ASSEMBLEA COSTITUENTE
CXXVII.
SEDUTA DI MARTEDÌ 20 MAGGIO 1947
PRESIDENZA DEL PRESIDENTE TERRACINI
indi
DEL VICEPRESIDENTE TARGETTI
INDICE
Congedo:
Presidente
Progetto di Costituzione della Repubblica italiana (Seguito della discussione):
Presidente
Preziosi
Di Giovanni
Azzi
Sullo
Piemonte
Calosso
Schiavetti
Giolitti
Terranova
Caporali
Sui lavori dell’Assemblea:
Pesenti
Presidente
La seduta comincia alle 15.
RICCIO, Segretario, legge il processo verbale della seduta precedente.
(È approvato).
Congedo.
PRESIDENTE. Ha chiesto congedo il deputato Zerbi.
(È concesso).
Seguito della discussione del progetto di Costituzione della Repubblica italiana.
PRESIDENTE. L’ordine del giorno reca il seguito della discussione del progetto di Costituzione della Repubblica italiana.
Riprendiamo la discussione generale sul Titolo IV.
È iscritto a parlare l’onorevole Preziosi. Ne ha facoltà.
PREZIOSI. Onorevoli colleghi. Brevi osservazioni sul Titolo IV che concerne i rapporti politici nel nostro progetto di Costituzione.
Articolo 45. Indubbiamente è necessario apportare una modifica o, per meglio dire, aggiungere qualche cosa di preciso a quello che è il secondo comma dell’articolo, lì dove dice che «il voto è personale ed eguale, libero e segreto».
L’articolo 45 configura il diritto per tutti i cittadini al voto, però non configura un diritto eguale per i cittadini italiani all’estero, i quali, per il solo fatto che hanno conservato la loro cittadinanza, nonostante tutte le promesse e tutte le lusinghe, hanno diritto, come gli altri, ad esercitare il loro diritto al voto. E d’altra parte non si può dire che nel nostro progetto di Costituzione noi porteremo una innovazione. Sappiamo che in tutti i paesi liberi e democratici, in Inghilterra, in America, questo diritto al voto da parte del cittadino inglese od americano, che per ragioni qualsiasi risiede all’estero, è considerato come diritto imprescindibile. Anzi abbiamo avuto esempî, starei per dire addirittura esagerati, di volere a qualunque costo che il cittadino americano e inglese partecipasse in qualunque momento a quella che era la vita politica nazionale. Abbiamo visto che quando si è dovuto eleggere il Presidente della Repubblica degli Stati Uniti, si è dato il voto ai soldati che si trovavano sui fronti di combattimento, e si sono superati ostacoli infiniti per ciò realizzare, perché si è pensato che non si poteva in alcun modo tener lontani ed avulsi, nel momento più interessante, dalla vita politica del paese, coloro che erano al di là dei mari a compiere il loro dovere per difendere la loro patria e la libertà del mondo. Come possiamo noi trascurare questo diritto nei confronti dei cittadini italiani all’estero? Io penso che bisogna indubbiamente accogliere quello che è stato un pensiero degli onorevoli Piemonte, Caporali, Villani, Taddia, Filippini ed altri, espresso in un emendamento, i quali alla parola «segreto» vogliono che si aggiungano le altre: «ed è esercitato anche dal cittadino all’estero». Così si darà riconoscimento ai cittadini che hanno saputo mantenere la loro cittadinanza nonostante tutte le difficoltà; e si concederà ad essi il diritto a votare per le libere istituzioni del proprio paese.
E passo all’articolo 47 del nostro progetto di Costituzione. A me pare che l’articolo 47 sia non troppo esplicativo, quando afferma che «tutti i cittadini hanno diritto di organizzarsi liberamente in partiti per concorrere con metodo democratico a determinare la vita politica nazionale». Bisogna dire qualcosa di più per quello che concerne il metodo democratico che debbono adottare questi partiti che possono sorgere liberamente, come libere associazioni di cittadini. Bisogna dire qualcosa di più, nello interesse supremo della Nazione e dello Stato repubblicano, cioè bisogna impedire a qualunque costo il sorgere di partiti che apparentemente possano dire di avere un metodo democratico, ma che in effetti non fanno che sostenere i metodi dittatoriali del passato regime. È necessario impedire che il sorgere libero di certi partiti possa procurare enorme danno al nostro paese. A tal proposito penso che è giusto quello che dice il collega onorevole Mastino nel suo emendamento, quando sostiene la necessità di una esplicazione maggiore di questo metodo democratico, messo nel nostro progetto di Costituzione. Allorché il collega Mastino sostiene che: «Tutti i cittadini hanno diritto di organizzarsi liberamente in partiti, per concorrere, nel rispetto delle libertà fondamentali e dei diritti garantiti dalla presente Costituzione, a determinare la politica nazionale», a me pare che esprima un concetto abbastanza chiaro, assai più chiaro che il progetto di Costituzione, perché fissa in maniera precisa gli obblighi che debbono rispettare questi partiti che sorgono con metodo democratico; debbono rispettare certi obblighi perché solo così la Nazione non sarà minacciata da nuovi metodi dittatoriali.
Articolo 50. Onorevoli Colleghi, a me pare che l’articolo 50 abbia suscitato polemiche dappertutto, e particolarmente a destra. Diceva ieri sera l’onorevole Rodi che l’articolo 50 – sono le sue precise parole – è un riconoscimento del diritto alla rivoluzione. Strana questa affermazione: si vuole assolutamente dire che quest’articolo, immesso nel nostro progetto di Costituzione, può riconoscere un diritto alla rivoluzione. Invero nessun diritto rivoluzionario noi vogliamo riconoscere nella nostra Costituzione; invero l’articolo 50 è posto a difesa della libertà dei cittadini, a difesa della libertà, in ogni momento della vita nazionale, perché quando si dice che «ogni cittadino ha il dovere di essere fedele alla Repubblica, di osservarne la Costituzione e le leggi, di adempiere con disciplina ed onore le funzioni che gli sono affidate», e si aggiunge che «quando i poteri pubblici violino le libertà fondamentali ed i diritti garantiti dalla Costituzione, la resistenza all’oppressione è diritto e dovere del cittadino», non vi è qui un riconoscimento al diritto rivoluzionario. Invece, secondo l’articolo 50, il cittadino nello stesso momento in cui esercita un diritto, vale a dire difende la propria libertà dalle possibilità di aggressione di un potere costituito che, sorto democraticamente, lungo la strada dimentica la democrazia e si fa arma di dittatura, nello stesso momento, ripeto, il diritto del cittadino si trasforma in un dovere nei confronti della collettività. È cioè un diritto difendere la propria libertà, ma è un dovere difendere la libertà della collettività. Non vi è solamente il diritto di difendere la propria persona, la propria casa, la propria famiglia, il proprio modo di pensare, il proprio modo di dire, ma vi è anche il dovere di difendere la libertà dei propri consimili, il dovere di difendere la libertà del proprio paese. Premesso quanto sopra, come si può affermare che l’articolo 50 è un riconoscimento al diritto rivoluzionario? O non è la più bella affermazione della nostra Carta costituzionale che dà la possibilità al cittadino di difendere la sua libertà, la libertà del proprio paese, la libertà della propria democrazia? È un’arma di difesa della quale non bisogna trascurare l’importanza, è un’arma di difesa che deve rimanere nella nostra Carta costituzionale. Oserei dire che questa configurazione di diritti e di doveri da parte del cittadino a difendere la propria libertà è un po’ un esempio alle Costituzioni degli altri paesi; è, comunque, un esempio di come noi in regime di libertà vogliamo difendere la nuova democrazia italiana.
Non creda, onorevole Rodi, che con queste affermazioni io voglia contraddire le sue affermazioni personali. Io contraddico le sue affermazioni in quanto esse sono la espressione del settore che ella rappresenta. Esaminando l’articola 51, là dove si dice che «il Capo dello Stato, i membri del Governo, i Presidenti delle Deputazioni regionali, i magistrati, le forze armate e quelle assimilate, prima di assumere le loro funzioni prestano giuramento di fedeltà alla Costituzione ed alle leggi della Repubblica», si nota subito quanto sia assurda l’affermazione secondo la quale il giuramento non vale la pena di configurarlo nella Costituzione, poiché esso è una formalità, che non impegna la coscienza del cittadino. Un oratore precedente, per dimostrare l’inutilità del giuramento, ha parlato perfino di superstizioni pagane e, ad un certo momento, ha affermato che basta lasciare il primo comma dell’articolo 50 per dimostrare l’inutilità di tutto il comma dell’articolo 51; basta cioè affermare che ogni cittadino ha il dovere di essere fedele alla Repubblica, di osservarne la Costituzione e le leggi, e di servire con onore e disciplina le funzioni affidate. Si dimentica che l’articolo 50 parla del dovere di ogni cittadino, mentre l’articolo 51 è una specie di esecutività del dovere di ogni cittadino, è una specie di mandato di esecutività che si vuol dare al dovere che ogni cittadino ha di essere fedele alla Repubblica; ossia ha il dovere di essere fedele così come ha anche il dovere di prestare giuramento quando deve esplicare determinate funzioni quali quelle configurate dall’articolo 50.
Non è vero che, allorché si dice di giurare fedeltà allo Stato, questo rappresenti una coercizione, soprattutto perché quando si chiede di giurare fedeltà allo Stato repubblicano, sì intende l’obbligo di giurare per determinate categorie di cittadini. E non doveva sfuggire all’onorevole Rodi che nell’articolo 51 si afferma un principio di libertà nuovo quando si liberano dall’obbligo di prestare giuramento (a differenza di quello che avveniva prima dell’avvento della Repubblica) i deputati alla Camera legislativa. Perché? Perché in questo modo si vuole affermare il diritto alla libertà del cittadino di poter eleggere il proprio rappresentante mettendo lo stesso in condizioni di poter esercitare il proprio mandato anche quando non giura. Si è voluto affermare un principio che prima si è voluto deliberatamente ignorare. È così permesso che un determinato settore di cittadini possa nominare un proprio rappresentante, e questo rappresentante possa venire nella futura Camera legislativa a rappresentare coloro che sono di sua parte, senza che gli siano imposti degli obblighi morali per l’esercizio del suo mandato a pena di decadenza.
BELLAVISTA. L’ha detto Bovio questo.
PREZIOSI. E allora? Questo significa che invece di parlare si è fatto qualcosa.
BELLAVISTA. No, Bovio ha detto da quella parte della Camera quello che Rodi ha detto da questa parte.
PREZIOSI. Non è il caso, caro amico, di agitarsi, non ne vale proprio la pena. Dunque, voi vedete che all’articolo 51 si configura un diritto di libertà del pensiero, che non era configurato nel passato regime monarchico; perché quando in regime monarchico un deputato, un rappresentante del popolo veniva in Assemblea, doveva giurare fedeltà, altrimenti non poteva esercitare il suo mandato. E non è vero che c’è stato qualche deputato che disse: giuro e chiedo la parola? Cioè, giurava, altrimenti gli sarebbe stato proibito di esercitare il suo mandato parlamentare, ma naturalmente faceva le cosidette riserve del caso. Ora, noi vogliamo che i rappresentanti della Nazione non debbano fare nessuna riserva quando vengono in Parlamento. Essi rappresentano una determinata categoria di cittadini, ed hanno il diritto ed il dovere di affermare il pensiero di coloro che li hanno mandati in loro rappresentanza alla Camera. Ed allora, colleghi, come vedete, nessuna paura per quanto riguarda i due articoli 50 e 51; essi sono una affermazione di civiltà del diritto italico, essi sono una magnifica affermazione della libertà del cittadino, per cui vanno votati così come sono configurati rappresentando essi altresì l’espressione del nostro pensiero e rispecchiando la necessità della democrazia del nostro Paese. (Applausi).
PRESIDENTE. È iscritto a parlare l’onorevole Di Giovanni. Ne ha facoltà.
DI GIOVANNI. Onorevoli colleghi, non un discorso ma poche e modeste osservazioni su questo Titolo, che è certamente tra ì più notevoli della nostra Costituzione per quel pregio della sobrietà, che sarebbe stato utile osservare in altre parti della Costituzione: limitarsi cioè alla affermazione di principî, lasciando poi alle leggi particolari la disciplina e la regolamentazione.
Parlo per esprimere un mio pensiero personale e devo anche rilevare che, in qualche argomento, dissento dai miei compagni di gruppo.
Questo Titolo afferma due principî fondamentali: l’alto dovere dei cittadini di difendere la Patria; l’esercizio della sovranità popolare, che si attua per tre vie: diritto di voto, altissima funzione civile, come espressione ad un tempo di una cosciente volontà e di un giudizio di estimazione; diritto di organizzazione nei partiti per concorrere alla vita politica della Nazione; e diritto-dovere dei cittadini di insorgere ogni qualvolta i poteri costituiti dovessero attentare ai principî fondamentali sanciti dalla Carta costituzionale.
Ho presentato taluni emendamenti, qualcuno di forma, qualche altro di sostanza; mi riservo di farne svolgimento in sede opportuna.
PRESIDENTE. Onorevole Di Giovanni, se non le spiacesse, poiché ha presentato degli emendamenti, sarebbe forse opportuno, secondo la consuetudine invalsa, che li svolgesse.
DI GIOVANNI. Benissimo, accetto il suggerimento ed il richiamo del Presidente e quindi mi occuperò brevissimamente dello svolgimento degli emendamenti. Mi si consenta, però, di dire qualche cosa, come manifestazione del mio pensiero, in ordine ai principî generali informatori di questo Titolo notevole della nostra Costituzione.
Dicevo: qualcuno degli autorevoli colleghi ha manifestato le proprie preoccupazioni per il riconoscimento nella Carta costituzionale del diritto-dovere dei cittadini di insorgere quando i poteri costituiti avessero attentato ai principî fondamentali sanciti dalla Carta costituzionale.
A me sembra che la preoccupazione non sia assolutamente fondata. Già, in una Costituzione, che sorge in un momento così delicato e storicamente notevole della vita del Paese, in un clima di libertà democratica e repubblicana, quando si è appena usciti da un disastroso esperimento ventennale, nel quale la coscienza e la libertà dei cittadini erano state attanagliate e compresse da una dittatura che purtroppo aveva ricondotto indietro nei secoli del più tristo medioevo la civiltà italiana, non si poteva fare a meno, non si doveva fare a meno di inserire questo solenne riconoscimento del dovere dei cittadini di insorgere contro ogni manomissione dei loro diritti statutari.
E, del resto, il riconoscimento di quel principio di legittima difesa collettiva, estende e conferma il diritto individuale alla legittima difesa, sancito dalle leggi e, prima che dalle leggi, dal diritto di natura: vim vi repellere licet.
E però la Carta costituzionale pone le condizioni e il limite all’esercizio di questo diritto-dovere, quando stabilisce che esso sorge soltanto allorché i poteri pubblici violino le libertà fondamentali e i diritti garantiti dalla Costituzione.
C’è dunque un limite, c’è dunque una condizione che garantisce dall’abuso e preserva da ogni intemperanza od eccesso. Del resto, un popolo che è salito a maturità di coscienza politica, come il popolo italiano, non abuserà della sua libertà, ed alla resistenza ed alla insurrezione contro l’oppressione farà ricorso solo per i casi eccezionali.
C’è nella formulazione dell’articolo 49 l’affermazione della difesa della Patria come sacro dovere del cittadino. È, in sostanza, il riconoscimento della più alta idealità, che è la concezione della Patria, sintesi dell’immortalità della vita di un popolo, asceso ad alta civiltà, custode della propria tradizione, garante del proprio avvenire e vindice del proprio destino.
E nell’affermazione di questo principio non si può non essere tutti consenzienti; in rapporto a siffatta affermazione, la formulazione dell’articolo 49 fa seguire la dichiarazione che il servizio militare è obbligatorio.
È stato presentato in proposito un emendamento dai compagni onorevoli Cairo ed altri, nel senso che il servizio militare non è obbligatorio. Debbo dichiarare che io non sono assolutamente favorevole a questo emendamento; a me sembra che il ritenere e proclamare non obbligatorio il servizio militare costituisca una contraddizione in termini con quella che è la superiore affermazione del dovere di tutti i cittadini alla difesa della Patria.
Si dirà: ma c’è il servizio volontario; ma il servizio volontario e l’esercito volontario si identificano con l’esercito mercenario. Noi abbiamo appreso come anche Nazioni democraticamente progredite, le quali non avevano la coscrizione obbligatoria, l’hanno dovuta adottare in presenza dei grandi avvenimenti della recente guerra, ormai chiusa; e, speriamo, definitivamente chiusa.
Immediatamente dopo il risorgimento italiano, il cuore generoso di Giuseppe Garibaldi levò l’ammonimento possente contro gli eserciti stanziali, che definì la rovina delle Nazioni. Ed egli sostenne l’istituzione del tiro a segno, l’addestramento dei cittadini alle armi con periodiche esercitazioni nei giorni festivi, con conferenze ed esercitazioni tattiche per ufficiali, con insegnamento di discipline militari, ecc.; tutto un insieme di iniziative che avrebbero dovuto formare non soltanto i soldati, ma anche i quadri dell’esercito, ed attuare il concetto della Nazione armata: tutti soldati, e nessun soldato. Ma Giuseppe Garibaldi aveva fatto la gloriosa esperienza dei suoi volontari, dei suoi legionari, i quali l’avevano seguito in imprese che parevano – ed erano – leggendarie: da Sant’Antonio al Salto, da Varese a Bezzecca, da Marsala al Volturno, dove Egli, apostolo armato di libertà, donò al re sopraggiunto il regno e si ritrasse a consumare, incontro ai monti del Sannio, la refezione di pane e cacio, guardando lontano l’aratro antico segnare i solchi fecondi.
Ma la storia cammina, e con ritmo accelerato; i tempi mutano. Purtroppo, lo spettro della guerra si è ancora ripresentato: tristo fenomeno di reversione atavica e di patologia collettiva, che dal profondo dell’anima auguriamo possa sparire in una umanità migliore e più giusta. Sono mutati anche i mezzi di offesa e di difesa; la guerra è diventata meccanizzata e tecnica; sono venuti gli aggressivi chimici – ne facemmo dolorosa esperienza il 16 giugno 1916, primo esperimento dei gas asfissianti, fra i maligni intrighi dei reticolati e delle trincee di San Martino e di San Michele del Carso; è venuto l’aeroplano: questo mezzo audace che, frutto del pensiero umano, dal tentativo infecondo di Icaro alle investigazioni scientifiche del genio italiano di Leonardo da Vinci, fino alle prove vittoriose dei dominatori dell’aria, avrebbe dovuto asservire la conquista del cielo a vantaggio dell’umanità, e che è diventato purtroppo strumento di insidia e di distruzione; è venuta la bomba atomica, di cui l’ingegno predatore, strappando alla natura i più riposti segreti, si giova per le devastazioni e lo sterminio dei popoli.
Limitare la preparazione di una difesa del Paese – coerentemente a quella che è l’affermazione del dovere di tutti i cittadini alla difesa del sacro suolo della Patria – ad una organizzazione di attività puramente volontaria non mi pare possa rispondere alle necessità della difesa, quale è imposta oggi dalla tecnica difensiva, nella sua vasta e complessa concezione e nella più idonea ed efficiente attuazione.
E allora io penso che la concezione profondamente umana e generosa di Giuseppe Garibaldi – la sostituzione, cioè, della Nazione armata all’esercito stanziale – possa trovare la sua migliore attuazione quando si saranno ridotte le ferme – ferme brevissime – limitate la forza organica e la forza bilanciata, attenuato il contingente dei presenti alle armi. Occorre fare, insomma, che attraverso l’esercito passi periodicamente ma continuamente tutta la gioventù come in una scuola di addestramento e di preparazione: addestramento e preparazione non soltanto tecnica ma anche e sopratutto spirituale. L’esercito deve divenire – secondo il nostro avviso – una scuola di educazione e di preparazione alla vita, oltre che una scuola di organizzazione e di preparazione tecnica militare, per l’alto fine della difesa del Paese: scuola di eccitamento e di ammaestramento al sacrificio, all’eroismo, al sentimento del dovere sopratutto. Scuola per ciò stesso di preparazione alla vita!
C’è l’ultimo comma di un emendamento dell’onorevole Cairo che accenna all’attuazione della neutralità perpetua: «La Repubblica, nell’ambito delle convenzioni internazionali, attuerà la neutralità perpetua».
È indubbiamente una generosa aspirazione ideale alla quale non possiamo che fare omaggio; ma io penso che consacrarla nella Carta costituzionale non sia possibile, come non è possibile vincolare a questo imperativo categorico le generazioni future. Sarebbe come accettare il disegno della pace perpetua dell’abate di Saint Pierre, o i postulati della «Repubblica» di Platone o della «Città di Dio» di Sant’Agostino. Sono aspirazioni, nobilissime aspirazioni dell’animo umano in una superiore concezione di spiriti eletti, ma non mi sembra che possano essere consacrate come un precetto concreto e reale in una Costituzione.
E c’è un altro accenno nella formulazione dell’emendamento del compagno Calosso e di altri tendente a stabilire il dovere dello Stato di inserire nel bilancio stanziamenti per l’esercito non superiori a quelli destinati alla pubblica istruzione. Certamente, nell’intendimento dei redattori di questo emendamento, c’è la volontà encomiabile di mettere in evidenza la prevalente importanza della pubblica istruzione. Ma io capovolgerei i termini della proposizione; direi piuttosto che, poste le esigenze del bilancio dello Stato per la difesa del Paese, sia nel bilancio stesso segnata una cifra uguale par la pubblica istruzione. Purtroppo alla pubblica istruzione non sono state dedicate le doverose cure, né sono state dimostrate le vigili premure dell’amministrazione dello Stato, mentre indubbiamente si tratta di uno dei gangli più importanti della vita dal Paese; la formazione cioè del pensiero e della coscienza delle nuove generazioni, alle quali è affidato il presidio della Patria e la difesa della democrazia nelle sue più alte e concrete espressioni: la libertà e la giustizia. Auguriamo, onorevoli colleghi, (mi rivolgo soprattutto ai compagni verso i quali ho dovuto mettere in rilievo la mia personale contraddizione con la formulazione dell’emendamento da loro proposto) che sia prossimo il tempo in cui, cessati gli odi fratricidi fra i popoli; dimesse le mire di egemonie ed i sogni d’impero, che sono stati fino ad ora prevalente stimolo e causa delle conflagrazioni internazionali; posta sugli altari la concezione della giustizia per tutti i popoli; instaurata una umanità avvinta dalla solidarietà e dalla fratellanza; rinsaldata l’internazionale socialista del lavoro che stringendo in unico patto tutti i lavoratori del mondo potrà opporre una barriera insormontabile contro qualsiasi brama liberticida e qualsiasi disegno oppressore della libertà dei popoli; auguriamo, ripeto, che in un domani non lontano possa su questa umanità di liberi e di uguali levarsi il canto di Mario Rapisardi, il poeta della giustizia sociale, o la strofe dell’irsuto maremmano, alto poeta civile d’Italia:
quando una forte schiera di liberi dirà, guardando nel sole: illumina non ozi e non guerre ai tiranni ma la giustizia pia del lavoro!
E adesso consentitemi, onorevoli colleghi, che io dia brevemente ragione dei miei emendamenti. All’articolo 45 sta scritto: «Sono eleggibili, in condizioni di eguaglianza, tutti gli elettori che hanno i requisiti di legge». Questa espressione mi sembra ambigua, perché i cittadini hanno i requisiti di legge in quanto elettori; ma in questo caso i loro requisiti sono stati riconosciuti già nell’attribuzione del diritto elettorale: indubbiamente s’intende dire che hanno i requisiti di legge per essere eleggibili; e allora è bene ed opportuno che questa specificazione sia espressa nella formulazione della disposizione.
Allo stesso articolo 45, primo capoverso, e detto: «Il voto è personale ed eguale, libero e segreto. Il suo esercizio è dovere civico e morale».
Osservo: bene è stata proposta anche da altri onorevoli colleghi la sostituzione della parola «il voto» con l’espressione «il diritto di voto»; ma devo dissentire dalla formulazione, con la quale si vuol dire che il diritto di voto è personale ed eguale, libero e segreto. Sì, il diritto di voto è personale ed eguale; ma è «l’esercizio» del diritto di voto, che è libero e segreto.
In questo senso ho proposto il mio emendamento.
Poi: la parola «civico» va sostituita con la parola «civile». Ed io eliminerei anche la parola «morale», perché qui siamo di fronte a doveri, che sono espressione della funzione del cittadino, non dell’individuo.
È dovere civile del cittadino quello di esercitare il voto, non è dovere morale. Egli è chiamato uti civis, non uti singulus.
«Non può essere stabilita – dice il terzo comma – nessuna eccezione al diritto di voto, se non per incapacità». Alla parola «eccezione» io sostituirei l’altra «esclusione».
Quindi: «Non può essere stabilita alcuna esclusione dal diritto di voto».
Non accetterei nemmeno l’emendamento proposto dal compagno onorevole Carboni, che vorrebbe sostituire «eccezione» con «limitazione». Non si tratta di limitazione dell’esercizio del diritto di voto, ma di esclusione.
Laddove è detto «in conseguenza di sentenza penale» l’onorevole Colitto, mi pare, ha proposto di aggiungere «irrevocabile»; sostituirei l’espressione «irrevocabile» con l’altra «definitiva».
La sentenza, anche essendo definitiva, cioè costituente cosa giudicata, e non giudicato (sono delle sottili differenze, che però hanno la loro ragione giuridica sostanziale), potrebbe dar luogo ad una valutazione per un rimedio straordinario; perché anche una sentenza definitiva può essere revocabile se è investita, per esempio, con l’istanza della revisione; ed allora potrebbe, anche nella attuazione di questa disposizione, sorgere qualche difficoltà, o per lo meno, qualche dubbio di applicazione, mentre aggiungendo «in conseguenza di sentenza penale definitiva» mi sembrano eliminate tutte le possibili preoccupazioni.
All’articolo 47, laddove è detto: «Tutti i cittadini hanno diritto di organizzarsi liberamente in partiti per concorrere con metodo democratico a determinare la politica nazionale», a me sembra che la particella «per» limiti quasi la funzione della organizzazione dei partiti al concorso nella determinazione della politica nazionale; ritengo che possa essere utilmente sostituita dalla congiunzione «e»; perché l’organizzazione libera dei partiti può anche prescindere dal concorso alla politica nazionale.
Quindi: «Tutti i cittadini hanno il diritto di organizzarsi liberamente in partiti e concorrere con metodo democratico a determinare la politica nazionale».
E passiamo all’articolo 49:
«La difesa della Patria è sacro dovere del cittadino.
«Il servizio militare è obbligatorio».
Sostituirei: «La prestazione del servizio militare è obbligatoria per i cittadini di sesso maschile». Di fronte alla parificazione dei due sessi, a norma della nostra Costituzione, anche per il diritto di accedere ai pubblici uffici, mi sembra evidente l’opportunità dell’aggiunta.
È poi detto: «L’ordinamento dell’esercito»; giustamente è stato proposto «l’ordinamento delle forze armate»: è un emendamento dell’onorevole Gasparotto, nel quale consento.
Là dove dice: «Il servizio militare è obbligatorio» occorre aggiungere: «I termini e le modalità sono stabiliti dalla legge sul reclutamento».
Ho così esaurito il mio compito. Volevo sottoporre all’attenzione dell’Assemblea il mio punto di vista su quelle che a me sembravano le parti salienti del Titolo in discussione.
Mi auguro che l’Assemblea, soprattutto per quanto riguarda l’obbligatorietà del servizio militare, riconosca ed affermi questo precipuo dovere del cittadino, come riconoscimento ed attuazione dell’affermazione superiore che il dovere della difesa della Patria è sacro per tutti. (Applausi).
PRESIDENTE. È iscritto a parlare l’onorevole Azzi. Ne ha facoltà.
AZZI. Onorevoli colleghi, il mio intervento in questa discussione tendeva a richiamare la vostra attenzione sul contenuto formale e sostanziale degli articoli 49, 50 e 51 del progetto di Costituzione; ma poiché alcuni oratori che mi hanno preceduto ieri sera ed oggi hanno già autorevolmente esposto il loro punto di vista, che coincide sotto molti aspetti con le considerazioni che io volevo fare, limiterò il mio dire ad alcune brevi osservazioni.
Dice l’articolo 49 al primo comma: «La difesa della Patria è sacro dovere del cittadino». Pochi minuti or sono l’onorevole Di Giovanni diceva che questo principio è accettabile senza discussione da qualsiasi parte dell’Assemblea Costituente. Credo sia accettabile anche da parte di tutto il Paese.
Io anzi sottolineerei la legittimità di questo principio dicendo che la difesa della Patria è oltreché un sacro dovere, un sacro diritto del cittadino. Ma lasciamo andare la questione della forma e veniamo alla sostanza. Dall’accettazione di questo principio indiscusso deriva un immediato dovere per il cittadino, il dovere, cioè, di prepararsi moralmente, fisicamente e tecnicamente all’assolvimento del suo compito di difensore della Patria. Ma poiché questa preparazione morale, fisica e tecnica non può essere raggiunta dai singoli individui, bisogna che a questa preparazione provveda lo Stato. In questo progetto di Costituzione, lo Stato ha provveduto affermando il principio del servizio militare obbligatorio. Ed è precisamente su questa affermazione del progetto di Costituzione che io voglio richiamare in modo particolare la vostra attenzione.
Se il servizio militare è obbligatorio, come dice il progetto di Costituzione, significa che questa obbligatorietà deve essere generale, e cioè che tutti i cittadini moralmente e fisicamente idonei devono essere preparati fin dal tempo di pace a difendere la Patria.
È necessario, ed è possibile l’assolvimento di questo compito da parte dello Stato?
Se io mi riferisco al principio generale stabilito nell’articolo 6 della Costituzione, che dice: «La Repubblica ripudia la guerra come strumento di offesa alle libertà degli altri popoli e come mezzo di risoluzione di controversie internazionali», lasciando cioè alla Repubblica un solo compito difensivo, io dovrei dire che l’addestramento di tutti i cittadini in tempo di pace non appare necessario.
Se poi mi riferisco alle condizioni che ci sono state imposte dalle clausole militari del trattato di pace, che riducono gli effettivi delle forze armate alla limitata entità che tutti conosciamo, io credo di poter affermare che la realizzazione di questo compito di preparazione da parte dello Stato non è possibile, inquantoché, con la riduzione a 185 mila uomini, non si arriva ad addestrare tutto il contingente annuale di leva.
Se mi riferisco, infine, e questo è il punto fondamentale, alle disgraziate condizioni economiche del nostro Paese, io dico che l’addestramento militare dei cittadini deve essere annualmente limitato ad una forza che non superi le possibilità economiche del nostro Paese. D’altra parte, io ricordo, e quelli che hanno la disgrazia di avere la mia età ricorderanno, che il principio dell’obbligatorietà del servizio militare non è stato mai attuato integralmente, in passato, né in pace, né in guerra. Ricordo che quando ero giovane si stabiliva la forza bilanciata in relazione all’assegnazione di bilancio fatta al Ministero della guerra.
I cittadini obbligati alla coscrizione si recavano al Consiglio di leva o al Distretto ed estraevano un numero: chi estraeva un numero alto non faceva il servizio militare; faceva il servizio militare soltanto chi aveva estratto un numero che non superasse quello della forza massima bilanciata per quell’anno. L’obbligatorietà del servizio militare era lasciata quindi alla sorte. Il concetto fu poi modificato in questo senso: che per mantenere la forza bilanciata nei limiti di assegnazione del bilancio, si ricorreva all’esonero di chi era in particolari condizioni di famiglia (figlio unico di madre vedova, figlio di padre inabile al lavoro, ecc.); si ricorreva in qualche anno, io ricordo, persino, a giuocare sulla statura dell’individuo: se un anno era necessario un maggior numero di soldati, venivano dichiarati idonei quelli alti un metro e 54; se un altro anno ne occorrevano di meno, quelli alti un metro e 54 non erano più idonei, venivano dichiarati idonei soltanto quelli alti un metro e 55 o più. Effettivamente dunque il principio dell’obbligatorietà generale al servizio militare non è stato mai interamente attuato in tempo di pace. In guerra non ne parliamo! E l’abbiamo visto nell’ultima guerra, quando abbiamo avuto esoneri per ragioni di famiglia, per ragioni di esigenze industriali e agricole, esoneri per ragioni politiche, per ragioni di utilità pubblica, ecc., ecc. Quindi numerosissimi sono stati gli esoneri che hanno dispensato dal servizio militare in tempo di guerra una notevole quantità di cittadini dello Stato. Ora, se questo principio della obbligatorietà generale del servizio militare non ha potuto essere attuato nel passato, né in pace né in guerra, per le ragioni che ho detto, nelle condizioni in cui siamo attualmente credo che questo principio abbia ancora minori probabilità di una attuazione totale. D’altra parte perché vogliamo togliere al futuro legislatore la possibilità di stabilire le modalità del servizio militare a seconda delle mutevoli necessità contingenti? Perché vogliamo vietare al futuro legislatore, per esempio, di stabilire che per uno, due o tre anni, date le nostre disgraziate possibilità economiche, lo Stato rinunci completamente alla chiamata alle armi servendosi del servizio volontario per mantenere alle armi un certo contingente di uomini? Voi direte: e se scoppia la guerra? Io rispondo: speriamo che non scoppi; se scoppiasse, abbiamo in congedo centinaia di migliaia di soldati preparati alla guerra attraverso 5, 6, 7 anni di servizio militare. Molti di questi uomini sono già addestrati tecnicamente e padroni del funzionamento delle armi moderne, soprattutto inglesi, che ora costituiscono la parte essenziale dell’armamento dell’esercito italiano, e nessun pericolo c’è per la difesa della Patria; mentre con questa soluzione che potesse adottare il futuro legislatore, risparmieremmo sul bilancio delle forze armate parecchie decine di miliardi che potrebbero essere utilmente impiegati in opere di ricostruzione nazionale. E d’altra parte ancora, come accennava ieri sera l’onorevole Gasparotto, il principio della obbligatorietà del servizio militare non è sancito da quasi nessuna delle Costituzioni moderne. Io ho letto un fascicolo, che mi è pervenuto dalla Presidenza dell’Assemblea, dal titolo «11 Costituzioni» ed ho potuto notare che le Costituzioni moderne o non parlano affatto di servizio militare, come per esempio quella francese, perché si riferisce a quello che è ormai sancito dalla tradizione e dalla storia, o se ne parlano fanno sempre riferimento al servizio militare regolato dal legislatore, in relazione alle mutevoli contingenze della situazione.
In base a queste mie considerazioni, ho presentato un emendamento all’articolo. 49, col quale emendamento propongo la soppressione dell’espressione; «Il servizio militare è obbligatorio», sostituendola con l’altra: «La coscrizione militale è obbligatoria». Propongo, altresì, di demandare alla legge la regolamentazione della materia. Io intendo – ed è bene che lo chiarisca perché potrebbero sorgere confusioni sulla interpretazione della parola coscrizione – io intendo la coscrizione come quella disposizione che obblighi tutti i cittadini, quando hanno raggiunto una determinata età, ad iscriversi nelle liste di leva ed a rimanere a disposizione dello Stato, come è adesso, ad esempio, dal 20° al 45° anno di età. Sarà poi la legge a stabilire quali di questi cittadini dal 20° al 45° anno di età, o in tempo di pace o in tempo di guerra, dovranno prestare servizio militare.
Ma se questo mio emendamento: «La coscrizione militare è obbligatoria» dovesse dare luogo a qualche equivoco di interpretazione, io vi rinuncerei e manterrei solo l’altra parte del mio emendamento che demanda alla legge la regolamentazione della prestazione del servizio militare. Questo darebbe la possibilità al futuro legislatore di servirsi, se è necessario, del servizio volontario. Anzi, in questo periodo, se vogliamo non allungare troppo la ferma per i cittadini obbligati al servizio militare, data la necessità di specializzazioni tecniche che sono inerenti all’evoluzione dei mezzi tecnici che oggi si impiegano in guerra, io crederei che sarebbe molto opportuno avere un esercito misto, cioè una parte a reclutamento obbligatorio (questo per la formazione degli elementi specializzati, dei graduati e dei sottufficiali) ed una parte a reclutamento volontario, con ferma breve, che completerebbe l’esercito sia in sede di addestramento in tempo di pace, sia in tempo di guerra.
Accettato eventualmente questo mio emendamento, io ho proposto un successivo emendamento. Al secondo comma, anziché dire: «Il suo adempimento (del servizio militare) non pregiudica la posizione di lavoro del cittadino, né l’esercizio dei diritti politici», io direi: «La prestazione del servizio militale obbligatorio non pregiudica la posizione di lavoro del cittadino, né l’esercizio dei diritti politici», in quanto che io non posso presumere che per il servizio militare volontario possa competere al cittadino l’immutabilità della sua posizione di lavoro; come riterrei opportuno, allo scopo di assicurare nel miglior modo possibile la apoliticità dell’esercito, che fossero esclusi dall’esercizio dei diritti politici tutti i militari a reclutamento volontario. Perciò ho messo nel mio emendamento la parola «obbligatorio».
Ed infine veniamo all’ultimo comma dell’articolo 49 così formulato: «L’ordinamento dell’esercito si informa allo spirito democratico della Repubblica italiana». Io ho proposto l’emendamento, al quale ha accennato anche l’onorevole Di Giovanni, nel senso di mettere al posto di «esercito» la dizione «forze armate», per correggere quella che è stata certamente una svista del compilatore dell’articolo. Leggendo la formulazione di cui al progetto: «l’ordinamento dell’esercito si informa allo spirito democratico della Repubblica italiana», io mi sono domandato se questa norma fosse proprio necessaria, e mi sono risposto: se siamo in regime democratico repubblicano, è intuitivo che tutte le istituzioni repubblicane debbono essere ordinate democraticamente. Quindi non credo che ci sia la necessità di includere questa disposizione nella Costituzione. Ma giorni fa, parlando con un collega della mia intenzione di proporre la soppressione della norma da me considerata superflua ed accennando che anche altri colleghi avevano la stessa intenzione, il mio interlocutore mi ha fatto rilevare che alcuni degli altri proponenti partivano da un punto di vista diverso del mio, perché non vedevano con simpatia la democratizzazione dell’esercito. Ho allora deciso di rinunziare alla proposta di soppressione della disposizione contenuta nel progetto, disposizione che del resto è stata trovata utile e necessaria anche dall’onorevole Gasparotto ieri sera, allorché, parlando della democratizzazione delle forze armate, ha accennato anche al sistema per renderle democratiche: cioè quello di attuare delle ferme brevi non superiori a dodici mesi. La ferma di dodici mesi è più breve in confronto di quella di 18 mesi, e di quella di tre anni del passato, ma, se noi consideriamo l’opportunità e la possibilità di ricavare gli specialisti, graduati e sottufficiali, da un esercito volontario, io credo che la riduzione della ferma a sei mesi sia possibile senza danno per l’addestramento militare dei cittadini. E questo ve lo dico per esperienza, perché io fino a pochi anni fa ho fatto parte dell’esercito nel quale, anche quando la ferma era di 18 mesi, dopo quattro o cinque mesi di servizio militare, il soldato spariva dalla circolazione e andava a fare tutti i mestieri all’infuori di quello del militare; cosicché i soldati finivano per fare i cuochi, i camerieri, i dattilografi, gli attendenti, ecc. Infatti, l’addestramento militare vero e proprio durava dai quattro ai cinque mesi soltanto (il periodo cosiddetto di istruzione delle reclute).
Ma io vedo la democratizzazione dell’esercito, non soltanto come riduzione di ferma od altro, ma la vedo come modificazione della vita attuale, o almeno, di quella di poco tempo fa, perché è già due o tre anni che ho lasciato il servizio militare. Ricordo che in passato, e qui risalgo ad un periodo lontano, quando io ero sergente prima di andare alla scuola di Modena, prestavo servizio in un reggimento di fanteria dove mio fratello maggiore era sottotenente in servizio permanente effettivo e mi capitava, qualche volta, di uscire dalla caserma nelle ore di libera uscita con mio fratello, io in divisa di sergente e lui in divisa di ufficiale. Ebbene, il suo capitano gli domandò un giorno come mai lui andava sempre fuori insieme ad un sergente. Mio fratello rispose: «Per la semplice ragione che è mio fratello». Rispose il capitano: «Sta bene, lo capisco e me lo spiego, dato che questo sergente è suo fratello; ma fuori, chi vede e non conosce questa loro parentela può domandarsi: come mai questa dimestichezza tra un sergente e un ufficiale?» Questa era la mentalità di molti anni fa!
Ma, se risalgo a tempi più recenti, ricordo un comandante di presidio nell’alta Italia, durante la seconda guerra mondiale, quando ero a Cuneo. Cuneo, data la forza militare che la presidiava, era una caserma, più che una città; ebbene, quel comandante di presidio aveva dato una disposizione di questo genere: che i soldati non potessero, nelle ore di libera uscita, passeggiare sotto i portici di destra (i portici di destra della Via Roma erano quelli frequentati dall’élite della città); i soldati dovevano passeggiare dalla parte opposta.
Un’altra norma era diretta a stabilire che nei cinematografi i soldati in divisa non avessero accesso in galleria, perché ciò poteva infastidire qualche ufficiale.
Ora, è la mentalità degli ufficiali che bisogna modificare per democratizzare l’esercito; e bisogna modificare anche il regolamento di disciplina, perché abbiamo ancora oggi in questo regolamento una disposizione in base alla quale il soldato deve salutare il superiore in qualsiasi circostanza, anche quando il superiore abbia la sua attenzione rivolta altrove. Cosicché, se un soldato passa dietro la schiena del superiore, deve salutare la schiena del medesimo.
Bisogna dunque aggiornarlo questo regolamento; bisogna evitare che il soldato, in omaggio al regolamento, venga rapato come un condannato all’ergastolo, perché questo dà luogo ad un sentimento di depressione morale da parte di questo soldato che a vent’anni si vede rapare la testa: e noi italiani, specialmente i giovani, abbiamo una certa debolezza per la nostra chioma prolissa.
Noi arriviamo fino a questo punto: che il complesso delle disposizioni del regolamento di disciplina, come voi sapete, hanno indotto i soldati a tirar fuori qualche barzelletta che indica bene quali sono le relazioni tra superiori e inferiori, o per lo meno, quali erano le relazioni tra superiori ed inferiori nel recente periodo che io ancora ricordo. Ad esempio, si attribuiva ad un caporale che, rivolgendo un rimprovero ad un soldato; esclamasse: «Quando parlate con me, fate silenzio!». Ovvero si dava la seguente definizione della disciplina: «La disciplina è quel vago sentimento di malessere che invade l’inferiore in presenza del superiore». Sono barzellette che pur hanno un fondamento di verità e bisognerebbe che il regolamento di disciplina fosse aggiornato e modificato in modo da rendere le relazioni tra superiore ed inferiore molto più – non dico amichevoli – ma intime in modo da avvicinarli nello spirito.
Perciò, io rinunzio all’emendamento soppressivo del terzo comma dell’articolo 49 e mi limito a mantenere la proposta di sostituzione delle parole «Forze armate» alla parola «Esercito».
Passando poi all’articolo 50, leggo il primo comma:
«Ogni cittadino ha il dovere di essere fedele alla Repubblica, di osservarne la Costituzione e le leggi, di adempiere con disciplina ed onore le funzioni che gli sono affidate».
Non so che valore normativo possa avere questa disposizione: ma non voglio entrare in argomento. A me pare che questa disposizione possa aver valore per chi senta il dovere di essere fedele alla Repubblica ed è evidente che un tale cittadino sarà fedele alla Repubblica anche senza bisogno di sancirlo con una norma costituzionale; ma per chi questo dovere non senta, noi possiamo mettere tutte le disposizioni che vorremo nella Carta costituzionale, ma quel cittadino tale dovere non sentirà mai.
Ma, a parte questo, io ho messo a raffronto questo primo comma dell’articolo 50 con l’articolo 51:
«Il Capo dello Stato, i membri del Governo, i Presidenti delle Deputazioni regionali, i magistrati, le forze armate e quelle assimilate, prima di assumere le loro funzioni prestano giuramento di fedeltà alla Costituzione ed alle leggi della Repubblica».
Mentre l’articolo 50 dice che il cittadino ha il dovere di essere fedele alla Repubblica, qui si parla invece di fedeltà alla Costituzione. Ora io non mi sono reso esatto conto della differenza che ci può essere fra fedeltà alla Repubblica e fedeltà alla Costituzione. Potrebbe anche essere la stessa cosa, ma io troverei giusto adottare una sola delle due forme tanto per i cittadini che per i magistrati e gli altri organi dello Stato.
Proporrei anzi – non ho ancora presentato proposta formale di emendamento in questo senso – che l’articolo 51 venisse a costituire addirittura il secondo comma dell’articolo 50, che verrebbe allora a suonare in questo modo:
«Ogni cittadino ha il dovere di essere fedele alla Repubblica, di osservarne la Costituzione e le leggi, di adempiere con disciplina ed onore le funzioni che gli sono affidate.
«Il Capo dello Stato, i membri del Governo, i presidenti delle deputazioni regionali, i magistrati, le forze armate e quelle assimilate, prima di assumere le loro funzioni, si impegnano mediante giuramento all’osservanza di questo dovere».
Si tratta cioè dello stesso dovere che hanno i cittadini che viene solennemente assunto dai magistrati e dagli altri poteri pubblici mediante giuramento. Con questo si renderebbe comprensibile l’articolo 51, anche a chi non abbia preparazione di giurista, e ciò è assolutamente necessario perché questa Costituzione deve servire per il popolo e deve essere quindi facilmente comprensibile da parte di tutti.
E concludo accennando all’ultimo comma dell’articolo 50, quello cioè di cui hanno poco fa parlato gli onorevoli Preziosi e Di Giovanni, quello che conferisce al cittadino il diritto e il dovere di opporre resistenza all’oppressione in caso di violazione da parte dei poteri pubblici dei diritti e delle libertà sanciti della Costituzione.
Leggendo questo comma, io sono rimasto un po’ perplesso perché, se dovessi dar retta al mio sentimento, alla parola «resistenza» sostituirei la parola «rivoluzione». Se però debbo dar retta al ragionamento, non so se mi sia possibile pervenire alla stessa conclusione, perché, in definitiva, chi dirà al cittadino se i poteri dello Stato hanno violato o no le libertà del cittadino stesso, considerato nella sua massa?
E gli appartenenti alle forze armate e alla polizia non sono cittadini anch’essi? E se domani costoro si mettessero tutti d’accordo per dire che i poteri pubblici hanno violato le libertà e i diritti sanciti nella Costituzione e dicessero: «Noi insorgiamo; facciamo un pronunciamento»? Insomma, sono rimasto veramente perplesso ed ho pensato che in definitiva il diritto e il dovere di ribellione, di resistenza e di rivoluzione non si possa regolare con la legge, ma sia una manifestazione collettiva, incoercibile e spontanea, che nessuna legge può regolare, e tanto meno la Carta costituzionale della Repubblica italiana. (Applausi a sinistra).
PRESIDENTE. Sono iscritti a parlare gli onorevoli Preti, Di Gloria, Cartia e Cairo. Non essendo presenti, si intende che vi abbiano rinunziato.
È iscritto a parlare l’onorevole Sullo. Ne ha facoltà.
SULLO. Onorevoli colleghi, il valore del Titolo che noi stiamo esaminando non deve essere certo sminuito per il fatto che ci troviamo nella maggior parte dei casi d’accordo. In realtà, se la nostra Costituzione consistesse soltanto in questo Titolo, essa avrebbe già grande valore. Non importa che oggi le tribune siano meno affollate del solito e che i Deputati non siano numerosi: quello che importa è ricordare che il diritto di voto, il diritto di partecipazione alla vita pubblica è qualche cosa che gli italiani hanno conquistato attraverso la distruzione e la rovina del loro Paese; è qualche cosa che essi certamente terranno a conservare, perché è il frutto maturo di anni di privazioni, di stenti e di lotte. L’unanimità di consensi che ci può essere, pertanto, nell’affermare questi diritti del cittadino, è un’unanimità che non va sottovalutata. Non si tratta di diritti che abbiano poco valore; si tratta di diritti, invece, di cui forse alcuni italiani facilmente dimenticano l’origine; di cui talora è opportuno ed è necessario anche in questo momento ricordare l’importanza a coloro che facilmente dimenticano, nostalgicamente lontani dalla realtà.
Sottolineato però il valore di questi diritti, occorre pure dire qualche cosa di costruttivo, perché altrimenti l’onorevole Presidente potrebbe ben a ragione rimproverarci di fare qui un discorso soltanto per farlo, senza portare nessun contributo serio, concreto ai nostri lavori parlamentari.
E bisogna dire subito che questi articoli, e i diritti in essi contenuti, sono un’affermazione polemica nei riguardi del defunto regime. Giusta e santa polemica, per quanto almeno riflette il metodo della libertà, il sistema della formazione della volontà popolare, la riaffermazione dei diritti di ciascun cittadino alla creazione delle leggi a cui bisognerà lealmente obbedire; ma talvolta, bisogna riconoscerlo, la polemica è andata oltre il segno e taluni commi sono chiaramente l’antitesi pura e semplice prodotta dalla tesi, sono cioè indirettamente e malamente influenzati dalla tesi. In un certo senso il fascismo ha la colpa di aver creato in noi qualche volta uno strano stato d’animo che finisce per farci odiare qualche affermazione o istituzione del mondo moderno, di cui pur bisogna tener conto, solo perché sono state adottate dal fascismo. Vi sono poi anche in questo Titolo, come in altri Titoli, delle affermazioni ambigue che preferirei fossero rese molto più chiare. Per esempio, all’articolo 45 si afferma che l’esercizio del diritto di voto è un dovere civico e morale. A me pare che in questo caso, da una parte e dall’altra dell’Assemblea, dai rappresentanti delle varie parti e delle varie tendenze non si sia giunti a quel reale punto d’incontro che è augurabile e necessario nella costruzione di questa Costituzione, ma che invece si sia trovata una formula di equilibrio su qualche aggettivo, di equilibrio naturalmente molto instabile, di cui in realtà sarebbe bene fare a meno con una specificazione più chiara di quello che si vuole dire. Infatti l’aggettivo «civico», per quanto venga affermato da illustri giuristi costituenti che ha un suo contenuto giuridico e che quindi potrebbe comportare una sanzione, da una parte della Assemblea potrebbe essere considerato soltanto come un’affermazione di principio che non ha che un valore extra-giuridico e che non comporta quindi nessuna sanzione. Se noi dobbiamo trovare il nostro punto d’incontro soltanto sa un vocabolo che poi nella interpretazione subiettiva potrà essere interpretato in un senso o nel senso opposto è un conto; ma se invece dobbiamo trovarlo su qualche termine che anche in questo momento possa avere un significato univoco, dobbiamo parlarci sinceramente, chiaramente.
Io ritengo che in una democrazia organica così come l’andiamo concependo e così come io personalmente la vorrei (e chiarirò meglio il mio pensiero a proposito dell’articolo 47, quando parleremo dell’organizzazione dei partiti), io ritengo che in una democrazia organica l’obbligo del voto debba essere sancito dalla Costituzione. Si tratta di vedere se questo obbligo del voto comporti una o un’altra specie di sanzione.
Per esempio, credo che una sanzione che non ricada unicamente sui diritti politici, che non sia una specie di pena del contrappasso sul piano politico, potrebbe essere una sanzione immorale, che ripugnerebbe alla nostra coscienza. Non comprenderei per esempio l’obbligatorietà del voto con la sanzione di una pena carceraria; capirei benissimo l’obbligatorietà del voto con la sanzione che mi pare sia stata proposta nella legge elettorale che è attualmente allo studio della competente Commissione: cioè con una sanzione che comporti la privazione del diritto di voto per un certo numero di anni, perché chi rinuncia a collaborare alla vita del Paese, a dare il suo contributo all’attività della Nazione, non è degno, almeno per un certo tempo, di essere chiamato a continuare a dare questa opera che concorre a determinare la Politica generale, né di essere invitato ad un certo momento ad esprimere il suo parere sulla cosa pubblica.
Per quanto riguarda la sanzione che la legge deve infliggere, è bene che il futuro sia libero e sgombro e che nel futuro ci si possa mettere d’accordo e che, sia la nuova Camera, l’Assemblea ordinaria legislativa, sia la stessa Costituente, allorché giudicherà la legge elettorale, abbiano piena libertà di decisione. Ma in ogni caso ritengo che questo principio dell’obbligo giuridico del voto sia una necessità da affermare in maniera non ambigua. Noi dobbiamo cercare, quando ci mettiamo d’accordo con l’altra parte dell’Assemblea, non una intesa fondata su un vocabolo che possa essere malamente interpretato, ma una intesa fondata sulla sostanza. Mi auguro di aver offerto, con l’emendamento da me presentato (che è stato stampato e distribuito), una forma di intesa ben chiara e netta, anche se altre parti dell’Assemblea ritengano che su questo bisogna dar battaglia. Lasciare la libertà di discussione sulla sanzione, la quale potrà essere minima o massima, di un tipo o di un altro tipo, di un tenore o di altro tenore, è già un mezzo per poter metterci d’accordo senza compromessi deteriori. È onesto chiedere che l’affermazione del dovere civico e morale venga interpretata nel senso esatto, cioè in senso giuridico oltre che etico, e che, se questi due vocaboli non vengono da tutti oggi considerati alla stessa maniera, vengano sostituiti da un vocabolo che dica esattamente quel che si vuole.
Per quanto riguarda l’articolo 47, devo dire di non essere completamente sodisfatto della sua formulazione. Vi sono anche qui due tesi in contrasto. Sulla organizzazione dei partiti vi sono infatti coloro che ritengono che i partiti debbono essere concepiti in forma adatta ad una democrazia organica, con una personalità giuridicamente riconosciuta, se mai con funzioni di rilevanza costituzionale, e d’altra parte vi sono coloro i quali vogliono conservare ai partiti soltanto il carattere di comitati, di persone private senza nessuna rilevanza costituzionale e giuridica.
Io credo che in questa questione giochi molto il ricordo del partito di Stato fascista e che quando noi ci opponiamo ad un riconoscimento sul piano giuridico dei partiti, in effetti, non facciamo che subire ancora sentimentalmente le conseguenze di quel disagio interiore che soffrivamo allorché vedevamo un segretario di partito diventare per questa sua stessa funzione ministro di Stato. Ma quando più pacatamente ci convinciamo che il terreno debba essere sgombro da questi sentimentalismi e che, permettendo e difendendo la pluralità dei partiti, non potremo ricadere, comunque, anche con il riconoscimento della personalità giuridica, negli inconvenienti che abbiamo lamentato per il passato, noi troviamo la vera chiave che ci può far comprendere lo stato d’animo di coloro che vorrebbero unicamente riconoscere il partito come un comitato di privati.
Onorevoli colleghi, noi non dobbiamo dimenticare un altro dato ormai acquisito e cioè che nel nostro Stato, nella nostra Costituzione vi sono altri organi che potrebbero anche essi essere chiamati comitati, associazioni e che tuttavia sono stati giuridicamente riconosciuti. Vi è stato infatti il riconoscimento giuridico, in un altro articolo della nostra Costituzione, dei sindacati. Noi abbiamo ammesso la registrazione dei sindacati, abbiamo preteso che vi debba essere uno statuto democratico dei sindacati, come elemento da accertare per il riconoscimento giuridico dei sindacati.
Ora, non v’è chi non veda come, non dico a controbilanciare, ma, per lo meno, a dare una maggiore organicità a questa struttura di uno Stato in cui si sono riconosciuti i sindacati, occorra dare un riconoscimento giuridico anche ai partiti. Non è a dire che i partiti trovino la loro naturale lotta, il loro naturale terreno di azione nel Parlamento. Si sa bene che oggi, come oggi, il Parlamento non è più quello che era un tempo. Io ho sentito molto spesso in quest’Aula delle giuste lagnanze da parte di autorevoli colleghi i quali hanno lamentato che il Parlamento non ha più quel valore di prima, e probabilmente chi è studioso di storia dell’800, non può non ricordare, con un certo romanticismo e con una certa simpatia, il Parlamento subalpino. Ma questo Parlamento, anche se può rappresentare il sogno di noi tutti, tuttavia è molto lontano dalla realtà dei tempi moderni. Non si può dire certamente che un Gruppo parlamentare oggi rappresenti tutta la vita politica del Paese; non rappresenta forse altro che un’arma del partito, che nello stesso tempo si serve di quest’arma e da quest’arma riceve delle indicazioni.
È un male? È un bene? Comunque si risponda, non è in nostra facoltà modificare lo stato di fatto che è questo: i Gruppi parlamentari non si può dire che assorbano in se stessi tutta la vita e l’attività molteplice dei partiti. Ora, l’uomo è l’homo oeconomicus sotto un certo aspetto, ma non è soltanto questo, non è soltanto quello che partecipa dei sindacati ed ha una sua attività professionale specifica, e che, pertanto, per questa sua attività professionale, ha bisogno dell’azione dell’associazione professionale; l’uomo è anche quello che, indipendentemente dalla sua struttura sociale, si organizza seguendo moventi psicologici, culturali, religiosi, intellettuali, direi con termine comprensivo, spirituali oppure, tanto per intenderci, extrasindacali, immateriali.
L’uomo ha bisogno di essere riconosciuto non soltanto quindi sotto l’aspetto di lavoratore che si organizza in sindacato, ma anche sotto l’aspetto di collaboratore della vita pubblica, d. amministratore associato della ricchezza o della povertà collettiva, differenziato a seconda delle tendenze.
A me pare, quindi, che l’articolo 47, così come formulato, di fatto, non faccia che cercare di trovare, ma non trovi, una strada media fra quello che è il misconoscimento effettivo dei partiti sul piano giuridico e quello che può essere il riconoscimento dei partiti sul medesimo piano.
Noi non sappiamo quello che potrà accadere domani.
Domani i partiti potranno avere funzioni molto più larghe, che potranno essere date dalla legge; se i partiti funzioneranno bene, come ci auguriamo, non dobbiamo lasciarci chiusa la porta per attribuire ad essi determinate funzioni che possono anche non essere strettamente costituzionali ma sono di un certo valore sul piano sociale e che la legge dovrà non ignorare.
Io, pertanto, ho presentato un emendamento in cui si dice che ai partiti è riconosciuta la personalità giuridica quando concorrono determinate condizioni.
Ora il problema è quello di stabilire quali sono queste condizioni. Nel ’45 la Commissione per la Costituzione in Francia aveva proposto delle condizioni che dovevano essersi verificate nel caso che si dovesse concedere ai partiti una personalità giuridica. Erano quattro: 1) salvaguardare la loro pluralità; 2) garantire l’adesione alle dichiarazioni dei diritti; 3) assicurare il carattere democratico dell’ordinamento interno; 4) permettere il controllo delle spese e delle risorse. Indubbiamente, il principio della pluralità è affermato già costituzionalmente in questo nostro articolo ed è un bene, è una conquista su cui ognuno di noi non vuole neppure discutere: speriamo di non discutere mai a parole né a fatti di andar contro questo principio! Ma il secondo e il terzo principio, cioè quello della garanzia della adesione alle dichiarazioni, dei diritti e del carattere democratico dell’ordinamento interno sono indubbiamente principî necessari a verificarsi perché un partito abbia un riconoscimento giuridico.
Per quel che riguarda il quarto punto, cioè il controllo delle spese e delle risorse, sarebbe in teoria da attuarsi, ma di fatto è molto lontana la possibilità pratica di realizzarlo, perché altrimenti apriremmo una via, pericolosa all’ingerenza del potere esecutivo, del potere legislativo o della magistratura nella vita interna del partito, cosicché in uno Stato che adottasse un sindacato di tal genere si potrebbe non permettere affatto che i partiti (certi partiti) possano vivere. Mentre in linea teorica il quarto punto dovrebbe essere il più importante, di fatto è il meno attuabile. Ma il riconoscimento della personalità giuridica dei partiti, quando sussistano queste coedizioni, una struttura democratica interna e l’affermazione teorica e pratica che si vuol concorrere a determinare la politica del Paese attraverso il metodo della libertà, può essere un mezzo per dare effettivamente la possibilità (a questi partiti) di un riconoscimento giuridico di cui domani il legislatore si potrà valere secondo quello che sarà il cammino della società moderna e secondo quella che sarà l’evoluzione politica della nostra Italia.
Per quel che riguarda l’art. 49 poi devo manifestare il mio più netto dissenso da coloro i quali oggi parlano contro la coscrizione obbligatoria. Ho sentito da parte di alcuni parlare della necessità che il bilancio della pubblica istruzione sia perfettamente uguale (in entità) a quello delle forze armate. Vorrei rispondere con un paradosso: nella Italietta passata, quando non ero probabilmente ancora nato, molte spese, che si sarebbero dovute fare attraverso il bilancio della pubblica istruzione, sono state fatte attraverso il bilancio delle forze armate.
Noi meridionali sappiamo che il vecchio esercito, non dico quello inflazionato o recente, è stato una scuola di educazione e di istruzione specialmente per le nostre regioni. Sarebbe falsa una affermazione contraria. Come meridionale, posso dire che attraverso l’esercito vi è stata una pubblica istruzione ed una educazione popolare e che lo scambio che vi è stato da regione a regione, dai monti ai piani, da un mare all’altro mare è servito ad amarci e ad apprezzarci l’un l’altro; mentre, probabilmente, se vi fosse stata non la coscrizione obbligatoria ma il volontario, molti degli oscuri abitanti laboriosi ed affaticati delle nostre terre non sarebbero usciti da esse, né avrebbero visto altri fratelli delle altre parti d’Italia, né avrebbero sentito questa unità così come si è preparata prima della guerra mondiale e attraverso la guerra mondiale.
Onorevoli colleghi, non è soltanto una ragione di carattere morale quella che vuole che in democrazia tutti ci affatichiamo ugualmente, anche sotto le armi, anche quando si deve subire qualcosa che può essere perfino animalesca, ma tuttavia necessaria per la formazione del carattere; non è soltanto una ragione di carattere morale, ma anche di patriottismo, quella che mi fa insistere particolarmente su questo.
Ed io vorrei, appunto, ricordare a coloro che troppo facilmente dimostrano il desiderio di innovare e portare degli istituti nuovi nel nostro Paese, che la soppressione della «coscrizione obbligatoria» potrebbe essere un passo dannoso, non soltanto al modesto avvenire militare, della difesa del nostro territorio, ma anche e sovratutto al senso di unità, che è venuto formandosi attraverso la vita militare.
Sono stato anch’io militare, ho sentito in certi momenti il disdegno contro certe forme militaresche da caserma e la inferiorità morale di chi mi metteva sull’attenti, ed ho sentito di vivere in quei momenti non come anima, ma come corpo bruto; nonostante questo, ritengo necessario per la formazione del carattere il servizio militare, sia pure modificato, e credo che non bisogna creare istituti nuovi, senza averne ben considerate prima le conseguenze.
E la medesima cosa a proposito delle innovazioni vorrei dire sul terzo comma dell’art 49:
«L’ordinamento dell’esercito si informa allo spirito democratico della Repubblica Italiana».
Se democrazia significa elezione alle cariche e governo della maggioranza, non capisco come lo spirito democratico possa stare nell’esercito o cosa possa significare.
Evidentemente, l’esercito è strumento di azione, che ha le sue regole particolari. Che si debbano togliere gli attendenti o dar loro altre funzioni o che il regolamento di disciplina debba essere modificato, chi è stato ufficiale in servizio permanente effettivo può saperlo meglio di me, che sono stato semplice ufficiale subalterno di complemento. Ma che questa modifica del regolamento di disciplina e dei particolari debba significare proprio quello che significa questo comma, io non credo.
Questo comma o è superfluo o è pericoloso; se è superfluo, possiamo sopprimerlo; se è pericoloso, dobbiamo combatterlo.
Io ne ho proposto la soppressione, perché non credo che dobbiamo mettere dappertutto la parola «democrazia» senza ponderatezza; altrimenti democrazia non è quello che intendiamo sia, cioè rispetto della personalità umana, come mezzo per organizzarci e stringerci; in questo modo finiremo col considerare l’esercito, che deve essere uno strumento, nulla di più che uno strumento, per la salvezza e la consacrazione della democrazia, come un mezzo che ha di per se stesso un certo valore.
Riguardo all’articolo 50, capisco la ragione del secondo comma: alcuni hanno sentito la necessità, sul terreno morale, di ripetere agli italiani che bisogna ribellarsi al momento opportuno contro la tirannide.
Un autorevole costituzionalista della Commissione dei settantacinque mi ha detto che attribuiva a questo articolo un valore pedagogico. Con tutto il rispetto che ho per questo collega, devo dire che non capisco come si possa fare della pedagogia attraverso la Costituzione. La pedagogia non è politica, non entra nella politica, non può e non deve entrare nella politica. Gli italiani non possono, attraverso un articolo della Costituzione, ricordare ad un certo momento che essi devono saper essere fermi a difesa della libertà conquistata. L’articolo 50 deve essere sfrondato di questo secondo comma.
Onorevoli colleghi, basta considerare questo: abbiamo messo nella Costituzione il diritto al lavoro e tante altre belle cose; ad un certo momento un uomo, un partito, in nome d’un diritto, che, secondo questo individuo o questo partito, è stato conculcato, dovrebbe, a norma del secondo comma dell’articolo 50, avere il diritto di fare la rivoluzione o di porsi contro le autorità.
Non dovete, onorevoli colleghi, fare il caso più moderato e benevolo, ma il caso limite, il caso estremo: per esempio la regione o il parlamento siciliano, ad un certo momento, ritenendo che un loro diritto è stato conculcato, si ribellano, hanno diritto di ribellarsi. Io non sono un giurista ma tuttavia dico molto modestamente che mi pare che l’elemento primo in una norma giuridica sia questo: che ci sia un’autorità certa, idonea e capace che la applichi, un interprete. Dove è l’interprete che può stabilire e stabilisce a norma dell’articolo 50 quando vi è stata la oppressione, o vi è stata la violazione delle libertà fondamentali?
Se poi si desidera assolutamente affermare questa necessità di ribellarsi, è necessario in ogni caso che di questo articolo si parli dopo, allorché si parlerà della Corte costituzionale.
È naturale che il popolo dovrà difendere ciò che l’interprete della validità costituzionale avrà stabilito, avrà autorizzato ed allora sarà superfluo dirlo, perché basta l’obbedienza all’autorità costituita della Repubblica per affermare che bisogna seguire quella strada.
Io propongo che il secondo comma dell’articolo 50 sia soppresso e che l’articolo 51 formi tutt’uno con l’articolo 50, emendamento che non ho proposto ma che potrò proporre, perché si tratta di elementi che possono essere collegati. Come nel primo vi è un dovere di carattere generico per il cittadino, così nell’articolo 51 vi è l’obbligo più grave di un giuramento, per chi non è un cittadino qualsiasi. Perché altre sono le funzioni che hanno il Capo dello Stato, i membri del Governo, i Presidenti delle Deputazioni regionali, la Magistratura, le Forze armate nello Stato italiano, altro è il dovere del cittadino. Il cittadino ha un solo dovere, quello di difendere la Repubblica ed obbedirle in quanto cittadino.
Il Capo dello Stato, i membri del Governo hanno un doppio dovere, non solo come cittadini, ma anche come strumenti di cui la collettività si serve per l’esercizio delle proprie funzioni. Ma che si voglia sancire questo diritto alla rivolta soltanto perché si pensa che attraverso questa strada ci si potrà liberare di quello che potrebbe di malaugurato avvenire nel futuro, non posso crederlo. Non è attraverso la legge che si difende la libertà; anche attraverso la legge. Il popolo italiano difenderà la libertà se saprà al momento opportuno anche lasciare da parte le comodità quando verrà il momento, se saprà ricordare che la libertà può essere anche non contemporanea allo sfarzo, al lusso, alla ricchezza; sarà libero se al momento opportuno saprà preferire alla servitù senza libertà i sacrifici con la libertà.
È una vecchia massima che ci è venuta da un grande francese, che il popolo italiano deve far sua.
Io penso che saprà il popolo italiano difendere la libertà direttamente al momento opportuno senza alcun comma dell’articolo 50 della Costituzione. (Applausi).
PRESIDENTE. Sono iscritti a parlare gli onorevoli Gabrieli, De Caro Raffaele, Nobili Tito Oro. Non essendo presenti, si intende che vi abbiano rinunciato.
È iscritto a parlare l’onorevole Piemonte. Ne ha facoltà.
PIEMONTE. Onorevoli colleghi, il secondo comma dell’articolo 45, così come ci è stato proposto dalla Commissione dei settantacinque, dice che «Il voto è personale ed uguale, libero e segreto».
Io ho presentato un emendamento, firmato anche da parecchi colleghi, che è così formulato:
«Al secondo comma, dopo la parola: segreto, aggiungere le altre: ed è esercitato anche dal cittadino all’estero».
Di che cosa si tratta? Si tratta di permettere agli italiani emigrati di potere votare nel luogo dove si trovano senza dover ricorrere a notevoli spese e danni per rimpatriare.
Questo problema del voto agli emigranti ed agli emigrati non è nuovo, anzi una certa meraviglia ci ha colti quando abbiamo constatato che la Commissione dei settantacinque non se ne è affatto occupata. Eppure il problema è stato agitato da quasi 40 anni. La prima volta se ne parlò nel Congresso degli emigranti friulani tenutosi a San Daniele del Friuli, il 2 dicembre 1908. In seguito ad un voto espresso da questo Congresso il Segretariato dell’emigrazione di Udine, che avevo l’onore di dirigere, fece una specie di inchiesta su questo quesito: se convenisse un provvedimento per disciplinare l’esercizio elettorale dei nostri emigranti continentali. Allora le speranze e i desideri erano più modesti di oggi perché l’America pareva troppo lontana! A questa inchiesta numerose personalità politiche e studiosi risposero accettando il principio del voto agli emigrati. Fra i tanti ricorderò Luigi Luzzatti, Filippo Turati, Angiolo Cabrini, Antonio Maffi, Ettore Sacchi, monsignor Geremia Bonomelli, Napoleone Colaianni, Errico De Marinis, don Romolo Murri.
Anche nel primo Congresso degli italiani all’estero, nel 1908, a Roma, l’argomento fu trattato ed il relatore, Giulio Cesare Buzzatti, concludeva così: «Escludere gli emigrati dall’esercizio del voto politico equivale a togliere ad una parte considerevole e scelta del corpo sociale il modo di esercitare l’influenza che logicamente dovrebbe spettargli».
L’anno dopo, il 17 gennaio 1909, al II Convegno dei Segretariati di emigrazione, tenutosi a Padova, l’argomento fu trattato dall’onorevole Cabrini, il quale concludeva anche lui in questi termini: «La partecipazione degli emigranti e degli emigrati alle elezioni renderebbe più sincera la rappresentanza politica di intere province rafforzando quei vincoli onde i figli di una stessa terra ed i cittadini di uno stesso Stato si sentono stretti, solidali, nell’opera di elevazione nazionale».
L’agitazione, i voti, i convegni di emigranti e di emigrati proseguirono con crescente fervore. Con l’avvento del fascismo non se ne parlò più, ma non appena avvenuta la liberazione l’argomento fu ripreso nel primo Congressi dei Comitati italiani di liberazione nazionale esistenti in Francia tenutosi il 7 settembre 1945, congresso a cui parteciparono non meno di 600 rappresentanti di comitati di liberazione dipartimentali e comunali. Fu votato all’unanimità un ordine del giorno con cui soprattutto si deplorò che, nella formazione della Consulta, non si fosse tenuto alcun conto dei cittadini emigrati, e fu domandato che alla elezione di questa Assemblea, ed in tutte le formazioni legislative future, gli emigrati avessero possibilità di parteciparvi. Dopo il convegno di Parigi, altri congressi di comitati di liberazione nazionale, esistenti in Argentina e in Isvizzera, si pronunziarono in identico modo. Non se ne fece nulla, per mille e una ragione, la principale delle quali è quella che gli assenti hanno sempre torto.
Ometto, perché il tempo noi consente, gli interessanti studi compiuti da diversi competenti; dirò solo che fra essi eccellono quelli del Tumedei e del Lo Magro.
Il problema è stato proposto anche in questa Aula molti anni fa, nella seduta del 22 giugno 1909, dall’onorevole Cabrini, il 22 maggio del 1912 dallo stesso onorevole Cabrini a cui si associarono gli onorevoli Daneo e Morpurgo. (L’occasione si presta per ricordare che l’onorevole Morpurgo, vecchio, ammalato, ricoverato in una clinica, fu strappato, per odio razziale, dalle bande nere hitleriane coll’intenzione di portarlo in Germania; durante il viaggio mori. Alla sua memoria il nostro accorato omaggio). Successivamente il 7 maggio 1913 il voto agli emigrati fu riproposto dall’onorevole Mirabelli, il 15 maggio 1914 dall’onorevole Beltrami e nel 1919 dagli onorevoli Sifola, Agnelli e Orano. Infine il 18 luglio 1923, quando si discusse la legge elettorale fascista che, dando un vistoso premio alla lista più forte, soppresse di fatto il Parlamento, assicurando una maggioranza artificiosa al partito prevalente, ancora si discusse del voto agli emigranti coll’intervento degli onorevoli Mucci, Ciriani, Jacini, Canepa, Ellero, Chiesa, Lazzari, Maffi e di chi vi parla. Il relatore della Commissione, onorevole Casertano, d’accordo sul principio, opponeva l’inattualità di esso, pur augurando maggiori possibilità in avvenire e il Governo, bontà sua, non negava il problema e la necessità di risolverlo, e si impegnava (oh ironia!) di presentare presto proposte concrete. Naturalmente non se ne fece nulla.
Ora il problema è sempre insoluto e quella necessità di risolverlo, che il fascismo ammetteva, permane tale quale. Tocca alla Repubblica fare quel che il fascismo non seppe. Certo è che le difficoltà non sono poche né lievi. Alcune sono di ordine interno, altre riguardano i nostri rapporti coll’estero.
Gli ostacoli d’ordine interiore sorgono dalle nostre concezioni giuridiche che non prevedono l’esercizio del voto in territorio straniero e non ammettono deroghe al principio del personale intervento dell’elettore alle urne. Questi principî sono figli della diffidenza e sono il prodotto di un determinato clima politico e morale. Quando col tempo il clima politico e morale cambia, è utile cambiare anche le concezioni giuridiche.
Non si poteva pensare, trenta o quaranta anni fa, che il cittadino italiano residente all’estero votasse, rimanendovi, se non recandosi al Consolato, e non ci si poteva fidare della indipendenza e integrità del console, strumento cieco del governo. Nessuno si fidava allora della sincerità di una votazione fatta presso il Consolato.
Era indispensabile, allora, il personale intervento dell’elettore alle urne, quando il malcostume politico del broglio, della scheda girante, della violenza e della corruzione, aiutate dal diffuso analfabetismo, richiedevano le più minuziose cautele per assicurare la sincerità del suffragio. Ma ora le cose sono cambiate; il console è il rappresentante della Nazione e si può aver fiducia in lui. D’altra parte, la proporzionale ha modificato anche profondamente il costume elettorale: certi brogli e certe pastette, certe manovre, certe manipolazioni che una volta erano possibili, ormai sono vergogne seppellite. L’analfabetismo è pressoché inesistente fra gli emigrati. Ecco perché si può benissimo immaginare che l’emigrato italiano possa votare rimanendo all’estero e che possa dare il voto senza presentarsi alle urne, perché il clima politico sociale e morale attuale ha reso caduche le concezioni giuridiche che sino ad ora hanno dominato.
Così facendo non avremo neanche il merito di innovare, poiché la Norvegia permette ai suoi pescatori quando sono lontani, in acque straniere, di votare senza distaccarsi dal posto del lavoro ed un bastimento va a raccogliere le schede. La Norvegia stessa e l’Australia ammettono al voto gli ammalati e gli assenti. L’Inghilterra concede agli assenti di votare sia per mandato o procura, sia mandando direttamente la scheda. Ed infine la Danimarca e la Norvegia ammettono al voto gli emigranti autorizzandoli a inviare le loro schede alla propria sezione elettorale per posta e in busta chiusa, osservando determinate cautele.
Dunque, se questo problema è stato risolto altrove, non c’è ragione perché non lo risolva l’Italia, che in fondo in questa materia è la più interessata, tanto più che il problema è diventato più facile per la rapidità odierna dei trasporti e per i progressi dell’aviazione; ed il fatto clamoroso che milioni e milioni di soldati inglesi e americani, scaglionati in tutto il mondo, dalla Francia al Giappone ed oltre, abbiano potuto partecipare alle elezioni del loro Presidente – per gli americani – e dei rappresentanti ai Comuni – per gli inglesi – è una dimostrazione pratica che queste difficoltà possono essere ritenute superate.
Più delicati sono i problemi che il voto agli emigranti può determinare nei nostri rapporti con l’estero: evidentemente l’espressione del voto politico è un atto di sovranità. Compiuto in territorio straniero può essere considerato come una lesione alla sovranità dello Stato, sul territorio del quale l’emigrato vota. Questa lesione di sovranità può essere più o meno sopportabile; tutto dipende dallo stato di relazioni fra i due paesi: fra quello dove l’emigrato vota e quello di sua origine. In questo campo vi può essere, a seconda dei casi, condiscendenza, indifferenza, tolleranza, suscettibilità, disappunto, ostilità; ripeto, tutto dipende dallo stato delle relazioni e quindi è sempre necessario l’intervento diplomatico per doverosa franchezza.
Ma noi non dobbiamo sopravalutare queste difficoltà internazionali. Mi soccorre a questo punto il pensiero di Lodovico Zanini, umile manovale fornaciaio in Baviera nella sua prima gioventù, e autodidatta magnifico che, con sacrifici enormi, conquistò la patente di maestro, poi la laurea a Padova e adesso è bene amato ispettore scolastico a Udine. Egli preparò la sua tesi di laurea proprio su questo tema del voto agli emigranti; e giustamente osserva che l’emigrazione determina una duplice serie di interessi, ossia non è un fatto economico unilaterale che riguardi il paese di origine dell’emigrato soltanto o che riguardi unicamente il paese dove l’emigrato va a lavorare. L’emigrazione va dove trova il tornaconto ed è accetta in ragione della quantità e della qualità del lavoro, cioè in rapporto alla utilità sociale che arreca. Quindi, nelle sue grandi linee fondamentali, è un fenomeno economico. Conseguentemente le relazioni giuridiche intercedenti fra gli emigrati e il loro stato d’origine, non hanno alcuna influenza sulla qualità e sui valori che rendono produttiva ed accetta l’emigrazione. Se ne deduce che teoricamente questi rapporti non hanno alcuna importanza per Io stato d’immigrazione e che quindi anche l’esercizio del voto dell’emigrato è per esso un fatto di ordine secondario.
L’argomentazione del mio amico democratico cristiano Zanini, se è marxisticamente ineccepibile, non toglie il fatto che non sempre il puro criterio del tornaconto economico regge la politica estera degli Stati. Spesso ragioni di prestigio, di diversa politica interna, o di ripopolazione, di nazionalismo esagerato, possono interferire e turbare il sano principio economico.
Donde la convenienza, e talvolta la necessità di aiutare la diplomazia a superare diffidenze e ostacoli. Tale aiuto ed il più efficace degli aiuti – e in questo tutti gli studiosi in materia sono d’accordo – consiste nel dare all’esercizio del voto da parte degli emigrati un carattere il meno appariscente, il meno vistoso possibile, per modo che passi quanto più si può inosservato ed abbia l’apparenza di un atto tutt’affatto normale e posto nella stretta cerchia degli atti privati consueti di relazione col proprio paese d’origine: niente sbandieramenti, niente grandi comizi, niente grandi manifesti multicolori ed espansivi di ingiurie. Cosa fatta alla chetichella, come se si trattasse di un rapporto normale col proprio paese.
Quindi, è necessaria l’autodisciplina della gente emigrata ed io sono perfettamente sicuro che questa autodisciplina ci sarà.
Ma è altresì necessario che il legislatore aiuti l’opera della diplomazia con disposizioni prudenti e avvedute. Esso, per esempio, per aiutarla, deve scartare senz’altro un modo di esercizio del voto che possa assumere il carattere evidente di voler eleggere una rappresentanza diretta degli interessi specifici degli emigrati in confronto del paese in cui risiedono. L’Argentina, la Francia, la Svizzera, qualunque altro paese non consentirebbero che sul loro territorio il corpo elettorale italiano ivi residente procedesse alla elezione di uno o più suoi rappresentanti diretti. Il principio di sovranità dei paesi ospiti sarebbe talmente leso che l’opposizione sarebbe immediata e categorica.
Neanche un collegio nazionale a Roma, quale capitale dello Stato, per tutti gli emigrati sarebbe bene accetto perché anche questo mezzo sarebbe troppo appariscente e perché la partecipazione al voto degli emigrati, anche in questo caso, avrebbe il carattere di tutela degli interessi specifici dell’emigrazione stessa. Ora, questa tutela specifica, determinata da una rappresentanza politica, farebbe supporre implicitamente che ci sia una costante e permanente divergenza fra gli interessi del paese che ospita e gli emigrati.
Non dico mica che gli interessi specifici degli italiani all’estero possano esser trascurati e non abbiano grandissima importanza; però gli stessi emigrati non pensano tanto ad essi quanto a far parte dell’Italia, ad interessarsi dei nostri problemi e della nostra vita politica. Questo è il loro pensiero principale e questo è quello che noi dobbiamo volere permettere loro di realizzare anche nell’interesse del Paese.
Anche per quanto riguarda la rappresentanza degli interessi specifici degli emigrati, vi sono dei precedenti; se ne occupò il 1° Congresso degli italiani all’estero, tenutosi a Roma nell’ottobre 1908, poi nuovamente il 2° Congresso tenutosi a Roma nel giugno 1911 e poi, nel 1919, un convegno delle collettività nazionali all’estero, sempre a Roma.
Ora, il risultato delle discussioni e deliberazioni di questi tre convegni degli interessati è stato questo: tutti d’accordo nel ritenere impossibile una rappresentanza diretta degli emigrati, come tali, nei corpi legislativi; e si chiese che i cittadini di ogni circoscrizione consolare con residenza da un certo tempo avessero il diritto di nominare una consulta per lo studio e per la difesa dei problemi riguardanti gli emigrati, che affiancasse e collaborasse col console.
Si chiese ancora che una rappresentanza delle consulte costituisse una consulta presso l’Ambasciata ed infine si propose che una Commissione centrale costituita da rappresentanti delle consulte d’Ambasciata e delle organizzazioni economiche e culturali principali sedesse permanentemente in Roma presso il Ministero degli esteri a titolo consultivo.
Queste proposte furono prese in considerazione dall’Istituto Coloniale il quale nello stesso anno 1919 promosse una inchiesta in merito presso i corpi diplomatici e consolari. La grande maggioranza delle risposte furono negative, temendosi che le consulte previste potessero essere contrastanti cogli uffici diplomatici e consolari e quindi diminuirne il prestigio.
Fu questa una risposta degna del corpo diplomatico e consolare, che è il meno democratico fra tutti i corpi dello Stato. Tuttavia lo stesso Ministro degli esteri, attraverso il Commissariato per l’emigrazione, (a proposito cosa si attende a ricostruirlo nella sua piena efficienza?), nominò una Commissione di studio con il compito di esaminare il problema; e a capo di essa fu designato il collega Vittorio Emanuele Orlando. Io non so se tale Commissione abbia avuto il tempo di studiare veramente e di proporre qualche cosa, o se invece il fascismo ne abbia troncato l’opera. Ma è certo che il problema è ora ridiventato di attualità. Già infatti gli emigrati in Francia hanno chiesto che siano autorizzate consulte presso i loro Consolati.
Ritornando all’argomento principale del voto agli emigrati, esclusa la Costituzione di grandi collegi all’estero, escluso il collegio unico per tutti gli emigrati a Roma, si potrebbe pensare ad un esercizio del voto politico presso i Consolati. Ma anche questo mezzo è discutibile perché il Consolato, specialmente dove sono molti gli italiani, dovrebbe avere un apparato notevole per la votazione, possedere gli elenchi degli elettori, e via dicendo; in più questo mezzo comporterebbe spese molto gravi di dislocazione degli elettori, infine e sopratutto, anche se si volesse scaglionare la votazione in diversi giorni, si formerebbero sempre delle code e degli aggruppamenti nei pressi dei Consolati, il che renderebbe l’espressione del voto troppo visibile.
Comunque si analizzi e si esamini il problema, il metodo più efficiente, meno perturbatore, meno choquant, meno dispendioso, più semplice, e più a portata di tutti gli emigrati, è quello del voto per lettera indirizzata in busta chiusa dall’emigrato alla sua sezione elettorale, metodo già adottato dalla Norvegia e dalla Danimarca.
Perché fare accedere al voto politico gli emigrati? Prima di tutto perché quali cittadini italiani ne hanno diritto. Questa Costituzione che faticosamente elaboriamo ha già sancito il diritto di emigrare. Adesso voteremo l’articolo 45, che stabilisce essere il voto politico non solo un diritto, ma un dovere civile e morale. Ma come fate a fabbricare un dovere e un diritto di cui l’uno è la negazione dell’altro? Se questa Costituzione non vorrà essere aberrante – come lo è già in qualche punto: confrontate, per esempio, l’articolo 1 coll’articolo 7, tenendo conto dell’articolo 26 dei Patti del Laterano – bisognerà pure che perché questi emigrati possano compiere il loro dovere morale e civico, abbiano la possibilità di votare. Non si avrà mica la pretesa che rimpatrino a loro spese, col pericolo di perdere il posto di lavoro prima del loro ritorno! Se non si dà all’emigrato il mezzo di votare io non capirò mai come si possa dopo mettere una qualsiasi nota di demerito su un qualsiasi documento a danno dell’emigrante che non abbia potuto votare. Tanto peggio poi se, come si propone in qualche emendamento che è stato presentato, si dovesse rendere il voto obbligatorio. Con che diritto penalizzeremo l’operaio, il lavoratore, che non ha potuto votare perché all’estero?
Se questa non è un’argomentazione giuridica – io non sono un giurista – mi pare però sia inoppugnabile come argomentazione dettata dal buon senso.
Ma al disopra del criterio giuridico vi sono altre possenti ragioni per proporre e risolvere il problema.
Chi emigra, per decidersi a partire, per abbandonare il suo paese, la sua famiglia, il suo luogo natale, le sue consuetudini di vita, deve compiere uno sforzo morale, provare una tale somma di dolori, compiere tale un sacrificio, da dare segni evidenti che moralmente valga assai più della media degli uomini, di avere in sé tanta forza morale da renderlo un uomo scelto. E noi vogliamo allontanare dalla vita civile e politica gli uomini migliori di nostra gente? Privarci dell’avviso, nella scelta della rappresentanza legislativa, delle coscienze superiori alla media?
Tanto più che questa emigrazione col tempo si è raffinata, si è evoluta, si è specializzata. Al sorgere dell’unità d’Italia noi non potevamo dare che dei contadini umilissimi alle fazendas brasiliane e manovali per le fornaci di Baviera; poi a poco a poco, attraverso l’esperienza personale dell’emigrazione, attraverso l’aiuto di piccole, povere scuole industriali, create dalle società di mutuo soccorso e dagli enti locali, questa nostra mano d’opera si è affinata, si è civilizzata, si è migliorata, si è valorizzata, tanto da essere ambita non solo per la quantità ma anche per la qualità del lavoro.
Non vi è grande opera che sia stata eseguita nell’universo intero senza la partecipazione del lavoro italiano: i trafori delle Alpi, il taglio dell’istmo di Suez, gli sbarramenti del Nilo, la costruzione della Transiberiana, le fortificazioni di Port Arthur, le ferrovie dell’Africa centrale, le ferrovie dell’America meridionale, la ricostruzione della Francia dopo l’altra guerra sono dovuti in gran parte a mano d’opera italiana.
Noi abbiamo sparso questa nostra mano d’opera in tutto il mondo e col tempo si è differenziata. Il lavoro italiano è infinitamente vario. Supera ogni concorrenza nelle arti edili in tutto il mondo; ha dato uomini alle fornaci d’Austria e di Baviera, minatori alla Pensilvania, segantini e boscaioli all’Austria, all’Ungheria, alla Romania, camerieri e personale d’albergo quasi ovunque, sarti e sarte all’America del Nord, perfino impareggiabili modelle all’arte francese. Da questa massa immensa di sette od otto milioni, si elevano qua e là pure grandi imprenditori, capi d’industria, direttori d’azienda, una moltitudine di commercianti e di artigiani. Tutto l’assieme, tutto questo costituisce una forza meravigliosa, che ha anche influenza nell’ambiente in cui vive:
Sono perfettamente convinto che se tutta l’America ha in questo momento, come durante la guerra, per l’Italia simpatia e benevolenza ciò dipende dal gran numero di italiani che vi si sono stabiliti e dalla loro influenza sull’opinione pubblica locale.
Questa massa che è il fior fiore di nostra gente sparsa per il mondo, vogliamo abbandonarla o unirla alla Patria? Se non vogliamo abbandonarla perché escluderla dalle nostre vicende politiche?
Questa nostra umanità emigrante è altamente apprezzata all’estero e costituisce un magnifico nostro patrimonio. Facciamo in modo di non disperderlo ma di valorizzarlo. Non mi pare che l’attuale politica di emigrazione nostra corrisponda a questa necessità. Alle prime richieste che ci erano state fatte di mano d’opera dopo la guerra, noi dovevamo prima di tutto e soprattutto pensare ad inviare gente che facesse bella figura, gente che almeno – se non proprio il mestiere – conoscesse un po’ la lingua, i costumi, l’ambiente del Paese ove doveva recarsi.
Avevamo a casa diecine di migliaia di persone che erano state all’estero e che attendevano impazienti di ritornarvi. Si è preferito partire da un altro concetto: il concetto del disoccupato. E allora si è inviato gente che non conosceva né la lingua né l’ambiente, estranea completamente ai costumi; qualche volta senza mestiere o a conoscenza di un mestiere troppo diverso da quello richiesto: si chiedevano minatori e si mandavano barbieri o sarti! Tutto questo ha portato alti lagni da una parte e dall’altra e tutto questo ha svalutato un po’ la nostra ricchezza di energia lavoratrice che prima l’estero ammirava ed ambiva.
Anche qualche altro criterio in questa materia è sbagliato: si è pensato a mandare grandi masse disciplinate, organizzate…
PRESIDENTE. Mi permetta, onorevole Piemonte: forse questo esula dal tema. Quando parleremo degli accordi fatti con gli altri paesi per l’emigrazione, questo può e deve essere detto.
PIEMONTE. Obbedisco. Solamente volevo fare una raccomandazione alla stampa, soprattutto al Governo.
Si vada adagio nel parlare di emigrazione, si vada adagio, perché si creano delle illusioni che poi non hanno riscontro nei fatti. Abbiamo già attorno a noi un’onda di sfiducia e di disorientamento nel popolo, e non poco ha contribuito a formarla l’annunzio che presto migliaia e migliaia di persone avrebbero trovato lavoro nel Venezuela, in Argentina, in Francia, in Belgio, in Cecoslovacchia e altrove, cosicché nacquero immense speranze che poi andarono in gran parte deluse.
La stampa sia molto prudente in questa materia tanto delicata; il Governo attenda di avere quattro noci nel sacco prima di stamburare successi. Siamo prudenti perché c’è stata della povera gente che ha venduto la casa, le masserizie e tutto quello che possedeva per preparare i soldi per fare il viaggio, e questa gente ha consumato o consuma quel poco che aveva. Dolori e rovine!
Attorno a questi accordi di emigrazione non si faccia troppo chiasso…
PRESIDENTE. Onorevole Piemonte, lei parla del voto agli emigranti. Mi permetta che glielo ricordi.
PIEMONTE. Allora tronco. Noto, per ritornare all’argomento, che il nostro collega Corbino l’altro giorno ci diceva che un tempo la bilancia commerciale si saldava con milleduecento milioni dati dal turismo e dalla emigrazione. Sarebbe stato bene che egli avesse sceverato la cifra del turismo da quella dell’emigrazione.
JACINI. Circa metà.
PIEMONTE. Io noto però che un comunicato statistico degli Stati Uniti ci avverte che durante il 1946 le rimesse degli emigranti italiani sono salite a 26 milioni di dollari, cifra rispettabile. Non conosciamo le rimesse degli altri paesi, ed il 1946 non è certamente l’anno più florido per la nostra emigrazione, se si tien conto degli sbarramenti ovunque elevati contro di essa e le difficoltà e ostacoli creati per impedire le rimesse dei risparmi.
Siamo legati ai nostri emigrati anche da queste rimesse, da questi aiuti economici che sono destinati ad ingrandire e a potentemente aiutare la nostra ricostruzione. Chi ci sa dire quale è stato il valore dei pacchi alimentari, spediti dai nostri connazionali all’estero ai loro parenti rimasti in Italia? Sono decine di migliaia di famiglie, che hanno ricevuto pacchi dall’America, dalla Francia, da tutte le parti del mondo. In un solo comune, Meduno in Friuli, questi pacchi sono stati circa 1500 e del valore, ognuno di essi, di parecchie migliaia di lire.
Dirò di più: se noi sapremo mettere un poco di ordine nella nostra casa, ridurre il mercato nero all’eccezione, mercato nero che ci sarà sempre sino a che non sarà applicata la pena di morte per tale delitto, se un nuovo prestito potremo lanciare, in modo particolare invitando a parteciparvi i nostri fratelli residenti all’estero, sono sicuro che avremo un risultato molto superiore a quello che tanti, ignorando il patriottismo dei nostri emigrati, potrebbero supporre.
Gli ostacoli all’esercizio del voto di carattere internazionale sarebbero superati facilmente se si adottasse il principio della doppia nazionalità. L’emigrato che va e resta parecchi anni in un determinato paese estero è sempre in una situazione difficile. Se vuol curare i suoi interessi gli occorre diventare cittadino della Nazione in cui si trova, se questo fa, va contro il vincolo naturale di sangue che ha nell’animo e nel cuore. Quando si decide o per l’una o per l’altra cosa, o sono i suoi interessi personali che sono compromessi oppure sono ulcerati i suoi sentimenti più umani e profondi. Questi casi di coscienza sono numerosissimi e variamente risolti, ma sempre con amarezza e scontento.
Il problema della doppia cittadinanza è visto generalmente sotto un angolo nazionalista errato nella sua sostanza. Se si volesse una buona volta comprendere che il principio di nazionalità implica quello di una società internazionale, che rifonda in un’unità superiore le differenze, la doppia nazionalità sarebbe considerata come un gradino, una prima tappa verso queste forme di convivenza supernazionali. Churchill propose un giorno in piena guerra l’attuazione di questo principio alla Francia: la Francia rifiutò; non credo che la Francia abbia fatto bene e abbia ben tutelato i suoi interessi. Per mio conto auguro all’Italia che possa concludere trattati bilaterali di doppia nazionalità prima di tutto con i popoli che sono più vicini a noi dal punto di vista etnico, e poi con quelli coi quali abbiamo maggiore convergenza di interessi. Mi auguro che si possa attuare il massimo numero di questi trattati: più ce ne saranno e più la pace sarà sicura e permanente.
Il nostro emendamento all’articolo 45 darà per ora poche difficoltà al legislatore, perché la legislazione fascista ha messo come condizione all’elettorato la residenza; e poiché i Governi di liberazione nazionale hanno confermato (ironia della sorte) questo principio, tanto che i decreti legislativi che sono stati emanati in materia di elettorato portano ancora la necessità della residenza per esser elettori, quindi se fosse vero che le elezioni avvengano entro l’anno, la riforma che noi proponiamo non potrebbe interessare che le poche decine di migliaia di nostri operai, già elettori, che sono emigrati dopo il 2 giugno.
Spetterà al legislatore futuro perfezionare la legge e rendere accessibile il voto anche agli emigrati non elettori attualmente. Ma la situazione attuale consente di poter questo anno fare la prova nelle migliori condizioni possibili.
Resta a spiegare perché questa proposta fu fatta in sede di Costituzione e non in sede di legge. Ho già detto che quando fu fatta l’inchiesta nel 1908 sull’opportunità del voto agli emigranti vennero date molte adesioni al principio e che furono formulate molte riserve sulla attuabilità della riforma: riserve a cui ho accennato e credo aver confutato. Ma allora vi erano delle riserve mentali, inconfessate e inconfessabili, nascoste dietro il paravento di quelle giuridiche e di inattuabilità della riforma. A sinistra non si vedeva la possibilità del voto agli emigranti se non presso i Consolati; e nei consoli non si aveva nessuna fiducia, perché strumenti ciechi di Governi reazionari; a destra si sapeva che in quel momento l’idea socialista era in un periodo di espansione e di ascensione, e si era sicuri o si temeva che gli emigrati avrebbero votato rosso, cioè pel partito socialista. Oggi le cose sono un po’ capovolte. Se non fu dato agli emigrati il voto in modo che potessero partecipare al referendum e all’Assemblea Costituente, se in qualche settore c’è ancora qualche resistenza in merito, è perché si temeva e si teme la partecipazione al voto dei fascisti e monarchici che si trovano oltre confine.
Temere il voto dei monarchici e dei fascisti emigrati, significa non credere alla doverosa epurazione delle liste elettorali, che dovrebbe esser un fatto compiuto e comunque significa porsi sullo stesso piano del fascismo, che sospettava ed odiava l’emigrazione perché non la poteva comandare, né sufficientemente controllare.
Invece noi siamo sicuri che se la Repubblica, permettendo il voto agli emigrati, presenterà ad essi il suo volto severo, ma materno, ne conquisterà la fiducia e gli animi, e questi vani spettri dei monarchici e fascisti di Coblenza o del Cairo, o di Lisbona, o dell’America del Sud o del Nord svaniranno come svaniscono al canto del gallo, annunziatore della luce, tutti gli spiriti maligni delle tenebre.
Signor Presidente, onorevoli colleghi, ho finito.
Dalla dittatura e dalla sconfitta l’Italia esce deteriorata nel morale, rovinata nella sua economia; perdute le nuove colonie, quasi irrimediabilmente compromessa la sorte di quelle antiche, mutilata nel territorio nazionale ad oriente ed ad occidente. Ai disastri interni dobbiamo porre rimedio coll’ordine, colla disciplina, coll’austerità nel tenor di vita. Alle perdite territoriali, in attesa che giustizia ci sia fatta, possiamo rimediare saldando maggiormente alla patria i nostri figli dispersi pel vasto mondo, e ritengo che la nostra iniziativa, se accolta, sia di potente aiuto a raggiungere tal fine.
A chi poi si meravigliasse che sia proprio il Partito socialista dei lavoratori italiani a farsi campione e paladino di questa più grande Italia e di questa più intensa unità della stirpe, risponderò che il nostro partito è sicuro, così operando, di essere nel solco marxista.
Marx non ha detto o scritto, come tanta parte del volgo ritiene, «Proletari di tutto il mondo unitevi!», bensì nel suo Manifesto ha lanciato l’appello: «Proletari di tutti i Paesi unitevi!».
Questa differenza di terminologia ha per noi un grande ed altissimo valore, pieno di logiche conseguenze.
Rivolgendosi ai proletari di tutti i Paesi e non ai proletari di tutto il Mondo, segno è che la mente di Marx non mirava ad una universalità socialista che fosse un’enorme caserma, ad una somma meccanica di milioni e milioni di uomini non differenziati da altro che dalle loro qualità fisiche e morali individuali; ma pensava ad una universalità socialista formata, dall’apporto dei lavoratori di tutte le Nazioni, di tutte le stirpi, ciascuna delle quali avrebbe dato alla costruzione e alla vita dell’edificio collettivo il meglio di se stessa.
Ebbene, a questo grande, armonioso edificio socialista, che sarà, l’Italia lavoratrice offrirà la sua laboriosità, il suo genio innato dell’arte e lo squisito ed acuto senso di giustizia sociale che tutti i suoi figli, vivano dentro i suoi confini o fuori, posseggono al più alto grado.
Soprattutto questo senso di giustizia sociale che, non placato, si manifesta come una sola voce insofferente che oggi sale dai campi e dalle officine! (Applausi).
PRESIDENTE. È inscritto a parlare l’onorevole Calosso. Ne ha facoltà.
CALOSSO. Mi scusino se ho la voce assai bassa; ma vorrei che quelli che non sentono non abbandonassero l’Aula.
Credo che sia compito della Costituente, compito politico essenzialmente, quello di segnare le grandi linee della struttura dell’esercito, specialmente dopo un disastro di questo genere; è compito dei politici, dei costituenti e non dei tecnici, perché è chiaro che i tecnici, i militari, di per sé sarebbero portati a dire che è bene che l’esercito italiano sia superiore ad ogni altro esercito, per poter essere sicuro della vittoria. A questo tende naturalmente un tecnico. È un difetto della sua virtù che lo porta a questo; ma tocca a noi politici, e non tecnici, di valutare quale è la situazione geografica e politica in cui si inquadra il nostro esercito.
Ora c’è stato un cambiamento enorme nella struttura geografica delle potenze mondiali. Oggi non ci sono più grandi Nazioni, ma continenti: abbiamo l’America, abbiamo la Russia. Noi non siamo più una grande potenza, come non sono più grandi potenze la Francia e nessun altro Paese europeo.
Noi siamo grandi appena come la California, che è uno dei 48 Stati degli Stati Uniti; siamo grandi come appena una delle Repubbliche sovietiche, per cui dobbiamo calcolare questo fatto che ha i suoi svantaggi ed anche i suoi vantaggi.
Io personalmente preferisco essere cittadino di uno Stato non enorme, ma di uno Stato di 45 milioni, in cui in un certo senso ci conosciamo abbastanza, anziché essere sommerso in un immenso Stato imperiale.
Per esempio, la Cina ha 450 milioni di abitanti. Io apprezzo i cinesi, ma preferisco essere italiano. Non è una fortuna appartenere a un grande popolo. E questo si dovrebbe insegnare alla gioventù. Comunque, dal punto di vista militare, noi siamo ormai non più una grande potenza; siamo appena una regione di Europa.
In questa nuova carta geografica del mondo noi dobbiamo inserire un calcolo per vedere quali forze armate dobbiamo avere; dobbiamo calcolare la nostra forza relativa, poiché non esiste un esercito che vada bene in assoluto.
Se noi siamo, per esempio, la Repubblica di San Marino, avremo un ottimo, grande esercito quando avremo quattro soldati ed un caporale.
Un paese non può essere mai sicuro soltanto perché ha un esercito, a meno che non abbia un esercito superiore a tutti quelli degli altri paesi messi insieme ed una flotta superiore alle due più grandi flotte del mondo. Il calcolo politico si impone in maniera assoluta, se non vogliamo andare incontro a delle delusioni. Bisogna anche che si calcoli il nemico potenziale. Il nemico potenziale qual è oggi? Non, come taluno pensa, la Jugoslavia, perché in questo mondo moderno le guerre sono mondiali e quindi il nemico potrebbe essere uno dei due giganti. Ora è assurdo che noi possiamo misurarci con uno dei due giganti mondiali, e tuttavia credo che noi dobbiamo prepararci a rimediare al disastro sofferto.
Se osassi dire una parola, che ha bisogno poi di due minuti per non essere non disapprovata, vorrei dire che il proposito nostro è di pigliarci una rivincita della sconfitta avuta. Ora, questa rivincita, nella situazione mondiale, a mio parere, consiste nell’aver la forza necessaria per spostare il piano della lotta. È chiaro che con le armi è difficile che noi possiamo avere una rivincita, oggi che i grandi Paesi sono continenti; ma se noi ci spostassimo sul piano del pacifismo assoluto, se cioè riuscissimo a stare in pace trentacinque anni, come fummo, in guerra trentacinque anni (perché in trentacinque anni avemmo cinque guerre e distruggemmo la nostra gioventù ed il Paese), in una Europa che probabilmente si lacererà in una guerra, io credo che potremmo fare dell’Italia il giardino di Europa.
E questo è il nostro programma. Sarebbe questa una magnifica rivincita.
Una voce. Un giardino coi «piselli»!
CALOSSO. Con i piselli: proprio con i piselli. Secondo il socialismo tedesco della epoca di Marx, c’era una teoria che diceva che i piselli erano una specie di vitamina di allora, tanto che i tedeschi, prima della guerra, quando andavano a pranzo, cantavano una bella poesia sui piselli. Questa poesia sui piselli è simpatica e anche noi canteremo l’inno dei piselli:
Noi abbiamo il pane
che basta a noi e ai nostri fratelli;
cresce il pino, il mirto e la rosa,
ed anche i piselli.
(Ilarità – Applausi).
Pigliarci questa rivincita italiana: questo è il nostro scopo. Noi possiamo farlo. Possiamo fare dell’Italia il giardino di Europa in maniera che gli stranieri, i turisti, gli oziosi quando verranno in Italia, vedranno un grande popolo fisicamente e moralmente sano; perché io non so quale piacere ci sarebbe ad essere un grande impero, come lo voleva il duce, dalle Alpi all’Oceano indiano (ricordate: faccetta nera, sarai romana), questo era il suo sogno: avere un impero color caffellatte. Mi pare che ciò sia un errore. Ora, in questa atmosfera nuova, noi dobbiamo calcolare quale deve essere il nostro esercito per avvicinarci più che si può alla possibilità della nostra difesa. Le vittorie oggigiorno non sono più vittorie militari. Esclusi questi grandi giganti con cui non possiamo misurarci, nessun Paese può aspirare ad una vittoria militare. Perfino l’Inghilterra, che era una grande potenza prima della guerra, in fondo in fondo non lo è quasi più. Ha fatto due guerre. Per la prima volta nella storia si è messa a fare vere guerre sanguinose: ci è cascata! Perché le guerre non si vincono sul campo di battaglia. La Francia ha vinto non so quante battaglie, con Luigi XIV e con Napoleone; ed a forza di vincere ha distrutto la sua gioventù. Le statistiche dimostrano che queste guerre continue sono riuscite perfino ad abbassare la statura media dei suoi cittadini. Altri popoli antichi militaristi sono addirittura scomparsi dalla terra. Per cui il militarismo è estremamente pericoloso, almeno per chi ama la battaglia per se stessa, come è accaduto ai tedeschi, che hanno preso una bella lezione. Noi non siamo fra questi. Le vere guerre si vincono sul terreno demografico. I manuali di storia non ne tengono conto, ma ne dovranno tener conto in futuro. Un Paese che riesce a stare in pace, e a non sacrificare la sua gioventù, migliora la stirpe. Così abbiamo popoli prosperi e felici. Ci sono esempi storici, come quello costituito dall’Inghilterra che, prima di lasciarsi trascinare nelle guerre, che l’han fatta decadere di potenza, nel ’600, quando fece la sua rivoluzione parlamentare, che fu rivoluzione antimilitaristica, levò dalle mani del Re un esercito, per cui essa rimase senza esercito e si sviluppò l’aristocrazia come complesso antimilitaristico.
Una ragazza inglese, quando un ragazzo non le piace gli dice: «Perché non vai nell’esercito?». Questo modo proverbiale deriva dall’antimilitarismo innato nei britannici.
Appena presa questa direttiva, l’Inghilterra cominciò a salire in modo da stupire gli stessi con temporanei e divenne il Paese più prospero del mondo. Per essa la guerra non era guerra, perché la combatteva con piccoli eserciti mercenari di tedeschi o svizzeri, e persino a Waterloo il Comandante generale Wellington, che io apprezzo, disse che in fondo la sua armata aveva ben poco orgoglio militare e chiamò questo esercito: «feccia della terra». Infatti era una vera e propria accozzaglia di mercenari stranieri, privi di orgoglio militare. Ebbene questa accozzaglia, notate bene, fece la fortuna dell’antica Inghilterra parlamentare. Ma quell’epoca è finita con questo secolo di nuovi imperialismi Kiplinghiani. Si crede nel sogno imperialista: prima si fanno gli imperi e poi si diventa imperialisti. Ma chi fa gli imperi non è mai imperialista: lo dissero i Romani, e lo disse anche Machiavelli. Ma quando il sogno di Disraeli e di Pitt penetrò nell’Inghilterra, questa si mise a far guerre ogni venti anni, e ad ogni guerra cadde più giù. Voi direte che le guerre sono state pure la sua fortuna. Io vi rispondo: ebbene, essa ebbe uno sviluppo mercantilistico in anticipo, evolvendosi dalla sua condizione iniziale di isola, ma questo fu un fattore favorevole.
Perché noi non potremmo fare qualcosa di simile? Ma fare qualcosa è la nostra difficoltà: avete visto che per due anni non abbiamo arrischiato provvedimenti audaci, e non abbiamo mai fatto, od osato fare, grossi giuochi. Perché? Diciamo: è il tripartito! Questo è giusto, perché un Governo prende la responsabilità del Paese; ma non neghiamo di essere tutti colpevoli di questa specie di «donabbondismo» che è nelle nostre vene, dopo una dittatura debole e debolmente mascherata. Siamo tutti timidi; questa è la realtà: non osiamo prendere nessuna decisione. Mentre gli Stati orientali dell’Europa hanno fatto una riforma agraria, quelli occidentali hanno cominciato, alcuni, la costruzione del socialismo coi metodi della libertà, e gli Stati piccolissimi, come l’Olanda, hanno formato capitali bancari ed hanno risolto il problema della ricostruzione, noi non abbiamo osato. Perché? Perché venti anni di dittatura ci hanno resi timidi. Questa è la realtà. In questo fatto di timidezza è naturale che anche nell’esercito non riusciamo a prendere ima decisione sufficientemente forte.
Il Partito socialista dei lavoratori italiani ha proposto, con alcuni Deputati di altri gruppi vicini, che «nel bilancio dello Stato le spese per le Forze armate non potranno superare le spese per la pubblica istruzione, salva legge del Parlamento di durata non superiore a un anno». Questa proposta ha delle difficoltà, ma quale è il carattere di Don Abbondio? È quello di mettersi prima nelle difficoltà e poi guardare la cosa. Ora, se facciamo così non concluderemo mai niente. Ma la cosa in sé è logica, perché questo emendamento racchiude questo concetto: noi abbiamo in Italia il 21 per cento di analfabeti, che in alcune regioni sale al 48 per cento, cioè di gente che firma con la croce. Vi sono paesi, come la Scandinavia, la Germania e la Svizzera, dove tutti hanno fatto almeno otto anni di scuola: in altri paesi dieci ed anche dodici. Noi, invece, abbiamo metà del popolo analfabeta, e questo è gravissimo e vergognoso in un paese come il nostro. D’altra parte, questo implica cattiva qualifica operaia. Noi avremmo bisogno di una grande qualificazione, anche per motivi di danaro; invece, spesso il nostro operaio non è qualificato.
Ed allora, in questa situazione, con le scuole distrutte, con l’analfabetismo che aumenta, noi diciamo: perché non uguagliamo il bilancio dell’istruzione a quello delle spese militari? Noi dobbiamo, in questa sede, onorevoli colleghi, stabilire che cosa dobbiamo spendere, e questa non è una cosa che si può domandare al tecnico, perché il tecnico risponderà: «due volte quello che guadagniamo». È chiaro che questo è il minimo che possa suggerire un generale. Invece, dobbiamo stabilirlo noi. Ed allora, dobbiamo dire che le spese militari non dovranno superare quelle scolastiche. Sarebbe un assurdo spendere più per spese militari che per spese scolastiche in un paese analfabeta come il nostro. E sarebbe un assurdo anche nel campo militare. Qual è la vera forza dell’esercito? Non è quella di fare «uno-due» in una caserma con delle baionette buone ad aprire una scatola di conserva. La forza sta nelle industrie e nelle attitudini sportive. Gli americani sono riusciti a formare un esercito all’ultimo momento, perché erano altamente sportivi. Le spese scolastiche, creando una qualifica operaia, e le spese sportive migliorando il materiale umano, costituiscono la vera forza dell’esercito. I nostri soldati sono forti, ma impacciati: occorrono tre mesi prima di farli camminare, mi diceva un giorno un importante generale attuale.
Un esercito senza industrie, senza qualifica operaia è l’esercito della sconfitta.
Oggi abbiamo 150 mila soldati, senza contare i carabinieri e le altre Forze armate. Tale cifra in Italia non si raggiunse mai in tempo di pace. Questi soldati sono male armati, né potranno mai essere bene armati, perché occorrono speciali industrie. Che cosa potrà fare un esercito di questo genere? Una volta un generale diceva: un soldato italiano batte dieci nemici. Questa è una bella frase per un caporale, ma non per un generale. Non si può ammettere che un soldato italiano nudo possa abbattere dieci nemici in carro armato.
Ora, questi 150 mila soldati male armati non possono arrivare che ad una conquista eroica: potranno magari farsi massacrare tutti e passare alla storia, ma non è questo il nostro scopo. Il Ministero della guerra, concepito come lo concepiscono i nostri generali conservatori piemontesi, come dice l’onorevole Pacciardi, (però ce n’è qualcuno che non è piemontese), basato su un esercito così fatto, il quale non può farsi che sconfiggere, è un Ministero che si potrebbe chiamare della sconfitta eroica. Non dobbiamo quindi mascherare la situazione. Questo lo dico non per un concetto antimilitarista, astratto, ma proprio per un calcolo dei bisogni del nostro Paese, e, diciamo pure, della vittoria del nostro Paese nel mondo. Personalmente non avrei nessun motivo astratto per voler diminuire l’esercito; lo voglio anzi aumentare, specialmente nel prestigio e nella forma. Io stesso sono figlio di un contadino piemontese, che per di più è diventato sergente e poi ufficiale, e non c’è nessun conservatore più grande di un sergente, di un maggiore piemontese, e non dico questo perché mio padre mi chiamasse Umberto. (Si ride).
Ora, questa tradizione in casa mia c’era, ed io sono nato in questo ambiente, ed ho sempre vissuto in mezzo ad ufficiali effettivi e ne conosco la profonda onestà; ma ne conosco anche i difetti mentali, gli errori possibili, ed è a questi errori che noi dobbiamo rimediare con la più larga visione. Se noi riuscissimo, con molto coraggio, ad ancorare le spese militari a quelle scolastiche, avremmo fatto senza dubbio qualcosa; anche se il finanziere potesse obiettare che bisogna fare un bilancio unico, ecc. Bisognerebbe piuttosto realizzare subito un programma di questo genere e sarebbe bene poter dire, nella giornata di domani, per esempio, di aver potuto risolvere il problema scolastico. Questa è una difficoltà che dovremmo cogliere al balzo, per risolverla e dare al Paese un senso di fiducia, senza necessità di prendere un soldo al Tesoro. Su questo programma il nostro partito è impegnato.
Vedo qui degli emendamenti particolari, come quello degli onorevoli Cairo e Chiaramello, per l’abolizione della leva obbligatoria. Questo è un punto che è stato lungamente dibattuto e vi sono state anche molte obiezioni; ma se noi badiamo prima alla sostanza, poi alla forma, vediamo che anche la leva in Italia rappresenta un complesso militaristico che porta alle sconfitte, perché, in fondo, questo militarismo diffuso porta in sé qualche cosa di follaiolo e diminuisce il valore individuale.
Ora, se togliamo la leva obbligatoria, e facciamo un piccolissimo esercito, direi quasi un esercito di quadri, pagati bene – questo credo che anche ai nostri quadri non dispiacerebbe – se viene una guerra, evidentemente, non possiamo entrare e allora stiamo in pace.
Una voce al centro. Se ci lasciano in pace.
CALOSSO. Ecco un’obiezione che mi aspettavo e che giustamente è stata fatta. Supponiamo che non ci lascino stare in pace e ci invadano. Le alternative sono due: o noi con 150 mila soldati armati di baionetta andiamo a farci massacrare – ed allora resterà una bella pagina eroica nella storia – oppure, non facciamo la battaglia e allora non avremo neanche la sconfitta.
C’è qualcuno di voi che preferisce un buon massacro in una battaglia ad una sconfitta in una non battaglia?
Prima, quanto meno, avevamo due potenze quasi uguali; oggi è un assurdo, perciò non vedo la necessità di questi 150 mila uomini. Ci occorre un esercito di quadri, incapace di entrare in lotta. (Commenti).
Uria voce a destra. E allora a che serve?
CALOSSO. Quando scoppia una guerra o ci invadono, oppure, se c’è il tempo, abbiamo il germe per creare lentamente un esercito che, dopo cinque o sei anni, potrà essere qualche cosa.
Prendiamo un esempio pratico: l’altra guerra. Se avessimo avuto un esercito così fatto, non potevamo entrare in guerra subito; ci saremmo entrati il 3 novembre del 1918 e vincevamo sul serio, senza sacrifici. Anche in questa guerra, se avessimo avuto la necessità di prepararci alla lunga, ci sarebbe andata bene.
UBERTI. Che strategia meravigliosa!
CALOSSO. Non è strategia: non credo di essere uno stratega. Io faccio della politica, cioè espongo quello che dobbiamo dire ai generali, che non possono imparare da nessuno.
Ora, cosa propone lei? Dieci milioni di soldati invece di 150 mila? Questo ci darebbe una sufficiente sicurezza; ma non c’è via di mezzo.
Vi sono delle obiezioni; anche i nostri compagni comunisti non sono entusiasti dell’abolizione della leva obbligatoria.
Io non so perché, ma certo vorrei esporre loro un motivo per cui – caro Pajetta – l’abolizione della coscrizione obbligatoria sarebbe utile. (Interruzione dell’onorevole Pajetta Giancarlo).
Io non ho mai detto di essere antipatriottico; ma il nostro pericolo è quello di essere mercenari, di essere adoperati dall’uno o dall’altro blocco come mercenari. Questo non deve essere in nessun modo. Noi dobbiamo avere astuzia, se possiamo – e non è impossibile – ed ardire nello stesso tempo.
Disgraziatamente siamo timidi in questo momento storico. Noi dovremmo, piuttosto, adoperare la flotta inglese, l’aviazione americana e l’esercito russo, anziché esserne adoperati. Noi dobbiamo cercare di non combattere per gli americani, o per gli inglesi, o per i russi. Questo deve essere il nostro scopo: metterci in situazione di non essere mercenari di nessuno.
Oltre tutto, questo nostro continuo interventismo in guerra, che dura da 35 anni, fa ridere gli stranieri, i quali dicono: «ecco gli italiani che vogliono entrare in guerra per poi scappare». (Commenti).
C’è poco da dire: sono insulti che all’estero ci facevano arrossire e a cui rispondevamo.
PAJETTA GIANCARLO. A noi che facevamo la guerra in Italia non l’hanno mai detto che volevamo scappare.
CALOSSO. Va bene; ma io cito Vishinsky come un esempio. Il Viceministro degli esteri Vishinsky è l’unico degli uomini politici europei che disse la sciocchezza…
PAJETTA GIANCARLO. Ma lei sa che…
(Commenti).
PRESIDENTE. Non interrompa, onorevole Pajetta, la prego.
CALOSSO. Ma veda, gli inglesi, presso cui io ero, lo pensavano. (Commenti – Interruzioni). Mi lasci parlare, onorevole Pajetta. Gli inglesi lo pensavano, anche se non me l’hanno mai detto. Essi sono infatti degli uomini politici consumati che hanno quel garbo per cui nella conversazione sono perfetti; ma io sentivo sotto la pelle, ogni volta che ci facevano un elogio, quella critica. Vishinsky invece l’ha detto apertamente: gli italiani scappano sempre. Siamo d’accordo che è una menzogna; Vishinsky ha mentito; è un insulto. (Interruzioni dell’onorevole Paletta). Ma sì, siamo d’accordo: Vishinsky ha mentito. Bravo, onorevole Pajetta! (Commenti – Applausi al centro).
PAJETTA GIANCARLO. Ma io dico che lei sta insultando gli italiani.
CALOSSO. Ma io dico che il soldato italiano è valorosissimo e che è stato condotto da capi inetti alle sue sconfitte, perché è stato costretto a combattere uno contro dieci, il che ha condotto all’accusa falsa di Vishinsky che i soldati italiani scappano sempre. Questo ho voluto dire: non si travisi, onorevole Pajetta, quello che ho voluto dire. Io penso che, con un esercito senza leve obbligatorie, con un piccolo esercito di quadri, avremo il vantaggio di non poter diventare mercenari di alcuno e alla lunga ci accorgeremo che avremo vinto per lo meno sul terreno demografico.
Perciò mi pare utile, specialmente per gli amici della Russia, se lei accetta di essere amico della Russia, onorevole Pajetta, come io lo sono di fatto, che noi prepariamo al popolo italiano l’impossibilità di diventare mercenario. Questo è il fatto; perché non crediate che, con una propaganda comunista nell’esercito, si riesca a fare l’insurrezione, nel caso in cui noi siamo sotto questa influenza.
PAJETTA GIANCARLO. Speriamo di avere un Governo democratico contro il quale non sia necessaria alcuna insurrezione.
CALOSSO. Comunque sia, se abbiamo questo esercito fatto in questo modo, non possiamo diventare mercenari facilmente e questo è un vantaggio russo; e perciò vi prego di pensarci su, a meno che non abbiate risolto tutti i problemi a riguardo e questo è un problema da discutere nell’interesse della Russia.
D’altra parte, se si fa un esercito di quadri, si dice: si fa un esercito di mestiere. Ma noi abbiamo già 70.000 carabinieri che sono uomini ottimi, che sono uomini disciplinati, che sono uomini, direi, democratici: ora avere altri uomini di mestiere, non vedo che cosa cambi.
E, d’altra parte, si possono inserire i partigiani e i volontari. L’onorevole Gasparotto, Ministro della guerra, ha detto che nei carabinieri, i volontari sono il 100 per cento, nell’aviazione il 64 per cento, nella flotta il 61 per cento. Si aggiunga che il volontariato è un sistema tradizionale, per lo spirito garibaldino italiano.
Ma anche questo, mi pare che non basti: la questione deve essere inquadrata, come ogni problema, in un orientamento deciso della Nazione. Ed è qui la difficoltà per noi, in questo momento storico: di fare qualche cosa di deciso. Difatti abbiamo cercato sempre di fare cose poco impegnative, mai qualche cosa di energico; e siamo i soli in Europa, in fondo. Perciò proporrei, come gli onorevoli Cairo e Chiaramello, un emendamento per cercare di ancorare il nostro Paese alla neutralità perpetua. Certo, una neutralità perpetua, giuridicamente definita, implica un accordo con gli altri; ma la Costituente può fare i primi passi su questa strada, piena di difficoltà anch’essa; perché aderire all’O.N.U. sembra in contraddizione con la neutralità perfetta. Ma noi dentro all’O.N.U. dovremo batterci – almeno a titolo di propaganda – per poterci inserire con questo nostro vincolo di neutralità perpetua. E ciò ci converrebbe anche per un motivo di fierezza. Guardate gli svizzeri, che sono neutrali, come sono rispettati da tutti i popoli. (Interruzioni – Commenti). Senza dubbio sono militarmente un popolo estremamente rispettato. Fate che noi non ci comportiamo più da imbecilli in Europa coll’intervenire sempre in guerra – e io non mi sbaglio; conosco gli stranieri abbastanza per leggere i loro pensieri segreti, presuntuosi e ironici – restiamo in pace cinquant’anni, ed essi apprezzeranno la nostra fierezza, guarderanno alle nostre glorie militari, ricorderanno le virtù militari del soldato italiano, che, in condizioni di parità, si è sempre misurato in una maniera straordinaria e – come diceva Guicciardini – «nei congressi dei pochi ha sempre vinto».
Facciamo questo e avremo, in fondo, in Europa un primato; saremo guida in qualche cosa. È impossibile che l’Italia, che ha avuto tre civiltà, possa rinunciare ad essere guida in qualche cosa. L’Italia, in fondo, è sempre guida, nel bene e nel male: guardate lo stesso fascismo che ha iniziato – le cose si iniziano in Italia di solito – questo nuovo ciclo che pareva lieto; tutti ridevano, dicevano: «non è nulla»; si portò in Germania, diventò un fatto internazionale; nacque il disastro. Noi oggi che raccogliamo questa eredità fallimentare, dovremmo proporci – come suggeriva Mazzini – un primato italiano. Quale? Il primato pacifista. Se legassimo questo nostro popolo alla bandiera del pacifismo assoluto, della neutralità perpetua e ancorassimo il bilancio militare alle spese scolastiche, senza dubbio saremmo una guida ih Europa; e io confido che nello spazio di una generazione l’Italia potrebbe veramente diventare il giardino d’Europa. (Applausi).
Presidenza del Vicepresidente TARGETTI
PRESIDENTE. Non essendo presente l’onorevole Pera, si intende che abbia rinunciato a parlare.
È inscritto a parlare l’onorevole Schiavetti. Ne ha facoltà.
SCHIAVETTI. Al collega ed amico Piemonte è toccato per primo di esporre dinanzi a questa Assemblea il problema dei nostri rapporti con gli italiani all’estero. È quindi naturale che a me tocchi di dire poche cose soltanto, oltre a quelle essenziali che sono state dette dall’amico Piemonte.
Anzitutto si presenta il problema, che ha una certa importanza, di sapere con precisione quanti sono questi italiani dimoranti all’estero. È probabile che il numero di questi italiani abbia subito in questi ultimi anni delle forti diminuzioni. Le cifre più attendibili si riferiscono al 1924 e ci sono state date dall’Annuario statistico del Commissariato generale per l’emigrazione. Era allora un tempo in cui la statistica non era divenuta ancora un servizio politico del Ministero degli interni, come divenne poi con gli sviluppi più o meno fatali del regime fascista. In questo Annuario statistico del Commissariato per l’emigrazione troviamo che alla fine del 1924 vi erano in tutto il mondo poco più di 9 milioni di italiani residenti all’estero; e nel 1927 il Ministero degli esteri fascista confermava sostanzialmente questa cifra, comunicando che il numero degli italiani all’estero era aumentato di circa 150 mila unità. In questi ultimi anni però – come ho già avuto occasione di accennare – è probabile che il numero degli italiani all’estero sia fortemente diminuito a causa delle naturalizzazioni sopravvenute in molti paesi per motivi inerenti allo stato di guerra. Vi sono molti italiani che, travolti dalla folle politica del fascismo e fatti oggetto dell’odio, del risentimento e anche del disprezzo degli ambienti politici in cui vivevano, hanno dovuto rinunciare o sono stati ad ogni modo costretti a rinunciare alla loro nazionalità. Un fenomeno di questo genere, per quel che sappiamo, è stato forte soprattutto negli Stati Uniti. Noi manchiamo di cifre precise, ma alcuni ritengono che gli italiani siano diminuiti in certe zone degli Stati Uniti di circa i 2/3, e che a New York e dintorni restino ora di 1.300.000 italiani di una volta, solo 600.000 nostri concittadini. È probabile che in queste cifre, che rappresenterebbero una catastrofe per la nostra emigrazione, vi sia una forte esagerazione. Ad ogni modo noi dobbiamo tener conto di questa diminuzione del numero degli italiani residenti all’estero. Tuttavia è chiaro, anche ammettendola, che gli italiani residenti all’estero sono ancora molti, moltissimi, e che determinano per noi un problema fondamentale: quello di mantenerli uniti alla madre Patria, di non perdere questo materiale umano con tutti i tesori di civiltà e di forza spirituale ed economica che esso rappresenta.
Vorrei fare anzitutto, a proposito di quello che ha detto il collega Piemonte, una distinzione parziale che serve a centrare il problema. Si tratta di un unico problema che può essere veduto però sotto due aspetti diversi. Vi è il problema della emigrazione, che è un problema prevalentemente economico e che riguarda sopratutto l’assestamento dei nostri concittadini che si recano all’estero. Questo problema è stato già toccato nella nostra Costituzione con l’articolo 30 che noi abbiamo approvato, articolo nel quale si parla di una doverosa tutela da parte della Repubblica italiana del lavoro italiano all’estero.
Ma vi è poi un altro aspetto di questo problema, un aspetto prevalentemente politico e morale: è il problema che riguarda appunto gli italiani già stabilitisi all’estero. Per questi italiani, evidentemente, i problemi più gravi non sono quelli della loro sistemazione e stabilità economica, perché per la maggior parte di loro questa sistemazione è già avvenuta; ma si tratta, in prevalenza, di problemi politici e morali, problemi che riguardano i rapporti con la madrepatria.
La trattazione di questo problema non ha nulla a che vedere con le preoccupazioni che sono state caratteristiche del fascismo ogni qualvolta il fascismo si è occupato degli italiani all’estero. Come voi sapete, il fascismo vedeva negli italiani all’estero una specie di avanguardia per la conquista italiana dell’impero. Erano strumenti politici di penetrazione nazionalistica nei diversi paesi. E il fascismo, con questa sua concezione, soprattutto con l’attuazione, nei limiti che gli sono stati possibili, di questa sua concezione, ha arrecato un danno enorme alla sorte degli italiani all’estero, arrecando anche, come in tanti altri settori, un danno enorme alle fortune della nostra Nazione.
Il fascismo si è infatti preoccupato, per quel che riguardava la disciplina e l’organizzazione delle nostre comunità all’estero, di caporalizzare (uso questa parola prussiana) i rapporti intercedenti tra gli italiani delle diverse comunità. Basterebbe ricordare – perché in certi casi nomina sunt res: i nomi attingono alla realtà delle cose – che il nostro Commissariato dell’emigrazione fu trasformato dal fascismo nella famosa D.I.E., Direzione generale italiani all’estero, dimodoché gli italiani all’estero avevano un direttore generale, erano italiani che avevano la fortuna di essere diretti in tutte le loro attività, e nel seno stesso della comunità il console esercitava la propria autorità come il comandante di una unità in guerra.
A me è toccato, quando ho avuto occasione di andare a visitare in Svizzera la cittadina di Grenchen, nota per la famosa crisi spirituale che vi subì il Mazzini, di leggere una lapide in cui i fascisti della località annunciavano allo spirito di Mazzini che essi, i «soldati d’Italia», erano giunti sulle sue orme fino in quella piccola cittadina.
Si dicevano dunque «soldati d’Italia», non i portatori della nostra civiltà: erano dei soldati che dicevano di seguire le orme di Mazzini per preparare all’Italia fascista la conquista dell’impero e di determinate posizioni politiche.
Noi vediamo questo problema, è inutile dirlo, con preoccupazioni del tutto diverse e da un punto di vista totalmente diverso: preoccupazioni di carattere politico per quel che riguarda la conquista di posizioni all’estero, sono in noi del tutto assenti. C’è solo una preoccupazione fondamentale, quella di tenere legati alla madre Patria i nostri concittadini, perché assolvano al compito che loro è prefisso nell’economia generale della civiltà. Ciascun paese realizza un determinato tipo di civiltà e dice la propria parola al mondo nella sua lingua ed è più che giusto che i nostri concittadini dicano questa parola di civiltà nelle forme più facili per loro. Questa è la ragione fondamentale della nostra preoccupazione e dell’interesse che noi portiamo al problema del voto degli italiani all’estero e dei nostri rapporti con loro. Ad alcuni sembra che quando si sia assicurato l’esercizio del diritto elettorale ai nostri emigranti, si sia già fatto un gran passo nella soluzione del problema dei nostri rapporti con i nostri concittadini all’estero. Da un punto di vista generale, e in linea di massima, questa cosa è già stata, in un certo senso, realizzata. Proprio stamani alla Commissione che studia il progetto di legge sull’elettorato attivo noi abbiamo avuto occasione di esaminare l’articolo 11, il quale stabilisce che anche ai cittadini italiani che si sono trasferiti all’estero e che hanno perduto la residenza di origine, sia assicurato il diritto di voto; e questo è un riconoscimento di principio che ha un forte valore: per tutto il resto non si tratta che di attuazione e di tecnica. Ma la concessione del diritto di voto non è, a mio parere, sufficiente perché siano sufficientemente stretti e mantenuti i legami con i nostri concittadini all’estero.
Qui io vorrei approfondire qualcuna delle cose che ha detto il nostro amico e collega Piemonte. Il diritto di voto può essere esercitato nelle forme ordinarie, nelle forme che la legge elettorale, a cui ho accennato, stabilisce o stabilirà in avvenire. Questi cittadini possono rimanere iscritti nelle liste elettorali del loro paese e possono rientrare in patria a esercitare il diritto di voto. Ma è evidente che l’esercizio del diritto di voto sotto questa forma riguarderà sempre una piccola minoranza di cittadini italiani; riguarderà soprattutto la minoranza di cittadini italiani che vive in Isvizzera, in Francia, e in qualche altro paese d’Europa: quei cittadini italiani, cioè, che potranno permettersi il lusso di fare un viaggio in Italia durante le elezioni. Ma la maggior parte dei cittadini italiani residenti all’estero, cioè quelli dell’America del Nord e dell’America del Sud non potranno mai esercitare in questa forma il loro diritto di voto che per via di eccezione.
D’altra parte, esercitato all’estero presso i Consolati, e sia pure per lettera, come è stato precedentemente accennato, il diritto di voto degli italiani all’estero solleverà, senza dubbio, dei problemi di ordine pubblico da parte degli Stati interessati, i quali non avranno nessun piacere che si svolga nei centri di emigrazione italiana di loro competenza una lotta elettorale, che sarà senza dubbio contrassegnata dalla vivacità caratteristica di noi italiani.
In ogni caso, l’esercizio del voto che si innesti alle circoscrizioni italiane risponderebbe poco in questo momento alla attuale capacità e sensibilità politica dei nostri gruppi all’estero, di cui alcuni sono lontani migliaia e migliaia di miglia dal nostro Paese e che – come è stato facile constatare a coloro che sono vissuti a lungo negli ambienti di emigrazione – sono per molti aspetti arretrati rispetto all’Italia, dal punto di vista culturale, politico e spirituale. È facilissimo, quando noi andiamo in alcuni centri della nostra emigrazione, trovarvi agitati, ad esempio, dei problemi che sono stati agitati in Italia 20 anni prima, e di trovare trionfanti nel gusto del pubblico scrittori, i quali rappresentano un’arte o un modo di pensare che lo sviluppo del pensiero nazionale ha da noi da lungo tempo sorpassato.
Perché il diritto di voto possa legare veramente queste masse di italiani al nostro Paese, dovrebbe essere esercitato in forma organica, la sola forma idonea a mantenere questo collegamento. Vi dovrebbero essere rappresentanti delle diverse comunità italiane, contraddistinte da interessi determinati e comuni. Se noi volessimo dare una rappresentanza organica a queste masse di italiani, dovremmo invitare alle nostre assemblee in Italia i loro deputati. Ma una soluzione in questi termini del problema solleverebbe delle obiezioni da parte degli Stati interessati. Nessuno Stato ammetterebbe mai che cittadini stranieri, viventi nel suo territorio, possano avere rapporti politici di questo genere con altri Paesi. Questo non può avvenire, soprattutto in un periodo come l’attuale, caratterizzato da nazionalismi esasperati e da diffidenze di carattere politico; e non potrebbe, soprattutto, avvenire per noi, che abbiamo alle nostre spalle l’esperienza fascista, con tutte le diffidenze che essa ha seminato presso gli Stati vicini.
Per tutte queste considerazioni, a me pare che l’assicurazione dell’esercizio del diritto elettorale agli italiani all’estero non possa risolvere in modo fondamentale il problema che ci preoccupa tutti: il problema, cioè, del mantenimento dei rapporti e del collegamento spirituale e politico coi nostri concittadini. Ed è appunto in considerazione di una più efficace soluzione di questo problema che io ho proposto all’Assemblea il seguente emendamento aggiuntivo all’articolo 45:
«La Repubblica assicura ai cittadini italiani residenti all’estero la possibilità dell’espressione organica della loro volontà e della rappresentanza dei loro interessi».
In questo modo il problema è portato, come è evidente, su un piano diverso.
Esso presume anzitutto la riorganizzazione in forma autonoma e democratica della vita delle nostre comunità all’estero.
Già alla caduta del fascismo molte di queste nostre comunità hanno fatto degli esperimenti originali e spontanei di organizzazione della loro vita autonoma in reazione al predominio fascista. Quando molte comunità si sono trovate in lotta contro i consoli che rappresentavano ormai un regime decaduto, si sono date un ordinamento autonomo; per meglio dire, non sono state comunità intere, ma sono state le minoranze attive e politicamente più intelligenti e progressiste di queste comunità che si sono date un ordinamento autonomo, accogliendo nel loro seno tutti gli italiani, esclusi i fascisti militanti, a qualunque partito politico essi appartenessero. Bisognerebbe lavorare nel solco di questa naturale reazione al dominio fascista e alla organizzazione fascista delle comunità all’estero. Bisogna avere una grande fiducia in tutto quello che è spontaneo, che non risponde a un concetto astratto e teorico, ma che non fa altro che potenziare dei fenomeni che si sono già sviluppati naturalmente nel suolo della nostra vita collettiva. Le nostre comunità si sono date degli ordinamenti autonomi e hanno costituito in molti luoghi comunità e colonie libere.
Questo è accaduto in Svizzera, in Francia ed anche in America.
Questo esperimento dovrebbe essere allargato e il suo allargamento ci concederebbe di poter dare a queste comunità una rappresentanza organica. Che cosa vuol dire una rappresentanza organica? Vuol dire creare degli organi che rappresentino esclusivamente le masse degli emigrati. Al legislatore futuro spetterà naturalmente di precisare i particolari. Non è questo il luogo per scendere nei dettagli. In generale si può prevedere la creazione di un Consiglio di rappresentanti delle comunità italiane all’estero, Consiglio di rappresentanti che si raduni periodicamente in Italia e rappresenti tutti gli italiani viventi all’estero nella loro molteplice varietà, nella loro concordia discorde. Una proposta di questo genere, come è stato già ricordato, è stata formulata nei Congressi degli emigranti del 1908 e del 1911. Questi congressi italiani all’estero hanno proposto che si formassero degli organismi rappresentativi che portassero la voce dei milioni di italiani all’estero e che di questi organismi rappresentativi alcuni fossero temporanei ed altri permanenti. Accanto al su accennato Consiglio di rappresentanti potrebbe esservi una delegazione che curi l’attuazione dei desideri da esso espressi. Per di più nei principali centri di emigrazione, in Francia, negli Stati Uniti, nel Brasile e in Argentina potrebbero esservi altre delegazioni permanenti.
In questo modo noi potremmo avere una rappresentanza organica delle masse degli italiani residenti permanentemente all’estero, una rappresentanza organica che avrebbe naturalmente un valore molto maggiore di quello che risulterebbe solo dall’esercizio del diritto elettorale.
A questa rappresentanza noi potremmo dare dei poteri di carattere consultivo, ma di un grande valore. Sarebbe la voce di tutti i nostri connazionali, di tutti i nostri concittadini all’estero, concittadini che finalmente si sarebbero liberati dalla caporalistica pressione fascista e dall’autorità consolare come era esercitata durante il fascismo, autorità che rispondeva molto a quella di un commissario prefettizio o di un commissario regio in un comune. Queste nostre comunità all’estero sono in coscienza come dei comuni, ma comuni che non hanno libere rappresentanze né amministratori eletti dalla massa degli emigrati. Hanno avuto per tutti gli anni del dominio fascista, e del resto li hanno avuti anche prima, degli amministratori che sono stati imposti dal Governo centrale e che quasi sempre non rappresentavano gli interessi, le idee, le aspirazioni della grande massa degli amministrati.
Quando noi avremo introdotto un principio di vita autonoma nelle nostre comunità all’estero, quando avremo assicurato a queste nostre comunità all’estero la rappresentanza organica e disciplinata dei loro interessi, sia pure sotto forma di voto consultivo, noi avremo ben operato per il mantenimento del collegamento fra le masse emigrate all’estero e il nostro Paese, collegamento al quale è affidata in grandissima parte la possibilità per la Repubblica italiana di continuare ad esercitare presso gli italiani all’estero la propria influenza benefica e di progresso. (Applausi).
PRESIDENTE. È iscritto a parlare l’onorevole Giolitti. Ne ha facoltà.
GIOLITTI. Onorevoli colleghi. Di tutti gli articoli fin qui esaminati dalla nostra Assemblea, questi del Titolo IV mi sembrano i più precisi e quadrati, i più sobri e limpidi. L’intero titolo si presenta come un sistema coerente e bene equilibrato di diritti e doveri, tale da sodisfare, come non sempre è avvenuto per i Titoli precedenti, bisogna riconoscerlo, anche un senso ed un gusto giuridico raffinato.
La felice formulazione di questi articoli dal 45 al 51 – ed è anche significativo che così ampia materia si sia potuto costringere in così breve numero di articoli – questa felice formulazione è dovuta al fatto, forse, che qui i legislatori si son trovati a muoversi su un terreno più solido e più sicuro, ad elaborare dei concetti che sono ormai profondamente radicati nella coscienza civile e politica di ogni uomo libero, e che sono ripetutamente convalidati, d’altra parte, anche dall’esperienza storica. E per questo penso che il Titolo IV è esente da quegli elementi programmatici così frequenti in altri Titoli e che, seppure giustificati ed anzi opportuni ed inevitabili, tuttavia non costituiscono un pregio giuridico.
È felicemente esente inoltre questo Titolo da quel certo tono paternalistico ed al tempo stesso rivendicativo che traspare in altre formulazioni della nostra Costituzione. Questi articoli sanzionano e registrano trasformazioni già in atto, conquiste già raggiunte, risultati già conseguiti: nella fattispecie, i diritti che il popolo italiano ha già conquistato con la lotta di liberazione e con la lotta vittoriosa per la Costituente e la Repubblica. Bisogna render merito alla Commissione per aver raggiunto una tale precisione e appropriatezza di formulazione in queste norme che regolano gli istituti fondamentali di una moderna repubblica democratica parlamentare. E questo, d’altra parte, contribuirà, io penso, a far sì che in una materia così importante, essenziale e delicata, i contrasti tra correnti politiche ed ideologie diverse possano essere ridotti al minimo, e si raggiunga in questa materia così fondamentale la massima larghezza di consensi.
Avendo espresso, a nome del mio Gruppo, il consenso che diamo in linea generale agli articoli del titolo IV del progetto della Commissione, desidero attirare l’attenzione dell’Assemblea Costituente su alcuni problemi che non sono contemplati nella formulazione del progetto, e per i quali manca una soluzione concreta, o del tutto adeguata. Distinguiamo anzitutto un primo gruppo di articoli, che vanno dal 45 al 48, i quali formulano i diritti del cittadino di partecipare democraticamente alla direzione della cosa pubblica. Sono questi gli articoli attraverso i quali si regola l’esercizio della sovranità popolare, articoli, quindi, che stabiliscono il fondamento della democrazia, in quanto appunto autogoverno da parte del cittadino. In un secondo gruppo possiamo distinguere gli articoli che vanno dal 49 al 51, dove vengono stabiliti i doveri che scaturiscono da questi diritti, doveri che si affermano in quanto prima sono stati garantiti i corrispettivi diritti. Sono doveri di difesa della Patria, della fedeltà alle istituzioni repubblicane, e il dovere – espresso nell’emendamento aggiuntivo, proposto da un nostro collega, prima in merito al Titolo precedente e poi trasferito in questo Titolo – di pagamento dei tributi.
Vengo all’esame dei problemi che non trovano, a nostro avviso, adeguata soluzione: mi riferisco all’articolo 45, dove è stabilito il requisito della maggiore età, nella norma costituzionale, per l’esercizio del diritto di voto. Ora su questo argomento, io ed il mio Gruppo riteniamo che possa essere più opportuno, anche se non si vuole sin da ora nella norma costituzionale dare, diciamo, un attestato di maturità alla gioventù italiana – che ha dato prova di coscienza civile, di coscienza patriottica e di coscienza politica nella lotta partigiana, e nella guerra, di liberazione – se non si vuole dare questo attestato, ripeto, io credo che si possa dare per lo meno il beneficio della sospensiva, e non precludere con la norma costituzionale quella che potrà essere una diversa norma stabilita dalla legge. Perciò io, a nome del mio Gruppo, propongo un emendamento che tende a rinviare alla legge normale questo requisito dell’età necessaria per l’esercizio del diritto di voto: «Sono elettori tutti i cittadini di ambo i sessi che hanno raggiunto l’età stabilita dalla legge». Osservo d’altra parte che autorevoli Commissari della prima Sottocommissione – gli onorevoli Cevolotto, Tupini, Basso e Togliatti – avevano condiviso questo criterio.
Segue poi la questione del voto, concepito come «dovere civico e morale», per usare l’espressione del progetto di Costituzione. Ora, qui mi sembra che in un certo qual modo riappaia quel tono – sia detto senza intenzione di dispregio – predicatorio che qualche volta abbiamo sentito riecheggiare in altri Titoli e da cui questo Titolo ha il pregio di essere esente. Ma, d’altra parte, domando: che valore giuridico ha una formulazione di questo genere: «dovere civico e morale»? Mi pare che la stessa formulazione manifesti una certa esitazione del legislatore al riguardo. E che cosa è poi un diritto che è al tempo stesso un dovere? Del resto, questa esitazione appare anche un po’ negli stessi redattori dell’articolo quando, nel secondo comma, hanno parlato di voto e non di diritto di voto, per aggiungere poi subito dopo che il suo esercizio è un dovere. Evidentemente, la contraddizione sarebbe stata troppo palese. Il diritto di voto appare soltanto nel terzo comma, e, per giustificare questo abbinamento di diritto e dovere, si è ricorso anche, come risulta dagli atti della Sottocommissione, a delle raffinatezze giuridiche, e da un Commissario è stato detto che il diritto è quello di essere iscritti nelle liste elettorali ed il dovere è quello di esercitare il diritto di voto. Comunque, mi pare che queste acrobazie, alle quali è stato necessario ricorrere per sostenere l’obbligatorietà del voto, dimostrino le difficoltà di sostenere un simile concetto.
Mi pare poi che si possa fare quest’altra osservazione: proprio la non obbligatorietà del voto è in un certo senso un correttivo a quella che è l’eguaglianza astratta del diritto di voto, vale a dire che non affermando l’obbligatorietà del voto e lasciando alla libera volontà del cittadino l’esercizio di questo suo diritto, si viene a dare, in un certo senso, un peso anche alla qualità, e cioè si dà un valore allo spirito di attività, di iniziativa del cittadino che vota, a differenza di quello che voterebbe soltanto perché obbligato, per un impulso passivo, per una costrizione esterna. Ed anche in questo senso mi pare che il non sancire l’obbligo del diritto di voto possa concorrere a rendere più democratico l’esercizio di questo diritto. Ed è perciò che, anche a proposito di questo comma, il mio Gruppo presenta un emendamento nel quale il secondo comma dell’articolo 45 risulta così formulato:
«Il voto è personale ed eguale, libero e segreto», sopprimendo la seconda parte: «Il suo esercizio è dovere civico e morale».
Una formulazione che, a nostro avviso, ha una notevole importanza e concorre a dare un senso moderno a questa parte della nostra Costituzione, è quella dell’articolo 47, dove a noi pare importante il riconoscimento specifico che viene dato al diritto di organizzazione dei cittadini in partiti politici. È un concetto, dicevo, che risponde ad un criterio più moderno della democrazia, e, se vogliamo, accoglie anche una istanza che era stata formulata, in una dotta relazione del collega democratico cristiano La Pira, quella del pluralismo, della considerazione cioè dei diversi gradi di organizzazione sociale in cui il cittadino esplica il suo diritto, esplica la sua partecipazione alla vita pubblica.
Però a questo proposito, cioè a proposito di questo articolo 47, noi crediamo che sarebbe prematuro oggi andare oltre questa semplice formulazione del riconoscimento specifico del diritto di associazione dei partiti politici, anche per la considerazione che, nella ancora instabile situazione politica del nostro Paese e negli instabili rapporti di forze fra i partiti, noi pensiamo che una formulazione più avanzata, come quella che si trova proposta nell’emendamento dell’onorevole Mortati, possa determinare uno svantaggio a danno dei partiti di minoranza, fornendo l’occasione di abusi da parte dei partiti più forti. Per queste ragioni, noi crediamo che la menzione dei partiti nel testo della Costituzione non debba andare al di là della formulazione predisposta dalla Commissione all’articolo 47 del progetto medesimo.
Dobbiamo poi esprimere il nostro pensiero sull’articolo 49, il quale ha dato luogo alle discussioni più approfondite che si siano fatte a proposito di questo Titolo. Il nostro pensiero è che il servizio militare obbligatorio rappresenti indubbiamente una conquista democratica. Non è a caso che vediamo formulato questo principio già nella Dichiarazione dei diritti del 1789. L’affermazione di questo principio va intesa in tutto il suo significato e va collegata con l’articolo 6 già approvato, che stabilisce che l’Italia ripudia la guerra come mezzo d’offesa; e va considerato questo obbligo del servizio militare anche in relazione con la seconda parte, con lo stesso secondo comma, come pure con l’ultimo, dell’articolo 49, allorché si dice che il militare non viene pregiudicato nel suo lavoro e nell’esercizio dei diritti politici, ecc. Se noi teniamo presenti tutti i riferimenti che si ricollegano alla affermazione del servizio militare obbligatorio, possiamo dire che nella Repubblica democratica italiana il servizio militare obbligatorio rappresenta anche un mezzo di educazione civile e politica del cittadino. Ma è necessario per questo che sia mantenuto l’ultimo comma. Dico questo per controbattere l’osservazione fatta da alcuni colleghi dell’altra parte, quando si è detto che questo riferimento, questo avvicinare l’aggettivo «democratico» alla parola «esercito» significherebbe, in certo senso, sottomettere l’esercito ad una ideologia politica, significherebbe mescolare l’esercito alla politica, portare la politica nell’esercito. Qui si adopera l’espressione «spirito democratico»; mi pare che sotto questa espressione non si possa vedere adombrata nessuna particolare ideologia politica. Mi pare che proprio un’affermazione di questo genere, proprio l’adozione di questo termine «spirito democratico» dimostra che qui si vuole semplicemente avere questa garanzia: la garanzia di quello che è il denominatore comune di tutti i partiti che hanno diritto di parlare e di far sentire la loro voce in una libera Assemblea, in una Assemblea democratica come questa.
Io ho sentito poco fa le suggestive proposte che ha fatto l’onorevole Calosso a proposito della posizione di neutralità che dovrebbe assumere l’Italia. L’onorevole Calosso ha usato questi due termini: pacifismo assoluto e neutralità perpetua. Ora, se sul primo termine mi pare che dovremmo fare le più ampie riserve, perché è collegato con un atteggiamento politico pienamente condannato dalla storia passata e recente, il termine «neutralità perpetua» può essere anche attraente, può anche indicare una direttiva di politica estera, se vogliamo. Non è questa, comunque, la sede né il momento per discutere di ciò. Però mi pare che questo non escluda affatto, non sia in contraddizione con l’affermazione dell’obbligatorietà del servizio militare, giacché – è la storia che lo dimostra – proprio una certa potenza militare, una discreta potenza militare, una organizzazione militare efficiente è quella che garantisce la neutralità. La neutralità della Svizzera in questa guerra è stata garantita appunto dall’efficienza militare del suo esercito. Ciò non significa che sia stato quell’esercito a costituire un baluardo insuperabile, ma è stato certamente un fatto che ha garantito in qualche modo la possibilità di questa neutralità. D’altra parte, proprio per l’osservazione che faceva Calosso, che la guerra è oggi una guerra totale, proprio questo ci dimostra che in una guerra di questo tipo, che travolge tutto e tutti, anche il piccolo non può rimanere assente, anche il piccolo deve avere una certa possibilità di manovra, e quindi entra nel gioco dei grossi. D’altronde, se dovessimo accettare una volta per sempre questa considerazione, che in un conflitto di colossi bisogna rimanere assenti, allora dovremmo addirittura dire che la nostra guerra di liberazione, la nostra guerra partigiana è stata perfettamente inutile, è stata un inutile massacro che non ha portato nessun frutto. Io credo che, invece, appunto un’organizzazione democratica, una forma democratica di organizzazione militare possa essere la migliore garanzia, anche se si vuole una efficace ed utile neutralità.
Quanto al giuramento, di cui troviamo menzione nell’articolo 51 della Costituzione, anche a questo riguardo sono state fatte delle obiezioni ed alcune osservazioni.
Voglio limitarmi semplicemente a dire che, a nostro avviso, il giuramento di cui all’articolo 51 è perfettamente coerente con lo spirito di tutto questo Titolo, che precisamente (e noi approviamo questa impostazione) colloca nella coscienza del cittadino la base, la garanzia della democrazia. Non è una formalità, come è stato detto; non è una formalità un giuramento quale è quello di cui si parla nell’articolo 51; giacché non è un giuramento che viene fatto a persone, ma è un giuramento a istituzioni democratiche volute dal popolo e quindi legato precisamente alla sovranità popolare.
Questo appello alla coscienza del cittadino che, come dicevo, è proprio nello spirito del Titolo quarto e che costituisce un po’ il fondamento solido, la radice, in cui si annida la garanzia ultima, estrema della democrazia, trova un’espressione solenne nella formulazione del secondo comma dell’articolo 50. La garanzia essenziale del regime democratico è infatti l’autogoverno, che è fondato evidentemente sul senso di responsabilità, sulla coscienza morale e politica del cittadino. Ora, questa ultima ratio deve essere invocata precisamente quando la Repubblica e la Costituzione corrono l’estremo pericolo: il pericolo cioè di essere violate dai pubblici poteri. È dunque necessario, se vogliamo mantenere il significato profondamente democratico che la nostra Costituzione riveste, mantenere un appello di questo genere, specie quando, come nel caso nostro, la Costituzione si forma dopo esperienze storiche quali quelle che noi abbiamo di recente attraversato.
È necessario perciò formulare in sede di Costituzione il principio che la resistenza all’oppressione è diritto e dovere del cittadino. Ciò è anche indispensabile, vorrei osservare, dal punto di vista educativo: nelle scuole, dove i principî fondamentali della nostra Costituzione dovranno essere illustrati ed insegnati, i giovani dovranno infatti sentire questo appello che viene rivolto, perché siano garantite le nostre istituzioni democratiche, alla loro dignità e libertà di uomini. È indispensabile anche, io penso, dal punto di vista giuridico, Al dovere infatti del cittadino di essere fedele alla Repubblica e alla Costituzione, come sancisce il primo comma dell’articolo 50, deve corrispondere, proprio per il coerente equilibrio di diritti e di doveri felicemente raggiunto in questo Titolo, deve corrispondere il diritto del cittadino di resistere alla violazione che venga perpetrata da parte dei pubblici poteri.
Io credo, d’altra parte, che il sancire nella Costituzione tale diritto significhi precisamente consacrare la legalità, nell’ambito della Costituzione stessa, di un atto che altrimenti potrebbe apparire come una frattura nella validità della Costituzione, la quale invece, con tale norma, assicura, in certo senso, la propria vita di fronte ad una violazione che determini la legittima resistenza.
E possiamo noi, onorevoli colleghi, dimenticare che proprio da un simile atto di resistenza all’oppressione sono nate le libere istituzioni democratiche che stiamo consacrando nella nuova Costituzione? Questa Costituzione, questa Repubblica democratica che noi edifichiamo, sono state fondate appunto dalla resistenza meravigliosa che il popolo italiano ha opposto all’invasore. Noi dobbiamo alla lotta di questo popolo, al sacrificio dei suoi figli migliori, questa possibilità che oggi ci è data di discutere, di definire, di perfezionare con metodo democratico le nostre libere istituzioni. Affermando nella Costituzione il diritto di resistenza all’oppressione, noi consacriamo l’atto di nascita, profondamente nazionale e popolare, della Repubblica democratica italiana. (Applausi a sinistra).
Presidenza del Presidente TERRACINI
PRESIDENTE. È inscritto a parlare l’onorevole Terranova. Ne ha facoltà.
TERRANOVA. Onorevole Presidente, onorevoli colleghi, la materia che forma oggetto del quarto Titolo del progetto di Costituzione, quantunque di notevole importanza, se considerata nei suoi singoli temi, dà l’impressione di essere stata messa insieme a caso, probabilmente perché non si è potuta collocare altrove. I sette articoli che costituiscono il Titolo dei «rapporti politici», infatti, riguardano argomenti alquanto eterogenei e spesso senza evidente nesso logico fra loro. Il diritto al voto, l’accesso ai pubblici uffici, il servizio militare, l’obbligo del giuramento per talune categorie di persone, insieme con altri diritti e doveri del cittadino, sono enunciati in maniera, che può sembrare astratta ed altresì retorica.
C’è bisogno di dire, parlando dei partiti, che si debba concorrere con essi a determinare la politica nazionale «con spirito democratico»? Si tratta di una spiegazione ovvia, che non trova materia in un testo costituzionale.
Altrettanto appare per lo meno privo di un intrinseco significato il terzo comma dell’articolo 49, che afferma lo spirito democratico dell’esercito. Ma non è di tali questioni che intendo specificamente occuparmi, lasciando che di esse trattino i competenti di diritto pubblico e di ordinamento militare. Io desidero in modo speciale richiamare l’attenzione di questa Assemblea sul valore politico e sociale dell’articolo 50, e, particolarmente, del secondo comma di tale articolo.
L’articolo 50 vuole riassumere, evidentemente, ciò che in senso stretto può definirsi il rapporto che intercede tra il cittadino e lo Stato. Nel primo comma si precisano i doveri del cittadino verso la Repubblica: doveri di fedeltà, di osservanza delle leggi, di adempimento delle funzioni che gli sono affidate.
Nel secondo comma, invece, si indica al cittadino ciò che deve fare quando ritenga che i suoi diritti siano conculcati e le sue libertà violate.
Il cittadino, dice espressamente questa progettata norma, deve resistere all’oppressione. Ha il diritto ed il dovere, anzi, chiarisce la citata norma, di resistere all’oppressione.
Si tratta, come è evidente, di codificare il diritto di resistenza; un diritto che è, come è noto, assai discusso e che qui si presenta sotto un profilo di eccezionale gravità. Orbene, ritengo che sia un nostro preciso obbligo valutare la portata di una siffatta determinazione; ritengo doveroso che ci si soffermi sul suo significato, sulle sue proiezioni, sulle sue possibili interpretazioni ed applicazioni, prima di assumerci la responsabilità, veramente grave, di approvarla. Intanto conviene subito chiederci: si parla di resistenza. Ma di che specie di resistenza si tratta? Un insigne Maestro di diritto pubblico, il nostro illustre e venerato collega Vittorio Emanuele Orlando, ha dedicato a siffatto tema un suo lavoro che, benché scritto quand’era ancora giovanissimo, è tuttora ricco di dottrina e di sapienza politica e giuridica. Io, che sono inesperto in materia, non potevo trovare, credo, un punto di orientamento migliore di quel libro. Ebbene, nel suo saggio, Vittorio Emanuele Orlando distingue tre tipi di «resistenza» sul piano giuridico e politico: la resistenza individuale, la resistenza collettiva legale e la resistenza collettiva rivoluzionaria. La norma sancita dall’articolo 50 parrebbe riferirsi al tipo della resistenza individuale. Vi si dice, infatti, che il cittadino è tenuto a resistere all’oppressione. Ma non è sulla parola che occorre soffermarsi. Il testo non parla di speciali e determinati casi di violazione di diritti; il testo parla di poteri pubblici che violino le libertà ed i diritti, parla di oppressione, che non può essere esercitata che nei confronti di tutti i cittadini o per lo meno di una gran parte di cittadini. Deve, pertanto, escludersi che si voglia parlare di resistenza individuale; deve ritenersi invece che si tratti di resistenza collettiva. Resta da stabilire se debba intendersi tale resistenza come legale o come insurrezionale; se cioè essa possa e debba effettuarsi con mezzi offerti dalla legge o con mezzi violenti. Tutto lascerebbe presumere che la formula adottata debba interpretarsi più nel secondo significato che nel primo.
In realtà l’articolo parla di «poteri pubblici» che violino le libertà fondamentali ed i diritti garantiti dalla Costituzione. Chi sono i poteri pubblici che possono effettuare tele violazione in modo da provocare la resistenza, in modo che si possa parlare di oppressione? Sono le alte cariche dello Stato, sono le Assemblee legislative, sono i componenti del Governo.
Ma il progetto di Costituzione prevede già, per l’eventuale violazione delle norme costituzionali, sanzioni gravissime contro tali alte personalità, che si rendessero colpevoli di simile infrazione alla Costituzione. L’articolo 85 precisa che il Capo dello Stato può essere messo sotto accusa per alto tradimento o per violazione della Costituzione. L’articolo 90 determina che possono essere posti sotto accusa dalle due Camere il Primo Ministro ed i Ministri per atti compiuti nell’esercizio delle loro funzioni; e fra tali atti, evidentemente, devono comprendersi anche e soprattutto quelli relativi al pieno adempimento delle norme costituzionali.
È prevista, infine, al Titolo VI, una Corte Costituzionale a garanzia, nei confronti di tutti i poteri dello Stato, della piena e fedele osservanza della Costituzione. Questa è già, dunque, la resistenza legale sancita, giustamente e saggiamente, dal nostro testo, che in tale materia si dimostra più avanzato di altri testi stranieri anche recenti. Ed è opportuno, è necessario, premunirsi da eventuali abusi che i pubblici poteri, dai più alti ai più bassi, potrebbero compiere a danno della libertà, dei diritti civili e politici dei cittadini; è doveroso, e direi persino di suprema importanza, effettuare tale garanzia, perché la libertà è troppo cara per poterne permettere la manomissione da parte di un gruppo o di un partito; ed i diritti civili sono troppo preziosi per rischiare di perderli. Nessuno di noi potrebbe nutrire dubbi di sorta su una siffatta necessità, nessuno di noi potrebbe avere perplessità od incertezze al riguardo.
Ma altro è affermare la garanzia legale, quella che istituti chiaramente determinati ed organi particolarmente adatti possono e devono effettuare; ed altro è aprire la porta alla rivolta, al disordine.
Perché questo rischio include l’articolo 50: il rischio di una rivoluzione sempre possibile. Infatti, è assai evidente che con l’approvazione di tale articolo, qualunque sommossa, qualunque rivolta può essere non solo «lecita» ma «legittima». Che cosa si vuole intendere por violazione delle libertà fondamentali? Che cosa soprattutto si vuole intendere per diritti garantiti dalla Costituzione? Se bisogna dare un significato alle parole ed un senso preciso alle disposizioni del testo costituzionale, ebbene, dobbiamo convenire che questo progetto enuncia molti diritti, che in teoria possono essere assai apprezzabili, ma di cui non potremmo garantire in pratica l’attuazione da parte della Repubblica.
Giorni or sono è stato approvato l’articolo 31, che riconosce a tutti i cittadini il diritto al lavoro. Indubbiamente si tratta di una affermazione coraggiosa, la cui portata sociale è di grande rilievo. Ma se e quando un tale diritto non sarà operante – e non potrà essere, almeno per ora, operante – se e quando vi saranno masse di disoccupati che busseranno invano alle ponte dello Stato per aver lavoro, per godere del pratico esercizio di un diritto chiaramente riconosciuto, allora si potrebbe anche parlare di un diritto che, quantunque garantito dalla Costituzione, si considererebbe violato; allora si potrebbe dire che c’è oppressione di una classe o di una oligarchia e si renderebbe legittima la resistenza e quindi la rivoluzione. Perché, onorevoli colleghi, resistenza significa, nel modo con cui è stato redatto il secondo comma dell’articolo 50, nello spirito del testo proposto, resistenza significa principio di rivoluzione, una rivoluzione che può avere, nell’intenzione migliore, per fine la rimozione dell’ostacolo che si frappone alla realizzazione del diritto conculcato, delle libertà offese; ma che quando scoppia, non ha più un fine preciso, perché le rivoluzioni si può forse sapere come e perché cominciano, ma non si sa mai come finiscono. Ora, nessuno di noi ha paura di battersi per la difesa della libertà e dei diritti; nessuno di noi paventa per viltà le conseguenze, che l’approvazione dell’articolo 50 potrebbe importare. Io non critico questo articolo per amor di reazione o per spirito conservatore o retrivo. Io dico soltanto che è inopportuno, mentre il nostro paese ha bisogno di ordine e di concordia, iniziare la nostra nuova esistenza di Stato democratico con una Costituzione, la quale contenga la scintilla della ribellione e del disordine; lo considero inopportuno, innanzi tutto per ragioni immediate, ma altresì per ragioni che discendono dal convincimento, che un ordine fondato sulla morale cattolica e sui principî sociali cristiani non può riconoscere agli individui la libertà di opposizione violenta ai pubblici poteri. La dottrina cattolica, che non può non costituire la base ed il fondamento della nostra costruzione sociale e civile, è dichiaratamente contraria ad intromettere nella società il disordine e la rivolta in permanenza. La dottrina morale cattolica ammette che solo in casi eccezionalissimi, riusciti vani tutti gli altri mezzi pacifici, può esserci una resistenza attiva contro una insopportabile tirannia; fedele, in ciò, al pensiero di S. Tommaso il quale, nella certezza che una resistenza con le armi generi quasi inevitabilmente avversità assai peggiori dei mali causati dalla tirannia, insegna che qualora si tratti di oppressione non del tutto eccessiva ed insopportabile, il popolo deve subirla in pace, in vista delle imprescindibili esigenze del fine pubblico. Ed è a tale dottrina cattolica, che anche recentemente si sono ispirati molti di noi, tanti di noi, nella lotta per la libertà contro la tirannide e per la giustizia contro l’oppressione politica e civile.
La rivolta, onorevoli colleghi, non è mai codificabile, non può costituire materia di Costituzione. La rivolta, quando è largamente sentita, quando scaturisce dalla coscienza, quando esplode dai fatti, non ha un codice che la regoli, non ha un testo che la disciplini. Essa è da prima guidata, a seconda dei casi, dal sentimento oppure dagli istinti, e poi è giudicata dalla storia, che è quanto dire dal giudizio dei posteri e dagli avvenimenti successivi. Con l’approvazione dell’articolo 50 noi ci assumeremmo la tremenda responsabilità di dare un crisma di legittimità alla rivoluzione, ad ogni rivoluzione, perché si potrà sempre parlare, da parte di chi che sia, di libertà o di diritti violati; ci assumeremmo, soprattutto, la responsabilità ancora più grande di favorire qualsiasi specioso pretesto per dar corso ad ogni sorta di rivoluzione. Ma le rivoluzioni, ripeto, non stanno, non possono stare né nelle Costituzioni, né nel diritto. Esse stanno nell’imprevisto della vita sociale, stanno nei meandri, anche se logici e talvolta stupendi, della storia. Togliamo dal testo di questo progetto ogni scintilla d’odio, ogni motivo di lotta politica e sociale. Omettiamo il secondo comma dell’articolo 50.
Purtroppo la realtà sociale è già tanto impregnata di rancore e di violenza, da non consentirci di rinfocolare né l’uno né l’altra. Se fosse possibile, io suggerirei di mettere al posto del secondo comma dell’articolo 50 una invocazione alla solidarietà ed alla pace. Ma ciò forse non è possibile. Ed allora, se non possiamo dire una parola d’amore e di concordia, non diciamo neppure parole che suonano di richiamo all’attrito sociale, alla guerra civile, alla contesa fratricida. Altrimenti un giorno, forse non lontano, i nostri figli potrebbero maledirci per aver instillato odio e non umana simpatia, per aver seminato rovine in luogo di promuovere una pacifica ricostruzione. (Applausi al centro e a destra).
PRESIDENTE. È inscritto a parlare l’onorevole Caporali. Ne ha facoltà.
CAPORALI. Farò alcune considerazioni per ciò che riguarda in modo particolare il voto degli italiani all’estero. I colleghi, onorevole Piemonte e onorevole Schiavetti, hanno esaurientemente esaminato e approfondito la questione. Mi limiterò quindi ad insistere sulla opportunità che l’Assemblea Costituente abbia a riconoscere questo diritto. È necessario anche che il legislatore di domani consideri come gli italiani, i quali hanno acquistato la nazionalità di un altro paese, non debbano essere considerati, come faceva il fascismo, dei rinnegati. Li deve invece considerare come dei figli i quali, al di là dei confini della Patria, continuano a portare in alto il sentimento del nostro Paese e continuano, in modo particolare, ad essere degni figli della Madre Italia. Noi dobbiamo rovesciare su questo tema il vapore, cioè dobbiamo facilitare a mezzo di disposizioni legislative appropriate l’acquisizione del diritto al voto ai nostri emigrati e, nel tempo stesso, dobbiamo fare in modo che disposizioni legislative, anche esse appropriate, rendano possibile il ritorno, per gli emigrati naturalizzati, alla nazionalità italiana quando la richiedano.
In modo particolare queste facilitazioni devono essere riservate agli italiani appartenenti alla emigrazione transoceanica, poiché per quelli dell’emigrazione continentale dell’Europa o dell’Africa, ciò è più facile.
Occorre, soprattutto, considerare l’apporto che gli italiani all’estero offrono e compiono, sul terreno della solidarietà e della propagazione dei principî di pace e di democrazia.
L’onorevole Piemonte e l’onorevole Schiavetti hanno parlato dello sforzo titanico che hanno compiuto gli italiani all’estero.
Il fascismo ha disonorato tutto in Italia; ha cercato di disonorare anche l’emigrazione italiana, quando pretendeva che i nostri compatrioti andassero all’estero con le aquile romane nella valigia.
Gli italiani all’estero, malgrado la diffamazione ventennale del fascismo, hanno saputo conquistarsi un posto di onore; e non ho bisogno di dimostrare tutto quanto essi hanno compiuto in Europa.
Mi soffermerò solo un istante per dirvi che in Francia, nel Lussemburgo, nel Belgio, i lavoratori italiani nelle miniere e negli alti forni, hanno compiuto dei miracoli di energia e di attività.
I nostri contadini nel sud-ovest della Francia hanno saputo rendere produttivi e prosperi migliaia di ettari di terreno, che erano stati abbandonati. E questo è titolo di gloria e di onore del proletariato italiano, dei lavoratori italiani dei campi e delle officine, che non si deve obliare.
L’Assemblea Costituente si onorerà, se darà a questi italiani la possibilità di potere essere rappresentati nel Parlamento italiano.
Io ho poi presentato, a mio nome personale, come vecchio pacifista integrale e intransigente – ed avrei avuto piacere che fosse stato presentato dalla parte democristiana dell’Assemblea – un emendamento sugli obiettori di coscienza.
È un problema che non deve essere preso alla leggera.
Obiettare vuol dire compiere un atto meritorio, condannando quello che la guerra ha di più crudele e di più orribile e vuol dire soprattutto negare la guerra.
E siccome il problema merita profonda considerazione, io avrei voluto trattarlo dinanzi ad una Assemblea numerosa.
Tuttavia, mi limiterò a dirvi che gli obiettori di coscienza non sono degli irregolari, essi non devono confondersi con i disertori; essi chiedono di servire la Patria in umiltà, rivendicando il diritto di non tradire i principî spirituali, ai quali sono legati dalle loro convinzioni umane.
«Tu non ucciderai»: questo meraviglioso imperativo del Vangelo cristiano è stato troppo dimenticato dagli uomini, perché non debba essere ripreso oggi da tutti coloro i quali, al di sopra e al di là d’ogni credenza, ne facciano uni simbolo di pace e di solidarietà umana.
Coscrizione obbligatoria od esercito mercenario? Ma i termini si equivalgono. Quando la Patria lo esigesse, tutti i suoi figli dovranno compiere il loro dovere.
Sia accordato almeno agli obiettori di coscienza, agli avversari tenaci e irriducibili di sempre della violenza che è arida ed infeconda, bestiale e selvaggia, sia essa individuale o collettiva, la possibilità di cooperare nella difesa del suolo della Patria nei settori dell’assistenza e della solidarietà che hanno comuni i rischi e i dolori, ma senza il triste onere di portare le armi fratricide.
La guerra si combatte negandola e disonorandola.
Gli obiettori di coscienza costituiscono la pattuglia avanzata della nuova umanità che si ostina a credere nella maestà della vita contro tutte le forze che tendono a degradarla. (Applausi).
Sui lavori dell’Assemblea.
PRESIDENTE. Il seguito di questa discussione è rinviato a domani.
PESENTI. Chiedo di parlare.
PRESIDENTE. Ne ha facoltà.
PESENTI. Signor Presidente, onorevoli colleghi, domani alle ore 10, nell’Aula Magna dell’università, si apre la prima Conferenza nazionale dei centri economici della ricostruzione.
Vorrei pregare il signor Presidente di non porre una seduta mattutina per mettere i colleghi in condizione di poter partecipare a questa riunione.
PRESIDENTE. Gli onorevoli colleghi hanno inteso la richiesta dell’onorevole Pesenti.
Se non vi sono osservazioni, resta stabilito che si terrà seduta domani nel pomeriggio, alle 16.
(Così rimane stabilito).
Avverto che i deputati ancora inscritti a parlare nella discussione generale sono tre, e che domani potrà parlare il Relatore onorevole Umberto Merlin.
La seduta termina alle 20.
Ordine del giorno per la seduta di domani.
Alle ore 16:
Seguito della discussione del progetto di Costituzione della Repubblica italiana.