ASSEMBLEA COSTITUENTE
ccv.
SEDUTA ANTIMERIDIANA DI LUNEDÌ 28 LUGLIO 1947
PRESIDENZA DEL PRESIDENTE TERRACINI
INDICE
Congedi:
Presidente
Interrogazioni (Svolgimento):
Presidente
Grassi, Ministro di grazia e giustizia
Targetti
Rossi Paolo
Scelba, Ministro dell’interno
Bitossi
Lizzadri
Uberti
Pella, Ministro delle finanze
Ghidetti
Marazza, Sottosegretario di Stato per l’interno
Musolino
Disegno di legge (Seguito della discussione):
Approvazione del Trattato di Pace tra le Potenze Alleate e Associate e l’Italia firmato a Parigi il 10 febbraio 1947. (23).
Presidente
Benedettini
Sforza, Ministro degli affari esteri
Caronia
Rossi Paolo
La seduta comincia alle 9.30.
ROSELLI, ff. Segretario, legge il processo verbale della precedente seduta antimeridiana.
(È approvato).
Congedi.
PRESIDENTE. Hanno chiesto congedo i deputati: Cannizzo, Bianchi Bianca, Persico.
(Sono concessi).
Svolgimento di interrogazioni.
PRESIDENTE. L’ordine del giorno reca: Interrogazioni.
La prima è quella degli onorevoli Targetti, Malagugini, Carpano Maglioni, Vernocchi, Lussu, Maffi, Cianca, Macrelli, Cevolotto, Longo, Parri, Codignola, Priolo, al Ministro di grazia e giustizia, «per sapere se sia esatto il riferimento, che un giornale della capitale ha pubblicato in questi giorni, di una intervista nella quale il Ministro avrebbe espresso opinioni, fatto apprezzamenti, e preannunciato propositi in pieno contrasto con l’azione che lo Stato, attraverso i suoi vari organi, deve compiere in difesa del suo nuovo ordinamento».
Segue poi l’interrogazione degli onorevoli Rossi Paolo, Bocconi, Lami Starnuti, Ghidini, Carboni Angelo, Pera, Mazzoni, D’Aragona, Piemonte, Grilli, Caporali e Zanardi, che, per affinità di argomento, ritengo possa essere abbinata alla precedente. L’interrogazione è del seguente tenore:
Al Presidente del Consiglio dei Ministri e al Ministro di grazia e giustizia, «per conoscere, in relazione alle recenti dichiarazioni dell’onorevole Ministro di grazia e giustizia, se il Governo non creda che l’amnistia, istituto di cui si è per il passato deplorevolmente abusato, debba essere riservata alla deliberazione dell’Assemblea, secondo previsto nel progetto di Costituzione».
L’onorevole Ministro di grazia e giustizia ha facoltà di rispondere.
GRASSI, Ministro di grazia e giustizia. Onorevoli colleghi, sono lieto di rispondere all’interrogazione dell’onorevole Targetti, che ha una portata di ordine più generale, ed a quella più particolare presentata dall’onorevole Rossi Paolo. Dico che sono lieto perché queste interrogazioni mi danno occasione di poter dire all’Assemblea quali sono i veri miei propositi al riguardo di questa materia complessa e per correggere degli errori eventuali e delle deformazioni che, credo, in buona fede, siano state espresse, anche da altri nostri colleghi, sulla stampa quotidiana.
Premetto, e questo è necessario saperlo, che non si tratta di una vera e propria intervista, in cui le parole siano state dettate, valutate e soppesate, ma di un colloquio, come chiaramente del resto è detto nella pubblicazione fatta dal giornale Tempo, fra me e l’avvocato Schirò, un antico funzionario dell’Assemblea, che oggi esercita con successo l’avvocatura; colloquio, come è detto nella stessa pubblicazione, cordiale, pur essendosi mantenuto fra punti di dissenso. E quel «fra punti di dissenso» vi dice che era un colloquio nel quale non eravamo completamente d’accordo. Del resto, il commento che segue dimostra che i concetti espressi dall’articolista non erano quelli da me manifestati.
Questa premessa è necessaria per chiarire il mio pensiero e rivedere in questo articolo quella parte che possa riguardarmi.
La materia trattata nel colloquio è vastissima e fu, sinteticamente, accennata. Essa meriterebbe una lunga ed ampia discussione perché investe tutti i provvedimenti presi contro il fascismo e contro il collaborazionismo in materia penale, elettorale, amministrativa. Tema, dunque, vastissimo.
Procediamo in via sintetica.
Materia penale: nella materia penale si presentano tre punti di vista: giurisdizioni speciali, legislazioni speciali, provvedimenti di amnistia intervenuti in questa materia.
Per quanto riguarda la legislazione speciale, voi sapete che vi sono provvedimenti del 1944 e del 1945 che formano la legislazione speciale per quel che riguarda i delitti fascisti e quelli di collaborazionismo.
Il tema fondamentale della conversazione che si svolse tra me e l’avvocato Schirò fu particolarmente quello che riguardava la parte giurisdizionale. E questa fu l’unica parte sulla quale fui veramente esplicito, e in cui dissi che pensavo (e su questo credo che siamo tutti d’accordo) di poter passare quanto più presto possibile dalle giurisdizioni speciali alla giurisdizione ordinaria; e dissi che il Governo aveva già preso provvedimenti nel senso che le Corti d’assise speciali venivano ad essere prorogate fino al 31 dicembre 1947 per quanto si riferisce ai processi già trasmessi in giudizio, mentre i processi ancora in istruttoria passavano alla magistratura ordinaria.
Questo è il provvedimento sul quale non possiamo non essere tutti d’accordo: tornare alla normale ed unica giurisdizione per tutti i cittadini italiani.
Rimangono solo in piedi i tribunali straordinari per le rapine, che, come sapete, furono determinati in seguito agli efferati delitti che minacciavano la sicurezza pubblica. Ma, ad ogni modo, tali reati vanno diminuendo con l’aumentare della sicurezza pubblica nel nostro Paese e soprattutto con l’aumento degli organi di polizia e col rafforzarsi del prestigio dello Stato. Il tribunale straordinario per le rapine è un istituto che potrebbe anche eliminarsi subito, se le condizioni in Sicilia non consigliassero di mantenerlo ancora per un po’ di tempo in funzione.
Questo giudizio, che espressi al mio interlocutore, lo confermo ora dinanzi all’Assemblea Costituente.
Per quanto riguarda l’amnistia, le mie dichiarazioni furono molto chiare ed esplicite e non comprendo come si possa equivocare al riguardo.
Io dissi che non credevo che si potesse intervenire nel modificare la legislazione vigente e neanche provocare altri decreti di amnistia. Io ritengo che ormai questo tema della legislazione speciale, che fu giustificato in clima speciale, non debba essere toccato.
L’amnistia, che porta il nome dell’onorevole Togliatti, l’amnistia del 1946, ha già svuotata quella legislazione, perché le leggi del 1944 e del 1945 consideravano reati che sono stati, nella grande maggioranza dei casi, amnistiati.
È vero che nei provvedimenti di amnistia vi sono alcune limitazioni; ma tanto la Cassazione, come magistratura ordinaria, quanto le Corti straordinarie, hanno raramente applicati questi limiti, perché furono congegnati in modo da rendere dubbia e difficile l’applicazione.
E allora, in questo dubbio, la magistratura assolve.
Questa è la verità.
Io non discuto il provvedimento, che fu emanato appunto per pacificare il Paese dopo il referendum, e per consolidare la Repubblica.
In conclusione, nell’intervista dissi: provvedimenti non prendo nel campo della legislazione speciale e non intendo nemmeno proporre nuove amnistie, perché sono anche d’accordo col principio esposto nell’interrogazione dall’onorevole Rossi ed altri che l’amnistia deve essere concessa dal Parlamento, come è già stabilito dall’articolo 775 del progetto di Costituzione. L’amnistia non deve essere un’arma in mano al potere esecutivo, ma deve essere riservata alla deliberazione dell’Assemblea parlamentare. Così del resto si fa in Francia, dove in questi giorni è stato approvato un provvedimento di amnistia con decisione del Parlamento.
Queste dichiarazioni, quindi, credo che non possano che trovare l’assenso dell’Assemblea, poiché rispondono a principî veramente democratici.
Ma qual è il punto incriminato, se così si può dire, di questa mia intervista? Che di fronte a taluni casi di condanne, che mi sono state prospettate, e possono apparire sproporzionate rispetto ad altre date in ambienti, in periodi di tempo diversi e con criteri differenti rispetto all’amnistia, il Governo possa intervenire con particolari provvedimenti di grazia esaminando caso per caso.
Non credo che si possa dire che io abbia con ciò scoperto le prerogative dei Capo dello Stato; anche perché, è sempre il Ministro di grazia e giustizia che deve proporre, sulle singole domande di grazia, i provvedimenti del genere.
In ogni modo, è bene che l’Assemblea conosca anche la cifra dei condannati e dei giudicabili per reati politici, perché possa illuminarsi sulla situazione precisa a questo riguardo: i condannati ed i giudicabili, prima che fosse emanato il provvedimento di amnistia, erano 10.851; poi, in seguito all’amnistia, furono liberati 6436, cosicché ne rimasero poco più di 4000. Questa era la situazione del dicembre 1946.
Nel maggio del 1947 erano rimasti soltanto, fra giudicati e giudicabili, 2978 casi, e di questi soltanto 1374 condannati e 1608 ancora giudicabili, ossia coloro, che debbono ancora subire il giudizio.
La portata, quindi, di tutta questa grande questione si riduce ad essere assai limitata.
Si è detto anche che in questo colloquio non mi sia occupato dei partigiani. Questo rilievo merita di essere considerato: non me ne sono occupato, prima di tutto perché non se n’è parlato, poi perché l’amnistia per i partigiani fu completa e si estese a tutti i reati politici da essi compiuti.
Non si tratta quindi di considerare a parte provvedimenti per i partigiani. L’unica pratica di partigiani di cui mi sono occupato (e a questo proposito è venuta da me una Commissione dell’A.N.P.I.) è questa: che vi sono alcuni partigiani che non sono stati ancora rinviati a giudizio. Ciò è dipeso dal fatto che la situazione di essi è collegata ad altre situazioni particolari di altri imputati di reati di rapina ed altri gravi delitti. Ad ogni modo, per questi pochi casi, io ho preso impegno perché i giudizi vengano affrettati con la maggior possibile sollecitudine. Non comprendo quindi che cosa ci possa essere da criticare sui concetti e sui propositi da me manifestati.
Questo per quanto riguarda la parte penale. Non reputo poi di dovermi occupare di ciò che ha detto un giornale circa la pretesa mia volontà di estendere l’amnistia alle disposizioni di carattere amministrativo, vale a dire, per essere più espliciti, alle confische dei beni di coloro che furono amnistiati. L’Assemblea sa benissimo che le confische dei beni sono comprese nell’amnistia, perché siamo nel campo delle sanzioni civili, non già di quelle penali. È quindi escluso, nel modo più assoluto, che io, come Guardasigilli, mi sia mai occupato di tale materia.
E veniamo ora alla parte elettorale. Mi si domandò se era opportuno e prudente privare, con disposizioni eccezionali, circa 200 mila persone del diritto del suffragio attivo.
Dissi, non già come Ministro, ma come membro della Commissione elettorale della quale ebbi a far parte sino a pochi giorni prima della mia nomina a Ministro, che non mi pareva che le norme fissate nella legge elettorale conducessero a tenere lontano dall’elettorato attivo questo gran numero di persone: per me si trattava e si tratta di escludere poche migliaia di persone. A che cosa si ridusse questo mio apprezzamento? Si ridusse a questo, che, all’obiezione rivoltami che non era conveniente e giusto continuare a sottrarre all’elettorato alcune centinaia di migliaia di persone, io mi limitai a rettificare che l’esclusione riguardava un numero di poche migliaia di cittadini.
Ultima questione quella relativa all’epurazione dell’Amministrazione statale, parastatale e degli enti locali. In risposta a questa domanda, dissi qual è l’attuale situazione, che cioè per gli alti gradi, vi sono circa 200 ricorsi al Consiglio dei Ministri, a cui bisogna, in un modo o nell’altro, provvedere.
In questa materia, mi limitai a dire che non si possono accettare i ricorsi di coloro che si sono affrettati a scegliere volontariamente la via del collocamento a riposo con trattamento di quiescenza, venendo così ad estinguere, in linea di diritto, ogni possibilità di un’ulteriore giurisdizione. Non ho quindi fatto altro, in merito a tale questione, che porre un limite a provvedimenti di clemenza e non già ad allargarli.
Per quello poi che concerne i gradi bassi, per i quali ben 15 mila ricorsi furono proposti al Consiglio di Stato, io dissi ciò che credo risponda a un sentimento unanime del Paese, come confermò l’onorevole Presidente del Consiglio in questa Assemblea, che cioè questi ricorsi pendenti presso il Consiglio di Stato, sono di coloro che rappresentano gli straccetti dell’Amministrazione, e mentre turbano la pace sociale servono ad inceppare tutto l’andamento dei lavori dello stesso Consiglio di Stato. Soggiunsi, quindi, che sarebbe quanto mai auspicabile addivenire ad una pacificazione, ad una sanatoria per tutta questa povera gente, anche perché è indubbio che questi piccoli sentono una disparità fra il trattamento fatto ad essi e quello che è stato fatto invece ai grandi e possenti del regime fascista.
Ecco dunque il succo delle mie affermazioni: affermazioni che la stampa ha riportato conferendo ad esse diversi significati od intenzioni, in buona o in mala fede, secondo le proprie tendenze ma che io comunque confermo ora dinanzi a voi, perché lo scopo che mi animò e mi anima non era se non quello di perseguire una maggiore distensione degli animi, per consolidare in questa maniera la Repubblica, voluta con decisione sovrana dal popolo italiano. (Applausi al centro e a destra).
PRESIDENTE. L’onorevole Targetti ha facoltà di dichiarare se sia sodisfatto.
TARGETTI. Come ha detto l’onorevole Ministro, la nostra interrogazione si riferisce ad una materia molto vasta, complessa e importante tanto che non è possibile, in sede d’interrogazione, non dico trattarla a fondo, ma neppure entrare in molti particolari.
Da questo settore dell’Assemblea, dai vari gruppi che lo compongono, è stata presentata questa interrogazione perché si è sentita la necessità di richiamare l’attenzione prima del Ministro, poi dell’Assemblea, su quello che era stato l’effetto prodotto in molti ambienti dalla intervista o conversazione al ministro attribuita. Questa interrogazione gli ha dato modo di fare dichiarazioni delle quali prendiamo atto con vero compiacimento, se non altro in quella parte nella quale egli riconosce che vi sono degli errori da correggere nel riferimento delle sue parole e che sono state date interpretazioni arbitrarie al suo pensiero.
Egli spiega anzitutto che non si trattava di una vera e propria intervista, ma di una semplice conversazione. Io non ho nessuna autorità per dare consigli a nessuno e tanto meno agli egregi colleghi che occupano l’alto seggio di Ministro, ma, certo, meno interviste i Ministri danno e meno pericolo corrono di doverle poi correggere e in parte smentire.
Però, l’onorevole Grassi deve riconoscere che il riferimento del suo pensiero deve essere stato profondamente – direi quasi, stranamente – errato, se gli sono state attribuite affermazioni di tanta gravità, da lui non confermate e se alle sue parole è stata data una intonazione ben diversa da quella che, qui, hanno avuto le sue dichiarazioni.
Come suol dirsi, è il tono, che in gran parte, fa la musica; sicché lo stesso motivo, dà sensazioni diverse se è in tono maggiore o in tono minore. Si può passare dall’allegria alla malinconia. L’onorevole Grassi potrebbe dire che si è data da noi una interpretazione arbitraria, non serena. Ed è vero che in politica è difficile mantenersi giudici sereni. Ma l’onorevole Grassi deve tener presente quella che si può dire l’orchestrazione ricevuta dalla sua intervista da parte di movimenti politici, da parte di gruppi finanziari – ciò che è più grave – i quali sostengono che la Repubblica non ha bisogno di essere difesa, ma lo sostengono unicamente perché non vorrebbero che fosse difesa. Rivendicano la libertà di attentare alla libertà, che soltanto ieri, ed a prezzo di tanti sacrifici e dolori fu riconquistata. Si sono commentate e salutate quelle sue parole, onorevole Ministro, come l’inizio di una nuova politica del Governo, in questa materia. Una politica alla quale noi ci opporremmo con tutte le nostre forze. E non si può dire che siano state interpretazioni arbitrarie.
Guardi, onorevole Grassi. Quando ella ha parlato dell’abolizione delle Corti d’assise straordinarie, ne ha parlato come di una prova di un nuovo indirizzo per la normalizzazione che il Governo vuole conseguire.
Ella mi insegna che non è così. L’abolizione delle Corti d’assise straordinarie non è una novità programmatica. Era stata prevista anche dall’onorevole Gullo. Ella sa che queste Corti d’assise straordinarie dovevano morire il primo di agosto. Ciò non fu possibile, perché per quella data non era stata ancora costituita la nuova Corte d’assise non essendo ancora venuto all’Assemblea il disegno di legge relativo. Io non so se da un decreto preparato dall’onorevole Gullo o dall’attuale Ministro venne la proroga al 31 dicembre.
GRASSI, Ministro di grazia e giustizia. La proroga è stata concessa per gli imputati già rinviati a giudizio; gli altri passano direttamente da oggi alle Corti d’assise ordinarie.
TARGETTI. Questa è una notizia che nell’intervista non c’è, ma che non mi rallegra eccessivamente, perché per quante critiche si possano fare alle Corti d’assise straordinarie, è ancora più difficile avere molta fiducia nelle Corti d’assise così come oggi sono costituite. Queste Corti d’assise con gli assessori di creazione fascista, non hanno accontentato nessuno: non quelli che sono fautori della giuria popolare, non quelli che ritengono che anche i reati più gravi debbano essere deferiti alla Magistratura ordinaria.
La composizione ed il funzionamento delle attuali Corti d’assise, le categorie sociali da cui vengono tolti gli Assessori, non ci rassicurano e quindi non ci rassicura, ma ci inquieta questa fretta di passare processi di carattere politico alle Corti d’assise ordinarie.
Ella ha annunciato anche, molto lietamente, l’abolizione dei Tribunali straordinari. Sì, lo so, è un principio meritevole del massimo ossequio, quello della unità giurisdizionale, ma non bisogna farne un feticcio.
L’unità giurisdizionale vale in tempi sani, in tempi normali. Ma perché ci si deve scandalizzare che in tempi così eccezionali come quelli che abbiamo attraversato e come sono in parte anche quelli che ancora attraversiamo, si sia dovuto fare ricorso a questi Tribunali straordinari, che poi sono Tribunali militari?
Io ho sempre pensato che per chiudere la bocca a quanti si scagliano contro questi Tribunali straordinari basti ricordare loro l’eccidio di Villarbasse.
Sarebbe disconoscere le esigenze della difesa sociale, rifiutarsi di riconoscere la necessità transitoria di norme di competenza eccezionali di fronte a manifestazioni eccezionali di impressionante criminalità.
Venendo al punto del dissenso più profondo, le ricordo, onorevole Grassi, come ella ad un certo punto, abbia detto nella sua conversazione, che l’attenzione del Ministro non poteva fare a meno di fermarsi sulla situazione di coloro che, in applicazione dei decreti del 1944 e 1945, sono stati colpiti con maggiore severità nel primo biennio dell’applicazione dei decreti stessi, che non successivamente. Vorrei dire che ella ha sparso qualche lacrima sopra la sorte di taluni di questi colpevoli che possono essere stati trattati più severamente di quelli giudicati più di recente. Ma ella non si è posto il problema se maggiore rispetto alle esigenze della giustizia vi sia stato nelle sentenze più severe piuttosto che nelle sentenze più miti.
Ella dice bene: è una materia complessa e grave che non si può discutere in questa sede. Ma anche qui è utile dire quanto sia pericoloso autorizzare, sia pure involontariamente, a rendere la repressione dei delitti fascisti una cosa sempre meno seria. E poi ella ha parlato anche delle interpretazioni contrastanti che hanno avuto le cause ostative all’amnistia.
Onorevole Grassi, questa sì che è una questione delicata e dolente a toccare.
Secondo lei l’amnistia del giugno 1946 avrebbe avuto interpretazioni contrastanti nel senso di aver dato luogo a delle ingiustizie che soltanto attraverso grazie ed indulti si possono riparare. Ma se c’è una caratteristica nell’interpretazione che la giurisprudenza ha dato a quel decreto, la caratteristica è di una costante aberrazione. Io mi permetto fare una sola citazione per tutte. Si tratta, fra le tante, di una sentenza della Corte di Cassazione. Non leggo il nome del Presidente, non leggo il nome del relatore. Preferisco non leggerli. Una sentenza della Cassazione, che stabilisce questo principio: in tema di collaborazione politica costituisce indubbiamente sevizia, ma non già sevizia particolarmente efferata qual è richiesta dall’articolo 3 del decreto 22 giugno 1946, per l’esclusione dell’amnistia, il sospendere un partigiano per i piedi e fargli fare da pendolo mediante pugni e calci, onde indurlo a dichiararsi colpevole ed accusare i propri compagni.
Onorevole Grassi, non tocchiamo proprio per pietà nazionale questo triste tasto dell’interpretazione data da tanta parte della magistratura… (Applausi a sinistra).
Per pietà nazionale, perché abbiamo tutti, perché ha la Nazione l’interesse di avere dei giudici che interpretino, sia pure errando – perché errare è umano e nel giudicare è ancora più facile – ma con coscienza, con intelligenza senza prevenzioni, senza faziosità la legge di cui è loro affidata l’applicazione. La interpretino sempre col proposito di renderla più che è possibile giusta, umana, utile ai supremi interessi della società, bene intonandola alla esigenza di giustizia fortemente sentita dalla collettività.
Ecco perché, anche per la buona amicizia che ci lega, onorevole Grassi, da tanti anni, ella deve credere che io mi sono sinceramente doluto quando ella ha fatto cenno a ciò.
Infine, quando ella, onorevole Ministro dice che bisogna intervenire efficacemente con larghi decreti di indulti per dei gruppi di condannati, lo dice, o glielo fa dire quel suo intervistatore che, avendo avuto, a quanto mi viene riferito, qualche dispiacere dall’epurazione, si trova forse in uno stato d’animo che gli fa attribuire al Ministro quello che corrisponderebbe ai suoi desideri.
GRASSI. Ministro di grazia e giustizia. Ho chiarito prima quale è stato il mio concetto… quello che ho detto.
TARGETTI. Prendo atto che non l’ha detta, questa che sarebbe stata una enormità giuridica ed anche una enormità politica e morale.
Ma chi si vuole beneficiare? Non bastano tutti quelli che sono sfuggiti a qualsiasi sanzione? Tutti quelli che sono stati beneficiati da una amnistia, diciamolo francamente, mal congegnata e malissimo applicata? A chi volete dare il beneficio della grazia e dell’indulto? Fra poco si finirà col condannare chi ha commesso il grave peccato di essere stato sempre antifascista, se si continua in questa strada. (Applausi a sinistra)
Ed io mi permetto concludere in questo senso, senza punta di malizia.
Onorevole Grassi, a quanto ini risulta, ella non è stata mai infetto da lue fascista. È questo un ottimo precedente. Per me la lue fascista è una di quelle malattie di cui difficilmente si può guarire interamente, quando un giorno abbia preso pieno possesso del nostro organismo.
Ella, questa lue, per sua fortuna, non l’ha sofferta. Non credo, quindi, che ella voglia dare alla sua politica un indirizzo che sarebbe di favoritismo fascista. Per farlo bisognerebbe anche che si mettesse d’accordo con l’onorevole De Gasperi. Con quello di ieri, se non con quello di oggi; con le dichiarazioni che fece presentando il suo… non so dirne il numero esatto, perché sono tanti questi suoi Ministeri, presentando il suo penultimo Ministero. In quelle dichiarazioni egli affermava precisamente e solennemente di voler provvedere alla difesa della Repubblica. E presentò un particolare disegno di legge che non ha ancora ritirato. (Commenti). Il Ministro di grazia e giustizia dovrebbe concordare questa nuova politica anche con l’onorevole Scelba, che, se non gode di una buona stampa presso di noi, non è certo perché non sia stato sempre antifascista e repubblicano. Come potrebbe associarsi ad una politica filofascista? Finché si tratta di proibire i comizi nelle fabbriche, è un’altra cosa. Si tratta di impedire la propaganda comunista e socialista. (Interruzioni).
UBERTI. Per evitare i contrasti fra operai nell’interno delle fabbriche.
TARGETTI. Questa è la curiosa giustificazione del provvedimento data dall’onorevole Scelba. Egli ha detto: «Abbiamo voluto proibire i comizi, perché nelle fabbriche ci sono diversità di opinioni».
Ma i comizi si tengono appositamente perché esistono diversità di idee. Altrimenti sarebbero perfettamente inutili.
Noi concludiamo, onorevole Grassi, augurandoci che ella voglia accentuare la politica di difesa della Repubblica, non già indebolirla. (Applausi a sinistra).
PRESIDENTE. L’onorevole Rossi Paolo ha facoltà di dichiarare se sia sodisfatto.
ROSSI PAOLO. L’onorevole Ministro di grazia e giustizia ha troppa consuetudine con testi di filosofia per non sapere che la soddisfazione è fuori dei limiti del razionale. Non si dorrà, quindi, se manifesterò la mia parziale insoddisfazione! Sono imperfettamente sodisfatto, perché, mentre godo di sentire dalla sua autorevole voce che non si pensa ad una generale amnistia, ma ad un indulto per categorie (in realtà tutti i provvedimenti di amnistia e di indulto sono per categorie, per gruppi, perché fino adesso, anche nell’abuso ridicolo e spaventoso che si è fatto dal 1922 in poi, nessuno ha mai pensato ad una amnistia universale, ad un indulto per tutti, che superi i limiti delle categorie e perdoni alla totalità dei malfattori), e mi preoccupa la pubblicità data alle dichiarazioni dell’onorevole Ministro.
Ho detto che si è fatto dell’amnistia un largo e quasi ridicolo abuso. Permetterà l’Assemblea che io citi un passo del Guicciardini, in cui è contenuta una anticipazione del pensiero criminalistico italiano: «Bisogna punire tutti i delitti, bisogna punirli a dieci soldi per lira, ma fare in modo che vi sia la certezza della pena».
La politica seguita nell’ultimo trentennio è esattamente quella opposta.
L’onorevole Targetti ha citato una sentenza che tutti abbiamo letta con orrore. Dirò all’onorevole Targetti che insieme con il testo della sentenza è veramente deplorevole anche il testo della legge.
Sarebbe stato largamente sufficiente parlare di «sevizie», che è già un concetto ben grave e ben crudo. Si sono aggiunti un aggettivo spaventoso: «efferate», ed un avverbio anche più grave: «particolarmente». Si è parlato di «sevizie particolarmente efferate» creando una mostruosità, perché la persona che è capace di compiere «sevizie particolarmente efferate» è veramente un mostro, più che un uomo. Allora anche certe sentenze che avrebbero dovuto rettificare la legge, non si perdonano, ma si spiegano dicendo che si è fatto di questo istituto dell’indulto e della amnistia un deplorevole abuso anche dopo il fascismo.
Mi compiaccio di sentire dalla bocca del Ministro della giustizia l’affermazione perentoria e chiara, la promessa e, credo, l’impegno definitivo del Governo, che non si presenteranno progetti di amnistia e di indulto, se non attraverso la solennità e la responsabilità dell’Assemblea Nazionale.
Oserei dire che mentre la restituita democrazia ha fatto in molti campi veramente bene, veramente di più di quello che si poteva aspettare da un osservatore storico anche ottimista, è proprio nel campo della giustizia, nel campo delicatissimo della giustizia, che la nuova democrazia repubblicana non ha fatto una grande prova: politicamente non felici, tecnicamente mal congegnate, le leggi per l’epurazione e per la repressione dei delitti fascisti hanno mancato al loro scopo.
Vedo l’onorevole Cappi ed ho paura a far citazioni in latino (Si ride), che mi sgorgherebbero in questo momento dal cuore, perché, inciampando di un piede o di mezzo piede, mi attirerei le sue critiche. Citerò in italiano. C’è un passo dell’Andria di Terenzio in cui si dice: «Noi non tendiamo le nostre reti all’avvoltoio ed all’aquila, al nibbio ed allo sparviero, che ci danneggiano; tendiamo le nostre reti al passero ed al fringuello, al tordo e al merlo, che non ci fanno nulla». Tale è stata, in conclusione, la legislazione repubblicana, la non felice legislazione repubblicana, in tema di epurazione di delitti fascisti. Abbiamo lasciato passare con le loro grandi ali, i loro artigli ed i loro rostri voraci, il nibbio e l’avvoltoio, e più di qualche volta abbiamo messo in gabbia, o nella casseruola, il merlo ed il passero.
Capisco, onorevole Ministro – ed in questo mi dico sodisfatto, sebbene imperfettamente – la necessità di talune grazie che possono, non dico riparare degli errori, ma compensare ingiustizie e disparità. La giustizia è sostanzialmente proporzione, e quindi contraddice la propria essenza quando non è uniforme.
Capisco la necessità di provvedimenti particolari di grazia per riparare sproporzioni urtanti tra sentenze emanate immediatamente dopo la liberazione e troppo severe, e sentenze pronunciate dopo, infinitamente troppo benevole. Ma occorre, onorevole Ministro, in questo tema avere una straordinaria cautela, una straordinaria prudenza di linguaggio.
Noi abbiamo assistito, subito dopo la lotta della liberazione, a quella che gli inglesi, sempre formalisti nell’applicazione della giustizia, formalisti anche quando decisero, una volta sola nel corso della loro storia, di decapitare il re, chiamarono «rough justice», una giustizia ruvida, una giustizia scabra, ma giustizia.
Ebbene, il momento della giustizia ruvida, il momento della giustizia scabra è passato. Occorre avere in questo momento una grande attenzione, una grande riverenza, un grande riguardo per l’istituto della giustizia e per la giustizia in sé, che è così vivamente sentita dal popolo italiano. Questa grande riverenza, questo ossequio verso la giustizia, la sua amministrazione e il suo concetto, richiedono di non fare dichiarazioni, onorevole Ministro, che possano essere facilmente interpretate a rovescio, determinando stati d’animo appassionati, inquietudini, desideri ed incertezze. Occorre che questa sovrana prerogativa, questa, direi, quasi mistica prerogativa del Capo dello Stato, che è la grazia, non sia messa in piazza, non sia anticipata nei giornali. Occorre che il Ministro della giustizia, il Governo e il Capo dello Stato ci pensino, ma è bene che nessuno ne parli, onorevole Ministro.
PRESIDENTE. Seguono due interrogazioni al Ministro dell’interno degli onorevoli Di Vittorio ed altri e dell’onorevole Lizzadri, che si possono abbinare, per affinità di materia:
Di Vittorio, Bitossi, Noce Teresa, Negro, Flecchia, Massini, al Ministro dell’interno, «sul contenuto della sua circolare telegrafica dell’8 luglio 1947, con la quale si dispone di sottoporre ad autorizzazioni e controlli della polizia le riunioni dei lavoratori all’interno delle aziende in cui lavorano, anche quando dette riunioni sono indette dalle Commissioni interne; ciò che costituisce un attentato gravissimo alle libertà democratiche e sindacali».
Lizzadri, al Ministro dell’interno, «per conoscere i motivi che hanno indotto il direttore generale della pubblica sicurezza ad emanare la circolare 40617/4412/1962 dell’8 luglio 1947, che vieta le riunioni all’interno delle fabbriche. Questo provvedimento annulla di fatto cinquanta anni di conquiste sindacali, realizzate dai lavoratori italiani di ogni tendenza politica col proprio sacrificio e spesso col proprio sangue, e pone il nostro Paese alla retroguardia di tutte le Nazioni democratiche del mondo. L’interrogante chiede, perciò, che la circolare venga immediatamente revocata».
UBERTI. Pregherei che si abbinasse anche la mia interrogazione sullo stesso argomento.
PRESIDENTE. L’onorevole Uberti ha presentato questa mattina la seguente interrogazione:
«Al Ministro dell’interno, sulla circolare riguardante i comizi politici nell’interno delle fabbriche e sugli scopi che l’hanno ispirata».
Anche questa interrogazione potrà essere svolta insieme con quelle degli onorevoli Di Vittorio e Lizzadri testé lette.
Comunico inoltre che l’onorevole Bibolotti ha comunicato alla Presidenza di aggiungere la sua firma all’interrogazione dell’onorevole Di Vittorio, cui risponderà ora il Ministro dell’interno.
L’onorevole Ministro dall’interno ha facoltà di parlare.
SCELBA, Ministro dell’interno. Onorevoli colleghi, poiché la circolare emanata dal capo della polizia, in ordine ai comizi nell’interno delle fabbriche, è stata pubblicata soltanto da un giornale italiano, e le ulteriori precisazioni emanate dal Ministero dell’interno in ordine a questa circolare non furono pubblicate dal giornale che aveva pubblicato la circolare della pubblica sicurezza, io mi permetterò, anche per una più chiara intelligenza della questione, di leggere il testo della circolare e le precisazioni del Ministero dell’interno.
La circolare del Direttore generale della pubblica sicurezza diceva:
«Risulta che le Commissioni interne di alcune imprese industriali hanno sollecitato autorizzazione a tenere comizi interno stabilimenti. Per tutela ordine pubblico, in vista possibili incidenti et ripercussioni da parte operai appartenenti diverse tendenze politiche, rappresentasi opportunità che competenti autorità pubblica sicurezza non accordino autorizzazioni».
La precisazione del Ministero dell’interno, a seguito delle proteste di una parte della stampa e degli organi confederali, aggiungeva:
«Benché il testo sia sufficientemente chiaro, ad evitare arbitrarie interpretazioni ed ingiustificate agitazioni, si precisa che il richiamo riguarda unicamente i comizi per i quali occorre a norma di legge la preventiva autorizzazione da parte della pubblica sicurezza.
«Sono escluse perciò ovviamente tutte le riunioni a carattere privato per le quali non occorre la preventiva autorizzazione da parte della pubblica sicurezza, ed a maggior ragione le assemblee dei lavoratori per la trattazione dei loro problemi sindacali.
«Inoltre, non si tratta, come si è asserito, di un divieto generale di comizi, ma, per ragioni di opportunità, di facoltà a non concedere le eventuali autorizzazioni quando circostanze particolari, da stabilirsi dalle autorità locali competenti, lo giustifichino.
«In quanto alla ragione della disposizione, si conferma che essa è stata sollecitata dai lavoratori a salvaguardia della loro libertà di opinioni e per evitare possibili conflitti nell’interno dei luoghi di lavoro».
Questo è il testo degli atti ufficiali che riguardano questa materia. Come è venuta al Ministero dell’interno l’idea di emanare una circolare siffatta? Essa, contrariamente a quanto si è voluto far ritenere, non corrisponde al proposito di limitare la libertà di chiunque, bensì di rafforzare la libertà di tutti.
Al principio del mese di luglio, il prefetto di una grande città industriale dell’Alta Italia informava il Ministero dell’interno che due Commissioni interne di due grandi fabbriche avevano chiesto l’autorizzazione a tenere comizi nell’interno degli stabilimenti. Il prefetto, nel segnalare la richiesta, faceva le seguenti osservazioni, che mi permetto di sottoporre all’Assemblea: «Rilevo che le maestranze, composte di operai di diverse tendenze politiche, dovrebbero tutte partecipare per opportunità ambientale, tanto più che eventuali assenze verrebbero indubbiamente notate e forse sorvegliate da compagni di lavoro di partiti diversi.
«È facile arguire che la situazione che ne deriverebbe potrebbe facilmente sfociare in gravi inconvenienti, poiché nel caso di partecipazione darebbe luogo a contraddittori e contrasti che turberebbero il regolare svolgimento dei comizi, per cui in casi di astensione di gruppi di tendenze diverse si verificherebbero incidenti che rappresenterebbero pericoloso lievito per altre manifestazioni all’interno e fuori degli stabilimenti. E ciò senza accennare alla gravità delle conseguenze, qualora, nel rovente clima di un comizio politico, si dovesse verificare la possibilità di disordini nel momento stesso il cui il comizio si svolge.
«Per questi motivi e per tali considerazioni, sottopongo a codesto Ministero, perché esamini l’opportunità con tempestive disposizioni di ordine generale, di proibire i comizi politici all’interno degli stabilimenti industriali».
Segnalazioni di questo genere erano pervenute da altre parti d’Italia, e gruppi di lavoratori avevano sollecitato anche il Ministero dell’interno a prendere provvedimenti di questo genere. È risultato anche che, in qualche posto, per evitare che venisse turbata la pace, l’armonia, la tranquillità nell’interno degli stabilimenti e fra i lavoratori, i rappresentanti dei partiti politici locali avevano preso l’iniziativa di evitare che nell’interno degli stabilimenti si tenessero comizi politici.
Queste, onorevoli colleghi, le ragioni che hanno consigliato e dettato la circolare. Attentato alle libertà democratiche? Nell’aprile scorso, in occasione della Pasqua, le organizzazioni dei lavoratori cristiani presero l’iniziativa di tenere delle conferenze in preparazione della Pasqua, nell’interno degli uffici e degli stabilimenti e al di fuori di essi. In quell’occasione, la stampa – e mi riferisco alla stampa che oggi protesta vivamente per le disposizioni emanate dal Ministero dell’interno – protestò non meno vivacemente contro questo intervento da parte di organizzazioni cattoliche che desideravano tenere nell’interno degli uffici, degli stabilimenti queste riunioni. Anche allora si insorse con energici inviti al Ministero dell’interno di impedire che si tenessero di queste riunioni.
Onorevoli colleghi, il Fronte di unità repubblicana – non so come oggi si chiami, perché si tratta di una associazione di forze politiche che varia continuamente – il Fronte di unità repubblicana dunque prese in quel momento anch’esso vigorosa posizione ed emanò un ordine del giorno di protesta che mi permetto di leggere all’Assemblea Costituente. Traggo questa lettura dal giornale Il Momento del 25 marzo 1947 e aggiungo che si tratta dei dipendenti del Ministero dei lavori pubblici. Ecco dunque in quali termini suona l’ordine del giorno di questo Fronte:
«Ritenuto che non si ravvisano motivi plausibili per giustificare tale determinazione – quella cioè di tenere conferenze religiose per i lavoratori nei luoghi del loro lavoro – sia perché non vi sono precedenti di tal genere neppure in periodo fascista, sia perché i dipendenti hanno tutta la possibilità, ove lo credano, di dedicarsi alle loro pratiche confessionali in giorni, in ore, in luoghi diversi da quelli del loro lavoro, nella preoccupazione che sotto la veste della pura manifestazione di ordine religioso se ne nascondano invece altre di carattere politico, eleva la sua protesta contro tali tentativi di raggiungere fini politici con mezzi apparentemente destinati ad altro scopo e ad elusione delle vigenti disposizioni».
Ora, onorevoli colleghi, qui si trattava di manifestazioni di carattere religioso, di quella religione che costituisce il patrimonio morale della stragrande maggioranza dei lavoratori italiani.
MORANINO. Al Ministero della guerra sono state sempre tenute queste manifestazioni religiose e mai nessuno ha protestato: com’è?
SCELBA, Ministro dell’interno. Onorevole collega, l’Avanti!, in data 25 dello stesso marzo 1947, trattando dello stesso argomento, arrivava addirittura a parlare di scandalo: era, per questo foglio, addirittura uno scandalo che si tenessero riunioni di carattere religioso nei luoghi di lavoro. Io non dico, onorevole collega, che riunioni di questo genere non si siano tenute; dico che se si è parlato di scandalo, allorché si è trattato di una manifestazione di carattere religioso, e quindi non politico, a maggior ragione si sarebbe protestato violentemente contro una manifestazione a carattere politico nell’interno di un ufficio o di uno stabilimento.
Non intendo dire con questo che era legittima la protesta; dirò, anzi, che di quella protesta ritengo non si sia tenuto conto, tanto più che queste riunioni si tenevano fuori degli stabilimenti e tanto più – ripeto – che si trattava di manifestazioni religiose, di quella religione che, come dicevo prima, rappresenta il patrimonio comune… (Proteste a sinistra).
GIUA. Non era quello il luogo; ci sono le chiese.
TONELLO. Andate in chiesa!
SCELBA, Ministro dell’interno. …di tutti i lavoratori italiani o perlomeno della stragrande maggioranza dei lavoratori italiani. (Interruzioni dei deputati Moranino e Pratolongo – Commenti a sinistra).
PRESIDENTE. Onorevole Moranino, non interrompa! Onorevole Pratolongo, non è lei l’interrogante che ha diritto di rispondere.
SCELBA, Ministro dell’interno. Onorevole Tonello, non si trattava di una cerimonia religiosa; si trattava di conferenze da tenersi nei circoli ricreativi. (Interruzioni a sinistra – Proteste al centro).
Dicevo che se vi è stata tanta sensibilità per una riunione a carattere religioso, se si è ritenuto che tenere nell’interno di un ufficio o di uno stabilimento riunioni a carattere religioso fosse addirittura un attentato alla libertà politica dei lavoratori, perché attraverso manifestazioni a carattere religioso si potevano raggiungere delle finalità politiche, a maggior ragione penso che allorché si vogliano tenere delle manifestazioni spiccatamente politiche non possano venire meno le preoccupazioni affacciate per manifestazioni a carattere religioso.
Comunque, onorevoli colleghi, ho voluto richiamare questi precedenti, perché la sensibilità politica deve essere generale, e quando si condanna un provvedimento, bisogna esaminarne la genesi, le ragioni e avere una certa coerenza; ma il provvedimento in sé e per sé non instaura e non innova nulla. È stato affermato ed era chiaramente detto e indicato che noi non si intendeva interferire nelle manifestazioni all’interno degli stabilimenti; dico che con questa disposizione non sono vietate neppure, come si è detto, le conferenze e neppure i comizi, a priori, anche nell’interno degli stabilimenti; ma si dà la possibilità alla autorità di pubblica sicurezza, e nei casi in cui l’autorità di pubblica sicurezza lo ritiene in virtù delle leggi vigenti, di concedere o non concedere l’autorizzazione a tenere il comizio politico nello stabilimento; così come è data all’autorità di pubblica sicurezza la possibilità di concedere o non concedere la possibilità di tenere un comizio politico in una grande piazza, quando particolari ragioni, quando particolari contingenze possono sconsigliare di concedere una siffatta autorizzazione. Anche a proposito dell’autorizzazione di tenere comizi nelle piazze, per esempio, a seguito dei noti incidenti verificatisi in Italia, abbiamo richiamato l’attenzione della pubblica sicurezza, nel desiderio di evitare turbamenti all’ordine pubblico, alla pace sociale, per garantire ed assicurare che la lotta politica si svolga (Interruzioni e commenti a sinistra) in clima di assoluto rispetto democratico, perché si neghi l’autorizzazione a tenere comizi in piazze centrali.
Una voce a sinistra. Anche Mussolini parlava così!
SCELBA, Ministro dell’interno. Onorevoli colleghi, posso dire che quando Mussolini vietava i comizi, il divieto valeva per gli oppositori, mentre lasciava piena ed unica libertà al suo partito di tenere tutti i comizi che voleva. (Interruzioni a sinistra).
Nel caso specifico la disposizione ha un valore generale, e non vieta i comizi, ma vieta i comizi nelle fabbriche.
TOGLIATTI. Siete un altro che prende a maestro Mussolini! (Proteste al centro).
SCELBA, Ministro dell’interno. È dovere del Governo di assicurare che la lotta politica, che la propaganda politica si svolgano col rispetto delle minoranze. Ora, se una base morale e prettamente democratica ha questo provvedimento, precisamente sta in questo: di volere assicurare la libertà di opinione delle minoranze politiche. (Interruzioni a sinistra).
E sta in questo, onorevoli colleghi, la caratteristica di una democrazia: cioè a dire nello sforzo di assicurare la libertà delle minoranze, perché, assicurando la libertà delle minoranze, si assicura la libertà della stessa maggioranza; dato che ciò che oggi è maggioranza può essere minoranza domani. (Applausi al centro – Rumori a sinistra – Interruzione del deputato Bitossi).
Vengo a lei, onorevole Bitossi.
Io sono pienamente d’accordo con l’onorevole Bitossi. Sono d’accordo in questo: che io dovrei augurarmi e anzi dovrei avere la certezza che la Confederazione del lavoro è col Governo in questa politica. Perché l’onorevole Bitossi o l’onorevole Di Vittorio devono garantire la libertà di tutti i lavoratori indipendentemente dalla loro fede politica, come posso pretendere dal mio amico Pastore che deve tutelare e difendere la libertà delle opinioni politiche dei lavoratori socialcomunisti. Ma esiste la possibilità che venga minacciata, sia pure attraverso intimidazioni di carattere psicologico, la libertà di opinione dei lavoratori; come, ad esempio, quando le Commissioni di fabbrica prendono iniziative di carattere non sindacale (su cui nessuno discute perché questo è loro compito istituzionale), ma di tenere comizi di parte – che poi sono sempre di una sola parte. Qui la libertà sindacale non c’entra; e che le Commissioni di fabbrica si tramutino talvolta in agenti di partito è più che provato.
Si è visto, per esempio, di recente in una grande città dell’Alta Italia, una Commissione di fabbrica pretendere che i lavoratori facessero quattro ore di straordinario destinando il 50 per cento del ricavato all’assistenza interna e il 50 per cento a favore della stampa comunista.
Così, in un’altra grande città del Nord, è avvenuto che la Commissione interna (e d’onorevole Bitossi ne sa qualche cosa, perché vi è stata una larga polemica) e la Camera del lavoro abbiano preso l’iniziativa di fare lavorare in giorni festivi tutti i lavoratori a favore del Partito comunista. (Commenti).
Ora che il nostro sforzo di ristabilire la legge, di ristabilire la normalità, il nostro sforzo di assicurare a tutti i lavoratori la loro piena libertà di opinioni (Interruzioni a sinistra), e che non subiscano neppure la coazione morale che deriva dal numero e dalla maggioranza, che questo sforzo di restaurazione delle libertà possa essere qualificato gesto reazionario o antidemocratico, io personalmente non lo vedo; e non posso accettare questa critica nei limiti in cui il provvedimento è stato emesso nell’ambito delle leggi, nel rispetto di tutte le libertà.
Peraltro non ho mai considerato che i lavoratori che si riuniscono su invito delle Commissioni interne per trattare problemi di categoria facciano comizi; considero la riunione un’assemblea libera di lavoratori che discutono problemi propri di lavoro, e per queste assemblee nessuno ha mai pensato che potessero comunque interferire l’autorità dello Stato e la polizia. Per il divieto che, ripeto, non ha carattere generale, ma significa soltanto possibilità, facoltà, consentita all’autorità di pubblica sicurezza di vietare in determinate circostanze, non occorreva neppure un’autorizzazione espressa, perché le autorità già posseggono questo diritto. Si tratta di un richiamo specifico ad una possibilità, ad una situazione, che era stata particolarmente segnalata dagli organi responsabili dello Stato: possibilità di evitare manifestazioni politiche per assicurare la pace all’interno degli stabilimenti ed il libero sviluppo delle attività del lavoro per evitare conflitti (ce ne sono tanti nelle piazze e nella stampa).
Ma lasciamo che i lavoratori, nelle ore di lavoro, lavorino in pace, tranquillamente, senza che la politica vada a turbare tutte le manifestazioni della vita sociale! (Applausi al centro).
Se questo sforzo, che tende a restaurare e garantire la libertà di tutti, possa essere qualificato antidemocratico, lascio all’Assemblea di decidere. (Applausi al centro).
PRESIDENTE. L’onorevole Bitossi, secondo firmatario della prima interrogazione, ha facoltà di dichiarare se sia sodisfatto.
BITOSSI. Il testo del telegramma inviato dal Ministro dell’interno ci indica non solo il fatto in se stesso della proibizione delle riunioni di carattere politico, ma implica tutte le riunioni. È quindi logica l’interpretazione data dalla pubblica sicurezza locale di proibire tutte le riunioni sia di carattere politico, sia di carattere sindacale che erano state convocate nell’interno degli stabilimenti. Ma il fatto in se stesso dell’invio di un simile telegramma ci indica un indirizzo che – con un susseguirsi di fatti – ha portato alla promulgazione del telegramma di cui trattasi.
Sarà una cosa strana, onorevole Scelba, ma noi dobbiamo constatare che tutte le volte che le organizzazioni sindacali affrontano un problema tendente a ottenere determinati miglioramenti per la massa dei lavoratori o per qualche categoria, interviene sempre un atto del Ministro dell’interno che sembra voler dire ai datori di lavoro o agli industriali: «Tenete duro, ci sono io che vi proteggo (Rumori, al centro – Approvazioni a sinistra), ci sono io che vengo in vostra difesa».
E infatti possiamo constatarlo. Una categoria di lavoratori affronta un contratto nazionale. Vi è alla testa, alla dirigenza, un elemento attivo che cerca di tutelare gli interessi dei lavoratori. Si prende a pretesto che questo è un cittadino svizzero e lo si espelle dall’Italia in maniera brutale che, democraticamente, non è assolutamente ammessa.
Voci a sinistra. E i fascisti li tengono!
BITOSSI. Lo si attende che passeggi per la strada, si allontana la moglie, si carica su di una macchina e, senza documenti e senza un soldo, lo si porta alla frontiera svizzera. Si noti che questo cittadino svizzero è nato in Italia, ha fatto gli studi in Italia, si è laureato in Italia, vive da undici anni a Sondrio; ha combattuto, malgrado fosse cittadino svizzero, nelle formazioni di partigiani italiani per l’indipendenza italiana.
Voci a sinistra. Appunto per questo!
BITOSSI. Per il semplice motivo che era svizzero, lo si prende e lo si manda via.
Non solo: si sta affrontando il problema dello sblocco dei licenziamenti. Si vuole impedire che i licenziamenti avvengano, che gli industriali, approfittando di questa congiuntura, gettino sul lastrico elementi che sono attristi sindacali.
Ebbene, a Prato, in Toscana, i lavoratori di uno stabilimento tessile reagiscono; dichiarano lo sciopero bianco per impedire che due membri scaduti della Commissione interna dopo venti giorni siano licenziati. La polizia interviene, occupa lo stabilimento e provoca naturalmente la chiusura dello stabilimento medesimo, che ci risulta ancora occupato dai carabinieri!
Onorevole Scelba, il problema del contenuto del telegramma è stato posto perché proibisce le riunioni dentro le fabbriche non politiche; perché il testo del suo telegramma non lascia dubbi, proibisce tutte le riunioni.
SCELBA, Ministro dell’interno. Parla di comizi. (Rumori a sinistra).
BITOSSI. Io non sono un letterato, ma quando il suo telegramma dice: «Per tutela ordine pubblico in vista possibili incidenti e ripercussioni, da parte operai appartenenti a diverse tendenze politiche, rappresentasi opportunità che competenti autorità pubblica sicurezza non accordino autorizzazioni», io non vedo che sia fatta distinzione tra comizi politici e sindacali. Il fatto in se stesso è questo: che il suo telegramma dall’autorità di pubblica sicurezza e dallo stesso suo direttore generale, Ferrari, è stato interpretato nel senso che tutti i comizi e tutte le riunioni sindacali erano proibite. Tanto è vero che il suo direttore generale è intervenuto perfino qui a Roma, ad impedire che il Circolo romano del CRAL dei ferrovieri potesse eleggere i propri rappresentanti perché non aveva chiesto l’autorizzazione, ecc.
Quindi lo spirito del telegramma investe tutte le riunioni. Ma quello che a me interessa, come organizzatore sindacale e come appartenente alla Confederazione, è che il fatto è strettamente connesso con un altro. Onorevole Scelba, noi con la Confindustria stiamo studiando la regolamentazione delle Commissioni interne. Lascio a lei giudicare! Noi presentiamo alla Confindustria un progetto dove è detto fra l’altro: «Per qualsiasi riunione delle maestranze nei locali dello stabilimento, le Commissioni interne o l’incaricato sindacale devono avvertire la direzione».
Nel frattempo interviene il telegramma del Ministro Scelba. La Confindustria propone l’accettazione di un altro testo che è il seguente: «Per qualsiasi riunione di lavoratori da tenersi nell’ambito dello stabilimento, e che sia necessaria per l’espletamento dei propri compiti ai sensi dell’articolo 2, ecc., la Commissione interna o l’incaricato sindacale devono ottenere l’autorizzazione della direzione».
Quindi siamo qui di fronte al fatto che mentre fino ad oggi la prassi ordinaria è stata che le Commissioni interne, vista la necessità di convocare le maestranze allo scopo di illuminarle su determinate attività, avvertivano la direzione di questa necessità di riunione senza chiedere l’autorizzazione, oggi, viceversa, i lavoratori, se noi accettassimo il comma, come ci è stato proposto, dovrebbero chiedere l’autorizzazione alla direzione e alla pubblica sicurezza, in maniera che le riunioni non potrebbero praticamente svolgersi tempestivamente.
Ma è proprio esatto che i lavoratori, che le riunioni sindacali, che le riunioni di qualunque genere, devono ottenere l’autorizzazione per convocarsi nell’interno dell’officina?
È un comizio che si fa o è una riunione privata? Perché io ammetto che si possa anche eventualmente far chiedere l’autorizzazione per i comizi di piazza, ma lì non si tratta di comizi aperti al pubblico ai quali tutti possono partecipare. Lì si tratta di una riunione privata, tenuta in luogo privato, alla quale partecipano elementi esclusivamente appartenenti a quel determinato ambiente di lavoro ed ove gli estranei non sono assolutamente ammessi; quindi sono riunioni a carattere interno, a carattere privato, ed io penso che non si possa né si debba chiedere alcuna autorizzazione. (Rumori al centro).
L’onorevole Scelba ha voluto cercare dei precedenti e ha detto che alcune Commissioni interne, alcuni organismi hanno chiesto l’autorizzazione. A noi della Confederazione non ci risulta che questo sia mai avvenuto. Nessuna Commissione interna ha chiesto l’autorizzazione per fare una riunione interna, perché è la prassi normale, in quanto c’è una regolamentazione – c’è l’accordo Buozzi-Mazzini – che detta la regolamentazione per le riunioni interne degli stabilimenti. Ma indipendentemente da questo fatto, ha voluto cercare di riallacciarsi ad alcuni fatti ed episodi durante il periodo di preparazione o di discorsi per la Santa Pasqua.
Venendo quindi ad un filo logico delle cose, noi saremmo allora (per interpretare il vero senso reale delle parole dell’onorevole Scelba) solamente autorizzati a fare riunioni interne negli stabilimenti se si tratta di andare a sentire una Messa o soltanto dei discorsi per la Santa Pasqua, perché questi non vengono proibiti, in quanto, secondo lui, non sono di un aspetto tale da richiedere la proibizione, mentre le riunioni di carattere sindacale…
SCELBA, Ministro dell’interno. Lei discute a vuoto. Mi pare che ho precisato che le riunioni sindacali non sono soggette alla disposizione ministeriale…
BITOSSI. Io domando a lei come può, ad un determinato momento, riconoscere che una è una riunione sindacale e l’altra è politica oppure se una riunione sindacale diventa o sta per diventare riunione politica, secondo il criterio con cui viene esaminata. Se in una assemblea di stabilimento si esamina, per esempio, il problema del carovita e nel corso della discussione si biasima eventualmente l’atteggiamento del Governo che non realizza determinate azioni in favore di un ribasso del costo della vita, lei me l’interpreta come una riunione politica e mi manda in galera per sei mesi il segretario della Commissione interna. Ripeto dunque che per qualunque riunione che abbia luogo negli stabilimenti (essendo riunioni chiuse senza la partecipazione di estranei) né il Ministro dell’interno, né la Questura locale possono pretendere di far chiedere l’autorizzazione agli organi di polizia.
Io credo quindi che lei, se effettivamente vuole realizzare la tranquillità nelle aziende, non può che ritirare il telegramma che ha fatto.
Non è esatto che negli stabilimenti non vi sia libertà di espressione di tutte le tendenze. Noi usciamo da poco tempo dal Congresso confederale. In tutte le fabbriche hanno avuto luogo le assemblee precongressuali. C’è stato il cozzo di idee, di indirizzo politico, indirizzo e cozzo di idee che hanno portato al congresso confederale una minoranza agguerrita con 600.000 voti, il che dimostra che la democrazia, la libertà di riunioni, il rispetto dell’altrui pensiero, sono stati appieno rispettati nelle riunioni sindacali tenute nell’interno degli stabilimenti.
Non può ella, oggi, con un pretesto qualsiasi, togliere la libertà di riunione e la libertà sindacale, ed impedire che dei lavoratori si radunino per esprimere le loro opinioni su tutto quanto interessa e la vita aziendale e la vita nazionale, senza commettere un atto di arbitrio, il quale, invece di portare negli stabilimenti la tranquillità, vi porta un continuo fermento.
L’onorevole Scelba sappia che i lavoratori hanno un alto senso di responsabilità e che, se ci sono contrasti interni sulla opportunità di convocare o meno una determinata assemblea, questa è questione che può eventualmente interessare l’organo massimo dell’organizzazione sindacale, cioè la Confederazione. Lasci che la Confederazione continui a far vivere nell’ambito delle collettività lavorative tutti i lavoratori, non frapponga fra i lavoratori medesimi e le organizzazioni sindacali degli impedimenti, che invece di portare tranquillità nelle aziende, vi portano perturbamento, confusione ed attriti più forti di quello che ella non possa immaginare.
Se ella non ritirerà il telegramma o non darà il chiarimento che esso non intende assolutamente proibire le riunioni di qualsiasi natura negli stabilimenti, ella dovrà affrontare una serie di agitazioni, che metteranno in subbuglio le aziende. (Proteste al centro).
Una voce a sinistra. A Portolongone ci andrete voi.
BITOSSI. I lavoratori, che sanno di aver conquistato duramente questa libertà di riunione, che ella oggi vuole togliere, sapranno con tutti i mezzi difenderla. (Applausi a sinistra).
PRESIDENTE. L’onorevole Lizzadri ha facoltà di dichiarare se sia sodisfatto.
LIZZADRI. Dalle parole del Ministro dell’interno devo constatare che la sostanza è questa. La prima circolare è stata mandata l’8 luglio. Se non ci fossero state le proteste dei giornali e degli interessati, cioè le agitazioni nelle fabbriche, probabilmente le cose sarebbero rimaste come il Ministro dell’interno ed il Direttore generale di pubblica sicurezza avrebbero voluto, cioè il divieto di tutte le riunioni.
SCELBA, Ministro dell’interno. Perché, dai primi di luglio fino all’altro ieri non sono state tenute riunioni nelle fabbriche?
LIZZADRI. Per fortuna delle nostre organizzazioni la burocrazia in Italia è molto lenta e la vostra circolare è arrivata con molto ritardo; se no, avremmo avuto i primi incidenti.
L’onorevole Ministro ha letto l’ordine del giorno del Fronte repubblicano dei partiti; non possiamo seguirlo su quella strada.
Perché non ci legge, invece, le dichiarazioni degli interessati, che sono i lavoratori? Perché non va a domandar loro cosa vogliono: se vogliono o no tenere queste riunioni, o perlomeno se la stragrande maggioranza le voglia o no?
Mi permetta di dire che la sua risposta è stata poco abile in certi punti, quando ha portato dei paragoni di alcune riunioni che si vietano o alle quali per lo meno alcuni partiti sono contrari. Praticamente, la conclusione di questa risposta è che, se si potessero tenere liberamente le riunioni del suo partito, ella non avrebbe diramato la circolare, non avrebbe impedito che altre correnti potessero tenere le loro riunioni. Ma, quando ha accennato che i partiti fanno questo e fanno quello, è chiaro il riferimento: se questo lo lasciate fare pure a noi o lo lasciate fare solo a noi, sta bene. Se volete farlo solo voi, non sta bene. Ma questa è la risposta di un uomo di parte e di un partito e non può essere la risposta di un Ministro della Repubblica italiana.
Ora, prima di tutto, le riunioni dentro le fabbriche sono private o pubbliche? Qui bisogna intendersi, onorevole Scelba, perché sconfiniamo in un campo molto vasto. Come si fanno le riunioni nelle fabbriche? Si fanno a porte chiuse: si chiude il cancello e tutti i lavoratori che vogliono o non vogliono partecipare, intervengono a questa riunione…
BENEDETTINI. Anche quelli che non vogliono! Bei sistemi!
LIZZADRI. Un momento: ora vi servo subito.
Il Ministro ci ha detto che probabilmente, se ci fossero dei non intervenuti, chissà cosa succederebbe. Egregi colleghi, le fabbriche non sono mica il Consiglio Superiore della pubblica istruzione, per cui se i professori non vanno a votare, viene messa una nota caratteristica… (Rumori al centro).
Voci al centro. È ben peggio!
LIZZADRI. Chi deve giudicare se la riunione è privata o non privata; se è politica o sindacale? La polizia. Praticamente, cosa succede? Avete giudicato bene e valutato obiettivamente le conseguenze di certi atti? E la polizia che ad un certo momento giudica che quella riunione ha quel tale carattere. Sapete come avvengono le riunioni nelle fabbriche? Ve l’ha già spiegato il compagno Bitossi. Si passa la parola di compagno in compagno: stasera ci vediamo sul piazzale della fabbrica! E la sera si vedono sul piazzale e ad un certo momento, se c’è la necessità, si fa un ordine del giorno, si parla male del Governo. La riunione diventa politica. Qualcuno telefona alla polizia: diecimila, cinquemila o cinquecento lavoratori sono riuniti sul piazzale. Accorre la «Celere». Cosa succede? Vi siete posto questo problema nell’emanare la circolare? Guardate che se quella circolare non avesse tutti i crismi della regolarità: numero di protocollo, data, firma del direttore generale della pubblica sicurezza, io avrei tutti gli elementi per credere che quella circolare è stata fatta da agenti provocatori, per provocare disordini nell’interno delle fabbriche. (Applausi a sinistra). Ma sulla sostanza, che cosa c’è da dire? Nulla, tranne quei piccoli particolari e quelle manifestazioni, che sono discutibili e di cui lei ci ha parlato. Adesso citerò le grandi manifestazioni politiche, non di carattere sindacale, avvenute nell’interno delle fabbriche. Ne citerò tre, per dirvi lo spirito e la comprensione dei nostri lavoratori. Abbiamo tenuto tre sole grandi manifestazioni politiche.
La prima per la morte del Presidente Roosevelt. Abbiamo invitato tutti i lavoratori a riunirsi nei piazzali delle fabbriche, per commemorare la grande figura del Presidente scomparso.
La seconda per la morte dell’onorevole Grandi, l’apostolo dell’unità sindacale. Noi abbiamo invitato i lavoratori a commemorare la figura di un uomo, che ha speso tutta la vita per i lavoratori italiani.
La terza, per l’ingiusta pace.
Queste le sole manifestazioni politiche in grande stile organizzate nell’interno delle fabbriche. Voi, mi pare, non dimostrate eccessiva riconoscenza verso questi lavoratori. È avvenuto mai nessun conflitto tra lavoratori nell’interno delle fabbriche? Non è avvenuto mai. Io ho fatto tanti comizi: chi non voleva ascoltarmi se ne andava e nessuno lo tratteneva. (Rumori al centro e a destra).
Voci al centro. Non è così, non è così!
LIZZADRI. Cari colleghi, se dite questo, dimostrate di non avere nessuna conoscenza degli uomini delle nostre fabbriche. Per esempio, alla Fiat-Mirafiori ci sono ventimila lavoratori. Andate a prender nota dei mancanti. Questo può dirlo soltanto chi non è stato mai nell’interno delle fabbriche.
Onorevole Ministro dell’interno, potete star tranquillo: la circolare bisogna interpretarla nel momento in cui è stata emanata. Perché è stata emanata oggi e non sei mesi o un anno fa? Perché c’è un Governò democristiano. C’è una ragione. Andate voi stessi nelle fabbriche e voi stessi vedrete che lavoratori, comunisti, socialisti o democratici cristiani, sono tutti contro questo Governo reazionario, tutti senza eccezione. (Applausi a sinistra – Proteste al centro).
Ci sono due constatazioni che mi permetto di fare su questa circolare, che mi rende veramente perplesso. Una è di carattere interno e l’altra è di carattere esterno. Quella di carattere interno è lo zelo che pongono il Ministero dell’interno e la pubblica sicurezza nel cercare di interpretare certi orientamenti. Noi stiamo trattando da un anno con la Confindustria la regolamentazione delle Commissioni interne. Mai la Confindustria ha chiesto che fossero vietate le manifestazioni nell’interno delle fabbriche. Ci hanno detto che la Confindustria (e questo dimostrerebbe in un certo senso la responsabilità dei dirigenti dell’industria italiana) non ha avuto il coraggio di dirlo apertamente, ma ha fatto sapere che se ci fosse qualche cosa che potesse impedire queste manifestazioni, alla Confindustria farebbe molto piacere.
Il secondo lato, quello esterno, mi dispiace come italiano. Voi non avete nessuna preoccupazione delle ripercussioni che questo fatto può avere all’esterno…
SCELBA, Ministro dell’interno. Quando ci disturbavate a Venezia, non pensavate alle ripercussioni all’estero. (Commenti a sinistra). Per non disturbare la libertà, bisognerebbe che ci steste voi al Governo! (Commenti e interruzioni a sinistra).
LIZZADRI. Voi sapete che a Ginevra c’è stata una grande assemblea alla quale sono intervenuti moltissimi Stati del mondo per discutere la libertà sindacale. E sapete per quali ragioni è venuta proprio in discussione la libertà sindacale? Perché il Senato americano aveva votato delle leggi alle quali lo stesso Presidente aveva messo il veto. Io sono stato orgoglioso, come socialista e come italiano, di poter dire ad una assemblea di cinquanta Nazioni che la nuova Costituzione della Repubblica dei lavoratori italiani ci metteva all’avanguardia della legislazione sociale di tutto il mondo. C’è stato un mio collega belga (si vede che anche loro, presso a poco, si trovano nelle nostre stesse condizioni) che ha sorriso ed avvicinandosi mi ha detto: «Ma non avete in Italia un Governo democristiano?». «Sì, lo abbiamo», gli ho risposto. «Ed allora, non bisogna sbilanciarsi troppo in certe affermazioni», mi ha detto. Questa mattina ho ricevuto una lettera di questo collega belga che mi diceva: «Caro Lizzadri, le mie previsioni erano esatte, perché hai visto che cosa ci fanno i Governi democristiani?». Questi Governi, si chiamino cristiano-sociali o democristiani, sono quelli che si oppongono sempre a qualsiasi passo dei lavoratori verso il progresso. (Applausi a sinistra – Proteste e interruzioni al centro).
Una voce al centro. Demagoghi siete!
LIZZADRI. C’è qualche altra cosa, onorevoli colleghi, che secondo me il Ministro, (non dico il direttore generale della pubblica sicurezza, perché egli avrebbe forse il dovere di dimenticare certe cose) che è un uomo politico e che è stato un antifascista, ha il dovere di tener presente. Ma il Ministro dell’interno, secondo me, nel fare quella circolare, ha dimenticato tre cose:
1°) ha dimenticato che i lavoratori italiani, in riunione all’interno delle fabbriche, organizzarono i famosi scioperi del 1943 che diedero il primo colpo al fascismo;
2°) ha dimenticato che il sabotaggio alla produzione industriale durante l’occupazione nazista fu organizzato in riunioni all’interno delle fabbriche.
MEDI. Perché in quel momento non bisognava lavorare. (Rumori a sinistra – Commenti – Apostrofi del deputato Laconi all’indirizzo del deputato Medi).
PRESIDENTE. Onorevole Laconi, se ella continua, sarò costretto a richiamarla formalmente a norma del Regolamento. (Approvazioni al centro).
Loro tacciano, perché non hanno certamente titolo di merito stamane.
Desideravo precisare che l’onorevole Medi ha detto semplicemente questo: «Perché in quel momento non bisognava lavorare».
Quindi, nella fattispecie, non ha pronunciato parole che possano da nessuno essere ritenute offensive; e ciò posso dire anche perché da questo banco si sentono meglio le interruzioni.
Dopo di che richiamo l’Assemblea a un maggior rispetto dell’ordine.
LIZZADRI. Dicevo: c’è una terza cosa che il Ministro dell’interno ha dimenticato: che il salvataggio di quelle fabbriche e di quei grossi impianti è stato organizzato da quei lavoratori in riunioni tenutesi durante l’occupazione nazista; e se l’ha dimenticato il Ministro dell’interno, io posso assicurare l’onorevole Scelba che non l’hanno dimenticato i lavoratori democratici cristiani.
Io credo che sarebbe molto più giusto e riconoscente verso questi lavoratori che lei e il suo direttore della pubblica sicurezza facessero un altro uso e delle circolari e della polizia. Mandare la polizia contro i lavoratori non ha giovato mai a nessun Governo, onorevole Scelba. Voi avete dimenticato, io credo, che ci sono ancora delle donne e dei bambini assassinati in Sicilia che attendono giustizia dalla vostra polizia. Mandate i carabinieri, mandate la Celere a trovare gli assassini di queste donne e di questi bambini e allora farete un’opera veramente giusta per il nostro Paese e per i nostri lavoratori. (Applausi a sinistra).
PRESIDENTE. Ha facoltà di parlare l’onorevole Uberti per dichiarare se sia sodisfatto.
UBERTI. In mezzo a questo battagliare, vorrei dire una parola serena, come antico organizzatore, e per esprimere una esperienza che si è verificata nella mia provincia, quando ero prefetto del Comitato di liberazione. Avvenivano dei contrasti, più che fra democristiani e comunisti, fra socialisti e comunisti – ad esempio nelle officine ferroviarie di Verona– in occasione di comizi di propaganda politica.
Bisogna distinguere fra riunioni di carattere sindacale, promosse o meno dalle Commissioni interne, che devono essere esenti da interventi della polizia (l’ha detto il Ministro ed io mi affido alla sua dichiarazione) e riunioni di mera propaganda politica, previste dalla circolare del direttore generale della polizia.
L’onorevole Lizzadri ha detto: «Abbiamo fatto manifestazioni politiche in due o tre casi». Ma, onorevole Lizzadri, lei sa benissimo che i partiti politici vanno organizzando nelle fabbriche conferenze di propaganda politica.
LIZZADRI. Voi le fate nelle chiese! (Rumori al centro).
UBERTI. Ora è avvenuto, a Verona, che queste conferenze di propaganda di partito andavano determinando gravi incidenti fra gli operai aderenti alle correnti socialista e comunista. Fu proprio il segretario confederale di corrente socialista che venne da me, prefetto, per dirmi: «Bisognerebbe poter evitare che ci fosse una eccessiva accensione di animi fra le varie correnti». Io gli ho detto: «Il prefetto non può intervenire in questa materia…».
Una voce a sinistra. Che anno era?
UBERTI. Ottobre 1945.
LIZZADRI. La circolare è del 1947. (Commenti – Rumori).
UBERTI. Ma quanto si è concordato dura tuttora.
Io gli risposi: «È la Camera del lavoro stessa che, nell’interesse della coesione, della coesistenza pacifica delle varie correnti di operai, per salvare l’unità sindacale deve fare in modo che si evitino questi incidenti. Io potrò favorire, sanzionare questo accordo. E allora fu presa, fra i partiti politici e la Camera confederale del lavoro, la deliberazione di sospendere – tranne che nel periodo elettorale – l’indizione di comizi di propaganda politica, lasciando però libera ogni corrente di fare la propria propaganda di carattere sindacale, nell’interno delle fabbriche.
Ora, io ritengo che questa sospensione, anziché suscitare tanti clamori per una circolare, che sanzione una uguale linea di condotta, dovrebbe essere auspicata dalle stesse organizzazioni sindacali, le quali dovrebbero farsi fautrici di un accordo, per cui la propaganda politica di partito sia evitata nelle fabbriche. In questo modo, si farebbe realmente un vantaggio e un progresso, anche per quella che è l’unità sindacale; perché in questo modo, non si inacerbirebbero i contrasti di carattere politico fra gli operai della stessa officina.
Quello che è stato possibile realizzare nel 1945 a Verona, e con risultati ottimi, non credo sia impossibile attuare in tutta l’Italia. Occorre dimostrare la volontà di non accentuare contrasti fra quelle che sono le varie forze della classe operaia, affinché esse restino unite nella difesa dei propri interessi.
Da questo punto di vista, ritengo che, proprio per questa esperienza concreta, vissuta, che ha dato ottimi risultati, sia da augurarsi che le forze sindacali e confederali debbano, anziché promuovere proteste meno fondate, adoperarsi per realizzare una tale situazione.
Se c’è una questione sindacale, che assume un aspetto politico, è una cosa; ma la pura propaganda di partito evitiamola nell’interno delle fabbriche. (Applausi al centro).
Una voce a sinistra. Ma perché non dice la sua opinione sulla circolare Scelba?
UBERTI. La circolare Scelba non stabilisce alcun divieto per nessuna riunione di carattere sindacale, ma riguarda invece unicamente riunioni di propaganda politica di partito che debbono essere evitate. (Rumori a sinistra).
SCELBA, Ministro dell’interno. Chiedo di parlare.
PRESIDENTE. Ne ha facoltà.
SCELBA, Ministro dell’interno. Non posso seguire l’onorevole Lizzadri nelle frasi ad effetto, anche perché sono un temperamento antidemagogico; ma non posso lasciare inosservato che dal Parlamento italiano sia stato lanciato un insulto contro un partito che, in un secolo di lotta, ha affermato la libertà del proprio Paese: il Partito cristiano sociale del Belgio.
Quanto poi alle dichiarazioni fatte dall’onorevole Bitossi e dall’onorevole Lizzadri, tutte le loro argomentazioni non sono state che una difesa della libertà sindacale. Ora, io desidero riaffermare, nettamente e chiaramente, quanto è detto già nella circolare e quanto ho detto io precedentemente, che cioè la libertà sindacale non è in discussione, quale che possa essere la decisione che interverrà fra la Confindustria e la Confederazione generale del lavoro, perché i rapporti fra la Confindustria e la Confederazione generale del lavoro circa il diritto o meno o l’obbligo di riferire o di chiedere il permesso alla direzione non riguardano il Governo se non in una visione più ampia, ma non nella concretezza delle disposizioni di pubblica sicurezza.
Il Governo è estraneo a questi rapporti e l’averli voluti invocare è assolutamente fuori di strada. Nella circolare Ferrari si parlava di comizi; ed io ho affermato che nessuno onestamente può considerare che delle assemblee di lavoratori in cui si trattano problemi inerenti al lavoro e questioni sindacali, quando anche in queste assemblee si finisse con il criticare la politica del Governo, possano chiamarsi comizi politici.
Si è poi addirittura insinuato che noi prendiamo a maestro Mussolini: ma quando Mussolini era al governo, non c’era un Parlamento regolare. Se pertanto una applicazione illegittima, antiliberale, dovesse farsi di queste disposizioni, il Parlamento ha tutti i giorni il diritto di rettificare, di condannare queste applicazioni. A me non è stato segnalato nulla di questo genere; ma io pregherei, comunque, che tutte le volte che succedono fatti di questo genere, anziché elevare proteste, si volesse richiamare l’attenzione del Ministro.
C’è dunque un’azione del Parlamento che vigila costantemente e che rappresenta una remora a qualsiasi tentativo non volontario di soffocazione delle libertà democratiche: di quelle libertà democratiche verso cui venti anni di resistenza al fascismo e tutta una educazione rappresentano una garanzia ben più alta che non qualsiasi altra manifestazione. (Applausi al centro).
Il Parlamento ha il diritto di vigilare sugli atti del Governo; questo potere nessuno mette in discussione, ma, anzi, se ne riconosce l’efficacia anche per gli errori che noi uomini del Governo, insieme con gli organi della polizia o della burocrazia, possiamo commettere.
E noi saremo lieti tutte le volte che il Parlamento ci richiamerà sugli attentati alla libertà, qualunque essi siano, e, ci auguriamo, sugli attentati contro tutte le libertà; e vorremmo anche che le deplorazioni fossero per tutte le violazioni alla libertà e non soltanto per quelle di una parte. (Applausi al centro).
PRESIDENTE. Segue l’interrogazione degli onorevoli Ghidetti, Pellegrini e Cevolotto, «al Presidente del Consiglio dei Ministri e al Ministro delle finanze, per sapere se sono a conoscenza della decisione adottata dalla Direzione generale del demanio concernente la concessione in affitto del villaggio alpino denominato Colonia Vai-Grande di Comelico (Belluno) e, se non l’approvano, quali provvedimenti intendono prendere».
L’onorevole Ministro delle finanze ha facoltà di rispondere.
PELLA, Ministro delle finanze. In merito all’interrogazione mi onoro di comunicare quanto segue:
L’ex partito nazionale fascista creò in Val-Grande di Comelico (provincia di Belluno) un villaggio alpino per adibirlo a colonia estiva per ragazzi.
L’Intendenza di finanza, dopo la liberazione, per salvaguardare l’integrità dell’immobile e dei mobili, concedeva ai padri salesiani, e precisamente al Collegio Don Bosco di Pordenone, unico richiedente, di occupare provvisoriamente la colonia con l’obbligo di custodia. I padri salesiani provvidero a riattare a proprie spese alcuni ambienti, per rendere possibile il ricovero di più di trecento orfani e ragazzi della strada delle provincie di Treviso, di Belluno e di Udine.
Successivamente il predetto compendio, oltre che dall’Opera salesiana, la quale insisteva per regolarizzare i rapporti col demanio, venne chiesto:
- a) dall’Ente nazionale assistenza lavoratori di Treviso;
- b) dalla Croce Rossa italiana, comitato di Treviso;
- c) dall’Associazione italiana alberghi per la gioventù, la quale, però, tendeva ad ottenere l’uso di una sola parte del compendio stesso.
In seguito ad un affermato diritto dell’E.N.A.L. di Treviso di essere preferito a seguito di un’asserita concessione in uso della colonia di Val-Grande da parte dell’ex federazione fascista di detta ultima città a quel cessato dopolavoro provinciale, l’Intendenza di finanza di Belluno invitò l’E.N.A.L. stesso ad esibire l’atto comprovante la fatta affermazione. Ma L’E.N.A.L., con lettera 21 maggio ultimo scorso, n. 2761 di protocollo, comunicò l’irreperibilità di tale atto a causa dell’avvenuta distruzione parziale del relativo archivio.
L’Amministrazione demaniale, in considerazione che l’Opera salesiana si trovava già in possesso del compendio, tenuto conto delle spese fatte dalla medesima, dell’attività altamente filantropica svolta e dell’assicurazione che sarebbe stato provveduto per la corrente stagione estiva al ricovero di almeno quattrocento ragazzi delle tre provincie, ha ritenuto opportuno regolarizzare l’occupazione di fatto, autorizzando l’intendenza di finanza di Belluno, con lettere del 3 giugno ultimo scorso n. 96067, a stipulare nei confronti dell’Opera stessa regolare contratto per la durata di cinque anni dal giorno dell’effettiva occupazione, in base al canone annuo da determinarsi dall’Ufficio tecnico erariale.
TONELLO. Sono state le famiglie che hanno pagato; e loro prendono la roba degli altri! Era fatto per i bambini di Treviso! (Commenti al centro).
PRESIDENTE. L’onorevole interrogante ha facoltà di dichiarare se sia soddisfatto.
GHIDETTI. L’onorevole Pella mi consentirà di rilevare che dall’esposizione che egli ha fatto risulta evidente che si trova in grave difetto di informazioni; e brevissimamente – data la ristrettezza del tempo – lo dimostrerò subito.
Nel 1929 i lavoratori delle aziende industriali della provincia di Treviso, operai e impiegati, insieme agli industriali e a qualche istituto bancario, hanno riunito il denaro necessario per la costruzione di quello che si è poi chiamato Villaggio alpino, o Colonia Val-Grande di Comelico.
Dominando il partito nazionale fascista, era naturale, nel 1929 – noi allora eravamo a Portolongone o altrove – che l’etichetta del p.n.f. venisse appiccicata anche a questa istituzione; ed era anche pacifico attendersi che – a liberazione avvenuta – il demanio prendesse in consegna anche questi fabbricati, perché una legge cautelativa così disponeva per tutti i beni patrimoniali che avevano quella famosa etichetta del cessato regime.
Ma, di fatto, la situazione è questa: operai e impiegati dell’industria della provincia di Treviso, con i loro sacrifici, con il concorso degli industriali e con quello della Cassa di risparmio, hanno potuto far costruire questo magnifico villaggio alpino allo scopo di assicurare, per turno, ai più bisognosi figli dei lavoratori, operai e impiegati della provincia di Treviso, svago, ristoro e cure, tanto nel periodo estivo, che in quello invernale.
Che cosa è avvenuto in seguito? Al Dopolavoro, che ha amministrato questo Villaggio alpino fino alla caduta del fascismo, fino al 25 luglio 1943, essendo succeduto l’E.N.A.L., in attesa di passare a questo la gestione del villaggio, il complesso patrimoniale fu preso in consegna dal Demanio.
Le pratiche per il trapasso, iniziate sedici mesi (dico sedici mesi!) or sono, dall’E.N.A.L. di Treviso, e sollecitate anche attraverso l’E.N.A.L. centrale, non sono riuscite a venirne a capo, perché da parte del Demanio si stava inventariando. Ora, finalmente, ad inventario compiuto, ai primi di aprile del 1947, l’E.N.A.L. di Treviso e lo stesso E.N.A.L. centrale, dove è commissario (se non erro) l’avvocato Malavasi, hanno chiesto, come avevano fatto durante sedici mesi, e più specialmente a fine marzo e ai primi di aprile, che il Ministero delle finanze e il Demanio avessero finalmente a decidersi, sicuri dell’esito favorevole dal momento che era stato riconosciuto dalla Direzione generale del Demanio che, a pari condizioni, era naturale che dovesse essere preferito l’E.N.A.L. nell’affitto di immobili del genere: a Treviso come in qualunque altra provincia. E va tenuto conto che anche il prefetto segnalava, con telegramma alla Direzione generale del Demanio, l’opportunità e l’urgenza di assicurare l’uso della Colonia Vai-Grande di Belluno all’E.N.A.L. di Treviso e che per l’immediata assistenza, ed il funzionamento della Colonia erano stati preparati dall’E.N.A.L. i turni dei bambini dei lavoratori di Treviso ed era stato tutto predisposto per la rapida sistemazione dei locali e dell’attrezzatura danneggiati in precedenza.
L’informazione quindi che ha potuto fornire – onorevole Pella – il Ministero delle finanze in questa faccenda, è evidentemente molto confusa. La verità è che il 19 aprile scorso l’intendente di finanza di Belluno, a conclusione di tutta l’istruttoria della pratica, ha proposto al Ministero delle finanze la cessione in affitto all’E.N.A.L. di Treviso di questa Colonia: perché risultava dalla posizione giuridica, che ho illustrato in precedenza, che era stata costruita per l’uso dei figli dei lavoratori, operai e impiegati della provincia di Treviso e che, pertanto, non era possibile destinarla ad altri.
È vero che, mentre si attendevano le conclusione del Demanio e la Colonia si trovava abbandonata a se stessa, un padiglione fu richiesto dai salesiani della provincia di Udine, i quali aiutati dal Governatore alleato, ed essendo stati riforniti del materiale necessario dall’U.N.R.R.A., dal «Dono Svizzero», dalla Croce Rossa italiana e da chi ha potuto essere d’aiuto, hanno raccolto dei ragazzi dell’udinese e del bellunese in una piccola parte di questo grande complesso di fabbricati (sono ben 14 edifici, e si comprenderà meglio di che si tratta, sottolineando che oggi il loro valore è qualche cosa come un centinaio di milioni di capitale) essendo assurdo lasciarli abbandonati. Ma è anche vero che questa concessione è stata data in uso provvisorio, senza nessuno impegno, e senza pregiudizio per la definitiva destinazione. Onorevole Ministro Pella, cosa dovevamo noi dire agli operai e impiegati che volevano formare una carovana, nel mese scorso, quando hanno sentito questa curiosa decisione della Direzione generale del Demanio, secondo la quale, tutto considerato (lei la ha ben letta poc’anzi onorevole Pella) si è ritenuto di cedere la Colonia a quelli che sono dentro – cioè ai salesiani di Udine – e per cinque anni si firma un contratto?
Quando fu conosciuta questa decisione, masse di operai ed impiegati volevano formare una carovana, andare nell’alto Bellunese e prendere possesso di questo complesso del Villaggio alpino, considerando che è loro diritto portare lassù i figli a ristorarsi ed a riprendersi. Ed occorre tener presente che, specialmente per i figli dei lavoratori della città di Treviso, questo bisogno è sentito, poiché per le gravi devastazioni che la città ha subìto durante la guerra, questi figli sono vissuti in situazioni molto difficili, come del resto, purtroppo, anche in altre provincie d’Italia. Si ricordi che per due anni tutta questa popolazione non ha conosciuto che cosa sono i vetri nel crudo inverno: ha vegetato nelle stalle e in rifugi mezzo distrutti dai bombardamenti; ebbene, adesso che si offriva finalmente la possibilità di potere un po’ ristorare i figli dei lavoratori, e far loro riprendere forza e benessere, ecco che la Direzione generale del Demanio prende una decisione in contrasto con il diritto più elementare e con la volontà dei lavoratori che hanno offerto i denari per la costruzione, insieme con gli industriali; in contrasto con la proposta dell’Intendenza, con il sollecito del prefetto e con la richiesta dell’E.N.A.L. centrale il quale, in definitiva, da mesi continuava a incitare l’E.N.A.L. di Treviso perché si tenesse pronto, appena fosse possibile che si riprendesse il funzionamento di questa colonia.
In una parola, e per concludere, il Ministro delle finanze, con la assurda decisione presa, dimostra di tener conto e di far valere soltanto una sua legalità formale; la legalità sostanziale l’ha messa sotto i piedi. Ecco perché diciamo: noi ci siamo adoperati, ed alla fine siamo riusciti, a trattenere quelle popolazioni, perché sono di animo mite, perché ci hanno accordato fiducia. Ma, come gli onorevoli colleghi sanno – specialmente lo sanno i magistrati, e gli avvocati che sono numerosi nella nostra Assemblea – le popolazioni di animo mite, quando vedono calpestare i loro diritti, quando sentono che una ingiustizia le offende, sono capaci di arrivare agli eccessi. Noi questi eccessi li abbiamo impediti, fino a ieri; ma se il Ministro delle finanze non riesaminasse la questione – prego il Ministro delle finanze a dire qui una parola in questo senso – (il Ministro fa segni di assentimento) e se non sarà prontamente riveduta la questione, credo che dovremo decidere, l’onorevole Pellegrini e l’onorevole Cevolotto che con me hanno firmato l’interrogazione, col focoso onorevole Tonello, l’onorevole Costantini, e, spero, con gli amici democristiani deputati di Treviso di metterci alla testa di questa carovana per ristabilire sulla vostra legalità formale, la legalità sostanziale.
PELLA, Ministro delle finanze. Chiedo di parlare.
PRESIDENTE. Ne ha facoltà.
PELLA, Ministro delle finanze. Desidererei aggiungere due parole alle precedenti mie comunicazioni per dare assicurazione che il punto di vista del Ministero, mentre a prima vista sembra divergere da quello degli onorevoli interroganti, in realtà si muove nello stesso spirito informatore. L’onorevole Ghidetti ha impostato il problema sopra un terreno più ampio su cui sono lieto di dare delle assicurazioni. Egli ha proposto il problema della legittimità o meno del possesso di questo complesso da parte del Demanio. Per questo non ho difficoltà a dichiarare che, trattandosi di un problema comune a centinaia di casi (relativi cespiti appartenenti un tempo a cooperative, a comuni, ad enti di varia natura), la soluzione sarà data da un provvedimento legislativo su cui i Ministeri interessati stanno, da tempo, portando la loro attenzione. Ed io penso che sia molto vicino il giorno in cui questo provvedimento legislativo sarà varato. La difficoltà principale da superare è quella di determinare la norma per potere ancora oggi riconoscere l’antico proprietario ingiustamente spossessato. Tale difficoltà ha ritardato la preparazione del provvedimento. (Interruzione del deputato Ghidetti).
Ora, in attesa che si risolva il problema centrale, l’Amministrazione disporrà perché il contratto annunciato sia limitato a breve periodo di tempo, per non intralciare la soluzione del problema principale.
PRESIDENTE. Segue l’interrogazione degli onorevoli Musolino, Silipo e Priolo, al Presidente del Consiglio a dei Ministri e al Ministro dell’interno, «per avere delucidazioni sull’arresto del sindaco di Roccaforte del Greco (Reggio Calabria) avvenuto giorni or sono, in seguito ad ordine del tenente dei carabinieri di Melito Porto Salvo, perché il predetto sindaco, nella sua qualità di ufficiale di pubblica sicurezza, impedì ad un carabiniere di malmenare un ragazzo sulla pubblica via del paese e perché si rifiutò di firmare un verbale contenente false asserzioni; e per sapere se tale arresto, nella persona del capo di un comune, senza autorizzazione del Presidente della Repubblica, sentito il Consiglio di Stato, a norma dell’articolo 51 in relazione all’articolo 22 della legge vigente comunale e provinciale testo unico 1934, non debba essere immediatamente revocato e seguito da un provvedimento disciplinare o giudiziario a carico dell’ufficiale dei carabinieri predetto, che valga a restaurare la dignità offesa di un sindaco, e perché valga ad imporre il rispetto della rappresentanza democratica popolare, anche essa gravemente offesa».
L’onorevole Sottosegretario di Stato all’interno ha facoltà di rispondere.
MARAZZA, Sottosegretario di Stato all’interno. Il mattino del 25 aprile in Roccaforte del Greco il carabiniere Di Meo di quella stazione, imbattutosi in un tale Pasquale Pitassi si accorgeva che costui portava infilata alla cintola una grossa rivoltella di tipo militare. Ovviamente insospettito, lo invitò a seguirlo in caserma. Il Pitassi tentò invece di fuggire e avendolo il Di Meo impedito afferrandolo per la giacca, gli si ribellò violentemente con morsi e calci causando al carabiniere lesioni guaribili in 10 giorni. Il Di Meo tentò allora con maggiore energia di trascinarlo in caserma. Ne derivò una colluttazione che richiamò una piccola folla la quale, ignorando i precedenti del fatto, sembrava parteggiare per il Pitassi. A favore di costui intervenne, dapprima gridando dalla finestra del Municipio e quindi scendendo nella strada e partecipando direttamente alla colluttazione, il sindaco del paese, signor Pangallo, al quale, per contro, il carabiniere aveva chiesto di mandargli in aiuto una guardia municipale.
Nella confusione del momento, il Pitassi si liberò della pistola che venne raccolta e nascosta da uno dei presenti e che poi fu restituita al proprietario.
Il sindaco, nella sua partecipazione, non moderò, in effetti, né i gesti né le parole. Ingiuriò difatti il Di Meo con l’epiteto di cafone, ecc. e soprattutto strappò egli stesso al carabiniere il Pitassi per metterlo subito dopo in libertà. Risaputo il fatto dalla Tenenza dei carabinieri di Melito Porto Salvo, il Comandante di questa, tenente Angiolillo, credette di ravvisare nel comportamento del sindaco gravi responsabilità di ordine penale, quali oltraggio a pubblico ufficiale aggravato, violenza parimenti aggravata ed ancora procurata evasione sempre aggravata; e poiché quando il giorno 28 egli poté recarsi in loco, vi trovò sempre viva la commozione determinata dagli eventi, credette altresì di ravvisare l’ipotesi della flagranza e procedette all’arresto del sindaco. Tale arresto, appena venuto a conoscenza, il giorno successivo, del comandante della compagnia dei carabinieri di Reggio Calabria, veniva da questi immediatamente revocato. Il Pangallo, il Pitassi ed altri venivano invece, con verbale del 6 maggio, denunciati all’autorità giudiziaria la quale autorità giudiziaria, e precisamente la Procura generale della Corte di Messina, avendo esaminato la condotta del tenente Angiolillo, con provvedimento in data 22 maggio, dichiarava non luogo a procedere nei suoi confronti. Nei confronti del medesimo ufficiale venivano invece adottati adeguati provvedimenti disciplinari.
Da questi fatti, emerge come l’arresto del sindaco non sia stato occasionato, in verità, dal rifiuto di questi a sottoscrivere un verbale qualsivoglia, come dice l’interrogazione; emerge altresì che l’arresto in questione è stato revocato il giorno successivo dagli stessi carabinieri e che l’autore dell’arresto è stato oggetto di una severa inchiesta.
PRESIDENTE. L’onorevole Musolino ha facoltà di dichiarare se sia sodisfatto.
MUSOLINO. Ringrazio il Sottosegretario per aver dato la risposta alla mia interrogazione, ma devo dichiarare subito di non essere sodisfatto, perché le informazioni che egli ha ricevuto non sono esatte. Sta di fatto che il sindaco di Roccaforte del Greco fu richiamato dalle voci che venivano dalla strada, mentre trovavasi nella casa comunale. Uscito fuori per vedere ciò che avveniva sulla strada, ove vi era molta folla, ha visto che vi era un carabiniere che malmenava un giovane. Invitato il carabiniere a entrare nel Municipio per continuare lì la perquisizione, che egli voleva fare, il carabiniere si è rivoltato contro il sindaco in maniera offensiva. Questi, vistosi offeso dal carabiniere, nella veste di ufficiale di pubblica sicurezza, ha fatto valere la sua autorità.
La perquisizione fu fatta nel Municipio, ed in sua presenza, ma il giovane non aveva alcuna arma.
Il maresciallo dei carabinieri, saputo il fatto, si è recato dal sindaco e, quando ha saputo come si. erano svolte le cose, ha chiesto scusa al sindaco. Ma tre giorni dopo vi è andato il tenente dei carabinieri, il quale, informato certamente dal verbale steso dallo stesso carabiniere, faceva chiamare nella caserma il sindaco e lo sottoponeva ad un interrogatorio violento. Il tenente dei carabinieri, poi, voleva che il sindaco dichiarasse che il giovane era armato.
Il sindaco non volle firmare questa dichiarazione. In seguito a questo rifiuto il tenente suddetto gli metteva i ferri ed ammanettato lo conduceva a Melito Porto Salvo, dove lo tratteneva in istato di arresto per cinque giorni consecutivi.
Che le informazioni ricevute dal Ministro dell’interno siano inesatte, è dimostrato dal fatto che il Procuratore della Repubblica di Reggio Calabria, competente a giudicare il caso, in seguito alle risultanze processuali, ha avanzato richiesta al Ministero di autorizzazione a procedere contro il tenente dei carabinieri.
MARAZZA, Sottosegretario di Stato per l’interno. Al Ministero della guerra?
MUSOLINO. No, al Ministero dell’interno.
MARAZZA, Sottosegretario di Stato per l’interno. Non mi è pervenuta questa richiesta.
MUSOLINO. Sta di fatto che l’autorizzazione non è stata concessa.
Ora, devo ricordare all’Assemblea che questa disposizione, riguardante l’autorizzazione a procedere contro i carabinieri, è tipicamente fascista, perché il fascismo voleva sindacare e controllare tutto, per avere la possibilità di troncare i processi, quando gli conveniva.
In base a questa disposizione, di cui il Governo democratico non dovrebbe avvalersi o che per lo meno dovrebbe essere senz’altro abrogata, perché essa è contraria allo spirito democratico, deve oggi il Ministero dell’interno o quello della guerra concedere questa autorizzazione, perché il tenente dei carabinieri sia punito, in quanto la sua azione ha offeso un’intera popolazione e la democrazia e la legge, poiché un sindaco non può essere arrestato, se non vi è un decreto del Capo dello Stato.
Dunque tra le informazioni pervenute al Ministro e quelle che io riferisco c’è molto divario, per cui io chiedo che egli sia energico così come è stato nei confronti del questore di Cremona, il quale è stato destituito, senza che siano state svolte indagini, mentre nei confronti del tenente dei carabinieri questo provvedimento non lo ha ancora preso.
La giustizia e l’imparzialità, ha detto l’onorevole De Gasperi a Trento, sono alla base dello Stato democratico; ma esse sono del tutto ignorate dal Ministro dell’interno.
PRESIDENTE. Ha chiesto di parlare l’onorevole Sottosegretario di Stato per l’interno. Ne ha facoltà.
MARAZZA, Sottosegretario di Stato per l’interno. Desidero aggiungere una parola per dimostrare ancora una volta come da parte nostra ci sia il desiderio della assoluta completezza delle informazioni e soprattutto lo scrupolo della massima lealtà nei confronti degli onorevoli interroganti.
Do lettura della lettera, alla quale ho fatto riferimento, della procura di Messina:
«Al Ministero di grazia e giustizia, Direzione generale affari penali, e, per conoscenza, al Procuratore della Repubblica di Reggio Calabria.
«In seguito ai fatti di cui all’unito verbale dell’Arma dei carabinieri di Melito Porto Salvo, il Procuratore della Repubblica di Reggio Calabria, con rapporto 13 maggio 1947, del quale trasmetto copia, ha denunziato l’ufficiale indicato in oggetto per l’applicazione delle sanzioni disciplinari previste dall’articolo 229 del Codice di procedura penale, secondo comma e terzo comma, regio decreto 20 gennaio 1944-45, ritenendo non legittimo perché sfornito dei presupposti richiesti dall’articolo 1 del decreto sopracitato, il fermo effettuato dal predetto ufficiale in persona del sindaco di Roccaforte del Greco, Pangallo. Questa Procura generale ha ritenuto per contro che un presupposto di legittimità il fermo abbia avuto, quello cioè che la condotta del Pangallo si era dimostrata particolarmente pericolosa per la sicurezza pubblica, nel corso dei fatti, sì da impedire che l’Arma assolvesse i propri doveri di polizia in presenza di reati e nella necessità di fissare con le necessarie indagini gli avvenimenti. Epperò, con provvedimento in data odierna, ha dichiarato non esser luogo a sanzione disciplinare o procedurale a carico del tenente dei carabinieri Angiolillo».
Voci a sinistra. Non ha abusato forse?
MUSOLINO. È un sindaco comunista, ecco perché il magistrato di Messina ha dato parere contrario a quello del magistrato di Reggio Calabria!
ASSENNATO. Ha commesso un delitto quell’ufficiale. E va punito. C’è il Codice penale per i delitti.
MARAZZA, Sottosegretario di Stato per l’interno. Ho già spiegato che non è esatto dire che non si sia proceduto…
ASSENNATO. Anche lei è responsabile!
MARAZZA, Sottosegretario di Stato per l’interno. Vorrei dire ancora due parole. Dovrei dire molte cose all’onorevole Assennato, ma preferisco riferirmi alle dichiarazioni dell’onorevole interrogante a proposito della condotta del Ministero nei confronti dell’ufficiale dei carabinieri. Non è esatto che nei confronti di questo ufficiale non si sia proceduto. Lo si è denunciato all’autorità giudiziaria. Cosa si poteva fare di più? L’autorità giudiziaria si è pronunciata nel senso che ho detto. Cosa resta da fare al Ministero dell’interno? Io desidero che l’onorevole Musolino sia convinto che da parte del Ministero è stato fatto proprio tutto.
Il paragone con il questore di Cremona non ha ragione d’essere; a parte i fatti, in cui ovviamente non è il caso di entrare, qui c’è la figura della personalità che avrebbe commessa la violazione della norma, nella specie abbiamo un ufficiale dei carabinieri, nei confronti del quale la procedura per le eventuali sanzioni è ben differente da quella che si deve seguire nei confronti di un ufficiale di polizia.
Finisco con l’assicurare l’onorevole interrogante che la sua ingiusta e perciò ingenerosa puntata a proposito del sindaco comunista, è nella specie del tutto ingiustificata
L’onorevole interrogante ha sentito come il giorno stesso l’autorità immediatamente superiore all’ufficiale che ha proceduto illegalmente all’arresto abbia immediatamente rimediato, rilasciando l’arrestato. Di più non poteva fare.
PRESIDENTE. Le interrogazioni inscritte all’ordine del giorno sono così esaurite.
Seguito della discussione sul disegno di legge: Approvazione del Trattato di Pace tra le Potenze alleate ed associate e l’Italia, firmato a Parigi il 10 febbraio 1947. (23).
PRESIDENTE. L’ordine del giorno reca il seguito della discussione sul disegno di legge: Approvazione del Trattato di pace tra le Potenze alleate ed associate e l’Italia, firmato a Parigi il 10 febbraio 1947.
È iscritto a parlare l’onorevole Benedettini. Ne ha facoltà.
BENEDETTINI. Onorevoli colleghi, premesso che parte di questa Assemblea è favorevole alla pronta ratifica del diktat e parte al rinvio; precisato che un’altra parte è decisa a non ratificarlo né oggi, né mai, è chiaro che la questione della ratifica presenti due aspetti: uno, puramente formale, riguarda il tempo, e cioè ratificare oggi o domani, e l’altro decisamente sostanziale concerne la decisione di non ratificare. Su di un punto l’Assemblea è unanime, quello della protesta. Ma anche questo è puramente formale, poiché, non essendo la maggioranza dell’Assemblea vittima dell’ingiustificato ed ineffabile ottimismo del conte Sforza, credo che tutti possano concordare nel ritenere che la protesta, verbale o scritta, non vale nulla se ratifichiamo e quindi accettiamo la nostra condanna.
Il Ministro Sforza si è sforzato di dimostrare (Si ride) non solo la necessità della ratifica, ma anche i vantaggi che ci verrebbero da una pronta ratifica.
Ora, io credo che egli col suo discorso non solo non abbia convinto né persuaso alcuno, ma abbia ottenuto l’effetto contrario a quello che si proponeva di raggiungere. Infatti, è proprio per questo che la stampa di sinistra, di centro, di destra, e quella che con eufemismo si chiama indipendente, ha rilevato quasi all’unanimità che l’onorevole Sforza, più ottimista di Candide, inebriato di un astratto europeismo, ben lontano dall’essere attuato, non ha portato alcun contributo alla sua tesi. Prima ancora di entrare nel merito delle asserzioni del Ministro degli esteri, devo rilevare che questi, col suo discorso, e ancor più col tono con il quale lo ha letto, ha fatto intendere di conoscere lui, lui solo, i veri e segreti motivi che ci spingono a ratificare.
Questa impressione non è stata mia particolare, ma generale; ed è stata confermata dall’atteggiamento preso dalla stampa che appoggia la tesi Sforza, quando detta stampa ha rilevato che se Sforza e il Governo desiderano una pronta ratifica, avranno le loro buone ragioni.
Questa può essere una norma di prammatica nei regimi paternalistici, dittatoriali e non mai in quelli democratici, perciò se le segrete ragioni esistono (ma non esistono) si faccia pure una seduta a porte chiuse.
Sette sono i punti del discorso Sforza che prenderò in esame per mostrare com’essi o manchino di fondamento, o siano falsi e contrastanti, dal che deriva che le ragioni da lui apportate sulla necessità e sulla convenienza non solo di ratificare, ma di ratificare subito, mancano di fondamento e sono false e contrastanti.
Prima asserzione speranzosa dell’onorevole Sforza è che noi usciamo oggi da una politica di isolamento e che, pertanto, potremo ottenere ora ciò che non ottenemmo ieri.
Tutto ciò non è vero.
Certo, non saremo noi a difendere la politica fascista della quale, con la guerra perduta, andiamo scontando le conseguenze; ma affermare ciò che l’onorevole Sforza afferma, significa porsi fuori della realtà e della storia.
Significa dimenticare – come ha rilevato l’onorevole Nitti – che fino all’impresa etiopica l’Italia è stata nella Società delle Nazioni, significa dimenticare il progettato Patto a quattro e obliare che in quei vent’anni di dittatura, qui, in questa Roma, vennero i Mac Donald e i Chamberlain, i Churchill e gli Eden, i Sumner Wells e i Laval, per citare i più importanti. Ora se tutto ciò e il conseguente convegno di Monaco del 1938 significano per l’onorevole Sforza isolamento, bisognerà cambiare il significato delle parole al nostro vocabolario.
Il Ministro Sforza si è poi accanito contro la politica immorale fatta dal passato regime, e non saremo noi a difenderla. Ma ci dica l’onorevole Ministro degli esteri se, secondo la sua alta opinione, è morale la politica che le grandi potenze vanno svolgendo ora verso le Nazioni satelliti; se morale è la politica che esse svolgono nei confini dell’Italia oggi; se morale è mai stata la politica di tutti i popoli in ascesa e in espansione.
E allora perché accanirsi solo contro ciò che fu commesso dall’Italia, sia pure erroneamente, e non accanirsi contro ciò che gli altri commettono contro di noi? Perché? Solo per il sadismo sforzesco di un male dell’Italia e degli italiani? Per denigrarci di fronte al mondo intiero?
E così quando il Ministro degli esteri asserisce che dopo il 1943, cito le sue parole, «vi fu un’interpretazione con spirito più aperto dell’armistizio» asserisce cosa non conforme al vero.
Infatti, è noto che gli Alleati promisero che se l’Italia avesse dato un valido contributo come cobelligerante, avrebbe potuto riscattare con la pace l’armistizio. È noto che ci si fece intendere che le nostre frontiere non avrebbero subito tremende violazioni, e che (con l’accordo Cunningham-De Courten) la nostra gloriosa marina non avrebbe dovuto ammainare la sua e nostra bandiera; e, invece, tutte queste promesse furono ignobilmente violate, così che io non soltanto, ma milioni e milioni di italiani, non riescono a comprendere che cosa l’onorevole Sforza intenda quando accenna ad una interpretazione dell’armistizio con spirito più aperto. E che cosa sarebbe stato mai se codesto spirito fosse stato più chiuso?
E veniamo al quarto punto.
L’onorevole Sforza asserisce che la mancata ratifica da parte dell’Italia farebbe ritardare di un anno il nostro ingresso in quello che egli definisce «il più solenne aeropago del mondo, cioè l’O.N.U.».
Ora, a parte il fatto che prima della conferenza di Parigi, il nostro Ministro degli esteri fece affermare dal suo portavoce che condizione per la nostra ammissione alla conferenza, era, appunto, la ratifica del diktat, mentre subito dopo, tale affermazione fu smentita dalle agenzie straniere oltre che dai fatti; a parte che dopo l’immediato ritorno da Parigi, il nostro Ministro degli esteri fece intendere che v’erano forti pressioni da parte degli Alleati per la nostra ratifica, mentre subito dopo, la stampa smentiva tale notizia; a parte il fatto che nello stesso tempo, l’onorevole Sforza accennava ad un piano di intesa e di collaborazione economica italo-francese, mentre proprio in questi giorni una agenzia francese smentiva che il Ministro Sforza avesse presentato un piano di collaborazione economica italo-francese al Ministro Bidault; a parte queste smentite che ci danno il diritto di attenderne qualche altra relativa all’affermazione dell’onorevole Sforza circa la necessità della ratifica per essere ammessi all’O.N.U.; dobbiamo ricordare che in tutto lo Statuto dell’O.N.U. non v’è alcun paragrafo, alcun articolo, alcun punto in cui si dica implicitamente o esplicitamente che la ratifica di un trattato sia conditio sine qua non per essere ammessi.
Poiché lo Statuto parla chiaro, dobbiamo convenire che anche questa asserzione dell’onorevole Sforza è priva di qualsiasi fondamento politico e giuridico; essa, nel migliore dei casi, è una delle tante sue fallaci opinioni personali. L’onorevole Sforza fa credere e forse crede e s’illude di poter ottenere chi sa che cosa dall’O.N.U. Ora noi abbiamo il diritto di ritenere che il nostro Ministro degli affari esteri abbia letto e studiato lo Statuto dell’O.N.U.; e allora dovrebbe essere proprio lui a disilludere e non a illudere e ingannare la Costituente, dovrebbe essere proprio lui a ricordare che, mentre nel Covenant della Società delle Nazioni era prevista la revisione dei Trattati, lo Statuto dell’O.N.U. preclude ogni revisionismo.
Anzi, poiché codesto Statuto pone un perpetuo marchio d’infamia sulle Nazioni vinte e precisamente sugli «Stati nemici», cioè un qualunque Stato che durante la seconda guerra mondiale sia stato nemico di qualsiasi firmatario della Carta (è questo l’articolo 107); poiché questo Statuto non ci pone su un piede di parità, è chiaro che noi non dovremmo entrare con entusiasmo in questo famoso aeropago che non pone gli aderenti su un effettivo piede di parità.
Come per la pacificazione nazionale noi ci siamo battuti e ci battiamo per liberare l’Italia da tutte le leggi eccezionali che dividono l’Italia in due, così sul piano internazionale l’Italia dovrebbe battersi per spezzare queste barriere che in un organismo internazionale vogliono tenere ancora in poco conto quelli che furono Stati nemici. Comunque, contrariamente a ciò che l’onorevole Sforza afferma, è chiaro che la ratifica del diktat non ha nulla a che fare con la nostra ammissione all’O.N.U.
E veniamo al quinto punto.
Il Ministro degli affari esteri ha avuto l’ordine (poiché si tratta di vero e proprio ordine) di affermare che l’atto della ratifica inciderà favorevolmente sui nostri interessi africani.
Ma forse egli dimentica che ratificare significa sanzionare, fra l’altro, quel tremendo articolo 23 del diktat in cui si dice: «L’Italia rinuncia ad ogni diritto e titolo sui possedimenti territoriali italiani in Africa, e cioè la Libia, l’Eritrea e la Somalia italiana». Quindi ci sembra veramente strano che da parte nostra si possa accampare qualche diritto coloniale dopo la ratifica, specie se si tenga presente che lo stesso onorevole Sforza, così ottimista per le altrui promesse, ha detto al riguardo – e cito le sue parole – «è bensì vero che affidamenti precisi non possiamo ancora dire di averne».
Ma allora su chi e su che cosa si fondano le sue speranze? Dobbiamo ancora notare l’affermazione del nostro Ministro degli esteri, secondo cui le stesse repubbliche latino-americane sarebbero inceppate nella loro azione a nostro favore qualora mancasse la nostra ratifica. Ebbene, purtroppo, avendo io trascorso la mia vita più assai fra le armi e gli aeroplani da combattimento che non fra diplomatici e nella vita mondana, essendo stato costretto da questo mio mestiere a partecipare alle guerre e non agli alti misteri della diplomazia, il mio senso comune, il «buon senso», direbbe Giannini, mi porta a credere che, non ratificando, le repubbliche latino-americane potranno battersi ancor più per noi, giustificando e approvando il nostro atto. Mentre, se noi ratifichiamo, quelle repubbliche potranno anche dirci: Ebbene, contenti voi, contenti tutti.
Infine, per quanto concerne il timore che ratificare prima della ratifica russa possa contribuire a favorire la politica dei blocchi, il conte Sforza ha detto testualmente: «Ora, mi pare che proprio il contrario sia vero: la ratifica servirà invece a creare un’atmosfera di fiduciosa collaborazione con le Potenze europee che, come noi, vogliono la collaborazione». Ebbene, a parte il fatto che non condividiamo tale opinione, il conte Sforza vorrà onestamente ammettere che se gli onorevoli Togliatti e Nenni – e quindi i comunisti e i socialisti – sono favorevoli al rinvio della ratifica, ciò significa che questo loro atteggiamento è conforme all’atteggiamento dell’internazionale comunista e socialista: e se Togliatti e Nenni non si sbagliano, è chiaro che chi sbaglia è l’onorevole Sforza. (Interruzione del deputato Togliatti).
E a tal proposito, sento il dovere di rilevare che se effettivamente, cioè a fatti e non a parole, l’onorevole Sforza – che si picca di apparire come uomo di centro sinistra – fosse contrario, come noi siamo contrari, alla politica dei blocchi, se egli auspicasse, come noi auspichiamo, la partecipazione della Russia sovietica e delle altre nazioni dell’Europa orientale al comune sforzo per la ricostruzione europea, bisognava che egli a Parigi non avesse detto, come ha detto e come è suo abituale linguaggio, che l’Italia è pronta a qualsiasi sacrificio. Bisognava invece che dicesse: ciascuna nazione faccia un sacrificio, e l’Italia con esse, purché si elimini questo schieramento in due blocchi opposti e si crei quell’unico blocco che è nelle aspirazioni di tutti i popoli europei che vanno tristemente scontando le conseguenze di questo ultimo flagello umano.
SFORZA, Ministro degli esteri. Mi permetta, onorevole Benedettini. Io non dissi: È pronta a qualunque sacrificio; dissi: È pronta a qualsiasi sacrificio che serva agli scopi comuni. Non si deve troncare a mezzo una citazione: lei lo ha fatto certamente in buona fede, ché altrimenti non sarebbe stato corretto.
BENEDETTINI. E poiché ci stiamo occupando della Russia, ricorderò che l’onorevole Sforza ha detto e ripeto le sue parole: «Del resto, l’atteggiamento dell’Unione Sovietica rispetto al nostro trattato di pace, non ci risulta mutato da quando ci si disse che firma e ratifica erano per essa la stessa cosa e che dovevamo dare per scontata sia l’una che l’altra».
Ma, allora, di grazia, onorevole Sforza e onorevoli colleghi, di che ci andiamo occupando? Non è un bizantinismo, il nostro? Se effettivamente, come l’onorevole Sforza ha detto ed io stesso credo, è nelle intenzioni non solo della Russia sovietica, ma anche dell’Inghilterra liberale e dell’America democratica di dare per scontate sia la firma e sia la ratifica; se, volenti o nolenti, dobbiamo subire questa iniquità; se il nostro non è un trattato (e non può esserlo, in quanto l’Italia non è stata mai interpellata come parte contraente), se il nostro è un diktat che ci si vuole imporre, ma, insomma, perché noi dobbiamo ratificarlo oggi invece di domani o invece che mai? Se non possiamo opporci né con la forza né col diritto; se ratificare o non ratificare è la stessa cosa, perché la condanna è ormai pronunciata e a noi non resta che scontarla, ebbene, perché subire questa umiliazione, perché commettere, proprio noi, rappresentanti del popolo, ciò che il popolo italiano da noi rappresentato, non commetterebbe mai?
I discorsi di coloro che in quest’Aula hanno parlato contro la ratifica, e in particolar modo quello dell’onorevole Croce, che ha trovato in quest’occasione un calore, un accento, una commozione veramente degni del dramma che viviamo, una parte delle critiche dell’onorevole Nitti, le affermazioni di Russo Perez e il «no» di Vittorio Emanuele Orlando, mi dispensano dall’esaminare e dal ribadire i motivi per i quali non dobbiamo ratificare diktat che, se offende noi profondamente, ancor più profondamente colpisce coloro che avendolo concepito e compilato, ora ce lo impongono.
Ed io ho voluto qui riesaminare il discorso del Ministro degli esteri non per motivo polemico, ma per rilevare, come ciascuno aveva già rilevato in cuor suo, che quel discorso non ha portato alcun contributo alla necessità della ratifica.
Non un motivo di quelli esposti dal conte Sforza spinge a ratificare. E qui voglio rilevare che se nel febbraio scorso l’Assemblea avesse potuto negare la firma, a quest’ora il nostro rifiuto sarebbe stato già scontato, mentre oggi la discussione che noi facciamo sa di bizantinismo, di pura accademia.
Onorevoli colleghi, se noi ascoltiamo il grido dei fratelli che vengono strappati dalla patria comune, se ci poniamo sul terreno storico, politico e soprattutto morale ed umano, noi non possiamo ratificare questo diktat, né oggi né mai.
Dopo tante promesse, dopo tanti sacrifici sopportati con la nostra cobelligeranza, noi non possiamo ratificare un diktat che mutila le nostre frontiere, ci strappa i fratelli di Briga e Tenda, dell’Istria, del Quarnaro, della Venezia Giulia, delle italianissime città dalmate; un diktat che vuol privarci di quella gloriosa marina che non fu mai vinta, e che riduce il nostro non meno glorioso esercito a numero irrisorio; un diktat che ci impone di rinunciare a quelle colonie che conquistammo, bonificammo e civilizzammo con decenni di sacrificio e che sono indispensabili non al nostro imperialismo, ma alla nostra mano d’opera, alle necessità vitali del nostro proletariato; un diktat che, mentre ci carica di debiti, ci toglie le poche riserve auree della Banca d’Italia, e sancisce la rinuncia a ogni nostro diritto nei confronti della Germania. Un tale diktat si vuole imporre all’Italia in un momento in cui per la ricostruzione europea, l’Europa ha bisogno dell’Italia, più di quanto questa ha bisogno di quella. Un tale diktat, non discuto, si può subirlo, ma non mai accettarlo. Ratificarlo significa non rendersi conto di ciò che l’Italia rappresenta in Europa e nel mondo, e significa, innanzi tutto, non valutare noi stessi come gli altri già ci valutano. Nessuna nazione potrà mai interpretare la nostra mancata ratifica come segno di ribellione, ma ogni nazione sarà invece costretta a riconoscere che l’Italia ha, sì, perduto una guerra – e ogni popolo può perderla – ma non la sua dignità, non il suo onore.
MAZZONI. E il popolo può fare le spese della sua retorica!
BENEDETTINI. Sganciamoci per un sol momento dalle ire di parte, dalle posizioni preconcette, dalle ideologie e dalla pesante disciplina di partito; ragioniamo con la nostra coscienza di cittadini, pensando veramente all’Italia e agli italiani di oggi e di domani; svincoliamoci per un momento solo dalle strettoie delle convenzioni politiche diplomatiche e giuridiche e poniamoci di fronte ai fatti, alla realtà.
Ebbene, che cosa potrà accadere se non ratifichiamo? Nulla, assolutamente nulla, poiché l’articolo 90 del diktat parla chiaro. Esso prescrive, è vero, che il Trattato dovrà essere ratificato anche dall’Italia, ma precisa che «esso entrerà in vigore immediatamente dopo il deposito delle ratifiche da parte dell’unione delle Repubbliche socialiste sovietiche, del Regno Unito di Gran Bretagna e dell’Irlanda del Nord, degli Stati Uniti d’America e della Francia».
Ciò dimostra che anche nell’ultimo articolo del diktat, si è voluto deliberatamente offendere la nostra dignità e il nostro onore, prescrivendo implicitamente che la ratifica italiana non è necessaria all’entrata in vigore del diktat.
E noi vogliamo ratificarlo? Ratificarlo quando – come la Russia ha fatto sapere e l’onorevole Sforza ci ha detto – firma e ratifica sono per noi già scontate?
No, onorevoli colleghi. Ed è perciò che, obbedendo alla mia coscienza, sento il dovere di presentare alla vostra approvazione il seguente ordine del giorno:
«L’Assemblea Costituente, certa d’interpretare il sentimento unanime del popolo italiano, eleva la sua protesta verso un Trattato di pace che, violando i principî della Carta Atlantica e del diritto delle genti, disconoscendo i sacrifici e il contributo portato dall’Italia con la sua cobelligeranza, mutila le sue frontiere, la priva delle colonie, le toglie le navi, le riduce l’esercito, l’aggrava di debiti, l’offende nella dignità e nell’onore;
conscia che la ratifica dell’Italia non è necessaria all’entrata in vigore del Trattato, il cui articolo 90 precisa che «esso entrerà in vigore immediatamente dopo il deposito delle ratifiche da parte dell’Unione delle Repubbliche socialiste sovietiche, del Regno Unito di Gran Bretagna e dell’Irlanda del Nord, degli Stati Uniti d’America e della Francia»;
decide di non ratificare il Trattato, nella certezza che tale decisione non verrà interpretata dalle altre nazioni come ribellione, ma come sentimento di dignità nazionale;
invita il Governo a far conoscere alle altre Nazioni tale solenne decisione che si accompagna al vivo desiderio di tutto il popolo italiano di collaborare con tutti gli altri popoli per la ricostruzione economica, per la giustizia sociale, per la giusta pace, per la libertà e la civiltà cui tanto contribuì l’Italia».
Onorevoli colleghi, se il popolo italiano, libero da discipline e da propaganda di partito, fosse chiamato oggi alle urne per esprimere il suo parere sulla ratifica o meno del diktat, voi tutti siete certi che esso all’unanimità voterebbe: «No!».
Ebbene, se noi siamo qui per interpretare ed esprimere il pensiero e il sentimento del popolo che ci ha eletti, se noi non vogliamo tradire questo popolo, ch’è la coscienza stessa della Nazione, noi abbiamo il sacro dovere di non ratificare, di dire: «No!», per il popolo, per l’Italia, per tutti i nostri Caduti! (Applausi a destra).
PRESIDENTE. È iscritto a parlare l’onorevole Corbino.
CARONIA. Data l’ora tarda, propongo che la discussione sia sospesa anche per un riguardo all’oratore, dato che l’Aula è vuota. (Approvazione – Commenti).
ROSSI PAOLO. Sentire l’onorevole Corbino sarebbe una cosa molto interessante. Ma appunto per l’interesse che il discorso presenta, sarebbe bene rinviare la seduta al pomeriggio.
PRESIDENTE. Onorevole Rossi le sue argomentazioni possono ritorcersi. Perché lei vuol dare un premio agli assenti facendo loro sentire nel pomeriggio quello che non hanno voluto sentire stamane?
Ad ogni modo tengano presente, onorevoli colleghi, che vi sono ancora 37 oratori inscritti.
CARONIA. Mantengo la mia proposta di rinvio della discussione.
PRESIDENTE. Pongo ai voti la proposta di rinvio avanzata dall’onorevole Caronia, dichiarando il mio netto dissenso, perché rinviare significa far cosa contraria alle esigenze del nostro lavoro. Preavviso comunque che la seduta del pomeriggio si prolungherà nelle ore notturne.
(Dopo prova e controprova, la proposta di rinvio è approvata).
La seduta termina alle 12.40.