Come nasce la Costituzione

POMERIDIANA DI VENERDÌ 6 GIUGNO 1947

ASSEMBLEA COSTITUENTE

CXL.

SEDUTA POMERIDIANA DI VENERDÌ 6 GIUGNO 1947

PRESIDENZA DEL PRESIDENTE TERRACINI

indi

DEL VICEPRESIDENTE TARGETTI

INDICE

Progetto di Costituzione della Repubblica italiana (Seguito della discussione):

Belotti                                                                                                             

Bruni                                                                                                                

Nitti                                                                                                                  

Zuccarini                                                                                                         

Piccioni                                                                                                             

La seduta comincia allo 16.

MOLINELLI, Segretario, legge il processo verbale della precedente seduta pomeridiana.

(È approvato).

Seguito della discussione del progetto di Costituzione della Repubblica italiana.

PRESIDENTE. L’ordine del giorno reca: seguito della discussione del progetto di Costituzione della Repubblica italiana.

Riprendiamo la discussione generale del Titolo V relativo alle Regioni.

È iscritto a parlare l’onorevole Belotti: ne ha facoltà.

BELOTTI. Onorevoli colleghi, il Titolo V del Progetto di Costituzione ha trovato, nel corso di questa lunga discussione, uno schieramento di oppositori, per non dire di negatori in radice, ch’io ritengo significativo. Di fronte ai democratici cristiani ed ai repubblicani storici, alfieri strenui e convinti del regionalismo, alcuni colleghi della destra sono insorti, definendo il regionalismo come una rivoluzione foriera di frutti di cenere e tosco; mentre i colleghi dell’estrema sinistra, solidali (una volta tanto) coi loro classici oppositori, hanno parlato non di rivoluzione (parola cara ai marxisti), ma di reazione all’unità italiana ed al progresso civile, sociale e politico della Nazione. In realtà, mi pare che il lungo dibattito sulle pregiudiziali abbia già sufficientemente dimostrato che non si tratta, nella fattispecie, né di rivoluzione né di reazione: si tratta di realizzare, finalmente, la democrazia. Del resto, è questione d’intendersi sul significato e sulla portata delle parole. Se per rivoluzione si vuole intendere un pacifico radicale rinnovamento del Paese in senso democratico attraverso una riforma strutturale e funzionale dello Stato, noi regionalisti siamo decisamente rivoluzionari; se per reazione si vuole intendere opposizione implacabile alla concezione fascista del dispotico centralismo statale che, mentre finge di servire il popolo e di soffrire i dolori del popolo, in realtà fa del popolo un gregge, uno sgabello per tutte le follie, fino a giocarsi le sorti della Nazione così come si giocano dei numeri della ruota della fortuna, noi restiamo fieramente reazionari. E non è forse sotto questa insegna, questa nobilissima reazione, che è nata e si è sviluppata la lotta clandestina e la resistenza all’oppressore?

Ieri eravamo concordi e solidali nella distruzione dell’ancien regime; oggi, trattandosi di fissare il piano regolatore del nuovo Stato repubblicano, ci troviamo, a quanto pare, in dissidio fin dalle fondamenta. Mi limito ad una breve rassegna critica dei maggiori cavalli di battaglia lanciati in campo dagli opposti settori dell’Assemblea. Si è detto e ripetuto, da molti oppositori, che l’idea dell’autonomia regionale non è sentita dal popolo: più che ad una convinzione radicata e ragionata, secondo costoro, essa sarebbe dovuta a propaganda artificiosa di partito, a speculazioni demagogiche a fini elettorali, a programmi politici anacronistici che sfruttano il profondo, ma passeggero, senso di sfiducia nella sinistrata burocrazia statale. L’obiezione non risponde al vero. Prima e immediatamente dopo la liberazione del Paese, tutti i partiti hanno fatto professione di regionalismo, proprio per rispondere ad una delle istanze più sentite e più diffuse nel popolo nostro.

Non è esatto affermare che si tratti di un’idea antistorica: il relatore onorevole Ambrosini l’ha chiaramente dimostrato nella sua pregevole relazione.

Fin dagli inizi del Risorgimento, per risolvere il problema della unificazione dell’Italia furono agitate due soluzioni in contrasto: la federalista e la unitaria. Il prevalere di questa ultima non liquidò, ma assopì semplicemente la questione regionale. Svanito il sogno neoguelfo, furono proprio i due massimi assertori del principio unitario contro l’idea federalista, Mazzini e Cattaneo, i quali si opposero alla prospettiva di uno Stato uniformizzato e centralizzato, auspicando uno Stato strutturalmente unitario e organicamente regionalista.

Se la tesi mazziniana, ripresa poi dal Minghetti con l’assenso di Cavour, poté essere accantonata come controproducente in quegli anni lontani in cui «l’Italia venivasi con tanta fatica costituendo», non vedo sufficienti e convincenti ragioni di contrastarla oggi, nel nuovo ordinamento repubblicano dello Stato, dopo la soffocante centralizzazione burocratica e politica del periodo umbertino, e, più vicino a noi, dopo un’esperienza totalitaria disastrosa come quella del tragico ventennio mussoliniano.

È per lo meno singolare la sfiducia in un autogoverno nell’ambito regionale e con potere derivato e circoscritto, espressa dalle ali estreme di questa massima Assemblea di rappresentanti del popolo!

«S’ode a destra uno squillo di tromba – a sinistra risponde uno squillo»: i due versi manzoniani possono essere applicati a questa offensiva contro l’autonomia regionale.

Ma non può essere, evidentemente, uno squillo di tromba contro la democrazia senza aggettivi.

Si tratta, probabilmente, di un’offensiva contro mulini a vento, o quanto meno di incomprensione dei termini essenziali del problema.

Si è affermato da altri oppositori che l’esperienza negativa di una tradizione politica di accentramento e di centralismo burocratico, finita con la bancarotta fascista, non è motivo sufficiente per valorizzare tendenze centrifughe a sfondo regionalistico, che presentano o nascondono insidie antiunitarie.

Sta di fatto che una coscienza nazionale unitaria non è alimentata, ma soffocata dal centralismo burocratico e da uno Stato despota.

La democrazia esige coscienza, spirito di dedizione alla cosa pubblica e alla causa comune, ma soprattutto senso di responsabilità da parte dei cittadini.

Quando questi si rassegnano a quel fatalismo che direi «mussulmano», caratteristico del tempo fascista, ossia dell’inerzia di chi si abitua a ricevere tutto dall’alto e rimane fuori da ogni sforzo costruttivo come un peso morto, e, spesso, inevitabilmente, ostile, è finita per la democrazia.

Oggi tutti siamo concordi nel lamentare l’assenteismo di larghi strati del popolo dalla vita politica e dall’amministrazione della cosa pubblica, nel ritenere urgente e indispensabile la preparazione di una nuova classe dirigente, di una nuova burocrazia, più aderente alle reali esigenze periferiche.

Ma non pretendiamo direttamente dallo Stato o dai partiti il miracolo della rinnovazione auspicata! Il fenomeno di attrazione, di osmosi deve cominciare più vicino alle «cose di casa»: in modo capillare, nei comuni, nelle provincie, nei parlamenti regionali.

La prima coscienza civica e nazionale va formata a immediato contatto di quelle piccole realtà, che nel loro complesso formano l’unità, grande ma viva perché articolata, del Paese.

Non commettiamo l’errore di incominciare dal tetto a ricostruire la casa!

Altri ancora obiettano che l’istituzione dell’ente Regione non servirebbe che a valorizzare quel campanilismo anacronistico e superato dai tempi, fonte di antagonismi locali, che lo Stato non saprebbe poi fronteggiare e dominare.

Io vedo questo vieto campanilismo solo nel tentativo di moltiplicare le Regioni, più per sodisfare piccole ambizioni locali che per reali e sentite necessità.

Sento di avere contro molti colleghi di questa Assemblea, anche del mio stesso partito, ma affermo che bisogna essere inesorabili contro tesi e tentativi che rasentano il ridicolo. Molti colleghi hanno compiuto ricerche quasi archeologiche per rimettere in vetrina nomi romani o addirittura etruschi di pseudo-regioni allo stato potenziale, di aspiranti-regioni. Vorrei dire: lasciamo stare i nomi romani: portano sfortuna!

Limitiamo il riconoscimento alle 22 Regioni elencate all’articolo 123 del Progetto (se proprio non sia ravvisabile alcuna ponderata esclusione) e conveniamo sulla saggezza dei compilatori dell’articolo 125, relativo alle condizioni per la creazione di nuove Regioni.

Una delle obiezioni più consistenti è senza dubbio rappresentata dal timore di un ritorno all’economia chiusa, all’economia curtense, come la chiamano gli storici dell’economia. Le condizioni ambientali di questo nostro tormentato dopoguerra – si dice – dovute anche alle difficoltà dei trasporti, hanno contribuito a creare l’illusione che ogni Regione possa fare da sola. Non appena i traffici avranno raggiunto la normalità, si avvertirà che la Regione non è che una inutile e pesante sovrastruttura che non permette di mobilitare, per la ricostruzione, sul piano unitario, tutte le forze e le risorse economiche della Nazione. È una obiezione di rilievo. Gli stessi compilatori del Progetto, in considerazione di questo pericolo, hanno messo le mani avanti, con l’ultimo comma dell’articolo 113, riguardante il divieto di provvedimenti regionali che in qualsiasi modo ostacolino la libera circolazione delle persone e delle cose dall’una all’altra Regione.

Tuttavia, a parte la considerazione che l’epoca contemporanea, ed in particolare il difficile periodo postbellico in cui nasce la nostra nuova Costituzione, sono tutt’altro che propizi al risorgere di autarchie regionali nel settore economico e che la paventata (od auspicata) autosufficienza regionale non è che un assurdo economico, sta di fatto che rimane intatta e sovrana, nelle materie di essenziale importanza, la competenza dello Stato come coordinatore, arbitro superiore e propulsore di tutta l’economia nazionale.

Molti colleghi hanno prospettato, spesso drammatizzando, le difficoltà in cui la riforma verrebbe a lanciare le Regioni povere, soprattutto del Mezzogiorno.

Ma è chiaro che lo Stato non potrà negare ad esse, in relazione alla riforma tributaria e volta per volta a ragion veduta, i necessari contributi integrativi. L’articolo 113 del Progetto stabilisce appunto: «Il gettito complessivo dei tributi erariali è ripartito in modo che le Regioni meno provviste di mezzi possano provvedere alle spese necessarie per adempiere alle loro funzioni essenziali. Allo stesso scopo possono essere istituiti fondi per fini speciali, in base a leggi della Repubblica che determinano i contributi dello Stato e delle Regioni, e la gestione e la ripartizione dei fondi».

Ma anche le popolazioni meridionali si sentiranno stimolate dalla riforma a non attendere tutto dalla sempre inadeguata comprensione del Governo centrale. La libertà piace e deve piacere anche ai poveri!

Da ultimo vi sono i paventatori del federalismo, anche solo larvato o mascherato.

Stamane abbiamo sentito esprimere dal collega siciliano onorevole Vàrvaro una esigenza di federalismo.

Una voce isolata in quest’aula; poche voci di indipendentisti, nella stessa generosa terra di Sicilia, la quale, come hanno dimostrato le recentissime elezioni di quel parlamento regionale, vuol rimanere quello che è sempre stata, e cioè parte viva dell’Italia unita.

L’attribuzione all’ente Regione di un potere normativo vero e proprio (pur limitato e circoscritto), oltre al potere di amministrazione, ha messo in allarme la destra e la sinistra.

Il relatore onorevole Ambrosini, nella sua relazione, ha chiaramente esposto le sostanziali differenze tra Stato regionale (più esattamente: tra Stato organizzato sulla base delle autonomie politiche Regionali) e Stato federale.

Si tratta, in sostanza, guardando alla genesi, di un procedimento inverso.

Nello Stato federale sono i singoli Stati membri che, in base ad un patto, attribuiscono alla federazione funzioni e poteri ben circoscritti; nello Stato regionale è lo Stato stesso che crea le Regioni, ne configura e ne circoscrive l’autonomia, determinandone, in concreto, le funzioni e i poteri.

L’onorevole Mannironi ha magistralmente lumeggiato che la potestà legislativa della Regione ha e deve mantenere carattere «derivato», ossia deve mantenersi subordinata al potere statale. Già in partenza, con la duplice limitazione concernente la materia e l’efficacia territoriale, lo Stato circoscrive la potestà legislativa regionale. Infine, mentre le leggi regionali non potranno, in via assoluta, abrogare o derogare a leggi statali, queste ultime potranno abrogare leggi regionali o derogare ad esse, in vista di particolari interessi di carattere nazionale. Quanta apprensione in quest’Aula, onorevoli colleghi, per l’unità d’Italia!

Se Mazzini avesse potuto assistere alle nostre schermaglie polemiche dei giorni scorsi, avrebbe certo sorriso di compiacimento davanti a tanta preoccupazione, anche da parte dell’estrema sinistra, per l’esigenza unitaria del Paese, ma non avrebbe potuto evitare un senso di accorato disappunto nel vedere osteggiato il suo sogno regionalistico. Certo il problema più delicato e importante è quello di determinare quali siano, in concreto, gli interessi di natura limitatamente regionale per i quali sia opportuna una regolamentazione specificamente regionale, in modo da non pregiudicare gli interessi di carattere generale e nazionale, per i quali non siano ammissibili un frazionamento e una diversificazione nella disciplina giuridica.

Ed è proprio alla luce di questa esigenza fondamentale che io vorrei passare in rassegna, brevemente, alcuni articoli del Titolo in esame.

Sull’articolo 109 s’appuntano le maggiori critiche. Esso infatti attribuisce alla Regione un potere di legislazione esclusiva; esso implica una rinunzia integrale da parte dello Stato a legiferare su determinate materie ritenute di esclusivo interesse regionale.

È proprio per questa, che mi pare la più ardita e la più innovatrice delle riforme (quella che più d’ogni altra contribuisce a dare un contenuto elettivo all’autonomia regionale), che molti paventano pericoli all’unità d’Italia ed alla integrità dei poteri legislativo ed esecutivo dello Stato. Eppure, mi sembra che non sia concepibile una autonomia regionale priva della potestà primaria di legiferare in materia di ordinamento degli uffici ed enti amministrativi regionali, di modificazione delle circoscrizioni comunali, di fiere e mercati, urbanistica, strade, lavori pubblici di esclusivo interesse regionale. Condivido invece le eccezioni che sono state mosse alla inclusione della beneficenza pubblica tra le materie nelle quali lo Stato non può emanare leggi. La definizione degli istituti pubblici di assistenza e beneficenza ed i requisiti per il loro riconoscimento, la responsabilità e il controllo sull’operato dei loro amministratori, la proprietà, gli acquisti degli enti morali e la manomorta, sono tutti argomenti nei quali appare anche a me consigliabile non lasciare pieno arbitrio alla Regione.

L’articolo 110 riguarda la cosidetta legislazione concorrente: nelle materie elencate lo Stato può fissare soltanto principî e direttive, quando lo ritenga opportuno, allo scopo di realizzare una disciplina uniforme. A proposito della legislazione concorrente, sembra che ci sia accordo in linea di principio: i dissensi riguardano solo talune materie, per le quali non è giudicato consigliabile limitare a semplici direttive l’intervento dello Stato. Così ad esempio a proposito delle cave, che non agevolmente possono essere nettamente distinte dalle miniere (contemplate al successivo art. 111), la cui vigente disciplina giuridica sul piano nazionale è frutto di unificazione dei sistemi legislativi preesistenti, diversi da zona a zona.

L’onorevole Einaudi, nel suo intervento, ha accennato alla inopportunità della inclusione delle acque pubbliche tra le materie elencate all’articolo 110, la cui utilizzazione su piano nazionale è stata unitariamente e sapientemente regolata dalla legge Bonomi.

Analogo rilievo può essere fatto in materia di produzione, trasporto e distribuzione di energia elettrica. Già in via pregiudiziale va notato che non è agevole scindere la regolamentazione degli usi irrigui e di bonifica da quella degli usi delle acque per produzione di forza motrice, appunto per la strettissima connessione tra i diversi usi delle acque.

Sta di fatto che raramente tutta l’energia elettrica consumata da una Regione viene in essa prodotta, e viceversa. Esiste una complementarità, sia pure imperfetta, tra i regimi idraulici delle zone alpine e delle zone appenniniche: mentre le prime sono ricche di acqua in estate, i corsi d’acqua delle seconde sono in piena nel tardo autunno e nell’inverno, prima che inizi la piena dei fiumi alpini. Appunto per questo le reti italiane sono interconnesse, escluse quelle insulari: talune Regioni, come la Toscana ad esempio, ricevono alternativamente da nord e da sud il proprio fabbisogno di energia. Né l’ubicazione degli impianti dipende dalla vicinanza delle località di consumo: le centrali termiche (e quelle geotermiche della Toscana meridionale) adempiono ad una funzione esclusivamente nazionale. Sul piano internazionale, si fa strada oggi la tendenza a considerare l’intero complesso alpino come un unico bacino idroelettrico. L’interconnessione delle reti è una necessità tecnica che, realizzata, si traduce in un vantaggio economico: maggior equilibrio dei carichi e conseguente possibilità di diminuzione dei prezzi.

Appunto in base a questi criteri la riforma del 1918-1919 giunse a definire le acque pubbliche «ricchezza nazionale» ed a coordinare sul piano nazionale il loro sfruttamento.

È vero che lo stesso articolo 110 del Progetto, proprio per le acque pubbliche e l’energia elettrica, diversamente che per le atre materie, stabilisce che la regolamentazione regionale non deve «incidere» sull’interesse nazionale e su quello di altre Regioni, ma è altrettanto vero che i contrasti, in materia, tra Regione e Regione saranno, prevedibilmente, frequentissimi.

Né io penso che l’Italia possa seguire, in materia, il cammino inverso rispetto a quello di altre Nazioni (Svizzera, Francia, Stati Uniti). Nella Nazione elvetica si sta passando da una legislazione cantonale ad una legislazione unica federale.

In Francia si è arrivati addirittura alla nazionalizzazione delle imprese idroelettriche. Il problema della nazionalizzazione dei grandi complessi monopolistici, delle cosidette «industrie-chiavi», è oggi sul tappeto in tutti i Paesi. Io sono d’avviso che occorre andare cauti prima di impossessarsi, a nome dello Stato, di aziende realmente solide, per disporre dei ricavi a beneficio di una politica contingente. Certo, in Italia sono riusciti deleteri gli «annunzi a vuoto» di nazionalizzazione dei grandi compiessi idroelettrici, così come, nel settore finanziario, quelli del tanto auspicato e non mai realizzato cambio della moneta.

Non bisogna, comunque, dimenticare che, in Italia, in base alle norme vigenti, tutte le forze idrauliche sono di proprietà dello Stato: la concessione a privati ha la durata di sessant’anni: scaduto il termine, tutte le opere eseguite dal concessionario per produrre energia elettrica, passano automaticamente e gratuitamente in proprietà dello Stato.

Una più ampia disamina del problema esulerebbe dal mio assunto.

Mi limito a prospettare, in conclusione, alla Commissione e all’Assemblea la opportunità di trasferire la materia delle acque pubbliche e dell’energia elettrica dall’articolo 110 al successivo articolo 111, relativo al potere legislativo, attribuito alla Regione, a titolo di integrazione e di attuazione delle leggi dello Stato, «per adattarle alle condizioni regionali». Ai termini di detto articolo, lo Stato deve lasciare un congruo margine alla Regione, quando legifera nelle materie espressamente indicate; può lasciare detto margine nella misura e coi limiti che ritenga opportuni, in qualsiasi altra materia; può, infine, affidare alla Regione un circoscritto potere regolamentare.

A proposito delle materie elencate all’articolo 111, ritengo fondate e giustificate le preoccupazioni espresse dall’onorevole Einaudi in merito alla disciplina regionale del credito, dell’assicurazione e del risparmio. Una legge speciale dello Stato sulla tutela del risparmio e l’esercizio del credito che, in qualche punto particolare, non lasciasse alcun margine d’integrazione alla Regione, potrebbe, per questa parte, essere impugnata come incostituzionale. In sintesi, io ritengo che gli auspicati ritocchi ai tre articoli 109, 110 e 111 non siano affatto di tale entità da compromettere la grande riforma.

Non mi sembra ragionevole che l’Assemblea si areni su questioni di dettaglio che, di comune accordo, possono essere agevolmente superate.

Rimane, piuttosto, da risolvere una questione che, a torto, i compilatori del Progetto hanno, evidentemente, giudicato di secondo ordine: quella della Provincia. Nel Progetto, la Provincia appare come evanescente Cenerentola, tollerata più che adeguatamente considerata, per ragioni di compromesso coi numerosi e accesissimi suoi difensori.

Questo nostro lungo dibattito ha dato modo di constatare che la Provincia, oltre che nella mente, è viva nel cuore della grande maggioranza dei colleghi.

Come centro dogli interessi del proprio territorio, il capoluogo di provincia è, almeno allo stato attuale, un dato insopprimibile: trasferire d’emblée uffici e servizi dell’ente provinciale, che ha un’ossatura, una dinamica e un’esperienza proprie e aderenti alle esigenze capillari, nel capoluogo di Regione, significherebbe, oggi, tra l’atro, aggravare il disagio dei cittadini di gran parte dei Comuni d’Italia.

Né risponde al vero per tutte le terre d’Italia quell’assenza di seria e convincente tradizione storica che l’onorevole Einaudi ha lumeggiato per le provincie piemontesi: in Lombardia, ad esempio, l’ente Provincia ha tradizioni anteriori al Risorgimento.

Né mi pare assuma carattere perentorio il dilemma posto, una volta tanto, non dallo specialista onorevole Nenni, ma dallo stesso onorevole Einaudi: «Dato che i due enti territoriali Regione e Provincia storicamente non preesistono alla disciplina che si vorrà dare alle autonomie locali, bisognerà creare ex novo un ente territoriale, e l’Assemblea potrà scegliere tra la Provincia e la Regione».

A me pare che, dal momento che il sistema dell’autonomia comporta l’attribuzione non del solo potere di amministrazione, ma anche di un certo potere normativo (e in questo potere sta appunto il substrato della riforma, che non si limita al semplice decentramento gerarchico o burocratico, né al più vasto, ma non ancora sufficiente, decentramento autarchico, sia territoriale che istituzionale), Regione e Provincia possano coesistere con funzioni proprie. Non è pensabile l’attribuzione del potere normativo alla Provincia, né, tanto meno, che esso possa essere esercitato se non nella più ampia sfera regionale. Io vedo, a grandi linee, la Regione con poteri normativi e di coordinamento; vedo la Provincia come ente autarchico, con poteri di amministrazione. Non v’ha dubbio che, a questo proposito, il testo dell’articolo 120 del Progetto debba essere profondamente modificato, per rispondere all’esigenza di una più netta e precisa configurazione dell’ente Provincia.

C’è un notevole pericolo da superare: quello della maggiore elefantiasi burocratica. Ma sono convinto che l’annoso e tormentoso problema della burocrazia statale non sia risolubile su un piano di centralismo. Bisogna articolare la pubblica amministrazione, per renderla più efficiente e più aderente alle esigenze periferiche. Bisogna togliere allo Stato per dare alla Regione, alla Provincia, al Comune. La Regione, a sua volta, non deve uccidere la Provincia. La difficoltà sta nell’ingranare Regione, Provincia e Comune nel complesso statale unitario, in modo che, al posto di una sola gigantesca burocrazia inefficiente e soffocatrice, non subentrino quattro burocrazie mal congegnate, che fatalmente porterebbero al caos. È questo il problema più delicato da risolvere. È necessario che la Commissione e l’Assemblea raffrontino con decisione e con ponderazione.

Ultima nella mia modesta rassegna critica, ma certo in primissima linea per importanza, la vexata quaestio dell’autonomia finanziaria.

La possibilità di autofinanziamento è senza dubbio condizione e presidio della autonomia politico-amministrativa.

L’articolo 113 del Progetto contiene l’affermazione generica del principio dell’autonomia finanziaria, limitata però (e a mio avviso, giustamente) in virtù del previsto coordinamento con le finanze dello Stato.

Intanto sembra chiaro (anche se non risulta esplicitamente) che i tributi a favore della Regione saranno istituiti soltanto con legge dello Stato. La materia è (ovviamente) rinviata a leggi speciali di carattere costituzionale. Queste dovranno aver cura di realizzare la semplificazione, evitando l’appesantimento del già troppo intricato e macchinoso sistema tributario italiano. Altro scoglio da evitare: l’eccessivo inasprimento del gravame fiscale complessivo, in un Paese come il nostro, a pressione fiscale già molto forte.

La ripartizione del gettito complessivo dei tributi erariali, a mio avviso, dovrebbe essere regolata secondo i servizi che Stato, Regione, Provincia, Comune dovranno rendere ai cittadini e non secondo un criterio di erogazione ad libitum della volontà centrale, pur non trascurando l’esigenza di integrazione a favore delle Regioni più povere.

Non bisogna sottovalutare il pericolo che il previsto coordinamento con la finanza dello Stato venga, di fatto, a risolversi in un potere discrezionale, o in una nuova tutela.

Ciò premesso, io vedo anche nel principio dell’autonomia finanziaria, cardine dell’autonomia regionale, un potente contributo allo sviluppo del senso di responsabilità nel cittadino, alla migliore misurazione delle possibilità effettive al metro delle reali possibilità contributive.

E lo vedo oggi, soprattutto: in questo tormentoso periodo di emergenza, in cui tutti, cittadini ed enti, bussano a denari alle casse dello Stato, come se il Tesoro fosse una specie di pozzo di san Patrizio.

In conclusione, onorevoli colleghi, io penso che, se i milioni di fine secolo decimonono e i miliardi dell’allegra finanza fascista, anziché nelle guerre grandi e piccole, fossero stati in parte tesaurizzati e in parte spesi nell’incremento igienico, agricolo, industriale e culturale delle Regioni d’Italia, specie delle più povere e delle più abbandonate, oggi il nostro Paese sarebbe alla testa dei Paesi civili.

Dando voce reale, effettiva e libera al popolo nostro, non solo attraverso l’elettorato, ma altresì attraverso la rappresentanza regionale, noi renderemo un grande servizio alla causa della democrazia. Precostituendo zone di interessi locali autonomi, noi otterremo il temperamento dei monopoli statali dell’amministrazione e della finanza, rendendo più difficili le manomissioni del pubblico denaro e le diversioni del Tesoro verso speculazioni nazionaliste! (Applausi Congratulazioni).

PRESIDENTE. È iscritto a parlare l’onorevole Bruni. Ne ha facoltà.

BRUNI. Onorevoli colleghi, nessuno di voi ignora come, con l’affermazione in Europa, alla fine del secolo XV, dei regimi monarchici, incominciasse a prevalere un tipo di organizzazione sociale che si andò facendo sempre più rigorosamente unitaria sotto la sovranità dello Stato. A cominciare dalla fine del secolo XV la vita sociale fu sottoposta in Europa, quasi dappertutto, ad un processo di statizzazione sempre più profondo. La struttura giuridica assunta dallo Stato moderno, anche là dove esso si proclama liberale e democratico, è diventata tanto massiccia, che ha posto gli altri gruppi sociali in una condizione di quasi assoluta dipendenza dal potere politico.

Si può affermare che lo Stato moderno consideri gli altri gruppi sociali come dei semplici mezzi rispetto ai suoi fini. Attualmente questi gruppi costituiscono come delle porte spalancate attraverso le quali agli uomini di governo è possibile recare ancora troppe offese alla persona. Ciò rivela senza dubbio uno degli aspetti più notevoli dell’attuale crisi sociale.

Anche da questa Assemblea ho udito levarsi delle voci a favore d’una concezione «univoca» dell’autorità e della sovranità.

È certamente facile riconoscere come l’uomo concreto non viva che in società. Ma è altrettanto vero che la sua vocazione sociale non può esaurirsi nella società statuale, e che perciò, oltre quella statuale, ci sono altre autorità ed altre sovranità che parimenti devono essere riconosciute e garantite.

L’esigenza dell’unità sociale, di cui tanto si parla, deve rimanere, soprattutto, un fatto di coscienza, e, strutturalmente, deve essere realizzata incominciando col riconoscere, a ciascuna forma sociale, la sua particolare fisionomia, i suoi particolari scopi, la sua specifica sovranità.

Sottoporre ad un gioco gerarchico questa pluralità di sovranità e di giurisdizioni spetterà quindi alla sovranità dello Stato che è, specificamente, sovranità ed unità d’ordine, in modo che ne emerga in questa divisione la fondamentale sovranità della persona, con le sue caratteristiche extra-territoriali e metasociali.

Non c’è dubbio che l’uomo, per essere uomo, deve entrare in un processo di socializzazione. Ma non in un processo di socializzazione che non sia «comunione», che cioè non sia articolazione estrema di forze sociali, e quindi libertà nella vita associata.

Bisogna pertanto denunciare ogni tentativo di socializzazione meccanica, imposta dall’alto. Il nostro lavoro costituzionale, onorevoli colleghi, se vorrà essere veramente efficace e costituire un’utile novità per la vita del nostro Paese, dovrà segnare la fine del tentativo, che da tempo si è assunto lo Stato, di monopolizzare la vocazione sociale dell’uomo.

I risultati di un ordinamento pluralistico della società si faranno sentire ben presto.

Lo Stato, una volta divenuto una istituzione puramente giuridica, a giurisdizione più che sia possibile limitata alla difesa dell’ordine interno ed esterno ed al coordinamento dei diversi gruppi sociali, non costituirà più la cappa di piombo che tutt’ora soffoca l’uomo.

La tecnica sociale non mortificherà più lo spirito e, per ciò stesso, gli uomini si verranno a trovare nelle condizioni esteriori assolutamente necessarie per un’effettiva vita in comune.

La società italiana, specie col riconoscimento delle autonomie regionali e comunali, si avvia a diventare una società a tipo pluralista.

In Italia lo Stato demo-liberale sta per essere finalmente smobilitato e finalmente dissacrato: esso dovrà cedere ai Comuni e alle Regioni parte di quelle attribuzioni sin qui da esso esercitate.

Agli antichi diritti di libertà e di eguaglianza, riconosciuti all’individuo dalla rivoluzione francese, si vengono ora ad aggiungere delle garanzie di carattere sociale.

II cittadino non è più il soggetto astratto di diritti e di doveri, ma il soggetto più concreto di diritti e di doveri sociali.

Così l’uomo viene meglio raggiunto; e la democrazia si realizza in forme molto più concrete.

Il metodo del centralismo statale, con il quale – dopo il 1870 – si tentò di unificare gli italiani e di salvaguardarne le libertà, non ha dato certamente frutti molto brillanti. Dov’è ora la nostra unità? E dove sono, ora, le nostre libertà, onorevoli colleghi?

Il pluralismo sociale non è antiunitario: la preoccupazione unitaria costituisce una delle sue preoccupazioni fondamentali. Esso è però dominato dall’idea di vivificare l’unità con un esercizio più concreto delle libertà.

Il metodo del centralismo statale è produttore di servitù e di unità in gran parte fittizia; il metodo del pluralismo sociale vuol essere produttore di libertà concreta e di unità. Sono perciò autonomista, per l’amore che porto all’unità e alla libertà del popolo italiano. Il segreto d’una struttura democratica, veramente superatrice dell’attuale democrazia di forma, sta nella creazione di un organo costituzionale base a cui si attribuiscano determinate potestà sovrane, aventi inoltre una certa consistenza economico-sociale e che, quanto ai suoi limiti territoriali e funzionali, risulti, come ora si dice, a misura d’uomo.

Il progetto di Costituzione ritiene di poter sodisfare le esigenze autonomistiche che sono, giova ripeterlo, le esigenze della libertà e dell’unità, con la creazione dell’ente Regione e delle autonomie comunali. A mio parere il progetto segna bensì un notevole passo avanti sulla via della smobilitazione dello Stato moderno, ma è insufficiente e non è tale da poter raggiungere adeguatamente lo scopo prefisso.

Evidentemente qui non si tratta di creare un ente autarchico solo amministrativamente. L’autonomia comunale è sufficiente a tale scopo. Qui si tratta di creare un altro ente distinto, ma non separato dallo Stato, ente che, entro certi limiti, possegga potestà legislativa, quella potestà che il Progetto, del resto, riconosce alle Regioni.

Questo ente politico primordiale, nella maggioranza dei casi, non potrà essere circoscritto nel Comune, che non possiede sufficiente potestà economica e sociale per poter godere di una, sia pur limitata, effettiva autonomia.

D’altra parte la Regione è troppo vasta perché possa divenire uno strumento veramente efficace per portare l’uomo all’autogoverno che è il fine che le autonomie vogliono raggiungere.

La Regione, territorialmente e funzionalmente, non è davvero a misura d’uomo. L’accentramento regionalista costituisce un pericolo che non deve essere sottovalutato, presentandosi, per molti aspetti, peggiore di quello statale.

È necessario compiere un altro passo in avanti nella strada delle autonomie. Oratori che mi hanno preceduto hanno messo in rilievo l’importanza ormai divenuta tradizionale, a loro parere, della Provincia, e perciò la convenienza di farla sopravvivere e anche di potenziarla avviandola al grado di ente autarchico fondamentale, invece di limitarne la funzione, come pare voglia fare il progetto di Costituzione, a quella di semplice organo di decentramento amministrativo della Regione.

Dirò subito che questa non è idea che la Commissione e l’Assemblea potranno scartare senza averci meditato sopra molto. Ma mi sia lecito di far conoscere su questo punto tutto il mio pensiero. Io sono del parere che la stessa Provincia, e specie alcune provincie, non sono in grado di rispondere adeguatamente all’esigenza autonomistica. L’idea di elevare ad ente autarchico fondamentale un ente più piccolo della Regione, ravvisandolo nella Provincia, è un’idea ottima come sentimento, ma a mio parere ancora insufficiente come soluzione concreta. È assolutamente necessario che l’ente autarchico fondamentale, che la cellula primigenia dell’ordinamento politico ed economico sociale sia più piccolo della Provincia, sia veramente a misura di uomo, in modo che possa prendere visione diretta dei problemi che è chiamato a risolvere.

È necessario, e in ciò sono d’accordo con quanto ha scritto Adriano Gretti, che esso non abbia limiti territoriali più ampi di quelli del circondario, del distretto militare, della diocesi.

L’articolo 107 del progetto non è affatto chiaro nei riguardi delle provincie.

Secondo un mio emendamento andrebbe così modificato: «La Repubblica si riparte in Regioni, Circondari e Comuni».

L’articolo 120 sembra prevedere il decentramento circondariale ma ciò non appare sufficientemente chiaro.

Ho, perciò, proposto la sostituzione di questo articolo nel seguente:

«La Regione esercita normalmente le sue funzioni a mezzo delle circoscrizioni circondariali che risultano dalla divisione delle provincie».

Conseguentemente, al 2° comma di questo articolo, alla dicitura «circoscrizioni provinciali» dev’essere sostituita quella di: «circoscrizioni circondariali».

Naturalmente questi emendamenti delle dizioni già adottate rappresentano un compromesso con il testo progettato e ciò che a mio parere, sarebbe l’ideale. Infatti, in via di principio non sarebbe da adottare la dizione: «la Regione esercita… le sue funzioni… a mezzo di uffici nelle circoscrizioni circondariali…», e simili, in quanto l’ente autarchico «circondario», qualora si introducesse nella nostra Carta, non deriverebbe affatto la sua autonomia da una concessione della Regione o dello Stato, ma dalla libera volontà dei suoi abitanti.

Se si accettasse questo punto di vista, se, cioè, l’autonomia primigenia investisse un ente dell’ampiezza territoriale, per esempio, del circondario, non avrebbero più ragion d’essere i timori, non del tutto infondati, espressi da tanti, che l’autorità della Regione possa rivolgersi contro la sovranità dello Stato. L’autonomia di enti territorialmente così limitati, oltre a risolvere in modo più concreto il problema di un regime di democrazia diretta (ch’è nel voto di tutti), farebbe da utile contrappeso all’autorità della Regione, in quanto questa autorità verrebbe ad essere ristretta alla sola funzione coordinatrice dei diversi enti autarchici compresi nella sua giurisdizione, e non intralcerebbe il necessario movimento centripeto dello Stato.

Per completare il quadro di questo decentramento e per andare incontro ad alcune giuste osservazioni fatte, per esempio, questa mattina dall’onorevole Priolo, le elezioni del Consiglio regionale dovrebbero essere di secondo grado, attraverso quelle circondariali, e la capitale della Regione essere scelta in qualche cittadina, ora di seconda importanza.

Devo anche aggiungere che le proposte dell’onorevole Priolo, relative al decentramento delle grandi città, sono meritevoli della più grande considerazione.

Sento poi il dovere di reagire contro il frantumamento regionale codificato nell’articolo 125 del progetto di Costituzione. La Regione, per raggiungere il suo compito di democratizzare sempre più le nostre strutture politiche ed amministrative, deve essere di tale ampiezza territoriale e di tale consistenza economica da costituire una «vivente» e non soltanto «giuridica» entità autarchica. Di qui la necessità di rivedere l’elenco delle Regioni alle quali il progetto vorrebbe concedere l’autonomia, e di almeno triplicare il quoziente minimo di popolazione fissato in 500.000 abitanti perché ulteriori richieste di autonomia possano essere sodisfatte.

Mi sia permessa una osservazione finale. Questa struttura politica ed amministrativa di democrazia decentrata fino a raggiungere il singolo, se è assolutamente necessaria per trasformare in una «società di uomini» la nostra società, che è ancora prevalentemente una società di interessi, non è tale da poter ancora raggiungere tutte le sue mete. Non illudiamoci!

Questa struttura giuridica, onorevoli colleghi, non lo dimentichiamo, deve essere riempita da due contenuti, ambedue indispensabili: da un contenuto economico e da un contenuto spirituale.

L’ideale di una «comunità», del quale si nutre l’esigenza autonomistica, non potrà assumere forme concrete, se non s’intende sostenuto dalla riforma costituzionale, e perciò obbligatoria per tutte le regioni, dell’attuale esercizio del diritto di proprietà. Ho sentito questa mattina esclamare da un collega democristiano: la libertà ci salverà! Ciò è vero solo se si tratterà della libertà socialista, ma non certo della libertà liberale.

Votando alcuni articoli del Titolo III, sono del parere che l’Assemblea abbia purtroppo sciupato in partenza i migliori effetti che potevamo attenderci dalle autonomie. La sopravvivenza dell’attuale regime economico di classe inficia alla radice i risultati personalisti, come ora si dice, e comunitari, che con le autonomie ci ripromettevamo di raggiungere.

Solo una società che metta in comune tutti i mezzi di produzione e di scambio potrà pienamente beneficiare delle autonomie politiche, mentre, d’altra parte, solo queste autonomie potranno salvare l’uomo dalla tirannide di un ordinamento economico integralmente statizzato.

D’altra parte, niente potrà resistere a lungo delle strutture politiche, amministrative, ed anche economiche, se queste non saranno sostenute da un contenuto spirituale, se in esse l’uomo non sarà presente; se non sarà l’uomo a sostenerle col suo spirito di intraprendenza e col suo amore disinteressato per la libertà e la giustizia.

Il successo del nostro compito costituzionale, pur rimanendo sempre arduo, onorevoli colleghi, dovrà essere tuttavia sempre inteso strettamente legato al mistero delle anime e alla formazione intellettuale e morale dell’uomo.

Haec meminisse iuvabit, per il nostro lavoro, per la nostra umile ricerca del meglio! (Applausi).

PRESIDENTE. L’onorevole Nitti ha presentato un ordine del giorno del seguente tenore:

«L’Assemblea Costituente, tenendo conto della incertezza emersa dalla discussione dinanzi al problema della autonomia regionale, riconoscendone la gravità e l’importanza, delibera di rinviarne l’esame alla futura Camera legislativa».

L’onorevole Nitti ha facoltà di svolgerlo.

NITTI. Di questo argomento io intendo parlare senza nessuna preoccupazione di ordine politico. Questo argomento infatti, benché considerato con particolare simpatia da una parte della Camera, non implica necessariamente una orientazione politica. Si può però essere pro o contro le Regioni, si può essere anche indifferenti, ma non si può negare l’importanza del problema.

Non è in questo momento che il problema delle Regioni sarà seriamente risoluto, e se io mi sono deciso a presentare questo ordine del giorno, che ne rinvia la discussione alla prossima Assemblea, è anche perché credo che ora seriamente non si possa pensare di arrivare a una conclusione.

Devo però dire le mie preoccupazioni. Noi siamo in un periodo in cui un farraginoso lavoro ci spinge a decidere argomenti gravissimi senza sufficiente preparazione e senza che, per alcuni di essi, ve ne sia necessità. Vi prego di considerare quanto io dirò, come all’infuori della situazione ministeriale e politica. Questo argomento, per il Governo che ci regge in questo momento, non involge alcuna responsabilità. Si può votare contro, si può votare in favore essendo amici o avversari del Ministero. Questo è un argomento che, nel mio concetto, deve essere esaminato obiettivamente. Ma alcune cose che sembrano innocue io considero sempre con grande diffidenza. In Italia si tende sempre ad esagerare. Vedete che cosa è avvenuto per la proporzionale. La proporzionale era cosa savia ed innocua, permettete di dirlo a me che ne sono stato l’autore, e che nel 1919 la volli. Quando mi decisi, invitai tutti i parlamentari più importanti e di ogni parte politica perché mi esprimessero sinceramente la loro opinione. Vi erano uomini di estrema sinistra e di estrema destra. Accettai la proporzionale e la feci votare: avevo allora come sottosegretario di Stato l’onorevole Grassi, ora Ministro della giustizia, e come relatore del disegno di legge ebbi l’onorevole Micheli: dunque i democristiani possono riconoscere che io non agivo in ambiente nemico.

La proporzionale che si applicò era discreta e temperata. Non asserviva l’uomo al partito e non soffocava la libertà dell’individuo.

Si trovò modo di equilibrare le varie tendenze, ed alla proporzionale arrivammo senza urto. Avvennero le elezioni con la proporzionale. Io diedi un ordine preciso ai prefetti del tempo: non vi occupate di elezioni (ragionamento che ora pare molto strano), non vi occupate di elezioni, non intervenite, fate che tutti votino come vogliono. Non abbiate preoccupazioni di quello che sarà il risultato politico. Diedi alla censura un altro ordine (allora avevo ancora la censura): fate pubblicare tutto, tranne quanto accenna alle conseguenze della guerra fatta con gli alleati. Fate pubblicare tutto, soprattutto divieto assoluto di togliere ogni cosa che sia insulto alla mia persona. E feci pubblicare tutto. Feci anche pubblicare a Mussolini le volgari violenze in cui ero definito col più volgare titolo di «porco». Mussolini non poté mai perdonarmi che io allora non lo prendessi sul serio e che ridessi di lui, e nelle elezioni di Milano furono proclamate tutte le infamie del «porco Nitti».

Al prefetto Flores ordinai di lasciar pubblicare tutto quanto era insulto a me. Posso dire di aver agito allora con temperanza e di aver evitato possibili conflitti per motivo mio personale. La proporzionale non diede attriti. Elezioni fatte liberamente portarono alla Camera una ondata di socialisti, e, per la prima volta, entrarono numerosi i democratici cristiani, che allora si chiamavano «popolari».

Applicai sempre la proporzionale in un regime di libertà, ma in un clima ancora caldo delle passioni e degli odi di guerra.

Ora dunque, io non sono nemico della proporzionale e ho diritto di dire che sono proprio io che le ho dato diritto di cittadinanza in Italia.

Ma debbo constatare che in Italia, dove si tende sempre all’esagerazione (il fascismo torbido e l’antifascismo violento, la reazione e l’anarchia), si passa da un eccesso all’altro. Ora vi è l’orgia della proporzionale. L’onorevole Micheli, nella sua relazione sulla proporzionale all’Assemblea consultiva che l’ha votata, dedicò la prima pagina a sostenere che la cosa più saggia, per evitare l’errore di improvvisazione, era di accettare la proporzionale del 1919. Credo che si sarebbe agito con prudenza e con saggezza tornando all’antico. Invece, i responsabili della nuova proposta, i suoi autori, di cui alcuni erano in quel tempo anche ministri, quando li interrogai mi dichiararono che non sapevano nulla della proporzionale italiana del 1919. E passò un tipo di proporzionale, che non è stato certo il più fortunato; e passò anche la malattia della proporzionale, considerata come una specie di nuovo idolo, da applicare dovunque e comunque.

Da allora fu lo sfacelo dell’amministrazione, dell’ordine interno politico, perché si volle fare tutto con la proporzionale. I partiti vollero la proporzionale ad uso interno e ad uso esterno, nelle elezioni politiche, nelle elezioni amministrative, nelle amministrazioni comunali e provinciali. E quando entrarono nell’Assemblea vollero stabilire la proporzionale, e quando furono distribuite poi le cariche del Governo prevalse l’idea della proporzionale. Non vi è nulla di più folle e di più dannoso.

Ora, come è venuta questa ondata di simpatia improvvisa per la Regione? È un fenomeno della stessa natura.

Io devo dichiarare sulla mia coscienza che nessuno mi aveva mai parlato in Italia della Regione; si parlava di decentramento, anche da alcuni uomini contrari al regime monarchico, si parlava da parte di elementi reazionari di separazione di alcune zone dall’Italia, ma come vuoto discorso, non mai come un programma.

Ora, è venuta improvvisamente la proposta della creazione delle Regioni e questa è cosa che mi ha profondamente turbato.

Noi abbiamo in Europa tre grandi Paesi vincitori e numerosi Paesi vinti. Fra i tre grandi vincitori nessuno ha voluto adottare la proporzionale, il nuovo tipo di proporzionale assurda dell’Italia. Tutti hanno conservato il collegio uninominale. Nessuno poi ha parlato di divisioni interne, di regioni e nessun movimento autonomista è sorto in alcun Paese serio.

Presidenza del Vicepresidente TARGETTI

NITTI. Com’è venuta fuori la Regione?

In quest’Assemblea sono entrati i grandi partiti di massa e tutti poi, partecipando al Governo, si sono distribuiti proporzionalmente anche le funzioni e i posti e i benefizi dello Stato. In questa decadenza politica e morale determinata dalla proporzionale, se vi saranno autonomie regionali non vi sarà limite al disordine e allo sperpero.

Si è voluta la proporzionale con tutte le sue esagerazioni. Si è prodotta la situazione più assurda. Nella comune diffidenza che avevano i partiti, che governavano insieme ma erano sempre pronti a detestarsi e a denigrarsi in pubblico, la proporzionale è stata introdotta anche negli uffici e nei Ministeri, al punto che, se un Ministro era comunista, il Sottosegretario doveva essere conservatore, o, se il Ministro era democristiano, il Sottosegretario doveva essere socialista. Questa cosa molto strana e nuova paralizzava ogni azione di Governo. Ma quella parea che dovesse essere la proporzionale democratica! Tutti ora in Italia si dicono democratici. Signori, io sono forse un pedante; ho scritto due enormi volumi sulla democrazia, tradotti in parecchie lingue; ma dacché sono qui, io stesso non capisco più che cosa è democrazia. Tutti la invocano in ogni momento, anche quando non vi è democrazia, anche quando si tratta di governi stranieri, che non sono in realtà democratici. Così, si è giunti al punto ormai che abbiamo l’incubo delle autonomie regionali. Nessuno mi sa spiegare e nessuno ha spiegato perché si vogliono avere Regioni autonome.

Perché questa improvvisa eccitazione?

Alla mia età ho conosciuto tanta gente, ho visto tanti Governi, tante situazioni. Non avevo mai assistito ad una aberrazione come questa delle autonomie regionali.

Domando ai vecchi parlamentari, che sono qui, se qualcuno di essi aveva mai parlato di Regione.

In Italia un uomo eminente, veramente competente in materia, Luigi Bodio, milanese, grande statista, fondatore della statistica italiana, diceva che le regioni sono una finzione statistica, per raggruppare alcune province e alcuni territori in quadri statistici. La Regione non è mai esistita, essa è stata finora una finzione statistica. Le grandi isole avevano senza dubbio fisionomia speciale: ma nel resto d’Italia dove erano separazioni nette?

Dunque, nessuno dei grandi italiani aveva parlato di Regione e tanto meno di autonomia regionale. Studiate a fondo Mazzini, studiate Cattaneo, studiate Ferrari, non troverete mai idee di autonomia regionale. Come questo fungo del disordine è venuto fuori? Non si può dire. Si è pensato forse da qualcuno ai cantoni svizzeri. La Regione non ha niente di comune con i cantoni, che hanno vita secolare, alcuni quasi millenaria. I cantoni svizzeri sono una formazione storica spesso arcaica e spontanea. Conservano tutte le vecchie forme. Chi di voi è stato in Isvizzera ha potuto assistere anche in quei cantoni a spettacoli quasi medioevali. Si presentano i cittadini per votare, coi vecchi costumi, spesso in rozze giacche, ma hanno la sciabola al fianco, per ricordare avvenimenti lontani, quando dovevano difendere con le armi il loro diritto e la loro indipendenza. Che cosa le autonomie regionali che si sono ideate hanno di comune con la realtà storica di altri Paesi? Precedenti così strani la Francia non ha mai avuti, o forse vi fu in Francia un solo tentativo. Quando Napoleone fu battuto (Napoleone aveva fatto tutto un ordinamento nuovo in Francia e aveva rovesciato tutto ciò che rappresentava la vecchia Francia), un certo Fievée, uomo di modesta intelligenza ma grande agitatore, pensò di instaurare in Francia qualcosa che somigliava alla Regione. Ma non volle darle il nome di Regione; ne parlò in alcuni preamboli, ma non volle mai dare il nome di Regione che non rispondeva a nessun sentimento francese. Quel movimento, dopo la caduta di Napoleone, parve che dovesse essere importante, ma non ebbe alcun seguito, e finì nell’indifferenza.

In Francia, pochi anni or sono, dopo la grande disfatta, il maresciallo Pétain ebbe l’idea poco felice di creare la Regione. Gliene mancò il coraggio. Fece allora i prefetti regionali, i quali non avevano altra funzione che quella di capitanare, diciamo così, due, tre e quattro provincie e di dare loro una direzione generale; sempre, s’intende, nelle idee del maresciallo. E da allora la cosa non ha più avuto seguito. Nessuno ha pensato, dopo Pétain, che si potesse parlare di Regione.

In Italia si parlò di Regione solo dopo la catastrofe della guerra e la caduta del fascismo. Prima non se ne era mai parlato, perché si erano fatte tante opposizioni al fascismo, ma teoricamente, praticamente e politicamente nessuno aveva mai messo fuori l’idea della Regione. Com’è venuta fuori questa idea? Venuta improvvisamente, senza sapere il perché, e, se permettete, è venuta in antipatia di Roma. Roma aveva ospitato il fascismo, era stata trionfante col fascismo, e nei primi tempi – io venivo dall’estero allora – la prima cosa che mi colpì, prendendo i primi giornali, fu quella che non solo essi parlavano della Regione, ma alcuni di essi giungevano perfino a parlare della capitale Milano. Questa fu una cosa che mi spaventò. Era possibile parlare sul serio?

Eppure se ne parlava sul serio. Bisognava distruggere la città, dal punto di vista politico, la città che aveva dato il trionfo al fascismo. Veramente Roma, come l’Italia meridionale, non erano state responsabili del fascismo. Il fascismo era stato di origine lombardo-emiliana. Io che ero a capo del Governo nel periodo 1919-1920 posso dire più degli altri come si è formato. L’Italia meridionale e la Sicilia non erano responsabili del fascismo, né della guerra. In questa diffidenza che venne per l’Italia meridionale e per Roma, venne anche l’idea di trovare qualche cosa di meglio e di più sano, e si cominciò a parlare di spostare la capitale, di introdurre nuovi ordinamenti, ecc.; tutto ciò non era conseguenza di logica, ma rispondeva a un periodo di cattivo umore e di malessere.

L’Italia meridionale fu sempre ostile al fascismo e a Mussolini. Nella mia Provincia, dove non si riusciva nemmeno a trovare i podestà fascisti, fu necessario inviarli da ogni parte d’Italia: molti in quest’Aula ricordano che essi furono mandati da Mussolini in deportazione. La mia Provincia, considerata come una Nuova Caledonia dai fascisti, ospitò molti fascisti e alcuni di essi sono anche in quest’Aula.

Ma nel nord d’Italia, dove ciò non si conosceva o si conosceva poco, si continuò da molti a considerare la sede del Governo fascista come il centro vitale del fascismo, che fu, ripeto, fenomeno nordico della vita italiana; almeno nelle sue origini e nel suo primo sviluppo.

Un professore molto intelligente, che fece parte di questa Assemblea, o che per meglio dire fece parte della precedente Assemblea, la Consulta, il compianto professore Adolfo Omodeo, storico veramente notevole, ha scritto pagine assai importanti sull’equivoco delle Regioni e delle autonomie regionali.

Quando fui la prima volta Ministro (tempi lontani, del 1911) vi erano 69 provincie; ed io (con la mania che mi ha sempre perseguitato della economia delle spese di Stato) pensavo già che, se fossi stato Presidente del Consiglio e Ministro dell’interno le avrei potute ridurre a 50. Quando venne Mussolini, fu l’orgia della follia (in tutta l’azione di Mussolini non vi è già la malvagità che gli si attribuisce, quanto la follia di grandezza e di vanità). Trovò 69 provincie ed immediatamente le aumentò, portandole poi fino a 92. Ingrandì tutto, aumentò tutto, volle sempre essere spettacolare. I prefetti, che erano dinanzi ai Ministri modesti funzionari, ebbero i titoli più pomposi, anche quello di eccellenza. Era una cosa comica. Erano, secondo il decreto di Mussolini, eccellenze all’interno della provincia e non lo erano fuori; cosicché quando arrivavano a Roma si trovavano spogliati del titolo dorato e vano.

Le 69 provincie d’Italia, aumentate fino a 92, nella loro vita normale non avevano dato cattiva prova. Mussolini volle, alle provincie italiane, unire quelle della Libia, cosicché vi furono quattro prefetti per la Libia, con a capo due viceré, per un certo tempo, e poi uno. Pensate che per una zona arida e che non ebbe mai alcuna produttività e in cui si sperperavano miliardi, per quella povera zona vi erano dei viceré e alla loro dipendenza erano prefetti. Tutta l’amministrazione fu sconvolta da queste forme di stravagante follia e di stravagante vanità.

Come, caduto il fascismo, dopo la follia di grandezza si è arrivati al sogno di dissoluzione delle autonomie regionali, nelle quali tutto dovrebbe essere elettivo, e tutto ciò che è elettivo dovrebbe essere amministrato con il sistema della proporzionale, che non può praticamente funzionare ovunque è applicato?

Da noi, non solo tutte le provincie, ma gran parte dei comuni vivono sull’equivoco di una loro finanza che poi, in gran parte, ricade a carico dello Stato. Come si farà questa organizzazione delle Regioni e quali saranno le spese necessarie e chi le sopporterà? Quale diffidenza inevitabile e quali lotte fra le Regioni autonome e lo Stato!

Io, quando son tornato in Italia, sono stato sorpreso di vedere anche sulle mura prove della follia dissolvitrice. I francesi dicono: «la muraille c’est le papier de la canaille»; ma qualche volta le mura esprimono delle passioni e dei sentimenti di folle. Una delle cose che mi sorprese fu quella di trovare una certa diffidenza per tutto ciò che rappresentava l’organizzazione dello Stato nella sua forma antica – spontanea, è vero – che ha avuto da secoli. Io alloggiavo allora nella modesta casa della mia vecchissima madre e delle mie vecchie sorelle, in Via Spontini. Tutte le mura, per un certo tempo, erano tappezzate non solo di iscrizioni che, come meridionale, mi offendevano, ma anche di iscrizioni veramente strane. Quella nel quartiere più diffusa, era: «Viva le donne del Nord». Io non potevo spiegarmi quale differenza esistesse tra le donne del Nord e le donne del Sud. Ora, in questo stato, in questa atmosfera, è nata l’idea delle Regioni autonome.

L’autonomia regionale è intesa, in fondo, come un distacco di cui si possono avere tutti i vantaggi della unità senza il peso (Commenti al centro). Presto o tardi, potete essere sicuri, si arriverà alla separazione, e voi, che siete più giovani di me, ne vedrete le terribili conseguenze. La Regione autonoma, con amministrazioni basate sulla proporzionale, non può sboccare che nella diffidenza, e la diffidenza non può sboccare che nella difficoltà della convivenza. Vedete già gli atteggiamenti che vi sono nei Paesi dove ci sono i cosiddetti movimenti autonomisti: si cominciano a fare i conti: come ci regoleremo? Alcuni rimproverano agli altri le cose di cui forse dovrebbero rimproverare se stessi, ma nessuno porta una nota amica.

Io ho trovato l’Italia meridionale inquieta sull’esempio del Nord. A rischio di sciupare quella popolarità che avevo diritto di avere dopo tanti anni di lontananza e dopo tante sofferenze, ho resistito e ho detto: non parliamo di autonomie e di Regione. Noi saremo perduti se ci separeremo; la mia convinzione è che in Italia non ci deve essere nessun sentimento che non sia d’italianità. Se noi, in quest’ora terribile in cui siamo – e che non diventerà migliore per qualche tempo – ci separeremo spiritualmente e anche materialmente, come si vuole, noi ne avremo le più tremende conseguenze.

L’Italia, che non ha che scarse ricchezze naturali, che non può produrre se non con grande difficoltà, l’Italia non sarà forte se non sarà unita in un solo sentimento, in una sola passione e anche in una sola comunanza d’interessi. È nell’idea della vita nazionale che noi ci salveremo. Ci salveremo con il sentimento della Nazione che uccide la fazione che finora ci ha soffocato e che prevale ancora.

Disgraziatamente ci sono stati parecchi cattivi esempi. Come è cominciata infatti questa tragica farsa delle autonomie regionali? Non voglio darne la colpa neppure solo ai democristiani. La farsa tragica è cominciata con un liberale. Un liberale, di cui non avevo mai sentito il nome, e che si chiamava, credo, Brosio e che, quando tornai qui, trovai indicato nei giornali come Vicepresidente del Consiglio, titolo che non esisteva e credo non esista nella legge italiana, propose la cosa più spaventevole e più assurda. Questo singolare studioso, che ora credo sia ambasciatore in Russia, non so per quali studi speciali (Si ride), trovò che vi era un paese a cui occorreva proprio dare subito l’autonomia: la Val d’Aosta.

Io non avevo mai sentito, in tanti anni di studio e di Governo, alcuno che mi avesse mai parlato della Val d’Aosta come di un paese che dovesse avere una propria autonomia. Anche sotto la Casa Savoia, la Val d’Aosta aveva conseguito certi vantaggi locali, ma nessuno mai aveva parlato di autonomia.

Quando, dopo la vittoria del 1918, vi furono le conferenze della pace, cui come Primo Ministro ebbi l’onore di partecipare per l’Italia, giunsero alcuni rappresentanti della Valle di Aosta che chiesero non l’autonomia, ma qualche cosa di simile. E si rivolgevano alle nazioni vincitrici, cosa che mi fece una cattiva impressione, per avere garantito uno speciale regime politico.

E così, per l’opera di quel certo Brosio, il Governo, senza averne diritto, concesse la così detta autonomia. E ora? Io non voglio farvi perdere tempo, ma, se non avessi questo timore, vorrei leggervi i documenti che riguardano il regime attuale, non certamente di spirito italiano, dei reggitori della Valle di Aosta.

In questa storia della Val d’Aosta troppe cose sono inspiegabili e strane. Io ho qui i programmi delle scuole: la lingua italiana è di fatto abolita. Mi pare che soltanto per il disegno, o per qualche altra materia affine, sia consentito l’insegnamento in lingua italiana.

Non per colpa dei democristiani, ma per colpa di un liberale dunque. Ora, riflettete un momento: riflettete alle isole grandi, ad isole come la Sicilia e la Sardegna. La Sicilia era piena di rancore per il fascismo; la Sicilia non si era piegata mai al fascismo. Mussolini pensava di separarla dall’Italia perché voleva metterla in situazione speciale; e di fatto fece un decreto in base al quale tutti gli impiegati statali siciliani (solo quelli siciliani!) non potevano risiedere in Sicilia!

E arrivò all’estremo della follia, di chiedere a tecnici eminenti se si potesse fare un ponte il quale rendesse possibile comunicare per terra con la Sicilia per togliere anche ad essa il privilegio insulare. Dunque da follia a follia.

Quando si è data l’autonomia alla Val d’Aosta, voi vi meravigliate perché la Sicilia, la Sardegna e altre zone hanno chiesto anche la loro autonomia regionale. Perché, di fronte all’assurdo, cioè alla autonomia concessa alla Val d’Aosta, sarebbe stato ben strano che ci si opponesse alla richiesta di Regioni che avevano ben più diritto all’autonomia per la loro natura insulare, dato il principio…

RUSSO PEREZ. La Sicilia ha chiesto sempre l’autonomia, prima ancora della Val d’Aosta.

NITTI. Questo vedremo: è materia di indagine storica. Ma a me non risulta che mai gli uomini importanti e autorevoli che ebbe in gran numero la Sicilia abbiano parlato veramente di autonomia siciliana. Certo nessuno di essi, pur essendo a capo del Governo, ne fece proposta. Prima la Sicilia e poi la Sardegna; poi vennero altre regioni: ora vi sono progetti di autonomie regionali non solo per la Sicilia e la Sardegna, ma per il Trentino e l’Alto Adige (voi ne comprendete le difficoltà e il pericolo e il danno sicuri), per il Friuli e per la Venezia Giulia. Pensate alle difficoltà di organizzare queste autonomie regionali tra persone che hanno diverse lingue, origini diverse di nazionalità, e che devono regolare la loro vita in comune esse stesse con una vera facoltà legislativa, come quella che si è ideata. E pensate a quali inevitabili inconvenienti ciò porterebbe. Quante Regioni! Nella relazione si enumerano, credo, ventidue Regioni da rendere autonome. Io non ho osato raccogliere tutte le innumerevoli pubblicazioni che mi son venute da ogni parte. Si è cominciato con l’idea delle grandi autonomie regionali e poi si è discesi a mano a mano. Perché solo la grande Regione? E perché una grande Provincia non poteva dichiararsi Regione? E perché non anche le piccole Regioni autonome? E allora le Provincie hanno cominciato esse stesse a dichiararsi Regioni. Volevano essere Regioni: cambiava solo il titolo; la Provincia voleva essere Regione autonoma e non cambiava le altre istituzioni. E poi, cosa ancora più inverosimile ed assurda, si arrivò al punto che nel territorio della stessa provincia vi furono proposte di divisione in differenti Regioni autonome. Si divideva la Provincia in due o tre Regioni. Non vi farò l’elenco, ma ho tutta la raccolta, veramente comica, di tutte le ragioni che servirono a spiegare le nuove Regioni. Quali strane cose! Si risvegliarono tutti quanti i vecchi popoli, i longobardi, i normanni, gli arabi; si invocarono diritti storici che nessuno più ricordava; si invocarono perfino precedenti storici, per cui all’interno di una Provincia dovevano essere create due o tre Regioni. Voi ricordate che in provincia di Roma si parlò perfino della Tuscia e della Sabinia da costituire in Regioni. Niente pareva più piacevole che elevarsi a Regione autonoma.

E si è andato a mano a mano degenerando, per cui le Regioni auspicate erano diventate così numerose che ogni pezzo d’Italia pareva dovesse diventare una Regione. Nessuno si domandava: come vivrà? che cosa farà questo ammasso di Regioni? come si organizzerà? con quali mezzi? quale sarà la sua finanza? Questo problema della finanza pare che non abbia interessato nessuno; è una cosa che ai fantasiosi autonomisti regionali sembra indifferente. La finanza, vi è qualcuno che ci pensa? Adesso i Comuni vivono sullo Stato, almeno in gran parte.

Vi riferirò in proposito, forse in una prossima occasione, perché ora non posso dilungarmi, quale guazzabuglio sia oggi la finanza locale in Italia. Pensate che cosa sarà con le Regioni autonome! Anche ora è uno strano miscuglio, una stranissima finanza in cui il contribuente è unico. Si può appena immaginare ciò che, nella inevitabile disunione, sarà la finanza di Regioni autonome, governate da elementi elettivi designati in base alla proporzionale.

Non vi parlo delle autonomie che si vogliono instaurare dettagliatamente: andrei troppo per le lunghe e sarebbe vana cosa. Voi credete che anche la Sicilia e la Sardegna vivranno tranquillamente, diventando regioni autonome e che avranno unità di propositi e unità di azione? Io ho molti motivi per dubitarne. Difficile l’accordo fra le varie parti della Sicilia. E la Sardegna, la povera Sardegna? Si crede che sia facile fare una Regione autonoma della povera Sardegna. Ma sarà veramente facile farla funzionare come autonoma, regolata dalla proporzionale?

L’onorevole Ruini, che era nel 1911 nel gabinetto del mio collega il Ministro Sacchi, ricorderà il disegno di legge che io presentai per opere idrauliche in Sicilia e in Sardegna, progetto che doveva provvedere a un’opera di grande importanza. Quel disegno di legge doveva darmi le simpatie dei sardi e svegliò invece le loro diffidenze. Per la Sardegna riguardava il grande bacino idrico del Tirso. Quando il disegno di legge fu presentato, tutti i sardi della provincia di Sassari mi tolsero il saluto. Vi era fra essi un uomo veramente buono e stimabile, l’onorevole Pala. Era il più buon uomo del mondo, ma ombroso e fiero e sempre disposto a credere a un inganno o a una offesa: passava dinanzi a me come un orso. Un giorno lo affrontai e gli chiesi: Perché questo tuo odio o rancore? Mi rispose turbatissimo: hai voluto il bacino del Tirso che è in provincia di Cagliari. E che si fa per Sassari? Gli dissi che per Sassari avrei studiato in seguito la possibilità di un lago artificiale, il Coghinas. Non si calmò; mi disse: Mai Cagliari prima di Sassari! Dovevate presentare due progetti insieme o niente per nessuno!

Credete che questi sentimenti di diffidenza siano del tutto scomparsi? Credete che le autonomie regionali, risvegliando i sentimenti di diffidenza, non determineranno più grandi assurdità di contrasti locali?

L’Italia non può avere che un nome, un’anima unica nazionale. Noi non possiamo rompere il nostro paese in pezzetti e governarlo con l’assurdo delle Regioni e poi sprofondare le Regioni nelle lotte e nelle diffidenze delle proporzionali.

Volete fare la Regione: ogni cosa sarà materia di contrasti e di diffidenze. Bisogna darle una piccola capitale e dovete nominare la capitale. Tante pubblicazioni ho ricevuto su questo argomento e oramai le butto via. Ma sono una massa enorme! Semplice argomento. Quale è la capitale della Regione? In Sardegna, Cagliari o Sassari? e perché non Nuoro? In Abruzzo, Aquila o Chieti? In Calabria, Catanzaro o Reggio? Altri contrasti, altre lotte!

Sono sorte, come ricordavo, speranze di Regioni nuove, dalla Daunia alla Tuscia e alle fantasticherie che vogliono essere geografiche o storiche. Tutte cose che non hanno nessuna serietà, nessuna possibilità.

La creazione delle Regioni sveglia nuovi desideri, nuove domande di spese e creazione di istituti che non vi erano più. A Palermo si domanda già una Corte di cassazione e si richiede la ricostituzione di istituti scomparsi. La prima richiesta è la Cassazione.

Ebbene, due insigni giuristi che furono anche Ministri, Ludovico Mortara e Vittorio Scialoja, non desideravano che la Cassazione unica, che realizzò un vero progresso. (Interruzione dell’onorevole Russo Perez).

In Francia nessuno ha mai osato chiedere la ricostituzione delle vecchie corti regionali. Il danno non dipende solo dal fatto che ci troveremo di fronte a tante richieste sempre crescenti. Dopo Palermo possiamo essere sicuri che anche Firenze e Torino vorranno le loro Corti di cassazione. E così sarà per tanti altri istituti. Il personale, moltiplicandosi, sarà poi una spesa enorme. Voi pensate che in questo tempo, in cui i magistrati sono, non dirò la parola famelici, per non offendere il Ministro di giustizia, ma sono in una grave situazione, e fanno vita povera, voi pensate che in questo momento noi possiamo pensare a fare altre Cassazioni o altre Corti e dobbiamo essere costretti a fare altre magistrature (Commenti) come quella assurda delle Corti supreme, assurdo che non esiste in nessun Paese, che è una pura follia. Questa Corte suprema, mal ideata e per puro equivoco, che confonde ordinamenti diversi degli Stati Uniti di America, della Germania e della Svizzera, che non hanno a che fare con la Corte suprema, ideata per vivere una vita incerta, che dovrebbe servire a scopi diversi e indefiniti, è soprattutto determinata a risolvere i conflitti fra lo Stato e i cosiddetti parlamenti o diete delle singole autonomie regionali. Quale assurdità! L’organismo della Corte costituzionale, come è stato concepito, rappresenta per me non solo un’assurdità, ma una cosa ridicola. Nessuno mi può spiegare il meccanismo né la ragione di un così bizzarro progetto. Noi abbiamo bisogno di serietà ed è soprattutto il ridicolo che ci minaccia dopo il discredito e il danno.

Io vedo che si ritorna ai contrasti locali, alle cattive tradizioni del passato, che avvelenarono la vita italiana per secoli, alle piccole repubbliche del Quattrocento. Mi pare di rileggere Dante, le contese fra i Comuni, nello stesso Comune (ora la proporzionale), l’odio fra le varie città. Intanto si va contro la logica, contro la scienza.

Fra le altre cose non dobbiamo dimenticare che l’Italia è un piccolo paese di 310 mila chilometri quadrati appena, per cui si va in meno di un’ora, in aeroplano, da una parte all’altra della penisola. I treni vanno a cento chilometri di rapidità, nelle nostre ferrovie, meravigliosamente riparate; esse formano l’orgoglio dell’amministrazione italiana, perché, con pochi mezzi, è riuscita ad attuare una non facile ricostruzione. Anche adesso si può andare sulle ferrovie da una parte all’altra dell’Italia in poco tempo, e noi vogliamo fare ordinamenti che corrispondono ai bisogni e alle tendenze di tempi lontani. Pensate che (colmo di stupidità) vogliamo dare alla Regione la materia delle acque. Vi è nulla di più paradossale? È anzi la più grande assurdità che ai tempi nostri possa esistere! È un paradosso di stupidità. È una materia che deve essere unificata e regolata con unità di vedute, perché una parte d’Italia compensa l’altra, ed il Nord d’Italia e il Sud d’Italia hanno diversi periodi di magre dei fiumi e la rete idroelettrica deve essere unificata e regolata con unità di vedute.

Il problema delle miniere non può essere considerato anch’esso con criteri locali e qui si parla invece di affidarlo all’ente regionale. E dove sono i tecnici e chi sono? Una materia come quella delle miniere e combustibili fossili, date le poche miniere che sono in Italia, deve essere organizzata nel modo migliore e più economico. Ora quali sono i criteri che può avere una organizzazione locale? Nessuno mi ha voluto spiegare quali saranno le entrate finanziarie della Regione, non volendosi far scomparire del tutto la Provincia quale ente intermedio. Se volete far scomparire la Provincia, quali saranno le entrate della Regione differenti da quelle dello Stato? Come se ne disporrà? Non voglio invelenire le dispute, ma vi pare serio che si facciano come dei trattati fra una Regione e l’altra per regolare alcune materie? Vi pare serio che si arrivi in questa materia regionale all’assurdo di pensare di disporre delle risorse dello Stato a proprio beneficio e di contribuire il meno che si può allo Stato? Non voglio inacerbire la questione, parlandone, ma non è possibile non tenerla presente.

Vi potrei far vedere, con esempi sicuri, se non temessi di urtare la suscettibilità, come si concepisce la Regione. Lo Stato paga per l’ente Regione, che è disposto al minor sacrificio. Tutto ciò che si dice e si chiede non può essere materia di seria discussione. Noi abbiamo fatto una proposta di ordinamento della Repubblica la quale richiede una revisione. Siamo ora a esaminare la parte più importante, a discutere quello che avremmo dovuto discutere da principio, la vita dello Stato. Questa è cosa ben più importante di quelle discussioni fra teologiche e rivoluzionarie che hanno formato la base dei Titoli precedenti. Questo è il punto principale: la funzione dello Stato, la vita e i rapporti dello Stato. Finite le discussioni su cose fantastiche, noi dobbiamo regolare questa materia con la più grande serietà. Il Presidente, onorevole Terracini, comprendendo che questa materia delle Regioni poteva dar luogo a controversie, l’ha voluta mettere per prima nell’ordinamento dello Stato. Noi siamo venuti qui con l’idea che le Regioni prendessero uno, due, tre giorni al massimo. Ora, benché i nostri amici democristiani abbiano voluto prendere la Regione come una loro figlia naturale… (Interruzioni commenti).

Una voce al centro. Legittima!

NITTI. Lasciamo stare la legittimità.

Una voce al centro. Don Sturzo!

NITTI. Sturzo era nell’economia astrale, non era alla Camera. Nessuno mi ha mai parlato di Regione se non letterariamente. (Interruzioni).

Se Sturzo mi avesse proposto l’autonomia regionale e insieme la forma assurda dall’attuale proporzionale io avrei considerato ogni proposito inaccettabile.

FUSCHINI. Si incominciò con le Camere regionali di agricoltura.

NITTI. La Regione non può realizzarsi se non nel disordine e nel disfacimento dell’Italia.

DE VITA. Quando non ne parlava nessuno, ne parlava proprio lei. Quando lei parlava della Sicilia, a quale entità si riferiva? Lei sta smentendo quello che ha detto pochi anni or sono.

NITTI. Lei non conosce i miei libri, e Nord e Sud, che suscitò tante discussioni: nel quale, pur riconoscendo e indicando le perdite dell’Italia meridionale, dicevo che solo il regime unitario poteva, tenendo conto di ciò che vi era da correggere, salvare l’Italia e creare una grande Italia. Era l’apologia dell’unione contro ogni idea di divisione. Abbiamo davanti a noi un breve periodo di tempo e questi sono i giorni più difficili. Dobbiamo finire l’esame della Costituzione nel più breve tempo, perché i termini della nostra esistenza sono limitati dal tempo che ci è dato dalla legge, termini che dovremo necessariamente prorogare. Ma dobbiamo anche, se vogliamo prorogare questo termine, agire in modo che la discussione dei grandi problemi possa avvenire pacatamente e seriamente. Finora non abbiamo discusso niente di quel che riguarda la vita dello Stato. Di tutto si è parlato, tranne che della vita dello Stato. Ora vengono tutte le controversie fondamentali che riguardano la vita nazionale. Abbiamo dunque un termine assegnato e dobbiamo trovare seriamente il tempo per lavorare. Vi sono alcuni nostri colleghi che dicono che sia obbligo di onore (non so che c’entri l’onore) di far le elezioni presto; e che i nostri poteri dovrebbero finire il 24 giugno. Perché questi termini sono improrogabili? Possiamo essere in condizione di fare le elezioni prima di esaminare tutti i problemi più essenziali che interessano la vita dello Stato?

All’infuori delle logomachie su ogni genere di argomento, non abbiamo ancora parlato dello Stato, delle sue istituzioni, della nomina e dei poteri del Presidente della Repubblica, della Camera dei deputati e delle sue forme di elezione; del Senato – se esisterà o no – dei suoi poteri e delle sue forme di elezione. E poi quanti altri grandi problemi da esaminare e quante difficoltà da risolvere!

Solo parecchi mesi di vero e serio lavoro (non come quello in cui le Sottocommissioni hanno perduto tanto tempo) ci metteranno in grado di esplicare compito sì enorme.

Noi dobbiamo, dunque, decidere del nostro lavoro nell’interesse dello Stato e della Nazione. Partiti discordi, in questa materia, onestamente non devono esistere.

Per decidere sulle autonomie regionali, io ho proposto che se ne parli nella nuova Camera, senza nulla compromettere per ora.

Sento troppo parlare di esperienze. Si dice: facciamo una esperienza. Le esperienze si fanno sui conigli e sulle cavie. Io so che si deve fare un’azione di Stato solo quando si ha la sicurezza dei risultati. Cosa sarebbe l’esperienza quando parecchie di queste zone, che si contenderanno il malefico nome di Regione, si inabisseranno nel disordine?

Ed allora il dubbio mi assale e ne soffro, perché mi pare che si vaneggi.

Intanto, speriamo che non si pensi ad abolire i prefetti. Il Presidente del Consiglio ed il Governo non hanno bisogno del mio consiglio. Ma io devo dir loro: non state a sentire coloro che suggeriscono di preparar subito quei Consigli regionali, che non agiranno mai forse seriamente. Non pensate che si possa intanto fare a meno dei prefetti. Senza i prefetti nessun ordine: voi non contereste nulla, né voi né noi. Non avremmo né elezioni né ordine. Se i prefetti in questo periodo dovessero scomparire rapidamente, sarebbe un vero disastro. Spero che l’onorevole De Gasperi e il suo Governo manterranno l’ordine come ora, valendosi dei prefetti, cui bisogna dar prestigio, raffermandone l’autorità. Quando si è nella vita e nella lotta, bisogna tenere i piedi su qualche cosa e posarli stabilmente.

Cosa volete fare con le Regioni improvvisate, coi Consigli elettivi e improvvisati, coi funzionari elettivi e ancor più improvvisati, tutti agitati dalle passioni locali? Lasciate i prefetti.

CALOSSO. È dei regimi coloniali. In Inghilterra…

NITTI. Tutto il contrario. Ma troppo mi domandereste chiedendomi di spiegare che cosa è l’organizzazione dell’Inghilterra. Il prefetto in Italia non è una superfetazione né i prefetti sono materia da trascurare o da abolire per sostituirli con meccanismi più o meno fantastici, ideati da persone incompetenti.

I prefetti sono ancora spesso funzionari seri e preparati, se vengono dall’Amministrazione. Poi vi sono stati cattivi prefetti nominati dal fascismo e prefetti non meno cattivi e incapaci nominati dal regime antifascista che è seguito.

Ritornati al regime normale, i prefetti sono garanzia di serietà e di ordine.

Naturalmente i prefetti sono buoni o cattivi e fanno bene o male secondo i Governi da cui dipendono. Un Ministro dell’interno onesto ha risultati diversi nell’opera dei prefetti di un Ministro senza scrupoli.

Io tracciavo una rigida disciplina ai prefetti ed essi, in generale, si comportavano onestamente. Vi furono Ministri che richiedevano ai prefetti che invece si occupassero di elezioni e di intrighi. Ma, in una democrazia seria e decente e dove esistono parlamenti, tutto ciò si corregge. Nelle autonomie regionali, quale è il modo di evitare gli errori e il disordine e anche la disonestà? Non vi possono essere che contrasti in permanenza e nessuna stabilità.

È sempre questione di uomini e cioè di capi in qualunque Regione. L’Italia ha avuto anche grandi prefetti in passato: ne ricordo due di Sardegna, ora che se ne parla tanto –mi duole che non sia presente l’onorevole Lussu – so quale opera sociale essi svolsero in Sardegna. I prefetti rappresentano ancora la stabilità, dove non è nulla.

Aspettiamo, dunque, che vi sia il nuovo ordinamento votato da una Assemblea più calma e non così frettolosa: per ora è meglio non mutare.

II Governo non potrebbe fare nulla se i prefetti venissero a scomparire o si limitassero ad azioni locali, che non avrebbero nessuna efficacia. Io, dunque, devo esprimere tutto il mio desiderio e vorrei dire una frase che mi pare antipatica. Io in questa materia ragiono come il nostro grandissimo Verdi, il quale diceva della musica: torniamo all’antico, sarà un progresso.

Non voglio nessuna forma antica che non sia necessaria, ma non voglio nessuna forma che non si basi sulla realtà e che sia improvvisazione di incompetenti.

Noi ci troviamo di fronte al terribile problema che involge tutta la discussione; siamo vicini alla fine della nostra Assemblea. Quale sarà la durata dell’Assemblea? Normalmente, si dice che dovrà finire il 24 giugno. Non l’ho mai creduto possibile, nessuno ci crede che sia ora possibile. Dunque, una proroga è necessaria. A spaventare coloro i quali parlano di proroga, parecchi mesi fa osai dire la cosa in questa Assemblea ed incorsi nel furore dell’onorevole Nenni, che trovò questa idea abominevole. Ma siccome la logica è più grande dei ragionamenti fatti dalla passione politica, la proroga avverrà perché è inevitabile e necessaria, e anche utile. Ora la questione non è la proroga, ma quale proroga. Noi, al 24 giugno, non avremo finito niente.

Si dice come uno spauracchio, perché non si vuole parlare spesso delle cose più vere, che, se non si fa entro il 24 giugno la chiusura dei lavori della Costituente, il mio affettuoso ed eminente amico De Nicola si rassegnerà dall’ufficio. Io non lo credo, perché l’onorevole De Nicola saprebbe compiere il sacrificio di restare al suo posto.

Noi non possiamo fare le elezioni il 24 giugno. E allora quando dovremo farle? La realtà è superiore alle nostre idee, e alle nostre divergenze. Ora la nostra proroga, che è necessaria, non può essere al minimo che al 31 dicembre, perché così avremo almeno un termine conveniente per riunirci, per rivedere questo abbozzo di Costituzione, per vedere ciò che ancora debbiamo fare, che è assai più di quello che abbiamo fatto. E non pensare a vacanze estive, a vacanze comode. Noi dobbiamo seguire l’invito del Presidente Terracini e lavorare indefessamente.

Una voce. Occorrerebbe un po’ di riposo.

NITTI. Io sono rassegnato anche a non riposarmi, perché per tutta la vita non ho mai riposato. Ora, il nostro dovere è di essere qui e di lavorare. Il pubblico non ci ama, diciamo la verità, il pubblico si è distaccato da noi; dobbiamo dare questo esempio di coraggio, di civismo è di moralità. Dunque, io vi dicevo, per ora niente autonomie regionali e soprattutto realtà, realtà. Io sono angosciato da tante e tante ipotesi assurde di quello che faremo. Sto seguendo, i miei amici della Sicilia me lo consentano, l’esperimento della Sicilia (parliamo di esperimento) con amichevole curiosità. Abbiamo visto a cosa ci porta la proporzionale, a quali conseguenze ci ha portato. Ora non si può governare, e nessun Paese che ha la proporzionale vera, esageratamente come l’Italia, può governare, perché sorgono tante difficoltà nell’ordine positivo. Altro è mettersi dietro un tavolo e scrivere delle disposizioni, altro è seguire gli uomini che sono in lotta fra loro. Ora, qual è la situazione che si è determinata? È assai difficile governare seriamente e noi non governiamo. Ditemi in quale comune d’Italia si può fare un’amministrazione durevole. Forse in qualcuno del Nord appena, dove si può avere una maggioranza di un qualsiasi partito. Ma a Roma siete mai riesciti a fare un’amministrazione municipale? Ora, come Roma vi sono tante altre città, tante altre amministrazioni. In Sicilia si è fatto il parlamento regionale. Ebbene, qual è la conclusione? In questo parlamento quarantasei rappresentanti sono da una parte e quarantaquattro dall’altra. Quale Governo serio, solido e stabile si può fare con quarantasei e quarantaquattro? La composizione dei quarantasei e dei quarantaquattro è naturalmente tale che non crea una unità seria. Il nuovo Stato autonomo siciliano non ha mezzi per funzionare. Esso vorrà almeno in principio, dallo Stato italiano, forse da cinque a sei miliardi.

Credete che la Sicilia non avrà problemi urgenti anche di ordine interno, anche della sua vita politica interna che le sarà difficile risolvere? Non crediate che questi problemi si risolvano con facilità. La Sicilia avrà presto le sue difficoltà e le avranno anche tutti gli altri Paesi che entrano in questo ordine politico di autonomia. Io non vi ho detto di abolire ciò che già esiste, vi ho detto di rinviare tutto alla prossima Assemblea, cioè a una nuova Camera eletta. Questa prossima Assemblea deve pur fare qualche cosa. Vogliamo noi adesso decidere, leggermente impreparati come siamo, su tutti i problemi del presente e dell’avvenire, fra tante confusioni? Vogliamo noi, in queste condizioni di disordine politico, regolare tutta la vita dei nostri successori?

Io vi prego di non preoccuparvi delle nostre contese e di pensare che l’Italia esiste e che noi la dobbiamo lasciare, a quelli che vengono dopo di noi, compromessa il meno che sia possibile.

Viva l’Italia unita! (Vivi applausi Molte congratulazioni).

(La seduta, sospesa alle 18.15, è ripresa alle 18.30).

PRESIDENTE. L’onorevole Zuccarini ha presentato il seguente ordine del giorno:

«L’Assemblea Costituente considera la Regione come elemento essenziale della nuova struttura democratica dello Stato italiano, le cui possibilità di vita e di funzionamento dipenderanno specialmente da una immediata riforma dell’attuale apparato burocratico, ad attuare la quale dovranno essere subito presi i provvedimenti necessari».

Ha facoltà di svolgerlo.

ZUCCARINI. «L’unitarismo assurdo, sotto forma di unità legislativa, è la spoliazione ridotta a sistema, è la volontaria depressione del Sud. Ora, avanzando l’ipotesi economica che il Mezzogiorno si separasse dal resto d’Italia, non si possono che rilevare i vantaggi del distacco, derivanti dall’impulso delle proprie risorse».

Era l’onorevole Nitti che scriveva queste parole.

Una voce. Il Nitti di un tempo.

ZUCCARINI. Già, potremmo dire: «di un tempo», giacché l’onorevole Nitti non è stato mai conseguente con se stesso!

MICHELI. È una malattia costituzionale!

ZUCCARINI. Io appartengo ad una generazione che è cresciuta alla vita politica anche attraverso la lettura dei libri di Francesco Nitti e che lo ha seguito durante tutta la sua azione. Francesco Nitti non è un costruttore, è un demolitore, è un uomo che ama le tesi assolute e le porta sempre fino all’esasperazione. (Commenti). Questa è la verità, che abbiamo potuto sempre constatare. Mi dispiace dovere iniziare il mio discorso con questo accenno personale a Francesco Nitti. Non sospettavo nemmeno di dover parlare ora, dopo il suo lungo discorso. Riferendomi a lui posso dire questo: che in noi, che siamo cresciuti nella vita democratica…

Una voce a sinistra. Può aggiungere repubblicana!

ZUCCARINI. …le aspirazioni e molte delle stesse idee, che oggi manifestiamo, si sono formate e maturate anche attraverso la lettura dei suoi libri. Ci ha però fatto sempre una strana impressione la indifferenza con cui egli trattava, dopo qualche tempo, le tesi che aveva prima sostenuto. Al regionalismo del Mezzogiorno, se di esso dobbiamo trovare un ispiratore, e cioè un punto di partenza, e molti elementi e argomenti per combattere la sua battaglia, li troviamo proprio in Francesco Nitti. «Nord e Sud» fu uno dei suoi primi lavori che più ci colpirono, appunto per la dimostrazione che egli vi dava della sperequazione esistente nella ripartizione delle entrate e delle spese dello Stato, nella diversa distribuzione degli oneri e delle attività dello Stato tra alcune regioni più ricche, che avevano di più di quanto non dessero, ed altre più povere, che davano invece di più e ricevevano di meno. Che le cose siano poi andate diversamente, non lo discuto. Ed è ancora da accertare se siano andate proprio diversamente. Io ne dubito. È certo, ad ogni modo, che il regionalismo, se deve a qualcuno i motivi della sua polemica e del suo sviluppo, li deve anche a Francesco Nitti.

C’è un’altra constatazione da fare: che Nitti ha sempre dimenticato il giorno dopo quello che aveva sostenuto il giorno prima. Lo ha dimenticato perfino nella sua opera di Governo. Ricordo benissimo quando agitò il problema del rimboschimento d’Italia. Era, secondo lui, il problema essenziale. Non ce n’era altro così importante e necessario per la risurrezione economica dell’Italia: boschi, boschi, boschi! Poco tempo dopo, egli diventava Ministro dell’agricoltura. Ebbene, dimenticò completamente tutto quello che sulla materia aveva sostenuto, e non ne fece niente. Ricordo altresì la sua ostilità ai monopoli, e certi suoi scritti in senso decisamente contrario. Ebbene, fu proprio Nitti che, improvvisamente, creò in Italia il monopolio di Stato delle assicurazioni. E non ebbe neanche il coraggio di difenderlo poi a viso aperto. Si limitò a darne la giustificazione in un piccolo libretto, che forse alcuno di voi possiederà ancora, ma che, dal punto di vista tecnico e teorico, lasciava parecchio a desiderare. Ad ogni modo, egli andò al monopolio senza convinzione, sapendo anzi di andare contro le proprie idee.

Questo è l’uomo, l’uomo che, quando l’abbiamo ascoltato poco fa, credo abbia dimostrato – a chi lo abbia seguito con qualche attenzione – quanto sia stato bene per l’Italia che con le sue idee, anzi con le sue non idee, con il suo pessimismo organizzato a sistema, con la sua mania di demolire tutto e tutti, e col suo porsi anche contro la realtà storica, non sia riuscito a formare un Governo. Delle sue effettive capacità politiche abbiamo avuto del resto, in altro periodo, una prova che tutti ricordiamo, quanti abbiamo vissuto la vita politica di quel periodo. Positivamente, non poteva essere Nitti l’uomo che avrebbe realmente salvato l’Italia dal disastro nel quale è precipitata e nel quale tutti viviamo!

Francesco Saverio Nitti ha detto, fra le altre cose straordinarie, che nessuno ha mai parlato fin qui della Regione. Ne avrebbe parlato, per la prima volta, il liberale Brosio; la Regione sarebbe addirittura una invenzione sua. Se ne è parlato invece fin dal 1860.

Una voce al centro. Anche prima.

ZUCCARINI. Vi aveva pensato, ad ogni modo, Cavour, il quale non credeva affatto che le Regioni potessero mettere in pericolo l’unità d’Italia, anzi le vide come un mezzo per cementare l’Italia, per togliere ad una piccola parte degli italiani la nostalgia e le intenzioni di un ritorno ai vecchi sistemi, alle vecchie artificiose costruzioni politiche.

Della Regione se ne è parlato attraverso il progetto Farini, nel primo Parlamento italiano; se ne è parlato quindi attraverso Minghetti; se ne è parlato infine in tutti i momenti importanti della vita politica nazionale, e se ne è parlato, non già perché la Regione potesse essere qualcosa di artificioso, che non esisteva e che nessuno conosceva, ma appunto perché a Regione è nella realtà stessa della vita italiana.

È vero, non è mai stata una unità amministrativa e politica ma, anche oggi, ci riconosciamo più facilmente come siciliani, come napoletani, come emiliani che come italiani. Ci sono affinità che sono non soltanto nel linguaggio, ma soprattutto dovute agli interessi, relative al modo di vedere e di considerare le cose e ad un insieme di situazioni economiche particolari, tanto è vero che anche nelle statistiche ufficiali (e non soltanto dal punto di vista statistico) la Regione venne sempre riconosciuta come una realtà italiana. Se si è adottato, anche attraverso le statistiche, il criterio della Regione, è perché esso rispondeva a una realtà effettiva; e noi infatti studiamo anche oggi i nostri problemi proprio attraverso queste statistiche, che ci presentano l’Italia economicamente e socialmente divisa in un determinato numero di Regioni.

Della Regione si è parlato in tutti i tempi, e non già per creare qualche cosa di artificioso, ma in relazione alla necessità di migliorare, modificandola, la costituzione politica, amministrativa, dello Stato italiano, la quale, se non sembrava fosse la costituzione ideale 60 anni fa, tanto meno sembra – almeno a noi – che possa essere la costituzione da mantenere e da stabilizzare oggi, dopo il fascismo.

Il problema fu sentito anche da Mazzini il quale, dopo il 1860 ed anche prima, si ribellò contro il sistema accentratore piemontese che si voleva imporre, e s’impose infatti, a tutta l’Italia, e ne vide fin da allora tutte le conseguenze. «Non è questa l’Italia che io sognavo» – egli disse – e pensò alla Regione e al Comune; anzi, al Comune prima della Regione.

Si ripresentò poi il problema della Regione ai congressi dei nostri comuni allorché sorse il movimento per l’autonomia del Comune da realizzare, coll’abolizione intanto di quel prefetto che l’onorevole Nitti, così moderno nelle sue idee e proteso verso l’avvenire, vorrebbe conservare anche oggi, nonostante che le dichiarazioni contrarie al suo mantenimento siano venute da tutti i settori della Camera!

Se c’è infatti una necessità, una esigenza sulla quale credo che non si siano manifestate divergenze, in questa Camera, è quella di abolire il prefetto. Bisogna togliere questo strumento del potere politico, che ha dato tutto quello che poteva dare di cattivo nella vita politica italiana, e che continuerà ad essere cattivo, nonostante tutto quanto dice di pensarne ora l’onorevole Nitti. L’onorevole Nitti invece crede essenziale non soltanto di conservarlo, ma anche di aumentarne i poteri.

Il problema della Regione si è ripresentato, ripeto, attraverso l’Associazione per l’autonomia dei comuni, ed è riferendosi ad essa che l’onorevole Tessitori ci ha ricordato il dissenso che su tale problema si manifestò in seno a quell’Associazione tra l’onorevole Sturzo e l’onorevole Bonomi. Il problema della Regione, basato proprio sull’autonomia del Comune, fu agitato infine dai socialisti, e ne parlò anche l’onorevole Caldara, sindaco di Milano, il quale, dopo l’altra guerra, si fece promotore di vari convegni di amministratori socialisti, che conclusero pure essi col reclamare la Regione.

Dopo la guerra chiusasi nel ’18, il problema si era imposto all’attenzione generale: ne parlavano tutti, era nel programma dei gruppi di rinnovamento, ma anche nel programma di molti altri. Anzi, apparve così vivo e presente nell’opinione pubblica che se ne fece assertore e propugnatore il Partito popolare – che era un grande partito anche allora – decisamente favorevole all’istituzione dell’ente Regione. Tutti ricordano i discorsi e gli scritti di Don Sturzo e i programmi del Partito popolare. A propugnare la stessa soluzione c’era il modesto Partito repubblicano, sempre fedele alla soluzione regionalista. Tutta la democrazia, tutti i partiti di avvenire si dichiararono infine favorevoli alla Regione. Tanto l’opinione generale era favorevole che nel 1921, in questa stessa Aula, Giovanni Giolitti disse che era proprio il caso di provvedere alla sua istituzione. Lo disse qui dentro e lo disse appena uscito dal Governo: aggiungendo anche questo, che l’istituzione della Regione non poteva rappresentare nessuna minaccia per l’unità dell’Italia.

Ebbene, io sono convinto che se allora (eravamo nel 1921) non fosse intervenuto il fascismo con le sue rapide vittorie e se, come ne aveva l’intenzione, Giovanni Giolitti fosse ritornato qua dentro a riprendere in mano il potere, egli avrebbe compiuto il miracolo di dare la Regione all’Italia, non solo, ma anche di convertire tutta la Camera.

E perché? Perché l’opinione di Giolitti aveva la virtù di diventare immediatamente l’opinione di una gran parte della Camera. Si verificava allora, per una parte della Camera, quello di cui ci ha dato recentemente l’esempio l’onorevole Togliatti: che cioè una opinione del Capo diventa subito anche l’opinione indiscussa dei suoi seguaci. Io mi auguro che questo miracolo l’onorevole Togliatti, come l’ha fatto per l’articolo 7, lo faccia anche per la Regione. (Si ride).

In ogni modo, il problema della Regione diventò vivo, vivissimo, e fu agitato subito dopo l’avvento del fascismo: allora si capì veramente che cosa poteva rappresentare per la libertà nella vita politica di uno Stato un ordinamento a base regionale. Si vide quello di cui non s’è accorto, nemmeno oggi, l’onorevole Nitti: cosa rappresenti cioè Roma nella vita politica italiana, Roma, la capitale dello Stato, la capitale in cui sono concentrati tutti gli uffici e tutti i poteri e dove bastò che Mussolini arrivasse con le sue camicie nere. C’è stata la marcia su Roma, onorevoli colleghi, non su Palermo o su Napoli o su altre città, nelle quali non avrebbe avuto conseguenze politiche. La marcia su Roma invece, sì, poteva averle e le ebbe, appunto perché, quando c’è l’accentramento statale come c’era e c’è in Italia, è molto facile mettere la mano sulle leve di comando e assoggettare tutto il Paese.

È un vecchio avvertimento della democrazia ed è una vecchia esperienza. Quando in un solo punto stanno concentrati tutti i poteri e tutte le forze è assai facile – e lo avvertì un giorno Cattaneo – a chi riesce a mettere le mani sul potere stabilire la dittatura.

Ed infatti l’antifascismo si orientò istintivamente verso la soluzione regionale; e vi si orientò valutandola sotto l’aspetto di una soluzione di democrazia e di libertà nello Stato. Nessuno fra di noi, che ne facemmo argomento della nostra battaglia, pensò alla Regione di per se stessa, come ad un organismo separato e indipendente dalla vita della Nazione. La vedemmo invece, proprio nel periodo del fascismo, come una soluzione democratica.

E alla Regione non si pensava di arrivare, come si pensa di arrivare oggi, per una concessione dall’alto: si pensava di arrivarci, invece, attraverso le autonomie comunali e con un sistema di collegamento tra comune e comune, che facesse della Regione non già un organismo per sé stante, ma un mezzo, una specie di ponte di passaggio fra le autonomie locali e l’autorità dello Stato.

Quest’idea della Regione, intesa non già come un organismo indipendente e separato da tutti gli altri ma come un organo di collegamento, di trasferimento della sovranità dal basso verso l’alto, fu compresa e accettata da tutti. Io ricordo, avendo stampato un libro in quel tempo, che «Critica Sociale» diede, almeno da parte di qualcuno dei suoi collaboratori, ampio riconoscimento a questa concezione nuova e democratica della struttura dello Stato; e ricordo altresì che quelle mie tesi furono apertamente sostenute anche da un altro giornale socialista che era allora diretto, oltre che dal Rosselli, dall’onorevole Nenni, «Il Quarto Stato», e molto esplicitamente.

Anche dopo, durante il fuoruscitismo, il programma di agitazione e di lotta che s’intendeva svolgere contro il fascismo e contro la dittatura fu impostato da tutti i partiti – dico da tutti i partiti – sul terreno delle autonomie. Dirò di più: spaventatevi pure, fu impostato sul terreno del federalismo. Persino dai comunisti, come ha ricordato del resto l’onorevole Lussu!

Sul regionalismo, inteso come problema di sovranità che si diffonde dal basso verso l’alto, si manifestarono concordi pure altri uomini politici di varia provenienza: potrei citare il Gobetti, che aderì completamente alle nostre idee; potrei ricordarvi Guido Dorso, rievocato e celebrato anche oggi, che, sulla base della esigenza autonomista e anticentralista, impostò quella che egli chiamò la rivoluzione meridionale.

Il problema fu ripreso e agitato, durante la liberazione d’Italia. Anche allora tutti i partiti si pronunziarono a favore della Regione. Così il partito liberale – mi riferisco all’organizzazione liberale del periodo clandestino – fu decisamente per l’ordinamento regionale. I socialisti, anche più tardi e persino nel loro manifesto per le elezioni del 2 giugno, hanno affermato e sostenuto la loro adesione al sistema delle Regioni. Tutti insomma furono fautori della Regione.

TONELLO. Il Partito socialista ha sostenuto il decentramento amministrativo, le autonomie locali; non la Regione.

ZUCCARINI. La Regione era nel suo programma elettorale.

Avvenute le elezioni, io credetti di potermi fare promotore qui dentro di una unione di deputati per le autonomie locali e per la Regione. Ricordo quanto numerosi fossero subito gli aderenti, e con quale entusiasmo arrivarono le adesioni, anche da partiti molto diversi. Fra gli aderenti ricordo l’onorevole Oro Nobili, il quale ebbe forse allora una concezione sbagliata della Regione. Un progetto di Regione ternana, per la monopolizzazione a favore di quella ristretta zona dell’energia elettrica, credo sia uscito proprio dalla mente dell’onorevole Tito Oro Nobili. (Applausi al centro). Almeno così mi riferirono. (Commenti).

NOBILI TITO ORO. Sapete bene che fu il sindaco di Terni; non lo nascondete, lo sapete benissimo!

ZUCCARINI. Non lo so, ma ricordo che fu giustificata la sua assenza dal convegno dei sindaci dell’Umbria per il fatto appunto che l’onorevole Oro Nobili aveva un’altra idea: quella di fare dell’Umbria un’altra Regione più ristretta e più rispondente a certi suoi orientamenti particolari: la Regione ternana.

Ma, lasciamo andare. Ripeto che le adesioni vennero dalle parti più diverse. Sono rimasto perciò sorpreso nel vedere l’onorevole Abozzi, allora fervido regionalista – almeno secondo le dichiarazioni che ebbe a fare a me – farsi proprio lui promotore addirittura della proposta di soppressione del Titolo. Egli ha partecipato infatti a diverse nostre riunioni, e vi ha partecipato non già quando si parlava anche dell’autonomia dei comuni, ma anche quando si parlava esplicitamente della Regione.

CHIEFFI. La propaganda in Sardegna l’ha fatta tutta sull’autonomia!

ZUCCARINI. Mi ricordo anche di altri aderenti del Gruppo qualunquista. L’onorevole Colitto si era sempre dichiarato favorevole alla Regione. È stata quindi una sorpresa per me sentirlo parlare qui, giorni addietro, contro la Regione; forse perché ha pensato che, dal momento che l’idea di costituire una Regione del Molise si presentava difficile, tanto valeva conservare la provincia! Ma la sua adesione alla Regione egli l’ha data, dimostrandosi, almeno nelle nostre riunioni, fervido sostenitore della proposta. E, infine, nella nostra Commissione dei settantacinque (Interruzione dell’onorevole Micheli) – permettetemi questa divagazione – siamo stati tutti favorevoli alla Regione! Con una sola eccezione: quella dell’onorevole Nobile. Il quale, però, rimase solo, perché, dalla parte comunista alla parte più moderata, tutti hanno concordato in quell’ordine del giorno dell’onorevole Piccioni, dopo del quale la questione doveva quindi essere considerata come cosa ormai decisa.

Perché allora oggi questo cambiamento di scena? Perché oggi della Regione non si vuole più parlare, da una parte almeno di questa Camera?

Perché? Era la domanda che io mi proponevo di fare qui a questa Assemblea, dove non mi aspettavo affatto, in questo mio intervento, di dover ripetere i motivi per i quali io sono regionalista, e tanti altri lo sono con me. Gli argomenti infatti sono stati qua dentro, nei giorni passati, sviluppati così abbondantemente, ed anche così eloquentemente, che se una cosa sorprende è che l’onorevole Nitti non ne abbia avuto notizia, tanto non ne ha tenuto conto affatto. Più o meno tutti i motivi fondamentali della riforma che si vuole attuare furono detti qui dentro.

Ecco perché non mi sembrava e non mi sembra necessario insistere su di un argomento che tuttavia mi ha appassionato per tanti anni. Non mi sembra anche per non ripetere cose dette bene e abbondantemente da altri. Mi propongo invece di porre qua dentro un quesito politico. Voglio domandare, facendo appello alla loro sensibilità e alla loro coscienza politica, a coloro che in questa Assemblea se ne son fatti iniziatori, se essi sentano la gravità delle proposte che stanno facendo.

Qui non dobbiamo elaborare un progetto. Siamo invece di fronte ad un progetto già fatto, elaborato in tutti i suoi particolari ed elaborato con la partecipazione di tutti i Gruppi di questa Camera. È un progetto che dovrebbe trovare per questo, almeno nelle sue linee essenziali, il consenso unanime dell’Assemblea. Non si capisce altrimenti perché sia stato fatto un progetto solo. Se ne potevano fare benissimo due o magari tre!

La Regione è entrata in questo progetto come una soluzione democratica del problema dello Stato. Io posso anche ammettere che tale soluzione possa essere discutibile.

Posso riconoscere che non sia proprio (voglio arrivare anche a questo) la soluzione ideale. Però è una soluzione! Avrei capito che a tale soluzione se ne fosse allora contrapposta un’altra, che ad un sistema si fosse contrapposto un altro sistema. Avevate un progetto migliore? Avevate delle soluzioni più rispondenti allo scopo? Dovevate portarle qui, anzi avreste dovuto portarle, ma dovevate portarle prima. Ma ora, così, proponendovi di togliere tutta una parte di questa Costituzione e la più importante, vi siete almeno domandati che cosa rischiate di fare? La Regione è uno dei pilastri della Costituzione, così come essa è stata preparata. Togliete quel pilastro e la Costituzione precipita. La Costituzione diventa un’altra cosa, cessa di essere democratica, vi impone tutto un altro lavoro, tutta un’altra elaborazione, vi pone di fronte ad altri problemi.

Una voce a sinistra. Esagerato!

ZUCCARINI È utile questo? È opportuno? Volete dare al Paese ancora questa impressione di disorientamento che nuoce più ancora che non nuoccia l’incapacità del Governo a provvedere a certe esigenze? È quanto io vi domando. Ed è appunto la questione che mi permetto di sottoporre all’Assemblea. E voglio pure spiegare a me stesso, ma domandandolo a voi, come mai sia avvenuto che durante questo periodo molte opinioni si sono cambiate, e molti dubbi ora si presentono, che prima non esistevano affatto, e molte preoccupazioni sono sorte. Perché? Che cosa è mutato? Che cosa è che non soddisfa più? E non posso non farmi la domanda se non vi siano, per caso, altri motivi e ragioni più fondate che spieghino tutto il fenomeno, che altrimenti resterebbe incomprensibile.

Se il fascismo fosse caduto per una rivoluzione, per una insurrezione cioè, anziché per il risultato di una guerra perduta, noi non staremmo certo a discutere di queste cose. Saremmo già sul terreno delle attuazioni.

Abbiamo invece atteso ad arrivarvi e abbiamo dimenticato e dimentichiamo – e credo che facciamo male – che usciamo dal fascismo e che il fascismo ci ha posto inequivocabilmente il problema della organizzazione dello Stato, e che la organizzazione dello Stato è sempre, adesso mentre ne discutiamo, quella che abbiamo trovato. E non è solo quella organizzazione centralistica e parassitaria di venti anni addietro che ha reso possibile il fascismo e che ci sembrava già allora insopportabile; è quella invece che il fascismo nei suoi venti anni ha sviluppato con tutti i suoi organi, con tutte le sue organizzazioni, con tutte le sue conseguenze.

Volete mantenerla in piedi? Volete lasciar lo Stato così com’è? Credete che in questo Stato la democrazia possa comunque esercitarsi? Oppure non si presenta anche a voi, come si presenta, e non soltanto in Italia, ma in Europa, nel mondo, un problema nuovo, che del resto venne sempre sentito, ma che non si era presentato mai nelle condizioni attuali e nella gravità attuale, il problema cioè dello Stato egocentrico e monolitico, di troppe funzioni, dello Stato burocratico, dello Stato senza organi rappresentativi capaci di funzionare e soprattutto senza alcuna aderenza alla realtà e ai bisogni della popolazione? Ma non vi accorgete che, attraverso la disfunzione dello Stato, c’è la incapacità degli attuali organismi burocratici e amministrativi, come il fascismo li ha sviluppati, a funzionare efficacemente? E non vi accorgete che abbiamo una organizzazione, anzi uno Stato, che è una prigione per tutti; per cui, se non provvederemo ad una sua diversa organizzazione interna, se non andremo verso una profonda trasformazione non solamente dell’organismo dello Stato, ma anche dei compiti e delle funzioni stesse dello Stato, verso una diversa distribuzione cioè degli organi rappresentativi, verso una più larga ed effettiva partecipazione dei cittadini alla vita pubblica per la difesa dei propri interessi, noi non risolveremo il problema della democrazia?

Il problema, ho detto, non è particolare in Italia. È un problema che si impone ora in tutta Europa. Non vi accorgete infatti che abbiamo vinto, sì, teoricamente, il fascismo, ma che di fatto l’imperialismo, e le tendenze dittatoriali, anzi le forze dittatoriali e gli organismi dittatoriali sono sempre dominanti in tutto il mondo? E se ciò è, voi vedete anche che il problema che si pone all’Italia, della democrazia nello Stato, è lo stesso problema che si pone o si porrà in tutti i paesi del mondo e che, presto o tardi, dovrà essere risolto. Ed è necessario che sia risolto. Perché se non sarà risolto, noi ritorneremo fatalmente, con gli organismi che abbiamo, verso nuove e forse peggiori dittature!

Oggi sono le dittature dei partiti in funzione che si neutralizzano a vicenda, mentre nel nostro organismo statale, in questo sistema di rapporti fra i cittadini e lo Stato, sono in potenza, e molto più forti di ieri, le possibilità dittatoriali. Verrà il momento in cui queste forze spiritualmente dittatoriali e destinate, per la organizzazione stessa dello Stato, a funzionare internamente dittatorialmente, verrà il momento, dico, in cui non riusciranno a neutralizzarsi più (è nel fatto che oggi si neutralizzino che noi possiamo illuderci di avere la democrazia in funzione!), e allora avverrà quello che è avvenuto in altri Stati, quello che abbiamo visto in Germania e altrove, e cioè che uno di questi tre o quattro o sei o dieci partiti che oggi agiscono sulla scena politica finirà col prevalere sugli altri ed in quel momento li seppellirà tutti e si impadronirà della direzione dello Stato (Applausi).

Ed allora, di fronte a questa possibilità, dobbiamo noi, proprio noi che abbiamo il compito di costruire il nuovo organismo dello Stato, lasciare in piedi una organizzazione la quale fatalmente ci porterà verso la dittatura, anzi verso una dittatura peggiore? Questi sentimenti, queste agitazioni autonomiste di cui ora vi spaventate come di forme di disgregazione dello Stato, come forme di ribellione allo Stato, non vi sembra invece che siano il risultato positivo di quell’opera disgregativa dell’unità del sentimento nazionale, fatta proprio da quello stato centralista, anzi fascista, che voi vi ostinate a voler tenere in piedi? Non vi siete dunque accorti che, dopo tre o quattro anni dalla liberazione, tutto è rimasto in piedi come prima, e, se non provvederemo ad una diversa organizzazione della vita dello Stato, non faremo la democrazia, ma non andremo nemmeno più avanti? Interrogate la vostra coscienza, onorevoli colleghi, pensate a quello che è il fenomeno di ogni giorno, a quello che avviene nella vita del nostro popolo, a questo distacco evidente e progressivo fra l’animo e la volontà del Paese e coloro che lo governano.

La indifferenza dei cittadini, sempre più manifesta per l’opera di questo Parlamento e per l’opera dello Stato, non vi dice dunque nulla? Cresce il malcontento; e cresce con esso il sentimento, anzi il desiderio di autonomia. Ne avete la dimostrazione nella tendenza stessa dei nostri comuni a riacquistare la loro autonomia, e della popolazione a crearne di nuovi ancora più piccoli. Non vi sembra anche ciò una manifestazione evidente di questo bisogno che è nel popolo, e nelle campagne, e cioè nell’Italia rurale che è la vera Italia, di liberarsi dall’oppressione dello Stato, di essere più liberi e soprattutto di imprimere la propria volontà nella vita pubblica per la tutela dei propri interessi? Signori, qui è il problema della democrazia nello Stato, la quale non si è mai positivamente ed effettivamente realizzata. È nostro compito realizzarla. Infatti, se andiamo a vedere, tutti gli Stati, così come sono oggi organizzati, riproducono esattamente l’organizzazione dei vecchi Stati autoritari, per grazia divina. Domandatevi perché la rivoluzione francese sia finita così rapidamente in una dittatura, anzi in una serie di dittature. La risposta è che la rivoluzione ebbe questo torto: di proclamare i diritti dell’uomo, ma di mantenere in piedi, dei vecchi organismi, il sistema amministrativo; e il vecchio sistema naturalmente, dopo pochi anni, diede Napoleone e le altre dittature. È il sistema stesso che vige anche oggi in Francia, nonostante la Repubblica. È il centralismo e cioè il potere che viene dall’alto e che vuole governare dall’alto tutte le cose. Finché rimarremo su questo piano, finché vorrete fare dal centro il Governo di tutte le cose, voi non realizzerete la democrazia ma preparerete il terreno a nuove dittature. Il problema è in Italia più grave che altrove. E lo è perché usciamo dal fascismo. E proprio il fatto che il fascismo ha rappresentato per noi una grande esperienza ci dovrebbe rendere più sensibili ai problemi dell’organizzazione dello Stato.

Domandiamoci adesso che cosa dovrebbe essere la Regione nella organizzazione dello Stato.

Ho sempre pensato – e credo che lo pensino tutti, anche se il progetto di Costituzione non ha risolto la questione nel modo migliore – che la democrazia dello Stato possa realizzarsi solamente così: con una larga autonomia ai comuni, con comuni collegati quindi fra di loro in circoscrizioni relativamente più grandi, per passare all’ente Regione e da questo allo Stato.

Non si tratta dunque solamente di un problema di decentramento e di snellimento, si tratta di articolare meglio le membra dello Stato. Ed è problema di democrazia.

Si tratta in sostanza di attuare un sistema di democrazia, che non è federalismo, come viene comunemente ed arbitrariamente inteso il federalismo. È un diverso sistema di organizzare la sovranità dei cittadini, anzi il solo modo possibile di organizzarla e che può riuscire efficace ed interessare le popolazioni alla loro vita. In questo modo io ho visto la soluzione regionale.

Il progetto dell’amico Ambrosini risponde fino ad un certo punto a questo modo di vedere. E vi risponde solo fino ad un certo punto perché è stato un progetto di conciliazione.

Il collega Ambrosini, se di una cosa si è preoccupato, fu di ottenere nell’elaborazione del suo progetto l’unanimità dei consensi. Ed è per questo – devo dirlo chiaramente – che questo progetto ha offerto il fianco proprio a quelle critiche, a quelle obiezioni, che gli sono state comunemente rivolte coll’intento di buttarlo in aria. In ciò è il vero difetto del progetto: di avere fatto troppe concessioni al centralismo e ai motivi meno giustificati e seri degli antiregionalisti.

Mi limiterò a poche osservazioni.

L’onorevole Ambrosini ha usato, ad esempio, alcune espressioni non troppo felici; ha parlato tra l’altro di una legislazione «concorrente».

AMBROSINI. Non sono stato io.

ZUCCARINI. È vero. L’ha introdotta la Sottocommissione. «Concorrente» vuol significare in effetti, nel senso che fu adoperato nel progetto, che coopera al perfezionamento della legge. L’espressione è stata presa invece nel senso più deteriore. E si è voluto interpretarla nel senso di legislazione in… gara con quella dello Stato!

Si pensava poi, originariamente, di dare alla Regione un tipo solo di facoltà legislativa. Si sono inventati invece tre tipi di facoltà legislativa ed una potestà regolamentare. La potestà legislativa vera e propria è stata però ridotta ad una irrisione. L’onorevole Einaudi ha detto quanto effimera, ridicola nella sua realtà effettiva sia questa potestà legislativa riconosciuta alla Regione. Si tratta in sostanza di facoltà che vennero sempre riconosciute senza contestazione ai Comuni ed agli enti più piccoli! E valeva allora la pena di usare la espressione di legislazione primaria o esclusiva e di creare 3-4 facoltà legislative? In fatto lo scopo per cui furono adottate fu di limitare, di ridurre al minimo l’autonomia della Regione, fu uno scopo limitativo cioè e non già estensivo come si pensa e si sostiene da chi bada alle parole e non alla sostanza, che è, invece, quella che conta.

Per enti non destinati a vivere separati, ma a collaborare intimamente alla vita dello Stato, io pensavo che bastasse una legislazione sola, la quale devolvesse alla Regione tutto ciò che lo Stato non credesse di rivendicare a se stesso.

Questo per quanto si riferisce alla delimitazione dei compiti e delle funzioni dello Stato. Lo Stato stabilisce lui cioè quello che in campo nazionale vuol fare e lascia tutto il resto alle Regioni, alle Provincie, se vogliamo parlare delle Provincie, od altri organi circondariali, che pure io ritengo necessari, indispensabili. A questi spetterà di stabilire poi il modo in cui dovrà svolgersi la loro azione nel campo della loro particolare attività.

Si è parlato, inoltre (altro difetto del progetto), insistendovi molto, della possibilità di conflitti tra Stato e Regione, come della unità e indivisibilità dello Stato per rispondere in tal modo alle preoccupazioni che venivano da varie parti. Ora, proprio perché si è parlato di provvedimenti da prendere nel caso che le Regioni si mettessero in conflitto, per la possibilità di un conflitto ammessa implicitamente nel progetto regionale, invece di togliere i sospetti, invece di sgomberare il terreno dalla preoccupazione che la Regione possa rappresentare un elemento di disgregazione dello Stato, il progetto ha finito col valorizzare quelle critiche e quelle preoccupazioni. Dal momento che si ammette tale possibilità, e ce se ne preoccupa, si ha ragione di pensare e di ritenere che il pericolo effettivamente esista e sia serio. In tal modo il progetto giustifica e accredita le preoccupazioni e le critiche che sono state fatte alla istituzione dell’ente Regione.

C’è un altro difetto, un altro punto, sul quale ci sarebbe parecchio a discutere. Si è creduto di dover mettere, accanto al Presidente della Regione, un Commissario del Governo. Che cosa può essere questo Commissario? Che cosa vuol dire la sua presenza negli affari della Regione? È una garanzia per lo Stato o non è un pericolo per l’autonomia? Non si è intanto legittimato con ciò il sospetto che possa crearsi nella Regione un altro centralismo, un’altra burocrazia accanto alla burocrazia centrale? E non era preferibile, anzi consigliabile, evitare tale possibilità? La Regione, dal momento che entra nell’organismo dello Stato come organo dello Stato e di ripartizione delle funzioni dello Stato, assolve, deve poter assolvere, anche tutte le funzioni dello Stato. Si eviterebbe così il pericolo di una burocrazia che si aggiunga all’altra burocrazia.

Devo rinunziare a molte altre osservazioni che pure mi ero proposto. Purtroppo l’intervento dell’onorevole Nitti mi rende ora impossibile, per il tempo che dovrei occupare, quell’ordinato svolgimento del discorso che mi proponevo di pronunziare. Andrò quindi d’ora in avanti molto sinteticamente.

È stato, nel progetto, dimenticato il Comune. Il Comune non vi ha avuto quella trattazione particolareggiata che gli doveva essere data. Ed è stato un altro motivo di critica che poteva essere evitato. Sono stato il solo che, col mio progetto, abbia sostenuto la necessità di dare al Comune determinate garanzie di autonomia. Il Comune doveva, secondo me, avere nella Costituzione una considerazione speciale. Si è avuto il torto di non dargliela.

Non si è poi parlato della Provincia in modo sufficientemente preciso. La Provincia è, si è detto qua dentro, un consorzio di Comuni. Effettivamente non lo è. La Provincia, così come fu costituita ed è rimasta, non rappresenta nulla. È un organismo arbitrario, determinato dalla volontà del potere esecutivo che l’ha creata come ha voluto. Attraverso il tempo, naturalmente, nel capoluogo di Provincia si sono venuti a stabilire determinati interessi; quindi, in un certo senso, la Provincia è diventata un organo quasi naturale di collegamento; è però sempre un organo artificioso, la cui costruzione, essendo venuta dall’alto, risponde anche oggi, in molte parti, a tale criterio arbitrario, senza tener conto delle esigenze e delle preferenze dei comuni che vi appartengono.

Ora che si tratta di fare la Regione, si reclama anche il mantenimento della Provincia. E per la Provincia ci si è mossi da diverse parti. Ed allora dico: conserviamo pure il nome, perché la sostanza non c’è stata, e diamo pure alle Provincie quell’autonomia che chiedono. Anzi direi di più: se fosse possibile, se servisse a rendere più facile l’organizzazione della Regione, facciamo pure della Regione una federazione di Provincie. Diamo però alle Provincie anche la facoltà di delimitarsi come vogliono. Quello che è artificioso nella Provincia di oggi è infatti che molti comuni sono incorporati a Provincie a cui non hanno interesse né desiderio di appartenere. Le Provincie poi che sono una costruzione del tutto artificiosa, e il fascismo molte ne creò per motivi puramente politici e con criteri politici, bisogna abolirle.

Passo subito alle altre cose essenziali e che più mi premeva di prospettare. Debbo farlo di volo.

La Regione, pure così incompleta, nonostante tutte le critiche, anzi approfittando di tutte le critiche che sono state fatte, può essere tuttavia perfezionata, migliorata in ciò che nel progetto ha di difettoso, e potrà rappresentare un elemento rinnovatore nella vita politica italiana.

La creazione della Regione porrà, intanto, sul tappeto, ed imporrà, una immediata risoluzione del problema della burocrazia in Italia, problema che non si è mai risolto, che non si è mai potuto risolvere. Non serviranno a risolverlo ora gli studi, le commissioni, i progetti, tutte le iniziative e le buone intenzioni che volete; solamente la costituzione della Regione può imporre la riforma burocratica. Non se ne potrà fare a meno. Solo in vista di tale risultato, che altrimenti non si otterrebbe, io dico che dovremmo votare per la creazione della Regione. Dobbiamo esigere, che con la creazione della Regione, si attui immediatamente la trasformazione del sistema burocratico dello Stato. Si tratta, badate bene, del problema più imponente e più grave della nostra vita politica, e che si presenta sotto una infinità di aspetti. Dirò che è il problema stesso dello Stato. Per valutarne l’importanza basta tener conto solo del numero degli impiegati dello Stato che oggi costituiscono la burocrazia. Tra i molti e gravi, esso è il più urgente problema che si sia posto fra quelli della nostra vita politica.

C’è un altro problema che solo la Regione può risolvere: quello della funzionalità del Parlamento nazionale. Ma francamente crede l’Assemblea parlamentare, con l’esperienza che ne ha fatto in questo periodo, di essere in condizioni di affrontare e risolvere convenientemente tutti i problemi della vita dello Stato? Crede veramente, prendendo nota di tutte le leggi che vengono sfornate giorno per giorno e di cui ci dà notizia la Gazzetta Ufficiale, di poter assolvere alla sua funzione legislativa? O pensa invece, appunto per lo svilupparsi dei compiti dello Stato, appunto perché lo Stato si occupa oggi di troppe cose, di troppe minuzie, che non sia indispensabile ridurre la sua funzione legislativa a pochi compiti essenziali, di carattere veramente nazionale, demandando tutti gli altri compiti più minuti alle Assemblee delle Regioni, le quali su certe materie, oserei dire in tutte le materie, potranno con maggior competenza, con maggiore interessamento, con maggiore capacità risolvere ed affrontare i problemi che direttamente ci riguardano e che sono i quattro quinti almeno di tutta la legislazione?

Non si tratta con ciò, badate, di distruggere l’unità della legge, non significa creare nuovi particolarismi, non significa nemmeno impedire che certe grandi riforme si applichino in un terreno più vasto della Regione. Nulla impedisce che alcune Regioni si uniscano per affrontare insieme certi problemi, che ugualmente le interessino. Opere di bonifica, di distribuzione idrica, di irrigazione, di comunicazioni possono interessare più Regioni finitime, che per esse possono benissimo intendersi e collegarsi.

È molto diverso che certi problemi vengano risolti a Roma, o che invece siano risolti nel luogo dove sono sentiti!

Altri benefici possono derivare dall’istituzione della Regione: benefici politici che oggi devono essere tenuti in particolare considerazione, e oggi per oggi, non fra due, tre, o quattro anni! Sappiamo, infatti, come vanno a finire le riforme che non si attuano subito. Non si fanno più. Noi abbiamo invece urgente bisogno di uscire dalla presente situazione.

Tra i vantaggi che la soluzione della Regione offre, uno poi ce n’è che è fondamentale. L’ho sentito indicare da un deputato qualunquista in una delle nostre riunioni, ed esso solo basterebbe, secondo me, a stabilire la convenienza immediata della istituzione della Regione. Esso consiste nel solo fatto che una pratica, per essere sbrigata, non richiederebbe un tempo maggiore del viaggio da una località della Regione al capoluogo della Regione stessa. E sarà economia di spese, perché chiunque partecipa alla vita amministrativa e burocratica dello Stato sa quanto sia costosa, in tempo perduto e in spesa effettiva, la trafila, lunghissima, estenuante che debbono fare oggi tutte le pratiche. Un altro vantaggio altresì: possibilità di seguire e trattare più da vicino i propri interessi.

Altro beneficio: assemblee più competenti, e trattazioni e decisioni più aderenti alla realtà.

Un altro beneficio ancora: moralizzazione della nostra vita politica, la quale se è corrotta lo è soprattutto per un fenomeno che è proprio in dipendenza dal centralismo, e dallo sviluppo che hanno avuto tutte le attività dello Stato: la scomparsa intanto del fenomeno dell’impiegatomanìa, che ha portato i soli impiegati dello Stato a 1.100.000 individui, e che continuerà a svilupparsi ancora. Si sottraggono così energie alle nostre attività produttive e alla nostra vita.

Se mi fosse ancora possibile e se i limiti di tempo non fossero già per me superati, vorrei infine parlare della Regione in relazione ai problemi del Mezzogiorno e di tutto ciò che l’introduzione dell’ente regionale può rappresentare per essi.

Vengo infine all’ultimo motivo, il più importante, fondamentale anzi, per il quale, se pure tutti gli altri non esistessero, dovremmo egualmente arrivare all’accettazione della soluzione regionale. Abbiamo dato le autonomie ad alcune Regioni e zone d’Italia, e le abbiamo solennemente riconosciute. Queste autonomie debbono restare, debbono restare se la nostra parola, e l’impegno preso dal Governo, preso dall’Assemblea, preso da tutti i partiti, hanno qualche valore. Cosa vorreste ora fare, sopprimendo la Regione per tutto il resto d’Italia? Fare due Italie: una autonomista, ed una unitaria governata dal centralismo? Due diverse Italiette? Non vi accorgete che i veri separatisti sono proprio coloro che, mentre accettano le autonomie per alcune zone di Italia, vorrebbero rifiutarle a tutte le altre? Credete forse che le Regioni che hanno avuto l’autonomia, e che dovrebbero vederla coordinata con l’ordinamento delle altre Regioni d’Italia – e che dovranno vederla consacrata nella Costituzione – credete che il giorno in cui avrete rimandato alle calende greche il problema per tutte le altre Regioni d’Italia, ciò che vuol dire non risolverlo più, si riterranno sicure di godere una stabile situazione autonoma e di quanto avete loro concesso? Non lo potete pensare. Quelle Regioni avranno ogni ragione di temere e di sospettare che le promesse fatte non saranno mantenute, che possa avvenire per esse quanto è avvenuto per le terre conquistate o riconquistate all’Italia dopo la guerra del ’18, che ebbero, sì, promessa di autonomia o del mantenimento delle autonomie amministrative di cui godevano già, ma le godettero solo fino al giorno in cui venne il fascismo. Il fascismo venne e le soppresse tutte!

Non mettiamoci, per carità di Patria, in questa situazione di sospetto; non creiamo, proprio con la buona intenzione di non spezzare l’unità di spirito e di volontà degli italiani, nuovi elementi di diffidenza e di agitazione. Né crediate che questa volontà di liberarsi dall’oppressione, dai legami dello Stato, sia limitata a poche zone e sia così trascurabile fatto come voi pensate. No. Per ora si tratta delle Regioni più lontane che, appunto perché lontane dalla capitale, maggiore hanno sentito il distacco fra i loro interessi ed il Governo di Roma. Però il distacco esiste ed è sentito, più o meno compiutamente, più o meno evidentemente, in molte altre Regioni d’Italia. Direi in tutte.

Il fatto che, dal momento che la Regione fu ritenuta di prossima attuazione, vi siano richieste per la istituzione di sempre nuove Regioni, il fatto che tutti si muovano e si commuovano per essa, magari per deprecarla, vi dice che la Regione è sentita. Più o meno intensamente, ora, giorno per giorno, sarà sentita di più, e tanto più sarà richiesta se voi annullerete anche questa prima promessa di autonomia e di libertà che avete annunciato nella Costituzione dello Stato. Badate, quindi, o Costituenti, ai pericoli di una vostra azione. Pensate se, con la vostra intenzione di rimandare tutto, voi non creerete in Italia un altro motivo di malcontento e di agitazione. Il problema è sentito, ripeto, ed è sentito non solo come problema della Regione, ma in quanto tutti gli italiani sono stanchi dell’oppressione dello Stato. Tutti oggi si sentono vincolati e legati, troppo! Tutti avvertono che non è più possibile andare avanti così, e che lo Stato opprime invece di garantire la libertà. Badate, dunque, se con la vostra intenzione di rimandare tutto non darete alimento e ragion d’essere ad una più vasta, più potente, e, lasciatemelo dire, ad una più violenta reazione.

Il problema dell’autonomia non può finire così. O voi date ad esso una soluzione o altrimenti voi avrete l’agitazione autonomista in tutta l’Italia. Non sarà più l’agitazione per le Regioni. Sarà l’agitazione contro lo Stato, la lotta contro lo Stato. Non crediate, dunque, di aver superato il problema. Questa lotta contro lo Stato si manifesterà, si accentuerà, s’inasprirà, ed allora noi, che abbiamo voluto veramente contribuire con questo progetto della Regione a creare in Italia un ambiente nuovo di vita e di tranquillità portando il cittadino all’assolvimento delle sue funzioni e all’esercizio dei suoi diritti, noi pure ci schiereremo contro lo Stato, in questa nuova lotta per la libertà. La lotta può finire qui: ma di qui può anche incominciare. E allora si potranno veramente temere per l’Italia giorni peggiori di quanto oggi non si possa nemmeno sospettare.

Ho assolto più o meno bene, e più male che bene, il compito che mi ero proposto. Volevo soprattutto richiamare la vostra attenzione sull’importanza delle decisioni che state per prendere. Non seppellite, vi prego, quello che è stato il risultato del lavoro della vostra Commissione. Perfezionatelo, miglioratelo e date all’Italia la sicurezza di uscire dall’attuale situazione e di creare a se stessa un ambiente di libertà e di democrazia, un ambiente in cui non siano più possibili, in avvenire, né le dittature né i governi dispotici dall’alto. Questo è il mio augurio, questa è la speranza con cui noi tutti partecipiamo ai lavori di questi giorni e per la quale vogliamo sentirci riconfortati in questo grande amore che abbiamo per il nostro Paese, l’Italia! (Vivi applausi Molte congratulazioni).

PRESIDENTE. Ha facoltà di parlare l’onorevole Piccioni per svolgere il seguente ordine del giorno:

«L’Assemblea Costituente riconosce, per il rinnovamento democratico e sociale della Nazione, la necessità di far luogo alla creazione – sancita dalla Costituzione – dell’ente Regione, come ente autarchico, autonomo, rappresentativo degli interessi locali su basi elettive ed anche dotato di autonomia finanziaria».

PICCIONI. Onorevoli colleghi, debbo premettere che, al punto al quale è arrivata la discussione, dopo numerosi e abbondanti interventi di colleghi di varie parti dell’Assemblea, si sente un certo imbarazzo per inserirsi nel vivo della discussione; perché la fluttuazione incessante delle tesi e delle controtesi è stata veramente assai notevole ed in qualche momento sconcertante.

Io vorrei richiamare soprattutto i punti più semplici e fondamentali della impostazione del problema regionale.

Vorrei ricordare, se l’Assemblea me lo consentirà senza vedere in questo nessuna punta di irriverenza, come la Commissione dei 75 (questa Commissione un po’ troppo forse bistrattata nelle critiche e nelle esegesi che sono state fatte abbondantemente dei suoi lavori) per volontà unanime di tutti si è trovata, all’inizio dei propri lavori, a porre come pregiudiziale, come essenziale, l’esame della questione delle autonomie. Erano rappresentati tutti i partiti, se non erro, attraverso lo scrupolo del Presidente che aveva dato vita alla Commissione; eppure si sentì, prima di qualsiasi altra necessità, quella di rivolgere la propria attenzione, per trovare una soluzione o positiva o negativa, al problema delle autonomie.

L’onorevole Nitti, questa sera, con quel suo tono tra l’umoristico ed il corrosivo che nasconde certamente il proposito di cose serie e profonde – e questo lo dico con la più assoluta e personale convinzione di riguardo e di riverenza verso l’insigne uomo di Stato – l’onorevole Nitti questa se a si è stupito del perché e del come, a un certo momento, si sia posto il problema delle autonomie e il problema – soprattutto – dell’autonomia regionale. Ha dato l’impressione, con quell’aria volutamente trasognata, di venire, non so, da un altro mondo, diverso da questo, e si stupiva di trovare delle novità così originali, così inusitate, così imprevedute come la questione regionale.

Ora, non era proprio il caso di rivolgersi soltanto al mio partito, non soltanto al partito dei repubblicani storici; io devo ricordare, anche per non prendere noi tutto il merito o il demerito di questa iniziativa e per ripartire equamente il merito o il demerito, che tutti i partiti, dico tutti, dalla liberazione in poi hanno fatto, chi più profondamente, chi più estesamente e chi meno, professione di regionalismo.

Io ho qui una pubblicazione, direi ufficiale, che è quella del Ministero della Costituente che era diretto a quel tempo da un non sospetto di eccessivo regionalismo – parlo dell’onorevole Nenni – che riassume le posizioni dei singoli partiti in ordine al problema regionalistico. E comincia proprio col ricordare l’onorevole Togliatti per le sue affermazioni fatte al V° Congresso nazionale del Partito comunista, mi pare nel dicembre del 1945; egli dice: «Noi siamo regionalisti, nel senso delle autonomie locali più ampie, nel senso che riconosciamo che può e deve essere data una personalità alle regioni, nel senso di poter più facilmente risolvere determinati problemi economici, agrari e industriali, i quali hanno un particolare rilievo e una particolare impronta regionale».

Il programma del Partito socialista italiano, che fu ricordato l’altro giorno da un mio collega di Gruppo e che suscitò il fastidio visibile del l’onorevole Tonello, dice esattamente così – è il programma ufficiale per l’impostazione delle elezioni amministrative –: «Tutta la pubblica amministrazione deve volgersi verso un sano decentramento, consigliato anche dalle conseguenze belliche. Allo Stato devono restare le funzioni unitarie e indivisibili – diritto, giustizia, difesa, politica estera ed ecclesiastica –; alla regione e ai comuni devono essere assegnate le funzioni più attinenti alla vita locale, secondo il rispettivo raggio di azione – edilizia, viabilità, sanità, alimentazione, assistenza, opere pubbliche». «Non si ravvisa altro organo intermedio fuorché la regione, tra il comune e lo Stato, che si presenta nel quadro nazionale come una completa unità economica, culturale, geografica e storica». E aggiunge poi alcuni dettagli particolari per quanto si riferisce alla vessata questione del problema finanziario e propone quale fulcro del sistema tributario la seguente ripartizione fondamentale delle imposte dirette: allo Stato l’intera imposta di ricchezza mobile, alla Regione l’intera imposta sui terreni, al Comune l’intera imposta sui fabbricati, e così via.

Il Partito d’azione, per quanto rappresentato da una piccola pattuglia, ma agguerrita e sempre vivace in questa Assemblea, ha sempre fatto solenne professione di regionalismo e di un regionalismo, direi, anche più esteso, più integrale del nostro: non dico di quello dei repubblicani storici, perché quello fu il numero uno nella lista delle preferite impostazioni regionalistiche.

Ma – e c’è da stupire veramente – ci sono anche gli altri partiti: il partito liberale, come ha anche recentemente ricordato la Voce Repubblicana, ha fatto anch’esso pubblicare nel ’44 un opuscolo intitolato «L’autonomia regionale», nel quale si delinea presso a poco, direi anzi in misura più profonda e particolareggiata, quello che è lo schema più sintetico che ha trovato poi ricetto nel progetto dell’amico Ambrosini.

E il partito demolaburista, del quale sono qui presenti alcuni amici? Vi sono degli articoli pubblicati dall’onorevole Persico. (Commenti).

Una voce al centro. Non è più demolaburista adesso.

PICCIONI. L’onorevole Persico dunque, a meno che l’evoluzione politica non abbia implicato anche un’evoluzione diversa nei confronti di questo problema, con una serie di articoli intitolati «Democrazia e regionalismo», pubblicati su Ricostruzione, non si discosta menomamente da quelle che sono le idee fondamentali degli esponenti del regionalismo.

AMBROSINI. E Paresce allora, che è uno degli esponenti maggiori?

FUSCHINI. Come Crispo per i liberali.

PICCIONI. Stavo per ricordare infatti anche Paresce. Ma c’è anche il Partito democratico italiano, del quale non so se sia qui qualche rappresentante: il Partito democratico italiano, sull’Italia Nuova dell’11 aprile ’45, aderiva senz’altro alla concezione regionalistica, senza riserve.

Ora, questo, onorevoli colleghi, perché io l’ho riesumato? Non certo per mettere in imbarazzo i colleghi di altri Gruppi politici, perché io riconosco naturalmente l’evoluzione delle idee, dei punti di vista, delle posizioni che si possono prendere anche se troppo rapide e totali; ma l’ho ricordato unicamente per rispondere in un certo senso allo stupore dell’onorevole Nitti e di altri di fronte all’insorgenza di tale problema, nell’insieme della riforma politica e amministrativa dello Stato italiano.

Vuol dire che, fin da prima della liberazione, per la parte d’Italia precedentemente liberata, e subito dopo la liberazione per le restanti, non soltanto l’impulso spirituale del popolo italiano, ma la visione dell’avvenire politico del nostro Paese si accentrava su questo fulcro del rinnovamento dello Stato italiano.

E perché questo avveniva? Perché era il riflesso diretto del ricordo del vecchio Stato liberale democratico prefascista; perché era la reazione incontenibile contro l’esasperazione di quel vecchio Stato liberale democratico, compiuta dalla dittatura fascista. (Applausi).

Non dimentichiamo, onorevoli colleghi: quando si sono fatte le elezioni per la Costituente, i problemi politici fondamentali di struttura e di riforma dello Stato erano sul tappeto. I programmi dei partiti che si presentavano alla competizione – in prima linea il mio partito, che credo non abbia mai dimenticato nella propaganda elettorale di insistere su questo problema delle autonomie regionali – e in genere, tutta la impostazione della campagna elettorale per la Costituente, si proposero di trascinare la volontà popolare verso una riforma radicale dell’ordinamento dello Stato, non già verso un rabberciamento provvisorio purchessia; vi fu anche questa precisa intonazione rivolta alla Costituzione di uno Stato diverso, del quale premessa fondamentale fosse l’autonomismo, e l’autonomismo regionalistico. Cosicché, anche se – nella fase conclusiva – per necessità di cose e per impulsi insopprimibili, la campagna elettorale si polarizzò poi prevalentemente intorno al problema istituzionale, si deve pur riconoscere ed ammettere che la posizione dei partiti attraverso la presentazione dei loro programmi era non soltanto incline, ma nettamente favorevole a tener conto di questo dato oggettivo della riforma strutturale dello Stato italiano. E allora è stata una successione logica di cose. Quando i primi 75 Costituenti si sono radunati (qualche collega ha detto – credo l’onorevole Dugoni –: «Ma erano, tutti i 75, i più esagerati regionalisti!»; non credo proprio che l’onorevole Presidente, che li ebbe a nominare, avesse inteso fare la cernita dei regionalisti più intransigenti) si trovarono unanimi nel dire che bisognava risolvere preliminarmente il problema delle autonomie. Perché? Perché sulla soglia della costruzione del nuovo Stato democratico bisognava che si sapesse quale via si dovesse prendere per fissare i lineamenti, le mura maestre del nuovo Stato.

Si doveva prendere la via dell’autonomia? Allora il disegno del nuovo Stato si svolgeva in un certo modo. Si doveva rinunziare al principio delle autonomie e reimbarcarsi nella vecchia struttura centralizzatrice dello Stato liberale democratico prefascista? E allora il disegno e l’opera sarebbero stati ben diversi. Fu l’iniziativa di pochi rappresentanti della Costituente, fu un’iniziativa interessata di qualche Gruppo, o fu una convinzione meditata di tutti i rappresentanti dei Gruppi? Fu questo; perché nessuno obiettò nulla sulla collocazione in via preliminare dell’esame e della decisione del problema.

E, quando la Commissione dei settantacinque si divise nelle varie Sottocommissioni, la seconda Sottocommissione – quella alla quale era precisamente affidato il compito di precisare l’ordinamento del nuovo Stato democratico – affrontò, in esecuzione di quanto era stato fissato nell’Assemblea plenaria, il problema delle autonomie. E quella discussione veramente tenuta su un piano di responsabilità da parte di tutti coloro che vi partecipavano, e di maturazione, si concluse con l’ordine del giorno firmato da me e che l’onorevole Gullo qualificò l’altro giorno come un ordine del giorno demagogico. Risponderò che fu votato anche dai membri del Partito comunista e che questa impressione, questa valutazione di spirito demagogico animante l’ordine del giorno non fu posta in luce da parte di nessuno. Ma, perché demagogico? Demagogico è ciò che potrebbe essere e che non risponde alla realtà dei fatti, oppure ciò che si lancia così, avventatamente, fantasiosamente, per illudere, senza pensare alle delusioni successive.

Ma questo è un problema serio, vitale, concreto; è il problema fondamentale del nuovo ordinamento dello Stato! Questa è una riforma realizzabile, che deve essere realizzata se si vuole creare una nuova autentica democrazia in Italia! (Applausi al centro).

Ho detto autentica democrazia in Italia. Perché io ho creduto e credo fermamente nella nuova Repubblica italiana, ma ho inteso e intendo la Repubblica italiana come rinnovamento delle strutture, del costume politico, come apportatrice di forza e di garanzia per quelle che sono le inalienabili, fondamentali libertà del cittadino! E la riforma regionale ha per noi soprattutto questo alto significato politico: noi vediamo in essa, dopo le esperienze precedenti, uno dei baluardi (non l’unico, s’intende, non siamo così ingenui!) che più sono destinati a resistere nella difesa della libertà, di tutte le libertà; e mi stupisce assai che a questo riguardo coloro che si qualificano ancora liberali siano fra i più fieri avversarî della riforma regionale, perché, se liberalismo vuol dire, come deve dire, sviluppo, oltre che garanzia, della libertà o delle libertà dei cittadini, il liberalismo (me lo consentano i colleghi e gli amici che sono in quest’Aula) non può essere inteso come uno schema che ad un certo momento, nell’evoluzione e nel movimento storico, si cristalizza intorno alle sole libertà individuali tradizionalmente intese, ma deve sentire che queste, anche le più gelose, nell’evoluzione della vita sociale moderna per vivere devono essere integrate, si devono ampliare in forme di libertà più vaste, alle quali è direttamente interessato il cittadino, quella della famiglia, quella del comune, quella del sindacato e quella degli altri organismi che noi amiamo chiamare naturali. La Regione noi la concepiamo appunto come un dato non soltanto storico, ma come un dato naturale della nostra vita nazionale.

Mi ha stupito molto sentire ancora oggi negare l’esistenza della Regione in Italia; negarla anche dal punto di vista geografico, storico, economico, etnico, anche linguistico (in certo senso); dal punto di vista della genialità italiana, che trova una sua espressione e una sua nota attraverso le variazioni regionali che distinguono in maniera palese quello che è il genius loci.

Non mi riferisco soltanto alla Toscana, ove questo è più visibile, forse, che altrove; ma ognuna delle Regioni storiche ha un suo modo di vedere la vita, di esprimerla e di dare sfogo a quelli che sono i sentimenti, le fantasie e gli impulsi creativi delle nostre popolazioni.

Ora, la Regione esiste in Italia, malgrado i 78 anni di vita livellatrice e burocratica: esiste attraverso tutte queste espressioni, esiste anche attraverso strutture economiche e sociali differenziate da Regione a Regione. E se esiste, e se non è soltanto un dato per rilievi statistici, ma è, malgrado tutto, qualche cosa che ha mantenuto la sua vitalità e la sua individualità, perché non si deve potenziarla, non si deve vivificarla, non si deve utilizzarla allo scopo di una maggiore possibile coesione, sviluppo, integrazione della attività dello Stato, perché non si deve consentire che essa renda la vita locale più armoniosamente intensa ed operante e che contribuisca per tal modo ad una vita generale di tutta la Nazione più alta e più degna? È per questo che la Regione, anche senza i richiami storici che sono stati abbondantissimi e che io ometto radicalmente, deve essere sentita, e concepita come un coefficiente vivo ed operante, tale che nella ricostruzione e nel rinnovamento dello Stato democratico non può e non deve essere ancora una volta dimenticato, ma deve essere invece inserito in quella che è la circolazione vitale che noi dovremmo creare per lo sviluppo veramente progressivo della vita dello Stato e della Nazione italiana. Il Comune – siamo d’accordo – è elemento primigenio fondamentale la cui espansione, la cui vitalità, la cui libertà deve essere potenziata, non c’è dubbio. Ma i problemi del Comune sono diversi come diversi sono i problemi della Provincia.

Incentrare la riforma dello Stato – come da qualcuno dell’estrema sinistra è stato ribadito – soltanto sul potenziamento dell’autonomia e della libertà comunale è troppo poco, evidentemente, di fronte al respiro ampio che la vita sociale politica di un Paese moderno deve avere.

La Provincia, altro elemento che sta fra lo Stato e il Comune. Per la Provincia bisogna intendersi, onorevoli colleghi.

Io riconosco, anche in armonia col modo di vedere il problema di alcuni dei miei amici di Gruppo, io riconosco che la Provincia non ha esaurito il suo compito; ed essa, in questa fase di assestamento e di riordinamento della nuova vita democratica del Paese, può ancora assolvere a compiti importanti, ma non può e non deve essere assunta, così come non lo può il Comune, come dato fondamentale della riforma dello Stato, cioè come strumento e nello stesso tempo istituzione, che operi una trasformazione della vita politica dello Stato, cui noi miriamo, per una esigenza genuinamente ed autenticamente democratica. Perché, oltre tutto, i problemi della Provincia hanno il limite nella sua estensione territoriale. Ed è chiaro che, nel groviglio dei rapporti della vita sociale ed economica moderna, il limite che racchiude la provincia non è di tale respiro da consentire un ritmo più ampio e più vasto per la soluzione dei problemi, delle necessità, dei bisogni locali, in largo senso.

Ecco perché nel progetto non si cancella la Provincia, la si concepisce come organo di decentramento di taluni servizi dello Stato e di altri servizi della Regione.

A taluni può sembrare un’offesa grave alla Provincia attualmente esistente scoronarla di quella che è la modesta prerogativa dell’autarchia provinciale; e noi possiamo condividere, anche per questo spirito civico che anima le contrade d’Italia, una preoccupazione di questo genere. Ma, se le attribuzioni e le competenze specifiche della Provincia, ente autarchico, devono rimanere quelle che sono state sin qui, evidentemente al fondo della questione c’è un equivoco: quello di scambiare la Provincia, ente autarchico, amministrazione provinciale, con la Provincia prefettura, organo del potere centrale.

Perché, se fosse ben chiaro, di fronte a tutti, che, se la prefettura nel nuovo ordinamento dovesse sparire, rimarrebbe solo la deputazione provinciale, la delusione sarebbe veramente grave, perché comunemente per Provincia si intende più la prefettura che l’amministrazione provinciale vera e propria.

Ed a questo riguardo l’onorevole Gullo, il quale, con schietta presa di posizione, mi pare sia stato l’unico, affiancato forse da qualche suo collega, che abbia spezzato più di una lancia a favore del centralismo statale, del centralismo inteso nel senso vero della parola, del centralismo e dei meriti del centralismo statale italiano, anche per ciò che riguarda il suo passato storico, mi pare sia caduto in una qualche contradizione, quando si è dichiarato per l’abolizione del prefetto e della prefettura. Ed allora che cosa rimane del centralismo? Allora si peggiora la situazione, si indebolisce la funzionalità dello Stato centralizzato. Allora lo Stato centralizzato rimarrebbe soltanto come un organo pletorico, adiposo, pigro, quello costituito da tutti i Ministeri, da tutta la burocrazia romana; e non avremmo neanche questo tramite diretto con la periferia e con la provincia, che è il prefetto, il quale prefetto questa sera dal discorso dell’onorevole Nitti ha avuto un caldo elogio. Ma bisogna intendersi. Se si vuole mantenere la organizzazione dello Stato centralizzato, bisogna consentire alla funzionalità di un tale Stato tutti i mezzi e strumenti necessari perché assolva i suoi compiti: fra questi strumenti, indiscutibilmente, in prima linea è il prefetto, a meno che al prefetto non si intenda sostituire qualche dirigente locale che possa derivare la sua autorità da posizioni particolari di partito!

Ma, signori, se dovesse rimanere l’ordinamento centralizzato, potrebbe esso seriamente ordinare e disciplinare tutta l’amministrazione? Hanno risposto molti altri colleghi: centralizzato sì, ma decentrato amministrativamente. E siamo al tema del decentramento amministrativo. Il decentramento amministrativo inteso come decentramento burocratico, non è un decentramento, ma la proliferazione di uffici che il centralismo statale deve adoperare per controllare tutta la vita nazionale. È un centralismo tentacolare quello di cui si parla in questo senso, perché se si concepisce il decentramento amministrativo come elemento vero di differenziazione delle complesse attività dello Stato centrale, per restituire quelle che devono essere a contatto con gli interessi e con i bisogni locali delle popolazioni, che questi interessi e questi bisogni sentono e vivono più direttamente, allora non siamo più allo Stato centralizzato, allora siamo allo Stato autonomista, a quello che vogliamo noi, a quello a cui tende la istituzione dell’ente Regione. Ma, purtroppo, si concepisce soltanto il decentramento amministrativo come decentramento burocratico, così come hanno mostrato non pochi colleghi quando hanno parlato di decentramento amministrativo. Allora siamo in pieno sviluppo, in pieno allargamento del tipo di Stato che con noi la coscienza pubblica intende trasformare radicalmente, almeno quella coscienza pubblica che più conta, quella più avvertita e più sensibile a questi che sono i problemi della struttura e delle funzionalità dello Stato. Poiché, o colleghi, anche l’altro motivo, che è ricorso frequentemente nella discussione, di un distacco della coscienza pubblica su questo problema, è evidentemente inconsistente.

La coscienza pubblica in riferimento a questi problemi di struttura, di riforma della struttura dello Stato, si esprime attraverso quelle che sono le classi politiche dirigenti del Paese. Ma volete veramente che si facciano delle agitazioni popolari intorno al problema del decentramento amministrativo istituzionale o burocratico funzionale? Evidentemente è un pretendere troppo. La sensibilità, la sensibilizzazione della coscienza pubblica intorno a questi problemi non può essere data che dalle classi politiche dirigenti, anche da quelle modeste classi politiche dirigenti in formazione di cui ciascuno di noi fa parte. Ed allora non è un elemento, un motivo valido quello di dire che la coscienza non è sensibilizzata a questo riguardo. Sta alla nostra responsabilità, alla nostra coscienza, a questo mandato dato all’Assemblea Costituente, di risolvere tale problema. Si dice da alcuni colleghi che questo non è il momento meglio adatto per fare una riforma di questo genere, perché ci sono altri problemi più gravi e più urgenti. Ma noi che cosa stiamo a fare qui? Ma questa è Costituente o non è Costituente? E la Costituente ha il mandato specifico di occuparsi della nuova struttura dello Stato o no? Come si può dire che un problema che si inserisce nettamente nel nostro ordinamento, che condiziona una struttura o l’altra dello Stato democratico sia un problema che si possa rinviare perché non è il momento di affrontarlo, perché ci sono altre cose da fare? Ma le cose da fare sono precisamente queste, e lo studio di questi problemi è un nostro obbligo, un nostro dovere morale per accettarli o per respingerli, ma non già per lasciarli sospesi a mezz’aria o rinviarli alle Assemblee future che sono molto meno di noi indicate per risolvere problemi di questa natura.

Quindi ci vuole il coraggio necessario da parte di tutti per affrontare risolutamente, decisamente, il problema della costituzione dell’ente Regione, e per risolverlo.

Il progetto che è davanti a noi come è stato predisposto? Io mi permetto, aderendo a ciò che ha detto l’amico Zuccarini, di far rilevare che la prima impostazione data dalla Commissione dei 75, attraverso quel discusso mio ordine del giorno che parlava di autarchia, di autonomia attraverso la potestà legislativa, e di autonomia finanziaria, ha avuto un’applicazione piuttosto ridotta.

Comunque, anche così com’è, a me sembra che da non pochi antiregionalisti lo si sia intravisto e considerato come qualcosa di molto diverso. Io mi sono stupito a sentir parlare di federalismo o di quasi federalismo, introdotto nel progetto così come è stato redatto. Mi sono stupito molto a sentir parlare dell’autonomia del progetto come di una bomba atomica che manda addirittura all’aria l’unità politica, economica e sociale del Paese. In base a che cosa, si dice questo? Probabilmente deriva da una impressione vaga, superficiale e generica, generata dalla prevenzione ostile di quello che è contenuto effettivamente nel progetto. Se lo si pondera adeguatamente, ci si avvede che esso è il meno adatto a sollevare paure e timori di questo genere: è appena adeguato a quella che è una seria riforma dell’ordinamento dello Stato, ma privo assolutamente di ogni germe di dissolvimento o di frantumamento dell’unità dello Stato. In che cosa potrebbe rintracciarsi tutto ciò? Nella potestà legislativa – si dice – soprattutto nella potestà legislativa, quella triplice potestà contenuta nel progetto. Se mi è consentito, io penso che si tratti del riflesso d’uno scrupolo scientifico (e anche un po’ politico, ma in senso inverso) quello che può spiegare tale distinzione, ma non già il frutto di intenzioni o di posizioni tali che possano sconfinare nel federalismo o, in qualsiasi modo, in qualcosa che possa diventare pericoloso per l’unità della Nazione.

La prima potestà legislativa, quella che appare più grave – ripeto cosa già detta e perciò sorvolo – va esaminata, prima di tutto, in relazione alle competenze ed alle materie cui si riferisce. Queste attribuzioni e queste competenze sono così modeste e secondarie che il pretendere di vedere in esse una possibilità di far saltare o di incrinare l’unità della Nazione è cosa quanto mai risibile. Sono confortato in questo dal fatto che, prima di me, l’onorevole Einaudi ha detto precisamente la stessa cosa. Ma anche le altre facoltà legislative sono subordinate nettamente, anche troppo per la mia concezione, all’intervento e al controllo dello Stato. Ci sono tali vincoli, tali controlli e tali interventi, anche per spontanea iniziativa del Governo, in nome dell’interesse nazionale e dell’interesse delle altre Regioni, del rispetto dei principî generali dell’ordinamento giuridico dello Stato, e così via, che anche i più caldi (vorrei dire esaltati, ma non lo posso per non mostrare di essere irriverente verso la cosa, in sé, tanto alta) fautori e custodi dell’unità nazionale possono dormire veramente sonni tranquilli. Mi pare proprio che non ci può essere sotto questo aspetto nessun timore di incrinatura dell’unità nazionale, se le cose si vedono obiettivamente e concretamente. Se poi si creano dei fantasmi, ed in funzione di quelli si argomenta e si conclude, allora le cose cambiano!

Non nego che questa materia della legislazione riconosciuta all’ente Regione possa essere meglio ordinata e disciplinata, e possa avere magari una formulazione più adeguata e più inerente alla funzionalità della Regione stessa, ma non può certo essere ridotta alla semplice funzione regolamentare o a quella semplice funzione di integrazione delle leggi generali dello Stato, di cui taluni sono fautori. Allora sparisce la vera originalità della creazione dell’ente Regione; allora è lo Stato che continua da solo a disciplinare qualsiasi settore della vita nazionale, anche quelli più particolari e secondari, come le fiere ed i mercati, la caccia e la pesca. Ma l’esperienza non è stata tale da far concludere che uno schema di ordinamento così previsto non è quello che possa rispondere alle necessità nazionali? Il 1911, a cui si riferiva l’onorevole Nitti, è molto diverso dal 1947. Le funzioni che lo Stato aveva, le attribuzioni che lo Stato esercitava allora si sono largamente moltiplicate per necessità di cose. E credete che sia possibile che uno Stato così concepito possa adeguatamente funzionare oggi, se inefficiente era anche allora? Ma questa ripresa dello Stato, così concepito attraverso la visione liberal-democratica in questo dopo guerra, in questo dopo liberazione, come si è detto, vi pare che abbia fatto una prova tale da poter supporre che esso possa provvedere a tutte le necessità del Paese? Io questo lo domando con estrema remissività, ma mi pare che la disfunzionalità dello Stato, quella forma di discrasia lamentata tanto e giustamente dall’onorevole Nitti, sia qualcosa di costituzionalmente patologico. Bisogna fare un altro viaggio, percorrere un’altra strada per ricostruire la coscienza dell’autorità insieme con quella indissociabile della libertà. Che cosa ha potuto fare lo Stato in questi due anni e mezzo a questo riguardo? È riuscito a creare nei cittadini il senso dell’autorità, il rispetto delle leggi, il sentimento della legalità? Vi sono molte altre cause della disfunzionalità dello Stato, ma, evidentemente, dopo l’esasperazione dell’accentramento fascista, c’è anche questa riluttanza del cittadino, come reazione, a piegarsi a quelle che sono le imposizioni dello Stato. E come volete ovviare a questo stato di cose, a questo stato di coscienze, che è al di fuori di tutte le strutture politiche che si possono immaginare, se non rieducando le coscienze dei cittadini? Quando si parla di rieducazione si pensa ad una cosa lunga e interminabile; ma bisogna incominciare, e per cominciare bisogna mettere il cittadino a contatto diretto con l’autorità, con gli organismi che esprimono pubblicamente l’autorità, con la responsabilità concreta e visibile. Ed il contatto diretto voi lo avete soltanto attraverso gli enti locali.

Il Comune, se potesse funzionare in pieno, potrebbe essere la prima scuola di questa rieducazione civica della coscienza dei cittadini. Sarebbe un modo per sentire questo senso dell’autorità, attraverso l’autorità del Comune, che è la più diretta, la più immediata e controllata; sentire, cioè, che l’autorità non è una imposizione dall’alto, ma è un complemento necessario, indissolubile, della libertà di ciascuno. Eppoi dal Comune passare alla Provincia, se volete, e dalla Provincia passare alla Regione.

Io ricordo di avere letto in periodo sospetto un libro del Thomas Mann, libro che circolava assai difficilmente in Italia, intitolato Avvertimenti all’Europa, tradotto recentemente anche in Italiano. Il Thomas Mann, spirito liberale nel senso più alto della parola, si poneva il problema del perché e del come si fossero potute affermare in Italia ed in Europa delle dittature così tiranniche come quella fascista e quella nazista. Senza alcuna intenzionalità di giustificazione di nessun genere, arrivava a dire che, in fondo, storicamente almeno, queste dittature erano il prodotto della immissione delle grandi masse nella vita politica del Paese. Non vi era più il problema delle minoranze o élites che costituivano le protagoniste della vita politica nei singoli paesi. Il suffragio universale, questa necessaria, giusta riforma confacente allo sviluppo della vita sociale ed economica del nostro tempo, ha immesso invece questi fiotti enormi di cittadini, uomini e donne, nel circolo della vita politica nazionale. E che cosa hanno trovato? Delle strutture fragili, lievi, non adatte a disciplinare e a convogliare le masse sulla via giusta in un modo operante, normalizzante, e ne è venuto fuori quel solito fenomeno di reazione esagerata, di forme di dittatura che hanno imposto dall’esterno una forma qualsiasi di disciplina che compisse il processo di assorbimento delle masse stesse, attraverso il loro asservimento. Ricordo questo per dire che 28 milioni di elettori italiani voi non li sodisferete nella loro coscienza di cittadini consentendo ad essi soltanto questa lontana ed inadatta partecipazione al potere centrale, che tutto assorbe e tutto fa attraverso il voto dato ogni quattro o cinque anni.

Il problema della democrazia moderna è questo: far sì che la maggiore massa di cittadini si autogoverni e partecipi permanentemente e direttamente alla vita economica e sociale del Paese (Applausi al centro).

I grandi partiti di massa adempiono a questo compito indispensabile, insostituibile, ma non basta: bisogna far sì che il popolo, tutto il popolo, i 28 milioni di elettori in particolar modo, si sentano interessati, associati quasi permanentemente a quello che è lo sviluppo della vita pubblica locale e nazionale. Questo voi lo raggiungerete attraverso il Comune, la Provincia se volete, attraverso la Regione, che costituisce appunto quell’elemento di passaggio che c’è tra lo Stato e la Nazione, largamente intesi, e gli altri enti minori, che non possono essere tali fino al punto da essere considerati sterili di funzionalità, o atrofizzati nella loro espressione di concreta attuazione degli scopi sociali e politici che si propongono.

Io ho finito. La questione finanziaria è, evidentemente, uno dei punti più sensibili della costruzione dell’ente Regione e io non voglio riprendere i motivi già contenuti a questo riguardo nel programma del Partito socialista italiano. Voglio dire soltanto che di difficoltà, evidentemente, ce ne sono per qualunque cosa si voglia fare. Vedremo, andando avanti, che ci sono anche non minori difficoltà per realizzare una nuova struttura democratica dello Stato, anche per altri aspetti. Tra queste difficoltà, quella di carattere finanziario, evidentemente, è una delle maggiori; ma è tale da far rinunziare alla trasformazione dello Stato in questo senso? No, non è tale. Perché la finanza dello Stato è quella che è ed è quella che potrà essere, ma c’è anche una finanza degli enti locali, è prevista in quel determinato modo che noi sappiamo; è prevista e deve essere elaborata anche la riforma generale tributaria.

Ora, in una nuova visione della situazione tributaria finanziaria del Paese credete proprio (io qui vorrei ricorrere ai tecnici, che sono oggi così di moda, ai tecnici finanziari, in modo particolare) credete proprio che i tecnici non abbiano risorse tali da inquadrare anche la finanza regionale in quello che è il più ampio sistema finanziario dello Stato? Mi pare che non sia una prospettiva fuori della realtà e delle possibilità.

Si dice: «Ma è un nuovo carico che voi imponete allo Stato attraverso la creazione di questo ente».

Ma lo Stato non può essere inteso come quello che è attualmente, non deve rimanere imperturbato, così come è; lo Stato può e deve trasformarsi. Noi non vogliamo creare l’ente Regione perché, creato l’ente Regione a sé stante, l’organismo dello Stato continui a vivere così come ha vissuto finora: questo sarebbe assolutamente sterile e fuori di ogni evoluzione storica. Noi concepiamo l’ente Regione come lo strumento determinante per una trasformazione, per una riduzione dei compiti e dei servizi dello Stato, perché lo Stato si snellisca, diventi più agile e più pronto e risponda meglio a quelle che sono le sue specifiche alte funzioni il cui potenziamento può garantire in maniera veramente seria e concreta l’unità e l’avvenire del Paese.

E allora, in rapporto con questi fattori, che sono concomitanti, che non possono evidentemente essere valutati distaccati, anche la questione dell’impostazione finanziaria deve essere superata; può essere superata.

Ma non c’è soltanto la questione finanziaria vera e propria, c’è un’altra distinzione grave che viene fatta, sempre dagli antiregionalisti, contrapponendo le Regioni ricche alle Regioni povere.

Le Regioni povere sarebbero quelle dell’Italia Meridionale, in particolar modo. Qui il discorso diventerebbe un po’ troppo lungo, se si volesse approfondire. Ma io mi limito soltanto a dire: ebbene, signori, se l’ente Regione, nella peggiore delle ipotesi, non si dovesse realizzare, delle Regioni povere e delle Regioni ricche che cosa succede? Non rimarrebbero le Regioni povere e le Regioni ricche così come sono state per settanta, per ottanta anni?

Mentre la costituzione dell’ente Regione, anche nelle Regioni povere, questo vuol dire in definitiva: suscitare, eccitare le energie locali latenti; e ce ne sono nel Mezzogiorno tante quante nel Nord. Ordinarle, coordinarle, sospingerle, questo deve essere il nostro intento e questo lo scopo che persegue l’istituzione dell’ente Regione, perché il progresso economico e sociale non è un patrimonio che si debba considerare monopolio di una sola parte d’Italia. (Vivi applausi).

Né si deve temere che, attraverso l’ente Regione, quelle che sono le cristallizzazioni di privilegi economici e sociali si rafforzino, questo è un altro motivo che viene dall’estrema sinistra. Le folle contadine del Mezzogiorno soffrono sotto il feudalesimo resistente ancora nell’Italia Meridionale: ma ha resistito nei settanta, negli ottanta anni di centralismo statale e non credete voi che questa forma di autonomia, questa forma di autogoverno, questa forma di risveglio della coscienza politica, oltre che economica e sociale, non debba essere un mezzo per ridurre e debellare quelle che voi chiamate le forze della reazione, se tali realmente sono?

È una forma di democrazia viva ed operante quella da noi auspicata. Voi non potete rinnegare, nella previsione che le forze locali più abbienti soffochino gli impulsi delle classi e delle forze lavoratrici, voi non potete rinnegare, dicevo, questa funzione di progresso e di elevazione insita nel suffragio universale.

Voi avreste ragione se l’ente Regione si organizzasse in un altro modo; ma se l’ente Regione si organizza in base al suffragio universale, io penso che il suo risultato sia un’arma maggiore di elevazione anche per le folle dimentiche dei contadini del Mezzogiorno. (Vivi applausi).

E se non fosse così, se non si vedesse nell’ente Regione uno strumento di progresso anche sociale ed economico, vi dico francamente che, per quanto personalmente io me ne dorrei, vi rinunzierei agevolmente.

Ma sono sicuro perché credo nella democrazia e nella sua forza di rinnovamento e di progresso, credo che l’ente Regione, il quale è essenzialmente un’espressione di democrazia, dovrà avere anche questa forza di trasformazione, questa forza di rinnovamento sociale ed economico anche nel Mezzogiorno.

Onorevoli colleghi! Qui si tratta di assumere una grande responsabilità; qui si tratta di dare un indirizzo nuovo, una strada nuova, un’ala nuova alla vita politica e sociale del nostro Paese. Non crediate che io faccia della retorica o che voglia esagerare dicendo che l’ente Regione per me è uno degli strumenti più validi e più possenti di questo rinnovamento, di questo progresso economico e sociale, per il quale tutti noi lavoriamo. (Vivissimi applausi Molte congratulazioni).

PRESIDENTE. Il seguito della discussione è rinviato a domani.

La seduta termina alle 20,20.

Ordine del giorno per la seduta di domani.

Alle ore 10:

Seguito della discussione del progetto di Costituzione della Repubblica italiana.