ASSEMBLEA COSTITUENTE
CXXXIX.
SEDUTA ANTIMERIDIANA DI VENERDÌ 6 GIUGNO 1947
PRESIDENZA DEL PRESIDENTE TERRACINI
INDICE
Congedi:
Presidente
Progetto di Costituzione della Repubblica italiana (Seguito della discussione):
Presidente
Varvaro
Cremaschi Carlo
Roselli
Priolo
La seduta comincia alle 10.
CHIEFFI, Segretario, legge il processo verbale della precedente seduta antimeridiana.
(È approvato).
Congedi.
PRESIDENTE. Hanno chiesto congedo gli onorevoli Miccolis, Mariani, Murgia, Lussu, Schiavetti e Sardiello.
(Sono concessi).
Seguito della discussione del progetto di Costituzione della Repubblica italiana.
PRESIDENTE. L’ordine del giorno reca: Seguito della discussione del progetto di Costituzione della Repubblica italiana.
Riprendiamo la discussione generale del Titolo V relativo alle Regioni.
È iscritto a parlare l’onorevole Paris. Non essendo presente, s’intende che vi abbia rinunciato.
È iscritto a parlare l’onorevole Varvaro. Ne ha facoltà.
VARVARO. Onorevoli colleghi, non presumo di dire delle parole nuove su questo argomento che ha formato oggetto di elevati discorsi.
Io appartengo ad un movimento regionalista accentuato – o vivace, come fu detto in una riunione della Consulta nazionale – e precisamente al Movimento indipendentista siciliano. È quindi intuitivo che io sono favorevole all’assetto regionale. Non solo: ma io ritengo che sia stato un errore che non sia avvenuto oggi in Italia quello che l’onorevole Vittorio Emanuele Orlando recriminava in un suo recente discorso, e cioè che non si sia voluto fare nemmeno questa volta un’Italia federale. Ha detto l’onorevole Orlando: «Sarebbe stato meglio che l’Italia fosse nata federale. Ma non essendo ciò avvenuto, credo che non sia il caso di tornare indietro».
Or se, a parere dell’onorevole Orlando, sarebbe stato meglio che l’Italia fosse nata come federazione, vuol dire che egli ha trovato nell’assetto unitario un errore rispetto all’assetto federale; e allora io non comprendo perché non si debba fare oggi e non si sia fatto oggi quello che avrebbe dovuto essere fatto allora, secondo un’opinione tanto autorevole come quella dell’onorevole Orlando. Opinione che del resto non rimane isolata, perché vi è tutta una letteratura autorevolissima in questa materia. Io non starò a richiamarla, anche perché sono convinto che questo problema non si risolve sul terreno dottrinale.
Io ho fatto un’osservazione che credo ogni cittadino comune farà leggendo il progetto costituzionale. Noi avremo, in Italia, cinque, anzi sei, statuti regionali tutti diversi l’uno dall’altro: per la Sicilia ve n’è uno, uno per la Sardegna che credo sarà identico o simile, uno diverso per la Valle d’Aosta, un altro per il Trentino e forse un altro ancora per la Venezia Giulia. Infine vi è lo Statuto delle altre diciassette Regioni, che sarà uguale per tutte ma diverso da quegli altri. E così l’aspetto costituzionale dell’Italia sarà, non dirò grottesco, ma certamente di un colorito forse troppo contraddittoriamente vario e disarmonico.
Questo dal lato della prospettiva. Ma vi è il lato funzionale. Statuti così dissimili creeranno rapporti tanto diversi e difficili tra lo Stato e le Regioni, da determinare gravi e pericolose difficoltà funzionali.
D’altra parte un sistema così discorde e disarmonico di autonomie giustifica talune delle preoccupazioni che sono state espresse da oratori contrarii al progetto della Commissione.
S’è parlato di fenomeno centrifugo e di pericolo di disgregazione. Ora io dico subito senza infingimenti (se anche questo può apparire contrario alla mia tesi), dico subito che il pericolo centrifugo esiste, ed esiste proprio in funzione di queste disparità, sia perché tali disparità determineranno delle gelosie tra le Regioni, sia perché mancherà quella uniformità legislativa centrale che costituisce l’armonia dello Stato federale che può essere molto più unitario e coesivo di qualunque stato accentratore, come dimostra, del resto, l’aspetto del mondo. Ed infatti nei paesi dove l’unità nazionale è più sentita e ha dato prove di una solidità straordinaria fino a superare vittoriosamente i cataclismi della guerra, là vi è proprio il sistema federale; non escluso lo stesso impero inglese che è costituito su basi di larghissime autonomie, legate in forma sostanzialmente federale nella persona del sovrano. Quindi io credo che bisognerebbe proprio dare all’Italia un aspetto federale. Non è stato fatto e non c’è un oratore che possa sperare che quest’Assemblea si prospetti oggi il problema in senso concreto. Questo è da escludere perché qui, se non vado errato, se vi è mai qualche tendenza prevalente è proprio in senso contrario. Gli antiregionalisti fanno riferimento alla dottrina; e noi abbiamo ascoltato l’onorevole Nenni il quale con la sua notevole autorità ha detto: «Ma che Cattaneo! Bisogna rifarsi a Mazzini. Lo Stato italiano, secondo la volontà del Mazzini, doveva nascere unitario, come è nato».
Ma io non credo che egli vada d’accordo in ciò con i repubblicani, perché (non voglio esprimere idee mie in proposito: sarebbe immodesto quando vi sono qui, nel Partito repubblicano storico, i più autorevoli interpreti del Mazzini) ho sentito oratori del Partito repubblicano affermare che il Mazzini non voleva affatto l’uniformità dell’amministrazione statale, bensì un’unità italiana che riconoscesse le autonomie regionali. Eppoi, signori, questa faccenda del risolvere le questioni politiche, più palpitanti di vita attuale, andando a svegliare i dormienti pur illustri scrittori nelle biblioteche, mi sembra proprio un metodo sbagliato. Situazioni che potevano essere cinquanta o sessant’anni or sono tali da essere vedute in un certo modo da intelligenze superiori, possono essere oggi, come lo sono, radicalmente mutate. Bisogna vedere il problema dal punto di vista attuale, della vita che noi viviamo politicamente oggi, in quest’oggi tanto diverso dal passato, e dobbiamo essere noi a mettere il nostro pensiero e la nostra esperienza al servizio della soluzione che riteniamo migliore nell’interesse della Patria. Io ho sempre ammirato gli uomini di scienza; ma ho sempre diffidato della scienza quando essa viene a contatto con la politica. Basti ricordare quel che è avvenuto nel periodo fascista. Noi abbiamo veduto, purtroppo, il pensiero filosofico italiano non solo acclimatarsi ma addirittura costruirsi scientificamente sulla volontà del duce. Pareva che tutti quei pensatori attingessero ai grandi filosofi del passato per creare, con rigore scientifico, il pensiero moderno e, invece, non facevano che affermare la dottrina della forza e dello Stato padrone, adattandosi alla conveniente opportunità di creare alla dittatura fascista quella dottrina che essa non aveva.
E la stessa diffidenza io manifesto di fronte alle scienze economiche. La scienza dell’economia, sì, è certamente una bella cosa nelle scuole! Ma se volete risolvere i problemi economici e finanziari d’un Paese sulla base delle dottrine economiche, io credo che gli errori saranno quasi sempre inevitabili. Perché al disopra della dottrina vi è il fenomeno, incontrollabile ed imprevedibile, della realtà.
Basterebbe osservare che in questa stessa Assemblea noi abbiamo veduto battersi sul grosso e scottante problema della ricostruzione finanziaria ed economica dell’Italia autorevoli rappresentanti delle dottrine più disparate e sostenere ciascuno, appassionatamente, la bontà della sua propria teoria come il solo rimedio capace di guarire i mali della Nazione. Ma quale sarà il rimedio vero?
Io credo ancora e sempre che la politica è soltanto materia di vita che sfugge a tutti gli schemi. Perciò, collegandomi a questo mio pensiero, a coloro che dicono che l’assetto regionale autonomistico e, peggio ancora, l’assetto federalistico d’uno Stato porti alla disgregazione – e fra questi, purtroppo, vi è autorevolissimo l’onorevole Nitti – io mi permetto di osservare che la conseguenza delle loro premesse conduce alla conservazione e all’esaltazione del sistema unitario accentratore e a niente altro.
Ebbene, se è così veniamo alla prova dei fatti, esaminiamo le conseguenze dello Stato accentratore, non già su ciascuna Regione – che questo è altro problema – ma globalmente, in tutto il Paese, rispetto alla coesione delle varie Regioni tra loro. Vediamo se l’accentramento ha fatto buona prova. Finché l’Italia si imbarcò in avventure che andarono bene, l’unità resistette; ma resistette, in certi paesi, a prezzo di inaudite violenze poiché dove le leggi non erano comprese o non erano adatte, si insegnava a comprenderle e si faceva in modo che fossero adatte per forza; comunque, l’unità resistette. Ma, alla prima grande prova, appena la sciagura cadde sul nostro amato Paese, l’impulso – che non è da attribuire a questa o a quella persona; dobbiamo essere sinceri e leali – l’impulso istintivo delle collettività regionali fu quello della disgregazione; perché, in fondo, si intese un po’ dappertutto che a quel punto si era arrivati per effetto dell’unità accentratrice per la quale un campanello solo da Roma poteva nello stesso istante obbligare tutte le città, tutti i borghi d’Italia a fare la medesima cosa. E questo è ciò che facilitò la dittatura e permise che senza il consenso dei popoli si facessero delle guerre folli e ingiuste. Quindi, la sventura della Patria grande e delle piccole patrie regionali era dovuta al sistema accentratore, che aveva permesso l’avvento e la glorificazione del fascismo e, infine, la sciagura collettiva. E dall’altro canto, rifacendo i conti, le Regioni meno favorite, le Regioni più deluse, più dimenticate, proprio quelle meridionali (non parlo ancora appositamente della Sicilia, perché non credo che in questo vi sia disparità), rifecero il bilancio del passato e videro che, in fondo, forse, la colpa di quelle guerre era da attribuire anche all’assetto industriale del Paese, che aveva creato in poco spazio del Nord potenti complessi industriali parassitari e protetti per i quali vivere e sviluppare significava preparare la guerra.
Non è possibile che un Paese continui a fabbricare cannoni ed armi e che di questi si faccia poi un pacifico museo storico. Questo anche intesero le popolazioni. E poi fecero anche un altro bilancio, e compresero che là dove si era accentrato il benessere, là dove la ricchezza affluiva da anni, anche per effetto delle esigenze belliche, là si era costituito, non per colpa di uomini, intendiamoci, tutto un complesso organismo economico, che a poco a poco andava assorbendo tutte le risorse del Paese facendone, non dirò un egoistico monopolio, ma una ragione di vita. E che tale funesto organismo non tollerava più turbamenti, perché un complesso economico siffatto, una volta creato, doveva vivere in tutta la sua intelaiatura. E proprio questo fenomeno portava di conseguenza (questo e non quello che affermava l’altro giorno l’onorevole Colitto) al decadimento dei paesi meridionali. Questi paesi hanno avuto sì delle modeste possibilità industriali specialmente nel campo della trasformazione della loro stessa produzione agraria o mineraria. Ma queste stesse piccole possibilità, o che fossero state attuate o che fossero in via di attuazione, perirono o languirono tutte quante, perché, evidentemente, ogni attività industriale creata nel Meridione d’Italia o nelle isole trovava ostacoli, concorrenze o potenti ed oscuri divieti in quanto veniva a ferire il complesso economico del Nord nell’ormai acquisito diritto di esercitare integralmente l’attività industriale della Nazione. Non che il singolo uomo volesse portare la miseria in questa o in quella zona meridionale o isolana, ma era fatale che l’industria colpita o messa in pericolo si difendesse sul terreno economico. È la brutale crudeltà delle leggi economiche di fronte alle quali non si può fare appello alla pietà. E così noi abbiamo visto, nei nostri paesi meridionali, a poco a poco, ma continuamente e inesorabilmente, inaridirsi ogni fonte di produzione fino a quando le nostre popolazioni si sono ridotte a vivere soltanto dell’agricoltura e dell’attività mineraria elementare, proprio elementare, quasi senza macchina; il che vale a concretare, se io non erro, un sistema di vita che è proprio caratteristico della colonia. Produrre solo materia prima e comperare prodotti manufatti. Che è questo se non il modo di vivere di una colonia? Ora, tutto questo è avvenuto, tutto questo è stato constatato dalle nostre popolazioni, tutto questo è l’effetto di un accentramento amministrativo, l’effetto della costituzione unitaria dello Stato, e tutto questo ha portato di conseguenza al sorgere delle aspirazioni autonomistiche regionali, delle aspirazioni indipendentiste, e, dove il male fu più grave, delle tendenze separatistiche.
Quindi gli uomini politici pensosi della Patria, che non hanno voglia di venire a delle risse personali, che tali fenomeni guardano con senso di responsabilità, non devono preoccuparsi già delle manifestazioni, che ne costituiscono più o meno nervosa espressione, ma devono guardare alle cause profonde.
Se oggi si volesse curare una tubercolosi somministrando soltanto della canfora, io credo che chiunque direbbe che questa è una cura da ridere: bisogna vedere se vi è il rimedio perché si uccida il microbo di questa gravissima malattia. Il rimedio c’è, signori, il rimedio esiste ed io lo accennerò. Siccome devo arrivarci parlando di un problema che mi interessa più da vicino, voglio per il momento fare qualche osservazione su quello che è stato detto di più rilevante contro il sistema autonomistico.
Vi è un’opinione contraria dell’onorevole Colitto il quale, pur concludendo alla fine con la richiesta di una Regione per conto suo, ha detto presso a poco: facciamo l’esperimento in corpore vili, facciamo l’esperimento siciliano e vediamo quello che viene fuori. Ma ricordatevi – egli ha soggiunto – che quando Roma ha dato alla Sicilia (la vecchia Roma imperiale) una posizione giuridica particolare, la Sicilia andò al decadimento, andò alla miseria. Io non conosco questo esempio storico e credo che tale esempio non esiste, o per lo meno, che se esiste un esempio storico del genere, che cioè Roma abbia dato qualche volta un assetto giuridico autonomo alla Sicilia, deve essere così insignificante da sfuggire alle mie nozioni. Ma certamente tutti conosciamo qualche cosa di molto grave a proposito di Roma; conosciamo che quando il sistema romano fu accentratore – e lo fu sempre – la Sicilia fu costantemente spogliata, la Sicilia ebbe Verre, e non solo un Verre, ma molti, una serie di Verre. Quindi non credo che questo esempio possa calzare.
Un’osservazione invece che mi ha fatto molta impressione, che è comune sia all’onorevole Nenni sia all’onorevole Assennato, il quale l’ha espressa in bellissima forma, tale da creare qualche perplessità (e lo dico io che ho affrontato la questione indipendentista senza mezzi termini), è questa: guardate che, se noi costituiamo delle autonomie regionali nel Meridione d’Italia, dove noi abbiamo una situazione sociale così arretrata, noi facciamo il giuoco dei conservatori e degli agrari, perché, attraverso la legislazione autonomistica, costoro impediranno il libero circolare della linfa del progresso democratico. Questa, credo, sia l’impostazione dell’argomento.
E l’argomento è veramente serio. Lo dico perché, o signori, ne ho avuta una prova personale. Qualche mese fa io partecipai ad una riunione presso l’Alto Commissario per la Sicilia. La questione che si dibatteva era questa: se si dovesse riprendere l’applicazione del decreto Segni per il nuovo anno agrario 1947.
Con molte argomentazioni furono espressi vari pareri, in un senso o nell’altro. Naturalmente, tutti positivi quelli dei socialisti, dei comunisti e delle democrazie in generale, e tutti negativi quelli dei conservatori e degli agrari. Ad un certo punto vi fu un ricco feudatario che si alzò e disse: «Io chiedo che non si dia applicazione al decreto Segni, perché la Sicilia è in regime autonomistico e quindi non è Roma che deve obbligarci ad applicare questa legge, ma siamo noi siciliani; siamo noi che dobbiamo constatarne, esaminarne e deciderne l’opportunità».
È superfluo dire, che espressi parere nettamente contrario, in forma così decisa che allora mi si qualificò più comunista dei comunisti. Ma la verità è che questo è stato detto e che l’idea di servirsi dell’autonomia per sabotare le riforme sociali risponde forse – ecco dove sono d’accordo – al segreto pensiero delle classi plutocratiche e arretrate dei paesi meridionali. Può darsi che tali classi contino o sperino di potere, con le autonomie delle Regioni, impedire il circolare di quella linfa di riforme e di progresso di cui parlava tanto bene il collega Assennato!
TONELLO. Ed è proprio quello che noi non vogliamo!
VARVARO. Onorevole Tonello, credo che non bisogna mai affidarsi alle idee preconcette. A me ha fatto impressione, e lo ripeto all’onorevole Tonello che ha tanta fede nelle sue idee socialiste. Ma la verità è questa: che la questione, prospettata da quell’agrario, non passò. C’è poi una constatazione da fare, onorevoli colleghi, che in certo qual modo nega questa presa di posizione: noi siamo in regime autonomistico in Sicilia, da più di due anni, poiché l’Alto Commissario in Sicilia aveva i poteri dei Ministri, come li hanno oggi i vari assessori della Giunta; ebbene con l’Alto Commissario per la Sicilia si sono fatte le elezioni del 2 giugno 1946, da cui venne fuori questa Assemblea, e con l’Alto Commissario, in regime autonomistico, si sono fatte le elezioni del 20 aprile per l’assemblea siciliana. Quali sono i risultati? I risultati sono che le sinistre hanno avuto molti più voti il 20 aprile di quanto non ne abbiano avuto il 2 giugno.
Il blocco del popolo, ad esempio, ha raddoppiato, e forse più che raddoppiato, i voti del 2 giugno 1946. Che cosa dice questo? Secondo me, dice, o signori, che non si può, attraverso una amministrazione autonomistica, fermare il corso degli eventi; non è possibile. La Sicilia, come del resto altre regioni del meridione, era tra le più addormentate, dal punto di vista sociale ed anche dal punto di vista elettorale. La Sicilia, prima del fascismo (durante il fascismo vi fu un letargo addirittura) elettoralmente non aveva che clientele. E comandavano soltanto quelli che avevano un patrimonio. Bastava avere, in un paese, l’appoggio del cavalier Tizio o del commendator Caio, per avere la stragrande maggioranza dei voti; non c’era bisogno di fare nemmeno un comizio, bastava un banchetto!
Oggi no, autonomia o non autonomia, vi sono dei fenomeni che dobbiamo guardare in faccia. Io non credo che qui bisogna fare della poesia o della letteratura: qui bisogna fare soprattutto della realtà. Vi sono delle cose che hanno rivoluzionato il mondo; oltre le guerre, che per se stesse sono ragione di rivoluzione degli spiriti e delle leggi, vi sono altre cose che non c’erano nei tempi scorsi: vi è il cinematografo, vi è la radio, che arriva, vera linfa inarrestabile e vitale, dovunque, in ogni vena, in ogni arteria dell’organismo nazionale, anche nelle più minuscole e capillari; vi è la stampa che oggi è libera e giunge dovunque; vi sono, infine, i partiti, ai quali qualunque governo regionale reazionario non potrà mai impedire la propaganda. Nessuno impedirà ai partiti di conservare, anche in regime di autonomia, come anche in regime federalistico, la loro organizzazione unitaria. E anche se essi si snodassero in organizzazioni regionali, credete voi che, ad esempio, una federazione comunista o una federazione socialista siciliana penserebbe diversamente dalla federazione socialista o comunista romana, o toscana, o lombarda? Non credo che vi sia, perciò, alcun pericolo. Ma se pericolo vi fosse, allora io vorrei dire una cosa grave: il pericolo avrebbe due facce, perché noi abbiamo due aspetti completamente diversi del paese fra nord e sud. Se si teme che il meridione autonomista possa chiudersi in un sistema feudale, in un sistema arretrato, ugualmente si può e si deve temere che il nord possa con le autonomie creare delle repubbliche rosse. Perché no? Ma se non vi è questo pericolo, non vi è nemmeno l’altro. Io credo che la linfa del progresso della democrazia girerà dappertutto nonostante le autonomie e non saranno certamente le piccole assemblee delle Regioni che potranno impedire questo suo benefico fluire.
Vi è una questione – e veramente in questo momento non fa piacere parlarne – che sorge dalla tendenza agli spezzettamenti delle Regioni in Regioni ancora più piccole.
E questa, o signori, è proprio colpa della incertezza del progetto di Costituzione. Se si fosse fatto un progetto a più largo respiro, a tipo federalistico, noi avremmo avuto, non la tendenza allo spezzettamento della regione, ma all’unione di talune di esse in complessi territoriali più estesi aventi comunità d’interessi economici e di tradizioni che avrebbero meglio risolto i loro problemi in quella semisovranità che è caratteristica degli Stati federali.
Io debbo occuparmi adesso di una questione che mi interessa molto da vicino, e cioè a dire di quello che potrebbe accadere, se non subito, domani, o più tardi, o fra un anno, qualora fosse approvato uno dei due ordini del giorno, che sono stati autorevolmente presentati, l’uno dell’onorevole Rubilli e l’altro dell’onorevole Nitti. Tutti e due, in sostanza, tendono a rimandare sine die la questione delle autonomie. Il che vale quanto dire archiviarla. Su questo punto soccorre anche la storia parlamentare, ed è stato accennato, credo dall’onorevole Macrelli, al famoso progetto Minghetti che per amor di patria fu ritirato e per amor di patria seppellito.
Ora l’Italia non è interessata soltanto ai fenomeni economici e sociali, l’Italia è molto interessata anche ai problemi costituzionali ed istituzionali. Ormai in Italia vi è una coscienza (anche, se volete, nell’Italia del Sud, da Napoli in giù, più che in quella del Nord) una notevole coscienza autonomistica.
Non può la Costituente rispondere alle aspettative delle popolazioni con un rimando al futuro Parlamento, ossia con una promessa di cui tutti comprenderanno il significato. La cosa per me non ha soltanto importanza da questo lato, essa ha un’importanza particolare, per quello che riguarda la Sicilia. Né vale dire – come taluni affermano – che la Sicilia ha ormai il suo Statuto e non corre alcun pericolo. Non è così. Se voi osservate la relazione che fu scritta dalla Giunta nominata dal Presidente della Consulta Nazionale per l’esame del progetto governativo dello Statuto siciliano, troverete che fu proposto un emendamento all’articolo 42, nel quale si disse che lo Statuto sarebbe stato mandato più tardi alla Costituente per essere coordinato con la nuova Costituzione.
Nel proporre questo emendamento, la relazione adombra (potremmo dire meglio illumina) un dubbio che sembra un dubbio scientifico, un dubbio dottrinario o di esegesi, ma che è un dubbio politico grave, e cioè a dire il dubbio se la dizione adottata dal progetto del governo all’articolo 42, che cioè, in seguito, lo Statuto sarebbe stato sottoposto alla Costituente, debba intendersi nel senso puramente cronologico, oppure nel senso che lo Statuto siciliano abbia vigore fino a quando esso non pervenga all’esame dell’Assemblea Costituente alla quale resterebbero salvi i diritti sovrani di revisione.
D’altra parte, nel progetto della Commissione che stiamo discutendo è stabilita, all’articolo 108, la costituzione, con statuto speciale, della Regione siciliana.
E allora sorge l’interrogativo, quali sarebbero le conseguenze di una soppressione del Titolo riguardante le regioni? Noi avremmo, in tal caso, uno Statuto della Regione siciliana avulso dalla Costituzione dello Stato e non ratificato dall’assemblea Costituente. Cioè una legge statutaria non costituzionale, resa ancor più discutibile e precaria dalle riserve cui ho sopra accennato e da quelle successive, a tutti note, del Consiglio di Stato. E se questa e non altra verrebbe ad essere la fisionomia giuridica dello Statuto siciliano, non mi sorprenderei che il Parlamento italiano pretendesse domani di rivederlo o di sopprimerlo addirittura.
Ecco perché io debbo richiamare l’attenzione della Commissione e dell’Assemblea su questo quesito, tanto più che l’Assemblea, che deciderà alla fine queste questioni, può non essere fino ad oggi – e, badate, dico fino ad oggi, dopo tanto tempo! – può non essere, dicevo, sufficientemente edotta di quello che sia la questione siciliana.
Né vi sembri questa un’eresia; pensate che fino a pochi mesi fa non si sapeva qui da molti che ci fosse già uno Statuto siciliano e ci si meravigliava che la Sicilia volesse un suo Parlamento.
La questione siciliana è conosciuta sin’ora sotto un aspetto un po’ convulsionario. Dev’essere, invece, conosciuta sotto un altro aspetto, sotto quello della storia e dei diritti della Sicilia.
La Sicilia ha sempre avuto una sua autonomia, o meglio una sua sovranità di Stato. Si può fare eccezione soltanto per i tempi di Roma antica, durante i quali essa era una provincia romana, perché anche nel Medioevo, se è pur vero che vi si succedevano dei re stranieri, è anche vero, però, che la successione derivava dalle leggi feudali e che essa non scuoteva la sovranità del regno alla quale i re giuravano fedeltà.
Questa è storia innegabile che dà alla Sicilia fisionomia di nazione.
Tuttavia nessuno, certo, vuol oggi tentar di restaurare una Sicilia medievale e settecentesca: per carità! Ma è storia ed è perciò un fatto che incide sulla psicologia della popolazione. A questo proposito io interpreto in modo forse un po’ originale il voto che è stato dato al partito monarchico in Sicilia. Mi permetto di affermare che nella stragrande maggioranza i voti dati ai monarchici in Sicilia sono stati dati proprio dagli analfabeti, proprio dalle donnicciuole, da chi non sa, ancora, né leggere né scrivere – purtroppo c’è ancora questo fenomeno in Sicilia. Questo terreno elettorale è stato fertile per i monarchici, perché nella coscienza tradizionale del popolo siciliano vi è ancora il ricordo di un «riuzzo», di un piccolo suo re. Questa idea è quella che fa presa, non già la coscienza che la monarchia possa essere migliore della repubblica, o le malinconie per i Savoia, che ritengo ormai confinate tra gli ori ammuffiti di qualche vecchio palazzo. Ora, dicevo, una coscienza della vecchia sovranità nazionale nel popolo siciliano c’è. Ed è questa coscienza, soprattutto, che fu sempre in contrasto con lo Stato accentratore in quanto un tale Stato la mortificò sempre senza volerla comprendere e la represse violentemente ogni volta che essa ebbe espressioni più o meno vivaci. Quando venne il fascismo, il popolo di Sicilia ebbe moti di vera insurrezione morale perché esso esasperò al massimo grado l’accentramento costituzionale, perché creò quella uniformità di obbedienza mortificante, per la quale al centro era il dominio e alla periferia la schiavitù. Quando il fascismo menava vanto di provvidenze per le scuole, per la istruzione di colonie montane e marine, di beneficenza o assistenza ai bambini, ai vecchi e ai poveri, ecc., tutto questo non era che coreografia di Roma e di poche altre grandi città; ma nella nostra Sicilia non si vide nulla di tutto questo o forse qualche ombra di un’ombra, e forse anche soltanto quando veniva ad onorarci il duce; per il resto era miseria, erano lacrime, sangue ed oppressione. E nient’altro.
Questo fu il lievito della rivolta morale; e quando un tal sistema accentratore mortificante giunse alla follia della guerra, giunse proprio a distruggere tutto, allora quella coscienza prese forma concreta in quello che fu il Movimento indipendentista; che fu un Movimento di minoranza, sì, di pochi uomini, ma che costituiva, tuttavia, l’espressione dello stato d’animo collettivo. E credo di averlo definito onestamente.
Ma c’è ancora un equivoco da eliminare; l’equivoco diffuso che il Movimento indipendentista siciliano sia stato o sia contro l’Italia, che operi in odio all’Italia. Errore madornale! Io sono stato fra gli elementi direttivi del Movimento indipendentista; nessuno ama l’Italia come me, o meglio, più di me. Io per questa Italia ho dato il mio sangue nella guerra del 1915; ho fatto il mio dovere, e me ne vanto, ed è uno dei miei maggiori vanti. Ma io, come tanti altri, ho voluto dar vita a questo Movimento. Non c’è quindi niente contro l’Italia. Esso ha semplicemente posto sul tappeto un problema di giustizia e di libertà, perché non si può negare che tutta una zona dell’Italia si è sempre più arricchita, mentre un’altra zona, nella quale è compresa la Sicilia, sempre più si è immiserita.
È quindi un problema economico che si vuole risolvere; e i problemi economici non si risolvono con le paternali o con le parole patriottiche; bisogna trovare dei mezzi concreti. Io non credo, ad esempio, che vi sia al mondo un Ministro della giustizia o un Ministro degli interni che possa ottenere da un popolo di non violare le leggi con un bel discorso patriottico! Quando vi è il fenomeno della delinquenza (e vi è dappertutto) bisogna provvedere con la legge.
Ugualmente se v’è un fenomeno economico morboso per cui ineluttabilmente avviene un drenaggio di ricchezza a tutto favore, ad esclusivo vantaggio di alcuni col corrispondente danno di altri, lì bisogna fare la legge, perché non sarà mai coi discorsi patriottici ed elevando inni all’unità della Patria che noi vi troveremo rimedio. E questa legge invocava l’indipendentismo siciliano. Ho inteso dire dall’onorevole Nenni che prima di parlare di autonomie bisogna attendere che sia creata nei popoli meridionali una coscienza sociale altrettanto elevata come quella del nord Italia e che le riforme sociali portino le popolazioni del Sud allo stesso livello di quelle del Nord.
No, onorevole Nenni, se questo potesse avere un’importanza bisognerebbe che voi mi provaste come questo fenomeno potrà avvenire con l’amministrazione centralizzata. Io invece vi do il documento della storia più recente dell’Italia dal 1860 ad oggi, della storia che abbiamo vissuto. Che cosa è venuto dal progresso industriale, commerciale ed economico moderno alle popolazioni dell’Italia meridionale? Nulla, soltanto miseria! Il problema meridionale è stato studiato profondamente e si è tentato inutilmente di risolverlo nell’ambito dell’unità accentratrice. Quindi, onorevole Nenni, l’argomento non regge.
Tornando al Movimento indipendentista siciliano dirò che vi è un fatto che pochi conoscono in questa Assemblea ed è questo: che esso nacque da germe e linfa socialista. Furono i socialisti che ebbero l’iniziativa, e precisamente la Federazione socialista siciliana che si costituì a Palermo subito dopo l’entrata degli Alleati. Il più bel progetto di autonomia della Sicilia, il migliore, il più snello, il più largo e il più conseguente è proprio quello che è stato redatto e approvato dalla Federazione socialista siciliana. Di quella Federazione socialista siciliana io facevo parte e con me ne facevano parte uomini che per il novantacinque per cento appartengono oggi ai partiti socialisti, allora dicevamo al partito socialista italiano.
Non vi leggerò tale progetto. Accennerò solo che prevedeva: un sistema giudiziario completo, dalla infima magistratura sino alla Cassazione, un sistema di polizia regionale, un sistema scolastico che andava dalla istruzione primaria fino agli istituti superiori, senza pregiudizio del diritto dello Stato di creare in Sicilia istituti speciali d’istruzione tecnica o scientifica, prevedeva un dipartimento del commercio e dell’industria, un dipartimento delle poste, dei telegrafi e dei telefoni, un dipartimento delle finanze e del Tesoro e uno delle dogane il cui regime passava alla Regione. Prevedeva che la Sicilia rimanesse legata all’Italia con vincolo unitario (non si parlava nemmeno di Federazione) e la rappresentanza del Governo italiano con un suo Commissario avente diritto di veto sulle leggi ingiuste. La Sicilia avrebbe riscosso tutti i tributi con legislazione propria obbligandosi a pagare allo Stato un annuo contributo.
Era questo un progetto snello ed attuabile, mentre non si può dire lo stesso dello Statuto vigente del quale vedremo presto le insufficienze e l’incapacità funzionale. Proprio in questo momento mi arrivano notizie che il massimo delle entrate in Sicilia sarà di cinque miliardi circa, mentre cinque miliardi è già la spesa prevista per i soli impiegati. Mi fate il piacere di dire come deve funzionare questa autonomia?
Un tale Statuto dovrà essere modificato in ogni caso, anche se non lo sarà subito. Badate, però, che la modifica non può avvenire nel senso di diminuire le libertà della Sicilia; questo non si potrà mai più fare: sarebbe un salto nel buio, un errore irreparabile. Le modifiche devono rendere lo Statuto funzionabile, fino ad eguagliare almeno quel progetto della Federazione socialista siciliana, che forse avrebbe avuto altra fortuna, se non fosse avvenuto quello che è avvenuto e che dirò in breve.
Per adesso mi fermo sulla necessità che l’Assemblea Costituente ratifichi quel che è già stato concesso.
Per quanto riguarda il Parlamento di domani, esso dovrà per forza rivedere in senso positivo lo Statuto siciliano, altrimenti si avranno dei pronunciamenti locali secondo i bisogni che si andranno determinando giorno per giorno; e allora la situazione peggiorerà a causa dei conflitti che ne seguiranno. Molto meglio sarebbe rendersi conto che siamo di fronte ad una legge manchevole che bisognerà ampliare.
Si dirà: ma quando avremo ampliato lo Statuto, quando avremo previsto un tipo diverso di rapporti fra la Sicilia e l’Italia, quando avremo modificato i rapporti doganali per snellire e far più libero il commercio siciliano, non avremo creato una federazione? Abbiamo dunque paura delle parole? Sarà autonomia, sarà federazione, poco male. Non sono le definizioni quelle che contano.
Bisogna a questo punto rilevare l’inesattezza dall’affermazione che la Sicilia non è in grado di provvedere a se stessa. L’argomento sembra in contrasto con quanto dicevo prima. Ma se è vero che le entrate in Sicilia non possono oggi bastare par la sua amministrazione autonoma, è vero altresì che i dati tributari, da soli, non dimostrano la capacità finanziaria di un paese. Coloro i quali in quest’Assemblea hanno detto che in fondo la Sicilia ha un gettito di imposte minore di quanto l’Italia spende per essa non hanno detto nulla di rilevante. L’errore dell’enunciazione si rivela subito, osservando che oggi qualunque regione d’Italia ha un gettito minore di quanto lo Stato spende per essa per l’intuitiva ragione che il bilancio dello Stato è deficitario. Quindi se l’Italia spende per tutte quante le regioni 600-700 miliardi all’anno in più di quello che incassa, è segno che questo deficit viene distribuito fra tutte le Regioni; e potremmo dimostrare facilmente che la minor parte va proprio al meridione e alla Sicilia. Ma io mi fermo ad un altro concetto, che mi sembra ancor più importante: la questione della Sicilia non va soltanto esaminata dal punto di vista del gettito delle imposte, ma, soprattutto, dal punto di vista economico. Se oggi la Sicilia ha un gettito meschino di tributi, questo significa che il reddito dei siciliani è misero e lo è perché si è immiserito o, per lo meno, non è aumentato nel corso di questi ultimi 87 anni, come invece è avvenuto in altre Regioni. Si tratta dell’effetto di un male che dobbiamo curare, e che come tale non può divenire motivo per negare alla Sicilia qualsiasi speranza di soluzione.
Guardiamo il fattore economico. Prendiamo un dato. La Sicilia è un paese che nel 1945 ha nella sua bilancia commerciale una eccedenza di nove miliardi 935 milioni; e nel 1946, primo semestre, una eccedenza di ben 7 miliardi e 842 milioni. Ma vi è di più: la Sicilia ha negli Stati Uniti d’America qualche cosa come quattro milioni di emigrati, i quali hanno inviato ai loro cari, cioè alla Regione, nel 1945, ben 7 milioni 716 mila e 640 dollari (notate che i grandi prestiti a cui noi corriamo dietro sono appena di 100 milioni di dollari) e nel primo semestre del 1946, 3 milioni 852 mila dollari. Ora questi sono dati che non giocano negli argomenti degli antiautonomisti, ma son dati economici che, in un sistema di autonomia più ampio, possono essere utilizzati dalla Sicilia per il suo progresso industriale e agricolo, che, elevando il tono del reddito, produrrà ben più largo gettito di tributi e con esso la possibilità di coprire tutte le spese pubbliche.
Ritornando al progetto d’autonomia della Federazione socialista siciliana, io devo dirvi, come ho promesso, perché essa perdette la iniziativa del Movimento indipendentista che era stata, indubbiamente, un suo grande titolo verso la Sicilia. Ad un certo punto si costituì a Bari, o a Salerno – non ricordo esattamente – il partito socialista. Per essere preciso nella esposizione – perché questo interessa molto i partiti di sinistra – mentre la Federazione socialista siciliana si costituiva a Palermo, nella stessa Palermo si costituiva una piccola, minuscola sezione di socialisti nuovi, salvo pochi, che non avevano avuto contatti coi vecchi socialisti della Federazione; era un piccolo fungo, che veniva fuori localmente, proprio in opposizione al vecchio socialismo della Federazione socialista siciliana; ed in quanto la Federazione assunse atteggiamento autonomista o, se volete, indipendentista, quella sezione diventò antiautonomista ed antindipendentista, solo perché si faceva una questione di bottega o di concorrenza ai vecchi uomini del socialismo antifascista.
Noi ci battemmo decisamente perché l’iniziativa del Movimento indipendentista siciliano restasse al socialismo. Ma ad un certo punto arrivava da Salerno un ispettore del partito recante una nota della direzione, nella quale si diceva che non potevasi consentire che un socialista fosse anche indipendentista, perché i termini erano antitetici.
VERNOCCHI. Nel senso separatista.
VARVARO. Nel senso indipendentista.
VERNOCCHI Noi abbiamo parlato sempre di separatisti, mai di indipendentisti; questo lo posso assicurare, perché io ero nella direzione del partito.
VARVARO. Io dirò che l’ispettore venne nel mese di marzo o aprile del ’44 e che il progetto di autonomia siciliana era del 18 gennaio del 1944; e quel progetto non era certamente separatista, perché prevedeva non solo l’unità d’Italia, ma la presenza in Sicilia, accanto al governo, d’un Commissario del governo centrale.
VERNOCCHI. Non era da noi conosciuto; eravamo ancora divisi dalla Sicilia.
VARVARO. È stata una disgrazia, una sventura. Certa cosa è che noi socialisti della Federazione socialista siciliana, che avevamo, al tempo stesso, la fede nel socialismo – del resto mai venuta meno e che mai verrà meno – e la fiducia di combattere una battaglia nobile per la nostra terra dimenticata, fummo messi colle spalle al muro, fummo messi in condizione di dover rinunziare ad una delle due fedi. Io pensai che restare nel partito socialista, ubbidendo all’ingiunzione di lasciare quel Movimento, significava volgere le spalle alla battaglia di redenzione della Sicilia, mentre continuare questa battaglia e dover subire di non poter far parte del partito socialista non significava abbandonare la fede nel socialismo che nessuno ci può togliere e non consiste di certo in una tessera. Perciò ho preferito rimanere nella battaglia per la Sicilia con l’amarezza nel cuore. Io sono, peraltro, troppo una modesta persona e quindi è stato poco male per il partito socialista che io non abbia potuto restare con esso.
VERNOCCHI. Ritornerai.
VARVARO. Ma il grave fu questo: aver perduto l’iniziativa di quel Movimento indipendentista che poteva essere quanto di più nobile si possa costruire; e, in un certo modo, aver permesso che elementi reazionari stratificatisi nelle sue file – mi si permetta l’apparente improprietà del termine – consumassero il tentativo di farsene arma politica contro la luce del progresso democratico e contro lo stesso socialismo. Ecco qual è stato l’errore politico; errore che io ho subito più di tutti, e che mi ha costretto ad altra più aspra battaglia.
Ma non posso e non credo di dover continuare su questo argomento che la benevolenza del nostro Presidente mi ha permesso di trattare a lungo, e che esula un poco, ma non troppo, dall’oggetto che noi trattiamo. Mi ci fermerò solo un momento ancora per dire che io ho cercato di riprendere queste forze indipendentiste, che sono repubblicane, che sono socialiste, che sono democratiche, queste forze che non abbandoneranno la loro battaglia per la Sicilia, ci tengo a dirlo, ma per una Sicilia che vuole, con le libertà costituzionali, anche ed insieme le più ardite riforme sociali per elevare le miserevoli condizioni del suo popolo lavoratore ed eroico.
L’onorevole Assennato, che io ho ascoltato con molta attenzione e simpatia, ha osservato che la maggior parte degli oratori inscritti a parlare sulle Regioni è meridionale. Veramente è un fatto notevole.
La spiegazione, secondo me, è questa: l’Italia non ha potuto mai risolvere il problema meridionale. Non dirò che non ha saputo risolverlo, perché farei torto a uomini di fama riconosciuta e preclara, che hanno combattuto per una soluzione di essa, in questa stessa aula, strenue e indimenticabili battaglie. Nessuno di noi può ammettere che mancasse ai deputati e agli uomini di Stato, che per decenni affrontarono la questione meridionale, il talento per risolverla. Se non la si è risolta, vuol dire che qualche cosa lo ha impedito, qualche cosa che ha superato l’intelligenza e la decisa volontà degli uomini. Ed io penso che questo impedimento sia da ricercare proprio nel sistema accentratore dell’Amministrazione dello Stato. È proprio ed unicamente questo che, privando le popolazioni meridionali di qualsiasi iniziativa, faceva perder loro anche la visione dei loro problemi e dei loro stessi interessi.
Adesso, invece, tutti cominciano a capire. È bastato che le autonomie locali fossero progettate, perché tutti cominciassero a conoscere i loro problemi ed a proporne soluzioni concrete.
Certo non vi è dubbio che il problema regionale è una maniera con cui risorge la questione meridionale. In sostanza oggi la questione meridionale si ripresenta sotto la fisionomia e l’aspetto autonomistici. È questa una constatazione decisiva che noi dobbiamo affrontare. Vorremo noi dell’Assemblea Costituente chiudere la porta contro le aspirazioni dei popoli meridionali di risolvere finalmente il tormentoso problema e dar loro la sensazione che sono condannati ad un’eterna inferiorità? Io credo che questo noi non vogliamo. Ed allora, facciamo sì che questi popoli possano tentare da se stessi un supremo sforzo verso una migliore giustizia economica e civile, ciò che è poi, se non l’unica, certo la loro più grande speranza. (Applausi – Congratulazioni).
PRESIDENTE. È iscritto a parlare l’onorevole Carlo Cremaschi. Ne ha facoltà.
CREMASCHI CARLO. Onorevoli colleghi, ormai credo che il problema dell’autonomia regionale sia stato ampiamente e diffusamente trattato. Credo che sia stato ampiamente trattato anche per il fatto che molti di coloro che erano iscritti a parlare vi hanno rinunciato, e da ciò si vede che ritengono che tutto sia stato detto. Io che non ero iscritto e che non intendevo iscrivermi, e che, anzi, avevo solo il desiderio di sentire tutti gli iscritti, penso oggi invece di portare sia pure un modesto contributo alla discussione cercando di risolvere i dubbi che io stesso ho, convinto come sono che nessuno dei dubbi degli altri (io li chiamo dubbi ma per i singoli non sono dubbi, sono certezze) potranno essere risolti per quante discussioni si facciano qui dentro, ché ormai ognuno ha preso il suo atteggiamento e non si arrenderà.
Critiche sono state fatte al progetto di autonomia regionale da tutte le parti.
L’altro giorno mi è capitato d’incontrarmi con un mio vecchio maestro di università, professore di geografia, con cui avevo studiato appassionatamente questa materia nel senso più profondo della parola, con cui avevo studiato i problemi dei popoli, oltreché i problemi della linguistica. Ora quest’uomo interrogato da me sul problema della Regione mi rispose senz’altro: «Bisogna accettarlo, però io l’accetto con tremore perché vedo che può essere un ostacolo a quella federazione europea a cui io penso».
Mi ha lasciato perplesso questa obiezione del mio maestro e ho dovuto faticare per dimostrare che questa sua obiezione non reggeva. Ma vedremo in seguito come si risponde ad una obiezione simile.
Un’altra obiezione mi è capitato di cogliere da miei colleghi fuori di quest’aula. Mi hanno detto: «Capirei l’ente regionale se non ci fosse in precedenza lo Stato, ma dal momento che c’è lo Stato in Italia perché tornare alla autonomia regionale?»
Mi hanno detto: «È un passo indietro. È un regresso». Ora, per rispondere a queste, che sono alcune delle tante osservazioni che sono state mosse qui o fuori di qui al progetto di Costituzione, credo sia necessario studiare profondamente la vera natura del decentramento: vederne effettivamente il valore nella realtà è compito di altri colleghi che mi seguiranno; a me interessa vederne alcuni riflessi nella storia, con riferimenti alla psicologia del popolo e degli individui. Dicono gli avversari del decentramento: «perché tornare indietro nella storia, visto che c’è lo Stato, perché tornare alle Regioni?» Credo che valga la pena di guardare profondamente l’evoluzione storica, prendendo come esempio la storia della letteratura di qualsiasi popolo.
Sorge dapprima la poesia epica: così in India coi poemi del Veda e del Rigveda, così in Grecia con i poemi di Omero, ed in Roma, con il Bellum poenicum di Nevio e con gli Annales di Ennio, così in Spagna col Cid Campeador, e finalmente con la Divina Commedia, in Italia, la grande epica di tutta una umanità, in cammino verso i mondi ultraterreni. In un primo tempo sorse quindi la poesia epica, la poesia dei popoli, la poesia dell’oggettività; solo più tardi sorgerà la lirica, la poesia dell’individualità. Certo è difficile stabilire dove l’epica finisca, e dove cominci la lirica; ma non questo problema noi ci poniamo; constatiamo un fatto: prima nacque l’epica, poesia della collettività, poi sorse la poesia lirica, quella dell’individuo, il vero cantico della personalità individuale.
Per noi italiani la cosa non è tanto semplice perché da noi il nostro individualismo molto accentuato ci porta a confondere i due momenti dell’epica e della lirica. Ma si può dire che anche in Italia l’epica precedette la lirica, e credo che la stessa cosa accada anche per la politica, che è una forma di poesia, la poesia del popolo. Credo che l’epica sia rappresentata dall’accentramento che precedette il decentramento lirico del popolo italiano. Da questo esempio come da tanti altri si può dedurre che il decentramento non rappresenta un regresso rispetto a uno stadio precedente, ma forse, se non sono troppo presuntuoso nel mio giudizio, forse potrebbe rappresentare uno dei tanti sviluppi logici della dialettica della storia. Ma come si spiega questo movimento evolutivo della storia?
È stato detto e ripetuto in Italia, che si era fatta la Nazione, ma non si erano fatti i cittadini, non si erano fatti gli italiani. Ciò può essere anche vero. Certamente però è strano, perché se vi è un popolo che è individualista questo popolo è il nostro, insofferente di disciplina, di imposizioni, poco incline agli adattamenti. Non vogliamo essere un gregge, ci ribelliamo all’inquadramento che si usa e si può usare con le pecore. Ognuno si sente nel proprio io qualcosa di grande; ognuno di noi, sia detto con buona pace dei colleghi, sente in sé almeno la possibilità di diventare Presidente del Consiglio. Questa personalità prepotente che è in ciascuno di noi, ha dato alla storia esempi fulgidi di intraprendenza e di genialità. Guardate questo popolo nel corso della storia, piegato da alterne vicende, quasi soffocato ed ucciso, non mai vinto, vedetelo risorgere dal pianto e dalle rovine, e, cantando il suo sublime inno di vita, riprendere come la sua primavera, a rifiorire nel tempo con le sue creazioni. Siamo individualisti perché siamo dotati di una prepotente personalità, ma non siamo isolazionisti. Amiamo unirci socievolmente, nei nostri Comuni, nelle nostre Provincie, nelle nostre Regioni, nella Patria nostra, l’Italia, per poi unirci ancora di più in un insieme ancora più vasto e potente, in una federazione di Stati, che finalmente attui il sogno del Poeta: «Tutti fatti sembianza di un solo, – tutti figli di un solo riscatto, – in qual ora e in qual parte del suolo – trascorriamo quest’aura vital, – siam fratelli, siam stretti ad un patto, – maledetto colui che l’infrange – che s’innalza sul fiacco che piange – che contrista uno spirto immortal».
Così il nostro sogno di impenitenti regionalisti: non una rottura, non una frattura, non un frazionalismo, ma anzi l’unione, l’unità nell’armonia, in questa poesia di vita.
Voi ricordate, nel secolo primo avanti Cristo, il grido di Lucrezio: non esiste che l’atomo? Poi si è scoperto che l’atomo è un sistema, quasi un piccolo sistema solare, con elettroni, neutroni e protoni, e che questa compattezza dell’atomo sta nell’armonia, nell’avvicinarsi, nel giro vorticoso di queste particelle che lo compongono. Così, per noi in questo momento, in questo tragico momento, in cui la civiltà è così avanzata, si eleva un grido: non esiste che l’atomo; così noi sentiamo che l’unità di uno Stato coordinato non si può realizzare se non attraverso una armonia di parti, un compenetrarsi, un aiutarsi, un dividersi i compiti, un collaborare tutti insieme, fraternamente, concordemente: Comuni, Provincie, Regioni, Nazione, per quella grandezza ancora più vasta che potrebbe essere la Federazione.
Così rispondevo al mio vecchio professore di geografia incontrato per caso qui a Roma.
Ma ci si dice che noi vogliamo rompere l’unità di Italia, ci si è chiamati frammentaristi, quasi che un feroce iconoclastismo avesse invaso le menti, in questo dopo guerra tormentato. Ma, è possibile questo? Onorevoli colleghi, raccoglietevi un momento in voi e meditate su questo fenomeno regionalistico, che non è nato soltanto in questo dopo guerra: cercatene le cause. Qualcuno ha cercato di trovare le cause di questo fenomeno nella volontà individualistica, che è propria degli italiani. Io non credo che soltanto questa sia la causa atta a spiegare il fenomeno. Voi ricordate, onorevoli colleghi, quando fuggiaschi sui monti o rinchiusi in quattro mura, noi combattevamo vivendo nella speranza di un domani migliore, di un domani di libertà? Ebbene, notate un particolare: accanto al sardo combatteva il lombardo, accanto al siculo c’era il bergamasco. E come è sorta l’idea di un decentramento, di un regionalismo, dopo questa fraternità d’armi, dopo questa comunanza di affetti e di sforzi per dare all’Italia una libertà? Da questa guerra, onorevoli colleghi. Dal modo come questa guerra è stata condotta, è sorta l’idea del regionalismo e dell’autonomia; anzi, diciamo meglio, è risorta. Fino a quando l’accentramento aveva soffocato, inquadrato, eguagliato tutti, gli spiriti prepotenti non potevano allontanarsi dalla vita politica; ma quando la lotta ha messo in luce la genialità, le qualità più genuine del nostro popolo, allora si è risvegliato in noi il senso di un dovere sopito, ma non morto, si è sentito il vero valore della parola «res publica», per cui ognuno sente il desiderio di portare il contributo proprio all’amministrazione della cosa pubblica. Frazionamento questo o potenziamento, onorevoli colleghi? Mi appello alla vostra sincerità. Ognuno di voi, per esperienza, può e deve dire come l’esser piovuto qui in mezzo a tanti che provengono da tante Provincie, questo ha rappresentato per noi, e forse rappresenta ancora oggi, un inceppamento. Quanto furore sacro si disperde e muore, ogni giorno, nelle morte gore del centralismo; quanti strali noi non scagliamo contro la burocrazia, quel capro espiatorio obbligato di tanta lentezza?
Ma perché non vogliamo essere sinceri ed ammettere che la lentezza e la remora è rappresentata proprio da questa fatale lontananza dei problemi dal centro? Quando il problema urge, quando preme con la sua necessità e immediatezza, e fa sentire la sua attualità, allora lo si può risolvere con tempestività e con senso di concretezza in loco. Queste ragioni io ritengo che non siano le sole; ce ne sono molte altre, che sono state richiamate da molti colleghi. Il problema, del resto, non è soltanto di questi tempi: il Mazzini si pronunziava già in favore della Regione; poi vi fu il progetto del Farini del 1860, ripreso dal Minghetti, progetto che decadde su relazione del Tecchio una settimana dopo la morte di Cavour. Poi vennero le guerre, poi il dopoguerra, poi il fascismo, e dopo il centralismo fascista la storia ci riporta a questo desiderio di far rinascere l’autonomia regionale, ci riporta a questa concreta realtà che ci ricollega ai migliori uomini del Risorgimento. E cerchiamo allora di comprendere le voci che ci provengono dalla storia, di comprendere questo problema e di risolverlo.
Per quanto riguarda la Provincia si è detto qui che la Provincia esiste soltanto nella realtà dei dati statistici, e che non è qualche cosa di concreto. A me pare che non sia proprio così. Lo si può vedere, senza ricollegarsi al nome di provincia che, secondo Festo, deriva dal fatto che «Provinciae appellabantur a quod populus Romanus eas provicit, id est ante vicit», dall’antichità dell’istituto «provincia», come si può vedere dal fatto che nello Stato pontificio, fin dal secolo XIII-XIV, ogni provincia aveva un «rector», e successivamente lo Stato sardo, la Val d’Aosta, la Val di Susa ebbero delle circoscrizioni militari e giudiziarie corrispondenti agli attuali circondari. Nel Lombardo-veneto l’ordinamento provinciale si affermò nel secolo XVIII, ed il Granducato di Toscana si divise in compartimenti, che poi divennero distretti. Noi vediamo, in sostanza, che la provincia è una realtà storica anteriore all’unità d’Italia, ma è anche una realtà etnica, linguistica, economica. Noi sappiamo che il centro provinciale è sorto anche per ragioni economiche; e che le provincie hanno anche tradizioni etniche, linguistiche e storiche. Per questo noi crediamo che non si possa dire che la Provincia esiste soltanto nei dati statistici. Essa è una realtà, concreta e palpitante. E non è campanilismo questo, è senso di unione fra coloro che sentono di difendere gli stessi interessi, fra coloro che parlano la stessa lingua, e che sono affratellati da una stessa storia. Ed allora, fare scomparire completamente la Provincia, oppure togliere alla Provincia quelle che saranno le sue caratteristiche, per demandarle alla Regione, mi pare un nonsenso, perché questo non sarebbe un decentramento ma un accentramento. La Provincia è di per se stessa un elemento di decentramento.
D’altra parte, se sfogliate i dati statistici delle 91 Provincie italiane, voi vedrete che la superficie va da un massimo di 9228 chilometri quadrati nella provincia di Cagliari ad un minimo di 984 chilometri quadrati per la provincia di La Spezia; ma la media nazionale della superficie della Provincia si mantiene sui 3265 chilometri quadrati, un’entità dunque abbastanza grande dal punto di vista della popolazione e degli interessi economici, e tale da avere diritto di resistere a questa lotta che le si fa.
Io credo quindi che si debba da parte di tutti essere concordi nel voler mantenere la Provincia, nel voler cioè articolare la nostra autonomia sulla Provincia, conferendo ad essa alcuni compiti oltre quelli che già possiede.
Un’altra osservazione. Proprio per quella paura, proprio per quell’obiezione che è stata accennata da molti, secondo cui la Regione potrebbe rappresentare il frammentarismo dell’unità italiana, io ritengo che si dovrebbe bandire l’appellativo di Parlamento regionale che noi vogliamo dare a quel consesso che dovrebbe reggere la Regione, il quale invece potrebbe molto più opportunamente chiamarsi Consiglio regionale, con una Giunta composta di assessori.
Il Parlamento infatti deve essere uno solo, i deputati devono essere soltanto i deputati del Parlamento nazionale, i Ministri e il Governo debbono essere solo quelli centrali. Così, anche in queste che possono sembrare delle questioni di lana caprina, ma che pure hanno la loro importanza e il loro valore, perché, anche se si tratta di parole, le parole in certi casi possono assumere veste di realtà, noi veniamo ad evitare delle confusioni che potrebbero anche nuocere.
Se poi verrà accettata anche un’altra proposta, che ho sentito formulare da alcuni colleghi, che cioè non si facciano delle elezioni appositamente per i Consigli regionali, ma che vengano elette le Giunte provinciali, le Giunte provinciali riunite formino il Consiglio regionale, noi avremo allora anche semplificato di molto il problema dal punto di vista rappresentativo ed elettorale.
Se così faremo, noi potremo veramente andare incontro a questa che è un’innovazione sentita perché risponde ad esigenze storiche e psicologiche, con animo fidente e sereno.
Ma è stata mossa l’ultima obiezione: perché il decentramento deve essere instaurato proprio oggi che ci troviamo in una terribile disfunzione dal punto di vista degli organi amministrativi? Ebbene, io credo che sia proprio opportuno oggi addivenire a questa riforma, appunto perché c’è questa disfunzione; infatti dal momento che si deve procedere ad una riforma di tutto il complesso strutturale, è opportuno appunto che venga in questo momento innestata questa innovazione.
Se noi riusciremo a far passare questo progetto di decentramento e di autonomia regionale, se noi riusciremo effettivamente a mettere a contatto i cittadini con la cosa pubblica, ad innestare ciascuno di noi, ciascun italiano, nell’interesse della società, allora noi avremo gettato profonde basi per la democrazia. Se invece continueremo sulla vecchia strada del centralismo, buttando ai margini le popolazioni, non creando questi interessi, non cercando di sollecitare tutte le forze che possono contribuire alla rinascita della Patria, allora noi avremo demeritato della Patria.
Cerchiamo, onorevoli colleghi, di deporre tutte le nostre intemperanze faziose; ritorniamo al concetto iniziale: si era fatta l’Italia un tempo e non si erano fatti gli italiani; oggi, con sacrificio, con sangue, abbiamo rifatto l’Italia: onorevoli colleghi, cerchiamo di fare anche gli italiani. (Applausi – Congratulazioni).
PRESIDENTE. È iscritto a parlare l’onorevole Morelli Renato. Non essendo presente, si intende che vi abbia rinunciato.
Seguono nell’ordine gli onorevoli Romano, Perlingieri, Cannizzo, Ruggiero, Rognoni, De Palma, Di Giovanni, Lopardi, Persico. Non essendo presenti, si intende che abbiano rinunciato a parlare.
È iscritto a parlare l’onorevole Roselli. Ne ha facoltà.
ROSELLI. La questione, onorevoli colleghi, che stiamo trattando, credo sia risolubile al di là di ogni divergenza in una maturazione comune, concorde, con senso di equilibrio. Si tratta di creare una costellazione di forze nuove, di enti nuovi, che vogliamo introdurre nella vita amministrativa e politica dello Stato. Si tratta di trovare i loro limiti, il modo di regolare i loro rapporti, di eliminare eventuali contrasti, in modo da permettere ad ognuno di essi una vita, uno sviluppo, che chiami tutti i cittadini alla responsabilità della storia della Nazione: responsabilità che comincia dalla fabbrica, dall’impresa in cui si lavora, dalla casa in cui si vive, arriva al Comune, sale alla Provincia, alla Regione, alla Nazione, all’internazione, seguendo una collana di enti che è già stata citata in questa Assemblea. Un equilibrio, quindi, politico, affinché di tale questione non si faccia il monopolio di un partito contro altri partiti, ma se ne faccia una ricerca comune, un equilibrio di valutazione, schivando quelle frasi che qui si sono dette: «La Provincia non esiste!». Io vengo dalla Provincia di Brescia, che dal ’400 in vecchie carte della Repubblica veneta è già delimitata nei suoi attuali confini: dal passo del Tonale, fra i due laghi d’Iseo e del Garda, fra l’Oglio e il Mincio, delimitata a nord dalle Alpi e a sud dal Po; un territorio di 170 Comuni, che ha una vita così omogenea, un dialetto così caratteristico, uno sviluppo economico e sociale così chiaro, un equilibrio insomma che ancora è conservato fra centomila lavoratori dell’industria e centomila lavoratori dei campi. Un terzo della Provincia è montano, un terzo collinare, un terzo è di quella feconda pianura padana, ricca di produzione agricola, di messi e di bestiame. Ebbene, pensare che questa Provincia non abbia radici storiche, un’omogeneità e caratteristiche sue nel clima della Lombardia è assurdo. E questo ci deve ricordare anche a non fare in modo che la Regione opprima questa vita provinciale, perché in base ad un articolo finale di questo progetto, se le Provincie si sentiranno soffocate, avremo in Italia ottanta Regioni invece delle sedici caratteristiche, perché ogni Provincia soffocata avrà in sé gli elementi per farsi Regione. Per esempio, la Provincia di Brescia, che pure è lombarda e legata a Milano, se Milano dovesse sviluppare un suo senso autocratico, accentratore, immediatamente chiederebbe di poter vivere lavorando da sola. Orbene, questo lo abbiamo già visto, per esempio, in un decreto del prefetto di Milano, dopo la liberazione, che impedì e proibì a tutti i lavoratori di entrare nella Provincia di Milano. E si capisce: si trattava di difendere dalla disoccupazione i milanesi, di permettere ai milanesi di andare al lavoro. Ma se in un decreto come questo, pur originato da giusti motivi, non si contemperano le esigenze delle altre Provincie, l’Italia si dividerà in compartimenti stagni.
Questo equilibrio che andiamo ricercando, dato che dobbiamo fissare nuovi termini alle Regioni, deve essere affrontato qui in sede sostanziale, fondamentale, a grandi linee, e nella prossima Assemblea, poi, in senso più concreto, più dettagliato, in termini legislativi, in termini geografici, in termini di organizzazione della vita della Nazione e in termini amministrativi. A tale proposito si parla spesso dello Stato. Io mi chiedo se noi ci siamo accorti dal nostro posto che si ha ancora paura dello Stato, che c’è ancora il senso di timore e di diffidenza per lo Stato. Basta aver visto le Commissioni intere che vengono a Roma a chiedere qualche cosa ai Ministeri, basta sentire la delusione quasi perenne che esse provano quando entrano in contatto con gli organi governativi, per capire che il popolo nostro è pieno di attività, ha delle cose da lanciare nel futuro, ha onesti interessi da difendere nella sua vita quotidiana, ma ha ancora il senso dell’oppressione statale. Con questo non voglio dare al termine tutto il peso che vi sarebbe linguisticamente conferito, ma voglio dire che c’è il senso di uno Stato «x», d’uno Stato divinità inaccessibile che si trova nei Ministeri e dinanzi a cui i cittadini non si trovano a loro agio.
Io ritengo che i concetti dì decentramento, di autonomia, di indipendenza siano concetti relativi. Ogni ente è indipendente dall’altro. Ma non si tratta di esasperare le differenze e l’assolutismo fra ente ed ente. Come la famiglia, così la nazione è una somma di elementi: una somma di Regioni, e la Regione una somma di Provincie e la Provincia una somma di Comuni e il Comune una somma di famiglie. Però è una somma che non sta tutta negli addendi, una somma alla quale si aggiunge un elemento unitario, un elemento che nasce dal sentimento e dal bisogno. L’elemento sentimentale nasce dalla religione, dal dialetto, dalle tradizioni, dai problemi e dai costumi locali. Il bisogno è rivolto alla conservazione, all’esaltazione e allo sviluppo della persona umana. È un bisogno oggi, nei nostri Comuni, che si manifesta soprattutto con la ricerca del lavoro e col miglioramento locale delle condizioni dei lavoratori e con i lavori pubblici nei quali il nostro popolo vede da una parte una garanzia contro la disoccupazione e dall’altra parte la possibilità di migliorare il tenore di vita ed il livello sociale dei Comuni, delle Provincie e via dicendo.
Per quanto riguarda questa parola decentramento, io ritengo che non esprimiamo esattamente il pensiero. Si tratta in realtà di trovare dei nuovi centri, di impiantare delle forze che erano magnetizzate e quasi oppresse, quasi vincolate, e costrette da un centro che abusava della sua posizione di centro; si tratta in realtà di creare una costellazione di equilibrio fra le varie forze, equilibrio statico per quanto riguarda l’essenza delle cose, ma equilibrio dinamico per quanto riguarda l’espressione della vita. E dobbiamo preoccuparci molto, dobbiamo far sì che questi enti lascino spazio libero agli uomini che vi abitano e ai popoli affinché essi possano muoversi ed agire in una organizzazione in cui noi vogliamo che la politica nasca dal focolare, in cui vogliamo che gli uomini salgano dai Comuni alle responsabilità nazionali.
Le strade che questa Costituzione ha scelto a tale fine sono due: una che passa per le elezioni nazionali (il popolo elegge la sua Assemblea); l’altra è quella che passa attraverso i Consigli comunali ed i Consigli provinciali ai quali sarebbe bene aggiungere le forme rappresentative o elementi rappresentativi degli enti produttivi, economici, sindacali, culturali ecc. Ai Consigli provinciali e regionali è bene aggiungere tutte le rappresentanze in cui si organizza la vita provinciale in senso economico e culturale od altro. Da questo Consiglio regionale si prevede, mi pare, un apporto a quella che dovrebbe essere la seconda Camera, che dovrebbe essere integrata anch’essa da elezioni popolari. Io ritengo che una organizzazione di tal genere, chiaramente fatta conoscere al nostro popolo, potrebbe essere utile alla vita nazionale e potrebbe permettere agli uomini, attraverso questo sistema elettorale di primo e di secondo grado, di esprimere veramente la loro volontà. Naturalmente, quando noi definiamo queste linee non possiamo pretendere di avere definito l’ordinamento regionale che è un ordinamento che richiede tempo, esperienza e collaborazione; e richiede quell’applicazione graduale, non transitoria, delle sue parti fondamentali: transitoria forse semmai in qualche parte accessoria. Richiede inoltre la concordia comune. Ebbene, con questa dinamicità che esige dagli elementi che localmente dovranno stabilire e definire la loro volontà, io ritengo si ottenga un elemento di sana agitazione politica nel nostro Paese, che possa rappresentare qualche cosa di nuovo.
Poiché l’ordinamento nuovo, come tutto il resto della Costituzione scritta sulla carta, dovrà tradursi in opera, esigerà questo lavoro avvicinato, questo lavoro che passi da una visione macroscopica ad una visione normale, ed esigerà che non si porti l’esasperazione; che non si porti, nella campagna elettorale, l’ambizione, l’egoismo, la tendenza all’egocentrismo, ma si porti quella feconda gara che tutti cerchiamo per il bene della Nazione.
Mi pare che i cittadini abbiano conquistato la libertà allo Stato, ed è giusto che lo Stato dia questa libertà e la faccia correre negli organi della Nazione. Ricordo un esempio per far vedere come sarebbe consigliabile che lo Stato si limitasse a dare norme generali nelle sue leggi. Ricordo quanto si è patito e si pena, per esempio, in materia di consigli di gestione; e come si sia detto, anche altre volte, che non è possibile che da Roma parta una legge che diriga tutto sui consigli del lavoro, ma come sia necessario solo l’indirizzo generale; e come sia necessario che localmente le Provincie, le Regioni, le fabbriche e le aziende, di diverso ordine, organizzino questa penetrazione della partecipazione della responsabilità dei lavoratori nelle aziende.
Vorrei soffermarmi un momento sull’esame del progetto. Nell’articolo 107 sono saltate le Provincie: gli emendamenti invece portano questa parola. Ma occorre completare la definizione, perché nell’articolo 121 si parla del «Comune autonomo», ma non si parla di Provincia. Quindi non basta introdurre la Provincia nell’articolo 107, ma bisogna dire che cosa è la Provincia.
Per quanto riguarda gli articoli 109 e 111, col lungo elenco, in parte criticabile, di materie, è importante che siano interpretati con molta cautela e buon senso. Ad ogni modo i principî fondamentali stanno bene. Si riconosce alla Regione una certa possibilità di legislazione primaria. Non si può pretendere che questo articolo contenga tutto, ma non comprendo, per esempio, perché l’artigianato sia escluso dalla possibilità della legislazione primaria della Regione. In sostanza mi pare che l’articolo sia da interpretare in senso indicativo, più che limitativo, esatto ed esclusivo.
Mi pare preoccupante l’articolo 117, che prevede un estremo urto fra la Regione e lo Stato, e mi sembra pericoloso che si debba così facilmente prevedere un urto di questo genere, che si debbano prevedere casi di così gravi violazioni di leggi, per cui lo Stato debba ricorrere allo scioglimento del Consiglio regionale o alla deposizione del presidente. Quando effettivamente si verificasse tale scontro, sarebbero da vedere le conseguenze. Non mi pare possibile lasciare arrivare la Regione alla possibilità di così gravi violazioni per farla trovare improvvisamente di fronte all’urto con lo Stato. Perché, delle due l’una: o il Consiglio regionale ha ragione, e allora in base alla Costituzione ha il diritto di opporsi; o ha torto e allora io chiedo come può arrivare ad aver torto con una facilità così grande quale potrebbe essere costituita nel risultato dell’articolo 117. Ritengo che siano necessarie delle cautele, delle filtrazioni per impedire che il Consiglio regionale arrivi ad una situazione così grave.
Quanto all’articolo 118, non mi sembra del tutto chiara l’organizzazione: si tratterebbe di trovare una formula più espressiva.
L’Assemblea regionale prepara le norme da consegnare al Governatore, il Governatore deve mettere il suo visto ed esprimere il parere, in modo che il Governatore o il Commissario sia egli stesso già investito di una sua responsabilità nel giudizio dell’atto governativo. I disegni di legge dovrebbero così passare al Governo, e questi li dovrebbe restituire con la convalida perché diventino esecutivi. C’è poi la possibilità d’impugnazione da parte del Governo davanti alla Corte costituzionale od all’Assemblea Nazionale.
Sono i casi di divergenza. Mi pare che questa organizzazione dovrebbe essere un po’ chiarificata; e così pure la questione degli statuti regionali di cui parlano gli articoli 119 e 124, in quanto l’Assemblea Nazionale dovrebbe dare uno statuto che fosse d’indirizzo generale alla Regione, lasciando larghi limiti per comprendere le esigenze locali. Ma l’indirizzo occorre, e potrebbe essere dato da uno statuto modello.
Quanto all’articolo 123, ritengo che sia necessario definire le Regioni d’Italia, e sono lieto di vedere come ci si sia fermati veramente, tranne qualche piccolo caso, alle Regioni storiche fondamentali. Non mi parrebbe conveniente lasciare adito ad aggiunte non ben ponderate. Mi parrebbe pericoloso uscire dalla situazione tradizionale italiana; questa stabilizzazione delle Regioni forse esigerebbe una leggera variazione dell’articolo 125, in quanto il minimo di 500 mila abitanti lascia prevedere la possibilità di fondare 90 Regioni teoriche; quindi ritorneremmo alle 90 Provincie.
Altro argomento, estremamente affascinante, ma molto difficile: quali l’indirizzo e la posizione del proletariato nella questione della Regione?
Come viene o come verrà a trovarsi il proletariato in questa nuova istituzione?
Il proletariato è costituito di famiglie e di uomini, che vivono di lavoro precario, con una retribuzione che dovrebbe essere proporzionata alla quantità di lavoro fornita. Esso è la base della vita nazionale italiana ed attende non solo il suo riscatto e la sua redenzione, ma di portare avanti la storia d’Italia, di cui è stato ed ancora sarà elemento fondamentale.
Come sempre è stato affermato, esso è stato portato nelle trincee, senza nulla aver chiesto. Questo proletariato deve poter guidare la sua storia.
Evidentemente, il senso di classe è forte nel nostro proletariato.
Si può presentare questo problema: la classe proletaria – operai, contadini, piccoli impiegati, piccoli proprietari, artigiani; tutta gente di lavoro, di mestiere – condurrà meglio la sua battaglia, condurrà meglio la sua storia con uno Stato centralizzato o con un fronte frammentato, che gli dia possibilità di frammentarsi nei Comuni, nelle Provincie e nelle Regioni?
Se si trattasse di scegliere, se ci fosse una alternativa, per cui una scelta escludesse l’altra, ritengo che con l’unità e con la comunità dello sforzo il proletariato sarebbe meglio salvaguardato. Ma il senso di massa, il fronte unico è salvaguardato dall’Assemblea Nazionale e dalla diretta possibilità politica del proletariato.
Io ritengo che sia una buona cosa, coll’unità di indirizzo, la possibilità di frammentare la battaglia, di portarla sul piano concreto, laddove le istituzioni sono visibili, chiarificabili e stabili, vicine alla casa; ritengo che il proletariato ne abbia tutti i vantaggi.
Non ritengo che, come è stato detto, il latifondista siciliano, in regime autonomista, possa eludere la legge Segni, che costituisce un principio fondamentale dello Stato e l’inizio della battaglia del latifondo. Non c’è possibilità per l’autonomia siciliana di uscire dall’indirizzo generale dello Stato.
Il proletariato deve conoscere da vicino tutti gli elementi, che dirigono le aziende, i Comuni, le Casse mutue, gli ospedali e tutte quelle istituzioni locali che interessano il popolo.
Troppe volte si ha l’impressione di trovare irresponsabilità nel funzionario, il quale a chi si presenta nel suo ufficio per una pratica risponde: «La tua pratica è a Roma, è sospesa», oppure: «Non posso evadere la tua richiesta per questo o quel motivo; io non sono responsabile». Troppe volte, insomma, manca veramente la mira al povero che chiede la giustizia e se invece il senso di responsabilità viene diffuso alla Provincia, ai Comuni, alla Regione, quando anche i funzionari vedranno che, pur dovendo essere collegati a Roma, saranno ambientati in una organizzazione che dia loro maggiore responsabilità, maggiore possibilità di autonomia e verranno in fine dei conti considerati come un qualunque impiegato privato che quando dirige una fabbrica, una azienda, se sbaglia, sbaglia personalmente e non può appellarsi ad un Consiglio di amministrazione, orbene, quando ci saranno uomini responsabili di fronte alla massa, io credo che la massa ne avrà un grande utile e ne avrà un vantaggio anche sotto la forma della sua educazione. L’educazione politica della massa richiede che si diffonda il senso della responsabilità, che si diffonda il senso della partecipazione effettiva alla vita dello Stato. E molte volte la massa è stata tenuta al buio e si ritiene ingannata o delusa o illusa. Per di più si hanno delle incertezze nelle masse che ritengono, a causa dei loro bisogni, a causa delle loro debolezze, a causa delle loro ristrettezze, lo Stato loro nemico. Io credo che questa inimicizia fra Stato e proletariato sia fatale all’uno e all’altro. Io credo che bisogna che il proletariato viva nello Stato sentendolo come cosa sua, come suo è il proprio focolare.
Ebbene, uno Stato che si liberi e che porga ai suoi cittadini, ai più poveri, le possibilità della risoluzione dei suoi problemi, ritengo che può essere veramente l’amico del proletariato e considerare il proletariato come la più solida, più forte base. Se parliamo di tali problemi, l’elenco si smarrisce: casa, alimentazione, abbigliamento, istruzione del proletariato, assistenza, previdenza, questi enti di previdenza dai quali il proletariato ha l’impressione di essere ingannato sempre, anche se questi enti sono passivi, insufficienti a sopperire ai bisogni dell’assicurato indipendentemente da loro difetti o colpe. Il proletariato ha sempre l’impressione di essere un po’ truffato da queste grandi organizzazioni centrali. Ebbene, io ritengo che questo decentramento debba arrivare anche lì. Per esempio, le mutue hanno appena aperto i loro bilanci e provincialmente i bilanci mutualistici oggi sono controllati dai lavoratori. Questo senza distruggere quel senso mutualistico nazionale che deve rimanere, anche nelle mutue provinciali o indipendenti. Ma è bene che il proletariato sappia quello che avviene nei vari uffici.
Prima della guerra le mutue non conoscevano i loro bilanci. Non li conosceva nemmeno il direttore. Si conoscevano i bilanci in sede nazionale e non si sapeva perché si pagavano lire 15,50, o lire 12,30 o perché fosse possibile dare questo e non quello. Ebbene, questo sviluppo di responsabilità, questo allargamento di base in tutte queste questioni, ritengo sia molto utile a tutti noi.
Finisco dicendo anche che molte questioni prima d’essere di portata nazionale, sono di portata locale.
Per esempio, in provincia di Brescia avevamo 45.000 disoccupati e la nostra mano d’opera agricola era di otto-nove unità, su 33 ettari; l’imponibile di mano d’opera era in genere controllato molto dall’alto, ma le trattative non erano libere.
Dopo la liberazione, le libere trattative fra Federterra e Confida e l’intervento di uffici locali dello Stato hanno permesso alla provincia di Brescia di arrivare a 14 unità su 33 ettari e l’imponibile di mano d’opera si è quasi raddoppiato. Queste 14 unità nella Provincia di Brescia hanno eliminato 5 o 6 mila disoccupati che sono purtroppo ancora salariati. Ma è meglio poter lavorare con una retribuzione fissa e stabilita da contratti e controllata da autorità sindacali e di Stato. È meglio risolvere localmente e nei limiti del possibile una questione di grande importanza come questa della disoccupazione, anziché aspettare la manna dall’alto.
E così per i mezzadri e così per la compartecipazione, così per le cooperative, così per i permessi delle attività locali. Sono mille piccole questioni sociali che producono, se non risolte, gravi stati di malessere e di disagio, mentre invece se risolte da uomini chiari ed onesti producono viceversa la pace e sono di esempio al centro che molte volte riprende iniziative localmente già varate e spinte nell’interesse di tutti.
Concludo dicendo che, se avremo fiducia nella libertà come l’hanno avuta i nostri morti, quella libertà ci salverà e ci darà modo di fondare veramente uno Stato di cittadini e di lavoratori onesti, coscienti e responsabili del loro Paese. (Applausi).
PRESIDENTE. Sono iscritti a parlare gli onorevoli Cevolotto, Da Caro, Codignola, Targetti, Vicentini, Mattarella.
Non essendo presenti, si intende che vi abbiano rinunciato.
È iscritto a parlare l’onorevole Priolo. Ne ha facoltà.
PRIOLO. Onorevoli colleghi, vi dirò in rapida sintesi il mio pensiero, che è nettamente contrario alle autonomie regionali; quindi, caro Uberti, preparati ad interrompermi.
UBERTI. Ti ascolteremo affettuosamente; abbiamo bisogno di sentire difendere il centralismo.
PRIOLO. Vedi, liberti, non è il centralismo che difendo; se c’è uno che odia – odiare veramente no, perché non ho mai odiato nessuno e neppure il centralismo – ma che ripudia nettamente qualunque forma di accentramento sono proprio io, però penso che in questo particolare momento della vita nazionale la creazione della Regione possa costituire un grave errore.
Il collega onorevole Bellavista, al quale da ieri voglio più bene di prima per la sua coraggiosa ed aperta dichiarazione di lealismo repubblicano, diceva che noi antiregionalisti parliamo di pericolosi salti nel buio, così come si faceva durante la campagna istituzionale da parte dei monarchici.
Ma allora si trattava di affermazioni campate assolutamente in aria e sostenute per puro artifizio dialettico perché era stata invece proprio la monarchia che, dimentica delle sue funzioni ed asservita al fascismo, ci aveva fatto fare una teoria interminabile di salti nel buio – e che buio! – fino a quello ultimo e tragico, che ha sprofondato la Nazione nella rovina e nella miseria. (Applausi).
Ora sta di fatto che autorevoli colleghi, esponenti di partiti, lontani fra loro per concezioni sociali e politiche, ma tutti ugualmente animati da alto senso di responsabilità verso il Paese, hanno manifestato sulla stampa ed in questa Assemblea il loro pensiero contrario alle autonomie regionali, che essi ritengono possano pregiudicare la unità morale e politica della Nazione nell’attuale periodo della vita italiana, determinando nuove difficoltà economiche e finanziarie, nuovi incentivi a particolarismi municipali, nuove cause di disgregazione e di malessere alle molte di forza maggiore che già ci angustiano e che costituiscono la triste eredità di venti anni di sgoverno dittatoriale, conchiusi con una tragica disfatta.
Però quasi tutti gli oppositori delle autonomie hanno preferito esaminare la questione da punti di vista prevalentemente politici e finanziari, mentre io mi propongo di trattare l’argomento anche, e sopratutto, dal lato amministrativo e pratico, per dimostrare che l’ordinamento, previsto dagli articoli 106 e seguenti della Costituzione ha solo l’apparenza formale dell’autonomia, ma non la sostanza, e che, comunque, esso è prematuro, intempestivo, non necessario, talché il progresso teorico, che potrebbe derivare dalla sua applicazione, sarebbe annullato da una serie di danni e di inconvenienti pratici.
Affinché la mia dimostrazione risulti chiara anche all’uomo della strada, le cui idee sono state confuse da troppi dibattiti generici, e che attende perciò da questa Assemblea parole persuasive e decisioni orientatrici, consentitemi, onorevoli colleghi, di fissare preliminarmente la reale portata dei termini «autonomia» e «decentramento», i quali vengono spesso scambiati o adoperati impropriamente, tanto nell’uso comune quanto nella legislazione. Ciò potrà apparire a prima vista scolastico e superfluo, ma onorevoli colleghi, se avrete la pazienza di seguirmi, vi renderete conto che è indispensabile ai fini della mia dimostrazione. Per evitare equivoci, dunque, è assolutamente necessario tener presente che autonomia significa facoltà di darsi delle leggi, che tale facoltà deve distinguersi nettamente da quella di autoamministrarsi, cui corrisponde il termine autarchia, e, infine, che decentramento vuol dire sì trasferimento di attribuzioni e servizi statali dal centro alla periferia, ma che per centro non deve intendersi necessariamente la capitale dello Stato, sì bene qualunque altra città, nella quale siano concentrati poteri di governo e di amministrazione, ma che, comunque, sia lontana dalle unità circoscrizionali periferiche rappresentate dai Comuni.
Da coteste precisazioni essenziali, parmi risultare evidente, anche per chi non sia versato nelle materie amministrative, e senza bisogno di alcuna dimostrazione, che la facoltà di darsi delle leggi e cioè l’autonomia non possa essere esercitata da chi non possegga già la facoltà e capacità di autoamministrarsi, e cioè l’autarchia, e non goda già del decentramento amministrativo statale, dappoiché autarchia e decentramento si abbinano e convergono nella facoltà complessiva dell’autogoverno locale.
L’autonomia degli enti locali (siano essi Regioni, Provincie o Comuni) costituisce pertanto la fase ultima e conclusiva di una serie di ordinamenti liberi e progressivi, che si iniziano con l’autarchia, si sviluppano col decentramento, si perfezionano e completano nell’autogoverno locale.
Da ciò si rileva che introdurre oggi nell’ordinamento della Repubblica Italiana l’autonomia, quando ancora gli enti locali sono molto lontani dall’autarchia e dal decentramento, e cioè dai presupposti logici e giuridici dell’autogoverno, sarebbe lo stesso che Costruire il tetto prima delle fondamenta di un edificio, rinunziare alla realtà per amore dell’artificio. (Approvazioni).
A tale riguardo, mi sia consentito ricordare che l’ordinamento locale dell’Inghilterra, che è fra i più moderni e democratici nel mondo, rappresenta appunto la felice risultante di una radicale applicazione del decentramento e dell’autarchia, che gl’inglesi chiamano selfgovernment, il quale assicura agli enti locali le più ampie libertà, dappoiché affida agli organi elettivi delle parrocchie, dei distretti rurali, dei distretti urbani, delle contee, non solo l’amministrazione degli interessi strettamente locali, ma anche quasi tutte le funzioni ed i servizi statali, compresi quelli dell’igiene, della istruzione, della polizia e sicurezza ed in parte anche della giustizia.
In Inghilterra, pertanto, non esistono prefetture né prefetti, e quel popolo ignora che cosa sia il controllo e l’ingerenza governativa negli affari locali del Regno Unito, mentre fa largo uso di tali controlli nei territori soggetti dell’impero.
AMBROSINI. Non è esatto.
PRIOLO. Ascoltami, Ambrosini, quanto io espongo l’ho appreso nelle aule del glorioso Ateneo romano, il cui semplice ricordo fa vibrare il mio cuore e maledire ancora una volta di più il fascismo, che mortificò le nostre Università, disperdendo nobili tradizioni di cultura e di libertà. (Applausi). Ora proprio in questi giorni ho voluto rinfrescare la memoria sugli argomenti di cui discuto: se poi tu hai delle cognizioni diverse e più moderne ascolterò con tutta deferenza la tua voce autorevole, lieto sempre di apprendere.
Dunque, dicevo, in Inghilterra non vi sono autonomie regionali, vi è invece decentramento ed autarchia e, ripeto, il popolo ignora che cosa sia il controllo e l’ingerenza governativa.
RODI. Non è così. L’importanza del selfgovernment sta in questo intervento continuo dello Stato, fatto però in maniera abile e democratica.
PRIOLO. Queste affermazioni mi sorprendono: la tua, caro Rodi, può essere una interpretazione non so quanto esatta.
RODI. Perché, se no, in che consiste la caratteristica del selfgovernment?
PRIOLO. La frase selfgovernment ti dice tutto: traduci esattamente ed avrai la spiegazione che chiedi. E ti soggiungo che Antonio Salandra, mio illustre maestro, quando pronunziava le sue magnifiche lezioni di diritto amministrativo all’università di Roma, elogiava il selfgovernment anche e soprattutto per la nessuna ingerenza del potere centrale.
Ora, non ostante l’esercizio di così ampie libertà locali, in Inghilterra non sono state introdotte ancora le autonomie regionali, e ciò perché gl’inglesi sono abituati a porsi i problemi della vita pubblica su basi realistiche ed a risolverli in termini concreti, prescindendo dagli schemi ideologici, che formano la passione ed il tormento di noi italiani.
Essi, traendo ispirazione dalla loro mentalità pratica, non avvertono la necessità di estendere le libertà locali fino alla estrema fase dell’autonomia, che a ragione giudicano superflua, o almeno inutile agli enti locali del Regno Unito, la cui libertà è largamente assicurata dall’autogoverno, fondato sul decentramento, sull’autarchia e sul suffragio popolare.
Senonché, i più tenaci sostenitori della autonomia ad oltranza in Italia si appoggiano all’esempio della Svizzera, degli Stati Uniti e di talune repubbliche del Sud America, dove, dicono, le autonomie sono vive, operanti, e proficue.
TONELLO. Vanno scomparendo anche là.
PRIOLO. Costoro non considerano, però, che in quegli Stati le autonomie sono imposte da peculiari condizioni geografiche, linguistiche, religiose o economiche, e che sono sorte cogli Stati medesimi, e spesso, anzi, li hanno preceduti nell’ordine costituzionale e amministrativo, così che l’unità federale è stata escogitata colà come un correttivo cementatore delle tendenze centrifughe e dei danni dell’isolamento e dello slegamento autonomistico.
In Italia sarebbe stato logico, e forse anche utile politicamente, che le autonomie regionali fossero state istituite nel 1861, quando cioè esse furono patrocinate dal Minghetti e dal Cattaneo, come freno alle esorbitanti pretese del Piemonte.
Ma allora fu temuto che le autonomie compromettessero l’unità nazionale ancora recente, che si volle invece consolidare mediante un ordinamento accentrato, che ripartì il territorio nazionale in circoscrizioni amministrative comunali, circondariali e provinciali, rette rispettivamente da sindaci, da sottoprefetti, e da prefetti, i quali, però, amministravano non già quali rappresentanti del popolo delle rispettive circoscrizioni, sì bene per conto del Governo centrale e della monarchia.
Mancando troppi elementi per una esatta valutazione, e soprattutto statistiche attendibili, non è facile stabilire oggi se sia stato un bene o un male quello che fu definito allora da taluni meridionali la «piemontizzazione forzata dell’Italia» che fece pure le sue vittime negli avversi campi in cui si divise la Nazione, e più specialmente nel Mezzogiorno. (Commenti prolungati).
Una voce a destra. Ci tolse la libertà.
PRIOLO. Non concordo con l’interruttore; pur riconoscendo che l’unità costò al Mezzogiorno molti sacrifici bisogna avere però il coraggio di affermare che dall’unità il Mezzogiorno trasse anche notevoli vantaggi. E la Nazione italiana riuscì a rafforzare la propria impalcatura politica ed economica e ad imporsi alla considerazione ed al rispetto del mondo, affrontando e superando, dal 1915 al 1918, una grande guerra, culminata in una gloriosa vittoria. (Applausi).
Ma dopo quel periodo di progresso, sopravvenne purtroppo quello della tirannia fascista, durante il quale la Nazione fu avvilita, oppressa e trascinata colla forza all’isolamento, alla guerra ed all’estrema rovina, le cui macerie ci sforziamo oggi di sgombrare, per ricostruire l’edificio crollato della Patria. (Approvazioni).
Ora io domando, onorevoli colleghi, se in un momento così grave, e mentre ancora il nostro popolo si trascina piagato ed immiserito sotto i colpi dell’avverso destino, non sia doveroso e necessario affrontare il grave problema dell’ordinamento regionale col metodo pratico, che è caratteristico degli inglesi, e cioè prescindendo da pregiudiziali teoriche o di partiti, ed ispirandoci unicamente alla realtà attuale del Paese ed alle esigenze di pubblico bene, che risultino assolutamente improrogabili al lume della trascorsa esperienza.
Se con tali propositi sereni noi esamineremo il titolo quinto della Costituzione, giungeremo sicuramente, con larga maggioranza, alla conclusione che l’autonomia delle regioni (eccezion fatta per la Sicilia, la Sardegna, Trentino-Alto Adige e la Val d’Aosta) non è imposta oggi da alcuna sostanziale ed urgente esigenza; che essa non risulta neanche necessaria o utile, e potrà anzi provocare difficoltà e suscitare nel Paese malcontenti e delusioni la cui responsabilità sarà attribuita a buon diritto a questa Assemblea; che, quindi, per prevenire ogni danno e per conseguire sostanziali benefici, convenga rinviare almeno per quattro anni ogni decisione sulle autonomie, in attesa della prova che esse faranno là dove sono state concesse; che intanto sia urgente promuovere ed attuare con estrema larghezza il decentramento dell’amministrazione statale e la riforma autarchica degli enti locali, ed in una parola quell’autogoverno, che risulta già sperimentato positivamente in Inghilterra, la cui immediata applicazione a tutta l’Italia agevolerà anche la riuscita dell’esperimento autonomistico delle isole e delle zone mistilingui, dove la legislazione fascista ancora in vigore ostacola ed annulla il funzionamento delle autonomie. (Applausi).
Nelle Commissioni della Costituzione ed in questa Assemblea, discutendosi una riforma a scartamento ridotto della legge comunale e provinciale, sono stati già riconosciuti unanimemente gli eccessi, gli anacronismi, gli errori dell’ordinamento instaurato dal regime fascista, il quale a fini polizieschi e tirannici ha esasperato l’accentramento amministrativo dello Stato ed ha negato, violato, annullato le libertà locali esistenti nel 1922, arrestando l’evoluzione democratica, cui esse erano felicemente avviate.
Ricordate, onorevoli colleghi, che il fascismo abolì i sindaci, soppresse i consigli comunali, sostituendoli con i podestà e con le famose consulte, che si riunivano ogni sei mesi per battere le mani e fare il saluto al duce – veramente anche in quest’aula si faceva lo stesso saluto e si cantava «giovinezza» (Commenti) – abolì consigli e deputazioni provinciali e creò i presidi ed i rettori, di nomina governativa, designati dai segretari federali, che imperversavano in ogni provincia, assumendo pose eroicomiche di ducini.
Una voce a sinistra. Animali!
PRIOLO. Dica piuttosto ignoranti, presuntuosi, criminali, che la nostra sventurata Italia ha dovuto purtroppo subire per venti anni. E dire, onorevoli colleghi, che ancora vi sono anime nostalgiche, che palpitano e sognano torbidi ritorni! (Commenti).
Una voce a sinistra. Sappiamo chi sono; stanno freschi! (Applausi a sinistra).
PRIOLO. Restiamo in argomento, affermando ancora una volta e solennemente che una delle precipue cause del disagio morale e del malessere politico del Paese, nonché delle immani difficoltà che ostacolano la ricostruzione nazionale ed il consolidamento della Repubblica, si deve ricercare proprio nell’ordinamento fascista, che ancora vige in pieno, e che costituisce una pericolosa arma di sabotaggio, di cui si vale largamente quella parte di burocrazia che è apertamente e subdolamente ostile alla Repubblica e più specialmente alla democrazia. (Applausi).
Ora, il necessario ed urgente rinnovamento su basi di libertà democratiche della amministrazione fascista dello Stato e degli enti territoriali non è agevolato, ed anzi è intralciato, dalle autonomie regionali previste dalla Costituzione, per i motivi che accenno di volo:
1°) perché le Regioni previste dalla Costituzione non sarebbero autonome, ma controllate da commissari governativi, così come l’Inghilterra fa solo nelle sue colonie.
All’ingerenza, che il Governo esercita oggi nelle Provincie a mezzo dei prefetti, si sostituirebbe nelle Regioni l’ingerenza del Commissario governativo, il quale diventerebbe il contro altare dei governi regionali elettivi, ed il punto di appoggio di tutti coloro i quali, sconfitti nelle elezioni, farebbero leva sul Governo centrale per ottenere intromissioni ed appoggi negli affari locali (Interruzioni al centro);
2°) perché le Regioni, come circoscrizioni amministrative dello Stato, si aggiungerebbero alle Provincie, complicando ulteriormente l’attuale macchinosa organizzazione burocratica, così che in pratica si verificherebbe che taluni poteri e servizi statali resterebbero a Roma, altri andrebbero alle Regioni, ed altri ancora alle Provincie, per modo che all’odierno unico accentramento della capitale se ne aggiungerebbe un secondo nei capoluoghi di Regione: accentramento, che allontanerebbe i poteri e servizi statali dai Comuni e moltiplicherebbe, insieme con gli uffici e i funzionari, anche la possibilità di sabotaggio burocratico volontario e involontario, gli oneri dello Stato, il disagio e le spese dei privati e degli enti, i quali sarebbero costretti a seguire gli affari dagli uffici comunali, ai provinciali, ai regionali, ed infine ai Ministeri. (Approvazioni – Commenti prolungati).
3°) perché le Regioni, come enti locali, assorbirebbero e sostituirebbero le Provincie e quindi allontanerebbero anche in questo campo gli amministratori dagli amministrati, creando una grave lacuna per i servizi, che i Comuni non possono assolvere ciascuno per proprio conto, e che oggi l’ente Provincia disimpegna per conto di tutti, e cioè il mantenimento degli esposti, la manutenzione delle strade provinciali, il ricovero dei folli, i servizi di igiene e di profilassi, quelli antitubercolari, antitracomatosi e della maternità, i quali, sebbene affidati formalmente a consorzi, poggiano di fatto sulle Provincie e sui loro organi. Dopo ottantasette anni di esistenza l’ente autarchico Provincia, sorto come circoscrizione territoriale artificiale, è divenuto una circoscrizione tradizionale e naturale, che quando anche non sia caratterizzato, come lo è in molti casi, da fatturi geografici, è però chiaramente delineata dall’orientamento e dall’organizzazione della viabilità, delle comunicazioni, le quali fermano la rete vascolare del territorio provinciale, e che perciò convergono ai capoluoghi di provincia come ai centri e agli sbocchi necessari e non sostituibili di tulle le correnti ed energie economiche ed amministrative della vita sociale. (Approvazioni a sinistra – Interruzioni – Commenti al centro).
Per il bene delle popolazioni interessate, è quindi necessario che l’orientamento e l’organizzazione oggi esistenti ed operanti a base provinciale non siano in alcun modo modificali, e che anzi siano ulteriormente utilizzati, agevolati e sviluppati, tanto nel campo del decentramento amministrativo, quanto nel campo autarchico. (Approvazioni).
Tirando lo somme e traducendo in parole povere i risultati pratici della istituzione dell’ente Regione, così come è prevista dalla Costituzione, si avrebbe quindi un peggioramento sostanziale dell’attuale ordinamento dello Stato e degli enti locali in cambio di una apparente autonomia; si creerebbero inconvenienti reali in cambio di benefici illusori; si applicherebbero, alla macchina statale, sovrastrutture, che renderebbero più lenti e difficili i movimenti, più forti e frequenti gli attriti; mentre tutti sappiamo che occorre rivestire il corpo della Nazione con un abito tagliato su misura, comodo ed elastico, che aderisca alle sue membra, che agevoli il funzionamento dei vari organi, che consenta rapidità e snellezza di movimenti, libertà, forza, dinamicità di vita. (Applausi).
Ed un’ultima cosa, onorevoli colleghi, voglio dirvi prima di giungere alla conclusione, dolente di avervi già tediato abbastanza.
LABRIOLA. No, no; ascoltiamo con piacere. (Approvazioni).
Una voce a sinistra. Sono cose molto serie. (Approvazioni).
PRIOLO. Vi ringrazio, siete molto buoni con me, onorevoli colleghi, certo gli è perché voi sentite che vi sto parlando con competenza modesta, ma col cuore alla mano e con onestà e lealtà di intenti, le uniche cose alle quali mi sforzo sempre di improntare tutte le azioni della mia vita. (Approvazioni).
Vedete, io penso con profondo senso di amarezza, e nello stesso tempo di terrore, ai contrasti, alle rivalità, alle gelosie, alle quali andremo incontro, creando le Regioni.
Voi tutti ricevete come me una infinità di opuscoli e di pubblicazioni varie, contenenti voti di assemblee provinciali e comunali, appelli talvolta disperati e preoccupanti con ì quali si chiede la creazione di nuove regioni (Lunense, Daunia, Salentina, ecc.), richieste che pongono problemi inquietanti e di non facile soluzione.
Ma non basta! Fissate le Regioni, quale dovrà essere il capoluogo di ciascuna? E davanti ai miei occhi si profila subito tremendo un tale problema particolarmente per ciò che attiene alla mia terra di Calabria, come quella che mi riguarda più da vicino e dove già da un pezzo sono cominciate le discussioni, talvolta purtroppo degenerate in rivalità, gelosie o diatribe.
Mi duole non vedere il collega Silipo, ma appunto con lui alcuni giorni fa discutevamo nel corridoio dei passi perduti della questione, discussione amichevole, che si svolgeva fra lui da una parte e l’onorevole Musolino e me dall’altra. Naturalmente egli sosteneva che capoluogo delle Calabrie dovesse essere Catanzaro, mentre Musolino ed io eravamo per Reggio.
Interloquirono gli onorevoli Nasi e Preziosi: «E Cosenza? Abbiamo stamane ricevuto un opuscolo, redatto dalla Deputazione provinciale di quella città, nel quale si sostiene invece il buon diritto di Cosenza ad essere il capoluogo della Regione calabrese».
Difatti è vero, e l’opuscolo è qui nelle mie mani, e ve ne risparmio la lettura; ma lo riceverete anche voi onorevoli colleghi e vedrete come il problema, che io pongo, è reale ed inquietante perché, comunque risolto, lascerà strascichi dolorosi e rivalità e gelosie dannosissime. Il collega Preziosi ieri l’altro portava qui in aula l’eco accesa di quella discussione per trarne motivi antiregionalisti: cosa che faccio pure io.
Perché, onorevoli colleghi, la disputa, apertasi in Calabria, ma che mi consta esistere ed aspra anche in altre Regioni, assume ogni giorno toni più vivaci.
Ed il mio cuore, credetemi, onorevoli colleghi, sanguina!
Io amo la sventurata ma forte e generosa terra di Calabria ed unisco nello stesso palpito di amore le città di Catanzaro, Cosenza e Reggio.
Catanzaro, nobile per tradizioni storiche, rocca dove fanno nido le aquile, come ebbe ad affermare con legittimo orgoglio qui in Parlamento il grande Bernardino Grimaldi, che onorò la sua città, la terra di Calabria e l’Italia intera; Catanzaro, che mi accolse profugo dall’immane disastro tellurico che distrusse la mia città, ed a cui mi legano ricordi inobliabili della mia prima giovinezza. Cosenza, che i secolari boschi della Sila serrano come in un abbraccio materno, culla di insigni filosofi e di letterati illustri. Reggio, la mia Reggio, che il tragico 28 dicembre 1908 rase al suolo, spegnendo migliaia e migliaia di vite innocenti, ma che per volontà tenace dei suoi figli risorse industre, ridente, moderna, luminosa a specchio dello stretto, lungo il quale si stende divinamente bella.
E vorrei, e lo affermo con tutta la forza del mio sentimento, che il contrasto venisse evitato e che tutti, tutti noi calabresi delle tre Provincie, ognuna delle quali ha le sue nobili tradizioni, i suoi geni, i suoi martiri, i suoi eroi, le sue incommensurabili bellezze, i suoi traffici e le sue attrattive, fossimo invece uniti nello sforzo comune, concorde, solidale, teso a risolvere non un problema di preminenza vana, causa di dissensi e di amarezze, ma un più vasto problema, quello cioè del Mezzogiorno, l’unico per cui vale la pena battersi strenuamente, perché dalla sua risoluzione verrà alla nostra Calabria benessere, lavoro, giustizia sociale. (Approvazioni).
Concludo, onorevoli colleghi, sintetizzando il mio pensiero in una specie di decalogo. L’onorevole Ruini è stato il Solone od il Licurgo della Costituzione…
LABRIOLA. E tu il Mosè.
RUINI, Presidente della Commissione per la Costituzione. Già, tu sei il Mosè.
PRIOLO. Senza barba, però. (Si ride).
Ed ecco il decalogo. Propongo:
1°) Che la Costituzione, uscendo dalle formule generiche, statuisca almeno le grandi linee dell’ordinamento statale decentrato e di quello autarchico locale. Ciò è indispensabile per fissare in termini non equivoci ciò che la Costituente intenda per decentramento amministrativo ed autarchico, e per far sì che il Governo e la Camera futuri, che dovranno tradurre in testi legislativi i nuovi ordinamenti costituzionali, possano interpretare ed attuare fedelmente la volontà della Costituente.
2°) Che il decentramento dei servizi statali si attui per Provincia, badando, però, di far coincidere rigorosamente le circoscrizioni amministrative con quelle autarchiche e di autogoverno. Ciò è conforme ai precetti della scienza amministrativa, ed è necessario per evitare interferenze e complicazioni, cui darebbe luogo l’ordinamento previsto dalla Costituzione, che stabilisce circoscrizioni provinciali solo per l’Amministrazione statale, e circoscrizioni regionali per l’ordinamento autarchico, e per quello autonomo e di autogoverno.
3°) Che ai Ministeri siano riservate solo le alte direttive dei servizi statali, trasferendo per contro il maggior numero dei servizi stessi, ed i funzionari addettivi, nei capoluoghi di Provincia, abolendogli inutili, dispendiosi, ingombranti uffici regionali sorti sotto il fascismo. Attribuendo in compenso tutte le competenze degli uffici regionali agli uffici provinciali, e facendo assistere questi da organi elettivi e da tecnici locali specialmente per quanto riguarda i lavori pubblici. Una volta stabiliti la circoscrizione ed il decentramento amministrativo a base provinciale, gli uffici statali regionali sarebbero superflui, e servirebbero solo a creare un accentramento intermedio fra la Provincia e Roma, richiedendo personale che potrebbe invece essere risparmiato o trasferito in parte negli uffici provinciali, per dare a questi maggiore efficienza.
4°) Delegare alle Provincie, ai Comuni, alle Camere di commercio tutti quei servizi statali che gli enti locali possono disimpegnare più rapidamente, più convenientemente e più economicamente, come quelli dell’economia, dell’agricoltura, della sanità, dell’assistenza, della beneficenza, ecc.
5°) Far partecipare gli enti locali alle decisioni della burocrazia centrale mediante pareri obbligatori degli organi locali sugli affari più importanti, che per il loro carattere generale debbono restare di competenza dei Ministeri.
6°) Nel campo autarchico abolire tulle le ingerenze e i controlli governativi sulle amministrazioni locali, assicurando contemporaneamente a queste, e più specialmente ai Comuni medi e piccoli, mezzi ed organi efficienti di autoamministrazione e di autocontrollo. I Comuni, che in Italia hanno tradizioni gloriose, perché preesistettero allo Stato, ed in molti casi furono essi stessi lo Stato, debbono essere sollevati dalle attuali condizioni, miserevoli sotto tutti i punti di vista, ed essere posti in grado di funzionare in modo indipendente, di autocontrollarsi in primo grado con organismi di controllo propri, ed in secondo grado di essere controllati da organi elettivi provinciali, idonei a comprendere ed a valutare le esigenze locali.
7°) Conservare la Provincia non solo come circoscrizione amministrativa ma anche come ente autarchico, coordinandone il funzionamento con quello dei Comuni e degli uffici provinciali statali ed appoggiandone ad essa gli organi di autogoverno locale.
8°) Istituire l’autogoverno locale, affidandolo a governatori eletti dai Consigli provinciali, distinti e al di sopra dei presidenti delle Deputazioni provinciali, con i poteri, le funzioni e attribuzioni di governo, che le varie leggi demandano oggi ai prefetti funzionari di Stato, ivi compresa la direzione della polizia e il coordinamento e la vigilanza su tutti gli uffici governativi provinciali;
9°) Istituire le Giunte provinciali amministrative elettive quali unici e supremi organi di autocontrollo locale, affidandone la presidenza ai governatori.
10°) Sul modello, ad esempio, di Londra, divisa nella City e in trenta borghi, aggiornare e decentrare modernamente l’ordinamento delle grandi città come Roma, Napoli, Milano, Torino ecc. (che hanno una popolazione uguale a quella di più provincie sommate insieme) concedendo loro una amministrazione, un autogoverno ed una rappresentanza provinciale distinti dalla amministrazione e rappresentanza dei singoli rioni da organizzarsi invece ed elevarsi a dignità di Comuni distinti e separati.
L’istituzione dell’autogoverno locale decentrato e libero, cui ho accennato, e sul quale tutti i partiti si sono trovati concordi nelle commissioni di riforma, renderà superflua, come in Inghilterra, l’innovazione delle Regioni autonome, conservando invece la circoscrizione e l’istituto Provincia, collaudati oramai da circa ottanta anni di vita unitaria, i quali, se hanno messo in evidenza manchevolezze, hanno anche rilevato notevoli pregi.
Un’elementare saggezza consiglia quindi di conservare i benefici conseguiti e di correggere le storture dell’ordinamento attuale, prima di avventurarsi in un altro, che rivelerebbe a sua volta inconvenienti non meno gravi e numerosi.
Vi prego, onorevoli colleghi, di valutare obiettivamente le proposte che vi ho illustrato, le quali sono suggerite da pratica conoscenza della organizzazione centrale e locale dello Stato e dall’intima profonda convinzione che noi realizzeremo in Italia una genuina democrazia, solo quando riusciremo a far sì che la pubblica amministrazione cessi di essere una macchina mostruosa, complicata, assente dalla vita ed ostile agli individui, per divenire una forza amica e benefica, che interpreti e sodisfi i bisogni del popolo, promuova e tuteli il benessere materiale e morale, avviando così la Repubblica sulle vie chiare e luminose della libertà, della giustizia e del lavoro. (Vivissimi prolungati applausi – Molte congratulazioni).
PRESIDENTE. Il seguito di questa discussione è rinviato alle 16. Avverto che oggi parleranno gli ultimi tre iscritti e che successivamente si passerà allo svolgimento degli ordini del giorno.
La seduta termina alle 12.50.