Come nasce la Costituzione

GIOVEDÌ 29 MAGGIO 1947

ASSEMBLEA COSTITUENTE

CXXXIII.

SEDUTA DI GIOVEDÌ 29 MAGGIO 1947

PRESIDENZA DEL PRESIDENTE TERRACINI

indi

DEL VICEPRESIDENTE TARGETTI

INDICE

Comunicazione del Presidente:

Presidente                                                                                                        

Progetto di Costituzione della Repubblica italiana (Seguito della discussione):

Presidente                                                                                                        

Cifaldi                                                                                                              

Mannironi                                                                                                        

Nobile                                                                                                               

Lussu                                                                                                                

La seduta comincia alle 16.

SCHIRATTI, Segretario, legge il processo verbale della seduta precedente.

(È approvato).

Comunicazione del Presidente.

PRESIDENTE. Comunico che, in sostituzione dell’onorevole Ravagnan, dimissionario, è stato chiamato a far parte della Commissione per la Costituzione l’onorevole Giolitti.

Seguito della discussione del progetto di Costituzione della Repubblica italiana.

PRESIDENTE. L’ordine del giorno reca il seguito della discussione del progetto di Costituzione della Repubblica italiana.

Riprendiamo la discussione generale del Titolo quinto, seconda parte.

È iscritto a parlare l’onorevole Cifaldi. Ne ha facoltà.

CIFALDI. Onorevoli colleghi, siamo dunque alla parte più costituzionale della Costituzione, come si è espresso l’illustre Presidente dei settantacinque, onorevole Ruini, nei suoi «lineamenti» a chiusura della discussione generale; alla parte che, oltre ad essere la più costituzionale, è anche la più interessante. Essa impone la necessità di essere scrupolosi ed attenti, perché non investe lo studio di uno dei congegni del sistema costituzionale, i quali abbiano fatto più o meno esperienza in Italia o altrove, ma riguarda l’esame di un problema nuovo che interessa la vita, non per un periodo breve, della Nazione, ma l’avvenire per lunghi e lunghi decenni, incidendo nella struttura e nell’essenza della Nazione stessa. «Un problema di alta e decisiva importanza», diceva l’onorevole Ruini. Decisiva importanza davvero, perché, come osservavo, attiene all’essenza e alla struttura dello Stato, onde vien fatto inizialmente di domandarsi se, nelle congiunture attuali, poteva sembrare un problema che dovesse essere oggi discusso e impostato. È stato già rilevato da oratori assai insigni, che esso non è sentito dal popolo italiano e tanto meno ne viene richiesta la soluzione con carattere di urgenza e di necessità, non facendo parte di quell’insieme di idee e di esigenze che urgono oggi su tanta parte del nostro orizzonte economico e politico. Vorrei dire all’onorevole Sullo, che ciò non dipende già dal fatto che i vari partiti non ne abbiano discusso in assemblee e comizi, perché, invece, del problema si è ampiamente discusso e perché, se non fosse altro, di esso ci si è un po’ tutti occupati in riunioni numerose, a proposito della costituzione delle varie Regioni, creando un ampio e vasto dibattito. Il fatto è che esso non era sentito come una necessità, come un bisogno, da parte della Nazione e da parte del popolo, che ha avvertito l’esigenza di un decentramento amministrativo, questo sì, ma non già della costituzione di un sistema regionale che possiamo chiamare addirittura federalistico. Nelle attuali congiunture, quando tanti bisogni e tante esigenze richiedono una soluzione, questo problema può rappresentare una ragione di profondo dissenso, una ragione di profonda frattura pel tessuto della Nazione, già pervaso da tante crepe, scosso da tante esigenze e lacerato da tanti dolori. Costituisce qualcosa di veramente preoccupante ed allarmante, onde è stato possibile inizialmente domandarci se davvero sia tempestivo proporre simile problema. È esatto che si può rispondere che qui siamo nella sede della nuova costituzione da dare allo Stato italiano, vale a dire che ci troviamo nella sede tipicamente opportuna, ma è anche esatto che si possa ritenere – a mio modesto avviso – non essere il momento in cui si debba lanciare nella bilancia dei già aspri dissensi e nella foga delle competizioni, una questione, non dico completamente immatura, ma certo non completamente approfondita in tutte le sue parti e nella sua essenza. Giacché bisogna porre subito questa distinzione: che, altro è il decentramento amministrativo ed altro è il progetto che oggi noi stiamo esaminando, il quale, così come viene a noi, non è un progetto di decentramento amministrativo, ma un progetto che costituisce effettivamente un sistema di federalismo. Il che è assai diverso.

E mi sia consentito osservare, se è necessario di rifarci rapidissimamente alla storia, che tutto il Risorgimento italiano è stato improntato ad un concetto antifederalistico. Questo Risorgimento si è formato nella evoluzione del concetto unitario, quando praticamente sorse la possibilità di sperare nella costituzione di una patria italiana, nella possibilità di unire le sparse membra di questo nostro territorio. E fu solamente allorché la rivoluzione francese, affermatasi nella difesa di principî immortali, attraverso le armi portò, in tutta l’Europa, una speranza di vita libera e un anelito di possibilità di indipendenza democratica; fu solamente allorché la Convenzione formò la Francia una e forte, e la Francia, per difendere i suoi territori, poté marciare portando sul suo vessillo, attraverso tutta l’Europa, questa idea di libertà e di indipendenza. Onde l’idea della libertà e della indipendenza italiana si è formata ed è venuta crescendo e poi si attuò, nel concetto unitario ed accentratore.

Fu la Convenzione che riuscì a salvare la Francia dai dissensi interni e che spezzò gli assalti delle nazioni che volevano spegnere quella fiamma di indipendenza e di libertà; fu la Convenzione, durante il periodo in cui Napoleone era primo console, che poté iniziare in Europa, la marcia di libertà e di democrazia. E fu così che i letterati, i poeti, i pensatori e gli uomini politici nostri pensarono, sognarono, chiesero, la formazione di una Patria italiana, in questo anelito di unità e non già di federalismo. E il Monti nel 1797 chiedeva questo a Buonaparte: che avesse legato in un solo fascio le sparse membra della Patria e ne avesse fatta una sola forza unitaria. Ancora ripetendo nel 1802: «Muor divisa la forza, unità sola resiste a tutti». Così anche Fantoni nel 1806. Quando poi uomini come Botta, come Gioia, come Foscolo, dovettero rispondere ad un quesito sul migliore reggimento per rendere felice l’Italia, tutti si espressero secondo il concetto della unità repubblicana. E Foscolo ribadì tale opinione nel discorso per l’Italia e poi nella orazione a Buonaparte.

E quando, nel 1814, Napoleone era all’Elba, un gruppo di congiurati italiani, a capo dei quali pare fosse Pellegrino Rossi, gli chiese di porsi alla testa del movimento di unificazione italiana, dimostrando così che l’idea di fare l’Italia era ormai avviata sul binario della unità, abbandonando quella del federalismo. Così, come apprendiamo dal Cantù, strettamente unitaria fu, nel 1820, la Società segreta Ausonia, nella cui bandiera era il motto di unire tutti gli italiani in una Repubblica una ed indivisibile, in un concetto cioè di unità e di una sola entità. Idea che fu accolta poi dal primo Parlamento italiano, sventolò sul tricolore, fu consacrata dal sangue, quando cominciarono i movimenti insurrezionali: nel primo Parlamento italiano, in quello di Napoli, del 1821, allorché si discusse se dovesse intitolarsi Regno. d’Italia il novello stato costituzionale, sul tricolore allorché il nome di Regno d’Italia fu inalberato e gloriosamente tenuto a battesimo a Fossano e ad Alessandria, da Santorre di Santarosa.

Il sud ed il nord d’Italia si abbracciarono in quello sforzo unitario che ebbe il suo completamento nella luce di Vittorio Veneto, dopo un secolo di sacrifici e di lotte. Onde, quando, onorevoli signori, viene affermato un concetto di federalismo, si fa riferimento ad un concetto che è in contrasto con tutto lo sforzo unitario della costruzione della nostra Patria, della nostra indipendenza a nazione libera ed una. Così le parole di Cattaneo o di Ferrari rimasero isolate; ma principalmente è doveroso ricordare che insorse contro di loro Mazzini, cioè l’apostolo della libertà italiana, la fiamma della luce più pura che possiamo ricordare a protezione di questa nostra Italia, di questa nostra idea. E Mazzini scriveva: «Il federalismo non è né può essere che capriccio intellettuale di letterati imprudenti o sogno inconscio di aristocrazie locali, accarezzato da mediocrità ambiziose alle quali l’ampia sfera nazionale minaccia oblio». E Mazzini diceva che non intendeva il concetto di Roma e Lombardia, Roma e Toscana, Roma e Sicilia; ma che sentiva invece il concetto di Roma e Milano, di Roma e Firenze, di Roma e Palermo, perché intendeva che vi dovesse essere libertà di Comune e unità d’Italia, di questa Italia: «una d’arme, di lingua, d’altare, di memorie, di sangue, di cor».

Onde, senza andare oltre nell’esame di quello che è stata la forza di creazione della indipendenza italiana, noi sappiamo che questa è cominciata e si è incanalata e si è attuata in un solco di unità, in un concetto di indivisibilità, nel ripudio di ogni concetto federalistico. Quando a distanza di decenni noi ci troviamo, dopo avvenimenti così gravi, così tragici, a dover ricostruire il tessuto della nostra Nazione e a dover operare per il suo avvenire fecondo e pacifico, abbiamo il diritto di domandarci se veramente si guardi al bene del Paese propugnando o credendo nella riforma di cui ci occupiamo.

È stato detto anche da autorevolissime persone che non vi è preoccupazione, non vi dovrebbe essere preoccupazione neppure all’idea di una nazione federata composta di più parti, dappoiché tante nazioni vivono col sistema di repubblica federativa senza che nulla minacci la loro indipendenza, la loro unione, il loro avvenire.

Ma credo che per poter fare dei paragoni, bisogna trovare delle unità che si somiglino; credo che per poter avere un giudizio sicuro sia necessario trovare entità che, per lo meno, abbiano rapporti di vicinanza. Si è parlato di quello che possa essere l’Unione delle Repubbliche socialiste sovietiche, di quello che è la Repubblica jugoslava, di quello che è la Repubblica degli Stati Uniti d’America e altre Repubbliche federali. Ma mi pare che sia veramente pericoloso o inesatto fare raffronti del genere.

Come è possibile paragonare la nostra Italia con la Federazione delle Repubbliche socialiste sovietiche, la quale ha una estensione di oltre 20 milioni di chilometri quadrati e 193 milioni di abitanti, la quale è composta di 16 Stati, che effettivamente sono tanti Stati a sé stanti per bisogni, per tradizioni, per estensione, per costruzione intima di esigenze etniche e culturali?

Come è possibile non tener presente che di questi 16 Stati vi è solamente la Russia vera e propria, la quale ha 16 milioni di chilometri quadrati e 109 milioni di abitanti, e l’Ucraina con 587 mila chilometri quadrati e 46 milioni di abitanti, divisa in 26 provincie? Come è possibile pensare un paragone con questa Federazione di repubbliche, della quale fanno parte Stati come l’Estonia, la Lituania, la Lettonia, l’Armenia?

E, appunto perché la Costituzione di cui ci occupiamo rappresenta un pericolo federalista, essa rappresenta un pericolo di divisione per il nostro Paese in 22 repubblichette e non già una riforma a carattere di decentramento amministrativo.

È, ripeto, assolutamente errato il paragone con altri Stati che per la loro grandezza e per le loro peculiari caratteristiche possono, con giovamento, mantenere una Costituzione federalistica, poiché appunto risultano dalla federazione di diversi Stati fra di loro. Potrebbe essere interessante ed utile esaminare eventualmente quale sia la struttura interna di ciascun Stato, ma non già parlare di questa federazione di repubbliche.

Così, per quanto riguarda la Jugoslavia, posto pure – il che io assolutamente non credo – che si tratti di uno Stato più progredito del nostro – è evidente che, anche in questo caso, si tratta di una federazione di Stati del tutto differenti, quali la Serbia, la Croazia, la Slovenia, la Bosnia-Erzegovina, il Montenegro. Si tratta di diversi Stati che sono federati per ragioni proprie, i quali per ciò stesso non possono essere governati da un solo sistema e da un solo potere centrale.

Che se poi ci si voglia riportare all’esame, al paragone degli Stati Uniti d’America, maggiormente allora le differenze basilari emergono, perché il raffrontare la nostra Italia, la quale, fra Ancona e Livorno, non misura che appena 200 chilometri, con gli Stati Uniti che vanno dal Pacifico all’Atlantico e risultano di ben 48 Stati, con 131 milioni di abitanti ed 8 milioni di chilometri quadrati, mi pare sia cosa fondamentalmente assurda e quanto mai ingiusta.

Ma si usa fare il paragone inverso e si cita spesso l’esempio della Svizzera. Ora, a me pare che anche questo esempio non possa calzare in alcun modo, perché la Svizzera non ha una popolazione neppure uguale a quella della Lombardia, giacché supera di poco i 4 milioni di abitanti, mentre la Lombardia ne ha 5 milioni e mezzo; così, mentre la Lombardia ha nove provincie, la Svizzera ha ventidue cantoni ed è composta di popoli che parlano tre lingue.

Il che val dire che, se volessimo anche noi seguire un sistema cantonale, dovremmo addirittura costituire centinaia di cantoni e non già le ventidue regioni che ci vengono proposte.

Credo quindi che si debba senz’altro abbandonare questa strada; credo che si debba ritenere che ogni paese, ogni nazione, ogni Stato, hanno una loro particolare struttura, hanno l’essenza che la loro storia ha creato. Se quindi è possibile e utile andare a guardare quello che avviene presso altri Stati, non è però assolutamente il caso di farlo con l’intento di copiarne le intime strutture, con l’intento di trasferirne, in un altro ordinamento, la peculiare essenza.

La storia non può ripetersi a somiglianza per tutte le nazioni, perché le varie, le infinite forze che hanno contribuito a formare un dato Stato, sono state ancor’esse che hanno contribuito a forgiarlo in quella determinata maniera e non in un’altra.

Oggi dunque, che noi ci troviamo a dover dare all’Italia una Costituzione, non possiamo non soffermarci allarmati e preoccupati di fronte al Titolo quinto del progetto.

Molte, a mio avviso, sono le preoccupazioni che si presentano nell’esame di questo Titolo V; e vien fatto di domandarsi qual è stata la ragione che ha consigliato, che ha imposto che si chiegga e si propugni una simile riforma.

È stato detto che è necessario creare e formare un clima di democrazia, che è necessario creare una classe dirigente, che è necessario liberare tutti dal giogo statale, dall’oppressione e dal controllo centrale, che è necessario creare un organo il quale veda da vicino i bisogni delle singole zone e possa più rapidamente provvedere ad impostarli e risolverli.

Ora, io credo che per quanto si attiene alla necessità di formare una classe dirigente, di formare persone le quali si intendano di amministrazione e comprendano le esigenze della democrazia, non vi possa essere un banco di prova più efficiente, non vi possa essere una palestra più efficace di quella che è la lotta per l’amministrazione comunale. Il Comune rappresenta effettivamente il campo nel quale si viene formando la possibilità e la capacità di una efficiente e libera amministrazione, nel quale si conoscono e si valutano e si apprezzano le esigenze locali e nel quale ciascun cittadino comincia a intendere che il concetto democratico è soprattutto concetto di rispetto, di sopportazione, di apprezzamento dell’altrui idea e dell’altrui convincimento. Onde, se il Comune viene mantenuto e allargato nella sua competenza di ente autarchico, si crea già quella possibilità di formare una classe la quale sappia provvedere all’amministrazione e quindi possa, adusandosi a questi concetti e a queste necessità, avviarsi poi ai più alti scalini per raggiungere la possibilità di partecipare alla vita centrale.

Quando si parla della necessità di distruggere tante reti di imposizioni e di interventi statali, di consentire un respiro più libero e meno afoso alla vita di tutti, quando si parla della necessità di allentare, di eliminare tanti ceppi che legano come una ragnatela invisibile, ma formidabile la vita di ogni angolo d’Italia al centro, rendendola a volte asfittica e pesante, si dice cosa giusta, si chiede cosa esatta. Ma a questa necessità, a questo anelito di libertà e di indipendenza, a questo respiro che i polmoni della periferia chieggono di potere avere, si deve provvedere dando ai Comuni quella maggiore indipendenza e autonomia che consente ad essi di vivere senza controlli immediati e continui, senza il paternalistico intervento del Governo nella forma che attualmente esiste.

Ma se si pensa di poter formare questa classe dirigente, di poter risolvere i problemi locali, di poter eliminare questi vincoli con la creazione dell’ente regione, io credo in coscienza, onorevoli colleghi, che si dice una cosa perfettamente ingiusta e non rispondente alle vere esigenze; perché l’ente regione, così come è congegnato, non rappresenta che una nuova forma di burocrazia la quale non va a vantaggio delle esigenze dei Comuni ma serve anzi ad appesantirle.

È necessario poi precisare e definire che cosa si chiede anche in rapporto alla riforma di cui ci occupiamo. Si dovrà mantenere in vita l’Ente provincia o sopprimerlo? Perché questo è un punto essenziale.

Secondo il progetto, la Provincia scompare come ente autarchico; e non è esatto che la provincia ha così pochi compiti che può scomparire senza lasciare alcun rimpianto.

Già al riguardo noi abbiamo sentito esprimere diverse opinioni. Ci sono coloro che si sono affermati difensori dell’Ente provincia, come, per esempio, l’onorevole Rescigno. Vi è stato invece chi, pur appartenendo al suo Gruppo, come l’onorevole Sullo, ha affermato che la provincia è un ente del quale non si avverte l’esistenza. Vi è stato l’onorevole Einaudi il quale ha affermato che nel suo Piemonte l’Ente provincia non rappresenta qualche cosa di vitale, onde scegliere tra provincia e regione è perfettamente indifferente.

Vi è stato l’onorevole Gullo Fausto, il quale ha affermato che, per quanto riguarda il Mezzogiorno d’Italia, la provincia è un ente che ha lunghe tradizioni, salde radici e rappresenta interessi effettivi.

Sicché vediamo che quando ci avviciniamo all’esame di questo problema, a considerare se cioè questo Ente provincia che comunque sussiste da quasi un secolo e servizi ha reso, debba o meno restare, se cioè questa parte nella Costituzione debba rimanere così come prevista o essere modificata, abbiamo grande perplessità e contrasto di opinioni. Perché non è già che l’Ente Provincia non abbia sostanziali incarichi, non risponda ad esigenze effettive. Non deve solo provvedere alle strade provinciali e agli esposti e ai mentecatti, ma è da aggiungere, come è stato ricordato in questa sede, che ha avuto l’incarico della lotta antitubercolare, di quella antitracomatosa, e la cura per la sanità generale della popolazione, onde sono a lei affidati compiti di grande importanza. Ora supponiamo che l’ente scompaia, che questa provincia non vi sia più come ente autarchico, che rimanga semplicemente come un ente burocratico, al quale possono venire affidati dei compiti e degli incarichi da parte dell’ente regione, e allora noi vediamo che la situazione di tutti i componenti la popolazione di ogni regione, delle singole provincie che compongono una regione, viene ad essere singolarmente ed effettivamente aggravata, rimanendo evidente l’osservazione dell’onorevole Rescigno, che un cittadino il quale dovesse chiedere il ricovero di un mentecatto o il ricovero di un esposto in un brefotrofio, dovrebbe portarsi al capoluogo di regione, capitale di questo ente. Né è fondato il diniego che veggo fare dall’onorevole Persico. Mi permetta osservare l’onorevole Persico che l’ente provincia così come previsto dall’articolo 107 del nostro progetto di Costituzione non è un ente autarchico, ma rimane un ente semplicemente amministrativo, un ente cioè di esecuzione di deliberazioni prese dall’Ente regione, senza potestà deliberativa, onde né l’ente provincia così come previsto e neanche la Giunta provinciale mi pare abbiano facoltà alcuna a provvedere e deliberare per le ipotesi prospettate.

Si suggerisce di provvedere colla possibilità di deleghe, come dice l’onorevole Persico, ma in questa maniera è facile osservare che praticamente rimane in vita l’Ente provincia, perché se l’Ente provincia, per virtù di delega, può provvedere a tutto quanto provvede oggi, non avremo che una duplicazione di poteri, non avremo che un ente regione e un ente provincia, i quali dovranno esplicare gli stessi incarichi ed adempiere le stesse mansioni. Si creerà una nuova e vasta formidabile burocrazia.

E sia consentito osservare che il problema non è di scarsa importanza anche su questo punto. Mi pare che nessuna traccia sia rimasta nei lavori preparatori per quanto riguarda il modo di poter finanziare l’ente regione, in che maniera poter provvedere alle sue esigenze, alle esigenze strutturali di esso, onde se rimane e dovrà rimanere l’ente provincia, come da tante parti d’Italia è invocato e come è stato chiesto in un congresso tenutosi a Firenze, noi avremo che la burocrazia crescerà del doppio.

Troveremo che per poter provvedere a tutte le materie di grande importanza di cui all’articolo 109, 110 e 111 bisognerà creare veri e propri ministeri, perché non è possibile pensare che in materie che vanno dall’energia elettrica alla beneficenza alla polizia locale e così via, si possa provvedere con funzionari di poca o minima preparazione; bisognerà provvedere invece con una struttura la quale costituirà nella capitale di ciascuno di questi piccoli Stati dei veri e propri ministeri.

CONTI. Capoluogo, non capitale.

CIFALDI. È quasi una capitale.

CONTI. Non gonfiamo.

CIFALDI. Non si tratta di gonfiare, ma di osservare con la maggiore obbiettività. È un problema che non investe principî di carattere etico, ma d’indole amministrativa. Si tratta di osservare se è possibile che un ente il quale debba provvedere (art. 109) alla polizia locale, alle fiere, ai mercati, alla beneficienza pubblica, alla scuola artigiana, alla urbanistica, alle strade, agli acquedotti, ai lavori pubblici, ai porti lacuali, alla pesca nelle acque interne di carattere regionale, alle torbiere, cioè a una vasta legislazione primaria che non solo deve tener conto della legislazione dorsale della Nazione, ma altresì delle altre 21 legislazioni le quali si andrebbero formando (ed io mi auguro che non si formeranno) possa ciò fare senza dei veri Ministeri.

Per quanto riguarda poi le materie dell’articolo 110 e cioè ancora legislazione primaria: assistenza ospedaliera, istruzione tecnico-professionale, biblioteche di enti locali, turismo ed industria alberghiera, agricoltura e foreste, cave, caccia, acque pubbliche ed energia elettrica, acque minerali e termali, tramvie, linee automobilistiche regionali, bisognerà evitare che vi possano essere dei contrasti con le legislazioni delle altre regioni (chiamiamole così, per adesso) e quindi la necessità, inevitabile, di veri e propri ministeri che dovrebbero avere funzionari e competenti per le varie branche che ho elencato. Che dire poi della legislazione di integrazione di cui all’articolo 111? E per tornare al punto circa la provincia, se si lascia la provincia, modificando il progetto, si crea una duplicazione, perché resterà la provincia come ente delegato e avrà perciò tutti i poteri che dovrà avere la regione. Resterà la provincia con poteri inferiori e minori? Bisognerà indicarlo. Non vi sarà addirittura provincia, mantenendo il progetto così come è stato redatto? Avremo quegli inconvenienti gravi che mi sono permesso di ricordare e sui quali ci si potrebbe soffermare a lungo.

Ma quando guardiamo la regione così come è stata costituita nel progetto stesso, viene fatto di affermare che in quella maniera veramente scompaiono le provincie, e gli interessi delle singole provincie vengono trascurati e soffocati, non protetti. Consentite che io faccia il semplice ricordo della Campania alla quale appartengo per essere di Benevento e che affermi come veramente sia difficile pensare, ritenere e credere che, quando le provincie di Benevento, di Avellino, di Caserta, di Salerno e di Napoli siano unite in un solo ente regionale, gli interessi di ciascuna di esse vi possano venir equamente tutelati e che i bisogni, le speranze, le aspirazioni di queste province, possano veramente essere attuate e ci possa essere in questo nuovo ente la vis necessaria a creare nuove energie e valorizzare quelle latenti.

Ritengo di potere affermare, senza tema di smentita, che saremmo di fronte ad un vero e proprio assurdo.

Ad esempio, la provincia di Napoli ha un milione e settecento mila abitanti, ammontare che le altre provincie della Campania insieme (Salerno, Benevento, Avellino e Caserta) superano di poco; cosicché, quando una di queste quattro provincie minori andrà a chiedere al Consiglio regionale una strada, un acquedotto, un ospedale, si troverà contro le maggiori esigenze del capoluogo o della capitale di questo piccolo Stato.

Ritengo che questa preoccupazione, che io manifesto per la Campania, esista anche per altre regioni. Del resto, abbiamo la riprova nell’esperienza del Provveditorato per le opere pubbliche. Non è un ente a carattere regionale: il Provveditorato dipende dal Ministero dei lavori pubblici. Eppure, si sono verificate gravissime pretormissioni in danno delle piccole provincie. Per restare alla Campania, queste hanno dovuto competere, per la ripartizione delle somme assegnate dal Ministero alla Campania, con la città e provincia di Napoli; ed hanno trovato in esse non già incomprensione o ostilità, ma esigenze più dirette ed immediate e non hanno potuto resistere a cogenze, che venivano da agitazioni popolari di masse di disoccupati; il Provveditorato, pressato dal prefetto di Napoli e anche da ministri, ha dovuto cedere a quelle esigenze onde le somme, che dovevano essere ripartite fra le varie provincie, sono state in gran parte assorbite dal capoluogo della regione.

Cosa accadrà, quando ci troveremo dinanzi al Parlamento regionale, nel quale il numero dei rappresentanti delle piccole provincie sarà esiguo nei confronti dei rappresentanti della provincia più grande?

Bisognerebbe pensare e sperare in una coalizione delle piccole, per poter pareggiare la forza della provincia, che fa cerchio intorno al capoluogo.

È preoccupazione grave, gravissima; ne avete avuta eco in quest’aula nei giorni scorsi. Avete visto in che modo ciascun rappresentante politico interpreta gli interessi della propria zona, a proposito di questo ente.

L’onorevole Rescigno chiedeva che Salerno venisse staccata dalla Campania, per formare una nuova regione con Avellino. L’onorevole Sicignano, della stessa zona di Salerno, si opponeva a questo concetto.

E per quanto riguarda Avellino, l’onorevole De Mercurio, di parte repubblicana, e l’onorevole Vinciguerra, di parte socialista, si sono opposti vivamente.

Vedete che questa composizione in una regione, che poteva far pensare ad una certa organicità, viene ad essere negata da coloro che vi vivono.

PERSICO. È campanilismo.

Una voce. È realtà.

CIFALDI. Vedete come nell’austerità e nella serenità di quest’aula, ritorna tremendo il problema, che io sottopongo alla vostra attenzione, perché vedete che ancora un altro deputato, per esempio di Avellino, l’onorevole Preziosi, insorge contro la affermazione di campanilismo dell’onorevole Persico.

PERSICO. Risolvete, se riuscite. È tutto qui: vedere se è meglio risolvere sul luogo o qui.

CIFALDI. Sono molto onorato della sua interruzione. Ma che significa?

Mi sono permesso di dire, che secondo il mio avviso, bisogna giungere a un decentramento amministrativo con gli enti che ci sono, non creare un ente nuovo, il quale non è un ente di decentramento amministrativo inteso nel concetto istituzionale, ma costituisce veramente, propriamente, la creazione di uno Stato federalistico, composto di più province, (Rumori) per ciascuno di essi. Sono in creazione, con questo progetto, 22 piccoli Stati, i quali sono formati insieme da una federazione fra di loro per creare poi la Repubblica italiana.

Ma torniamo a guardare, mi permetterò di aggiungere, se avete la benevolenza di sopportare ancora un po’, quelli che sono i compiti di ciascuna regione e vedremo come effettivamente siamo di fronte ad un problema di enorme gravità, a un problema, come diceva l’onorevole Ruini, «di decisiva importanza».

Dunque mi son permesso di fermare la mia attenzione, chiedendo quella vostra, benevola, su questi due punti:

1°) incertezza sul se dover lasciare la regione senza provincia, oppure mantenere la provincia come ente autarchico e quindi creare una specie di doppione;

2°) osservare se così come è stata concepita e costruita nella sua struttura la regione già non contenga i germi di contrasti insanabili, i germi di antitetica forza, il danno di volontà diametralmente opposte.

Come si farà, per esempio, consentitemi che rimanga ancora nel campo della regione campana, a poter pensare che questa specie di Parlamento regionale possa legiferare con assoluta tranquillità ed indipendenza sui bisogni di una parte prettamente agricola come può essere Avellino, Caserta e Benevento, quando essa regione ha delle esigenze formidabili per la sua vita, in campo diametralmente e perfettamente opposto? per le grandi industrie, per il Porto di Napoli?

Come sarà possibile convogliare i proventi delle entrate (che non sappiamo ancora quali siano) su un piano di perequazione, su un piano di giustizia distributiva? Come sarà possibile poter riconoscere l’utilità di un’opera che una di queste provincie richiederà a questo ente, quando vi è questo insanabile contrasto campanilistico alle radici, come dice l’onorevole Persico?

Egli forse riuscirà solamente ad affermare che non ci deve essere questo campanilismo ma non impedirà che risorga fatalmente e dolorosamente con un contrasto che si va sempre più acuendo. Creeremo con questo Ente una forza di propulsione od invece una forza disgregatrice che non farà altro che aprire invidie ed opposti interessi pericolosi?

Ancora oggi, ad un secolo di distanza, è rimasta una traccia di dissensi e rancori per città che non riuscirono ad essere Provincia nel 1870 e dopo, e noi stiamo ravvivando quei rancori con una fiamma veemente per quella che è la funzione delle regioni.

Ancora oggi vi sono nostalgie per principi che regnarono prima dell’unità nazionale.

E al riguardo vi racconterò un fatto singolare.

Ospite in casa di un mio amico, il signor Rummo – cito il nome per evitare che si possa pensare ad una… spiritosa invenzione – ebbi il piacere, mesi or sono, di conoscere una gentildonna napoletana, moglie di un direttore generale del Ministero del commercio, Rossetti, la quale candidamente si dichiarò, a proposito del problema istituzionale, legata alla casa dei Borboni, dico dei Borboni, e parlava del conte di Calabria e del conte di Siracusa con un’attualità, una immediatezza di riferimenti, come un appassionato di casa Savoia avrebbe potuto parlare di Vittorio Emanuele o di Umberto.

Altro dunque che unità così saldamente raggiunta, da poter consentire un esperimento di partizione.

Sentiamo la voce forte ed alta del Friuli che chiede di essere regione a sé. Quella non meno ardente per l’antico e glorioso Sannio.

Abbiamo sentito la voce dei Dauni, dei quali l’onorevole Dugoni si meravigliava che si facesse il nome, nome del quale non aveva mai sentito parlare.

I Dauni pare che abitassero il Gargano donde scesero nella fertile pianura. E a proposito di questa regione, si vanno prospettando le più svariate ragioni per poterla giustificare. Abbiamo assistito alle aspirazioni della regione Tuscia per la quale io confesso la mia ignoranza e la mia meraviglia perché non avevo mai saputo che Orvieto non volesse stare con l’Umbria e potesse affermare di dover stare con Viterbo per poter formare la Tuscia la quale, secondo un giornale locale, è una delle più antiche, delle più note e delle più ricche regioni d’Italia.

Ora, che sia antica e che sia nota, può non esservi dubbio, ma che sia una delle più ricche d’Italia non lo credo.

Per la Tuscia non ho rossore di dichiarare che ne ignoravo l’esistenza. E ho visto anche le richieste di altre regioni e le proposte le più varie al riguardo. Per esempio, si diceva che la Basilicata, o meglio la Lucania, dovesse essere divisa, assegnando Matera ad una regione e Potenza ad un’altra. Onde le ire dell’onorevole Reale.

Insomma, io desidero affermare questo concetto che quando si è andato a far sorgere l’ente regione come ente autarchico, si è creato un vespaio straordinario, si sono create ragioni di dissenso profonde non solo nell’Italia meridionale e centrale ma anche nell’Alta Italia, dove, dicevo, il Friuli richiede un riconoscimento (Rumori) e Mantova non sa dove deve andare, e dove si crea una Emilia Lunense, di modo che dovunque sono sorte difficoltà, sono nate ragioni di dissenso e non di consenso. E pensate, ove si venisse a creare effettivamente questo ente regionale, la difficoltà che sorgerebbe dalla convivenza in quanto tanti sarebbero i rancori fra coloro che vedrebbero accolta e coloro che vedrebbero rigettata la loro istanza.

Ed ancora, onorevoli colleghi, consentite che per l’esame dell’intero problema, io mi soffermi su un altro punto e cioè sulla preoccupazione di un contrasto, dell’urto che può sorgere fra regione e regione, per la tutela dei rispettivi interessi.

Noi abbiamo una dolorosa prova in quello che è successo in questi ultimi tempi, cioè nel momento di più grave pericolo e di più grave ambascia della nostra Nazione. Abbiamo visto nel 1943-44-45, nei momenti in cui la solidarietà era più indispensabile che mai fra regione e regione, abbiamo visto far ricorso a quelle forme protezionistiche con le quali ogni provincia tentava chiudersi nel suo piccolo ambito per sottrarsi alla concorrenza di altre zone o per sottrarsi alla avidità o al bisogno di altre limitrofe provincie. Ed allora, nei vari campi, ciascuna provincia ha chiesto ed ottenuto dal rispettivo prefetto che fosse vietata l’esportazione di questo o di quel genere.

Ora io domando, se da questo che è emerso così evidente, per cui Foggia, per esempio, vietava l’esportazione della favetta, o Savona vietava l’esportazione del legname, io mi domando se da questo non debba trarsi un elemento da renderci pensosi, in quanto si debba temere domani, costituite le regioni, una tutela mal interpretata dei vari interessi; perché l’onorevole Einaudi aveva voglia di affermare ieri che nessuna regione può pensare alla propria autosufficienza, e che nemmeno il nostro globo, quando venisse scoperto un altro mondo, potrebbe più chiudersi in sé stesso, non potendo trascurarsi che, di fronte ai bisogni ed alle proprie esigenze, ogni paese è tentato di ricorrere al provvedimento più facile e diretto, e cerca di evitare di esportare alcuni generi necessari in quel momento, e ricorre a provvedimenti ed a barriere proibite dal progetto di Costituzione…

AMBROSINI. Ma a questo proposito l’articolo 113, all’ultimo comma, è tassativo!

CIFALDI. Siamo d’accordo, cari colleghi, questi provvedimenti sono proibiti dal nostro titolo V, ma tutto questo non servirebbe a nulla quando la violazione potesse effettuarsi attraverso la volontà di un Parlamento. E poiché nulla vi è mai di nuovo, consentite che io ricordi l’episodio che si legge nei Promessi Sposi, laddove Renzo apprende dal cugino Bartolo come Bergamo aveva dovuto inviare un dottore, «ma di quelli!», nientedimeno Lorenzo Torre, a Venezia per ottenere l’annullamento dei decreti dei rettori di Verona e di Brescia che avevano chiuso i passi e vietato il passaggio, nel loro territorio, delle duemila some di grano comprate previggentemente da Bergamo per combattere la carestia. Ed oggi noi abbiamo assistito a province che soffrivano la fame, ed abbiamo assistito a decreti prefettizi di blocco emanati da altre provincie nonostante le disposizioni inviate dal centro, con cui si proibiva di potere… proibire certe esportazioni. (Interruzione dell’onorevole Ambrosini). E finché si dovrà ricorrere, dagli organi in contrasto, all’Alta Corte, per annullare eventuali illeciti provvedimenti della regione, io penso che passeranno molti anni… (Interruzione dell’onorevole Ambrosini) per attendere l’annullamento. E neanche vale dire che occorre ai provvedimenti della regione il visto del Commissario del Governo, perché quando questo rappresentante del Governo venisse pressato da bisogni e da esigenze locali di grandi città, come ad esempio Napoli, Milano, Genova, egli non si potrebbe rifiutare, ed accoglierebbe senz’altro qualunque richiesta. Questo pericolo l’ha denunciato ieri l’onorevole Gullo: quando avrete creato l’organo, voi non potrete certo impedire che esso aumenti i suoi poteri e che vada acquistando una sempre maggiore autorità.

C’è poi un’altra preoccupazione, gravissima – che io intendo sottolineare alla vostra attenzione –, in materia di esportazione di mano d’opera. È accaduto ad esempio, in questi ultimi tempi, che il Prefetto di Matera ha proibito che andassero a lavorare in quella provincia operai disoccupati della zona vicina, di Andria, onde è sorto grave conflitto e grave preoccupazione perché si è maggiormente aggravata la miseria di lavoratori disoccupati della zona vicina cui ho accennato. Io temo che questo pericolo sia codificato nel titolo V della Costituzione, perché, onorevoli colleghi, all’articolo 113, ultima parte è detto: «Non possono istituirsi dazi d’importazione e d’esportazione, o di transito fra l’una e l’altra regione; né prendersi provvedimenti che ostacolino in qualsiasi modo la libera circolazione delle persone e delle cose». Ora io penso, che con la dizione libera circolazione si potrebbe intendere di escludere il soggiorno, onde potrebbe evitarsi il soggiorno in una regione di persone indesiderate. E quando consideriamo le facoltà di legiferazione concesse alla regione, e vediamo che all’articolo 109 è concesso alla regione potestà di emanare norme legislative in materia di: «strade, acquedotti e lavori pubblici di esclusivo interesse regionale», quando vediamo stabilito, all’articolo 112, che «la regione provvede all’amministrazione nelle materie indicate negli articoli 109 e 110», quando si osservi che la regione provvede a legiferare in materia di «polizia locale urbana e rurale», io mi domando come è possibile che, di fronte alla richiesta di una popolazione che chieda di essere esclusivamente impiegata in lavori da eseguirsi con le entrate della propria regione, per la esecuzione di un acquedotto o una strada di esclusivo interesse regionale, io mi chiedo, come possa evitarsi la emanazione di un divieto regionale che neghi lavoro a coloro che, andando da una parte all’altra d’Italia, credano di poter essere dovunque occupati, come liberi cittadini di questa nostra Patria. Mi pare che questa sia una cosa che debba preoccupare, e non è soltanto una fantasia, e perciò bisogna dedicarsi profondamente all’esame di questi articoli. Avremo impossibilità di emigrazione interna di mano d’opera, da regione a regione.

Io desidererei, onorevoli colleghi, dirvi che è tempo di guardare il problema nella sua intierezza, così come è proposto in questo progetto di Costituzione e con la volontà trepidante di vederne tutte le profonde conseguenze.

Questo progetto, così come è compilato, per quanto riguarda la creazione delle autonomie regionali, rappresenta un’arma, un mezzo, con il quale viene disgregata l’unità della Patria italiana. Ed io non ho difficoltà di affermare che in questa maniera si va purtroppo a fare un procedimento inverso rispetto a quello che è stato il procedimento di formazione della nostra Patria. (Commenti Interruzioni).

Noi percorriamo in tal modo a ritroso il cammino dell’indipendenza della Patria per distruggere quello che è stato fatto.

Domandiamoci se veramente creiamo degli enti autarchici o dei veri o propri Stati. (Interruzione dell’onorevole Micheli).

Quali sono gli attributi attraverso i quali noi possiamo vedere se veramente questa preoccupazione esiste o no? Se si creano o meno dei veri e propri stati? Le regioni, come previste, hanno un patrimonio proprio, una facoltà di vasta legislazione, hanno degli organi di esecuzione: ma quello che, sopratutto, mi ha impressionato, è lo spirito, che informa questo progetto, è lo spirito, l’animus, col quale viene interpretato dai suoi fautori, onde se ancora avessi avuto un dubbio fra la necessità di creare un largo decentramento per dare un più ampio respiro alla vita periferica o creare un organo che potesse essere il cavallo di Troia nella nostra unità e indipendenza di Nazione, se questo dubbio avessi avuto, confesso che è stato fugato, onde sono rimasto più che mai fermo nell’oppormi a questo progetto, attraverso le parole degli onorevoli Einaudi e Uberti. Si creano degli enti e degli organi e delle regioni che saranno contrastanti tra loro, per cui si può pensare che in tal modo si evoca addirittura lo spettro della guerra civile. Dobbiamo essere molto cauti ed attenti. Io voglio qui essere anche un po’ esagerato, ma ho inteso parlare di Emilia rossa e di Veneto bianco ed ho inteso eloquenti accenni al concetto di distruzione dell’unità della Patria, della creazione di Stati indipendenti. Quando si dice che ci può essere un’Emilia con regime comunista e un Veneto democristiano…

UBERTI. Non è così, noi abbiamo parlato di amministrazione, non di orientamenti politici.

CIFALDI. Chiedo scusa; ma ho seguito attentamente il discorso dell’onorevole Uberti, come molti dei colleghi qui presenti. E me ne fa fede l’onorevole signor Presidente, se dicevo cosa esatta o meno.

FUSCHINI. C’è il resoconto stenografico.

CIFALDI. Si è detto che in questo modo il popolo avrebbe potuto fare un confronto, per vedere il sistema migliore. Ora, ciò rappresenta un attentato all’unità della Patria. Ma, onorevoli colleghi, si potrebbe dire che questa è una interpretazione di quello che può essere il pensiero di un deputato, autorevole per quanto si voglia, ma isolato. Però, onorevoli colleghi, guardando all’essenza effettiva delle cose, ieri l’onorevole Einaudi diceva che tutta l’Assemblea avrebbe dovuto riformare lo Statuto siciliano, tornando sui passi già compiuti, togliere alla Sicilia quello che la Sicilia considera una delle sue più forti conquiste, vale a dire la possibilità di rifarsi di quello che essa afferma essere stato il dissanguamento subìto per tanto tempo, onde non infrangere l’unità della nazione.

Quali sono le lamentele della Sicilia? È che il denaro delle rimesse dei suoi emigranti in moneta pregiata venisse preso dallo Stato italiano in cambio delle sue importazioni. Cosa si è stabilito nel progetto di costituzione della Sicilia? Ce lo spiegava chiaramente ieri l’onorevole Einaudi: ci ha spiegato che ogni entrata deve rimanere al popolo siciliano e che, anzi, lo Stato debba ancora dare una quota di integrazione allo Stato siciliano, onde il pericolo la preoccupazione addirittura, che la Sicilia potesse battere moneta, avendo essa un corso pregiato rispetto alla lira italiana.

AMBROSINI. Ma qui parliamo delle norme del progetto!

Una voce a sinistra. Devono essere coordinate!

CIFALDI. E allora, si chiedeva che alla Sicilia venisse tolto quello che si è già concesso, perché si pensava, si temeva giustamente che questo potesse dar luogo a richieste da parte delle altre regioni, da parte di ciascuna delle 22 regioni – chiamiamole così – che si vanno a creare.

E ciò è in rapporto alla disciplina del credito e del risparmio di cui all’articolo 111 del progetto.

Ma se noi, onorevoli colleghi, dovremo chiedere…

LA MALFA. Voi liberali avete votato per fare le elezioni subito in Sicilia.

CIFALDI. È esatto, onorevole La Malfa. Vi era una richiesta che partiva da lei per il rinvio delle elezioni. Noi liberali abbiamo votato per fare le elezioni subito, in quanto c’era un impegno con la Sicilia e volevamo provare che questa libera assemblea, eletta per la prima volta con sistema democratico, manteneva l’impegno assunto dalla Consulta. (Commenti). Non avevamo, noi liberali, il pensiero di conquistare una maggioranza nella lotta elettorale in Sicilia: avevamo – come mi permisi di dire con una dichiarazione in quest’aula – solamente bisogno di dimostrare alla Sicilia che si mantenevano gli impegni assunti.

E oggi, se bisognerà tornare su qualche concessione fatta, per mantenere l’unità monetaria della Nazione, la quale è la forza più coesiva che rappresenta l’unità di uno Stato, se questo dovremo fare, sarà necessario dimostrare alla Sicilia che effettivamente non si fanno due pesi e due misure e che, anche nei confronti delle altre regioni si mantiene un concetto perfettamente uguale.

Ed è così, onorevoli colleghi, che noi dobbiamo guardare il problema, che dobbiamo guardare quella che è la portata della regione e delle norme che la devono regolare e costituire, secondo il titolo V di questo progetto.

E quando mi permetterò di ricordare che si chiedeva che dall’articolo 110 venissero tolte le norme a proposito delle acque pubbliche e della energia elettrica, e quelle sul credito e risparmio dall’articolo 111, per quella chiara dimostrazione che ne faceva l’onorevole Einaudi, mi permetterò, in contrapposto, di ricordare anche le parole dell’onorevole Uberti che dava una dimostrazione pratica di quello che può essere il contenuto delle norme previste in questo titolo. Perché quando egli affermava che la banca delle Tre Venezie aveva centinaia di milioni di depositi, egli chiedeva e domandava come e perché ci dovesse essere un organo centrale che potesse togliere una parte di questi risparmi alla regione per investirli di autorità in titoli di stato o in altro modo. E ha detto che le risorse idriche del Trentino, con le quali si facevano correre i treni lungo tutte le ferrovie d’Italia, dovevano rimanere impiegate nella zona di origine per potenziare quelle industrie artigiane!

Così si annienta l’unità di un Paese.

E si può porre questa domanda: quando un Parlamento regionale avrà avuta la possibilità di legiferare su queste materie, quale sarà la forza per ottenere che una parte delle locali energie vada al bene comune?

E sotto un altro punto di vista, in qual maniera onorevoli colleghi, la regione potrà assolvere ai suoi compiti, quando ci troveremo di fronte alle regioni povere, derelitte?

È stato con somma sorpresa – mi si perdoni l’espressione – che ho sentito l’onorevole Zotta fare ieri una strana asserzione, quella cioè che egli tanto più restava fermo nel concetto regionalistico quanto più povere sono le regioni dell’Italia meridionale; e ciò proprio per far sì che esse possano sorgere, stimolando le proprie energie e le proprie attività.

Ma quali energie? Quali attività? Come potrebbe, ad esempio, la Lucania provvedere essa sola alle numerose opere pubbliche di cui abbisogna? In quale maniera potrebbe provvedervi, se essa non ha che la disperazione dei suoi figli?

Nella seduta di ieri, con fervore e con profondità, l’onorevole Gullo ci ha discorso delle condizioni in cui si trova la Calabria: oggi ad esse io aggiungo le condizioni della Lucania, che sono state descritte in maniera così perfetta dal Levi, nel suo «Cristo si è fermato ad Eboli»: basta leggere quel libro per avere un senso profondo di quelle che sono le desolanti condizioni in cui si trovano quelle contrade; ed è proprio leggendo quelle pagine che ci si domanda come sia mai possibile che esistano dei paesi i quali si trovano nella condizione in cui sono ancora oggi Grassano e Guglianello.

LUSSU. Ma Levi è regionalista.

CIFALDI. È vero che, studiando il problema delle autonomie locali, Levi appare molto perplesso e ricordava che un semplice provvedimento in materia di latifondo o di decentramento non avrebbe potuto ritenersi sufficiente; ma è anche vero che coloro i quali, in queste maniera, si sono fermati a studiare il problema delle regioni meridionali sanno e comprendono che non è possibile, senza l’aiuto offerto dallo Stato, senza il concorso di queste energie centrali, risolvere i problemi e i bisogni di queste regioni abbandonate.

CONTI. Ma abbandonate da chi?

CIFALDI. Precisamente dallo Stato, se lei vuole; ma per questo, quando voi portate il problema sul terreno regionalistico, non lo risolvete in modo assoluto.

DOZZA. Lo risolveranno i latifondisti!

CIFALDI. Dallo Stato, se lei vuole, sarà risolto.

PRESIDENTE. Almeno gli onorevoli colleghi che sono d’accordo con l’onorevole Cifaldi potrebbero non interrompere.

CIFALDI. Grazie, onorevole Presidente. Che se, per avventura, questi problemi che non sono stati finora risolti dallo Stato dovessero essere oggi affidati alle forze delle regioni, saremmo veramente caduti nel fondo del sacco, saremmo veramente in condizioni di impossibilità. Noi avremo infatti la regione ricca e avremo la provincia che ne farà parte che non riuscirà a farsi valere nei confronti del capoluogo di questa regione. Noi avremo la regione povera la quale non potrà fare che piani e progetti, perché non avrà la forza di poterli attuare.

E allora in che maniera, onorevoli colleghi, sarà possibile che questa regione, che questa autonomia produca del bene? In che maniera creerà la classe dirigente? In che maniera risolverà i problemi locali? In che maniera essa sarà veramente in grado di attuare il bilancio preventivo che essa farà? Guardiamo la realtà quale è, oggi. Abbiamo un comune, quello di Napoli, che chiede pel suo bilancio preventivo di quest’anno, allo Stato, un contributo di oltre quattro miliardi. Non so che cosa farà lo Stato italiano; se darà i quattro miliardi e seicento milioni che il comune di Napoli ha chiesto. Ma immaginiamo che per ogni comune sia possibile arrivare al pareggio, che la legge del marzo 1947 consentirà agli enti locali di raggiungere il pareggio: ma pensate voi che questo pareggio risolverà i problemi di sviluppo delle regioni, potrà giovare ad una regione come la Lucania? È assurdo pensarlo. Ogni regione povera potrà unicamente pensare con le sue forze alle proprie guardie urbane e campestri; ma non potrà fare altro. Per quello che riguarda le strade, gli acquedotti o gli ospedali, col suo bilancio, essa non potrà fare altro che programmi. Ma, si può obbiettare, c’è la integrazione, di cui all’articolo 123. E chi giudicherà e valuterà l’urgenza, l’utilità, l’opportunità di quei programmi? Chi sarà che darà un giudizio al riguardo? E quando eventualmente sarà stato anche approvato un bilancio il quale preveda una spesa di centinaia di milioni per un periodo di 10 anni, quale sarà quell’ente che li attribuirà? E quale sarà la reazione delle regioni ricche che dovranno provvedere al riguardo?

Fermiamoci a questo punto. Guardiamo a quella che è la quota di integrazione, alla quale molti ritengono di poter ricorrere con sicurezza. Anch’essa costituisce un elemento preoccupante, perché – come già è stato detto – non è possibile pensare che permanentemente le regioni ricche, che tutte hanno grande bisogno di produzione e di espansione, possano adattarsi a sapere che una parte dei loro risparmi, delle loro entrate, vada spesa in questa maniera. E perciò questi problemi corrono il rischio di rimanere per lunghi anni ancora più abbandonati, ancora più sicuramente non risoluti di come non lo siano stati per il passato.

Ma, onorevoli colleghi, consentite che io manifesti una più grave preoccupazione ancora, per quello che possa essere effettivamente, come dicevo, la integrità della Nazione e la possibilità di contrasti gravi tra regione e regione. Leggendo le attività affidate alla regione di cui all’articolo 109 noi troviamo fra le prime quella della «polizia locale urbana e rurale». E sembrerebbe a prima vista che questo fosse qualche cosa di trascurabile importanza, mentre io credo che questo sia il punto più grave e più preoccupante di questa riforma che noi stiamo esaminando. Non è, onorevoli colleghi, che si tratti semplicemente delle guardie campestri, che vengono pagate dalla regione, ma siamo di fronte alla possibilità che ciascuna regione si crei e costituisca dei veri e propri corpi armati, delle vere e proprie milizie.

È questa una preoccupazione che dobbiamo avere e che si ricava precisamente dalla dizione di queste norme. Non è senza ragione io credo che è stato scritto nell’articolo 109 che «la Regione ha potestà di emanare per le seguenti materie norme legislative che siano in armonia con la Costituzione e con i principî generali dell’ordinamento dello Stato – ed ecco, onorevoli colleghi, il punto che mi preoccupa e che mi fa credere quello che dicevo – e rispettino gli obblighi internazionali e gli interessi della Nazione…». Quali obblighi internazionali, onorevoli colleghi, se fra le materie di cui all’articolo 109 che possa interessare dal punto di vista internazionale gli altri Stati non vi è che semplicemente questa della polizia locale urbana e rurale?

Perché al certo non credo che sul piano internazionale possano interessare né la beneficenza pubblica, né la scuola artigiana, né l’urbanistica, né i porti lacuali e le torbiere di ciascuna regione. E allora…

EINAUDI. Vi sono laghi che bagnano coste di stati esteri.

CIFALDI. È troppo poco, onorevole Einaudi! Ma quando si dice «polizia urbana e rurale» e quando si dice all’articolo 112 che la regione provvede all’Amministrazione in queste materie, significa che la regione provvede all’amministrazione della polizia locale urbana e rurale; vale a dire la polizia di zone vaste come la Lombardia o la Campania, vale a dire polizia la quale interessa le metropoli e interessa intere regioni. Polizia significa ordine pubblico, sicurezza; polizia non significa guardia campestre! E questo, onorevoli colleghi, (consentitemi che io insista) tanto più quando viene auspicata non solo per implicito, come si ricava da questo Titolo quinto, ma viene richiesta con più chiara parola l’abolizione del prefetto, quando viene domandato appunto che scompaia quest’organo di collegamento fra gli Enti autarchici e il centro, che scompaia questo rappresentante del potere centrale nella provincia.

E allora, quando questo rappresentante dello Stato scomparirà, quando non rimarrà che la regione con la provincia come ente autarchico di decentramento interno, quando questa regione avrà l’amministrazione della polizia locale urbana e rurale, mi pare che questa preoccupazione non sia una preoccupazione vana ma sia una preoccupazione la quale deve farci pensosi, perché la polizia la quale deve rispettare anche gli impegni internazionali e che interessa una regione come la Lombardia o la Campania è una polizia di migliaia di uomini; e quando questa polizia dipenderà solamente e unicamente da rappresentanze locali e quando è facile prevedere che queste rappresentanze, per varie esigenze, creeranno contrasti e attriti fra loro gravi e paurosi e vi potranno essere scontri fra regioni e regioni, allora consentite che la preoccupazione sorga, allora consentite che io affermi che veramente noi non siamo di fronte a un decentramento amministrativo ma dinanzi alla creazione di piccole repubblichette le quali avranno un Parlamento proprio, un patrimonio proprio, leggi proprie e forze armate di polizia che nomineranno esse, che dovranno amministrare ed armare esse, che dipenderanno finanziariamente dalle singole regioni, con tutte le preoccupazioni, onorevoli colleghi, che vi sono al riguardo.

Onde, dinanzi a questo problema, dobbiamo guardarlo con la trepidazione che è d’uopo avere.

Ecco perché io manifesto tutta la mia decisa avversione alla creazione dell’Ente regione così come è stato previsto, così come è stato formato, così come è presentato al nostro esame. In questa maniera, in questo modo non si crea un decentramento amministrativo – che tutti chiediamo – ma si crea effettivamente un insieme di piccoli stati, un fomite di preoccupazione generale, un nido di insidie per la pace della nazione.

Per tutto quanto ho avuto l’onore di esporre voterò contro il progetto. (Applausi a sinistra).

PRESIDENTE. Prego i colleghi i quali parleranno, e anche i colleghi che sono desiderosi di ascoltare, di tener presente che la durata media dei discorsi in questa ripresa dei nostri lavori da trentacinque minuti è salita a oltre un’ora e che su questo Titolo sono iscritti ancora a parlare 94 oratori.

È iscritto a parlare l’onorevole Mannironi. Ne ha facoltà.

MANNIRONI. Onorevoli colleghi, questa discussione a me pare abbia un suo corso obbligato. Ascoltando poc’anzi l’onorevole Cifaldi ho sentito riecheggiare quasi tutti, per non dire tutti, gli argomenti che contro la Regione ho letto in quelle varie pubblicazioni che sono state fatte dal 1860 ad oggi. Si può dire che su questo argomento gli elementi pro e contro sono stati sempre gli stessi. È fatale quindi che in questa discussione, che, come ci segnalava il Presidente, si preannuncia così diffusa e lunga, noi ci sentiamo ripetere dalle diverse parti gli stessi argomenti.

FARALLI. In un senso o nell’altro!

MANNIRONI. Sì, in un senso e nell’altro.

FARALLI. Quindi è inutile parlarne!

MANNIRONI. Ora non volevo arrivare alla conclusione cui è arrivato il collega. Non ho la pretesa, menomamente, di credere che discutendo in questo momento io possa in qualche modo convincere i miei avversari ed indurli a pensare come me ed a ricredersi rispetto alle loro teorie. Modestamente, però, credo di adempiere a un dovere di deputato, di cittadino e di regionalista trattando anch’io il tema, sforzandomi di non ripetere cose già dette e cercando di presentare l’argomento in una forma che potrei considerare, per conto mio, originale e senza che debba in questo modo stancare coloro che mi useranno la benevolenza di ascoltare.

Devo prima di tutto rilevare che, contro la Regione, si sta manifestando uno stato d’animo che è non solo di perplessità e di timore, ma di una ostilità irriducibile. Ora, io comprendo che di fronte ad una riforma importante quale può essere questa che noi intendiamo fare, tutti gli uomini che hanno senso di responsabilità, si sentano in dovere di andare cauti, ma mi pare anche che questa cautela non debba essere portata ad un estremo limite per cui debba tarpare le ali a qualsiasi iniziativa e togliere quella naturale, quella logica, direi, audacia che può essere necessaria, che è necessaria tutte le volte che ci si accinge a fare una effettiva riforma.

Le ostilità che si muovono alla regione sono aperte e anche larvate. Queste le considero più pericolose delle prime. Fra queste ostilità larvate preminente è quella impersonata dall’onorevole Rubilli, il quale, col tentativo che voleva fare nella prima seduta di questa discussione, tendeva a sottrarre alla competenza della Costituente un argomento che invece è tipicamente, fondamentalmente costituzionale. Egli voleva proprio seguire il metodo curialesco del rinvio per aggirare l’argomento, per evitare che l’Assemblea se ne occupasse, per rimandarlo alle calende greche, rimandandolo al legislatore ordinario che non ha assolutamente la competenza per occuparsene. Non si può dimenticare che noi abbiamo avuto il mandato di fare la Costituzione, e credo che nessuno degli argomenti sia più costituzionale di questo. Noi mancheremmo al mandato se sfuggissimo all’obbligo e al dovere di studiare questa riforma la quale, contrariamente a quello che diceva l’onorevole Rubilli, è veramente matura: matura per lo meno per la discussione, perché a tutti voi è noto che di decentramento e di autonomia se ne va parlando da oltre un secolo.

Se ne è parlato nel 1860; vi sono stati dei periodi di silenzio e di stasi; ma successivamente – ed ogni tanto nella stampa, nell’opinione pubblica, nel Parlamento – di Regione e di autonomia si è sempre parlato e se ne parla perché vi sono stati dei partiti i quali l’hanno portata alla ribalta della discussione; dei partiti che hanno perorato questa causa convinti di compiere opera doverosa, necessaria, utile per lo meno per la riforma dello Stato italiano. Se ne è occupato il Partito repubblicano, fedele sempre alle sue teorie ed alle origini mazziniane… (Interruzioni).

CONTI. Sissignori, anche mazziniane.

MANNIRONI. Se ne sono occupati ed hanno agitato il problema, movimenti a carattere regionalistico; tipico, quello che è maturato e che si è agitato in Sardegna; e se ne è occupata sempre la Democrazia cristiana. L’onorevole Preti, l’altro giorno, esprimeva le sue meraviglie perché non capiva la ragione per cui la Democrazia cristiana si potesse tanto preoccupare di autonomia e di decentramento. Ora la cosa può non interessare tutti; ma giacché se ne parla, vorrei dire all’onorevole Preti ed a quelli cui può interessare, la ragione per la quale la Democrazia cristiana si occupa del decentramento e dell’autonomia. Se ne occupa prima di tutto perché crede che sotto il profilo costituzionale e quello politico, l’autonomia rappresenti una delle manifestazioni più alte, più tipiche di democrazia; se ne occupa poi anche perché è fedele ai suoi principî; perché non può dimenticare, per esempio, che fino alla fine del secolo 16° il Comune si identificava con la parrocchia e che nella Chiesa avvenivano le riunioni dei cittadini i quali deliberavano sui problemi più importanti; se ne interessa perché i cattolici italiani, fino al 1918, hanno dedicato la loro attività alle amministrazioni degli enti locali; e se ne occupa perché vuole essere fedele ad una tradizione neoguelfa che si riallaccia al Gioberti. Queste sono le ragioni per cui la Democrazia cristiana insieme con pochi aggruppamenti politici sostiene l’istituzione delle autonomie regionali.

Una voce. Allora ditelo che siete federalisti.

MICHELI. Non ce n’è bisogno: questa è la nostra origine.

MANNIRONI. Ora, signori, quando una riforma e un argomento sono così portati avanti da partiti politici che sono le officine in cui – si può dire – si elaborano e rielaborano tutti gli argomenti più vitali che interessano la vita politica e civile della Nazione, è segno che il problema matura ed è già diffuso nella coscienza giuridica e politica della Nazione; è segno che il problema desta un interesse pubblico ed ha una importanza politica e costituzionale. Avviene per questo problema quanto, consentitemi il paragone, è avvenuto, per esempio, per la questione sociale. Nessuno di noi può negare che se oggi la questione sociale è in primo piano e tutti i partiti sono costretti ad occuparsene e preoccuparsene, in parte o in gran parte, lo si deve al fatto che questa questione è valorizzata, portata, sentita e agitata dai varî movimenti socialisti italiani da varî decenni a questa parte. Ora potrei dire che un fenomeno analogo avviene per la Regione. La Regione viene oggi portata alla ribalta nella discussione della vita politica odierna e tutti i partiti, anche quelli che ne erano lontani, anche quelli che non erano convinti, sono stati messi nella necessità di occuparsene e di discuterne.

Oggi, dicevo, vi è dell’ostilità latente e vi è dell’ostilità aperta.

Però, prima del 2 giugno questo non avveniva.

Vorrei ricordare, oltre che a me stesso, ai rappresentanti dei partiti qui presenti, che in periodo preelettorale ed elettorale quasi tutti i partiti erano autonomisti e regionalisti. (Interruzioni a sinistra).

TONELLO. Non per disfare l’Italia in Regioni.

MANNIRONI. Come si può parlare di autonomia locale, senza tener conto della Regione?

Io devo ricordare, per esempio, il programma lanciato dal partito socialista nel periodo delle elezioni amministrative. Vi si diceva: «Fra il Comune e lo Stato non si ravvisa altro organo intermedio fuorché la regione, che si presenta, nel quadro nazionale, come una completa unità economica, naturale, geografica».

TONELLO. Chi lo ha detto questo?

MANNIRONI. È il programma lanciato dal partito socialista nel periodo delle elezioni amministrative.

CONTI. Non ci fare caso, caro Mannironi.

TONELLO. Sono cose vecchie.

CONTI. Questa è la malattia; cambiate sempre voi.

GRAZI. Voi non cambiate, perché siete cristallizzati.

PRESIDENTE. Onorevoli colleghi, per favore, non interrompano.

MANNIRONI. Dicevo, dunque; io mi rendo conto che una presa di posizione rispetto a determinate ideologie non costituisca un giudicato irretrattabile. Posso pensare che ci si decida anche a tornare indietro, rispetto a certe posizioni acquisite. Ma quando ciò avviene nel momento in cui si passa all’attuazione pratica sul terreno legislativo, di determinati problemi, dei quali si è tanto parlato nei comizi elettorali, sono indotto a credere che codesto non sia atteggiamento serio.

O non si era convinti allora, quando si discuteva nei comizi elettorali, della bontà della causa, o non si è convinti oggi. In qualunque caso, vi è un atto di insincerità, che mi pare non possa essere considerato serio.

GRAZI. Ed allora il programma di Governo? Quando si è trattato di applicarlo, il Governo se n’è andato.

FUSCHINI. Che c’entra il Governo?

MICHELI. Quando ci sarà il Governo nuovo, lei farà l’opposizione. Lei anticipa troppo i tempi.

MANNIRONI. Mi pare che nell’insieme tutta questa ostilità che sussiste contro la Regione sia fondata soprattutto su impressioni su luoghi comuni.

Consentitelo, non è offensiva la frase, ma vorrei precisare ed affermare che se dell’argomento ci volessimo preoccupare seriamente, scendendo un po’ ai dettagli, penso che molte di quelle ostilità aprioristiche che oggi sussistono, verrebbero appianate.

Intanto, mi pare si debba partire, in questa discussione, da un punto che riterrei pacifico; da un presupposto, che è comune a tutti e che è prezioso stabilire e fissare. Ed il presupposto è questo: tutti siamo d’accordo nel ritenere che lo Stato odierno, lo Stato centralizzato, lo Stato accentratore, il quale ha avuto la sua massima espressione sulle parossistiche manifestazioni nel periodo fascista, non è più quell’organismo costituzionale che possa essere ritenuto degno o capace di sopravvivere.

Tutti siamo d’accordo nel ritenere che questo Stato accentratore non risponde più al momento storico, ai fini politici e sociali per cui fu costituito e che è necessario modificarlo e trasformarlo.

Mi pare che questa sia una premessa da cui tutti partono concordemente, sia pure per arrivare a conclusioni diverse.

Infatti, vari sono i rimedi indicati.

Si dice da taluni: lo Stato così accentrato bisognerà modificarlo decentrandolo burocraticamente.

E questo è il primo punto.

Altri, e fra questi altri siamo noi, affermiamo invece che il decentramento puramente burocratico non è sufficiente e che è necessario procedere e provvedere invece a mezzo anche di un decentramento autarchico.

Il punto di divergenza è proprio questo. Consentitemi, signori, di esaminare rapidamente queste due soluzioni, perché io vorrei (mi illudo, forse, nel credere che potrei) riuscire a dimostrarvi come il decentramento autarchico, il quale del resto già è stato iniziato dallo Stato Italiano, sia quello che offre maggiore garanzie, maggiore utilità, maggiore opportunità e maggiore possibilità di realizzazione. Il decentramento burocratico, lo Stato Italiano lo sta tentando da tanto tempo. Ciascuno di voi sa da quanto tempo si sente parlare di riforma burocratica.

Mai si è riusciti, però, ad operare ed attuare questa riforma: e non si è riusciti perché vi è una resistenza, direi istintiva, nello stesso organismo burocratico, il quale ha paura di vedersi smantellato, il quale ha sopratutto interesse e desiderio a rimanere accentrato qui, nella capitale, donde pare sia più facile comandare, dove pare sia più facile raggiungere i vari gradi gerarchici di carriera e dove il burocrate, alto funzionario, sta molto meglio che alla periferia.

Ma a parte questa questione di natura formale, io dico che il decentramento burocratico non può sodisfare le esigenze fondamentali per le quali noi vorremmo che lo Stato provvedesse, e non può bastare sopratutto per la natura stessa dell’organismo burocratico, il quale si muove ed opera con un certo automatismo, con un certo meccanicismo, che toglie, alla funzione ed all’organo – impiegato e burocrate – addirittura, quel senso di responsabilità, che invece è indispensabile ed è presupposto essenziale perché un ufficio ed un impiego possano essere decorosamente e sufficientemente svolti ed espletati.

In tutto ciò vi è una sostanziale differenza rispetto invece a quello che avviene con gli organismi che non sono burocratici statali, ma che appartengono agli enti autarchici. Quando una stessa funzione viene esercitata da un impiegato puro e semplice, il quale non fa altro che ubbidire ai comandi e agli ordini del suo diretto superiore gerarchico, e, correlativamente, da un libero cittadino, il quale, disinteressatamente, senza ricompensa, si occupa e si preoccupa di quello stesso compito del quale si preoccupa l’impiegato, è evidente e chiaro che noi troviamo sempre un maggior rendimento nell’attività amministrativa che esplica il privato cittadino preposto alla guida di un ente autarchico: perché quel privato cittadino ha una maggiore elasticità di movimento, è più disinteressato nell’adempiere ai suoi doveri ed ha soprattutto la possibilità di regolarsi con maggiore libertà. Questa è la caratteristica particolare e principale dell’amministrazione affidata agli enti autarchici.

Del resto, signori, prima del fascismo, lo Stato aveva cercato di decentrare. Si era convinto che l’Amministrazione pubblica non poteva esaurirsi negli organi statali solamente e non aveva potuto fare a meno di ricorrere all’opera degli enti autarchici locali. Così aveva cercato di decentrare attribuendo certe funzioni alla competenza particolare del Comune e della Provincia, e quindi riconoscendo a questi enti autarchici non soltanto la personalità giuridica, la capacità di soggetti di diritto pubblico, ma anche quelle particolari attitudini ad esplicare delle funzioni pubbliche e amministrative.

Riportiamoci a quello che può essere avvenuto nell’epoca remota all’atto della costituzione dello Stato. Lo Stato, finché aveva dei compiti modesti e limitati, finché si trovava di fronte a dei limitati bisogni della collettività, poteva facilmente provvedere dal centro a guidare l’amministrazione; ma quando questi compiti si sono allargati per l’accavallarsi dei bisogni della vita moderna e dei cittadini, quando i compiti dello Stato si sono moltiplicati fino all’infinito, lo Stato stesso si è accorto, che non poteva da solo adempiere a tutte le necessità e provvedere a tutti i bisogni. Così, costretto a decentrare, si è trovato di fronte ad un ente naturale e di fatto quale era il Comune, il quale si era già costituito forse anche prima dello Stato, in quanto le piccole collettività viventi nel territorio si erano organizzate per provvedere ai loro primordiali bisogni. Ora lo Stato ha dovuto riconoscere la personalità giuridica al Comune e l’ha creato ente autonomo autarchico. E poiché la distanza fra Comune e Stato era eccessiva, lo Stato stesso ha creato quell’ente, pure di decentramento, che è la Provincia.

Ora che cosa è avvenuto nel successivo processo storico di evoluzione e organizzazione dello Stato? È avvenuto che questa tendenza a decentrare verso gli enti autarchici si è ad un certo punto cristallizzata e fermata, perché lo Stato non ha più provveduto ad attribuire a quegli organi minori altre competenze ed altre funzioni. Sono aumentati i bisogni della collettività, lo Stato si è sovraccaricato di altri oneri e di altre funzioni, ma le ha accentrate in se stesso e quegli organi minori un po’ li ha tenuti in istato di estrema rigorosa minorità e quasi ha tentato di farli morire di asfissia. Questo è avvenuto soprattutto in periodo fascista. Ora quando si dice che quegli enti autarchici attualmente esistenti – Comuni e Provincie – sono in grado di ricevere dallo Stato altre funzioni ed altri oneri ed altre mansioni, si dimentica che, così come sono oggi organizzati, questi enti non possono ricevere tutte le deleghe e gli incarichi che lo Stato può dare ad essi, perché vi sono bisogni delle collettività che io direi periferiche, i quali superano e sovrastano i limitati territori di questi enti: del Comune e della Provincia.

Ecco come si profila l’esigenza della Regione, ecco come si pensa ad essa, quando si tenta di creare un altro ente autarchico simile a quelli precedenti. Ma, dovendo tale nuovo ente provvedere a bisogni più vasti, più larghi e più complessi, è necessario stabilire, con una specie di gerarchia, che esso deve essere superiore agli altri due enti – Comuni e Provincie – superiore perché più importante e più vasto, in quanto deve provvedere a quei bisogni più vasti, più importanti e più complessi cui ho accennato. Ora, quando il problema e la questione si presentano con tale impostazione; quando si dice che la Regione è un ente territoriale autarchico autonomo come gli altri, e si vuole che lo Stato riconosca questa condizione di fatto che sussiste nella Regione, così come lo ha riconosciuto per il Comune; quando si dice che nell’ordinamento giuridico dello Stato si vuol far coesistere questo nuovo ente, perché la sua attività e la sua esistenza possono servire ad operare quel decentramento a cui tutti aspiriamo, io non capisco perché si debbano determinare quegli stati di allarme, di preoccupazione, di paura quali ho sentito per esempio or ora espressi dall’onorevole Cifaldi. Secondo il quale si va decisamente verso lo Stato federale, e coll’autonomia si vogliono creare 22 repubblichette, provviste non solo di Parlamento, ma anche di un esercito. Veramente io non capisco questa paura. Qui si dà corpo alle ombre e si parte da preconcetti e da malintesi per cui non si va al fondo della questione. Quando l’onorevole Cifaldi è passato all’esame di qualche articolo, a me sembra, che, scendendo al particolare, egli abbia perso di vista l’insieme e quella che è la visione panoramica del progetto, che è frutto della preziosa e mai abbastanza lodata fatica, sopratutto dell’onorevole Ambrosini. Quando si dice: voi volete creare un federalismo larvato, si dice cosa inesatta, perché – e qui non sto a ripetervi le distinzioni fra Stato federale, Confederazione e Stato unitario, perché tutti le conoscete e le avete sentite specificare da molte parti – si dimentica che quando parliamo dello Stato, ente di diritto pubblico, sovrano, cioè la massima persona di diritto pubblico, la quale semplicemente riconosce altri enti minori autarchici ed autonomi, e prefigge ad essi dei limiti, nelle leggi costituzionali e nelle leggi ordinarie, si intende che questo Stato sarà messo sempre in condizione ed in grado di tutelare la sua sovranità, di impedire qualsiasi slittamento, tanto temuto da varie parti, e di controllare altresì qualsiasi movimento centrifugo che potesse eventualmente determinarsi.

Ieri l’onorevole Gullo, quasi ironicamente, accennava alla impossibilità che domani funzioni la Corte Costituzionale. Io non vorrei anticipare la discussione su quest’altro tema così importante; ma debbo riconoscere che, se la Corte Costituzionale potrà funzionare così come nel progetto è detto, tutte le garanzie necessarie per la salvaguardia della sovranità dello Stato e la tutela dello spirito unitario dello Stato stesso sono assolutamente assicurate.

Si potrà, sì, pensare, in ipotesi pessimistica, che domani lo Stato autonomistico, regionalista, potrà favorire certe forme centrifughe; ma, signori, ragionando a quel modo noi potremo dare cento ipotesi che possono minare qualsiasi riforma, anche la più insignificante. In tutti gli eventi umani si può prevedere il peggio. Se domani noi facciamo un viaggio in aeroplano, potremo pensare che l’aeroplano può cadere. Ma questa che è una ipotesi, e una eventualità, non deve distoglierci dalla possibilità di fare egualmente il viaggio in aeroplano che è così rapido e comodo. Così il pensare che la Regione possa favorire una tendenza centrifuga, non può assolutamente impedire a noi di attuare la riforma, che invece mi pare così opportuna, efficace ed invita nello sviluppo normale delle cose. Io non credo a questo insidioso e malcelato desiderio delle Regioni, di volersi staccare, di volersi allontanare dalla madre patria.

Io considero che l’ultima guerra e la disfatta terribile con cui si è conclusa, rappresentano la prova migliore dello spirito unitario delle nostre Regioni, anche di quelle più periferiche. Ma è necessario proprio che si ricordino tutti gli avvenimenti ultimi? Basta considerare quello che è avvenuto in Sicilia: se fosse vero che la Sicilia ha in sé dei germi così pericolosi di separatismo, non vi pare che si sia trovata nelle più adatte condizioni obiettive per realizzare rapidamente questo suo separatismo, specialmente se considerate che vi erano elementi insani che questo progetto sollecitavano? Ebbene, la Sicilia, non solo ha respinto quel progetto, ma è rimasta fedelissima alla madre Patria, pur rivendicando le sue esigenze autonomistiche. Altrettanto si può dire per la Sardegna: la Sardegna è rimasta staccata dalla madre Patria, materialmente, per circa un anno, quando erano tagliate tutte le comunicazioni col Continente. La Sardegna ha realizzato una parentesi veramente autonomistica in quel periodo. Ebbene, se fosse stata decisa anch’essa a separarsi dalla madre Patria, se ci fossero state delle correnti veramente forti e pericolose da realizzare un movimento rivoluzionario, non vi pare che quello fosse il momento più adatto? Invece la Sardegna è tornata alla normalità appena c’è stata la possibilità materiale, perché la Sardegna non ha pensato e non pensa, al separatismo, bensì ad una sua forma di autonomia. E se volete ancora passare in rassegna le altre regioni, potete considerare quello che avvenne nel Nord. Se dopo la sconfitta ci fossero state delle Regioni desiderose di staccarsi dalla madre Patria nell’Italia del Nord, oppure desiderose di realizzare ordinamenti costituzionali diversi da quelli finora instaurati, non vi pare che lo avrebbero potuto facilmente fare? Non l’hanno fatto perché non lo hanno voluto, perché non c’era in loro e non c’è un sentimento orientato alla separazione; c’è invece un sentimento fortemente unitario, che è determinato non soltanto da ragioni storiche, sentimentali e patriottiche, ma è determinato, direi, anche da necessità economiche e materiali. Oggi nessuna delle nostre Regioni, neanche la più ricca, potrebbe essere in grado di reggersi da sé, di fare dell’autarchia o dell’autonomia politica, perché le leggi dell’economia sono più forti della volontà degli uomini, perché le necessità economiche non tendono a restringere e a circoscrivere entro limiti ristretti la vita e l’attività economica di una regione, ma tendono ad allargarla e a favorire scambi. Anche le regioni ricche avranno sempre la necessità di esitare i loro prodotti e di mandarli alle regioni povere e le regioni povere avranno sempre necessità dell’aiuto e dell’ausilio delle regioni ricche.

Comunque, non mi pare questo un argomento che valga la pena di diluire ancora o di portare alle sue estreme conseguenze. Vorrei tornare alla trattazione dell’argomento in campo puramente politico.

Ora, signori, quando vi si dice che la Regione è l’ente autarchico più importante rispetto ai due enti minori – il Comune e la Provincia – e che quindi ha bisogno di maggiori poteri, si dice una cosa logica e naturale. Penso infatti che tutto il decentramento è una cosa naturale, perché nella vita politica degli Stati avviene quello che avviene nella vita fisica degli uomini: dal semplice si tende al complesso, dall’omogeneo all’eterogeneo.

Ora, lo Stato da solo come ho già detto, non può adempiere a tutte le sue funzioni: deve decentrarsi e, decentrando, deve adeguarsi alle necessità non solo territoriali, ma economiche, politiche e storiche: e allora deve preoccuparsi di provvedere a quei bisogni che hanno una estensione – direi – territoriale maggiore di quelli che si determinano o si riscontrano nella Provincia e nel Comune e che sono quindi regionali.

L’argomento che maggiormente impressiona gli avversari della Regione è quello della potestà legislativa. Si dice: con l’attribuire questo potere alla Regione, si crea il federalismo.

Altra esagerazione, signori: altro errore di impostazione e di prospettiva, perché non è vero che con l’attribuire una limitata potestà normativa alla Regione le si diano gli attributi, non dico di uno Stato, ma neanche di un ente autarchico che possa essere di molto superiore a quelli esistenti.

Scusate; riandando alla legislazione vecchia e anche a quella vigente, non vi pare che, di fatto, gli enti autarchici attuali siano dotati di una potestà normativa, che siano capaci di fare delle leggi in senso materiale? Non vi pare che questi enti autarchici minori creino delle leggi che sono vincolative erga omnes e abbiano la possibilità giuridica di creare dei diritti, dei doveri e degli obblighi, non soltanto verso i propri dipendenti gerarchici, ma anche verso i terzi che vivono nell’ambito territoriale dell’ente autarchico?

Io potrei ricordarvi, per esempio, il regolamento di polizia urbana che fa il Comune, o quello di polizia edilizia: non vi pare, che pur chiamandosi «regolamento», questa sia una norma primaria, sia una legge anche in senso materiale? In senso materiale, perché? Perché regola anche il diritto di proprietà; perché, per esempio, i regolamenti di igiene e di polizia comunale limitano anche la libertà della persona, del cittadino. Ora, quelle sono leggi, signori, sono leggi in senso materiale (Commenti).

Dove si fanno i regolamenti indipendentemente dall’intervento dello Stato, sia pure entro limiti generali fissati dalle leggi dello Stato stesso, è evidente che questi regolamenti sono essi pure delle leggi anche in senso materiale.

Ora, quelle leggi vi hanno mai preoccupato? No; non vi hanno mai preoccupato né vi preoccupano perché la potestà di emanarle è attribuita al Comune. Ma vi sono anche degli enti istituzionali che hanno pure fatto delle leggi: basterà che io vi citi l’esempio delle corporazioni del tempo fascista, le quali stipulavano i contratti collettivi di lavoro. Non erano forse i contratti collettivi di lavoro delle leggi in senso materiale? Lo erano indubbiamente: eppure tutto questo non ha mai preoccupato alcuno ed era giusto che non dovesse preoccupare.

Ma rapportiamo adesso il concetto e l’argomento, da quel piccolo ente che è il Comune, a quell’ente più vasto, più complesso che noi vogliamo creare: la Regione. È evidente che anche la Regione deve essere dotata di un potere normativo, perché altrimenti non sarebbe un ente autonomo, non sarebbe un ente autarchico.

Io non so concepire infatti l’ente autarchico senza l’autonomia. L’autarchia si riferisce all’amministrazione e l’autonomia si riferisce invece al potere discrezionale che viene concesso all’amministratore locale, di emanare provvedimenti normativi: e questa è la caratteristica peculiare dell’ente autonomo.

Ora, se alla Regione si affidano dei poteri di una certa estensione per amministrare determinate materie, quali quelle che sono indicate nel progetto di Costituzione, non le si può nel tempo stesso, correlativamente, negare il diritto di emanare delle leggi in quel campo.

Ora, la parola «leggi», dicevo, preoccupa enormemente gli avversari della Regione, i quali dicono che questo potere normativo non è conciliabile con la sovranità dello Stato, perché in tal modo si verrebbe a creare una altra sovranità, perché in tal modo si produrrebbe fatalmente una frattura dell’unità legislativa dello Stato; perché in tal modo si produce un disordine politico interno che non può essere facilmente sanato e superato. Perciò sono indotti a concludere che è meglio evitare che si conceda originariamente questa potestà normativa.

Il ragionamento, signori, è troppo semplicistico, e non porta alcun contributo concreto per la risoluzione del problema che noi ci siamo accinti ad esaminare.

Incomincerò col dire che non si deve ravvisare alcun pericolo di frazionamento dell’unità legislativa. È proprio dalla destra che ho udito parlare – mi pare dall’onorevole Lucifero – di decentramento legislativo. Ora, io sottoscrivo in pieno, e non posso nel tempo stesso non sottolineare il fatto che una ammissione di questo genere venga fatta proprio da un uomo di destra. Ciò è sintomatico ed è grave che i partiti di sinistra se ne preoccupino invece eccessivamente.

Oggi l‘Assemblea di che cosa si occupa? Lo diceva ieri molto efficacemente l’onorevole Uberti ed io non vorrei ora ripetere ciò che già ha detto lui. Egli vi ha dimostrato come sia una necessità pratica quella di operare un decentramento anche nella sfera legislativa, per materie che si riferiscono a situazioni o necessità locali.

Ora, non si può attuare questo principio del decentramento legislativo, se non concedendo una potestà legislativa agli enti autarchici: al Comune e alla Provincia, i quali in parte li hanno già, e poi alla Regione.

LUCIFERO. Si può anche risolvere sul piano nazionale.

MANNIRONI. Sì, creando degli enti autarchici istituzionali; ma non bastano. Io non ho fiducia nell’opera e nel rendimento di quegli enti autarchici istituzionali, e penso che sia più utile – e credo che anche lei sarà d’accordo in questo – e più opportuno dare la potestà normativa agli enti autarchici territoriali oltre che a quelli nazionali di carattere istituzionale.

Ma quello che preoccupa gli avversari della Regione è il fatto che le si dia una potestà legislativa primaria. Si dice: mettere le Regioni sullo stesso piano dello Stato significa frantumarne la sovranità, rappresenta un pericolo, perché in quelle materie che sono attribuite con la legislazione primaria alla Regione, lo Stato rinuncerebbe preventivamente ad intervenire e a legiferare.

Ora, ieri, molto opportunamente l’onorevole Einaudi vi ha precisato dei punti importanti su questo argomento. E neppure in questo caso vorrei ripetere cose già dette; vi accenno soltanto perché mi servono per la necessità logica del mio ragionamento. L’onorevole Einaudi vi ha dimostrato in sostanza questo: che quelle materie che sono affidate alla competenza legislativa primaria della Regione sono di così scarsa importanza, che, se pur gliele lasciate, lo Stato non ci perde niente. Infatti, quando, per esempio, nelle varie Regioni si dia una diversa regolamentazione legislativa alla caccia o alla pesca, io non capisco quale pericolo possa venirne allo Stato o agli interessi generali della Nazione. E, per converso, se questa potestà legislativa primaria alle Regioni la togliete, le Regioni, credo, perderanno poco o non perderanno niente neppure loro. Perché, in sostanza, ripeto, si tratta di materie di così scarso rilievo ai fini economici, sociali e politici che se le Regioni dovessero essere costrette ad uniformarsi ad una legislazione unitaria dello Stato, restando soltanto a loro riservato il potere di integrare le norme generali, l’autonomia potrebbe realizzarsi lo stesso. Questo è il mio punto di vista personale, che mi permetto di esprimere in questo momento.

Quindi, signori, se questo dovesse costituire l’ostacolo insuperabile, per cui voi non vi sentireste di dare la vostra adesione alla riforma autonomistica in senso regionale, quella legislazione primaria si può anche sacrificare, sicuri – ripeto – che nessun danno ne deriverà alla Regione. Ma allora, se si dovesse eliminare quella potestà legislativa primaria, bisognerebbe includere quelle stesse materie per lo meno nella legislazione concorrente.

Ecco un altro degli argomenti che formeranno indubbiamente oggetto di discussione, perché è un argomento che merita. Io di questo soprattutto voglio limitarmi a parlare, volendo obbedire, per quanto possibile, all’invito dell’onorevole Presidente di ridurre lo sviluppo del mio intervento, anche rinunciando a svolgere molti altri argomenti che sarebbe utile toccare ai fini della completezza della discussione.

La legislazione concorrente, dicevo, è stata per me – dico la verità – una novità dal punto di vista giuridico, costituzionale. Io, nei miei lontani studi di diritto amministrativo e costituzionale, non ne ho mai forse sentito parlare; ma, comunque, devo riconoscere che è stata una felice trovata dell’onorevole collega che nella seconda Sottocommissione ha suggerito questa soluzione, in quanto ha finito, con questo suggerimento, con questa proposta, col conciliare praticamente e la libertà legislativa delle Regioni autonome e l’unità legislativa dello Stato. Infatti, se si dava alle Regioni soltanto la potestà di emanare norme integrative o di attuazione o regolamentari, si concedeva troppo poco ad esse.

Perché in sostanza, come tutti sappiamo, quelle norme di attuazione, di integrazione, regolamentari, non possono andare molto oltre la sostanza e lo spirito e i limiti della legge fondamentale di cui sono quasi appendice.

E allora bisognava trovare un modo per il quale la Regione fosse ancorata a determinati principî direttivi fissati dallo Stato per conservare l’unità della legislazione su determinate materie fondamentali, ma avesse anche una certa libertà di manovra, una certa zona libera entro cui potesse adattare quei principî generali e svilupparli secondo le esigenze territoriali locali.

Questa è stata la ragione che ha suggerito la proposta della legislazione concorrente, che ha avuto l’approvazione della Commissione.

Ora, signori, che cosa vi può essere di pericoloso in questo, nel consentire cioè alle Regioni la possibilità di fare una legislazione concorrente, sì, con quella dello Stato, ma sempre circoscritta nei limiti che lo Stato stesso fissa, salvaguardando gli interessi unitari, gli interessi nazionali e gli interessi delle altre Regioni e, soprattutto, l’ordinamento giuridico fondamentale? Io credo che nessun danno possa venire né allo Stato né alla legislazione stessa, perché la varietà che si potrà determinare nell’applicazione e nello sviluppo di questi principî direttivi contenuti nelle leggi generali dello Stato non potrà mai rompere quell’equilibrio, quell’armonia e quell’unità d’indirizzo che sono presupposto fondamentale per lo sviluppo normale della legislazione nazionale.

Ora, si potrà dire che quel principio consacrato nell’articolo 111 necessita di ritocchi; che sarà opportuno apportarvi emendamenti, soprattutto per evitare certi inconvenienti che oggi, così come l’articolo è formulato, potrebbero presentarsi; ma nella sua sostanza il principio è meritevole di approvazione da parte dell’Assemblea.

Gli inconvenienti che possono essere eliminati sono questi: si può presentare, per esempio, il caso che lo Stato emani una legge che contenga quei dati principî direttivi e che la regione non faccia la legge integrativa che ha il diritto di fare e che sarebbe necessario fare per evitare una vacatio legis, una carenza della legge. Siccome non c’è nessun meccanismo costituzionale che possa imporre alla Regione di fare la legge integrativa e poiché non si può lasciare quella Regione senza lo sviluppo totale della legge che regoli interamente la materia, sarà necessario fare in modo, con una modifica dell’articolo, che si stabiliscano le provvidenze opportune. Per esempio, si potrà stabilire che lo Stato ha diritto di fare la legge generale, costituita dai principî direttivi ed anche dagli sviluppi ulteriori e concreti di questi, per modo che, se la Regione non farà per suo conto quella legislazione concorrente, si intenderà che dovrà entrare in vigore la legge generale, per lo meno dopo un determinato periodo di tempo.

Si potrà altresì verificare il caso che lo Stato non si limiti in quelle materie a dare soltanto dei principî direttivi, ma faccia invece delle leggi generali. Io credo che in quel caso lo Stato compia un atto anticostituzionale per il quale sarà opportuno e necessario l’intervento della Corte costituzionale: ma vi si potrà ovviare fin d’ora stabilendo che una parte della legge statale dovrà cedere il posto alla legge concorrente che la regione potrà fare.

Potrebbe anche avvenire che la Regione, nel fare la legislazione concorrente, ecceda i suoi limiti e faccia una legge che violi i principî direttivi tracciati nella legge dello Stato. Ma in questo caso non sarebbe necessario ricorrere a modifiche dell’articolo, perché s’intenderebbe che entri in funzione il meccanismo progettato per l’intervento della Corte costituzionale.

Ora, nell’insieme, tutta la preoccupazione che domina molti spiriti che si accingono ad esaminare il progetto della Regione, mi pare eccessiva e infondata. Non si può parlare in modo assoluto di federalismo, non si può parlare di pericolo di frantumazione dell’unità nazionale anche se, onorevole Gullo, si dovesse assistere, come lei rilevava, ad un contrasto frequente tra Regione e Stato in contesa fra di loro per la costituzionalità delle rispettive leggi. Penso che questi contrasti saranno meno frequenti di quello che si creda e si tema. Si tratterà comunque di contrasti che se saranno frequenti nei primi tempi, non lo saranno nel periodo successivo, dopo che sarà maturato convenientemente l’esperimento. Perché, signori, questo può essere un esperimento: ma è opportuno si faccia. Se vi è tanta gente che propone la riforma e ne sostiene l’opportunità, io penso che non si tratta di fare un esperimento in «corpore vili»; né di un danno irrimediabile. È un esperimento che può avere la sua importanza politica ed è meritevole che venga fatto soprattutto per il Mezzogiorno dove particolarmente questa riforma appassiona gli animi. Se ne capisce la ragione: il Meridione spera ed è convinto che, con la realizzazione di una riforma autonomistica dello Stato, si possa attuare una maggiore giustizia per quelle popolazioni, anche se si parte dal presupposto che le meridionali sono regioni non auto-sufficienti, anche se si parte dal principio o dalla certezza che domani lo Stato dovrà integrare i loro bilanci ed intervenire con fondi della collettività nazionale per sopperire alle esigenze di quelle regioni le quali non potrebbero provvedere ai loro immediati bisogni con le loro limitate entrate. Del resto non avviene questo anche in regime di stato centralizzato? Oggi lo Stato paga, per integrare i bilanci degli enti autarchici minori, circa 30 miliardi all’anno. Ora se questa somma, opportunamente rapportata, dovesse essere pagata anche nell’avvenire, ciò può rientrare nei doveri e negli obblighi dello Stato il quale, essendo l’ente di diritto pubblico maggiore e gerarchicamente superiore a tutte gli altri enti autonomi minori, sarà messo in condizione, col sistema tributario, di arricchire il suo tesoro, le sue riserve e poter meglio ridistribuire le disponibilità che riesce ad accumulare attraverso i tributi realizzati nelle varie parti dello Stato.

Questo era il principio che ha informato anche gli autori del progetto quando si parlava di stanze di compensazione – di un ente di solidarietà fra le varie Regioni –; quando si diceva che bisognerà ridistribuire equamente la ricchezza nazionale secondo le necessità che presentano le varie Regioni. Questo è l’esperimento che si vorrebbe proporre e questo era il principio da cui si è partito: principio giusto, di giustizia sociale e politica, che dovrà essere realizzato e che consentirà particolarmente di controllare meglio i bisogni delle Regioni, di organizzarne le attività e distribuirne equamente i redditi.

Le Regioni potranno, così, semmai, regolare meglio la loro condotta e la loro amministrazione, e dovranno forse ricorrere meno o con minori pretese allo Stato, per ottenere integrazioni.

L’onorevole Gullo parlava ieri di un altro aspetto del problema del Mezzogiorno e delle sue condizioni di arretratezza.

Mi permetto di dissentire, perlomeno in parte, dal giudizio da lui espresso.

Posso riconoscere che le condizioni del Mezzogiorno – parlo anche delle isole – siano dovute a particolari fattori sociali, per i quali non vi sono state opportune provvidenze, o per immaturità politica e civile delle popolazioni stesse o per carenza di intervento dei partiti politici o per colpa delle classi dirigenti; ma è anche vero che quelle regioni sono in stato di disagio e sono così disgraziate, perché il bilancio dello Stato, dello Stato unitario centralizzato, non ha mai provveduto sufficientemente ai bisogni fondamentali di quelle popolazioni. Quando si considerino le condizioni di estrema miseria, in cui certi paesi del Mezzogiorno si trovano, non si può dire che quello stato di inferiorità sociale e materiale sia dovuto a fattori sociali; è invece dovuto proprio alla insufficienza dell’intervento dello Stato, perché quando in un paese, anzi in moltissimi centri, mancano il cimitero, l’acquedotto, la scuola, la luce e le comunicazioni, signori, non c’entra la classe ricca. Non è questione di contrasti fra classi; mancano le opere pubbliche, cui dovrebbe provvedere lo Stato. I suoi interventi finora possono aver importato notevoli spese per il bilancio; però tali spese non devono commisurarsi solo colle entrate effettive realizzate in quelle regioni, ma coi bisogni effettivi di esse. In tal modo, soltanto, uno Stato che sia davvero civile, realizza la giustizia per il Mezzogiorno.

Ora, le popolazioni meridionali contano sull’autonomia, perché sperano di potere realizzare da se stesse una giustizia maggiore, in quanto, utilizzando la loro ricchezza ed i loro redditi nel quadro generale della finanza dello Stato, credono di poter provvedere meglio ai loro immediati e fondamentali bisogni.

Il Mezzogiorno confida nell’opera della Costituente.

E voi di questo dovete tener conto e dovete ritenere che il problema è maturo per essere esaminato, affrontato e risolto positivamente.

Se il progetto presenta lacune e imperfezioni, si è sempre in tempo a rimediare.

Si può, per esempio, rimediare all’aspro contrasto determinatosi in varie regioni italiane per la delimitazione territoriale delle Regioni stesse. Si tratta di contrasti che attengono all’applicazione del principio, ma non ne invalidano la sostanza.

Si può conciliare la necessità di conservare la Provincia, come ente autarchico autonomo, colla creazione della Regione autonoma. Mi duole che, per l’ora tarda, non possa meglio sviluppare questo mio concetto, che so non condiviso da altri. Spero che vi rimedino altri oratori della mia parte.

Si possono, insomma, superare varie di quelle difficoltà, che potrebbero sembrare insuperabili. Ma l’essenziale è affermare lo spirito della riforma, consacrarlo, perlomeno, in articoli fondamentali, che fissino definitivamente quale sarà la portata della riforma che dovrà essere operata, nel senso autonomistico: nel senso, cioè, che dia alle regioni quel maggiore respiro, che oggi esse non hanno, rispetto alla Stato centralizzato, e del quale hanno bisogno per provvedere, a fianco dello Stato, a quel complesso unitario di bisogni, locali e generali, che sorgono nell’ambito naturale della Regione.

Permettetemi di chiudere con delle parole che ho tolto di peso da uno scrittore, che da tanti anni si è occupato della autonomia e del decentramento, il Marchi. Sono parole ancor oggi attuali e significative: «Liberi rem nostram gerimus, iure reipublicae servato»; potrebbero essere il motto degli enti locali moderni in Italia, terra dell’autarchia, dove lo spirito è informato ad un principio medio, armonico e temperato; e per il quale sarebbe assurdo ogni ordinamento politico, in cui non fosse conciliata la necessità del conferimento dei poteri propri agli enti locali, coll’unità dello Stato. (Applausi e molte congratulazioni).

PRESIDENTE. L’onorevole Nobile ha presentato il seguente ordine del giorno:

«L’Assemblea Costituente,

considerato che la questione dell’ordinamento regionale per la sua gravità imporrebbe non solo la più ampia discussione generale, ma anche un esame approfondito, sia tecnico che politico, di ognuno dei singoli articoli che costituiscono il Titolo V del progetto di Costituzione,

considerata l’opportunità di affrettare i propri lavori,

delibera:

di abolire il Titolo V e di inserire nel progetto un articolo che rinvii l’ordinamento regionale ad una legge avente valore costituzionale da discutersi ed approvarsi dal futuro Parlamento».

L’onorevole Nobile ha facoltà di svolgerlo.

NOBILE. Onorevoli colleghi, l’ordine del giorno da me presentato col quale propongo di abolire il Titolo V del progetto e sostituirlo con un articolo che rinvii l’ordinamento regionale ad una legge avente valore costituzionale, da discutersi ed approvarsi dal futuro Parlamento, ha precipuamente lo scopo di affrettare i lavori della Costituente, evitando un lungo dibattito su una questione che non ha alcun carattere di urgenza. Non che io non riconosca che la questione meriti di essere dibattuta. Tutt’altro. Ma appunto perché la questione è importante, appunto perché l’ordinamento regionale che ci viene proposto costituisce una riforma radicale che sconvolge ab imis la struttura dello Stato italiano e le sue tradizioni, trovo necessario che la questione sia discussa a fondo. Questa necessità di un ampio dibattito è sentita non solo da chi come me è avversario della riforma, ma anche dai suoi fautori, per lo meno i più seri e responsabili di essi. Cito per tutti l’onorevole Ambrosini.

A me sembrava, e sembra tuttora, che l’Assemblea Costituente, che dovrebbe terminare i suoi lavori fra quattro settimane, non abbia il tempo di far questo. Aggiungo che con tanti gravi problemi che premono ed urgono in questo momento della nostra vita nazionale, non abbiamo nemmeno la calma e la serenità di spirito che occorrerebbero per esaminare a fondo un problema di così grave portata.

Non credo di sbagliarmi asserendo che un mese e mezzo o due sarebbero appena sufficienti per un esame approfondito della questione. La Sottocommissione che preparò il progetto impiegò anche più di tale tempo senza pervenire nei punti più essenziali a conclusioni che riscuotessero l’approvazione di notevoli maggioranze. Su di essi non fu possibile raggiungere un accordo soddisfacente; molti articoli furono approvati con maggioranze talmente esigue da far ritenere che quelle votazioni, se si fossero ripetute a distanza di tempo, avrebbero probabilmente avuto un esito differente. Con tante questioni rimaste aperte in un problema così complesso, è impossibile strozzare la discussione generale, ed io mi rendo conto del perché il nostro Presidente ci lascia liberi di parlare così a lungo. Una discussione esauriente, generale, richiederebbe da sola due o tre settimane, e sta a testimoniarlo il gran numero dei deputati iscritti a parlare. Né si potrebbe chiedere la chiusura perché ognuno di noi ha diritto, anzi il dovere di esprimere la propria opinione su una riforma che, se attuata, può avere conseguenze incalcolabili per la nostra vita nazionale.

Quanto tempo occorrerà poi per esaminare ciascuno dei venti articoli che costituiscono la riforma? Alcuni di questi richiedono discussioni amplissime. Non sarà sufficiente quello che se ne può dire nella discussione generale. Basta accennare agli articoli 109, 110,111, che si riferiscono alla potestà legislativa delle Assemblee regionali. Ciascuna delle voci elencate in quegli articoli coinvolge una quantità di problemi non solo politici ma anche tecnici, anzi essenzialmente tecnici.

L’onorevole Mannironi crede che si possa affidare alle Assemblee regionali questa potestà legislativa senza alcuna preoccupazione per quanto riguarda gli interessi generali dello Stato; ma gli esempi citati ieri dall’onorevole Einaudi ci convincono del contrario. L’illustre collega, ricordando che l’Italia anche prima del fascismo vantava una legislazione esemplare per quello che riguardava le acque pubbliche, ci ha fatto osservare che se l’ordinamento regionale passasse così come è proposto, a questa unica legislazione nazionale verrebbero sostituite ventidue diverse legislazioni regionali. Basta questo esempio per dimostrare che il problema, voce per voce, dovrebbe essere esaminato e discusso a fondo.

Si consideri anche l’articolo 113 dove si parla delle finanze. Non m’intendo affatto di questo arduo argomento ma capisco che il problema delle finanze del nuovo Ente che si vorrebbe costituire è un problema gravissimo che dovrebbe impegnare la discussione da parte delle persone più competenti di quest’Assemblea per intere giornate. E che dire poi dell’articolo 123 che si riferisce alla circoscrizione delle regioni?

Tali argomenti, se dovessero venir trattati seriamente, da soli richiederebbero senza dubbio alcune settimane. Considerate tutta l’agitazione sorta per ottenere questa o quella modificazione alle circoscrizioni elencate nell’articolo 123, tutti i volumi già pubblicati per provare la necessità di costituire questa o quella nuova regione, ed il gran numero di conferenze e congressi tenuti, e vi convincerete che anche nel seno di questa Assemblea, chiamata ad assumersi la responsabilità di una decisione, il dibattito sarà necessariamente lungo. Uno di questi volumi ho presente davanti agli occhi. È intitolato: «Atti del Congresso regionale veneto». Un volume in ottavo, di 150 fitte pagine, dal quale appare che lunghe discussioni hanno avuto luogo tra le numerose personalità intervenute da ogni parte del Veneto, pur senza giungere ad alcuna conclusione.

Ho citato quest’esempio di una singola regione, ma ne potrei citare cento altri. Ecco perché a me sembra, che, prevedendo un mese e mezzo o due come tempo necessario per l’esame di questo ordinamento regionale, certamente sono ottimista: in questo lasso di tempo molte questioni d’importanza essenziale non potranno essere esaurientemente discusse. Che forse allora, per arrivare più presto, per fare in tempo, dovremmo accontentarci di includere nella Costituzione alcune disposizioni di carattere generale, rimandando i particolari ad una o più leggi costituzionali da esaminarsi dal futuro Parlamento? Ma, se così facessimo, l’ordinamento regionale resterebbe lettera morta per lungo tempo e forse per un tempo indefinito; e non credo che ciò gioverebbe al prestigio stesso della Costituzione che vogliamo preparare.

Se un mese e mezzo o due sono appena sufficienti per l’esame del Titolo V, quanto tempo, poi, richiederanno gli altri cinque titoli della seconda parte del progetto, titoli che, specie i primi tre, si riferiscono a questioni di essenziale importanza, alle basi stesse della struttura dello Stato?

Non occorre, dunque, essere profeti per prevedere che tre o quattro mesi (ed è questa la cifra che indicavo qualche giorno fa all’onorevole nostro Presidente) potrebbero bastare a mala pena per completare l’approvazione del nostro progetto. Da questa constatazione di fatto presi le mosse per presentare il mio ordine del giorno che proponeva una questione pregiudiziale. Ma esso non fu preso in considerazione dall’Assemblea, e si è così venuti alla discussione generale.

D’altra parte, vi è chi possa sostenere che questa riforma sia talmente urgente e pressante da doversi attuare subito, e comunque, senza averla attentamente esaminata? Evidentemente nessuno può pensare questo, nemmeno i fautori più ardenti della riforma, quelli, almeno, che abbiano vivo il senso della responsabilità e se si preoccupino, come si preoccupava giorni fa l’onorevole Ambrosini, delle conseguenze che potrebbe avere un esame affrettato di così grave questione.

Ma, visto che ormai siamo in sede di discussione generale, voglio pregare i colleghi di ascoltare anche il punto di vista di chi, come me, nella Commissione dei 75 è stato, fin dall’inizio, quando la questione venne presentata, risoluto e tenace avversario, un avversario istintivo starei per dire. Oggi non sono più solo, ma allora il mio atteggiamento intransigente provocò aspre critiche specialmente quando, considerando il movimento regionalistico nella sua forma attuale, mi permisi dire che esso a me appariva come un fenomeno patologico della vita pubblica italiana in questo travagliatissimo dopoguerra. Ma, onorevoli colleghi, se per poco ci riflettete, dovrete, io credo, darmi ragione. Non parlo dell’idea regionalistica in sé, che è discutibile, ma certamente rispettabile. Mi riferisco bensì alla forma che oggi quell’idea ha assunto e che si è riflettuta nel progetto di Costituzione.

Presidenza del Vicepresidente TARGETTI

NOBILE. Progetti di riforme regionali sono più volte venuti alla ribalta della vita pubblica italiana, ma è caratteristico che essi siano stati presentati con maggiore insistenza ogni qual volta la compagine statale si trovava indebolita. Questo avvenne subito dopo la prima guerra mondiale; si ripete oggi, dopo la seconda.

In questo suo ultimo ritorno il movimento regionalistico apparentemente è nato come reazione contro il fascismo, ma nella realtà esso è conseguenza del collasso morale, economico, politico seguito alla disfatta. Vi ha contribuito potentemente la vendetta estrema del fascismo che, colpito a morte, divise gli Italiani in due campi avversi, proclamando nel Nord una repubblica fascista. Vi ha contribuito la guerra, con le sue rovine, le sue distruzioni, con tutte le miserie materiali e morali ovunque disseminate. Nel periodo in cui non si poteva più comunicare fra città e città, quando ferrovie, telefoni, telegrafi, posta non esistevano più, quando ogni provincia difendeva egoisticamente la propria produzione agricola, impedendo che fosse trasportata altrove, si sarebbero potute proclamare in Italia venti repubblichette autonome. Fu il periodo in cui Milano si rifiutava di riconoscere Roma come capitale, ed i Lombardi chiamavano sprezzantemente terroni i meridionali, i quali, ritorcendo le accuse, rimproveravano al Nord di essersi arricchito a spese del Mezzogiorno e di aver dato origine al fascismo.

Ma più che tutto vi han contribuito le dure condizioni dell’armistizio e la presenza sul suolo nazionale delle truppe straniere e dell’autorità straniera di controllo, per cui si rese impossibile il rapido riorganizzarsi della vita statale.

Non mi sembra dunque aver torto quando asserisco che l’attuale movimento regionalistico in Italia è in effetti un fenomeno patologico derivante dalla disorganizzazione dello stato nazionale, un fenomeno che già oggi attenuato nelle sue manifestazioni più gravi, finirebbe col tempo con lo scomparire totalmente. Di questa guarigione spontanea si sono avuti chiari segni quando, col lento ma progressivo ristabilirsi delle comunicazioni fra regione e regione, la vita statale unitaria è andata anche essa progressivamente riorganizzandosi. La forte reazione alle tendenze centrifughe di alcuni elementi nazionali ed il rafforzarsi della schiera di coloro che combattono la riforma regionale ne è la conferma.

Il regionalismo per il suo stesso carattere, la sua stessa origine è da considerarsi, dunque, un fenomeno transitorio nella vita politica italiana. Volerlo cristallizzare nel titolo V della Costituzione sarebbe come perpetuare le conseguenze di uno stato morboso.

Si dirà: ma, in Italia, sono sempre esistite delle tendenze regionalistiche.

Questo è vero; ma esse rappresentano un residuo della vecchia divisione dell’Italia in tanti stati indipendenti. L’onorevole Gullo giustamente ci ha detto ieri che se queste tendenze regionalistiche si fossero affermate nell’atto in cui l’unità dell’Italia si formò, ciò sarebbe stato perfettamente spiegabile e giustificabile. Vi erano seri motivi allora perché si potesse pensare a fare una confederazione dei varî Stati in cui si trovava prima diviso il nostro Paese. Ma oggi, a distanza di quasi un secolo, è chiaro che quelle tendenze costituiscono un anacronismo storico.

L’onorevole Mannironi poco fa riconosceva che l’economia non può circoscriversi nell’ambito di una regione, ma la conseguenza logica di questa premessa è tutt’altra di quella cui egli perviene, quando giustifica, come fa, il progetto di ordinamento regionale che ci viene proposto. Esaminate, infatti, attentamente gli articoli 109, 110 e 111, e dovrete necessariamente arrivare alla conclusione che alla base di quegli articoli vi è una concezione di economia regionalistica, che costituisce oggi una vera e propria aberrazione.

Non mi dilungherò a dimostrarlo. È evidente che essa sia un’aberrazione perché nel mondo moderno i fatti economici trasbordano i limiti, non dirò nazionali, ma del continente stesso cui una Nazione appartiene. L’enorme acceleramento ed intensificarsi delle comunicazioni ha da gran tempo distrutto l’economia locale. Nessun paese, neppure i più grandi e più ricchi di risorse naturali, può economicamente considerarsi indipendente dal resto del mondo. Abbiamo visto in Europa, di recente, le conseguenze di uno sciopero minerario avvenuto in America. Parlare oggi di economia regionale è così assurdo come voler tornare al bastimento a vela e alla diligenza postale.

Vi dicevo che si può parlare a lungo per dimostrare a quali gravi conseguenze si giungerebbe accettando gli articoli del progetto di Costituzione dal 109 al 111, con i quali noi daremmo niente di meno facoltà alle Assemblee regionali di emanare norme legislative in materia di agricoltura, foreste, cave, torbiere, acque pubbliche, turismo, strade, acquedotti, industrie, commercio!

Diceva bene ieri l’onorevole Einaudi: questi articoli formicolano – è la sua espressione – di pericoli per l’unità nazionale. Egli ha citato l’esempio delle acque pubbliche, della polizia, del credito: materie nelle quali sostituire ad una legislazione unica nazionale una moltitudine di legislazioni regionali significherebbe veramente voler rifare alla rovescia il cammino della storia. Ma gli esempi si potrebbero moltiplicare.

Io mi fermerò solo a considerare un istante quello delle strade e delle linee automobilistiche. Non si pensi infatti che il problema automobilistico costituisca un argomento di scarsa importanza, perché nel mondo moderno i trasporti automobilistici tendono ad estendersi sempre più e fanno realmente concorrenza alle ferrovie: guardate, sotto questo riguardo, quello che avviene in America.

Or dunque si parla nell’articolo di linee automobilistiche di interesse esclusivamente regionale; ma quale linea automobilistica potrebbe considerarsi di interesse esclusivamente regionale? Tutto al più quella che collega la stazione ferroviaria ad un piccolo paese appollaiato sulla montagna. Ma evidentemente non è di interesse puramente regionale una linea automobilistica che congiunga, putacaso, Napoli con Benevento. Non è di interesse esclusivamente regionale perché anche all’industriale lombardo interessa moltissimo di andare quanto più celermente sia possibile da Napoli a Benevento o a Foggia.

Mi soffermo, onorevoli colleghi, in modo particolare, a considerare questo problema delle comunicazioni, perché sono convinto che esse hanno avuto sempre, e hanno oggi più che mai, un’importanza decisiva nello sviluppo economico, sociale, culturale, politico dei vari paesi.

Mi capita tra le mani in questo momento una relazione presentata alla Camera dei Deputati italiana nella sessione del 1866, che porta il titolo: «Delle condizioni della viabilità in Italia». Varrebbe la pena la esaminaste per constatare come già allora fosse chiara nella mente dei legislatori italiani l’importanza che ha la viabilità per l’economia nazionale. Basta citare frasi come queste: «Le strade sono come le arterie e le vene che portano la vita per ogni dove. La viabilità è il primo fattore della prosperità e della civiltà di un paese». E più avanti: «La stessa prosperità delle provincie ben provviste di strade addiviene una cagione di miserie per quelle che ne sono prive, perocché, non potendo produrre alle stesse facili condizioni, spesso non possono sostenere la concorrenza». E, ancora, basta dare un’occhiata alle statistiche contenute negli allegati della relazione per constatare come misere fossero in quel tempo nel Mezzogiorno d’Italia le condizioni della viabilità! L’allegato I porta questa epigrafe significativa: «Perché un paese possa prosperare deve avere almeno un chilometro di strade ordinarie per ogni chilometro quadrato di superficie». Ma, ahimè, le cifre che seguono mostrano come le provincie del Mezzogiorno fossero lontanissime da quella meta desiderata. Per la Sicilia, la Calabria, gli Abruzzi si era al disotto dei cento metri di strada per ogni chilometro quadrato di superficie!

L’importanza del problema della viabilità era dunque inteso fin d’allora, quasi un secolo fa. Oggi sarebbe vergogna ignorarlo; ma equivale ad ignorarlo affermare che le strade, le linee automobilistiche, le tranvie extraurbane costituiscono un interesse puramente regionale.

Presidenza del Presidente TERRACINI

NOBILE. Il fatto è, onorevoli colleghi, che le condizioni arretrate del Mezzogiorno dipendono in gran parte precisamente da questo: che nel momento in cui l’Italia venne unificata le comunicazioni stradali vi erano scarsissime. L’onorevole Gullo Fausto ha ricordato ieri che un’unica strada, senza alcuna diramazione laterale, «quasi un fiume senza affluenti», congiungeva Napoli alle Calabrie, sicché non vi era possibilità di giungere agevolmente nell’interno. I mali da cui ancora oggi sono afflitte tante regioni del Mezzogiorno derivano essenzialmente da quella specie di isolamento in cui esse si trovarono per secoli. Questa è la causa per cui esse, rispetto alle regioni del nord, si trovano indietro, nell’economia, nella struttura sociale, nell’educazione.

Nel secolo scorso la rivoluzione industriale da prima, e quella meccanica dopo, fecero sentire dovunque in Italia, dal parallelo di Roma in su, la loro influenza, mutando profondamente le condizioni economiche e sociali; ma nella Lucania, in Calabria, in Sardegna, tagliate come esse si trovavano fuori delle grandi correnti commerciali moderne a causa delle scarse e difficili comunicazioni esterne ed interne, quell’influenza si risentì con grande ritardo ed assai lentamente, solo dopo che quelle Regioni vennero riunite alle altre parti d’Italia.

Il Mezzogiorno ha avuto le sue strade ordinarie con un ritardo di secoli rispetto alle altre regioni. In Sardegna, ad esempio, perdute perfino le tracce delle strade costruite da Roma antica, soltanto nel 1829 fu aperta al traffico la prima strada nazionale: quella che congiunge Cagliari con Porto Torres, per Oristano e Sassari. Pensate: solo nel 1829!

In quanto a ferrovie permettete che vi citi qualche cifra.

Al momento dell’unificazione su 1829 chilometri di ferrovie esistenti in Italia appena 99 erano nel Mezzogiorno, e non un solo chilometro in Sardegna. Ma dopo l’unificazione, come ne è testimonianza la relazione che vi ho citato avanti, il Governo centrale intraprese in tutto il Mezzogiorno la costruzione di ferrovie, sicché nel 1872, su 6778 chilometri di ferrovie esistenti in Italia, 2186 erano nel Mezzogiorno. Oggi la situazione è questa: mentre in tutto lo Stato si hanno 50.8 chilometri di ferrovie per ogni 100 mila abitanti, nelle regioni del Mezzogiorno, se si fa eccezione solo della popolatissima Campania, le cifre sono molto più alte della media nazionale. Al primo posto è la Sardegna con 120.4 e al secondo la Lucania con 105.7. Che se poi si riferisce lo sviluppo ferroviario alla superficie, si trova che la Sicilia, la Calabria, la Campania, le Puglie, hanno una lunghezza di ferrovie notevolmente superiore alla media statale. Secondo l’indice Mortara, che tien conto a un tempo e della popolazione e della superficie, il primo posto in Italia nello sviluppo delle ferrovie è tenuto proprio dalla Sardegna!

Onorevoli colleghi, della questione del Mezzogiorno, anche senza volerlo, vien fatto di parlare quando si parla di ordinamento regionale. Questo ordinamento viene invocato dai suoi fautori come un toccasana per i guai del Mezzogiorno; ma per mio conto son convinto che esso, anziché far progredire le regioni meridionali portandole al livello di quelle centrali e settentrionali, inevitabilmente condurrebbe invece a rendere più profonde le differenze tra esse esistenti. Questo vi spiega perché i più decisi avversari ai varî tentativi fatti fin oggi in Italia di ordinamento regionale siano stati sempre gli uomini politici meridionali. Si potrebbe citarne uno per tutti: Giustino Fortunato.

Bene ha detto l’onorevole Gullo che nell’unificazione dell’Italia il Mezzogiorno portò non le sue ricchezze, che erano solo apparenti, ma le sue miserie. Queste miserie del Mezzogiorno d’Italia sono soprattutto dovute all’isolamento in cui esso visse, isolamento che fu anche la causa precipua per cui vi mancò durante il medioevo una vita municipale. Certo, a queste miserie contribuirono anche i due secoli di dominio spagnolo che, come disse Leopoldo Franchetti, puntellarono il cadente edificio feudale fecondando i germi di decomposizione morale e sociale sparsi dai secoli precedenti. Perfino la Rivoluzione francese tardò a far sentire nel Mezzogiorno d’Italia i suoi effetti, e a penetrarvi col suo soffio rinnovatore e vivificatore. Il decennio di predominio francese, coi regni di Giuseppe Bonaparte e di Gioacchino Murat, soppresse la feudalità, impose i Codici napoleonici, ma non riuscì a intaccare la composizione sociale ed economica del Mezzogiorno. Questa solo da una rapida espansione delle comunicazioni interne ed esterne con le altre parti d’Italia e col resto del mondo poteva, e può, venir modificata.

Tutti i guai, vecchi e nuovi, delle varie parti del Mezzogiorno d’Italia dipendono per l’appunto da questa scarsezza di comunicazioni. La causa dell’arretratezza della Sardegna va ricercata nel suo isolamento, che costituì il fattore determinante delle sue vicende storiche. Per la sua posizione, nel mezzo del Mediterraneo occidentale, all’isola era nei secoli scorsi difficile accedere; ancora più difficile era penetrare nel suo interno a causa della mancanza di strade. Tutti i mali della Sardegna si ricollegano a questo suo isolamento; ma ad esso non si può rimediare con le sole forze dei sardi. Occorreva ed occorre il concorso di tutte le altre parti d’Italia, e questo concorso vi fu. Strade, ferrovie, opere di bonifica, valorizzazione di miniere, etc., erano tutte cose inesistenti al momento dell’unificazione, ed è difficile, direi anzi impossibile, sostenere che tutto ciò sarebbe stato fatto se la Sardegna si fosse governata da sé.

Si potrebbe, come dicevo, parlare molto a lungo sugli articoli 109, 110 e 111. L’articolo 109, ad esempio, considera lo sfruttamento di torbiere come materia di interesse esclusivamente regionale. Non vi è chi non veda quanto sia assurda tale pretesa in un paese povero di combustibili come è il nostro. L’articolo 110 concede alla Regione la facoltà di emanare norme legislative sulle tranvie e sulle linee automobilistiche regionali. Vi sarebbe quindi la possibilità che in una regione si costruiscano linee tramviarie o si impiantino servizi automobilistici paralleli e concorrenti con le ferrovie gestite dallo Stato, con quali conseguenze economiche ognuno può immaginare.

Secondo il progetto non dovrebbe affatto interessare al resto dell’Italia se una tale Regione sviluppi oppur no le sue strade, i suoi porti lacuali; costruisca o pur no i suoi acquedotti; sfrutti o pur no le sue torbiere e le sue cave; dia o pur no incremento al turismo, che pure notoriamente è una delle fonti più importanti di reddito nazionale. Se una Regione è, e vuol rimanere, arretrata economicamente, socialmente, e culturalmente è cosa che riguarderebbe soltanto essa. Eseguire o pur no un’opera di bonifica o di irrigazione, risanare zone malariche; dare o pur no un adeguato sviluppo all’istruzione tecnico-professionale; sviluppare l’agricoltura; utilizzare o pur no le acque pubbliche, sono considerate faccende di interesse puramente regionale!

Se nel passato, durante quasi un secolo di vita unitaria, fossero prevalsi questi criteri, non sarebbe stato costruito l’acquedotto pugliese, né compiuta la bonifica di Sanluri, né risanate le paludi pontine, né costruite in Sardegna oltre mille chilometri di strade nazionali, cioè l’ottava parte di quelle costruite nel regno, sebbene in superficie la Sardegna rappresenti solo la tredicesima parte del territorio nazionale.

A un tale assurdo porterebbe il frazionamento del nostro Paese in ventidue regioni autonome, ciascuna con un’Assemblea legislativa avente il diritto di legiferare, o anche di non legiferare, su materie che solo apparentemente possono ritenersi di interesse regionale, ma che in realtà sono di interesse nazionale.

Io non credo che il popolo italiano domandi una tale assurda riforma. Tutto ciò che gli Italiani oggi domandano è che si riorganizzi la vita economica del Paese, si ricostruisca quello che è andato distrutto, si combatta la disoccupazione, si pongano le condizioni necessarie per elevare il livello economico e culturale delle classi più diseredate, si consolidino le istituzioni democratiche.

Essi domandano inoltre che le funzioni dello Stato si decentralizzino. È un’antica aspirazione, un problema vecchio di almeno mezzo secolo. È ridicolo che per sbrigare una piccola faccenda amministrativa o giudiziaria un calabrese, un lombardo, un sardo debbano recarsi a Roma. Si sente il bisogno di decongestionare questo enorme centro statale che è Roma, sveltirlo, renderlo efficiente.

Se l’ordinamento regionale significasse questo, non credo vi sarebbe alcun italiano che non l’approverebbe ad occhi chiusi. Ma così come ci viene presentato esso, al contrario, significa un moltiplicarsi di meccanismi burocratici, che interferiranno l’uno con l’altro; il sovrapporsi di una rete di ventidue burocrazie regionali, a quella statale. Significherebbe soprattutto la disgregazione dell’unità nazionale.

Che questo pericolo realmente sussista, che non sia frutto della mia immaginazione ve lo conferma l’ultimo comma dell’articolo 113 col quale la Commissione dimostra che essa stessa è veramente preoccupata che il regionalismo possa degenerare in federalismo. Infatti in quel comma è prescritto che la Regione non possa prendere alcun provvedimento che ostacoli in qualsiasi modo la libera circolazione delle persone e delle cose; che non possa istituire dazi di importazione o di esportazione. E non è forse chiaramente palese in questo testo la dichiarazione dei pericoli impliciti nell’ordinamento regionale che ci si propone? Non fornisce esso la prova che la Commissione stessa che ha preparato il progetto pensa che l’ordinamento regionale possa condurre alla disgregazione dell’unità nazionale?

Io non voglio occuparmi in particolare dello Statuto siciliano: esso richiederebbe una lunga discussione. Ma frattanto vi è qualche cosa che mi ha colpito leggendolo. A parte il fatto che con esso la Sicilia viene eretta a un vero stato autonomo (basti considerare che lo Stato Italiano non vi ha nemmeno un suo rappresentante; esso può avervi bensì dei Commissari, ma solo alla dipendenza del Capo della Regione), vi è la cosa curiosa che al Presidente del Governo Regionale viene riconosciuto il rango di Ministro della Repubblica, e come tale egli ha il diritto di partecipare con voto deliberativo al Consiglio dei Ministri. È vero che tale voto deliberativo dovrebbe essere limitato alle materie che interessano la Sicilia; ma una distinzione in questo campo è assai difficile, potendosi sempre sostenere che tutto interessi, sia pure indirettamente, la Regione siciliana.

Avendo ammesso che il Capo della Regione siciliana intervenga nel Consiglio dei Ministri col rango di Ministro, e con voto deliberativo, come si potrà negare un analogo privilegio ai capi delle altre tre Regioni alle quali si promette un’autonomia speciale, voglio dire la Sardegna, la Val d’Aosta e l’Alto Adige? Sicché avremo almeno quattro presidenti regionali che parteciperanno al Consiglio dei Ministri. Concesso questo privilegio a quelle quattro regioni, sarà difficile, poi, che non venga esteso anche alle altre. Come si potrà – infatti – negarlo a regioni aventi l’importanza della Lombardia, del Piemonte o della Campania? Correremmo, così, il rischio di avere un Consiglio di Ministri, di cui sarebbero membri permanenti ventidue rappresentanti regionali, che continuerebbero a restare in carica anche durante e dopo una crisi di governo.

Si vede, dunque, a quale assurdo si potrebbe giungere col concedere queste autonomie regionali: donde la necessità di andare cauti, anche perché, fatta una concessione, sarà difficile poi tornare indietro. Altra buona ragione, questa, per considerare con diffidenza l’ordinamento regionale che ci viene proposto.

Se il regionalismo fosse inteso come decentramento amministrativo delle funzioni statali non vi sarebbe nulla da obbiettare; ma inteso come istituzione di una vita regionale, economica e sociale chiusa in sé stessa, sarebbe il peggiore dei malanni che ci potrebbe capitare in questo dopo guerra.

Tuttavia, se vi sono fanatici avversari del regionalismo, non credo che io debba annoverarmi fra i suoi avversari fanatici. Ciascuno di noi è un po’ regionalista, anche se le vicende della vita ci abbiano fatto allontanare dal nostro campanile. Se per regionalismo s’intende prendere interesse al passato del paese dove si è nati, alle tradizioni, ai costumi, ai paesaggi, alle leggende, ai dialetti, alle canzoni della propria terra, tutti noi, penso, possiamo considerarci regionalisti, e questo ci dispone naturalmente ad intendere ed accettare quel qualsiasi di buono che possa esservi nell’attuale movimento regionalistico. Ma quel buono, disgraziatamente, è talmente inviluppato nel male, che non è facile sceverare l’uno dall’altro. Riconosco, e ne sono rimasto ancora più persuaso dopo aver sentito l’onorevole Einaudi, che potrebbe giovare immensamente al nostro Paese promuovere e sviluppare una vita politica locale; gioverebbe assai alla democrazia creare e stimolare l’interessamento dei cittadini alle cose locali, contribuendo così a creare una nuova classe politica che acquisti nell’amministrazione del proprio Comune, della propria Provincia la necessaria esperienza per poter, poi, assurgere al ruolo di classe dirigente della vita pubblica nazionale. Una vivace, vigorosa vita politica locale è desiderabile, ma questo non può, non deve significare lasciar libero il campo alle clientele locali, il cui predominio fu, ed è tuttora, una delle cause principali della arretratezza delle regioni italiane del Mezzogiorno.

Mi sia, a questo proposito, permesso di citare le parole di un grande uomo politico meridionale, Giustino Fortunato, che mezzo secolo fa ammoniva:

«Se voi intendete attribuire ai corpi locali, più o meno autonomi, vere e proprie funzioni di Stato, se di codeste funzioni volete commettere insieme la deliberazione e la esecuzione, io non esito un solo istante a respingere lungi da me, nell’interesse stesso di quelli fra i miei corregionari che più soffrono e più lavorano, un dono così fatto, che in mezza Italia renderebbe sempre più l’organizzazione dei poteri pubblici una vasta, poderosa, odiosa clientela delle classi dominanti, e l’Italia stessa un oggetto di lusso, fatta per chi possiede e chi comanda, i signori, i ricchi, i pubblici funzionari e gli uomini politici».

Soprattutto, aggiungo io, questo governo locale non può, non deve, realizzarsi a spese dell’unità nazionale. Del resto, in Italia già esistono dei centri, starei per dire, naturali, di vita sociale, politica, economica, culturale. Essi sono le nostre cento belle città con i loro innumeri monumenti, con le loro tradizioni, la loro cultura, la loro storia. Queste nostre città, realtà viventi, non formazioni artificiose, corrispondono più o meno alle nostre province. Non vi è dubbio, diceva Farini, che la provincia in Italia si sia «formata intorno al Comune del medioevo, erede del municipio romano, intorno alla città, che fu il gran fattore della civiltà italiana e della quale la provincia nostra porta il nome».

Questi centri di vita locale, dunque, esistono già, naturalmente. Non occorre crearne altri. Basta dare ad essi maggior vita amministrativa e politica.

La Provincia, come ente autarchico, ha oggi, tutti lo riconoscono, una potenzialità eccessivamente limitata. Non vi è che da estenderla. Nulla impedisce che Assemblee provinciali, elette a suffragio universale, siano chiamate ad esaminare e discutere proposte di legge, di interesse provinciale, da presentare poi al Parlamento. Niente impedisce che queste stesse Assemblee abbiano anche una certa facoltà normativa in materie di interesse strettamente locale, in nessun modo interferenti con gli interessi nazionali.

Se poi per il decentramento delle funzioni amministrative dello Stato si avvertisse il bisogno di creare un ente intermedio tra lo Stato e la provincia, tra lo Stato ed i comuni, ben venga anche l’istituzione della Regione, e ben vengano, se sarà necessario, anche le Assemblee regionali, che discutano i problemi della regione, e che delle loro conclusioni facciano oggetto di proposte di legge al Parlamento nazionale; ma esse stesse non legiferino!

Ma, così concepita, la regione non potrebbe avere un’estensione media così limitata quale risulta dall’articolo 123, comprendente, cioè, solo quattro delle attuali province. Se si dovesse costituire una regione per le provincie di Napoli e Caserta, un’altra per la Lucania, ed un’altra ancora per Salerno ed Avellino, come taluni vorrebbero, tanto varrebbe rinunziare a costituire il nuovo ente, che, per avere un’estensione territoriale troppo limitata, non potrebbe, a mio avviso, adempiere bene ai compiti amministrativi che gli si vorrebbero assegnare, e tanto varrebbe affidare anche questi alle attuali provincie.

Onorevoli colleghi, ho terminato. Sento di dovervi chiedere scusa per avervi intrattenuto così a luogo, ma questo argomento mi ha appassionato, come credo che dovrebbe appassionare tutti i buoni italiani.

L’ordinamento regionale presenta, in verità, gravi pericoli; né si può accettare la tesi dell’oratore che mi ha preceduto, l’onorevole Mannironi, secondo cui anche se pericoli ci fossero questa non sarebbe una buona ragione per trattenersi dal mettere mano alla riforma, allo stesso modo (così egli ha detto) come non ci si trattiene dal viaggiare in aeroplano, anche sapendo di correre il rischio di cadere. Non sono d’accordo. Certo se il viaggio è urgente e necessario, se non vi è altra maniera di farlo, si prende senza esitare l’aeroplano, anche con tempo burrascoso, anche se si ha ragione di dubitare della robustezza dell’apparecchio. In tal caso è giusto correre l’alea. Ma sarebbe follia farlo, quando quella necessità urgente non vi sia; e sarebbe poco meno che un delitto quando, pur scorgendo chiaramente il pericolo e potendo fare a meno del viaggiare, imbarcassimo su quell’aeroplano la nostra madre o i nostri bambini.

Per chiudere consentitemi, vi prego, ricordare il monito severo che Giuseppe Mazzini lanciava contro quello Stato federale, che taluni, al tempo della unificazione, vagheggiavano, ed il cui pericolo oggi si ripresenta sotto le spoglie dell’ordinamento regionale: «Esso spingerebbe l’Italia a retrocedere verso il medioevo, contrariamente a tutto quanto il lavoro interno del nostro incivilimento e della serie progressiva dei mutamenti europei, che guida inevitabilmente le società moderne a costituirsi in masse unitarie sempre più vaste».

Questo ammonimento risuonò già una prima volta in questo medesimo palazzo di Montecitorio, or sono cinquantuno anni, nella giornata del 3 luglio 1896; e fu di quel Giustino Fortunato che dianzi ho ricordato, che terminava il suo discorso con queste parole che giova ripetere: «L’Italia o sarà una, come è detto nelle tavole dei plebisciti, che sono lì in alto, dietro al banco della Presidenza: o sarà una, tutta ricomposta in unico stampo, o non sarà. Chi pensa diversamente è in errore, e del suo errore, io temo, potrebbe un giorno amaramente pentirsi». (Applausi Congratulazioni).

PRESIDENTE. È iscritto a parlare l’onorevole Varvaro, ma egli ha fatto giungere richiesta telegrafica di spostare il suo turno, non avendo possibilità di giungere in tempo per la seduta di oggi. Ritengo che si possa aderire alla sua domanda.

È iscritto a parlare l’onorevole Lussu. Ne ha facoltà.

LUSSU. Penso di limitare il mio intervento su questo problema che interessa tutti (e particolarmente me che appartengo a un gruppo parlamentare che si chiama autonomista e che sono venuto ancora giovane alla vita politica con un partito che dichiaratamente ha voluto definirsi autonomista) solo ad alcune considerazioni di carattere generale: quasi essenzialmente a dimostrare la razionalità e la democraticità di questa riforma.

Non toccherò i punti che da altri autorevolmente sono stati toccati. Gli onorevoli colleghi che parleranno dopo di me – ed ho visto nell’elenco che sono parecchi – non mancheranno certamente di trattare quelle parti importanti alle quali io non faccio neppure cenno. Non mi soffermerò neppure sulla Sardegna, per la quale dovrei pur dire qualche cosa dopo le brevi statistiche lette dall’onorevole Nobile, e non parlerò nemmeno della Sicilia e delle regioni poste al limite delle nostre frontiere, perché per le quattro regioni l’articolo 108 riconosce il diritto a Statuti particolari. In realtà non è la Commissione dei 75 che ha riconosciuto questo diritto, ma provvedimenti del Governo, quando esso aveva tutti i poteri esecutivi e legislativi, ed è in base a questi provvedimenti che la Sicilia ha avuto la sua autonomia, e pure con una legge del Governo la ha avuta la Val d’Aosta. Molti ben sanno che per la Sardegna il Governo si era impegnato già da molto tempo ad adottare gli stessi provvedimenti, come per la Sicilia, e che la Consulta nazionale, quando esaminava il progetto dello Statuto siciliano, apportò delle modifiche con cui estendeva questo alla Sardegna. Fu poi la Consulta regionale sarda, a torto od a ragione non saprei dire, ma era comunque nel suo diritto, ad affermare la necessità di una maggiore ponderatezza nello studio, e questa è la ragione per cui lo Statuto della Sardegna è stato presentato soltanto in questi giorni al Governo. Se la crisi fosse stata risolta, credo che il nuovo Governo lo avrebbe già trasmesso in esame alle Commissioni competenti.

Io concordo, per questi Statuti particolari, su alcune cose che si dicono in tutti i settori, e concordo su quanto ha detto molto autorevolmente l’onorevole collega Einaudi. È chiaro che questa Assemblea ha il diritto di esaminare lo Statuto siciliano, quello sardo, quello della Val d’Aosta e l’altro Statuto particolare; ha il diritto di farlo, ma ha prima di tutto il dovere di fissare i principî generali che riguardano la riforma autonomistica per tutto il Continente, per collegare questi con i principî che regolano gli Statuti dalle autonomie particolari. Ma, cittadino dello Stato italiano, che ha una profonda coscienza nazionale, io avrei rossore di me stesso se, dopo aver ottenuto lo Statuto per la Sardegna, mi disinteressassi del problema per il resto dell’Italia continentale. Per me il problema della riforma è anzitutto un problema generale di democrazia, e tocca tutta Italia, di cui le regioni a Statuti particolari non sono che piccoli settori. Vano sarebbe d’altronde parlare di autonomia in queste regioni, se dallo stesso spirito autonomistico non è pervasa tutta la struttura dello Stato nazionale.

Veramente questa autonomia è presentata all’Assemblea in un momento particolarmente difficile, in cui lo Stato e la società sono in crisi. Le difficoltà, pertanto, che si sarebbero trovate in ogni momento, anche il meno difficile, per avere i consensi favorevoli a questa riforma, aumentano, e delle difficoltà estranee a questo progetto, si trae pretesto per dire che ormai la riforma non è più attuale, dimenticando che, proprio di fronte alle difficoltà della situazione generale noi, sostenitori delle autonomie, abbiamo presentato questo progetto di riforma nell’interesse della ricostruzione della società e dello Stato.

È probabile, anzi lo credo certo, che, anche senza queste difficoltà, in tempi infinitamente più lieti per il nostro Paese, questo progetto avrebbe trovato forti opposizioni. Questo progetto è arrivato qui, indipendentemente dalla crisi dello Stato e della società, criticato, avversato, attaccato, odiato, ed è arrivato così come voi lo vedete. Dando ai nobili animali che sto per citare lo stesso grado di nobiltà, direi che questo progetto si trova nella situazione di un cervo inseguito dai cani. E sviluppando questa similitudine, in cui l’autonomia è rappresentata da un cervo, e da un cervo maschio, io aggiungerei pensando agli attributi caratteristici di questo nobilissimo animale: poveretto, quante corna, parecchi, fino a questo momento, gli hanno già messo! (Si ride).

Inizialmente, presso i Settantacinque, i principî generali della riforma erano accettati da tutti. Io ricordo il parere che manifestò la seconda Commissione presieduta dal nostro attuale Presidente dell’Assemblea: ebbene, pressoché tutti eravamo d’accordo sui principî, tranne naturalmente l’onorevole collega Nobile, il quale concepisce lo Stato come una specie di corpo rigido, con un comandante e con un equipaggio (Si ride) un po’ nelle nuvole. Egli ci ha detto, d’altronde, testé, che per istinto, quasi, è contrario al progetto. Contro l’istinto e contro i sensi, non c’è che la ragione. (Si ride).

Onorevole collega Nobile, la filosofia sensista è sorta da oltre un secolo in Francia ed è da oltre un secolo che è stata superata.

L’autonomia, insomma, sembrava inizialmente sbocciare in un clima favorevole, in piena primavera, fra i sorrisi della natura circostante. Piano piano il clima è precipitato; la primavera è scomparsa e anche l’estate è scomparsa. È sopravvenuto improvviso l’autunno, e molte foglie sono cadute. Ora siamo in pieno inverno. Quando parla l’onorevole Nitti, si sente addirittura bisogno della pelliccia (Si ride).

Che cosa è mai successo? Bisogna riconoscere che questa riforma, che questa grande riforma ha svegliato di soprassalto non poche abitudini assopite, anzi, diciamo pure, addormentate. E si fa in fretta a passare dallo stato d’allarme allo stato di guerra: ora siamo in piena ostilità.

La burocrazia centrale, rispettabile, ma sempre burocrazia e sempre centrale, i prefetti, gli impiegati delle provincie, alcune Camere di commercio, i capoluoghi di provincia, hanno creato una specie di oligarchia federata ed hanno costituito un fronte unico antiautonomistico, decisi a battersi dirò così, sino all’ultima cartuccia unitaria della riserva dell’esplosivo centralizzato.

Il corpo elettorale dei capoluoghi di provincia ha avuto in tutto questo un gran predominio ed ha tutto intorno a sé influenzato il corpo elettorale generale. Nessuno in quest’aula può essere insensibile a quel corpo elettorale da cui noi traiamo tutti vita, anche i migliori. I capoluoghi di provincia si sono collegati e conducono una campagna, per cui si è arrivati a questo punto: che noi del Comitato delle autonomie riceviamo delle lettere tutti i giorni che, se è vero che devono in certo senso rallegrarci perché sono l’espressione di una democrazia diretta, tuttavia contengono delle vere e proprie minacce; si parla con i pugni chiusi. Non c’è un’arma né da taglio né da sparo, nei pugni chiusi, ma c’è un’altra arma per la quale ciascuno di noi ha il rispetto dovuto: l’arma del voto.

E le cose si sono inasprite e tal segno che il nostro collega onorevole Ambrosini, Presidente del Comitato delle autonomie e relatore di fronte ai trentanove della seconda Sottocommissione – non posso esimermi, la prima volta che pronunzio qui il suo nome, dal rendere omaggio alla sua bontà, al suo lavoro, al suo generoso lavoro, al suo modo di convivere in una compagnia così disparata come quella della seconda Sottocommissione e del Comitato delle autonomie – il buono e bravo Ambrosini dunque ha ricevuto tante rimostranze, verbali e scritte – egli può ben dirlo – di pezzi grossi dei vari ambienti che, credo, se egli avesse un figlio, l’oligarchia federata glielo avrebbe rapito, per rilasciarlo poi subito naturalmente, dietro impegno di ritirare il progetto. (Si ride).

Più che per volontà dell’oligarchia federata, è stata la natura delle cose che ha fatto sì che il capo di questo pronunciamento antiautonomistico sia diventato uno degli uomini – l’onorevole Rubilli mi perdoni, ma egli è una matricola al confronto – uno degli uomini più autorevoli in questa Assemblea e nel Paese; un uomo verso cui la devozione di ciascuno di noi è assoluta, un uomo che, per la sua vita onesta e forte, onora l’Italia: i colleghi hanno capito di chi io intenda parlare: l’onorevole Nitti.

L’onorevole Nitti è stato infatti il più feroce – credo di poterlo dire – il più implacabile dei nemici dell’autonomia. Egli ha detto testualmente: «Questo progetto mi spaventa e mi terrorizza», «questo è il dissolvimento di tutta la Nazione».

Il dissolvimento! «È aperta l’ora delle pazzie – delle pazzie! – e della disintegrazione», ha continuato l’onorevole Nitti; ed è arrivato persino a chiamare delittuosi i giusti provvedimenti presi all’unanimità, credo, per la Val d’Aosta. Ecco quindi che noi usciamo dal campo del diritto pubblico costituzionale, per entrare in quello del diritto pubblico penale: siamo già nel campo del delitto.

La voce di un così insigne uomo di Stato, il quale, è risaputo, parla spesso con indulgenza verso il prossimo, vicino o lontano (Si ride), ha impressionato parecchi in quest’aula e credo nel Paese: vero è che parecchi non attendevano altro che di essere impressionati, così, in senso unico.

Vero è anche che l’onorevole Nitti, nel suo intervento, ha criticato acerbamente l’ottimismo, come uno dei mali più grandi e diffusi del popolo italiano, di cui noi autonomisti saremmo particolarmente affetti. In verità, questo va riconosciuto, egli non è stato mai ottimista.

Questo è esatto. V’è chi ha l’onore di conoscerlo da cinquanta anni e v’è chi ha l’onore di conoscerlo da venti anni, ed io appartengo a questi ultimi, ma tutti possiamo affermare che l’onorevole Nitti, al Governo e fuori del Governo, non è mai stato ottimista. Anzi, egli è stato sempre pessimista, spesso catastrofico. Ma non è detto che i fatti abbiano dato spesso ragione al suo pessimismo. E, sinceramente, neppure al suo raro ottimismo. (Si ride). Una sola volta, recentemente, rompendo un’abitudine di tanti anni, l’onorevole Nitti è stato sinceramente ottimista, anzi gioiosamente ottimista, quando, ricevutone l’incarico ufficioso dal Capo dello Stato, s’è accinto a costituire il suo Ministero. Ebbene – l’onorevole Nitti me lo consentirà certamente – quella era una delle rare occasioni in cui il suo ottimismo poteva essere, se non pienamente, certo notevolmente ingiustificato. (Si ride).

L’onorevole Nitti ha messo innanzi la Francia per farci vergognare di questa nostra pazzia autonomistica. La Francia, che pure comporta regioni fra di loro infinitamente più differenti di quello che non siano le regioni in Italia, non ha mai pensato – egli ci ha detto – a concedere le autonomie, neppure per i paesi baschi e per la Corsica. Ma la Francia – intendo dire la Francia, potere centrale – non ha mai concesso le autonomie per il semplice fatto che le autonomie non sono state mai richieste da nessuna regione. In Francia non è mai esistita un’esigenza autonomistica e non è mai esistita una coscienza autonomistica. (Commenti).

Una voce a sinistra. La Normandia!

LUSSU. Neppure per quelle regioni che si sono trovate estranee a quella che è la formazione originaria della Nazione francese. I Paesi baschi, posti al di qua dei Pirenei, sono stati totalmente assorbiti dal processo centralistico di Parigi e della monarchia di Francia. Egli ci ha citato qui il generale Foch.

Io potrei aggiungere – perché anch’egli è nato a Pau – Enrico IV. Ma quella è la zona della grande Guascogna, nella quale è chiuso il piccolo nucleo di origine totalmente sconosciuta, quale è quello del popolo basco. È una piccola parte, attorno a Bajona e Biarritz che non ha mai dato espressioni di vita particolare. Se mai, si può dire che da quel piccolo centro sono sempre sorti dei nazionalisti francesi, degli sciovinisti arrabbiati: il deputato Ybarnegarai, per esempio, li rappresentava tutti. Ma al di là dei Pirenei, i Paesi baschi rappresentano tutt’altra cosa, vissuti come sono in una formazione storica totalmente differente, in una monarchia feudale che non ha niente a che fare con quella che vi è stata in Francia. Là i Paesi baschi hanno sentito il problema autonomistico come un problema di libertà e lo hanno posto in termini di libertà e di democrazia. E nelle ore più gravi che ha attraversato la nazione spagnola, i baschi – paese tutto di cattolici – si sono battuti a fianco dei repubblicani spagnoli contro Franco, Hitler e Mussolini, scrivendo una pagina infelice, ma gloriosa, che rimane ai loro atti.

Lo stesso si può dire per la zona catalana, piccola zona al di qua dei Pirenei attorno a Perpignano, che vive avulsa dalla grande regione catalana al di là dei Pirenei, attorno a Barcellona.

E la Corsica? La Corsica non ha avuto solo Napoleone, che la riallaccia definitivamente alla Francia dopo la sconfitta di Pasquale Paoli a Pontenuovo, ma gran parte della burocrazia civile e militare francese è còrsa. Non c’è famiglia in Corsica che non abbia un suo membro impiegato dello Stato francese. Fra il serio ed il faceto, i còrsi dicono: ma è la Corsica che ha conquistato la Francia! Fino a pochi anni fa i più grandi avvocati del foro di Parigi erano córsi, e córso era il prefetto di polizia della capitale, e córso o di origine recentissima còrsa è il più grande dei poeti moderni francesi, Paul Valéry, che l’onorevole Nitti ha citato. Il porto di Marsiglia è in gran parte o totalmente in mano dei córsi e la navigazione interna francese è quasi tutta in mano ai córsi; córsi i posti di comando nell’Africa del Nord, e, nel vasto mondo coloniale francese, i córsi girano e fanno affari come se fossero in casa loro. O meglio, girano e fanno quegli affari che non possono fare nella loro casa, nella loro piccola e povera casa.

Autonomia? Mai chiesta o sognata! C’è stato, sì, dopo l’altra guerra, un piccolo movimento attorno al settimanale «A Muvra», un movimento non organizzato politicamente, il quale era in realtà più letterario-folkloristico che politico, e che non è finito bene, anzi è finito male, perché alcuni aderenti si son fatti convincere, pare, da influenze molto dirette del fascismo di Roma.

Autonomia? Ma metà dei córsi vive fuori dell’isola e questa non paga neppure le imposte necessarie agli stipendi di un terzo degli impiegati córsi dello Stato! È chiaro che un movimento autonomista non c’è e non ci poteva essere.

Un movimento autonomista era sorto in Bretagna dopo l’altra guerra, ma il suo proselitismo era scarso poiché si allacciava alla bella ed infelice duchessa Anna, sposa – mi pare – di Carlo VIII. Era un gruppetto di intellettuali a nostalgie feudali, che viveva attorno ad un piccolo giornale di lingua celtica che nessuno mai comperava e che si spediva nel Paese di Galles e in qualche altro centro dell’Irlanda in occasione di partite internazionali di calcio e che limitava la sua azione politica a sporcare e a sfregiare regolarmente a Nantes la statua di Clemenceau, il quale era bretone, come l’onorevole Nitti è basilisco.

Fare dei raffronti fra la Francia e l’Italia è veramente fuori posto! La Francia è stata nei secoli il Paese più unitario d’Europa, più ancora della Spagna, molto più di quella, con un’organizzazione statale fortissimamente centralizzata.

Da quando Luigi XI piegò la nobiltà feudale fino a Luigi XIV, fino ai giacobini, fino al primo impero, fino al secondo impero, sino alla terza repubblica, fino alla quarta repubblica, la Francia rimane uno Stato burocraticamente centralizzato. È per questo che la Francia è il solo paese democratico, civile e moderno d’Europa in cui l’impiegato dello stato appartiene all’Olimpo; e in cui si dicono grosse parole al cittadino cui venga la mala idea di entrare in un ufficio quando l’impiegato stia facendo bollire acqua per il thè; e l’impiegata ha un accesso di nervi, quando sia dal malcapitato pubblico disturbata mentre di fronte allo specchio si adoperi ad ingentilire la sua bellezza.

Fustel de Coulange, uno storico molto caro all’onorevole Nitti, francese, e non particolarmente colpito da questo morbo autonomistico, dice: «Quando una nazione possiede le libertà locali, è il funzionario che obbedisce; ma quando una nazione obbedisce, solamente il funzionario è libero».

Parigi ha smantellato tutti i castelli e tutte le rocche.

Questa, che è una delle cause della sua grandezza, può essere anche stata una causa delle sue sciagure. E l’onorevole Nitti, da quello studioso che è, in una sua pubblicazione ha dimostrato come la Francia in quest’ultimi secoli ha fatto regolarmente la guerra ogni due anni. È per questo che la Francia è uno dei paesi più civili e moderni del mondo in cui un avventuriero dai saldi rognoni, e Napoleone III pare li avesse tutt’altro che forti, può sognare di diventarne il padrone. È per questo che oggi in Francia, malgrado il meritato prestigio di cui gode un patriota come il De Gaulle, i partiti della democrazia si rifiutano di aderire alla sua volontà di repubblica presidenziale, non tanto per ragioni contingenti, quanto, credo, per ragioni generali e di principio.

Neppure in Francia, onorevole Nitti, sarebbe pazzia che si parlasse di autonomie.

E perché dovrebbe apparire pazzia in Italia questo voler impostare il problema della trasformazione autonomistica dello Stato? E non solo per la Sicilia, per la Sardegna e per le altre due regioni mistilingui di frontiera, per le quali bisognerebbe esser ciechi per non vederlo, ma anche per tutta l’Italia continentale.

E che cosa saremmo mai noi, duecento o duecentocinquanta deputati quanti siamo, che sosteniamo il principio autonomistica in quest’aula? Che cosa saremmo noi? Siamo i rappresentanti del popolo italiano, oppure i rappresentanti di una massoneria clandestina? O i rappresentanti di un club di illuminati?

È tanto poco pazzia, che il partito dal cervello più freddo in Europa, intendo il partito comunista, nel suo terzo congresso nazionale italiano tenuto nel 1926 a Lione, impostò il problema dell’antifascismo e della libertà in Italia su un terreno federalistico. E allora erano in vita, e liberi, Gramsci e Togliatti, e tutti i giovani che formano quello che è oggi lo stato maggiore eroico del partito comunista. Per trasformare lo Stato fascista monarchico in regime di libertà e di democrazia, essi, i comunisti, facevano appello a motivi federalistici! Io debbo pensare che allora il federalismo fosse sentito e come motivo agitatorio e come un’esigenza politica.

L’onorevole Nitti non può poi dimenticare, poiché frequentava la casa sua, che un intellettuale turco-egiziano, educato in Italia e che conosce il nostro Paese come noi, nel 1933 visitò tutta l’Italia, dal Nord alla Sicilia, e ritornò a Parigi stranamente colpito perché una caratteristica aveva trovato in tutta Italia: una aspirazione diffusa, antifascista, di autonomismo e federalismo.

È che l’autonomia, di fronte al fascismo – e oggi viviamo la continuazione del fascismo nello Stato – è innanzi tutto una esigenza di libertà. L’onorevole Nitti è certamente un democratico; ma noi tutti in quest’aula l’abbiamo sempre considerato un conservatore, cioè un democratico all’antica, tanto all’antica che quando egli si delizia negli studi sul passato, suo preferito è Tucidide, capo del partito conservatore di Atene repubblicana di quell’epoca. (Si ride). Come lui ex Presidente del Consiglio, e come lui in esilio, con in più il conforto di grosse rendite di certe miniere d’oro possedute in Tracia o giù di li.

Noi lo possiamo considerare un conservatore moderno, cioè di quella vecchia Italia che, con tutto il rispetto dovuto ai massimi suoi rappresentanti, molti di noi non vorrebbero più veder risorgere. La sua esperienza è certo grande, ma non meno grande la sua coscienza di conservatore militante. Ora, in tutti paesi e in tutti i tempi, la posizione conservatrice è caratterizzata da una formazione psicologica speciale che si può chiamare «paura del nuovo», «terrore del salto nel buio» e che può essere riassunta in quel proverbio popolare che per un lapsus freudiano, ha pronunciato il collega Dugoni: «chi lascia la strada vecchia per la nuova, sa quel che lascia ma non sa quel che trova». Essere conservatori ha sempre significato essere favorevoli psicologicamente, in tutto e non solo in economia, allo status quo ante. In questo senso, per un conservatore italiano, niente di più pazzesco che la riforma autonomistica che noi proponiamo e difendiamo. Non è a caso che l’onorevole Nitti, per metterci a posto tutti con le cifre e con la freddezza, senza emozioni, ci ha citato Paul Valéry, che è certamente un grande poeta, ma che è anche un grande conservatore.

Io non nego che questo nuovo sistema autonomistico possa apparire complicato, di fronte allo status quo ante, che è così semplice a conservarsi.

Io sono lieto di citare all’onorevole Nitti lo stesso Paul Valéry, che è poeta conservatore, ma anche filosofo. Dice: «Il complicato è difficile ad applicarsi, ma il semplice è sempre falso».

Lo Stato centralizzato, così come era durante la marcia su Roma, così come lo ha perfezionato il fascismo e come noi lo abbiamo ereditato, è questo falso, contro cui noi insorgiamo.

Noi neghiamo questo falso; noi vogliamo rimuovere questo falso (Applausi al centro).

Se io avessi l’alta autorità che ha l’onorevole Nitti – riconosco che sarebbe ambizione presumerlo – o l’autorità che, per parlare in suo nome, ha l’onorevole Reale, – e l’ambizione sarebbe minore – (Si ride) consiglierei tutti gli avversari dell’autonomia di tenersi lontani dalle forti frasi antiautonomistiche.

Nel 1833 Mazzini preparava la spedizione in Savoia. Ebbene, nello stesso anno, Cesare Balbo, il patriota, il conservatore misurato e saggio, non meno dell’onorevole Nitti, definiva così l’unità nazionale: «Puerilità, sogno tutt’al più di scolaretti, di poeti dozzinali, di politici da bottega». (Commenti).

Il collega Nenni, nel suo discorso, pronunziato immediatamente dopo quello dell’onorevole Nitti, pur partendo da concetti totalmente opposti, ha dato all’onorevole Nitti – e non era necessario – una mano.

Recentemente – la crisi gliene ha offerto l’occasione – egli dava un’altra volta – ed era necessario – all’onorevole Nitti un’altra mano, la mano destra.

Nenni ci ha detto, in quel discorso che mi ha vivamente colpito, che l’unità nazionale e lo Stato italiano si sono fatti così, e che questa è la realtà, la realtà che conta; che il federalismo dei federalisti radicali era certamente più progressista dell’unitarismo mazziniano, ma che non pertanto Mazzini aveva ragione.

Storicamente ha sempre ragione chi trionfa e non chi perde. La storia della civiltà è la storia dei vincitori, e non dei soccombenti. Mazzini ha avuto ragione?

Storicamente non ha avuto ragione neppure Mazzini. Ha avuto ragione Cavour. Non pertanto noi, caro Nenni, siamo fra quelli che vorrebbero che avesse trionfato Mazzini; anzi Cattaneo.

La rivoluzione in Lombardia ha fallito, ma noi vorremmo che non avesse trionfato Carlo Alberto. A Roma nel 1849 hanno trionfato le baionette francesi con la diplomazia austriaca, ma noi vorremmo che avesse trionfato la Repubblica romana. A Sapri hanno trionfato i Borboni, gli stessi Borboni di cui quelli che hanno provocato la strage a Piana dei Greci sono i nipoti, ma noi non pertanto vorremmo che avesse trionfato Pisacane. E così via via fino all’altro dopo-guerra, fino al fascismo e fino a post-fascismo, all’epoca attuale.

Presidenza del Vicepresidente TARGETTI

La storia ci obbliga ad accettare l’eredità di quelli che vinsero, spesso anche ad accettarla facendo buon viso a cattiva sorte, ma i nostri ideali non sono con loro. Così, avviene dei genitori che, vanamente attendendo un figlio maschio, si vedono popolata la casa di figlie femmine; accettano le figlie femmine. Non c’è niente da fare contro la realtà. Le femmine sono femmine e non maschi. La storia è a loro favore. (Si ride). L’amministrazione della famiglia pare sia, come la politica, l’arte di nutrire il concreto e non l’astratto. E si accolgono anche queste figlie femmine con speranze, auguri, sorrisi, e anche con gioia; ma non pertanto l’ideale, caro Nenni, era un figlio maschio. Nella nostra grande famiglia nazionale, l’ideale era una Repubblica federale e non una monarchia unitaria. Era insomma la Repubblica federale il nostro figlio maschio.

La tendenza della democrazia moderna è di razionalizzare lo Stato. Chi non si accorge che questa è anche l’evoluzione che sta compiendo la Repubblica Sovietica, non si accorge che il mondo gira.

Ma v’è un’altra duplice tendenza nella democrazia moderna. Negli Stati unitari la tendenza è al federalismo, per correggere gli eccessi del centralismo; e negli Stati federali la tendenza è al centralismo, per correggere gli eccessi del federalismo.

E questo anche in Francia, dove non esiste movimento popolare regionale, ma esiste un notevole movimento di intellettuali, disgraziatamente solo a Parigi, che pongono il problema federalistico francese inquadrandolo nel grande problema federalistico europeo e universale, poiché sono tutti uomini di sinistra.

Dico federalismo e non, come dovrei, autonomismo, per indulgere a quegli unitari che considerano questo nostro autonomismo come una sottospecie del federalismo più è meno mascherato. Io dico francamente; vada pure per la sottospecie del federalismo; ma senza maschera. Queste nostre autonomie possono rientrare nella grande famiglia del federalismo, così come il gatto rientra nella stessa famiglia del leone. (Si ride). Per nobilitare il concetto, si potrebbe rievocare l’immagine dantesca del girone di Vanni Fucci, a proposito della carta che sta per essere toccata dalla fiamma, mentre brucia:

Un color bruno

che non è nero ancora e il bianco more.

Non è bruno, non è federalismo. Ma lo Stato centralizzato sta per morire: con espressione volgare, perché la merita, lo Stato centralizzato burocratico comincia a tirare le cuoia.

Io non nascondo affatto che si possano avere dei dubbi su questa riforma; lo riconosco e trovo che i dubbi sono giustificati. Io stesso ho avuto un momento di dubbio, quando ho visto – mi si perdoni da quel settore – che la Democrazia cristiana era il principale partito sostenitore di questa riforma. E siccome la Democrazia cristiana, nella sua struttura organica e nelle sue rivendicazioni, ha certamente elementi senza dubbio moderni e progressisti, ma anche altri audacemente conservatori, mi sono chiesto: questo progetto appartiene ai primi, ai progressisti, ai moderni, oppure ai secondi? Cioè quelli i quali, più che lasciarci perplessi, francamente ci trovano ostili, quelli per i quali l’onorevole Togliatti, saltando il fosso a piè pari, ad occhi chiusi ed a denti stretti, si è conquistato l’ambito merito, sfuggito all’onorevole Orlando prima ed all’onorevole Nitti dopo, o all’onorevole Nitti prima ed all’onorevole Orlando dopo, di legare il suo nome alla storia della Chiesa! (Applausi Si ride).

Ma i miei dubbi sono stati presto dissipati. No, no, è una riforma democratica, e Don Sturzo la fece vivacemente sua dopo l’altra guerra, attenuandola spesse volte per l’opposizione dell’onorevole Meda, che era allora il capo dell’ala conservatrice del partito, così come lo è oggi, nobilmente e dichiaratamente, l’onorevole Jacini. Egli, Don Sturzo, decisamente pose il problema e lo impose agli altri, non tanto perché fosse influenzato, io penso, dalla scuola pluralistica francese e dal movimento di «Esprit», ma perché aveva l’esperienza pratica di amministratore del comune di Caltagirone. Allo stesso modo parlava, non compreso dai suoi compagni socialisti, il nostro tanto compianto collega onorevole Caldara, sindaco di Milano. Ne può essere testimonianza la presenza dei vecchi deputati socialisti che sono in questa Aula, che avevano in quell’epoca dimestichezza con gli amministratori di Milano. Allo stesso modo parlava Caldara, perché si poneva il problema quale amministratore, non capito neppure da Turati e da Treves.

Una voce. Ma cosa dice?

LUSSU. Che cosa dico? Dico le cose a me dette dal collega Caldara, quando era mio collega in quest’Aula. (Rumori).

Una voce a sinistra. Caldara le ha anche scritte.

LUSSU. È una riforma democratica, e io credo di avere diritto di ricordare il Partito sardo d’azione dopo l’altra guerra e gli altri partiti regionali affini del Mezzogiorno, che nessuno pensò mai a definire non democratici, e che erano all’avanguardia della democrazia del Mezzogiorno e, pertanto, della democrazia nazionale.

È una riforma democratica. È una riforma che interessa vitalmente operai e contadini e tutti i partiti democratici, espressione di vasti interessi popolari.

Il socialismo è passato, dalla forma di agitazione e di spontaneità che ebbe inizialmente, a quella di realizzazioni pratiche e di Governo. Esso, per la prima volta nell’Europa a civiltà occidentale, è chiamato ad affrontare i problemi per la cui soluzione si considerava depositaria eterna la vecchia classe dirigente. Esso è posto di fronte ai problemi dell’amministrazione dello Stato ed insieme delle amministrazioni periferiche.

Togliatti si è dimostrato, nel suo intervento, preoccupato perché ha affermato che, se si approvasse questa riforma, non si potrebbe radicalmente applicare una riforma agraria. Io mi permetto di consigliare tutti i comunisti che fossero dello stesso avviso di esaminare attentamente l’articolo 110 del progetto di Costituzione e l’articolo 14 dello Statuto della Sicilia e l’articolo 4 del progetto dello Statuto della Sardegna, già depositato presso il Governo. In nessuno di questi articoli può sorgere dubbio che l’ordinamento autonomista impedisca una applicazione radicale della riforma agraria e di tutte le altre riforme, nel campo sociale, che debbono emanare esclusivamente dal potere centrale. Io ricordo che, alla seconda Sottocommissione, misi la mia firma, e con me altri colleghi la misero, all’ordine del giorno dell’onorevole collega Di Giovanni, socialista, che era preoccupato dalla possibilità di un eventuale sabotaggio regionale di questa grande riforma, che è la riforma agraria che tutti noi autonomisti invochiamo. Dopo una discussione alla quale parecchi parteciparono, ci accorgemmo che esso non aveva ragione di essere presentato, perché è impossibile trovare in quegli articoli qualcosa che autorizzi ad opporsi alla grande riforma agraria. Non c’è nessun pericolo; e se ce fosse uno, io lo denunzierei.

Caro Gullo, ieri ricordavi a questa Assemblea che, parlando da Ministro dell’agricoltura in Calabria, tu fosti obbligato a tornare alla finestra per parlare della riforma agraria perché la massa dei contadini calabresi voleva saperne qualcosa. Questo era normale, e sarebbe stato strano che ti avessero chiesto di parlare, che so io, dell’eventuale riforma del Codice civile o del Codice penale. Ma a me, che non ero Ministro e nemmeno deputato, in Calabria, caro Gullo, quando parlai a Cosenza, i calabresi chiesero: parlaci un po’ dell’autonomia. (Applausi al centro Commenti a sinistra).

Voi sapete che a Cosenza si tenne anche un Congresso; eppoi non dico cose che non possano essere controllate.

Autonomia è inoltre maggiore democrazia, perché mette a contatto più immediato e più diretto il popolo, in ogni suo nucleo, cittadino o rurale, nel controllo e nell’iniziativa, con i propri rappresentanti. È la domanda che ha subito la risposta sul luogo, nel luogo, entro i limiti della legge.

Noi siamo abituati a misurare la Russia sovietica col metodo della nostra civiltà e cadiamo nello stesso infantilismo di quelle tribù negre di culto cattolico che si scolpiscono e si dipingono e si adorano un Cristo negro con i capelli crespi, le labbra tumide e il naso camuso, quando parliamo con ironia o con disprezzo della democrazia nella Russia sovietica. Certamente non è il tipo della democrazia della nostra civiltà occidentale presente o ideale. Grande è la differenza. A prescindere da quella che è la differenza sociale, grande è altresì la differenza dello sviluppo storico della Russia in confronto di quello dell’Italia, come pure tra la sua geografia e la nostra geografia, fra la sua cultura tradizionale e la nostra, tra la sua lingua o le sue lingue e la nostra. Grande è la differenza fra questi due Paesi; ma io affermo, per quel contatto che in tanti anni ho avuto con chi scrive sulla Russia, o ha visitato la Russia, che c’è più base popolare di democrazia sostanziale in Russia, con le sue varie repubbliche federate, repubbliche autonome, regioni autonome e altre circoscrizioni, senza parlare dei Kolcos e di tutto il resto, di quanto non ce ne sia in certi paesi occidentali a organizzazione unitaria. Perché il cittadino sovietico è messo per la prima volta a contatto, dopo secoli, con i suoi istituti popolari e con i suoi rappresentanti. (Interruzioni a sinistra).

Il federalismo e l’autonomismo, in sostanza, costituiscono la democrazia diretta della civiltà moderna.

L’esempio che ci offre la civiltà della Repubblica federale cecoslovacca è significativo per tutti. Là la grande maggioranza è comunista; in Slovacchia i comunisti sono in minoranza, perché è in maggioranza la democrazia cristiana, ma la grande maggioranza della Boemia e dello Stato federale è comunista; il Partito socialista è una grande minoranza; il Presidente del Consiglio è comunista. Lo Stato è organizzato federalisticamente e su basi di grandi autonomie: eppure c’è stata la riforma industriale, per cui tutte le grandi industrie sono state nazionalizzate, e dal 1946 in poi sono state autorizzate le imprese e le industrie private. V’è quindi un’economia su due settori. I comitati di liberazione nazionale, affermatisi durante il periodo dell’insurrezione liberatrice, si sono innestati nello Stato e funzionano come organi di decentramento locali.

Ebbene, in quel paese a maggioranza comunista, malgrado ci siano minoranze forti, credete che non ci sia libertà? C’è una libertà perfetta, quanta ce n’è in Inghilterra. Tanto può, sostenuta dal consenso e dalla coscienza dei cittadini e di tutti i partiti politici, una organizzazione autonomistica dello Stato.

Noi, di marce su Roma, sia pure con varianti ed adattamenti, non desideriamo più conoscerne! Anche questo modesto ordinamento autonomistico è una grande garanzia di libertà per l’Italia.

La soppressione delle prefetture, la trasmissione ai Comuni e alle Regioni delle potestà prima conferite ai prefetti e delle altre potestà accordate dallo Stato centrale su altre materie, modificano totalmente il potere centrale nella sua funzione più nefasta d’infiltrazione, d’imposizione e di corruzione politica, e tutta la vita periferica diventa un vasto controllo democratico.

Con uno Stato così organizzato, credo che marce su Roma non sarebbero state possibili nel 1922, perché chi ricorda quell’epoca sa che il potere centrale, non solo attraverso i prefetti, ma attraverso la sua vasta e varia influenza ministeriale, ha marciato su tutto e fascistizzato l’universale periferico del paese. Se l’accordo fra Mussolini e il re, che determinò il colpo di Stato che prese il vistoso nome di «marcia su Roma», avesse trovato il nostro Paese organizzato in altra forma, la marcia non avrebbe potuto avere un gran risultato.

Io concedo che queste nostre autonomie costituiscono una radicale trasformazione; non dico affatto che siano uno scherzo. Controllate un po’ il progetto, vedete che cosa sono i Comuni e le Regioni e ditemi un po’ se il potere centrale si sarebbe potuto permettere quello che è accaduto all’epoca della marcia su Roma.

Se, per esempio, l’onorevole Giannini, in regime autonomistico – e chiedo scusa per quello che sto per dire, che è un’immagine letteraria e non un’ipotesi politica – contro la sua volontà, ma spinto da gran parte del suo partito – nel quale, malgrado la sua lealtà liberale e democratica, ancora vi sono moltissimi ex fascisti che non sono ancora giunti all’ultimo stadio della guarigione democratica richiesta – se l’onorevole Giannini, per la pressione di questa maggioranza, facesse, per esempio, durante una presidenza della Repubblica (e anche questa è un’immagine letteraria e non un’ipotesi politica) dell’onorevole generale Bencivenga (Si ride), facesse, più a fini teatrali-cinematografici, che per libidine di potere (Si ride) – e l’onorevole Giannini apprezzerà questa immagine che è molto vicina alla sua fantasia letteraria – una marcia su Roma (cosa piuttosto difficile) che cosa avverrebbe? Non avverrebbe un bel niente, come non è avvenuto un bel niente quando, recentemente, le bande agguerrite di Daniele Cortis hanno invaso il Parlamento. (Si ride).

Gli Stati dell’America latina, ce lo ha ricordato ieri l’onorevole collega Dugoni, sono repubbliche federali e pertanto i colpi di Stato vi sono stagionali. Ma questo è possibile perché i presidenti di quelle repubbliche sono regolarmente dei generali o dei colonnelli ed hanno quindi dietro di loro l’esercito, per cui si spende gran parte dei bilanci locali: l’esercito, cioè un’organizzazione fortemente centralizzata, estremamente minacciosa quando si metta in movimento, che rende praticamente nulla l’organizzazione federale degli Stati. Sicché, in realtà, fino a quando duri questa complessa situazione di cose che ha la sua spiegazione storica, perché sono stati gli ufficiali che hanno guidato i popoli della America latina alla rivoluzione per la libertà contro il dispotismo e lo sfruttamento della Spagna monarchica, quei paesi non sono Stati federali, ma Stati pseudo-federali.

Ma quello che avviene nelle repubbliche dell’America latina non avviene invece nell’America del Nord. Colpi di Stato o marce su Washington quel gran paese non ne conosce. C’è stata, sì, negli Stati Uniti, la guerra di secessione, e il ricordo si perde ormai nel passato lontano; ma non fu un colpo di Stato. Fu una vera e propria rivoluzione. Quando si tratti di rivoluzioni, entrano in gioco altri elementi vasti e profondi, che scaturiscono da situazioni storiche. Contro le rivoluzioni non ci sono Statuti che tengano: né federali né unitari.

Nella Svizzera, colpi di Stato non solo sono difficili ad aversi ma persino a concepirsi. E la repubblica federale austriaca (caro Dugoni), sorta dallo sfacelo dell’impero, ebbe, sì, vita breve, ma senza la Costituzione federalistica – e il pensiero è di Otto Bauer – la libertà sarebbe caduta otto anni prima. La triste avventura fu resa possibile perché Dollfuss, minacciato dal nazismo, che aveva trionfato un anno prima in Germania, si vende anima e corpo a Mussolini. Il sostenitore dell’organizzazione federale dello Stato e della libertà – caro Nenni e cari compagni socialisti tutti – è stato il partito socialista che, sinché è rimasta in piedi l’organizzazione federale di Vienna città, non ha capitolato; e il proletariato austriaco, attraverso la sua organizzazione armata dello «Schutzbund» – anch’esso organizzato federalisticamente – nei giorni 12, 13, 14 e 15 febbraio, ha scritto, a difesa della Repubblica federale, della libertà e del socialismo, una pagina che rimarrà eterna nella storia della democrazia d’Europa.

La Germania. La Germania, si sa, era uno Stato federale. Ma la Germania era infetta di prussianesimo – che è il padre del nazismo – ed era rimasta intatta nella sua struttura economica e sociale imperiale. La Germania di Weimar aveva per Presidente della Repubblica un maresciallo dell’impero. E il partito socialista, di capitolazione in capitolazione, per quanto avesse tutto il governo della Prussia, non era più né offensivo né difensivo, era caduto nel nullismo, remissivo e passivo. Perciò Hitler poté facilmente trionfare. Vi fu anche l’influenza, nefasta, delle grandi potenze: non vale la pena rievocare quei tragici errori che sono presenti alla mente di ciascuno di noi.

Ma gli Stati unitari, gli Stati centralizzati, di colpi di Stato ne hanno conosciuti a bizzeffe; e si può dire che la loro storia recente è la storia di colpi di Stato. Fino a questa guerra i Balcani erano una matrice permanente di colpi di Stato, seguiti o preceduti dal Portogallo e dalla Spagna, dove un generale, fumando il sigaro dopo pranzo, pensava ad un bel colpo di Stato, così come – ci racconta il Bandello in una sua novella – nell’Italia del 1500, un ciabattino, pestando il cuoio, si lambiccava il cervello per pensare come avrebbe potuto conquistarsi un principato. O, per dirla con espressione moderna italiana, come un furfante fallito, pensa farsi, in pochi mesi, una fortuna di cento milioni, al mercato nero.

L’onorevole Gullo ci ha chiesto ieri quali Stati unitarî siano mai passati dal centralismo al federalismo. È questa una obiezione veramente impressionante! Quali Stati unitarî? Se fossi un cultore del diritto romano, potrei citare molto pudicamente l’impero romano: la Costituzione di Diocleziano non potrebbe per caso essere considerata come una grande trasformazione di Stato unitario in Stato federale?

Ma quella è roba vecchia! Di recente, quale Stato da unitario è divenuto federale? Ma innanzi tutto l’Austria, l’Austria che con quello stesso territorio organizzato in nove regioni con la Costituzione del 1918, faceva prima parte dell’Impero austro-ungarico, unitariamente. Sono stati gli stessi deputati austriaci di lingua tedesca al Parlamento di Vienna che hanno proclamato la Repubblica.

E poi, (caro Gullo, proprio tu ci devi fare questa domanda?) e poi quale altro Stato? Uno dei più grandi Stati del mondo moderno, la Russia Sovietica, che è uscita dallo Stato unitario centralizzato assolutistico. (Commenti a sinistra). Voi dite di no? Comprendo che siate imbarazzati, ma come fate a negare la realtà? Voi mi ricordate le nazionalità? Ma è proprio questo principio, intorno a cui ha cominciato a scivolare, per poi cadere, Trotsky, contro Stalin che faceva la politica delle nazionalità. È da quella politica che è scaturita l’organizzazione federale della Repubblica. Ma le nazionalità, e le stesse, esistevano anche prima, nell’Impero zarista: eppure questo è rimasto unitario, centralizzato e assolutistico. (Commenti e interruzioni). Non c’è nulla da obbiettare: dovete riconoscere che siete nel torto.

Voci a sinistra. Era russa anche la Polonia.

LUSSU. La Polonia non cambia le cose. Ma io finisco. Volevo rispondere al collega Togliatti sulla storia del nostro Paese, che è storia di città e non di regioni. Il che è certamente vero; ma è vero per tutti i paesi del mondo civile, federali o unitarî. Tutti sappiamo che città deriva da civitas, che civis deriva da civitas e che l’insieme dei cives era la civitas: civiltà è sinonimo di civitas. La storia è la storia della città. I contadini non hanno mai avuto storia: la loro storia è la storia dei loro padroni. Ma, uno dei fatti nuovi della democrazia moderna è l’esigenza di unità, fra città e campagna. La riforma autonomistica facilita e rende possibile l’attuazione di questa esigenza. Ma mi avvio alla fine.

Il collega onorevole Gullo, qui presente, ci ha parlato del Mezzogiorno in termini che sono estremamente seri. Prima di lui, l’onorevole Nitti – sempre catastrofico – ci ha detto che, con questa riforma autonomistica, il Mezzogiorno sarebbe caduto nell’abisso. A lui ha risposto l’onorevole Einaudi, che è un maestro nella scienza delle finanze esattamente come l’onorevole Nitti e di cifre ne conosce come l’onorevole Nitti. Devo quindi una risposta solo al collega Gullo. Devo dire che il problema del Mezzogiorno non è un problema tecnico: è un problema politico e pertanto la interpretazione e la soluzione prospettate non possono essere obiettive. Sono soggettive. Così si spiega come due uomini a esperienza molto affine, come l’onorevole Gullo e me, la pensino in modo differente. Noi due siamo in perfetta buona fede, ma né lui né io abbiamo l’autorità di dettare il nostro rispettivo giudizio. A entrambi il dovere di comunicare la nostra esperienza, agli altri il giudizio. Ecco che cosa io ne penso:

Primo: il potere centrale ha sostenuto la classe dirigente meridionale, già forte per la sua posizione economica ereditaria di comando locale. La stessa politica è stata fatta e dalla destra storica e dalla sinistra storica. La sinistra ha accentuato questa politica, e tanto più l’accentuava quanto più diventava liberale. Per poter governare, man mano che perdeva i suoi sostenitori fra i deputati del Nord, i cui posti venivano conquistati dai rappresentanti della classe operaia al Parlamento, si cercava la maggioranza nel Sud, traendola dagli esponenti dei grandi interessi padronali. Così, le conquiste liberali sono state pagate dai contadini del Sud. Il potere centrale in Italia ha sempre costituito la mezzana fra i loschi affari industriali e quelli agrari. Dei primi hanno talvolta beneficiato masse operaie del Nord, col protezionismo, senza averne coscienza; ma degli affari agrari non hanno mai tratto profitto i contadini del Sud.

Secondo: la terra è troppo povera nel Mezzogiorno e non consente che vi vivano insieme tanto i padroni, inoperosi, quanto i contadini che la lavorano. Presto la riforma agraria dovrà trasformare il Mezzogiorno, a vantaggio delle classi del lavoro. Parecchie generazioni dovranno affrontare sacrifici eroici per potere, con lo sfruttamento dell’acqua, riparare i danni che il troppo sole produce. Ma quelli che oggi vivono padronalmente, estranei al lavoro della terra, oziosi e vagabondi, saranno chiamati a cambiar vita, perché la loro vita d’oggi posa sulla morte di milioni di contadini poveri.

Giustino Fortunato, nella sua grande passione per il Mezzogiorno, ha visto il problema fisico-geologico, ma non ha visto il problema sociale della terra. Egli non poteva vederlo, perché apparteneva alla famiglia dei grandi padroni di quelle terre meridionali.

Terzo: dalla riforma agraria una nuova classe dirigente deve sorgere: contadini, artigiani, coltivatori esperimentati, tecnici agrari, allevatori, uomini d’iniziativa in ogni settore, intellettuali, tutto un nuovo mondo unito nel lavoro e nella solidarietà collettiva. È là l’Italia del Mezzogiorno di domani. Ma occorrerà molto studio, molta disciplina e molta fatica. Perché se ha fallito la vecchia classe dirigente non è detto che non possa fallire anche la nuova. Bisognerà che ci abituiamo alla dura disciplina di vita degli uomini del Nord: alzarci alle sei del mattino, essere esatti alle ore stabilite e, se si dice le sette, che si intenda le sette e non le nove; studiare, studiare, aumentare la propria cultura e quella di quanti oggi, pur sapendo leggere e scrivere, sono in realtà degli analfabeti; superare insomma il senso di responsabilità e la dignità di vita della vecchia classe dirigente fallita. Che nelle nostre case gli scaffali siano pieni di libri e non di kummel, di cognac e di altri liquori esotici, e in ogni caso di acqua per la vita e per l’igiene. Migliorare le condizioni della natura e degli uomini.

La nuova élite deve uscire da questa grande rivoluzione pacifica meridionale. Quando le classi lavoratrici del Sud saranno all’altezza di quelle del Nord? Il Mezzogiorno si vendicherà di questa sua passata vita miserabile, e sarà una vendetta santa, la grande vendetta civile, quando lo Stato centrale sarà obbligato a cercare altrove le guardie di finanza, i carabinieri, le guardie carcerarie e i suoi impiegati.

Quarto: la trasformazione del Mezzogiorno può avvenire o per via rivoluzionaria oppure nella legalità repubblicana. La prima porta con sé un Governo, fortemente centralizzato e duramente autoritario: la seconda, la democrazia. Io credo che il periodo rivoluzionario sia passato, storicamente passato. Vi potrebbe essere una rivoluzione, in ipotesi, ma allora avremmo la guerra e nella guerra affogheremmo tutti: padroni e servi. Io credo solo nella seconda ipotesi: la legalità repubblicana democratica, per cui una maggioranza sovrana in questo Parlamento dia nuove leggi e riforme che assicurino al Mezzogiorno un nuovo tenore di vita. Nella prima, Roma sarebbe tutto, nella seconda le autonomie sono i centri indispensabili di vita locale.

Bisogna quindi essere indulgenti di fronte a questo complesso numero di deputati autonomisti che sostengono il progetto. La ragione e la democrazia pare che siano con loro.

Durante l’occupazione tedesca nell’Alta Italia e la guerra di liberazione, sono stati i Comitati regionali, i C.L.N. d’ogni regione che, coordinati nel C.L.N. Alta Italia, hanno potuto e saputo risolvere, in mezzo a difficoltà che oggi pare prodigioso siano state superate, tutti i problemi locali amministrativi, logistici e strategici. Sono i C.L.N. regionali che hanno condotto la gloriosa azione dei nostri partigiani. (Interruzioni, commenti). Faccio appello ai massimi capi partigiani che sono in quest’aula, i colleghi onorevole Parri e onorevole Longo, e a tutti gli altri grandi capi partigiani, qui presenti.

Chi non conosce questo, non conosce la pagina più grande, la più degna e la più eroica e democratica dell’Italia moderna. La rivoluzione partigiana, la grande rivoluzione partigiana, quella che ha salvato l’Italia nel suo onore e che ci consente oggi di uscire a testa alta oltre frontiera, è stata regionale ed autonomista (Interruzione dell’onorevole Dugoni). Caro Dugoni, lo sai anche tu, sono i fatti che parlano. Quindi l’onorevole Nitti e gli altri sarebbero prudenti se non parlassero di pazzie.

Io, d’altronde, ho la fiducia e la speranza che all’onorevole Nitti avvenga anche per le autonomie quello che è avvenuto per l’articolo 7: cioè, dopo aver parlato contro, voti a favore. (Si ride).

Mi auguro che questo avvenga, e che l’onorevole Nitti sia tra i massimi uomini politici che vedano in questa riforma una di quelle pazzie che sono il sale della terra. (Vivi applausi Congratulazioni).

PRESIDENTE. Il seguito della discussione è rinviato a domani alle 16.

La seduta termina alle 21.10.

Ordine del giorno per la seduta di domani.

Alle ore 16:

Seguito della discussione del progetto di Costituzione della Repubblica italiana.