale ha messo nella ruota del grammofono il disco della canzone del paese lontano, non è forse stato per lui come per i suoi conterranei come il piffero di Cyrano che faceva rivedere ai cadetti tumultuanti per fame il profilo della savoiarda alpe natia, il volto della piccola che si confondeva e si fondeva nel volto della grande Patria?

Vorrei, se non potesse sembrare immodestia. ricordarvi che io ho cercato nelle antiche canzoni della mia Romagna l’anima della mia terra e, assieme a musicisti di gran valore, ho desiderato rinverdire quel vecchio ceppo attraverso quelle società che furono chiamate dei canterini di Romagna. E a noi risposero contemporanei, talvolta predecessori, attorno al Castello di Udine i canterini friulani e i vecchi cantori di Aggius recati da Bertieni sui palcoscenici d’Italia, e i canterini siciliani di cui l’amico Nino Martoglio curava la formazione prima che una tragica fine lo togliesse al suo teatro isolano. Era nostra intenzione formare in tutte le Regioni delle società del genere per poter fornire un panorama canoro e dare in questo meraviglioso amalgama la misura della divina varietà dell’anima italiana. Perché vorreste vederle l’un contro l’altra armate se nella Regione risiede la vera essenza della Nazione, se dal Boccaccio al Goldoni, dal Manzoni al Fogazzaro, dal Verga alla Deledda, letteratura e teatro sono regionali in Italia? Perché non vedere la gara, una nobile gara nel concerto delle regioni? Il mio emendamento vuole appunto tener calcolo di questa virtù. «La Repubblica italiana una ed indivisibile, riconosce e promuove le autonomie locali, stimolandone lo spirito di emulazione a profitto della Patria comune».

Non dividere, ma affratellare vogliono le Regioni. Non confini né staterelli, ma ogni terra messa avanti ai suoi problemi e al suo avvenire. L’onorevole Einaudi ci ha, con parola di maestro, sottolineato il pericolo degli egoismi di una regione in cui sorgano ad esempio centrali elettriche e che vogliano limitarne l’uso alle circostanti.

Abbiamo però veduto le regioni produttrici di grano dare largamente agli ammassi ciò che mancava alle più povere. Dovremo noi costituenti, noi rappresentanti del popolo, incoraggiare questo spirito di solidarietà che affratella le genti d’Italia. Il fiume che passa è il fiume della Patria che dà colle sue dighe e colle sue turbine l’energia per tutte le industrie, ognuno dovrà alimentare il ruscello che arriva al mare comune.

Se l’emulazione spinge a prodigi di valore le nostre unità militari di reclutamento regionale, e sulle doline del Carso e sulle sponde del Piave la Brigata Sassari, e i Lupi di Toscana, della Bergamasca, e i Gialli del Calvario di Romagna e gli alpini delle vallate di confine, gareggiarono nel sacrificio, perché dovremmo scordarlo?

Quando si doveva balzar fuori dal parapetto della trincea e si sentiva la parola dell’ufficiale e dell’amico che suonava nel patrio dialetto come un richiamo materno, era come se tutta quanta la Patria fosse alle nostre spalle a sospingerci all’attacco. Se nel momento supremo in cui abbiamo fissato la morte abbiamo sentito questo spirito di emulazione (e i sardi gridavano: avanti Sardegna, e i bergamaschi gridavano: Berghem, e i romagnoli: avanti Romagna! e il pais degli alpini si alternava al cumpà dei pugliesi, ai fratuzzi di Sicilia, ai burdell di Romagna) se, dico, in quei momenti supremi abbiamo sentito la voce e veduto il volto della Patria, perché non dovremmo sentirla e vederla nell’ora del lavoro e della fatica, nel momento in cui siamo chiamati ad assumere la nostra responsabilità e personalità di cittadini?

L’onorevole Micheli ha prospettato l’eventualità di un’Emilia Lunense che aggregherebbe alla sua Parma, con Piacenza, Reggio e Modena, anche la provincia di La Spezia, lasciando le antiche quattro legazioni pontificie a formare la Romagna con Bologna, Ferrara, Ravenna e Forlì.

Io non voglio spezzare una lancia per la mia piccola Regione perché constato che prevale il concetto della grande più che della piccola Regione ma voglio pur accennare a questa che Dante ben definì ne’ suoi confini, fra il Po, il monte, la marina e il Reno (e forse Dante vi includeva anche Bologna). Tralascio i suoi vanti e le memorie che mi paiono superflue qui, ma voglio pur dire che forse in Italia, non insulare, non v’è altra terra meglio individuata della Romagna. La caratteristica viva e passionale del suo senso politico sempre vigile dai primi albori del Risorgimento ai giorni nostri, la fede e l’ardore combattivo de’ suoi migliori da Andrea Costa a Antonio Fratti (e nel tempo stesso la serena equanimità di Aurelio Saffi) le conferiscono un’anima tutta sua. Può sembrare strano che la Romagna non abbia rivendicato il diritto di governarsi in modo autonomo. Non l’abbiamo rivendicato, perché la terzina dantesca scolpisce ancora la sua vita e la sua storia: Romagna non fu mai senza guerra, oggi non più nel cuor de’ suoi tiranni ma nel cuore delle sue città rivive l’orgoglio del comune antico ed esse si crederebbero sminuite se dovessero concedere a qualunque altra città l’onore della capitale.

Ma guariremo dei vecchi mali che ereditammo dal guelfìsmo e dal ghibellinismo e ritroveremo noi stessi. La Romagna rimane anche se si vorrà farne coll’Emilia una sola regione. E libera, all’aria e al vento la bandiera della sua passione per tutte le cause giuste. Passione orchestrata nel vento che trascorre su tutta la Penisola. È il suo canto. Sarebbe stolto privarnela come sarebbe stolto avversarne il dialetto. Sarebbe come combattere contro i mulini a vento. Un collega della mia parte repubblicana, l’onorevole Della Seta, disse un giorno in questa Aula: qualcuno ha voluto persino far entrare i dialetti nella scuola, questo no! Io mi permetto di dissentire dall’amico Della Seta.

Quando un Ministro dell’istruzione, sia pure fascista, credette opportuno introdurre il vernacolo nella scuola pensò alla possibilità di far entrare nella scuola la viva espressione della parlata popolare tradotta dal maestro nell’idioma nazionale.

Il maestro che dovrebbe sempre conoscere la tradizione e la lingua del luogo che lo ospita deve fare il dizionario vivente e far aderire alla realtà la frase che lo scolaretto gli porta dalla strada dove vive, soffre, gioisce e si agita il popolo. Noi di Romagna pur vivendo presso alle fresche e dolci acque che dal Casentino vanno ad ingrossare il letto d’Arno, siamo di una famiglia glottologica ben lontana dalle armonie dell’idioma nazionale. Dove dovrebbero andare a cercare i nostri scolaretti la vivezza della lingua? Il Porta la cercava nella scuola del verziere milanese e il nostro ragazzo la coglierà nella casa, nel campo, nel mercato e verrà dal maestro perché gliela converta in italiano. Così il vernacolo conferisce maggior brio e vivacità alla lingua.

Non sul libro soltanto dove la parola è come la farfalla assicurata con una spilla alla vetrina dell’entomologo, ma soprattutto nella strada dove il popolo vive c’è modo di farsi padroni di una lingua. Non nel museo adunque ma nell’aria della libertà. Dialetti, canti, tradizioni, tutta la meravigliosa gamma della nostra varietà nazionale della nostra «gente dalle molte vite» avranno modo di rifiorire liberamente colle autonomie regionali. Come nel momento tragico della difesa della vita della Patria così nella pace feconda di lavoro questa parola «emulazione» sarà il monito e l’orgoglio delle Regioni italiane. (Applausi).

PRESIDENTE. È iscritto a parlare l’onorevole Macrelli. Ne ha facoltà.

MACRELLI. Onorevoli colleghi, nessuna premessa, o quasi, d’ordine storico ideologico e politico. Ormai sotto questo triplice aspetto molti oratori hanno esaminato il problema grave e delicato della Regione. Io mi limiterò soltanto ad alcune osservazioni, ad alcuni rilievi che credo possano meritare l’attenzione dell’Assemblea. Però i colleghi mi vogliano permettere di esprimere prima di tutto il mio più vivo compiacimento ad uno dei relatori della Sottocommissione e precisamente al caro amico onorevole Ambrosini, il quale, per affrontare e risolvere i dubbi che forse tormentavano la sua squisita anima di italiano «unitario» ha sentito il bisogno di ricorrere al pensiero di Giuseppe Mazzini. Egli giustamente, nella sua relazione, ha ricordato le parole del grande apostolo. Troppe volte in quest’Aula e fuori, nella stampa e nella parola, contro di noi che crediamo di essere i modesti ma fedeli assertori e continuatori della scuola filosofica e politica, sociale e morale di Giuseppe Mazzini, si è elevata l’accusa di aver dimenticato la nostra storia e la nostra tradizione; e di aver soprattutto dimenticato la lotta aspra, tenace, appassionata di Giuseppe Mazzini per l’unità della Patria. Orbene la risposta, la migliore risposta alle accuse, ai rimproveri, ai moniti che ci sono venuti anche in questi giorni da molti banchi, si trova proprio nelle parole del veggente di Staglieno che ha ricordate il collega Ambrosini. Egli già accenna ad un articolo famoso, scritto fin dal 1831 da Giuseppe Mazzini, intitolato Dell’Unità d’Italia, in cui si parlava non soltanto della necessità dell’unità italiana dalle Alpi alla Sicilia, e della realizzazione dell’unità nazionale, ma anche del riconoscimento delle Regioni. E 30 anni più tardi, riprendendo quell’articolo, Giuseppe Mazzini così scriveva: «Il fatto mi ha dato ragione. La potente, unanime voce del popolo d’Italia ha dichiarato ai letterati teorizzatori che la nostra utopia di 30 anni addietro era intuizione politica dei suoi bisogni, delle sue aspirazioni, della sua vita segreta, del suo avvenire».

E poi, col suo stile lapidario e preciso, fissava quelli che, secondo lui, erano e sono anche per noi oggi i termini per la soluzione del problema politico-amministrativo della Repubblica italiana:

«…il Comune, unità primordiale, la Nazione, fine e missione di quante generazioni vissero, vivono e vivranno fra i confini assegnati visibilmente da Dio a un Popolo, e la Regione, zona intermedia indispensabile tra la Nazione ed i Comuni, additata dai caratteri territoriali secondari, dai dialetti e dal predominio delle attitudini agricole, industriali o marittime».

Pochi anni dopo, quando la capitale d’Italia da Torino era trasferita a Firenze, un uomo politico, non della nostra dottrina e della nostra scuola, ma della scuola liberale (e purtroppo oggi i liberali dimenticano troppo spesso le parole, gli insegnamenti, gli ammonimenti dei loro grandi uomini), Marco Minghetti, figlio della eroica Bologna, che aveva conosciuto la vita italiana, soprattutto attraverso la esperienza dell’amministrazione pubblica in quel tormentato periodo della vita nazionale, sentiva che, per cementare l’unità faticosamente raggiunta, e non per intero, allora, e soprattutto per trovare una base alla permanenza nello stesso complesso politico nazionale di Regioni fino allora separate e divise (perché facevano parte di Stati sovrani), era necessario almeno un largo decentramento, che avrebbe portato, poi, anche alle autonomie locali.

Recentemente, in proposito, uno di vostra parte, colleghi liberali, ha scritto di Marco Minghetti e della battaglia sostenuta dalla scuola liberale italiana, queste parole che io mi son voluto segnare e che dovrebbero servire sopratutto oggi non tanto a noi quanto ad altri: «l’ultimo tentativo opposto dal pensiero liberale e dagli uomini migliori del Risorgimento alla brutalità accaparratrice della monarchia e al piemontesismo schematico e soffocatore della burocrazia avida dei più vasti confini fu il progetto Minghetti, progetto serio, meditato, preparato per dare una articolazione alle regioni già comprese nei distrutti Stati italiani e che mal sopportavano economicamente i pesi della recente unità, sorta da operazioni militari quasi sempre disgraziate e da plebisciti quanto mai fraudolenti».

Eppure quel progetto fu dovuto ritirare con parole amare dal Minghetti stesso, perché le forze monarchiche militari e burocratiche furiosamente agitarono la bandiera del patriottismo preconizzando estremi mali per l’unità ancora fragile, se le nuove idee avessero trovato ascolto fra i legislatori.

La storia, a quanto pare, si ripete anche oggi. Comunque, in favore della Regione non militano soltanto quelle ragioni d’ordine storico, demografico, sociale, economico di cui hanno parlato molti dei nostri colleghi, ma sono anzitutto quelle politiche sulle quali io richiamo ancora una volta la vigile attenzione dell’Assemblea e che in fondo si possono riassumere in questa affermazione: noi siamo contro lo Stato accentratore; noi siamo per la libertà, per le autonomie locali. Gli enti periferici devono vivere la loro vita, coi loro mezzi, colle loro istituzioni, con le loro leggi, senza l’intervento paternalistico o coatto dello Stato, che, attraverso la burocrazia, ha sempre soffocato le legittime aspirazioni e le libere iniziative dei Comuni e anche delle Provincie; comunque, degli enti locali.

In linea di principio vi dirò che noi possiamo anche trovarci d’accordo sulla impostazione del problema Regione fatta nel progetto della Costituzione. È una struttura non nuova quella che è stata accettata dalla Sottocommissione prima, e poi dai Settantacinque.

Infatti non è la prima volta, in Europa, che si parla di quello che ormai dal punto di vista giuridico-costituzionale si chiama lo Stato regionale. Basta riferirsi alla riforma repubblicana austriaca del 1919, alla stessa Costituzione di Weimar, alla Costituzione repubblicana della Spagna del 1931 dove, accanto allo Stato unitario, sono le Regioni con propria autonomia, quindi con leggi, con istituti propri, caratteristici, rispondenti alle necessità, alle tradizioni, alle aspirazioni locali. Certo il progetto così come è stato presentato all’esame dell’Assemblea Costituente si presta a critiche, forse anche di non lieve entità.

Io confesso che la lettura degli articoli che riguardano la Regione non mi ha convinto perfettamente. Ho l’impressione che si sia affrontato il problema, sia pure con una preparazione dottrinaria non indifferente, però con una certa semplicità, e forse con un certo superficialismo per quanto ne riguarda la pratica attuazione.

Consentitemi innanzi tutto alcune parole sull’ente Provincia. Qui abbiamo sentito varie opinioni. Si è parlato della Provincia come di un ente creato soltanto nel periodo napoleonico, trasportato poi anche in Italia. Altri invece hanno accennato alla Provincia come ad Ente nato prima della Rivoluzione francese; sicuramente prima del Risorgimento. Non mi fermerò a discutere sulle origini storiche della Provincia: certo è però che questa è una realtà dalla quale noi non possiamo prescindere. Abbiamo sentito i colleghi di varie parti, ne sentiremo altri, che parleranno ancora della Provincia, della necessità di mantenerla, di darle vita autonoma, autarchica, ma io vorrei richiamare i colleghi sul pericolo che si verificherebbe se la Provincia fosse mantenuta con quelle caratteristiche che le si vogliono dare, a detrimento della Regione. Se voi affidate delle attribuzioni particolari alla Provincia, se la Provincia diventa veramente un ente autarchico indipendente, autonomo, deve pure avere le sue istituzioni, deve pure avere le sue leggi, le sue norme: orbene tutto questo va ad incidere su quella che dovrà essere la funzione e l’attività della Regione.

Ad ogni modo noi non intendiamo astrarci dalla realtà della vita e comprendiamo che – se non necessario – è almeno opportuno non dimenticare gli interessi, le tradizioni, le caratteristiche ormai affermatesi – attraverso il tempo – per la Provincia, e non ci dorremo se una formula di intesa (non voglio chiamarla di compromesso) sarà trovata fra le opposte tendenze. (Applausi).

Vi dicevo prima, egregi colleghi, che gli articoli contenuti nel progetto di legge e che riguardano la Regione, a me son sembrati piuttosto confusi, non chiari, non precisi: è necessario invece che dalle decisioni della Assemblea Costituente la Regione si affermi netta e precisa nella sua struttura giuridico-costituzionale in modo da non prestarsi ad equivoci pericolosi ed insidiosi per la sua stessa vita e per la vita della Nazione.

Ecco perché io vorrei che la discussione non si fermasse soltanto sulle linee generali del progetto, ma che si addentrasse nel vivo del problema, esaminandolo sotto i suoi molteplici aspetti, e li risolvesse in maniera che domani risulti chiara e precisa la volontà dell’Assemblea, che è volontà del popolo, di fare dell’Italia uno Stato, sì unitario, ma uno Stato che comprenda i bisogni, le necessità, le aspirazioni dei Comuni e delle Regioni. (Applausi).

I problemi più gravi, che meritano una maggiore considerazione, e una più profonda attenzione da parte dell’Assemblea, sono quelli che si riferiscono alla potestà legislativa della Regione e alla autonomia in materia finanziaria.

Problemi delicati, che la Commissione ha risolto in una maniera non molto chiara, tanto da prestarsi a interpretazioni equivoche e pericolose.

Così per quanto riguarda la potestà legislativa il progetto ha adottato un sistema tutt’altro che semplice.

La triplice ripartizione non è stata certo molto felice, e le critiche fatte e quelle che ancora si faranno rispondono a criteri di serietà, che non nascondono neanche una giusta preoccupazione.

L’articolo 109 stabilisce che «la Regione ha potestà di emanare… norme legislative che siano in armonia con la Costituzione e con i principî generali dell’ordinamento dello Stato, ecc.».

Come si vede, mentre le norme costituzionali offrono una precisa e valida consistenza giuridica, che, sia pure in tono minore, non manca nell’altro limite costituito dai principî generali dell’ordinamento giuridico dello Stato, con la considerazione degli interessi nazionali e delle altre regioni, la linea di confine assume una notevole elasticità ed un aspetto essenzialmente politico.

Ora bisogna notare che la divergenza, la quale potrebbe sorgere tra l’organo legislativo nazionale e quello regionale, rientra nella figura del conflitto d’interessi previsto dall’articolo 118; perciò la risoluzione del conflitto spetterebbe all’Assemblea nazionale. Non è da escludere, quindi, che questa possa praticamente finire con l’annullare o ridurre a ben poco la funzione legislativa della Regione.

Per un altro gruppo di materie invece la potestà legislativa della Regione è subordinata a quella dello Stato.

In alcune (art. 110) la subordinazione è soltanto eventuale, nel senso che essa sussiste se nella materia v’è una legislazione unitaria, a cui, peraltro, spetta soltanto di fissare i principî direttivi; nella seconda (art. 111) si presuppone la presenza di una legislazione nazionale che la legge regionale integra.

Avevamo quindi ragione di definire tale sistema, nell’insieme, tutt’altro che semplice.

Anche dal punto di vista tecnico-legislativo si possono muovere delle valide critiche: così per esempio non si comprende perché a proposito delle acque pubbliche (art. 110) si è indicato il limite dell’interesse nazionale e delle altre regioni, già espressamente richiamato per tutte le materie contemplate nel 1° capoverso dello stesso articolo 110; così non è facile intendere il motivo per cui alcune materie strettamente connesse ad altre hanno avuto una assegnazione diversa: per esempio l’articolo 109 parla della beneficenza pubblica, e l’articolo 110 comprende la assistenza ospedaliera.

Ora che differenza c’è fra le due materie, per quanto riguarda la loro posizione nell’ambito della legge?

Perché la beneficenza pubblica deve essere oggetto di norme legislative primarie, mentre invece le norme relative all’assistenza ospedaliera devono far parte di un altro complesso di leggi, di natura secondaria? Sarebbe opportuno, a mio avviso, che a questo proposito la Commissione chiarisse il suo pensiero. Il mio è un rilievo critico; può essere superficiale, ma ha il suo valore e dimostra, ancora una volta, la giustezza di quanto ho già detto ed ora ripeto: che cioè si sono create delle norme tali che potrebbero portare domani a pericolosi equivoci di interpretazione, o, peggio ancora, di applicazione. (Applausi).

Altro problema: l’autonomia finanziaria. Anche su questo punto il progetto supera le difficoltà, fissa dei semplici principî, e, naturalmente, non è chiaro e si presta a quelle interpretazioni equivoche, cui accennavo prima, a proposito della potestà legislativa.

L’articolo 113, infatti, si limita a dire questo: «Le regioni hanno autonomia finanziaria nelle forme e nei limiti stabiliti da leggi costituzionali che la coordinano con la finanza dello Stato e dei Comuni. Alle Regioni sono assegnati tributi propri e quote di tributi erariali…». Successivamente, l’articolo parla del demanio, del patrimonio delle regioni. Ora, tutto questo è generico, non è specifico; sono direttive di ordine generale, non si fissano, non si stabiliscono delle norme, pur accennando al sistema tributario, che dovrebbe basarsi su di un duplice criterio: la Regione avrà imposte proprie ed aliquote di imposte erariali.

Ora io penso che – invece di lasciare ad un’altra legge costituzionale il compito di fissare i criteri fondamentali in questa materia molto delicata – sarebbe stato forse più opportuno affrontare il problema in questa sede.

Ad ogni modo, di fronte alla posizione assunta, siccome la Regione non potrà vivere ed iniziare la sua vita se prima non saranno approvate quelle leggi costituzionali che coordinino l’autonomia finanziaria della Regione con la finanza dello Stato e dei Comuni, si dovrà provvedere d’urgenza alla formazione di tali leggi, altrimenti noi creeremmo un corpo inerte, senza vita e senza vitalità.

Un’altra osservazione riguarda il contributo dello Stato ai fondi d’integrazione delle finanze regionali. Qui cadiamo un po’ nel paradosso: parliamo di autonomia e chiediamo l’intervento dello Stato; naturalmente questo sarà accompagnato da opportuni controlli, nell’interesse nazionale, perché sin d’ora si pensa che forse il peso maggiore sarà sostenuto dallo Stato.

Noi sappiamo infatti che per la integrazione dei loro bilanci gli enti locali, nell’esercizio finanziario ’44-’45, hanno gravato per oltre 20 miliardi sul bilancio statale.

Tutto ciò io ho inteso rilevare perché la riforma, da noi auspicata, non risulti una beffa all’autonomia regionale e un danno alla Nazione. (Applausi).

Onorevoli colleghi, il mio turno non era fissato per oggi, io avrei dovuto parlare in altro giorno, ed avrei forse potuto portare un contributo maggiore e migliore alla discussione. Comunque credo di aver detto qualche cosa che possa giovare.

Scusate se, terminando questa rapida disamina e critica del progetto di Costituzione a proposito della Regione, io ricordo quel senso di duplice preoccupazione che sembra pesi su grande parte della Assemblea. Si è parlato qui del problema delle autonomie, come di un problema non sentito dal popolo italiano; si è insistito qui sul pericolo di un ritorno ad un passato ormai cancellato dalla storia e dal destino della Patria.

L’altra sera l’amico onorevole Fausto Gullo – che mi spiace di non vedere presente – portò qui la eco appassionata delle esigenze e delle aspirazioni del suo tormentato Mezzogiorno. Ad un certo momento egli disse – ripetendo, in fondo, quello che era stato il concetto di altri oratori, concetto espresso anche in ordini del giorno (che noi dovremo esaminare a suo tempo) – che nelle sue peregrinazioni lungo la terra aspra di Calabria non aveva sentito nessuna invocazione alle autonomie locali. Tutti gli avevano parlato di riforme agrarie, di altre necessità del momento, più urgenti: ma nessuno aveva mai accennato all’autonomia, nessuno aveva mai richiesto autonomie.

Mentre ascoltavo con profonda attenzione le parole dell’amico e collega, io ripensavo – l’accostamento, intendiamoci, non è fatto con male intenzioni – ripensavo al discorso di un altro uomo, fatale per l’onore e la vita d’Italia, il quale, di ritorno da un viaggio in Sicilia, dove era stato applaudito, acclamato dalle solite folle oceaniche, diceva: «Io ho sentito parlare il popolo; mi hanno chiesto ponti, strade, scuole, ma nessuno mi ha domandato la libertà».

Orbene, onorevoli colleghi, è lo stesso per le autonomie: non le chiede il popolo a voce alta nei comizi, nelle riunioni elettorali, quando si parla di problemi contingenti che interessano la vita del momento. Ma il popolo ha sempre sentito, profondamente sentito il problema della autonomia e, anche quando voi, signori, come rappresentanti dei vostri collegi, non soltanto dei vostri partiti e della Nazione, andate a bussare alle porte dei ministeri per risolvere i problemi delle Provincie, della Regione, dei Comuni, venite già automaticamente a riconoscere la necessità della soluzione di questo problema, che non insidierà mai l’unità della Patria.

Vi sono, lo dicevamo prima, delle ragioni morali, e altre molteplici di natura diversa che militano in favore della nostra tesi. Ma ce n’è una, sopratutto, particolarmente politica, che ha il suo valore, che ha la sua importanza, dopo la dolorosa ventennale esperienza che abbiamo fatto.

Io, onorevole Presidente, ho sentito giorni fa un richiamo dal suo banco, un richiamo al dovere dei deputati. Lei diceva, a proposito di una discussione sul regolamento dell’Assemblea, che forse nessun deputato, nessun rappresentante del popolo in questa Assemblea aveva sentito la necessità di presentarsi agli elettori e ai cittadini d’Italia per spiegare la Carta costituzionale. Orbene, io mi auguro che ci siano state delle eccezioni. Io costituisco una di quelle eccezioni: io ho parlato un po’ dovunque, nella mia terra di Romagna, nell’Emilia, nelle città, nei villaggi, ovunque, spiegando la Carta costituzionale, sopratutto spiegando la grande conquista che abbiamo compiuto attraverso la Repubblica e affermando che soltanto attraverso la Repubblica si poteva raggiungere questo spalto ultimo della nostra libertà e della nostra indipendenza.

Orbene, io ho detto una frase che amo ripetere anche qui, per spiegare appunto politicamente la necessità della regione: per me, le regioni sono come degli scompartimenti stagni, sono delle paratie che servono di fronte ai pericoli delle dittature.

Se in un certo momento dovesse balzare alla ribalta della storia qualcuno per imporre ancora una volta la legge della violenza e ricacciare nel buio di un passato di umiliazione la nostra vita, le Regioni saprebbero difendere la loro libertà e la libertà della Patria.

Ricordatevi di quello che diceva Alberto Mario a proposito dello stato federale, il quale non è, intendiamoci, lo stato regionale, ma che però riassume il nostro pensiero, la nostra tradizione e la nostra passione. Egli diceva che a Berna e a Washington non è possibile un re: ebbene, noi ripetiamo che in uno stato regionale italiano, repubblicano, come il nostro, creato dalla fede del popolo e creato da noi, rappresentanti del popolo, non sarà possibile il risorgere di una dittatura. (Vivi applausi Congratulazioni).

PRESIDENTE. È iscritto a parlare l’onorevole Preziosi. Ne ha facoltà.

PREZIOSE Onorevole signor Presidente, onorevoli colleghi! Anch’io, un po’ come il collega Macrelli, devo dire che avrei preferito parlare in un altro giorno per portare un maggior contributo a questo argomento così dibattuto dalla nostra Assemblea. Ma, poiché la sorte mi costringe a parlare, dovrò limitarmi a brevi osservazioni, così come vengono, diciamo, un po’ a braccio.

L’onorevole Macrelli, concludendo il suo discorso pieno di fuoco sacro, oserei dire a favore della Regione, ha parlato di essa come dello spalto ultimo delle nostre libertà. Mi è sembrato invero il suo dire un po’ esagerato, così come esagerato è stato il concetto che egli ha voluto esprimere, quando ha spiegato che, se fosse esistito in Italia un ordinamento regionale, non ci sarebbe stata l’avventura del fascismo.

In verità, egli prendeva lo spunto da quella che era stata la magnifica orazione del collega Mastino quando, qualche giorno fa, parlando a favore dell’ordinamento regionale, diceva: Si è negato che l’Italia, se fosse stata ordinata in Regioni nel 1922, non avrebbe subito il sopravvento del fascismo. E si è portato l’esempio della Germania, alla quale Hitler poté imporre il suo dominio malgrado l’ordinamento federale di quello Stato.

Dunque, i difensori della Regione, a sostegno della necessità che in Italia ci sia un ordinamento regionale, affermano, come l’onorevole Macrelli: La Regione è lo spalto ultimo della nostra libertà. Se ci fosse stato l’ordinamento regionale il fascismo non si sarebbe verificato in Italia. E dimentica l’onorevole Macrelli, egli che fu uno dei protagonisti di quel periodo – e non dovremmo essere noi giovani a rimproverarlo – che se il fascismo sorse in Italia, se il fascismo riuscì a mettere ancora più profonde radici nella nostra Patria, fu un po’ colpa, se non molto colpa, del Parlamento che non seppe reagire, e soprattutto fu colpa di quell’Aventino che non seppe compiere un atto rivoluzionario, un atto di forza, perché in quel momento… (Interruzioni Commenti).

MAZZONI. L’Aventino non è la piazza!

PREZIOSI; …se si fosse scesi sulla piazza e si fosse difesa la libertà colle armi l’articolo 50 della nostra Costituzione verrebbe meno. (Interruzione dell’onorevole Conti).

Se fosse esistito l’ordinamento regionale in Italia, voi dite, non ci sarebbe stato il fascismo. (Interruzioni).

MACRELLI. Non conosce la storia di quel periodo.

PREZIOSI. Io ricordo, caro Macrelli, giacché vuol venire ai ricordi, che nel 1922, mentre avveniva la marcia su Roma io, ad Avellino, piccolo capoluogo di provincia, segretario a sedici anni di quella Federazione giovanile repubblicana, in una sede del vostro partito ero oggetto di certe non gradite cortesie da parte di certi squadristi del posto. Come vede, anche se non avevo la sua età, potevo sapere qualche cosa degli avvenimenti di quel periodo.

Ma, comunque, ritorniamo a quello che è il nostro ragionamento: all’ordinamento regionale. Quali sono le ragioni a sostegno di questo ordinamento regionale, che si considera da parte di tanti illustri colleghi come una specie di toccasana per le disgrazie del nostro Paese, come una specie di miracolo che all’improvviso – come lo specifico di quel tale medico Guarnieri, di cui tanto si è parlato in questi giorni sui nostri giornali, per la lotta contro il cancro – dovrebbe rimettere in piedi l’Italia, guarirla dalle sue piaghe, dalle sue ferite, farla veramente un esempio ideale di Nazione libera? Le ragioni a sostegno sono ragioni le quali una per una possono essere smontate. Io penso che giustamente diceva il collega Assennato in un suo magnifico discorso di pochi giorni fa che il problema bisogna porlo su tre quesiti: 1°) se storicamente sia mai esistito un problema politico della Regione; 2°) se la creazione dell’ente Regione possa imprimere impulso democratico per accelerare il progresso sociale e per rendere più compatto e più unito il popolo italiano; 3°) in quali condizioni di fatto si verrà ad inquadrare la nuova istituzione.

Già, onorevoli colleghi, anche qualcuno dei più accesi regionalisti, come l’onorevole Bosco Lucarelli, stigmatizzava quello che era stato il deliberato della seconda Sottocommissione, di non tenere in alcuna considerazione l’ente Provincia. L’onorevole Bosco Lucarelli che, convinto regionalista, non può dimenticare le benemerenze della Provincia in Italia, che ha tutta una tradizione luminosa, una tradizione che si diparte dalle origani comunali nostre, dalle libertà comunali, e va sino al periodo del nostro Risorgimento, ad un certo momento era costretto ad affermare nel suo discorso (che pur voleva essere – ripeto – una specie di sostegno magnifico per l’ordinamento regionale) che la Regione peraltro non dev’essere concepita come un organo accentratore dei poteri dei Comuni e delle Provincie e che, quindi, la Provincia come ente autarchico territoriale dev’essere mantenuta per evitare un nuovo accentramento.

E ancora lo stesso onorevole Bosco Lucarelli parlava della creazione di una Regione con la conservazione della Provincia, in modo che si evitasse di fare della Regione un organismo pletorico e pesante, attuando quel decentramento amministrativo da tutti auspicato e dichiarato quale uno scopo della Repubblica dall’articolo 106 del progetto di Costituzione.

Dunque noi abbiamo una prova a favore della Provincia, abbiamo la prova che gli stessi convinti regionalisti, cioè coloro che sostengono l’ordinamento regionale come il toccasana della Patria, sono contrari, sono ostili al parere della Sottocommissione quando si parla della abolizione della Provincia. E difatti la Regione non sarebbe che la negazione delle autonomie locali. Per me la Regione non è qualche cosa che sorge a difesa delle libertà locali, onorevoli colleghi; a me pare che il primo passo, che il grave passo verso l’accentramento non fu creato dallo Stato unitario, ma fu creato dal fascismo allorché abolì quelle Sottoprefetture le quali erano tanto utili e tanto portavano il popolo più vicino a quella che era la giustizia amministrativa dello Stato. Il fascismo ha forse fatto sentire ad un certo momento a voi il bisogno della Regione perché durante il ventennio fascista si era creato lo Stato come organismo accentratore che soffocava le libertà e le autonomie locali.

Ma il fascismo è scomparso; e allora le Provincie ricominciano ad assumere il loro ruolo vero e proprio. E allora le Provincie potrebbero avere, oltre alle prefetture, le sottoprefetture per portare la giustizia dello Stato più vicina al popolo.

Come potete voi pensare alla creazione di un Ente Regione il quale fin da ora crea dei sordi rancori, delle inimicizie fra Provincia e Provincia vicina? Io assistevo, tre o quattro giorni fa, ad un simpatico diverbio nel «corridoio dei passi perduti» fra l’onorevole Priolo e l’onorevole Silipo; l’onorevole Priolo e l’onorevole Silipo nella paventata eventualità della creazione della Regione calabra affermavano uno che il capoluogo della Regione dovesse essere Reggio, l’altro Catanzaro.

Ora, essi sostenevano quelle loro affermazioni con così grande concitazione che stava a dimostrare quelli che in effetti sono i sentimenti delle Provincie di Reggio Calabria, di Cosenza o di Catanzaro.

Nel suo interessante intervento l’onorevole Cifaldi disse che era indispensabile la creazione di una Regione sannita affermando che le popolazioni di Campobasso, di Avellino e di Benevento erano ansiose di vedere sorgere la Regione sannita stessa, aggiungendo che con la sua costituzione si risolvevano annosi problemi locali di grande importanza. L’onorevole Cifaldi, convinto assertore della Provincia, dimenticava che la creazione di una Regione sannita è mal vista da Avellino e Campobasso, città che hanno loro rivendicazioni e che non sopportano la creazione di una Regione con capoluogo Benevento così lontana dalle nostre necessità ed aspirazioni.

È necessario che io ripeta qui che la Provincia di Avellino è ostilissima ad una regione del Sannio. L’esempio da me addotto è evidente prova di come l’istituzione dell’Ente Regione, invece di creare uno spirito unitario della Patria, crea uno spirito di disaccordo nelle diverse Regioni e Provincie. Ci sono tali e tanti rancori fra Provincia e Provincia che questi non sono stati sopiti neanche dai lunghi anni di dominazione fascista, per cui noi non possiamo parlare di Regione. Parlare di Regione significa andare contro quelli che sono i sentimenti delle nostre popolazioni.

Io, ad un certo momento, potrei ammettere anche il sistema regionale; ma se si parlasse di sistema regionale a grande raggio, e non di spezzettamento, come chiaro si manifesta in queste discussioni che si svolgono da giorni nella nostra Assemblea. E poi, onorevoli colleghi, diciamo chiaramente che, se mai, si poteva forse parlare di ordinamento regionale nella nostra Italia solo nel 1870 o nel 1880. Volete parlare di ordinamento regionale in Italia nel 1947 senza considerare la povertà delle nostre Provincie meridionali? Ma si dice: il sistema regionale ammette senz’altro l’indipendenza economica. E si dimentica che l’indipendenza economica, nel caso specifico, non ci può essere in alcun modo. È stato dimostrato da altri oratori come una indipendenza economica vera e propria non ci possa essere. Lo hanno detto gli onorevoli Assennato e Cifaldi, diversi colleghi ancora; e lo dirà poi bravamente, col suo valore, l’onorevole Nitti, quando parlerà, al termine di questa nostra discussione, del problema che è da considerarsi il vero ostacolo alla creazione di queste autonomie regionali: il problema finanziario.

Signori, volete o no capire che molte Regioni sono povere nel senso più assoluto della parola? Come potete, voi che sapete quali fondi lo Stato deve erogare a integrazione dei bilanci comunali – anche dei piccoli comuni – non voler considerare il problema finanziario? Insomma sarebbe un fallimento nel suo sorgere perché noi sappiamo che non si può concedere un prestito ad un negoziante fallito o che sta per fallire. Bisogna metterlo in condizioni non soltanto di poter sopperire a quelle che sono le sue necessità quotidiane; bisogna metterlo non soltanto in condizione da pagare i suoi debiti, ma in condizione di avere nelle sue tasche i denari che gli bastino per iniziare di nuovo l’impresa del suo commercio. Ora nel caso specifico della nostra Nazione, tutti sappiamo in quali condizioni siamo e quali sarebbero i rancori fra Regione e Regione con le autonomie che dal nostro progetto sono previste. Noi avremmo Regioni ricche le quali non vorrebbero in alcun modo pensare alle Regioni più povere; e non sarebbe certo lo Stato che potrebbe venire in aiuto a queste Regioni più povere; sappiamo come in altri periodi, assai recenti, ordini prefettizi locali impedivano l’esportazione di prodotti dalle Provincie più ricche alle Provincie che ne avevano bisogno.

Cosa avverrà se l’ordinamento regionale sarà approvato?

Ma questo ordinamento previsto dal progetto è, in certo modo, condannato dalle norme stesse contenute negli articoli 117 e 118.

Infatti l’articolo 117 dice: «Il Consiglio regionale può essere sciolto quando compie atti contrari all’unità nazionale o altre gravi violazioni di legge; e quando, non ostante la segnalazione fatta dal Governo, non procede alla sostituzione della Deputazione o del Presidente della deputazione, che hanno compiuto analoghi atti e violazioni.

Lo scioglimento è disposto con decreto motivato del Presidente della Repubblica su proposta del Consiglio dei Ministri e deliberazione conforme della Camera dei senatori, presa a maggioranza assoluta dei suoi membri, con l’astensione dal voto dei rappresentanti della Regione interessata».

Dunque, l’articolo 117 prevede atti gravissimi contrari all’unità della Patria, contemplati poi dall’articolo 118:

«I disegni di legge approvati dal Consiglio regionale sono comunicati al Governo centrale, e promulgati trenta giorni dopo la comunicazione, salvo che il Governo non li rinvii al Consiglio regionale col rilievo che eccedono la competenza della Regione o contrastano con gli interessi nazionali o di altre Regioni.

«Ove il Consiglio regionale li approvi nuovamente a maggioranza assoluta dei suoi membri sono promulgati, ma non entrano ancora in vigore, se entro quindici giorni dalla comunicazione il Governo li impugna per incostituzionalità davanti alla Corte costituzionale o nel merito, per contrasto di interessi, davanti all’Assemblea Nazionale. In caso di dubbio la Corte decide se competente a pronunciarsi sia essa stessa o l’Assemblea».

Anche l’articolo 118 prevede, dunque, un gravissimo conflitto tra le Regioni e lo Stato.

In questo articolo è configurata la possibile, anzi la certa ribellione di Regioni allo Stato centrale. Le Regioni possono promulgare leggi, lo Stato si può opporre, ma le Regioni possono riconfermarle col loro voto; ed allora esse entrano in conflitto con lo Stato; tanto vero che si sente il bisogno di ricorrere ad una Corte Costituzionale che non sappiamo come sarà formata: essa sarà veramente il confusionismo del diritto italiano.

Noi abbiamo sempre detto che nella Camera legislativa, oggi nell’Assemblea Costituente, risiede la sovranità popolare, perché essa rispecchia la volontà della Nazione.

Ora, competente a dirimere i conflitti fra gli organi giurisdizionali delle regioni e gli organi dello Stato centrale non sarebbe l’Assemblea legislativa, in cui risiede la sovranità popolare, ma una Corte costituzionale, non eletta dal popolo.

Ed allora, arriviamo ad un assurdo. Voi, ad un certo momento, ammettete l’Ente Regione, cioè consacrate nella Carta Costituzionale dello Stato il diritto a queste Regioni di legiferare, il diritto cioè di avere alcune potestà di giurisdizione per cui sono queste Regioni in un certo momento le sole che possono giudicare meglio, e poi le spogliate del loro potere. Come lo spiegate voi questo conflitto delle Regioni con lo Stato centrale, e quando avviene questo conflitto, come fate a non farlo dirimere da coloro i quali sono i rappresentanti legittimi della Nazione, ma ad affidarlo ad una incerta Corte Costituzionale?

UBERTI. È una magistratura.

PREZIOSI. Amico mio, ma la magistratura è forse un’espressione di volontà popolare? Forse si è in America ove il magistrato è eletto dal popolo e può rappresentare quindi l’espressione del popolo stesso? (Interruzione dell’onorevole Bellavista).

Queste vostre interruzioni, onorevoli colleghi, mi stanno a dimostrare che ho toccato un punto difficile della nostra Costituzione, un punto controverso nella sua apparente solidità, un punto su cui bisogna ragionare, altrimenti noi creeremo confusione con gli Enti Regione, confusione ancora maggiore con la Corte Costituzionale. E credetemi pure, che questa unità della Patria se ne va per conto proprio; questa unità della Patria non la ritroverete attraverso i vostri sostenuti Enti Regione. Noi non dobbiamo perdere di vista l’importanza della funzione che ha avuto la Provincia in tutti i periodi della nostra storia civile e politica. Abolire la Provincia significa, sul serio, abolire l’unità della Patria, perché voi mettete in contrasto Provincie contro Provincie, mettete in contrasto interessi di alcune Regioni contro interessi di altre Regioni, mettete in essere quella scarsezza di altruismo, che purtroppo esiste al fondo di tutte le cose umane, per cui una Regione più ricca non vorrà provvedere alla Regione più povera e quando lo Stato vorrà intervenire per costringere questa Regione più ricca ad avere del senso di solidarietà, del senso di altruismo per la Regione più povera, colleghi, si verificheranno quei tali contrasti previsti dagli articoli che vi ho letto. E quando la sentenza della Corte Costituzionale si avrà, essa non servirà più a nessuno.

Onorevoli colleghi, io credo che anche voi, accesi regionalisti, se trionfasse in questa Assemblea l’ordinamento regionale, non dovreste dimenticare che un Ente Regione, con l’abolizione delle province, significa un ente accentratore il quale compie indubbiamente opera non meritoria a favore del paese e non fa l’interesse delle provincie. Io penso che la Provincia debba rimanere, che l’ordinamento regionale non possa in nessun modo essere votato dall’Assemblea. La Provincia ha, in fondo, tutta la tradizione del nostro Risorgimento, tutta la tradizione del periodo più bello della nostra libertà. Questa tradizione non possiamo in alcun modo distruggere perché sarebbe un po’ ammainare la bandiera delle libertà del nostro Risorgimento. (Applausi).

PRESIDENTE. È iscritto a parlare l’onorevole Medi. Ne ha facoltà.

MEDI. Questa discussione ricca di contrasti suggerisce una constatazione immediata. Quando le cose sono veramente importanti e capaci di produrre delle conseguenze gravi, condizione necessaria perché sia affermata questa importanza è che l’attenzione delle persone responsabili venga richiamata sopra il problema che si discute.

Quindi la condizione necessaria – non sufficiente – affinché il problema della Regione sia un problema di primissimo ordine, e quindi contenga in sé delle cose veramente buone, è già stata dimostrata dal fatto che più di cento deputati si sono iscritti per parlare su questo argomento.

È necessario procedere al secondo termine del nostro ragionamento, cioè la condizione sufficiente perché il concetto dell’autonomia regionale venga approvato e difeso da questa nostra Assemblea.

Mi fermerò solamente sopra tre punti non di carattere tecnico e specifico ma di carattere generale, psicologico e sociale.

Il primo concetto che porrei come base per l’istituzione della Regione è il concetto di democrazia, sul quale dobbiamo sempre insistere affinché venga chiarito questo vocabolario che fa ripetere le medesime parole sotto sensi così diversi e così contrastanti. Il concetto di democrazia lo potremmo anche definire in queste parole: la democrazia è una libertà nell’ordine ed è un ordine nella libertà.

Una libertà nell’ordine. Cosa significa il concetto di libertà presa per conto suo ed avulsa da ogni concezione di corrispondenza e di solidarietà? È creare una società molecolare, atomistica, non vitale ma corrispondente alla teoria cinetica dei gas. Non si costruisce una società se a fondamento ed a limite delle libertà non si pone l’ordine, l’ordine che contiene in sé l’idea di finalità e di sistemazione, richiede disposizioni di mezzi per raggiungere certi determinati fini. A me sembra che il problema della Regione debba rispondere a questo concetto democratico della società, che è vita, che non è un concetto di elemento distaccato, altrimenti facciamo della chimica inorganica. Non è neppure concezione di blocco, come a prendere una pietra, un masso in cui vediamo le sue varie parti unite, agglomerate, non libere, in altre parole, di muoversi secondo una propria personalità. Invece, prendete il concetto della vita che è altissimo: una pianta, l’uomo – tenuto conto che i paragoni non si adattano sempre perfettamente – ed avete l’idea della libertà nell’ordine e l’idea di autonomia nel senso vero della parola «autos»: vedete, per esempio, questa mano che si stringe e si apre, ubbidiente ad ordini centrali, e prendete anche degli organi che funzionano senza bisogno di aspettare una giurisdizione centralizzata. Anch’essi hanno la loro autonomia, la loro capacità di vivere e la loro personalità da sviluppare, e tutti, a loro volta, armonizzati nel benessere generale dell’organismo. (Approvazioni al centro). Il concetto di Regione che vogliamo introdurre è nettamente distinto dal concetto di separazione, perché l’organo separato fa soffrire l’organismo e muore. C’è un senso di soffocamento, perché tutto ciò che restringe ed è centripeto non è in armonia con la vita che tende a espandersi. Il concetto della vita è questo: potenziare tutti gli organi che insieme concorrono al più grande benessere della società e della patria.

Vedete, quando ci troviamo di fronte a certi fenomeni e a certi spaventi di gente che qui dentro si è terrorizzata del regionalismo perché teme che sia compromessa l’unità della nostra terra, ci vien fatto di dire: amici miei, volete fare dell’Italia un blocco di cemento, od una quercia che liberamente spande le sue fronde e i suoi rami rigogliosi? Cosa volete: costringere e spezzare la vita invece di creare un’umanità automoventesi, che ha dentro di sé una forza interiore che la alimenta, la fa fruttificare e procedere nella via della storia? La nostra concezione sociale mi sembra sia la più corrispondente al meccanismo della natura di cui la società è la riproduzione, su un piano più elevato e più perfetto. Questo ci sembra democrazia. E noi parliamo tanto di democrazia e voi la volete distruggere. Tanto meglio essa vivrà se avremo delle Regioni con propria vita e con propria autonomia, altrimenti facciamo dei bambini in fasce e non dei bimbi che sanno percorrere i primi passi! Noi tutti siamo dei papà – permettetemi di parlarvi in un modo così familiare – ma ricorderete certo la nostra gioia quando nostra moglie ci disse: il bambino cammina da solo! Noi, quando sentimmo che egli era capace di camminare da sé, e quindi aveva la sua autonomia, non piangemmo, temendo che il bambino andasse incontro a pericoli, ma fummo lieti perché il bambino era finalmente entrato nel centro vitale della famiglia, partecipando alla sua vita e collaborando alla famiglia, sia pure con la nostra collaborazione. E voi, professori di università, ricorderete certo il giorno della laurea! Ed io ricordo il giorno intenso di commozione quando, il dì di Pentecoste, mi son trovato all’Assemblea siciliana: mi sembrava che alla Sicilia fosse data la laurea della vita, delle sue capacità politiche e del suo ingresso nella marcia che la Patria stava compiendo! Quella era gioia e commozione! Come può nascere spavento e invidia e gelosia di fronte alla laurea dei nostri popoli e della nostra gente? Io penso che dinanzi a questa estrinsecazione del libero pensiero ci si senta uniti ed affratellati, non per creare privilegi, ma per far sì che le persone si amino e si intendano. Allora sì che la famiglia è bella, quando intorno a questo desco familiare della Patria si uniscono figli e genitori, e tutti insieme lavorano e tutti portano il loro contributo. Così concepisco, o amici, il problema regionale. Non perché un figliuolo si è laureato in legge, un altro in agraria ed un altro in medicina essi diventano nemici; anzi, ognuno porta il proprio contributo. Che cosa rappresenta un povero figliuolo tenuto chiuso in casa, che non è capace di uscire se non è accompagnato dalla madre, o dal precettore o dal padre?

Questa è la libertà che noi dovremo adottare nelle nostre Regioni.

Secondo aspetto: da un punto di vista politico si lamenta che il popolo italiano non è preparato politicamente. Tutte le volte che vi è una crisi, si dice sempre che mancano gli uomini. Ma questi uomini bisogna pure formarli. Ve ne sono, fra uomini, donne e bambini, 45 milioni; ma se non li formate dovete sempre dire che mancano. E quale palestra di formazione politica si potrebbe pensare migliore delle Assemblee regionali? Questo impegnare, come in Sicilia, novanta persone per studiare problemi politici, tecnici, economici, lo studiare sul posto i problemi locali, con diretta responsabilità, responsabilità verso gli uomini che ci conoscono e ci guardano, per cui non vi è possibilità di assentarsi e di scusarsi, dicendo che a Roma, al Ministero, hanno bocciato il progetto, o non lo hanno capito, l’esaminare sul posto i vari problemi della vita locale, tutte queste cose rappresentano la vera palestra per una salda preparazione politica. Ho visto, in quei quindici giorni che hanno preparato l’Assemblea regionale siciliana, che le questioni venivano impostate e risolte con vera coscienza e responsabilità. Ora, tutto questo è preparazione. Dopo alcuni anni di questi allenamenti, si formerà la classe politica che in un domani dirigerà il nostro Paese. Per me, queste sono vere palestre di scuola politica.

Questo è potenziamento della democrazia, altrimenti quando gli elettori verranno chiamati alle urne, un 2 giugno o un 24 ottobre qualsiasi, daranno il loro voto, e poi chi si è visto si è visto, perché per quattro anni non se ne parla più e si ricade in un letargo politico delle masse che si accontentano di leggere un giornale e di imprecare più o meno contro l’Assemblea. Ma quando vi è un parlamentino regionale, queste cose non avvengono. I giornali locali hanno una sensibilità acutissima; le persone che circondano gli eletti sono pronte a richiamarli al loro dovere dando loro, quindi, un maggior senso di responsabilità. Naturalmente, se si vogliono evitare le discordie si ammazzano tutti e in un cimitero non vi sarà discordia; noi, invece, creando l’autonomia regionale, pur creando possibilità di contrasti, diciamo che non abbiamo paura del contrasto ideale, perché se si vuole costruire si deve affrontare anche il rischio di questa costruzione. Prepariamo uomini vigorosi, piuttosto che patiti, che non hanno la forza di stare in contrasto. Con questi presupposti, noi possiamo vedere il grande vantaggio, anche dal punto di vista politico, di questa nostra istituzione regionale.

Terzo aspetto: punto di vista sociale. Vedete, quando si vuol fare la nazionalizzazione dei cervelli, i cervelli devono adattarsi ad una sola cosa, cioè a morire. Poiché il mio cervello non è adatto ad essere nazionalizzato, così credo che il cervello di nessun uomo, che abbia capacità cerebrali, sia adatto ad una standardizzazione, ad una collettivizzazione, ad una rinuncia. Ed allora, ecco che madre natura pone dinanzi agli uomini tanta molteplicità di problemi, per nostra fortuna, pone tanti misteri diversi, complicati, nel mondo fisico, psicologico, biologico, naturale, storico, tutto quello che volete. Ognuno di questi problemi ha nel luogo dove si realizza la propria caratteristica e va studiato in loco. Perché voi guardate e sentite sul posto il problema nelle sue sfumature e nelle sue particolarità; altrimenti si fa dell’apriorismo, altrimenti si assiste a quelle incomprensibili contraddizioni della vita sociale, della Patria, che sono di danno. Che cosa succede per esempio in una terra alla quale mi considero di appartenere, in Sicilia? In terra di Sicilia ci sono problemi straordinariamente belli ed appassionanti, e non soltanto dal punto di vista politico e sociale, ma anche dal punto di vista economico, scientifico, tecnico, della ricchezza del sottosuolo, della utilizzazione delle sue energie ecc. Vi è tutta una infinità di cose meravigliose, come il problema del turismo, per esempio, e tutti questi problemi vengono qui nei Ministeri di Roma. Si dice: qui tutto si affoga. Ora, è colpa del Ministero? No; perché vengono portati qui questi problemi senza l’esperienza diretta, senza cioè che chi li studia vi ponga la passione che vi mette invece chi sa di essere anche responsabile di questi problemi sul luogo. Un conto è affidare un problema ad altri e un conto è dire: io lo studio, io lo conosco, io lo risolvo, anche perché ne ho la piena responsabilità.

Quando ad una Regione voi avete dato questo senso di diretta responsabilità che poggia sui propri uomini, allora voi veramente avrete di fronte problemi che vengono affrontati in modo deciso, direttamente, e risolti.

Quindi, anche da questo punto di vista, così grave ed importante per la società e per il bene generale, io vedo un potenziamento necessario della Regione, un potenziamento da cui risulta e deriva poi un vantaggio per tutti.

Come si fa a stabilire una economia quando un arto è malato? Non è possibile tirare avanti con arti malati ed un semplice adattamento porterebbe ad una mostruosità. Bisogna quindi prendere tutte queste Regioni e vederle crescere, elevarsi, sollevarsi nella loro libertà, cosicché ciascuno di questi ceppi vitali abbia la possibilità di una sua crescita, di un suo sviluppo; così faremo una unione di potenza e di gloria, così veramente otterremo un’Italia degna di sé e di tutti i suoi figli. Perciò è un appello che credo venga naturale dal nostro popolo, quello di cercare sempre di moltiplicare e potenziare le energie periferiche, perché queste rappresentano la salvezza del nucleo centrale che è quello dello Stato.

Abbiamo detto: libertà nell’ordine, ma bisogna aggiungere: ordine nella libertà. Se uno volesse ridurre questa concezione regionale ad un federalismo o ad una dissociazione, noi siamo contrari, perché mancherebbe l’ordine in questa libertà, perché avremo tanti elementi, ciascuno dei quali camminerebbe per una direzione diversa. Questo noi vogliamo evitare.

Quindi, imprimere in questa libertà regionale l’ordine, è una necessità. Mi sembra che il progetto proposto dalla Commissione abbia appunto questo fine: che i vari sforzi vengano convogliati verso un unico fine; cioè: senso di unità nel concetto di Patria ed ordine nella unità di tutte le Regioni.

Detto questo, data la nostra brevità matematica (che io ho voluto rispettare in ossequio al richiamo del Presidente) facciamo un appello dicendo: da questa Assemblea uscirà l’ordinamento regionale…

TONELLO. No, no!

MEDI. …ma guardate che implica una responsabilità troppo grave perché venga preso con leggerezza. L’ordinamento regionale tenderà a potenziare il vostro senso di responsabilità individuale e collettiva affinché ogni Regione non creda, per il fatto che c’è un Parlamento che possa agire per conto suo, di sentirsi libera, capace di camminare per la propria strada. No, attenta; la tua economia deve essere armonizzata con l’economia di tutta la Nazione. Se senti dentro di te una necessità di aiuto, ricordati che anche tu dovrai aiutare gli altri.

Quindi, in questo momento, c’è un dovere nazionale di aiutare quelle Regioni che si trovano in decadenza o che sono deficitarie, per portarle sul medesimo piano. Non è giusto il criterio che vediamo usato nei Ministeri, il criterio dell’equipartizione statistica: tanti abitanti la Sardegna, tanti abitanti la Puglia, tanti abitanti la Lombardia, distribuzione equipartimentale statistica. Non è giusto questo criterio: dobbiamo fare una distribuzione ponderale, nel senso di pondus. Quando questa distribuzione avrà riportato al livello dovuto le varie parti di questa nostra grande nave, allora si potrà camminare con un equilibrio statistico.

Questo è il nostro programma: che la grande famiglia italiana veda sorgere i figli intorno alla sua mensa; che intorno al ceppo paterno si raccolgano le Regioni d’Italia nella loro dignità, nella loro personalità, nella loro libertà. E questa libertà nell’ordine, e questo ordine nella libertà, per iniziare così, insieme, la nostra marcia, il nostro cammino senza sospetti, ma nella certezza che più saremo uniti, meglio ci intenderemo e meglio armonicamente marceremo per le vie della storia. (Vivi applausi al centro).

Presidenza del Vicepresidente CONTI

PRESIDENTE. È iscritto a parlare l’onorevole Adonnino. Ne ha facoltà.

ADONNINO. Onorevoli colleghi, ormai questa discussione ha avuto così ampio e profondo sviluppo, che, come concetti generali, non ci sarebbe altro da esporre. Ci sarebbe soltanto da raccogliere le fila.

Ma c’è, forse, da fare qualche precisazione su qualche punto particolare. In sostanza, succede così: nelle discussioni generali si abbonda, normalmente, in concetti generali mentre ci sarebbero tanti punti specifici, determinati, che forse sarebbero quelli che meglio inquadrerebbero praticamente e positivamente il problema nei suoi termini veri.

Io credo, onorevoli colleghi, che il problema vero e reale della Regione stia in una parola sola: limiti, cioè moderazione.

Non si può dire, in maniera aprioristica e assoluta: hanno ragione coloro che sono per la Regione, hanno ragione coloro che sono contro la Regione. Tutto sta a vedere quali sono i limiti, quale è la moderazione con cui questa Regione si crea. E credo che questi limiti giusti siano necessari, credo che grande moderazione sia necessaria. Ritengo anche che nel progetto che ci è stato presentato dalla Commissione si possa scorgere una sufficiente moderazione. Si potrà discutere sui punti particolari, ma nell’aspetto generale, credo sia un tentativo moderato, prudente di formulazione della Regione, che non ha riscontro nelle altre Costituzioni. Questo tentativo dunque è profondamente lodevole perché è perfettamente moderato.

Come siciliano, però, onorevoli colleghi, permettetemi che io vi dica una parola su questo benedetto statuto dell’autonomia siciliana, che ora vediamo applicare e prosperare tanto bene in questi primi giorni della sua felice nascita. Io credo che sia un precedente buono per le nostre Regioni e per la discussione che stiamo per fare ed ho sentito con preoccupazione, un po’ con dolore, una parola autorevolissima levarsi in quest’Aula, giorni addietro, a porre delle ombre su questo Statuto siciliano e sulle conseguenze che esso potrebbe avere sul nuovo sistema regionale che noi adesso creiamo. Ho detto: «una parola autorevolissima», e infatti si tratta della parola dell’onorevole Einaudi. Egli non si è dimostrato assolutamente contrario, perché un uomo della sua levatura assolutamente contrario non può essere, ma i suoi rilievi sono di tal natura che non possono non lasciare preoccupati.

Ora, io ho pensato molto a questi rilievi che vengono da una così autorevole fonte: e mi permetto di fare ad essi delle osservazioni. Due sono essenzialmente i punti che hanno formato oggetto di critica da parte dell’onorevole Einaudi.

Il primo punto è quello che riguarda la questione dell’integrazione che lo Stato deve pagare alla regione siciliana per compensarla di quel meno che lo Stato stesso dà ad essa di fronte alle altre Regioni, specie alle settentrionali.

Badate, onorevoli colleghi, che io qui mi pongo – e sono sicuro che tutti noi ci poniamo quando si fa la distinzione tra regioni settentrionali e regioni meridionali – non già da un punto di vista di astioso contrasto, ma da un punto di vista amichevole e non solo amichevole, ma fraterno, perché siamo tutti figli di una grande Madre, tanto amata quanto sventurata. È necessario che noi sentiamo vivamente la potenza di questa fraternità specialmente quando discutiamo di punti in cui siano in contrasto i rispettivi interessi. Nessun atteggiamento di urto, quindi, o di antipatia.

Ma non si può negare, che lo Stato dia senza dubbio molto di più delle sue complessive entrate e delle sue forze economiche generali al Settentrione che non al Meridione e alla Sicilia: deve dare; non dico che faccia male a dare; ma senza dubbio dà molto di più.

Si pensava pertanto, quando si fece lo Statuto siciliano, a quelle integrazioni salariali in base alle quali, mentre agli operai del Nord che per disoccupazione involontaria non riescono a lavorare 40 ore la settimana, si pagano in tutto o in parte le ore che fanno in meno, agli operai meridionali si pagano soltanto le ore fatte in meno dalle 24 alle 40.

E che dire, onorevoli colleghi, se pensiamo a quegli aiuti che dà ed è giusto che dia in questo momento quell’istituto di cui si è tanto parlato, ma che è un istituto benefico, l’I.R.I., alle industrie settentrionali, mentre in sostanza alle industrie meridionali dà poco, per non dire che non dà nulla?

Ora, io non credo si possa lontanamente negare che delle forze generali dello Stato, delle forze che lo Stato trae da tutti i membri della sua comunità, una parte molto maggiore vada all’Italia settentrionale e una parte molto minore vada all’Italia meridionale e alla Sicilia. Ora dunque se, quando si è fatto lo Statuto siciliano, si è detto: lo Stato compensi, in parte almeno, questo di più che dà alle Regioni settentrionali rispetto alle meridionali, che male c’è, onorevoli colleghi? Mi pare così giusto, così evidente!

Si dice che si tratta di entrate che non sono comparabili: e perché? Si tratta di ore di lavoro per l’Italia settentrionale e di ore di lavoro per l’Italia meridionale; di molte industrie per l’Italia settentrionale, di poche industrie per l’Italia meridionale, cui del resto fa riscontro un maggior apporto di prodotti agricoli per quello che riguarda l’Italia Meridionale stessa. Si tratta di entrate che sono perfettamente comparabili.

Non si può dunque negare un’integrazione che lo Stato debba dare alla Regione siciliana.

Il secondo punto trattato dall’onorevole Einaudi è quello che riguarda il cosiddetto potere di battere moneta. Egli lo diceva naturalmente portando le cose all’assurdo; ma il punto logico su cui egli conduceva il suo ragionamento era quello della stanza di compensazione in Palermo, in Sicilia, per la valuta pregiata che a noi viene dalle esportazioni di prodotti siciliani.

Ora, anche qui bisogna rifarsi al concetto cui accennavo prima, che cioè l’Italia Settentrionale è più ricca e quindi ha maggiori apporti. Ma anche da questo punto di vista, che cioè l’Italia settentrionale ha molto di più di quello che noi non abbiamo, mi pare, per giustizia fondamentale e inoppugnabile, che noi siciliani abbiamo diritto di utilizzare per noi e di avere per noi quella valuta pregiata che a noi viene dall’esportazione dei nostri prodotti. Non facciamo male a nessuno; non togliamo a nessuno gran cosa; ma che resti a noi quello che è nostro. L’onorevole Einaudi criticava da pari suo il meccanismo pratico; egli diceva: «Ma se voi create una stanza di compensazione a Palermo, allora voi avete un potere d’acquisto della lira siciliana diverso dal potere d’acquisto della lira italiana». Ora io dico: se questi poteri d’acquisto saranno lasciati perfettamente liberi, poiché non c’è nessun sipario di ferro, poiché non vi è nessuna barriera tra l’Italia e la Sicilia, si equiparano questi valori, come per la teoria dei vasi comunicanti. Ché se invece prende consistenza il timore manifestato dall’onorevole Einaudi, nulla impedisce che lo Stato, con un monopolio dei cambi, fissi esso tanto per l’Italia quanto per la Sicilia un eguale valore determinato per la lira, che sarà perciò uguale sia come lira italiana sia come lira siciliana.

Dunque, si tratta di atteggiamenti, di modalità pratiche; ma il concetto in se stesso, l’organizzazione fondamentale che si è data nello Statuto siciliano per sopperire a queste necessità di evidente giustizia, mi pare, onorevoli colleghi, che sia assolutamente inoppugnabile.

Fatti i precedenti rilievi su questo punto che tocca da vicino il cuore di noi siciliani e che tocca lo Statuto siciliano, e riaffermato che per noi lo Statuto siciliano non è qualche cosa di immutabile, di fisso, di perfetto, ma che è un cospicuo primo passo che può servire opportunamente da schema per quello che adesso noi faremo e che va migliorato e sviluppato in seguito, io, per alcune osservazioni sul progetto della Regione che sta adesso dinanzi a noi – osservazioni che, lo dico apertamente, rispecchiano qualche mio punto di vista prettamente personale – vorrei richiamarmi a quelle che sono le giustificazioni logiche, fondamentali della Regione. Perché noi diciamo che è giusto creare le Regioni? Perché diciamo che non tutte le condizioni economiche, sociali, politiche, psicologiche in Italia sono uguali. Altre sono le condizioni della Lombardia, altre quelle della Sicilia, altre quelle del Lazio. Ora, se così è, onorevoli colleghi, nello stabilire quante e quali Regioni si debbano creare, bisogna vedere quali sono quei territori in cui si possa dire esista un’uguaglianza, una parità di condizioni psicologiche, intellettuali, sociali, economiche.

E allora io credo che le molte Regioni che si vorrebbero creare sono troppe, perché noi non troveremo una profonda disparità per giustificare la creazione di esse; non la troviamo, per esempio, tra Piemonte e Lombardia, non la troviamo tra Umbria e Marche, non la troviamo tra Lucania e Puglia. Insomma, la distinzione che vi è tra Lombardia e Sicilia, non vi è tra Calabria e Lucania, non vi è tra Lazio e Abruzzi.

Il concetto mio generale, onorevoli colleghi, è questo: che nel formare queste Regioni si debba formarne di larghe, comprensive, non fermarci a quelle che sono le Regioni storicamente fissate. E purtroppo secondo le proposte, non formeremmo solo queste, ma tante nuove, ne formeremmo. Si vuole la moltiplicazione, la filiazione delle Regioni. Bisogna invece fare poche Regioni comprensive e vaste. Dico che ove si arrivasse a sette od otto Regioni, grandi Regioni, io credo si sarebbe perfettamente nel vero; credo si corrisponderebbe così a quella che è la necessità logica della creazione delle Regioni. Se queste debbono essere delle entità geografiche veramente sentite come unità dal popolo, forse si potrebbe pensare che le Regioni, come ora sono, non sono sentite. E allora avrebbe ragione un oratore dei giorni scorsi il quale diceva che le tradizioni popolari non richiedono il riconoscimento delle autonomie regionali e che dai pugliesi e dai lucani la Puglia o la Lucania non sono sentite come regioni a sé. Ma quando parliamo di una regione siciliana, quando parliamo di una regione meridionale che comprendesse quattro o cinque delle antiche regioni (Puglia, Calabria, Lucania, Campania) allora la tradizione c’è. La lingua, le vicende storiche, tutto quello che è il passato di un popolo può concentrarsi ed affinarsi nel largo spazio della Regione così come io la concepisco. Allora sì che la Regione – in questo senso intesa e così creata – risponderebbe ai desideri, all’animo, alle tradizioni del popolo.

E da questa configurazione della Regione come Regione larga, importanti conseguenze deriverebbero su tanti punti speciali relativi all’organizzazione di essa. Primo punto e quel che riguarda la burocrazia.

Io sono autonomista convinto e regionalista convinto, ma non mi sono mai dissimulato che il problema della burocrazia è un problema gravissimo, è uno degli ostacoli più cospicui che dagli avversari della Regione si possano ad essa frapporre. Si dice infatti: badate, non v’illudete che spostando una parte delle attività statali dal centro alle nuove regioni, gli impiegati diminuiranno di molto. Sarà il contrario. Aumenteranno. E dove andremo a finire con questa pletora d’impiegati? E se poi pensiamo al Comune, alla Provincia, alla Regione, allo Stato, ci persuaderemo che dovremo avere un vero esercito di impiegati, che avrà la sua grande influenza sull’entità delle pubbliche spese.

Io ho grande fiducia nella burocrazia. La burocrazia è una di quelle cose di cui si dice tanto male, ma che sono tanto necessarie. Essa ha grandi meriti, ma è certo che occorre massimamente preoccuparsi di non ingigantirla, perché le conseguenze finanziarie, specialmente negli attuali difficili momenti, sarebbero gravissime.

Dunque io vi dico che se noi, anziché creare 22 o 30 Regioni, creiamo 7 od 8 grandi Regioni, larghe, comprensive, questo problema sarà di molto diminuito nella sua importanza.

Non solo: ma questo problema potrà essere diminuito ancora per l’ordinamento che si darebbe alle Provincie. Anche questo punto è gravissimo ed è stato profondamente discusso qui.

Onorevoli colleghi, io credo che la Provincia, come Ente di amministrazione centrale di un gruppo di paesi, non si può e non si deve neanche pensare a toglierla, principalmente perché non si può obbligare della povera gente a fare centinaia di chilometri per arrivare al capoluogo della Regione. Allora sì che si turberebbero gli usi antichi e le tradizioni da cui nessuno vuole distaccarsi!

Quindi la Provincia rimanga, anche con qualche compito accresciuto, per tutti gli organi di decentramento burocratico, per tutti gli organi di amministrazione locale. E rimanga inoltre per continuare a compiere la sua importantissima funzione di controllo sui Comuni.

Badate, esprimo un parere personale. Credo che gli organi provinciali, che hanno compito di controllo, non dovrebbero avere funzioni elettive. Le elezioni sono una bella cosa, perché sono il fondamento della democrazia, l’intervento diretto della volontà popolare nell’amministrazione della cosa pubblica, ma, come tutte le cose belle, hanno bisogno di un limite. Troppe elezioni! Pensate voi alle elezioni comunali, alle elezioni provinciali, alle elezioni regionali, alle elezioni per i deputati, alle elezioni per i senatori? Gli stessi elettori potranno dire: lasciateci in pace, non ci seccate!

Io credo che una delle ragioni principali dell’astensionismo, che certe volte noi vediamo in Italia in certe elezioni, è proprio questa, che la gente si secca, e specialmente nelle belle giornate preferisce di andare a fare una scampagnata, piuttosto che fare la fila per esercitare il suo sacro diritto elettorale. Perciò non facciamo molte elezioni.

L’Ente provincia io lo vedo come un decentramento amministrativo. Gli Uffici provinciali li vedo come una longa manus o come organi dell’Amministrazione dello Stato per quelle materie che restano allo Stato, o come organi o come longa manus delle Amministrazioni regionali per quelle materie che passano alla Regione, e inoltre come organi di controllo, perché il controllo ci vuole. Una eccessiva autonomia comunale la ritengo pericolosa. Sono d’un paese meridionale, non sono di quelli che gridano sempre alla nostra deficiente educazione politica. Anzi, grandi sforzi abbiamo fatto e andiamo facendo.

Ma un controllo vi deve essere ed io ritengo che debba essere controllo non di organi elettivi, ma controllo di organi burocratici.

Io vi posso dire, e voi tutti lo sapete per la vostra pratica di deputati, che in tante questioni delicate e complicate che sono determinate da rivalità e faziosità politiche, la parola che porta il funzionario (chiamatelo prefetto, a me non fa paura, chiamatelo con altro nome, poco mi importa) è la vera parola dell’equilibrio, è la parola della ragionevolezza, è l’armonia delle necessità di legge con l’opportunità politica, impedisce tanti eccessi, che farebbero male alla vita individuale e alla vita politica di tutto il Paese. Quindi organi di controllo, ma organi di controllo burocratico. Sarà da vedere, se di legittimità o di merito; sarà la legge costituzionale che lo stabilirà. Quelli che non farei risorgere sono i Circondari: ormai sono fuori dalle nostre abitudini, e a farli rinascere, si creerebbero organi ingombranti, e uffici troppo capillari e numero eccessivo di impiegati. Se è da conservare dunque la Provincia come organo di decentramento amministrativo e come organo di controllo, credo si debba abolire come ente autarchico. Come tale, minime sono le sue funzioni essenziali, strade, brefotrofi, alienati, funzioni che sarebbero trasferite alla Regione o ad altri enti. Come ente autarchico la Provincia è piuttosto un organo politico, ma ora l’organo politico si trasferisce alla Regione. Venute meno le Provincie come ente autarchico si avrebbe una sensibile diminuzione d’impiegati, che si potrebbero trasferire alla Regione per i nuovi servizi in essa creati.

Ecco quindi come si possono armonizzare la funzione della Provincia ed il problema burocratico, dando un novello fondamento più robusto e più forte a questa creazione nuova della Costituzione italiana che è la Regione.

Due parole per quanto riguarda la finanza. È un punto gravissimo. Si può osservare che l’articolo 113 del nostro progetto è in un certo senso vago, ma vago deve essere, onorevoli colleghi.

Sarà la legge successiva a specificare. Ora, la paura fondamentale in questo campo, quale può essere? Può essere quella di un eccessivo aggravio ai contribuenti. E quello di cui bisogna preoccuparsi è la possibilità delle multiple imposizioni. Tra Stato e Stato si solleva ora il problema delle doppie imposizioni. Se non si andasse parchi nell’organizzare l’autonomia delle finanze regionali, si cadrebbe nelle imposizioni non duplici ma multiple. Specialmente adesso, col nuovo sviluppo delle industrie e dei commerci, con la mobilità che hanno individui e capitali e per il fatto che molta gente possiede in molte parti d’Italia industrie o commerci, non vi pare che questo sia un grave problema che deve farci guardinghi? Questo complesso d’imposizioni che s’intrecciano le une con le altre può gravare moltissimo i contribuenti. Il vero guaio è il nostro sistema tributario: è una fontana in cui tutti quelli che vanno aprono e prendono acqua ognuno indipendentemente dall’altro. Ma la fontana è una sola e bisogna pur preoccuparsi che non s’inaridisca perché, inaridendosi, tutta la vita del Paese s’inaridisce. A questo punto bisogna ovviare, e non aumentare questi inconvenienti che aumenterebbero con le Regioni. Però mi pare sia opportunissimo il primo comma dell’articolo 113 quando dice: «Le Regioni hanno autonomia finanziaria nelle forme e nei limiti stabiliti da leggi costituzionali che la coordinano con la finanza dello Stato e dei Comuni». Serva come monito per agire con grande prudenza. Che poi ci debbano essere fonti addette esclusivamente alle Regioni e fonti per lo Stato, è perfettamente naturale. Noi troviamo anche naturale che lo Stato con i fondi che riceve dai contributi erariali possa aiutare questa o quella Regione. Torniamo sempre al concetto che siamo tutti membri di un unico organismo e figli di un’unica famiglia: non dobbiamo dividerci, non dobbiamo essere armati l’uno contro l’altro, ma l’afflato della fraternità deve sempre vigere e ricordare a tutti il principio supremo dell’unità della Patria.

Mi pare che un altro punto andrebbe chiarito su questo articolo. Dice esso, molto opportunamente, che non possono istituirsi dazî di importazione ed esportazione o di transito tra Regione e Regione: tutto deve essere libero. Aggiunge opportunamente che non si possono prendere provvedimenti che ostacolino in qualsiasi modo la libera circolazione delle persone e delle cose. Bisognerebbe aggiungere che questa libertà di spostamento e di circolazione è pure per i commerci e per le industrie. Un provetto amministratore e commerciante mi diceva: «Io avrei paura che domani una Provincia mettesse tali restrizioni all’impianto di nuovi tipi di commerci o di industrie nel suo interno, che a uno di fuori – di un’altra Regione – fosse impedito di andarvi». Ora questo è un punto grave che bisognerebbe forse specificare: lo sottometto alla Commissione che ha organizzato con tanta oculatezza questo progetto. In sostanza non vi deve essere nessuna barriera né per i capitali, né per le merci, né per le persone, né per le industrie, né per i commerci. Unico corpo siamo e unico dobbiamo permanere. Noi dobbiamo tendere a un decentramento burocratico e amministrativo: dobbiamo tendere ad una legislazione che si adatti alle necessità speciali di larghi territori che chiameremo Regioni. Questa è la Regione che noi vogliamo fondare; in questi limiti modesti e ristretti; ma che aprano nuove vie alla storia d’Italia e diano nuovo impulso al bene comune. (Applausi).

Presidenza del Presidente TERRACINI

PRESIDENTE. È iscritta a parlare la onorevole Titomanlio Vittoria. Ne ha facoltà.

TITOMANLIO VITTORIA. Onorevoli colleghi, alcuni concetti intorno alla autonomia regionale.

Non mi fermerò sull’autonomia della Provincia e del Comune, perché, avendo lavorato per lunghi anni per la Regione e conoscendo un po’ le esigenze, le possibilità di questa autonomia, sento anche il dovere di portare il mio modesto contributo.

In questi giorni è stato lungamente discusso di autonomia e di unità nazionale, come se l’autonomia dovesse distruggere l’unità nazionale.

Comprendiamo benissimo – anche perché lo hanno dimostrato tanti onorevoli colleghi – che l’autonomia può esistere, rispettando l’unità nazionale. Anzi, l’autonomia è una conseguenza della libertà e della democrazia, così come è stato dimostrato dall’onorevole Medi.

Abbiamo bisogno però di fare alcune considerazioni pratiche, tenendo presenti alcuni presupposti: il bene delle popolazioni, le esigenze locali, le possibilità.

Il bene delle popolazioni. È stato detto che il popolo italiano non ha bisogno di questa autonomia, che esso non sente il problema, o almeno non dimostra di sentirlo.

Io faccio notare che le popolazioni non possono neppure supporre come noi possiamo portare sul piano concreto dell’azione certe esigenze, che esse popolazioni mostrano a noi attraverso il contatto diretto.

Non siamo sufficientemente maturi, non lo sono le nostre popolazioni, per poterci chiedere l’autonomia regionale. Esse ci dicono soltanto che hanno dei bisogni locali; ed allora noi, rispondendo a questa richiesta, possiamo dire che soltanto sul piano regionale possiamo studiare alcuni problemi, così come è stato dichiarato nei giorni precedenti.

Si è detto che vi sono delle perplessità, in ordine all’autonomia regionale. Io mi domando: se perplessità ci sono per ammettere l’autonomia regionale, perché non ci devono essere perplessità nel non ammetterla; se vi sono delle perplessità e delle responsabilità, in ordine al potere legislativo ed amministrativo della Regione, perché non ci devono essere delle responsabilità quando, superate le difficoltà sul terreno pratico dell’attuazione cioè dal punto di vista legislativo ed amministrativo, noi possiamo realmente rispondere a queste esigenze locali?

Senza dire, poi, che affiorano certi bisogni, attraverso sintomi che possiamo discutere.

Abbiamo organizzato in molti posti i centri economici, i quali hanno il compito di studiare il problema e di presentarlo allo Stato; ma poi essi devono aspettare che lo Stato, attraverso un complesso di altre attività, porti sul terreno della discussione queste esigenze e queste richieste.

Un altro sintomo: nei vari collegi vediamo che i deputati, appartenenti non ad una sola provincia, ma a tutta la Regione, sentono il bisogno di intendersi per discutere alcuni problemi locali.

Ora questo che cosa ci dice? Ci dice che è qualche cosa di sentito non soltanto nella popolazione, ma perfino in noi, che vogliamo incontrarci, discutere, portare anche quello che è sul piano nazionale sul piano concreto regionale: provvedimenti, studi e disposizioni.

Vi sono delle possibilità anche nella Regione, possibilità in potenza: come nell’individuo umano vi sono delle possibilità in potenza che si traducono in atto attraverso lo sforzo dell’individuo, attraverso tutto quel complesso di aiuti che vengono all’individuo stesso, così nella Regione vi sono delle possibilità di sviluppo in tanti campi, che si pongono in atto quando la Regione opera indipendentemente da altre, si autogoverna e chiede ad altri il consiglio, il contributo.

Io non posso trattare alcune cose pratiche, però richiamo l’attenzione su alcuni punti degli articoli 109, 110 e 111. Ed è logico che una donna debba fermarsi particolarmente sul problema della scuola.

L’onorevole Einaudi, autorevolmente, ha dato il suo contributo in ordine alla scuola ed ha detto che l’insegnante non deve essere un impiegato dello Stato; ha detto che l’insegnante deve sentirsi un apostolo, deve essere del luogo. Il che significa che bisogna vedere la scuola, secondo il pensiero dell’onorevole Einaudi, sul piano locale. Purtroppo noi sappiamo che i maestri, a qualsiasi ordine e grado appartengano, hanno fatto degli sforzi per diventare degli impiegati dello Stato e non vorrebbero adesso dipendere dal Comune, dalla Provincia o dalla Regione.

Conosciamo questa esigenza dell’insegnante, però vi sono alcuni punti della scuola, alcune riforme scolastiche che una volta studiate dal Ministero dell’istruzione, possono e devono attuarsi localmente, tanto più che abbiamo nella riforma scolastica da aggiungere altri particolari, che potrebbero variare nella organizzazione stessa da un punto all’altro. Senza dire poi che si notano nel fanciullo delle differenze, da luogo a luogo, seguendo le tradizioni, le abitudini, le influenze dell’ambiente, che fanno sentire particolarmente la necessità di seguire un metodo, specialmente in materia didattica, che risponda più agevolmente alle sue esigenze, e raggiungere quell’obiettivo verso il quale noi ci orientiamo, cioè la formazione completa dell’individuo, che meglio serva sé e la Nazione, in modo da evitare di trovarsi quindi di fronte a degli spostati che pretendono di raggiungere una meta o una carriera senza avere la preparazione necessaria.

E allora in materia di organizzazione noi vogliamo in primo luogo la scuola materna.

Oggi gli asili dipendono in gran parte dai Comuni e si sono fatti molti sforzi, perché gli asili possano essere portati come dipendenti dello Stato. E sopratutto questa richiesta viene fatta dalla classe insegnante.

Invece, uscendo dall’autonomia comunale, o dalla dipendenza dello Stato, ma portandoci invece sul piano della Regione, noi ci troveremmo di fronte alla realizzazione di due benefici: cioè il beneficio dell’insegnante che tiene ad essere riconosciuto particolarmente nella sua carriera da un ente che è superiore al Comune medesimo, e rientreremmo anche in quella esigenza del fanciullo il quale, specialmente da punto di vista didattico, deve essere curato con quei mezzi che più rispondono alle possibilità ed alle esigenze del luogo. Vi sono poi, nella scuola primaria, delle altre necessità. Abbiamo in alcuni punti che i corsi non sono completi, arrivano soltanto alla terza classe elementare ed è stata prospettata questa necessità di integrazione perché il fanciullo possa arrivare almeno alla quinta classe elementare.

Ma si domanda: è possibile questa realizzazione, è necessaria in tutti i punti d’Italia? Abbiamo nel programma della riforma scolastica le classi post-elementari perché attraverso lo studio dei commissari ed attraverso gli articoli che sono stati già approvati, abbiamo sentito la necessità di prolungare gli anni di studio del fanciullo. Le classi post-elementari dovrebbero portare probabilmente ad otto anni la frequenza scolastica obbligatoria: obbligatorietà che potrebbe non essere richiesta in tutti i punti d’Italia. Da regione a regione variano queste esigenze.

Senza dilungarmi per quanto riguarda la scuola primaria, e quindi senza accennare alle scuole sussidiarie ecc., faccio solo notare un’altra cosa nel campo della scuola professionale o, meglio, seguendo l’articolo 115, in quanto riguarda l’istruzione tecnico-professionale. Nell’Italia meridionale, per esempio, noi abbiamo una abbondanza di scuole classiche: seguendo una statistica, che potrebbe essere portata a conoscenza di tutti, notiamo una scarsezza, in alcuni punti, di corsi agrari, di scuole o di istituti agrari, laddove l’elemento è eminentemente rurale. Abbiamo alcune città o zone in cui vi è una scarsezza di scuole o corsi o istituti di indole industriale.

Questo dice che, pur rientrando questa riforma tecnico-professionale nel programma generico che è stato per lo meno elaborato dal Governo, noi dovremo molto attendere per la sua realizzazione mentre più sentita è questa richiesta nell’Italia meridionale e più se ne sollecita la immediata soluzione.

Oltre quello che riguarda la scuola, aggiungo qualche cosa per quanto riguarda il problema femminile nel campo del lavoro e dell’assistenza. Vi sono luoghi in Italia in cui le donne si dedicano particolarmente ad alcuni lavori maschili, per esempio la donna contadina dedita ai lavori specifici dei campi, cioè non la massaia, ma la donna che sostituisce l’uomo anche nel più duro lavoro campestre.

Ora, la preparazione della donna, dal punto di vista tecnico non c’è, non c’è nessuna scuola che la prepari, non c’è alcun ente che l’assista nei suoi vari molteplici bisogni relativi al lavoro e alla sua vita familiare e sociale. Vi sono donne operaie (fabbriche, stabilimenti): le troviamo in alcune città e capoluoghi di provincia e non in piccole località. Anche in questi casi mancano gli enti di assistenza. Vi sono le donne artigiane: in alcune zone c’è la lavorazione della canapa, in altre zone ci sono le risaiole. Di qui la necessità di assistere le une e le altre, sia con la preparazione tecnica che con l’assistenza benefica, morale e sociale. Vi sarebbero altri punti da ricordare, dal punto di vista femminile: almeno l’igiene, la sanità pubblica, di cui troviamo tante variazioni da una zona all’altra d’Italia.

Ora, onorevoli colleghi, di ognuno di voi, che ha avuta la possibilità di ascoltare tanti bravi oratori i quali si sono particolarmente soffermati a studiare queste difficoltà e i modi di risolvere questi problemi e queste esigenze, soprattutto dal punto di vista legislativo ed amministrativo, io come donna richiamo l’attenzione, specialmente, di tutti coloro che sono ora disposti a dare un voto negativo a questo progetto, e particolarmente l’invito a studiare il duplice problema della donna e del fanciullo, o fanciulla che sia, e magari, dal punto di vista generico, esaminata la cosa, potremo anche intenderci e scambievolmente riconoscere la sincerità, la bontà e l’opportunità di questa riforma. Ma, nello studio degli emendamenti, prego i colleghi di tenere presenti alcune considerazioni, perché nell’omettere, o anche nel modificare gli articoli, nulla si faccia a detrimento della popolazione, a detrimento di questa ricostruzione italiana che, dalla fondazione della Repubblica, ha assunto un carattere di moralizzazione costante nelle possibilità individuali e collettive. Che possa la popolazione italiana trovare in noi questo aiuto e tutta la collaborazione, in modo da rendere l’Italia molto più produttiva, molto più dinamica, soprattutto mediante il contatto dei dirigenti col popolo, mediante il continuo contatto dei responsabili del popolo stesso con i loro amministrati. Da questo intimo contatto – dicevo – possa uscire una meravigliosa riforma ed una meravigliosa attuazione che dia grandezza al nostro popolo e contribuisca al miglioramento della nostra popolazione e soprattutto allo sviluppo di quelle possibilità che sono in potenza nel nostro popolo. E quando queste possibilità saranno studiate da vicino e portate sul concreto piano di attuazione, allora potremo aspettarci un migliore avvenire dal punto di vista generale e sociale, ma anche e soprattutto dal punto di vista politico ed economico! (Applausi).

PRESIDENTE. Sono iscritti a parlare gli onorevoli Bovetti, Zerbi, Mastino Gesumino, Ponti, Giacchero. Non essendo presenti si intende che vi abbiano rinunciato.

Sull’ordine dei lavori.

CEVOLOTTO. Chiedo di parlare.

PRESIDENTE. Ne ha facoltà.

CEVOLOTTO. Vorrei proporre, data l’ora tarda, di rinviare la seduta.

PRESIDENTE. Onorevole Cevolotto, l’Assemblea ha deciso di cominciare le sedute alle 16, appunto per non finire alle 20, ma alle 21!

CEVOLOTTO. Spiego la mia domanda. Oggi, siamo alla vigilia di una festa; essendo decaduti molti oratori, gli altri supponevano che avrebbero parlato altro giorno, e non sono venuti all’Assemblea perché credevano che vi fossero altri oratori presenti che avrebbero parlato. Si sono sbagliati: hanno fatto male; ma siamo alle ore 20, hanno parlato parecchi deputati, ne sono decaduti moltissimi altri e penso che non vi sia più ragione di continuare. Lasciamo che, rinviando la seduta a venerdì, qualcuno possa avere il modo di esprimere la sua opinione, tanto più che vi sono alcuni oratori iscritti, la cui opinione molti colleghi desiderano conoscere.

PRESIDENTE. Onorevole Cevolotto, ho ascoltato con molta attenzione quanto ha detto. L’errore dei colleghi, che non sono presenti e sono decaduti, non è di aver fatto male il loro calcolo, ma è di aver creduto che all’Assemblea Costituente si debbano fare dei calcoli, mentre vi è un solo obbligo preciso: quello della presenza. I colleghi hanno, in gran numero, dimenticato questo perché ritengono necessaria la loro presenza soltanto nel momento in cui parlano, ma nel momento in cui parlano gli altri 553 deputati, non ritengono necessaria la loro presenza (Approvazioni). È questa la ragione per la quale ritengo che le sue considerazioni non debbano essere tenute presenti. Io credo che lei, onorevole Cevolotto, non conosca l’elenco di coloro ancora iscritti a parlare, per quanto l’elenco sia affisso fuori ogni mattina. Io lo so che alcuni colleghi, ad esempio, gli onorevoli Nitti e Piccioni, hanno presentato degli ordini del giorno, rinunciando a parlare nel corso della discussione generale per svolgere poi i loro ordini del giorno, a tempo opportuno, nel breve limite di tempo fissato.

CEVOLOTTO. Probabilmente, non lo avrebbero fatto se avessero saputo che la seduta era rinviata a venerdì.

PRESIDENTE. L’hanno fatto prima, tanto è vero che se ne sono andati. Sono colleghi che si rendono conto che in seno all’Assemblea Costituente, come in seno a qualsiasi altro Collegio, non vi è che un solo obbligo: seguire i lavori con una certa diligenza, come fa lei ed i colleghi presenti in quest’Aula. Siccome non vi è un’assoluta urgenza di concludere, venerdì mattina sarà ancora peggio di stasera.

CEVOLOTTO. Onorevole Presidente, insisterei perché la seduta fosse rinviata a venerdì.

PRESIDENTE. Mi permetta, onorevole Cevolotto, l’Assemblea non deve prendere questa abitudine: che, se vi sono 24 ore di riposo, queste si debbano trasformare in 36 o 48; tanto più che non conosciamo ancora la nostra sorte. In questo momento so una cosa sola: che fra venti giorni non avremo più diritto di sedere di fronte al popolo italiano; ed è per questo che non possiamo accettare di rinunziare a nessuna seduta che sia possibile di tenere.

CEVOLOTTO. Il fatto che l’Aula sia spopolata dipende da una circostanza che lei conosce benissimo: siccome domani è festa, vi sono molti deputati i quali sono partiti per raggiungere le loro case, cosa questa plausibile. Saranno stati poco diligenti, ma si sono regolati in questo modo.

PRESIDENTE. Mi permetta, onorevole Cevolotto, il deputato è tenuto a fare il suo dovere. Sarebbe come se lei mi dicesse che gli operai, poiché domani hanno vacanza, oggi pomeriggio potevano non andare in fabbrica e venerdì mattina ugualmente. Sono, queste, argomentazioni che abbiamo sentito troppe volte, per avallarle ancora con l’autorità dell’Assemblea.

Comunque, la discussione è rinviata.

La prossima seduta, salvo che i colleghi presenti mostrino diverso avviso, sarà tenuta venerdì mattina alle ore 10 e nel pomeriggio alle ore 16.

(Così rimane stabilito).

La seduta termina alle 20.5.

Ordine del giorno per le sedute di venerdì 6 giugno 1947.

Alle ore 10 e alle ore 16:

Seguito della discussione del progetto di Costituzione della Repubblica italiana.