ASSEMBLEA COSTITUENTE
CXXXVII.
SEDUTA ANTIMERIDIANA DI MERCOLEDÌ 4 GIUGNO 1947
PRESIDENZA DEL VICEPRESIDENTE CONTI
INDICE
Congedi:
Presidente
Progetto di Costituzione della Repubblica italiana (Seguito della discussione):
Rodi
Bellavista
Recca
La. seduta comincia alle 10.
RICCIO, Segretario, legge il processo verbale della precedente seduta antimeridiana.
(È approvato).
Congedi.
PRESIDENTE. Comunico che hanno chiesto congedo i deputati Lucifero e Angelini.
(Sono concessi).
Seguito della discussione del progetto di Costituzione della Repubblica italiana.
PRESIDENTE. L’ordine del giorno reca: Seguito della discussione del progetto di Costituzione della Repubblica italiana.
Riprendiamo la discussione generale del Titolo V relativo alle Regioni.
È iscritto a parlare l’onorevole Rodi. Ne ha facoltà.
RODI. Illustre Presidente, onorevoli colleghi! Noi abbiamo affrontato il problema delle autonomie regionali in un momento particolarmente difficile della nostra storia. Il problema, come tutti sanno, non è nuovo; esso è penetrato in quell’immenso travaglio che è stato il nostro Risorgimento e si è prolungato nell’Italia unita, stimolando gli studiosi alla ricerca di una fisionomia politica che meglio rispondesse alle esigenze e al temperamento del popolo italiano.
Poi vi sono stati alcuni anni di silenzio e, dopo questo silenzio, il problema ridiventa attuale: ridiventando attuale esso rinnova quell’ansia di ricerche cui già attesero storici, filosofi e giuristi, sempre nell’intento di cercare di determinare, nella prassi politica internazionale, il volto di questa Italia che unita sorgeva nella storia.
Io credo che sia opportuno, a proposito del problema autonomistico, di fare un’inchiesta storica per sapere in qual modo nasce, si sviluppa e si afferma questo problema autonomistico.
L’Italia, come sapete, ha sofferto lungamente per le dominazioni straniere e per le lacerazioni intestine. E questo stato di fatto incominciò a formare nel nostro popolo un sentimento, un profondo bisogno di determinare una individualità politica, la quale fosse basata sull’ideale comune di un popolo, di un popolo sempre eguale a se stesso e soprattutto sullo stimolo proveniente da un illustre passato. E sappiamo che lo spirito di indipendenza del popolo italiano nacque e si affermò fortemente soprattutto nel periodo della dominazione spagnola, che è una delle più tristi che l’Italia abbia subito.
Ora noi possiamo tralasciare tutto quel periodo che va da Dante in poi e che produsse tutta una serie di formulazioni politiche di carattere teorico e di tentativi di principi illuminati. E tralascio questo periodo, perché il nostro punto di partenza deve essere fissato in un filosofo rivoluzionario, Tommaso Campanella. Nella gigantesca utopia della città solare del Campanella vi è già un’esigenza politica, cioè l’esigenza di un federalismo, di una federazione di Stati italiani capeggiata da un sommo sacerdote, che doveva rappresentare l’autorità massima ed efficiente, capace di superare tutti i contrasti e di conciliarli nel senso religioso del nostro popolo. Ora, come si vede, dalla monarchia universale concepita da Dante alla federazione di Stati italiani concepita dal filosofo calabrese, vi è già un’enorme distanza. La monarchia universale può essere, per dir così, sublimata in un pensiero, sto per dire, cosmico, in una teoria che aleggia soltanto nella poesia della nostra gente, mentre in Tommaso Campanella vi è già un’esigenza politica immediata, vi è già la traduzione di un’esigenza profonda di un popolo, il quale, oppresso da dominazioni e lacerazioni, sente già il bisogno, sia pure confuso, di un ideale politico e di un’assoluta indipendenza.
Dopo questo periodo abbiamo il Settecento, nel quale molti scrittori si occupano di federalismo e sembrano vicini a questo ideale politico. Però nel ’700 sorge improvvisamente – dico improvvisamente, perché è come un’eccezione – la dottrina politica di Melchiorre Gioja, il quale voleva una Repubblica unitaria, liberale, democratica, indivisa e indivisibile, sostenuta di vincoli geografici, storici, religiosi, economici; ed egli escludeva, per la formazione di questa Repubblica, la violenza e ammetteva invece il graduale consenso del popolo.
L’onorevole Conti è regionalista, forse anche federalista; tuttavia, quando io ricordavo questa espressione di Melchiorre Gioja, non so perché, la sua immagine si formava nella mia mente. Non volevate voi una Repubblica così fatta? repubblica una, indivisa e indivisibile, che non si affermasse con la violenza, ma con il graduale consenso? Ebbene, la dottrina del Gioja fu dichiarata dagli studiosi avveniristica, troppo lontana dal ’700; e forse quell’avvenire, quel quadro formatosi nella mente di un filosofo, oggi è una realizzazione concreta, pratica. Onde io, monarchico, affermo che la Repubblica è venuta in Italia senza violenza, e affermo altresì che il consenso graduale del popolo è la manifestazione più profonda di una civiltà politica e democratica.
L’800 invece è stato vivacemente federalista, e sappiamo che in questo secolo campeggia la dottrina del Gioberti, un neo guelfismo sostenuto autorevolmente dal Rosmini, cioè da uno schietto e sincero filosofo. Però dobbiamo pur riconoscere che il concetto federalistico del Gioberti fu sconfitto dalla storia e non soltanto dalla storia, perché si era ormai sviluppato nel popolo italiano, pronto a redimersi dalla schiavitù straniera, il senso profondo dell’unità.
Avemmo pure nello stesso tempo un federalismo democratico che fa capo, come sapete, al Cattaneo; e il Cattaneo è in certo senso estremista, perché egli si ferma ancora al concetto che l’individuo non può ignorare la singola Patria, cioè la sua regione; ed anzi egli pensa, egli teme che l’unità italiana sia addirittura sorgente di dissensi e di guerre civili.
Anche qui possiamo affermare che il Cattaneo fu sconfitto dalla storia, perché il popolo italiano ha fatto la sua unità credendo in sé e trovando in se stesso il proprio senso solidale e il proprio amor di patria.
Vi è stato anche il federalismo liberale democratico che faceva capo al Balbo e al D’Azeglio e vi è stato un federalismo rivoluzionario che faceva capo a Giuseppe Ferrari. Ma qui dobbiamo notare che Ferrari era più un cittadino francese che italiano, non perché di origine francese, ma perché amantissimo della sorella latina, e quindi egli parlando d’un federalismo rivoluzionario chiedeva niente di meno che questo federalismo fosse attuato con l’intervento della Francia. Il Ferrari purtroppo si lasciava influenzare dalle teorie del Proudhon, il quale vedeva nell’unità italiana un pericolo per l’impero francese; ma il Proudhon vedeva anche nel federalismo italiano qualche cosa di ibrido e di incostante che non avrebbe mai preoccupato la Francia.
E così, a poco per volta, siamo arrivati alla forma di decentramento, alle teorie che fanno capo al Farina e al Minghetti; ma la storia del Risorgimento italiano si è conclusa con l’unità, quell’unità che faceva capo a menti come quelle di Cavour, di Mazzini e di Garibaldi.
Ora noi possiamo chiederci se questa unità sia stata formata per l’intelligenza e la grandezza di uomini come Cavour, Garibaldi e Mazzini, o se piuttosto non vi sia stata una intensa collaborazione fra i grandi e lo spirito del popolo, quello spirito che sogliamo trascurare e che tuttavia costituisce non soltanto la fisonomia del popolo, ma costituisce soprattutto il suo particolare istinto che si manifesta in mille modi e che a noi uomini politici, storici, filosofi, giuristi spetta il compito di precisare e sopratutto di interpretare prima di assumerci la responsabilità di innovare qualche cosa, di creare una nuova legge. In questa nostra storia abbiamo poi avuto una dittatura, la quale ha soffocato la libera evoluzione del pensiero; ed in questo periodo tutto tace, perché tutto si accentra intorno ad una sola idea politica, intorno a questo sistema dittatoriale, per il quale la voce del pensatore è costretta a frenare la sua impazienza.
Ma la dittatura portò ad una sconfitta. La sconfitta naturalmente ha ripristinato vecchi valori e ne ha portati di nuovi, e fra i nuovi valori abbiamo questo che si chiama ormai «Stato regionale», cioè qualche cosa che sta fra lo Stato unitario e lo Stato federale. Lo Stato regionale, cioè, ripudia l’uno e l’altro, tentando una via di mezzo, una medietas che sia costruita su un’idea nuova e nello stesso tempo tragga, e dallo Stato unitario e da quello federale, tutto ciò che in queste due fasi politiche estreme vi può essere di buono. E, credendo di interpretare in questo modo lo «Stato regionale», io penso che idealmente esso è forse la formulazione più perfetta di uno Stato democratico, prima di tutto perché la medietas risponde al temperamento del popolo italiano ed in secondo luogo perché un’idea, anche originale, non può prescindere dal passato né dalle altre concorrenti formazioni politiche. E penso che questa idea nuova più trae dall’esperienza del passato, più trae dalle formazioni politiche concorrenti alimento per se stessa; e più è un’idea che può essere valorizzata dalla storia e dalla prassi.
Però, sente il nostro popolo la necessità di questo «Stato regionale»? A questa mia domanda hanno risposto due oratori di parte avversa, e cioè l’onorevole Gullo Fausto e l’onorevole Uberti. L’onorevole Gullo sosteneva chiarissimamente di non avere percepito nelle folle italiane il senso dell’autonomia regionale. L’onorevole Uberti dichiarava, anch’egli chiarissimamente, che negli stessi comizi e nelle stesse folle aveva colto il desiderio regionalistico del nostro popolo. Sono due dichiarazioni contrarie, schiettamente contrarie, e noi abbiamo il dovere di credere tanto all’onorevole Uberti che all’onorevole Gullo. E se queste visioni della folla, del popolo, vengono portate in seno a questa Assemblea, ci accorgiamo che l’Assemblea stessa è divisa in due parti forse uguali; vale a dire che lo Stato regionale non ha, nella concezione della nostra Assemblea, una maggioranza assoluta, come sembra che l’antiregionalismo non abbia la maggioranza assoluta.
In altri termini qui le formule si equivalgono, ed allora la nostra prudenza ci può anche consigliare di soprassedere su questo problema regionale, visto che le forze sono uguali e contrarie, e di preferire lo statu quo.
Però in queste due tendenze vi può essere un uguale pericolo; cioè nell’ordinamento regionale è racchiuso e nascosto il pericolo del federalismo.
Lo chiamo pericolo e dico che questo pericolo è nascosto; perché non voglio sottolineare arbitrariamente la certezza che l’ordinamento regionale darà un federalismo.
Ma è chiaro che noi facciamo un esperimento di questa portata in un momento un po’ troppo vivace, in un momento in cui la passione politica può avere intorbidato la nostra vista. Ciascuno di noi crede di sentirsi sicuro e sereno; ma, ove ciascun deputato si sollevi al disopra delle questioni contingenti, sentirà di non possedere una vera serenità. E naturalmente la preoccupazione aumenta quando a questo pericolo nascosto del federalismo si contrappone un’apologia dello Stato accentratore così come è stata fatta dall’onorevole Gullo: un’apologia impressionante, che ci ha fatto tacere e ci ha immobilizzato al nostro posto; perché noi non possiamo concepire che in uno Stato democratico, in uno Stato che esce dalla luce della libertà, si possa parlare di uno Stato accentratore con tanto entusiasmo. Tanto più che l’onorevole Gullo ha fatto un’operazione chirurgica sottilissima: egli ha diviso il centrismo dal fascismo. Il centrismo è ottima cosa, ma di esso mal si servì il fascismo; e quindi, la colpa della dittatura non è il centrismo ma il fascismo che di esso si servì in senso dittatoriale.
Ora io queste operazioni chirurgiche così sottili, sebbene filosofo, non so farle e non posso farle; dico soltanto una cosa: che il centrismo è centrismo, e qualsiasi partito che si serva di esso è portato ad accentrare; e chi è portato ad accentrare è già in piena dittatura. Però desidero anche avvertire che ogni formulazione politica nuova – e nuovo dobbiamo considerare l’ordinamento regionale – trova il suo battesimo nella realtà. Vi sono formulazioni politiche nuove che sono scontate dopo una più o meno lunga attuazione. Noi diciamo per esempio che la rivoluzione francese è riuscita ad abbattere una monarchia millenaria per una semplicissima ragione: perché il popolo francese non credeva più nel diritto divino del Re. Quindi il diritto divino della monarchia era già scontato nell’opinione pubblica. E così possiamo spiegarci perché in brevissimo tempo la Russia ha demolito l’impero zarista: lo Zar non era più nella concezione degli intellettuali russi e forse nemmeno in quella dei contadini e degli operai, il responsabile di Dio in terra: era un uomo. Il potere trascendente cadeva, si frantumava, e rimaneva una nuova realtà la quale, in quei casi da me citati, si è tradotta in due forme profondamente rivoluzionarie. Ma vi sono formulazioni politiche che si scontano senza la pratica attuazione, e mi sembra che in questo caso debba rientrare l’ordinamento regionale. Questo ordinamento, sia pure sotto forma di federalismo, è nato e si è sviluppato nel nostro Risorgimento ed è stato sconfitto. Il popolo non ha sentito questa frantumazione, perché il popolo era già preso dal senso dell’unità; il popolo ha rigettato le teorie di un Gioberti, di un Cattaneo, d’un Balbo, il popolo ha rigettato le teorie di quelli che erano i rappresentanti d’una libertà e d’una redenzione. Ed io penso, comunque, che l’ordinamento regionale è già scontato in anticipo, è rimasto una dottrina che la storia non ha voluto tradurre in atto e che noi, forse, oggi non abbiamo il diritto di richiamare in vita per imporla ad un popolo già lontano circa un secolo dalla sua redenzione.
Signori, c’è una famosa proposizione del Tocqueville, che conoscete certamente; egli affermava – e l’affermazione in un certo senso è singolare – che in politica bisogna accentrare, e decentrare, invece, in amministrazione.
Naturalmente, pronunziando una proposizione simile, io potrei essere anche accusato col solito epiteto di reazionario, d’un reazionario che cerca un accentramento politico. Però, la frase del Tocqueville, lanciata così, nell’esteso elogio che egli fa della democrazia americana, ci lascia, in certo senso, perplessi e ci invita ad esaminarla, dal nostro punto di vista, affinché noi si possa dare ad essa una interpretazione particolare.
E quindi io vedo in questa proposizione del Tocqueville il fatto che la direzione politica del Paese deve essere accentrata e che da questo centro politico devono partire tutti quegli organismi, destinati a dare alla periferia una libera amministrazione, una cosciente responsabilità, una divisione di lavoro, che corrisponda alle esigenze di un popolo.
È questo, anche se non trovo l’adesione di qualcuno, direi quasi un fenomeno naturale, che si è sviluppato e che si forma ancora nella nostra storia. Perché noi non dobbiamo dimenticare il cammino della storia. Noi siamo usciti da uno Stato feudale, per entrare in uno Stato burocratico o Stato moderno. E quando noi abbiamo formato, attraverso l’evoluzione storica, questo Stato burocratico, abbiamo separato le attività dello Stato: le attività militari da quelle finanziarie e giudiziarie, ecc.; cioè, abbiamo fatto in modo che lo Stato burocratico sia una specie di raggiera, in cui ciascuna competenza attende precisamente al suo compito. E questa rottura del sistema feudale, questo trapasso nel sistema burocratico, è una evoluzione recente, nella quale viviamo ancora. Ed io credo che non sia lecito superare o tentare di superare il corso della storia; o, addirittura, come potrebbe accadere nel nostro caso, tornare indietro e creare un sistema autonomistico, che rischierebbe di identificarsi con lo Stato feudale o con lo Stato federale.
UBERTI. Così si arriva al centralismo.
RODI. Onorevole Uberti, io ho sentito la difesa veramente generosa e strenua che lei ha fatto della Regione: però, se lei dice che io con queste mie parole arrivo al centralismo per altra via evidentemente lei non mi ha ascoltato con attenzione.
UBERTI. Speriamo bene.
RODI. Accade ora nell’opinione dei regionalisti che chi è contro il regionalismo non può essere che accentratore; ma io forse riuscirò a dimostrare che si può essere antiregionalisti e liberali a oltranza.
UBERTI. E questo è il difficile. A ogni modo, sentiamo.
RODI. Sì, la prego. (Si ride).
Un’altra domanda vorrei porre: questo regionalismo che si vuole applicare in Italia ha il consenso della massa? Ho già detto che l’onorevole Gullo ha risposto no, mentre l’onorevole Uberti ha risposto sì.
FUSCHINI. E allora si faccia un referendum.
RODI. Un momento! Io ho parlato di una formazione nuova, ho parlato di qualche cosa che deve modificare radicalmente, completamente la nostra struttura politica. Negli altri Titoli, guardi, c’è il trapasso graduale da un sistema all’altro, ma l’ordinamento regionale verrebbe a modificare radicalmente la nostra fisionomia politica, la nostra struttura politica. Ed allora io per questo chiedo: c’è il consenso della massa o si tratta della volontà di un gruppo organizzato che esige l’autonomia regionale?
E badate che questa mia domanda ha un significato preciso, cioè quel significato per il quale alcuni membri della società, intellettualmente superiori, profondi studiosi delle condizioni politiche di un Paese, a un certo momento ritengono giusto, ritengono addirittura santo che si attui una determinata riforma, ed allora il gruppo organizzato crede sinceramente di interpretare il desiderio della massa. Ecco perché io ho fatto la mia domanda: è desiderio della massa o è concezione intellettualistica di un gruppo organizzato? E per «organizzato» intendo un gruppo che si sia in un certo senso chiuso nell’ambito dei suoi studi politici.
Ieri sera, per esempio, l’onorevole Bubbio ha detto: sì, il nostro popolo sente il regionalismo, ma non lo chiama regionalismo. Il nostro popolo dice: fatemi vivere in pace, fate che la burocrazia non pesi sulle mie spalle, fate che per avere un certificato io possa non perdere tanto tempo. E con queste parole l’onorevole Bubbio traduceva il significato della parola regionalismo. Non solo, ma egli esasperava il suo concetto fino a chiedere la rinascita del circondario, cioè di quella formazione amministrativa che è morta, perché autocondannata, che è morta, perché non riusciva più a vivere, perché le mancava l’alimento, perché le mancava l’ossigeno.
Badate che nelle nostre formazioni politiche qualche cosa muore perché la uccidiamo, ma vi sono cose che muoiono per vecchiaia, muoiono perché non possono più vivere.
Ora io non capisco come questo popolo possa semplificare la sua vita attraverso la Regione, la Provincia, il Circondario e naturalmente il Comune. Ciò potrebbe essere anche implicitamente un aggravio della burocrazia, di quella burocrazia che vogliamo combattere con armi leali, con armi schiette. Ma noi dobbiamo disciplinare la burocrazia e non si può disciplinare la burocrazia creando enti nuovi che, fra l’altro, sono stati già condannati. Questa è la mia opinione.
Comunque se il circondario è morto per altre ragioni, qualcuno lo dirà con maggior competenza della mia.
Piuttosto la nostra preoccupazione è quella di snellire la burocrazia e si può snellire senza ricorrere a riforme di carattere rivoluzionario.
Basta dare agli enti locali, agli enti periferici una maggiore competenza, un maggior numero di attribuzioni, lasciare, in altri termini, che il prefetto possa respirare; lasciare che la libertà sia concessa veramente agli organi periferici senza bisogno di ricorrere addirittura ad un sistema che ho definito rivoluzionario nell’intento di dare per quella via la libertà che si può dare per la via più breve.
Per me gli enti locali devono essere organi autarchici, ma organi dell’amministrazione dello Stato, poiché in me si è formato il concetto che il corpo dello Stato è un organismo solo e semplice. E se manteniamo il concetto di questo organismo solo e semplice è molto più facile che da questo organismo semplice e chiaro partano le libertà che debbono giungere alla periferia.
Siamo d’accordo che bisogna rompere l’accentramento statale, ma siamo d’accordo non soltanto perché l’accentramento è segno di dittatura…
UBERTI. C’è un solo mezzo…
RODI. No, le vie della Provvidenza sono infinite e se lei crede di poter giungere al suo intento per una sola via, ahimè, questo è egoismo bello e buono.
Non si può dire che in un solo modo si può risolvere il problema dello Stato, perché vi sono tanti modi per quanti sono gli uomini o, almeno, per quanti sono i gruppi politici.
Siamo dunque d’accordo nel rompere l’accentramento, non solo perché esso presenta il pericolo della dittatura, ma anche perché il decentramento burocratico autarchico amministrativo è sentito dal popolo. È quello che diceva l’onorevole Bubbio ieri sera: è soffocante l’idea di dover chiedere oggi un certificato. È soffocante ed il popolo ha sentito il desiderio di liberare la periferia da certe forme burocratiche. Ed allora quando il popolo esprime questo suo desiderio, a noi uomini politici riesce più facile creare una legge che vada incontro ai suoi desideri.
Ma quando noi siamo animati da questa ottima intenzione e quasi per fare di questa intenzione un dono aureo vogliamo superare i limiti impostici da quel desiderio profondo del popolo, allora noi dobbiamo attentamente esaminare questa nostra generosità che oltrepassa il desiderio del popolo.
Ecco perché, secondo me, il decentramento deve essere autarchico, burocratico, amministrativo; deve essere qualcosa che vada incontro al desiderio della massa e del popolo, ma, signori miei, senza passare il limite, perché se passiamo quel limite, dando a questi organi periferici potestà legislativa e fisionomia politica, entriamo in un nuovo campo, trasformiamo la nostra società. Piuttosto voi potete obiettarmi che questa trasformazione è necessaria, che la storia ormai ha maturato questa trasformazione; allora debbo dirvi che questa trasformazione non è ancora matura; allora debbo mettervi sull’avviso, affinché voi vediate con occhio più sereno l’impulso generoso, non dico del vostro cuore, ma della vostra mente, perché voi avete studiato il problema.
L’ordinamento regionale è un rinnovamento profondo, e su questo credo siate d’accordo anche voi: la storia insegna che questi innovamenti profondi sono determinati e creati da gruppi organizzati, e possono sembrare anche imposizioni di carattere dittatoriale; oppure questi rinnovamenti si fanno con la rivoluzione; ma in Italia non c’è senso rivoluzionario, anche se alcuni vogliono creare artificiosamente un’atmosfera rivoluzionaria. Questa atmosfera non c’è, manca, e credo sia impossibile ad una legge, sia pure una legge costituzionale, vale a dire molto più larga delle altre, fare quel rinnovamento profondo che sta o nelle mani di un forte gruppo organizzato o che si opera attraverso una rivoluzione di popolo.
Senza contare, signori miei, che il momento in Italia è pericoloso: c’è in giro nella nostra atmosfera una morbosità politica di cui non sappiamo ancora liberarci; e c’è un pericolo finanziario ed economico; ma c’è sopratutto la povertà dell’Italia che non consente un ordinamento regionalistico, se non altro per l’osservazione fatta da un oratore di cui non ricordo il nome: che le Regioni povere saranno sempre asservite e vincolate al potere centrale per necessità finanziarie. Noi creeremo uno squilibrio fenomenale fra Regioni bisognose e Regioni non bisognose; ed il legislatore, si è tanto preoccupato di questo squilibrio economico, che ha sentito il bisogno di sancire il divieto di inalzare barriere e creare dazi, perché ha sentito il pericolo del dazio e della barriera di cui è ancora recente in Italia il ricordo. Questo divieto è teorico e non basterà per impedire la creazione di barriere tra Regioni e Regioni, barriere di carattere economico, cioè barriere che provengono da quella forza non del tutto imponderabile… (Interruzione dell’onorevole Uberti).
Se lei vuol dire che io non ho nemmeno letto il progetto, la ringrazio di questa patente di ignoranza.
UBERTI. Non ho detto questo!
RODI. L’assicuro che l’ho letto ed anzi l’ho meditato, il progetto!
ROSELLI. Noi non vogliamo creare barriere tra Regione e Regione!
RODI. Ho detto solo che il legislatore ha intuito che lo squilibrio economico può aumentare e condurre alle barriere doganali tra Regione e Regione.
Infine, vi è in Italia una diversa educazione politica, che porterebbe a varî inconvenienti. Ma io ne temo uno più importante: lo Stato di domani sarà forte o debole: se sarà debole, la periferia riuscirà a sopraffare lo Stato, e noi avremo un sistema anarchico (una periferia a cui manchi la direzione è naturalmente anarchica); se lo Stato sarà forte, esso, per impulso istintivo, non consentirà mai l’attuazione autonomistica. Allora ad un certo momento verrà fuori la super-regione, che sfrutterà le altre con la sua prepotenza e con la sua preponderanza.
Del resto, il pensiero dell’onorevole Ambrosini mi sembra chiaro. Egli dice che il decentramento è «trapasso, trasferimento, delegazione di poteri», è chiaro che lo Stato delega alla periferia una parte dei suoi poteri. Il timore dell’onorevole Ambrosini è nella revocabilità di questi poteri; cioè teme che lo Stato ad un certo momento possa revocare i poteri che ha delegato alla periferia, e soggiunge che «nello Stato regionale i poteri diventano proprî della periferia e sono sopratutto irrevocabili». In questo nuovo ordinamento, l’indipendenza della periferia è tale che i poteri non soltanto sono proprî, ma anche irrevocabili. Ora, in questo vi è qualcosa di stridente che vedo fra la periferia e lo Stato, il quale, probabilmente, non potrebbe in nessun modo intervenire per infrenare eventualmente le prepotenze e l’esuberanza della periferia. E così soggiunge l’insigne onorevole Ambrosini: «nello Stato unitario la Provincia è una entità amministrativa, mentre nello Stato autonomistico la Provincia è anche un ente politico», il quale sta di fronte allo Stato, sia pure, soggiunge lo scrittore, «subordinatamente». Il pericolo, per me, sta in questa entità politica. Quindi, trasferimento alla periferia di poteri che diventano proprî della periferia; concetto della irrevocabilità di questi poteri; concetto di una subordinazione della Regione autonoma di fronte allo Stato. La subordinazione qui, secondo me, finisce di esistere perché non può essere subordinata una Regione provvista di poteri proprî e di irrevocabilità dei poteri stessi.
Signori, il nostro ciclo storico è unitario ed esso deve ancora compiersi. Lasciamo, dunque, che si compia, perché non è consentito superare la storia, tanto più che noi abbiamo guadagnato di recente il dono della libertà, ed io credo che sia un dono questo da prendere a porzioni, e non da aggredire. E l’ordinamento regionale è un’aggressione.
BELOTTI. È un potenziamento, non una aggressione.
RODI. È stato già osservato dall’illustre collega Colitto che l’autonomia regionale può rappresentare anche una forma di accentramento più grave, e voi sapete per esperienza che cosa sono le dittature periferiche: sono più gravi, sono più intollerabili di quelle centrali, forse perché sono più vicine al cittadino.
GRAVINA. Se l’autonomia regionale funzionerà elettivamente questo pericolo non v’è.
RODI. Non si tratta nemmeno qui di questione elettiva, perché può anche accadere che un uomo eletto diventi ad un tratto dittatore.
In un momento come il nostro, attuare questo ideale di libertà è spingere le cose oltre il normale, e perciò dall’impulso generoso di questi uomini potrebbe nascere una nuova dittatura. Si tratta di storia: la storia deve creare il regionalismo, e soltanto allora noi crederemo in esso. Ed io dico che la storia non creerà più un sistema regionalistico, perché basta osservare la fisionomia politica del mondo odierno per accorgerci che la frantumazione, il frazionamento, non è più una possibilità contemporanea.
Forse io sono troppo audace, perché intendo levarmi al di sopra dei miei tempi per giudicarli, pur sapendo che il giudizio storico può essere dato soltanto sugli avvenimenti passati. Tuttavia io mi accorgo, attraverso lo sviluppo politico, che ciascuno tende ad eliminare il frazionamento. Direi quasi che si apre nella storia l’era di un nuovo accentramento, che rifugge dalle periferie, da certe periferie che non possono e non sanno più adattarsi al centro per coordinare la loro opera con quella statale.
Io credo che il vostro regionalismo è un rimpicciolire il concetto della stona contemporanea.
Uno storico francese, il Quinet…
UBERTI. Va fuori strada in pieno.
RODI. Perché mai? Io ho sentito attentamente il discorso dell’onorevole Uberti e, se mi fosse rimasto un po’ di tempo, avrei fatto una critica serrata alle sue idee.
UBERTI. È difficile sconfiggere la fede.
RODI. Onorevole Uberti, lei ha parlato con il sentimento, io parlo con la ragione.
Dunque, dicevo, che uno storico francese, il Quinet, nel 1857 affermava che il male dell’Italia è uno solo, gravissimo: quello di non esistere; cioè, questo storico francese, che molti di voi conosceranno, diceva: «Io vedo i resti delle antichità romane, vedo l’arte del rinascimento, vedo la grandezza del genio italiano, ma non vedo l’Italia o meglio il popolo italiano».
Qui però non si tratta di aver visto male o bene, o di aver visto con occhi francesi; qui si tratta di un esame dell’Italia di quel tempo; prova ne sia che, nel 1874, lo stesso Quinet, in un’appendice al suo libro, annunciava la nascita dell’Italia. (Commenti).
Ed ho citato questo particolare perché, in un certo senso, esso riflette la storia di quest’ultimo secolo. (Commenti – Interruzioni). Ma possibile che non vi sembri questa una cosa chiara? Il Quinet ha visto con occhi francesi, siamo perfettamente d’accordo. Possiamo dire che egli ha esagerato perché ha visto con occhi di gallo; però, se noi dobbiamo tradurre in termini italiani questo giudizio, che cosa dobbiamo dire? Dobbiamo dire che l’Italia in quel tempo era in travaglio e che successivamente il Quinet stesso, avendo visto il completarsi di quel travaglio, asseriva, nel 1874, che l’Italia era nata.
Ma noi italiani dobbiamo dire che la nostra storia unitaria è molto recente, perché si possa pensare che il nostro ciclo storico si sia concluso. Io sono convinto che questo cammino, interrotto dalla dittatura, debba essere ripreso con lo stesso senso unitario di una volta. E ad ogni modo, qualunque sia la decisione che prenderà l’Assemblea intorno all’ordinamento regionale, io mi auguro che ciascuno di noi, e specialmente i regionalisti, abbia in mente che sono in gioco gli interessi e l’avvenire dell’Italia. (Applausi a destra).
PRESIDENTE. È iscritto a parlare l’onorevole Bellavista. Ne ha facoltà.
BELLAVISTA. Onorevole Presidente, onorevoli colleghi! Il mio intervento odierno vuole essere un atto di fede regionalistica, e da liberale e da italiano di Sicilia. Sottolineo quelli «italiano di Sicilia», perché, oltre che un atto di fede regionalistica, il mio vuol essere un atto di fede unitaria; e credo a questo punto di dover tentare di snebbiare quello che a me pare un equivoco, che tanto spesso ricorre nei dotti discorsi dei colleghi costituenti.
Qui con troppa frequenza si fa del «regionalismo» un quid antiunitario, che è fuori di ogni realtà giuridica. In realtà, se non ho male interpretato quello che ho udito e quello che ho letto – mi riferisco ai lavori della Commissione – le posizioni distintive vanno prospettate su un piano diverso. Qui, da una parte, ci sono gli «unitarî regionalisti», dalla altra gli antiregionalisti non già, o non soltanto, «unitarî», ma, diciamo francamente la parola, «uniformitari» che da ottantasette anni hanno sgovernato l’Italia. Se c’è per quello che io chiamo «uniformitarismo» un processo di giustificazione storica iniziale, ora questa giustificazione più non esiste, ed è vano richiamarla in vita.
Prima di allora l’Italia era una realtà soltanto geografica, e quello che nella intenzione del Metternich voleva essere un insulto, per me è un titolo d’onore, perché nella espressione geografica soltanto i segni sono stati scritti da Dio nei monti, nei fiumi, nella lingua, nei costumi. Fuori dalla «espressione geografica» siamo avanti alla mera creazione politica, ad essa incomparabilmente inferiore.
Dicevo che gli uniformitari avevano allora ragione, perché a raggruppare tuttavia le sparse membra attraverso i plebisciti era necessario che quella formula di uniformità, che quella che passò come «formula piemontese», si imponesse. Era un processo di riduzione, direbbe un chirurgo, un processo di riduzione di una frattura, di più fratture comminute: ci voleva l’ingessatura, perché non si muovesse quello che si veniva a riunire per forza spontanea guidata non soltanto da una finalità di unità, ma guidata, oserei anche dire, soprattutto dal desiderio di indipendenza e di libertà, esasperato in alcune regioni come la mia Sicilia.
Le condizioni, però, da allora ad ora sono cambiate, e bisogna intendersi una volta per tutte sulla terminologia, quando questa racchiude nell’espressione simbolica il concetto, quando essa è raccordabile ad un suo contenuto. Non è affatto vero che il regionalismo sia un concetto da opporre al concetto dell’unitarismo. È un concetto di specificazione, sottordinato a quello dell’unità, che è a sua volta un concetto che nettamente si differenzia, per motivi che verrò ad esaminare, dal concetto di uniformità. Quanto questo sistema uniformitario sia stato essenziale per lo sviluppo politico di tutte le regioni d’Italia, 87 anni di storia, 87 anni di cronico fallimento, lo dimostrano chiaramente. Ma il mio, vi aggiungo, non vuole essere soltanto un atto di fede. La nostra attività parlamentare si frantuma ogni giorno in atti di giudizio; e come ogni atto di giudizio, prima di essere un atto di volontà, è un atto di intelligenza, il mio, il nostro vuole e deve essere, soprattutto, un atto di intelligenza.
È con queste premesse, dunque, che prendiamo le mosse per entrare nel vivo della materia del contendere. C’è un solo punto fermo, fortunatamente, un punto nel quale tutti sono stati d’accordo: lo Stato dell’ottantasettennio non ha trovato laudatores temporis acti. Ho guardato i verbali della seconda Sottocommissione; ho letto le opinioni espresse da coloro che oggi assumono un più deciso orientamento antiregionalistico, che allora non assunsero, forse perché adesso la moda sembra cambiata; ed ho visto che tutti sono stati d’accordo su un punto fondamentale: che lo Stato uniformitario ed accentratore aveva fallito la sua esperienza, che il rinnovamento era necessario. E qui si è accennato che si possono suggerire due species diverse di rimedi, che ho inteso, purtroppo, confusi, e che confusi non debbono essere. Contro lo Stato accentratore si può bene opporre come rimedio idoneo, capace, lo Stato decentratore; ma contro lo Stato uniformitario il decentramento è come la illusoria panacea della pomata per gli arti inferiori per chi ha mal di denti. Non c’è dubbio che non sia affatto il rimedio idoneo, il rimedio capace di guarirci da questo male, da questa sindrome patologica politica che ha afflitto per 87 anni la vita italiana.
Non bisogna confondere i due mali e le due terapie.
E guardiamo un po’ all’eziologia, alla causa di questi mali. Ma la causa dell’insuccesso dell’uniformitarismo è scritta in «rerum natura», nella stessa natura delle cose, ed è vana fatica ricercarla altrove. Ora, domandatelo a chi è costretto per assolvere al suo mandato a venire su ogni volta dalla Sicilia fin qui. Sono venti ore di viaggio. È un dovere che si continuerà ad adempiere, ma che rappresenta, nel campo degli oneri e degli obblighi, qualche cosa di sacrificio superiore a quello di chi è più vicino. È scritta questa causa dell’insuccesso uniformitario nella stretta e lunga e magnifica Italia. Domandatelo a chi possa venire con un servizio aereo dalla neve che indugia certe volte a marzo per le vie di Milano alla nostra valle dei templi di Agrigento fiorita di mandorli e luminosa di sole. Questa diversità è scritta nella natura, fa parte di quella geopolitica che il legislatore non può, non deve ignorare sotto pena di tradire, nel suo ordine precostituito, la funzione massima che ha il diritto. E non si è sempre insegnato, e non si crede da tutti che il diritto abbia a seguire la sua natura «epifenomenica», che esso debba adattarsi cioè alla natura delle cose che va a regolare? Il diritto migliore, il diritto perfetto dovrebbe essere invero quello che, togliendo qualche cosa alle imprescindibili necessità di generalità e astrattezza, si assomigli al famoso regolo lesbio aristotelico che si piega e consente a tutte le sinuosità del masso, ogni cosa regolando secondo l’arte del buono e dell’equo.
In sostanza, a questo si riduce la battaglia di noi «unitari regionalisti» contro gli «antiregionalisti uniformitari», contro coloro cioè che hanno voluto regolare per 87 anni con lo stesso metro, che non assomiglia affatto al regolo aristotelico, regioni lontane come l’Aosta e la Sicilia. Noi postuliamo il bisogno, la necessità del riconoscimento di questa differenziazione, di questo metro diverso, e con ciò non intacchiamo affatto il principio unitario. Questo principio ha valore «erga barbaros», contro lo straniero, e non già esclusivamente «erga cives». Siamo e saremo unitarî anche se differenziati, sopra tutto se differenziati.
Per quanto riguarda lo Stato accentratore, e non già per quello anche uniformitario (e tutti e due questi mali noi abbiamo insieme purtroppo goduto!), si può dire quello che in patologia medica si dice del «cor bovinum», e cioè di un cuore il cui muscolo sia stato così sfruttato e iperteso da determinare un fatale scompenso cardiaco, che da un momento all’altro può condurre alla morte. Da 87 anni nello Stato italiano questo «cor bovinum» è rimasto a Roma e l’insufficienza cardiaca è visibile, visibilissima!
Parlandovi, e pour cause, come italiano di Sicilia, debbo dirvi subito che alla periferia le onde del sangue di questo «cor bovinum» arrivano lente e scarse. Non è il caso, e non ne avrò il cattivo gusto, di impantanare una questione nazionale, quale è quella regionale, nel pettegolezzo o nel cortile del campanilismo. Ma molte delle osservazioni che ho udito risentono di questa lamentata insufficienza. Create – dato che l’organismo è siffatto – altri cuori per tutte le periferie e restituite Roma alla grande dignità che essa deve avere, alla grande sufficienza che essa deve avere, fatela veramente il «cor cordium» di tutta l’Italia!
Ciò facendo affermerete, e legittimamente, che non ci può essere unità sulle ingiustizie regionali; che l’unità, la vera e giusta unità non si fonda sul sacrificio di alcuni e sul vantaggio di pochi.
Onorevoli colleghi, il decentramento amministrativo è la terapia adatta contro l’accentramento, ma non risolverà il problema dell’uniformitarismo, l’altro problema, «in nuce». L’attività decentrata non finirà per questo di essere attività prevalentemente amministrativa; non finirà di essere attività prevalentemente esecutiva: soddisfarà certamente una esigenza largamente sentita.
Ma niente più di questo, anche se ci sarà decentramento giurisdizionale. Io mi rendo conto (solleverò lo scandalo degli uniformatoristi giusprudenziali) che quando l’Italia riavrà le Cassazioni interregionali che funzionarono benissimo, e che la legge Oviglio volle sopprimere, non ne soffriranno la giurisprudenza e la dottrina italiana, ma avremo il grandioso vantaggio di non rendere vana e vuota la formula di Jhering, che non c’è peggiore ingiustizia della giustizia tardiva. Ma per distruggere i mali che l’uniformitarismo ha prodotto non c’è che un rimedio: l’autonomia regionale.
Del resto ho ascoltato, con l’attenzione che meritavano, gli uniformatoristi e gli antiregionalisti (per me i termini si equivalgono) e posso distinguerli in due categorie: quelli che sono, o mostrano di essere, contro la Regione per la questione di principio, e per certe preoccupazioni che esamineremo; e quelli che, a ben guardare, sono non contro l’ordinamento regionale ma contro alcuni dettagli strutturali del progetto e finiscono con l’accettare questa autentica rivoluzione costituzionale.
Noi siamo, infatti, davanti una vera e propria rivoluzione giuridica che è l’unica e vera grandiosa rivoluzione.
Ora, chi ha attaccato il dettaglio ha implicitamente accettato il principio. Vediamo, invece, le obiezioni che questo principio intaccano. Di una abbiamo già accennato. Ho inteso illustri miei colleghi fare una confusione penosa fra il concetto di Stato federale ed il concetto di Stato regionale: la confusione non è ammissibile. È vero che la nostra letteratura giuridica su questo nuovo tentativo rivoluzionario è nuova e scarsa; ma c’è tuttavia qualche volume molto chiarificatore sull’argomento. Il metodo della dogmatica giuridica, che non si distacca da quello della logica formale, pone il problema nei termini seguenti: a quale dei due archetipi è accostabile lo Stato regionale? A quello federale od a quello unitario?
Non c’è dubbio che esso rappresenta un tertium quid raccostabile più al secondo che non al primo. Nello stesso concetto di autonomia regionale è insita l’affermazione del principio di subordinazione. Non si può prescindere da quella che è questione di architettura giuridica.
Noi abbiamo un elemento originario, che primo era in principio e sarà sempre tale: l’ordinamento statale; e poi l’ordinamento subordinato, che esso crea: l’ordinamento regionale.
Una volta io usai l’espressione dell’investitura del vassallo verso il valvassore. È lo Stato che dà questo potere «derivato» alla Regione. La Regione oggi lo ha con la procedura costituzionale; se l’esperimento fallisce, quel potere può essere tolto, con la stessa procedura.
Né ha seria consistenza la preoccupazione che riecheggia negli interventi dell’onorevole Togliatti e dell’onorevole Laconi in seno alla seconda Sottocommissione, cui risposero gli onorevoli Perassi ed Ambrosini. Anche per le cosidette materie di competenza esclusiva è chiaramente riaffermata nell’articolo 109 del progetto questa subordinazione della legislazione regionale alla legislazione di principio dello Stato. Tutti coloro che hanno a cuore gli interessi della classe lavoratrice e tutti coloro che hanno la preoccupazione che l’autonomia si risolva in quel feudalismo, cui accennava poc’anzi il collega onorevole Rodi, son dimentichi che ben più grave è il feudalismo della burocrazia accentratrice in questo momento.
Abbiamo un documento precostituzionale, che dovrà essere raccordato alla Costituzione: lo Statuto della autonomia siciliana. In quello statuto è chiaramente detto che tutta la legislazione sociale e le riforme agrarie ed industriali non potranno discostarsi da quella che è la legislazione di principio dello Stato. Ed allora qual è il vero autentico valore di questo stato di libertà, che, con l’autonomia, si riconosce alla Regione? È quello del regolo aristotelico. Si riconosce che non si può (tranne dai soliti sapientoni, i quali sono a tutto abili ed a tutto incapaci) da chi ignora le condizioni agronomiche, per esempio, della Valle Padana, pretendere di legiferare su di essa; non si può da chi ignora le condizioni agronomiche e culturali della Sicilia pretendere che l’onorevole Bordon venga a legiferare giù da noi. C’è la stessa interditio legittima della natura delle cose, che impedirebbe a me di andare a legiferare in Val d’Aosta. Può non ritenersi logico tale principio?
Contro il progetto si è poi appuntata una questione di natura squisitamente politica: la preoccupazione che si possano accentuare gli impulsi delle forze centrifughe che minacciano l’unità dello Stato.
Dicevo, all’inizio del mio intervento, che vi parlavo da italiano di Sicilia, perché sono convinto e rendo testimonianza che è vero solo quanto è perfettamente contrario a questa preoccupazione. A essere storicamente onesti e a non avere preoccupazioni non rispettabili, deve dirsi chiaro, e una volta per tutte, che alla radice del cosidetto «movimento separatista» non c’era che una formidabile esasperazione regionale. Quando questa ansia giustificata da ottantasette anni, specialmente per la Sicilia, di mal governo, è stata placata dalla autonomia, il separatismo ha ridotto notevolmente i suoi quadri, anche nella sua rappresentanza all’Assemblea regionale. Dunque l’antidoto contro le forze centrifughe (le quali non sono invenzioni politiche arbitrarie, ma il frutto di uno stato di fatto che pretende il suo rimedio, non col cannone, con le baionette, o con la galera, ma con sagge leggi) è appunto costituito dalle autonomie regionali. Queste avranno la funzione che i latini attribuivano al mare: non dividit sed copulat.
Attraverso le autonomie le forze centrifughe raggiungeranno il giusto equilibrio con le forze centripete, con vantaggio di tutti e di ognuno.
E non riesco a darmi spiegazione nemmeno di un intervento dell’onorevole Togliatti presso la seconda Commissione. Egli ha detto che era contrario al progetto perché con la costituzione dello Stato regionale «viene sbarrata la strada per la quale la ricchezza del Nord potrebbe andare ad elevare il livello economico del Sud». Ora, quando nella tecnica navale fu istaurato il principio del compartimento stagno, non si pensava di rendere un servizio ai caratisti autorizzandoli ad affettare la nave, sicché ognuno di essi in salotto potesse portare un pezzo di prora o un pezzo di poppa; si cercava soltanto di non rendere possibile il totale affondamento della nave, ed il compartimento stagno è anche, ed insieme, l’applicazione del principio dei vasi comunicanti, quando questo è possibile. E poi, mi consenta l’assente onorevole Togliatti, egli parla di impossibilità di potenziale drenaggio, via Nord-Sud, di capitali, ma è smentito dalla realtà obbiettiva. Basta leggere il Bollettino Economico del Banco di Sicilia per convincersi che da quando la Sicilia ha avuto l’autonomia regionale (certo per cause che l’onorevole Togliatti non si è soffermato ad esaminare funditus) c’è invece questo drenaggio simpaticissimo del capitale del Nord che affluisce verso il Sud. È segno codesto che, quanto meno, determinati strati della popolazione sentono profondamente il vantaggio che può derivare per il capitale da un aggiustato ordinamento regionale.
Ma la preoccupazione dell’onorevole Togliatti, almeno per il passato, è anche contro la storia anche perché l’uomo onorato ed illustre che oggi è così ferocemente, tetragonalmente antiregionalista, l’onorevole Francesco Saverio Nitti, ci ha insegnato, in una opera immortale sulla quale abbiamo molto meditato, per arrivare a conseguenze diverse da quelle alle quali egli oggi arriva, che il drenaggio c’è stato, ma ha preso la via degli uccelli a primavera, dal Sud è volato ed è salito verso il Nord…
Anche questo argomento, dunque, ha valore minore di quanto a prima vista non possa sembrare.
Ma c’è poi anche qualche antiregionalista il quale si è trincerato dietro preoccupazioni di ordine meramente finanziario.
Per quanto riguarda il dramma eterno – ricchi e poveri – per quanto riguarda le Regioni ricche e le Regioni povere, risponde il progetto, che attua quel principio superiore di solidarietà nazionale per cui per le Regioni povere la Costituzione ha sancito l’obbligo del soccorso. La Regione povera avrà il suo «salario minimo», e sarà certamente «salario giusto».
Ma c’è la preoccupazione che questo nuovo ente contribuisca a render più pesante la pressione tributaria.
Io non capisco come questa preoccupazione possa venire dagli onesti rappresentanti delle classi lavoratrici.
Si dice in un proverbio siciliano che due sono i potenti della terra: chi possiede molto e chi non ha nulla. Le classi lavoratrici non potranno mai sopportare alcun serio peso derivante da questa nuova necessità finanziaria tributaria che sorge dall’applicazione della nostra Costituzione e dalla creazione degli enti regionali. Le classi abbienti sopporteranno, come è logico e doveroso per chi ha ed è, perciò, il naturale destinatario di ogni imposta.
Ma, in sostanza, quando si pone in questi termini la questione, il problema assume carattere di comparazione tra costo e vantaggio, diventa un problema di utilità comparativa. Ha la struttura regionale idoneità ad assicurare determinati vantaggi? Costano in senso economico questi vantaggi più o meno dei sacrifici imposti? Il problema, come ho detto, si riduce a una questione di utilità comparativa. Io credo che qualsiasi sacrificio, e qualsiasi aumentata pressione tributaria, sia lautamente pagato da quel grande bene che verrà dalla riforma strutturale dello Stato, se avrete il coraggio di non essere conservatori e di attuarla (Approvazioni al centro). Ho inteso dire che la riforma autonomistica non è sentita nel Paese. In Italia, dove manca l’istituto Gallup, si ricorre troppo spesso alla interpretazione astatistica dei dati fluidi del sentimento popolare. Come un buon relatore, che non entri ancora in camera di consiglio e perciò perfettamente frigido, l’onorevole Rodi ha posto la questione in questi termini: Gullo afferma, Uberti nega.
Ergo: in dubiis non liquet! Mi succedeva, quando ero giovanotto al Liceo, di restare perplesso tra l’argomentazione del sofista e quella di Socrate contradittore, ma il maestro urgeva alla mia soluzione e non si contentava del non liquet, cui ha fatto ricorso l’onorevole Rodi. Se debbo addentrarmi nell’argomento, debbo affermare, sì, che il problema è diversamente sentito, onorevole Priolo, ma non possiamo con tanta sicumera dire che esso non è sentito. Domandiamolo a chi è ancora in carcere in Sicilia per aver esasperato questo problema! Il problema è sentito. Prova e controprova! Il buon amico Colitto, mi perdoni, ieri, da bravo avvocato, dopo aver fatto una magnifica arringa chiedendo l’assoluzione della vecchia struttura statale, ha finito per chiedere, in subordinata, che anche per il Molise fosse affermato il principio dell’autonomia regionale. Vi è una contradizione in termini e noi non la possiamo accettare! (Approvazioni al centro). Cosa sono queste Daunie – mi dicono si tratti della Provincia di Foggia –, cosa sono questi Salenti e queste Emilie Lunensi e lunatiche che spuntano come funghi dopo la pioggia? Sono la prova che il problema è sentito. Il collega Priolo è ipersensibile, e se volete la verità, c’è anche per voi, collega Priolo! Talora la verità non si rivela nelle discussioni quasi accademiche delle Assemblee, ma si illumina in un viaggio in treno od in una conversazione privata. Mi consenti, caro Abozzi: tu ieri avevi reso omaggio con obiettività alla buona fede ed alla coscienza dell’autonomista Lussu. Avevi detto che, non della coscienza di Lussu volevi parlare, ma della sua subcoscienza. Io non pratico culti freudiani, ma se debbo addentrarmi nel subcosciente di certi antiregionalismi, debbo dire che essi si rivelano piuttosto come campanilismo di Reggio contro Cosenza, di Cagliari contro Sassari! (Commenti). Tanto è vera questa realtà che vediamo che l’istinto giuridico americano ha fatto sì che non ci sia una capitale di Stato che risieda in un grande città.
Perché? Perché Buffalo sarebbe gelosa di New York, che ha tredici milioni di abitanti, e la capitale è la piccola Albany. In Pennsylvania, c’è la cittadina di Harrisburg come capitale, e non la metropoli Filadelfia o la grande industre Pittsburgh.
C’è purtroppo questa radice subcosciente, o addirittura cosciente, per quelli meno metafisici, della gelosia campanilistica che è stata un danno per l’Italia, e che deve essere ridotta e silenziata dalle soluzioni che vorrete accettare. Ma sia chiaro che non si può, sulla gelosia e sui provincialismi, negare quello che è palmare e limpido come la luce del sole. (Applausi).
ABOZZI. È la Regione che li esaspera.
BELLAVISTA. Lo vedi che accusi il colpo? Ma, in psicologia, i sentimenti si sublimano, si devono sublimare. Quando Messene e Sparta litigano, si va a Tebe. Ma non si deve rinunciare ad una innovazione profonda.
Ed allora, ciò chiarito, a che cosa altro si riduce tutta la questione? Nell’accettare le oneste critiche sull’atomizzazione del principio regionale, sulla polverizzazione del principio, su quello che può essere legittimato come pressione di interessi locali che non si allargano al di là di un terreno provinciale? E sia. Dobbiamo fare, forse, un passo avanti ancora, dobbiamo, in relazione alle preoccupazioni di unità di interessi economici e finanziari, promuovere l’allacciamento sotto forma di consorzio, di ingrandimento di alcune Regioni che non potrebbero forse essere autosufficienti ed alle quali non si volesse dare quel fondo di solidarietà nazionale che il progetto prevede.
Ma, fatto questo, noi dobbiamo difendere questo grandioso principio. Onorevoli colleghi, il 2 giugno io votai per la monarchia, e nondimeno ora mi sento, e sono cittadino della Repubblica. Chi mi conosce sa che non lo dico per ricevere ringraziamenti: come tendenza, per natura, sono contrario alle piaggerie. Ma se questa Repubblica deve e vuole, come già nel ’70 la monarchia, attrarre a sé tutti gli uomini di buona volontà (perché l’onestà, si è detto, non ha punti cardinali), allora la Repubblica deve essere veramente ed altamente rivoluzionaria, deve cambiare questo vecchio Stato di 87 anni, deve fargli vertebre e strutture nuove. E quando la Repubblica sarà in pericolo, onorevoli colleghi, i sardi della Brigata Sassari – chiedetelo a Lussu –, i siciliani del Generale Cascino saranno ancora alla frontiera e difenderanno la Repubblica. (Applausi – Molte congratulazioni).
PRESIDENTE. È inscritto a parlare l’onorevole Recca. Ne ha facoltà.
RECCA. Dopo che parecchi colleghi hanno ampiamente parlato su questo Titolo V, di cui ci stiamo occupando, e dopo che il campo è stato magistralmente mietuto, non resta a noi che li seguiamo, che la spigolatura; quindi sarò breve. L’atteggiamento, onorevoli colleghi, di certe Provincie che, pur non avendo i requisiti necessari, chiedono disperatamente di diventar Regioni, non è affatto una conseguenza del problema della istituzione dell’ente Regione, messo in discussione, ma è conseguenza non solo della condotta tenuta nel passato da alcuni capoluoghi di attuali Regioni, accentratori di realizzazione di opere pubbliche a discapito dei piccoli centri provinciali, ma anche di un legittimo allarme prodotto dal nostro progetto di Costituzione che regola la materia di cui ci stiamo occupando.
Perché, quando noi leggiamo nell’articolo 8 delle disposizioni finali e transitorie del progetto di Costituzione: «Leggi della Repubblica regolano per ogni ramo della pubblica amministrazione il trapasso delle funzioni statali attribuite alle Regioni e quello di funzionari e dipendenti dello Stato, anche centrali, che si rende necessario in conseguenza del nuovo ordinamento. Alla Regione sono trasferiti, nei modi da stabilire con leggi della Repubblica, il patrimonio, i servizi ed il personale delle Provincie», e quando noi leggiamo nell’articolo 107 del progetto di Costituzione: «La Repubblica si riparte in Regioni e Comuni. Le Provincie sono circoscrizioni amministrative di decentramento statale e regionale», noi dobbiamo dedurre che, secondo il progetto stesso, la Provincia dovrebbe cessare di esistere e diventare solamente una circoscrizione amministrativa, che può essere anche, come prevede l’articolo 120, «suddivisa in circondari per un ulteriore decentramento». Ed in queste sedi, in queste circoscrizioni, cosidette provinciali, ed in questi circondari, come dice l’articolo 120, dovrebbero esistere degli uffici, dipendenti dalle Regioni, per l’esercizio delle funzioni amministrative di quest’ultime, e dovrebbero essere istituite delle Giunte nominate dai Corpi elettivi.
Che compiti avranno queste Giunte, che poteri avranno, come saranno elette? Non si sa ancora. Continua infatti l’articolo 120: «Nelle circoscrizioni provinciali sono istituite Giunte nominate dai Corpi elettivi, nei modi e coi poteri stabiliti da una legge della Repubblica».
Una cosa però è certa: la Provincia non deve essere un ente autarchico, e la Giunta non dovrebbe legiferare. Questo risulta dallo spirito della dizione, piuttosto che dall’analisi della dizione stessa. Infatti, secondo il nostro progetto, la Provincia sarà una circoscrizione amministrativa; in essa ci saranno degli uffici regionali, ci sarà una giunta che non avrà poteri deliberativi, e quindi non ci sarà un decentramento amministrativo tra la Regione e il Comune, perché, tutt’al più, si potrà parlare di un decentramento burocratico tra la Regione e il Comune, di uno smistamento di uffici tra la Regione e la Provincia. Ma questa non avrebbe mai un’autonomia finanziaria ed amministrativa, non avrebbe mai degli enti autarchici sul posto, perdendo così ogni potere ed ogni forza propulsiva.
Alla Regione invece la potestà di emanare norme legislative nelle materie specificatamente descritte negli articoli 109 e 110 del progetto; e poi norme legislative di integrazione ed attuazione delle disposizioni di legge della Repubblica, onde adattarle alle condizioni ambientali regionali, in altre materie, meglio descritte nel successivo articolo 111. E poi ancora alla Regione la facoltà di provvedere all’amministrazione nelle materie indicate negli articoli 109 e 110 ed in altre ancora, delle quali lo Stato le delega la gestione; alla Regione, con i successivi articoli, vengono affidati, oltre che i poteri legislativi, poteri amministrativi ed anche di controllo di legittimità sugli atti dei comuni e degli altri enti locali compresi nella sua giurisdizione e circoscrizione (art. 122); alla Regione finalmente la facoltà di proporre disegni di legge al Parlamento nazionale (art. 115).
Non immaginate voi come dovrebbe essere fantastica e colossale – ed io la vedo anche impossibile da un punto di vista pratico – quest’organizzazione regionale, così come è prevista dal progetto costituzionale?
Noi avremmo nelle Regioni dei ministeri provvisti di facoltà legislative, amministrative e di controllo; e si sa, per esperienza, come sia quasi impossibile, in pratica, esercitare contemporaneamente le due riferite facoltà: la legislativa e la amministrativa.
Ma se si arrivasse a quell’organizzazione regionale, negandosi alla Provincia il carattere di ente autarchico e la possibilità di un suo funzionamento, il pericolo dell’accentramento, che si vorrebbe evitare, si accentuerebbe invece di gran lunga, giacché per qualsiasi provvedimento, per la risoluzione di un qualsiasi problema, si dovrebbe ricorrere all’organo centrale regionale, ed ogni cittadino, per la tutela dei proprî interessi e per l’emissione di un quid qualsiasi in campo regionale, dovrebbe, se volesse riuscire nei proprî intenti, raggiungere la sede regionale ed adire quell’organizzazione regionale, con grande dispendio di tempo e di denaro; e così, invece di avvicinare l’amministrazione al cittadino, si allontanerebbe sempre più questo da quella.
Ed ecco perché l’opinione pubblica è allarmata; ed ecco perché si giustificano il movimento e le agitazioni dei congressi di Firenze, di Modena, di Bologna, di Venezia, di Frosinone, di Salerno, della Lombardia, ed ecco perché si giustifica l’ordine del giorno votato a grande maggioranza dall’Unione nazionale delle camere di commercio d’Italia; ed ecco perché le Province vogliono erigersi a Regione, pur non avendo i requisiti necessari.
Cosa che non si verificherebbe, se la Provincia restasse come ente autarchico, coadiuvando, in via autonoma, la Regione, e quindi restasse la Provincia, ma con autonomia finanziaria e con organi elettivi che l’amministrassero sia pure sotto il controllo, se del caso, della Regione. Né si può dire che, restando la Provincia con l’auspicata funzione autarchica, si verrebbe a moltiplicare la burocrazia locale, giacché, anche in previsione di quanto è contenuto nel progetto di Costituzione, si riconosce la necessità di far esistere nelle circoscrizioni provinciali, e quindi nei centri provinciali, degli uffici sia pure regionali, ond’è che cambierebbe la denominazione dell’ente da cui dovrebbero dipendere gli uffici stessi, ma resterebbe sempre il fattore burocratico.
Quindi l’esistenza della Provincia, come ente autarchico, rappresenta per l’opinione pubblica, per i rilievi suesposti, nel nuovo ordinamento dello Stato, una vera e propria necessità insieme all’ente Regione; e questa Assemblea, che rappresenta la volontà del popolo italiano e l’espressione di questa volontà, deve sentire questa necessità ed inserire nella Carta costituzionale dello Stato, accanto alla Regione, anche la Provincia come ente autarchico. Alle leggi successive poi le funzioni da attribuirsi alla stessa e le norme per la formazione degli organi elettivi che la debbono amministrare.
Un’altra considerazione di carattere generale. Noi non possiamo condividere che, per disporre la fusione di Regioni esistenti e la creazione di nuove, debbano essere sentiti i Consigli regionali interessati. Perché i giudizi, i pareri di questi Consigli regionali non possono essere mai disinteressati, non possono mai fondarsi su valutazioni obiettive, ma saranno sempre dettati da quel famoso spirito di campanilismo, cui alludeva poco fa il collega Bellavista. E questi pareri, o non arriveranno mai, o, se arriveranno per la fissazione di un termine, non saranno mai spassionati. Certo che, per garantire la serietà di un movimento, è necessario che quella percentuale di un terzo della popolazione, rappresentata dai consigli comunali, venga elevata perlomeno a due terzi. Ed allora, approvata poi la proposta, per referendum, dalla maggioranza della popolazione stessa, a garanzia della volontà popolare per il raggiungimento dello scopo, il parere dei Consigli regionali si rende superfluo e frustraneo.
Ma, onorevoli colleghi, una volta riconosciuto e stabilito nella Costituzione il principio delle autonomie locali, che per alcuni colleghi può frantumare l’unità della nazione, perché essi confondono il separatismo con l’autonomia regionale e dimenticano quanto è sancito nell’articolo 106, cioè che la Repubblica italiana è una e indivisibile, una volta riconosciuta, nel nostro progetto di Costituzione, l’erezione di nuove Regioni (articolo 123), perché non si deve lasciare a questa Assemblea la possibilità di indagare se, oltre alle dette nuove Regioni, di cui parla l’articolo 123, non ci siano altre circoscrizioni che abbiano quelle caratteristiche, quei requisiti necessari per essere costituite in Regioni? Noi, amici cari, non possiamo assolutamente fare due pesi e due misure. Noi, se giustamente riconosciamo le nuove regioni del Friuli, dell’Emilia lunense, del Molise, del Salento, non possiamo, nella maniera più assoluta, per un senso di giustizia, e per un senso – direi quasi – di umanità, non possiamo tralasciare l’analisi di requisiti e attribuzioni e circostanze ambientali che rendano degna una circoscrizione di assurgere a Regione.
E badate che anche la Commissione mi dà ragione. Mi dà ragione perché, in una nota a pagina 31 all’articolo 123, dice di sospendere ogni altra decisione in attesa di elementi di giudizio, da inchiesta in corso presso gli organi locali delle Regioni di nuova istituzione.
Non solo: ma, scorrendo il lavoro della Sottocommissione, relativamente alla compilazione del ripetuto articolo 123, si nota che altre nuove circoscrizioni territoriali, pur avendo tutti i requisiti richiesti, non sono state riconosciute ed incluse nel citato articolo, per difetto di alcuni elementi, che non erano stati approntati, forse perché ritenuti superflui. Ond’è che, trovandosi in possesso di quegli elementi di giudizio di cui alla nota della Commissione, trovandosi in possesso di quegli altri elementi, ritenuti, per i proponenti, superflui, e necessari, invece, per la Sottocommissione, trovandosi in possesso ancora di tutto il materiale già valutato favorevolmente dalla stessa Sottocommissione, alcune circoscrizioni possono oggi chiedere che venga riconosciuta la loro autonomia regionale.
E fra queste circoscrizioni c’è la Daunia! Daunia! “Carneade, chi era costui?”. Così disse, o, per lo meno, così voleva dire l’onorevole Nitti, quando parlò in questa Aula sui principî informatori della nuova Carta costituzionale della Repubblica italiana. Non è colpa nostra, se all’onorevole Nitti, allo studioso Nitti sia sfuggito il nome storico della Daunia o Capitanata, se a lui siano sfuggite le esigenze di questa Daunia nettamente distinte e separate da quelle delle altre Regioni finitime, e dalle altre – ora – Provincie finitime.
Ma quando si parla di altre nuove Regioni, come il Friuli, il Molise, il Salento, nessuno si scandalizza, mentre quando si parla della Daunia tutti fanno finta di scandalizzarsi.
Eppure voi avete notato l’accento con cui vi ha parlato, poco fa, l’onorevole Rodi; io vi prego di rilevare il mio e di ricordare quello con cui, qualche volta, vi parla l’onorevole Pastore, dai banchi di sinistra. Questi è del barese, io del foggiano, l’altro è del Salento. Tre dialetti distinti, tre accenti distinti e tutti dell’attuale Puglia.
E quando l’Italia meridionale stava sotto l’amministrazione del Governo alleato, quando l’A.M.G. costituì la cosidetta regione meridionale, la ripartì in sei zone con capoluoghi a Napoli, Salerno, Catanzaro, e poi Foggia, Bari, Taranto.
Eppure bastava che l’A.M.G. avesse preso una qualsiasi carta geografica delle scuole elementari, dove esistono le divisioni regionali diversamente colorate, per vedere che la Regione pugliese era una sola. Invece no: è stata divisa in tre zone, con tre capoluoghi: Bari, Foggia, Taranto, perché tre circoscrizioni distinte, tre economie distinte, tre territori distinti.
Noi possiamo concordare con l’onorevole Nitti e con altri colleghi, se ci dicessero di non aver mai inteso parlare di questa Daunia, come richiedente una costituzione regionale. E come e quando si potevano fare di queste richieste, se non in questo nuovo periodo storico, in cui si discute la nuova forma dello Stato, in cui si parla, nella nuova Costituzione, dell’ente Regione? E proprio in questo momento in cui si parla del problema delle autonomie regionali, vien fuori tutto il ricordo, che rappresenta una realtà, dell’abbandono della nostra Provincia, da parte dello Stato accentratore, o da parte del capoluogo dell’attuale nostra Regione, più accentratore ancora dello Stato.
Che cosa, in cambio delle enormi entrate ricavate dallo Stato per la distribuzione del sale prodotto nelle saline di Margherita di Savoia e distribuito in tutta Italia e all’estero, ha dato lo Stato a quella cittadina? Margherita di Savoia ha delle acque salsoiodiche miracolose e lo Stato ha sempre permesso che queste acque madri, sigillate in appositi recipienti, fossero trasportate a Salsomaggiore e Montecatini, ha solo permesso che diventassero regie e governative queste terme di Salsomaggiore e Montecatini, ma non ha mai pensato alla valorizzazione delle terme di Margherita, abbandonandola soltanto nella malaria. Ma oggi queste terme, che io chiamo non terme di Margherita, ma terme del Mezzogiorno, incominciano a funzionare, ed il sogno di tanti e tanti anni di una desolata popolazione è diventato realtà, non per merito dello Stato, ma per volontà di quella Daunia che si vuole ignorare.
E lo stesso dicasi per la produzione del vino e del grano.
S’è sempre pensato a permettere che il famoso vino di Trinitapoli, di San Severo, di Cerignola, fosse mandato in alta Italia per la fabbricazione del vermouth, del marsala; per la sua imbottigliatura in fiaschi con l’etichetta «Chianti» e fosse ritornato in quei luoghi per una vendita a prezzo maggiorato, ma non s’è mai pensato ad incoraggiare in quei luoghi un’industria per la fabbricazione, con quel vino, del marsala e del vermouth.
S’è sempre ricorso alla Daunia, specie negli ultimi anni, per la giuntura del grano fra un raccolto e l’altro, e questa Daunia ha sempre risposto all’appello con il suo prodotto ed il suo lavoro, ma non ha mai pensato lo Stato ad incoraggiare una cultura intensiva di quel suolo tanto fertile e benedetto. Tutto ha dato, ma niente ha ricevuto questa Daunia, sia dallo Stato che dal Capoluogo dell’attuale regione pugliese che ha sempre pensato ad accentrare tutto nel proprio interesse, e la Daunia è rimasta con la sua malaria, con le sue strade indecenti, con i suoi comuni con scarsissime comunicazioni e con case in cui non possono vivere nemmeno le bestie.
Sono questi dei problemi che solo l’ente Regione potrà risolvere, sono questi dei problemi che saranno risoluti solo se la Daunia sarà costituita in Regione.
Potete aver ragione quindi, onorevoli colleghi, se dite di ignorare la Daunia come richiedente un’autonomia regionale, ma non potete asserire di ignorarla, come nome storico, perché basta aprire una qualsiasi enciclopedia, un qualsiasi vocabolario scientifico e cercare quel nome per trovare scritto: «antica regione» (si noti: regione) della Puglia, confinante a nord col fiume Fortore (antico Frento), a sud con l’Ofanto, ad oriente con l’Adriatico, ad occidente con l’Appennino.
Questi limiti sono citati da Plinio e Strabone, e così sono rimasti oggi.
Per opera dei Bizantini, dal 1018, la Daunia venne chiamata Capitanata, appositamente e sempre tenuta staccata dal resto della Apulia che è stata sempre costituita in tre regioni: la Daunia o Capitanata (zona di Foggia) la Pucezia (terra di Bari) ed il Salento (terra di Otranto).
Ed anticamente voi vedete come la Daunia sia stata riconosciuta come regione a sé stante (così, come risulta dagli studi ad hoc fatti dalla Camera di Commercio di Foggia, specie per opera del suo segretario generale dottor Longo), con le molteplici dogane e con la istituzione della Gran Dogana da parte di Alfonso I d’Aragona, con il tribunale della dogana di Foggia con giurisdizione su Aquila, Sulmona, Lanciano, Castellaneta, Taranto, Cosenza; con la Fiera di Foggia, istituita da Federico II; con la Camera Consultiva di Commercio; con cattedre universitarie; con il Senato della Daunia, suprema magistratura, con altre caratteristiche istituzioni che danno prova di una impronta circoscrizionale sui generis.
Ma quanto il suo territorio, quanti gli abitanti? La sua superficie è di chilometri quadrati 7.184.000, e quindi superiore alla Liguria (543.625), all’Umbria (843.668), alle Marche (968.828), alla Lucania (998.731).
La sua popolazione è di 580.870 abitanti (censimento 31.12.42) distribuiti in 60 comuni. Superiore quindi alla Lucania (513.712) e per sei volte più grande della Val d’Aosta, di recente istituzione.
Con regioni antiche, vecchie, nuove ed istituende della nostra Italia, la Daunia può reggere al confronto, anche perché, a differenza delle altre, essa contiene nel suo ambito tutto il desiderabile assortimento di varietà e complementarietà ambientali. Essa infatti ha il mare ed i monti, laghi ed isole, i corsi d’acqua e la grande pianura (il famoso tavoliere), i boschi ed i pascoli; le culture erbacee e le specializzate; gli allevamenti stanziali ed i transumanti; le industrie in atto e quelle in certa prospettiva; le miniere e le saline; le attrazioni turistiche e di commercio; gli scali marittimi delle grandi arterie terrestri che della regione fanno centro di confluenza e di irradiazione di imponenti traffici terrestri.
L’agricoltura è così intensificata, da farla figurare in testa non a gruppi di Provincie, ma addirittura a gruppi di intiere Regioni. Il tempo non ci consente di presentare a voi delle statistiche, ma mettiamo a disposizione degli onorevoli colleghi tutto quanto teniamo a sostegno della nostra tesi, basata su un principio di una sana giustizia.
Che dire delle industrie? Quella vinicola in primo piano e poi quella delle famose saline di Margherita di Savoia, con la produzione del sale, del bromo, del bromuro di potassio e di sodio; le miniere di bauxite, le industrie della carta, delle cave, laterizi e le miniere boschive che non hanno fatto mai punto nella loro ascesa e nella loro perfezione, aiutate tutte dall’impulso dinamico di un ente, che rappresenta il termometro economico della Daunia, e cioè di quella Camera di commercio, con analitici studi che mettiamo a disposizione, ripetiamo, di tutti. E questa Daunia, centro strategico di comunicazioni come è a tutti noto, si appresta, dopo i danni ingenti subiti dalla guerra, ad incrementare e far rifiorire quelle industrie dei trasporti e turistiche, che le daranno una impronta speciale e caratteristica.
Ma se il più rilevante coefficiente da tener presente per il riconoscimento di una nuova Regione è quello riflettente l’autonomia finanziaria, possiamo con sicura coscienza constatare che anche questo coefficiente non manca per il riconoscimento della Regione dauna.
Tenendo presente infatti che i cespiti cui la Regione è prevedibile che possa attingere le sue risorse finanziarie, sia direttamente sia in partecipazione con lo Stato o altri enti, sono le tradizionali fonti imponibili: e cioè i terreni, i fabbricati, redditi passibili di imposta erariale e talune imposte personali, noi abbiamo che i redditi imponibili iscritti nei ruoli 1937, agli effetti dell’imposta sui terreni e sui fabbricati, ammontavano, per la Capitanata, a L. 67.804.360, e quindi a più di quelli risultanti per la intera Calabria (67.446.281); per l’intiero Abruzzo (58.880.884); per tutta l’Umbria (51.719.485); per tutta la Lucania (29.943.783); per tutto il Molise (25.408.848); per tutta la Val d’Aosta (17.534.981). Ed i redditi di solo capitale (categoria A) è quelli industriali e commerciali (categoria B) e quelli professionali (categoria C), iscritti sempre nei ruoli 1937, ammontavano, per la Capitanata, a L. 54.558.702 e quindi a più di quelli risultanti per l’intiera Lucania (32.350.864), per l’intiero Molise (25.465.447), per tutta la Val d’Aosta (43.391.784).
Ma, così come risulta dal resoconto dei lavori della Sottocommissione, la proposta della erezione a Regione della Daunia sarebbe stata approvata, se, oltre alla dimostrazione già offerta dei requisiti di cui sopra, si fosse data la prova della volontà popolare della Capitanata, per l’autonomia regionale della Daunia. Questa prova, che non si è potuta fornire alla Sottocommissione perché non si è fatto in tempo, oggi esiste, così come risulta dalla documentazione inviata a tutti i colleghi di questa Assemblea.
La Camera di commercio con la sua Giunta; la Deputazione provinciale: 58 consigli comunali sui 60 componenti la Daunia; tutti i partiti politici, ivi esistenti, ad eccezione di quello comunista; i dipendenti di enti locali; l’associazione commercianti; agricoltori, artigiani, mutilati ed invalidi; unioni sportive; universitari; sindacati post-telegrafonici; associazioni combattenti, reduci e perseguitati politici; coltivatori diretti; associazione periti industriali, lavoratori del catasto, degli uffici del registro, delle imposte dirette e dipendenti tasse ed affari; ordini dei medici, avvocati e procuratori dei Tribunali di Foggia e Lucera; nucleo ferrovieri: unanimemente hanno invocato, spesso in comizi popolari, il riconoscimento della regione Dauna, inviando telegrammi ad hoc al Capo provvisorio della nostra Repubblica, all’onorevole Presidente di questa Assemblea, all’onorevole Presidente del Consiglio dei Ministri, ed una apposita commissione è stata anche ricevuta, per lo scopo, da S.E. De Nicola e dall’onorevole Presidente del Consiglio.
Se questa è la volontà di tutta una laboriosa popolazione, questa volontà deve trovare eco in questa Assemblea, e la Regione dauna deve essere inserita nell’articolo 123 della nuova Costituzione. (Applausi – Congratulazioni).
PRESIDENTE. Il seguito della discussione è rinviato alle 16.
La seduta termina alle 12.10.