Come nasce la Costituzione

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SABATO 31 MAGGIO 1947

ASSEMBLEA COSTITUENTE

cxxxv.

SEDUTA DI SABATO 31 MAGGIO 1947

PRESIDENZA DEL VICEPRESIDENTE CONTI

INDICE

Congedi:

Presidente                                                                                                        

Domanda di autorizzazione a procedere in giudizio:

Presidente                                                                                                        

Progetto di Costituzione della Repubblica italiana (Seguito della discussione):

Presidente                                                                                                        

Bordon                                                                                                             

Pignatari                                                                                                         

Grazi                                                                                                                

Lussu                                                                                                                

La seduta comincia alle 9.10.

DE VITA, Segretario, legge il processo verbale della seduta antimeridiana del 14 maggio.

(È approvato).

Congedi.

PRESIDENTE. Comunico che hanno chiesto congedo i deputati Cairo, Ghidini e Rubilli.

(Sono concessi).

Autorizzazione a procedere.

PRESIDENTE. Comunico che il Ministro di grazia e giustizia ha trasmesso una domanda di autorizzazione a procedere in giudizio contro Angelo De Giglio, per il delitto di cui all’articolo 290 del Codice penale (vilipendio delle istituzioni costituzionali).

Sarà inviata alla Commissione competente.

Seguito della discussione del progetto di Costituzione della Repubblica italiana.

PRESIDENTE. L’ordine del giorno reca il seguito della discussione del progetto di Costituzione della Repubblica italiana.

Riprendiamo la discussione generale sul Titolo V relativo alle regioni.

È iscritto a parlare l’onorevole Bordon. Ne ha facoltà.

BORDON. Onorevoli colleghi.

Come la discussione svoltasi fin qui sembra aver dimostrato, il progetto di autonomia ha contro di sé due nemici: la prevenzione e la retorica.

Una certa prevenzione può essere in qualche modo giustificata: si tratta d’una riforma importante, profondamente innovatrice: si parla di un salto nel buio, si ha paura del nuovo.

Vi sono, anzi, colleghi che si spaventano persino della nomenclatura del progetto. Mi pare che non più tardi di ieri un collega, che è pure avvocato, diceva da questi banchi: «Ma la regione farà concorrenza allo Stato in materia legislativa…».

Il secondo nemico, la retorica, dovrebbe essere ancora meno preoccupante, perché si tratta di retorica che ha fatto ormai il suo tempo. Già, quando questa riforma era stata portata alla ribalta della vita parlamentare, per la prima volta, i suoi avversari dicevano: badate, voi disgregate l’unità nazionale…

Era retorica che ha tambureggiato per molti anni, perché vi era chi aveva interesse di farlo: la monarchia non sapeva dir altro, perché essa non sentiva i bisogni del popolo, essendo questa nostra riforma squisitamente democratica.

Fin dall’indomani però dell’unificazione vi furono uomini, che pur essendo stati unitarî, avevano avvertito la necessità della regione.

Cavour stesso, nella sua grande e illuminata coscienza, fu l’inspiratore del progetto Minghetti, che, non a caso, venne discusso dopo la sua morte. Non è vano ricordare, che nella tornata del 28 giugno 1860 il Minghetti non esitava di dichiarare che «la centralità francese è un prodotto della storia di quel Paese, mentre la storia d’Italia sembra indicarci un andamento diverso e sembra farci preferire il sistema del decentramento amministrativo, che porta il grandissimo vantaggio di essere più favorevole alla libertà».

Facendo eco a tali parole, da parte sua, il Farini, quale membro della Commissione costituita il 24 giugno 1860 per l’esame di tale progetto, si domandava: «Non dovremmo conoscere che le Provincie italiane si aggruppano naturalmente e storicamente fra loro in altri centri più vasti ed hanno avuto ed hanno tutt’ora ragione di esistere nell’organizzazione italiana? Questi centri possiedono notevolissime tradizioni fondate su varie condizioni naturali e civili. La politica italiana fra i Comuni e le Repubbliche del Medioevo ha trovato in essi una precisa forma e disciplina di Stato: la stretta colleganza politica e sociale ha portato particolari risultamenti di civiltà che ad ognuno sono cari e preziosi. Al di sopra della provincia e al di sotto dello Stato, io penso che si debba tener conto di quei centri, i quali rappresentano quelle antiche autonomie, che fecero sì nobile omaggio di sé all’unità della nazione».

Ma, oltre i suddetti, altri grandi spiriti del nostro Risorgimento hanno scritto pagine memorabili in questo campo.

L’unità nazionale non poteva consistere soltanto nell’unità territoriale e tanto meno nell’unità amministrativa, in un Paese come il nostro, così diverso da regione a regione.

Non contrario al regionalismo era pure Giuseppe Mazzini, che, nella sua opera: «L’unità italiana», vagheggiava la creazione di 12 regioni.

Federalista era Cattaneo, le cui parole e il cui pensiero hanno oggi la grandezza di una divinazione profetica.

Così infine Garibaldi stesso.

Trovandosi egli a Napoli, in una circostanza, in cui vi si trovava pure Carlo Cattaneo, egli chiese a Mario Alberto: «Come un tant’uomo è federalista ed è così fiero avversario dell’unità?». «È unitario, gli rispose l’Alberto, in quanto vuole in mano del governo nazionale gli interessi generali, è federalista in quanto vuole in mano dei governi regionali tutti gli interessi regionali, locali e particolari». «Allora, non possiamo che trovarci d’accordo», rispose Garibaldi, e nessuno dimentica che egli, prima di morire, scrisse da Caprera: «Io sono federalista».

Ma onorevoli colleghi, l’unità nazionale intesa nel vero senso della parola, quale noi la intendiamo, esula completamente dal problema in esame, come del resto è ammesso da non pochi dei nostri avversari stessi.

Il Vitta, autore di un pregevole scritto sul regionalismo, dice a pag. 130: «Che se poi si desidera la mia opinione dal lato politico, qualunque valore essa possa avere, io dichiaro francamente che un pericolo per l’unità nazionale, come introduzione del regionalismo non mi sembra serio. E non è quindi sotto questo aspetto che il regionalismo può essere avversato. Ben s’intende che, in fatto di unità, tutto ciò che sapeva di ricordo delle antiche separazioni, poteva portare il sospetto così forte da essere anzi senz’altro scartato, ma dopo un esempio tanto evidente di vita unitaria, quando ad esempio scrivevano il Bartolini e il Saredo, il pericolo si era già grandemente attenuato ed oggi appare secondo me del tutto scomparso. Oltre mezzo secolo d’esistenza dello Stato italiano, la prova vittoriosa che esso ha subito, l’affratellamento delle genti che lo compongono, dimostrato nell’ultima guerra lunga ed aspra, rendono tranquilli. Le istituzioni unitarie non sono suscettibili di alcuna minaccia e qualunque riforma, anche la più ardita, non ne scuoterebbe le sicurissime basi».

È un avversario del regionalismo che parla.

Dopo questo, possiamo dunque, onorevoli colleghi, procedere oltre. Noi autonomisti convinti, che vediamo nel problema dell’autonomia non un problema di semplice amministrazione, ma un problema di libertà e di democrazia, siamo in buona compagnia.

L’unità nazionale che noi vogliamo è un’unità nazionale fondata sul rispetto e sullo spirito di tutti i popoli, sul diritto delle minoranze e sulla fusione democratica di tutti gli italiani.

L’onorevole Nobile (il quale attraverso tutti i lavori della Commissione si è mostrato più realista del re) è venuto nel suo ultimo discorso a queste conclusioni: egli ammette che un decentramento, dopo tutto, è necessario. È tempo di liberarsi da questa struttura che soffoca il Paese, che mette gli uni contro gli altri, che lascia tutti scontenti. Anche in base a questa ammissione sintomatica, si deve convenire che il clima storico, che ci ha dato la Repubblica, deve darci l’altra riforma, quella dell’ordinamento regionale, perché essa è riforma di progresso e di democrazia. (Approvazioni).

Né essa può spaventare alcuno, poiché se fosse da alcuni avversata in quanto ritenuta federalista, la verità è che una tale valutazione sarebbe errata.

Penso che la nuova struttura dello Stato, sull’esempio di quella Svizzera, avrebbe dovuto improntarsi al principio federalista ma la maggioranza del Comitato dei dieci e della seconda Sottocommissione, come risulta dai verbali dei lavori, si pronunciò contro l’idea federalista.

Le vostre preoccupazioni sono pertanto fuori di posto.

Nel progetto in esame non soltanto è rigettata l’idea federalista, ma purtroppo anche quella d’una vera autonomia. Non si può parlare di autonomia, svuotandola della libertà, che ne è l’anima.

Che non si tratti di una struttura federalista basta tener presente le linee del progetto, raffrontandole con gli insegnamenti della dottrina sul regionalismo.

A pagina 11 del suo libro succitato, il Vitta scrive: «Nella realtà pratica si vede che si sono tradotte tre gradazioni dell’idea regionalistica.

«Vi è la estrinsecazione più forte, più caratteristica e radicale del regionalismo, che si manifesta nello Stato federale, come in Germania, Svizzera, Nord America e Brasile; qui ad un ente superiore sono riservate soltanto talune fra le attribuzioni che ha altrove lo Stato italiano, cioè quelle essenziali alla difesa della società in ispecie dai nemici esterni e la legislazione in talune fondamentali materie di diritto pubblico o privato, mentre le altre funzioni, per quanto sempre in minor numero, restano di spettanza dei singoli stati in esso incardinati.

«Vi è una forma intermedia, transeunte di regionalismo, come era nell’ex Impero di Austria: essa consiste nel riconoscere a taluni enti, che sono del resto il rimasuglio di antichi Stati e che tornano spesso col tempo a formare nuovi enti (come ad esempio la Boemia), qualcuna delle attribuzioni, come l’intervento nella legislazione, che si trovano altrove esercitate dallo stato unitario: a codesti enti, in cotesto stadio di ordinamento, non si dà più il nome di stati, ma sibbene di minori persone di diritto pubblico, per quanto abbiano talune note che in parte li fanno ancora somigliare agli antichi stati.

«Vi è infine la forma più tenue del regionalismo, come è attribuita in Prussia, laddove la regione, perduto ogni vestigio statale, ogni ingerenza legislativa, è l’ente destinato dallo stato unitario a funzioni amministrative».

Dunque, secondo questi insegnamenti, delle tre gradazioni, in cui l’idea regionalista può concretarsi, solo la prima è federalista ed anzi, stando alla dottrina del Rehm, neppure questa.

«Taluno, dice il Vitta, riferendosi alla teoria del Rehm, ritiene che lo Stato per essere degno di quel nome debba avere non solo poteri suoi proprî, non da altri attribuitigli, ma bensì anche sovrani, cioè ad altri poteri non sottoposti, in sostanza lo Stato è sovrano oppure non esiste».

Sulla scorta di questi principî, a quali di queste tre forme risponde la riforma regionalista adottata dal progetto?

Alla prima, a quella federalista (che secondo il Rehm neppure sarebbe tale)? Evidentemente no, poiché se fosse la struttura federalista quella adottata, occorrerebbe che la regione venisse eretta a dignità di Stato, con poteri suoi propri, non da altri attribuiti, che essa non fosse sottoposta ad alcun altro potere e che in conclusione essa avesse piena sovranità.

Ora come potrebbe essere sovrana una regione, sottomessa al controllo del potere centrale, che trae i suoi poteri dallo Stato, che ha poteri normativi delegati, che, anche per le materie di legislazione primaria, deriva questa facoltà non dalla sovranità propria, ma dalla sovranità dello Stato e tale facoltà non può esercitare se non nei limiti e modi fissati dalla Costituzione?

Questi interrogativi bastano a dimostrare come sia assurdo parlare di un regionalismo federale.

A nessuno potrebbe venire in mente, in base al progetto in esame, di sostenere che la regione sia un ente sovrano.

Risponde esso alla seconda formula, cioè a quella intermedia, transeunte, in cui perduto ogni vestigio statale, la regione non è che una minore persona di diritto pubblico, che conserverebbe però ancora note particolari da farla assomigliare agli antichi Stati?

La risposta non sembra possa essere che negativa anche per questa forma intermedia, poiché alle regioni che si creerebbero, la Costituzione non conferirebbe affatto tali note particolari.

La risposta non può essere dunque affermativa che per la terza forma, per cui non solo, secondo il Rehm, il regionalismo che si creerebbe non sarebbe mai federalismo, ma la struttura progettata non assumerebbe in pratica che il valore di un decentramento autarchico.

Questi rilievi bastano a fugare tutti i fantasmi che si sono voluti drizzare contro il progetto.

Da cui si spiega perfettamente perché anche l’onorevole Einaudi non siasi sentito di pronunciarsi contro la riforma. Egli affermò di non essere contrario al principio regionista ed io mi auguro che egli non si fermi a metà strada.

Qualcuno ha interpretato erroneamente il suo pensiero, affermando che egli avrebbe additato gli articoli 110 e 111 del progetto come fonte di pericoli per l’unità nazionale, confondendo questa con l’unità dell’economia nazionale, il che è altra cosa. Ma anche sul terreno dell’economia nazionale, nessuno intende ledere siffatto principio, purché esso non serva semplicemente a mascherare privilegi privati o monopoli di società capitalistiche.

Voci. Bene, bravo!

BORDON. A questo punto si pone un quesito; l’ordinamento regionale dovrebbe essere uniforme per tutte le regioni? Evidentemente no, poiché esso non può non tenere conto delle singole condizioni locali ed in modo diverso deve essere congegnato quello spettante alle regioni che rappresentano peculiari etniche linguistiche geografiche inconfondibili.

Sarebbe un errore considerare tutte le autonomie alla stessa stregua, poiché vi sono autonomie ed autonomie.

Vi sono autonomie che sono profondamente sentite ed altre che non lo sono affatto. L’onorevole Gullo, per esempio, contesta che esse abbiano fondamento nel mezzogiorno. Per contro sarebbe negare la realtà disconoscere che vi siano regioni particolari, in cui le radici dell’autonomia sono radicate nel sottosuolo stesso della loro storia, zone in cui l’autonomia è nell’intima coscienza della popolazione, in cui l’autonomia è sempre stata un diritto vissuto, affermato e praticato attraverso tutti i secoli, zone in cui l’autonomia è sentita come un bisogno di libertà insopprimibile, che si identifica con la lotta stessa da esse combattuta per rispetto di questo sacrosanto diritto.

Prima, fra tali regioni, è la Valle d’Aosta, di cui tanto si è parlato, a torto e a traverso.

Sono stato tra i primi, fin dal periodo cospirativo, quale membro del Comitato di liberazione nazionale clandestino, a difendere la sua autonomia, che è una condizione di vita per essa, date le sue condizioni speciali, ma la nostra autonomia – e voglio dirlo ben chiaro da questo seggio – non ha mai avuto né ha nulla di comune né col separatismo, né con altre forme sacrileghe. (Approvazioni).

L’onorevole Nitti diceva un giorno in quest’aula che, nel suo esilio, aveva appreso come a Parigi si stampasse da un prete un giornale: La Vallèe d’Aoste, col quale veniva fatta una propaganda sistematica contro l’Italia.

Ma l’autonomia della Valle d’Aosta non ha nulla a che fare con tale giornale e se è vero che la sua campagna è condotta da un prete, anzi da due preti, sarebbe un errore identificare con costoro la maggioranza stessa del clero valdostano.

L’onorevole Nitti non conosce la Val d’Aosta: se egli la conoscesse, non confonderebbe, la nostra autonomia, con alcun movimento annessionista o separatista.

Noi autonomisti non ci confondiamo con quei signori, di cui ha parlato l’onorevole Nitti.

Noi difendiamo i nostri diritti sacrosanti di libertà e rigettiamo, con disprezzo, lontano da noi tutto ciò che non risponde a questi nostri sentimenti chiari e onesti.

La storia della Valle d’Aosta non è conosciuta da molti di voi che per sentito dire.

Esso è un piccolo popolo che in tutti i tempi ha lottato sempre strenuamente per la sua libertà e indipendenza.

La sua libertà è la sua vita.

Mai essa, attraverso tutta la sua storia, si piegò di fronte ad alcuno e anche quando col Vaud, con Nizza, con la Savoia, col Piemonte, accettò volontariamente la protezione della casa Savoia, essa ne dettò però le condizioni.

Fin dal 1161 ha la sua carta di libertà, negoziata fra il vescovo di Aosta e il conte Tomaso I e tale carta viene rinnovata e rispettata per sette secoli, fino a che fu violata dalla Casa Savoia stessa.

Fin dal secolo XII essa crea i suoi ordinamenti, ha il suo «Consiglio Generale di Tre Stati», il suo «Conseil des Commis», che provvedono saggiamente al suo governo.

Tale è la sua indipendenza e la sua autonomia che il 4 aprile 1537, piccola ma indomita, difende la sua libertà e stringe con la Francia un trattato di neutralità, in virtù del quale non temerà di tener fronte a tutti.

«Le clauses en sont – dice l’abate Henry, nella sua storia sulla Valle d’Aosta – que les français ne rentreront point dans la vallèe».

Difatti quando Francesco I re di Francia, farà chiedere alla Valle d’Aosta di passare con le sue truppe, la Valle non esiterà di respingere la sua domanda.

Quando nel 1554 Enrico II, re di Francia, rinnoverà il tentativo, esso avrà lo stesso esito del primo.

I patti non si violano, per questo grande popolo annidato come un’aquila fra le sue montagne superbe, che sono la sua forza e la sua gloria. Nulla le è più caro che la sua libertà ed esso la difenderà sempre in tutti i secoli «ch’a cousta lon ch’a cousta».

Ne è prova anche il responso del 2 giugno: a grande maggioranza il suo voto fu per la Repubblica. La Valle d’Aosta libera, democratica ed antifascista non può volere che un’Italia del popolo.

Difendendo la sua autonomia, non difende solo le sue tradizioni, la sua civiltà, la sua storia, ma altresì la sua individualità etnica, linguistica, geografica, giuridica, economica e culturale.

Per questi riflessi provvide furono le leggi del 7 settembre 1945 colle quali venne ad essa riconosciuto il diritto di autonomia, che le spetta in virtù delle sue particolari condizioni, e il diritto di zona franca.

Due anni sono quasi trascorsi da allora, e di fronte a coloro che l’attuale riforma vedono con perplessità, voglio dire qui una parola rassicuratrice di fiducia e di esperienza.

In base all’autonomia riconosciutale, la Valle d’Aosta ha oggi una amministrazione libera, un autogoverno democratico, che non mancherà di rispondere ancora meglio alle sue esigenze, quando al suo diritto acquisito saranno date quelle maggiori potestà che sono necessarie per l’esercizio di una vera autonomia e per l’applicazione dei diritti, che sono ad essa connessi.

Per tali considerazioni, l’ordine del giorno del compagno Nobili Oro, nel quale si chiede lo stralcio, dal progetto di Costituzione, dell’ordinamento regionale sino ad esito del risultato delle autonomie concesse, diventa perfettamente ozioso.

L’esperienza affermativa dei due anni già trascorsi per la Valle d’Aosta, è decisiva al riguardo, per cui non v’è ragione che la riforma debba essere oltre rimandata.

Per questi riflessi, onorevoli colleghi, vi domando di dare il vostro consenso alla riforma, come vi domando, quando vi sarà sottoposto nelle prossime sedute, di approvare l’articolo 108 del progetto, che consacra e garantisce costituzionalmente i particolari diritti della Valle, che ho l’onore di rappresentare.

Farete in tal modo opera saggia ed illuminata, di cui la Valle d’Aosta, la terra dei nostri eroici alpini, è ben meritevole e degna, per i sacrifizi che generosamente essa ha fatto sempre in ogni tempo verso la Madre Patria. (Applausi Congratulazioni).

PRESIDENTE. È iscritto a parlare l’onorevole Pignatari. Ne ha facoltà.

PIGNATARI. Onorevoli colleghi, uno Stato veramente democratico deve essere soprattutto uno Stato anti-demagogico. Ma non mi sembra, purtroppo, che i partiti politici, nessuno escluso, e la stessa nostra Assemblea dimostrino di voler estirpare del tutto dalla vita nazionale questo pericoloso bacillo, che può minare la vita della democrazia, e con essa la stessa vita e l’unità della Patria.

Ma, intendiamoci: quando parlo di demagogia, non intendo riferirmi al concetto che se ne ha volgarmente, di promesse mirabolanti fatte con la consapevolezza di non poterle mantenere. Questa è una forma deteriore da cui rifuggono – ne sono sicuro – tutti i componenti della nostra Assemblea, anche quando, portati forse dal loro entusiasmo, vedono nel nuovo ordinamento regionale la panacea per tutti i mali e la soluzione quasi automatica di quei problemi del Mezzogiorno, di quella questione meridionale di cui si parla ormai da tre quarti di secolo, ma che non è stata mai organicamente e seriamente affrontata dai governi accentratori del nostro Paese, e di cui guerre e calamità hanno impedito la soluzione, anche quando si erano create le condizioni obiettive, oltre che morali e psicologiche, che ne avrebbero permesso la soluzione.

La demagogia più pericolosa consiste nel porre sul tappeto dei problemi che non sono sentiti dalla coscienza nazionale e la cui soluzione è o difficile o controproducente, principalmente per le conseguenze e per le reazioni che ne possono derivare.

Ora, io esaminerò il problema dell’ordinamento regionale esclusivamente come uomo del Mezzogiorno d’Italia, di questa nostra terra che si trova purtroppo in una situazione di inferiorità per la mancanza di vie di comunicazione, per la mancanza di assistenza igienica e sanitaria, per i suoi torrenti che straripano senza che si provveda ad arginarli e a bonificare le terre, per lo stato primordiale in cui vive la sua agricoltura, per l’analfabetismo, per la mancanza di scuole professionali. E se si tengano presenti le condizioni in cui vivono principalmente i nostri contadini, che rappresentano la grande maggioranza della popolazione meridionale, se si tenga presente che essi vivono ancora in capanne o in stamberghe che dovrebbero far vergogna alla civiltà umana, se si tenga presente d’altra parte lo spirito laborioso di queste popolazioni (qualcuno ha accennato in quest’Aula ad una forma di apatia e ad una mancanza di laboriosità: orbene, i contadini del Mezzogiorno d’Italia sono dei lavoratori che non temono con alcun altro il confronto!); ebbene, si deve soltanto a questo spirito di laboriosità, si deve soltanto a questo spirito di sacrificio se essi coltivano ancora una terra infeconda vivendo, come ho detto, in capanne o in stamberghe, nutrendosi soltanto di cereali e di verdura!

Ebbene, fra le loro capanne, fra le loro stamberghe troneggia il castello semidistrutto o riattato dal borghese arricchito, simbolo di una feudalità che non è ancora scomparsa! Al vecchio feudatario si è sostituito ieri il podestà e il segretario politico. C’è il pericolo oggi che vi si sostituisca il sindaco o il deputato alla rappresentanza provinciale.

Perché, onorevoli colleghi, allorquando si è voluto indagare sulle cause che hanno ridotto il nostro Mezzogiorno d’Italia in una situazione d’inferiorità di fronte alle altre regioni d’Italia, si è stati forse esclusivisti e si è voluto guardare da un lato solo il problema: la classe dirigente, contro la quale giustamente lanciava i suoi strali l’onorevole Gullo. Sì, la classe dirigente ha le sue colpe: la clientela è uno dei mali dell’Italia meridionale. Questa classe dirigente che, secondo quanto scriveva Dorso, ha creduto di risolvere il suo problema sociale col contratto di fitto quando si è tramutata in una borghesia terriera; questa classe dirigente che non partecipa alla direzione e alla conduzione della terra, che è formata in gran parte o di quei cosiddetti galantuomini (che non sono i gentiluomini di campagna) che vivono nell’ozio e nell’ignavia, o dei grandi proprietari terrieri assenteisti che vivono nelle città e conoscono i loro fondi soltanto per poterne esigere le rendite.

Certo, a questa classe dirigente risale in parte la colpa delle condizioni di inferiorità in cui si trova il Mezzogiorno d’Italia.

Altri ha voluto ricercarne le cause nello accentramento statale. Vi è certo bisogno di un largo e radicale decentramento. Ma a questo decentramento bisogna concorrere coi fatti, non bisogna soltanto invocarlo a parole. Noi abbiamo degli organi di decentramento. Abbiamo, per esempio, un Provveditorato alle opere pubbliche. Ora, non v’è cosa più pericolosa, specialmente nel Mezzogiorno d’Italia, che voler creare delle illusioni.

Nella mia povera terra, nella terra di Basilicata, si fece un programma seducente: sette miliardi dovevano essere spesi per i lavori pubblici. Fu un’euforia: ogni comune presentava i suoi progetti; e si parlava di bonifiche, si parlava di costruzione di edifici scolastici, di arginature di torrenti, di consolidamento degli abitati. Poi i sette miliardi per i quali tanti programmi di utilizzazione erano stati stesi, si ridussero a qualche centinaio di milioni e, quel che è peggio, il programma redatto dal Provveditorato per le opere pubbliche, che teneva presenti le reali necessità e le più urgenti esigenze della regione, fu invece manipolato dal centralismo governativo. Si è così assistito a questo: una nostra cittadina, Venosa, nota non fosse altro che per essere stata patria di Orazio, aveva con stenti e sacrifici costruito un ospedale. Mancavano cinque milioni per poterlo ultimare, e cinquantamila cittadini avrebbero finalmente ottenuto il nosocomio che rispondeva alle loro esigenze. Ebbene, onorevoli colleghi, non voglio dire che sia stato per ragioni politiche o per influenza di Tizio o di Caio; ma il fatto è che i cinque milioni non sono stati dati a Venosa, che aspetta ancora il suo ospedale.

Parlo del centralismo che, siamo d’accordo, è la rovina d’Italia, che è stata una delle cause maggiori delle tristi condizioni nelle quali si trova il nostro Mezzogiorno; ma che non è l’unica causa; né si creda che abolendo i prefetti verranno meno le clientele. Il male è molto più profondo, il male è alla radice. Bisogna anzi riconoscere che molte volte il prefetto è un elemento moderatore, perché si trova al di fuori delle consorterie locali. Quando saranno istituiti i parlamenti regionali con gli ampî poteri che saranno loro dati, il fiore oscuro della clientela vegeterà non più nell’ombra, ma fiorirà alla luce del sole.

Per andare alle cause della depressione del Mezzogiorno d’Italia bisogna farne l’esame da un punto di vista economico, da un punto di vista sociale e da un punto di vista politico.

Dopo la formazione dell’unità d’Italia, quante speranze non sorsero, quante speranze non si ravvivarono! E non si chiedeva molto. Sarebbe stata sufficiente una rete di strade che avesse unito fra loro i vari centri della regione; un rinnovamento della cultura, una educazione popolare. Ma una prima maledizione cadde sul Mezzogiorno d’Italia: il brigantaggio, le cui conseguenze furono deleterie, perché attorno a questi ribelli e fuori legge si riunirono tutte le consorterie politiche che avevano dominato sotto il regime borbonico; e per dieci anni la vita del Mezzogiorno d’Italia divenne insicura: le campagne furono disertate, i contadini si ritirarono nei borghi e l’emigrazione, che oggi è invocata come un rimedio dei nostri mali, fu purtroppo una delle cause del disagio in cui venne a trovarsi il Mezzogiorno d’Italia, perché la terra rimase spopolata, alcuni paesi videro addirittura ridotti a metà i loro abitanti e la coltura rimase una coltura intensiva senza che la depressione economica, dovuta al nuovo sistema tributario dello Stato italiano, potesse sollevarsi. Noi siamo un po’ (noi del Mezzogiorno) le vittime del capitalismo; abbiamo risentito tutti i danni del capitalismo senza poterne risentire vantaggi.

In questo paese dall’agricoltura primitiva e con una pressione fiscale e tributaria che viene sempre aumentando, quelle stesse classi dirigenti, favorite d’altra parte dalla loro ignavia, si trovarono quasi nell’impossibilità di poter investire i loro capitali nella terra: e così la industrializzazione della terra è rimasta un sogno o un’aspirazione di pochi. Si è continuato come prima e peggio di prima, ed ora ci affliggono due mali: da un lato il latifondo, e dall’altro la polverizzazione della terra. Perché lo polverizzazione della terra rende impossibile una cultura progredita; la polverizzazione della terra rende assolutamente impossibile una direzione tecnica in queste aziende frazionate e, come giustamente osservava ieri il compagno onorevole Canepa, si sono soppresse perfino, durante il regime fascista, quelle Cattedre ambulanti d’agricoltura che tanto bene avevano fatto, non per la esposizione di principî teorici che lasciano il tempo che trovano, ma per l’insegnamento pratico che esse potevano dare agli agricoltori. Ora la popolazione è aumentata e, naturalmente, come comprendete di leggieri, è enormemente aumentato il disagio. Oggi le colture sono le stesse, ma vi è la fame della terra e la distruzione dei nostri boschi. Molto abbiamo dato di quel poco che avevamo quando la Patria ne aveva bisogno. La Lucania, regione boscosa, la Lucania che doveva vivere e doveva incrementare principalmente l’industria armentizia, perché l’industria granaria è in gran parte antiproduttiva, ebbene la Lucania ha avuto i boschi distrutti, e l’agricoltura abbandona le pendici montane dove infuria la malaria e le frane si ripetono con un crescendo pauroso. Ed a tutto questo quali rimedi arrivano dal Governo centrale? Il decreto Segni. Ma il decreto Segni ha avuto e può avere delle gravi conseguenze. Perché, onorevoli colleghi, con la fame di terra che vi è in Lucania e in molti altri paesi nel Mezzogiorno, invece di risalire alle cause, di incrementare l’agricoltura, di cercare, dove possibile, di tramutare l’agricoltura estensiva in intensiva, si concedono le cosiddette terre incolte, che non esistono, si distruggono i pascoli, e quindi la riserva della nostra regione, che non è adatta alla coltura granaria. Né si affidano questi terreni alle Cooperative, che esistono soltanto di nome, perché non si pensa a fornirle di mezzi; ma si continua nel vieto sistema di polverizzare ancora più la terra, con conseguenze davvero disastrose.

Ed allora, per tentare di risolvere questo problema, vi è bisogno d’una trasformazione agraria e fondiaria, tenendo presenti i tre mali che affliggono la nostra agricoltura, e cioè: deficienza tecnica della coltura del suolo, polverizzazione della terra, coltura estensiva del latifondo.

Occorre bonificare i terreni, arginare i fiumi, fare opere di irrigazione o di viabilità, che facciano sorgere attorno al vecchio latifondo piccole, medie ed anche grandi aziende consorziate.

Lo Stato deve intervenire, in via indiretta, per porre, cioè, le condizioni necessarie alla restaurazione dell’agricoltura, della viabilità, del risanamento dalla malaria, della irrigazione, dell’igiene, dell’istruzione elementare e tecnica; in via diretta, dando i fondi necessari per agevolare la trasformazione delle aziende agrarie.

Con il miglioramento delle colture potrà sorgere nella nostra regione un’industria che possa utilizzare i prodotti della terra.

Non fa pena al cuore attraversare per diecine e diecine di chilometri la nostra regione, senza scorgere nel lontano orizzonte un fumaiolo che sia segno di attività industriale?

Noi abbiamo, ad esempio, vini ed uve pregiate, le uve del Vulture. Ebbene, ogni anno vengono gl’industriali del Piemonte a prelevare queste uve, che ritornano poi sotto forma di Barbera e Grignolino.

Non è sorta una cantina sperimentale, non vi è un solo vino tipico nostro.

Noi abbiamo legno in abbondanza ed anche legni pregiati.

Durante la grande guerra, e durante l’ultima guerra, il legno della Lucania è servito per costruire i compensati degli aeroplani; viene prelevato per essere portato nei grandi mobilifici industriali. Non vi è, onorevoli colleghi, una sola industria che utilizzi queste materie prime.

Abbiamo olii pregiati. Non vi è una sola raffineria.

I prodotti della nostra terra non servono come mezzo di consumo; servono come mezzo di speculazione.

E questa è un’atra delle cause che, purtroppo, hanno dato al Mezzogiorno d’Italia il marchio ed il sigillo di inferiorità.

E vi è un altro pericolo: la politica tributaria, la politica fiscale.

Noi non abbiamo altre risorse, mentre nel nord d’Italia vi è il flusso della esportazione ed il riflusso delle monete pregiate; da noi si sentirà soltanto il peso e il danno delle necessarie imposizioni fiscali, le quali, se non saranno applicate con opportune esenzioni, con idonee facilitazioni tributarie, finiranno col recidere ed esaurire le fonti stesse della produzione. E vanamente cercheremo di creare un movimento di industrializzazione della terra e di far sorgere l’industria. Per cui, quello che oggi è un solco profondo, che divide il Nord e il Sud, potrà diventare domani un baratro davvero incolmabile.

Ora, qui sorge il problema: per noi del Mezzogiorno d’Italia il nuovo ordinamento regionale è un bene o è un male?

Una voce. È un bene.

PIGNATARI. Non credo che possa essere un bene. Dovremmo essere regionalisti, noi del Mezzogiorno, per protesta, per un innato spirito di ribellione contro lo stato di inferiorità in cui ci hanno lasciato. Ma credete davvero che con l’instaurazione, con l’adozione dello ordinamento regionale, la nostra situazione possa avviarsi verso una favorevole soluzione? Troppo imponenti sono i problemi e vi è bisogno di una concezione unitaria, la quale potrà avviare la questione meridionale alla sua soluzione, attraverso un profondo decentramento amministrativo.

Io non sono aprioristicamente contrario all’ordinamento regionale: ne vedo i vantaggi, ma ne vedo i danni che possono derivare al Mezzogiorno d’Italia.

Si parla, onorevoli colleghi, di un fondo di solidarietà nazionale, perché tutti i nostri bilanci saranno deficitari. Non facciamoci illusioni.

Un oratore della democrazia cristiana diceva ieri: anche oggi lo Stato deve spendere e dare 30 miliardi per cercare di sanare i dissestati bilanci delle provincie e dei comuni. E malgrado questo fondo di integrazione, siamo quasi in uno stato preagonico. Vi dovrebbe essere un fondo di solidarietà nazionale, ma l’egoismo è purtroppo la molla delle azioni umane e l’egoismo è anche la molla dei vari particolaristici aggregati sociali.

La perequazione dei bilanci delle future amministrazioni regionali dell’Italia Meridionale (come pure di quelle del Nord) sarebbe soprattutto un atto di giustizia e di riparazione sol che si tenga presente che nei momenti del bisogno e del pericolo l’Italia meridionale ha dato le scarse materie prime di cui disponeva per requisizioni disposte dal Governo centrale nell’interesse del Paese.

Il Mezzogiorno soffre soprattutto per la sua stessa scarsa economia, per la inesistente attrezzatura industriale, oltreché per la pavidità dei suoi risparmiatori che preferirono l’investimento in titoli dello Stato, la cui dolorosa svalutazione costituisce altra causa della fuga del capitale.

Noi siamo come un naufrago e ci troveremo domani nelle condizioni di non aver aiuti da nessuno. È inutile farsi illusioni. La lotta è fra lo Stato e le regioni, fra le regioni e le provincie. Ne abbiamo la prova nello Statuto siciliano. Faccio una parentesi: perché è stato concesso lo Statuto siciliano, l’autonomia alla Sicilia? Diciamolo con franchezza: perché vi era un movimento separatista che si è voluto fronteggiare, non perché la Sicilia avesse bisogno della sua autonomia. Ma la Sicilia, onorevoli colleghi, ha un suo Statuto che servirà di esempio a tutte le altre regioni d’Italia. Quando nello Statuto siciliano noi leggiamo che lo Stato riscuoterà soltanto le entrate di produzione e i proventi dei monopoli e che lo Stato contribuirà con un fondo speciale in favore della Sicilia, lo Statuto siciliano sarà preso ad esempio da tutte le regioni. Allo Stato verranno a mancare i mezzi per poter far fronte alle richieste e vanamente si chiederà alle fortunate regioni del Nord di venire incontro ai nostri bisogni, e quell’antagonismo che purtroppo affiora tra Nord e Sud diventerà ancora più manifesto, renderà ancora più insuperabile la barriera che minaccia di separare queste due parti.

Ed allora, onorevoli colleghi, io mi domando: potrà lo Stato, cui verranno meno i mezzi, provvedere alla soluzione di questo grande problema meridionale che è il problema che interessa la stessa vita e la stessa unità della Patria?

Potrà lo Stato creare davvero questa industria manifatturiera nel nostro Mezzogiorno, che è problema unitario e non potrà essere risolto dai singoli parlamenti regionali? Potrà, onorevoli colleghi, provvedere, sia direttamente che indirettamente, a creare quelle condizioni che possono permettere il risorgere delle industrie locali?

A Napoli si è tenuto un interessante convegno, un congresso per lo studio dei problemi del Mezzogiorno, le cui conclusioni non hanno avuto la diffusione che avrebbero meritata. Premetto che in questo convegno si è espresso un volo favorevole al problema dell’autonomia regionale, ma vi è stata una deliberazione che suona così: «Chiediamo che il passaggio al nuovo ordinamento regionale sia attuato con gradualità e che, fino al completo risanamento della vita economica nazionale e soprattutto meridionale, lo Stato concorra mediante congrue istituzioni, sia pure provvisorie e con concessioni opportune, specie tributarie, alla perequazione finanziaria degli enti regionali del sud con quelli del nord».

Ora, io avevo proposto un ordine del giorno in cui riassumevo questi concetti. Se la nostra Assemblea approverà l’ordinamento regionale, bisognerà andar cauti e procedere per gradi. Bisogna cercare di eliminare questa profonda sperequazione che vi è tra nord e sud; bisogna mettere i nostri parlamenti e le nostre amministrazioni regionali in condizioni di poter vivere e di poter espletare le loro mansioni, in condizioni di poter raggiungere i compiti che essi si propongono di raggiungere. E bisogna andar cauti perché, specialmente nel Mezzogiorno d’Italia, sorgerà la lotta tra provincia e provincia e, siatene sicuri, anche in quest’Aula. Ne abbiamo avuto le prime avvisaglie nel progetto originario della Sottocommissione. Non si parlava dell’ente provincia, ma l’ente provincia è risorto poi pericolosamente nel progetto definitivo. Oggi che avviene? Vi è un fermento: ogni provincia aspira a diventare capoluogo di regione. Sento dei nomi, e – lo confesso – li ricordo vagamente come lontane reminiscenze dei miei studi liceali: i Danni, i Peuceti; mi sono domandato chi fossero, credo che siano i baresi, i quali aspirano ad avere il loro capoluogo di provincia come capoluogo di regione; e Taranto e Lecce sono in lotta tra loro, e, se andiamo in Abruzzo, vi sono Aquila e Pescara «l’un contro l’altra armate»; Sassari e Cagliari; Avellino e Salerno, città della quale così simpaticamente parlava l’altro giorno l’amico Rescigno. Tutto questo si verifica soprattutto nel Mezzogiorno, perché dove non vi è coscienza politica elevata, dove la coscienza politica sorge ora, vi è ancora il campanile e la fazione che si ammantano a volte di rosso e a volte di nero, per mettere innanzi vecchi uomini e per sostenere le vecchie clientele: il capoluogo della regione deve costituire il mezzo perché le clientele possano vivere e prosperare, a mezzo delle leggi e dei regolamenti, spandendo i loro tentacoli nell’intera vita regionale.

Ma tutta questa, signori, è roba deteriore. Sono inconvenienti che passeranno col passare del tempo. Mettiamo questo nostro Mezzogiorno d’Italia, questo povero Mezzogiorno d’Italia, in condizioni di poter vivere: non è soltanto un problema che riguarda il Mezzogiorno, ma riguarda tutta l’Italia. (Applausi).

PRESIDENTE. È iscritto a parlare l’onorevole Grazi. Ne ha facoltà.

GRAZI. Io sono uno di quei socialisti, cui alludeva il compagno Bordon, che non capiscono la regione. Non capisco la regione, perché effettivamente non so in che cosa consista in Italia. Può darsi che gli oratori che hanno sostenuto con grande calore la regione, di cui uno è stato Bordon – ed è logico che lo sia perché è un valdostano e la Val d’Aosta è stata sempre una regione, mentre è stata elevata a provincia pochi anni fa – abbiano le loro ragioni per sostenere la creazione del nuovo ente. Un altro che ha creduto di poter creare la regione è stato l’onorevole Tessitori, perché lui confonde la regione con la provincia di Udine. Ho sentito molti altri regionalisti che confondono la regione con la provincia. Io non farò la storia né della regione né della provincia, perché sarebbe una cosa di poco buon gusto; però osservo che i più sinceri ed accaniti assertori dell’Ente regione sono proprio quelli che assimilano la regione alla provincia. Naturalmente, fra questi, ci sono anche gli onorevoli Lussu e Mastino, ma essi sono degli isolani, quantunque io non condivida le loro opinioni, perché se non sono isolano nato lo sono di adozione, perché ho vissuto tanti anni in Sardegna, e la Sardegna la conosco così bene che vi posso assicurare che il movimento sardista è tutt’altro che un movimento a carattere regionale. È un movimento che è nato e che ha avuto il suo periodo di grande splendore nel 1919, 1920 e 1921, quando i sardi, dopo la guerra vittoriosa, si sono accorti e si sono convinti che effettivamente la Sardegna era stata trascurata dal governo centrale. Poi, il movimento sardista si trasformò in un movimento di ribellione vera e propria contro il fascismo, e si identificò in quegli uomini che abbiamo anche al Parlamento: Lussu, Mastino ed altri, che effettivamente rimasero fedeli a questi principî. Non cito quelli che si sono sbandati, ma quelli che hanno mantenuto effettivamente al movimento sardista quel carattere di antifascismo che è stato veramente tipico. Lussu e Mastino sono stati perseguitati, e Lussu è dovuto andare perfino all’estero. E così tanti altri ancora di cui mi sfugge il nome. In ogni modo, però, il fenomeno sardista è andato attenuandosi quando è caduto il fascismo, è andato attenuandosi attraverso una grande crisi, perché il sardismo era un movimento idealistico, era un movimento di protesta e racchiudeva sotto le sue larghe ali tutti i sardi, dal latifondista Pietro Paolo Comida al servo pastore. C’era gente di tutte le categorie, e francamente il movimento non poteva essere che un movimento creato anche per ragioni di carattere particolare. In Sardegna ci sono moltissimi paesi che erano sardisti al cento per cento e che ora non lo sono più: ora sono democristiani, comunisti, socialisti, qualunquisti ecc., e del resto lo dimostra il fatto delle elezioni.

CHIEFFI. Perché tutti i partiti hanno fatto una propaganda autonomistica.

GRAZI. Effettivamente oggi il fenomeno del sardismo si è riportato nei suoi giusti termini e non ci sono più tanti equivoci: abbiamo visto una differenziazione per cui ognuno, secondo i propri interessi, si è tirato da una parte o dall’altra. Si può dire che il sardismo esiste ancora in quanto esistono uomini come Mastino, Lussu e qualche altra figura che tengono vivo questo movimento. Questo vi dice che la tendenza regionalistica non esiste nemmeno in Sardegna. In Toscana poi non esiste affatto.

LUSSU. È accaduto che i comunisti, per esempio, per costituirsi in partito, hanno dovuto dichiararsi autonomisti.

GRAZI. Di questo le do ragione.

LUSSU. In realtà il partito sardo di azione è stato creato perché tutti i partiti hanno fatto dell’autonomismo.

GRAZI. Io le auguro che il suo partito di azione conservi a lungo uomini come Lussu e Mastino; ma effettivamente bisogna convenire che non esiste una coscienza regionalistica in Sardegna.

Quale è il vantaggio della costituzione della regione? È quello di costituire sostanzialmente un apparato burocratico ed una legislazione più aderente ai bisogni locali. Ma lei crede, onorevole Lussu, che in Sardegna, con l’autonomismo sardo, sia possibile fare una legislazione più aderente di quella che si può fare a Roma?

LUSSU. Io sono per l’unità nazionale, ma le dico che se la Sardegna potesse avere una organizzazione tipicamente federale, per cui tutti i problemi venissero affrontati e risolti in Sardegna, sarebbe l’ideale per la Sardegna e per l’Italia.

GRAZI. La Sardegna vive essenzialmente del suo allevamento di bestiame, del carbone Sulcis (fino a che non ci saranno le concorrenze straniere), vive dei minerali di zinco e di piombo e nient’altro; perché il rame non è utilizzabile in Sardegna, così come non è utilizzabile il manganese, e non estraibile nemmeno il ferro. E le dirò di più, onorevole Lussu: che la Sardegna se, per disgrazia, come ricordava anche l’onorevole Mastino, dovesse avere gli operai in sciopero avrebbe la fame, morirebbe di fame. E così anche per quanto riguarda il bestiame, lei sa che c’è una moria, delle pecore specialmente: perché, quando c’è troppa siccità, il bestiame muore di fame ed è colto da particolari malattie.

LUSSU. Scusi, perché questo?

GRAZI. La Sardegna non è affatto autosufficiente.

LUSSU. Ma permetta: io sono, come parecchi in quest’Aula, amico intimo dei massimi rappresentanti del Canton Ticino che è uno dei più poveri, ed è forse per questo che il Canton Ticino non entra in quella solidarietà nazionale che sarebbe auspicabile, come è naturale? (Commenti Interruzioni).

PRESIDENTE. Onorevole Lussu, non interrompa.

GRAZI. L’onorevole Lussu diceva che, se la Sardegna avesse una sua amministrazione propria, essa sarebbe felice. Ora, io non ho dubbi sul sentimento italiano dei sardi: su questo sarebbe inutile discutere. Ma io voglio dire un’altra cosa, ed è che non sono pei niente convinto che un’amministrazione creata per la Sardegna dagli stessi sardi sarebbe più provvida che non un’amministrazione creata dal potere centrale. Io, in altri termini, non accedo al criterio che i sardi sarebbero in grado di creare per loro una legislazione più aderente ai bisogni del luogo che non sia quella creata dal potere centrale per tutte le altre parti d’Italia.

È da notare inoltre che le varie zone della stessa Sardegna presentano caratteristiche diverse ed è quindi, anche sotto questo aspetto, inutile che legiferi Cagliari per tutta l’isola.

Io vedo per esempio la stessa Toscana, che ha caratteristiche così diverse: vedo che, quando vengono disposizioni relative agli ammassi del grano, si verifica questo: si dà il premio a chi ha meno faticato perché favorito dalla natura e chi porta dopo il grano, come quel disgraziato che lavora in montagna, dove la resa è di sei o sette per uno e anche di meno, non ha il premio. Eppure quelle disposizioni sono state attuate localmente.

È difficilissimo quindi poter fare una legislazione aderente alle località, solo perché legiferano Firenze o Cagliari anziché Roma.

Si potrà studiare, sì, localmente l’adattamento delle leggi, ma non si dovrà legiferare ex novo. La regione, così come voi la volete configurare, non è né carne né pesce.

Io vedo nella regione, così come essa è concepita nel progetto di Costituzione, un pericolo gravissimo. Che cosa facciamo noi infatti? Per limitare quella burocrazia di cui abbiamo tanta paura, per tagliare ad essa le unghie, noi facciamo una cosa semplicissima: creiamo ancora dell’altra burocrazia.

Che cosa avverrà poi? Avverrà che il numero delle regioni finirà col diventare inverosimile, perché tutti o pressoché tutti i capoluoghi delle attuali provincie aspireranno a formare una regione. Noi creeremo allora una burocrazia mastodontica, soffocante, costosa.

Mi meraviglia soltanto una cosa, che cioè l’onorevole Einaudi, il quale fece un esame così acuto dei pericoli che può rappresentare la regione, non si sia soffermato – lui, economista – su quello che è il costo della nuova burocrazia che si costituisce, il costo di tutti questi nuovi Parlamenti, non dico «parlamentini», perché non voglio disprezzare quelli o questi che verranno. Ma tutto questo quanto ci costerà? Io non mi voglio indugiare su tutti gli altri inconvenienti che ci possono essere; dico semplicemente questo: che noi, per evitare questi pericoli, per cercare di fare una riforma della burocrazia, per snellirla, ne facciamo dieci, venti o trenta, secondo quante saranno le regioni.

E quando si sono fatti gli esperimenti del decentramento anche amministrativo sotto certe forme, proprio sul modello ministeriale, sono successe delle catastrofi; perché io ho vissuto in Sardegna prima dell’istituzione del Provveditorato delle opere pubbliche e dopo: si stava molto meglio quando il Provveditorato non c’era. Alcuni hanno confuso il Magistrato delle acque di Venezia come un organismo meraviglioso di decentramento amministrativo. Il Magistrato delle acque è una cosa vecchia quanto la Repubblica veneta, è un organismo particolare che ha una mansione speciale, quella di disciplinare le acque – problema fondamentale del Veneto, con la laguna e tutti i suoi fiumi – e niente altro. Ma il giorno in cui al Magistrato delle acque si dovesse dare la caratteristica che si dà al Provveditorato, noi otterremmo questo risultato meraviglioso: invece di avere una sola Corte dei conti, avremmo la Corte dei conti centrale e venti Corti dei conti periferiche. Io so per esperienza, perché ho lavorato coi Provveditorati, quanto mi è costato incassare quattro soldi; perché un mandato deve prima passare dall’ufficio revisione alla Corte dei conti impiegando una settimana; ma per uscire dalla Corte dei conti, caro mio, ce ne voleva! Poi quando si tratta di cifre più imponenti, non basta più il Provveditorato ma devi ricorrere al Ministero. È tutta una complicazione tale che fa paura. Poi, si prenda un altro esempio: è stata fatta una prova coi Provveditorati agli studi in campo regionale: è stato un altro fallimento.

AMBROSINI. Perché hanno soppresso quelli provinciali! (Commenti).

GRAZI. Non voglio parlare della Regione per il gusto di parlare contro: voglio portarvi qualche cosa di concreto. Io sono un sindaco, oggi, amministro una città modesta, capoluogo di provincia. Ho fatto il consigliere comunale quando ero giovanotto, nel 1919-1920 circa; quindi so un pochino come vanno le cose. E vi dico perciò: voi avete fatto un progetto per stabilire tutta la regolamentazione di una regione, e vi siete dimenticati di mettere un articolino, piccolo piccolo, relativo all’autonomia dei comuni. Voi mi risponderete facilmente che sarà una legge, una legge speciale che vi provvederà. D’accordo. Però vi dico che il problema della creazione di un ente nuovo è un problema grave, più di quello della regolamentazione di un ente che bene o male ha funzionato. E voi oggi volete che vi dica che questa regolamentazione va bene? Io vi dico di no.

Il collega Bordon ha fatto presente magnifiche situazioni storiche e ha detto tante belle cose, ma che si riferiscono solo alla Val d’Aosta. Io per fare la stessa documentazione di Bordon dovrei riferirmi al comune di Firenze, al comune di Siena, per quanto si riferisce alla Toscana; e così potrei portare esempi anche per i comuni della Venezia e di altre regioni d’Italia. E allora identifichiamo la regione col comune meridionale, e su questo posso essere d’accordo con voi. Ma quel comune è la provincia di oggi e non è vero che la provincia di oggi sia un ente inventato per il gusto di inventare. Per esempio, la Toscana: nell’opinione pubblica è assolutamente radicata la convinzione che la Toscana sia omogenea, sia qualche cosa di perfettamente definito. Si dice: la Toscana è la terra dove si parla la vera lingua. Ebbene: io, toscano e senese, vi dico che neanche in provincia di Siena si parla la vera lingua. C’è una notevole differenza fra un paese e l’altro. Molti, anche persone assai colte, credono che sia così. Ma non è così, e la ragione c’è: perché la Toscana è stata caratterizzata essenzialmente, dopo la caduta dell’impero romano e le invasioni barbariche, dai comuni che l’hanno riordinata, che hanno stabilito delle caratteristiche; i comuni si sono affermati in determinati spazi vitali, chiamiamoli così, che hanno notevole omogeneità dal punto di vista geofisico, che hanno dialetti e tradizioni comuni, che hanno tutte quelle caratteristiche che erano le caratteristiche del comune toscano e sono la provincia di oggi.

Ora, io capirei perfettamente che le autonomie si potessero reclamare per provincia. E quando voi mi dite che la provincia non ha mai funzionato, io sono d’accordo con voi. La provincia non ha funzionato per molte ragioni, perché la provincia, intanto, è stata organizzata come un qualche cosa di estraneo al comune. Fino al 1888 la provincia mi pare avesse un’ingerenza su quello che era l’andamento dei comuni, ma dopo quella data la provincia è stata un organismo a sé che non ha avuto più niente a che fare col comune. E, quindi, la presenza del prefetto e la confusione fra prefettura e provincia. È una confusione che molti hanno fatto, poiché molti identificano, per esempio, il medico provinciale con un funzionario della provincia. Ed ecco l’odio contro il prefetto, che è stato visto sempre come la mano governativa, come l’oppressione di quelle libertà più elementari reclamate e sentite da tutti i comuni. Per tutte queste ragioni la provincia è stata sempre quasi disprezzata.

Non vi farò citazioni storiche perché sarebbe fuori luogo e sarebbe pura retorica, perché noi non dobbiamo guardare la storia oltre certi limiti, ma dobbiamo guardare a quella che è la realtà delle cose e a quella che è la reale esperienza. Noi dobbiamo dire che la provincia può essere un ente di grande utilità, a patto che la provincia si trasformi in un elemento coordinatore dell’attività dei comuni. (Interruzione dell’onorevole Targetti).

Il consorzio no; il consorzio è una cosa troppo aleatoria ed ho una esperienza in proposito di consorzi che si fanno per le strade comunali, per le condotte veterinarie ecc. Non funzionano mai.

UBERTI. Ma io non ci tengo al consorzio.

GRAZI. Benissimo, se noi partissimo dal comune al quale si desse una vera autonomia finanziaria, noi potremmo coordinare l’azione dei Comuni, con un organismo del quale facessero parte anche i rappresentanti dei Comuni, ma dando il carattere provinciale a questo organismo, affinché si occupasse di tutti quei problemi che sono insolubili nell’ambito comunale come per esempio il problema ospedaliero. È insolubile perché tutti i Comuni, piccoli e grandi, hanno la pretesa di avere degli ospedali che sono in genere sproporzionati alle loro possibilità. Il Comune piccolo quindi è insufficiente a tenere l’ospedale, mentre il Comune grande è insufficiente a tenerlo così come dovrebbe esser tenuto. Perché è insufficiente? Perché all’ospedale affluisce gente di altri Comuni, che non paga la quota di spedalità.

Quindi se la provincia, così concepita, provvedesse alla organizzazione di tutto il servizio ospedaliero, creando un ospedale sufficiente nel capoluogo della provincia e riducendo le proporzioni degli ospedali periferici, istituendo posti di pronto soccorso, posti di degenza per malattie brevi, si potrebbe ottenere una compensazione delle spese, ed allora si potrebbero organizzare veramente ospedali funzionanti e rispondenti. (Interruzione dell’onorevole Uberti).

Oggi siamo nella situazione per cui in molte città e in molti capoluoghi di provincia si deve ricorrere al capoluogo di regione se si vogliono determinate cure. Questa è una realtà.

Vi è ancora un problema molto serio. Noi abbiamo le imposte di consumo. La esazione delle imposte nei Comuni poco progrediti si fa in economia diretta. Bisognerebbe quindi creare uno strumento provinciale che facesse tutto questo servizio di imposte e di tasse sfuggendo allo strozzinaggio degli esattori comunali, ai guadagni troppo grossi che fanno gli appaltatori attuali. Non si incapperebbe nell’altro guaio di avere alle dipendenze dirette dei Comuni un personale che finisce per adattarsi alle situazioni e per non fare più bene il suo servizio. Su basi provinciali si avrebbero le caratteristiche di una burocrazia quasi nazionale con la snellezza e la facilità di controllo che si può avere nell’ambito della provincia. Bisognerebbe quindi studiare una organizzazione, una riorganizzazione su queste basi.

Non pretendo di fare il legislatore all’impronta. Non pretendo di portare la panacea a tutti i mali. Sono suggerimenti che non credo siano inutili. Se noi facessimo una cosa del genere, noi arriveremmo ad organizzare un qualche cosa di veramente decentrato, di veramente serio, che potrebbe avere un carattere provinciale e potrebbe assumere addirittura quell’importanza che oggi si vuole dare alla regione. Non discuto i limiti dei poteri che devono essere dati. Non li so. Non ho la pretesa di saperli, perché credo che chiunque dica «si deve fare così» sia un presuntuoso.

Giudicare su un problema di questa importanza semplicemente su articoli che sono stati esposti e non domandarsi di quelle che possono essere le conseguenze nel campo pratico, è un errore fondamentale.

Non ho paura di federalismi, io. Ma dico: per arrivare a questo, guardiamoci bene dentro in questo problema; cerchiamo di farlo e invece di fare un esame affrettato (se noi pretendessimo di fare un esame affrettato ci vorrebbero sei mesi)…

Una voce. Sono sessanta anni che si studia.

GRAZI. Ma non è stata mai proposta una soluzione pratica. Io vi dico: invece di andare a fare grandi considerazioni ed a spendere tante parole mettiamoci d’accordo e diciamo: stabiliamo il principio di creare questi enti nuovi (la ripartizione in regioni non saremmo noi che riusciremo a farla, perché prima di stabilire quali devono essere le regioni ed i capoluoghi di regione noi saremmo seppelliti di lettere); diciamo, inoltre, in modo molto semplice: ammettiamo in linea di principio la costituzione di questi nuovi enti e demandiamo al futuro legislatore l’organizzazione di essi. A questa cosa, con un po’ di buona volontà, oggi, si può arrivare.

Io, per esempio, sono un fautore dell’autonomia della Venezia Tridentina, perché effettivamente c’è della gente che vuole l’autonomia. Noi, quell’autonomia l’abbiamo concessa volentieri perché speravamo nella contropartita: l’autonomia della Venezia Giulia.

Le autonomie, come sono impostate nel nostro Statuto, sia per la Sardegna che per la Sicilia, non le concepisco: sono due aberrazioni. Capisco, per quanto riguarda la Sardegna, che si conceda l’autonomia a Sassari, Cagliari e Nuoro, ma quando si concede a tutta la Sardegna!… (Commenti, interruzioni).

LUSSU. Ha visto la Sardegna?

GRAZI. La realtà è questa.

LUSSU. Porterò i bollettini segreti dell’Ente nazionale per le ricerche scientifiche e vedrete il miserabile sfruttamento che questo centralismo ha fatto in Sardegna. Parlerò in questa sede.

GRAZI. Io ho detto, e non intendo ripetere quello che hanno detto altri; la base dello Stato è il Comune; e l’autonomia dei Comuni deve essere studiata, come si deve; poi è desiderabile che, al di sopra del comune, ci sia un organismo coordinatore dell’azione dei comuni; io l’ho già creato, ho fatto la Lega provinciale dei comuni, alla quale aderiscono indistintamente tutti i comuni della provincia, che studiano insieme tutti i problemi che ciascun comune non può risolvere per conto proprio.

Per la provincia vedere quale sistema seguire per darle autonomia.

Io non sono in grado di improvvisare e ritengo nessun altro; chi pretende di farlo, probabilmente è presuntuoso.

Questo problema è grave ed importante, perché interessa l’organizzazione nuova dello Stato.

Mi si diceva l’altro giorno che Caldara era per l’autonomia delle regioni; Zanardi, che è stato sindaco valente quanto Caldara, è contrario all’autonomia regionale.

Quindi, uno la pensa in un modo, l’altro in un altro.

Io posso pensarla a modo mio.

E vedo che l’organizzazione dello Stato su basi nuove non si può fare altrimenti che valorizzando l’autonomia dei Comuni e poi delle provincie, quali organi coordinatori dei comuni.

La regione è creazione completamente artificiosa. Se volete, cambiamo per regione le provincie, e così sarete contenti. (Applausi a sinistra Congratulazioni).

PRESIDENTE. Il seguito della discussione è rinviato a martedì 3 giugno alle ore 16.

La seduta termina alle 11.40

Ordine del giorno per la seduta di martedì
3 giugno 1947.

Alle ore 16:

Seguito della discussione del progetto di Costituzione della Repubblica italiana.

VENERDÌ 30 MAGGIO 1947

ASSEMBLEA COSTITUENTE

CXXXIV.

SEDUTA DI VENERDÌ 30 MAGGIO 1947

PRESIDENZA DEL PRESIDENTE TERRACINI

indi

DEL VICEPRESIDENTE CONTI

INDICE

Congedo:

Presidente                                                                                                        

Comunicazioni del Presidente:

Presidente                                                                                                        

Progetto di Costituzione della Repubblica italiana (Seguito della discussione):

Presidente                                                                                                        

Bosco Lucarelli                                                                                              

Carboni                                                                                                            

Cicerone                                                                                                           

Canepa                                                                                                              

Mastino Pietro                                                                                          4365

La seduta comincia alle 16.

RICCIO, Segretario, legge il processo verbale della seduta precedente.

(È approvato).

Congedo.

PRESIDENTE. Comunico che ha chiesto congedo l’onorevole Germano.

(È concesso).

Comunicazioni del Presidente.

PRESIDENTE. Comunico che ho chiamato a far parte della Commissione dei settantacinque, in sostituzione dell’onorevole Farini, dimissionario, l’onorevole Molinelli.

Seguito della discussione del progetto di Costituzione della Repubblica italiana.

PRESIDENTE. L’ordine del giorno reca il seguito della discussione del progetto di Costituzione della Repubblica Italiana. Riprendiamo la discussione generale del Titolo V relativo alle Regioni.

È iscritto a parlare l’onorevole Bosco Lucarelli. Ne ha facoltà.

BOSCO LUCARELLI. Io non so se è consuetudine di questa Camera, ma, essendo stato alunno all’università di Napoli dell’onorevole Nitti, io credo di dovere in questo momento far giungere a lui una parola di compianto per la morte della sua mamma, che, a 98 anni, è deceduta l’altro giorno in Roma. Il nome della madre è un nome sacro, e, a qualunque età si perde, ne è sempre vivo il rimpianto. Forse non è consuetudine, ma io ho creduto di rompere magari questa consuetudine, mandando al vecchio maestro le mie condoglianze che credo siano condivise da tutti i colleghi della Camera. (Segni di assenso).

Onorevoli colleghi, forse io avrei potuto e dovuto tacermi, quando, in un argomento come quello delle autonomie regionali si è già così largamente ed autorevolmente discusso; ma io penso che, per qualche particolare aspetto, non è inopportuno che qualche altra parola si dica.

È inutile dire che io, conformemente al pensiero del mio Gruppo, democratico cristiano di vecchia data, da oltre quarant’anni, sono per le autonomie; giovane, ho lottato per le nostre autonomie comunali, riallacciandole a tutto un patrimonio sacro d’italianità che ci faceva vedere nei liberi comuni italiani la culla della civiltà italica. E come non potremmo essere noi difensori di quella autonomia, quando abbiamo assunto a distintivo del nostro partito lo stemma glorioso di quei comuni che tanta luce di vita portarono nell’Italia e nel mondo?

Io mi limiterò semplicemente ad accennare a qualche obiezione e perplessità sollevata, perché credo che qui, come fuori di qui, siamo tutti convinti della necessità di un più largo decentramento; qui, come fuori di qui, siamo convinti che la macchina dello Stato deve sveltirsi e che l’Amministrazione statale debba essere più a contatto col popolo e coi bisogni del popolo, più vicina ad esso in modo che i suoi bisogni siano meglio interpretati e sodisfatti.

Non è che noi siamo contrari alle egregie persone che impersonificano la burocrazia, anzi dobbiamo ammirare lo zelo, la competenza e lo spirito di sacrificio con cui essi lavorano per il buon andamento della macchina dello Stato; ma noi vogliamo combattere il sistema, vogliamo sveltire l’amministrazione perché essa possa rispondere più direttamente ai bisogni del popolo, essendo più vicina al popolo stesso. Ed allora, necessariamente, come non è possibile che una cappa di piombo chiuda nella sua uniformità i diversi provvedimenti amministrativi, per cui un comune di mille anime deve essere amministrato con le stesse norme e con le stesse regole, che reggono il comune di Roma, di Milano e di Napoli, così sentiamo il bisogno di decentrare l’amministrazione, perché localmente essa possa stare più a contatto con i bisogni e con le esigenze delle singole regioni, delle singole zone d’Italia.

Ora, la preoccupazione di molti è che noi con questa Costituzione andiamo a costituire lo Stato federale, vale a dire un aggregato di piccoli Stati, quasi che volessimo dividere l’Italia in pillole e ridurla a qualcosa di più frantumato di quello che non fosse l’Italia prima della sua unità. Che in mezzo a noi vi possano essere, in questa Assemblea, persone che concepiscono la struttura che noi andiamo a costruire come quella di uno Stato federale, può anche darsi, ma non è questo il pensiero del Gruppo a cui mi onoro di appartenere e non il pensiero mio, perché noi non intendiamo frantumare l’Italia in piccoli Stati, non intendiamo rompere e spezzare l’unità italiana; noi consideriamo l’ente Regione non come un piccolo Stato di una federazione di Stati, ma come un ente autonomo, con speciali funzioni legislative, inquadrato nell’unità d’Italia, che riteniamo di poter rafforzare con questa divisione di poteri in alcune materie, le quali, essendo più aderenti ai bisogni delle singole popolazioni, possono rompere le differenze ed i contrasti fra Regione e Regione e possono rafforzare quell’unità della Nazione, che noi vogliamo vivificare.

E mi pare che la disposizione dell’articolo 106 sia chiarissima: «La Repubblica Italiana, una e indivisibile». Quindi, noi vediamo il problema dell’autonomia regionale nel quadro dell’unità e della indivisibilità della Patria. Questo deve essere chiaro ai nostri animi ed alla mente di tutti, perché non possano sorgere preoccupazioni, che attraverso la costituzione dell’ente Regione si possa dividere e spezzettare l’Italia.

Qui si è parlato di Mazzini e di Cattaneo, si è parlato di Stato federale, ma noi la Regione – ripeto – la consideriamo come un Ente autonomo, con speciali poteri normativi, e non come uno Stato a sé. Se all’inizio del Regno italico una questione viva fu sollevata fra coloro che volevano lo Stato unitario e coloro che volevano lo Stato federativo, ciò fu per speciali condizioni del momento, inquantoché volevano gli uni e gli altri l’unità italiana: alcuni la volevano attraverso uno Stato unitario; gli altri, viceversa, ritenendo che la divisione dell’Italia in vari Stati potesse essere una remora e una difficoltà per costituire questa unità italiana, credettero che fosse più opportuno ricorrere ad una confederazione di Stati. Ma oggi la posizione è tutta diversa: abbiamo l’Italia una e indivisibile e la vogliamo conservare una e indivisibile anche quando avremo costituito le nostre Regioni e avremo dato le autonomie a queste Regioni.

Circa la facoltà legislativa concessa alla Regione, dopo il discorso del collega Mannironi io potrei anche fare a meno di parlare. Egli ieri ci ha ricordato che delle funzioni normative, in fondo, hanno anche i Comuni, perché il diritto regolamentare dei Comuni, se non può dirsi un diritto legislativo, certamente è qualche cosa di più del regolamento di esecuzione del potere centrale, perché il regolamento comunale non è la norma per l’esecuzione della legge, ma è qualche cosa che dà una norma per sé stante. Potremmo dire che è un regolamento d’attuazione; e in questo regolamento vi sono anche delle penali; questi regolamenti danno il diritto di elevare contravvenzioni, quindi attribuiscono l’esercizio forse più alto della sovranità, quale è il diritto penale. E la facoltà di ordinanza attribuita ai sindaci non costituisce una particella di sovranità, quando si commina una pena e questa pena dà luogo ad un procedimento penale?

E allora, non mi pare che sia soverchiamente da spaventarsi se alle Regioni si concede e si dà una facoltà legislativa. È questione di limiti, di confini, perché giustamente a me pare qui delle obiezioni sopra alcune determinate materie sono state sollevate; e certamente vanno prese nel più largo conto le giustissime osservazioni del senatore Einaudi circa il regime delle acque.

Nella Commissione dei settantacinque, come risulta dai verbali, un altro componente, che in questo momento non ricordo, sollevò la questione delle miniere e ritenne che, mentre faticosamente l’Italia era riuscita a riunire in una legge unica le frammentarie, divise e discordi legislazioni sulle miniere – che si riportavano alle legislazioni singole degli antichi stati ed era stato ritenuto un progresso averle riunite – oggi con le facoltà legislative date alle Regioni può quasi sembrare che si voglia fare un passo indietro.

Sono questioni che potranno essere discusse e vagliate; ma che non potranno attardare l’istituzione delle Regioni, quando noi diamo tutte le garanzie che esse non possono sovrastare né contrastare il potere centrale.

Il prof. Guicciardi, che qui è stato ricordato nelle scorse sedute dall’onorevole Preti, nella memoria presentata al Congresso di Venezia del febbraio, al Congresso delle provincie venete, diceva che l’attribuire un potere legislativo alle Regioni significava attribuire ad esse il potere della sovranità e quindi fatalmente si veniva a creare uno Stato federale.

Ora, queste particelle di sovranità sussistono in molti organi statali, anche quando non vi è la Regione. E l’amico Clerici, in occasione della discussione sull’articolo relativo allo sciopero, fece notare come particelle di questa sovranità risiedessero nel magistrato quando emetteva una sentenza.

Non mi sembra quindi che questa riflessione dell’illustre professor Guicciardi possa avere tale consistenza da farci abbandonare un sistema che riteniamo opportuno e necessario perché nel campo tecnico, nel campo che non investe i problemi unitari e fondamentali dello Stato, quella che è la legislazione, per una delega statutaria, attribuita alla Regione – perché in fondo noi non facciamo che una delega statutaria alla Regione – possa esplicarsi secondo le esigenze e le condizioni speciali dei singoli luoghi.

Così, si è accennato alla riforma agraria. Certo, le linee generali dovranno essere date da criteri generali, ma il problema agrario è fondamentalmente diverso da Regione a Regione e da zona a zona; e quindi la Regione che vive gli interessi locali potrà creare quegli accomodamenti e quelle leggi sussidiarie che consentiranno di poter applicare le leggi generali con efficacia.

Quante leggi non si fanno infatti, onorevoli colleghi, che non si possono poi applicare perché altrimenti non potremmo amministrare, perché molte volte la legge è difettosa e l’esperienza e l’equità debbono sovente far modificare il testo scritto, riportandolo alla mente del legislatore!

Si tratta quindi, io penso, di una questione di limiti, di una questione di confini; e noi potremo con obiettività, con serenità, qualunque siano le nostre idee politiche, studiare e convenire in quella che possa essere e debba essere la materia delle leggi che può, in linea generale e sussidiaria, emettere la Regione.

Ho udito anche dire che vi sono degli allarmi fra gli insegnanti delle scuole e degli istituti industriali; non è a mia conoscenza, se ciò abbia formato o no materia di discussione al congresso che detti insegnanti hanno tenuto in questo mese a Milano: ma certamente noi non abbiamo che lo scopo di fare una legge che risponda ai bisogni delle popolazioni, che risponda ai bisogni e all’avvenire del Paese, e possiamo vagliare i vari voti. Io penso quindi che, da qualunque fonte possano venire dei suggerimenti, essi potranno, con spirito aperto, venire esaminati ed eventualmente accolti dalla Commissione, la quale, per bocca del suo Presidente, ha già fatto conoscere che si potrà addivenire ad una revisione che sarà tanto più utile, dopo che sarà stato espresso in questa aula il pensiero degli esponenti dei vari partiti.

Ma è comunque opportuno che la vita locale abbia quell’espansione che è necessaria perché il popolo nostro, partecipando più vivamente alla vita politica del proprio Paese, possa veramente apportarvi tutto il contributo della propria intelligenza e delle proprie forze.

Ma se la Regione vuole essere un organo autonomo e, soprattutto, se la Regione vuole essere un organo di decentramento, perché anche quando emette provvedimenti legislativi, intende essere un elemento di decentramento, è necessario che essa assorba funzioni attualmente assegnate allo Stato, e non assorba o distrugga quelle che sono attribuite agli enti locali preesistenti. Noi siamo contrari ad un centralismo di Stato – centralismo che non ha a che vedere con l’unità dello Stato, perché l’unità dello Stato è una cosa sacra, mentre il centralismo è un difetto che va corretto – noi vogliamo che la Regione sostituisca il centralismo di Stato, vale a dire che si sostituisca allo Stato in certe materie di indole amministrativa, di indole tecnica, come sono i problemi agrari, i problemi dei lavori pubblici, in cui essa vede più da vicino necessità e circostanze dei luoghi, circostanze che già il legislatore ha visto quando per il passato ha fatto leggi speciali par la Basilicata, per la Calabria, per la Sardegna ed ha riconosciuto che vi erano condizioni di vita speciali che richiedevano provvedimenti speciali. Ora, quello che è stato fatto transitoriamente per questa o per quella Regione, noi, in fondo, lo facciamo definitivamente con un organo stabile, nell’interesse di tutte le Regioni italiane, di modo che la legge in questi problemi tecnici risponda ai bisogni effettivi delle popolazioni. Ora, volendo noi fare della Regione un organo di decentramento statale, dobbiamo evitare di farne un organo accentratore dei poteri delle Provincie e magari dei poteri dei Comuni. Credo che nessuno pensa di toccare i Comuni nella loro libertà, che nessuno pensa di toccarli nelle loro facoltà; anzi penso che tutti tendano ad accrescere i poteri e le mansioni di questo organo vivo, che ha la rappresentanza locale effettiva degli interessi della popolazione vivente in un determinato territorio. Ma io penso che anche un altro ente vada rispettato, e questo ente è la Provincia; perché se noi nella Regione vediamo un organo di accentramento dei poteri della Provincia, allora noi ad un accentramento statale, avremmo sostituito un accentramento regionale e non avremmo risolto il problema del decentramento.

In fondo, la Provincia, anche come organizzazione, è conservata nel testo della Commissione dei settantacinque, ma è conservata in una maniera che, secondo l’interpretazione di alcuni autorevoli membri, rappresenta un qualche cosa di più della Provincia attuale. Infatti l’articolo 107 dice: «Le Provincie sono circoscrizioni amministrative di decentramento statale e regionale». Quindi sembra da questo articolo che la Provincia debba avere facoltà maggiori di quelle che non abbia, appunto per il decentramento statale, ed essendo l’organo della Regione vedrebbe aumentare, attraverso gli aumentati poteri della Regione, anche i poteri propri.

E l’articolo 126 mette a fianco di queste circoscrizioni amministrative una Giunta nominata da corpi elettivi. Il che fa supporre che coloro che hanno stesi questi articoli hanno inteso vedere la circoscrizione provinciale non semplicemente come una circoscrizione puramente materiale, burocratica, ma hanno voluto mettere a fianco l’elemento elettivo, vivificatore che desse a questo organismo una vita, un pensiero, una attività. Ora, se così fosse, in fondo la differenza sarebbe molto più tenue di quello che a prima vista non paia. Però, d’altra parte, non è possibile non tenere conto del pensiero, non tenere conto dei voti che la maggioranza delle provincie italiane ha fatto.

Io sono un Presidente di deputazione provinciale e non vorrei essere sospettato di venir qui a fare una difesa d’ufficio. Un po’ i miei anni, i quali non mi fanno sperare ascensioni ulteriori, mi sono garanzia della sincerità del mio dire. Ma l’essere Presidente di una deputazione provinciale mi ha messo nella circostanza di vedere, di sentire, di vivere l’organismo della Provincia.

Qui da molti si è detto – esagerando in un senso – che la Provincia è qualche cosa di quasi inesistente, un ufficio burocratico per i folli e per gli esposti. Altri l’ha magnificata come un organo di grande vitalità. Forse hanno esagerato gli uni e gli altri, perché anche in quello che sembra un piccolo servizio amministrativo qual è quello dei folli, vi sono – per esempio – implicate tante altre questioni le quali, secondo me, suggeriscono la necessità che a fianco del burocrate vi sia una deputazione provinciale, una giunta (o come la volete chiamare) che sia espressione di popolo e che possa usare quella libertà che il mandato elettorale le dà. Perché nella materia dei folli, la Provincia non ammette e non esclude nessuno dal manicomio; è un servizio, ma i pazzi vanno al manicomio attraverso un’ordinanza dell’autorità giudiziaria e ne sono dimessi dopo un certificato medico che li fa uscire dalla casa. La provincia non ha che una funzione sussidiaria: quella di anticipare le spese per rifarsi su coloro che hanno l’obbligo degli alimenti; e quando si va a quest’obbligo degli alimenti, che riguarda quasi sempre tutta piccola gente, gente minuta, e si va attraverso le informazioni catastali, attraverso le informazioni dei carabinieri, attraverso – direi – tutto uno spionaggio amministrativo a rilevare la consistenza di queste piccole famiglie, spesso obbligate per un terzo o quarto grado di parentela che hanno con gli interessati, allora entra l’elemento equitativo per evitare giudizi inutili e molte volte pregiudizievoli sia alle parti che all’amministrazione provinciale; e queste transazioni non ve le farà nessun burocrate, perché il burocrate ha il timore di essere sospettato, perché il burocrate non ha la visione dei bisogni e degli interessi del popolo; queste transazioni non ve le può fare che un corpo elettivo che senta le necessità e i bisogni dei suoi amministrati.

E anche per gli esposti si presentano tanti problemi. La legge sugli esposti avrebbe bisogno di un grande rimaneggiamento. Quando voi pensate che al 14° anno finisce l’assistenza a questi poveri esseri abbandonati, quando voi pensate che legalmente a 14 anni bisognerebbe prendere una giovinetta, nel periodo più pericoloso della sua vita, e gettarla sul lastrico perché non conosce i suoi genitori; quante volte l’amministrazione provinciale supera la legge e non consegna questi piccoli esseri finché non trovano un padre onesto che assicuri loro moralità e sanità fisica e un pane per il resto della loro vita!

Senza parlare degli altri obblighi assistenziali che si innestano alla Provincia e che domani potrebbero essere modificati, come per esempio l’assistenza ai tubercolotici, ai tracomatosi, ecc.

Ma c’è qualche cosa di più: c’è il diritto d’iniziativa che una Deputazione provinciale valida sa sfruttare. Io non so come vadano le altre Provincie, ma so che nella mia Provincia l’amministrazione provinciale è in mezzo a tutti i bisogni locali: qualunque problema si presenti, convoca i rappresentanti dei partiti, convoca le autorità locali, i sindaci di determinate zone per problemi collettivi; e quindi è tutto un lavoro che il burocrate non fa perché disimpegna solamente il suo ufficio e non sente quelli che sono i bisogni della popolazione. Ritornando più indietro, al servizio delle strade, mi permetto di far osservare che si è detto come il servizio delle strade fosse un qualche cosa di poco importante. Forse quelli che parlano così hanno la visione di quelle Regioni in cui la strada è un problema risolto, e si tratta quindi solo di manutenzione. Ma noi del Mezzogiorno d’Italia – e mi rivolgo ai deputati di tutti i partiti – sappiamo che cosa sia il problema della viabilità e le nostre strade per la trasformazione e la valorizzazione delle campagne; sappiamo come questo problema della strada è molto lontano da una qualsiasi soluzione e che non è solamente problema di manutenzione ma di studio delle singole zone per creare arterie stradali, per creare i mezzi onde sviluppare queste vie che sono la vita delle nostre popolazioni. Nel Mezzogiorno d’Italia, almeno nella mia Provincia, abbiamo una rete completa di vie mulattiere che rispondeva ai bisogni di due secoli fa, quando il trasporto era fatto con i muli. Oggi queste vie dovrebbero essere tutte carrozzabili se non addirittura camionabili. Questo è un problema gravissimo che travaglia tutto il Mezzogiorno d’Italia.

Amici delle altre Regioni venite a vedere ed a studiare il nostro problema, non attraverso i libri, ma nella vita vissuta in mezzo al popolo e vi convincerete dei nostri bisogni e delle nostre aspirazioni. E ritornando alla Provincia: come è possibile che la Costituente non tenga presente la voce che viene da tante parti, da tanti partiti diversi, quando, se sono esatte – e non v’è ragione da dubitare – le notizie date dal Congresso delle Provincie di Firenze, dal referendum indetto dal Ministero della Costituente, ben il 75 per cento delle risposte fu per la conservazione della provincia come ente autarchico? Ed al Congresso di Firenze la grande maggioranza dei convenuti si espresse sull’ordine del giorno Migliori, Presidente della deputazione provinciale di Milano, che chiedeva la conservazione della Provincia come ente autarchico e che ebbe 48 voti favorevoli, 11 contrari e 8 astenuti. Dagli atti del Congresso si vede che i voti degli 8 astenuti e degli 11 contrari si riferiscono ad altre ragioni e considerazioni. Né è stato isolato il voto del Congresso di Firenze, cui hanno partecipato i due terzi delle Provincie italiane, perché esso fu preceduto dal Congresso di Modena dei rappresentanti delle amministrazioni dell’Emilia, e fu preceduto dal Convegno delle amministrazioni provinciali del Veneto che si presentarono, con memorie del professore Guicciardi, al Congresso con una preparazione organica. Abbiamo avuto poi, e hanno ricevuto tutti i Deputati in questi giorni, il voto dell’Unione delle Provincie lombarde dell’8 ottobre 1946 che richiamandosi al voto del Congresso di Firenze lo approvava e raccomandava alla Costituente. E nel mese di gennaio – è inutile che vada a ricordare la data, che ha poca importanza – a Bologna vi fu un’altra riunione di rappresentanti delle Provincie e la maggioranza affermò la conservazione della Provincia come ente autarchico. E nel febbraio in due riunioni tenute a Venezia, mi pare il 6 ed il 22 febbraio, l’Unione delle Provincie Venete ha riaffermato il voto che la Provincia fosse conservata come ente autarchico.

Dagli atti della Commissione dei settantacinque risulta che per piccola maggioranza fu approvata la proposta di soppressione della Provincia come ente autarchico; i deputati del nostro Gruppo, nella quasi totalità, votarono per la conservazione della Provincia.

Se noi dobbiamo in questo momento fare opera di collaborazione e di pacificazione fra i partiti, per presentare al popolo una Carta costituzionale che sia l’espressione del maggior numero di consensi, è necessario venire ad una transazione. E quindi penso che anche coloro, che erano contrari alla conservazione della Provincia come ente autarchico, debbano fare sacrificio della loro idea perché l’ente Regione venga creato ed entri nelle simpatie del popolo, perché le riforme in tanto sono fruttifere, in quanto trovano alimento e vita nel consenso popolare.

Ora, si può fare una questione: come possono coesistere Provincia e Regione?

Il problema fu posto al Congresso di Firenze; la deputazione provinciale di Firenze in una pregevole relazione, che poi formò il sustrato della votazione sull’ordine del giorno Migliori, presidente della deputazione provinciale di Milano, armonizzava questi due enti. Ed io penso che, se si seguisse quella linea, cesserebbero molte contestazioni fra Provincia e Provincia. La deputazione provinciale di Firenze proponeva che al centro della Regione fosse un Consiglio regionale ed una presidenza regionale, come organo normativo, ma che organi di esecuzione fossero e restassero le amministrazioni provinciali; evitandosi, così, una duplicazione di organi amministrativi e l’insorgere di contrasti.

D’altra parte, i rappresentanti delle provincie venete al Congresso di Firenze facevano considerare che mal si affermava che, creando la Regione, si sarebbero avute quattro burocrazie; perché la Regione, se deve essere ente decentratore, deve decentrare il potere centrale dello Stato nelle materie tecniche e amministrative; per cui, parte della burocrazia statale deve fatalmente rifluire nella Regione. Allora, non sono quattro le burocrazie, ma tre: Comune, Provincia e Regione; perché nelle materie demandate alla regione la burocrazia centrale non entra più; altrimenti, come parlare di decentramento e di autonomia? Ritenere che contemporaneamente agli organi regionali, per le stesse materie, debbano sussistere organi centrali, significa, di fatto, negare il decentramento amministrativo.

Certamente, anche nelle questioni tecniche vi sono, vi possono essere e vi saranno problemi di indole generale, che superano l’ambito della Regione; e questi sono problemi statali.

Per esempio, il problema del porto di Napoli non è e non può essere problema di Napoli o della Campania, ma è problema nazionale, perché investe la vita di tutta una organizzazione commerciale, che ha fini nazionali ed internazionali. Così pure, il porto di Genova non è soltanto problema della Liguria, ma di tutta l’Alta Italia e del centro Europa, che fa capo attraverso l’Alta Italia a Genova.

Quindi vi sono dei problemi i quali, pur esistendo nella Regione, restano e devono restare problemi nazionali.

E allora, così sgomberato il terreno da molte difficoltà, io penso, modestamente con la voce modesta dell’uomo di provincia, che porta qui la sua piccola esperienza provinciale, di avere portato una piccola pietra, perché questo nuovo edificio vada costruendosi, e perché molte obiezioni cadano in una comune concordia di intenti, in una chiarificazione di idee.

E bisogna anche pensare alla rappresentanza di questi enti.

È stato da alcuni proposto che restasse l’antica impalcatura dei Consigli provinciali a base mandamentale facendo della Regione quasi una federazione di province, perché i Consigli provinciali avrebbero dovuto nominare il Consiglio regionale.

Sembra più adatto il pensiero di altri, che viceversa chiedono che la vecchia impalcatura del Consiglio provinciale scompaia.

Io non so che cosa avveniva nelle altre parti d’Italia, ma per noi del Mezzogiorno il vecchio Consiglio provinciale era legato a una vecchia concezione feudale del mandato politico.

Noi avevamo dei feudi elettorali, dove i primi Ministri ricavavano la loro maggioranza a tutti i costi.

Il prefetto, agente elettorale, il quale passava tutte le deliberazioni, anche le più strane ed immorali, all’Amministrazione amica del deputato, boicottava tutte le deliberazioni delle amministrazioni che non la pensavano come l’uomo del cuore del Capo del Governo.

Non solo, ma molte volte si spingevano le amministrazioni soggette a tutela anche alla illegalità e l’illegalità era annotata, perché quando veniva il giorno delle elezioni si ricordava che c’era qualche conto aperto e perché questo conto non fosse reso, bisognava votare per il candidato del Governo. Così gli esattori si vedevano i conti non approvati per decenni, perché fossero tenuti in stato di servitù, appunto per questa ragione elettoralistica. E d’altra parte il deputato feudatario (perché specie in alcuni periodi ogni provincia era stata affidata ad un proconsole il quale dirigeva, disponeva, la vita politica del Paese facendo il servitore del Governo e ricevendo dal Governo in cambio tutti i favori per sé, per i suoi amici e per le amministrazioni sue amiche) aveva una sottocategoria di valvassini e valvassori rappresentati appunto dai consiglieri provinciali, che erano i delegati di zona di tutto questo malcostume politico che noi, a qualunque partito apparteniamo, intendiamo rompere ed abbiamo rotto con la proporzionale, perché io sono un assertore convinto della proporzionale, sopratutto perché sono un meridionale che ha visto attraverso la proporzionale spezzata la servitù politica di questo feudalesimo, che è la piaga del Mezzogiorno e che è una vergogna che dobbiamo scuotere per volontà concorde di tutti gli uomini liberi attraverso i sindacati, attraverso le organizzazioni operaie, attraverso l’elevazione del pubblico costume, dando esempio a tutti, che noi costruiamo la nostra vita su un sentimento di giustizia e non di favore. (Applausi).

Allora io penso che non dobbiamo far risorgere dei frantumi di questo passato che non vogliamo più vedere risorto, per cui penso che i consigli provinciali, le giunte, per dir meglio, provinciali, debbano avere un’altra base, un’altra origine.

E quindi credo che sia stato ben detto quello che alcuni colleghi (non faccio nomi, perché hanno manifestato le loro idee in discorsi familiari ma d’altra parte non intendo pigliarmi il merito di idee non mie) suggerivano: che i consiglieri regionali eletti nelle singole province della Regione costituissero la Giunta provinciale della loro Provincia.

Ed allora l’elezione dei consiglieri regionali potrebbe essere fatta per Provincia e gli eletti nell’ambito provinciale a collegio unico, a mandamento unico, a circoscrizione unica potrebbero essere contemporaneamente i componenti della Giunta esecutiva della circoscrizione provinciale e rappresentanti al Consiglio regionale.

D’altra parte, questo è un particolare di poca importanza. Io l’ho voluto dire appunto perché fosse oggetto di studio e di ricerche.

Nel testo di legge non si accenna affatto alle Camere di commercio ed io non intendo dire al riguardo nessuna parola, ma intendo affidare il problema ai componenti della Commissione. Evidentemente si vuole conservare la Camera di commercio, ma si vuole fare che sia oggetto di una legislazione speciale.

Però credo che sia pervenuto a tutti voi, come è pervenuto anche a me, un voto delle Camere di commercio che vorrebbero una interferenza nei consigli regionali ed allora se queste Camere di commercio vogliono una interferenza nei consigli regionali, fatalmente è necessario che in un modo qualunque la legge costituzionale le contempli.

Io personalmente ho manifestato alla Consulta l’opportunità della fusione degli uffici provinciali dell’industria con le Camere di commercio perché, com’è noto, oggi noi abbiamo due organismi: la Camera di commercio, con una funzione molto vaga, di voti, di studi, ecc., e poi abbiamo un organo esecutivo, l’Ufficio provinciale dell’industria e del commercio che non dipende dalla Camera di commercio, ma dipende dal Ministero dell’industria.

Era una delle tante interferenze del centralismo fascista, che aveva creato i podestà di nomina regia e non contento, aveva voluto i segretari di nomina governativa, i presidi delle provincie di nomina regia e i segretari generali delle provincie di nomina governativa. Così per le rappresentanze degli interessi dell’industria, del commercio e dell’agricoltura, aveva fatto di nomina regia i componenti i consigli, ed aveva stabiliti come organi statali gli uffici di esecuzione, cioè quelli che avevano nelle mani la vita economica della nazione.

Ora, mi sembra che questo stato di cose avrebbe dovuto essere modificato, i due enti avrebbero dovuto fondersi ed avrebbero dovuto avere nella vita dell’industria, del commercio e dell’agricoltura una funzione di compartecipazione e di collaborazione col potere centrale, perché io pensavo che i consigli superiori dell’industria e del commercio, se il fascismo li ha fatti ancora sussistere (ma prima del fascismo c’erano), in parte fossero eletti dai rappresentanti della Camera del commercio e dell’industria, per modo che la vita della periferia rifluisse nella vita centrale. Prima dell’avvento fascista, le Camere di commercio si erano costituite in Unione delle Camere di commercio italiane, il che stava a significare che esse non trovavano nello Stato l’assistenza necessaria, ed avevano bisogno di un organo libero che le associasse e ne convogliasse gli interessi; mentre viceversa, se affluissero direttamente nella vita dello Stato vi porterebbero, oltre allo studio del burocrate, il bisogno e la passione della vita vissuta tra le difficoltà che la vita incontra, e questo contatto con la realtà, la vita e gli organi amministrativi locali, renderebbe più perfetto e vitale l’organo dello Stato.

Un problema forse grave, e che io mi limiterò ad accennare è quello del controllo. Noi siamo per l’autonomia, e siamo contrari a tutti i controlli che volessero vietare, o coartare, o distruggere questa autonomia, ma non possiamo dimenticare i controlli di legittimità, vale a dire quei controlli che garantiscono la libertà del cittadino e garantiscono altresì la regolarità degli atti degli enti locali. Penso anzi che in regime di democrazia il controllo di legittimità debba essere più efficace per la maggiore garanzia della libertà e della democrazia. Perché la libertà non può essere intesa come libertà per sé stessa; la libertà vuol dire e significare il riconoscimento anzitutto e soprattutto della libertà degli altri, come democrazia vuol significare non il predominio di una parte, di un uomo, di una fazione, di un aggregato di persone, ma vuol dire che ognuno porta – per quanto vale e può – la sua parola, la sua opera nell’edificio generale, nell’organizzazione della vita nazionale, non volendo sopraffare nessuno, limitandosi a quello che è e rappresenta nel Paese. Allora io penso che questo regime dei controlli vada riveduto; penso che in una legge costituzionale noi non possiamo disciplinare l’intiera materia dei controlli che richiede una legislazione a parte; ma qualche frase generale va pur messa, ed a me pare che l’articolo 122 non sia completamente rispondente a questa esigenza. Ed io non intendo riportarmi a quello che ho letto nelle relazioni di uomini illustri circa il controllo preventivo, circa il controllo repressivo ed il controllo sostitutivo; certo però, dolorosamente, noi vediamo che, nel costume pubblico, molta parte del fascismo sussiste ancora ed è questo morbo che noi dobbiamo distruggere! Del fascismo sono restate due terribili eredità che noi dobbiamo combattere con tutte le nostre forze, a qualunque corrente appartenga la nostra fede politica: la corruzione e la violenza!

La violenza che si esercita ancora nelle forme più brutali, e noi vediamo che molte volte le nuove amministrazioni, appena giunte al potere, sentono il dovere di licenziare gli impiegati che non hanno votato per loro. Questa è negazione di libertà e di democrazia e dobbiamo lottare contro questi sistemi con tutte le nostre forze oggi, e, se occorresse, anche domani, perché dobbiamo creare un costume e una vita nuova, perché le libertà democratiche si alimentano soprattutto attraversa la cura del costume politico che questa libertà e vitalità deve alimentare, ed attraverso la pubblica opinione che deve controllare le pubbliche amministrazioni. Se questi fatti avvengono è pur necessario che vi sia qualche autorità, non soggetta ai partiti, al disopra di tutti, per quanto è possibile, che assicuri la libertà e i diritti di tutti i cittadini, e pensa che voler limitarsi ad un tribunale di legittimità sia poca cosa, e che quando questo tribunale di legittimità si metta semplicemente nei centri della Regione, la difficoltà di adire questa forma di giustizia diventa così difficile che il piccolo commesso comunale, la guardia campestre, l’applicato di segreteria non saranno in condizioni di poterne usufruire, e quando otterranno una sentenza saranno già morti di fame loro e le loro famiglie. Ora, se noi amiamo la libertà, se noi amiamo la democrazia, dobbiamo creare degli organismi agili per la difesa di questi interessi. Dovremmo innanzitutto emettere un giudizio di responsabilità verso gli amministratori, l’azione popolare ampiamente riconosciuta e sostenuta, dovremmo forse anche in questi casi trovare una forma di un visto preventivo per queste determinate materie che riguardano i contratti di impiego. Come pure, in alcuni casi, dovremmo creare gli uffici ispettorali, i quali, vicini all’amministrazione comunale, possono essere i consiglieri e la guida della stessa amministrazione. Forse noi dovremmo anche ammettere che in alcuni casi gli ispettori potessero sostituire l’amministrazione, per denegata giustizia. Anche oggi noi abbiamo il mandato d’ufficio. Quando l’impiegato non è pagato dalla propria amministrazione, e ne ha il diritto, egli può rivolgersi alla Giunta provinciale amministrativa, la quale emette il mandato d’ufficio, attraverso una procedura in verità un po’ lunga: prima deve chiedere al Comune la ragione del diniego, deve attendere risposta, e poi emette il mandato d’ufficio. Ma già è qualche cosa: c’è il Commissario che va per i singoli Comuni, per determinati atti, quando vi è giustizia denegata.

Ora, noi non per un eccesso di libertà, che potrebbe diventare libertinaggio, non per un eccesso di autonomia, non dobbiamo lasciare indifesi gli umili in queste che sono le loro legittime aspirazioni, cioè di una giustizia che deve essere fatta a tutti, principalmente a quelli che più ne hanno bisogno. Quindi, io penso che questa questione dei controlli vada rivista, e se resterà, come spero, la Provincia come ente autarchico, bisogna che anche provincialmente un qualche organo di controllo esista. Oggi, i prefetti per il loro passato sono considerati come degli spauracchi, però un organo amministrativo di giustizia bisogna che vi sia, qualcosa che sia garanzia per tutti bisogna che rimanga, se noi vogliamo far crescere queste nuove istituzioni in un regime di consenso e in un regime di armonia.

Per il contenzioso amministrativo, noi abbiamo nel nuovo progetto un organo regionale di giustizia amministrativa contro il quale si potrà ricorrere al Consiglio di Stato. Qualche studioso suggerisce di dare a questo organismo le tre sezioni che ha il Consiglio di Stato. Questo lo vedrà il legislatore futuro, ma è necessario che il legislatore attuale lo tenga presente, qualora voglia accogliere questo sviluppo futuro della legislazione.

Ed io sulla questione del controllo ho creduto fare degli accenni e sollevare il problema. Abbiamo a capo della nostra Commissione dei settantacinque uno specialista in materia, abbiamo nei componenti dei Consiglieri di Stato, studiosi e professori di università. Raccomando a loro, che hanno una competenza che io non ho – perché la mia è modesta pratica di vita provinciale di una piccola provincia – di rivedere questa questione e questa materia dei controlli per perfezionare gli articoli che ad essi si riferiscono.

Ed ora, prima che metta fine al mio, forse, disordinato dire, mi sia concesso che dica anche una parola in ordine alle circoscrizioni.

All’articolo 123 noi abbiamo una disposizione che dice: «I confini ed i capoluoghi delle Regioni sono stabiliti con legge della Repubblica». Io penso che non solo i confini ed i capoluoghi di Regione dovrebbero essere stabiliti per legge, ma anche la elencazione delle Regioni.

Questo, a parer mio, porterebbe a un duplice vantaggio, porterebbe non la firma di una cambiale in bianco come l’attuale, perché dire una Regione qualsiasi e non dire le Provincie che la compongono può domani portare a delle sorprese nella legge che le indicherà nei suoi confini e nei suoi capoluoghi; ma se deve essere rimandata ad una legge questa determinazione dei confini e dei capoluoghi, non vedo la ragione perché non dovrebbe essere demandata anche a questa legge l’elencazione e la costituzione delle singole Regioni. Allora, forse un più approfondito esame sui luoghi controversi da parte di una commissione estranea e superiore alle competizioni locali, potrebbe portare una visione diretta dei bisogni reali e potrebbe determinare una circoscrizione che deve sorgere nella concordia, per evitare che provincie che vanno artificiosamente ad unirsi possano diventare nemiche ed elementi di disgregazione in seno alla stessa Regione.

D’altra parte, nella nota è detto che questa non è che una elencazione esemplificativa, in quanto la Commissione è in attesa che siano raccolti gli elementi di giudizio mediante una inchiesta in corso presso gli organi locali delle Regioni di nuova istituzione.

Io non so queste parole che cosa vogliano indicare, a quale inchiesta in corso ci si riferisca e quali sono questi organi che debbono fornire queste notizie.

AMBROSINI. Questo è stato fatto.

BOSCO LUCARELLI. Io non lo so. Noi non ne abbiamo avuto notizia né come deputati, né come rappresentanti di amministrazioni provinciali locali; quindi, deve supporsi che è tutto un lavoro fatto al di fuori e al di sopra di quelle che sono state e che sono le voci che vengono dalle amministrazioni locali.

Noi, per il momento, non abbiamo avuto nessun avviso, nessuna partecipazione, nessuna richiesta di alcun genere; ma qualora la Commissione volesse venire a questa determinazione attuale delle Regioni – io non ho presentato emendamenti perché la divisione oggi è ancora allo stato di una nebulosa – visto che allo stato ufficiale degli atti parlamentari nessuna definitiva comunicazione è stata fatta all’Assemblea, sottopongo delle preghiere, che potrebbero domani divenire proposte.

Quindi per ora la mia non è che una raccomandazione che io rivolgo in nome del riconoscimento a Regione del mio Sannio. Sul Sannio dirò pochissime parole, perché, in tema di discussione generale, mi sembrerebbe di abusare della pazienza dell’Assemblea, ove io mi attardassi in questioni le quali, per chi non conosce i problemi, potrebbero anche sembrare delle questioni campanilistiche.

Faccio presente che il Sannio non è semplicemente un ricordo storico, perché, se fosse un ricordo storico, basterebbe osservare che questo ricordo storico è nel pensiero di tutti gli italiani che hanno fatto per lo meno le scuole elementari. Io intendo viceversa affermare che il Sannio, nella sua struttura, nella sua economia, è un qualche cosa di reale, etnicamente a sé stante, nettamente distinto dalla Campania.

Diversi i sistemi di agricoltura, diversa la feracità del suolo, diversa la conduzione agraria, diverso il regime dei fondi, diversa la divisione estensiva che, nella zona della Campania, ha un’altissima percentuale di unità colturali che non superano l’ettaro, quindi tutte unità colturali ortilizie, e le terre non ortilizie danno due prodotti all’anno. La Campania è una Regione dalla terra feracissima che fu chiamata la Campania felice: Campania felix.

Vi è dunque una struttura economica diversa, il corso delle acque completamente diverso, giacché il Sannio ha numerosissimi corsi d’acqua a carattere torrentizio così da determinare problemi di bonifica e di arginatura completamente diversi, che in Campania non esistono.

A proposito della struttura economica, mentre nel Sannio e cioè nelle Province di Campobasso, di Benevento e di Avellino, domina l’artigianato, viceversa nelle Province di Napoli, Salerno e Caserta – mi riferisco ai rilievi statistici contenuti nella memoria della Camera di commercio di Benevento, che è pervenuta a tutti i deputati della Costituente – predomina invece l’operaio della grande industria.

Le cifre sono le seguenti: le aziende con più di cento operai sono appena 7 nella Provincia di Campobasso, 2 in quella di Benevento e 7 in quella di Avellino, di fronte alle 162 comprese nel territorio delle province di Napoli e Caserta e alle 55 comprese nel territorio della provincia di Salerno.

Si tratta quindi di una struttura economica diversa ed è evidente che, quando noi dovremo fare una legislazione locale, essa non potrà essere uniforme per le due province del Sannio e per le altre tre della Campania. Napoli ha poi il problema del mare, Napoli ha i problemi turistici, Napoli ha una viabilità diversa, Napoli ha un regime di autotrasporti diverso.

Che le tre province di Campobasso, Avellino e Benevento costituiscano un’unità etnica a sé, stanno inoltre a dimostrare tutti i precedenti storici. Nel disegno di legge Minghetti, il Sannio era riconosciuto una Regione a sé; nel progetto di legge del partito popolare, il Sannio era riconosciuto una Regione a sé; nel progetto Micheli per le Camere regionali di agricoltura, il Sannio era riconosciuto una Regione a sé.

L’unica divisione regionale che in Italia esista, quella ecclesiastica, riconosce essa pure il Sannio come una regione a sé; anzi l’archidiocesi di Benevento comprende paesi delle tre Province; per cui noi abbiamo già un affratellamento di animi, attraverso gli interessi spirituali delle tre Provincie. Ma io ricordo altri fatti: vi è una Deputazione di storia patria regionale sannita stabilita dal Ministero della pubblica istruzione, vi sono organi a base regionale per le tre Provincie come l’Ispettorato del lavoro, il Circolo di finanza; non parlo del monopolio della coltivazione dei tabacchi, perché a Benevento c’è una Direzione compartimentale che abbraccia un territorio più vasto della Regione. Ricordo anche che gli studiosi ed i rappresentanti delle amministrazioni delle tre provincie, nell’aprile del 1922, si riunirono a congresso a Benevento e istituirono la Società storica del Sannio, della quale fu acclamato a Presidente un illustre irpino, il senatore Enrico Cocchia, professore di lingua latina alla Università di Napoli. E voi avrete anche letto nel «numero unico» sul Sannio la protesta che egli, in nome del Sannio, fece perché fra le statue che circondano l’Ara della Patria il Sannio non era stato tenuto presente, e in cui affermava l’unità etnica delle tre provincie del Sannio che egli voleva ricostruire.

Ma quando dal campo degli studi, dal campo del pensiero si passa alla vita pratica, allora sorgono altre interferenze che tolgono, che tagliano la linea d’insieme e di armonia, che nel campo intellettuale e spirituale si era andata formando.

Io non aggiungo altro; non chiedo privilegi; non sono un campanilista, non lo sono mai stato. Dico all’Assemblea e alla Commissione: «Osservate e studiate, perché per noi il riconoscimento del Sannio a Regione è una opera di giustizia, nell’interesse delle tre Provincie, le quali oggi forse saranno divise da gelosie locali, ma che domani dovranno sentire dalla loro esperienza che fu un errore essere discordi assorbite in altra Regione, ove non giungono loro che le briciole dalla mensa dei ricchi, cadute dalla tavola».

Ricordo inoltre che nel 1944 furono distolti i fondi specificamente assegnati per le opere pubbliche alle provincie di Avellino, di Benevento e di Campobasso, per venire incontro ai bisogni di Napoli.

Ora, di fronte a questa realtà noi rivendichiamo la nostra unità regionale del Sannio. Se ce la concederete, farete opera di giustizia; se non ce la concederete, con costanza sannita continueremo a combattere fino a che giustizia sarà fatta. (Applausi al centro Molte congratulazioni).

PRESIDENTE. È iscritto a parlare l’onorevole Carboni. Ne ha facoltà.

CARBONI. Onorevoli colleghi, dichiaro subito che io appartengo alla schiera di coloro – e sono molti in quest’aula e fuori – i quali, mentre hanno simpatia per l’ente Regione, e si apprestano a votarne l’istituzione, non si sentono invece di approvare integralmente il progetto di Costituzione, perché ritengono che esso, per quanto attiene ai poteri, alle funzioni, alle attribuzioni della Regione non sia aderente alle condizioni attuali e concrete del Paese e non corrisponda ad un criterio di necessità o di opportunità e neppure allo stato della pubblica opinione. Il progetto ha provocato un diffuso senso di perplessità e di preoccupazione.

Questo delle autonomie è certamente il problema più delicato e più arduo della Costituzione; la sua soluzione caratterizzerà l’ordinamento dello Stato ed inciderà fortemente sull’avvenire d’Italia. Perciò esso va guardato e risolto non secondo concezioni astratte, teoriche, secondo idee di scuola o di partito, ma secondo le conseguenze che l’adozione o meno dell’autonomia, o di una forma particolare di autonomia, può produrre nella realtà italiana.

Ho seguito attentamente la discussione di questi ultimi giorni, nella quale sono stati pronunciati discorsi pregevoli, a cominciare da quello brillante dell’onorevole Tessitori, vibrante di appassionata convinzione, nella giustezza, opportunità ed utilità del progetto, e dominato da un senso di sicurezza e tranquillità di giudizio, che io – senza ombra di malignità – invidio sinceramente, fino a quello ammirevole per la sua alta linea politica pronunciato ieri sera dall’ onorevole Lussu. Ho ascoltato questi discorsi col desiderio di udire un argomento che mi convincesse a superare la mia perplessità, che mi dimostrasse la bontà e la convenienza del progetto sul terreno della razionalità e della realtà. Ma questo argomento non mi è stato offerto, o almeno non ho saputo intenderlo.

Perciò resto favorevole alla creazione dell’ente Regione con poteri più limitati di quelli previsti nel progetto di Costituzione, e cioè come organo di quell’ampio decentramento amministrativo, che, giusta la dichiarazione del secondo comma dell’articolo 106, costituisce uno dei caposaldi della riforma. Su questo punto non ci può essere apprezzabile divergenza di opinioni, di fronte all’esperienza dei mali del centralismo statale, di quel centralismo su cui poté affermarsi e svolgersi il totalitarismo fascista. Siamo quasi tutti d’accordo circa i dannosi effetti che l’accentramento ha provocato nella vita delle amministrazioni locali, soffocate nella possibilità di libera determinazione, nell’attività dell’amministrazione centrale, impacciata ed attardata nel suo funzionamento, ed anche nel Parlamento nazionale, spesso distratto dalle sue funzioni legislative e politiche per esigenze di carattere regionalistico, di difesa di quegli interessi che, non trovando la loro tutela in loco, dovevano essere sollecitati al centro.

Di fronte a questi gravi inconvenienti del centralismo, riconosciuti da parlamentari e da uomini politici di tutte le parti, non si può non essere fautori di un ampio decentramento amministrativo, inteso non in senso puramente burocratico, cioè come ripartizione dei servizi fra gli enti centrali e quelli periferici della stessa amministrazione statale, ma in senso organico, cioè come ripartizione delle funzioni amministrative fra gli organi dello Stato e gli organi degli enti locali, considerati come enti autarchici. Sicché l’attuazione del decentramento amministrativo presuppone la creazione di enti autarchici, idonei ad assolvere le funzioni da decentrare.

Ed è per questo che aderisco alla creazione della Regione come ente autarchico. Tra le funzioni da decentrare dallo Stato verso la periferia ve ne sono di quelle che non possono essere utilmente disimpegnate dal Comune o dalla Provincia, perché attengono ad interessi non localizzati entro i ristretti confini comunali o provinciali, e che si espandono in una sfera più vasta. Queste funzioni vanno attribuite ad un ente più ampio, la Regione. Trasferendo dallo Stato alla Regione, ente autarchico, fornito cioè di poteri e di organi deliberanti, le funzioni amministrative di carattere regionale, si compirà indubbiamente un notevole progresso sulla via della libertà e della democrazia, perché libertà e democrazia si ottengono solamente quando l’amministrazione si avvicina agli amministrati, e cioè quanto più direttamente i cittadini interessati possono regolare i propri interessi.

Però, se l’esistenza d’interessi che non si amministrano convenientemente a Roma stante il loro carattere regionale, consiglia o meglio impone la creazione dell’ente autarchico Regione, e se ciò giustifica pienamente l’attribuzione di vaste funzioni amministrative all’istituendo ente, non c’è bisogno di attribuirgli anche poteri politici, di farne cioè un ente investito dei larghi poteri legislativi previsti nel progetto di Costituzione. È su questo punto che la mia simpatia e la mia adesione alla riforma si arresta e subentra una forte preoccupazione, la quale m’induce ad un apprezzamento contrario.

L’onorevole Bosco Lucarelli, il quale nel suo discorso ha espresso i dati dell’esperienza di un uomo che ha vissuto la sua lunga vita nelle pubbliche amministrazioni, ammoniva saggiamente sulla necessità di andare cauti. Andare cauti, hanno detto anche altri oratori pur favorevoli al progetto di Costituzione; e questa cautela non deve cedere il passo alla suggestione della novità, che, congegnata dall’onorevole Ambrosini e dai suoi valorosi collaboratori col nobile intento di gettare le basi di un migliore avvenire, io temo che nella sua attuazione non corrisponderà all’interesse del Paese.

La pietra di paragone sulla quale dobbiamo saggiare l’opportunità della riforma ci è fornita, come già accennavo, dall’esperienza del passato, dalle condizioni attuali e concrete del Paese; in ragione delle quali dobbiamo ricercare le conseguenze che questo progetto – se attuato – potrà portare nella vita italiana. Guardando il progetto di Costituzione sotto questo profilo, non ritengo necessario fare un esame particolareggiato sulle singole materie rientranti nel potere legislativo dell’istituenda Regione; indagare ad esempio se sia opportuno attribuirle la potestà di legiferare in tema di trasporti o di scuole artigiane. Basta considerare il problema nell’aspetto generale: se cioè convenga la creazione di un ente politico costituzionale, con potere legislativo, il quale, se non erro, farà concorrenza allo Stato. Ciò è ammesso dalla relazione dell’onorevole Ruini, che, parlando dei tre aspetti del potere legislativo attribuito alla regione, specifica: esclusivo, concorrente e di attuazione; e l’onorevole Einaudi, con la sua alta autorità e competenza, ha dimostrato luminosamente la rischiosità di questa concorrenza legislativa.

L’attribuzione alle Regioni di un vasto potere legislativo, con esclusione ed in concorrenza dello Stato, è compatibile con l’esigenza dell’unità nazionale, che l’onorevole Bosco Lucarelli, poco fa, con appassionata parola, dichiarava dover essere non solo difesa ma rafforzata? Questo è il punto cruciale della questione. Valorosi colleghi hanno risposto affermativamente, proclamando anzi che lo Stato regionale attutirà i contrasti tra le varie parti d’Italia. Altri hanno espresso un’opinione opposta, che io ritengo più esatta e più aderente alla realtà. Quando si creano 22 Regioni, con assemblee munite di potere legislativo, in effetti si creano 22 parlamentini locali, che potranno fare leggi contrastanti fra di loro. L’onorevole Persico dice di no; ma invece è una possibilità innegabile, che genererà anche l’incertezza del diritto. Basterà che un cittadino attraversi, forse senza accorgersene, il confine tra due Regioni, per non essere più soggetto alla legge della Regione di partenza ma a quella della Regione di arrivo. E questo è un inconveniente da considerare attentamente.

Qualcuno ha creduto di scorgere nello Stato regionale ideato dall’onorevole Ambrosini affinità con lo Stato federale. Io non condivido questa opinione, ma temo ch’esso contenga in sé il germe degli stessi difetti e pericoli del federalismo; e non trovo convincente l’argomento di coloro che si tranquillizzano considerando che, se tali pericoli potevano preoccupare quando si trattava di fare l’unità d’Italia, non preoccupano più ora che essa è fatta. Non dobbiamo nutrire soverchie illusioni. Oggi l’unità esiste, ma da troppo poco tempo, perché si possa considerare stabilmente consolidata, ed è una unità contro la quale, purtroppo, si manifestano movimenti separatisti, dai quali dobbiamo difenderla.

L’onorevole Ambrosini si è preoccupato della obiezione, dedicando bellissime parole della sua pregevolissima relazione alla Commissione, per dimostrare che una cosa è lo Stato federale e altra cosa è lo Stato regionale. Riferendosi alla diversa genesi degl’istituti, l’onorevole Ambrosini ha osservato che nello Stato federale i singoli Stati membri, nell’atto di creare mediante un patto la federazione, non rinunziano alla loro sovranità originaria; nello Stato regionale, invece, il processo generatore è perfettamente l’opposto; non sono le Regioni che creano lo Stato, ma questo crea le Regioni come enti dotati di autonomia politica e ne stabilisce in concreto i poteri e le funzioni. Poi ha soggiunto: è vero che i diritti attribuiti alla Regione dallo Stato sono diritti costituzionali propri, garantiti in modo più efficace di quelli degli enti autarchici in genere; ma restano sempre diritti attribuiti dallo Stato e che, occorrendo, potranno essere modificati, o limitati con un’altra legge costituzionale.

Ora, io non nego che la genesi degli istituti nello Stato regionale dell’onorevole Ambrosini sia diversa da quella che è nello Stato federale. Però io penso che, per giudicare se il sistema proposto possa cagionare inconvenienti simili a quelli del federalismo, non bisogna guardare al processo generatore, ma alle funzioni e ai poteri concretamente attribuiti alle Regioni, perché sarà appunto nell’esercizio di queste funzioni e di questi poteri che si potranno verificare quegli inconvenienti. Ed è vano cercare di tranquillare la coscienza e di eliminare le preoccupazioni con la prospettiva di porre riparo ai mali, che si manifestassero, con successiva modificazione costituzionale dei poteri e delle funzioni. Se pericolo c’è, bisogna evitarlo sin d’ora; non attendere che si trasformi in danno per ripararvi.

I compilatori del progetto ammettono la possibilità del pericolo e, prevedendo conflitti fra la Regione e lo Stato, oltre che fra le singole Regioni, hanno proposto che il Governo possa rinviare i disegni di legge al Consiglio regionale, e, qualora siano confermati, possa impugnarli per incostituzionalità dinanzi alla Corte costituzionale, o nel merito dinanzi all’Assemblea nazionale.

Ma la necessità di organizzare una procedura apposita per dirimere i conflitti deve consigliare a procedere con estrema cautela ed a considerare se non sia meglio creare la Regione come ente autarchico dotato di larga competenza amministrativa, ma non di poteri legislativi e specialmente di poteri legislativi tanto vasti e complessi. Perciò vorrei consigliare alla Commissione di riprendere in attento esame il tema per stabilire se non sia il caso di sopprimere l’attribuzione del potere legislativo o, quanto meno, di limitarlo alla sola attuazione delle leggi generali dello Stato per adattarle alle condizioni particolari delle singole Regioni, o meglio di ridurre questo presuntuoso potere legislativo delle Regioni ad un semplice potere regolamentare, il quale, senza offendere il carattere autarchico della Regione, non ne farebbe un organo antagonista dello Stato.

Una voce. Questo è centralismo.

CARBONI. Non è centralismo, ma rispetto della unità dello Stato, con attuazione di quel vasto decentramento amministrativo, che è la sola esigenza del popolo italiano in questo momento. Il di più non è un’esigenza sentita dal popolo – mi permetta l’onorevole interruttore – ma soltanto una idea concepita e propagandata, sia pure con nobiltà d’intento, da una ristretta cerchia di studiosi e di politici.

Permettetemi, voi onorevoli colleghi che siete autonomisti integrali, di osservare che, se volete attribuire alle Regioni il potere legislativo, ciò è nell’intento di farne organismi capaci di provvedere alle esigenze regionali, autosufficienti. A questo scopo proponete anche l’autonomia finanziaria.

Ma credete realmente che con il potere legislativo e con l’autonomia finanziaria le Regioni avranno la possibilità di assolvere ai loro bisogni? O piuttosto non confessate voi stessi l’inidoneità del mezzo quando siete costretti ad escogitare quel fondo di solidarietà nazionale, che molto probabilmente si trasformerà in un fondo di gelosie e di contrasti?

Sinora lo Stato ha distribuito il gettito delle imposte tra le varie Regioni secondo le esigenze, senza badare alla loro provenienza. D’ora innanzi, se il progetto sarà approvato, saranno tanti rivoli diversi che giungeranno al fondo di solidarietà nazionale, dove si determinerà una differenziazione tra Regioni esuberanti e Regioni deficitarie; e dal fondo di solidarietà nazionale l’eccedenza delle Regioni ricche andrà a quelle povere, ma chi sa dopo quali e quante discordie e rivalità.

Non solo, ma in un momento come questo, in cui da tante parti si reclama la risoluzione del problema meridionale, credete realmente che essa sarà avvantaggiata dalla creazione della Regione? Credete realmente che le Regioni meridionali, sia pure sussidiate dallo Stato attraverso il fondo di solidarietà nazionale, saranno in condizioni di suscitare le energie necessarie per imprimere un nuovo sviluppo all’economia del Mezzogiorno? C’è da dubitarne fortemente, se non si voglia rispondere senz’altro negativamente, perché la ripresa del Mezzogiorno è condizionata dalla soluzione di alcuni problemi fondamentali (impianto di grandi centrali elettriche, riforma e bonifica del latifondo, costruzione di strade interregionali, regolarizzazione delle acque) i quali, per la loro grandiosità e per l’importo della spesa, vanno impostati e risolti sul piano nazionale.

SCHIRATTI. Ma lo Stato centralizzato questi problemi non li ha ancora risolti!

CARBONI. Concludendo su questo punto, sono convinto che nel momento attuale il progetto di Costituzione non corrisponde all’interesse generale del Paese. (Commenti).

CONTI. È in errore!

CARBONI. Questa è la mia opinione, caro onorevole Conti, opinione convinta e sicura la mia, come è convinta e sicura la sua, che è quella di un tenace regionalista. Ma che io abbia opinione diversa dalla sua non è motivo sufficiente per dire che io sono in errore e lei è dalla parte della ragione.

CONTI. Dimostri allora che noi siamo in errore!

CARBONI. Credo di aver portato il mio contributo, come già hanno fatto altri colleghi nello stesso senso. Ed in quello che ho detto, ho trovato un punto di appoggio in una realtà insopprimibile: che il problema, come è impostato nel progetto di Costituzione, non è sentito dal popolo (Commenti). Questo è un fattore di cui voi non potete non tener conto!

Una voce. Lei conosce solo l’opinione dei romani!

CARBONI. Non dei romani soltanto, i quali peraltro generalmente se ne disinteressano! Io parlo invece, non solo per quel che mi detta la coscienza, ma per la risonanza dell’opinione pubblica di vaste zone.

Un altro argomento, che desidero trattare, e sul quale l’onorevole Bosco Lucarelli ha espresso testé un pensiero coincidente col mio, è quello della Provincia. Il progetto di Costituzione conserva alla Provincia soltanto il carattere di circoscrizione territoriale e l’abolisce come ente autarchico. L’onorevole Bosco Lucarelli, dichiarandosi favorevole alla conservazione della Provincia quale organo autarchico, ha manifestato l’opinione che tale sia pure l’intenzione della Commissione dei settantacinque, perché l’articolo 107 del progetto stabilisce che: «Le Provincie sono circoscrizioni amministrative di decentramento statale e regionale» (nel che l’onorevole Bosco Lucarelli ha visto un allargamento della sfera di competenza della Provincia), e perché nell’articolo 120 si prevede l’istituzione di Giunte provinciali nominate dai Corpi elettivi. Senonché il concetto della Commissione è precisamente l’opposto: quello cioè di sopprimere la Provincia come ente autarchico. La Regione è prevista come ente di decentramento organico di alcune funzioni dello Stato; la Provincia, nel progetto di Costituzione, è considerata invece soltanto come circoscrizione territoriale, nella quale si decentrano burocraticamente i servizi della Regione e dello Stato, e le Giunte provinciali non sono concepite come organi deliberanti, ma di semplice vigilanza, informazione, esecuzione.

In tal modo il progetto di Costituzione procede in parte contro la direttiva segnata nel secondo comma dell’articolo 106, perché, mentre attua il decentramento amministrativo dallo Stato alla Regione, nell’ambito di quest’ultima applica il sistema opposto, concentrando nella Regione le funzioni amministrative sinora disimpegnate autarchicamente dalla Provincia. Non vale opporre che nel progetto si parla di circoscrizione amministrativa, perché questa è intesa come territorio nel quale distribuire i servizi amministrativi dello Stato e della Regione, che avranno propri uffici negli attuali capoluoghi e forse anche in centri secondari di ciascuna provincia. Avremo in ciascun capoluogo di Provincia, per esempio, l’Intendenza di Finanza, l’Ufficio di Questura, ecc.; potremo avere al di sotto del capoluogo di provincia uffici dell’amministrazione dello Interno, delle Finanze, ecc. Però tutto questo sarà, come dicevo, decentramento burocratico, non decentramento organico.

Si dice che la provincia è un ente troppo angusto per attuare un vasto decentramento amministrativo. E l’osservazione è indubbiamente esatta – e perciò ho dichiarato di consentire nell’opportunità della creazione della Regione – ma non vale come argomento contro la conservazione della Provincia non in sostituzione ma in coesistenza con la Regione.

Maggiore considerazione merita un altro argomento, che è stato molto dibattuto anche al di fuori di questa Assemblea. Si è detto da più parti che le Regioni hanno una struttura organica, etnograficamente, storicamente, economicamente, geograficamente, e che le Provincie sono invece creazioni artificiali. Non ripeterò quello che si è controbattuto su questo tema da coloro che hanno sostenuto la tesi favorevole alla conservazione delle Provincie. Dirò soltanto che quelle due affermazioni (della Regione come entità organica e strutturale e della provincia come creazione artificiale accettate generalmente con soverchia facilità) debbono essere sottoposte ad un esame approfondito, e ricorderò che, mentre si afferma e si vanta tanto la struttura organica della Regione, noi siamo assediati giornalmente dalle richieste delle popolazioni di zone delle varie Regioni d’Italia le quali aspirano ad essere distaccate ed a formare Regioni a sé stanti, il che dimostra che il sentimento regionale è più una parvenza che una realtà; e ricorderò pure che da quasi tutte le Provincie ci giungono voti per la loro conservazione.

Sono talvolta voti dei capoluoghi di provincia, i quali possono essere determinati da una spiegabile ambizione cittadina, possono talvolta, come diceva l’onorevole Lussu ieri, essere voti organizzati dal fronte elettorale dell’anti-autonomismo, ma il più delle volte sono l’espressione sincera delle popolazioni dei Comuni e delle campagne, ispirati da quella innegabile realtà che è il sentimento di solidarietà provinciale.

Non è il caso di ricordare ancora una volta quello che Minghetti diceva nel 1861 a difesa del suo progetto di riordinamento amministrativo basato sulla coesistenza delle Regioni, delle Provincie e dei Comuni. Ma voglio aggiungere che, se Minghetti nel 1861 poteva affermare che le Provincie non sono creazioni artificiali, oggi, nel 1947, cioè a circa un secolo di distanza, si deve tener conto che nel lungo esercizio delle funzioni autarchiche le Provincie hanno acquistato, se pure non l’avevano originariamente, una propria individualità.

Resta a considerare se le Provincie hanno un contenuto di funzioni che ne giustifichi la conservazione.

Qui hanno parlato Presidenti di deputazioni provinciali, hanno parlato uomini esperti della vita locale della nostra Italia, e tutti coloro che sono passati per le amministrazioni provinciali sanno che esse, nel lungo lasso di tempo dalla loro creazione ad oggi, e per effetto della sempre crescente espansione delle funzioni e dei servizi pubblici, hanno vasti compiti da assolvere, che non si limitano a quelli originari del ricovero dei pazzi, dell’assistenza agli esposti, della manutenzione delle strade. (Interruzione al centro).

L’anonima interruzione rivela il malvezzo di ricercare in ogni espressione di sentimento, in ogni manifestazione di pensiero un secondo fine egoistico! Io vi dichiaro, amici e colleghi, che, parlando come parlo, ubbidisco soltanto alla mia convinzione che il progetto non sia aderente ai bisogni del Paese. Io sono fortemente preoccupato; credo che questa mia preoccupazione sia condivisa da moltissimi di noi ed aspiro soltanto ad una cosa, che dalle nostre preoccupazioni, da queste nostre discussioni esca la soluzione migliore, non nell’interesse di questo o di quel partito, non nell’interesse elettorale di Tizio o di Caio, ma nell’interesse della Nazione.

Dunque, colleghi, dicevo che le Provincie hanno oggi una loro individualità ed una funzione da compiere.

Ma, si obbietta: se manteniamo la Provincia, alla Regione quali funzioni daremo?

Anche questa obbiezione si supera facilmente.

Il progetto assegna alle Regioni i seguenti compiti: funzioni legislative; funzioni di controllo sugli enti locali; esercizio di servizi decentrati dallo Stato, cioè di natura statale ed eccedenti l’ambito comunale; esercizio di servizi di carattere locale, già esercitati dalla provincia. Ed in questa maniera si è congegnato un organo pletorico e pesante. Io penso che la coesistenza delle Provincie con le Regioni potrebbe essere realizzata conservando alle Regioni le funzioni di controllo, quelle normative regolamentari o di semplice attuazione delle leggi dallo Stato, i servizi amministrativi decentrati dello Stato purché eccedenti l’ambito provinciale; ed assegnando alle Provincie, oltre alle funzioni di carattere locale eccedenti il comune e che già sono esercitate da esse, quelle statali eccedenti l’ambito comunale, ma inferiori all’ambito regionale.

Così si potenzierebbero le attuali Provincie e si snellirebbero le Regioni, che nella pletorica organizzazione del progetto, non sembrano sufficientemente idonee a realizzare quella semplificazione dell’amministrazione che è uno degli obbiettivi del decentramento, ad ovviare al difetto della lentezza e della pesantezza dei servizi, che, se non vado errato, l’attuazione del progetto provocherebbe nella Regione press’a poco così come ora si manifestano nello Stato.

Permettetemi di aggiungere poche parole per rispondere a coloro che hanno osservato che la conservazione della Provincia come ente autarchico determinerebbe un dannoso aumento della burocrazia ed una eccessiva pluralità delle assemblee elettive. La moltiplicazione della burocrazia è un’apparenza più che una realtà, perché il mantenimento della Provincia quale ente autarchico importerà in più la conservazione dei funzionari addetti agli organi deliberanti. Quelli addetti ai servizi esecutivi non saranno eliminati dall’abolizione delle Provincie, ci sarà di essi sempre bisogno, con un trasferimento di dipendenze dalla Provincia alla Regione.

D’altro canto, se si conserveranno gli organi e gli impiegati provinciali, si avrà una riduzione nei quadri burocratici regionali.

Comunque, non saranno poche centinaia di impiegati in più in tutta Italia, a costituire motivo di danno. E, per quello che riguarda la pluralità eccessiva delle assemblee deliberanti, sono lieto di sapere consenziente il simpaticissimo amico onorevole Conti, del quale ho letto che in seconda Sottocommissione egli osservò giustamente che la pluralità delle assemblee elettive non è un inconveniente in regime di democrazia, ma serve invece a favorire la formazione dei quadri direttivi della Nazione.

Voglio concludere con una raccomandazione: l’ordinamento regionale, costituente il cardine dell’organizzazione dello Stato, deve essere meditato attentamente. Della preoccupazione di tutti noi è chiara manifestazione la larghezza di questa discussione, con tanta generosità consentita dal nostro Presidente (Commenti). Questa larghezza è una manifestazione della fondamentale importanza del problema, intorno al quale si è determinata nella pubblica opinione una aspettativa maggiore che su qualsiasi altro tema. Se ne discute non soltanto nei grandi centri, ma anche nei piccoli paesi, non soltanto tra gli uomini di studio, ma anche presso il popolo minuto. Noi dobbiamo cercare non tanto di sforzare le nostre intelligenze nella ricerca degli argomenti più brillanti a sostegno delle tesi contrastanti, quanto d’interpretare il sentimento, i bisogni e gl’interessi effettivi della Nazione, perché soltanto così faremo opera duratura e proficua. Termino con l’augurio che l’unità degli intenti ci aiuti a trovare la soluzione migliore. (Applausi a sinistra Congratulazioni).

PRESIDENTE. È iscritto a parlare l’onorevole Cicerone. Ne ha facoltà.

CICERONE. Onorevoli colleghi. La relazione del Presidente della Commissione dei settantacinque dichiara, al Titolo «Regioni e Comuni»:

«L’innovazione più profonda introdotta dalla Costituzione è nell’ordinamento strutturale dello Stato, su basi di autonomia; e può aver portata decisiva per la storia del Paese».

Noi siamo perfettamente d’accordo col pensiero dell’onorevole Presidente Ruini, in quanto è dimostrato che le riforme amministrative che si introducono in uno Stato sono della più lunga durata. Molte volte quelle riforme hanno superato la tempesta del succedersi di regimi, hanno affrontato, direi quasi, l’ira del tempo e noi oggi possiamo ancora vedere come l’antico municipio romano sopravviva, e nella sua denominazione ma anche in qualche modo nella sua sostanza, nei nostri moderni Comuni.

Noi vediamo la Provincia, questo ente di amministrazione periferica, il quale da circa 150 anni in tutte o in quasi tutte le terre italiane assolve alla sua funzione di ente circoscrizionale.

Ma, prima di affrontare in pieno questo argomento, io desidererei liberare il terreno da due questioni che sono state sollevate e in quest’Aula e nelle conversazioni di corridoio.

La prima questione è la questione politica. Si è detto da qualche parte – e ci è stato detto anche in forma personale e privata – che la Regione, con la sua istituzione, avrebbe servito a trattenere l’espandersi dei movimenti di sinistra. Ora, è chiaro che la Regione è stata portata qui da partiti politici, ma che soltanto negli antecedenti questa riforma amministrativa – in quanto perorata dai colleghi democristiani e dalla tradizione della scuola repubblicana – è una questione politica; ma per le sue conseguenze a me pare assolutamente priva di vantaggi per questo o per quel partito politico.

Io non so come si sia potuto pensare che dividendo l’Italia in circoscrizioni amministrative più o meno vaste si sarebbe nientemeno cambiato il corso all’evoluzione della storia del nostro Paese. Noi abbiamo avuto il periodo clandestino e abbiamo visto che gli stessi movimenti politici, che le stesse correnti si formavano nella coscienza popolare sia nel nostro Mezzogiorno, per primo sgombrato dai fascisti e dai tedeschi, sia al di là della linea di fuoco, nel Nord, clandestinamente.

Ora, onorevoli colleghi, come volete che quanto è avvenuto per spontanea determinazione durante il periodo in cui l’Italia è stata divisa in modo netto, preciso, inesorabile, potesse poi essere in qualche modo intralciato o modificato nel suo corso da una riforma amministrativa in clima di democrazia?

Un altro punto desideravo chiarire: è quello della questione finanziaria. Si è parlato della questione finanziaria, per quanto riguarda la Regione, in due ordini di termini. Si è detto: certamente la Regione necessiterà di suoi funzionari, necessiterà di suoi uffici nei capoluoghi di Regione e nei distretti di Provincia. E questo è vero. Certamente questa organizzazione avrà bisogno di un bilancio. Ma si è detto molto autorevolmente in quest’Aula che pretendere l’autonomia finanziaria, in altre parole l’autarchia, l’autosufficienza economica di una Regione, poteva essere estremamente pericoloso. Ed io mi sono chiesto se, in un secolo, in un epoca in cui, non dico l’Italia sola, ma la stessa Europa non è sufficiente a se stessa, e il nostro pane quotidiano, il pane quotidiano degli italiani e dei francesi dipende dagli apporti e dalla buona volontà dei nostri amici d’oltre oceano; e quando il riscaldamento delle nostre case, delle case inglesi, delle case di Parigi è legato tante volte allo sciopero dei minatori che sono al di là dell’oceano, si possa seriamente pensare all’autosufficienza finanziaria di una Regione.

Pertanto ritengo che la circolazione dei beni, sia nostri propri, sia di quelli che ci verranno per scambio dall’estero, non è assolutamente connesso con la divisione amministrativa che sarà adottata nel nostro territorio. È una questione fra parte e parte del nostro Paese; è una circolazione che si opera nel mondo e che ci auguriamo faccia ritornare pace e benessere sulla nostra terra. E intendo così riportare il problema della riforma amministrativa nel suo campo specifico. È un problema veramente amministrativo; è un problema che va guardato senza la passione politica perché qualunque sarà la decisione che uscirà da questa Assemblea, nessun riflesso potrà avere nei partiti. Ora questo problema dell’amministrazione del nostro Stato va affrontato nella sua totalità. Un potere centrale, un Governo, un Paese si trova in linea di massima davanti a tre ordini di interessi: ci sono gli interessi centrali, gli interessi che investono tutto il Paese, e che sono la politica internazionale, le forze armate, la grande politica economica; vi è poi un secondo ordine d’interessi: gli interessi generali ma che si manifestano in periferia. Quando voi decretate l’ammasso del grano e quello dell’olio o adottate delle misure d’ordine pubblico di carattere generale, voi tutelate un interesse generale, ma quell’interesse generale si manifesta in Provincia: col raccolto nelle diverse terre d’Italia. Eppoi ci sono gli interessi locali propriamente detti; vi sono quegli interessi che nascono e si esauriscono nell’ambito di una circoscrizione locale. Ora, onorevoli colleghi, il modo di armonizzare e di amministrare questi tre grandi ordini di interessi è vario nelle funzioni dei popoli moderni. Può lo Stato accentrare tutto ed a mezzo di una politica totalitaria interessarsi di tutta quanta l’amministrazione di questi interessi. Può lo Stato adottare il sistema di larga autonomia, ma questo non significa che si tratta di uno Stato federale. Uno Stato che attua un sistema di grande autonomia può amministrare dalla capitale i larghi interessi e può lasciare al naturale svolgimento delle cose e delegare ai rappresentanti «in loco» l’amministrazione degli altri interessi. È l’istituzione tipica dell’Inghilterra e dell’antica Roma. Non è che ci sia una federazione, perché la federazione è un altro concetto. C’è invece una delega di poteri da parte del Governo centrale a elementi locali eletti o non eletti. Ci può essere un sistema misto di amministrazione, quando cioè un Governo attua al centro la politica generale e tramite i suoi funzionari cura gli interessi generali dell’amministrazione locale, lasciando, però, larga autonomia agli interessi locali, cioè lasciando che quegli interessi che si risolvano in loco, siano amministrati dagli abitanti, in loco.

Poi abbiamo le federazioni. Ma nelle federazioni non c’è un centro. Il centro è puramente convenzionale. La piramide non esiste più; esiste una pianura, esiste una convergenza di interessi affidati alla tutela di un centro, ma è, ripeto, tutta un’altra questione; non entra assolutamente nel campo dello stato unitario la concezione federale.

Che cosa c’è oggi in Italia? Quale sistema è attuato in Italia? È attuato un sistema, consentitemelo dirlo, di origine rivoluzionaria, perché è il sistema che nacque dalla rivoluzione francese. Normalmente tutte le rivoluzioni sorgono e si affermano nei primi momenti con intenti liberatori; esse vogliono recidere i vincoli che legano la persona umana; esse vogliono anche attuare una liberazione di quelle che sono le dipendenze della periferia dal centro che governava questa periferia. E così nel 1789, appena avvenuti gli episodi rivoluzionari, anche nel campo amministrativo, in Francia, si volle operare una rivoluzione, perché quella che era diventata amministrazione paternalistica affidata agli intendenti regi fu sconvolta, e si volle ritornare ai municipi romani: e non vi fu castello che non ebbe il suo consiglio elettivo, e i dipartimenti in cui fu divisa la Francia per spezzare le antiche aderenze con la monarchia, con le famiglie feudali, ebbero anche essi i loro organi elettivi.

Che cosa avvenne nell’anno VIII dopo che la rivoluzione francese ebbe fatta la sua esperienza di Governo? Avvenne quello che avviene quando tutte le rivoluzioni si trovano al potere. Essa fece marcia indietro rapidamente. Sciolse i Consigli dipartimentali, mantenne, ma quanto mai controllati, quelli comunali e per la prima volta nella storia dell’epoca moderna, noi vediamo sorgere il prefetto, questa figura politica, questa figura di controllo dell’opinione del Paese, e siamo passati da una promessa liberatrice rivoluzionaria ad una attuazione pratica accentratrice.

Una voce. Fu Napoleone.

CICERONE. Napoleone è sintesi ed estrema conseguenza della Rivoluzione francese. Che cosa è avvenuto in Russia? È avvenuta la stessa cosa. In Russia la rivoluzione garantisce all’inizio l’autogoverno dei popoli alla periferia; afferma che l’impero zarista abbia violentato le nazionalità. Ma anche la Russia nel giro di quattro o cinque anni fu costretta a fare marcia indietro. Conserva tuttora la caratteristica di uno stato federale, ma controlla questo stato e lo controlla attraverso un partito unico. È la stessa parabola.

In Italia noi abbiamo imitato l’amministrazione francese, che è decentrata, ma unitaria, perché il decentramento è la migliore forma che abbia un governo autoritario, per controllare direttamente, attraverso i suoi funzionari, quello che avviene alla periferia.

Ora, a me è parso, e mi si consenta il paragone, che nell’elaborare questa Costituzione i componenti della Commissione abbiano seguito la stessa parabola, che si svolge nei paesi rivoluzionari: che siano partiti con intenzioni liberatrici, rivoluzionarie, moderne e siano andati a finire ad uno Stato accentratore. Perché in Italia, in fondo, una rivoluzione non c’è stata; la rivoluzione è rimasta nelle intenzioni dei rivoluzionari. Ma, purtuttavia, questo processo mentale ha agito in qualche modo su chi doveva compilare il progetto. La Commissione è partita in quarta per attuare una riforma rivoluzionaria, poi si è spaventata, ha pensato che l’Italia potrebbe sfuggire dalle mani del potere centrale ed ha cominciato a fare marcia indietro. Questo avviene sempre, quando una riforma si stratifica su altra situazione.

Qui, invece di trovarci di fronte ad un progetto agile, moderno, siamo di fronte ad un barocchismo spagnuolo.

Si sono proposte delle assemblee regionali, poi si è parlato di presidenti di regioni, di governi regionali. (In Sicilia i deputati regionali si fanno chiamare onorevoli ed io non so se il presidente della repubblica siciliana, venendo a Roma, dovrà aspettarsi la visita dell’onorevole De Nicola).

AMBROSINI, Relatore. Non è repubblica siciliana.

CICERONE. Questo è l’edificio, il castello. Ma gli abitanti di questo edificio – consentitemelo – sono veramente dei piccoli uomini, perché i costituenti sono stati timidi di fronte alle attribuzioni da dare a questo amplissimo organo periferico.

Ho sentito manifestare preoccupazioni gravissime circa l’unità del Paese e circa il pericolo di contrasti tra legislazione regionale e legislazione centrale; ho sentito anche adombrare una specie di rivolta dei baroni delle Regioni, per cui un giorno ci sarebbe un ultimatum nei confronti del governo.

Ebbene, non penso, ma temo che i miei colleghi, nell’esaminare questo problema non si siano spogliati delle passioni e non abbiano fatto un po’ il raffronto colla storia di altri Paesi federali.

Avviene sempre nello stato federale, quando la federazione non abbia origine in una profonda coscienza nazionale, che il potere centrale si riprende tutto quello che ha dato ed anche qualche altra cosa.

Avviene sempre, come in Germania ed in Austria, che i conflitti fra potere centrale e periferia vengano sempre risolti dagli organi centrali a loro favore; si crea una consuetudine, per cui il centro ha sempre ragione e la periferia torto.

E così, quando voi avete dato alle Regioni le facoltà elencate all’articolo 109, avete fatto molto poco di più di quanto non fosse fatto per la Provincia 80 anni fa. Ma, quando poi considerate gli articoli 110 e 111, in cui questo orizzonte sembra allargarsi, voi forse non vi accorgete di urtare immediatamente contro i poteri centrali, perché quei due articoli rimarranno lettera morta o saranno fonte di eterni cavilli fra il potere centrale ed il potere periferico, per cui ad un certo punto la periferia si adatterà.

Ma voi allora mi dite: che cosa desideri che si faccia? Sei unitario? Sei federalista? Io dico che le cose o si fanno o non si fanno. Io dico che se in Italia ci fosse stato uno spirito federale, in questo momento, l’Italia, il popolo italiano avrebbe avuto molte occasioni per far valere questo spirito federale. Abbiamo attraversato una divisione, durata due anni, fra nord e sud, abbiamo avuto delle amministrazioni diversissime, tedesca al nord, inglese ed americana al sud, c’è stato il due giugno il quale sembrava avesse scavato un fosso incolmabile fra la concezione repubblicana del nord e la maggioranza monarchica del sud, eppure il Paese, salvo qualche rammarico, qualche incomprensione, qualche insulto buttato giù dal nord, il Paese, in fondo, è rimasto tranquillo.

Se questi fatti, onorevoli amici, avvengono, avvengono perché la storia vuole farli avvenire, ma noi non possiamo operare a freddo una malata la quale non dice di accusare il male che vogliamo operare.

Ora c’è anche nel progetto di Costituzione una persona la quale scappa fuori all’ultimo comma di un articolo, ed è questo commissario governativo, il quale alle preoccupazioni che vi esponevo, a quelle cioè che questi organi regionali potessero essere destinati ad una vita puramente vegetativa, aggiunge preoccupazioni di carattere politico, perché, onorevoli colleghi, i commissari saranno 20 e sarà molto facile ad un potere centrale provocare delle crisi in quelle Regioni in cui non avrà o non dovesse avere l’appoggio, e mandare dei commissari, e siccome i poteri dei commissari non sono definibili…

LA PIRA. Questa è materia di competenza statale…

CICERONE. Senz’altro, ma io credevo di aver chiarito che queste materie di competenza statale finiscono per la maggior parte di esse per travolgere anche la competenza locale, ed allora voi vedrete che questo commissario, il quale deve apporre un visto sulle leggi che fa la Regione; ed io non capisco bene la natura di questo visto, avrà poteri ben più vasti. Il commissario è il rappresentante del Governo o è il rappresentante del Presidente della Repubblica? Non è chiaro.

Ed allora io credo che la Regione, in definitiva, potrebbe essere un ottimo strumento accentratone; ed a questo proposito vorrei leggervi la relazione del primo progetto regionale fatto in Italia, quello del 1860, relazione fatta in seno alla Commissione presso il Consiglio di Stato presieduto dal Ministro Farini.

In quel momento noi abbiamo una capitale che sta a Torino, una unità di formazione recentissima, movimenti di malcontento specialmente nel mezzogiorno ed in Toscana, contro i quali il potere centrale è preoccupato e non sa cosa creare per controllare direttamente.

E parlando della Regione, il Ministro Farini dice così:

«È dunque il caso di formare un’altra direzione ed un altro ente morale maggiore della Provincia, cosicché i rappresentanti del Governo possono sicuramente avere quei poteri che abbiamo accennato ed insieme il consorzio delle Province basta a tutti… E veramente io considero la Regione tanto come temperamento di transizione, quanto come esperimento… di transizione per facilitare il trapasso dallo stato di disunione allo stato di unione…». Quindi la Regione nacque, nella concezione del primo governo unitario, come un elemento accentratore, ma poi non se ne fece più nulla, perché i commissari regi furono nominati lo stesso e l’Italia dette così buona prova di unità che bastò la legge comunale e provinciale del 1865. Quale differenza c’è tra questo progetto che ci ponete ora sotto gli occhi, ed il progetto del ’61? Lì non si parlava di elezioni regionali. C’erano consorzi di provincie, ed i consiglieri provinciali si radunavano intorno al commissario e deliberavano in modo rapido ed autonomo in momenti eccezionali.

Qui invece non si crea, a mio modo di vedere, un pericolo per l’unità del Paese, perché questa unità è collaudata e nessuna forza al mondo, io credo, la potrà infrangere; ma si crea un pericolo più grave. Io sono convinto che le crisi quando vengono sono benedette da Dio, perché permettono di tagliare netto in una difficile situazione preesistente e di crearne un’altra migliore. Ma qui noi avremmo un dilagare di campanilismo, di orgogli, di vanità che voi non avete forse ben misurato! Questi organi pletorici, per le attribuzioni che sono loro affidate, finirebbero per cozzare contro quest’organo centrale, e quindi per creare situazioni di permanente disagio nel Paese. Questa è la nostra preoccupazione: può anche darsi che ci sbagliamo – ci si sbaglia tante volte nella vita – ma noi abbiamo paura più che di una crisi unitaria, di una crisi che ci porti verso uno stato di «spagnolismo». Io sono meridionale, e ho dovuto accennare a questa questione perché ad essa hanno accennato altri prima di me, ma non capisco come una riforma come questa che riguarda tutta l’Italia, che sarebbe destinata ad operare egualmente tanto al Nord quanto al Sud, possa accontentare di più il Sud che non il Nord. Comunque non ritengo che la ripartizione delle Regioni, così come è stata fatta nel progetto di Costituzione, avvantaggerebbe il Mezzogiorno e ne dirò il perché. Il perché consiste nel fatto che voi avete preso come unità di misura territoriale nel Nord, nella maggior parte dei casi, il tracciato dei vecchi stati. Avete preso così un Piemonte, una Lombardia, una Liguria, una Toscana e via di seguito. Ora il centro di queste Regioni è la vecchia capitale statale che, nella fattispecie, è Milano, Torino e Genova. Volete forse che di fronte ad esse le Provincie si ribellino e pongano delle pregiudiziali? Questo non accadrà. L’unità piemontese, lombarda sarà perfetta perché i centri minori si raccoglieranno attorno ai loro centri secolari, e riunite tutte queste energie, costituiranno un complesso potentissimo nello Stato. Pensate alla Lombardia e al Piemonte stretti attorno a Torino e a Milano ed avrete una somma di energie uguale alla somma di energie del Belgio e dell’Olanda. Ma cosa si è fatto nel nostro Mezzogiorno? C’era ben poco da scegliere: o si andava verso l’unità del vecchio Stato così come era stato fatto nel Nord, o si andava nel Mezzogiorno ad una riunione attorno a Napoli, oppure si doveva andare alle vecchie distinzioni amministrative del napoletano.

Ma queste non sono le Regioni che oggi ci si vuol dare. Non è mai esistita una regione Lucana, non è mai esistita una regione Calabra, non è mai esistita una regione Pugliese; sono veramente espressioni geografiche, sono veramente creazioni artificiose da paragonarsi ad alcuni Stati del Nord America, tagliati su meridiani e paralleli. Non c’è un sentimento regionale in queste Regioni: noi abbiamo solo un sentimento meridionale, di cui siamo fieri, ma non abbiamo un sentimento più particolare, perché siamo abituati, da mille e più anni, a considerarci un’unità, e quindi non comprendiamo perché ci si vuol fare a fette come una torta, mentre nessuno di noi lo ha richiesto. D’altra parte, oggi si esercitano e giocano intorno alla Capitale, a Roma, delle influenze: c’è l’influenza dei grandi centri del Nord che è irreggimentato nelle industrie, influenza che in un domani sarebbe molto più grande quando avesse intorno a sé tutte le Regioni compatte e unite. Che cosa abbiamo nel Mezzogiorno? Quel poco che c’è, che si poteva riunire e lasciare intorno a Napoli, alla vecchia capitale, alla nostra metropoli, voi l’avete spezzettato in Regioni miserabili, senza forza economica e senza potenzialità industriale, perché non possono averla, perché voi state amputando un arto di un corpo unito. Come si risolve la questione meridionale non starò io certo a dire, perché questa non è la sede opportuna. Io ho sentito i pareri più discordi su questa questione meridionale e vi sono stati quelli che hanno detto che era un paradiso terrestre. Veramente, fino al 1700, il Mezzogiorno era ritenuto un po’ come la terra promessa, tanto che imperatori e sovrani ne hanno fatto luogo dei loro soggiorni. Ma ho sentito raccontare anche scene macabre di contadini simili a bruti ed altra roba del genere. Ora, occorre riportarsi al tempo cui si riferisce il giudizio. Il Mezzogiorno è una terra marinara, è un molo proteso verso le terre d’oltre Mediterraneo; come tutte le terre marinare, è prosperata quando ha avuto da assolvete una funzione in quel mare, ed è decaduta quando quella funzione è venuta meno. Vi sono stati momenti terribili nella sua storia, quando nelle sue campagne si scontravano eserciti saraceni, arabi, spagnoli e francesi: vi era la guerra, ma vi era anche il benessere perché tutti portavano qualche cosa nelle nostre terre. E vi dirò che anche per la marcia degli Alleati si è verificata una situazione simile: tutto in una volta questo Mezzogiorno è diventato il centro dell’attività strategica alleata, ed abbiamo visto anche una grande ricchezza, ricchezza che a noi più eruditi e più consci ha fatto pensare che cosa potrebbe essere questa terra, se il traffico vi confluisse di nuovo.

Fu il Mezzogiorno all’avanguardia dell’Italia moderna, e fu all’avanguardia del pensiero moderno, e preparò in Italia, nel 1700, sotto la guida luminosissima di Carlo di Borbone, quel risveglio giuridico, umano, che precorse la rivoluzione francese. E si stava formando in questa nostra terra una situazione felice di lento progresso, ma di continuo progresso, quando la rivoluzione francese tagliò netto a questo naturale svolgimento della nostra storia, e avendo inasprito i contrasti fra le classi sociali, avendo lanciato la classe intellettuale verso l’estremismo giacobino a cui la monarchia borbonica non poteva adattarsi, avvenne la frattura fra la corona e il Paese; per cui, lungi dall’essere giunti all’unità in quelle condizioni disastrose, come si è voluto far credere dall’estrema sinistra, noi ci siamo arrivati un po’ come tutte le altre Regioni italiane, ad eccezione del Piemonte, che nell’ultimo decennio riuscì a sopravanzare il resto d’Italia, e della Lombardia, che si avvantaggiò di una amministrazione saggia da parte austriaca.

Quindi la questione meridionale è una questione internazionale.

L’Italia che aveva le sue colonie e che nonostante la macchia di un regime interno infelice, aveva il suo Impero oltremare, era un’Italia che stava risolvendo lentamente questo problema meridionale, ed è perciò questa una delle cause fondamentali, per cui alcune nostalgie per il passato regime che si ritrovano ancora nella nostra popolazione sono proprio in relazione a taluni problemi del Mezzogiorno, poiché, quella sia pure operettistica messa in scena di «sbocco verso il mare», rappresentava tuttavia la soluzione di questo problema. Pertanto, finché non si farà una politica di espansione di commercio verso Oriente ed altri paesi, una politica di produzione, di scambio economico ecc. non si sarà risolto questo problema, e bisogna profondamente esaminare tutte le conseguenze e tutti i vantaggi se si vuole veramente venire incontro a questa terra; per cui non vi è tanto il bisogno di dividerla in Regioni, di darle autonomie, quanto invece di una migliore e più equa distribuzione delle risorse di cui dispone il Paese.

Ci sono tanti stanziamenti per le industrie, ci sono tanti stanziamenti di carattere industriale e non si sono fatti stanziamenti della stessa importanza per quanto riguarda l’agricoltura. Quando noi cerchiamo, ci sforziamo di vincere quella che è una situazione di fatto – che è sempre difficile a vincere – noi troviamo ostacoli insormontabili.

Ora, non ci pare che nella competenza attribuita alle Regioni ci siano quelle competenze gravissime e importantissime di ordine economico per cui noi potremmo avvantaggiarci attraverso una migliore divisione amministrativa, regionale. Se ad una autonomia regionale si dovesse arrivare, io non ho paura dell’autonomia, ma sempre che derivi da un fatto naturale, io l’accetterei, ma allora dovreste avere il coraggio di dare una autonomia al Mezzogiorno che sia però in forma molto vasta, perché altrimenti peggiorereste soltanto la nostra situazione.

Io desidero ora affrontare la situazione nei suoi termini concreti per chiedere alla Commissione a che cosa si è ispirata nel preparare questo progetto e questo Titolo della Costituzione. Normalmente, quando una Costituzione non nasce per determinazione rivoluzionaria (come avrebbe voluto l’onorevole Saragat nella discussione generale che si è fatta, senza pensare che quelle Costituzioni durano pochi anni) si fa riferimento ad altre Costituzioni; succede che le Costituenti si mettono davanti i progetti di Costituzione di altri Paesi, si riferiscono a Costituzioni di Stati esteri, ne ricalcano e ne riadattano i concetti; oppure cercano le ispirazioni giuridiche nella profondità della storia del proprio Paese come l’ingegnere che deve costruire una casa crollata e va a ritrovare le vecchie fondamenta che sono quelle che hanno sempre meglio resistito. Io ho ricercato pazientemente tra i testi costituzionali esteri, ma non ho trovato nulla che somigliasse a questa nostra Costituzione, non ho trovato in nessuna Costituzione del mondo questo attributo «regionale». O mi sono trovato di fronte a delle federazioni, in cui la sovranità scaturisce da un atto originale dei singoli componenti, oppure mi sono trovato di fronte a Stati accentrati o a Stati autonomisti o a Stati decentrati. Ma questo tipo di Costituzione aveva qualche cosa di simile alla Costituzione polacca: la prima Costituzione polacca si rifaceva un po’ a queste idee, e per una questione di necessità, per quella stessa questione per cui nel 1861 si pensò in Italia ad uno Stato federale. La Polonia usciva, come noi, da uno stato di divisione, soltanto che questa terra aveva popolazioni etnicamente molto diverse, ed allora venne posto a fianco degli organi elettivi il governatore della Regione, quasi come un controllo del centro su queste popolazioni, alle quali si voleva dare l’illusione di autogovernarsi, ma che dovevano stare nello Stato senza parere che fossero nello Stato.

Si è messo in mezzo l’accentramento, perché si mantengono i rappresentanti del potere centrale; si è messo in mezzo l’autonomismo perché si concedono le autonomie e poi c’è anche un po’ di decentramento. Insomma, c’è di tutto. Ma io non credo che, in una Carta costituzionale, il «po’ di tutto» possa essere un bene; credo che bisognerebbe fare una cosa agile ed informata a un solo principio.

Certamente, mi si risponderà che esiste una tradizione regionale italiana. Ma io mi sono domandato dove sta questa tradizione regionale. Una tradizione, in politica e nella storia, non può essere soltanto l’idea lanciata attraverso un libro o un’opera di propaganda. Una tradizione nella storia è una idea che ha trovato la sua attuazione ed ha resistito nel tempo: soltanto allora diventa una tradizione. Ma in Italia dove sta la tradizione, dove sta questo fatto concreto della regionalità? A meno che non si voglia rifarsi al ’400, quando ci fu un qualche cosa come una federazione di Stati, ma non sancita da nessun accordo internazionale, non consacrata in nessun patto: fu un momento di difficile equilibrio e che non ebbe una sanzione giuridica.

E poi abbiamo la folata del ’48 con questo obiettivo finale di una federazione, cui avrebbe portato la sconfitta dell’Austria. Ma la federazione non ci fu.

E allora? Allora rimane la storia d’Italia, come dice Benedetto Croce, che è la storia di tutta la nostra Patria. Ci possono essere storie delle idee italiane, delle scienze italiane, ma poi c’è la storia d’Italia che comincia nel 1860, la storia dello Stato italiano, che è la storia dello Stato unitario.

Ora, qualche cosa nel campo amministrativo dobbiamo fare nel nostro Paese, perché troppe leggi e regimi si sono stratificati sopra di esso per cui, ad un certo punto, sarebbe meglio spazzare via tutto e rifare tutto da capo.

Ma, prima di affrontare il problema, vediamo che cosa dobbiamo fare, vediamo che forma di Stato vogliamo dare alla nostra Patria. Vogliamo conservare lo Stato unitario, o vogliamo andare alla federazione?

Alla federazione non si è voluti andare: non c’è andata la storia, non c’è andata la Costituente, non ci sono andati i partiti. Si vuol dunque conservare lo Stato unitario; e allora come amministreremo gli interessi di questo Stato? Li amministreremo attraverso il decentramento, cioè attraverso il sistema attuato fino ad ora, affiancandolo alle autonomie locali?

Ma il sistema che vige tuttora non risponde alle esigenze di una vera democrazia, perché una vera democrazia deve affidare l’amministrazione di tutti gli interessi ai diretti rappresentanti dei medesimi. Ora, un interesse generale che si manifesti localmente è anche un interesse locale ed occorrerebbe che questo interesse fosse affidato a un eletto del popolo.

È questo il sistema di tutte le vere democrazie, è il sistema inglese, è il sistema norvegese, ecc. Ora, questi rappresentanti eletti localmente dal Paese potrebbero assumere, come assume in molte cerimonie il sindaco e come avviene anche in Austria, una duplice funzione: di rappresentante, di amministratore degli interessi locali, e una funzione di rappresentante del potere centrale, con competenza sugli interessi generali nella fase di manifestazione locale.

Io credo che veramente sia questo l’ideale della democrazia, perché è ben strano parlare di democrazia, quando questa si limiti al centro. Ma voi comprendete che vi sono delle situazioni locali assolutamente diverse da quelle centrali; e queste situazioni, queste manifestazioni locali hanno il diritto di essere guidate dai rappresentanti della maggioranza locale.

Oggi abbiamo i prefetti che sono diventati i tiranni del Paese; il Paese non sente la democrazia, perché, nei diversi capoluoghi di Provincia vi sono situazioni che sono situazioni di prevalenza del partito a cui appartiene il Ministro dell’interno. E finché non verrà stroncato questo malcostume italiano per cui i partiti fanno la scalata al Ministero dell’interno – è la cosa più vergognosa che esista in Italia – noi non potremo parlare di democrazia.

Troviamo dunque una circoscrizione che risponda veramente a questa esigenza e vediamo di darle la vera autonomia, cercando cioè di creare un organo autonomo, ma con la rappresentanza del centro: e allora avremo fatto un progresso.

Altrimenti, non avremo fatto che del barocco e resteremo nel campo della burla. Io ho un po’ ricercato, riandando attraverso le mie cognizioni storiche, quale potesse essere il vero centro naturale di una circoscrizione amministrativa in Italia; e, dopo l’esame dei fenomeni che hanno sempre caratterizzato la nostra vita sociale, ho trovato che, in fondo, l’Italia presenta una peculiarità sua propria che è la civiltà cittadina. In nessun paese del mondo la civiltà si è svolta tanto nelle città; in nessun Paese del mondo o d’Europa, lo sviluppo dei diversi regimi ha avuto per centro le città. E se voi enumerate così, anche superficialmente, la gran parte delle nostre Provincie, dei nostri capoluoghi di Provincia, hanno tutti una tradizione storica gloriosissima. Non dirò dell’innumerevole quantità di questi municipî romani e del numero ragguardevole di colonie greche, che da millenni esercitano la loro influenza sulla campagna circostante. E i Comuni, quei grandi Comuni che hanno contato nella storia del Paese (non tutti i Comuni hanno avuto una prevalenza); e poi le capitali di Signorie: guardate la pianura padana costellata di città che sono state capitali.

E allora ho considerato che, in fondo, questa amministrazione si potesse ancora reggere attorno al capoluogo di Provincia. Il senatore Einaudi diceva l’altro giorno che la Provincia gli suona nome straniero. Bene, io dirò che mi pare che la provincia sia invece di origine latina; e dirò ancora un’altra cosa: dirò che la provincia in Piemonte esisteva prima dell’invasione napoleonica; soltanto che si riferiva a un piccolo distretto, perché il Piemonte era un piccolo paese; quando il Piemonte diventò un grande paese, la provincia si allargò. E nel Mezzogiorno nostro, la Provincia come norma venne introdotta dal regime napoleonico, ma questo ricalcò la Provincia sugli antichi mandamenti. E in Sicilia la Provincia non assunse il nome di Provincia, ma conservò il nome di «valle». E perciò, quando un ente che ha le sue fondamenta in un ente ancora più antico, che ha vissuto per due secoli o quasi, attraverso vicissitudini le più varie, ed ha risposto alle esigenze di rappresentare un centro di vita della periferia, quando un ente ha fatto tutto questo, allora io trovo lì la tradizione; è lì che c’è la storia, è lì che c’è il fatto concreto.

Resta naturalmente da distinguere nettamente una posizione continentale dalla posizione della Sicilia e della Sardegna. C’è in Sicilia una mentalità speciale: è la mentalità di tutte le popolazioni isolane, le quali si sentono sempre un poco appartate dal mondo; è la mentalità inglese, la quale guarda con diffidenza al di là della Manica; è la mentalità della Sicilia, la quale guarda, ed ha sempre guardato, con diffidenza al di là dello stretto di Messina.

E poi dovete considerare un’altra cosa importantissima: che la Sicilia, oltre a costituire un’entità geografica ben delimitata, ha avuto una vita che è la vita di un continente, perché ha avuto su di sé ad un certo momento tre o quattro civiltà, ha avuto una storia sua, che non è la storia italiana, e non è neanche la storia di Napoli; perché molte volte si parla della Sicilia come di un’appendice del Mezzogiorno, e non si comprende che invece la Sicilia è stata assorbita in una orbita che non è stata che per pochi secoli la nostra orbita.

Vi voglio qui rammentare due o tre fatti essenziali, in poche parole. La Sicilia esce dall’orbita della civiltà europea, non italiana, con la dominazione araba; la Sicilia rientra in quest’orbita con l’impero normanno e la successione sveva. Ed in questo momento stesso in cui rinasce alla civiltà europea la Sicilia si sente la madre dell’imperatore di Germania, si sente il Regno dei Grandi Normanni, i quali avevamo le provincie al di qua dello Stretto; il loro regno è nell’isola e la loro capitale è Palermo; le colonie sono nel napoletano.

Ora, questa mentalità originaria trova esplosione violenta nell’episodio dei Vespri; per cui si offre la corona di Sicilia ad un sovrano di cui non si conoscono neanche i connotati, non perché l’affetto agli aragonesi potesse essere maggiore di quello tributato agli angioini, ma puramente per il desiderio di staccarsi da Napoli, perché già Palermo si sente rivale di Napoli. E la Sicilia rimane nell’orbita spagnola, nell’orbita della grande politica mediterranea sino al Settecento; e nel Settecento Carlo di Borbone deve ricorrere alle armi per sottometterla e Ferdinando I, deve accettare il titolo di re delle due Sicilie per accontentare i siciliani che non vogliono un re solamente napoletano.

E allora vedete come la tendenza autonomistica della Sicilia, cioè questo sentimento di autosufficienza, sia vecchissimo e sarebbe saggia opera lasciare alla Sicilia questa sua indipendenza spirituale, più che altro, questa sua soddisfazione intima di sentirsi qualche cosa in se stessa sufficiente.

Ora, dicevo, cerchiamo di seguire la Provincia nel suo naturale svolgimento perché io credo, e con me il Gruppo, che rappresento, che troviamo lì l’unità amministrativa italiana. Questa Provincia, che in un primo momento è amministrata dall’intendente regio, a cui si affianca poi il consiglio di reggenza pure di nomina regia, si avvia quindi all’elezione del consiglio provinciale, ma con attribuzioni limitate; e poi ci rimane il prefetto. E il naturale democratico svolgimento di questo processo non può essere che uno solo: aumentare le competenze della Provincia e abolire i prefetti. È l’unica soluzione lineare, è l’unica soluzione che va per la corrente.

Voi volete decentrare e decongestionare Roma, e questo è essenziale. Ma voi non vi siete accorti che nelle competenze regionali non vi sono tutte competenze che richiedono che si venga a Roma per definire un determinato affare. Tutto quanto rimane necessario alla vita locale con riferimento al centro non è devoluto alla competenza regionale. E allora, perché create la Regione, con la burocrazia e i diversi dipartimenti della Regione, se costringerete i cittadini di Palermo o di Torino a venire ancora a Roma per assolvere i loro doveri?

Evidentemente non si possono creare né ministeri né sottoministeri, né tanto meno enti ad essi equiparati, nei capoluoghi di Provincia o di Regione, perché sarebbe un assurdo; ma si può tentare su scala più vasta l’esperimento che è stato fatto nel Nord con le Sottocommissioni Alta Italia. Decentrate i ministeri economici fra Milano, Palermo, Cagliari e Napoli; create direzioni generali che riassumano in sé le competenze di questi dicasteri economici. Potete metterli sotto la direzione di un sottosegretario di Stato o di un Direttore generale il quale, seguendo una direttiva indicata dal suo ministro, possa autonomamente e sotto la sua responsabilità svolgere le pratiche, invece che a Roma, in questi grandi centri. Ecco un lavoro che potrebbe essere altamente proficuo e grandemente apprezzato ai fini di decentrare l’amministrazione centrale.

E voi credete che si potrebbe licenziare tutto il personale che oggi è entrato nei vari ministeri in qualità di reduci? Credo che le amministrazioni regionali sarebbero un altro ottimo asilo per questi reduci e per i reduci di un’altra guerra che Dio non voglia che avvenga.

Ora, onorevoli colleghi, vorrei chiudere con una piccola storia di ambiente vaticano, tanto per addolcire ai miei amici democristiani la critica che ho fatto al progetto.

Una volta Michelangelo decise di fare un monumento in San Pietro a Giulio II e si propose di fare questo monumento in proporzioni gigantesche: una montagna di marmo, diceva papa Giulio che, pur essendo papa, era vanaglorioso. Egli iniziò il suo lavoro; senonché, prima la Sistina, poi la morte di Papa Giulio, poi il suo monumento di bronzo a Bologna, poi la gelosia dei successori del grande Papa mandarono sempre a monte regolarmente il progetto michelangiolesco; sicché delle 37 statue, di cui doveva consistere questo monumento, ne rimasero nove e di queste ne sbozzò solamente alcune, quelle dei prigionieri. Però, fece alla fine una sola statua, il Mosè, e con quella statua rese gloria a Giulio II, più che se avesse eretto la montagna di pietra.

Io vorrei che per questo progetto si facesse lo stesso: che venuto qui avanti con una mole e una presunzione tutte sue, alla fine si riducesse a pochi articoli, ma armoniosi, belli e duraturi, non dico quanto la statua di Mosè, ma almeno quanto la nostra vita. (Applausi a destra Congratulazioni).

PRESIDENTE. È iscritto a parlare l’onorevole Canepa. Ne ha facoltà.

CANEPA. Onorevole Presidente, io sono ossequente al monito, che lei ieri giustamente rivolgeva all’Assemblea, di brevità; è tempo di accorciare, per quanto possibile, questa discussione, che altrimenti va alle calende greche; e sarò brevissimo anche perché non entrerò nella vexata quaestio della Regione. Mi limiterò ad un semplice sintetico ricorso all’Assemblea contro la sentenza di condanna a morte della Provincia, pronunziata dalla maggioranza, da una scarsa maggioranza della Commissione. Dico condanna a morte perché non è un essere vitale, ma una semplice larva quella dell’articolo 107 alinea: le Provincie sono circoscrizioni amministrative di decentramento statale e regionale; nonché quella dell’articolo 120 alinea: nelle circoscrizioni provinciali sono istituite giunte nominate dei corpi elettivi nei modi ecc., giunte che non avranno un bilancio, non servizi proprî, non si sa quali saranno i loro poteri. I loro dipendenti saranno nominati dalla Regione a cui obbediranno. Indi, la parola larva che ho detto mi pare sia veramente appropriata.

Ora, io credo che questa abolizione della Provincia sia un errore gravissimo, di danno incalcolabile, perché lasciamo da parte la origine, di cui altri hanno parlato (in alcune Regioni come nel Piemonte e nella Lombardia e nel Meridione, la provincia ha illustri tradizioni storiche. In altre, invece, è nata all’epoca del Risorgimento), ma certo è che dappertutto ha messo radici profonde. Questo non lo può negare chiunque abbia vissuto la vita provinciale. Perché ha messo radici profonde? Perché la Provincia è un Consorzio di Comuni, non è altro che questo; e cioè la Provincia fa quello che un Comune per sé non potrebbe fare: gli istituti scolastici, gli istituti sanitari, biblioteche popolari e via; e serve di tramite fra un Comune e l’altro. Quanti Comuni di campagna sarebbero ancora inaccessibili altroché per impervi sentieri, se non fosse stata la Provincia a dotarli di strade carrozzabili; e le strade non basta farle ma bisogna mantenerle, ed è la Provincia la sola che possa compiere questo ufficio. Perché è vano dire: «lo potrà fare la Regione». No! Perché i bisogni si sentono da chi vive a contatto della popolazione. Al capoluogo della Provincia dalle valli e dai monti affluiscono i contadini, gli abitanti in genere; ivi è il tribunale e la intendenza di finanze; ivi si tiene il mercato, ivi è quel piccolo centro di vita a cui gli abitanti della campagna accedono senza spesa e senza perdita di tempo. Mentre il giorno che dovranno andare al capoluogo della Regione dovranno spendere l’uno e l’altro, e ne saranno lontani. Oggi imprecano contro la burocrazia romana, domani imprecheranno contro la burocrazia del capoluogo della Regione, e non mai contro gli uffici della Provincia perché con quelli acquistano, per le ragioni che ho detto, una specie di sorta di famigliarità e in qualche modo li controllano: ciò che non possono fare per il centro lontano.

Dicevo che avvicinare gli amministratori agli amministrati, i dirigenti alle popolazioni, è un’opera essenzialmente democratica; anzi, questa è la vera democrazia: è democrazia a beneficio di quelle popolazioni rurali le quali sono prive delle attrattive della città. Diceva un vecchio politico: «bisognerebbe pagarli perché stiano in quei paesi». Vivono una vita misera, povera; ed è dunque ad essi che dobbiamo rivolgere i nostri pensieri e le nostre cure. E quando si presenta una riforma occorre domandare in primo luogo se ad esse sarà giovevole o dannosa. Quanto all’abolizione della Provincia non v’è dubbio che sarà dannosa. Io mi spiegherò con un esempio. Sulla fine del secolo scorso e sul principio di questo a Rovigo e poi a Parma è nata una provvida istituzione: la Cattedra ambulante di agricoltura, la quale adagio adagio si è estesa a molte Provincie. Nella mia Provincia natia, che allora si chiamava di Porto Maurizio (poi un giorno Mussolini, non potendo fare l’Impero, tanto per fare qualche cosa, l’ha chiamata la provincia d’Imperia), in questa mia Provincia la cattedra ambulante di agricoltura ebbe uno sviluppo veramente meraviglioso, perché raggiunse due fini: aumento della produttività del terreno e dirozzamento del contadino.

Il titolare della cattedra teneva prima la conferenza in piazza ai contadini e poi dava loro, nei poderi, insegnamenti pratici: come si pota, come si innesta, come si concima, come si tiene la stalla. Ed i contadini imparavano.

Questo non potrà essere fatto dall’ente Regione, perché esiste una differenza notevole, dal punto di vista agrario, fra Provincia di pianura e Provincia di montagna. L’agricoltura di Cuneo, ad esempio, non ha nessuna affinità con quella di Vercelli.

Ora, bisogna che fra il titolare della cattedra e il contadino si stabilisca la stessa relazione che tra insegnante ed allievo; che si conoscano a vicenda, che l’insegnante controlli con frequenti visite se il contadino ha capito e segue le buone regole. Tutto ciò non può farsi che nel ristretto campo della provincia.

Purtroppo, le cattedre ambulanti furono abolite dal regime fascista, perché i titolari nelle conferenze non volevano inneggiare al fascismo; e furono sostituite dagli ispettorati agrari, i quali svolgono la loro azione fra le carte, in ufficio, lontani dalle realtà concrete delle popolazioni rurali. Se le cattedre non fossero state abolite, oggi per gli approvvigionamenti alimentari, non ci troveremmo nelle condizioni in cui versiamo.

Molti mesi fa io presentavo un’interrogazione al Ministro per l’agricoltura e le foreste, perché aiutasse la provincia a ricostituire le cattedre ambulanti di agricoltura. Mi è stato risposto che la questione è allo studio. Son passati lunghi mesi e si studia ancora, si studierà in eterno, fino a quando le Provincie, ricostituiti i loro bilanci, potranno esse provvedere ai loro interessi che sono interessi di tutta la nazione.

UBERTI. Le Regioni potranno ricostituirle più presto che non lo Stato.

CANEPA. Ma non certo più presto che le Provincie. Concludo portando un altro esempio, questo non tratto più dai paesi piccoli, ma da una Nazione che è maestra a tutti in tema di democrazia e di federalismo: la Svizzera, nei giorni scorsi, ha commemorato il centenario della morte di un suo distinto figlio, Alessandro Vinet, uomo politico e scrittore. In tale occasione, nei discorsi e negli articoli commemorativi, è stato osservato che si viene compiendo quello che egli aveva presagito. Si viene compiendo lentamente, ma irresistibilmente, lo spezzamento dei cantoni, il Canton diventa demi-canton, un tiers de canton.

È proprio l’opposto di quello che facciamo noi.

È la Regione che diventa Provincia e noi vogliamo fare diventare la Provincia, Regione.

Non credo che occorra aggiungere altro, perché questa tesi mi pare che sia profondamente sentita da voi e raccomando alla Commissione dei 75 di volerle fare buon viso, perché, altrimenti, noi questo Titolo non potremo accettarlo.

È a questa condizione, a condizione cioè che si mantenga in vita un istituto vitale, che noi daremo voto favorevole alla Regione. (Applausi).

PRESIDENTE. È iscritto a parlare l’onorevole Mastino Pietro. Ne ha facoltà.

MASTINO PIETRO. Onorevoli colleghi, Sardo di nascita e rappresentante di un partito che s’intitola dalla Sardegna, non credo, ciò non di meno, opportuno parlare del progetto di autonomia che all’Isola si riferisce e le riconosce il carattere politico amministrativo di Regione perché finora è cosa di comune consenso che l’autonomia alla Sardegna debba non solo essere riconosciuta, ma accordata in termini più ampi che per le altre Regioni d’Italia.

Io parlerò col proposito, anzitutto, di ricondurre la questione, che si sta dibattendo da varî giorni, ai suoi termini essenziali, poiché anche in questo dibattito ed in questa polemica (ed il dibattito sulla Regione ha costituito una permanente polemica fra Gruppo e Gruppo parlamentare e talvolta, come, ad esempio, per i liberali, fra esponente ed esponente dello stesso Gruppo) spesso si è dimenticato l’oggetto sostanziale della discussione.

Fu detto in quest’Aula dall’onorevole Nitti che procediamo al tentativo di un nuovo statuto e vogliamo darci una nuova Costituzione in quanto siamo stati sconfitti. Io credo che nessuno possa sostenere che la riforma in senso regionalista sorga per effetto della sconfitta poiché prima, non solo di questa guerra, ma anche dell’altra, ed anche molto tempo prima e già dal periodo immediatamente successivo alla Costituzione d’Italia, programmi regionalisti furono formulati con proposte concrete.

Fu anche detto in quest’Aula, e sempre dallo stesso onorevole Nitti, come egli intenda in genere rimanere mazziniano, anzi egli ebbe a dire che a questo proposito sarebbe più mazziniano dei mazziniani storici. E l’affermazione fatta dall’onorevole Nitti è stata anche successivamente ripetuta da parecchi deputati qui dentro. Io mi permetto ricordare che il Mazzini, verso il 1860, pur sempre dichiarandosi antifederalista, affermò però la necessità che fra il Comune e la Nazione, ci fosse un organo intermedio: la Regione. Quindi il criterio della Regione non è nell’amministrazione dello Stato un criterio nuovo, dovuto alla sconfitta, né un criterio contrario alla fede ed al programma repubblicani ma risponde ad una esigenza già affermata nel campo del diritto costituzionale come elemento fondamentale della vita dello Stato. Principio ed esigenza riconosciuti da vari partiti, da quelli repubblicano e democristiano al partito sardo. Io come vedete, mi sto liberando da queste che potrebbero essere obiezioni di secondo piano per poter giungere in seguito a quello che dovrà essere l’esame della sostanza della questione. E, sempre nel campo delle obiezioni di secondo piano, credo doverosa una risposta alle affermazioni formulate avantieri dall’onorevole Gullo, per quanto la risposta l’abbia già avuta dall’amico Lussu.

L’onorevole Gullo nega l’attualità del problema regionalista in quanto nessuna folla dell’Italia meridionale gli fece mai, nei comizi, richiesta di illustrazione di questo problema. Ci ha anche detto come, invece, sia stato richiesto di spiegazioni sull’eventuale riforma agraria. Nessuno si può sorprendere di ciò, che, anzi, chiunque si dovrebbe sorprendere, eventualmente, del contrario.

Si pensi che l’onorevole Gullo si presentò a quelle folle soprattutto nella veste di Ministro dell’agricoltura, ed era ben naturale, quindi, che al Ministro dell’agricoltura la classe dei contadini chiedesse notizie sulla riforma agraria. D’altra parte è superfluo, onorevoli colleghi, che io accenni alla grande differenza che passa tra quella che è una questione che si riferisce ad istituti amministrativi e politici, e quella che può essere una questione che si riferisca a problemi sociali ed economici.

È naturale che le folle partecipino più entusiasticamente a questi ultimi problemi, anziché ai primi. Ma non è certo per questo che il problema politico ed amministrativo perde la sua importanza. L’onorevole Gullo dovrà riconoscere che questa mia osservazione poggia precisamente sul riconoscimento che, se il materialismo storico e marxista non è da ritenere assolutamente vero in tutto e per tutto, è nel vero però quando afferma che occorra sempre attribuire una fondamentale importanza alla questione economica. Nulla di strano, per ciò, che le folle chiedessero all’onorevole Gullo che spiegasse loro in che la riforma agraria – questione di grandissima importanza ed attualità – potesse praticamente consistere.

Fu anche detto in quest’aula, ancora dall’onorevole Nitti e, salvo errore, è stato ripetuto ieri dall’onorevole Cifaldi (a dimostrazione del come il progetto di Costituzione, nelle linee del pensiero che ne sono la premessa, porti ad una attenuazione dell’unità italiana), che basta ricordare l’episodio ed il comportamento dell’Alto Commissario per la Sicilia e di quello per la Sardegna i quali ad un certo punto procedettero, d’accordo, ad uno scambio, fra le due isole, di merci alimentari. Questo comportamento, che solo un ente sovrano potrebbe permettersi, preso senza la preventiva autorizzazione da parte del potere centrale, dimostrerebbe che se noi continuiamo per questa strada, possiamo giungere ad una effettiva diminuzione del potere centrale e, peggio ancora, ad una situazione di pericolo per l’unità dello Stato.

Ora io mi permetto dirvi che questo episodio non differisce dai cento altri in cui i vari prefetti ritennero opportuno – in contrasto alle disposizioni ed alle circolari del Ministro – di stabilire dei divieti di esodo delle merci da Provincia a Provincia. Quello che si rimprovera all’Alto Commissariato per la Sicilia ed all’Alto Commissariato per la Sardegna fu fatto, precedentemente e ripetutamente, proprio dai prefetti, e mi permetto di dire che quello che fu fatto dall’Alto Commissariato per la Sardegna è stato fatto perché questo Alto Commissario doveva intervenire necessariamente a favore di una popolazione affamata, verso la quale lo Stato non aveva provveduto, oltre che per ragioni strettamente alimentari, per altre, dovute proprio al centralismo ed alle complicazioni della sua burocrazia.

D’altra parte, quello fu un episodio che si riferisce ad un momento di eccezione e che riflette una speciale situazione. Nessuno di noi protesta quando, ad esempio, – come è avvenuto ultimamente – il governo centrale assegna miliardi all’Ansaldo ed alla San Giorgio. Se i miliardi dati all’Ansaldo e alla San Giorgio sono stati dati per salvare la vita di trentamila operai e delle loro famiglie, io dico che questi miliardi sono stati giustamente dati. Ma il danaro non era solo o dell’Italia settentrionale o dell’Italia centrale e tanto meno di quelle città e di quelle Regioni cui appartengono gli operai che lavorano in quei cantieri. Erano danari che venivano da tutta Italia, che venivano certamente anche dai contadini dell’Italia meridionale e dell’Italia insulare. Noi riconosciamo che di fronte alla necessità del momento non era possibile comportarsi diversamente, come voi dovreste riconoscere che il comportamento dell’Alto Commissario per la Sardegna e dell’Alto Commissario per la Sicilia fu comportamento doveroso e necessario.

Troppe affermazioni esagerate sono state fatte durante questa discussione, e dobbiamo anche difenderci dalle esagerazioni che non sono nostre ma che gli avversari ci attribuiscono. Quando per esempio si dice che la Regione, anche riconosciuta come ente con personalità amministrativa ed in parte politica, non potrà sanare tutti i mali della Nazione, noi riconosciamo la giustezza di questa critica; ma noi non abbiamo mai sostenuto che la Regione ed il sistema autonomista possano senz’altro procedere a dei miracoli, tanto più che nei miracoli io credo limitatamente. Si è detto non essere vero che possa giovare l’ente Regione all’addestramento alla vita pubblica; che nessun ordinamento autonomista avrebbe potuto impedire la marcia su Roma; si è anche soggiunto che non trovò impedimento il regime di Hitler nel fatto che vi erano delle costituzioni basate su principî autonomisti là dove egli esercitò il proprio autoritario dominio. Ma noi non abbiamo mai detto che l’ordinamento regionale costituirebbe un impedimento assoluto alle dittature, ma che qualunque sistema dittatoriale incontrerebbe una ben maggiore difficoltà a costituirsi.

I consigli regionali – che sono stati chiamati piccoli parlamenti – addestreranno effettivamente i giovani alla vita pubblica per la via che è la migliore, non quella della ciarla e della retorica, ma del contatto con la realtà quotidiana, cosicché l’attitudine personale si possa con l’esercizio affinare. Mi dovrete riconoscere che non sarebbe piccolo vantaggio quello di fornire l’Italia di una classe dirigente soprattutto in questo momento in cui di una classe politica dirigente in senso veramente buono abbiamo bisogno. Fornire l’Italia di una classe dirigente per il domani è un atto doveroso verso la nostra Patria.

È stato detto dall’onorevole Gullo che, in definitiva, l’accentramento non ha nessuno dei torti che noi gli attribuiamo, in quanto questi torti li hanno avuti verso l’Italia meridionale la monarchia ed il fascismo. Io sono rimasto sorpreso di fronte ad una affermazione sì fatta. Mi dispiace che l’onorevole Gullo non sia presente, ma io ritengo che quando si dice monarchia si dica pure accentramento e quando si parla di fascismo si parli di accentramento per eccellenza. Ricorderete tutti che il duce, prima che iniziasse la «gloriosa marcia delle camicie nere», pronunziò un discorso, in Napoli, che fu definitivamente stroncatore di qualunque desiderio e di qualunque velleità, non solo autonomistica, ma anche di semplice decentramento.

Dire che la colpa fu della monarchia e del fascismo e dire che l’accentramento non ha nulla a che vederci, è un contraddirsi. Effettivamente il compromesso tra monarchia e fascismo ha avuto una gran parte nella situazione in cui attualmente si trova l’Italia meridionale, e non intendiamo neanche opporci al riconoscimento di quanto, continuando nel proprio discorso, l’onorevole Gullo ha affermato, sulla responsabilità delle classi dirigenti. Ma le classi dirigenti trovano nell’accentramento il clima più adatto per seguire una politica ed una pratica in assoluto contrasto con gli interessi di quelle classi meridionali di cui sto parlando.

Si è detto che gli statuti regionali potrebbero impedire le riforme agrarie.

Penso che il progetto di Costituzione sia formulato in termini tali per cui, con l’affermare che le direttive in proposito devono essere date dal potere centrale e che alle direttive essenziali non si possono le Regioni sottrarre, impedisca nettamente ogni possibilità del genere. Se il progetto, nella dizione attuale, ciò non dovesse impedire, dovremmo trovare una formula che giunga a questo risultato.

Sono fautore della riforma agraria, ma non posso essere fautore di una riforma che sia uniforme ed eguale per tutti gli italiani e per tutte le Regioni; sono fautore di una riforma agraria che tenga conto delle varie situazioni che esistono in agricoltura nelle varie regioni. L’agricoltura è la conseguenza di leggi naturali superiori, che non dipendono, in gran parte, dalla nostra volontà.

L’agricoltura è necessariamente legata, direi, a quello che è l’ambiente fisico. Voi non potete, ad esempio, parlare dell’agricoltura della Sardegna, misera, sconsolata nella sua agricoltura, se non pensate o non sapete come molto influisca la poca altezza delle montagne, la mancanza, quindi, di ghiacciai che rende ancor più terribile il morso della siccità estiva, dato che passano mesi e mesi in cui non piove mai, seguiti, spesso, da altri in cui piove troppo.

Ora, una riforma agraria, la quale non tenga conto di queste varietà regionali sarebbe una riforma agraria che non farebbe il vantaggio né della Nazione né della Regione né delle classi che dovrebbero rimanerne avvantaggiate. Ed in quale ambiente e clima migliore si può procedere ad una riforma agraria, opportuna e vitale, dell’ambiente e del clima regionale? Penso che basti enunciare la questione. D’altra parte, si ricordi sempre che noi parliamo di uno Statuto il quale ha delle norme che non sono ancora codificate e che possono quindi ancora fissarsi termini più precisi, meno equivoci, se equivoci fossero quelli già stabiliti.

In definitiva, a che cosa si riducono le critiche e le opposizioni al progetto? Si riducono a questo: «già dal 1860 si disse come un ordinamento regionale avrebbe minato l’unità italiana». Siamo arrivati al 1947, quasi a un secolo di distanza, e vengono ancora ripetute le stesse critiche, con una noiosa insistenza, che è da rilevare, in quanto non si va al di là dell’affermazione: perché la si mini, questa unità, assolutamente non è stato detto. Noi non miniamo l’unità ma l’accentramento; quell’accentramento che consente che si facciano delle leggi centrali che riguardano anche le regioni lontane, e le leggi rimangono inapplicate in quanto non seguite da un adeguato stanziamento di fondi; quell’accentramento per cui il Parlamento non ha modo di conoscere tutte le questioni, e il tempo di occuparsi di tutte. Vi è una scala di priorità nell’esaminare e valutare i problemi ed, in questa scala, rimarranno per ultimi proprio i problemi che riguardano le regioni povere, le regioni misere. Questi sono i vantaggi dell’accentramento, contro il quale noi combattiamo.

Contro questa unità di accentramento noi intendiamo insorgere, non contro l’unità italiana.

Ma le critiche avversarie sono troppo generiche e quando poi si passa all’esame concreto del progetto nessuna delle critiche può sussistere. L’onorevole Einaudi, esaminando gli articoli del progetto, ha escluso che minaccino l’unità nazionale. Nessuno, assolutamente nessuno ha fatto l’esame specifico degli articoli per giungere a conclusioni diverse da quelle dell’onorevole Einaudi.

L’unità nazionale poggia su un grande elemento che è forse imponderabile, ma che è un formidabile elemento, rappresentato dalla coscienza nazionale. Prima ancora che l’Italia fosse unita vi erano non solo divisioni amministrative, ma divisioni politiche, che davano luogo ad una serie di Stati, i quali si unirono formando lo Stato italiano, proprio per l’imporsi di questo fattore che chiamo coscienza nazionale. È quella coscienza nazionale alla quale implicitamente ieri ha accennato l’onorevole Mannironi, quando ci ha parlato della Sardegna, rimasta per oltre un anno staccata dal continente italiano, e che mai concepì un proposito di separazione; quando vi ha parlato della Sicilia che a un certo punto si trovò in condizioni di potersi separare, non a parole, ma di fatto e di fatto non si separò.

Ora, questa coscienza nazionale rimane; e perché dovremmo aver paura di una diminuzione dell’unità italiana, quando, fra l’altro, è detto che quella competenza legislativa, che viene attribuita alla Regione, ha dei limiti nei principî generali della legge e nel rispetto dell’interesse della Nazione; quando è sancito l’obbligo e il diritto alla residenza nel capoluogo della Regione di un Commissario del Governo; quando gli stessi disegni di legge, formulati dalla Regione, dovranno essere trasmessi al Governo centrale per una preventiva approvazione?

Tutti gli Stati usciti vittoriosi da questa guerra, a incominciare dall’Inghilterra, la quale, pur mantenendo ricordi e forme feudali, ammette però principî di autogoverno, a continuare con la Russia e con gli Stati Uniti, rispondono a criteri di governo locale.

Sono state manifestate trepidazioni, perché un articolo stabilisce la facoltà, non so se primaria o secondaria, nella regione, di avere un corpo di polizia, o di avere la vigilanza sulla polizia. E già la fantasia, veramente accesa, degli oppositori al progetto, ci ha voluto parlare in quest’Aula di corpi armati che domani potrebbero rappresentare l’ausilio militare per eventuali ribellioni.

Ma, onorevoli colleghi, mentre io assistevo all’enunciazione di queste critiche, pensavo a quello che avviene da qualche secolo proprio in Sardegna in cui vi è un corpo che è intitolato dei barraccelli e che è uno dei corpi più salutari nella lotta contro la delinquenza nelle campagne.

Nessuno pensa ad organi di polizia locale in contrasto con quella centrale; nessuno pensa ad organi di polizia che possano eventualmente rappresentare un’arma per la Regione, ove essa si ponga in opposizione col potere centrale.

L’onorevole Nobile ha creduto di protestare – mi si consenta anche questo accenno – per un articolo contenuto nello statuto della Sicilia, il quale ammette che il presidente del Consiglio regionale siciliano intervenga, con diritto di voto, al Consiglio dei Ministri, quando si debba deliberare su questioni che interessano la Sicilia. Ebbene, io non comprendo quale danno ciò possa arrecare; io non comprendo in che cosa ciò possa minare l’esistenza dello Stato.

Io credo invece che debba essere un principio veramente di democrazia quello di riconoscere il diritto di una Regione di chiarire in Consiglio dei Ministri quale sia la sua situazione e ciò a mezzo del suo maggiore rappresentante; perché è da supporre che ne conosca i problemi più di quello che non possano conoscerli coloro i quali nella Regione non sono stati o vi sono stati soltanto di passaggio, oppure hanno sì anche delle varie regioni una conoscenza, ma, direi, di seconda mano o libresca; non capisco perché l’onorevole Nobile trovi che questo assolutamente non dovrebbe essere ammesso, e voglia negare questo diritto. Si dovrebbe continuare a verificare questo: che dei provvedimenti vengano presi a danno di una Regione, senza che la Regione sia consultata, possa far sentire il peso della propria voce. Credo che questa voce e questo parere si dovrebbero invece sollecitare e richiedere.

Presidenza del Vicepresidente CONTI

MASTINO PIETRO. Parmi che l’avere in un certo senso contribuito a sfrondare la discussione dalle esagerazioni avversarie e l’aver contribuito a porre il problema – non il problema astratto, ma il problema concreto; quello che ha una formulazione precisa negli articoli del progetto –; che l’aver fatto questo debba persuadere che noi seguiamo una via che è quella giusta, per cui noi non possiamo avere delle difficoltà intrinseche a che il progetto di statuto sia approvato.

Io credo di poter accennare a questo punto – penso sia mio obbligo l’accennarvi – alla questione della Provincia, di fronte a quella della Regione. Ritengo che il problema debba essere enunciato in termini chiari; ed a mio avviso i termini sono quelli che provengono dalla visione e dal concetto della Regione come noi la intendiamo, o meglio, come io la intendo. Intendo la Regione come un ente che abbia, nell’unità della Patria, carattere istituzionale. Intendo che si proceda all’istituzione di un organo nuovo, che adempia a determinate funzioni anche politiche. Ora, se si tratta di istituire un organo nuovo che risponda a queste funzioni, l’organo avrà la necessità di esplicarsi in una zona territorialmente vasta, sufficiente per l’esercizio della propria funzione; la Provincia dovrebbe rimanere invece come sede decentrata per i servizi.

Badate che io non ho motivi speciali per sostenere questa tesi; appartengo ad una cittadina che è capoluogo di Provincia; io appartengo ad una cittadina in cui potrà anche darsi eventualmente che taluno possa trovare motivo di critica nei miei riguardi per il fatto che, anziché affermare soltanto la necessità del mantenimento delle Provincie, riconosco lealmente come la Provincia debba sì esercitare una funzione, ma quella subordinata, alla quale ho accennato.

Premesso questo, soggiungo che non trovo giusti gli argomenti espressi in quest’Aula dall’onorevole Togliatti, il quale si è – ed è naturale, politicamente, che ciò si faccia – preoccupato dello stato d’allarme diffuso nei vari capoluoghi di Provincia. È naturale. Provate a togliere ad un qualunque paese un po’ delle sue prerogative, provate, direi, a diminuire la statura, l’importanza di qualunque cittadina – provate a diminuire, intendo dire, questa importanza per ragioni giuste – e ciò non di meno incontrerete subito le infiammate proteste della cittadina colpita. Questo è naturale. Questo non è giusto, ma è naturale da parte delle città, lese non nei diritti essenziali ma negli interessi che sono loro proprî.

Voi vedete come io proceda enunciando le obiezioni degli avversari senza soffermarmi troppo. Si è anche detto: vedrete che noi ci battiamo, e ci batteremo contro difficoltà finanziarie insormontabili.

Vi confesso il mio stato d’animo, che non era di tranquillità assoluta. Ma io do molta importanza alle dichiarazioni che formulò giorni or sono l’onorevole Einaudi. Egli criticò determinate disposizioni contenute nello Statuto siciliano, e l’Assemblea nel decidere in proposito terrà conto delle critiche dell’onorevole Einaudi. Ma l’ordinamento delle Regioni è approvato anche dall’onorevole Einaudi, pur nella parte finanziaria.

L’essenziale è questo: che si debbono imporre alle Regioni dei sacrifici finanziari proporzionati alle loro possibilità. L’altro principio deve essere questo: le Regioni abbiano diritto a servirsi di mezzi finanziari entro i limiti delle funzioni che devono esercitare.

E quando – badate – le Regioni debbano, in parte con mezzi proprii, provvedere anche alle spese, esse troveranno in ciò il motivo maggiore, per essere caute; esse troveranno in ciò un criterio, un indirizzo pratico per regolarsi.

Prima di finire, debbo una parola all’onorevole Rubilli. Tutto il mio discorso è una risposta al suo ordine del giorno, perché tutta la nostra discussione in definitiva si riassumerà poi nel voto che dovremo dare, e penso che la prima votazione dovrà cadere sull’ordine del giorno Rubilli.

Secondo l’ordine del giorno dell’onorevole Rubilli, il problema della Regione dovrebbe oggi essere respinto. Io devo una parola a lui. L’onorevole Rubilli ha detto che parlava a nome del partito liberale. Io me ne sono sorpreso, voi ve ne siete sorpresi, quando poi avete sentito l’onorevole Einaudi, che è per lo meno liberale quanto l’onorevole Rubilli, approvare il progetto, almeno nelle sue linee essenziali. Passando poi di sorpresa in sorpresa ho sentito l’onorevole Cifaldi, anch’egli liberale, dichiararsi contrario al progetto. Oggi ho poi visto in Risorgimento liberale un articolo in cui si dice che il progetto mina l’unità della Patria. Pensate: l’onorevole Einaudi che mina l’unità della Patria! (Si ride). Io non lo so immaginare! Poi, in questo pomeriggio, ho avuto dalla cortesia di un amico un fascicolo non del partito liberale ma del movimento liberale italiano: badate, non del 1947, sibbene del 1944. Le idee corrono! E si legge in questo fascicolo tutto un inno all’autonomia, e non solo autonomia amministrativa ma anche politica. Si legge che quando parliamo di autonomia regionale, noi intendiamo per autonomia regionale il passaggio di funzioni politiche e amministrative dalla organizzazione centrale a quella regionale, con più ampia partecipazione dei cittadini a quel potere d’imperio che è caratteristica dello Stato, in quanto di più largo contenuto sono le facoltà che permettono loro di concorrere alla vita e al soddisfacimento delle necessità dello Stato. (Interruzione dell’onorevole Lopardi). Io non sto dicendo quali rappresentanti del partito liberale abbiano ragione, ma sto dicendo che è per lo meno sintomatico, di fronte alla certezza che muove l’onorevole Rubilli a presentare il suo ordine del giorno, che vi sia una pluralità di opinioni fra i liberali, affatto diverse fra loro. E l’interruzione non fa che confermare il mio assunto. Fra gli altri (m’interrompe l’onorevole Lopardi) Benedetto Croce è contrario alle autonomie. Io m’inchino dinanzi all’altezza filosofica del Croce, ma non so a quale tesi debbano attenersi i liberali. Questo non riguarda l’onorevole Lopardi che, salvo errore, milita in un altro partito. (Si ride).

Credo, onorevoli colleghi, di dover accennare ad un innegabile vantaggio che la Regione e i Consigli regionali apporterebbero. Il vantaggio è questo: che, in contrasto al modo di vedere di parecchi onorevoli deputati che trovano nella vita dei futuri piccoli parlamenti un motivo deleterio per la Patria, l’azione di quei parlamenti renderebbe meglio possibile l’esame qui in Roma dei veri problemi nazionali, perché gli interessi e i problemi locali verrebbero esaminati invece dai Consigli regionali.

Penso che potrebbero anche esercitare un’azione sul sorgere e sulla vita dei partiti politici riducendone il numero. Questo gioverebbe, non nuocerebbe alla vita politica e alle sorti del paese. L’accantonare le questioni e gli interessi regionali nell’ambito della Regione, il deferirne l’esame e la soluzione ai Consigli regionali, diminuirebbe li numero dei partiti.

Di proposito accenno solo a questo vantaggio mentre mi sarebbe facile accennare anche a tanti altri derivanti sopratutto dall’esame diretto sul posto dei problemi locali; ma questa è cosa ripetuta da secoli, che nessuno può negare e non c’è bisogno che venga ripetuta anche qua dentro.

Il progetto, nei termini in cui è formulato, riconferma il sentimento comune a tutti noi, e sacro per ciascuno di noi, quello dell’unità dello Stato e dell’unità della Patria; questo sentimento è garantito dalla coscienza nazionale, che è al disopra delle divisioni politiche e degli interessi personali degli individui e delle Regioni. Se noi opponessimo un rifiuto all’approvazione di questo progetto – pensiamoci prima di respingerlo – le ragioni di protesta potrebbero diventare motivi di allarme. Allora dalla questione, che oggi è quasi esclusivamente amministrativa, potrebbe arrivarsi ad un’altra che potrebbe avere significato di protesta e pretesa in senso federalistico. Ciascuno di noi pensi d’altra parte se, nell’opporsi al progetto, non confessi sfiducia nella democrazia.

È questa luce nuova, questa nuova realtà (per lo meno credo di poterla chiamare realtà) che ci deve animare; è ad essa che ci dobbiamo ispirare, e non dobbiamo pensare che l’applicazione di questo progetto, diventato legge, ci debba dividere, disunire e possa far sorgere nell’ambito della vita nazionale le partizioni di un tempo; dobbiamo pensare invece ad una vita ricca, varia delle diverse Regioni, che contribuiscano alla grande, all’indissolubile unità della Nazione. (Applausi — Congratulazioni).

PRESIDENTE. Il seguito della discussione è rinviato a domani alle 9.

La seduta termina alle 20.30

Ordine del giorno per la seduta di domani.

Alle ore 9:

Seguito della discussione del progetto di Costituzione della Repubblica italiana.

GIOVEDÌ 29 MAGGIO 1947

ASSEMBLEA COSTITUENTE

CXXXIII.

SEDUTA DI GIOVEDÌ 29 MAGGIO 1947

PRESIDENZA DEL PRESIDENTE TERRACINI

indi

DEL VICEPRESIDENTE TARGETTI

INDICE

Comunicazione del Presidente:

Presidente                                                                                                        

Progetto di Costituzione della Repubblica italiana (Seguito della discussione):

Presidente                                                                                                        

Cifaldi                                                                                                              

Mannironi                                                                                                        

Nobile                                                                                                               

Lussu                                                                                                                

La seduta comincia alle 16.

SCHIRATTI, Segretario, legge il processo verbale della seduta precedente.

(È approvato).

Comunicazione del Presidente.

PRESIDENTE. Comunico che, in sostituzione dell’onorevole Ravagnan, dimissionario, è stato chiamato a far parte della Commissione per la Costituzione l’onorevole Giolitti.

Seguito della discussione del progetto di Costituzione della Repubblica italiana.

PRESIDENTE. L’ordine del giorno reca il seguito della discussione del progetto di Costituzione della Repubblica italiana.

Riprendiamo la discussione generale del Titolo quinto, seconda parte.

È iscritto a parlare l’onorevole Cifaldi. Ne ha facoltà.

CIFALDI. Onorevoli colleghi, siamo dunque alla parte più costituzionale della Costituzione, come si è espresso l’illustre Presidente dei settantacinque, onorevole Ruini, nei suoi «lineamenti» a chiusura della discussione generale; alla parte che, oltre ad essere la più costituzionale, è anche la più interessante. Essa impone la necessità di essere scrupolosi ed attenti, perché non investe lo studio di uno dei congegni del sistema costituzionale, i quali abbiano fatto più o meno esperienza in Italia o altrove, ma riguarda l’esame di un problema nuovo che interessa la vita, non per un periodo breve, della Nazione, ma l’avvenire per lunghi e lunghi decenni, incidendo nella struttura e nell’essenza della Nazione stessa. «Un problema di alta e decisiva importanza», diceva l’onorevole Ruini. Decisiva importanza davvero, perché, come osservavo, attiene all’essenza e alla struttura dello Stato, onde vien fatto inizialmente di domandarsi se, nelle congiunture attuali, poteva sembrare un problema che dovesse essere oggi discusso e impostato. È stato già rilevato da oratori assai insigni, che esso non è sentito dal popolo italiano e tanto meno ne viene richiesta la soluzione con carattere di urgenza e di necessità, non facendo parte di quell’insieme di idee e di esigenze che urgono oggi su tanta parte del nostro orizzonte economico e politico. Vorrei dire all’onorevole Sullo, che ciò non dipende già dal fatto che i vari partiti non ne abbiano discusso in assemblee e comizi, perché, invece, del problema si è ampiamente discusso e perché, se non fosse altro, di esso ci si è un po’ tutti occupati in riunioni numerose, a proposito della costituzione delle varie Regioni, creando un ampio e vasto dibattito. Il fatto è che esso non era sentito come una necessità, come un bisogno, da parte della Nazione e da parte del popolo, che ha avvertito l’esigenza di un decentramento amministrativo, questo sì, ma non già della costituzione di un sistema regionale che possiamo chiamare addirittura federalistico. Nelle attuali congiunture, quando tanti bisogni e tante esigenze richiedono una soluzione, questo problema può rappresentare una ragione di profondo dissenso, una ragione di profonda frattura pel tessuto della Nazione, già pervaso da tante crepe, scosso da tante esigenze e lacerato da tanti dolori. Costituisce qualcosa di veramente preoccupante ed allarmante, onde è stato possibile inizialmente domandarci se davvero sia tempestivo proporre simile problema. È esatto che si può rispondere che qui siamo nella sede della nuova costituzione da dare allo Stato italiano, vale a dire che ci troviamo nella sede tipicamente opportuna, ma è anche esatto che si possa ritenere – a mio modesto avviso – non essere il momento in cui si debba lanciare nella bilancia dei già aspri dissensi e nella foga delle competizioni, una questione, non dico completamente immatura, ma certo non completamente approfondita in tutte le sue parti e nella sua essenza. Giacché bisogna porre subito questa distinzione: che, altro è il decentramento amministrativo ed altro è il progetto che oggi noi stiamo esaminando, il quale, così come viene a noi, non è un progetto di decentramento amministrativo, ma un progetto che costituisce effettivamente un sistema di federalismo. Il che è assai diverso.

E mi sia consentito osservare, se è necessario di rifarci rapidissimamente alla storia, che tutto il Risorgimento italiano è stato improntato ad un concetto antifederalistico. Questo Risorgimento si è formato nella evoluzione del concetto unitario, quando praticamente sorse la possibilità di sperare nella costituzione di una patria italiana, nella possibilità di unire le sparse membra di questo nostro territorio. E fu solamente allorché la rivoluzione francese, affermatasi nella difesa di principî immortali, attraverso le armi portò, in tutta l’Europa, una speranza di vita libera e un anelito di possibilità di indipendenza democratica; fu solamente allorché la Convenzione formò la Francia una e forte, e la Francia, per difendere i suoi territori, poté marciare portando sul suo vessillo, attraverso tutta l’Europa, questa idea di libertà e di indipendenza. Onde l’idea della libertà e della indipendenza italiana si è formata ed è venuta crescendo e poi si attuò, nel concetto unitario ed accentratore.

Fu la Convenzione che riuscì a salvare la Francia dai dissensi interni e che spezzò gli assalti delle nazioni che volevano spegnere quella fiamma di indipendenza e di libertà; fu la Convenzione, durante il periodo in cui Napoleone era primo console, che poté iniziare in Europa, la marcia di libertà e di democrazia. E fu così che i letterati, i poeti, i pensatori e gli uomini politici nostri pensarono, sognarono, chiesero, la formazione di una Patria italiana, in questo anelito di unità e non già di federalismo. E il Monti nel 1797 chiedeva questo a Buonaparte: che avesse legato in un solo fascio le sparse membra della Patria e ne avesse fatta una sola forza unitaria. Ancora ripetendo nel 1802: «Muor divisa la forza, unità sola resiste a tutti». Così anche Fantoni nel 1806. Quando poi uomini come Botta, come Gioia, come Foscolo, dovettero rispondere ad un quesito sul migliore reggimento per rendere felice l’Italia, tutti si espressero secondo il concetto della unità repubblicana. E Foscolo ribadì tale opinione nel discorso per l’Italia e poi nella orazione a Buonaparte.

E quando, nel 1814, Napoleone era all’Elba, un gruppo di congiurati italiani, a capo dei quali pare fosse Pellegrino Rossi, gli chiese di porsi alla testa del movimento di unificazione italiana, dimostrando così che l’idea di fare l’Italia era ormai avviata sul binario della unità, abbandonando quella del federalismo. Così, come apprendiamo dal Cantù, strettamente unitaria fu, nel 1820, la Società segreta Ausonia, nella cui bandiera era il motto di unire tutti gli italiani in una Repubblica una ed indivisibile, in un concetto cioè di unità e di una sola entità. Idea che fu accolta poi dal primo Parlamento italiano, sventolò sul tricolore, fu consacrata dal sangue, quando cominciarono i movimenti insurrezionali: nel primo Parlamento italiano, in quello di Napoli, del 1821, allorché si discusse se dovesse intitolarsi Regno. d’Italia il novello stato costituzionale, sul tricolore allorché il nome di Regno d’Italia fu inalberato e gloriosamente tenuto a battesimo a Fossano e ad Alessandria, da Santorre di Santarosa.

Il sud ed il nord d’Italia si abbracciarono in quello sforzo unitario che ebbe il suo completamento nella luce di Vittorio Veneto, dopo un secolo di sacrifici e di lotte. Onde, quando, onorevoli signori, viene affermato un concetto di federalismo, si fa riferimento ad un concetto che è in contrasto con tutto lo sforzo unitario della costruzione della nostra Patria, della nostra indipendenza a nazione libera ed una. Così le parole di Cattaneo o di Ferrari rimasero isolate; ma principalmente è doveroso ricordare che insorse contro di loro Mazzini, cioè l’apostolo della libertà italiana, la fiamma della luce più pura che possiamo ricordare a protezione di questa nostra Italia, di questa nostra idea. E Mazzini scriveva: «Il federalismo non è né può essere che capriccio intellettuale di letterati imprudenti o sogno inconscio di aristocrazie locali, accarezzato da mediocrità ambiziose alle quali l’ampia sfera nazionale minaccia oblio». E Mazzini diceva che non intendeva il concetto di Roma e Lombardia, Roma e Toscana, Roma e Sicilia; ma che sentiva invece il concetto di Roma e Milano, di Roma e Firenze, di Roma e Palermo, perché intendeva che vi dovesse essere libertà di Comune e unità d’Italia, di questa Italia: «una d’arme, di lingua, d’altare, di memorie, di sangue, di cor».

Onde, senza andare oltre nell’esame di quello che è stata la forza di creazione della indipendenza italiana, noi sappiamo che questa è cominciata e si è incanalata e si è attuata in un solco di unità, in un concetto di indivisibilità, nel ripudio di ogni concetto federalistico. Quando a distanza di decenni noi ci troviamo, dopo avvenimenti così gravi, così tragici, a dover ricostruire il tessuto della nostra Nazione e a dover operare per il suo avvenire fecondo e pacifico, abbiamo il diritto di domandarci se veramente si guardi al bene del Paese propugnando o credendo nella riforma di cui ci occupiamo.

È stato detto anche da autorevolissime persone che non vi è preoccupazione, non vi dovrebbe essere preoccupazione neppure all’idea di una nazione federata composta di più parti, dappoiché tante nazioni vivono col sistema di repubblica federativa senza che nulla minacci la loro indipendenza, la loro unione, il loro avvenire.

Ma credo che per poter fare dei paragoni, bisogna trovare delle unità che si somiglino; credo che per poter avere un giudizio sicuro sia necessario trovare entità che, per lo meno, abbiano rapporti di vicinanza. Si è parlato di quello che possa essere l’Unione delle Repubbliche socialiste sovietiche, di quello che è la Repubblica jugoslava, di quello che è la Repubblica degli Stati Uniti d’America e altre Repubbliche federali. Ma mi pare che sia veramente pericoloso o inesatto fare raffronti del genere.

Come è possibile paragonare la nostra Italia con la Federazione delle Repubbliche socialiste sovietiche, la quale ha una estensione di oltre 20 milioni di chilometri quadrati e 193 milioni di abitanti, la quale è composta di 16 Stati, che effettivamente sono tanti Stati a sé stanti per bisogni, per tradizioni, per estensione, per costruzione intima di esigenze etniche e culturali?

Come è possibile non tener presente che di questi 16 Stati vi è solamente la Russia vera e propria, la quale ha 16 milioni di chilometri quadrati e 109 milioni di abitanti, e l’Ucraina con 587 mila chilometri quadrati e 46 milioni di abitanti, divisa in 26 provincie? Come è possibile pensare un paragone con questa Federazione di repubbliche, della quale fanno parte Stati come l’Estonia, la Lituania, la Lettonia, l’Armenia?

E, appunto perché la Costituzione di cui ci occupiamo rappresenta un pericolo federalista, essa rappresenta un pericolo di divisione per il nostro Paese in 22 repubblichette e non già una riforma a carattere di decentramento amministrativo.

È, ripeto, assolutamente errato il paragone con altri Stati che per la loro grandezza e per le loro peculiari caratteristiche possono, con giovamento, mantenere una Costituzione federalistica, poiché appunto risultano dalla federazione di diversi Stati fra di loro. Potrebbe essere interessante ed utile esaminare eventualmente quale sia la struttura interna di ciascun Stato, ma non già parlare di questa federazione di repubbliche.

Così, per quanto riguarda la Jugoslavia, posto pure – il che io assolutamente non credo – che si tratti di uno Stato più progredito del nostro – è evidente che, anche in questo caso, si tratta di una federazione di Stati del tutto differenti, quali la Serbia, la Croazia, la Slovenia, la Bosnia-Erzegovina, il Montenegro. Si tratta di diversi Stati che sono federati per ragioni proprie, i quali per ciò stesso non possono essere governati da un solo sistema e da un solo potere centrale.

Che se poi ci si voglia riportare all’esame, al paragone degli Stati Uniti d’America, maggiormente allora le differenze basilari emergono, perché il raffrontare la nostra Italia, la quale, fra Ancona e Livorno, non misura che appena 200 chilometri, con gli Stati Uniti che vanno dal Pacifico all’Atlantico e risultano di ben 48 Stati, con 131 milioni di abitanti ed 8 milioni di chilometri quadrati, mi pare sia cosa fondamentalmente assurda e quanto mai ingiusta.

Ma si usa fare il paragone inverso e si cita spesso l’esempio della Svizzera. Ora, a me pare che anche questo esempio non possa calzare in alcun modo, perché la Svizzera non ha una popolazione neppure uguale a quella della Lombardia, giacché supera di poco i 4 milioni di abitanti, mentre la Lombardia ne ha 5 milioni e mezzo; così, mentre la Lombardia ha nove provincie, la Svizzera ha ventidue cantoni ed è composta di popoli che parlano tre lingue.

Il che val dire che, se volessimo anche noi seguire un sistema cantonale, dovremmo addirittura costituire centinaia di cantoni e non già le ventidue regioni che ci vengono proposte.

Credo quindi che si debba senz’altro abbandonare questa strada; credo che si debba ritenere che ogni paese, ogni nazione, ogni Stato, hanno una loro particolare struttura, hanno l’essenza che la loro storia ha creato. Se quindi è possibile e utile andare a guardare quello che avviene presso altri Stati, non è però assolutamente il caso di farlo con l’intento di copiarne le intime strutture, con l’intento di trasferirne, in un altro ordinamento, la peculiare essenza.

La storia non può ripetersi a somiglianza per tutte le nazioni, perché le varie, le infinite forze che hanno contribuito a formare un dato Stato, sono state ancor’esse che hanno contribuito a forgiarlo in quella determinata maniera e non in un’altra.

Oggi dunque, che noi ci troviamo a dover dare all’Italia una Costituzione, non possiamo non soffermarci allarmati e preoccupati di fronte al Titolo quinto del progetto.

Molte, a mio avviso, sono le preoccupazioni che si presentano nell’esame di questo Titolo V; e vien fatto di domandarsi qual è stata la ragione che ha consigliato, che ha imposto che si chiegga e si propugni una simile riforma.

È stato detto che è necessario creare e formare un clima di democrazia, che è necessario creare una classe dirigente, che è necessario liberare tutti dal giogo statale, dall’oppressione e dal controllo centrale, che è necessario creare un organo il quale veda da vicino i bisogni delle singole zone e possa più rapidamente provvedere ad impostarli e risolverli.

Ora, io credo che per quanto si attiene alla necessità di formare una classe dirigente, di formare persone le quali si intendano di amministrazione e comprendano le esigenze della democrazia, non vi possa essere un banco di prova più efficiente, non vi possa essere una palestra più efficace di quella che è la lotta per l’amministrazione comunale. Il Comune rappresenta effettivamente il campo nel quale si viene formando la possibilità e la capacità di una efficiente e libera amministrazione, nel quale si conoscono e si valutano e si apprezzano le esigenze locali e nel quale ciascun cittadino comincia a intendere che il concetto democratico è soprattutto concetto di rispetto, di sopportazione, di apprezzamento dell’altrui idea e dell’altrui convincimento. Onde, se il Comune viene mantenuto e allargato nella sua competenza di ente autarchico, si crea già quella possibilità di formare una classe la quale sappia provvedere all’amministrazione e quindi possa, adusandosi a questi concetti e a queste necessità, avviarsi poi ai più alti scalini per raggiungere la possibilità di partecipare alla vita centrale.

Quando si parla della necessità di distruggere tante reti di imposizioni e di interventi statali, di consentire un respiro più libero e meno afoso alla vita di tutti, quando si parla della necessità di allentare, di eliminare tanti ceppi che legano come una ragnatela invisibile, ma formidabile la vita di ogni angolo d’Italia al centro, rendendola a volte asfittica e pesante, si dice cosa giusta, si chiede cosa esatta. Ma a questa necessità, a questo anelito di libertà e di indipendenza, a questo respiro che i polmoni della periferia chieggono di potere avere, si deve provvedere dando ai Comuni quella maggiore indipendenza e autonomia che consente ad essi di vivere senza controlli immediati e continui, senza il paternalistico intervento del Governo nella forma che attualmente esiste.

Ma se si pensa di poter formare questa classe dirigente, di poter risolvere i problemi locali, di poter eliminare questi vincoli con la creazione dell’ente regione, io credo in coscienza, onorevoli colleghi, che si dice una cosa perfettamente ingiusta e non rispondente alle vere esigenze; perché l’ente regione, così come è congegnato, non rappresenta che una nuova forma di burocrazia la quale non va a vantaggio delle esigenze dei Comuni ma serve anzi ad appesantirle.

È necessario poi precisare e definire che cosa si chiede anche in rapporto alla riforma di cui ci occupiamo. Si dovrà mantenere in vita l’Ente provincia o sopprimerlo? Perché questo è un punto essenziale.

Secondo il progetto, la Provincia scompare come ente autarchico; e non è esatto che la provincia ha così pochi compiti che può scomparire senza lasciare alcun rimpianto.

Già al riguardo noi abbiamo sentito esprimere diverse opinioni. Ci sono coloro che si sono affermati difensori dell’Ente provincia, come, per esempio, l’onorevole Rescigno. Vi è stato invece chi, pur appartenendo al suo Gruppo, come l’onorevole Sullo, ha affermato che la provincia è un ente del quale non si avverte l’esistenza. Vi è stato l’onorevole Einaudi il quale ha affermato che nel suo Piemonte l’Ente provincia non rappresenta qualche cosa di vitale, onde scegliere tra provincia e regione è perfettamente indifferente.

Vi è stato l’onorevole Gullo Fausto, il quale ha affermato che, per quanto riguarda il Mezzogiorno d’Italia, la provincia è un ente che ha lunghe tradizioni, salde radici e rappresenta interessi effettivi.

Sicché vediamo che quando ci avviciniamo all’esame di questo problema, a considerare se cioè questo Ente provincia che comunque sussiste da quasi un secolo e servizi ha reso, debba o meno restare, se cioè questa parte nella Costituzione debba rimanere così come prevista o essere modificata, abbiamo grande perplessità e contrasto di opinioni. Perché non è già che l’Ente Provincia non abbia sostanziali incarichi, non risponda ad esigenze effettive. Non deve solo provvedere alle strade provinciali e agli esposti e ai mentecatti, ma è da aggiungere, come è stato ricordato in questa sede, che ha avuto l’incarico della lotta antitubercolare, di quella antitracomatosa, e la cura per la sanità generale della popolazione, onde sono a lei affidati compiti di grande importanza. Ora supponiamo che l’ente scompaia, che questa provincia non vi sia più come ente autarchico, che rimanga semplicemente come un ente burocratico, al quale possono venire affidati dei compiti e degli incarichi da parte dell’ente regione, e allora noi vediamo che la situazione di tutti i componenti la popolazione di ogni regione, delle singole provincie che compongono una regione, viene ad essere singolarmente ed effettivamente aggravata, rimanendo evidente l’osservazione dell’onorevole Rescigno, che un cittadino il quale dovesse chiedere il ricovero di un mentecatto o il ricovero di un esposto in un brefotrofio, dovrebbe portarsi al capoluogo di regione, capitale di questo ente. Né è fondato il diniego che veggo fare dall’onorevole Persico. Mi permetta osservare l’onorevole Persico che l’ente provincia così come previsto dall’articolo 107 del nostro progetto di Costituzione non è un ente autarchico, ma rimane un ente semplicemente amministrativo, un ente cioè di esecuzione di deliberazioni prese dall’Ente regione, senza potestà deliberativa, onde né l’ente provincia così come previsto e neanche la Giunta provinciale mi pare abbiano facoltà alcuna a provvedere e deliberare per le ipotesi prospettate.

Si suggerisce di provvedere colla possibilità di deleghe, come dice l’onorevole Persico, ma in questa maniera è facile osservare che praticamente rimane in vita l’Ente provincia, perché se l’Ente provincia, per virtù di delega, può provvedere a tutto quanto provvede oggi, non avremo che una duplicazione di poteri, non avremo che un ente regione e un ente provincia, i quali dovranno esplicare gli stessi incarichi ed adempiere le stesse mansioni. Si creerà una nuova e vasta formidabile burocrazia.

E sia consentito osservare che il problema non è di scarsa importanza anche su questo punto. Mi pare che nessuna traccia sia rimasta nei lavori preparatori per quanto riguarda il modo di poter finanziare l’ente regione, in che maniera poter provvedere alle sue esigenze, alle esigenze strutturali di esso, onde se rimane e dovrà rimanere l’ente provincia, come da tante parti d’Italia è invocato e come è stato chiesto in un congresso tenutosi a Firenze, noi avremo che la burocrazia crescerà del doppio.

Troveremo che per poter provvedere a tutte le materie di grande importanza di cui all’articolo 109, 110 e 111 bisognerà creare veri e propri ministeri, perché non è possibile pensare che in materie che vanno dall’energia elettrica alla beneficenza alla polizia locale e così via, si possa provvedere con funzionari di poca o minima preparazione; bisognerà provvedere invece con una struttura la quale costituirà nella capitale di ciascuno di questi piccoli Stati dei veri e propri ministeri.

CONTI. Capoluogo, non capitale.

CIFALDI. È quasi una capitale.

CONTI. Non gonfiamo.

CIFALDI. Non si tratta di gonfiare, ma di osservare con la maggiore obbiettività. È un problema che non investe principî di carattere etico, ma d’indole amministrativa. Si tratta di osservare se è possibile che un ente il quale debba provvedere (art. 109) alla polizia locale, alle fiere, ai mercati, alla beneficienza pubblica, alla scuola artigiana, alla urbanistica, alle strade, agli acquedotti, ai lavori pubblici, ai porti lacuali, alla pesca nelle acque interne di carattere regionale, alle torbiere, cioè a una vasta legislazione primaria che non solo deve tener conto della legislazione dorsale della Nazione, ma altresì delle altre 21 legislazioni le quali si andrebbero formando (ed io mi auguro che non si formeranno) possa ciò fare senza dei veri Ministeri.

Per quanto riguarda poi le materie dell’articolo 110 e cioè ancora legislazione primaria: assistenza ospedaliera, istruzione tecnico-professionale, biblioteche di enti locali, turismo ed industria alberghiera, agricoltura e foreste, cave, caccia, acque pubbliche ed energia elettrica, acque minerali e termali, tramvie, linee automobilistiche regionali, bisognerà evitare che vi possano essere dei contrasti con le legislazioni delle altre regioni (chiamiamole così, per adesso) e quindi la necessità, inevitabile, di veri e propri ministeri che dovrebbero avere funzionari e competenti per le varie branche che ho elencato. Che dire poi della legislazione di integrazione di cui all’articolo 111? E per tornare al punto circa la provincia, se si lascia la provincia, modificando il progetto, si crea una duplicazione, perché resterà la provincia come ente delegato e avrà perciò tutti i poteri che dovrà avere la regione. Resterà la provincia con poteri inferiori e minori? Bisognerà indicarlo. Non vi sarà addirittura provincia, mantenendo il progetto così come è stato redatto? Avremo quegli inconvenienti gravi che mi sono permesso di ricordare e sui quali ci si potrebbe soffermare a lungo.

Ma quando guardiamo la regione così come è stata costituita nel progetto stesso, viene fatto di affermare che in quella maniera veramente scompaiono le provincie, e gli interessi delle singole provincie vengono trascurati e soffocati, non protetti. Consentite che io faccia il semplice ricordo della Campania alla quale appartengo per essere di Benevento e che affermi come veramente sia difficile pensare, ritenere e credere che, quando le provincie di Benevento, di Avellino, di Caserta, di Salerno e di Napoli siano unite in un solo ente regionale, gli interessi di ciascuna di esse vi possano venir equamente tutelati e che i bisogni, le speranze, le aspirazioni di queste province, possano veramente essere attuate e ci possa essere in questo nuovo ente la vis necessaria a creare nuove energie e valorizzare quelle latenti.

Ritengo di potere affermare, senza tema di smentita, che saremmo di fronte ad un vero e proprio assurdo.

Ad esempio, la provincia di Napoli ha un milione e settecento mila abitanti, ammontare che le altre provincie della Campania insieme (Salerno, Benevento, Avellino e Caserta) superano di poco; cosicché, quando una di queste quattro provincie minori andrà a chiedere al Consiglio regionale una strada, un acquedotto, un ospedale, si troverà contro le maggiori esigenze del capoluogo o della capitale di questo piccolo Stato.

Ritengo che questa preoccupazione, che io manifesto per la Campania, esista anche per altre regioni. Del resto, abbiamo la riprova nell’esperienza del Provveditorato per le opere pubbliche. Non è un ente a carattere regionale: il Provveditorato dipende dal Ministero dei lavori pubblici. Eppure, si sono verificate gravissime pretormissioni in danno delle piccole provincie. Per restare alla Campania, queste hanno dovuto competere, per la ripartizione delle somme assegnate dal Ministero alla Campania, con la città e provincia di Napoli; ed hanno trovato in esse non già incomprensione o ostilità, ma esigenze più dirette ed immediate e non hanno potuto resistere a cogenze, che venivano da agitazioni popolari di masse di disoccupati; il Provveditorato, pressato dal prefetto di Napoli e anche da ministri, ha dovuto cedere a quelle esigenze onde le somme, che dovevano essere ripartite fra le varie provincie, sono state in gran parte assorbite dal capoluogo della regione.

Cosa accadrà, quando ci troveremo dinanzi al Parlamento regionale, nel quale il numero dei rappresentanti delle piccole provincie sarà esiguo nei confronti dei rappresentanti della provincia più grande?

Bisognerebbe pensare e sperare in una coalizione delle piccole, per poter pareggiare la forza della provincia, che fa cerchio intorno al capoluogo.

È preoccupazione grave, gravissima; ne avete avuta eco in quest’aula nei giorni scorsi. Avete visto in che modo ciascun rappresentante politico interpreta gli interessi della propria zona, a proposito di questo ente.

L’onorevole Rescigno chiedeva che Salerno venisse staccata dalla Campania, per formare una nuova regione con Avellino. L’onorevole Sicignano, della stessa zona di Salerno, si opponeva a questo concetto.

E per quanto riguarda Avellino, l’onorevole De Mercurio, di parte repubblicana, e l’onorevole Vinciguerra, di parte socialista, si sono opposti vivamente.

Vedete che questa composizione in una regione, che poteva far pensare ad una certa organicità, viene ad essere negata da coloro che vi vivono.

PERSICO. È campanilismo.

Una voce. È realtà.

CIFALDI. Vedete come nell’austerità e nella serenità di quest’aula, ritorna tremendo il problema, che io sottopongo alla vostra attenzione, perché vedete che ancora un altro deputato, per esempio di Avellino, l’onorevole Preziosi, insorge contro la affermazione di campanilismo dell’onorevole Persico.

PERSICO. Risolvete, se riuscite. È tutto qui: vedere se è meglio risolvere sul luogo o qui.

CIFALDI. Sono molto onorato della sua interruzione. Ma che significa?

Mi sono permesso di dire, che secondo il mio avviso, bisogna giungere a un decentramento amministrativo con gli enti che ci sono, non creare un ente nuovo, il quale non è un ente di decentramento amministrativo inteso nel concetto istituzionale, ma costituisce veramente, propriamente, la creazione di uno Stato federalistico, composto di più province, (Rumori) per ciascuno di essi. Sono in creazione, con questo progetto, 22 piccoli Stati, i quali sono formati insieme da una federazione fra di loro per creare poi la Repubblica italiana.

Ma torniamo a guardare, mi permetterò di aggiungere, se avete la benevolenza di sopportare ancora un po’, quelli che sono i compiti di ciascuna regione e vedremo come effettivamente siamo di fronte ad un problema di enorme gravità, a un problema, come diceva l’onorevole Ruini, «di decisiva importanza».

Dunque mi son permesso di fermare la mia attenzione, chiedendo quella vostra, benevola, su questi due punti:

1°) incertezza sul se dover lasciare la regione senza provincia, oppure mantenere la provincia come ente autarchico e quindi creare una specie di doppione;

2°) osservare se così come è stata concepita e costruita nella sua struttura la regione già non contenga i germi di contrasti insanabili, i germi di antitetica forza, il danno di volontà diametralmente opposte.

Come si farà, per esempio, consentitemi che rimanga ancora nel campo della regione campana, a poter pensare che questa specie di Parlamento regionale possa legiferare con assoluta tranquillità ed indipendenza sui bisogni di una parte prettamente agricola come può essere Avellino, Caserta e Benevento, quando essa regione ha delle esigenze formidabili per la sua vita, in campo diametralmente e perfettamente opposto? per le grandi industrie, per il Porto di Napoli?

Come sarà possibile convogliare i proventi delle entrate (che non sappiamo ancora quali siano) su un piano di perequazione, su un piano di giustizia distributiva? Come sarà possibile poter riconoscere l’utilità di un’opera che una di queste provincie richiederà a questo ente, quando vi è questo insanabile contrasto campanilistico alle radici, come dice l’onorevole Persico?

Egli forse riuscirà solamente ad affermare che non ci deve essere questo campanilismo ma non impedirà che risorga fatalmente e dolorosamente con un contrasto che si va sempre più acuendo. Creeremo con questo Ente una forza di propulsione od invece una forza disgregatrice che non farà altro che aprire invidie ed opposti interessi pericolosi?

Ancora oggi, ad un secolo di distanza, è rimasta una traccia di dissensi e rancori per città che non riuscirono ad essere Provincia nel 1870 e dopo, e noi stiamo ravvivando quei rancori con una fiamma veemente per quella che è la funzione delle regioni.

Ancora oggi vi sono nostalgie per principi che regnarono prima dell’unità nazionale.

E al riguardo vi racconterò un fatto singolare.

Ospite in casa di un mio amico, il signor Rummo – cito il nome per evitare che si possa pensare ad una… spiritosa invenzione – ebbi il piacere, mesi or sono, di conoscere una gentildonna napoletana, moglie di un direttore generale del Ministero del commercio, Rossetti, la quale candidamente si dichiarò, a proposito del problema istituzionale, legata alla casa dei Borboni, dico dei Borboni, e parlava del conte di Calabria e del conte di Siracusa con un’attualità, una immediatezza di riferimenti, come un appassionato di casa Savoia avrebbe potuto parlare di Vittorio Emanuele o di Umberto.

Altro dunque che unità così saldamente raggiunta, da poter consentire un esperimento di partizione.

Sentiamo la voce forte ed alta del Friuli che chiede di essere regione a sé. Quella non meno ardente per l’antico e glorioso Sannio.

Abbiamo sentito la voce dei Dauni, dei quali l’onorevole Dugoni si meravigliava che si facesse il nome, nome del quale non aveva mai sentito parlare.

I Dauni pare che abitassero il Gargano donde scesero nella fertile pianura. E a proposito di questa regione, si vanno prospettando le più svariate ragioni per poterla giustificare. Abbiamo assistito alle aspirazioni della regione Tuscia per la quale io confesso la mia ignoranza e la mia meraviglia perché non avevo mai saputo che Orvieto non volesse stare con l’Umbria e potesse affermare di dover stare con Viterbo per poter formare la Tuscia la quale, secondo un giornale locale, è una delle più antiche, delle più note e delle più ricche regioni d’Italia.

Ora, che sia antica e che sia nota, può non esservi dubbio, ma che sia una delle più ricche d’Italia non lo credo.

Per la Tuscia non ho rossore di dichiarare che ne ignoravo l’esistenza. E ho visto anche le richieste di altre regioni e le proposte le più varie al riguardo. Per esempio, si diceva che la Basilicata, o meglio la Lucania, dovesse essere divisa, assegnando Matera ad una regione e Potenza ad un’altra. Onde le ire dell’onorevole Reale.

Insomma, io desidero affermare questo concetto che quando si è andato a far sorgere l’ente regione come ente autarchico, si è creato un vespaio straordinario, si sono create ragioni di dissenso profonde non solo nell’Italia meridionale e centrale ma anche nell’Alta Italia, dove, dicevo, il Friuli richiede un riconoscimento (Rumori) e Mantova non sa dove deve andare, e dove si crea una Emilia Lunense, di modo che dovunque sono sorte difficoltà, sono nate ragioni di dissenso e non di consenso. E pensate, ove si venisse a creare effettivamente questo ente regionale, la difficoltà che sorgerebbe dalla convivenza in quanto tanti sarebbero i rancori fra coloro che vedrebbero accolta e coloro che vedrebbero rigettata la loro istanza.

Ed ancora, onorevoli colleghi, consentite che per l’esame dell’intero problema, io mi soffermi su un altro punto e cioè sulla preoccupazione di un contrasto, dell’urto che può sorgere fra regione e regione, per la tutela dei rispettivi interessi.

Noi abbiamo una dolorosa prova in quello che è successo in questi ultimi tempi, cioè nel momento di più grave pericolo e di più grave ambascia della nostra Nazione. Abbiamo visto nel 1943-44-45, nei momenti in cui la solidarietà era più indispensabile che mai fra regione e regione, abbiamo visto far ricorso a quelle forme protezionistiche con le quali ogni provincia tentava chiudersi nel suo piccolo ambito per sottrarsi alla concorrenza di altre zone o per sottrarsi alla avidità o al bisogno di altre limitrofe provincie. Ed allora, nei vari campi, ciascuna provincia ha chiesto ed ottenuto dal rispettivo prefetto che fosse vietata l’esportazione di questo o di quel genere.

Ora io domando, se da questo che è emerso così evidente, per cui Foggia, per esempio, vietava l’esportazione della favetta, o Savona vietava l’esportazione del legname, io mi domando se da questo non debba trarsi un elemento da renderci pensosi, in quanto si debba temere domani, costituite le regioni, una tutela mal interpretata dei vari interessi; perché l’onorevole Einaudi aveva voglia di affermare ieri che nessuna regione può pensare alla propria autosufficienza, e che nemmeno il nostro globo, quando venisse scoperto un altro mondo, potrebbe più chiudersi in sé stesso, non potendo trascurarsi che, di fronte ai bisogni ed alle proprie esigenze, ogni paese è tentato di ricorrere al provvedimento più facile e diretto, e cerca di evitare di esportare alcuni generi necessari in quel momento, e ricorre a provvedimenti ed a barriere proibite dal progetto di Costituzione…

AMBROSINI. Ma a questo proposito l’articolo 113, all’ultimo comma, è tassativo!

CIFALDI. Siamo d’accordo, cari colleghi, questi provvedimenti sono proibiti dal nostro titolo V, ma tutto questo non servirebbe a nulla quando la violazione potesse effettuarsi attraverso la volontà di un Parlamento. E poiché nulla vi è mai di nuovo, consentite che io ricordi l’episodio che si legge nei Promessi Sposi, laddove Renzo apprende dal cugino Bartolo come Bergamo aveva dovuto inviare un dottore, «ma di quelli!», nientedimeno Lorenzo Torre, a Venezia per ottenere l’annullamento dei decreti dei rettori di Verona e di Brescia che avevano chiuso i passi e vietato il passaggio, nel loro territorio, delle duemila some di grano comprate previggentemente da Bergamo per combattere la carestia. Ed oggi noi abbiamo assistito a province che soffrivano la fame, ed abbiamo assistito a decreti prefettizi di blocco emanati da altre provincie nonostante le disposizioni inviate dal centro, con cui si proibiva di potere… proibire certe esportazioni. (Interruzione dell’onorevole Ambrosini). E finché si dovrà ricorrere, dagli organi in contrasto, all’Alta Corte, per annullare eventuali illeciti provvedimenti della regione, io penso che passeranno molti anni… (Interruzione dell’onorevole Ambrosini) per attendere l’annullamento. E neanche vale dire che occorre ai provvedimenti della regione il visto del Commissario del Governo, perché quando questo rappresentante del Governo venisse pressato da bisogni e da esigenze locali di grandi città, come ad esempio Napoli, Milano, Genova, egli non si potrebbe rifiutare, ed accoglierebbe senz’altro qualunque richiesta. Questo pericolo l’ha denunciato ieri l’onorevole Gullo: quando avrete creato l’organo, voi non potrete certo impedire che esso aumenti i suoi poteri e che vada acquistando una sempre maggiore autorità.

C’è poi un’altra preoccupazione, gravissima – che io intendo sottolineare alla vostra attenzione –, in materia di esportazione di mano d’opera. È accaduto ad esempio, in questi ultimi tempi, che il Prefetto di Matera ha proibito che andassero a lavorare in quella provincia operai disoccupati della zona vicina, di Andria, onde è sorto grave conflitto e grave preoccupazione perché si è maggiormente aggravata la miseria di lavoratori disoccupati della zona vicina cui ho accennato. Io temo che questo pericolo sia codificato nel titolo V della Costituzione, perché, onorevoli colleghi, all’articolo 113, ultima parte è detto: «Non possono istituirsi dazi d’importazione e d’esportazione, o di transito fra l’una e l’altra regione; né prendersi provvedimenti che ostacolino in qualsiasi modo la libera circolazione delle persone e delle cose». Ora io penso, che con la dizione libera circolazione si potrebbe intendere di escludere il soggiorno, onde potrebbe evitarsi il soggiorno in una regione di persone indesiderate. E quando consideriamo le facoltà di legiferazione concesse alla regione, e vediamo che all’articolo 109 è concesso alla regione potestà di emanare norme legislative in materia di: «strade, acquedotti e lavori pubblici di esclusivo interesse regionale», quando vediamo stabilito, all’articolo 112, che «la regione provvede all’amministrazione nelle materie indicate negli articoli 109 e 110», quando si osservi che la regione provvede a legiferare in materia di «polizia locale urbana e rurale», io mi domando come è possibile che, di fronte alla richiesta di una popolazione che chieda di essere esclusivamente impiegata in lavori da eseguirsi con le entrate della propria regione, per la esecuzione di un acquedotto o una strada di esclusivo interesse regionale, io mi chiedo, come possa evitarsi la emanazione di un divieto regionale che neghi lavoro a coloro che, andando da una parte all’altra d’Italia, credano di poter essere dovunque occupati, come liberi cittadini di questa nostra Patria. Mi pare che questa sia una cosa che debba preoccupare, e non è soltanto una fantasia, e perciò bisogna dedicarsi profondamente all’esame di questi articoli. Avremo impossibilità di emigrazione interna di mano d’opera, da regione a regione.

Io desidererei, onorevoli colleghi, dirvi che è tempo di guardare il problema nella sua intierezza, così come è proposto in questo progetto di Costituzione e con la volontà trepidante di vederne tutte le profonde conseguenze.

Questo progetto, così come è compilato, per quanto riguarda la creazione delle autonomie regionali, rappresenta un’arma, un mezzo, con il quale viene disgregata l’unità della Patria italiana. Ed io non ho difficoltà di affermare che in questa maniera si va purtroppo a fare un procedimento inverso rispetto a quello che è stato il procedimento di formazione della nostra Patria. (Commenti Interruzioni).

Noi percorriamo in tal modo a ritroso il cammino dell’indipendenza della Patria per distruggere quello che è stato fatto.

Domandiamoci se veramente creiamo degli enti autarchici o dei veri o propri Stati. (Interruzione dell’onorevole Micheli).

Quali sono gli attributi attraverso i quali noi possiamo vedere se veramente questa preoccupazione esiste o no? Se si creano o meno dei veri e propri stati? Le regioni, come previste, hanno un patrimonio proprio, una facoltà di vasta legislazione, hanno degli organi di esecuzione: ma quello che, sopratutto, mi ha impressionato, è lo spirito, che informa questo progetto, è lo spirito, l’animus, col quale viene interpretato dai suoi fautori, onde se ancora avessi avuto un dubbio fra la necessità di creare un largo decentramento per dare un più ampio respiro alla vita periferica o creare un organo che potesse essere il cavallo di Troia nella nostra unità e indipendenza di Nazione, se questo dubbio avessi avuto, confesso che è stato fugato, onde sono rimasto più che mai fermo nell’oppormi a questo progetto, attraverso le parole degli onorevoli Einaudi e Uberti. Si creano degli enti e degli organi e delle regioni che saranno contrastanti tra loro, per cui si può pensare che in tal modo si evoca addirittura lo spettro della guerra civile. Dobbiamo essere molto cauti ed attenti. Io voglio qui essere anche un po’ esagerato, ma ho inteso parlare di Emilia rossa e di Veneto bianco ed ho inteso eloquenti accenni al concetto di distruzione dell’unità della Patria, della creazione di Stati indipendenti. Quando si dice che ci può essere un’Emilia con regime comunista e un Veneto democristiano…

UBERTI. Non è così, noi abbiamo parlato di amministrazione, non di orientamenti politici.

CIFALDI. Chiedo scusa; ma ho seguito attentamente il discorso dell’onorevole Uberti, come molti dei colleghi qui presenti. E me ne fa fede l’onorevole signor Presidente, se dicevo cosa esatta o meno.

FUSCHINI. C’è il resoconto stenografico.

CIFALDI. Si è detto che in questo modo il popolo avrebbe potuto fare un confronto, per vedere il sistema migliore. Ora, ciò rappresenta un attentato all’unità della Patria. Ma, onorevoli colleghi, si potrebbe dire che questa è una interpretazione di quello che può essere il pensiero di un deputato, autorevole per quanto si voglia, ma isolato. Però, onorevoli colleghi, guardando all’essenza effettiva delle cose, ieri l’onorevole Einaudi diceva che tutta l’Assemblea avrebbe dovuto riformare lo Statuto siciliano, tornando sui passi già compiuti, togliere alla Sicilia quello che la Sicilia considera una delle sue più forti conquiste, vale a dire la possibilità di rifarsi di quello che essa afferma essere stato il dissanguamento subìto per tanto tempo, onde non infrangere l’unità della nazione.

Quali sono le lamentele della Sicilia? È che il denaro delle rimesse dei suoi emigranti in moneta pregiata venisse preso dallo Stato italiano in cambio delle sue importazioni. Cosa si è stabilito nel progetto di costituzione della Sicilia? Ce lo spiegava chiaramente ieri l’onorevole Einaudi: ci ha spiegato che ogni entrata deve rimanere al popolo siciliano e che, anzi, lo Stato debba ancora dare una quota di integrazione allo Stato siciliano, onde il pericolo la preoccupazione addirittura, che la Sicilia potesse battere moneta, avendo essa un corso pregiato rispetto alla lira italiana.

AMBROSINI. Ma qui parliamo delle norme del progetto!

Una voce a sinistra. Devono essere coordinate!

CIFALDI. E allora, si chiedeva che alla Sicilia venisse tolto quello che si è già concesso, perché si pensava, si temeva giustamente che questo potesse dar luogo a richieste da parte delle altre regioni, da parte di ciascuna delle 22 regioni – chiamiamole così – che si vanno a creare.

E ciò è in rapporto alla disciplina del credito e del risparmio di cui all’articolo 111 del progetto.

Ma se noi, onorevoli colleghi, dovremo chiedere…

LA MALFA. Voi liberali avete votato per fare le elezioni subito in Sicilia.

CIFALDI. È esatto, onorevole La Malfa. Vi era una richiesta che partiva da lei per il rinvio delle elezioni. Noi liberali abbiamo votato per fare le elezioni subito, in quanto c’era un impegno con la Sicilia e volevamo provare che questa libera assemblea, eletta per la prima volta con sistema democratico, manteneva l’impegno assunto dalla Consulta. (Commenti). Non avevamo, noi liberali, il pensiero di conquistare una maggioranza nella lotta elettorale in Sicilia: avevamo – come mi permisi di dire con una dichiarazione in quest’aula – solamente bisogno di dimostrare alla Sicilia che si mantenevano gli impegni assunti.

E oggi, se bisognerà tornare su qualche concessione fatta, per mantenere l’unità monetaria della Nazione, la quale è la forza più coesiva che rappresenta l’unità di uno Stato, se questo dovremo fare, sarà necessario dimostrare alla Sicilia che effettivamente non si fanno due pesi e due misure e che, anche nei confronti delle altre regioni si mantiene un concetto perfettamente uguale.

Ed è così, onorevoli colleghi, che noi dobbiamo guardare il problema, che dobbiamo guardare quella che è la portata della regione e delle norme che la devono regolare e costituire, secondo il titolo V di questo progetto.

E quando mi permetterò di ricordare che si chiedeva che dall’articolo 110 venissero tolte le norme a proposito delle acque pubbliche e della energia elettrica, e quelle sul credito e risparmio dall’articolo 111, per quella chiara dimostrazione che ne faceva l’onorevole Einaudi, mi permetterò, in contrapposto, di ricordare anche le parole dell’onorevole Uberti che dava una dimostrazione pratica di quello che può essere il contenuto delle norme previste in questo titolo. Perché quando egli affermava che la banca delle Tre Venezie aveva centinaia di milioni di depositi, egli chiedeva e domandava come e perché ci dovesse essere un organo centrale che potesse togliere una parte di questi risparmi alla regione per investirli di autorità in titoli di stato o in altro modo. E ha detto che le risorse idriche del Trentino, con le quali si facevano correre i treni lungo tutte le ferrovie d’Italia, dovevano rimanere impiegate nella zona di origine per potenziare quelle industrie artigiane!

Così si annienta l’unità di un Paese.

E si può porre questa domanda: quando un Parlamento regionale avrà avuta la possibilità di legiferare su queste materie, quale sarà la forza per ottenere che una parte delle locali energie vada al bene comune?

E sotto un altro punto di vista, in qual maniera onorevoli colleghi, la regione potrà assolvere ai suoi compiti, quando ci troveremo di fronte alle regioni povere, derelitte?

È stato con somma sorpresa – mi si perdoni l’espressione – che ho sentito l’onorevole Zotta fare ieri una strana asserzione, quella cioè che egli tanto più restava fermo nel concetto regionalistico quanto più povere sono le regioni dell’Italia meridionale; e ciò proprio per far sì che esse possano sorgere, stimolando le proprie energie e le proprie attività.

Ma quali energie? Quali attività? Come potrebbe, ad esempio, la Lucania provvedere essa sola alle numerose opere pubbliche di cui abbisogna? In quale maniera potrebbe provvedervi, se essa non ha che la disperazione dei suoi figli?

Nella seduta di ieri, con fervore e con profondità, l’onorevole Gullo ci ha discorso delle condizioni in cui si trova la Calabria: oggi ad esse io aggiungo le condizioni della Lucania, che sono state descritte in maniera così perfetta dal Levi, nel suo «Cristo si è fermato ad Eboli»: basta leggere quel libro per avere un senso profondo di quelle che sono le desolanti condizioni in cui si trovano quelle contrade; ed è proprio leggendo quelle pagine che ci si domanda come sia mai possibile che esistano dei paesi i quali si trovano nella condizione in cui sono ancora oggi Grassano e Guglianello.

LUSSU. Ma Levi è regionalista.

CIFALDI. È vero che, studiando il problema delle autonomie locali, Levi appare molto perplesso e ricordava che un semplice provvedimento in materia di latifondo o di decentramento non avrebbe potuto ritenersi sufficiente; ma è anche vero che coloro i quali, in queste maniera, si sono fermati a studiare il problema delle regioni meridionali sanno e comprendono che non è possibile, senza l’aiuto offerto dallo Stato, senza il concorso di queste energie centrali, risolvere i problemi e i bisogni di queste regioni abbandonate.

CONTI. Ma abbandonate da chi?

CIFALDI. Precisamente dallo Stato, se lei vuole; ma per questo, quando voi portate il problema sul terreno regionalistico, non lo risolvete in modo assoluto.

DOZZA. Lo risolveranno i latifondisti!

CIFALDI. Dallo Stato, se lei vuole, sarà risolto.

PRESIDENTE. Almeno gli onorevoli colleghi che sono d’accordo con l’onorevole Cifaldi potrebbero non interrompere.

CIFALDI. Grazie, onorevole Presidente. Che se, per avventura, questi problemi che non sono stati finora risolti dallo Stato dovessero essere oggi affidati alle forze delle regioni, saremmo veramente caduti nel fondo del sacco, saremmo veramente in condizioni di impossibilità. Noi avremo infatti la regione ricca e avremo la provincia che ne farà parte che non riuscirà a farsi valere nei confronti del capoluogo di questa regione. Noi avremo la regione povera la quale non potrà fare che piani e progetti, perché non avrà la forza di poterli attuare.

E allora in che maniera, onorevoli colleghi, sarà possibile che questa regione, che questa autonomia produca del bene? In che maniera creerà la classe dirigente? In che maniera risolverà i problemi locali? In che maniera essa sarà veramente in grado di attuare il bilancio preventivo che essa farà? Guardiamo la realtà quale è, oggi. Abbiamo un comune, quello di Napoli, che chiede pel suo bilancio preventivo di quest’anno, allo Stato, un contributo di oltre quattro miliardi. Non so che cosa farà lo Stato italiano; se darà i quattro miliardi e seicento milioni che il comune di Napoli ha chiesto. Ma immaginiamo che per ogni comune sia possibile arrivare al pareggio, che la legge del marzo 1947 consentirà agli enti locali di raggiungere il pareggio: ma pensate voi che questo pareggio risolverà i problemi di sviluppo delle regioni, potrà giovare ad una regione come la Lucania? È assurdo pensarlo. Ogni regione povera potrà unicamente pensare con le sue forze alle proprie guardie urbane e campestri; ma non potrà fare altro. Per quello che riguarda le strade, gli acquedotti o gli ospedali, col suo bilancio, essa non potrà fare altro che programmi. Ma, si può obbiettare, c’è la integrazione, di cui all’articolo 123. E chi giudicherà e valuterà l’urgenza, l’utilità, l’opportunità di quei programmi? Chi sarà che darà un giudizio al riguardo? E quando eventualmente sarà stato anche approvato un bilancio il quale preveda una spesa di centinaia di milioni per un periodo di 10 anni, quale sarà quell’ente che li attribuirà? E quale sarà la reazione delle regioni ricche che dovranno provvedere al riguardo?

Fermiamoci a questo punto. Guardiamo a quella che è la quota di integrazione, alla quale molti ritengono di poter ricorrere con sicurezza. Anch’essa costituisce un elemento preoccupante, perché – come già è stato detto – non è possibile pensare che permanentemente le regioni ricche, che tutte hanno grande bisogno di produzione e di espansione, possano adattarsi a sapere che una parte dei loro risparmi, delle loro entrate, vada spesa in questa maniera. E perciò questi problemi corrono il rischio di rimanere per lunghi anni ancora più abbandonati, ancora più sicuramente non risoluti di come non lo siano stati per il passato.

Ma, onorevoli colleghi, consentite che io manifesti una più grave preoccupazione ancora, per quello che possa essere effettivamente, come dicevo, la integrità della Nazione e la possibilità di contrasti gravi tra regione e regione. Leggendo le attività affidate alla regione di cui all’articolo 109 noi troviamo fra le prime quella della «polizia locale urbana e rurale». E sembrerebbe a prima vista che questo fosse qualche cosa di trascurabile importanza, mentre io credo che questo sia il punto più grave e più preoccupante di questa riforma che noi stiamo esaminando. Non è, onorevoli colleghi, che si tratti semplicemente delle guardie campestri, che vengono pagate dalla regione, ma siamo di fronte alla possibilità che ciascuna regione si crei e costituisca dei veri e propri corpi armati, delle vere e proprie milizie.

È questa una preoccupazione che dobbiamo avere e che si ricava precisamente dalla dizione di queste norme. Non è senza ragione io credo che è stato scritto nell’articolo 109 che «la Regione ha potestà di emanare per le seguenti materie norme legislative che siano in armonia con la Costituzione e con i principî generali dell’ordinamento dello Stato – ed ecco, onorevoli colleghi, il punto che mi preoccupa e che mi fa credere quello che dicevo – e rispettino gli obblighi internazionali e gli interessi della Nazione…». Quali obblighi internazionali, onorevoli colleghi, se fra le materie di cui all’articolo 109 che possa interessare dal punto di vista internazionale gli altri Stati non vi è che semplicemente questa della polizia locale urbana e rurale?

Perché al certo non credo che sul piano internazionale possano interessare né la beneficenza pubblica, né la scuola artigiana, né l’urbanistica, né i porti lacuali e le torbiere di ciascuna regione. E allora…

EINAUDI. Vi sono laghi che bagnano coste di stati esteri.

CIFALDI. È troppo poco, onorevole Einaudi! Ma quando si dice «polizia urbana e rurale» e quando si dice all’articolo 112 che la regione provvede all’Amministrazione in queste materie, significa che la regione provvede all’amministrazione della polizia locale urbana e rurale; vale a dire la polizia di zone vaste come la Lombardia o la Campania, vale a dire polizia la quale interessa le metropoli e interessa intere regioni. Polizia significa ordine pubblico, sicurezza; polizia non significa guardia campestre! E questo, onorevoli colleghi, (consentitemi che io insista) tanto più quando viene auspicata non solo per implicito, come si ricava da questo Titolo quinto, ma viene richiesta con più chiara parola l’abolizione del prefetto, quando viene domandato appunto che scompaia quest’organo di collegamento fra gli Enti autarchici e il centro, che scompaia questo rappresentante del potere centrale nella provincia.

E allora, quando questo rappresentante dello Stato scomparirà, quando non rimarrà che la regione con la provincia come ente autarchico di decentramento interno, quando questa regione avrà l’amministrazione della polizia locale urbana e rurale, mi pare che questa preoccupazione non sia una preoccupazione vana ma sia una preoccupazione la quale deve farci pensosi, perché la polizia la quale deve rispettare anche gli impegni internazionali e che interessa una regione come la Lombardia o la Campania è una polizia di migliaia di uomini; e quando questa polizia dipenderà solamente e unicamente da rappresentanze locali e quando è facile prevedere che queste rappresentanze, per varie esigenze, creeranno contrasti e attriti fra loro gravi e paurosi e vi potranno essere scontri fra regioni e regioni, allora consentite che la preoccupazione sorga, allora consentite che io affermi che veramente noi non siamo di fronte a un decentramento amministrativo ma dinanzi alla creazione di piccole repubblichette le quali avranno un Parlamento proprio, un patrimonio proprio, leggi proprie e forze armate di polizia che nomineranno esse, che dovranno amministrare ed armare esse, che dipenderanno finanziariamente dalle singole regioni, con tutte le preoccupazioni, onorevoli colleghi, che vi sono al riguardo.

Onde, dinanzi a questo problema, dobbiamo guardarlo con la trepidazione che è d’uopo avere.

Ecco perché io manifesto tutta la mia decisa avversione alla creazione dell’Ente regione così come è stato previsto, così come è stato formato, così come è presentato al nostro esame. In questa maniera, in questo modo non si crea un decentramento amministrativo – che tutti chiediamo – ma si crea effettivamente un insieme di piccoli stati, un fomite di preoccupazione generale, un nido di insidie per la pace della nazione.

Per tutto quanto ho avuto l’onore di esporre voterò contro il progetto. (Applausi a sinistra).

PRESIDENTE. Prego i colleghi i quali parleranno, e anche i colleghi che sono desiderosi di ascoltare, di tener presente che la durata media dei discorsi in questa ripresa dei nostri lavori da trentacinque minuti è salita a oltre un’ora e che su questo Titolo sono iscritti ancora a parlare 94 oratori.

È iscritto a parlare l’onorevole Mannironi. Ne ha facoltà.

MANNIRONI. Onorevoli colleghi, questa discussione a me pare abbia un suo corso obbligato. Ascoltando poc’anzi l’onorevole Cifaldi ho sentito riecheggiare quasi tutti, per non dire tutti, gli argomenti che contro la Regione ho letto in quelle varie pubblicazioni che sono state fatte dal 1860 ad oggi. Si può dire che su questo argomento gli elementi pro e contro sono stati sempre gli stessi. È fatale quindi che in questa discussione, che, come ci segnalava il Presidente, si preannuncia così diffusa e lunga, noi ci sentiamo ripetere dalle diverse parti gli stessi argomenti.

FARALLI. In un senso o nell’altro!

MANNIRONI. Sì, in un senso e nell’altro.

FARALLI. Quindi è inutile parlarne!

MANNIRONI. Ora non volevo arrivare alla conclusione cui è arrivato il collega. Non ho la pretesa, menomamente, di credere che discutendo in questo momento io possa in qualche modo convincere i miei avversari ed indurli a pensare come me ed a ricredersi rispetto alle loro teorie. Modestamente, però, credo di adempiere a un dovere di deputato, di cittadino e di regionalista trattando anch’io il tema, sforzandomi di non ripetere cose già dette e cercando di presentare l’argomento in una forma che potrei considerare, per conto mio, originale e senza che debba in questo modo stancare coloro che mi useranno la benevolenza di ascoltare.

Devo prima di tutto rilevare che, contro la Regione, si sta manifestando uno stato d’animo che è non solo di perplessità e di timore, ma di una ostilità irriducibile. Ora, io comprendo che di fronte ad una riforma importante quale può essere questa che noi intendiamo fare, tutti gli uomini che hanno senso di responsabilità, si sentano in dovere di andare cauti, ma mi pare anche che questa cautela non debba essere portata ad un estremo limite per cui debba tarpare le ali a qualsiasi iniziativa e togliere quella naturale, quella logica, direi, audacia che può essere necessaria, che è necessaria tutte le volte che ci si accinge a fare una effettiva riforma.

Le ostilità che si muovono alla regione sono aperte e anche larvate. Queste le considero più pericolose delle prime. Fra queste ostilità larvate preminente è quella impersonata dall’onorevole Rubilli, il quale, col tentativo che voleva fare nella prima seduta di questa discussione, tendeva a sottrarre alla competenza della Costituente un argomento che invece è tipicamente, fondamentalmente costituzionale. Egli voleva proprio seguire il metodo curialesco del rinvio per aggirare l’argomento, per evitare che l’Assemblea se ne occupasse, per rimandarlo alle calende greche, rimandandolo al legislatore ordinario che non ha assolutamente la competenza per occuparsene. Non si può dimenticare che noi abbiamo avuto il mandato di fare la Costituzione, e credo che nessuno degli argomenti sia più costituzionale di questo. Noi mancheremmo al mandato se sfuggissimo all’obbligo e al dovere di studiare questa riforma la quale, contrariamente a quello che diceva l’onorevole Rubilli, è veramente matura: matura per lo meno per la discussione, perché a tutti voi è noto che di decentramento e di autonomia se ne va parlando da oltre un secolo.

Se ne è parlato nel 1860; vi sono stati dei periodi di silenzio e di stasi; ma successivamente – ed ogni tanto nella stampa, nell’opinione pubblica, nel Parlamento – di Regione e di autonomia si è sempre parlato e se ne parla perché vi sono stati dei partiti i quali l’hanno portata alla ribalta della discussione; dei partiti che hanno perorato questa causa convinti di compiere opera doverosa, necessaria, utile per lo meno per la riforma dello Stato italiano. Se ne è occupato il Partito repubblicano, fedele sempre alle sue teorie ed alle origini mazziniane… (Interruzioni).

CONTI. Sissignori, anche mazziniane.

MANNIRONI. Se ne sono occupati ed hanno agitato il problema, movimenti a carattere regionalistico; tipico, quello che è maturato e che si è agitato in Sardegna; e se ne è occupata sempre la Democrazia cristiana. L’onorevole Preti, l’altro giorno, esprimeva le sue meraviglie perché non capiva la ragione per cui la Democrazia cristiana si potesse tanto preoccupare di autonomia e di decentramento. Ora la cosa può non interessare tutti; ma giacché se ne parla, vorrei dire all’onorevole Preti ed a quelli cui può interessare, la ragione per la quale la Democrazia cristiana si occupa del decentramento e dell’autonomia. Se ne occupa prima di tutto perché crede che sotto il profilo costituzionale e quello politico, l’autonomia rappresenti una delle manifestazioni più alte, più tipiche di democrazia; se ne occupa poi anche perché è fedele ai suoi principî; perché non può dimenticare, per esempio, che fino alla fine del secolo 16° il Comune si identificava con la parrocchia e che nella Chiesa avvenivano le riunioni dei cittadini i quali deliberavano sui problemi più importanti; se ne interessa perché i cattolici italiani, fino al 1918, hanno dedicato la loro attività alle amministrazioni degli enti locali; e se ne occupa perché vuole essere fedele ad una tradizione neoguelfa che si riallaccia al Gioberti. Queste sono le ragioni per cui la Democrazia cristiana insieme con pochi aggruppamenti politici sostiene l’istituzione delle autonomie regionali.

Una voce. Allora ditelo che siete federalisti.

MICHELI. Non ce n’è bisogno: questa è la nostra origine.

MANNIRONI. Ora, signori, quando una riforma e un argomento sono così portati avanti da partiti politici che sono le officine in cui – si può dire – si elaborano e rielaborano tutti gli argomenti più vitali che interessano la vita politica e civile della Nazione, è segno che il problema matura ed è già diffuso nella coscienza giuridica e politica della Nazione; è segno che il problema desta un interesse pubblico ed ha una importanza politica e costituzionale. Avviene per questo problema quanto, consentitemi il paragone, è avvenuto, per esempio, per la questione sociale. Nessuno di noi può negare che se oggi la questione sociale è in primo piano e tutti i partiti sono costretti ad occuparsene e preoccuparsene, in parte o in gran parte, lo si deve al fatto che questa questione è valorizzata, portata, sentita e agitata dai varî movimenti socialisti italiani da varî decenni a questa parte. Ora potrei dire che un fenomeno analogo avviene per la Regione. La Regione viene oggi portata alla ribalta nella discussione della vita politica odierna e tutti i partiti, anche quelli che ne erano lontani, anche quelli che non erano convinti, sono stati messi nella necessità di occuparsene e di discuterne.

Oggi, dicevo, vi è dell’ostilità latente e vi è dell’ostilità aperta.

Però, prima del 2 giugno questo non avveniva.

Vorrei ricordare, oltre che a me stesso, ai rappresentanti dei partiti qui presenti, che in periodo preelettorale ed elettorale quasi tutti i partiti erano autonomisti e regionalisti. (Interruzioni a sinistra).

TONELLO. Non per disfare l’Italia in Regioni.

MANNIRONI. Come si può parlare di autonomia locale, senza tener conto della Regione?

Io devo ricordare, per esempio, il programma lanciato dal partito socialista nel periodo delle elezioni amministrative. Vi si diceva: «Fra il Comune e lo Stato non si ravvisa altro organo intermedio fuorché la regione, che si presenta, nel quadro nazionale, come una completa unità economica, naturale, geografica».

TONELLO. Chi lo ha detto questo?

MANNIRONI. È il programma lanciato dal partito socialista nel periodo delle elezioni amministrative.

CONTI. Non ci fare caso, caro Mannironi.

TONELLO. Sono cose vecchie.

CONTI. Questa è la malattia; cambiate sempre voi.

GRAZI. Voi non cambiate, perché siete cristallizzati.

PRESIDENTE. Onorevoli colleghi, per favore, non interrompano.

MANNIRONI. Dicevo, dunque; io mi rendo conto che una presa di posizione rispetto a determinate ideologie non costituisca un giudicato irretrattabile. Posso pensare che ci si decida anche a tornare indietro, rispetto a certe posizioni acquisite. Ma quando ciò avviene nel momento in cui si passa all’attuazione pratica sul terreno legislativo, di determinati problemi, dei quali si è tanto parlato nei comizi elettorali, sono indotto a credere che codesto non sia atteggiamento serio.

O non si era convinti allora, quando si discuteva nei comizi elettorali, della bontà della causa, o non si è convinti oggi. In qualunque caso, vi è un atto di insincerità, che mi pare non possa essere considerato serio.

GRAZI. Ed allora il programma di Governo? Quando si è trattato di applicarlo, il Governo se n’è andato.

FUSCHINI. Che c’entra il Governo?

MICHELI. Quando ci sarà il Governo nuovo, lei farà l’opposizione. Lei anticipa troppo i tempi.

MANNIRONI. Mi pare che nell’insieme tutta questa ostilità che sussiste contro la Regione sia fondata soprattutto su impressioni su luoghi comuni.

Consentitelo, non è offensiva la frase, ma vorrei precisare ed affermare che se dell’argomento ci volessimo preoccupare seriamente, scendendo un po’ ai dettagli, penso che molte di quelle ostilità aprioristiche che oggi sussistono, verrebbero appianate.

Intanto, mi pare si debba partire, in questa discussione, da un punto che riterrei pacifico; da un presupposto, che è comune a tutti e che è prezioso stabilire e fissare. Ed il presupposto è questo: tutti siamo d’accordo nel ritenere che lo Stato odierno, lo Stato centralizzato, lo Stato accentratore, il quale ha avuto la sua massima espressione sulle parossistiche manifestazioni nel periodo fascista, non è più quell’organismo costituzionale che possa essere ritenuto degno o capace di sopravvivere.

Tutti siamo d’accordo nel ritenere che questo Stato accentratore non risponde più al momento storico, ai fini politici e sociali per cui fu costituito e che è necessario modificarlo e trasformarlo.

Mi pare che questa sia una premessa da cui tutti partono concordemente, sia pure per arrivare a conclusioni diverse.

Infatti, vari sono i rimedi indicati.

Si dice da taluni: lo Stato così accentrato bisognerà modificarlo decentrandolo burocraticamente.

E questo è il primo punto.

Altri, e fra questi altri siamo noi, affermiamo invece che il decentramento puramente burocratico non è sufficiente e che è necessario procedere e provvedere invece a mezzo anche di un decentramento autarchico.

Il punto di divergenza è proprio questo. Consentitemi, signori, di esaminare rapidamente queste due soluzioni, perché io vorrei (mi illudo, forse, nel credere che potrei) riuscire a dimostrarvi come il decentramento autarchico, il quale del resto già è stato iniziato dallo Stato Italiano, sia quello che offre maggiore garanzie, maggiore utilità, maggiore opportunità e maggiore possibilità di realizzazione. Il decentramento burocratico, lo Stato Italiano lo sta tentando da tanto tempo. Ciascuno di voi sa da quanto tempo si sente parlare di riforma burocratica.

Mai si è riusciti, però, ad operare ed attuare questa riforma: e non si è riusciti perché vi è una resistenza, direi istintiva, nello stesso organismo burocratico, il quale ha paura di vedersi smantellato, il quale ha sopratutto interesse e desiderio a rimanere accentrato qui, nella capitale, donde pare sia più facile comandare, dove pare sia più facile raggiungere i vari gradi gerarchici di carriera e dove il burocrate, alto funzionario, sta molto meglio che alla periferia.

Ma a parte questa questione di natura formale, io dico che il decentramento burocratico non può sodisfare le esigenze fondamentali per le quali noi vorremmo che lo Stato provvedesse, e non può bastare sopratutto per la natura stessa dell’organismo burocratico, il quale si muove ed opera con un certo automatismo, con un certo meccanicismo, che toglie, alla funzione ed all’organo – impiegato e burocrate – addirittura, quel senso di responsabilità, che invece è indispensabile ed è presupposto essenziale perché un ufficio ed un impiego possano essere decorosamente e sufficientemente svolti ed espletati.

In tutto ciò vi è una sostanziale differenza rispetto invece a quello che avviene con gli organismi che non sono burocratici statali, ma che appartengono agli enti autarchici. Quando una stessa funzione viene esercitata da un impiegato puro e semplice, il quale non fa altro che ubbidire ai comandi e agli ordini del suo diretto superiore gerarchico, e, correlativamente, da un libero cittadino, il quale, disinteressatamente, senza ricompensa, si occupa e si preoccupa di quello stesso compito del quale si preoccupa l’impiegato, è evidente e chiaro che noi troviamo sempre un maggior rendimento nell’attività amministrativa che esplica il privato cittadino preposto alla guida di un ente autarchico: perché quel privato cittadino ha una maggiore elasticità di movimento, è più disinteressato nell’adempiere ai suoi doveri ed ha soprattutto la possibilità di regolarsi con maggiore libertà. Questa è la caratteristica particolare e principale dell’amministrazione affidata agli enti autarchici.

Del resto, signori, prima del fascismo, lo Stato aveva cercato di decentrare. Si era convinto che l’Amministrazione pubblica non poteva esaurirsi negli organi statali solamente e non aveva potuto fare a meno di ricorrere all’opera degli enti autarchici locali. Così aveva cercato di decentrare attribuendo certe funzioni alla competenza particolare del Comune e della Provincia, e quindi riconoscendo a questi enti autarchici non soltanto la personalità giuridica, la capacità di soggetti di diritto pubblico, ma anche quelle particolari attitudini ad esplicare delle funzioni pubbliche e amministrative.

Riportiamoci a quello che può essere avvenuto nell’epoca remota all’atto della costituzione dello Stato. Lo Stato, finché aveva dei compiti modesti e limitati, finché si trovava di fronte a dei limitati bisogni della collettività, poteva facilmente provvedere dal centro a guidare l’amministrazione; ma quando questi compiti si sono allargati per l’accavallarsi dei bisogni della vita moderna e dei cittadini, quando i compiti dello Stato si sono moltiplicati fino all’infinito, lo Stato stesso si è accorto, che non poteva da solo adempiere a tutte le necessità e provvedere a tutti i bisogni. Così, costretto a decentrare, si è trovato di fronte ad un ente naturale e di fatto quale era il Comune, il quale si era già costituito forse anche prima dello Stato, in quanto le piccole collettività viventi nel territorio si erano organizzate per provvedere ai loro primordiali bisogni. Ora lo Stato ha dovuto riconoscere la personalità giuridica al Comune e l’ha creato ente autonomo autarchico. E poiché la distanza fra Comune e Stato era eccessiva, lo Stato stesso ha creato quell’ente, pure di decentramento, che è la Provincia.

Ora che cosa è avvenuto nel successivo processo storico di evoluzione e organizzazione dello Stato? È avvenuto che questa tendenza a decentrare verso gli enti autarchici si è ad un certo punto cristallizzata e fermata, perché lo Stato non ha più provveduto ad attribuire a quegli organi minori altre competenze ed altre funzioni. Sono aumentati i bisogni della collettività, lo Stato si è sovraccaricato di altri oneri e di altre funzioni, ma le ha accentrate in se stesso e quegli organi minori un po’ li ha tenuti in istato di estrema rigorosa minorità e quasi ha tentato di farli morire di asfissia. Questo è avvenuto soprattutto in periodo fascista. Ora quando si dice che quegli enti autarchici attualmente esistenti – Comuni e Provincie – sono in grado di ricevere dallo Stato altre funzioni ed altri oneri ed altre mansioni, si dimentica che, così come sono oggi organizzati, questi enti non possono ricevere tutte le deleghe e gli incarichi che lo Stato può dare ad essi, perché vi sono bisogni delle collettività che io direi periferiche, i quali superano e sovrastano i limitati territori di questi enti: del Comune e della Provincia.

Ecco come si profila l’esigenza della Regione, ecco come si pensa ad essa, quando si tenta di creare un altro ente autarchico simile a quelli precedenti. Ma, dovendo tale nuovo ente provvedere a bisogni più vasti, più larghi e più complessi, è necessario stabilire, con una specie di gerarchia, che esso deve essere superiore agli altri due enti – Comuni e Provincie – superiore perché più importante e più vasto, in quanto deve provvedere a quei bisogni più vasti, più importanti e più complessi cui ho accennato. Ora, quando il problema e la questione si presentano con tale impostazione; quando si dice che la Regione è un ente territoriale autarchico autonomo come gli altri, e si vuole che lo Stato riconosca questa condizione di fatto che sussiste nella Regione, così come lo ha riconosciuto per il Comune; quando si dice che nell’ordinamento giuridico dello Stato si vuol far coesistere questo nuovo ente, perché la sua attività e la sua esistenza possono servire ad operare quel decentramento a cui tutti aspiriamo, io non capisco perché si debbano determinare quegli stati di allarme, di preoccupazione, di paura quali ho sentito per esempio or ora espressi dall’onorevole Cifaldi. Secondo il quale si va decisamente verso lo Stato federale, e coll’autonomia si vogliono creare 22 repubblichette, provviste non solo di Parlamento, ma anche di un esercito. Veramente io non capisco questa paura. Qui si dà corpo alle ombre e si parte da preconcetti e da malintesi per cui non si va al fondo della questione. Quando l’onorevole Cifaldi è passato all’esame di qualche articolo, a me sembra, che, scendendo al particolare, egli abbia perso di vista l’insieme e quella che è la visione panoramica del progetto, che è frutto della preziosa e mai abbastanza lodata fatica, sopratutto dell’onorevole Ambrosini. Quando si dice: voi volete creare un federalismo larvato, si dice cosa inesatta, perché – e qui non sto a ripetervi le distinzioni fra Stato federale, Confederazione e Stato unitario, perché tutti le conoscete e le avete sentite specificare da molte parti – si dimentica che quando parliamo dello Stato, ente di diritto pubblico, sovrano, cioè la massima persona di diritto pubblico, la quale semplicemente riconosce altri enti minori autarchici ed autonomi, e prefigge ad essi dei limiti, nelle leggi costituzionali e nelle leggi ordinarie, si intende che questo Stato sarà messo sempre in condizione ed in grado di tutelare la sua sovranità, di impedire qualsiasi slittamento, tanto temuto da varie parti, e di controllare altresì qualsiasi movimento centrifugo che potesse eventualmente determinarsi.

Ieri l’onorevole Gullo, quasi ironicamente, accennava alla impossibilità che domani funzioni la Corte Costituzionale. Io non vorrei anticipare la discussione su quest’altro tema così importante; ma debbo riconoscere che, se la Corte Costituzionale potrà funzionare così come nel progetto è detto, tutte le garanzie necessarie per la salvaguardia della sovranità dello Stato e la tutela dello spirito unitario dello Stato stesso sono assolutamente assicurate.

Si potrà, sì, pensare, in ipotesi pessimistica, che domani lo Stato autonomistico, regionalista, potrà favorire certe forme centrifughe; ma, signori, ragionando a quel modo noi potremo dare cento ipotesi che possono minare qualsiasi riforma, anche la più insignificante. In tutti gli eventi umani si può prevedere il peggio. Se domani noi facciamo un viaggio in aeroplano, potremo pensare che l’aeroplano può cadere. Ma questa che è una ipotesi, e una eventualità, non deve distoglierci dalla possibilità di fare egualmente il viaggio in aeroplano che è così rapido e comodo. Così il pensare che la Regione possa favorire una tendenza centrifuga, non può assolutamente impedire a noi di attuare la riforma, che invece mi pare così opportuna, efficace ed invita nello sviluppo normale delle cose. Io non credo a questo insidioso e malcelato desiderio delle Regioni, di volersi staccare, di volersi allontanare dalla madre patria.

Io considero che l’ultima guerra e la disfatta terribile con cui si è conclusa, rappresentano la prova migliore dello spirito unitario delle nostre Regioni, anche di quelle più periferiche. Ma è necessario proprio che si ricordino tutti gli avvenimenti ultimi? Basta considerare quello che è avvenuto in Sicilia: se fosse vero che la Sicilia ha in sé dei germi così pericolosi di separatismo, non vi pare che si sia trovata nelle più adatte condizioni obiettive per realizzare rapidamente questo suo separatismo, specialmente se considerate che vi erano elementi insani che questo progetto sollecitavano? Ebbene, la Sicilia, non solo ha respinto quel progetto, ma è rimasta fedelissima alla madre Patria, pur rivendicando le sue esigenze autonomistiche. Altrettanto si può dire per la Sardegna: la Sardegna è rimasta staccata dalla madre Patria, materialmente, per circa un anno, quando erano tagliate tutte le comunicazioni col Continente. La Sardegna ha realizzato una parentesi veramente autonomistica in quel periodo. Ebbene, se fosse stata decisa anch’essa a separarsi dalla madre Patria, se ci fossero state delle correnti veramente forti e pericolose da realizzare un movimento rivoluzionario, non vi pare che quello fosse il momento più adatto? Invece la Sardegna è tornata alla normalità appena c’è stata la possibilità materiale, perché la Sardegna non ha pensato e non pensa, al separatismo, bensì ad una sua forma di autonomia. E se volete ancora passare in rassegna le altre regioni, potete considerare quello che avvenne nel Nord. Se dopo la sconfitta ci fossero state delle Regioni desiderose di staccarsi dalla madre Patria nell’Italia del Nord, oppure desiderose di realizzare ordinamenti costituzionali diversi da quelli finora instaurati, non vi pare che lo avrebbero potuto facilmente fare? Non l’hanno fatto perché non lo hanno voluto, perché non c’era in loro e non c’è un sentimento orientato alla separazione; c’è invece un sentimento fortemente unitario, che è determinato non soltanto da ragioni storiche, sentimentali e patriottiche, ma è determinato, direi, anche da necessità economiche e materiali. Oggi nessuna delle nostre Regioni, neanche la più ricca, potrebbe essere in grado di reggersi da sé, di fare dell’autarchia o dell’autonomia politica, perché le leggi dell’economia sono più forti della volontà degli uomini, perché le necessità economiche non tendono a restringere e a circoscrivere entro limiti ristretti la vita e l’attività economica di una regione, ma tendono ad allargarla e a favorire scambi. Anche le regioni ricche avranno sempre la necessità di esitare i loro prodotti e di mandarli alle regioni povere e le regioni povere avranno sempre necessità dell’aiuto e dell’ausilio delle regioni ricche.

Comunque, non mi pare questo un argomento che valga la pena di diluire ancora o di portare alle sue estreme conseguenze. Vorrei tornare alla trattazione dell’argomento in campo puramente politico.

Ora, signori, quando vi si dice che la Regione è l’ente autarchico più importante rispetto ai due enti minori – il Comune e la Provincia – e che quindi ha bisogno di maggiori poteri, si dice una cosa logica e naturale. Penso infatti che tutto il decentramento è una cosa naturale, perché nella vita politica degli Stati avviene quello che avviene nella vita fisica degli uomini: dal semplice si tende al complesso, dall’omogeneo all’eterogeneo.

Ora, lo Stato da solo come ho già detto, non può adempiere a tutte le sue funzioni: deve decentrarsi e, decentrando, deve adeguarsi alle necessità non solo territoriali, ma economiche, politiche e storiche: e allora deve preoccuparsi di provvedere a quei bisogni che hanno una estensione – direi – territoriale maggiore di quelli che si determinano o si riscontrano nella Provincia e nel Comune e che sono quindi regionali.

L’argomento che maggiormente impressiona gli avversari della Regione è quello della potestà legislativa. Si dice: con l’attribuire questo potere alla Regione, si crea il federalismo.

Altra esagerazione, signori: altro errore di impostazione e di prospettiva, perché non è vero che con l’attribuire una limitata potestà normativa alla Regione le si diano gli attributi, non dico di uno Stato, ma neanche di un ente autarchico che possa essere di molto superiore a quelli esistenti.

Scusate; riandando alla legislazione vecchia e anche a quella vigente, non vi pare che, di fatto, gli enti autarchici attuali siano dotati di una potestà normativa, che siano capaci di fare delle leggi in senso materiale? Non vi pare che questi enti autarchici minori creino delle leggi che sono vincolative erga omnes e abbiano la possibilità giuridica di creare dei diritti, dei doveri e degli obblighi, non soltanto verso i propri dipendenti gerarchici, ma anche verso i terzi che vivono nell’ambito territoriale dell’ente autarchico?

Io potrei ricordarvi, per esempio, il regolamento di polizia urbana che fa il Comune, o quello di polizia edilizia: non vi pare, che pur chiamandosi «regolamento», questa sia una norma primaria, sia una legge anche in senso materiale? In senso materiale, perché? Perché regola anche il diritto di proprietà; perché, per esempio, i regolamenti di igiene e di polizia comunale limitano anche la libertà della persona, del cittadino. Ora, quelle sono leggi, signori, sono leggi in senso materiale (Commenti).

Dove si fanno i regolamenti indipendentemente dall’intervento dello Stato, sia pure entro limiti generali fissati dalle leggi dello Stato stesso, è evidente che questi regolamenti sono essi pure delle leggi anche in senso materiale.

Ora, quelle leggi vi hanno mai preoccupato? No; non vi hanno mai preoccupato né vi preoccupano perché la potestà di emanarle è attribuita al Comune. Ma vi sono anche degli enti istituzionali che hanno pure fatto delle leggi: basterà che io vi citi l’esempio delle corporazioni del tempo fascista, le quali stipulavano i contratti collettivi di lavoro. Non erano forse i contratti collettivi di lavoro delle leggi in senso materiale? Lo erano indubbiamente: eppure tutto questo non ha mai preoccupato alcuno ed era giusto che non dovesse preoccupare.

Ma rapportiamo adesso il concetto e l’argomento, da quel piccolo ente che è il Comune, a quell’ente più vasto, più complesso che noi vogliamo creare: la Regione. È evidente che anche la Regione deve essere dotata di un potere normativo, perché altrimenti non sarebbe un ente autonomo, non sarebbe un ente autarchico.

Io non so concepire infatti l’ente autarchico senza l’autonomia. L’autarchia si riferisce all’amministrazione e l’autonomia si riferisce invece al potere discrezionale che viene concesso all’amministratore locale, di emanare provvedimenti normativi: e questa è la caratteristica peculiare dell’ente autonomo.

Ora, se alla Regione si affidano dei poteri di una certa estensione per amministrare determinate materie, quali quelle che sono indicate nel progetto di Costituzione, non le si può nel tempo stesso, correlativamente, negare il diritto di emanare delle leggi in quel campo.

Ora, la parola «leggi», dicevo, preoccupa enormemente gli avversari della Regione, i quali dicono che questo potere normativo non è conciliabile con la sovranità dello Stato, perché in tal modo si verrebbe a creare una altra sovranità, perché in tal modo si produrrebbe fatalmente una frattura dell’unità legislativa dello Stato; perché in tal modo si produce un disordine politico interno che non può essere facilmente sanato e superato. Perciò sono indotti a concludere che è meglio evitare che si conceda originariamente questa potestà normativa.

Il ragionamento, signori, è troppo semplicistico, e non porta alcun contributo concreto per la risoluzione del problema che noi ci siamo accinti ad esaminare.

Incomincerò col dire che non si deve ravvisare alcun pericolo di frazionamento dell’unità legislativa. È proprio dalla destra che ho udito parlare – mi pare dall’onorevole Lucifero – di decentramento legislativo. Ora, io sottoscrivo in pieno, e non posso nel tempo stesso non sottolineare il fatto che una ammissione di questo genere venga fatta proprio da un uomo di destra. Ciò è sintomatico ed è grave che i partiti di sinistra se ne preoccupino invece eccessivamente.

Oggi l‘Assemblea di che cosa si occupa? Lo diceva ieri molto efficacemente l’onorevole Uberti ed io non vorrei ora ripetere ciò che già ha detto lui. Egli vi ha dimostrato come sia una necessità pratica quella di operare un decentramento anche nella sfera legislativa, per materie che si riferiscono a situazioni o necessità locali.

Ora, non si può attuare questo principio del decentramento legislativo, se non concedendo una potestà legislativa agli enti autarchici: al Comune e alla Provincia, i quali in parte li hanno già, e poi alla Regione.

LUCIFERO. Si può anche risolvere sul piano nazionale.

MANNIRONI. Sì, creando degli enti autarchici istituzionali; ma non bastano. Io non ho fiducia nell’opera e nel rendimento di quegli enti autarchici istituzionali, e penso che sia più utile – e credo che anche lei sarà d’accordo in questo – e più opportuno dare la potestà normativa agli enti autarchici territoriali oltre che a quelli nazionali di carattere istituzionale.

Ma quello che preoccupa gli avversari della Regione è il fatto che le si dia una potestà legislativa primaria. Si dice: mettere le Regioni sullo stesso piano dello Stato significa frantumarne la sovranità, rappresenta un pericolo, perché in quelle materie che sono attribuite con la legislazione primaria alla Regione, lo Stato rinuncerebbe preventivamente ad intervenire e a legiferare.

Ora, ieri, molto opportunamente l’onorevole Einaudi vi ha precisato dei punti importanti su questo argomento. E neppure in questo caso vorrei ripetere cose già dette; vi accenno soltanto perché mi servono per la necessità logica del mio ragionamento. L’onorevole Einaudi vi ha dimostrato in sostanza questo: che quelle materie che sono affidate alla competenza legislativa primaria della Regione sono di così scarsa importanza, che, se pur gliele lasciate, lo Stato non ci perde niente. Infatti, quando, per esempio, nelle varie Regioni si dia una diversa regolamentazione legislativa alla caccia o alla pesca, io non capisco quale pericolo possa venirne allo Stato o agli interessi generali della Nazione. E, per converso, se questa potestà legislativa primaria alle Regioni la togliete, le Regioni, credo, perderanno poco o non perderanno niente neppure loro. Perché, in sostanza, ripeto, si tratta di materie di così scarso rilievo ai fini economici, sociali e politici che se le Regioni dovessero essere costrette ad uniformarsi ad una legislazione unitaria dello Stato, restando soltanto a loro riservato il potere di integrare le norme generali, l’autonomia potrebbe realizzarsi lo stesso. Questo è il mio punto di vista personale, che mi permetto di esprimere in questo momento.

Quindi, signori, se questo dovesse costituire l’ostacolo insuperabile, per cui voi non vi sentireste di dare la vostra adesione alla riforma autonomistica in senso regionale, quella legislazione primaria si può anche sacrificare, sicuri – ripeto – che nessun danno ne deriverà alla Regione. Ma allora, se si dovesse eliminare quella potestà legislativa primaria, bisognerebbe includere quelle stesse materie per lo meno nella legislazione concorrente.

Ecco un altro degli argomenti che formeranno indubbiamente oggetto di discussione, perché è un argomento che merita. Io di questo soprattutto voglio limitarmi a parlare, volendo obbedire, per quanto possibile, all’invito dell’onorevole Presidente di ridurre lo sviluppo del mio intervento, anche rinunciando a svolgere molti altri argomenti che sarebbe utile toccare ai fini della completezza della discussione.

La legislazione concorrente, dicevo, è stata per me – dico la verità – una novità dal punto di vista giuridico, costituzionale. Io, nei miei lontani studi di diritto amministrativo e costituzionale, non ne ho mai forse sentito parlare; ma, comunque, devo riconoscere che è stata una felice trovata dell’onorevole collega che nella seconda Sottocommissione ha suggerito questa soluzione, in quanto ha finito, con questo suggerimento, con questa proposta, col conciliare praticamente e la libertà legislativa delle Regioni autonome e l’unità legislativa dello Stato. Infatti, se si dava alle Regioni soltanto la potestà di emanare norme integrative o di attuazione o regolamentari, si concedeva troppo poco ad esse.

Perché in sostanza, come tutti sappiamo, quelle norme di attuazione, di integrazione, regolamentari, non possono andare molto oltre la sostanza e lo spirito e i limiti della legge fondamentale di cui sono quasi appendice.

E allora bisognava trovare un modo per il quale la Regione fosse ancorata a determinati principî direttivi fissati dallo Stato per conservare l’unità della legislazione su determinate materie fondamentali, ma avesse anche una certa libertà di manovra, una certa zona libera entro cui potesse adattare quei principî generali e svilupparli secondo le esigenze territoriali locali.

Questa è stata la ragione che ha suggerito la proposta della legislazione concorrente, che ha avuto l’approvazione della Commissione.

Ora, signori, che cosa vi può essere di pericoloso in questo, nel consentire cioè alle Regioni la possibilità di fare una legislazione concorrente, sì, con quella dello Stato, ma sempre circoscritta nei limiti che lo Stato stesso fissa, salvaguardando gli interessi unitari, gli interessi nazionali e gli interessi delle altre Regioni e, soprattutto, l’ordinamento giuridico fondamentale? Io credo che nessun danno possa venire né allo Stato né alla legislazione stessa, perché la varietà che si potrà determinare nell’applicazione e nello sviluppo di questi principî direttivi contenuti nelle leggi generali dello Stato non potrà mai rompere quell’equilibrio, quell’armonia e quell’unità d’indirizzo che sono presupposto fondamentale per lo sviluppo normale della legislazione nazionale.

Ora, si potrà dire che quel principio consacrato nell’articolo 111 necessita di ritocchi; che sarà opportuno apportarvi emendamenti, soprattutto per evitare certi inconvenienti che oggi, così come l’articolo è formulato, potrebbero presentarsi; ma nella sua sostanza il principio è meritevole di approvazione da parte dell’Assemblea.

Gli inconvenienti che possono essere eliminati sono questi: si può presentare, per esempio, il caso che lo Stato emani una legge che contenga quei dati principî direttivi e che la regione non faccia la legge integrativa che ha il diritto di fare e che sarebbe necessario fare per evitare una vacatio legis, una carenza della legge. Siccome non c’è nessun meccanismo costituzionale che possa imporre alla Regione di fare la legge integrativa e poiché non si può lasciare quella Regione senza lo sviluppo totale della legge che regoli interamente la materia, sarà necessario fare in modo, con una modifica dell’articolo, che si stabiliscano le provvidenze opportune. Per esempio, si potrà stabilire che lo Stato ha diritto di fare la legge generale, costituita dai principî direttivi ed anche dagli sviluppi ulteriori e concreti di questi, per modo che, se la Regione non farà per suo conto quella legislazione concorrente, si intenderà che dovrà entrare in vigore la legge generale, per lo meno dopo un determinato periodo di tempo.

Si potrà altresì verificare il caso che lo Stato non si limiti in quelle materie a dare soltanto dei principî direttivi, ma faccia invece delle leggi generali. Io credo che in quel caso lo Stato compia un atto anticostituzionale per il quale sarà opportuno e necessario l’intervento della Corte costituzionale: ma vi si potrà ovviare fin d’ora stabilendo che una parte della legge statale dovrà cedere il posto alla legge concorrente che la regione potrà fare.

Potrebbe anche avvenire che la Regione, nel fare la legislazione concorrente, ecceda i suoi limiti e faccia una legge che violi i principî direttivi tracciati nella legge dello Stato. Ma in questo caso non sarebbe necessario ricorrere a modifiche dell’articolo, perché s’intenderebbe che entri in funzione il meccanismo progettato per l’intervento della Corte costituzionale.

Ora, nell’insieme, tutta la preoccupazione che domina molti spiriti che si accingono ad esaminare il progetto della Regione, mi pare eccessiva e infondata. Non si può parlare in modo assoluto di federalismo, non si può parlare di pericolo di frantumazione dell’unità nazionale anche se, onorevole Gullo, si dovesse assistere, come lei rilevava, ad un contrasto frequente tra Regione e Stato in contesa fra di loro per la costituzionalità delle rispettive leggi. Penso che questi contrasti saranno meno frequenti di quello che si creda e si tema. Si tratterà comunque di contrasti che se saranno frequenti nei primi tempi, non lo saranno nel periodo successivo, dopo che sarà maturato convenientemente l’esperimento. Perché, signori, questo può essere un esperimento: ma è opportuno si faccia. Se vi è tanta gente che propone la riforma e ne sostiene l’opportunità, io penso che non si tratta di fare un esperimento in «corpore vili»; né di un danno irrimediabile. È un esperimento che può avere la sua importanza politica ed è meritevole che venga fatto soprattutto per il Mezzogiorno dove particolarmente questa riforma appassiona gli animi. Se ne capisce la ragione: il Meridione spera ed è convinto che, con la realizzazione di una riforma autonomistica dello Stato, si possa attuare una maggiore giustizia per quelle popolazioni, anche se si parte dal presupposto che le meridionali sono regioni non auto-sufficienti, anche se si parte dal principio o dalla certezza che domani lo Stato dovrà integrare i loro bilanci ed intervenire con fondi della collettività nazionale per sopperire alle esigenze di quelle regioni le quali non potrebbero provvedere ai loro immediati bisogni con le loro limitate entrate. Del resto non avviene questo anche in regime di stato centralizzato? Oggi lo Stato paga, per integrare i bilanci degli enti autarchici minori, circa 30 miliardi all’anno. Ora se questa somma, opportunamente rapportata, dovesse essere pagata anche nell’avvenire, ciò può rientrare nei doveri e negli obblighi dello Stato il quale, essendo l’ente di diritto pubblico maggiore e gerarchicamente superiore a tutte gli altri enti autonomi minori, sarà messo in condizione, col sistema tributario, di arricchire il suo tesoro, le sue riserve e poter meglio ridistribuire le disponibilità che riesce ad accumulare attraverso i tributi realizzati nelle varie parti dello Stato.

Questo era il principio che ha informato anche gli autori del progetto quando si parlava di stanze di compensazione – di un ente di solidarietà fra le varie Regioni –; quando si diceva che bisognerà ridistribuire equamente la ricchezza nazionale secondo le necessità che presentano le varie Regioni. Questo è l’esperimento che si vorrebbe proporre e questo era il principio da cui si è partito: principio giusto, di giustizia sociale e politica, che dovrà essere realizzato e che consentirà particolarmente di controllare meglio i bisogni delle Regioni, di organizzarne le attività e distribuirne equamente i redditi.

Le Regioni potranno, così, semmai, regolare meglio la loro condotta e la loro amministrazione, e dovranno forse ricorrere meno o con minori pretese allo Stato, per ottenere integrazioni.

L’onorevole Gullo parlava ieri di un altro aspetto del problema del Mezzogiorno e delle sue condizioni di arretratezza.

Mi permetto di dissentire, perlomeno in parte, dal giudizio da lui espresso.

Posso riconoscere che le condizioni del Mezzogiorno – parlo anche delle isole – siano dovute a particolari fattori sociali, per i quali non vi sono state opportune provvidenze, o per immaturità politica e civile delle popolazioni stesse o per carenza di intervento dei partiti politici o per colpa delle classi dirigenti; ma è anche vero che quelle regioni sono in stato di disagio e sono così disgraziate, perché il bilancio dello Stato, dello Stato unitario centralizzato, non ha mai provveduto sufficientemente ai bisogni fondamentali di quelle popolazioni. Quando si considerino le condizioni di estrema miseria, in cui certi paesi del Mezzogiorno si trovano, non si può dire che quello stato di inferiorità sociale e materiale sia dovuto a fattori sociali; è invece dovuto proprio alla insufficienza dell’intervento dello Stato, perché quando in un paese, anzi in moltissimi centri, mancano il cimitero, l’acquedotto, la scuola, la luce e le comunicazioni, signori, non c’entra la classe ricca. Non è questione di contrasti fra classi; mancano le opere pubbliche, cui dovrebbe provvedere lo Stato. I suoi interventi finora possono aver importato notevoli spese per il bilancio; però tali spese non devono commisurarsi solo colle entrate effettive realizzate in quelle regioni, ma coi bisogni effettivi di esse. In tal modo, soltanto, uno Stato che sia davvero civile, realizza la giustizia per il Mezzogiorno.

Ora, le popolazioni meridionali contano sull’autonomia, perché sperano di potere realizzare da se stesse una giustizia maggiore, in quanto, utilizzando la loro ricchezza ed i loro redditi nel quadro generale della finanza dello Stato, credono di poter provvedere meglio ai loro immediati e fondamentali bisogni.

Il Mezzogiorno confida nell’opera della Costituente.

E voi di questo dovete tener conto e dovete ritenere che il problema è maturo per essere esaminato, affrontato e risolto positivamente.

Se il progetto presenta lacune e imperfezioni, si è sempre in tempo a rimediare.

Si può, per esempio, rimediare all’aspro contrasto determinatosi in varie regioni italiane per la delimitazione territoriale delle Regioni stesse. Si tratta di contrasti che attengono all’applicazione del principio, ma non ne invalidano la sostanza.

Si può conciliare la necessità di conservare la Provincia, come ente autarchico autonomo, colla creazione della Regione autonoma. Mi duole che, per l’ora tarda, non possa meglio sviluppare questo mio concetto, che so non condiviso da altri. Spero che vi rimedino altri oratori della mia parte.

Si possono, insomma, superare varie di quelle difficoltà, che potrebbero sembrare insuperabili. Ma l’essenziale è affermare lo spirito della riforma, consacrarlo, perlomeno, in articoli fondamentali, che fissino definitivamente quale sarà la portata della riforma che dovrà essere operata, nel senso autonomistico: nel senso, cioè, che dia alle regioni quel maggiore respiro, che oggi esse non hanno, rispetto alla Stato centralizzato, e del quale hanno bisogno per provvedere, a fianco dello Stato, a quel complesso unitario di bisogni, locali e generali, che sorgono nell’ambito naturale della Regione.

Permettetemi di chiudere con delle parole che ho tolto di peso da uno scrittore, che da tanti anni si è occupato della autonomia e del decentramento, il Marchi. Sono parole ancor oggi attuali e significative: «Liberi rem nostram gerimus, iure reipublicae servato»; potrebbero essere il motto degli enti locali moderni in Italia, terra dell’autarchia, dove lo spirito è informato ad un principio medio, armonico e temperato; e per il quale sarebbe assurdo ogni ordinamento politico, in cui non fosse conciliata la necessità del conferimento dei poteri propri agli enti locali, coll’unità dello Stato. (Applausi e molte congratulazioni).

PRESIDENTE. L’onorevole Nobile ha presentato il seguente ordine del giorno:

«L’Assemblea Costituente,

considerato che la questione dell’ordinamento regionale per la sua gravità imporrebbe non solo la più ampia discussione generale, ma anche un esame approfondito, sia tecnico che politico, di ognuno dei singoli articoli che costituiscono il Titolo V del progetto di Costituzione,

considerata l’opportunità di affrettare i propri lavori,

delibera:

di abolire il Titolo V e di inserire nel progetto un articolo che rinvii l’ordinamento regionale ad una legge avente valore costituzionale da discutersi ed approvarsi dal futuro Parlamento».

L’onorevole Nobile ha facoltà di svolgerlo.

NOBILE. Onorevoli colleghi, l’ordine del giorno da me presentato col quale propongo di abolire il Titolo V del progetto e sostituirlo con un articolo che rinvii l’ordinamento regionale ad una legge avente valore costituzionale, da discutersi ed approvarsi dal futuro Parlamento, ha precipuamente lo scopo di affrettare i lavori della Costituente, evitando un lungo dibattito su una questione che non ha alcun carattere di urgenza. Non che io non riconosca che la questione meriti di essere dibattuta. Tutt’altro. Ma appunto perché la questione è importante, appunto perché l’ordinamento regionale che ci viene proposto costituisce una riforma radicale che sconvolge ab imis la struttura dello Stato italiano e le sue tradizioni, trovo necessario che la questione sia discussa a fondo. Questa necessità di un ampio dibattito è sentita non solo da chi come me è avversario della riforma, ma anche dai suoi fautori, per lo meno i più seri e responsabili di essi. Cito per tutti l’onorevole Ambrosini.

A me sembrava, e sembra tuttora, che l’Assemblea Costituente, che dovrebbe terminare i suoi lavori fra quattro settimane, non abbia il tempo di far questo. Aggiungo che con tanti gravi problemi che premono ed urgono in questo momento della nostra vita nazionale, non abbiamo nemmeno la calma e la serenità di spirito che occorrerebbero per esaminare a fondo un problema di così grave portata.

Non credo di sbagliarmi asserendo che un mese e mezzo o due sarebbero appena sufficienti per un esame approfondito della questione. La Sottocommissione che preparò il progetto impiegò anche più di tale tempo senza pervenire nei punti più essenziali a conclusioni che riscuotessero l’approvazione di notevoli maggioranze. Su di essi non fu possibile raggiungere un accordo soddisfacente; molti articoli furono approvati con maggioranze talmente esigue da far ritenere che quelle votazioni, se si fossero ripetute a distanza di tempo, avrebbero probabilmente avuto un esito differente. Con tante questioni rimaste aperte in un problema così complesso, è impossibile strozzare la discussione generale, ed io mi rendo conto del perché il nostro Presidente ci lascia liberi di parlare così a lungo. Una discussione esauriente, generale, richiederebbe da sola due o tre settimane, e sta a testimoniarlo il gran numero dei deputati iscritti a parlare. Né si potrebbe chiedere la chiusura perché ognuno di noi ha diritto, anzi il dovere di esprimere la propria opinione su una riforma che, se attuata, può avere conseguenze incalcolabili per la nostra vita nazionale.

Quanto tempo occorrerà poi per esaminare ciascuno dei venti articoli che costituiscono la riforma? Alcuni di questi richiedono discussioni amplissime. Non sarà sufficiente quello che se ne può dire nella discussione generale. Basta accennare agli articoli 109, 110,111, che si riferiscono alla potestà legislativa delle Assemblee regionali. Ciascuna delle voci elencate in quegli articoli coinvolge una quantità di problemi non solo politici ma anche tecnici, anzi essenzialmente tecnici.

L’onorevole Mannironi crede che si possa affidare alle Assemblee regionali questa potestà legislativa senza alcuna preoccupazione per quanto riguarda gli interessi generali dello Stato; ma gli esempi citati ieri dall’onorevole Einaudi ci convincono del contrario. L’illustre collega, ricordando che l’Italia anche prima del fascismo vantava una legislazione esemplare per quello che riguardava le acque pubbliche, ci ha fatto osservare che se l’ordinamento regionale passasse così come è proposto, a questa unica legislazione nazionale verrebbero sostituite ventidue diverse legislazioni regionali. Basta questo esempio per dimostrare che il problema, voce per voce, dovrebbe essere esaminato e discusso a fondo.

Si consideri anche l’articolo 113 dove si parla delle finanze. Non m’intendo affatto di questo arduo argomento ma capisco che il problema delle finanze del nuovo Ente che si vorrebbe costituire è un problema gravissimo che dovrebbe impegnare la discussione da parte delle persone più competenti di quest’Assemblea per intere giornate. E che dire poi dell’articolo 123 che si riferisce alla circoscrizione delle regioni?

Tali argomenti, se dovessero venir trattati seriamente, da soli richiederebbero senza dubbio alcune settimane. Considerate tutta l’agitazione sorta per ottenere questa o quella modificazione alle circoscrizioni elencate nell’articolo 123, tutti i volumi già pubblicati per provare la necessità di costituire questa o quella nuova regione, ed il gran numero di conferenze e congressi tenuti, e vi convincerete che anche nel seno di questa Assemblea, chiamata ad assumersi la responsabilità di una decisione, il dibattito sarà necessariamente lungo. Uno di questi volumi ho presente davanti agli occhi. È intitolato: «Atti del Congresso regionale veneto». Un volume in ottavo, di 150 fitte pagine, dal quale appare che lunghe discussioni hanno avuto luogo tra le numerose personalità intervenute da ogni parte del Veneto, pur senza giungere ad alcuna conclusione.

Ho citato quest’esempio di una singola regione, ma ne potrei citare cento altri. Ecco perché a me sembra, che, prevedendo un mese e mezzo o due come tempo necessario per l’esame di questo ordinamento regionale, certamente sono ottimista: in questo lasso di tempo molte questioni d’importanza essenziale non potranno essere esaurientemente discusse. Che forse allora, per arrivare più presto, per fare in tempo, dovremmo accontentarci di includere nella Costituzione alcune disposizioni di carattere generale, rimandando i particolari ad una o più leggi costituzionali da esaminarsi dal futuro Parlamento? Ma, se così facessimo, l’ordinamento regionale resterebbe lettera morta per lungo tempo e forse per un tempo indefinito; e non credo che ciò gioverebbe al prestigio stesso della Costituzione che vogliamo preparare.

Se un mese e mezzo o due sono appena sufficienti per l’esame del Titolo V, quanto tempo, poi, richiederanno gli altri cinque titoli della seconda parte del progetto, titoli che, specie i primi tre, si riferiscono a questioni di essenziale importanza, alle basi stesse della struttura dello Stato?

Non occorre, dunque, essere profeti per prevedere che tre o quattro mesi (ed è questa la cifra che indicavo qualche giorno fa all’onorevole nostro Presidente) potrebbero bastare a mala pena per completare l’approvazione del nostro progetto. Da questa constatazione di fatto presi le mosse per presentare il mio ordine del giorno che proponeva una questione pregiudiziale. Ma esso non fu preso in considerazione dall’Assemblea, e si è così venuti alla discussione generale.

D’altra parte, vi è chi possa sostenere che questa riforma sia talmente urgente e pressante da doversi attuare subito, e comunque, senza averla attentamente esaminata? Evidentemente nessuno può pensare questo, nemmeno i fautori più ardenti della riforma, quelli, almeno, che abbiano vivo il senso della responsabilità e se si preoccupino, come si preoccupava giorni fa l’onorevole Ambrosini, delle conseguenze che potrebbe avere un esame affrettato di così grave questione.

Ma, visto che ormai siamo in sede di discussione generale, voglio pregare i colleghi di ascoltare anche il punto di vista di chi, come me, nella Commissione dei 75 è stato, fin dall’inizio, quando la questione venne presentata, risoluto e tenace avversario, un avversario istintivo starei per dire. Oggi non sono più solo, ma allora il mio atteggiamento intransigente provocò aspre critiche specialmente quando, considerando il movimento regionalistico nella sua forma attuale, mi permisi dire che esso a me appariva come un fenomeno patologico della vita pubblica italiana in questo travagliatissimo dopoguerra. Ma, onorevoli colleghi, se per poco ci riflettete, dovrete, io credo, darmi ragione. Non parlo dell’idea regionalistica in sé, che è discutibile, ma certamente rispettabile. Mi riferisco bensì alla forma che oggi quell’idea ha assunto e che si è riflettuta nel progetto di Costituzione.

Presidenza del Vicepresidente TARGETTI

NOBILE. Progetti di riforme regionali sono più volte venuti alla ribalta della vita pubblica italiana, ma è caratteristico che essi siano stati presentati con maggiore insistenza ogni qual volta la compagine statale si trovava indebolita. Questo avvenne subito dopo la prima guerra mondiale; si ripete oggi, dopo la seconda.

In questo suo ultimo ritorno il movimento regionalistico apparentemente è nato come reazione contro il fascismo, ma nella realtà esso è conseguenza del collasso morale, economico, politico seguito alla disfatta. Vi ha contribuito potentemente la vendetta estrema del fascismo che, colpito a morte, divise gli Italiani in due campi avversi, proclamando nel Nord una repubblica fascista. Vi ha contribuito la guerra, con le sue rovine, le sue distruzioni, con tutte le miserie materiali e morali ovunque disseminate. Nel periodo in cui non si poteva più comunicare fra città e città, quando ferrovie, telefoni, telegrafi, posta non esistevano più, quando ogni provincia difendeva egoisticamente la propria produzione agricola, impedendo che fosse trasportata altrove, si sarebbero potute proclamare in Italia venti repubblichette autonome. Fu il periodo in cui Milano si rifiutava di riconoscere Roma come capitale, ed i Lombardi chiamavano sprezzantemente terroni i meridionali, i quali, ritorcendo le accuse, rimproveravano al Nord di essersi arricchito a spese del Mezzogiorno e di aver dato origine al fascismo.

Ma più che tutto vi han contribuito le dure condizioni dell’armistizio e la presenza sul suolo nazionale delle truppe straniere e dell’autorità straniera di controllo, per cui si rese impossibile il rapido riorganizzarsi della vita statale.

Non mi sembra dunque aver torto quando asserisco che l’attuale movimento regionalistico in Italia è in effetti un fenomeno patologico derivante dalla disorganizzazione dello stato nazionale, un fenomeno che già oggi attenuato nelle sue manifestazioni più gravi, finirebbe col tempo con lo scomparire totalmente. Di questa guarigione spontanea si sono avuti chiari segni quando, col lento ma progressivo ristabilirsi delle comunicazioni fra regione e regione, la vita statale unitaria è andata anche essa progressivamente riorganizzandosi. La forte reazione alle tendenze centrifughe di alcuni elementi nazionali ed il rafforzarsi della schiera di coloro che combattono la riforma regionale ne è la conferma.

Il regionalismo per il suo stesso carattere, la sua stessa origine è da considerarsi, dunque, un fenomeno transitorio nella vita politica italiana. Volerlo cristallizzare nel titolo V della Costituzione sarebbe come perpetuare le conseguenze di uno stato morboso.

Si dirà: ma, in Italia, sono sempre esistite delle tendenze regionalistiche.

Questo è vero; ma esse rappresentano un residuo della vecchia divisione dell’Italia in tanti stati indipendenti. L’onorevole Gullo giustamente ci ha detto ieri che se queste tendenze regionalistiche si fossero affermate nell’atto in cui l’unità dell’Italia si formò, ciò sarebbe stato perfettamente spiegabile e giustificabile. Vi erano seri motivi allora perché si potesse pensare a fare una confederazione dei varî Stati in cui si trovava prima diviso il nostro Paese. Ma oggi, a distanza di quasi un secolo, è chiaro che quelle tendenze costituiscono un anacronismo storico.

L’onorevole Mannironi poco fa riconosceva che l’economia non può circoscriversi nell’ambito di una regione, ma la conseguenza logica di questa premessa è tutt’altra di quella cui egli perviene, quando giustifica, come fa, il progetto di ordinamento regionale che ci viene proposto. Esaminate, infatti, attentamente gli articoli 109, 110 e 111, e dovrete necessariamente arrivare alla conclusione che alla base di quegli articoli vi è una concezione di economia regionalistica, che costituisce oggi una vera e propria aberrazione.

Non mi dilungherò a dimostrarlo. È evidente che essa sia un’aberrazione perché nel mondo moderno i fatti economici trasbordano i limiti, non dirò nazionali, ma del continente stesso cui una Nazione appartiene. L’enorme acceleramento ed intensificarsi delle comunicazioni ha da gran tempo distrutto l’economia locale. Nessun paese, neppure i più grandi e più ricchi di risorse naturali, può economicamente considerarsi indipendente dal resto del mondo. Abbiamo visto in Europa, di recente, le conseguenze di uno sciopero minerario avvenuto in America. Parlare oggi di economia regionale è così assurdo come voler tornare al bastimento a vela e alla diligenza postale.

Vi dicevo che si può parlare a lungo per dimostrare a quali gravi conseguenze si giungerebbe accettando gli articoli del progetto di Costituzione dal 109 al 111, con i quali noi daremmo niente di meno facoltà alle Assemblee regionali di emanare norme legislative in materia di agricoltura, foreste, cave, torbiere, acque pubbliche, turismo, strade, acquedotti, industrie, commercio!

Diceva bene ieri l’onorevole Einaudi: questi articoli formicolano – è la sua espressione – di pericoli per l’unità nazionale. Egli ha citato l’esempio delle acque pubbliche, della polizia, del credito: materie nelle quali sostituire ad una legislazione unica nazionale una moltitudine di legislazioni regionali significherebbe veramente voler rifare alla rovescia il cammino della storia. Ma gli esempi si potrebbero moltiplicare.

Io mi fermerò solo a considerare un istante quello delle strade e delle linee automobilistiche. Non si pensi infatti che il problema automobilistico costituisca un argomento di scarsa importanza, perché nel mondo moderno i trasporti automobilistici tendono ad estendersi sempre più e fanno realmente concorrenza alle ferrovie: guardate, sotto questo riguardo, quello che avviene in America.

Or dunque si parla nell’articolo di linee automobilistiche di interesse esclusivamente regionale; ma quale linea automobilistica potrebbe considerarsi di interesse esclusivamente regionale? Tutto al più quella che collega la stazione ferroviaria ad un piccolo paese appollaiato sulla montagna. Ma evidentemente non è di interesse puramente regionale una linea automobilistica che congiunga, putacaso, Napoli con Benevento. Non è di interesse esclusivamente regionale perché anche all’industriale lombardo interessa moltissimo di andare quanto più celermente sia possibile da Napoli a Benevento o a Foggia.

Mi soffermo, onorevoli colleghi, in modo particolare, a considerare questo problema delle comunicazioni, perché sono convinto che esse hanno avuto sempre, e hanno oggi più che mai, un’importanza decisiva nello sviluppo economico, sociale, culturale, politico dei vari paesi.

Mi capita tra le mani in questo momento una relazione presentata alla Camera dei Deputati italiana nella sessione del 1866, che porta il titolo: «Delle condizioni della viabilità in Italia». Varrebbe la pena la esaminaste per constatare come già allora fosse chiara nella mente dei legislatori italiani l’importanza che ha la viabilità per l’economia nazionale. Basta citare frasi come queste: «Le strade sono come le arterie e le vene che portano la vita per ogni dove. La viabilità è il primo fattore della prosperità e della civiltà di un paese». E più avanti: «La stessa prosperità delle provincie ben provviste di strade addiviene una cagione di miserie per quelle che ne sono prive, perocché, non potendo produrre alle stesse facili condizioni, spesso non possono sostenere la concorrenza». E, ancora, basta dare un’occhiata alle statistiche contenute negli allegati della relazione per constatare come misere fossero in quel tempo nel Mezzogiorno d’Italia le condizioni della viabilità! L’allegato I porta questa epigrafe significativa: «Perché un paese possa prosperare deve avere almeno un chilometro di strade ordinarie per ogni chilometro quadrato di superficie». Ma, ahimè, le cifre che seguono mostrano come le provincie del Mezzogiorno fossero lontanissime da quella meta desiderata. Per la Sicilia, la Calabria, gli Abruzzi si era al disotto dei cento metri di strada per ogni chilometro quadrato di superficie!

L’importanza del problema della viabilità era dunque inteso fin d’allora, quasi un secolo fa. Oggi sarebbe vergogna ignorarlo; ma equivale ad ignorarlo affermare che le strade, le linee automobilistiche, le tranvie extraurbane costituiscono un interesse puramente regionale.

Presidenza del Presidente TERRACINI

NOBILE. Il fatto è, onorevoli colleghi, che le condizioni arretrate del Mezzogiorno dipendono in gran parte precisamente da questo: che nel momento in cui l’Italia venne unificata le comunicazioni stradali vi erano scarsissime. L’onorevole Gullo Fausto ha ricordato ieri che un’unica strada, senza alcuna diramazione laterale, «quasi un fiume senza affluenti», congiungeva Napoli alle Calabrie, sicché non vi era possibilità di giungere agevolmente nell’interno. I mali da cui ancora oggi sono afflitte tante regioni del Mezzogiorno derivano essenzialmente da quella specie di isolamento in cui esse si trovarono per secoli. Questa è la causa per cui esse, rispetto alle regioni del nord, si trovano indietro, nell’economia, nella struttura sociale, nell’educazione.

Nel secolo scorso la rivoluzione industriale da prima, e quella meccanica dopo, fecero sentire dovunque in Italia, dal parallelo di Roma in su, la loro influenza, mutando profondamente le condizioni economiche e sociali; ma nella Lucania, in Calabria, in Sardegna, tagliate come esse si trovavano fuori delle grandi correnti commerciali moderne a causa delle scarse e difficili comunicazioni esterne ed interne, quell’influenza si risentì con grande ritardo ed assai lentamente, solo dopo che quelle Regioni vennero riunite alle altre parti d’Italia.

Il Mezzogiorno ha avuto le sue strade ordinarie con un ritardo di secoli rispetto alle altre regioni. In Sardegna, ad esempio, perdute perfino le tracce delle strade costruite da Roma antica, soltanto nel 1829 fu aperta al traffico la prima strada nazionale: quella che congiunge Cagliari con Porto Torres, per Oristano e Sassari. Pensate: solo nel 1829!

In quanto a ferrovie permettete che vi citi qualche cifra.

Al momento dell’unificazione su 1829 chilometri di ferrovie esistenti in Italia appena 99 erano nel Mezzogiorno, e non un solo chilometro in Sardegna. Ma dopo l’unificazione, come ne è testimonianza la relazione che vi ho citato avanti, il Governo centrale intraprese in tutto il Mezzogiorno la costruzione di ferrovie, sicché nel 1872, su 6778 chilometri di ferrovie esistenti in Italia, 2186 erano nel Mezzogiorno. Oggi la situazione è questa: mentre in tutto lo Stato si hanno 50.8 chilometri di ferrovie per ogni 100 mila abitanti, nelle regioni del Mezzogiorno, se si fa eccezione solo della popolatissima Campania, le cifre sono molto più alte della media nazionale. Al primo posto è la Sardegna con 120.4 e al secondo la Lucania con 105.7. Che se poi si riferisce lo sviluppo ferroviario alla superficie, si trova che la Sicilia, la Calabria, la Campania, le Puglie, hanno una lunghezza di ferrovie notevolmente superiore alla media statale. Secondo l’indice Mortara, che tien conto a un tempo e della popolazione e della superficie, il primo posto in Italia nello sviluppo delle ferrovie è tenuto proprio dalla Sardegna!

Onorevoli colleghi, della questione del Mezzogiorno, anche senza volerlo, vien fatto di parlare quando si parla di ordinamento regionale. Questo ordinamento viene invocato dai suoi fautori come un toccasana per i guai del Mezzogiorno; ma per mio conto son convinto che esso, anziché far progredire le regioni meridionali portandole al livello di quelle centrali e settentrionali, inevitabilmente condurrebbe invece a rendere più profonde le differenze tra esse esistenti. Questo vi spiega perché i più decisi avversari ai varî tentativi fatti fin oggi in Italia di ordinamento regionale siano stati sempre gli uomini politici meridionali. Si potrebbe citarne uno per tutti: Giustino Fortunato.

Bene ha detto l’onorevole Gullo che nell’unificazione dell’Italia il Mezzogiorno portò non le sue ricchezze, che erano solo apparenti, ma le sue miserie. Queste miserie del Mezzogiorno d’Italia sono soprattutto dovute all’isolamento in cui esso visse, isolamento che fu anche la causa precipua per cui vi mancò durante il medioevo una vita municipale. Certo, a queste miserie contribuirono anche i due secoli di dominio spagnolo che, come disse Leopoldo Franchetti, puntellarono il cadente edificio feudale fecondando i germi di decomposizione morale e sociale sparsi dai secoli precedenti. Perfino la Rivoluzione francese tardò a far sentire nel Mezzogiorno d’Italia i suoi effetti, e a penetrarvi col suo soffio rinnovatore e vivificatore. Il decennio di predominio francese, coi regni di Giuseppe Bonaparte e di Gioacchino Murat, soppresse la feudalità, impose i Codici napoleonici, ma non riuscì a intaccare la composizione sociale ed economica del Mezzogiorno. Questa solo da una rapida espansione delle comunicazioni interne ed esterne con le altre parti d’Italia e col resto del mondo poteva, e può, venir modificata.

Tutti i guai, vecchi e nuovi, delle varie parti del Mezzogiorno d’Italia dipendono per l’appunto da questa scarsezza di comunicazioni. La causa dell’arretratezza della Sardegna va ricercata nel suo isolamento, che costituì il fattore determinante delle sue vicende storiche. Per la sua posizione, nel mezzo del Mediterraneo occidentale, all’isola era nei secoli scorsi difficile accedere; ancora più difficile era penetrare nel suo interno a causa della mancanza di strade. Tutti i mali della Sardegna si ricollegano a questo suo isolamento; ma ad esso non si può rimediare con le sole forze dei sardi. Occorreva ed occorre il concorso di tutte le altre parti d’Italia, e questo concorso vi fu. Strade, ferrovie, opere di bonifica, valorizzazione di miniere, etc., erano tutte cose inesistenti al momento dell’unificazione, ed è difficile, direi anzi impossibile, sostenere che tutto ciò sarebbe stato fatto se la Sardegna si fosse governata da sé.

Si potrebbe, come dicevo, parlare molto a lungo sugli articoli 109, 110 e 111. L’articolo 109, ad esempio, considera lo sfruttamento di torbiere come materia di interesse esclusivamente regionale. Non vi è chi non veda quanto sia assurda tale pretesa in un paese povero di combustibili come è il nostro. L’articolo 110 concede alla Regione la facoltà di emanare norme legislative sulle tranvie e sulle linee automobilistiche regionali. Vi sarebbe quindi la possibilità che in una regione si costruiscano linee tramviarie o si impiantino servizi automobilistici paralleli e concorrenti con le ferrovie gestite dallo Stato, con quali conseguenze economiche ognuno può immaginare.

Secondo il progetto non dovrebbe affatto interessare al resto dell’Italia se una tale Regione sviluppi oppur no le sue strade, i suoi porti lacuali; costruisca o pur no i suoi acquedotti; sfrutti o pur no le sue torbiere e le sue cave; dia o pur no incremento al turismo, che pure notoriamente è una delle fonti più importanti di reddito nazionale. Se una Regione è, e vuol rimanere, arretrata economicamente, socialmente, e culturalmente è cosa che riguarderebbe soltanto essa. Eseguire o pur no un’opera di bonifica o di irrigazione, risanare zone malariche; dare o pur no un adeguato sviluppo all’istruzione tecnico-professionale; sviluppare l’agricoltura; utilizzare o pur no le acque pubbliche, sono considerate faccende di interesse puramente regionale!

Se nel passato, durante quasi un secolo di vita unitaria, fossero prevalsi questi criteri, non sarebbe stato costruito l’acquedotto pugliese, né compiuta la bonifica di Sanluri, né risanate le paludi pontine, né costruite in Sardegna oltre mille chilometri di strade nazionali, cioè l’ottava parte di quelle costruite nel regno, sebbene in superficie la Sardegna rappresenti solo la tredicesima parte del territorio nazionale.

A un tale assurdo porterebbe il frazionamento del nostro Paese in ventidue regioni autonome, ciascuna con un’Assemblea legislativa avente il diritto di legiferare, o anche di non legiferare, su materie che solo apparentemente possono ritenersi di interesse regionale, ma che in realtà sono di interesse nazionale.

Io non credo che il popolo italiano domandi una tale assurda riforma. Tutto ciò che gli Italiani oggi domandano è che si riorganizzi la vita economica del Paese, si ricostruisca quello che è andato distrutto, si combatta la disoccupazione, si pongano le condizioni necessarie per elevare il livello economico e culturale delle classi più diseredate, si consolidino le istituzioni democratiche.

Essi domandano inoltre che le funzioni dello Stato si decentralizzino. È un’antica aspirazione, un problema vecchio di almeno mezzo secolo. È ridicolo che per sbrigare una piccola faccenda amministrativa o giudiziaria un calabrese, un lombardo, un sardo debbano recarsi a Roma. Si sente il bisogno di decongestionare questo enorme centro statale che è Roma, sveltirlo, renderlo efficiente.

Se l’ordinamento regionale significasse questo, non credo vi sarebbe alcun italiano che non l’approverebbe ad occhi chiusi. Ma così come ci viene presentato esso, al contrario, significa un moltiplicarsi di meccanismi burocratici, che interferiranno l’uno con l’altro; il sovrapporsi di una rete di ventidue burocrazie regionali, a quella statale. Significherebbe soprattutto la disgregazione dell’unità nazionale.

Che questo pericolo realmente sussista, che non sia frutto della mia immaginazione ve lo conferma l’ultimo comma dell’articolo 113 col quale la Commissione dimostra che essa stessa è veramente preoccupata che il regionalismo possa degenerare in federalismo. Infatti in quel comma è prescritto che la Regione non possa prendere alcun provvedimento che ostacoli in qualsiasi modo la libera circolazione delle persone e delle cose; che non possa istituire dazi di importazione o di esportazione. E non è forse chiaramente palese in questo testo la dichiarazione dei pericoli impliciti nell’ordinamento regionale che ci si propone? Non fornisce esso la prova che la Commissione stessa che ha preparato il progetto pensa che l’ordinamento regionale possa condurre alla disgregazione dell’unità nazionale?

Io non voglio occuparmi in particolare dello Statuto siciliano: esso richiederebbe una lunga discussione. Ma frattanto vi è qualche cosa che mi ha colpito leggendolo. A parte il fatto che con esso la Sicilia viene eretta a un vero stato autonomo (basti considerare che lo Stato Italiano non vi ha nemmeno un suo rappresentante; esso può avervi bensì dei Commissari, ma solo alla dipendenza del Capo della Regione), vi è la cosa curiosa che al Presidente del Governo Regionale viene riconosciuto il rango di Ministro della Repubblica, e come tale egli ha il diritto di partecipare con voto deliberativo al Consiglio dei Ministri. È vero che tale voto deliberativo dovrebbe essere limitato alle materie che interessano la Sicilia; ma una distinzione in questo campo è assai difficile, potendosi sempre sostenere che tutto interessi, sia pure indirettamente, la Regione siciliana.

Avendo ammesso che il Capo della Regione siciliana intervenga nel Consiglio dei Ministri col rango di Ministro, e con voto deliberativo, come si potrà negare un analogo privilegio ai capi delle altre tre Regioni alle quali si promette un’autonomia speciale, voglio dire la Sardegna, la Val d’Aosta e l’Alto Adige? Sicché avremo almeno quattro presidenti regionali che parteciperanno al Consiglio dei Ministri. Concesso questo privilegio a quelle quattro regioni, sarà difficile, poi, che non venga esteso anche alle altre. Come si potrà – infatti – negarlo a regioni aventi l’importanza della Lombardia, del Piemonte o della Campania? Correremmo, così, il rischio di avere un Consiglio di Ministri, di cui sarebbero membri permanenti ventidue rappresentanti regionali, che continuerebbero a restare in carica anche durante e dopo una crisi di governo.

Si vede, dunque, a quale assurdo si potrebbe giungere col concedere queste autonomie regionali: donde la necessità di andare cauti, anche perché, fatta una concessione, sarà difficile poi tornare indietro. Altra buona ragione, questa, per considerare con diffidenza l’ordinamento regionale che ci viene proposto.

Se il regionalismo fosse inteso come decentramento amministrativo delle funzioni statali non vi sarebbe nulla da obbiettare; ma inteso come istituzione di una vita regionale, economica e sociale chiusa in sé stessa, sarebbe il peggiore dei malanni che ci potrebbe capitare in questo dopo guerra.

Tuttavia, se vi sono fanatici avversari del regionalismo, non credo che io debba annoverarmi fra i suoi avversari fanatici. Ciascuno di noi è un po’ regionalista, anche se le vicende della vita ci abbiano fatto allontanare dal nostro campanile. Se per regionalismo s’intende prendere interesse al passato del paese dove si è nati, alle tradizioni, ai costumi, ai paesaggi, alle leggende, ai dialetti, alle canzoni della propria terra, tutti noi, penso, possiamo considerarci regionalisti, e questo ci dispone naturalmente ad intendere ed accettare quel qualsiasi di buono che possa esservi nell’attuale movimento regionalistico. Ma quel buono, disgraziatamente, è talmente inviluppato nel male, che non è facile sceverare l’uno dall’altro. Riconosco, e ne sono rimasto ancora più persuaso dopo aver sentito l’onorevole Einaudi, che potrebbe giovare immensamente al nostro Paese promuovere e sviluppare una vita politica locale; gioverebbe assai alla democrazia creare e stimolare l’interessamento dei cittadini alle cose locali, contribuendo così a creare una nuova classe politica che acquisti nell’amministrazione del proprio Comune, della propria Provincia la necessaria esperienza per poter, poi, assurgere al ruolo di classe dirigente della vita pubblica nazionale. Una vivace, vigorosa vita politica locale è desiderabile, ma questo non può, non deve significare lasciar libero il campo alle clientele locali, il cui predominio fu, ed è tuttora, una delle cause principali della arretratezza delle regioni italiane del Mezzogiorno.

Mi sia, a questo proposito, permesso di citare le parole di un grande uomo politico meridionale, Giustino Fortunato, che mezzo secolo fa ammoniva:

«Se voi intendete attribuire ai corpi locali, più o meno autonomi, vere e proprie funzioni di Stato, se di codeste funzioni volete commettere insieme la deliberazione e la esecuzione, io non esito un solo istante a respingere lungi da me, nell’interesse stesso di quelli fra i miei corregionari che più soffrono e più lavorano, un dono così fatto, che in mezza Italia renderebbe sempre più l’organizzazione dei poteri pubblici una vasta, poderosa, odiosa clientela delle classi dominanti, e l’Italia stessa un oggetto di lusso, fatta per chi possiede e chi comanda, i signori, i ricchi, i pubblici funzionari e gli uomini politici».

Soprattutto, aggiungo io, questo governo locale non può, non deve, realizzarsi a spese dell’unità nazionale. Del resto, in Italia già esistono dei centri, starei per dire, naturali, di vita sociale, politica, economica, culturale. Essi sono le nostre cento belle città con i loro innumeri monumenti, con le loro tradizioni, la loro cultura, la loro storia. Queste nostre città, realtà viventi, non formazioni artificiose, corrispondono più o meno alle nostre province. Non vi è dubbio, diceva Farini, che la provincia in Italia si sia «formata intorno al Comune del medioevo, erede del municipio romano, intorno alla città, che fu il gran fattore della civiltà italiana e della quale la provincia nostra porta il nome».

Questi centri di vita locale, dunque, esistono già, naturalmente. Non occorre crearne altri. Basta dare ad essi maggior vita amministrativa e politica.

La Provincia, come ente autarchico, ha oggi, tutti lo riconoscono, una potenzialità eccessivamente limitata. Non vi è che da estenderla. Nulla impedisce che Assemblee provinciali, elette a suffragio universale, siano chiamate ad esaminare e discutere proposte di legge, di interesse provinciale, da presentare poi al Parlamento. Niente impedisce che queste stesse Assemblee abbiano anche una certa facoltà normativa in materie di interesse strettamente locale, in nessun modo interferenti con gli interessi nazionali.

Se poi per il decentramento delle funzioni amministrative dello Stato si avvertisse il bisogno di creare un ente intermedio tra lo Stato e la provincia, tra lo Stato ed i comuni, ben venga anche l’istituzione della Regione, e ben vengano, se sarà necessario, anche le Assemblee regionali, che discutano i problemi della regione, e che delle loro conclusioni facciano oggetto di proposte di legge al Parlamento nazionale; ma esse stesse non legiferino!

Ma, così concepita, la regione non potrebbe avere un’estensione media così limitata quale risulta dall’articolo 123, comprendente, cioè, solo quattro delle attuali province. Se si dovesse costituire una regione per le provincie di Napoli e Caserta, un’altra per la Lucania, ed un’altra ancora per Salerno ed Avellino, come taluni vorrebbero, tanto varrebbe rinunziare a costituire il nuovo ente, che, per avere un’estensione territoriale troppo limitata, non potrebbe, a mio avviso, adempiere bene ai compiti amministrativi che gli si vorrebbero assegnare, e tanto varrebbe affidare anche questi alle attuali provincie.

Onorevoli colleghi, ho terminato. Sento di dovervi chiedere scusa per avervi intrattenuto così a luogo, ma questo argomento mi ha appassionato, come credo che dovrebbe appassionare tutti i buoni italiani.

L’ordinamento regionale presenta, in verità, gravi pericoli; né si può accettare la tesi dell’oratore che mi ha preceduto, l’onorevole Mannironi, secondo cui anche se pericoli ci fossero questa non sarebbe una buona ragione per trattenersi dal mettere mano alla riforma, allo stesso modo (così egli ha detto) come non ci si trattiene dal viaggiare in aeroplano, anche sapendo di correre il rischio di cadere. Non sono d’accordo. Certo se il viaggio è urgente e necessario, se non vi è altra maniera di farlo, si prende senza esitare l’aeroplano, anche con tempo burrascoso, anche se si ha ragione di dubitare della robustezza dell’apparecchio. In tal caso è giusto correre l’alea. Ma sarebbe follia farlo, quando quella necessità urgente non vi sia; e sarebbe poco meno che un delitto quando, pur scorgendo chiaramente il pericolo e potendo fare a meno del viaggiare, imbarcassimo su quell’aeroplano la nostra madre o i nostri bambini.

Per chiudere consentitemi, vi prego, ricordare il monito severo che Giuseppe Mazzini lanciava contro quello Stato federale, che taluni, al tempo della unificazione, vagheggiavano, ed il cui pericolo oggi si ripresenta sotto le spoglie dell’ordinamento regionale: «Esso spingerebbe l’Italia a retrocedere verso il medioevo, contrariamente a tutto quanto il lavoro interno del nostro incivilimento e della serie progressiva dei mutamenti europei, che guida inevitabilmente le società moderne a costituirsi in masse unitarie sempre più vaste».

Questo ammonimento risuonò già una prima volta in questo medesimo palazzo di Montecitorio, or sono cinquantuno anni, nella giornata del 3 luglio 1896; e fu di quel Giustino Fortunato che dianzi ho ricordato, che terminava il suo discorso con queste parole che giova ripetere: «L’Italia o sarà una, come è detto nelle tavole dei plebisciti, che sono lì in alto, dietro al banco della Presidenza: o sarà una, tutta ricomposta in unico stampo, o non sarà. Chi pensa diversamente è in errore, e del suo errore, io temo, potrebbe un giorno amaramente pentirsi». (Applausi Congratulazioni).

PRESIDENTE. È iscritto a parlare l’onorevole Varvaro, ma egli ha fatto giungere richiesta telegrafica di spostare il suo turno, non avendo possibilità di giungere in tempo per la seduta di oggi. Ritengo che si possa aderire alla sua domanda.

È iscritto a parlare l’onorevole Lussu. Ne ha facoltà.

LUSSU. Penso di limitare il mio intervento su questo problema che interessa tutti (e particolarmente me che appartengo a un gruppo parlamentare che si chiama autonomista e che sono venuto ancora giovane alla vita politica con un partito che dichiaratamente ha voluto definirsi autonomista) solo ad alcune considerazioni di carattere generale: quasi essenzialmente a dimostrare la razionalità e la democraticità di questa riforma.

Non toccherò i punti che da altri autorevolmente sono stati toccati. Gli onorevoli colleghi che parleranno dopo di me – ed ho visto nell’elenco che sono parecchi – non mancheranno certamente di trattare quelle parti importanti alle quali io non faccio neppure cenno. Non mi soffermerò neppure sulla Sardegna, per la quale dovrei pur dire qualche cosa dopo le brevi statistiche lette dall’onorevole Nobile, e non parlerò nemmeno della Sicilia e delle regioni poste al limite delle nostre frontiere, perché per le quattro regioni l’articolo 108 riconosce il diritto a Statuti particolari. In realtà non è la Commissione dei 75 che ha riconosciuto questo diritto, ma provvedimenti del Governo, quando esso aveva tutti i poteri esecutivi e legislativi, ed è in base a questi provvedimenti che la Sicilia ha avuto la sua autonomia, e pure con una legge del Governo la ha avuta la Val d’Aosta. Molti ben sanno che per la Sardegna il Governo si era impegnato già da molto tempo ad adottare gli stessi provvedimenti, come per la Sicilia, e che la Consulta nazionale, quando esaminava il progetto dello Statuto siciliano, apportò delle modifiche con cui estendeva questo alla Sardegna. Fu poi la Consulta regionale sarda, a torto od a ragione non saprei dire, ma era comunque nel suo diritto, ad affermare la necessità di una maggiore ponderatezza nello studio, e questa è la ragione per cui lo Statuto della Sardegna è stato presentato soltanto in questi giorni al Governo. Se la crisi fosse stata risolta, credo che il nuovo Governo lo avrebbe già trasmesso in esame alle Commissioni competenti.

Io concordo, per questi Statuti particolari, su alcune cose che si dicono in tutti i settori, e concordo su quanto ha detto molto autorevolmente l’onorevole collega Einaudi. È chiaro che questa Assemblea ha il diritto di esaminare lo Statuto siciliano, quello sardo, quello della Val d’Aosta e l’altro Statuto particolare; ha il diritto di farlo, ma ha prima di tutto il dovere di fissare i principî generali che riguardano la riforma autonomistica per tutto il Continente, per collegare questi con i principî che regolano gli Statuti dalle autonomie particolari. Ma, cittadino dello Stato italiano, che ha una profonda coscienza nazionale, io avrei rossore di me stesso se, dopo aver ottenuto lo Statuto per la Sardegna, mi disinteressassi del problema per il resto dell’Italia continentale. Per me il problema della riforma è anzitutto un problema generale di democrazia, e tocca tutta Italia, di cui le regioni a Statuti particolari non sono che piccoli settori. Vano sarebbe d’altronde parlare di autonomia in queste regioni, se dallo stesso spirito autonomistico non è pervasa tutta la struttura dello Stato nazionale.

Veramente questa autonomia è presentata all’Assemblea in un momento particolarmente difficile, in cui lo Stato e la società sono in crisi. Le difficoltà, pertanto, che si sarebbero trovate in ogni momento, anche il meno difficile, per avere i consensi favorevoli a questa riforma, aumentano, e delle difficoltà estranee a questo progetto, si trae pretesto per dire che ormai la riforma non è più attuale, dimenticando che, proprio di fronte alle difficoltà della situazione generale noi, sostenitori delle autonomie, abbiamo presentato questo progetto di riforma nell’interesse della ricostruzione della società e dello Stato.

È probabile, anzi lo credo certo, che, anche senza queste difficoltà, in tempi infinitamente più lieti per il nostro Paese, questo progetto avrebbe trovato forti opposizioni. Questo progetto è arrivato qui, indipendentemente dalla crisi dello Stato e della società, criticato, avversato, attaccato, odiato, ed è arrivato così come voi lo vedete. Dando ai nobili animali che sto per citare lo stesso grado di nobiltà, direi che questo progetto si trova nella situazione di un cervo inseguito dai cani. E sviluppando questa similitudine, in cui l’autonomia è rappresentata da un cervo, e da un cervo maschio, io aggiungerei pensando agli attributi caratteristici di questo nobilissimo animale: poveretto, quante corna, parecchi, fino a questo momento, gli hanno già messo! (Si ride).

Inizialmente, presso i Settantacinque, i principî generali della riforma erano accettati da tutti. Io ricordo il parere che manifestò la seconda Commissione presieduta dal nostro attuale Presidente dell’Assemblea: ebbene, pressoché tutti eravamo d’accordo sui principî, tranne naturalmente l’onorevole collega Nobile, il quale concepisce lo Stato come una specie di corpo rigido, con un comandante e con un equipaggio (Si ride) un po’ nelle nuvole. Egli ci ha detto, d’altronde, testé, che per istinto, quasi, è contrario al progetto. Contro l’istinto e contro i sensi, non c’è che la ragione. (Si ride).

Onorevole collega Nobile, la filosofia sensista è sorta da oltre un secolo in Francia ed è da oltre un secolo che è stata superata.

L’autonomia, insomma, sembrava inizialmente sbocciare in un clima favorevole, in piena primavera, fra i sorrisi della natura circostante. Piano piano il clima è precipitato; la primavera è scomparsa e anche l’estate è scomparsa. È sopravvenuto improvviso l’autunno, e molte foglie sono cadute. Ora siamo in pieno inverno. Quando parla l’onorevole Nitti, si sente addirittura bisogno della pelliccia (Si ride).

Che cosa è mai successo? Bisogna riconoscere che questa riforma, che questa grande riforma ha svegliato di soprassalto non poche abitudini assopite, anzi, diciamo pure, addormentate. E si fa in fretta a passare dallo stato d’allarme allo stato di guerra: ora siamo in piena ostilità.

La burocrazia centrale, rispettabile, ma sempre burocrazia e sempre centrale, i prefetti, gli impiegati delle provincie, alcune Camere di commercio, i capoluoghi di provincia, hanno creato una specie di oligarchia federata ed hanno costituito un fronte unico antiautonomistico, decisi a battersi dirò così, sino all’ultima cartuccia unitaria della riserva dell’esplosivo centralizzato.

Il corpo elettorale dei capoluoghi di provincia ha avuto in tutto questo un gran predominio ed ha tutto intorno a sé influenzato il corpo elettorale generale. Nessuno in quest’aula può essere insensibile a quel corpo elettorale da cui noi traiamo tutti vita, anche i migliori. I capoluoghi di provincia si sono collegati e conducono una campagna, per cui si è arrivati a questo punto: che noi del Comitato delle autonomie riceviamo delle lettere tutti i giorni che, se è vero che devono in certo senso rallegrarci perché sono l’espressione di una democrazia diretta, tuttavia contengono delle vere e proprie minacce; si parla con i pugni chiusi. Non c’è un’arma né da taglio né da sparo, nei pugni chiusi, ma c’è un’altra arma per la quale ciascuno di noi ha il rispetto dovuto: l’arma del voto.

E le cose si sono inasprite e tal segno che il nostro collega onorevole Ambrosini, Presidente del Comitato delle autonomie e relatore di fronte ai trentanove della seconda Sottocommissione – non posso esimermi, la prima volta che pronunzio qui il suo nome, dal rendere omaggio alla sua bontà, al suo lavoro, al suo generoso lavoro, al suo modo di convivere in una compagnia così disparata come quella della seconda Sottocommissione e del Comitato delle autonomie – il buono e bravo Ambrosini dunque ha ricevuto tante rimostranze, verbali e scritte – egli può ben dirlo – di pezzi grossi dei vari ambienti che, credo, se egli avesse un figlio, l’oligarchia federata glielo avrebbe rapito, per rilasciarlo poi subito naturalmente, dietro impegno di ritirare il progetto. (Si ride).

Più che per volontà dell’oligarchia federata, è stata la natura delle cose che ha fatto sì che il capo di questo pronunciamento antiautonomistico sia diventato uno degli uomini – l’onorevole Rubilli mi perdoni, ma egli è una matricola al confronto – uno degli uomini più autorevoli in questa Assemblea e nel Paese; un uomo verso cui la devozione di ciascuno di noi è assoluta, un uomo che, per la sua vita onesta e forte, onora l’Italia: i colleghi hanno capito di chi io intenda parlare: l’onorevole Nitti.

L’onorevole Nitti è stato infatti il più feroce – credo di poterlo dire – il più implacabile dei nemici dell’autonomia. Egli ha detto testualmente: «Questo progetto mi spaventa e mi terrorizza», «questo è il dissolvimento di tutta la Nazione».

Il dissolvimento! «È aperta l’ora delle pazzie – delle pazzie! – e della disintegrazione», ha continuato l’onorevole Nitti; ed è arrivato persino a chiamare delittuosi i giusti provvedimenti presi all’unanimità, credo, per la Val d’Aosta. Ecco quindi che noi usciamo dal campo del diritto pubblico costituzionale, per entrare in quello del diritto pubblico penale: siamo già nel campo del delitto.

La voce di un così insigne uomo di Stato, il quale, è risaputo, parla spesso con indulgenza verso il prossimo, vicino o lontano (Si ride), ha impressionato parecchi in quest’aula e credo nel Paese: vero è che parecchi non attendevano altro che di essere impressionati, così, in senso unico.

Vero è anche che l’onorevole Nitti, nel suo intervento, ha criticato acerbamente l’ottimismo, come uno dei mali più grandi e diffusi del popolo italiano, di cui noi autonomisti saremmo particolarmente affetti. In verità, questo va riconosciuto, egli non è stato mai ottimista.

Questo è esatto. V’è chi ha l’onore di conoscerlo da cinquanta anni e v’è chi ha l’onore di conoscerlo da venti anni, ed io appartengo a questi ultimi, ma tutti possiamo affermare che l’onorevole Nitti, al Governo e fuori del Governo, non è mai stato ottimista. Anzi, egli è stato sempre pessimista, spesso catastrofico. Ma non è detto che i fatti abbiano dato spesso ragione al suo pessimismo. E, sinceramente, neppure al suo raro ottimismo. (Si ride). Una sola volta, recentemente, rompendo un’abitudine di tanti anni, l’onorevole Nitti è stato sinceramente ottimista, anzi gioiosamente ottimista, quando, ricevutone l’incarico ufficioso dal Capo dello Stato, s’è accinto a costituire il suo Ministero. Ebbene – l’onorevole Nitti me lo consentirà certamente – quella era una delle rare occasioni in cui il suo ottimismo poteva essere, se non pienamente, certo notevolmente ingiustificato. (Si ride).

L’onorevole Nitti ha messo innanzi la Francia per farci vergognare di questa nostra pazzia autonomistica. La Francia, che pure comporta regioni fra di loro infinitamente più differenti di quello che non siano le regioni in Italia, non ha mai pensato – egli ci ha detto – a concedere le autonomie, neppure per i paesi baschi e per la Corsica. Ma la Francia – intendo dire la Francia, potere centrale – non ha mai concesso le autonomie per il semplice fatto che le autonomie non sono state mai richieste da nessuna regione. In Francia non è mai esistita un’esigenza autonomistica e non è mai esistita una coscienza autonomistica. (Commenti).

Una voce a sinistra. La Normandia!

LUSSU. Neppure per quelle regioni che si sono trovate estranee a quella che è la formazione originaria della Nazione francese. I Paesi baschi, posti al di qua dei Pirenei, sono stati totalmente assorbiti dal processo centralistico di Parigi e della monarchia di Francia. Egli ci ha citato qui il generale Foch.

Io potrei aggiungere – perché anch’egli è nato a Pau – Enrico IV. Ma quella è la zona della grande Guascogna, nella quale è chiuso il piccolo nucleo di origine totalmente sconosciuta, quale è quello del popolo basco. È una piccola parte, attorno a Bajona e Biarritz che non ha mai dato espressioni di vita particolare. Se mai, si può dire che da quel piccolo centro sono sempre sorti dei nazionalisti francesi, degli sciovinisti arrabbiati: il deputato Ybarnegarai, per esempio, li rappresentava tutti. Ma al di là dei Pirenei, i Paesi baschi rappresentano tutt’altra cosa, vissuti come sono in una formazione storica totalmente differente, in una monarchia feudale che non ha niente a che fare con quella che vi è stata in Francia. Là i Paesi baschi hanno sentito il problema autonomistico come un problema di libertà e lo hanno posto in termini di libertà e di democrazia. E nelle ore più gravi che ha attraversato la nazione spagnola, i baschi – paese tutto di cattolici – si sono battuti a fianco dei repubblicani spagnoli contro Franco, Hitler e Mussolini, scrivendo una pagina infelice, ma gloriosa, che rimane ai loro atti.

Lo stesso si può dire per la zona catalana, piccola zona al di qua dei Pirenei attorno a Perpignano, che vive avulsa dalla grande regione catalana al di là dei Pirenei, attorno a Barcellona.

E la Corsica? La Corsica non ha avuto solo Napoleone, che la riallaccia definitivamente alla Francia dopo la sconfitta di Pasquale Paoli a Pontenuovo, ma gran parte della burocrazia civile e militare francese è còrsa. Non c’è famiglia in Corsica che non abbia un suo membro impiegato dello Stato francese. Fra il serio ed il faceto, i còrsi dicono: ma è la Corsica che ha conquistato la Francia! Fino a pochi anni fa i più grandi avvocati del foro di Parigi erano córsi, e córso era il prefetto di polizia della capitale, e córso o di origine recentissima còrsa è il più grande dei poeti moderni francesi, Paul Valéry, che l’onorevole Nitti ha citato. Il porto di Marsiglia è in gran parte o totalmente in mano dei córsi e la navigazione interna francese è quasi tutta in mano ai córsi; córsi i posti di comando nell’Africa del Nord, e, nel vasto mondo coloniale francese, i córsi girano e fanno affari come se fossero in casa loro. O meglio, girano e fanno quegli affari che non possono fare nella loro casa, nella loro piccola e povera casa.

Autonomia? Mai chiesta o sognata! C’è stato, sì, dopo l’altra guerra, un piccolo movimento attorno al settimanale «A Muvra», un movimento non organizzato politicamente, il quale era in realtà più letterario-folkloristico che politico, e che non è finito bene, anzi è finito male, perché alcuni aderenti si son fatti convincere, pare, da influenze molto dirette del fascismo di Roma.

Autonomia? Ma metà dei córsi vive fuori dell’isola e questa non paga neppure le imposte necessarie agli stipendi di un terzo degli impiegati córsi dello Stato! È chiaro che un movimento autonomista non c’è e non ci poteva essere.

Un movimento autonomista era sorto in Bretagna dopo l’altra guerra, ma il suo proselitismo era scarso poiché si allacciava alla bella ed infelice duchessa Anna, sposa – mi pare – di Carlo VIII. Era un gruppetto di intellettuali a nostalgie feudali, che viveva attorno ad un piccolo giornale di lingua celtica che nessuno mai comperava e che si spediva nel Paese di Galles e in qualche altro centro dell’Irlanda in occasione di partite internazionali di calcio e che limitava la sua azione politica a sporcare e a sfregiare regolarmente a Nantes la statua di Clemenceau, il quale era bretone, come l’onorevole Nitti è basilisco.

Fare dei raffronti fra la Francia e l’Italia è veramente fuori posto! La Francia è stata nei secoli il Paese più unitario d’Europa, più ancora della Spagna, molto più di quella, con un’organizzazione statale fortissimamente centralizzata.

Da quando Luigi XI piegò la nobiltà feudale fino a Luigi XIV, fino ai giacobini, fino al primo impero, fino al secondo impero, sino alla terza repubblica, fino alla quarta repubblica, la Francia rimane uno Stato burocraticamente centralizzato. È per questo che la Francia è il solo paese democratico, civile e moderno d’Europa in cui l’impiegato dello stato appartiene all’Olimpo; e in cui si dicono grosse parole al cittadino cui venga la mala idea di entrare in un ufficio quando l’impiegato stia facendo bollire acqua per il thè; e l’impiegata ha un accesso di nervi, quando sia dal malcapitato pubblico disturbata mentre di fronte allo specchio si adoperi ad ingentilire la sua bellezza.

Fustel de Coulange, uno storico molto caro all’onorevole Nitti, francese, e non particolarmente colpito da questo morbo autonomistico, dice: «Quando una nazione possiede le libertà locali, è il funzionario che obbedisce; ma quando una nazione obbedisce, solamente il funzionario è libero».

Parigi ha smantellato tutti i castelli e tutte le rocche.

Questa, che è una delle cause della sua grandezza, può essere anche stata una causa delle sue sciagure. E l’onorevole Nitti, da quello studioso che è, in una sua pubblicazione ha dimostrato come la Francia in quest’ultimi secoli ha fatto regolarmente la guerra ogni due anni. È per questo che la Francia è uno dei paesi più civili e moderni del mondo in cui un avventuriero dai saldi rognoni, e Napoleone III pare li avesse tutt’altro che forti, può sognare di diventarne il padrone. È per questo che oggi in Francia, malgrado il meritato prestigio di cui gode un patriota come il De Gaulle, i partiti della democrazia si rifiutano di aderire alla sua volontà di repubblica presidenziale, non tanto per ragioni contingenti, quanto, credo, per ragioni generali e di principio.

Neppure in Francia, onorevole Nitti, sarebbe pazzia che si parlasse di autonomie.

E perché dovrebbe apparire pazzia in Italia questo voler impostare il problema della trasformazione autonomistica dello Stato? E non solo per la Sicilia, per la Sardegna e per le altre due regioni mistilingui di frontiera, per le quali bisognerebbe esser ciechi per non vederlo, ma anche per tutta l’Italia continentale.

E che cosa saremmo mai noi, duecento o duecentocinquanta deputati quanti siamo, che sosteniamo il principio autonomistica in quest’aula? Che cosa saremmo noi? Siamo i rappresentanti del popolo italiano, oppure i rappresentanti di una massoneria clandestina? O i rappresentanti di un club di illuminati?

È tanto poco pazzia, che il partito dal cervello più freddo in Europa, intendo il partito comunista, nel suo terzo congresso nazionale italiano tenuto nel 1926 a Lione, impostò il problema dell’antifascismo e della libertà in Italia su un terreno federalistico. E allora erano in vita, e liberi, Gramsci e Togliatti, e tutti i giovani che formano quello che è oggi lo stato maggiore eroico del partito comunista. Per trasformare lo Stato fascista monarchico in regime di libertà e di democrazia, essi, i comunisti, facevano appello a motivi federalistici! Io debbo pensare che allora il federalismo fosse sentito e come motivo agitatorio e come un’esigenza politica.

L’onorevole Nitti non può poi dimenticare, poiché frequentava la casa sua, che un intellettuale turco-egiziano, educato in Italia e che conosce il nostro Paese come noi, nel 1933 visitò tutta l’Italia, dal Nord alla Sicilia, e ritornò a Parigi stranamente colpito perché una caratteristica aveva trovato in tutta Italia: una aspirazione diffusa, antifascista, di autonomismo e federalismo.

È che l’autonomia, di fronte al fascismo – e oggi viviamo la continuazione del fascismo nello Stato – è innanzi tutto una esigenza di libertà. L’onorevole Nitti è certamente un democratico; ma noi tutti in quest’aula l’abbiamo sempre considerato un conservatore, cioè un democratico all’antica, tanto all’antica che quando egli si delizia negli studi sul passato, suo preferito è Tucidide, capo del partito conservatore di Atene repubblicana di quell’epoca. (Si ride). Come lui ex Presidente del Consiglio, e come lui in esilio, con in più il conforto di grosse rendite di certe miniere d’oro possedute in Tracia o giù di li.

Noi lo possiamo considerare un conservatore moderno, cioè di quella vecchia Italia che, con tutto il rispetto dovuto ai massimi suoi rappresentanti, molti di noi non vorrebbero più veder risorgere. La sua esperienza è certo grande, ma non meno grande la sua coscienza di conservatore militante. Ora, in tutti paesi e in tutti i tempi, la posizione conservatrice è caratterizzata da una formazione psicologica speciale che si può chiamare «paura del nuovo», «terrore del salto nel buio» e che può essere riassunta in quel proverbio popolare che per un lapsus freudiano, ha pronunciato il collega Dugoni: «chi lascia la strada vecchia per la nuova, sa quel che lascia ma non sa quel che trova». Essere conservatori ha sempre significato essere favorevoli psicologicamente, in tutto e non solo in economia, allo status quo ante. In questo senso, per un conservatore italiano, niente di più pazzesco che la riforma autonomistica che noi proponiamo e difendiamo. Non è a caso che l’onorevole Nitti, per metterci a posto tutti con le cifre e con la freddezza, senza emozioni, ci ha citato Paul Valéry, che è certamente un grande poeta, ma che è anche un grande conservatore.

Io non nego che questo nuovo sistema autonomistico possa apparire complicato, di fronte allo status quo ante, che è così semplice a conservarsi.

Io sono lieto di citare all’onorevole Nitti lo stesso Paul Valéry, che è poeta conservatore, ma anche filosofo. Dice: «Il complicato è difficile ad applicarsi, ma il semplice è sempre falso».

Lo Stato centralizzato, così come era durante la marcia su Roma, così come lo ha perfezionato il fascismo e come noi lo abbiamo ereditato, è questo falso, contro cui noi insorgiamo.

Noi neghiamo questo falso; noi vogliamo rimuovere questo falso (Applausi al centro).

Se io avessi l’alta autorità che ha l’onorevole Nitti – riconosco che sarebbe ambizione presumerlo – o l’autorità che, per parlare in suo nome, ha l’onorevole Reale, – e l’ambizione sarebbe minore – (Si ride) consiglierei tutti gli avversari dell’autonomia di tenersi lontani dalle forti frasi antiautonomistiche.

Nel 1833 Mazzini preparava la spedizione in Savoia. Ebbene, nello stesso anno, Cesare Balbo, il patriota, il conservatore misurato e saggio, non meno dell’onorevole Nitti, definiva così l’unità nazionale: «Puerilità, sogno tutt’al più di scolaretti, di poeti dozzinali, di politici da bottega». (Commenti).

Il collega Nenni, nel suo discorso, pronunziato immediatamente dopo quello dell’onorevole Nitti, pur partendo da concetti totalmente opposti, ha dato all’onorevole Nitti – e non era necessario – una mano.

Recentemente – la crisi gliene ha offerto l’occasione – egli dava un’altra volta – ed era necessario – all’onorevole Nitti un’altra mano, la mano destra.

Nenni ci ha detto, in quel discorso che mi ha vivamente colpito, che l’unità nazionale e lo Stato italiano si sono fatti così, e che questa è la realtà, la realtà che conta; che il federalismo dei federalisti radicali era certamente più progressista dell’unitarismo mazziniano, ma che non pertanto Mazzini aveva ragione.

Storicamente ha sempre ragione chi trionfa e non chi perde. La storia della civiltà è la storia dei vincitori, e non dei soccombenti. Mazzini ha avuto ragione?

Storicamente non ha avuto ragione neppure Mazzini. Ha avuto ragione Cavour. Non pertanto noi, caro Nenni, siamo fra quelli che vorrebbero che avesse trionfato Mazzini; anzi Cattaneo.

La rivoluzione in Lombardia ha fallito, ma noi vorremmo che non avesse trionfato Carlo Alberto. A Roma nel 1849 hanno trionfato le baionette francesi con la diplomazia austriaca, ma noi vorremmo che avesse trionfato la Repubblica romana. A Sapri hanno trionfato i Borboni, gli stessi Borboni di cui quelli che hanno provocato la strage a Piana dei Greci sono i nipoti, ma noi non pertanto vorremmo che avesse trionfato Pisacane. E così via via fino all’altro dopo-guerra, fino al fascismo e fino a post-fascismo, all’epoca attuale.

Presidenza del Vicepresidente TARGETTI

La storia ci obbliga ad accettare l’eredità di quelli che vinsero, spesso anche ad accettarla facendo buon viso a cattiva sorte, ma i nostri ideali non sono con loro. Così, avviene dei genitori che, vanamente attendendo un figlio maschio, si vedono popolata la casa di figlie femmine; accettano le figlie femmine. Non c’è niente da fare contro la realtà. Le femmine sono femmine e non maschi. La storia è a loro favore. (Si ride). L’amministrazione della famiglia pare sia, come la politica, l’arte di nutrire il concreto e non l’astratto. E si accolgono anche queste figlie femmine con speranze, auguri, sorrisi, e anche con gioia; ma non pertanto l’ideale, caro Nenni, era un figlio maschio. Nella nostra grande famiglia nazionale, l’ideale era una Repubblica federale e non una monarchia unitaria. Era insomma la Repubblica federale il nostro figlio maschio.

La tendenza della democrazia moderna è di razionalizzare lo Stato. Chi non si accorge che questa è anche l’evoluzione che sta compiendo la Repubblica Sovietica, non si accorge che il mondo gira.

Ma v’è un’altra duplice tendenza nella democrazia moderna. Negli Stati unitari la tendenza è al federalismo, per correggere gli eccessi del centralismo; e negli Stati federali la tendenza è al centralismo, per correggere gli eccessi del federalismo.

E questo anche in Francia, dove non esiste movimento popolare regionale, ma esiste un notevole movimento di intellettuali, disgraziatamente solo a Parigi, che pongono il problema federalistico francese inquadrandolo nel grande problema federalistico europeo e universale, poiché sono tutti uomini di sinistra.

Dico federalismo e non, come dovrei, autonomismo, per indulgere a quegli unitari che considerano questo nostro autonomismo come una sottospecie del federalismo più è meno mascherato. Io dico francamente; vada pure per la sottospecie del federalismo; ma senza maschera. Queste nostre autonomie possono rientrare nella grande famiglia del federalismo, così come il gatto rientra nella stessa famiglia del leone. (Si ride). Per nobilitare il concetto, si potrebbe rievocare l’immagine dantesca del girone di Vanni Fucci, a proposito della carta che sta per essere toccata dalla fiamma, mentre brucia:

Un color bruno

che non è nero ancora e il bianco more.

Non è bruno, non è federalismo. Ma lo Stato centralizzato sta per morire: con espressione volgare, perché la merita, lo Stato centralizzato burocratico comincia a tirare le cuoia.

Io non nascondo affatto che si possano avere dei dubbi su questa riforma; lo riconosco e trovo che i dubbi sono giustificati. Io stesso ho avuto un momento di dubbio, quando ho visto – mi si perdoni da quel settore – che la Democrazia cristiana era il principale partito sostenitore di questa riforma. E siccome la Democrazia cristiana, nella sua struttura organica e nelle sue rivendicazioni, ha certamente elementi senza dubbio moderni e progressisti, ma anche altri audacemente conservatori, mi sono chiesto: questo progetto appartiene ai primi, ai progressisti, ai moderni, oppure ai secondi? Cioè quelli i quali, più che lasciarci perplessi, francamente ci trovano ostili, quelli per i quali l’onorevole Togliatti, saltando il fosso a piè pari, ad occhi chiusi ed a denti stretti, si è conquistato l’ambito merito, sfuggito all’onorevole Orlando prima ed all’onorevole Nitti dopo, o all’onorevole Nitti prima ed all’onorevole Orlando dopo, di legare il suo nome alla storia della Chiesa! (Applausi Si ride).

Ma i miei dubbi sono stati presto dissipati. No, no, è una riforma democratica, e Don Sturzo la fece vivacemente sua dopo l’altra guerra, attenuandola spesse volte per l’opposizione dell’onorevole Meda, che era allora il capo dell’ala conservatrice del partito, così come lo è oggi, nobilmente e dichiaratamente, l’onorevole Jacini. Egli, Don Sturzo, decisamente pose il problema e lo impose agli altri, non tanto perché fosse influenzato, io penso, dalla scuola pluralistica francese e dal movimento di «Esprit», ma perché aveva l’esperienza pratica di amministratore del comune di Caltagirone. Allo stesso modo parlava, non compreso dai suoi compagni socialisti, il nostro tanto compianto collega onorevole Caldara, sindaco di Milano. Ne può essere testimonianza la presenza dei vecchi deputati socialisti che sono in questa Aula, che avevano in quell’epoca dimestichezza con gli amministratori di Milano. Allo stesso modo parlava Caldara, perché si poneva il problema quale amministratore, non capito neppure da Turati e da Treves.

Una voce. Ma cosa dice?

LUSSU. Che cosa dico? Dico le cose a me dette dal collega Caldara, quando era mio collega in quest’Aula. (Rumori).

Una voce a sinistra. Caldara le ha anche scritte.

LUSSU. È una riforma democratica, e io credo di avere diritto di ricordare il Partito sardo d’azione dopo l’altra guerra e gli altri partiti regionali affini del Mezzogiorno, che nessuno pensò mai a definire non democratici, e che erano all’avanguardia della democrazia del Mezzogiorno e, pertanto, della democrazia nazionale.

È una riforma democratica. È una riforma che interessa vitalmente operai e contadini e tutti i partiti democratici, espressione di vasti interessi popolari.

Il socialismo è passato, dalla forma di agitazione e di spontaneità che ebbe inizialmente, a quella di realizzazioni pratiche e di Governo. Esso, per la prima volta nell’Europa a civiltà occidentale, è chiamato ad affrontare i problemi per la cui soluzione si considerava depositaria eterna la vecchia classe dirigente. Esso è posto di fronte ai problemi dell’amministrazione dello Stato ed insieme delle amministrazioni periferiche.

Togliatti si è dimostrato, nel suo intervento, preoccupato perché ha affermato che, se si approvasse questa riforma, non si potrebbe radicalmente applicare una riforma agraria. Io mi permetto di consigliare tutti i comunisti che fossero dello stesso avviso di esaminare attentamente l’articolo 110 del progetto di Costituzione e l’articolo 14 dello Statuto della Sicilia e l’articolo 4 del progetto dello Statuto della Sardegna, già depositato presso il Governo. In nessuno di questi articoli può sorgere dubbio che l’ordinamento autonomista impedisca una applicazione radicale della riforma agraria e di tutte le altre riforme, nel campo sociale, che debbono emanare esclusivamente dal potere centrale. Io ricordo che, alla seconda Sottocommissione, misi la mia firma, e con me altri colleghi la misero, all’ordine del giorno dell’onorevole collega Di Giovanni, socialista, che era preoccupato dalla possibilità di un eventuale sabotaggio regionale di questa grande riforma, che è la riforma agraria che tutti noi autonomisti invochiamo. Dopo una discussione alla quale parecchi parteciparono, ci accorgemmo che esso non aveva ragione di essere presentato, perché è impossibile trovare in quegli articoli qualcosa che autorizzi ad opporsi alla grande riforma agraria. Non c’è nessun pericolo; e se ce fosse uno, io lo denunzierei.

Caro Gullo, ieri ricordavi a questa Assemblea che, parlando da Ministro dell’agricoltura in Calabria, tu fosti obbligato a tornare alla finestra per parlare della riforma agraria perché la massa dei contadini calabresi voleva saperne qualcosa. Questo era normale, e sarebbe stato strano che ti avessero chiesto di parlare, che so io, dell’eventuale riforma del Codice civile o del Codice penale. Ma a me, che non ero Ministro e nemmeno deputato, in Calabria, caro Gullo, quando parlai a Cosenza, i calabresi chiesero: parlaci un po’ dell’autonomia. (Applausi al centro Commenti a sinistra).

Voi sapete che a Cosenza si tenne anche un Congresso; eppoi non dico cose che non possano essere controllate.

Autonomia è inoltre maggiore democrazia, perché mette a contatto più immediato e più diretto il popolo, in ogni suo nucleo, cittadino o rurale, nel controllo e nell’iniziativa, con i propri rappresentanti. È la domanda che ha subito la risposta sul luogo, nel luogo, entro i limiti della legge.

Noi siamo abituati a misurare la Russia sovietica col metodo della nostra civiltà e cadiamo nello stesso infantilismo di quelle tribù negre di culto cattolico che si scolpiscono e si dipingono e si adorano un Cristo negro con i capelli crespi, le labbra tumide e il naso camuso, quando parliamo con ironia o con disprezzo della democrazia nella Russia sovietica. Certamente non è il tipo della democrazia della nostra civiltà occidentale presente o ideale. Grande è la differenza. A prescindere da quella che è la differenza sociale, grande è altresì la differenza dello sviluppo storico della Russia in confronto di quello dell’Italia, come pure tra la sua geografia e la nostra geografia, fra la sua cultura tradizionale e la nostra, tra la sua lingua o le sue lingue e la nostra. Grande è la differenza fra questi due Paesi; ma io affermo, per quel contatto che in tanti anni ho avuto con chi scrive sulla Russia, o ha visitato la Russia, che c’è più base popolare di democrazia sostanziale in Russia, con le sue varie repubbliche federate, repubbliche autonome, regioni autonome e altre circoscrizioni, senza parlare dei Kolcos e di tutto il resto, di quanto non ce ne sia in certi paesi occidentali a organizzazione unitaria. Perché il cittadino sovietico è messo per la prima volta a contatto, dopo secoli, con i suoi istituti popolari e con i suoi rappresentanti. (Interruzioni a sinistra).

Il federalismo e l’autonomismo, in sostanza, costituiscono la democrazia diretta della civiltà moderna.

L’esempio che ci offre la civiltà della Repubblica federale cecoslovacca è significativo per tutti. Là la grande maggioranza è comunista; in Slovacchia i comunisti sono in minoranza, perché è in maggioranza la democrazia cristiana, ma la grande maggioranza della Boemia e dello Stato federale è comunista; il Partito socialista è una grande minoranza; il Presidente del Consiglio è comunista. Lo Stato è organizzato federalisticamente e su basi di grandi autonomie: eppure c’è stata la riforma industriale, per cui tutte le grandi industrie sono state nazionalizzate, e dal 1946 in poi sono state autorizzate le imprese e le industrie private. V’è quindi un’economia su due settori. I comitati di liberazione nazionale, affermatisi durante il periodo dell’insurrezione liberatrice, si sono innestati nello Stato e funzionano come organi di decentramento locali.

Ebbene, in quel paese a maggioranza comunista, malgrado ci siano minoranze forti, credete che non ci sia libertà? C’è una libertà perfetta, quanta ce n’è in Inghilterra. Tanto può, sostenuta dal consenso e dalla coscienza dei cittadini e di tutti i partiti politici, una organizzazione autonomistica dello Stato.

Noi, di marce su Roma, sia pure con varianti ed adattamenti, non desideriamo più conoscerne! Anche questo modesto ordinamento autonomistico è una grande garanzia di libertà per l’Italia.

La soppressione delle prefetture, la trasmissione ai Comuni e alle Regioni delle potestà prima conferite ai prefetti e delle altre potestà accordate dallo Stato centrale su altre materie, modificano totalmente il potere centrale nella sua funzione più nefasta d’infiltrazione, d’imposizione e di corruzione politica, e tutta la vita periferica diventa un vasto controllo democratico.

Con uno Stato così organizzato, credo che marce su Roma non sarebbero state possibili nel 1922, perché chi ricorda quell’epoca sa che il potere centrale, non solo attraverso i prefetti, ma attraverso la sua vasta e varia influenza ministeriale, ha marciato su tutto e fascistizzato l’universale periferico del paese. Se l’accordo fra Mussolini e il re, che determinò il colpo di Stato che prese il vistoso nome di «marcia su Roma», avesse trovato il nostro Paese organizzato in altra forma, la marcia non avrebbe potuto avere un gran risultato.

Io concedo che queste nostre autonomie costituiscono una radicale trasformazione; non dico affatto che siano uno scherzo. Controllate un po’ il progetto, vedete che cosa sono i Comuni e le Regioni e ditemi un po’ se il potere centrale si sarebbe potuto permettere quello che è accaduto all’epoca della marcia su Roma.

Se, per esempio, l’onorevole Giannini, in regime autonomistico – e chiedo scusa per quello che sto per dire, che è un’immagine letteraria e non un’ipotesi politica – contro la sua volontà, ma spinto da gran parte del suo partito – nel quale, malgrado la sua lealtà liberale e democratica, ancora vi sono moltissimi ex fascisti che non sono ancora giunti all’ultimo stadio della guarigione democratica richiesta – se l’onorevole Giannini, per la pressione di questa maggioranza, facesse, per esempio, durante una presidenza della Repubblica (e anche questa è un’immagine letteraria e non un’ipotesi politica) dell’onorevole generale Bencivenga (Si ride), facesse, più a fini teatrali-cinematografici, che per libidine di potere (Si ride) – e l’onorevole Giannini apprezzerà questa immagine che è molto vicina alla sua fantasia letteraria – una marcia su Roma (cosa piuttosto difficile) che cosa avverrebbe? Non avverrebbe un bel niente, come non è avvenuto un bel niente quando, recentemente, le bande agguerrite di Daniele Cortis hanno invaso il Parlamento. (Si ride).

Gli Stati dell’America latina, ce lo ha ricordato ieri l’onorevole collega Dugoni, sono repubbliche federali e pertanto i colpi di Stato vi sono stagionali. Ma questo è possibile perché i presidenti di quelle repubbliche sono regolarmente dei generali o dei colonnelli ed hanno quindi dietro di loro l’esercito, per cui si spende gran parte dei bilanci locali: l’esercito, cioè un’organizzazione fortemente centralizzata, estremamente minacciosa quando si metta in movimento, che rende praticamente nulla l’organizzazione federale degli Stati. Sicché, in realtà, fino a quando duri questa complessa situazione di cose che ha la sua spiegazione storica, perché sono stati gli ufficiali che hanno guidato i popoli della America latina alla rivoluzione per la libertà contro il dispotismo e lo sfruttamento della Spagna monarchica, quei paesi non sono Stati federali, ma Stati pseudo-federali.

Ma quello che avviene nelle repubbliche dell’America latina non avviene invece nell’America del Nord. Colpi di Stato o marce su Washington quel gran paese non ne conosce. C’è stata, sì, negli Stati Uniti, la guerra di secessione, e il ricordo si perde ormai nel passato lontano; ma non fu un colpo di Stato. Fu una vera e propria rivoluzione. Quando si tratti di rivoluzioni, entrano in gioco altri elementi vasti e profondi, che scaturiscono da situazioni storiche. Contro le rivoluzioni non ci sono Statuti che tengano: né federali né unitari.

Nella Svizzera, colpi di Stato non solo sono difficili ad aversi ma persino a concepirsi. E la repubblica federale austriaca (caro Dugoni), sorta dallo sfacelo dell’impero, ebbe, sì, vita breve, ma senza la Costituzione federalistica – e il pensiero è di Otto Bauer – la libertà sarebbe caduta otto anni prima. La triste avventura fu resa possibile perché Dollfuss, minacciato dal nazismo, che aveva trionfato un anno prima in Germania, si vende anima e corpo a Mussolini. Il sostenitore dell’organizzazione federale dello Stato e della libertà – caro Nenni e cari compagni socialisti tutti – è stato il partito socialista che, sinché è rimasta in piedi l’organizzazione federale di Vienna città, non ha capitolato; e il proletariato austriaco, attraverso la sua organizzazione armata dello «Schutzbund» – anch’esso organizzato federalisticamente – nei giorni 12, 13, 14 e 15 febbraio, ha scritto, a difesa della Repubblica federale, della libertà e del socialismo, una pagina che rimarrà eterna nella storia della democrazia d’Europa.

La Germania. La Germania, si sa, era uno Stato federale. Ma la Germania era infetta di prussianesimo – che è il padre del nazismo – ed era rimasta intatta nella sua struttura economica e sociale imperiale. La Germania di Weimar aveva per Presidente della Repubblica un maresciallo dell’impero. E il partito socialista, di capitolazione in capitolazione, per quanto avesse tutto il governo della Prussia, non era più né offensivo né difensivo, era caduto nel nullismo, remissivo e passivo. Perciò Hitler poté facilmente trionfare. Vi fu anche l’influenza, nefasta, delle grandi potenze: non vale la pena rievocare quei tragici errori che sono presenti alla mente di ciascuno di noi.

Ma gli Stati unitari, gli Stati centralizzati, di colpi di Stato ne hanno conosciuti a bizzeffe; e si può dire che la loro storia recente è la storia di colpi di Stato. Fino a questa guerra i Balcani erano una matrice permanente di colpi di Stato, seguiti o preceduti dal Portogallo e dalla Spagna, dove un generale, fumando il sigaro dopo pranzo, pensava ad un bel colpo di Stato, così come – ci racconta il Bandello in una sua novella – nell’Italia del 1500, un ciabattino, pestando il cuoio, si lambiccava il cervello per pensare come avrebbe potuto conquistarsi un principato. O, per dirla con espressione moderna italiana, come un furfante fallito, pensa farsi, in pochi mesi, una fortuna di cento milioni, al mercato nero.

L’onorevole Gullo ci ha chiesto ieri quali Stati unitarî siano mai passati dal centralismo al federalismo. È questa una obiezione veramente impressionante! Quali Stati unitarî? Se fossi un cultore del diritto romano, potrei citare molto pudicamente l’impero romano: la Costituzione di Diocleziano non potrebbe per caso essere considerata come una grande trasformazione di Stato unitario in Stato federale?

Ma quella è roba vecchia! Di recente, quale Stato da unitario è divenuto federale? Ma innanzi tutto l’Austria, l’Austria che con quello stesso territorio organizzato in nove regioni con la Costituzione del 1918, faceva prima parte dell’Impero austro-ungarico, unitariamente. Sono stati gli stessi deputati austriaci di lingua tedesca al Parlamento di Vienna che hanno proclamato la Repubblica.

E poi, (caro Gullo, proprio tu ci devi fare questa domanda?) e poi quale altro Stato? Uno dei più grandi Stati del mondo moderno, la Russia Sovietica, che è uscita dallo Stato unitario centralizzato assolutistico. (Commenti a sinistra). Voi dite di no? Comprendo che siate imbarazzati, ma come fate a negare la realtà? Voi mi ricordate le nazionalità? Ma è proprio questo principio, intorno a cui ha cominciato a scivolare, per poi cadere, Trotsky, contro Stalin che faceva la politica delle nazionalità. È da quella politica che è scaturita l’organizzazione federale della Repubblica. Ma le nazionalità, e le stesse, esistevano anche prima, nell’Impero zarista: eppure questo è rimasto unitario, centralizzato e assolutistico. (Commenti e interruzioni). Non c’è nulla da obbiettare: dovete riconoscere che siete nel torto.

Voci a sinistra. Era russa anche la Polonia.

LUSSU. La Polonia non cambia le cose. Ma io finisco. Volevo rispondere al collega Togliatti sulla storia del nostro Paese, che è storia di città e non di regioni. Il che è certamente vero; ma è vero per tutti i paesi del mondo civile, federali o unitarî. Tutti sappiamo che città deriva da civitas, che civis deriva da civitas e che l’insieme dei cives era la civitas: civiltà è sinonimo di civitas. La storia è la storia della città. I contadini non hanno mai avuto storia: la loro storia è la storia dei loro padroni. Ma, uno dei fatti nuovi della democrazia moderna è l’esigenza di unità, fra città e campagna. La riforma autonomistica facilita e rende possibile l’attuazione di questa esigenza. Ma mi avvio alla fine.

Il collega onorevole Gullo, qui presente, ci ha parlato del Mezzogiorno in termini che sono estremamente seri. Prima di lui, l’onorevole Nitti – sempre catastrofico – ci ha detto che, con questa riforma autonomistica, il Mezzogiorno sarebbe caduto nell’abisso. A lui ha risposto l’onorevole Einaudi, che è un maestro nella scienza delle finanze esattamente come l’onorevole Nitti e di cifre ne conosce come l’onorevole Nitti. Devo quindi una risposta solo al collega Gullo. Devo dire che il problema del Mezzogiorno non è un problema tecnico: è un problema politico e pertanto la interpretazione e la soluzione prospettate non possono essere obiettive. Sono soggettive. Così si spiega come due uomini a esperienza molto affine, come l’onorevole Gullo e me, la pensino in modo differente. Noi due siamo in perfetta buona fede, ma né lui né io abbiamo l’autorità di dettare il nostro rispettivo giudizio. A entrambi il dovere di comunicare la nostra esperienza, agli altri il giudizio. Ecco che cosa io ne penso:

Primo: il potere centrale ha sostenuto la classe dirigente meridionale, già forte per la sua posizione economica ereditaria di comando locale. La stessa politica è stata fatta e dalla destra storica e dalla sinistra storica. La sinistra ha accentuato questa politica, e tanto più l’accentuava quanto più diventava liberale. Per poter governare, man mano che perdeva i suoi sostenitori fra i deputati del Nord, i cui posti venivano conquistati dai rappresentanti della classe operaia al Parlamento, si cercava la maggioranza nel Sud, traendola dagli esponenti dei grandi interessi padronali. Così, le conquiste liberali sono state pagate dai contadini del Sud. Il potere centrale in Italia ha sempre costituito la mezzana fra i loschi affari industriali e quelli agrari. Dei primi hanno talvolta beneficiato masse operaie del Nord, col protezionismo, senza averne coscienza; ma degli affari agrari non hanno mai tratto profitto i contadini del Sud.

Secondo: la terra è troppo povera nel Mezzogiorno e non consente che vi vivano insieme tanto i padroni, inoperosi, quanto i contadini che la lavorano. Presto la riforma agraria dovrà trasformare il Mezzogiorno, a vantaggio delle classi del lavoro. Parecchie generazioni dovranno affrontare sacrifici eroici per potere, con lo sfruttamento dell’acqua, riparare i danni che il troppo sole produce. Ma quelli che oggi vivono padronalmente, estranei al lavoro della terra, oziosi e vagabondi, saranno chiamati a cambiar vita, perché la loro vita d’oggi posa sulla morte di milioni di contadini poveri.

Giustino Fortunato, nella sua grande passione per il Mezzogiorno, ha visto il problema fisico-geologico, ma non ha visto il problema sociale della terra. Egli non poteva vederlo, perché apparteneva alla famiglia dei grandi padroni di quelle terre meridionali.

Terzo: dalla riforma agraria una nuova classe dirigente deve sorgere: contadini, artigiani, coltivatori esperimentati, tecnici agrari, allevatori, uomini d’iniziativa in ogni settore, intellettuali, tutto un nuovo mondo unito nel lavoro e nella solidarietà collettiva. È là l’Italia del Mezzogiorno di domani. Ma occorrerà molto studio, molta disciplina e molta fatica. Perché se ha fallito la vecchia classe dirigente non è detto che non possa fallire anche la nuova. Bisognerà che ci abituiamo alla dura disciplina di vita degli uomini del Nord: alzarci alle sei del mattino, essere esatti alle ore stabilite e, se si dice le sette, che si intenda le sette e non le nove; studiare, studiare, aumentare la propria cultura e quella di quanti oggi, pur sapendo leggere e scrivere, sono in realtà degli analfabeti; superare insomma il senso di responsabilità e la dignità di vita della vecchia classe dirigente fallita. Che nelle nostre case gli scaffali siano pieni di libri e non di kummel, di cognac e di altri liquori esotici, e in ogni caso di acqua per la vita e per l’igiene. Migliorare le condizioni della natura e degli uomini.

La nuova élite deve uscire da questa grande rivoluzione pacifica meridionale. Quando le classi lavoratrici del Sud saranno all’altezza di quelle del Nord? Il Mezzogiorno si vendicherà di questa sua passata vita miserabile, e sarà una vendetta santa, la grande vendetta civile, quando lo Stato centrale sarà obbligato a cercare altrove le guardie di finanza, i carabinieri, le guardie carcerarie e i suoi impiegati.

Quarto: la trasformazione del Mezzogiorno può avvenire o per via rivoluzionaria oppure nella legalità repubblicana. La prima porta con sé un Governo, fortemente centralizzato e duramente autoritario: la seconda, la democrazia. Io credo che il periodo rivoluzionario sia passato, storicamente passato. Vi potrebbe essere una rivoluzione, in ipotesi, ma allora avremmo la guerra e nella guerra affogheremmo tutti: padroni e servi. Io credo solo nella seconda ipotesi: la legalità repubblicana democratica, per cui una maggioranza sovrana in questo Parlamento dia nuove leggi e riforme che assicurino al Mezzogiorno un nuovo tenore di vita. Nella prima, Roma sarebbe tutto, nella seconda le autonomie sono i centri indispensabili di vita locale.

Bisogna quindi essere indulgenti di fronte a questo complesso numero di deputati autonomisti che sostengono il progetto. La ragione e la democrazia pare che siano con loro.

Durante l’occupazione tedesca nell’Alta Italia e la guerra di liberazione, sono stati i Comitati regionali, i C.L.N. d’ogni regione che, coordinati nel C.L.N. Alta Italia, hanno potuto e saputo risolvere, in mezzo a difficoltà che oggi pare prodigioso siano state superate, tutti i problemi locali amministrativi, logistici e strategici. Sono i C.L.N. regionali che hanno condotto la gloriosa azione dei nostri partigiani. (Interruzioni, commenti). Faccio appello ai massimi capi partigiani che sono in quest’aula, i colleghi onorevole Parri e onorevole Longo, e a tutti gli altri grandi capi partigiani, qui presenti.

Chi non conosce questo, non conosce la pagina più grande, la più degna e la più eroica e democratica dell’Italia moderna. La rivoluzione partigiana, la grande rivoluzione partigiana, quella che ha salvato l’Italia nel suo onore e che ci consente oggi di uscire a testa alta oltre frontiera, è stata regionale ed autonomista (Interruzione dell’onorevole Dugoni). Caro Dugoni, lo sai anche tu, sono i fatti che parlano. Quindi l’onorevole Nitti e gli altri sarebbero prudenti se non parlassero di pazzie.

Io, d’altronde, ho la fiducia e la speranza che all’onorevole Nitti avvenga anche per le autonomie quello che è avvenuto per l’articolo 7: cioè, dopo aver parlato contro, voti a favore. (Si ride).

Mi auguro che questo avvenga, e che l’onorevole Nitti sia tra i massimi uomini politici che vedano in questa riforma una di quelle pazzie che sono il sale della terra. (Vivi applausi Congratulazioni).

PRESIDENTE. Il seguito della discussione è rinviato a domani alle 16.

La seduta termina alle 21.10.

Ordine del giorno per la seduta di domani.

Alle ore 16:

Seguito della discussione del progetto di Costituzione della Repubblica italiana.

MERCOLEDÌ 28 MAGGIO 1947

ASSEMBLEA COSTITUENTE

CXXXII.

SEDUTA DI MERCOLEDÌ 28 MAGGIO 1947

PRESIDENZA DEL PRESIDENTE TERRACINI

indi

DEL VICEPRESIDENTE CONTI

INDICE

Congedi:

Presidente                                                                                                        

Progetto di Costituzione della Repubblica italiana (Seguito della discussione):

Presidente                                                                                                        

Dugoni                                                                                                              

Zotta                                                                                                                

Einaudi                                                                                                             

Gullo Fausto                                                                                                  

Uberti                                                                                                               

La seduta comincia alle 16.

RICCIO, Segretario, legge il processo verbale della seduta precedente.

(È approvato).

Congedi.

PRESIDENTE. Comunico che hanno chiesto congedo gli onorevoli: Perrone Capano, Carratelli, Vinciguerra.

(Sono concessi).

Seguito della discussione del progetto di Costituzione della Repubblica italiana.

PRESIDENTE. L’ordine del giorno reca: Seguito della discussione del progetto di Costituzione della Repubblica italiana.

Si riprende la discussione generale del Titolo V della seconda parte del progetto di Costituzione.

È iscritto a parlare l’onorevole Dugoni. Ne ha facoltà.

DUGONI. Onorevoli colleghe, onorevoli colleghi, credo che non sia sfuggita a nessuno l’estrema importanza del dibattito sia per la materia che ne è oggetto, sia per le conseguenze che ne possono derivare per il nostro Paese, sia per la impostazione che ad esso è stata data da diverse parti secondo diverse mentalità.

Devo premettere che dalla lettura dei verbali della seconda Sottocommissione, così diligentemente ed acutamente presieduta dall’attuale nostro Presidente, e dalla discussione iniziata ieri in quest’aula, io – e non solo io – ho ricevuto l’impressione che il dibattito sia stato fortemente influenzato da ragioni non logiche, da problemi non prettamente derivanti dal ragionamento, e che ci si sia lasciati trasportare in gran parte da una posizione tradizionale per ciascuno dei partiti i cui uomini hanno partecipato a questo dibattito. E questo peso della tradizione era forse inevitabile ed è stato bene che si sia sentito. Però, ad un certo momento e a certi osservatori, esso ha potuto apparire eccessivo e tale da velare la serenità del giudizio di fronte all’importanza del problema.

Se esaminiamo i partiti che hanno preso un atteggiamento deciso sulla questione, vediamo primeggiare fra loro i repubblicani storici che hanno assunto, in difesa della autonomia e della regione, come mezzo adatto per la realizzazione dell’autonomia, una posizione preminente; e nessuno può far torto loro se da buoni repubblicani storici si sono attenuti alla loro… storia, alla loro tradizione, agli uomini che hanno così fortemente influenzato il pensiero e, sovratutto, l’azione del partito repubblicano.

Per i democristiani – vorrei che le mie parole fossero prese per il loro valore strettamente letterale – una secolare tradizione guelfa antistatale, che ha raggiunto la sua perfezione nella teoria pluralistica ed in quella degli organismi naturali, così bene esposta dall’onorevole La Pira, ha certamente irrigidito le posizioni, che io stimo potrebbero essere meno inflessibilmente tenute, se le ragioni non fossero qualche volta velate da questa forza, da questo peso, da questa catena, che è la tradizione non solo del partito democristiano, ma di tutto il cattolicesimo nostrano.

Gli azionisti come l’onorevole Lussu hanno una breve, ma brillante ed eroica tradizione autonomistica. Essi sono direi quasi i veri padri del regionalismo attuale, Don Sturzo e Meda essendone quasi solo i padrini.

I liberali rappresentano l’antitradizione, salvo le liberalistiche eccezioni, coerenti con la loro… tradizione di accentramento, con la tradizione unitaria. E ad essi sì associano e si collegano i monarchici, che siedono di fronte a me, dall’altro lato dell’aula.

Ed i liberali sono sostanzialmente antiautonomisti anche per altre ragioni. Essi credono e pensano che lo Stato debba intervenire il meno possibile nelle cose della società; che, cioè, una volta regolati alcuni punti essenziali della vita sociale, il resto debba correre più liberamente possibile. E quindi sono di avviso che ogni organo che viene creato, alla fine, per giustificare la propria esistenza, troverà qualcosa da fare, qualche impiccio da mettere alla vita sociale, in modo da giustificare il protrarsi della propria esistenza.

Anche nel caso del partito, cui mi onoro di appartenere, vi è, indubbiamente, un peso tradizionale, ma non specifico: è un peso tradizionale di lotta, di gloriosa lotta contro tutto quello che sa di ingiustizia e di privilegio.

E quindi anche noi siamo poco obiettivi, ogni qualvolta si tratta di combattere questo Stato unitario, accentratore, «monocratico» (come lo definisce il professore Amorth) e burocratico, il quale è, sostanzialmente, un conservatore, un consolidatore, un protettore di ingiustizie e di privilegi.

Quindi, anche noi siamo poco obiettivi per la parte negativa. Quando si tratta di criticare quello che è lo Stato attuale, di porne in rilievo i difetti, di sottolineare i disastri cui questo sistema ci ha condotti, noi siamo perfettamente d’accordo. Noi, tuttavia, ritorniamo sul terreno obiettivo, sul terreno d’indifferenza di giudizio, non appena passiamo dal lato puramente negativo del problema al lato positivo.

Noi non abbiamo preferenze, siamo disposti ad accettare tutte le soluzioni, che ci garantiscano una trasformazione razionale dello Stato unitario ed accentratore, che non costituisca un traballamento per tutto l’organismo dello Stato, che ci dia la garanzia di essere veramente ispirato solo alle necessità di migliorare il funzionamento dell’organismo centrale e periferico, e dell’apparato burocratico in generale dello Stato. Perciò, onorevoli colleghi, tolto un piccolo posto particolare che nel nostro cuore noi facciamo al comune (del resto per chi in Italia il campanilismo non comincia dal pezzettino di terra dove è nato, e l’amore si allarga poco a poco alla provincia, alla regione e al resto d’Italia? Chi di noi non è campanilista?), per tutto il resto io credo che noi siamo disposti ad esaminare obiettivamente le soluzioni che ci sono proposte e ci sforziamo di togliere ogni diaframma sentimentale che sia posto fra le cose e gli scopi che queste cose debbono raggiungere nella materia oggetto di discussione.

Così, mi permetterà l’onorevole Piccioni, noi abbiamo sussultato quando abbiamo lette la sua frase pronunciata davanti alla seconda Sottocommissione: «La provincia non costituisce un problema serio, perché la provincia è una costruzione artificiosa».

Ebbene, onorevoli colleghi, a parte il discorso dell’onorevole Preti di ieri, col quale è stato chiaramente dimostrato (nella prima parte) che non vi è sostanzialmente in Italia una tradizione regionalistica, ma vi è piuttosto una tradizione provincialistica; a parte questo, dicevo, noi non possiamo accettare delle negazioni drastiche e aprioristiche, questo rifiuto di riconoscimento, di un ente il quale ha dato buona prova, sia pure fra contrasti e difficoltà (e negli ultimi anni, sotto un regime talmente particolare che nessuno degli organi dello Stato ha potuto funzionare a soddisfacimento del popolo e della Nazione); noi non possiamo accettare il rifiuto puro e semplice di cittadinanza alla provincia, su una sola frase che ne condanni la storia.

D’altra parte non accettiamo neppure (e credo d’interpretare esattamente il pensiero dei miei compagni) quelle negazioni brutali, quelle negazioni non ragionate, totali dell’ente Regione. Noi crediamo che l’ente Regione possa contenere, contenga dei germi fecondi. Noi, però, diciamo che questi germi fecondi devono anche svilupparsi; noi pensiamo che questi germi hanno bisogno di una certa incubazione.

Io, e qui parlo a titolo personale, io sono stato un autonomista convinto. Il professore Einaudi ricorderà le conversazioni che abbiamo avuto nel suo studio col professore Chabod, quando si trattava di istituire la regione «Valle d’Aosta», quando si trattava di creare il primo organismo autonomistico d’Italia ed il professore Einaudi rammenterà con quale calore e con quale energia io ho difeso il principio autonomistico, come quello capace di sanare determinate situazioni, come quello contenente quei germi che potevano dare dei risultati ottimi.

Ebbene, oggi io vengo davanti a voi non per negare la Regione, ma per ridurre la Regione nei suoi limiti, per ridurre la Regione nel quadro in cui essa sta per l’esperienza fatta e in cui essa potrà stare per le speranze che noi abbiamo per le sue realizzazioni. Perché, onorevoli colleghi, quello che colpisce in questa grande questione del problema autonomistico è quello che è stato così prontamente rilevato dal nostro Presidente, onorevole Terracini: il problema delle autonomie improvvisamente si è trasformato nel problema della Regione. Rovesciando una di quelle frasi che abbiamo sentito tanto spesso e volentieri attribuire al nostro Presidente Nenni, si è fatto uno slogan: «l’autonomia sarà regionalistica o non sarà». Si è fatta un’affermazione e si è discusso intorno a questa affermazione come se altre soluzioni non potessero esserci. Si è detto: solo la Regione può garantire un effettivo decentramento amministrativo, solo la Regione può dare garanzia di sviluppo di una classe politica, solo la Regione può, attraverso un effettivo decentramento, come ha detto l’altro giorno l’onorevole Tessitori, essere prontamente vicina e prontamente interprete dei bisogni locali. Ora, noi non neghiamo che la Regione «possa» assicurare tutto questo, ma non possiamo giurare che essa «debba» assicurare tutto questo, perché l’esperienza sin qui fatta non dico che ci abbia messo in diffidenza nei confronti della Regione, ma certo – io adopererò una parola che è stata detta questa mattina dall’onorevole Paresce – siamo in un periodo strano dell’autonomia, siamo sulla parabola discendente del regionalismo perché l’esperienza sin qui fatta ci colpisce prima di tutto per il suo egoismo e poi per la sua mancanza di elasticità. La Regione che doveva esser pronta, che doveva essere elastica, che doveva rispondere prontamente ai bisogni locali, per l’esperienza fatta fin qui, non ci ha dato sodisfazione.

Ed a questo proposito io vorrei dividere il problema regionalistico in due parti: una prima parte del problema riguarda la regione dell’Italia in generale, cioè la Lombardia, il Veneto, il Piemonte, ecc.; l’altra parte riguarda le quattro regioni che fruiscono di una garanzia, che è la dichiarazione del Governo dell’11 luglio 1945, con la quale il Governo si impegnava a dare un regolamento autonomistico tanto a quelle popolazioni di carattere alloglotto che erano state finora compresse dal fascismo, quanto a quelle della Sicilia e della Sardegna. Per queste si è fatta una breve esperienza. Io credo che noi dobbiamo tener conto di questa esperienza anche perché qui ci troviamo in presenza veramente di quelle regioni naturali di cui si parla tanto da parte dei regionalisti.

L’onorevole Ambrosini apre il dibattito alla Sottocommissione sulle regioni e che cosa dice? Dice esattamente queste parole: «La regione è «indubbiamente» un ente naturale».

Io credo che l’Assemblea sia perfettamente d’accordo nel ritenere che la parola «indubbiamente» non costituisce la dimostrazione di un ente che esiste naturalmente, che esiste per sé stesso, perché l’«indubbiamente» è solo una affermazione. Ora noi possiamo parlare, ed ecco che io mi riallaccio all’inizio di questa mia parentesi, possiamo parlare di regione naturale quando parliamo della Sicilia, quando parliamo della Sardegna, dell’Alto Adige sino alla Stretta di Salorno, della Val d’Aosta fino a Ponte San Martin, perché vi sono delle caratteristiche talmente precise e limitate geograficamente, con una popolazione, con dei costumi tipici, con dei confini inconfutabili. E qui siamo perfettamente d’accordo. Ma, quando parliamo di regione in generale, possiamo dire che vi è una regione piemontese, e possiamo dire certamente che vi è la regione lombarda. Io vorrei conoscere però dall’onorevole Micheli – e mi duole che oggi sia assente – i confini della regione emiliana-lunense, perché non so più dove finisce la Liguria e non so più dove finisce la Lombardia. Cioè, quando spostiamo il problema a tutte le regioni di Italia, e parliamo di ente naturale, è veramente per lo meno sorprendente la naturalità di queste regioni.

Noi vediamo ciò in ogni momento: siamo letteralmente bombardati di appelli, di opuscoli, di deliberazioni, che consistono in che cosa? Consistono nella richiesta del riconoscimento di una determinata Regione. Abbiamo sentito nomi che la nostra ignoranza geografica non ci aveva mai fatti intendere, da quando eravamo nati. Abbiamo sentito parlare, per esempio, della Daunia – che per altro io ricordo soltanto per la qualità dei vini, se non erro – e di altre regioni che vengono a chiedere un riconoscimento giuridico, quando effettivamente siamo ben lontani dal dire che là ci sia quella naturalità e tutti quegli altri caratteri, necessari per la costituzione di una Regione, la quale nel nostro Progetto sostanzialmente diventa un piccolo stato.

Io lascerò ad altri più qualificati di me il compito di discutere dal punto di vista strettamente giuridico se siamo in presenza di uno Stato federale o meno con l’attuale progetto di Costituzione. Io, e con me Santi Romano, Biscaretti di Ruffia, ed altri grandi giuristi, sono convinto che, così come è impostato il problema regionalistico, ci si trova in presenza di uno Stato federale. Prima di tutto infatti la regione è arbitra del proprio statuto in quanto ogni regione se lo dà da sé; essa ha un diritto di legislazione primario, il che esclude l’intervento dello Stato in determinate deliberazioni della regione; ed infine noi siamo in presenza di poteri di autodeterminazione della regione, che costituiscono proprio il terzo elemento perché si possa parlare di uno Stato federale.

Mi piace allora riprendere una frase dell’amico La Rocca il quale ha detto che nel ’48 lo Stato federale poteva essere un progresso, perché ci avvicinava all’unità. Io aggiungo che ora lo Stato federale sarebbe un regresso rispetto all’unità che ha raggiunto lo Stato italiano, unità che può pure essere dannosa in determinati suoi aspetti particolari, ai quali però noi siamo decisi a rimediare, unità che sino ad oggi è conforme anche a quella che è l’esigenza scientifica del progresso. Il progresso ci insegna che noi dobbiamo andare verso istituti sempre maggiori e più ampi, perché la ricerca richiede mezzi sempre maggiori, e la divisione nella speculazione del «lavoratore» in questi grandi istituti si fa e la scienza progredisce. Se si spezzettano questi centri di studio si rallenta persino il progresso scientifico.

Ebbene, qui noi stiamo facendo questo lavoro: il nostro Stato ha grandi difetti, e per eliminarli noi minacciamo di distruggere anche quello che vi può essere di buono e di notevole nella struttura del nostro Paese.

D’altra parte molti oratori, tra i quali gli onorevoli Piccioni e Tessitori, si sono richiamati ad una struttura geografica dell’Italia e si sono compiaciuti di paragonare il nostro Paese alla Francia, dicendo: vedete, siamo un Paese in cui vi sono grandi differenze geografiche, mentre la Francia per la sua struttura è tipicamente il Paese che si presta allo Stato unitario. Ebbene, onorevole Piccioni, io vorrei ricordare a lei delle cose elementari, cioè che l’Italia è un Paese interamente mediterraneo, mentre la Francia va dal dolce clima della Riviera ai fortunali del mare del Nord, che conosciamo almeno perché si narra di molti fari che non possono essere avvicinati e per molti mesi sono isolati sulle coste del mare del Nord e della Bretagna. La Francia ha l’Alsazia, Lille e Tourcoing da una parte, e dall’altra l’Alvernia, la «douce Touraine» e le Lande pastorizie del sud-ovest; i baschi dei Pirenei, i romani del Delfinato; ha i tedeschi sui confini orientali.

Essa è profondamente variata geograficamente ed etnicamente ed ha la Borgogna e la Normandia, il Delfinato e la Provenza, il Ducato di Navarra, l’Alsazia e la Lorena e l’Île de France che hanno grandi tradizioni regionalistiche.

Per la Francia va bene questo stato unitario, si è detto, ma per l’Italia bisogna rompere. Ebbene, noi non abbiamo un’idea precisa sul se si debba rompere, ma che tradizionalmente l’Italia (tolto il Piemonte, la Sicilia e la Sardegna) non abbia grandi tradizioni regionali, questo lo sappiamo. Non solo non ha tradizioni regionalistiche dal punto di vista politico, perché i poteri si sono così rapidamente succeduti in Italia, grazie anche all’opera antistatale e disgregatrice di parte Guelfa, di cui accennavo prima, per cui non vi è potuto rimanere traccia profonda, ma anche perché geograficamente noi (se mai) avremmo tendenza a strutture molto più ampie della Regione. Tanto è vero che si capisce molto di più la divisione in Italia centrale, Italia meridionale, Italia settentrionale ed Isole maggiori. Questi sono concetti che rispondono di più alle tradizioni del nostro Paese. Noi parliamo infatti molto di più dei problemi meridionalistici, dei problemi della Sicilia, della Sardegna e parliamo continuamente dei problemi dell’Alta Italia o dell’Italia Centrale. Sono frasi che sono sulla bocca di tutti; ma, che proprio si dica che questo valga per tutto il resto delle regioni d’Italia, per tutte le minute regioni italiane, questo non lo crediamo, e crediamo di poter fondare la nostra negazione su dati storici e di fatto.

D’altra parte, persino quando parliamo di questi più grandi settori, cioè dell’Italia Centrale, Meridionale e Settentrionale, incontriamo quasi le stesse difficoltà che si trovano quando tentiamo di stabilire un’elencazione di regioni.

E qui mi richiamo ad episodi di vita vissuta ed all’esperienza mia. (Io credo che questo valga per ognuno di noi qui dentro, cioè riferirsi alla esperienza, sia sotto forma di cultura tradotta in esperienza, sia sotto forma di cose vissute e tradotte in un altro tipo di esperienza. Io non mi appesantisco nella cultura: mi accontento delle cose pratiche e porto esempi pratici). Nel periodo clandestino sorse il C.L.N. Alta Italia che si protrasse anche dopo quel duro periodo, soprattutto con funzioni economiche. Orbene, questo Comitato Alta Italia, che pure era composto da egregie persone, che fu una pepinière straordinaria di uomini politici (perché molti che siedono su questi banchi oggi e sui banchi del Governo vengono dalla lotta clandestina) diede luogo ad infinite discussioni, a critiche, si può dire, di ogni stampo. E sapete da parte di chi? da parte delle Regioni. Il Piemonte diceva: «Perché io, Torino, devo stare sotto Milano?» Venezia diceva: «Ma Milano fa gli affari per suo conto» (Interruzioni al centro). Onorevole collega, lo so che questa sembra una negazione di quello che sto dicendo; ma è appunto per dirvi che per la stessa ragione, quando parlate di fare una Regione campana, sorgono dieci, mille contradittori; quando parlate di una Regione ligure, Savona si ribella; quando parlate di una Regione lombarda, non sapete dove mettere Mantova, non sapete se aggregarla all’Emilia o a Venezia e persino Bergamo non accetta l’aggregazione che sembra la più naturale.

Questi sono problemi veri, e queste cose non accadrebbero, se le regioni fossero enti naturali, perché di fronte alla forza della tradizione, della situazione preesistente, anche coloro che hanno tendenza a seguire una tangente sarebbero richiamati da una forza centripeta: viceversa in queste regioni che non hanno una vera e propria tradizione, la forza centrifuga diventa tanto più potente quanto più è palese l’ingiustizia che si vuole cercare di attuare attraverso una sovrapposizione della Regione.

D’altra parte, questa necessità si è sentita così forte in Italia solo dopo il traballamento derivato da una guerra. In fondo, di autonomismo in Italia verso il 1910 se ne occupavano poche persone. Verso il 1920 un numero leggermente maggiore. Abbiamo allora avuto un decreto dell’onorevole Giolitti che garantiva che avrebbe attuato un certo decentramento.

Una voce a sinistra. Il decentramento è un’altra cosa!

DUGONI. Poi, durante il periodo fascista, abbiamo avuto un fiorire di studi, anche segreti, soprattutto segreti, sul problema autonomistico, perché il fascismo soffocava anche lo Stato autoritario. Guardate bene, onorevoli colleghi, che c’è una grossa distinzione da fare: non si può dire che lo Stato autoritario abbia soffocato le province nel periodo fascista; c’è stata una sola idra, un solo malanno, ed è stato il fascismo che ha reso inoperanti tutti gli organismi burocratici statali.

Chi si è occupato di scienza, di affari, di agricoltura, sa che nel periodo fascista tutto era intasato, perché aveva passaggi obbligati, che erano i passaggi degli organismi fascisti.

Così è successo per la Provincia, onorevoli colleghi: e quindi rendere la Provincia colpevole di tutti i malanni è veramente ingiusto.

D’altra parte, quando si crea questa mentalità miracolistica della Regione che consiste nel dire – perdonatemi, se insisto nella polemica, ma è una polemica costruttiva, cordiale, che getta un ponte di passaggio e non vuol rompere niente – quando mi si viene a dire da parecchie parti che se ci fossero state le autonomie regionali in Italia, il fascismo non sarebbe mai sorto, onorevoli colleghi, si vengono a dire cose che sappiamo non vere. Sono elementi che possono essere buoni domani per un comizio, per una discussione improvvisata, ma che non resistono alla critica più semplice e più elementare. Che cosa infatti si può opporre ad un tentativo di dittatura? Per resistere ad un tentativo di dittatura non vi sono che tre mezzi: la polizia, l’esercito in funzione di ordine pubblico, le organizzazioni democratiche di massa.

MURGIA. Che dipendono dal prefetto.

DUGONI. Questo è un altro ragionamento, onorevole Murgia.

LOPARDI. Si può abolire il prefetto, senza fare l’autonomia.

DUGONI. Ma sostanzialmente, nel progetto attuale, queste due forze attive antitotalitarie nelle mani di chi sono? Per definizione, senza contrasto, sono nelle mani dello Stato centrale; sfuggono pertanto alla Regione. Le forze quindi che domani dovrebbero sbarrare la strada al fascismo restano sempre nelle mani dello Stato centrale.

D’altra parte, all’interruzione che esse sono nelle mani del prefetto noi rispondiamo che siamo toto corde per l’abolizione del prefetto; e noi vogliamo, se si arriva a questo ponte di cui parlavo prima, mantenere la provincia in funzione di ente autarchico, con delegazione al Presidente di rappresentare gli interessi centrali in sede amministrativa.

L’esperimento che è stato tentato in Valle d’Aosta è stato più o meno ben attuato a seconda delle persone che sono state destinate a ricoprire quel posto, ma certamente, nel periodo in cui il professor Chabod è stato Presidente della Val d’Aosta con funzioni rappresentative del potere centrale per la parte amministrativa, io vi dico che questo sistema ha funzionato egregiamente e che il Governo centrale non ha avuto a lamentarsi di questo sistema autarchico.

Riprendiamo quindi la nostra posizione di discussione. Eravamo rimasti, se non erro, a questo miracolismo della Regione, a questo voler far credere che la Regione avrebbe potuto fare cose che in realtà essa non può fare. D’altra parte, voi credete che noi non saremmo profondamente, immediatamente, entusiasticamente favorevoli a qualsiasi ente, a qualsiasi esperienza che ci garantisse la libertà in Italia ed il progressivo sviluppo delle nostre classi lavoratrici? Voi credete che noi combatteremmo la Regione, se veramente credessimo che la Regione sarebbe un toccasana, come voi pretendete?

Ma allora noi accetteremmo dieci volte la Regione. D’altra parte, il ricordare questi Stati federali che sono stati poi preda del fascismo, mi sembra addirittura inutile. Pensiamo alle cannonate di Monsignor Seipel in Austria; pensiamo alla repubblica di Weimar; pensiamo a certi Stati Sud-Americani a struttura federale che ogni quindici giorni sono in mano al primo sergente che si presenta. Pensiamo a quello che accade ogni giorno sotto i nostri occhi. Io credo che mettere un dubbio nel vostro animo sull’interpretazione della Regione quale voi avete data, credo non sia difficile e credo sia opera altamente necessaria per il nostro Paese. Noi vogliamo infatti una riforma di struttura; noi la vogliamo sostanziale, ma non vogliamo che sia una riforma che debba operarsi a base di traballamenti. È troppo fresca la Repubblica, troppo fresca la nostra democrazia, troppo grave la situazione della nostra ricostruzione e troppo intimo il disagio da cui sono travagliate le nostre classi lavoratrici, perché possiamo tentare oggi questa avventura, soprattutto se dovessimo giungere alla completa distruzione della Provincia.

È evidente che, comunque la Regione funzioni, noi avremo sempre il ricorso a questo vecchio carrozzone della Provincia (se la manterremo), malandato se volete, ma sempre offerente un minimo di elasticità e di sicurezza. Ma se tagliamo completamente la nostra struttura giuridica attuale, se distruggiamo la Provincia facendone un semplice ente di decentramento regionale – notate bene: regionale – che cosa sarà se domani la Regione non risponde, se domani la Regione non sarà quella che noi ci aspettiamo?

Quindi cautela; e, onorevole Conti, non cautela, perché noi siamo dei conservatori paurosi – come siamo stati da lei definiti – cautela semplicemente, perché quando si tratta di andare verso il nuovo, io mi attengo ad un proverbio di casa nostra: «Chi lascia la via vecchia per la nuova, sa quel che lascia, ma non sa quel che trova» – o qualche cosa di simile. Noi ci atteniamo un pochino a questo concetto, nel senso che dobbiamo essere cauti quando si tratta di problemi di questo genere; e abbiamo dimostrato di saper essere cauti in problemi ben più importanti! Perché i sorrisi che io ho visto prima hanno ragione e non hanno ragione di essere, onorevoli colleghi.

Noi siamo venuti qui con un programma, il programma delle riforme di struttura; e queste riforme di struttura si chiamavano: riforma agraria, riforma industriale, riforma bancaria. Ebbene, nel Titolo III, se non sbaglio, della prima parte, abbiamo aperto la porta a queste riforme, e poi abbiamo affermato che non era questa la sede per l’attuazione di queste riforme, che le riforme non dovevano uscire da un qualsiasi cervello di Giove, già armate, ma dovevano essere il frutto di una collaborazione fra il popolo, gli economisti, gli specialisti, fra gli interessati e la saggezza dell’Assemblea legislativa; e abbiamo rinviato a suo tempo queste discussioni. Ebbene, credete voi che non sarebbe da parte vostra cosa saggia adottare lo stesso sistema? Credete voi che sia così difficile trattenere le vostre masse impazienti della riforma regionalistica, se noi siamo riusciti, o riusciremo, a trattenere le nostre che vogliono delle riforme ben più profonde, ben più radicali, di cui hanno maggiore bisogno?

Ebbene, illustri colleghi, noi abbiamo dato prova di saggezza. Non credete voi che sareste più applauditi, se invece di arrivare nei vostri collegi con una riforma autonomistica, voi arrivaste con una ben fatta riforma bancaria, che stroncasse la speculazione di cui tutto il Paese oggi è vittima? Quelli sarebbero provvedimenti di cui si sentirebbe davvero un maggiore bisogno in questo momento. Ma noi comprendiamo le difficoltà di questo problema e accettiamo che esso sia rinviato. Noi crediamo che sarebbe saggezza per voi seguire la nostra stessa linea di condotta. Ognuno di noi ha proprie idee, ma le proprie idee in un’Assemblea come questa devono trovare dei punti di conciliazione, non dei punti di esasperazione. Non si deve – a mio giudizio, quanto meno – voler portare a tutti i costi alle estreme conseguenze certi principî, anche se noi possiamo accettarli.

Ora, nel caso della Regione, noi non siamo antiregionalisti; noi siamo a favore di una ben compresa attuazione, realizzazione della Regione. Ma voi capite che noi abbiamo tutti il dovere di essere ben in pensiero quando vediamo uno Statuto siciliano, col suo articolo 14, affermare: «L’Assemblea, nell’ambito della regione e nei limiti delle leggi costituzionali dello Stato, ha legislazione esclusiva sulle seguenti materie: a) agricoltura; …omissis; d) industria e commercio…». Il che vuol dire che noi non faremo la riforma agraria, noi non faremo in Sicilia la riforma industriale, perché queste riforme sono state rimandate ad una legge ordinaria, e lo Statuto della Sicilia dichiara che noi non abbiamo diritto di intervenire in queste materie se non per via costituzionale. V’è poi l’articolo 17, egregi colleghi, in cui la Sicilia si riserva di disciplinare il credito; e, cose più gravi ancora, l’articolo 32, che disperde la proprietà delle acque pubbliche in Italia (e l’onorevole Einaudi ricorda quanto abbiamo lottato per salvare le acque pubbliche in Val d’Aosta).

BORDON. Le acque pubbliche erano già salve.

DUGONI. No, onorevole Bordon, le abbiamo salvate noi. E vi è l’articolo 35 che stabilisce la clausola oro contro gli impegni dello Stato italiano: «Gli impegni già assunti dallo Stato verso gli Enti regionali sono mantenuti con adeguamento al valore della moneta all’epoca del pagamento».

Ora, onorevoli colleghi, quando io posso portare dieci esempi di questo tipo, io domando se non sia saggio e non sia prudente fare il passo secondo la possibilità che noi abbiamo oggi di prevedere una saggezza di attuazione.

Questo noi chiediamo per la giovane Repubblica; questo dimostrerete di saper fare rinunciando all’attuazione di una parte dei vostri ideali, come noi abbiamo fatto per altri problemi che hanno, se non la stessa, una non minore importanza della Regione. (ApplausiCongratulazioni).

PRESIDENTE. È iscritto a parlare l’onorevole Zotta. Ne ha facoltà.

ZOTTA. Onorevoli colleghi, diceva dianzi l’oratore che mi ha preceduto, onorevole Dugoni, che l’Italia non ha tradizione regionale. In verità il problema del decentramento amministrativo non è una novità di questo dopoguerra. Dalla unificazione in poi non è mai sfuggito alla saggezza degli uomini politici, dei giuristi e del popolo l’errore consistente nell’eccessivo accentramento. E in questa stessa Aula, pur tra le opinioni più divergenti, mi sembra che non vi sia, a rigore, chi disconosca la necessità di una immediata riforma dell’ordinamento amministrativo ispirata al criterio del più largo decentramento statale e (se devo dare uno sguardo e prestar fede a questa relazione degli studi per la Costituente) della organizzazione della vita locale sulla base di una accentuata autarchia.

Prospettava l’onorevole Dugoni il pericolo di cadere nello Stato federale e di determinare così la disgregazione dello Stato.

Il medesimo ragionamento veniva fatto nel 1861 e faceva respingere il progetto Minghetti: il timore, cioè, che il decentramento e la istituzione della Regione potessero minare l’unità dello Stato, così faticosamente raggiunta.

La verità è che non è stata sufficientemente colta la diversità del momento psicologico fra il 1861 ed oggi.

Le tendenze antiregionalistiche di allora avevano, in fondo, una ragion d’essere. Non vi era chi, in tesi, non riconoscesse la maggiore proficuità di un’amministrazione più vicina agli amministrati. Tuttavia si riteneva allora che non fosse quello il momento più opportuno, poiché – scriveva un contemporaneo, il Carbonieri – «troppo sono vive da una parte le reminiscenze dei soppressi Stati e delle cessate autonomie per non dover temere che crescano e si rinvigoriscano e, dall’altra, pericoloso troppo è tanto il collocare i centri delle regioni nelle antiche capitali, quanto il provocare l’ira dolorosa di alcune, escludendole e cercandone di nuove». Di fronte alla diffusa sfiducia che si era instaurata verso il Governo costituzionale, «se» – scriveva lo storico Carlo De Cesare – «accordate una rappresentanza locale alle regioni, dopo un anno o due vedrete insediati gli antichi principî tuttora atteggiati a pretendenti».

Ma oggi, dopo ottanta anni dalla unificazione, l’Italia ha perduto il ricordo degli antichi Stati e degli antichi principî. Per contro conserva vivo e doloroso il ricordo di ieri, di uno Stato accentratore, che soffocava l’autonomia locale ancor più della libertà individuale.

Il momento psicologico dunque è diametralmente opposto. Allora si usciva da una frammentarietà irrequieta ed eterogenea e si mirava all’unificazione politica, spirituale e giuridica del Paese: sicché parve canone di saggezza politica eliminare le occasioni che potessero ostacolare o ritardare l’unità degli spiriti. Oggi invece si esce da un dispotico e mastodontico accentramento, che ha realizzato soltanto una unità esteriore, formale, soffocando la varietà che agiva dall’interno, e mettendo così a repentaglio l’esistenza stessa della vita nazionale. Questo spiega perché, con la riacquistata libertà, uomini politici di tutti i partiti, nella sicurezza di interpretare i sentimenti più vivi del popolo italiano, si sono affaticati, in gara, a promettere col medesimo fervore la libertà degli uomini e la libertà degli enti locali.

Vogliamo mantenere la promessa? o vogliamo deludere la legittima aspettazione popolare, tacendo sul problema come è stato proposto da alcuni, o gettando l’offa di un articoletto, come è stato proposto da altri, senza una indicazione precisa e concreta in un tema che attiene alla struttura costituzionale dello Stato, mentre per altri problemi ci siamo lasciati portare ad una regolamentazione che scende fino al dettaglio?

A giudicare dai discorsi di quest’Aula, noi siamo tutti concordi su di un punto: l’attuale sistema di accentramento amministrativo non risponde alle esigenze della vita del Paese, in cui esistono motivi di varietà, che si accordano e si armonizzano in una idea superiore di unità. Il Gioberti parlava della varietà nell’unità.

I vantaggi – ecco il punto – che offre il potenziamento della vita locale sono dati dall’identificazione del concetto di responsabilità e del concetto d’interesse.

II primo vantaggio è rappresentato dalla possibilità di assicurare ad una rilevante massa d’interessi una soddisfazione da un lato più sollecita, perché immediata, dall’altro più opportuna e rispondente alle esigenze locali, le quali variano da regione a regione per la diversità del fattore geografico, storico, etnico, sociale.

Il secondo consiste nella semplificazione dell’azione dello Stato, il quale è ora premuto dalla complicazione di congegni amministrativi ingombranti, che pesano enormemente sul bilancio dello Stato e sono lenti e torpidi nella tutela degli interessi dei cittadini.

Altro vantaggio sta nella possibilità di localizzare una parte notevole delle spese; vale a dire, far sì che esse siano deliberate da coloro al cui profitto sono destinate. Invece oggi sono deliberate dallo Stato, spesso, senza una corrispondenza effettiva con le reali necessità, sotto l’azione di pressioni parlamentari dirette o indirette.

E per tutte queste ragioni, vantaggio morale elevatissimo è quello di costituire, attraverso la cooperazione diretta dei cittadini, una palestra di educazione civica. Il che, mentre sodisfa e vivifica il sentimento di libertà del singolo, affina il senso di responsabilità e offre alla maggiore comunità, cioè alla nazione, cittadini coscienti e responsabili. Oggi invece con il sistema paternalistico si constata: diffidenza ed odio verso i poteri centrali; pretesa di ottenere dallo Stato la risoluzione di tutti i problemi e la panacea contro tutti i mali; indifferenza per ciò che attiene al problema della cosa pubblica.

Vi sono quelli che si preoccupano, temendo una moltiplicazione di uffici e di personale burocratico.

Veramente noi pensiamo perfettamente il contrario. Perché se è vero che la burocrazia regionale va a crearsi dal nulla, se è vero che viene ad accentuarsi anche la burocrazia provinciale, perché nel progetto la provincia è considerata come una circoscrizione amministrativa di snodamento dell’attività statale e regionale, d’altra parte è altresì vero che si sgrava, si snellisce, diventa efficiente ed agile la burocrazia statale, questo pachiderma, questo asmatico e torpido meccanismo, il quale consuma gran parte delle sue energie a mantenere se stesso in piedi, in una vita lenta e complicata.

La Provincia! ecco un’altra preoccupazione vivissima. Che cosa avverrà della Provincia?

Molti sono mossi dal ragionevole intento di non turbare una massa di interessi morali e materiali, che si sono condensati in una tradizione ultrasecolare di vita provinciale.

Ma la loro preoccupazione è infondata, perché la regione sorge e vive assorbendo funzioni dallo Stato; quel poco che viene tolto alla provincia, indubbiamente, non costituisce il sostrato, sul quale è instaurata la consistenza economica, sociale e commerciale di questo capoluogo di circoscrizione territoriale.

Infatti, per quanto attiene al decentramento amministrativo, la Provincia continua ad esplicare le sue funzioni, anzi le aumenta, perché riceve una maggiore autorità dal decentramento statale; continueranno ad esserci, da questo punto di vista, Provveditorato agli studi, Intendenza di finanza, con uffici delle imposte dirette e indirette e Conservatoria delle ipoteche, Ispettorato provinciale dell’agricoltura, Genio civile, e così di seguito; tutti i punti di snodamento dell’attività statale continueranno ad esistere nei capiluoghi di provincia. E questa riforma non intende, in alcun modo, portare dei mutamenti sostanziali della Provincia; se un mutamento vi sarà – e ciò va detto per i provincialisti, che se ne preoccupano – sarà nel senso di aumentare i poteri di questi organi provinciali.

LOPARDI. Ed allora non serve la Regione.

ZOTTA. La Regione, onorevole Lopardi, è un ente autarchico; e noi dobbiamo distinguere il decentramento amministrativo dal decentramento istituzionale.

Del decentramento istituzionale parlerò successivamente.

Dal punto di vista del decentramento amministrativo la Provincia vede potenziate le sue funzioni e per quella preoccupazione che ha l’onorevole collega aggiungerò che come la Provincia vede potenziate le sue funzioni per la stessa ragione le vede potenziate la regione, appunto perché pensiamo che questa riforma debba portare a snellire al massimo il funzionamento della burocrazia statale.

Vi è un altro punto: la provincia concepita come ente autarchico.

Indubbiamente la Provincia, come ente autarchico nell’attuale sistema legislativo, vive una vita molto grama.

Quali sono le sue funzioni? Fino alla legislazione fascista erano: strade provinciali, assistenza ai mentecatti ed agli esposti. Ed un consesso di 50 o 100 valentuomini si riunivano una o due volte l’anno per discutere su questi gravissimi problemi! Con la legislazione fascista si dette maggiore potere a questa autarchia ed allora espandendosi le attribuzioni dal punto nucleare, le strade giunsero fino ad allacciare i paesi i quali non erano in collegamento con la ferrovia o con altre strade e la materia sanitaria giunse fino a comprendere le provvidenze in tema di malattie sociali (istituti di igiene e profilassi, lotta antirabbica, antimalarica, antitubercolare, maternità ed infanzia). Mi sembra di avere quasi esaurito, se non mi sia sfuggito qualche particolare, i gravi problemi di questo ente, che sparendo lascerebbe nel pianto e nel dolore tanta gente.

Ora questi problemi, per effetto della riforma del progetto, passano alla Regione, la quale con essi riceve tutti gli altri che sono negli articoli 9, 10, 11.

Vi è un punto piuttosto (adesso i buoni amici della Commissione mi consentano un piccolo rilievo critico) nel quale si parla – articolo 120 – di una Giunta elettiva nella provincia. Che cosa fa questa Giunta?

Io non riesco a spiegarmi le funzioni, perché indubbiamente dalla dogmatica del progetto scaturisce che la Provincia non è un ente istituzionale. Non essendo persona non ha organi. La Giunta elettiva provinciale dunque non è un organo della Provincia. Ed allora potrebbe essere considerata come una rappresentanza delle popolazioni dei comuni. Ma per fare che cosa? Questo non è precisato e mi sembra che occorra uno sforzo per trovare un obietto, a meno che non si faccia un’altra disquisizione.

L’articolo 122 attribuisce alle Regioni il controllo di legittimità sui Comuni.

Mi sembra che questa disposizione porti un appesantimento nell’Amministrazione. Si verificherà quello che temeva l’onorevole Rescigno ieri, che il Comune di Sapri debba andare a Napoli per ottenere il visto di legittimità alle sue deliberazioni. La vita normale dell’Ente è incagliata e imprigionata da questi vincoli, il centro essendo talvolta ad una distanza enorme dal punto dove si svolge la vita locale.

Io allora vedrei il controllo di legittimità riposto nella provincia anche per non spezzare una tradizione la quale per questo lato almeno non ha demeritato. Sarà agevole ai comuni questo collegamento, che permetta appunto di ricevere le istruzioni e le correzioni degli atti, che vanno compiendo. Il controllo di legittimità, mi si consenta (forse ciò è dovuto al mio spirito di magistrato adusato all’esercizio continuo di questo controllo), io non lo vedrei affidato ad altri fuorché ad un organo statale.

Lo Stato è la legge. L’elemento politico, cioè l’elemento elettivo è il meno adatto ad esercitare il controllo di legittimità. Quando l’elemento politico ritiene tanto maturo un mutamento in un assetto di vita, lo traduce in norma legislativa; ma è sempre lo Stato, che personificando la legge, terrà all’osservanza di essa. Ecco perché il controllo di legittimità nel Comune lo vedrei in un funzionario statale che possa essere, secondo la terminologia adottata da questo Progetto, il sub-commissario.

Vi è quella giunta elettiva allora, la quale in questo caso potrebbe avere vita, esercitando il controllo di merito: e qui l’elemento elettivo e quindi l’elemento politico è il più indicato.

Un altro problema si è trattato. L’onorevole Dugoni diceva dianzi: ma questo è uno Stato federale.

Si è molto usata questa espressione con senso di preoccupazione e l’argomento è tratto dalla circostanza che gli articoli 109, 110, e 111 attribuiscono un potere normativo alla regione. Ora, la preoccupazione anche qui è infondata: vi è Stato federale, quando vi è sovranità interna. L’espressione più viva della sovranità è il potere di imperio, cioè la potestà legislativa. Ma qui vi è davvero potestà legislativa, cioè una autonomia legislativa, o non vi è soltanto la delega di un potere legislativo e normativo? Il parallelo con la Costituzione siciliana può rendere bene l’idea. Mi si consenta l’obiezione: lo Statuto siciliano scivola verso lo Stato federale, perché il potere legislativo è attribuito col semplice vincolo del rispetto della Costituzione; ma nel nostro progetto, il potere legislativo è sottoposto a due condizioni, una formale ed una sostanziale.

Quella formale è la subordinazione alle leggi costituzionali e all’ordinamento giuridico della Nazione, cioè alla coscienza giuridica unitaria del Paese. Quella sostanziale è la subordinazione agli interessi della Nazione e delle altre Regioni. Con questa duplice subordinazione, più che di autonomia legislativa, si deve parlare di potere legislativo delegato. Manca dunque il presupposto fondamentale perché possa configurarsi lo Stato Federale. Piuttosto gli onorevoli colleghi della Commissione mi consentano un rilievo, che ha il sapore di una modestissima collaborazione. Io vedo, solo dal lato tecnico, non per la preoccupazione di una possibilità federalista, l’opportunità della fusione dell’articolo 109 con l’articolo 110, perché mi sembra che domani il compito del legislatore, del giudice, del popolo sia molto arduo quando deve distinguere fino dove giunge il potere attribuito dall’articolo 109, che parla di potestà legislativa esclusiva, e fin dove giunge il potere attribuito dall’articolo 110, che parla di potestà legislativa concorrente. Nel medesimo ordine di idee, mentre chiamo potestà legislativa codesta, direi che quella dell’articolo 111 non è potestà legislativa, ma è potestà normativa, la quale è qualcosa di più del potere regolamentare, perché è di integrazione e di attuazione, ma non è, indubbiamente, legge. E suggerisco per evitare possibilità di discussione in tema di conflitto di potestà legislativa, la sostituzione del termine «normativo» in quello di «legislativo».

Vi è una ultima preoccupazione: quella concernente l’autonomia finanziaria. Molti osservano: ma col sistema regionale verrebbero a cristallizzarsi le differenze attualmente esistenti fra le diverse parti d’Italia, si perpetuerebbe l’inferiorità di determinate zone con la creazione di barriere, che dividerebbero per sempre la sorte delle regioni ricche da quelle delle regioni povere.

Ma è proprio su questo punto che, con una diversa impostazione e prospettiva, noi facciamo leva per sostenere il potenziamento della vita locale. Perché noi siamo perfettamente convinti che il problema meridionale, cui si fa riferimento con quella obiezione, solo così potrà essere risoluto: quando cioè si potenzi la vita e la libertà locale e si consenta attraverso una molla di emulazione di raggiungere un livello eguale di progresso.

Ne è di conforto la storia. Fino al 1861, cioè finché le regioni sono state centro di vita autonoma, non vi è stata differenza sostanziale nel campo economico e sociale tra il sud e il nord. Potrei aggiungere, se non temessi di cadere in una ripetizione che ha un po’ la monotonia delle frasi retoriche, che l’unico Stato, il quale portò, dopo l’unificazione, un bilancio attivo, fu il regno delle due Sicilie, la cui amministrazione, documento mirabile di sapienza giuridica, fu indicata a modello in pieno Parlamento italiano. Quel Regno realizzò le prime conquiste di civiltà: a Napoli il primo battello a vapore, la prima ferrovia. Cinquant’anni dopo Giuseppe Zanardelli, per recarsi da un paese all’altro della Lucania, dovette passare il letto di un fiume su di un carro trainato da buoi. Ora, le condizioni di questa mia terra non sono migliorate di molto, e purtroppo temo che peggiorino, se non si provvede stimolando tutte le loro capacità autoctone.

Dunque il mio ragionamento vuol dire questo: se in partenza non vi è inferiorità di condizioni economiche e sociali, com’è che dopo meno di un secolo di vita unificata e accentrata che sopprimeva tutte le manifestazioni della vita autonoma locale, si determina un divario, un’antitesi sotto tutti i profili, tra Nord e Sud?

Vi è nel Nord quanto al Sud manca del tutto o è accennato in forme rudimentali e primitive: opifici, stabilimenti, coscienza ed attività industriale, attrezzatura commerciale, finanza bancaria, forte e autonoma. Vi sono nel Nord tutti i conforti di un paese civile moderno: ampia rete stradale, abitazioni comode, ricchezza materiale; vi è, insomma, un superiore livello generale di vita, che distingue profondamente il Settentrione dal Meridione; confermando fisionomie diverse, quasi opposte, tanto da accreditare l’oltraggiosa ipotesi che il popolo italiano sia costituito da due unità etniche profondamente dissimili.

È questo il risultato che noi abbiamo ottenuto dopo che le regioni del Nord e le regioni del Sud, unite nello stesso destino, hanno unificato le loro forze, hanno creato un potere, lo hanno depositato a Roma e hanno detto: «governaci»? E questa unificazione ha portato ad una inferiorità dolorosa del Meridione di fronte al Settentrione. Ora non vogliamo esprimere giudizi, ricercare cause: noi abbiamo fiducia nelle nostre possibilità, noi vogliamo significare questo, che, se la vita locale non ci ha mai consentito di essere al medesimo livello delle altre regioni d’Italia, noi adesso vogliamo ridare vita, vogliamo ridare impulso alla vita locale. Noi vogliamo costituire dei centri vivi e fecondi di libertà, di attività, di propulsione, di emulazione, di espansione. Questo noi vogliamo fare e solo così noi potremo risolvere il problema del Meridione.

Quando si invoca la solidarietà di tutta la Nazione per la risoluzione del nostro problema, io dico che prima noi Meridionali dobbiamo dare l’esempio. La redenzione comincia da noi, diceva Luigi Sturzo.

Ma vi è un lato che io non trascuro e che ha la sua grande importanza. Mi si dice: «volete congelare adesso una situazione che va tutta a nostro svantaggio, voi volete adesso creare le barriere, proprio quando le regioni meridionali sono state spremute al massimo e hanno bisogno della collaborazione solidale dell’intera Nazione».

Anche questo è un ragionamento; ma io rispondo che proprio per questo è necessario valorizzare, potenziare le nostre forze, la coscienza della nostra vitalità, appunto per far sentire più forte l’appello alla Nazione, per chiedere l’aiuto che ci spetta. Perché il problema meridionale è problema spirituale nostro, come dicevo dianzi, ma è anche problema nazionale, unitario. Per due ragioni: perché la storia ha portato, in meno di un secolo, a creare una regione povera ed una regione ricca, sicché non si può non affermare che tutte le provvidenze siano state perdute, che tutte le trascuratezze ci siano state; ed oggi si impone come un problema-morale, come un dovere sociale e giuridico, il ristabilimento dell’equilibrio. E vi è anche la ragione morale, perché l’unità di un Paese postula anche una solidarietà di spiriti, una solidarietà di interessi e non si può quindi prescindere dall’obbligo delle parti ricche di venire in soccorso, per questa fusione e questo equilibrio di interessi spirituali e materiali, delle regioni povere.

E allora, profilato sotto questo duplice aspetto, cioè come un dovere di gratitudine e di perequazione da un lato e come un senso di solidarietà dall’altro, il problema del Mezzogiorno assurge all’altezza di un problema nazionale unitario.

Il Progetto, però, limita l’intervento statale in favore delle Regioni povere a quanto è necessario per consentire l’adempimento delle loro funzioni essenziali.

Ma, onorevoli colleghi, non basta dire «per adempiere alle loro funzioni essenziali».

Io temo che domani, per una pedantesca interpretazione, si possa pensare soltanto alla continuazione della vita. La vita indigente, senza risorse, è pur sempre infatti una vita; e quindi potrebbe anche intendersi che con queste parole ci si sia voluti riferire soltanto a quello che è il meccanismo burocratico di organizzazione della regione.

È chiaro invece che non qui noi dobbiamo arrestarci, se vogliamo davvero tradurre in disposizioni concrete quell’ansia tormentosa di resurrezione delle regioni del Mezzogiorno, se noi vogliamo essere davvero solleciti del benessere di questa derelitta parte d’Italia. Ecco quindi perché io propongo qui una modificazione, che cioè si tolga la parola «essenziali».

Se noi saremo veramente animati da questo spirito di collaborazione, non vi sarà certo più alcuno, il quale pensi che si vengano a creare con il regionalismo delle barriere tra il Nord e il Sud: non barriere invece, ma focolai di vita, ma centri di iniziativa, di attività, di operosità, di produttività, e un affluire fra essi di un’intima, indistruttibile energia cementratrice, vivificatrice, la quale collega e salda le sparse membra in un corpo forte e organico, sicché il benessere e il progresso di ciascuna parte è progresso e benessere del tutto, e il progresso e il benessere del tutto è il benessere e il progresso di ciascuna parte. (Applausi al centro).

PRESIDENTE. È iscritto a parlare l’onorevole Einaudi. Ne ha facoltà.

EINAUDI. Onorevoli colleghi, io oggi dirò, forse più unitariamente, alcune cose che ho avuto occasione di ripetere dinanzi al più limitato stuolo dei membri della seconda Sottocommissione per la Costituzione. Mi si dia venia di questa ripetizione.

Spero che l’onorevole Dugoni non vorrà accusarmi del peccato di andare dietro a quegli idola mentis che si chiamano socialismo, individualismo, liberismo, ecc. Nel discutere di questo problema, mi limiterò ad esporre considerazioni relative al modo con cui si è inteso di tradurre in atto un principio: quello del governo locale – non dico se regionale, provinciale o quale altra parola debba essere adoperata – al metodo con cui si è inteso di attuare il principio del governo locale, principio il quale rappresenta un ideale, che è anche il mio.

Purtroppo, nella stesura di questo Titolo V, i più entusiasti tra i fautori della teoria della Regione sono andati troppo oltre; hanno varcato i limiti al di là dei quali qualunque principio, anche se ottimo, anche se tale da produrre buoni effetti, se adoperato sino ad un certo punto, inverte i suoi effetti e produce invece effetti dannosi. Vi sono, nelle disposizioni del Titolo V, contrasti notabili di contenuto, per esempio fra l’articolo 109 e gli articoli 110 e 111.

Ho sentito con sorpresa criticare in quest’Aula l’articolo 109, che è quello che sancisce il principio della legislazione esclusiva della regione, come se esso distruggesse l’unità del paese. L’articolo 109 in verità non distrugge nulla. Esso è ispirato veramente ai principî della prudenza politica e dello sperimentalismo graduale. L’articolo 109 ci dice invero che la Regione potrà legiferare, e legiferare in modo esclusivo ed autonomo; in modo primario, come anche è stato detto, sui seguenti argomenti: «ordinamento degli uffici ed enti amministrativi regionali». E su che cosa altro potrebbe legiferare una Regione, se non sull’ordinamento dei propri uffici? Dovremmo forse ripetere l’ordinamento di essi da qualche autorità centrale? Distruggeremmo per tal modo qualsiasi concetto di governo locale e di autonomia. «Modificazioni delle circoscrizioni comunali». E chi è miglior giudice di colui che vive sul luogo di come la regione deve essere costruita nelle sue circoscrizioni locali? Forse è miglior giudice un impiegato del Ministero dell’interno, il quale deve dare la sua sentenza su carte che gli sono inviate dal luogo, senza avere nessuna conoscenza visiva di quelle che sono le circoscrizioni locali? E vado avanti: «polizia locale urbana e rurale»: sono le guardie campestri e quelle urbane. Perché non deve una regione, un governo locale qualunque – chiamiamolo regione o provincia – poter legiferare sulle sue guardie campestri e sulle sue guardie urbane?

Andiamo avanti: «Fiere e mercati; beneficenza pubblica; scuola artigiana; urbanistica». Sono cose ovvie, intorno alle quali la competenza locale è certamente più adatta ed efficace della competenza degli organi centrali.

«Strade, acquedotti e lavori pubblici di esclusivo interesse regionale; porti lacuali». E chi si intende, a Roma, più di quanto in materia di porti lacuali possano intendersene, per esempio, a Como?

«Pesca nelle acque interne di carattere regionale; torbiere». Tutti argomenti evidentemente di carattere locale e intorno ai quali certamente la Regione o la Provincia o altri enti locali potranno meglio legiferare di quanto non possa legiferare il governo centrale.

E se anche vi sarà qualche divergenza tra la legislazione di una Regione e la legislazione di un’altra Regione, ebbene, io non vedo in ciò nessun male; anzi vi vedo molto bene. L’unico male sarà per gli avvocati, che dovranno consultare un po’ più di leggi. Ma ne abbiamo avute di leggi durante il fascismo e dal 1943 ad oggi! Vi è tale abbondanza di leggi che certo le leggi locali sui modesti argomenti elencati nell’articolo 109 non aggiungeranno gran che alla fatica dei giuristi che dovranno interpretarle.

Ma negli articoli 110 e 111 si è oltrepassato il limite della prudenza politica; si è oltrepassato in un modo che io credo pericoloso, pericoloso per sé e per l’esempio che, ad andare ancor più avanti, ci viene da alcuni Statuti che sono già legge vigente per talune regioni italiane: voglio alludere allo Statuto siciliano e alle modificazioni che da altre parti sono richieste – come per esempio dalla Val d’Aosta – per andare al di là di quelle enormità medesime già consacrate nello Statuto siciliano.

Enormità, ho detto, perché si tratta in verità di cose gravissime alle quali sarà necessario che la Costituente ponga sollecito riparo!

Vi è, per esempio, l’articolo 36 dello Statuto siciliano, il quale abolisce praticamente le entrate dello Stato nella Sicilia, poiché dice che «al fabbisogno finanziario si provvede coi redditi patrimoniali della Regione e per mezzo dei tributi deliberati dalla medesima». E fin qui nulla di male. Ma poi è soggiunto: «Sono però riservate allo Stato le imposte di produzione e le entrate del monopolio tabacchi e del lotto». Il che significa che allo Stato sono riservate soltanto le imposte di produzione di fabbricazione e le entrate dei monopoli dei tabacchi e del gioco del lotto. Tutto il resto è avocato alla Regione.

E allora, di che cosa mai lo Stato può vivere? Se questo principio fosse esteso alla maggioranza o alla totalità delle Regioni italiane (io non vedo perché, una volta che questi privilegi siano dati ad alcune, essi non debbono essere estesi a tutte le Regioni); se questo principio – dicevo – fosse esteso a tutte le regioni, di che cosa potrà vivere lo Stato? Di che cosa potrà vivere lo Stato se la Sicilia – in base a questo principio – si rifiuterà di applicare l’imposta straordinaria sul patrimonio? La Sicilia infatti, secondo il suo Statuto, ne avrebbe pieno diritto, sicché lo Stato italiano non potrebbe applicare in Sicilia l’imposta progressiva sul patrimonio.

E già sono predisposti regolamenti atti ad avocare all’amministrazione siciliana i proventi di tutte le imposte dirette e indirette sugli affari.

Lo Stato, ho detto, come potrà mai vivere quando il sistema si estendesse a tutte le Regioni italiane e tutte le Regioni vanterebbero pieno diritto ad ottenerlo, perché nessun privilegio può essere dato ad una Regione in confronto di altre.

E andiamo avanti. Dopo aver tolto allo Stato italiano qualunque entrata, l’articolo 38 obbliga lo Stato a versare annualmente alla regione una somma a titolo di solidarietà nazionale, da impiegarsi in base ad un piano economico, nell’esecuzione di lavori pubblici. Questa somma – si soggiunge – tenderà a bilanciare il minor ammontare dei redditi di lavoro nella regione in confronto della media regionale.

Il che vuol dire che lo Stato, al quale si sono negati i proventi, dovrà provvedere con i mezzi suoi a dare alla Sicilia un contributo, secondo un principio incomprensibile, perché nessuna regola potrà mai essere inventata per stabilire qual è il prodotto del lavoro siciliano in confronto di quello italiano. Quando si vogliono fare addizioni e sottrazioni bisogna precisare le quantità da addizionare o da sottrarre: altrimenti si creano formule che non potranno essere tradotte in quantità numeriche espresse in lire, ossia si stabiliscono principî secondo i quali si potranno chiedere somme allo Stato in limiti che non potranno mai essere assicurati dall’erario e tuttavia si darà sempre luogo a lagnanze di insufficienza.

L’articolo 40 sancisce, anche se il concetto non è espressamente scritto, l’istituzione di una moneta speciale per la Sicilia. Invano mi sono levato nella Commissione della Consulta, quando si discuteva dello Statuto siciliano, contro questa disposizione. L’articolo 40 dice: «Le disposizioni generali sul controllo valutario emanate dallo Stato hanno vigore anche nella regione».

E fin qui nulla di anormale. Ma poi dice: «È però istituita presso il Banco di Sicilia, finché permane il regime vincolistico delle valute» (e nessuno può dire quando questo regime vincolistico finirà) «una camera di compensazione allo scopo di destinare ai bisogni della regione le valute estere provenienti dalle esportazioni siciliane, dalle rimesse degli emigranti, dal turismo e dal ricavo dei noli di navi iscritte nei compartimenti siciliani».

Le parole sembrano avere un significato benigno; sembrano non avere nessuna conseguenza del tipo da me indicato. Ma in realtà significano questo: che si viene a costituire per la Sicilia una camera speciale alla quale affluiranno da una parte tutti i ricavi in valuta estera derivanti dalle esportazioni siciliane, dalle rimesse degli emigranti, dalle spese dei viaggiatori esteri nella Sicilia, e dai noli della marina mercantile siciliana. Tutta questa valuta affluisce alla camera di compensazione speciale. E poiché questa deve provvedere ai bisogni della Regione, ciò significa che si viene a creare una offerta particolare di valuta e una domanda particolare di valuta in quella camera di compensazione. Solo un miracolo impossibile a verificarsi potrebbe far sì che il risultato di quella domanda e di quella offerta nella camera di compensazione siciliana sia identico a quello della domanda e dell’offerta relative al resto d’Italia e determinate nella camera di compensazione presso l’ufficio italiano dei cambi. Solo un miracolo che potrà verificarsi una volta in un secolo potrà far sì che i due valori siano identici. E se non saranno identici, come sempre avverrà, accadrà che il corso della lira in Sicilia rispetto al dollaro sarà diverso da quello della lira italiana rispetto al dollaro medesimo. Si creerà cioè un cambio tra la lira siciliana e la lira italiana.

Quindi con questo articolo abbiamo consacrato in maniera indiscutibile la esistenza di una lira siciliana separata e diversa dalla lira italiana; e non mi meraviglierei – e sarebbe una logica conseguenza – se domani la Sicilia chiedesse il diritto di battere moneta; perché questo diritto sarebbe la conseguenza logicamente derivante dall’articolo 40. Importa perciò porre fin dal principio una barriera ad articoli proprî del sistema del regionalismo economico, articoli i quali vanno assai al di là di quelli che possono essere i benefìci di un regionalismo politico e amministrativo, a mio avviso necessario ed utile quando non oltrepassi i limiti che devono essere stabiliti per un più efficace funzionamento statale. Mi potrete dire che gli articoli da me letti appartengono allo Statuto siciliano e non al Titolo V; ma siccome noi dovremo ritornare sullo Statuto siciliano, ho creduto necessario collegare i due argomenti, perché dalla risoluzione che noi prenderemo sul Titolo V dovremo trarre deduzioni nei riguardi dello Statuto siciliano. Lo Statuto siciliano e gli altri che si apprestano ad essere richiesti per le altre regioni – Val d’Aosta, Alto Adige – Trentino e Sardegna – questi statuti, devono essere guardati in funzione delle conseguenze disastrose che ne possono venire per l’autorità e per l’unità dello Stato, conseguenze che sono palmari e già vediamo in azione in questo statuto. Noi facendo macchina indietro, non guasteremo lo Statuto siciliano, anzi lo miglioreremo. Abolendo questi mostri di articoli faremo salva l’unità dello Stato italiano e compiremo opera non di regresso ma di progresso.

Abbiamo ben ragione di stare attenti fin da ora nell’esaminare criticamente gli articoli che vengono dopo l’innocuo 109. Gli articoli 110 e 111 formicolano di pericoli per l’unità nazionale. Mi limiterò ad alcuni esempi, a due: uno relativo al credito e uno relativo alle acque pubbliche. L’articolo 111, relativamente al credito, dice che la legislazione regionale ha una funzione, in sostanza, regolamentare, la quale può tuttavia acquistare col tempo importanza notevole. La Regione ha diritto di legiferare sulla disciplina del credito, dell’assicurazione e del risparmio. Vi prego di riflettere sulle conseguenze gravi di questa disciplina del credito abbandonato alle Regioni. Se qualcosa di certo vi è, è che l’Istituto centrale di emissione ha il dovere, sotto l’egida del Ministero del tesoro, di regolare la materia del credito, perché la moneta creditizia è altrettanto importante e può diventare altrettanto pericolosa quanto lo può essere la moneta ordinaria. Non v’ha sostanzialmente nessuna differenza fra la carta moneta e la moneta creditizia. Le aperture di credito fatte dalle banche sono mezzo di pagamento al pari della moneta cartacea. In altra occasione, in quest’Aula, ho cercato di ricordare come uno dei grandi progressi della scienza economica sia stato quello di segnalare (e fu segnalato fin da un secolo fa) che la moneta creditizia ha la stessa natura e può diventare altrettanto pericolosa nella sua moltiplicazione quanto può esserlo la moneta cartacea propriamente detta. Regole sono state date dapprima in tutti i paesi per il regolamento della moneta cartacea e in tutti i paesi si è cercato poscia di regolare la moneta creditizia. I regolamenti attuali impongono già in Italia a tutti gli istituti di credito di depositare presso il tesoro, o presso l’istituto di emissione – a tutela del risparmio ed a tutela della circolazione – l’eccesso dei loro depositi oltre il multiplo 30 del loro patrimonio.

Questo regolamento è certamente imperfetto, perché la cifra del patrimonio è troppo variabile da caso a caso, dà luogo a notevoli sperequazioni e non corrisponde alle esigenze elastiche della tutela della circolazione. Furono già presentate al governo proposte da parte dell’istituto di emissione, per variare un regolamento, il quale non corrisponde più alle esigenze attuali.

Una delle proposte era quella che il 50 per cento – ma la percentuale potrebbe variare, la misura dipendendo dai freni che devono essere posti all’espansione dell’industria e da quelli che si chiamano fenomeni di speculazione sui titoli e sulle merci – dell’incremento dei depositi oltre l’ammontare esistente ad una certa data dovesse essere versato all’istituto di emissione e non potesse dar luogo ad impiego diretto da parte delle banche. La regola potrà essere esaminata e perfezionata, e qui si ricorda solo a titolo di esemplificazione. Certo è però che il regolamento regionale del credito metterebbe un freno ed un impedimento gravissimo a qualunque regolamento del credito del nostro paese.

Se si dicesse ad esempio, che il 50 per cento dell’eccesso dei depositi, oltre l’esistenza ad una certa data, deve essere depositato presso il Tesoro o l’istituto di emissione, qualche regione potrebbe mutare quella regola nel proprio territorio, Potrebbe quella percentuale essere cioè qua e là elevata o abbassata, ridotta anche a zero. Chi impedisce ai depositi delle altre regioni di spostarsi verso quella regione, che ha decretato una percentuale più bassa?

Noi, in questa maniera, verremmo ad impedire nel nostro paese qualunque regolamentazione del credito; regolamentazione che ritengo sia un postulato di molti dei partiti politici; postulato che può essere discusso, ma che occorre sia stabilito con somma prudenza, per non turbare insieme con la speculazione anche l’industria ed il commercio normali, ma che nessuno nega che debba essere stabilito. Dare la facoltà alle regioni di intervenire in questa materia significa oltrepassare il limite della prudenza politica.

Altro esempio è quello delle acque pubbliche, dall’articolo 110 attribuite alla regione; pur aggiungendo «in quanto il loro regolamento non incida sull’interesse nazionale e su quello di altre regioni».

Non credo affatto alla riserva, che non potrà nella pratica essere applicata. Sarebbe soltanto feconda di dissidii fra l’interesse nazionale e quello regionale. Se guardiamo all’interesse nazionale, una cosa certa è, che oggi sarebbe contrario al progresso economico ed alle esigenze di sviluppo del nostro paese spezzettare l’ordinamento regionale delle acque pubbliche che, in virtù della legge Bonomi, era uno dei vanti della legislazione italiana: una legislazione la quale dichiara che le acque pubbliche appartengono al demanio nazionale, che le concessioni sono temporanee e che alla scadenza del periodo di concessione, stabilito in funzione della necessità di ammortizzare il capitale impiegato, passano gratuitamente, senza alcun indennizzo ed in condizione di perfetta manutenzione allo Stato. Questa è stata veramente una delle grandi glorie della legislazione italiana antecedente al fascismo e per essa noi dobbiamo ringraziare l’uomo che ha dato il suo nome a questa legge e che sta in mezzo a noi.

Noi non possiamo tornare indietro in questa materia e spezzettare nuovamente questa legislazione unitaria, la quale sodisfa le esigenze dell’economia, nelle diverse regioni italiane.

Proprio in questo momento noi andremmo a dare alle Regioni una facoltà di legislazione sulle acque pubbliche quando dappertutto si avverte la necessità di rendere la legislazione sulle acque pubbliche non nazionale, ma internazionale, proprio quando in questo momento, ad attenuare materialmente le conseguenze del confine che brutalmente ci è stato imposto sulle Alpi occidentali, si avviano negoziati per far sì che la Francia e l’Italia collaborino a ricreare ed allargare l’utilizzazione delle acque pubbliche nelle regioni di confine; proprio in questo momento in cui si avverte la necessità fra Svizzera ed Italia di avviare trattative per l’utilizzazione migliore delle acque interessanti i due paesi. Se noi attribuiremo alle località di origine la legislazione sulle acque, creeremo fomiti di cattiva utilizzazione di esse, perché le acque le quali non sono utilizzate secondo un piano unitario nazionale non sono utilizzate bene, senza vantaggio né per le nazioni né per le singole regioni. Le regioni le quali hanno voluto conservare a sé il dominio sulle acque hanno fatto un ragionamento a cortissima veduta, hanno creduto di fare i vantaggi dei propri valligiani e dei propri conterranei ed invece hanno fatto e faranno sempre più il danno di essi, perché una utilizzazione nazionale soltanto può permettere di ottenere dalle acque non solo la migliore utilizzazione dal punto di vista dell’energia elettrica, ma anche la migliore utilizzazione dal punto di vista della irrigazione e della conservazione del suolo. Soltanto la unione perfetta fra tutte le utilizzazioni sia per l’industria come per l’agricoltura e soltanto una utilizzazione la quale sia ispirata ad un piano nazionale, può far sì che le acque possano essere sempre più sorgenti di ricchezza per il nostro Paese.

E anche nella Valle d’Aosta proprio in questo momento andremmo a fare un passo indietro, contrario alla esperienza universale. Mi si permetta, nonostante la mia preferenza verso gli esempi nazionali meglio conosciuti da noi, di citare una volta tanto un esempio straniero. In questo momento il più illustre esempio che noi abbiamo di utilizzazione di acque pubbliche è quello che ci viene dagli Stati Uniti del nord; ed è anche un grande esempio di trasformazione sociale. Esso è quello che prende il nome di Ente per la utilizzazione delle acque del Tennessee (Tennessee Valley Authority, T.V.A.).

Il Presidente Roosevelt nel suo primo quadriennio per evitare che molti terreni venissero inondati per la cattiva utilizzazione delle acque, creò un ente autonomo il quale governa le acque le quali appartengono geograficamente non a uno Stato solo, ma a ben nove Stati. Tutti questi nove stati: il Tennessee, la Virginia, la Virginia occidentale, l’Alabama, la Georgia, il Kentucky, la Carolina del Nord, la Carolina del Sud, il Mississippi sono uniti in un Ente solo il quale provvede alla utilizzazione di questo grandioso fiume che abbraccia un territorio vasto come l’Italia. E questo fiume è utilizzato in maniera unitaria allo scopo di creare non soltanto energia elettrica a scopo industriale e di illuminazione ma allo scopo di impedire inondazioni prima disastrose, utilizzato allo scopo di favorire il rimboschimento ed estendere la irrigazione su terreni prima paludosi. Tutto ciò è stato possibile perché il piano fu congegnato in maniera unitaria al di là dei confini dei singoli stati, che pure erano stati sovrani. Quanto fu fatto dalla T.V.A. è considerato come il più bell’esempio di progresso sociale. Molte delle cose create da Roosevelt sono già tramontate; ma questa non è tramontata e ad essa si ispirano progetti nuovi per regioni ancora più vaste, come quelle dei bacini del Missouri e del Mississippi. Proprio oggi noi, in un paese il quale ha bisogno di utilizzare razionalmente le acque affinché il nord aiuti il sud, affinché il sud aiuti il nord, affinché le acque defluenti dalle Alpi si colleghino con quelle defluenti dagli Appennini, noi in questo momento verremmo a spezzare una legislazione sulle acque pubbliche, che è fatta oggetto di studio e di imitazione nei paesi più industriali del mondo!

Questo sarebbe un regresso grandissimo al quale non credo che la Costituente vorrà associarsi. Ho ricordato solo due esempi che bastano a dire quale sia il difetto proprio di questo Titolo quinto. Non è un difetto di principio; è un difetto esclusivamente di limiti. Spero che durante la discussione i limiti abbiano ad essere modificati e ristretti, cosicché il principio del governo locale possa dare tutti i benefici effetti che noi fautori del governo locale ci ripromettiamo.

Da quando ho visto concretarsi i singoli articoli di questo Titolo quinto nulla ho paventato più dello zelo eccessivo di coloro i quali hanno contribuito alla realizzazione di quello che è certamente anche il mio ideale. L’errore consiste in fondo in un eccesso di impostazione economica; ed è un errore vecchio, antico, e che si può riassumere in una parola sola, la parola autarchia.

Senza saperlo, quasi inconsapevolmente, noi ci siamo lasciati attrarre dall’idea di creare una Regione la quale fosse anche economicamente autosufficiente; siamo andati ad immaginare fosse necessario che una Regione per poter vivere dovesse avere porti, strade ferrate ecc., tutte cose che non hanno niente a che fare con la vita della Regione, con quella vigoria di vita che è soprattutto una vigoria di vita politica che noi vogliamo attribuire all’ente locale. Avere un porto, avere un territorio più o meno grande non ha niente a che fare con l’ideale regionalistico, con l’ideale di autonomia locale.

Dopo aver ascoltato in una seduta della Sottocommissione un rapporto commovente ed al quale io pienamente aderisco, per ricreare la regione del Friuli – la vecchia patria del Friuli come era stata sempre chiamata nelle carte venete – insieme con quello che ci è stato lasciato ancora della Venezia Giulia, rapporto commovente dal punto di vista nazionale e dal punto di vista politico, ho sentito ancora parlare di un Friuli il quale possiede dei monti e delle valli e delle colline, il quale va dalla montagna fino al mare, il quale possiede varietà di colture ed è quindi capace economicamente di costituire una regione.

Tutto questo è al di fuori del problema e non ha niente a che fare con il principio del governo locale. Noi non riusciremo mai a dare una vita autosufficiente non dico ad una regione, non dico ad uno Stato, ma nemmeno a questo nostro povero mondo. Noi siamo sufficienti nel nostro mondo soltanto perché per ragioni fisiche non possiamo andare al di là di esso, ma il giorno in cui in virtù di qualche scoperta, che non è escluso possa ancora avvenire, noi potessimo comunicare con altri mondi, noi ci accorgeremmo di non essere più autosufficienti. Nemmeno la nostra misera terra sarebbe autosufficiente perché altrove, in altri mondi, probabilmente esistono sostanze ignote a noi che servirebbero ad alzare il nostro tenore di vita. Ci accorgeremmo allora che nemmeno su questa terra siamo autosufficienti. E vogliamo noi creare autosufficienze regionali e autosufficienze provinciali? Questo è un assurdo. È qualche cosa che contrasta con il buonsenso e con l’evidenza dei fatti.

Se questo nostro Titolo quinto ha varcato in parecchi punti i limiti che possono essere attribuiti al buon funzionamento della Regione, dell’ente locale, del governo locale, in altri punti – ed io credo ora di non ottenere il consenso di tutti coloro che mi ascoltano – in altri punti è rimasto al di qua: nel campo delle cose spirituali. Gli Statuti di tutte le regioni, lo Statuto siciliano, lo Statuto della Val d’Aosta, e lo Statuto richiesto da tutte le parti politiche del Trentino e dell’Alto Adige, chiedono di poter governare da sé la propria scuola. L’hanno ottenuto la Sicilia e la Val d’Aosta, l’otterranno l’Alto Adige ed il Trentino, e l’otterrà anche la Sardegna, se vorrà plasmare il suo Statuto su quello della Sicilia. Io dico che queste regioni hanno chiesto cosa giusta nel pretendere che sia attribuito loro il governo della scuola, soprattutto della scuola elementare. Abbiamo ricevuto tutti, credo, una circolare di 150.000 maestri elementari, che minacciano non so che cosa contro di noi, se noi non continuiamo ad attribuire allo Stato il governo dell’insegnamento elementare. Non avrò il consenso di molti colleghi in questo punto, ma penso che noi dobbiamo resistere a queste richieste contrarie all’interesse nazionale. I maestri hanno ragione nel domandare che sia data ampia garanzia ai maestri elementari di non ricadere sotto il giogo dei sindaci e dei segretari comunali. Chiedono ciò giustamente, ed hanno diritto di ottenerlo. Se essi chiedono ancora di essere nominati con regolare concorso e di ottenere regolari avanzamenti, anche in ciò hanno ragione. Ma, e questa è la cosa più grave, essi hanno torto a chiedere di trasformare la loro categoria in una delle tante branche di impiegati dello Stato, che sono sì necessari, ma pur essendo necessari non debbono essere moltiplicati senza necessità. Moltiplicando le categorie degli impiegati pubblici dipendenti dallo Stato, mettiamo la vita dello Stato in balia di tanti corpi organizzati che si sovrappongono alla volontà comune.

Il giorno in cui il Titolo V avesse garantito ai maestri tutto ciò che essi hanno diritto di pretendere per la salvaguardia della loro vita materiale e delle loro condizioni morali, avremmo fatto tutto quanto è necessario. Non dobbiamo dare di più, perché non li dobbiamo trasformare in un gruppo di impiegati sia pure ubbidienti alla voce del dovere; ma diversi da quel che i maestri debbono essere. Le mie parole non sono limitate ai maestri. Esse si riferiscono a tutti coloro che hanno il compito di insegnare, anche ai professori d’università che hanno – alcuni di essi almeno, sia pure la minor parte – talvolta dimenticato quello che era un tempo il principio fondamentale della loro vita, di vivere esclusivamente nella città in cui essi insegnavano. Molti – forse la parola molti è inadatta, perché si tratta di una piccola, ma non piccolissima percentuale d’insegnanti di università – han dato non buono esempio, non vivendo nella città in cui insegnano, e cessando perciò di essere missionari della scienza. I maestri elementari sono altrettanto missionari e sacerdoti di vita come gli insegnanti d’università; e noi, trasformando gli insegnanti elementari in una comune categoria di impiegati di Stato, abbiamo tolto ad essi quella che dovrebbe essere la caratteristica fondamentale della loro vita, cioè di vivere la vita locale dei loro scolari e di vivere la vita dei padri dei loro scolari. Troppo spesso i maestri elementari – oggi divenuti impiegati di Stato – destinati a piccoli comuni rurali, aspirano solo ad essere trasferiti altrove, particolarmente nelle più ambite sedi cittadine. Il trasferimento tende a diventare l’ideale di tutto il corpo insegnante, di tutti gli ordini, dal grado elementare al grado universitario. Il maestro, a qualunque grado appartenga, deve essere radicato nella sua sede per tutta la vita, salvo che egli sia chiamato altrove; ma devono essere altri maestri, altri colleghi a chiamarlo, altri maestri che hanno avuto notizia di quanto egli valga, altri professori che lo chiamino nel loro seno, perché hanno apprezzato le sue qualità di educatore e sanno che ne darebbe prova anche nel luogo diverso a cui sarebbe chiamato dalla fiducia dei colleghi. Non essi debbono poter aspirare al trasferimento, e piatire migliori destinazioni presso ministeri ed uomini politici. Divenuti semplici impiegati, essi sono come uccelli sui rami, e, stando nella loro sede durante i giorni delle lezioni, non aspirano ad altro che la fine delle lezioni per andare in città ed abbandonare la missione loro, che è di stare sul luogo e vivere la vita dei loro scolari e delle famiglie di questi. Il maestro radicato nel luogo acquista, anche se non l’aveva prima, relazioni di famiglia, spesso di proprietà. Allo stipendio puro, a cui si rimprovera, non di rado giustamente, di far vivere troppo miseramente, si aggiunge col tempo il godimento della casa propria, dell’orto, del piccolo podere. Ricordiamo la sapienza bimillenaria della Chiesa cattolica che considera il parroco radicato per tutta la vita nella sua parrocchia e di lì non lo trasferisce a sedi diverse se non in casi eccezionalissimi.

Ho fatto sinora critiche. Esse però non debbono essere interpretate come critiche distruttive e negative. Vorrei fossero interpretate, dai fautori delle autonomie regionali, come un contributo alla migliore creazione di un vero governo locale. Il governo locale lo si vede da alcuni nella regione, da altri nella provincia. In questo contrasto tra Regione e Provincia vi è qualche cosa che rassomiglia al combattimento tra quei due cavalieri che andavano combattendo ed erano morti. Qui c’è il contrasto fra due enti che non sono stati mai vivi. La regione non ha vissuto mai se non negli annuari statistici: se si vuole sapere qualcosa a proposito delle regioni, bisogna guardare le statistiche perché è il compendio statistico che elenca la produzione agricola, la superficie agricola, la capacità industriale, commerciale ecc., a seconda delle diverse regioni. Questa è praticamente la sola manifestazione vitale della regione che sia da noi conosciuta.

La Provincia ha sì avuto una vita a sé; misera vita, la quale non regola altro se non i mentecatti, gli esposti e le strade; ed anche sotto quest’ultimo aspetto le grandi vie di comunicazione sono assorbite sempre più dall’ente nazionale della strada.

Per quanto riguarda i pazzi e gli esposti non credo che essi abbiano mai manifestato desiderio di essere aggregati alla regione piuttosto che alla provincia. Qui si discute dunque tra due enti che non esistono, sicché noi siamo liberi di scegliere l’uno o l’altro. Non si tratta di mantenere qualcosa che veramente esista. Le amministrazioni statali, come il Genio civile, il Provveditorato alle opere pubbliche, l’intendenza di finanza, i tribunali ecc., potranno essere sempre dallo Stato mantenute nei capoluoghi di provincia. La loro conservazione non ha alcuna connessione con il problema che si discute. Dico che sia che si conservi la provincia, sia che si crei la regione, il problema del governo locale rimane; che se questo fosse un elemento di concordia tra le varie parti politiche, siamo liberi di prediligere l’una o l’altra soluzione. Nessuna si raccomanda per lunga e benefica tradizione. Qualche oratore ha ricordato le tradizioni della provincia. Purtroppo trattasi di tradizioni infauste per le fortune del nostro paese.

Non conosco abbastanza la storia delle altre regioni italiane, ma non credo sia molto diversa dalla storia del Piemonte. Nel Piemonte, prima del giorno in cui, il 28 dicembre 1798, dovette sotto l’avanzata delle truppe francesi uscire da Torino il simbolo dell’indipendenza piemontese, prima di quel giorno la provincia non era quella che noi conosciamo. Il vecchio Piemonte vantava una ventina di provincie, minori di quelle che abbiamo conosciuto come circoscrizioni circondariali; ed accanto al vecchio Piemonte vi erano il marchesato di Saluzzo, la contea di Nizza, il ducato d’Aosta, il ducato del Monferrato, il principato di Alessandria, le terre dell’oltre Po pavese, la Valsesia, e tutte queste piccole circoscrizioni avevano una vita autonoma e vivace. In ogni comune, fino a quel giorno, si radunava non l’assemblea dei consiglieri municipali, ma l’assemblea dei capi famiglia. Tutti i capi di famiglia nei nostri comuni piemontesi, un paio di volte all’anno, si radunavano, come oggi si radunano ancora nei più vecchi Cantoni Svizzeri, non sulla pubblica piazza ma nella chiesa, che era il luogo di adunata comune di tutti gli abitanti della località, e qui discutevano le cose loro, qui nominavano i sindaci, il sorvegliante del cimitero, il maestro elementare e la guardia campestre. Nelle loro piccole cose locali si governavano da sé, senza alcun intervento da parte del potere centrale.

L’intervento moderno del potere centrale nacque il giorno della vittoria di Marengo, quando Napoleone portò le sue armi vittoriose in Italia. Non voglio criticare l’opera feconda, anche per l’Italia, di Napoleone; ma, dal punto di vista delle libertà locali, la sua opera fu nefasta. Egli creò le quattro provincie piemontesi di Cuneo, Alessandria, Novara e Torino; le creò come divisioni militari: segno di oppressione da parte di una potenza straniera.

Questa fu l’origine infausta delle provincie del nostro Piemonte e credo che analoga origine le provincie abbiano avuto nelle altre regioni italiane. Non è necessario dunque avere rispetto per una istituzione non antica come si dice, le cui origini non possono essere care al cuore di un italiano.

Le divisioni militari si trasformarono poi in provincie; alla restaurazione queste provincie furono mantenute, poiché erano uno strumento facile di governo, poiché era più facile governare attraverso i comandanti militari di quattro provincie ed i prefetti di quattro provincie, di quanto non fosse facile attraverso ai così diversi corpi locali dell’antico regime, ognuno dei quali aveva libertà e franchigie locali; libertà e franchigie locali antiquate, sotto certo aspetto, ma feconde sotto certo altro. Sotto la loro egida si era svolta una feconda vita locale, si era resa possibile la creazione di una classe politica. Se una classe politica abbiamo avuto negli anni dal 1830 al 1860 in Piemonte, in parte le origini di essa si debbono ritrovare nella sopravvivenza della vita locale, sopravvivenza che Napoleone prima e la restaurazione poi non erano riusciti ad ottundere e ad abolire del tutto.

Governo locale non vuol dire abdicazione dello Stato. In qualcuno degli statuti io ho visto qualche aberrazione a questo riguardo, aberrazione vera e propria. Alla Regione si pretende persino di dare il comando della polizia. Se noi daremo alla Regione, o a quel qualunque altro ente locale autarchico che volessimo creare, anche il governo della polizia, avremo fatto un passo indietro; noi avremo percorso in senso inverso la strada che tutti gli Stati sono stati costretti a percorrere quando hanno voluto sul serio assicurare ai popoli la pubblica sicurezza. L’esperienza degli Stati federali è probante.

Si parla molto e si è sempre parlato molto in Italia delle gesta dei gangsters americani. Ora, ricordiamo che una delle cause del gangsterismo americano fu appunto l’attribuzione del governo della polizia agli Stati anziché alla Confederazione; cosicché, quando un delinquente passava dal territorio di uno Stato al territorio di un altro dei quarantotto Stati della repubblica stellata, il delinquente poteva ritenersi salvo, almeno fino a quando non si fosse potuta esperire tutta la procedura necessaria affinché la polizia dello Stato ove il delinquente aveva commesso il crimine potesse rendere informata del fatto la polizia dell’altro ignoto Stato presso il quale il delinquente si era rifugiato.

È infatti soltanto dopo la creazione della polizia federale che il fenomeno del gangsterismo ha potuto essere diminuito e in parte anche domato.

La stessa esperienza è stata fatta dalla Confederazione svizzera dove, fino a poco tempo addietro, la polizia spettava ai cantoni. Un paio di anni fa, trovandomi presso il decano della facoltà filosofica di Basilea, questi mi fece vedere, in prossimità della sua casa, un rigagnolo, dicendomi: – Qui è il confine tra il cantone di Basilea città e il cantone di Basilea campagna. E ricordo – diceva lui – il giorno nel quale qualche ladruncolo, o anche qualche delinquente più grosso perseguitato dalla polizia del cantone di Basilea città, passava quel rigagnolo, poteva ridersi della polizia del cantone di Basilea città, almeno sino a quando questa non avesse invocato l’intervento della polizia di Basilea campagna.

Anche in Isvizzera dunque fu necessario creare la polizia federale, la quale ha poteri suoi propri.

LUSSU. No: la polizia è sempre cantonale. La Federazione può mandare i rappresentanti, ma tutti gli ordini devono provenire dalla polizia cantonale (Commenti).

EINAUDI. Concludendo, la mia non è una critica, ripeto, del Titolo quinto: è un consiglio, una speranza, che esso possa essere modificato così da attribuire agli organi locali ciò che agli organi locali spetta, così da non proporsi ideali economici assurdi, i quali farebbero rivivere condizioni sociali per sempre trascorse.

Noi dobbiamo far sì che l’organismo che dobbiamo creare e che spero venga creato, riesca al suo fine maggiore, che è quello di suscitare l’interessamento degli uomini per gli interessi locali.

Ho udito discorrere intorno a un pericolo che vi sarebbe per il Mezzogiorno, se questi organi locali autonomi autarchici venissero creati con piena indipendenza: il pericolo cioè della satrapia, il pericolo del dominio di «clan», di famiglie potenti.

Ora, io dico che, se questo pericolo esiste veramente, esso non si combatte con comandamenti i quali vengano dal centro.

Se i comandamenti venissero dal centro, ad un pericolo noi avremmo sostituito un altro, ad alcune satrapie noi avremmo sostituito delle altre, e non avremmo fatto nessun progresso. Il progresso in questa materia del governarsi da sé non può venire che dagli uomini stessi: gli uomini che, camminando, inciampano, commettono errori, ma poi risorgono ancora e poi ancora cercano di rimediare a quanto hanno fatto di male. Se daremo dei poteri ai consigli comunali, ai consigli provinciali o regionali – secondo che la Costituente li vorrà creare – questi poteri dovranno essere tali che essi siano finiti in se stessi, e gli amministratori locali non possan ripararsi dietro ad un’autorizzazione che viene da Roma, da parte di un impiegato rispettabile quanto volete, ma che non conosce le condizioni locali. Se qualche consiglio comunale o qualche consiglio regionale commetterà errori, se metterà troppe imposte, se dissiperà il danaro dei contribuenti, saranno e dovranno essere soltanto i contribuenti cittadini i quali manderanno a spasso questi amministratori e li sostituiranno con amministratori più capaci. (Approvazioni). Non dovrà essere un comando il quale viene dall’alto, che si sostituisce a quelle che si chiamano satrapie locali. Noi non dobbiamo creare nuove satrapie col pretesto di proteggere i deboli e i poveri.

Io mi rifiuto di credere che i contadini del Mezzogiorno, i quali si trovano all’avanguardia della fatica, del progresso, della perfezione nella coltivazione della loro terra, siano meno in grado di difendersi, se ad essi viene data l’autorità di difendersi contro i soprusi altrui. Ad ogni modo essi devono imparare a proprie spese. Quando avranno imparato a proprie spese, sapranno creare un’amministrazione locale, la quale sodisfi ai loro bisogni.

Facendo così, noi creeremo quella classe politica, la quale può venire soltanto dal basso, può venire soltanto attraverso una lunga educazione che passi attraverso i consigli comunali, i consigli provinciali, i consigli regionali; soltanto attraverso questa lunga educazione essa può aspirare a diventare la classe politica degna di governare il paese. Non si governa il paese, se non si è appreso ad amministrare bene il piccolo comune: è l’amministratore buono del piccolo comune il quale fa anche l’amministratore buono dello Stato. Ma l’amministratore del piccolo comune non diverrà mai buono se non quando avrà la piena responsabilità dei propri atti e non potrà dire ai propri elettori: «Io non ho colpa; la colpa è del prefetto, del ministro, del direttore generale, del capodivisione, che non ha voluto fare quello che avevo proposto». Ognuno deve assumere la piena responsabilità delle proprie azioni. E mi permetta l’amico onorevole Dugoni di dirgli che non sono d’accordo con la sua tesi della incapacità del governo locale ad impedire la tirannia. Nessun freno per se stesso è possibile al ritorno delle tirannie. Ma uno dei freni è certamente l’esistenza di una vigorosa vita locale. La tirannia tedesca, ad imitazione della tirannia italiana, se ha voluto rendere il proprio dominio pieno, ha dovuto prima abbattere le ultime vestigia del governo locale. Erano poche quelle vestigia, ma quelle poche vestigia erano tali da limitare l’azione sua. Io non dico che il governo locale, che una operosa vita autonoma locale sia un elemento che presenti forza sufficiente per impedire il risorgere delle tirannie; dico soltanto che l’assenza di ogni vita locale è un fattore di tirannia.

Se gli onorevoli colleghi me lo consentono, per finire, ripeterò una profezia di Mirabeau – non del grande Mirabeau, ma del padre suo, valente economista – il quale in un suo libro scrisse un brano profetico. Qualche anno prima della rivoluzione francese, egli diceva: «Se in uno stato tutta la vita dipende dalla Corte – Corte sta a significare il governo centrale – se tutta la vita dipende dalla Corte, se nessuno può ottenere promozioni e benefici se non elemosinando e facendo anticamera nei corridoi della Corte; se in un paese coloro che vogliono ottenere concessioni e benefici devono ricorrere alla Corte, quel paese è perduto perché ha perduto la linfa vera sua vitale. Il nemico che sta alle sue frontiere non avrà bisogno di fare gran fatica per abbattere quel governo: basterà una piccola spinta ed esso cadrà!»

Noi, se potremo creare con il Titolo V qualche cosa che sia veramente vivo e vitale, noi avremo posto un impedimento – non sufficiente, ma un impedimento – al ritorno della tirannia! (Vivissimi applausi Molte congratulazioni).

Presidenza del Vicepresidente CONTI

PRESIDENTE. È iscritto a parlare l’onorevole Fausto Gullo. Ne ha facoltà.

GULLO FAUSTO. Onorevoli colleghi, non vedo che si possa concepire un’azione democratica, anche e soprattutto nel campo della legislazione, la quale non ripeta la sua efficacia e la sicurezza di riuscire benefica dal fatto che essa vada incontro a bisogni, ad esigenze, ad aspirazioni popolari democraticamente espresse.

Ora è certo, onorevoli colleghi, che la questione dell’ordinamento regionale non è sentita in questo momento dal popolo italiano. Chi, come me – e sono parecchi fra noi ad averlo fatto – ha girato un po’ l’Italia, specie in periodo elettorale, e ha parlato a folle più o meno numerose, nei luoghi più vari del nostro paese, non avrà mai sentito venir fuori un grido, una parola, un’interruzione, una richiesta che potesse costituire il segno che la questione regionale è sentita dal popolo italiano. Non mi è mai accaduto – ed ho tenuto centinaia di comizi, specialmente nell’Italia del Mezzogiorno, a beneficio della quale, soprattutto, secondo i sostenitori dell’ordinamento regionale, la riforma verrebbe fatta – non mi è mai accaduto, in nessuna piazza, da parte di nessuna folla, che una richiesta del genere venisse espressa. E sì che le folle, nel periodo elettorale, manifestano rumorosamente le loro aspirazioni.

In ogni piazza dell’Italia del Mezzogiorno invece, ho visto e sentito quanto sia appresa dalla folla meridionale la necessità della riforma agraria. Consentitemi di raccontarvi a questo proposito un episodio veramente significativo.

Avevo nella Lucania – in questa tanto sventurata e generosa regione d’Italia – tenuto, un giorno, cinque o sei comizi, e, disfatto dalla stanchezza, ero finalmente arrivato nell’ultimo paese in programma. Ma lì mi costrinsero – e non potetti esimermi – a visitare un altro paese ancora. Vi arrivai che erano già le undici di sera, e dissi a coloro che con le loro insistenze mi avevano costretto ad andarci, che mi sarei limitato a poche parole di saluto, non consentendo di più le mie condizioni fisiche. Mi affacciai ad un balcone e dissi le poche parole. Ma accadde che tutta la folla mi manifestò la sua viva delusione dicendo: noi abbiamo voluto qui Fausto Gullo – io ero allora Ministro dell’agricoltura – perché ci parlasse della riforma agraria. Non concepivano che potesse essere altrimenti. Non scendo a particolari: dico soltanto che fui costretto a parlare e lungamente della riforma agraria. Ciò non mi è mai capitato a proposito dell’ordinamento regionale.

MACRELLI. Non è un argomento questo.

Una voce. Il popolo non può domandare una cosa che non conosce.

GULLO FAUSTO. Noi presumiamo troppo di noi stessi quando riteniamo di conoscere i bisogni del popolo, più di quanto li conosca il popolo stesso nel suo infallibile intuito.

In Sicilia, invece (parlo della Sicilia, per essere questa vicina alla mia Calabria), il problema è sentito, ed una manifestazione esagerata di questo sentito bisogno ce la dà il Partito separatista. In Calabria, nella Lucania, nelle Puglie non c’è nulla di lontanamente simile a ciò. In Sicilia il fenomeno si spiega, sia perché essa è un’isola e l’isolano ha uno stato d’animo particolare; e sia perché la Sicilia affonda in remotissima epoca le radici della sua autonomia. Essa è stata sempre uno Stato a sé. Fu soltanto la Santa Alleanza che, mutando la denominazione di Re delle due Sicilie in quella di Re del Regno delle due Sicilie, tolse l’autonomia statale all’isola. Questa viva tradizione determina nel popolo siciliano un’esigenza, che per ragioni pressoché simili è anche della Sardegna, della Val d’Aosta, dell’Alto Adige. Ma nel resto d’Italia questo bisogno non è affatto sentito. Saremmo noi (e rispondo ancora all’interruzione del collega) a indovinarlo. Non c’è cosa più pericolosa che ritenere d’indovinare i bisogni popolari. Ricordo agli amici democristiani un esempio insigne, un esempio che tolgo da una delle pagine più gloriose, più epiche, più pure del nostro Risorgimento: la Repubblica Partenopea. Quei generosi legislatori ebbero, in un punto, la pretesa d’indovinare i bisogni del popolo. Il fatto è così riferito nella bella prosa di Pietro Colletta: «Un decreto divise lo Stato in dipartimenti e cantoni, abolendo la divisione per provincie e mutando i nomi, per gli antichi di onorata memoria. Scambiati i nomi, il territorio spartito in due cantoni, scordate certe terre: insomma tanti errori che si tornò all’antico; e solo effetto della legge fu il mal credito del legislatore». Quei generosi legislatori, che si chiamavano Mario Pagano, Vincenzo Russo, Ignazio Ciaia, ebbero l’illusione che così facendo essi andassero verso un reale bisogno popolare. Io penso che ripetendo ora lo stesso errore, andando incontro a un bisogno inesistente, si creerebbero danni e pregiudizi molto maggiori di quello che non sia il mal credito del legislatore.

Vi è, senza dubbio, un’autonomia sentita dal nostro popolo, ed è l’autonomia comunale. Sarebbe stolto ed aberrante negare la esistenza di questo bisogno. Ed è giusto che esso sia tenuto presente dal legislatore di domani; è giusto che alla vita comunale si dia maggiore respiro e maggiore sfera di attribuzioni e di competenze, perché lì esiste una reale esigenza popolare.

Ma come mai allora, senza che una necessità si sia manifestata (ed io escludo, o amico Lussu, dal mio ragionamento la Sicilia, la Sardegna, la Val d’Aosta ed il Trentino), come mai questa grossa questione della autonomia regionale è pur stata portata sul tappeto politico in questo grave turbinoso momento della nostra storia?

Come è già stato detto da parecchi – e non farei che ripetere male ciò che è stato ben detto da tanti – il fatto si deve allo stesso periodo eccezionale che noi attraversiamo, alla disfatta militare, al ricordo del centralismo soffocatore, che fu proprio del fascismo. Siamo d’accordo. Ma è ben strano che si possa stabilire senz’altro che, essendo stato il fascismo accentratore, il male non fu il fascismo, ma la forma accentratrice che il fascismo assunse.

Accade a tutti di essere spesso vittime di illusioni simili a quella propria del malato, il quale pensa che voltando il fianco possa arrecar lenimento al suo male. Ed è accaduto, appunto, che addebitando erroneamente al centralismo statale le cause e le ragioni di tutti i mali, si è voluto porre sul tappeto della discussione politica la questione delle autonomie regionali. E nel porla – me lo consenta l’onorevole Piccioni – si è fatta anche della demagogia. Io non ho mai compreso nel suo significato la parte dell’ordine del giorno Piccioni, votato dalla seconda Sottocommissione, la quale dice che «la seconda Sottocommissione, ha preso in esame la questione delle autonomie locali, sulla cui larga attuazione si è trovata concorde per il rinnovamento democratico e sociale della Nazione, in aderenza alla sua tradizionale e naturale struttura». Cosa vuol dire? Non l’ho inteso bene o, se ne ho inteso il significato, esso è nettamente contrastante colla nostra storia, colla nostra tradizione, colla nostra destinazione naturale.

Come sarebbe a dire? Sul serio si ritiene di aderire alla tradizione e al sentimento naturale del popolo italiano, nel momento in cui si accentua la necessità delle autonomie regionali e della conseguente partizione del territorio nazionale? O non è vero, invece, che la nostra tradizione, lo slancio naturale del popolo italiano, l’anelito che secoli e secoli di schiavitù non sono riusciti a distruggere e che congiunge, attraverso cinque secoli con filo ininterrotto, l’invocazione «Italia mia» di Francesco Petrarca a quella «O Patria mia» di Giacomo Leopardi, è quello di conseguire l’unità del territorio e del popolo italiano?

È questa la tradizione, questo il sentimento del popolo italiano! (Applausi). È ben strano che in tema di autonomie regionali si parli di aderenza alla tradizione e alla naturale struttura della nostra Nazione.

È vero, ripeto, perfettamente il contrario.

È vero, cioè, che il popolo italiano ha lottato sempre per l’unità del Paese ed è vera un’altra cosa, che noi capovolgiamo il processo storico nel momento in cui, ottenuta l’unità, noi vogliamo ritornare al federalismo o quasi. Molte erano già le ragioni che non mi facevano guardare affatto con simpatia al decentramento regionale; ma devo dire sinceramente che molte altre ne ho tratte dal discorso dell’onorevole Einaudi, specie quando egli accennava a tutti i pericoli già contenuti nella legislazione in atto sulla regione siciliana. Ma egli forse ha dimenticato un argomento ancora più importante che si ricava da una costante legge naturale: creato un organo, si crea anche lo sviluppo necessario di una funzione. Che cosa accadrà, nonostante i limiti che saranno fissati dalla legge, quando avrete creato la regione autarchica, fornita di facoltà legislativa primaria e complementare? Che cosa accadrà quando voi avrete creato questo organo? Avrete senz’altro messo in cammino una funzione che, per legge naturale, tenderà necessariamente ad estendersi. E non sarà la sfera di attribuzioni propria del Comune, il quale, appunto per essere una piccola circoscrizione, non potrà mai costituire un serio pericolo politico per lo Stato. Si tratterà della regione, che è tanto più vasta, che ha una somma di bisogni e di interessi che si impone allo Stato. E che cosa accadrà, quando, pur avendo limitato con la legge le attribuzioni della regione, il Parlamento regionale, ribellandosi alla legge, varcherà i limiti e legifererà su materie che non sono sue? Dovete pur prevedere tale pericolo. E che cosa accadrà quando questo fatto si ripeterà per tre, quattro, cinque regioni?

Come si può concepire uno Stato che viva la sua vita in continuo contrasto, in continua battaglia con le regioni del proprio Paese? Si risponde: vi è la Corte Costituzionale. Non scendo a dettagli. Basta esaminare anche sommariamente il macchinoso organismo creato con questo Titolo V, al quale è affidato il compito di appianare i ben prevedibili contrasti.

La vita politica italiana non sarà altro che una lotta continua fra il centro che tenterà di infrenare l’attività regionale e le regioni che tenteranno di rompere gli argini e varcare ogni limite.

Ieri il collega onorevole Tessitore paragonava coloro che prevedono i pericoli dell’ordinamento regionale al fidanzato il quale non si decide ad andare a nozze se non quando ha assicurato solidamente il suo piano economico. E notava che la mancanza di audacia e di slancio, alle volte, nella vita, come nei fidanzamenti, è una remora che può riserbarci pericoli e danni maggiori. E sul principio si può esser d’accordo. Ma è da considerare anche il caso del fidanzato che si lancia difilato al matrimonio, senza aver accertato qual viso ci sia sotto il rossetto, e se le apparenze rispondano alla realtà. C’è il caso che il suo ideale crolli rovinosamente la mattina dopo. Non so se sia da preferire la tarda posatezza del primo fidanzato o la furia cieca dell’altro.

Guardiamolo un po’ più da vicino, questo ordinamento regionale; e nel momento in cui io lo guardo così, penso (ed è naturale, perché ognuno di noi porta la sua esperienza) penso alla mia regione, pur ritenendo che le condizioni delle altre regioni non siano poi così profondamente diverse da rendere impossibile che si possa riferirsi anche ad esse allorquando si discute del Mezzogiorno. Io sentivo, per esempio, l’onorevole professor Einaudi decantare ed esaltare poco fa l’ordinamento che c’era nel Piemonte prima che la rivoluzione francese vi portasse le idee nuove. Vi erano, – egli diceva – al posto dei consiglieri comunali i padri di famiglia che si riunivano intorno, non so se alla mitica quercia, e decidevano degli interessi e delle cose paesane. E da maestro quale egli è, dipingeva addirittura un ambiente idilliaco, quale noi riusciamo a pensare soltanto quando siamo in istato di dormiveglia. Ma egli dimenticava che Vittorio Alfieri ci racconta che dovette scappare dal Piemonte perché si viveva in un’atmosfera assolutamente irrespirabile. Egli, uomo libero, non sopportava quell’angusto ambiente piemontese. L’ambiente idilliaco, di cui ora si parla, era in realtà addirittura soffocante. Meno male per i piemontesi che un giorno l’esercito vittorioso della rivoluzione francese ruppe gli argini e aprì le finestre di quel mondo chiuso dando al Piemonte la maniera di riallacciarsi alle nuove correnti del mondo civile. Ma, ripeto, io voglio soltanto qui limitarmi alla esperienza che ho del mio Mezzogiorno. Qui ho sentito parlare di esso ancora con gli stessi abusati termini. Ancora poco fa il collega onorevole Zotta si domandava come mai questo Mezzogiorno, che circa un secolo dietro, quando cioè entrò a far parte della famiglia italiana, non presentava nessuna diversità di vita con le altre regioni, dopo pochi anni di centralismo statale (e, come al solito, attribuiva sempre a questo mostro, che è il centralismo statale, la causa di tutti i mali del Mezzogiorno), come mai dopo pochi anni poté arrestarsi mentre le regioni settentrionali andavano in su?

Non vedo in questo momento l’onorevole Nitti. Ricordo che egli, così benemerito degli studi sul Mezzogiorno, scrivendo il suo libro Nord e Sud, reagì in modo perfettamente spiegabile alle mille incredibili cose che si dicevano del Mezzogiorno, quando il Mezzogiorno era ancora da scoprire. Si parlava addirittura di una inferiorità di razza di fronte ai settentrionali appartenenti ad una razza superiore. Si disse anche che eravamo un popolo di ignavi, perché, tra le altre cose cervellotiche, si riteneva che la terra del Mezzogiorno fosse di una prodigiosa fertilità, e che se non rendeva abbastanza era perché i meridionali erano degli oziosi, essi, il cui duro e paziente lavoro è il risultato di sforzi che nessun altro popolo sopporterebbe! (Applausi generali). Francesco Saverio Nitti reagì a tutto questo, e, come in tutte le reazioni, andò oltre il segno. A tutti quelli che sostenevano che i meridionali fossero gli sfruttatori dello Stato unitario, egli dimostrò che essi erano invece gli sfruttati e che erano essi che alimentavano la vita delle regioni ricche con la loro miseria. E disse quali erano le condizioni del Mezzogiorno d’Italia nel momento in cui entrò a far parte dello Stato unitario; che vi era un debito pubblico molto meno grande di quello del Piemonte, e imposte molto meno onerose di quelle piemontesi, e un numerario metallico maggiore che in ogni altra parte d’Italia. Ma era questa una ricchezza sostanziale o soltanto un’ingannevole apparenza, dietro cui si nascondeva la miseria più nera e l’abbrutimento più sordido? Si voleva sul serio sostenere che il Mezzogiorno d’Italia fosse in condizioni floride quando si unì alle altre regioni del Paese, e che esso fosse addirittura la parte più ricca d’Italia, solo perché aveva un debito pubblico minore e imposte meno gravose? O non è vero forse che dietro questo apparente benessere il popolo viveva una vita che, in quanto a miseria, non poteva essere peggiore?

Sapete voi che cosa era la vita del Mezzogiorno d’Italia? Scrive Raffaele De Cesare, nel suo libro La fine di un Regno, che in tutto lo Stato vi era una sola grande strada, quella che andava dalla capitale a Reggio, e che essa sembrava un gran fiume senza affluenti.

Il Regnò di Napoli aveva soltanto 100 chilometri di ferrovia, meno del dieci per cento delle ferrovie che erano allora in Italia. Per darvi un’idea delle condizioni in cui viveva il popolo del Mezzogiorno nel 1860, vorrò leggervi poche frasi di uno scrittore, un prete bizzarro, poeta di ariostesca trasparenza, Vincenzo Padula, che Francesco De Sanctis onorò facendone oggetto di quattro lezioni universitarie, e al quale Benedetto Croce ha dedicato un’intera monografia. Egli scrisse molte pagine sullo stato delle persone in Calabria, pagine che Benedetto Croce definisce stupende di pensiero e di forma. Le scrisse nei primissimi anni del nuovo Stato unitario. Coloro che cianciano di un Mezzogiorno d’Italia che sarebbe venuto ricco e prosperoso nella grande famiglia italiana, farebbero bene a leggere queste pagine, nelle quali Vincenzo Padula passa in rassegna tutte le classi, dal proprietario al massaro, e via via fino ai contadini senza terra, che formavano allora i tre quarti della intera popolazione.

Io mi limito a leggervi qualche cosa che egli scrive a proposito del contadino senza terra, perché vi rendiate conto della misura in cui il contadino calabrese si avvantaggiava del fatto che il debito pubblico non fosse così alto come in Piemonte, che la circolazione metallica fosse abbondante e che le imposte fossero lievi. Scriveva Vincenzo Padula (è un poeta che scrive, ma dice cose più che vere): «Nel cammino della vita chi lo precede e chi lo segue smuovono le pietre, e queste, rotolando, non feriscono altri piedi che i suoi. La società con le classi più elevate grava su di lui ed egli bue, fratello del bue, è condannato a continua pena. Con le povere provvisioni accumulate in està, egli vive fino al 25 dicembre. E poi? E poi il freddo, la fame, la miseria, la malattia. Il bracciante guarda le sue braccia divenute inutili, la neve che lo chiude in casa, il focolare senza tizzo che lo riscaldi».

«Noi vogliamo» (dice questo poeta, che, per essere poeta, era un sognatore; e che egli sognasse in quel momento lo dimostrano 87 anni di vita unitaria) «noi vogliamo che la classe colta ed agiata guardi il popolo nostro composto tutto di braccianti proletari, nati da un legno afflitto, respinti dalla tavola dei beni sociali. Solleviamo arditamente il lurido e fetido panno che ne copre le piaghe, per far cessare le prepotenze, per far sparire le barriere che un orgoglio feudale ha messo fra i galantuomini e il popolo». Questo orgoglio feudale non è ancora cancellato. E continua: «O lettori e lettrici» (è un prete che scrive); «o lettori, o lettrici, lasciate di contemplare le piaghe di un Cristo di legno: io vi predico la vera religione e vi mostro un Cristo di carne: il bracciante».

Era questa la vita sociale del Mezzogiorno d’Italia, la vita che strappava a questo scrittore parole così eloquenti e che dimostra in quale stato di abbrutimento senza confronto viveva il nostro popolo. Senza bisogni, senza esigenze, ridotto alla pura espressione animale. L’analfabetismo era spaventoso; tra le donne, poi, era assolutamente totale. Tra gli uomini vi era il tre o quattro per cento che sapesse scrivere. Era così vasto l’analfabetismo che nei primi anni, quando entrò in vigore la legge elettorale, e si dovevano eleggere i consiglieri comunali, era un problema serio trovare in ogni comune quindici uomini che sapessero leggere e scrivere; per fortuna allora le donne non godevano ancora dell’elettorato. E sorse così la storiella dell’atto amministrativo che era firmato, per il sindaco analfabeta, con il segno di croce dall’assessore anziano.

Si capisce che un popolo che viveva in queste condizioni, senza strade, senza ferrovie, senza commercio, senza agi di nessun genere, potesse presentare quei segni di benessere finanziario statale, da cui Nitti ha tratto, sottolineandoli oltre misura, conseguenze che, se sono spiegabili con lo stato di reazione in cui egli scriveva, non sono certamente scevre di esagerazione.

Non sono questi i fatti che possono provare che il centralismo statale dal 1860 al 1947 avrebbe rovinato il Mezzogiorno. Diciamo la verità, perché bisogna essere onesti anche quando si chiede di veder alfine riparati i torti che si sono subiti, anche quando si denunciano le colpe di cui si è stati vittime. Come cittadino, come italiano, come meridionale, il quale insieme con la sua regione ama l’Italia con filiale affetto, io devo dire che è contro la storia, contro la verità colui che osa affermare che il Mezzogiorno d’Italia, entrando a far parte della famiglia unitaria, ha tutto perduto e nulla guadagnato.

Chi avrebbe costruito l’acquedotto delle Puglie, questa opera di grandiosità romana, se ci fossimo affidati soltanto alle risorse regionali? È un esempio di quanto lo Stato unitario ha fatto.

Non arriviamo ad esagerazioni che del resto riescono pregiudizievoli soprattutto alla nostra causa. Il Mezzogiorno d’Italia, entrando nello Stato unitario, non solo ha realizzato l’ideale dei suoi grandi figli, ma vi ha trovato anche l’utilità materiale.

È vero: il Mezzogiorno d’Italia doveva e poteva ottenere di più. Ed in ciò è stato sicuramente danneggiato. Ma da chi e da che cosa? Possiamo sul serio affermare che è stato danneggiato dal centralismo statale? Io potrei, nella storia dolorosa del nostro Paese, citarvi delle pagine oltremodo significative.

Nelle rivolte contadinesche che, specialmente nei primi anni che seguirono alla unificazione d’Italia, arrossarono tanto sovente le zolle delle nostre contrade, qual è sempre stato il segno verso cui si appuntarono tutte le ire, verso cui si volsero tutti gli odî delle masse? I poteri locali: quei poteri che, essi soli, mozzavano il respiro delle popolazioni, le quali ben sapevano che quelli erano i veri nemici.

Nel momento in cui affermiamo che lo Stato unitario italiano non riconobbe le necessità e i bisogni del Mezzogiorno d’Italia, che lo Stato unitario italiano non andò pienamente incontro a queste necessità e a questi bisogni, noi, onorevoli colleghi, scriviamo una condanna aspra, ma non già verso il centralismo statale, bensì verso le classi dirigenti del Mezzogiorno d’Italia. (Applausi a sinistra).

Furono soltanto esse che resero possibile fin dall’inizio, fin da quando cioè il processo unitario fu coronato dalla vittoria, l’arresto del vero sviluppo del Mezzogiorno. Furono esse ed esse soltanto che piegarono al compromesso regio. Quando Garibaldi, che rappresentava e simboleggiava il popolo, strinse a Teano la mano al re sopraggiunto, non previde che in quel momento si rendeva possibile il compromesso che avrebbe tagliato la via al progresso del Mezzogiorno d’Italia.

E fu la sanguinosa repressione dei contadini, i quali ritenevano che con l’unificazione del Paese fosse alfine spuntata un’alba nuova sul loro cammino; fu l’annullamento dei decreti di Giuseppe Garibaldi, il Dittatore, che, con finissimo intuito dei bisogni e delle necessità delle masse, aveva, non appena conquistato il Mezzogiorno, decretato che le terre demaniali e quelle delle congregazioni religiose venissero distribuite ai contadini. Il compromesso regio espropriò i beni demaniali e quelli delle congregazioni religiose, ma per darli ai ricchi, impoverendo ancora più le popolazioni.

In questa deleteria opera statale non è il centralismo che gioca; è la complicità vergognosa delle classi dirigenti meridionali, le quali, per tutelare i loro privilegi dalla rovina che essi temevano imminente, si staccarono dal popolo e si legarono coi nemici dichiarati del popolo italiano tutto e del popolo del Mezzogiorno in ispecie. (Applausi a sinistra).

E poi vennero, sì, altri sviluppi della politica statale, che furono pregiudizievoli senza dubbio alla vita del Mezzogiorno. Ma siamo sempre lì. Questa politica statale non sarebbe stata concepibile se appunto le classi dirigenti del Mezzogiorno avessero avuto coscienza dei loro doveri e anche del loro vero interesse, se esse avessero avuto un po’ più lunga la vista. Ed è inutile che io vi ricordi qui che cosa rappresentò per il Mezzogiorno la politica doganale dello Stato italiano. Ma occorre anche ricordare che questa politica doganale, che fu così dannosa per il Mezzogiorno, in tanto fu possibile in quanto – ripeto – la classe dirigente meridionale non volle essere mai consapevole di questo danno. Non possiamo dimenticare che uomini insigni del Mezzogiorno d’Italia, uomini di primo ordine per altezza di mente, per vastità di dottrina, tennero per anni le redini principali dello Stato italiano. Ma anche essi si resero schiavi di tutta un’atmosfera politica e sociale che s’era creata nel Mezzogiorno d’Italia, indipendentemente dal centralismo o dal decentralismo statale, ad opera appunto delle classi abbienti meridionali, della grande proprietà terriera, di questo incombente mostro sociale che mozza ogni nostro anelito di progresso, che taglia ogni via al nostro avanzamento sulla strada della civiltà. È la grande proprietà terriera che barattò gli interessi di tutto il Mezzogiorno e si lasciò pagare il suo consenso alla politica doganale con quel dazio sul grano che aggravò ancora di più le condizioni delle classi disagiate del Mezzogiorno, perché non solo le costrinse a pagare a maggior prezzo il primo alimento, ma le costrinse a pagare a più caro prezzo anche quei prodotti industriali che da allora in poi saranno mandati dal nord nell’Italia meridionale come in una terra di semplice consumo, in una terra di esclusivo sfruttamento.

È qui la tragedia del Mezzogiorno. Anzi, io oserei affermare – e non ritengo di esagerare – che se questo oblio costante dell’interesse vero della regione, che fu proprio delle classi dirigenti, non produsse danni ancora maggiori, fu perché, anche limitata e mal diretta, ci fu pur sempre un’azione statale. E quando penso ad un Mezzogiorno autonomo, provvisto di facoltà legislativa primaria e complementare, e penso quindi alla possibilità che la grande proprietà terriera abbia la padronanza esclusiva della vita locale, sia la dominatrice della nostra politica e della nostra economia, accentrata nella Regione, allora io mi domando se non è proprio scritto, nel destino imperscrutabile cui ci ha dannati chi sa mai quale potenza nascosta, che il progresso del Mezzogiorno non dovrà essere mai una realtà, che il progresso del Mezzogiorno dovrà essere soltanto il sogno mai raggiunto di poche menti illuminate.

Uno solo è il pericolo: che le classi possidenti meridionali possano tornare, attraverso una larga autonomia regionale, a dominare la nostra vita.

Eppure si afferma da tutti i sostenitori del decentramento regionale, che essi lo vogliono soprattutto per il Mezzogiorno.

Quanto alle regioni settentrionali, che hanno tanto progredito sulla via della ricchezza e del progresso civile, non vedo che cosa guadagnerebbero andando a rinchiudersi in un ordinamento autonomo.

Quanto al Mezzogiorno vi è anche da osservare che esso non ha mai avuto tradizioni di vita regionale. Si cade in un errore quando, invece, parlandosi della provincia, si afferma che si tratti di un ente artificiale.

Ma è la regione che nel Mezzogiorno sarebbe artificiale! E cercando di prevedere le conseguenze di un ordinamento regionale, non bisogna fermarsi soltanto al danno che ne avrà lo Stato. Non è che questo pericolo non vi sia. In mezzo a tante forze centrifughe, che si sono scatenate in seguito alla tragedia abbattutasi sul popolo italiano, è veramente pericoloso che vi si inserisca quell’altra che è indubbiamente costituita dall’ordinamento regionale.

E questa inserzione non è imposta da nessuna necessità: con essa anzi noi seguiremmo un cammino perfettamente opposto all’esperienza storica. Si è ben dato il caso di Stati separati che ad un certo momento della loro storia hanno constatato una comune esigenza unitaria, ed essi sono arrivati all’unità attraverso il federalismo. Ditemi, se potete, un solo esempio storico (se è vero che la storia è maestra dell’uomo ed è fonte della nostra esperienza), che dimostri che dall’unità si sia passati al federalismo!

Guardate: il progetto Minghetti era logico nel 1861. Coloro che dicono di spiegarsi le preoccupazioni unitarie contro il progetto Minghetti, e di non sapersi spiegare le preoccupazioni di oggi, dicono una cosa inesatta. In quel momento, nel quale Stati fino allora separati, cedendo ad una comune esigenza, si univano insieme, una gradualità di sviluppo si concepiva, ed era forse anche opportuna. Si potrebbe anche dire, se la storia si facesse con i se e con i ma, che passando, attraverso la esperienza federalista, all’unità, il processo si sarebbe forse compiuto con maggior vantaggio delle varie regioni.

Le preoccupazioni unitarie si capivano molto meno allora. E tenete presente che questa esigenza di non saltare di colpo, dopo secoli di divisione politica, all’unità, era così sentita, che nonostante ogni proposito diverso, in certi campi si dovette piegare alla necessità. Giovanni Porzio mi ricorda che fu necessario un codice penale opportunamente rettificato per le regioni meridionali, perché applicare ad esse quello sardo poteva essere pericoloso; e si diede a tal fine incarico ad un’accolta di giuristi di uniformare il Codice penale sardo alle necessità della vita meridionale. E ricordo anche che, non avendo il Codice penale toscano la pena di morte, si decise di non estendere nemmeno alla Toscana il Codice penale sardo che invece aveva la pena capitale. Si verificò così che si avessero contemporaneamente tre Codici penali: quello sardo, quello rettificato per il Mezzogiorno e quello toscano. Prova della necessità che non si saltasse di colpo al nuovo ordinamento.

Ma ora le preoccupazioni sono pienamente spiegabili. Non c’è motivo di rompere l’unità dello Stato guadagnata attraverso tanta storia e tante lotte, e segnata a caratteri indelebili nel cuore di ogni italiano.

È vero che in seguito al ventennio fascista si sono avuti degli sbandamenti. Ma non è vero che il danno sia derivato dal centralismo. Il nemico fu il fascismo, non il centralismo di cui esso si valse. Sarebbe stato lo stesso che la rivoluzione francese, nel momento in cui distrusse l’ordinamento feudale, non avesse raccolto, come eredità dalla monarchia assoluta, l’esigenza unitaria. Ma l’occhio acuto dei legislatori rivoluzionari seppe ben discernere quali erano le cause del male che bisognava togliere e quale il principio che doveva persistere. Essi ereditarono il centralismo statale e lo portarono di peso negli ordinamenti della rivoluzione; ciò che era da distruggere non era il centralismo statale monarchico, era l’ordinamento feudale.

PICCIONI. È quasi la stessa cosa.

GULLO FAUSTO. Non è la stessa cosa. Rivolgiamo ora l’attenzione ai riflessi che avrebbe l’ordinamento regionale sulle regioni più povere.

Sono appunto le regioni più povere che più soffrirebbero dell’ampia facoltà legislativa che noi daremmo. Perché insieme alla facoltà legislativa potremmo noi dare anche l’autosufficienza finanziaria? È vero, siamo tutti fratelli, tutti figli di una stessa madre. Ma insomma, anche tra fratelli non è detto che sia bello dare costantemente la prova che il fratello più ricco dia da mangiare al più povero. Vi sono regioni che non possono vivere da sole: o lo possono mantenendosi in uno stato di vita puramente animale. Ma se noi vogliamo che da questo stato di vita si esca; che queste regioni povere possano mettersi allo stesso livello delle regioni fortunate, dobbiamo pur dire che la Lombardia dovrà sovvenire la Calabria perché la Lombardia è più ricca. Quando abbiamo una cassa comune dove affluiscono tutti i tributi da ogni parte d’Italia, e con essa si provvede ai bisogni di tutti secondo una scala gerarchica dei bisogni stessi, e in essa la lira sudata del contadino calabrese si confonde con la lira del magnate industriale lombardo, nessuno può precisare la specifica provenienza.

Per quanto riguarda l’articolo 113, in cui è detto che ove la regione finanziariamente non basti a se stessa lo Stato ne integrerà il bilancio, lo stesso collega democristiano, onorevole Zotta, che mi ha preceduto, ha visto l’enormità di questa disposizione, la quale condannerebbe appunto le regioni povere a quella vita puramente animale da cui esse vogliono uscire. Ad esse si dice: «Se il vostro bilancio non basta, vi do tanto perché possiate pagare i medici condotti, i segretari comunali, i maestri: e così siete a posto; non c’è ragione che dobbiate lanciarvi verso una economia di largo respiro. È già troppo che la Lombardia, l’Emilia e la Toscana integrino i vostri bilanci; è sufficiente che non moriate di fame». E non significa forse ciò creare contrasti nuovi, far riprendere vigore a quelle polemiche fra Nord e Sud che la comune sventura poteva far pensare fossero alfine cessate? Non significa far dire ancora ai fratelli del Nord che se essi non camminano più spediti lo devono alla palla di piombo degli italiani del Sud, e ai fratelli del Sud di considerarsi gli eterni sfruttati dagli italiani del Nord? Non è acuendo questi contrasti che si può rassodare il terreno su cui tutti gli italiani si possano sentire veramente fratelli, e che si può render più viva e vitale questa Repubblica democratica che il popolo ha saputo creare.

Ciò non toglie che noi siamo, da un punto di vista puramente amministrativo, per la più larga forma di autogoverno locale. Che si dia ai Comuni la più larga vita, che si dia ai Comuni maggior respiro, che si allarghi la sfera delle loro competenze. Che si tolga ad essi l’incubo prefettizio. Vorrei ricordare agli onorevoli amici liberali quello che del prefetto pensava un uomo, che ha fatto onore al liberalismo italiano, Silvio Spaventa, il quale, nel suo famoso discorso di Bergamo sulla giustizia amministrativa, dice: «Il prefetto è un funzionario, in cui non si sa se la mancanza assoluta del carattere possa essere giustificata dalle necessità dell’ufficio». È la condanna definitiva e ci viene da parte di Silvio Spaventa, liberale e conservatore. Noi siamo per l’abolizione dei prefetti.

PICCIONI. Il prefetto è l’espressione tipica del centralismo.

GULLO FAUSTO. Io mi sono affaticato a dimostrare che non vogliamo che si crei un ente politico colla regione; cosa che si creerebbe inevitabilmente nel momento in cui si desse alla regione questa larga facoltà legislativa, primaria e complementare; si creerebbe un ente politico di tale vastità, da tener testa allo stesso Stato.

Cosa è stato mai il travaglio, vittorioso, della storia francese ed il travaglio, invece sfortunato, della nostra storia, se non lo sforzo continuo per costituire un potere centrale? Cosa è la storia di Francia se non la storia della lotta continua fra il centro, che voleva imporsi alle potestà locali, e le potestà locali che resistevano?

La Francia, più fortunata di noi, toccò la vittoria in questa battaglia e si costituì a Stato unitario tanti secoli prima. Noi non potemmo, per tante e tante ragioni, che è inutile ricordare, anche perché ce ne sono forse delle altre così difficili a scovare nelle tenebre della storia. Comunque, questa lotta si combatté anche in Italia, e fu un danno che essa fosse riuscita vittoriosa soltanto nel Mezzogiorno, dove lo Stato ottenne di riunire sotto di sé larghe zone di territorio. Ma nell’Italia del Nord non si riuscì. E quando sento incondizionatamente esaltare la nostra storia comunale, io penso che forse non si hanno sotto gli occhi tutti gli elementi inerenti allo sviluppo della nostra vita nazionale e della nostra civiltà. Ma lasciamo andare. Dicevo dunque: il prefetto è un organo rappresentativo del Governo centrale, ma è un organo dannoso, in cui si assomma tutta una serie di intralci, che vengono a frapporsi alla libera espansione della vita dei nostri comuni, che costituiscono una remora allo sviluppo della vita locale.

Il prefetto deve essere abolito, siamo d’accordo.

Noi possiamo, senz’altro, attraverso questa più larga, più libera vita comunale, pensare di aver trovato una ragione di progresso e di civiltà. Ma, quanto all’azione propria dello Stato, noi dobbiamo auspicare un potenziamento di essa, pur ritenendo che sia giusto ed opportuno che essa modifichi i suoi aspetti, a misura che debba attagliarsi ai particolari ambienti delle varie regioni. Perfettamente d’accordo. E in questo campo abbiamo esempi da imitare.

È stato già ricordato da taluno il Magistrato delle acque, il Provveditore alle opere pubbliche. A tutto ciò può provvedersi con opportune riforme del centralismo burocratico, senza bisogno di fare della regione una entità politica con facoltà legislativa, la quale costituirebbe un serio ostacolo al divenire progressivo dello Stato.

E si dice anche e sul serio che questa podestà legislativa può essere anche atteggiata in maniera diversa da regione a regione. Si pensa anche, insomma, ad una diversità di regimi regionali. Ma dove si va a finire? Crede davvero l’onorevole Einaudi che il solo risultato dannoso di un fatto simile sia che l’avvocato debba studiare dieci leggi anziché una sola? È audace pensare che il risultato sarà soltanto questo, quando avremo creato diverse legislazioni regionali, tutte vigenti sullo stesso territorio nazionale, e di fronte ad esse ci sarà una legislazione statale, la quale invano si affaticherà a coordinare tanti ordinamenti diversi. Ma si può davvero credere che ciò non sarebbe pregiudizievole all’unità della Patria, se unità della Patria non vuol dire soltanto comune territorio, se unità della Patria vuol dire spontaneità e concordia di sforzi nel tendere verso una stessa meta, unica per tutto il popolo italiano di qualsiasi regione, percorrendo la stessa via in piena fraternità di propositi e di fini da raggiungere?

Signori, se alfine e sul serio noi vogliamo pensare al Mezzogiorno d’Italia, perché vedo anche io che qui si innesta tutta la questione meridionale, se noi vogliamo pensare all’avvenire del Mezzogiorno d’Italia, lasciamo da parte l’ordinamento regionale, facciamo che tutti gli italiani raccolti nello Stato unitario intendano quello che finora non è stato mai inteso, e che forse è la ragione prima per cui la questione meridionale non ha avuto ancora la sua soluzione, intendano che non v’è una questione meridionale, e che v’è invece una questione nazionale che ha un aspetto meridionale. Noi senz’altro impiccioliremmo il grave problema, ne renderemmo più ardua e più difficile la soluzione, se lo facessimo estraneo a più di metà del paese e lo rinchiudessimo nei confini della sola Italia del Mezzogiorno. E noi dovremmo dire ai nostri fratelli del Sud: riprendete il pesante fardello che portate da secoli e che non siete riusciti finora ad allontanare dalle vostre spalle! È giusto che voi lo portiate da soli, adoperatevi da soli a trovare la maniera di renderlo più lieve. È il vostro destino.

È questa la meta a cui si vuol tendere? O non è vero invece che allora soltanto noi avremo la rinascita del Mezzogiorno quando tutti insieme saremo riusciti a distruggere gli effetti ancora presenti del fatale compromesso regio che spezzò lo sviluppo della vita meridionale, quando avremo cancellato alfine il feudalesimo delle campagne, quando avremo dato al mezzogiorno quella riforma agraria che nessuna Assemblea Regionale gli darà mai? Solo quando avremo ottenuto che i contadini della mia Calabria, che i contadini della Lucania, che i contadini delle Puglie siano alfine i signori del loro destino, quando essi finalmente saranno usciti fuori dalla tragica alternativa tra una supina rassegnazione, che è la negazione di ogni dignità umana, e lo scoppio sanguinoso della rivolta, solo quando noi avremo ottenuto ciò, avremo senz’altro raggiunto la meta: la rinascita del Mezzogiorno e con essa la rinascita dell’Italia tutta. (Vivi applausi Molte congratulazioni).

Presidenza del Presidente TERRACINI

PRESIDENTE. È iscritto a parlare l’onorevole Uberti. Ne ha facoltà.

UBERTI. Malgrado l’ora tarda e dopo che hanno preso la parola personalità come il professor Einaudi e l’onorevole Gullo, sia permesso a me, malgrado che prenda in quest’Assemblea per la prima volta la parola, di esprimere qualche concetto di carattere sosstanziale a sostegno del principio dell’autonomia regionale. Non è per me questione nuova. La sostenni nel 1921 e avesse voluto il cielo che allora avesse potuto incontrare maggiori aderenze ed una pratica effettuazione nella vita nazionale. Sono d’accordo, in questo, con l’onorevole Einaudi. Forse avremmo messo una barriera ed una difficoltà veramente importante e notevole contro l’avvento della dittatura fascista. Io ho avuto la ventura, nel periodo immediatamente dopo la liberazione, di essere prefetto della mia provincia e non mi sono sentito di fare il prefetto burocratico, secondo lo stile centralizzato, e ho detto: accetto ma intendo essere un prefetto espressione delle libere volontà locali, cercare di interpretare quella che era l’opinione, quelle che erano le aspirazioni di tutti i cittadini; essere, anche se nominato dal Comitato di liberazione, un vero prefetto elettivo, essere ante litteram quello che secondo il progetto dovrebbe essere domani il Presidente della Giunta Provinciale, di cui all’articolo 120. Perché insistiamo con tanto fervore di convinzione, con tanto sforzo di elaborazione in questa autonomia regionale? Se dovessimo raccogliere quanto è stato detto nell’eloquente discorso dell’onorevole Gullo e anche qualche accenno fatto dall’onorevole Dugoni, dovremmo dubitare e temere che si tratti forse di una creazione artificiosa. Per i repubblicani si tratterebbe di una tradizione del loro programma, e per noi democristiani di una specie di neoguelfismo, di visioni medioevalistiche che vorremmo far rinascere, anziché di un’esigenza viva, attuale, moderna. Vi sono invece, secondo il nostro modesto avviso, ragioni profonde per attuare questa riforma se vogliamo dare alla vita di questa nuova Repubblica un contenuto vero di democrazia, determinare le condizioni di sviluppo di una vita nazionale veramente repubblicana.

Anzitutto è in atto una crisi nel sistema parlamentare che è gravissima. La seconda Sottocommissione l’ha attentamente studiata e ne andremo discutendo quando arriveremo al titolo riguardante il Parlamento. Se noi lasciamo sulle spalle degli organi centrali del potere legislativo il compito di dover provvedere a tutti i problemi sempre crescenti della complessa vita moderna, il Parlamento ne sarà oberato e non potrà svolgere la sua azione. Vediamo noi stessi nella Costituente, in questa Assemblea che non ha i compiti del Parlamento ordinario, che ha lasciato al Governo tutti i compiti di carattere legislativo, vediamo quali difficoltà abbiamo incontrato nel discutere accanto al problema fondamentale della Costituzione le due leggine sulla cinematografia e sulla legge comunale e provinciale. Immaginate che cosa accadrà quando tutti i problemi dovranno essere esaminati e approvati dal Parlamento! Che cosa accadrà quando, come è stato stabilito nel progetto, il Governo non potrà più ricorrere ai decreti-legge, come era prima del 1914, e come è indubbiamente giusto? Come potrebbe funzionare lo Stato, quale congerie di lavoro non avrebbe il Parlamento?

Si dice: ricorriamo alle Commissioni. Il Parlamento francese lo tentò prima della altra guerra; nel periodo fascista si è fatto ricorso alle Commissioni legislative; anche noi siamo ricorsi in qualche modo alle Commissioni per vagliare i progetti per i quali il Governo crede opportuno sentire il nostro parere prima che essi siano emanati. Ma ci accorgiamo cosa sono queste Commissioni? La loro è una vita clandestina; il Paese, e non solo il Paese, ma anche i colleghi che non ne fanno parte, non hanno alcuna comunicazione circa i loro dibattiti. Ora è chiaro che non vi può essere democrazia senza pubblicità, senza il controllo del popolo; si avrebbe un Parlamento staccato dalla realtà, dalla vita popolare del Paese.

Di più: prendiamo una Gazzetta ufficiale di qualsivoglia giorno e possiamo constatare quanti decreti sono in essa pubblicati! Pensiamo realmente che tutti quei decreti possano essere discussi ed affrontati dal Parlamento? Se ne deduce che se vogliamo far funzionare un regime di repubblica parlamentare e non far arenare la vita dello Stato dobbiamo sveltire organicamente il compito del Parlamento nazionale a pochissime leggi. L’onorevole Einaudi ci ha osservato nella seconda Sottocommissione che, da un certo punto di vista, meno leggi ci sono, tanto meglio è! Le cose andranno meglio. Dal punto di vista liberale egli ha perfettamente ragione, ma chi ha diversa concezione politica vuol arrivare a limitare la legislazione nazionale non per difficoltà di funzionamento, ma per una differenziazione di compiti. E allora è evidente che per superare questa crisi del regime parlamentare dovuta ai cresciuti compiti statali è necessario sgomberare la vita del Parlamento nazionale di tutte quelle leggi che hanno carattere locale, di tutte quelle leggi che non hanno carattere di affermazione di un principio giuridico, e non intacchino il bilancio dello Stato, per affidarle agli organi rappresentativi più direttamente competenti, cioè agli enti locali, rappresentativi delle masse popolari, così come è il Parlamento, i quali nelle singole zone, dove è vivo il problema locale, possano darvi tempestiva soluzione. Non vediamo d’altro canto, quali difficoltà incontriamo a rendere attuale nella vita nazionale un problema politico che localmente è già maturo e tale da reclamare urgente soluzione? Problema che quando anche tutti i deputati di una regione lo pongano non si arriva a farlo divenire un problema politico. È evidente che far risolvere tutti i problemi della vita nazionale, anche quelli locali, in funzione nazionale è uno sforzo che il Parlamento non può fare, supera le sue possibilità e così tanti problemi rimangono dannosamente insoluti.

La nostra Repubblica è una repubblica parlamentare. Noi accettiamo il regime rappresentativo. Ma se poniamo delle condizioni per cui questo regime non possa svolgersi, è evidente che noi l’avremo messo sulla carta e dovremo più tardi constatare che esso non può funzionare. Dobbiamo quindi prevedere e fin d’ora provvedere.

Ma oltre la crisi parlamentare, cui dobbiamo anticipatamente ovviare, v’è quella del centralismo burocratico. Abbiamo sentito nel discorso impetuoso, anche se non persuasivo, dell’onorevole Gullo farsi l’elogio del centralismo. Ma non constatiamo, onorevoli colleghi, ogni giorno, nella trattazione di tutti i problemi, che è continua ed assillante, la reazione e la protesta contro il soverchiante centralismo statale? Il centralismo statale, onorevole Gullo, non potete confonderlo con il problema unitario del Paese. L’unità si fa per le cose che sono necessariamente, essenzialmente comuni; non si fa l’unità con l’imposizione dal centro, facendo leggi uniformi per ambienti e problemi diversi, imponendo una volontà burocratica che si sovrapponga alla volontà dei cittadini che sono interessati alla soluzione di quei determinati problemi. Oggi abbiamo una ipercrisi della burocrazia. I funzionari dello Stato sono oltre un milione e centomila, e vi saranno domani ancora altre ragioni sociali per mantenere altri dipendenti dello Stato e per assumere nuovi dipendenti.

Noi arriviamo oggi al punto che una ogni 40 persone deve essere mantenuta dalla pubblica amministrazione, e senza contare i funzionari dei comuni, delle provincie, degli enti parastatali, peso enorme che incide sul tenore di vita generale, che riduce il reddito destinato ad altri scopi della vita nei suoi aspetti, anche culturali e spirituali. Non aspettiamo per approfondire il problema che si determini una reazione generale, popolare. Qualcuno dirà: ma voi ce l’avete con la burocrazia centrale. Io conosco dal 1921-22-24 (e ne ho ritrovato a Roma oggi dopo il fascismo) dei funzionari di alto valore e di esemplare carattere. Non intendo criticare né negare la necessità della burocrazia centrale. Dicevo anzi, proprio domenica, ad alcuni alti burocrati: voi non dovete opporvi ad una riforma reclamata dalla coscienza pubblica nazionale, dovete anzi mettere al servizio del paese le vostre specifiche competenze per tradurre in atto questa riforma, che è difficile, ma che deve snodare la vita amministrativa del Paese, realizzare qualche cosa di veramente più elevato e più moderno, che abbia la virtù di render feconde tutte le energie e tutte le attività locali. Non sono i vostri servizi che respingiamo, ma il sistema centralista che non va più. Divenite i collaboratori, non gli avversari della grande riforma. È un appello vivo e sincero che rivolgo anche da questa tribuna. Ma qualcuno oppone: noi risolviamo ugualmente il problema col decentramento amministrativo. Lo ha ripetuto qualche momento fa l’onorevole Gullo accennando al Magistrato per le acque, ai Provveditorati per le opere pubbliche. Ha potuto in realtà solo citare le poche forme di un qualche decentramento. Ma anche al Magistrato delle acque di Venezia quei funzionari esimi sono nominati e sorvegliati, ricevono istruzioni e fondi dal centro. Si resta sempre nell’ambito di un decentramento burocratico che non risolve il problema di poter arrivare a far sì che siano i cittadini gli interessati, i governati, gli amministrati, a decidere dei loro problemi.

Tutti noi deputati riceviamo continuamente incarichi o commissioni e dobbiamo – noi che dovremmo essere qui massimamente per elaborare la nuova Costituzione – andare dal funzionario A o B per sollecitare che sia risolto un certo problema e dobbiamo constatare che problemi anche minimi dipendono dal giudizio che se ne fa il funzionario centrale in base a referti della burocrazia locale.

E il funzionario centrale non solo regola i gangli centrali dello Stato, ma attraverso le nomine degli uffici ed enti locali, divenendo membro dei consigli di amministrazione degli enti parastatali, diviene il reale padrone dello Stato. Per cui se non daremo vita all’iniziativa regionale anziché una Repubblica democratica avremo per davvero – confessiamolo apertamente – creata una Repubblica burocratica.

Né si dica che questi sono problemi di crisi dell’organismo burocratico, che può essere modificato sostanzialmente, semplificato, snellito, radicalmente migliorato. In realtà alla riforma della burocrazia ci si è sempre pensato: ricordo che in tutti i programmi di governo dell’altro dopo guerra vi era sempre la riforma della burocrazia. Lo stesso fascismo che asseriva di volerla iniziare nel campo ferroviario non attuò che il licenziamento dei ferrovieri antifascisti. La riforma della burocrazia si è sempre risolta in un nuovo aumento quantitativo e di potere della stessa, per cui, chi dice in questa Assemblea di essere favorevole al decentramento amministrativo e alla riforma della burocrazia, dice una cosa quanto mai irreale, perché mai avrà la forza, la possibilità di poterla realizzare.

Ma osserverete, legittimamente, onorevoli colleghi, che non è sufficiente per esigere una così profonda riforma, come quella dell’autonomia regionale, addurre inconvenienti da rimuovere quali il soverchiamento per incombenze eccessive degli organi legislativi o la mortificazione del centralismo, ma che occorrono ragioni di merito, intrinseche.

Ora, vi è, secondo me, una ragione su cui tutti dovremmo essere d’accordo; e difatti nella seconda Sottocommissione, quando si discusse il primo agosto l’ordine del giorno dell’onorevole Piccioni, due soli colleghi, l’uno perché separatista, l’altro, l’onorevole Nobile, perché deciso centralista, votarono contro quell’ordine del giorno. Anche i colleghi dell’estrema comunista votarono a favore di quell’ordine del giorno.

Tutti lo accettarono e sentirono, sotto la morsa della discussione, nella quale si manifestò tutta la gravità del fenomeno, la necessità di accedere al punto di vista dell’ordinamento regionale.

Quello che è essenziale, dunque, è che dobbiamo creare un ente locale che sia vivo, che sia vitale, che sia vitale veramente, per realizzare l’autogoverno. E non vorrò, a questo proposito, esprimermi nella forma dirò così arcadica che ha usato poc’anzi l’onorevole Einaudi, ma in una forma più viva, più moderna, più democratica; e cioè dirò che i cittadini debbono partecipare con la loro volontà alla vita locale, che i cittadini debbono essere essi i determinatori della loro vita amministrativa.

Che cos’è infatti, onorevoli colleghi, che cosa può, che cosa deve essere la democrazia se non la partecipazione del popolo alla risoluzione dei suoi particolari problemi? E non constatiamo dolorosamente invece quanto sia difficile farlo partecipare a certi grandi problemi della vita nazionale e che egli possa afferrare certi fenomeni nazionali complessi?

Esso è invece quanto mai idoneo ad intendere, affrontare e risolvere i problemi che gli sono più direttamente vicini: i problemi del comune; e non solo del comune, ma anche i problemi della provincia, della regione, attraverso il referendum, attraverso le elezioni, attraverso la partecipazione più diretta possibile alla vita del proprio centro, così da esprimere nel modo più diretto e immediato la propria volontà, così da formare in sé tutto un senso nuovo di responsabilità:

Soltanto così noi faremo una vera democrazia, una democrazia che non sia soltanto sulla carta. E quando l’onorevole Gullo accusa le classi dirigenti del Mezzogiorno, io dico: E perché la Regione, anche nel Mezzogiorno, non deve essere uno strumento – poiché la Regione non deve costituire una riforma finalistica, ma una riforma strumentale – perché, anche nel Mezzogiorno, la regione non può essere la forza di rinnovamento di quelle contrade? Forse che la Regione non è espressione del suffragio universale? Forse che siamo già a questo punto che diffidate del suffragio universale?

Quando si vede che non solo la Sicilia, ma anche la Sardegna manifestare la volontà di voler risorgere per mezzo della regione, perché anche in Sardegna vi è un movimento autonomista vivo, perché anche in Sardegna si dice: «Solamente attraverso la nostra opera, solamente attraverso la nostra volontà, solamente attraverso la nostra cooperazione, noi decideremo la resurrezione della nostra isola», si nega apertamente la tesi del collega comunista.

E non è vero, onorevole Gullo, che siano solamente le quattro regioni ad invocare l’ordinamento regionale. Io posso dire che, anche nella mia terra, nel Veronese, nel Veneto…

LOPARDI. Ed anche ad Aquila.

UBERTI. Sì anche in Abruzzo, parlando in oltre una ventina di comizi su pubbliche piazze, unicamente sul problema della regione, ho visto con quale fervore il popolo partecipasse all’affermazione della riforma regionale. Ho sentito dire schiettamente: Sì, è attraverso questi mezzi, che noi arriveremo realmente a far sentire il nostro pensiero, il nostro volere, a reclamare i nostri diritti: diversamente a Roma è come battessimo i pugni contro dei materassi.

Onorevole Gullo, non dobbiamo lasciar crescere la diffidenza verso il Parlamento nazionale come impotente a risolvere determinati problemi e cui l’ente regione offrirà una possibilità concreta e viva per attuare deliberazioni che tutti i cittadini postulano e che potranno controllare intervenendo direttamente nella propria vita amministrativa.

Non è quindi vero che solamente nelle quattro regioni vi sia questa volontà decisa di realizzare l’istituto regionale. Né voglio accettare la polemica ed entrare nelle questioni delle circoscrizioni, dei confini, dei capiluogo – questioni secondarie che forniscono argomenti di bassa lega contro il principio regionalistico; – tutte le soluzioni hanno i loro inconvenienti; è necessario assolutamente vedere quella che è la ragione profonda, fondamentale, per realizzare un ente locale abbastanza ampio, più della provincia; perché spesso nella provincia non vi può essere una classe dirigente sufficiente per fare una legislazione, la quale possa arrivare a realizzare questo ente necessario per attuare l’autogoverno locale.

Ma anche per un’altra ragione dobbiamo volere la regione. Tutti parliamo di educazione politica delle masse. Siamo in periodo quasi pre-elettorale; i comizî sono continui; ma diciamo lealmente: abbiamo proprio fiducia che attraverso la polemica elettorale si facciano notevoli passi in quella che è l’educazione politica del popolo? O non è invece attraverso le amministrazioni, attraverso i corpi deliberanti, che si può arrivare realmente a porre in atto un’educazione popolare politica veramente viva? Non continuiamo a promettere – tutti i partiti indistintamente – questo o quell’altro. La stessa nostra Carta costituzionale – ed io ho votato, ed è giusto – ha promesso tante cose al popolo. Ma potremo noi attuare tutte quelle cose? Non sarà possibile attuarle se non attraverso uno sforzo di graduazione di spese, attraverso la mira del minimo mezzo, attraverso la partecipazione volitiva e concorde della massa del popolo.

Sembrami pertanto che solo la vita locale, attraverso i comuni, le provincie, le regioni, possa creare questa educazione politica, possa determinare che non solo cinquecento costituiscano la classe politica dirigente, ma che migliaia di persone, nei consigli comunali, nelle rappresentanze regionali, diventino la «élite» che realizzi veramente una nuova classe dirigente. Così noi arriveremo alla ricostruzione effettiva dell’Italia; dicendo al popolo la schietta verità.

E ancora: è solamente attraverso la possibilità di attivare le energie locali che possiamo sperare nella risurrezione. Io non sono un meridionale; tuttavia conosco le terre del Mezzogiorno; vi ho vissuto oltre un anno durante il periodo di confino. Secondo me, le regioni del Nord devono dare tutti gli aiuti possibili al Mezzogiorno; ma non è negli aiuti che esse, lo Stato, la burocrazia centrale potranno dare che si avrà la molla efficiente per la risurrezione del Mezzogiorno e delle isole, ma solamente da un’attiva volontà ricostruttrice deriverà il futuro benessere del Meridione. Solamente attraverso questo fermento si potrà arrivare a qualche cosa di vivo ed operante.

È possibile poi pensare che il nostro Parlamento possa fare delle leggi aderenti a tutta la diversa varietà di situazioni locali del nostro Paese, della nostra Italia? Quando nel 1922 si studiava e si discuteva la legge sul latifondo, si veniva ad assumere un impegno di tutta l’Italia. Fu approvata dalla Camera. Il fascismo l’arrestò al Senato, ma quella legge era evidentemente una legge soprattutto per il Mezzogiorno.

Il decreto Segni per l’occupazione delle terre è un decreto per tutta l’Italia, ma in realtà, rispondendo ad alcune situazioni, ha un’applicazione limitata ad alcune regioni. Per converso, certe leggi riguardanti le assicurazioni sociali sono nella realtà per il Nord, dove la struttura industriale è profondamente diversa dalla struttura agricola ed artigiana del Sud.

In questa situazione, è chiaro che i palleggiamenti di responsabilità e le accuse saranno continui e noi saremo costretti a far leggi che si applicheranno solo ad una parte del territorio.

L’onorevole Gullo ha detto: in quel paesino, alle 11 di sera, non mi è stata chiesta l’autonomia, ma la riforma agraria. E crede che sia possibile fare una riforma agraria unica in tutta l’Italia, una riforma da applicare alle diversità di terreni, di culture, di ambienti, di contratti agrari? Per tutta l’Italia si potrà porre l’istituto giuridico fondamentale che presieda alla riforma agraria, ma questa dovrà assumere aspetti diversi a seconda delle regioni a cui sarà applicata.

Non è possibile applicare a tutta la Nazione uno stesso vestito, una stessa legge, quando diversa è la situazione sottostante. Noi dobbiamo arrivare a fare leggi non così complicate e lunghe e molteplici come quelle che ci prepara tante volte la burocrazia, ma leggi vive, che il popolo capisca e alle quali aderisca perché sente che in esse è una vera anima, un lievito di resurrezione, una certezza di progresso.

E allora, se la Regione è una cosa necessaria, o per lo meno se questo ente territoriale più largo della provincia che chiamiamo Regione (e troveremo poi quali saranno le circoscrizioni, i metodi di aggregazione o di separazione), qual è il punto fondamentale a cui teniamo di questo Statuto, di questo progetto, che abbiamo studiato nel Comitato di redazione, nella seconda Sottocommissione, nella Commissione dei Settantacinque, e che adesso stiamo cercando di attuare nello Statuto tridentino allo studio?

Tutto può essere discusso e concordato in questa Assemblea, ma – secondo me – una esigenza fondamentale preminente dobbiamo tener ferma: che la Regione nasca viva e vitale! Tutto si può discutere e ciascuno di noi può portare tutta la propria esperienza, diversa per educazione, per cultura e per ambiente. Se modifiche e miglioramenti potranno essere prospettati, tutti saranno ben lieti di poterli introdurre. Ma quella che dobbiamo salvare è la regione, quello a cui dobbiamo mirare è che la Regione non nasca morta! Così, per esempio, non vedo come la Regione nascerebbe vitale se fosse un consorzio di provincie, perché sarebbe un ente non unitario, né vivo, né attuale.

Si è detto: ma voi volete ammazzare la Provincia, che secondo alcuni ha una tradizione. L’onorevole Einaudi ce l’ha additata come cosa estranea, introdotta nel Piemonte dal regime francese napoleonico: nel Veneto, rappresenta una tradizione più antica, non tanto come ente amministrativo, quanto come territorio, prima comune, poi signoria, infine aggregato della Repubblica veneta; in altre regioni l’evoluzione storica e la nascita della provincia si prospetta diversamente e risale solo al 1860.

Permettete che vi dica con tutta schiettezza che, secondo me, la questione della provincia è solo frutto di un grosso equivoco. Vorrei dire agli amici e a tutti i colleghi che la questione ha potuto essere sollevata solo perché non si è compreso esattamente lo spirito del progetto di Costituzione, perché si sono applicati alla regione gli stessi principî del sistema centralista burocratico.

Si è ritenuto di dover insorgere contro un pericolo di accentramento regionale, ipotizzando naturalmente che la Regione dovesse attuare nel suo piccolo quello che fa lo Stato, dovesse cioè attuare un centralismo burocratico contro le provincie. L’equivoco è evidente. Lo stesso principio di autonomia che vige per la Regione deve vigere per tutti gli altri enti minori, i comuni, le provincie, i distretti, i circondari: più organismi si faranno e più la volontà del popolo sarà rappresentata, più l’amministrazione sarà adeguata alla volontà dei cittadini. Perché, ditemi voi: quale diritto ha localmente il capo del genio civile o il provveditore agli studi, o l’ispettore dell’agricoltura, o, in genere, ogni funzionario mandato da Roma, quale diritto ha di decidere non solo sulla legalità dei provvedimenti, ma anche sulle questioni di merito, non tecniche, che incidono nella vita locale impedendo ai cittadini di quella determinata provincia, di quel dato comune, di quel distretto, di risolvere le loro cose come essi stessi le intendono?

Ora questa libertà non c’è, e si deve pregare il funzionario A o il funzionario B, quando addirittura non sia necessario ricorrere ad altri mezzi per far prevalere le volontà locali.

Dobbiamo rovesciare questa situazione, dobbiamo far sì che nella provincia, nel comune, nel circondario, nel distretto tutto dipenda dalla volontà delle popolazioni e niente si decida contro di esse. Naturalmente devono essere rispettati i principî generali su cui è imperniata la vita dello Stato, questi principî non devono subire offesa. Ma tutto ciò che entra nel merito delle questioni locali non è giusto sia affidato al parere di funzionari dell’autorità centrale e che sia risolto al di fuori della volontà delle popolazioni interessate. Altrimenti quando queste popolazioni vedranno che nulla ottengono, qualunque sia il deputato che esse mandino al Parlamento, e che le cose rimangono sempre come prima, allora avranno ragione di dire che il difetto è nella struttura dello Stato, che non va più perché è divenuto antidemocratico, perché va radicalmente contro la vera democrazia.

Io mi sono trovato per undici mesi a fare il prefetto. Mi sono ribellato a farlo secondo lo stile fascista, ma anche a farlo secondo lo stile prefascista. Bisogna interpretare la volontà delle popolazioni. E quando mi si invitava a ricorrere all’articolo 19, io rispondevo: non è giusto; siete voi che dovete decidere. Erano venuti da me gli agricoltori, i rappresentanti della Camera del lavoro, i rappresentanti di tutte le associazioni che facevano presenti i loro desiderata. Siate liberi, io rispondevo: non domandate all’autorità centrale delle approvazioni che essa non deve dare: dovete far da voi, senza bisogno di alcuna autorizzazione, né di tanti timbri che approvino la vostra opera. (Applausi).

Noi abbiamo avuto la parentesi di quel periodo che qualcuno ha criticato, ma che io difendo perché non fu privo di meriti, ed ebbe il merito principale di aver abolito – dove si è afferrata l’importanza della cosa e si è saputo elevarsi sopra il criterio angusto di parte – il criterio politico nelle prefetture.

Non ho quasi più messo piede nella prefettura di Verona. Non per minor deferenza verso i miei successori, ma perché, dico io, e a maggior ragione perché sono deputato dello stesso partito del Ministro dell’interno, non ho alcun diritto di influire sul prefetto, perché faccia in un modo o nell’altro e diminuire la libertà ad altri cittadini o ad altre correnti politiche, di toglier loro il diritto di difendere i propri interessi. No, rispondo. Dobbiamo volere la giustizia, l’equità, per tutti. Qui a Roma vi è troppo diffidenza verso la periferia, troppo si pensa che solo il centro è capace della giustizia obiettiva! È necessario invece realizzare, tradurre nella vita pratica, che le amministrazioni locali, nel merito, siano libere. Sbaglieranno. Ma chi non sbaglia? Faranno dei soprusi, qualcheduna sarà faziosa. Ce ne saranno. Ma la vera, l’unica, la grande sanzione è quella popolare. Quando la popolazione sa che non può e non deve ricorrere al prefetto o alla Giunta provinciale amministrativa o al Consiglio di Stato, ma che avrà invece la responsabilità della propria scelta, provvederà nel momento in cui elegge i propri amministratori a nominare della gente capace ed onesta, nelle elezioni si avrà la vera sanzione e si formerà un vero interessamento per la vita dell’amministrazione.

Ma permettetemi che io replichi brevemente ai due punti accennati – perché sono gravi – dall’onorevole Einaudi: quello delle acque pubbliche e quello del credito. Avrebbe ragione l’onorevole Einaudi, se si dovesse arrivare a limitare il credito, autorizzando determinate forme di intervento regionale. Ma pensate d’altro canto ad un fatto: è giusto, per esempio, che l’istituto di credito fondiario delle Venezie, che le Casse di risparmio del Veneto, che hanno decine di miliardi di risparmio raccolti fra le loro popolazioni, debbano investire obbligatoriamente questo risparmio in industrie di altre regioni e insieme negare strumenti adatti per la ricostruzione delle provincie delle Venezie? È evidente che tutto il patrimonio creditizio della Nazione deve essere per tutta la Nazione; ma bisogna contemperare i problemi, tener conto di aspirazioni profonde di grandi masse di risparmiatori che mal tollerano vedere i loro risparmi avviati, sia pure per ragioni altruistiche, verso altri campi che non quelli da cui sono scaturiti quei risparmi.

È in merito alle acque pubbliche – me lo consenta il collega Einaudi – debbo pure fare un appunto. Sono d’accordo che dare alla regione la proprietà delle acque pubbliche può essere un pericolo per la maggiore utilizzazione delle acque stesse. La realtà è però che quelle provvidenze che sono state poste sia dallo Statuto siciliano sia dalla legge autonomistica della Val d’Aosta, sono più che altro sulla carta, perché tutte le maggiori concessioni sono già in atto. Ormai non c’è che l’osso. Solamente fra 60 anni le regioni avranno diritto di rientrare in possesso delle loro acque.

Il problema è un altro: è di riconoscere alle regioni, ricche di acque e magari non ricche di altro, di non vedersi totalmente spogliate di questa loro unica ricchezza non solo come tale, ma anche per lo sviluppo della loro agricoltura, dell’artigianato e dell’industria locale. L’onorevole Einaudi ha qui dinanzi a noi esposto il lato negativo, critico della questione; ma l’onorevole Einaudi sa, perché anch’egli fa parte della Commissione governativa per l’elaborazione dell’autonomia della Regione tridentina, che si è giunti, anche col suo concorso, ad una soluzione intermedia, positiva, così come per il credito, anche per le acque pubbliche, con la cessione alla regione dei canoni erariali e con determinate percentuali di forza motrice riconosciute alla regione e all’agricoltura e industria locali.

Punto non meno grave è quello del nuovo assetto dell’amministrazione. Prego tutti gli onorevoli colleghi, specialmente quelli che hanno maggior competenza nel ramo, a studiare particolarmente l’articolo 112. Nella battaglia per la legislazione regionale e per la questione della provincia, è rimasta piuttosto in ombra nel progetto la questione dell’amministrazione. Pur senza dirlo espressamente, la seconda Sottocommissione ha inteso pronunziarsi per l’abolizione delle prefetture; intende che realmente tutte le funzioni provinciali attualmente statali, eccezione fatta di quelle della polizia e della finanza, passino alla Regione.

Sarebbe opportuno, anche ai fini di una più efficiente e sollecita realizzazione, che questo problema fosse approfondito e precisato con una formulazione più stagliata, la quale stabilisca le modalità per il trapasso dei poteri dall’amministrazione centrale all’amministrazione regionale.

Secondo me, invece, la questione tanto dibattuta dei poteri legislativi della Regione, che pare costituisca il punto cruciale del dibattito, è meno ardua e confido che tutte le parti dell’Assemblea, compresa la estrema, possano trovare una formula in cui convenire. L’onorevole Grieco aveva presentato un suo progetto, nel quale accettava la legislazione integrativa. Non v’è quindi una posizione di contrasto assoluto, teorico, ma solo una questione di limite. Basta stabilire che lo Stato deve limitarsi a fissare i principî fondamentali direttivi, delle riforme e delle leggi, in modo da lasciare alle regioni un largo margine integrativo, nel senso etimologico della parola, non nel senso inteso dai giuristi, di potestà regolamentare o poco più.

Quindi tutto il punto sta nello stabilire il limite, dove lo Stato si deve fermare e la regione iniziare. Se v’è accordo nel lasciare una parte della legislazione alla Regione, la possibilità di intenderci e di realizzare delle regioni vive ed operanti indubbiamente vi è.

Ma qualcuno teme la varietà di indirizzo delle varie regioni e dice: «Così avremo una Regione rossa nell’Emilia, una Regione bianca nel Veneto».

Voci. Sì, e una verde! (Si ride).

UBERTI. Sì, anche di altro colore, verde se volete.

Una voce. Ci saranno così confronti.

UBERTI. I confronti gioveranno a cimentare le rispettive dottrine, non in battaglie ideologiche, ma nella realtà concreta della vita. Il popolo vedrà, attraverso la dimostrazione effettiva della migliore amministrazione, del migliore Governo locale, quali sono i programmi meglio rispondenti ad un concetto sociale di progresso, di giustizia, di libertà. Saranno questi confronti motivi e ragione efficiente di formazione politica.

Una voce. La gara!

UBERTI. Sì anche la gara, l’emulazione per il bene, per la più saggia amministrazione. E in merito alla tesi della Regione facoltativa dico ai colleghi del Trentino, della Val d’Aosta, della Sicilia e della Sardegna: non crediate di assicurare la vostra autonomia combattendo solo per le vostre autonomie. Voi sarete rinserrati dentro ed assediati in queste vostre cittadelle autonomistiche in un organismo centralista che vedrà in voi un continuo pericolo.

È necessario, d’altra parte, dico agli altri, non fare una Regione facoltativa, perché la Nazione non si può vestire di un doppio vestito, emanare leggi e disposizioni duplici, di doppio valore, per le Regioni autonome o per le Regioni accentrate.

Concludo, che vi ho già troppo a lungo intrattenuto, dicendo: dobbiamo avere fiducia in questa riforma, l’unica vera grande riforma che realizzerà questa Costituente. I primi tre Titoli sono il programma etico-sociale che abbiamo fissato per l’avvenire; con gli altri, con qualche mutamento, non faremo che sostituire al Senato regio il Senato elettivo. Unica, vera riforma, che non sarà pane e lavoro, cioè una riforma finalistica, ma riforma strumentale nelle mani dei cittadini, per realmente realizzare le loro volontà, sarà questa riforma regionale, perché con essa faremo della nuova democrazia italiana veramente una democrazia potente e libera nelle mani del popolo. (Applausi vivissimi Molte congratulazioni).

PRESIDENTE. Il seguito della discussione è rinviato a domani, alle 16.

La seduta termina alle 20.55.

Ordine del giorno per la seduta di domani.

Alle ore 16:

Seguito della discussione del progetto di Costituzione della Repubblica italiana.

MARTEDÌ 27 MAGGIO 1947

ASSEMBLEA COSTITUENTE

CXXXI.

SEDUTA DI MARTEDÌ 27 MAGGIO 1947

PRESIDENZA DEL PRESIDENTE TERRACINI

INDICE

Commemorazione:

Bonomi Ivanoe                                                                                                 

Gasparotto, Ministro della difesa                                                                     

Persico                                                                                                             

Nobile                                                                                                               

Cingolani                                                                                                         

Russo Perez                                                                                                      

Corbino                                                                                                            

Presidente                                                                                                        

Congedi:

Presidente                                                                                                        

Messaggio del Presidente provvisorio dell’Assemblea Regionale Siciliana:

Presidente                                                                                                        

Risposta del Congresso nazionale di Costarica al Messaggio dell’Assemblea Costituente:

Presidente                                                                                                        

Risposte scritte ad interrogazioni (Annunzio):

Presidente                                                                                                        

Domande di autorizzazione a procedere in giudizio

Presidente                                                                                                        

Progetto di Costituzione della Repubblica italiana (Seguito della discussione):

Presidente                                                                                                        

Rubilli                                                                                                              

Abozzi                                                                                                               

Lussu                                                                                                                

Nobili Tito Oro                                                                                                

Nobile                                                                                                               

Tessitori                                                                                                           

Preti                                                                                                                 

Carbonari                                                                                                        

Rescigno                                                                                                           

Vinciguerra                                                                                                     

Sullo                                                                                                                

Micheli                                                                                                             

La seduta comincia alle 15.

MOLINELLI, Segretario, legge il processo verbale della seduta del 23 maggio.

(È approvato).

Commemorazione.

BONOMI IVANOE. Chiedo di parlare.

PRESIDENTE. Ne ha facoltà.

BONOMI IVANOE. Ricordare in questa aula, dove ha seduto come consultore, la figura scomparsa di Carlo Scialoja, che fu sottosegretario di Stato nel mio primo Gabinetto e poi Ministro nel secondo, è per me un dovere ed anche una pena. È una pena, perché le mie parole rinnovano uno strazio intimo nel quale affiorano i ricordi inobliabili di un’amicizia lunga e pressoché fraterna.

Ma è appunto in nome di questa amicizia, di cui ho sentito il fervore profondo, che posso affermare che egli fu uno degli spiriti più retti, più disinteressati e più devoti al Paese. La sua devozione alla Patria fu illimitata. Egli le diede tutto e nulla chiese per sé.

Come nell’altra guerra, dopo memorabili prove di valore, egli si ritirò nell’ombra, così in questo periodo, dopo aver dato la sua opera nel travaglio della ricostruzione nazionale, volle appartarsi per dedicarsi intieramente all’incremento degli studi giuridici. Spirito libero, egli aveva l’abito e il culto della libertà; manteneva schiettamente e lealmente le proprie idee, ma aveva piena comprensione e pieno rispetto per quelle altrui.

In talune questioni noi ci siamo trovati in dissenso, ma mai questo dissenso ha oscurato la nostra fraterna amicizia, fondata sulla reciproca lealtà e sulla stima assoluta. Nella crisi del fascismo, egli si trovò nettamente distaccato dai suoi antichi amici politici e rivolto fervidamente alla riconquista della libertà per il nostro travagliato Paese.

Nei mesi che precedettero il colpo di Stato del luglio 1943, quando io ebbi il piacere di conoscerlo, egli fu non solo il compagno, ma l’animatore più fervido di tutti coloro che cospiravano a liberare il Paese dalla trista dittatura che ci portò al disastro e alla sconfitta. In quelle ore difficili, quando ancora la polizia fascista era vigilante e sospettosa, Carlo Scialoja accettò tutti i posti più pericolosi, tutti gli incarichi più rischiosi.

Successivamente, quando Roma fu occupata dai nazisti e la reazione dei fascisti e dei nazisti diventò un vero terrore, Carlo Scialoja coraggiosamente divenne uno degli organizzatori di quel comitato militare che, accanto al Comitato di liberazione nazionale, preparò i volontari della libertà che dovevano, un anno dopo, scrivere una pagina così fulgida nella storia della liberazione italiana.

Finalmente, quando fu liberata Roma e fu costituito il Governo dei sei partiti, egli non poté rifiutare la sua collaborazione in un Ministero militare e fu, come voleva la sua modestia, Sottosegretario all’aviazione, dove i nostri intrepidi volatori sentirono di trovare in lui uno spirito animoso e coraggioso che li comprendeva interamente.

Più tardi, nel mio secondo Ministero, fu Ministro dell’aviazione, ma accettò soltanto per obbedienza alla mia esortazione amichevole. Già minato dal male, egli sentì infatti ben presto di non poter continuare a sobbarcarsi il peso delle responsabilità del Governo: dopo un mese, si ritirò.

Si ritirò dal Governo, si ritirò, si può dire, dalla vita politica; e mai rinunzia fu più nobile, più dignitosa, più disinteressata di questa. Egli si ritirò senza rimpianti; respinse tutte le esortazioni a ritornare nella politica poiché diceva: «Io sono pago di avere servito il Paese e questo mi basta».

Ma anche lontano dalle nostre competizioni di parte, anche lontano da questa mischia che ha le sue luci ma anche le sue ombre, egli continuò a servire con devozione il Paese.

La vita della Nazione non è fatta soltanto delle opere visibili degli uomini, ma è fatta anche dell’atmosfera morale che viene creata invisibilmente dagli spiriti migliori. Ora di questi spiriti migliori, Carlo Scialoja fu una delle incarnazioni più perfette.

Vorrei ricordare il verso di Dante: «Oh, se il mondo sapesse il cuor ch’egli ebbe»! Il suo cuore fu veramente puro e generoso.

Ora non è più; ora è nella fossa comune, nella fossa dei poveri, nella fossa degli anonimi, dov’egli, per suprema coerenza alla sua concezione della vita, ha voluto essere sepolto. Il suo cuore inerte non batte più per i grandi ideali della Patria veramente grande, del popolo veramente libero, per tutti gli immortali principî di giustizia e di libertà. (Vivissimi, generali applausi).

GASPAROTTO, Ministro della difesa. Chiedo di parlare.

PRESIDENTE. Ne ha facoltà.

GASPAROTTO, Ministro della difesa. Non credo di venir meno alle buone norme costituzionali, associandomi, a nome del dimissionario Governo, e più specialmente del Ministero della difesa, alle alte e nobili parole dell’onorevole Bonomi, tanto più che io ebbi l’onore di succedere a Carlo Scialoja al posto di Ministro dell’aviazione, quand’egli lo lasciava.

Bene ha ricordato Ivanoe Bonomi la prova di alta sensibilità politica e morale che Carlo Scialoja ci ha dato, perché, non appena si accorse che le forze gli venivano meno e che non poteva dare al nuovo dicastero la pienezza della sua attività, egli, per non dovere domani scontare il rimorso di aver mancato all’altissimo compito, ha voluto ritirarsi. Ed ora ha voluto essere sepolto nella terra di nessuno, come uno sconosciuto. Ma per noi Carlo Scialoja resta pur sempre uno dei più degni rappresentanti di quella famiglia degli Scialoja che ha lasciato alla Patria largo patrimonio di scienza e alto prestigio di patriottismo. (Vivi applausi).

PERSICO. Chiedo di parlare.

PRESIDENTE. Ne ha facoltà.

PERSICO. Onorevoli colleghi, ho conosciuto Carlo Scialoja ancora giovanetto, e a lui sono rimasto legato per cinquant’anni da fraterna e ininterrotta amicizia.

Spirito nobile e profondamente democratico, schivo di ogni onore e incurante di ogni pericolo, egli ha dedicato tutta la sua vita – troppo presto distrutta – allo studio, al lavoro e alla causa della libertà. Pur provenendo dalle file nazionaliste, non ha mai piegato la sua fiera tempra di valoroso combattente di fronte al fascismo, contro cui, nel periodo clandestino, ha lottato con tenacia, con coraggio e in posti di alta responsabilità. Leale, buono e generoso, aveva intorno a sé uno stuolo di ammiratori e di amici, che ne piangono oggi costernati l’improvvisa dipartita.

Vada alla sua memoria il commosso cordoglio di tutti gli spiriti liberi e assetati di giustizia, i quali hanno sempre trovato in lui, anche nelle ore più buie, il conforto di una parola di speranza e l’esempio di un’anima pura, protesa al raggiungimento dei più elevati ideali umani e politici. (Applausi).

NOBILE. Chiedo di parlare.

PRESIDENTE. Ne ha facoltà.

NOBILE. Consentitemi, onorevoli colleghi, di aggiungere una mia parola alle parole di cordoglio che sono state pronunciate testé. La morte di Carlo Scialoja mi giunge nuova: l’ho appresa or ora in quest’aula, e ne sono rimasto profondamente commosso.

Ho avuto l’onore di conoscere Carlo Scialoja negli ultimi tempi, quando era Sottosegretario di Stato prima e poi Ministro dell’Aeronautica, ed ho potuto apprezzare in lui la nobiltà del carattere e le alte doti dell’intelletto. Per questo ho voluto esprimere la commozione che ho provato apprendendo la sua dipartita. (Applausi).

CINGOLANI. Chiedo di parlare.

PRESIDENTE. Ne ha facoltà.

CINGOLANI. Onorevoli colleghi, a nome del mio Gruppo politico mando il saluto alla memoria di Carlo Scialoja.

Lo vidi l’ultima volta nell’ultima cerimonia ufficiale celebrata dagli alleati in onore dell’aviazione italiana, quando il vicemaresciallo dell’aria volle donare all’aeronautica italiana un ricordo marmoreo. Egli era là, in mezzo a noi, mirando fisso il dono, una stupenda testa fiera e dolce di donna, con la chioma mossa dal vento delle nostre passate tempeste. Nel suo volto allora vidi l’incrollabile fede e la luminosa speranza nell’avvenire della Patria. In nome di questa fede e di questa speranza piangiamo oggi, indomiti nella lotta, la memoria di Carlo Scialoja. (Applausi).

RUSSO PEREZ. Chiedo di parlare.

PRESIDENTE. Ne ha facoltà.

RUSSO PEREZ. Il nostro Gruppo si associa alle parole commosse pronunciate dagli altri oratori in memoria di Carlo Scialoja.

CORBINO. Chiedo di parlare.

PRESIDENTE. Ne ha facoltà.

CORBINO. In nome del Gruppo liberale mi associo a quanto è stato detto per il compianto Carlo Scialoja, un uomo che ha lasciato di sé una traccia profonda nel campo degli studi, con una attività svolta in molteplici settori, in molteplici forme, in cui il suo ingegno brillava, ma soprattutto brillavano le sue eccezionali doti di uomo dotato di un cuore che lo rendeva caro agli amici e lo faceva pregiare da quanti gli vivevano attorno. Ci associamo a quanto è stato detto per lui.

PRESIDENTE. La Presidenza dell’Assemblea Costituente si associa alle espressioni di cordoglio, di rammarico e di reverenza che da tutti i banchi si sono levate in memoria dell’onorevole Carlo Scialoja. (Segni di assenso).

Congedo.

PRESIDENTE. Comunico che ha chiesto congedo l’onorevole Gorreri.

(È concesso).

Messaggio del Presidente provvisorio dell’Assemblea Regionale Siciliana.

PRESIDENTE. Comunico che il Presidente provvisorio dell’Assemblea Regionale Siciliana mi ha fatto pervenire il seguente messaggio:

«Oggi adunata per la prima volta, l’Assemblea Regionale Siciliana, espressione diretta del popolo dell’Isola, fiera della raggiunta autonomia nel seno augusto della grande Patria italiana, invia il suo vibrante saluto all’Assemblea Costituente, intenta, in questa aurora del secondo Risorgimento, a scolpire in liberi ordinamenti, secondo lo spirito delle democratiche tradizioni, le nuove leggi destinate a stringere tutti i figli d’Italia in un nuovo patto di indissolubile fraternità e fondate sul tenace concorde fecondo lavoro e sulla giustizia sociale».

Ho risposto col seguente telegramma:

«Salutando nell’Assemblea Regionale Siciliana, da Lei presieduta, la prima concreta realizzazione di quella autonomia che vuole e deve essere sorgente di rinnovato fervore di opere nell’unitaria ricostruzione nazionale, auspico al Consesso liberamente eletto, in democratica concordia, dal popolo isolano, fecondi lavori che aprano alle sorti di quest’ultimo nuove vie di progresso economico e sociale». (Vivi, generali applausi).

Risposta del Congresso nazionale di Costarica al Messaggio dell’Assemblea Costituente.

PRESIDENTE. Comunico che, in risposta a quello inviatogli a nome dell’Assemblea Costituente, il Congresso nazionale di Costarica ha fatto pervenire un messaggio nel quale – «cosciente dei trascendentali benefìci che la cultura universale ha ricevuto dal popolo italiano, unito da stretti vincoli con i popoli dell’America latina, e compenetrato dell’importanza che ha per il futuro sviluppo e il progresso del regime repubblicano e democratico il fatto che le condizioni del trattato di pace siano sottoposte ad una revisione per tutto quanto possa favorire il Governo e il popolo italiano – formula i suoi migliori voti affinché questa plausibilissima iniziativa possa convertirsi in realtà in modo che l’Italia, rinvigorita dallo stimolo delle sue attuali istituzioni democratiche, non incontri ostacoli per raggiungere quel risorgimento morale e materiale che le spetta nella società internazionale». (Vivi, generali applausi).

Risposte scritte ad interrogazioni.

PRESIDENTE. Comunico che la Presidenza del Consiglio ed i Ministri dell’interno, delle finanze e tesoro, della difesa, della pubblica istruzione, dei lavori pubblici, dell’agricoltura e foreste, dell’industria e commercio, del lavoro e previdenza sociale, dell’Africa italiana, nonché l’Alto commissariato per l’igiene e la sanità pubblica hanno fatto pervenire alla Presidenza risposte scritte ad interrogazioni presentate da onorevoli deputati.

Saranno pubblicate in allegato al resoconto stenografico della seduta odierna.

 

Domande di autorizzazione a procedere.

PRESIDENTE. Il Ministro di grazia e giustizia ha trasmesso una domanda di autorizzazione a procedere in giudizio contro il deputato Gonella (Commenti) per il reato di diffamazione a mezzo della stampa.

Sarà stampata, distribuita e trasmessa alla Commissione competente.

Seguito della discussione del progetto di Costituzione della Repubblica italiana.

PRESIDENTE. L’ordine del giorno reca il seguito della discussione del progetto di Costituzione della Repubblica italiana.

Esaurito l’esame e l’approvazione degli articoli contenuti nella prima parte, ci troviamo oggi a dover iniziare la discussione del Progetto per quanto si riferisce alla parte seconda, dedicata all’ordinamento della Repubblica.

Come i colleghi rammentano, è già stato dall’Assemblea deciso di anticipare l’esame del Titolo V: «Le Regioni ei Comuni».

RUBILLI. Chiedo di parlare.

PRESIDENTE. Ne ha facoltà.

RUBILLI. Ho presentato il seguente ordine del giorno.

«L’Assemblea Costituente, considerato che l’istituzione dell’Ente Regione non risponde ad alcuna necessità che si sia realmente manifestata, e non può seriamente ritenersi in alcun modo richiesta o reclamata dal popolo italiano;

che i giusti ed opportuni criteri di decentramento potranno essere attuati indipendentemente dalla creazione di enti regionali;

che ad ogni modo, per ora almeno, una grande riforma come quella che si prospetta per le Regioni non appare, anche secondo il progetto, ben ponderata nelle sue non lievi conseguenze dal punto di vista politico, amministrativo e specialmente finanziario, sicché non sembra possibile, di fronte alle enormi difficoltà del periodo che si attraversa, lanciarsi con leggerezza incontro ad incognite preoccupanti e pericolose;

delibera, anche senza affermazioni vaghe e generiche, le quali potrebbero rappresentare inopportuni ed affrettati vincoli, che sia rinviato senz’altro alla Camera legislativa l’esame di pratici, concreti e completi progetti di legge, sia pure di carattere costituzionale, per un oculato decentramento, che giunga, se possibile, anche ad una riforma regionale, ed intanto sia stralciato dalla Costituzione in esame l’intero Titolo V, relativo alle Regioni e ai Comuni».

Ritengo che quest’ordine del giorno abbia carattere pregiudiziale e chiedo di poterlo svolgere senz’altro.

ABOZZI. Chiedo di parlare.

PRESIDENTE. Ne ha facoltà.

ABOZZI. Ho presentato un emendamento al Titolo terzo, sezione seconda, che afferma la esigenza di un vasto decentramento amministrativo e che implica la soppressione dell’intero Titolo V relativo alle regioni; esso ha quindi un evidente carattere pregiudiziale ed è per questa ragione che dichiaro di appoggiare l’ordine del giorno dell’onorevole Rubilli.

PRESIDENTE. L’onorevole Rubilli, di fatto, ha presentato una mozione d’ordine, a tenore della quale dovremmo in questo momento, anziché affrontare la discussione generale del Titolo dedicato alle regioni, prendere in esame l’ordine del giorno che lo stesso onorevole Rubilli ha presentato, e che conclude praticamente con la rinunzia alla discussione generale, che dovremmo iniziare ora, del Titolo V.

L’onorevole Abozzi ha dichiarato di aderire a questa richiesta dell’onorevole Rubilli. Come gli onorevoli colleghi sanno, sulle mozioni d’ordine possono prendere la parola tutti coloro che intendono accettarle o respingerle.

L’onorevole Rubilli ha facoltà di parlare.

RUBILLI. Onorevoli colleghi, dichiaro che non si tratta di una mozione mia personale, perché è fatta anche a nome e per conto del partito liberale, al quale mi onoro di essere iscritto. (Interruzioni Commenti).

Allorché, signor Presidente, l’altro giorno invocai un breve periodo di sospensione (non di vacanze, ma di sospensione), io non avevo certo il desiderio di darmi un po’ di bel tempo; perché sempre, quando risiedo a Roma, non fo che star qui a Montecitorio, come sanno tutti i colleghi. Non ho, né so dove andare, e mi fermo, come mi sono fermato in questi giorni, esclusivamente a Montecitorio per compiere ogni mio dovere. Chiesi qualche giorno di sospensione per una ragione ben diversa; perché io prevedevo, come poi si è verificato, il travaglio dei partiti su questo argomento, ed occorreva dar tempo perché questo travaglio potesse svolgersi e arrivare ad una conclusione che fino ad ora potrebbe ritenersi, dal punto di vista dei vari aggruppamenti politici, completamente definita. Difatti, in questi giorni, onorevoli colleghi, non ho sentito parlare d’altro: per il salone, per i corridoi, non si parlava di nessun altro argomento. (Commenti).

Una voce. E della crisi?

RUBILLI. Persino quella era passata in seconda linea. (Commenti). E forse se ne parlava meno, anche perché non si vede ancora spuntare un raggio di sole. Ma ad ogni modo solo fugacemente la crisi richiamava la nostra attenzione. Io ho sentito discutere, e spesso in forma anche animata, specialmente del grave problema della regione e sono stato informato che tutti quanti i gruppi – nessuno escluso – dai maggiori ai minori hanno tenuto ampie e ripetute riunioni proprio su questo problema per decidere la linea che volevano seguire.

Sicché, a mio avviso, non è che se venga accolta la mozione che ho l’onore di svolgere in questo momento possa essere diminuito il valore della discussione, perché della riforma sulle regioni si è già parlato, ed ampiamente anche, nella discussione generale o generalissima, come si volle appellarla.

Ora, quattro oratori dovrebbero sempre discuterne ancora, e poi attraverso le dichiarazioni di voto che il Presidente, se crede, data l’importanza dell’argomento, potrà consentire anche con una certa ampiezza, vi sarà sempre il modo che ciascun deputato e ciascun partito possa esprimere il proprio pensiero.

Posso essere breve, relativamente, perché, in fondo, in gran parte, mi sono occupato, e con ampia argomentazione, di questa grande riforma a proposito della parte generale; potrei forse anche riportarmi a quello che già dissi in quell’occasione.

Brevemente quindi…

LUSSU. Signor Presidente, io credo che l’onorevole Rubilli non abbia il diritto di parlare sul merito del suo ordine del giorno. (Commenti).

PRESIDENTE. L’onorevole Rubilli è molto abile e cerca di giungere all’argomento attraverso un giro di frasi, che non ci consentono ancora di capire che cosa intende dire.

RUBILLI. Il pensiero mio e del mio partito è questo: noi siamo stati e ci siamo dichiarati contrari alla riforma delle regioni.

Voci. Non è vero.

RUBILLI. Come non è vero? Sono state anche pubblicate le deliberazioni recenti ed unanimi prese dal Partito liberale su questo argomento. Ed io non posso indagare se qualche dissenso o qualche opinione isolata possano rintracciarsi nelle numerosissime sedute della Commissione.

Vi sono persino componenti della Commissione e di altri Partiti, non del Partito liberale, i quali, checché abbiano detto nella Commissione, ora presentano ordini del giorno eguali a quello che ho presentato io contro la riforma regionale. Dunque il dibattito vero e completo ha luogo qui, nell’ambito dell’Assemblea. Così ricordo che espressi allora nella discussione generale quello che poteva essere il nostro pensiero a proposito della riforma regionale ed insisto nel riassumere e nel ripetere che, secondo il nostro avviso, essa non risponde a nessuna delle esigenze attuali, né nel campo politico, né nel campo amministrativo. Devo però chiarire ancora, in conformità di quello che dissi nel mio precedente discorso, che non intendo affatto che possa un eventuale voto dell’Assemblea, in questo momento, influire sulle autonomie che sono state già concesse.

La mia opinione al riguardo non è mutata.

Le autonomie che sono state consentite non possono essere né discreditate, né tanto meno eliminate. Ritengo che per necessità di cose si dovettero fare quelle concessioni di fronte agli avvenimenti che si erano verificati in conseguenza della guerra.

PRESIDENTE. Onorevole Rubilli, la prego, non entri nel merito.

RUBILLI. Io credevo di poter rapidamente e brevemente svolgere idee le quali influissero sul merito. Di che argomento posso allora parlare, se non della riforma delle regioni?

PRESIDENTE. Onorevole Rubilli, lei sta in questo momento parlando per rivendicare il diritto di parlare poi nel merito. Lei deve giustificare questo diritto di parlare nel merito ed è questo il tema che deve svolgere, cioè la mozione d’ordine.

RUBILLI. Precisamente, verrà un momento in cui potrò poi dar conto della mozione che ho presentata.

PRESIDENTE. Se l’Assemblea accetta la sua mozione d’ordine, lei darà conto del suo ordine del giorno.

RUBILLI. Dovrò solamente dimostrare che è pregiudiziale? Devo limitarmi a questo? Naturalmente, se il Presidente dice che non è questo il momento opportuno per una discussione di merito, io devo fermarmi a dichiarare la pregiudizialità della mozione. E, francamente, non mi attardavo su questo, perché mi sembrava evidente (Rumori Interruzioni). Devo persuadere i colleghi che si tratta di una mozione di carattere pregiudiziale? Scusate; ma se si domanda che sia stralciato dalla Costituzione l’intero Titolo V e rimandato alla Camera legislativa, vi può essere una richiesta più pregiudiziale di questa? Io credevo di dover svolgere sin da ora la mozione e quindi mi accingevo a spiegarne i motivi, brevemente, e senza naturalmente abusare della bontà del Presidente e dei colleghi. Ma, giacché si dice che io devo rimandare ad altro tempo ciò che stavo dicendo, e che devo solo dimostrare la pregiudizialità della mia mozione, allora posso solo aggiungere che forse quelli che chiedono ancora un chiarimento sul carattere pregiudiziale del mio ordine del giorno non hanno letto ciò che io ho scritto. In conclusione io domando che sia stralciato l’intero Titolo V della legge costituzionale e rinviato per l’esame e per la decisione a relativi progetti di legge, sia pure di carattere costituzionale, da parte della prossima Camera legislativa. Mi pare che non vi potrebbe essere una maggiore pregiudizialità.

È, dopo questo, credo di non avere altro da aggiungere in questo momento.

LUSSU. Chiedo di parlare.

PRESIDENTE. Ne ha facoltà.

LUSSU. Ho l’impressione che il collega onorevole Rubilli, nel presentare questa mozione, non parli esattamente a nome di tutto il Partito liberale che è rappresentato in questa Assemblea, perché altrimenti penso che ci sarebbero qui anche altre firme oltre la sua. Ricordo che il collega onorevole Einaudi, il quale ha quasi sempre presenziato con me alle sedute della seconda Sottocommissione e del Comitato speciale per le autonomie, esprimeva allora opinioni diverse da quelle manifestate oggi dall’onorevole Rubilli. Ma, a parte questa questione formale, c’è un’altra questione, di forma e di sostanza al tempo stesso; sulla questione delle autonomie ci eravamo preparati a discutere, secondo le previsioni, il 5 maggio. Si era stabilito concordemente che il primo problema che avremmo affrontato dopo la discussione generale, sarebbe stato quello delle autonomie. Tutti concordemente ritenemmo che questa questione fosse fondamentale per la nuova Carta Costituzionale dello Stato Repubblicano e democratico. Ed improvvisamente, dopo lunga preparazione, e dopo la sospensione chiesta in questa Aula l’altro giorno, per essere meglio preparati e poter meglio sviluppare i contatti tra partito e partito, improvvisamente l’onorevole Rubilli presenta una mozione d’ordine di carattere pregiudiziale. Questa non è questione pregiudiziale, ma è, a mio parere, una questione arbitraria. Quale avvenimento è successo in Italia per impedire che questo problema sia, come è stato promesso a questa Assemblea ed al Paese, affrontato, discusso e risolto? Quale catastrofe nazionale è scoppiata?… (Rumori Ilarità). Che cosa è successo? Nulla. È successo solamente questo: che l’onorevole Rubilli, girando per i corridoi durante una crisi, della cui risoluzione probabilmente non ritiene di dover essere il protagonista (Si ride), si è accorto improvvisamente che questa questione, oggi così interessante, deve essere rinviata! Non è successo un bel nulla!

Ecco perché ritengo che l’onorevole collega Rubilli non abbia diritto di svolgere questa sua mozione d’ordine, perché, se avesse un tale diritto su questa questione così importante, ciascuno di noi avrebbe l’eguale dirritto in tante altre questioni, e si impedirebbe così qualunque discussione. Infatti possiamo accordarci e presentare duecento mozioni d’ordine, domani o questa sera stessa! (Rumori). Io credo invece che questa questione rientri nei poteri discrezionali del Presidente che può concedere e non concedere; ma, se ritiene che si debba affrontare la mozione presentata dall’onorevole Rubilli, dovrebbe prima interpellare l’Assemblea.

PRESIDENTE. L’onorevole Nobili Tito Oro ha presentato il seguente ordine del giorno:

«L’Assemblea, visto il Titolo V della Parte II del progetto di Costituzione (articoli 106-131), rileva che la creazione dell’ente regione è ancora immatura nella coscienza del popolo; ritiene che, comunque, essa non debba essere proclamata prima di aver fatto tesoro dei risultati degli esperimenti in corso per le autonomie regionali già deliberate dal Governo.

«Ma, riaffermando, fin d’ora, che è compito della Repubblica riordinare l’Amministrazione in via legislativa sulla base delle autonomie locali e di un razionale decentramento, approva l’articolo 106 del progetto, come garanzia della osservanza di tale indirizzo».

L’onorevole Nobili ha facoltà di parlare.

NOBILI TITO ORO. Onorevole Presidente, ho chiesto la parola come presentatore di un ordine del giorno, che può parere analogo a quello presentato dall’onorevole Rubilli, ma per il quale io non sostengo il carattere di pregiudizialità. Evidentemente qui il collega Rubilli è caduto in un equivoco che attiene alla interpretazione del regolamento: l’ordine del giorno mio, come del resto il suo, è stato presentato in funzione di quello contemplato dall’articolo 87 del Regolamento e non come pregiudiziale ai sensi dell’articolo 93; dovrà quindi essere preceduto dalla discussione generale. Si potrebbe anche osservare, e non dovrebbe parere sottigliezza, che l’Assemblea, come corpo deliberante, non ha preso ancora cognizione del testo e della portata del Titolo quinto della parte seconda del progetto di Costituzione; né a ciò contraddice il fatto che personalmente ciascuno di noi ne ha invece conoscenza. Quel che conta, ripeto, è che l’Assemblea, come corpo deliberante, non ha ancora esaminato e discusso il progetto di costituzione per quanto riguarda il Titolo V. (Commenti). Ed in tali condizioni evidentemente non si può dare per conosciuto quello che non è conosciuto. (Interruzioni). Il mio ordine del giorno, per precisione, reca l’espressione: «Visto il Titolo V della parte seconda del progetto di Costituzione…» e con ciò chiaramente presuppone la discussione generale. Avranno invece carattere preliminare il mio ordine del giorno e quello dell’onorevole Rubilli rispetto all’esame degli articoli, in quanto prima di passare a questo, cioè alla fine della discussione generale, dovranno essere esaminate le proposte in essi contenute che hanno carattere preclusivo della ulteriore discussione.

Ho dovuto prendere la parola non per contradire al pensiero del collega Rubilli, ma perché il mio ordine del giorno conservi il diritto di essere esaminato alla fine della discussione generale.

PRESIDENTE. Mi pare che si sia abbastanza chiarita la questione; si tratta di vedere se l’ordine del giorno presentato dall’onorevole Rubilli debba considerare questioni pregiudiziali o meno. L’onorevole Rubilli avrebbe potuto molto facilmente dare egli stesso questo carattere alla sua proposta, se, anziché come ordine del giorno, l’avesse presentato come questione pregiudiziale.

La questione pregiudiziale non pregiudica la discussione dell’argomento in esame; mira ad impedirne la discussione, ai termini dell’articolo 93 del Regolamento. D’altra parte, ogni progetto di legge è conosciuto dall’Assemblea nel momento in cui il testo è distribuito e non quando è discusso, e questo testo è stato già distribuito molto tempo fa. Comunque, poiché l’onorevole Rubilli non ha dato un carattere pregiudiziale alla sua proposta, essa dovrebbe essere accettata con questa interpretazione. Chiedo all’Assemblea se ritenga che l’ordine del giorno Rubilli debba essere considerato come una questione pregiudiziale.

RUBILLI. Chiedo di parlare.

PRESIDENTE. Ne ha facoltà.

RUBILLI. Non insisto; giacché, come parmi d’intravedere, sorge il sospetto ed il dubbio che io voglia impedire una discussione da cui su questa grande riforma possano venire altri chiarimenti pur desiderati e sempre bene accetti, per conto mio non insisto.

Io credevo che la mia proposta avesse un carattere pregiudiziale, e senza dubbio lo ha, ma non ho nessun interesse ad ostacolare il desiderio della più ampia discussione.

PRESIDENTE. È superato in questa maniera il piccolo ostacolo procedurale e possiamo iniziare la discussione sul Titolo V del progetto di Costituzione dedicato alla regione ed ai comuni.

NOBILE. Chiedo di parlare.

PRESIDENTE. Ne ha facoltà.

NOBILE. Ho presentato il seguente ordine del giorno il quale, a mio avviso, costituisce veramente una pregiudiziale:

«L’Assemblea Costituente,

considerato che la questione dell’ordinamento regionale per la sua gravità imporrebbe non solo la più ampia discussione generale, ma anche un esame approfondito, sia tecnico che politico, di ognuno dei singoli articoli che costituiscono il Titolo V del progetto di Costituzione;

considerata l’opportunità di affrettare i propri lavori,

delibera:

di abolire il Titolo V e di inserire nel progetto un articolo che rinvii l’ordinamento regionale ad una legge avente valore costituzionale da discutersi ed approvarsi dal futuro Parlamento».

PRESIDENTE. Onorevole Nobile, ritengo che le considerazioni che ho fatto sull’ordine del giorno Rubilli debbano chiarirle la impossibilità di considerare senz’altro il suo ordine del giorno come una pregiudiziale.

NOBILE. Ma mi permetto osservare, onorevole Presidente, che col mio ordine del giorno non entro nel merito della questione, non mi occupo della bontà o dei difetti dell’ordinamento regionale: faccio solo una questione di tempo. A me parrebbe che esso in tutti i casi abbia veramente il valore di una pregiudiziale; forse fra quelli presentati è l’unico che costituisce veramente una pregiudiziale. Perciò chiedo che mi sia consentito di svolgerlo.

PRESIDENTE. Lei desidera rifare la discussione già fatta per la richiesta dell’onorevole Rubilli? Possiamo farla. Ma le faccio presente che la sua richiesta si presenta come un ordine del giorno che, dopo una motivazione, giunge a proposte concrete, le quali non sono di sospensione o di rinvio, ma di abolizione del Titolo V, inserendo un articolo di un determinato tenore.

Questa non è quindi una pregiudiziale. È un modo diverso di presentare la questione e di chiederne la conclusione.

NOBILE. La pregiudiziale sta nel secondo considerando, nel quale si dice: «Considerata l’opportunità di affrettare i lavori ecc.».

PRESIDENTE. È ben chiaro che l’Assemblea non è in questo ordine di idee.

NOBILE. La mia conclusione era questa: che, a mio avviso, per una discussione seria di questo Titolo occorrono due mesi, ed altri due, almeno, occorrono per i restanti Titoli della seconda parte. Non potremmo, quindi, terminare i nostri lavori prima dell’autunno. Come sarebbe allora possibile fare le elezioni in autunno, come si dice di voler fare? È necessario affrettare la conclusione dei lavori, ma questo non si può ottenere con lo strozzare la discussione su un argomento così grave, qual è l’ordinamento regionale. Donde, tenuto conto che niente impedisce di rinviare per qualche tempo l’attuazione della riforma, l’opportunità di rimandarne l’esame al futuro Parlamento.

La mia richiesta, dunque, costituiva una pregiudiziale vera e propria. Non discutendola adesso, ma alla fine della discussione generale del Titolo V, essa viene a mancare al suo scopo, che era appunto quello di evitare che la discussione generale abbia luogo ora. Ad ogni modo non insisto.

PRESIDENTE. Ritengo che possiamo iniziare la discussione generale del Titolo V. Desidero rendere noto ai colleghi che vi sono 82 iscritti e pertanto coloro che avranno la parola non perdano di vista la necessità di raggiungere prima dei quattro mesi previsti dall’onorevole Nobile la conclusione della nostra discussione.

È iscritto a parlare l’onorevole Tessitori. Ne ha facoltà.

TESSITORI. Onorevoli colleghi, poco fa l’onorevole Rubilli affermava che questa riforma, così come proposta, non risponde a nessuna esigenza né di carattere amministrativo né di carattere politico.

Ora, io brevemente cercherò di dirvi, invece, quali, secondo me, sono i motivi che richiedono che questa riforma sia non solo discussa ma soprattutto attuata.

È questa la parte del progetto di nuovo ordinamento dello Stato che indubbiamente è destinata ad avere le più larghe ripercussioni, donde la necessità di una discussione ampia e serena, se si è convinti che la struttura dello Stato debba essere modificata e profondamente riformata; se vogliamo che nel nostro Paese siano fissate le basi per un regime veramente democratico.

La riforma, quale è disegnata nel progetto, si inspira alla concezione autonomistica dell’attività degli enti locali, di cui afferma la funzione insostituibile e il più possibilmente libera da impacci burocratici e da strettoie derivanti dal potere centrale.

Quando noi affermiamo questo principio – ed io che ho l’onore di essere il primo a prendere la parola non posso dirvi, ed è questo il compito che mi son prefisso, se non quelle che sono le ragioni sostanziali e fondamentali, disegnare la cornice del quadro, perché gli interventi successivi esamineranno i singoli problemi che la riforma proposta impone alla Camera – quando noi affermiamo la necessità di questa riforma, noi crediamo di rispondere a delle esigenze che sono vive nel Paese.

E in primo luogo ogni corrente politica, che qui dentro e nel Paese agisce, deve proporsi il problema se quello che afferma e sostiene, risponde alla tradizione del proprio pensiero politico. Ora, l’affermazione e la rivendicazione dell’autonomia degli enti locali è viva fino dal primo sorgere del pensiero democristiano in Italia.

E sarebbe strano che, dopo tutto quello che è avvenuto, mentre siamo qui a predisporre la Carta Costituzionale del Paese, a gettare i pilastri di quella che dovrà essere la futura attività dello Stato, la corrente democristiana dimenticasse uno dei caposaldi del proprio pensiero tradizionale.

Per noi, l’autonomia degli enti locali rappresenta un’esigenza basilare di uno stato veramente democratico. Questa esigenza si è rivelata in tutta la letteratura, che proviene dai nostri uomini migliori, fin dalla fine del secolo scorso. Io non voglio tediare la Camera ricorrendo ad argomenti d’autorità, ma gli onorevoli colleghi vorranno consentire due soli ricordi: l’uno che riporta in quest’Aula il nome venerato di Filippo Meda, il secondo che ricorda un altro dei nostri uomini eminenti, don Luigi Sturzo.

Quando, nel 1900, la Camera dei deputati discusse la legge Daneo-Credaro, la quale investiva il problema dell’autonomia dei Comuni – perché allora non si parlava ancora di una riforma strutturale completa dello Stato – si trovarono in disaccordo due uomini illustri del Parlamento e precisamente Filippo Meda e il collega Ivanoe Bonomi, ambedue membri del Consiglio direttivo dell’Associazione dei comuni italiani, rappresentanti di due correnti, di due diverse ideologie politiche.

E poiché Filippo Meda ritenne che, dato questo disaccordo, fosse incompatibile la sua permanenza, insieme con Ivanoe Bonomi, in seno al Consiglio direttivo dell’Associazione dei Comuni italiani, presieduta dal senatore Greppi, sindaco di Milano è vicepresieduta da don Luigi Sturzo, ritenne di dover presentare le dimissioni, spinto da quella squisita sensibilità politica che gli era propria e che è nota a tutti. E allora, prima di decidere sull’accettare o sul respingere le dimissioni, il Presidente e il Vicepresidente ritennero opportuno convocare il Consiglio direttivo perché si procedesse ad un’ampia discussione sul problema dell’autonomia dei Comuni.

La discussione si svolse in Campidoglio il 5 dicembre 1910; ed è opportuno che noi risaliamo a queste fonti per giustificare il nostro atteggiamento attuale, che non è un atteggiamento sorto oggi ma è tale che affonda le sue radici nelle lontane origini del nostro pensiero e della nostra evoluzione politica, onde non può e non deve meravigliare se noi combattiamo acché questa riforma sia finalmente attuata.

Nel 1910, dunque, Filippo Meda presentava una mozione in seno al Consiglio direttivo dell’Associazione dei Comuni italiani. E, strano caso, se voi rileggete l’ordine del giorno Piccioni del 1° agosto 1946, che fu approvato quasi all’unanimità dalla seconda Sottocommissione per la Costituzione, vedrete che esso riecheggia in qualche modo, fin nelle parole, i concetti che Filippo Meda esprimeva fin dal 1910.

Che cosa è l’autonomia? Ecco il problema che veniva posto allora e che anche oggi è in discussione.

E Meda rispondeva:

1°) che l’autonomia comunale è il riconoscimento della somma di attività storiche e attuali che costituiscono il Comune come centro di interessi morali ed economici, non subordinati, ma coordinati a quelli dello Stato;

2°) istituzionalmente il Comune autonomo deve tendere a conservare e a rivendicare gli uffici tutti della vita civile, in quanto non spettino necessariamente allo Stato;

3°) funzionalmente il Comune deve tendere alla gestione libera da tutele della propria azienda.

L’ingerenza dello Stato – continua la mozione – offende l’autonomia ogni qual volta non è determinata dalle supreme ragioni della difesa politica. Essa perciò deve contenersi nella vigilanza sull’adempimento delle leggi. Infine lo Stato ha il diritto di esigere dal Comune un’azione corrispondente agli interessi generali del Paese, ma ha il dovere di fornire i mezzi ordinari e straordinari perché tale azione si renda possibile.

Questa mozione non fu approvata. Ma i concetti in essa dichiarati furono da noi sempre mantenuti fermi come concetti basilari e fondamentali; e, ripeto, se voi rileggete l’ordine del giorno Piccioni in confronto a quella mozione del 1910, non vi trovate se non la ripetizione, sul piano regionalistico, di quello che Filippo Meda sosteneva sul piano dell’autonomia comunale.

TONELLO. Altro è l’autonomia comunale e altro è l’autonomia regionale!

TESSITORI. I principî che reggono l’una e l’altra autonomia, collega Tonello, sono identici, sia che noi guardiamo all’ente Comune, sia che guardiamo all’ente Regione.

Ivanoe Bonomi proponeva invece un ordine del giorno nel quale si concludeva di ritenere sufficiente e pratico ai fini dell’Associazione che la vita comunale si rafforzi, si sviluppi sul terreno che le è proprio con mezzi adeguati, con maggiore volontà d’azione e compatibilmente col necessario coordinamento di tutti gli organi della vita nazionale.

Io parlo per la prima volta in quest’Assemblea, benché, giovanissimo ancora, vi abbia fatto parte nel 1921; e non vorrei che i colleghi pensassero che io voglia assumere atteggiamenti polemici o, peggio, da maestro nei confronti di colleghi che sono tanto superiori a me. Ma, tuttavia, vorrei far presente all’onorevole collega Bonomi che l’identica posizione, che egli assunse, di rinvio, di tardigrado, nel lontano 1910, è quella che assume ora, come risulta da un suo articolo pubblicato domenica passata sul Corriere della Sera sull’ordinamento regionale. (Interruzione dell’onorevole Russo Perez).

Sì, onorevole Russo Perez, anche in quello scritto l’onorevole Bonomi dice: «Ma state attenti, noi corriamo forse il pericolo di fare un salto nel vuoto, un salto nel buio. È bene attendere e vedere quali risultati potranno dare gli esperimenti autonomistici che sono già in attuazione o che sono di imminente attuazione nelle quattro contrade dello Stato italiano che ormai, nessuno più discute, hanno diritto di avere la sistemazione autonomistica».

È la stessa posizione mentale! Ora, io dico e penso che codeste posizioni mentali, che ci promettono per l’indomani l’esaurimento di una esigenza che noi pensiamo debba essere soddisfatta oggi, codesti atteggiamenti sono per noi sospetti e ad essi non possiamo aderire.

Ed un’altra parola autorevole volevo ricordare ed è quella di Don Luigi Sturzo. Non voglio tediare con le letture. Ho sott’occhio un discorso da lui pronunciato nel 1921 al Teatro della Pergola a Firenze, là dove parla della crisi dello Stato. Mi limito a leggervene un solo periodo, ed è questo: «Lo Stato coordina, normalizza, integra gli enti locali e le loro iniziative; sorveglia e tutela i rapporti coi privati e l’erogazione del pubblico danaro. Lo Stato deve tenere in amministrazione solo quello che è nazionalmente indivisibile o inscindibile nella sua struttura economica o nella sua ragione politica, come sono le grandi linee di comunicazione, le linee strategiche, gli emporii portuali e i demani nazionali».

Detto questo, a quasi legittimazione del nostro atteggiamento risoluto nella difesa della concezione autonomistica degli enti locali, aggiungo che uomini appartenenti a qualsiasi corrente politica, se obiettivamente esaminano talune esigenze proposte dalla nostra vita nazionale, dovrebbero concludere per l’attuazione di questa riforma. E le esigenze sono tre: la prima si è la necessità urgente di liberarci dall’accentramento burocratico statale; la seconda è che in determinati settori è impossibile una legislazione uniforme ed efficace; infine si prospetta un problema di carattere squisitamente politico ed è la necessità che siano forniti gli strumenti necessari perché venga stimolata la coscienza civica del nostro popolo ed attraverso l’esperienza nelle amministrazioni locali sia avviata, quanto meno, la formazione di una larga e capace classe politica dirigente.

Questo dello strapotere della burocrazia, della sua lentezza talvolta torturante, della quotidiana pervicace ricerca di sempre nuove invenzioni per complicare i servizi (vi parla uno che è in mezzo alle amministrazioni comunali) è una piaga che, io penso, non ha bisogno di avere una dimostrazione a traverso i fatti, che tutti voi più o meno conoscete, perché tutti siamo a quotidiano contatto col popolo, il quale dalla burocrazia esige e attende invano siano soddisfatte le esigenze più elementari.

Mi limito a citare un fatto solo, che traggo da una pubblicazione di un collega, l’onorevole Piemonte. Ognuno parla dei fatti che avvengono nella sua terra. Così l’amico Piemonte, così io, non possiamo parlare se non di episodi, se non di cose che avvengono nel nostro Friuli.

Vi fu colà una vertenza per il pagamento del salario a seicento operai friulani, che emigrarono in Austria. Il salario doveva essere corrisposto mediante consegna al Governo italiano di una certa quantità di cemento equivalente all’importo complessivo dei salari. Il cemento non fu consegnato. Gli operai finirono il lavoro; ritornarono a casa loro, ma senza avere ricevuto nemmeno in parte il salario. Si aprì la vertenza e, per risolverla, il Ministero nominò ben 19 commissioni.

Ora io non sono tra quelli che gridano contro la burocrazia per sfogare un proprio stato d’animo. La burocrazia è una necessità. Nessuno Stato può far senza burocrazia, perché, come diceva Enrico Persico, essa è il potere occulto e permanente di qualsiasi regime. Però, noi vorremmo che essa fosse resa uno strumento più pronto, più snello, al servizio del Paese, non una macchina pesante e mortificante; e pensiamo che, per raggiungere questo scopo, non basti il semplice decentramento amministrativo. È questa la formula che ci si fa balenare davanti agli occhi da tutte le correnti politiche che avversano le autonomie. Basta, esse dicono, il decentramento amministrativo! Questo sarebbe il toccasana contro il centralismo attuale, burocratico e funzionale, dello Stato.

Di decentramento amministrativo le cronache parlamentari parlano fin dal 1860. Tutti ne sentivano la necessità. In tutte le discussioni di bilanci in questa Assemblea, oratori hanno parlato dell’opportunità e dell’urgenza di risolvere il problema del centralismo burocratico.

Finora, però, nonostante tutte queste declamazioni, tutte queste invocazioni, non se n’è fatto nulla. L’accentramento è andato crescendo sempre più, ha raggiunto il culmine col fascismo e continua tuttora quasi per forza d’inerzia. Del resto, io vi vorrei citare un caso cospicuo di decentramento amministrativo in Italia e che è indicato ad esempio in tutti i trattati di diritto amministrativo e di diritto costituzionale; è il Magistrato alle Acque per il Veneto e la provincia di Mantova, il Magistrato alle acque, del quale io non disconosco i meriti.

TONELLO. È un istituto secolare.

TESSITORI. Onorevole Tonello (lei dovrebbe essermi testimone che non dico cosa inesatta), quando recentemente abbiamo domandato che si istituisse una sezione della Corte dei conti presso il Magistrato stesso onde accelerare i lavori pubblici, l’abbiamo ottenuta, ma lo sperato acceleramento non è venuto ed anzi si sono avuti maggiori intralci e ritardi. Così il più cospicuo esempio di decentramento amministrativo ha dimostrato che codesta formula non può essere accettata da chi effettivamente voglia una riforma dello Stato, che sveltisca i servizi e ci liberi da quella che è, ormai, la cappa di piombo del potere centrale e della burocrazia centrale. Io non so da che cosa dipenda tutto questo; non so se noi italiani abbiamo nelle vene come un congenito male burocratico di cui non riusciamo a liberarci. Basta pensare all’ultimo modulo per il razionamento annonario compilato dall’Alto Commissariato per l’alimentazione; io sono assessore per l’Annona del comune di Udine e so che cosa ha significato e significa quel modulo; e vedo con piacere, che vari colleghi che fanno parte di amministrazioni comunali, mi fanno segno di assenso. Quel complicatissimo modulo non può essere compilato direttamente che dal 5 per cento, forse, dei capi-famiglia: tali e tanti sono i quesiti e le domande ivi contenuti. Da che cosa dipende tutto questo? Non so; io constato un fatto e lo constata soprattutto il nostro popolo con le conseguenze che voi potete immaginare. Ora noi dobbiamo aderire a quella che è la sensibilità popolare.

COSTANTINI. Il popolo non ha chiesto mai la Regione.

TESSITORI. Non l’ha chiesta nei modi in cui voi vorreste la chiedesse.

MICHELI. Non ha chiesto neppure la Costituzione,

TESSITORI. Il popolo nostro però è stanco di codesto continuo risalire dagli uffici burocratici periferici a quelli centrali di un quasi enorme rigurgito cartaceo; e ciò perché la caratteristica di tutto il funzionamento amministrativo centralizzato si è che nessun grado gerarchico, nessun piano burocratico vuole assumersi la responsabilità di decisioni che non siano quelle dove o non vi è o sia minima la responsabilità. Per tutto questo noi riteniamo che la formula del decentramento amministrativo non sia sufficiente, e che abbia già dato prova di non riuscire allo scopo che vogliamo raggiungere. Anche noi vogliamo, sì, il decentramento amministrativo, ma come conseguenza e in funzione delle autonomie degli enti locali.

La seconda necessità, che postula una riforma in senso autonomistico discende dal fatto che il nostro Paese è così formato, che in molti campi, in ordine a molte materie, non è possibile una uniformità legislativa, quanto meno in ordine alla esecuzione ed alla attuazione delle norme generali. Basta pensare alla varietà del nostro Paese, che dipende dalla sua situazione geografica e dal processo storico formativo delle varie regioni. Basta pensare che lo stesso Codice civile, in determinate materie, specialmente in ordine alle servitù prediali, alla proprietà, agli usi mercantili deve continuamente riferirsi agli usi e consuetudini locali; usi e consuetudini locali che, circa i rapporti commerciali, sono abbandonati ad una legislazione empirica, che era data ieri dai Consigli provinciali dell’economia ed oggi dalle Camere di commercio.

Questa varietà di condizioni e di sviluppo del nostro Paese, dicevo, rende impossibile una uniformità legislativa dal centro.

Basta pensare ai problemi dell’agricoltura, per cui è necessario che noi cerchiamo di risolvere il problema legislativo, adattandole alle condizioni locali; e questo adattamento non può avvenire, se non attraverso una facoltà legislativa, ed io non entro nei particolari del progetto, perché questa è materia della discussione successiva, ed io non devo tracciare che un disegno della nostra posizione, in ordine alla riforma. La realtà è, però, che molte disposizioni legislative non trovano e non possono trovare efficacia sul terreno pratico, per il semplice motivo che di fronte ad esse resistono le condizioni locali.

Non è una novità quello che dico. Lo diceva 50 anni fa un uomo, che non apparteneva certo alla corrente democratica cristiana, ma che tutti voi, indubbiamente, conoscete, attraverso le sue opere, Giustino Fortunato, quando scriveva della questione del Meridione. Ad un certo momento egli afferma che una delle difficoltà per la soluzione di quel problema sta nel fatto del voler mantenere una uniformità legislativa in tutti i campi, uniformità cui resistono le condizioni ambientali.

«L’erroneo principio – egli scrive in una opera relativa alla questione meridionale e alla riforma tributaria – della uniforme soluzione di problemi legislativi connessi a condizioni intrinsecamente diverse venne, quindi, ciecamente adottato nella sua interezza. Caso tipico, la legge forestale del 1877, che dando di penna alla savia legge napoletana del 1826, obbligò al mantenimento della terra boschiva non oltre la zona del castagno, la quale, se molto bassa nelle Alpi, è assai alta in tutto l’Appennino meridionale; ché, anzi sino a poco fa, il preconcetto d’una completa uguaglianza di fatto, non mai apertamente contradetto, fu regola a tutta l’azione del governo e del Parlamento».

Voce del passato che concorda con la diagnosi, che noi, aderenti all’idea autonomistica, stiamo facendo nel Paese da tempo e che oggi deve essere affrontata ed esaminata dall’Assemblea Costituente; diagnosi esatta, la quale ci porta a ritenere che il rimedio non può essere se non questo, e cioè che nelle singole Regioni la legislazione di carattere generale, le direttive fondamentali, perché possano avere efficacia, e riuscire a buon risultato, debbono trovare un adattamento attraverso la sensibilità di organi legislativi che conoscano i bisogni e le esigenze locali.

L’ultima necessità, quella che io definivo e che definisco di carattere squisitamente politico, nel senso più alto della parola, discende dalla constatazione di un fatto, constatazione che mi pare sia fuor di discussione, almeno stando alla poca letteratura che io ho letto. La constatazione è che il nostro popolo, in confronto di altri popoli, è in notevole arretrato nello sviluppo della sua coscienza civica e che presso di noi è quanto meno scarsa e inefficiente la classe politica dirigente. Ed allora, se è vera questa constatazione di fatto, abbiamo il dovere di esaminare se e quali possono essere i rimedi.

La deficiente coscienza civica e la minorità politica è una conseguenza dell’essere stato il nostro popolo tenuto eccessivamente lontano dalle sue aziende più vicine, e che egli sente più vivamente: i Comuni, le Provincie, le regioni. Bisogna riportare il popolo ad esse e cointeressarlo alla loro vita e alla loro attività.

Negli archivi del mio Friuli esistono tuttora i verbali, che risalgono al medioevo, dei Consigli dei Comuni.

Gente spesso analfabeta, che si riuniva parecchie volte all’anno a discutere e risolvere i problemi del proprio comune e li risolveva con saggezza e con serenità, senza bisogno di tutela, o di Giunte provinciali amministrative.

Io parto da un presupposto, caro amico Costantini, da un presupposto di fede. Sono un ottimista; ho fiducia nel nostro popolo; so che il nostro popolo ha tante e tali energie per cui saprà adoperare lo strumento autonomistico, se noi saremo in grado di darglielo. (Applausi).

Io non ho paura del salto nel vuoto, come hanno paura taluni degli oppositori, dei quali discorreremo subito, così, familiarmente e alla buona.

Gli oppositori si dividono apparentemente in due categorie; ma queste sostanzialmente si riducono ad una sola, ed è la categoria degli uomini paurosi. Si ha paura di un salto nel vuoto. Aspettiamo – si dice – l’esperimento di Sicilia ed intanto già si comincia a criticare a tutto spiano la prima seduta della Assemblea regionale siciliana, tanto per debilitare il primo atto esperimentativo delle autonomie.

Si sussurra che nella Val d’Aosta, le cose non vanno bene. Ma tuttavia aspettiamo. Fino a quando dovremo aspettare?

Io non so se sia anche l’amico Tonello fra gli aspettanti.

Costoro mi danno l’immagine di quelli che vogliono contrarre matrimonio ma non vogliono contrarlo se non hanno la garanzia e la certezza assoluta di avere la base economica per il mantenimento della famiglia. E in attesa di questa certezza, il matrimonio non si fa.

Ho ammirato la sincerità del collega Rubilli, il quale non ha voluto nascondere, dietro le pieghe del suo pensiero oppositore nulla, perché con la sua pregiudiziale egli è entrato a vele spiegate nel merito.

Ne leggo l’ultimo comma: «Delibera, anche senza affermazioni vaghe e generiche, le quali potrebbero rappresentare inopportuni ed affrettati vincoli, che sia rinviato senz’altro alla Camera legislativa, l’esame di pratici, concreti e completi progetti di legge sia pure di carattere costituzionale». Io non so come mai la Camera futura possa prendere provvedimenti di carattere costituzionale.

«Per un oculato decentramento». Quell’aggettivo è tutto un poema. L’«oculato» lo vedranno i figli dei nostri figli, evidentemente. «Che giunga, se possibile, anche ad una riforma regionale». C’è tutto quanto un sistema difensivo e offensivo contro questa riforma; c’è una evidente manovra ostruzionistica alla quale noi dovremmo ingenuamente adattarci.

E, dicevo, il collega Rubilli, quanto meno, è stato sincero, ed io per questo lo ammiro.

Più sospetto invece mi è l’ordine del giorno Nobili e l’ordine del giorno, o meglio emendamento, proposto da Bozzi e Grassi, perché tutti e due questi documenti contengono la parola «autonomia».

L’onorevole Nobili dice che è compito della Repubblica riordinare l’Amministrazione in via legislativa sulla base delle autonomie locali e di un razionale decentramento. E di autonomie parla anche l’emendamento Bozzi-Grassi, autonomie che ci vengono buttate là in un documento cartaceo e delle quali si dovrebbe discutere in seguito, chi sa quando!

Allo stesso modo, in un articolo di giornale, l’onorevole Bonomi ci dice: «Rinviamo; il momento è così grave nel nostro Paese; tanti altri problemi urgono, problemi più seri, problemi contingenti; abbiamo alle porte la fame; abbiamo i disordini». Si è bensì concessa l’autonomia alla Sicilia, ma perché la Sicilia l’ha chiesta, si è chiaramente rivelata e anche in forma ribelle. Talché io dico, bisognerà attendere che anche le altre Regioni d’Italia chiedano l’autonomia nei modi e con i sistemi siciliani? Il compito nostro è affrontare questo problema senza aspettare simili manifestazioni, perché il Paese attende e non è vero che sia insensibile a questo problema. Il problema è stato discusso per esempio nel mio Friuli ed io vorrei che voi provaste quale è la sensibilità di quelle popolazioni.

D’accordo che in una campagna di questo genere, in una battaglia di questa natura, elementi deficienti, deteriori, inconvenienti sorgono; spinte campanilistiche, e ragioni di interesse si ravvivano; ma sarebbe strano che il legislatore si fermasse di fronte ad una riforma che ritenesse necessaria sol perché c’è gente che non la comprende, c’è gente che la sfigura, c’è gente che la svisa. Noi dobbiamo filare diritti verso il nostro scopo, incuranti delle male interpretazioni, dovute a buona o a mala fede.

La seconda categoria di oppositori è egualmente, secondo me, vittima di una prospettiva errata. Essi dicono: voi con questa riforma ponete il Paese su un piano inclinato, lo fate scivolare verso il federalismo!

È una affermazione da non trascurarsi ed una preoccupazione legittima. Lo sgretolamento del Paese, che dopo secoli, e con tanti sacrifici ha conquistata la sua unità sarebbe una sciagura. Noi vogliamo in ogni modo evitare questa preoccupazione. Ci turba che l’obiezione venga da uomini di larghissima cultura e di larga esperienza, e per questa ragione ci soffermiamo e ci chiediamo se per avventura essi non abbiano ragione e se la riforma non sia un passo falso e non comprometta, dopo tante sciagure, l’avvenire del Paese.

Ma io mi pongo una prima domanda, onorevoli colleghi: è possibile che il senso dell’unità politica e morale del nostro Paese, cementato in quasi un secolo di dolori e gioie comuni, sia una cosa così fragile che abbia bisogno, per essere sostenuta e rafforzata, di mantenere e di rafforzare il centralismo statale e contemporaneamente di soffocare la vitalità e l’energia degli enti locali? E d’altra parte, se ci sono uomini di grande cultura e di vasta esperienza – che io rispetto – i quali sono dubbiosi di fronte alla riforma, abbiamo altre schiere di uomini, di eguale se non superiore esperienza, di patriottismo insospettato ed insospettabile, che invece puntano sulla riforma autonomistica. E non mi rifaccio agli albori del nostro Risorgimento perché, a parte i particolari ed i dettagli, la concezione essenziale e generale che avevano Cavour, Minghetti e Farini, che aveva il nostro eminente friulano Pacifico Valussi – che scrisse un’opera per la riforma dello Stato, invocando l’autonomia regionale, stampata a Udine nel 1868 – tutti uomini che hanno partecipato alla grande opera del nostro Risorgimento, ai dolori, alle ansie, alle speranze del Risorgimento, è possibile – mi domando – che se tali uomini non temevano per l’unità del Paese, allora, quando gli elementi di disgregazione erano attuali e vicini, quando così vive erano le nostalgie per i regimi passati (ricordiamo il brigantaggio del napoletano), è possibile che l’unità del Paese sia in pericolo ora, se nel 1860, nel 1870, nel 1878, le menti più illuminate non avevano tale preoccupazione ed invocavano le autonomie ed un largo respiro di vita agli enti locali? Sentivamo in un discorso pronunciato di recente qui dentro dall’uomo che rappresenta come l’ideale anello di congiunzione tra il passato e il presente – Vittorio Emanuele Orlando – accennare all’autonomia regionale, e senza risolvere il problema, né dire la sua opinione, lasciare trasparire attraverso un accenno storico quale fosse il suo pensiero. Forse, egli diceva (questo è il concetto, non le parole), un sistema federalistico all’inizio unitario d’Italia sarebbe stato più consono al temperamento e alle esigenze del nostro Paese. II fatto solo che quest’uomo si ponga ancora simile problema sta a rappresentare per me un raggio di luce che rafforza la convinzione che domani il nostro Paese, attraverso la riforma autonomista, se la sapremo preparare così come le esigenze del Paese richiedono, avrà la sua base granitica per una vera e solida ricostruzione democratica.

Abituato come avvocato penalista a tentare la disamina della psicologia di coloro che son chiamato a difendere vorrei tentare analogo procedimento ora. E così gli oppositori all’attuale progetto di riforma mi appaiono non diversi da quegli elettori italiani che, il 2 giugno, votarono per la monarchia per un solo motivo e con una sola preoccupazione: che cioè la monarchia rappresentasse ancora nel Paese. un elemento di coesione unitaria e che sparendo questo istituto si potesse provocare il disgregamento della vita nazionale. Così oggi si confonde l’unità politica con il centralismo burocratico e funzionale dello Stato; ed è codesta confusione che genera l’equivoco, e che ci fa schierare contro uomini di così varie correnti politiche. Noi da questi banchi (e credo di interpretare il pensiero dei miei colleghi del gruppo democristiano) diciamo una cosa sola: affermiamo la nostra fede profonda che, se una Costituzione si deve dare all’Italia non può essere, sotto altra forma, la ripetizione dello Statuto albertino, perché il Paese attende una radicale riforma nella struttura organizzativa ed amministrativa dello Stato. Non so se vinceremo la battaglia; so però una cosa: che se saremo perdenti continueremo la lotta. (Applausi al centro Molte congratulazioni).

PRESIDENTE. È iscritto a parlare l’onorevole Preti. Ne ha facoltà.

PRETI. L’onorevole Tessitori ha testé detto che apprezza ed incoraggia i giovani che non si preoccupano soverchiamente della propria posizione economica quando devono decidersi al matrimonio; io invece sono tra coloro che ritengono che questi giovani debbano avere prudenza. E del pari ritengo che noi dobbiamo avere molta prudenza, quando affrontiamo questo gravissimo problema delle autonomie regionali. Così pronunciandomi, preciso che non intendo qui parlare ufficialmente a nome del mio gruppo, anche se interpreto il pensiero di molti miei colleghi.

Dal Rinascimento in poi, e cioè fin dalle origini dello Stato moderno, la tradizione statale italiana si è sempre più affermata nel senso del decentramento gerarchico, così come del resto la tradizione di tutta l’Europa latina in genere, al contrario di quella di altre Nazioni, specialmente di stirpe germanica, che si è affermata nel senso del decentramento autarchico e dell’autonomia. Lo Stato ha concentrato in sé una somma sempre più ampia di poteri, provvedendo all’amministrazione attraverso propri organi periferici e relativi funzionari statali. Solo il comune, cellula insopprimibile della vita civica, è sempre rimasto in piedi a rappresentare l’esigenza dell’autonomia, sulla base del decentramento autarchico.

La circoscrizione fondamentale su cui faceva perno il decentramento gerarchico dello Stato era in molte regioni italiane, già fin dai tempi dell’assolutismo illuminato, l’attuale provincia, qualunque ne fosse il nome. E cito la Toscana, la Lombardia, il Regno di Napoli. La Rivoluzione francese generalizzò questo ordinamento; e se la Restaurazione ovunque lo rispettò, questo significa che la riforma francese non era un astratto adattamento di formule straniere che non tenesse conto della realtà sociale, ma rispondeva ad esigenze profondamente sentite, che certi governi, evidentemente non molto illuminati, non avevano prima avuto il coraggio di realizzare.

Pertanto non è il caso di affermare, con una leggerezza degna di miglior causa, che le circoscrizioni provinciali sono state inventate dagli unificatori del Regno. Si trattò tutt’al più di cambiare il nome del governatore, divenuto prefetto.

Certo è invece che la provincia, come ente autarchico, è un frutto molto più tardo, che solo una minoranza degli ex Stati conosceva prima del 1861. Si tratta di un ente che man mano si rafforzò dopo la unificazione, allargando progressivamente i suoi compiti; tanto che anche in periodo recente, gli furono attribuite nuove competenze, come quelle riguardanti la lotta antitubercolare e la protezione della maternità ed infanzia.

La progressiva silenziosa affermazione dell’ente autarchico provincia non ha però certamente influito nel senso di modificare in Italia l’indirizzo prevalente. Lo Stato italiano fino ad oggi si è retto soprattutto, nel campo amministrativo, sulle basi di dicasteri centralizzati e di prefetture dotate di vastissimi poteri.

Ora, nessuno qui intende negare che tale ordinamento abbia messo in luce molte lacune e dato luogo a un legittimo malcontento. I nostri Ministeri infatti sono scivolati verso quella ipertrofia burocratica, di cui oggi è diventato così di moda parlare (anzi è l’argomento più di moda che esista oggi in Italia), e le troppo autoritarie prefetture hanno oppresso la vita locale anche in regioni che, come quelle del Nord, sarebbero da tempo mature per l’autogoverno amministrativo.

È pertanto senza dubbio legittima l’esigenza di una riforma in questo momento. Ma il male è che la riforma che ci ha ammannito la Commissione dei Settantacinque per merito principale dell’onorevole Ambrosini tiene assai poco conto dei presupposti storici e, in certi punti, attinge addirittura – mi si perdoni la parola – il paradossale.

Il decentramento gerarchico, che da molto tempo è il cardine della vita amministrativa italiana, perde oggi, colla scomparsa della prefettura, il suo perno fondamentale. E sta bene, perché io non sono qui per parlare a favore del prefetto. Ma il grave è che, mentre si passa all’opposto criterio del decentramento autarchico, con un secondo atto rivoluzionario si abbandona il piano provinciale per portarsi, senza una precedente esperienza, a quello regionale.

Ora, non se ne abbiano a male i colleghi democristiani, che sono tanto accesi fautori di questa riforma, se io esprimo il dubbio che essi, i quali sono pure così zelanti amici di quel prefetto in sottana che è il vescovo, tanto che direi che il prefetto sia stato modellato su di esso… (Commenti).

Una voce al centro. Spiritoso! Questa è una trovata da «Don Basilio».

PRETI. …dimentichino che proprio in un paese cattolico, dove il centralismo autoritario delle gerarchie ecclesiastiche ha fatto sì che mai nascesse una tradizione autonomistica, non si può creare, lì per lì, una mentalità protestante. (Interruzioni al centro).

È la Riforma protestante che ha creato in Europa la vera tradizione autonomistica. E poiché la Riforma in Italia non c’è stata, non dico già che da noi non si possa procedere nel campo delle autonomie, ma affermo che non si deve avanzare con eccessiva faciloneria su un terreno così scottante.

È davvero imprudente, a mio avviso, creare oggi un sistema amministrativo del tutto nuovo, fondandolo sull’ente regione, il quale, come ho detto prima, non ha precedenti storici in Italia, e di cui neppure la recente esperienza ha dimostrato la vitalità.

Voi potrete dire che questa che vengo a fare è un’osservazione sciocca…

Una voce al centro. Non è vero: intelligentissima! (Si ride).

PRETI. …eppure io affermo che nel recente periodo dei Comitati di Liberazione Nazionale, quando l’organismo dello Stato praticamente non c’era più, quando ovunque si agiva di iniziativa, quando i C.L.N. provinciali funzionavano in pieno e assumevano su di sé tanti imprevisti incarichi, al pari dei C.L.N. comunali, i C.L.N regionali invece non sono esistiti che sulla carta. (Interruzioni a destra e al centroCommenti).

TAVIANI. Chi lo dice? Non è esatto. (Rumori).

PRETI. Questo che cosa significa? Che evidentemente le esigenze regionali non si facevano sentire; mentre in un momento come quello, in cui le funzioni creavano nuovi organi, se le esigenze regionali fossero esistite, si sarebbero tradotte nella realtà.

In sede di progetto si è pertanto mancato di senso della misura: il che forse non sarebbe accaduto, se la seconda Sottocommissione fosse stata composta in maniera diversa. Perché bisogna anche tener conto di questo fatto: che sono stati assegnati alla seconda Sottocommissione nove deputati tra siciliani, sardi e valdostani (i quali ovviamente non potevano essere che ultra regionalisti); in più dei quattro repubblicani che erano nella Commissione dei 75, tre sono stati assegnati alla seconda Sottocommissione; e infine certi partiti hanno proprio assegnato a questa Sottocommissione quei deputati che nell’interno del gruppo erano conosciuti come i più accesi sostenitori delle autonomie regionali, a cominciare dall’onorevole Piccioni e dall’onorevole Ambrosini.

AMBROSINI, Relatore. Siamo stati obiettivi in modo assoluto.

PRETI. Io direi che la seconda Sottocommissione praticamente non fotografava l’opinione del Parlamento in ordine al problema delle autonomie regionali; e aggiungo che non sono convinto in particolare che gli stessi deputati democratici cristiani in complesso siano così accesi zelatori del regionalismo come, ad esempio, l’onorevole Piccioni e l’onorevole Ambrosini.

AMBROSINI, Relatore. Ma se mi dicono che li ho raffrenati!

PRETI. Eccoci così improvvisamente di fronte ad un progetto di Costituzione, il quale comincia con l’attribuire alla Regione la potestà legislativa. Vi è una legislazione esclusiva, e vi sono due tipi di legislazione concorrente con quella dello Stato: e qui non voglio scendere ad un esame particolare. Mi basta però notare questo – e credo sia sufficiente – che l’attribuzione della potestà legislativa alla Regione porta di per sé il Paese sull’orlo del federalismo, o, perlomeno, crea una pericolosissima forza centrifuga. Larga o stretta che sia la sfera di competenza legislativa della regione, poco importa. Né certo io oserei dire che molto vasta sia la competenza legislativa che il progetto riconosce alla regione stessa; onde mi parrebbe del tutto fuori strada colui il quale credesse che restringendo la competenza legislativa regionale ci si possa garantire dal pericolo federalistico e anti-unitario. Non è questione di materie da assegnare o da non assegnare alla competenza legislativa della regione: è la stessa potestà legislativa della regione che qui entra in causa.

Ora, ripeto, la sola esistenza di una qualsiasi potestà legislativa regionale, con la implicita possibilità di creare conflitti tra la legislazione dello Stato e la legislazione della regione, conflitti che finirebbero inevitabilmente per impostarsi sopra uno sfondo politico, basta a porre in essere la possibilità di slittamento centrifugo e federalistico.

Si dirà che, come Don Chisciotte, noi creiamo immaginari mulini a vento, visto che questa secondo noi così possente e anti-unitaria regione sottopone le sue leggi al visto di un’autorità amministrativa locale (e cioè al visto del Commissario governativo della regione), ed è costretta pure a sottoporre tutti i propri atti amministrativi, anche quelli che riguardano le materie di sua esclusiva competenza, al controllo dello Stato che si esplica attraverso un apposito organo centrale.

Questo potrà voler dire che i compilatori del progetto non si sono accorti dell’assurdità di sottoporre un ente che ha la potestà legislativa a forme di controllo da legge comunale-provinciale; onde, semmai, si può dire che ne nascerebbe un permanente dissidio tra regione e autorità statali. Ma i pericoli derivanti dall’attribuzione della potestà legislativa rimarrebbero lo stesso.

Il particolarismo anti-unitario di cui inevitabilmente, se non tutte, almeno moltissime regioni (e forse proprio le meno progredite) darebbero prova per effetto dell’introduzione di una qualunque potestà legislativa si rivelerebbe deleterio, sopratutto nel campo economico. Quando io penso, ad esempio, che l’Emilia lunense, così cara all’onorevole Micheli, reclama il porto della Spezia per avere uno sbocco al mare e che la stessa provincia della Spezia in questi giorni ha inviato a noi deputati addirittura quattro opuscoli per sostenere la medesima tesi; quando leggo nello Statuto siciliano che la Sicilia riserva ai propri usi le valute estere ricavate dalle proprie esportazioni e si esonera dai diritti di dogana in materia di determinate importazioni; quando leggo in giornali d’informazione economica, come ad esempio II Globo, che già in regime di alto commissariato la Sicilia e la Sardegna sono riuscite ad imporre certi divieti d’importazione e di esportazione che contrastano addirittura con lo spirito dell’articolo 113 del progetto; allora io non posso fare a meno di pensare che l’introduzione della regione potrebbe farci andare a ritroso nel campo economico. Mentre vediamo che perfino i governi cantonali della Federazione Svizzera (e parlo della Svizzera!) abdicano progressivamente ad ogni potere di regolamentazione nel campo economico a favore dello Stato, posto che l’allargarsi dei mercati e la maggiore frequenza delle comunicazioni postulano oggi unità territoriali sempre più vaste.

Il mondo marcia verso una sempre più uniforme legislazione, specie per ciò che riflette il campo economico; e noi in questo momento rischieremmo di procedere in senso inverso. Né si dirà che, quando alla Regione si riconosce da un lato la potestà legislativa e dall’altro lato l’autonomia finanziaria (perché anche di questa parla il progetto), questi timori siano infondati!

L’autonomia finanziaria costituisce il secondo fondamentale errore. E chi abbia fatto solo un esame dello Statuto siciliano può facilmente rendersi conto dove essa ci possa portare in materia di particolarismo. Con l’autonomia finanziaria prevista dall’articolo 113 accadrebbe in particolare che una minima aliquota del reddito delle regioni più ricche andrebbe a beneficio delle regioni più povere, onde lo squilibrio tra nord e sud tenderebbe ad aumentare, venendosi con ciò automaticamente ad ostacolare la soluzione del problema meridionale. In questa materia le cose infatti stanno assai diversamente da come crede qualche siciliano o qualche sardo, i quali ritengono che le loro terre dall’unificazione in poi siano state sfruttate dai settentrionali. Che il Governo dell’Italia unificata abbia avuto il grave torto di lasciare insoluto il problema meridionale è fuori discussione; ma ciò non toglie che in 80 e più anni di vita unitaria i contribuenti delle più ricche regioni del nord abbiano sostenuto la massima parte dell’onere delle imposte statali, e perciò abbiano pagato, in parte, anche per le regioni più povere dell’Italia.

Si parla nel progetto di Costituzione di ripartizione dei tributi; cioè si afferma che, per assolvere le loro funzioni essenziali, le regioni più povere avrebbero il diritto di chiedere allo Stato delle sovvenzioni, onde praticamente le regioni più ricche dovrebbero dare allo Stato e lo Stato a sua volta dare alle regioni più povere. Io credo che in questa maniera si creerebbero dei pericoli gravissimi; e veramente vedremmo sorgere quella acuta rivalità fra certe regioni del nord ed altre regioni del sud che, praticamente, fino ad oggi è sempre rimasta sopita.

In relazione al problema meridionale, vale anche la pena di preoccuparsi dei riflessi squisitamente politici che deriverebbero dalla istituzione di una regione, qual è quella prevista dal progetto. Come si potrà impedire, ad esempio, domani che, nel meridione, dei governi regionali a tendenza nettamente conservatrice, espressione, come si suol dire, di cricche locali, ostacolino in ogni maniera l’azione del governo centrale? E ciò non tanto per i poteri che abbiano, quanto per il solo fatto che si chiamano governi e che hanno l’orgoglio di essere tali! E come si avrebbe la certezza che l’ordine pubblico rimarrebbe garantito nel caso in cui si verificassero in queste regioni gravi fatti del tipo di quelli del primo maggio in Sicilia? Sarebbero in grado i questori, col nuovo ordinamento, di far fronte alla situazione? Se è vero, come dicono, che il Ministro degli interni Scelba pensava con preoccupazione al giorno in cui avrebbe dovuto ritirare i prefetti dalla sua Sicilia, nonostante le sue convinzioni regionalistiche, è lecito allora non essere eccessivamente ottimisti in materia.

A questo punto mi domando se valga la pena di dare alla regione un così alto viatico, quale il progetto vorrebbe, quando poi il primo fine che ci si proponeva attraverso la sua istituzione, e cioè la sburocratizzazione, lo smantellamento della troppo pesante amministrazione statale non si raggiunge affatto.

Uno dei maggiori cultori di diritto amministrativo in Italia, e per di più regionalista, il professor Guicciardi, dall’esame del progetto trae la conclusione che «quando si sarà costituita la nuova organizzazione amministrativa regionale, si constaterà che poco o nulla sarà venuto meno dall’enorme complesso degli uffici dell’amministrazione centrale.

«Ciò è evidente per le materie elencate nell’articolo 110 per le quali lo Stato, mantenendo una sua potestà legislativa sia pure di massima, conserverà naturalmente anche i corrispondenti uffici amministrativi; ma lo è anche per le materie elencate all’art. 109, che, seppure sono demandate alla competenza esclusiva della regione, sono così frammentarie e di così poco momento che al più il loro trapasso alla regione potrebbe portare alla soppressione di qualche divisioncella ministeriale».

Del resto non ci facciamo illusioni che l’apparato burocratico statale sia facilmente smontabile attribuendone le funzioni ad enti autarchici, anche perché spesso la burocrazia che più fa strillare l’uomo della strada è proprio oggi la burocrazia delle branche economiche. Ma evidentemente nel campo economico non si pone il problema del decentramento, bensì quello di aggiornare seriamente l’organismo statale con le esigenze moderne dell’economia controllata.

Per quanto poi concerne tutti i settori in genere dell’amministrazione centrale il rimedio migliore alla lentezza burocratica lo avremo trovato quando avremo saputo porre fine a questo stato di disorganizzazione che ancora travaglia lo Stato e quando saremo soprattutto nuovamente riusciti ad assicurare ai funzionari il pane quotidiano.

Sinceramente, in vista dei risultati piuttosto modesti – molto modesti – che si possono ottenere attraverso la regione in materia di decentramento dell’amministrazione centrale dello Stato (ed è soprattutto su questo punto che insistono i fautori della regione), io riterrei assai pericoloso dar vita ad un ente quale la regione del progetto, che ci pone di fronte a tante incognite. Il giuoco non vale la posta. È per questo che io ritengo che la maggioranza di questa Assemblea si rifiuterà di votare la regione imposta dall’onorevole Ambrosini alla II Sottocommissione.

Si può profilare invece la possibilità di una diversa regione, quella ad esempio prevista dal progetto del collega Lami Starnuti. Questa regione, sprovvista anzitutto di potestà legislativa, è atta, secondo molti, a soddisfare le esigenze degli autonomisti senza mettere in pericolo la unità nazionale come la regione del progetto Ambrosini. Ma (e qui esprimo un mio personale parere) anche questa meno pretenziosa regione non la si può certo costruire attribuendole la competenza esclusivamente su materie sottratte allo Stato, visto che allo Stato non molto si può sottrarre, per quanti sforzi noi in buona fede possiamo fare. Ecco così che una volta accettata questa regione senza potestà legislativa e senza autonomia finanziaria, pare difficile non trovarsi d’accordo nel senso di sopprimere l’ente autarchico provincia, per garantire alla regione stessa una sfera di competenza sufficientemente vasta che le permetta di respirare a pieni polmoni.

Insomma, il problema è questo: se noi accettiamo comunque la regione, dobbiamo rinunziare a mantenere in vita l’ente autarchico provincia, posto che non vi sarebbe un sufficiente numero di funzioni da attribuire all’uno e all’altro ente in modo da garantirne la vitalità. Senza contare poi che andremmo incontro anche al pericolo di creare una burocrazia in più, cioè di creare in Italia quattro burocrazie, al posto delle tre oggi esistenti.

Il progetto fa della provincia una circoscrizione amministrativa della regione; e quindi, appunto, nega l’esistenza della provincia come ente autarchico, anche se poi, a questa circoscrizione amministrativa prepone, illogicamente, una Giunta con funzioni deliberative ed a carattere rappresentativo; ciò che dovrebbe essere proprio di un ente autarchico e non mai di una semplice circoscrizione amministrativa di decentramento.

Si afferma che la regione avrà una vitalità assai maggiore dell’ente autarchico provincia, che ha sempre condotto in Italia una vita grama. Ora, una vita molto brillante, in effetti, in Italia, l’ente autarchico provincia non l’ha mai condotta; ma direi che questo è avvenuto non perché la provincia si sia dimostrata incapace di assolvere alle funzioni, di volta in volta attribuitele, ma perché lo Stato non ha mai avuto fiducia nell’ente autarchico provincia, e ha sistematicamente puntato sulle prefetture, organi di decentramento gerarchico. Nel limite delle funzioni attribuitele il funzionamento della provincia è stato anzi egregio.

Comunque, visto che si afferma potere solo un ente che conti su un territorio, su una popolazione, su una ricchezza adeguata, vivere prosperamente sul piano della autonomia, non si può fare a meno di mettere in risalto le contradizioni del progetto. Infatti, l’articolo 123 non solo dà la sanzione a certe regioni storiche, che, sul piano economico e sociale, non valgono di più di quanto non valga una qualunque provincia della Lombardia o del Veneto, ma addirittura crea ex novo altre regioni, che, sostanzialmente, equivalgono esse pure a una provincia. In questa maniera si contradice al postulato fondamentale dei regionalisti, che afferma la regione dovere esistere a preferenza della provincia, in quanto essa sola ha un raggio sufficientemente ampio di azione.

Per fare qualche esempio, osserverò che si mantiene in vita l’Umbria, che è oggi più piccola di quanto non fosse prima del fascismo la sola provincia di Perugia; e si conserva del pari in vita la misera Lucania. E si creano, tra le nuove regioni, il Molise, che altro non è se non la spopolata provincia di Campobasso, e quell’assurdo Salento, cui nella intenzione dei foggiani dovrebbe ora fare pendant la Daunia.

Al contrario di quanto sta avvenendo, bisognerebbe notevolmente ridurre le regioni del centro-sud, se si vuole essere coerenti col postulato regionalista.

Contro la minaccia di sopprimere la provincia ente autarchico, per dare vita alla regione, si fa presente ciò che rappresenta oggi l’unità provinciale nella vita italiana. Oggi, le strade, le ferrovie, tutte le comunicazioni in genere si irradiano dai capoluoghi di provincia; i mercati convogliano verso di essi la maggior parte dell’attività economica: le banche accentrano le grosse operazioni nei capoluoghi di provincia; gli scambi sulla base della complementarietà avvengono in gran parte tra capoluogo di provincia e territorio rurale circostante; gli stabilimenti industriali tendono a riunirsi nella periferia dei vari capoluoghi. Gli stessi professionisti (medici, avvocati, ingegneri, ecc.) stabiliscono la loro sede nei capoluoghi provinciali.

Si spiega così facilmente come su base provinciale siano organizzati la Camera di Commercio, la Camera del lavoro, tutti gli enti in genere che sorgono dalla spontanea coagulazione delle attività economico-sociali. E provinciale è naturalmente il decentramento di tutti gli enti parastatali, da quelli assicurativi a quelli economici, così come quello delle varie branche della amministrazione statale. Onde, nel capoluogo di provincia, hanno sede l’Intendenza di finanza, l’Ufficio del lavoro, il Provveditorato agli studi, la Direzione delle poste, l’Ispettorato dell’agricoltura, la Questura, quasi sempre il Distretto territoriale, ecc.

È certo che nessuno potrà seriamente pensare di abolire tale decentramento su base provinciale, pur scomparendo la Prefettura. E preciso all’onorevole Lussu, che mi sta interrompendo, che non ho mai affermato che i regionalisti coltivino questa balzana idea.

Ma appunto perché anch’essi ammettono la «naturalità» del decentramento provinciale, dovrebbero rendersi conto della legittimità dell’aspirazione a fondare il decentramento autarchico su di un Ente che si modella sopra quel nucleo vitale, che è la provincia. Tanto più che si pensa che su certe materie attribuite alla competenza della regione, come ad esempio l’industria e il commercio, sarebbe miglior competente la provincia – quella provincia potenziata che noi vorremmo – la quale costituisce anche una cellula economica. E altre materie, come le strade, per cui si lamenta l’esiguità della circoscrizione provinciale, potrebbero essere facilmente regolate dalle provincie riunite in consorzio, senza bisogno di creare la regione.

Le popolazioni locali sono senza dubbio favorevoli a questa soluzione, anche perché per esse il capoluogo provinciale è a portata di mano, mentre il capoluogo regionale è spesso lontano e difficile da raggiungere. Anzi, in genere, per uno che abiti in un remoto paesello di una provincia eccentrica è lo stesso intraprendere un viaggio verso il capoluogo regionale o arrivare addirittura fino a Roma.

L’amministrazione vicina, a contatto stretto degli amministrati, è proprio una esigenza della autonomia. Tali condizioni crea la provincia; ed è anche per questo che l’ente autarchico provincia è una realtà assai più naturale di quanto non sia la regione.

Sarebbe un errore credere che le agitazioni a favore delle provincie siano mosse solo dagli impiegati delle loro amministrazioni o da qualche notabile locale che ha aspirazioni politiche in sede provinciale. E sono certo che, se per ipotesi si dovesse indire in Italia un referendum, per chiedere all’uomo della strada se preferisce la provincia o la regione, la quasi unanimità dei cittadini sceglierebbe la prima, perché sente e conosce solamente la provincia. (Rumori).

D’altronde, se dovesse rimanere in vigore l’articolo 125 del progetto, il quale prevede il possibile distacco e la costituzione in regioni autonome di territori che abbiano almeno una popolazione di mezzo milione di abitanti, quando ne facciano richiesta tanti consigli comunali che rappresentino almeno un terzo della popolazione interessata, potrebbero verificarsi delle sorprese. Innumerevoli provincie, messe domani in grado di assurgere a regioni attraverso la procedura prevista dall’articolo 125 del progetto, non mancherebbero di approfittarne, sicché lo Stato si troverebbe di fronte all’improvvisa circostanza della trasformazione delle provincie in regioni. Quando domani il Salento otterrà di diventare regione, la Daunia, il Sannio, la Tuscia vorranno seguirlo sulla stessa via. E in breve vedremo tutte le grosse provincie all’arrembaggio, per diventare esse pure regioni.

Io non vedo infine come, una volta eliminato il prefetto dalla provincia, che è la cellula fondamentale nella quale si svolge la vita della nazione, la vita provinciale possa rimanere senza un perno. La provincia è da almeno due secoli, in Italia, abituata ad avere un perno (Rumori) e non si può non tenerne conto, se si vogliono evitare dei guai. E farò degli esempi! Se scoppia una controversia sindacale, che minacci la vita economica della provincia, quale autorità domani, avente un sufficiente prestigio, si potrà interporre, al posto di quel prefetto che si vuole – a ragione – liquidare? E se sorge una questione di prezzi o di calmieri, che turbi la tranquillità pubblica, intorno a chi ci si raccoglierà per risolverla? Tutti noi sappiamo che in questi, ed in molti altri casi, si sente oggi il bisogno, da parte di tutti, di essere riuniti attorno al tavolo di una autorità, che anche se non ha, per legge, competenza in materia, esercita almeno un ascendente di fronte a coloro che rappresentano gli interessi in conflitto.

ZUCCARINI. Questo è fascismo!

PRETI. Non diciamo delle frasi vuote e non chiudiamo gli occhi di fronte alla realtà che ci circonda: oggi il prefetto svolge purtroppo anche mansioni che la legge non prevede, e spesso lo si va a cercare prima che esso intervenga.

Solo la conservazione di un ente autarchico provinciale potenziato è garanzia che al posto del prefetto continuerà ad esistere, nell’ambito della provincia, un’autorità – in questo caso elettiva e non più burocratica – che all’occorrenza possa costituire il perno della vita provinciale, che altrimenti si spappola.

LUSSU. Al posto del prefetto ci sarebbe un sindaco che funziona magnificamente!

PRETI. Rispondo all’onorevole Lussu che il sindaco potrebbe svolgere questa funzione, se la vita in Italia si limitasse, sul piano economico-sociale, all’ambito comunale. Ma essa trascende tale ambito e si svolge invece in quello provinciale. È inutile che noi vogliamo credere che l’Italia sia diversa da quello che è. L’esigenza da me ora accennata è così forte ed inestinguibile, che non si può fare a meno di pensare con preoccupazione, che, se scomparisse ogni traccia di amministrazione provinciale autonoma e si conservasse solamente l’ente regione, si finirebbe per rinunziare alla soppressione del prefetto. Tanto più che – non lo dimentichiamo – c’è chi, anche se non lo dice, non lo vuole sopprimere. Quando domani solo al centro della regione vi fosse una pubblica autorità, il prefetto potrebbe scomparire per un anno, ma poi farebbe nuovamente capolino attraverso il delegato provinciale dell’amministrazione dello Stato o della regione. Infatti a un certo momento, constatandosi che la ruota della vita provinciale non riesce a girare, ecco che questo modesto delegato sarebbe nuovamente elevato ai fastigi di prefetto. Come prima, meglio di prima! Beffa più grande non potrebbe capitare ai nostri accesi autonomisti, i quali, partiti in quarta contro il prefetto, accusato di essere un dittatore in sedicesimo, vedrebbero rientrare dalla finestra quel che essi avevano cacciato dalla porta! E questo proprio per la loro ostinazione regionalistica, che non vuole tener conto del presupposto provinciale.

Qualcuno obietterà che alcune regioni, come la Sicilia e la Val d’Aosta, hanno ormai uno Statuto, e che con altre regioni lo Stato ha già preso un formale impegno. Rebus sic stantibus – si dice – non si può più fare a meno di fondare il nuovo Stato su base regionale. Bel modo di ragionare! Se si è sbagliato una volta, è proprio necessario insistere nell’errore! Io non sono qui per fare delle proposte; comunque penso che si potrebbe anche trovare una soluzione di compromesso, che salvasse l’autonomia regionale delle isole e delle terre mistilingue senza imporre il regionalismo a tutto lo Stato italiano. E forse, se noi accogliessimo questa idea, tra poco, magari fra un paio d’anni, vedremmo la Sicilia e la Sardegna, che si illudevano di fare tanto con il regionalismo, venire a restituirci l’autonomia regionale sull’altare della unità italiana. (Commenti).

Una voce al centro. Non accettiamo profezie! (Commenti).

PRESIDENTE. È iscritto a parlare l’onorevole Carbonari. Ne ha facoltà.

CARBONARI. Onorevoli colleghi, permettete che io vi parli con sincerità e con franchezza a nome di quel popolo trentino, per il quale il problema dell’autonomia è, oggi, il più importante ed il più attuale di tutti i problemi: non per nulla si dice che ogni trentino ha uno statuto dell’autonomia regionale in tasca; ed è vero che al primo incontro col contadino, coll’artigiano, coll’operaio di quella Regione, la prima, o almeno la più interessata domanda, verte sul problema dell’autonomia regionale.

Non è meraviglia che ciò avvenga presso un popolo che incominciò ad abbattere le signorie feudali e a conquistare le più larghe libertà comunali fino dal 1200; presso un popolo che fu antesignano nel distruggere la servitù della gleba e nel creare e diffondere quasi totalitariamente la piccola proprietà rurale, che è il più grande baluardo di tutte le libertà, personali, civili e politiche; presso un popolo che ha provato, vissuto, sperimentato l’autonomia del Comune e della Regione, che ha lottato per decenni, sotto il Governo straniero, per costituire una Regione tridentina autonoma; così le libertà comunali e regionali sono passate nel nostro sangue e nelle nostre ossa; a tali libertà siamo talmente attaccati, che preferiamo essere più poveri, piuttosto che essere privati dell’immenso beneficio di tali libertà, che noi consideriamo come la parte più sacra dell’eredità lasciataci dai nostri padri: e questo perché noi siamo profondamente convinti che la libertà moltiplica le energie e suscita le più svariate e molteplici iniziative; essa invita il cittadino ad impegnare tutta la forza della sua volontà e tutta la potenza materiale di cui dispone per vincere sempre meglio la lotta per l’esistenza e per attingere il più alto progresso nella vita individuale, civile e politica.

Liberato dal dominio straniero e ricongiunto alla Madrepatria, il problema più assillante per il Trentino era la conservazione delle libertà comunali e regionali, il cui valore era tanto più sentito quanto più la lunga guerra le aveva umiliate ed offese.

Questa particolare situazione delle Nuove Provincie ebbe conveniente riconoscimento da parte del Governo nazionale.

Il Ministero presieduto dall’onorevole Nitti, alla data 1° dicembre 1919 faceva dire al re, nel discorso della Corona, le seguenti, per noi, storiche parole:

«Le nuove terre riunite all’Italia impongono la soluzione di nuovi problemi: la nostra tradizione di libertà deve segnare la via alla soluzione col maggior rispetto delle autonomie e delle tradizioni locali». (Ecco un impegno solenne, provocato dal Governo Nitti, e datoci dal re, e dal Parlamento plaudente la parola del re).

Il discorso della Corona proseguiva in questi termini: «Nessuna cura, nessun sacrificio devono essere risparmiati, perché, dopo le inevitabili incertezze del primo assetto, il ritorno di quelle terre alla loro unità naturale non arrechi alcun regresso, né alcuna diminuzione di benessere».

Il Governo Giolitti, succeduto al Governo Nitti, alla data 11 giugno 1921, faceva dire al re che gli organismi statali, per meritare l’abnegazione del contribuente italiano, devono «mostrarsi pronti a tutte le possibili semplificazioni e riduzioni, adottando ordinamenti più snelli e più decentrati»; e lo stesso Giolitti, in data 26 giugno 1921, spiegava il significato di tale decentramento dicendo: «Pericoli per l’unità non esistono, e quindi dobbiamo e possiamo procedere energicamente su questa via». Ma non basta, come allora, creare dei Governatori di Regioni (alludeva al progetto Minghetti del 13 marzo 1861); «perché si creava il Governatore, ma si lasciava la Provincia, si lasciava il Circondario»; «ora bisognerà creare soprattutto le rappresentanze elettive delle singole Regioni, e bisognerà determinare ben chiaramente quali attribuzioni si tolgono allo Stato per darle alla Regione e quali attribuzioni anche si debbano togliere alle Provincie, perché si tratti di servizi che è meglio concentrare in unità più vaste»; e proseguiva: «Credo che dobbiamo per ora non turbare quei decentramenti che già sono in vigore nelle Nuove Province; probabilmente dalle loro istituzioni potremmo anche trarre esempio utile per la trasformazione in senso regionale di una parte dei servizi dati alle Province e anche di una parte notevole dei servizi che si possono togliere all’accentramento statale».

In data 22 luglio 1920, Giolitti presentava al Parlamento la legge d’annessione, che veniva approvata dal Parlamento nella seduta del 5 agosto 1920. L’articolo 2 della stessa legge suonava: «Il Governo del re è autorizzato a pubblicare nei territorî annessi lo statuto e le altre leggi del Regno e ad emanare le disposizioni necessarie per coordinarle con la legislazione vigente in quei territori ed in particolare con le loro autonomie provinciali e comunali».

Il Governo dell’onorevole Bonomi, succeduto al Governo Giolitti, proseguì decisamente sulla via tracciata dai due Governi precedenti, e, con decreto in data 8 settembre 1921, istituiva le Commissioni consultive per la sistemazione amministrativa dei territori annessi, commettendo ad esse il compito «di studiare e proporre i provvedimenti di carattere generale ritenuti necessari per l’assetto definitivo delle Nuove Province; fissando le modalità delle autonomie regionali, ivi compreso l’esercizio dei poteri legislativi spettanti alle diete provinciali».

Così era ben avviata la sistemazione regionale in senso autonomista e conforme le aspirazioni dei neoredenti; ma, dopo l’infausta parentesi del Governo Facta, il timone dello Stato cadeva nelle mani del fascismo, che calpestava tutte le libertà e instaurava la peggiore delle dittature: come colui che, perdendo improvvisamente la luce degli occhi, sente quanto immenso sia il valore della vista, così noi, cittadini delle Nuove Province, assuefatti a un sistema di grandi libertà comunali e regionali, misurammo con dolore la gran disgrazia della nuova tirannide.

In data 24 maggio 1924, il discorso della Corona dettato dal Governo fascista diceva:

«L’unificazione legislativa e amministrativa delle Nuove Province è in via di compimento».

Queste parole furono la pietra tombale che soffocò tutte le nostre libertà. Il popolo trentino diede la meritata risposta il 2 giugno 1946 facendo uscire dalle urne elettorali 1’85 per cento di voti repubblicani. (Applausi).

Sotto il Governo straniero, i Comuni e le Regioni si amministravano veramente ed esclusivamente da sé, per mezzo di rappresentanze elettive; la Regione, oltre a ciò, possedeva diritti legislativi, che si estendevano ad un campo abbastanza vasto, ed esercitava, per mezzo di una giunta elettiva, la sorveglianza sulle amministrazioni comunali.

Lo Stato ed i suoi funzionari avevano solo il diritto di vigilare perché la Regione e i Comuni non esorbitassero dalle loro legali attribuzioni. Allo Stato competeva quindi il solo controllo di legittimità. Il controllo di merito era esercitato da un organo elettivo e cioè dalla giunta provinciale e, in ultima istanza, dal tribunale amministrativo di Vienna.

La vigilanza sulle amministrazioni pubbliche locali, specie su quelle comunali, spettante all’autorità politica (tre istanze: capitano distrettuale, luogotenente, ministro), era di pura legittimità; ma, anche in questo limite, aveva un contenuto soltanto generico; inteso non come facoltà di subordinare al suo gioco l’esecutività dei singoli atti delle amministrazioni vigilate, ma soltanto come facoltà che li autorizzava a far luogo ad interventi occasionali, allo scopo di prevenire o reprimere eventuali sconfinamenti delle amministrazioni oltre i limiti della loro sfera legale d’azione.

Ben diverso è il potere di vigilanza del nostro prefetto: potere di vigilanza attuale e incombente, per il quale il vero padrone dei comuni e della provincia è il prefetto stesso.

La Regione aveva un territorio di giurisdizione tributaria abbastanza vasto per permettere alla Regione stessa di attingere attraverso le sovraimposte e gli altri tributi, l’alimento necessario per respirare e per vivere.

Nel sistema dello Stato italiano, la Provincia è costretta a vivere entro confini troppo ristretti, tributariamente insufficienti a sostenere il peso dei servizi che le sono assegnati.

Per questo motivo aderisco pienamente all’articolo 107, secondo comma, del progetto di Costituzione, che prevede la conservazione della Provincia non più come ente autarchico territoriale, ma soltanto come circoscrizione amministrativa della Regione.

A coloro che sono preoccupati della conservazione della Provincia come ente autarchico osservo che il Circondario capitanale, che era un’articolazione della Regione straniera, concentrava in sé competenze e funzioni più vaste di quelle rappresentate dal nostro prefetto e dalla nostra giunta provinciale amministrativa.

Molti colleghi sono preoccupati per l’unità della Nazione; ad essi mi permetto di rilevare che l’Austria era riuscita a sedare rivolte e malcontenti e a creare un principio di unità morale fra le masse di otto nazioni diverse appunto largheggiando nella attribuzione delle libertà comunali e regionali; e il ribelle popolo magiaro, dopo aver ottenuto i più larghi diritti di autonomia, dimostrò di essere la nazione più leale e più affezionata alla monarchia asburghese.

Onorevoli colleghi, quattro milioni di Svizzeri, accampati nel cuore dell’Europa, sono anzitutto Svizzeri e poi sono Italiani, Tedeschi e Francesi; sono tre popoli, sono più di venti stati, ma danno l’esempio a tutto il mondo della massima, della più forte unità. Vivono ancora in Europa più di cinque milioni di superstiti austro-ungarici, che conobbero il sistema politico-amministrativo della ex monarchia danubiana: e tutti sono concordi nel dichiarare che se il sistema delle libertà svizzere fosse stato applicato ai popoli austro-ungarici lo Stato danubiano sarebbe stato indistruttibile.

A coloro che paventano la libertà regionale come una disgrazia per le Regioni povere, io vorrei rispondere: egregi colleghi, la libertà piace anche ai poveri! Anche l’operaio che sostenta la sua famiglia con la misera mercede giornaliera è geloso del suo diritto di reggere e amministrare la propria famiglia; non rinuncia alla potestà paterna, all’autonomia della sua famiglia; respinge la tutela di estranei precisamente come la respinge il capo famiglia che è ricco proprietario di terre, o industriale, o direttore di un trust miliardario.

Quando gli Svizzeri scossero il giogo feudale erano poveri ma amanti della libertà; e perché poveri servivano come soldati mercenari in diverse parti d’Europa.

Erano poveri, ma ricchi di libertà; e di salute fisica e morale; e su quella libertà, pur non avendo colonie, non avendo sbocchi al mare, abitando una Regione in gran parte montuosa e sterile, riuscirono tuttavia a crearsi quel benessere che noi tutti ammiriamo.

Anche gli abitanti di Aquileia rifugiati nei pantani e nelle sabbie della laguna veneta non erano ricchi che di povertà e di miseria; ma erano anche ricchi di libertà; e crearono la potente regina dell’Adriatico.

Ai colleghi che sono pensosi per le sorti delle Regioni povere io debbo osservare che lo Stato avrà sempre la parte del leone nel sistema dei tributi e delle imposte: pensate al sistema doganale e al sistema dei monopoli, destinati a fruttare per lo Stato.

Come in passato lo Stato ha sempre contribuito a favore dei Comuni e delle Provincie più bisognose, così anche per l’avvenire dovrà, per giustizia distributiva, aiutare le parti più bisognose.

PRESIDENTE. Onorevole Carbonari, io le chiedo scusa, ma non posso permetterle di continuare a parlare leggendo il suo discorso. È trascorso più del quarto d’ora regolamentare. (Interruzione dell’onorevole Uberti). Onorevole Uberti, lei non ha chiesto di parlare e la prego di far silenzio.

Onorevole Carbonari, io sono stato invitato espressamente da più parti dell’Assemblea a fare applicare almeno questa norma del regolamento.

UBERTI. A tutti!

PRESIDENTE. La prego, onorevole Carbonari, di attenersi alla norma. Ella può continuare a parlare anche un’ora, ma senza leggere. Occorre bene che ad un certo momento, onorevoli colleghi, si incominci ad applicare una norma quando – mi permettano – da parte loro assolutamente non si tiene conto che anch’io ho dei doveri da osservare e che debbo tener conto delle esigenze generali.

Una voce al centro. Ma per tutti!

PRESIDENTE. È giusto. D’altronde è stato avvisato replicate volte che ad un certo momento si sarebbe applicata questa disposizione e mi pare giusto cominciare ad applicarla dall’inizio di questa parte della discussione della Costituzione. Io non manco di riguardo all’onorevole Carbonari, come non potrei mancare di riguardo a nessun collega nei cui confronti per primo fossi stato obbligato a fare questa osservazione. E pertanto prego l’onorevole Carbonari di voler tener conto di questo mio richiamo al Regolamento. Prosegua pure il suo discorso, ma senza leggere.

CARBONARI. L’autonomia regionale non solo non mette in pericolo l’unità della Nazione, ma al contrario tale unità viene rafforzata dal sistema dalle autonomie locali.

Infatti l’unità vera, reale, operante ed efficiente della Nazione è l’unità morale: che nasce dalla concordia degli animi, dal consenso, dall’adesione spontanea verso l’azione dello Stato, la sua amministrazione, verso le sue leggi, e i suoi ordinamenti, per i quali si dà al cittadino ciò che è del cittadino, alla famiglia ciò che è della famiglia, al Comune e alla Regione ciò che è sfera d’azione naturale del Comune e della Regione.

Propugnare l’autonomia non significa per noi trentini voler creare uno Stato nello Stato o favorire tendenze separatiste: ma riallacciarsi alle vere tradizioni della nostra Nazione.

Noi trentini siamo unitari: noi che abbiamo salvato intatto il carattere latino del Municipio di Trento; noi che abbiamo meritato dalla delegazione austriaca a Parigi l’attestato che dichiara «che fra tutti i popoli della Monarchia i soli italiani del trentino preferivano la distruzione dell’Austria come avvenimento storico che rendeva possibile la loro unione all’Italia».

Questo attestato e le lunghe lotte da noi sostenute contro le invasioni delle società pangermaniste, che tentavano di cancellare il baluardo più settentrionale della Nazione, sono la prova che ci dà il diritto di dichiarare che i trentini sono unitari e antiseparatisti. Propugnare l’autonomia significa riallacciarsi alle vere tradizioni del popolo italiano.

Infatti pianta originale, nata e cresciuta in Italia, è la libertà dei Comuni; il loro asservimento è di importazione straniera.

Infatti, l’Italia, risorta a unità nazionale, adottava per il suo ordinamento strutturale-amministrativo il modello francese, creato dai Giacobini, tutto distruggendo l’antico, distruggendo le libertà delle associazioni professionali, consegnando lo Stato ai finanzieri della sfrenata concorrenza, avvilendo il Comune e la Provincia, e costruendo un nuovo edificio, alla cui base fu posto un principio contradittorio, volendo abbinare la più assoluta e sconfinata libertà con un potere dispotico al centro.

Il popolo italiano, il buon popolo italiano non sa quanta vera libertà gli è stata usurpata: troppi sono gli interessati che gli nascondono la verità: ma noi, ultimi venuti all’amplesso della Gran Madre, ben sapendo che cosa siano le libertà comunali e regionali, per averle vissute, provate e sperimentate nei nostri Comuni e nella nostra Regione; noi che ci siamo giovati di tali libertà per difendere i nostri diritti di lingua e di nazionalità sotto il governo straniero, ci sentiamo spinti dal dovere e dall’affetto verso i nostri fratelli a dichiarare, con sicura coscienza, che il più gran dono che questa Costituente può fare al popolo italiano è la ricostruzione dello Stato sulla base delle autonomie regionali.

Solo con tale sistema le masse del popolo italiano vivranno la vita della Nazione, si interesseranno dei problemi che agitano la vita dello Stato, avranno la sensazione di essere parte determinante e responsabile dei destini propri e dei propri fratelli, sentiranno rispettata e riconosciuta la dignità propria come persone e come cittadini.

Senza le libertà comunali e regionali e posto di fronte all’accentramento burocratico, il cittadino è un elemento passivo, avulso dalla vita del Comune, della Regione e dello Stato; un automa, un assente, un estraneo.

Altri celebreranno le date storiche, esponendo bandiere, banchettando e formando cortei, e il popolo sarà l’eterno fanciullo ignaro e insensibile ai più grandi avvenimenti, perché relegato alla condizione del minorenne, del tutelato e dell’interdetto; menomato nel suo diritto naturale ed umano di libero cittadino; offeso nella sua dignità personale e nel suo sentimento di responsabilità. Con le libertà regionali e comunali, accoppiate a conveniente decentramento, il cittadino diviene parte viva, vitale e operante del Comune, della Regione e dello Stato; a tale condizione il Comune stesso e la Regione diverranno parte viva, vitale, e operante dello Stato.

Altrimenti avviene che, pur amando la propria Nazione, il cittadino odierà con altrettanto cuore lo Stato; come fu evidente ieri, quando lo Stato era il partito e il cittadino opponeva alla tirannia la più grande di tutte le forze, la resistenza passiva; resistenza passiva, che si trasformava, appena possibile, in resistenza attiva per abbattere quella tirannide che era considerata come la rovina dello Stato e della Nazione.

L’autonomia crea il clima e la realtà nella quale il Comune e la Regione e con essi lo Stato, diventano, come devono essere, strumenti che servono alla collettività e ai singoli cittadini; il cittadino, anche se povero, anche semplice operaio o contadino, si sente trasportato dalla condizione di tutelato e di servo di una burocrazia che è tutto, alla condizione di padrone e di responsabile dei propri destini, e mentre nel sistema del centralismo dispotico l’anima del cittadino si chiude sdegnosa in se stessa e si investe di un sentimento di fredda indifferenza e di protesta, che gli suggerisce l’eterna ingiuria contro il Governo ladro; nel sistema delle libertà comunali e regionali l’anima del cittadino si espande, si apre; la volontà di collaborare al bene comune rinasce, prende vigore; e sentendosi arbitra e responsabile, diminuisce la critica contro il potere centrale; lo spirito di iniziativa è incoraggiato e fruttifica; e lo stesso spirito di concordia germoglia e si diffonde e l’unità morale della Nazione trova il terreno migliore per nascere e per affermarsi.

Il Comune e la Regione autonoma diventano baluardi di libertà e di democrazia; scompare il terreno favorevole alla formazione di quinte colonne; mentre nello Stato centralizzato basta l’occupazione di un paio di Ministeri o lo sciopero di pochi capi divisione per paralizzare tutta la vita dello Stato.

Nel sistema delle autonomie si realizza l’utilizzazione razionale delle energie locali, la cui collaborazione alla vita pubblica costituisce un immenso vantaggio per tutta la Nazione.

Nel clima di queste libertà, i colpi di mano e le marce sulla capitale diventano impresa disperata; tale clima crea uomini liberi e coscienti di una libertà che è loro diritto e dovere, e pronti a combattere per la loro libertà.

L’autonomia regionale provoca il controllo di fatto e il conseguente risanamento dell’amministrazione statale: quando un’intera Assemblea regionale attende il disbrigo di una pratica importante, i funzionari dell’amministrazione centrale si sentiranno spronati a tagliar corto con gli estenuanti ritardi; ben presto si accorgeranno che la via migliore è quella di servire fedelmente e sollecitamente il buon popolo italiano, non più servo della burocrazia.

A coloro che temono che le libertà locali portino alla rovina finanziaria, osservo che l’amministrazione del Comune e della Regione è così vicina agli amministrati che è facile il controllo della stessa da parte degli interessati; e che qualunque amministrazione disastrosa ha per effetto immediato l’ostracismo contro gli amministratori e la loro sostituzione, a mezzo delle schede, con elementi che godono maggior fiducia.

Molti temono i conflitti fra Regione e Regione e fra la Regione e lo Stato. Ma se voi ricorrete alla storia essa vi dirà che non c’è ricordo in Austria di conflitti fra regione e regione; né tale fenomeno si nota fra gli Stati della Confederazione Svizzera o Americana.

Onorevoli colleghi, concludo: in linea di principio e di massima devo esprimere l’adesione all’ordine del giorno Piccioni, votato quasi ad unanimità dai componenti la seconda Sottocommissione, che riconosce la necessità di dar luogo alla creazione dell’ente Regione:

1°) come ente autarchico, (cioè con fini propri d’interesse regionale e con capacità di svolgere attività propria per il conseguimento di tali fini);

2°) come ente autonomo, (cioè con potere legislativo nell’ambito delle specifiche competenze che gli verranno attribuite e nel rispetto dell’ordinamento giuridico generale dello Stato);

3°) come ente rappresentativo (degli interessi locali su basi elettive);

4°) come ente dotato di autonomia finanziaria.

Esprimo la mia particolare adesione al voto della onorevole Commissione di tenere conto della particolare situazione del Trentino-Alto Adige; e mi riservo di parlare in argomento nella discussione sugli articoli.

Onorevoli colleghi! Il popolo trentino, a nome del quale io parlo, deplora amaramente la perdita delle sue libertà comunali e regionali.

Tali libertà, promananti dal Trattato di San Germano, furono garantite alle nuove provincie dal Parlamento italiano e da sei governi, e dalla stessa legge di annessione.

Onorevoli colleghi! Ora è giunto il momento di fare onore agli impegni presi verso quella popolazione e di approfittare di questa occasione per far sì che un’aria di vera libertà e di vera giustizia passi attraverso tutti i Comuni e tutte le Regioni. d’Italia! (Vivissimi applausi).

PRESIDENTE. È iscritto a parlare l’onorevole Rescigno. Ne ha facoltà.

RESCIGNO. Avevo già intenzione di parlare brevemente, ma per non procurare all’onorevole Signor Presidente il fastidio di altri richiami, parlerò ancora più brevemente, tanto quanto basta per esprimere il mio pensiero su questo Titolo quinto della seconda parte del progetto di Costituzione, il quale pare a me che involga dei problemi che hanno veramente una grande importanza per l’avvenire della nostra Nazione; perciò penso che ognuno di noi debba esprimere il suo pensiero su questi problemi ed assumere un proprio e deciso atteggiamento, perché si tratta, onorevoli colleghi, di assumere una responsabilità, vorrei dire storica, di fronte alla propria coscienza e di fronte a coloro i quali ci hanno mandato qui, al popolo della nostra terra, della nostra provincia.

Ora io non tratterò il problema della regione nella sua integrità. Ho sentito dire, ed ho letto anche in molti scritti, che il popolo non si interessa, è indifferente a questo problema.

Io penso che non è che il popolo sia indifferente e non si interessi a questo problema; penso piuttosto che il povero popolo (che oggi se un assillo ha, se una preoccupazione ha, è la preoccupazione del pane, è la preoccupazione del lavoro) non comprenda troppo questo problema. Ma quando domani si passerà all’attuazione di queste norme e l’inevitabile disagio e l’inevitabile peso graveranno sulle spalle del popolo, esso allora si ricorderà indubbiamente di noi. Perciò dirò il mio pensiero su qualcuno soltanto dei punti di questo progetto. Ripeto, non passerò in rassegna gli argomenti pro e contro la regione (da buon democratico cristiano sono per la regione), ma fermerò la mia attenzione soprattutto su due articoli di questo progetto, a proposito dei quali ho presentato degli emendamenti: darò, in altri termini, conto di questi emendamenti.

Uno è l’articolo 107, il quale decreta la morte della provincia come ente autarchico, e l’altro l’articolo 123, il quale crea le regioni, le 22 regioni italiane. Per me non hanno valore la discussione teorica, i tanti argomenti di natura dottrinale; per me ha importanza il problema pratico: come concretamente, nella realtà e nella pratica la Commissione ha proceduto nel creare queste regioni; e a quali criteri di natura geografica, di natura economica, di natura antropica si è attenuta per creare quelle regioni e non altre. Primo punto: la morte della provincia come ente autarchico territoriale. Signori, io non ricorrerò agli argomenti di natura scientifica, che pure hanno il loro valore, a cui è ricorso l’onorevole Preti; io vi sottopongo una questione d’ordine pratico. Sono Deputato provinciale della mia provincia dal luglio 1944. In questi tre anni nei quali la vita della provincia è stata veramente qualche cosa di dinamico, di agitato, di tormentoso – vita che ho seguito con un interesse appassionato – c’era tutto da rifare nella nostra provincia. Era la provincia dove è avvenuto lo sbarco degli Alleati. C’era tutto da ricostruire: ponti, acquedotti, edifici, strade; c’era da risistemare orfanotrofi, case di salute, ospedali. Ebbene, tutto questo è stato ricostruito, tutto questo è stato risistemato, ad opera della tenacia e del fervore appassionato degli organi della provincia. Questo è un argomento d’ordine pratico che vale tutti gli argomenti d’ordine scientifico. E allora io domando alla onorevole Commissione, che ha redatto l’articolo 107 ed ha con un tratto di penna abolito la provincia come ente autarchico, degradandola a semplice circoscrizione amministrativa di decentramento statale e regionale, quanto segue.

Io pongo ai componenti l’onorevole Commissione questo dilemma: «Riconoscete voi che ci siano degl’interessi e delle esigenze, che trovano soddisfacimento in questo ambito territoriale, che sta tra la regione ed il comune?».

Se li riconoscete, allora questi interessi differenziati, che stanno tra la regione ed il comune, devono avere il loro soddisfacimento e la loro rappresentanza elettiva nella provincia.

Se non li riconoscete, allora è inutile creare tra la regione e il comune una terza circoscrizione, per accrescere quella burocrazia soffocante (perché questo sarebbe l’unico effetto, senza nessun altro vantaggio), la cui eliminazione costituisce la sola aspirazione del popolo italiano.

Si dice che la provincia non è un ente naturale, non ha individualità naturale, come l’ha il comune.

Io contesto questa affermazione, perché, anche se in origine la provincia non aveva individualità naturale, essa l’ha acquistata dalla unificazione del Regno;

Ed oggi veramente si possono riconoscere come una realtà viva le parole che, fin dal 1861, diceva Marco Minghetti, quando affermava che in Italia, intorno alle città si erano venuti agglomerando i comuni rurali, i comuni minori, creando dei vincoli, che non si possono più spezzare né confondere con altri. Ed alle parole del grande statista fece eco un altro grande uomo politico nel Congresso delle province italiane, tenuto nel 1898 a Torino, Paolo Boselli, il quale scriveva in proposito delle magnifiche parole.

È l’unica lettura che mi permetto, signor Presidente, perché sono parole di Boselli e non mie.

Paolo Boselli affermava che il perno di ogni riforma amministrativa dell’Italia dovesse essere precisamente la provincia, perché la provincia è la sola associazione naturale e durevole.

E questa provincia aveva per Paolo Boselli, in Italia, più che in qualsiasi altra parte dell’Europa, una personalità spiccatissima. Scriveva così Paolo Boselli: «O sia sopravvissuta in essa qualche immagine dell’antico compartimento romano (anche dal punto di vista letterario, quando scrivevano, questi nostri predecessori erano grandi ed imponenti), o si incontri tracciata in Sicilia dalla mano della natura, dall’impronta di epoche pugnaci e gloriose; o l’abbia formata il contado, intorno alle città della Toscana; o siasi costituita in Lombardia, secondo le attinenze dei comuni censuari e le grandi colleganze agrarie ed idrauliche; sia essa emersa dai liberi comuni o dalla trasformazione del feudo; l’abbia benedetta il labaro guelfo o rafforzata il diploma imperiale, la provincia ha la sua propria vita distintamente consacrata dai secoli».

Ed effettivamente ha questa vita consacrata dai secoli.

Non è vero affatto che sia una costruzione artificiosa la provincia. Il che significherebbe che non ha tradizioni. E non è vero affatto. Basta dare uno sguardo alla storia delle nostre città, alla storia d’Italia, per convincersi del contrario.

La Savoia, la Val d’Aosta, la Valle di Susa, avevano le circoscrizioni provinciali fin dal lontano medio-evo.

Il Piemonte le aveva per lo meno dal secolo XVI; lo Stato Pontificio, per lo meno dal secolo XIII o dal secolo XIV, aveva i suoi compartimenti, con un rettore, con un Parlamento in ogni compartimento.

Nel Lombardo-Veneto, dai tempi di Maria Teresa, c’erano le cosidette «congregazioni di patrimonio». Così nel Ducato di Modena e Reggio; così nel nostro Mezzogiorno, dove la circoscrizione provinciale si può dire che rimonti all’epoca normanna, e che, completata da Federico II, sia durata per 7 secoli, cioè fino alla formazione del Regno d’Italia.

Dunque, non costruzione artificiosa. E allora il problema della provincia, onorevoli colleghi, quale è? Il problema è un altro. Il problema è quello di fare della provincia il centro di una vita nuova. E come si fa centro di una vita nuova la provincia? Si fa accrescendo le funzioni di questo ente.

Innanzi tutto, sentivo dall’onorevole Preti parlare di prefetto, di prefettura, che dovrebbero permanere accanto alla provincia quale circoscrizione semplicemente amministrativa.

È questo uno dei problemi fondamentali da risolvere.

Eliminare questo doppione opprimente ed inutile che è la rappresentanza dello Stato nella provincia: la prefettura.

Onorevoli colleghi, quando gli alleati sono sbarcati nella mia provincia, a Salerno, quei poveri ufficiali americani non si raccapezzavano fra il prefetto ed il presidente della deputazione provinciale. Non riuscivano a capire, essi che venivano da un paese eminentemente democratico, come ci potessero essere sullo stesso territorio due autorità amministrative, cioè insieme la prefettura e la deputazione provinciale.

Ora è necessario che le funzioni di questa prefettura siano devolute tutte all’Amministrazione provinciale, perché non è vero (e questo è un altro degli errori e delle fissazioni che si ripetono, si scrivono e si dicono) che la provincia attualmente sia povera di funzioni. Non è affatto vero. Per lo meno dal 1917 le funzioni della provincia sono cresciute notevolissimamente. Non farò una rassegna minuta per non tediare. Del resto l’ha fatta già l’onorevole Preti. Ma si può sinteticamente dire che la provincia oggi è il centro di tutta una attività igienico-sanitaria, con tutti gli uffici inerenti. È il centro di tutta una attività assistenziale, la quale si potrà allargare. È il centro di tutta una attività di viabilità, la quale essa pure si potrà ampliare. Il problema è proprio quello di rendere possibile l’espansione di queste funzioni. In materia di assistenza, per esempio, se alla provincia voi darete tutta quella che è l’assistenza sociale, tutta quella che è l’assistenza del lavoro, voi avrete dato alla provincia un cumulo di funzioni e di incombenze da giustificarne da sole l’esistenza come ente autarchico.

E così in materia di viabilità, dove occorre estendere l’attività provinciale non solo alle strade intercomunali, ma anche a quelle comunali. E, del resto, anche ora la provincia non fa che accollarsi la manutenzione anche delle strade comunali, per alleggerire i comuni. Con tutto ciò voi avrete allargato, onorevoli signori, le funzioni di questo Ente, gli avrete dato una nuova vitalità, ne avrete fatto un centro fervido e pulsante della vita della Nazione.

E passo al secondo punto del mio breve intervento: articolo 123, le regioni.

L’onorevole Commissione ha creato 22 regioni. Io vorrei domandare agli onorevoli commissari con quali criteri di natura geografica, o di natura economica, o di natura antropica, sono state create queste regioni, perché il problema della divisione in regioni di uno Stato non è il problema più semplice di questo mondo. Affatto: è il problema più difficile che ci sia. Geografi insigni hanno profuso, su questo problema, fatiche, sudori, hanno creato teorie, hanno escogitato metodi. Il fondatore del metodo scientifico in questa, materia fu il Ritter. Non starò a citarvi altri. Un altro geografo, l’Unstead, ha trovato il metodo migliore, il metodo sintetico. Ora si possono creare delle regioni o tenendo conto di un solo fenomeno, ed allora avrete una regione semplice, ci dicono questi studiosi; o tenendo conto di un gruppo di fenomeni propri di un territorio ed avrete delle regioni complesse; oppure tenendo conto di più gruppi di fenomeni, ed avrete regioni integrali; e questa è la regione vera, la individualità naturale che voi avreste dovuto creare. E in Italia ci sono queste individualità naturali, le quali pur non rispondendo a circoscrizioni legali, a circoscrizioni amministrative, sono però vive, profondamente vive, nella coscienza del popolo. Il popolo le intuisce: quando si dice Monferrato, Casentino, Marsica, si dice qualcosa che è vivo nella sua coscienza, anche se non rappresenta una regione ai fini legali! Ma quando nell’articolo 123 si mette la Campania, si mette qualcosa che non ha nessuna individualità, che, oltre a non rispondere a concetti o a criteri geografici (Rumori), non risponde neanche a criteri di giustizia. E che non risponda neanche a criteri di giustizia ve lo dimostrerò, e non attraverso argomenti che potrebbero anche avere sapore di campanilismo. Qui non vengo a fare questioni campanilistiche, e potrei anche farne; potrei invocare, per la mia città e per la mia provincia, la storia. Potrei dirvi che la mia città è stata la capitale di un principato, nei secoli lontani, ed è stata la metropoli dei vasti domini normanni. Potrei dirvi che ha delle benemerenze nel campo sociale; che nella rivolta sociale del 1647 ebbe il suo «Masaniello» in Ippolito da Pastina; potrei dirvi che nel 1799 fu la prima ad aderire alla Repubblica napoletana; vi potrei rammentare tutto il contributo portato ai fasti del nostro Risorgimento, ma non lo faccio, perché qui non debbono valere le idealità, ma debbono valere le cifre. Ebbene vi porterò le cifre. Ho comprato, a bella posta, una pubblicazione dell’Istituto di statistica, perché voi mi potreste dire: ma noi non possiamo creare delle regioni piccole, e non possiamo fare quello che ci chiedi ora col tuo emendamento, cioè la regione Salernitano-Irpina, perché sarebbe troppo angusta!

È vero. La mia città in fatto di olocausto delle anguste rinomanze di fronte ai destini più vasti della Patria non è stata mai seconda. Nel 1127, quando l’Italia meridionale si unì alla Sicilia, Salerno rinunciò ad essere capitale, e rinunciò anche ad essere capitale con Carlo 1° di Angiò, quando questo sovrano portò la capitale a Napoli. Allora Salerno si ritenne ferita nel suo orgoglio; ma oggi, onorevoli colleghi, non si tratta di questo; oggi, questo ordinamento di regioni che voi avete preparato ferisce i suoi interessi! Ve lo immaginate voi il povero «uomo della strada», come lo chiamava poco fa l’onorevole Preti, che da Sapri dovrà, per regolare la sua pratica di un familiare infermo o folle, recarsi a Napoli, ve lo immaginate voi? (Interruzioni Commenti). Infatti, perché un folle vada nella casa di salute occorre la deliberazione della deputazione provinciale, e quando voi l’avrete soppressa questa deputazione, il povero contadino di Sapri dovrà andare a Napoli e non a Salerno. E così ve li immaginate voi gli ingegneri degli uffici tecnici della regione, quando dovranno andare da Napoli nell’impervio Cilento, per provvedere alla viabilità di quell’aspra regione?

Onorevoli colleghi, io sto considerando la regione così come l’avete voi costituita, io non sto combattendo la regione così come deve essere costituita. Voi mi direte: la regione deve essere ampia…

PERSICO. Ce ne vogliono dodici.

RESCIGNO. Ne volete dodici, ma io ne vorrei tre: Italia settentrionale, centrale e meridionale; ma dal momento, onorevole Persico, che è stata creata una regione come il Molise o come la Salentina (io non contrasto, anzi sono felice che queste regioni siano state create), e dal momento che è stata creata la regione della Lucania, io dico che è necessario creare anche la regione Salernitano-Irpina. Perché, se la onorevole Commissione avesse sentito il bisogno di interrogare, di interpellare i rappresentanti e i deputati di queste due provincie, si sarebbero esposte alla Commissione delle ragioni, alle quali si sarebbe venuto forse anche incontro. Ma questo la Commissione non lo ha fatto, e noi dobbiamo, per dovere verso la nostra coscienza e verso i nostri rappresentati, prospettare qui queste ragioni.

Onorevoli colleghi, qui non è più la storia o la poesia o il campanilismo, qui sono le cifre che parlano. Quando voi mi create la regione del Molise, che ha 127 comuni, mentre le provincie di Avellino e Salerno, delle quali vi chiedo la costituzione in regione, contano 262 comuni…

DE MERCURIO. Avellino non la vuole.

RESCIGNO. Però la vogliono la geografia e le esigenze economiche della nostra Nazione.

TONELLO. Ha ragione; hanno fatto un pasticcio! (Commenti Interruzioni).

RESCIGNO. Dicevo, quando questo Molise ha una superficie di chilometri quadrati 4.450, laddove le due provincie di cui vi ho fatto testé cenno hanno una superficie di chilometri quadrati 7.724 ed una popolazione di 1.171.689 abitanti di fronte ai 388.268 del Molise stesso, non so cosa si voglia ancora per ritenere giustificata la mia richiesta…

REALE VITO. Sono d’accordo.

RESCIGNO. Queste cifre acquistano un significato ancor più rilevante e notevole, quando si passa alla parte economica e alla parte sociale del raffronto. Il Molise ha appena cinque aziende di credito, con una cifra di depositi a risparmio presso le medesime di 46,5 milioni e di 413,4 milioni sulle Casse postali; invece, le due provincie di Avellino e Salerno hanno ben 22 aziende di credito, con operazioni di deposito, presso queste aziende, per la sola Avellino nella misura di 22,7 milioni, per Salerno di 134,5 milioni, e nelle Casse postali, per Avellino di 443, per Salerno di 616,9 milioni.

Quando questo raffronto lo si estende alle scuole, si vede che il numero delle scuole del Molise è grande, ma quello del Salernitano e dell’Irpinia è notevolissimo. Ripeto, questo non per contestare la creazione della regione del Molise, ma per rispondere alle esigenze elementari di giustizia. Io dico che la creazione della regione Salernitano-Irpina è una necessità fondamentale, per la struttura geografica di questa regione, perché, mentre le due provincie di Avellino e Salerno sono prevalentemente montuose, il resto della Campania è prevalentemente pianeggiante; mentre Salerno e Avellino hanno appena, si può dire, iniziata la trasformazione della loro economia agricola in economia industriale, il resto della Campania ha già quasi compiuto questa trasformazione…

MANCINI. Questo non è esatto. Magari!

SICIGNANO. Le state dicendo troppo grosse! (Commenti).

RESCIGNO. Se ha modo di contrastare, contrasti pure. Queste sono cifre e sono dati di fatto che hanno la loro realtà sul terreno e sono in ogni momento constatabili, come è constatabile che queste due provincie hanno il loro sbocco naturale nella città di Salerno, che è lo sbocco naturale di tutto il retroterra Irpino e Salernitano (Commenti a sinistra).

Mi dispiace per l’onorevole Sicignano, il quale è cittadino del Salernitano, che egli metta in dubbio questi dati di fatto, inoppugnabili e incontrovertibili.

E allora, onorevoli colleghi, si tratta di un problema di giustizia verso la nostra terra, di un problema di giustizia verso queste nostre provincie. Se volete che la riforma regionale sia veramente efficace e serva a cementare e non già a disgiungere, serva a limitare e non ad accrescere le forze centrifughe dello Stato, è necessario compiere questa creazione delle regioni con criteri di equità.

Solamente così si potrà creare quella solidarietà che deve essere a fondamento delle autonomie regionali.

È di ieri, onorevoli colleghi, la notizia riportata dai giornali, dalla stampa – alla quale stampa lasciate che io mandi da questa Assemblea il riconoscimento e il plauso per il contributo che ha portato, vasto, largo, a questo problema delle regioni: alla stampa, di tutte le tendenze, anche quella indipendente – è di ieri, dicevo, la notizia che a Napoli, finanche i relitti delle navi affondate, sono stati oggetto di speculazione da parte di cittadini di altre regioni.

Non è con questo spirito che si deve creare la regione; la regione si deve creare con spirito di fratellanza e di solidarietà, se vogliamo che sia viva e vitale. (Approvazioni).

Onorevoli colleghi, ricorrerà nel settembre prossimo il centenario, non di un grande uomo né di un grande avvenimento, ma il centenario di un inno che squillò come un grido di resurrezione nell’Italia, agli albori del Risorgimento: l’inno del poeta soldato che morì tra un canto e una battaglia:

«Noi siamo da secoli – calpesti e derisi – perché non siam popolo – perché siamo divisi». Signori, è ora di non essere più divisi; siamo un popolo e abbiamo bisogno di fratellanza e di solidarietà, ed è su queste basi che io vi prego di addivenire alla riforma regionale. (Applausi).

TONELLO. Abbasso la regione! È una invenzione vostra! (Si ride).

PRESIDENTE. È iscritto a parlare l’onorevole Vinciguerra. Ne ha facoltà.

VINCIGUERRA. Onorevoli colleghi. Si sono sentite le ragioni pro e contro le autonomie; ed io mi dichiaro antiautonomista, per quello che la mia opinione possa valere.

Penso però che su un solo punto, e autonomisti e antiautonomisti dovrebbero esser d’accordo ed è nel riconoscere che questo problema della regione – intesa come ente con caratteristiche istituzionali – ci è stato regalato unicamente dal progetto di Costituzione.

Ci ha fatto tanti regali questo Progetto e, non ultimo, è questo: anzi, è il regalo specifico della seconda Sottocommissione. È un regalo perché, signori, diciamoci una volta tanto la verità: questa riforma non è stata mai reclamata dal popolo italiano.

E anche oggi il popolo non ha la piena consapevolezza di quello che si sta per fare. Non si tragga argomento in contrario a quello che dico dall’agitazione che si è scatenata nel paese e della cui passionalità ha dato testé l’esempio l’onorevole Rescigno.

L’agitazione si è scatenata solo a seguito dell’annunzio che vi sarebbero state le Regioni, ed ogni lembo di terra ha creduto di dover tirare fuori il suo diploma, il vecchio onciario, il suo principio medioevale, la vetustà magari romana; e vi è stata ed è tuttora in atto una gara alla creazione di piccoli, massimi e minori enti, i quali starebbero soltanto a giustificare una cosa: la fondatezza della nostra preoccupazione che questa riforma possa essere pregiudizievole all’unità d’Italia. Davvero è una preoccupazione non senza fondamento, se sin da questo momento si scatenano queste gare provinciali, insorgono questi antagonismi localistici, e poco fa nella massima Assemblea della nazione l’onorevole Rescigno poteva ritenere lecito prospettare le ragioni della sua Regione – non so se sia il Salernitano o altra simile – in confronto delle pretese di chi patrocina i titoli della regione del Molise. È a seguito di questo preludio di discussioni che noi ci preoccupiamo giustamente di quelle che potrebbero essere le sorti dell’unità d’Italia se passasse questa oscura avventura della regione. Onorevoli colleghi, non bisogna nascondersi che la Capitale si crea il suo ambiente artificiale e il problema delle autonomie non vi trova l’atmosfera più sincera. Perciò io ho consigliato gli amici, anche di Gruppo, a scendere un po’ nelle provincie, a tuffarsi nei luoghi minori perché ivi avvertirebbero che nel popolo autentico, quello che lavora e non fa della dottrina, è in atto un distacco sensibile dallo Stato: lo Stato si avverte in via di fallimento. Gli esperimenti dei nostri Governi – questi primi esperimenti di democrazia – sono stati, in rapporto alla coscienza statale del popolo italiano, assai esiziali.

Ora io mi domando: è proprio questo il momento più opportuno per questa riforma di disintegrazione? Quando questo pauroso distacco dallo Stato si verifica e ciascuno pensa, le masse soprattutto, che si debba fare appello alla ragione, dobbiamo noi aprire le porte alla Regione, onde il popolo italiano si disperda nelle valli o vada a raccogliersi sui monti? (Approvazioni a sinistra). È un interrogativo che non deve disprezzare chi ha il senso della necessità dello Stato. Lo Stato ha le sue ragioni eterne di vita, anche per noi socialisti!

Ora, signori, quando ci si domanda: «Ma perché questa riforma?» c’è una risposta: «Bisogna dare addosso alla burocrazia». La burocrazia è in istato di elefantiasi; la burocrazia occorre sia snellita. E come si dovrebbe raggiungere questo obiettivo? Niente di meno creando la Regione, cioè creando una altra burocrazia, raddoppiando quella che già c’è, se è vero, che alla Regione sono assegnate tutte le funzioni che si leggono nel Titolo V° della parte IIa del progetto. La riforma e lo snellimento della burocrazia non possono essere attuati anche nella unità della Patria e nell’autorità dello Stato?

A un certo punto di questa discussione si è avuta la sensazione che c’è qualcuno, come dire?, che voglia barare al gioco. Ho sentito, per esempio, da un oratore citare come un fautore delle autonomie regionali niente di meno clic Giustino Fortunato. C’è davvero da meravigliarsi come in un dibattito il quale riguarda così elevati interessi della nazione, ci sia chi venga addirittura a cambiare le carte in tavola! Giacché Giustino Fortunato, onorevoli colleghi, sapete che cosa diceva alla Camera nel 1896 a proposito delle regioni? Diceva così: «Ma se invece per decentramento amministrativo propriamente detto voi intendete attribuire ai corpi locali più o meno autonomi vere e proprie funzioni di Stato, se di codeste funzioni volete loro commettere insieme la delibera e l’esecuzione, io non esito un istante solo a respingere lungi da me, nell’interesse stesso di quei corregionali che più soffrono e più lavorano, un dono così fatto, che in mezza Italia renderebbe sempre più l’organizzazione dei poteri pubblici (accentrati o decentrati che siano) una vasta odiosa clientela delle classi dominanti e l’Italia stessa un oggetto di lusso fatto per chi possiede e chi comanda: i signori, i ricchi, i pubblici funzionari e gli uomini politici»! E prosegue: «È un decentramento, il vostro, che i comuni e le provincie di mezza Italia, consorziati o no, sono incapaci di assumere senza il pericolo, e direi, senza la certezza di veder crescere a mille doppi i guai dell’oggi: l’infeudamento e il prepotere delle consorterie locali e il loro iniquo procedere in tutte le manifestazioni della vita amministrativa».

E finisce: «È un decentramento che non è, no, la giustizia né la libertà, non il diritto, non l’uguaglianza, non la morale, nessuna di queste grandi cose che voi ci promettete con tanta generosità d’animo e abbondanza di cuore. Se altro, non potete fare meglio l’accentramento dell’oggi, cui pure dobbiamo quel tanto di difesa, di sicurezza, di cultura e di benessere, che finora, Dio sa come, abbiamo raggiunto!

«E il vero è che molto, e in via relativamente facile, noi possiamo ottenere, solo che modestamente, secondo la logica delle cose, ci poniamo a considerare il decentramento per quello che è, per quello che dev’essere, senza innestarlo artificialmente all’idea di una riforma amplissima, dubbia, indeterminata; che non trova fondamento nella realtà delle cose; che non ha, no, il segreto della nostra salute; che non può non suscitare timori e paure in quanti credono tuttora non intima né sicura l’unione morale e materiale del nostro paese, così diverso nella sua stessa costituzione naturale, così vario nella sua stessa organizzazione economica…».

Non vi potrebbe essere più autorevole conferma di quel che sarebbe destinato ad essere il Mezzogiorno con una riforma regionale, coltura di feudalesimo e di nuove consorterie. E sarebbero sempre le classi che detengono ora la forza laggiù, quelle che stanno al dominio, le classi che riescono a penetrare e a filtrare anche negli organismi dello Stato, quelle che domani verrebbero in possesso della nuova organizzazione amministrativa. E allora il grande sogno del popolo meridionale di poter risolvere il suo problema nel piano nazionale, questo sogno svanirebbe e la vita locale verrebbe soffocata da una serie di satrapie di nuovo tipo.

E un pericolo la cui gravità non può essere attenuata, con la rievocazione dei precedenti letterari che poco fa ci regalava l’onorevole Tessitori. Noi non neghiamo che in ordine alle autonomie comunali ci sia stata una letteratura, ma essa non è percorsa dalla passione del popolo. Tranne che per la Sicilia, ed in forma minore per la Sardegna, noi non abbiamo sentito, dalle popolazioni italiane e tanto meno dalle meridionali, invocare questa pericolosa riforma, questa creazione dell’ente Regione, destinato inevitabilmente a fare la concorrenza allo Stato nazionale.

Ma ove l’urgenza e la necessità di questa riforma? C’era in Italia, una vecchia tradizione repubblicana delle autonomie la quale aveva la sua ragion d’essere quando era in corso la lotta contro la monarchia. Alberto Mario e prima di lui Cattaneo e Ferrari, patrocinavano il costituirsi di questi centri di raccolta di resistenza, contro il prepotere dell’accentramento regio.

Ma quando la monarchia è tramontata col 2 giugno e attraverso le forme repubblicane si spiana la via alla riforma dell’amministrazione, non si comprende questo attaccamento ad una tradizione letteraria che è soltanto un residuo.

Ma si dice che le autonomie potrebbero valorizzare le risorse locali delle regioni! Queste risorse per noi non hanno bisogno di un nuovo imbrigliamento amministrativo per essere valorizzate. Le regioni hanno di per sé una loro fisionomia, una loro economia, un loro commercio, dei loro legami. Si guardi ad esempio alla Campania: essa ha le sue città piccole e grandi, ha i suoi porti; ma tutta la Campania, il popolo lavoratore della Campania s’è scelto una capitale, spontaneamente, che è Napoli, e tutta la vita pulsa verso Napoli, l’afflusso dei prodotti, il movimento commerciale va a sboccare nella grande metropoli; e non c’è stato bisogno perciò di uno speciale crisma amministrativo.

Ma vi è di più, o signori! Il problema delle autonomie non può essere trattato sotto singoli angoli visuali: è un problema che va esaminato nel complesso perché, come lo stesso progetto di Costituzione ci ha ammonito, esso si è infiltrato in tutto l’ordinamento dello Stato. Tutto dovrebbe ruotare intorno al perno dell’ente Regione. Non da trascurarsi è il lato finanziario. All’articolo 112 del progetto di Costituzione si legge: «La regione provvede all’amministrazione nelle materie indicate negli articoli 109 e 110 e nelle altre delle quali lo Stato le delega la gestione». Le materie sono queste: ordinamento degli uffici ed enti amministrativi regionali; modificazioni delle circoscrizioni comunali; polizia locale urbana e rurale; fiere e mercati; beneficenza pubblica; scuola artigiana; urbanistica; strade, acquedotti e lavori pubblici di esclusivo interesse regionale; porti lacuali, pesca nelle acque interne ed inoltre (articolo 110):

Assistenza ospedaliera; istruzione professionale; biblioteche di enti locali; turismo e industria alberghiera; agricoltura e foreste; cave; caccia; acque pubbliche, ecc.

Insomma, tutto un complesso di attività verrebbe ad essere amministrato dall’ente Regione.

Quando le finanze italiane sono quelle che sono, potrebbe essere consentito allo Stato italiano – giacché diversamente la regione non potrebbe vivere, rimarrebbe soltanto un ente teorico, a soddisfazione d’una vecchia e magari autorevole e rispettabile aspirazione, ma non più di questo – spogliarsi dei suoi cespiti e dei suoi tributi?

Ora, dato che il problema delle autonomie è così irto di difficoltà, ritengo non inopportuna la richiesta di rinvio fatta dall’onorevole Rubilli e da altri illustri colleghi. Il Titolo V non va discusso in fretta e andrebbe invece affidato alla meditazione degli italiani ed anzi l’istesso problema della regione sottoposto a referendum.

Una voce. E noi che ci stiamo a fare?

VINCIGUERRA. Noi siamo i rappresentanti del popolo italiano fino ad un certo punto (Commenti), e non siamo i depositari in toto della volontà nazionale. Così si spiega che nello stesso progetto di Costituzione è stato ammesso il diritto al referendum ed alla petizione. Invocare il referendum in questa circostanza, non significa correre alcuna avventura. Sarebbe il modo migliore di chiamare il popolo italiano a pronunziarsi su questo problema delle autonomie.

Onorevoli colleghi, nella mia esposizione, ho ceduto più al cuore che al cerebralismo, che dà parti insinceri.

Io ho invocato solo la testimonianza di un grande, di cui era stato adulterato il pensiero: Giustino Fortunato.

Ho ritenuto inopportuno fare sfoggio di dottrina, e sarebbe stato facile. Al dibattito andava conservato il suo carattere nazionale, con esclusione dei motivi polemici, che pure vi circolano al fondo.

Infatti, se è soltanto l’attaccamento ad una nobilissima tradizione che spinge i repubblicani storici ad invocare questa preoccupante riforma, da qualche altra parte vi sono motivi men leciti e confessabili, e potrebbero essere bene quelli di creare con le regioni la Vandea e la riserva reazionaria contro un governo di popolo che avesse a darsi la democrazia italiana.

Concludendo, vorrei che dalle decisioni che sul problema delle autonomie andrà a prendere questa Assemblea venisse bandito lo spirito di compromesso ed il voto fosse netto per le regioni o contro. Noi auspichiamo per la salvaguardia dell’unità d’Italia e delle sue fortune un netto voto di rigetto. (Applausi).

PRESIDENTE. È iscritto a parlare l’onorevole Sullo. Ne ha facoltà.

SULLO. Onorevoli colleghi, chi ravvivasse oggi il ricordo di quello che era lo stato dell’opinione pubblica sul regionalismo nel 1943, 1944, 1945, cioè immediatamente dopo la caduta del regime fascista, chi ricordasse cioè quello che era lo stato euforico dell’opinione pubblica in merito al problema che oggi affrontiamo, non potrebbe non dare ragione a Guido De Ruggiero, che alcuni mesi fa notava giustamente come gli italiani si lascino trascinare dagli impulsi e come non sappiano essere costanti nel seguire un indirizzo.

Ora – vi confesso – ho avuto sempre timore dei «sinistristi» o dei «destristi», cioè dei sistematici in astratto, che paventano poi le soluzioni concrete conseguenti. Ho avuto timore di quelli, che essendo «sinistristi» sono diventati stranamente destri, o essendo «destristi» sono diventati sinistri. Così analogamente ho in uggia coloro i quali, e mi rincresce di dirlo, con tanta passione e con profluvio di parole forse, ma alla prova dei fatti con tanta superficialità, si dichiararono regionalisti due anni fa, quando la Costituente era ancora lontana e hanno cambiato parere adesso, che si tratta di venire al redde rationem. Dimenticano essi che bisognava che l’opinione che in quel momento assumevano come propria venisse rafforzata, raffermata con studi analitici e vengono impunemente a parlarci di impreparazione dell’opinione pubblica, di impreparazione dello stato dell’opinione pubblica, come se questa impreparazione non dipendesse dalla loro passiva inerzia! Si dimentica troppo spesso, da parte della così detta classe dirigente, che l’opinione pubblica si forma (e ne è sempre in un certo senso riflesso) da quelli che sono i sentimenti immediati, ma che d’altra parte viene elaborata dalla classe dirigente sui sentimenti immediati; e vi è perciò un gioco di rifrazioni, perché non è vero che l’opinione pubblica dipenda semplicemente dagli impulsi spontanei ed emotivi, ma anche in gran parte dallo studio, dalla tensione, dalla attenzione che i dirigenti di un paese pongono sui gravi problemi che vengono sottoposti al loro esame.

Onorevoli colleghi, grave adunque è la responsabilità di coloro che, dopo parecchi anni, sono venuti qui all’Assemblea a dire che la opinione pubblica non è preparata e quasi vanno conclamando il bisogno di interpellare adesso il pubblico colto ed inclito. Se essi interpretano il silenzio del popolo come un segno di indifferenza e di avversione sono rispettabili nella loro opinione, ma devono pur dirci che cosa hanno fatto per interpellare la collettività. Se nulla hanno fatto per interrogare le masse, per smuovere l’inerzia, per trattare questo problema, sono in certo senso responsabili. Noi abbiamo agitato questo problema e non da adesso, né è colpa nostra se la nostra stampa è stata quasi la sola ad affrontarlo in pieno. Vi sono stati peraltro degli uomini (non solo del Partito democristiano) anche del Partito repubblicano, che hanno portato proficuo contributo di studio. Cosa potevamo fare se invece gli altri si sono ben guardati dal venire al concreto e hanno preferito fare enunciazioni generiche nei congressi, a mala pena accennando alle obiezioni che oggi vengono portate in questa Camera con tanta baldanza?

Io do ragione, onorevoli colleghi, a Guido De Ruggiero, alle sue affermazioni, e ne sono molto addolorato. Per mio conto, questa volta sarò un po’ meno schematico di quanto sono stato nel mio precedente intervento, perché, penso, è tale l’argomento che bisogna parlar chiaro e dire quello che si pensa sull’insieme senza scendere al dettaglio, all’esame dei vari articoli.

Dobbiamo lasciare da parte per ora lo schema predisposto per la configurazione geografica delle regioni, e non attardarci a decidere quale zona debba essere regione, se la Campania o il Sannio o il Salernitano o il Molise, dobbiamo prescindere completamente dalla preoccupazione che le regioni sono 22 e non 30 o viceversa: è tutta materia, me lo perdoni l’onorevole Rescigno, che potrà essere oggetto di emendamenti all’atto della votazione sugli articoli. Occorre ora una visione sintetica, non irretita nei campanilismi.

Cercherò di portare molto sinceramente e modestamente una piccola pietra alla costruzione di questo edificio per chiarire le ragioni e i limiti di qualche nostra incertezza e le ragioni e i limiti della nostra fiducia nell’ente Regione. Dobbiamo anche, anzitutto vedere quali sono i motivi per cui una parte dell’Assemblea ha assunto un certo atteggiamento di ostilità preconcetta.

Non credo di interpretare male l’atteggiamento delle sinistre ricordando un articolo di Antonio Gramsci, che è stato ripubblicato dal n. 2 di Rinascita nel 1945 e il cui titolo esatto era: Alcune note sulla questione meridionale. Era un articolo (in un certo senso in polemica) di recensione di un volume di un mio illustre comprovinciale che, a differenza di Rubilli, è stato meridionalista per tutta la vita e che le sinistre hanno tanto amato ed apprezzato, Guido Dorso.

Gramsci, dicevo, sotto un certo aspetto in polemica con Guido Dorso, enunciò allora le ragioni per cui potenzialmente il partito comunista era anti-regionalista. Si parlava in quell’articolo della questione meridionale e si guardava la struttura sociale del Mezzogiorno, la funzione della classe dirigente nell’Italia meridionale. Da parte del Dorso si guardava al regionalismo come ad un mezzo di rinnovamento della classe dirigente. Gramsci invece, per suo conto, faceva notare che nulla vi era da attendere dall’intellettuale meridionale se non preso come individuo, perché un movimento di masse intellettuali nell’Italia meridionale non poteva avere seguito, non poteva avere successo.

La vera rivoluzione, che potesse trasformare socialmente il Mezzogiorno, non poteva venire che dall’abbraccio che le classi operaie del nord avessero fatto col proletariato agricolo del sud.

«Pensare possibile che esso (l’intellettuale) possa, come massa, rompere con tutto il passato per porsi completamente sul terreno di una nuova ideologia è assurdo».

E poi ancora a proposito della impossibilità di una soluzione di massa per gli intellettuali:

«È assurdo per gli intellettuali come massa e forse assurdo anche per moltissimi intellettuali presi individualmente…».

«Ora a noi interessano gli intellettuali come massa e non solo come individui».

Ed a proposito della soluzione del problema, Gramsci diceva chiaramente: «Il proletariato distruggerà il blocco agrario meridionale nella misura in cui riuscirà, attraverso il suo partito, ad organizzare in formazioni autonome e indipendenti, sempre più notevoli masse di contadini poveri; ma riuscirà in misura più o meno larga in tale suo compito obbligatorio anche subordinatamente alla sua capacità di disgregare il blocco intellettuale che è l’armatura flessibile ma resistentissima del blocco agrario».

La disgregazione del blocco intellettuale mediante l’alleanza tra il proletariato (sottinteso industriale) e le masse contadine del Mezzogiorno: questo era l’unico metodo col quale si doveva manovrare, secondo Gramsci, da parte di quelli che volessero una rivoluzione democratica e comunista nel nostro Paese Vi era in questa posizione chiaramente delineata la tendenza che si potesse risolvere, tutto ad un tratto, con un atto di forza, rivoluzionario, la situazione tremendamente penosa della Italia Meridionale. Gramsci voleva attraverso una rivoluzione rapida rinnovare l’Italia Meridionale. Anche noi pensiamo alla necessità di una «rivoluzione» in Italia Meridionale, ma non repentina, non con colpi di forza. Il nostro regionalismo è rivoluzionario rispetto alla tradizione meridionale, almeno degli ultimi secoli. È una rivoluzione senza sangue, che onora e onorerà i suoi assertori. Rivoluzionario nel senso di formazione e rinnovamento della classe dirigente, eliminazione delle consorterie e delle oligarchie locali, perché noi sappiamo bene cosa accade nell’Italia del Sud. E lo sanno, non soltanto gli uomini del partito di centro e dei partiti di destra, ma anche dei partiti di sinistra, perché il sistema delle elezioni personalistiche nei partiti dell’Italia Meridionale è stato adottato anche da loro, anche per loro! Mi spiegherò più chiaramente.

È esistita (ed esiste) la figura tipica del deputato personalista che, in altri tempi, era eletto dal popolo solo ufficialmente, ma di fatto si faceva strada attraverso le pressioni (o i favori) del Ministero degli interni, tramite il prefetto. Si ricordano molti casi e molti episodi, e non sarà certo il più giovane della nidiata a dirvelo: ci sono i più anziani che possono testimoniarlo. Questo deputato aveva bensì (e anche questo accadde talora anche per i partiti di sinistra, amici di quel Settore) i suoi elettori, ma era il Ministero degli interni che determinava la vittoria, che faceva traboccare il vaso con le sue pressioni. Finché ci sarà uno Stato accentratore queste cose si verificheranno ancora e le acque andranno a finire sempre nel medesimo letto, del medesimo fiume. Dunque, in generale, il deputato si trovava in questa situazione: era colui che dipendeva dal Ministro dell’interno, e si serviva a sua volta, dei sindaci dei comuni che poneva sotto la sua mediazione protettrice. Di fatto, le masse erano lontane da lui, che si serviva del favore governativo e ministeriale e delle aderenze del prefetto per essere rieletto e continuare, con una vera e propria ereditarietà, per generazioni. Non vi stupisca, vi sono state nell’Italia Meridionale vere e proprie generazioni di deputati ed il deputato era in questo clima, ed in questa atmosfera, un letterato ed un umanista nei casi migliori, un volgare retore, un qualsiasi paglietta nelle espressioni umane peggiori. Vi sono stati grandi uomini che in Italia Meridionale si sono staccati dalla massa grigia ed informe ed alla Camera hanno rappresentato individualità di grande valore (essi però sono rimasti in genere staccati anche dai loro stessi elettori, e hanno soltanto scritto magnifici libri sul Mezzogiorno); ma vi sono stati (ed era il caso più frequente) numerosissimi deputati che alla Camera non hanno fatto altro che votare, talora persino «non votare», rimanendo alla periferia, paghi di quella falsa gloria, di quel falso prestigio che veniva loro dalla maggioranza governativa, si afferma alla Camera, giolittianamente.

Contro questo stato di cose insorgeva Guido Dorso; contro questo stato di cose è insorto Luigi Sturzo, contro questo stato di cose è insorto con lui il partito popolare. Questo personalismo, se non si rimuove, può pullulare non soltanto in seno al nostro partito, ma anche nel seno del partito comunista dove vi è una tendenza a servirsi anche di questo mezzo pur di cogliere voti e a non saperne decisamente uscire. Noi insorgiamo contro questo personalismo, e quando parliamo della riforma regionale che va fatta, e quando ne parlavano Dorso e Sturzo, ne parlavano proprio come di una esigenza morale, come di una necessità, che neppure l’abbraccio tra gli operai del Nord e i contadini del Sud può sostituire con efficacia.

Ci battiamo tenacemente per la formazione di una classe dirigente che non sia personalistica, per la formazione di una classe dirigente che sia il popolo e che dal popolo sia espressa.

Quando Gramsci riteneva che per il rinnovamento del Sud questa formula non fosse adatta e fosse utopistica, egli riteneva che in Italia soltanto con la conquista del potere, conquista diretta, si potesse ottenere la elevazione sociale del proletariato agricolo del Sud, e che soltanto questo proletariato potesse esprimere una nuova classe dirigente. Noi ciò neghiamo.

Se si parte da questo punto di vista, non vi può essere accordo con i comunisti, perché noi crediamo alla resurrezione del Mezzogiorno attraverso il Mezzogiorno, non attraverso di una forma di «protezionismo» politico degli operai rispetto ai contadini, non attraverso l’abbraccio che venga dal Nord, ma che non modifica se non l’esterno, perché la vera educazione alla libertà deve venire dall’interno, e gli atti di conquista non rappresentano mai affermazioni durature. Noi pensiamo, onorevoli colleghi della sinistra, che se oggi anche la sinistra pensa che la conquista del potere può essere raggiunta attraverso la democrazia con gradualità e attraverso prese non dirette, non ci sia nulla da temere per quanto riguarda le autonomie regionali e sia da abbandonare la prevenzione di Gramsci contro la possibilità di una formazione autonoma di una preparata élite meridionale.

Pensiamo che questa svalutazione degli intellettuali del Sud che ha sostenuto Gramsci, dipenda da un pregiudizio: che non si possa modificare la mentalità dell’intellettuale del Sud, ponendolo a collaborare con la massa del proletariato, con cui invece a nostro avviso bisogna trovare il modo di farlo collaborare. (Interruzione dell’onorevole Mancini).

Non ho udito l’interruzione dell’onorevole Mancini e non posso replicare.

Vogliamo formare questa classe dirigente staccando, estirpando quell’appoggio ai deputati del Ministero dell’interno che consente loro di fare della politica semplicemente una professione vuota e untuosa. Soprattutto è per ragioni di carattere morale, per la fede che noi abbiamo che l’Italia meridionale possa essere unificata attraverso questa azione concreta della classe dirigente, che siamo regionalisti.

Io debbo ricordare quello che accadde a Cavour quando, nel Parlamento Subalpino, presidente del Consiglio, si trovò di fronte ad uomini della sinistra come Valerio e Brofferio, che sapevano fare grandi discorsi e ammantavano di pompa vana pensieri talora inconsistenti. Ma il presidente del Consiglio trovò la formula: «fare discutere i bilanci, fare discutere le leggi concrete» e da quel momento – lo dice Adolfo Omodeo – Brofferio e Valerio non parlarono più o parlarono poco. Così si forma la classe dirigente, democratica, del proletariato: quando non si faranno soltanto parole, quando non si parlerà solo per distribuire agli elettori l’estratto parlamentare, ma in una composta, seria e laboriosa assemblea regionale si tratteranno argomenti modesti, con continuità e con quel senso di responsabilità che vien dato dalla visione delle immediate conseguenze; allora si sarà fatto davvero un bel passo avanti sulla strada del progresso politico del nostro Paese.

Qui si tratta di creare quei pilastri di lavoro e di attività che certamente non esistono nella provincia, come oggi è concepita.

Oggi, nella provincia, da un lato c’è il prefetto che attende la crisi ministeriale per sapere chi sarà il nuovo Ministro dell’interno, e continuerà ad attendere egualmente domani; dall’altro lato abbiamo una amministrazione provinciale che è limitata a settori di minima, di non grande importanza, contrariamente a quello che crede il collega Rescigno. Quasi nessuno si accorge di questo: che è la catena che imbavaglia l’Italia meridionale questa congiunzione del potere esecutivo con la provincia, catena che continua a permettere il predominio a gruppi di intellettuali mediocri, vani, vuoti, tronfi.

È da auspicare che il proletariato trovi una via di intesa con la classe media e che trovi in questa classe media una guida; coloro che veramente vogliono riforme graduali e lente e il miglioramento effettivo e concreto della nostra classe dirigente, non possono non pensare a questo lato positivo della nostra concezione regionale, perché soltanto attraverso una palestra di vita politica noi potremo fare qualche cosa di più di quello che non ha fatto la classe dirigente passata italiana.

Io sono giovane e certi giudizi sulla bocca di un giovane sono troppo forti; ma devo dire con franchezza che, pur giovane e come giovane, sono rimasto non certo molto soddisfatto in quest’Aula ripensando a quella che poteva essere la levatura ideale di una Costituente. Ma poi, in fondo, mi sono detto che era logico e naturale che fosse così: con l’organizzazione dei partiti moderni, con quel «gruppismo», con quella simmetria accentratrice che c’è adesso di fatto, il campo d’azione dei deputati è limitato.

Il basso tono dell’Assemblea è fatale e logico, ed io che ho parlato a favore dei partiti organizzati, non posso non convenire che questo è un portato dei tempi.

Bisogna provvedere però ai ripari per elevare questo basso tono: se non si fa qualche cosa di più, se l’azione concreta non viene sviluppata in altri organismi, se il Parlamento è l’unica forma di espressione della sovranità popolare e non esistono assemblee più piccole, più concrete per risolvere i problemi del nostro Paese, non so se avremo un avvenire molto brillante.

Sentivo dire da un autorevole collega anziano che i Parlamenti oggi non possono funzionare più come nel 1919 o prima, che oggi c’è bisogno dell’agilità delle Commissioni, dell’agilità della visione diretta e del «colloquio», direbbe Calosso. Ebbene, non è solo attraverso le Commissioni legislative o parlamentari che si può raggiungere questo intento. Si deve raggiungere anche nello snellimento istituzionale dello Stato, dando qualche cosa da fare alle regioni, così come noi le concepiamo – colleghi dell’estrema sinistra – come enti che abbiano un determinato e limitato potere legislativo, come enti che abbiano una determinata, limitata e ben definita autonomia finanziaria, perché altrimenti creeremmo soltanto superstrutture e non faremmo nulla di duraturo.

Perché la regione deve esistere? Deve esistere indubbiamente per adattare certe leggi di carattere nazionale alla regione e per legiferare in certe materie. Questo può essere effettivamente il banco di prova della classe dirigente, e nel tempo stesso l’agone in cui la classe dirigente potrà misurarsi. Vi è in questa istituzione sufficiente garanzia sia per la destra che per la sinistra.

La sinistra, forse, preferirebbe il metodo di affermarsi nelle sue conquiste, battendo su certe zone e dilagando poi in altre zone. Purtroppo, noi abbiamo risentito sempre di ciò che si è fatto nella pianura padana: i grandi movimenti sono sorti di lì ed hanno dilagato per tutto il Paese. Indubbiamente, è più facile che un determinato piano politico-ideologico si sviluppi in una certa regione e, in uno Stato accentrato, dilaghi poi in tutto il resto del territorio nazionale. Ma quelle non sono sempre conquiste. Il fascismo, per esempio, che anche di lì è dilagato, di fatto è stato nel Sud una super struttura e anche in periodo fascista, di fatto, nel Sud non vi era se non personalismo: invece del sindaco c’era il segretario del fascio e le nomine avvenivano nella stessa maniera e le lotte in famiglia erano perfettamente identiche.

Se vi è da parte dei colleghi della sinistra, i quali vogliono le riforme, il desiderio che esse siano veramente durature, bene è che esse vengano, specialmente in certi settori, attraverso questa forma che le rende appunto più durature.

E, d’altra parte, la destra che forse è meccanicamente ossequiente a certi principî accentratori, a certi canoni che sono nella tradizione storica della destra italiana, che ha tanto timore di questo ordinamento regionale, deve riflettere che, in fondo, le regioni possono anche rappresentare la garanzia della gradualità nelle riforme, senza spaventare nessuno e senza mandar nulla in rovina.

Noi, come democristiani, come partito di centro, vogliamo le riforme non soltanto come folate di vento che passano, ma come istituzioni che diano sicurezza e garanzie sia a coloro che vogliono conservare ciò che è onesto conservare; sia a coloro che vogliono rinnovare tutto ciò che va rinnovato, con la certezza che ciò che sarà stato rinnovato resterà per i nostri figli: noi abbiamo bisogno dell’autonomia regionale a questo fine.

È verissimo che, dal punto di vista fiscale, le regioni dell’Italia settentrionale si troveranno, in un ordinamento regionale, in una condizione più favorevole rispetto a quelle dell’Italia meridionale. Ma ricorderò, a tale proposito, che l’articolo 38 dello Statuto siciliano ha riconosciuto che lo Stato italiano ha, per quanto riguarda, naturalmente, i tempi passati, dei debiti nei confronti della Sicilia e che è necessario per conto riparazioni dare un contributo annuo per opere pubbliche e di bonifica; ebbene, lo stesso si potrà fare, con disposizioni costituzionali transitorie, per l’Italia meridionale.

Ma, d’altra parte, anche se una disposizione transitoria potrà sancire questo, bisogna ricordare che soltanto attraverso un autocontrollo finanziario, l’autonomia finanziaria, cioè soltanto attraverso i calcoli fatti sulle cifre, si può educare la classe dirigente.

In fondo, ripeto, anche a costo d’essere noioso, la ragione più importante per la quale noi vogliamo le autonomie è proprio quella di formare la classe dirigente; né possiamo averla ove non sia chiamata a deliberare su qualche cosa di concreto. E non v’è nulla di più concreto del portafoglio dei cittadini.

Al momento opportuno, io presenterò una proposta di emendamenti all’articolo 113, il quale ha delle forme che potrebbero suonare un po’ ambigue. Ma, a parte queste questioni di dettaglio, deve rimanere ferma l’impostazione del problema, con quella integrazione di cui prima ho discorso, quando ho parlato dell’articolo 38.

E che questa mia posizione non sia, amici di sinistra, la posizione soltanto di chi è appassionato sostenitore delle idee del proprio campo politico e non vada oltre il settore della propria fede, ma sia un atteggiamento molto vicino a quello di pensatori di diversa tendenza e diversa fede, è dimostrato dal fatto che, nel recente congresso napoletano tenuto dal Partito socialista dei lavoratori italiani, si è giunti proprio a questa conclusione, che cioè il decentramento rappresenta una condizione di miglioramento per l’Italia meridionale e che vi deve essere da parte dello Stato un contributo per ciò che non è stato fatto per il passato o è stato fatto in danno dell’Italia del Sud. Testualmente il Congresso del P.S.L.I. (indetto dall’Istituto di studi economico-sociali) ha concluso:

«Il Congresso ritiene che l’autonomia locale, in tanto può avere vitalità in quanto sia fondata sulla regione, la quale ha una ampiezza territoriale, tradizione storica e compagine sociale sufficienti a garantire la sua consistenza economica, finanziaria e politica. L’ordinamento regionale dovrà avere autonomia politica oltre che amministrativa e carattere elettivo col solo controllo di legittimità da parte dello Stato. In esso dovrà essere assorbita l’organizzazione dell’artificiosa ed inefficiente circoscrizione provinciale».

E ancora:

«Tenute inoltre presenti le condizioni disagiatissime in cui le regioni del Mezzogiorno sono ora ridotte e per ragioni storiche e per effetto della politica seguita nei loro confronti dalla unificazione d’Italia in poi; infine per le devastazioni arrecate dalla guerra nelle loro zone in misura più grave che altrove, il Congresso ritiene che l’attuazione del nuovo ordinamento, lungi dal pregiudicarlo, sia indirizzata a favorire l’avviamento dell’intero problema meridionale alla soluzione che si attende da decenni e che gli eventi e la guerra hanno reso ancora più urgente».

Aggiunge esprimendo il voto che «lo Stato concorra, mediante congrue istituzioni, sia pure provvisorie, e con concessioni opportune, specie tributarie, alla perequazione finanziaria degli enti regionali del Sud con quelli del Nord». E non ci si meravigli che si parli di concessioni tributarie. È vero, paghiamo meno tasse di quelle che si pagano nel Nord, o nelle altre parti d’Italia. (Commenti).

Una voce a sinistra. Proporzionalmente paghiamo di più.

SULLO. Ma noi paghiamo le tasse in altro modo; noi le paghiamo con i dazî doganali, con le imposte di fabbricazione. Non potendo importare dall’estero quei prodotti che vorremmo e che potremmo importare in Italia meridionale ad un prezzo più basso paghiamo così un sovraprezzo. Di fatto le tasse sono egualmente e in maggior copia esatte. Il protezionismo che ha dato all’Italia del Nord il fiore degli operai specializzati (e qualche volta anche il fiore dei disoccupati) è un protezionismo a tutto danno dei lavoratori e dell’agricoltura dell’Italia meridionale.

Voi non dovete considerare, egregi colleghi, soltanto le tasse che ufficialmente noi paghiamo; dovete considerare anche quello che abbiamo pagato – e Nitti lo ha dimostrato in «Nord e Sud» – attraverso l’unificazione finanziaria del Regno, la confisca dei beni ecclesiastici, il pompaggio dei nostri risparmi, sicché perfino – non ridete: risum teneatis – si devono qualche volta ricordare con rimpianto i Borboni, e poi ciò che versiamo per colpa di tutta la nostra legislazione che è stata protezionista sino a ieri e che ricomincia (o continua) ad essere protezionista oggi, come è stato dimostrato dalla recente legge sulla cinematografia.

Considerate tutto questo, e allora, quando parliamo insieme dell’articolo 38 della regione siciliana e ciò nonostante della necessità dell’autonomia finanziaria, e quando diciamo che vi è necessità per lo Stato italiano nei riguardi del Mezzogiorno del soddisfacimento, per così dire, di quel debito che si è accumulato attraverso la storia, non dite che io sono in contradizione. Noi l’autonomia la vogliamo come mezzo di educazione politica, come mezzo di riparazione di ciò che in passato è avvenuto, forse indipendentemente dalla volontà degli uomini – forse anche per colpa di noi meridionali, non dico di no – ma che comunque è avvenuto, e di cui bisogna tenere conto effettivamente. Bisogna che queste ragioni vengano valutate con tutta serenità. È una grande prova quella a cui siamo chiamati. E molti che oggi parlano contro le regioni assomigliano perfettamente a quelli che prima del 2 giugno 1946 erano monarchici e repubblicani contemporaneamente, parlavano fra di loro, e non sapevano che cosa fare. Era una particolare categoria di repubblicani ideali, ma monarchici di fatto, i quali dicevano: «Io sono repubblicano, però in queste condizioni dell’Italia chi sa la cosa come va; non so che cosa fare; non so cosa farò» e finirono per votare per la monarchia. Molti assomigliano a questa categoria e pongono questa questione negli stessi termini. Il popolo italiano non aveva una tradizione repubblicana; c’era una tradizione del partito repubblicano, non una tradizione repubblicana; si è votata la Repubblica come un mezzo di miglioramento politico, di autodecisione, di autogoverno. Analogamente il popolo italiano non ha una tradizione regionalistica, sotto un certo punto di vista (benché da un punto di vista storico io, come modesto cultore di scienze storiche, debba dire che la tradizione regionalistica prima del 1860 esisteva) perché la tradizione regionalistica dopo il 1860 si riduce ad una tradizione provinciale molto modesta; ma dobbiamo fare la stessa considerazione che facevamo allora, quando ritenevamo che, a parte ogni considerazione, la Repubblica rappresentava un atto di fede.

Anche le regioni devono rappresentare per noi un atto di fede nel popolo italiano, nella sua volontà di autodecisione. Dobbiamo lasciare da parte le proteste interessate. Abbiamo ricevuto un’infinità di lettere. Da chi? Da sindacati, da amministrazioni provinciali – di Avellino, di Salerno, di Benevento, ecc. – da impiegati i quali temono – sembra – che ci siano delle modifiche nella loro vita privata, nel loro tenore di vita pratica a causa di questa nostra innovazione o per gli effetti di essa e si mettono in sollevazione. Non possiamo posporre evidentemente le necessità della collettività alle necessità di trenta, quaranta, cento impiegati per ogni provincia, i quali sono presi dal terrore di cambiamenti. Sentiamo d’altra parte in tutti i Ministeri che la burocrazia ministeriale è in allarme perché crede, e se ne adonta, sia pure in buona fede, che si vengano ad abbattere completamente le impalcature del passato. In effetti, possiamo dire che la burocrazia ministeriale renderebbe molto di più se il suo collegamento con la classe politica fosse maggiore.

Attualmente un’interdipendenza, uno scambio non c’è. La burocrazia deve pensare che con l’istituzione delle Regioni questo scambio ci sarà. E quindi gli impiegati, se desiderano veramente di aiutare più che sia possibile la ricostruzione del nostro Paese, devono saper superare il loro punto di vista particolaristico, il loro conservatorismo classista.

È un conservatorismo perfettamente umano e naturale in chi ha una casa e una città e crede che ad un tratto debba cambiar casa e città. Tanti mutamenti certo si faranno, ma nessuno deve temere ingiustificatamente avventate soluzioni concrete. Sotto il punto di vista ideale, politico, del nostro futuro e del nostro avvenire, noi otterremo, attraverso questa riforma regionale, quello scambio, quella intercomunicazione fra amministratori burocrati e legislatori che oggi di fatto non c’è. Questo è lo hiatus che io ho notato nella mia, sia pur breve, esperienza parlamentare. Io mi posso anche sbagliare, s’intende, ma non mi pare che in questo caso mi sbagli.

Onorevoli colleghi, non voglio tediarvi e lascio da parte lo svolgimento di altri profili della questione. Ho voluto soltanto dirvi che quando facciamo la difesa del regionalismo, la facciamo in nome di principî ideali che non devono essere facilmente disconosciuti da coloro che ci accusano di farla solo per un principio di conservazione. Non siamo attraverso il regionalismo (come le sinistre vogliono credere) conservatori. Ma se per principio di conservazione si vuole intendere conservazione del principio del bene, se conservare vuol dire fare in modo che si progredisca con il sistema delle garanzie, e se attraverso la regione possiamo giungere a questo sistema di garanzie, noi allora sì che siamo conservatori. Noi vogliamo che attraverso la regione si raggiunga il bene in equilibrio. La democrazia è metodo di equilibrio, e noi tendiamo ad esso. Noi abbiamo fede che l’unità nella democrazia rappresenti la concordia discors e non la concordia fra coloro che la pensano alla stessa maniera. E abbiamo fiducia che attraverso questa integrazione di forze regionali discordi parzialmente, l’Italia sarà qualche cosa di più che una uniforme addizione di addendi uguali, né più avrà a verificarsi in Parlamento o altrove il solito monologo, perché l’Italia meridionale e centrale sapranno essere qualche cosa di più di quel che sono state in tanti periodi. (Applausi).

PRESIDENTE. Il seguito della discussione è rinviato a domani.

Da parte di qualche collega è stato espresso il desiderio che le sedute d’ora innanzi comincino alle sedici anziché alle quindici. Si può accedere a questo criterio, a condizione che invece di chiudere la discussione verso le venti si chiuda verso le ventuno.

(Così rimane stabilito).

Avverto che da domani regolarmente sarà affisso l’elenco degli iscritti a parlare, in maniera che nessun collega possa eccepire, al momento di parlare, che non era il suo turno. Ciò implica dunque l’accettazione, da parte di tutti gli iscritti, del posto ad essi assegnato nella lista. Le iscrizioni che ho ricevuto nei giorni scorsi sono state fatte per gruppi. Credo che i colleghi siano d’accordo e mi concedano di alternare nell’elenco i nomi degli oratori, in modo che non si abbiano oratori che appartengano tutti allo stesso settore. Naturalmente ciò sarà fatto con larghezza di criterio.

MICHELI. Chiedo di parlare.

PRESIDENTE. Ne ha facoltà.

MICHELI. Sono d’accordo sul criterio di alternare gli oratori; ma non vorrei che si facesse un elenco immutabile. Nel nostro regolamento e nella nostra consuetudine parlamentare c’è stata sempre la possibilità delle sostituzioni.

PRESIDENTE. Questo è esatto, e l’abbiamo sempre praticato.

MICHELI. Ma mi pareva che ella lo volesse escludere.

PRESIDENTE. No, onorevole Micheli; ma è bene che ella l’abbia messo in rilievo, perché tutti ne siano al corrente. Resta inteso quindi che in tal senso la possibilità della sostituzione rimane.

La seduta termina alle 19.45.

Ordine del giorno per la seduta di domani.

Alle ore 16:

Seguito della discussione del progetto di Costituzione della Repubblica italiana.

VENERDÌ 23 MAGGIO 1947

ASSEMBLEA COSTITUENTE

cxxx.

SEDUTA DI VENERDÌ 23 MAGGIO 1947

PRESIDENZA DEL PRESIDENTE TERRACINI

INDICE

Congedi

Presidente                                                                                                        

Progetto di Costituzione delia Repubblica italiana (Seguito della discussione):

Presidente                                                                                                        

Ruini, Presidente della Commissione per la Costituzione                                       

                                                                                                                          

Clerici                                                                                                              

Giacchero                                                                                                        

Merlin Umberto, Relatore                                                                                

Mastino Pietro                                                                                                

Mortati                                                                                                            

Geuna                                                                                                               

Colitto                                                                                                             

Crispo                                                                                                               

Bosco Lucarelli                                                                                              

Caroleo                                                                                                           

Della Seta                                                                                                       

Preti                                                                                                                 

Benvenuti                                                                                                        

Azzi                                                                                                                   

Rodi                                                                                                                  

Bubbio                                                                                                              

Meda Luigi                                                                                                       

Castelli Edgardo                                                                                            

Scoca                                                                                                                

Corbino                                                                                                            

Schiavetti                                                                                                        

Laconi                                                                                                              

Cingolani                                                                                                         

Morelli Renato                                                                                               

Piemonte                                                                                                          

Buffoni                                                                                                             

Bertini                                                                                                              

Sui lavori dell’Assemblea:

Ruini, Presidente della Commissione per la Costituzione                                      

Bertini                                                                                                              

Presidente                                                                                                        

Zotta                                                                                                                

Bozzi                                                                                                                 

Grassi                                                                                                               

Togliatti                                                                                                          

Mastrojanni                                                                                                    

Targetti                                                                                                           

Lussu                                                                                                                

Martino Enrico                                                                                               

Rossi Paolo                                                                                                      

Piccioni                                                                                                             

Canepa                                                                                                              

Rubilli                                                                                                              

Lucifero                                                                                                           

Micheli                                                                                                             

Malagugini                                                                                                      

La seduta comincia alle 15.

MOLINELLI, Segretario, legge il processo verbale della seduta precedente.

(È approvato).

Congedi.

PRESIDENTE. Hanno chiesto congedo i deputati: Gortani, Fanfani e Mentasti.

(Sono concessi).

Seguito della discussione del progetto di Costituzione della Repubblica italiana.

PRESIDENTE. L’ordine del giorno reca il seguito della discussione del progetto di Costituzione della Repubblica italiana.

Rammento che ieri fu stabilito di rinviare ad oggi l’esame degli emendamenti aggiuntivi dell’onorevole Clerici e altri e dell’onorevole Giacchero all’articolo 47, dei quali rileggo il testo:

«Aggiungere il seguente comma:

«La carriera di magistrato, di militare, di funzionario ed agente di polizia e di diplomatico comporta la rinuncia all’iscrizione ai partiti politici.

«Clerici, Pignedoli, Franceschini, Bovetti, Foresi, Codacci Pisanelli, Sullo, Mastino Gesumino, De Palma, Coppi, Benvenuti».

«Aggiungere il seguente comma:

«I cittadini ufficiali e sottufficiali dell’esercito in servizio permanente non possono essere iscritti a partiti politici né svolgere attività politica.

«Giacchero».

Desidererei sapere se la Commissione è in condizione di rispondere e di esprimere il suo avviso.

RUINI, Presidente della Commissione per la Costituzione. Credo che i presentatori siano disposti a rinviare l’esame dei loro emendamenti.

CLERICI. Sono del parere che si possa rinviare il mio emendamento al momento in cui si tratteranno le norme relative alla Magistratura.

GIACCHERO. Non vedo come si possa rinviare il mio emendamento a quando si tratterà della Magistratura, poiché esso è strettamente connesso con l’articolo 47.

MERLIN UMBERTO, Relatore. Chiedo di parlare.

PRESIDENTE. Ne ha facoltà.

MERLIN UMBERTO, Relatore. Io sarei d’avviso, poiché si tratta di una materia compresa anche nell’emendamento del collega Clerici, che sarebbe meglio se l’emendamento dell’onorevole Giacchero seguisse la stessa sorte e venisse rinviato, anche per poterne fare un esame più attento. Per i magistrati c’è già una disposizione nella Costituzione (art. 94) e l’Assemblea ne discuterà ampiamente. Per gli altri, ufficiali e sottufficiali dell’esercito, dato per sovrappiù che l’emendamento Giacchero tende ad impedire agli ufficiali di svolgere attività politica, mi pare si tratti di una materia delicata che riguarda il regolamento dell’esercito. Comunque, se il collega consente, è bene rimandare l’emendamento Giacchero alla stessa data, quando si discuterà l’emendamento Clerici.

GIACCHERO. Accetto che venga rimandato: vuol dire che si sceglierà il luogo adatto ove inserirlo.

PRESIDENTE. Sarà anche diligenza sua.

Se non vi sono opposizioni, si intende dunque rinviata la decisione degli emendamenti Clerici e Giacchero alla discussione sul titolo della Magistratura.

(Così rimane stabilito).

Passiamo ora all’articolo 50:

«Ogni cittadino ha il dovere di essere fedele alla Repubblica, di osservarne la Costituzione e le leggi, di adempiere con disciplina ed onore le funzioni che gli sono affidate.

«Quando i poteri pubblici violino le libertà fondamentali ed i diritti garantiti dalla Costituzione, la resistenza all’oppressione è diritto e dovere del cittadino».

MERLIN UMBERTO, Relatore. Chiedo di parlare.

PRESIDENTE. Ne ha facoltà.

MERLIN UMBERTO, Relatore. Desidero comunicare all’Assemblea che, in seguito all’approvazione dell’articolo 48, poiché in questo è già compresa quasi letteralmente una parte dell’articolo 50, il nuovo testo dell’articolo 50, primo comma, secondo le proposte della Commissione, è il seguente: «Ogni cittadino ha il dovere di essere fedele alla Repubblica, di osservarne la Costituzione e le leggi», omettendo le altre parole.

PRESIDENTE. All’articolo 50 sono stati presentati degli emendamenti che ritengo restino validi, nonostante questa parziale modificazione enunciata dall’onorevole Merlin.

L’onorevole Mastino Pietro ha proposto di sostituire l’articolo 50 col seguente:

«Ogni cittadino ha il dovere di essere fedele alla Repubblica, di osservarne e farne osservare la Costituzione e le leggi, di adempiere, con disciplina ed onore, le funzioni che gli sono affidate, ed ha l’obbligo di difendere, contro ogni violazione, le libertà fondamentali, i diritti garantiti dalla Costituzione e l’ordinamento dello Stato».

L’onorevole Mastino ha facoltà di svolgere il suo emendamento.

MASTINO PIETRO. L’emendamento da me proposto si riferisce alla seconda parte dell’articolo 50, a quella parte, cioè, che prevede e stabilisce il diritto del cittadino alla resistenza alla oppressione.

È innegabile l’audacia, nel campo del diritto costituzionale, di una affermazione del genere. Poiché, se è concepibile, sotto un punto di vista non solo dottrinario, il diritto alla resistenza e alla ribellione dell’individuo, è veramente audace fissare in una Costituzione, come diritto costituzionale, quello della resistenza e della ribellione collettiva.

Io non oppongo una assoluta eccezione a che un concetto del genere venga affermato nell’articolo 50, ma intendo, col mio emendamento, giungere, non alla soppressione del concetto, ma ad una formulazione più precisa e più rispondente alla natura d’una legge statutaria.

Ciascuno di noi intende il perché psicologico dell’articolo 50.

Concetti del genere sorsero sempre dopo periodi di rivoluzione, quando il popolo credette di potere trionfalmente affermare la propria vittoria.

Ad esempio, dopo la lotta di indipendenza americana, nello Statuto fu introdotto il diritto in discussione.

Anche nella Convenzione, nella Costituzione del 1793, fu affermato lo stesso concetto; anzi, ho l’impressione che la formula usata nel capoverso dell’articolo 50 ne sia la traduzione letterale.

È ben naturale che oggi, dopo che l’Italia è risorta dal travaglio, dai sacrifici e dalla barbarie del periodo fascista, un concetto del genere riappaia anche nella nostra Costituzione.

Alcuni giorni or sono, in proposito, ha parlato l’onorevole Condorelli, il quale, nel criticare la formulazione ed il contenuto del capoverso, mi è parso abbia voluto quasi negare la fondatezza d’un diritto di resistenza; non solo collettiva ma anche individuale. Giustamente l’onorevole Merlin fece rilevare come l’affermazione dell’onorevole Condorelli fosse in contrasto colle stesse norme codificate dal Codice penale; ricordo, fra l’altro, l’articolo 199 del passato Codice penale, che riconosceva il diritto di resistenza del privato cittadino quando fosse legittimata da un atto di violenza esercitato da chi fosse rivestito di pubblica autorità. Criterio, mi permetto di soggiungere, che venne riaffermato anche dal fascismo, perché se è vero che il codice Rocco non ripropose le disposizioni dell’articolo 199, di cui ho parlato, è vero anche che non le riprodusse in quanto con l’articolo 52 dello stesso codice allargò il criterio della resistenza, portandola dal campo della difesa personale o, in determinati casi, della proprietà privata, al campo della difesa di tutti i diritti. Quindi il concetto fu affermato anche sotto il fascismo.

L’importante però è che noi questo concetto vogliamo affermarlo come diritto di resistenza politica. E io dico che dobbiamo affermarlo, ma sotto un’altra forma, e precisamente in quella che mi pare chiaramente espressa nell’emendamento che ho presentato; cioè: «Ogni cittadino ha l’obbligo di difendere contro ogni violazione le libertà fondamentali, i diritti garantiti dalla Costituzione e l’ordinamento dello Stato».

Non è tanto un diritto, quanto un dovere; non è tanto un diritto accordato nell’interesse dell’individuo, quanto un dovere imposto nell’interesse della collettività. Soprattutto questo, onorevoli colleghi, porta ad una conseguenza pratica molto chiara, della quale dobbiamo sommamente preoccuparci: evitare la possibilità che sotto il pretesto della violazione delle libertà fondamentali e dei diritti garantiti dalla Costituzione si pretenda di sovvertire lo Stato, intendendo per Stato la Repubblica. Ecco perché credo che si debba sostituire la formula da me proposta. Con essa infatti i diritti dei cittadini indicati nella prima parte della Costituzione verrebbero completati coi doveri; diritti e doveri, tra i quali questo formulato nell’articolo 50 secondo la dizione da me proposta, si integrerebbero fra loro, presidiati dalla Corte costituzionale, quale supremo organo per il regolamento dei diritti e dei doveri fra i cittadini e lo Stato. (Applausi).

PRESIDENTE. Segue l’emendamento dell’onorevole Mortati:

«Sostituirlo col seguente:

«È diritto e dovere dei cittadini, singoli o associati, la resistenza che si renda necessaria a reprimere la violazione dei diritti individuali e delle libertà democratiche da parte delle pubbliche autorità».

L’onorevole Mortati ha facoltà di svolgerlo.

MORTATI. Il mio emendamento ha uno scopo di chiarificazione formale del testo della Commissione. Esso ha di mira, da un lato, di distinguere l’aspetto della resistenza individuale da quello della resistenza collettiva; e, dall’altro, di mettere in rilievo il carattere di necessità che questa resistenza deve avere, onde potere considerarsi legittima. Essendo chiare le ragioni dell’emendamento, credo inutile di dilungarmi nell’illustrarle.

PRESIDENTE. Mi permetta, onorevole Mortati: allora il suo emendamento è sostitutivo solo del secondo comma?

MORTATI. La mia proposta tendeva anche alla soppressione del primo comma del testo originario dell’articolo del progetto. Ma non insisto su questa parte.

PRESIDENTE. Sta bene.

Segue l’emendamento dell’onorevole Geuna, firmato anche dagli onorevoli Giacchero e Codacci Pisanelli, col quale si propone la soppressione del primo comma.

L’onorevole Geuna ha facoltà di svolgerlo.

GEUNA. Osservo che nella Costituzione già è contemplato l’impegno specifico per i cittadini che assolvono funzioni dello Stato, per il quale essi possono essere richiesti di un giuramento. Una volta che l’articolo 48 ha già affermato questa specifica situazione, mi pare inutile ripeterla qui. Sarebbe come dire che non è lecito rubare; poiché noi riteniamo di fare una Costituzione che implichi immediatamente il dovere di osservarla.

Per questa ragione fondamentale chiedo la soppressione del primo comma dell’articolo 50.

PRESIDENTE. L’onorevole Azzi ha già svolto il seguente emendamento:

«Dopo il primo comma aggiungere:

«Il Capo dello Stato, i membri del Governo, i presidenti delle Deputazioni regionali, i magistrati, le forze armate e quelle assimilate, prima di assumere le loro funzioni si impegnano con giuramento all’osservanza di questo dovere».

Segue l’emendamento dell’onorevole Colitto:

«Sopprimere il secondo comma».

L’onorevole Colitto ha facoltà di svolgerlo.

COLITTO. Non trovo difficoltà a dichiarare che sarei disposto a rinunziare al mio emendamento se, dalla parola cortese dell’onorevole Merlin, ricevessi chiarimenti ai dubbi, che sono sorti nel mio animo, allorquando per la prima volta ho letto la norma, di cui ci stiamo occupando.

Io ho chiesto la soppressione del secondo comma dell’articolo 50.

Questo secondo comma è così redatto: «Quando i poteri pubblici violino le libertà fondamentali ed i diritti garantiti dalla Costituzione, la resistenza all’oppressione è diritto e dovere del cittadino».

Presa nel suo insieme, questa norma vuol dire che, in caso di oppressione, il cittadino non soffra, non taccia, ma si ribelli, non creda, non obbedisca, ma reagisca.

La norma afferma che ne ha il «diritto», anzi, è un suo «dovere».

Evidentemente è il recente passato, che ha spinto la Commissione ad enunciare questa norma, a desiderare che essa fosse nella Costituzione, quasi una diga di fronte al pericolo di nuove oppressioni.

E l’onorevole Ruini non l’ha taciuto nella sua dotta relazione.

Si legge in essa: «Venne da alcuni espresso il dubbio se in una Costituzione, che presuppone si basi sulla legalità, possa trovare posto il diritto o piuttosto il fatto della rivolta.

«Ha anche qui influito il ricordo di recenti vicende ed è prevalsa la tesi che la resistenza all’oppressione è un diritto ed un dovere».

Presa nel suo insieme la norma apparisce, pertanto, come un incitamento ai cittadini, che sono pavidi di fronte alla oppressione ed alla tirannide, e costituisce altresì un monito severo ai pubblici poteri.

Io non credo che possa essere sopravalutata l’importanza della norma, perché è evidente che ove la tirannide trionfi, non sarà certo una breve norma costituzionale a salvare i cittadini ed il Paese.

Sarei portato, comunque, a mantenere la norma, appunto come un incitamento e come monito, se nel mio animo non fossero sorti alcuni dubbi.

Quali sono i pubblici poteri, di cui si parla in essa?

Non vi è dubbio che la norma si riferisce anzitutto al potere esecutivo. Ora certamente il cittadino ha sempre il diritto di opporsi al pubblico funzionario che, travalicando i limiti segnati dalla legge, conculchi il diritto del cittadino. Questo, come diceva dianzi l’onorevole Mastino, è già consacrato nella nostra legislazione, e a questo proposito, anche l’onorevole Merlin ricordava ieri l’articolo 199 del codice Zanardelli.

Giustamente l’onorevole Mastino diceva che quelle norme sono, in sostanza, rimaste in vigore anche durante il periodo fascista, essendosi, in loro vece, fatto ricorso all’articolo 52 del codice penale.

Il cittadino non può essere punito per il delitto di oltraggio, e per quello di resistenza a pubblico ufficiale, ove il pubblico ufficiale abbia superato i limiti delle sue attribuzioni, violando le norme di diritto, che dette attribuzioni gli assegnano.

Da questo punto di vista, niente di strano che nella Costituzione si consacri una norma generale, nella quale le disposizioni, che sono già nella legislazione penale, trovino il loro inquadramento, e niente di strano che nella Costituzione, a fianco di un diritto, si parli di un dovere. Il cittadino ha il diritto di opporsi. Può senza danno affermarsi altresì che il cittadino ha il dovere dì opporsi.

Ma «pubblici poteri» sono anche il potere giudiziario ed il potere legislativo.

Ora, in che cosa – ecco il mio dubbio – consiste il diritto di resistenza, allorché il pubblico potere è il potere giudiziario od allorché il pubblico potere è quello legislativo? Il cittadino, secondo la norma, di cui ci stiamo occupando, avrebbe non solo il diritto, ma addirittura il dovere di opporsi ad essi ove egli ritenesse di trovarsi di fronte ad una violazione di diritti garantiti dalla Costituzione? Che significa questo? All’interrogativo non ho saputo nella mia coscienza dare una risposta. Tutte le risposte che mi sono passate dinanzi la mente, mi sono sembrate affermazioni quanto mai aberranti. Perché? Ma perché contro la sentenza del magistrato io non vedo che i gravami, tassativamente indicati dalla legge, e contro la legge non so concepire resistenze di nessun genere. Per la legge non c’è, a mio modesto avviso, che l’obbedienza.

Io non sono d’accordo con quelli che affermano che legittima e doverosa è la resistenza, quando la legge è ingiusta. Lex iniusta, si dice, non est lex, e perciò non obbliga, perché nessuno può essere obbligato ad obbedire all’ingiusto comando. Io penso, invece, che qualunque sia il motivo, da cui un cittadino possa essere indotto a disobbedire alla legge, legittimamente emanata, quel cittadino deve essere sempre considerato un ribelle e trattato come tale. Ma cosa significa, ad ogni modo, che il cittadino ha il diritto di resistere alla legge? Può egli mai diventare il giudice del legislatore ed agire di conseguenza? Un altro dubbio. Che interpretazione bisogna dare della norma, quando la si considera in relazione a quei particolari diritti, pure consacrati nella Costituzione, e che l’onorevole Ruini nella sua relazione chiama diritti potenziali? Si pensi al diritto al lavoro riconosciuto dalla Repubblica a tutti i cittadini; all’impegno, assunto dalla Repubblica, di assicurare alla famiglia le condizioni economiche necessarie, non solo alla sua formazione, ma al suo sviluppo; al diritto riconosciuto agli inabili al lavoro, sprovvisti dei mezzi necessari alla vita, di avere il mantenimento e l’assistenza sociale. Ora, nell’ipotesi in cui la Repubblica non abbia la possibilità di mantenere questi impegni, non abbia, cioè, la possibilità, come diceva l’onorevole Nitti, di pagare tante cambiali firmate in bianco, il cittadino avrà il diritto e il dovere, come dice la norma, di insorgere contro i pubblici poteri? Potrà insorgere contro il Parlamento, perché non fa le leggi, o contro il Governo, perché non le attua? A tutti questi interrogativi non avendo saputo trovare risposta convincente, noi abbiamo affermato, occupandoci di questo articolo, che ci sembra che esso consacri il diritto alla ribellione. Ed ecco perché ne chiediamo la soppressione. La sua applicazione pratica, nella realtà della vita, che è quella che è, e non quella che dovrebbe essere, potrebbe dar luogo a tali inconvenienti, a così strane ed impensate applicazioni, che certamente ne deriverebbe danno per la compagine sociale, che la Costituzione mira, invece, in ogni momento a salvaguardare.

Un ultimo rilievo. È proprio esatto, e mi riattacco a quanto diceva ieri l’altro l’onorevole Condorelli, che si possa, da un punto di vista squisitamente giuridico, parlare di diritto di resistenza? Noi dobbiamo proporci, egregi colleghi, questa domanda, perché qui è l’Italia, che sta redigendo la Costituzione, e l’Italia è maestra di diritto! La più recente dottrina giuspubblicistica ha affermato che non esiste un diritto di resistenza, che si possa porre a fianco degli altri diritti di libertà.

Chi resiste all’aggressione tutela la sua libertà. E, quando poco fa l’onorevole Mastino diceva che durante il passato regime si è applicato l’articolo 52 del Codice penale in sostituzione dell’articolo 192 del Codice Zanardelli, riaffermava proprio il mio concetto: non c’è un vero e proprio diritto di resistenza, perché chi resiste all’aggressione non fa altro che tutelare la propria libertà. Il diritto di resistenza non è che l’estrinsecazione del diritto di libertà che è stato aggredito. E allora, perché dovremmo proprio noi parlare nella Costituzione del 1947 di un diritto di resistenza, che non esiste?

Quanto affermo è ben noto all’onorevole Ruini. Dalla sua relazione traspare in maniera evidentissima. Egli parla, infatti, in essa di «idea di resistenza all’oppressione, rivendicata da teorie e da Carte antichissime». Di un diritto di resistenza si è parlato adunque in passato; ma la dottrina giuspubblicistica afferma che non esattamente si parla di diritto di resistenza.

RUINI, Presidente della Commissione per la Costituzione. Ne ha parlato anche un procuratore generale della Corte di Cassazione in un libro, alcune diecine di anni fa.

COLITTO. Venti anni fa. Sta bene. Ma da allora si è percorsa parecchia strada. E perciò che io sarei molto lieto, se dai lavori dell’Assemblea Costituente risultasse con chiarezza che la Costituzione ha riconosciuto che quelle Carte antichissime consacrano teorie non esatte e che la nuova Carta consacra, invece, quella che è, in materia, una conquista precisa del pensiero giuridico italiano. (Applausi a destra).

PRESIDENTE. Anche gli onorevoli Bozzi e Crispo hanno proposto un emendamento per sopprimere il secondo comma.

In assenza dell’onorevole Bozzi, l’onorevole Crispo ha facoltà di svolgerlo.

CRISPO. Dichiaro di rinunziare all’emendamento e di aderire a quello dell’onorevole Mortati.

PRESIDENTE. L’onorevole Bosco Lucarelli ha proposto pure di sopprimere il secondo comma. Ha facoltà di svolgere l’emendamento.

BOSCO LUCARELLI. Lo mantengo, ma rinunzio a svolgerlo.

PRESIDENTE. Rammento che sono già stati svolti i seguenti emendamenti:

«Sopprimere il secondo comma.

«Rodi».

«Sopprimere il secondo comma.

«Subordinatamente, rinviarne l’esame al momento della discussione del Titolo VI della II Parte.

«Sullo».

Segue l’emendamento dell’onorevole Caroleo:

«Sopprimere il secondo comma.

«Subordinatamente sostituirlo col seguente:

«Non è punibile la resistenza ai poteri pubblici, nei casi di violazione delle libertà fondamentali garantite dalla Costituzione».

L’onorevole Caroleo ha facoltà di svolgerlo.

CAROLEO. Onorevoli colleghi, penso che sia preminente dovere dell’Assemblea Costituente quello di creare lo Stato. E finora abbiamo per questo Stato creato una serie numerosa di doveri; ma mi pare che, quanto a diritti, ancora non ci sia nemmeno l’ombra. Che anzi, dirò così, quasi all’ingresso di quell’edificio che dovremo pure andare a costruire troviamo questo articolo 50, che sembrerebbe voler dire che allo Stato, di fronte ai cittadini e alla collettività dei cittadini, non compete nessun diritto.

Sembra questo un paradosso; ma io rilevo quella inconciliabilità che esattamente notava l’onorevole Condorelli tra il dovere di essere fedele alla Repubblica e il diritto di violarne le leggi affermato nel capoverso dello stesso articolo 50.

Io, per la verità, debbo dirlo sinceramente all’onorevole Merlin, ho ancora vivo il ricordo delle nobili parole da lui pronunziate a proposito dello sciopero dei funzionari pubblici, che non era ammissibile di fronte alle esigenze dello Stato, espressione viva dei bisogni e della volontà dei membri della società politica nazionale.

Ma qui come non intendere, come non avvertire che ci troviamo di fronte alla possibilità di uno sciopero di tutti i cittadini di fronte ai poteri pubblici dello Stato? Io questa idea di Stato, da modesto membro di questa altissima Assemblea, la vado difendendo giorno per giorno, con indipendenza di giudizio e senza prevenzione alcuna; ed è per questo che qualche volta mi accade di passare dall’uno all’altro settore della Camera.

Ma la difendo questa idea, perché penso che sia un’esigenza fondamentale e insopprimibile di qualsiasi concezione politica, di qualsiasi dottrina dello Stato, e penso che sia un’esigenza della teorica individualistica o atomista, come della totalitaria e ancora più della pluralista, perché, se anche si vuol dare allo Stato una funzione semplicemente strumentale di fronte all’individuo, di fronte alla comunità familiare, o professionale, o religiosa etc., bisognerà pure che questo Stato si provveda, come strumento perfetto, dei mezzi necessari alla realizzazione degli scopi dei vari enti pluralistici, che si pensa vivano nella società con diritti naturali originari di prius di fronte a un posterius rappresentato dallo Stato.

È un’esigenza di tutte le comunità, perché lo Stato significa ordine, lo Stato significa legge; e reagire allo Stato e alla legge non significa rispettare la Repubblica ed essere fedeli alle sue norme.

Io mi domando, onorevoli colleghi, che cosa sarebbe di questa stessa sovrana Assemblea, se l’ordine non fosse rispettato e se le norme regolamentari non fossero disciplinate nel loro esercizio dall’autorità del nostro egregio Presidente. Ora, io non nego che al cittadino debba riconoscersi il diritto nello Stato della difesa delle libertà garantite dalla Costituzione, nell’interesse proprio e in quello della collettività nazionale; ma la tutela del proprio diritto deve essere da ciascuno esercitata nell’ambito, nei confini delle norme che nella Costituzione stessa sono consacrate.

Non si parli della nobile lotta partigiana, non si parli della rivolta all’oppressione che in un determinato momento storico può verificarsi nell’ambito di una società politica: in quei casi noi siamo fuori – come bene ha rilevato l’onorevole Condorelli – dalla realtà del diritto. Possiamo essere nei confini di una realtà storica, ma al di fuori del diritto; siamo in un sistema di fatti che potranno anche soverchiare il diritto, ma contro i quali il diritto potrà anche resistere, come è avvenuto per la stessa rivoluzione fascista, la quale, sia pure a distanza di venti anni, ha trovato resistenza nel corpo sociale, negli organi costituzionali dello Stato.

Se noi ricorriamo a questi esempi, come potremmo noi ammettere – e naturalmente non sarebbe mai nelle nostre intenzioni affermare il contrario – che un’abissale differenza intercorre fra la nobile guerra partigiana e il colpo di Stato del 1922?

Ora, nell’emendamento che io subordinatamente propongo, forse si potrebbe vedere qualche cosa di superfluo, perché – come l’onorevole Mastino e l’onorevole Colitto poco fa spiegavano – già nella legge c’è per l’individuo la tutela dell’esercizio del proprio diritto, c’è un ampio potere di legittima difesa che proviene dal Codice Zanardelli, ed era anche affermato nel Codice fascista. Ma, comunque, nella formulazione da me proposta si richiama il cittadino nei limiti della legge, perché non lo si sottrae a quel potere giudiziario che è chiamato a valutarne la condotta, o alla futura Corte costituzionale, se detta funzione sarà deferita ad altro istituto. Quando si fa l’ipotesi di esercizio del proprio diritto o di difesa legittima del proprio diritto, si configurano nella legge particolari casi di non punibilità. Il fatto resta nella sua anormalità, perché fuori del diritto; però viene sottoposto al sindacato degli organi che costituzionalmente sono fissati nella legge; e se veramente il cittadino ha agito per difendere il proprio diritto, per far rispettare quella libertà che la Costituzione gli garantisce, allora verseremo in un caso di non punibilità; ma – ripeto – non si verificherebbe l’enormità di un cittadino, che si fa giudice delle leggi del proprio Paese, sibbene l’ipotesi di un cittadino che opera intenzionalmente nell’interesse proprio e dello Stato, nell’interesse individuale e nell’interesse collettivo, e dei suoi atti, quali che siano, risponde dinanzi agli organi costituiti dello Stato.

Ecco perché nell’emendamento da me presentato subordinatamente – se si deve mantenere il secondo comma dall’articolo 50 – propongo che la formulazione sia rettificata in questo senso: che non è punibile la resistenza ai poteri pubblici nei casi di violazione delle libertà fondamentali garantite dalla Costituzione. Casi, ripeto, di non punibilità, ma non di sottrazione del cittadino ai controlli, che la Costituzione stabilisce nell’interesse dell’intera società nazionale. (Approvazioni).

PRESIDENTE. Anche l’onorevole Della Seta ha proposto di sopprimere il secondo comma dell’articolo 50. Ha facoltà di svolgere il suo emendamento.

DELLA SETA. Onorevole Presidente, onorevoli colleghi. Veramente da opposti settori si è già rivelata tale una concordanza significativa…

UBERTI. No; da alcuni settori.

DELLA SETA. …sulla soppressione del secondo comma dell’articolo 50, che io rinuncerei volentieri a svolgere il mio emendamento. Mi siano permesse solo pochissime parole, quasi a titolo di un’anticipata dichiarazione di voto.

Non siamo noi, repubblicani storici – e questa volta sull’aggettivo «storico» bisogna proprio porre l’accento – che possiamo disconoscere il diritto e il dovere della resistenza ai poteri costituiti, quando questi si accingano a manomettere le pubbliche libertà. «Pensiero e azione» fu la divisa della «Giovine Italia»; e questo diritto e dovere della resistenza non è stato solo un pensiero, cioè un principio consacrato nelle pagine dei nostri scrittori politici, ma è stato anche azione, azione tenace, pugnace ed audace attraverso la quale, per una via seminata di galere, di esili e di patiboli, la Patria nostra da «terra dei morti» è assurta ad unità e a dignità di nazione.

E proprio per questo, proprio perché riconosciamo questo diritto e questo dovere della resistenza, proprio per questo – non sembri una dissonanza – noi riteniamo che una tale norma non possa essere sancita in una Carta costituzionale.

Noi comprendiamo, noi ci inchiniamo anzi di fronte al nobile sentimento che ha indotto i membri della Commissione ad inserire questa norma nella Carta costituzionale. Essa, dirò, è stata un atto di fierezza civile, quasi come una reazione alla mortificazione che tutti subimmo sotto il regime dittatoriale, quando ci dibattemmo nel tormento di resistere ai poteri costituiti, come avremmo voluto, dovuto e forse anche potuto se – tranne una minoranza eroica – minori fossero state le coscienze pavide e servili, minori le schiene curve sotto la verga del dittatore.

Ma la storia non ha mai registrato l’esempio di un uomo, di un partito o di un popolo, che, prima di ricorrere alla resistenza, si sia preoccupato se questa resistenza fosse o no conforme alla Carta costituzionale.

Victor Hugo ha lasciato scritto che talvolta per rientrare nel diritto bisogna uscire dalla legge. Voi con questo comma volete legalizzare la illegalità.

«Appello al Cielo» chiamarono i trattatisti medioevali questo diritto del popolo alla resistenza; e il Poeta-Soldato cantò: «Quando il popolo si desta, Dio si mette alla sua testa e la folgore gli dà». Voi volete costituzionalizzare la folgore!

Ora, sia detto col massimo rispetto, tutto questo è un voler convertire nel barocco quanto talvolta è il sublime nella storia; questo è per lo meno un peccare di ingenuità. Ora, noi non vorremmo che questa Costituzione, che, tra pregi incontestabili, ha anche alcune note che noi vorremmo non possedesse, cioè le note della contraddittorietà, della reticenza e quella di essere bifronte, noi non vorremmo che essa aggiungesse anche la nota dell’ingenuità.

E perciò, sia per accogliere gli ammaestramenti della storia, sia per non peccare di ingenuità, noi ci associamo agli altri colleghi che hanno chiesto la soppressione di questo secondo comma dell’articolo 50.

PRESIDENTE. Seguono altri due emendamenti per la soppressione del secondo comma.

Quello dell’onorevole Azzi è già stato svolto. Dovrebbe ora svolgere il proprio l’onorevole Terranova, ma, non essendo presente, s’intende che vi abbia rinunziato.

Segue l’emendamento degli onorevoli Carboni e Preti, così concepito:

«Al secondo comma, sopprimere le parole: all’oppressione».

L’onorevole Preti ha facoltà di svolgerlo.

PRETI. Noi avevamo presentato un semplicissimo emendamento. Ci sembrava che dire che la resistenza all’oppressione è diritto e dovere del cittadino fosse in certo qual modo pleonastico. Credevamo che bastasse dire: la resistenza è un diritto e un dovere del cittadino. Ma poiché si sta parlando di rinviare l’esame di questo articolo 50 al titolo relativo alle garanzie costituzionali, noi non avremmo nessuna difficoltà ad accedere a questa proposta.

BENVENUTI. Chiedo di parlare.

PRESIDENTE. Ne ha facoltà.

BENVENUTI. Propongo un emendamento, per il quale ho già raccolto le dieci firme occorrenti, e che perciò mi riservo di presentare tra poco. Accenno tuttavia che si tratta di dare all’Assemblea la possibilità di un più ampio esame di questa materia, differendola a quando si discuterà delle garanzie costituzionali. Si tratta dunque di spostare l’esame e la collocazione. Vorrei pregare il Presidente di permettermi di illustrare intanto i motivi dell’emendamento che sto per presentare.

PRESIDENTE. Va bene onorevole Benvenuti, illustri pure questi motivi.

BENVENUTI. Mi richiamo agli argomenti già accennati dagli onorevoli Caroleo e Sullo. La materia delle garanzie costituzionali sembra la sede opportuna per trattare questo argomento, in quanto il testo proposto non si riferisce soltanto al diritto di resistenza del cittadino di fronte ad arbitrî del potere esecutivo, ma anche al diritto della resistenza del cittadino ad atti del potere legislativo.

Ora, mentre il conflitto che si forma fra il cittadino e il potere esecutivo è sanabile attraverso il giudizio del Magistrato ordinario, il conflitto fra il cittadino e il potere legislativo non è sanabile se non attraverso quel sindacato giurisdizionale che non è ancora entrato nella nostra legislazione.

Quindi nella Carta costituzionale prima dovremmo esaminare il problema della risoluzione del conflitto fra il potere legislativo e il cittadino e discutere quindi l’introduzione nel nostro diritto pubblico dell’istituto del sindacato giurisdizionale, mediante l’eventuale creazione della Corte costituzionale, precisandone le funzioni e il modo di adirla. Poi potremo trarre le conseguenze in materia di diritto di resistenza all’esecuzione di leggi anticostituzionali. Altrimenti arrischieremmo di mettere il carro avanti ai buoi.

Nella sede delle garanzie costituzionali potrà dunque l’Assemblea rivedere e coordinare e formulare adeguatamente la norma relativa al diritto di resistenza.

PRESIDENTE. L’onorevole Relatore ha facoltà di esprimere il parere della Commissione sugli emendamenti.

MERLIN UMBERTO, Relatore. Per quanto riguarda il primo comma dell’articolo 50 la Commissione prega l’Assemblea di votare il testo come da essa proposto. L’emendamento dell’onorevole Mastino è interessante, ma faccio osservare che per la prima parte è quasi identico al testo nostro; la seconda parte: «adempiere con disciplina e onore alle funzioni che gli sono affidate», è già assorbita dall’articolo 48 già votato. Per la terza parte noi riteniamo che sia un po’ eccessivo imporre al cittadino l’obbligo di difendere contro ogni violazione le libertà fondamentali, i diritti garantiti dalla Costituzione e l’ordinamento dello Stato. Essere fedele alla Repubblica, osservarne la Costituzione e le leggi, questo è giusto, ma più di tanto non si può pretendere. Pregheremmo perciò l’onorevole Mastino di rinunciare a questo suo emendamento accontentandosi della formula che la Commissione propone.

C’è l’onorevole Genua che domanda la soppressione del primo comma; non possiamo accettare: le ragioni sono evidenti: le ho dette già. Riteniamo che i concetti dell’onorevole Genua siano compresi nella formula proposta dalla Commissione, perché quando si domanda che il cittadino sia fedele alla Repubblica è compreso il concetto che sia fedele prima di tutto allo Stato. Naturalmente questa giovane Repubblica deve anche difendersi e non può ammettere agnosticismo sulla forma costituzionale che il popolo si è liberamente scelta.

Per tutti quanti gli altri emendamenti che riguardano il secondo comma dell’articolo 50, la Commissione propone all’Assemblea di accettare la proposta fatta oggi dall’onorevole Benvenuti, ma fatta già prima anche dall’onorevole Sullo, e cioè di rinviare la discussione di questo comma al Titolo VI quando si parlerà delle garanzie costituzionali, perché evidentemente la materia è connessa; e allora l’Assemblea potrà trattarla anche più compiutamente per esaminare se proprio nella Corte costituzionale non vi sia un rimedio ed una salvaguardia contro i pericoli un po’ esagerati che si sono indicati. Per cui la Commissione propone il rinvio a questa sede per poter trattare la materia più compiutamente e concretamente.

PRESIDENTE. Chiederò ora ai presentatori di emendamenti se li mantengano, o no.

Onorevole Mastino, mantiene il suo emendamento?

MASTINO PIETRO. Lo mantengo.

PRESIDENTE. Onorevole Mortati?

MORTATI. Non insisto ed accetto la sospensiva.

PRESIDENTE. Onorevole Geuna?

GEUNA. Lo mantengo.

PRESIDENTE. Onorevole Azzi?

AZZI. La Commissione non ha accennato alla mia proposta di emendamento che tendeva a spostare l’articolo 51 come secondo comma dell’articolo 50; perciò lo mantengo.

MERLIN UMBERTO, Relatore. Il suo emendamento riguarda il giuramento?

AZZI. Tendeva a spostare l’articolo 51 come secondo comma dell’articolo 50, perché è lo stesso argomento; mi pare che la stessa formula adottata per i cittadini sia anche adottabile, con raggiunta del giuramento, per i poteri dello Stato.

MERLIN UMBERTO, Relatore. La Commissione, mi pare di averlo già detto, propone che l’articolo 51 sia rinviato e frazionato.

RUINI, Presidente della Commissione per la Costituzione. Ma no! È stato assorbito.

MERLIN UMBERTO, Relatore. Assorbito per quel che riguarda i pubblici funzionari, ma per il Capo dello Stato e per i magistrati ed altri organi costituzionali noi ripeteremo la norma quando verranno in discussione i singoli articoli. Quindi prego l’onorevole Azzi di non insistere.

PRESIDENTE. Onorevole Azzi, insiste?

AZZI. Accedo al criterio esposto dall’onorevole Relatore.

PRESIDENTE. Onorevole Colitto, ella mantiene il suo emendamento?

COLITTO. Aderisco alla proposta di rinvio.

PRESIDENTE. Onorevole Bosco Lucarelli?

BOSCO LUCARELLI. Anch’io.

PRESIDENTE. Onorevole Rodi?

RODI. Anch’io sono per il rinvio.

PRESIDENTE. L’onorevole Sullo è assente; il suo emendamento s’intende decaduto.

Onorevole Caroleo, mantiene il suo emendamento?

CAROLEO. Aderisco alla proposta di sospensiva e, subordinatamente, mantengo il mio emendamento.

PRESIDENTE. Onorevole Della Seta?

DELLA SETA. Accetto la proposta di rinvio, mantenendo il mio emendamento.

PRESIDENTE. Onorevole Preti?

PRETI. Aderisco alla proposta di rinvio fatta dall’onorevole Benvenuti.

PRESIDENTE. La proposta di rinvio si riferisce al secondo comma dell’articolo 50.

Si deve votare, pertanto, soltanto sul primo comma:

«Ogni cittadino ha il dovere di essere fedele alla Repubblica, di osservarne la Costituzione e le leggi».

L’onorevole Mastino ha proposto di aggiungere dopo la parola «osservarne» le altro «e farne osservare».

GEUNA. Ritengo che la mia proposta di soppressione del primo comma debba essere votata prima di quella dell’onorevole Mastino.

PRESIDENTE. Pongo ai voti la proposta soppressiva fatta dall’onorevole Geuna.

(Non è approvata).

Pongo ai voti il primo comma coll’aggiunta proposta dall’onorevole Mastino.

(Non è approvata).

Pongo ai voti il primo comma nel testo proposto della Commissione di cui ho già dato lettura.

(È approvato).

Pongo ai voti la proposta di rinvio del secondo comma dell’articolo 50, accettata dalla Commissione.

(È approvata).

Il testo dell’articolo 50 rimane, quindi, il seguente:

«Ogni cittadino ha il dovere di essere fedele alla Repubblica, di osservarne la Costituzione e lo leggi».

L’onorevole Merlin, ieri, aveva preannunziato una dichiarazione della Commissione riguardo all’articolo 51. Lo invito a fare tale dichiarazione.

MERLIN UMBER.TO, Relatore. La proposta della Commissione è questa: in parte notevole l’articolo è già trasfuso nell’articolo 48, che l’Assemblea ha approvato.

Per quello che riguarda il Capo dello Stato, i membri del Governo, i magistrati, ecc., la Commissione si riserva, nelle singole collocazioni degli articoli successivi, di ripetere degli articoli specifici sul giuramento.

BUBBIO. Chiedo di parlare.

PRESIDENTE. Ne ha facoltà.

BUBBIO. Il Relatore non ha accennato al mio emendamento col quale si intendeva di includere anche i sindaci fra coloro che sono tenuti al giuramento a norma dell’articolo 51. Se la stessa premessa sarà fatta in quella sede, accetto di rinviare.

MERLIN UMBERTO, Relatore. Accetto; se ne parlerà dopo.

PRESIDENTE. Se viene accettata la proposta dell’onorevole Merlin, l’articolo 51 praticamente scompare; saranno fatte proposte man mano che verremo all’indicazione dei singoli magistrati, funzionari, per i quali sia proposto il giuramento.

(Così rimane stabilito).

Possiamo quindi considerare concluso l’esame del quarto Titolo del progetto di Costituzione. Dovremmo ora passare all’esame della Parte seconda, relativa all’ordinamento della Repubblica.

RUINI, Presidente della Commissione per la Costituzione. Chiedo di parlare.

PRESIDENTE. Ne ha facoltà.

RUINI, Presidente della Commissione per la Costituzione. Restano da esaminare i quattro articoli relativi alla materia tributaria. Fu stabilito, accogliendo una proposta dei presentatori, che ne avremmo trattato alla fine del Titolo quarto della Parte prima.

La Commissione non ha nessuna difficoltà che se ne parli, perché ha già esaminato la questione.

PRESIDENTE. Se nessuno ha obiezioni da fare, si può passare all’esame di questi articoli aggiuntivi riguardanti la materia tributaria, che erano stati rinviati per l’esame alla fine della votazione sulla prima parte del progetto di Costituzione.

Le proposte sono state presentate dagli onorevoli Meda Luigi, Persico, Schiavetti, Castelli e Scoca.

Gli onorevoli Meda Luigi, Malvestiti, Fanfani, Lazzati, Bianchini Laura, Balduzzi, Mastino Gesumino, Murgia, Turco, Ferrarese, hanno presentato il seguente articolo aggiuntivo:

«I tributi diretti saranno applicati con criterio di progressività».

L’onorevole Meda ha facoltà di svolgerlo.

MEDA LUIGI. Mi sembra che la Commissione sia d’accordo nel formulare un articolo comprensivo dei concetti esposti nel mio emendamento e in quello dell’onorevole Castelli.

Quindi ritengo inutile svolgere il mio emendamento. Desidererei, invece, conoscere il pensiero della Commissione in ordine a questo nuovo articolo che risulta già formulato. Sarebbe opportuno che il Presidente lo comunicasse all’Assemblea.

PRESIDENTE. L’onorevole Persico ha presentato il seguente emendamento:

«Nessun tributo può essere imposto e riscosso se non è stato consentito dal Parlamento».

Essendo l’onorevole Persico assente, s’intende che abbia rinunziato a svolgerlo.

L’onorevole Schiavetti ha presentato il seguente emendamento che ha già svolto:

«La Repubblica assicura ai cittadini italiani residenti all’estero la possibilità dell’espressione organica della loro volontà e della rappresentanza dei loro interessi».

Gli onorevoli Castelli Edgardo, Vanoni, Marazza, Vicentini, Martinelli, Arcaini, Cavalli, Mannironi, Avanzini, Firrao, Cremaschi, Franceschini, Ferreri, Sampietro, Balduzzi, Bertola, hanno presentato il seguente emendamento:

«Tutti quanti partecipano alla vita economica, sociale o politica dello Stato sono tenuti al pagamento dei tributi in rapporto alla loro effettiva capacità contributiva, salvo le esenzioni e le prerogative previste dalle leggi».

L’onorevole Castelli ha facoltà di svolgerlo.

CASTELLI EDGARDO. Onorevoli colleghi, le tre formule dell’articolo aggiuntivo così come sono state presentate possono essere trasformate in una sola che viene a contemplare tutto l’insieme. La nuova formulazione che ho concordato anche con l’accordo degli onorevoli Scoca, Meda Luigi, Grieco e Laconi, è la seguente:

«Tutti sono tenuti a concorrere alle spese pubbliche in ragione della loro capacità contributiva.

«Il sistema tributario è informato a criteri di progressività».

PRESIDENTE. L’onorevole Scoca ha facoltà di svolgere il suo articolo aggiuntivo, che è del seguente tenore:

«Salve le esclusioni e le riduzioni d’imposta intese ad assicurare la disponibilità del minimo necessario al soddisfacimento dei bisogni essenziali della vita, tutti debbono concorrere alle spese pubbliche in modo che l’onere tributario complessivo gravante su ciascuno risulti informato al criterio della progressività.

«Le disposizioni che costituiscono comunque eccezione al principio dell’uguaglianza tributaria possono essere stabilite solo per la attuazione di scopi d’interesse pubblico, con legge approvata a maggioranza assoluta dei membri delle due Camere».

SCOCA. Onorevoli colleghi, avevo notato che in questo nostro progetto di Costituzione si è trattato di molte cose, e di alcune anche molto analiticamente, mentre viceversa vi era soltanto un accenno alla materia finanziaria, ed ho pensato che una Costituzione, specialmente se discende a certe analisi, non potesse ignorare la sostanza del fenomeno finanziario, il quale è un fenomeno generale, che tocca tutti in misura sempre più notevole. Già lo Statuto albertino conteneva delle disposizioni in proposito. Ricordo particolarmente quelle dell’articolo 25 e dell’articolo 30.

L’articolo 30 diceva: «Nessun tributo può essere imposto o riscosso se non è stato consentito dalle Camere e sanzionato dal re». Questo concetto è riprodotto nell’articolo 18 che l’Assemblea ha approvato. Vi era poi l’articolo 25, il quale diceva: «Essi (cioè i cittadini) contribuiscono indistintamente, nella proporzione dei loro averi, ai carichi dello Stato». Questa norma enunciava il principio della generalità e dell’uniformità dell’imposta, e lo collegava con la regola della proporzionalità dell’imposta stessa. Trattasi di una regola conforme alle idee dominanti nel periodo in cui lo Statuto albertino fu emanato. Essa non ha impedito che la nostra legislazione si evolvesse in qualche misura nel senso della progressività; e, così, progressive sono le imposte sulle successioni e sulle donazioni e particolarmente l’imposta complementare sul reddito. Ma il nostro sistema tributario, nelle sue linee fondamentali, è ancora informato al concetto di proporzionalità, e di una proporzionalità zoppicante. Se pensiamo, infatti, che la massima parte del gettito della imposta diretta è dato ancora oggi dalle tre imposte classiche sui terreni, sui fabbricati e sulla ricchezza mobile, che sono a base oggettiva o reale e ad aliquota costante, mentre comparativamente assai scarso è il gettito della complementare sul reddito globale, che è a base personale e ad aliquota progressiva, abbiamo la riprova più convincente che lo stesso sistema delle imposte dirette si impernia sulla proporzionalità.

Se poi consideriamo che più dei tributi diretti rendono i tributi indiretti e questi attuano una progressione a rovescio, in quanto, essendo stabiliti prevalentemente sui consumi, gravano maggiormente sulle classi meno abbienti, si vede come in effetti la distribuzione del carico tributario avvenga non già in senso progressivo e neppure in misura proporzionale, ma in senso regressivo. Il che costituisce una grave ingiustizia sociale, che va eliminata, con una meditata e seria riforma tributaria. Non è questo il momento più opportuno per attuarla, ma credo necessario che si inserisca nella nostra Costituzione, in luogo del principio enunciato dall’articolo 25 del vecchio Statuto, un principio informato a un criterio più democratico, più aderente alla coscienza della solidarietà sociale e più conforme alla evoluzione delle legislazioni più progredite.

La regola della progressività deve essere effettivamente operante; e perciò nella primitiva formulazione dell’articolo aggiuntivo da me proposto avevo detto che il concorso di tutti alle spese pubbliche deve avvenire in modo che l’onere tributario complessivo gravante su ciascuno risulti informato al criterio della progressività. Ciò significa che la progressione applicata ai tributi sul reddito globale o sul patrimonio dev’esser tale da correggere le iniquità derivanti dagli altri tributi, ed in particolare da quelli sui consumi. Intanto ho accettato la più sintetica nuova formulazione del capoverso dell’emendamento concordato: «Il sistema tributario si informa al criterio della progressività»; in quanto gli attribuisco la stessa portata e lo stesso contenuto.

Naturalmente, con questa enunciazione non vogliamo dire – né lo potremmo – che tutte indistintamente le imposte debbono essere progressive, perché ben sappiamo come ciò sarebbe impossibile o scientificamente errato; perché ben sappiamo che la progressione non si addice alle imposte dirette reali e può trovare solo inadeguata e indiretta applicazione nelle imposte sui consumi e nelle imposte indirette in generale.

Resta tuttavia fermo che il sistema tributario nel complesso deve essere informato al principio della progressività, nel modo concreto che ho chiarito. Io penso che l’Assemblea sia di accordo su ciò, perché le Assemblee politiche non si lasciano deviare dalle preoccupazioni scientifiche o pseudoscientifiche degli studiosi su questo argomento. Da un punto di vista scientifico (se di scientifico c’è qualcosa nella materia finanziaria, o nella scienza delle finanze) si può dimostrare, come è stato dimostrato, che, pur partendo da uno stesso principio, è possibile giungere sia alla regola della proporzionalità che a quella della progressività. Ma, lasciandosi guidare da un sano realismo, non si può negare che una Costituzione la quale, come la nostra, si informa a principî di democrazia e di solidarietà sociale, debba dare la preferenza al principio della progressività. Le dispute dei dotti su questo tema mi hanno lasciato sempre perplesso; non così le osservazioni d’ordine pratico. Ho sempre pensato che chi ha dieci mila lire di reddito e ne paga mille allo Stato, con l’aliquota del 10 per cento, si troverà con 9 mila lire da impiegare per i suoi bisogni privati; mentre chi ne ha centomila, dopo aver pagato l’imposta del 10 per cento in base alla stessa aliquota, si troverà con una disponibilità di 90 mila lire. È ovvio che per pagare l’imposta il primo contribuente sopporta un sacrificio di gran lunga maggiore del secondo, e che sarebbe equo alleggerire l’aggravio del primo e rendere un po’ meno leggero quello del secondo. Si può discutere sulla misura e sui limiti della progressione; non sul principio. Il mio articolo aggiuntivo originario accennava espressamente alla necessità che a tutti i cittadini venga assicurata la disponibilità del reddito minimo necessario alla esistenza; ed anche su questo credo che ci sia la concorde adesione di tutte le parti di questa Assemblea. Non si può negare che il cittadino, prima di essere chiamato a corrispondere una quota parte della sua ricchezza allo Stato, per la soddisfazione dei bisogni pubblici, deve soddisfare i bisogni elementari di vita suoi propri e di coloro ai quali, per obbligo morale e giuridico, deve provvedere. Da ciò discende la necessità della esclusione dei redditi minimi dalla imposizione; minimi che lo Stato ha interesse a tenere sufficientemente elevati, per consentire il miglioramento delle condizioni di vita delle classi meno abbienti, che contribuisce al miglioramento morale e fisico delle stesse ed in definitiva anche all’aumento della loro capacità produttiva. Da ciò discende pure che debbono essere tenuti in opportuna considerazione i carichi di famiglia del contribuente. Sono questi aspetti caratteristici di quella capacità contributiva, che la formulazione concordata dell’articolo aggiuntivo pone a base dalla imposizione.

Nell’articolo da me proposto avevo aggiunto un capoverso che riguarda la intangibilità del principio della generalità dell’imposta. Questo principio, già compreso nello Statuto albertino, deve essere meglio assicurato, e meglio garantito, perché non vi siano per l’avvenire quelle deviazioni che ci sono state per il passato. Se esaminiamo la nostra legislazione, vediamo che, accanto alle leggi normali di imposta, si sono inserite troppe eccezioni, troppe norme singolari, le quali creano differenze di trattamento tra classi di cittadini ed altre classi, e tra le varie località del territorio dello Stato, e rendono ardua la stessa conoscenza della materia.

Questa delle riduzioni e delle esenzioni è una grave menda della nostra legislazione, ed occorre che sia eliminata per l’avvenire. Come può essere impedita? Ho fatto una proposta del seguente tenore:

«Le disposizioni che costituiscono comunque eccezione al principio dell’uguaglianza tributaria possono essere stabilite solo per la attuazione di scopi d’interesse pubblico, con legge approvata a maggioranza assoluta dei membri delle due Camere».

Con essa chiedo che venga espressamente stabilito che, quando si accorda una esenzione, il movente di questa eccezione alla regola dell’eguaglianza di tutti i cittadini di fronte alle leggi tributarie sia determinato unicamente da scopi di interesse pubblico, e che, ad evitare equivoci ed errori, ciò venga riconosciuto a mezzo di votazione qualificata delle Assemblee legislative.

Devo ritenere che il Comitato di coordinamento mantenga fermo il suo punto di vista a me espresso in via preventiva nell’adunanza di stamane, e cioè riconosca l’opportunità della norma, ma preferisca se ne discuta più in là. Domando al presidente della Commissione se è d’accordo di rinviare la discussione di questo argomento. Se non fosse d’accordo, chiederei di trattarlo ora. Lo prego di rispondermi.

RUINI, Presidente della Commissione per la Costituzione. Sì, sì; siamo d’accordo.

SCOCA. Ne prendo atto. Penso di non dover più insistere nella illustrazione di questo articolo aggiuntivo che abbiamo proposto all’Assemblea, perché ritengo che esso consacri nella Carta costituzionale un principio il quale è già vivo nella coscienza di tutti i cittadini italiani. (Applausi al centro).

PRESIDENTE. L’onorevole Ruini ha facoltà di esprimere il parere della Commissione.

RUINI, Presidente della Commissione per la Costituzione. È stato da alcuni manifestato il desiderio, durante le precedenti discussioni, che fosse inserito nella Costituzione un gruppo di norme di indole tributaria. La Commissione non si era ispirata a questo concetto e non lo crede necessario. Essa ha distribuito varie disposizioni che riguardano i tributi al luogo dove dovevano essere collocate nella Costituzione. È stato pure invocato il criterio dello Statuto albertino, e si è proposto di seguirne l’esempio; ma proprio lo Statuto albertino non riunisce insieme le norme per i tributi; le colloca nelle varie posizioni, dove è necessario ed opportuno.

Farò un confronto rapidissimo. Lo Statuto albertino comincia con l’articolo 5 ad occuparsi incidentalmente dei trattati che implicano un onere finanziario; ed implicitamente ne attribuisce l’approvazione alla legge, e cioè al Parlamento e non soltanto al re. Noi diciamo esplicitamente all’articolo 76 del nostro progetto che i trattati che hanno un onere finanziario devono essere approvati dalle due Camere.

Troviamo poi all’articolo 10 dello Statuto albertino la disposizione che le leggi di imposizione di tributi o di approvazione dei bilanci e dei conti dello Stato saranno presentate prima alla Camera dei Deputati. Noi abbiamo dato invece parità di posizione alla Camera dei Deputati ed a quella dei Senatori, e non abbiamo quindi conservato la disposizione.

Vengono poi gli articoli 25 e 30 dello Statuto albertino. Il 30 stabilisce che nessun tributo può essere imposto o riscosso se non è stato consentito dalle Camere e sanzionato dal re. Qualcosa di simile, senza il re, vorrebbe ripetere nel nostro testo l’onorevole Persico, ma noi abbiamo già votato all’articolo 18 che non è consentito nessun contributo personale o reale, se non per legge. Dunque la disposizione vi è; e non occorre diluire e ripetere, quando non ve n’è bisogno. Del resto abbiamo all’articolo 77 del nostro progetto ribadito l’ovvio principio dell’approvazione legislativa in materia di bilanci; ed abbiamo aggiunto un criterio nuovo ed importante; che quando si approva per legge una spesa, si deve provvedere anche ad una congrua entrata.

Non è quindi che questa materia tributaria sia stata da noi dimenticata; è stata anzi distribuita razionalmente.

Resta la disposizione dell’articolo 25 dello Statuto albertino che impone ai «regnicoli di contribuire indistintamente in proporzione dei loro averi ai carichi dello Stato». La Commissione aveva, nel corso dei suoi lavori, esaminato la questione dei criteri direttivi dell’imposizione tributaria; al cui riguardo il Ministero della Costituente ha fatto tanti studi e tanti interrogatori; in complesso con conclusioni negative per l’inserzione di norme nella Costituzione. La nostra Commissione non ha creduto necessario di determinare nella Carta concetti che sono già acquisiti e molto ovvi. Ma ora sono state fatte varie proposte di norme: la Commissione non ha nessuna difficoltà a prenderle in considerazione.

V’è in primo luogo quella dell’onorevole Meda: «I tributi diretti saranno applicati con criterio di progressività». Noi abbiamo fatto osservare all’onorevole Meda – ed egli ha pienamente acceduto al nostro punto di vista – che non tutti i tributi diretti possono essere applicati con criterio di progressività. D’altra parte, se ai singoli tributi indiretti non si addice il metodo della progressività, si può e si deve tener presente complessivamente tale criterio, gravando la mano sui consumi non necessari e di lusso. La proposizione dell’onorevole Meda, non esatta se si riferisce alle sole imposte dirette (alle quali pur maggiormente si applica), diventa ammissibile se si riferisce all’insieme del sistema tributario.

L’emendamento presentato dall’onorevole Castelli e da altri colleghi è molto ampio e porta alla ribalta molte questioni che poi gli stessi proponenti hanno, insieme a noi, cercato di condensare in una dizione più sintetica, e più conforme al carattere che dobbiamo cercare di imprimere alla nostra Costituzione. L’onorevole Castelli ha cominciato con una frase che intende assoggettare ai tributi anche gli stranieri, pur non nominandoli; ma la partecipazione alla vita politica, economica e sociale del paese non sembra concetto chiaro e felice (sebbene, lo so, sia stata suggerita in sede di studi del Ministero della Costituente). Non è necessario entrare in elocuzioni vaghe: basta dire che «tutti devono concorrere». Quel «tutti» riguarda anche gli stranieri, come risulta dall’intero testo costituzionale che agli altri articoli distingue quando vuol riferirsi ai cittadini, od a «tutti» ove sono inclusi anche gli stranieri, che potranno essere assoggettati a tributi, in quanto ve ne siano le ragioni obbiettive, e lo consentano le norme internazionali.

Accettiamo il criterio della capacità contributiva che l’onorevole Castelli ha proposto. Lo Statuto albertino parla di averi, la Costituzione di Weimar parla di mezzi: la nostra accoglie la formula, tecnicamente preferibile, di «capacità contributiva».

Tale formula contiene già in germe l’idea delle limitazioni e delle esenzioni per il fatto che colui il quale dovrebbe contribuire non ha capacità contributiva, idea a cui ha dato risalto l’onorevole Scoca.

La proposta dell’onorevole Scoca è larga ed ingegnosa, e comincia appunto contemplando le esenzioni per lasciare ai cittadini un minimo necessario al soddisfacimento delle esigenze inderogabili della vita. Ma vi sono anche altre esenzioni (ad esempio quella pei primi anni nella costruzione di case) che possono essere suggerite da altri criteri, nell’interesse stesso di accumulare materia imponibile. D’altro lato l’espressione adottata dall’onorevole Scoca potrebbe far sorgere contestazioni e pretese. Sembra meglio restare al concetto generale dell’onorevole Villani della capacità contributiva, che implica le esenzioni per chi non ha capacità contributiva; ed in tali condizioni senza dubbio si trova chi non ha il minimo indispensabile per vivere.

L’onorevole Scoca, nella sua alta competenza, ha voluto richiamare il criterio della progressività; ma ha tenuto conto che non si può applicare, come abbiamo visto, a tutti i singoli tributi; ed è ricorso alla formula che l’onere complessivo dei tributi che gravano su ogni cittadino sia progressivo. Criterio esatto; ed in sostanza equivalente all’altro, su cui poi proponenti e Commissione si sono accordati, che il complesso del sistema tributario sia informato a progressività.

L’onorevole Scoca, in una seconda edizione del suo emendamento, si è giustamente preoccupato del fatto che troppo spesso vengono introdotti nelle leggi fiscali esoneri che si traducono in disuguaglianze e privilegi fra le categorie di contribuenti; ed ha chiesto che si provveda con una disposizione apposita, che prescriva una particolare procedura e cautela nell’adottare simili eccezioni. Gli do affidamento che apprezziamo il suo punto di vista, e che esamineremo il problema a suo luogo, nell’articolo che parla delle leggi finanziarie.

In complesso, la disposizione che ora vi leggerò, che è stata concordata dai tre proponenti sotto gli auspici della Commissione, è questa: «Tutti sono tenuti a concorrere alle spese pubbliche in ragione della loro capacità contributiva. Il sistema tributario è informato a criteri di progressività». È un’espressione sintetica, di stile costituzionale e non è inesatta né incompleta. La Commissione è tranquilla nell’accogliere questo emendamento che costituirà probabilmente un articolo del Titolo economico – probabilmente perché lo collocheremo dove apparirà opportuno nella revisione e nel coordinamento finale – in quanto è nella sua sostanza una disposizione democratica, e non crea difficoltà pratiche di applicazione e nessuna dubbiezza. (Approvazioni).

PRESIDENTE. Ritengo che, dopo aver udito lo svolgimento degli emendamenti e le dichiarazioni dell’onorevole Ruini, non resti che esaminare ed approvare il testo, che dirò concordato, il quale è stato svolto dall’onorevole Scoca, e di cui do lettura, leggendo anche i nomi di coloro che vi hanno apposto la firma:

«Tutti sono tenuti a concorrere alle spese pubbliche in ragione della loro capacità contributiva. Il sistema tributario è informato a criteri di progressività.

«Scoca, Meda Luigi, Grieco, Castelli, Laconi, Cremaschi Carlo».

Non si tratta dunque che di passare alla votazione di questo testo, se gli onorevoli colleghi, che avevano presentato altre formulazioni, dichiarano di rinunciarvi.

Non essendo presente l’onorevole Persico, il suo emendamento si intende decaduto.

Gli onorevoli Castelli, Scoca e Meda hanno firmato la formulazione concordata; quindi resta da porre ih votazione questo unico testo.

CORBINO. Chiedo di parlare, per dichiarazione di voto.

PRESIDENTE. Ne ha facoltà.

CORBINO. Aderisco in genere, pur facendo una riserva, all’articolo aggiuntivo proposto dalla Commissione. La riserva concerne soprattutto il secondo comma, dove si afferma che tutti i tributi devono rispondere al criterio della progressività.

SCOCA. No, è inesatto.

RUINI, Presidente della Commissione per la Costituzione. No, il sistema nel suo complesso.

PRESIDENTE. Il comma dice: «Il sistema tributario è informato a criteri di progressività».

CORBINO. Ora, è proprio su questo che io ho qualche riserva da fare, perché noi abbiamo un sistema tributario che è impostato – come tutti sappiamo – su due tipi di tributi: tributi reali e tributi personali. Se noi vogliamo introdurre nel sistema tributario il principio della progressività, dobbiamo arrivare alla soppressione di questo duplice sistema di tassazione, e ricorrere al sistema unico di tassazione che esiste in altri paesi. Non c’è niente in contrario, in teoria, ma in pratica si dovrebbe affrontare una riforma fiscale che non so fino a qual punto nel nostro Paese potremmo cominciare a studiare.

Se dovremo restare coi due tipi di tributi, evidentemente il concetto della progressività per i tributi reali non può essere accolto, perché si arriverebbe a questo assurdo: che una società con un milione di capitale, che guadagna per esempio cinquantamila lire l’anno, è tassata in un modo, mentre una società con cento milioni di capitale è tassata con un’aliquota progressivamente maggiore. Una discussione su questo argomento è sorta recentemente in sede di imposta straordinaria progressiva sul patrimonio e molto opportunamente si è accettato di non estendere l’imposta alle persone giuridiche.

Noi possiamo votare l’articolo aggiuntivo proposto dalla Commissione, nell’intesa che quella formula del secondo comma si debba considerare o limitata solo ai tributi di carattere personale o come voto per una riforma generale del sistema fiscale che sostituisca al doppio metodo di imposizione il metodo unico della imposizione a titolo personale.

Per quanto concerne il secondo comma dell’emendamento Scoca, che la Commissione si riserva di ripresentare…

RUINI, Presidente della Commissione per la Costituzione. …di esaminare.

CORBINO. …di esaminare in sede di imposizione dei tributi, desideravo fare rilevare che tutte le volte che si sono concesse agevolazioni fiscali, le concessioni hanno avuto sempre il presupposto dell’interesse pubblico, non quello dell’interesse privato. Nessun Governo ha mai esentato la forma A o la forma B di attività per un certo numero di anni dalla imposta per fare piacere ai contribuenti; ha creduto che fosse nell’interesse generale di concedere un’esenzione, che si trasforma in una diminuzione del costo e non soltanto del costo economico, ma anche di quello che si potrebbe chiamare costo fiscale, dato che il nostro sistema fiscale è organizzato in modo tale che il contribuente e l’agente delle imposte sono divenuti due nemici assolutamente irreconciliabili. Accade così che l’esenzione si concede non tanto perché essa costituisce un vantaggio positivo, quanto perché toglie il cittadino dalle grinfie dell’agente delle imposte.

Evidentemente, il giorno in cui noi riusciremo ad organizzare la finanza pubblica in modo che vi sia maggiore collaborazione fra contribuenti e agenti del fisco, probabilmente la richiesta di esenzioni fiscali si attenuerà e le ragioni dell’interesse pubblico – che stanno alla base delle concessioni già fatte – verranno a mancare.

Quindi aderisco al pensiero della Commissione di riesaminare la formula e rimandarne la discussione a tempo successivo.

PRESIDENTE. L’onorevole Presidente della Commissione ha facoltà di esprimere il pensiero della Commissione stessa.

RUINI, Presidente della Commissione per la Costituzione. L’onorevole Corbino non era forse presente quando è stata svolta la proposta Scoca e quando io ho risposto. Il criterio che abbiamo seguito è questo: era stata sollevata prima la distinzione fra tributi diretti e indiretti…

CORBINO. Io sono stato sempre presente.

RUINI, Presidente della Commissione per la Costituzione. Non resta allora al collega Corbino che di applicare ai tributi personali e reali la stessa spiegazione che ho dato all’onorevole Meda che aveva sollevato la distinzione fra tributi diretti ed indiretti. Dissi all’onorevole Meda essere elementare – e la Commissione non poteva intendere diversamente – che non tutti i tributi possono essere progressivi; e ve ne sono, di diretti e di reali, che debbono essere necessariamente proporzionali; ma ciò non toglie che il sistema tributario debba essere, nel suo complesso, ispirato a criteri di progressività.

Quanto all’ultima proposta dell’onorevole Scoca che la Commissione si è riservata di esaminare in altro momento, si riferisce alla facilità con cui vengono introdotte delle distinzioni, delle esenzioni, e non si rispettano i principî di eguaglianza fra i contribuenti. Vedremo se occorrerà o no al riguardo un dato procedimento legislativo. Non ho nulla da mutare su quanto ho già dichiarato a nome della Commissione.

SCOCA. Chiedo di parlare.

PRESIDENTE. Ne ha facoltà.

SCOCA. Onorevole Presidente, ho chiesto di parlare per replicare molto brevemente a quanto ha detto l’onorevole Corbino. Mi pare che egli abbia aderito alla votazione dell’articolo aggiuntivo, quale è stato formulato d’accordo con la Commissione. Ma ha delle preoccupazioni quanto ad una radicale riforma del nostro sistema tributario.

CORBINO. Non ho queste preoccupazioni.

SCOCA. L’onorevole Corbino ha detto che se dobbiamo attuare la progressività dobbiamo abolire le imposte speciali sui redditi per dirigerci verso l’imposta unica. Io direi che non è necessario far questo per applicare il principio della progressività, così come noi l’abbiamo inteso e come l’onorevole Presidente della Commissione lo ha illustrato. Basta capovolgere la situazione attuale del rapporto fra imposte reali e personali. Dicevo dianzi che oggi il nostro sistema tributario è imperniato principalmente sulle imposte dirette reali, ad aliquota proporzionale e che l’imposta complementare, che è l’unica imposta diretta di carattere progressivo, è comparativamente una ben minima cosa. Ma si può e, a mio avviso, si deve invertire questa situazione. Possiamo mantenere le imposte dirette reali (e si debbono mantenere; almeno come necessaria base di accertamento dell’imposta personale che colpisce il reddito complessivo del cittadino) purché si attui una riduzione notevolissima delle loro aliquote, e si determinino gli imponibili nella loro consistenza effettiva. Se ciò faremo, potremo potenziare l’imposta progressiva sul reddito e farla diventare la spina dorsale del nostro sistema tributario. Con l’alleggerire la pressione delle imposte proporzionali, che colpiscono separatamente le varie specie di redditi, avremo margine per colpire unitariamente e progressivamente il reddito globale. Per tal modo si potrà informare il nostro sistema fiscale al criterio della progressività senza far sparire le imposte reali e senza attuare la imposta unica, che sarebbe, almeno per ora, esperimento pericoloso.

PRESIDENTE. Pongo in votazione la formulazione dell’articolo nel testo dell’emendamento firmato dagli onorevoli Meda Luigi, Scoca ed altri, accettato dalla Commissione.

Il primo comma dice:

«Tutti sono tenuti a concorrere alle spese pubbliche in ragione della loro capacità contributiva».

(È approvato).

Il secondo comma dice:

«Il sistema tributario è informato a criteri di progressività».

(È approvato).

L’articolo, nel suo complesso, risulta così approvato:

«Tutti sono tenuti a concorrere alle spese pubbliche in ragione della loro capacità contributiva.

«Il sistema tributario è informato a criteri di progressività».

Vi sarebbe ora da esaminare l’articolo aggiuntivo proposto dall’onorevole Schiavetti, così concepito:

«La Repubblica assicura ai cittadini italiani residenti all’estero la possibilità dell’espressione organica della loro volontà e della rappresentanza dei loro interessi».

Onorevole Schiavetti, ella aveva chiesto che la decisione fosse rinviata a quando si fosse terminato l’esame del Titolo. Ha dunque facoltà di parlare.

SCHIAVETTI. Mantengo questo emendamento. Vorrei far notare all’Assemblea che io stesso, quando si è parlato del problema morale e politico costituito dalla presenza di sette od otto milioni di italiani all’estero, ossia di circa il sedici o diciassette per cento della popolazione italiana, ho riconosciuto la difficoltà che la concessione del diritto di voto avrebbe trovato nella sua attuazione.

Ed appunto per questo ho pensato che un doveroso omaggio ai nostri emigrati potrebbe essere reso sotto altre forme da questa Assemblea Costituente. L’Assemblea potrebbe limitarsi a stabilire, in linea di principio, quel che io ho affermato nel mio emendamento, cioè che «La Repubblica assicura ai cittadini italiani residenti all’estero la possibilità dell’espressione organica della loro volontà e della rappresentanza dei loro interessi». L’idea a cui si ispira questo emendamento è la stessa che è già stata affermata nel 1908 e nel 1911 nei Congressi degli italiani all’estero, i quali in quei Congressi domandarono che si costituissero dei corpi rappresentativi dell’emigrazione. Naturalmente spetterà al futuro legislatore di studiare la forma concreta da dare a questi organi; ma io credo che sarebbe doveroso, e più ancora opportuno, che l’Assemblea Costituente rendesse omaggio in questo modo al contributo che al nostro Paese ha dato la massa degli emigrati all’estero.

MERLIN UMBERTO, Relatore. Chiedo di parlare.

PRESIDENTE. Ne ha facoltà.

MERLIN UMBERTO, Relatore. La Commissione ha esaminato l’articolo aggiuntivo del collega Schiavetti con il maggiore favore, riconoscendo tutta la nobiltà di questa proposta e la bontà delle intenzioni del proponente. A vero dire, quando ho risposto l’altro giorno, io avevo accomunato la proposta del collega Schiavetti con quella dell’onorevole Piemonte. Devo invece riconoscere che questa proposta è diversa, presenta particolarità diverse, per quanto essa si rivolga ugualmente, come la proposta dell’onorevole Piemonte, a nostri connazionali che vivono all’estero. Per quanto però la Commissione abbia esaminato la cosa con il maggior favore, si è trovata nella necessità di non poterla accettare. L’Assemblea comprende che non abbiamo accettato la proposta dell’onorevole Piemonte, non perché non ne riconoscessimo la bontà, ma soltanto perché è impossibile che uno Stato deliberi qualche cosa che debba ottenere osservanza in uno Stato estero. Noi vogliamo pregare l’onorevole Schiavetti di considerare la situazione in cui sarebbe posta la Repubblica italiana dopo l’approvazione di questo articolo. Egli dice: «La Repubblica assicura ai cittadini italiani residenti all’estero la possibilità della espressione organica della loro volontà e della rappresentanza dei loro interessi». Ma come facciamo noi ad assicurare qualche cosa che deve essere attuata in Francia, in Svizzera, in Belgio, in altri Stati? Noi non possiamo assicurare nulla; perché, se anche scrivessimo un articolo di questo genere nella nostra Costituzione, questo articolo rimarrebbe puramente come l’espressione di un voto senza possibilità di applicazione pratica. D’altra parte io prego l’onorevole Schiavetti di considerare questo: che queste nostre comunità nazionali, viventi all’estero, siano organizzate e trovino accoglienza e tutela presso i nostri Consolati, presso le nostre Ambasciate è doveroso, ed è quello che avviene anche oggi, è quello che i nostri rappresentanti ai l’estero fanno ogni giorno. Ma se dessimo a queste colonie una rappresentanza organica come egli domanda, e una rappresentanza dei loro interessi, questo potrebbe eventualmente sollevare dei sospetti e delle diffidenze. Questa sua proposta esige, secondo me, prima, delle trattative con gli Stati esteri; impone che prima si concludano queste trattative, che prima si ottenga che questi Stati riconoscano la vita di queste comunità ed ammettano la rappresentanza di questi interessi. Dopo, potremo scrivere nella nostra Carta e nelle nostre leggi il principio che l’onorevole Schiavetti ha con tanta eloquenza e con tanto senso di italianità esposto: perché io riconosco che quello che egli propone, se attuato, sarebbe molto utile ai nostri connazionali e molto utile anche al nostro Paese. Perciò la Commissione prega l’onorevole Schiavetti di non insistere, anche per non correre il pericolo, già corso dall’onorevole Piemonte, di vedere respinto il proprio emendamento.

Poiché dovremo decidere alla fine se la nostra Costituzione debba avere un preambolo, l’onorevole Schiavetti potrebbe proporre il concetto, modificato, in quella sede.

LACONI. Chiedo di parlare.

PRESIDENTE. Ne ha facoltà.

LACONI. Mi duole di non essere completamente d’accordo su quanto ha affermato l’onorevole Merlin. Non ritengo che la proposta Schiavetti urti contro le difficoltà pratiche che egli ha esposto.

In sostanza, non è questione che interessi le relazioni fra l’Italia e gli altri Stati, che debba comportare un regolamento di rapporti internazionali; si tratta della organizzazione delle comunità italiane all’estero e dei loro rapporti coi consolati.

Non ritengo, quindi, che vi sia difficoltà sostanziale a dare un minimo di democraticità a questi rapporti ed a consentire la rappresentanza di interessi da parte dei cittadini italiani all’estero presso gli organi, che rappresentano lo Stato italiano nei Paesi dove essi vivono.

Ciò non significa, però, che si possa accettare, così com’è formulato, l’emendamento proposto dall’onorevole Schiavetti. La formula non è chiara, non esprime il suo e nostro pensiero in forma accettabile.

Propongo dunque, all’onorevole Schiavetti di accettare la sospensiva e di discutere l’argomento, non appena sarà stata concertata una formulazione migliore.

Penso che l’articolo non sia strettamente legato a questa parte del Progetto. Se ne potrebbe studiare il contenuto, lasciando in sospeso la questione del collocamento.

CINGOLANI. Chiedo di parlare.

PRESIDENTE. Ne ha facoltà.

CINGOLANI. Prego l’onorevole Schiavetti di accettare sia le parole pronunziate dall’onorevole Merlin, con piena comprensione dello spirito dell’emendamento, sia la proposta di sospensiva fatta dall’onorevole Laconi.

Io sono legato a questa questione, perché sono firmatario della deliberazione del Congresso degli italiani all’estero tenuto a Roma nel 1911. Ricordo ancora come quei rappresentanti delle colonie nostre di tutto il mondo e d’ogni parte politica fossero tutti compresi del limite del loro atteggiamento, di fronte alla delicata situazione dell’Italia nei confronti dei propri cittadini emigrati in altri Paesi, dei quali avevano accettato la sovranità.

Bisogna trovare un’espressione che risponda alla delicatezza della situazione, che oggi forse merita meditazione maggiore che nel 1911.

Anch’io, pertanto, rivolgo all’onorevole Schiavetti la preghiera di accettare la sospensiva, per riparlarne, con gli stessi sentimenti, in altra sede.

MORELLI RENATO. Chiedo di parlare.

PRESIDENTE. Ne ha facoltà.

MORELLI RENATO. Non v’è dubbio che l’affermazione di questo principio abbia una grande importanza nei confronti delle nostre comunità italiane all’estero, e che mai come in questo momento c’è bisogno di ravvivare le simpatie dei nostri connazionali e di rafforzarne la solidarietà.

Ne ho esperienza per le sollecitazioni che mi furono fatte a suo tempo quando avevo l’onore di reggere il Sottosegretariato degli italiani all’estero.

Tuttavia trovo nell’emendamento Schiavetti una parte, quella diretta ad assicurare la possibilità dell’esercizio del voto, che è già compresa giuridicamente nell’articolo 45, quando si dichiara che sono elettori tutti i cittadini italiani.

Evidentemente parlando di tutti i cittadini italiani, si comprendono anche i cittadini italiani residenti all’estero, cioè quegli italiani che pur stando all’estero hanno conservato la cittadinanza italiana.

Quindi resta l’altra questione che è quella della possibilità di esercitare il voto.

PRESIDENTE. È un altro problema, onorevole Morelli, che è stato risolto con la votazione dell’emendamento dell’onorevole Piemonte. Siamo su un altro campo. Non si tratta di una partecipazione alla vita politica, ma di un altro modo con cui gli italiani possono legarsi fra loro.

MORELLI RENATO. Resta la questione tecnica di rendere praticamente possibile l’esercizio del voto.

Questa questione deve essere risolta in sede di approvazione della legge elettorale.

PRESIDENTE. Non si tratta di assicurare agli italiani all’estero l’esercizio del voto. Questo esercizio è stato escluso dall’Assemblea in una votazione a scrutinio segreto.

MORELLI RENATO. Il Relatore dice di no.

PRESIDENTE. Glielo assicurò io. Si tratta di un’altra questione che l’onorevole Schiavetti, l’altro giorno, ha ampiamente spiegata.

PIEMONTE. Chiedo di parlare.

PRESIDENTE. Ne ha facoltà.

PIEMONTE. Prego l’amico Schiavetti di accedere alla proposta dell’onorevole Laconi, cioè di rinviare.

Gli italiani all’estero potranno farsi sentire presso il Consolato, presso l’Ambasciata. È questione di forma.

Bisognerà studiare meglio una forma che salvaguardi questi figli che stanno all’estero e che a noi stanno tanto a cuore.

BUFFONI. Chiedo di parlare.

PRESIDENTE. Ne ha facoltà.

BUFFONI. Mi associo a quanto ha detto l’onorevole Piemonte.

Io credo che il problema sia molto importante. Proprio in questi giorni è radunato a Parigi il Congresso della grande Organizzazione degli emigrati italiani «Italia Libera». Di questo problema certamente vi si parlerà.

Non si tratta solamente di assicurare agli italiani all’estero l’esercizio del diritto di voto, questione che è stata discussa l’altro giorno e che potrà essere eventualmente risollevata quando si esaminerà la nuova legge elettorale, ma si tratta di assicurare agli italiani all’estero una rappresentanza, il diritto di far sentire la loro voce presso Consolati ed Ambasciate che finora, purtroppo, hanno sempre trascurato gli interessi degli italiani all’estero.

In passato, il regime liberale non si è curato degli italiani all’estero, i quali erano completamente abbandonati a loro stessi. Durante il fascismo c’è stata sì cura degli italiani all’estero, ma da un punto di vista poliziesco o per scopi politici, per obbligare gli italiani all’estero ad aderire al regime e aiutare la propaganda del fascismo. Oggi noi dobbiamo purtroppo deplorare che i nostri Consolati e le nostre Ambasciate non danno ancora le cure necessarie e sufficienti alla nostra emigrazione. Bisogna che i nostri emigrati abbiano il modo di far sentire la loro voce. Penso che si possa costituire in Italia un Consiglio dell’emigrazione o un Consiglio degli italiani all’estero, in cui gli italiani all’estero siano rappresentati da loro delegati. Esso sarebbe certamente molto utile.

In questo senso penso che il problema dovrebbe essere esaminato ed in questo senso mi associo alle proposte degli onorevoli Laconi e Piemonte.

SCHIAVETTI. Chiedo di parlare.

PRESIDENTE. Ne ha facoltà.

SCHIAVETTI. Dinanzi a tanti e così autorevoli inviti è naturale che io accetti di rinviare il mio emendamento; ma, se il Presidente me lo consente, vorrei far rilevare che la dizione usata nel mio emendamento è esatta e opportuna. Io ho parlato di espressione organica della volontà e degli interessi delle comunità degli italiani all’estero, appunto perché non vedo tutelata questa espressione organica nella semplice concessione, anche se fosse realizzabile, del diritto di voto. Se infatti gli italiani all’estero potessero votare, il loro voto si perderebbe fra i milioni e milioni degli altri voti. Noi desideriamo invece che gli italiani all’estero possano nominare dei rappresentanti nella loro qualità di italiani all’estero. Questo significa espressione organica della loro volontà.

Rispetto all’obiezione fatta dall’onorevole Merlin, mi pare che essa non tenga conto del modo come noi abbiamo prospettato questo problema. Se si dovessero dare per buone queste obiezioni, la stessa riunione dei congressi del 1908 e del 1911 sarebbe stata tale da porre in pericolo i rapporti del nostro Paese con gli altri Stati stranieri; e d’altra parte non sarebbe nemmeno possibile una organizzazione di carattere nazionale come la Dante Alighieri, la quale ha riunito quel che di meglio esisteva, dal punto di vista culturale, fra gli italiani all’estero e ha tenuto regolarmente, per molti anni, i propri congressi nel Paese.

Per queste ragioni insisto sopra la formulazione e sopra la sostanza dell’emendamento, pur accettando la proposta di rinvio.

RUINI, Presidente della Commissione per la Costituzione. Chiedo di parlare.

PRESIDENTE. Ne ha facoltà.

RUINI. Presidente della Commissione per la Costituzione. Vorrei fare una semplicissima dichiarazione, ed è questa:

Tutti sentiamo la grande importanza dei legami che ci avvincono agli italiani all’estero. Ma è un argomento nel quale bisogna andare cauti per non fare del male quando vogliamo fare del bene. Resti viva ed accesa in tutti noi la solidarietà verso i nostri fratelli d’oltre confine, ma cerchiamo di esprimerla nel modo più conforme ai loro interessi.

Colgo l’occasione per fare una dichiarazione interpretativa. Quando l’Assemblea ha respinto la proposta dell’onorevole Piemonte nel senso che il diritto di voto è esercitato anche dal cittadino all’estero, si è ispirata alle dichiarazioni dell’onorevole Merlin, il quale aveva messo in luce la difficoltà di assicurare l’esercizio di questo diritto. È noto come queste difficoltà siano gravi ed estese. Un uomo di governo svizzero mi ha detto testé che nel suo Paese non sono permesse votazioni di stranieri per il loro paese di origine. Così altrove.

L’Assemblea, a notevole maggioranza, ha creduto che la nostra Costituzione non possa assicurare l’esercizio del diritto di voto. Ma altro è del diritto di voto. L’articolo approvato dice: «Tutti i cittadini hanno diritto al voto». Gli italiani che si trovano all’estero, hanno, in quanto sono ancora cittadini italiani, diritto al voto: e possono esercitarlo ad esempio, venendo per le elezioni in patria.

La mia dichiarazione servirà ad esprimere quale è stata la volontà dell’Assemblea: se in seguito si avranno altri modi di assicurare l’esercizio di voto agli italiani all’estero, si potrà provvedere con legge ordinaria, senza bisogno di ricorrere a revisione costituzionale.

L’onorevole Schiavetti ha sollevato col suo emendamento una questione che non coincide con quella del diritto di voto; ma riguarda la rappresentanza e l’espressione degli interessi degli italiani all’estero. È un concetto giusto, ed una doverosa e santa esigenza. Ma l’onorevole Laconi ha ragione quando osserva che l’espressione data nell’emendamento a questo concetto non è chiara. E potrebbe essere dannosa pei nostri fratelli. Non bisogna dimenticare che la posizione degli italiani all’estero ha ereditato dal fascismo impressioni non favorevoli nei Paesi che li ospitano.

Bisogna distinguere fra due ordini di rapporti. La rappresentanza e l’organizzazione degli italiani all’estero non può riguardare i rapporti coi Paesi ove vivono. Si solleverebbero sospetti e difficoltà ben gravi. Noi stessi saremmo gelosi se un’organizzazione di cittadini stranieri volesse influire in qualche modo nel nostro Paese, sotto l’ala di un altro Stato.

Bisogna chiarire il concetto generale espresso dall’onorevole Schiavetti. Egli vuole certamente riferirsi ai rapporti dei nostri connazionali con l’Italia, in forma, ad esempio, di delegazioni, presso le Ambasciate ed i Consolati e di rappresentanze in un Consiglio di italiani all’estero presso il nostro Ministero degli affari esteri. Sono idee apprezzabilissime; io, personalmente, anche prima del fascismo, ho scritto e sostenuto che accanto ad ogni Ministero o gruppo di Ministeri o di amministrazioni vi dovrebbe essere un Consiglio di esperti e di rappresentanti degli interessi cui quel settore si riferisce; e ciò per far cadere le barriere fra la burocrazia e la vita. Nel Consiglio presso il Ministero degli esteri dovrebbero naturalmente essere rappresentati (o formare un Consiglio a sé) gli italiani all’estero. Vi è anche, ed è per alcuni aspetti più delicata, la rappresentanza presso i Consolati e le Ambasciate; è bene ed è opportuno che vi sia; bisogna però andar cauti nel fare e sovrattutto nel proclamare ciò che ad ogni modo è un nostro diritto; ma bisogna far sì che non si urtino le suscettibilità straniere. Dobbiamo difendere a viso alto i nostri emigranti; ma non crear loro difficoltà.

È necessario ed opportuno tradurre il pensiero dell’onorevole Schiavetti in un articolo della Costituzione? Non potrà essere preferibile concretare in un ordine del giorno votato dall’Assemblea le direttive da seguire, legislativamente e di fatti nel senso desiderato? Esamineremo questo punto, meditatamente, quando parleremo degli ordinamenti, e, ad esempio, degli organi ausiliari dello Stato. Bisogna per ora fermarsi, e l’Assemblea è concorde, nella più fervida manifestazione di solidarietà verso questi nostri fratelli. (Applausi).

PRESIDENTE. Se nessun altro chiede di parlare, possiamo concludere nel senso di porre in votazione la proposta di rinvio dell’esame e della relativa formulazione dell’articolo aggiuntivo proposto dall’onorevole Schiavetti. Metto in votazione la proposta di rinvio.

(È approvata).

Suppongo che l’onorevole Schiavetti curerà l’elaborazione del nuovo testo da sottoporre, al momento opportuno, all’Assemblea. Abbiamo così ultimato l’esame degli articoli aggiuntivi proposti nel corso della discussione del quarto Titolo della Parte prima. Occorre ora decidere sulla prosecuzione dei nostri lavori.

BERTINI. Chiedo di parlare.

PRESIDENTE. Ne ha facoltà.

BERTINI. Ho notizia che il Comitato dei diciotto si è riunito in questo momento…

RUINI, Presidente della Commissione per la Costituzione. Ma se stiamo qui?!

BERTINI. Era una notizia che avevo semplicemente raccolto. Ad ogni modo chiedo soltanto, anche a nome di altri colleghi, di sospendere la seduta per un’ora per dar modo al Comitato di fare comunicazioni ed eventualmente anche proposte concrete sull’argomento della discussione che si dovrà fare nella settimana ventura.

RUINI, Presidente della Commissione per la Costituzione. Chiedo di parlare.

PRESIDENTE. Ne ha facoltà.

RUINI, Presidente della Commissione per la Costituzione. Veramente il Comitato dei diciotto in questo momento non è fuori di qui, onorevole Bertini, perché parla dai banchi dell’Assemblea.

Io volevo ricordare che l’Assemblea aveva deliberato di discutere, come prima parte dell’ordinamento istituzionale dello Stato, il problema della regione. Esaminando gli emendamenti che sono stati presentati, noi troviamo per lo meno due emendamenti che hanno un valore per così dire pregiudiziale: uno dell’onorevole Nobili Tito Oro, che rinvia, o meglio non rinvia, ma lascia cadere completamente, il concetto dell’autonomia come era stato inteso nel progetto, limitandosi ad un ordinamento decentrato dell’amministrazione. È evidente che, accogliendo questo concetto, cadrebbe tutto il sistema.

Un secondo emendamento è quello degli onorevoli Bozzi e Grassi, che propongono di sostituire gli articoli da 107 a 125, cioè tutto il complesso degli articoli relativi alla regione con una semplice disposizione che rinvierebbe tutto. Evidentemente, questo ha un valore pregiudiziale, e la Commissione si crede in dovere di esaminarlo.

La Commissione quindi, aderendo all’accenno dell’onorevole Bertini, prega il nostro Presidente di sospendere la seduta per dar modo ai membri del Comitato di redazione ed ai rappresentanti dei partiti, di riunirsi per vedere che cosa si deve decidere per l’ordine futuro dei lavori.

Perché, se si accettasse l’idea del rinvio, evidentemente dovrebbe essere trattata qualche altra materia. Ritengo, quindi, necessaria almeno un’ora di sospensione.

PRESIDENTE. Se nessuno chiede la parola in proposito, resta inteso che la seduta è sospesa per un’ora.

In questo frattempo il Comitato di redazione, insieme coi rappresentanti dei Gruppi che intendono aderire all’invito loro rivolto dall’onorevole Ruini, si riunirà in separata sede, allo scopo di presentare all’Assemblea concrete proposte per il seguito dei nostri lavori.

(La seduta, sospesa alle ore 17,30, è ripresa alle 18,50).

Sui lavori dell’Assemblea.

RUINI, Presidente della Commissione per la Costituzione. Chiedo di parlare.

PRESIDENTE. Ne ha facoltà.

RUINI, Presidente della Commissione per la Costituzione. Riferirò brevemente all’Assemblea intorno all’esame che ha fatto il comitato di coordinamento, insieme con i rappresentanti dei Gruppi, della questione per l’ordine di continuazione dei nostri lavori. L’Assemblea aveva accettato una proposta del suo Presidente di discutere per primo, fra le materie attinenti all’ordinamento istituzionale, il Titolo della Regione; e ciò perché logicamente sembrava che la Regione fosse il presupposto di soluzioni adottate negli altri Titoli dell’ordinamento istituzionale. Era anche sembrato che si dovesse procedere con una certa sollecitudine, per poter a tempo esaminare, come è obbligo dell’Assemblea, il coordinamento con la Costituzione dei particolari statuti che sono dati a determinate Regioni. La sollecitudine appariva pur necessaria per lasciar modo di predisporre mediante leggi tutta quella preparazione ed organizzazione amministrativa e finanziaria che dovrebbe conseguire alla deliberazione di istituire la Regione.

Sono stati ora presentati ordini del giorno ed emendamenti, che rimettono tutto in questione, ed hanno un carattere pregiudiziale.

V’è l’ordine del giorno dell’onorevole Tito Oro Nobili che rinvia sine die, cioè cancella, il tema dell’istituzione e dell’ordinamento della Regione, e propone che tutto si limiti ad un decentramento amministrativo degli organi dello Stato. V’è una proposta degli onorevoli Bozzi e Grassi di ridurre ad uno solo i 27 articoli costituenti il Titolo della Regione, così che, stabiliti nel modo più sommario alcuni punti, tutto sia rinviato alle leggi.

Di alcuni nuovi atteggiamenti del problema si sono preoccupati gruppi parlamentari che ne fanno oggetto di studio e di riesame, anche nei riguardi di altri gruppi. Il comitato di redazione non può decidere su due piedi; e forse potrebbe essere necessario riconvocare i Settantacinque.

Si sostiene da molte partì che sarebbe meglio non affrontare subito il Titolo delle Regioni. Si dice che si tratta di prender tempo per guadagnar tempo, perché, se si trovasse qualche linea di accordo, si potrebbe abbreviare notevolmente la discussione futura.

Debbo riferire che, nell’adunanza di poco fa, la proposta avanzata da esponenti di tutti i partiti che l’Assemblea non tratti per ora della regione, non ha trovato difficoltà.

Qualcuno ha osservato che sarebbe opportuno interrompere i nostri lavori durante il perdurare dell’attuale crisi ministeriale essendo l’istituzione della regione argomento tale su cui occorre che si pronunci il Governo. L’idea non è stata accolta, perché non sappiamo quando il Governo potrà essere costituito, e dovremmo forse aspettare troppo. Si è aggiunto che il metodo e la linea seguita finora dall’Assemblea è di procedere alla discussione dello schema di Costituzione, indipendentemente da ogni intervento di Governo. Non possiamo interrompere i nostri lavori. Ed allora quale dei temi, dei Titoli della seconda parte della Costituzione, che non sia la Regione, potrebbe essere subito affrontato dall’Assemblea?

Una tendenza, che però non ha avuto la maggioranza, desiderava che si discutesse subito del Parlamento, perché, per quanto sia subordinato, specialmente nella sua seconda Camera, il Senato, all’ordinamento regionale, questo del potere legislativo è strutturalmente il primo argomento; e non sarebbe che tornare all’ordine stesso del progetto preparato dalla Commissione. La composizione del Senato si potrebbe, a sua volta, rinviare. Questa proposta, come ho detto, non ha avuto fortuna, anche perché è stato osservato che, se si discute nell’ordine prestabilito il progetto, dopo il Parlamento viene il Capo dello Stato, e poi il Governo e poi la Magistratura. Si arriverebbe molto tardi alla Regione. Meglio dunque, si è detto, trattare ora un tema che non dia luogo ad una discussione così ampia e così lenta da non arrivare troppo tardi allo esame della Regione.

Si è richiamata l’attenzione su due Titoli: la Magistratura, e le Garanzie costituzionali.

Si è constatato che ciascuno dei due ha riferimenti ad altri titoli che stanno prima, e tra essi alla Regione. È impossibile trattare un tema che non abbia attinenze con altri; ed inconvenienti ce ne saranno sempre per l’ordine di discussione. Si tratta di scegliere quello che appare l’inconveniente minore. La Magistratura, è stato detto, si può presentare a sé, con sufficiente indipendenza; né vi è riferimento alla Regione; possiamo trattare subito della Magistratura. È stato controsservato che essa è un potere dello Stato che non può essere trattato se non quando si sono definiti gli altri poteri.

La proposta di procedere subito all’esame delle Garanzie costituzionali è stata avversata perché vi sono nessi con la Regione. È stata appoggiata, invece, dalla considerazione dei suoi sostenitori che le Garanzie costituzionali implicano in certo senso un problema pregiudiziale, che è quello della rigidità della Costituzione, che si riflette su tutto il complesso del testo costituzionale, e d’altra parte, avendo noi ora finito di stabilire i diritti e doveri dei cittadini, si presenta come un ponte il passaggio alle relative garanzie.

L’una e l’altra tesi, di esaminare subito la Magistratura o le Garanzie costituzionali, ha avuto egual numero di voti.

Ho esposto obiettivamente come sono andate le cose. Molti mi hanno attribuito – ed io stesso per primo mi ero dato – il titolo di notaio della Commissione. Ho riferito esattamente i risultati dell’esame del Comitato e degli esponenti dei Gruppi. Si possono riassumere così:

1°) nessuna opposizione a rinviare l’esame del tema della Regione, perché la gravità di alcune proposte e il riesame che si sta facendo di questo problema rendono opportuno il rinvio;

2°) scelta fra gli altri titoli dell’ordinamento istituzionale dello Stato, che non richiedendo un lunghissimo tempo, possono poi consentire di tornare relativamente presto alla Regione;

3°) due tesi sono state avanzate, ed hanno avuto uguale suffragio, gli stessi voti l’una e l’altra: Magistratura e Garanzie costituzionali.

Ho finito. Non debbo aggiungere altro. Il vivo mio desiderio, e la preghiera che vi faccio è che deliberando nel modo che crederete l’ordine di prosecuzione dei nostri lavori, cerchiate di intensificare l’opera nostra per il compimento della Costituzione. (Approvazioni).

BERTINI. Chiedo dì parlare.

PRESIDENTE. Ne ha facoltà.

BERTINI. Il Presidente della Commissione non si è nascoste le difficoltà che accompagnano lo spostamento nell’ordine della Carta costituzionale e quindi ha avuto la cautela di presentare all’Assemblea le critiche ed i dissensi che sono sorti nella Commissione; e con tutta precisione ci ha anche detto che non possono mancare intrinseche connessioni fra i vari temi che si potessero comunque esaminare e considerare con precedenza dell’uno sull’altro o viceversa.

E quindi ecco che si propone la difficoltà della precedenza per quel che riflette il Titolo della Magistratura.

Ora io mi domando: questo tema è di per sé, a prima vista, estremamente delicato ed impegnativo, anzitutto per quanto dovrà dirsi sull’ordinamento della Magistratura. Voi sapete che nelle discussioni che hanno empito i consessi giudiziari e i consessi forensi in questi ultimi mesi si sono avute varie proposte, affacciate anche nell’ultima sospensione dei lavori della Magistratura, riguardo alla Magistratura quale terzo potere dello Stato.

Si può discutere su questa teoria, ed io stesso faccio le mie riserve sull’accettazione integrale di questo principio; ma esso ha la sua importanza, anche se si considerino solo le garanzie intrinseche di ordinamento, di istituzionalità per l’assise giudiziaria, in quello che forma il suo primo nucleo.

Se si passa poi ad altri punti di inevitabile connessione, io comincio, per esempio, ad avere sott’occhio una parte del Titolo precedente a quello della Magistratura: il Titolo quarto: «La pubblica amministrazione».

Dunque, la pubblica amministrazione viene considerata con determinate norme le quali, in buona parte, si riattaccano direttamente a quelle che riflettono l’Autorità giudiziaria e che potrebbero avere una influenza su quella che è la pubblica amministrazione.

Inoltre, della Magistratura come corpo istituzionale si parla anche in ordine a quelli che dovranno essere gli organi di controllo sopra i magistrati, per riguardo alla cosidetta carriera, perché riguardo all’inquadramento dei magistrati, noi affermiamo fin d’ora il concetto che essi non possono essere considerati come impiegati. L’errore compiuto dal fascismo è un errore che deve essere riparato! Vedete dunque, onorevoli colleghi, su che terreno di discussioni e teorie diverse andiamo ad imbarcarci.

Inoltre, il Consiglio Superiore della Magistratura – anche nella forma limitata che è stata adottata a tutela della Magistratura nella Carta costituzionale – presenta numerosi punti di discussione; ma poi vedete che questi problemi relativi all’ordinamento che è stato suggerito si ricollegano nettamente con quelli riguardanti i poteri fondamentali dello Stato.

Se il Consiglio Superiore della Magistratura deve essere presieduto dal Presidente della Repubblica e poi rappresentato e composto per metà da magistrati, e per l’altra metà da deputati, voi vedete quale alea di discussione si debba affrontare.

Non mi perdo in particolari, perché non è consigliabile, stante l’ora e stante il carattere formale delle mie osservazioni. Mi compenetro peraltro della difficoltà in cui ci troviamo tra il desiderio di sollecitare la nostra discussione e la necessità di trovare un componimento che ci dia il modo di continuare i nostri lavori.

Ma un’ultima osservazione desidero farvi e lascerò poi che altri colleghi esprimano con ponderazione maggiore della mia quello che può essere il sostegno della mia pregiudiziale.

Signori miei, quando si tratta della Magistratura, della sua importanza rispetto ai problemi politici della libertà, che concernono la salvaguardia dei cittadini in regime democratico, il Governo deve dire la sua parola.

Ma qui, per quello che riflette i poteri attivi dello Stato, voi avete l’obbligo di considerare che non abbiamo norme obiettive generali che possano vivere a sé, ma soltanto norme che si tratterà di mettere in pratica quando la Carta costituzionale sia approvata. Invece per gli organismi attivi dello Stato che rappresentano la continuità dei servizi pubblici, la continuità di tutela dei cittadini in quella che è la loro personalità, non si possono avere parentesi. Non si può credere di aver tutto fatto con lo stabilire una norma oggettiva, ma bisogna stabilire la intrinsecità dell’organismo, la fiducia che necessariamente l’organismo deve riscuotere, la solidarietà tra l’organismo di giustizia, il popolo e il regime democratico.

Disse bene l’onorevole Orlando, ed io raccolgo il suo concetto, che lo Stato è Stato, e noi abbiamo diviso la funzione del Governo dalla funzione dell’Assemblea che deve provvedere alla formazione della Carta costituzionale.

Ma bisognerà pure che un Governo che rappresenta la continuità del potere esecutivo in tutte le cose (continuità perennemente espressa), avendo la responsabilità di attuare la Carta, sia un organo in piena efficienza, consapevole di se stesso, che dia alla Carta il suo sangue, il suo alito, la sua vera efficacia; bisognerà che questo Governo, chiamato a risolvere problemi tanto spinosi, non si presenti davanti a noi soltanto per dirci che accetta una determinata forma costituzionale, un determinato limite di responsabilità in un senso o nell’altro.

L’Assemblea sarà padrona di discutere e di deliberare in quella che è la sua competenza. Ma qui si tratta di dare alla Nazione non una Carta morta, ma una Carta viva come è nella tradizione della Patria. (Applausi).

RUINI, Presidente della Commissione per la Costituzione. Ma lei che cosa propone?

BERTINI. Considerato che non ci sia nessuna difficoltà, ma che anzi rientri nello sviluppo logico della discussione parlare senz’altro in continuità di quello che è stata fatto finora, e quindi del titolo riferentesi all’ordinamento della Repubblica cominciando dal Parlamento, io chiedo che si prosegua nella discussione, secondo l’ordine che il progetto ci ha presentato. (Commenti).

PRESIDENTE. Prego i colleghi che prenderanno la parola su questa discussione di non entrare in merito a nessun problema della Costituzione. Si capisce che sfiorarne qualcuno sia una necessità, ma prego di non approfondire.

ZOTTA. Chiedo di parlare.

PRESIDENTE. Ne ha facoltà.

ZOTTA. Mi sembra più opportuno che l’esame si abbia ad iniziare dal Titolo della Magistratura, il quale concerne un argomento che non presenta novità in questo rifacimento costituzionale. Si presenta in forma autonoma, ha propri problemi, poche interferenze con gli altri poteri, ha in sé tutte le linee per una possibile trattazione senza necessità di rinvio e di collegamento con quello che segue e con quello che precede. Invece, se noi parliamo adesso delle garanzie costituzionali, noi veniamo a invertire un procedimento logico in quanto le garanzie costituzionali presuppongono già la conoscenza dell’oggetto che deve essere garantito: gli istituti della Costituzione. Come si può parlare di garanzia, che è già giuridicamente un fenomeno accessorio, quando noi ignoriamo ancora nella loro essenza e nella loro portata gli istituti giuridici che devono essere oggetto della garanzia stessa? Una questione fondamentale si presenta: come inquadrare la Corte costituzionale? È un superpotere o è l’apice del potere giudiziario? E la risposta noi potremo darla soltanto quanto avremo ben individuati i singoli poteri, quando avremo stabiliti i limiti di competenza degli stessi. Basta leggere l’articolo 126: si parla di giudizio sulla costituzionalità delle leggi. Noi ancora ignoriamo quale sia la funzione del Senato. Si parla di risoluzione di conflitti di attribuzione fra i poteri dello Stato, fra lo Stato e le Regioni, fra le Regioni; quando noi ignoriamo ancora se la Regione debba e in che senso possa esistere. E allora, se questo è l’obbietto dell’attività della Corte costituzionale che deve esplicare questa garanzia, noi vediamo che l’oggetto è ancora evanescente e che deve ricevere quella condensazione in formule giuridiche soltanto quando abbiamo attentamente esaminato i singoli istituti. Sicché la Corte costituzionale si presenta come uno sviluppo, come un procedimento logico che appartiene all’ultima tappa di questo iter di studi e di fatiche. Costituzione rigida o Costituzione flessibile? È il risultato finale questo, cui noi possiamo dare una risposta soltanto quando abbiamo ben definito la funzione legislativa. Indubbiamente vi sono anche delle difficoltà inerenti alla trattazione del problema della Magistratura; ma sono quelle difficoltà cui accennava il Presidente Ruini quando poneva la questione pregiudiziale. È troppo difficile il problema, ogni volta che si debba anteporre qualcosa che logicamente viene in un momento successivo. A me sembra che la discussione sulla Magistratura possa essere compiuta senza compromettere in alcun modo gli altri istituti che ne sono il presupposto ed il coronamento.

BOZZI. Chiedo di parlare.

PRESIDENTE. Ne ha facoltà.

BOZZI. Desidero ripetere all’Assemblea l’opinione, che ho espressa in sede di Commissione qualche momento fa. Io sono in disaccordo con quanto ha detto l’onorevole Zotta.

Naturalmente, tutti gli argomenti del progetto presentano connessioni e interferenze fra di loro. E non ce ne può essere alcuno che presenti tale fisionomia, che possa essere trattato isolatamente, senza inconvenienti.

Si tratta di esaminare la ragione per la quale noi abbandoniamo per un momento l’esame del tema delle Regioni.

Vi sono delle trattative in corso; su questo punto siamo d’accordo. I gruppi hanno concordato nel senso che fosse opportuno rinviare la discussione, e rinviarla di non pochi giorni.

Noi, tuttavia, dobbiamo imprendere la trattazione d’un tema, che non ci porti via molto tempo. Ed è questa una considerazione pratica, che dobbiamo tenere presente.

Ora, la trattazione dell’argomento dell’amministrazione della giustizia impegnerà i lavori dell’Assemblea, senza esagerazione, per un tempo doppio di quello che occorrerà per il tema delle garanzie costituzionali: basti dire che gli oratori iscritti sul primo tema sono esattamente il doppio di quelli iscritti sul secondo.

Ma, a prescindere da queste considerazioni, che sono indiscutibilmente marginali, vi è una ragione, che ritengo sostanziale, che ci dovrebbe consigliare di preferire al tema dell’amministrazione della giustizia quello delle garanzie costituzionali.

A mio modo di vedere, il Titolo VI delle garanzie costituzionali presenta caratteri di autonomia, che lo rendono preferibile a quello della Magistratura.

La Magistratura è un potere fondamentale dello Stato; ed io non vedo come si possa stralciare l’esame di questo potere dal quadro generale, che rappresenta il sistema dei poteri dello Stato; vi sono raccordi inevitabili fra questo potere e gli altri.

Non solo; tutto il tema della Magistratura si impernia sulla questione dell’autogoverno, sulla composizione del Consiglio superiore della Magistratura; composizione che, secondo il progetto, è demandata, in parte, alla elezione da parte dell’Assemblea nazionale. Ora, noi non sappiamo come sarà costituita questa Assemblea: se vi sarà un Senato e come esso sarà costituito. Cosicché l’esame del Consiglio superiore della Magistratura, a formare il quale concorre un’Assemblea Nazionale, di cui non conosciamo la formazione, non potrà non essere affrettato e superficiale.

Non solo; il tema della Magistratura è strettamente collegato con quello delle Regioni.

Ricordo ai «regionalisti» il problema delle Cassazioni regionali; è un tema che appassiona. Ebbene, noi lo accantoneremo o lo tratteremo?

Viceversa, il tema delle garanzie costituzionali si presenta, sia pure con gli inconvenienti inevitabili, con maggiori caratteri di autonomia.

Si parla della risoluzione di conflitti tra Stato e Regioni; ma è chiaro che, se le Regioni non vi saranno, non vi saranno i conflitti.

Quindi, ritengo che, tenuto conto che il problema delle garanzie costituzionali si riconnette, logicamente e direttamente, col problema che dovrebbe essere pregiudiziale –  se la Costituzione dovrà essere o no rigida –      sia questo il momento di trattarlo, anche perché mi sembra esattissima l’osservazione fatta dall’onorevole Ruini, che questo tema viene bene dopo aver affermato i principî sulle libertà fondamentali; perché, appunto, la Corte costituzionale sta a garanzia di questi principî.

E non è esatto quanto ha detto l’onorevole Zotta, che la Corte costituzionale ha per oggetto del suo esame i poteri dello Stato, e questi non si conoscono ancora; perché oggetto precipuo della Corte costituzionale è l’esame delle leggi. E qualunque sarà l’organo, che dovrà formarle, certo delle leggi vi saranno.

Concludo affermando che, pur riconoscendo che inconvenienti ve ne sono – e non si può scegliere alcun altro tema che non ne presenti – preferirei che l’Assemblea si orientasse verso la continuazione dei lavori sul tema delle garanzie costituzionali.

GRASSI. Chiedo di parlare.

PRESIDENTE. Ne ha facoltà.

GRASSI. Onorevoli colleghi, è inutile che io ricordi a me stesso e a voi che fu presa una decisione da parte dei rappresentanti dei gruppi e anche da questa Assemblea, di iniziare la discussione della Parte seconda sul tema delle Regioni.

Il motivo era evidente. Nessuno dei temi che verranno all’esame della Costituzione è senza riferimento alla questione della Regione.

Gli oratori che mi hanno preceduto, nello scegliere il tema della Magistratura o quello delle Garanzie costituzionali, hanno cercato di presentare all’esame dell’Assemblea un tema che tocca meno il problema basilare delle Regioni; ed è inutile che vi legga gli articoli, perché sono dinanzi a voi tutti. Nessun tema si riferisce alle Regioni o tocca argomenti costituzionali come quello del sistema camerale, unicamerale, o bicamerale dell’Assemblea. Ad ogni modo la verità è questa: che se perdiamo il filo direttivo, se perdiamo la linea strutturale e cominciamo a costruire un edificio da una parte, anziché dalle sue fondamenta, faremo una Costituzione che noi stessi non sapremo come vogliamo fare.

La Regione invece, pur essendo messa in una parte quasi ultima del disegno di Costituzione, è sempre basilare. Tanto è vero che abbiamo deciso di portarla nella prima fase della Costituzione, perché non è possibile cominciare una struttura dello Stato senza avere definito se vogliamo mantenere uno Stato unitario o uno Stato regionale, il quale si distacchi dall’una o dall’altra forma. Ad ogni modo dobbiamo discutere.

Se non si comincia dalla base, non è possibile fare tutta la struttura futura dello Stato; è possibile procedere alle strutture successive.

Abbiamo detto: cominciamo con la Magistratura, perché è autonoma, cominciamo dalle Garanzie costituzionali perché sono fondamentali.

La verità è che nessuna parte può essere cominciata se non prendiamo a base la Regione.

Per quale motivo vogliamo cambiare questo indirizzo che avevamo già stabilito?

Si dice: potrà essere interrotta la discussione generale sulle regioni, in quanto che un nuovo Governo presentatosi all’Assemblea ha bisogno di fare delle dichiarazioni sulle quali è doveroso da parte dell’Assemblea iniziare una discussione.

Non c’è nessuna difficoltà che questa Assemblea, che avrà iniziato il problema della regione, sospenda le sue discussioni.

D’altra parte, prendendo qualunque altro argomento, siamo sicuri di averlo esaurito prima che il Governo si presenti a fare le sue dichiarazioni? E allora, se sospensioni dovranno avvenire, perché non dobbiamo stabilire un indirizzo logico che rappresenti quello che veramente si deve seguire?

Si può dire anche che i partiti non sono d’accordo in quella che può essere la decisione sulla Regione.

Io penso che dopo il mese in cui si discute di questa questione, i partiti un orientamento devono averlo. Non è possibile che oggi si discuta del problema regionale, senza che partiti od uomini politici, o rappresentanti maggiori, non abbiano idee precise su questo argomento. Ad ogni modo, durante la discussione generale abbiamo visto che si possono avere dei punti di contatto, degli accordi su quelle che possono essere questioni generali, o particolari. Ma seguiamo la via maestra. Se usciamo fuori da questa via maestra, credo che staremo degnamente a quello che deve essere lo spirito costituente del Parlamento italiano. (Applausi).

TOGLIATTI. Chiedo di parlare.

PRESIDENTE. Ne ha facoltà.

TOGLIATTI. Onorevoli colleghi, devo dichiarare che sentendo l’intervento dell’onorevole Bertini, mi è parso che egli avesse ragione, cioè che noi potessimo tranquillamente continuare la nostra discussione articolo per articolo al punto in cui siamo arrivati, riservando gli articoli nei quali si tocca il tema della Regione a un ulteriore dibattito dopo che il tema della Regione fosse stato definito, almeno in linea di principio se non ancora in tutti i suoi particolari. Però, esaminato ancora una volta il testo costituzionale, mi è parso che questa proposta non possa essere accettata e quindi devo pregare i colleghi democristiani a riflettere ancora sulla questione, e soprattutto a riflettere se noi, seguendo quella strada, non ci troveremmo ad un certo punto in un vicolo cieco, cioè costretti a rinviare un tale numero di articoli che il nostro lavoro non sarebbe più un lavoro organico e forse non sarebbe nemmeno più possibile. Intanto dovremmo riservare subito l’articolo che si riferisce alla composizione della seconda Camera perché in esso vi è il richiamo immediato alla Regione; riservato questo articolo dovremo di conseguenza riservare tutta la parte che si riferisce ai poteri delle due Camere perché a seconda del modo come la seconda Camera sarà composta, i differenti gruppi si schiereranno sul problema dei suoi poteri. Noi saremo favorevoli oppure contrari alla parità delle due Camere a seconda del modo come saranno composte. Ma se saremo costretti a riservare tutta la parte che si riferisce ai poteri delle due Camere e quindi ai loro rapporti e alla composizione e ai poteri dell’Assemblea Nazionale, è evidente che riserviamo quasi tutto. Non voglio riferirmi al fatto che vi è già una decisione precedente di discutere dell’ordinamento regionale in sede pregiudiziale, anche perché questa decisione non fu conseguenza di un voto, ma di un semplice accordo, e comunque perché qualsiasi decisione può essere sempre modificata. Però mi pare, per i motivi cui sopra ho accennato, che se noi affrontassimo ora direttamente la questione delle regioni non ci sarebbe niente di male. Possiamo avere in merito un dibattito ampio, approfondito: i vari partiti si schiereranno; si preciseranno i diversi punti di vista. Io mi auguro che si arrivi in questo modo a un accordo su questo importante problema che riguarda la struttura del nuovo Stato democratico italiano, ed avremo così trovato la via maestra. Raggiunto questo risultato, non avremo più bisogno di riservare nulla e potremo approvare, l’una dopo l’altra, le parti successive. Vorrei quindi pregare i colleghi democristiani e il collega Bertini in primo luogo, a riflettere se la proposta che egli fa non ci mette in quello che comunemente si chiama un ginepraio, cioè a dover rinviare un articolo dopo l’altro tutti gli articoli principali e quindi non poter andare avanti in quanto ci si trovi ad ogni passo di fronte a una questione preliminare insoluta. Io approverei quindi la proposta dell’onorevole Grassi di iniziare senz’altro il dibattito sulla questione della Regione.

MASTROJANNI. Chiedo di parlare.

PRESIDENTE. Ne ha facoltà.

MASTROJANNI. Condivido appieno le ragioni ampiamente rappresentate dall’onorevole Bertini, perché non si inverta l’ordine della discussione e non si anticipi quella sulla Magistratura. A tal uopo devo ricordare che il Governo, e per esso il Ministero della difesa, ha recentemente nominata una Commissione composta di alti magistrati, di avvocati e di esponenti delle forze armate perché studino e predispongano una relazione che serva ad illuminare questa Assemblea Costituente in ordine alla conservazione o meno della giurisdizione penale militare. L’argomento relativo alla unicità di giurisdizione in materia penale è argomento di grande e seria importanza, e richiederà logicamente una discussione ampia per i riflessi che essa porta in tutti i campi del diritto. Ritengo che sia opportuno soprassedere sulla discussione in ordine all’argomento della Magistratura oltre che per le ragioni espresse dall’onorevole Bertini, anche per poter avere il materiale che la Commissione, nominata dal Ministero della difesa, sta approntando, e che consentirà all’Assemblea Costituente di esprimersi, con cognizione di causa, in questo argomento della unicità della giurisdizione penale. Per queste ragioni, condivido l’opinione espressa dall’onorevole Bertini e chiedo che la discussione sul capitolo relativo alla Magistratura sia messa all’ordine del giorno secondo l’ordine predisposto nella Costituzione.

TARGETTI. Chiedo di parlare.

PRESIDENTE. Ne ha facoltà.

TARGETTI. Per non passare alla discussione delle Regioni, come l’Assemblea aveva a suo tempo deciso, è evidente che bisogna sostituirvi qualche altro Titolo, ed è una difficoltà grave per noi, insuperabile, quella di una sostituzione. È questa la ragione per cui ci associamo anche noi alla proposta formulata dall’onorevole Grassi di passare senza altro alla discussione del Titolo delle Regioni; perché sostituire al Titolo delle Regioni la discussione sulla Magistratura (Rumori) ci sembra una sostituzione molto criticabile. Sfioro gli argomenti, come ha detto l’egregio Presidente, e quindi mi limito ad osservare che, passando senz’altro alla discussione della Magistratura, a parte i legami che legano l’ordinamento giudiziario con le altre parti dell’ordinamento dello Stato, ed a questo proposito basta pensare al modo di elezione del Consiglio superiore, si rischia di dare a questa nostra deliberazione una interpretazione che, in un senso o nell’altro, è da evitare. Infatti può essere interpretata, questa nostra immediata discussione della Magistratura, come una sopravalutazione, o per meglio dire come una qualificazione dell’ordinamento giudiziario (Rumori) su cui forse non siamo tutti d’accordo; può essere interpretata come un implicito riconoscimento del carattere che al potere giudiziario, da alcuni ma non certamente da tutti, si vuol dare, cioè di un potere assolutamente autonomo. D’altra parte questa nostra decisione potrebbe essere infine interpretata in un senso opposto, ma egualmente deplorevole, vale a dire, che non sapendo in questo momento che cosa discutere, tanto per occupare il nostro tempo, siamo passati a discutere sulla Magistratura. Anche questa interpretazione come le altre, anzi, con maggior ragione, va evitata. Se, invece, si sostituisse all’argomento delle Regioni quello delle Garanzie costituzionali, ed in questo ci associamo a quanto ha detto il collega Zotta, sarebbe come incominciare di fondo invece che da principio, dalle conclusioni invece che dalle premesse. A parte il fatto che, come gli egregi colleghi sanno, nel Titolo delle garanzie costituzionali si parla dei conflitti fra lo Stato e le Regioni, fra Regioni e Regioni, ecc., si stabilisce la nomina della Corte costituzionale da parte dell’Assemblea nazionale. Tutto questo è assurdo, egregi colleghi, perché parlare di Assemblea nazionale e di Regioni prima ancora che sia istituita l’Assemblea nazionale e sia decisa la questione delle Regioni non ha senso (Interruzioni – Rumori). Bisogna anche riconoscere che la sostituzione del Titolo del Parlamento porta ad alcuni inconvenienti, già ricordati dall’onorevole Togliatti. Infatti bisognerebbe accantonare gli articoli che si riferiscono alla seconda Camera perché, come voi sapete, alla formazione di questa seconda Camera, secondo il progetto di legge, partecipano anche i consigli regionali.

Non solo, ma anche la eleggibilità dei senatori è condizionata ad essere essi nati o domiciliati nella Regione. La necessità di accantonare gli articoli relativi al Senato rende poco consigliabile anche questa sostituzione. Quindi noi pensiamo che si debba affrontare senz’altro il problema della Regione. Riteniamo che sia nostro dovere non indugiarsi a perdere altro tempo in queste discussioni. Auguriamoci che la crisi si possa al più presto risolvere, ma la crisi non deve influire in nessun modo sul corso dei nostri lavori che devono dare alla Repubblica italiana la sua Costituzione. (Applausi a sinistra).

LUSSU. Chiedo di parlare.

PRESIDENTE. Ne ha facoltà.

LUSSU. Chiedo scusa all’Assemblea, ma ritengo doveroso prendere la parola, perché debbo dire che questo problema, che appariva già complesso in seno al Comitato che si è riunito presso la Presidenza di questa Assemblea, diventa ancora, secondo me, più complicato di quanto non era.

Anzitutto si spostano i dati di fatto: per quale ragione, quasi all’unanimità, si pensava di rinviare la discussione sulla riforma autonomista? Perché da tutte le parti si erano riscontrate delle difficoltà che, a giudizio di quasi tutti, si potevano superare, nel senso che (e questo è stato rilevato da parte comunista principalmente) erano in corso discussioni per cui era possibile sperare che le difficoltà, anziché aumentare, sarebbero diminuite.

Ora, rinunciare a queste discussioni preliminari indispensabili, a giudizio del Partito comunista, della Democrazia cristiana e degli altri settori (Interruzione dell’onorevole Togliatti) complica il problema della discussione; e questo non lo può negare nessuno e tanto meno, penso, il collega Togliatti.

Io sarei d’accordo coll’onorevole Togliatti se fosse obbligatorio discutere, al posto del problema autonomistico, quello del Parlamento, ma ci siamo trovati tutti d’accordo, nella Commissione riunita presso il nostro Presidente (eccetto l’onorevole Grassi, che è stato solo, non seguito da nessuno) che si poteva discutere immediatamente o il problema delle garanzie costituzionali, o il problema della Magistratura. (Interruzioni – Commenti). C’era l’accordo dell’immensa maggioranza su questo.

MALAGUGINI. L’Assemblea deciderà.

LUSSU. Evidentemente è l’Assemblea che decide, ma io chiedo all’Assemblea: il problema delle autonomie lo si vuole complicare o semplificare? Se lo si vuole complicare, affrontiamo immediatamente la discussione, cioè rendiamo impossibili quei contatti che, proprio da parte comunista, erano ritenuti indispensabili per risolvere il problema. Non lo si vuole complicare? E allora rinviamo la discussione sul problema delle autonomie e affrontiamo il problema della Magistratura e della seconda Camera. (Applausi al centro).

MARTINO ENRICO. Chiedo di parlare.

PRESIDENTE. Ne ha facoltà.

MARTINO ENRICO. L’onorevole Togliatti ha perfettamente ragione, quando dice che non si può discutere delle Camere, se non si è discusso prima della Regione. L’onorevole Togliatti, che indubbiamente non vuole fare passi falsi, giustamente si è fermato a questo punto, perché, se avesse dovuto dire gli argomenti per i quali non si possono discutere la Magistratura o le Garanzie costituzionali, evidentemente questi gli sarebbero mancati. Perché non regge l’argomento dell’onorevole Bertini, quando dice che durante la discussione è necessario che il Governo sia presente. Perché? Quale parte della Costituzione ha bisogno che il Governo sia presente?

Dice l’onorevole Targetti che sembrerebbe quasi, per il Paese, che noi minimizzeremmo il problema della Magistratura. Questo è un rilievo di poco conto.

Quando noi abbiamo dei motivi sostanziali, fondamentali, per rinviare un problema importante, mi pare che nessuno possa pensare che affrontiamo oggi il problema della Magistratura unicamente come una scappatoia. Il problema della Magistratura, che non ha nessuna attinenza con le Regioni, mi pare che si possa discutere benissimo.

Per quello che riguarda le Garanzie costituzionali, nel testo è fatto cenno sia alle Regioni, sia all’Assemblea nazionale; ma è anche vero che, se leggiamo un istante i punti a cui fa accenno, noi possiamo discutere il problema lasciando soltanto da parte quei punti. Perché, quando si dice: «risolve i conflitti di attribuzione fra i poteri dello Stato, tra lo Stato e le Regioni, e fra Regione e Regione», vuol dire che, se le Regioni non verranno, si voterà semplicemente la parte che dice «risolve i conflitti di attribuzione tra i poteri dello Stato». Non c’è nessuna questione complicata che impedisca la discussione di questa parte. (Interruzione dell’onorevole Targetti).

E quando si dice: «I giudici della Corte sono nominati dall’Assemblea nazionale» vuol dire che, anche su questo punto, si potrà fare una riserva. (Commenti a sinistra). Basterà dire o il Parlamento o gli organi legislativi, e poi si sostituirà la dizione in sede di coordinamento, oppure, come si rinviano tanti emendamenti e tante parti di articoli, si potrà rinviare questa parte, questo comma, senza che con ciò venga pregiudicata l’economia dei nostri lavori.

Ora, perché non è opportuno affrontare oggi la questione delle Regioni? Questa è la questione fondamentale, io direi, della Carta costituzionale. Questa è la vera riforma strutturale del nostro sistema attuale, e quindi bisogna affrontarla con serietà e con serenità.

Ora, se ciascuno di voi fa un esame di coscienza, si accorge che serenità in questi giorni ce n’è poca, che l’Assemblea è spesso deserta, che la crisi ci occupa e ci preoccupa tutti quanti e che, quindi, non è questo il momento più indicato per affrontare una questione di questa portata. Tanto più che su questo problema ci può essere la possibilità di intese e di accordi, in modo da arrivare ad una discussione quanto più calma sia sperabile.

Per questi motivi, penso che, se ci rendiamo conto della gravità della cosa, noi dobbiamo votare perché sia discussa o la Magistratura o la parte riguardante le Garanzie costituzionali. (Applausi al centro).

ROSSI PAOLO. Chiedo di parlare.

PRESIDENTE. Ne ha facoltà.

ROSSI PAOLO. Onorevoli colleghi, il peggio di tutto è quando tutti hanno ragione. Mi pare che tutti abbiano ragione; hanno ragione coloro che sostengono che è impossibile o difficile parlare della Magistratura, per quelle ragioni psicologiche indicate acutamente dall’onorevole Targetti; hanno ragione coloro che dicono che non si può parlare della Corte costituzionale perché implica necessariamente il problema delle Regioni; hanno ragione coloro che dicono che non si può parlare del Parlamento; ha ragione più di tutti l’onorevole Togliatti quando dice che bisogna naturalmente incominciare dal discutere il problema delle Regioni; ha ragione perfettamente l’onorevole Lussu, quando dice che non si possono trattare i problemi relativi alla Regione se non si chiarisce prima la situazione, se non si fanno degli sforzi, da Gruppo a Gruppo, per superare le enormi difficoltà che sono connesse a questo problema.

Hanno ragione tutti e vorrei non avere del tutto torto anch’io quando dico che sarebbe forse migliore di qualunque altra risoluzione quella di affrontare un poco di impopolarità e di sospendere le nostre sedute per tre o quattro giorni. (Applausi a sinistra – Commenti).

BELLAVISTA. Perditempisti! Perditempisti!

PRESIDENTE. Onorevole Bellavista, la prego, non interrompa.

ROSSI PAOLO. Finalmente si è trovato che chi ha torto sono io e allora non ne parliamo più. Ma io insisto, subordinatamente, con profondo rispetto per le decisioni dell’Assemblea, perché si sospenda per tre o quattro giorni perché si arrivi a una soluzione della crisi politica. Si sospenda quanto è necessario perché, quanto meno, gli accordi che sono in corso tra Gruppo e Gruppo per trovare una soluzione comune circa la questione della regione si perfezionino.

Insisto su questa proposta dei tre o quattro giorni. Il mio Gruppo potrà votare soltanto perché si trovi, come argomento sostitutivo di discussione, quello della Magistratura. Sono vere infatti le obiezioni mosse dai colleghi onorevoli Targetti e Bozzi; ma, in definitiva, quello della Magistratura è un problema che si può trattare più isolatamente rispetto agli altri problemi costituzionali e che può quindi essere affrontato con minor copia di riferimenti ai problemi stessi.

PICCIONI. Chiedo di parlare.

PRESIDENTE. Ne ha facoltà.

PICCIONI. Vorrei osservare che come convinti autonomisti regionalisti, noi del Gruppo democristiano non vorremmo dare minimamente in questa discussione l’impressione di voler annettere minore importanza a questo grave problema della struttura regionale.

Se noi abbiamo accettato di discutere con colleghi di altri gruppi sull’opportunità o la convenienza di posporre in qualche modo la discussione sull’ordinamento regionale, è stato, almeno da parte nostra, perché annettiamo un valore maggiore e fondamentale a questo argomento; e non già per rinviarlo o per minimizzarlo.

Per un altro motivo avevamo aderito a questa proposta, non partita, d’altra parte, da noi: perché si tenesse conto di quella particolare condizione psicologica dell’Assemblea alla quale alcuni altri oratori si sono riferiti e per consentire all’invito rivolto, mi pare, anche dal Presidente della Commissione dei settantacinque sulla opportunità di un più approfondito esame di quei tali emendamenti che sono stati presentati, e che sconvolgerebbero in certo modo la struttura del progetto di Costituzione, così come è stato redatto dalla Commissione dei settantacinque.

In questo senso la precisazione fatta dal Presidente della Commissione ha un suo fondamentale valore, poiché se dovesse eventualmente ritenersi che i concetti informatori di quei tali emendamenti dovessero ottenere il suffragio dell’Assemblea, è logico che questo si riverberebbe su gran parte del progetto di Costituzione. Di qui la particolare importanza dell’esame degli emendamenti stessi. E poiché noi desideriamo affrontare questo problema in tutta la pienezza della sua impostazione, saremmo stati lieti che questo esame preliminare si aggiungesse agli altri esami, abbondantissimi, che sono stati fatti del problema in seno alla Commissione apposita.

Ma se qui, onorevoli colleghi, i dissensi si profilano e assumono un certo tono e un certo carattere particolare, evidentemente noi siamo i primi a dire che siamo qui pronti a discutere il problema dell’ordinamento regionale. E siamo pronti e riconosciamo la precedenza di questo problema su tutti gli altri, perché, anche nella nostra concezione, così come nella concezione a cui si è riferito il collega Martino, non è l’ordinamento regionale una riforma di dettaglio amministrativo nella Costituzione, ma è una riforma di struttura, che dovrebbe cambiare il ritmo, il tono dell’ordinamento politico e amministrativo del nostro nuovo Stato. (Applausi al centro).

Avevamo acceduto anche, in linea di ipotesi, alla possibilità di interrompere, allo scopo suindicato per qualche giorno, i lavori della Costituente, i quali – a mio personale avviso – procedono con un certo eccesso di acceleramento… (Applausi al centro – Interruzioni a sinistra – Commenti).

MALAGUGINI. Si metta d’accordo con Il Popolo! (Rumori al centro).

Una voce a destra. Che c’entra? Lasci stare II Popolo!

PICCIONI. È una mia dichiarazione personale. Dicevo: con un certo eccesso di acceleramento che conferisce poco, mi sia consentito dirlo, alla concreta serietà e concludenza del lavoro solenne, non soltanto nell’espressione verbale, ma nella sua concretezza effettiva, della Costituzione che noi stiamo elaborando, sotto il riflesso di raggiungere un obiettivo che tutti sappiamo ormai che non si può raggiungere. (Applausi al centro). E quindi raggiungendo di fatto due obiettivi negativi: quello di non poter mantenere il termine fissato alla Costituente e quello di fare un lavoro – mi sia consentito di dirlo – piuttosto affrettato in questa fase decisiva e non del tutto concludente.

Per questi motivi, se si vuole mantenere il ritmo accelerato del lavoro dell’Assemblea, noi avevamo aderito a che venisse posto in discussione l’ordinamento della Magistratura, perché era l’unico Titolo che non avesse delle connessioni dirette con questa premessa strutturale dell’ordinamento regionale e perché un Titolo – giacché è stato messo nel progetto di Costituzione – che ha una uguale importanza rispetto a tutti gli altri Titoli e capitoli del progetto medesimo.

Perciò, onorevoli colleghi, concludo con queste precise dichiarazioni.

Il mio Gruppo, è qui pronto ad affrontare – se volete anche immediatamente – la discussione sull’ordinamento regionale, poiché noi, in questa prima impostazione, intendiamo mantenere il progetto così come è stato faticosamente elaborato dalla Commissione dei settantacinque.

Se questo, senza distinzioni particolari, non dovesse essere ritenuto opportuno dall’Assemblea, se cioè essa volesse rinviare di alcuni giorni per consentire quell’esame preliminare cui si riferiva il Presidente della Commissione dei settantacinque, per distendere un po’ la tensione degli onorevoli colleghi della Costituente, perché l’attenzione loro si raccolga con maggior concentrazione intorno a questo fondamentale problema, noi non abbiamo difficoltà. Se questo l’Assemblea non creda di fare e invece intenda passare alla discussione sull’ordinamento giudiziario, noi non abbiamo nulla da obiettare. Ci pare, però, che la proposta del collega Rossi – che ha sollevato clamori ingiustificati – intesa in questo particolare momento ad aggiornare i propri lavori anche per soli tre o quattro giorni, sia forse la più opportuna. (Applausi al centro).

CANEPA. Chiedo di parlare.

PRESIDENTE. Ne ha facoltà.

CANEPA. Questo Titolo 5° è interessante: «Le Regioni e i Comuni». Le Provincie sono soppresse. E difatti l’articolo 107 le riduce…

PRESIDENTE. Ma, onorevole Canepa, non si sta parlando di questo.

CANEPA. L’abolizione della Regione porta l’abolizione della Provincia…

PRESIDENTE. Onorevole Canepa, la prego; non stiamo trattando questa questione.

CANEPA. Allora non insisto.

RUBILLI. Chiedo di parlare.

PRESIDENTE. Ne ha facoltà.

RUBILLI. Ho chiesto di parlare per venire alle stesse conclusioni alle quali, poi, ho visto sono venuti due dei precedenti oratori. Ribadisco quindi il concetto che di già è stato manifestato.

A me sembra che la Commissione, nell’ora e mezzo che è stata ad essa consentita, abbia cercato in tutti i modi di trovare dove si verificavano minori inconvenienti. E sta bene. È un criterio che, per ragioni di opportunità, come vedo dai vostri assensi, o signori della Commissione, avete creduto di seguire, proponendo il Titolo che vi sembra più agevole per un’immediata discussione.

Permettete, però, che io, pur rispettando questo criterio, di cui ad ogni modo non disconosco l’utilità, ritenga che non possa essere accettato, perché non dobbiamo vedere quali sono i minori inconvenienti e quale è la minore o maggiore opportunità. Noi dobbiamo esaminare sostanzialmente la legge costituzionale, al punto in cui siamo arrivati, per decidere quali argomenti si debbano trattare prima o dopo.

Ora è evidente che su di un punto possiamo essere tutti quanti d’accordo. Noi abbiamo esaminato sin’ora il cittadino, i suoi diritti, i suoi doveri. Oggi cominciamo ad esaminare lo Stato ed i poteri dello Stato. Come volete considerare lo Stato? Come volete stabilirne i poteri, se non cominciamo a decidere sulla sua struttura ed i suoi organi? Non si può andare avanti con altri Titoli, con altri argomenti, se prima l’Assemblea non si sarà pronunziata o sulla necessità di mantenere l’unità dello Stato, o sulla opportunità di spezzettarlo politicamente ed amministrativamente in varie entità territoriali con relativi poteri.

La proposta riforma regionale è un punto fondamentale al quale tutti gli argomenti in un modo o nell’altro sono collegati. Trattasi adunque di una considerazione che a me sembra chiara ed evidentissima. Ma parmi anche evidente un’altra circostanza, e cioè che questo argomento, la cui importanza io non sto a ripetere ancora, in fondo rappresenta insieme con la formazione del Senato il centro della legge costituzionale e richiama una speciale attenzione.

Ora, se sono sorti dei dubbi, anche da parte della Commissione, anche da parte di molti colleghi, per affrontare questa riforma e valutarla nella sua integrità, diciamo pure francamente che il grande problema ci arriva quasi imprevisto e mentre siamo alquanto impreparati. Una parola sincera non sarà inopportuna al riguardo. Siamo impreparati non solo perché il Titolo delle Regioni viene in ultimo nella legge costituzionale, e ve ne sono molti altri da trattare ancora, e non si pensava sino a questo momento ad una inversione, ma anche perché bisogna considerare che le Assemblee oggi non procedono, come un tempo, per opinioni singole ed individuali, ma per le decisioni dei partiti, e sono queste soltanto che contano. Ora è bene, anzi è indispensabile che i partiti esaminino, riflettano, e valutino con calma e ponderazione per decidere se possano assumere la responsabilità di questa grande riforma che si vuole imporre all’Italia. Qual è la conclusione? La conclusione non è che una sola.

Se come è chiaro non si può fare a meno di affrontare sin da ora il problema delle Regioni, se si tratta di una riforma veramente di una importanza eccezionale; se non possiamo dire di essere pronti e preparati per arrivare ad una deliberazione immediata, io credo che tre o quattro giorni non guasterebbero. (Applausi). E noi potremmo così discutere e decidere con maggiore risolutezza.

Consentitemi che aggiunga, per concludere, un’altra osservazione. Il Governo è sempre la più alta espressione della Assemblea. Ora io non voglio che il Governo, attualmente in crisi, perché non desidero mai chiedere troppo, sia presente sin dall’inizio della discussione, ma occorre però che arrivi un momento in cui possa esprimere il suo parere pur senza pretendere voti di fiducia in questioni veramente di capitale importanza per la Nazione ed assumere la sua responsabilità. (Commenti – Rumori prolungati).

PRESIDENTE. Onorevole Rubilli, questa non è una questione in discussione.

RUBILLI. Credo ad ogni modo necessario che il Governo intervenga e come Governo non resti silenzioso ed indifferente, ma prenda la sua parte di responsabilità di fronte all’Assemblea e di fronte al Paese. (Commenti – Interruzioni).

PRESIDENTE. Vediamo di concludere. Mi pare che ci sia una serie di proposte, ed evidentemente devono attrarre la nostra attenzione quelle presentate dal Comitato di redazione. Vi sono proposte diverse, staccate, di contorno. Vi è quella dell’onorevole Rossi fatta propria dall’onorevole Rubilli.

RUBILLI. L’ha fatta anche l’onorevole Piccioni.

PRESIDENTE. Questa proposta degli onorevoli Rossi e Rubilli sarebbe venuta appunto incontro anche ad una proposta formale dell’onorevole Piccioni, e lo avrebbe tranquillizzato su quella fretta eccessiva dei nostri lavori della quale – mi permetta, onorevole Piccioni – lei ha parlato soltanto oggi. Non molti giorni fa i rappresentanti più autorevoli del suo partito, il segretario che è il più autorevole – (sappiamo che ve ne sono altri) – ha aderito a una decisione che abbiamo preso non in Aula, ma in una riunione dei rappresentanti dei partiti e che suonava così: «la Presidenza continui a condurre i lavori come se l’Assemblea dovesse sciogliersi il 24 giugno». Questo è il mandato che mi si è dato, onorevole Piccioni, e avrei mancato a questo mandato, se non avessi cercato di dare ai nostri lavori un ritmo che in questi ultimi giorni non è stato eccessivo. D’altra parte, poiché siamo in argomento, se c’è davvero questa sensazione, mi si sollevi una buona volta da questo termine del 24 giugno; e uomini che appartengono a partiti tanto autorevoli nel Governo potrebbero una buona volta farlo, e liberare così le nostre discussioni di procedura da questo elemento permanentemente capace di portare dubbi, diffidenze e impicci ai nostri lavori (Applausi).

Vi sono diverse proposte. Riprendo la prima, che non è di oggi: l’Assemblea, implicitamente, sollevate alcune eccezioni, aveva accettato di discutere come primo Titolo della seconda parte quello relativo alle Regioni.

Io chiedo all’Assemblea se intenda rinunziare esplicitamente adesso a questa decisione implicita. Soltanto dopo che si sarà deciso, si potrà vedere quale materia dovrà divenire oggetto della nostra discussione e dei nostri lavori successivi.

LUCIFERO. Chiedo di parlare.

PRESIDENTE. Ne ha facoltà.

LUCIFERO. Mi pare che la proposta di sospensiva sia pregiudiziale, perché questa discussione, cioè la eventualità di mutare l’ordine della discussione della parte seconda della Costituzione è stata affacciata proprio per il caso che questa sospensiva non fosse accettata; ma ove fosse accettata (e attraverso la sospensiva, il tempo, che in essa si perderebbe, si guadagnerebbe per il tempo che risparmieremmo della discussione di procedura) evidentemente il problema di spostare l’ordine dei lavori non si presenterebbe più.

Ritengo che la sospensiva abbia valore pregiudiziale.

PRESIDENTE. La sospensiva su che cosa?

LUCIFERO. Voglio dire il rinvio.

PRESIDENTE. Ed allora, mi permettano, onorevole Lucifero ed altri onorevoli colleghi, parliamo schietto. Non si tratta di sospendere per tre o quattro giorni i nostri lavori. Diciamo a piene note: l’Assemblea rinvia i suoi lavori sino al momento in cui il Governo sia costituito.

Voci. No, no.

PRESIDENTE. Se no, ci ritroveremo di fronte alla stessa precisa questione, ed è pertanto necessario allora che noi deliberiamo immediatamente. In tre o quattro giorni – secondo le dichiarazioni esplicite di tutti coloro che hanno partecipato e alla riunione di un’ora fa e alle conversazioni preliminari di ieri e di stamane – non si può giungere al risultato che si ritiene forse possibile raggiungere.

Pertanto, se così è, evidentemente occorre parlare allora di almeno 10 giorni. Ma ad una tale data, se noi cominciassimo poi una qualunque discussione, dovremmo rapidamente interromperla, per affrontare l’esame delle comunicazioni del Governo. Ed allora, non cerchiamo così di guadagnare 24 ore per volta, ma diciamo schiettamente di che si tratta, ossia che si tratta appunto di quello che ho accennato in questo momento.

MICHELI. Chiedo di parlare.

PRESIDENTE. Ne ha facoltà.

MICHELI. Proporrei di rinviare i nostri lavori al 2 giugno.

Mi pare che questo sia un lasso di tempo sufficiente perché il Comitato dei diciotto studi e presenti proposte concrete.

Nel tempo stesso può darsi che si determini la situazione politica, in modo che sia più tranquilla anche la nostra situazione e che si possa dare da tutti maggior incremento alla prosecuzione dei lavori. Non domandiamo null’altro che sospendere i lavori fino a lunedì. (Applausi).

PRESIDENTE. Onorevole Micheli, fa proposta formale in questo senso?

MICHELI. Sì.

PRESIDENTE. C’è una proposta dell’onorevole Micheli di sospendere i lavori dell’Assemblea fino al giorno 2. (Commenti).

PICCIONI. Chiedo di parlare.

PRESIDENTE. Ne ha facoltà.

PICCIONI. Signor Presidente, era stata fatta inizialmente la proposta di sospendere per tre o quattro giorni. Ora, via facendo, l’appetito aumenta. Evidentemente io non vorrei incoraggiare, malgrado le osservazioni che ho fatto precedentemente e che tuttavia mantengo anche dopo le spiegazioni date dall’onorevole Presidente, questa volontà di rinviare a lungo i lavori della Costituente. Lo scopo di rinviare per tre o quattro giorni era quello di consentire un maggior limite di tempo alla Commissione per esaminare gli emendamenti e di consentire, nei limiti del possibile, quei contatti che possono essere utili per una nuova formulazione.

Ora, è chiaro che se l’Assemblea decide di rinviare di tre o quattro giorni, non si pone più il problema neanche della discussione dell’ordinamento giudiziario o di altro, perché, evidentemente, alla ripresa dei lavori della Costituente, bisogna affrontare senz’altro il problema della Regione; se si decidesse in un altro senso, allora non sarebbe più giustificato neanche il rinvio della seduta dell’Assemblea.

Quindi io mantengo la proposta in questi termini: di rinviare fino a martedì 27, nel pomeriggio. (Commenti).

PRESIDENTE. Esprimano il loro avviso nel momento in cui si vota. L’Assemblea ha udito la proposta dell’onorevole Piccioni. Lei, onorevole Micheli, vi si associa?

MICHELI. Ho sentito le ragioni per le quali il collega Piccioni ritiene che due o tre giorni siano sufficienti. Mi rincresce di non essere del suo avviso. Conosco, come lui, la complessa materia, conosco gli emendamenti gravi e sostanziali che sono davanti alla Commissione. Con due o tre giorni credo che ci troveremo ancora presso a poco nella situazione di oggi. Ed è per questo che io chiedo venia a lui di potere mantenere la mia proposta di rinvio fino al giorno 2 giugno. (Applausi).

PRESIDENTE. Prima di procedere alla votazione sulle proposte ora presentate, desidero dichiarare che se lo scopo è di permettere al Comitato di redazione di potere svolgere il lavoro già iniziato col ritmo dei lavori di questi giorni, che lasciano libere tutte le mattinate, il Comitato stesso può adempiere a questo incarico. Non è pertanto con questo motivo che si può spiegare eventualmente la sospensione dei nostri lavori, che io personalmente ritengo possa essere giudicata non favorevolmente da chi, in definitiva, esprime il giudizio superiore sulla nostra attività. (Applausi a sinistra).

Comunque, poiché è stato proposto di sospendere i lavori fino a martedì 27, porrò per prima in votazione la proposta dell’onorevole Piccioni.

MALAGUGINI. Chiedo di parlare.

PRESIDENTE. Ne ha facoltà.

MALAGUGTNI. Dichiaro che noi protestiamo contro questa procedura. Mi perdoni il Presidente, ma, interrompendo poco fa – e domando scusa all’onorevole Piccioni – io ho ricordato che il giornale del suo partito ha protestato perché abbiamo fatto un giorno di vacanza. Io domando come egli possa adesso associarsi a una proposta di sospensione dei nostri lavori. (Rumori).

LUCIFERO. Chiedo di parlare.

PRESIDENTE. Ne ha facoltà.

LUCIFERO. Mi sembra che la precedenza spetti alla proposta dell’onorevole Micheli, perché si discosta di più da quello che sarebbe stato il normale svolgimento dei nostri lavori, se non fosse stata sollevata questa questione.

PRESIDENTE. Onorevole Lucifero, suppongo che non vi sia nessun collega che pensi di votare per i tre giorni se in coscienza abbia deciso di votare per i dieci giorni solo perché la votazione della proposta Piccioni viene fatta prima. Comunque poiché lei – e la ringrazio – fa un po’ al mio fianco il custode del Regolamento, porrò in votazione la proposta dell’onorevole Micheli, con la speranza che coloro che non saranno disposti ad accettare dieci giorni di vacanza non votino questa proposta solo perché è stata messa in votazione prima.

Onorevole Micheli, le faccio presente che il 2 giugno è una giornata per la quale molto probabilmente ci sarà qualche decisione o qualche iniziativa che impedirà a molti colleghi di essere presenti. Il 2 giugno, non dimentichiamolo, ricorre il primo anniversario del referendum che ha fondato la Repubblica italiana. (Applausi generali).

MICHELI. Su questo siamo tutti d’accordo. L’accenno da lei fatto mi induce a modificare la mia proposta ed a spostare la data a giovedì 29 maggio. (Commenti).

PRESIDENTE. Incluso od escluso?

MICHELI. Possibilmente escluso.

PRESIDENTE. Allora la seduta si dovrebbe riprendere venerdì 30. (Commenti).

Pongo in votazione la proposta dell’onorevole Micheli di sospendere i nostri lavori fino a giovedì 29 maggio.

(Non è approvata).

Pongo in votazione la proposta dell’onorevole Piccioni che i lavori dell’Assemblea siano rinviati al pomeriggio di martedì 27 maggio.

(È approvata).

Resta così inteso che la ripresa dei lavori rimane fissata per martedì 27 alle ore 15.

Poiché l’Assemblea ha approvato la proposta dell’onorevole Piccioni, non solo nella data, ma anche nelle considerazioni, ritengo che abbia pure deciso che martedì si inizi la discussione sull’ordinamento regionale.

(Così rimane stabilito).

La seduta termina alle 20.25.,

Ordine del giorno per la seduta di martedì 27 maggio 1947.

Alle ore 15:

Seguito della discussione sul progetto di Costituzione della Repubblica italiana.

GIOVEDÌ 22 MAGGIO 1947

ASSEMBLEA COSTITUENTE

CXXIX.

SEDUTA DI GIOVEDÌ 22 MAGGIO 1947

PRESIDENZA DEL PRESIDENTE TERRACINI

indi

DEL VICEPRESIDENTE TARGETTI

INDICE

Congedi:

Presidente                                                                                                 4151

Progetto di Costituzione della Repubblica italiana (Seguito della discussione):

Presidente                                                                                                        

                                                                                                                          

Merlin Umberto, Relatore                                                                                

Colitto                                                                                                             

Mastino Pietro                                                                                    Micheli      

Mortati                                                                                                            

Della Seta                                                                             Ruggiero Carlo      

Bellavista                                                                                            Clerici      

Sullo                                                                                                                

Targetti                                                                                                           

Moro                                                                                                                

laconi                                                                                                               

Codignola                                                                                                        

Lucifero                                                                                                           

Corsini                                                                                                              

Benvenuti                                                                                                        

Federici Maria                                                                                                 

Persico                                                                                                             

Cifaldi                                                                                                              

Caroleo                                                                                                           

Giua                                                                                                                  

Coppa                                                                                                                

Perugi                                                                                                               

Giacchero                                                                                                        

Nobile                                                                                                               

Cairo                                                                                                                

Bencivenga                                                                                                      

Azzi                                                                                                                   

Caporali                                                                                                           

Calosso                                                                                                            

Corbino                                                                                                            

Gasparotto                                                                                                      

Ruini, Presidente della Commissione per la Costituzione                                      

Tonello                                                                                                            

Rossi Paolo                                                                                                      

Gronchi                                                                                                            

Russo Perez                                                                                                      

Votazione nominale:

Presidente                                                                                                        

Risultato della votazione nominale:

Presidente                                                                                                        

La seduta comincia alle 15.

AMADEI, Segretario, legge il processo verbale della seduta precedente.

(È approvato).

Congedi.

PRESIDENTE. Comunico che hanno chiesto congedo gli onorevoli Morelli Luigi, Rescigno, Benvenuti, Cingolani Mario, Guidi Cingolani Angela e De Caro Raffaele.

(Sono concessi).

Seguito della discussione del progetto di Costituzione della Repubblica italiana.

PRESIDENTE. L’ordine del giorno reca: Seguito della discussione del progetto di Costituzione della Repubblica italiana.

Nella seduta di ieri fu sospesa la votazione del terzo comma dell’articolo 45, per dar modo alla Commissione di esaminare alcuni emendamenti presentati.

Il terzo comma è del seguente tenore:

«Non può essere stabilita nessuna eccezione al diritto di voto se non per incapacità civile o in conseguenza di sentenza penale».

L’onorevole Colitto ha proposto di sostituirlo col seguente:

«Non può essere stabilita nessuna limitazione al diritto di voto se non per incapacità o in conseguenza di sentenza penale irrevocabile».

L’onorevole Mastino Pietro ha proposto di sostituirlo col seguente:

«Le eccezioni al diritto di voto sono stabilite nella legge».

L’onorevole Carboni ha proposto di sostituire alla parola: «eccezione» l’altra: «limitazione».

Chiedo alla Commissione di esprimere il suo parere.

MERLIN UMBERTO, Relatore. Dirò brevemente all’Assemblea le conclusioni cui siamo pervenuti su questo punto. La Commissione non si è trovata unanime, ma vi è stata una proposta del nostro Presidente, che ha ottenuto i maggiori consensi. L’onorevole Ruini presenta questa formula:

«Non può essere stabilita nessuna limitazione al diritto di voto se non per incapacità civile o in conseguenza di sentenza penale o in casi di indegnità morale indicati dalla legge».

È stato così accettato l’emendamento dell’onorevole Carboni.

La Commissione ha creduto prima di tutto di non poter accettare la formula, che è stata proposta dall’onorevole Mastino, appunto perché è troppo generica, in quanto dice: «Le eccezioni al diritto di voto sono stabilite dalla legge».

È evidente infatti che con questa formula noi non avremmo la possibilità di porre alcun limite, mentre la preoccupazione di una buona parte dei commissari è stata questa, che il legislatore di domani non possa fissare delle incapacità o delle limitazioni al diritto di voto per ragioni politiche.

Ma, d’altro canto, dopo avere esaminato l’articolo 2 del disegno di legge che detta le norme per la disciplina dell’elettorato attivo e per la tenuta delle liste elettorali presentato all’Assemblea il 21 aprile 1947, la Commissione ha avuto la esatta sensazione che sono gravi le obiezioni mosse sia dal collega onorevole Mastino che dal collega onorevole Micheli, perché in questo articolo 2 sono previsti nove casi di ineleggibilità o di privazione del diritto di voto, che non si possono dimenticare.

L’articolo 2 infatti dice: «Non sono elettori gli interdetti e gli inabilitati per infermità di mente»; e questo è già compreso nella nostra Costituzione, là dove si fa menzione della incapacità civile, con le quali parole si comprendono i minori di età, gli interdetti e gli inabilitati.

Ma poi la legge speciale prevede: i commercianti falliti; coloro che sono stati sottoposti alle misure di polizia del confino e dell’ammonizione; coloro che sono stati sottoposti a misure detentive o di libertà vigilata; coloro che sono stati condannati a pene che importano l’interdizione perpetua dai pubblici uffici; coloro che sono stati sottoposti all’interdizione temporanea dagli uffici pubblici; poi tutta una lista di condannati. Tutti costoro, evidentemente, sono compresi nella formula da noi proposta: «o in conseguenza di sentenza penale». Quindi non c’è dubbio che fin qui andiamo d’accordo. Ma poi ci sono i titolari, per esempio, dei locali di meretricio. Ora, questa formula è ripetuta anche in precedenti leggi elettorali. Non credo che l’Assemblea vorrà modificare questa disposizione la quale giustamente priva del diritto di voto dei cittadini certamente indegni.

Ora, riassumendo, possiamo noi – per quanto preoccupati in sommo grado che il legislatore non abbia a disalveare dal limite che noi intendiamo di fissargli – votare la formula precedente pura e semplice? No; o almeno alcuni membri della Commissione non hanno ritenuto che ciò sia possibile; hanno ritenuto che si possa e si debba ammettere un tertium genus, una terza via d’uscita, una possibilità di mettere la Costituzione in perfetto accordo con la legge elettorale di domani, perché le preoccupazioni del collega onorevole Micheli indubbiamente sono fondate e meritano considerazione.

Circa le varie categorie di cittadini privati del diritto di essere elettori, le disposizioni della legge, là dove si parla dei fascisti e di coloro che sono puniti o sono stati condannati per reati fascisti, sono già contenute nell’articolo 1 delle Disposizioni finali e transitorie. E fin qui andiamo perfettamente d’accordo. La disformità sorgerebbe nei riguardi dei commercianti falliti. A me sembra che quando noi diciamo «casi di indegnità morale» possa e debba essere compresa anche questa categoria di cittadini che non hanno fatto onore ai loro impegni, e che il legislatore possa determinare i limiti di tempo della privazione del diritto elettorale.

Poi ci sono coloro che sono sottoposti a misure di sicurezza detentive o a libertà vigilata. Basta leggere l’articolo 215 del Codice penale per sapere che cosa sono queste misure di sicurezza: assegnazione ad una colonia agricola o casa di lavoro, ricovero in case di custodia, manicomi giudiziari, riformatori; la libertà vigilata riguarda il divieto di soggiorno, il divieto di frequentare osterie, pubblici esercizi, e via dicendo. Pare a noi che con la formula proposta anche questi casi possano essere compresi. Ma quello che indubbiamente ci impensierisce e che ci ha indotto a presentare tale formula è che non sembri che l’Assemblea Costituente, per la preoccupazione che non si vada al di là di quelli che sono i limiti che essa intende porre, voglia per avventura dare proprio il diritto di voto a quei tali cittadini immeritevoli per ragioni morali che ho sopra ricordato.

Per cui, concludendo, la Commissione propone questa formula, pur non essendo stata perfettamente unanime su di essa; vedrà l’Assemblea se questa formula sodisfi il desiderio e l’aspirazione di coloro che hanno interloquito su questo argomento.

Mi permetto di fare anche un’altra osservazione: vi fu qualche collega che disse che la formula «in conseguenza di sentenza penale» non è sufficientemente esplicita; qualche altro ha temuto che vi fossero compresi anche i reati colposi. Nulla di tutto ciò.

Nella legge che ho sotto gli occhi e in tutte le leggi elettorali precedenti sono fissati i reati per i quali la condanna penale porta come conseguenza la perdita del diritto di voto.

Vi sono una quarantina di righe che comprendono tutti i reati più gravi: peculato, malversazione, concussione, corruzione e via dicendo – non li leggo per non annoiare la Assemblea –; sono esclusi i delitti colposi, come sono escluse in genere le contravvenzioni, meno alcune che il legislatore prevede.

Ora, non si può nella Costituzione prevedere tutta la casistica, riservata al legislatore; a me pare che per coloro che hanno dubbi possa valere l’interpretazione della Commissione, che cioè la sentenza penale definitiva (tranquillizzo così anche l’onorevole Colitto) non può essere che quella che condanna per questi specifici delitti previsti dalla legge speciale.

L’Assemblea deve pertanto decidere sul testo della Commissione, che noi desideriamo rimanga.

Poi c’è l’aggiunta: «o in casi di indegnità morale indicati dalla legge». Su questo punto ci rimettiamo all’Assemblea.

PRESIDENTE. Prego gli onorevoli Colitto e Mastino Pietro di dire se, dopo le dichiarazioni fatte dall’onorevole Merlin, mantengono gli emendamenti proposti.

COLITTO. Dopo le dichiarazioni fatte dall’onorevole Merlin non mantengo l’emendamento.

MASTINO PIETRO. Io non mantengo la proposta di emendamento, ma chiedo di potere rispondere a taluni degli argomenti indicati dall’onorevole Merlin.

PRESIDENTE. Onorevole Mastino, lei ha cinque minuti per farlo.

MASTINO PIETRO. L’onorevole Merlin ha riconosciuto in definitiva come la formula originariamente indicata nel progetto di Costituzione fosse per lo meno insufficiente e come quindi le critiche mosse ieri sera avessero consistenza. Anch’io avevo previsto l’eventualità d’una risposta, direi, avversaria, di questo genere, secondo cui col rimettere qualunque decisione alla legge (per esempio la legge elettorale) si sarebbe potuto incorrere nel pericolo che per ragioni politiche taluno potesse essere privato del voto. A tale eccezione io rispondevo mentalmente come vi sia tutta la Costituzione che, nell’organamento dei vari suoi articoli, rende impossibile questa eventualità. La Costituzione, come stabilisce e garantisce i diritti di libertà e di associazione, tanto più stabilisce e garantisce il diritto di voto. Pensavo anche come alla eccezione formulata dall’onorevole Merlin – il pericolo che s’impedisse l’esercizio del diritto di voto per ragioni politiche – non fosse salvaguardia assoluta neanche la formula del progetto di Costituzione, perché basta dire che il diritto di voto può essere vietato per incapacità civili per ammettere che domani si possa emanare una legge che trovi un’incapacità civile, eventualmente, anche nell’appartenenza ad un dato partito.

Trovo però – ed ecco perché non insisto nell’emendamento – che l’aggiunta alla formulazione del progetto, indicata oggi dalla Commissione per bocca dell’onorevole Merlin, supplisce in gran parte alla manchevolezza. Mi permetto tuttavia di dire che faccio mio l’emendamento ritirato dall’onorevole Colitto. Se si tratta di una sentenza penale che fa decadere dal diritto di voto, deve essere una sentenza penale definitiva perché dobbiamo distinguere fra l’esclusione del diritto di voto e la sospensione dell’esercizio del diritto di voto; l’esclusione dovrà essere conseguenza di una sentenza definitiva, quella non definitiva potrà portare alla conseguenza della sola sospensione dall’esercizio del diritto di voto.

MICHELI. Chiedo di parlare per dichiarazione di voto.

PRESIDENTE. Ne ha facoltà.

MICHELI. Sono lieto di constatare come la Commissione abbia dato ragione delle osservazioni presentate dal collega Mastino e da me nella seduta di ieri. Devo però dichiarare che la Commissione per l’esame delle leggi elettorali, nell’adunanza tenutasi stamane, non è stata concorde a questo riguardo. E quindi quanto dissi mantengo, personalmente e non più a nome della Commissione che presiedo. Ad ogni modo l’emendamento ora proposto dalla Commissione, eliminando la maggior parte delle difficoltà che avevo messo in rilievo, è senz’altro da me accettato; voterò quindi a favore di esso.

PRESIDENTE. Passiamo alla votazione del testo proposto dalla Commissione, tenendo conto che vi è un emendamento sostitutivo dell’onorevole Colitto, ritirato da questi ma fatto proprio dall’onorevole Mastino. Il nuovo testo della Commissione è il seguente:

«Non può essere stabilita nessuna limitazione al diritto di voto se non per incapacità civile o in conseguenza di sentenza penale o in casi di indegnità morale indicati dalla legge».

Pongo in votazione la prima parte così formulata:

«Non può essere stabilita nessuna limitazione al diritto di voto se non per incapacità civile o in conseguenza di sentenza penale».

(È approvata).

Pongo in votazione l’aggiunta proposta dall’onorevole Colitto con un emendamento fatto proprio dall’onorevole Mastino Pietro: «irrevocabile».

(È approvata).

Pongo in votazione la seconda parte del terzo comma: «o in casi di indegnità morale indicati dalla legge».

(È approvata).

L’articolo 45 risulta, nel suo complesso, così approvato:

«Sono elettori tutti i cittadini di ambo i sessi, al raggiungimento della maggiore età.

«il voto è personale ed eguale, libero e segreto. Il suo esercizio è dovere civico.

«Non può essere stabilita nessuna limitazione al diritto di voto se non per incapacità civile o in conseguenza di sentenza penale irrevocabile o in casi di indegnità morale indicati dalla legge».

Passiamo all’articolo 46:

«Ogni cittadino può rivolgere petizioni al Parlamento per chiedere provvedimenti legislativi o esprimere necessità d’ordine generale».

A questo articolo sono stati presentati alcuni emendamenti.

Il primo è quello dell’onorevole Ruggiero Carlo, già svolto:

«Sostituirlo col seguente:

«Ogni cittadino può rivolgere alle pubbliche autorità petizioni intese alla tutela di un interesse individuale o collettivo.

«Può altresì rivolgere petizione scritta al Parlamento per chiedere provvedimenti legislativi o esprimere necessità di ordine generale.

«Il Parlamento provvede a norma del suo regolamento».

Vi è poi l’emendamento dell’onorevole Colitto, del seguente tenore:

«Sostituirlo col seguente:

«Ogni cittadino, che abbia raggiunto la maggiore età, e le autorità costituite possono inviare petizioni alle Camere».

L’onorevole Colitto ha facoltà di svolgerlo.

COLITTO. L’articolo 46, nella formulazione proposta dalla Commissione, appare redatto così:

«Ogni cittadino può rivolgere petizioni al Parlamento per chiedere provvedimenti legislativi o esprimere necessità di ordine generale».

Io ho proposto che alle parole «ogni cittadino» siano aggiunte le altre «che abbia raggiunto la maggiore età». Questa aggiunta era già nell’articolo 57 dello Statuto albertino, e di questa aggiunta è parola nell’articolo 110 del Regolamento della Camera. A me pare che occorra questa aggiunta nel testo della Costituzione, perché non sembri che, eliminatosi quello che è nell’articolo 57 dello Statuto e nell’articolo 110 della Camera, il diritto di rivolgere petizioni alle Camere possa considerarsi un diritto anche del cittadino non maggiorenne.

Ho, poi, proposto che al verbo «rivolgere» sia sostituito il verbo «inviare». La ragione dell’emendamento mi sembra evidente. «Rivolgere» significa anche «presentare personalmente». Ora, in tutti i testi di diritto costituzionale che mi sono passati sotto gli occhi, ho avuto occasione di leggere che, allorquando all’epoca della rivoluzione francese venne dato al cittadino il diritto di presentare personalmente petizioni, fu così grande la folla dei cittadini, che si presentavano personalmente alle Camere, che molto apparve diminuito di fronte alla pubblica opinione il prestigio di esse.

Ho anche proposto che alle parole «al Parlamento», che si leggono nell’articolo 46, siano sostituite le altre: «alle Camere». Il Parlamento è l’insieme delle Camere. Ora non so quale sia l’opinione della Commissione; ma a me sembra che il diritto di petizione spetti al cittadino nei confronti di ciascuna delle Camere. Se si mantenesse, invece, fermo che il cittadino ha il diritto di rivolgere petizioni al Parlamento, si darebbe l’impressione che il cittadino ha diritto di rivolgersi all’insieme delle Camere e non a ciascuna di esse.

L’ultima proposta da me fatta è questa. Chiedo che siano eliminate le parole: «per chiedere provvedimenti legislativi o esprimere necessità d’ordine generale». A questo emendamento sono stato spinto dallo studio che ho compiuto dei lavori preparatori della prima Sottocommissione. Dagli stessi si rileva che l’onorevole Tupini propose, per questo diritto di petizione, una formula brevissima: «Il diritto di petizione è garantito». Poiché si sa in che cosa consista il diritto di petizione (tutta la dottrina giuspubblicistica lo spiega in una maniera molto chiara), la formula: «il diritto di petizione è garantito», potrebbe essere una formula da accettarsi. Ma ove questa formula non si voglia accogliere, a me pare che non sia necessario indicare le ragioni, per le quali il cittadino può esercitare il diritto di petizione.

Tali ragioni possono essere le più varie, le più disparate. Ora scrivendosi «per chiedere provvedimenti legislativi o esprimere necessità di ordine generale», si limita, e molto, il diritto del cittadino.

La Commissione sa benissimo che il diritto di petizione venne introdotto in Inghilterra non soltanto per richiamare l’attenzione del Parlamento sui bisogni del Paese, cui occorresse provvedere con legge, ma anche per lamentare gli abusi, che eventualmente le autorità amministrative dello Stato potessero commettere o avessero commesso.

Ora, non c’è ragione che il diritto di petizione non abbia anche questa seconda finalità. Se perciò venisse tenuta ferma la dizione dell’articolo 46 proposta dalla Commissione, quella finalità verrebbe senz’altro eliminata.

E non debbo tacere che la formulazione, dal punto di vista letterario, non è sodisfacente. Non mi pare letterariamente corretto dire che un cittadino ha il diritto di petizione, cioè di chiedere qualcosa per… esprimere necessità di ordine generale.

Io ho proposto, infine, che siano aggiunte le parole «e le autorità costituite» e la proposta sembrami giusta e perciò meritevole di accoglimento.

PRESIDENTE. L’onorevole Mortati ha presentato il seguente emendamento:

«Sostituirlo col seguente:

«Tutti i cittadini forniti del diritto di voto e gli enti, nell’ambito dei fini ad essi propri, possono rivolgere petizioni al Parlamento».

Ha facoltà di svolgerlo.

MORTATI. Lo ritiro.

PRESIDENTE. L’onorevole Della Seta ha presentato il seguente emendamento.

«Alle parole: Ogni cittadino può rivolgere, sostituire le altre: Tutti i cittadini, singolarmente o collettivamente, possono rivolgere».

Ha facoltà di svolgerlo.

DELLA SETA. Onorevole Presidente, onorevoli colleghi, la Repubblica, quale viene profilandosi in questo progetto di Costituzione, è una repubblica democratica, parlamentare, rappresentativa.

Il popolo governa se stesso, ma si governa attraverso i suoi legittimi rappresentanti; rappresentanti eletti per diritto di voto: con voto personale, libero, segreto.

Mi si permetta, per incidenza, di osservare che ieri non sono stato troppo convinto leggendo «voto eguale».

Con tutto il rispetto dovuto alla terminologia tecnica costituzionalistica, mettendomi nei panni del cittadino ignaro di questa terminologia, dichiaro che il «voto eguale» poco significa, anzi è molto oscuro. Se per «voto eguale» si vuole intendere voto «non plurimo» debbo ricordare che il contrapposto della «pluralità» è la «unicità» e non la eguaglianza. Ma, riprendendo il discorso, osservo che, in questo progetto, se la Repubblica, nel suo volto essenziale, è rappresentativa, ben vi sono delle norme che a questa Repubblica apportano una qualche nota che è propria della democrazia diretta.

Tale il diritto di petizione, consacrato in questo articolo 46. Tale, per la proposta delle leggi, il diritto di iniziativa popolare consacrato nell’articolo 68. Tale, per la sospensione e per l’abrogazione di una legge o per l’approvazione della stessa legge di revisione costituzionale, il diritto di referendum consacrato negli articoli 72 e 130.

Per quanto riguarda questo diritto di petizione non manca nel passato qualche esempio per cui esso veniva considerato come un diritto del cittadino di richiedere ai poteri costituiti, ad una Assemblea legislativa, anche ad una Assemblea Costituente, il riconoscimento di un qualche personale diritto o la riparazione di un qualche presunto torto ricevuto.

Un esempio ne abbiamo nella stessa Costituente della Repubblica romana del 1849, dove affluivano domande di singoli cittadini per rivendicare un qualche diritto o per chiedere la riparazione di un qualche torto.

Ma, in realtà, questo diritto di petizione deve intendersi, come dice bene il testo, «per chiedere provvedimenti legislativi o esprimere necessità d’ordine generale».

Ora, in rapporto a questa finalità collettiva, si deve presumere che la petizione possa assumere anche una forma collettiva. Vi possono essere cioè più cittadini i quali firmano una petizione per chiedere un provvedimento legislativo od esprimere una qualche necessità di carattere generale.

Ora, io non dico che sia stato intendimento della Commissione di escludere questo carattere collettivo della petizione; ma, basandosi sulla dizione dell’articolo «Ogni cittadino», al singolare, cioè, anziché al plurale, non potrebbe mancare un qualche leguleio o un qualche sofista del costituzionalismo, il quale potrebbe sostenere, avvalorando l’argomento con la dizione del successivo articolo 47, ove si dice: «Tutti i cittadini», che questo diritto di petizione appartiene esclusivamente ad un singolo cittadino.

Quindi, senza intaccare minimamente la sostanza dell’articolo, per maggior chiarezza, per eliminare un qualsiasi equivoco ho proposto questo emendamento che vorrebbe modificare l’articolo in questo senso: «Tutti i cittadini, singolarmente o collettivamente, possono rivolgere petizioni al Parlamento», ecc.

PRESIDENTE. Chiedo alla Commissione di esprimere il suo parere sugli emendamenti presentati.

MERLIN UMBERTO, Relatore. Prego i proponenti degli emendamenti di ritirarli per queste considerazioni.

L’emendamento dell’onorevole Ruggiero accenna, e vi ha insistito anche l’onorevole Colitto oggi, alla possibilità di presentare ricorsi, petizioni per la tutela di un interesse individuale.

Ora, a parte lo scarso uso che è stato fatto di questo diritto di petizione da quando si è cominciato ad ammetterlo (e si spiega questo scarso uso, perché con tutti i mezzi che ha oggi il cittadino di far valere i suoi diritti, di manifestarli attraverso la pubblica stampa, è chiaro come il diritto di petizione sia stato poco usato), sta di fatto che noi abbiamo ritenuto di dare questo diritto soltanto per provvedimenti legislativi o per esprimere necessità di ordine generale.

Guai se noi apriamo la valvola ed ammettiamo che possano i cittadini presentare ricorsi o petizioni al Parlamento anche per interessi individuali o, come ha detto Colitto, per denunciare abusi. Guai. Del resto io ho proprio letto in una di quelle relazioni che sono state presentate alla Costituente le parole del collega Mortati che calzano proprio su questo punto. Egli ricorda che i francesi hanno la «plainte» che è l’istanza personale, ma egli insiste nel dire che la petizione in senso proprio deve essere rivolta ad interessi obiettivi, generali, e cioè alla segnalazione di errori che siano commessi nell’applicazione del diritto vigente, ed alla proposta di riforme da apportare a questo. È solo in questi casi che al diritto di petizione può competere la inclusione nella categoria dei diritti politici.

Ora io prego i colleghi che hanno insistito su questo punto di considerare che il singolo cittadino, per i suoi casi personali, ha mille forme di reclamo, da quello che in precedenza veniva definito il reclamo straordinario al re e che oggi sarà il reclamo straordinario al Capo dello Stato, alle altre forme di reclamo alle autorità amministrative e politiche. Quindi non c’è bisogno che noi introduciamo nella Costituzione questo diritto che già è pacificamente attuato e riconosciuto con altre forme. Dunque, per evitare il pericolo che possano essere presentati una infinità di ricorsi di carattere personale, la Commissione ritiene che occorre mantenere il diritto di petizione nell’ambito suo naturale e cioè nella possibilità di chiedere soltanto provvedimenti legislativi o esprimere necessità di ordine generale. Poiché questa è invece la modificazione più profonda dell’emendamento Ruggiero, io ho detto le ragioni per le quali la Commissione non crede di accogliere la modifica e quindi pregherei il collega di non insistere anche perché il comma secondo si identifica con il nostro e l’ultimo è superfluo perché è evidente che saranno le future Camere che dovranno con il loro regolamento interno stabilire come le petizioni vengono presentate, le forme dell’istruttoria, la possibilità di ascoltare i petenti e le forme che saranno prescritte per la risposta.

II collega Colitto è sempre molto sottile nelle sue osservazioni e preciso, ma io osservo prima di tutto che le parole che «abbia raggiunto la maggiore età» mi pare che siano sottintese quando si dice «ogni cittadino».

È escluso che noi possiamo dare questo diritto ad un minorenne di otto, nove o dieci anni. Si intende ogni cittadino che abbia la capacità giuridica. Quindi io dico che sono parole superflue.

Quanto alle «Camere» in luogo del «Parlamento» io osservo che nella parola «Parlamento» sono comprese le due Camere e che l’aver usato noi nel nostro articolo la parola Parlamento viene incontro al suo desiderio, perché saranno proprio le due Camere che ammetteranno la presentazione all’una o all’altra o a tutte e due.

Resta la possibilità che il collega Colitto concede anche alle autorità costituite, ma nelle legislazioni e nelle Costituzioni precedenti – anche in quella albertina e nella Costituzione romana che ha ricordato il collega Della Seta – si parla sempre di un diritto da concedersi al cittadino perché è chiaro che l’ente pubblico, l’autorità costituita, ha mille altri mezzi per poter presentare i suoi reclami e le sue petizioni, per cui io insisterei nella formula proposta.

Resta l’ultimo emendamento del collega Della Seta. Ora, per quanto io abbia qui sott’occhio proprio il testo della Costituzione della Repubblica Romana e l’articolo 10 da cui il collega, da buon mazziniano, ha tratto il suo emendamento, io osservo questo: che quando si concede questo diritto all’individuo, lo si concede individualmente ed anche collettivamente, perché è chiaro che se più individui vorranno presentare una petizione anche collettivamente ciò non sarà escluso. Basterà che uno solo presenti la petizione, a nome di tutti e la petizione avrà ingresso ugualmente; se non la presenta uno solo, la presenteranno in molti, in cinquanta per esempio, ed allora si avrà la petizione collettiva che il collega desidera. Per questi motivi prego l’Assemblea di votare l’articolo così come è stato proposto dalla Commissione.

PRESIDENTE. Onorevole Ruggiero, intende mantenere il suo emendamento?

RUGGIERO CARLO. Sono dispostissimo a rinunziare all’emendamento, ma voglio dire due parole a giustificazione. Quando la legge, nel suo contenuto normativo, fa un riferimento preciso, vuol dire che essa intende escludere tutto quello che non si attiene a questo riferimento. La disposizione di legge: «Ogni cittadino può rivolgere petizioni al Parlamento», rigorosamente dovrebbe intendersi così: che ogni cittadino, mentre ha diritto di rivolgere petizioni al Parlamento, per quella valutazione rigorosa del testo legislativo di cui parlavo prima, dato che alle altre autorità pubbliche non si fa riferimento in questa disposizione, non può rivolgerle alle altre pubbliche autorità, come ad esempio al Prefetto…

RUINI, Presidente della Commissione per la Costituzione. Ma quella non è una petizione!

RUGGIERO CARLO. La mia proposta è contenuta nella Costituzione francese alla quale io mi sono rifatto. Mi pare che per questa ragione l’emendamento debba avere contenuto pratico e giuridico. In ogni modo, ripeto, non insisto sul mio emendamento.

PRESIDENTE. Onorevole Colitto, mantiene il suo emendamento?

COLITTO. Lo mantengo.

PRESIDENTE. Onorevole Della Seta, intende mantenere il suo emendamento?

DELLA SETA. Vi rinunzio.

PRESIDENTE. Non rimane che il testo della Commissione con l’emendamento proposto dall’onorevole Colitto. Mentre il testo della Commissione, nella prima parte parla del «cittadino», la proposta dell’onorevole Colitto parla «del cittadino che abbia raggiunto la maggiore età». Pongo in votazione la prima parte dell’emendamento dell’onorevole Colitto: «Ogni cittadino che abbia raggiunto la maggiore età».

(Non è approvata).

Pongo ora in votazione la formula proposta dalla Commissione: «Ogni cittadino».

(È approvata).

Pongo in votazione la formula dell’onorevole Colitto: «e le autorità costituite».

(Non è approvata).

Pongo in votazione la formula dell’onorevole Colitto: «possono inviare petizioni alle Camere».

(Non è approvata).

Pongo ora in votazione la formula della Commissione: «può rivolgere petizioni al Parlamento».

(È approvata).

Pongo in votazione l’ultima parte dello articolo sul testo della Commissione: «per chiedere provvedimenti legislativi o esprimere necessità d’ordine generale».

(È approvata).

L’articolo 46 risulta, nel suo complesso, così approvato:

«Ogni cittadino può rivolgere petizioni al Parlamento per chiedere provvedimenti legislativi o esprimere necessità d’ordine generale».

Passiamo ora all’articolo 47:

«Tutti i cittadini hanno diritto di organizzarsi liberamente in partiti per concorrere con metodo democratico a determinare la politica nazionale».

L’onorevole Ruggiero Carlo ha presentato il seguente emendamento, già svolto:

«Sostituirlo col seguente:

«Tutti i cittadini hanno il diritto di organizzarsi in partiti che si formino e concorrano, attraverso il metodo democratico, alla determinazione della politica nazionale».

Segue l’emendamento dell’onorevole Mastino Pietro:

«Sostituirlo col seguente:

«Tutti i cittadini hanno diritto di organizzarsi liberamente in partiti, per concorrere, nel rispetto delle libertà fondamentali e dei diritti garantiti dalla presente Costituzione, a determinare la politica nazionale».

L’onorevole Mastino Pietro ha facoltà di svolgerlo.

MASTINO PIETRO. La prima parte dell’articolo 47 così come è formulata nel progetto di Costituzione suona in questi termini: «Tutti i cittadini hanno diritto di organizzarsi liberamente in partiti». Questa dizione non ha necessità di emendamenti, perché mi pare che il diritto dei cittadini ad organizzarsi liberamente in partiti, sia necessaria conseguenza del diritto di libertà affermato nella Costituzione, e che, in un certo senso, rappresenti anche un dovere del cittadino partecipare all’amministrazione pubblica e alla vita politica della Nazione.

L’emendamento che io ho presentato è stato determinato invece dalla dizione della seconda parte dello stesso articolo 47, così formulato: «per concorrere con metodo democratico a determinare la politica nazionale».

Mi è parso che la frase: «con metodo democratico» potesse dar luogo ad equivoci, e nella opinione che il mio emendamento sia opportuno mi convincono gli emendamenti e le argomentazioni presentati da altri colleghi; in quanto gli emendamenti degli onorevoli Ruggiero e Mortati tendono a portare quel metodo democratico, di cui nell’articolo 47 si parla solo in rapporto al contributo che i partiti debbono portare nella politica nazionale, anche nell’organizzazione interna dei partiti stessi, e si dice che solo i partiti che si organizzano con metodo democratico hanno diritto di esistere. Nessuno pensi che io per un istante voglia difendere il diritto di esistenza di partiti antidemocratici. Intendo evitare, invece, che sotto il pretesto dell’affermato contenuto democratico taluni partiti, che democratici non sono, possano avere diritto di cittadinanza. Intendo col mio emendamento fare ricorso a statuizioni che rendano impossibile una eventualità del genere. Quando ad esempio in un disegno di legge, già presentato, si stabilì che non debba risorgere sotto nessuna forma il partito fascista, e quando con un altro (che credo sia decaduto con le dimissioni del Ministero) venne anche proposto che il partito monarchico non debba seguire metodi di violenza, nel tentativo di una resurrezione della monarchia, si è fatto ricorso soprattutto al fatto che un partito, il fascista, rinnegò qualunque libertà, e che l’altro, il monarchico, rinnegherebbe i principî di libertà ove seguisse metodi di violenza, vale a dire l’uno e l’altro disegno fecero riferimento non all’elastico principio del metodo democratico, ma all’obbligo di rispettare le libertà, all’obbligo di rispettare i diritti dei cittadini e, mi permetterei anche di aggiungere, l’ordinamento dello Stato. Sono questi i criteri ai quali noi ci dobbiamo riferire e sono questi i criteri che risorgono nella formulazione dell’emendamento da me proposto. Io voglio cioè evitare la possibilità che taluno dica che il suo partito è un partito democratico e neghi tale carattere a quel partito che, invece, sia democratico effettivamente.

Ed in materia ricordo – unicamente perché il mio ragionamento sia più chiaro, non perché vi sia una possibilità di riferimento fra il ricordo ed il mio enunciato – ricordo come, nel settembre del 1945, nel primo discorso da lui pronunciato come Presidente del Consiglio dei Ministri, l’onorevole Parri ebbe a suscitare proteste affermando che nessuno dei regimi anteriori al fascismo meritava la qualifica di democratico. Intervenne con la sua alta parola Benedetto Croce ed affermò che quelli erano stati non solo regimi liberali, ma anche democratici. Io porto questo esempio non perché calzi perfettamente all’attuale discussione, ma a dimostrare come, relativamente a quelli che sono i principî informatori della democrazia, anche in un campo ben più alto e diverso sorsero discussioni e dispute che stavano a dimostrare un divario assoluto di interpretazioni fra la tesi di Parri e la tesi di Benedetto Croce.

Questo pare, a mio avviso, che debba portare, onorevoli colleghi, all’accoglimento dell’emendamento da me formulato e che è in questi termini: «Tutti i cittadini hanno diritto di organizzarsi liberamente in partiti per concorrere, nel rispetto delle libertà fondamentali e dei diritti garantiti dalla presente Costituzione, a determinare la politica nazionale». A dimostrazione o riprova della esattezza di quanto affermo, ricordo – e non credo di aver frainteso – quanto è stato ieri sera stranamente sostenuto dall’onorevole Ruggiero, perché dimostra la pericolosità della via in cui ci metteremmo ove ci riferissimo all’elastico criterio del metodo democratico. Ieri, l’onorevole Ruggiero ha detto che a decidere sulla eventuale democraticità di un partito debba essere niente di meno che il Governo.

Immaginate voi dove potrebbe andare a finire la democrazia di un partito nell’interpretazione di un Governo che per avventura non fosse democratico.

Queste le ragioni, onorevoli colleghi, per le quali credo che sia giustificato l’emendamento da me proposto.

PRESIDENTE. L’onorevole Mortati ha presentato il seguente emendamento:

«Tutti i cittadini hanno diritto di raggrupparsi liberamente in partiti ordinati in forma democratica, allo scopo di assicurare, con la organica espressione delle varie correnti della pubblica opinione ed il concorso di esse alla determinazione della politica nazionale, il regolare funzionamento delle istituzioni rappresentative.

«La legge può stabilire che ai partiti in possesso dei requisiti da essa fissati, ed accertati dalla Corte costituzionale, siano conferiti proprî poteri in ordine alle elezioni o ad altre funzioni di pubblico interesse.

«Può inoltre essere imposto, con norme di carattere generale, che siano resi pubblici i bilanci dei partiti».

Ha facoltà di svolgerlo.

MORTATI. Ritiro l’emendamento che ho presentato e lo sostituisco con un altro formulato d’accordo con l’onorevole Ruggiero, che ritira anche il suo perché concorda con il mio. Questo nuovo testo dice così: «Tutti i cittadini hanno diritto di riunirsi liberamente in partiti che si uniformino al metodo democratico nell’organizzazione interna e nell’azione diretta alla determinazione della politica nazionale».

Questo testo nella sostanza riproduce quello proposto dalla Commissione, limitandosi ad una più precisa esplicazione del concetto in esso implicito. Mentre infatti l’articolo 47, nella formulazione proposta dalla Commissione, parla di diritto di organizzarsi liberamente in partiti per concorrere con metodo democratico a determinare la politica nazionale, qui vi è invece una specificazione relativa alla democraticità dell’organizzazione interna dei partiti stessi.

Mi pare che tutti coloro che voteranno a favore dell’articolo 47 – e credo si tratti della maggioranza, perché non v’è alcuna proposta di soppressione di questo articolo – potranno facilmente indursi a dare anche il consenso a questa esplicazione che io propongo, nel senso della democraticità dell’organizzazione interna, la quale appare consona a tutto lo spirito della nostra Costituzione.

Noi abbiamo disposto infatti che questa democraticità si attui non solo nell’organizzazione dei poteri statali, bensì anche in tutti gli organismi inferiori di carattere non solo pubblico, ma anche privato. Abbiamo infatti stabilito l’obbligo della democratizzazione dei sindacati, delle aziende private, attraverso i consigli di gestione: abbiamo parlato di spirito democratico persino per l’esercito. Mi pare che sarebbe assai strano prescindere da questa esigenza di democratizzazione proprio nei riguardi dei partiti, che sono la base dello Stato democratico.

È nei partiti infatti che si preparano i cittadini alla vita politica e si dà modo ad essi di esprimere organicamente la loro volontà, è nei partiti che si selezionano gli uomini che rappresenteranno la nazione nel Parlamento. Mi pare quindi che non si possa prescindere anche per essi dall’esigere una organizzazione democratica.

Sorgono tuttavia dei dubbi; dubbi a cui ha fatto cenno l’onorevole Ruggiero: e che consistono nella preoccupazione che mediante la richiesta di un’organizzazione interna democratica si possa limitare la libertà di formazione dei partiti, a cagione dei necessari accertamenti che essa esige. Io penso che questi accertamenti non dovrebbero consistere in altro che nel deposito degli statuti e, per quanto riguarda il giudizio della conformità di questi statuti al metodo democratico, bisognerà organizzare delle garanzie tali da avere la sicurezza che si possa impedire la sopraffazione da parte dei partiti dominanti a danno delle minoranze. Io avevo proposto l’intervento della Corte costituzionale. Si potrebbe anche pensare a organismi formati dalle rappresentanze degli stessi partiti esistenti in condizione di pariteticità.

Insisto perciò sull’accoglimento di questo emendamento.

PRESIDENTE. Segue l’emendamento dell’onorevole Sullo già svolto:

«Sostituire l’articolo 47 col seguente:

«Hanno diritto al riconoscimento giuridico tutti i partiti, democraticamente costituiti, mediante i quali i cittadini intendano con il metodo della libertà concorrere a determinare la politica del Paese».

Segue un emendamento dell’onorevole Di Giovanni, già svolto:

«Sostituire la particella: per, con la congiunzione: e».

Segue un emendamento dell’onorevole Bellavista:

«Aggiungere il seguente comma:

«Le leggi della Repubblica vietano la costituzione di partiti che abbiano come mira la instaurazione della dittatura di un uomo, di una classe o di un gruppo sociale, o che organizzino formazioni militari o paramilitari.

«Qualora l’emendamento non fosse approvato, aggiungere, nel testo attuale dell’articolo, dopo la parola: metodo, le parole: e programma».

L’onorevole Bellavista ha facoltà di svolgerlo.

BELLAVISTA. Onorevoli colleghi, quale che sia la sorte dei vari emendamenti presentati, compreso quello che sto illustrando, appare certo sin da ora che la formulazione dell’articolo 47, così come sorge dal progetto di Costituzione, non sembra sodisfacente, se da diversi settori della Camera appunti e critiche si sono ad essa rivolti. Ed è subito facile rendersene conto, perché, nella giusta preoccupazione del progetto di assicurare le garanzie della democraticità ai partiti, si è unicamente volto il pensiero ad una funzione strumentale, ad una funzione di mezzo, nella quale un partito esercita nella lotta politica nazionale la sua attività; e si è invece per l’opposto trascurato completamente il fine che un partito, che un’organizzazione politica può proporsi.

Questo sorge evidente dalla parola «metodo», che attiene alla strumentalità della azione che il partito svolge nella lotta politica nazionale, ma non certamente attiene alla funzione teleologica, allo scopo che detto partito persegue. E anche dal punto di vista strumentale la formulazione è apparsa certamente imprecisa all’onorevole Ruggiero, che col suo emendamento – cui ha aderito anche l’onorevole Mortati – intendeva far rilevare questo appunto: che si può essere democratici ab extra, ma si può essere antidemocratici ab intra; un partito, cioè, può svolgere la sua attività nell’agone politico nazionale democraticamente, rispettoso, ligio alle regole della democrazia, ma può nel suo interno essere retto da un principio che capovolga il principio di Archimede della democrazia, che vada cioè non dal basso verso l’alto, ma che dall’alto discenda invece verso il basso. Ed è perciò che io porto una adesione generica a questa parte dell’emendamento dell’onorevole Ruggiero, nei riguardi del quale le critiche garbate rivolte dal collega onorevole Mastino non pare abbiano raggiunto il segno; perché, se non ho male inteso, secondo il collega onorevole Ruggiero, non già il Governo doveva essere giudice di questa strumentale democraticità di un partito, ma la Corte costituzionale che è prevista dal nostro stesso progetto di Costituzione.

Ma l’emendamento che io propongo, non tanto alla strumentalità del partito attiene, quanto alla sua funzione, al suo scopo. Noi non dobbiamo dimenticarci che alcuni partiti sono arrivati al potere in forma perfettamente democratica ma, una volta impadronitisi del potere, hanno instaurato la più feroce, la più durevole – purtroppo – delle dittature. È il caso di Hitler in Germania; è il caso di Mussolini in Italia. (Interruzione dell’onorevole Schiavetti).

Sì, è vero, le violenze purtroppo possono essere soltanto un dato sintomatico del partito; ma si distinguerà come al solito – e come si è distinto già – fra il fatto dei pochi e il fatto dei molti. Allora invece veramente si sarebbe rivelato – se fosse esistita una Costituzione quale quella che noi stiamo fabbricando – che il partito fascista era diretto alla dittatura, quando dalla violenza degli squadristi si cominciò ad esaltare il mito soreliano della violenza, si proclamò santa la violenza. Ora, è chiaro che un partito che fa le elezioni, ma che esalta il mito soreliano della violenza, è un partito nemico della democrazia e noi dobbiamo difenderci contro questo pericolo.

Del resto, non vale opporre che nella prima delle disposizioni finali sia prevista espressamente – in obbedienza anche ad una precisa norma del Trattato di pace – la proibizione della creazione, sotto qualsiasi forma, del partito fascista. Il legislatore deve essere presbite quanto più può e non miope, perché non si può prevedere quanti partiti possano sorgere e si propongano quale fine mediato o immediato la dittatura. Del resto, possono sorgere organizzazioni le quali abbiano come scopo la distruzione dello Stato: l’anarchismo, contro cui si difendono tutti gli Stati, rappresenta un partito che è certamente diretto contro la democrazia perché è diretto contro lo Stato democratico.

Ora, se è vero che la dolorosa esperienza ventennale passata – e per la quale ha versato lacrime e sangue la gran maggioranza innocente del popolo italiano – ci ha insegnato qualche cosa, noi dobbiamo premunirci contro il risorgere di una dittatura, la quale rievochi la formula ricordata dal Tasso degli «orli del vaso» cosparsi di «soave licor» da porgere all’«egro fanciul», ma che in fondo non muta l’amore e il tossico contenuti nel vaso. Noi dobbiamo premunirci contro il ritorno della dittatura ed essere espliciti non soltanto quanto alla strumentalità ma quanto alla finalità che un partito può proporsi.

Se noi avremo fatto questo noi avremo ascoltato nella democrazia la grande parola di Voltaire per la quale egli combatteva l’opinione contraria, ma combatteva fino alla morte perché il contradittore avesse il diritto di dirla e di sostenerla. (Applausi a destra).

PRESIDENTE. L’onorevole Colitto ha presentato il seguente emendamento:

«Aggiungere il seguente comma:

«Sono proibite le organizzazioni politiche, il cui scopo sia quello di privare il popolo dei suoi diritti democratici».

Ha facoltà di svolgerlo.

COLITTO. Rinuncio al mio emendamento ed aderisco a quello dell’onorevole Bellavista, e, nel caso che questo non sia approvato, a quello dell’onorevole Mortati.

PRESIDENTE. È stato presentato un emendamento aggiuntivo da parte degli onorevoli Clerici, Pignedoli, Franceschini, Sullo, Codacci Pisanelli, Bovetti, Foresi, De Palma, Coppi, Benvenuti, Mastino Gesumino, del seguente tenore:

«La carriera di magistrato, di militare, di funzionario ed agente di polizia e di diplomatico, comporta la rinunzia alla iscrizione a partiti politici».

L’onorevole Clerici ha facoltà di svolgerlo.

CLERICI. Onorevoli colleghi, dirò brevi parole. La disposizione che testé l’onorevole Presidente ha letto ha questo valore: stabilire chiaramente che per alcune categorie soltanto – ma, a mio modesto avviso, queste categorie debbono essere precisate dalla Costituzione – gli appartenenti ad esse debbono, durante la loro carriera e a ragione della loro carriera, essere esclusi od aver limitato il diritto di iscrizione a partiti politici. E queste categorie si riducono a quattro in tutto: i magistrati per primi; la disposizione è già nel progetto di Costituzione all’articolo 94, e ricordo alla Costituente che recenti manifestazioni di magistrati, attraverso Assemblee delle curie e perfino votazioni per referendum in proposito, hanno dato – per quel che risulta dai giornali – una strabocchevole maggioranza a favore dell’esclusione dei magistrati dall’appartenenza a partiti politici.

Credo che proprio il Ministro Ruini, con circolare 285 del 6 giugno 1944, mentre ancora ferveva la guerra in Italia, concesse e giustamente in quel momento, abolendo una disposizione fascista, il diritto ai magistrati di iscriversi ai partiti politici. Credo cioè che quella circolare rispondesse ad esigenze storiche spiegabili in quel momento, allorquando si era ancora nella guerra combattuta, ed allorquando si dovevano fare delle affermazioni ideali contro le disposizioni fasciste. Ma oggi, dal momento che è stato scritto l’articolo 94, e dal momento che una volontà restrittiva è stata confermata dalla stragrande maggioranza degli interessati, io credo che una limitazione sia opportuna, e che debba essere messa nella Carta costituzionale.

In secondo e terzo luogo gli agenti ed i funzionari di pubblica sicurezza ed i militari costituiscono due categorie che, quasi quotidianamente, devono prendere provvedimenti particolarmente rappresentativi dell’autorità dello Stato, e spiacenti ai cittadini che li subiscono. Essi perciò, come la moglie di Cesare, devono essere insospettabili. Si tratta certo di una limitazione di un loro diritto, si tratta di un sacrificio: ma la limitazione e la rinunzia sono necessarie, perché queste categorie di funzionari siano insospettabili nelle loro decisioni rispetto agli altri cittadini.

La quarta ed ultima categoria che mi sono permesso di indicare è quella dei diplomatici. S’intende, i diplomatici di carriera.

Infatti il testo dice: «carriera di magistrati, di militare, di funzionario ed agente di polizia e di diplomatico». Restano quindi esclusi dalla disposizione i magistrati onorari; i militari in servizio non permanente, fra gli altri gli ufficiali di complemento che rimangono ufficiali anche quando non prestano servizio; e quei diplomatici, che in via eccezionale sono presi dall’ambiente politico ed incaricati di missioni straordinarie. Ma io credo che nella carriera diplomatica ordinaria il rappresentante presso uno Stato estero o presso una comunità italiana all’estero debba necessariamente presentarsi non come il rappresentante di un partito politico ma soltanto come un funzionario dello Stato che lo invia in sua rappresentanza.

Ritengo quindi che con queste limitazioni la mia proposta possa essere accettata, in quanto non viene a ferire il principio dell’eguaglianza dei diritti di tutti i cittadini. Rimangono, infatti, fermi ed intatti, anche per queste quattro categorie di funzionari, tutti gli altri diritti; non soltanto per l’elettorato attivo ma anche per l’elettorato passivo. Il diritto di eleggibilità è conservato. Potranno i magistrati ed i militari di carriera essere elevati a cariche elettive nelle amministrazioni comunali, provinciali o regionali che siano, nel Parlamento nazionale, ma saranno eletti quali indipendenti come vi sono già oggi degli indipendenti tra i deputati di parecchi partiti anche di estrema sinistra.

Ritengo quindi che la disposizione possa essere accettata tranquillamente dalla democrazia di questa Camera. (Interruzioni).

Riconosco che il mio emendamento può essere suscettibile di modificazioni, soprattutto formali, ma il concetto che deve rimanere è questo: è proibita l’iscrizione ai partiti soltanto agli appartenenti alle indicate categorie di funzionari, il che significa che costoro restano liberi nella vita privata di seguire quelle idealità e quelle teorie che meglio rispondono alle loro convinzioni. (Applausi al centro).

PRESIDENTE. L’onorevole Relatore ha facoltà di esprimere il parere della Commissione sugli emendamenti presentati.

MERLIN UMBERTO, Relatore. Io devo difendere soltanto il testo come è stato presentato nella proposta di progetto di Costituzione. L’articolo dice così: «Tutti i cittadini hanno il diritto di organizzarsi liberamente in partiti per concorrere con metodo democratico a determinare la politica nazionale». Faccio osservare che è la prima volta che in una Carta statutaria entrano i partiti con una propria fisionomia, con una propria organizzazione e quindi con la possibilità domani che a questi partiti si affidino dei compiti costituzionali. La proposta era stata già presentata nel progetto della Costituzione francese, ma poi non è stata inclusa. Noi andiamo più in là: noi concediamo ai partiti tale possibilità. Faccio osservare ai colleghi che notevoli correnti di pensiero nel Paese si adombrano di questa introduzione dei partiti nella Costituzione, quindi è bene non esagerare e cominciare con la formula proposta.

La Commissione, di fronte alla realtà dei partiti, ha creduto che convenga riconoscerla, possibilmente disciplinarla e domani anche fissare i compiti costituzionali che a questi partiti saranno concessi. Già oggi qualche cosa è in atto; già oggi in quest’Assemblea noi siamo organizzati in Gruppi; già oggi è notevole l’influenza che nella vita politica del Paese i partiti esercitano soprattutto per esempio in periodo di crisi. Quindi noi non facciamo che riconoscere una realtà obiettiva che già esiste. Però la Commissione – ed io in questo momento esprimo il parere collettivo della Commissione – non ha voluto eccedere in questo suo riconoscimento, non ha voluto andare al di là di quelle che possono essere per il momento le concessioni da fare, non ha voluto cioè entrare a controllare la vita interna dei partiti. Ora, tanto l’emendamento del collega Ruggiero come l’emendamento del collega Mastino, come quello anche del collega Mortati e del collega Sullo e peggio ancora l’emendamento del collega Bellavista vogliono ottenere un controllo interno nella vita dei partiti, che sarebbe quanto meno eccessivo. Bisognerebbe chiederne gli statuti, conoscerne l’organizzazione, chiedere anche (come fu scritto in relazioni presentate al Ministero della Costituente) i bilanci dei partiti e conoscere i mezzi finanziari di cui essi dispongono. Ora, è possibile tutto questo? È lecito tutto questo? Quali pericoli presentano tali possibilità, e poi chi eserciterebbe questo controllo? Dovrebbero forse provvedere dei commissari nominati dal Governo? La questione è molto delicata ed io esorto l’Assemblea, per il desiderio del meglio, a non provocare il peggio, sollevando ostilità che indubbiamente una proposta di questo genere susciterebbe. Perché, come negli individui il delitto è punito quando si estrinsechi in atti concreti all’esterno e non si vanno a ricercare le intenzioni o a fare dei processi all’interno della mente di ogni individuo, così non è lecito dubitare, sospettare della vita dei partiti all’interno. Saranno colpiti e puniti se essi all’esterno compiranno degli atti contro le nostre istituzioni. Quindi non c’è bisogno di fissare questo principio. Se un partito si organizzerà militarmente come prevede uno degli emendamenti; se un partito farà quello che prevede l’onorevole Bellavista o altro partito farà quello che ha preveduto l’onorevole Mastino, potrà cadere sotto le disposizioni del Codice penale ed essere sciolto di autorità dal Governo.

Noi non dobbiamo qui preoccuparci di questo. Noi dobbiamo, la prima volta in cui veniamo a riconoscere l’esistenza giuridica del partito, col proposito di dare poi ad esso determinati compiti, limitarci soltanto a riconoscere che questo partito, all’esterno, con metodo democratico, concorra a determinare la politica nazionale. Nulla più di questo; e se chiedessimo di più, potremmo andare incontro a pericoli maggiori di quelli che vogliamo evitare.

Osservo, come ho detto ieri riassumendo la discussione generale, che ognuno di questi articoli esigerà una legge particolare. In quella sede potremo, eventualmente, discutere di tutto quello che sta a cuore dei colleghi su questo punto, ma oggi no.

E perciò io prego gli onorevoli colleghi di ritirare gli emendamenti e di votare il testo proposto dalla Commissione.

Non posso accettare nemmeno la modificazione proposta dall’onorevole Di Giovanni, che riguarda la particella «per», perché la Commissione ha voluto proprio quella particella, che è espressiva nel concetto logico che lega tutte le parole dell’articolo 47.

PRESIDENTE. Chiederò ai presentatori di emendamenti se intendano mantenerli.

Onorevole Mastino, mantiene il suo emendamento?

MASTINO PIETRO. Lo mantengo.

PRESIDENTE. Onorevole Mortati, mantiene il suo emendamento?

MORTATI. Lo mantengo.

PRESIDENTE. Onorevole Sullo, mantiene il suo emendamento?

SULLO. Lo ritiro.

PRESIDENTE. Non essendo l’onorevole Di Giovanni presente, il suo emendamento si intende decaduto.

Onorevole Bellavista, mantiene il suo emendamento?

BELLAVISTA. Lo mantengo.

MERLIN UMBERTO, Relatore. Chiedo di parlare.

PRESIDENTE. Ne ha facoltà.

MERLIN UMBERTO, Relatore. Mi sono dimenticato di rispondere al collega Clerici, per l’ultima parte dell’articolo 47.

Io prego il collega Clerici di ritirare il suo emendamento.

Per quel che riguarda i magistrati, ne riparleremo in sede opportuna, cioè all’articolo 94, terzo comma.

Per quel che riguarda le altre categorie di cittadini, la Commissione non crede di dovere imporre delle limitazioni, che colpirebbero diecine e forse centinaia di migliaia di persone.

Per i magistrati i quali, a parte la ristrettezza del numero, hanno un ufficio delicato, obiettivo ed impersonale, si potrà, a suo tempo, discutere la norma prevista; ma per tutte le altre categorie di cittadini – funzionari, militari e perfino agenti di polizia e diplomatici – la Commissione non ritiene di potere accettare l’emendamento proposto dall’onorevole Clerici.

PRESIDENTE. Onorevole Clerici, insiste nel suo emendamento?

CLERICI. Insisto.

PRESIDENTE. La prima parte dell’articolo 47 nel testo proposto dalla Commissione è del seguente tenore:

«Tutti i cittadini hanno diritto di organizzarsi liberamente in partiti».

Gli onorevoli Mortati e Ruggiero hanno proposto di sostituire alla parola: «organizzarsi», l’altra: «riunirsi». Pongo in votazione la formula:

«Tutti i cittadini hanno diritto di riunirsi liberamente in partiti».

(È approvata).

 

Passiamo alla seconda parte dell’articolo: «per concorrere con metodo democratico a determinare la politica nazionale».

L’onorevole Mastino ha proposto la seguente formula: «per concorrere, nel rispetto delle libertà fondamentali e dei diritti garantiti dalla presente Costituzione, a determinare la politica nazionale».

Gli onorevoli Mortati e Ruggiero hanno proposto la seguente formula: «che si uniformino al metodo democratico nella organizzazione interna e nell’azione diretta alla determinazione della politica nazionale».

TARGETTI. Chiedo di parlare per dichiarazione di voto.

PRESIDENTE. Ne ha facoltà.

TARGETTI. Il mio Gruppo respingerà tutti gli emendamenti presentati a questo articolo, per attenersi al testo presentato dalla Commissione.

Come ha detto l’onorevole Merlin, è la prima volta che una Costituzione si occupa dei partiti; è la prima volta che i partiti entrano in una Carta costituzionale.

Aggiungeva l’onorevole collega che il desiderio di migliorare la norma ci fa correre il rischio di peggiorarla. Noi siamo persuasi di questa verità, trattandosi di una materia così difficile a essere regolamentata che rimane sempre il dubbio se non sarebbe stato meglio non regolamentarla in alcun modo.

In quanto poi al particolare emendamento presentato dal collega Clerici, noi siamo decisamente contrari al concetto che l’ispira.

Potremmo osservare anzitutto che la forma è tale che non esprime un concetto molto chiaro quando si tiene presente che siamo in tema di Costituzione. Perché dire che la carriera di magistrati, militari, ecc., importa la rinunzia alla iscrizione nei partiti politici non significa una proibizione di iscrizione di questi funzionari ai partiti politici, ma sembra più che altro adombrare, anziché un divieto legale, un divieto morale, spirituale, per il quale debba il magistrato rinunziare a questo diritto.

Ma a parte questo, la questione è per noi una questione di sostanza, che ha prevalenza sulla forma.

A noi ripugna di limitare per qualsiasi categoria di cittadini l’esercizio di un diritto fondamentale per un cittadino in regime di democrazia, cioè quello di partecipare alla vita politica.

Ed è per queste considerazioni che noi nell’elaborazione del progetto di Costituzione, nella parte relativa al potere giudiziario, fummo contrari a porre questo divieto al magistrato.

MORO. Chiedo di parlare per dichiarazione di voto.

PRESIDENTE. Ne ha facoltà.

MORO. Dichiaro che voteremo a favore dell’emendamento Mortati riguardante i partiti politici; e voteremo a favore, perché pensiamo che, dopo aver stabilito, come è stato fatto giustamente, il carattere democratico della vita interna dei sindacati, sia opportuno sancire eguale disposizione per quanto riguarda i partiti. Noi abbiamo presenti quelle preoccupazioni che sono state fatte valere, e cioè che sulla base di una norma relativa ai partiti si cominci un’attività tendente a limitarne l’opera nella vita politica del Paese.

Ed è per questa ragione che fin dal primo momento, in sede di Commissione, noi, d’accordo con altri colleghi, ci opponemmo a che fosse posta una norma relativa al cosiddetto carattere democratico delle mire perseguite dai partiti. Noi pensiamo che un richiamo alla democraticità della meta perseguita dai partiti sia cosa veramente pericolosa, in quanto il controllo che fosse stabilito potrebbe di volta in volta condurre ad impedire l’attività di determinati partiti sulla base del presunto carattere antidemocratico del loro programma.

E da questo punto di vista io rilevo che anche l’emendamento Mastino, contro il quale noi votiamo, non esclude questo pericolo, in quanto, parlando di diritti e di libertà fondamentali sanciti nella Costituzione, potrebbe per esempio indurre ad escludere dalla vita democratica del Paese partiti che propugnano una determinata struttura sociale la quale incida, per esempio, sul diritto di proprietà garantito dalla stessa Costituzione.

Per la stessa ragione siamo contrari all’emendamento Bellavista, in quanto anche qui si parla di mire, di programmi, e si sa quanto sia pericoloso un controllo stabilito sulle intenzioni e sui propositi.

Ma, poste da parte queste formulazioni, ci sembra che non si possa riscontrare alcun pericolo nel richiamo non solo al carattere democratico della prassi politica nella quale operano i partiti, ma anche al carattere democratico della loro struttura interna. Si tratta di organismi i quali devono operare con metodo democratico quale è universalmente riconosciuto, ed è evidente che, se non vi è una base di democrazia interna, i partiti non potrebbero trasfondere indirizzo democratico nell’ambito della vita politica del Paese.

Non credo che vi sia su questo punto alcun pericolo. Si tratta soltanto di stabilire che l’organizzazione interna debba ispirarsi a principî democratici, escluso ogni controllo intorno ai programmi e intorno alle mire remote dei partiti, cose queste che darebbero luogo veramente a pericoli che vogliamo evitare. Per questa ragione voteremo in favore dell’emendamento Mortati.

LACONI. Chiedo di parlare per dichiarazione di voto.

PRESIDENTE. Ne ha facoltà.

LACONI. Nel chiarire le ragioni per cui il mio Gruppo voterà per il mantenimento della primitiva formulazione di questo articolo, io desidererei richiamare l’attenzione della Assemblea sull’estrema gravità degli emendamenti che sono stati proposti. Forse da parte di taluno dei presentatori si è potuto pensare che l’introduzione di un riferimento all’ordinamento democratico interno dei partiti possa rivolgersi contro l’uno o contro l’altro settore di questa Assemblea, o contro l’una o l’altra parte dello schieramento politico nazionale. In realtà si rivolge contro tutto lo schieramento politico ed in particolare contro quei partiti che in un determinato momento non si trovino al Governo. Io mi chiedo quale efficacia avrebbe un riferimento di questo genere se esso non comportasse un controllo sull’ordinamento interno dei partiti, ed allora noi dobbiamo chiedere in quale misura e attraverso quali organi questo controllo potrà essere domani esercitato dallo Stato. È evidente che organi di questo controllo potrebbero unicamente essere o il Governo o la Corte costituzionale. Tengo a far considerare all’Assemblea che accettare gli emendamenti proposti vorrebbe dire che domani la maggioranza parlamentare, di cui tanto il Governo quanto la Corte saranno espressione, potrebbe entrare nella vita interna dei partiti di minoranza.

Noi sappiamo bene a quanti abusi una cosa di questo genere si potrebbe prestare. Le preoccupazioni a questo riguardo non devono quindi sorgere nell’animo di una parte di noi, ma in tutti noi, in tutti i settori di questa Assemblea perché tutti abbiamo interesse a che le minoranze possano liberamente organizzarsi.

Non chiederemo dunque nessuna garanzia ai partiti per l’ordinamento interno? Ma una tale garanzia e un tale controllo vi sono di fatto e vi saranno sempre più, a mano a mano che si svilupperà la vita democratica del Paese; ed è il controllo che gli aderenti stessi esercitano nel proprio partito. Tutti i partiti, infatti, hanno statuti e norme sancite negli statuti alle quali gli aderenti possono sempre appellarsi. Questo è un controllo legittimo ed efficace. Io non credo che il modo migliore per controllare che un partito abbia un ordinamento democratico possa consistere nell’intervento di altri partiti o di organi da essi direttamente o indirettamente controllati. Credo, anzi, che questo si presti a qualsiasi possibilità di intervento illecito e di intromissione nella vita degli altri partiti, soprattutto se di minoranza. Per questo desidererei che l’Assemblea fosse unanime nel respingere gli emendamenti proposti in questo senso.

Una proposta ancora più avanzata mi è parsa quella formulata dall’onorevole Bellavista, il quale chiede non soltanto il controllo sull’organizzazione interna dei partiti, ma anche sulle intenzioni e sugli scopi che i partiti possono proporsi. È probabile che l’onorevole Bellavista abbia presentato questa proposta in quanto sapeva che sarebbe stata respinta, perché non è credibile che egli ritenga di appartenere ad un settore che possa essere immune da qualsiasi sospetto, riguardo alle intenzioni. Entrando in un processo alle intenzioni sarebbe, per il suo settore, difficile esentarsi dalle conseguenze della sua proposta.

Per le ragioni che ho esposte, dichiaro che il mio Gruppo voterà per il mantenimento della formulazione originaria e desidero far rilevare che l’approvazione di questi emendamenti sarebbe di enorme danno per lo sviluppo della democrazia italiana e per il libero svolgimento della vita interna dei partiti.

CODIGNOLA. Chiedo di parlare per dichiarazione di voto.

PRESIDENTE. Ne ha facoltà.

CODIGNOLA. Desidero richiamare l’attenzione di tutti i settori dell’Assemblea sulla gravità delle conseguenze che potrebbero derivare dall’accettazione dell’emendamento Mortati, e vorrei che l’Assemblea su questo emendamento evitasse di creare schieramenti che potrebbero essere artificiosi. Ho difatti l’impressione che in merito a questo emendamento vi sia da una parte dell’Assemblea l’intenzione di dare ad esso una interpretazione determinata, mentre, come giustamente ha indicato il collega Laconi, le preoccupazioni, che sono in alcuni di noi, dovrebbero essere condivise da tutti i colleghi di tutti i settori: poiché effettivamente, se passasse questo emendamento, noi verremmo a sopprimere una delle garanzie fondamentali della vita democratica del Paese; in quanto trasferiremmo il giudizio sulla democraticità interna dei partiti dalla sede costituzionale alla sede politica, e cioè alla maggioranza parlamentare, o peggio ancora al Governo, espressione di questa maggioranza parlamentare, che verrebbe in qualsiasi momento a disporre dei poteri di intervenire arbitrariamente nella vita democratica del paese e nella vita interna dei partiti di qualsiasi settore.

Io credo che nessun partito possa essere così sicuro di sé, anche se oggi è un partito di maggioranza, da poter accettare ad occhi chiusi una limitazione così grave per la democrazia del Paese. Se, in sede costituzionale, si dovesse entrare nel merito del problema che stiamo discutendo, allora la discussione dovrebbe essere molto più ampia, perché dovremmo stabilire i limiti di attività dei partiti e i loro poteri, dovremmo porre il problema del riconoscimento della loro personalità giuridica, e dovremmo affrontare tutta una serie di altre questioni di carattere costituzionale. Ma, se questo non si fa, l’unica soluzione accettabile è quella proposta dalla Commissione, che si astiene dall’entrare nel problema della organizzazione interna dei partiti. Invero, se noi entrassimo in questo problema senza chiarire quali saranno i poteri, quali gli organi che avranno facoltà di determinare se un partito sia nella sua organizzazione interna democratico o no, accetteremmo un principio assolutamente arbitrario. Penso quindi che il problema debba essere guardato con la massima obiettività da tutti i settori dell’Assemblea e che l’emendamento Mortati-Ruggiero debba essere respinto.

C’è poi un emendamento dell’onorevole Mastino Pietro, che non si discosta dalla formulazione proposta dalla Commissione se non per richiamare in modo particolare le condizioni generali di vita dei partiti nella realtà democratica, secondo i principî già affermati dalla Costituzione. L’onorevole Mastino ha tenuto a meglio precisare che la vita dei partiti deve essere subordinata al rispetto di quelle libertà fondamentali che sono state già riconosciute in sede costituzionale. Ritengo che l’emendamento Mastino, pur non contradicendo alla formulazione della Commissione, abbia meglio determinato questo concetto; e perciò il nostro Gruppo voterà contro l’emendamento Mortati-Ruggiero e si dichiara favorevole all’emendamento dell’onorevole Mastino; ove poi cadesse l’emendamento Mastino, accetterà la formulazione della Commissione.

BELLAVISTA. Chiedo di parlare.

PRESIDENTE. Ne ha facoltà.

BELLAVISTA. Io dichiaro di rinunciare al mio emendamento, sia nella forma principale che in quella subordinata, e ciò dico perché me ne hanno fatto convinto, non tanto le osservazioni dell’onorevole Laconi (al quale per ricambiare gentilezza per gentilezza io debbo ricordare il broccardetto excusatio non petita) quanto le osservazioni più ponderate dell’onorevole Moro. Aderisco quindi, anche a nome del Gruppo cui appartengo, all’emendamento congiunto Mortati-Ruggiero.

LUCIFERO. Chiedo di parlare per dichiarazione di voto.

PRESIDENTE. Ne ha facoltà.

LUCIFERO. Onorevoli colleghi, io ho ritenuto, insieme con i settori contrapposti della Camera, di non poter votare nemmeno la prima parte di questo articolo, perché confesso sinceramente che io quest’articolo non l’ho capito: non l’ho capito nella prima parte, né nelle fioriture di emendamenti che seguono questa prima parte. Il diritto dei cittadini di organizzarsi in partiti politici, onorevoli colleghi, è quel diritto di associazione che abbiamo già sancito e consacrato, ed io non vedo quale altra sanzione e quale altra garanzia dobbiamo dare a degli uomini liberi di associarsi, per perseguire fini comuni, se non quelle di consacrare il loro diritto di associarsi a qualunque fine che la legge consenta. Né abbiamo il diritto di stabilire limiti a questa associazione, perché i limiti sono dati dalla legge. Se una associazione di cittadini, in campo politico, come in qualunque altro campo, viola quelle che sono le leggi che la Nazione si è data, la Nazione, attraverso i suoi strumenti, colpirà questa associazione, che non è più una associazione legale, ma illegittima. Ma se queste associazioni nelle loro azioni, nei fini che perseguono, nei loro metodi sono legittime e consone alle leggi del Paese, queste associazioni, per il solo diritto di associarsi, hanno diritto di cittadinanza e non hanno bisogno di altre garanzie.

Queste altre garanzie significano, per me, una sottrazione di garanzie; perché il voler fare una particolare menzione di partiti politici, in una particolare sede, con delle particolari definizioni, vuol dire porre a queste particolari associazioni politiche di liberi cittadini delle limitazioni, che sono limitazioni alla loro libertà. Ed io mi domando se ad un certo momento noi non ci troveremo di fronte ad uno «statuto tipo» imposto dalla maggioranza (e su questo concordo con l’onorevole Laconi) ai partiti di minoranza. Perché quando l’onorevole Merlin dice che per la prima volta un partito politico o i partiti politici assumono una forma costituzionale in un Paese, io debbo dirgli che, se non nella forma scritta, nella sostanza questo è già avvenuto, ed è avvenuto purtroppo anche da noi, appunto quando i partiti politici si sono prese determinate funzioni che non sono loro, perché funzioni costituzionali e non più di azione politica; le quali hanno condotto da noi, come negli altri Paesi, a situazioni che deprechiamo e che vogliamo non si ripetano più.

Dichiaro, pertanto, che ritengo tutto questo articolo una violazione di quella libertà di associazione che abbiamo già consacrata e che, come ho votato contro la prima parte, io voterò contro ogni emendamento, perché sono del parere che qualunque cittadino e gruppo di cittadini hanno il diritto di agire e di associarsi, nell’ambito delle leggi e della legalità, secondo le condizioni proprie, per il bene del Paese, senza il beneplacito, l’exequatur o il consenso di nessuna maggioranza.

CORSINI. Chiedo di parlare per dichiarazione di voto.

PRESIDENTE. Ne ha facoltà.

CORSINI. Dichiaro che voteremo a favore dell’emendamento Mortati-Ruggiero, e ciò per le ragioni già abbondantemente esposte da altri colleghi e che non starò a ripetere. A queste ragioni ne vorrei aggiungere altre due: la prima è che a noi, come partito che attualmente si trova in minoranza, non sembra di dover avere alcun timore di quanto è detto in questo emendamento, in quanto l’eventuale controllo che viene demandato alla Corte costituzionale ci garantisce la più assoluta imparzialità. La seconda ragione è che a noi sembra che il nostro Paese abbia molto bisogno di apprendere i metodi democratici, e che pertanto oltre alla palestra che si può fare nelle amministrazioni civiche, l’esercizio del sistema democratico, anche nell’interno dei partiti, potrà essere molto più utile a chi si dispone ad avviarsi alla carriera politica.

PRESIDENTE. Onorevole Mortati, mantiene il suo emendamento?

MORTATI. Dichiaro di ritirarlo; faccio osservare però che il mio emendamento presentava, come ho già spiegato, un carattere semplicemente esplicativo di quella che è la formulazione del testo della Commissione. Il mio emendamento era stato anche ispirato dal consenso che mi pareva si fosse eloquentemente manifestato in questa Assemblea. (Commenti).

Ricordo che l’onorevole Calamandrei, parlando in sede di discussione generale, si è pronunciato nel senso di affermare l’esigenza che la Costituzione non ignori il fenomeno dei partiti. Inoltre l’onorevole Basso, il quale già in sede di Commissione aveva anch’esso sostenuto questo punto di vista, ha ribadito qui in Assemblea l’esigenza di una regolamentazione dell’ordinamento dei partiti. L’onorevole Saragat ha egli pure ribadito la stessa necessità, ed anzi si è spinto fino al punto di richiedere che, nei riguardi dei partiti, venga adottata quella stessa disposizione che noi abbiamo sancita per la stampa, quella cioè relativa al controllo o alla pubblicità dei bilanci.

Vi è stato quindi un coro di voci favorevoli a tale orientamento; ed appunto a questo coro di voci si era ispirato il mio emendamento. Poiché mi avvedo che questi consensi, che apparivano così chiari e concordanti, sono venuti meno, non desidero esporre ad un sicuro insuccesso la mia proposta, e quindi la ritiro, pur riaffermando il bisogno che uno Stato, il quale voglia poggiare su basi saldamente democratiche, non possa tollerare organismi politici che non si ispirino anche nella loro struttura interna a sistemi e a metodi di libertà.

RUGGIERO CARLO. Chiedo di parlare.

PRESIDENTE. Ne ha facoltà.

RUGGIERO CARLO. Mi associo alle dichiarazioni fatte dall’onorevole Mortati.

PRESIDENTE. Resterebbe pertanto solo l’emendamento presentato dall’onorevole Mastino Pietro.

MASTINO PIETRO. Dichiaro di ritirarlo.

BELLAVISTA. Chiedo di parlare.

PRESIDENTE. Ne ha facoltà.

BELLAVISTA. Io ho rinunciato al mio emendamento per ripiegare su quello presentato dagli onorevoli Mortati-Ruggiero; ora che essi lo ritirano, dichiaro di farlo mio. (Approvazioni).

PRESIDENTE. Sull’emendamento Mortati-Ruggiero, fatto proprio dall’onorevole Bellavista, è stata chiesta la votazione per appello nominale dagli onorevoli Laconi, Negro, Saccenti, Barontini Ilio, Sicignano, Secchia, Pellegrini, Bardini, Iotti Leonilde, Nobile, Minio, Molinelli, Togliatti, Cremaschi Olindo, Fantuzzi.

Chiedo ai presentatori della richiesta se la mantengono.

LACONI. La ritiriamo.

PRESIDENTE. Pongo in votazione lo emendamento Mortati Ruggiero fatto proprio dall’onorevole Bellavista: «…che si uniformino al metodo democratico nella organizzazione interna e nell’azione diretta alla determinazione della politica nazionale».

(Non è approvato).

Pongo quindi in votazione il testo della Commissione: «…per concorrere con metodo democratico a determinare la politica nazionale».

(È approvato).

Passiamo all’emendamento aggiuntivo proposto dall’onorevole Clerici e altri:

«La carriera di magistrato, di militare, di funzionario ed agente di polizia e di diplomatico, comporta la rinunzia alla iscrizione a partiti politici».

A questo proposito ho ricevuto la seguente richiesta:

«I sottoscritti chiedono che la discussione dell’emendamento aggiuntivo all’articolo 47 presentato dall’onorevole Clerici sia rinviata a domani, secondo l’articolo 90 del Regolamento».

Schiavetti, Mastino Pietro, Codignola, Piemonte, Cianca, Lussu, Bonomelli, Pressinotti, Carpano, Fioritto, Nenni, Pistoia, Bennani, Filippini, Lombardi Riccardo.

In base al Regolamento, la discussione si intende pertanto rinviata a domani.

L’articolo 47 risulta, nel suo complesso, così approvato:

«Tutti i cittadini hanno diritto di riunirsi liberamente in partiti, per concorrere con metodo democratico a determinare la politica nazionale».

L’onorevole Benvenuti ha proposto il Seguente articolo 47-bis:

«Nessun cittadino può essere perseguitato, incriminato o comunque punito a motivo della professione, diffusione o propaganda delle proprie opinioni politiche, né a motivo dell’attività politica comunque svolta nelle forme e nei limiti della Costituzione.

«Tuttavia la legge reprime e punisce ogni atto diretto a provocare con la violenza il mutamento o l’abbattimento delle pubbliche istituzioni, ovvero ad impedire l’esercizio della sovranità popolare e dei diritti politici inviolabili su cui tale esercizio si fonda».

L’onorevole Benvenuti ha facoltà di svolgere il suo emendamento.

BENVENUTI. Dato il carattere dell’articolo, ritengo che la sua sede più opportuna sia il Titolo VI della seconda Parte della Costituzione «Garanzie costituzionali».

Sostanzialmente la finalità dell’articolo aggiuntivo è quella di coprire con una norma di non incriminabilità tutte le attività politiche svolte nell’ambito della Costituzione; quindi non soltanto l’esercizio dei diritti previsti dalla prima Parte, ma tutte le attività politiche, anche quelle concretamente disciplinate nella Parte seconda. Quindi ritengo che il tema diventerà di attualità quando discuteremo delle garanzie costituzionali, in quanto lo formuleremo in modo che valga ad estendere questa particolare garanzia costituzionale a tutte le attività politiche sia a quelle previste dalla prima Parte, quanto a quelle previste dalla seconda Parte del testo costituzionale.

PRESIDENTE. Allora lei si riserva di ripresentare questo articolo aggiuntivo al Titolo VI. Sta bene.

Passiamo all’articolo 48:

«Tutti i cittadini d’ambo i sessi possono accedere agli uffici pubblici in condizioni d’eguaglianza, conformemente alle loro attitudini, secondo norme stabilite da legge.

«Per l’adempimento delle funzioni pubbliche ogni cittadino ha diritto di disporre del tempo necessario e di conservare il suo posto di lavoro».

MERLIN UMBERTO, Relatore. Chiedo di parlare.

PRESIDENTE. Ne ha facoltà.

MERLIN UMBERTO, Relatore. Prima che l’Assemblea passi a discutere ed esaminare le proposte di emendamento presentate all’articolo 48, comunico che questa mattina la Commissione ha redatto un nuovo testo dell’articolo 48, di cui – col permesso dell’onorevole Presidente – do lettura:

«Tutti i cittadini di ambo i sessi possono accedere alle cariche elettive e agli uffici pubblici in condizioni di eguaglianza, secondo le norme stabilite dalla legge.

«I cittadini hanno il dovere di adempiere alle funzioni loro affidate con disciplina ed onore, prestando giuramento nei casi stabiliti dalla legge.

«Per l’adempimento delle funzioni pubbliche elettive ogni cittadino ha diritto di disporre del tempo necessario e di conservare il suo posto di lavoro».

Le ragioni che hanno indotto la Commissione a queste modifiche possono essere brevemente esposte.

Il primo comma ripete quello che già l’Assemblea trova nel testo stampato; soltanto toglie un inciso che aveva sollevato contro la Commissione le proteste di tutte le donne che hanno l’onore di sedere in questa Assemblea. La Commissione ha aderito alla loro proposta ed ha corretto il primo comma dell’articolo 48.

Il secondo comma ha questo scopo: quando arriveremo all’articolo 51 comunicherò all’Assemblea che la Commissione ha deciso di rinviare questo articolo del giuramento a quando si parlerà dei singoli organi costituzionali, perché la formulazione dell’articolo 51 presentava delle manchevolezze. Vale a dire, per essere ben chiari, non che la Commissione rinunci all’articolo sul giuramento, ma la Commissione chiederà che se ne parli quando si tratterà del Capo dello Stato, dei magistrati, e così via. Ma siccome vi sono anche coloro che sono investiti di pubbliche funzioni, la Commissione – aderendo alla proposta fatta dall’onorevole Mortati – ha proposto la formulazione di questo secondo comma nei seguenti termini: «I cittadini hanno il dovere di adempiere alle funzioni loro affidate con disciplina ed onore, prestando giuramento nei casi stabiliti dalla legge». Il terzo comma è identico a quello dell’articolo 48.

LUCIFERO. Chiedo di parlare.

PRESIDENTE. Ne ha facoltà.

LUCIFERO. Non mi dilungo in questa sede sul contenuto sostanziale della comunicazione dell’onorevole Merlin e dell’emendamento proposto. Fo soltanto notare che questo è un emendamento proposto dalla Commissione, ma che l’articolo originario approvato dalla Commissione dei settantacinque rimane come base di discussione, perché questo non è che un emendamento proposto dalla Commissione in fase di discussione e non può elidere l’articolo redatto dalla Commissione dei settantacinque. Questo per la chiarezza, perché altrimenti potrebbe sembrare che la proposta fatta dal Comitato di redazione venisse ad infirmare la proposta della Commissione dei settantacinque i cui membri non sono stati in proposito interpellati tutti su questa ultima proposta.

PRESIDENTE. Invito l’onorevole Relatore a pronunciarsi sul rilievo dell’onorevole Lucifero.

MERLIN UMBERTO, Relatore. Accetto l’interpretazione del collega Lucifero, che mi pare giusta.

PRESIDENTE. Sta bene. Do lettura del nuovo testo dell’articolo 48 proposto dal Comitato di redazione:

«Tutti i cittadini di ambo i sessi possono accedere alle cariche elettive e agli uffici pubblici in condizioni di uguaglianza secondo le norme stabilite dalla legge.

«I cittadini hanno il dovere di adempiere alle funzioni loro affidate con disciplina ed onore, prestando giuramento nei casi stabiliti dalla legge.

«Per l’adempimento delle funzioni pubbliche elettive ogni cittadino ha diritto di disporre del tempo necessario e di conservare il suo posto di lavoro».

Passiamo allo svolgimento degli emendamenti. L’onorevole Mortati ha presentato il seguente emendamento:

«Sostituirlo col seguente, che fonde in unica norma anche l’ultima parte dell’articolo 45:

«Tutti i cittadini di ambo i sessi, forniti dei requisiti stabiliti dalla legge, possono accedere, in condizioni di uguaglianza, alle cariche elettive ed agli altri uffici pubblici.

«È garantito ad essi il diritto di disporre del tempo necessario per l’adempimento delle funzioni pubbliche, e quello di conservare il posto di lavoro.

«I cittadini hanno il dovere di accettare le cariche onorarie e di adempiere le funzioni loro affidate con fedeltà ed onore».

L’onorevole Mortati ha facoltà di svolgerlo.

MORTATI. Ritiro l’emendamento, in quanto concordo con il nuovo testo proposto dal Comitato, che è stato sottoscritto anche da me.

PRESIDENTE. Le onorevoli Federici Maria, De Unterrichter Jervolino Maria, Guidi Angela, Noce Teresa, Iotti Leonilde, Delli Castelli Filomena, Nicotra Maria, Gotelli Angela, Gallico Spano Nadia, Titomanlio Vittoria, Mattei Teresa, Bianchini Laura, Montagnana Rita hanno presentato il seguente emendamento:

«Sostituire il primo comma col seguente:

«Tutti i cittadini di ambo i sessi possono accedere agli uffici pubblici in condizione di uguaglianza».

L’onorevole Federici Maria ha inoltre presentato il seguente emendamento:

«Al primo comma, sopprimere le parole: conformemente alle loro attitudini, secondo norme stabilite dalla legge».

L’onorevole Federici Maria ha facoltà di svolgere gli emendamenti.

FEDERICI MARIA. Onorevoli colleghi, noi donne di tutti i settori dell’Assemblea abbiamo colto un’intenzione particolare nell’articolo 48, e cioè che si volesse limitare alle donne la possibilità di accedere ai pubblici uffici o alle cariche elettive; questa intenzione abbiamo colto precisamente nelle due frasi contenute nell’articolo proposto dalla Commissione, dove si dice: «conformemente alle loro attitudini, secondo le norme stabilite dalla legge».

Noi vediamo in questa formulazione due barriere che desideriamo siano abbattute. Oltre tutto la dizione «conformemente alle loro attitudini» ci è sembrata pleonastica, perché non solamente per le carriere o per le cariche elettive, ma per tutte le manifestazioni del lavoro si deve verificare la possibilità che chi lavora segua la propria attitudine. Questo evidentemente è un principio fondamentale.

Se mai questa disposizione poteva rientrare nell’articolo 31. Quando si discusse su quest’articolo, onorevole Presidente, dichiarai di rinviare lo svolgimento dell’emendamento, che riguardava l’articolo 31, perché aveva riferimento con l’articolo 48; mi sembrò allora e mi sembra ora che là dove si dice che ogni cittadino ha il diritto di concorrere allo sviluppo materiale o spirituale della società secondo le proprie possibilità, fosse opportuno aggiungere anche «secondo le proprie attitudini». Non qui.

Così si sarebbe liberato questo articolo dall’aggiunta, conseguendo una maggiore coerenza del testo. Poiché le attitudini non si provano se non col lavoro, escludere le donne da determinati lavori significherebbe non provare mai la loro attitudine a compierli.

Ma evidentemente qui c’è l’idea di creare una barriera nei riguardi delle donne. E tuttavia che cosa può far pensare che le donne non siano capaci di accedere a posti direttivi? E che le donne non possano accedere alle cariche pubbliche, alle cariche dello Stato? È un pregiudizio, un preconcetto. E del resto tutta la storia delle affermazioni femminili dimostra che sempre si sono dovuti superare dei preconcetti.

Dobbiamo dunque arrivare a superare anche questa barriera. Abbiamo condotto le donne alle cattedre, le abbiamo ammesse negli ospedali in funzione di medici, le abbiamo ammesse nei laboratori chimici, le abbiamo ammesse dappertutto e mi pare che nessuno possa disconoscere la loro capacità di lavoro e il contributo da esse portato a tutte le attività, anche culturali e scientifiche.

Abbiamo fatto, evidentemente, rispetto alla situazione di qualche secolo fa, dei progressi. Vorrei ricordare che nel ’700 l’Accademia dei Trasformati si occupò a lungo di questa questione: se la donna potesse o no occuparsi di studi liberali e intraprendere carriere scientifiche. Molti risposero negativamente. Vi fu soltanto uno che, osservando come l’intelletto della donna penetrasse laddove penetra quello dell’uomo, concluse che non c’era bisogno di porre alcuna limitazione.

Se non vogliamo che da qui a qualche tempo qualcuno ricordi in un’Assemblea come questa il bizzarro concetto limitativo che con l’articolo 48 potrebbe essere introdotto e che ci porrebbe presso a poco sul piano dell’Accademia dei Trasformati, bisogna far sì che cada dalla nostra Costituzione ogni barriera frapposta alla donna. Credo poi che parlare di norme di legge qui sia ozioso, poiché tutte le disposizioni della Costituzione dovranno realizzarsi in norme di legge, espresse dalla legislazione positiva. Lasciamo cadere questa seconda barriera. Accetterei ben volentieri la formulazione presentata dall’onorevole Mortati, cioè quella che dice: «Tutti i cittadini forniti dei requisiti stabiliti dalla legge» ecc. ecc. Questo in nessun modo potrebbe offendere una donna perché, per esempio, in un ospedale c’è la medichessa e c’è la portantina. Ora una donna sarà ammessa a fare la portantina non solo perché non saprà fare la medichessa, ma perché avrà requisiti particolari: età, robustezza ecc. Quindi parlare di requisiti è cosa ben diversa che parlare di attitudini; e allora in questo senso potremmo accettare una limitazione o una dichiarazione che dica che ci sarà una legge che determinerà i requisiti richiesti per particolari incarichi.

La Commissione, nel proporre il nuovo comma, ha mantenuto: «secondo le norme stabilite dalla legge». Vorrei sapere se la Commissione, anziché questa formulazione, accetta l’altra: «secondo requisiti stabiliti dalla legge». Onorevoli colleghi, se vogliamo fare una Carta Costituzionale veramente democratica dobbiamo abolire, una volta per sempre, ogni barriera e ogni privilegio che tenda a spingere le donne verso settori limitati, all’unico fine di tagliare ad esse la via d’accesso a tutti gli uffici pubblici e cariche elettive. Sono molte le carriere oggi interdette alle donne. Per esempio, molte funzioni ispettive, molti concorsi sono ad esse preclusi, da quelli delle scuole superiori (liceo) a taluni delle Belle Arti; e non se ne vede la ragione. Abbiamo visto, del resto, che l’ammissibilità ai pubblici impieghi è conseguenza dell’uguaglianza giuridica riconosciuta a tutti i cittadini nei confronti dello Stato.

Pensando diversamente, verremmo a infirmare questo concetto fondamentale, che tutti i cittadini cioè sono uguali davanti alla legge. Ricordo poi, ed è ormai un principio accolto da tutte le Costituzioni, che il sesso non deve più essere un fattore discriminante per il godimento dei diritti civili e sociali. È strano che la donna, che pur paga le tasse e sopporta tutti gli oneri della vita sociale, non debba poi avere la possibilità di poter procedere nelle carriere in condizione di uguaglianza con gli uomini. Spero che sia l’ultima volta che una Costituzione debba menzionare, per rivendicarli, i diritti della donna; l’ultima volta che si debbano rivendicare alla donna i suoi diritti nei confronti dell’uomo. Con questo non vogliamo dire che desideriamo abbassare queste barriere perché le donne debbano procedere e conquistare posti non in armonia con le loro attitudini e con le loro più profonde aspirazioni. Non vogliamo neppure dire che esse debbano occupare posti assolutamente inadeguati alla loro femminilità. Anzi, sappiamo e vogliamo che la donna, come regina della casa, debba chiedere alla stessa Costituzione ed ottenere di potersi occupare dell’educazione dei figli, del governo della propria casa. Questa è la corona della donna. Ma la donna dovrà fare liberamente la sua scelta, seguendo il suo spontaneo desiderio, guidata dalla educazione o da altri elementi di valore anche spirituale, mai per ragione di una ingiustizia che la offende profondamente.

PRESIDENTE. Gli onorevoli Targetti, Laconi, Merlin Umberto, De Michelis, Merlin Angelina, Costa, Scotti Francesco, Vigna, Barbareschi e Amadei, hanno presentato il seguente emendamento:

«Sostituire il primo comma col seguente:

«Tutti i cittadini d’ambo i sessi possono accedere alle cariche elettive e agli uffici pubblici in condizioni di uguaglianza secondo le norme stabilite dalla legge».

Poiché l’onorevole Targetti ha sottoscritto anche il nuovo testo del Comitato di redazione, penso che egli rinunzi a questo emendamento.

TARGETTI. D’accordo: l’emendamento è assorbito dal nuovo testo presentato e svolto dall’onorevole Umberto Merlin e da me sottoscritto.

PRESIDENTE. L’onorevole Della Seta ha presentato il seguente emendamento:

«Dopo il primo comma, inserire il seguente:

«Ogni patto che deroghi a tale norma è considerato come nullo».

Ha facoltà di svolgerlo.

DELLA SETA. Onorevole presidente, onorevoli colleghi, la vita sempre più complessa dello Stato porta ineluttabilmente ad aumentare i pubblici funzionari. D’altra parte, v’è anche la esigenza di diminuire il numero di questi funzionari, però retribuendoli meglio, in misura rispondente alle odierne mutate condizioni di vita.

Ma, indipendentemente da questa considerazione, è certo diritto incontestabile per ogni cittadino accedere ai pubblici impieghi, quando alla dignità morale sia congiunta la intellettuale capacità.

Ora, molto serenamente, molto obiettivamente, ma per dovere di esame, debbo rilevare che con questo diritto di accedere ai pubblici impieghi contrasta il famoso articolo 5 del Concordato. Per questo articolo, è noto, il cittadino ex sacerdote, il quale sia stato irretito da censura ecclesiastica, per quelle che sono state o sono le sue opinioni scientifiche, filosofiche o teologiche, non può accedere agli impieghi che lo mettano in diretto contatto col pubblico, non può, in modo particolare, accedere al pubblico insegnamento.

Strano destino questo dell’articolo 5, il quale si presenta ad ogni angolo della Costituzione, per fissare in essa la nota della contraddittorietà.

Con l’articolo 7 si sancisce l’eguaglianza dei cittadini dinanzi alla legge; questo articolo contrasta coll’articolo 5.

Con l’articolo 16 si sancisce la libertà del pensiero; questo articolo contrasta coll’articolo 5.

Con l’articolo 27 si afferma la libertà dell’insegnamento; questo articolo contrasta coll’articolo 5.

Ora, con questo articolo 47, si afferma il diritto del cittadino di accedere ai pubblici impieghi; ed ecco anche quest’articolo contrasta con l’articolo 5 del Concordato.

Mi si potrebbe dire: ingenuo che tu sei, non sai che ormai, con l’articolo 7 della Costituzione, l’articolo 5 del Concordato fa parte della Costituzione stessa?

Ora, lasciatemi, per un istante, la ingenuità di non sapere quello che so di sapere.

Più volte nell’Aula si è ripetuto che certe norme della Costituzione hanno il carattere di un orientamento, hanno il carattere di una proiezione nel futuro.

Lasciatemi la libertà di proiettarmi anch’io nel futuro; e valga modestamente il mio emendamento come una speranza, come un augurio; l’augurio che, sempre lasciando libera e rispettata la Chiesa nell’esercizio del suo magistero spirituale, una volta abolito questo articolo 5, realmente, senza nessun’altra norma che sia contradittoria, siano consacrati nella Costituzione la vera uguaglianza dei cittadini dinanzi alla legge, la vera libertà del pensiero, la vera libertà di insegnamento, il vero diritto per ogni cittadino di accedere ai pubblici impieghi.

Non ho altro da aggiungere.

PRESIDENTE. L’onorevole Persico ha presentato un emendamento del seguente tenore:

«Sostituire alle parole: d’ambo i sessi le parole: senza distinzione di sesso».

Ha facoltà di svolgerlo.

PERSICO. La ragione è molto semplice. Abbiamo già approvato un articolo 3, in cui è detto: «senza distinzione di sesso».

Non vedo la ragione di adottare una formula ambigua ed anche poco estetica.

Credo che gli onorevoli colleghi saranno soddisfatti di questo mio emendamento, che corrisponde al testo della Costituzione già approvato all’articolo 3.

PRESIDENTE. Chiedo il parere della Commissione sugli emendamenti.

MERLIN UMBERTO, Relatore. Rispondo brevemente.

Per quanto riguarda l’ottima collega onorevole Federici, che è così buona, ma quando si tratta di difendere i diritti delle donne diventa così fiera, io credevo che la Commissione l’avesse pienamente sodisfatta. Vuol dire che è stata una mia ingenuità; vuol dire che io verso le donne non ho molte attrattive, perché non riesco a persuaderle.

La Commissione aveva aggiunto «tutti i cittadini d’ambo i sessi possono accedere alle cariche elettive».

Ora, queste parole aggiungono qualche cosa a quello che desiderano le donne, esse non possono lagnarsene.

L’unico inciso che può turbarle è questo: «secondo le norme stabilite dalla legge».

Ora io dico questo: nella mia relazione sono scritte parole verso le donne così riguardose e così piene di ammirazione per la loro opera, che esse non possono dubitare dei miei sentimenti. (Si ride).

Io ho concesso tutto quello che si chiedeva.

Ma è proprio possibile che nella Carta costituzionale non ammettiamo in nessun modo che il legislatore ordinario possa, eventualmente, credere le donne inadatte per qualche funzione? Io, per esempio, vi domanderei: accettereste di andare a fare le carceriere in un carcere di uomini? E viceversa, vi sono dei casi particolari in cui al legislatore una piccola libertà di poter fissare dei limiti o delle condizioni e di poter dire che le donne sono adatte o inadatte per una funzione particolare, si deve pur lasciare. Perciò pregherei di accettare la formula che noi proponiamo e che può sodisfare completamente il desiderio dell’onorevole Federici e delle sue colleghe.

FEDERICI MARIA. Volevo far presente all’onorevole Merlin che forse egli non mi ha ascoltato bene quando io ho parlato. Io accetterei i «requisiti stabiliti dalla legge».

MERLIN, Relatore. Accettiamo questa aggiunta: così siamo d’accordo e facciamo la pace. (Si ride).

Altri emendamenti non sono stati presentati, ad eccezione di quello del collega Della Seta. A questo emendamento rispondo che la Commissione lo ritiene superfluo, ed equivoco dopo quanto ho detto.

È chiaro che ogni patto che deroghi alla norma fissata dalla legge costituzionale è nullo.

DELLA SETA. Ma non è questo; il mio emendamento lo aggiungo al secondo comma.

MERLIN UMBERTO, Relatore. Allora lei vuol risollevare questioni già decise dall’Assemblea con gli articoli precedenti ed il suo emendamento non può essere accettato.

PRESIDENTE. Onorevole Federici, nel testo che lei ha proposto vi è ancora una diversità. Nel suo testo si parla solo di accesso agli uffici pubblici, mentre nel testo della Commissione si parla anche delle cariche elettive.

FEDERICI MARIA. Evidentemente accetto.

PRESIDENTE. Onorevole Della Seta, mantiene l’emendamento?

DELLA SETA. Lo ritiro.

PRESIDENTE. Onorevole Persico, lei mantiene il suo emendamento?

PERSICO. Sì, lo mantengo.

PRESIDENTE. Onorevole Merlin, non ha nulla da dire sull’emendamento Persico?

MERLIN UMBERTO, Relatore. È questione di forma e pertanto è inutile.

PRESIDENTE. Pongo in votazione il primo comma dell’articolo 48 nel nuovo testo proposto dalla Commissione, modificato con l’emendamento Federici: «Tutti i cittadini di ambo i sessi possono accedere alle cariche elettive e agli uffici pubblici in condizione di eguaglianza, secondo i requisiti stabiliti dalla legge».

(È approvato).

Con questa votazione l’emendamento Persico si intende decaduto.

Pongo in votazione il secondo comma:

«I cittadini hanno il dovere di adempiere alle funzioni loro affidate con disciplina ed onore, prestando giuramento nei casi stabiliti dalla legge».

(È approvato).

Pongo in votazione il terzo comma:

«Per l’adempimento delle funzioni pubbliche elettive ogni cittadino ha diritto di disporre del tempo necessario e conserva il suo posto di lavoro».

(È approvato).

CIFALDI. Chiedo di parlare.

PRESIDENTE. Ne ha facoltà.

CIFALDI. Vorrei fare una richiesta di votazione per scrutinio segreto sul testo inizialmente presentato dalla Commissione. (Commenti).

PRESIDENTE. Onorevole Cifaldi, la sua richiesta non può essere accettata, poiché l’Assemblea ha approvato a grande maggioranza l’ultima formulazione, accolta anche dalla Commissione, formulazione che dall’onorevole Lucifero è stata definita come emendamento al testo iniziale. Ormai non è più possibile votare sul testo inizialmente proposto dalla Commissione.

CIFALDI. Insisterei perché fosse accolta la mia richiesta circa la votazione del testo iniziale della Commissione.

PRESIDENTE. Le ripeto che abbiamo già votato. Comunque, onorevole Cifaldi, le domande di votazione a scrutinio segreto e per appello nominale debbono essere presentate in tempo debito; non è più possibile presentarle quando è già in corso una votazione. Pertanto il testo definitivo dell’articolo 48 è il seguente:

«Tutti i cittadini di ambo i sessi possono accedere alle cariche elettive e agli uffici pubblici in condizioni di uguaglianza, secondo i requisiti stabiliti dalla legge.

«I cittadini hanno il dovere di adempiere alle funzioni loro affidate con disciplina ed onore, prestando giuramento nei casi stabiliti dalla legge.

«Per l’adempimento delle funzioni pubbliche elettive ogni cittadino ha diritto di disporre del tempo necessario e di conservare il suo posto di lavoro».

Passiamo all’articolo 49:

«La difesa della Patria è sacro dovere del cittadino.

«Il servizio militare è obbligatorio. Il suo adempimento non pregiudica la posizione di lavoro del cittadino, né l’esercizio dei diritti politici.

«L’ordinamento dell’esercito si informa allo spirito democratico della Repubblica italiana».

Gli onorevoli Cairo, Chiaramello, Calosso, Di Gloria, Vigorelli e Taddia hanno presentato il seguente emendamento, già svolto, in sede di discussione generale dall’onorevole Calosso:

«Sostituirlo col seguente:

«La difesa della Patria è dovere di tutti i cittadini.

«Il servizio militare non è obbligatorio.

«La Repubblica, nell’ambito delle convenzioni internazionali, attuerà la neutralità perpetua».

Segue l’emendamento dell’onorevole Bosco-Lucarelli:

«Sostituirlo col seguente:

«La difesa della Patria è sacro dovere del cittadino.

«Il servizio militare è obbligatorio in conformità delle leggi».

Poiché l’onorevole Bosco-Lucarelli non è presente, si intende che abbia rinunziato a svolgerlo.

Segue l’emendamento dell’onorevole Caroleo:

«Al primo comma, aggiungere: e gli atti di valore dànno diritto a particolare riconoscimento della Repubblica».

L’onorevole Caroleo ha facoltà di svolgerlo.

CAROLEO. Onorevoli colleghi, durante il ventennio fascista molti italiani si macchiarono di disonore e profittarono, ai danni della Patria; ma molti altri andarono a servire l’Italia senza sapere di servire la tirannide ed immolarono la loro vita per l’onore della Nazione. Avvenne però che durante un doloroso periodo, che tutti abbiamo intensamente vissuto e per il quale io non intendo fare in quest’Aula niente di più che un’amara constatazione, avvenne, dico, che anche per gli eroi della Patria ebbe a verificarsi una specie di epurazione, ed accadde, in un certo momento, che dal centro si diramassero circolari, norme ed istruzioni perché alcune scritte e alcuni segni, che ricordavano dei nomi scolpiti nei cuori dei conterranei e di tutti gli italiani, venissero rimossi dalle sedi di Municipi e di edifici pubblici in genere. Qualcuna di queste circolari dovette essere eseguita, qualche altra, per merito di sindaci pervasi da patriottismo, fu anche cestinata. Ora, voi sapete che i profittatori, i veri profittatori del fascismo sono stati amnistiati, ma per questi eroi della Patria, per i quali si è celebrato un ingiusto silenzioso processo, è venuto, io penso, il momento che si restituisca loro il diritto alla riconoscenza ed all’onore della Repubblica italiana.

Ed è perciò che io vi propongo questo emendamento aggiuntivo all’articolo 49. In questa Carta costituzionale ad ogni dovere del cittadino abbiamo avuto la cura e la premura di far corrispondere un diritto. Mai come questa volta io credo che accanto al dovere sacro di difendere la Patria si imponga anche l’approvazione del diritto, per chi l’ha difesa con sacrificio della propria vita, al particolare riconoscimento dello Stato. (Applausi).

PRESIDENTE. Il seguente emendamento dell’Onorevole Bencivenga è stato già svolto:

«Dopo il primo comma, inserire il seguente:

«La Repubblica onora il sacrificio ed il valore e, mediante adeguati istituti giuridicamente ordinati, provvede alle minorazioni subite nella persona, nella famiglia, nei beni».

Segue l’emendamento dell’onorevole Giua, De Michelis, Mariani:

«Sostituire il secondo e terzo comma col seguente:

«La Repubblica provvede all’ordinamento dell’esercito in vista della difesa nazionale, senza violare le disposizioni dell’articolo 6 della Costituzione».

L’onorevole Giua ha facoltà di svolgerlo.

GIUA. In relazione all’articolo 49, per quanto riguarda il secondo e terzo comma, devo fare alcune considerazioni sui motivi che mi hanno indotto a sostituirli con l’emendamento ora letto. Io ho sentito nella discussione generale i tecnici competenti in questioni militari fare delle osservazioni sull’articolo 49 e mi sono accorto che il problema è stato impostato riportandosi all’esercito quale esisteva prima della sconfitta, e volendo ricondurre la posizione dell’esercito alle condizioni di una Nazione che si trovi nella possibilità di riorganizzarlo non solo dal punto di vista numerico, ma anche dal punto di vista tecnico. Se io, come socialista, venissi qui a fare delle dichiarazioni generiche sulle nostre aspirazioni dal punto di vista del pacifismo, mi metterei fuori della storia; quindi queste affermazioni non hanno senso e sono state superate oramai da tutto il movimento socialista internazionale. Ma, se esamino il problema della organizzazione militare in Italia dopo la sconfitta, debbo giungere a queste conclusioni: che anche nell’interesse delle forze evolutive della Nazione non socialiste e non operaie, è necessario prendere in esame la possibilità di riorganizzare l’esercito in relazione con la disponibilità di materie prime che il Paese ha.

Ora lo sviluppo della guerra moderna ci ha dimostrato che le guerre le possono fare soltanto quei paesi che hanno determinate materie prime, che non sono solamente quelle fondamentali, come il carbone ed il petrolio, ma sono anche quelle inerenti a varie industrie che si sviluppano utilizzando queste ed altre materie prime. Le condizioni dell’Italia sono queste: noi manchiamo di petrolio e di carbone fossile e anche di quelle industrie che possono permetterci di armare un esercito in senso moderno. Se prendiamo in esame lo sviluppo più recente della tecnica militare, l’impiego vale a dire dell’energia atomica, anche da questo lato noi ci troviamo in condizioni deficitarie; vale a dire che il nostro Paese, anche se la futura guerra prendesse uno sviluppo in relazione con l’impiego dell’energia atomica, non potrebbe impiegare questa energia. Ed allora il problema tecnico militare, non dal punto di vista socialista, ma dal punto di vista dell’interesse di tutte le classi produttrici è questo: che l’Italia non potrà mai fare una guerra moderna; che l’Italia potrà avere un esercito, è vero, ma che per armare questo esercito si deve approvvigionare dall’estero.

Una disamina di tutte le materie prime che servono alla guerra moderna e delle industrie che si sviluppano in relazione all’impiego di queste materie prime, mi porterebbe lontano, ed io non farei che far perdere del tempo a questa Assemblea; ma chiunque esamini questo problema e si ponga il quesito delle ragioni della vittoria da parte dei paesi vincitori nell’ultima guerra mondiale, deve giungere a questa conclusione: che la guerra l’hanno vinta non quelle Nazioni che disponevano di uomini, ma quelle che disponevano di materie prime. Vale a dire che, per vincere una guerra, è necessario avere a disposizione soprattutto le materie prime.

Il problema quale è stato impostato non dico dal fascismo, ma da tutto l’ordinamento militare, è un problema che non poteva condurci ad altro che alla disfatta, appunto perché l’Italia si trovava nella impossibilità di condurre una guerra lunga. Forse, come la Germania, poteva trovarsi nella condizione di vincere un «Blitzkrieg», ma non poteva, né potrà in avvenire, essere in condizioni di vincere guerre di lunga durata.

In questa condizione si impone quindi che gli uomini politici che hanno senso di responsabilità esaminino questo problema e lo adeguino in funzione della sola difesa nazionale.

Noi non diciamo di giungere al disarmo, non ci poniamo dal punto di vista tolstoiano della non resistenza al male. I socialisti hanno da tempo impostato il problema diversamente. Se ci trovassimo in Italia nella identica situazione in cui si trova l’Unione Sovietica, avendo a disposizione materie prime, potrebbe anche darsi che la soluzione del problema militare, in una Italia socialista, non sarebbe molto diverso da quella sovietica. Ma, invece, ci troviamo in una situazione deficitaria di materie prime e non è possibile pensare ad armare il nostro esercito.

In queste condizioni, è necessario che l’esercito futuro non solo sia organizzato in senso democratico, ma che sia organizzato esclusivamente nel senso della utilizzazione delle materie prime di cui disponiamo.

Quindi noi giungiamo a questa conclusione: che l’Italia, perché possa difendere i confini nazionali, deve volgersi verso il tipo di Nazione armata, precisato dal progetto già presentato dal gruppo parlamentare socialista nei primi decenni di questo secolo: progetto di Nazione armata che ha trovato una attuazione anche presso una piccola Nazione, nella Svizzera. Se noi esaminiamo le cause che hanno impedito le aggressioni alla Svizzera nel corso delle due guerre mondiali, dobbiamo trovare la ragione proprio nel fatto che la Svizzera aveva organizzato la Nazione armata, non nel senso – come si diceva – che la Svizzera non sarebbe stata invasa perché era una piccola Nazione: la Svizzera non è stata invasa perché la Germania aveva interesse a non invadere la Svizzera, in quanto si sarebbe trovata di fronte non un esercito ordinario, ma tutto il popolo armato.

Ecco perché il mio emendamento, riportandosi allo spirito dell’articolo 6 della Carta costituzionale, che noi non dobbiamo dimenticare nella sua vasta portata e che dice: «L’Italia ripudia la guerra come strumentio di offesa alla libertà degli altri popoli e come mezzo di risoluzione delle controversie internazionali, e consente, in condizioni di parità con gli altri Stati, alle limitazioni di sovranità necessarie ad un ordinamento internazionale, che assicuri la pace e la giustizia fra le Nazioni», intende ricondurre il problema esclusivamente alla difesa nazionale.

Io, nel presentare questo emendamento – ripeto – mi sono posto nella condizione non di uomo di parte, ma di un italiano il quale prevedendo quale sarà l’avvenire dell’Italia, qualora si organizzi un esercito di tipo vecchio, è convinto che una tale soluzione, che non ha una base nella situazione industriale del Paese, non può che condurre a nuove sciagure.

PRESIDENTE. Segue un emendamento dell’onorevole Di Giovanni, già svolto:

«Sostituire il secondo comma col seguente:

«La prestazione del servizio militare è obbligatoria per i cittadini di sesso maschile: i termini e le modalità sono stabiliti dalla legge sul reclutamento.

«L’adempimento del servizio militare non pregiudica la posizione di lavoro del cittadino, né l’esercizio dei diritti politici».

Segue un emendamento dell’onorevole Selvaggi:

«Sostituire il secondo comma col seguente:

«Il servizio militare è un dovere. La legge determina le modalità del suo adempimento; il quale non pregiudica la posizione di lavoro del cittadino, né l’esercizio dei diritti politici».

L’onorevole Selvaggi ha dichiarato di rinunciarvi, aderendo al seguente emendamento, presentato dagli onorevoli Laconi, Targetti, Gasparotto, Merlin Umberto, Ambrosini, Stampacchia, Vigna, Ravagnan e Gervasi:

«Sostituire il secondo comma col seguente: «Il servizio militare è obbligatorio nei limiti e modi stabiliti dalla legge. Il suo adempimento non pregiudica la posizione di lavoro del cittadino né l’esercizio dei diritti politici».

L’onorevole Laconi ha facoltà di svolgere l’emendamento.

LACONI. L’emendamento che porta, per primo, il mio nome risulta da un accordo intervenuto fra i rappresentanti di diverse correnti politiche e vuol venire incontro alla preoccupazione sollevata da qualche parte che il dire semplicemente che il servizio militare è obbligatorio non significhi da un lato escludere certe forme di volontariato e, dall’altro, escludere qualsiasi eccezione al servizio militare stesso.

Dato invece che non era evidentemente questa l’intenzione di coloro che hanno redatto il testo del comma noi abbiamo pensato di proporre la seguente aggiunta: «…nei modi e nei limiti stabiliti dalla legge».

Anche nei confronti di questa nostra formulazione però è stata sollevata qualche eccezione da parte di alcuni colleghi. L’onorevole Chatrian, l’altra sera, ha osservato che una dizione siffatta farebbe anch’essa escludere il volontariato.

RUINI, Presidente della Commissione per la Costituzione. Ma ora l’onorevole Chatrian ha aderito.

LACONI. Tanto meglio. Allora non ho altro da dire; le ragioni del mio emendamento sono unicamente quelle che ho esposto.

PRESIDENTE. Segue un emendamento dell’onorevole Azzi, già svolto:

«Sostituire il primo periodo del secondo comma col seguente: La prestazione del servizio militare è regolata dalla legge».

Gli onorevoli Gasparotto, Chatrian, Moranino, Stampacchia, Brusasca, hanno presentato il seguente emendamento già svolto:

«Al secondo comma, sostituire alle parole: Il servizio militare è obbligatorio, le seguenti: La prestazione del servizio militare è obbligatoria: le modalità sono stabilite dalla legge».

Seguono due emendamenti a firma dell’onorevole Coppa:

«Al secondo comma, aggiungere alla parola: obbligatorio, le seguenti: per i cittadini di sesso maschile».

«Sopprimere il terzo comma».

L’onorevole Coppa ha facoltà di svolgerli.

COPPA. Il mio primo emendamento potrebbe inserirsi in quello testé svolto dall’onorevole Laconi, che andrebbe quindi così formulato: «Il servizio militare è obbligatorio per i cittadini di sesso maschile, nei limiti e nei modi stabiliti dalla legge».

L’altro giorno, l’onorevole Bencivenga, riferendosi al mio emendamento, ha mostrato di preoccuparsene e ha detto che forse tale mio emendamento è dettato da un senso di cavalleria, ma che non è però conveniente ipotecare l’avvenire, in vista di una vera e propria mobilitazione civile parallela a quella militare, da cui non si dovrebbe escludere il sesso femminile.

Se non che il mio emendamento è dettato anzitutto da considerazioni di ordine biologico o meglio fisiologico: la donna non deve essere distolta dai compiti che madre natura ha affidato ad essa. Ritengo per conseguenza necessaria la mia precisazione: in effetti quando si parla di cittadino, questa parola è usata in senso equivoco – dico «equivoco» nell’accezione etimologica del termine – perché in tutti gli altri articoli la parola «cittadino» è usata indifferentemente per indicare gli uomini e le donne, come, per esempio, ove è detto: «Ogni cittadino ha il diritto di rivolgere petizioni al Parlamento», ecc.

Quindi, quando si parla del cittadino che ha il sacro dovere di difendere la Patria, è logico che si comprendano anche le donne. Ma quando si parla di servizio militare obbligatorio, credo sia doveroso precisare, e l’Assemblea deve dire se vuole includere o no le donne nella obbligatorietà del servizio militare. Mi si può obiettare che all’ultima guerra la donna ha partecipato egregiamente – e questo è esatto – attraverso i servizi ausiliari. Ma allora è tutt’un’altra cosa; non solo, ma tenendo presenti precisamente le capacità della donna, noi potremmo auspicare una preparazione delle donne ai compiti che in tempo di guerra possono essere loro specificatamente affidati. Del resto, noi già abbiamo la caratteristica organizzazione della Croce Rossa che, avendo un carattere anche professionale in tempo di pace, è certamente preziosissima in tempo di guerra.

Dovrei ora svolgere l’altro mio emendamento, circa la soppressione del terzo comma di questo articolo 49, ma siccome lo condivide l’onorevole Colitto, io cedo a lui la parola per dar ragione di questo emendamento soppressivo.

PRESIDENTE. L’onorevole Perugi ha presentato il seguente emendamento:

«Al secondo comma, dopo la parola: obbligatorio, aggiungere: con i temperamenti stabiliti dalla legge».

Ha facoltà di svolgerlo.

PERUGI. Onorevole Presidente, onorevoli colleghi, altri colleghi, in fase di discussione generale del Titolo IV del progetto di Costituzione, hanno sommariamente esaminato il contenuto dell’articolo 49, sostenendo o meno l’obbligatorietà del servizio militare. Nessuna ripetizione, da parte mia, di concetti già esposti; ma solo esposizione schematica dei motivi, soprattutto di carattere tecnico, che impongono di mantenere il servizio militare obbligatorio. Non entro quindi nell’esame politico della questione, poiché le esigenze della difesa della Patria sovrastano sempre ogni considerazione di carattere politico.

L’obbligatorietà del servizio militare è la naturale conseguenza della premessa contenuta nell’articolo 49 che stabilisce essere la difesa della Patria sacro dovere del cittadino; dovere comune a tutti quando il pericolo si presenta minaccioso.

Per quanto l’organizzazione democratica dell’Italia repubblicana escluda ogni tendenza di guerra offensiva, tuttavia la difesa del suolo patrio non può basarsi sul volontariato per le seguenti ragioni: il tecnicismo della guerra moderna impone l’impiego di mezzi numerosi e complessi, la conoscenza dei quali, che implica tempo ed esercizio, deve essere estesa alla quasi totalità dei cittadini.

In seguito alle limitazioni imposteci dal Trattato di pace, le nostre frontiere terrestri e marittime non possono essere fortificate. La posizione geografica della penisola con le sue due isole maggiori, a cavallo del bacino del Mediterraneo, costituisce un importante obiettivo per un invasore che, volendo dominare quel mare, tenda a crearvi basi aeree e marittime. Lo sviluppo di circa 8.000 chilometri di coste impone, per difenderle, larga disponibilità di uomini e di mezzi. Il volontariato limita nel tempo la preparazione degli uomini, così che quando fossimo chiamati a difendere l’integrità del territorio disporremmo di personale privo di addestramento e senza possibilità di tempo e di mezzi per fronteggiare le esigenze contingenti; il reclutamento dei volontari riuscirebbe assai più costoso di quello di un numero di forze uguali, basate sul servizio obbligatorio, col danno, già accennato, di non poter disporre di riserve istruite in quantità adeguate alle esigenze della guerra. A prescindere dagli inconvenienti d’ordine tecnico, è da tener presente che, cambiato sistema di reclutamento, riuscirebbe assai difficile, per ovvie ragioni, tornare al sistema attuale, se il volontariato si fosse dimostrato difettoso.

E poiché la Carta costituzionale fissa i principî generali ai quali il legislatore dovrà informare la propria azione, ritengo necessario di mantenere l’obbligatorietà del servizio militare, salvo a temperare tale dovere con provvedimenti che si riterrà di attuare di volta in volta negli interessi dei cittadini e della difesa del territorio italiano.

Avendo trattato l’emendamento al secondo capoverso dell’articolo 49, prego l’onorevole Presidente di autorizzarmi a specificare le ragioni per le quali ho anche proposto di aggiungere, dopo il terzo, il seguente comma:

«Le spese per le Forze armate saranno improntate a concetti di rigida economia e messe in relazione alla politica militare che intenderà svolgere la Repubblica».

PRESIDENTE. Ella ha facoltà di svolgere anche questo emendamento.

PERUGI. Sono stato indotto a questa proposta dall’emendamento di altri colleghi col quale si stabilisce, in linea di massima, che le spese per le Forze armate non debbano superare quelle per la pubblica istruzione.

A titolo informativo pei colleghi segnalo che le spese per le Forze armate ammontano: per l’esercizio in corso a 166 miliardi, dei quali 74 spesi per ragioni estranee alle Forze armate;

per l’esercizio prossimo si sale a 183 miliardi, di cui 66 miliardi e 30 milioni per esigenze estranee alle Forze armate.

Volendo distinguere, le spese per l’esercito sono per l’esercizio in corso 107 miliardi, per l’esercizio prossimo 115 miliardi; per la marina, per l’esercizio in corso, 37 miliardi e per l’esercizio prossimo 39 miliardi e 200 milioni; per l’aeronautica 22 miliardi e 55 milioni per l’esercizio in corso, 28 miliardi e 800 milioni per l’esercizio prossimo.

Nel prossimo esercizio il 40 per cento circa delle spese del bilancio dell’esercito grava per esigenze che non interessano la vita e l’efficienza dell’esercito stesso. Le spese maggiori si riferiscono ai carabinieri per 27 miliardi e 200 milioni; alla bonifica di campi minati per 4 miliardi e 2 milioni; a spese residuali di guerra per 2 miliardi e 4 milioni; ad assegni al personale civile esuberante non di ruolo e salariato per un miliardo e tre milioni.

Non ritengo che per l’avvenire possano stabilirsi dei limiti fissi al bilancio delle Forze armate; ma basterà solo enunciare il principio di contenere le spese dei Ministeri militari in un ambito assai ristretto senza riferirsi a bilanci di altri Ministeri, le esigenze dei quali, quali quelle delle Forze armate, variano in relazione a tante altre esigenze. È la politica estera di uno Stato che orienta e regola la politica militare, che può paragonarsi ad una parabola le cui ordinate sono subordinate ad esigenze imprevedibili.

Se vogliamo avere Forze armate che garantiscano il nostro territorio occorre dare ad esse, pur nel modesto quantitativo, quella efficienza che assicuri la nostra difesa; in caso contrario spenderemo denaro, non sarà garantita la nostra sicurezza e, purtroppo, i sacrifici imposti, per il loro carattere di insufficienza perché limitati dalla inflessibilità della Costituzione, potranno risultare inutili.

Rispondendo poi a quello che ha detto l’onorevole Giua, del quale condivido pienamente le idee, mi permetto solo di osservare che egli forse ha considerato la guerra difensiva da un punto di vista unilaterale, cioè che sia soltanto l’Italia che debba condurla. In questo caso siamo d’accordo: non possiamo immaginare che l’Italia, in tanta povertà di mezzi e di materie prime, possa provvedere alla difesa del territorio. (Approvazioni).

PRESIDENTE. I seguenti emendamenti sono stati già svolti:

«Sostituire il secondo periodo dello stesso comma col seguente:

«L’adempimento del servizio militare obbligatorio non pregiudica la posizione di lavoro del cittadino, né l’esercizio dei diritti politici.

«Azzi».

«Aggiungere al secondo comma, le parole:

«Sono esenti dal portare le armi coloro i quali vi obiettino ragioni filosofiche e religiose di coscienza.

«Caporali».

L’onorevole Colitto ha proposto, come l’onorevole Coppa, la soppressione del terzo comma. Egli ha facoltà di svolgere questo emendamento.

COLITTO. Mi permetto di insistere sulla proposta di soppressione del terzo comma dell’articolo 49, così redatto: «L’ordinamento dell’esercito si informa allo spirito democratico della Repubblica italiana».

Insisto per la soppressione specialmente dopo aver ieri sentito gli argomenti che, conforto indiretto del mio emendamento, sono stati prospettati da altri colleghi dell’Assemblea: l’onorevole Sullo, l’onorevole Azzi e l’onorevole Nobile.

Insisto perché, per la verità, nonostante ogni sforzo da me compiuto, non sono riuscito a comprendere il significato della frase innanzi ricordata, che dovrebbe costituire nientemeno che una norma costituzionale. L’ordinamento dell’esercito è quello che è. E parlare di spirito democratico a proposito dell’ordinamento dell’esercito significa dire una cosa, me lo si consenta, vuota di senso, così come vuota di senso apparirebbe questa frase, se la si ripetesse a proposito dell’ordinamento della Magistratura, dei Ministeri, della polizia, ecc.

Che cosa significherebbe dire che l’ordinamento della Magistratura si informa allo spirito democratico della Repubblica italiana? E così che cosa significherebbe dire che l’ordinamento dei Ministeri o della polizia si informa allo spirito democratico della Repubblica italiana?

Ho fatto delle ricerche e ho chiesto eventuali chiarimenti alla relazione dell’onorevole Ruini, che pure è un documento così pregevole per chiarezza, per precisione stilistica e giuridica, di forma e di sostanza. Ma nella relazione dell’onorevole Ruini non ho trovato nulla. Sono andato alla ricerca di chiarimenti nei lavori preparatori della prima Sottocommissione. Ma, per verità, anche lì la mia fatica non è stata coronata da successo.

Ho trovato soltanto, a pagina 397, queste parole, che non vorrei dire di colore piuttosto oscuro, dell’onorevole Moro.

«La norma» egli disse «ha lo scopo di garantire che lo spirito democratico del Paese entri nell’esercito compatibilmente con la struttura dell’esercito stesso». Non lo vorrei offendere, se gli confesso che fra me e me ho detto: Obscurum per obscurius. Che non si voglia introdurre nell’esercito lo spirito politico del Paese? Mai più! Se questo fosse, si dovrebbe a maggior ragione sopprimere questo capoverso. Perché, lo sappiamo tutti, l’esercito è fatto per difendere la Patria; e la Patria si difende sotto qualsiasi regime e con qualsiasi orientamento politico.

L’onorevole Merlin ieri mi ha tranquillizzato, quando con la sua suadente parola ha detto: «Mai abbiamo avuto dì mira di introdurre lo spirito politico nell’esercito». Mi attendevo però da lui una chiarificazione della frase, che dovrebbe divenire una norma costituzionale. Egli si è, invece, limitato a dire così: «È bene che l’esercito si informi allo stato di diritto, non di fatto, del Paese». La spiegazione evidentemente non ha quei pregi di chiarezza, che hanno tutte le spiegazioni dell’onorevole Relatore.

Mi si consenta di dire un’altra cosa. Mi è parso che l’onorevole Merlin sia caduto in una piccola contraddizione, perché, a proposito della obbligatorietà della coscrizione, egli ha pronunziato una frase, che giova molto alla tesi che sostengo. Ricordando, mi pare, un autore francese, egli ha detto: «La coscrizione obbligatoria è segno di democrazia». Ed allora io dico: se nel capoverso sta scritto che la coscrizione è obbligatoria, basta affermare questo per dire che l’esercito è democratico. Basta affermare la obbligatorietà della coscrizione, perché senz’altro possa dirsi anche affermato il principio della democraticità dell’esercito. È perciò che io insisto nel mio emendamento soppressivo. (Applausi a destra).

PRESIDENTE. Anche gli onorevoli Rodi e Sullo hanno proposto la soppressione del terzo comma e hanno svolto l’emendamento.

L’onorevole Selvaggi ha presentato la stessa proposta. Non essendo presente, si intende che abbia rinunziato a svolgerla.

I seguenti emendamenti sono stati già svolti:

«Al terzo comma, sostituire alle parole: dell’esercito, le parole: delle Forze armate.

«Azzi».

«Al terzo comma, sostituire alle parole: dell’esercito, le seguenti: delle Forze armate.

«Gasparotto, Chatrian, Moranino, Stampacchia, Brusasca».

«Al terzo comma, alle parole: dell’esercito, sostituire le altre: delle Forze armate.

«Di Giovanni».

Gli onorevoli Calosso, De Mercurio, Bianchi Bianca, Matteotti Matteo, Zagari, Bocconi, Zappelli, Canepa, Longhena, Pera, Zuccarini, Vischioni, Persico, Montemartini, Chiaramello, Azzi, Binni, Nasi, Bernini, Paolucci, Veroni, D’Aragona, Mastino Pietro, Valiani, Conti, Camangi, Bellusci, Gullo Rocco, Pertini e Lami Starnuti hanno presentato il seguente emendamento, già svolto:

«Aggiungere, in fine, il seguente comma: «Nel bilancio dello Stato, le spese per le Forze armate non potranno superare le spese per la pubblica istruzione, salva legge del Parlamento di durata non superiore a un anno».

L’onorevole Giacchero ha presentato il seguente emendamento:

«Aggiungere, dopo il terzo, il seguente comma:

«I cittadini ufficiali e sottufficiali dell’esercito in servizio permanente non possono essere iscritti a partiti politici né svolgere attività politica».

Ha facoltà di svolgerlo.

GIACCHERO. Può forse sembrare a qualcuno che il comma aggiuntivo all’articolo 49, da me proposto, sia da collocare piuttosto in un regolamento di disciplina che non nella Costituzione.

Ma così non è ed io cercherò di esporre le ragioni brevemente e, comunque, entro i limiti consentitimi.

È vero che nel vecchio regolamento di disciplina dell’esercito, approvato con decreto del luglio 1907, vi era un articolo che aveva lo stesso sapore di questo mio comma aggiuntivo, ma è anche vero che la semplice modificazione operata dal fascismo con decreto del giugno 1929 permise quello sgretolamento morale dell’esercito, che si iniziò con le circolari del 1933 ai generali e colonnelli per l’iscrizione al partito fascista e finì con l’infausto 8 settembre 1943.

Ora poiché la Costituzione deve essere garanzia non soltanto dei diritti e dei doveri dei cittadini, ma anche della saldezza degli istituti che formano la difesa dello Stato, sia verso forze antidemocratiche interne che verso aggressori dell’esterno, noi dobbiamo affermare nella Costituzione un principio che garantisca quella saldezza e faccia dell’esercito una pura e semplice arma, che noi non vogliamo certo adoperare per offesa e che fervidamente ci auguriamo di non dover neppure adoperare per difesa.

Poiché questo soltanto deve essere l’esercito: un’arma sicura di difesa nelle mani dei poteri legalmente e democraticamente costituiti.

Come una qualsiasi arma nelle mani di un agente di pubblica sicurezza o di un carabiniere è una difesa della legalità e della democrazia, mentre la stessa arma nelle mani di un bandito o di un violento può diventare una offesa alla legalità ed alla democrazia, così l’esercito sarà un’arma democratica non per il fatto che nei cortili delle caserme si discutono in più o meno rumorosi comizi gli ordini del colonnello o la gestione dello spaccio truppa, né per il fatto che il militare si senta autorizzato a trattare confidenzialmente un superiore, ma, in tanto l’esercito sarà democratico, in quanto sarà amministrato e impiegato da chi è legalmente e democraticamente autorizzato a farlo, nei modi e per i fini, che i principî e i diritti democratici impongono.

Per ottenere questo, ossia per ottenere che questa sia una semplice arma, che non spari magari inavvertitamente o improvvisamente, è necessario che coloro i quali formano i quadri permanenti dell’esercito non siano parte evidente ed attiva di partiti. E questo per parecchi ordini di ragioni:

1°) perché la missione di coloro i quali abbracciano la carriera militare è quella di servire il Paese al disopra e al di fuori di interessi, sia pure nobilissimi, di partito;

2°) perché l’impostazione attuale dei partiti, in particolare di quelli di massa, è basata su una disciplina e su una gerarchia, che, a volte, potrebbe non essere nello stesso senso di quella corrispondente ai posti occupati nell’esercito, e se non si provvedesse, si creerebbero interferenze e situazioni che, nella migliore ipotesi, si possono definire incresciose;

3°) perché si deve evitare che favoritismi, a mezzo di influenze politiche, possano turbare la necessaria tranquillità di coloro che attendono all’alta missione di formare la forza militare della Nazione, ed originare malcontento e corruzione;

4°) perché (scusate se faccio un’ipotesi estrema, ma per difendersi dai pericoli bisogna avere quel minimo di fantasia necessaria per immaginarli prima che essi si presentino), perché infine noi abbiamo votato un articolo 13, dove è detto che sono vietate le associazioni che perseguono scopi politici mediante organizzazioni di carattere militare.

Ora, voi immaginate per un momento un reggimento o altra unità militare dove gli ufficiali, e sottufficiali, dal comandante all’ultimo sergente, vengano abilmente inquadrati nella organizzazione di un partito particolarmente attivo, ed eccovi fatta l’organizzazione non soltanto di carattere, ma di autentica struttura militare la quale potrebbe essere a disposizione di quel partito per i suoi scopi.

Caso estremo! D’accordo. Però io penso che non sia eccessiva prudenza, ma semplicemente buona norma riconfermare ciò che i nostri vecchi avevano con saggezza stabilito. I militari di carriera non si occupino di politica. Diventeranno sufficientemente democratici se la Nazione lo sarà, non solo a parole, ma nel modo di comportarsi e di vivere socialmente dei singoli cittadini.

La democrazia deve venire dal popolo, deve essere negli uomini che compongono gli organismi sociali ed in coloro, legislatori o ministri o comandanti, che ordineranno il nuovo esercito e che ne determineranno l’azione. Ma ora noi dobbiamo creare la premessa per cui l’Esercito, tornando alle sue gloriose tradizioni prefasciste, diventi soltanto l’Esercito italiano, ossia l’arma che non serve altra bandiera che il nostro tricolore, l’arma che non può trovare più nobile compito e più sacro ideale se non quello di tutelare la libertà dei cittadini, il rispetto delle istituzioni e l’onore della Patria! (Applausi).

PRESIDENTE. Gli onorevoli Nobile, Bitossi, Chatrian, Togliatti, De Filpo, Laconi, Ravagnan, Massola, Musolino, Di Vittorio e Colombi hanno presentato il seguente emendamento aggiuntivo: «Gli ufficiali e sottufficiali delle Forze armate in servizio attivo permanente, che per mutilazioni riportate in difesa della Patria siano fisicamente menomati, continueranno ad essere mantenuti in servizio, in speciali ruoli di onore, che verranno regolati dalla legge».

L’onorevole Nobile ha facoltà di svolgerlo.

NOBILE. Il mio emendamento si ricollega ad una proposta che presentai alla Commissione dei settantacinque, la quale, accogliendone il concetto informatore, risolse all’unanimità di farne oggetto di raccomandazione al Governo. Successivamente, parlando in sede di dichiarazioni del Governo, richiamai sull’argomento l’attenzione di quest’Assemblea; ed in quella occasione presentai un ordine del giorno, firmato da molti altri colleghi, che presso a poco diceva le medesime cose che ora sono ripetute in questo emendamento.

Non occorre, perciò, che mi dilunghi a dar ragione dell’aggiunta che propongo di fare all’articolo 49. Il dovere dello Stato di non abbandonare a se stessi gli ufficiali e sottufficiali in S.P.E. che, per mutilazioni riportate in guerra, siano dichiarati non idonei al servizio attivo, è evidente. È verissimo, d’altra parte, che su questa materia vi sono già ampie provvidenze governative, ma mi riferisco in modo particolare ai più giovani ufficiali e sottufficiali che, se riconosciuti invalidi per ferite riportate in guerra, vengono inviati a casa con la sola pensione privilegiata di guerra che è assolutamente inadeguata ai bisogni più elementari dell’esistenza. Come già informai l’Assemblea, per un capitano, ad esempio, invalido per l’ottanta per cento, essa è di appena 4.584 lire mensili. Ciò vuol dire che praticamente quei giovani ufficiali, dopo aver fatto il loro dovere in guerra e riportato a causa di essa delle gravi menomazioni fisiche, vengono messi sul lastrico, perché non sempre riescono a trovare nella vita civile una occupazione adeguata.

È un dovere sacrosanto da parte dello Stato provvedere a questa speciale categoria di mutilati. Di qui l’emendamento aggiuntivo da noi proposto.

A tale emendamento si possono fare due obiezioni. La prima – quella, forse, che tra breve ci sarà ripetuta dal Presidente della Commissione – è che non si tratta di materia strettamente costituzionale. Si può consentire in questo; ma faccio osservare che nella nostra Costituzione vi sono già tante altre disposizioni non rigorosamente costituzionali! Del resto, quello che vorrei vedere affermato è soltanto il principio, rinviando l’applicazione di esso alla legge, la quale stabilirà in che modo e con quali limitazioni gli ufficiali e sottufficiali invalidi di guerra, in servizio permanente effettivo, possano continuare a essere mantenuti in servizio in speciali ruoli d’onore. Questi ruoli, per altro, non sono una novità, perché la Marina italiana già li aveva dopo la prima guerra mondiale. Oggi non esistono più. Bisogna riconoscere che il regime passato aveva provveduto largamente nei riguardi dei mutilati ed invalidi di guerra, ed io penso che la Repubblica non possa, e non debba essere meno generosa di quello che fu il Governo fascista.

PARIS. Si trattava di imperialismo!

NOBILE. Non c’entra l’imperialismo qui. Si tratta di ufficiali e sottufficiali che non possono esser messi sul lastrico dopo che hanno servito il loro Paese. È questione di coscienza.

Non si possono abbandonare a se stessi in questo modo dei giovani ufficiali e sottufficiali nel fiore degli anni. Ne conosco molti in questa condizione. Un tenente di vascello, che fu gravemente ferito alla testa, in guerra, va ora in giro con una parte del cranio scoperta; né la cicatrice può venir protetta con una placca di argento, perché l’applicazione di questa richiederebbe un’operazione estremamente rischiosa. A questo ufficiale è stata riconosciuta un’invalidità dell’ottanta per cento; ma la marina, fino ad ora, generosamente finge di ignorarla. Il giorno in cui non potrà più farlo, essa sarà costretta a mandare a casa quel giovine ufficiale senz’altra pensione che quella d’invalido di guerra ammontante, come vi dicevo poc’anzi, a 4.584 lire mensili.

L’altra obiezione che si potrebbe muovere al mio emendamento è che i ruoli di onore, di cui parlo, inciderebbero sugli organici di ufficiali e sottufficiali consentitici dal trattato di pace.

FABRIANI. E perché occuparsi solo di quelle categorie, e non di tutte?

NOBILE. Vi è in proposito un emendamento Bencivenga che io accetto e voterò. Ma, tornando al mio emendamento, faccio osservare che il trattato di pace non parla di ruoli, ma di effettivi. Quindi nessuna difficoltà può esservi, da questo lato, a stabilire dei ruoli speciali per ufficiali e sottufficiali in S.P.E. invalidi di guerra, a lato degli organici ordinati. Mi pare, dunque, che la sola obiezione che si potrebbe ragionevolmente muovere al mio emendamento aggiuntivo cada e perciò, onorevoli colleghi, raccomando caldamente di accettarlo, tanto più che esso ha già riportato il consenso di numerosi colleghi, di ogni settore dell’Assemblea.

PRESIDENTE. Chiedo all’onorevole Relatore di esprimere il parere della Commissione sugli emendamenti.

MERLIN UMBERTO, Relatore. Risponderò brevemente nella speranza di contribuire ad una rapida conclusione della discussione. Comincio dal penultimo emendamento proposto dall’onorevole Giacchero. Dato l’argomento che tratta il collega, io penso che si possa svolgere questo emendamento assieme a quello dell’onorevole Clerici e rinviarlo a domani, in modo che siano trattati tutti e due assieme. Dichiaro poi che la Commissione, dei numerosi emendamenti presentati, accetta soltanto quello proposto degli onorevoli Laconi, Targetti, Gasparotto, Ambrosio ed altri, ed accetta anche quello proposto dall’onorevole Azzi e dall’onorevole Gasparotto, con cui si propone di sostituire alle parole: «dell’esercito» le parole: «delle Forze armate». Gli altri emendamenti non possiamo accettarli: quello proposto dall’onorevole Cairo non può essere accettato per le ragioni che ho detto, perché esso si oppone al servizio obbligatorio, mentre la Commissione pensa che il principio della obbligatorietà del servizio militare vada confermato.

L’onorevole Bosco Lucarelli che ha presentato un altro emendamento non c’è, quindi è inutile parlarne. Per gli emendamenti dell’onorevole Caroleo, e dell’onorevole Bencivenga, e per l’ultimo svolto ora dall’onorevole Nobile, io vorrei fare ai colleghi questa proposta: gli argomenti toccati sono di tale importanza, e soprattutto sono sentiti in modo così unanime dall’Assemblea – ne sono sicuro – che pregherei di convertirli in un ordine del giorno che, io sono certo, potrebbe essere approvato all’unanimità dell’Assemblea; ma non credo sia opportuno includere tali proposte nella Costituzione. Innanzitutto, perché mi pare che sia superfluo, e poi perché in realtà la Repubblica fa tutto quello che può per queste povere vittime della guerra, e la Repubblica non ha fatto mai e non fa eccezioni per i suoi figli che abbiano servito sotto un regime o sotto un altro: li tratta tutti allo stesso modo e riconosce a tutti il loro sacrificio. Questa mia proposta, di convertire gli emendamenti in un ordine del giorno unico, spero sia accettata dai colleghi Nobile, Bencivenga e Caroleo.

L’emendamento proposto dall’onorevole Giua mi pare superfluo, me lo perdoni il collega. Non è possibile, giunti all’articolo 49, dire che vogliamo «organizzare l’esercito in vista della difesa nazionale, senza violare le disposizioni dell’articolo 6 della Costituzione». E questo mi sembra intuitivo, una volta che l’Assemblea ha approvato l’articolo 6 il quale dice: «L’Italia ripudia la guerra come strumento di offesa alla libertà degli altri popoli e come mezzo di risoluzione delle controversie internazionali, e consente, in condizioni di parità con gli altri Stati, alle limitazioni di sovranità necessarie ad un ordinamento internazionale, che assicuri la pace e la giustizia fra le Nazioni». È chiaro che non possiamo metterci in contradizione con noi stessi; non possiamo dichiarare quanto propone l’onorevole Giua, senza aver l’aria di voler mettere in dubbio la serietà di quanto abbiamo votato. Prego perciò il collega Giua di non insistere nel suo emendamento.

L’emendamento Laconi lo accettiamo, e con questo sono venuto incontro a tutte le proposte degli onorevoli Gasparotto, Chatrian ed altri che hanno firmato ed accettato questo emendamento; ed anche dell’onorevole Azzi che spero sarà sodisfatto dell’emendamento accolto dalla Commissione, che accetta in sostanza anche i suoi principî.

Per quanto riguarda l’emendamento dell’onorevole Coppa non lo possiamo accettare. Ma non lo accettano neanche le donne, perché siccome esse reclamano la parità in tutto, vogliono la parità anche in questo servizio militare. La Commissione ha già detto che vuole accontentarle. Naturalmente, l’ordinamento dell’esercito stabilirà quelli che sono i compiti di assistenza particolare a cui l’animo e la gentilezza femminile sono più adatti.

Per quanto riguarda l’emendamento Perugi, pregherei il collega di ritirarlo, perché mi pare che il suo concetto sia stato già accolto.

Per quanto riguarda l’emendamento dell’onorevole Caporali, dichiaro che non lo possiamo accettare perché in Italia una setta di obiettori di coscienza, come quella che esiste in Inghilterra per coloro che non vogliono portare le armi non esiste, e non vedo perché dobbiamo stabilire il principio che l’onorevole Caporali propone. Rispettabile è lo scrupolo di coscienza e già le nostre leggi ne tengono conto per i sacerdoti, ma non bisogna generalizzarlo o scriverlo nello Statuto per non arrivare a conseguenze assai pericolose.

Per quanto riguarda la soppressione del terzo comma, io pregherei i colleghi Coppa, Colitto, Rodi, Sullo e Selvaggi di ritirare la proposta di soppressione e di rimanere sodisfatti delle ragioni che ho detto ieri con sufficiente chiarezza, e che mi dispiace non abbiano persuaso l’onorevole Colitto, ma che spero possano persuadere l’Assemblea.

Per quanto riguarda l’emendamento dell’onorevole Calosso ho già detto, nelle dichiarazioni di ieri, che non posso accettarlo.

Per quanto riguarda infine l’ultimo emendamento Perugi, mi pare di aver già risposto: è chiaro che questa povera Italia farà la politica che potrà, ma essa, come politica militare, non ha altra politica che quella che è fissata dall’articolo 6 della Costituzione. Quindi pregherei il collega Perugi di ritirare questo suo emendamento.

PRESIDENTE. Dopo i chiarimenti dell’onorevole Merlin, chiedo ai presentatori di emendamenti se li mantengono.

Onorevole Cairo, mantiene il suo emendamento?

CAIRO. Lo mantengo.

PRESIDENTE. Non essendo presente l’onorevole Bosco Lucarelli, il suo emendamento si intende decaduto.

Onorevole Caroleo, mantiene il suo emendamento?

CAROLEO. Per semplificare, io aderisco all’emendamento dell’onorevole Bencivenga e ritiro il mio.

PRESIDENTE. Onorevole Bencivenga, mantiene il suo emendamento?

BENCIVENGA. Dopo i chiarimenti dell’onorevole Merlin, lo trasformo in ordine del giorno.

PRESIDENTE. Onorevole Giua, mantiene il suo emendamento?

GIUA. Lo ritiro.

PRESIDENTE. Non essendo presente l’onorevole Di Giovanni, il suo emendamento si intende decaduto.

Onorevole Laconi, mantiene il suo emendamento?

LACONI. Lo mantengo.

PRESIDENTE. Onorevole Azzi, mantiene i suoi emendamenti?

AZZI. Mantengo il primo e il secondo; la Commissione ha accettato il terzo.

PRESIDENTE. Onorevole Gasparotto, mantiene l’emendamento?

RUINI, Presidente della Commissione per la Costituzione. Comunico che l’onorevole Gasparotto mi ha dichiarato di ritirare l’emendamento, avendo firmato quello Laconi.

PRESIDENTE. Onorevole Coppa, mantiene l’emendamento?

COPPA. Lo mantengo.

PRESIDENTE. Onorevole Perugi, mantiene i suoi emendamenti?

PERUGI. Ritiro il primo e mantengo il secondo.

PRESIDENTE. Onorevole Caporali, mantiene l’emendamento?

CAPORALI. Lo mantengo e protesto contro l’affermazione che ebbe a fare l’onorevole Merlin. Ricordo all’onorevole Merlin che la obiezione da lui fatta riguarda una questione ormai accettata, in quanto i cappellani militari sono esenti dal portare le armi.

PRESIDENTE. L’onorevole Colitto mantiene il suo emendamento?

COLITTO. Dichiaro di mantenere l’emendamento.

PRESIDENTE. Non essendo presenti gli onorevoli Rodi, Sullo e Selvaggi, i loro emendamenti si intendono decaduti.

Gli emendamenti degli onorevoli Azzi, Gasparotto e Di Giovanni per la sostituzione delle parole: «delle forze armate» alle altre: «dell’esercito» sono stati accettati dalla Commissione.

Onorevole Calosso, mantiene l’emendamento?

CALOSSO. Lo mantengo.

PRESIDENTE. Onorevole Perugi, mantiene l’emendamento?

PERUGI. Lo mantengo.

PRESIDENTE. Onorevole Giacchero, mantiene l’emendamento?

GIACCHERO. Gradirei conoscere l’opinione del Relatore.

PRESIDENTE. Il Relatore ha espresso il parere che l’emendamento possa essere rinviato analogamente a quanto è stato fatto per l’altro, proposto dall’onorevole Clerici.

GIACCHERO. Sta bene; aderisco.

PRESIDENTE. Onorevole Nobile, mantiene l’emendamento?

NOBILE. Aderisco alla richiesta di trasformarlo in un ordine del giorno.

PRESIDENTE. Sarà opportuno, onorevole Nobile, che si metta d’accordo con l’onorevole Bencivenga che deve pure presentare un ordine del giorno.

Passiamo ora alla votazione dell’articolo 49. Il primo comma è così formulato:

«La difesa della Patria è sacro dovere del cittadino».

Su questo primo comma, il solo emendamento implicito è contenuto nella proposta dell’onorevole Cairo, di sostituire il comma col seguente:

«La difesa della Patria è dovere di tutti i cittadini».

CAIRO. Chiedo di parlare.

PRESIDENTE. Ne ha facoltà.

CAIRO. Mi pareva che il dovere della difesa della Patria non esigesse la necessità di alcun aggettivo rafforzativo, in quanto la difesa della Patria è sacra di per sé, senza aiuto di rafforzativi, che per me diminuiscono invece il concetto e la sostanza del dovere. Comunque, posso anche rinunciare e rinunzio alla mia formula.

PRESIDENTE. Pongo in votazione il primo comma dello articolo 49: «La difesa della Patria è sacro dovere del cittadino».

(È approvato).

Per la prima parte del secondo comma la Commissione ha dichiarato di aderire alla formulazione proposta dagli onorevoli Laconi, Targetti, Gasparotto, ed altri:

«Il servizio militare è obbligatorio nei limiti e modi stabiliti dalla legge».

L’onorevole Cairo ha proposto il seguente emendamento sostitutivo: «II servizio militare non è obbligatorio». Su questo emendamento è stata richiesta la votazione per appello nominale dagli onorevoli Chiaramello, Morini, Calosso, Momigliano, Filippini, Persico, Caporali, Canevari, Longhena, Pera, Carestia, Cairo, Labriola, e Villani. (Commenti).

CORBINO. Chiedo di parlare per dichiarazione di voto.

PRESIDENTE. Ne ha facoltà.

CORBINO. Noi votiamo per la formula del servizio militare obbligatorio, perché riteniamo che in questo momento, date le condizioni generali della finanza e del Paese, non si possa adottare l’organizzazione delle Forze armate su base volontaria.

GASPAROTTO. Chiedo di parlare per dichiarazione di voto.

PRESIDENTE. Ne ha facoltà.

GASPAROTTO. Il problema del volontariato l’ho sollevato per primo io; sono io, quindi, il responsabile maggiore di questo dibattito. Io ho detto però – e l’ho affermato in comunicati-stampa e nel mio discorso alla Costituente – che, pur essendo, in principio, favorevole al volontariato, riconoscevo che a questo non si poteva arrivare che gradualmente, perché nel momento attuale non sarebbe applicabile. Perciò ho proposto coi colleghi Sottosegretari al Ministero della difesa e poi con gli onorevoli Laconi e Targetti un emendamento, consacrante il principio dell’obbligo generale dei cittadini di servire la Patria, «nelle forme e con le modalità e i limiti da stabilirsi con leggi speciali».

Con questo intendevo ed intendo non chiudere le porte al volontariato che, gradualmente e fatalmente, dovrà andare in applicazione, in relazione ai nuovi compiti imposti alle milizie, ma nel tempo stesso affermare il dovere dei cittadini alla prestazione militare. Per questi chiari principî, che non contradicono affatto il voto che ho per primo enunciato, dichiaro di votare contro l’emendamento Cairo, inteso a sopprimere sotto qualsiasi forma l’obbligatorietà del servizio militare.

RUINI, Presidente della Commissione per la Costituzione. Chiedo di parlare.

PRESIDENTE. Ne ha facoltà.

RUINI, Presidente della Commissione per la Costituzione. Devo fare una semplice dichiarazione a conferma di quanto ha detto il collega Merlin. Abbiamo cercato di formulare la dizione proposta la quale, mentre apre la porta ad una adozione sempre più larga del volontariato, non stabilisce il divieto del servizio militare obbligatorio. Perché, onorevoli colleghi, se noi dichiarassimo nella Costituzione che il servizio militare non è obbligatorio, se domani – non voglia il cielo! – una guerra ci costringesse a fare il servizio obbligatorio, non lo potremmo fare perché è scritto nella Costituzione.

La cosa è di una tale gravità che, se i colleghi ci pensano, dovrebbero aderire alla formula adottata che, mentre toglie rigidità al servizio obbligatorio, non va incontro a questo inconveniente che, per me, sarebbe un assurdo. (Applausi).

COLITTO. Chiedo di parlare per dichiarazione di voto.

PRESIDENTE. Ne ha facoltà.

COLITTO. Dichiariamo di votare in favore dell’obbligatorietà del servizio militare. La coscrizione obbligatoria è il miglior mezzo per introdurre nell’esercito, come si vuole dalla Commissione, lo spirito democratico. Facciamo anche nostre le ragioni indicate dall’onorevole Corbino. Voteremo contro la proposta dell’onorevole Cairo.

CAIRO. Chiedo di parlare per dichiarazione di voto.

PRESIDENTE. Ne ha facoltà.

CAIRO. Desidero dire che noi proponenti dell’emendamento – ed io incrollabilmente – siamo fedeli al principio dell’abolizione del servizio militare obbligatorio. Si è ripetuto qui l’antico e vieto sofisma che sta a fondamento ed a giustificazione, errata ed artificiosa di tutte le guerre di aggressione: Si vis pacem para bellum. (Rumori).

Ora, io credo fermamente che il nostro emendamento racchiuda una verità alla quale noi ci accostiamo con molta, con troppa trepidazione: e la verità è che questo mondo è stanco di guerre. (Rumori). Ora, è stato detto da certi settori che questo è fare della cattiva poesia; io affermo invece che questo è fare dell’ottima prosa, che questo è parlare di una realtà storica concreta, poiché soltanto abolendo lo strumento della guerra che è l’esercito noi potremo affermare la nostra sincera volontà di pace. (Applausi a sinistra Commenti Rumori).

Mi si potrebbe tacciare di retorica se, a cagione della retorica della guerra, l’Italia non fosse ancora esulcerata da un complesso di ferite e di sciagure senza nome.

PRESIDENTE. Onorevole Cairo, non svolga un’altra volta il suo emendamento, per favore.

CAIRO. Poiché dunque non posso svolgere nuovamente il mio emendamento, questa non sarebbe la sede, io dico a coloro che qui in quest’Aula manifestano lo stesso sentimento pacifista che è nel mio animo, ma poi si dispongono a votare contro il mio emendamento, che noi abbiamo il coraggio delle nostre opinioni. (Rumori Proteste).

Votazione per appello nominale.

PRESIDENTE. Indico la votazione per appello nominale sull’emendamento presentato dall’onorevole Cairo, che è del seguente tenore: «Il servizio militare non è obbligatorio».

Estraggo a sorte il nome del deputato dal quale comincerà la chiama.

(Segue il sorteggio).

Comincerà dall’onorevole Gullo Rocco.

Si faccia la chiama.

Presidenza del vicepresidente TARGETTI

SCHIRATTI, Segretario, fa la chiama.

Rispondono sì:

Bianchi Bianca – Bocconi.

Cairo – Calamandrei – Calosso – Canepa – Canevari – Caporali – Carboni – Cartia – Chiaramello – Corsi.

Damiani – Di Gloria.

Fietta – Filippini.

Lami Starnuti – Longhena.

Mastino Pietro – Momigliano – Montemartini – Morini.

Paris – Pera – Persico – Piemonte – Pieri Gino.

Rossi Paolo – Ruggiero Carlo.

Segala – Simonini.

Villani.

Zanardi.

Rispondono no:

Abozzi – Adonnino – Alberti – Aldisio – Allegato – Amadei – Ambrosini – Andreotti – Angelini – Angelucci – Arcaini – Arcangeli – Assennato – Azzi.

Bacciconi – Badini Confalonieri – Baldassari – Balduzzi – Baracco – Barbareschi – Bardini – Barontini Anelito – Barontini Ilio – Bassano – Basso – Bastianetto – Bellato – Bellavista – Bellusci – Belotti – Bencivenga – Benedetti – Benvenuti – Bergamini – Bernamonti – Bertini Giovanni – Bertola – Bertone – Bettiol – Biagioni – Bianchi Bruno – Bianchini Laura – Bibolotti – Bitossi – Boldrini – Bonomelli – Bosco Lucarelli – Bovetti – Braschi – Bruni – Brusasca – Bubbio – Bucci – Bulloni Pietro – Burato.

Cacciatore – Caccuri – Caiati – Caldera – Camangi – Camposarcuno – Cappa Paolo – Cappelletti – Cappi Giuseppe – Caprani – Capua – Carbonari – Caristia – Carmagnola – Caroleo – Caronia – Carpano Maglioli – Caso – Cassiani – Castelli Edgardo – Castelli Avolio – Cavallari – Cavalli – Cavallotti – Cevolotto – Chatrian – Chieffi – Ciampitti – Ciccolungo – Cifaldi – Cimenti – Clerici – Codacci Pisanelli – Colitto – Colombi Arturo – Colombo Emilio – Conci Elisabetta – Condorelli – Conti – Coppa Ezio – Coppi Alessandro – Corbino – Corsanego – Costa – Costantini – Cotellessa – Cremaschi Carlo – Cremaschi Olindo – Crispo.

D’Amico Diego – De Caro Gerardo – De Falco – De Filpo – De Gasperi – Del Curto – Della Seta – Delli Castelli Filomena – De Maria – De Martino – De Mercurio – De Michele Luigi – De Michelis Paolo – De Palma – De Unterrichter Maria – Di Fausto – Di Vittorio – Dominedò – Dugoni.

Ermini.

Fabbri – Fabriani – Faccio – Fanfani – Fantuzzi – Farini Carlo – Fedeli Aldo – Fedeli Armando – Ferrarese – Ferrario Celestino – Ferreri – Fiore – Fiorentino – Fioritto – Firrao – Flecchia – Fogagnolo – Foresi – Franceschini – Fresa – Froggio – Fuschini.

Gabrieli – Galati – Garlato – Gasparotto – Gatta – Germano – Gervasi – Geuna – Ghidetti – Ghislandi – Giacchero – Giannini – Giolitti – Giordani – Giua – Gonella – Gortani – Gotelli Angela – Grassi – Grazi Enrico – Grieco – Gronchi – Guariento – Guerrieri Emanuele – Guerrieri Filippo – Gui – Gullo Fausto.

Iotti Leonilde.

Jacini – Jacometti – Jervolino.

Labriola – Laconi – Lagravinese Pasquale – La Malfa – Landi – La Rocca – Lazzati – Lettieri – Lizier – Lucifero.

Maffi – Maffioli – Magnani – Magrini – Malagugini – Maltagliati – Malvestiti – Mancini – Mannironi – Marazza – Marconi – Mariani Enrico – Mariani Francesco – Marinaro – Martinelli – Martino Enrico – Marzarotto – Massola – Mastino Gesumino – Mattarella – Mattei Teresa – Meda Luigi – Merlin Angelina – Merlin Umberto – Miccolis – Micheli – Minio – Molè – Molinelli – Monterisi – Montini – Morelli Renato – Mortati – Mùrdaca – Murgia – Musolino – Musotto.

Negro – Nenni – Nicotra Maria – Nobile Umberto – Nobili Tito Oro – Noce Teresa – Notarianni – Numeroso.

Orlando Camillo.

Pacciardi – Pajetta Gian Carlo – Pajetta Giuliano – Pallastrelli – Paolucci – Paratore – Parri – Pastore Raffaele – Pat – Patricolo – Pecorari – Pella – Pellegrini – Penna Ottavia – Perassi – Perugi – Petrilli – Piccioni – Pignedoli – Pistoia – Platone – Ponti – Pressinotti – Preziosi – Priolo – Proia – Pucci.

Quintieri Adolfo.

Raimondi – Reale Vito – Recca – Restagno – Ricci Giuseppe – Riccio Stefano – Rivera – Rodi – Rodinò Ugo – Rognoni – Romano – Romita – Roselli – Roveda – Rubilli – Ruggeri Luigi – Ruini – Rumor – Russo Perez.

Saccenti – Saggin – Salizzoni – Sampietro – Sansone – Sardiello – Sartor – Scalfaro – Scelba – Schiratti – Scoccimarro – Scotti Alessandro – Scotti Francesco – Secchia – Segni – Siles – Silipo – Spallicci – Stella – Storchi – Sullo Fiorentino – Tambroni Armaroli – Targetti – Tega – Terranova – Titomanlio Vittoria – Togliatti – Togni – Tomba – Tonello – Tosato – Tosi – Tozzi Condivi – Trimarchi – Tumminelli – Tupini – Turco.

Uberti.

Valenti – Vallone – Valmarana – Vernocchi – Veroni – Viale – Vicentini – Vigna – Vigo – Villabruna – Vinciguerra – Vischioni – Volpe.

Zotta.

Si sono astenuti:

Moro.

Pastore Giulio.

Zaccagnini.

Sono in congedo:

Bargagna – Benvenuti – Bernardi.

Cingolani Mario.

Di Giovanni.

Ghidini – Guidi Angela – Gullo Rocco.

La Pira – Lombardo Ivan Matteo.

Merighi – Morelli Luigi.

Pignatari.

Rapelli – Rescigno.

Zerbi.

PRESIDENTE. Dichiaro chiusa la votazione nominale e invito gli onorevoli Segretari a procedere al computo dei voti.

(Gli onorevoli Segretari procedono al computo dei voti).

Presidenza del Presidente TERRACINI

Risultato della votazione per appello nominale.

PRESIDENTE. Comunico il risultato della votazione sull’emendamento Cairo:

Presenti                    368

Votanti                     365

Astenuti                       3

Maggioranza             183

Hanno risposto          33

Hanno risposto no     332

(L’Assemblea non approva).

Si riprende la discussione del progetto di Costituzione della Repubblica italiana

PRESIDENTE. Passiamo all’emendamento sostitutivo presentato dall’onorevole Azzi, che lascia indeterminata la questione dell’obbligatorietà o meno del servizio militare:

«La prestazione del servizio militare è regolata dalla legge».

Lo pongo in votazione.

(Non è approvato).

Passiamo all’emendamento Coppa, non accettato dalla Commissione, tendente ad aggiungere dopo la parola: «obbligatorio» le seguenti: «per i cittadini di sesso maschile».

MORO. Chiedo di parlare per dichiarazione di voto.

PRESIDENTE. Ne ha facoltà.

MORO. Voterò a favore per togliere ogni possibile equivoco circa l’estensione del servizio militare.

TONELLO. Chiedo di parlare per dichiarazione di voto.

PRESIDENTE. Ne ha facoltà.

TONELLO. Dichiaro che voterò contro per non recare offesa al sesso femminile. (Si ride – Commenti).

PRESIDENTE. Pongo ai voti l’emendamento Coppa.

(Non è approvato).

Pongo in votazione la prima parte del testo proposto dalla Commissione: «Il servizio è obbligatorio nei limiti e nei modi stabiliti dalla legge».

(È approvata).

Pongo in votazione la seconda parte del comma:

«Il suo adempimento non pregiudica la posizione di lavoro del cittadino né l’esercizio dei diritti politici».

(È approvata).

Si intende così assorbito l’emendamento sostitutivo dell’onorevole Azzi.

Si deve ora votare l’emendamento aggiuntivo dell’onorevole Caporali:

«Sono esenti dal portare le armi coloro i quali vi obbiettino ragioni filosofiche e religiose di coscienza».

ROSSI PAOLO. Chiedo di parlare per dichiarazione di voto.

PRESIDENTE. Ne ha facoltà.

ROSSI PAOLO. Volevo dire che l’onorevole Caporali avrà almeno un soldato, che sono io, nel votare questo emendamento.

Mi pare che l’onorevole Relatore non abbia capito in pieno l’enorme importanza dell’argomento quando lo ha sottovalutato come una questione che possa interessare soltanto alcune sette ignorate nel nostro Paese come quella dei quaccheri. Basta che egli abbia la bontà di rileggere le discussioni antiche e recenti che si sono svolte su questo argomento nel Parlamento inglese, e che una volta di più hanno riaffermato il diritto degli obiettori di coscienza, per vedere che proprio in questa materia si era giunti, in un paese civile e di antiche tradizioni parlamentari, all’apice dell’eticità.

Né si dica che l’obiezione di coscienza apre una comoda porta alla codardia.

Soprattutto nella guerra moderna sono concepibili impieghi militari difensivi altrettanto rischiosi, se non ancor più rischiosi dell’impugnare le armi. Basta pensare ai servizi di addestramento antigas, ai servizi antiaerei, per vedere che un uomo, al quale per ragioni di alta coscienza ripugni di portare le armi contro il prossimo, può ugualmente, e con maggior nobiltà, morire per il proprio Paese. Voterò per l’emendamento Caporali.

PRESIDENTE. Pongo ai voti l’emendamento Caporali.

(Non è approvato).

Passiamo al terzo comma che nel testo della Commissione è così formulato:

«L’ordinamento delle Forze armate si informa allo spirito democratico della Repubblica italiana».

L’onorevole Colitto ha proposto di sopprimere il comma. Su questo emendamento è stata chiesta la votazione per scrutinio segreto dagli onorevoli Colitto, Sullo, Maffioli, Rodi, Corbino, Rognoni, Corsini, Abozzi, Caso, Bencivenga, Lucifero, Russo Perez, Coppa, Miccolis, De Falco, Caroleo, Siles, Bellavista, Giacchero, Lagravinese Pasquale.

Procedo all’appello dei firmatari della richiesta.

(Segue l’appello).

Sono presenti gli onorevoli: Colitto, Sullo, Maffioli, Corbino, Abozzi, Bencivenga, Cappa, Caroleo, Bellavista, Giacchero, Rognoni, Rodi, Russo Perez e Lagravinese Pasquale.

Non sono presenti gli onorevoli Corsini, Caso, Lucifero, Miccolis, De Falco e Siles.

Poiché risultano presenti soltanto quattordici firmatari, la richiesta di votazione per scrutinio segreto non può avere corso.

Pongo in votazione la proposta di soppressione del terzo comma.

(Non è approvata).

Pongo in votazione il terzo comma: «L’ordinamento dell’esercito si informa allo spirito democratico della Repubblica italiana».

(È approvato).

Pongo in votazione il comma aggiuntivo presentato dall’onorevole Cairo:

«La Repubblica, nell’ambito delle convenzioni internazionali, attuerà la neutralità perpetua».

(Non è approvato).

Pongo in votazione il comma aggiuntivo proposto dall’onorevole Calosso:

«Nel bilancio dello Stato, le spese per le Forze armate non potranno superare le spese per la pubblica istruzione, salva legge del Parlamento di durata non superiore a un anno».

È stata presentata la domanda di votazione per appello nominale su questo emendamento dagli onorevoli Cairo, Chiaramello, Calosso, Canevari, Bassano, Filippini, Magrini, Longhena, Pera, Labriola, Mastino Pietro, Calamandrei, Momigliano, Caporali, Nasi e Cevolotto.

Procedo all’appello dei firmatari della richiesta.

(Segue l’appello).

Poiché risulta assente soltanto l’onorevole Calamandrei, l’appello nominale può aver corso.

GASPAROTTO. Chiedo di parlare per dichiarazione di voto.

PRESIDENTE. Ne ha facoltà.

GASPAROTTO. A mio avviso l’emendamento Calosso, che propone di pareggiare il bilancio della difesa con quello della pubblica istruzione, non è materia di Costituzione. Se si trattasse di esprimere un voto, il voto che il bilancio della pubblica istruzione sia elevato di molto, raddoppiato puranco, potremmo essere tutti concordi; ove invece si tratti, come ci si propone con l’emendamento, di fissare questo voto nella realtà legislativa, e nelle tavole della Costituzione, non mi potrei dichiarare concorde, perché i due bilanci, della difesa militare del Paese e della pubblica istruzione, non sono conformi, non sono paralleli, non sono omogenei. Il bilancio della pubblica istruzione è essenzialmente un bilancio di assegni al personale, mentre il bilancio delle Forze armate è gravato da una fortissima aliquota di spese per armi, per materiale vario, dalle navi agli aeroplani, per dotazioni e per consumo delle attrezzature militari.

Quando poi si passi a mettere in rilievo i diversi compiti assegnati ai due Dicasteri, la differenza si dilata e si sostanzia in questo: che allo scoppio delle ostilità il Ministero della pubblica istruzione potrebbe addirittura chiudere o quanto meno limitare di molto la sua attività, mentre il Dicastero della difesa dovrebbe moltiplicarla, addirittura. Comunque, valgano le cifre seguenti, che sono quanto mai espressive. Il bilancio del Ministero della difesa, il bilancio di previsione per il 1946-1947, cioè per l’esercizio che sta chiudendosi, è di 73 miliardi, ma, considerando la sola parte assegnata al personale, questa cifra si riduce a 36 miliardi.

Il Ministero della difesa dispone di un personale di 290 mila unità, con la spesa per il personale dei 36 miliardi e 820 milioni già accennata.

Qualora però questa cifra, elevata indubbiamente, venga depurata degli assegni relativi al personale civile esuberante, che dobbiamo mantenere per ragioni di alta opportunità, per non dire di necessità politica, ai militari trattenuti alle armi perché residenti in territori inaccessibili e agli assegni da darsi agli sfollandi, la cifra per il personale si riduce a 26 miliardi e 826 milioni di lire.

Ora il bilancio 1946-1947 della pubblica istruzione, con un personale notevolmente inferiore, cioè di 190 mila unità, ha una spesa in passivo di 26 miliardi e 353 milioni.

Come sì vede, adunque, la somma per unità spesa dalla pubblica istruzione è superiore a quella della difesa.

Comunque, per entrare in un argomento di scottante attualità, poiché il Presidente del Consiglio nel suo ultimo discorso alla radio ha già annunciato la cifra fissata dal Ministero del tesoro per il bilancio di previsione delle Forze armate per l’esercizio che sta per aprirsi, 1947-1948, è bene che questa cifra sia precisata e chiarita: sono 155 miliardi 296 milioni 287 mila lire.

Però, va pur detto, perché non sia tutti i giorni diffamato questo povero bilancio, qualora si tenga conto della svalutazione della moneta, le spese preventivate per il nuovo esercizio sono di molto inferiori a quelle dell’esercizio precedente.

Inoltre, va osservato che, per quanto riguarda l’esercito, nel bilancio attuale, di 103 miliardi che gli sono assegnati sono compresi, notate bene, 22 miliardi e 178 milioni per l’arma dei carabinieri, sono compresi 2 miliardi e 976 milioni per il personale civile non di ruolo e salariato esuberante alle necessità dell’esercito. Sono compresi altresì 3.450 milioni per la bonifica dei campi minati (tutte spese che non si possono cancellare), sono compresi 5.500 milioni di spese per i prigionieri di guerra, sono compresi due miliardi per spese residuali della guerra; tutte cifre che non incidono sull’efficienza delle forze militari, che sono, in un certo senso, peso morto e che non riguardano direttamente il bilancio della difesa. Ad esempio, le spese, che sono 22.178 milioni per i carabinieri, potrebbero essere accollate comodamente al bilancio del Ministero dell’interno. Si conclude che, per quanto riguarda l’esercito, le spese estranee alla difesa gravano su quel bilancio per il 45,08 per cento.

Per quanto riguarda la marina, abbiamo la spesa di 4.500 milioni per i salariati eccedenti ai suoi bisogni; abbiamo 2 miliardi e 450 milioni per spese di dragaggio, per riparazioni di navi e per rate di saldo e pagamento di dragamine; abbiamo spese di guerra e straordinarie che non riguardano le esigenze della difesa, ma che incidono sul bilancio per 3.620 milioni. Per l’aeronautica abbiamo in bilancio per la sistemazione di aeroporti 470 milioni, per spese di guerra e assegni ai prigionieri un miliardo e 210 milioni, per pensioni e assegni al personale sfollante 2.923 milioni e via dicendo. Di conseguenza questi due bilanci – Difesa e Pubblica istruzione – sono sostanzialmente e profondamente diversi tanto che non si possono mettere in raffronto, mancando in essi l’elemento della parallelità. Io che ho esordito nella vita come maestro elementare e sento per la scuola una immensa passione, posso augurare, come Calosso e forse più di Calosso, che il bilancio del Ministro Gonella possa essere fin da quest’anno raddoppiato, ma prego – per l’evidenza delle cose che ho detto e che sono documentate da cifre eloquenti – di non insistere in un emendamento che, messo ai voti, potrebbe tornare a nostro danno. Se si tratti di esprimere in un ordine del giorno questo voto dell’Assemblea perché sia rafforzata ed elevata la situazione della pubblica istruzione in Italia, ci troverete tutti concordi, ma non potrete averci concordi in un voto che potrebbe ferire profondamente quelle che sono le ragioni di vita dell’esercito italiano e compromettere la forza difensiva del nostro Paese. (Applausi).

CALOSSO. Chiedo di parlare per dichiarazione di voto.

PRESIDENTE. Ne ha facoltà.

CALOSSO. Se l’acustica di quest’Aula fosse migliore, avremmo avuto il piacere di sentire l’autorevole discorso dell’onorevole Gasparotto, il quale ha risposto molto bene, ma a domande che non avevamo fatto noi, nel nostro ordine del giorno, che è l’ordine del giorno del Gruppo socialista dei lavoratori italiani e di deputati di altri partiti, compresi alcuni democristiani.

L’onorevole Gasparotto ha elencato quali sono le spese militari attuali: dragare le mine e fare tante altre cose; ma ha detto che il bilancio 1947-1948 sarà, per il Ministero della difesa di 155 miliardi, mentre quello della istruzione è di 26 miliardi. Ora che cosa dicevamo noi? Non negavamo che per le spese militari ci fosse da dragare le mine e da fare tante altre cose, perché non crediamo che le spese militari siano necessarie soltanto per infilare con le baionette dei disgraziati. Anche per dragare le mine occorrono le spese militari, così come una volta occorreva dare ai bersaglieri dei bei cappelli piumati. Noi abbiamo detto che non è il Ministro della guerra, non sono i generali o i tecnici, che debbono dire quanto ci vuole per l’esercito. Perché un onesto tecnico possa rispondere alle necessità della difesa, è necessario che abbia un esercito almeno superiore al più grande esercito del mondo (Commenti). Io penso che la sicurezza non è affatto un elemento da mettere in gioco. È il politico che deve stabilire quanto si possa dare per le spese militari, qualunque sia la situazione.

PRESIDENTE. La prego, onorevole Calosso; rammento tutte le osservazioni che lei ha già fatte,

CALOSSO. Però mi sembra che queste osservazioni non siano state udite. Infatti le belle ragioni esposte dall’amico Gasparotto non hanno a che fare con la nostra tesi. Tocca a noi, Assemblea politica, dire quanto si debba dare all’esercito per le spese militari. Abbiamo un Paese analfabeta, che ha pochi operai qualificati e un deficiente sport scolastico: è evidente che manchiamo delle basi nazionali per formare l’esercito. Noi diciamo una cifra e non si deve superare quella cifra. Come la spendano i tecnici non ci riguarda: se vorranno dragare delle mine lo facciano pure. (Si ride – Commenti).

PRESIDENTE. Onorevole Calosso, la prego, risponda a questa mia domanda: conserva il suo emendamento?

CALOSSO. Sì, certamente.

GRONCHI. Chiedo di parlare per dichiarazione di voto.

PRESIDENTE. Ne ha facoltà.

GRONCHI. Credo che sia superfluo, in questo dibattito dall’emendamento proposto dall’onorevole Calosso, di affermare che il voto contrario che noi diamo non ha alcun significato politico. La nostra contrarietà alla guerra va intesa in un senso più profondo e spirituale di quello di un semplice indirizzo politico. Non ci pare possibile introdurre una simile proposta in un articolo di Costituzione. L’onorevole Calosso e i suoi colleghi sono stati perfino obbligati a decretare che l’eventuale guerra non possa durare più di un anno. (Si ride).

Rispondo con una piacevolezza alle molte che l’onorevole Calosso ha detto, per dire che non è certo possibile in una Costituzione enunciare un principio del genere di quello che l’emendamento contiene. Perciò, spogliandolo, come deve essere per serietà, di ogni valore di indirizzo politico, noi voteremo contro l’emendamento.

CORBINO. Chiedo di parlare per dichiarazione di voto.

PRESIDENTE. Ne ha facoltà.

CORBINO. Se vi sono delle ragioni a favore dell’emendamento Calosso dal punto di vista spirituale, dal punto di vista pratico tale emendamento non serve a niente. Io sfiderei chiunque a determinare con esattezza quale sia oggi la spesa per la pubblica istruzione e quali siano le spese militari, perché per la pubblica istruzione e per le Forze armate spendono Stato, Comuni e provincie; domani poi avremo anche le regioni e probabilmente anche ad esse appiopperemo oneri per l’istruzione. Come fare il confronto? Eppoi, caro Calosso, non è bastato il trattato di Versailles ad impedire alla Germania di spendere diecine di miliardi di marchi (marchi buoni) per armamenti che non erano contemplati dalle clausole del trattato. Potremmo illuderci che con le leggi di contabilità di Stato riusciremmo ad impedire che per l’esercito – quando se ne riconosca la necessità – si debba spendere più o meno di quello che si spende per l’istruzione?

Ecco perché, pur ammettendo che l’istruzione debba passare avanti alle spese militari in tempi normali, quando si presenteranno tempi brutti, le Assemblee e i governi troveranno sempre la maniera di ingannare la Costituzione e le leggi sulla contabilità dello Stato. Per questa ragione noi voteremo contro l’emendamento.

TARGETTI. Chiedo di parlare per dichiarazione di voto.

PRESIDENTE. Ne ha facoltà.

TARGETTI. È superfluo dire che il Partito socialista è fermamente convinto della necessità che ci sia una determinata proporzione tra le spese militari e le altre spese. In tutta la sua storia ha combattuto, e, purtroppo per il Paese, con poca fortuna, una continua battaglia per la riduzione delle spese militari, sostenendo, eppoi constatando, che quello che l’Italia anche prima del fascismo spendeva per la marina e per la guerra, specialmente nei momenti nei quali fu presa da un’infatuazione imperialistica che le fu inoculata per motivi di politica interna, fu la causa più grave, che le impedì di sodisfare ai bisogni della nuova civiltà. Ma questo non può esercitare nessuna tentazione verso un eventuale accoglimento dell’emendamento Calosso, perché ci sembra intuitivo – io non voglio criticare la proposta in una forma che possa sembrare poco rispettosa per i proponenti – che, se c’è un emendamento non dico non attinente, ma addirittura estraneo alla Carta costituzionale, anche alla più diffusa che immaginare si possa, è proprio questo che consiste nella determinazione di un rapporto fisso fra le spese di un bilancio e le spese di un altro.

CALOSSO. Sì, tecnicamente; ma vi sono anche diverse firme del Partito socialista italiano a questo emendamento, firme di autentici socialisti (Commenti).

TARGETTI. Ella mi insegna che non è certo una firma che può far cambiare la consistenza di un emendamento. Il fatto che qualche nostro collega abbia ritenuto di sottoscrivere l’emendamento in discussione, significa soltanto che egli era di opinione diversa da tutto il resto del suo Gruppo, anche se non si voglia osservare che chi ha posto quella firma, l’ha forse posta per un impulso dell’animo, dal quale tutti noi saremmo tentati di lasciarci guidare, se non considerassimo la natura e la portata della norma proposta, inconciliabile con il carattere e la portata che devono avere norme costituzionali.

Per concludere, onorevoli colleghi, noi non abbiamo nessuna autorità per fare alcun invito all’onorevole Calosso e agli altri suoi colleghi. Ma se questa autorità avessimo, l’adopereremmo per dir loro: persuadetevi che se votiamo contro non è perché si sia in uno stato d’animo diverso dal vostro. Voi dovete riconoscerlo. Ed allora perché insistervi? Voi farete tutto il possibile, ma credete pure che tutto il possibile faremo anche noi, oggi domani e sempre per impedire che le spese militari ostacolino le opere di civiltà, di pace, da cui dipende la resurrezione del nostro Paese! (Interruzione dell’onorevole Calosso).

PRESIDENTE. Onorevole Targetti, la prego di concludere.

TARGETTI. Avrei già concluso, ma le interruzioni suggeriscono spesso nuovi argomenti.

Un’ultima osservazione: questo emendamento stabilisce un rapporto fisso tra il bilancio delle Forze armate e quello dell’istruzione. Perché allora non stabilire un altro rapporto tra il bilancio delle forze armate e il bilancio della giustizia, dell’agricoltura ed altri bilanci che esigono larghe previsioni? Queste modestissime osservazioni dovrebbero persuadere i proponenti che il loro emendamento vorrebbe regolare e regola, comunque, male una materia del tutto estranea alla Carta costituzionale.

LACONI. Chiedo di parlare per dichiarazione di voto.

PRESIDENTE. Ne ha facoltà.

LACONI. Dichiaro che noi non voteremo l’emendamento proposto dall’onorevole Calosso. Ci pare assurdo che in un momento in cui sulla Nazione pesa l’onere di un trattato di pace, che limita le nostre spese militari, in questo momento si debba fare un’affermazione di questo genere. Un Paese che non difende la sua indipendenza – questo vorrei dire all’onorevole Calosso, se entrassi nel merito della questione – non può neanche difendere la propria cultura (Interruzione dell’onorevole Calosso). Non si può, quindi, regolare questa materia con un riferimento puramente aritmetico e farla oggetto di affermazioni vuote e prive di qualsiasi contenuto, se non dell’unico contenuto demagogico che intendono avere e che hanno. (Applausi).

Se poi dovessi scendere all’esame dell’articolo…

PRESIDENTE. No, non vi scenda.

LACONI. …vorrei aggiungere qualcosa a quanto ha detto l’onorevole Corbino sulla vanità di questo articolo. Vorrei far rilevare che, in sostanza, questo articolo mirerebbe unicamente a determinare un controllo dell’Assemblea legislativa sui suoi propri atti, in quanto è sempre permesso all’Assemblea legislativa di domani di aumentare il bilancio delle Forze armate al di sopra dei limiti stabiliti per quelli della Pubblica istruzione, facendo unicamente una legge ad hoc.

CALOSSO. Annuale.

LACONI. Appunto: questa considerazione annuale della questione, da parte dell’Assemblea legislativa, è già prevista, in quanto essa deve annualmente approvare con legge i bilanci. Evidentemente, questo non è altro che un giro vuoto di parole. (Applausi).

RUSSO PEREZ. Chiedo di parlare per dichiarazione di voto.

PRESIDENTE. Ne ha facoltà.

RUSSO PEREZ. Vorrei unirmi alle preghiere dei colleghi affinché l’onorevole Calosso ritiri la sua proposta. Se si voterà, io voterò contro.

Ricordo, negli anni durissimi, di aver ascoltato alla radio la voce lontana dell’onorevole Calosso e trovai che è un uomo di spirito. Ed egli ne ha voluto dare conferma in questo emendamento. È riuscito allo scopo. (Si ride – Applausi).

Se sfogliamo tutti quei numerosi libri che ci ha mandato gratis il Ministero della Costituente, nelle numerosissime Costituzioni di ogni parte del globo non ne troviamo una sola in cui vi sia una disposizione di questo genere. Quindi, non è una disposizione di indole costituzionale. Per queste ragioni credo che si debba votare contro.

Che se poi si vuole prendere la disposizione come un voto platonico o demagogico, come ha detto l’onorevole Laconi, contro la guerra, abbiamo già votato l’articolo 4, che dice: «L’Italia rinuncia alla guerra come strumento di conquista»; ed io aggiunsi anche: «come mezzo di riconquista». Quindi, basta questo perché non si approvi l’articolo.

CALOSSO. Chiedo di parlare per fatto personale.

PRESIDENTE. Onorevole Calosso, ogni volta che si fanno delle proposte si costituisce un fatto personale che permane fino a quando la proposta non è superata. Comunque, parli.

CALOSSO. Di tutti questi discorsi, una sola parola mi pare possa ritenersi personale: quella che ha pronunciato l’onorevole Laconi, il quale ha parlato di demagogia. (Commenti). Ora, è proprio questo che esula dalla nostra proposta perché, se noi ragioniamo con quella calma, con quella semplicità e con quella oratoria che non merita l’accusa di demagogia, si vedrà facilmente come il proposito che ci ha mosso nel presentare questo emendamento sia soprattutto un calcolo, che sarà sbagliato, che potrà essere sbagliato, ma che è quello di non perdere una terza volta, in una terza guerra mondiale. (Commenti).

E abbiamo anche spiegato i motivi psicologici che garantiscono che questo è il nostro intendimento. (Commenti). Io ho persino riguardato la mia situazione familiare: la mia famiglia è quella di un militare effettivo. (Rumori – Commenti).

Dopo una sconfitta come quella che abbiamo avuto, questo è un problema profondamente serio da affrontare: possiamo aver ragione o aver torto, ma essere seri bisogna, profondamente seri. (Commenti – Si ride).

Io credo che sia una prova di serietà quella di credere che non ci sia in alcuno qui un perverso proposito antipatriottico; ma se io offendo l’Assemblea quando mi rivolgo alla sua serietà, allora domando scusa e prometto che mi rivolgerò alla sua non serietà.

PRESIDENTE. Onorevole Calosso, ci dica se mantiene la richiesta di votazione per appello nominale.

CALOSSO. Lo scopo che ci proponevamo era quello di porre il problema alla coscienza del Paese, ma l’atmosfera che si è creata nell’Assemblea ci dimostra che è un problema che non è ancora maturo per essere impostato. (Commenti).

Ritiro pertanto la proposta di votazione per appello nominale, unicamente perché noi non vogliamo fare ostruzionismo, ma vogliamo che ci sia qui la maggior possibile atmosfera di cordialità. (Applausi).

PRESIDENTE. Pongo in votazione il comma aggiuntivo presentato dall’onorevole Calosso e da numerosi altri colleghi:

«Nel bilancio dello Stato, le spese per le Forze armate non potranno superare le spese per la pubblica istruzione, salva legge del Parlamento di durata non superiore a un anno».

(Non è approvato).

Debbo porre ora in votazione l’emendamento aggiuntivo dell’onorevole Perugi:

«Le spese per le Forze armate saranno improntate a concetti di rigida economia e messe in relazione alla politica militare che intenderà svolgere la Repubblica».

PERUGI. Lo ritiro.

PRESIDENTE. Sta bene. Allora l’articolo 49 risulta, nel suo complesso, così approvato:

«La difesa della Patria è sacro dovere del cittadino.

«Il servizio militare è obbligatorio nei limiti e nei modi stabiliti dalla legge. Il suo adempimento non pregiudica la posizione di lavoro del cittadino né l’esercizio dei diritti politici.

«L’ordinamento delle Forze armate si informa allo spirito democratico della Repubblica italiana».

È stato presentato il seguente ordine del giorno nel quale gli onorevoli Nobile e Bencivenga hanno trasfuso i loro emendamenti, con l’adesione anche degli onorevoli Chatrian, Togliatti, Malagugini, Basso, Tonello, Rossi Paolo e Caroleo:

«L’Assemblea Costituente,

affermato il dovere della Repubblica di onorare il sacrificio e il valore dei cittadini che hanno difeso la Patria;

ritiene che una speciale legge debba provvedere alla creazione di appositi istituti di assistenza per i mutilati ed invalidi di guerra, sia militari che civili;

ritiene altresì che gli ufficiali e sottufficiali in servizio permanente effettivo, mutilati di guerra, debbano, quando ne facciano domanda, essere mantenuti in servizio in speciali ruoli di onore da istituirsi con legge».

Lo pongo in votazione.

(È approvato all’unanimità – Vivissimi, generali, prolungati applausi).

Il seguito della discussione è rinviato a domani alle 15.

La seduta termina alle 20.50.

Ordine del giorno per la seduta di domani.

Alle ore 15:

Seguito della discussione del progetto di Costituzione della Repubblica italiana.

MERCOLEDÌ 21 MAGGIO 1947

ASSEMBLEA COSTITUENTE

CXXVIII.

SEDUTA DI MERCOLEDÌ 21 MAGGIO 1947

PRESIDENZA DEL PRESIDENTE TERRACINI

INDICE

Congedi:

Presidente                                                                                                        

Comunicazione del Presidente:

Presidente                                                                                                        

Progetto di Costituzione della Repubblica italiana (Seguito della discussione):

Presidente                                                                                                        

Nobile                                                                                                               

Ruggero                                                                                                           

Condorelli                                                                                                      

Colombi                                                                                                            

Chatrian                                                                                                          

Merlin Umberto, Relatore                                                                                

                                                                                                                            

Colitto                                                                                                             

Mortati                                                                                                            

Coppa                                                                                                                

Bozzi                                                                                                                 

Carboni                                                                                                            

Morelli Renato                                                                                               

Bernabei                                                                                                           

Andreotti                                                                                                        

Mastino Pietro                                                                                                

Caroleo                                                                                                           

Giolitti                                                                                                             

Sullo                                                                                                                

Piemonte                                                                                                          

Rodi                                                                                                                  

Schiavetti                                                                                                        

Preziosi                                                                                                            

Dominedò                                                                                                         

Pajetta Giuliano                                                                                             

Moro                                                                                                                

Rossi Paolo                                                                                                      

Laconi                                                                                                              

Cianca                                                                                                              

Targetti                                                                                                           

Grassi                                                                                                               

Della Seta                                                                                                       

Ruini, Presidente della Commissione per la Costituzione                                      

Gronchi                                                                                                            

Canepa                                                                                                              

Costantini                                                                                                        

Lucifero                                                                                                           

Micheli                                                                                                             

Votazione segreta:

Presidente                                                                                                        

Risultato della votazione segreta:

Presidente                                                                                                        

La seduta comincia alle 15.

MOLINELLI, Segretario, legge il processo verbale della seduta precedente.

(È approvato).

Congedi.

PRESIDENTE. Comunico che hanno chiesto congedo gli onorevoli Di Giovanni, Pignatari e Meda.

(Sono concessi).

Comunicazioni del Presidente.

PRESIDENTE. Comunico che, in sostituzione dell’onorevole Alberganti, dimissionario, ho chiamato a far parte della terza Commissione permanente per i disegni di legge l’onorevole Bosi.

Seguito della discussione del progetto di Costituzione della Repubblica italiana.

PRESIDENTE. L’ordine del giorno reca il seguito della discussione del progetto di Costituzione della Repubblica italiana.

Riprendiamo la discussione generale sul Titolo IV.

È iscritto a parlare l’onorevole Nobile. Ne ha facoltà.

NOBILE. Onorevoli colleghi, nell’occuparmi dell’articolo 49 del progetto di Costituzione non mi lascerò trasportare a discutere di questioni generali. Sono un pacifista, ma attivo, non passivo del genere dell’onorevole Calosso: di quelli, cioè, che vogliono rimuovere le guerre rimuovendo le cause che le provocano. Sono convinto che fino a quando il mondo continuerà ad essere diviso in stati sovrani, fino a quando l’assetto economico delle società umane continuerà ad essere basato sulla libertà incontrollata di intraprese capitalistiche private, fino a quando non verrà applicato in tutto il mondo un sistema economico che eviti la disoccupazione, i conflitti armati tra Paese e Paese non potranno essere eliminati.

Certo non si può non rimanere spaventati all’idea che possa scoppiare una terza guerra mondiale. Con le armi terribili di cui oggi l’uomo dispone la guerra moderna è qualche cosa di assolutamente diverso da quello che è stata nel passato: essa produce devastazioni che al solo pensarle fanno inorridire. È possibile, forse probabile, che una terza guerra mondiale costituisca il crollo definitivo ed irreparabile della civiltà umana. Ma tale questione non ci interessa in questa discussione. L’onorevole Calosso, con la sua fosforescente oratoria, ha tentato convincerci della inutilità di avere un esercito. L’Italia, egli ha detto, è ormai ridotta al ruolo di una potenza minore, destinata a vivere come satellite nella scia di uno dei grandi astri che oggi dominano l’orizzonte internazionale. La sua forza militare, qualunque essa possa essere, non potrebbe che avere un peso trascurabile sulle sorti di una terza guerra mondiale, perché la preparazione alla guerra moderna richiede una potenza industriale ed una disponibilità di materie prime, che noi non abbiamo, che probabilmente non avremo mai. Ma il fatto è che un esercito dovremo pure averlo, non fosse altro che per metterci in condizione di adempiere agli obblighi che assumeremo il giorno in cui avremo chiesto ed ottenuto di far parte delle Nazioni Unite.

D’altra parte nessuno degli emendamenti presentati, nemmeno quello firmato dall’onorevole Calosso, ha il coraggio di proporre la soppressione del primo comma, che proclama essere la difesa della Patria sacro dovere del cittadino. Da questo obbligo deriva immediatamente la necessità di avere delle forze armate, altrimenti non si saprebbe in che modo quella difesa possa essere fatta. Certo, a quel comma si potrebbe obiettare che la distinzione fra guerre difensive e guerre aggressive è quanto mai incerta. Credo non vi sia stato fin oggi nessuno Stato aggressore che non abbia dimostrato che la guerra da esso scatenata non era altro che un atto di difesa. Ma qualunque origine abbia la guerra, una volta stabilito che il cittadino è tenuto a difendere il proprio Paese, segue la necessità di prepararlo. Di qui il secondo comma dell’articolo, conseguenza logica del primo.

Nel testo della Commissione questo secondo comma suona così:

«Il servizio militare è obbligatorio. II suo adempimento non pregiudica la posizione di lavoro del cittadino, né l’esercizio dei diritti politici».

Fermiamoci alla prima proposizione: «Il servizio militare è obbligatorio». Contro di essa sono insorti quelli che vogliono che l’arruolamento sia fatto volontariamente, non per coscrizione. Ma, come osservavo, la obbligatorietà nasce dal principio stesso che il cittadino è tenuto a difendere il proprio Paese, a meno che non si voglia intendere che tale obbligo sia limitato al caso di guerra e non si estenda altresì al periodo di pace, come, ad esempio è, fin oggi, avvenuto in Inghilterra e negli Stati Uniti, che sono i soli due Paesi dove non esiste la coscrizione obbligatoria o, per lo meno, non esisteva all’inizio di questa guerra. L’onorevole Calosso, per sostenere il suo emendamento, il quale dichiara la non obbligatorietà del servizio militare, si è riportato per l’appunto alla tradizione inglese, e ci ha ricordato che le ragazze inglesi erano tanto poco affascinate dalle uniformi militari da considerare che solo uno sfaccendato, un poco di buono, potesse decidersi ad arruolarsi. Un tale argomento, se ha valore, si rivolge se mai contro la obbligatorietà. In Italia, e credo anche negli altri Paesi dove il servizio militare è obbligatorio (e sono la quasi totalità), avviene precisamente il contrario. Mi piace a questo riguardo citare uno studio statistico del Gini, il quale giunge alla conclusione che i giovani sottoposti alla ferma militare si sposano con maggior frequenza degli altri, quasi che l’aver compiuto il servizio militare costituisca un titolo di preferenza nella selezione matrimoniale. Vi è di più: gli ex militari, benché si ammoglino più tardi, danno luogo ad accoppiamenti più prolifici, come se il favore di cui godono permetta loro di sposare donne più giovani o, indipendentemente dall’età, più robuste e sane. Ma mi affretto a dichiarare che l’obbligatorietà del servizio militare in tempo di pace trova argomenti ben più importanti di quello ora accennato. Per continuare a citare statistiche è, intanto, un fatto assodato che l’intelligenza media, il grado di educazione, e la varietà degli strati sociali rappresentati sono, negli eserciti di coscritti, assai più grandi che negli eserciti professionali. A parte questo, il servizio militare obbligatorio, esteso a tutti i giovani fisicamente idonei, può e deve, anzi, servire alla loro educazione. Nessuno potrebbe negare che il servizio militare costituisca un potente fattore di educazione dei giovani, come quello che li abitua alla disciplina, all’ordine, e sopratutto a considerare il bene collettivo della Nazione talmente al di sopra di ogni interesse particolaristico da comportare per la sua difesa perfino il sacrificio supremo, che è quello della vita.

Il sistema di coscrizione agisce come strumento di democrazia assai meglio, assai più efficacemente che non il diritto stesso di voto: esso converte il governo del proprio Paese in una realtà concreta. Esso è profondamente democratico, perché sotto l’uniforme del militare ogni differenza di ceto sociale scompare. Fra uomini accomunati nella vita di caserma le differenze di educazione, di strati sociali tendono ad eliminarsi. Un profondo processo di democratizzazione ed unificazione ha luogo fra giovani, che, provenienti da varie parti del Paese, parlando diversi dialetti, ed aventi diverse mentalità ed educazione, sono obbligati a vivere in comune. Se ci riflettete bene, due sono i tipi di organismi collettivi oggi esistenti, che, facendo appello alle qualità superiori dell’animo umano, rappresentano esempi quasi perfetti di organizzazione democratica: un reggimento di soldati e un ordine religioso.

È indubitabile che un esercito i cui effettivi vengano reclutati mediante la coscrizione obbligatoria costituisca un fattore unificatore tra i vari elementi nazionali di cui è composto. Da questo punto di vista bisogna riconoscere che l’esercito in Italia ha efficacemente contribuito a cementare l’unità nazionale; e ora che davanti a noi è la prospettiva di un ordinamento regionale che comporta i più gravi rischi di disgregazione del Paese si rende più che mai necessario conservare quel grande fattore di unificazione, che è rappresentato dal servizio militare obbligatorio, purché, ben inteso, non si commetta l’enorme errore di adottare un reclutamento regionale. Questo, invero, sarebbe il più grande dei mali che dall’ordinamento regionale potessero derivarci: l’esercito, allora, anziché unire, tenderebbe a disunire ancora più gli italiani.

Contro l’obbligatorietà del servizio militare si sono levate obiezioni. Si è detto anzitutto che il servizio obbligatorio non si potrebbe estendere alla totalità dei giovani fisicamente idonei a causa dei ristretti effettivi consentitici dal Trattato di pace. Tale obiezione mi sembra destituita di fondamento. Rilevo infatti, dalle statistiche delle leve militari di un decennio antecedente alla prima guerra mondiale, che in Italia in media si arruolano otto giovani per ogni mille abitanti. Con l’attuale popolazione la leva ammonterebbe, quindi, a 360.000 uomini, mentre il Trattato di pace ci consente un esercito che, carabinieri compresi, non deve superare le 250.000 unità, cui si aggiungono poi 25.000 unità per la Marina ed altrettante per l’aviazione, giungendo così a un totale di 300.000 uomini sotto le armi.

Ma qui entra in gioco la durata del servizio militare, che può e deve essere inferiore ad un anno. Lo stesso onorevole Gasparotto ha sostenuto tale tesi. Del resto la cosa non è nuova. Nel ’32, come si rileva da una pubblicazione della Società delle Nazioni, vi erano già paesi d’Europa nei quali la durata del servizio militare era di un solo anno: il Belgio e la Francia. In Olanda, essa era di soli sette mesi!

In Italia, basterebbe ridurre il servizio militare a nove mesi perché, pur restando entro i limiti degli effettivi impostici dal Trattato di pace, si potessero chiamare sotto le armi, ogni anno, nei vari corpi armati, 400.000 uomini, cioè anche più di quell’8 per mille che costituiva il numero degli arruolati negli anni antecedenti la prima guerra mondiale.

Né si dica che un periodo di nove mesi sia insufficiente per l’addestramento: questo non è. Non è vero specialmente se si intensifica l’addestramento, come può farsi allorquando il servizio è limitato a un periodo così ristretto. Il giovane soldato, se è ben nutrito, ben alloggiato, ben curato in tutto, sia fisicamente che moralmente, può senza inconvenienti essere sottoposto, durante un breve servizio militare, ad una attività intensa.

Nove mesi, a mio avviso, non soltanto sono sufficienti per addestrare militarmente il coscritto, ma, se bene utilizzati, possono servire anche a completarne l’istruzione professionale, o ad iniziarla, nel caso che il soldato non abbia già da civile appreso un mestiere.

Da questo punto di vista sarebbe anzi ottima cosa se l’istruzione professionale venisse impartita non soltanto agli operai, che nel 1908 non raggiungevano che il quaranta per cento degli arruolati, ma anche a tutti gli altri. Bisognerebbe cioè, io penso, approfittare del servizio militare per ovviare ad una fra le più gravi manchevolezze dell’attuale ordinamento scolastico italiano: che una quantità di giovani, al termine degli studi liceali od universitari, non abbiano appreso il maneggio nemmeno dei più semplici utensili, quali la pialla o la lima. Il servizio militare potrebbe ben rimediare a questa deficienza che non si presenta in altri paesi più progrediti: non in Russia, dove generalmente non si perviene agli studi superiori senza essere passati prima per l’officina; non nell’America del Nord dove i ragazzi vengono nei collegi abituati ad eseguire lavori di carattere pratico. A tale riguardo sono d’avviso che dovrebbero completamente cessare le facilitazioni che si sono fino ad oggi accordate agli studenti universitari, consentendo loro di rimandare il servizio militare al 26° anno di età, la qual cosa poteva forse giustificarsi allorquando la durata del servizio militare era di due o tre anni o più; ma che, con un servizio che durasse solo pochi mesi, non sarebbe più giustificabile. Neppure si dovrebbe facilitare ai giovani universitari l’accesso ai ranghi degli ufficiali di complemento. Tutti indistintamente i giovani, da qualunque ceto provenienti, dovrebbero fare il loro servizio militare nelle medesime condizioni; altrimenti quell’opera di educazione che deve essere uno dei principali obiettivi del servizio militare in tempo di pace viene ad essere intralciata.

Per terminare con questo argomento dell’obbligatorietà del servizio militare, vorrei permettermi di togliere all’onorevole Gasparotto un’illusione che egli sembra avere, e cioè che il volontariato militare in Italia tenda a svilupparsi. Non credo che sia così; e per mio conto me ne rallegro, perché ritengo che il volontariato non debba incoraggiarsi all’infuori del periodo di guerra. L’onorevole Gasparotto a sostegno della sua tesi ha citato alcune cifre secondo le quali attualmente si avrebbero nell’Esercito il 24 per cento di volontari, nella Marina il 61 per cento e in Aeronautica il 64 per cento. Sta bene, ma questo gran numero di volontari si spiega col fatto che oggi vi sono soldati, marinai, avieri, i quali non avendo la possibilità di trovare facilmente un’occupazione civile preferiscono arruolarsi, o se arruolati continuare a restare sotto le armi. Siamo, dunque, in presenza di un fenomeno transitorio. Permanente potrebbe, forse, considerarsi soltanto l’afflusso di volontari in Marina e in Aeronautica; ma si tratta, credo, di giovani che, obbligati al servizio militare, preferiscono scegliere quelle due armi invece dell’esercito.

E vengo ora alla seconda proposizione dell’articolo 49, la quale stabilisce che l’adempimento del servizio militare non pregiudica la posizione di lavoro del cittadino né l’esercizio dei diritti politici. Qui, anzitutto, osservo che il privilegio di mantenere inalterata la posizione di lavoro deve naturalmente intendersi limitato solo a quelli che sono arruolati obbligatoriamente, ed ai volontari in tempo di guerra. Tale limitazione è, forse, implicita nel testo del comma; ma, a scanso di ambiguità sarebbe, forse, opportuno precisare meglio.

In quanto ai diritti politici, sarebbe forse preferibile che durante il breve periodo di tempo del servizio militare obbligatorio, se la mia proposta di un servizio obbligatorio non superiore ai nove mesi venisse accolta, come mi auguro, sarebbe forse opportuno che essi fossero sospesi. Non si può ammettere che la caserma si tramuti in un circolo di propaganda politica, qualunque essa sia.

Eccoci infine al terzo comma: «L’ordinamento dell’esercito si informa allo spirito democratico della Repubblica italiana». Che vuole dire questo? L’onorevole Azzi ne ha dato una interpretazione che, per mio conto, non posso in alcun modo accettare.

Se ho bene inteso quello che egli diceva ieri in quest’aula, democratizzare l’esercito vorrebbe per lui sostanzialmente significare questo: diminuire la severità del regolamento di disciplina militare! Pare che egli dia molta importanza al fatto che un militare non debba salutare in istrada il superiore se lo sorpassa venendo dalla medesima direzione, o che debba essere consentito ad un ufficiale di mostrarsi in pubblico in dimestichezza con un inferiore. Tutte queste sono quisquilie assai discutibili, perché – secondo me – la disciplina militare o è o non è, e un esercito non è un esercito senza una severa disciplina. Non credo che la Commissione dei settantacinque, nel proporci quel testo, abbia voluto intenderlo nel senso in cui l’ha interpretato l’onorevole Azzi. L’esercito, quando è costituito da soldati arruolati in base ad una coscrizione generale, è per se stesso una istituzione capace di rispecchiare le istituzioni del Paese a cui appartiene. Se queste non sono democratiche, l’esercito nemmeno è tale. Non era democratico, essenzialmente democratico, l’esercito nazista, ma lo è sempre stato quello dell’unione Sovietica. Comprendo perciò, onorevoli colleghi, che taluni abbiano proposto la soppressione di questo terzo comma, che, se interpretato nel senso giusto, può apparire superfluo, e se interpretato nel senso che l’ha interpretato l’onorevole Azzi, sarebbe assurdo. Del resto bisogna riconoscere che l’espressione in esso adoperata per lo meno non è felice, giacché si presta a interpretazioni così meschine come quella cui ho accennato.

Un ordinamento delle forze armate che si conformi allo spirito delle istituzioni democratiche della Repubblica vuol dire per me – e credo anche per gli amici di questa parte dell’Assemblea – un esercito il quale anzitutto abbracci tutto intero il Paese: che non si distacchi dalla nazione, come fatalmente avverrebbe per un esercito di professionisti; un esercito che sia alla nazione intimamente collegato, i cui quadri siano – in parte almeno – i quadri stessi industriali della nazione, sicché in questo legame fra esercito e nazione, fra quadri dell’esercito e quadri della nazione, risieda la forza vera dell’esercito. Solo così la sua potenza potrà risultare considerevole, anche se la sua forza numerica sia piccola.

Ho terminato, onorevoli colleghi. Purtroppo sull’orizzonte internazionale le nubi foriere di temporale non sono ancora dileguate. La tragica possibilità di un terzo immane conflitto mondiale, sia pure a lontana scadenza, è davanti a noi. L’incubo di una nuova spaventosa conflagrazione in cui decine, forse centinaia, di milioni di esseri umani periranno, opprime il nostro animo. Dio voglia che i due mondi oggi in antagonismo si avvicinino e s’intendano per creare finalmente quella democrazia mondiale, la quale significhi eliminazione di ogni violenza; che metta fine agli Stati sovrani; che significhi giustizia per tutti e che permetta di raggiungere quel benessere economico di cui oggi la scienza assicura la possibilità a tutti gli umani: di quella democrazia universale nella quale a ogni fanciullo, dovunque nato, siano assicurate le medesime possibilità di sviluppo intellettuale e morale. Per una tale democrazia varrà bene la pena di vivere e di morire; ed a baluardo di essa staranno gli eserciti nazionali, non più chiamati a combattere l’uno contro l’altro, ma a salvaguardare la comune libertà ed il comune benessere.

PRESIDENTE. È iscritto a parlare l’onorevole Ruggiero. Ne ha facoltà.

RUGGIERO. Onorevoli colleghi, prendo la parola per richiamare la vostra attenzione su un solo articolo del titolo che ci occupa: precisamente sull’articolo 47. Mi sembra che questo articolo possa diventare, onorevoli colleghi, il più significativo e anche il più importante della Carta costituzionale per la grande influenza che può esercitare sulla vita politica nazionale. Questo articolo dice: «Tutti i cittadini hanno diritto di organizzarsi liberamente in partiti per concorrere con metodo democratico a determinare la politica nazionale». Come vedete, con questo articolo si stabilisce la norma per cui tutti i partiti, quando esprimano una attività che vada al di là dell’ambito del partito stesso, cioè un’attività che concorra alla formazione della politica nazionale, devono usare il metodo democratico. È un articolo il quale ha un contenuto di grande portata politica ed etica ed io penso che noi concordemente lo voteremo. Però, modestamente, mi pare che debba essere completato da una proposizione integrativa che dovrebbe risolversi in un piccolo emendamento da me proposto. L’emendamento è questo:

«Sostituirlo col seguente:

«Tutti i cittadini hanno il diritto di organizzarsi in partiti che si formino e concorrano, attraverso il metodo democratico, alla determinazione della politica nazionale».

Dirò subito che questo emendamento trova i suoi precedenti nei lavori della prima Sottocommissione, dove fu fatta una proposta che aveva affinità con l’emendamento, una proposta un poco vaga, che non aveva limiti di completezza precisa. Gli onorevoli Togliatti e Marchesi vi si opposero e quindi non se ne fece più niente in sede di Sottocommissione.

In che cosa sta la divergenza tra l’articolo 47 contenuto nel progetto ed il mio emendamento? Sta in questo: che mentre l’articolo 47 considera l’attività dei partiti come fatto esterno, cioè come fatto che vada al di là dell’ambito del partito, come attività la quale opera in un campo nazionale per la determinazione della politica del Paese, nel mio emendamento, invece, si chiede che il metodo democratico venga affermato, usato ed esercitato anche nell’ambito della vita del partito, cioè venga considerato come un principio imprescindibile anche per la struttura interna di un partito.

Ripeto, la proposta fu avversata dagli onorevoli Togliatti e Marchesi. L’onorevole Togliatti ebbe a dire in proposito: «Domani potrebbe svilupparsi in Italia un movimento nuovo, anarchico, per esempio. E io mi domando su quali basi si dovrebbe combatterlo. Io sono del parere che bisognerebbe combatterlo sul terreno della competizione politica democratica, convincendo gli aderenti al movimento della falsità delle loro idee. Ma non si potrà negargli il diritto di esistere e di svilupparsi, solo perché rinunzia al metodo democratico».

L’onorevole Togliatti affermava così il principio imprescindibile della libertà di riunione da parte di tutti i cittadini; però, naturalmente, implicitamente anzi, riconosceva il diritto anche alla esistenza delle formazioni antidemocratiche. E per far valere la sua tesi faceva rilevare, come voi stessi avete osservato, che sarebbe leso quello che è il sacro principio della associazione da parte di tutti i cittadini nel caso (in ciò consiste il mio emendamento) in cui venisse imposto il metodo democratico anche nell’interno dei partiti.

Io mi permetto di osservare che non vi sarebbe nessuna lesione e nessuna menomazione al diritto di associazione in caso di approvazione del mio emendamento. E ciò per motivi i quali, secondo me, hanno una grande evidenza pratica ed anche un contenuto giuridico certo.

Primo motivo: possiamo noi tutelare e garantire il diritto di libertà, nella specie di libertà di associazione, nei confronti di quelli i quali spontaneamente, con una forma di cosciente, volontaria, deliberata abdicazione, hanno rinunziato a questo diritto? Perché in effetti quando c’è della gente che dice: io accetto il metodo antidemocratico nella struttura intima del mio partito, questa gente rinunzia implicitamente, anzi esplicitamente, al principio della libertà; onde, quando la legge intervenga per dire: non è concesso a voi il diritto della esistenza, perché voi non volete portare alla libertà il rispetto che a questo principio è dovuto, mi sembra che dall’altra parte non si possa muovere legittimamente nessuna forma di lagnanza o protesta o querela, perché in effetti si nega a costoro il diritto che costoro hanno già calpestato, inquantoché il metodo antidemocratico è incompatibile con il principio della libertà.

Vi è un secondo motivo, questo di ordine, diremo, strettamente pratico, perché trova la sua applicazione nell’azione concreta di cui è fatta la politica.

Coloro i quali abbiano adottato il principio dell’antidemocraticità nella struttura interna, cioè nei confronti di sé stessi, direi quasi, contro sé stessi, quando poi entrano in rapporto con altri, quando operano cioè in campo nazionale, quando entrano nella lotta politica, avendo già questo principio, questa concezione, questa natura, questo carattere, rinunceranno al metodo antidemocratico? Mi pare che se fossimo di questa opinione urteremmo un po’ contro la logica ed anche un po’ contro il principio che la storia ci suggerisce attraverso la sua grande esperienza; perché la storia dice che tutti i grandi partiti i quali adottano, nell’ambito interno, la forma antidemocratica, hanno per principio la conquista violenta del potere e quindi la soppressione della libertà. Quindi per questo secondo motivo mi pare che non vi sia ragione di lagnarsi da parte degli enti democratici della menomazione o della lesione del principio della libertà.

Vi è un terzo ed ultimo motivo che dovrebbe, secondo me, legittimare e giustificare giuridicamente la richiesta contenuta nell’emendamento.

Che cosa succederebbe nel caso in cui una formazione antidemocratica venisse soppressa, appunto perché antidemocratica? Avremmo una soppressione di diritto, e sia pure. Però, tutti sappiamo che non tutte le soppressioni di diritto sono illegittime e che non tutti i diritti meritano una tutela e una garanzia. Se, nella specie, ci troviamo di fronte ad un diritto che è un diritto particolare, cioè il particolare diritto all’esistenza da parte dell’associazione antidemocratica, si vede come questo principio automaticamente si pone in una posizione di antitesi, di conflitto, di dissidio con l’interesse generale, cioè con l’interesse della collettività; perché l’interesse della collettività è quello di vedere rispettato il principio della libertà. Il principio che viene adottato dalla singola formazione è un principio particolare che deve essere considerato in rapporto al principio generale; per cui non possiamo non far valere quella grande affermazione di diritto secondo la quale tutti i principî particolari ed individuali, anche quando meritano la tutela e la garanzia della legge, devono cedere se si trovano in contrasto con quello che è il diritto della collettività, che è un diritto veramente sovrano ed intangibile. Quindi, anche per questo motivo di ordine strettamente giuridico, mi sembra che non patisca il diritto della libertà nessuna forma di menomazione o di lesione.

Vi è un’altra considerazione. Non tutte le associazioni, per il solo fatto che esiste il principio della libertà di associazione, hanno diritto ad essere tutelate, perché il diritto all’esistenza di ogni associazione è subordinato al fine, cioè alla natura ed al carattere del fine che l’associazione persegue. Se l’associazione ha fini antisociali o antigiuridici, o contrari ai principî del diritto o dell’etica, essa non ha diritto di esistere. Quindi, se noi riconosciamo, onorevoli colleghi, che la formazione antidemocratica, per il fatto stesso che è antidemocratica, cioè costituisce una minaccia immanente a quello che è l’apparato democratico della vita nazionale, non persegue un fine legittimo o giuridico, per questa ragione, l’eventuale soppressione di questa formazione non costituisce nessuna lesione di diritto.

Io vi dirò (per portare il principio alle estreme conseguenze, perché, come si dice generalmente, il principio si saggia, nella sua portata e nel suo valore normativo, quando è portato ai suoi limiti estremi) che nessuno di voi potrebbe lagnarsi nel caso che la legge colpisse, per esempio, un’associazione di carattere terroristico. Nessuno di voi potrebbe querelarsi. Perché? Perché il fine che quell’associazione persegue è antigiuridico e contrario agli ordinamenti sociali, e non è concepibile, per le leggi che regolano la nostra vita, che quella istituzione possa esistere. E la legge non aspetta che una organizzazione terroristica abbia dato una manifestazione concreta della sua esistenza, per impedirla; la legge interviene per il solo fatto che il fine perseguito dall’associazione è antigiuridico e contrario all’ordinamento sociale.

Voi vedete dunque che, nella specie, non vi può essere diritto di asilo in una repubblica veramente democratica, per queste formazioni che, come prima dicevo, si risolvono in una minaccia immanente per i principî così faticosamente raggiunti dalla democrazia in Italia. Vi è l’obiezione dell’onorevole Marchesi, il quale nella Sottocommissione, citando l’esempio del partito comunista che molti ritengono come favorevole ed incline alla violenza ed alla dittatura, faceva osservare che un governo, sulla base di questa falsa interpretazione del partito comunista, servendosi del disposto del testo del progetto, potrebbe arbitrariamente abolire tale partito.

L’obiezione dell’onorevole Marchesi si risolve nella tema che il Governo, in malafede o per una falsa interpretazione della norma, possa metter fuori legge il partito comunista sotto l’incriminazione di essere un partito antidemocratico. Io non debbo entrare in merito alla questione, ma faccio osservare che non si può tener presente questa osservazione fatta dall’onorevole Marchesi, per questi motivi: se tutte le volte che si fa un complesso di norme, si pensa a quella che potrà esserne l’applicazione eventuale, e si considera quali possano essere le difficoltà di interpretazione, noi non avremo mai nessun complesso di norme che possano essere tradotte nel fatto concretamente normativo.

Le difficoltà di interpretazione sorgono per ogni legge perché la legge passa attraverso quello che è il vaglio dell’uomo. Ora, io penso che dalla Carta costituzionale fino al regolamento, per esempio, di polizia urbana, non si avrebbe mai la possibilità di creare una legge, se si sia sempre tenuti dalla tema di una falsa interpretazione da parte di chi deve considerare ed applicare la norma stessa. Quindi, mi pare che non possa essere sostenuta questa tesi, anche perché il rischio di essere colpito da questa sanzione da parte del partito comunista secondo me non ha ragione di essere, perché è un rischio che potrebbe correre ogni partito. Ogni partito il quale si mettesse su una via illegittima potrebbe essere colpito da questa sanzione, né mi pare che le idee arbitrarie che da parte di qualcuno si possono fare sul partito comunista valgano a determinare una struttura ed una natura diversa in questo partito. Questo partito è quello che è, e quindi necessariamente non subirà arbitrarie interpretazioni.

Del resto, non è detto che la valutazione sulla struttura democratica di un partito debba essere fatta necessariamente dal Governo. Può essere fatta da una Corte costituzionale o da una Commissione paritetica di tutti i partiti esistenti.

A me pare che non possa reggere l’obiezione dell’onorevole Marchesi per questo altro motivo: perché in tutti gli articoli consacrati nella Carta costituzionale noi possiamo trovare difficoltà di una giusta interpretazione. Potrei farvi moltissimi esempi; basta invece farvene uno: quello dell’articolo 50, e ve lo faccio perché è molto prossimo all’articolo 47, di cui mi occupo. Il secondo comma dell’articolo 50 dice: «Quando i poteri pubblici violino le libertà fondamentali ed i diritti garantiti dalla Costituzione, la resistenza all’oppressione è diritto e dovere del cittadino». Come vedete, questa norma è affidata, per la sua interpretazione, a 45 milioni di cittadini italiani. Molti di questi cittadini possono interpretare la norma onestamente, molti arbitrariamente; molti gruppi facinorosi potrebbero approfittare di questa norma per ritenere illegittima l’azione del Governo e per insorgere. Quindi, è inerente a questa norma la difficoltà di interpretazione. Ma, non per questo, secondo la mia modesta opinione, si deve rinunciare all’articolo 50. Non si può rinunciare all’articolo 50 per il fatto accessorio ed estrinseco dell’interpretazione; non si può rinunciare alla sua portata essenziale, etica e giuridica, perché noi siamo convinti che l’articolo 50 costituisce una remora per tutti i poteri ed una garanzia per i diritti del cittadino.

Quindi, dicendo che vi è difficoltà di interpretazione di una norma, noi ci troviamo di fronte a tanti esempi, che potrebbero moltiplicarsi. Potrei fare un altro esempio: noi abbiamo approvato, in questa Assemblea, l’articolo che consacra il diritto da parte di un agente di pubblica sicurezza di sequestrare la stampa. Ora, se ciò è avvenuto, che cosa significa? Significa che noi abbiamo affidato ad un agente di pubblica sicurezza la valutazione di un’attività che è fondamentale per il diritto della libertà del cittadino.

Ora, mi domando se questo, che è stato fatto nei confronti della stampa, non possa anche essere fatto per ciò che ha riferimento alla struttura democratica di un partito. D’altra parte mi pare che non sia logico dare tanto affidamento ad un agente di pubblica sicurezza e non dare correlativamente la stessa fiducia nel Governo che dovrebbe valutare la struttura interna di un partito. Specie se consideriamo che, in effetti, il Governo è formato da un complesso di organi responsabili ed è sottoposto al controllo del Paese e deve dare conto di tutto a tutti e offrire quindi una garanzia assai maggiore di quella che può offrire un agente di pubblica sicurezza.

A me pare che sia più esposto il diritto di libertà di stampa in confronto di quello che è il diritto di organizzazione di un partito. Quando un partito antidemocratico si vedrà colpito da una sanzione, questo partito cercherà di far valere le sue ragioni, ed io penso che ove ci siano dei motivi legittimi potrà essere anche reintegrato nei suoi diritti di esistenza e di formazione. Ma lo stesso non può avvenire per la stampa. Perché la stampa, per sua natura, ha una vita effimera e contingente che dura un giorno o una settimana. Quindi, se la stampa viene colpita da quel provvedimento fulmineo che è il sequestro dell’agente di pubblica sicurezza, anche quando essa viene posta in mano al giudice per essere reintegrata nei suoi diritti, potrà anche conseguire la reintegrazione, ma tale reintegrazione dei suoi diritti ha luogo quando la stampa è stata superata nel tempo ed ha perso tutto il suo valore. Quindi, se è vero che noi abbiamo usato il principio della valutazione e della soppressione per la stampa, non vedo perché questo principio stesso, che ha una portata minore, non debba essere usato per i partiti eventualmente antidemocratici. Non mi pare dunque che ci sia serio motivo perché non debba essere accettato quell’emendamento mio che rappresenterebbe proprio una garanzia per la vita democratica del popolo italiano.

Si fa anche un’altra obiezione, ed è questa: si dice che sarebbe assai difficile individuare e valutare la struttura o la volontà antidemocratiche di un partito. Perché? Perché sfuggono certi elementi, oppure certi elementi non sono suscettibili di una valutazione esatta e precisa, per cui si può restare perplessi verso un partito e non saper determinare se questo sia o meno democratico.

A questo proposito faccio osservare che un partito, per lo stesso fatto che è una collettività, ha necessariamente una vita esteriore, che non può sfuggire alla valutazione di chi è chiamato a compierla. Ché, se questa formazione è un’associazione segreta e quindi tale da non poter essere sottoposta a nessuna valutazione, allora noi cadremmo nella disposizione di cui all’articolo 13, dove è detto che le associazioni segrete non possono trovare asilo in Italia. Quindi, o questa associazione non è segreta, o è segreta. Nel primo caso cade nelle sanzioni della disposizione citata; nel secondo caso può essere agevolmente giudicata alla stregua del mio emendamento. A questo proposito, io debbo richiamare opportunamente quella che fu una istanza avanzata in sede di Commissione dall’onorevole Togliatti, una istanza che era intesa a consacrare che una norma vietasse esplicitamente l’organizzazione del partito fascista. In effetti, noi troviamo che all’articolo primo delle disposizioni transitorie, l’istanza è diventata disposizione. Infatti l’articolo primo delle disposizioni transitorie dice: «È proibita la riorganizzazione, sotto qualsiasi forma, del disciolto partito fascista».

Condividendo naturalmente l’opinione dell’onorevole Togliatti, non posso non pensare che anche qui sarebbe molto difficile individuare in una formazione politica, in una organizzazione qualsiasi, un carattere tale da poter identificare in questa organizzazione il carattere fascista.

Anche qui, permane quindi la stessa difficoltà di valutazione ravvisata dagli onorevoli Togliatti e Marchesi circa quello che è l’oggetto ed il fine del mio emendamento. È evidente infatti che, se si forma un’associazione che sia intimamente fascista, questa non verrà mai alla ribalta con il corteggio dei fasci littori e col volo delle aquile imperiali; ma verrà sotto mentite spoglie ed allora noi ci troveremo nella condizione di non poterla individuare.

Allora io mi domando: se è stata riconosciuta, da parte della Sottocommissione, la necessità di questa disposizione, pur esistendo per questa motivi di ardua individuazione ed applicazione, mi pare non ci debba essere luogo ad opposizione, quando si chiede un emendamento mirante a che vengano soppressi tutti quei partiti i quali non abbiano un’istanza profondamente democratica e non portino il rispetto necessario verso il principio della libertà. Infatti, per la disposizione dell’articolo 13 e per il mio emendamento, le difficoltà tecniche sono le stesse.

Passando ad altro, io penso, – e credo che pensiamo un po’ tutti in questa maniera – che forse una disposizione del genere, cioè una disposizione la quale tenda alla soppressione di tutte le organizzazioni a struttura antidemocratica, si inserisca, direi quasi naturalmente, nel processo storico della vita nazionale che faticosamente si sta svolgendo ai nostri giorni.

Il popolo italiano infatti, in certe sue sfere, non ha potuto ancora permearsi, nella sua intima sostanza spirituale, di quello che è il concetto della libertà, perché abbiamo avuto una dittatura lunga e grave: lunga, perché è durata un quarto di secolo; grave, perché ha inciso in tutti i settori della coscienza nazionale.

Le nuove generazioni infatti non intendono certe forme della democrazia, perché non vi sono abituate; le vecchie generazioni, molte volte per desuetudine della prassi democratica, non intendono anch’esse qualche volta la democrazia. E allora si impone questa norma, per imporre il dovere della libertà, più che il diritto, il dovere di tutti alla libertà.

Ma c’è poi anche un’altra considerazione, ed è che il popolo italiano appare un po’ disancorato e disorientato. Il popolo italiano infatti è premuto da tante esigenze, da tante ansie, da tante angosce, per cui è lontano dal principio della democrazia.

Ecco quindi perché io penso che, una volta che il popolo non partecipa ancora, nella sua più grande maggioranza, alla vita politica, una volta che il popolo non sente ancora profondamente la democrazia, non sarebbe molto difficile che domani una fazione bene organizzata potesse approfittare di questo stato di impreparazione per instaurare un nuovo regime antidemocratico e compiere una nuova marcia su Roma.

Quindi è necessario spezzare alla base, quando sono ancora allo stato potenziale, inespresso, queste associazioni anti-democratiche che poi si sviluppano e si configurano e prendono fisionomia e struttura e lineamento che possono risolversi veramente nella minaccia a cui accennavo poco fa, cioè nella minaccia al principio della libertà. E ritengo che quando una disposizione che vieti ogni forma anti-democratica venga consacrata nella Carta costituzionale – che è sempre un documento della civiltà di un popolo – questo potrebbe accrescere il prestigio del nostro popolo anche presso gli altri popoli, perché non dobbiamo dimenticare che chi ha voluto la guerra, la grande, feroce, selvaggia guerra, è stata la dittatura; e noi appartenevamo purtroppo ad una dittatura. Quando si è inserita nella Costituzione una norma di questo genere, io penso che ciò potrebbe accrescere il nostro prestigio nei confronti degli altri popoli, perché noi dobbiamo apparire come quelli che vogliono, ad ogni modo rinnovati da questo nuovo spirito democratico, affamare sempre e categoricamente in forma veramente solenne il principio della libertà.

Questo non dico perché la Carta costituzionale debba essere subordinata all’approvazione anche morale degli altri popoli, no; ma perché io penso – e forse anche voi pensate così – che una politica interna nello stretto senso della parola, che non debba avere nessun riferimento col grande mondo internazionale, oggi non ci può essere. Quindi dobbiamo inserirci in questo mondo internazionale; non – badate bene – in questo o quel blocco che oggi si contendono il mondo. Io penso che dovremmo inserirci nel mondo internazionale, in quello che esso ha di universale, cioè attraverso i principî della libertà, della giustizia che sono i cardini della civiltà per ogni popolo.

Vi dirò un’ultima cosa, ed ho finito. Badate che larghi strati del popolo italiano oggi non sentono la politica in forma ideologica, ma in una forma che io chiamerei economica. Questo è un po’ il vizio profondo della nostra democrazia: vi sono larghi strati i quali oggi vanno orientandosi verso forme di destra estremistiche, che vanno al di là degli stessi programmi dei partiti di destra che siedono nell’Assemblea, perché questi larghi strati intendono la politica come una forma di tutela degli interessi capitalistici, come irriducibile, tenace difesa di interessi capitalistici; quindi in termini economici. Dall’altra parte esistono larghi strati del nostro popolo che vanno orientandosi verso forme di sinistra estremistiche, che vanno al di là degli stessi partiti di sinistra che siedono in questa Assemblea. Sapete perché? Perché intendono la politica come uno spossessamento violento, come una forma di attacco feroce alla proprietà che dovrebbe risolversi a loro vantaggio: cioè intendono la politica anche in termini prettamente economici.

Ora, badate bene, se è vero che questi larghi strati di popolo che appartengono all’uno o all’altro gruppo sono presi da forme estremistiche, se è vero che questi strati non sentono la politica in forma ideologica, ma in forma bruta, sarà anche vero che questi strati vogliono far valere le loro istanze attraverso metodi antidemocratici.

Questi gruppi, automaticamente, per il fatto che si trovano in posizione di contrasto, di dissidio, di conflitto, cercano di buttarsi l’uno addosso all’altro per la prevalenza dell’uno sull’altro. Il che significa pericolo di dittatura. Quindi è necessario porre freno a questa forma di enucleazione, che non trova nessuna sistemazione attraverso un partito che abbia il suo statuto, la sua insegna, tendendo fatalmente all’organizzazione che domani o in avvenire prossimo si presenterà anti-democratica.

Per tutti questi motivi, penso che il mio emendamento dovrebbe essere accolto, perché in effetti porta con sé questa grande istanza verso la libertà, che è il bene di cui oggi abbiamo più bisogno, più che di ogni altro bene, forse anche più del pane.

Io penso, onorevoli colleghi, e mi auguro che questa disposizione non dovrà essere applicata perché – alla fine – anche il popolo italiano, che è un gran popolo, ritroverà la sua grande anima nelle tradizioni che non possono essere rinnegate o smentite. È vero che l’anima italiana è stata umiliata, percossa, vergognosamente calpestata, è vero che l’anima italiana ha subito la disfatta e la dittatura, che sono le più grandi sventure della storia, ma ciò non toglie e non diminuisce la grandezza del popolo italiano. Io spero che questo mio emendamento non trovi mai concreta applicazione, perché penso che non vi sarà un’associazione antidemocratica in Italia, e questo per il bene superiore della libertà, ed anche perché sono convinto che il popolo italiano ritroverà – sia pure faticosamente – la sua grande anima. (Applausi).

PRESIDENTE. È inscritto a parlare l’onorevole Condorelli. Ne ha facoltà.

CONDORELLI. Onorevoli colleghi, la rapidità con la quale si è conclusa questa discussione è prova dell’ineccepibilità dei principî che il quarto Titolo ha consacrato. E veramente, non sembra che – salvo paradossi che, del resto, hanno fatto amabile capolino in questa discussione e che sono valsi un po’ ad agitarla – salvo paradossi, oggi non si può più discutere di certi principî che appaiono ovvi: suffragio universale, equiparazione dei sessi dinanzi al diritto pubblico e ai diritti pubblici soggettivi, servizio militare obbligatorio. Sono tutti principî che possiamo dire perfettamente coerenti, che stanno alla base della nostra società nazionale e che sono conformi a quella che è la coscienza collettiva delle nazioni progredite. Di talché, a mio avviso, i dubbi si appuntano, più che attorno alla sostanza dei principî, piuttosto verso la formulazione di essi, formulazione che mi pare difettosa.

Può sembrare il mio solito assillo, l’assillo della forma, che a qualcuno è parso pedanteria professorale, ma che invece, vi assicuro, è manifestazione del profondo amore che sento per la mia nazione.

Io desidero vivamente, come lo desiderate tutti voi, che questa Carta costituzionale sia perfettamente adeguata all’alto livello di civiltà che ha raggiunto il nostro Paese, e specificamente all’alto livello che ha raggiunto il pensiero giuspubblicistico in Italia, che veramente in questi ultimi 50 anni ha conquistato un primato.

Io perciò farò delle osservazioni di carattere essenzialmente formale. La prima osservazione si riferisce alla seconda parte dell’articolo 45, allorché, a proposito del voto, si afferma che il suo esercizio è dovere civico e morale. È la prima volta, a dire la verità, che mi capita di studiare un sì audace tentativo di scalata all’Olimpo da parte del legislatore. I legislatori di tutti i tempi hanno avuto la coscienza di non poter creare dei principî morali e di non poter creare dei doveri morali. Pare che il legislatore italiano del 1947 abbia pensato ad un volo audace al di là di quelli che sono stati ritenuti sempre i confini naturali del suo ministero.

Il legislatore umano, il legislatore statuale non può creare dei doveri morali. Il legislatore del mondo morale è uno solo. È Dio, o, per chi crede in una morale autonoma, è la coscienza. Il legislatore non crea dei doveri morali, e quindi non ha significazione una espressione simile in una norma giuridica.

Il legislatore può prestare la sanzione giuridica ad un dovere morale. È il processo che dà base alla dottrina del minimo etico di Jellinek, il quale afferma che il diritto è appunto questo minimo etico, è la parte essenziale dell’etica che il legislatore fa diventare coattiva ed obbligatoria, aggiungendo la sua sanzione.

Ma che il legislatore possa creare o soltanto proclamare dei doveri morali è veramente una assurdità. Talché, quando i futuri vorranno leggere questa norma ed intenderne il contenuto, non potranno assolutamente pensare che il legislatore italiano sia caduto in una simile ingenuità (chiamiamola così); ma la interpreteranno piuttosto in questo senso, che il legislatore italiano abbia voluto che il dovere del voto sia soltanto un dovere morale, che abbia voluto, cioè, porre una inibizione al futuro legislatore a rendere giuridicamente obbligatorio il voto. Né è possibile altra interpretazione. Ed allora si potrebbe pensare che, di soppiatto, si sia voluto troncare qui una questione che così vivamente ha interessato l’opinione pubblica italiana e che del resto era già stata recepita nella nostra legislazione positiva, proprio nella legge in forza della quale noi siamo qui, che poneva appunto la obbligatorietà del voto.

Qui è il caso di uscire dagli infingimenti, dagli equivoci. Si è voluto porre questo problema della obbligatorietà o meno del voto, ed allora questo problema si ponga chiaramente e si inviti la Costituente a decidere se il voto debba essere obbligatorio o libero, se la Costituzione debba creare una preclusione all’obbligatorietà del voto.

È bene porre il problema apertamente e discuterlo in questi termini, perché se passasse l’articolo del progetto così com’è stato presentato, a me pare che l’obbligatorietà del voto non si potrebbe introdurre nella nostra legge elettorale altro che attraverso un procedimento di revisione della Costituzione. In altro modo non sarebbe possibile.

Ed io non credo che nello scorcio di questa discussione si possa introdurre quest’altra vastissima discussione che impegnerebbe tutti quanti i partiti a rivangare le tesi già note e ripetute. E allora è il caso di usare un termine che lasci libero il legislatore di provvedere in un modo o nell’altro. Saremo noi stessi a provvedere fra quindici giorni, ex informata conscientia, quando decideremo sulla legge elettorale. Per ora non c’è altra alternativa: o sopprimere la seconda parte di questo comma, che è perfettamente inutile (per me le definizioni nel diritto sono sempre superflue, quando non sono pericolose) e far passare l’articolo senza questa inutile ed errata pregiudiziale; o fermarci all’affermazione che dice: «il diritto è un dovere civico». E questo basta, perché i doveri civici possono essere sanzionati e non sanzionati. Ci sono tanti doveri civici che non sono sanzionati, come ce ne sono degli altri sanzionati. Sarà il legislatore che dovrà decidere. Qui la parola «civico» sta nel senso di dovere politico, con una notazione di giuridicità: perché «civico» è il perfetto corrispondente, su tema latino, dell’aggettivo «politico», che è su tema greco. Evidentemente sono due parole che si corrispondono nel loro contenuto sostanziale. Ma la parola «civico» è più pregnante di giuridicità e perciò appare più propria. Parliamo soltanto di dovere civico, se non vogliamo totalmente sopprimere questa aggiunta; o, altrimenti, sopprimiamola, che sarà il miglior partito, come del resto è stato proposto da un emendamento presentato da colleghi del mio stesso Gruppo parlamentare.

Vi è un secondo punto di questo titolo, l’articolo 47, il quale veramente costituisce una delusione, perché mi pare che siamo venuti meno ad uno dei temi fondamentali della nostra Costituzione: un tema che peraltro era stato annunciato nel solenne discorso con cui il nostro grande maestro Vittorio Emanuele Orlando aprì, come decano, i lavori di questa Assemblea. Noi eravamo chiamati a prendere atto di questa nuova realtà, di questa realtà che, se non è totalmente nuova, adesso si colorisce di nuovi aspetti e di nuova importanza: del partito e dello stato di partiti, che, non so se per un processo fisiologico o patologico dello Stato moderno, sono alla base della presente politica. A me pare che la Costituzione abbia rinunciato non solo a regolare questa realtà, ma addirittura a conoscerla, perché si occupa del partito in una norma che è perfettamente superflua, che non è che un inutile scolio della norma che pone la libertà di associazione. Si reca, alla norma che pone la libertà di associarsi, l’aggiunta che ci si può associare anche in vista di fini politici. Non si aggiunge altro che questo. E, del resto, è ovvio che è fine perfettamente lecito, per il quale, dunque, ci si può associare, quello di concorrere alla formazione ed alla determinazione della politica del proprio Paese. Nessuno ne poteva dubitare.

Il diritto di associazione produce di per se stesso, per ovvia conseguenza, il diritto di associarsi in partiti.

L’articolo, se rimane quale è, è perfettamente inutile; dunque, da togliersi, perché le cose inutili in un testo legislativo non hanno ragione di essere. Le ridondanze sono già un difetto. Credo che l’unica ragione che potrebbe giustificare la presenza di questo articolo nella Costituzione si potrebbe ricavare da qualcuno degli emendamenti presentati; per esempio da quello che testé ha illustrato l’onorevole. Ruggiero: far divenire il metodo democratico non soltanto elemento del fine, che l’associazione vuole raggiungere, ma principio regolatore della struttura dei partiti.

Ed allora, sì, avremmo dettato una regola della esistenza dei partiti.

Poi, è superfluo andare ad indagare oggi, in sede costituzionale, chi dovrà affermare o negare la democraticità d’un partito. Ci penserà il legislatore. Certo, onorevole Ruggiero, non potrà essere il Governo ad indagare ciò; sarà la Corte costituzionale, come propone l’onorevole Mortati, o sarà l’autorità giudiziaria.

Non dobbiamo essere noi a tirare queste conseguenze.

Non sarà certo male, per la stessa sincerità della funzione che i partiti devono avere, che essi si organizzino democraticamente, in modo che la loro azione sia veramente espressione della volontà dei consociati.

Infine, l’articolo 51 pone la questione del giuramento. Su questo io non mi intrattengo. Ho già parlato a lungo su questo tema, allorché si è discusso della formula provvisoria del giuramento di fedeltà alla Repubblica.

Dunque, non mi ripeto; ma tengo ferme tutte le ragioni, che allora esposi.

L’obbligo del giuramento è contro la libertà di coscienza, che è stata così strenuamente difesa da altri settori in quest’aula e che noi stessi abbiamo difeso, secondo quelle che ci sembravano le direttive della coscienza moderna, e che oggi torniamo a difendere nell’opporci alla inclusione dell’obbligo del giuramento nella nostra Costituzione.

Io mi intratterrò, invece, più diffusamente – ma, certo, signor Presidente, nei limiti della mezz’ora assegnatami – sull’articolo 50, che è certamente il più difettoso di quanti si contengono in questo Titolo.

Nei due commi dell’articolo 50 sono contenute, in sostanza, due disposizioni: nella prima disposizione, cioè nel primo comma, si pongono insieme ai cittadini il dovere di osservare la Costituzione e le leggi, il dovere di adempiere con onore e con zelo alle funzioni che al cittadino sono affidate.

Questo articolo è, prima di tutto, superfluo ed inutile, e poi è anche difettoso dal punto di vista dei termini usati.

Si comincia con l’attribuire questi doveri ai cittadini, come se il dovere di osservare la Costituzione e le leggi fosse dei soli cittadini e non fosse di tutti i subietti alla legge, di tutti i soggetti alla sovranità dello Stato che non sono, come è ovvio, i soli cittadini, ma sono tante altre persone che vivono nel territorio dello Stato ed alcune volte anche all’estero.

Questo è un dovere che spetta a tutti i destinatari delle leggi e della Costituzione. Non sono soltanto i cittadini, sono tutti i soggetti, siano cittadini o non cittadini.

E poi, questa fedeltà alla Repubblica! Non pensino gli amici della sinistra che ci sia in ciò una idiosincrasia di monarchici; c’è semplicemente l’alto senso di devozione, che raggiunge la religiosità, quando io pronunzio e sento la parola e l’idea Stato. Lo Stato, che è la concretizzazione storica della stessa idea etica, che è qualcosa di molto più alto di tutte le repubbliche, di tutte le monarchie, che non sono che dei regimi, mentre lo Stato è la stessa essenza della nostra realtà morale e storica.

Io preferirei che ai cittadini fosse inculcato il senso della devozione, della fedeltà allo Stato, quella religio civilis che fece grande Roma e che potrebbe fare grandi anche noi, se la sentissimo come la sentivano i nostri antichi padri.

Peraltro, la fedeltà alla Repubblica, che è un regime, è contenuta nel membro successivo della proposizione, allorché si impone ai cittadini il dovere di osservare e rispettare la Costituzione e le leggi. E la Repubblica, non essendo che un ordinamento politico, non è altro che l’insieme delle leggi costituzionali e politiche considerate unitariamente.

Noi arricchiremmo certamente il significato etico di questo comma, se alla parola «Repubblica» sostituissimo quella tanto più augusta di «Stato».

Però, dicevo, il difetto di questo articolo non è tanto nel dettaglio o nella terminologia usata, quanto in tutto il suo insieme. Esso è una superfluità, e consentitemelo, per la sua quasi totalità, una inavvertita, ingenua petizione di principio.

Che significato ha una legge che impone ai cittadini l’osservanza della Costituzione e delle altre leggi?

Ma le leggi o hanno il vigore in se stesse, o se no, non lo possono ricevere da altro, e tanto meno da un’altra legge la quale non ha altro valore che quello che hanno le leggi a cui essa vuole dare valore.

Forse per le stesse ragioni logiche avremmo bisogno di un’altra legge che dicesse che è obbligatorio osservare l’articolo 50 che impone di rispettare la Costituzione e le leggi, e poi di un’altra che dicesse che è obbligatorio rispettare quel tale articolo che garantirebbe l’articolo 50. E così all’infinito.

È troppo evidente. Rassomiglia molto l’articolo 50 a certe ingenue clausole testamentarie del ’700 ridondante, con le quali il testatore, dopo aver steso il suo testamento, aggiungeva: «Voglio che questo testamento sia osservato perché questa è la mia volontà e nessun’altra, e voglio che la mia volontà sia legge per i miei successori e aventi causa».

E poi ripeteva ancora questo, quando era troppo chiaro che se la sua volontà aveva valore lo aveva in quanto era stata enunciata e non per tutte queste clausole che si aggiungevano e che erano perfettamente superflue.

Questo articolo 50 è proprio barocco.

Sarò lieto di sentire l’opinione dell’autorevole Commissione su quello che io osserverò. Questo articolo può avere un valore se impegna la devozione allo Stato e alla Repubblica, se aggiunge l’obbligo di adempiere con onore alle mansioni affidate, ma in quanto afferma che è obbligatorio rispettare ed osservare la Costituzione e le leggi, è certamente una superfluità che nessun giurista, né presente né futuro, saprà giustificare.

Sì, tante volte noi abbiamo sentito ripetere, nel corso di queste discussioni, che questa nostra Costituzione ha un valore pedagogico. Insomma, forse, si vuole dire che è una tavola di diritti e doveri da divulgare.

Ecco, un valore pedagogico non lo ha soltanto questa Costituzione, ma lo hanno tutte le leggi, perché tutte le leggi vogliono enunciare dei doveri per ottenerne l’osservanza.

E condizione prima per ottenere l’obbedienza è quella di far comprendere i comandi. Tutte le leggi, per la loro natura, per la loro essenza, hanno una finalità pedagogica né più né meno di come l’ha la Costituzione. Non c’è niente di più né niente di meno. Ma questa finalità pedagogica – e qui mi appello ai molti professori ed insegnanti che onorano questa nostra Assemblea – questa finalità pedagogica si raggiunge con un solo mezzo o, per lo meno, con questo mezzo principale: la precisione, che si origina nella chiarezza e che è raggiunta attraverso la semplicità delle espressioni.

Se voi volete che la Costituzione sia facilmente appresa da chi la deve osservare e fare osservare, fatela chiara e precisa, in modo da non creare aloni di dubbio intorno alle sue disposizioni.

È questo il precetto che dobbiamo seguire se vogliamo raggiungere quel tale effetto pedagogico al quale tutti quanti teniamo, ma che non si raggiunge certamente usando espressioni improprie, anzi profondamente errate, come quelle che io, non sempre inteso, ho denunciato a questa Assemblea. Noi così non chiariremo la mente dei meno colti e confonderemo la mente dei colti; e confonderemo i profili essenziali della futura elaborazione scientifica.

Quello, poi, che merita una particolare attenzione è il secondo comma di questo articolo, nel quale c’è un errore tecnico, che non è solo errore tecnico che disadorna e forse compromette la venustà della nostra Costituzione, ma che è politicamente pericoloso: il famoso diritto di resistenza.

Il diritto di resistenza non è certamente una trovata della nostra Assemblea. È una vecchia dottrina, ed è una dottrina contro la quale non posso avere preconcetti di scuola, perché il primo formulatore e teorico scientifico di questa dottrina è Locke, che a ragione fu chiamato il padre del liberalismo. Giustamente, dicevo, il Locke primo teorico di questa dottrina, perché egli ha certamente la paternità scientifica di questa, che come dottrina morale e para-giuridica è però antica, in quanto rimonta al Medio-Evo con le lunghe dissertazioni de tiramno e de tiramnicidio. Si costruì una complicata teoria sul tirannicidio. Ricordiamo Coluccio Salutati, e sopra tutto, non per il tirannicidio, perché a questo egli non giunse, ma per la teoria della resistenza, il Dottore Angelico, vale a dire San Tommaso d’Aquino. Sopra tutto per la famosa tripartizione del diritto in lex humana, lex naturalis e lex divina, e dei rapporti che tra queste varie leggi vi sono, e dei conflitti che sorgono tra la legge umana e le altre superiori leggi. Pose così l’Aquinate la legittimazione della resistenza, allorché la lex humana contradiceva la lex divina.

Ripeto: in me non è nessun preconcetto di scuola né politica, né religiosa, contro questa dottrina del diritto di resistenza. La mia opposizione è materiata soltanto da concetti e da esigenze concettuali scientifiche e politiche. Esaminiamo la portata di questo articolo.

Il diritto di resistenza è ammesso, dal progetto, contro l’azione di tutti i poteri pubblici, nessuno escluso, perché si parla in genere di «pubblici poteri i quali violino le libertà fondamentali od i diritti concessi o protetti dalla Costituzione». Dunque resistenza contro gli atti violatori, da qualunque potere pubblico essi provengano, sia dal potere legislativo, che dal potere esecutivo, che dal potere giudiziario. Non c’è esclusione. Perciò insorgenza eventuale non soltanto contro gli atti del Governo o della pubblica amministrazione, ma anche contro atti della autorità giudiziaria e contro la legge stessa! Questo indubbiamente significa! Prospettiamoci tutta la infinità di ipotesi di resistenza individuale o collettiva, attiva o passiva, che può fare l’individuo o il cittadino, come singolo o come complesso, di fronte alle violazioni che provengano dalla legge o da atti singoli del pubblico potere. Certo non esaminiamo l’infinita gamma di tutte queste ipotesi, ma basta raggrupparle.

Esamino da principio il diritto di resistenza di fronte agli atti singoli, cioè di fronte agli atti del potere esecutivo e del potere giudiziario. Esamineremo poi questa posizione di resistenza del cittadino di fronte agli atti del potere legislativo, cioè degli atti che si concretano nella posizione di una norma generale, che è un comando di una classe di azione, e non di un’azione determinata, o di legittimazione di un’azione determinata. Qui le ipotesi che si possono fare sono sostanzialmente quattro: un atto nullo o giuridicamente inesistente, perché mancante di un requisito essenziale per la sua esistenza, posto in essere da una pubblica autorità (per esempio, una sentenza emessa da un sindaco; una deliberazione comunale presa da un primo presidente di Corte d’appello). Evidentemente, questo è un atto inesistente giuridicamente. Non vi è dubbio che il subordinato alla legge ha la possibilità di resistere ad un atto di questo genere; ha la possibilità, la facoltà di non obbedire ad una disposizione di questo genere. Ma questo – me ne dia atto l’onorevole Ruini, grande maestro di queste discipline – non è il diritto di resistenza; questa è l’esplicazione della libertà o del diritto che quell’atto giuridicamente inesistente voleva violare, ma non è riuscito a violare perché non ha esistenza. Io ho agito nel mondo del diritto come se quell’atto non fosse esistito; io non ho esercitato un diritto di resistenza ma ho invece esercitato quel tale diritto o quella tale libertà contro cui si appuntava la pubblica amministrazione.

Un’altra ipotesi è quella dell’atto non nullo ma annullabile, cioè dell’atto che può essere annullato dopo un procedimento giudiziario o amministrativo. E qui le ipotesi sono due: o questi atti sono esecutori o non lo sono. Se non lo sono, evidentemente io ho la possibilità giuridica di disobbedire. Ovviamente. Ma qui, al solito, non vi è affatto il diritto di resistenza; io non ho di fronte a me un ostacolo giuridico a cui resistere; è l’esplicazione di quella tale mia libertà, di quel tale mio diritto contro cui l’atto annullabile è diretto. Vi è invece l’ipotesi dell’atto annullabile ma esecutorio. Ed allora, di fronte all’atto annullabile esecutorio la mia insorgenza contro l’esecutorietà – che naturalmente deve nascere da legge – vale come insorgenza contro la legge.

Io divento in fondo giudice in causa mia, divento giudice della mia causa. Tutto ciò è profondamente contradittorio. In fondo, se ci si pone per questa via, lo stesso giudicato non direbbe nulla, perché dopo che il magistrato avesse deciso, io potrei dire: ma quest’atto, siccome è ingiusto, questa sentenza, siccome è ingiusta, io non li voglio seguire. Quest’atto, per quanto conforme alla legge nella sua essenza di atto, ma contrario alla legge per il suo contenuto, perché viola una libertà fondamentale od un diritto riconosciuto dalla Costituzione, non ha per me alcun valore ed io vi resisto.

Questa è inammissibile sovrapposizione del singolo al giudicato ed all’atto amministrativo. È semplicemente contraddittorio affermare il valore di questi atti e poi dare facoltà all’individuo di insorgere contro di essi.

In fondo, sia che si tratti di atti ormai definitivi o soltanto esecutori, ma contrari alla legge, sia che si tratti di atti esecutivi conformi alla legge, ma ad una legge che violi i diritti fondamentali e le libertà fondamentali del cittadino, il problema è sempre quello: del valore obbligatorio della legge, della possibilità che ha il singolo di insorgere di fronte alla legge, o della possibilità che ha la collettività di insorgere.

Ora, è sommamente contradittorio ed addirittura anarchico pensare che gli individui, come singoli, o anche associati al di fuori degli organi predisposti dall’ordine giuridico per esprimere unitariamente la volontà popolare, questi individui amorfamente riuniti, possano distruggere il valore obbligante della legge. Questo valore, come potremo stabilire a proposito delle garanzie costituzionali, si potrebbe distruggere attraverso, per esempio, la Corte costituzionale, o attraverso una dichiarazione di incostituzionalità della autorità giudiziaria. Ma il giudizio che dovrebbero dare i singoli, che potrebbero sospendere in ogni istante il valore della legge, è semplicemente una qualche cosa che non può entrare in nessuna mente sensata, perché è contradittorio con lo stesso concetto di legge. Bisogna riconoscere che questo diritto di resistenza, che si manifesta attraverso insurrezioni, colpi di Stato, rivoluzioni, non è un diritto ma è la stessa realtà storica, la sola che abbia il potere di investire e di deporre. Sono fatti jurigeni, sono perciò fatti logicamente anteriori al diritto. Perché un colpo di Stato od una insurrezione che si affermino, una rivoluzione che veramente «revolva», creano un nuovo ordinamento giuridico. Questa è la storia che passa, dinanzi alla quale il legislatore è impotente. Egli, se la vuole regolare, può solo commettere delle ingenuità o degli errori. (Applausi a destra Congratulazioni).

PRESIDENTE. È iscritto a parlare l’onorevole Colombi. Ne ha facoltà.

COLOMBI. Onorevoli colleghi, noi siamo d’accordo sull’articolo 49 del progetto di Costituzione che stabilisce il servizio militare obbligatorio. Noi pensiamo che sia fare della cattiva poesia allorché si parla di neutralità assoluta o di pace perpetua. La terribile esperienza dell’ultima guerra, dove i diritti delle genti sono stati calpestati con una assenza completa di scrupoli, ci insegna che non vi può essere una neutralità disarmata e ci insegna soprattutto quanto sia pericoloso creare o fomentare illusioni pacifiste.

Una politica di pace può essere una politica forte, può essere una politica virile; ma un atteggiamento pacifista ci abbandonerebbe alla mercé del primo Paese straniero che volesse fare dell’Italia una terra di conquista o un campo di battaglia.

Noi non vogliamo che il nostro Paese divenga né una cosa né l’altra; e perciò dobbiamo fare una politica di pace, una politica di amicizia con tutti, con le potenze occidentali e con le potenze orientali; soprattutto dobbiamo fare una politica di pace con i nostri vicini.

Ma ciò non basta; l’esperienza ha provato infatti che non è sufficiente volere la pace, voler essere neutrali, per avere effettivamente pace e tranquillità. Noi pensiamo che sia necessario uno strumento per difendere la neutralità e per difendere la pace. È certo che l’Italia oggi, e forse anche domani, non può e non potrà pensare di possedere un grande esercito, una grande flotta aerea e navale, così da potere affrontare battaglie campali con le grandi nazioni del mondo. Tuttavia, dato che non abbiamo alcuna velleità imperialistica, che non vogliamo far guerra a nessuno, che non abbiamo mire di conquista, non abbiamo neppure bisogno di avere un grande potenziale offensivo.

Ma per difendere la nostra neutralità e la nostra pace, è necessario che abbiamo un’armata capace di farlo, un’armata cui affidare il compito di difendere le nostre frontiere e che soprattutto, sia in grado di dimostrare a qualsiasi eventuale nemico che, se intenda minacciare le nostre frontiere, o tenti occupare il nostro suolo, non potrà farlo impunemente. Bisogna cioè che l’eventuale nemico sappia che troverà una forza armata capace di affrontarlo, che in ogni città, in ogni borgata, in ogni casolare, troverà un centro di resistenza e che in ogni caso troverà chi gli rende la vita difficile nel nostro territorio.

Le nostre forze armate saranno certamente di modesta entità; bisognerà quindi curarne al massimo grado l’efficienza qualitativa. Ma se noi vogliamo creare le condizioni per cui il nostro esercito sia un esercito popolare, sia un esercito in condizioni di assicurare la difesa del nostro Paese, è necessario che riusciamo a dare l’istruzione militare al maggior numero possibile di cittadini italiani. Il nostro esercito, nel momento del pericolo, deve poter essere integrato coll’accorrere sotto le bandiere di tutti i cittadini validi; ed essi non potranno farlo, se non saranno stati in precedenza addestrati all’uso delle armi e alla guerra di difesa.

A questo proposito, è necessario che utilizziamo a fondo l’esperienza della guerra partigiana, la quale non è stata soltanto un fatto politico di estrema importanza, ma anche una grande esperienza militare, della quale bisogna tenere conto.

Nelle condizioni in cui ci troviamo, non potendo avere un esercito che abbia la forza e i mezzi necessari per affrontare battaglie campali con gli eserciti meccanizzati dei grandi Paesi, la guerra partigiana costituisce per noi un elemento difensivo di primo ordine.

Noi dobbiamo riuscire ad ottenere una forza difensiva efficiente con il minimo di peso per i cittadini e per lo Stato italiano. La ferma di dodici mesi può essere sufficiente per fare di un giovane un ottimo soldato, a condizione che le forze armate della Repubblica sappiano liberarsi dei gravami morali, burocratici ed economici delle forze armate della monarchia.

Vi potranno essere diverse forme di reclutamento; vi potrà essere una seconda e una terza categoria, a ferma più breve, che sia tuttavia sufficiente per dare un addestramento militare e guerrigliero. L’essenziale è che il principio affermato nella Costituzione, che la difesa della Patria è un sacro dovere del cittadino, non rimanga un’affermazione retorica, ma si traduca nella vita, mettendo il cittadino nella condizione materiale e spirituale di poter adempiere con onore questo sacro dovere.

È giusto quello che è stato osservato: che non si tratta solo di un’educazione militare: si tratta anche di educazione morale; che non si tratta solo di fare dei soldati, ma anche di fare degli uomini, dei patrioti. Il servizio militare obbligatorio fa dell’esercito una scuola di unità nazionale: lo è stato in una certa misura nel passato; noi vogliamo che esso lo sia sempre di più nella nuova Italia democratica.

Noi respingiamo l’idea di un esercito di quadri; non possiamo pensare di affidare la difesa della libertà e dell’indipendenza della Patria esclusivamente a dei militari di mestiere, che finirebbero per estraniarsi dalla Nazione, diventando una casta chiusa e reazionaria, costituendo un pericolo per la pace e per la libertà. L’esempio della Germania ci ammonisce a questo proposito. È evidente che senza la casta militare degli «Junkers» prussiani, Hitler non avrebbe potuto mettere sotto i piedi la democrazia in Germania, né avrebbe potuto mettere a ferro e a fuoco l’intera Europa.

Si è parlato qui dell’Inghilterra, la quale avrebbe trovato la sua prosperità e la ragione delle sue fortune nel fatto di non avere un esercito con coscrizione obbligatoria. È sufficiente ricordare che l’Inghilterra è una isola e che l’Italia non lo è. Del resto, anche i tempi aurei, nei quali l’Inghilterra poteva espandersi e impadronirsi di gran parte del mondo facendo combattere gli altri, sono ormai passati, anche in Inghilterra si ricorre al servizio militare obbligatorio. L’Italia non è un’isola, l’Italia non è l’Inghilterra; non ha le sue risorse e le sue possibilità; l’Italia non è nemmeno un giardino, come l’hanno decantata i poeti; purtroppo noi dobbiamo fare dei grandi sforzi per strappare alla nostra terra il pane per le nostre popolazioni; dobbiamo fare dei grandi sforzi per far sì che le nostre fabbriche diano i mezzi e gli strumenti necessari per la vita; noi dobbiamo lottare ancora per conquistare e affermare la nostra indipendenza nazionale, dobbiamo preoccuparci della difesa della nostra indipendenza e della nostra libertà che sono ancora minacciate.

Noi siamo d’accordo con l’articolo 47, così come è redatto nel progetto di Costituzione. Nessuno può disconoscere l’alta e importante funzione che hanno i partiti nella vita democratica del Paese. Essi non sono solo uno strumento di organizzazione delle masse, ma sono anche uno strumento di educazione politica, di educazione civile, sono un mezzo per elevare la coscienza delle masse. Sono i partiti democratici, uniti nei Comitati di liberazione, che hanno organizzato la resistenza e l’insurrezione nazionale salvando l’Italia dall’estrema rovina. È l’azione dei partiti democratici che ha gettato le fondamenta della nuova democrazia italiana che è una conquista delle masse popolari, e non una concessione graziosa. Sono i partiti, con la loro organizzazione, con la loro politica, che hanno contenuto entro limiti democratici e civili la lotta politica e sociale di questo travagliato dopo guerra portando la vita democratica verso un livello più elevato. Da taluna parte si è parlato di introdurre degli emendamenti che comportino «un controllo dello Stato sui partiti», si è parlato di «riconoscere solo quei partiti che abbiano una natura e una struttura democratiche». Noi respingiamo ogni formulazione che possa fornire pretesti a misure antidemocratiche, prestandosi ad interpretazioni diverse ed arbitrarie.

Vi è chi ha detto, per esempio, che «certi partiti potrebbero esprimere pensieri solo apparentemente democratici, ma che poi sotto sotto vi potrebbero essere chissà quali diabolici disegni». È evidente che lo stabilire un controllo sui partiti creerebbe situazioni per cui l’arbitrio potrebbe manifestarsi. Noi respingiamo perciò ogni formulazione dell’articolo che possa fornire pretesti a misure antidemocratiche; noi pensiamo che ogni controllo statale sui partiti costituirebbe una limitazione della libertà e ogni limitazione posta al principio della libertà costituisce un pericolo per la democrazia stessa. I partiti hanno un controllo: il controllo sui partiti lo esercita il Parlamento, lo esercita sopra tutto il Paese. È evidente che in regime democratico i partiti hanno tutte le possibilità per combattere democraticamente e con efficacia eventuali partiti o movimenti che si ispirassero ad idee false o antidemocratiche. È evidente che il Paese, attraverso le elezioni, attraverso le più diverse manifestazioni della vita democratica, giudica i partiti e i loro programmi e le loro azioni; è questo il vaglio migliore, il vaglio più democratico dei partiti, è questo il controllo, il vero controllo che il popolo esercita democraticamente sui partiti stessi. Noi pensiamo che, qualora sorgano partiti e correnti che nella loro attività escano dalla legalità democratica e impieghino la violenza come metodo di lotta politica, vi sono le leggi di pubblica sicurezza, vi sono le leggi dello Stato democratico per reprimere gli attentati alla vita democratica. Se fosse necessario, altre leggi possono essere fatte per difendere la Repubblica e la libertà, ma in ogni caso la repressione della illegalità deve essere fatta senza portare pregiudizio ai principî della libertà e della democrazia. (Applausi).

PRESIDENTE. È iscritto a parlare l’onorevole Chatrian. Ne ha facoltà.

CHATRIAN. Dopo quanto è stato detto così degnamente e ampiamente dai colleghi di vari settori dell’Assemblea sugli articoli del Titolo quarto, io mi limito ad illustrare, anzi ad ampliare la illustrazione – perché mi sembra un contributo doveroso ed opportuno – del seguente emendamento relativo all’articolo 49: «La prestazione del servizio militare è obbligatoria. Le modalità sono stabilite dalla legge». L’emendamento ha due scopi: di chiarificazione e di completamento.

Nobilmente affermato nel primo comma che la difesa militare è sacro dovere del cittadino, il corollario della obbligatorietà del servizio militare ne è naturale conseguenza in linea morale, in linea equitativa ed in linea tecnica. Tanto più questa obbligatorietà si rivolgerà ad un numero ampio di cittadini, tanto più il comandamento del sacro dovere di difesa della Patria sarà concreto ed effettivo: in guerra, ove il sacrifizio richiesto è quello supremo, l’olocausto della vita; in tempo di pace, quando ogni prestazione militare per il cittadino costituisce pure un onere e un peso, una parentesi nella vita normale del cittadino stesso.

Questa obbligatorietà è la forma che meglio risponde al carattere etico degli Stati moderni, ed è indubbiamente la più democratica. Senonché, l’espressione del testo della Commissione – il servizio militare è obbligatorio – può, a mio avviso, determinare qualche equivoco e qualche limitazione in linea tecnica, specie se lo si interpreti, o lo si voglia interpretare, troppo letteralmente.

Servizio militare obbligatorio significa, tecnicamente: coscrizione; come servizio militare volontario significa volontariato.

Sono le note due diverse forme storiche, classiche, della prestazione del servizio militare. Ora, nel testo della Costituzione, noi vogliamo affermare che la prestazione del servizio di sacra difesa della Patria è obbligatoria, non stabilire delle modalità tecniche: vogliamo precisare un rapporto politico, come tutti quelli considerati dal Titolo quarto, non vogliamo formulare un criterio tecnico.

Desidero d’altronde sgomberare, cercare di sgomberare, subito un equivoco o, per lo meno, un errore di prospettiva, che è stato segnalato poco fa dall’onorevole Nobile, circa il volontariato: invocato dagli uni, deprecato dagli altri.

Esistono, onorevoli colleghi, anzi, forse meglio, sono esistiti, tre sistemi di volontariato: quello mercenario delle compagnie di ventura, delle truppe straniere assoldate, del racolage, dei quali fece giustizia la rivoluzione francese con la legge Carnot sulla leva obbligatoria e, successivamente, con la legge Jourdan, prima legge moderna sulla coscrizione; un secondo sistema di volontariato è quello cosidetto professionale, proprio, o già proprio, dei paesi anglosassoni, noto nella sua struttura, ben diverso dalla coscrizione, che i due Stati hanno peraltro abbandonato nei due conflitti mondiali ed anche nel presente periodo storico. Sistema d’altronde di lusso, fuori causa per noi, perché non consentito dalla finanza italiana, a prescindere da ogni altra considerazione. Ma esiste un terzo sistema di volontariato, che definirò «volontariato integrativo della coscrizione»; per cui determinati cittadini che sono vincolati al servizio militare nei termini e con le modalità ordinarie danno invece una prestazione più ampia: nel tempo, per determinati vincoli, con particolari obblighi. Ora, questo volontariato integrativo è imposto da esigenze di inquadramento e di addestramento (ufficiali, sottufficiali, determinate categorie di graduati di truppa) e da esigenze di tecnicismo (specialisti che devono impiegare determinati materiali più delicati, da quelli di collegamento a quelli meccanizzati ovvero che assolvono a particolari incarichi e cariche speciali). Ma, mentre i due sistemi di volontariato, mercenario e professionale, sono sostitutivi della coscrizione – e perciò possono essere ravvisati in contrasto con il sacro dovere di difesa della Patria, perché esimono parte dei cittadini a vantaggio di altri cittadini – il sistema di volontariato integrativo non è assolutamente in contrasto con questo obbligo generale e personale; solo esso determina un’attenuazione del peso e dell’onere dell’obbligo generale stesso. Nessun sistema di volontariato sostitutivo esiste nell’attuale legislazione militare italiana. L’ultimo istituto, che alcuni di noi ancora ricordano, è stata la surrogazione di fratello la quale pure aveva un fondamento di utilità e, vorrei dire, di equità familiare.

In conclusione, di fatto, la prestazione del servizio militare viene oggi resa, in tempo di pace, con un sistema misto, basato sulla coscrizione, ma sussidiato, per ragioni tecniche ed anche a vantaggio di numerose categorie di cittadini, dal volontariato integrativo. Sembra che, entro certi limiti, questo sistema misto possa soddisfare anche gli zelatori del volontariato. Do alcuni indici dell’apporto di questo volontariato, già citati da altri oratori, ma che non ritengo inopportuno ripetere: il volontariato integrativo costituisce circa il 64 per cento nell’Aeronautica, il 61 per cento nella Marina, il 25 per cento nell’Esercito esclusi i carabinieri (il 30 per cento compresi i carabinieri); esso concerne, poi, la totalità dei carabinieri e delle guardie di finanza.

Ma anche l’espressione «la prestazione del servizio militare è obbligatoria», sic et simpliciter, è troppo generica. In realtà, questa obbligatorietà soffre notevoli e ampie eccezioni: in tempo di guerra, quelle del sesso e dell’età, per accennare solo alle principali; in tempo di pace, esenzioni e temperamenti nell’interesse: della famiglia, degli studi, dell’economia, della religione, dei residenti all’estero ed in colonia, della selezione fisica del contingente: quest’ultima, si noti, non solo a vantaggio delle forze armate, ma anche a tutela dei giovani meno robusti, specie in questo duro periodo di denutrizione.

Quali le conseguenze di fatto?

Che si verifica una notevolissima differenza tra contingente chiamato alle armi e contingente incorporato, o, se mi consentite di usare altra espressione, tra contingente al lordo e contingente al netto.

Alcuni dati relativi alle ultime classi chiamate regolarmente alle armi o in corso di richiamo. Per la classe 1925, il contingente chiamato alle armi è stato di 354.000 uomini (compresi i rinviati da classi precedenti); viceversa, sono stati incorporati soltanto 97.000 uomini, ossia il 27 per cento del contingente al lordo. Per il primo quadrimestre, in corso di chiamata, del 1946, i chiamati sono 185.000, mentre si prevede di incorporarne soltanto 40 mila; ossia il 22 per cento.

Esiste, infine, un secondo aspetto della prestazione del servizio militare obbligatorio, su cui reputo opportuno richiamare l’attenzione degli onorevoli colleghi, che dovrà essere regolato dal futuro legislatore, e del quale non mi pare sia stato fatto cenno.

Il servizio militare di pace è, ancora oggi, per molti, sinonimo di servizio alle armi, di ferma una volta tanto.

Ora, le moderne forze belligeranti, come ci hanno insegnato i due più recenti conflitti mondiali, non sono più costituite, se non in minima parte (sovrattutto per quanto concerne le forze terrestri e, alquanto meno, le forze aeree) dagli armati sotto le bandiere al momento dello scoppio delle ostilità, ma sono costituite, nella quasi totalità, da riservisti, ossia da militari in congedo.

È noto ai colleghi che l’Italia mobilitò nel primo conflitto mondiale circa 5 milioni e mezzo di uomini, e nel conflitto ultimo circa 6 milioni.

Ora, non basta che questi riservisti di ogni grado abbiano ricevuto a suo tempo una preparazione militare; occorre che lo Stato conservi loro, entro certi limiti, tale capacità, per la difesa del Paese ed anche per la difesa loro personale, fino all’età limite dell’obbligo del servizio militare (ora ridotta dal 55° al 45° anno di età).

Il continuo evolversi della tecnica dei mezzi e dei procedimenti di lotta fa sì – non si può disconoscerlo – che, a pochi anni di distanza dalla prestazione del servizio militare alle armi, il militare non sia più aggiornato.

Non solo per ragioni tecniche, ma anche per ragioni di coscienza occorre, invece, che questo aggiornamento venga conferito con adeguati periodi di richiamo; come nella quasi totalità degli Stati avveniva, prima di questo conflitto, ed è previsto tuttora.

Un tecnico – che può non esserci simpatico, ma che va ricordato come un tecnico di valore – il Von Seckt, affermava: «Le riserve non istruite, chiamate in guerra, sono greggi consegnati alla brutalità del nemico».

Gli otto milioni di baionette che, per la teorica e balorda affermazione della riserva unica e per l’inesistenza di una sistematica dei richiami, ignoravano molti procedimenti e molti mezzi fondamentali relativi alla loro arma, sono un indice di questo grave errore di prospettiva. Ora, un sì tragico errore, una così grave omissione non dovranno essere ripetuti dal futuro legislatore.

E perciò, la prestazione di servizio militare del cittadino dovrà, dalle leggi di reclutamento, essere impostata in due distinti cicli: il primo, breve ferma alle armi (ferma organica, non soltanto ferma istruttiva) riducibile, a mio parere, a nove mesi; il secondo, periodi di richiami, indispensabili, fra il congedamento e il 45° anno di età (nel complesso, ad esempio, tre mesi).

Solo così, onorevoli colleghi, si avranno militari adeguatamente preparati alla difesa della Patria: alla difesa di quel bel giardino d’Europa che tutti i cittadini, militari o civili, degni di tal nome auspicano sia coltivato e fecondato dal lavoro italiano; non percorso da carri armati od arato dalle bombe degli aerei di forze armate nemiche che, una volta di più nella storia, vogliano presceglierlo per le sue allettanti basi navali e aeree (se non per esse soltanto) come campo di battaglia per le loro contese.

Per le ragioni di chiarificazione e di completamento che ho accennato, per orientare il legislatore ordinario in linea politica, senza per contro vincolarlo in linea tecnica, io ritengo che la formula proposta possa essere accolta dalla Costituente.

A puro titolo informativo leggo, molto brevemente, alcune formulazioni di Costituzioni estere moderne e contemporanee, relative all’obbligo del servizio militare ed alla formulazione che lo concerne:

Costituzione di Weimar (articolo 133): «Gli obblighi militari sono fissati dalle norme della legge del Reich sulle forze armate».

Costituzione cecoslovacca: «Ogni suddito valido della Repubblica cecoslovacca è tenuto a sottomettersi agli obblighi militari e a rispondere alla chiamata disposta per la difesa dello Stato. I particolari sono regolati dalla legge».

Costituzione polacca: «Tutti i cittadini sono obbligati al servizio militare e ai servizi per la difesa dello Stato. Il Presidente della Repubblica ordina ogni anno la leva delle reclute entro i limiti di un contingente stabilito. Il contingente di leva può essere stabilito mediante disposizioni di legge».

Costituzione estone: «Tutti i cittadini sono obbligati a partecipare alla difesa della Repubblica secondo i principî e le norme stabilite dalla legge».

Costituzione finlandese: «Ogni cittadino finlandese è obbligato a partecipare alla difesa della Patria o a contribuirvi, in conformità alle disposizioni di legge».

Costituzione lituana: «Tutti i cittadini partecipano alla difesa dello Stato».

Costituzione sovietica (articolo 132): «La legge prevede l’obbligo militare generale. Il servizio militare nell’Armata rossa è un dovere onorevole per ogni cittadino dell’URSS».

Progetto di Costituzione francese (elaborato dalla prima Assemblea Costituente, dichiarazione dei diritti, articolo 39): «Les citoyens doivent servir la République, la défendre au prix de leur vie». (Applausi).

PRESIDENTE. Dichiaro chiusa la discussione generale. Ha facoltà di parlare il Relatore, onorevole Merlin Umberto.

MERLIN UMBERTO, Relatore. Onorevoli colleghi. Quale relatore alla Commissione dei settantacinque su questo titolo speciale della Costituzione che tratta «Dei rapporti politici» mi onoro di riferire all’Assemblea e di rispondere, per quanto brevemente, alle osservazioni che sono state fatte a questi 7 articoli compresi nel Titolo. Dico subito che il mio compito sarebbe estremamente difficile, se volessi rispondere analiticamente a tutti i 19 oratori che hanno così autorevolmente interloquito su questo argomento; anche perché su qualche specifico tema (almeno io che sono ignorante in moltissime cose) confesso che dovrei definirmi ignorantissimo, e quindi io mi permetterò soltanto di rispondere ai punti più importanti, a quelli che toccano argomenti di carattere politico e non tecnici e mi limiterò a rispondere sommariamente. Dopo questa discussione di carattere generale vi sono non meno di 90 emendamenti, e su ciascuno di questi la Commissione dirà il suo parere. Avrò pertanto la possibilità di replicare a ciascuno degli oratori, che non fossero da me, non per scortesia, ma per ragioni di brevità, ricordati nella mia presente risposta.

Veramente devo dire che di tutti questi 7 articoli sono stati oggetto soprattutto di discussione gli ultimi: 49, 50 e 51, mentre gli articoli 45, 46, 47, 48, (a parte alcune questioni di forma) non hanno dato oggetto a critiche di una certa importanza. Segno questo che l’Assemblea, per la voce di coloro che sono intervenuti nella discussione di questi punti fondamentali, che riguardano l’elettorato attivo e passivo, il diritto di voto, la parità e l’eguaglianza perfetta di tutti i cittadini per l’accesso ai pubblici uffici, non ha manifestato differenze di vedute con quelli che sono stati i principî accolti dalla Commissione, ed era perfettamente giusto che fosse così perché, se le libertà politiche sono il corollario e nello stesso tempo anche la premessa delle libertà civili e sociali e formano un tutto unico con queste libertà, un’Assemblea come la nostra, eletta nelle elezioni del 2 giugno con un programma condiviso da tutti, di libertà e di democrazia, non poteva certamente essere discorde sulla riaffermazione di queste libertà politiche.

Anzi, se non ci fosse stato il fascismo, per ripetere una frase già detta da Herriot alla Camera francese, non ci sarebbe stato neanche bisogno di riaffermare questi principî sui quali la coscienza civile del Paese, prima del fascismo, era unanime.

Io ricordo, allora ero giovane, che nella scuola, nella stampa e nelle assemblee politiche, non si discuteva neanche su questi punti e pareva che su di essi vi dovesse essere fra gli italiani unanimità di vedute. Purtroppo è intervenuto il fascismo, il quale, disprezzando i cosiddetti ludi cartacei, ha creduto di innovare e trovare una dottrina nuova, che non era altro che la ripetizione di vecchi errori, ed ha distrutto quella formazione della democrazia che avrebbe potuto in vent’anni perfezionare la educazione democratica dei cittadini, riparare anche ad errori commessi nel turbinio del dopoguerra ed avviare il popolo italiano, col metodo della libertà, a forme sempre più alte di civiltà e di progresso.

Ma, come ha già detto nel suo importante discorso l’onorevole Caristia, l’affermazione di questi principî basilari e fondamentali non ha oggi che un divenire faticoso, ed una lenta possibilità di poter permeare di sé tutta la vita del Paese. Noi dobbiamo riaffermare precisamente questo contro alcuni – pochi io spero – che irridono alle nostre fatiche e che forse sentono anche – non qui dentro certo, ma fuori di qui – qualche nostalgia per la dittatura, dobbiamo dire a costoro che dovrebbero avere almeno il pudore di tacere, perché le difficoltà che la democrazia incontra nel suo formarsi e nel suo divenire non sono altro che le conseguenze del triste periodo fascista e dittatoriale. (Applausi).

Comunque io spero, onorevoli colleghi, anzi ho ferma fiducia, nonostante le nostre difficoltà e la lentezza dei passi che la democrazia compie, io ho ferma fiducia che il popolo italiano non dimenticherà mai quella che è stata la conseguenza del fascismo. Poiché le dottrine si giudicano con un termometro infallibile, che è il termometro dei fatti, il popolo italiano non dimenticherà che tutte le sue sventure e le sue rovine sono la conseguenza della dittatura e perciò ci aiuterà in questo progredire, lento sì, ma sicuro della nuova democrazia. (Applausi).

Come ho detto, le osservazioni che furono fatte sui primi articoli (45, 46, 47 e 48) non sono molto importanti. L’onorevole Rodi, per esempio, nel suo forbito discorso, ed oggi ha fatto seguito a lui il professor Condorelli con un discorso tanto eloquente, hanno trovato molto a ridire su quelle parole (che si riferiscono all’esercizio del voto): «Il suo esercizio è dovere civico e morale». Ha parlato anche il collega Sullo su questo argomento. Il giovane collega, nel suo felice debutto, vorrebbe che questa formula venisse modificata. Rispondo a tutti ed in particolare al professor Condorelli: se con le vostre proposte di emendamento soppressivo volete riaprire la discussione sul voto obbligatorio badate che combattete con un uomo come me, che alla Consulta, in occasione proprio della legge che ci ha portati qui, ha strenuamente combattuto per l’obbligatorietà del voto. Mi sono battuto allora col mio Gruppo, ed ho avuto la soddisfazione di vedere che la Consulta a maggioranza accoglieva il principio della obbligatorietà del voto, e questo principio è diventato legge dello Stato (come risulta dall’art. 1 cap. 2 della legge 10 marzo 1946 n. 74). Però le difficoltà della introduzione della obbligatorietà del voto non dipendono dalla affermazione del principio, ma dalle sanzioni, e il Governo, quando ha dovuto dare sanzione giuridica a questo principio – voi lo sapete – ha stabilito soltanto questa sanzione: che l’elenco degli astenuti fosse pubblicato, per il periodo di un mese, nell’albo comunale, e che il certificato di moralità e di buona condotta, che il cittadino chiedesse, recasse aggiunta la menzione: «Non ha votato». Perché è evidente che malgrado il numero notevole di cittadini, che le elezioni del 2 giugno hanno portato alle urne (un numero addirittura insperato), ugualmente, se fate il conto, su 24 milioni di elettori la percentuale del 20 per cento comporta quattro o cinque milioni di astenuti, ed è evidente (voi lo capite) che lavoro immenso sia necessario per accertare, per ciascuno di essi, la posizione personale, e poi applicare la sanzione.

Io esprimo in questo momento il pensiero della Commissione, ma dovevo pure ricordare questi particolari perché non posso dimenticare i miei più importanti atti politici.

Ora, mi perdoni l’onorevole Condorelli e mi perdonino gli altri colleghi Rodi e Sullo, io non vedo quale eresia giuridica si compia se nella legge diciamo che questo del voto è un dovere civico e morale. Sì signori, anche morale. Perché non dobbiamo affermare questo dovere morale? L’onorevole Condorelli ha detto che è una eresia giuridica. Ma, badate, non è che questa Costituzione debba essere un trattato di pedagogia, ma deve indubbiamente insegnare anche dei doveri, deve essere anche il codice dei diritti e dei doveri dei cittadini. Meglio se sarà, come voleva Mazzini, prima il codice dei doveri e poi il codice dei diritti. Ora che c’è di male se la Commissione ha ottenuto l’unanimità dei consensi su questa formula? Questa formula in sostanza vuole esprimere questo: che i Commissari non erano d’accordo sul principio della obbligatorietà del voto, ma sono andati d’accordo su un principio forse più alto del dovere civico. Abbiamo affermato in forma solenne il dovere di andare a votare, il dovere del cittadino, che gode dei benefici di questo regime democratico, che gode della libertà, che gode della sicurezza personale, che insomma è ritornato ad essere in questo nuovo clima che la democrazia ha creato un essere libero, questo cittadino abbia anche il dovere di andare a votare. Un disturbo da poco, un disturbo insignificante, al quale però, sopratutto nelle elezioni anteriori al regime, una percentuale altissima di cittadini si era sempre sottratta.

Io non sono di avviso che la questione non possa essere riproposta, sono anzi del parere che la formula della Costituzione permetta in pieno di ripresentare la questione quando discuteremo la prossima legge elettorale, che verrà fra giorni in discussione all’Assemblea e di questo parere è stata anche la Commissione. L’espressione «dovere civico e morale» rappresenta una formula conciliativa che l’Assemblea farà propria.

L’onorevole Giolitti ha ripreso ieri sera la vecchia questione della età dell’elettore. Dico all’onorevole Giolitti due sole parole, tanto per non mancare di cortesia al collega e per rispondere alla sua proposta. La Commissione, nella sua maggioranza, ha accettato l’età di ventun anni ed ha rifiutato l’emendamento, che da qualcuno veniva proposto, di ridurre l’età a diciotto anni. Perché abbiamo fatto questo? Per una ragione molto semplice: prima di tutto perché tutte le Costituzioni hanno fissato l’età per essere elettori, e poi perché a noi pareva che, se il Codice civile, nell’articolo 2, fissa la maggiore età e quindi la pienezza della capacità giuridica ad anni ventuno, proprio per una funzione che secondo noi dovrebbe esigere una maggiore maturità, una maggiore competenza, una maggiore conoscenza dei problemi, ci pareva contradittorio che proprio per questa funzione, che noi non esitiamo a dire più alta, l’età, anziché essere aumentata, venisse abbassata. Ecco perché pregherei l’onorevole Giolitti di non insistere e di accettare la formula che la Commissione propone.

Più serie critiche vennero fatte agli articoli 49, 50 e 51. L’onorevole Gasparotto con l’autorità che gli deriva dal suo ufficio attuale, ed oggi il collega Chatrian – che gli è venuto, per quanto superfluo, in aiuto – si sono battuti per una formula diversa da quella che la Commissione ha proposta. Il pensiero dell’onorevole Gasparotto fu ripreso poi dagli onorevoli Azzi e Calosso.

Io prima di scendere a qualche delucidazione sul pensiero della Commissione su questo punto, voglio sottolineare la prima parte di questo articolo, e lo faccio perché è un dovere; lo faccio perché è giusto che la Camera ripeta quello che tutti sentiamo. L’articolo dice: «La difesa della Patria è sacro dovere del cittadino».

Ora, queste sono parole da fondersi nel bronzo o da scolpirsi nel marmo, parole che noi vorremmo penetrate così nella coscienza del nostro popolo da non doversi mai più discutere su di esse, ed è con soddisfazione che io ricordo all’Assemblea che la Commissione fu unanime nel votare questa formula, e ricordo ancora le parole di pochi minuti fa, che il collega onorevole Colombi ha pronunciato e che dimostrano essersi raggiunto (ricordiamolo noi che siamo sempre avvezzi a dirci male l’un l’altro ed a roderci tra di noi) sul concetto della Patria e sull’amore verso di essa, una unanimità che deve essere e sarà cresimata indubbiamente dal voto dell’Assemblea. (Applausi).

La Patria non è più la matrigna che il fascismo aveva tentato di creare, ma è la madre generosa che accetta ed accoglie tutti i suoi figli con identico animo. (Applausi).

Ma l’onorevole Gasparotto ha spezzato una lancia per il volontariato. Ho detto prima quanto io sia ignorante e come di questo argomento debba trattare molto superficialmente; ora, ho sentito qui il parere dei competenti e mi inchino al parere del mio ottimo collega Chatrian, che può insegnare a me come a tutti, ho sentito il parere anche del valorosissimo generale Bencivenga, e non intendo in nessuna maniera discutere o mettere in dubbio quello che fu nella storia il valore del volontarismo; perché il volontarismo ha creato sempre spiriti generosi, capaci di ogni sacrificio, i quali hanno formato la storia. Quindi, lungi da me qualsiasi idea di mettere in dubbio o diminuire questo valore. Ma io parlo come uomo politico, e ricordo che i miei maestri, fino dai banchi dell’università, insegnandomi proprio le leggi create dalla Rivoluzione francese e dopo di essa, mi dicevano che la coscrizione obbligatoria è segno di democrazia, che il servizio militare deve essere generale per tutti, perché solo così si mettono tutti i cittadini nella condizione di adempiere al loro dovere in perfetta parità, senza eccezioni, senza distinzioni di classi e senza privilegi.

Vogliamo tornare indietro? No, certo. L’articolo 61 del Trattato di pace, che ci è stato dettato, dà all’Italia un contingente di 185.000 uomini per il suo esercito e di 75.000 uomini per i carabinieri. Però in quel dettato c’è una parte che io amo sottolineare: che, a differenza di quello che ha fatto il Trattato di Versailles per la Germania, non ha imposto il volontarismo. Ora, io sono d’accordo con l’onorevole Gasparotto che il nostro esercito, anche per la sua modestia come numero, non deve avere altro compito se non quello di assicurare la pace; ma, con le opportune ferme e con le opportune rotazioni, vogliamo dare a tutti i cittadini un minimo di conoscenza delle armi? Certamente, perché io conosco l’animo dell’onorevole Gasparotto e sono sicuro che egli risponde affermativamente a questa mia domanda.

Sono infatti di certo presenti alla mente di tutti i pericoli cui si andrebbe incontro se così non fosse. Voglio dire anzi all’onorevole Calosso che è vero che l’Italia è il giardino d’Europa, ma molto spesso sono calati su questo giardino gli stranieri da tutte le parti del mondo ed hanno colto le rose più belle, lasciando agli italiani soltanto le spine. (Applausi).

È perciò che la Commissione non può accogliere il principio della non obbligatorietà del servizio militare. Tuttavia, per non aver l’aria di volerci irrigidire in una formula che sia incompleta, e venendo incontro alle giuste osservazioni che il collega onorevole Chatrian ha fatto oggi, ed ammettendo precisamente che il volontarismo è sempre stato una delle forme di reclutamento dell’esercito italiano, noi siamo disposti ad accettare una formula che dica così:

«Il servizio militare è obbligatorio nei limiti e nei modi stabiliti dalla legge».

Ma l’emendamento che la Commissione non può accogliere è quello che l’onorevole Calosso ha sostenuto ieri, in un discorso come al solito spumeggiante.

La Commissione plaude all’intenzione dei presentatori e trova che queste idee sono degne di considerazione e di studio; ma non basta venire all’Assemblea ad esporre delle belle idee, perché allora, per esempio, io potrei esporne una migliore di quella dell’onorevole Calosso, ove io proponessi un emendamento il quale suonasse: «Le spese per la pubblica istruzione devono essere il doppio di quelle per l’esercitò e per la difesa del Paese».

Ma come è possibile interloquire, su questi argomenti, se ancora non abbiamo visto un bilancio? Come è possibile porre dei limiti, se non sappiamo ancora quello che tale piccolo esercito ci costerà? Questa idea dell’onorevole Calosso della parità fra le spese della pubblica istruzione e quelle militari fu già accennata anche dall’onorevole ministro Gonella; è un’idea che sentiamo tutti, è un’idea che corrisponde a una nobilissima aspirazione: ma lasciamo tempo al tempo e non vogliamo, in questa Assemblea, dissertare de omnibus rebus et quibusdam aliis; non vogliamo ragionare di tutto, anche di quello su cui non abbiamo potuto meditare; lasciamo cioè che questi bilanci siano esaminati, siano discussi e sopratutto studiati con quella competenza che è necessaria.

Ma l’onorevole Calosso, che ha certamente un ingegno portentoso, ha detto che la riorganizzazione dell’esercito deve essere compito dei politici e non dei tecnici. Sarebbe come dire che la ricostruzione delle nostre ferrovie e delle nostre case deve essere compito degli avvocati e non degli ingegneri. Ora, io non posso associarmi a queste sue affermazioni; io credo che la riorganizzazione dell’esercito debba essere invece prevalentemente ed essenzialmente oggetto dello studio dei tecnici, di coloro cioè che hanno consumato la loro vita al servizio del Paese e che concorsero in ogni momento a dare lustro al nostro esercito, che noi vogliamo sempre che sia presente al nostro affetto ed al nostro cuore. (Applausi).

L’onorevole Rodi e qualche altro collega hanno vivamente criticato il comma 3° dell’articolo 49 che dice così:

«L’ordinamento dell’esercito si informa allo spirito democratico della Repubblica italiana».

Ora qui io espongo il pensiero della Commissione e spero che esso possa soddisfare tutti gli onorevoli colleghi. Non si intese dalla Commissione di far penetrare la politica nell’esercito; questo fu lontano dalla nostra mente nel senso più assoluto; no, noi vogliamo l’esercito come istituzione al di fuori e al di sopra della politica, composto di uomini dediti soltanto al servizio della Patria. Ma la democrazia in Italia non è un partito: è il regime che il popolo italiano si è dato con piena libertà; e nella democrazia vivono e lottano tra di loro numerosi partiti. Ora, domandare che l’ordinamento dell’esercito si informi allo spirito democratico che deve informare tutta la vita del Paese, è domandare cosa lecita. La democrazia è lo stato non di fatto, ma di diritto del nostro Paese; domandare che l’esercito lo riconosca è fare opera d’unione e di concordia, non divisione politica. Vuol dire ancora quella formula che l’esercito, senza venire meno al principio di unità e di disciplina, nella sua organizzazione e nei suoi regolamenti non deve venir meno a quel rispetto della dignità e della libertà umana che è l’elemento fondamentale del progresso civile. Con ciò non si nuoce all’esercito, ma lo si rafforza rendendolo aderente allo spirito ed alla volontà nazionale.

Furono fatte osservazioni all’articolo 50, a tutto l’articolo 50; e in ispecie il più fiero oppositore di questo articolo fu il collega onorevole Condorelli.

Ora, io mi domando, e domando anche a lui e ai suoi colleghi Rodi, Sullo e Terranova, che hanno voluto parlare su questo argomento, se essi per avventura non abbiano esagerato: intanto per quella che è la prima parte di questo articolo 50 che dice così: «Ogni cittadino ha il dovere di essere fedele alla Repubblica, di osservarne la Costituzione e le leggi, di adempiere con disciplina ed onore le funzioni che gli sono affidate», cosa c’è che possa turbare la coscienza di alcuno? Potevamo forse dire che ogni cittadino ha il dovere di essere fedele alla… monarchia? Potevamo dir questo dopo l’esito del referendum del 2 giugno? No, certamente, ed allora noi non potevamo che domandare fedeltà alla Repubblica, che è la forma di Governo che il popolo italiano si è dato, e alla quale forma anche voi da quella parte (Accenna a destra) avete detto di rendere omaggio, affermando che non volete turbare in nessun modo quello che è lo stato di diritto del Paese in questo momento. Del resto io, guardi, onorevole Condorelli, le do ragione quando ella dice che si dovrebbe avere il senso dello Stato, della difesa dello Stato; ma le ricordo ancora che la parola «Repubblica» in latino vuol dire precisamente Stato e noi la vogliamo adoperare in questo senso, perché anche a tutti coloro che eventualmente non avessero ancora aderito alla Repubblica con pieno animo, ma che hanno sempre servito con devozione lo Stato, anche a costoro noi domandiamo ugualmente l’osservanza delle leggi, la fedeltà allo Stato, in nome di quei nobili sentimenti in base ai quali anche loro hanno sempre servito lo Stato come la più alta organizzazione della vita civile di un popolo.

E vengo all’ultima parte, la seconda parte. Io qui debbo tranquillizzare le coscienze dubbiose di parecchi dei colleghi del mio Gruppo. L’onorevole Terranova, per esempio, mi vuole mettere perfino in contrasto con la dottrina cattolica. Ora, ha fatto benissimo l’onorevole Condorelli a ricordare San Tommaso d’Aquino, perché in San Tommaso d’Aquino io leggo queste parole: «In terzo luogo bisogna dire che il regime tirannico non è giusto perché non è ordinato al bene comune, ma al bene privato di colui che governa. Per tale ragione il sovvertimento di questo regime non ha carattere di sedizione». Ecco il pensiero che è trasfuso in questo articolo e che deve tranquillizzare non solo i miei amici democristiani ma, vorrei dire, deve persuadere anche il collega onorevole Condorelli. Perché ricordiamoci tutti: chi c’è stato fra i moralisti cattolici che abbia trovato da ridire sul movimento dei partigiani? Chi non ha riconosciuto invece la legittimità di questo movimento contro un regime tirannico, che voleva imporsi con le baionette straniere e con la violenza e voleva ancora governare non per la salvezza del Paese ma per la fortuna di un uomo? Nessuno c’è stato mai che abbia voluto indubbiare la liceità di questo movimento. E allora lei, onorevole Condorelli, non mi faccia tutta quella casistica che mi ha fatto oggi nel suo eloquente discorso per combattere l’articolo 50!

Quei casi non si riferiscono all’articolo 50; quei casi ammettono una tutela e una difesa giurisdizionale sia davanti ai magistrati sia davanti alla giustizia amministrativa, e qui abbiamo il collega onorevole Ruini che potrà eventualmente intervenire, con l’autorità che gli è particolare e per l’alto ufficio che occupa, per chiarire questo punto. Qui, in questo articolo, noi abbiamo affermato invece il diritto legittimo di difesa contro gli atti della pubblica autorità che violino le libertà fondamentali del cittadino, abbiamo fatto una ipotesi del tutto analoga a quella del 1943, quando il tiranno uscì da ogni limite e dimostrò con i fatti di voler togliere ai cittadini ogni libertà ed ogni diritto.

Del resto, voi credete che questo principio sia del tutto nuovo? Io ricordo che nell’articolo 199 del Codice Zanardelli, sia pure in embrione, vi era lo stesso principio perché diceva: «Le disposizioni contenute negli articoli precedenti (oltraggio, violenza o minaccia a pubblico ufficiale) non si applicano quando il pubblico ufficiale abbia dato causa al fatto, eccedendo con atti arbitrari i limiti della sua funzione». È il principio del vim vi repellere licet affermato dal Codice penale contro il pubblico ufficiale. Il Codice Rocco naturalmente ha abolito tutto questo ed il Ministro Tupini, dopo la liberazione, ha ripristinato quella disposizione col decreto 14 settembre 1944, n. 288.

Quindi credetelo: l’articolo 50 – capoverso 1° – non è che favorisca le rivoluzioni e le rivolte. Io auguro che non ci siano queste rivoluzioni, io auguro che non ci siano queste rivolte; ma se esse dovessero scoppiare, ciò non avverrà per l’articolo 50 ma per ben altre cause e per ben altre ragioni. L’articolo 50 sarà invece un monito per i pubblici poteri: dirà a tutti che non è possibile offendere queste libertà fondamentali del cittadino. E anche se fu detto che noi vogliamo trasformare questa legge in un trattato di pedagogia, è bene abbondare e ricordare a tutti quale è il loro dovere.

Finalmente – e sto per concludere – l’articolo 51 riguardante il giuramento. Furono dette tante cose su questo punto. Ma noi che abbiamo già votato la legge 3 dicembre 1946, – l’onorevole Condorelli no – ma noi che abbiamo votato a favore di quella legge non possiamo naturalmente che volere che la Costituzione ribadisca l’obbligo del giuramento. Forse la formula dell’articolo 51 potrà essere modificata in senso migliore, ma il principio che il cittadino che copre pubbliche funzioni debba prestare giuramento di fedeltà alla Repubblica mi pare sia bene ripeterlo. Del resto, non è vero quello che fu detto: che il giuramento sia una semplice formalità. Non è vero per gli uomini d’onore, e le categorie dei cittadini che sono indicate nell’articolo – magistrati, ad esempio, ed ufficiali dell’esercito – sono uomini di altissimo onore, e per questi uomini di altissimo onore il giuramento ha indubbiamente una grande importanza.

Restano due punti soltanto, ed io li ho tenuti per ultimo volutamente per sottolinearne l’importanza.

Vi è il punto che riguarda la organizzazione dei partiti e vi è il punto del voto degli italiani all’estero. Per la organizzazione dei partiti, coloro, fra i colleghi (non saranno certamente tutti, ma spero almeno alcuni) che abbiano letto la mia relazione, sanno che le stesse preoccupazioni, che ha manifestato il collega Ruggiero in questa Assemblea, le ho scritte prima io nella mia relazione. Quindi ho sentito anch’io questo desiderio di perfezionare la norma. Però, faccio osservare che con la formula votata nella Costituzione tutti i cittadini hanno diritto di organizzarsi liberamente in partiti per concorrere con metodo democratico a determinare la politica nazionale; il principio che sta a cuore al collega Ruggiero è sufficientemente affermato.

Qui si potrebbe discutere se questa formula riguardi il lato esterno o interno dei partiti; ma faccio osservare che l’articolo 47 fu pesato parola per parola dalla Commissione, che esso è frutto indubbiamente di qualche transazione fra i commissari, ma che molti altri punti restano ancora da definire, per esempio il riconoscimento giuridico dei partiti, il loro spirito e metodo democratico, i fini che i partiti si propongono, l’esame dei bilanci dei partiti, e soprattutto le funzioni costituzionali da affidare ai partiti. Lasciamo fare qualche cosa anche al legislatore futuro. Non preoccupiamoci di scrivere nella Costituzione tutto quello che su ciascun argomento può essere detto. Qui affermiamo il principio del riconoscimento dei partili. Venire poi all’applicazione di questo riconoscimento e vedere l’ampiezza che avrà, sarà compito importante del legislatore futuro.

Ultimo argomento, gravissimo: noi abbiamo sentito dalla parola dell’onorevole Piemonte, che è un vero apostolo della emigrazione, seguito dagli onorevoli Schiavetti e Caporali, abbiamo sentito ripetere tutta la nobiltà, tutta l’importanza e tutta l’umanità di questo problema.

Invero, riunire attraverso il voto l’emigrante italiano, costretto ad abbandonare il suo paese, alla madre patria, è tale problema che indubbiamente ci accende tutti del legittimo desiderio di vederlo risolto.

Ma possiamo farlo noi in questa Assemblea, o lo si potrà fare in sede della legge elettorale specifica che verrà fra giorni in discussione?

L’argomento è gravissimo, ho detto, e gli stessi proponenti non hanno nascosto le difficoltà.

L’onorevole Piemonte, nel suo bellissimo discorso, ha tentato lui stesso la confutazione di queste difficoltà; ma basti dire poche parole per capire qual è l’importanza pratica che il problema presenta.

Bisogna prima di tutto distinguere fra emigrazione temporanea e permanente, occorre fare i conti con la suscettibilità e le diffidenze degli Stati che ospitano i nostri emigranti. Bisognerebbe risolvere il problema della doppia nazionalità, e risolverlo, non solo da noi, con atto unilaterale, ma, come gli stessi proponenti hanno detto, con atto bilaterale, cioè con trattati con i vari Stati. Ma più di tutto (badate che io mi fermo forse alle parti secondarie del problema) come darvi attuazione? Immaginate voi, con l’ansia che hanno le nostre folle elettorali, di sapere immediatamente l’esito delle urne, che si dicesse loro: «Badate, dobbiamo aspettare i risultati dell’estero, perché dobbiamo ricevere i voti di New York, di Londra e di Parigi?». E quando questi voti che verrebbero dall’estero fossero delle piccole differenze, ma sufficienti a far perdere o guadagnare un quoziente: apriti cielo! Di fronte al timore che questi voti non fossero sufficientemente segreti o garantiti si avrebbero agitazioni, proteste, contestazioni. Non ho accennato a tutto questo per fare la parte del diavolo e quindi voler dire che il problema è insolubile: no! L’Inghilterra, per esempio, lo ha risolto per i suoi militari. Io non conosco bene il sistema elettorale inglese; ma mi pare, se ben ricordo, che esso permetta delle proclamazioni immediate e delle proclamazioni a quindici giorni data, per modo che nel termine di quindici giorni vi sia la possibilità che i voti affluiscano. Comunque, voi capite quali mezzi poderosi occorrano: telegrafo, posta, sezioni elettorali presso i consolali ed altri ancora. Vi fate subito il concetto che non è possibile soltanto seguire la legge del nostro cuore e scrivere nella Costituzione questo voto, quando esso dovesse rimanere sterile.

Con ciò io credo di avere modestamente risposto a tutti gli interlocutori. Con l’approvazione di questi sette articoli che l’Assemblea darà, io sono certo che noi metteremo l’ultima pietra alle fondamenta della nostra Costituzione; poi verrà il primo piano, poi il secondo, poi il tetto. Noi compiremo il nostro dovere con sincerità di fede, sperando di dare al Paese una Costituzione che non può morire. (Applausi Molte congratulazioni).

PRESIDENTE. Dobbiamo ora passare all’esame dei numerosi emendamenti presentati sui singoli articoli. L’onorevole Colitto ha presentato il seguente emendamento all’articolo 45:

«Sostituire i primi tre commi con i seguenti:

«Sono elettori i cittadini di ambo i sessi, che hanno raggiunto la maggiore età.

«Il voto è personale, eguale e segreto. Il suo esercizio è dovere civico e morale.

«Non può essere stabilita nessuna limitazione al diritto di voto se non per incapacità o in conseguenza di sentenza penale irrevocabile».

Ha facoltà di svolgerlo.

COLITTO. Il testo dell’articolo da me proposto si discosta dal testo della Commissione in quattro punti, due dei quali sono di mero dettaglio. Primo punto. Il testo della Commissione è redatto così: «Sono elettori tutti i cittadini di ambo i sessi, che hanno raggiunto la maggiore età». Questo «tutti» non ha, a mio avviso, ragione di essere. Esistendo limitazioni al diritto di voto, non può dirsi che «tutti» i cittadini sono elettori. In ogni caso quel «tutti» è pleonastico, perché è evidente che, quando si dice «i cittadini» hanno diritto di voto, si intende dire «tutti i cittadini», salvo le limitazioni, di cui in seguito è parola.

Secondo punto. Il secondo capoverso del testo proposto dalla Commissione suona così:

«Non può essere stabilita nessuna eccezione al diritto di voto».

Mi è parsa più precisa della parola «eccezione» la parola «limitazione», che, del resto, si trova nei trattati di diritto costituzionale e nei testi di legge elettorale.

Terzo punto. Nel testo proposto dalla Commissione si afferma che il voto, oltre ad essere personale, eguale e segreto, è anche «libero».

Io ho proposto che sia soppresso l’aggettivo «libero». Quando si dichiara che il voto è libero, evidentemente si dichiara che il voto è non obbligatorio. Non è il caso di parlare qui della obbligatorietà del voto.

Vi sono illustri sostenitori di essa ed altri, giuristi e politici insigni, che sostengono il contrario.

Mi sembra che la Commissione dei Settantacinque si sia orientata verso la non obbligatorietà del voto, ritenendo essere il diritto elettorale il mezzo giuridico deferito al cittadino come tale per rendergli possibile la partecipazione al governo della cosa pubblica, per cui il cittadino ha la facoltà positiva di designare il proprio rappresentante, ma anche la facoltà di non designare alcuno, non potendosi obbligare i cittadini, tutti i cittadini, a formarsi un concetto di ciò che meglio convenga alla Patria, e votare in conformità. Desidero qui aggiungere, senza peraltro entrare nella questione, che, ciononostante – come rileva anche il Triepel – l’elezione resta pur sempre uno specchio assai fedele della volontà popolare, perché, quando anche vi fosse scarso concorso alle urne, lo specchio rifletterebbe chi vuol essere veduto e non rifletterebbe chi non vuol essere veduto. Intanto io penso che non sia opportuno proclamare esplicitamente, sarei per dire «clamorosamente», tale libertà, se si vuol, poi, subito dopo, solennemente affermare che l’esercizio del voto è dovere civico e dovere morale. Si viene così in sostanza a dichiarare solennemente che il cittadino è libero di adempiere o meno ad un dovere.

È un bisticcio di parole, onorevoli colleghi, che è meglio, a mio avviso, evitare.

Non è necessario sottolineare quella libertà, tanto più che, considerando l’esercizio del voto un dovere soltanto morale, implicitamente si afferma la non obbligatorietà e, quindi, la libertà del voto.

L’onorevole Merlin ha testé detto che l’articolo è redatto in guisa che, in occasione della prossima discussione sulla legge elettorale, sarà possibile ritornare sulla questione della obbligatorietà o meno del voto.

Mi permetto di contraddirlo. In occasione dei lavori della prima Sottocommissione fu proposta questa formula: «Il voto è un dovere civico». Ebbene molti colleghi dichiararono di votare contro, sembrando ad essi che con quella formula si venisse ad affermare il principio della obbligatorietà del voto. Quando, invece, si aggiunse al sostantivo «dovere» l’aggettivo «morale», quegli stessi colleghi votarono favorevolmente. Dai resoconti dei lavori della prima Sottocommissione risulta che essi, nel votare, dichiararono di votare favorevolmente alla formula «dovere morale», proprio perché con tale aggettivo veniva ad essere affermata solennemente la non obbligatorietà giuridica del voto.

Ed allora, se, dicendosi che l’esercizio del voto è un dovere morale, si dice implicitamente che non è obbligatorio, non mi sembra che sia il caso di mantenere nella norma la parola «libero».

Ultimo punto. Nell’ultimo capoverso io ho proposto che alle parole «sentenza penale» sia aggiunto l’aggettivo «irrevocabile».

Ieri l’onorevole Di Giovanni, con la sua autorità, pur ritenendo giusto il mio emendamento, affermava doversi all’aggettivo «irrevocabile» sostituire l’aggettivo «definitiva», perché, potendo una sentenza essere modificata in sede di revisione, non può dirsi mai irrevocabile. Se non che, a me pare che sia da tenersi fermo, ove un aggettivo si voglia aggiungere, l’aggettivo da me proposto, perché è l’aggettivo usato dal nostro legislatore nell’articolo 553 del Codice di procedura penale, che disciplina proprio la revisione delle sentenze penali.

E l’aggettivo mi sembra che vada aggiunto. L’opportunità di tale aggiunta è apparsa alla mia mente, allorché ho avuto occasione di leggere qualche sentenza del Supremo Collegio, cui, in altri tempi, non essendosi, nelle leggi elettorali, scritto se la sentenza di condanna dovesse essere o meno definitiva, si fece ricorso, perché ciò fosse con precisione chiarito. E la Cassazione di Roma, con sentenza 17 dicembre 1907 (Cassazione unica civile, 1908, n. 19), ritenne che un procedimento penale in corso, cioè un procedimento penale non definito da sentenza avente forza di cosa giudicata, non toglie né l’elettorato, né la eleggibilità.

Perché ora non evitare che la norma dia adito a dubbi, così come a dubbi diede adito la norma emanata in precedenza in materia? Lo si può evitare, appunto, affermandosi esplicitamente che la sentenza penale deve essere divenuta res judicata. Si aggiunga che dai lavori preparatori della prima Sottocommissione non risulta che la questione sia stata affacciata e discussa. Si discusse se si dovesse parlare di incapacità «legali» o di incapacità «penali». La questione fu risolta nel senso che si dovesse parlare di incapacità penale; ma la questione se si dovesse alle parole «sentenza penale» aggiungere l’aggettivo «definitiva» o l’aggettivo «irrevocabile» non fu neppure sollevata. Io insisto, perciò, per queste brevi considerazioni, sulle proposte di emendamento da me formulate all’articolo 45. (Applausi).

PRESIDENTE. Segue l’emendamento degli onorevoli Giolitti, Bucci, Iotti Leonilde, già svolto:

«Sostituire il primo e il secondo comma con i seguenti:

«Sono elettori tutti i cittadini di ambo i sessi che hanno raggiunto l’età stabilita dalla legge.

«Il voto è personale, eguale, libero e segreto».

L’onorevole Mortati ha presentato i seguenti tre emendamenti:

«Sostituire il primo comma col seguente:

«Hanno diritto al voto tutti i cittadini di ambo i sessi, al raggiungimento della maggiore età».

«Sostituire la seconda parte del secondo comma con la seguente frase:

«II suo esercizio è dovere politico e morale».

«Sopprimere il quarto comma fondendolo con l’articolo 48, nel modo indicato all’emendamento proposto per quest’articolo».

Ha facoltà di svolgerli.

MORTATI. Sull’articolo 45 io ho presentato tre emendamenti. Penso però che sia opportuno rinunciare per il momento a svolgere l’ultimo emendamento perché esso si riferisce ad una proposta di fusione del quarto comma dell’articolo 45 con l’articolo 48, e pertanto si rende opportuno rinviare a quella sede il suo svolgimento. Mi fermerò invece sui primi due emendamenti che hanno finalità di carattere tecnico, cioè tendono a perfezionare il testo dell’articolo e non a modificarne la sostanza.

Per quanto riguarda il primo emendamento, io propongo di sostituire il testo della Commissione, al primo comma, con le parole: «Hanno diritto al voto i cittadini di ambo i sessi, al raggiungimento della maggiore età». Questo perché secondo la nostra Costituzione i cittadini non sono solo elettori, ma possono partecipare anche al referendum, e, dato ciò, sarebbe opportuno che questa disposizione, che ha carattere generale, tenesse presente tutte e due queste funzioni attribuite al cittadino.

C’è qualche Costituzione, come la Costituzione bavarese del 1919, che fa distinto riferimento alle due funzioni e dice che i cittadini hanno diritto di voto e sono elettori, considerando così separatamente tale duplice possibile direzione del diritto di voto. A me pare sia inutile questa complicazione, perché il diritto al voto può considerarsi comprensivo di tutte e due queste attività: infatti si vota per le elezioni e si vota per il referendum. La dizione proposta «hanno diritto al voto» comprende tutte e due gli svolgimenti dell’attività del cittadino e risponde meglio alle esigenze della disposizione in esame, che ha carattere generale e deve comprendere tutte le possibili attività conferite al cittadino e tutti i suoi diritti nei riguardi della formazione della volontà statale.

Per quanto riguarda l’altro emendamento, io propongo di sostituire la seconda parte del secondo comma con le parole «il suo esercizio è dovere politico e morale». Su questo forse sarà opportuno fermarsi un poco più a lungo. Prima di spiegare le ragioni dell’emendamento è opportuno chiarire il significato attribuibile alla dizione proposta dalla Commissione «dovere civico e morale». Qualcuno ha affermato, in Commissione e qui, che l’aggiunta della parola «morale» esclude ogni carattere vincolante a questo dovere, e che quindi l’accettazione di questa formula preclude la possibilità, per l’avvenire, di introdurre qualsiasi sanzione giuridica al dovere di voto. Io osservo che questa interpretazione è inesatta. Mi pare si possa obiettare alle considerazioni formulate nel senso qui criticato dal collega Condorelli, che la parola morale è da interpretare non nel senso che la Costituzione crei doveri morali (perché non potrebbe evidentemente crearne), bensì nel senso che, richiamandoli, rafforzi nel cittadino, destinatario della norma, la convinzione di qualcosa che investe la qualità e la funzione morale dell’uomo. Indubbiamente risponde ad un’esigenza morale che il cittadino, in quanto fa parte di uno Stato democratico, anche al di fuori di disposizioni di carattere giuridico, assuma un vincolo di partecipazione all’organismo democratico, di intervento, per mezzo del voto, nel funzionamento dello Stato. In ogni caso osservo che, comunque si decida la questione del significato da assegnare alla parola «morale», è certo che la sua aggiunta all’altra espressione «civico», ha lo scopo di indicare qualche cosa di diverso da quest’ultima.

Ciò è comprovato dall’esame che si faccia del significato obiettivo dell’aggettivo «civico». Bisogna all’uopo fare riferimento non solo al generico significato, ma a quello specifico che è dato dal linguaggio tecnico giuridico, al quale evidentemente deve fare riferimento il legislatore. Nella classificazione dei diritti e dei doveri subiettivi pubblici, quelli civici si riferiscono alle prestazioni dei cittadini verso lo Stato e, reciprocamente, dello Stato verso i cittadini. I diritti, come i doveri, si possono raggruppare in tre grandi categorie: diritti di libertà, diritti politici e diritti civici. I diritti civici i distinguono dagli altri due perché riguardano doveri di prestazione, i quali però siano fine a se stessi: sono doveri civici quello di pagare le tasse, quello di prestare il servizio militare, ecc. Dire doveri civici è quindi senza dubbio affermare il carattere giuridico del dovere, e nello stesso tempo determinare il contenuto del dovere stesso, cioè la prestazione del cittadino verso lo Stato. Ciò premesso, è da rilevare che la dizione adoperata appare impropria, in quanto la prestazione da parte del cittadino del voto non è fine a se stessa, ma mezzo per il raggiungimento di altri fini. Che il diritto di voto sia considerato un diritto funzionale, vale a dire uno di quei diritti che tendono alla realizzazione di interessi che sorpassano il privato per toccare l’interesse della collettività, non può esser dubbio. E se il diritto di voto è un diritto funzionale, che è esercitato nell’interesse stesso della collettività, sorpassando l’ambito di quello dell’individuo che lo esercita, la qualifica che gli compete è quella di «politico» e politico sarà il dovere che corrisponde ad esso.

Queste considerazioni mi sembra giustifichino la mia proposta di sostituire l’espressione: «dovere civico e morale», con l’altra «dovere politico e morale», proposta che ha il preciso significato di chiarire la natura di questo dovere, che è politico, nel senso di dovere attinente all’esercizio di attività che toccano gli interessi pubblici. La sostituzione rende tecnicamente più preciso il testo e riafferma l’indole giuridica attribuibile al dovere.

Da questa generica determinazione della giuridicità del vincolo non discende senz’altro l’obbligo del legislatore di porre necessariamente specifiche sanzioni ad esso. Rimane aperta la valutazione di opportunità circa il se ed il modo dell’attuazione di date conseguenze per l’inadempimento del decreto stesso.

La Costituzione si limita ad affermare il carattere giuridico, oltre che morale, del vincolo gravante sul cittadino, mentre è compito del legislatore desumere, quando lo crede utile, le conseguenze del principio (Applausi).

PRESIDENTE. L’onorevole Coppa ha presentato il seguente emendamento:

«Al primo comma, alle parole: hanno raggiunto, sostituire le altre: raggiungano entro l’anno».

Ha facoltà di svolgerlo.

COPPA. Questo emendamento mi è stato suggerito da alcune considerazioni, e, precisamente, dalle considerazioni sulla leva militare. In effetti, i giovani sono chiamati alle armi non precisamente al compimento dell’età stabilita dalla legge, ma entro l’anno nel quale l’età si compie. I giovani sono chiamati per classi, magari per quadrimestre, ma senza tener conto se essi hanno o non compiuto l’età richiesta dalla legge. D’altra parte, vale la pena di considerare che, se si deve essere inclusi nelle liste elettorali quando si è raggiunta la maggiore età, capita di frequente, come è avvenuto l’anno scorso, che molti giovani, che hanno compiuto il 21° anno, non hanno potuto esercitare il diritto di voto perché le liste elettorali erano già state compilate. E siccome noi sappiamo che l’aggiornamento delle liste elettorali avviene all’inizio dell’anno, è chiaro che tutti coloro i quali raggiungono la maggiore età durante l’anno vengono ad essere esclusi dal diritto di voto. E poiché il diritto di voto si può esercitare una volta ogni quattro anni, presso a poco, è chiaro che tutti questi giovani vengono ad essere privati del più alto diritto e dovere che, dopo quello di servire la Patria, certamente è il più alto compito che si affida al cittadino. D’altra parte, oltre la facilitazione nella compilazione delle liste elettorali, che dovrebbero essere fatte all’inizio dell’anno, in modo che comprendano tutti coloro che entro l’anno compiono gli anni 21, vi è un’altra considerazione per quanto riguarda i maschi, che giustifica il proposto emendamento.

Se si chiede ai giovani di prestare servizio militare senza tener conto se hanno o non compiuto i 20 anni, se la Patria chiede a tutti i giovani, in tempo di guerra, anche il sacrificio supremo che è quello di dare la vita per essa, è giusto che a questi giovani sia anche consentito di partecipare attivamente alla vita politica del Paese.

PRESIDENTE. I seguenti emendamenti sono stati già svolti:

«Sostituire il secondo comma col seguente:

«Il diritto di voto è personale ed eguale. L’esercizio di esso è libero e segreto e costituisce alto dovere civile.

«Di Giovanni».

«Sostituire il secondo comma col seguente:

«Il diritto di voto è personale, eguale e segreto. Il suo esercizio è obbligatorio. La sanzione è stabilita dalla legge.

«Sullo».

L’onorevole Bozzi ha presentato il seguente emendamento:

«Al secondo comma, sostituire il primo alinea col seguente:

«Il diritto di voto è personale, uguale, libero e segreto».

Ha facoltà di svolgerlo.

BOZZI. Dichiaro che il mio emendamento ha un carattere semplicemente formale e non ha bisogno di essere illustrato.

PRESIDENTE. L’onorevole Carboni ha presentato i seguenti emendamenti:

«Al secondo comma, alle parole: Il voto, sostituire le altre: Il diritto di voto».

«Al terzo comma, alla parola: eccezione, sostituire: limitazione».

Ha facoltà di svolgerli.

CARBONI. Ho presentato due proposte di emendamenti, che hanno anch’esse un valore formale, siccome intese a dare al testo costituzionale una maggiore precisazione giuridica. Il primo emendamento è conforme a quello dell’onorevole Bozzi. Si tratta di sostituire alla formulazione del secondo comma dell’articolo, così come è proposto dalla Commissione, la seguente formulazione: «Il diritto di voto è personale ed eguale, libero e segreto. Il suo esercizio è dovere civico e morale». Ho presentato questa proposta di emendamento, perché mi parve che i requisiti della personalità e della eguaglianza si adattassero meglio al «diritto di voto» anziché al «voto», che è la manifestazione esteriore, l’esercizio del diritto.

Senonché devo confessare che, dopo la presentazione dell’emendamento, sono rimasto perplesso sulla sua esattezza, perché ho considerato che gli altri due requisiti «libero e segreto» sono propri dell’esercizio, della manifestazione esteriore, cioè del voto piuttosto che del diritto di voto. Questa mia perplessità è stata risolta dall’emendamento dell’onorevole Di Giovanni così concepito:

«Sostituire il secondo comma col seguente:

«Il diritto di voto è personale ed eguale. L’esercizio di esso è libero e segreto e costituisce alto dovere civile».

Con la formulazione dell’onorevole Di Giovanni si riportano i due requisiti della personalità e dell’eguaglianza al diritto di voto, come sembra giusto, e si riallacciano quelli della libertà e della segretezza all’esercizio del diritto di voto. Perciò io ritiro il mio emendamento, e aderisco a quello dell’onorevole Di Giovanni.

La seconda proposta di emendamento da me fatta, si riferisce al terzo comma dello stesso articolo 45:

«Al terzo comma, alla parola: eccezione, sostituire: limitazione».

A me pare che il concetto di «limitazione» sia giuridicamente più esatto in confronto dell’altro: «eccezione»; perché quando si dice «eccezione» ci si riferisce soltanto alla esclusione del diritto di voto, mentre non si può non prendere in considerazione anche l’ipotesi della semplice sospensione. Se il testo passasse così come è proposto dalla Commissione, soltanto per la esclusione dal diritto di voto, varrebbe il principio costituzionale che ne subordina la statuizione legislativa ai soli casi di incapacità civile e di sentenza penale. Invece, secondo me, per qualunque limitazione, e quindi anche per la semplice sospensione dal diritto di voto, è conveniente che la Costituzione fissi tassativamente le condizioni alle quali dovrà attenersi il legislatore, sì da impedire che le leggi elettorali possano limitare il diritto di voto al di fuori di quelle condizioni, che io penso debbano essere le stesse, che il progetto di Costituzione richiede per il caso più grave della eccezione.

PRESIDENTE. Gli onorevoli Piemonte, Caporali, Villani, Taddia, Filippini, Persico, Bennani, Longhena, Canevari, Cianca, Salerno, Grilli, Tonello, Paris, Montemartini, Pera, Chiaramello, Zanardi, Rossi Paolo, Lami Starnuti, Fantoni, Tessitori, Chiostergi, Bianchi Bianca, De Michelis, Jacometti, Gullo Rocco, Canepa, Mancini, Gortani hanno presentato il seguente emendamento, già svolto:

«Al secondo comma, dopo la parola: segreto, aggiungere le altre: ed è esercitato anche dal cittadino all’estero».

Gli onorevoli Morelli Renato, Crispo, Cortese hanno presentato il seguente emendamento:

«Al secondo comma, sopprimere le parole: «Il suo esercizio è dovere civico e morale».

L’onorevole Morelli Renato ha facoltà di svolgerlo.

MORELLI RENATO. La proposta che si concreta nel nostro emendamento è quella di sopprimere al secondo comma dell’articolo 45 le parole: «il suo esercizio è dovere civico e morale». In realtà, il testo, così come è stato redatto dalla Commissione, sembra voler adombrare la risoluzione di un problema particolarmente importante e delicato: quello della cosiddetta obbligatorietà del voto.

I quesiti che si pongono sono due. Il primo: è questa la sede opportuna per risolverlo? Il secondo: è risolto, in ogni modo, questo problema chiaramente e limpidamente?

Che sia la sede opportuna è da dubitare: le caratteristiche giuridiche dell’esercizio del voto sono di solito contemplate nella legge elettorale. Qualche Costituzione moderna, ad esempio quella austriaca, fa oggetto di apposita dichiarazione la così detta obbligatorietà del voto; ma sono casi rarissimi perché è di solito la legge elettorale che si occupa della questione.

Ed è opportuno, perché è anche in rapporto alla importanza delle cariche da eleggere che l’esercizio del voto può essere ritenuto necessario nel pubblico interesse, e che va stabilita la misura delle sanzioni relative.

Resta l’altro quesito: se il problema sia ben risolto con l’espressione «dovere civico e morale». Io credo di no, anche se il dire che l’esercizio del voto è un diritto civico e morale non contraddice alla dichiarazione che «il voto è libero», perché la libertà va intesa in questo caso essenzialmente come assenza di coazione. Ecco perché non sono d’accordo con l’onorevole Colitto, il quale ha sostenuto la contradittorietà delle due dichiarazioni. Affermare che il voto è libero significa affermare che la volontà dell’elettore deve potersi determinare e manifestare liberamente.

RUINI, Presidente della Commissione per la Costituzione. Benissimo.

MORELLI RENATO. Sono viceversa d’accordo con l’onorevole Colitto quando egli richiama le incertezze determinatesi nell’esame dell’articolo da parte della prima Sottocommissione dell’Assemblea Costituente, che confermano la necessità della soppressione da me proposta, perché quegli aloni di dubbio ai quali accennava l’onorevole Condorelli fecero sì, in quella sede, che l’espressione «dovere civico» risultasse significativa in un senso e nell’altro: secondo la tesi della obbligatorietà del voto, sostenuta da alcuni commissari, e secondo quella della non obbligatorietà, sostenuta da altri commissari.

In verità la prima Sottocommissione del Ministero della Costituente aveva posto la questione in maniera forse più chiara e precisa, dal punto di vista costituzionale, proponendo la formula seguente: «L’esercizio dei poteri di partecipazione alla vita dello Stato conferito ai cittadini è obbligatorio per costoro, secondo le modalità che saranno stabilite per legge». I commissari tuttavia, pur avendo ammesso che l’esercizio obbligatorio del voto dovesse essere considerato quale principio integratore della rappresentanza organica, e perciò necessario «per il regolare funzionamento di una democrazia di masse», espressero l’avviso che fosse inopportuno introdurre tale principio nella Costituzione.

Successivamente la prima Sottocommissione della Costituente, quando si trovò a decidere intorno alle caratteristiche del voto, fu in dubbio quale formula preferire. Finì con il preferire una formula transattiva, aggiungendo alla dichiarazione «il voto è un dovere civico» le parole «e morale», e nacque l’ambiguità. Infatti un commissario osservò doversi intendere in senso tutto platonico questa affermazione del dovere del voto; un altro sostenne che la formula rispecchiasse il principio stabilito nella legge 10 marzo 1946, che è quella dell’esercizio obbligatorio del voto, nonostante il ristretto limite delle sanzioni.

Se pertanto dovesse essere approvato l’emendamento soppressivo, ogni dubbio verrebbe ad essere eliminato: in caso contrario, mi assocerei all’emendamento dell’onorevole Mortati, il quale ha proposto che si dichiari il voto «dovere politico». Verrebbe così rispettata la terminologia giuridica, in quanto la categoria dei diritti pubblici comprende, fra gli altri, i diritti civici, che hanno per oggetto il rendimento di un servizio pubblico, ed ai quali si contrappongono i doveri civici, e i diritti politici, che hanno per oggetto l’esercizio di una funzione pubblica, ed ai quali si contrappongono, con carattere analogo e simmetrico, i doveri politici. Ma io pregherei l’onorevole Mortati di togliere le parole «e morale», che può far risorgere gli stessi dubbi che attualmente sorgono a proposito della espressione «civico e morale»; mentre il mio punto di vista coincide con quello dell’onorevole Condorelli, nel senso cioè di non doversi trattare in una Costituzione di doveri morali, che trovano la loro sede opportuna in un trattato di etica, non in un testo costituzionale che si appalesa sempre più dotato di affermazioni astratte e definizioni generiche.

PRESIDENTE. L’onorevole Rodi ha presentato il seguente emendamento, già svolto:

«Al secondo comma, sopprimere le parole: Il suo esercizio è dovere civico e morale».

L’onorevole Perassi ha facoltà di svolgere il seguente emendamento:

«Al secondo comma, alle parole: Il suo esercizio, sostituire le altre: L’esercizio del diritto di voto».

BERNABEI. Non essendo presente l’onorevole Perassi, faccio mio l’emendamento e rinuncio a svolgerlo.

PRESIDENTE. Sta bene. L’onorevole Buffoni ha presentato il seguente emendamento:

«Al secondo comma, dopo la parola: morale, aggiungere: e sarà con opportune norme assicurato anche ai cittadini che si trovano all’estero».

Non essendo presente, si intende che abbia rinunciato a svolgerlo.

L’onorevole Andreotti ha facoltà di svolgere il seguente emendamento:

«Aggiungere al secondo comma: e può essere reso obbligatorio dalla legge».

ANDREOTTI. Rinuncio a svolgere il mio emendamento, perché credo che, se la Commissione, nel rispondere sui vari emendamenti, confermerà che nella dizione «dovere civico», o meglio nella dizione proposta dall’onorevole Mortati: «dovere politico», si lascia impregiudicata la possibilità di rendere per legge obbligatorio l’esercizio del diritto di voto, non sia necessario fare l’aggiunta che io ho proposto.

Quindi, mi riservo anche di ritirare l’emendamento dopo che la Commissione avrà risposto.

PRESIDENTE. Il seguente emendamento dell’onorevole Schiavetti è stato già svolto:

«Inserire, fra il secondo e il terzo comma, il seguente:

«La Repubblica assicura ai cittadini italiani residenti all’estero la possibilità dell’espressione organica della loro volontà e della rappresentanza dei loro interessi».

L’onorevole Mastino Pietro ha presentato il seguente emendamento:

«Sostituire il terzo comma col seguente:

«Le eccezioni al diritto di voto sono stabilite nella legge».

Ha facoltà di svolgerlo.

MASTINO PIETRO. Io, con la presentazione dell’emendamento al terzo comma dell’articolo 45, ho inteso rimettere ogni decisione, sulle esclusioni dal diritto di voto, alla legge, in quanto parto da un concetto diametralmente opposto a quello che ha determinato la presentazione degli emendamenti dei colleghi Colitto e Di Giovanni. I due onorevoli colleghi partono dal convincimento che la sentenza penale, e solo la sentenza penale – irrevocabile, secondo l’uno, definitiva, secondo l’altro – debba o possa portare alla esclusione del diritto di voto. Io penso invece che si possano anche verificare delle situazioni in cui non vi sia una sentenza, e tanto meno una sentenza definitiva, e ciò non di meno si debba arrivare all’esclusione dal diritto di voto. Non voglio procedere ad una casistica; ma basta pensare a casi di gravissime imputazioni in cui, ad esempio, ci sia eventualmente una sentenza di rinvio a giudizio. Ebbene, in questi casi, in base all’attuale disposto dell’articolo 45, soprattutto se complicato con le due qualifiche di sentenza irrevocabile o di sentenza definitiva, la limitazione al diritto di voto non si dovrebbe verificare. Questo non lo trovo giusto.

D’altra parte, dobbiamo avere una visione, direi, realistica e pensare a quello che praticamente si verifica. Si verifica infatti che a molti si attribuisce in teoria il diritto di voto; ma di fatto essi si trovano nell’impossibilità di esercitare questo diritto: ad esempio, non ho mai saputo che abbiano avuto la possibilità di esercitare il diritto di voto, loro astrattamente concesso, quanti si trovano detenuti, quanti in base – ahimè! – alla legge di pubblica sicurezza si trovino o si siano trovati al confino di polizia, o anche solo eventualmente sottoposti all’ammonizione.

Capisco che mi si possa rispondere come tutto questo riguardi non il diritto di voto, sibbene l’esercizio del diritto stesso; ma penso che sia consigliabile dare libertà a quelli che formeranno la legge in proposito, di poter meglio esaminare anche sotto il punto di vista pratico la dizione da usare.

Relativamente all’inopportunità che alla sentenza penale venga aggiunta la qualifica secondo l’onorevole Colitto «irrevocabile» e secondo l’onorevole Di Giovanni «definitiva», rilevo che è contraria alla sua tesi la citazione fatta dallo stesso onorevole Colitto, il quale ha ricordato una sentenza della Cassazione, di non so quale anno, la quale dovette decidere se un Tizio, che era inquisito (si è parlato di procedimento in corso), avesse diritto o no di votare. Dovette intervenire la Cassazione. Evidentemente, quindi, la Cassazione si trovò di fronte ad un caso in cui le circostanze di fatto consigliavano l’opportunità di escludere il diritto di voto – o, per lo meno il suo esercizio – nei riguardi di un imputato non ancora condannato. È dunque un argomento di più perché si ritenga che nella regolamentazione del diritto di voto le possibili limitazioni, esclusioni, ecc. siano rimesse alla legge.

PRESIDENTE. L’emendamento dell’onorevole Di Giovanni è stato già svolto:

«Al terzo comma, alla parola: eccezione, sostituire l’altra: esclusione, e far seguire alle parole: sentenza penale, la parola: definitiva».

L’onorevole Caroleo ha presentato il seguente emendamento:

«Al terzo comma, alle parole: «sentenza penale», sostituire le altre: «sentenza del magistrato penale».

L’onorevole Caroleo ha facoltà di svolgerlo.

CAROLEO. Indubbiamente, quando si parla di sentenza penale si intende riferirsi ad un provvedimento giurisdizionale. Ma l’emendamento ha questo scopo: di richiamare l’attenzione dell’onorevole Commissione su quei provvedimenti che sono stati emessi dalle Commissioni provinciali di epurazione e che purtroppo, se non provvedimenti giurisdizionali nella forma, lo sono stati certamente nella sostanza, perché – come gli onorevoli colleghi ricorderanno – quelle Commissioni avevano il potere di privare i cittadini dei diritti politici per la durata di dieci anni.

Ora, se noi adottiamo – così come si legge nella formulazione del progetto di Costituzione – la dizione «sentenza penale», potremmo comprendere, forse per malinteso, forse per equivoco, in questa dizione anche quei tali provvedimenti delle Commissioni provinciali.

Se questo è il proposito dell’Assemblea, naturalmente la sua sovranità potrà anche questo stabilire, ma è opportuno che ciò sia chiarito fin da questo momento. Anche perché, dando uno sguardo al disegno di legge presentato dal Ministro degli interni per l’elettorato attivo, io ho visto che questa preoccupazione è stata di proposito avvertita dall’estensore della relazione, con riguardo alla, direi quasi, enormità che si è venuta a determinare. Il decreto di amnistia del giugno 1946 fu indulgente verso coloro i quali si erano resi responsabili dei gravissimi reati di cui all’articolo 3 e all’articolo 5 del decreto luogotenenziale 27 luglio 1944, reati consistenti nella organizzazione di squadre fasciste in azioni dirette a colpi di Stato, e anche nel periodo posteriore all’8 settembre 1943, in atti di collaborazionismo grave col nemico, in atti contro la fedeltà e la difesa dello Stato. Indulgendo verso gli autori di questi gravissimi reati, il decreto di amnistia del giugno 1946 non disse invece nessuna parola in ordine ai cennati provvedimenti delle commissioni provinciali.

Poiché verrà in discussione dinanzi a questa Assemblea la legge sull’elettorato attivo, è opportuno che già fin da questo momento, soddisfacendo anche le aspettative del relatore del disegno di legge, si dica esplicitamente qualcosa in proposito; perché io trovo che nella relazione del Ministro dell’interno si prevede che l’approvazione dell’articolo 45 del progetto di Costituzione potrà portare alla modifica anche delle norme transitorie di detto disegno di legge, sempreché l’Assemblea Costituente non ritenga di adottare altri criteri, in seguito all’amnistia ed al condono concessi in occasione dell’avvento dalla Repubblica.

Perciò, proponendo l’emendamento «sentenza del Magistrato penale», mi pare che si possa, attraverso questa precisazione, dare un’anticipata manifestazione di quello che dovrà essere il comportamento di questa Assemblea in sede di approvazione della legge elettorale, rispetto ai provvedimenti delle commissioni provinciali di epurazione.

PRESIDENTE. L’onorevole Bozzi ha proposto la soppressione del quarto comma.

Ha facoltà di svolgere l’emendamento.

BOZZI. Io ho proposto la soppressione del quarto comma dell’articolo 45, il quale è così concepito:

«Sono eleggibili in condizioni di eguaglianza tutti gli elettori che hanno i requisiti di legge».

MERLIN UMBERTO, Relatore. Accettiamo il suo emendamento, onorevole Bozzi.

BOZZI. Va bene. Ringrazio.

PRESIDENTE. L’onorevole Di Giovanni ha già svolto il seguente emendamento:

«Al quarto comma, sostituire alla frase: che hanno i requisiti di legge, l’altra: che hanno i requisiti stabiliti dalla legge per essere eleggibili».

È così terminato l’esame degli emendamenti.

L’onorevole Relatore ha facoltà di esprimere il pensiero della Commissione su di essi.

MERLIN UMBERTO, Relatore. Rispondo molto brevemente.

All’articolo 45 ha proposto un emendamento innanzi tutto l’onorevole Colitto.

Ora io dichiaro all’onorevole Colitto che la Commissione accetta di sostituire la parola «eccezione» con la parola «limitazione», ritenendola più propria. Non accetta invece le altre modificazioni. Non accetta la soppressione dell’aggettivo «libero», perché la Commissione intende libertà oggettiva dell’esercizio di questo diritto a vantaggio dell’elettore, per modo che gli organi dello Stato siano impegnati ad assicurare questa libertà.

Non accetta poi la parola «irrevocabile», non perché il concetto non sia condiviso dalla Commissione, ma perché riteniamo che sia già espresso con le parole «sentenza penale». Infatti la formazione dei certificati del casellario giudiziario avviene così: non passa al casellario se non la sentenza irrevocabile. E poiché le Commissioni elettorali giudicano sui certificati del casellario, il desiderio dell’onorevole Colitto è perfettamente soddisfatto. Non accetto l’emendamento Giolitti per le ragioni che ho detto. Quanto all’emendamento dell’onorevole Mortati, egli ha perfettamente ragione che la formula più propria sarebbe: «hanno diritto al voto», perché c’è il caso del referendum. Ma facciamo osservare che, siccome il referendum non è stato ancora approvato dall’Assemblea, noi ne riparleremo quando il referendum sarà approvato e c’impegniamo a fare un lavoro di coordinamento, per accogliere il desiderio del collega Mortati. Quanto all’altra parte del suo emendamento, modificare cioè le parole «hanno raggiunto» con le altre «al raggiungimento» credo riterrà che le nostre sono più proprie, perché esprimono il concetto della Commissione: che l’età debba essere superata e non vicina a raggiungersi.

Circa l’altro suo emendamento che vorrebbe sostituire la parola «politico» alla parola «civico», noi abbiamo esaminato le sue osservazioni con grande attenzione, perché partono da un maestro su questa materia, ma crediamo di mantenere la parola «civico» perché essa non è sinonimo di civile; «civico», espresso nel concetto della Commissione, vuol dire anche politico: per cui il suo concetto, secondo noi, è perfettamente compreso nelle parole del testo.

Quanto all’emendamento dell’onorevole Coppa, la Commissione non lo può accettare perché esprime un concetto diverso. Noi non vogliamo che si diventi elettori come per le classi di leva, ma vogliamo che effettivamente sia superato il 21° anno di età. Ora con il suo emendamento eventualmente si comprenderebbe anche il caso in cui uno sarebbe ancora minorenne a gennaio perché compie i 21 anni al 31 dicembre.

Per l’emendamento dell’onorevole Di Giovanni ho già risposto. La Commissione non l’accetta.

Per l’emendamento dell’onorevole Sullo, il quale principalmente riguarda l’esercizio obbligatorio del diritto di voto, pregherei il collega di volerlo ritirare, perché dopo le dichiarazioni che ho fatto, così chiare ed esplicite, la questione del voto obbligatorio non è affatto pregiudicata, e potrà essere benissimo ripresentata e riproposta al momento della votazione della legge elettorale. I suoi desideri potranno benissimo essere soddisfatti in quella sede.

Per l’emendamento dell’onorevole Carboni, dico che mi sembra una sottigliezza. È chiaro che aggiungere le parole «il diritto» potrà essere una specificazione maggiore, ma essa è già compresa nel nostro concetto. Noi vogliamo dire appunto: il diritto di voto. Per cui lo pregherei di non insistere.

Per quanto riguarda l’emendamento dell’onorevole Piemonte, ho detto già la ragione per cui la Commissione non può accettarlo.

Per l’emendamento dell’onorevole Morelli ho già detto la ragione per cui ci opponiamo alla soppressione.

Così per l’emendamento Rodi.

All’emendamento Mortati ho risposto.

Prego anche il collega Andreotti, per quel che riguarda il suo emendamento, di ritirarlo: la Commissione ritiene che la questione dell’obbligatorietà del voto possa essere riproposta.

L’emendamento dell’onorevole Schiavetti ripete il concetto dell’onorevole Piemonte, e la Commissione ha già detto la ragione per cui non può accettarlo.

L’emendamento dell’onorevole Carboni è assorbito dall’emendamento dell’onorevole Colitto. Abbiamo accettato la modificazione della parola.

All’emendamento dell’onorevole Di Giovanni ho già risposto.

Per l’emendamento dell’onorevole Caroleo mi permetto di rispondere questo: che la Commissione colla sua proposta intende effettivamente sentenza del magistrato penale: non ci può essere dubbio. Se occorre una interpretazione autentica in questo senso, io sono qui per darla. Però io ricordo che all’articolo 1 delle Disposizioni finali e transitorie è detto:

«Sono stabilite con legge limitazioni temporanee alla eleggibilità e al diritto di voto per responsabilità fasciste».

Questa norma noi non intendiamo cancellarla. L’Assemblea vedrà più tardi se approvarla o no.

All’onorevole Bozzi abbiamo già detto che la Commissione accetta la soppressione del quarto comma, perché ritiene precisamente che sia inutile ripetizione rispetto a quanto è detto all’articolo 54.

Finalmente, per quel che riguarda l’emendamento Di Giovanni, abbiamo già detto che non possiamo accettarlo.

All’onorevole Mastino devo dire questo: la Commissione pensa che nella legge fondamentale le sole eccezioni al diritto di voto devono essere le due già fissate: incapacità civile, quindi interdizione ed inabilitazione, e sentenza penale per quei reati che la legge stabilirà.

La Commissione ritiene di dover ricondurre le incapacità a queste due sole disposizioni.

Perciò, prego l’onorevole Mastino di non insistere, perché la Commissione è ferma nella disposizione come proposta.

PRESIDENTE. Chiederò ai presentatori di emendamenti se intendano mantenerli.

Onorevole Colitto, mantiene il suo emendamento?

COLITTO. L’onorevole Relatore, però, non si è espresso circa la mia proposta di sopprimere la parola «tutti».

PRESIDENTE. L’onorevole Merlin ha facoltà di rispondere.

MERLIN UMBERTO, Relatore. È questione di forma che sarà esaminata in sede di coordinamento. Prego di non insistere.

PRESIDENTE. Onorevole Colitto, insiste?

COLITTO. Insisto.

PRESIDENTE. Onorevole Giolitti, mantiene il suo emendamento?

GIOLITTI. Lo mantengo.

PRESIDENTE. Onorevole Mortati, mantiene i suoi emendamenti?

MORTATI. Quanto al primo emendamento, accetto la riserva fatta dall’onorevole relatore e aderisco al rinvio per la prima parte; mantengo invece la seconda parte.

Mantengo inoltre il secondo emendamento, poiché mi sembra una incongruenza parlare di «dovere civico» in un Titolo che riguarda i «diritti politici». Se si parla di diritti politici, si dovrà parlare corrispondentemente di «doveri politici».

Faccio poi osservare che il mio emendamento al quarto comma non è puramente e semplicemente soppressivo, ma di rinvio all’articolo 48, e di fusione con esso. Mi pare sia opportuno mantenerlo, perché l’articolo 54, al quale si è riferito l’onorevole relatore è di carattere particolare – si riferisce ai Deputati – mentre la disposizione dell’articolo 45 è di carattere generale.

Quindi è opportuno non sopprimerlo, bensì fonderlo coll’articolo 48, che riguarda lo stesso argomento.

PRESIDENTE. Non essendo presenti gli onorevoli Coppa e Di Giovanni, i loro emendamenti si intendono decaduti.

Onorevole Sullo, mantiene il suo emendamento?

SULLO. Conservo il mio emendamento, salvo che per l’ultima parte, cioè: «La sanzione è stabilita dalla legge».

PRESIDENTE. Onorevole Bozzi, mantiene il suo primo emendamento?

BOZZI. Lo ritiro.

PRESIDENTE. Onorevole Carboni, mantiene i suoi due emendamenti?

CARBONI. Ritiro il primo e mantengo il secondo, che è stato accettato dalla Commissione.

PRESIDENTE. Onorevole Piemonte, mantiene il suo emendamento?

PIEMONTE. Lo mantengo.

PRESIDENTE. Onorevole Morelli, mantiene il suo emendamento?

MORELLI RENATO. Lo mantengo. Se avessi visto l’emendamento Mortati accolto, lo avrei ritirato.

PRESIDENTE. Onorevole Rodi, mantiene il suo emendamento?

RODI. Lo mantengo.

PRESIDENTE. Onorevole Bernabei, mantiene l’emendamento Perassi, che ha fatto proprio?

BERNABEI. Lo mantengo.

PRESIDENTE. Non essendo l’onorevole Buffoni presente, il suo emendamento si intende decaduto.

Onorevole Andreotti, mantiene l’emendamento?

ANDREOTTI. Ritiro il mio emendamento ed aderisco a quello del collega Sullo.

PRESIDENTE. Onorevole Schiavetti, mantiene l’emendamento?

SCHIAVETTI. Lo conservo e vorrei fare osservare all’onorevole Merlin che non è esatto dire che il mio emendamento ripete il concetto dell’onorevole Piemonte, perché è su un piano diverso.

Io non ho fatto nessuna allusione al diritto elettorale. Ho esposto i criteri relativi ai diritti degli italiani all’estero, che non hanno nulla a che vedere col diritto elettorale.

PRESIDENTE. Onorevole Mastino Pietro, mantiene l’emendamento?

MASTINO PIETRO. Ho presentato il mio emendamento quando di già conoscevo le ragioni che avevano determinato la Commissione a proporre l’articolo così come è formulato nel progetto. Quindi non ho motivo a ritirarlo, in quanto le ragioni che ha detto l’onorevole Merlin ripetono quelle che già conoscevo, e lo mantengo.

PRESIDENTE. Non essendo presente l’onorevole Di Giovanni, il suo emendamento si intende decaduto.

Onorevole Caroleo, mantiene l’emendamento?

CAROLEO. Dopo le dichiarazioni dell’onorevole Merlin, secondo le quali per sentenza penale deve intendersi soltanto la sentenza del Magistrato penale, ritiro il mio emendamento.

PRESIDENTE. Onorevole Bozzi, il suo emendamento è stato accettato dalla Commissione.

Rimane l’ultimo emendamento dell’onorevole Di Giovanni.

PREZIOSI. Lo faccio mio.

PRESIDENTE. Allora passiamo alle votazioni.

Il primo comma dell’articolo 45 nel testo proposto dalla Commissione è del seguente tenore:

«Sono elettori tutti i cittadini di ambo i sessi che hanno raggiunto la maggiore età».

Consideriamo la prima parte: «Sono elettori tutti i cittadini di ambo i sessi».

L’onorevole Colitto ha proposto la seguente formula, che sopprime la parola: «tutti»: «Sono elettori i cittadini di ambo i sessi».

Ha chiesto di parlare l’onorevole Merlin Umberto. Ne ha facoltà.

MERLIN UMBERTO, Relatore. Poiché il collega Colitto insiste, io mi permetto fare osservare all’Assemblea che la parola «tutti» ha un valore più estensivo e più preciso. Quindi pregherei il collega di non voler insistere nell’emendamento.

PRESIDENTE. Onorevole Colitto, ella insiste?

COLITTO. Mi rendo conto che la Commissione voglia difendere in ogni caso la sua formulazione; ma mi permetto far rilevare che in molti altri articoli della Costituzione si parla di «cittadini» senza che a questa parola sia stato aggiunto l’aggettivo «tutti», che, anzi, quando era stato proposto, venne soppresso.

DOMINEDÒ. Chiedo di parlare.

PRESIDENTE. Ne ha facoltà.

DOMINEDÒ. Noi votiamo per il testo della Commissione, il quale, nella peggiore delle ipotesi, sarebbe meramente pleonastico, mentre nella migliore delle ipotesi, come riteniamo, può assumere un risultato rafforzativo al quale non ci sembra conveniente rinunciare.

PRESIDENTE. Pongo in votazione l’emendamento Colitto:

(Non è approvato).

Pongo in votazione la formula della Commissione: «Sono elettori tutti i cittadini di ambo i sessi».

(È approvato).

Vi è adesso la seconda parte del primo comma relativa ai limiti di età. Nel testo della Commissione è detto: «che hanno raggiunto la maggiore età».

L’onorevole Giolitti ha proposto la formula: «che hanno raggiunto l’età stabilita dalla legge».

La pongo in votazione.

PAJETTA GIULIANO. Chiedo di parlare per dichiarazione di voto.

PRESIDENTE. Ne ha facoltà.

PAJETTA GIULIANO. Il nostro gruppo voterà l’emendamento proposto dai colleghi Giolitti, Bucci e iotti, perché noi pensiamo che stia alla legge elettorale lo stabilire i limiti di età.

Crediamo che sarebbe non giusto pregiudicare quanto potrà essere discusso in tale sede, quindi riteniamo di dover sostenere il principio che la legge stabilisca il limite di età per il diritto di voto.

L’onorevole Merlin Umberto nella sua risposta, a nome della Commissione, diceva che la cosa contrasterebbe con il codice civile. Mi pare però che vi sono altri Paesi in cui l’età per l’esercizio del diritto di voto non corrisponde al limite della maggiore età.

Posso citare la Francia, la Svizzera, la Cecoslovacchia; l’Italia stessa, dopo l’altra guerra, dava il diritto di voto anche ai minori di 21 anno. Non possiamo d’altronde trascurare il fatto che vi sono stati importanti associazioni e movimenti giovanili in Italia che hanno chiesto negli ultimi mesi il diritto di voto a 18 anni. Discuteremo questo più profondamente quando si tratterà della legge elettorale.

E bisognerà vedere allora se in un paese dove una gran parte della gioventù è sbandata e può essere anche spinta a disprezzare le istituzioni parlamentari, ed a cercare altre vie di soluzione dei suoi problemi, sia un bene o un male legare questa gioventù alla vita parlamentare del Paese. Noi pensiamo che sia un bene. C’è poi la necessità di venire incontro ai giovani che tanto hanno dato, e che non hanno ancora raggiunta la maggiore età. Ci riserviamo di sviluppare questi argomenti in sede di discussione sulla legge elettorale, e pertanto voteremo l’emendamento dei nostri colleghi, come è stato formulato nel modo detto or ora dal Presidente.

(Dopo prova e controprova, l’emendamento Giolitti non è approvato).

Pongo in votazione l’emendamento proposto dall’onorevole Mortati: «al raggiungimento della maggiore età».

(Dopo prova e controprova, è approvato).

Passiamo alla prima parte del secondo comma del testo della Commissione:

«Il voto è personale ed uguale, libero e segreto». L’onorevole Sullo ha proposto la seguente formula, sopprimendo la parola: «libero»: «Il diritto di voto è personale, eguale e segreto».

SULLO. Chiedo di parlare.

PRESIDENTE. Ne ha facoltà.

SULLO. Conservo la formula: «Il diritto di voto è personale, eguale e segreto» e rinunzio alla soppressione della parola: «libero».

MERLIN UMBERTO, Relatore. Chiedo di parlare.

PRESIDENTE. Ne ha facoltà.

MERLIN UMBERTO, Relatore. Prego i colleghi di considerare che si può comprendere la formula: «Il voto è segreto»; ma dire: «Il diritto di voto è segreto» non ha significato. (Commenti).

SULLO. Accetto l’osservazione del Relatore e ritiro il mio emendamento.

PRESIDENTE. Pongo in votazione il testo della Commissione: «Il voto è personale ed eguale, libero e segreto».

(È approvato).

Passiamo ora alla seconda parte del secondo comma: «Il suo esercizio è dovere civico e morale».

L’onorevole Morelli Renato ha proposto di sopprimerla. La stessa proposta ha fatto l’onorevole Rodi.

BOZZI. Chiedo di parlare.

PRESIDENTE. Ne ha facoltà.

BOZZI. Credo che si dovrebbe votare prima l’emendamento dell’onorevole Perassi che sostituisce le parole: «L’esercizio del diritto di voto» alle altre «Il suo esercizio».

PRESIDENTE. La proposta dell’onorevole Parassi è più che altro di forma. Se l’Assemblea vota la soppressione del comma non vi sono più modificazioni, né di forma, né di sostanza.

MORO. Chiedo di parlare per dichiarazione di voto.

PRESIDENTE. Ne ha facoltà.

MORO. Dichiaro che voteremo contro la soppressione di questa parte del comma in quanto riteniamo che sia opportuna una dichiarazione relativa al carattere obbligatorio dell’esercizio del diritto di voto, secondo quanto è proposto nell’emendamento Sullo, che noi appoggiamo.

ROSSI PAOLO. Chiedo di parlare per dichiarazione di voto.

PRESIDENTE. Ne ha facoltà.

ROSSI PAOLO. Noi voteremo per l’emendamento soppressivo, perché ci pare che sia contradittoria l’obbligatorietà del voto con l’affermazione della libertà del voto. Il non votare è talvolta un modo di votare, l’ultimo modo che l’elettore possa avere per esprimere una protesta. Vi sono stati casi nella storia in cui l’astensione degli elettori è stata una importante affermazione politica. Per questa ragione principale e per molte altre di carattere tecnico noi voteremo per l’emendamento soppressivo.

LACONI. Chiedo di parlare per dichiarazione di voto.

PRESIDENTE. Ne ha facoltà.

LACONI. Dichiaro che il mio gruppo voterà in favore della formula proposta dalla Commissione e che figura nel progetto, in quanto ritiene che anche se un’affermazione siffatta non può avere un valore normativo e comportare sanzioni, ciò nonostante sia giusto riaffermare qui che il voto non è soltanto un diritto, ma anche un dovere del cittadino. Il precisare che questo dovere è di ordine morale e civico sta ad attestare che non si tratta soltanto di qualcosa di personale e di intimo, ma di un dovere del cittadino in quanto tale ed in quanto partecipe di una collettività. Riteniamo, quindi, che l’affermazione debba essere mantenuta.

COLITTO. Chiedo di parlare per dichiarazione di voto.

PRESIDENTE. Ne ha facoltà.

COLITTO. Avevo proposto anche io la soppressione dell’aggettivo «libero» perché mi sembrava in contrasto con l’affermazione «dovere morale»; ma, dopo i chiarimenti dati dall’onorevole Merlin, il quale ha spiegato il significato da dare alla parola «libero», non insisto nell’emendamento e dichiaro che voterò per il testo proposto dalla Commissione.

MERLIN UMBERTO, Relatore. Chiedo di parlare.

PRESIDENTE. Ne ha facoltà.

MERLIN UMBERTO, Relatore. Prego l’Assemblea di votare la formula proposta dalla Commissione la quale, come ha già detto il collega Laconi, può accontentare tutti i desideri. Prego l’Assemblea di considerare che noi abbiamo lavorato giornate e settimane su ciascuno di questi articoli, pesando parola per parola, ed abbiamo trovato la conciliazione delle varie tendenze in queste parole: «dovere civico e morale», le quali non concludono il dovere giuridico e le sanzioni da dichiararsi nella legge particolare.

Non mi pare che su questa formula ci possano essere dissensi, per le ragioni già dette prima e che possono essere condivise dall’Assemblea.

PRESIDENTE. Pongo in votazione la soppressione, al secondo comma, delle parole: «Il suo esercizio è dovere civico e morale».

(Non è approvata).

L’emendamento dell’onorevole Perassi di sostituire alle parole: «Il suo esercizio» le altre: «L’esercizio del diritto di voto», è fatto proprio dall’onorevole Bernabei. Si tratta di una modifica di pura forma. Onorevole Bernabei, insiste?

BERNABEI. Non insisto.

(Non è approvata).

PRESIDENTE. L’onorevole Sullo ha proposto la formula:

«Il suo esercizio è obbligatorio».

CIANCA. Chiedo di parlare per dichiarazione di voto.

PRESIDENTE. Ne ha facoltà.

CIANCA. Noi siamo contrari a questo emendamento, anche in considerazione di taluni rilievi che sono stati fatti in proposito da colleghi che mi hanno preceduto.

Crediamo che il voto debba essere non il prodotto di una coazione, ma piuttosto l’espressione di un convincimento politico veramente sincero. Questa Costituzione nasce sotto il segno della libertà; noi dobbiamo compiere atto di fiducia nel senso politico e di civismo del popolo italiano. Per queste ragioni noi respingiamo l’emendamento.

MORO. Chiedo di parlare per dichiarazione di voto.

PRESIDENTE. Ne ha facoltà.

MORO. Dichiaro che voteremo in favore dell’emendamento proposto dall’onorevole Sullo, emendamento che in fondo è prevalentemente di forma, perché rende più semplice e chiara l’espressione adoperata nel testo proposto dalla Commissione, dove si parla di dovere civico.

LACONI. Chiedo di parlare per dichiarazione di voto.

PRESIDENTE. Ne ha facoltà.

LACONI. Per le stesse ragioni per cui abbiamo votato contro l’emendamento soppressivo, cioè per il fatto che riteniamo che in questo punto debba essere contenuta l’affermazione di un dovere moraLe e civico, per le stesse ragioni noi votiamo contro la modificazione proposta con l’emendamento dell’onorevole Sullo; in quanto – e mi dispiace di contraddire l’onorevole Moro – non si tratta qui di una modificazione formale, si tratta invece di una modificazione di sostanza. Quando su questo punto, con tutti i precedenti che vi sono su questa questione e con tutta la letteratura che c’è stata su questo particolare problema, si afferma la obbligatorietà del voto, è chiaro che si intende anche che domani la legge stabilirà delle sanzioni per il caso di rifiuto del voto.

Noi dichiariamo quindi che voteremo contro l’emendamento proposto dall’onorevole Sullo.

TARGETTI. Chiedo di parlare per dichiarazione di voto.

PRESIDENTE. Ne ha facoltà.

TARGETTI. A noi sembrerebbe di trasformare in accademia questa nostra Assemblea se si riprendesse ora la discussione in favore o contro l’obbligatorietà del voto. Sono questioni ormai tanto lungamente dibattute e sulle quali i vari partiti, secondo il proprio orientamento, hanno avuto più e più volte occasione di pronunciarsi. Ci sia consentito manifestare la nostra sorpresa per l’atteggiamento ora improvvisamente assunto dal nostro egregio collega onorevole Moro. Noi ci limitiamo a dichiarare che coerentemente a quello che è stato sempre il nostro pensiero riguardo all’obbligatorietà del voto, voteremo decisamente contro questo emendamento, la cui portata non può sfuggire a nessuno, tanto che ci meraviglia che una mente così acuta come quella dell’onorevole Moro possa arrivare a sostenere che si tratta soltanto di una modificazione di forma, mentre si tratta di una modificazione sostanziale. (Commenti).

GRASSI. Chiedo di parlare per dichiarazione di voto.

PRESIDENTE. Ne ha facoltà.

GRASSI. Vorrei richiamare l’attenzione dell’Assemblea sulla gravità della decisione che andremo a prendere. La questione del voto obbligatorio fu, mi ricordo, dibattuta largamente durante la discussione dell’altra legge elettorale alla Consulta. Si manifestarono, anche in quella occasione, tendenze diverse e vi fu una lunga e profonda discussione.

Noi, durante i lavori della prima Sottocommissione, come ha ricordato l’onorevole Merlin, discutemmo a lungo, forse per settimane, su questa questione e trovammo alfine un punto di coincidenza su questo concetto, che è stato esposto del resto anche dall’onorevole Laconi: che si tratta cioè di un diritto e di un dovere insieme: ogni medaglia ha il suo rovescio.

Fummo però contrari a stabilire la forma obbligatoria del voto. Io penso che, quando, in tema costituzionale, noi affermiamo questo principio, ossia che il voto non è soltanto un diritto subiettivo del cittadino, ma anche un dovere civico, nel senso che il cittadino deve sentire il dovere di partecipare alla vita dello Stato con questo elettorato attivo che noi gli conferiamo, abbiamo mantenuto questo diritto nei limiti in cui dovevamo mantenerlo. Saranno le leggi di domani che, secondo le direttive politiche del momento, potranno accedere a un criterio o ad un altro; ma non possiamo ora risolvere la questione e mortificarla con un voto affrettato di questa Assemblea.

Chiedo pertanto ai colleghi della democrazia cristiana di riservare in tema di legge elettorale la risoluzione di questo problema. Chiedo che sia mantenuto il testo integrale proposto dalla Commissione, il quale fu frutto di studio e di accordi, in cui potevano coincidere le diverse soluzioni. (Commenti).

DELLA SETA. Chiedo di parlare per dichiarazione di voto.

PRESIDENTE. Ne ha facoltà.

DELLA SETA. Si permetta a chi prima del referendum ha sostenuto una grande polemica con l’Osservatore Romano contro il voto obbligatorio, di dichiarare a nome del proprio gruppo di votare contro l’obbligatorietà del voto perché, come appunto allora dissi, il voto, una volta reso obbligatorio, moralmente, giuridicamente e politicamente, non è più un voto, ma è un vuoto. (Commenti).

RUINI, Presidente della Commissione per la Costituzione. Chiedo di parlare.

PRESIDENTE. Ne ha facoltà.

RUINI, Presidente della Commissione per la Costituzione. Debbo ripetere ora una considerazione cui ho fatto cenno anche l’ultima volta che ho parlato all’Assemblea. È pericoloso volere, in mezz’ora, in tre quarti d’ora, decidere questioni molto importanti; e risollevarle all’improvviso, dopo che si è deciso di non affrontarle. Eravamo tutti d’accordo, questa mattina, anche i rappresentanti della Democrazia cristiana che hanno partecipato alla seduta del comitato, di non compromettere la questione.

L’ammettere il dovere civico e morale del voto è un primo passo a cui può seguire la dichiarazione, per mezzo di legge, dell’obbligatorietà del voto. Questo era il compromesso, se volete usare la terribile parola, questo era l’accordo al quale tutti erano arrivati. Che cosa è avvenuto ora non so; né so se chi ha dai banchi democristiani proposto di mettere nella Costituzione il voto obbligatorio, abbia l’assenso formale del suo Gruppo. Si vuol decidere quasi con un colpo di mano. Io non mi pronuncio né pro né contro. Faccio perciò appello al senso di responsabilità dell’Assemblea. Mettendo il principio che è un dovere morale e civico, mettete il presupposto in base al quale potrete chiedere domani che nella legge elettorale venga sancita l’obbligatorietà. È al vostro senso di responsabilità al quale io vi richiamo: ed è il mio dovere di Presidente della Commissione e non altro. (Applausi a sinistra).

CONDORELLI. Chiedo di parlare per dichiarazione di voto.

PRESIDENTE. Ne ha facoltà.

CONDORELLI. Io sarei d’accordo con quanto ha esposto così autorevolmente il Presidente della Commissione, ove noi stasera non pregiudicassimo la decisione.

RUINI, Presidente della Commissione per la Costituzione. Non la si pregiudica.

CONDORELLI. Viceversa io credo di aver dimostrato che aggiungendo quell’aggettivo «morale» noi pregiudichiamo la questione, in quanto affermare in un testo legislativo un dovere morale non può avere altro significato che dire: «questo è un dovere morale, che deve rimanere morale e che non può cambiarsi in dovere giuridico». (Commenti Rumori). Questo è troppo evidente. Io potrei aderite a quanto chiede il Presidente della Commissione, ove si sopprimesse quell’aggettivo «morale». Affermiamo che l’esercizio del voto è un dovere civico, e così rimane impregiudicata la questione dell’obbligatorietà; ma quando aggiungiamo che è un dovere morale, la questione dell’obbligatorietà è senz’altro compromessa.

PRESIDENTE. Onorevole Condorelli, ella ha già svolto precedentemente questo concetto.

CONDORELLI. Onorevole Presidente, mi permetto di farle presente che quando ho parlato prima non era presente neanche un quarto dei deputati; quindi credo di dover ritornare sull’argomento.

PRESIDENTE. Onorevole Condorelli, siamo in sede di dichiarazione di voto. Parli pure, ma poi non si lamenti che i lavori vanno per le lunghe (Commenti). Ciascuno quando parlano gli altri esprime – e la esprime anche in maniera molto aperta – la propria insofferenza. Non lo dico a lei personalmente; ma ciascuno, quando parla, si preoccupa e si agita se la Presidenza cerca di mantenere nei limiti del Regolamento la discussione. Noi siamo ora in sede di dichiarazione di voto: non si tratta quindi di spiegare un’altra volta cose già dette quando non c’erano molti deputati presenti. Guai se questo dovesse rappresentare un argomento per ripetere cose già dette. Comunque, onorevole Condorelli, prosegua.

CONDORELLI. La ringrazio, onorevole Presidente.

Io ho affermato questo: che il legislatore non può porre dei doveri morali; e quando conclama, riconosce l’esistenza di un dovere morale, non fa effettivamente nulla, perché il legislatore non può affermare verità morali o storiche. Non possiamo dire attraverso una legge che questo è morale e questo è immorale (Commenti a sinistra), come non possiamo affermare attraverso una legge che questo è vero o non è vero, che un avvenimento storico si è prodotto o non si è prodotto. La legge pone soltanto dei comandi, non afferma né verità morali, né verità logiche. Questo è troppo evidente perché vi sia bisogno di aggiungere altre considerazioni. Quando noi affermiamo che l’esercizio del voto è un dovere morale, legislativamente questa espressione non può significare che questo: che il futuro legislatore – giacché parliamo per il futuro legislatore – lo deve considerare sempre un dovere morale e quindi non può renderlo giuridicamente obbligatorio. Questo è troppo evidente. Se noi oggi votiamo per l’aggiunta di questo aggettivo «morale», avremo pregiudicata la questione. Fermiamoci alla parola «civico», e saremo tutti d’accordo.

GRONCHI. Chiedo di parlare per dichiarazione di voto.

PRESIDENTE. Ne ha facoltà.

GRONCHI. Non vogliamo frettolosamente giudicare una questione che ha certo importanza anche di carattere politico. Non insistiamo perciò sull’emendamento dell’onorevole Sullo, ma chiediamo che il testo della Commissione sia votato per divisione, così che si possa votare separatamente l’aggettivo: «morale».

MORELLI RENATO. Chiedo di parlare per dichiarazione di voto.

PRESIDENTE. Ne ha facoltà.

MORELLI RENATO. Non per fare il postumo difensore del mio emendamento soppressivo respinto, ma devo dire che in esso mi inspiravo alla necessità di trattare la questione in sede di legge elettorale. Ora proporrei agli amici democristiani di rinunciare alla proposta dell’onorevole Sullo e di modificare la proposta Mortati. In questo caso noi liberali potremo aderire.

RUINI, Presidente della Commissione per la Costituzione. Chiedo di parlare.

PRESIDENTE. Ne ha facoltà.

RUINI, Presidente della Commissione per la Costituzione. Onorevoli colleghi, l’onorevole Condorelli – nella sua autorità di docente di filosofia del diritto – ha svolto qui una tesi molto sottile, ma consenta a me che, quando egli non era nato, mi occupavo di filosofia del diritto (non ne feci poi vanto, perché non mi pareva titolo apprezzabile in politica), consenta a me di mostrare la inconsistenza, diremo così filosofica, del suo ragionamento. Anche se la Costituzione dicesse soltanto che il voto è dovere morale, nulla vieterebbe che al dovere morale la legge aggiungesse che è anche dovere giuridico. Ma nel nostro testo diciamo che è anche dovere civico; e questa formulazione non è un ostacolo, ma un presupposto, perché il voto sia per legge dichiarato obbligatorio.

PRESIDENTE. Poiché non si insiste sull’emendamento Sullo, dobbiamo prendere in considerazione, se l’onorevole Mortati insiste, il suo emendamento sostitutivo.

MORTATI. Non insisto.

PRESIDENTE. Sta bene. Dobbiamo allora votare, secondo la proposta Gronchi, il testo della Commissione per divisione.

Pongo pertanto in votazione la formula: «Il suo esercizio è dovere civico».

(È approvata).

Pongo in votazione le parole: «e morale».

(Segue la votazione per alzata e seduta).

Poiché l’esito è incerto, procediamo alla votazione per divisione.

(L’Assemblea non approva).

Pongo ora in votazione la proposta dell’onorevole Piemonte, di aggiungere alla fine del secondo comma le parole: «ed è esercitato anche dal cittadino all’estero».

Su questo emendamento è stata chiesta la votazione per appello nominale dagli onorevoli Canepa, Bonfantini, Schiavetti, Tega, Preziosi, Veroni, Chiaramello, Nasi, Rossi Paolo, Carboni, Ruggiero, Filippini, Piemonte, Caporali, Lussu, Preti, Pieri, Faccio, Costa, Cairo, Bennani, Bocconi, Tonello.

CANEPA. Chiedo di parlare per dichiarazione di voto.

PRESIDENTE. Ne ha facoltà.

CANEPA. Il Gruppo del Partito socialista dei lavoratori italiani chiede l’appello nominale. Noi siamo un partito giovane, alle prime armi: non abbiamo mezzi, e dunque non ci muovono interessi elettorali. Ci muove soltanto la coscienza profonda che abbiamo dell’interesse d’Italia a tenere stretta a sé la gran massa dei cittadini che abitano all’estero; gran massa, che per la costituzione demografica del nostro Paese andrà sempre più crescendo. Anche recentemente tutti coloro che si sono recati all’estero hanno visto quale importanza morale e anche economica abbia il fatto che gli italiani e i figli degli italiani che abitano all’estero si ricordino sempre di essere figli del nostro Paese e ad esso siano legati. Il sapere che possono partecipare alla sovranità nazionale coll’esercizio del voto è il modo più efficace perché questi sentimenti di affetto si mantengano vivi. Per questo insistiamo nel richiedere l’appello nominale.

COSTANTINI. Chiedo di parlare.

PRESIDENTE. Ne ha facoltà.

COSTANTINI. Il gruppo socialista voterà contro l’emendamento proposto dall’onorevole Piemonte; ma intende dichiarare che non è contrario, in linea di principio, all’esercizio dell’elettorato da parte dei cittadini residenti all’estero; ritiene però che non sia nella Carta costituzionale che questo diritto debba essere riconosciuto e affermato, tanto più in quanto già il testo proposto dalla Commissione afferma, senza possibilità di equivoci di interpretazione, che tutti i cittadini hanno diritto al voto. In questa espressione: «tutti i cittadini», nessuno potrà mai affermare che non siano compresi anche i cittadini residenti all’estero.

È certo, però, che è la legge elettorale, che dovrà determinare le modalità per l’esercizio di questo diritto, mentre è sufficiente che la Carta costituzionale si limiti ad una affermazione generica, ma precisa, di principio. Ho detto che è compito della legge elettorale stabilire il modo di esercitare il diritto di voto per coloro che risiedono all’estero, in quanto non si può in questo momento dimenticare che occorre redigere le liste degli elettori, cioè degli aventi diritto al voto, compito lungo, tutt’altro che semplice, soprattutto in rapporto, ad esempio, ai diversi milioni di italiani che si trovano nelle Americhe.

PRESIDENTE. Non entri nel merito, onorevole Costantini; si limiti alla dichiarazione.

COSTANTINI. Pongo in evidenza, onorevole Presidente, gli inconvenienti che una affermazione di questo principio nella Carta costituzionale potrebbe portare all’attuazione pratica dell’esercizio del voto per i residenti all’estero in questo momento particolare, mentre sono prossime le elezioni politiche della Camera legislativa.

PRESIDENTE. È pervenuta domanda di votazione a scrutinio segreto sull’emendamento presentato dall’onorevole Piemonte da parte degli onorevoli Mariani, Merlin Lina, Musotto, Iotti Leonilde, Ravagnan, Barontini Ilio, Faralli, Fogagnolo, Maffi, Pistoia, Assennato, Pellegrini, Secchia, Tonetti, Fioritto, Vischioni, Fiorentino, Li Causi, Togliatti.

LUCIFERO. Avevo chiesto di parlare per dichiarazione di voto prima della presentazione della domanda di votazione per scrutinio segreto.

PRESIDENTE. Ne ha facoltà.

LUCIFERO. Parlo nella mia qualità di deputato meridionale. Io so come gli uomini della mia terra, che danno il maggior contributo alla emigrazione, sono attaccati alla Madre Patria.

La semplice affermazione che tutti i cittadini hanno diritto di voto non è sufficiente; c’era anche prima, e tuttavia i cittadini all’estero non potevano votare.

È bene affermare che questi figli, i quali in vita contribuiscono col loro lavoro alla ricchezza nazionale e vengono a morire nella loro terra, restino collegati alla Madre Patria anche in quelli che sono i diritti e i doveri civici dei cittadini. (Applausi a destra).

Votazione segreta.

PRESIDENTE. Procediamo alla votazione a scrutinio segreto dell’emendamento aggiuntivo proposto dall’onorevole Piemonte.

(Segue la votazione).

Presidenza del Vicepresidente PECORARI

PRESIDENTE. Dichiaro chiusa la votazione e invito gli onorevoli Segretari a procedere alla numerazione dei voti.

(Gli onorevoli Segretari numerano i voti).

Presidenza del Presidente TERRACINI

Risultato della votazione segreta.

PRESIDENTE. Comunico il risultato della votazione a scrutinio segreto:

Presenti e votanti     372

Maggioranza           187

Voti favorevoli        109

Voti contrari             263

(L’Assemblea non approva).

Hanno preso parte alla votazione:

Abozzi – Adonnino – Alberti – Allegato – Amadei – Ambrosini – Andreotti – Angelini – Angelucci – Arcaini – Arcangeli – Assennato – Azzi.

Bacciconi – Badini Confalonieri – Baldassari – Balduzzi – Baracco – Barbareschi – Bardini – Barontini Anelito – Barontini Ilio – Basile – Bassano – Basso – Bastianetto – Bellato – Bellavista – Bellusci – Belotti – Bencivenga – Benedetti – Bennani – Bergamini – Bernabei – Bernamonti – Bernini Ferdinando – Bertini Giovanni – Bertola – Bertone – Bettiol – Bianchi Bianca – Bianchi Bruno – Bianchini Laura – Bibolotti – Bitossi – Bocconi – Boldrini – Bovetti – Bozzi – Braschi – Brusasca – Bubbio – Bucci – Bulloni Pietro.

Cacciatore – Caccuri – Cairo – Camangi – Campilli – Camposarcuno – Canepa – Canevari – Caporali – Cappa Paolo – Cappelletti – Cappi Giuseppe – Cappugi – Caprani – Carbonari – Carboni – Caroleo – Caronia – Carpano Maglioli – Cartia – Caso – Cassiani – Castelli Edgardo – Castelli Avolio – Cavallari – Cavalli – Cerreti – Cevolotto – Chatrian – Chiaramello – Chieffi – Ciampitti – Cianca – Ciccolungo – Cifaldi – Cimenti – Cingolani Mario – Clerici – Coccia – Codacci Pisanelli – Codignola – Colitto – Colombi Arturo – Colombo Emilio – Colonnetti – Conci Elisabetta – Condorelli – Conti – Coppa Ezio – Coppi Alessandro – Corbi – Corsanego – Corsi – Corsini – Costa – Costantini – Cotellessa – Cremaschi Carlo – Cremaschi Olindo.

D’Amico Diego – De Caro Gerardo – De Caro Raffaele – De Falco – De Filpo – De Gasperi – Del Curto – Della Seta – Delli Castelli Filomena – De Maria – De Martino – De Mercurio – De Michele Luigi – De Michelis Paolo – De Palma – De Vita – Di Fausto – Di Gloria – Di Vittorio – Dominedò – D’Onofrio.

Einaudi – Ermini.

Fabbri – Fabriani – Facchinetti – Faccio – Fanfani – Fantuzzi – Faralli – Farini Carlo – Fedeli Armando – Federici Maria – Ferrari Giacomo – Ferrario Celestino – Filippini – Fiore – Fiorentino – Fioritto – Firrao – Flecchia – Foa – Fogagnolo – Foresi – Franceschini – Froggio – Fuschini – Fusco.

Galati – Gallico Spano Nadia – Germano – Gervasi – Geuna – Ghidetti – Ghislandi – Giacchero – Giannini – Giolitti – Giua – Gonella – Gortani – Gotelli Angela – Grassi – Grazi Enrico – Grieco – Gronchi – Guariento – Guerrieri Emanuele – Guerrieri Filippo – Guidi Cingolani Angela – Gullo Fausto.

Iotti Leonilde.

Jacini – Jacometti – Jervolino.

Labriola – Laconi – Lagravinese Pasquale – Lami Starnuti – Landi – La Rocca – Lazzati – Leone Giovanni – Lettieri – Lizier – Lombardi Riccardo – Longhena – Longo – Lucifero – Lussu.

Macrelli – Maffi – Maffioli – Magnani – Magrini – Malagugini – Maltagliati – Mancini – Mannironi – Marazza – Marconi – Mariani Enrico – Marinaro – Martinelli – Martino Enrico – Martino Gaetano – Marzarotto – Massola – Mastino Gesumino – Mastino Pietro – Mastrojanni – Mattarella – Mattei Teresa – Medi Enrico – Merlin Angelina – Merlin Umberto – Miccolis – Micheli – Molè – Molinelli – Momigliano – Montagnana Rita – Montemartini – Monterisi – Monticelli – Montini – Morandi – Moranino – Morelli Luigi – Morelli Renato – Moro – Mortati – Mùrdaca – Murgia – Musolino – Musotto.

Nasi – Natoli Lamantea – Negro – Nenni – Nicotra Maria – Nobile Umberto – Nobili Tito Oro – Noce Teresa – Notarianni – Numeroso.

Orlando Camillo.

Pajetta Gian Carlo – Pajetta Giuliano – Pallastrelli – Paolucci – Paris – Pastore Raffaele – Pat – Patricolo – Pecorari – Pella – Pellegrini – Penna Ottavia – Perassi – Perlingieri – Perugi – Petrilli – Piccioni – Piemonte – Pieri Gino – Pignedoli – Pistoia – Pollastrini Elettra – Ponti – Preti – Preziosi – Priolo – Pucci – Puoti.

Quintieri Adolfo – Quintieri Quinto.

Ravagnan – Reale Eugenio – Recca – Rescigno – Restagno – Ricci Giuseppe – Riccio Stefano – Rivera – Rodi – Rodinò Ugo – Rognoni – Romano – Romita – Roselli – Rossi Giuseppe – Rossi Paolo – Roveda – Rubilli – Ruggiero Carlo – Ruini – Rumor.

Saccenti – Saggin – Salerno – Salizzoni – Sampietro – Sardiello – Scalfaro – Scelba – Schiavetti – Schiratti – Scoca – Scoccimarro – Scotti Alessandro – Scotti Francesco – Secchia – Segala – Segni – Sicignano – Siles – Silone – Spallicci – Stella – Storchi – Sullo Fiorentino.

Tambroni Armaroli – Targetti – Taviani – Tega – Terranova – Tieri Vincenzo – Titomanlio Vittoria – Togliatti – Togni – Tomba – Tonello – Tonetti – Tosato – Tosi – Tozzi Condivi – Tremelloni – Trimarchi – Tumminelli – Tupini – Turco.

Uberti.

Valenti – Vallone – Valmarana – Vernocchi – Veroni – Viale – Vicentini – Vigna – Vigo – Villabruna – Vinciguerra – Vischioni – Volpe.

Zaccagnini – Zanardi – Zannerini – Zuccarini.

Sono in congedo:

Bargagna – Bernardi.

Crispo.

Di Giovanni.

Garlato – Ghidini – Gullo Rocco.

La Pira – Lombardo Ivan Matteo.

Massini – Meda – Merighi.

Pera – Pignatari.

Rapelli.

Zerbi.

Si riprende la discussione del progetto di Costituzione della Repubblica italiana.

PRESIDENTE. Dobbiamo ora porre in votazione l’emendamento dell’onorevole Schiavetti:

«Inserire fra il secondo e il terzo comma, il seguente:

«La Repubblica assicura ai cittadini italiani residenti all’estero la possibilità dell’espressione organica della loro volontà e della rappresentanza dei loro interessi».

SCHIAVETTI. Chiedo di parlare.

PRESIDENTE. Ne ha facoltà.

SCHIAVETTI. Domando alla Commissione se sia disposta a rinviare la votazione del mio emendamento alla fine del Titolo.

PRESIDENTE. La Commissione consente?

MERLIN UMBERTO, Relatore. La Commissione accetta.

PRESIDENTE. Se non vi sono osservazioni, resta così stabilito. Passiamo allora alla votazione del terzo comma dell’articolo 45, che nel testo della Commissione è così formulato: «Non può essere stabilita nessuna eccezione al diritto di voto se non per incapacità civile o in conseguenza di sentenza penale».

L’onorevole Mastino Pietro ha proposto di sostituire il comma con il seguente:

«Le eccezioni al diritto di voto sono stabilite nella legge».

MICHELI. Chiedo di parlare.

PRESIDENTE. Ne ha facoltà.

MICHELI. Credo sia necessario far presente alla Commissione l’opportunità che essa ritorni sopra il pensiero che il relatore ha esposto a questo riguardo, inquantoché il tentativo che essa ha fatto di concretare in queste due forme tutte quante le incapacità civili e penali non è sufficiente per comprendere tutto quanto è necessario al riguardo. Io questa dichiarazione devo fare non tanto per mio conto personale, quanto quale presidente della Commissione che è stata chiamata ad esaminare la legge elettorale. Noi stiamo esaminando in questi giorni la proposta di legge: Norme per la disciplina degli elettori attivi e per la tenuta e la revisione annuale delle liste elettorali. Stiamo discutendo appunto l’articolo 2, nel quale sono elencate le molte esclusioni, fra le quali alcune vi sono che non sarebbero comprese in questa dizione presentata per questo articolo. Per questo pregherei la Commissione di voler accogliere la proposta di emendamento dell’onorevole Mastino, che lascia una maggiore libertà al legislatore futuro e consente che in una materia così delicata vi sia la possibilità di comprendere circostanze particolari per le quali in tutte le leggi elettorali passate è stata comminata l’esclusione dal voto, e che non sarebbero ora comprese nella Costituzione. Non mi pare vi sia bisogno di altre delucidazioni da parte mia, inquantoché parmi opportuno evitare provvedimenti particolari, i quali sono sempre stati contemplati nelle leggi del passato e che fanno parte della proposta di legge fatta dal Governo cui ho già accennato, la quale sarà quanto prima presentata all’Assemblea, per la sua approvazione.

Tali disposizioni sarebbero quasi in contradizione col testo della Costituzione, perché non fanno parte delle due categorie cui il testo della Commissione si limita. Prego perciò la Commissione di voler riesaminare la cosa ed evitare così la possibilità di questo primo contrasto che verrebbe a sorgere fra le deliberazioni della stessa Assemblea. L’emendamento proposto dall’onorevole Mastino, il quale consente una maggiore e più opportuna libertà al legislatore, elimina questa possibilità e mi pare meriti di essere approvato.

MERLIN UMBERTO, Relatore. Chiedo di parlare.

PRESIDENTE. Ne ha facoltà.

MERLIN UMBERTO, Relatore. La Commissione apprezza la gravità delle ragioni esposte dal collega Micheli, ed avrebbe deciso di chiedere all’Assemblea di poter sospendere la votazione su questo capoverso. Vuol dire che la Commissione si riunirà fra la seduta di stasera e quella di domani e cercherà di venire incontro alla proposta dell’onorevole Mastino Pietro, anche secondo le delucidazioni fornite dall’onorevole Micheli.

PRESIDENTE. Se nessuno chiede di parlare, pongo in votazione la proposta di sospensiva per dar modo alla Commissione di potere esaminare la questione.

(È approvata).

Pongo in votazione la proposta dell’onorevole Bozzi, accettata dalla Commissione, di sopprimere il quarto comma.

(È approvata).

Sono così assorbiti l’emendamento soppressivo dell’onorevole Mortati e l’emendamento sostitutivo dell’onorevole Di Giovanni, fatto proprio dall’onorevole Preziosi.

Il seguito della discussione è rinviato a domani, alle 15.

La seduta termina alle 20.50.

Ordine del giorno per la seduta di domani.

Alle ore 15:

Seguito della discussione del progetto di Costituzione della Repubblica italiana.

MARTEDÌ 20 MAGGIO 1947

ASSEMBLEA COSTITUENTE

CXXVII.

SEDUTA DI MARTEDÌ 20 MAGGIO 1947

PRESIDENZA DEL PRESIDENTE TERRACINI

indi

DEL VICEPRESIDENTE TARGETTI

INDICE

Congedo:

Presidente                                                                                                        

Progetto di Costituzione della Repubblica italiana (Seguito della discussione):

Presidente                                                                                                        

Preziosi                                                                                                            

Di Giovanni                                                                                                      

Azzi                                                                                                                   

Sullo                                                                                                                

Piemonte                                                                                                          

Calosso                                                                                                            

Schiavetti                                                                                                        

Giolitti                                                                                                             

Terranova                                                                                                       

Caporali                                                                                                           

Sui lavori dell’Assemblea:

Pesenti                                                                                                              

Presidente                                                                                                        

La seduta comincia alle 15.

RICCIO, Segretario, legge il processo verbale della seduta precedente.

(È approvato).

Congedo.

PRESIDENTE. Ha chiesto congedo il deputato Zerbi.

(È concesso).

Seguito della discussione del progetto di Costituzione della Repubblica italiana.

PRESIDENTE. L’ordine del giorno reca il seguito della discussione del progetto di Costituzione della Repubblica italiana.

Riprendiamo la discussione generale sul Titolo IV.

È iscritto a parlare l’onorevole Preziosi. Ne ha facoltà.

PREZIOSI. Onorevoli colleghi. Brevi osservazioni sul Titolo IV che concerne i rapporti politici nel nostro progetto di Costituzione.

Articolo 45. Indubbiamente è necessario apportare una modifica o, per meglio dire, aggiungere qualche cosa di preciso a quello che è il secondo comma dell’articolo, lì dove dice che «il voto è personale ed eguale, libero e segreto».

L’articolo 45 configura il diritto per tutti i cittadini al voto, però non configura un diritto eguale per i cittadini italiani all’estero, i quali, per il solo fatto che hanno conservato la loro cittadinanza, nonostante tutte le promesse e tutte le lusinghe, hanno diritto, come gli altri, ad esercitare il loro diritto al voto. E d’altra parte non si può dire che nel nostro progetto di Costituzione noi porteremo una innovazione. Sappiamo che in tutti i paesi liberi e democratici, in Inghilterra, in America, questo diritto al voto da parte del cittadino inglese od americano, che per ragioni qualsiasi risiede all’estero, è considerato come diritto imprescindibile. Anzi abbiamo avuto esempî, starei per dire addirittura esagerati, di volere a qualunque costo che il cittadino americano e inglese partecipasse in qualunque momento a quella che era la vita politica nazionale. Abbiamo visto che quando si è dovuto eleggere il Presidente della Repubblica degli Stati Uniti, si è dato il voto ai soldati che si trovavano sui fronti di combattimento, e si sono superati ostacoli infiniti per ciò realizzare, perché si è pensato che non si poteva in alcun modo tener lontani ed avulsi, nel momento più interessante, dalla vita politica del paese, coloro che erano al di là dei mari a compiere il loro dovere per difendere la loro patria e la libertà del mondo. Come possiamo noi trascurare questo diritto nei confronti dei cittadini italiani all’estero? Io penso che bisogna indubbiamente accogliere quello che è stato un pensiero degli onorevoli Piemonte, Caporali, Villani, Taddia, Filippini ed altri, espresso in un emendamento, i quali alla parola «segreto» vogliono che si aggiungano le altre: «ed è esercitato anche dal cittadino all’estero». Così si darà riconoscimento ai cittadini che hanno saputo mantenere la loro cittadinanza nonostante tutte le difficoltà; e si concederà ad essi il diritto a votare per le libere istituzioni del proprio paese.

E passo all’articolo 47 del nostro progetto di Costituzione. A me pare che l’articolo 47 sia non troppo esplicativo, quando afferma che «tutti i cittadini hanno diritto di organizzarsi liberamente in partiti per concorrere con metodo democratico a determinare la vita politica nazionale». Bisogna dire qualcosa di più per quello che concerne il metodo democratico che debbono adottare questi partiti che possono sorgere liberamente, come libere associazioni di cittadini. Bisogna dire qualcosa di più, nello interesse supremo della Nazione e dello Stato repubblicano, cioè bisogna impedire a qualunque costo il sorgere di partiti che apparentemente possano dire di avere un metodo democratico, ma che in effetti non fanno che sostenere i metodi dittatoriali del passato regime. È necessario impedire che il sorgere libero di certi partiti possa procurare enorme danno al nostro paese. A tal proposito penso che è giusto quello che dice il collega onorevole Mastino nel suo emendamento, quando sostiene la necessità di una esplicazione maggiore di questo metodo democratico, messo nel nostro progetto di Costituzione. Allorché il collega Mastino sostiene che: «Tutti i cittadini hanno diritto di organizzarsi liberamente in partiti, per concorrere, nel rispetto delle libertà fondamentali e dei diritti garantiti dalla presente Costituzione, a determinare la politica nazionale», a me pare che esprima un concetto abbastanza chiaro, assai più chiaro che il progetto di Costituzione, perché fissa in maniera precisa gli obblighi che debbono rispettare questi partiti che sorgono con metodo democratico; debbono rispettare certi obblighi perché solo così la Nazione non sarà minacciata da nuovi metodi dittatoriali.

Articolo 50. Onorevoli Colleghi, a me pare che l’articolo 50 abbia suscitato polemiche dappertutto, e particolarmente a destra. Diceva ieri sera l’onorevole Rodi che l’articolo 50 – sono le sue precise parole – è un riconoscimento del diritto alla rivoluzione. Strana questa affermazione: si vuole assolutamente dire che quest’articolo, immesso nel nostro progetto di Costituzione, può riconoscere un diritto alla rivoluzione. Invero nessun diritto rivoluzionario noi vogliamo riconoscere nella nostra Costituzione; invero l’articolo 50 è posto a difesa della libertà dei cittadini, a difesa della libertà, in ogni momento della vita nazionale, perché quando si dice che «ogni cittadino ha il dovere di essere fedele alla Repubblica, di osservarne la Costituzione e le leggi, di adempiere con disciplina ed onore le funzioni che gli sono affidate», e si aggiunge che «quando i poteri pubblici violino le libertà fondamentali ed i diritti garantiti dalla Costituzione, la resistenza all’oppressione è diritto e dovere del cittadino», non vi è qui un riconoscimento al diritto rivoluzionario. Invece, secondo l’articolo 50, il cittadino nello stesso momento in cui esercita un diritto, vale a dire difende la propria libertà dalle possibilità di aggressione di un potere costituito che, sorto democraticamente, lungo la strada dimentica la democrazia e si fa arma di dittatura, nello stesso momento, ripeto, il diritto del cittadino si trasforma in un dovere nei confronti della collettività. È cioè un diritto difendere la propria libertà, ma è un dovere difendere la libertà della collettività. Non vi è solamente il diritto di difendere la propria persona, la propria casa, la propria famiglia, il proprio modo di pensare, il proprio modo di dire, ma vi è anche il dovere di difendere la libertà dei propri consimili, il dovere di difendere la libertà del proprio paese. Premesso quanto sopra, come si può affermare che l’articolo 50 è un riconoscimento al diritto rivoluzionario? O non è la più bella affermazione della nostra Carta costituzionale che dà la possibilità al cittadino di difendere la sua libertà, la libertà del proprio paese, la libertà della propria democrazia? È un’arma di difesa della quale non bisogna trascurare l’importanza, è un’arma di difesa che deve rimanere nella nostra Carta costituzionale. Oserei dire che questa configurazione di diritti e di doveri da parte del cittadino a difendere la propria libertà è un po’ un esempio alle Costituzioni degli altri paesi; è, comunque, un esempio di come noi in regime di libertà vogliamo difendere la nuova democrazia italiana.

Non creda, onorevole Rodi, che con queste affermazioni io voglia contraddire le sue affermazioni personali. Io contraddico le sue affermazioni in quanto esse sono la espressione del settore che ella rappresenta. Esaminando l’articola 51, là dove si dice che «il Capo dello Stato, i membri del Governo, i Presidenti delle Deputazioni regionali, i magistrati, le forze armate e quelle assimilate, prima di assumere le loro funzioni prestano giuramento di fedeltà alla Costituzione ed alle leggi della Repubblica», si nota subito quanto sia assurda l’affermazione secondo la quale il giuramento non vale la pena di configurarlo nella Costituzione, poiché esso è una formalità, che non impegna la coscienza del cittadino. Un oratore precedente, per dimostrare l’inutilità del giuramento, ha parlato perfino di superstizioni pagane e, ad un certo momento, ha affermato che basta lasciare il primo comma dell’articolo 50 per dimostrare l’inutilità di tutto il comma dell’articolo 51; basta cioè affermare che ogni cittadino ha il dovere di essere fedele alla Repubblica, di osservarne la Costituzione e le leggi, e di servire con onore e disciplina le funzioni affidate. Si dimentica che l’articolo 50 parla del dovere di ogni cittadino, mentre l’articolo 51 è una specie di esecutività del dovere di ogni cittadino, è una specie di mandato di esecutività che si vuol dare al dovere che ogni cittadino ha di essere fedele alla Repubblica; ossia ha il dovere di essere fedele così come ha anche il dovere di prestare giuramento quando deve esplicare determinate funzioni quali quelle configurate dall’articolo 50.

Non è vero che, allorché si dice di giurare fedeltà allo Stato, questo rappresenti una coercizione, soprattutto perché quando si chiede di giurare fedeltà allo Stato repubblicano, sì intende l’obbligo di giurare per determinate categorie di cittadini. E non doveva sfuggire all’onorevole Rodi che nell’articolo 51 si afferma un principio di libertà nuovo quando si liberano dall’obbligo di prestare giuramento (a differenza di quello che avveniva prima dell’avvento della Repubblica) i deputati alla Camera legislativa. Perché? Perché in questo modo si vuole affermare il diritto alla libertà del cittadino di poter eleggere il proprio rappresentante mettendo lo stesso in condizioni di poter esercitare il proprio mandato anche quando non giura. Si è voluto affermare un principio che prima si è voluto deliberatamente ignorare. È così permesso che un determinato settore di cittadini possa nominare un proprio rappresentante, e questo rappresentante possa venire nella futura Camera legislativa a rappresentare coloro che sono di sua parte, senza che gli siano imposti degli obblighi morali per l’esercizio del suo mandato a pena di decadenza.

BELLAVISTA. L’ha detto Bovio questo.

PREZIOSI. E allora? Questo significa che invece di parlare si è fatto qualcosa.

BELLAVISTA. No, Bovio ha detto da quella parte della Camera quello che Rodi ha detto da questa parte.

PREZIOSI. Non è il caso, caro amico, di agitarsi, non ne vale proprio la pena. Dunque, voi vedete che all’articolo 51 si configura un diritto di libertà del pensiero, che non era configurato nel passato regime monarchico; perché quando in regime monarchico un deputato, un rappresentante del popolo veniva in Assemblea, doveva giurare fedeltà, altrimenti non poteva esercitare il suo mandato. E non è vero che c’è stato qualche deputato che disse: giuro e chiedo la parola? Cioè, giurava, altrimenti gli sarebbe stato proibito di esercitare il suo mandato parlamentare, ma naturalmente faceva le cosidette riserve del caso. Ora, noi vogliamo che i rappresentanti della Nazione non debbano fare nessuna riserva quando vengono in Parlamento. Essi rappresentano una determinata categoria di cittadini, ed hanno il diritto ed il dovere di affermare il pensiero di coloro che li hanno mandati in loro rappresentanza alla Camera. Ed allora, colleghi, come vedete, nessuna paura per quanto riguarda i due articoli 50 e 51; essi sono una affermazione di civiltà del diritto italico, essi sono una magnifica affermazione della libertà del cittadino, per cui vanno votati così come sono configurati rappresentando essi altresì l’espressione del nostro pensiero e rispecchiando la necessità della democrazia del nostro Paese. (Applausi).

PRESIDENTE. È iscritto a parlare l’onorevole Di Giovanni. Ne ha facoltà.

DI GIOVANNI. Onorevoli colleghi, non un discorso ma poche e modeste osservazioni su questo Titolo, che è certamente tra ì più notevoli della nostra Costituzione per quel pregio della sobrietà, che sarebbe stato utile osservare in altre parti della Costituzione: limitarsi cioè alla affermazione di principî, lasciando poi alle leggi particolari la disciplina e la regolamentazione.

Parlo per esprimere un mio pensiero personale e devo anche rilevare che, in qualche argomento, dissento dai miei compagni di gruppo.

Questo Titolo afferma due principî fondamentali: l’alto dovere dei cittadini di difendere la Patria; l’esercizio della sovranità popolare, che si attua per tre vie: diritto di voto, altissima funzione civile, come espressione ad un tempo di una cosciente volontà e di un giudizio di estimazione; diritto di organizzazione nei partiti per concorrere alla vita politica della Nazione; e diritto-dovere dei cittadini di insorgere ogni qualvolta i poteri costituiti dovessero attentare ai principî fondamentali sanciti dalla Carta costituzionale.

Ho presentato taluni emendamenti, qualcuno di forma, qualche altro di sostanza; mi riservo di farne svolgimento in sede opportuna.

PRESIDENTE. Onorevole Di Giovanni, se non le spiacesse, poiché ha presentato degli emendamenti, sarebbe forse opportuno, secondo la consuetudine invalsa, che li svolgesse.

DI GIOVANNI. Benissimo, accetto il suggerimento ed il richiamo del Presidente e quindi mi occuperò brevissimamente dello svolgimento degli emendamenti. Mi si consenta, però, di dire qualche cosa, come manifestazione del mio pensiero, in ordine ai principî generali informatori di questo Titolo notevole della nostra Costituzione.

Dicevo: qualcuno degli autorevoli colleghi ha manifestato le proprie preoccupazioni per il riconoscimento nella Carta costituzionale del diritto-dovere dei cittadini di insorgere quando i poteri costituiti avessero attentato ai principî fondamentali sanciti dalla Carta costituzionale.

A me sembra che la preoccupazione non sia assolutamente fondata. Già, in una Costituzione, che sorge in un momento così delicato e storicamente notevole della vita del Paese, in un clima di libertà democratica e repubblicana, quando si è appena usciti da un disastroso esperimento ventennale, nel quale la coscienza e la libertà dei cittadini erano state attanagliate e compresse da una dittatura che purtroppo aveva ricondotto indietro nei secoli del più tristo medioevo la civiltà italiana, non si poteva fare a meno, non si doveva fare a meno di inserire questo solenne riconoscimento del dovere dei cittadini di insorgere contro ogni manomissione dei loro diritti statutari.

E, del resto, il riconoscimento di quel principio di legittima difesa collettiva, estende e conferma il diritto individuale alla legittima difesa, sancito dalle leggi e, prima che dalle leggi, dal diritto di natura: vim vi repellere licet.

E però la Carta costituzionale pone le condizioni e il limite all’esercizio di questo diritto-dovere, quando stabilisce che esso sorge soltanto allorché i poteri pubblici violino le libertà fondamentali e i diritti garantiti dalla Costituzione.

C’è dunque un limite, c’è dunque una condizione che garantisce dall’abuso e preserva da ogni intemperanza od eccesso. Del resto, un popolo che è salito a maturità di coscienza politica, come il popolo italiano, non abuserà della sua libertà, ed alla resistenza ed alla insurrezione contro l’oppressione farà ricorso solo per i casi eccezionali.

C’è nella formulazione dell’articolo 49 l’affermazione della difesa della Patria come sacro dovere del cittadino. È, in sostanza, il riconoscimento della più alta idealità, che è la concezione della Patria, sintesi dell’immortalità della vita di un popolo, asceso ad alta civiltà, custode della propria tradizione, garante del proprio avvenire e vindice del proprio destino.

E nell’affermazione di questo principio non si può non essere tutti consenzienti; in rapporto a siffatta affermazione, la formulazione dell’articolo 49 fa seguire la dichiarazione che il servizio militare è obbligatorio.

È stato presentato in proposito un emendamento dai compagni onorevoli Cairo ed altri, nel senso che il servizio militare non è obbligatorio. Debbo dichiarare che io non sono assolutamente favorevole a questo emendamento; a me sembra che il ritenere e proclamare non obbligatorio il servizio militare costituisca una contraddizione in termini con quella che è la superiore affermazione del dovere di tutti i cittadini alla difesa della Patria.

Si dirà: ma c’è il servizio volontario; ma il servizio volontario e l’esercito volontario si identificano con l’esercito mercenario. Noi abbiamo appreso come anche Nazioni democraticamente progredite, le quali non avevano la coscrizione obbligatoria, l’hanno dovuta adottare in presenza dei grandi avvenimenti della recente guerra, ormai chiusa; e, speriamo, definitivamente chiusa.

Immediatamente dopo il risorgimento italiano, il cuore generoso di Giuseppe Garibaldi levò l’ammonimento possente contro gli eserciti stanziali, che definì la rovina delle Nazioni. Ed egli sostenne l’istituzione del tiro a segno, l’addestramento dei cittadini alle armi con periodiche esercitazioni nei giorni festivi, con conferenze ed esercitazioni tattiche per ufficiali, con insegnamento di discipline militari, ecc.; tutto un insieme di iniziative che avrebbero dovuto formare non soltanto i soldati, ma anche i quadri dell’esercito, ed attuare il concetto della Nazione armata: tutti soldati, e nessun soldato. Ma Giuseppe Garibaldi aveva fatto la gloriosa esperienza dei suoi volontari, dei suoi legionari, i quali l’avevano seguito in imprese che parevano – ed erano – leggendarie: da Sant’Antonio al Salto, da Varese a Bezzecca, da Marsala al Volturno, dove Egli, apostolo armato di libertà, donò al re sopraggiunto il regno e si ritrasse a consumare, incontro ai monti del Sannio, la refezione di pane e cacio, guardando lontano l’aratro antico segnare i solchi fecondi.

Ma la storia cammina, e con ritmo accelerato; i tempi mutano. Purtroppo, lo spettro della guerra si è ancora ripresentato: tristo fenomeno di reversione atavica e di patologia collettiva, che dal profondo dell’anima auguriamo possa sparire in una umanità migliore e più giusta. Sono mutati anche i mezzi di offesa e di difesa; la guerra è diventata meccanizzata e tecnica; sono venuti gli aggressivi chimici – ne facemmo dolorosa esperienza il 16 giugno 1916, primo esperimento dei gas asfissianti, fra i maligni intrighi dei reticolati e delle trincee di San Martino e di San Michele del Carso; è venuto l’aeroplano: questo mezzo audace che, frutto del pensiero umano, dal tentativo infecondo di Icaro alle investigazioni scientifiche del genio italiano di Leonardo da Vinci, fino alle prove vittoriose dei dominatori dell’aria, avrebbe dovuto asservire la conquista del cielo a vantaggio dell’umanità, e che è diventato purtroppo strumento di insidia e di distruzione; è venuta la bomba atomica, di cui l’ingegno predatore, strappando alla natura i più riposti segreti, si giova per le devastazioni e lo sterminio dei popoli.

Limitare la preparazione di una difesa del Paese – coerentemente a quella che è l’affermazione del dovere di tutti i cittadini alla difesa del sacro suolo della Patria – ad una organizzazione di attività puramente volontaria non mi pare possa rispondere alle necessità della difesa, quale è imposta oggi dalla tecnica difensiva, nella sua vasta e complessa concezione e nella più idonea ed efficiente attuazione.

E allora io penso che la concezione profondamente umana e generosa di Giuseppe Garibaldi – la sostituzione, cioè, della Nazione armata all’esercito stanziale – possa trovare la sua migliore attuazione quando si saranno ridotte le ferme – ferme brevissime – limitate la forza organica e la forza bilanciata, attenuato il contingente dei presenti alle armi. Occorre fare, insomma, che attraverso l’esercito passi periodicamente ma continuamente tutta la gioventù come in una scuola di addestramento e di preparazione: addestramento e preparazione non soltanto tecnica ma anche e sopratutto spirituale. L’esercito deve divenire – secondo il nostro avviso – una scuola di educazione e di preparazione alla vita, oltre che una scuola di organizzazione e di preparazione tecnica militare, per l’alto fine della difesa del Paese: scuola di eccitamento e di ammaestramento al sacrificio, all’eroismo, al sentimento del dovere sopratutto. Scuola per ciò stesso di preparazione alla vita!

C’è l’ultimo comma di un emendamento dell’onorevole Cairo che accenna all’attuazione della neutralità perpetua: «La Repubblica, nell’ambito delle convenzioni internazionali, attuerà la neutralità perpetua».

È indubbiamente una generosa aspirazione ideale alla quale non possiamo che fare omaggio; ma io penso che consacrarla nella Carta costituzionale non sia possibile, come non è possibile vincolare a questo imperativo categorico le generazioni future. Sarebbe come accettare il disegno della pace perpetua dell’abate di Saint Pierre, o i postulati della «Repubblica» di Platone o della «Città di Dio» di Sant’Agostino. Sono aspirazioni, nobilissime aspirazioni dell’animo umano in una superiore concezione di spiriti eletti, ma non mi sembra che possano essere consacrate come un precetto concreto e reale in una Costituzione.

E c’è un altro accenno nella formulazione dell’emendamento del compagno Calosso e di altri tendente a stabilire il dovere dello Stato di inserire nel bilancio stanziamenti per l’esercito non superiori a quelli destinati alla pubblica istruzione. Certamente, nell’intendimento dei redattori di questo emendamento, c’è la volontà encomiabile di mettere in evidenza la prevalente importanza della pubblica istruzione. Ma io capovolgerei i termini della proposizione; direi piuttosto che, poste le esigenze del bilancio dello Stato per la difesa del Paese, sia nel bilancio stesso segnata una cifra uguale par la pubblica istruzione. Purtroppo alla pubblica istruzione non sono state dedicate le doverose cure, né sono state dimostrate le vigili premure dell’amministrazione dello Stato, mentre indubbiamente si tratta di uno dei gangli più importanti della vita dal Paese; la formazione cioè del pensiero e della coscienza delle nuove generazioni, alle quali è affidato il presidio della Patria e la difesa della democrazia nelle sue più alte e concrete espressioni: la libertà e la giustizia. Auguriamo, onorevoli colleghi, (mi rivolgo soprattutto ai compagni verso i quali ho dovuto mettere in rilievo la mia personale contraddizione con la formulazione dell’emendamento da loro proposto) che sia prossimo il tempo in cui, cessati gli odi fratricidi fra i popoli; dimesse le mire di egemonie ed i sogni d’impero, che sono stati fino ad ora prevalente stimolo e causa delle conflagrazioni internazionali; posta sugli altari la concezione della giustizia per tutti i popoli; instaurata una umanità avvinta dalla solidarietà e dalla fratellanza; rinsaldata l’internazionale socialista del lavoro che stringendo in unico patto tutti i lavoratori del mondo potrà opporre una barriera insormontabile contro qualsiasi brama liberticida e qualsiasi disegno oppressore della libertà dei popoli; auguriamo, ripeto, che in un domani non lontano possa su questa umanità di liberi e di uguali levarsi il canto di Mario Rapisardi, il poeta della giustizia sociale, o la strofe dell’irsuto maremmano, alto poeta civile d’Italia:

quando una forte schiera di liberi dirà, guardando nel sole: illumina non ozi e non guerre ai tiranni ma la giustizia pia del lavoro!

E adesso consentitemi, onorevoli colleghi, che io dia brevemente ragione dei miei emendamenti. All’articolo 45 sta scritto: «Sono eleggibili, in condizioni di eguaglianza, tutti gli elettori che hanno i requisiti di legge». Questa espressione mi sembra ambigua, perché i cittadini hanno i requisiti di legge in quanto elettori; ma in questo caso i loro requisiti sono stati riconosciuti già nell’attribuzione del diritto elettorale: indubbiamente s’intende dire che hanno i requisiti di legge per essere eleggibili; e allora è bene ed opportuno che questa specificazione sia espressa nella formulazione della disposizione.

Allo stesso articolo 45, primo capoverso, e detto: «Il voto è personale ed eguale, libero e segreto. Il suo esercizio è dovere civico e morale».

Osservo: bene è stata proposta anche da altri onorevoli colleghi la sostituzione della parola «il voto» con l’espressione «il diritto di voto»; ma devo dissentire dalla formulazione, con la quale si vuol dire che il diritto di voto è personale ed eguale, libero e segreto. Sì, il diritto di voto è personale ed eguale; ma è «l’esercizio» del diritto di voto, che è libero e segreto.

In questo senso ho proposto il mio emendamento.

Poi: la parola «civico» va sostituita con la parola «civile». Ed io eliminerei anche la parola «morale», perché qui siamo di fronte a doveri, che sono espressione della funzione del cittadino, non dell’individuo.

È dovere civile del cittadino quello di esercitare il voto, non è dovere morale. Egli è chiamato uti civis, non uti singulus.

«Non può essere stabilita – dice il terzo comma – nessuna eccezione al diritto di voto, se non per incapacità». Alla parola «eccezione» io sostituirei l’altra «esclusione».

Quindi: «Non può essere stabilita alcuna esclusione dal diritto di voto».

Non accetterei nemmeno l’emendamento proposto dal compagno onorevole Carboni, che vorrebbe sostituire «eccezione» con «limitazione». Non si tratta di limitazione dell’esercizio del diritto di voto, ma di esclusione.

Laddove è detto «in conseguenza di sentenza penale» l’onorevole Colitto, mi pare, ha proposto di aggiungere «irrevocabile»; sostituirei l’espressione «irrevocabile» con l’altra «definitiva».

La sentenza, anche essendo definitiva, cioè costituente cosa giudicata, e non giudicato (sono delle sottili differenze, che però hanno la loro ragione giuridica sostanziale), potrebbe dar luogo ad una valutazione per un rimedio straordinario; perché anche una sentenza definitiva può essere revocabile se è investita, per esempio, con l’istanza della revisione; ed allora potrebbe, anche nella attuazione di questa disposizione, sorgere qualche difficoltà, o per lo meno, qualche dubbio di applicazione, mentre aggiungendo «in conseguenza di sentenza penale definitiva» mi sembrano eliminate tutte le possibili preoccupazioni.

All’articolo 47, laddove è detto: «Tutti i cittadini hanno diritto di organizzarsi liberamente in partiti per concorrere con metodo democratico a determinare la politica nazionale», a me sembra che la particella «per» limiti quasi la funzione della organizzazione dei partiti al concorso nella determinazione della politica nazionale; ritengo che possa essere utilmente sostituita dalla congiunzione «e»; perché l’organizzazione libera dei partiti può anche prescindere dal concorso alla politica nazionale.

Quindi: «Tutti i cittadini hanno il diritto di organizzarsi liberamente in partiti e concorrere con metodo democratico a determinare la politica nazionale».

E passiamo all’articolo 49:

«La difesa della Patria è sacro dovere del cittadino.

«Il servizio militare è obbligatorio».

Sostituirei: «La prestazione del servizio militare è obbligatoria per i cittadini di sesso maschile». Di fronte alla parificazione dei due sessi, a norma della nostra Costituzione, anche per il diritto di accedere ai pubblici uffici, mi sembra evidente l’opportunità dell’aggiunta.

È poi detto: «L’ordinamento dell’esercito»; giustamente è stato proposto «l’ordinamento delle forze armate»: è un emendamento dell’onorevole Gasparotto, nel quale consento.

Là dove dice: «Il servizio militare è obbligatorio» occorre aggiungere: «I termini e le modalità sono stabiliti dalla legge sul reclutamento».

Ho così esaurito il mio compito. Volevo sottoporre all’attenzione dell’Assemblea il mio punto di vista su quelle che a me sembravano le parti salienti del Titolo in discussione.

Mi auguro che l’Assemblea, soprattutto per quanto riguarda l’obbligatorietà del servizio militare, riconosca ed affermi questo precipuo dovere del cittadino, come riconoscimento ed attuazione dell’affermazione superiore che il dovere della difesa della Patria è sacro per tutti. (Applausi).

PRESIDENTE. È iscritto a parlare l’onorevole Azzi. Ne ha facoltà.

AZZI. Onorevoli colleghi, il mio intervento in questa discussione tendeva a richiamare la vostra attenzione sul contenuto formale e sostanziale degli articoli 49, 50 e 51 del progetto di Costituzione; ma poiché alcuni oratori che mi hanno preceduto ieri sera ed oggi hanno già autorevolmente esposto il loro punto di vista, che coincide sotto molti aspetti con le considerazioni che io volevo fare, limiterò il mio dire ad alcune brevi osservazioni.

Dice l’articolo 49 al primo comma: «La difesa della Patria è sacro dovere del cittadino». Pochi minuti or sono l’onorevole Di Giovanni diceva che questo principio è accettabile senza discussione da qualsiasi parte dell’Assemblea Costituente. Credo sia accettabile anche da parte di tutto il Paese.

Io anzi sottolineerei la legittimità di questo principio dicendo che la difesa della Patria è oltreché un sacro dovere, un sacro diritto del cittadino. Ma lasciamo andare la questione della forma e veniamo alla sostanza. Dall’accettazione di questo principio indiscusso deriva un immediato dovere per il cittadino, il dovere, cioè, di prepararsi moralmente, fisicamente e tecnicamente all’assolvimento del suo compito di difensore della Patria. Ma poiché questa preparazione morale, fisica e tecnica non può essere raggiunta dai singoli individui, bisogna che a questa preparazione provveda lo Stato. In questo progetto di Costituzione, lo Stato ha provveduto affermando il principio del servizio militare obbligatorio. Ed è precisamente su questa affermazione del progetto di Costituzione che io voglio richiamare in modo particolare la vostra attenzione.

Se il servizio militare è obbligatorio, come dice il progetto di Costituzione, significa che questa obbligatorietà deve essere generale, e cioè che tutti i cittadini moralmente e fisicamente idonei devono essere preparati fin dal tempo di pace a difendere la Patria.

È necessario, ed è possibile l’assolvimento di questo compito da parte dello Stato?

Se io mi riferisco al principio generale stabilito nell’articolo 6 della Costituzione, che dice: «La Repubblica ripudia la guerra come strumento di offesa alle libertà degli altri popoli e come mezzo di risoluzione di controversie internazionali», lasciando cioè alla Repubblica un solo compito difensivo, io dovrei dire che l’addestramento di tutti i cittadini in tempo di pace non appare necessario.

Se poi mi riferisco alle condizioni che ci sono state imposte dalle clausole militari del trattato di pace, che riducono gli effettivi delle forze armate alla limitata entità che tutti conosciamo, io credo di poter affermare che la realizzazione di questo compito di preparazione da parte dello Stato non è possibile, inquantoché, con la riduzione a 185 mila uomini, non si arriva ad addestrare tutto il contingente annuale di leva.

Se mi riferisco, infine, e questo è il punto fondamentale, alle disgraziate condizioni economiche del nostro Paese, io dico che l’addestramento militare dei cittadini deve essere annualmente limitato ad una forza che non superi le possibilità economiche del nostro Paese. D’altra parte, io ricordo, e quelli che hanno la disgrazia di avere la mia età ricorderanno, che il principio dell’obbligatorietà del servizio militare non è stato mai attuato integralmente, in passato, né in pace, né in guerra. Ricordo che quando ero giovane si stabiliva la forza bilanciata in relazione all’assegnazione di bilancio fatta al Ministero della guerra.

I cittadini obbligati alla coscrizione si recavano al Consiglio di leva o al Distretto ed estraevano un numero: chi estraeva un numero alto non faceva il servizio militare; faceva il servizio militare soltanto chi aveva estratto un numero che non superasse quello della forza massima bilanciata per quell’anno. L’obbligatorietà del servizio militare era lasciata quindi alla sorte. Il concetto fu poi modificato in questo senso: che per mantenere la forza bilanciata nei limiti di assegnazione del bilancio, si ricorreva all’esonero di chi era in particolari condizioni di famiglia (figlio unico di madre vedova, figlio di padre inabile al lavoro, ecc.); si ricorreva in qualche anno, io ricordo, persino, a giuocare sulla statura dell’individuo: se un anno era necessario un maggior numero di soldati, venivano dichiarati idonei quelli alti un metro e 54; se un altro anno ne occorrevano di meno, quelli alti un metro e 54 non erano più idonei, venivano dichiarati idonei soltanto quelli alti un metro e 55 o più. Effettivamente dunque il principio dell’obbligatorietà generale al servizio militare non è stato mai interamente attuato in tempo di pace. In guerra non ne parliamo! E l’abbiamo visto nell’ultima guerra, quando abbiamo avuto esoneri per ragioni di famiglia, per ragioni di esigenze industriali e agricole, esoneri per ragioni politiche, per ragioni di utilità pubblica, ecc., ecc. Quindi numerosissimi sono stati gli esoneri che hanno dispensato dal servizio militare in tempo di guerra una notevole quantità di cittadini dello Stato. Ora, se questo principio della obbligatorietà generale del servizio militare non ha potuto essere attuato nel passato, né in pace né in guerra, per le ragioni che ho detto, nelle condizioni in cui siamo attualmente credo che questo principio abbia ancora minori probabilità di una attuazione totale. D’altra parte perché vogliamo togliere al futuro legislatore la possibilità di stabilire le modalità del servizio militare a seconda delle mutevoli necessità contingenti? Perché vogliamo vietare al futuro legislatore, per esempio, di stabilire che per uno, due o tre anni, date le nostre disgraziate possibilità economiche, lo Stato rinunci completamente alla chiamata alle armi servendosi del servizio volontario per mantenere alle armi un certo contingente di uomini? Voi direte: e se scoppia la guerra? Io rispondo: speriamo che non scoppi; se scoppiasse, abbiamo in congedo centinaia di migliaia di soldati preparati alla guerra attraverso 5, 6, 7 anni di servizio militare. Molti di questi uomini sono già addestrati tecnicamente e padroni del funzionamento delle armi moderne, soprattutto inglesi, che ora costituiscono la parte essenziale dell’armamento dell’esercito italiano, e nessun pericolo c’è per la difesa della Patria; mentre con questa soluzione che potesse adottare il futuro legislatore, risparmieremmo sul bilancio delle forze armate parecchie decine di miliardi che potrebbero essere utilmente impiegati in opere di ricostruzione nazionale. E d’altra parte ancora, come accennava ieri sera l’onorevole Gasparotto, il principio della obbligatorietà del servizio militare non è sancito da quasi nessuna delle Costituzioni moderne. Io ho letto un fascicolo, che mi è pervenuto dalla Presidenza dell’Assemblea, dal titolo «11 Costituzioni» ed ho potuto notare che le Costituzioni moderne o non parlano affatto di servizio militare, come per esempio quella francese, perché si riferisce a quello che è ormai sancito dalla tradizione e dalla storia, o se ne parlano fanno sempre riferimento al servizio militare regolato dal legislatore, in relazione alle mutevoli contingenze della situazione.

In base a queste mie considerazioni, ho presentato un emendamento all’articolo. 49, col quale emendamento propongo la soppressione dell’espressione; «Il servizio militare è obbligatorio», sostituendola con l’altra: «La coscrizione militale è obbligatoria». Propongo, altresì, di demandare alla legge la regolamentazione della materia. Io intendo – ed è bene che lo chiarisca perché potrebbero sorgere confusioni sulla interpretazione della parola coscrizione – io intendo la coscrizione come quella disposizione che obblighi tutti i cittadini, quando hanno raggiunto una determinata età, ad iscriversi nelle liste di leva ed a rimanere a disposizione dello Stato, come è adesso, ad esempio, dal 20° al 45° anno di età. Sarà poi la legge a stabilire quali di questi cittadini dal 20° al 45° anno di età, o in tempo di pace o in tempo di guerra, dovranno prestare servizio militare.

Ma se questo mio emendamento: «La coscrizione militare è obbligatoria» dovesse dare luogo a qualche equivoco di interpretazione, io vi rinuncerei e manterrei solo l’altra parte del mio emendamento che demanda alla legge la regolamentazione della prestazione del servizio militare. Questo darebbe la possibilità al futuro legislatore di servirsi, se è necessario, del servizio volontario. Anzi, in questo periodo, se vogliamo non allungare troppo la ferma per i cittadini obbligati al servizio militare, data la necessità di specializzazioni tecniche che sono inerenti all’evoluzione dei mezzi tecnici che oggi si impiegano in guerra, io crederei che sarebbe molto opportuno avere un esercito misto, cioè una parte a reclutamento obbligatorio (questo per la formazione degli elementi specializzati, dei graduati e dei sottufficiali) ed una parte a reclutamento volontario, con ferma breve, che completerebbe l’esercito sia in sede di addestramento in tempo di pace, sia in tempo di guerra.

Accettato eventualmente questo mio emendamento, io ho proposto un successivo emendamento. Al secondo comma, anziché dire: «Il suo adempimento (del servizio militare) non pregiudica la posizione di lavoro del cittadino, né l’esercizio dei diritti politici», io direi: «La prestazione del servizio militale obbligatorio non pregiudica la posizione di lavoro del cittadino, né l’esercizio dei diritti politici», in quanto che io non posso presumere che per il servizio militare volontario possa competere al cittadino l’immutabilità della sua posizione di lavoro; come riterrei opportuno, allo scopo di assicurare nel miglior modo possibile la apoliticità dell’esercito, che fossero esclusi dall’esercizio dei diritti politici tutti i militari a reclutamento volontario. Perciò ho messo nel mio emendamento la parola «obbligatorio».

Ed infine veniamo all’ultimo comma dell’articolo 49 così formulato: «L’ordinamento dell’esercito si informa allo spirito democratico della Repubblica italiana». Io ho proposto l’emendamento, al quale ha accennato anche l’onorevole Di Giovanni, nel senso di mettere al posto di «esercito» la dizione «forze armate», per correggere quella che è stata certamente una svista del compilatore dell’articolo. Leggendo la formulazione di cui al progetto: «l’ordinamento dell’esercito si informa allo spirito democratico della Repubblica italiana», io mi sono domandato se questa norma fosse proprio necessaria, e mi sono risposto: se siamo in regime democratico repubblicano, è intuitivo che tutte le istituzioni repubblicane debbono essere ordinate democraticamente. Quindi non credo che ci sia la necessità di includere questa disposizione nella Costituzione. Ma giorni fa, parlando con un collega della mia intenzione di proporre la soppressione della norma da me considerata superflua ed accennando che anche altri colleghi avevano la stessa intenzione, il mio interlocutore mi ha fatto rilevare che alcuni degli altri proponenti partivano da un punto di vista diverso del mio, perché non vedevano con simpatia la democratizzazione dell’esercito. Ho allora deciso di rinunziare alla proposta di soppressione della disposizione contenuta nel progetto, disposizione che del resto è stata trovata utile e necessaria anche dall’onorevole Gasparotto ieri sera, allorché, parlando della democratizzazione delle forze armate, ha accennato anche al sistema per renderle democratiche: cioè quello di attuare delle ferme brevi non superiori a dodici mesi. La ferma di dodici mesi è più breve in confronto di quella di 18 mesi, e di quella di tre anni del passato, ma, se noi consideriamo l’opportunità e la possibilità di ricavare gli specialisti, graduati e sottufficiali, da un esercito volontario, io credo che la riduzione della ferma a sei mesi sia possibile senza danno per l’addestramento militare dei cittadini. E questo ve lo dico per esperienza, perché io fino a pochi anni fa ho fatto parte dell’esercito nel quale, anche quando la ferma era di 18 mesi, dopo quattro o cinque mesi di servizio militare, il soldato spariva dalla circolazione e andava a fare tutti i mestieri all’infuori di quello del militare; cosicché i soldati finivano per fare i cuochi, i camerieri, i dattilografi, gli attendenti, ecc. Infatti, l’addestramento militare vero e proprio durava dai quattro ai cinque mesi soltanto (il periodo cosiddetto di istruzione delle reclute).

Ma io vedo la democratizzazione dell’esercito, non soltanto come riduzione di ferma od altro, ma la vedo come modificazione della vita attuale, o almeno, di quella di poco tempo fa, perché è già due o tre anni che ho lasciato il servizio militare. Ricordo che in passato, e qui risalgo ad un periodo lontano, quando io ero sergente prima di andare alla scuola di Modena, prestavo servizio in un reggimento di fanteria dove mio fratello maggiore era sottotenente in servizio permanente effettivo e mi capitava, qualche volta, di uscire dalla caserma nelle ore di libera uscita con mio fratello, io in divisa di sergente e lui in divisa di ufficiale. Ebbene, il suo capitano gli domandò un giorno come mai lui andava sempre fuori insieme ad un sergente. Mio fratello rispose: «Per la semplice ragione che è mio fratello». Rispose il capitano: «Sta bene, lo capisco e me lo spiego, dato che questo sergente è suo fratello; ma fuori, chi vede e non conosce questa loro parentela può domandarsi: come mai questa dimestichezza tra un sergente e un ufficiale?» Questa era la mentalità di molti anni fa!

Ma, se risalgo a tempi più recenti, ricordo un comandante di presidio nell’alta Italia, durante la seconda guerra mondiale, quando ero a Cuneo. Cuneo, data la forza militare che la presidiava, era una caserma, più che una città; ebbene, quel comandante di presidio aveva dato una disposizione di questo genere: che i soldati non potessero, nelle ore di libera uscita, passeggiare sotto i portici di destra (i portici di destra della Via Roma erano quelli frequentati dall’élite della città); i soldati dovevano passeggiare dalla parte opposta.

Un’altra norma era diretta a stabilire che nei cinematografi i soldati in divisa non avessero accesso in galleria, perché ciò poteva infastidire qualche ufficiale.

Ora, è la mentalità degli ufficiali che bisogna modificare per democratizzare l’esercito; e bisogna modificare anche il regolamento di disciplina, perché abbiamo ancora oggi in questo regolamento una disposizione in base alla quale il soldato deve salutare il superiore in qualsiasi circostanza, anche quando il superiore abbia la sua attenzione rivolta altrove. Cosicché, se un soldato passa dietro la schiena del superiore, deve salutare la schiena del medesimo.

Bisogna dunque aggiornarlo questo regolamento; bisogna evitare che il soldato, in omaggio al regolamento, venga rapato come un condannato all’ergastolo, perché questo dà luogo ad un sentimento di depressione morale da parte di questo soldato che a vent’anni si vede rapare la testa: e noi italiani, specialmente i giovani, abbiamo una certa debolezza per la nostra chioma prolissa.

Noi arriviamo fino a questo punto: che il complesso delle disposizioni del regolamento di disciplina, come voi sapete, hanno indotto i soldati a tirar fuori qualche barzelletta che indica bene quali sono le relazioni tra superiori e inferiori, o per lo meno, quali erano le relazioni tra superiori ed inferiori nel recente periodo che io ancora ricordo. Ad esempio, si attribuiva ad un caporale che, rivolgendo un rimprovero ad un soldato; esclamasse: «Quando parlate con me, fate silenzio!». Ovvero si dava la seguente definizione della disciplina: «La disciplina è quel vago sentimento di malessere che invade l’inferiore in presenza del superiore». Sono barzellette che pur hanno un fondamento di verità e bisognerebbe che il regolamento di disciplina fosse aggiornato e modificato in modo da rendere le relazioni tra superiore ed inferiore molto più – non dico amichevoli – ma intime in modo da avvicinarli nello spirito.

Perciò, io rinunzio all’emendamento soppressivo del terzo comma dell’articolo 49 e mi limito a mantenere la proposta di sostituzione delle parole «Forze armate» alla parola «Esercito».

Passando poi all’articolo 50, leggo il primo comma:

«Ogni cittadino ha il dovere di essere fedele alla Repubblica, di osservarne la Costituzione e le leggi, di adempiere con disciplina ed onore le funzioni che gli sono affidate».

Non so che valore normativo possa avere questa disposizione: ma non voglio entrare in argomento. A me pare che questa disposizione possa aver valore per chi senta il dovere di essere fedele alla Repubblica ed è evidente che un tale cittadino sarà fedele alla Repubblica anche senza bisogno di sancirlo con una norma costituzionale; ma per chi questo dovere non senta, noi possiamo mettere tutte le disposizioni che vorremo nella Carta costituzionale, ma quel cittadino tale dovere non sentirà mai.

Ma, a parte questo, io ho messo a raffronto questo primo comma dell’articolo 50 con l’articolo 51:

«Il Capo dello Stato, i membri del Governo, i Presidenti delle Deputazioni regionali, i magistrati, le forze armate e quelle assimilate, prima di assumere le loro funzioni prestano giuramento di fedeltà alla Costituzione ed alle leggi della Repubblica».

Mentre l’articolo 50 dice che il cittadino ha il dovere di essere fedele alla Repubblica, qui si parla invece di fedeltà alla Costituzione. Ora io non mi sono reso esatto conto della differenza che ci può essere fra fedeltà alla Repubblica e fedeltà alla Costituzione. Potrebbe anche essere la stessa cosa, ma io troverei giusto adottare una sola delle due forme tanto per i cittadini che per i magistrati e gli altri organi dello Stato.

Proporrei anzi – non ho ancora presentato proposta formale di emendamento in questo senso – che l’articolo 51 venisse a costituire addirittura il secondo comma dell’articolo 50, che verrebbe allora a suonare in questo modo:

«Ogni cittadino ha il dovere di essere fedele alla Repubblica, di osservarne la Costituzione e le leggi, di adempiere con disciplina ed onore le funzioni che gli sono affidate.

«Il Capo dello Stato, i membri del Governo, i presidenti delle deputazioni regionali, i magistrati, le forze armate e quelle assimilate, prima di assumere le loro funzioni, si impegnano mediante giuramento all’osservanza di questo dovere».

Si tratta cioè dello stesso dovere che hanno i cittadini che viene solennemente assunto dai magistrati e dagli altri poteri pubblici mediante giuramento. Con questo si renderebbe comprensibile l’articolo 51, anche a chi non abbia preparazione di giurista, e ciò è assolutamente necessario perché questa Costituzione deve servire per il popolo e deve essere quindi facilmente comprensibile da parte di tutti.

E concludo accennando all’ultimo comma dell’articolo 50, quello cioè di cui hanno poco fa parlato gli onorevoli Preziosi e Di Giovanni, quello che conferisce al cittadino il diritto e il dovere di opporre resistenza all’oppressione in caso di violazione da parte dei poteri pubblici dei diritti e delle libertà sanciti della Costituzione.

Leggendo questo comma, io sono rimasto un po’ perplesso perché, se dovessi dar retta al mio sentimento, alla parola «resistenza» sostituirei la parola «rivoluzione». Se però debbo dar retta al ragionamento, non so se mi sia possibile pervenire alla stessa conclusione, perché, in definitiva, chi dirà al cittadino se i poteri dello Stato hanno violato o no le libertà del cittadino stesso, considerato nella sua massa?

E gli appartenenti alle forze armate e alla polizia non sono cittadini anch’essi? E se domani costoro si mettessero tutti d’accordo per dire che i poteri pubblici hanno violato le libertà e i diritti sanciti nella Costituzione e dicessero: «Noi insorgiamo; facciamo un pronunciamento»? Insomma, sono rimasto veramente perplesso ed ho pensato che in definitiva il diritto e il dovere di ribellione, di resistenza e di rivoluzione non si possa regolare con la legge, ma sia una manifestazione collettiva, incoercibile e spontanea, che nessuna legge può regolare, e tanto meno la Carta costituzionale della Repubblica italiana. (Applausi a sinistra).

PRESIDENTE. Sono iscritti a parlare gli onorevoli Preti, Di Gloria, Cartia e Cairo. Non essendo presenti, si intende che vi abbiano rinunziato.

È iscritto a parlare l’onorevole Sullo. Ne ha facoltà.

SULLO. Onorevoli colleghi, il valore del Titolo che noi stiamo esaminando non deve essere certo sminuito per il fatto che ci troviamo nella maggior parte dei casi d’accordo. In realtà, se la nostra Costituzione consistesse soltanto in questo Titolo, essa avrebbe già grande valore. Non importa che oggi le tribune siano meno affollate del solito e che i Deputati non siano numerosi: quello che importa è ricordare che il diritto di voto, il diritto di partecipazione alla vita pubblica è qualche cosa che gli italiani hanno conquistato attraverso la distruzione e la rovina del loro Paese; è qualche cosa che essi certamente terranno a conservare, perché è il frutto maturo di anni di privazioni, di stenti e di lotte. L’unanimità di consensi che ci può essere, pertanto, nell’affermare questi diritti del cittadino, è un’unanimità che non va sottovalutata. Non si tratta di diritti che abbiano poco valore; si tratta di diritti, invece, di cui forse alcuni italiani facilmente dimenticano l’origine; di cui talora è opportuno ed è necessario anche in questo momento ricordare l’importanza a coloro che facilmente dimenticano, nostalgicamente lontani dalla realtà.

Sottolineato però il valore di questi diritti, occorre pure dire qualche cosa di costruttivo, perché altrimenti l’onorevole Presidente potrebbe ben a ragione rimproverarci di fare qui un discorso soltanto per farlo, senza portare nessun contributo serio, concreto ai nostri lavori parlamentari.

E bisogna dire subito che questi articoli, e i diritti in essi contenuti, sono un’affermazione polemica nei riguardi del defunto regime. Giusta e santa polemica, per quanto almeno riflette il metodo della libertà, il sistema della formazione della volontà popolare, la riaffermazione dei diritti di ciascun cittadino alla creazione delle leggi a cui bisognerà lealmente obbedire; ma talvolta, bisogna riconoscerlo, la polemica è andata oltre il segno e taluni commi sono chiaramente l’antitesi pura e semplice prodotta dalla tesi, sono cioè indirettamente e malamente influenzati dalla tesi. In un certo senso il fascismo ha la colpa di aver creato in noi qualche volta uno strano stato d’animo che finisce per farci odiare qualche affermazione o istituzione del mondo moderno, di cui pur bisogna tener conto, solo perché sono state adottate dal fascismo. Vi sono poi anche in questo Titolo, come in altri Titoli, delle affermazioni ambigue che preferirei fossero rese molto più chiare. Per esempio, all’articolo 45 si afferma che l’esercizio del diritto di voto è un dovere civico e morale. A me pare che in questo caso, da una parte e dall’altra dell’Assemblea, dai rappresentanti delle varie parti e delle varie tendenze non si sia giunti a quel reale punto d’incontro che è augurabile e necessario nella costruzione di questa Costituzione, ma che invece si sia trovata una formula di equilibrio su qualche aggettivo, di equilibrio naturalmente molto instabile, di cui in realtà sarebbe bene fare a meno con una specificazione più chiara di quello che si vuole dire. Infatti l’aggettivo «civico», per quanto venga affermato da illustri giuristi costituenti che ha un suo contenuto giuridico e che quindi potrebbe comportare una sanzione, da una parte della Assemblea potrebbe essere considerato soltanto come un’affermazione di principio che non ha che un valore extra-giuridico e che non comporta quindi nessuna sanzione. Se noi dobbiamo trovare il nostro punto d’incontro soltanto sa un vocabolo che poi nella interpretazione subiettiva potrà essere interpretato in un senso o nel senso opposto è un conto; ma se invece dobbiamo trovarlo su qualche termine che anche in questo momento possa avere un significato univoco, dobbiamo parlarci sinceramente, chiaramente.

Io ritengo che in una democrazia organica così come l’andiamo concependo e così come io personalmente la vorrei (e chiarirò meglio il mio pensiero a proposito dell’articolo 47, quando parleremo dell’organizzazione dei partiti), io ritengo che in una democrazia organica l’obbligo del voto debba essere sancito dalla Costituzione. Si tratta di vedere se questo obbligo del voto comporti una o un’altra specie di sanzione.

Per esempio, credo che una sanzione che non ricada unicamente sui diritti politici, che non sia una specie di pena del contrappasso sul piano politico, potrebbe essere una sanzione immorale, che ripugnerebbe alla nostra coscienza. Non comprenderei per esempio l’obbligatorietà del voto con la sanzione di una pena carceraria; capirei benissimo l’obbligatorietà del voto con la sanzione che mi pare sia stata proposta nella legge elettorale che è attualmente allo studio della competente Commissione: cioè con una sanzione che comporti la privazione del diritto di voto per un certo numero di anni, perché chi rinuncia a collaborare alla vita del Paese, a dare il suo contributo all’attività della Nazione, non è degno, almeno per un certo tempo, di essere chiamato a continuare a dare questa opera che concorre a determinare la Politica generale, né di essere invitato ad un certo momento ad esprimere il suo parere sulla cosa pubblica.

Per quanto riguarda la sanzione che la legge deve infliggere, è bene che il futuro sia libero e sgombro e che nel futuro ci si possa mettere d’accordo e che, sia la nuova Camera, l’Assemblea ordinaria legislativa, sia la stessa Costituente, allorché giudicherà la legge elettorale, abbiano piena libertà di decisione. Ma in ogni caso ritengo che questo principio dell’obbligo giuridico del voto sia una necessità da affermare in maniera non ambigua. Noi dobbiamo cercare, quando ci mettiamo d’accordo con l’altra parte dell’Assemblea, non una intesa fondata su un vocabolo che possa essere malamente interpretato, ma una intesa fondata sulla sostanza. Mi auguro di aver offerto, con l’emendamento da me presentato (che è stato stampato e distribuito), una forma di intesa ben chiara e netta, anche se altre parti dell’Assemblea ritengano che su questo bisogna dar battaglia. Lasciare la libertà di discussione sulla sanzione, la quale potrà essere minima o massima, di un tipo o di un altro tipo, di un tenore o di altro tenore, è già un mezzo per poter metterci d’accordo senza compromessi deteriori. È onesto chiedere che l’affermazione del dovere civico e morale venga interpretata nel senso esatto, cioè in senso giuridico oltre che etico, e che, se questi due vocaboli non vengono da tutti oggi considerati alla stessa maniera, vengano sostituiti da un vocabolo che dica esattamente quel che si vuole.

Per quanto riguarda l’articolo 47, devo dire di non essere completamente sodisfatto della sua formulazione. Vi sono anche qui due tesi in contrasto. Sulla organizzazione dei partiti vi sono infatti coloro che ritengono che i partiti debbono essere concepiti in forma adatta ad una democrazia organica, con una personalità giuridicamente riconosciuta, se mai con funzioni di rilevanza costituzionale, e d’altra parte vi sono coloro i quali vogliono conservare ai partiti soltanto il carattere di comitati, di persone private senza nessuna rilevanza costituzionale e giuridica.

Io credo che in questa questione giochi molto il ricordo del partito di Stato fascista e che quando noi ci opponiamo ad un riconoscimento sul piano giuridico dei partiti, in effetti, non facciamo che subire ancora sentimentalmente le conseguenze di quel disagio interiore che soffrivamo allorché vedevamo un segretario di partito diventare per questa sua stessa funzione ministro di Stato. Ma quando più pacatamente ci convinciamo che il terreno debba essere sgombro da questi sentimentalismi e che, permettendo e difendendo la pluralità dei partiti, non potremo ricadere, comunque, anche con il riconoscimento della personalità giuridica, negli inconvenienti che abbiamo lamentato per il passato, noi troviamo la vera chiave che ci può far comprendere lo stato d’animo di coloro che vorrebbero unicamente riconoscere il partito come un comitato di privati.

Onorevoli colleghi, noi non dobbiamo dimenticare un altro dato ormai acquisito e cioè che nel nostro Stato, nella nostra Costituzione vi sono altri organi che potrebbero anche essi essere chiamati comitati, associazioni e che tuttavia sono stati giuridicamente riconosciuti. Vi è stato infatti il riconoscimento giuridico, in un altro articolo della nostra Costituzione, dei sindacati. Noi abbiamo ammesso la registrazione dei sindacati, abbiamo preteso che vi debba essere uno statuto democratico dei sindacati, come elemento da accertare per il riconoscimento giuridico dei sindacati.

Ora, non v’è chi non veda come, non dico a controbilanciare, ma, per lo meno, a dare una maggiore organicità a questa struttura di uno Stato in cui si sono riconosciuti i sindacati, occorra dare un riconoscimento giuridico anche ai partiti. Non è a dire che i partiti trovino la loro naturale lotta, il loro naturale terreno di azione nel Parlamento. Si sa bene che oggi, come oggi, il Parlamento non è più quello che era un tempo. Io ho sentito molto spesso in quest’Aula delle giuste lagnanze da parte di autorevoli colleghi i quali hanno lamentato che il Parlamento non ha più quel valore di prima, e probabilmente chi è studioso di storia dell’800, non può non ricordare, con un certo romanticismo e con una certa simpatia, il Parlamento subalpino. Ma questo Parlamento, anche se può rappresentare il sogno di noi tutti, tuttavia è molto lontano dalla realtà dei tempi moderni. Non si può dire certamente che un Gruppo parlamentare oggi rappresenti tutta la vita politica del Paese; non rappresenta forse altro che un’arma del partito, che nello stesso tempo si serve di quest’arma e da quest’arma riceve delle indicazioni.

È un male? È un bene? Comunque si risponda, non è in nostra facoltà modificare lo stato di fatto che è questo: i Gruppi parlamentari non si può dire che assorbano in se stessi tutta la vita e l’attività molteplice dei partiti. Ora, l’uomo è l’homo oeconomicus sotto un certo aspetto, ma non è soltanto questo, non è soltanto quello che partecipa dei sindacati ed ha una sua attività professionale specifica, e che, pertanto, per questa sua attività professionale, ha bisogno dell’azione dell’associazione professionale; l’uomo è anche quello che, indipendentemente dalla sua struttura sociale, si organizza seguendo moventi psicologici, culturali, religiosi, intellettuali, direi con termine comprensivo, spirituali oppure, tanto per intenderci, extrasindacali, immateriali.

L’uomo ha bisogno di essere riconosciuto non soltanto quindi sotto l’aspetto di lavoratore che si organizza in sindacato, ma anche sotto l’aspetto di collaboratore della vita pubblica, d. amministratore associato della ricchezza o della povertà collettiva, differenziato a seconda delle tendenze.

A me pare, quindi, che l’articolo 47, così come formulato, di fatto, non faccia che cercare di trovare, ma non trovi, una strada media fra quello che è il misconoscimento effettivo dei partiti sul piano giuridico e quello che può essere il riconoscimento dei partiti sul medesimo piano.

Noi non sappiamo quello che potrà accadere domani.

Domani i partiti potranno avere funzioni molto più larghe, che potranno essere date dalla legge; se i partiti funzioneranno bene, come ci auguriamo, non dobbiamo lasciarci chiusa la porta per attribuire ad essi determinate funzioni che possono anche non essere strettamente costituzionali ma sono di un certo valore sul piano sociale e che la legge dovrà non ignorare.

Io, pertanto, ho presentato un emendamento in cui si dice che ai partiti è riconosciuta la personalità giuridica quando concorrono determinate condizioni.

Ora il problema è quello di stabilire quali sono queste condizioni. Nel ’45 la Commissione per la Costituzione in Francia aveva proposto delle condizioni che dovevano essersi verificate nel caso che si dovesse concedere ai partiti una personalità giuridica. Erano quattro: 1) salvaguardare la loro pluralità; 2) garantire l’adesione alle dichiarazioni dei diritti; 3) assicurare il carattere democratico dell’ordinamento interno; 4) permettere il controllo delle spese e delle risorse. Indubbiamente, il principio della pluralità è affermato già costituzionalmente in questo nostro articolo ed è un bene, è una conquista su cui ognuno di noi non vuole neppure discutere: speriamo di non discutere mai a parole né a fatti di andar contro questo principio! Ma il secondo e il terzo principio, cioè quello della garanzia della adesione alle dichiarazioni, dei diritti e del carattere democratico dell’ordinamento interno sono indubbiamente principî necessari a verificarsi perché un partito abbia un riconoscimento giuridico.

Per quel che riguarda il quarto punto, cioè il controllo delle spese e delle risorse, sarebbe in teoria da attuarsi, ma di fatto è molto lontana la possibilità pratica di realizzarlo, perché altrimenti apriremmo una via, pericolosa all’ingerenza del potere esecutivo, del potere legislativo o della magistratura nella vita interna del partito, cosicché in uno Stato che adottasse un sindacato di tal genere si potrebbe non permettere affatto che i partiti (certi partiti) possano vivere. Mentre in linea teorica il quarto punto dovrebbe essere il più importante, di fatto è il meno attuabile. Ma il riconoscimento della personalità giuridica dei partiti, quando sussistano queste coedizioni, una struttura democratica interna e l’affermazione teorica e pratica che si vuol concorrere a determinare la politica del Paese attraverso il metodo della libertà, può essere un mezzo per dare effettivamente la possibilità (a questi partiti) di un riconoscimento giuridico di cui domani il legislatore si potrà valere secondo quello che sarà il cammino della società moderna e secondo quella che sarà l’evoluzione politica della nostra Italia.

Per quel che riguarda l’art. 49 poi devo manifestare il mio più netto dissenso da coloro i quali oggi parlano contro la coscrizione obbligatoria. Ho sentito da parte di alcuni parlare della necessità che il bilancio della pubblica istruzione sia perfettamente uguale (in entità) a quello delle forze armate. Vorrei rispondere con un paradosso: nella Italietta passata, quando non ero probabilmente ancora nato, molte spese, che si sarebbero dovute fare attraverso il bilancio della pubblica istruzione, sono state fatte attraverso il bilancio delle forze armate.

Noi meridionali sappiamo che il vecchio esercito, non dico quello inflazionato o recente, è stato una scuola di educazione e di istruzione specialmente per le nostre regioni. Sarebbe falsa una affermazione contraria. Come meridionale, posso dire che attraverso l’esercito vi è stata una pubblica istruzione ed una educazione popolare e che lo scambio che vi è stato da regione a regione, dai monti ai piani, da un mare all’altro mare è servito ad amarci e ad apprezzarci l’un l’altro; mentre, probabilmente, se vi fosse stata non la coscrizione obbligatoria ma il volontario, molti degli oscuri abitanti laboriosi ed affaticati delle nostre terre non sarebbero usciti da esse, né avrebbero visto altri fratelli delle altre parti d’Italia, né avrebbero sentito questa unità così come si è preparata prima della guerra mondiale e attraverso la guerra mondiale.

Onorevoli colleghi, non è soltanto una ragione di carattere morale quella che vuole che in democrazia tutti ci affatichiamo ugualmente, anche sotto le armi, anche quando si deve subire qualcosa che può essere perfino animalesca, ma tuttavia necessaria per la formazione del carattere; non è soltanto una ragione di carattere morale, ma anche di patriottismo, quella che mi fa insistere particolarmente su questo.

Ed io vorrei, appunto, ricordare a coloro che troppo facilmente dimostrano il desiderio di innovare e portare degli istituti nuovi nel nostro Paese, che la soppressione della «coscrizione obbligatoria» potrebbe essere un passo dannoso, non soltanto al modesto avvenire militare, della difesa del nostro territorio, ma anche e sovratutto al senso di unità, che è venuto formandosi attraverso la vita militare.

Sono stato anch’io militare, ho sentito in certi momenti il disdegno contro certe forme militaresche da caserma e la inferiorità morale di chi mi metteva sull’attenti, ed ho sentito di vivere in quei momenti non come anima, ma come corpo bruto; nonostante questo, ritengo necessario per la formazione del carattere il servizio militare, sia pure modificato, e credo che non bisogna creare istituti nuovi, senza averne ben considerate prima le conseguenze.

E la medesima cosa a proposito delle innovazioni vorrei dire sul terzo comma dell’art 49:

«L’ordinamento dell’esercito si informa allo spirito democratico della Repubblica Italiana».

Se democrazia significa elezione alle cariche e governo della maggioranza, non capisco come lo spirito democratico possa stare nell’esercito o cosa possa significare.

Evidentemente, l’esercito è strumento di azione, che ha le sue regole particolari. Che si debbano togliere gli attendenti o dar loro altre funzioni o che il regolamento di disciplina debba essere modificato, chi è stato ufficiale in servizio permanente effettivo può saperlo meglio di me, che sono stato semplice ufficiale subalterno di complemento. Ma che questa modifica del regolamento di disciplina e dei particolari debba significare proprio quello che significa questo comma, io non credo.

Questo comma o è superfluo o è pericoloso; se è superfluo, possiamo sopprimerlo; se è pericoloso, dobbiamo combatterlo.

Io ne ho proposto la soppressione, perché non credo che dobbiamo mettere dappertutto la parola «democrazia» senza ponderatezza; altrimenti democrazia non è quello che intendiamo sia, cioè rispetto della personalità umana, come mezzo per organizzarci e stringerci; in questo modo finiremo col considerare l’esercito, che deve essere uno strumento, nulla di più che uno strumento, per la salvezza e la consacrazione della democrazia, come un mezzo che ha di per se stesso un certo valore.

Riguardo all’articolo 50, capisco la ragione del secondo comma: alcuni hanno sentito la necessità, sul terreno morale, di ripetere agli italiani che bisogna ribellarsi al momento opportuno contro la tirannide.

Un autorevole costituzionalista della Commissione dei settantacinque mi ha detto che attribuiva a questo articolo un valore pedagogico. Con tutto il rispetto che ho per questo collega, devo dire che non capisco come si possa fare della pedagogia attraverso la Costituzione. La pedagogia non è politica, non entra nella politica, non può e non deve entrare nella politica. Gli italiani non possono, attraverso un articolo della Costituzione, ricordare ad un certo momento che essi devono saper essere fermi a difesa della libertà conquistata. L’articolo 50 deve essere sfrondato di questo secondo comma.

Onorevoli colleghi, basta considerare questo: abbiamo messo nella Costituzione il diritto al lavoro e tante altre belle cose; ad un certo momento un uomo, un partito, in nome d’un diritto, che, secondo questo individuo o questo partito, è stato conculcato, dovrebbe, a norma del secondo comma dell’articolo 50, avere il diritto di fare la rivoluzione o di porsi contro le autorità.

Non dovete, onorevoli colleghi, fare il caso più moderato e benevolo, ma il caso limite, il caso estremo: per esempio la regione o il parlamento siciliano, ad un certo momento, ritenendo che un loro diritto è stato conculcato, si ribellano, hanno diritto di ribellarsi. Io non sono un giurista ma tuttavia dico molto modestamente che mi pare che l’elemento primo in una norma giuridica sia questo: che ci sia un’autorità certa, idonea e capace che la applichi, un interprete. Dove è l’interprete che può stabilire e stabilisce a norma dell’articolo 50 quando vi è stata la oppressione, o vi è stata la violazione delle libertà fondamentali?

Se poi si desidera assolutamente affermare questa necessità di ribellarsi, è necessario in ogni caso che di questo articolo si parli dopo, allorché si parlerà della Corte costituzionale.

È naturale che il popolo dovrà difendere ciò che l’interprete della validità costituzionale avrà stabilito, avrà autorizzato ed allora sarà superfluo dirlo, perché basta l’obbedienza all’autorità costituita della Repubblica per affermare che bisogna seguire quella strada.

Io propongo che il secondo comma dell’articolo 50 sia soppresso e che l’articolo 51 formi tutt’uno con l’articolo 50, emendamento che non ho proposto ma che potrò proporre, perché si tratta di elementi che possono essere collegati. Come nel primo vi è un dovere di carattere generico per il cittadino, così nell’articolo 51 vi è l’obbligo più grave di un giuramento, per chi non è un cittadino qualsiasi. Perché altre sono le funzioni che hanno il Capo dello Stato, i membri del Governo, i Presidenti delle Deputazioni regionali, la Magistratura, le Forze armate nello Stato italiano, altro è il dovere del cittadino. Il cittadino ha un solo dovere, quello di difendere la Repubblica ed obbedirle in quanto cittadino.

Il Capo dello Stato, i membri del Governo hanno un doppio dovere, non solo come cittadini, ma anche come strumenti di cui la collettività si serve per l’esercizio delle proprie funzioni. Ma che si voglia sancire questo diritto alla rivolta soltanto perché si pensa che attraverso questa strada ci si potrà liberare di quello che potrebbe di malaugurato avvenire nel futuro, non posso crederlo. Non è attraverso la legge che si difende la libertà; anche attraverso la legge. Il popolo italiano difenderà la libertà se saprà al momento opportuno anche lasciare da parte le comodità quando verrà il momento, se saprà ricordare che la libertà può essere anche non contemporanea allo sfarzo, al lusso, alla ricchezza; sarà libero se al momento opportuno saprà preferire alla servitù senza libertà i sacrifici con la libertà.

È una vecchia massima che ci è venuta da un grande francese, che il popolo italiano deve far sua.

Io penso che saprà il popolo italiano difendere la libertà direttamente al momento opportuno senza alcun comma dell’articolo 50 della Costituzione. (Applausi).

PRESIDENTE. Sono iscritti a parlare gli onorevoli Gabrieli, De Caro Raffaele, Nobili Tito Oro. Non essendo presenti, si intende che vi abbiano rinunciato.

È iscritto a parlare l’onorevole Piemonte. Ne ha facoltà.

PIEMONTE. Onorevoli colleghi, il secondo comma dell’articolo 45, così come ci è stato proposto dalla Commissione dei settantacinque, dice che «Il voto è personale ed uguale, libero e segreto».

Io ho presentato un emendamento, firmato anche da parecchi colleghi, che è così formulato:

«Al secondo comma, dopo la parola: segreto, aggiungere le altre: ed è esercitato anche dal cittadino all’estero».

Di che cosa si tratta? Si tratta di permettere agli italiani emigrati di potere votare nel luogo dove si trovano senza dover ricorrere a notevoli spese e danni per rimpatriare.

Questo problema del voto agli emigranti ed agli emigrati non è nuovo, anzi una certa meraviglia ci ha colti quando abbiamo constatato che la Commissione dei settantacinque non se ne è affatto occupata. Eppure il problema è stato agitato da quasi 40 anni. La prima volta se ne parlò nel Congresso degli emigranti friulani tenutosi a San Daniele del Friuli, il 2 dicembre 1908. In seguito ad un voto espresso da questo Congresso il Segretariato dell’emigrazione di Udine, che avevo l’onore di dirigere, fece una specie di inchiesta su questo quesito: se convenisse un provvedimento per disciplinare l’esercizio elettorale dei nostri emigranti continentali. Allora le speranze e i desideri erano più modesti di oggi perché l’America pareva troppo lontana! A questa inchiesta numerose personalità politiche e studiosi risposero accettando il principio del voto agli emigrati. Fra i tanti ricorderò Luigi Luzzatti, Filippo Turati, Angiolo Cabrini, Antonio Maffi, Ettore Sacchi, monsignor Geremia Bonomelli, Napoleone Colaianni, Errico De Marinis, don Romolo Murri.

Anche nel primo Congresso degli italiani all’estero, nel 1908, a Roma, l’argomento fu trattato ed il relatore, Giulio Cesare Buzzatti, concludeva così: «Escludere gli emigrati dall’esercizio del voto politico equivale a togliere ad una parte considerevole e scelta del corpo sociale il modo di esercitare l’influenza che logicamente dovrebbe spettargli».

L’anno dopo, il 17 gennaio 1909, al II Convegno dei Segretariati di emigrazione, tenutosi a Padova, l’argomento fu trattato dall’onorevole Cabrini, il quale concludeva anche lui in questi termini: «La partecipazione degli emigranti e degli emigrati alle elezioni renderebbe più sincera la rappresentanza politica di intere province rafforzando quei vincoli onde i figli di una stessa terra ed i cittadini di uno stesso Stato si sentono stretti, solidali, nell’opera di elevazione nazionale».

L’agitazione, i voti, i convegni di emigranti e di emigrati proseguirono con crescente fervore. Con l’avvento del fascismo non se ne parlò più, ma non appena avvenuta la liberazione l’argomento fu ripreso nel primo Congressi dei Comitati italiani di liberazione nazionale esistenti in Francia tenutosi il 7 settembre 1945, congresso a cui parteciparono non meno di 600 rappresentanti di comitati di liberazione dipartimentali e comunali. Fu votato all’unanimità un ordine del giorno con cui soprattutto si deplorò che, nella formazione della Consulta, non si fosse tenuto alcun conto dei cittadini emigrati, e fu domandato che alla elezione di questa Assemblea, ed in tutte le formazioni legislative future, gli emigrati avessero possibilità di parteciparvi. Dopo il convegno di Parigi, altri congressi di comitati di liberazione nazionale, esistenti in Argentina e in Isvizzera, si pronunziarono in identico modo. Non se ne fece nulla, per mille e una ragione, la principale delle quali è quella che gli assenti hanno sempre torto.

Ometto, perché il tempo noi consente, gli interessanti studi compiuti da diversi competenti; dirò solo che fra essi eccellono quelli del Tumedei e del Lo Magro.

Il problema è stato proposto anche in questa Aula molti anni fa, nella seduta del 22 giugno 1909, dall’onorevole Cabrini, il 22 maggio del 1912 dallo stesso onorevole Cabrini a cui si associarono gli onorevoli Daneo e Morpurgo. (L’occasione si presta per ricordare che l’onorevole Morpurgo, vecchio, ammalato, ricoverato in una clinica, fu strappato, per odio razziale, dalle bande nere hitleriane coll’intenzione di portarlo in Germania; durante il viaggio mori. Alla sua memoria il nostro accorato omaggio). Successivamente il 7 maggio 1913 il voto agli emigrati fu riproposto dall’onorevole Mirabelli, il 15 maggio 1914 dall’onorevole Beltrami e nel 1919 dagli onorevoli Sifola, Agnelli e Orano. Infine il 18 luglio 1923, quando si discusse la legge elettorale fascista che, dando un vistoso premio alla lista più forte, soppresse di fatto il Parlamento, assicurando una maggioranza artificiosa al partito prevalente, ancora si discusse del voto agli emigranti coll’intervento degli onorevoli Mucci, Ciriani, Jacini, Canepa, Ellero, Chiesa, Lazzari, Maffi e di chi vi parla. Il relatore della Commissione, onorevole Casertano, d’accordo sul principio, opponeva l’inattualità di esso, pur augurando maggiori possibilità in avvenire e il Governo, bontà sua, non negava il problema e la necessità di risolverlo, e si impegnava (oh ironia!) di presentare presto proposte concrete. Naturalmente non se ne fece nulla.

Ora il problema è sempre insoluto e quella necessità di risolverlo, che il fascismo ammetteva, permane tale quale. Tocca alla Repubblica fare quel che il fascismo non seppe. Certo è che le difficoltà non sono poche né lievi. Alcune sono di ordine interno, altre riguardano i nostri rapporti coll’estero.

Gli ostacoli d’ordine interiore sorgono dalle nostre concezioni giuridiche che non prevedono l’esercizio del voto in territorio straniero e non ammettono deroghe al principio del personale intervento dell’elettore alle urne. Questi principî sono figli della diffidenza e sono il prodotto di un determinato clima politico e morale. Quando col tempo il clima politico e morale cambia, è utile cambiare anche le concezioni giuridiche.

Non si poteva pensare, trenta o quaranta anni fa, che il cittadino italiano residente all’estero votasse, rimanendovi, se non recandosi al Consolato, e non ci si poteva fidare della indipendenza e integrità del console, strumento cieco del governo. Nessuno si fidava allora della sincerità di una votazione fatta presso il Consolato.

Era indispensabile, allora, il personale intervento dell’elettore alle urne, quando il malcostume politico del broglio, della scheda girante, della violenza e della corruzione, aiutate dal diffuso analfabetismo, richiedevano le più minuziose cautele per assicurare la sincerità del suffragio. Ma ora le cose sono cambiate; il console è il rappresentante della Nazione e si può aver fiducia in lui. D’altra parte, la proporzionale ha modificato anche profondamente il costume elettorale: certi brogli e certe pastette, certe manovre, certe manipolazioni che una volta erano possibili, ormai sono vergogne seppellite. L’analfabetismo è pressoché inesistente fra gli emigrati. Ecco perché si può benissimo immaginare che l’emigrato italiano possa votare rimanendo all’estero e che possa dare il voto senza presentarsi alle urne, perché il clima politico sociale e morale attuale ha reso caduche le concezioni giuridiche che sino ad ora hanno dominato.

Così facendo non avremo neanche il merito di innovare, poiché la Norvegia permette ai suoi pescatori quando sono lontani, in acque straniere, di votare senza distaccarsi dal posto del lavoro ed un bastimento va a raccogliere le schede. La Norvegia stessa e l’Australia ammettono al voto gli ammalati e gli assenti. L’Inghilterra concede agli assenti di votare sia per mandato o procura, sia mandando direttamente la scheda. Ed infine la Danimarca e la Norvegia ammettono al voto gli emigranti autorizzandoli a inviare le loro schede alla propria sezione elettorale per posta e in busta chiusa, osservando determinate cautele.

Dunque, se questo problema è stato risolto altrove, non c’è ragione perché non lo risolva l’Italia, che in fondo in questa materia è la più interessata, tanto più che il problema è diventato più facile per la rapidità odierna dei trasporti e per i progressi dell’aviazione; ed il fatto clamoroso che milioni e milioni di soldati inglesi e americani, scaglionati in tutto il mondo, dalla Francia al Giappone ed oltre, abbiano potuto partecipare alle elezioni del loro Presidente – per gli americani – e dei rappresentanti ai Comuni – per gli inglesi – è una dimostrazione pratica che queste difficoltà possono essere ritenute superate.

Più delicati sono i problemi che il voto agli emigranti può determinare nei nostri rapporti con l’estero: evidentemente l’espressione del voto politico è un atto di sovranità. Compiuto in territorio straniero può essere considerato come una lesione alla sovranità dello Stato, sul territorio del quale l’emigrato vota. Questa lesione di sovranità può essere più o meno sopportabile; tutto dipende dallo stato di relazioni fra i due paesi: fra quello dove l’emigrato vota e quello di sua origine. In questo campo vi può essere, a seconda dei casi, condiscendenza, indifferenza, tolleranza, suscettibilità, disappunto, ostilità; ripeto, tutto dipende dallo stato delle relazioni e quindi è sempre necessario l’intervento diplomatico per doverosa franchezza.

Ma noi non dobbiamo sopravalutare queste difficoltà internazionali. Mi soccorre a questo punto il pensiero di Lodovico Zanini, umile manovale fornaciaio in Baviera nella sua prima gioventù, e autodidatta magnifico che, con sacrifici enormi, conquistò la patente di maestro, poi la laurea a Padova e adesso è bene amato ispettore scolastico a Udine. Egli preparò la sua tesi di laurea proprio su questo tema del voto agli emigranti; e giustamente osserva che l’emigrazione determina una duplice serie di interessi, ossia non è un fatto economico unilaterale che riguardi il paese di origine dell’emigrato soltanto o che riguardi unicamente il paese dove l’emigrato va a lavorare. L’emigrazione va dove trova il tornaconto ed è accetta in ragione della quantità e della qualità del lavoro, cioè in rapporto alla utilità sociale che arreca. Quindi, nelle sue grandi linee fondamentali, è un fenomeno economico. Conseguentemente le relazioni giuridiche intercedenti fra gli emigrati e il loro stato d’origine, non hanno alcuna influenza sulla qualità e sui valori che rendono produttiva ed accetta l’emigrazione. Se ne deduce che teoricamente questi rapporti non hanno alcuna importanza per Io stato d’immigrazione e che quindi anche l’esercizio del voto dell’emigrato è per esso un fatto di ordine secondario.

L’argomentazione del mio amico democratico cristiano Zanini, se è marxisticamente ineccepibile, non toglie il fatto che non sempre il puro criterio del tornaconto economico regge la politica estera degli Stati. Spesso ragioni di prestigio, di diversa politica interna, o di ripopolazione, di nazionalismo esagerato, possono interferire e turbare il sano principio economico.

Donde la convenienza, e talvolta la necessità di aiutare la diplomazia a superare diffidenze e ostacoli. Tale aiuto ed il più efficace degli aiuti – e in questo tutti gli studiosi in materia sono d’accordo – consiste nel dare all’esercizio del voto da parte degli emigrati un carattere il meno appariscente, il meno vistoso possibile, per modo che passi quanto più si può inosservato ed abbia l’apparenza di un atto tutt’affatto normale e posto nella stretta cerchia degli atti privati consueti di relazione col proprio paese d’origine: niente sbandieramenti, niente grandi comizi, niente grandi manifesti multicolori ed espansivi di ingiurie. Cosa fatta alla chetichella, come se si trattasse di un rapporto normale col proprio paese.

Quindi, è necessaria l’autodisciplina della gente emigrata ed io sono perfettamente sicuro che questa autodisciplina ci sarà.

Ma è altresì necessario che il legislatore aiuti l’opera della diplomazia con disposizioni prudenti e avvedute. Esso, per esempio, per aiutarla, deve scartare senz’altro un modo di esercizio del voto che possa assumere il carattere evidente di voler eleggere una rappresentanza diretta degli interessi specifici degli emigrati in confronto del paese in cui risiedono. L’Argentina, la Francia, la Svizzera, qualunque altro paese non consentirebbero che sul loro territorio il corpo elettorale italiano ivi residente procedesse alla elezione di uno o più suoi rappresentanti diretti. Il principio di sovranità dei paesi ospiti sarebbe talmente leso che l’opposizione sarebbe immediata e categorica.

Neanche un collegio nazionale a Roma, quale capitale dello Stato, per tutti gli emigrati sarebbe bene accetto perché anche questo mezzo sarebbe troppo appariscente e perché la partecipazione al voto degli emigrati, anche in questo caso, avrebbe il carattere di tutela degli interessi specifici dell’emigrazione stessa. Ora, questa tutela specifica, determinata da una rappresentanza politica, farebbe supporre implicitamente che ci sia una costante e permanente divergenza fra gli interessi del paese che ospita e gli emigrati.

Non dico mica che gli interessi specifici degli italiani all’estero possano esser trascurati e non abbiano grandissima importanza; però gli stessi emigrati non pensano tanto ad essi quanto a far parte dell’Italia, ad interessarsi dei nostri problemi e della nostra vita politica. Questo è il loro pensiero principale e questo è quello che noi dobbiamo volere permettere loro di realizzare anche nell’interesse del Paese.

Anche per quanto riguarda la rappresentanza degli interessi specifici degli emigrati, vi sono dei precedenti; se ne occupò il 1° Congresso degli italiani all’estero, tenutosi a Roma nell’ottobre 1908, poi nuovamente il 2° Congresso tenutosi a Roma nel giugno 1911 e poi, nel 1919, un convegno delle collettività nazionali all’estero, sempre a Roma.

Ora, il risultato delle discussioni e deliberazioni di questi tre convegni degli interessati è stato questo: tutti d’accordo nel ritenere impossibile una rappresentanza diretta degli emigrati, come tali, nei corpi legislativi; e si chiese che i cittadini di ogni circoscrizione consolare con residenza da un certo tempo avessero il diritto di nominare una consulta per lo studio e per la difesa dei problemi riguardanti gli emigrati, che affiancasse e collaborasse col console.

Si chiese ancora che una rappresentanza delle consulte costituisse una consulta presso l’Ambasciata ed infine si propose che una Commissione centrale costituita da rappresentanti delle consulte d’Ambasciata e delle organizzazioni economiche e culturali principali sedesse permanentemente in Roma presso il Ministero degli esteri a titolo consultivo.

Queste proposte furono prese in considerazione dall’Istituto Coloniale il quale nello stesso anno 1919 promosse una inchiesta in merito presso i corpi diplomatici e consolari. La grande maggioranza delle risposte furono negative, temendosi che le consulte previste potessero essere contrastanti cogli uffici diplomatici e consolari e quindi diminuirne il prestigio.

Fu questa una risposta degna del corpo diplomatico e consolare, che è il meno democratico fra tutti i corpi dello Stato. Tuttavia lo stesso Ministro degli esteri, attraverso il Commissariato per l’emigrazione, (a proposito cosa si attende a ricostruirlo nella sua piena efficienza?), nominò una Commissione di studio con il compito di esaminare il problema; e a capo di essa fu designato il collega Vittorio Emanuele Orlando. Io non so se tale Commissione abbia avuto il tempo di studiare veramente e di proporre qualche cosa, o se invece il fascismo ne abbia troncato l’opera. Ma è certo che il problema è ora ridiventato di attualità. Già infatti gli emigrati in Francia hanno chiesto che siano autorizzate consulte presso i loro Consolati.

Ritornando all’argomento principale del voto agli emigrati, esclusa la Costituzione di grandi collegi all’estero, escluso il collegio unico per tutti gli emigrati a Roma, si potrebbe pensare ad un esercizio del voto politico presso i Consolati. Ma anche questo mezzo è discutibile perché il Consolato, specialmente dove sono molti gli italiani, dovrebbe avere un apparato notevole per la votazione, possedere gli elenchi degli elettori, e via dicendo; in più questo mezzo comporterebbe spese molto gravi di dislocazione degli elettori, infine e sopratutto, anche se si volesse scaglionare la votazione in diversi giorni, si formerebbero sempre delle code e degli aggruppamenti nei pressi dei Consolati, il che renderebbe l’espressione del voto troppo visibile.

Comunque si analizzi e si esamini il problema, il metodo più efficiente, meno perturbatore, meno choquant, meno dispendioso, più semplice, e più a portata di tutti gli emigrati, è quello del voto per lettera indirizzata in busta chiusa dall’emigrato alla sua sezione elettorale, metodo già adottato dalla Norvegia e dalla Danimarca.

Perché fare accedere al voto politico gli emigrati? Prima di tutto perché quali cittadini italiani ne hanno diritto. Questa Costituzione che faticosamente elaboriamo ha già sancito il diritto di emigrare. Adesso voteremo l’articolo 45, che stabilisce essere il voto politico non solo un diritto, ma un dovere civile e morale. Ma come fate a fabbricare un dovere e un diritto di cui l’uno è la negazione dell’altro? Se questa Costituzione non vorrà essere aberrante – come lo è già in qualche punto: confrontate, per esempio, l’articolo 1 coll’articolo 7, tenendo conto dell’articolo 26 dei Patti del Laterano – bisognerà pure che perché questi emigrati possano compiere il loro dovere morale e civico, abbiano la possibilità di votare. Non si avrà mica la pretesa che rimpatrino a loro spese, col pericolo di perdere il posto di lavoro prima del loro ritorno! Se non si dà all’emigrato il mezzo di votare io non capirò mai come si possa dopo mettere una qualsiasi nota di demerito su un qualsiasi documento a danno dell’emigrante che non abbia potuto votare. Tanto peggio poi se, come si propone in qualche emendamento che è stato presentato, si dovesse rendere il voto obbligatorio. Con che diritto penalizzeremo l’operaio, il lavoratore, che non ha potuto votare perché all’estero?

Se questa non è un’argomentazione giuridica – io non sono un giurista – mi pare però sia inoppugnabile come argomentazione dettata dal buon senso.

Ma al disopra del criterio giuridico vi sono altre possenti ragioni per proporre e risolvere il problema.

Chi emigra, per decidersi a partire, per abbandonare il suo paese, la sua famiglia, il suo luogo natale, le sue consuetudini di vita, deve compiere uno sforzo morale, provare una tale somma di dolori, compiere tale un sacrificio, da dare segni evidenti che moralmente valga assai più della media degli uomini, di avere in sé tanta forza morale da renderlo un uomo scelto. E noi vogliamo allontanare dalla vita civile e politica gli uomini migliori di nostra gente? Privarci dell’avviso, nella scelta della rappresentanza legislativa, delle coscienze superiori alla media?

Tanto più che questa emigrazione col tempo si è raffinata, si è evoluta, si è specializzata. Al sorgere dell’unità d’Italia noi non potevamo dare che dei contadini umilissimi alle fazendas brasiliane e manovali per le fornaci di Baviera; poi a poco a poco, attraverso l’esperienza personale dell’emigrazione, attraverso l’aiuto di piccole, povere scuole industriali, create dalle società di mutuo soccorso e dagli enti locali, questa nostra mano d’opera si è affinata, si è civilizzata, si è migliorata, si è valorizzata, tanto da essere ambita non solo per la quantità ma anche per la qualità del lavoro.

Non vi è grande opera che sia stata eseguita nell’universo intero senza la partecipazione del lavoro italiano: i trafori delle Alpi, il taglio dell’istmo di Suez, gli sbarramenti del Nilo, la costruzione della Transiberiana, le fortificazioni di Port Arthur, le ferrovie dell’Africa centrale, le ferrovie dell’America meridionale, la ricostruzione della Francia dopo l’altra guerra sono dovuti in gran parte a mano d’opera italiana.

Noi abbiamo sparso questa nostra mano d’opera in tutto il mondo e col tempo si è differenziata. Il lavoro italiano è infinitamente vario. Supera ogni concorrenza nelle arti edili in tutto il mondo; ha dato uomini alle fornaci d’Austria e di Baviera, minatori alla Pensilvania, segantini e boscaioli all’Austria, all’Ungheria, alla Romania, camerieri e personale d’albergo quasi ovunque, sarti e sarte all’America del Nord, perfino impareggiabili modelle all’arte francese. Da questa massa immensa di sette od otto milioni, si elevano qua e là pure grandi imprenditori, capi d’industria, direttori d’azienda, una moltitudine di commercianti e di artigiani. Tutto l’assieme, tutto questo costituisce una forza meravigliosa, che ha anche influenza nell’ambiente in cui vive:

Sono perfettamente convinto che se tutta l’America ha in questo momento, come durante la guerra, per l’Italia simpatia e benevolenza ciò dipende dal gran numero di italiani che vi si sono stabiliti e dalla loro influenza sull’opinione pubblica locale.

Questa massa che è il fior fiore di nostra gente sparsa per il mondo, vogliamo abbandonarla o unirla alla Patria? Se non vogliamo abbandonarla perché escluderla dalle nostre vicende politiche?

Questa nostra umanità emigrante è altamente apprezzata all’estero e costituisce un magnifico nostro patrimonio. Facciamo in modo di non disperderlo ma di valorizzarlo. Non mi pare che l’attuale politica di emigrazione nostra corrisponda a questa necessità. Alle prime richieste che ci erano state fatte di mano d’opera dopo la guerra, noi dovevamo prima di tutto e soprattutto pensare ad inviare gente che facesse bella figura, gente che almeno – se non proprio il mestiere – conoscesse un po’ la lingua, i costumi, l’ambiente del Paese ove doveva recarsi.

Avevamo a casa diecine di migliaia di persone che erano state all’estero e che attendevano impazienti di ritornarvi. Si è preferito partire da un altro concetto: il concetto del disoccupato. E allora si è inviato gente che non conosceva né la lingua né l’ambiente, estranea completamente ai costumi; qualche volta senza mestiere o a conoscenza di un mestiere troppo diverso da quello richiesto: si chiedevano minatori e si mandavano barbieri o sarti! Tutto questo ha portato alti lagni da una parte e dall’altra e tutto questo ha svalutato un po’ la nostra ricchezza di energia lavoratrice che prima l’estero ammirava ed ambiva.

Anche qualche altro criterio in questa materia è sbagliato: si è pensato a mandare grandi masse disciplinate, organizzate…

PRESIDENTE. Mi permetta, onorevole Piemonte: forse questo esula dal tema. Quando parleremo degli accordi fatti con gli altri paesi per l’emigrazione, questo può e deve essere detto.

PIEMONTE. Obbedisco. Solamente volevo fare una raccomandazione alla stampa, soprattutto al Governo.

Si vada adagio nel parlare di emigrazione, si vada adagio, perché si creano delle illusioni che poi non hanno riscontro nei fatti. Abbiamo già attorno a noi un’onda di sfiducia e di disorientamento nel popolo, e non poco ha contribuito a formarla l’annunzio che presto migliaia e migliaia di persone avrebbero trovato lavoro nel Venezuela, in Argentina, in Francia, in Belgio, in Cecoslovacchia e altrove, cosicché nacquero immense speranze che poi andarono in gran parte deluse.

La stampa sia molto prudente in questa materia tanto delicata; il Governo attenda di avere quattro noci nel sacco prima di stamburare successi. Siamo prudenti perché c’è stata della povera gente che ha venduto la casa, le masserizie e tutto quello che possedeva per preparare i soldi per fare il viaggio, e questa gente ha consumato o consuma quel poco che aveva. Dolori e rovine!

Attorno a questi accordi di emigrazione non si faccia troppo chiasso…

PRESIDENTE. Onorevole Piemonte, lei parla del voto agli emigranti. Mi permetta che glielo ricordi.

PIEMONTE. Allora tronco. Noto, per ritornare all’argomento, che il nostro collega Corbino l’altro giorno ci diceva che un tempo la bilancia commerciale si saldava con milleduecento milioni dati dal turismo e dalla emigrazione. Sarebbe stato bene che egli avesse sceverato la cifra del turismo da quella dell’emigrazione.

JACINI. Circa metà.

PIEMONTE. Io noto però che un comunicato statistico degli Stati Uniti ci avverte che durante il 1946 le rimesse degli emigranti italiani sono salite a 26 milioni di dollari, cifra rispettabile. Non conosciamo le rimesse degli altri paesi, ed il 1946 non è certamente l’anno più florido per la nostra emigrazione, se si tien conto degli sbarramenti ovunque elevati contro di essa e le difficoltà e ostacoli creati per impedire le rimesse dei risparmi.

Siamo legati ai nostri emigrati anche da queste rimesse, da questi aiuti economici che sono destinati ad ingrandire e a potentemente aiutare la nostra ricostruzione. Chi ci sa dire quale è stato il valore dei pacchi alimentari, spediti dai nostri connazionali all’estero ai loro parenti rimasti in Italia? Sono decine di migliaia di famiglie, che hanno ricevuto pacchi dall’America, dalla Francia, da tutte le parti del mondo. In un solo comune, Meduno in Friuli, questi pacchi sono stati circa 1500 e del valore, ognuno di essi, di parecchie migliaia di lire.

Dirò di più: se noi sapremo mettere un poco di ordine nella nostra casa, ridurre il mercato nero all’eccezione, mercato nero che ci sarà sempre sino a che non sarà applicata la pena di morte per tale delitto, se un nuovo prestito potremo lanciare, in modo particolare invitando a parteciparvi i nostri fratelli residenti all’estero, sono sicuro che avremo un risultato molto superiore a quello che tanti, ignorando il patriottismo dei nostri emigrati, potrebbero supporre.

Gli ostacoli all’esercizio del voto di carattere internazionale sarebbero superati facilmente se si adottasse il principio della doppia nazionalità. L’emigrato che va e resta parecchi anni in un determinato paese estero è sempre in una situazione difficile. Se vuol curare i suoi interessi gli occorre diventare cittadino della Nazione in cui si trova, se questo fa, va contro il vincolo naturale di sangue che ha nell’animo e nel cuore. Quando si decide o per l’una o per l’altra cosa, o sono i suoi interessi personali che sono compromessi oppure sono ulcerati i suoi sentimenti più umani e profondi. Questi casi di coscienza sono numerosissimi e variamente risolti, ma sempre con amarezza e scontento.

Il problema della doppia cittadinanza è visto generalmente sotto un angolo nazionalista errato nella sua sostanza. Se si volesse una buona volta comprendere che il principio di nazionalità implica quello di una società internazionale, che rifonda in un’unità superiore le differenze, la doppia nazionalità sarebbe considerata come un gradino, una prima tappa verso queste forme di convivenza supernazionali. Churchill propose un giorno in piena guerra l’attuazione di questo principio alla Francia: la Francia rifiutò; non credo che la Francia abbia fatto bene e abbia ben tutelato i suoi interessi. Per mio conto auguro all’Italia che possa concludere trattati bilaterali di doppia nazionalità prima di tutto con i popoli che sono più vicini a noi dal punto di vista etnico, e poi con quelli coi quali abbiamo maggiore convergenza di interessi. Mi auguro che si possa attuare il massimo numero di questi trattati: più ce ne saranno e più la pace sarà sicura e permanente.

Il nostro emendamento all’articolo 45 darà per ora poche difficoltà al legislatore, perché la legislazione fascista ha messo come condizione all’elettorato la residenza; e poiché i Governi di liberazione nazionale hanno confermato (ironia della sorte) questo principio, tanto che i decreti legislativi che sono stati emanati in materia di elettorato portano ancora la necessità della residenza per esser elettori, quindi se fosse vero che le elezioni avvengano entro l’anno, la riforma che noi proponiamo non potrebbe interessare che le poche decine di migliaia di nostri operai, già elettori, che sono emigrati dopo il 2 giugno.

Spetterà al legislatore futuro perfezionare la legge e rendere accessibile il voto anche agli emigrati non elettori attualmente. Ma la situazione attuale consente di poter questo anno fare la prova nelle migliori condizioni possibili.

Resta a spiegare perché questa proposta fu fatta in sede di Costituzione e non in sede di legge. Ho già detto che quando fu fatta l’inchiesta nel 1908 sull’opportunità del voto agli emigranti vennero date molte adesioni al principio e che furono formulate molte riserve sulla attuabilità della riforma: riserve a cui ho accennato e credo aver confutato. Ma allora vi erano delle riserve mentali, inconfessate e inconfessabili, nascoste dietro il paravento di quelle giuridiche e di inattuabilità della riforma. A sinistra non si vedeva la possibilità del voto agli emigranti se non presso i Consolati; e nei consoli non si aveva nessuna fiducia, perché strumenti ciechi di Governi reazionari; a destra si sapeva che in quel momento l’idea socialista era in un periodo di espansione e di ascensione, e si era sicuri o si temeva che gli emigrati avrebbero votato rosso, cioè pel partito socialista. Oggi le cose sono un po’ capovolte. Se non fu dato agli emigrati il voto in modo che potessero partecipare al referendum e all’Assemblea Costituente, se in qualche settore c’è ancora qualche resistenza in merito, è perché si temeva e si teme la partecipazione al voto dei fascisti e monarchici che si trovano oltre confine.

Temere il voto dei monarchici e dei fascisti emigrati, significa non credere alla doverosa epurazione delle liste elettorali, che dovrebbe esser un fatto compiuto e comunque significa porsi sullo stesso piano del fascismo, che sospettava ed odiava l’emigrazione perché non la poteva comandare, né sufficientemente controllare.

Invece noi siamo sicuri che se la Repubblica, permettendo il voto agli emigrati, presenterà ad essi il suo volto severo, ma materno, ne conquisterà la fiducia e gli animi, e questi vani spettri dei monarchici e fascisti di Coblenza o del Cairo, o di Lisbona, o dell’America del Sud o del Nord svaniranno come svaniscono al canto del gallo, annunziatore della luce, tutti gli spiriti maligni delle tenebre.

Signor Presidente, onorevoli colleghi, ho finito.

Dalla dittatura e dalla sconfitta l’Italia esce deteriorata nel morale, rovinata nella sua economia; perdute le nuove colonie, quasi irrimediabilmente compromessa la sorte di quelle antiche, mutilata nel territorio nazionale ad oriente ed ad occidente. Ai disastri interni dobbiamo porre rimedio coll’ordine, colla disciplina, coll’austerità nel tenor di vita. Alle perdite territoriali, in attesa che giustizia ci sia fatta, possiamo rimediare saldando maggiormente alla patria i nostri figli dispersi pel vasto mondo, e ritengo che la nostra iniziativa, se accolta, sia di potente aiuto a raggiungere tal fine.

A chi poi si meravigliasse che sia proprio il Partito socialista dei lavoratori italiani a farsi campione e paladino di questa più grande Italia e di questa più intensa unità della stirpe, risponderò che il nostro partito è sicuro, così operando, di essere nel solco marxista.

Marx non ha detto o scritto, come tanta parte del volgo ritiene, «Proletari di tutto il mondo unitevi!», bensì nel suo Manifesto ha lanciato l’appello: «Proletari di tutti i Paesi unitevi!».

Questa differenza di terminologia ha per noi un grande ed altissimo valore, pieno di logiche conseguenze.

Rivolgendosi ai proletari di tutti i Paesi e non ai proletari di tutto il Mondo, segno è che la mente di Marx non mirava ad una universalità socialista che fosse un’enorme caserma, ad una somma meccanica di milioni e milioni di uomini non differenziati da altro che dalle loro qualità fisiche e morali individuali; ma pensava ad una universalità socialista formata, dall’apporto dei lavoratori di tutte le Nazioni, di tutte le stirpi, ciascuna delle quali avrebbe dato alla costruzione e alla vita dell’edificio collettivo il meglio di se stessa.

Ebbene, a questo grande, armonioso edificio socialista, che sarà, l’Italia lavoratrice offrirà la sua laboriosità, il suo genio innato dell’arte e lo squisito ed acuto senso di giustizia sociale che tutti i suoi figli, vivano dentro i suoi confini o fuori, posseggono al più alto grado.

Soprattutto questo senso di giustizia sociale che, non placato, si manifesta come una sola voce insofferente che oggi sale dai campi e dalle officine! (Applausi).

PRESIDENTE. È inscritto a parlare l’onorevole Calosso. Ne ha facoltà.

CALOSSO. Mi scusino se ho la voce assai bassa; ma vorrei che quelli che non sentono non abbandonassero l’Aula.

Credo che sia compito della Costituente, compito politico essenzialmente, quello di segnare le grandi linee della struttura dell’esercito, specialmente dopo un disastro di questo genere; è compito dei politici, dei costituenti e non dei tecnici, perché è chiaro che i tecnici, i militari, di per sé sarebbero portati a dire che è bene che l’esercito italiano sia superiore ad ogni altro esercito, per poter essere sicuro della vittoria. A questo tende naturalmente un tecnico. È un difetto della sua virtù che lo porta a questo; ma tocca a noi politici, e non tecnici, di valutare quale è la situazione geografica e politica in cui si inquadra il nostro esercito.

Ora c’è stato un cambiamento enorme nella struttura geografica delle potenze mondiali. Oggi non ci sono più grandi Nazioni, ma continenti: abbiamo l’America, abbiamo la Russia. Noi non siamo più una grande potenza, come non sono più grandi potenze la Francia e nessun altro Paese europeo.

Noi siamo grandi appena come la California, che è uno dei 48 Stati degli Stati Uniti; siamo grandi come appena una delle Repubbliche sovietiche, per cui dobbiamo calcolare questo fatto che ha i suoi svantaggi ed anche i suoi vantaggi.

Io personalmente preferisco essere cittadino di uno Stato non enorme, ma di uno Stato di 45 milioni, in cui in un certo senso ci conosciamo abbastanza, anziché essere sommerso in un immenso Stato imperiale.

Per esempio, la Cina ha 450 milioni di abitanti. Io apprezzo i cinesi, ma preferisco essere italiano. Non è una fortuna appartenere a un grande popolo. E questo si dovrebbe insegnare alla gioventù. Comunque, dal punto di vista militare, noi siamo ormai non più una grande potenza; siamo appena una regione di Europa.

In questa nuova carta geografica del mondo noi dobbiamo inserire un calcolo per vedere quali forze armate dobbiamo avere; dobbiamo calcolare la nostra forza relativa, poiché non esiste un esercito che vada bene in assoluto.

Se noi siamo, per esempio, la Repubblica di San Marino, avremo un ottimo, grande esercito quando avremo quattro soldati ed un caporale.

Un paese non può essere mai sicuro soltanto perché ha un esercito, a meno che non abbia un esercito superiore a tutti quelli degli altri paesi messi insieme ed una flotta superiore alle due più grandi flotte del mondo. Il calcolo politico si impone in maniera assoluta, se non vogliamo andare incontro a delle delusioni. Bisogna anche che si calcoli il nemico potenziale. Il nemico potenziale qual è oggi? Non, come taluno pensa, la Jugoslavia, perché in questo mondo moderno le guerre sono mondiali e quindi il nemico potrebbe essere uno dei due giganti. Ora è assurdo che noi possiamo misurarci con uno dei due giganti mondiali, e tuttavia credo che noi dobbiamo prepararci a rimediare al disastro sofferto.

Se osassi dire una parola, che ha bisogno poi di due minuti per non essere non disapprovata, vorrei dire che il proposito nostro è di pigliarci una rivincita della sconfitta avuta. Ora, questa rivincita, nella situazione mondiale, a mio parere, consiste nell’aver la forza necessaria per spostare il piano della lotta. È chiaro che con le armi è difficile che noi possiamo avere una rivincita, oggi che i grandi Paesi sono continenti; ma se noi ci spostassimo sul piano del pacifismo assoluto, se cioè riuscissimo a stare in pace trentacinque anni, come fummo, in guerra trentacinque anni (perché in trentacinque anni avemmo cinque guerre e distruggemmo la nostra gioventù ed il Paese), in una Europa che probabilmente si lacererà in una guerra, io credo che potremmo fare dell’Italia il giardino di Europa.

E questo è il nostro programma. Sarebbe questa una magnifica rivincita.

Una voce. Un giardino coi «piselli»!

CALOSSO. Con i piselli: proprio con i piselli. Secondo il socialismo tedesco della epoca di Marx, c’era una teoria che diceva che i piselli erano una specie di vitamina di allora, tanto che i tedeschi, prima della guerra, quando andavano a pranzo, cantavano una bella poesia sui piselli. Questa poesia sui piselli è simpatica e anche noi canteremo l’inno dei piselli:

Noi abbiamo il pane

che basta a noi e ai nostri fratelli;

cresce il pino, il mirto e la rosa,

ed anche i piselli.

(Ilarità – Applausi).

Pigliarci questa rivincita italiana: questo è il nostro scopo. Noi possiamo farlo. Possiamo fare dell’Italia il giardino di Europa in maniera che gli stranieri, i turisti, gli oziosi quando verranno in Italia, vedranno un grande popolo fisicamente e moralmente sano; perché io non so quale piacere ci sarebbe ad essere un grande impero, come lo voleva il duce, dalle Alpi all’Oceano indiano (ricordate: faccetta nera, sarai romana), questo era il suo sogno: avere un impero color caffellatte. Mi pare che ciò sia un errore. Ora, in questa atmosfera nuova, noi dobbiamo calcolare quale deve essere il nostro esercito per avvicinarci più che si può alla possibilità della nostra difesa. Le vittorie oggigiorno non sono più vittorie militari. Esclusi questi grandi giganti con cui non possiamo misurarci, nessun Paese può aspirare ad una vittoria militare. Perfino l’Inghilterra, che era una grande potenza prima della guerra, in fondo in fondo non lo è quasi più. Ha fatto due guerre. Per la prima volta nella storia si è messa a fare vere guerre sanguinose: ci è cascata! Perché le guerre non si vincono sul campo di battaglia. La Francia ha vinto non so quante battaglie, con Luigi XIV e con Napoleone; ed a forza di vincere ha distrutto la sua gioventù. Le statistiche dimostrano che queste guerre continue sono riuscite perfino ad abbassare la statura media dei suoi cittadini. Altri popoli antichi militaristi sono addirittura scomparsi dalla terra. Per cui il militarismo è estremamente pericoloso, almeno per chi ama la battaglia per se stessa, come è accaduto ai tedeschi, che hanno preso una bella lezione. Noi non siamo fra questi. Le vere guerre si vincono sul terreno demografico. I manuali di storia non ne tengono conto, ma ne dovranno tener conto in futuro. Un Paese che riesce a stare in pace, e a non sacrificare la sua gioventù, migliora la stirpe. Così abbiamo popoli prosperi e felici. Ci sono esempi storici, come quello costituito dall’Inghilterra che, prima di lasciarsi trascinare nelle guerre, che l’han fatta decadere di potenza, nel ’600, quando fece la sua rivoluzione parlamentare, che fu rivoluzione antimilitaristica, levò dalle mani del Re un esercito, per cui essa rimase senza esercito e si sviluppò l’aristocrazia come complesso antimilitaristico.

Una ragazza inglese, quando un ragazzo non le piace gli dice: «Perché non vai nell’esercito?». Questo modo proverbiale deriva dall’antimilitarismo innato nei britannici.

Appena presa questa direttiva, l’Inghilterra cominciò a salire in modo da stupire gli stessi con temporanei e divenne il Paese più prospero del mondo. Per essa la guerra non era guerra, perché la combatteva con piccoli eserciti mercenari di tedeschi o svizzeri, e persino a Waterloo il Comandante generale Wellington, che io apprezzo, disse che in fondo la sua armata aveva ben poco orgoglio militare e chiamò questo esercito: «feccia della terra». Infatti era una vera e propria accozzaglia di mercenari stranieri, privi di orgoglio militare. Ebbene questa accozzaglia, notate bene, fece la fortuna dell’antica Inghilterra parlamentare. Ma quell’epoca è finita con questo secolo di nuovi imperialismi Kiplinghiani. Si crede nel sogno imperialista: prima si fanno gli imperi e poi si diventa imperialisti. Ma chi fa gli imperi non è mai imperialista: lo dissero i Romani, e lo disse anche Machiavelli. Ma quando il sogno di Disraeli e di Pitt penetrò nell’Inghilterra, questa si mise a far guerre ogni venti anni, e ad ogni guerra cadde più giù. Voi direte che le guerre sono state pure la sua fortuna. Io vi rispondo: ebbene, essa ebbe uno sviluppo mercantilistico in anticipo, evolvendosi dalla sua condizione iniziale di isola, ma questo fu un fattore favorevole.

Perché noi non potremmo fare qualcosa di simile? Ma fare qualcosa è la nostra difficoltà: avete visto che per due anni non abbiamo arrischiato provvedimenti audaci, e non abbiamo mai fatto, od osato fare, grossi giuochi. Perché? Diciamo: è il tripartito! Questo è giusto, perché un Governo prende la responsabilità del Paese; ma non neghiamo di essere tutti colpevoli di questa specie di «donabbondismo» che è nelle nostre vene, dopo una dittatura debole e debolmente mascherata. Siamo tutti timidi; questa è la realtà: non osiamo prendere nessuna decisione. Mentre gli Stati orientali dell’Europa hanno fatto una riforma agraria, quelli occidentali hanno cominciato, alcuni, la costruzione del socialismo coi metodi della libertà, e gli Stati piccolissimi, come l’Olanda, hanno formato capitali bancari ed hanno risolto il problema della ricostruzione, noi non abbiamo osato. Perché? Perché venti anni di dittatura ci hanno resi timidi. Questa è la realtà. In questo fatto di timidezza è naturale che anche nell’esercito non riusciamo a prendere ima decisione sufficientemente forte.

Il Partito socialista dei lavoratori italiani ha proposto, con alcuni Deputati di altri gruppi vicini, che «nel bilancio dello Stato le spese per le Forze armate non potranno superare le spese per la pubblica istruzione, salva legge del Parlamento di durata non superiore a un anno». Questa proposta ha delle difficoltà, ma quale è il carattere di Don Abbondio? È quello di mettersi prima nelle difficoltà e poi guardare la cosa. Ora, se facciamo così non concluderemo mai niente. Ma la cosa in sé è logica, perché questo emendamento racchiude questo concetto: noi abbiamo in Italia il 21 per cento di analfabeti, che in alcune regioni sale al 48 per cento, cioè di gente che firma con la croce. Vi sono paesi, come la Scandinavia, la Germania e la Svizzera, dove tutti hanno fatto almeno otto anni di scuola: in altri paesi dieci ed anche dodici. Noi, invece, abbiamo metà del popolo analfabeta, e questo è gravissimo e vergognoso in un paese come il nostro. D’altra parte, questo implica cattiva qualifica operaia. Noi avremmo bisogno di una grande qualificazione, anche per motivi di danaro; invece, spesso il nostro operaio non è qualificato.

Ed allora, in questa situazione, con le scuole distrutte, con l’analfabetismo che aumenta, noi diciamo: perché non uguagliamo il bilancio dell’istruzione a quello delle spese militari? Noi dobbiamo, in questa sede, onorevoli colleghi, stabilire che cosa dobbiamo spendere, e questa non è una cosa che si può domandare al tecnico, perché il tecnico risponderà: «due volte quello che guadagniamo». È chiaro che questo è il minimo che possa suggerire un generale. Invece, dobbiamo stabilirlo noi. Ed allora, dobbiamo dire che le spese militari non dovranno superare quelle scolastiche. Sarebbe un assurdo spendere più per spese militari che per spese scolastiche in un paese analfabeta come il nostro. E sarebbe un assurdo anche nel campo militare. Qual è la vera forza dell’esercito? Non è quella di fare «uno-due» in una caserma con delle baionette buone ad aprire una scatola di conserva. La forza sta nelle industrie e nelle attitudini sportive. Gli americani sono riusciti a formare un esercito all’ultimo momento, perché erano altamente sportivi. Le spese scolastiche, creando una qualifica operaia, e le spese sportive migliorando il materiale umano, costituiscono la vera forza dell’esercito. I nostri soldati sono forti, ma impacciati: occorrono tre mesi prima di farli camminare, mi diceva un giorno un importante generale attuale.

Un esercito senza industrie, senza qualifica operaia è l’esercito della sconfitta.

Oggi abbiamo 150 mila soldati, senza contare i carabinieri e le altre Forze armate. Tale cifra in Italia non si raggiunse mai in tempo di pace. Questi soldati sono male armati, né potranno mai essere bene armati, perché occorrono speciali industrie. Che cosa potrà fare un esercito di questo genere? Una volta un generale diceva: un soldato italiano batte dieci nemici. Questa è una bella frase per un caporale, ma non per un generale. Non si può ammettere che un soldato italiano nudo possa abbattere dieci nemici in carro armato.

Ora, questi 150 mila soldati male armati non possono arrivare che ad una conquista eroica: potranno magari farsi massacrare tutti e passare alla storia, ma non è questo il nostro scopo. Il Ministero della guerra, concepito come lo concepiscono i nostri generali conservatori piemontesi, come dice l’onorevole Pacciardi, (però ce n’è qualcuno che non è piemontese), basato su un esercito così fatto, il quale non può farsi che sconfiggere, è un Ministero che si potrebbe chiamare della sconfitta eroica. Non dobbiamo quindi mascherare la situazione. Questo lo dico non per un concetto antimilitarista, astratto, ma proprio per un calcolo dei bisogni del nostro Paese, e, diciamo pure, della vittoria del nostro Paese nel mondo. Personalmente non avrei nessun motivo astratto per voler diminuire l’esercito; lo voglio anzi aumentare, specialmente nel prestigio e nella forma. Io stesso sono figlio di un contadino piemontese, che per di più è diventato sergente e poi ufficiale, e non c’è nessun conservatore più grande di un sergente, di un maggiore piemontese, e non dico questo perché mio padre mi chiamasse Umberto. (Si ride).

Ora, questa tradizione in casa mia c’era, ed io sono nato in questo ambiente, ed ho sempre vissuto in mezzo ad ufficiali effettivi e ne conosco la profonda onestà; ma ne conosco anche i difetti mentali, gli errori possibili, ed è a questi errori che noi dobbiamo rimediare con la più larga visione. Se noi riuscissimo, con molto coraggio, ad ancorare le spese militari a quelle scolastiche, avremmo fatto senza dubbio qualcosa; anche se il finanziere potesse obiettare che bisogna fare un bilancio unico, ecc. Bisognerebbe piuttosto realizzare subito un programma di questo genere e sarebbe bene poter dire, nella giornata di domani, per esempio, di aver potuto risolvere il problema scolastico. Questa è una difficoltà che dovremmo cogliere al balzo, per risolverla e dare al Paese un senso di fiducia, senza necessità di prendere un soldo al Tesoro. Su questo programma il nostro partito è impegnato.

Vedo qui degli emendamenti particolari, come quello degli onorevoli Cairo e Chiaramello, per l’abolizione della leva obbligatoria. Questo è un punto che è stato lungamente dibattuto e vi sono state anche molte obiezioni; ma se noi badiamo prima alla sostanza, poi alla forma, vediamo che anche la leva in Italia rappresenta un complesso militaristico che porta alle sconfitte, perché, in fondo, questo militarismo diffuso porta in sé qualche cosa di follaiolo e diminuisce il valore individuale.

Ora, se togliamo la leva obbligatoria, e facciamo un piccolissimo esercito, direi quasi un esercito di quadri, pagati bene – questo credo che anche ai nostri quadri non dispiacerebbe – se viene una guerra, evidentemente, non possiamo entrare e allora stiamo in pace.

Una voce al centro. Se ci lasciano in pace.

CALOSSO. Ecco un’obiezione che mi aspettavo e che giustamente è stata fatta. Supponiamo che non ci lascino stare in pace e ci invadano. Le alternative sono due: o noi con 150 mila soldati armati di baionetta andiamo a farci massacrare – ed allora resterà una bella pagina eroica nella storia – oppure, non facciamo la battaglia e allora non avremo neanche la sconfitta.

C’è qualcuno di voi che preferisce un buon massacro in una battaglia ad una sconfitta in una non battaglia?

Prima, quanto meno, avevamo due potenze quasi uguali; oggi è un assurdo, perciò non vedo la necessità di questi 150 mila uomini. Ci occorre un esercito di quadri, incapace di entrare in lotta. (Commenti).

Uria voce a destra. E allora a che serve?

CALOSSO. Quando scoppia una guerra o ci invadono, oppure, se c’è il tempo, abbiamo il germe per creare lentamente un esercito che, dopo cinque o sei anni, potrà essere qualche cosa.

Prendiamo un esempio pratico: l’altra guerra. Se avessimo avuto un esercito così fatto, non potevamo entrare in guerra subito; ci saremmo entrati il 3 novembre del 1918 e vincevamo sul serio, senza sacrifici. Anche in questa guerra, se avessimo avuto la necessità di prepararci alla lunga, ci sarebbe andata bene.

UBERTI. Che strategia meravigliosa!

CALOSSO. Non è strategia: non credo di essere uno stratega. Io faccio della politica, cioè espongo quello che dobbiamo dire ai generali, che non possono imparare da nessuno.

Ora, cosa propone lei? Dieci milioni di soldati invece di 150 mila? Questo ci darebbe una sufficiente sicurezza; ma non c’è via di mezzo.

Vi sono delle obiezioni; anche i nostri compagni comunisti non sono entusiasti dell’abolizione della leva obbligatoria.

Io non so perché, ma certo vorrei esporre loro un motivo per cui – caro Pajetta – l’abolizione della coscrizione obbligatoria sarebbe utile. (Interruzione dell’onorevole Pajetta Giancarlo).

Io non ho mai detto di essere antipatriottico; ma il nostro pericolo è quello di essere mercenari, di essere adoperati dall’uno o dall’altro blocco come mercenari. Questo non deve essere in nessun modo. Noi dobbiamo avere astuzia, se possiamo – e non è impossibile – ed ardire nello stesso tempo.

Disgraziatamente siamo timidi in questo momento storico. Noi dovremmo, piuttosto, adoperare la flotta inglese, l’aviazione americana e l’esercito russo, anziché esserne adoperati. Noi dobbiamo cercare di non combattere per gli americani, o per gli inglesi, o per i russi. Questo deve essere il nostro scopo: metterci in situazione di non essere mercenari di nessuno.

Oltre tutto, questo nostro continuo interventismo in guerra, che dura da 35 anni, fa ridere gli stranieri, i quali dicono: «ecco gli italiani che vogliono entrare in guerra per poi scappare». (Commenti).

C’è poco da dire: sono insulti che all’estero ci facevano arrossire e a cui rispondevamo.

PAJETTA GIANCARLO. A noi che facevamo la guerra in Italia non l’hanno mai detto che volevamo scappare.

CALOSSO. Va bene; ma io cito Vishinsky come un esempio. Il Viceministro degli esteri Vishinsky è l’unico degli uomini politici europei che disse la sciocchezza…

PAJETTA GIANCARLO. Ma lei sa che…

(Commenti).

PRESIDENTE. Non interrompa, onorevole Pajetta, la prego.

CALOSSO. Ma veda, gli inglesi, presso cui io ero, lo pensavano. (Commenti – Interruzioni). Mi lasci parlare, onorevole Pajetta. Gli inglesi lo pensavano, anche se non me l’hanno mai detto. Essi sono infatti degli uomini politici consumati che hanno quel garbo per cui nella conversazione sono perfetti; ma io sentivo sotto la pelle, ogni volta che ci facevano un elogio, quella critica. Vishinsky invece l’ha detto apertamente: gli italiani scappano sempre. Siamo d’accordo che è una menzogna; Vishinsky ha mentito; è un insulto. (Interruzioni dell’onorevole Paletta). Ma sì, siamo d’accordo: Vishinsky ha mentito. Bravo, onorevole Pajetta! (Commenti – Applausi al centro).

PAJETTA GIANCARLO. Ma io dico che lei sta insultando gli italiani.

CALOSSO. Ma io dico che il soldato italiano è valorosissimo e che è stato condotto da capi inetti alle sue sconfitte, perché è stato costretto a combattere uno contro dieci, il che ha condotto all’accusa falsa di Vishinsky che i soldati italiani scappano sempre. Questo ho voluto dire: non si travisi, onorevole Pajetta, quello che ho voluto dire. Io penso che, con un esercito senza leve obbligatorie, con un piccolo esercito di quadri, avremo il vantaggio di non poter diventare mercenari di alcuno e alla lunga ci accorgeremo che avremo vinto per lo meno sul terreno demografico.

Perciò mi pare utile, specialmente per gli amici della Russia, se lei accetta di essere amico della Russia, onorevole Pajetta, come io lo sono di fatto, che noi prepariamo al popolo italiano l’impossibilità di diventare mercenario. Questo è il fatto; perché non crediate che, con una propaganda comunista nell’esercito, si riesca a fare l’insurrezione, nel caso in cui noi siamo sotto questa influenza.

PAJETTA GIANCARLO. Speriamo di avere un Governo democratico contro il quale non sia necessaria alcuna insurrezione.

CALOSSO. Comunque sia, se abbiamo questo esercito fatto in questo modo, non possiamo diventare mercenari facilmente e questo è un vantaggio russo; e perciò vi prego di pensarci su, a meno che non abbiate risolto tutti i problemi a riguardo e questo è un problema da discutere nell’interesse della Russia.

D’altra parte, se si fa un esercito di quadri, si dice: si fa un esercito di mestiere. Ma noi abbiamo già 70.000 carabinieri che sono uomini ottimi, che sono uomini disciplinati, che sono uomini, direi, democratici: ora avere altri uomini di mestiere, non vedo che cosa cambi.

E, d’altra parte, si possono inserire i partigiani e i volontari. L’onorevole Gasparotto, Ministro della guerra, ha detto che nei carabinieri, i volontari sono il 100 per cento, nell’aviazione il 64 per cento, nella flotta il 61 per cento. Si aggiunga che il volontariato è un sistema tradizionale, per lo spirito garibaldino italiano.

Ma anche questo, mi pare che non basti: la questione deve essere inquadrata, come ogni problema, in un orientamento deciso della Nazione. Ed è qui la difficoltà per noi, in questo momento storico: di fare qualche cosa di deciso. Difatti abbiamo cercato sempre di fare cose poco impegnative, mai qualche cosa di energico; e siamo i soli in Europa, in fondo. Perciò proporrei, come gli onorevoli Cairo e Chiaramello, un emendamento per cercare di ancorare il nostro Paese alla neutralità perpetua. Certo, una neutralità perpetua, giuridicamente definita, implica un accordo con gli altri; ma la Costituente può fare i primi passi su questa strada, piena di difficoltà anch’essa; perché aderire all’O.N.U. sembra in contraddizione con la neutralità perfetta. Ma noi dentro all’O.N.U. dovremo batterci – almeno a titolo di propaganda – per poterci inserire con questo nostro vincolo di neutralità perpetua. E ciò ci converrebbe anche per un motivo di fierezza. Guardate gli svizzeri, che sono neutrali, come sono rispettati da tutti i popoli. (Interruzioni – Commenti). Senza dubbio sono militarmente un popolo estremamente rispettato. Fate che noi non ci comportiamo più da imbecilli in Europa coll’intervenire sempre in guerra – e io non mi sbaglio; conosco gli stranieri abbastanza per leggere i loro pensieri segreti, presuntuosi e ironici – restiamo in pace cinquant’anni, ed essi apprezzeranno la nostra fierezza, guarderanno alle nostre glorie militari, ricorderanno le virtù militari del soldato italiano, che, in condizioni di parità, si è sempre misurato in una maniera straordinaria e – come diceva Guicciardini – «nei congressi dei pochi ha sempre vinto».

Facciamo questo e avremo, in fondo, in Europa un primato; saremo guida in qualche cosa. È impossibile che l’Italia, che ha avuto tre civiltà, possa rinunciare ad essere guida in qualche cosa. L’Italia, in fondo, è sempre guida, nel bene e nel male: guardate lo stesso fascismo che ha iniziato – le cose si iniziano in Italia di solito – questo nuovo ciclo che pareva lieto; tutti ridevano, dicevano: «non è nulla»; si portò in Germania, diventò un fatto internazionale; nacque il disastro. Noi oggi che raccogliamo questa eredità fallimentare, dovremmo proporci – come suggeriva Mazzini – un primato italiano. Quale? Il primato pacifista. Se legassimo questo nostro popolo alla bandiera del pacifismo assoluto, della neutralità perpetua e ancorassimo il bilancio militare alle spese scolastiche, senza dubbio saremmo una guida ih Europa; e io confido che nello spazio di una generazione l’Italia potrebbe veramente diventare il giardino d’Europa. (Applausi).

Presidenza del Vicepresidente TARGETTI

PRESIDENTE. Non essendo presente l’onorevole Pera, si intende che abbia rinunciato a parlare.

È inscritto a parlare l’onorevole Schiavetti. Ne ha facoltà.

SCHIAVETTI. Al collega ed amico Piemonte è toccato per primo di esporre dinanzi a questa Assemblea il problema dei nostri rapporti con gli italiani all’estero. È quindi naturale che a me tocchi di dire poche cose soltanto, oltre a quelle essenziali che sono state dette dall’amico Piemonte.

Anzitutto si presenta il problema, che ha una certa importanza, di sapere con precisione quanti sono questi italiani dimoranti all’estero. È probabile che il numero di questi italiani abbia subito in questi ultimi anni delle forti diminuzioni. Le cifre più attendibili si riferiscono al 1924 e ci sono state date dall’Annuario statistico del Commissariato generale per l’emigrazione. Era allora un tempo in cui la statistica non era divenuta ancora un servizio politico del Ministero degli interni, come divenne poi con gli sviluppi più o meno fatali del regime fascista. In questo Annuario statistico del Commissariato per l’emigrazione troviamo che alla fine del 1924 vi erano in tutto il mondo poco più di 9 milioni di italiani residenti all’estero; e nel 1927 il Ministero degli esteri fascista confermava sostanzialmente questa cifra, comunicando che il numero degli italiani all’estero era aumentato di circa 150 mila unità. In questi ultimi anni però – come ho già avuto occasione di accennare – è probabile che il numero degli italiani all’estero sia fortemente diminuito a causa delle naturalizzazioni sopravvenute in molti paesi per motivi inerenti allo stato di guerra. Vi sono molti italiani che, travolti dalla folle politica del fascismo e fatti oggetto dell’odio, del risentimento e anche del disprezzo degli ambienti politici in cui vivevano, hanno dovuto rinunciare o sono stati ad ogni modo costretti a rinunciare alla loro nazionalità. Un fenomeno di questo genere, per quel che sappiamo, è stato forte soprattutto negli Stati Uniti. Noi manchiamo di cifre precise, ma alcuni ritengono che gli italiani siano diminuiti in certe zone degli Stati Uniti di circa i 2/3, e che a New York e dintorni restino ora di 1.300.000 italiani di una volta, solo 600.000 nostri concittadini. È probabile che in queste cifre, che rappresenterebbero una catastrofe per la nostra emigrazione, vi sia una forte esagerazione. Ad ogni modo noi dobbiamo tener conto di questa diminuzione del numero degli italiani residenti all’estero. Tuttavia è chiaro, anche ammettendola, che gli italiani residenti all’estero sono ancora molti, moltissimi, e che determinano per noi un problema fondamentale: quello di mantenerli uniti alla madre Patria, di non perdere questo materiale umano con tutti i tesori di civiltà e di forza spirituale ed economica che esso rappresenta.

Vorrei fare anzitutto, a proposito di quello che ha detto il collega Piemonte, una distinzione parziale che serve a centrare il problema. Si tratta di un unico problema che può essere veduto però sotto due aspetti diversi. Vi è il problema della emigrazione, che è un problema prevalentemente economico e che riguarda sopratutto l’assestamento dei nostri concittadini che si recano all’estero. Questo problema è stato già toccato nella nostra Costituzione con l’articolo 30 che noi abbiamo approvato, articolo nel quale si parla di una doverosa tutela da parte della Repubblica italiana del lavoro italiano all’estero.

Ma vi è poi un altro aspetto di questo problema, un aspetto prevalentemente politico e morale: è il problema che riguarda appunto gli italiani già stabilitisi all’estero. Per questi italiani, evidentemente, i problemi più gravi non sono quelli della loro sistemazione e stabilità economica, perché per la maggior parte di loro questa sistemazione è già avvenuta; ma si tratta, in prevalenza, di problemi politici e morali, problemi che riguardano i rapporti con la madrepatria.

La trattazione di questo problema non ha nulla a che vedere con le preoccupazioni che sono state caratteristiche del fascismo ogni qualvolta il fascismo si è occupato degli italiani all’estero. Come voi sapete, il fascismo vedeva negli italiani all’estero una specie di avanguardia per la conquista italiana dell’impero. Erano strumenti politici di penetrazione nazionalistica nei diversi paesi. E il fascismo, con questa sua concezione, soprattutto con l’attuazione, nei limiti che gli sono stati possibili, di questa sua concezione, ha arrecato un danno enorme alla sorte degli italiani all’estero, arrecando anche, come in tanti altri settori, un danno enorme alle fortune della nostra Nazione.

Il fascismo si è infatti preoccupato, per quel che riguardava la disciplina e l’organizzazione delle nostre comunità all’estero, di caporalizzare (uso questa parola prussiana) i rapporti intercedenti tra gli italiani delle diverse comunità. Basterebbe ricordare – perché in certi casi nomina sunt res: i nomi attingono alla realtà delle cose – che il nostro Commissariato dell’emigrazione fu trasformato dal fascismo nella famosa D.I.E., Direzione generale italiani all’estero, dimodoché gli italiani all’estero avevano un direttore generale, erano italiani che avevano la fortuna di essere diretti in tutte le loro attività, e nel seno stesso della comunità il console esercitava la propria autorità come il comandante di una unità in guerra.

A me è toccato, quando ho avuto occasione di andare a visitare in Svizzera la cittadina di Grenchen, nota per la famosa crisi spirituale che vi subì il Mazzini, di leggere una lapide in cui i fascisti della località annunciavano allo spirito di Mazzini che essi, i «soldati d’Italia», erano giunti sulle sue orme fino in quella piccola cittadina.

Si dicevano dunque «soldati d’Italia», non i portatori della nostra civiltà: erano dei soldati che dicevano di seguire le orme di Mazzini per preparare all’Italia fascista la conquista dell’impero e di determinate posizioni politiche.

Noi vediamo questo problema, è inutile dirlo, con preoccupazioni del tutto diverse e da un punto di vista totalmente diverso: preoccupazioni di carattere politico per quel che riguarda la conquista di posizioni all’estero, sono in noi del tutto assenti. C’è solo una preoccupazione fondamentale, quella di tenere legati alla madre Patria i nostri concittadini, perché assolvano al compito che loro è prefisso nell’economia generale della civiltà. Ciascun paese realizza un determinato tipo di civiltà e dice la propria parola al mondo nella sua lingua ed è più che giusto che i nostri concittadini dicano questa parola di civiltà nelle forme più facili per loro. Questa è la ragione fondamentale della nostra preoccupazione e dell’interesse che noi portiamo al problema del voto degli italiani all’estero e dei nostri rapporti con loro. Ad alcuni sembra che quando si sia assicurato l’esercizio del diritto elettorale ai nostri emigranti, si sia già fatto un gran passo nella soluzione del problema dei nostri rapporti con i nostri concittadini all’estero. Da un punto di vista generale, e in linea di massima, questa cosa è già stata, in un certo senso, realizzata. Proprio stamani alla Commissione che studia il progetto di legge sull’elettorato attivo noi abbiamo avuto occasione di esaminare l’articolo 11, il quale stabilisce che anche ai cittadini italiani che si sono trasferiti all’estero e che hanno perduto la residenza di origine, sia assicurato il diritto di voto; e questo è un riconoscimento di principio che ha un forte valore: per tutto il resto non si tratta che di attuazione e di tecnica. Ma la concessione del diritto di voto non è, a mio parere, sufficiente perché siano sufficientemente stretti e mantenuti i legami con i nostri concittadini all’estero.

Qui io vorrei approfondire qualcuna delle cose che ha detto il nostro amico e collega Piemonte. Il diritto di voto può essere esercitato nelle forme ordinarie, nelle forme che la legge elettorale, a cui ho accennato, stabilisce o stabilirà in avvenire. Questi cittadini possono rimanere iscritti nelle liste elettorali del loro paese e possono rientrare in patria a esercitare il diritto di voto. Ma è evidente che l’esercizio del diritto di voto sotto questa forma riguarderà sempre una piccola minoranza di cittadini italiani; riguarderà soprattutto la minoranza di cittadini italiani che vive in Isvizzera, in Francia, e in qualche altro paese d’Europa: quei cittadini italiani, cioè, che potranno permettersi il lusso di fare un viaggio in Italia durante le elezioni. Ma la maggior parte dei cittadini italiani residenti all’estero, cioè quelli dell’America del Nord e dell’America del Sud non potranno mai esercitare in questa forma il loro diritto di voto che per via di eccezione.

D’altra parte, esercitato all’estero presso i Consolati, e sia pure per lettera, come è stato precedentemente accennato, il diritto di voto degli italiani all’estero solleverà, senza dubbio, dei problemi di ordine pubblico da parte degli Stati interessati, i quali non avranno nessun piacere che si svolga nei centri di emigrazione italiana di loro competenza una lotta elettorale, che sarà senza dubbio contrassegnata dalla vivacità caratteristica di noi italiani.

In ogni caso, l’esercizio del voto che si innesti alle circoscrizioni italiane risponderebbe poco in questo momento alla attuale capacità e sensibilità politica dei nostri gruppi all’estero, di cui alcuni sono lontani migliaia e migliaia di miglia dal nostro Paese e che – come è stato facile constatare a coloro che sono vissuti a lungo negli ambienti di emigrazione – sono per molti aspetti arretrati rispetto all’Italia, dal punto di vista culturale, politico e spirituale. È facilissimo, quando noi andiamo in alcuni centri della nostra emigrazione, trovarvi agitati, ad esempio, dei problemi che sono stati agitati in Italia 20 anni prima, e di trovare trionfanti nel gusto del pubblico scrittori, i quali rappresentano un’arte o un modo di pensare che lo sviluppo del pensiero nazionale ha da noi da lungo tempo sorpassato.

Perché il diritto di voto possa legare veramente queste masse di italiani al nostro Paese, dovrebbe essere esercitato in forma organica, la sola forma idonea a mantenere questo collegamento. Vi dovrebbero essere rappresentanti delle diverse comunità italiane, contraddistinte da interessi determinati e comuni. Se noi volessimo dare una rappresentanza organica a queste masse di italiani, dovremmo invitare alle nostre assemblee in Italia i loro deputati. Ma una soluzione in questi termini del problema solleverebbe delle obiezioni da parte degli Stati interessati. Nessuno Stato ammetterebbe mai che cittadini stranieri, viventi nel suo territorio, possano avere rapporti politici di questo genere con altri Paesi. Questo non può avvenire, soprattutto in un periodo come l’attuale, caratterizzato da nazionalismi esasperati e da diffidenze di carattere politico; e non potrebbe, soprattutto, avvenire per noi, che abbiamo alle nostre spalle l’esperienza fascista, con tutte le diffidenze che essa ha seminato presso gli Stati vicini.

Per tutte queste considerazioni, a me pare che l’assicurazione dell’esercizio del diritto elettorale agli italiani all’estero non possa risolvere in modo fondamentale il problema che ci preoccupa tutti: il problema, cioè, del mantenimento dei rapporti e del collegamento spirituale e politico coi nostri concittadini. Ed è appunto in considerazione di una più efficace soluzione di questo problema che io ho proposto all’Assemblea il seguente emendamento aggiuntivo all’articolo 45:

«La Repubblica assicura ai cittadini italiani residenti all’estero la possibilità dell’espressione organica della loro volontà e della rappresentanza dei loro interessi».

In questo modo il problema è portato, come è evidente, su un piano diverso.

Esso presume anzitutto la riorganizzazione in forma autonoma e democratica della vita delle nostre comunità all’estero.

Già alla caduta del fascismo molte di queste nostre comunità hanno fatto degli esperimenti originali e spontanei di organizzazione della loro vita autonoma in reazione al predominio fascista. Quando molte comunità si sono trovate in lotta contro i consoli che rappresentavano ormai un regime decaduto, si sono date un ordinamento autonomo; per meglio dire, non sono state comunità intere, ma sono state le minoranze attive e politicamente più intelligenti e progressiste di queste comunità che si sono date un ordinamento autonomo, accogliendo nel loro seno tutti gli italiani, esclusi i fascisti militanti, a qualunque partito politico essi appartenessero. Bisognerebbe lavorare nel solco di questa naturale reazione al dominio fascista e alla organizzazione fascista delle comunità all’estero. Bisogna avere una grande fiducia in tutto quello che è spontaneo, che non risponde a un concetto astratto e teorico, ma che non fa altro che potenziare dei fenomeni che si sono già sviluppati naturalmente nel suolo della nostra vita collettiva. Le nostre comunità si sono date degli ordinamenti autonomi e hanno costituito in molti luoghi comunità e colonie libere.

Questo è accaduto in Svizzera, in Francia ed anche in America.

Questo esperimento dovrebbe essere allargato e il suo allargamento ci concederebbe di poter dare a queste comunità una rappresentanza organica. Che cosa vuol dire una rappresentanza organica? Vuol dire creare degli organi che rappresentino esclusivamente le masse degli emigrati. Al legislatore futuro spetterà naturalmente di precisare i particolari. Non è questo il luogo per scendere nei dettagli. In generale si può prevedere la creazione di un Consiglio di rappresentanti delle comunità italiane all’estero, Consiglio di rappresentanti che si raduni periodicamente in Italia e rappresenti tutti gli italiani viventi all’estero nella loro molteplice varietà, nella loro concordia discorde. Una proposta di questo genere, come è stato già ricordato, è stata formulata nei Congressi degli emigranti del 1908 e del 1911. Questi congressi italiani all’estero hanno proposto che si formassero degli organismi rappresentativi che portassero la voce dei milioni di italiani all’estero e che di questi organismi rappresentativi alcuni fossero temporanei ed altri permanenti. Accanto al su accennato Consiglio di rappresentanti potrebbe esservi una delegazione che curi l’attuazione dei desideri da esso espressi. Per di più nei principali centri di emigrazione, in Francia, negli Stati Uniti, nel Brasile e in Argentina potrebbero esservi altre delegazioni permanenti.

In questo modo noi potremmo avere una rappresentanza organica delle masse degli italiani residenti permanentemente all’estero, una rappresentanza organica che avrebbe naturalmente un valore molto maggiore di quello che risulterebbe solo dall’esercizio del diritto elettorale.

A questa rappresentanza noi potremmo dare dei poteri di carattere consultivo, ma di un grande valore. Sarebbe la voce di tutti i nostri connazionali, di tutti i nostri concittadini all’estero, concittadini che finalmente si sarebbero liberati dalla caporalistica pressione fascista e dall’autorità consolare come era esercitata durante il fascismo, autorità che rispondeva molto a quella di un commissario prefettizio o di un commissario regio in un comune. Queste nostre comunità all’estero sono in coscienza come dei comuni, ma comuni che non hanno libere rappresentanze né amministratori eletti dalla massa degli emigrati. Hanno avuto per tutti gli anni del dominio fascista, e del resto li hanno avuti anche prima, degli amministratori che sono stati imposti dal Governo centrale e che quasi sempre non rappresentavano gli interessi, le idee, le aspirazioni della grande massa degli amministrati.

Quando noi avremo introdotto un principio di vita autonoma nelle nostre comunità all’estero, quando avremo assicurato a queste nostre comunità all’estero la rappresentanza organica e disciplinata dei loro interessi, sia pure sotto forma di voto consultivo, noi avremo ben operato per il mantenimento del collegamento fra le masse emigrate all’estero e il nostro Paese, collegamento al quale è affidata in grandissima parte la possibilità per la Repubblica italiana di continuare ad esercitare presso gli italiani all’estero la propria influenza benefica e di progresso. (Applausi).

PRESIDENTE. È iscritto a parlare l’onorevole Giolitti. Ne ha facoltà.

GIOLITTI. Onorevoli colleghi. Di tutti gli articoli fin qui esaminati dalla nostra Assemblea, questi del Titolo IV mi sembrano i più precisi e quadrati, i più sobri e limpidi. L’intero titolo si presenta come un sistema coerente e bene equilibrato di diritti e doveri, tale da sodisfare, come non sempre è avvenuto per i Titoli precedenti, bisogna riconoscerlo, anche un senso ed un gusto giuridico raffinato.

La felice formulazione di questi articoli dal 45 al 51 – ed è anche significativo che così ampia materia si sia potuto costringere in così breve numero di articoli – questa felice formulazione è dovuta al fatto, forse, che qui i legislatori si son trovati a muoversi su un terreno più solido e più sicuro, ad elaborare dei concetti che sono ormai profondamente radicati nella coscienza civile e politica di ogni uomo libero, e che sono ripetutamente convalidati, d’altra parte, anche dall’esperienza storica. E per questo penso che il Titolo IV è esente da quegli elementi programmatici così frequenti in altri Titoli e che, seppure giustificati ed anzi opportuni ed inevitabili, tuttavia non costituiscono un pregio giuridico.

È felicemente esente inoltre questo Titolo da quel certo tono paternalistico ed al tempo stesso rivendicativo che traspare in altre formulazioni della nostra Costituzione. Questi articoli sanzionano e registrano trasformazioni già in atto, conquiste già raggiunte, risultati già conseguiti: nella fattispecie, i diritti che il popolo italiano ha già conquistato con la lotta di liberazione e con la lotta vittoriosa per la Costituente e la Repubblica. Bisogna render merito alla Commissione per aver raggiunto una tale precisione e appropriatezza di formulazione in queste norme che regolano gli istituti fondamentali di una moderna repubblica democratica parlamentare. E questo, d’altra parte, contribuirà, io penso, a far sì che in una materia così importante, essenziale e delicata, i contrasti tra correnti politiche ed ideologie diverse possano essere ridotti al minimo, e si raggiunga in questa materia così fondamentale la massima larghezza di consensi.

Avendo espresso, a nome del mio Gruppo, il consenso che diamo in linea generale agli articoli del titolo IV del progetto della Commissione, desidero attirare l’attenzione dell’Assemblea Costituente su alcuni problemi che non sono contemplati nella formulazione del progetto, e per i quali manca una soluzione concreta, o del tutto adeguata. Distinguiamo anzitutto un primo gruppo di articoli, che vanno dal 45 al 48, i quali formulano i diritti del cittadino di partecipare democraticamente alla direzione della cosa pubblica. Sono questi gli articoli attraverso i quali si regola l’esercizio della sovranità popolare, articoli, quindi, che stabiliscono il fondamento della democrazia, in quanto appunto autogoverno da parte del cittadino. In un secondo gruppo possiamo distinguere gli articoli che vanno dal 49 al 51, dove vengono stabiliti i doveri che scaturiscono da questi diritti, doveri che si affermano in quanto prima sono stati garantiti i corrispettivi diritti. Sono doveri di difesa della Patria, della fedeltà alle istituzioni repubblicane, e il dovere – espresso nell’emendamento aggiuntivo, proposto da un nostro collega, prima in merito al Titolo precedente e poi trasferito in questo Titolo – di pagamento dei tributi.

Vengo all’esame dei problemi che non trovano, a nostro avviso, adeguata soluzione: mi riferisco all’articolo 45, dove è stabilito il requisito della maggiore età, nella norma costituzionale, per l’esercizio del diritto di voto. Ora su questo argomento, io ed il mio Gruppo riteniamo che possa essere più opportuno, anche se non si vuole sin da ora nella norma costituzionale dare, diciamo, un attestato di maturità alla gioventù italiana – che ha dato prova di coscienza civile, di coscienza patriottica e di coscienza politica nella lotta partigiana, e nella guerra, di liberazione – se non si vuole dare questo attestato, ripeto, io credo che si possa dare per lo meno il beneficio della sospensiva, e non precludere con la norma costituzionale quella che potrà essere una diversa norma stabilita dalla legge. Perciò io, a nome del mio Gruppo, propongo un emendamento che tende a rinviare alla legge normale questo requisito dell’età necessaria per l’esercizio del diritto di voto: «Sono elettori tutti i cittadini di ambo i sessi che hanno raggiunto l’età stabilita dalla legge». Osservo d’altra parte che autorevoli Commissari della prima Sottocommissione – gli onorevoli Cevolotto, Tupini, Basso e Togliatti – avevano condiviso questo criterio.

Segue poi la questione del voto, concepito come «dovere civico e morale», per usare l’espressione del progetto di Costituzione. Ora, qui mi sembra che in un certo qual modo riappaia quel tono – sia detto senza intenzione di dispregio – predicatorio che qualche volta abbiamo sentito riecheggiare in altri Titoli e da cui questo Titolo ha il pregio di essere esente. Ma, d’altra parte, domando: che valore giuridico ha una formulazione di questo genere: «dovere civico e morale»? Mi pare che la stessa formulazione manifesti una certa esitazione del legislatore al riguardo. E che cosa è poi un diritto che è al tempo stesso un dovere? Del resto, questa esitazione appare anche un po’ negli stessi redattori dell’articolo quando, nel secondo comma, hanno parlato di voto e non di diritto di voto, per aggiungere poi subito dopo che il suo esercizio è un dovere. Evidentemente, la contraddizione sarebbe stata troppo palese. Il diritto di voto appare soltanto nel terzo comma, e, per giustificare questo abbinamento di diritto e dovere, si è ricorso anche, come risulta dagli atti della Sottocommissione, a delle raffinatezze giuridiche, e da un Commissario è stato detto che il diritto è quello di essere iscritti nelle liste elettorali ed il dovere è quello di esercitare il diritto di voto. Comunque, mi pare che queste acrobazie, alle quali è stato necessario ricorrere per sostenere l’obbligatorietà del voto, dimostrino le difficoltà di sostenere un simile concetto.

Mi pare poi che si possa fare quest’altra osservazione: proprio la non obbligatorietà del voto è in un certo senso un correttivo a quella che è l’eguaglianza astratta del diritto di voto, vale a dire che non affermando l’obbligatorietà del voto e lasciando alla libera volontà del cittadino l’esercizio di questo suo diritto, si viene a dare, in un certo senso, un peso anche alla qualità, e cioè si dà un valore allo spirito di attività, di iniziativa del cittadino che vota, a differenza di quello che voterebbe soltanto perché obbligato, per un impulso passivo, per una costrizione esterna. Ed anche in questo senso mi pare che il non sancire l’obbligo del diritto di voto possa concorrere a rendere più democratico l’esercizio di questo diritto. Ed è perciò che, anche a proposito di questo comma, il mio Gruppo presenta un emendamento nel quale il secondo comma dell’articolo 45 risulta così formulato:

«Il voto è personale ed eguale, libero e segreto», sopprimendo la seconda parte: «Il suo esercizio è dovere civico e morale».

Una formulazione che, a nostro avviso, ha una notevole importanza e concorre a dare un senso moderno a questa parte della nostra Costituzione, è quella dell’articolo 47, dove a noi pare importante il riconoscimento specifico che viene dato al diritto di organizzazione dei cittadini in partiti politici. È un concetto, dicevo, che risponde ad un criterio più moderno della democrazia, e, se vogliamo, accoglie anche una istanza che era stata formulata, in una dotta relazione del collega democratico cristiano La Pira, quella del pluralismo, della considerazione cioè dei diversi gradi di organizzazione sociale in cui il cittadino esplica il suo diritto, esplica la sua partecipazione alla vita pubblica.

Però a questo proposito, cioè a proposito di questo articolo 47, noi crediamo che sarebbe prematuro oggi andare oltre questa semplice formulazione del riconoscimento specifico del diritto di associazione dei partiti politici, anche per la considerazione che, nella ancora instabile situazione politica del nostro Paese e negli instabili rapporti di forze fra i partiti, noi pensiamo che una formulazione più avanzata, come quella che si trova proposta nell’emendamento dell’onorevole Mortati, possa determinare uno svantaggio a danno dei partiti di minoranza, fornendo l’occasione di abusi da parte dei partiti più forti. Per queste ragioni, noi crediamo che la menzione dei partiti nel testo della Costituzione non debba andare al di là della formulazione predisposta dalla Commissione all’articolo 47 del progetto medesimo.

Dobbiamo poi esprimere il nostro pensiero sull’articolo 49, il quale ha dato luogo alle discussioni più approfondite che si siano fatte a proposito di questo Titolo. Il nostro pensiero è che il servizio militare obbligatorio rappresenti indubbiamente una conquista democratica. Non è a caso che vediamo formulato questo principio già nella Dichiarazione dei diritti del 1789. L’affermazione di questo principio va intesa in tutto il suo significato e va collegata con l’articolo 6 già approvato, che stabilisce che l’Italia ripudia la guerra come mezzo d’offesa; e va considerato questo obbligo del servizio militare anche in relazione con la seconda parte, con lo stesso secondo comma, come pure con l’ultimo, dell’articolo 49, allorché si dice che il militare non viene pregiudicato nel suo lavoro e nell’esercizio dei diritti politici, ecc. Se noi teniamo presenti tutti i riferimenti che si ricollegano alla affermazione del servizio militare obbligatorio, possiamo dire che nella Repubblica democratica italiana il servizio militare obbligatorio rappresenta anche un mezzo di educazione civile e politica del cittadino. Ma è necessario per questo che sia mantenuto l’ultimo comma. Dico questo per controbattere l’osservazione fatta da alcuni colleghi dell’altra parte, quando si è detto che questo riferimento, questo avvicinare l’aggettivo «democratico» alla parola «esercito» significherebbe, in certo senso, sottomettere l’esercito ad una ideologia politica, significherebbe mescolare l’esercito alla politica, portare la politica nell’esercito. Qui si adopera l’espressione «spirito democratico»; mi pare che sotto questa espressione non si possa vedere adombrata nessuna particolare ideologia politica. Mi pare che proprio un’affermazione di questo genere, proprio l’adozione di questo termine «spirito democratico» dimostra che qui si vuole semplicemente avere questa garanzia: la garanzia di quello che è il denominatore comune di tutti i partiti che hanno diritto di parlare e di far sentire la loro voce in una libera Assemblea, in una Assemblea democratica come questa.

Io ho sentito poco fa le suggestive proposte che ha fatto l’onorevole Calosso a proposito della posizione di neutralità che dovrebbe assumere l’Italia. L’onorevole Calosso ha usato questi due termini: pacifismo assoluto e neutralità perpetua. Ora, se sul primo termine mi pare che dovremmo fare le più ampie riserve, perché è collegato con un atteggiamento politico pienamente condannato dalla storia passata e recente, il termine «neutralità perpetua» può essere anche attraente, può anche indicare una direttiva di politica estera, se vogliamo. Non è questa, comunque, la sede né il momento per discutere di ciò. Però mi pare che questo non escluda affatto, non sia in contraddizione con l’affermazione dell’obbligatorietà del servizio militare, giacché – è la storia che lo dimostra – proprio una certa potenza militare, una discreta potenza militare, una organizzazione militare efficiente è quella che garantisce la neutralità. La neutralità della Svizzera in questa guerra è stata garantita appunto dall’efficienza militare del suo esercito. Ciò non significa che sia stato quell’esercito a costituire un baluardo insuperabile, ma è stato certamente un fatto che ha garantito in qualche modo la possibilità di questa neutralità. D’altra parte, proprio per l’osservazione che faceva Calosso, che la guerra è oggi una guerra totale, proprio questo ci dimostra che in una guerra di questo tipo, che travolge tutto e tutti, anche il piccolo non può rimanere assente, anche il piccolo deve avere una certa possibilità di manovra, e quindi entra nel gioco dei grossi. D’altronde, se dovessimo accettare una volta per sempre questa considerazione, che in un conflitto di colossi bisogna rimanere assenti, allora dovremmo addirittura dire che la nostra guerra di liberazione, la nostra guerra partigiana è stata perfettamente inutile, è stata un inutile massacro che non ha portato nessun frutto. Io credo che, invece, appunto un’organizzazione democratica, una forma democratica di organizzazione militare possa essere la migliore garanzia, anche se si vuole una efficace ed utile neutralità.

Quanto al giuramento, di cui troviamo menzione nell’articolo 51 della Costituzione, anche a questo riguardo sono state fatte delle obiezioni ed alcune osservazioni.

Voglio limitarmi semplicemente a dire che, a nostro avviso, il giuramento di cui all’articolo 51 è perfettamente coerente con lo spirito di tutto questo Titolo, che precisamente (e noi approviamo questa impostazione) colloca nella coscienza del cittadino la base, la garanzia della democrazia. Non è una formalità, come è stato detto; non è una formalità un giuramento quale è quello di cui si parla nell’articolo 51; giacché non è un giuramento che viene fatto a persone, ma è un giuramento a istituzioni democratiche volute dal popolo e quindi legato precisamente alla sovranità popolare.

Questo appello alla coscienza del cittadino che, come dicevo, è proprio nello spirito del Titolo quarto e che costituisce un po’ il fondamento solido, la radice, in cui si annida la garanzia ultima, estrema della democrazia, trova un’espressione solenne nella formulazione del secondo comma dell’articolo 50. La garanzia essenziale del regime democratico è infatti l’autogoverno, che è fondato evidentemente sul senso di responsabilità, sulla coscienza morale e politica del cittadino. Ora, questa ultima ratio deve essere invocata precisamente quando la Repubblica e la Costituzione corrono l’estremo pericolo: il pericolo cioè di essere violate dai pubblici poteri. È dunque necessario, se vogliamo mantenere il significato profondamente democratico che la nostra Costituzione riveste, mantenere un appello di questo genere, specie quando, come nel caso nostro, la Costituzione si forma dopo esperienze storiche quali quelle che noi abbiamo di recente attraversato.

È necessario perciò formulare in sede di Costituzione il principio che la resistenza all’oppressione è diritto e dovere del cittadino. Ciò è anche indispensabile, vorrei osservare, dal punto di vista educativo: nelle scuole, dove i principî fondamentali della nostra Costituzione dovranno essere illustrati ed insegnati, i giovani dovranno infatti sentire questo appello che viene rivolto, perché siano garantite le nostre istituzioni democratiche, alla loro dignità e libertà di uomini. È indispensabile anche, io penso, dal punto di vista giuridico, Al dovere infatti del cittadino di essere fedele alla Repubblica e alla Costituzione, come sancisce il primo comma dell’articolo 50, deve corrispondere, proprio per il coerente equilibrio di diritti e di doveri felicemente raggiunto in questo Titolo, deve corrispondere il diritto del cittadino di resistere alla violazione che venga perpetrata da parte dei pubblici poteri.

Io credo, d’altra parte, che il sancire nella Costituzione tale diritto significhi precisamente consacrare la legalità, nell’ambito della Costituzione stessa, di un atto che altrimenti potrebbe apparire come una frattura nella validità della Costituzione, la quale invece, con tale norma, assicura, in certo senso, la propria vita di fronte ad una violazione che determini la legittima resistenza.

E possiamo noi, onorevoli colleghi, dimenticare che proprio da un simile atto di resistenza all’oppressione sono nate le libere istituzioni democratiche che stiamo consacrando nella nuova Costituzione? Questa Costituzione, questa Repubblica democratica che noi edifichiamo, sono state fondate appunto dalla resistenza meravigliosa che il popolo italiano ha opposto all’invasore. Noi dobbiamo alla lotta di questo popolo, al sacrificio dei suoi figli migliori, questa possibilità che oggi ci è data di discutere, di definire, di perfezionare con metodo democratico le nostre libere istituzioni. Affermando nella Costituzione il diritto di resistenza all’oppressione, noi consacriamo l’atto di nascita, profondamente nazionale e popolare, della Repubblica democratica italiana. (Applausi a sinistra).

Presidenza del Presidente TERRACINI

PRESIDENTE. È inscritto a parlare l’onorevole Terranova. Ne ha facoltà.

TERRANOVA. Onorevole Presidente, onorevoli colleghi, la materia che forma oggetto del quarto Titolo del progetto di Costituzione, quantunque di notevole importanza, se considerata nei suoi singoli temi, dà l’impressione di essere stata messa insieme a caso, probabilmente perché non si è potuta collocare altrove. I sette articoli che costituiscono il Titolo dei «rapporti politici», infatti, riguardano argomenti alquanto eterogenei e spesso senza evidente nesso logico fra loro. Il diritto al voto, l’accesso ai pubblici uffici, il servizio militare, l’obbligo del giuramento per talune categorie di persone, insieme con altri diritti e doveri del cittadino, sono enunciati in maniera, che può sembrare astratta ed altresì retorica.

C’è bisogno di dire, parlando dei partiti, che si debba concorrere con essi a determinare la politica nazionale «con spirito democratico»? Si tratta di una spiegazione ovvia, che non trova materia in un testo costituzionale.

Altrettanto appare per lo meno privo di un intrinseco significato il terzo comma dell’articolo 49, che afferma lo spirito democratico dell’esercito. Ma non è di tali questioni che intendo specificamente occuparmi, lasciando che di esse trattino i competenti di diritto pubblico e di ordinamento militare. Io desidero in modo speciale richiamare l’attenzione di questa Assemblea sul valore politico e sociale dell’articolo 50, e, particolarmente, del secondo comma di tale articolo.

L’articolo 50 vuole riassumere, evidentemente, ciò che in senso stretto può definirsi il rapporto che intercede tra il cittadino e lo Stato. Nel primo comma si precisano i doveri del cittadino verso la Repubblica: doveri di fedeltà, di osservanza delle leggi, di adempimento delle funzioni che gli sono affidate.

Nel secondo comma, invece, si indica al cittadino ciò che deve fare quando ritenga che i suoi diritti siano conculcati e le sue libertà violate.

Il cittadino, dice espressamente questa progettata norma, deve resistere all’oppressione. Ha il diritto ed il dovere, anzi, chiarisce la citata norma, di resistere all’oppressione.

Si tratta, come è evidente, di codificare il diritto di resistenza; un diritto che è, come è noto, assai discusso e che qui si presenta sotto un profilo di eccezionale gravità. Orbene, ritengo che sia un nostro preciso obbligo valutare la portata di una siffatta determinazione; ritengo doveroso che ci si soffermi sul suo significato, sulle sue proiezioni, sulle sue possibili interpretazioni ed applicazioni, prima di assumerci la responsabilità, veramente grave, di approvarla. Intanto conviene subito chiederci: si parla di resistenza. Ma di che specie di resistenza si tratta? Un insigne Maestro di diritto pubblico, il nostro illustre e venerato collega Vittorio Emanuele Orlando, ha dedicato a siffatto tema un suo lavoro che, benché scritto quand’era ancora giovanissimo, è tuttora ricco di dottrina e di sapienza politica e giuridica. Io, che sono inesperto in materia, non potevo trovare, credo, un punto di orientamento migliore di quel libro. Ebbene, nel suo saggio, Vittorio Emanuele Orlando distingue tre tipi di «resistenza» sul piano giuridico e politico: la resistenza individuale, la resistenza collettiva legale e la resistenza collettiva rivoluzionaria. La norma sancita dall’articolo 50 parrebbe riferirsi al tipo della resistenza individuale. Vi si dice, infatti, che il cittadino è tenuto a resistere all’oppressione. Ma non è sulla parola che occorre soffermarsi. Il testo non parla di speciali e determinati casi di violazione di diritti; il testo parla di poteri pubblici che violino le libertà ed i diritti, parla di oppressione, che non può essere esercitata che nei confronti di tutti i cittadini o per lo meno di una gran parte di cittadini. Deve, pertanto, escludersi che si voglia parlare di resistenza individuale; deve ritenersi invece che si tratti di resistenza collettiva. Resta da stabilire se debba intendersi tale resistenza come legale o come insurrezionale; se cioè essa possa e debba effettuarsi con mezzi offerti dalla legge o con mezzi violenti. Tutto lascerebbe presumere che la formula adottata debba interpretarsi più nel secondo significato che nel primo.

In realtà l’articolo parla di «poteri pubblici» che violino le libertà fondamentali ed i diritti garantiti dalla Costituzione. Chi sono i poteri pubblici che possono effettuare tele violazione in modo da provocare la resistenza, in modo che si possa parlare di oppressione? Sono le alte cariche dello Stato, sono le Assemblee legislative, sono i componenti del Governo.

Ma il progetto di Costituzione prevede già, per l’eventuale violazione delle norme costituzionali, sanzioni gravissime contro tali alte personalità, che si rendessero colpevoli di simile infrazione alla Costituzione. L’articolo 85 precisa che il Capo dello Stato può essere messo sotto accusa per alto tradimento o per violazione della Costituzione. L’articolo 90 determina che possono essere posti sotto accusa dalle due Camere il Primo Ministro ed i Ministri per atti compiuti nell’esercizio delle loro funzioni; e fra tali atti, evidentemente, devono comprendersi anche e soprattutto quelli relativi al pieno adempimento delle norme costituzionali.

È prevista, infine, al Titolo VI, una Corte Costituzionale a garanzia, nei confronti di tutti i poteri dello Stato, della piena e fedele osservanza della Costituzione. Questa è già, dunque, la resistenza legale sancita, giustamente e saggiamente, dal nostro testo, che in tale materia si dimostra più avanzato di altri testi stranieri anche recenti. Ed è opportuno, è necessario, premunirsi da eventuali abusi che i pubblici poteri, dai più alti ai più bassi, potrebbero compiere a danno della libertà, dei diritti civili e politici dei cittadini; è doveroso, e direi persino di suprema importanza, effettuare tale garanzia, perché la libertà è troppo cara per poterne permettere la manomissione da parte di un gruppo o di un partito; ed i diritti civili sono troppo preziosi per rischiare di perderli. Nessuno di noi potrebbe nutrire dubbi di sorta su una siffatta necessità, nessuno di noi potrebbe avere perplessità od incertezze al riguardo.

Ma altro è affermare la garanzia legale, quella che istituti chiaramente determinati ed organi particolarmente adatti possono e devono effettuare; ed altro è aprire la porta alla rivolta, al disordine.

Perché questo rischio include l’articolo 50: il rischio di una rivoluzione sempre possibile. Infatti, è assai evidente che con l’approvazione di tale articolo, qualunque sommossa, qualunque rivolta può essere non solo «lecita» ma «legittima». Che cosa si vuole intendere por violazione delle libertà fondamentali? Che cosa soprattutto si vuole intendere per diritti garantiti dalla Costituzione? Se bisogna dare un significato alle parole ed un senso preciso alle disposizioni del testo costituzionale, ebbene, dobbiamo convenire che questo progetto enuncia molti diritti, che in teoria possono essere assai apprezzabili, ma di cui non potremmo garantire in pratica l’attuazione da parte della Repubblica.

Giorni or sono è stato approvato l’articolo 31, che riconosce a tutti i cittadini il diritto al lavoro. Indubbiamente si tratta di una affermazione coraggiosa, la cui portata sociale è di grande rilievo. Ma se e quando un tale diritto non sarà operante – e non potrà essere, almeno per ora, operante – se e quando vi saranno masse di disoccupati che busseranno invano alle ponte dello Stato per aver lavoro, per godere del pratico esercizio di un diritto chiaramente riconosciuto, allora si potrebbe anche parlare di un diritto che, quantunque garantito dalla Costituzione, si considererebbe violato; allora si potrebbe dire che c’è oppressione di una classe o di una oligarchia e si renderebbe legittima la resistenza e quindi la rivoluzione. Perché, onorevoli colleghi, resistenza significa, nel modo con cui è stato redatto il secondo comma dell’articolo 50, nello spirito del testo proposto, resistenza significa principio di rivoluzione, una rivoluzione che può avere, nell’intenzione migliore, per fine la rimozione dell’ostacolo che si frappone alla realizzazione del diritto conculcato, delle libertà offese; ma che quando scoppia, non ha più un fine preciso, perché le rivoluzioni si può forse sapere come e perché cominciano, ma non si sa mai come finiscono. Ora, nessuno di noi ha paura di battersi per la difesa della libertà e dei diritti; nessuno di noi paventa per viltà le conseguenze, che l’approvazione dell’articolo 50 potrebbe importare. Io non critico questo articolo per amor di reazione o per spirito conservatore o retrivo. Io dico soltanto che è inopportuno, mentre il nostro paese ha bisogno di ordine e di concordia, iniziare la nostra nuova esistenza di Stato democratico con una Costituzione, la quale contenga la scintilla della ribellione e del disordine; lo considero inopportuno, innanzi tutto per ragioni immediate, ma altresì per ragioni che discendono dal convincimento, che un ordine fondato sulla morale cattolica e sui principî sociali cristiani non può riconoscere agli individui la libertà di opposizione violenta ai pubblici poteri. La dottrina cattolica, che non può non costituire la base ed il fondamento della nostra costruzione sociale e civile, è dichiaratamente contraria ad intromettere nella società il disordine e la rivolta in permanenza. La dottrina morale cattolica ammette che solo in casi eccezionalissimi, riusciti vani tutti gli altri mezzi pacifici, può esserci una resistenza attiva contro una insopportabile tirannia; fedele, in ciò, al pensiero di S. Tommaso il quale, nella certezza che una resistenza con le armi generi quasi inevitabilmente avversità assai peggiori dei mali causati dalla tirannia, insegna che qualora si tratti di oppressione non del tutto eccessiva ed insopportabile, il popolo deve subirla in pace, in vista delle imprescindibili esigenze del fine pubblico. Ed è a tale dottrina cattolica, che anche recentemente si sono ispirati molti di noi, tanti di noi, nella lotta per la libertà contro la tirannide e per la giustizia contro l’oppressione politica e civile.

La rivolta, onorevoli colleghi, non è mai codificabile, non può costituire materia di Costituzione. La rivolta, quando è largamente sentita, quando scaturisce dalla coscienza, quando esplode dai fatti, non ha un codice che la regoli, non ha un testo che la disciplini. Essa è da prima guidata, a seconda dei casi, dal sentimento oppure dagli istinti, e poi è giudicata dalla storia, che è quanto dire dal giudizio dei posteri e dagli avvenimenti successivi. Con l’approvazione dell’articolo 50 noi ci assumeremmo la tremenda responsabilità di dare un crisma di legittimità alla rivoluzione, ad ogni rivoluzione, perché si potrà sempre parlare, da parte di chi che sia, di libertà o di diritti violati; ci assumeremmo, soprattutto, la responsabilità ancora più grande di favorire qualsiasi specioso pretesto per dar corso ad ogni sorta di rivoluzione. Ma le rivoluzioni, ripeto, non stanno, non possono stare né nelle Costituzioni, né nel diritto. Esse stanno nell’imprevisto della vita sociale, stanno nei meandri, anche se logici e talvolta stupendi, della storia. Togliamo dal testo di questo progetto ogni scintilla d’odio, ogni motivo di lotta politica e sociale. Omettiamo il secondo comma dell’articolo 50.

Purtroppo la realtà sociale è già tanto impregnata di rancore e di violenza, da non consentirci di rinfocolare né l’uno né l’altra. Se fosse possibile, io suggerirei di mettere al posto del secondo comma dell’articolo 50 una invocazione alla solidarietà ed alla pace. Ma ciò forse non è possibile. Ed allora, se non possiamo dire una parola d’amore e di concordia, non diciamo neppure parole che suonano di richiamo all’attrito sociale, alla guerra civile, alla contesa fratricida. Altrimenti un giorno, forse non lontano, i nostri figli potrebbero maledirci per aver instillato odio e non umana simpatia, per aver seminato rovine in luogo di promuovere una pacifica ricostruzione. (Applausi al centro e a destra).

PRESIDENTE. È inscritto a parlare l’onorevole Caporali. Ne ha facoltà.

CAPORALI. Farò alcune considerazioni per ciò che riguarda in modo particolare il voto degli italiani all’estero. I colleghi, onorevole Piemonte e onorevole Schiavetti, hanno esaurientemente esaminato e approfondito la questione. Mi limiterò quindi ad insistere sulla opportunità che l’Assemblea Costituente abbia a riconoscere questo diritto. È necessario anche che il legislatore di domani consideri come gli italiani, i quali hanno acquistato la nazionalità di un altro paese, non debbano essere considerati, come faceva il fascismo, dei rinnegati. Li deve invece considerare come dei figli i quali, al di là dei confini della Patria, continuano a portare in alto il sentimento del nostro Paese e continuano, in modo particolare, ad essere degni figli della Madre Italia. Noi dobbiamo rovesciare su questo tema il vapore, cioè dobbiamo facilitare a mezzo di disposizioni legislative appropriate l’acquisizione del diritto al voto ai nostri emigrati e, nel tempo stesso, dobbiamo fare in modo che disposizioni legislative, anche esse appropriate, rendano possibile il ritorno, per gli emigrati naturalizzati, alla nazionalità italiana quando la richiedano.

In modo particolare queste facilitazioni devono essere riservate agli italiani appartenenti alla emigrazione transoceanica, poiché per quelli dell’emigrazione continentale dell’Europa o dell’Africa, ciò è più facile.

Occorre, soprattutto, considerare l’apporto che gli italiani all’estero offrono e compiono, sul terreno della solidarietà e della propagazione dei principî di pace e di democrazia.

L’onorevole Piemonte e l’onorevole Schiavetti hanno parlato dello sforzo titanico che hanno compiuto gli italiani all’estero.

Il fascismo ha disonorato tutto in Italia; ha cercato di disonorare anche l’emigrazione italiana, quando pretendeva che i nostri compatrioti andassero all’estero con le aquile romane nella valigia.

Gli italiani all’estero, malgrado la diffamazione ventennale del fascismo, hanno saputo conquistarsi un posto di onore; e non ho bisogno di dimostrare tutto quanto essi hanno compiuto in Europa.

Mi soffermerò solo un istante per dirvi che in Francia, nel Lussemburgo, nel Belgio, i lavoratori italiani nelle miniere e negli alti forni, hanno compiuto dei miracoli di energia e di attività.

I nostri contadini nel sud-ovest della Francia hanno saputo rendere produttivi e prosperi migliaia di ettari di terreno, che erano stati abbandonati. E questo è titolo di gloria e di onore del proletariato italiano, dei lavoratori italiani dei campi e delle officine, che non si deve obliare.

L’Assemblea Costituente si onorerà, se darà a questi italiani la possibilità di potere essere rappresentati nel Parlamento italiano.

Io ho poi presentato, a mio nome personale, come vecchio pacifista integrale e intransigente – ed avrei avuto piacere che fosse stato presentato dalla parte democristiana dell’Assemblea – un emendamento sugli obiettori di coscienza.

È un problema che non deve essere preso alla leggera.

Obiettare vuol dire compiere un atto meritorio, condannando quello che la guerra ha di più crudele e di più orribile e vuol dire soprattutto negare la guerra.

E siccome il problema merita profonda considerazione, io avrei voluto trattarlo dinanzi ad una Assemblea numerosa.

Tuttavia, mi limiterò a dirvi che gli obiettori di coscienza non sono degli irregolari, essi non devono confondersi con i disertori; essi chiedono di servire la Patria in umiltà, rivendicando il diritto di non tradire i principî spirituali, ai quali sono legati dalle loro convinzioni umane.

«Tu non ucciderai»: questo meraviglioso imperativo del Vangelo cristiano è stato troppo dimenticato dagli uomini, perché non debba essere ripreso oggi da tutti coloro i quali, al di sopra e al di là d’ogni credenza, ne facciano uni simbolo di pace e di solidarietà umana.

Coscrizione obbligatoria od esercito mercenario? Ma i termini si equivalgono. Quando la Patria lo esigesse, tutti i suoi figli dovranno compiere il loro dovere.

Sia accordato almeno agli obiettori di coscienza, agli avversari tenaci e irriducibili di sempre della violenza che è arida ed infeconda, bestiale e selvaggia, sia essa individuale o collettiva, la possibilità di cooperare nella difesa del suolo della Patria nei settori dell’assistenza e della solidarietà che hanno comuni i rischi e i dolori, ma senza il triste onere di portare le armi fratricide.

La guerra si combatte negandola e disonorandola.

Gli obiettori di coscienza costituiscono la pattuglia avanzata della nuova umanità che si ostina a credere nella maestà della vita contro tutte le forze che tendono a degradarla. (Applausi).

Sui lavori dell’Assemblea.

PRESIDENTE. Il seguito di questa discussione è rinviato a domani.

PESENTI. Chiedo di parlare.

PRESIDENTE. Ne ha facoltà.

PESENTI. Signor Presidente, onorevoli colleghi, domani alle ore 10, nell’Aula Magna dell’università, si apre la prima Conferenza nazionale dei centri economici della ricostruzione.

Vorrei pregare il signor Presidente di non porre una seduta mattutina per mettere i colleghi in condizione di poter partecipare a questa riunione.

PRESIDENTE. Gli onorevoli colleghi hanno inteso la richiesta dell’onorevole Pesenti.

Se non vi sono osservazioni, resta stabilito che si terrà seduta domani nel pomeriggio, alle 16.

(Così rimane stabilito).

Avverto che i deputati ancora inscritti a parlare nella discussione generale sono tre, e che domani potrà parlare il Relatore onorevole Umberto Merlin.

La seduta termina alle 20.

Ordine del giorno per la seduta di domani.

Alle ore 16:

Seguito della discussione del progetto di Costituzione della Repubblica italiana.

LUNEDÌ 19 MAGGIO 1947

ASSEMBLEA COSTITUENTE

CXXVI.

SEDUTA DI LUNEDÌ 19 MAGGIO 1947

PRESIDENZA DEL PRESIDENTE TERRACINI

indi

DEL VICEPRESIDENTE TUPINI

INDICE

Commemorazione di Antonio Fratti:

Spallicci                                                                                                          

Presidente                                                                                                        

Congedi:

Presidente                                                                                                        

Risposte scritte ad interrogazioni (Annunzio):

Presidente                                                                                                        

Domande di autorizzazione a procedere:

Presidente                                                                                                        

Progetto di Costituzione della Repubblica italiana (Seguito della discussione):

Presidente                                                                                                        

Zerbi                                                                                                                 

Nobile                                                                                                               

Quintieri Quinto                                                                                             

Salerno                                                                                                            

Mazza                                                                                                               

Adonnino                                                                                                         

Persico                                                                                                             

Einaudi                                                                                                             

Ruini, Presidente della Commissione per la Costituzione                                      

Colitto                                                                                                             

Cortese                                                                                                            

Taviani                                                                                                  Laconi      

Arcaini                                                                                                             

Fabbri                                                                                                               

Dominedò                                                                                                         

Castelli Edgardo                                                                                           

Scoca                                                                                                                

Meda                                                                                                                 

Rodi                                                                                                      Micheli      

Nasi                                                                                                                   

Selvaggi                                                                                                           

Gasparotto                                                                                                      

Caristia                                                                                                            

Bencivenga                                                                                                      

Risposte di Parlamenti esteri al messaggio dell’Assemblea Costituente italiana:

Presidente                                                                                                        

La sedata comincia alle 15.

MOLINELLI, Segretario, legge il processo verbale della seduta pomeridiana del 13 maggio.

(È approvato).

Commemorazione di Antonio Fratti.

SPALLICCI. Chiedo di parlare.

PRESIDENTE. Ne ha facoltà.

SPALLICCI. Onorevoli colleghi, sabato scorso ricorreva il cinquantesimo anniversario della morte del deputato repubblicano Antonio Fratti, caduto a Domokos nel 1897 per la libertà della Grecia. Crediamo doveroso rammentarlo in questa aula, dopo che ieri la nativa Forlì gli ha tributato commosse e solenni onoranze. Egli ebbe a compagni in quella gesta garibaldina l’onorevole Arturo Labriola che fa parte di questa Assemblea, l’onorevole Gian Battista Pirolini, gli onorevoli De Felice Giuffrida e Bernardino Verro di parte socialista e Pio Schinetti che tutti quanti hanno il culto delle lettere ricordano con affettuoso rimpianto. Antonio Fratti, uomo d’azione del nostro Risorgimento, confermò in terra di Grecia, morendo per la patria altrui, l’ideale mazziniano che lo aveva spinto da Vezza d’Oglio a Mentana e a Digione. Così come Nullo in Polonia, Giorgio Imbriani ed il fratello di Felice Cavallotti sui Vosgi, Lamberto Duranti e i fratelli Garibaldi sulle Argonne, Mario Corvisieri e Mario Conforti sulla Drina, in favore dei Serbi nel 1914.

Egli confortò dell’ultimo abbraccio Guglielmo Oberdan, già avviato al sacrificio e ne custodì prima e ne rese pubblico poi il solenne testamento agli Italiani.

Diresse quella Rivista Popolare che assieme a Napoleone Colajanni mise l’accento sulla soluzione sociale della nostra dottrina repubblicana.

Noi lo ricordiamo oggi, perché dopo la parentesi oscura del fascismo ci riconcilia col nostro Risorgimento.

Questa rievocazione in quest’aula dica al popolo greco, che vive la sua ora tormentosa e tormentata in questa torbida ripresa della sua vita nazionale ancor dominata da risorgenti fantasmi di guerra, che l’Italia non è e non può essere quella che vide in fez e in orbace scatenata ai suoi danni in una guerra d’avvoltoi, ma che l’Italia è nel suo nuovo aspetto repubblicano quella che – indossando la camicia rossa di Antonio Fratti – venne a lei anche nella sua lotta recente per la rivendicazione della sua indipendenza, nel nome della libertà e della fratellanza fra i popoli.

Oggi, sciogliendo un voto che fu, nell’anno del suo sacrificio, formulato qui e che non ebbe seguito, vorrei che l’immagine del nostro eroico combattente fosse fermata nel marmo, nella Galleria dei Deputati che onorarono questa Assemblea, l’Italia e l’Umanità. (Applausi).

PRESIDENTE. Desidero manifestare l’adesione mia personale e dell’Assemblea alle parole commemorative e celebrative del collega onorevole Spallicci in memoria di Antonio Fratti.

Nei giorni scorsi, invitato dalla città di Forlì a partecipare alle onoranze, fatte ieri, in memoria di Antonio Fratti, ho inviato il seguente telegramma di adesione, a nome dell’Assemblea:

«Rammaricando vivamente impegni precedenti impediscanomi essere costì giorno onoranze Antonio Fratti plaudo et aderisco iniziativa nobilissima. Coronando massimo eroico olocausto la sua vita tutta intesa indicare popolo italiano vie sicuro rinnovamento et ascesa oltre stagnante umiliata costrizione monarchica Antonio Fratti dette anche fulgido esempio di leale, battagliera incorrotta attività parlamentare. Interpretando sentimenti Assemblea Costituente Repubblica italiana tributo memoria grande figlio città vostra omaggio reverente».

Antonio Fratti, oltre a lottare per la libertà della sua Patria, ha voluto lottare anche per la libertà di altri popoli; e possiamo in questo momento ricordare che i soldati, che si trovarono in Grecia dopo il settembre del 1943, hanno saputo emulare l’eroismo ed il sacrificio di Antonio Fratti, unendosi alle forze popolari greche, che lottarono contro i tedeschi, per la liberazione della loro terra.

Noi accomuniamo nell’omaggio il più ardito maestro su questa strada di virtù eroiche a questi più recenti ed egualmente eroici allievi.

E spero, col collega Spallicci, che questo esempio non resti ignoto al popolo greco, in questo periodo in cui stiamo riallacciando con esso, così faticosamente, i nostri vecchi rapporti di amicizia. (Vivi applausi).

Congedi.

PRESIDENTE. Comunico che hanno chiesto congedo i deputati Ghidini, Giacchero, Crispo, Gullo Rocco, Merighi.

(Sono concessi).

Annunzio di risposte scritte ad interrogazioni.

PRESIDENTE. La Presidenza del Consiglio ed i Ministeri dell’interno, di grazia e giustizia, delle finanze e tesoro, della difesa, della pubblica istruzione, dell’agricoltura e foreste, dei trasporti, del lavoro e della previdenza sociale, della marina mercantile e dell’Africa italiana, hanno fatto pervenire alla Presidenza risposte scritte ad interrogazioni presentate da onorevoli Deputati.

Tali risposte saranno pubblicate in allegato al resoconto stenografico.

 

Domande di autorizzazione a procedere in giudizio.

PRESIDENTE. Il Ministro di grazia e giustizia ha trasmesso le seguenti domande di autorizzazione a procedere in giudizio:

contro il deputato Bernamonti, per il reato di diffamazione a mezzo della stampa;

contro i deputati Longhena e Zanardi, per il reato di diffamazione a mezzo della stampa;

contro il deputato Cremaschi Olindo, per il reato di cui all’articolo 336 del Codice penale;

contro il deputato Villani Ezio, p.er il reato di diffamazione a mezzo della stampa.

Saranno stampate, distribuite ed inviate alla Commissione competente.

Seguito della discussione del progetto di Costituzione della Repubblica italiana.

PRESIDENTE. L’ordine del giorno reca il seguito della discussione del progetto di Costituzione della Repubblica italiana.

Dobbiamo esaminare l’articolo 44, ultimo del Titolo terzo sui rapporti economici.

L’articolo è del seguente tenore:

«La Repubblica tutela il risparmio; disciplina, coordina e controlla l’esercizio del credito».

Sono stati presentati numerosi emendamenti a questo articolo. I seguenti sono stati già svolti:

«Sostituirlo col seguente:

«Lo Stato incoraggia e tutela il risparmio e vigila sull’esercizio del credito e sugli istituti bancari con un organo di coordinamento stabilito per legge.

«Colitto».

«Sostituirlo col seguente:

«La Repubblica favorisce e tutela il risparmio; a tal fine disciplina, coordina e controlla l’esercizio del credito.

«Cortese».

Segue l’emendamento dell’onorevole Marina:

«Sostituirlo col seguente:

«Lo Stato incoraggia e tutela il risparmio: controlla e coordina l’esercizio del credito».

Non essendo l’onorevole Marina presente, si intende che abbia rinunciato a svolgerlo.

Gli onorevoli Zerbi, Malvestiti, Cappugi, Belotti, Balduzzi, Avanzini, Morelli, Pat, Sampietro, Pastore Giulio, Cotellessa, Bianchini Laura, Castelli Avolio, Ferrario Celestino, Gui, Quarello, De Maria, Coccia, Pella, Meda, Delli Castelli Filomena, Benvenuti, Clerici, Baracco, Bovetti, Gortani, Arcaini, hanno presentato il seguente emendamento:

«Sostituirlo col seguente:

«La Repubblica tutela il risparmio in tutte le sue forme e favorisce l’accesso del risparmio popolare all’investimento reale promuovendo la diffusione della proprietà dell’abitazione, della proprietà diretta coltivatrice, del diretto ed indiretto investimento azionario nei grandi complessi produttivi del Paese.

«La Repubblica disciplina, coordina e controlla l’esercizio del credito».

L’onorevole Zerbi ha facoltà di svolgerlo.

ZERBI. Onorevoli colleghi, l’emendamento che a nome di un folto gruppo di deputati ho l’onore di proporre alla vostra benevola attenzione dice: «La Repubblica tutela il risparmio in tutte le sue forme e favorisce l’accesso del risparmio popolare all’investimento reale promuovendo la diffusione della proprietà dell’abitazione, della proprietà diretta coltivatrice, del diretto ed indiretto investimento azionario nei grandi complessi produttivi del Paese.

«La Repubblica disciplina, coordina e controlla l’esercizio del credito».

Esso vuole esprimere il lamento di milioni e milioni di piccoli risparmiatori italiani, la tragedia – dirò senza iperbole – di tutta la nostra generazione di piccoli risparmiatori, che negli ultimi trenta anni o poco più, ha veduto il potere di acquisto della lira ridotto ad un centoquarantesimo della lira del 1913 o ad un trentacinquesimo della lira che correva nella pausa fra la prima e la seconda guerra mondiale. Tale immane tragedia ha inciso proprio e sopratutto sui risparmi delle classi popolari. Il risparmio delle classi ricche, per le sue stesse dimensioni e per la conoscenza che la ricca borghesia possiede delle multiformi vie di investimento e reinvestimento, sa ben trovare da solo impieghi che lo difendano dalla svalutazione monetaria e bene spesso sa volgere la svalutazione medesima a proprio vantaggio. È invece il piccolo risparmio delle classi popolari, il quale spesso indugia forzatamente nelle forme più semplici dell’investimento monetario – nel deposito bancario, nel titolo di Stato, nell’obbligazione – che più si è trovato esposto alle intemperie della moneta, le quali hanno caratterizzato questo ultimo trentennio e lo hanno gravemente sinistrato nella prima guerra vittoriosa e lo hanno annichilito dopo questa seconda sfortunata guerra. Per la sua stessa limitata entità individuale e per la scarsa conoscenza che il piccolo risparmiatore popolare ha delle svariate possibilità del mercato finanziario, i singoli piccoli risparmiatori continuerebbero anche nel futuro a non sapere difendersi da soli contro eventuali ulteriori bufere monetarie.

Rilevo con vivo compiacimento che la tragedia del piccolo risparmio popolare è ben presente a colleghi di ogni settore.

L’onorevole Nobile ha pure presentato un emendamento per la tutela del piccolo risparmio, auspicando che la futura legislazione rechi provvedimenti intesi a riparare i danni causati a tale risparmio da eventuali inflazioni monetarie. L’onorevole Quintieri Quinto ne ha presentato uno il quale impegna la Repubblica a tutelare il valore della moneta nazionale ed il risparmio. Infine anche gli onorevoli Einaudi, Corbino, Lucifero, Condorelli ed altri propongono un emendamento al fine di garantire costituzionalmente il rispetto della clausola oro.

L’emendamento Quintieri, e sia pure meno esplicitamente, quello Nobile esprimono un encomiabilissimo, eroico proposito, che purtroppo la Repubblica Italiana non può garantire di saper tradurre in atto.

La nostra lira è una modesta valuta la quale nella più benevola ipotesi può contare di riuscire a mantenersi stabile nel domani, tutt’al più fin tanto che si manterranno stabili la sterlina e soprattutto il dollaro. Ma quando una di tali grandi monete regolatrici del mercato internazionale cadesse, noi saremmo trascinati con essa nella caduta, saremmo indotti ad «allinearci», come usa dirsi eufemisticamente, non foss’altro che per le esigenze delle nostre correnti esportatrici.

Più efficace sarebbe, indubbiamente, la salvaguardia della clausola oro, per quanto di tale clausola non sarebbe certo il risparmio popolare ad approfittare abitualmente.

La stessa nobile preoccupazione per le sorti del piccolo risparmio emerge dall’emendamento dell’onorevole Salerno il quale vorrebbe tutelato «il risparmio che trae origine dal lavoro»; essa è implicita nell’emendamento dell’onorevole Barbareschi che vuole impegnare la Repubblica a favorire oltre che a tutelare il risparmio; essa s’intravede infine anche come presupposto dell’emendamento dell’onorevole Mazza a favore delle piccole e medie aziende.

Gli uni come gli altri emendamenti proposti all’articolo 44 del Progetto palesano il desiderio di garantire, in qualche forma nuova, il mantenimento del potere di acquisto del risparmio monetario.

Senonché, io ritengo che il solo mezzo che l’esperienza storica abbia dimostrato sufficientemente efficace per difendere, almeno in larga parte, il contenuto economico del risparmio delle classi operaie, artigiane, impiegatizie, pensionate, insomma del piccolo risparmio popolare sia nello spalancare a tale piccolo risparmio anche le porte dell’investimento reale in beni strumentali, sia nell’educare tale piccolo risparmio a tali investimenti, sia nel munirlo di strumenti economico-giuridici nuovi o di nuove forme associative, atte a redimere il risparmio popolare da quel complesso di inferiorità che finora lo ha fatto soccombente alle vicende della moneta.

L’emendamento da noi proposto è in parte esemplificativo. Dopo avere impegnata la Repubblica genericamente a favorire l’accesso del risparmio popolare all’investimento reale, il nostro emendamento auspica anzitutto la diffusione della proprietà dell’abitazione. Anche per la ristrettezza di tempo lasciata all’illustrazione dell’emendamento, è superfluo che io indugi a richiamare le varie forme di aiuto che lo Stato può predisporre per la diffusione della proprietà o della comproprietà dell’abitazione. L’emendamento auspica poi «la diffusione della proprietà diretta coltivatrice»: è questa una viva aspirazione di larghissime masse popolari delle nostre campagne ed io credo che noi incoraggeremmo molto efficacemente il risparmio delle nostre classi contadine, quando richiamassimo nella Costituzione questa loro aspirazione quale finalità sociale della nostra Repubblica. Il nostro emendamento vuole infine impegnare il futuro legislatore a facilitare al risparmio popolare il diretto ed indiretto investimento azionario nei grandi complessi produttivi del Paese.

Mi si potrebbe obiettare che nessuna remora esplicita la nostra legislazione pone a che le quote del piccolo risparmio popolare abbiano libero accesso anche all’investimento azionario, mentre le Borse valori spalancano indiscriminatamente le proprie porte a chiunque abbia danaro in cerca d’impiego.

Tutto ciò è vero, ma è altrettanto vero che in concreto fattori di varia indole hanno finora operato nel nostro Paese nel senso di convogliare il risparmio popolare verso gli investimenti monetari a reddito fisso, ossia verso quegli impieghi che già la prima inflazione aveva largamente falcidiato di contenuto economico e che questa seconda ha ormai pressoché annichilito.

La scarsa competenza del singolo risparmiatore popolare a valutare serenamente i rischi tecnici ed economici connessi all’investimento azionario, hanno costituito finora remora grave a che il risparmio popolare accedesse a questa forma d’impiego, capace di garantire a sufficienza contro le male conseguenze delle svalutazioni monetarie.

Ma è soprattutto la limitata dimensione dei singoli risparmi personali o familiari la quale, in linea di fatto, non suole consentire all’operaio, all’artigiano, al pensionato, e neppure al modesto impiegato od al piccolo professionista, di assortire un pacchetto azionario costituito da impieghi opportunamente ripartiti fra vari settori produttivi, in guisa da trarne un dividendo medio sufficientemente rimunerativo e non troppo variabile e da salvaguardare al tempo stesso nel suo insieme il capitale economico investito, pur frammezzo alle alterne vicende di prosperità e di crisi che caratterizzano la gestione di molte imprese e che più o meno mediatamente si ripercuotono sui dividendi e sui corsi dei titoli azionari.

Noi non ignoriamo che nel nostro Paese sono oggi in atto movimenti i quali tendono a diffondere il diretto investimento azionario anche presso ceti di risparmiatori fino a ieri estranei a questo tipo di investimento. Ce li segnala anche l’inusitata attività borsistica tuttora in corso. Non ignoriamo che talune nostre grandi imprese, specie nel nord, hanno recentemente assegnato opzioni ai propri dipendenti, ed attraverso queste opzioni li hanno ammessi ad un sia pure limitato investimento dei loro risparmi nella azienda stessa dove lavorano. Noi ci avviamo ad avere una discreta partecipazione di talune masse impiegatizie ed operaie al capitale di taluni dei nostri grandi complessi produttivi.

Ma io ritengo che la Repubblica italiana debba preoccuparsi di volgarizzare questa forma di investimento presso tutte le nostre classi popolari.

All’incirca un secolo fa, in seguito a vicende che potremmo designare come semplici ventate a paragone della catastrofica bufera che in questi ultimi anni ha squassato in Italia gli investimenti monetari a reddito fisso, il piccolo e medio risparmiatore inglese congegnarono la propria difesa nel cosiddetto investment trust, organismo di concentrazione del risparmio, capace di attuare accorti assortimenti di investimenti e di rischi azionari ed obbligazionari, pronto a mutare tempestivamente gli investimenti medesimi in rapporto alle variabili tendenze del mercato monetario e finanziario all’intento di assicurare al risparmio stesso un optimum di sicurezza e di stabilità di contenuto economico insieme alla più alta rimunerazione possibile.

Io credo che l’investment trust possa essere molto utilmente diffuso anche nel nostro Paese, sia nella sua struttura tradizionale sia e soprattutto nella forma di grandi cooperative d’investimento, le quali in varia guisa potrebbero anche coordinare le finalità caratteristiche dell’investment trust con quelle di holding popolari oppure d’impiegati ed operai risparmiatori. La tirannia dei pochi minuti accordatimi dal regolamento non mi consente di analizzare le concrete possibilità di fecondo sviluppo dell’investimento associativo, ma il chiaro intuito degli onorevoli colleghi non può non prospettare a loro gli enormi vantaggi che le classi piccolo risparmiatrici trarrebbero dalla diffusione di investment trusts o meglio di sane cooperative d’investimento capaci di educare ed avviare larga quota del risparmio popolare ad essere partecipe dei grandi complessi produttivi del Paese e ad essere protetta contro le deprecatissime ma storicamente inevitabili svalutazioni del modulo monetario, attraverso un tale indiretto ed opportunamente assortito investimento reale.

Mediante le accennate forme d’investimento associativo noi diffonderemmo la piccola comproprietà dei grandi capitali industriali, noi intesseremmo concreti motivi di solidarietà economica fra molti del nostro popolo ed i maggiori dei nostri complessi produttivi ed erigeremmo, al tempo stesso, validi strumenti di meno iniqua redistribuzione fra le varie classi sociali delle male conseguenze di future bufere monetarie. Per tutte queste considerazioni io ritengo che la nostra Costituzione non possa ignorare l’accennato problema e, nella forma qui proposta, o in altra più acconcia, io penso debba impegnare il futuro legislatore alla ricerca di una sostanziale e non appena nominale difesa del risparmio popolare.

Solo documentando con opportune leggi ed istituzioni la nostra decisa volontà di vigilare a siffatta sostanziale difesa, noi potremo nuovamente esaltare quella che è stata una delle migliori caratteristiche del nostro popolo: la virtù del risparmio, la quale condiziona la nostra stessa rinascita economica. (Applausi).

PRESIDENTE. L’onorevole Nobile ha presentato il seguente emendamento:

«Sopprimere la frase: La Repubblica tutela il risparmio; ed in via subordinata, sostituirla come segue:

«La Repubblica tutela il piccolo risparmio; e a tal fine la legge emana i provvedimenti opportuni per riparare i danni ad esso causati da eventuali inflazioni monetarie».

Ha facoltà di svolgerlo.

NOBILE. Sarò molto breve. Nell’articolo 44 si afferma che «la Repubblica tutela il risparmio». Propongo la soppressione di una tale frase che sembra vuota e retorica ed in aperto contrasto con i fatti.

Il prestito cosiddetto della ricostruzione venne emesso a lire 97,50; cinque giorni fa era quotato in Borsa a lire 81, con una perdita del 16 per cento del suo valore primitivo. Se a ciò si aggiunge la diminuzione subita dal potere di acquisto della lira, dopo l’emissione del prestito, si conclude che la perdita effettiva di valore di questo titolo statale, emesso dalla Repubblica, è di molto maggiore. Che cosa ha fatto lo Stato, fino ad oggi, per riparare al danno che ne è derivato ai cittadini che investirono i loro risparmi in questo prestito? Nulla, che io sappia.

Ho parlato del prestito della ricostruzione ma il discorso vale ugualmente per il risparmio affidato alle Casse Postali o all’istituto Nazionale delle Assicurazioni. Milioni di lavoratori, che avevano fiducia nella stabilità della lira, hanno negli anni scorsi prestato allo Stato italiano il loro danaro, acquistando buoni postali o depositandoli nelle Casse di Risparmio. Nel 1939 il numero dei libretti e dei buoni postali ammontava niente di meno che a 17 milioni 760 mila, per un ammontare di circa 32 miliardi. Questo vuol dire che il valore medio di ogni deposito o buono era di appena 1800 lire. Si tratta dunque veramente di piccolo risparmio, frutto di lavoro. Ma che cosa valgono oggi quelle 1800 lire? Meno di cinquanta, forse. Quel risparmio si è pressoché volatilizzato.

Ho voluto sfogliare le statistiche dell’Istituto Nazionale delle Assicurazioni. Ho trovato che nella composizione del portafoglio di quell’Istituto il nucleo fondamentale è costituito dalle assicurazioni miste ordinarie, che rappresentano il 44 per cento del capitale assicurato. Il numero di questi contratti al 31 dicembre del 1941 era di 510 mila (cioè il 13,8 per cento del numero totale) per un ammontare di circa 10 miliardi di lire; il capitale medio assicurato era quindi di 19 mila lire circa. Vi è di più. I contratti per le forme popolari erano 1.225.000 (ben 33,1 per cento del totale) per un ammontare di 2.613.000.000 lire (11,9 per cento del totale), con una media di lire 2.132. L’esiguità di questi valori medi conferma che si tratta di piccoli risparmiatori, che nell’una e nell’altra forma affidarono allo Stato il loro piccolo gruzzolo di denaro, risparmiato a costo di molte privazioni. Orbene, questi milioni di impiegati, o piccoli professionisti, operai, artigiani che versarono nelle casse postali o in quelle dell’I.N.A. delle buone lire, se ne vedono oggi restituire altre che valgono sì o no la cinquantesima parte di quelle.

Questi milioni di lavoratori, che con quei sudati risparmi affidati ad Enti statali ritenevano di poter guardare con più serena tranquillità all’avvenire, sono i soli, se ci riflettete bene, che abbiano fin oggi pagato di fatto allo Stato una enorme tassa patrimoniale, enorme perché essa rappresenta un’aliquota del 90 o 95 per cento. Uguale sorte è toccata, in generale, a tutti quanti abbiano investito il loro denaro in titoli statali. Gli interessi sul debito pubblico, che fino ad un paio di anni fa rappresentavano, forse, la terza o quarta parte delle spese totali dello Stato, oggi ammontano appena al 4 per cento di queste. Lo Stato ha così ridotto ad una cifra insignificante il suo debito pubblico, a spese dei risparmiatori.

Borsari neri, speculatori dell’industria e commercio, non hanno pagato invece ancora alcuna imposta sul danaro malamente acquistato, mentre che l’imposta l’hanno pagata in misura esosa quelli che lira a lira, stringendosi la cintola, fecero dei risparmi con l’intendimento di crearsi una piccola pensione per la vecchiaia. Le donne di servizio, che ogni mese si recavano a comperare le marche da mettere sul libretto della previdenza, hanno pagato il 98 per cento del loro risparmio, ma nulla ha pagato ancora fino ad oggi né il grosso commerciante, né il grosso industriale.

Di fronte a questa dura, amara realtà venire oggi a proclamare solennemente nella Costituzione che la Repubblica tutela il risparmio sembra quasi un dileggio. Senza volerlo, quelli che hanno proposto tale formula hanno aggiunto la beffa al danno. Una tale frase generica è vuota di significato. Essa costituisce pura retorica la quale toglie prestigio alla Carta costituzionale. Molto meglio sopprimerla. Per tutelare il risparmio, non solo si dovrebbe arrestare il preoccupante processo di inflazione, oggi in corso, il che forse sarebbe possibile se avessimo veramente un Governo che governasse, e che desse un indirizzo a tutta l’economia nazionale, ma si dovrebbe anche iniziare il processo inverso di rivalutazione, cosa che a mio parere è assurda, e nemmeno desiderabile.

Vorrei perciò pregare il Comitato dei diciotto, che così spesso, arbitrariamente, parla a nome della Commissione dei settantacinque, che mai viene interpellata, vorrei pregare questo Comitato, che troppo spesso si ritiene infallibile, di voler accogliere la mia proposta di soppressione. Che se poi si volesse proprio insistere a parlare di tutela del risparmio, l’unico modo serio di parlarne nella Costituzione è quello di affermare che la Repubblica garantisce al piccolo risparmio, frutto del lavoro, il suo valore iniziale di acquisto.

Questo, per l’appunto, forma oggetto dell’emendamento che ho proposto in via subordinata, nel caso che non sia accolta la proposta di soppressione. (Voce da sinistra: bravo!).

PRESIDENTE. L’onorevole Quintieri Quinto ha presentato il seguente emendamento:

«Alle parole: La Repubblica tutela il risparmio, sostituire le altre: La Repubblica tutela il valore della moneta nazionale ed il risparmio».

Ha facoltà di svolgerlo.

QUINTIERI QUINTO. Mi rendo conto delle obiezioni che possono levarsi alla inclusione nella Carta costituzionale dell’emendamento da me proposto, emendamento molto semplice e che significa, in sostanza, tutelare, oltre al risparmio, anche il valore della moneta. Ma l’importanza della questione è così grande, dato che sul valore della moneta vengono ad incidere tutti i nostri dissensi nel campo economico e tutte le nostre discussioni politiche, che mi è sembrato indispensabile richiamare l’attenzione dell’Assemblea su questo che è certamente il punctum dolens della vita italiana.

Non mi faccio illusioni sulla difficoltà di difendere la lira. Quando Marco Polo andò in Cina, trovò che i tartari avevano inventato qualche cosa di simile alla nostra carta moneta e già avevano fatto la prova che il sistema non era buono, in quanto dopo poco dalla sua adozione occorreva una forte quantità di quei segni monetari per comperare un pasticcio di riso. Quindi, la svalutazione della moneta fiduciaria ha antichi precedenti; è, in certo senso, il facilis descensus Averni di Virgilio.

Come ho detto, i nostri mali economici vengono tutti a confluire nel problema della moneta. L’attuale crisi di governo, per esempio, è una crisi monetaria che ha avuto ed ha ripercussioni sulla vita politica della nazione.

Il sintomo che ha scosso il nostro Paese, soprattutto attraverso il grido di allarme proveniente dagli ambienti finanziari, è stato quello fornito dalle Borse. Chi ha osservato i listini delle quotazioni ha potuto constatare come il valore di mercato dell’insieme delle azioni in esse quotate si è quasi decuplicato in un anno, cioè dall’aprile 1946. Si tratta di migliaia di miliardi, forse ci si avvicina ai 2 mila miliardi, che, ad un dato momento, si sono trovati come per miracolo nelle tasche di un certo numero di persone. Il Paese ha guardato, sorpreso, questo avvenimento e se ne è emozionato, tanto più che, parallelamente, si verificava anche una rapida accesa dei prezzi dei generi alimentari, delle materie prime, ecc., altrettanti elementi che hanno sottolineato agli occhi del popolo il rapido progredire del processo di svalutazione.

Senza moneta stabile non c’è lavoro. Ho sentito parecchie volte giustamente deprecare in quest’aula la speculazione. È verissimo: in questo momento l’intera vita economica italiana è affetta ed infetta dalla speculazione. Ma come sorge la speculazione? La speculazione sorge perché le si è creato un ambiente favorevole. Anzi l’ambiente creato oggi in Italia permette solo la speculazione; una situazione favorevole al lavoro reale, proficuo per tutti, con risultati a lunga scadenza, in questo momento non c’è. Quindi una parte importante dell’attività della nazione è rivolta al gioco di Borsa, all’accaparramento delle merci per rivenderle quando il loro prezzo è aumentato ecc. Non si producono nuovi beni, non ci si preoccupa del futuro, troppo incerto e nebuloso; tutta l’attività economica resta sotto l’incubo della svalutazione monetaria.

Comprendo anche che parlare di stabilità monetaria significa fare appello ai sacrifici indispensabili per difendere la moneta; la moneta non si tutela con palliativi, con provvedimenti di facilità o lasciando che le cose vadano per la loro china; la moneta si difende addossando a tutte le classi, senza eccezione – naturalmente soprattutto alle classi abbienti – i sacrifici necessari ed inevitabili. Quindi, in un certo senso, capisco come il Paese desideri ed aneli la tutela della moneta, ma si spaventi dei sacrifici necessari a raggiungere tale risultato. Però, presto o tardi, questi sacrifici bisognerà pur farli, se non altro per evitare che il valore della moneta venga ridotto a zero; è evidente che non si può andare all’infinito su questa strada della svalutazione. Non solo, ma i sacrifici diverranno tanto più gravi per quanto più tardi saranno fatti. Quanto più tarderemo ad imporre le necessarie limitazioni dei consumi, quanto più tarderemo a riorganizzare l’amministrazione fiscale, riorganizzazione che costituisce il presupposto per sottrarre ai consumatori quei super redditi che non possono essere assorbiti da mercati privi di beni, quanto più tergiverseremo a fare questo, tanto maggiore sarà il danno causato dalla svalutazione monetaria alla struttura sociale ed economica della nazione e tanto maggiore lo sforzo a cui tale struttura sarà poi sottoposta.

Si tenga conto che lo Stato, nello svalutare la moneta, compie una specie di suicidio, perché svaluta, insieme con la moneta, anche il suo prestigio.

Io vedo sopra la testata del principale giornale cattolico di Roma un motto: Unicuique suum. Ora, mi appello ai colleghi della democrazia cristiana perché vogliano dirmi che cosa sarà dell’Unicuique suum quando il risparmio, soprattutto quello dei piccoli risparmiatori, sarà per intero passato nelle tasche di altra gente, degli speculatori, di coloro che vanno accaparrando, con debiti che pagheranno in moneta svalutata, merci o beni reali, che accentrano nelle loro mani una parte sempre maggiore della ricchezza nazionale.

Spero quindi che avrò l’appoggio dei colleghi della democrazia cristiana, ed altrettanto dico a proposito dei colleghi delle sinistre, per le ragioni stesse esposte poc’anzi dall’onorevole Nobile. I piccoli risparmiatori non hanno idea della valuta estera e molto meno delle merci, dei titoli in borsa, per tutelarsi contro la frode compiuta ai loro danni con la svalutazione.

Fino al giorno dunque nel quale questo sforzo, che riconosco aspro, non sarà stato fatto in Italia, fino a che non si sarà riusciti a stabilizzare la moneta, tutto sarà precario, a incominciare dall’indipendenza del nostro Paese. Sarà vano infatti parlare di indipendenza nazionale, finché non avremo una moneta relativamente stabile ed in conseguenza un minimo di attività produttiva efficientemente organizzata.

Il problema monetario si ripercuote sui nostri rapporti con l’estero, perché, se non avremo una moneta, dovremo rivolgerci ad altre nazioni, a quelle che potranno aiutarci e che vorranno fornirci i mezzi per riorganizzare la nostra circolazione monetaria.

Credo con ciò di aver esposto i punti essenziali per cui sono convinto che la questione monetaria sia di importanza veramente decisiva. Io confido nell’adesione dei colleghi di tutti i settori, indipendentemente dal colore politico, perché si tratta dell’indipendenza e dell’avvenire del nostro Paese. (Applausi a destra).

PRESIDENTE. Gli onorevoli Barbareschi, Carmagnola, Mariani, Vischioni, Costantini, De Michelis, Merlin Lina, Merighi, hanno presentato il seguente emendamento:

«Alle parole: La Repubblica tutela, sostituire: La Repubblica favorisce e tutela».

L’onorevole Barbareschi ha comunicato di ritirarlo.

Gli onorevoli Salerno, Di Gloria e Pignatari hanno presentato il seguente emendamento:

«Alle parole: La Repubblica tutela il risparmio, aggiungere le parole: che trae origine dal lavoro».

L’onorevole Salerno ha facoltà di svolgerlo.

SALERNO. L’emendamento da me proposto, insieme con altri colleghi, si accosta di molto all’emendamento del collega onorevole Zerbi e soprattutto a quello del collega onorevole Nobile, benché se ne distacchi per qualche tratto caratteristico. Ma vi è una sostanza che unisce questi emendamenti, e perciò, fin da questo momento, io proporrei di esprimere questo concetto informatore in una formula concordata od unificata.

Il concetto informatore in definitiva è questo: impedire che, attraverso un’antica attività economica, qual è il risparmio, si perpetuino e si proteggano forme, le quali potrebbero essere in contrasto con i principî, economici e sociali ai quali vuole ispirarsi la Carta costituzionale.

Questo argomento del risparmio è veramente importante, non solo dal punto di vista economico, ma anche dal punto di vista sociale. E quando, da parte dei presentatori di emendamenti, si andava quasi alla ricerca di un mezzo con cui tutelare il piccolo risparmio – come diceva l’onorevole Nobile – o il risparmio che proviene dal popolo – come diceva il collega Zerbi – io vedevo che essi in sostanza tendevano soprattutto a trovare una formula pratica che difendesse questo genere di risparmio. Perché, che cosa è poi il risparmio? A sentire gli economisti, è risparmio tutto ciò che è astensione dal consumo, tutto ciò che è accantonamento di beni. Ma se la formula che è contenuta nel testo del progetto di Costituzione dovesse essere mantenuta, io ritengo che essa non potrebbe trovare il suffragio di quanti ne penetrano il significato; perché, mentre abbiamo, attraverso gli articoli che riguardano la proprietà, stabilito che la proprietà deve essere disciplinata, limitata, indirizzata a fini di utilità sociale, dovremmo poi accettare una formula vaga, indiscriminata «la Repubblica tutela il risparmio», cioè tutela tutto ciò che è accantonamento di beni, beni che potrebbero avere, e hanno spesso, origini totalmente diverse. Sarei dell’opinione dell’onorevole Nobile di sopprimere la formula, la quale, come egli diceva giustamente, non ha significato, perché non so che cosa significhi tutelare indiscriminatamente, incondizionatamente il risparmio, se nella parola «risparmio» noi vogliamo trovare solo gli estremi di carattere economico.

Allora, la maniera di venire incontro a questa viva esigenza sociale, all’esigenza cioè di rendere l’espressione «risparmio» aderente alla concezione sociale della vita economica, quale noi vogliamo plasmarla attraverso la Carta costituzionale, non può essere che questa: stabilire che il risparmio tutelato è solo quello che proviene dal lavoro. Perché – parliamoci chiaro – onorevoli colleghi, anche il denaro che proviene dal mercato nero e che viene accantonato, anche il denaro che proviene dalla «tratta delle bianche» o da altri numerosi infamanti mestieri, solo perché accantonato, dovrebbe essere tutelato secondo questa formula; dovrebbe essere tutelato alla stessa stregua con cui si tutela il risparmio vero, cioè la rinuncia ad un bene, o ad un godimento, o a una soddisfazione, quale può essere un paio di calze per una dattilografa o un pasto per un impiegato: risparmio l’uno, economicamente, risparmio l’altro. Però, la verità è questa: che attraverso la formula che io propongo, la espressione «risparmio» viene liberata da un suo concetto di astrattismo economico e viene rivestita invece dei suoi dati essenziali, delle sue caratteristiche, dei suoi elementi peculiari, cioè di un senso di sacrificio, di rinuncia ad un bene in vista di una sodisfazione futura, e quindi di una rinuncia a carattere previdenziale. Mentre, se si dovesse confermare la formula del progetto, noi involontariamente o implicitamente apriremmo un campo sterminato alla tutela del risparmio, laddove il risparmio inteso in senso lato dovrebbe trovare la sua tutela generica nella ricchezza, nella proprietà, la quale ha avuto la sua disciplina in un’altra parte della Costituzione; e se vogliamo dare una tutela specifica al risparmio, dobbiamo circoscriverla e limitarla solo a quei beni e a quelle ricchezze che provengono dal sacrificio e dal lavoro.

Si dirà che tutto questo non ha a che vedere col concetto generale di risparmio; si dirà – e comprendo che, fra tanti economisti illustri e puri che ci sono in quest’aula, questa mia proposta potrà sembrare anche fantasiosa e senza contenuto pratico – si dirà che siamo lontani dal concetto generale di risparmio, cui è ispirato il testo del progetto; ma io vorrei dire a questi illustri colleghi che se l’espressione «risparmio» ha un significato sociale, il risparmio deve essere «socialmente» disciplinato; e vorrei anche aggiungere che il risparmio, appunto perché può essere effetto di un sacrificio oppure di una sovrabbondanza di beni, non può dar luogo ad una medesima disciplina.

Io provengo da una città dove ha sede uno dei più grandi istituti di risparmio: il Banco di Napoli. Ebbene, il Banco di Napoli offre spesso lo spettacolo di lunghe file di poveri operai che portano il loro biglietto alla banca perché sia custodito. Io penso che questo è il risparmio che deve avere particolare tutela! Tutto quello che non è questo risparmio, tutto quello che non è frutto di una rinuncia e di un sacrificio è proprietà, e pertanto la sua tutela rientra nella tutela generica della proprietà.

Vorrei insistere perciò su questo concetto: che il risparmio è un’attività economica nella quale il bene risparmiato non si può staccare dalla persona del risparmiatore, poiché nella espressione, «risparmio» è insito un carattere personale ed umano. Il risparmio è un bene ed è una proprietà che merita una particolare tutela, ma la merita solamente se ha questa cifra, questo sigillo, questo senso specifico di provenienza dal lavoro e dal sacrificio umano; diversamente la sua tutela sarebbe una tutela indiscriminata.

Comprendo che questi potrebbero essere anche dei semplici principî, ma sono i principî che possono orientare una legislazione, perché tutto quello che noi vogliamo raggiungere non lo raggiungeremo se non ci orienteremo verso una legislazione futura che apra l’indagine ed il controllo sulla ricchezza e sulla distribuzione della ricchezza, che tocchi cioè il terreno vivo e scottante della giustizia sociale!

Noi non vogliamo con ciò dire ai ricchi: «Consumate più che potete», benché qualche antico scrittore, come per esempio il Montesquieu, abbia detto: «Se i ricchi non consumassero, i poveri morrebbero di fame». Questo è un errore che oggi nessuno più ripete; però diciamo che se il risparmio non è frutto di un sacrificio e di una rinuncia esso non ha bisogno di una particolare tutela; tutelare tali beni indiscriminatamente significherebbe tutelare implicitamente quelle attività che li ha prodotti e che molte volte sono attività che non meritano né moralmente né giuridicamente una tutela o un riconoscimento.

E non si vuole dare nemmeno la scalata alle banche; ma bisogna che anche le banche siano disciplinate e controllate, perché non si può nascondere che oggi esse sono dei fortilizi ove si rinserrano con facilità ricchezze di qualsivoglia provenienza. Ho letto la relazione dell’onorevole La Malfa circa l’imposta straordinaria sul patrimonio: si è pensato anche in quel campo di rispettare il segreto bancario, e ciò mi pare che conferisca alle banche il carattere di una roccaforte dove i denari più o meno mal guadagnati possono godere sicurezza e impunità. Ora, tutto questo non può essere tutelato. Noi vogliamo, attraverso la formula che proponiamo e che d’altra parte suggella il principio del lavoro (non più solamente nel campo ideale, bensì nel campo concreto dell’economia) vogliamo, attraverso questa formula: «la Repubblica tutela il risparmio che trae origine dal lavoro», confermare un principio che s’intona con tutta l’architettura della Carta costituzionale. Dobbiamo pur uscire dalle astrazioni, che del resto sono accolte in tutti i settori; dobbiamo passare dalle formule all’applicazione delle formule, e il primo successo dell’applicazione noi dovremo vedere nella tutela del risparmio che deriva dal lavoro.

Ciò non dispiacerà agli onesti, non dispiacerà a tutti coloro che veramente credono che il lavoro sia un bene che bisogna anteporre ad ogni altro bene e ad ogni altro fattore economico. (Applausi).

PRESIDENTE. L’onorevole Mazza ha presentato il seguente emendamento:

«Dopo la parola: credito, aggiungere: «Favorisce piccole e medie aziende».

Ha facoltà di svolgerlo.

MAZZA. Onorevoli colleghi, io non vi annoierò. Il mio emendamento è molto semplice, tanto da sembrare banale. Io, in omaggio al cantico della cooperazione che nella settimana scorsa si è svolto in questa Aula, mi permetto di ricordarvi le aziende cooperative di credito, centinaia di piccole aziende del credito, che in Italia sono soffocate dai grandi istituti bancari. Appunto per evitare che esse possano scomparire nell’avvenire io vi chiedo se non riteniate opportuno di aggiungere alla parola «credito» le altre: «favorisce piccole e medie aziende» oppure: «favorisce le piccole cooperative di credito».

Non mi pare di dover spendere altre parole nell’illustrazione di questo emendamento anche perché l’onorevole Adonnino fa la stessa proposta, ed io sono lieto di cedergli la parola. (Approvazioni).

PRESIDENTE. Gli onorevoli Adonnino, Mastino Gesumino, Ermini, Froggio, Tessitori, Franceschini, Trimarchi, Cremaschi Carlo, Uberti, Codacci Pisanelli, hanno presentato il seguente emendamento:

«Dopo la parola: credito, aggiungere: e ne agevola i piccoli e medi istituti».

L’onorevole Adonnino ha facoltà di svolgerlo.

ADONNINO. Questo emendamento non richiede molte parole. In una Assemblea così democratica come questa ed in una Costituzione così imbevuta di spirito democratico, mi pare che non possa mancare un accenno alla democrazia del credito e alla protezione delle manifestazioni del piccolo credito.

Nei piccoli centri, nei villaggi, sono proprio i piccoli istituti quelli che veramente recano un efficace aiuto alle piccole aziende, agli artigiani, ai piccoli agricoltori, ai contadini, data la facilità delle loro decisioni, la conoscenza che hanno dell’ambiente, la semplicità dell’intervento; mentre i grandi organi bancari meno efficacemente possono intervenire. Essi devono infatti chiedere informazioni, le devono trasmettere alla sede centrale, la sede centrale deve esaminarle, decidere: tutto questo inceppa e disturba l’efficace svolgimento del credito.

Finora, a dire il vero, ho sentito che le grandi banche non hanno profittato della loro situazione privilegiata di fronte alle piccole aziende di credito, e che anzi le hanno sempre aiutate. Ma avviene di veder talvolta, come in alcuni piccoli centri del Mezzogiorno, che nella stessa via molti istituti di credito si allineano uno a fianco dell’altro.

Questo veramente non può che portare ad una concorrenza nociva e conseguentemente al soffocamento delle piccole aziende.

Io credo che sia necessario dare al legislatore futuro una direttiva perché queste piccole aziende siano tutelate. Si è detto che forse questa sarebbe una norma troppo particolareggiata: veramente di norme particolareggiate ce ne sono parecchie nella Costituzione, ma questa ha di certo diritto di cittadinanza in quanto, in un campo così difficile come quello del credito, afferma proprio le necessità essenziali della democrazia in Italia. (Applausi).

PRESIDENTE. L’onorevole Persico ha presentato il seguente emendamento:

«Aggiungere i seguenti commi:

«Nessun tributo può essere imposto e riscosso se non è stato consentito dal Parlamento.

«Ogni impegno dello Stato verso i suoi creditori è inviolabile».

Ha facoltà di svolgerlo.

PERSICO. Approvo il testo dell’articolo 44: «La Repubblica tutela il risparmio…». Lo Stato, cioè, deve assumere la difesa, quanto più è possibile, dei piccoli risparmiatori. Bisognerà rivedere ed aggiornare la legge 7 settembre 1926 sulla tutela del risparmio. Potremo anche accogliere l’emendamento dell’onorevole Nobile integrato da quello dell’onorevole Salerno, perché la finalità è unica: la tutela del piccolo risparmio. E questo deve essere tutelato soprattutto da quei colpi improvvisi di vento, quei numerosi fallimenti delle piccole banche locali per cui tanti patrimoni sono andati completamente distrutti.

«La Repubblica disciplina, coordina e controlla l’esercizio del credito»: qui mi pare che dobbiamo risolvere il problema delle banche: cioè se le banche dovranno essere statizzate o meno. Per il nostro massimo istituto di emissione è rimasto, sì, il Governatore, l’illustre collega onorevole Einaudi; è rimasta, sì, l’Assemblea dei partecipanti, ma in fondo si può dire che la Banca d’Italia è oggi completamente statizzata. Rimane il problema delle banche d’interesse nazionale, che si potrà risolvere a suo tempo.

Ma più che dimostrare l’utilità di questo articolo 44, voglio brevemente dire le ragioni per le quali ho creduto opportuna la proposta di aggiungere due capoversi, che non ho ideato io, ma che vengono direttamente dallo Statuto Albertino e sono collaudati da cento anni di vita. Allo Statuto Albertino venivano dalla Costituzione spagnola del 1830 e soprattutto da quella belga del 1831: quindi è passato oltre un secolo di esperienza. Sono gli articoli 30 e 31 dello Statuto Albertino.

Ho aggiunto i due commi, per colmare una lacuna. Dico la verità, ho cercato invano nei lavori preparatori qualche cosa che mi illuminasse; ho guardato i verbali della terza Sottocommissione; quelli della Commissione di coordinamento e del Comitato di redazione, ma poco o nulla ho scoperto al riguardo. Solo la relazione dell’onorevole Ruini ha una frase, che rimane un po’ generica e che dice così: «L’altro accenno alla tutela del risparmio ed alla vigilanza sul credito, contiene una indicazione al coordinamento di norme e d’istituti che manca oggi in Italia».

Ho cercato poi nei lavori preparatori del Ministero della Costituente ed ho trovate molte notizie nel volume V, che si occupa delle Finanze; e nell’Appendice al volume V, dove la questione è ampiamente trattata.

L’articolo 30 dello Statuto Albertino dice: «Nessun tributo può essere imposto o riscosso se non è stato consentito dalle Camere e sanzionato dal Re».

L’emendamento che io propongo è naturalmente aggiornato:

«Nessun tributo può essere imposto o riscosso se non è stato consentito dal Parlamento».

Storicamente i Parlamenti sono sorti appunto per consentire la imposizione dei tributi: nei regimi assoluti il Re convocava il Parlamento per averne il consenso nelle sue richieste di natura finanziaria.

Così sono sorti la Camera dei Comuni e gli Stati Generali, che diedero poi luogo al glorioso Parlamento francese.

Quindi, la legge che stabilisce i tributi deve essere fatta dalle Camere e deve riguardare due cose: l’imposizione del tributo, e l’autorizzazione a riscuoterlo.

Vi deve essere quindi una legge-norma, cioè una legge d’imposta; e una legge di bilancio, una legge-provvedimento, che renda possibile la riscossione del tributo.

Si potrebbe opporre – ma non credo che l’obiezione abbia valore – che l’articolo 18, già approvato, della Costituzione si occupa già di questo problema. Esso dice: «Nessuna prestazione personale o patrimoniale può essere imposta se non in base alla legge».

L’onorevole Badini-Confalonieri notò, a suo tempo, che la dizione è antiquata, perché risponde alle prestazioni di altri tempi. Comunque, ci sono casi, in cui queste prestazioni sono necessarie e attuali. Proprio ieri il Prefetto di Sassari ha emanato un’ordinanza che obbliga tutti i cittadini, dai 18 ai 60 anni, a prestare cinque ore di lavoro per la lotta contro le cavallette.

Le prestazioni patrimoniali riguardano i casi di requisizioni d’immobili, di vestiari, di viveri, quando guerre, calamità pubbliche o circostanze eccezionali lo impongano.

Nessun rapporto, quindi, fra l’articolo 18 già approvato, e l’emendamento che io propongo.

E qui si può notare – per inciso – che le discussioni del progetto di Costituzione hanno alti e bassi abbastanza strani. Nelle sedute mattutine gli articoli passano rapidamente; invece nelle sedute pomeridiane si discute molto di più.

L’articolo 18 fu approvato a tamburo battente. Una proposta di emendamento dell’onorevole Badini-Confalonieri non venne approvata ed una proposta dell’onorevole Ferrarese fu rimandata ad altra sede.

E così l’articolo fu presto votato. Quindi neanche da questo precedente parlamentare possiamo trarre dei lumi.

Vi è poi il secondo comma del mio emendamento, che suona così:

«Ogni impegno dello Stato verso i suoi creditori è inviolabile».

L’articolo 31 dello Statuto Albertino, da cui è tolta la formula, diceva:

«Il debito pubblico è guarentito.

«Ogni impegno dello Stato verso i suoi creditori è inviolabile».

A parte il fatto che non mi piace la parola «guarentito», la quale è antiquata, ho tolta la prima parte ed ho mantenuto, invece, la seconda.

Per il debito pubblico provvede bene la legge 10 luglio 1861 sul Gran Libro del Debito Pubblico che, all’articolo 4, stabilisce: «La prima assegnazione da farsi sul bilancio di ciascun anno è per il pagamento delle rendite, che costituiscono il debito pubblico». È una legge fondamentale dello Stato, che nessuno può mettere in discussione e che si è mantenuta inalterata fino ad oggi.

Io consiglio i colleghi di recarsi al Ministero del tesoro a vedere – è cosa molto interessante – le grandi stanze piene di tutti i volumi del Gran Libro, che si tramandano di generazione in generazione.

Troveranno anche una cosa molto caratteristica: c’è un impiegato che da quando è entrato in carriera, dai 18 anni ai 60 anni, è sempre rimasto nella stessa stanza a prestare lo stesso servizio: il che dimostra che la continuità è anche nella persona addetta al delicatissimo servizio.

Si potrebbe, forse, fare all’articolo 4 della legge del 1881 una aggiunta: cioè che sono garantiti, nella assegnazione dei fondi di bilancio, anche i titoli scaduti e sorteggiati, perché oggi si parla soltanto di rendite.

E a me sembra che non sia giusta questa diversità di trattamento fra pagamento di rendite e di titoli scaduti o sorteggiati.

E qui esprimo un convincimento, che sarà utile manifestare poi alla Assemblea Costituente in altra sede.

Converrà, come fa l’Inghilterra, stabilire il fondo consolidato «consolidated fund», per cui certe spese fisse (in Inghilterra sono poche riguardanti la lista civile, il debito pubblico, gli stipendi della Magistratura, dello speaker ai Comuni, ecc.) non si discutono ogni anno nel bilancio, ma vanno da Corona a Corona, da Sovrano a Sovrano (il sistema fu introdotto nel 1688 coll’avvento al trono di Guglielmo III). In una riforma che potremo fare al nostro bilancio si potrebbe stabilire che le spese consolidate vanno di decennio in decennio. Ed allora fra queste spese potremo mettere gli interessi del debito pubblico. Cosicché ci sarebbe una garanzia assoluta, perché il bilancio avrebbe una parte fissa fuori discussione, nella quale entrerebbe appunto il pagamento degli interessi.

Ed ora veniamo al secondo comma del mio emendamento:

«Ogni impegno dello Stato verso i suoi creditori è inviolabile».

Ho ritenuto di lasciarlo tale quale era nello Statuto Albertino.

Lo Stato deve mantenere fede ai suoi impegni. Guai se lo Stato perde la fiducia dei cittadini!

Ricordiamo che fra le cause remote della Rivoluzione Francese dell’89 tutti gli storici mettono l’inflazione e il disastro economico provocato, sotto la Reggenza, dal celebre banchiere inglese John Law, e fra le cause immediate del nazifascismo in Germania (questo purtroppo lo abbiamo visto noi) vi è stata senza dubbio la caduta del marco.

Quindi la difesa degli impegni dello Stato è una cosa essenziale per ogni regime che voglia durare. Perciò il potere esecutivo deve iscrivere ogni anno nei suoi bilanci le somme necessarie perché siano estinte, o siano le varie passività dello Stato, o ne siano pagati gli interessi. Il potere legislativo deve approvare queste somme iscritte nei vari bilanci, ed il potere giudiziario dovrà difendere i diritti dei creditori anche contro lo Stato, se occorre.

Nel questionario n. 4, allegato ai lavori della Commissione economica, ho letto attentamente le risposte che le banche e gli economisti hanno dato al quesito se sia opportuna la garanzia costituzionale degli impegni finanziari dello Stato. Risposte discordanti.

Alcuni ritengono utile che nella Costituzione ci sia questa norma, altri la stimano superflua, perché dicono che la garanzia del rispetto degli impegni finanziari dello Stato deriva dall’interesse che lo Stato ha a non compromettere il proprio credito.

Altri affermano che la garanzia costituzionale è assolutamente inefficace di fronte alla svalutazione monetaria.

È facile rispondere.

Secondo me, la riaffermazione statutaria della inviolabilità degli impegni finanziari è sopratutto necessaria in un periodo fortunoso come quello che la Finanza dello Stato italiano attraversa. Oggi tutto è instabile; e la norma statutaria, dalla quale deriva che lo Stato mantiene inviolabili gli impegni verso i suoi creditori, resta un’ancora ferma che potrebbe ispirare una maggior fiducia da parte dei creditori presenti e futuri. Lo Stato democratico italiano ha, del resto, già dato prova di questa sua volontà; si è addossato tutti i debiti della cosiddetta repubblica sociale fascista, e credo che anche i Comuni di Milano e di Genova finiranno per addossarsi gli oneri dei prestiti Parini e San Giorgio, perché sarebbe doloroso se questo non avvenisse.

Ma vi è una ragione preminente, onorevoli colleghi, una ragione che, secondo me, risolve alla radice la questione; sarebbe certo interpretato nel senso più sfavorevole, oggi, togliere dalla nuova Costituzione il tradizionale principio dell’inviolabilità dei debiti dello Stato. Questo mutamento potrebbe incidere sul credito internazionale dello Stato con enorme danno.

Come già la Commissione economica, anche la Sottocommissione di studio dei problemi attinenti all’organizzazione dello Stato, presieduta dal prof. Forti, concluse per il mantenimento nella nuova Carta Costituzionale dell’art. 31 dello Statuto Albertino.

Il nuovo Stato democratico, sorto dalla caduta del fascismo, ha bisogno soprattutto di credito e fiducia, sia nella sfera interna, sia in quella dei rapporti internazionali; il credito e la fiducia sono elementi indispensabili della ripresa economica, cioè della sicurezza del lavoro delle classi operaie.

Solo così ritengo che l’Italia, uscendo dal baratro dove l’ha cacciata il fascismo, potrà riprendere con fede e con speranza le vie luminose dell’avvenire! (Applausi).

PRESIDENTE. Gli onorevoli Einaudi, Morelli Renato, Crispo, Badini Confalonieri, Quintieri Quinto, Bonino, Lucifero, Corbino, Colonna, Condorelli, hanno presentato il seguente emendamento:

«Aggiungere il seguente comma:

«A tal fine è garantito il rispetto della clausola oro».

L’onorevole Einaudi ha facoltà di svolgerlo.

EINAUDI. Se io ho presentato, onorevoli colleghi, il mio emendamento aggiuntivo all’articolo 44, non è perché io non creda che questo articolo non debba essere, nella sua integrità, accolto, e non perché io non abbia apprezzato grandemente le parole che sono state pronunciate prima di me, intorno alla necessità di conservare il valore del risparmio, dagli onorevoli Zerbi, Quintieri, Nobile, ed altri, ed adesso ancora dall’amico onorevole Persico, ma perché io credo che l’emendamento presentato da me abbia per iscopo di dare un contributo concreto alla norma della tutela del risparmio.

L’onorevole Persico, nel suo emendamento, ha riprodotto la norma che era stata scritta già nell’articolo 31 dello Statuto albertino e quella norma era quanto di più lapidariamente chiaro si potesse immaginare. Diceva l’articolo, come ha ricordato l’onorevole Persico, che «ogni impegno dello Stato verso i suoi creditori è inviolabile». Io non sono d’accordo con l’onorevole Persico nel ritenere che la riproduzione, che mi auguro sia fatta nella nuova Costituzione, di questa norma sia per essere un’ancora ferma alla tutela del risparmio ed al valore della moneta, perché purtroppo quest’ancora ferma non lo fu nei cento anni passati, e se l’esperienza giova a qualche cosa, essa non ci può far presumere che in avvenire si avvererà quello che non fu mai nei cento anni decorsi. I legislatori dei cento anni decorsi avevano cercato anzi di dare un valore preciso alla norma statutaria ed avevano, per esempio, scritto su alcuni dei più importanti titoli di debito pubblico, fra gli altri sulla vecchia rendita italiana 5 per cento, poi diventata 3½ per cento con la conversione Luzzatti-Majorana del 1906, che i portatori potevano richiedere che gli interessi fossero pagati in lire sterline, in franchi ed in altre monete allora pregiate. Ma alla norma, la quale cercava di dare un contenuto al principio statutario, ben presto furono trovati gli opportuni espedienti di evasione, dicendo prima che soltanto i creditori residenti all’estero potevano chiedere il pagamento in moneta straniera, e, quando ciò non bastò, perché molti italiani mandavano a Parigi ed a Londra le cedole per la riscossione, si aggiunse che, oltre alle cedole, si dovevano mandare contemporaneamente anche i titoli, aggiungendo così rischi e spese all’esercizio del diritto, sancito senza restrizioni nel titolo. Poi nemmeno ciò bastò più, e si richiese l’attestazione (affidavit) che le persone da cui venivano presentati i titoli risiedessero all’estero, e sempre più restringendo si chiese che solo gli stranieri potessero usare del diritto, ed ancora che soltanto gli stranieri, i quali da un certo lasso di tempo risiedessero all’estero, potessero esercitarlo. A poco a poco si finì che la norma scritta nello Statuto non ebbe applicazione concreta. Alla interpretazione restrittiva diede autorevole suffragio la nostra Corte di Cassazione, ad imitazione dei Tribunali supremi giudiziari di tutti i paesi, dichiarando, in ripetute sentenze, che anche dove era scritto qualcosa di diverso, e là dove i creditori si erano in qualche modo garantiti contro il deprezzamento della lira facendo riferimento alla lira oro, si giudicava che la lira è sempre la lira, il marco sempre marco, il franco sempre franco. Ossia tutti i debitori potevano pagare nel numero nominale convenuto nella moneta che aveva corso nel momento del pagamento. Questa è la ragione giuridica per cui l’articolo dello Statuto il quale dichiarava che tutti gli obblighi dello Stato erano inviolabili, finì per non aver nessun valore concreto.

Oggi è pacifica giurisprudenza che lo Stato può allungare o scorciare quanto crede il metro monetario, e quanto più lo scorcia, tanto meno i debitori hanno diritto di pagare per rimborsare i loro creditori. Il riferimento ad una unità monetaria fissa che non sia nominale, ma riferentesi ad un dato peso d’oro, oggi non ha efficacia giuridica, non applicandosi il principio fondamentale dello Statuto contenuto nell’articolo 31, perché questo valore è stato distrutto dalla nullità di tutte le clausole oro che dai privati erano state scritte a tutela della buona fede, a tutela degli impegni assunti dai debitori. Di qui l’emendamento da me proposto, il quale tende a non lasciare la promessa di tutela del risparmio come un qualcosa di astratto; ma vuole che a tal fine sia garantito il rispetto della clausola oro. Non si dice che questa clausola oro debba essere imposta; non si vuole che il metro monetario del nostro paese sia variato rispetto a quello che il legislatore vuole. Si dice soltanto che i creditori hanno diritto, se vogliono, di garantirsi contro le svalutazioni della moneta che costituiscono il fatto più clamoroso e socialmente più dannoso verificatosi dal 14 in poi. Quanto sia dannosa la svalutazione è dimostrato da qualche cifra già addotta dall’onorevole Nobile. Mi sia consentito di aggiungerne qualche altra che chiarisce i danni che i depositanti di tutti gli istituti di credito, di tutte le Casse di Risparmio e di tutte le Casse Postali in Italia hanno subito dal 1914 in poi.

Al 30 giugno del 1914 la somma dei depositi, ad esclusione dei conti di corrispondenza bancari, cioè la somma dei semplici depositi in conto corrente ed a risparmio, presso tutti gli istituti di credito italiani comprese le Casse di risparmio e le Casse postali, ammontava a 7.493 milioni di lire. Oggi, tenuto conto del diminuito valore di acquisto della moneta, quel valore si è ridotto a 0,7 per cento del suo ammontare originario. Quindi, coloro i quali avevano depositato quei 7 miliardi e mezzo si trovano ora a possedere veramente un pugno di mosche, 0,7 per cento di quello che possedevano nel 1914.

Andiamo avanti. I risparmiatori hanno continuato a depositare danaro presso le banche e le Casse di risparmio. Dal 1° luglio 1914 al 30 giugno 1922 i risparmiatori italiani hanno depositato 20.311 milioni di lire. Il valore di ciò che essi hanno depositato allora si è ridotto al 3,5 per cento, meno di quanto si è ridotta la somma depositata dai primi risparmiatori, ma pur sempre in proporzione ragguardevolissima.

Coloro i quali hanno depositato somme nell’intervallo fra le due guerre, cioè dal 10 luglio 1922 al 31 dicembre 1938, hanno depositato 38.078 milioni di lire. Questa somma si è ridotta al 2,9 per cento del valore di acquisto che aveva nel momento in cui è stata depositata.

Infine, coloro i quali hanno fatto depositi dal 1° gennaio 1939 al 31 dicembre 1946, durante il periodo della guerra, coloro i quali si sarebbero dovuti ritenere meglio salvaguardati perché più vicini al momento attuale, depositarono 432.268 milioni di lire. Questa somma oggi ha una potenza di acquisto uguale al 21,5 per cento di quella che aveva nel momento in cui essa è stata depositata.

Non posso dire, perché i calcoli iniziati non sono stati ancora terminati, quale sia il valore che avrebbero i depositi se si facesse un’ulteriore ipotesi la quale avrebbe per scopo di sapere quali sarebbero le somme che i depositanti possederebbero oggi se non soltanto avessero depositato una somma originaria ma avessero lasciato invariato il deposito, senza ritirare l’ammontare degli interessi che ad essi nel frattempo fosse stato accreditato. Anche questa ipotesi, che i depositanti dall’origine del 1914 ad oggi non avessero mai ritirato nulla, né dei capitali né degli interessi composti accumulatisi nel frattempo, anche questa ipotesi da un calcolo approssimativo non rifinito ci autorizzerebbe a concludere che essi oggi non possederebbero più di un 15-16 per cento delle somme che essi avevano depositato originariamente, aumentate dei rispettivi frutti composti.

Questa è una tragedia: è la tragedia del risparmiatore italiano, non solo di coloro che hanno depositato somme in Banca, ma di molti altri risparmiatori, di tutti quelli che ha ricordato l’onorevole Nobile, di tutti quelli che credevano di essersi assicurata la vita e che oggi ricevono delle somme, quando scade il momento del pagamento delle indennità, le quali hanno una potenza di acquisto molto inferiore a quella su cui avevano fatto assegnamento per la vita della loro famiglia e per l’educazione dei loro figli in caso di premorienza; la tragedia, insomma, di coloro che si sono visti sfumare tra le mani il risparmio.

Non basta che sia sancita nella Costituzione una norma generica nel senso che sia tutelato il risparmio, e non basta la formula tanto più solenne dell’articolo 31 dello Statuto per cui ogni impegno dello Stato verso i suoi creditori è inviolabile. È necessario dare un contenuto concreto alla norma generale, alla promessa verbale, tante volte fatta e non mantenuta, di serbare fede agli impegni contrattuali. Anche Mussolini aveva promesso nel discorso di Pesaro di difendere la lira sino all’ultimo sangue; e tanti altri nei secoli avevano anticipato la promessa. Parole e promesse che il vento disperde. Quando si ha il diritto di pagare in unità monetarie nominali quelle sono promesse vane. Il solo contenuto concreto consiste nel consentire che i singoli risparmiatori, che tutti coloro che entrano in rapporto di credito verso privati, verso istituti o verso lo Stato, possano garantirsi contro il pericolo della svalutazione. La garanzia non può darsi, non può aversi se non scrivendo nella Costituzione il principio da me enunciato, ossia che la legge non possa mettere nel nulla la clausola oro, quando essa sia spontaneamente e volontariamente convenuta tra le parti.

È un articolo permissivo, è una disposizione non coattiva che io propongo. La propongo non solo a tutela dei risparmiatori, ma dell’intera società. Richiamo su questo punto l’attenzione di tutti coloro i quali vorrebbero ridurre la rimunerazione del capitale. Per ridurre la rimunerazione del capitale vi è soltanto un mezzo effettivo: quello di garantire il rispetto delle norme e degli impegni che si assumono verso il capitale. Quanto più si rende difficile l’adempimento di quegli impegni, tanto meno si ottiene il risultato di ridurre il compenso del capitale.

In passato, e specialmente nel medio evo, la lotta contro il capitale, contro il pagamento degli interessi, si conduceva proibendo il pagamento o ponendo limiti al pagamento dell’interesse. Molti credono anche oggi che il mezzo più sicuro per aumentare la quota dovuta al lavoro a danno della quota dovuta al capitale, che il mezzo più efficace per combattere la servitù dei lavoratori verso il capitale, sia quello di combattere e di vincolare il capitale. Errore grave e funesto. Tutti vogliono ridurre il saggio dell’interesse. Ma su questa via della riduzione del saggio di interesse noi avevamo fatto passi giganteschi dal 1814 in poi, quando si riteneva che si dovesse avere rispetto per i patti convenuti; quando non si scoraggiava la formazione del risparmio. In Italia il saggio di interesse si era ridotto, con la ricordata convenzione del 1906, al 3,5 per cento. In Inghilterra si era andati ancora più avanti, e si sarebbe andati più avanti anche da noi; in Inghilterra, con successive conversioni di debito pubblico, il saggio era stato ridotto fin dal 1885 al 2,5 per cento nominale; 2,5 per cento, che, a causa dell’imposta sul reddito, gravante su tutti i titoli di stato, si riduceva all’uno e tre quarti ed anche all’uno e mezzo per cento. Era una tendenza che, se non fossero intervenute le due grandi guerre mondiali, e la inversione conseguente verificatasi nella curva storica del saggio di interesse, avrebbe portato ad una ulteriore riduzione verso l’uno per cento ed anche al 0,50 per cento.

Quando il saggio di interesse si riducesse nuovamente, come ai tempi di vero rispetto verso il risparmio, verso gli impegni presi con i risparmiatoti, all’uno o al mezzo per cento, il fatto quale significato avrebbe? Avrebbe un solo netto significato: che la quota parte del reddito nazionale, dell’intero prodotto sociale ottenuto dalla collettività, finirebbe di essere ridotta a quella che si può dire la «porzione congrua».

Ecco la ragione per la quale ritengo che un emendamento il quale sancisca il rispetto della clausola oro nella Costituzione possa di nuovo incamminarci verso il ritorno ai tempi in cui il saggio di interesse andava riducendosi, con beneficio di tutte le classi sociali e massimamente della classe lavoratrice. Occorre non solo ritornare, ma andare avanti su questa via, alla fine della quale vi è quello che io anni fa, durante il regime passato, ho intitolato il «principio del capitalista servo sciocco». Al risparmiatore è necessario lisciare il pelo per il suo verso e non per il verso contrario. Non sono perciò d’accordo con gli emendamenti i quali vogliono tutelare soltanto il piccolo risparmio, il risparmio dovuto al lavoro, il risparmio di una specie e non quello d’un’altra specie. Se noi invero diciamo in una norma costituzionale che si tutela soltanto una parte del risparmio, tutti i risparmiatori si spaventano e fuggono e, quando fuggono, vuol dire che il saggio di interesse aumenta. Ricordiamo che il saggio di interesse, ossia il prezzo della merce risparmio, non è dato dalle dosi di risparmio che ci sarebbero anche senza compenso, ma dalle dosi marginali delle ultime occorrenti per equilibrare il mercato; e sono queste quelle che sono più incerte se restare o andare, se fermarsi o camminare. Noi non dobbiamo pregiudicare con incerte promesse ed ancor più incerte minacce il risparmio, dobbiamo mantenere i nostri impegni verso tutti i risparmiatori indistintamente. Se noi lisciamo il pelo per il suo verso al capitalista, l’effetto che si ottiene (che è il vero effetto che noi vogliamo ottenere) è quello della riduzione del saggio di interesse, cioè della quota parte che dell’intero prodotto sociale spetta ai risparmiatori.

Prima di finire, devo ricordare che questa clausola implica quello che a taluni potrà sembrare un pericolo per lo Stato. È necessario affrontare chiaramente anche questo problema.

La clausola permissiva che io propongo sia introdotta nella Costituzione non impone nulla allo Stato. Dice soltanto che i creditori che vorranno, col consenso dei debitori, giovarsi della clausola oro, potranno pattuire che i loro crediti siano alla scadenza rimborsati in una certa moneta aurea, in un certo peso di oro ad un dato titolo. È una clausola puramente permissiva. Ma, pur essendo una clausola permissiva, non ci possiamo nascondere, non ci vogliamo nascondere le sue conseguenze. Essa sarà un esempio per lo Stato; e sarà ben difficile che, una volta che essa si sia generalizzata, ci possano ancora essere privati, enti o lo Stato stesso, che possano sottrarsi all’obbligo morale di sottoporsi alla clausola permissiva. Il risultato dell’osservanza generalizzata della clausola sarà che i rapporti di credito e di debito istituiti entro di essa condurranno ad un saggio di interesse notevolmente minore del saggio di interesse per gli altri rapporti di debito e di credito istituiti in moneta nominale. Là dove per i contratti stipulati in moneta nominale si paghi il 5 per cento, per l’altra si pagherà il 3 per cento; ove per la prima si paghi il 3 o il 2 per cento per l’altra si pagherà l’uno per cento o meno.

E potrà darsi che anche lo Stato non possa o non ritenga più conveniente di contrarre prestiti se non entro questa clausola. Sarà lo Stato medesimo che, per suo atto di volontà e reputando di ottenere con ciò un vantaggio, prometterà ai suoi creditori di pagare nella moneta nominale permutabile, a volontà del creditore, in un determinato peso di oro ad un determinato titolo. Ora è certo che potrà darsi in avvenire che lo Stato si trovi di fronte all’impossibilità di osservare l’impegno contratto. Non dobbiamo nasconderci questa eventualità, che cioè noi in avvenire, a cagione di nuove guerre, di nuovi fatti straordinari, ci troviamo ad avere il bilancio dello Stato in tali condizioni per cui l’osservanza degli impegni contratti colla clausola oro sia impossibile, anche se essa sia stata volontariamente accolta, anche se lo Stato l’abbia sancita volontariamente, nel suo interesse, allo scopo di fruire di un saggio di interesse notevolmente più basso di quello che dovrebbe altrimenti pagare.

Potrebbe accadere cioè che lo Stato si trovasse di fronte all’impossibilità di osservare l’impegno assunto. Qual valore avrà in allora la norma costituzionale che io propongo? Può infatti lo Stato sottrarsi, in quei casi straordinari che noi ci auguriamo non vengano mai, ma possono tuttavia verificarsi, all’osservanza della sua parola? Salus publica suprema lex esto.

Riconosciamo lo stato di necessità e chiediamoci: in quel momento quale delle due alternative gioverà meglio alla cosa pubblica? L’avere scritto nella Carta costituzionale il semplice impegno di tutelare il risparmio, la dichiarazione di inviolabilità di ogni impegno dello Stato verso i suoi creditori – come ha detto l’onorevole Persico – ovvero, come propongo io, avere assunto l’impegno di pagare in oro? Questo è il dilemma.

Pur essendo vano pretendere di osservare quello che è giocoforza non potere osservare, io dico che è bene essere leali. Col primo corno del dilemma, lo Stato dice: Io ti do le cinque lire che mi sono impegnato a pagare; dunque ho mantenuto fede ai miei impegni. Ma se queste cinque lire valgono però la decima o la ventesima parte di ciò che valevano all’atto in cui è avvenuta la promessa da parte dello Stato, è evidente che lo Stato solo per forma mantiene gli impegni suoi ed in realtà li viola. Non è assai preferibile invece che lo Stato apertamente dichiari che non è per il momento in condizioni di far fronte? Il debitore di mala fede perde credito e solo il debitore onesto, anche se impotente, conserva onore e credito. Allora soltanto lo Stato sarà un debitore onorato e i creditori serberanno fiducia in lui, predisponendosi ad attendere il tempo necessario perché lo Stato possa riprendere i suoi pagamenti, quando essi vedono che egli non si trincera dietro l’ipocrita formula del valor nominale, ma lealmente dichiara il debito e chiede moratoria durante il tempo della difficoltà. Rinunciando alla clausola oro, noi pretendiamo di far fronte ai nostri impegni e in questo modo screditiamo lo Stato, mentre invece, quando lo Stato, in casi straordinari, dirà apertamente di non poter far fronte a tutti i suoi impegni e ne spiegherà le ragioni, lo Stato non perderà credito ma ne acquisterà.

Perciò l’introduzione di una clausola oro permissiva nella Costituzione è conforme agli interessi fondamentali dello Stato. (Applausi).

PRESIDENTE. Invito l’onorevole Ruini a esprimere il parere della Commissione sugli emendamenti.

RUINI, Presidente della Commissione. Ho ascoltato con molto interesse le dotte discussioni che sono state fatte in quest’Aula. Noi, in realtà, assistiamo ora ad una specie di rassegna di tutti i grandi problemi nazionali, il che può essere anche utile. Si tratta infatti di una specie di esame di coscienza che fa il Paese, in un momento così grave come questo in cui esso si accinge a darsi una nuova Costituzione.

Ma, per la verità, è difficile che temi così ardui possano essere decisi in una mezz’ora. Mi pare che noi ci siamo messi su una via pericolosa, perché solleviamo tutti i problemi e crediamo di poterli risolvere in un attimo, senza tenerne presente la vastità.

Quando il maggiore economista italiano, l’onorevole Einaudi, ha posto, così, mi perdoni la parola, di straforo, una questione non semplice né facile, non posso dimenticare che egli era fra i sostenitori della tesi che la Costituzione dovesse attenersi a poche grandi linee, a poche grandi norme, e non entrare in tanti problemi che richiederebbero un tempo infinito.

Cercherò di rispondere a quanto è stato osservato sopra questo articolo. L’articolo 44 non ha nessuna proposta di soppressione totale. Se vi fosse, non ne sarei personalmente malcontento. Vi è stata una fioritura di nuovi articoli. Uno per la montagna; ed io non ho dimenticato di avere per primo sollevato, quarant’anni fa, il problema della montagna accanto a quello del Mezzogiorno: problema di altitudine, dicevo allora, accanto a quello di latitudine; ho scritto un libro, ho presieduto il Comitato parlamentare dei deputati montanari; ma insomma non mi posso persuadere che questo sia argomento costituzionale. Poi è venuto un articolo per l’artigianato: sono stato io solo, credo, a votare contro, non perché non apprezzi questo ceto così operoso e così italiano, ma perché non mi posso persuadere che una categoria, per essere stimata, debba aver posto nella Costituzione. Altri articoli sono piovuti; potrei moltiplicarne gli esempi; e la Costituzione rischia di diventare un memorandum ed un elenco. Ecco perché acconsentirei a togliere di mezzo anche quest’articolo 44, che non è assolutamente necessario, ma ha però un suo motivo di essere; e debbo dare ragione del modo con cui venne formulato.

Non rispondo all’onorevole Nobile, che avrebbe potuto e dovuto parlare, a suo piacimento, di questo articolo, in sede di Commissione dei settantacinque. Ed aggiungo che, se quest’ultima non si riunisce più ed ha delegato i suoi poteri alla Commissione dei diciotto, ciò è stato fatto unicamente allo scopo di guadagnar tempo.

L’articolo 44 considera pro tempore il risparmio ed il credito congiunti fra loro, e li mette in un piano, per così dire, tecnico, senza entrare in altre fasi anteriori o posteriori del processo economico, come sarebbero la formazione del risparmio e gli investimenti di capitale. Le norme dettate sui momenti considerati sono sintetiche ed incisive; di stile costituzionale.

Circa il risparmio basta il principio della tutela; se si entrasse in dettagli, su forme più raccomandabili di investimenti, non si potrebbe essere completi né efficaci. La Commissione non ha voluto fare un codice del risparmio o bancario o un prontuario d’affari. Pel credito si è limitata a tre funzioni essenziali dello Stato, che deve dettare le norme generali sugli istituti di banca, coordinarli e controllarne l’azione. C’è tutto, e non c’è di troppo. Vorrei mettere l’accento specialmente sul «coordina». Io che sono sempre stato antifascista, ho detto però, e la frase ha avuto una certa fortuna, che non si possono buttar giù i ponti sul Tevere che ha fabbricati il fascismo. In tema di credito il fascismo ha fabbricato un buon ponte: il Comitato e l’Ispettorato del credito. Vennero aboliti ed ora, sembra, si vogliano rimettere. Non conosco la proposta, e non entro in dettagli. Ma questo è necessario: in Italia, dove (sono dati dell’onorevole Einaudi) più dell’85 per cento dei depositi a risparmio è presso istituti bancari in mano dello Stato, è mancata una politica creditizia, che appare ora indispensabile. L’articolo 44 vi accenna, con l’espressione «coordina», nella forma sobria ed implicita che si addice alle norme costituzionali. S’intende che la politica creditizia non deve soffocare le iniziative e l’attività degli istituti; deve limitarsi all’indirizzo ed ai criteri direttivi.

Non entro, ripeto, in dettagli. Desidero sottolineare la semplicità strutturale dell’articolo, che meriterebbe per questo, se non altro, il vostro consenso.

Vediamo ora rapidamente gli emendamenti.

L’onorevole Colitto ha un’aggiunta: «incoraggia il risparmio». E sia pure; ma è inutile; ed abbiamo già abusato, in questa Costituzione, della parola incoraggiamento. Sarebbe meglio, dal punto di vista tecnico, limitarsi alla tutela del risparmio.

L’onorevole Colitto aggiunge poi: «sugli istituti bancari». Io ho avuto la preziosa collaborazione dell’onorevole Colitto nella Commissione e so che egli vuole andare alla radice di ogni questione e di ogni parola; ma ritengo superfluo aggiungere «sugli istituti bancari» perché, trattandosi dell’esercizio del credito, è ovvio che si tratta anche di istituti bancari.

Poi l’onorevole Colitto dice: «con un organo di coordinamento stabilito per legge». È un’esigenza implicita nel nostro «coordina»; e non è il caso di entrare in particolari indicazioni che non hanno (lo ripeto ancora una volta, ed è il mio compito, per così dire, di tecnico della Costituzione), non hanno carattere costituzionale.

La risposta data all’onorevole Colitto vale anche per l’emendamento dell’onorevole Cortese che aggiunge: «favorisce» in luogo di «incoraggia» il risparmio.

L’onorevole Zerbi, che mostra molta competenza in questa materia, ha proposto un emendamento interessante. Egli considera particolarmente il risparmio popolare, e vuole incanalarne l’investimento (la sua proposta parla, non felicemente, di accesso) come investimento reale, e più singolarmente ancora in tre sole forme: abitazione, proprietà diretta coltivatrice, investimento nei grandi complessi azionari del Paese.

Sono ottimi scopi, ma dobbiamo limitare l’incoraggiamento dello Stato soltanto a queste forme di investimenti? Non lo credo. In questo momento, in cui noi avremo bisogno di chiedere anche ai piccoli risparmiatori il loro aiuto per potere – con prestiti ed operazioni di Tesoro – salvare, arginare la moneta, dobbiamo noi limitarci soltanto alle tre forme d’investimento indicate dall’onorevole Zerbi? Se si indicano solo determinati investimenti, e si porta la luce su essi, si getta la tenebra sugli altri, che sono, se non sconsigliati, messi in un secondo piano.

L’onorevole Zerbi insiste, e pone l’accento sugli investimenti reali; ma è opportuno, in questi momenti in cui ci troviamo sotto l’incubo della svalutazione della lira, e si svolge sotto gli occhi nostri quella corsa agli investimenti reali che tutti sanno, e che influisce sull’aumento dei prezzi, che la Costituzione predichi e faccia come un dovere di questa specie d’investimenti?

Non disconosciamo i criteri che ispirano il proponente e che si riallacciano ad un orientamento di studi e direttive per l’elevazione del popolo mediante il risparmio, e la destinazione di questo ad investimenti in una casa, in un pezzo di terra, in un pezzo di fabbrica attraverso le azioni. È una bella concezione, ma non è tema costituzionale; guasta la linea semplice e completa dell’articolo 44; si limita a suggerire alcuni, non tutti gli investimenti desiderabili, e non è – l’invocazione ad acquistare beni reali – opportuna in questi momenti. Ecco perché non possiamo accogliere l’emendamento Zerbi.

Viene poi l’emendamento Nobile. Di fronte al ciclone della svalutazione, che ha colpito tutti, egli vuole che lo Stato provveda a riparare i danni e restaurare il valore della lira soltanto per il piccolo risparmiatore. È un principio umano; ma gli altri? Il lavoratore che non ha risparmi, non soffre forse più di ogni altro della svalutazione della lira, che gli volatilizza il salario? Vi sono poi delle considerazioni pratiche. Qual è la proporzione del piccolo risparmio rispetto al grande risparmio? È possibile impedire che un grosso risparmiatore divida i suoi depositi in una serie di minuscoli libretti? Quale sarebbe l’onere che lo Stato dovrebbe sostenere riconoscendo ai piccoli risparmi il valore d’un tempo? Quanto richiede l’onorevole Nobile non è realizzabile.

L’emendamento dell’onorevole Salerno vuole che si tuteli soltanto il risparmio che trae origine dal lavoro. Lasciamo stare le questioni teoriche sull’origine del risparmio. Comprendiamo la motivazione dell’onorevole Salerno, che ha nobili intenti. Ma restiamo anche qui sul terreno pratico. Come si può distinguere, di fatto, quanto c’è nel risparmio di lavoro o di qualcosa d’altro, ad esempio un guadagno alla Sisal? Come si può, nel segreto bancario, indagare ed accertare se il risparmio che c’è in un libretto deriva dal lavoro, ed in un altro no? La proposta, di alta ispirazione, dell’onorevole Salerno non è realizzabile.

L’onorevole Mazza parla di favorire le piccole e medie aziende di credito, e così pure l’onorevole Adonnino. Le medie e piccole aziende meritano certamente la considerazione e l’aiuto dello Stato; ma anche le grandi, che sono del resto quasi tutte in mano dello Stato, non debbono essere trascurate; né mi sembra buon canone di politica bancaria curare soltanto i minori organismi.

Una categoria di piccole e medie aziende trovano già il loro posto ed un doveroso sostegno, come cooperative di credito, nell’articolo che riguarda appunto la cooperazione. È a queste forme, io credo, che pensano soprattutto gli onorevoli Mazza ed Adonnino; e potranno pertanto ritirare i loro emendamenti.

Viene poi l’emendamento dall’onorevole Persico. Il primo comma riguarda i tributi, e dovrà quindi essere rinviato a quando saranno svolti gli altri articoli aggiuntivi sopra i tributi. Il secondo dice: «ogni impegno dello Stato verso i suoi creditori è inviolabile». Echeggia qui una disposizione dello Statuto albertino, che aveva più particolari e forti ragioni in tempi meno lontani da quelli in cui il disconoscimento degli impegni pei debiti pubblici non era infrequente, per colpa di Governi. Oggi non è più così; anche se vi possono essere, ma raramente, cause superiori alla volontà dei Governi. L’onorevole Persico ha, con grande competenza, ricordato una serie di provvedimenti che nella nostra legislazione presidiano e garantiscono il pagamento dei debiti pubblici. È necessario mettere un’affermazione generica nella Costituzione? Decida l’Assemblea. Essa conosce il mio desiderio che la nostra Carta non sia appesantita e gonfia, come purtroppo tende ad uscire da questa discussione.

Veniamo alla proposta dell’onorevole Einaudi, che vuole sia rispettata la clausola «oro». Mi consenta un piccolo rilievo formale. La clausola «oro» non è la sola delle clausole di «valori riferimento». Vi sono anche quelle dell’«option de change», del riferimento a «numeri indici» ed altre ancora. Sono esse comprese nell’emendamento dell’onorevole Einaudi.

La clausola oro ha due campi di applicazione: i rapporti dello Stato verso i suoi creditori; ed i rapporti fra privati. Nei due casi la proposta Einaudi è permissiva; si tratterebbe di rispettare impegni liberamente assunti.

Nessun dubbio che debbano essere rispettati; il principio non può essere, in linea generale, disconosciuto; ma si sono verificati e si possono verificare casi in cui l’affermazione solenne del «rispetto» rischia di essere vuota di contenuto.

L’onorevole Einaudi mi può insegnare le vicende della legislazione italiana, specialmente dopo il 1927 ed il 1936, e le oscillazioni della giurisprudenza e della dottrina, ora che son venuti meno i presupposti delle leggi 1936-39 (non abrogate formalmente); ma si possono determinare anche altre situazioni che non possono essere ignorate.

Questo della clausola oro è tema da lasciare alle leggi, o da collocare in un maestoso articolo della Costituzione? Quale valore può avere una clausola oro in termini assoluti e senza limite nel tempo? Che si debba far di tutto per rispettarla quando è liberamente assunta, dallo Stato o dai privati, è fuori di dubbio; nessuno lo sente più di me, ed è più di me d’accordo con l’onorevole Einaudi. Ma egli ben sa che possono avvenire frane e sconvolgimenti superiori ad ogni buona volontà. Lo ha sperimentato l’America di Roosevelt. Vi sono casi nei quali lo Stato non può mantenere i suoi impegni, ed allora come fa ad imporre il rispetto della clausola negli impegni privati? È in ogni e qualunque senso utile irrigidire situazioni di disastri, impedendo automatici adattamenti per il risanamento del mercato? Non sono problemi che possano risolversi in sede costituzionale, con una norma che dovrebbe essere immutevole.

Ascoltando l’onorevole Einaudi ed altri oratori, mi è parso di ritornare ai buoni, agli aurei tempi antichi, quando era facile e sicuro il rispetto dei prestiti; e la lira era ben salda; in un clima fecondo di pace; si poteva allora accogliere la proposta Einaudi; ma in realtà della clausola oro non c’era bisogno. Il mondo era in pace; non si erano scatenate le bufere di guerre universali e di sovvertimenti economici. Non è la clausola oro che può arginare o riparare a questi flagelli. La svalutazione della lira, di cui oggi soffriamo, non dipende soltanto dall’azione italiana, e dalla carta emessa dal nostro Tesoro. Noi oggi sopportiamo le conseguenze anche della lira tedesca, della lira alleata, emesse sul nostro suolo, sul quale è passata la guerra. Avremmo potuto e possiamo, con un articolo di Costituzione, impedire il fatale corso degli avvenimenti?

L’onorevole Einaudi, la cui rettitudine è pari alla altezza scientifica, ha finito per riconoscere questa impossibilità; e mi ha fornito così la più valida arma contro la sua proposta. Ha detto che vi possono essere casi, nei quali lo Stato è costretto a confessare che non può mantenere il rispetto alla clausola oro. È stato esplicito in questa dichiarazione. Ma allora: perché inserire nella Costituzione una clausola che si sa potrà essere in dati casi violata?

Lasciamo alla legge di stabilire le norme necessarie. Se lo Stato lo crede, stipuli prestiti con la clausola oro; e faccia di tutto per osservarla. Se lo credono i privati, ricorrano anch’essi alla clausola oro. Ma non si sancisca costituzionalmente l’impossibile.

Aggiungo un ultimo rilievo. L’onorevole Einaudi ha detto che contro i pericoli della svalutazione dobbiamo tutelare il capitale. Ma non possiamo dimenticare che vi sono altri danneggiati, ed ancora di più, dalla svalutazione: gli impiegati, gli operai, che hanno ridotto il potere d’acquisto della loro retribuzione e patiscono la fame. Una proposta come quella dell’onorevole Einaudi, si presta ad interpretazioni che non credo siano nell’animo suo.

Noi dobbiamo reagire in tutti i modi, dedicarci con tutti gli sforzi a vincere lo spettro della svalutazione e ad ancorare la nostra moneta. Concordo con l’onorevole Quintieri: vorrei personalmente accogliere la sua aggiunta: «la Repubblica tutela il valore della moneta nazionale…». Ma è proprio necessaria? Che cosa vuol dire? Che si devono fare tutti gli sforzi possibili per non svalutare la lira?

Siamo d’accordo; ma perché metterlo nella Costituzione? Alcuni trovano che, quando abbiamo assistito ad indeprecabili svalutazioni, la affermazione della «tutela» potrebbe apparire vana. La Commissione prega l’onorevole Quintieri di non insistere.

Ahimè! Per essere logici – e non è una boutade, è un’amara conclusione di tutta questa discussione e dell’anelito che abbiamo alla salvezza della lira – dovremmo mettere nella Costituzione: «La Repubblica impedisce, proibisce e severamente punisce la svalutazione della moneta». Le altre proposte sono eufemismi di questo assurdo enunciato.

Da questa stessa discussione dobbiamo trarre l’impulso a fare tutto ciò che è possibile, tutti d’accordo qui, tutti d’accordo gli italiani per salvare la lira. Ma ciò non si ottiene con dichiarazioni vane e con parole messe nella Costituzione; si ottiene con sforzi effettivi, con la concordia, con un programma d’azione organico e preciso, con un Governo capace di attuarlo, con la fiducia all’interno ed all’estero. Ecco ciò che dobbiamo volere pel nostro paese. (Vivi applausi).

NOBILE. Chiedo di parlare.

PRESIDENTE. Ne ha facoltà.

NOBILE. Desidero chiedere all’onorevole Presidente della Commissione per la Costituzione perché non ha risposto alla mia proposta soppressiva.

RUINI, Presidente della Commissione per la Costituzione. Ho esposto le ragioni, per cui la Commissione è addivenuta alla sua formula e la mantiene; in quanto i due momenti del credito e del risparmio sono collegati; o si rinuncia a parlare dell’uno e dell’altro, o si parla di tutte due. Non comprendo perché l’onorevole Nobile, che vuol garantire il piccolo credito, non voglia parlare di risparmio. Ad ogni modo il nostro concetto e la nostra formula-binomio sono sintetici e chiari.

PRESIDENTE. Chiedo ora ai colleghi presentatori di emendamenti, se li mantengono. Onorevole Colitto, mantiene il suo emendamento?

COLITTO. No, lo ritiro.

PRESIDENTE. Onorevole Cortese, mantiene il suo emendamento?

CORTESE. Aderisco all’emendamento dell’onorevole Einaudi.

PRESIDENTE. Non essendo presente l’onorevole Marina, il suo emendamento si intende decaduto.

L’onorevole Zerbi ha così modificato il suo emendamento:

«La Repubblica incoraggia e tutela il risparmio in tutte le sue forme e favorisce l’accesso del risparmio popolare alla proprietà dell’abitazione, alla proprietà diretta coltivatrice, al diretto ed indiretto investimento azionario nei grandi complessi produttivi del Paese.

«La Repubblica disciplina, coordina e controlla l’esercizio del credito».

A questa nuova formulazione dell’onorevole Zerbi hanno dato la loro adesione gli onorevoli Malvestiti, Canevari, Gasparotto, Magrini e Della Seta.

Chiedo il parere della Commissione su questo emendamento.

RUINI, Presidente della Commissione per la Costituzione. Emendando il suo emendamento, l’onorevole Zerbi toglie la parola «reale» di cui egli stesso sente il pericolo. È un miglioramento, sebbene i tre investimenti, pei quali insiste, siano tutti reali. Restano le altre osservazioni che ho testé fatto. La Commissione non ha ritenuto opportuno entrare in specificazione sull’una o sull’altra forma di investimento. Non sono autorizzato a mutare la prima decisione della Commissione; anche perché l’emendamento appesantirebbe il testo semplice e lineare dell’articolo; e bisognerebbe in ogni caso procedere ad una revisione ortopedica, in sede di redazione definitiva.

Decida l’Assemblea. Riconosco che la nuova dizione è comunque un miglioramento di fronte a quanto si era proposto prima.

PRESIDENTE. Onorevole Zerbi, mantiene il suo emendamento?

ZERBI. Lo mantengo.

PRESIDENTE. Onorevole Nobile, mantiene il suo emendamento?

NOBILE. La proposta, che avevo presentata in via principale, di sopprimere la frase: «La Repubblica tutela il risparmio» più che altro aveva il significato di una protesta fatta a nome dei piccoli risparmiatori; ma, poiché vedo che l’Assemblea non intende rinunziare a parlare nella Costituzione di questa penosa questione ritiro la proposta. Mantengo però l’emendamento subordinato, che è formulato così: «La Repubblica tutela il piccolo risparmio, e a tal fine la legge emana i provvedimenti opportuni per riparare i danni ad esso causati da eventuali inflazioni monetarie».

Mi sembra superfluo aggiungere che quando parlo di «piccolo risparmio» intendo parlare di risparmio che trae origine dal lavoro.

PRESIDENTE. Onorevole Quintieri, mantiene il suo emendamento?

QUINTIERI QUINTO. Lo mantengo, perché l’emissione della moneta costituisce una prerogativa della sovranità dello Stato e non credo che si possa rinunziare a parlarne nella Costituzione.

PRESIDENTE. Onorevole Salerno, mantiene il suo emendamento?

SALERNO. Lo integro con quello dell’onorevole Nobile.

PRESIDENTE. Onorevole Mazza, mantiene il suo emendamento?

MAZZA. Lo mantengo, chiedendo scusa all’onorevole Ruini.

PRESIDENTE. Onorevole Adonnino, mantiene il suo emendamento?

ADONNINO. Lo mantengo.

PRESIDENTE. Onorevole Persico, mantiene il suo emendamento?

PERSICO. Mantengo il secondo comma dell’emendamento: il primo va con la materia tributaria.

PRESIDENTE. Onorevole Einaudi, mantiene il suo emendamento?

EINAUDI. Lo mantengo.

PRESIDENTE. Passiamo alle votazioni. Il testo proposto dalla Commissione nella prima parte suona così: «La Repubblica tutela il risparmio».

L’onorevole Zerbi ha proposto: «La Repubblica incoraggia e tutela».

Pongo prima in votazione il testo della Commissione: «La Repubblica tutela il risparmio».

(È approvato).

Pongo ora in votazione la proposta dell’onorevole Zerbi di aggiungere, dopo le parole «La Repubblica» le altre «incoraggia e».

RUINI, Presidente della Commissione per la Costituzione. Chiedo di parlare.

PRESIDENTE. Ne ha facoltà.

RUINI, Presidente della Commissione per la Costituzione. Il concetto della parola: «incoraggia» si intende compreso nel «tutela».

TAVIANI. Chiedo di parlare.

PRESIDENTE. Ne ha facoltà.

TAVIANI. Noi voteremo la formula: «incoraggia e tutela» per quanto avremmo preferito la formula: «favorisce».

(La proposta Zerbi è approvata).

PRESIDENTE. Pongo in votazione la espressione dell’emendamento Zerbi, che è la più ampia: «in tutte le sue forme».

TAVIANI. Chiedo di parlare per dichiarazione di voto.

PRESIDENTE. Ne ha facoltà.

TAVIANI. Noi votiamo a favore della formula Zerbi, intendendo che la formula del piccolo risparmio e particolarmente quella del risparmio che trae origine dal lavoro, sono implicite nell’accesso al risparmio popolare, contenute nell’emendamento Zerbi.

(L’Assemblea approva la formula Zerbi).

PRESIDENTE. Pongo in votazione la seconda parte dell’emendamento Zerbi:

«favorisce l’accesso del risparmio popolare alla proprietà dell’abitazione, alla proprietà diretta coltivatrice, al diretto ed indiretto investimento azionario nei grandi complessi produttivi del Paese».

ZERBI. Chiedo di parlare, per dichiarazione di voto.

PRESIDENTE. Ne ha facoltà.

ZERBI. Noi presentatori dell’emendamento – Canevari, io e gli altri – insistiamo per la formula dianzi letta, nonostante le osservazioni del Presidente della Commissione. Dal tutto originariamente proposto abbiamo tolta la locuzione: «investimento reale» perché questa poteva prestarsi ad interpretazioni non volute. Quanto alle osservazioni fatte dal Presidente della Commissione, teniamo a sottolineare che l’elencazione da noi proposta non è limitativa, bensì esemplificativa, delle più consuete forme d’investimento del risparmio popolare oppure di quelle forme alle quali particolarmente si pensa. Quanto alla osservazione dell’onorevole Ruini, il quale ritiene poco tempestivo l’inserire nella Carta costituzionale un finalismo come quello enunciato nel nostro emendamento, mi permetto di fare osservare che non ignoriamo che la Nazione italiana ha tuttora ed avrà per parecchi anni necessità di rastrellare molta parte del risparmio monetario dei cittadini attraverso forme d’investimento che non rientrano nell’esemplificazione da noi sollecitata. Debbo inoltre segnalare che l’emendamento da noi proposto contiene una affermazione finalistica, che non esige necessariamente applicazione immediata e radicale ma lascia alle leggi future il compito di trovare forme adatte a favore del risparmio popolare. In secondo luogo, con riferimento alla situazione contingente io, e, credo, anche gli altri colleghi sottoscrittori dell’emendamento, non possiamo esimerci dal sottolineare che proprio le masse operaie e impiegatizie contribuiscono largamente specie in via indiretta al finanziamento dello Stato, anche nell’attuale momento: vi contribuiscono attraverso i contributi assicurativi obbligatori che vanno ad alimentare largamente le necessità dello Stato. Infatti in tali contribuzioni si concreta anche una forma di risparmio obbligatorio attinto al teorico fondo salari ed in decurtazione di un virtuale maggior salario diretto. Se mai – in ordine all’accennata questione – il nostro emendamento contiene implicita l’esigenza di una migliore giustizia distributiva fra tutte le classi dei cittadini dell’onere di concorrere al finanziamento dello Stato sia attraverso le forme dirette che attraverso le forme indirette del risparmio obbligatorio e del portafoglio degli istituti previdenziali.

(Segue la votazione per alzata di mano).

PRESIDENTE. Poiché l’esito della votazione è incerto, procediamo alla votazione per divisione.

(La formula Zerbi è approvata).

Passiamo all’emendamento aggiuntivo proposto dall’onorevole Nobile: «A tal fine la legge emana i provvedimenti opportuni per riparare i danni ad esso causati da eventuali inflazioni monetarie». Tale emendamento è analogo a quelli presentati dall’onorevole Quintieri e dall’onorevole Einaudi. Ciascuno di questi tre emendamenti si preoccupa di tutelare gli interessi dei prestatori, assicurando la stabilità della moneta, o, quanto meno, la stabilità della moneta data in prestito. Comunque, l’emendamento Nobile, che si riferisce alla legge genericamente per le misure che debbono essere prese a questo scopo, deve essere votato per primo. Quindi, lo pongo in votazione.

TAVIANI. Chiedo di parlare per dichiarazione di voto.

PRESIDENTE. Ne ha facoltà.

TAVIANI. Noi votiamo contro l’emendamento Nobile non perché non ne comprendiamo l’alta finalità, ma perché ci sembra che tenga presente una situazione contingente che non sia necessario inserire nella Costituzione.

LACONI. Chiedo di parlare per dichiarazione di voto.

PRESIDENTE. Ne ha facoltà.

LACONI. Noi continueremo a non votare gli emendamenti presentati a questo articolo, come non abbiamo votato gli emendamenti precedenti. Per quanto siamo genericamente d’accordo con lo spirito che ha dettato questi emendamenti, riteniamo che la materia, che in ciascuno di essi è trattata, non sia materia di Costituzione:

(L’emendamento non è approvato).

PRESIDENTE. Pongo in votazione l’emendamento dell’onorevole Quintieri Quinto:

«Alle parole: La Repubblica tutela il risparmio, sostituire le altre: La Repubblica tutela il valore della moneta nazionale ed il risparmio».

TAVIANI. Chiedo di parlare per dichiarazione di voto.

PRESIDENTE. Ne ha facoltà.

TAVIANI. Dichiaro che noi votiamo contro l’emendamento Quintieri per la medesima ragione accennata dall’onorevole Laconi nella sua dichiarazione di astensione. Siamo unanimi nel ritenere, cioè, che la Repubblica debba tutelare il valore della moneta nazionale, ma ci sembra di sminuire questo concetto inserendolo nella Costituzione.

(L’emendamento non è approvato).

PRESIDENTE. Passiamo alla votazione dell’emendamento proposto dall’onorevole Einaudi ed altri:

«Aggiungere il seguente comma:

«A tal fine è garantito il rispetto della clausola oro».

EINAUDI. Chiedo di parlare per dichiarazione di voto.

PRESIDENTE. Ne ha facoltà.

EINAUDI. Io desidero soltanto osservare, in merito alle considerazioni fatte dal Presidente della Commissione per la Costituzione, che il mio emendamento era unicamente permissivo, non obbligatorio. Esso ha per scopo di consentire ai risparmiatori dell’avvenire di convenire una certa modalità di pagamento dei loro crediti in modo che essi siano tutelati contro il pericolo della svalutazione. La clausola non impone, permette.

Quanto al dubbio che io stesso avevo sollevato, e che cioè lo Stato possa in avvenire trovarsi nella impossibilità di adempiere ai suoi impegni, dichiaro ancora una volta che una affermazione lealmente esplicita da parte dello Stato di non poter momentaneamente mantenere i suoi impegni è cosa che fa onore al debitore e non turba affatto il suo credito. Vorrei ricordare un esempio, un fatto che è già avvenuto in Italia: nel 1894, in condizioni gravissime per la finanza italiana, il Ministro Sonnino, Ministro del tesoro di allora, propose di aumentare la imposta di ricchezza mobile dal 13,20 al 20 per cento, contravvenendo apertamente ad una disposizione della legge fondamentale del debito pubblico la quale vietava di fare qualsiasi discriminazione di trattamento tributario fra i titoli del debito pubblico e qualsiasi altro credito. La proposta del Ministro Sonnino violava apertamente siffatta disposizione; ciò nonostante, il Parlamento votò l’aumento dell’imposta. Invece di un danno al credito pubblico, venne dall’inasprita imposta, ed inasprita contro la legge fondamentale del debito pubblico, un grande beneficio per i titoli medesimi, che mentre prima erano caduti sotto alla pari, un po’ per volta superarono la pari. In quell’occasione il Ministro Sonnino ebbe a dichiarare che la salute pubblica richiedeva di ridurre l’interesse del debito pubblico. Quanto più leale questa condotta di quell’altra condotta ipocrita che si ha affermando di voler pagare, ed in realtà pagando in una moneta di dimensioni reali minori di quella convenuta! (Approvazioni).

ARGAINI. Chiedo di parlare per dichiarazione di voto.

PRESIDENTE. Ne ha facoltà.

ARGAINI. Pur comprendendo le preoccupazioni dell’onorevole Einaudi, noi voteremo contro l’emendamento da lui illustrato. Pare a noi che metteremmo nella Costituzione un principio che, se riesce a tutelare la consistenza dei grossi patrimoni e le transazioni tra i più avveduti, non ha efficacia concreta per i modesti patrimoni, frutto del lavoro, che noi principalmente ci proponiamo di tutelare. È inoltre indubbio che la formula del rispetto della clausola oro fisserebbe il principio estremamente pericoloso della insufficienza della lira come misura di valore, proprio nel momento in cui più urgenti sono le istanze per il suo consolidamento. Infine noi non vediamo l’opportunità di mettere nella Costituzione una norma che sostanzialmente e formalmente significa aprioristica sfiducia nella stabilità della moneta. Il problema è di una gravità eccezionale, e le conseguenze sarebbero incalcolabili qualora i cittadini, nei confronti dello Stato, chiedessero l’applicazione e il rispetto della clausola oro. Lo stesso onorevole Einaudi ha dovuto ammettere che, in casi eccezionali, lo Stato potrebbe superare la norma costituzionale.

Ed allora quale efficacia ha una clausola cui si potrebbe venir meno proprio nel momento in cui in parole semplici la moneta più rapidamente si svaluta?

Sinceramente non ci sentiamo di girare la posizione che va posta in altra sede nei suoi termini: stabilizzare la moneta.

FABBRI. Chiedo di parlare per dichiarazione di voto.

PRESIDENTE. Ne ha facoltà.

FABBRI. È con vero dispiacere che dichiaro di non poter votare l’emendamento Einaudi, benché l’affermazione in esso contenuta corrisponda completamente ad un indirizzo ideologico a cui io accedo del tutto. Nel caso particolare bisogna tuttavia riflettere su una circostanza: nella nostra Costituzione si è creduto opportuno da parte della maggioranza di mettere insieme una quantità di norme che sono state chiamate «tendenziali», in quanto avrebbero dato l’avvio al legislatore futuro e su questo criterio, in genere, non consento perché ritengo dette norme estranee ad una Costituzione; in ogni modo vi sono state messe e non tocca a me censurare la maggioranza degli onorevoli componenti questa Costituente. Accanto alle norme tendenziali in discorso ve ne sono altre che hanno invece un carattere dispositivo immediato e queste sono certo di diritto positivo, confacenti ad una Costituzione e debbono essere osservate.

L’emendamento dell’onorevole Einaudi non è di carattere tendenziale, ma stabilisce una riforma precisa di carattere attuale, cioè di immediata applicazione, obbligatoria per il giudice. Ed allora mi permetto di far osservare che nessuna disposizione del nostro diritto vigente sancisce la nullità della così detta «clausola oro» e, fino a quando l’economia del Paese lo ha permesso, la giurisprudenza ha accettato la piena validità di questa clausola oro. Non sono tuttavia mancate eleganti e sottili disquisizioni per escluderne in parte gli effetti; fu, ed esempio, sostenuto che la lira oro dell’epoca fascista surrogava la lira oro dell’anteguerra, e i debitori pretendevano di aver integralmente rispettato la clausola della lira oro, il che, evidentemente, era un allegro sofisma. Ma, indipendentemente da ciò, sta di fatto che detta clausola della lira oro non è stata dichiarata nulla da una legge e vi sono tuttora una quantità di contratti, anche non scaduti, in cui la lira oro è contemplata e vi sono una quantità di contratti…

Una voce a sinistra. Ma la Cassazione è contraria.

FABBRI. …con riferimenti precisi ad una forma di pagamento con valori reali, cioè ancorati indirettamente alla cosiddetta clausola oro.

Ora, nessuno più di me si augura che la economia del Paese possa essere riportata dalla politica in condizioni tali che in futuro la precisa osservanza dei patti contratti dai debitori verso i creditori possa venire garantita. Ma oggi, purtroppo, non è così. Tutto il nostro indirizzo legislativo un po’ per necessità di cose, un po’ per l’indirizzo politico prevalente si svolge in sostanza a vantaggio dei debitori e a svantaggio dei creditori seguendo la linea della minor resistenza.

Anche chi avesse fatto un modestissimo investimento di risparmio in forma reale comprando, per esempio, un piccolo appartamento, si vede oggi in mano invece dell’adeguato canone qualche cosa che è molto simile a un pugno di mosche; coloro che hanno prestato allo Stato, nonostante la pretesa inviolabilità degli impegni da questo assunti, si vedono oggi colpiti dalla futura imposta proporzionale progressiva sul patrimonio, nonostante tutte le falcidie subite nel valore delle lire a suo tempo prestate, cui ha accennato l’onorevole Einaudi, nonostante le dichiarazioni che, al momento dell’accensione del debito, sono state fatte dallo Stato circa l’esenzione da imposte presenti e future. Si cerca di nascondere la cosa con la distinzione fra imposta reale e imposta personale, il che, per la generalità dei prestatori, è un allegro sofisma.

Ora, in sostanza, se tutta la legislazione del nostro Paese oggi è indirizzata, per una dolorosa necessità di cose, alla difesa del debitore e contro il creditore, mi pare che proprio nel momento in cui i debitori sono esanimi e versano in difficoltà, sia difficile invitarli ad una corsa che sarebbe una maratona. Bisognerà cercare con la politica futura di andare progressivamente verso questo ideale, quale è presentato dall’emendamento Einaudi. Nel momento attuale questo rappresenterebbe uno sconquasso nei rapporti di tutti i debitori di fronte a creditori che sono portatori di contratti perfetti, regolari, con la clausola oro. Né mi pare sia possibile dire che l’emendamento dell’onorevole Einaudi avrebbe valore solo per l’avvenire. No; esso avrebbe valore anche per il passato, perché nessun testo di legge attualmente dichiara che la clausola oro sia nulla ed il nuovo testo proposto dall’onorevole Einaudi, se inserito nella Costituzione, finirebbe per aver valore interpretativo, poiché la tendenza dottrinaria e giurisprudenziale è stata, fino a quando fu possibile, di difendere la validità della clausola oro.

Un bel giorno, che rimase celebre fra i frequentatori della Cassazione a Roma – perché normalmente la difformità fra le conclusioni del pubblico ministero e quelle delle sentenze pronunciate dalla Corte si verifica solo in una lievissima percentuale di casi – un bel giorno dunque accadde che tutte le sentenze della Cassazione furono difformi dalle conclusioni del pubblico ministero perché, contrariamente alle sue richieste, furono dichiarate nulle tutte le sentenze che avevano ammesso la validità della clausola oro e valide invece tutte quelle che l’avevano misconosciuta. Questa attuale giurisprudenza dovrebbe ex novo capovolgersi con l’approvazione eventuale dell’emendamento Einaudi e sarebbe quindi, come dico, una vera rivoluzione, perché non ci sarebbe un’adeguata preparazione da parte del ceto dei debitori di fronte ai creditori.

PRESIDENTE. Pongo in votazione l’emendamento Einaudi testé letto.

(Non è approvato).

Passiamo ora alla seconda parte del testo della Commissione:

«… disciplina, coordina e controlla l’esercizio del credito».

(È approvata).

Vi sono ora i seguenti due emendamenti aggiuntivi. Il primo è dell’onorevole Mazza:

«Dopo la parola: credito, aggiungere: Favorisce piccole e medie aziende».

Il secondo è dell’onorevole Adonnino e altri:

«Dopo la parola: credito, aggiungere: e ne agevola i piccoli e medi istituti».

TAVIANI. Chiedo di parlare per dichiarazione di voto.

PRESIDENTE. Ne ha facoltà.

TAVIANI. Noi comprendiamo benissimo i motivi che hanno mosso gli amici onorevoli Mazza e Adonnino a presentare questi emendamenti, ma riteniamo che, se si entra nella parte analitica ed esplicativa della seconda parte dell’articolo, si dovrebbe di conseguenza procedere anche oltre e fare altre specificazioni.

Preghiamo quindi gli amici proponenti di ritirare i loro emendamenti: in caso contrario, voteremo contro.

PRESIDENTE. Onorevole Adonnino, mantiene il suo emendamento?

ADONNINO. Lo ritiro.

PRESIDENTE. Onorevole Mazza, lo ritira anche lei?

MAZZA. Lo ritiro anch’io, dando esempio al mio collega democristiano di una maggiore cristianità. (Si ride).

PRESIDENTE. L’onorevole Persico ha mantenuto soltanto il secondo comma del suo emendamento aggiuntivo:

«Ogni impegno dello Stato verso i suoi creditori è inviolabile».

Lo pongo in votazione.

DOMINEDÒ. Chiedo di parlare per dichiarazione di voto.

PRESIDENTE. Ne ha facoltà.

DOMINEDÒ. Dichiaro che, per quanto concerne la formulazione dell’emendamento, la quale a nostro avviso già rientra nel sistema generale del diritto, noi, considerandola superflua o addirittura equivocabile, voteremo contro.

(L’emendamento non è approvato).

PRESIDENTE. L’emendamento Salerno, il quale aveva chiesto di integrarlo con quello Nobile, si intende assorbito.

L’articolo 44, nel suo complesso, risulta dunque così approvato:

«La Repubblica incoraggia e tutela il risparmio in tutte le sue forme; favorisce l’accesso del risparmio popolare alla proprietà dell’abitazione, alla proprietà diretta coltivatrice, al diretto ed indiretto investimento azionario nei grandi complessi produttivi del Paese; disciplina, coordina e controlla l’esercizio del credito».

Vi sono ora le seguenti proposte di articoli aggiuntivi:

Art …

«Tutti quanti partecipano alla vita economica, sociale o politica dello Stato sono tenuti al pagamento dei tributi in rapporto alla loro effettiva capacità contributiva, salvo le esenzioni e le prerogative previste dalle leggi.

«Castelli Edgardo, Vanoni, Marazza, Vicentini, Martinelli, Arcaii, Cavalli, Mannironi, Avanzini, Firrao, Cremaschi, Franceschini, Ferreri, Sampietro, Balduzzi, Bertola».

Art …

«Salve le esenzioni determinate dalla necessità di assicurare a ciascuno la soddisfazione dei bisogni indispensabili alla esistenza, tutti debbono concorrere alle spese pubbliche, in modo che il carico tributario individuale risulti applicato con criterio di progressività.

«Scoca».

Emendamento rinviato

«I tributi diretti saranno applicati con criterio di progressività.

«Meda Luigi, Malvestiti, Fanfani, Lazzati, Bianchini Laura, Balduzzi, Mastino Gesumino, Murgia, Turco, Ferrarese».

L’onorevole Persico inoltre ha rinviato a questa sede la prima parte del suo emendamento, che ha già svolto:

«Nessun tributo può essere imposto e riscosso se non è stato consentito dal Parlamento».

L’onorevole Castelli Edgardo ha facoltà di svolgere il suo emendamento.

CASTELLI EDGARDO. Propongo anzitutto una mozione d’ordine. Poiché il tema dei tributi ha caratteristiche economiche, ma ha anche tratti di carattere politico, propongo che questo argomento sia discusso alla fine della parte introduttiva della nostra Costituzione, e in particolare in calce al Titolo IV che riguarda i rapporti politici.

PRESIDENTE. Quale è il parere della Commissione?

RUINI, Presidente della Commissione per la Costituzione. La Commissione non aveva ritenuto opportuno ammettere delle norme speciali sui tributi in quanto aveva provveduto a ciò in vari punti della Costituzione, che non sto qui a richiamare. Non fa tuttavia ostacolo a riesaminare la materia, ed acconsente, se l’Assemblea lo ritiene, a rinviare lo svolgimento degli emendamenti Meda, Castelli, Scoca e Persico alla fine dei rapporti politici. Quanto al collocamento, vedremo in sede di coordinamento e redazione definitiva dove le norme eventualmente approvate dovranno essere poste. Accedo quindi alla mozione d’ordine dell’onorevole Castelli Edgardo.

PRESIDENTE. Se gli onorevoli Scoca, Meda Luigi e Persico accedono alla proposta dell’onorevole Castelli Edgardo, fatta propria dalla Commissione, senza dover procedere alla votazione del rinvio proposto, possiamo senz’altro restare intesi che esamineremo la materia contenuta negli articoli aggiuntivi da essi proposti dopo l’esame del Titolo IV sui rapporti politici.

SCOCA. Sono d’accordo.

MEDA. Sono d’accordo.

PERSICO. Sono d’accordo.

(Così rimane stabilito).

PRESIDENTE. Abbiamo così concluso l’esame del Titolo III della prima parte del progetto di Costituzione.

Risposte di Parlamenti esteri al messaggio dell’Assemblea Costituente italiana.

PRESIDENTE. Sono lieto di comunicare che l’appello che ho rivolto, per mandato dell’Assemblea, alle Assemblee delle Nazioni Unite, ha avuto e continua ad avere una eco favorevole, determinando manifestazioni di viva simpatia per il nostro Paese e di certa fiducia nella rinascita dell’Italia e nell’avvenire della Repubblica.

Ispirato a questa simpatia e a questa fiducia, è appunto il seguente messaggio del Presidente della Camera dei Comuni britannica:

«I membri della Camera dei Comuni si rendono pienamente conto del contributo dell’Italia alla sconfitta della Germania. Essi simpatizzano con le aspirazioni dell’Italia di guadagnare il suo posto nella comunità delle Nazioni ed assicurano l’Assemblea Costituente che essa può contare sull’amicizia del popolo britannico. La Gran Bretagna farà quanto è in suo potere per assistere l’Italia nei tempi difficili che i due Paesi dovranno affrontare durante i prossimi anni». (Vivissimi, generali applausi).

Il Presidente della Commissione degli affari esteri dell’Assemblea nazionale francese, Cachin, mi ha fatto pervenire il seguente messaggio:

«In risposta all’appello che Voi avete indirizzato al Presidente della nostra Assemblea nazionale, i membri della Commissione degli affari esteri di detta Assemblea assicurano i loro colleghi della Costituente italiana della loro volontà di sormontare come Voi domandate «ogni risentimento inspirato dai recenti dolorosi avvenimenti» e riannodare con il popolo italiano rapporti cordiali e sinceri di amicizia fiduciosa.

«Voi avete voluto rendere omaggio al tradizionale spirito di giustizia del popolo francese. La Francia democratica è in effetti più attaccata che mai alle generose tradizioni del suo passato; i rappresentanti del nostro popolo sono risoluti a partecipare nel quadro delle Nazioni Unite allo stabilimento di una pace giusta, durevole e definitiva, che dia a tutte le Nazioni democratiche le garanzie di una vita felice e prospera. Noi siamo gli interpreti della Nazione francese quando dichiariamo ai vostri colleghi che abbiamo il vivo desiderio di collaborare in uno spirito di grande simpatia comprensiva con la giovane Repubblica italiana.

«Gli eletti della Francia democratica salutano il popolo italiano che ha contribuito a fianco delle Nazioni Unite alla vittoria contro il nemico comune. Voi avete visto, come noi, le vostre città sconvolte, le vostre ricchezze distrutte, i vostri inestimabili tesori d’arte minacciati, i vostri figli caduti a migliaia. Perciò ogni occasione sarà per noi buona, signor Presidente, per rendere più intimi nel presente e nell’avvenire i legami di amicizia che debbono unire le nostre due grandi democrazie nella difesa comune della pace, del progresso e della civiltà umana». (Vivissimi, generali applausi).

Infine, la Camera dei Rappresentanti della Repubblica orientale dell’Uruguay mi ha comunicato di aver deciso di manifestare dinanzi all’Assemblea generale delle Nazioni Unite gli stessi voti che spontaneamente espose il 15 agosto 1946 alla Conferenza della Pace riunitasi a Parigi, nel senso che si conceda una giusta pace alla Repubblica italiana. (Vivissimi, generali applausi).

(La seduta, sospesa alle 18, è ripresa alle 18,25).

Presidenza del Vicepresidente TUPINI

Si riprende l’esame del progetto di Costituzione della Repubblica italiana.

PRESIDENTE. Riprendiamo l’esame del progetto di Costituzione.

Dichiaro aperta la discussione generale sul Titolo IV: Rapporti politici.

È iscritto a parlare l’onorevole Crispo. Non è presente. Si intende che vi abbia rinunziato.

Segue l’onorevole Coppa. Non è presente. Si intende che vi abbia rinunziato.

Segue l’onorevole Corsini. Non è presente. Si intende che vi abbia rinunziato.

Segue l’onorevole Abozzi. Non è presente. Si intende che vi abbia rinunziato.

Segue l’onorevole Rodi. Ha facoltà di parlare.

RODI. Rinunzio.

PRESIDENTE. Segue l’onorevole De Michelis. Non è presente. Si intende che vi abbia rinunziato.

Segue l’onorevole Vinciguerra. Non è presente. Si intende che vi abbia rinunziato.

Segue l’onorevole Targetti. Non è presente. Si intende che vi abbia rinunciato.

Segue l’onorevole Mattarella. Non è presente. Si intende che vi abbia rinunziato.

Segue l’onorevole Lazzati. Non è presente. Si intende che vi abbia rinunziato.

Segue l’onorevole Pellizzari. Non è presente. Si intende che vi abbia rinunziato.

Segue l’onorevole Caristia. Non è presente. Si intende che vi abbia rinunziato.

Segue l’onorevole Fusco. Non è presente. Si intende che vi abbia rinunziato.

Segue l’onorevole Preziosi. Non è presente. Si intende che vi abbia rinunziato.

Segue l’onorevole Preti. Non è presente. Si intende che vi abbia rinunziato.

MICHELI. Chiedo di parlare.

PRESIDENTE. Ne ha facoltà.

MICHELI. Sono dispiacente di non aver particolari soluzioni da offrire al nostro Presidente, ma sono certo che le avrà trovate nei meandri del Regolamento, il quale, quando si vuole, consente a molte cose. Sarebbe opportuno e conveniente in questo momento evitare la decadenza di ben quattordici o quindici iscritti, in cinque o sei minuti. Il signor Presidente, quando ci siamo momentaneamente lasciati, non ha parlato dell’ora nella quale noi avremmo ripreso la discussione. In fondo mi pare che questa mancata precisazione non è colpa di alcuno, ma forse della consuetudine piena di larga comprensione con la quale giustamente il signor Presidente ed i suoi cooperatori hanno sempre condotto questa discussione. Perché, se altri ha voluto parlare in altre occasioni di ghigliottina, certo non è il momento di ricordarla ora qui; tanto più che essa non potrà mai consentire nessuna applicazione parlamentare. Dato tutto questo, è lecito pensare che è un po’ troppo grave il fatto che in due o tre minuti sia avvenuta la decadenza di quindici iscritti a parlare.

Si tratta in questo Titolo del sistema elettorale, della creazione dei diritti politici. È vero che vi sono altre leggi sul sistema elettorale che la Costituente dovrà discutere, ma qui siamo chiamati a darne le prime linee, le più importanti e le più gravi. Per esse noi dobbiamo evitare di stabilire nella Costituzione principî che possano trovarsi in contrasto con quelle leggi che sono state recentemente presentate dal Governo. L’articolo 2 della legge sull’elettorato attivo che noi della Commissione nominata dalla Costituente stiamo esaminando potrebbe trovarsi in contrasto col terzo capoverso dell’articolo 41. Quindi sono problemi da esaminare con calma, con serenità e non traendo profitto dà una momentanea assenza per eliminare un certo numero di oratori, fra i quali possono essere quelli che questa parte hanno studiata. Ecco perché faccio richiesta, e credo d’interpretare il sentimento di tutta l’Assemblea, affinché, data l’importanza dell’argomento e dato il fatto che non era stata fissata l’ora della ripresa della nostra discussione, questa si riprenda ora che un maggiore numero di colleghi è intervenuto. Prima il numero nostro era maggiormente limitato; per modo che la domanda di dieci di noi avrebbe potuto far cessare questa falcidia spiacevole. Ma questo abbiamo evitato perché non intendevamo, in alcun modo, contraddire quella che era stata la rigida applicazione del Regolamento fatta dal Presidente; però chiediamo di farne una più opportuna, più comprensiva e sopratutto più adatta alla discussione che si deve incominciare sui cennati argomenti.

PRESIDENTE. Avrei gradito che l’onorevole Micheli mi avesse trovato, fra i meandri del Regolamento, qualche indicazione che mi consentisse di potere ovviare a questa situazione. Egli ha fatto un appello alla mia discrezione ed io gli vengo subito incontro, se l’Assemblea non ha nulla in contrario; perché io applico il Regolamento, ma lo applico col consenso dell’Assemhlea, che deve essere la collaboratrice del Presidente.

Ed allora io posso ricominciare la chiama degli onorevoli deputati iscritti a parlare; con questo sistema spero di avere interpretato a dovere e il sentimento dell’onorevole Micheli e quello generale dell’Assemblea. (Applausi).

MICHELI. Ringrazio l’onorevole Presidente della proposta di applicazione graduale del Regolamento; con essa effettivamente si accomodano le cose, pel fatto che l’Assemblea, sempre sovrana, approvando la proposta del Presidente, ne assume essa la responsabilità.

PRESIDENTE. Procedo di nuovo alla chiama.

(Risultano assenti gli onorevoli Crispo, Coppa, Corsini, Abozzi, De Michelis, Vinciguerra, Targetti, Mattarella, Lazzati, Pellizzari, Caristia, Fusco, Preziosi, Preti, iscritti a parlare).

NASI. Chiedo di parlare.

PRESIDENTE. Ne ha facoltà.

NASI. Data questa situazione, domandiamo la constatazione del numero legale e presentiamo la relativa proposta.

PRESIDENTE. Onorevole Nasi, si può chiedere la constatazione del numero legalo soltanto quando si deve procedere ad una votazione.

Quindi, onorevole Nasi, la sua richiesta non è tempestiva, né conforme al Regolamento.

MICHELI. Pure esprimendo il nostro grato animo per il rinnovato appello, vediamo che non è possibile dall’applicazione di esso trarre quel vantaggio che ritenevamo, quindi faccio la proposta di sospendere la discussione. E sopra questa proposta mi pare si possa fare la richiesta. Questo viene fatto senza nessun’ombra di ostruzionismo, perché ci tengo a dichiarare che sono stato sempre presente dal primo giorno fino ad oggi, non ho mai mancato ad una seduta.

PRESIDENTE. È verissimo, è un esempio.

MICHELI. Ho preso poche volte la parola, perché non ho voluto aggiungere parole a quelle di tanti colleghi, che hanno parlato con tanta competenza. La discussione non si deve ritardare, ma si deve fare.

Credo che nessuno voglia sospettare che altro intendimento ci muova che interrompere questa improvvisata decadenza. Non resta quasi più alcuno dei nostri valorosi specialisti, di coloro che hanno, ad esempio, tanta particolare competenza in materia elettorale e che si erarno iscritti in così bel numero per portare il loro contributo alla nostra Assemblea. Comprendo: Ella, onorevole Presidente, ha un Regolamento da applicare e non si può esimere. Addolorati di questo fatto che mette, senza colpa d’alcuno, l’Assemblea nella necessità di decidere tanto rapidamente e senza discussione materie così gravi, per evitarlo crediamo opportuno di fare questa proposta: chiediamo un breve rinvio. Siccome c’è un’altra adunanza fissata nell’ordine del giorno per le ore 21, rimandiamo alle 21 e allora i colleghi iscritti potranno essere avvertiti ed avranno la possibilità di venire. Io limito la mia proposta a questo, e prego il Presidente di metterla ai voti.

SELVAGGI. Chiedo di parlare.

PRESIDENTE. Ne ha facoltà.

SELVAGGI. Propongo il rinvio della seduta alle 21,30.

PRESIDENTE. Pongo in votazione la proposta di rinviare la discussione alle 21,30.

(È approvata).

(La seduta, sospesa alle 18,35, è ripresa alle 21,40).

Presidenza del Presidente TERRACINI

PRESIDENTE. Proseguiamo nella discussione del progetto di Costituzione della Repubblica italiana.

È iscritto a parlare l’onorevole Gasparotto. Ne ha facoltà.

GASPAROTTO. Il Titolo quarto sfiora, dico sfiora perché rimane semplicemente ai margini, il problema dell’ordinamento dell’esercito.

L’articolo 49 dice: «La difesa della Patria è sacro dovere del cittadino».

Egregiamente. Soggiunge che l’ordinamento dell’esercito si uniforma allo spirito della Repubblica democratica italiana. Ottimamente. Senonché, fissato questo principio, si afferma che «il servizio militare è obbligatorio». E qui occorre una chiarificazione. Contro questa formula restrittiva, io ed i miei colleghi Sottosegretari al Ministero della difesa ne abbiamo presentata un’altra, tecnicamente più precisa e prudentemente estensiva, in conformità delle disposizioni che regolano tutte le legislazioni straniere e della stessa tradizione italiana. Proponiamo cioè che essa sia sostituita da questa: «La prestazione del servizio militare è obbligatoria; le modalità sono stabilite dalla legge». Come dissi, questa è la dizione di tutte le legislazioni odierne europee e americane. Già lo Statuto Albertino, all’articolo 75, diceva che «La leva militare è regolata dalla legge», ed al successivo articolo 76 «È istituita una milizia comunale sulle basi regolate dalla legge». A sua volta lo scultoreo Statuto della Repubblica romana del 1845 più audacemente diceva: «L’arruolamento dell’esercito è volontario». Tutte le legislazioni estere, che potrei ad una ad una indicare, riassumono la formula relativa al reclutamento militare in questi termini: «Tutti i cittadini sono obbligati al servizio militare: i particolari sono regolati dalla legge». Perché, questa costante e uniforme dizione? Perché, fissato l’obbligo dei cittadini di servire la patria, lasciare alla legge speciale la disciplina dei singoli ordinamenti? Per lasciare aperta deliberatamente la porta al volontariato. Lo spirito che informa tutte le legislazioni è che l’obbligo del servizio militare è generale e personale. Ora bisogna vedere se, e fino a qual punto, l’obbligatorietà del servizio, o meglio della prestazione del servizio militare, possa essere sostituita (interamente o parzialmente) dalla volontarietà della prestazione. Dichiaro subito: io sono personalmente, ripeto personalmente, favorevole al volontariato della prestazione del servizio militare. Però, siccome in questa materia delicata ed alta non si può agire per improvvisazione, ed alla adozione di questo principio si può arrivare solo per gradualità, mi guarderei bene dall’applicarlo senz’altro in questo momento, in questi giorni. Bisogna distinguere avanti tutto il servizio militare in tempo di guerra e quello in tempo di pace. In tempo di guerra, l’obbligo del servizio militare indubbiamente è totalitario. In tempo di pace bisogna separare la situazione dei grandi eserciti e degli stati organizzati militarmente, cioè su basi prevalentemente militari, dove indubbiamente l’obbligatorietà è necessaria, da quella dei piccoli eserciti dove devono necessariamente prevalere gli elementi tecnici capaci di addestrare le classi da mobilitare e di assolvere i compiti nuovi fissati dall’esperienza dell’ultima guerra, che da guerra di uomini è diventata prevalentemente guerra di macchine. Ora, i tecnici non possono essere che elementi permanenti, o quanto meno sottoposti ad un lungo servizio militare. Di qui la necessaria conseguenza della volontarietà della prestazione.

La formula albertina, che lasciava aperte le porte al volontariato, ha consentito a Cavour di chiamare nel 1859 Garibaldi alla testa dei Cacciatori delle Alpi, Corpo volontario sì, ma parte integrante dell’esercito piemontese; ha consentito al Ministro Di Pettinengo, nel 1866, di permettere allo stesso Garibaldi la creazione del Corpo italiano dei volontari, che si è illustrato nel Trentino.

Del resto, il volontariato è già in atto. Il corpo dei carabinieri recluta volontari al cento per cento; il corpo delle guardie di finanze altrettanto; la Marina recluta volontari attualmente al 61 per cento, l’Aviazione al 64 per cento, l’Esercito al 24 per cento. Secondo le leggi di reclutamento, fino all’anno scorso, il volontariato nella Marina era ammesso al 40 per cento; quest’anno è stato portato al 50 per cento; tuttavia, in fatto, la percentuale dei volontari è arrivata al 61 percento.

Cito un episodio recentissimo per dimostrare come il volontariato sia penetrato ormai nell’animo del popolo italiano. Nell’ultima leva di marina, di pochi mesi or sono, su 7800 volontari soltanto 800 hanno potuto essere accettati dalla base di Taranto. Dunque, il volontariato si è offerto generosamente all’arma della Marina; la quale ha dovuto mettere alla porta la quasi totalità dei giovani che le si offrivano. Ed il comandante del deposito navale di Taranto mi ricordava giorni or sono che le madri di queste giovani reclute si erano presentate a lui, quasi piangendo, per pregarlo di accogliere le domande dei loro figli.

Una voce imprudente ha detto che noi non dobbiamo creare dei corpi mercenari. Adagio colle male parole! Che forse sono mercenari i carabinieri che tutelano l’ordine pubblico? Sono mercenarie le guardie di finanza che sorvegliano i nostri confini? Se questo termine dovesse avere cittadinanza nel vocabolario militare o nel costume politico, dovremmo dire che sono mercenari i Ministri o i deputati che volontariamente accettano il mandato ministeriale o parlamentare…

Lo spirito democratico fissato nell’articolo 49 esige forme brevi. In questa materia non sono un improvvisatore, perché le idee che espongo oggi le ho sostenute ed attuate nel 1921, quando ero Ministro della guerra. In precedenza, le aveva proposte l’altro Ministro, onorevole Bonomi. In quel tempo noi, appunto per imprimere un bene inteso spirito democratico all’esercito ed andare incontro ai voti della pubblica opinione, avevamo proposta la ferma degli otto mesi. Oggi forse questa è insufficiente, perché l’istruzione premilitare, che allora era già in pieno vigore, non è consentita dalle condizioni del trattato di pace.

Quindi, sia per i precedenti disposti dal Ministro Facchinetti, sia per le disposizioni già prese da me, si promette alla gioventù italiana la ferma dei dodici mesi, che è stata accettata recentemente anche nell’Inghilterra.

Noi intendiamo quindi, inserendo all’articolo 49 il nostro emendamento, cioè demandando alle leggi particolari la disciplina del reclutamento, che non si chiuda la porta all’avvenire, che non ci si fermi in una formula rigida, che possa infirmare il principio del volontariato.

L’articolo 6 della Costituzione ripudia la guerra come strumento di offesa, e consente perfino, a parità di condizioni, le limitazioni di sovranità necessarie ad un ordinamento internazionale. Già nel 1919 a Parigi era stato firmato il patto Kellogg, che bandiva la guerra come strumento di risoluzione delle questioni internazionali. Ora, per poter rinunciare, sia pure parzialmente, da parte di uno Stato, al principio ed ai privilegi della propria sovranità, bisogna che intervenga una specie di Stato superiore agli Stati territoriali, un organo super-statale che sia in grado di regolare le grandi controversie che minacciano di dividere il mondo.

Già nel 1940 il partito laburista inglese aveva fissato in una mozione, che ha trovato larga eco nella stampa internazionale, il principio di sottoporre l’autorità territoriale di uno Stato ad una autorità superiore internazionale, la quale avesse sotto il suo controllo forze militari ed economiche, il che è a dire un esercito di polizia a garanzia della pace.

E successivamente, nell’aprile del 1942, sempre in Inghilterra, il partito socialista, col concorso di un giovane italiano che siede in questi banchi, Paolo Treves, ha riaffermato questo principio. Nel 1898, nella repressione della rivolta dei boxers in Cina, le nazioni, Italia compresa, hanno dato vita a un piccolo ma autentico esercito internazionale. Recentemente, proprio in questi giorni, sempre auspicando all’avvento di una polizia, od esercito o, chiamatela pure, gendarmeria internazionale capace di applicare le sanzioni stabilite dalla Corte internazionale di giustizia, il generale Montgomery diceva che gli eserciti nuovi debbono costituire un complesso operativo leggero, rapido, e congegnato in modo che le tre Armi si muovano come un solo organismo. La guerra – soggiungeva – va condotta su basi scientifiche sostituendo l’uomo con i mezzi meccanici. Di qui la necessità, nel campo dei piccoli eserciti, come deve essere quello di un Paese ad economia povera qual è l’Italia, di dare largo ingresso agli elementi specializzati, a quegli elementi tecnici che non possono essere reclutati, per la lunga ferma, che fra i volontari. In tal modo, del resto, l’esercito diventa una scuola di avviamento alle professioni, sopratutto meccaniche, come è attualmente nell’Aviazione e anche nella Marina italiana, dove i giovani dei cantieri navali e delle officine aeronautiche si preparano a diventare tecnici provetti.

Il 4 febbraio scorso, il Capo provvisorio dello Stato ha firmato il decreto legislativo col quale le tre Forze armate sono unificate. Ho il piacere di dire che il principio dell’unificazione fu lealmente accettato da tutte e tre le Armi, per quanto tutte e tre siano gelose della propria tradizione, come la Marina, soprattutto, che presso la pubblica opinione costituisce un corpo quasi aristocratico, e che, pure essendosi imposta con le sue gesta all’ammirazione del mondo, com’è avvenuto per l’Aviazione (l’Esercito è fuori questione), non ha fatto obiezione a questa innovazione prettamente democratica e aderente alla situazione economica del Paese.

E, con questo, noi abbiamo raggiunto uno scopo: quello di avvicinare l’esercito al popolo. Fu per lunghi anni lamentato il dissidio tra l’esercito e il Paese: oggi l’esercito gode l’affetto cordiale del Paese. Oggi, non vi sono manifestazioni militari, per quanto contenute in termini modesti, come vogliono i tempi nuovi, a differenza delle manifestazioni orgiastiche o panoramiche del cessato regime, le quali non trovino il pieno consenso dell’anima popolare.

Un tempo, dai banchi dell’estrema, un deputato e poeta che veniva dalle schiere garibaldine, disse che l’esercito doveva essere l’anima armata della nazione. Oggi questa seducente verità, allora immatura, sta diventando realtà. Noi non pensiamo a guerre nuove. Chi ha fatto la guerra nel passato sente tutto l’orrore delle guerre future. (Approvazioni).

Per questo, con l’anima rivolta agli ideali umani della pace, della fraternità e del lavoro, noi vogliamo fare delle forze armate la scuola della Nazione: scuola di coraggio, di disciplina e di educazione civile: le armi di guerra serviranno così alle arti della pace. (Vivi applausi).

PRESIDENTE. Date le obiezioni sollevate da alcuni colleghi prima della sospensione della seduta circa la decadenza di oratori iscritti a parlare, farò di nuovo l’appello di questi, i quali – forse assenti poco fa – potevano avere mal calcolato l’avvicendamento del loro turno nella discussione.

L’onorevole Crispo risulta in congedo. L’onorevole Coppa non è presente; l’onorevole Corsini non è presente; l’onorevole Abozzi è ugualmente assente.

Chiedo all’onorevole Rodi se, essendo ora presente un maggior numero di deputati, desidera prendere la parola, cui prima aveva rinunziato.

RODI. Onorevole Presidente, onorevoli colleghi, dirò rapidamente qualche cosa intorno a questo Titolo e sono lieto che questa sera l’atmosfera sia familiare; il che mi consentirà di parlare con maggior disinvoltura.

In questo Titolo è sancito il diritto di voto, diritto estremamente importante perché con esso vediamo ripristinate la democrazia e la libertà sulle quali ci soffermiamo per delineare la loro nuova fisionomia. E dico nuova, perché l’evoluzione dei tempi vuole che questa libertà presenti tante fisionomie per quante sono le ere storiche.

A me sembra sia sufficiente in una Costituzione affermare semplicemente il diritto di voto; quella espressione aggiunta al secondo comma per cui il suo esercizio è dovere civico e morale credo non debba trovar posto nell’articolo e ne ho proposto infatti la soppressione.

Ne ho proposta la soppressione innanzitutto perché sia lasciata al cittadino la libertà di voto; e poi perché la nostra preoccupazione odierna è quella di abituare il nostro popolo all’esercizio del libero voto, senza tuttavia che la Costituzione debba sancire un dovere che potrebbe essere o un obbligo o il richiamo ad una realtà che si teme non compresa e non sentita dal popolo.

Credo perciò che basti in una Costituzione affermare semplicemente che il diritto di voto è uguale per tutti.

Ha parlato or ora l’onorevole Gasparotto sul servizio militare. Credo che, nelle condizioni in cui si trova l’Italia attualmente, il servizio militare debba essere effettivamente obbligatorio.

Io ho letto che una corrente è contraria a questa obbligatorietà, forse perché questa corrente si è ispirata alla necessità di conferire al servizio militare quel carattere di volontariato che dorrebbe essere già completamente formato in quella gioventù che deve rappresentare l’esercito nuovo. Noi però non possiamo rompere una tradizione con la stessa rapidità e con la stessa fermezza con la quale si può tagliare un nodo gordiano; e quindi l’obbligatorietà del servizio militare dovrebbe essere conservata se non altro per il fatto che il servizio militare obbligatorio ha dato alla nostra gioventù il modo di completare la sua educazione, e questa gioventù nostra suol prepararsi in anticipo al servizio militare: questa sua obbligatorietà prepara anche lo spirito di questi giovani.

Però, nell’ultimo capoverso dell’articolo 49, si dice: «L’ordinamento dell’esercito si informa allo spirito democratico della Repubblica italiana».

L’onorevole Gasparotto ha già parlato di questo spirito democratico; e non sono certamente io che posso oppormi all’essenza di questo capoverso, perché, evidentemente, in uno Stato democratico anche l’esercito deve avere una fisionomia democratica. Però, osservando bene questo capoverso, dirò che esso è o privo di significato in una Nazione democratica, o si può prestare ad un’interpretazione particolare, se non altro perché la contingenza attuale, in cui troppo spesso si parla di spirito democratico, potrebbe nascondere un pericolo del quale noi abbiamo già fatta un’amara esperienza; e cioè l’ingerenza politica nelle file dell’esercito. Dicevo amara esperienza, perché in tutti i tempi, sol che la politica si infiltri nelle file dell’esercito, questo viene ad essere dominato da una forza estranea che turba essenzialmente le sue funzioni; ed anzi, poiché l’onorevole Gasparotto ha chiamato – riferendosi ad antiche parole – l’esercito «anima armata del popolo» – è essenziale che quest’anima armata rimanga estranea ad influenze esterne, che potrebbero compromettere la sua compagine, come è già difatti avvenuto.

Quindi, noi non possiamo parlare di esercito democratico e di esercito antidemocratico; noi dobbiamo parlare soltanto di «esercito»; tanto più che l’esercito ha le sue leggi speciali, ha la sua particolare fisionomia, ha le sue gerarchie ben stabilite; ha insomma tutte quelle forze che, unite insieme, pur se divise gerarchicamente, danno l’aspetto di «anima armata» alla Nazione.

E io credo che sarebbe opportuno sopprimere questo capoverso, per lasciare all’esercito il suo pieno significato; in modo, cioè, che al nostro esercito, educatore soprattutto di giovani, sia lasciata la sua autonomia, la sua indipendenza e la sua particolare fisionomia.

E qui entriamo nell’articolo 50, nel quale è sancita – nientemeno – la resistenza all’oppressione. Naturalmente, io non ricerco la parte ideale di questo articolo o di questo comma, perché, idealmente parlando, è chiaro che ciascun popolo della terra ha diritto a ribellarsi contro chi violi le leggi fondamentali della libertà e contro chi tenti, comunque, di instaurare una dittatura. Ma questo principio ideale, signori, non può essere sancito da una Costituzione, per le ragioni che dirò appresso. Perché io non voglio chiamare questo capoverso un vero e proprio riconoscimento del diritto rivoluzionario, ma, comunque, ha qualche cosa di simile, perché è come se noi dicessimo ad un popolo che, qualora, un determinato Governo tentasse di instaurare una forma dittatoriale, esso ha il diritto di ribellarsi. Ebbene, il diritto c’è; ogni popolo civile deve ribellarsi alla dittatura; ma se scendiamo da questa concezione ideale alla pratica, noi possiamo – o potremo – trovarci di fronte ad un pericolo non indifferente.

La resistenza di questo popolo contro l’oppressione da chi è organizzata? Evidentemente l’organizzazione di una simile resistenza non può essere esercitata che da un ente politico, il quale ente politico – come sappiamo per esperienza – ha sempre le sue particolari vedute; ed è molto probabile che questo ente politico, per perseguire propri fini e propri intenti, interpreti in maniera non del tutto serena e non del tutto imparziale certi atti d’un governo; e noi potremmo trovarci di fronte al gravissimo problema di un ente politico che, non vedendo sancite le proprie ideologie da un governo, lo consideri violatore delle libertà fondamentali e provochi la ribellione del popolo contro questo governo.

Perché la ribellione del popolo, per quanto possa essere istintiva, dev’essere organizzata; ed è su questa organizzazione che desidero fermare la vostra attenzione, e soprattutto sull’ente che organizza e sulle interpretazioni che si vogliono evitare. E quindi, sancire nella Costituzione questo diritto alla ribellione è come dare un’arma ad un qualsiasi ente politico, in un qualsiasi momento della nostra storia politica, per consentire che una frazione di popolo si ribelli contro il governo.

E perché? La resistenza all’oppressione non è che un fatto storico, il quale nasce spontaneamente dagli eventi; e noi non possiamo in anticipo prevedere un simile evento e addirittura preparare l’organizzazione acché questo evento segua un corso anziché un altro.

Perciò, anche per questo capoverso ho proposto la soppressione.

Nell’articolo 51 si parla di giuramento. Qui forse il problema è anche più delicato. Non è il caso di fare una storia del giuramento, che trova le sue origini nelle più antiche superstizioni pagane, ma è certo che attraverso i tempi la solennità e la particolarità superstiziosa del giuramento sono andate illanguidendosi sino al punto che oggi io oso affermare che il giuramento è una formalità, e come formalità io non so fino a che punto il giuramento possa avere un valore morale. È certamente oggi un’espressione resa semplice dall’abitudine, resa semplice dalla facilità con la quale può essere anche dimenticato il giuramento, resa semplice dalla mancanza di solennità del giuramento stesso; ma questa mancanza di solennità non è affatto mancanza di rispetto ad una tradizione; è soltanto un fatto fatale, che ha portato il giuramento da esponente massimo della moralità e della superstizione di un popolo ad una formalità nei tempi nuovi.

Del resto, in Italia, se il giuramento avesse avuto veramente il valore che noi vogliamo riconoscergli nella Costituzione, avremmo avuto nella nostra amministrazione statale una specie di rivoluzione. Ed è accaduto, specialmente a proposito della trasformazione del regime istituzionale, che i nostri ufficiali, i nostri funzionari, si son trovati di fronte ad un singolarissimo bivio: cioè o ripetere un giuramento o chiedere la dispensa dal servizio.

E quindi, se poniamo l’ipotesi che tutti coloro che hanno nutrito sentimenti monarchici non avessero sentito di ripetere il giuramento in forma repubblicana, noi ci saremmo trovati di fronte ad un dilemma: o la rinunzia al servizio da parte degli ufficiali e funzionari dello Stato, o il loro piegare la testa di fronte ad una nuova necessità. In questo secondo caso il giuramento ha un valore indefinibile, anzi, direi, non ha quasi valore, perché non impegna affatto la coscienza del cittadino.

Del resto, per noi basta il contenuto dell’articolo 50, nel quale si dice che ogni cittadino ha il dovere di essere fedele alla Repubblica, di osservare la Costituzione e le leggi, di adempiere con disciplina ed onore le funzioni che gli sono affidate.

Se noi in questo articolo abbiamo delineato la figura morale del cittadino che deve obbedire alle leggi dello Stato e che deve con onore servire la Patria, non vedo la necessità di un giuramento che vincoli l’uomo alle parole che egli sottoscrive; tanto più che lo vincola spesso senza che egli si renda conto dell’importanza che si vuol dare al giuramento. E anche per questo articolo ho proposto la soppressione, perché per noi, uomini moderni, c’è solo un giuramento, il giuramento che possiamo fare nel profondo della nostra coscienza morale, e nel profondo dei nostri ideali. (Applausi e congratulazioni a destra).

PRESIDENTE. È iscritto a parlare l’onorevole Caristia. Ne ha facoltà.

CARISTIA. Onorevoli colleghi, volentieri mi sarei risparmiato e avrei risparmiato all’Assemblea questo discorso, se non fossi convinto che nell’ora che attraversiamo, così densa di pericoli e così decisiva nella storia della nuova Italia, la responsabilità, che incombe agli uomini di pensiero, non è inferiore a quella degli uomini di Governo e dei politici in genere.

Mi limiterò a fare alcune osservazioni sugli articoli compresi nel quarto Titolo della prima parte del progetto nel loro precipuo significato e nello spirito che li allaccia a tutti gli altri.

Questo è, a mio avviso, il Titolo più interessante, perché fissa le basi e le supreme ragioni della Repubblica e regola l’esercizio di quei diritti che pongono in essere il Governo democratico.

Devo, quindi, fare assegnamento sulla vostra sopportazione, e chiedo venia se sono costretto a superare, sia pure di poco, il limite di tempo concesso.

La nuova Costituzione sostituisce anche in questa parte relativa ai diritti politici, il vecchio Statuto albertino. Occorre, innanzi tutto, a mio avviso, compiere un atto di elementare giustizia che renda omaggio a tale documento, perché se è morto, è morto onoratamente. Perché esso ha guidato, per circa un secolo, il popolo italiano sulle vie della libertà e ha permesso che, a pochi anni di distanza dalla promulgazione, il Governo costituzionale puro si adagiasse, per oltre mezzo secolo, nella forma parlamentare; e in un processo, che, ad onta delle lacune, delle incertezze e delle degenerazioni, ebbe sempre di mira, specie negli ultimi decenni, l’instaurazione di una democrazia progressiva. E il processo era in pieno svolgimento quando i disordini del dopoguerra e la nostra viltà permisero alle milizie fasciste di interromperlo, rendendo, in apparenza, omaggio alle regole imposte dal vecchio documento, col fermo e larvato proposito, come difatti avvenne nel giro di pochi anni, di renderlo lettera morta. E parve che nessuno si accorgesse di nulla; ché, anzi, non mancarono insigni filosofi e pubblicisti più insigni, che si accinsero a dimostrare questa tesi, che agli occhi del presente è ridevole, e che allora sembrò cosa molto seria e ben fondata: che, cioè, i nuovi governanti intendevano risalire allo spirito genuino dello Statuto per interpretarlo e attuarlo esattamente e non falsamente, come era accaduto all’insipienza dei Governi demo-liberali. Il resto è risaputo e conviene, per carità di Patria, tirare un velo sul miserando passato.

Quando l’ultimo re di Savoia fu costretto a varcare i confini del territorio nazionale, lo Statuto era morto da un pezzo, e non a caso a questa morte tenne dietro, sia pure ad una certa distanza, l’estinzione della monarchia. Molti sono ancora quelli che piangono amaramente e sinceramente su queste rovine; ma non sarebbe stato difficile, a mente fredda, prevedere che il crollo del fascismo avrebbe fatalmente provocato il crollo di quello istituto, che, come ogni altro, e forse più di ogni altro, lo aveva sorretto.

Sulle rovine dello Statuto e della monarchia si erige ora la nuova Costituzione repubblicana. Sparisce la camicia nera e trionfa il berretto grigio. Sommersa nel profondo l’intera fauna della civiltà fascista, un’altra si estende e propaga al suo posto, con maggiore rapidità. Nella prima, sotto la sferza vicina o lontana dell’unico leone, vivevano, attraverso le plaghe del territorio del regno, vita lussureggiante, e in gran numero, pappagalli, asini e scimmie, fra cui certe specie nobilissime, come quella dell’homo sapiens, che teorizzava lo stato etico, col metro e nel senso del leone, terminando in un osanna che tutti i pappagalli ripetevano in coro; nella seconda scorazzano, sfoggiando i variopinti colori, molte specie di camaleonti, che difendono strenuamente – segno dei tempi – quelle stesse libertà che, in un passato non molto remoto, ritennero superflue o pregiudizievoli all’interesse della Patria. Chiudiamo la breve parentesi, che vorrete, spero, perdonarmi, e passiamo dal terreno delle immagini a quello delle realtà operanti.

Anche se la monarchia avesse vinto la prova del 2 giugno dello scorso anno, assai difficilmente si sarebbero potute adattare le tendenze e le aspirazioni del dopoguerra sulla trama dello Statuto albertino; il quale, come tutti i documenti del genere, è figlio del suo tempo, porta i segni del tempo e appartiene a quel ciclo di esperienze, in cui l’attenzione del costituente era quasi del tutto attirata dall’aspetto politico, lasciando nell’ombra quell’altro, che va da un pezzo assumendo importanza di prim’ordine: l’aspetto sociale. Ora il tempo è mutato e va mutando sotto i nostri occhi, da oltre mezzo secolo.

L’ascensione progressiva delle classi operaie e le varie correnti del socialismo hanno contribuito alla formazione di una nuova coscienza politica, che non si appaga delle vecchie formulazioni del costituzionalismo del secolo XIX, e vive nell’attesa di nuovi ordinamenti che meglio provvedano al rispetto, allo sviluppo e alla tutela della personalità umana. Non vi è popolo o paese, che sia riuscito a sottrarsi alla logica degli eventi; e questa logica ha trovato ampio svolgimento soprattutto nelle Costituzioni, che seguirono la fine della prima guerra mondiale, e continua a svolgersi, con un ritmo forse troppo accelerato, in quelle che, di mano in mano, si vanno formulando in Europa, dopo la seconda.

Anche quella che andiamo discutendo è un prodotto degli stessi bisogni e un corollario della stessa logica. Anche la nostra tende a vivere e a svolgersi in un clima, che assicuri, nell’ordine, l’esistenza di una democrazia progressiva perché intesa a conciliare l’esercizio dei diritti, di libertà con le esigenze di una più alta giustizia sociale.

Democrazia e repubblica sono i pilastri della nuova Costituzione, e la democrazia, nel suo aspetto politico, ch’è quello sostanziale, si attua attraverso il godimento e l’esercizio del diritto elettorale attivo e passivo. L’articolo 45 del progetto è inteso ad applicare, col più ricco contenuto, il principio del suffragio universale, principio cui si era, d’altronde, inspirata anche la legislazione precedente.

Si è detto e si ripete agevolmente che di democrazie ne esisteranno di vari tipi e colori; si è detto e forse troppo ripetuto che la democrazia – almeno quella tradizionale – ha fatto il suo tempo ed è, anzi, morta sotto il peso delle sue stesse colpe o debolezze. Troppo lungi sarei costretto ad andare e troppo dovrei abusare della vostra sopportazione, se volessi, sia pure brevissimamente, attardarmi nel correggere certi errori, che, pur largamente diffusi, non cessano di esser tali. Queste nenie e queste condanne ricordano, del resto, certe altre, che si sogliono troppo superficialmente ripetere a proposito del liberalismo, e servono, in genere e nella maggior parte dei casi, a dimostrare che la cultura politica non è in Italia, ad onta della prodigiosa colluvie di carta stampata che caratterizza il momento attuale, molto progredita.

La democrazia non è morta, come non è morto il liberalismo. L’una e l’altro hanno ancora, tra i rami secchi, che insidiano la vita e lo sviluppo di ogni dottrina, e ad onta degli adattamenti imposti da nuove esigenze, succhi vitali che ne assicurano la persistenza. Ma la democrazia ha anche i suoi canoni essenziali e basilari, che si attuano in ogni tempo e in ogni luogo; canoni che, ad onta delle diverse interpretazioni, coincidono nell’identica sostanza. La democrazia americana è, sotto questo aspetto, allo stesso livello di quella instaurata, quattro secoli avanti Cristo, nella repubblica ateniese. Il principio dell’uguaglianza dei cittadini di fronte alla legge e quello non meno basilare della necessità che tutti proporzionalmente partecipino alla vita pubblica, si sono affermati, attraverso i secoli, sia pure con vario contenuto, nell’identica sostanza. Questo ho cercato di dimostrare in altra occasione e in forma più adeguata. Qui debbo limitarmi ad osservare che la maggior parte dei rimproveri volti contro le istituzioni democratiche possono anche rivolgersi, con pari agevolezza, contro altre forme di reggimento politico, per la semplicissima ragione che non esistono, come è risaputo, forme perfette, ma soltanto forme più o meno adatte a un dato Paese e ad un dato momento storico. E non sarà del tutto inutile aggiungere che, nella maggior parte dei casi, le critiche o gli assalti non vengono da studiosi o maestri disinteressati, ma da spiriti inclini più a servire che a vivere in libertà, i quali aspirano, più o meno consapevoli, alla dittatura o ad altre forme similari, che potranno avere il pregio dell’originalità senza essere mai democratiche. Ma la democrazia non è soltanto caratterizzata da principî che, più o meno fedelmente, vanno attuandosi. È anche una fede: fede nella bontà intrinseca dell’autogoverno, fede nelle sorti progressive del genere umano, che oggi vuol dire delle classi più numerose e meno abbienti.

In tal senso la nuova Costituzione è e vuol essere democratica. Non esiste democrazia dove manchi un contrasto d’idee alimentato dalla presenza di diversi partiti, dal rispetto per i diritti delle minoranze e dall’assiduo controllo su tutti i rami della pubblica amministrazione.

Ma ecco che vicino a questa democrazia dai contorni semplici e nitidi, ricca di esperienze, in cui si proiettano, tra le ombre che contornano tutte le umane vicende, fasci di luce benefica, un’altra se ne va disegnando, dai contorni incerti e sfuggenti, che talora si mostra a un livello, al quale può spingersi l’occhio nudo, e talora si allontana e si perde, sfumando in certe nebbie, che si fanno sempre più fitte, e in cui l’occhio nudo non penetra affatto o assai difficilmente riesce a penetrare.

Si parla di ordine nuovo, si parla dell’avvento di una nuova classe dirigente, di una profonda trasformazione economica, che dovrebbe produrre la nuova classe politica e la nuovissima forma di Governo popolare, in cui il popolo non è concepito secondo i dettami della dottrina tradizionale, ma in un certo senso e in un certo modo, con esplicito riferimento all’attività economica espressa dall’individuo o dal gruppo.

Più di una volta, di recente, si è, in questa aula, accennato, da parte di colleghi, per i quali nutro grande stima, a quest’ordine di idee che si va agitando e di fatti che andrebbero maturando; ed io non voglio impegnarmi in una partita, che ci porterebbe necessariamente molto lontano dalla pista entro cui il nostro dibattito deve svolgersi. Dirò soltanto che più d’una volta, e segnatamente negli articoli che vanno dal 45 al 50, si accenna alla cittadinanza e aggiungerò subito che in essi il concetto di cittadinanza è o sembra intimamente legato a quello di popolo; ma il nesso, che, nella dottrina, è mezzo di chiarificazione, diviene nel progetto fonte d’incertezza o di equivoci, alla luce dell’articolo 31; incertezza ed equivoci, che si sarebbero fatalmente perpetuati, se la maggioranza dell’Assemblea non si fosse decisa a sopprimere l’ultimo capoverso.

Qui più che altrove si appalesa il conflitto fra opposte tendenze, che premono, con pari energia, sulle norme e i principî dello stesso progetto; e, anche qui, le ombre si accavallano alla luce; e le ombre sovrastano proprio là dove sarebbe necessaria una luce più abbondante. Inconveniente che si sarebbe potuto, senza sforzo, evitare, se, piuttosto che prestare docile orecchio ai suggerimenti di certe Costituzioni tagliate sul tipo di quella di Weimar, si fosse seguito l’esempio di quella recentissima della repubblica francese, più abile, più logica, più breve e, non per questo, meno progressiva; pur avendo saggiamente rinunziato all’enunciazione di massime o di canoni volti a teorizzare intempestivamente l’idea o l’esperienza, che si va attuando in modo ancora confuso e ancora senza espressioni concrete e ben delineate.

Solo una chiara enunciazione dei diritti da esercitare e dei doveri da compiere riuscirà a preservare la persona dal pericolo di perdersi tra le strettoie del Governo totalitario. Io non credo – e nessuno di quelli che siedono in questo settore lo crede – che la democrazia si possa raffigurare, come ha scritto uno dei nostri più eminenti colleghi, che (notate bene) non è all’estrema destra, quale «esercizio molesto e spensierato di libertà che tende alla soppressione di se stessa». Essa è, per noi, strumento di educazione ed elevazione del popolo, partecipe, in vari modi ed in diversi momenti, soprattutto attraverso l’esercizio dei diritti politici, della vita dello Stato, del popolo, inteso nel senso legale, e non di una sola classe.

È ormai inutile chiedersi se la democrazia abbia potuto vivere o non vivere all’ombra della monarchia; domanda oziosa, perché nella storia delle istituzioni politiche quel che più conta è lo spirito e non l’involucro formale, perché la democrazia, quantunque abbia tratti essenziali e fondamentali, va, come tutte le manifestazioni dello spirito, soggetta ad arricchimento, impoverimento o deperimento. Ma nessuno potrebbe contestare che essa è, per lunga tradizione, strettamente legata alle sorti delle istituzioni repubblicane, che l’esperienza storica ci mostra come un superamento o assoggettamento del potere regio.

Ma chi è incline al paradosso potrebbe anche ipotizzare una monarchia socialista.

Lo stesso re, difatti, che ripose, così a lungo, la sua fiducia nelle mani dì un primo ministro, responsabile e irresponsabile, perché munito di poteri dittatoriali e affiancato da un partito, ma presunto interprete fedele della maggioranza, potrebbe riporla in un altro ministro-dittatore, affiancato da un altro partito unico di opposta tendenza, ma del pari interprete fedele di una presunta maggioranza. Ma lasciamo da banda le ipotesi e contentiamoci di notare che la nuova Costituzione è democratica perché repubblicana, ed è repubblicana perché democratica.

Purtroppo, esiste ancora in Italia molta gente degna di riguardo, la quale si intenerisce, si rattrista e trema di pietà al solo ricordo del re lontano; gente semplice e ignara delle tristi vicende, che legarono, a doppio nodo, le sorti della monarchia a quelle del fascismo; gente sospinta, come i primitivi, dal bisogno insopprimibile di solennità e di fasto, la quale pensa che l’autorità abbia maggiore consistenza e resistenza quanto più sappia circondarsi di diademi e lampade incandescenti, di paggi, trombettieri e alabardieri; gente semplice e ingenua, che non ha nulla in comune coi dottrinari severi e intransigenti, i quali lottano a punta di logica.

In verità, il duello secolare fra quelli che contestano e quelli che affermano che la monarchia sia da preferire ad ogni altra forma di reggimento politico, non è ancora finito e potrebbe anche durare fino alla consumazione dei secoli; ed è inutile aggiungere che siffatta contesa ci lascia pressoché indifferenti; perché un problema posto in questi termini non ha senso o ha poco senso e perché, quel che più conta, esso non incide sulla realtà del momento. E giova soprattutto notare che, fra le varie disposizioni del progetto che andiamo discutendo, solo quelle relative alla nuova forma di Governo rappresentano l’intervento diretto della volontà popolare espressa mediante il «referendum»; e potrei fare a meno d’insistere su questo argomento, se i motivi che legittimano la nuova forma di Governo non avessero un intimo tegame con l’obbligo di fedeltà imposto dall’articolo 50 del progetto.

I monarchici diranno o ripeteranno che i procedimenti del 2 giugno non furono legali e che un problema così grosso come quello istituzionale non può risolversi a colpi di maggioranza. Al che sarà facile rispondere che all’accertamento della legalità provvidero organi appositi e che il principio maggioritario conta secoli di storia e ha trovato un larghissimo campo di attuazione nel diritto germanico e in quello canonico, insediando nell’ufficio una lunga serie d’imperatori e di papi. Ma il problema va posto in termini più concreti e va risolto nel campo della responsabilità. E vale la pena di richiamare l’attenzione di quelli che trarranno scandalo dall’obbligo di cui all’articolo citato, e su cui converrà soffermarsi in seguito su alcune circostanze che mi sembrano più particolarmente degne di nota.

Nessuno potrebbe dubitare che l’Italia d’oggi nasce da una forte reazione contro il fascismo, il quale, screditando e vanificando, con ogni mezzo, le istituzioni democratiche e perseguendo il sogno di un imperialismo forsennato, ha spinto il Paese verso il baratro, dove tutti, fascisti e antifascisti, soffriamo amarissime pene. Questo conviene soprattutto tener presente e questo spesso si dimentica. Né giova osservare, allo scopo di eludere ogni responsabilità, che nessuno volle il fascismo e che esso fu il prodotto di certe correnti di idee che, nel dopo guerra, prevalsero in Italia e fuori d’Italia. Una grossa antologia di molti volumi tutti tronfi ed osannanti alla sapienza infallibile del duce proverebbe agevolmente il contrario. Un disastro si subisce, non si magnifica. Ma non è il caso di perdersi in inutili recriminazioni. Sarà invece lecito domandarsi se nel clima antifascista, che caratterizza l’odierna vita pubblica, sarebbe stato giusto, utile ed opportuno conservare una Corona più volte umiliata dietro il carro del dittatore, intima collaboratrice dell’opera nefasta, che i gerarchi andavano svolgendo, indisturbati, entro e fuori i confini del Regno; se sarebbe stato conveniente continuare a prestar fede e rendere omaggio a un titolare che, ad onta del giuramento prestato, ha assistito, impassibile, senza un grido di protesta, allo scempio di quella Costituzione che i padri avevano concesso, giurato ed osservato fedelmente; se sarebbe stato giusto, nell’immensa rovina che ci affratella, e nell’immediato dopo guerra, serbare il trono a una dinastia che, ad onta della silenziosa resistenza di grandi masse, si lasciò travolgere e ci travolse nella guerra sterminatrice.

La difesa, abile e malaccorta, che attribuisce al monarca il merito di aver liberato l’Italia dal fascismo e si compiace di descriverlo come una vittima abbandonata dal popolo e dal parlamento fra gli artigli nefandissimi del duce, vittima fortemente e lungamente tormentata dallo spettro della guerra civile, non è del tutto arbitraria. Ogni errore porta nel suo fondo un’anima di verità.

Si potrebbe piuttosto domandare alla medesima difesa quanto ci sia di vero nelle cronache del tempo, che narrano di un re, il quale mosse in devoto pellegrinaggio per onorare la memoria dei genitori del fondatore dell’impero; che riferiscono certi discorsi della Corona, in cui il monarca, lieto del felice connubio fra lo scudo della dinastia ed i segni del littorio, magnificava l’esito di quei plebisciti – ludi cartacei – in cui meglio si esprime il cinismo e la menzogna della democrazia totalitaria; che narrano di un principe ereditario il quale s’inchinò un giorno a Milano, compunto, sulla polvere del «covo» e attese, un altro giorno, con rispetto, sullo scalone della reggia di Capodimonte, il segretario federale con in mano la tessera preziosa di figlia della lupa per la principessina neonata; e di un altro principe, il quale, in epoca più recente, accettò nel tripudio delle armi vittoriose dell’asse, la corona del regno di Croazia, ecc.

Io credo che anche gli spiriti animati da eccessiva indulgenza, ma non del tutto accecati dalla passione, finiranno per dare un certo peso a queste cronache.

Comunque, è fuori dubbio che la repubblica tende ad un più largo riconoscimento dei diritti pubblici soggettivi, in genere, e dei diritti politici in modo peculiare.

Negli ordinamenti fascisti lo Stato era tutto e l’individuo un vero strumento per l’attuazione dei fini di esso Stato o della Nazione, incarnati nella saggezza di oligarchi infallibili. Il capo, con voce d’oracolo, parlava, e una fitta schiera di maestri e discenti ripeteva, poco importa, se sinceramente o insinceramente, ma sempre fedelmente. La nuova Costituzione si erige su opposti principî. Essa non è intesa a gonfiare lo Stato a spese dell’individuo. Si ispira alla vecchia concezione cristiana, che scorge nel consorzio politico uno strumento atto a soddisfare i bisogni dei gruppi e degli individui consociati. Riconosce, ma non esaspera il principio d’autorità, perché accentua la sua natura strumentale, e risolve, come aveva fatto in uno dei suoi momenti più felici la filosofia politica scolastica, il «dominium» in «offìcium».

La prima, parte del progetto è intesa ad affermare ed a tutelare, sotto nuova luce, i diritti della personalità umana in quanto tale. Ma è evidente che, fra tutti, quelli che meglio e più direttamente assicurano l’attuazione di un Governo democratico, sono i diritti politici.

Si potrebbe osservare, e non senza qualche fondatezza, che questi diritti non trovano, nell’economia della Costituzione, un perfetto addentellato con quelli affermati e garantiti nei Titoli precedenti; e si potrebbe anche notare che il progetto, come tutte le opere dell’uomo, specie quelle compiute entro un lasso di tempo predeterminato, non è immune da certe mende: sovrabbondanza di espressioni, soverchie dichiarazioni, facili promesse, evidenti sproporzioni, ecc. E non pochi colleghi, da vari settori di quest’aula, hanno avuto, più o meno opportunamente, occasione di scoprire queste e altre mende forse più gravi. Ma il tempo dei Soloni e dei Licurghi è tramontato dà un pezzo e forse per sempre. Il mondo moderno cammina, ordinato o disordinato, a gruppi, e non è più in grado di produrre il legislatore sapientissimo. La nuova costituzione non è opera di un solo ma di molti uomini di buona volontà e di essa potranno più equamente appresso giudicare

coloro che questo tempo chiameranno antico.

Anche in questo, come negli altri Titoli del progetto, confluiscono, spesso partendo da opposte rive, diverse correnti che un occhio esperto potrebbe identificare nella loro maggiore o minore portata; correnti che rappresentano vari modi di concepire il mondo e la vita politica: liberalismo, socialismo, democrazia cristiana, a tacer d’altri, che senza sforzo potrebbero rientrare in questi tre. E se tali correnti si toccano, o intersecano, si disgiungono o si ricongiungono, senza mai fondersi nella coerenza e saldezza di un volume, ciò accade, più che per intenzione o come è stato, non senza leggerezza, più volte notato, per virtù di compromesso, per la profondità della crisi che attraversiamo, in cui le linee del vecchio si sovrappongono a quelle di un nuovo mondo che si va formando e proiettando nel futuro.

Il liberalismo vi confluisce, quantunque per vie più profonde e a mala pena percettibili, in vario modo.

Coloro che pensano che il liberalismo abbia fatto il suo tempo e sia morto quadriduano, non sembrano molto bene informati su quanto è accaduto e va accadendo, specie nel secolo ventesimo, in Inghilterra; e, se la nostra classe politica fosse più spiritualmente nutrita e i partiti più vigili nello scoprire e notare esattamente quel che accade in casa altrui, questi e quella avrebbero visto agevolmente che il liberalismo di oggi ha percorso un lungo cammino, e, se non ha ripudiato del tutto i suoi canoni originari, li ha in tutto o in parte, modificati, adattandoli alle esigenze dei tempi nuovi. E non a caso il Paese classico del liberalismo economico si annovera primo o tra i primi di quanti abbiano dato corpo ed efficacia ad una legislazione sociale. Ma, più che il liberalismo d’oggi, quello di ieri penetra e continua a diffondersi nelle Costituzioni contemporanee, le quali tutte sono indotte da una necessità inderogabile, a proclamare e a garantire quei diritti di libertà e quei diritti politici che oggi appaiono come un presupposto della vita civile.

L’altra corrente, che preme con pari energia, è rappresentata dal socialismo nelle sue varie aspirazioni o interpretazioni.

Le Carte o Statuti del secolo diciannovesimo non ebbero altra mèta che quella di imporre limiti ben definiti al potere assoluto del principe, limiti da cui derivassero ai singoli cittadini il godimento e l’esercizio di speciali diritti, che li rendessero partecipi della vita pubblica. Ma tanto i diritti politici quanto i diritti di libertà, e specialmente i primi, si attuavano sopra un terreno appartato, che accoglieva le pretese affacciate per lo sviluppo della personalità umana, ignorando del tutto o quasi del tutto la struttura dei rapporti economici entro cui quei diritti si andavano esercitando. Il movimento socialista, di mano in mano che è andato più e meglio affermandosi, ha obbligato il costituente a tenere stretto conto di tale struttura. Fu così che durante il secolo ventesimo il riconoscimento di diritti civici e politici venne integrandosi con quello dei così detti diritti sociali. Il lavoro fu oggetto di particolare considerazione e i rapporti di lavoro fornirono nuova materia alle regole della Costituzione. Di questo movimento, che non si esaurisce in quello imprigionato nella ricca bardatura marxista, è un largo riflesso più che nel quarto, nel terzo Titolo della prima parte del progetto.

La terza delle correnti, che cercano e trovano uno sbocco nella Costituzione, sembra più tenue perché meno appariscente e perché emersa a vista d’occhio in un passato a noi più prossimo. Ma in realtà essa attinge i suoi succhi vitali e affonda le sue radici in un passato, che risale nei secoli, per ricongiungersi alle prime esperienze del divino messaggio; e, ponendo a centro e guida della propria esistenza lo spirito della tradizione cristiana anche nella vita civile, si pone in aperto contrasto con le altre perché entrambe intese a ricacciare siffatta tradizione nell’ambito angusto della vita privata, quando non si ingegnino di negarla o, comunque, degradarla.

Questa tradizione due volte millenaria vive e si va perpetuando, di qua e di là dell’oceano, attraverso l’opera di un grande sodalizio, che non conosce limiti politici o geografici e che nessuno può ignorare; immenso sodalizio, che ha confuso la sua vita con quella dell’umanità civile. Sembra ingenuo e antistorico pensare che questo sodalizio, il quale possiede un corpo di dottrine in cui l’umano si intreccia col divino, che ha esercitato, per secoli, un magistero supremo perché al di sopra di competizioni, di razza o di casta, possa ad un tratto estraniarsi dalle vicende che interessano il mondo politico. È ingenuo e antistorico pensare che la vita cristiana, quando sia veramente e integralmente vissuta, possa restringersi entro la cerchia ben limitata di esperienze individuali o liturgiche, senza mai penetrare nel sacrario della vita sociale o politica. È assurdo pensare che un organismo, che possiede l’energia e la compagine della Chiesa cattolica, la quale non rinunzia e non rinunzierà mai al titolo di maestra delle genti, possa vivere, di fronte al consorzio civile, senza minimamente interessarsi delle sue sorti. Accadde, invece, e accade e accadrà sempre il contrario.

L’insegnamento della Chiesa si diffonde, anche oggi, in mille modi e penetra, visto o non visto, anche tra le maglie della Costituzione. Ma chi, giovandosi di vecchi equivoci e ripetendo accuse tante volte rintuzzate, dicesse che in Italia esiste un partito cattolico, affermerebbe cosa del tutto inesatta; giacché quello che, a titolo di merito o demerito, vorrebbe qualificarsi come tale, rivendica la sua perfetta autonomia nel campo delle competizioni politiche, dove assume intera responsabilità dei suoi atti. Ma crede in pari tempo – e questo è il suo carattere differenziale – che la Chiesa non abbia ancora esaurita la sua missione e che dal suo insegnamento possa ancora trarre utile profitto non soltanto la vita dei singoli ma anche quella dei gruppi: dalla società familiare a quella internazionale.

La Costituzione non può ignorare l’esistenza di questo grande organismo, che ha il suo centro nel cuore del territorio. Nessuna politica ecclesiastica potrà tenere un contegno passivo o del tutto indifferente. Anche qui l’esperienza insegna che il contegno potrà essere aggressivo o difensivo o d’altro genere; ma mai di assoluta indifferenza. Appunto per questo il progetto ha proposto che anche la Repubblica regoli i rapporti fra lo Stato e la Chiesa in base ai Patti lateranensi; e non certo per rendere omaggio al facile successo, peraltro ben presto sciupato, del governo fascista. Il quale, mentre ostentava un grande rispetto per il rito cattolico, in realtà mortificava sempre più la fede religiosa, considerata instrumentum regni. Anche a tal proposito la nuova Costituzione segna un progresso. Accolto il principio della libertà religiosa, estranea ai sotterfugi e ai ripieghi insiti in ogni forma di giurisdizionalismo, sinceramente compresa di rispetto per la tradizione e l’autorità della Chiesa, ne riconosce la piena indipendenza. Col che non fa che trascrivere in termini giuridici gli aspetti più salienti della politica ecclesiastica di quest’ultimo quarto di secolo, che ha assistito a un graduale avvicinamento delle due potestà, per diverso titolo supreme, di mano in mano che i vecchi rancori e le vecchie posizioni si andavano placando e mutando, e un nuovo spirito di comprensione reciproca conciliava al pontificato romano, specie durante e dopo l’ultima guerra, una larga sfera di simpatie anche in ambienti e tra personalità un tempo ostili.

Ma la nuova Costituzione non è il toccasana, non è un libro di ricette per guarire tutte le malattie del corpo politico o sociale; non è il segreto della felicità e non è scritta per instaurare quel perfetto governo, che non esisterà mai. Ha propositi e prospettive più modeste. Traccia un semplice binario per guidare la Repubblica verso un migliore domani.

Non è un codice perfetto e immune da ogni imperfezione. E anche se ne fosse del tutto immune e anche se il godimento dei diritti politici e di tutti gli altri che ad esso si riconnettono fosse perfettamente garantito, ciò non basterebbe da sé ad assicurare il raggiungimento della mèta o delle mète prefisse. Il binario ha importanza di prim’ordine, ma non è di scarsa importanza il grado di resistenza delle locomotive, la bontà o meno del combustibile, il grado di velocità media e via dicendo. La misura o la proporzione di questi o altri elementi costituisce il compito del legislatore di domani. Ma il legislatore non è onnipotente, e poco o punto potrà fare se i suoi sforzi non verranno secondati dalla nostra coscienza civile.

Troppi amori e troppi rancori si addensano attorno alla nuova Costituzione; amori di chi ammira in essa i segni di una sicura palingenesi; rancori di chi, specie dopo il crollo della monarchia, vede in essa l’abbrivo verso la dissoluzione violenta o progressiva del Paese. Il più oscuro pessimismo s’incrocia al più roseo ottimismo. Forse si esagera in un senso o nell’altro. Contro l’uno e contro l’altro bisognerà difendersi e occorrerà soprattutto tener d’occhio i grossi e numerosi problemi che il dopoguerra oppone e impone alla nuova Repubblica. Ma i problemi verranno risolti, le difficoltà superate, se tutti, da tutti i settori, ci riuniremo nell’intento di ricostruire moralmente e materialmente il Paese prostrato dalla sconfitta; se tutti, al di sopra di ogni interesse personale o di parte o di classe, fedeli allo spirito e alla lettera della Costituzione, sapremo provvedere, sotto l’impero della legge, all’attuazione del comun bene, che vuol dire al benessere delle classi più numerose e bisognose. In questo spirito bisognerà procedere per gradi, e senza bruschi trapassi, a una trasformazione degli attuali rapporti economici.

È ingiusto è immorale che nello stesso territorio dello Stato convivano cittadini, provvisti di beni superiori ai loro bisogni, e cittadini, sprovvisti a segno da non riuscir a soddisfare i più rudimentali. I diritti politici, e segnatamente il diritto elettorale, sono, in mano di chi lotta contro la fame, se non un’ironia, certo, un’arma spuntata e tuttavia pericolosa.

Contro questo stato di cose protesta soprattutto la coscienza cristiana, che ravvisa negli uomini tutti i figli dello stesso Padre, e rivive, inconsapevolmente, in quegli stessi tentativi di riforma intesi a negarla o superarla. Ma la trasformazione economica non deve menomare il godimento, l’esercizio dei diritti politici, né alterare quel principio di libertà dei singoli e delle comunità che rappresenta l’altro aspetto della Costituzione.

Attorno ad essa, come attorno ad ogni altra, premono di continuo le forze di coesione e forze di corrosione. Le garanzie di libertà bene ordinate, il fermo proposito che la lotta civile si svolga, mediante l’esercizio dei diritti politici, sotto l’impero e la salvaguardia della legge, rappresentano il massimo coefficiente di coesione; la violenza, le illegalità e, comunque, il disprezzo delle norme precostituite, il massimo coefficiente di corrosione. La Repubblica vivrà, e vivrà a lungo, se sarà in grado di sviluppare e convogliare le forze di coesione e se saprà difendersi, sempre nell’orbita della legalità, contro i nemici palesi o segreti; se saprà soprattutto fronteggiare, con prudenza, quel movimento, più di ogni altro insidioso, che, esaltando la monarchia spodestata dal plebiscito o giovandosi di quelle stesse libertà che il fascismo, affiancato dal potere regio, distrusse spietatamente, rappresenta la più grave minaccia e la forza più oscura di corrosione.

Mi sembra inutile insistere sulla straordinaria importanza dell’obbligo di fedeltà, imposto ai cittadini dal primo alinea dell’articolo 50 del progetto, e credo di non esagerare affermando che questo è il dovere principale, il primo dovere di ogni cittadino, dovere, più che legale, morale, cui niuno può sottrarsi; ed è superfluo obiettare che quest’obbligo non potrà mai avere un contenuto strettamente giuridico.

Si può teoricamente dissentire, si può pur credere che la monarchia sia, anche in questo dopoguerra e anche dopo gli errori inescusabili commessi, l’istituto più idoneo a creare un’atmosfera di pace e di progresso civile; opinione discutibile come quella di chi crede che il perfetto governo sia quello che, in tutto o in parte, realizza la dittatura del proletariato. Ma non sembra che possa reputarsi buon cittadino chi, screditando e diffamando le istituzioni repubblicane, fomenta e organizza una propaganda che, spinta alle ultime conseguenze, finirebbe per gettare il paese in braccio a quella stessa guerra civile che, stando a quanto dicono i monarchici, la Corona volle sempre evitare, anche a costo di procedere umiliata dietro il carro del dittatore. Che, se è scritto, che per colmo delle nostre sventure, l’Italia debba esperimentare un’altra dittatura, che sarà certamente più goffa e più iniqua della prima, io non so, per quale inatteso miracolo o rinnovato prestigio, la monarchia, che non poté ostacolare il corso del torrentello fascista, saprebbe fronteggiare in pieno la marea della dittatura.

La Repubblica ha il dovere di difendersi contro i suoi nemici palesi o segreti. Chi ha servito onestamente la monarchia e onestamente vorrebbe continuare a servirla, non ha che una via, o meglio un bivio: o prestar omaggio, sia pure esteriore ma rinunziando a ogni sorta di propaganda, alla Repubblica, o ritirarsi a vita privata. Così agì quell’eletta minoranza, che disprezzando, ieri come oggi, la teoria e la prassi del governo fascista, volle tenersi immune dal contagio. Con la differenza che gli antifascisti, anche per questa innocua resistenza passiva, subirono umiliazioni e castighi e corsero gravi pericoli, mentre i monarchici continuerebbero a vivere tranquillamente e ugualmente protetti dalle leggi dello Stato.

Fa bisogno di aggiungere che l’obbligo di fedeltà, che si impone indistintamente a tutti i cittadini, si rende più grave per i funzionari dello Stato?

Quando, qualche mese fa, sentivo tuonare dai banchi di quest’aula certe voci robuste, che, con pose drammatiche, protestavano furiosamente, in nome della libertà e del diritto, contro le norme relative al giuramento, ridevo e piangevo in cuor mio, ricordando certi uomini e certi episodi di un passato non molto remoto, in cui la libertà e i diritti individuali, oggi ipertrofizzati, giacquero in quella perfetta atrofia, che i medici della ducea, i quali, a quei tempi erano anche filosofi, diagnosticarono segno di perfetta salute. E proprio oggi lo Stato dovrebbe tollerare, sempre in omaggio alla libertà e al diritto, che a esprimere la sua volontà o attività, ne’ momenti più delicati, agiscano cittadini in attesa del ritorno del re lontano, costruttori delle vie più agevoli per ricondurlo nel cuore di Roma. Quale situazione più assurda? E quale pretesa più legittima di quella che impone il dovere di cooperare a conservare la Repubblica e di non agire palesemente o segretamente col desiderio di rovinarla? Non imiteremo certo la condotta, che la libera Inghilterra ha tenuto per secoli, per premunirsi, con esagerata prudenza, contro un gran numero di cittadini ritenuti ostili alla monarchia anglicana; ma non potremo permettere che i nemici della Repubblica si adoperino a rovesciarla nello stesso tempo che si apprestano a servirla. Il primo e più imperioso bisogno della Repubblica è quello dell’autoconservazione. Essa deve, quindi, per la logica della sua stessa esistenza, compiere ogni sforzo nell’intento di ravvivare le forze di coesione ed eliminare prontamente le forze di corrosione che minacciano la sua esistenza. Solo a queste condizioni l’Italia potrà riprendere il suo cammino faticoso e riacquistare degnamente il suo posto nel concerto europeo.

In un vecchio libro francese, che tratta di cose italiane, ricco di paradossi e non immune d’errori, si legge questa grande verità, confortata dall’esperienza di molti secoli, che mi piace riferire a conforto di quanto ho avuto l’onore di esporre: «Ogni democrazia, che sorgerà, dopo un lungo servaggio, appagandosi solo del piacere di nascere, senza alcuna garanzia per difendersi contro le mene degli avversari, diverrà immancabilmente loro preda e ludibrio».

Chiunque abbia fede vera e intera, e non improvvisata, nella bontà della democrazia; chiunque aderisca alla Repubblica intimamente e non col desiderio segreto di rovesciarla; chiunque senta quello stesso bisogno di libertà, che avvertì, più pungente, senza piegarsi agl’idoli del giorno, sotto il lungo servaggio, saprà, mi auguro, trar profitto da questa grande verità, che suona, oggi più che mai, come un monito solenne e tempestivo.

Dovrei, arrivato a questo punto, aggiungere qualche parola intorno al comma secondo dell’articolo 50, in cui si riconosce e si regola un diritto, che si può riconoscere, ma che non si sa come si potrebbe effettivamente regolare. La qual cosa richiederebbe un discorso per lo meno tanto lungo quanto quello che ho fatto.

Uno dei nostri più eminenti colleghi, Vittorio Emanuele Orlando, maestro insigne al quale mi è grato rivolgere un saluto augurale, si è occupato, da par suo, in una apposita monografia, dell’argomento, e altri dopo di lui se ne sono occupati. E sarebbe fuor di luogo seguire, sia pure per sommi capi, nelle varie correnti e nelle diverse sfumature, questa dottrina, che si è espressa, per secoli, in una letteratura abbondantissima, che culminò nell’opera dei così detti monarcomachi.

Nell’articolo 50 è un lontano riverbero di quest’opera, alla quale collaborarono cattolici e protestanti, intesa a costruire un diritto alla resistenza contro il tiranno, o, come oggi diremmo, contro il potere illegale. Ma, mentre in essa il diritto è configurato con precisione e una ricchezza di particolari sorprendenti, la nostra Costituzione si esprime – e non poteva accadere altrimenti – in termini vaghi ed equivoci. E in verità mal si comprende come in un Paese retto liberamente, ove i mezzi di opporsi al tentativo di sopprimere le garanzie fondamentali della vita civile sono così vistosi e numerosi – stampa, pubbliche riunioni, dibattiti parlamentari, ecc. – possa rigorosamente configurarsi un diritto alla resistenza individuale o collettiva. Nel primo caso, resistenza individuale, la difesa contro l’arbitrio potrebbe venire da una maggiore estensione del principio della responsabilità dei funzionari; nel secondo, resistenza collettiva, si ha la configurazione di un diritto e dovere per lo meno superflua; giacché, come la storia insegna, la resistenza sarà efficace se il popolo sentirà, profondo, il bisogno di serbarsi in libertà e mancherà del tutto, ad onta della solenne proclamazione, se un tal bisogno sarà comunque attutito o attenuato.

Noi siamo troppo inclini ad attribuire alle formule giuridiche soverchia importanza. Una lunga tradizione di giuristi e legisti eminenti pesa, e non invano, sul nostro capo. Ma le formule, com’è risaputo, hanno o non hanno senso in vista e in misura della coscienza politica dell’ambiente in cui nascono e si vanno attuando. Quando la Repubblica romana cominciò a piegare verso l’assolutismo e Augusto raccolse in sé, grado a grado, i poteri di tutte le Magistrature, nulla apparentemente era mutato; e i giuristi non mancarono di configurare questa trasformazione, in cui lo spirito dei vecchi ordinamenti era annullato e mortificato, come un trasferimento volontario dell’esercizio del supremo potere dal popolo al principe. Formula che, nel corso dei secoli, poté giovare parimenti a dottrinari dell’assolutismo e a quelli della democrazia, ma che, in realtà, permise e agevolò l’instaurazione e il consolidamento del potere imperiale.

Nella vita del consorzio civile quel che più conta non è la regola, forma arida e vuota al momento della sua posizione, ma la regola, che si riempie di un vario contenuto, al momento della sua attuazione. Questa verità è ancor più manifesta per le relazioni e le norme concernenti la vita delle comunità e in modo speciale per quelle relative al godimento e all’esercizio dei diritti politici. Qui, più che altrove, il riconoscimento è vano se l’esercizio non è conforme allo spirito e ai fini della Costituzione. E si potrebbero addurre non pochi esempi atti a provare che le più solenni affermazioni di codesto diritto non hanno impedito la rovina della democrazia.

Occorre, dunque, onorevoli colleghi, difendere con tutti i mezzi la Repubblica, non affidandosi troppo alle formule vuote della Costituzione, ma contando, anche e soprattutto, sul rispetto al principio della supremazia della legge e sulla rinnovata coscienza del popolo italiano.

Occorre che il popolo acquisti o riacquisti il bisogno della vita civile, che non potrà mai sussistere senza il concorso di quelle virtù private, che rafforzano la compagine dello Stato. Occorre soprattutto infondere il rispetto dell’autorità, fondata sul regolare esercizio dei diritti politici, rispetto assolutamente necessario perché il governo popolare non degeneri in disordine e non ripieghi verso la dittatura.

Quando Montesquieu scorse nella virtù il principio vitale della democrazia, vide forse molto meglio di quanto comunemente si creda: nella virtù, non nel senso machiavellico, ma in quello tradizionale di probità e conformità alla legge morale, che impone assoluti e precisi doveri, e assicura un maggiore rendimento all’esercizio di quei diritti. Occorre ravvivare il senso religioso della vita. Purtroppo, un lungo pregiudizio, che va dal rinascimento all’illuminismo, e che questo ha trasmesso alla borghesia progredita della nuova Europa, ci ha abituato a considerare il cristianesimo quale somma di principî adatti alla mentalità delle masse non ancora assurte alla conoscenza delle verità razionali, o, nel suo aspetto negativo, come invito alla rassegnazione o alla mortificazione; pregiudizio, che esplicitamente o implicitamente, tende a negare la virtù sociale del messaggio divino, quel che in esso è di propulsivo e costruttivo: la sete di giustizia, che ammonisce i potenti della terra, la legge d’amore fraterno che è il massimo dei precetti. Noi crediamo che la società in genere e il consorzio politico in ispecie riceveranno nuovo impulso a progredire e si arricchiranno di nuove energie purificatrici quando il cristianesimo, che oggi affiora solo all’epidermide, li avrà permeati interamente.

Illusione? Disegno utopistico di una nuova Città di Dio? Non so. Ma so bene che se, un giorno, tutte le relazioni dei soggetti che vivono in società dovessero risolversi in una serie minuta, precisa e perfetta di prestazioni e controprestazioni, in una rigida e mirabile concatenazione di obblighi e diritti, dispettando, di proposito, ogni senso di pietà e d’amore fraterno, la più grande luce sarebbe spenta, come se il sole avesse, ad un tratto, finito di scaldare e illuminare il vecchio pianeta. E il sole e il sale della terra è la verità cristiana, guida, fulcro e ragione della nostra esistenza, segnacolo alle nuove generazioni, che accorrono sotto le nostre insegne. E in questa luce, con le nuove generazioni, anche noi, cui l’amara esperienza di mezzo secolo straziato da due guerre formidabili rende spesso dubbiosi e pensosi, ritempriamo la nostra fede e vogliamo avvolta l’Italia di oggi e di domani. (Applausi).

PRESIDENTE. Non essendo presenti gli onorevoli Vinciguerra e Fusco, si intende che abbiano rinunziato a parlare.

È iscritto a parlare l’onorevole Bencivenga. Ne ha facoltà.

BENCIVENGA. Come al solito sarò brevissimo. Mi propongo soltanto di richiamare l’attenzione su talune disposizioni di questa parte della Costituzione, che riguarda i diritti ed i doveri del cittadino.

Premetto, che avrei preferito si parlasse prima di doveri e poi di diritti: e, con questo criterio, inizierò il mio discorso.

L’articolo 49 sancisce un principio lapidario: «La difesa della Patria è sacro dovere del cittadino». L’articolo 50 dice: «Ogni cittadino ha il dovere di essere fedele alla Repubblica, di osservare la Costituzione e le leggi, di adempiere con disciplina ed onore le funzioni che gli sono affidate».

Benissimo. Ma non è tutto. Vi sono calamità nazionali, tra le quali è compresa la guerra, che esigono la solidarietà di tutti i cittadini. Preferibile pertanto quanto la Costituzione francese pone nel suo preambolo: «La Nazione proclama la solidarietà e la uguaglianza di tutti i francesi di fronte ai pesi che risultano dalle calamità nazionali».

Come corollario al primo dei due principî sopraesposti, la nostra Costituzione fa seguire questo dovere: «Il servizio militare è obbligatorio».

Su questo argomento sono stati proposti alcuni emendamenti sui quali ritengo opportuno richiamare l’attenzione.

Comincio da quello che porta come prima la firma dell’onorevole Cairo.

In questo emendamento si propone l’abolizione del servizio militare obbligatorio. Ora, a parte il fatto che ciò contrasta col principio, che pure i firmatari dell’emendamento ammettono, quello cioè che la difesa della Patria è dovere di tutti i cittadini, mi permetto di far rilevare come l’abolizione del servizio militare obbligatorio contrasta coi principî di una sana democrazia ed espone il Paese al pericolo di avere in tempo di pace un esercito di pretoriani.

D’altronde la coscrizione obbligatoria in guerra è una necessità, dato lo sviluppo degli ordinamenti militari odierni. Gli stessi Stati Uniti d’America si videro costretti ad introdurla con legge 16 settembre 1940.

Naturalmente il principio della coscrizione obbligatoria non significa che si debbano periodicamente chiamare alle armi centinaia di migliaia di cittadini. Sono poi le leggi sul reclutamento e sull’ordinamento dell’esercito (sulle quali è chiamato a deliberare il Parlamento) quelle che stabiliscono il contingente da chiamare alle armi, il quale può essere ridotto al minimo indispensabile per mantenere in forza l’esercito di pace. Se si pensa poi al grande numero di raffermati che gli odierni armamenti impongono, è facile intuire che la coscrizione obbligatoria si ridurrà – specie per le poche forze armate che oggi ci è concesso avere – ad un minimo contingente.

La proposta di abolire la coscrizione obbligatoria da parte dei sottoscrittori dell’emendamento in parola sembra voglia essere messa in relazione con una dichiarazione di neutralità perfetta.

Senza discutere la nobiltà del fine che essi si propongono, mi limiterò a rilevare come questa sia praticamente una utopia, come ha dimostrato la recente guerra. Ed in realtà la tecnica operativa, cioè a dire la condotta di guerra, è tale oggi, che il rispetto della neutralità di una grande nazione si risolve a vantaggio di uno dei gruppi contendenti. Ed è ovvio che quello dei gruppi che si risente danneggiato trovi un pretesto per violarla. Comunque, noi saremmo sempre nell’obbligo di difenderla. E come difenderla senza adeguate forze armate? Si pensi alla anfrattuosità delle nostre coste, nelle quali trovano sicuro rifugio i sottomarini; si pensi alle nostre estese frontiere di terra e di mare; si pensi all’estensione dei nostri cieli nei quali potranno navigare aerei e comunque aprirsi la via siluri volanti!

D’altra parte ognuno comprende che oggi, dato il genere di mezzi di difesa, si è stabilita una gerarchia di potenze che domina il mondo, per il solo fatto di avere nikel, stagno, manganese, bauxite, gomma e petrolio! Una politica indipendente a nazioni che non hanno queste materie prime non è più possibile; e già infatti si delinea uno schieramento di forze, al quale nessuna Nazione potrà restare estranea.

Su questo argomento della coscrizione obbligatoria, l’amico e collega Coppa ha presentato un emendamento col quale viene esplicitamente detto essere limitata ai cittadini di sesso maschile.

Orbene, tanto per rompere la monotonia di questo discorso, mi sia concesso di portare l’attenzione dell’Assemblea sull’impiego della donna in guerra. Io invito i miei colleghi a leggere la relazione del Comando Supremo Americano in data 1° marzo 1944 (si noti, un anno prima della fine della guerra). Risulta, da questa relazione, come tanto l’esercito, quanto la marina e l’aviazione istituirono speciali corpi di donne inquadrate da proprî ufficiali, che resero grandi servizi; talché era previsto, per la fine di tale anno, di portare questi corpi femminili ad un complesso di circa 400.000 unità. Non so quante siano state alla fine della guerra, ma certamente non inferiori al mezzo milione!

Esse dimostrarono particolari attitudini al disimpegno di compiti delicatissimi, richiedenti particolari sensibilità e diligenza, lavori nei quali diedero maggior rendimento degli uomini. A parte il loro impiego nei trasporti per via aerea od automobilistica – specie nell’interno del Paese – furono impiegate nei servizi di intercettazione, nei servizi di vigilanza, nei lavori di ufficio e in quelli inerenti ai materiali di aviazione (costruzione e riparazione di paracadute, montaggio di aeroplani, ecc.).

Io non voglio turbarvi questa sera colla visione apocalittica di quello che, allo stato delle cose, sarà la guerra di domani, ma pure qualche cenno non mi sembra superfluo per venire alla conclusione che essa, più che dai quadrati battaglioni, sarà decisa da mezzi distruttivi lanciati da un paese all’altro, anzi da un continente all’altro! Pensate soltanto alla bomba atomica, che ha già raggiunto un potere esplosivo mille volte superiore a quella lanciata sul Giappone; pensate che oggi è possibile lanciare bolidi ultrasonori senza pilota, radioguidati, con spoletta radar, con spolette a televisione, con spolette a ricerca automatica di un dato bersaglio!

Non è pertanto esagerato affermare che la difesa del territorio nazionale richiederà un vero esercito disseminato all’interno per i servizi di segnalazione tempestiva, per l’uso di mezzi intesi a neutralizzare quelli di offesa dell’avversario; ed infine, e soprattutto, per fronteggiare le tragiche conseguenze delle devastazioni derivanti dalle offese nemiche. Esercito che non potrà essere più formato da quella vecchia cara milizia territoriale del buon tempo antico; ma un esercito di élite, di persone giovani, intelligenti, capaci di usare i delicati strumenti dei quali dovrà far uso la difesa.

Indubbiamente la donna potrà portare in questo campo un grande contributo; il che avrà anche il vantaggio di risparmiare le braccia necessarie al lavoro dei campi e delle officine, allo scopo di non inaridire le fonti di produzione, che costituiscono tanta parte, se non la maggiore, della forza di resistenza di un Paese in guerra.

È bensì vero che le forze femminili, inquadrate dagli Americani furono volontarie ed istituite regolarmente sulla base di una legge votata dal Senato; ma nessuno può escludere che, nella deficienza di un gettito adeguato di questo reclutamento volontario, si debba ricorrere ad una vera e propria coscrizione. Ed io sono convinto che se la necessità si presentasse, le nostre donne, sul cui patriottismo nessuno può elevare dubbi, accoglierebbero con disciplina il provvedimento legislativo, che certamente dovrebbe essere preso con la necessaria ponderazione.

E pertanto io penso che, sia per venire incontro a coloro che propongono l’abolizione del servizio militare obbligatorio, sia alle preoccupazioni del collega Coppa, suggerite da uno squisito senso di cavalleria, si potrebbe far seguire al periodo «II servizio militare è obbligatorio» la frase: «secondo la legge».

Si avrebbe così il vantaggio di non ipotecare l’avvenire.

Io ho parlato finora dei doveri dei cittadini verso la Patria.

Mi sia concesso però di far scaturire da questo dovere un diritto: quello di veder odorato il sacrificio ed il valore, nonché l’istituzione di organismi giuridicamente ordinati ed in grado di provvedere alle minorazioni subite nella persona, nella famiglia, nei beni. Mi riservo di presentare un emendamento in proposito.

Meritevole di alta considerazione è anche l’emendamento che porta come prima firma quella del collega Calosso. Secondo tale emendamento si vorrebbe porre un limite alle spese per le forze armate, nel senso che dette spese non debbano superare quelle per la pubblica istruzione.

Non vi è uomo sensato, che sappia che cosa è la guerra e la devastazione morale e materiale che da essa deriva, che non si auguri la riduzione a zero delle spese militari. Ma ahimè! pare non sia dell’umanità la volontà di rinunziare alla guerra per comporre le questioni che turbano la vita dei popoli. Orbene, fino a che la guerra sia nelle eventualità, le spese militari saranno quelle che si renderanno necessarie per assicurare l’indipendenza e la sicurezza della Patria.

È un errore ritenere che i bilanci militari siano dettati da una volontà astratta di incremento delle forze militari. L’entità di queste forze è quella che scaturisce dalle esigenze di ordine politico nei rapporti internazionali. Il disastro avviene sempre, purtroppo, quando la potenza dell’apparecchio militare non è in stretto rapporto con i pericoli che derivano dalla politica estera. È proprio quello che è accaduto al fascismo.

Il problema della difesa nazionale non è soltanto quello delle forze armate e dei relativi bilanci, ma si estende all’economia, all’attrezzamento industriale del Paese e non solo nella sua entità, ma anche nella ubicazione e nelle caratteristiche degli impianti (dico per incidente che oggi sono condannati i grandiosi complessi, la cui distruzione recherebbe un grave colpo al potenziale industriale della Nazione!). Ora è compito del Consiglio supremo di difesa previsto nella nostra Costituzione la soluzione del problema della difesa nazionale. I bilanci militari sono una conseguenza di queste decisioni, sulle quali poi l’ultima parola spetta al Parlamento.

Comunque, se anche la nostra Costituzione sancisse il principio dell’emendamento proposto, non mancherebbero mezzi per eluderne la portata, inserendo su altri bilanci tutte le spese che non riguardano il puro mantenimento delle truppe sotto le armi! Per ironia del caso dirò che proprio sul bilancio della pubblica istruzione potrebbero essere portate le ingenti spese per studi ed esperienze riguardanti la chimica e la fisica atomica sulle quali sarà impostata la guerra di domani!

Ed ora, visto che il tempo stringe, un breve cenno sulla questione delicata dell’esercizio dei diritti civili da parte dei cittadini che adempiono all’obbligo del servizio militare; diritto sancito dal secondo capoverso dell’articolo 49. Se la legge elettorale dovesse informarsi, come dovrebbe, a questa disposizione, nessuno potrebbe evitare che caserme, aeroporti e navi si trasformassero in palestre di discussioni politiche, con le gravi conseguenze che ognuno può immaginare!

Di conseguenza io penso che dovrebbe essere espressamente vietato dalla legge, agli ufficiali e sottufficiali in servizio attivo permanente, di far parte di partiti politici e di accettare candidature nelle elezioni politiche. La gravità del mio rilievo risulta evidente quando il disposto dell’articolo 49 lo si metta in relazione con il secondo comma dell’articolo 50. Lo ricordo: «Quando i poteri politici violino le libertà fondamentali ed i diritti (e richiamo l’attenzione su questa parola!) garantiti dalla Costituzione, la resistenza all’oppressione è diritto e dovere del cittadino».

Autorevoli colleghi hanno rilevato, nel corso delle precedenti discussioni, come la nostra Costituzione garantisca troppi diritti, che certo non potranno all’atto pratico essere garantiti. Lascio ai colleghi che hanno proposto, come emendamento, la soppressione di questo comma, sviluppare l’argomento; io mi limito a chiedere: questo diritto sarà pure esteso alle forze armate? Non credo di dover spendere molte parole per dimostrare i pericoli che dall’esercizio di questo diritto deriverebbero.

Ricorderò ai colleghi che hanno i capelli bianchi (e invito i giovani ad informarsi al riguardo) che la così detta marcia su Roma del fascismo fu coronata dal successo soltanto per il dubbio, avanzato dal maresciallo Diaz, circa il comportamento dell’esercito nel caso fosse stato decretato lo stato di assedio!

Dubbio infondato, ma che tuttavia bastò per aprire a queste forze rivoluzionarie le porte della capitale, e permettere la conquista del potere.

E con ciò chiudo il mio breve discorso, che certo non poteva ripromettersi di sviluppare argomenti di tanta importanza, ma solo richiamare su di essi l’attenzione e la meditazione degli onorevoli colleghi e dei compilatori del progetto di Costituzione. (Applausi).

PRESIDENTE. Non essendovi nell’aula altri dei colleghi iscritti a parlare, rinvio il seguito della discussione a domani alle ore 10.

MICHELI. Chiedo di parlare.

PRESIDENTE. Ne ha facoltà.

MICHELI. Onorevole Presidente, domani si riunisce la Commissione elettorale alle 9 e mezzo. Aggiungo anche che questo è un momento nel quale si radunano tutti i Gruppi dei partiti per la particolare situazione politica nella quale ci troviamo. Io penso che almeno una volta si possa tener conto di questo, e dal momento che ho visto dei colleghi, per maggiore rapidità di svolgimento della discussione, rinunciare a parlare, a me pare che due sedute anche domani non siano necessarie. Mi rimetto alla comprensione dell’onorevole Presidente. Avverto che, oltre la Commissione elettorale, che ha molta importanza, e per la quale prego i colleghi di voler intervenire, vi sono anche altre due o tre Commissioni che devono discutere fra l’altro l’argomento importantissimo della legge pel licenziamento dei segretari comunali e degli altri impiegati degli enti locali. Di più, so che tre o quattro Gruppi si riuniranno per esaminare la situazione politica. Non è certo possibile essere contemporaneamente presenti in due luoghi.

PRESIDENTE. Mi accorgo che proposte, anche se fatte in base a molto senso di equilibrio, difficilmente riescono ad avere favorevole accoglienza. Dopo quattro giorni e mezzo di sospensione dei lavori la giornata di oggi non è stata tale da confortarci. Pensavo che essa avrebbe rappresentato, dopo il pieno riposo, il passaggio ad una piena attività. Comunque, mi rimetto ai colleghi, dai quali attendo una proposta formale.

MICHELI. Propongo che si tenga una seduta pomeridiana, alle ore 15. Prego il signor Presidente di tener conto anche di questo. Formiamo una consuetudine nuova: a crisi aperta la Camera non ha mai tenuto sedute.

PRESIDENTE. Faccio notare che questa non è la Camera dei Deputati, ma l’Assemblea Costituente.

MICHELI. Lo so bene. Noi teniamo seduta ugualmente per la particolare condizione nostra, perché discutiamo la Costituzione, alla quale discussione non è necessario che il Governo sia presente: sono d’accordo con lei. Però è anche evidente che la crisi ha ripercussioni sopra gli stessi costituenti, siamo tutti uomini politici. Ecco perché chiedo ancora una volta: vediamo di metterci per questa via.

PRESIDENTE. Io mi rimetto all’Assemblea. Vi è una proposta dell’onorevole Micheli che la seduta venga rinviata a domani alle ore 15. Voglia, onorevole Micheli, indicare l’ordine del giorno che ritiene di proporre.

MICHELI. Non vorrei interferire nelle sue facoltà. Io credo si debba continuare la nostra discussione del progetto di Costituzione della Repubblica.

PRESIDENTE. Anche per quest’oggi pomeriggio era all’ordine del giorno il seguito della discussione del progetto di Costituzione. L’Assemblea, nella pienezza dei suoi poteri, ha però ritenuto di non potervi dare seguito; vorrei quindi che anche l’ordine del giorno di domani sia stabilito dall’Assemblea e non da me.

MICHELI. Se ella desidera che io faccia la proposta per l’ordine del giorno, la proposta è di continuare la discussione sul progetto di Costituzione.

Ella ha compreso quale saggio pensiero sia stato quello di sospendere la seduta pomeridiana: la sospensione solo ci ha permesso di ascoltare discorsi come quelli dei colleghi Gasparotto, Caristia, Bencivenga che hanno così vivamente interessato l’Assemblea.

PRESIDENTE. Se non vi sono osservazioni, la seduta è rinviata a domani alle 15 per il seguito della discussione del progetto di Costituzione.

(Così rimane stabilito).

La seduta termina alle 23.25.

Ordine del giorno per la seduta di domani.

Alle ore 15:

Seguito della discussione del progetto di Costituzione della Repubblica italiana.