Come nasce la Costituzione

ANTIMERIDIANA DI MARTEDÌ 10 GIUGNO 1947

ASSEMBLEA COSTITUENTE

CXLIII.

SEDUTA ANTIMERIDIANA DI MARTEDÌ 10 GIUGNO 1947

PRESIDENZA DEL PRESIDENTE TERRACINI

INDICE

Congedi:

Presidente                                                                                                        

Progetto di Costituzione della Repubblica italiana (Seguito della discussione):

Presidente                                                                                                        

Ambrosini, Relatore                                                                                          

Bozzi                                                                                                                 

La seduta comincia alle 10.

MATTEI TERESA, Segretaria, legge il processo verbale della precedente seduta antimeridiana.

(È approvato).

Congedi.

PRESIDENTE. Comunico che hanno chiesto congedo gli onorevoli Carboni e Rumor.

(Sono concessi).

Seguito della discussione del progetto di Costituzione della Repubblica italiana.

PRESIDENTE. L’ordine del giorno reca il seguito della discussione del progetto di Costituzione della Repubblica Italiana.

Concluso lo svolgimento degli ordini del giorno relativi al titolo V del progetto di Costituzione, ha facoltà di parlare il Relatore, onorevole Ambrosini.

AMBROSINI, Relatore. Onorevole Presidente, onorevoli colleghi, l’argomento che ci interessa è indubbiamente il più grave di tutto il progetto di Costituzione, giacché riguarda la trasformazione della struttura amministrativa ed, entro certi limiti, la trasformazione della stessa struttura politica dello Stato. E se, come diceva l’onorevole Grieco, la prima parte del progetto, che l’Assemblea ha già approvata, deve considerarsi inerente a quello che è il contenuto della Costituzione, la parte che andiamo a trattare la sopravanza indubbiamente di importanza per due ordini di ragioni.

In primo luogo, perché tutti gli istituti che abbiamo approvato, tutte le dichiarazioni di principio, tutti gli impegni che nella prima parte suddetta questa Assemblea Costituente ha assunto, possono considerarsi principalmente come altrettanti riconoscimenti. Infatti, anche quando la Costituzione fosse rimasta silenziosa su molti degli argomenti trattati nella prima parte del progetto, nessun dubbio sarebbe sorto su quella che è l’essenza del diritto, su quelle che sono le aspirazioni legittime del popolo al mantenimento delle situazioni esistenti e al progresso. Chi avrebbe potuto negare il diritto di associazione, i diritti fondamentali di libertà civile e politica? Tuttavia abbiamo voluto sancire questi diritti, perché riconoscerli e dichiararli è già un atto solenne col quale l’Assemblea Costituente, la rappresentanza del popolo italiano, dice al Paese e dice al mondo quale è il nuovo volto d’Italia. E se è vero che i padri della Costituzione americana non avevano creduto necessario di dichiarare diritti fondamentali di libertà nel testo approvato dalla convenzione di Filadelfia, perché ritenuti acquisiti ed insiti nella filosofia della Costituzione, è anche vero che, passati alcuni anni, i rappresentanti di questo grande popolo sentirono la necessità di proclamarli espressamente coi primi undici emendamenti alla Costituzione.

Bene ha fatto dunque quest’Assemblea Costituente a dichiarare nella prima parte della Costituzione i diritti fondamentali dell’individuo, dei gruppi sociali e della società nazionale nel suo complesso. Ma, se andiamo a guardare il progetto nel suo complesso, dobbiamo rilevare che la parte relativa all’ordinamento delle «Regioni» – per la quale tanto si è discusso e che tanto ha destato l’attenzione vigile nostra e del popolo italiano – sopravanza di molto l’importanza degli stessi altri titoli della seconda parte del progetto riguardanti l’ordinamento dello Stato. È chiaro che in regime democratico deve esistere un potere legiferante composto da una o due Camere, e che deve esservi un Capo dello Stato, un Governo, un’organizzazione giudiziaria; istituti tutti che provengono dalle organizzazioni politiche preesistenti, e per i quali non può quindi procedersi ad innovazioni ab imis. La proposta riforma regionale importa invece una innovazione profonda. E di ciò, chi vi parla ed il Comitato di Redazione e la Sottocommissione e poi la Commissione dei 75, si resero completamente conto, sentendo tutta la gravità dell’onere e della responsabilità cui erano stati chiamati.

Io vorrei sperare, onorevoli colleghi, di poter qui delimitare il campo delle mie osservazioni finali, per mettere in luce i punti venuti maggiormente in discussione, e per doverosamente occupandomi delle critiche fatte al progetto, sia da un punto di vista pregiudiziale, che si attiene al modo di nascita del progetto stesso, alla composizione della Commissione e all’attitudine dei membri che ne hanno fatto parte, sia per quanto si riferisce al merito ed alla sostanza della riforma.

E vorrei qui ripetere la frase che l’onorevole Nitti, nel suo aureo libro, che fu il nostro testo per la Scienza delle Finanze, nei lontani anni in cui frequentammo le sue lezioni all’università di Napoli, richiama nella prefazione, riportando il detto del Santo Monaco di Todi: «Dov’è chiara la nota, non fare oscura chiosa». Io cercherò, nell’affrontare argomenti così complessi e spinosi, di poterne fare una chiarificazione, perché i vari aspetti del problema possano essere prospettati in tutta la loro entità e nello stesso tempo con immediatezza di comprensione.

Mi sarà impossibile rispondere individualmente a tutti gli eminenti colleghi che si sono occupati dell’argomento. Tutti hanno visto con quale doverosa attenzione sono stato al mio posto per seguire ì vari discorsi, e mi duole che il tempo non mi consenta di rispondere ad ognuno. Noi siamo sospinti dal tempo; e debbo in proposito dire che si deve allo sprone ed alla delicata tirannia che il Presidente della Commissione dei 75, onorevole Ruini, esercitò durante tutti i mesi passati, se si è arrivati a presentare il progetto di Costituzione. Non si è giusti quando si parla con sopportazione del risultato dei lavori della Commissione, la quale si è invece sottoposta ad un lavoro improbo, nella calura dell’estate e nel freddo dell’inverno. Ed io stesso, quando fui chiamato alla Presidenza del ristretto Comitato di redazione degli articoli che riguardano il titolo dell’autonomia, ero continuamente sollecitato, premuto, sospinto, a volte anche seccamente… (Interruzione dell’onorevole Bordon) ...dall’onorevole Ruini, tanto da sollevare qualche volta (e l’onorevole Bordon lo sa) le rimostranze dei miei colleghi, che mi vedevano sottoposto e si sentivano a loro volta sottoposti, alle pressanti richieste di questo egregio uomo…

RUINI, Presidente della Commissione per la Costituzione. Lei sa quanta stima ho per lei.

AMBROSINI. …il quale voleva che al giorno e all’ora fissata si presentasse il progetto. Il che fu fatto sorpassando tutte le difficoltà. Felix culpa quella dell’onorevole Ruini, il quale una volta insistette con tanta veemenza, che l’onorevole Lussu credette di rivendicare i diritti della Commissione dicendo che quando si arrivava alle undici di sera anche i deputati eletti dal popolo avevano non il diritto ma il dovere di andare a riposare, perché altrimenti il giorno appresso non avrebbero potuto continuare il lavoro. (Applausi).

Onorevoli colleghi, il Paese deve sapere che le Commissioni hanno lavorato incessantemente, con abnegazione, facendo quanto era possibile fare, sottoponendosi a tutte le fatiche.

Uno dei nostri egregi colleghi ha detto nel suo discorso, specialmente a proposito di questo Titolo della Costituzione che si riferisce all’ordinamento regionale, che si tratta di un progetto abborracciato, fatto frettolosamente.

RUINI, Presidente della Commissione per la Costituzione. Quattro letture vi sono state.

AMBROSINI, Relatore. Ma quante sedute, onorevole Ruini!

RUINI, Presidente della Commissione per la Costituzione. Cento sedute.

AMBROSINI. Relatore. È bene che l’Assemblea sappia che, avuto dalla Sottocommissione l’incarico di redigere e articolare il progetto relativamente a questo punto, io non esitai, presentando al Comitato di Redazione il mio lavoro, a sottoporlo io stesso a critiche, perché sapevo bene quale era il rovescio della medaglia. E queste critiche io le feci, non vi è niente di segreto, anche in seno al Gruppo della Democrazia Cristiana, ed invocai da tutti osservazioni e rilievi, perché, egregi colleghi, noi non vogliamo varare una riforma qualsiasi, ma vogliamo varare una riforma che risponda agli interessi del popolo italiano e che sia eseguibile. Ed è per questo che, quando taluni si meravigliavano che io, che avevo elaborato il progetto, ne rilevavo, facendo la parte dell’avvocato del diavolo, le ombre, è per questo che io potevo rispondere che più critiche vi erano e meglio era, perché così si sarebbe potuto più agevolmente perfezionare il progetto. E ciò ripeto avanti a questa Assemblea.

Vi è ancora un altro punto pregiudiziale, che occorre chiarire. È stato osservato che la redazione del progetto fu affidata al più acceso regionalista, e, per giunta, siciliano. Precisiamo. I membri della seconda Sottocommissione, della Commissione dei 75 e tutti i colleghi coi quali ho parlato ed ai quali ho chiesto ausilio, sanno che io non sono affatto estremista, sanno che ho proceduto con massima prudenza. Quando la Commissione mi diede l’incarico di elaborare ed articolare il progetto sulla base dell’ordine del giorno Piccioni, che aveva una portata molto lata, fui io che incominciai a restringere, ad imbrigliare, direi, alcuni istituti, in modo da arrivare a presentare un progetto elle non portasse a salti nel buio e potesse raccogliere il maggior numero di consensi. Ed il risultato è stato che parecchi colleghi, e fra questi lo stesso onorevole Piccioni, hanno giudicato il mio progetto come inadeguato, scialbo, non rispondente appieno ai principî affermati nell’ordine del giorno suddetto. Altro che carattere acceso ed estremista del progetto! Nel redigerlo io mi sono inoltre preoccupato che rispondesse alla psicologia del popolo.

Le Costituzioni basate su schemi teorici non reggono. Sicuramente Mario Pagano fece una Costituzione magnifica, ma era frutto del suo cervello e dei suoi studi. Bisogna tener conto delle particolari condizioni dell’ambiente, delle particolari esigenze del momento. Dicendo ciò intendo rispondere alle critiche che hanno voluto vedere nel progetto una affermazione di tendenze di scuola, di preconcette teoriche. No. Nella sua relazione il Presidente Ruini mi ha fatto l’onore di citare un mio studio sullo Stato regionale. Tutti i Colleghi mi daranno atto che a questo mio libro ed alla mia teoria mai accennai nel corso dei lavori. Io non ho mai difeso delle mie idee personali, perché ritenevo e ritengo che bisogna lavorare sulla materia concreta, sulle esigenze reali quali sono dalla generalità sentite e valutate. Se avessimo invocato teorie astratte, ci saremmo allontanati dalla realtà. Ed alla realtà, alla dura realtà, come io, s’intende, la vedevo, ho cercato, mi sono sempre sforzato di attenermi. Io sono nato in un paese di provincia, ho vissuto in mezzo a contadini, zolfatari, piccoli agricoltori, artigiani, so quali sono le pene del popolo della provincia. Tutto ciò ho tenuto presente nello studio del problema. Né diversamente, io credo, hanno fatto gli egregi colleghi che più dirottamente hanno lavorato con me nella preparazione del progetto, che viene ora in discussione.

La Commissione si è preoccupata di proporre una riforma che potesse corrispondere (naturalmente è difficile fare le cose perfette) a quelle che sono le effettive e complesse esigenze della vita della società e dello stato, al centro ed alla periferia.

Dal punto di vista pregiudiziale va ancora rilevato che il progetto è stato investito dalle critiche più contrastanti, con argomenti polemici, a volte addotti dallo stesso oratore, tra loro elidentisi. Si è detto: il progetto non regge, perché, o dà alla Regione un potere legislativo, ed allora si va al federalismo, o non le dà nessun potere legislativo, ed allora non c’è più autonomia. Ancora: o si lascia in vita la provincia e allora la Regione non ha motivo di esistere; o si sopprime la provincia come ente autarchico, e allora si sostituisce all’accentramento statale l’accentramento regionale con danno delle popolazioni della periferia e di tutti i capoluoghi di provincia.

Ma tali osservazioni sono infondate o, comunque, molto esagerate. La verità è che il progetto, che l’Assemblea può e deve certamente perfezionare, costituisce una linea mediana, rappresenta un punto di incontro fra le varie esigenze concrete alle quali si è cercato di dare soddisfazione.

Nelle critiche fatte al progetto, si è a volte guardato più ad un sistema astratto generale, che non alla sua struttura concreta. Un nostro egregio collega, nel criticare specialmente quella parte del progetto che si riferisce al potere normativo della Regione, ha detto che non si occupava della questione in concreto, ma dal punto di vista concettuale e teorico per quella che poteva essere in appresso l’evoluzione ed il tralignamento del principio affermato. Ma così non mi pare che siamo sul terreno giusto. Il progetto bisogna giudicarlo per quello che è, per la sua struttura concreta. Io e la Commissione abbiamo voluto attenerci alla realtà delle cose ed abbiamo creduto di elaborare una riforma che nei suoi istituti specifici evita o presenta comunque i mezzi e congegni adeguati per evitare i prospettati tralignamenti. L’Assemblea potrà perfezionarli mantenendosi aderente alla realtà, così come ha cercato di fare la Commissione.

Alle critiche pregiudiziali, si aggiungono naturalmente le critiche di sostanza. Da varie parti ci si è domandato quali siano i principî informatori di questo progetto. Qualcuno, come il collega onorevole Zuccarini, ha continuato a dire: Per la mania della conciliazione, per volere a tutti i costi raggiungere una maggioranza, l’onorevole Ambrosini ha forzato la situazione, creando degli istituti improntati a principî non completamente coerenti, rettilinei.

Ripeto in proposito che io e poi la Commissione ci siamo preoccupati di conciliare le opposte tendenze, di trovare un punto di incontro, di accordo, seguendo il metodo che era stato adottato per l’elaborazione e l’approvazione della parte prima della Costituzione. Il sistema presenta certamente degli svantaggi assieme ai vantaggi; ma questi, secondo il nostro avviso, superano quelli; e perciò mi sono sforzato di arrivare, nei limiti del possibile, ad un punto dì incontro e di conciliazione.

Se non si fosse seguito questo metodo, non si sarebbe pervenuti a nessuna conclusione, perché non si sarebbe ottenuta neppure una maggioranza qualsiasi. Ebbene, il progetto va esaminato anzitutto nella sua sostanza, nelle sue linee direttive, salvo a perfezionarne l’applicazione. Dobbiamo in coscienza decidere: se siamo convinti che la riforma è necessaria, allora sicuramente non possiamo arrestarci di fronte ad ostacoli di indole tecnica, a contrasti sulle modalità di applicazione. Qui può e deve intervenire la conciliazione e la transazione in modo da creare la possibilità di arrivare a una soluzione che raggiunga la maggioranza dei consensi.

Sì, è questione di coscienza. Se la nostra coscienza ci dice, dopo aver valutato con ponderazione il problema, che la riforma è necessaria per restaurare e stabilire su nuove basi l’assetto strutturale dello Stato, allora dobbiamo attuarla, sia pur attraverso alle transazioni che sono state tanto criticate.

Quindi io e i colleghi della Commissione, io credo, assumiamo la responsabilità di questo sistema, che abbiamo consapevolmente voluto. Ora il sistema consacrato nel progetto va esaminato, ripeto, per gli istituti che concretamente instaura, per quella che è la sua portata effettiva, normale, non per quelli che possono essere gli sviluppi immaginari, tralignanti, ad impedire i quali ci vuole il senso vigile dei costituenti, il senso vigile dei futuri legislatori, e, anzitutto, il senso continuamente vigile del popolo, se esso vuole impedire la tirannia e mantenere la libertà e più ancora essere degni della libertà, giacché è proprio vero quello che disse Faust, che «della vita è degno, di libertà è degno sol chi sappia a ciascun di farsene acquisto».

Ordunque, andiamo ad esaminare il progetto per quello che è. Ci è stato domandato a quali principî si ispira. Partiamo dal presupposto: l’accentramento e l’uniformità hanno causato e causano danni e inconvenienti ineliminabili. Io non starò ad enumerarli, perché sono stati indicati da me nella relazione scritta, e poi più ampiamente illustrati da oratori di tutti i settori di questa Assemblea, senza distinzione. Salvo qualche collega, sia pur autorevolissimo ma isolato, tutti – e se non è così, è bene che io sia ripreso – tutti hanno affermato che la congestione dell’amministrazione statale, che l’uniformismo normativo hanno causato dei danni al Paese, che hanno reso pesante e a volte inefficiente il funzionamento dei poteri pubblici, non solo riguardo alle amministrazioni e agli interessi locali, ma anche per le amministrazioni centrali. Ora, basta un minimo di esperienza con i Ministeri per sapere che non è colpa dei funzionari, che nella loro grande maggioranza meritano rispetto e considerazione. È il sistema, che fa ammucchiare carte su carte. E quando il Deputato, giustamente sollecitato dagli elettori, va a sua volta a sollecitare i funzionari per il disbrigo di una pratica sepolta da altre, fa del bene al poverello che ha invocato il suo intervento, ma, egregi colleghi, diciamocelo onestamente – a volte ho avuto quasi un rimorso di coscienza – fa male a tutti gli altri poveri interessati che avevano la loro pratica sopra (Applausi) e che quindi sono sorpassati.

Ora questo è uno dei mali ai quali noi dobbiamo fare di tutto per porre rimedio.

Non è questo il momento di trattarne, basterà per ora averlo segnalato. Non occorre nemmeno che mi soffermi sulle altre conseguenze dannose dell’accentramento, che tutti o quasi tutti hanno riconosciuto e lamentato non solo riguardo all’amministrazione centrale dello Stato, ma anche riguardo alla legislazione, sì, anche riguardo alla legislazione, che si manifesta difettosa per lo stesso sistema di formazione delle leggi e a volte per il loro carattere uniforme di fronte alla varietà delle situazioni ed esigenze regionali siccome è stato rilevato dagli onorevoli Conti, Mannironi, Uberti, Bellavista ed altri colleghi, e per ultimo dall’onorevole Ruini nel suo intervento dell’altro ieri. Si tratta di un sistema che ha danneggiato il Mezzogiorno e le isole in modo gravissimo.

Da tutte le parti – compreso l’onorevole Nobile – si è riconosciuto che occorre un decentramento. Ma quale decentramento?

Quello burocratico o altrimenti detto gerarchico, che importa il dislocamento di organi statali dal centro alla periferia per l’esercizio di funzioni che rimangono statali, non è adeguato alle necessità delle popolazioni, i cui interessi resterebbero affidati a funzionari statali legati alle direttive del centro ed aventi comunque una mentalità centralistica.

Né completamente adeguata sarebbe la soluzione del decentramento autarchico territoriale o istituzionale, giacché esso, pur importando il passaggio di funzioni dalla competenza dello Stato a quella di enti locali, si limita, secondo il sistema tradizionale, al campo amministrativo, e non anche all’altro della produzione delle norme giuridiche. Ora è anche a questo campo che bisogna estendere, sia pur con limiti di sostanza e di forma, l’innovazione. Così si passerà dall’istituto dell’autarchia a quello dell’autonomia, che vorremmo posto a base della riforma regionale.

Alcuni colleghi hanno osservato che gli enti locali hanno già un qualche potere normativo. È vero, ma non basta. Bisogna che dalla competenza regolamentare si passi all’attribuzione di una potestà legislativa, limitata – s’intende – a materie d’interesse puramente locale.

Se è vero che riguardo a tali materie non agevole o non del tutto efficiente è il funzionamento del potere legislativo centrale, è chiaro che si rende opportuno l’affidamento del potere legislativo alle Regioni, giacché i rappresentanti delle rispettive popolazioni ne conoscono a fondo i bisogni e sono in grado di provvedervi meglio e con maggiore responsabilità del Parlamento nazionale. Questo è il nostro punto di vista.

E qui sorge la questione dell’ampiezza o meno del potere legislativo, della quale discutevamo ancora stamane nel Comitato di redazione, prima dell’apertura della seduta dell’Assemblea.

Data la necessità o l’opportunità o comunque l’utilità di operare la deflazione del potere legislativo centrale, si presenta naturale la soluzione di affidare l’elaborazione delle norme giuridiche, che riguardano le collettività locali e che importano interessi puramente locali, ai rappresentanti delle stesse collettività. Vengo a parlare della maggiore o minore ampiezza di queste norme.

ZANARDI. Ma non ci sono già gli organi locali?

AMBROSINI. Le rispondo subito dandole le precisazioni che opportunamente mi richiede. Noi infatti siamo qui per avvertire e soddisfare le esigenze delle popolazioni, non per fare questioni di dottrina o di partito: noi consideriamo le questioni dal punto di vista nazionale. Lei domanda perché non si ricorre agli Enti locali esistenti? Ecco la risposta: perché la circoscrizione comunale sarebbe troppo ristretta in relazione agli interessi ed agli scopi che si vogliono perseguire; e troppo ristretta sarebbe ugualmente la circoscrizione provinciale.

Ci sono dei servizi che per il loro più adeguato esercizio comportano e necessitano una circoscrizione più ampia. Naturalmente, egregi colleghi, non c’è nulla di assoluto e di tassativo. Siamo sempre nel campo del relativo. Ma è indubbio che ci sono dei servizi che dal punto di vista tecnico e da quello economico possono meglio essere adempiuti in una circoscrizione più ampia.

MICCOLIS. Lo stesso ragionamento può farsi per la Regione. (Commenti Interruzioni).

PRESIDENTE. Onorevoli colleghi, non interrompano.

AMBROSINI. Io avrò dei difetti, ma credo di non peccare di mancanza né di obiettività, né di conciliabilità. Esaminerò la questione obiettivamente.

Io potrei, cari colleghi, rispondere alle vostre interruzioni riportandomi sul terreno sul quale si mise l’onorevole Priolo l’altro giorno; potrei cioè leggere i passi di uno dei più celebrati autori inglesi sul governo locale in Inghilterra, giacché il problema è attualmente in discussione, quantunque su base diversa, anche nel Paese tradizionalista d’oltre Manica. Il Finer ne tratta ampiamente.

CRISPO. In Inghilterra c’è la Contea, non la Regione.

PRESIDENTE. Onorevole Crispo, non interrompa. Non facciamo sfoggio di erudizione!

AMBROSINI. C’è la Contea, ma c’è un movimento regionalista. Lo vedremo. Quando faccio delle citazioni, mi potreste anche credere sulla parola. Ma in una questione così grave ho portato i testi. (Commenti). È mio dovere di onestà e di opportunità. Leggerò appresso i passi più importanti.

Mi avete domandato inoltre di quali servizi si tratta. Rispondo: parecchi.

Cominciamo dall’energia elettrica. Indubbiamente la circoscrizione del Comune o della Provincia si dimostra spesso troppo ristretta. Può darsi che la Regione non sia nemmeno sufficiente. Ma è più logico che si vada alla Regione quando non appaia necessario ricorrere ad una circoscrizione più vasta. Comunque può essere opportuno prendere normalmente come base la Regione.

Una voce a destra. Non è esatto.

AMBROSINI. Cari colleghi, non c’è niente, ripeto, di assoluto: si tratta di valutazioni, che dovranno farsi quando si tratterà del dettaglio. Vi sono i servizi relativi agli acquedotti, alle strade, alle bonifiche, ai trasporti, ecc., per i quali si dimostra spesso inadeguato il territorio del comune e della provincia. Inadeguata è comunque la circoscrizione degli enti locali esistenti per quanto si riferisce all’esercizio della funzione normativa. Se già molti sono spaventati del potere legiferante da affidare ad una regione, sicuramente spaventatissimi diventerebbero se si dovesse affidarlo alla provincia. Io stesso sarei contrario. Solo nella circoscrizione più ampia di più provincie costituenti una regione può trovarsi la base sufficiente per l’adeguato esercizio di un potere normativo.

Uno dei precedenti oratori (ho qui tutti gli appunti), parlando della Toscana, proprio a proposito dell’argomento attuale, disse volgendosi a me: «Ma credete che Firenze, Arezzo, Siena e Pisa abbiano le stesse caratteristiche?». Al che io credo si possa rispondere: indubbiamente c’è una varietà, ma ugualmente è indubbio che tra Firenze, Siena, Arezzo e Pisa sommate assieme c’è una uniformità maggiore di quella che non ci sia tra Firenze e Caltanissetta. Se è sufficiente la circoscrizione della Regione toscana o siciliana per l’attribuzione di una certa potestà legislativa, rappresentando ognuna di tali Regioni un complesso uniforme – insufficiente sarebbe la circoscrizione delle singole provincie, malgrado la loro eventuale varietà, comprese nella stessa Regione; assolutamente e manifestamente inadeguato, e senz’altro da scartarsi è il territorio del Comune; quindi non può esservi che la Regione.

Una voce. Perché non può essere la Provincia?

UBERTI. Perché è troppo piccola.

Una voce. È piccola anche la Regione.

AMBROSINI. Il nostro criterio è questo: specialmente per quanto si riferisce alla potestà legislativa o normativa, qualunque estensione o qualunque restrizione si voglia in proposito adottare, la circoscrizione della provincia è inadeguata. L’Assemblea è naturalmente arbitra di valutare e decidere. Io ho fatto il mio dovere nell’esporre quello che è il punto di vista mio e della Commissione.

Per combattere il principio regionalistico si è detto inoltre che l’Italia è un paese mediterraneo dotato di una uniformità che non comporta la distinzione in Regioni e specialmente la creazione di una varietà di legislazione regionale. Ma è facile rispondere che se c’è un Paese caratterizzato da estreme varietà, dal Nord al Sud, questo Paese è sicuramente l’Italia.

E questo è uno dei motivi fondamentali per cui abbiamo proposto come ente da costituire la Regione, perché semplicemente per mezzo dell’Ente Regionale, noi vediamo la possibilità di realizzare le innovazioni che ci sembrano necessarie per ovviare ai mali dell’accentramento statale.

Andiamo all’esame della struttura concreta del progetto.

Io, naturalmente, non mi soffermerò sugli articoli. Sono gli istituti genericamente considerati che devo ora riguardare. Alla Commissione si presentò un primo quesito.

Era opportuno adottare il sistema della Regione facoltativa o quello della Regione obbligatoria? La questione era stata già posta dai costituenti spagnuoli e risolta nella costituzione repubblicana del 1931 con l’adozione del sistema della Regione facoltativa. Ma in senso diverso si è pronunciata la nostra Commissione ritenendo che, se la riforma appariva utile, bisognava applicarla in tutto il territorio nazionale.

Secondo quesito: struttura regionale uniforme o non uniforme?

Anche qui naturalmente sorse una grave discussione, in vista della condizione diversa delle Regioni, ed in considerazione specialmente della particolarissima condizione di taluna di esse, che consigliavano di arrivare ad una struttura differenziata. Si arrivò infatti a questa soluzione.

Devo procedere rapidamente, pur tenendomi a disposizione di chi volesse farmi delle domande anche fuori dell’Assemblea, perché chiarire la situazione è nostro dovere di cittadini e di rappresentanti; ed è dovere ancora più grave e sentito per me, che ho l’onere e l’onore di essere il relatore e uno di coloro sui quali è maggiormente gravato il compito di elaborare la proposta riforma. Fu adunque adottata una struttura differenziata. Siccome vi erano delle situazioni prestabilite dal punto di vista giuridico o dal punto di vista di fatto e politico, il che in questa sede deve considerarsi quasi lo stesso, per la Val d’Aosta, per la Sicilia, per la Sardegna e per il Trentino Alto Adige, non era opportuno, non era possibile sorpassarle nella Costituzione. Sì, onorevole Nitti, mio maestro illustre, vedo i suoi dinieghi, ma le dico che non si poteva, né si può né si deve tornare indietro.

Io sento di fronte a lei, onorevole Nitti, l’affetto e la riverenza dell’antico discepolo, che nell’università di Napoli la ebbe correlatore della sua tesi di laurea insieme a Francesco Scaduto; ed io non ho mai dimenticato le parole di incoraggiamento che allora lei mi rivolse come non ho mai dimenticato che lei è l’autore de «L’Europa senza Pace» e dell’altro libro «Disgregazione dell’Europa».

Una voce a sinistra. «Timeo Danaos et dona ferentes!»

AMBROSINI. Da me non c’è nulla da temere. (Applausi al centro). Ma, nella mia onestà, devo dire, anche in riguardo al maestro onorevole Nitti, che amicus Plato, sed magis amica veritas.

Dunque, siccome c’era per le suddette Regioni una posizione prestabilita, la Commissione, nella sua saggezza, ritenne di dover fare nelle sue proposte una differenziazione, stabilendo un sistema genericamente uniforme per tutte le Regioni d’Italia, e riconoscendo o ammettendo (sono termini che adopero intenzionalmente perché «riconoscere» si riferisce alla Sicilia e alla Val d’Aosta, e «ammettere» si riferisce alla Sardegna e al Trentino-Alto Adige) le situazioni prestabilite dal punto di vista giuridico e politico.

Ci furono forti obiezioni per considerazioni di opportunità e di principio. Lo stesso onorevole Grieco, che riconosceva la posizione speciale delle quattro Regioni, domandò all’inizio della discussione generale se l’attribuzione ad esse di una condizione giuridica particolare non sarebbe potuta sembrare un monstrum ai giuristi.

Ma io, per conto mio, lo rassicurai, dicendo che nel campo del diritto pubblico non si creano dei mostri quando si fa luogo ad istituti complessi, che rispecchiano la varietà e complessità delle situazioni e degli interessi a cui bisogna dare soddisfazione. Di fronte alla realtà complessa sarebbe assurdo e dannoso dar vita ad istituti solo formalmente armonici, ma non corrispondenti alle concrete esigenze della vita sociale. Bisogna contentarsi di creare istituti elastici, adattabili alle necessità diverse, se pur non inquadrabili in un sistema uniforme e tale da apparire logico fino alle estreme conseguenze. È questo criterio di relatività e di adattabilità alle attuali complesse esigenze dell’amministrazione statale e locale che la Commissione ha cercato di seguire.

Veniamo al punto più controverso, quello della potestà legislativa da attribuirsi alla Regione. È a causa dell’attribuzione di un tale potere che si esce dal campo della autarchia per passare a quello dell’autonomia; istituto che è più specialmente connesso con la potestà di produrre norme giuridiche, legislative. Questa è la dottrina prevalente, alla quale mi attengo per semplificare i termini della discussione ed indicare la differenza fra l’autarchia e l’autonomia. Si tratta, s’intende, di nozioni relative, di indicazioni a cui ci riferiamo per aver modo di intenderci.

È opportuno accennare a quanto chiarii nella parte generale della mia relazione scritta: che la differenza tra i due istituti, notevole dal punto di vista concettuale e teorico, può ridursi a ben poca cosa, quando venga circoscritta a materie limitate la potestà normativa dell’Ente autonomo. Rimandando in proposito alla relazione, debbo qui mettere in rilievo che la seconda Sottocommissione, prima di votare l’ordine del giorno Piccioni, in cui si parla esplicitamente della potestà «legislativa» della Regione, esaminò la questione ampiamente su iniziativa dell’onorevole Fabbri. L’onorevole Fabbri infatti, se ben ricordo, si era opposto alla proposta di attribuzione alla Regione di una tale potestà «legislativa», ed aveva proposto di sostituire l’espressione con quella di potestà «normativa».

La Sottocommissione respinse l’emendamento Fabbri, e votò per la potestà «legislativa». Fra le due parole non può dirsi che ci sia differenza dal punto di vista della sostanza; ma il fatto che dopo lunga discussione fu prescelta la parola «legislativa» sta ad indicare che si volle parlare della facoltà di emanare norme giuridiche di carattere non soltanto regolamentare, ma assurgenti al rango di leggi formali.

Quando fui incaricato di tradurre in uno schema articolato i principî affermati nell’ordine del giorno Piccioni, dovevo quindi prevedere per le Regioni l’attribuzione di una potestà «legislativa»; e ciò feci proponendo due tipi di legislazione: una piena e l’altra di integrazione.

Sul primo tipo, che si trova fissato nell’articolo 109 dell’attuale progetto, sorsero e continuano ad esserci le più gravi dispute ed obiezioni, per la preoccupazione che possa derivarne pericolo per l’unità dello Stato.

Ma a questo eventuale pericolo io stesso avevo pensato e posto preventivamente rimedio; circoscrivendo la portata dell’ordine del giorno Piccioni, e ponendo dei limiti di sostanza e di forma all’esercizio da parte della Regione della potestà legislativa in questione; per il che sono stato quasi accusato di avere mortificato e compresso l’istituto dell’autonomia.

La lettura pacata del testo dell’articolo 109 dovrebbe fare scomparire le preoccupazioni suaccennate. Le materie attribuite alla competenza legislativa della Regione sono poco numerose e di interesse puramente locale, tanto che l’onorevole Einaudi ed altri colleghi hanno criticato l’articolo 109 per la sua limitatezza.

Ma più notevoli sono le restrizioni di sostanza. Infatti, anche per le materie poco numerose indicate nell’articolo 109, la Regione non può emanare norme legislative, se non in armonia con la Costituzione ed i principî generali dell’ordinamento dello Stato, e se non rispettando gli obblighi internazionali dello Stato ed inoltre (è opportuno metterlo in rilievo per la sua importanza) «gli interessi della Nazione e delle altre Regioni».

Dovrebbe quindi cadere l’appunto fondamentale mosso all’articolo 109, a proposito del quale si è incorso, io credo, in un equivoco quando si è creduto che tale articolo prevede un tipo di legislazione «esclusiva». A mio modo di vedere, la legislazione dell’articolo 109 non è «esclusiva», perché è condizionata dalle suddette restrizioni preventive di sostanza e dalle altre successive restrizioni derivanti dalla facoltà attribuita dal successivo articolo 118 al Governo centrale di sospendere l’efficacia ed impugnare le norme legislative deliberate dalla Regione.

Di legislazione «esclusiva» può parlarsi, secondo me, solo negli Stati federali riguardo alle materie attribuite dagli Stati membri allo Stato composto, secondo il sistema che cominciò ad attuarsi nella Costituzione degli Stati Uniti d’America del 1787, che è la prima Costituzione federale. Tale sistema fu allora affermato, pur senza adoperare l’espressione di cui ora discutiamo. Questa espressione di «legislazione esclusiva» fu adottata dalla Costituzione di Weimar del 1919, la quale all’articolo 6 dice che il Reich ha, nelle materie ivi indicate, la «legislazione esclusiva» (ausschliessliche Gesetzgebung).

Ora è evidente, a me pare, che per il tipo di legislazione previsto dall’articolo 109 del nostro progetto di Costituzione non possa adoperarsi la qualifica di «esclusiva» adoperata dall’articolo 6 della Costituzione di Weimar.

Senza preoccupazione era stato considerato il secondo tipo di legislazione regionale che io avevo proposto nel progetto originario: la legislazione di integrazione ed attuazione delle leggi dello Stato (sempre per materie tassativamente indicate).

Le preoccupazioni sorsero quando la seconda Sottocommissione ampliò, per scrupolo di precisazione, lo schema da me proposto ed approvato dal Comitato di redazione, passando ad adottare i due tipi di legislazione previsti negli attuali articoli 110 e 111 del progetto.

L’articolo 111, che parla di «legislazione di integrazione ed attuazione», è generalmente accettato.

Fortemente criticato ed oppugnato è invece l’articolo 110, il quale dispone che, per le materie in esso indicate, «la Regione ha potestà di emanare norme legislative nei limiti del precedente articolo (l’art. 109) e con l’osservanza dei principî e delle direttive che la Repubblica ritenga stabilire con legge, allo scopo di una loro (cioè delle materie indicate) disciplina uniforme».

In proposito debbo dire che, se non fui favorevole alla innovazione apportata con questo tipo di legislazione rispetto al sistema del mio progetto, non posso d’altra parte condividere le aspre critiche che sono state fatte all’articolo 110.

Tali critiche derivano principalmente dal fatto che si considera la legislazione ivi prevista come avente carattere di legislazione «concorrente» con quella dello Stato. Io non ritengo esatta questa qualifica.

Legislazione «concorrente» è quella prevista dalla Costituzione di Weimar, la quale, dopo di avere parlato all’articolo 6 del potere legislativo «esclusivo» del Reich, e di essere passata nell’articolo 7 ad occuparsi di un potere legislativo del Reich, non qualificato «esclusivo» su altre materie, aggiunge in seguito, e precisamente all’articolo 12, che fino a quando il Reich non usa del suo potere legislativo rispetto alle materie non attribuite alla sua competenza esclusiva, tale potere può essere esercitato dai singoli Paesi (Länder).

Questa, sì, è legislazione «concorrente», non quella attribuita alla Regione dall’articolo 110 del nostro progetto di Costituzione, che può qualificarsi soltanto «complementare», perché presuppone che ci sia già la legge dello Stato… (Interruzione dell’onorevole Bozzi).

Se lei, caro Bozzi, come magistrato, dovesse applicare questo articolo, finirebbe per dargli il significato al quale io accenno. Comunque, l’Assemblea potrebbe, se ha dubbi, eliminarli con una lieve variante, sostituendo all’espressione della prima parte dell’articolo 110 «…ritenga stabilire» la parola «stabilite». Così si affermerebbe, senza possibilità di equivoci, che la Regione può legiferare quando già esiste una legge dello Stato «con l’osservanza dei principî è delle direttive stabilite con legge dello Stato». Il carattere non «concorrente», ma soltanto «complementare» della legislazione di cui all’articolo 110 sarebbe riaffermato in modo tassativo e tale da eliminare qualsiasi dubbio. Indubbiamente si tratta di una facoltà legislativa che si avvicina a quella prevista dal successivo articolo 111, tanto che parecchi colleghi hanno proposto la fusione dei due articoli.

È stato il punto, questo, più dibattuto nella Sottocommissione, nella Commissione dei settantacinque, nel Comitato dei diciotto. Nel Comitato dei diciotto se ne discuteva ancora su stamane, prima dell’inizio della seduta dell’Assemblea. E forse si arriverà – ce lo auguriamo tutti – a trovare una formula che possa conciliare il maggior numero di consensi.

E andiamo ora all’interferenza del potere centrale sulla legislazione regionale, disciplinata dall’articolo 118 del progetto del quale assumo tutta la responsabilità. Quando formulai quell’articolo, il mio egregio e caro collega onorevole Perassi, pur restando silenzioso, mi guardò male (Ilarità), perché ritenne di vedere compressa l’autonomia della Regione. Si è che tutte le obiezioni, che l’illustre maestro Nitti e gli altri onorevoli colleghi hanno mosso, me le ero fatte anch’io, ed avevo cercato di superarle avvisando ai mezzi di impedire le eventuali possibilità di straripamento da parte delle Regioni. Avevo in proposito proposto ben cinque sistemi diversi.

La Commissione ha prescelto quello che è consacrato nel testo dell’articolo 118, deliberato a grande maggioranza grazie anche alle chiarificazioni avutesi in seguito all’intervento dell’egregio Presidente Ruini. Ebbene, quale è il sistema dell’articolo 118? Quando l’Assemblea regionale ha votato una legge, questa deve essere comunicata al governo centrale, il quale ha la possibilità di rimandarla con le sue osservazioni all’Assemblea regionale. Se questa insiste, la legge non è ancora esecutiva, perché il potere centrale ha la possibilità di impugnarla sia davanti alla Corte costituzionale per motivi di legittimità, sia davanti al Parlamento nazionale per motivi di merito, quando la legge regionale non rispetti l’interesse della Nazione od anche soltanto quello di altre Regioni.

Il progetto inoltre prevede – nessuno ne ha ancora parlato, ma è bene che l’Assemblea lo tenga presente – l’istituzione di un Commissario del Governo nel capoluogo delle Regioni (art. 116). L’articolo 117 instaura un altro istituto a garanzia della vita nazionale, consacrando la facoltà del potere centrale di sciogliere l’Assemblea regionale quando compia atti contrari al principio unitario o gravi violazioni di legge, e quando invitata a procedere alla sostituzione della deputazione regionale che abbia compiuti analoghi atti, non dia corso alla richiesta del Governo. Quindi, sia dal punto di vista legislativo, che da quello amministrativo e politico, i poteri della Regione sono infrenati per impedirne le eventuali esorbitanze.

E veniamo alla questione dell’autonomia finanziaria. Le critiche più aspre sono state dirette anche contro questo punto. Si è detto tra l’altro che il progetto consacra un sistema assolutamente ibrido, pericoloso, e comunque incompleto.

Naturalmente, noi non ci ritenevamo nella possibilità di risolvere il problema anche nei dettagli, e ci siamo quindi limitati a stabilire il principio, cioè a riconoscere l’autonomia finanziaria della Regione, devolvendo ad una legge speciale di natura costituzionale la coordinazione della finanza delle Regioni con quella dello Stato, dei Comuni ed, eventualmente, delle Provincie. È evidente, egregi colleghi, che il contribuente è sempre lo stesso, che i servizi, dei quali lo Stato si sgrava per passarli eventualmente alla Regione o anche alla Provincia, importano delle spese, che quindi debba esserci un passaggio a tali enti di entrate statuali, o che, comunque, debba procedersi da parte dello Stato in favore di essi alla corresponsione delle somme necessarie per l’attuazione degli scopi e dei servizi di cui lo Stato viene sgravato.

Come, egregi colleghi, poteva la Commissione dettagliatamente decidere su questo punto, che si riconnette poi a quella che è la necessaria riforma di tutto il sistema tributario dello Stato? Noi crediamo di essere arrivati alla soluzione più avveduta, devolvendo ad una legge speciale il regolamento di tutta la materia, ma affermando intanto il principio dell’autonomia finanziaria della Regione.

E che dire della critica fatta all’ultimo capoverso dell’articolo 113, nel quale si stabilisce che sono proibiti i dazî di importazione, di esportazione o di transito fra una Regione e l’altra, e che non possono prendersi provvedimenti che ostacolino in qualsiasi modo la libera circolazione da una Regione all’altra delle persone e delle cose? Qui si è evitata la stessa possibilità di costituzione di una circoscrizione economica chiusa. Senonché, da coloro che criticano il sistema della Commissione, ci è stato detto: «Ma il fatto che avete nell’ultimo capoverso dell’articolo 113 previsto un eventuale pericolo, significa che il pericolo può esserci».

No, rispondiamo, giacché con l’articolo 113 noi abbiamo appunto dettato una norma che toglie alla Regione la possibilità e la tentazione di trascendere.

Provincie: non mi intratterrò molto su questo punto, perché l’Assemblea ha sentito ampiamente dibattere la questione. Ho però il dovere di dire che il progetto della Commissione regge alle critiche.

In fondo (qualche collega l’ha detto) c’è qui un grave equivoco in quanto si confonde spesso la provincia come ente autarchico e la provincia come circoscrizione amministrativa statale, la Prefettura. Ora, anche scomparendo l’ente, tutti i servizi attuali che si riferiscono all’esercizio di funzioni governative sono mantenuti (e non potrebbe essere diversamente). Quindi nessun pregiudizio sostanziale ne verrebbe alle popolazioni locali in base al sistema del nostro progetto. La Commissione ha adottato un sistema concordato di convergenza degli opposti punti di vista che sostanzialmente manterrebbe tutte le funzioni che ora la Provincia possiede sia come ente autarchico che come prefettura, ed anzi le aumenterebbe in quanto si prescrive che la Regione esercita normalmente le sue funzioni amministrative a mezzo di uffici nelle circoscrizioni provinciali.

L’articolo 107 deve essere guardato in connessione con l’articolo 120 e col 122.

Noi ci preoccupammo di evitare che la riforma portasse ad un accentramento regionale, e crediamo di aver raggiunto lo scopo giacché con le disposizioni degli articoli succitati sono completamente salvaguardate le esigenze delle popolazioni locali e quelle dei capoluogo di provincia. Vedrà l’Assemblea se è o no il caso di modificare il sistema del progetto in modo da corrispondere meglio allo stato d’animo degli interessati; ma tenga presente che innovando al sistema della Commissione, si apporterebbe un grave spostamento a tutto il sistema del progetto. Mantenere nella Regione l’ente autarchico provincia importerebbe duplicazione di rappresentanza, di bilancio e di spese ed altri inconvenienti, che il sistema del progetto della Commissione elimina, pur mantenendo la circoscrizione provinciale. Il cambiamento del nostro sistema escluderebbe l’esistenza delle piccole Regioni.

Un altro istituto, che, secondo il nostro intendimento, dovrebbe assumere un’importanza fondamentale, è quello del referendum previsto dall’articolo 119. Il primo comma dispone che gli Statuti regionali potranno regolarne l’esercizio in armonia coi principî stabiliti nella Costituzione. Ugualmente per il diritto di iniziativa popolare. Il secondo comma aggiunge che «gli Statuti regionali regolano altresì il referendum su determinati provvedimenti amministrativi». Noi riteniamo che così le popolazioni parteciperanno con un controllo effettivo all’opera dei loro amministratori, anche per quanto riguarda gli impegni di forti spese.

A questo proposito rammento che in Inghilterra mi colpì molto, andando per varii borghi ed esaminando i programmi elettorali per le elezioni amministrative, un ammonimento ed incitamento rivolto agli elettori, che suonava ad un dipresso così: «Domanda al tuo consigliere di contea o di distretto qual è il bilancio, quali le entrate, come vengono spese, quali sono i provvedimenti adottati, ecc.». Non sarebbe proprio male che simili incitamenti si rivolgessero ai nostri elettori. Gioverebbero in definitiva agli amministratori elettivi ed agli impiegati. Riferendomi al costume inglese, rammento inoltre che, se interrogate un qualsiasi impiegato di qualsiasi amministrazione per sapere che cosa succede quando cambia la rappresentanza elettiva, vi sentite rispondere nel modo più sorpreso: «niente». Niente, perché l’impiegato obbedisce alla legge.

A ciò dobbiamo anche noi tendere per attuare la giustizia. Piena libertà dev’essere lasciata, s’intende nell’ambito della legge, agli amministratori, agli impiegati, che non devono subire pressioni ed abusi che si risolvono unicamente in danno delle popolazioni. (Applausi).

Egregi colleghi, debbo avviarmi alla fine. Naturalmente il compito che mi è stato dato era ben grave. Io non so se l’Assemblea vuole che parli ancora.

Voci. Parli! Parli! Ascoltiamo, è interessante.

AMBROSINI. E allora, egregi colleghi, sempre con obiettività e col desiderio di mostrare quale è la soluzione che ci sembra migliore per il Paese e sulla quale voi giudicherete col vostro ingegno e colla vostra coscienza, io vengo ad esaminare le gravi obiezioni di principio che sono state fatte al progetto.

Si è detto da varie parti che mancano precedenti nella legislazione comparata. Qualcuno, come l’onorevole Priolo, ha accennato all’Inghilterra.

Onorevoli colleghi, io non mi dilungherò nell’esaminare le varie legislazioni. Mi basterà riferirmi solo a due paesi. Comincio dalla Unione delle Repubbliche Socialiste Sovietiche. Quando l’onorevole Lussu ne fece cenno, gli fu obiettato che si trattava di grandi formazioni nazionali, che giustificavano quella formazione federativa. Sì, ma ciò non è tutto. La questione s’innesta anche nel contrasto fra Stalin e Trotski, quando si stabili il nuovo regime russo, giacché, mentre la concezione trotschista avrebbe portato all’accentramento o al mantenimento almeno di un unitario complesso politico, quella staliniana propugnava il più largo e profondo decentramento. Fu Stalin che richiese fin dal primo momento la costituzione di uno Stato federalista, e fu egli il primo Commissario per gli affari nazionali, cioè un Ministro per le nazionalità. Ma non si fermò a ciò. Con l’approvazione di Lenin, estese l’applicazione del principio decentralista dell’autonomia alla struttura interna delle singole Repubbliche federate che compongono l’Unione sovietica; le quali singole Repubbliche federate si ripartono a loro volta in successive formazioni politico-territoriali autonome.

Questo sistema è espressamente sancito anche nell’ultima Costituzione sovietica, quella staliniana del 1936, agli articoli 22-29 bis. Ai varî minori enti autonomi esistenti nell’ambito delle Repubbliche federate, quali le Repubbliche autonome, le Regioni autonome e i Distretti, è attribuita una propria rappresentanza nel Soviet delle nazionalità, secondo le prescrizioni dell’articolo 35 della Costituzione. Il sistema autonomistico è così applicato nell’Unione Sovietica fino alle ultime conseguenze possibili.

Per un altro verso, ma non meno interessante, riesce lo studio dell’evoluzione dell’amministrazione locale in Inghilterra. È stato detto da varie parti che in Inghilterra non si è mai parlato di regionalismo. Dico subito che non è così. L’amministrazione locale inglese deriva dalla tradizione storica. Nella antica Contea, per mezzo di concessioni di carte reali, si vennero costituendo della città, dei borghi, delle municipalità aventi singolarmente un proprio status, a seconda delle concessioni fatte dai Sovrani.

Nel 1888 fu operato un vasto riordinamento consistente principalmente in ciò di permettere la elevazione di borghi e di città comprese nella circoscrizione di una contea allo status di contea, rimanendo le contee divise in distretti urbani e rurali, in borghi municipali e in parrocchie.

Questo sistema frastagliato di enti locali, derivanti dalla tradizione, ma irrazionale in rapporto all’evoluzione dei tempi, fece affermare l’esigenza di ricorrere a formazioni territoriali più vaste per l’esercizio di taluni servizi pubblici di importanza fondamentale.

Come fecero per raggiungere lo scopo? Gli inglesi sono pratici, andarono di volta in volta costituendo dei Joint Committees, dei Joint Boards, dei consorzi, diremmo noi, che riunivano i delegati degli interessati di varie Contee, ma sempre per la cura di servizi particolari.

Quali furono gli obiettivi che vennero per primi in considerazione? La questione dei bacini idrici, la questione dei trasporti stradali, la questione dell’elettricità, la questione del drenaggio dei fiumi, la questione della pianificazione delle città, ecc. Venne così manifestandosi e man mano affermandosi un movimento per la nuova sistemazione, in taluni rami, dell’amministrazione locale su base regionale.

Egregi colleghi, io ho portato i libri. Naturalmente non posso leggere, ma li lascio a disposizione di quelli che vogliono controllare quanto dico. Nel libro del Finer sono elencati molti Atti del Parlamento, che prevedono e dispongono la costituzione di organismi del tipo di quelli a cui ho accennato.

Ma dalla coesistenza in una stessa area di vari Committees, chiamati a volte Comitati regionali (si affermò così anche in quel Paese la Regione: non siamo noi che l’abbiamo inventata), sorsero inconvenienti e la necessità che si operasse un coordinamento. Siccome questi singoli Comitati gestivano un solo servizio pubblico ed avevano potere di disporre imposizioni a carico degli utenti, si venne verificando una molesta interferenza delle varie imposizioni.

I Ratepayers cominciarono ad infastidirsi. Onde le richieste di un coordinamento e della fusione dei vari servizi in questione, e la proposta di affidarli ad un solo organo rappresentante degli interessi di tutta la collettività regionale.

Attraverso alle affermazioni empiriche e alla continuata esperienza sorsero le dispute e si iniziarono le discussioni ed i contrasti circa il modo migliore di operare una riforma organica in questa materia.

Si manifestarono specialmente due correnti: una per il mantenimento del sistema dei Comitati speciali, l’altra per la costituzione di una entità regionale.

Il primo sistema, detto delle Special Authorities, presenta il vantaggio tecnico del miglior rendimento ed il vantaggio politico di operare la riforma piece-meal, a pezzi e bocconi, senza suscitare eccessive preoccupazioni e proteste da parte degli enti locali esistenti (proteste simili a quelle da noi avanzate nelle provincie); ma d’altra parte presenta l’inconveniente di disintegrare l’amministrazione, di infastidire i «Ratepayers», e di non consentire la coordinazione dei vari servizi pubblici.

Il secondo sistema, detto delle Regions, diremmo noi della riforma regionale, evita tali inconvenienti, ma è più difficile ad attuare per le resistenze degli enti locali esistenti.

Queste le ragioni pro e contro all’uno o l’altro sistema di riforma, che sono state addotte e dibattute in Inghilterra.

Come vedete, egregi colleghi, si tratta di argomentazioni che si fanno ugualmente da noi. Comunque, mi pare non possa negarsi, che quantunque su basi diverse da quelle da cui parte il nostro progetto di riforma, un movimento regionalista esista anche in Inghilterra.

Debbo aggiungere che il problema è stato trattato anche negli Stati Uniti da Thomas H. Reed, in uno studio pubblicato a Chicago nel 1930 sul governo delle aree metropolitane. Parlando dei varî servizi (sono gli stessi problemi che interessano noi) dice che non è possibile, oggi, considerare in modo separato e distinto i varî servizi. È opportuno riportare un passo citato dal Finer: «I problemi dei varî servizi non possono essere risolti indipendentemente l’uno dall’altro». «Voi (dice il Reed, quasi rivolgendosi agli oppositori) non potete trattare il problema dei trasporti metropolitani, senza occuparvi della pianificazione regionale, della costruzione delle strade principali e del regolamento del traffico. Voi non potete trattare il problema della salute pubblica, senza occuparvi dei problemi della cura dei poveri e del problema della sanità in genere. Qui, adunque, è la ragione reale del governo regionale di carattere generale».

Sono parole testuali, che pare siano state scritte per noi.

Il Reed così continua: «Un tale Governo regionale significa riconoscimento dell’unità, dell’area, cioè della circoscrizione. E ciò non è in contrasto col mantenimento dei governi locali nell’ambito delle unità locali esistenti, che possono continuare ad occuparsi delle materie che non hanno una importanza regionale».

Ora, io vi domando, onorevoli colleghi, se è possibile trovare (e la voce viene dai paesi anglosassoni) delle argomentazioni più calzanti in favore della riforma regionale. Si può esservi contrari, ma non invocando la mancanza di precedenti nella legislazione comparata.

Lo stesso credo debba dirsi circa i riferimenti che sono stati fatti alla tradizione nell’interno del nostro Paese.

Voi già conoscete i precedenti in Italia, voi già conoscete l’idea del Mazzini, il più grande unitario, il creatore del pensiero dell’unità d’Italia. Nel 1831 il Mazzini aveva scritto il noto articolo per l’unità d’Italia, dove lanciava anatemi contro i federalisti. Fu un articolo che rimase incompiuto. Guardatelo, è nel secondo volume degli scritti politici, edizione Imola del 1907. L’articolo dice che l’Italia non poteva essere federale, e che, qualora lo fosse divenuta, sarebbe stata una disgrazia. Critica in modo asprissimo i federalisti, forse andando al di là di quello che quei valentuomini meritavano, e tratta duramente il Sismondi, il quale sicuramente è uno scrittore di grande levatura, e a noi non discaro, avendo rilevato quelle che sono le nostre memorie comunali. Mazzini completò l’articolo trenta anni dopo, sostenendo fra l’altro che fra il Comune e lo Stato vi è la Regione, e indicando i motivi, senza entrare nel campo giuridico, per i quali bisogna crearla, non ultimo quello di garantire la libertà e di spingere gli elementi locali a formare la classe politica.

Dei progetti Farini e Minghetti del 1860-1861 mi occupai nella relazione scritta, e non occorre riparlarne, anche perché ne hanno discusso qui varî colleghi.

È stata creata ora in Sicilia una amministrazione regionale. I componenti di questa amministrazione sono quasi tutti miei allievi, di quando insegnavo a Palermo. Alcuni di essi avrebbero dovuto venire in questa Assemblea, ed avrebbero sicuramente fatto onore a loro stessi ed al paese natio; ma io penso che sia bene che siano rimasti lì, perché qui avrebbero indirizzato il loro ingegno e le loro fatiche alle questioni di indole generale, ed avrebbero perduto il contatto con i problemi che nascono e si sviluppano nella stessa località, che si raggruppano in modo omogeneo nella Regione. Il mio cuore di maestro, che li ha seguiti con animo trepido, ora gioisce nel vedere che immediatamente hanno affrontato i problemi concreti della Sicilia, con slancio, serietà e senso di responsabilità, che li porterà certamente al successo. Per questa loro nobile fatica formulo i voti più fervidi nell’interesse dell’Isola.

Rispondo ora ad un’altra obiezione, avanzata da varie parti contro la riforma: il mondo moderno tende alla costituzione di grandi unità economiche e politiche. Indubbiamente. Ci sarà da dire se questo è bene o è male; forse sarà più male che bene, ma nessun uomo, per quanto di genio, e nessun popolo può arrestare il fatale andare delle cose.

Appunto per questo, che noi non possiamo estraniarci dalla corrente mondiale, sarebbe stolto, pur seguendo questa tendenza e pur cercando di metterci sulla direttiva del raggiungimento di scopi unitari dal punto di vista economico e politico, appunto per questo, noi dobbiamo rimanere sgomenti di fronte al terribile potere che gli organi centrali di questi complessi unitari sempre più vasti verrebbero ad assumere. Perché noi, o signori, non vogliamo diventare delle macchine che più non pensano; né vogliamo, anche se il nostro pane quotidiano aumentasse di un po’, perdere in cambio la nostra iniziativa e la nostra libertà; noi vogliamo servire quegli scopi unitari, ma ci domandiamo se, appunto per ciò, non sia necessario ed opportuno di guardare ai mezzi più idonei per perseguire quegli stessi scopi.

Ebbene, il decentramento e l’autonomia, a nostro modo di vedere, costituiscono uno degli strumenti più idonei perché, mentre non ci estraniamo da questo sistema unitario generale, ci danno la possibilità di un libero movimento delle nostre energie, e ci dànno il coraggio, ci dànno la speranza, ci dànno la gioia di vivere la nostra vita, di vederla regolata, per quanto è possibile, da noi stessi.

Appunto perché c’è questa tendenza innegabile alla formazione delle grandi unità politico-territoriali, noi abbiamo la necessità di guardare ai mezzi che possono evitare i mali più gravi che derivano da questo fenomeno che nessuno può arrestare.

Onorevoli colleghi, non posso non dire una parola circa i pretesi mali che si dice verrebbero al Mezzogiorno d’Italia. È questo un problema che abbiamo riguardato da italiani. Ma è pur certo però che noi isolani, noi meridionali, siamo ben solleciti degli interessi della nostra terra. Di fronte pertanto all’obiezione che l’innovazione possa ferire gli interessi della nostra terra, noi siamo rimasti in un primo momento sgomenti. Io vi parlo sempre con onestà; io ho il dovere di parlare così.

Ma aggiungo anche che la prima impressione deve essere sempre sostituita dal ponderato ragionamento, da quello che è l’esame delle obiezioni e delle controbiezioni. Ebbene, egregi colleghi, il problema del Mezzogiorno si discute da decine d’anni: non è stato risolto.

Io non ho mai invelenito né mai dirò parola che possa acuire il contrasto. Mi limiterò qui a parlare a nome mio, assolutamente personale, come se fossi io solo ad aver sofferto della situazione. Ora io vi dico che leggi in favore del Mezzogiorno ci sono state, ma non sono state attuate, e la colpa è stata del potere centrale e nostra, anche nostra.

Perché? Vi dirò: due o tre mesi or sono, in una riunione per un’industria meridionale, di fronte all’esame della grave situazione, un nostro egregio collega, l’onorevole Cartia, ci venne a dire: «Ma come? Nel bilancio dello Stato c’è ancora un miliardo, o una frazione di esso, non attribuito, per sussidiare le industrie». Osservai io allora: «Ma come mai non è stata avanzata alcuna richiesta?». Vi fu qualcuno che rispose: «Quasi non lo si sapeva».

Ma questo avveniva anche, rammento, al tempo della mia giovinezza. Io ero allora segretario al Ministero della Giustizia. Nei paesi della mia provincia c’erano edifici di scuole elementari da far vergogna. Ebbene, i miei colleghi del Ministero della pubblica istruzione mi dicevano: «Provvederemo; il Ministero ha i fondi ed ha approntato anche i piani degli edifici». Ma gli edifici scolastici della mia provincia, almeno in molti paesi, sono ancora quelli che erano allora. Molti fatti consimili potrebbero citarsi per denotare le manchevolezze delle stesse amministrazioni locali.

Si è che il sistema dell’accentramento aveva talmente depresso le energie locali, che queste rimanevano talvolta inattive e finivano per non usufruire delle provvidenze legislative esistenti, aspettando tutto dall’alto. Ciò deve finire.

Vengo alla conclusione. Questa riforma metterà noi e i nostri rappresentanti nelle regioni con le spalle al muro (Applausi al centro e alla destra); questa riforma darà loro la responsabilità grave di dover esaminare i problemi concreti, di doverli affrontare e risolvere. E badate, qui si deve fare una osservazione di indole più generale. Eccola: noi rappresentanti del popolo in questa grande Assemblea, possiamo elaborare leggi buone o cattive, ma, quando la seduta è finita e la Assemblea è sciolta, nessuno ne ha la responsabilità personale, e il popolo impreca o mormora contro tutti in generale, contro l’istituzione. Ma un’Assemblea regionale, sia pure la più numerosa, è sempre composta da un numero limitato di persone. Quei rappresentanti non potranno sfuggire alle loro responsabilità; essi conoscono gli interessi del paese; essi possono osservare quotidianamente quali sono i mezzi migliori per risolvere i problemi, ma debbono assumere la responsabilità della soluzione. E se la soluzione è cattiva, essi, che restano a vivere nelle loro città o nei loro paesi, saranno riguardati dalla popolazione con ammirazione o con sfiducia, e sentiranno che la loro responsabilità è più profonda e più grave, ed assume un carattere più personale e continuativo; essi avranno sempre l’approvazione o la disapprovazione dei loro cittadini. Ci sarà veramente la gara per far bene e per impiegare nel modo più redditizio e adeguato le proprie energie.

Egregi colleghi, ho finito. Concludo con la stessa affermazione che ho fatto in principio: noi della Commissione abbiamo riguardato il problema dal punto di vista assolutamente nazionale, senza preoccupazioni particolaristiche, al di sopra degli stessi interessi regionali; e abbiamo configurato ed elaborato un progetto di riforma che, potenziando la Regione, secondo il nostro intendimento, deve servire a potenziare la Nazione in generale; deve servire a far confluire tutte queste energie, che spesso sono abbandonate e latenti, verso la risoluzione dei singoli problemi locali; perché dalla risoluzione di questi problemi verrà la soluzione del problema nazionale, e verrà la risurrezione e il progresso del Paese. Questo nostro Paese di lavoratori, malgrado il rovescio subito, ha diritto al rispetto del mondo e deve avere un ordinamento che sia degno della sua grandezza. (Vivissimi, prolungati applausi Moltissime congratulazioni).

PRESIDENTE. Onorevoli colleghi, si tratterebbe ora di passare alla votazione degli ordini del giorno, ma stante l’ora tarda ritengo che sia opportuno rinviare alla prossima seduta l’inizio di questo momento importante dei nostri lavori.

BOZZI. Chiedo di parlare.

PRESIDENTE. Ne ha facoltà.

BOZZI. Vorrei proporre all’Assemblea di iniziare la votazione degli ordini del giorno non domani, ma dopodomani, e ciò per guadagnare tempo, in certo senso, perché – come ella sa, onorevole Presidente, e come può attestare il Presidente del Comitato di redazione – sono in corso intese e scambi di punti di vista che, dopo la lucida e perspicua relazione dell’onorevole Ambrosini, si rendono quanto mai indispensabili, al fine di vedere se si può trovare una linea d’intesa. Il voto di un ordine del giorno di carattere pregiudiziale è influenzato dalla linea di intesa che si potrà raggiungere o no durante i contatti e gli scambi di vedute. Ora, quindi, credo che se l’Assemblea soprassedesse di un giorno si farebbe cosa utile per l’esame del sistema di norme che andiamo ad esaminare. Propongo quindi che l’inizio della votazione abbia luogo giovedì alle 10.

PRESIDENTE. Onorevole Bozzi, io non avevo ancor detto che la votazione si iniziasse domani! Mi permetta tuttavia, onorevole Bozzi, di dire ai colleghi che mezz’ora fa lei si sarebbe accontentato che non si votasse oggi, ma domani; avendo visto il mio atteggiamento favorevole a votare domani, ella ha ora raddoppiato la sua richiesta domandando di differire a giovedì. (Si ride). Comunque, penso che non sia necessario insistere su questo. Oggi nel pomeriggio decideremo, anche in relazione al grado di maturazione raggiunto dai contatti e dagli accordi che si stanno prendendo. Io sarei lieto se nel pomeriggio si potesse dire di procedere alla votazione domani.

La seduta termina alle 12.20.