ASSEMBLEA COSTITUENTE
CXLI.
SEDUTA DI SABATO 7 GIUGNO 1947
PRESIDENZA DEL PRESIDENTE TERRACINI
indi
DEL VICEPRESIDENTE CONTI
INDICE
Congedi:
Presidente
Progetto di Costituzione della Repubblica italiana (Seguito della discussione):
Presidente
Lami Starnuti
Conti
Ruini, Presidente della Commissione per la Costituzione
Cassiani
Grieco
Russo Perez
Caccuri
Martino Enrico
La seduta comincia alle 10.
MOLINELLI, Segretario, legge il processo verbale della precedente seduta antimeridiana.
(È approvato).
Congedi.
PRESIDENTE. Comunico che hanno chiesto congedo i deputati Natoli, Bertoni, Ferreri e Giacchero.
(Sono concessi).
Seguito della discussione del progetto di Costituzione della Repubblica italiana.
PRESIDENTE. L’ordine del giorno reca il seguito della discussione del progetto di Costituzione della Repubblica italiana.
Si è dato ieri inizio allo svolgimento degli ordini del giorno.
L’ordine del giorno dell’onorevole Nobile è già stato svolto. Esso è del seguente tenore:
«L’Assemblea Costituente,
considerato che la questione dell’ordinamento regionale per la sua gravità imporrebbe non solo la più ampia discussione generale, ma anche un esame approfondito, sia tecnico che politico, di ognuno dei singoli articoli che costituiscono il Titolo V del progetto di Costituzione,
considerata l’opportunità di affrettare i propri lavori,
delibera:
di abolire il Titolo V e di inserire nel progetto un articolo che rinvii l’ordinamento regionale ad una legge avente valore costituzionale da discutersi ed approvarsi dal futuro Parlamento».
Segue l’ordine del giorno dell’onorevole Nobili Tito Oro:
«L’Assemblea, visto il titolo V della Parte II del progetto di Costituzione (articoli 106-131), rileva che la creazione dell’ente regione è ancora immatura nella coscienza del popolo; ritiene che, comunque, essa non debba essere proclamata prima di aver fatto tesoro dei risultati degli esperimenti in corso per le autonomie regionali già deliberate dal Governo.
«Ma, riaffermando, fin d’ora, che è compito della Repubblica riordinare l’Amministrazione in via legislativa sulla base delle autonomie locali e di un razionale decentramento, approva l’articolo 106 del progetto, come garanzia della osservanza di tale indirizzo».
L’onorevole Nobili Tito Oro in questo momento è impegnato per i lavori della Giunta delle elezioni e quindi non può svolgere il suo ordine del giorno.
Segue l’ordine del giorno dell’onorevole Rubilli:
«L’Assemblea Costituente,
considerato che l’istituzione dell’Ente Regione non risponde ad alcuna necessità che si sia realmente manifestata, e non può seriamente ritenersi in alcun modo richiesta o reclamata dal popolo italiano;
che i giusti ed opportuni criteri di decentramento potranno essere attuati indipendentemente dalla creazione di enti regionali;
che ad ogni modo, per ora almeno, una grande riforma come quella che si prospetta per le Regioni non appare, anche secondo il progetto, ben ponderata nelle sue non lievi conseguenze dal punto di vista politico, amministrativo e specialmente finanziario, sicché non sembra possibile, di fronte alle enormi difficoltà del periodo che si attraversa, lanciarsi con leggerezza incontro ad incognite preoccupanti e pericolose;
delibera, anche senza affermazioni vaghe e generiche, le quali potrebbero rappresentare inopportuni ed affrettati vincoli, che sia rinviato senz’altro alla Camera legislativa l’esame di pratici, concreti e completi progetti di legge, sia pure di carattere costituzionale, per un oculato decentramento che giunga, se possibile, anche ad una riforma regionale, ed intanto sia stralciato dalla Costituzione in esame l’intero Titolo V, relativo alle Regioni e ai Comuni».
Non essendo l’onorevole Rubilli presente, s’intende che abbia rinunciato a svolgerlo.
Segue l’ordine del giorno dell’onorevole Abozzi, già svolto:
«L’Assemblea, convinta che l’istituzione dell’Ente Regione non risponde alle attuali necessità politiche, economiche e sociali della Nazione,
che l’Ente Provincia – aggruppamento di interessi locali unitari e naturali – deve essere allargato e potenziato;
delibera di affermare in un articolo di Costituzione che la Repubblica attuerà un largo decentramento a base provinciale».
Segue l’ordine del giorno dell’onorevole Zuccarini, già svolto:
«L’Assemblea Costituente considera la Regione come elemento essenziale della nuova struttura democratica dello Stato italiano, le cui possibilità di vita e di funzionamento dipenderanno specialmente da una immediata e profonda riforma dell’attuale apparato burocratico, ad attuare la quale dovranno essere subito presi i provvedimenti necessari».
Segue l’ordine del giorno dell’onorevole Lami Starnuti:
«L’Assemblea, riconosciuta la necessità di far luogo al decentramento amministrativo dello Stato a mezzo di un Ente autarchico territoriale a carattere regionale, delibera di passare alla discussione degli articoli compresi nel Titolo V della seconda parte del progetto di Costituzione».
L’onorevole Lami Starnuti ha facoltà dì svolgerlo.
LAMI STARNUTI. Mantengo quest’ordine del giorno, ma rinuncio a svolgerlo.
PRESIDENTE. Segue l’ordine del giorno dell’onorevole Conti, così concepito:
«L’Assemblea Costituente, considerata la decisiva importanza dell’adozione dell’ordinamento regionale per la realizzazione della struttura democratica dello Stato, delibera di passare alla discussione degli articoli».
L’onorevole Conti ha facoltà di svolgerlo.
CONTI. Onorevoli colleghi, la prova migliore della necessità della riforma che noi propugniamo è data anche da questo spettacolo: aula spopolata. Siamo di fronte oggi, come fummo nel passato, alla decadenza, si può, anzi, dire di più, alla fine del sistema parlamentare.
Il sistema parlamentare è finito in Italia e in Europa. Non se ne accorgono i vecchi parlamentari e meno ancora i parlamentaristi, e, direi, quasi tutti coloro che si occupano di problemi politici.
Quando si è ricostituita la Camera in questa forma di Costituente, si sono celebrati i sistemi parlamentari. Abbiamo udito, sempre con molto piacere, il nostro maestro, maestro nel senso più elevato, l’onorevole Orlando. Lo abbiamo ascoltato con commozione negli ultimi suoi interventi e quando fu ricordato il cinquantenario del suo ingresso nella vita politica, definirsi il «parlamentare». Lo ha fatto legittimamente. L’onorevole Orlando è un vecchio parlamentare che va verso il tramonto con il sistema che egli ha sostenuto ed amato.
Se il sistema parlamentare è finito, bisogna provvedere alla creazione di nuovi istituti rappresentativi. I tempi consigliano, naturalmente, adattamenti, che non possono essere diversi da quelli della democrazia diretta. È il popolo che deve essere chiamato a governarsi.
Quando si è detto qui dentro da più oratori che con la forma regionalista si vuol creare la democrazia, si è detta una grande verità. Non si è illustrato il concetto, ma grande verità è questa che si è affermata. Con la riforma regionale si va verso l’organizzazione di un sistema rappresentativo utile ed efficace. Se non provvederemo all’attuazione del sistema regionale, noi ritorneremo nel nullismo statale e parlamentare in cui siamo stati nel passato. Ho qui un vecchio articolo di Napoleone Colajanni su II Secolo di Milano. È del 1902. In questo articolo egli denunciava il pericolo di fronte al quale si trovavano le istituzioni parlamentari. Parlo del 1902, del 1903, di un tempo interessante, che si evoca spesso con rimpianto. Potete sfogliare le collezioni di qualunque giornale del tempo: vedrete che si verificava allora questo fenomeno scandaloso: la Camera era questa che è oggi, l’Assemblea viveva, allora, così, senza vita, senza interessamento per tanti problemi. Colajanni, affrontando il problema ed esaminando le critiche che si facevano su tutti i giornali, le denunzie dell’impotenza e dell’incapacità della Camera a provvedere agli interessi del Paese, diceva che l’unico provvedimento che ci poteva essere era una grande riforma federalistica. Bisogna andare al federalismo, far sorgere stati regionali. Oggi diciamo: «facciamo vivere almeno le regioni». Colajanni elencava tutti i danni del sistema accentratore; ed elencava le tredici, quattordici buone ragioni per cui bisognava dare il nuovo sistema, e diceva i vantaggi del nuovo sistema.
Che vi illudete possa fare la Camera dei Deputati che sarà eletta, se avrà le funzioni dell’antica Camera? Accademia, oppure contrasti permanenti tra i partiti ostinati nel continuare «a fare la politica». Purtroppo noi facciamo politica, facciamo disegni, cioè ci inganniamo, ci portiamo per il naso, facciamo cospirazioni, giuochi di corridoio. Onorevoli colleghi, questa scandalosa vita viviamo qua dentro anche oggi. Se così dovesse continuare, se la Repubblica ci dovesse dare un sistema come quello del passato, vi giuro che sentirei di aver sprecato gli anni migliori della mia vita per vedere tradito il sogno della mia gioventù. Se la Repubblica dovesse essere, per questo aspetto almeno, quella che fu la monarchia, non saprei rassegnarmi. La Repubblica deve essere conquista della democrazia; la Repubblica deve crearla, deve, cioè, far vivere politicamente il popolo, al quale, purtroppo, non crede quasi nessuno. Purtroppo non credono nel popolo gli amici, qui a sinistra; voi non credete nell’uomo: voi manovrale la massa; organizzate le masse e procedete: duci in testa, massa dietro ai duci. Questa è la situazione: ed ecco perché voi ed anche tanti altri dell’Assemblea parlate della necessità di creare in Italia la nuova classe dirigente. Perché una classe dirigente?
COSTANTINI. Se non c’è.
CONTI. Non ci deve essere, caro il mio amico democratico. Lei, onorevole Costantini, e altri molti siete democratici nel senso paternalistico della parola, siete democratici al modo giolittiano; siete democratici come Giolitti, che del resto sopravanzava tanti nel credere alla libertà ed alla democrazia. Bisogna essere giusti, dopo un certo tempo, anche con coloro che abbiano combattuto. Molti dei rivoluzionari di oggi sono, quanto a democrazia, dei poverelli, sono gretti conservatori in confronto di Giovanni Giolitti.
Si vuole, dunque, creare la classe dirigente, e restare sempre allo stesso punto: popolo che bela e dirigenti che comandano: gerarchie. Questa è la situazione alla quale andiamo incontro, se procediamo come abbiamo proceduto fino ad oggi. Ma non vedete cosa è questa Assemblea Costituente? Qui interessano le interrogazioni. Si interroga il Ministro dei lavori pubblici per sapere come qualmente non è stato costruito il ponte fra Scaricalasino e Piticchio: si interroga per piccoli interessi locali. Questi sono i problemi che interessano. Ma volete un’idea della effettiva funzione dell’antica Camera dei Deputati? Prendete un momento quei tre volumi che sono vicini al tavolo del nostro direttore di Segreteria, il bravo ed illustre professor Migliore. Sono indici legislativi. Guardateli: levatevi la curiosità. Io ho preso degli appunti. Di che cosa si occupava la Camera dei Deputati quando funzionava trionfalmente?
Ma prima, consentitemi il ricordo di un episodio. Eravamo nel periodo fascista. Un giorno salii al Tribunale civile di Roma, all’ultimo piano del palazzo di giustizia. Allo sbocco della porticella dell’ascensore trovai in cordiale conversazione l’amico onorevole Finocchiaro Aprile, l’amico onorevole Molè e non ricordo quale altro collega delle vecchie legislature. Erano in piena euforia questi tre colleghi carissimi. Ah! Conti – mi dissero in coro – ricordi che bella Camera! Che bei discorsi? Ah! Che bellezza! – Come non ricordo: dissi io. Ma che cosa era quella Camera se non un’accademia? Che cosa elogiate? Elogiate l’impotenza organizzata, il nullismo? Sì, signori, era proprio questa la constatazione che dovevo fare. In Italia abbiamo avuto sempre una Camera composta di uomini illustri. Grandi uomini sono passati qui dentro. Io conosco questo ambiente da quando ero ragazzo: avevo otto, dieci anni quando ero nelle tribune della vecchia aula. Ho visto Crispi al banco del Governo. Pugno di ferro e pugni del banco del Governo… (Ilarità). Grandi uomini sono stati alla Camera italiana. Gli uomini ricordati con i marmorei busti che sono lassù, al primo piano, sono una modesta rappresentanza. Potremmo riempire tutti i corridoi con busti di altri grandi uomini e ripetere il verso di Pascarella: «Ma quelli busti prima d’esse busti, so’ stati tutti quanti ommini veri». (Ilarità). Sicuro, alla Camera sono passati, dal ’60 in poi, grandissimi uomini: Minghetti, Farini il dittatore, Sella, Lanza (notate una cosa, che ha la sua importanza: Lanza era medico, Sella era uno scienziato, mi pare che fosse geologo). Ho citato nomi di uomini che hanno restaurato la finanza nazionale ed hanno impresso i segni della serietà alla vita politica nazionale, benché uomini chiusi, moderati, incapaci di capire i tempi e di muovere verso l’avvenire. Ho nominato ed elogiato questi uomini di scienza perché qua dentro siamo troppi avvocati.
Una voce. Siamo molto meno di prima.
CONTI. Qui sono passati tanti altri uomini veramente illustri: Ruggero Bonghi, che, spesso, mi ricorda Nitti, per le contradizioni, ma uomo di ingegno gigante, di erudizione senza confronti, spirito libero soprattutto, capace di giudizi aspri e difficilmente capace di lodare: uomo forte; e Sonnino e Salandra e Zanardelli e Giolitti e Ferdinando Martini e Luigi Luzzatti e all’estrema: Bertani, Giovanni Bovio, Cavallotti, Imbriani, Turati, Bissolati.
Ebbene, io dicevo a Finocchiaro Aprile e a Molè: Che state dicendo! Grandi uomini sono passati alla Camera; grandi discorsi; tutto quello che volete; ma non si è concluso niente. L’Italia è stata impotente a risolvere i suoi problemi fondamentali politici, economici, in ogni momento della sua vita. Cosa sono tutti gli elogi del passato che si pronunziano tanto spesso da tanti. «Ai nostri tempi», diceva l’amico Rubilli e faceva elogi. Ma che nostri tempi! Sono stati bassi tempi e mediocrissimi tempi. Tutte le questioni serie qua dentro si sono risolte nel nulla; non si è concluso mai niente; non si è potuto mai concludere niente. Alcuni colleghi qui presenti possono ricordare come fu trattato qui dentro, nel 1922, un grande problema: quello del latifondo siciliano. Erano presenti, e mi fanno testimonianza, l’onorevole Fantoni, l’onorevole Finocchiaro Aprile: pochi e svogliatissimi deputati e squallide erano le sedute antimeridiane, pur presiedute dal nostro amatissimo Presidente De Nicola. Eravamo di fronte a un progetto di legge, lavoro notevolissimo, preparato da studiosi del partito popolare, portato alla Camera da un Ministro popolare dell’agricoltura, dall’onorevole Bertini. Alcuni di noi, appassionati di problemi sociali ed agrari, eravamo al nostro posto. Grande austerità e severità nel lavoro diretto da un Presidente severo e fermissimo quale era De Nicola.
In una seduta noi eravamo dodici. Oggi abbiamo fatto qualche progresso. (Si ride). Troppo ampia questa parentesi…
Prendete, dunque, quei volumi, sono indici legislativi. Vedrete di che cosa si occupava la Camera. Una legge e qualche leggina ogni tanto, tra le discussioni dei bilanci; ma normalmente interrogazioni, interrogazioni, interrogazioni, interpellanze, interpellante, interpellanze, mozioni, mozioni, mozioni: e di tanto in tanto grande burrasca, per l’assalto alla diligenza ministeriale. Ricordo l’attività del nostro carissimo Modigliani. Alla fine di una seduta: domando la parola, squillava l’onorevole Modigliani dal suo banco. E sollevava una questione quasi sempre procedurale per la quale tutto il mare di Montecitorio diveniva burrascoso!
Sfogliate quei volumi. Vi troverete elenchi, elenchi, elenchi di decreti legge che venivano alla Camera per la convalida. Nessuna discussione: o veloci deliberazioni, o proteste. Mille, duemila, cinquemila decreti convalidati. Era questa la vita parlamentare.
MAZZA. Ma questa è l’apologia del regime!
CONTI. Vi leggo, onorevoli col leghi, alcuni miei appunti.
Provvedimenti relativi ai residui disponibili della somma di lire 65.000 concessi dal comune di Acerenza con la legge 7 luglio 1901; conversione in legge del decreto 5 maggio 1918.
Legge per l’acquario di Napoli.
Piano regolatore di Ancona, nella zona esterna a Piazza Cavour. Legge 4 dicembre 1914.
Interrogazione sui premi ai contadini per l’allevamento dei bachi da seta. Provvedimenti per il migliore assetto dell’osservatorio bacologico di Cosenza… (Commenti).
Ordinamento della regia stazione sperimentale della gelsicoltura di Ascoli Piceno.
Convalida di decreto-legge che istituisce in Rovigo una stazione sperimentale di pollicoltura.
Regolarizzazione del corso di acque montane in Sicilia.
Sistemazione del torrente di Modica.
Interrogazione per i cantonieri stradali, per il mancato pagamento di stipendio al medico condotto di Mirto.
Non vi voglio annoiare; ma voglio offrirvi ancora una caratteristica indicazione: istituzione in Roma di un ufficio speciale idraulico forestale per la Calabria e la Basilicata. Ufficio in Roma, capite? non nella regione interessata! Potrei continuare, ma voi potete divertirvi e meditare quanto vorrete leggendo quelle pagine. Ed allora, se questa è la realtà, bisogna cambiare, riformare, trasformare con i criteri suggeriti dall’esperienza, con una concezione dell’ordinamento dello Stato veramente democratica.
Ma qui ci troviamo di fronte ad una situazione graziosissima e stupefacente. I conservatori della vecchia Italia, dei vecchi organismi, dei vecchi ordinamenti, delle vecchie assurdità, non sono là a destra soltanto, sono anche qui… in questi settori detti di estrema.
COSTANTINI. Noi non vogliamo conservare niente. Noi non vogliamo creare la Regione per dare ad essa l’autonomia. La diamo alla Provincia ed è lo stesso.
CONTI. Onorevole Costantini, Lei non ha compreso che la soluzione regionale si impone per la riforma del sistema rappresentativo. Voi siete conservatori del sistema parlamentare.
COSTANTINI. Se non viene al mondo Mussolini un’altra volta. (Rumori).
Una voce al centro. Allora abolite i partiti!
CONTI. È inutile che mi si interrompa.
COSTANTINI. Lei polemizza e poi vuole che non lo si interrompa.
PRESIDENTE. Onorevole Costantini, la prego di non interrompere.
CONTI. Voi, onorevole Costantini, avete, purtroppo, un proposito politico nella vostra avversione all’autonomia regionale, e mi duole veramente di non vedere dall’altra parte un atteggiamento diverso. Conservatori di qua e conservatori di là: è incredibile.
TONELLO. Rivoluzionari al centro? Avete fatto mai la rivoluzione, voi?
CONTI. Rivoluzionario io lo sono stato quando voi eravate piatti riformisti!
TONELLO. Voi non siete mai stati in mezzo ai contadini, ad affrontare i loro problemi! (Rumori).
PRESIDENTE. Onorevole Tonello, la prego di non interrompere.
TONELLO. Voi siete vissuti sempre di sante memorie, siete vissuti sempre col vostro mantello delle sante memorie.
MACRELLI. Vuol dire che non ci conoscete.
TONELLO. Siamo stati uomini del nostro tempo.
CONTI. Non posso perdere tempo, onorevole Tonello.
TONELLO. Ha ragione; non può perdere tempo perché non ci può confutare.
CONTI. E allora dico che chi ignora non può essere confutato. Bisogna lasciar tranquillo nelle sue convinzioni chi difetta di conoscenze. Ma io continuo a dire che si è avuto il torto, da parte di molti pseudo rivoluzionari, di voler conservare posizioni che debbono essere rimosse. Oggi i sedicenti rivoluzionari assumono la grande responsabilità di mantenere in Italia le organizzazioni e le istituzioni che sono state le organizzazioni e le istituzioni che hanno negata e resa impossibile la democrazia.
Qui non si tratta tanto della creazione della Regione, ripeto per l’onorevole Costantini…
PRESIDENTE. Onorevole Conti, non interpelli a nome i suoi colleghi; altrimenti essi si sentono impegnati a risponderle.
COSTANTINI. Facciamo dei dialoghi, sarebbe molto meglio.
CONTI. …qui si tratta di costituire un istituto rappresentativo che sia efficace ed utile; si tratta di trasformare l’istituto rappresentativo attuale, di deflazionarlo, di renderlo capace di funzionare, di renderlo attivo, vivo ed agile: si tratta di attribuirgli compiti che possa veramente esercitare. Non riuscirete mai allo scopo se non riserverete alla Camera dei Deputati, alla seconda Camera e agli organi centrali dello Stato, solo alcuni limitati compiti. Questi compiti sono quelli che vennero indicati da tutti gli uomini che si sono occupati di questo problema.
L’onorevole Nitti ieri ha detto che di problema regionale in Italia non si è mai parlato.
È questa dell’onorevole Nitti un’altra delle molte affermazioni arbitrarie.
Noi abbiamo imparato tante cose da lui: io sono stato vicino a lui nei miei più giovani anni. Tengo cara una fotografia di questo mio vecchio maestro, mandatami, da lui, al fronte nel 1916. Nitti è stata una fortuna per me nel momento della mia formazione intellettuale. Ero anche io invasato di romanticismo garibaldino, e vedevo anch’io le cose astrattamente e fantasticamente come si vedono a 18-20 anni, ed è stato Nitti che mi ha condotto sul terreno della realtà e degli studi positivi con i suoi libri, con le sue opere. Nitti ha dunque il nostro rispetto e il nostro affetto: noi siamo lontani da lui, perché abbiamo controllato molte sue idee, e abbiamo imparato vivendo nella vita pratica. Ci lasci, dunque, raccogliere le nostre esperienze, quelle raggiunte con il metodo che ci ha insegnato.
Chi di voi non ha raccolto da anni le proteste degli amministratori dei nostri Comuni, le proteste della gente che vive nelle provincie, di chi vorrebbe fare, lavorare, agire, e che non si può muovere per questo o quel provvedimento che non arriva da Roma, per questo o quel provvedimento che si aspetta da anni? Chi di noi non ha raccolto queste proteste che vengono dai rappresentanti locali? Perdiamo, dunque, a Roma, qui dentro, il senso della realtà? Purtroppo qui si vive di politica, perché a sinistra si è assunto un atteggiamento avverso alle autonomie regionali. Gli onorevoli Zuccarini e Varvaro hanno parlato di quelli che sono stati nel passato i programmi del partito socialista, dei socialisti siciliani. Tutti hanno detto: autonomie, autonomie. I socialisti siciliani formularono un progetto di statuto per la loro regione: il 2 giugno il partito socialista si è battuto per l’autonomia. In questo 1947, qui dentro, mentre si tratta di dare una Costituzione al Paese, di far vivere l’Italia, non di pensare ai comizi elettorali soltanto, non di preparare lo scontro elettorale, mentre si tratta di preparare la Costituzione e non di preparare lo spirito pubblico a movimenti e ad agitazioni, mentre qui si tratta di preparare per l’Italia una Costituzione la quale presenti, per l’avvenire, la base di tutto il funzionamento nazionale, la base per il funzionamento dei Comuni, delle Regioni, dello Stato: mentre si tratta di organizzare il Paese, una volta per sempre, qui si fa tutto quello che è necessario per preparare determinati avvenimenti, quelli che più interessano uomini e partiti.
Ha scritto Nenni nell’Avanti!, rispondendo a Don Sturzo: «Effettivamente noi temiamo che la Regione al di là di una ragionevole autonomia amministrativa ed economica, possa, specialmente nel Mezzogiorno, ostacolare il processo delle nazionalizzazioni, delle statizzazioni, delle socializzazioni, che in Italia, più che altrove, non possono concepirsi se non per iniziativa ed impulso del centro».
Dunque, è una ragione politica quella che vi muove! La stessa posizione hanno assunto i colleghi comunisti.
Non arrivo a capire la posizione assunta dai colleghi liberali. Anch’essi sono in contradizione con loro stessi. Ieri è stata ricordata dall’onorevole Piccioni una pubblicazione di parte liberale intorno alle autonomie. Io ho qui l’opuscolo edito dal «Movimento liberale italiano» dal quale derivò il partito liberale. Credo di conoscere l’autore di questo scritto, che è, però, ancora coerente: credo che anche l’onorevole Einaudi lo conosca. Eccolo qua: è intitolato «L’autonomia regionale». Non vi leggo le pagine, ma vi leggo i titoletti:
«L’autonomia regionale è garanzia di libertà». Si aggiunge: «non ci sembra che la riforma presenti quei pericoli che a molti uomini del Risorgimento fece apparire necessario quel rigido accentramento che pure era sembrato necessario ad uomini di tendenze come Jacini e Minghetti».
Spero che il nipote Stefano Jacini sia d’accordo col nonno.
JACINI. Certamente.
CONTI. Leggo ancora: «Fra le conseguenze dannose, possiamo anzitutto notare che il rigido accentramento ha favorito la tendenza verso l’onnipotenza dello Stato accentratore burocratico e reso quindi meno sicura la difesa delle libertà fondamentali».
Altro titoletto: «L’autonomia regionale combatte le tendenze separatiste». C’è una conclusione che raccoglie i pensieri che sono enunciati nei singoli capitoli.
Non so, perché ora i liberali la pensino in modo diverso.
L’onorevole Ruini, che non è presente, si è fatto un po’ mediatore fra i regionalisti e gli anti regionalisti.
Una voce al centro. Ha sempre fatto così.
CONTI. Ma in questo modo non si giova all’Italia. Ben disse ieri l’onorevole Zuccarini che se l’autonomia regionale non sarà organizzata, noi vivremo perennemente in uno stato di agitazione in Italia. Fanno dunque male coloro – e ne risponderanno alla loro coscienza – che cercano di ridurre presso che a niente questo progetto che è stato tanto sapientemente elaborato dai nostri colleghi col caro amico onorevole Ambrosini. L’onorevole Ruini deve essere coerente. Di lui andate a leggere la pregevolissima relazione sui lavori pubblici in Calabria, presentata all’onorevole Sacchi nel 1913. È un capolavoro. Quest’uomo, può avere tanti difetti: tanti, ed io l’ho ferocemente combattuto quando con voi era tanto felice nel Comitato di Liberazione Nazionale e nei Ministeri che quel Comitato formò. Ebbene, quest’uomo pieno di erudizione, di conoscenze profonde, passato da giovane attraverso i Ministeri, e pervenuto ai più alti gradi, oggi fa l’uomo politico e non sa star fermo e vuole tutto sistemare per transazioni. Egli è nelle spire del parlamentarismo, come lo sono i nostri colleghi più giovani. (Questo è un ambiente nel quale la malattia delle combinazioni, dei compromessi si attacca in modo formidabile, in modo spaventoso. Bisognerebbe curarla).
Ebbene, l’onorevole Ruini voi lo dovete conoscere attraverso la sua relazione sui lavori pubblici nelle Calabrie. Andate a leggerla e troverete le sue affermazioni regionaliste.
Non v’è soltanto quella relazione a documento delle convinzioni di Ruini. V’è un discorso del 18 maggio 1914, del quale vi leggo soltanto un brano, che fu ascoltato tra vive approvazioni:
«Questa tradizione della Regione – e mi dispiace che non ci sia Nitti, il quale sarebbe saltato sulla sedia sentendo parlare di tradizione…
RUINI, Presidente della Commissione per la Costruzione. Ma c’era Mazzini, c’era Cavour.
CONTI. …«questa tradizione della Regione credo sia lo sbocco naturale della legislazione sulla vita locale in Italia». (Approvazioni).
«Ed io lo credo profondamente, perché se c’è un’obiezione è quella di creare un organismo nuovo, una quinta ruota del carro; ma, qualunque preoccupazione antiunitaria deve cadere ormai che la tavola dei valori nazionali si è così bene irrobustita». E ci sono state due guerre, caro Ruini, aggiungo io, che hanno irrobustito in modo straordinario questa compattezza nazionale, l’anima nazionale.
Ma diceva l’onorevole Ruini concludendo: «E soprattutto dobbiamo sentire che c’è un modo soltanto di vincere il regionalismo in ciò che può avere di eccessivo: quello di metterlo a fronte, a muso duro, con i problemi della realtà, di darli a risolvere a lui stesso. Noi non vinceremo il regionalismo in Italia se non istituendo degli organi regionali». (Applausi al centro).
RUINI, Presidente della Commissione per la Costituzione. In che cosa mi sono mutato? Cerco di salvare la Regione dagli abusi vostri e dagli eccessi, che la porteranno probabilmente a finir male. O troviamo qui l’accordo, o si compromette tutto.
MACRELLI. Resti coerente a se stesso.
RUINI, Presidente della Commissione per la Costituzione. Chiedo di parlare per fatto personale.
CONTI. E allora, onorevole Ruini, le rivolgo un appello e una preghiera: l’appello è di confermare quanto ha scritto; e la preghiera, di non fare il mediatore. Ci lasci tranquilli nel contrasto. Siamo sicuri che alla fine anche molti di questi colleghi si convinceranno che il regionalismo significa la possibilità per tutti i partiti, per tutte le forze sociali vitali, per tutte le forze che devono realizzare riforme le quali sono mature nella vita del Paese, di realizzarle veramente. Tutti si persuaderanno, anche gli amici di questa parte (Accenna alla sinistra), a riconoscere che nella regione si possono attuare tutte le riforme che si vogliono, si può fare tutto quello che è possibile fare: e può essere ben fatto, per le attitudini, per la capacità di tanti competenti, di uomini pratici, di tecnici che sono esclusi da questa Assemblea, e che nelle Regioni possono portare i tesori del loro valore, della loro preparazione, delle loro altissime attitudini, uomini che saranno sempre esclusi da questa Assemblea per tanti motivi, quasi tutti lodevoli; moltissime volte per la loro timidezza, per la mancanza di spirito espansivo, per qualche cosa che li trattiene nel natio loco, per qualche cosa che non li spinge nella lotta politica, anche per antipatia della lotta politica, che in Italia è divenuta lotta di fazioni, lotta di passioni, lotta degli istinti meno buoni degli uomini.
Una voce a sinistra. Non esageriamo!
CONTI. Onorevoli colleghi, per la seria, organica, pratica trasformazione del sistema politico e amministrativo, creiamo, dunque, la Regione! Nella Regione siano trattati tutti i problemi che interessano da vicino le popolazioni: i problemi della viabilità, dell’agricoltura, dell’industria, del commercio: i problemi della vita economica delle popolazioni.
Allo Stato, al Parlamento si attribuiscano la politica internazionale, i grandi lavori pubblici, la difesa nazionale, la politica monetaria, poche altre materie. Soltanto quando si attribuiranno al Parlamento nazionale i grandi problemi nazionali e internazionali, solo allora avremo una Camera nella quale i competenti e i preparati alla trattazione dei grandi problemi, potranno risolverli con competenza e con dignità.
Non vi illudete, onorevoli colleghi, che si possa fare diversamente. Vi sono problemi regionali che impressionano ai quali noi non sapremmo dare soluzione. Due giorni or sono ho avuto una conversazione con rappresentanti della Regione trentina. Ho con essi parlato di tante cose. Su molti problemi era facile intendersi, perché le soluzioni erano possibili, anche per noi. Per altri problemi abbiamo avuto delle rivelazioni. L’onorevole Bonomi e l’onorevole Perassi, che hanno avuto la bontà di intrattenersi lungamente con quei rappresentanti del Trentino, hanno udito da questi esperti considerazioni di grandissima importanza sul problema delle acque, considerazioni che fanno molto riflettere sulle riserve che l’onorevole Einaudi ha fatto anche nel suo ultimo decorso in questa Assemblea. Si tratta lassù di affrontare un monopolio capitalistico, che determina e decide la fine di tante organizzazioni e imprese locali di lavoro e di produzione. Ma io non debbo occuparmi ora del problema… I medesimi rappresentanti del Trentino hanno esposto osservazioni di grandissima importanza sul sistema tributario. Dicevano quei valentuomini che il sistema tributario deve essere adattato alla regione. Ieri, parlando con un rappresentante della Val d’Aosta, ho ascoltato osservazioni analoghe sullo stesso problema.
I nostri interlocutori citavano, ad esempio, l’applicazione dell’imposta su coloro che abitano ad altezza superiore ai 500 metri e rilevavano la perdita di tributi che dal sistema tributario, non adeguato alle condizioni della regione, deriva all’erario. Sulle malghe del Trentino non sono possibili tassazioni a norma della legge vigente che vale, indiscriminatamente, in ogni più diversa regione d’Italia.
Roma, onorevoli colleghi, è incompetente, e detta regole che rovinano le popolazioni e l’amministrazione; regole che continuano a far vivere questo povero popolo italiano in uno stato di contigua agitazione e di protesta, nello stato che voi ben conoscete fuori di qui, e che qui non avete più presente ai vostri occhi.
Ieri mattina l’onorevole Roselli, con un interessantissimo intervento, ha dimostrato quello che può essere per il proletariato l’organizzazione della Regione e come gli interessi dei lavoratori potranno essere curati nella Regione in modo utile e non più in modo generico. I nostri lavoratori hanno bisogno di assistenza immediata, di educazione viva, immediata; hanno bisogno della risoluzione dei loro problemi. Che importa, ad esempio, qui a Roma al Ministero del lavoro o al Ministero dell’industria e commercio, delle condizioni dell’artigianato del Trentino, o del Varesotto, o delle Marche, o della Sicilia, o del Molise, o di altre regioni d’Italia? È impossibile che si possa concepire un’organizzazione al centro capace di provvedere alle più lontane, e anche alle più vicine terre della Penisola. E allora organizziamo le Regioni!
Come? Quando? Sul come, ripeto, non ho niente altro da dire. Il progetto offre la possibilità d’una organizzazione regionale che risponda agli interessi del Paese. Avremo una organizzazione regionale per la quale molti interessi saranno bene trattati. Si potrà far di più e di meglio aprendo, con la Costituzione, la porta a miglioramenti, ed io spero, ad ampliamenti della competenza delle Regioni. La Regione potrà avere le competenze previste e potrà averne anche altre nell’avvenire. Aprite la via e non tornate indietro (come si vorrebbe da qualcuno): non riducete il progetto, ma tracciate il cammino che si potrà fare ancora. Questo sarà prudente ed opportuno.
Ma ho sentito taluni che dicono: la Regione è un salto nel buio! Che ammoniscono solenni: andiamo a finir male! Abbiamo udito oratori annunciare la guerra fra le Provincie per via dei capoluoghi! Questa è storia allegra. È lo spauracchio della guerra dei campanili, della guerra per la secchia rapita! Qualche cosa di questo genere! Non esageriamo e non scherziamo: le guerre si fanno con le armi. Per i capoluoghi vi saranno guerre di parole, e poi tutti saranno placati e pacificati, quando, da Roma, si dirà: basta, bisogna osservare la legge. Gli italiani sono buoni: diventano cattivi soltanto quando sono sobillati. Purtroppo molta colpa è nostra; perché noi li eccitiamo, li spingiamo in un senso o nell’altro, mentre essi vorrebbero stare tranquilli a casa loro e sul loro lavoro.
L’onorevole Nitti, da parte sua, predica la pace e l’unione.
All’onorevole Nitti avrei voluto rileggere una pagina interessante di un libro interessantissimo: «Il partito radicale e la nuova democrazia industriale». C’è una pagina nella quale egli fa l’elogio della discordia, dicendo che la vita è lotta, e che senza la lotta nulla si conclude, e si vive nell’apatia. È una verità assoluta. E perché vuole rinunziare ai contrasti, alle rivalità che derivano dalle diversità regionali, e perché proprio lui, che ci ha insegnato a credere nell’utilità delle competizioni, ci vuole trasformare in automi senza vita?
Io dico che il sistema regionalista porterà gli italiani su un terreno di emulazione, li sveglierà e li pacificherà.
Leggete altre pagine magnifiche che Nitti ha scritto contro certa sonnolenza del popolo meridionale.
Nitti ha detto che le popolazioni meridionali devono svegliarsi. Ma come si fa a svegliare quelle mirabili popolazioni, se sono state abituate ad aspettare da Roma il bene e il male?
Vi sono state purtroppo generazioni di deputati (e mi copro, nella critica che faccio, con l’autorità di Nitti e di Napoleone Colajanni), vi sono state generazioni di deputati che hanno assunto la funzione di promettere, promettere, promettere, essendo sempre d’accordo col Governo che non manteneva mai una sola delle promesse fatte dai deputati.
Bisogna dunque svegliare l’Italia, e allora non avremo più l’Italia che proprio l’onorevole Nitti qualificò accattona.
Un importante richiamo è venuto dall’onorevole Nitti: attenzione alla questione finanziaria, egli ha ammonito.
Ier sera l’amico Piccioni su questo punto ha detto, con poche parole, quello che si doveva dire per tagliar corto con le discussioni su questo quesito preoccupante. Abbiamo tecnici valorosi: essi risolveranno anche la questione dell’ordinamento finanziario.
Ho sentito da un gruppo di amici del Trentino, che si è discusso dei problemi finanziari nella Commissione per la preparazione dello statuto della Regione Trentino-Alto Adige, e ho sentito che con interventi di uomini di valore, Einaudi e Vanoni, si è trovata la soluzione razionale del problema per quella Regione.
Una voce a sinistra. L’hanno trovata a Roma, non nella regione.
CONTI. Sì a Roma, ma con esperti della regione.
Con l’onorevole Nitti abbiamo di fronte altri oppositori.
Dico a coloro che domandano il rinvio del titolo quinto: «No!» E domando: perché invece di dire «rinviamo» non si dice francamente «non vogliamo il sistema regionale autonomista; votiamo contro»?
Bisogna essere finalmente onesti di fronte ad un problema così importante; bisogna essere leali. Apprezzo la lealtà dell’onorevole Nenni: «Non vogliamo il sistema regionale, perché il sistema regionale contrasta, dice lui, le riforme che noi vogliamo fare»: e va bene.
Non abbiamo saputo il perché dell’avversione della maggioranza dei liberali. Abbiamo avuta, per contro, un’espressione liberale autentica nel discorso dell’onorevole Bellavista, il quale ha detto cose che io sottoscrivo e con le quali concludo. L’onorevole Bellavista ha detto: «Se questa Repubblica deve essere un fatto decisivo nella vita italiana, essa deve essere un fatto rivoluzionario e trasformare la vita italiana». Così deve essere. Il Paese con la riforma regionale deve essere trasformato.
Mi associo pienamente alle parole dell’onorevole Bellavista.
Dobbiamo trasformare l’Italia; trasformarla, oggi, nelle istituzioni con una organizzazione che risponda ai bisogni del Paese e domani nella sua moralità e nei suoi costumi e nei suoi atteggiamenti spirituali. Vogliamo un popolo libero; non un popolo di pecore che continui a camminare dietro a pastori, che continui a marciare secondo comandi dall’alto. Vogliamo che il popolo viva la sua vita là dove è stato mandato da Dio a viverla. Vogliamo che nei luoghi dove esso dimora, dove lavora, trovi le ragioni del godimento della vita, le ragioni per le quali l’uomo si senta finalmente cittadino della Repubblica italiana. (Applausi).
RUINI, Presidente della Commissione per la Costituzione. Chiedo di parlare per fatto personale.
PRESIDENTE. Ne ha la facoltà.
RUINI, Presidente della Commissione per la Costituzione. L’onorevole Conti ha letto alcuni brani di un mio discorso del 1914 che non posso che confermare, perché non ho mutato in nulla le mie idee per ciò che riguarda la Regione. (Commenti).
Ho sempre ritenuto – e questo perché ho cominciato studiando il pensiero di Mazzini che era un regionalista, come regionalista era il Cavour – che l’ente Regione si potesse istituire in Italia. E tanto più credetti che ciò fosse opportuno quando, dopo l’altra guerra, apparve rinsaldata e fortificata l’unità italiana in modo che non si poteva neppur pensare a discrasie e disfacimenti dell’unità nazionale. Non rinuncio all’idea della Regione neppure ora che, dopo la sconfitta, è più necessario salvaguardare l’Italia da fermenti particolaristi; e non compromettere la saldezza unitaria dello Stato.
Venne la Commissione dei Settantacinque che sono stato chiamato a presiedere. Lunghe discussioni. In seno alla Commissione vi fu unanimità (meno uno) nel riconoscere che sarebbe stato opportuno istituire la Regione. I rappresentanti di ciascuna parte aderirono a questa idea. Vi furono due correnti di pensiero. Naturalmente l’amico Conti che oggi ha attaccato così fieramente il totalitarismo non ammetterà che tutti pensino, anche quelli che sono per la Regione, con una data forma mentale. Vi furono due correnti. Come era mio compito di presidente, ho cercato di portare chiarezza e semplificare più che fosse possibile l’ampio materiale predisposto dalla Sottocommissione; ho cercato che si ponessero due rotaie fra cui l’Assemblea Costituente potesse poi scegliere.
Una tendenza riteneva che per l’istituzione della Regione bastasse attribuire a questo Ente dei poteri di legislazione, non primaria, non diretta, ma integrativa, di attuazione dei principî generali stabiliti dalle leggi della Repubblica. Ciò va messo in relazione con un’esigenza che ho avuto più volte occasione di mettere in luce, anche davanti a voi. Noi dobbiamo, onorevoli colleghi, trasformare profondamente il metodo della legislazione italiana (come del resto avviene anche in altri Paesi). Qualche tempo fa alla Costituente francese Herriot disse che come una Camera incapace di governare direttamente deve avere un Governo, sia pure di sua fiducia, così è incapace ormai di legiferare direttamente in un modo completo. Alle vecchie comunità, che legiferavano e governavano assieme, in una piazza, in un prato, sono succeduti i Parlamenti ed i governi che sono sempre a base dello Stato popolare, ma qualcosa deve essere mutato nel modo di lavoro per la legislazione.
Se tiro giù dallo scaffale della mia biblioteca una raccolta delle leggi dopo il 1870, trovo che non erano molte, decine o centinaia all’anno; oggi sono migliaia. La funzione legislativa si dilata, inevitabilmente per lo stesso sviluppo dello Stato. Credete che le Camere possano adempiere a questa funzione minutamente, con gli stessi metodi del passato? Abbiamo visto cosa è avvenuto, qui, nella discussione dei ritocchi della legge comunale e di quella sulla cinematografia. Sarà necessario, come anche in altri paesi, adottare un altro metodo. Le leggi approvate dai Parlamenti stabiliranno principî e direttive generali, secondo il tipo delle Rahmengesetzen di cui ci parlavano i giuristi tedeschi; e nei limiti di queste «leggi cornice» potranno essere emanate dalle Regioni norme legislative secondarie, integrative, di applicazione, per poter adattare quei principî alle esigenze ed alle condizioni locali.
Ecco la prima tendenza alla quale io diedi personalmente il mio voto, in perfetta coerenza con la tesi che ho sempre sostenuto, non solo nei miei discorsi di tanti anni fa, ma in uno studio pubblicato di recente, dopo la nostra liberazione; con due concetti base; podestà di legislazione integrativa della Regione; passaggio graduale ad essa di funzioni amministrative.
Vi fu nella Commissione una seconda tendenza, che credeva di attribuire alla Regione anche un potere di legislazione primaria, diretta, esclusiva, sia pure entro i limiti della Costituzione, dell’ordinamento giuridico generale dello Stato, e nel rispetto degli interessi nazionali e delle altre Regioni. Non sarebbe dunque una legislazione illimitata: ma pei sostenitori della prima tendenza presentava il pericolo di intaccare la sovranità legislativa dello Stato e di far sorgere conflitti di attribuzione e diversità di ordinamenti troppo radicali fra le leggi delle varie Regioni.
Erano due tesi. Si venne alla votazione in seno alla Commissione dei settantacinque. La tesi più spinta vinse per due voti. Anche l’altra tesi aveva dunque con sé un rispettabile patrimonio di idee e di aderenti. Era stata proposta da tre commissari: da Bozzi, liberale democratico del gruppo di Nitti, da Laconi, comunista, da Lami Starnuti, socialista (allora il partito socialista era unico). Era una tesi regionalista, sebbene in grado diverso dall’altro.
Cosa avviene ora? La questione è portata qui. Sorge prima di tutto il problema della Provincia. Si sente e si riconosce da molte parti, credo di poter dire da tutti, che non si può sgretolare e distruggere la Provincia, ente che, pur avendo funzioni ristrette, ha una sua organizzazione e tradizione, sentita e difesa dalle popolazioni, e non si può metterlo nel nulla. La conservazione della Provincia porta a modificazioni nel sistema approvato dilla Commissione.
Ciò, d’altra parte, può portare un bene, perché dà occasione a rivedere tutte le funzioni non solo della Provincia, ma anche dei Comuni. La Costituzione dovrà, a mio avviso, dare con una sua norma rilievo e dignità ai Comuni, alle Provincie, alle Regioni: rinviando ad apposita legge di valore costituzionale la determinazione e la distribuzione delle loro funzioni e dei loro servizi amministrativi. Sarà un’opportuna revisione, se alla Provincia, che ha oggi magri compiti e buoni uffici, verranno affidati altri servizi che oggi, ad esempio, sono adempiuti meno efficientemente dai Comuni (ad esempio per le strade). Alla Regione saranno attribuiti servizi propri da compiere – almeno normalmente – mediante ed attraverso gli uffici provinciali e comunali, in modo da evitare una nuova burocrazia, una quinta ruota del carro, come dicevo nel discorso del 1914, che L’onorevole Conti mi ha fatto l’onore di citare. Si aggiunga che, nella mia concezione, alle Regioni sarebbero da affidare, oltre e direi più che funzioni proprie, funzioni di coordinamento delle attività amministrative provinciali e comunali. Queste le idee che espongo qui, dal mio seggio di deputato, e non da quello di presidente della Commissione dei settantacinque. Sono idee di oggi, in piena coerenza con quelle di ieri e di domani.
Venuta la questione davanti alla Costituente, oltre alle due soluzioni di prima, se ne è aggiunta una terza; che, sotto le forme più o meno amabili d’un rinvio, importa quello che l’onorevole Conti ha qualificato come un seppellimento di prima classe. Io desidero evitarlo, ed ecco il mio intervento che l’onorevole Conti depreca, ma che non solo corrisponde ai miei doveri di presidente; è anche, onorevole Conti, il modo migliore, a mio avviso, di salvare la Regione.
Il Presidente doveva, e lo ha fatto, convocare i diciotto per l’esame degli ordini del giorno e degli emendamenti: e di fronte alle varie proposte doveva, e l’ha fatto, chiedere se si potesse realizzare un accordo. Si tratta sopratutto di vedere quali possano essere le funzioni legislative della Regione. Vi è tutta una serie di formule, su cui hanno insistito, anche eccessivamente, i giuristi. Sembra che gli ultraregionalisti siano disposti a rinunciare alla competenza «esclusiva». Non è impossibile, anche se non sarà troppo facile. Mi auguro che si riesca per salvar la Regione.
Se questa non è coerenza, non so cosa dire. L’onorevole Conti anela alla battaglia, al rischiar il tutto per tutto. Io desidero, e sono in questo più regionalista di lui, evitar la battaglia, perché non trionfi la terza tesi, il rinvio, e la Regione non sia seppellita. Che cosa avverrà, ove non si trovi un’intesa? Una delle due; o rinvio e seppellimento, e l’onorevole Conti non potrà esserne lieto; o accettazione, sia pure, della tesi estrema a lui cara con una maggioranza di pochissimi voti. La Regione uscirà da una battaglia furiosa fra molto malcontento e non sarà questa, io credo, la via migliore per darle vita.
Ricordo, ero appena ragazzo, quando Carducci parlò, alla morte di Garibaldi, e rivolgendosi a tutti i partiti diceva: Se volete veramente che la Patria progredisca, sappiate gettare nel rogo qualcosa delle vostre idee particolari. Vi sono intemperanze ed eccessi, di cui bisogna sapersi spogliare, se si vuol che trionfi la propria idea.
Dico, come deputato, non come Presidente della Commissione, ma sono in ogni caso coerente: Vedete, se possibile, di trovare una formula che avvii e fondi la Regione. Sarà un buon modo di servire e di consolidare la Repubblica. Non accendete un duello che potrebbe compromettere un’idea, che mi fu cara nella mia giovinezza e che ora non rinnego. (Vivi applausi – Congratulazioni).
PRESIDENTE. È iscritto a parlare l’onorevole Cassiani. Ne ha facoltà.
CASSIANI. Onorevoli colleghi. Nel punto in cui è giunta la discussione non può essere consentito, io penso, un discorso sistematico sull’argomento, ma forse è ancora utile cogliere aspetti particolari e significativi sulla trattazione di questo grave tema delle autonomie regionali che forse è il più grave fra quanti ne contiene il progetto di Costituzione.
Io guarderò alla riforma in rapporto alla situazione del Mezzogiorno d’Italia, dove il Governo dello Stato si è veramente collocato, in maniera che non esito a definire crescente, dal giorno della unità fino ad oggi, fuori dalla vita fino al punto da non interessare alla sua la vita delle popolazioni meridionali. È un fenomeno che diventa ogni giorno più notevole; si allarga, si dilata, in un terreno franoso per le particolari circostanze del momento e perché in quelle regioni sono sovvertiti gli elementi primi della civiltà ed è compresso lo sviluppo di quella coscienza collettiva, politica e sociale, che è la sostanza vera dello stato moderno.
Dopo la prima guerra mondiale, le voci di agitazione reclamanti le autonomie regionali partirono dal Mezzogiorno: esse ripresero il pensiero di Cavour e il tentativo sfortunato di Minghetti (che oggi non potrebbe costituire i termini del problema per le mutate esigenze pubbliche), esse richiamarono l’impegno assunto dal Capo dello Stato all’atto della apertura del primo Parlamento.
Il fascismo compresse questo insorgente desiderio nel momento in cui esasperò l’accentramento statale, ma non ne dimenticò l’ardenza fino al punto da additare il regionalismo tra i postulati della Repubblica Sociale. Il fascismo della seconda maniera tentava così di cancellare il ricordo dell’ingombrante e prepotente Stato burocratico e di polizia. Tentava cioè di rassicurare gli italiani sul pericolo di un rinnovarsi di quello Stato.
Lo faceva attraverso l’affermazione del principio regionalistico, e attraverso il vano tentativo di dare voci all’istinto regionalista delle genti nostre.
Gli è che l’anelito verso le autonomie è nato col Risorgimento e nel Mezzogiorno, ha resistito al torpore dei governi prima, ed alla raffica della violenza armata dopo.
L’anelito si svegliò dopo essersi assopito nel ventennio. Nel ventennio infatti subì la sorte di tutte le aspirazioni collettive, ma non si spense, perché aveva salde le radici, e queste aveva fondate nel terreno di una realtà dolorante.
L’onorevole Gullo, in quest’Aula, ha sostenuto l’indifferenza della coscienza pubblica del Mezzogiorno d’Italia davanti al problema. Egli, evidentemente, confondeva due cose tanto diverse: la impostazione del problema, e la soluzione dello stesso.
Le popolazioni del Sud il giorno 2 giugno 1946 hanno innegabilmente affidato a questa Assemblea l’inventario dei propri dolori e delle proprie speranze, collega Gullo, senza indicare, beninteso, la via da battere. Siamo noi che crediamo di intravedere quella strada nelle autonomie regionali; siamo noi che crediamo così di essere gli interpreti del sentimento collettivo e dell’esigenza popolare. Del resto, onorevoli colleghi, di questa verità ieri, nell’Aula, ha reso testimonianza autorevole l’onorevole Nitti, quando ha detto: «Sfidando la impopolarità, io incitai i miei conterranei a non parlare di autonomie regionali».
«Problema politico, squisitamente politico» ha detto in quest’Aula l’onorevole Orlando. Dunque: stato d’animo; esigenza di giustizia; ragione di opportunità; anelito verso il meglio.
E noi discutiamo infatti di un problema che fu posto, innegabilmente, dalla coscienza del Paese, nel momento in cui veniva raggiunta l’unità della Patria. Cavour – e dico cosa non detta da altri colleghi – fu uno dei pochi uomini di Stato che abbiano affrontato con occhio indagatore, ed anzitutto di italiano, il problema del Mezzogiorno. Parlando delle provincie meridionali, egli disse: «io le governerò con la libertà e mostrerò cosa possono fare di quelle belle contrade dieci anni di libertà: fra venti anni esse saranno le più ricche d’Italia».
Una voce a destra. Questo lo disse anche Mussolini!
CASSIANI. Cavour morì prima di realizzare il suo sogno, e la sua morte determinò il naufragio dei quattro progetti redatti da Farini e da Minghetti insieme. Un naufragio che fece dire ad un uomo politico italiano: «La Regione in Italia non fu mai giudicata, ma soltanto condannata».
Da allora il problema non fu mai risolto, ma l’urgenza del decentramento fu costantemente sentita dagli uomini di Stato italiani, così che nella seduta parlamentare del 23 maggio 1924 Giovanni Giolitti dichiarava, senza contrasti, la necessità di una soluzione del problema in senso positivo. È da osservare che forse non ultima ragione tra le tante che impedirono il risolversi di questo problema, fu l’estrema instabilità dei governi succedutisi sulla scena politica italiana dal 1919 al 1922.
Ebbene, io penso, onorevoli colleghi, che le ragioni le quali militavano in favore delle autonomie regionali sono aumentate per il Mezzogiorno d’Italia.
In un precedente intervento, parlando in quest’aula di problema della terra, a proposito sempre del progetto di Costituzione, dicevo: «Il problema del Mezzogiorno non fu mai così lontano dalla sua realizzazione come oggi». Questa non è la sede più adatta per approfondire il problema, ma desidero qui ricordare uno solo dei motivi del dramma dell’Italia meridionale dipendente dal fatto che mai come oggi lo Stato fu pressato ai fianchi da una minoranza di cittadini la quale, inevitabilmente e involontariamente, ostacola i diritti della maggioranza, che è fatta di lavoratori della terra, cioè degli abitatori del Mezzogiorno d’Italia.
Ma vi è uno ostacolo di natura geografica e geologica alla soluzione del problema: permane, oggi come ieri, quella profonda varietà che caratterizza le varie regioni d’Italia e che, non regolata, si manifesta come ostacolo a ogni opera regolatrice del Governo centrale e si manifesta, qualche volta, anche attraverso un mal celato contrasto fra Nord e Sud. Quella varietà che è servita – pare strano – all’onorevole Nenni come argomento di dubbio per la bontà della tesi, questa stessa varietà, onorevoli colleghi, rappresenta evidentemente l’argomento più caldo per gli assertori delle autonomie regionali e del federalismo, dei quali ultimi noi non condividiamo il pensiero.
Le testimonianze vanno – nessuno di noi lo ignora – da Mazzini a Cattaneo, da Alberto Mario a Cavour, da Sonnino a Giolitti. Infatti noi ci siamo trovati permanentemente nell’impossibilità di veder risolti, in maniera unitaria, problemi che variano da regione a regione, con aspetti qualche volta allarmanti. Chi non sa che i problemi dell’agricoltura della Calabria e della Basilicata non hanno alcun rapporto, nemmeno il più lontano, con i problemi dell’agricoltura della Campania? Parlo, come vedete, di regioni dello stesso Mezzogiorno: la Calabria e la Basilicata hanno una agricoltura arretrata, mentre la Campania ha una agricoltura che ha raggiunto forme di perfezione. Questa situazione, obiettivamente certa, ha piegato molte volte il Governo sull’urgenza di provvedimenti, che, secondo me, rappresentano la conferma più eloquente dell’esigenza regionalista: così la legge speciale per Napoli del 1904, per la Basilicata del 1905, per la Calabria del 1907 e la legge del Mezzogiorno del 1906, altro non sono se non la prova di una insopprimibile esigenza regionalista, di una esigenza regionalista fallita come un conato vano e inconsistente, perché, pare incredibile, quelle leggi non furono mai eseguite, così che ad onta della loro esistenza, dopo circa quattro decenni, i paesi della Calabria e della Basilicata sono ancora oggi privi di strade e privi di acque.
La legge speciale del 1904 tendeva a fare di Napoli un centro industriale. Essa prevedeva: l’utilizzazione per le industrie di 16 mila cavalli idraulici; l’esenzione completa dalle imposte per 10 anni per le industrie di nuovo impianto; l’esenzione dei dazi doganali per 10 anni per le occorrenze dei nuovi impianti industriali; una zona franca ad oriente dalla città; maggiore sviluppo dell’istruzione tecnico-industriale.
La legge del 1906 per la Basilicata prevedeva: una cassa provinciale di credito agrario al 4 per cento; casse comunali agrarie e monti frumentari al 5 per cento; viticoltura, caseifici, zootecnia, premi ai costruttori di case coloniche, opere di sistemazione idraulica, opere idrauliche per acqua potabile, limitazione delle tasse sul bestiame, ecc. e c’era una commissione per la esecuzione delle opere pubbliche prevista con legge 1906. L’esecuzione di queste opere, l’attuazione di queste leggi, come di quelle speciali per la Calabria, la Basilicata e la Sardegna fu quasi irrilevante, qualche volta pressoché inconsistente, fino al punto che si levò la protesta, eccezionalmente vivace, di Sidney Sonnino.
Vale qui ricordare, ai fini del problema che ci interessa, quello che si discusse un certo momento, se cioè, allo scopo di riparare a quella frastagliata legislazione sociale, non sarebbe stato per caso utile di farne una legislazione unica. Perché si diceva: si faccia una legge, una volta per tutte, e si applichi in quelle regioni italiane che sono sullo stesso piano di urgente necessità. La tesi ebbe un sostenitore autorevolissimo, uno degli uomini più notevoli della vita politica italiana: l’onorevole Majorana. Ebbene, quella tesi fallì, non fu accolta, perché esigenze politiche, sentimentali, di opportunità, reclamavano una legislazione regionalistica, che purtroppo però fu un conato vano ed insufficiente.
La esigenza regionalista ebbe anche altre conferme con la istituzione dei commissari civili previsti dalla legge speciale per la esecuzione delle opere pubbliche nelle province meridionali, che costituì una larvata e timida forma di decentramento.
La esigenza regionalistica ebbe anche una altra conferma con la istituzione dei Provveditorati alle opere pubbliche creati per il Mezzogiorno e le Isole. Si costituirono ad un certo momento questi nuovi organismi per tutti i lavori di esclusivo interesse regionale, ma ciò durò brevissimo tempo, dal 1925 al 1930, ed oggi le condizioni di una parte della Calabria sono quelle stesse che impressionarono l’onorevole Ruini quando egli, in quella relazione ricordata nel suo magnifico discorso anche dall’onorevole Conti, condusse nel 1913 quella inchiesta non dimenticata, sulla sventurata regione. Come ieri, anche oggi, mancano le premesse ed ancora oggi, onorevole Ruini, in quella regione mancano le strade e l’acqua e, come allora, anche oggi vi sono paesi che d’inverno attendono inutilmente il medico, la posta, il sale. E nelle sventurate regioni del Mezzogiorno gli organismi regionali hanno problemi scottanti, vivi ed urgenti da mettere a fuoco: allacciare, per esempio, i comuni isolati alle prossime reti stradali esistenti, costruire una rete tranviaria nelle zone più vicine ai grossi centri, dove più trova modo di svilupparsi l’industria agricola, che rappresenta la fortuna del Mezzogiorno e dell’intera Italia; inoltre portare acqua agli assetati, affrontare il problema della bonifica, che ha delle caratteristiche rigorosamente regionali, come ha ricordato in quest’Aula autorevolmente l’onorevole Conti.
Si dice: riforma agraria. E sia, onorevoli colleghi; ne ho accennato anch’io, con passione, in un mio precedente intervento. Ricordo che un giorno l’onorevole Conti, interrompendo non so più quale oratore, disse: La faremo noi qui la riforma. Non poteva dir meglio, ma egli sa però più di quanto io non sappia ed è certamente più convinto di me, che vi sono aspetti di quella riforma che qua dentro saranno insolubili.
Un esempio: un problema urgente che si trascina da decenni, ma da molti decenni, intendiamoci, e che soltanto, a mio parere, le assemblee regionali potranno forse affrontare e risolvere, è il problema dei beni demaniali nel Mezzogiorno d’Italia. A proposito dei quali, non pochi sono stati i progetti dovuti all’iniziativa del Governo e del Parlamento, portati alla Camera negli ultimi venticinque anni che precedettero il fascismo. Badate alle cifre, che anche questa volta hanno un loro linguaggio allarmante: dico negli ultimi venticinque anni che precedettero il fascismo. Ebbene, non uno di questi progetti arrivò in porto. Finanche una commissione parlamentare fu incaricata di riferire sull’argomento, ma tutto finì in sul nascere e il problema è rimasto senza soluzione.
Solo chi non sa, onorevoli colleghi, qual è la vastità delle terre demaniali del Mezzogiorno, spesso usurpate dai latifondisti, può non comprendere l’estrema importanza di una possibile ripartizione di queste terre fra i contadini poveri del Mezzogiorno d’Italia. Si tratta di uno dei problemi più decisivi sul terreno della riforma agraria.
Dovrebbero essere riprese quindi le proposte di coloro i quali richiedevano la creazione di speciali istituti a favore delle classi rurali per la gestione dei demani, ovvero la creazione di commissioni composte di competenti che abbiano soprattutto la convinzione profonda del grande valore sociale del problema.
C’è, ad esempio – e non mi discosto per niente, dicendo queste cose, dalla materia del progetto di Costituzione – c’è, dicevo, il problema della malaria: problema assillante, per il quale fu scritto che non può intendere la storia del Mezzogiorno d’Italia colui che non conosce la storia della malaria. Questo problema ha l’aspetto più notevole nelle immense estensioni di terra che sarebbero, a giudizio dei competenti, non mio, il granaio d’Italia, se la malaria non le flagellasse.
Ebbene, io vedo la soluzione anche di questo problema nell’ordinamento regionale. I dati statistici sono al riguardo veramente desolanti. In Belgio, con la stessa unità territoriale dell’Italia, si ha una produzione doppia di grano e in Germania, in tempi normali, una produzione tripla.
I tecnici affermano che nell’Italia meridionale, anche a voler fare astrazione dai terreni refrattari ed anche a voler considerare che quei terreni presentino, nientemeno, una percentuale del 90 per cento, considerando cioè migliorabile soltanto il 10 per cento, basterebbe che questo 10 per cento venisse appunto migliorato perché la produzione agraria italiana – badate che dico italiana e non soltanto meridionale – potesse aumentare dal 40 al 90 per cento.
Lasciate dunque che io dica come soltanto l’ignoranza spaventosa del problema delle regioni da una parte e di questa farraginosa macchina dell’assolutismo accentratore dall’altra ha potuto ritardare fino ad ora la soluzione di problemi siffatti.
Ecco come la questione meridionale si inserisce, direi quasi automaticamente, nel problema, in un piano di interesse nazionale. Ecco come, a nostro parere, le autonomie regionali diventano il cemento vero della unità nazionale: non come espressione retorica, ma con cifre, con fatti, col problema della produzione. Ecco come si rinsalda l’unità nazionale.
Che c’entra, mi direte, l’autonomia regionale con le tue chiacchiere? Ma sì che c’entra. Infatti un Ministro dei lavori pubblici, alto di pensiero e di probità – citato l’altro ieri dall’onorevole Nitti – il Ministro Sacchi, dichiarava un giorno candidamente che nel Mezzogiorno l’opera di bonifica è stata niente altro che una fatica di Sisifo per la ignoranza dei problemi regionali. Si sono mandati alla malora – diceva Sacchi – somme ingenti perché nessuno si è accorto che laggiù mancano le Alpi e i ghiacciai e non c’è che l’opera anarchica dei torrenti al posto dei fiumi, cosicché si applicò, stupidamente – la parola non è mia: è di Sacchi – alle bonifiche meridionali il tipo della bonifica padana, dove sono i fiumi perenni e le irrigazioni già in atto. Insomma, condizioni diametralmente opposte a quelle del Mezzogiorno. (Commenti).
Così ancora oggi l’Italia continua ad ignorare tutte le ricchezze che si potrebbero trarre dal Mezzogiorno se non si ignorassero i problemi regionali: tacciono per questo nel Mezzogiorno le industrie, che potrebbero essere fiorenti. Filippo Turati nell’aula del Parlamento italiano diceva: «Tutto un ben di Dio – è l’espressione dì Turati – che noi lasciamo perdere pazzescamente e la cui produzione rimetterebbe in pochi anni in equilibrio il nostro bilancio nazionale» (Approvazioni).
L’onorevole Orlando ha accennato a una dolorante e pur nobile ricchezza del Mezzogiorno d’Italia: le rimesse degli emigranti. Io mi permetto di aggiungere un rilievo, anche questo dell’onorevole Ruini, in quella relazione alla quale accennavamo dianzi l’onorevole Conti ed io: la gran parte delle rimesse è sempre andata alla Casse di Risparmio, agli Istituti di credito, ha servito al finanziamento dello Stato, alla conversione della rendita, al sostenimento delle spese coloniche, ma non si è investita in trasformazioni colturali o nelle industrie del Mezzogiorno. Ecco i termini del problema che può essere affrontato e risolto soltanto dagli organi regionali: come e fino a qual punto l’azione legislativa possa agevolare il buon uso a favore diretto del Mezzogiorno d’Italia, del tesoro raccolto dai suoi figli nei lunghi esili transoceanici.
La verità è questa, onorevoli colleghi: lo Stato e il Parlamento in clima di democrazia hanno coltivato l’arte del dire fuori da ogni realtà inerente al loro mandato parlamentare; in clima di dittatura, distrutto il Parlamento, lo Stato si è chiuso per un ventennio, nella deliberata ignoranza e nella inconsapevole follia.
Il fatto stesso che la soluzione del problema meridionale, che è problema italiano, si rinvia da ottant’anni – il fatto stesso che tutti i governi, dal giorno dell’unità ad oggi, ne hanno fatto uno dei punti del loro programma e si sono trovati evidentemente davanti ad un ingranaggio statale che non ha loro consentito di tenere fede alla parola data – sta a dimostrare che la questione meridionale non è una semplice questione di sperequazione finanziaria, di tariffe doganali, di dare e avere fra quelle forme e il governo centrale, ma è questione che involge fondamentalmente il sistema politico dello Stato italiano (Approvazioni).
Del resto, questa verità hanno sempre avvertita tutti gli studiosi del problema e infatti essi hanno concordemente affermato, in assenza delle autonomie regionali, la necessità di una legislazione speciale (o regionale, come dicono altri), cioè qualche cosa che sia fuori dalla macchina burocratica e legislativa dello Stato italiano.
Io comprendo le apprensioni: tutte le idee da attuare, in sostanza, anche quelle che hanno radici profonde nella coscienza pubblica, fanno correre il pensiero di molti – diciamo la verità – al rischio e al rapporto di proporzioni tra il gioco e la posta.
Io penso però che questa volta le apprensioni trovino la loro radice in un quadro che è fuori dalla realtà del progetto.
Non è chi non veda come la soluzione proposta sia lontanissima da ogni forma di autonomia federalista, essendo di parziale autogoverno amministrativo e legislativo: basta infatti soffermarsi sugli articoli 110 e 111, dove sono elencate le materie sulle quali cade la potestà dell’Ente Regione, per dedurne, per convincersi che si tratta di una potestà prevalentemente regolamentare.
È allo Stato repubblicano che spetterà la prerogativa di dettare leggi, intese queste come comando pieno emanante dall’attività superiore, intese come «iussus populi». Ed è per questo, penso, che l’onorevole Piccioni diceva, da regionalista convinto, che personalmente ne era scontento.
Se è vero che il regolamento è la norma stabilita dal Governo in virtù del suo potere discrezionale e trova il suo limite nel diritto nazionale, evidentemente la dizione dell’articolo 110 e l’altra dell’articolo 111 non possono avere altro significato che non sia in prevalenza quello del regolamento inteso secondo i dettati del diritto costituzionale; del regolamento il quale, per dire uno degli aspetti più comprensivi della sua natura, vincola l’autorità solo condizionalmente, cioè in quanto non sia contrario al diritto nazionale.
Tutto ciò per tacere di un altro aspetto più grave: quello di una limitazione gravissima derivante dal fatto che è previsto il controllo delle leggi da parte dello Stato, controllo che non è soltanto di legittimità, come potrebbe apparire a prima vista, ma giunge anche al merito quando, nell’articolo 118, si manifesta attraverso la facoltà del Governo centrale di esaminare e di impugnare i disegni di legge approvati dal Consiglio regionale.
PRESIDENTE. Mi permetta, onorevole Cassiani, di osservarle che chi presenta un ordine del giorno si prestabilisce l’argomento. Ella entra nell’esame dettagliato degli articoli, mentre il suo ordine del giorno parla di ragioni storiche e politiche in rapporto al problema del Mezzogiorno.
CASSIANI. È un rapidissimo accenno, onorevole Presidente. Concluderò presto. Pensavo di dire qualche cosa sull’autonomia finanziaria ma il suo giusto richiamo mi induce a saltare l’argomento.
Concludo dicendo che, al pari degli onorevoli sostenitori dell’autonomia regionale che mi hanno preceduto, io vedo nell’autonomia regionale non soltanto la fine del sistema accentratone che è alla base della struttura liberale dello Stato italiano, ma vedo anche il frantumarsi di ogni conato di dottrina liberticida – come quella reazionaria del nazionalismo, diventata più tardi dottrina del fascismo e attinta ai grandi capolavori della scienza tedesca, opera dei teorici dell’imperialismo tedesco aggressivo che provocò due volte la catastrofe nello spazio breve di pochi decenni.
Io vedo nelle autonomie regionali il limite e il freno allo strapotere del Governo e alle deviazioni del Parlamento attraverso la partecipazione diretta e vicina del popolo al governo della cosa pubblica – partecipazione che culmina nell’istituto del referendum introdotto in tutte le costituzioni moderne dopo la prima grande guerra.
Lo Stato repubblicano, attraverso le autonomie regionali, presterà ossequio alla voce della storia e dirà che non vuole condannarsi all’impotenza e alla morte. (Vivi applausi – Congratulazioni).
PRESIDENTE. Segue l’ordine del giorno presentato dagli onorevoli Grieco e Laconi, del seguente tenore:
«L’Assemblea Costituente riconosce la necessità di effettuare un ampio decentramento amministrativo democratico dello Stato, a mezzo della creazione dell’Ente Regione, avente facoltà legislativa di integrazione e di attuazione per le materie da stabilirsi, onde adattare alle condizioni locali le leggi della Repubblica;
riconosce la necessità della conservazione e del potenziamento dell’Ente Provincia;
decide che il Titolo V si limiti ad affermare i principî costituzionali dell’Ente Regione, rinviando ad una legge speciale la regolamentazione delle funzioni del nuovo Ente e dei suoi rapporti con le Provincie, i Comuni e lo Stato».
L’onorevole Grieco ha facoltà di svolgerlo.
GRIECO. Nell’ordine del giorno che ho presentato insieme all’onorevole Laconi, ho condensato i concetti essenziali che mi permetterò di illustrarvi. È evidente che il mio ordine del giorno è un ordine del giorno politico, e questo lo dico al collega Conti, in quanto noi siamo in un’Assemblea politica. Forse per l’onorevole Conti la parola «politica» ha un significato deteriore. Ma in questo caso bisognerà che ogni qual volta egli usa questa parola vi aggiunga un codicillo, per evitare equivoci. Io do alla parola «politica» un altro senso, un senso elevato; ed è in questo senso e mantenendomi al livello di questa parola, che intendo illustrare il mio ordine del giorno.
Onorevoli colleghi, con la discussione, ormai esaurita, sul titolo V della seconda parte del progetto costituzionale, siamo entrati nel vivo della materia che riguarda l’ordinamento della Repubblica. Ora per me è ovvio che non è possibile considerare l’ordinamento della Repubblica come qualcosa a sé stante, distaccata dai principî che informano la Costituzione. Dico questo perché ho sentito affermare qui da autorevoli costituzionalisti, che la seconda parte della Costituzione sarebbe la «vera» Costituzione. Può darsi che questo modo di esprimersi sia conforme all’ortodossia giuridica. Ciò nonostante vorrei ribadire la nostra opinione già espressa altra volta, secondo la quale l’ordinamento dello Stato deve essere un mezzo, uno strumento, capace di tradurre nella pratica i diritti, i principî affermati nella nostra Carta costituzionale, nella prima parte della nostra Costituzione. Noi abbiamo già approvato nei titoli che trattano i diritti, che trattano dei rapporti civili, dei rapporti etico-sociali, dei rapporti economici e politici, alcuni principî fondamentali. Abbiamo dato importanti direttive al legislatore. Ora dobbiamo stabilire in che modo, con quali mezzi, il legislatore potrà realizzare, concretamente quei principî e quelle direttive.
Secondo noi, la seconda parte della Costituzione dipende necessariamente dalla prima. Non abbiamo dunque nelle due parti una «più vera» o una «meno vera» Costituzione; ma abbiamo una sola Costituzione coerente in tutte le sue parti. In questa seconda fase della nostra discussione la nostra preoccupazione, io credo, deve essere quella di dare alla democrazia italiana strumenti facili da maneggiare, in modo che la democrazia ed il legislatore non trovino ostacoli, nella struttura dello Stato o nella formulazione delle leggi, quando dovranno passare a tradurre i principî e le direttive in azione pratica, in leggi ordinarie.
Il richiamo alla necessaria coerenza fra le due parti è indispensabile anche nel momento in cui ci avviamo alla conclusione della nostra discussione sul Titolo V. Giacché una delle cause della decadenza di certe democrazie mi pare che sia da ricercare nella contradizione fra i principî da esse affermati e l’azione pratica del potere nelle sue diverse funzioni, che non è sempre conforme a quei principî. Questa contradizione genera sfiducia nel popolo, genera diffidenza, genera anche l’avversione verso le istituzioni ed apre la via alle rivoluzioni. Naturalmente non sarà la Carta Costituzionale a garantirci in modo assoluto dal cadere nella morsa di una simile contradizione. Quello che decide in ultima analisi è il costume democratico. Ma dobbiamo evitare che quella fatale contradizione possa trovare stimolo in un ordinamento incerto, difficoltoso, pesante dello Stato. Dobbiamo elaborare un ordinamento della Repubblica che non ponga limiti allo sviluppo della democrazia, che estenda anzi la democrazia ed agevoli così la formazione delle leggi e – quello che c’interessa soprattutto, quello che è uno dei problemi fondamentali della nostra epoca – aiuti la formazione di una nuova classe dirigente, onorevole Conti, legata intimamente agli interessi ed agli sviluppi della democrazia e del progresso della nostra società.
Io ritengo quindi che le nostre conclusioni sull’ordinamento regionale devono restare fedeli a questa preoccupazione fondamentale. In altre parole, dobbiamo esaminare se e in quali condizioni una organizzazione regionale dello Stato possa contribuire a risolvere i problemi della nostra ricostruzione, possa contribuire a migliorare e snellire il funzionamento democratico dello Stato, possa favorire il necessario profondo rinnovamento democratico del nostro Paese. Se si segue un’altra via, mi sembra che ci si mette su una via sbagliata. Se ci addentrassimo in una ricerca astratta del miglior tipo di organizzazione statale, faremmo opera vana. E del resto quale è il miglior tipo di organizzazione statale? Se non sbaglio, esso è quello che meglio serve alle necessità nazionali in un determinato periodo dello sviluppo del Paese.
Non è possibile, secondo me, fare astrazione, nella trattazione della materia costituzionale, dagli obiettivi concreti che ci stanno di fronte e al cui raggiungimento dovranno volgersi la nostra e la futura generazione, e forse anche più di una generazione, per un lungo periodo della vita nazionale.
Noi abbiamo avuto l’occhio fisso a questi obiettivi nel corso della prima parte delle discussioni sui diritti. Tanto più, mi pare, non dobbiamo distogliere il nostro sguardo da questi obiettivi entrando nel campo dell’ordinamento dello Stato e, quindi, affrontando il tema della creazione dell’Ente Regione. Da quello che ho detto risulta evidente che noi non abbiamo nessuna posizione preconcetta, né contro la creazione della Regione, né a favore di essa. Noi insomma non abbiamo un mito regionale da coltivare, né abbiamo del resto la fobia delle innovazioni, se queste innovazioni sono necessarie. Per noi questa questione non è questione di principio. Però ci sono delle questioni di principio anche in questo campo. È una questione di principio quella che mosse noi a sostenere, e non da oggi e non solo negli ultimi anni, un regime regionale particolare per la Sicilia e la Sardegna. I motivi di questa nostra posizione vanno al di là delle circostanze venutesi a creare in Italia e nelle due Isole dopo la grande sciagura che ha colpito il nostro Paese. Ciò che è accaduto era prevedibile e noi l’avevamo previsto. Era del tutto prevedibile che nel momento in cui il Paese fosse caduto in un collasso grave, il movimento autonomistico sarebbe riaffiorato alla superficie nelle due Isole e specialmente in Sicilia. Non si tratta di un caso. Ci stupisce che uomini di valore, appartenuti alla vecchia classe dirigente, si siano meravigliati del movimento, sorto dopo la guerra in Sicilia. Eppure vi era e vi è tutta una letteratura politica e romantica, nell’ultimo secolo, per non parlare della storia anteriore, per esempio, della Sicilia, la quale ha fatto conoscere agli italiani, agli uomini politici, agli intellettuali ed anche agli uomini della strada il dramma delle popolazioni siciliane.
D’altra parte vi è un secolo di lotte sociali in Sicilia, che hanno posto con forza, in un modo o nell’altro, il problema del profondo rinnovamento della vita siciliana. Ed ogni volta che si è aperta una grave crisi politica nella società italiana, come nell’ultimo decennio del secolo scorso, come dopo l’altra guerra, come dopo la catastrofe recente, le spinte autonomistiche si sono manifestate in Sicilia in modo chiaro ed evidente. Qualche volta di questo malessere siciliano hanno approfittato le classi reazionarie dirigenti isolane per innestarvi tendenze separatiste; ma l’autonomismo fu sempre democratico e ricordo che esso penetrò nel primo decennio di questo secolo anche nel partito socialista, il quale in Sicilia subì precisamente una crisi autonomistica, ed una scissione, a capo della quale erano uomini come De Felice ed altri, movimento che in fondo era un movimento sicilianista, sociale e democratico. Credo che se il partito socialista del tempo avesse studiato a fondo la questione siciliana, avrebbe evitato quella scissione e si sarebbe arricchito nello stesso tempo di nuove capacità di espansione fra gli strati popolari dell’Isola.
Per la Sardegna il movimento autonomistico si è organizzato come movimento di massa in un’epoca più recente, ma anche esso, come in Sicilia, è sorto come una protesta contro la trascuratezza colpevole dello Stato verso le popolazioni isolane e verso i problemi dell’Isola.
Noi, comunque, abbiamo riconosciuto che la concessione di statuti speciali alle due Isole era ed è un atto di riparazione dell’Italia verso di esse; e siamo certi che se le popolazioni della Sicilia e della Sardegna sapranno adoperare l’autonomia regionale come mezzo complementare e diretto per accelerare i tempi della loro rinascita, l’autonomia avrà come conseguenza il rafforzamento dell’unità che sta tanto a cuore a noi, quanto ai siciliani ed ai sardi.
Il movimento autonomistico della Val d’Aosta è effettivamente la conseguenza del fascismo e della guerra fascista. Quella stupida politica del fascismo che ha tanto contribuito a dividere gli italiani, ha anche inasprito, colla sua azione, la minoranza valdostana, colla quale avevamo sempre avuto eccellenti rapporti. Ecco perché i valdostani hanno chiesto, ad un certo momento, alla nuova Italia democratica, particolari garanzie costituzionali ed anche un particolare regime autonomistico. Noi abbiamo riconosciuto lo statuto particolare per la Val d’Aosta e resteremo fedeli all’impegno assunto.
Siamo certi che i Valdostani difenderanno la libertà loro concessa dalla nuova democrazia italiana, per rafforzare i vincoli di fratellanza col popolo italiano, del quale essi sono una parte, e per ricostruire con noi l’Italia e consolidare insieme a noi la Repubblica democratica italiana.
Diversa e particolare è la situazione dell’Alto Adige. Anche qui il fascismo ha condotto una stupida politica di repressione, di snazionalizzazione e di offesa al sentimento nazionale del popolo alto-atesino che era entrato a far parte del nostro Stato dopo la guerra del 1915-18. La democrazia italiana di allora – riconosciamolo – non seppe o non fece a tempo a fondere queste popolazioni col popolo italiano. In fondo, quelle popolazioni si sono sempre sentite spiritualmente come il distaccamento di una collettività nazionale esterna. Tanto che, quando Mussolini, iniziando l’opera di tradimento degli interessi nazionali, ammise, per servire Hitler, l’esistenza di un problema dell’Alto Adige, ed accettò di risolverlo, secondo il volere di Hitler, col sistema dell’opzione, moltissimi furono gli alto-atesini che optarono per la nazionalità germanica, sebbene parecchi, dopo aver optato, restassero nell’Alto Adige a fare i loro affari ed anche talora a preparare le condizioni per l’occupazione hitleriana del territorio, al momento opportuno.
Il modo come la guerra recente si è svolta e conclusa ha imposto la soluzione che conosciamo al problema della nostra frontiera settentrionale. Noi avevamo il diritto di rivendicare il mantenimento della nostra frontiera del Brennero, perché, ancora una volta nella nostra storia, l’invasione dell’Italia fu tedesca, venne dal Nord, sia pure favorita dal tradimento fascista, che aprì le porte all’invasore. Ma si è verificato un altro fatto, del quale non potevamo non tener conto. Ed è che nel corso delle lotte recenti del popolo italiano contro gli invasori tedeschi e i traditori fascisti loro complici, l’Austria è rimasta al fianco della Germania, ha combattuto fino all’ultimo sotto le insegne naziste ed i suoi soldati sono venuti in Italia a battersi contro i patrioti, i partigiani, i soldati dell’Armata Italiana di liberazione. Non abbiamo visto sorgere in Austria un movimento di massa antinazista, che abbia condotto una lotta armata di liberazione contro i nazisti germanici ed austriaci. Dovevamo, dunque, premunirci per l’avvenire e la nostra richiesta del mantenimento della frontiera settentrionale al Brennero è stata assolutamente giusta, dal punto di vista degli interessi nazionali e statali italiani.
Ma è chiaro che il nostro atteggiamento verso le popolazioni alto-atesine deve essere oggi assolutamente diverso da quello che è stato nel passato. Il governo italiano concluse con il governo austriaco un accordo, nel settembre 1946, relativo al regime ed alle libertà che l’Italia riconosce e si impegna di osservare nell’Alto Adige.
Ritengo che la Repubblica Italiana avrebbe avuto coscienza dei suoi doveri, in questa parte del suo territorio, pur senza lo stimolo, non necessario, e forse anche pericoloso, di un accordo internazionale. La questione della sistemazione regionale da dare a questa regione è allo studio ed io non mi pronuncerò su di essa in questo momento. Ci auguriamo vivamente che le popolazioni di lingua tedesca e sopratutto le popolazioni lavoratrici comprendano l’interesse di edificare assieme a noi in Italia una democrazia solida e veramente popolare, la quale garantisca loro tutte le libertà alle quali hanno diritto, e ci aiutino nell’opera di democratizzazione della Regione altoatesina, la cui situazione, dal punto di vista politico, non è ancora esente dal destare preoccupazioni nei democratici italiani ed europei.
Una rivendicazione regionale si affacciò già nella seconda Sottocommissione e poi nella Commissione dei settantacinque, e fu quella volta a creare una Regione friulana, ma non una Regione speciale. Noi fummo dapprima contrari alla costituzione di questa Regione, data la nostra posizione avversa in generale alla creazione di piccole Regioni. Ma fummo battuti. Nella Commissione dei settantacinque fu l’onorevole Fabbri, se non erro, che propose la creazione di una regione Friuli-Venezia Giulia, con l’aggregazione al Friuli della parte della Venezia Giulia che i trattati lasciano all’Italia. Noi accedemmo a questo punto di vista. La proposta fu approvata con riserva di esaminare ulteriormente se ad una tale regione dovesse essere accordato o meno un regime speciale. Io non mi addentrerò in questa questione, ora.
Se, come ho ricordato, tutte le autonomie speciali hanno una loro origine particolare, dovremo vedere se anche in questa parte del territorio nazionale italiano non vi siano, come io credo, motivi particolari che consigliano uno speciale regime regionale già da noi ammesso per altre regioni a minoranza linguistica o mistilingui.
In questa Assemblea si sono levate delle voci anche autorevoli contro le posizioni speciali, dette «di privilegio», che la nostra Costituzione assegnerebbe ad alcune parti della popolazione italiana, attraverso speciali statuti regionali. Si è detto anche che questa sarebbe una ingiustizia verso le altre parti della popolazione, escluse da un analogo trattamento.
Debbo riconoscere che nessun collega, nemmeno l’onorevole Rubilli, antiregionalista integrale, neppure lui ha proposto di sopprimere le autonomie speciali. Contrariamente all’opinione espressa da alcuni colleghi ritengo, per i motivi esposti, che un regime regionale egualitario sarebbe un errore; vorrebbe dire negare i motivi che ci hanno portato a concedere le autonomie speciali e sarebbe una ingiustizia verso le popolazioni interessate.
Riconosco che dobbiamo rivedere con attenzione alcuni punti di questi Statuti. Non ci è consentito di trascurare alcune acute osservazioni, che sono state fatte da vari colleghi qui, per quanto riguarda, ad esempio, lo Statuto siciliano e lo Statuto della Val d’Aosta.
In sede di coordinamento degli statuti speciali con la Costituzione della Repubblica, dovremo tener presente la preoccupazione di tutelare in ogni campo il principio inderogabile dell’unità dello Stato. Dico questo a quegli oppositori degli statuti speciali, che non si limitano a criticare, come sarebbe loro dovere, gli errori e certe esagerazioni contenuti in questi statuti, ma sostengono che i regimi delle regioni speciali costituirebbero un pericolo per l’unità dello Stato. Secondo me simile preoccupazione è infondata. Chi ha una simile preoccupazione dimentica che abbiamo concesso questi statuti precisamente per far argine a certe deplorevoli tendenze centrifughe e per rinsaldare l’unità dello Stato. E ciò compresero anche gli avversari decisi di ogni forma di autonomie regionali. Non è vero che sempre ed in ogni caso un ordinamento regionale rappresenti un pericolo per l’unità statale. Tutto sta a vedere quando questo pericolo esiste, quando un regime particolare è, invece, condizione dell’unità dello Stato.
Di fronte a simili problemi non mi pare che ci si possa legare a degli schemi, di nessuna specie. Noi crediamo che il pericolo denunciato esisterebbe se i vari statuti speciali diventassero tipi di statuti generalizzati per tutte le Regioni italiane; ed in fondo, il progetto, che è al nostro esame, dell’ordinamento regionale tende, più o meno, a questa generalizzazione. Perciò non l’abbiamo approvato come non lo approveremo. Qui siamo di fronte, onorevoli colleghi (ed è stato già rilevato da vari oratori), ad un progetto che mal nasconde una sua tendenza federalistica.
Ci è stato detto che il federalismo è altra cosa, e siamo d’accordo. È certo altra cosa: per questo parlo di tendenza federalistica, di orientamento federalistico. Dico questo perché l’esercizio delle potestà, che sono sancite per la Regione in questo progetto, porterebbero, prima o dopo, ad indebolire, a rompere, a spezzare il sistema politico unitario dello Stato.
Ed io ritengo che passare in Italia oggi (perché non sono a priori antifederalista o federalista) dallo Stato unitario allo Stato federale, o di tipo federale, sarebbe contrario agli interessi dello Stato e agli interessi del popolo, e delle stesse regioni. Convengo perfettamente con l’onorevole Piccioni che una classe dirigente, nel senso cioè di quello strato di uomini che sono investiti di responsabilità, di funzione o di rappresentanza dirigente, debba avere la sensibilità di porre e di risolvere problemi ancora latenti nella coscienza della popolazione. Vorrei che questa sensibilità fosse sempre viva negli uomini che governano il nostro Paese, e specie per risolvere problemi che non sono latenti, ma che sono espressi, e spesso in forma drammatica, come ad esempio, la riforma agraria. Ma sarebbe inesatto affermare che le popolazioni italiane abbiano, sia pure allo stato latente, la coscienza della disintegrazione dell’unità legislativa del Paese. Se per dannata ipotesi esistesse questa coscienza, mi pare che il nostro dovere sarebbe di dimostrarne l’errore e convincere le popolazioni dell’errore, non già di favorirlo.
Onorevoli colleghi, tutti i riferimenti storici, fatti con notevole corredo di cognizioni, da numerosi sostenitori del progetto, sono stati riferimenti a studi, a progetti, ad intenzioni di singoli studiosi ed uomini politici, i più interessanti dei quali appartengono al Risorgimento o all’immediato post-Risorgimento. In generale questi studi, questi proponimenti di singoli uomini di valore, sono antichi, onorevoli colleghi, non ci servono più, non trovano vita e consenso nella realtà attuale, nella nostra Italia di oggi. Perché man mano che lo Stato unitario si è andato consolidando (ed io ammetto che il processo di consolidazione sia ancora in corso, come provano molti fatti) si sono andati attutendo, o sono andati scomparendo, quelle incomprensioni e quei dissensi dovuti al modo come gli italiani erano vissuti per secoli.
Nel corso degli ultimi 85 anni di vita unitaria, si è creato un unico mercato nazionale, si è creata una economia nazionale (sia pure con molte contraddizioni e disfunzioni), si è andata sviluppando una cultura nazionale sempre più larga, si è creata una coscienza nazionale, che è coscienza degli interessi comuni a tutta la collettività nazionale (ed è un fatto di notevole portata storica): da tutto questo sono scaturiti sentimenti nuovi, che non esistevano prima, o non potevano essere ancora né estesi né profondi.
È facile, onorevoli colleghi, avere un successo di approvazioni, quando si tocca il tasto del sentimento nazionale; ma mi sembrerebbe un atto di slealtà verso di voi muovere questo tasto, in una discussione fra italiani, ciascuno dei quali vuol gareggiare con tutti gli altri nel portare al più alto livello questo che è uno dei sentimenti fondamentali nella vita morale e politica degli uomini.
Noi disputiamo su un altro terreno, è bene inteso. Ma il fatto che interessi unitari, di ordine materiale, culturale, sentimentale se volete, sono sorti negli scorsi decenni, attraverso successi e sciagure che ci sono stati comuni, attraverso l’esperienza dell’unità che, malgrado tutto, è stata positiva, con le sue angosce e coi suoi errori, spiega perché non sono sorti in Italia, nelle nostre popolazioni, movimenti rivolti a disintegrare la unità politica del Paese.
Abbiamo sentito, è vero, in questi mesi ed anche in questa Assemblea, sollevarsi terribili accuse contro lo Stato unitario e politicamente centralizzato, chiamato a rispondere di tutti i mali che abbiamo sofferto dopo l’unificazione e chiamato a rispondere dello stesso fascismo. Io vi confesso che non ho mai sentito rivolgere simili accuse da parte delle popolazioni. Non ho mai sentito dire che se avessimo avuto in Italia uno Stato federale con larghe autonomie regionali, non avremmo subito il danno e la vergogna del fascismo.
Non ho mai sentito dire queste cose perché esse non corrispondono alla verità storica.
I nostri mali sono derivati non già dal fatto che l’Italia si organizzò, nel secolo scorso, in Stato unitario ma dal modo con il quale si è sviluppato il capitalismo nel nostro Paese, e dai rapporti sociali che ne sono derivati. All’origine vi è, in sostanza, il modo stesso come siamo giunti all’unità nazionale, senza una rivoluzione democratica profonda, sociale, popolare, contadina, senza condurre a fondo la rivoluzione antifeudale. La nuova borghesia italiana ha patteggiato con le vecchie classi feudali e da questo patto ne è venuta fuori una unità relativa, rachitica, uno Stato che si è dimostrato incapace di risolvere i problemi fondamentali interni, diretto da una classe timorosa della democrazia, priva di coraggio veramente democratico.
Sotto la incombenza dei problemi sociali, innanzitutto del problema agrario, la cui soluzione avrebbe sviluppato in modo coerente la industrializzazione del Paese, su tutto il territorio nazionale, e potenziato il mercato interno, le classi dirigenti si sono gettate nelle guerre coloniali aggravando le contradizioni e le differenziazioni interne, aumentando le differenziazioni tra Nord e Sud. I nostri mali, e lo stesso fascismo, sono derivati non già dal fatto che noi avevamo uno Stato unitario, e centralizzato politicamente, ma dal fatto che esso fu poco unitario, nel senso sostanziale e non formale della parola. Il fascismo è stato il logico sviluppo di questa politica anteriore delle vecchie classi dirigenti italiane. Io non so se esse volessero proprio il fascismo, non è interessante saperlo. È certo che esse hanno visto nel fascismo il minor male, e lo hanno aiutato per il timore di essere costrette ad un profondo rinnovamento strutturale e politico della società italiana, e quindi se ne sono servite egregiamente contro il popolo e le sue libertà, e contro la Nazione. Non esistevano federalismi o regionalismi capaci di frenare il fascismo. Lo poteva solo l’unione attiva del popolo, capace cioè di imporre le profonde riforme necessarie al Paese. Del resto il fascismo ha vinto provvisoriamente, tanto in Stati monarchici quanto in Stati repubblicani, tanto in Stati unitari quanto in Stati federali o regionali. Ciò è la conferma che non è una forma determinata di organizzazione statale che può impedire la tirannia, bensì la forza del potere democratico, la coscienza democratica del popolo, che abbia conquistato una maggiore giustizia sociale. Il problema è di sostanza, non di forma.
D’altra parte lo Stato centralizzato è un prodotto dello sviluppo delle forze economiche. Non vi è nessun paese civile al mondo che non abbia visto, nell’ultimo cinquantennio, rafforzarsi il potere dello Stato, passare allo Stato facoltà che una volta non gli erano attribuite. Gli Stati moderni sono organizzati in modi diversi, ma la interpenetrazione fra l’economia e la politica è diventata sempre più stretta, ciò che ha enormemente aumentato il loro potere. È questo un dato storico obiettivo che sfugge ad ogni valutazione morale. Non è possibile tornare indietro, perché non è possibile tornare alla piccola industria, alla manifattura, all’arcolaio, al dolce tempo in cui Berta filava. Che ci siano deformazioni morbose in questo processo, è indubbio, che il parassitismo dei monopoli fiorisca velenosamente nella nostra società è certo; ma la macchina poderosa dello sviluppo produttivo moderno è un fatto positivo, è la civiltà in marcia. Questo fatto non può orientarci verso lo spezzettamento di questa macchina; esso è il segno che nella storia matura una nuova epoca.
Questa centralizzazione accresciuta del potere dello Stato, non è detto che debba portare inevitabilmente alla tirannia e al fascismo. Se i gruppi del capitale monopolistico si impadroniscono dello Stato e si servono di esso come della propria organizzazione economica e politica, allora sì, noi abbiamo la tirannia, il fascismo. Ma se le grandi forze produttive ed i grandi monopoli sono padroneggiati dalla società nazionale e lo Stato diventa l’organizzatore di queste forze, nell’interesse sociale, collettivo, nazionale, allora noi facciamo avanzare la società, sviluppiamo le forze materiali e culturali della società, sviluppiamo cioè la democrazia.
Onorevoli colleghi, la questione che oggi la vita ci pone non è quella della frantumazione del potere dello Stato, quanto quella della partecipazione più larga delle masse popolari alla costruzione del Paese, alla direzione del Paese. Bisogna decentrare quindi le funzioni dello Stato per avvicinarle alla popolazione, per chiamare a responsabilità più diretta le popolazioni negli affari dello Stato, per sviluppare e controllare le iniziative locali. Queste sono le esigenze del nostro rinnovamento politico, così come sono poste dalla realtà. E corrispondere a queste esigenze vuol dire concorrere alla ricostruzione del nostro Paese nel modo più largo.
Già qualche anno fa noi aderimmo agli studi rivolti a dare una organizzazione regionale allo Stato italiano. Ma non accettammo la definizione di «Stato regionale», elaborata da quanti vagheggiavano autonomie spinte fino alla potestà legislativa primaria. Convenimmo, però, allora, e conveniamo adesso che la soluzione dei grossi problemi della ricostruzione del Paese sarebbe stimolata, sarebbe aiutata da forme ampie di decentramento amministrativo statale.
Onorevoli colleghi, di fronte alla crisi profonda nella quale si trova il nostro Paese, di fronte all’esigenza di riparare al più presto i danni e di ricostruire l’Italia, noi siamo persuasi che potremo lavorare a quest’opera, risolvendo, nel corso della ricostruzione, i problemi più angosciosi della società nostra, solo con la partecipazione più larga dei cittadini.
La Costituzione ci dà l’orientamento per le grandi riforme; noi sappiamo che gli obiettivi fissati dalla prima parte della Costituzione potremo però realizzarli soltanto nel quadro di una legislazione unitaria e coerente.
Ora io mi domando: c’è forse contradizione fra questa necessità e la disarticolazione delle funzioni statali? Non è forse opportuno, ai fini della ricostruzione, disarticolare le funzioni dello Stato, delegando tutte quelle che opportunamente possono essere delegate, ad enti periferici di una certa ampiezza territoriale? Non è forse opportuno chiamare la periferia a collaborare all’opera utilissima della applicazione delle leggi generali, sul piano degli interessi locali, dando a degli organi periferici facoltà di integrazione ed attuazione delle leggi generali?
Noi rispondiamo che simile decentramento, entro questi limiti, è opportuno, è utile, è necessario alla ricostruzione ed allo sviluppo democratico del nostro Paese.
Da ogni parte vengono sollevate critiche al centralismo burocratico dello Stato, il quale ignora e soffoca le utili iniziative della periferia. Ebbene, queste critiche sono giuste; e non è detto che uno Stato unitario e politicamente centralizzato escluda un decentramento delle funzioni statali. Noi pensiamo che numerose questioni possano venir risolte non più a Roma, ma in centri periferici, in centri esecutivi periferici dello Stato.
Intendiamoci, noi non prevediamo un decentramento burocratico, ma un decentramento democratico, affidato ad organi elettivi locali: consiglio regionale, deputazione regionale, presidente regionale.
Io credo che una simile riforma regionale sia pure moderata, offra grandi vantaggi di ordine amministrativo e politico. E ciò tanto più, se teniamo presente il diritto di iniziativa legislativa dei consessi regionali.
È stato detto: ma un simile decentramento suppone necessariamente la creazione dell’Ente Regione? Lo scopo che noi perseguiamo, non potrebbe essere realizzato meglio con la Provincia? È stato detto perfino che la regione non esiste ed io mi sono meravigliato che l’onorevole Nitti abbia negato che in Italia esista la regione. Sono d’accordo con l’onorevole Piccioni il quale ci ha dato nel suo discorso di ieri una caratterizzazione storica della regione.
Ma facciamo attenzione! Decentralizzare non vuol dire polverizzare. Io non sono d’accordo con quanti propugnano la formazione della grande Regione; sono però contrario anche alla creazione delle piccole Regioni.
Contro la grande Regione, secondo me, milita la concezione stessa che io ho dell’Ente Regione come organo amministrativo di decentramento. Alla grande Regione, con i suoi «baricentri» – come dice l’onorevole Persico – si arriva da una concezione parafederalistica, la quale mira alla costituzione di zone economiche affini, di autosufficienza. Io non credo che noi possiamo abbandonare utilmente il principio dell’unità economica nazionale. E per questo abbiamo anche combattuto la Regione ideata dall’onorevole Micheli.
Ma siamo contrari anche alla creazione della piccola Regione. Ed è probabile che il fatto che manteniamo in vita la Provincia farà cadere molte richieste giunteci da varie parti, per mettere in piedi le piccole Regioni. La piccola Regione mi pare tolga ogni valore alla riforma regionale, la quale, secondo me, ha un senso solo se ci aiuta a superare i particolarismi locali. Parlo di «particolarismi» locali, non di «particolarità»; queste devono assolutamente essere tenute presenti, come non sempre avviene oggi; anzi, la riforma regionale, mi pare abbia il compito precipuo di considerare e mettere al giusto posto le particolarità locali, molto meglio di quanto non abbia fatto lo Stato sino ad oggi. In questo io vedo il carattere autonomistico della riforma.
Onorevoli colleghi, una delle cause…
PRESIDENTE. Onorevole Grieco, veda, la prego, di attenersi allo svolgimento del suo ordine del giorno.
GRIECO. Io volevo concludere in questo modo. Mi pare che tra gli elementi positivi che sono emersi dalla lunga discussione uno abbia valore predominante: quello cioè della possibilità che ci si presenta, attraverso la creazione dell’ente Regione, nei limiti da me prospettati, di favorire lo sviluppo delle forze democratiche in Italia, di aiutare il crearsi di una nuova classe dirigente del Paese, attraverso l’esercizio più largo del sistema democratico nella pubblica amministrazione, mediante il quale il popolo sarà costretto a decidere non più solo nel campo ristretto delle funzioni comunali e provinciali, ma in un campo più vasto. Ciò ha un valore non solo didattico; ha un valore enormemente più importante dal punto di vista politico.
In questa discussione abbiamo mostrato la volontà di tener conto di certe preoccupazioni agitate da uomini politici e dalle popolazioni italiane. Spero che i nostri colleghi, che hanno posizioni più lontane dalla nostra, vorranno tener conto anch’essi delle nostre preoccupazioni, che sono quelle di una parte importante del nostro popolo. Mi auguro, cioè, che potremo realizzare un incontro per trovare punti comuni, e, concretamente, rifare il Titolo V, limitandolo – come ho proposto nel mio ordine del giorno – alle questioni essenziali da introdurre nel testo costituzionale, rinviando tutto il problema della organizzazione interna della Regione e dei suoi rapporti con la Provincia, i Comuni e lo Stato, ad una legge speciale. Io sono ottimista dinanzi all’esperimento regionale, sempre però nei limiti da me indicati. Credo che fra qualche anno, alla prova dei fatti, potremo dire che la creazione dell’ente Regione – ente di decentramento amministrativo dello Stato – avrà avuto benefiche conseguenze nella riorganizzazione del nostro Paese, e dal punto di vista della soluzione dei problemi immediati della ricostruzione e da quello della soluzione dei più importanti e fondamentali problemi di struttura.
Con questa certezza rinnovo l’invito fatto precedentemente dall’onorevole Ruini a tutti coloro che tengono alla creazione dell’Ente Regione, perché penso anch’io che l’Ente Regione può passare in questa Assemblea, alla condizione che esso moderi le sue esigenze e si presenti come qualche cosa di possibile dinanzi alle popolazioni e si giustifichi come uno strumento utile della nuova democrazia italiana. (Applausi).
PRESIDENTE. Poiché la Giunta delle elezioni ha terminato da oltre un’ora i suoi lavori, l’onorevole Nobili Tito Oro potrebbe svolgere il suo ordine del giorno, del quale è stata già data lettura.
Non essendo presente, si intende che abbia rinunciato a svolgerlo.
L’onorevole Russo Perez ha presentato il seguente ordine del giorno:
«L’Assemblea Costituente ritiene che, ferme restando le autonomie già concesse alla Sicilia, alla Sardegna, al Trentino, all’Alto Adige e alla Valle d’Aosta, con forme e condizioni particolari, altri gruppi di provincie potranno, mediante normali provvedimenti legislativi, essere costituiti in Regione, secondo le norme del Titolo V della Costituzione, quando essi ne avranno sentito ed espresso il bisogno mediante la richiesta di tanti Consigli comunali che rappresentino almeno due terzi delle popolazioni interessate e tale proposta sia stata approvata con referendum dalla maggioranza delle popolazioni stesse».
L’onorevole Russo Perez ha facoltà di svolgerlo.
RUSSO PEREZ. Non ho voluto prender parte alla discussione generale per non aumentare di un altro combattente la schiera già troppo numerosa dei giostratori pro e contro la Regione, col rischio di fare della facile retorica. Qui non dobbiamo fare della letteratura, ma delle leggi; possibilmente delle buone leggi. Ecco perché mi sono limitato a preparare degli emendamenti, che ho trasformato nell’ordine del giorno di cui il Presidente ha dato lettura.
Io tento quell’opera di conciliazione fra le opposte tendenze, di cui hanno parlato diversi oratori, una specie di compromesso. Santo Alcide anticrisi mi assista! (Si ride).
Per sostenere la mia tesi, e, cioè, che le Regioni possano costituirsi, ma non debbano infliggersi alle popolazioni, io posso far miei tutti gli argomenti che sono stati svolti dagli oratori favorevoli al progetto.
Infatti io non sono contrario alla Regione. Penso soltanto che un gruppo di Provincie possa e debba costituirsi in Regione quando le sue popolazioni ne abbiano sentito il bisogno e l’abbiano espresso in un modo particolare, che ho copiato dall’emendamento Recca (se non sbaglio), cioè con la richiesta di tanti comuni che rappresentino i due terzi delle popolazioni interessate, e, quindi, col referendum.
Notate ancora che l’autonomia di cui al Titolo V potrà, non dovrà, essere concessa a questi gruppi di Provincie. Quindi, in fondo, finirà con l’essere arbitro il Parlamento di concedere o non concedere l’unificazione regionale.
Così posso anche far miei tutti gli argomenti svolti contro la Regione, perché sono contrario alla sistemazione regionale quando le popolazioni interessate non ne abbiano sentito il bisogno e di tale bisogno, di tale necessità, non abbiano data una rassicurante documentazione.
Allorché si tratta di decentramento, noi possiamo concederlo senza che sia chiesto, o per lo meno, senza che sia espressamente chiesto, perché è notorio che tutti gli italiani sono d’accordo sulla necessità di un largo decentramento amministrativo. E si comprende perché: l’Italia è in quella tal forma costituita da Dio, per cui nelle scuole ci dicevano che somiglia ad uno stivale. E poi noi abbiamo una tendenza alla burocrazia, la quale burocrazia, se normalmente è tardigrada, da noi è addirittura stagnante. Un brillante scrittore ha chiamato estasi amministrativa l’indugiarsi del funzionario allo sportello con tronfia sufficienza.
Dunque, per rendere più snelli i rapporti fra cittadini, Comuni, Provincie e Stato, bisogna senza dubbio accedere a larghe forme di decentramento amministrativo.
Ma per la Regione le cose si presentano diversamente. Non starò a ripetere gli argomenti già trattati da altri. Ma domanderei ai regionalisti convinti, i quali ci dicono che sicuramente la regionalizzazione dell’Italia sarà un bene, se questo possono dircelo a guisa di profezia od a guisa di speranza.
È una speranza, amici miei, onorevoli colleghi; ma non può essere una certezza, mentre i vantaggi dello Stato unitario sono conosciuti da tutti.
Io penso, io sento, io temo che l’Italia tornerebbe ad essere quella che abbiamo imparato a conoscere sui banchi della scuola: un assembramento di piccoli staterelli. Gli oratori che hanno parlato contro la Regione hanno additato i pericoli che sarebbero in questo progettato spezzettamento del territorio nazionale.
Vorrei fare, però, una proposta d’indole pratica: se per caso l’Assemblea Costituente approvasse così com’è il Titolo che riguarda le Regioni, si dovrebbe cogliere l’occasione per scaricare negli enti regionali tutti gli impiegati della SEPRAL e di tutti quegli altri gruppi di lettere alfabetiche che tengono la Nazione come in una camicia di Nesso.
Per giustificare il mantenimento in vita di questi Istituti sono stati fatti vari argomenti, ma il vero argomento non è stato mai confessato, ed è questo: che i loro impiegati non possono andare a casa a far niente. Quindi hanno bisogno di avere un’altra occupazione; e potrebbero trovarla nella burocrazia regionale. Avremmo così il vantaggio di togliere finalmente alla Nazione la pastoia di codesti enti, che sono come una ingessatura posta intorno ad una gamba sana. Levate l’ingessatura, levate questo strumento ortopedico, e vedrete che le gambe torneranno a camminare speditamente.
Ho finito per quanto riguarda la mia proposta di conciliazione.
Ma qualcuno potrebbe trovare strano che io siciliano, che sono stato, per quanto riguarda la mia Regione, un fervido autonomista, fino a sfiorare i confini del separatismo (ma non li ho mai varcati: l’amico Finocchiaro lo sa) mi trovi in questa apparente contradizione: regionalista per la Sicilia e unitario per il resto d’Italia. Consentite che, a questo punto, io dia una risposta all’onorevole Nitti, il quale, parlando dell’autonomia già concessa alla Sicilia, trovò assurda l’istituzione della Corte di Cassazione regionale; perché soltanto con la Corte nazionale unica, egli disse, si può avere l’unicità della giurisprudenza. Io mi appello al nostro grande maestro Vittorio Emanuele Orlando. Egli ci può dire se veramente la Cassazione unica importi unicità di giurisprudenza. Sono diverse sezioni e quindi spesso si ha diversità di giudicati. Se i giudicati sono differenti, non ha importanza che le sezioni della Corte Suprema che li hanno emessi si siano riunite in due aule dello stesso palazzo di giustizia a Roma, oppure una a Roma, l’altra a Palermo e l’altra a Torino. Sappiamo per esperienza che nella stessa sezione della Corte Suprema basta che cambi un magistrato perché cambi la giurisprudenza della sezione. Quindi non è esatto che la Corte unificata abbia dato l’unicità della giurisprudenza, ma è vero il contrario. Basta sfogliare qualsiasi rivista di giurisprudenza per averne la conferma.
Riguardo all’autonomia siciliana, l’onorevole Nitti ha detto qualche altra cosa che mi è sembrata ancora più strana. Essere reverenti verso i più anziani è un privilegio ed un dovere dei più giovani; e difatti, quando parlano questi nostri maestri, li ascoltiamo sempre con reverenza, anche se dicono cose che, se fossero dette dall’onorevole Calosso o da qualche altro, farebbero ridere. Così quando l’onorevole Nitti ha detto che la Sicilia ha cominciato a parlare di autonomia quando ne hanno parlato i valdostani…
NITTI. Non ne ha parlato: ha sentito il movimento.
RUSSO PEREZ. Questo nostro movimento è secolare. Francesco Paolo Perez, nel 1860, insieme agli altri illustri siciliani del suo tempo, voleva per la Sicilia l’autonomia, nel senso che essa dovesse essere federata all’Italia. Viceversa il furbo Cavour pensò all’annessione. E poi più che di Regione avremmo dovuto parlare di nazione. La Sicilia è stata un Regno per dodici secoli. Prima che Umberto Biancamano fosse principe, la Reggia di Palermo ospitava dei Re.
NITTI. Umberto Biancamano è una leggenda.
RUSSO PEREZ. Leggenda più leggendaria è quella per cui la Sicilia abbia pensato alla Regione dopo che ci hanno pensato i valdostani. Ieri l’amico Finocchiaro Aprile mi ha inviato un opuscolo veramente prezioso. Non ricordo il nome dell’autore, ma vi sono riportati dei passi d’antichi autori come il «Monitore», che è del Seicento (non è leggenda) e il padre Gioacchino Ventura, nei quali si afferma che la Sicilia è stata sempre un regno. L’onorevole Nitti sa bene che l’italiano è tanto figlio del toscano quanto del siciliano. Dante ha detto che tutto quello che prima di lui veniva scritto in volgare era chiamato siciliano. Dunque vi sono per la Sicilia quelle premesse delle quali non so quale collega parlava ricordando Filippo Meda, cioè esigenze storiche ed esigenze attuali. La concessione della autonomia alla Sicilia è, quindi, una correzione delle ingiustizie che le sono state fatte sempre da tutti i governi succedutisi in Italia dal ’60 ad oggi. E questo è riconosciuto da tutti i settori, da tutti gli studiosi di ogni contrada d’Italia, da tutti i partiti.
Anche oggi, se il Ministro dei trasporti volesse venire in Sicilia, troverebbe un elettrotreno composto di vetture di terza classe trasformate in prima; starebbe in uno spazio assolutamente angusto e, con gli scossoni che riceverebbe, arriverebbe a Palermo tramortito.
FUSCHINI. È vero, ha ragione.
RUSSO PEREZ. Invece, se prende il treno per Milano, su percorso molto più breve, ha una magnifica vettura di prima classe con molto spazio per i suoi riposi e una vettura ristorante per i suoi pasti. Questo è il trattamento che tutti i governi hanno fatto sempre alla Sicilia dal ’60 ad oggi.
Dunque, anzitutto un atto di giustizia, in secondo luogo, un atto di saggezza politica. La continua e denegata giustizia ha fatto nascere il separatismo, che diventava una cosa veramente pericolosa per l’unità della patria. I migliori siciliani, la maggior parte dei siciliani, pensavano che, se fosse stata a noi concessa l’autonomia regionale, noi ci saremmo avvicinati col cuore, con l’anima, con lo spirito, oltre che con gli interessi, alla Madre comune, mentre, a negare questa autonomia, ci saremmo sempre più allontanati. In fondo, non vi sembri assurdo: erano i separatisti, gli autonomisti, che lavoravano in favore della unità della Patria. Quando fu imprigionato l’onorevole Finocchiaro Aprile, il mio amico Aldisio fece sorvegliare per più giorni anche me. Non gliene faccio colpa, date le sue funzioni. Egli faceva il suo dovere. Le informazioni della Questura erano che io fossi un capo separatista. L’onorevole Finocchiaro Aprile sa che non lo ero, ma le informazioni erano queste. Ora, se gente con la testa sulle spalle, che per l’unificazione della Patria ha dato qualche cosa di se stesso, si avvicinava con simpatia a quel movimento, era necessità politica, saggezza politica, concedere l’autonomia alla Sicilia per togliere l’ardenza, il mordente al pericoloso movimento separatista. Adesso il movimento c’è ancora. Io penso che abbia una funzione. Adesso sono molti i partiti che si arrogano il merito della autonomia concessa alla Sicilia, anche quelli che l’hanno ostacolata. Ricordate la proposta Nasi-La Malfa per il rinvio delle elezioni in Sicilia, sostenuta dai partiti di sinistra.
Il partito democristiano si è arrogato tutto il merito della concessione. Indiscutibilmente, esso ha il merito di averla fatta approvare dal governo. Sono fatti storici che non si discutono. Ma è anche vero che, se il movimento separatista siciliano, di cui ho sempre condannato le forme morbose, non avesse posto alla ribalta della Nazione, come una necessità nazionale, il problema dell’autonomia, credo che l’avremmo aspettata e continueremmo ad aspettarla invano.
Una voce. Noi avremmo lavorato ugualmente.
RUSSO PEREZ. Ho il dovere di credere alla parola d’un gentiluomo, ma non si può dire che cosa sarebbe avvenuto.
Ora c’è ancora un partito repubblicano. Ma non c’è forse la Repubblica?
I repubblicani diranno: «Noi siamo la guardia disarmata della Repubblica».
I separatisti saranno la guardia disarmata dell’autonomia.
Io parlo da estraneo, non ho mai fatto parte, l’ho detto, di quel movimento; si è trattato soltanto d’una simpatia; nient’altro che questo; ho disapprovato, in alcuni dei suoi dirigenti più autorevoli, certe degenerazioni del separatismo siciliano, certi atteggiamenti. Ma sono convinto che, quando la Sicilia si sarà accorta, col trascorrere del tempo, che ciò che fu concesso forse a malincuore, e che forse alcuni vorrebbero ritogliere, sarà mantenuto, sarà offerto dall’Italia con cuore aperto e fraterno; quando i siciliani vedranno che l’Italia, nostra Patria comune, continuerà a sorreggerli ed aiutarli, allora voi avrete raggiunto, attraverso l’autonomia regionale, quella perfetta fusione tra Sicilia e Italia, che era stata incrinata dalla denegata giustizia dei governi italiani. Ecco perché, amici miei, non vi è contradizione fra il mio filoregionalismo, per quanto riguarda la Sicilia, ed il mio antiregionalismo condizionato per quanto riguarda il resto della Nazione.
Una voce. E la Sardegna?
RUSSO PEREZ. Per la Sardegna c’è Abozzi che si accapiglia con Lussu. Sono due sardi.
FUSCHINI. Fate lo stesso voi.
RUSSO PEREZ. Sull’autonomia della Sicilia siamo stati sempre tutti d’accordo.
Una voce. Abozzi ha sempre fatto propaganda autonomista in Sardegna.
RUSSO PEREZ. Ad ogni modo, non importa. Io dico: quello è il mio ordine del giorno. Quando un altro gruppo di provincie avrà dimostrato di avere le stesse esigenze storiche e le stesse esigenze attuali della Sicilia, sarà anch’esso costituito in regione. Ma sarà una possibilità, non una certezza.
Non tutte le regioni italiane devono avere l’autonomia, come è stabilito dal Titolo V.
In fondo, tra i vari motivi per cui sono contrario alla generalizzazione delle Regioni, ve n’è una sentimentale, che si può piuttosto sentire che esprimere a parole.
Vi dirò che il mio filoseparatismo, dirò meglio il mio autonomismo, ricevette un fiero colpo il giorno in cui il Governo italiano credette opportuno – ed era inopportuno – di firmare il trattato di pace. Quando ci veniva strappata Trieste, io pensai che, nel momento in cui lembi preziosi di territorio nazionale venivano staccati dalla madre Patria, questo distacco di staterelli regionali fosse come una cattiveria, una cattiva azione; mi parve come se ognuno di noi volesse piangere soltanto sulle proprie sventure e rifiutarsi di piangere sulle sventure della Patria.
Amici democristiani, non fate questione di principio, accogliete questo temperamento.
Le Regioni «potranno» essere, ma non «dovranno» essere.
Credo che sia proprio quella la soluzione vagheggiata dell’onorevole Ruini e da altri illustri parlamentari.
Se farete così, avremo veramente raggiunto l’obiettivo. (Applausi a destra e al centro).
FANTONI. L’onorevole Ruini è regionalista.
RUSSO PEREZ. Io auspico un componimento delle varie tendenze.
Presidenza del Vicepresidente CONTI
PRESIDENTE. L’onorevole Caccuri ha presentato il seguente ordine del giorno:
«L’Assemblea Costituente, nel riconoscere che l’autonomia regionale risponde ad esigenze di democrazia e di libertà, auspica però che le unità territoriali delle Regioni tendano a coincidere con unità geografiche, etniche ed economiche e che, per evitare la creazione di organismi istituzionali insufficienti ad adempiere i propri compiti, non sia accolta la richiesta di frazionamento della Puglia, che vedrebbe aggravata la già penosa inferiorità della sua terra di fronte alle più progredite e salde compagini regionali dell’Italia centro-settentrionale».
Ha facoltà di svolgerlo.
CACCURI. Onorevoli colleghi, la mia discussione, in riferimento all’ordine del giorno presentato, sarà limitata essenzialmente ai criteri di formazione delle circoscrizioni regionali, con speciale riguardo alla regione pugliese.
Non m’intratterrò perciò (sia perché l’argomento è stato già da altri esaurientemente trattato, sia per la brevità del tempo a disposizione) né sulla struttura, né sui pregi dell’ordinamento regionale, espressione di libertà politica imposta dalla necessità di avvicinare l’amministrazione al popolo e di eliminare i gravi inconvenienti della burocratizzazione.
Accennerò soltanto, brevemente, a qualcuna delle obiezioni sollevate in ordine all’opportunità delle autonomie delle Regioni, lieto se la mia modesta parola potrà contribuire ad eliminare le ombre di dubbi artificiosamente create, dentro e fuori di questa Assemblea, contro la proposta istituzione.
Il primo argomento (che era il più forte e che determinò il fallimento di tutti i progetti precedenti) è costituito dalla preoccupazione che la riforma possa rappresentare un pericolo per l’unità nazionale.
È facile però innanzi tutto rispondere che se tale pericolo poteva sussistere nel 1860, al tempo dei progetti Farini-Minghetti, è oggi completamente inesistente; oggi che l’unità della Patria, conquistata, difesa, cementata dal sangue italiano, è ormai salda nella coscienza popolare, è ormai sacra ed intangibile nel cuore, nello spirito, nella volontà di tutti.
La Patria, invero, è una come la vita, e non sono le libertà locali, le autonomie regionali che possono infirmare la coscienza dell’unità nazionale, la quale anzi rimane rafforzata quando si agisca sul piano unitario della nazione.
D’altra parte l’esame del progetto rivela tale una serie di controlli alla potestà delle Regioni (controlli che vanno dall’esame di legittimità degli atti, previsto dall’articolo 122, al rinvio dei disegni di leggi (art. 118) in contrasto con gli interessi nazionali o di altre Regioni, all’impugnativa per incostituzionalità ed allo scioglimento (art. 117) dei Consigli Regionali); tali controlli e temperamenti, dicevo, da togliere ogni dubbio ed ogni timore a coloro che paventano la minaccia per l’unità politica e legislativa.
Si è parlato pure di esaltazione del campanilismo. Ma anche qui bisogna intendersi: se il campanilismo si identifica con le piccole beghe locali indubbiamente è da combattersi come espressione di ristrettezza mentale e di immaturità politica; ma, se campanilismo vuol dire attaccamento alla propria terra e conseguente desiderio di affermarne le virtù, di metterne in luce le capacità, allora esso sfocia nella emulazione, che è impulso a migliorare e progredire; e noi vediamo in una sana emulazione regionale, in una nobile gara di superamento, un fattore nuovo di feconde realizzazioni e di prosperità non solo locali, ma nazionali.
Riconosciuta così la necessità dell’autonomia regionale, che risponde veramente ad esigenze di libertà e di democrazia, come è stato largamente dimostrato da tanti onorevoli colleghi che mi hanno preceduto, occorre stabilire come in concreto debbano essere formate le circoscrizioni politico-amministrative delle Regioni, poiché, come ben diceva l’onorevole De Pretis, fra le prime e più importanti questioni che si affacciano nel dare opera ad una riforma degli ordini politico-amministrativi dello Stato, è indubbiamente quella delle circoscrizioni.
Ritengo che nella determinazione delle circoscrizioni occorra innanzi tutto tenere presenti le ragioni geografiche-tradizionali, per cui le unità territoriali amministrative dovrebbero tendere a coincidere con unità geografiche, etniche, economiche.
Occorre cioè evitare le creazioni artificiose, ed adeguare le circoscrizioni politico-amministrative alle Regioni naturali, cioè a quei tratti di paese – per dirla con la definizione dei geografi – che si individuano in sé e si distinguono dagli altri per i loro caratteri di insieme.
Altro elemento che occorre tener presente è la vitalità della Regione, l’autosufficienza: autosufficienza, si intende, in senso relativo, poiché, in realtà, nessuna Regione può avere un’autosufficienza piena. Tale autosufficienza sarà tanto più certa, quanto più vasta e completa sarà la struttura economica della Regione, e quanto più il complesso regionale sarà dotato di capacità contributive, il cui coefficiente, in ultima analisi, è in relazione alla massa della popolazione, all’estensione del territorio ed all’entità delle risorse. Pertanto sono particolari caratteri geomorfologici, climatici, antropologici, insieme a criteri industriali, agricoli e commerciali, quelli che serviranno a individuare la Regione. Ora, non mi pare che a tali criteri si sia ispirata, nei confronti della Puglia, la seconda Commissione che ha inteso dividere in due tronconi la Regione Pugliese. (La Daunia oggi vorrebbe ancora un’ulteriore suddivisione). La seconda Commissione, dicevo, che ha voluto dividere in due tronconi la Regione, che invece ha caratteri etnici, economici e geomorfologici veramente unitari.
Anche il più sintetico esame dei caratteri della Puglia, invero, rivela nel suo complesso, da un lato una uniformità ed una omogeneità, e dall’altro una originalità che valgono veramente ad individuare in sé questa Regione, a darle una fisionomia tutta propria, a differenziarla ed a distinguerla nettamente dalle regioni circostanti ed a saldarne in unità le varie parti.
Innanzi tutto si rivela una uniformità (tranne lievi differenze, che si notano più fra il litorale e l’interno che non fra nord-ovest e sud-est) negli stessi elementi climatici, poiché se è vero che le piogge raggiungono alcuni massimi ai due estremi, cioè sul Gargano e sul Capo, il clima è dovunque semiarido e la siccità estiva fortemente accentuata; uniforme è pure la stessa costituzione geomorfologica (anche l’uomo della strada sa che caratteristica della Regione Pugliese è la monotonia delle forme e la grande uniformità del terreno); uniforme è anche l’idrografia, per cui è sorto ed è stato risolto sul piano regionale il gravissimo problema della deficienza dei corsi d’acqua, con la grandiosa costruzione dell’acquedotto pugliese, che è uno dei più efficaci elementi dell’unità della Puglia. Ed uniformi sono anche i caratteri antropologici (tranne la diversità dei dialetti nel Salento), così come caratteristica è la densità della popolazione e l’agglomeramento nei centri abitati. Che anche nella Puglia esistano delle differenziazioni interne non si può negare, e d’altra parte, se per taluni aspetti si notano delle differenze nella Capitanata e nel Salento, appaiono differenziati, dentro la stessa Capitanata, il Gargano ed il Tavoliere, e dentro il Salento la Regione delle Serre e quella del Capo, e così via; ma più che di contrasti, più che di nette differenziazioni, si tratta di gradazioni degli stessi caratteri principali, sfumature che non annullano i caratteri omogenei della Regione.
E così omogenea è nella Puglia l’economia rurale, fondata dappertutto nell’agricoltura: caratteristica (dolorosa caratteristica) la grande diffusione del bracciantato. Tipiche anche le colture (il mandorlo, la vite, l’ulivo). E se è vero che esistono problemi agricoli particolari nel Foggiano, nel Leccese, nel Tarantino (così come esistono in ogni Provincia e forse anche in ogni Comune), vi sono indubbiamente poderosi problemi generali della irrigazione, della cerealicoltura, delle colture industriali, delle foraggere e connesso allevamento, del latifondo e del bracciantato. Problemi, la cui soluzione si impone su un piano regionale, unitario, coordinato, e non su piani isolati, frammentari, disarticolati.
Anche nel campo dell’industria, più che problemi isolati, limitati al Salento, alla Capitanata, al Barese, esiste un grande problema generale: l’industrializzazione della Puglia, che è un aspetto del problema generale dell’industrializzazione del Mezzogiorno; l’industrializzazione della Puglia, ove (tranne gli stabilimenti per la cellulosa a Foggia e per l’idrogenazione dei combustibili liquidi a Bari) mancano le grandi industrie ed esistono soltanto piccole imprese sparse ed esercizi industriali oleari e vinicoli.
Pure i problemi del commercio sono essenzialmente problemi pugliesi, problemi unitari, che invano si potrebbero distinguere in problemi salentini, foggiani, baresi; e la Puglia, sia nel commercio col Nord Italia, sia con l’estero, si comporta come unità non solo per le mandorle, ma per gli olii e per gli stessi vini, di cui il più importante contributo viene proprio dal Salento.
E la scarsa differenziazione interna della Puglia si rivela finanche nel sistema delle reti di comunicazioni, che hanno dovunque lo stesso carattere: grandi direttrici di movimento, ma deficienti le vie di allacciamento alle borgate e alle campagne.
Perfino i porti appaiono, non per volontà degli uomini, ma per sviluppo spontaneo delle situazioni, ordinati in sistema nelle Puglie, ove i due grandi porti commerciali, Bari e Brindisi, hanno armonicamente divisi i compiti mercantili; il primo dedito al maggior sviluppo del movimento del commercio, sia per effetto della sua posizione sia per l’attività commerciale della sua piazza; l’altro adibito specialmente come porto di velocità per passeggeri e corrieri postali. Attorno a questi porti maggiori, altri sussidiari (che si seguono da Barletta a Gallipoli) ne integrano in modo davvero armonico l’attività.
Nessuna regione pertanto più della regione pugliese presenta, sotto tutti gli aspetti, caratteri più omogenei ed uniformi, nessuna più della Puglia (che il Migliorini, nel suo studio La terra e gli Stati, in epoca non sospetta, porta ad esempio di regione naturale ben delimitata), nessuna più della Puglia, dico, deve rimanere unita per risolvere sul piano regionale problemi vitali (come quello già effettuato dell’acquedotto e quello che sta per risolvere dell’Ente irrigazione).
Spezzare in tronconi distinti l’unità della Puglia (i cui caratteri unitari sono stati invece riconosciuti da economisti e geografi insigni da Colamanico a Bertacchi a Sacco), spezzare, dicevo, l’unità della Puglia, significa spezzare la vitalità della regione pugliese, significa arrestarne il processo di espansione industriale, agricola e commerciale, significa disperdere nel contempo un patrimonio di esperienze ed un complesso di organismi già esistenti, poiché, fra l’altro, numerosissimi sono gli enti a carattere regionale con competenza su tutta la Puglia, che esistono nella regione pugliese. D’altra parte, soltanto Lecce (e neppure tutta) delle tre provincie che dovrebbero costituire la nuova regione salentina, rivendica l’autonomia del Salento. Taranto invece sostiene che, se una seconda regione pugliese dovesse sorgere, questa dovrebbe essere la regione ionico-salentina con capoluogo Taranto e con estensione sul litorale ionico verso la Calabria, in modo da comprendere un certo numero di comuni della provincia di Matera e di quella di Cosenza. Anche Brindisi si è solo preoccupata della conservazione della sua provincia, ma non si è affatto occupata del problema regionale salentino; il che fa ritenere ch’essa propenda verso l’unica regione pugliese, economicamente più salda e capace di far fronte ai propri impegni.
La rivendicazione della Provincia di Foggia, poi, come si rileva dalle stesse precisazioni del Presidente del Comitato di agitazione, onorevole Ruggiero, sorge soltanto di rimbalzo e come correttivo delle conseguenze della secessione salentina; ma mancano di consistenza le ragioni addotte per sostenere l’individualità geoeconomica della Daunia.
A pro della regione salentina vengono anche addotte ragioni storiche e si richiama alla memoria l’esistenza di una contea di Taranto; ma è facile rispondere che il passato rievocato è superato fra l’altro dall’opera secolare dell’unitario Regno di Napoli, che per secoli ha dato al territorio della Puglia, che va dal Gargano a Santa Maria di Leuca, un trattamento di unità; invocare pertanto reminiscenze storiche per un ritorno all’antico feudo di Taranto come base di una nuova regione, significa non accogliere le ragioni e gli insegnamenti della storia, significa andare contro il moto dei tempi.
Inoltre, va rilevato che se si seguissero le tendenze separatiste in oggetto, si darebbe in sostanza un ordinamento regionale a quello che era l’antico ordinamento provinciale prefascista; si farebbero cioè assurgere a regioni le tre provincie in cui prima del fascismo era divisa la Puglia.
L’onorevole Codacci Pisanelli, in sede di Sottocommissione, dichiarava che con il distacco della zona del Salento dal resto della Puglia non si avrebbe, fra l’altro, più una sola regione di così eccessiva lunghezza come l’attuale regione pugliese; ed aggiungeva che se la città di Brindisi dovesse continuare a far parte di una stessa regione, con centro la città di Bari, il porto di Brindisi, che è uno dei più sicuri sul litorale adriatico, sicuramente non verrebbe sfruttato. Ma, come rilevava l’onorevole Presidente, l’estensione della Puglia poteva essere nel passato un motivo per indurre a costituire più regioni nell’ambito dell’attuale circoscrizione pugliese; non più oggi col grande sviluppo dei mezzi di comunicazione.
Lo stesso Presidente rilevava che, per quanto riguarda il traffico dei porti, sarebbe assai dannoso allo sviluppo economico della Nazione se le regioni tentassero, con proprie disposizioni interne, di deviare le correnti del traffico dalle loro vie normali, poiché (sono sempre le parole dell’onorevole Presidente) non è già per migliorare soltanto le condizioni economiche delle regioni, ma anche soprattutto per avvantaggiare l’economia unitaria del Paese che oggi si vuole instaurare un ordinamento dello Stato su base regionale.
Lasciamo perciò, amici di Foggia e di Lecce, i gretti interessi personali, che ci fanno perdere la visione d’insieme, mettiamo da parte le citazioni di Plinio e di Strabone, ed anziché affannarci, contro gli interessi economici e sociali delle popolazioni, a spezzettare la Puglia in due o più organismi regionali che, per la scarsità delle risorse potenziali ed attuali, avrebbero necessariamente una vitalità grama, cerchiamo invece, nel comune interesse, di potenziare sempre più la naturale unità di quella regione che, attraverso la volontà tenace della sua gente, potrà trovare nel nuovo ordinamento regionale gli elementi certi di una rinascita feconda e luminosa.
Non possiamo accedere alle vostre pretese, o amici della Capitanata e del Salento, perché non possiamo consentire che le autonomie regionali, che dovranno costituire prove decisive per la nuova democrazia italiana, abbiano sul nascere cause d’intrinseca e fatale debolezza, ed appaiano a priori destinate a parziali insuccessi. Con la creazione delle Regioni, in vero, si deve dar vita ad organismi che abbiano la capacità di autogoverno, di alleggerire lo Stato di alcune funzioni, e di dare impulso ad attività locali, sia economiche che amministrative, libere dagli impacci burocratici centrali e dalla gravosa tutela statale.
Come invece si potrebbero raggiungere tali fini con complessi regionali privi in sé dei necessari requisiti di vitalità e di forza?
Si avrebbero delle autonomie illusorie.
Questo è stato ben sentito in tanta parte d’Italia, ove il ricordo di antiche signorie non vale a dividere ma a cementare sempre più la moderna compagine di regioni come il Piemonte e la Lombardia.
Perché tutto ciò non deve avvenire in Puglia? Noi non disconosciamo, amici di Lecce, né il fervido ingegno delle vostre popolazioni, né il lustro delle vostre tradizioni gentilizie e di cultura; noi non vi domandiamo neppure in virtù di quale diritto Lecce, città di appena 50 mila abitanti, vuole costituirsi a capoluogo di una regione, in cui dovrebbe, contro la sua volontà, entrare Taranto con i suoi 137 mila abitanti; noi non vi rimproveriamo tanta eccessiva ambizione, specie se posta a confronto con altre città d’Italia ricche di benessere e di storia, che pur non hanno esitato a rinunziare a posizione di preminenza regionale. Diciamo soltanto che mancano le condizioni opportune per la creazione delle regioni Salentina e Dauna, e che è nell’interesse di tutti evitare il sorgere di regioni piccole ed anemiche in un sistema di regioni vaste e salde. Evitiamo, dunque, ogni frazionamento che aggraverebbe definitivamente la già penosa inferiorità di queste terre di fronte alle più progredite e fortunate regioni dell’Italia centrosettentrionale, e facciamo che la Puglia, una e concorde, dalle estreme pendici dell’Appennino abruzzese alla punta del Gargano ed al Capo di S. Maria di Leuca, costituisca, nell’indistruttibile unità della Patria, un saldo e complesso organismo istituzionale, un imponente centro d’iniziative economiche e di forze politiche e sociali; costituisca nel contempo un centro di espansione economica dell’Italia verso l’Oriente.
Ve lo chiedo nell’interesse delle vostre provincie; nell’interesse delle vostre popolazioni, amici del Salento, cui procurereste un maggior isolamento all’estremo sud-est della Penisola, insieme ad un notevole onere finanziario connesso all’organizzazione regionale; nel vostro interesse, amici della Daunia, ove la stessa vastità dei problemi di trasformazione fondiaria, da voi in particolar modo accentuata, in un complesso privo di industrie, e di elementi economici equilibratori, peserebbe assai gravemente sulla vitalità della Regione; ma soprattutto ve lo chiedo nell’interesse dell’Italia, che nella saldezza delle Regioni dovrà trovare una sicura base per il suo divenire. (Applausi al centro).
PRESIDENTE. L’onorevole Martino Enrico ha presentato ora il seguente ordine del giorno:
«L’Assemblea Costituente,
udita la discussione generale sul Titolo V del progetto di Costituzione, che ha portato un notevole contributo al chiarimento del concetto dei poteri e dei limiti dell’ente Regione;
ritenuto che è indispensabile che il nuovo ente trovi il suo fondamento e la sua regolamentazione istituzionale nella Costituzione della Repubblica italiana
delibera
di passare alla discussione degli articoli del progetto di Costituzione».
Ha facoltà di svolgerlo.
MARTINO ENRICO. Rinuncio a svolgerlo.
PRESIDENTE. Dichiaro chiusa la discussione generale, riservando la parola al Relatore ed al Presidente della Commissione.
Il seguito della discussione sarà ulteriormente fissato.
Lunedì alle ore 16 vi saranno le dichiarazioni del Governo.
La seduta termina alle 13.35.
Ordine del giorno per la seduta di lunedì 9 giugno 1947.
Alle ore 16:
Comunicazioni del Governo.