Come nasce la Costituzione

ANTIMERIDIANA DI LUNEDÌ 28 LUGLIO 1947

ASSEMBLEA COSTITUENTE

ccv.

SEDUTA ANTIMERIDIANA DI LUNEDÌ 28 LUGLIO 1947

PRESIDENZA DEL PRESIDENTE TERRACINI

 

INDICE

 

Congedi:

Presidente

 

Interrogazioni (Svolgimento):

Presidente

Grassi, Ministro di grazia e giustizia

Targetti

Rossi Paolo

Scelba, Ministro dell’interno

Bitossi

Lizzadri

Uberti

Pella, Ministro delle finanze

Ghidetti

Marazza, Sottosegretario di Stato per l’interno

Musolino

 

Disegno di legge (Seguito della discussione):

Approvazione del Trattato di Pace tra le Potenze Alleate e Associate e l’Italia firmato a Parigi il 10 febbraio 1947. (23).

Presidente

Benedettini

Sforza, Ministro degli affari esteri

Caronia

Rossi Paolo

La seduta comincia alle 9.30.

ROSELLI, ff. Segretario, legge il processo verbale della precedente seduta antimeridiana.

(È approvato).

Congedi.

PRESIDENTE. Hanno chiesto congedo i deputati: Cannizzo, Bianchi Bianca, Persico.

(Sono concessi).

Svolgimento di interrogazioni.

PRESIDENTE. L’ordine del giorno reca: Interrogazioni.

La prima è quella degli onorevoli Targetti, Malagugini, Carpano Maglioni, Vernocchi, Lussu, Maffi, Cianca, Macrelli, Cevolotto, Longo, Parri, Codignola, Priolo, al Ministro di grazia e giustizia, «per sapere se sia esatto il riferimento, che un giornale della capitale ha pubblicato in questi giorni, di una intervista nella quale il Ministro avrebbe espresso opinioni, fatto apprezzamenti, e preannunciato propositi in pieno contrasto con l’azione che lo Stato, attraverso i suoi vari organi, deve compiere in difesa del suo nuovo ordinamento».

Segue poi l’interrogazione degli onorevoli Rossi Paolo, Bocconi, Lami Starnuti, Ghidini, Carboni Angelo, Pera, Mazzoni, D’Aragona, Piemonte, Grilli, Caporali e Zanardi, che, per affinità di argomento, ritengo possa essere abbinata alla precedente. L’interrogazione è del seguente tenore:

Al Presidente del Consiglio dei Ministri e al Ministro di grazia e giustizia, «per conoscere, in relazione alle recenti dichiarazioni dell’onorevole Ministro di grazia e giustizia, se il Governo non creda che l’amnistia, istituto di cui si è per il passato deplorevolmente abusato, debba essere riservata alla deliberazione dell’Assemblea, secondo previsto nel progetto di Costituzione».

L’onorevole Ministro di grazia e giustizia ha facoltà di rispondere.

GRASSI, Ministro di grazia e giustizia. Onorevoli colleghi, sono lieto di rispondere all’interrogazione dell’onorevole Targetti, che ha una portata di ordine più generale, ed a quella più particolare presentata dall’onorevole Rossi Paolo. Dico che sono lieto perché queste interrogazioni mi danno occasione di poter dire all’Assemblea quali sono i veri miei propositi al riguardo di questa materia complessa e per correggere degli errori eventuali e delle deformazioni che, credo, in buona fede, siano state espresse, anche da altri nostri colleghi, sulla stampa quotidiana.

Premetto, e questo è necessario saperlo, che non si tratta di una vera e propria intervista, in cui le parole siano state dettate, valutate e soppesate, ma di un colloquio, come chiaramente del resto è detto nella pubblicazione fatta dal giornale Tempo, fra me e l’avvocato Schirò, un antico funzionario dell’Assemblea, che oggi esercita con successo l’avvocatura; colloquio, come è detto nella stessa pubblicazione, cordiale, pur essendosi mantenuto fra punti di dissenso. E quel «fra punti di dissenso» vi dice che era un colloquio nel quale non eravamo completamente d’accordo. Del resto, il commento che segue dimostra che i concetti espressi dall’articolista non erano quelli da me manifestati.

Questa premessa è necessaria per chiarire il mio pensiero e rivedere in questo articolo quella parte che possa riguardarmi.

La materia trattata nel colloquio è vastissima e fu, sinteticamente, accennata. Essa meriterebbe una lunga ed ampia discussione perché investe tutti i provvedimenti presi contro il fascismo e contro il collaborazionismo in materia penale, elettorale, amministrativa. Tema, dunque, vastissimo.

Procediamo in via sintetica.

Materia penale: nella materia penale si presentano tre punti di vista: giurisdizioni speciali, legislazioni speciali, provvedimenti di amnistia intervenuti in questa materia.

Per quanto riguarda la legislazione speciale, voi sapete che vi sono provvedimenti del 1944 e del 1945 che formano la legislazione speciale per quel che riguarda i delitti fascisti e quelli di collaborazionismo.

Il tema fondamentale della conversazione che si svolse tra me e l’avvocato Schirò fu particolarmente quello che riguardava la parte giurisdizionale. E questa fu l’unica parte sulla quale fui veramente esplicito, e in cui dissi che pensavo (e su questo credo che siamo tutti d’accordo) di poter passare quanto più presto possibile dalle giurisdizioni speciali alla giurisdizione ordinaria; e dissi che il Governo aveva già preso provvedimenti nel senso che le Corti d’assise speciali venivano ad essere prorogate fino al 31 dicembre 1947 per quanto si riferisce ai processi già trasmessi in giudizio, mentre i processi ancora in istruttoria passavano alla magistratura ordinaria.

Questo è il provvedimento sul quale non possiamo non essere tutti d’accordo: tornare alla normale ed unica giurisdizione per tutti i cittadini italiani.

Rimangono solo in piedi i tribunali straordinari per le rapine, che, come sapete, furono determinati in seguito agli efferati delitti che minacciavano la sicurezza pubblica. Ma, ad ogni modo, tali reati vanno diminuendo con l’aumentare della sicurezza pubblica nel nostro Paese e soprattutto con l’aumento degli organi di polizia e col rafforzarsi del prestigio dello Stato. Il tribunale straordinario per le rapine è un istituto che potrebbe anche eliminarsi subito, se le condizioni in Sicilia non consigliassero di mantenerlo ancora per un po’ di tempo in funzione.

Questo giudizio, che espressi al mio interlocutore, lo confermo ora dinanzi all’Assemblea Costituente.

Per quanto riguarda l’amnistia, le mie dichiarazioni furono molto chiare ed esplicite e non comprendo come si possa equivocare al riguardo.

Io dissi che non credevo che si potesse intervenire nel modificare la legislazione vigente e neanche provocare altri decreti di amnistia. Io ritengo che ormai questo tema della legislazione speciale, che fu giustificato in clima speciale, non debba essere toccato.

L’amnistia, che porta il nome dell’onorevole Togliatti, l’amnistia del 1946, ha già svuotata quella legislazione, perché le leggi del 1944 e del 1945 consideravano reati che sono stati, nella grande maggioranza dei casi, amnistiati.

È vero che nei provvedimenti di amnistia vi sono alcune limitazioni; ma tanto la Cassazione, come magistratura ordinaria, quanto le Corti straordinarie, hanno raramente applicati questi limiti, perché furono congegnati in modo da rendere dubbia e difficile l’applicazione.

E allora, in questo dubbio, la magistratura assolve.

Questa è la verità.

Io non discuto il provvedimento, che fu emanato appunto per pacificare il Paese dopo il referendum, e per consolidare la Repubblica.

In conclusione, nell’intervista dissi: provvedimenti non prendo nel campo della legislazione speciale e non intendo nemmeno proporre nuove amnistie, perché sono anche d’accordo col principio esposto nell’interrogazione dall’onorevole Rossi ed altri che l’amnistia deve essere concessa dal Parlamento, come è già stabilito dall’articolo 775 del progetto di Costituzione. L’amnistia non deve essere un’arma in mano al potere esecutivo, ma deve essere riservata alla deliberazione dell’Assemblea parlamentare. Così del resto si fa in Francia, dove in questi giorni è stato approvato un provvedimento di amnistia con decisione del Parlamento.

Queste dichiarazioni, quindi, credo che non possano che trovare l’assenso dell’Assemblea, poiché rispondono a principî veramente democratici.

Ma qual è il punto incriminato, se così si può dire, di questa mia intervista? Che di fronte a taluni casi di condanne, che mi sono state prospettate, e possono apparire sproporzionate rispetto ad altre date in ambienti, in periodi di tempo diversi e con criteri differenti rispetto all’amnistia, il Governo possa intervenire con particolari provvedimenti di grazia esaminando caso per caso.

Non credo che si possa dire che io abbia con ciò scoperto le prerogative dei Capo dello Stato; anche perché, è sempre il Ministro di grazia e giustizia che deve proporre, sulle singole domande di grazia, i provvedimenti del genere.

In ogni modo, è bene che l’Assemblea conosca anche la cifra dei condannati e dei giudicabili per reati politici, perché possa illuminarsi sulla situazione precisa a questo riguardo: i condannati ed i giudicabili, prima che fosse emanato il provvedimento di amnistia, erano 10.851; poi, in seguito all’amnistia, furono liberati 6436, cosicché ne rimasero poco più di 4000. Questa era la situazione del dicembre 1946.

Nel maggio del 1947 erano rimasti soltanto, fra giudicati e giudicabili, 2978 casi, e di questi soltanto 1374 condannati e 1608 ancora giudicabili, ossia coloro, che debbono ancora subire il giudizio.

La portata, quindi, di tutta questa grande questione si riduce ad essere assai limitata.

Si è detto anche che in questo colloquio non mi sia occupato dei partigiani. Questo rilievo merita di essere considerato: non me ne sono occupato, prima di tutto perché non se n’è parlato, poi perché l’amnistia per i partigiani fu completa e si estese a tutti i reati politici da essi compiuti.

Non si tratta quindi di considerare a parte provvedimenti per i partigiani. L’unica pratica di partigiani di cui mi sono occupato (e a questo proposito è venuta da me una Commissione dell’A.N.P.I.) è questa: che vi sono alcuni partigiani che non sono stati ancora rinviati a giudizio. Ciò è dipeso dal fatto che la situazione di essi è collegata ad altre situazioni particolari di altri imputati di reati di rapina ed altri gravi delitti. Ad ogni modo, per questi pochi casi, io ho preso impegno perché i giudizi vengano affrettati con la maggior possibile sollecitudine. Non comprendo quindi che cosa ci possa essere da criticare sui concetti e sui propositi da me manifestati.

Questo per quanto riguarda la parte penale. Non reputo poi di dovermi occupare di ciò che ha detto un giornale circa la pretesa mia volontà di estendere l’amnistia alle disposizioni di carattere amministrativo, vale a dire, per essere più espliciti, alle confische dei beni di coloro che furono amnistiati. L’Assemblea sa benissimo che le confische dei beni sono comprese nell’amnistia, perché siamo nel campo delle sanzioni civili, non già di quelle penali. È quindi escluso, nel modo più assoluto, che io, come Guardasigilli, mi sia mai occupato di tale materia.

E veniamo ora alla parte elettorale. Mi si domandò se era opportuno e prudente privare, con disposizioni eccezionali, circa 200 mila persone del diritto del suffragio attivo.

Dissi, non già come Ministro, ma come membro della Commissione elettorale della quale ebbi a far parte sino a pochi giorni prima della mia nomina a Ministro, che non mi pareva che le norme fissate nella legge elettorale conducessero a tenere lontano dall’elettorato attivo questo gran numero di persone: per me si trattava e si tratta di escludere poche migliaia di persone. A che cosa si ridusse questo mio apprezzamento? Si ridusse a questo, che, all’obiezione rivoltami che non era conveniente e giusto continuare a sottrarre all’elettorato alcune centinaia di migliaia di persone, io mi limitai a rettificare che l’esclusione riguardava un numero di poche migliaia di cittadini.

Ultima questione quella relativa all’epurazione dell’Amministrazione statale, parastatale e degli enti locali. In risposta a questa domanda, dissi qual è l’attuale situazione, che cioè per gli alti gradi, vi sono circa 200 ricorsi al Consiglio dei Ministri, a cui bisogna, in un modo o nell’altro, provvedere.

In questa materia, mi limitai a dire che non si possono accettare i ricorsi di coloro che si sono affrettati a scegliere volontariamente la via del collocamento a riposo con trattamento di quiescenza, venendo così ad estinguere, in linea di diritto, ogni possibilità di un’ulteriore giurisdizione. Non ho quindi fatto altro, in merito a tale questione, che porre un limite a provvedimenti di clemenza e non già ad allargarli.

Per quello poi che concerne i gradi bassi, per i quali ben 15 mila ricorsi furono proposti al Consiglio di Stato, io dissi ciò che credo risponda a un sentimento unanime del Paese, come confermò l’onorevole Presidente del Consiglio in questa Assemblea, che cioè questi ricorsi pendenti presso il Consiglio di Stato, sono di coloro che rappresentano gli straccetti dell’Amministrazione, e mentre turbano la pace sociale servono ad inceppare tutto l’andamento dei lavori dello stesso Consiglio di Stato. Soggiunsi, quindi, che sarebbe quanto mai auspicabile addivenire ad una pacificazione, ad una sanatoria per tutta questa povera gente, anche perché è indubbio che questi piccoli sentono una disparità fra il trattamento fatto ad essi e quello che è stato fatto invece ai grandi e possenti del regime fascista.

Ecco dunque il succo delle mie affermazioni: affermazioni che la stampa ha riportato conferendo ad esse diversi significati od intenzioni, in buona o in mala fede, secondo le proprie tendenze ma che io comunque confermo ora dinanzi a voi, perché lo scopo che mi animò e mi anima non era se non quello di perseguire una maggiore distensione degli animi, per consolidare in questa maniera la Repubblica, voluta con decisione sovrana dal popolo italiano. (Applausi al centro e a destra).

PRESIDENTE. L’onorevole Targetti ha facoltà di dichiarare se sia sodisfatto.

TARGETTI. Come ha detto l’onorevole Ministro, la nostra interrogazione si riferisce ad una materia molto vasta, complessa e importante tanto che non è possibile, in sede d’interrogazione, non dico trattarla a fondo, ma neppure entrare in molti particolari.

Da questo settore dell’Assemblea, dai vari gruppi che lo compongono, è stata presentata questa interrogazione perché si è sentita la necessità di richiamare l’attenzione prima del Ministro, poi dell’Assemblea, su quello che era stato l’effetto prodotto in molti ambienti dalla intervista o conversazione al ministro attribuita. Questa interrogazione gli ha dato modo di fare dichiarazioni delle quali prendiamo atto con vero compiacimento, se non altro in quella parte nella quale egli riconosce che vi sono degli errori da correggere nel riferimento delle sue parole e che sono state date interpretazioni arbitrarie al suo pensiero.

Egli spiega anzitutto che non si trattava di una vera e propria intervista, ma di una semplice conversazione. Io non ho nessuna autorità per dare consigli a nessuno e tanto meno agli egregi colleghi che occupano l’alto seggio di Ministro, ma, certo, meno interviste i Ministri danno e meno pericolo corrono di doverle poi correggere e in parte smentire.

Però, l’onorevole Grassi deve riconoscere che il riferimento del suo pensiero deve essere stato profondamente – direi quasi, stranamente – errato, se gli sono state attribuite affermazioni di tanta gravità, da lui non confermate e se alle sue parole è stata data una intonazione ben diversa da quella che, qui, hanno avuto le sue dichiarazioni.

Come suol dirsi, è il tono, che in gran parte, fa la musica; sicché lo stesso motivo, dà sensazioni diverse se è in tono maggiore o in tono minore. Si può passare dall’allegria alla malinconia. L’onorevole Grassi potrebbe dire che si è data da noi una interpretazione arbitraria, non serena. Ed è vero che in politica è difficile mantenersi giudici sereni. Ma l’onorevole Grassi deve tener presente quella che si può dire l’orchestrazione ricevuta dalla sua intervista da parte di movimenti politici, da parte di gruppi finanziari – ciò che è più grave – i quali sostengono che la Repubblica non ha bisogno di essere difesa, ma lo sostengono unicamente perché non vorrebbero che fosse difesa. Rivendicano la libertà di attentare alla libertà, che soltanto ieri, ed a prezzo di tanti sacrifici e dolori fu riconquistata. Si sono commentate e salutate quelle sue parole, onorevole Ministro, come l’inizio di una nuova politica del Governo, in questa materia. Una politica alla quale noi ci opporremmo con tutte le nostre forze. E non si può dire che siano state interpretazioni arbitrarie.

Guardi, onorevole Grassi. Quando ella ha parlato dell’abolizione delle Corti d’assise straordinarie, ne ha parlato come di una prova di un nuovo indirizzo per la normalizzazione che il Governo vuole conseguire.

Ella mi insegna che non è così. L’abolizione delle Corti d’assise straordinarie non è una novità programmatica. Era stata prevista anche dall’onorevole Gullo. Ella sa che queste Corti d’assise straordinarie dovevano morire il primo di agosto. Ciò non fu possibile, perché per quella data non era stata ancora costituita la nuova Corte d’assise non essendo ancora venuto all’Assemblea il disegno di legge relativo. Io non so se da un decreto preparato dall’onorevole Gullo o dall’attuale Ministro venne la proroga al 31 dicembre.

GRASSI, Ministro di grazia e giustizia. La proroga è stata concessa per gli imputati già rinviati a giudizio; gli altri passano direttamente da oggi alle Corti d’assise ordinarie.

TARGETTI. Questa è una notizia che nell’intervista non c’è, ma che non mi rallegra eccessivamente, perché per quante critiche si possano fare alle Corti d’assise straordinarie, è ancora più difficile avere molta fiducia nelle Corti d’assise così come oggi sono costituite. Queste Corti d’assise con gli assessori di creazione fascista, non hanno accontentato nessuno: non quelli che sono fautori della giuria popolare, non quelli che ritengono che anche i reati più gravi debbano essere deferiti alla Magistratura ordinaria.

La composizione ed il funzionamento delle attuali Corti d’assise, le categorie sociali da cui vengono tolti gli Assessori, non ci rassicurano e quindi non ci rassicura, ma ci inquieta questa fretta di passare processi di carattere politico alle Corti d’assise ordinarie.

Ella ha annunciato anche, molto lietamente, l’abolizione dei Tribunali straordinari. Sì, lo so, è un principio meritevole del massimo ossequio, quello della unità giurisdizionale, ma non bisogna farne un feticcio.

L’unità giurisdizionale vale in tempi sani, in tempi normali. Ma perché ci si deve scandalizzare che in tempi così eccezionali come quelli che abbiamo attraversato e come sono in parte anche quelli che ancora attraversiamo, si sia dovuto fare ricorso a questi Tribunali straordinari, che poi sono Tribunali militari?

Io ho sempre pensato che per chiudere la bocca a quanti si scagliano contro questi Tribunali straordinari basti ricordare loro l’eccidio di Villarbasse.

Sarebbe disconoscere le esigenze della difesa sociale, rifiutarsi di riconoscere la necessità transitoria di norme di competenza eccezionali di fronte a manifestazioni eccezionali di impressionante criminalità.

Venendo al punto del dissenso più profondo, le ricordo, onorevole Grassi, come ella ad un certo punto, abbia detto nella sua conversazione, che l’attenzione del Ministro non poteva fare a meno di fermarsi sulla situazione di coloro che, in applicazione dei decreti del 1944 e 1945, sono stati colpiti con maggiore severità nel primo biennio dell’applicazione dei decreti stessi, che non successivamente. Vorrei dire che ella ha sparso qualche lacrima sopra la sorte di taluni di questi colpevoli che possono essere stati trattati più severamente di quelli giudicati più di recente. Ma ella non si è posto il problema se maggiore rispetto alle esigenze della giustizia vi sia stato nelle sentenze più severe piuttosto che nelle sentenze più miti.

Ella dice bene: è una materia complessa e grave che non si può discutere in questa sede. Ma anche qui è utile dire quanto sia pericoloso autorizzare, sia pure involontariamente, a rendere la repressione dei delitti fascisti una cosa sempre meno seria. E poi ella ha parlato anche delle interpretazioni contrastanti che hanno avuto le cause ostative all’amnistia.

Onorevole Grassi, questa sì che è una questione delicata e dolente a toccare.

Secondo lei l’amnistia del giugno 1946 avrebbe avuto interpretazioni contrastanti nel senso di aver dato luogo a delle ingiustizie che soltanto attraverso grazie ed indulti si possono riparare. Ma se c’è una caratteristica nell’interpretazione che la giurisprudenza ha dato a quel decreto, la caratteristica è di una costante aberrazione. Io mi permetto fare una sola citazione per tutte. Si tratta, fra le tante, di una sentenza della Corte di Cassazione. Non leggo il nome del Presidente, non leggo il nome del relatore. Preferisco non leggerli. Una sentenza della Cassazione, che stabilisce questo principio: in tema di collaborazione politica costituisce indubbiamente sevizia, ma non già sevizia particolarmente efferata qual è richiesta dall’articolo 3 del decreto 22 giugno 1946, per l’esclusione dell’amnistia, il sospendere un partigiano per i piedi e fargli fare da pendolo mediante pugni e calci, onde indurlo a dichiararsi colpevole ed accusare i propri compagni.

Onorevole Grassi, non tocchiamo proprio per pietà nazionale questo triste tasto dell’interpretazione data da tanta parte della magistratura… (Applausi a sinistra).

Per pietà nazionale, perché abbiamo tutti, perché ha la Nazione l’interesse di avere dei giudici che interpretino, sia pure errando – perché errare è umano e nel giudicare è ancora più facile – ma con coscienza, con intelligenza senza prevenzioni, senza faziosità la legge di cui è loro affidata l’applicazione. La interpretino sempre col proposito di renderla più che è possibile giusta, umana, utile ai supremi interessi della società, bene intonandola alla esigenza di giustizia fortemente sentita dalla collettività.

Ecco perché, anche per la buona amicizia che ci lega, onorevole Grassi, da tanti anni, ella deve credere che io mi sono sinceramente doluto quando ella ha fatto cenno a ciò.

Infine, quando ella, onorevole Ministro dice che bisogna intervenire efficacemente con larghi decreti di indulti per dei gruppi di condannati, lo dice, o glielo fa dire quel suo intervistatore che, avendo avuto, a quanto mi viene riferito, qualche dispiacere dall’epurazione, si trova forse in uno stato d’animo che gli fa attribuire al Ministro quello che corrisponderebbe ai suoi desideri.

GRASSI. Ministro di grazia e giustizia. Ho chiarito prima quale è stato il mio concetto… quello che ho detto.

TARGETTI. Prendo atto che non l’ha detta, questa che sarebbe stata una enormità giuridica ed anche una enormità politica e morale.

Ma chi si vuole beneficiare? Non bastano tutti quelli che sono sfuggiti a qualsiasi sanzione? Tutti quelli che sono stati beneficiati da una amnistia, diciamolo francamente, mal congegnata e malissimo applicata? A chi volete dare il beneficio della grazia e dell’indulto? Fra poco si finirà col condannare chi ha commesso il grave peccato di essere stato sempre antifascista, se si continua in questa strada. (Applausi a sinistra)

Ed io mi permetto concludere in questo senso, senza punta di malizia.

Onorevole Grassi, a quanto ini risulta, ella non è stata mai infetto da lue fascista. È questo un ottimo precedente. Per me la lue fascista è una di quelle malattie di cui difficilmente si può guarire interamente, quando un giorno abbia preso pieno possesso del nostro organismo.

Ella, questa lue, per sua fortuna, non l’ha sofferta. Non credo, quindi, che ella voglia dare alla sua politica un indirizzo che sarebbe di favoritismo fascista. Per farlo bisognerebbe anche che si mettesse d’accordo con l’onorevole De Gasperi. Con quello di ieri, se non con quello di oggi; con le dichiarazioni che fece presentando il suo… non so dirne il numero esatto, perché sono tanti questi suoi Ministeri, presentando il suo penultimo Ministero. In quelle dichiarazioni egli affermava precisamente e solennemente di voler provvedere alla difesa della Repubblica. E presentò un particolare disegno di legge che non ha ancora ritirato. (Commenti). Il Ministro di grazia e giustizia dovrebbe concordare questa nuova politica anche con l’onorevole Scelba, che, se non gode di una buona stampa presso di noi, non è certo perché non sia stato sempre antifascista e repubblicano. Come potrebbe associarsi ad una politica filofascista? Finché si tratta di proibire i comizi nelle fabbriche, è un’altra cosa. Si tratta di impedire la propaganda comunista e socialista. (Interruzioni).

UBERTI. Per evitare i contrasti fra operai nell’interno delle fabbriche.

TARGETTI. Questa è la curiosa giustificazione del provvedimento data dall’onorevole Scelba. Egli ha detto: «Abbiamo voluto proibire i comizi, perché nelle fabbriche ci sono diversità di opinioni».

Ma i comizi si tengono appositamente perché esistono diversità di idee. Altrimenti sarebbero perfettamente inutili.

Noi concludiamo, onorevole Grassi, augurandoci che ella voglia accentuare la politica di difesa della Repubblica, non già indebolirla. (Applausi a sinistra).

PRESIDENTE. L’onorevole Rossi Paolo ha facoltà di dichiarare se sia sodisfatto.

ROSSI PAOLO. L’onorevole Ministro di grazia e giustizia ha troppa consuetudine con testi di filosofia per non sapere che la soddisfazione è fuori dei limiti del razionale. Non si dorrà, quindi, se manifesterò la mia parziale insoddisfazione! Sono imperfettamente sodisfatto, perché, mentre godo di sentire dalla sua autorevole voce che non si pensa ad una generale amnistia, ma ad un indulto per categorie (in realtà tutti i provvedimenti di amnistia e di indulto sono per categorie, per gruppi, perché fino adesso, anche nell’abuso ridicolo e spaventoso che si è fatto dal 1922 in poi, nessuno ha mai pensato ad una amnistia universale, ad un indulto per tutti, che superi i limiti delle categorie e perdoni alla totalità dei malfattori), e mi preoccupa la pubblicità data alle dichiarazioni dell’onorevole Ministro.

Ho detto che si è fatto dell’amnistia un largo e quasi ridicolo abuso. Permetterà l’Assemblea che io citi un passo del Guicciardini, in cui è contenuta una anticipazione del pensiero criminalistico italiano: «Bisogna punire tutti i delitti, bisogna punirli a dieci soldi per lira, ma fare in modo che vi sia la certezza della pena».

La politica seguita nell’ultimo trentennio è esattamente quella opposta.

L’onorevole Targetti ha citato una sentenza che tutti abbiamo letta con orrore. Dirò all’onorevole Targetti che insieme con il testo della sentenza è veramente deplorevole anche il testo della legge.

Sarebbe stato largamente sufficiente parlare di «sevizie», che è già un concetto ben grave e ben crudo. Si sono aggiunti un aggettivo spaventoso: «efferate», ed un avverbio anche più grave: «particolarmente». Si è parlato di «sevizie particolarmente efferate» creando una mostruosità, perché la persona che è capace di compiere «sevizie particolarmente efferate» è veramente un mostro, più che un uomo. Allora anche certe sentenze che avrebbero dovuto rettificare la legge, non si perdonano, ma si spiegano dicendo che si è fatto di questo istituto dell’indulto e della amnistia un deplorevole abuso anche dopo il fascismo.

Mi compiaccio di sentire dalla bocca del Ministro della giustizia l’affermazione perentoria e chiara, la promessa e, credo, l’impegno definitivo del Governo, che non si presenteranno progetti di amnistia e di indulto, se non attraverso la solennità e la responsabilità dell’Assemblea Nazionale.

Oserei dire che mentre la restituita democrazia ha fatto in molti campi veramente bene, veramente di più di quello che si poteva aspettare da un osservatore storico anche ottimista, è proprio nel campo della giustizia, nel campo delicatissimo della giustizia, che la nuova democrazia repubblicana non ha fatto una grande prova: politicamente non felici, tecnicamente mal congegnate, le leggi per l’epurazione e per la repressione dei delitti fascisti hanno mancato al loro scopo.

Vedo l’onorevole Cappi ed ho paura a far citazioni in latino (Si ride), che mi sgorgherebbero in questo momento dal cuore, perché, inciampando di un piede o di mezzo piede, mi attirerei le sue critiche. Citerò in italiano. C’è un passo dell’Andria di Terenzio in cui si dice: «Noi non tendiamo le nostre reti all’avvoltoio ed all’aquila, al nibbio ed allo sparviero, che ci danneggiano; tendiamo le nostre reti al passero ed al fringuello, al tordo e al merlo, che non ci fanno nulla». Tale è stata, in conclusione, la legislazione repubblicana, la non felice legislazione repubblicana, in tema di epurazione di delitti fascisti. Abbiamo lasciato passare con le loro grandi ali, i loro artigli ed i loro rostri voraci, il nibbio e l’avvoltoio, e più di qualche volta abbiamo messo in gabbia, o nella casseruola, il merlo ed il passero.

Capisco, onorevole Ministro – ed in questo mi dico sodisfatto, sebbene imperfettamente – la necessità di talune grazie che possono, non dico riparare degli errori, ma compensare ingiustizie e disparità. La giustizia è sostanzialmente proporzione, e quindi contraddice la propria essenza quando non è uniforme.

Capisco la necessità di provvedimenti particolari di grazia per riparare sproporzioni urtanti tra sentenze emanate immediatamente dopo la liberazione e troppo severe, e sentenze pronunciate dopo, infinitamente troppo benevole. Ma occorre, onorevole Ministro, in questo tema avere una straordinaria cautela, una straordinaria prudenza di linguaggio.

Noi abbiamo assistito, subito dopo la lotta della liberazione, a quella che gli inglesi, sempre formalisti nell’applicazione della giustizia, formalisti anche quando decisero, una volta sola nel corso della loro storia, di decapitare il re, chiamarono «rough justice», una giustizia ruvida, una giustizia scabra, ma giustizia.

Ebbene, il momento della giustizia ruvida, il momento della giustizia scabra è passato. Occorre avere in questo momento una grande attenzione, una grande riverenza, un grande riguardo per l’istituto della giustizia e per la giustizia in sé, che è così vivamente sentita dal popolo italiano. Questa grande riverenza, questo ossequio verso la giustizia, la sua amministrazione e il suo concetto, richiedono di non fare dichiarazioni, onorevole Ministro, che possano essere facilmente interpretate a rovescio, determinando stati d’animo appassionati, inquietudini, desideri ed incertezze. Occorre che questa sovrana prerogativa, questa, direi, quasi mistica prerogativa del Capo dello Stato, che è la grazia, non sia messa in piazza, non sia anticipata nei giornali. Occorre che il Ministro della giustizia, il Governo e il Capo dello Stato ci pensino, ma è bene che nessuno ne parli, onorevole Ministro.

PRESIDENTE. Seguono due interrogazioni al Ministro dell’interno degli onorevoli Di Vittorio ed altri e dell’onorevole Lizzadri, che si possono abbinare, per affinità di materia:

Di Vittorio, Bitossi, Noce Teresa, Negro, Flecchia, Massini, al Ministro dell’interno, «sul contenuto della sua circolare telegrafica dell’8 luglio 1947, con la quale si dispone di sottoporre ad autorizzazioni e controlli della polizia le riunioni dei lavoratori all’interno delle aziende in cui lavorano, anche quando dette riunioni sono indette dalle Commissioni interne; ciò che costituisce un attentato gravissimo alle libertà democratiche e sindacali».

Lizzadri, al Ministro dell’interno, «per conoscere i motivi che hanno indotto il direttore generale della pubblica sicurezza ad emanare la circolare 40617/4412/1962 dell’8 luglio 1947, che vieta le riunioni all’interno delle fabbriche. Questo provvedimento annulla di fatto cinquanta anni di conquiste sindacali, realizzate dai lavoratori italiani di ogni tendenza politica col proprio sacrificio e spesso col proprio sangue, e pone il nostro Paese alla retroguardia di tutte le Nazioni democratiche del mondo. L’interrogante chiede, perciò, che la circolare venga immediatamente revocata».

UBERTI. Pregherei che si abbinasse anche la mia interrogazione sullo stesso argomento.

PRESIDENTE. L’onorevole Uberti ha presentato questa mattina la seguente interrogazione:

«Al Ministro dell’interno, sulla circolare riguardante i comizi politici nell’interno delle fabbriche e sugli scopi che l’hanno ispirata».

Anche questa interrogazione potrà essere svolta insieme con quelle degli onorevoli Di Vittorio e Lizzadri testé lette.

Comunico inoltre che l’onorevole Bibolotti ha comunicato alla Presidenza di aggiungere la sua firma all’interrogazione dell’onorevole Di Vittorio, cui risponderà ora il Ministro dell’interno.

L’onorevole Ministro dall’interno ha facoltà di parlare.

SCELBA, Ministro dell’interno. Onorevoli colleghi, poiché la circolare emanata dal capo della polizia, in ordine ai comizi nell’interno delle fabbriche, è stata pubblicata soltanto da un giornale italiano, e le ulteriori precisazioni emanate dal Ministero dell’interno in ordine a questa circolare non furono pubblicate dal giornale che aveva pubblicato la circolare della pubblica sicurezza, io mi permetterò, anche per una più chiara intelligenza della questione, di leggere il testo della circolare e le precisazioni del Ministero dell’interno.

La circolare del Direttore generale della pubblica sicurezza diceva:

«Risulta che le Commissioni interne di alcune imprese industriali hanno sollecitato autorizzazione a tenere comizi interno stabilimenti. Per tutela ordine pubblico, in vista possibili incidenti et ripercussioni da parte operai appartenenti diverse tendenze politiche, rappresentasi opportunità che competenti autorità pubblica sicurezza non accordino autorizzazioni».

La precisazione del Ministero dell’interno, a seguito delle proteste di una parte della stampa e degli organi confederali, aggiungeva:

«Benché il testo sia sufficientemente chiaro, ad evitare arbitrarie interpretazioni ed ingiustificate agitazioni, si precisa che il richiamo riguarda unicamente i comizi per i quali occorre a norma di legge la preventiva autorizzazione da parte della pubblica sicurezza.

«Sono escluse perciò ovviamente tutte le riunioni a carattere privato per le quali non occorre la preventiva autorizzazione da parte della pubblica sicurezza, ed a maggior ragione le assemblee dei lavoratori per la trattazione dei loro problemi sindacali.

«Inoltre, non si tratta, come si è asserito, di un divieto generale di comizi, ma, per ragioni di opportunità, di facoltà a non concedere le eventuali autorizzazioni quando circostanze particolari, da stabilirsi dalle autorità locali competenti, lo giustifichino.

«In quanto alla ragione della disposizione, si conferma che essa è stata sollecitata dai lavoratori a salvaguardia della loro libertà di opinioni e per evitare possibili conflitti nell’interno dei luoghi di lavoro».

Questo è il testo degli atti ufficiali che riguardano questa materia. Come è venuta al Ministero dell’interno l’idea di emanare una circolare siffatta? Essa, contrariamente a quanto si è voluto far ritenere, non corrisponde al proposito di limitare la libertà di chiunque, bensì di rafforzare la libertà di tutti.

Al principio del mese di luglio, il prefetto di una grande città industriale dell’Alta Italia informava il Ministero dell’interno che due Commissioni interne di due grandi fabbriche avevano chiesto l’autorizzazione a tenere comizi nell’interno degli stabilimenti. Il prefetto, nel segnalare la richiesta, faceva le seguenti osservazioni, che mi permetto di sottoporre all’Assemblea: «Rilevo che le maestranze, composte di operai di diverse tendenze politiche, dovrebbero tutte partecipare per opportunità ambientale, tanto più che eventuali assenze verrebbero indubbiamente notate e forse sorvegliate da compagni di lavoro di partiti diversi.

«È facile arguire che la situazione che ne deriverebbe potrebbe facilmente sfociare in gravi inconvenienti, poiché nel caso di partecipazione darebbe luogo a contraddittori e contrasti che turberebbero il regolare svolgimento dei comizi, per cui in casi di astensione di gruppi di tendenze diverse si verificherebbero incidenti che rappresenterebbero pericoloso lievito per altre manifestazioni all’interno e fuori degli stabilimenti. E ciò senza accennare alla gravità delle conseguenze, qualora, nel rovente clima di un comizio politico, si dovesse verificare la possibilità di disordini nel momento stesso il cui il comizio si svolge.

«Per questi motivi e per tali considerazioni, sottopongo a codesto Ministero, perché esamini l’opportunità con tempestive disposizioni di ordine generale, di proibire i comizi politici all’interno degli stabilimenti industriali».

Segnalazioni di questo genere erano pervenute da altre parti d’Italia, e gruppi di lavoratori avevano sollecitato anche il Ministero dell’interno a prendere provvedimenti di questo genere. È risultato anche che, in qualche posto, per evitare che venisse turbata la pace, l’armonia, la tranquillità nell’interno degli stabilimenti e fra i lavoratori, i rappresentanti dei partiti politici locali avevano preso l’iniziativa di evitare che nell’interno degli stabilimenti si tenessero comizi politici.

Queste, onorevoli colleghi, le ragioni che hanno consigliato e dettato la circolare. Attentato alle libertà democratiche? Nell’aprile scorso, in occasione della Pasqua, le organizzazioni dei lavoratori cristiani presero l’iniziativa di tenere delle conferenze in preparazione della Pasqua, nell’interno degli uffici e degli stabilimenti e al di fuori di essi. In quell’occasione, la stampa – e mi riferisco alla stampa che oggi protesta vivamente per le disposizioni emanate dal Ministero dell’interno – protestò non meno vivacemente contro questo intervento da parte di organizzazioni cattoliche che desideravano tenere nell’interno degli uffici, degli stabilimenti queste riunioni. Anche allora si insorse con energici inviti al Ministero dell’interno di impedire che si tenessero di queste riunioni.

Onorevoli colleghi, il Fronte di unità repubblicana – non so come oggi si chiami, perché si tratta di una associazione di forze politiche che varia continuamente – il Fronte di unità repubblicana dunque prese in quel momento anch’esso vigorosa posizione ed emanò un ordine del giorno di protesta che mi permetto di leggere all’Assemblea Costituente. Traggo questa lettura dal giornale Il Momento del 25 marzo 1947 e aggiungo che si tratta dei dipendenti del Ministero dei lavori pubblici. Ecco dunque in quali termini suona l’ordine del giorno di questo Fronte:

«Ritenuto che non si ravvisano motivi plausibili per giustificare tale determinazione – quella cioè di tenere conferenze religiose per i lavoratori nei luoghi del loro lavoro – sia perché non vi sono precedenti di tal genere neppure in periodo fascista, sia perché i dipendenti hanno tutta la possibilità, ove lo credano, di dedicarsi alle loro pratiche confessionali in giorni, in ore, in luoghi diversi da quelli del loro lavoro, nella preoccupazione che sotto la veste della pura manifestazione di ordine religioso se ne nascondano invece altre di carattere politico, eleva la sua protesta contro tali tentativi di raggiungere fini politici con mezzi apparentemente destinati ad altro scopo e ad elusione delle vigenti disposizioni».

Ora, onorevoli colleghi, qui si trattava di manifestazioni di carattere religioso, di quella religione che costituisce il patrimonio morale della stragrande maggioranza dei lavoratori italiani.

MORANINO. Al Ministero della guerra sono state sempre tenute queste manifestazioni religiose e mai nessuno ha protestato: com’è?

SCELBA, Ministro dell’interno. Onorevole collega, l’Avanti!, in data 25 dello stesso marzo 1947, trattando dello stesso argomento, arrivava addirittura a parlare di scandalo: era, per questo foglio, addirittura uno scandalo che si tenessero riunioni di carattere religioso nei luoghi di lavoro. Io non dico, onorevole collega, che riunioni di questo genere non si siano tenute; dico che se si è parlato di scandalo, allorché si è trattato di una manifestazione di carattere religioso, e quindi non politico, a maggior ragione si sarebbe protestato violentemente contro una manifestazione a carattere politico nell’interno di un ufficio o di uno stabilimento.

Non intendo dire con questo che era legittima la protesta; dirò, anzi, che di quella protesta ritengo non si sia tenuto conto, tanto più che queste riunioni si tenevano fuori degli stabilimenti e tanto più – ripeto – che si trattava di manifestazioni religiose, di quella religione che, come dicevo prima, rappresenta il patrimonio comune… (Proteste a sinistra).

GIUA. Non era quello il luogo; ci sono le chiese.

TONELLO. Andate in chiesa!

SCELBA, Ministro dell’interno. …di tutti i lavoratori italiani o perlomeno della stragrande maggioranza dei lavoratori italiani. (Interruzioni dei deputati Moranino e Pratolongo – Commenti a sinistra).

PRESIDENTE. Onorevole Moranino, non interrompa! Onorevole Pratolongo, non è lei l’interrogante che ha diritto di rispondere.

SCELBA, Ministro dell’interno. Onorevole Tonello, non si trattava di una cerimonia religiosa; si trattava di conferenze da tenersi nei circoli ricreativi. (Interruzioni a sinistra – Proteste al centro).

Dicevo che se vi è stata tanta sensibilità per una riunione a carattere religioso, se si è ritenuto che tenere nell’interno di un ufficio o di uno stabilimento riunioni a carattere religioso fosse addirittura un attentato alla libertà politica dei lavoratori, perché attraverso manifestazioni a carattere religioso si potevano raggiungere delle finalità politiche, a maggior ragione penso che allorché si vogliano tenere delle manifestazioni spiccatamente politiche non possano venire meno le preoccupazioni affacciate per manifestazioni a carattere religioso.

Comunque, onorevoli colleghi, ho voluto richiamare questi precedenti, perché la sensibilità politica deve essere generale, e quando si condanna un provvedimento, bisogna esaminarne la genesi, le ragioni e avere una certa coerenza; ma il provvedimento in sé e per sé non instaura e non innova nulla. È stato affermato ed era chiaramente detto e indicato che noi non si intendeva interferire nelle manifestazioni all’interno degli stabilimenti; dico che con questa disposizione non sono vietate neppure, come si è detto, le conferenze e neppure i comizi, a priori, anche nell’interno degli stabilimenti; ma si dà la possibilità alla autorità di pubblica sicurezza, e nei casi in cui l’autorità di pubblica sicurezza lo ritiene in virtù delle leggi vigenti, di concedere o non concedere l’autorizzazione a tenere il comizio politico nello stabilimento; così come è data all’autorità di pubblica sicurezza la possibilità di concedere o non concedere la possibilità di tenere un comizio politico in una grande piazza, quando particolari ragioni, quando particolari contingenze possono sconsigliare di concedere una siffatta autorizzazione. Anche a proposito dell’autorizzazione di tenere comizi nelle piazze, per esempio, a seguito dei noti incidenti verificatisi in Italia, abbiamo richiamato l’attenzione della pubblica sicurezza, nel desiderio di evitare turbamenti all’ordine pubblico, alla pace sociale, per garantire ed assicurare che la lotta politica si svolga (Interruzioni e commenti a sinistra) in clima di assoluto rispetto democratico, perché si neghi l’autorizzazione a tenere comizi in piazze centrali.

Una voce a sinistra. Anche Mussolini parlava così!

SCELBA, Ministro dell’interno. Onorevoli colleghi, posso dire che quando Mussolini vietava i comizi, il divieto valeva per gli oppositori, mentre lasciava piena ed unica libertà al suo partito di tenere tutti i comizi che voleva. (Interruzioni a sinistra).

Nel caso specifico la disposizione ha un valore generale, e non vieta i comizi, ma vieta i comizi nelle fabbriche.

TOGLIATTI. Siete un altro che prende a maestro Mussolini! (Proteste al centro).

SCELBA, Ministro dell’interno. È dovere del Governo di assicurare che la lotta politica, che la propaganda politica si svolgano col rispetto delle minoranze. Ora, se una base morale e prettamente democratica ha questo provvedimento, precisamente sta in questo: di volere assicurare la libertà di opinione delle minoranze politiche. (Interruzioni a sinistra).

E sta in questo, onorevoli colleghi, la caratteristica di una democrazia: cioè a dire nello sforzo di assicurare la libertà delle minoranze, perché, assicurando la libertà delle minoranze, si assicura la libertà della stessa maggioranza; dato che ciò che oggi è maggioranza può essere minoranza domani. (Applausi al centro – Rumori a sinistra – Interruzione del deputato Bitossi).

Vengo a lei, onorevole Bitossi.

Io sono pienamente d’accordo con l’onorevole Bitossi. Sono d’accordo in questo: che io dovrei augurarmi e anzi dovrei avere la certezza che la Confederazione del lavoro è col Governo in questa politica. Perché l’onorevole Bitossi o l’onorevole Di Vittorio devono garantire la libertà di tutti i lavoratori indipendentemente dalla loro fede politica, come posso pretendere dal mio amico Pastore che deve tutelare e difendere la libertà delle opinioni politiche dei lavoratori socialcomunisti. Ma esiste la possibilità che venga minacciata, sia pure attraverso intimidazioni di carattere psicologico, la libertà di opinione dei lavoratori; come, ad esempio, quando le Commissioni di fabbrica prendono iniziative di carattere non sindacale (su cui nessuno discute perché questo è loro compito istituzionale), ma di tenere comizi di parte – che poi sono sempre di una sola parte. Qui la libertà sindacale non c’entra; e che le Commissioni di fabbrica si tramutino talvolta in agenti di partito è più che provato.

Si è visto, per esempio, di recente in una grande città dell’Alta Italia, una Commissione di fabbrica pretendere che i lavoratori facessero quattro ore di straordinario destinando il 50 per cento del ricavato all’assistenza interna e il 50 per cento a favore della stampa comunista.

Così, in un’altra grande città del Nord, è avvenuto che la Commissione interna (e d’onorevole Bitossi ne sa qualche cosa, perché vi è stata una larga polemica) e la Camera del lavoro abbiano preso l’iniziativa di fare lavorare in giorni festivi tutti i lavoratori a favore del Partito comunista. (Commenti).

Ora che il nostro sforzo di ristabilire la legge, di ristabilire la normalità, il nostro sforzo di assicurare a tutti i lavoratori la loro piena libertà di opinioni (Interruzioni a sinistra), e che non subiscano neppure la coazione morale che deriva dal numero e dalla maggioranza, che questo sforzo di restaurazione delle libertà possa essere qualificato gesto reazionario o antidemocratico, io personalmente non lo vedo; e non posso accettare questa critica nei limiti in cui il provvedimento è stato emesso nell’ambito delle leggi, nel rispetto di tutte le libertà.

Peraltro non ho mai considerato che i lavoratori che si riuniscono su invito delle Commissioni interne per trattare problemi di categoria facciano comizi; considero la riunione un’assemblea libera di lavoratori che discutono problemi propri di lavoro, e per queste assemblee nessuno ha mai pensato che potessero comunque interferire l’autorità dello Stato e la polizia. Per il divieto che, ripeto, non ha carattere generale, ma significa soltanto possibilità, facoltà, consentita all’autorità di pubblica sicurezza di vietare in determinate circostanze, non occorreva neppure un’autorizzazione espressa, perché le autorità già posseggono questo diritto. Si tratta di un richiamo specifico ad una possibilità, ad una situazione, che era stata particolarmente segnalata dagli organi responsabili dello Stato: possibilità di evitare manifestazioni politiche per assicurare la pace all’interno degli stabilimenti ed il libero sviluppo delle attività del lavoro per evitare conflitti (ce ne sono tanti nelle piazze e nella stampa).

Ma lasciamo che i lavoratori, nelle ore di lavoro, lavorino in pace, tranquillamente, senza che la politica vada a turbare tutte le manifestazioni della vita sociale! (Applausi al centro).

Se questo sforzo, che tende a restaurare e garantire la libertà di tutti, possa essere qualificato antidemocratico, lascio all’Assemblea di decidere. (Applausi al centro).

PRESIDENTE. L’onorevole Bitossi, secondo firmatario della prima interrogazione, ha facoltà di dichiarare se sia sodisfatto.

BITOSSI. Il testo del telegramma inviato dal Ministro dell’interno ci indica non solo il fatto in se stesso della proibizione delle riunioni di carattere politico, ma implica tutte le riunioni. È quindi logica l’interpretazione data dalla pubblica sicurezza locale di proibire tutte le riunioni sia di carattere politico, sia di carattere sindacale che erano state convocate nell’interno degli stabilimenti. Ma il fatto in se stesso dell’invio di un simile telegramma ci indica un indirizzo che – con un susseguirsi di fatti – ha portato alla promulgazione del telegramma di cui trattasi.

Sarà una cosa strana, onorevole Scelba, ma noi dobbiamo constatare che tutte le volte che le organizzazioni sindacali affrontano un problema tendente a ottenere determinati miglioramenti per la massa dei lavoratori o per qualche categoria, interviene sempre un atto del Ministro dell’interno che sembra voler dire ai datori di lavoro o agli industriali: «Tenete duro, ci sono io che vi proteggo (Rumori, al centro – Approvazioni a sinistra), ci sono io che vengo in vostra difesa».

E infatti possiamo constatarlo. Una categoria di lavoratori affronta un contratto nazionale. Vi è alla testa, alla dirigenza, un elemento attivo che cerca di tutelare gli interessi dei lavoratori. Si prende a pretesto che questo è un cittadino svizzero e lo si espelle dall’Italia in maniera brutale che, democraticamente, non è assolutamente ammessa.

Voci a sinistra. E i fascisti li tengono!

BITOSSI. Lo si attende che passeggi per la strada, si allontana la moglie, si carica su di una macchina e, senza documenti e senza un soldo, lo si porta alla frontiera svizzera. Si noti che questo cittadino svizzero è nato in Italia, ha fatto gli studi in Italia, si è laureato in Italia, vive da undici anni a Sondrio; ha combattuto, malgrado fosse cittadino svizzero, nelle formazioni di partigiani italiani per l’indipendenza italiana.

Voci a sinistra. Appunto per questo!

BITOSSI. Per il semplice motivo che era svizzero, lo si prende e lo si manda via.

Non solo: si sta affrontando il problema dello sblocco dei licenziamenti. Si vuole impedire che i licenziamenti avvengano, che gli industriali, approfittando di questa congiuntura, gettino sul lastrico elementi che sono attristi sindacali.

Ebbene, a Prato, in Toscana, i lavoratori di uno stabilimento tessile reagiscono; dichiarano lo sciopero bianco per impedire che due membri scaduti della Commissione interna dopo venti giorni siano licenziati. La polizia interviene, occupa lo stabilimento e provoca naturalmente la chiusura dello stabilimento medesimo, che ci risulta ancora occupato dai carabinieri!

Onorevole Scelba, il problema del contenuto del telegramma è stato posto perché proibisce le riunioni dentro le fabbriche non politiche; perché il testo del suo telegramma non lascia dubbi, proibisce tutte le riunioni.

SCELBA, Ministro dell’interno. Parla di comizi. (Rumori a sinistra).

BITOSSI. Io non sono un letterato, ma quando il suo telegramma dice: «Per tutela ordine pubblico in vista possibili incidenti e ripercussioni, da parte operai appartenenti a diverse tendenze politiche, rappresentasi opportunità che competenti autorità pubblica sicurezza non accordino autorizzazioni», io non vedo che sia fatta distinzione tra comizi politici e sindacali. Il fatto in se stesso è questo: che il suo telegramma dall’autorità di pubblica sicurezza e dallo stesso suo direttore generale, Ferrari, è stato interpretato nel senso che tutti i comizi e tutte le riunioni sindacali erano proibite. Tanto è vero che il suo direttore generale è intervenuto perfino qui a Roma, ad impedire che il Circolo romano del CRAL dei ferrovieri potesse eleggere i propri rappresentanti perché non aveva chiesto l’autorizzazione, ecc.

Quindi lo spirito del telegramma investe tutte le riunioni. Ma quello che a me interessa, come organizzatore sindacale e come appartenente alla Confederazione, è che il fatto è strettamente connesso con un altro. Onorevole Scelba, noi con la Confindustria stiamo studiando la regolamentazione delle Commissioni interne. Lascio a lei giudicare! Noi presentiamo alla Confindustria un progetto dove è detto fra l’altro: «Per qualsiasi riunione delle maestranze nei locali dello stabilimento, le Commissioni interne o l’incaricato sindacale devono avvertire la direzione».

Nel frattempo interviene il telegramma del Ministro Scelba. La Confindustria propone l’accettazione di un altro testo che è il seguente: «Per qualsiasi riunione di lavoratori da tenersi nell’ambito dello stabilimento, e che sia necessaria per l’espletamento dei propri compiti ai sensi dell’articolo 2, ecc., la Commissione interna o l’incaricato sindacale devono ottenere l’autorizzazione della direzione».

Quindi siamo qui di fronte al fatto che mentre fino ad oggi la prassi ordinaria è stata che le Commissioni interne, vista la necessità di convocare le maestranze allo scopo di illuminarle su determinate attività, avvertivano la direzione di questa necessità di riunione senza chiedere l’autorizzazione, oggi, viceversa, i lavoratori, se noi accettassimo il comma, come ci è stato proposto, dovrebbero chiedere l’autorizzazione alla direzione e alla pubblica sicurezza, in maniera che le riunioni non potrebbero praticamente svolgersi tempestivamente.

Ma è proprio esatto che i lavoratori, che le riunioni sindacali, che le riunioni di qualunque genere, devono ottenere l’autorizzazione per convocarsi nell’interno dell’officina?

È un comizio che si fa o è una riunione privata? Perché io ammetto che si possa anche eventualmente far chiedere l’autorizzazione per i comizi di piazza, ma lì non si tratta di comizi aperti al pubblico ai quali tutti possono partecipare. Lì si tratta di una riunione privata, tenuta in luogo privato, alla quale partecipano elementi esclusivamente appartenenti a quel determinato ambiente di lavoro ed ove gli estranei non sono assolutamente ammessi; quindi sono riunioni a carattere interno, a carattere privato, ed io penso che non si possa né si debba chiedere alcuna autorizzazione. (Rumori al centro).

L’onorevole Scelba ha voluto cercare dei precedenti e ha detto che alcune Commissioni interne, alcuni organismi hanno chiesto l’autorizzazione. A noi della Confederazione non ci risulta che questo sia mai avvenuto. Nessuna Commissione interna ha chiesto l’autorizzazione per fare una riunione interna, perché è la prassi normale, in quanto c’è una regolamentazione – c’è l’accordo Buozzi-Mazzini – che detta la regolamentazione per le riunioni interne degli stabilimenti. Ma indipendentemente da questo fatto, ha voluto cercare di riallacciarsi ad alcuni fatti ed episodi durante il periodo di preparazione o di discorsi per la Santa Pasqua.

Venendo quindi ad un filo logico delle cose, noi saremmo allora (per interpretare il vero senso reale delle parole dell’onorevole Scelba) solamente autorizzati a fare riunioni interne negli stabilimenti se si tratta di andare a sentire una Messa o soltanto dei discorsi per la Santa Pasqua, perché questi non vengono proibiti, in quanto, secondo lui, non sono di un aspetto tale da richiedere la proibizione, mentre le riunioni di carattere sindacale…

SCELBA, Ministro dell’interno. Lei discute a vuoto. Mi pare che ho precisato che le riunioni sindacali non sono soggette alla disposizione ministeriale…

BITOSSI. Io domando a lei come può, ad un determinato momento, riconoscere che una è una riunione sindacale e l’altra è politica oppure se una riunione sindacale diventa o sta per diventare riunione politica, secondo il criterio con cui viene esaminata. Se in una assemblea di stabilimento si esamina, per esempio, il problema del carovita e nel corso della discussione si biasima eventualmente l’atteggiamento del Governo che non realizza determinate azioni in favore di un ribasso del costo della vita, lei me l’interpreta come una riunione politica e mi manda in galera per sei mesi il segretario della Commissione interna. Ripeto dunque che per qualunque riunione che abbia luogo negli stabilimenti (essendo riunioni chiuse senza la partecipazione di estranei) né il Ministro dell’interno, né la Questura locale possono pretendere di far chiedere l’autorizzazione agli organi di polizia.

Io credo quindi che lei, se effettivamente vuole realizzare la tranquillità nelle aziende, non può che ritirare il telegramma che ha fatto.

Non è esatto che negli stabilimenti non vi sia libertà di espressione di tutte le tendenze. Noi usciamo da poco tempo dal Congresso confederale. In tutte le fabbriche hanno avuto luogo le assemblee precongressuali. C’è stato il cozzo di idee, di indirizzo politico, indirizzo e cozzo di idee che hanno portato al congresso confederale una minoranza agguerrita con 600.000 voti, il che dimostra che la democrazia, la libertà di riunioni, il rispetto dell’altrui pensiero, sono stati appieno rispettati nelle riunioni sindacali tenute nell’interno degli stabilimenti.

Non può ella, oggi, con un pretesto qualsiasi, togliere la libertà di riunione e la libertà sindacale, ed impedire che dei lavoratori si radunino per esprimere le loro opinioni su tutto quanto interessa e la vita aziendale e la vita nazionale, senza commettere un atto di arbitrio, il quale, invece di portare negli stabilimenti la tranquillità, vi porta un continuo fermento.

L’onorevole Scelba sappia che i lavoratori hanno un alto senso di responsabilità e che, se ci sono contrasti interni sulla opportunità di convocare o meno una determinata assemblea, questa è questione che può eventualmente interessare l’organo massimo dell’organizzazione sindacale, cioè la Confederazione. Lasci che la Confederazione continui a far vivere nell’ambito delle collettività lavorative tutti i lavoratori, non frapponga fra i lavoratori medesimi e le organizzazioni sindacali degli impedimenti, che invece di portare tranquillità nelle aziende, vi portano perturbamento, confusione ed attriti più forti di quello che ella non possa immaginare.

Se ella non ritirerà il telegramma o non darà il chiarimento che esso non intende assolutamente proibire le riunioni di qualsiasi natura negli stabilimenti, ella dovrà affrontare una serie di agitazioni, che metteranno in subbuglio le aziende. (Proteste al centro).

Una voce a sinistra. A Portolongone ci andrete voi.

BITOSSI. I lavoratori, che sanno di aver conquistato duramente questa libertà di riunione, che ella oggi vuole togliere, sapranno con tutti i mezzi difenderla. (Applausi a sinistra).

PRESIDENTE. L’onorevole Lizzadri ha facoltà di dichiarare se sia sodisfatto.

LIZZADRI. Dalle parole del Ministro dell’interno devo constatare che la sostanza è questa. La prima circolare è stata mandata l’8 luglio. Se non ci fossero state le proteste dei giornali e degli interessati, cioè le agitazioni nelle fabbriche, probabilmente le cose sarebbero rimaste come il Ministro dell’interno ed il Direttore generale di pubblica sicurezza avrebbero voluto, cioè il divieto di tutte le riunioni.

SCELBA, Ministro dell’interno. Perché, dai primi di luglio fino all’altro ieri non sono state tenute riunioni nelle fabbriche?

LIZZADRI. Per fortuna delle nostre organizzazioni la burocrazia in Italia è molto lenta e la vostra circolare è arrivata con molto ritardo; se no, avremmo avuto i primi incidenti.

L’onorevole Ministro ha letto l’ordine del giorno del Fronte repubblicano dei partiti; non possiamo seguirlo su quella strada.

Perché non ci legge, invece, le dichiarazioni degli interessati, che sono i lavoratori? Perché non va a domandar loro cosa vogliono: se vogliono o no tenere queste riunioni, o perlomeno se la stragrande maggioranza le voglia o no?

Mi permetta di dire che la sua risposta è stata poco abile in certi punti, quando ha portato dei paragoni di alcune riunioni che si vietano o alle quali per lo meno alcuni partiti sono contrari. Praticamente, la conclusione di questa risposta è che, se si potessero tenere liberamente le riunioni del suo partito, ella non avrebbe diramato la circolare, non avrebbe impedito che altre correnti potessero tenere le loro riunioni. Ma, quando ha accennato che i partiti fanno questo e fanno quello, è chiaro il riferimento: se questo lo lasciate fare pure a noi o lo lasciate fare solo a noi, sta bene. Se volete farlo solo voi, non sta bene. Ma questa è la risposta di un uomo di parte e di un partito e non può essere la risposta di un Ministro della Repubblica italiana.

Ora, prima di tutto, le riunioni dentro le fabbriche sono private o pubbliche? Qui bisogna intendersi, onorevole Scelba, perché sconfiniamo in un campo molto vasto. Come si fanno le riunioni nelle fabbriche? Si fanno a porte chiuse: si chiude il cancello e tutti i lavoratori che vogliono o non vogliono partecipare, intervengono a questa riunione…

BENEDETTINI. Anche quelli che non vogliono! Bei sistemi!

LIZZADRI. Un momento: ora vi servo subito.

Il Ministro ci ha detto che probabilmente, se ci fossero dei non intervenuti, chissà cosa succederebbe. Egregi colleghi, le fabbriche non sono mica il Consiglio Superiore della pubblica istruzione, per cui se i professori non vanno a votare, viene messa una nota caratteristica… (Rumori al centro).

Voci al centro. È ben peggio!

LIZZADRI. Chi deve giudicare se la riunione è privata o non privata; se è politica o sindacale? La polizia. Praticamente, cosa succede? Avete giudicato bene e valutato obiettivamente le conseguenze di certi atti? E la polizia che ad un certo momento giudica che quella riunione ha quel tale carattere. Sapete come avvengono le riunioni nelle fabbriche? Ve l’ha già spiegato il compagno Bitossi. Si passa la parola di compagno in compagno: stasera ci vediamo sul piazzale della fabbrica! E la sera si vedono sul piazzale e ad un certo momento, se c’è la necessità, si fa un ordine del giorno, si parla male del Governo. La riunione diventa politica. Qualcuno telefona alla polizia: diecimila, cinquemila o cinquecento lavoratori sono riuniti sul piazzale. Accorre la «Celere». Cosa succede? Vi siete posto questo problema nell’emanare la circolare? Guardate che se quella circolare non avesse tutti i crismi della regolarità: numero di protocollo, data, firma del direttore generale della pubblica sicurezza, io avrei tutti gli elementi per credere che quella circolare è stata fatta da agenti provocatori, per provocare disordini nell’interno delle fabbriche. (Applausi a sinistra). Ma sulla sostanza, che cosa c’è da dire? Nulla, tranne quei piccoli particolari e quelle manifestazioni, che sono discutibili e di cui lei ci ha parlato. Adesso citerò le grandi manifestazioni politiche, non di carattere sindacale, avvenute nell’interno delle fabbriche. Ne citerò tre, per dirvi lo spirito e la comprensione dei nostri lavoratori. Abbiamo tenuto tre sole grandi manifestazioni politiche.

La prima per la morte del Presidente Roosevelt. Abbiamo invitato tutti i lavoratori a riunirsi nei piazzali delle fabbriche, per commemorare la grande figura del Presidente scomparso.

La seconda per la morte dell’onorevole Grandi, l’apostolo dell’unità sindacale. Noi abbiamo invitato i lavoratori a commemorare la figura di un uomo, che ha speso tutta la vita per i lavoratori italiani.

La terza, per l’ingiusta pace.

Queste le sole manifestazioni politiche in grande stile organizzate nell’interno delle fabbriche. Voi, mi pare, non dimostrate eccessiva riconoscenza verso questi lavoratori. È avvenuto mai nessun conflitto tra lavoratori nell’interno delle fabbriche? Non è avvenuto mai. Io ho fatto tanti comizi: chi non voleva ascoltarmi se ne andava e nessuno lo tratteneva. (Rumori al centro e a destra).

Voci al centro. Non è così, non è così!

LIZZADRI. Cari colleghi, se dite questo, dimostrate di non avere nessuna conoscenza degli uomini delle nostre fabbriche. Per esempio, alla Fiat-Mirafiori ci sono ventimila lavoratori. Andate a prender nota dei mancanti. Questo può dirlo soltanto chi non è stato mai nell’interno delle fabbriche.

Onorevole Ministro dell’interno, potete star tranquillo: la circolare bisogna interpretarla nel momento in cui è stata emanata. Perché è stata emanata oggi e non sei mesi o un anno fa? Perché c’è un Governò democristiano. C’è una ragione. Andate voi stessi nelle fabbriche e voi stessi vedrete che lavoratori, comunisti, socialisti o democratici cristiani, sono tutti contro questo Governo reazionario, tutti senza eccezione. (Applausi a sinistra – Proteste al centro).

Ci sono due constatazioni che mi permetto di fare su questa circolare, che mi rende veramente perplesso. Una è di carattere interno e l’altra è di carattere esterno. Quella di carattere interno è lo zelo che pongono il Ministero dell’interno e la pubblica sicurezza nel cercare di interpretare certi orientamenti. Noi stiamo trattando da un anno con la Confindustria la regolamentazione delle Commissioni interne. Mai la Confindustria ha chiesto che fossero vietate le manifestazioni nell’interno delle fabbriche. Ci hanno detto che la Confindustria (e questo dimostrerebbe in un certo senso la responsabilità dei dirigenti dell’industria italiana) non ha avuto il coraggio di dirlo apertamente, ma ha fatto sapere che se ci fosse qualche cosa che potesse impedire queste manifestazioni, alla Confindustria farebbe molto piacere.

Il secondo lato, quello esterno, mi dispiace come italiano. Voi non avete nessuna preoccupazione delle ripercussioni che questo fatto può avere all’esterno…

SCELBA, Ministro dell’interno. Quando ci disturbavate a Venezia, non pensavate alle ripercussioni all’estero. (Commenti a sinistra). Per non disturbare la libertà, bisognerebbe che ci steste voi al Governo! (Commenti e interruzioni a sinistra).

LIZZADRI. Voi sapete che a Ginevra c’è stata una grande assemblea alla quale sono intervenuti moltissimi Stati del mondo per discutere la libertà sindacale. E sapete per quali ragioni è venuta proprio in discussione la libertà sindacale? Perché il Senato americano aveva votato delle leggi alle quali lo stesso Presidente aveva messo il veto. Io sono stato orgoglioso, come socialista e come italiano, di poter dire ad una assemblea di cinquanta Nazioni che la nuova Costituzione della Repubblica dei lavoratori italiani ci metteva all’avanguardia della legislazione sociale di tutto il mondo. C’è stato un mio collega belga (si vede che anche loro, presso a poco, si trovano nelle nostre stesse condizioni) che ha sorriso ed avvicinandosi mi ha detto: «Ma non avete in Italia un Governo democristiano?». «Sì, lo abbiamo», gli ho risposto. «Ed allora, non bisogna sbilanciarsi troppo in certe affermazioni», mi ha detto. Questa mattina ho ricevuto una lettera di questo collega belga che mi diceva: «Caro Lizzadri, le mie previsioni erano esatte, perché hai visto che cosa ci fanno i Governi democristiani?». Questi Governi, si chiamino cristiano-sociali o democristiani, sono quelli che si oppongono sempre a qualsiasi passo dei lavoratori verso il progresso. (Applausi a sinistra – Proteste e interruzioni al centro).

Una voce al centro. Demagoghi siete!

LIZZADRI. C’è qualche altra cosa, onorevoli colleghi, che secondo me il Ministro, (non dico il direttore generale della pubblica sicurezza, perché egli avrebbe forse il dovere di dimenticare certe cose) che è un uomo politico e che è stato un antifascista, ha il dovere di tener presente. Ma il Ministro dell’interno, secondo me, nel fare quella circolare, ha dimenticato tre cose:

1°) ha dimenticato che i lavoratori italiani, in riunione all’interno delle fabbriche, organizzarono i famosi scioperi del 1943 che diedero il primo colpo al fascismo;

2°) ha dimenticato che il sabotaggio alla produzione industriale durante l’occupazione nazista fu organizzato in riunioni all’interno delle fabbriche.

MEDI. Perché in quel momento non bisognava lavorare. (Rumori a sinistra – Commenti – Apostrofi del deputato Laconi all’indirizzo del deputato Medi).

PRESIDENTE. Onorevole Laconi, se ella continua, sarò costretto a richiamarla formalmente a norma del Regolamento. (Approvazioni al centro).

Loro tacciano, perché non hanno certamente titolo di merito stamane.

Desideravo precisare che l’onorevole Medi ha detto semplicemente questo: «Perché in quel momento non bisognava lavorare».

Quindi, nella fattispecie, non ha pronunciato parole che possano da nessuno essere ritenute offensive; e ciò posso dire anche perché da questo banco si sentono meglio le interruzioni.

Dopo di che richiamo l’Assemblea a un maggior rispetto dell’ordine.

LIZZADRI. Dicevo: c’è una terza cosa che il Ministro dell’interno ha dimenticato: che il salvataggio di quelle fabbriche e di quei grossi impianti è stato organizzato da quei lavoratori in riunioni tenutesi durante l’occupazione nazista; e se l’ha dimenticato il Ministro dell’interno, io posso assicurare l’onorevole Scelba che non l’hanno dimenticato i lavoratori democratici cristiani.

Io credo che sarebbe molto più giusto e riconoscente verso questi lavoratori che lei e il suo direttore della pubblica sicurezza facessero un altro uso e delle circolari e della polizia. Mandare la polizia contro i lavoratori non ha giovato mai a nessun Governo, onorevole Scelba. Voi avete dimenticato, io credo, che ci sono ancora delle donne e dei bambini assassinati in Sicilia che attendono giustizia dalla vostra polizia. Mandate i carabinieri, mandate la Celere a trovare gli assassini di queste donne e di questi bambini e allora farete un’opera veramente giusta per il nostro Paese e per i nostri lavoratori. (Applausi a sinistra).

PRESIDENTE. Ha facoltà di parlare l’onorevole Uberti per dichiarare se sia sodisfatto.

UBERTI. In mezzo a questo battagliare, vorrei dire una parola serena, come antico organizzatore, e per esprimere una esperienza che si è verificata nella mia provincia, quando ero prefetto del Comitato di liberazione. Avvenivano dei contrasti, più che fra democristiani e comunisti, fra socialisti e comunisti – ad esempio nelle officine ferroviarie di Verona– in occasione di comizi di propaganda politica.

Bisogna distinguere fra riunioni di carattere sindacale, promosse o meno dalle Commissioni interne, che devono essere esenti da interventi della polizia (l’ha detto il Ministro ed io mi affido alla sua dichiarazione) e riunioni di mera propaganda politica, previste dalla circolare del direttore generale della polizia.

L’onorevole Lizzadri ha detto: «Abbiamo fatto manifestazioni politiche in due o tre casi». Ma, onorevole Lizzadri, lei sa benissimo che i partiti politici vanno organizzando nelle fabbriche conferenze di propaganda politica.

LIZZADRI. Voi le fate nelle chiese! (Rumori al centro).

UBERTI. Ora è avvenuto, a Verona, che queste conferenze di propaganda di partito andavano determinando gravi incidenti fra gli operai aderenti alle correnti socialista e comunista. Fu proprio il segretario confederale di corrente socialista che venne da me, prefetto, per dirmi: «Bisognerebbe poter evitare che ci fosse una eccessiva accensione di animi fra le varie correnti». Io gli ho detto: «Il prefetto non può intervenire in questa materia…».

Una voce a sinistra. Che anno era?

UBERTI. Ottobre 1945.

LIZZADRI. La circolare è del 1947. (Commenti – Rumori).

UBERTI. Ma quanto si è concordato dura tuttora.

Io gli risposi: «È la Camera del lavoro stessa che, nell’interesse della coesione, della coesistenza pacifica delle varie correnti di operai, per salvare l’unità sindacale deve fare in modo che si evitino questi incidenti. Io potrò favorire, sanzionare questo accordo. E allora fu presa, fra i partiti politici e la Camera confederale del lavoro, la deliberazione di sospendere – tranne che nel periodo elettorale – l’indizione di comizi di propaganda politica, lasciando però libera ogni corrente di fare la propria propaganda di carattere sindacale, nell’interno delle fabbriche.

Ora, io ritengo che questa sospensione, anziché suscitare tanti clamori per una circolare, che sanzione una uguale linea di condotta, dovrebbe essere auspicata dalle stesse organizzazioni sindacali, le quali dovrebbero farsi fautrici di un accordo, per cui la propaganda politica di partito sia evitata nelle fabbriche. In questo modo, si farebbe realmente un vantaggio e un progresso, anche per quella che è l’unità sindacale; perché in questo modo, non si inacerbirebbero i contrasti di carattere politico fra gli operai della stessa officina.

Quello che è stato possibile realizzare nel 1945 a Verona, e con risultati ottimi, non credo sia impossibile attuare in tutta l’Italia. Occorre dimostrare la volontà di non accentuare contrasti fra quelle che sono le varie forze della classe operaia, affinché esse restino unite nella difesa dei propri interessi.

Da questo punto di vista, ritengo che, proprio per questa esperienza concreta, vissuta, che ha dato ottimi risultati, sia da augurarsi che le forze sindacali e confederali debbano, anziché promuovere proteste meno fondate, adoperarsi per realizzare una tale situazione.

Se c’è una questione sindacale, che assume un aspetto politico, è una cosa; ma la pura propaganda di partito evitiamola nell’interno delle fabbriche. (Applausi al centro).

Una voce a sinistra. Ma perché non dice la sua opinione sulla circolare Scelba?

UBERTI. La circolare Scelba non stabilisce alcun divieto per nessuna riunione di carattere sindacale, ma riguarda invece unicamente riunioni di propaganda politica di partito che debbono essere evitate. (Rumori a sinistra).

SCELBA, Ministro dell’interno. Chiedo di parlare.

PRESIDENTE. Ne ha facoltà.

SCELBA, Ministro dell’interno. Non posso seguire l’onorevole Lizzadri nelle frasi ad effetto, anche perché sono un temperamento antidemagogico; ma non posso lasciare inosservato che dal Parlamento italiano sia stato lanciato un insulto contro un partito che, in un secolo di lotta, ha affermato la libertà del proprio Paese: il Partito cristiano sociale del Belgio.

Quanto poi alle dichiarazioni fatte dall’onorevole Bitossi e dall’onorevole Lizzadri, tutte le loro argomentazioni non sono state che una difesa della libertà sindacale. Ora, io desidero riaffermare, nettamente e chiaramente, quanto è detto già nella circolare e quanto ho detto io precedentemente, che cioè la libertà sindacale non è in discussione, quale che possa essere la decisione che interverrà fra la Confindustria e la Confederazione generale del lavoro, perché i rapporti fra la Confindustria e la Confederazione generale del lavoro circa il diritto o meno o l’obbligo di riferire o di chiedere il permesso alla direzione non riguardano il Governo se non in una visione più ampia, ma non nella concretezza delle disposizioni di pubblica sicurezza.

Il Governo è estraneo a questi rapporti e l’averli voluti invocare è assolutamente fuori di strada. Nella circolare Ferrari si parlava di comizi; ed io ho affermato che nessuno onestamente può considerare che delle assemblee di lavoratori in cui si trattano problemi inerenti al lavoro e questioni sindacali, quando anche in queste assemblee si finisse con il criticare la politica del Governo, possano chiamarsi comizi politici.

Si è poi addirittura insinuato che noi prendiamo a maestro Mussolini: ma quando Mussolini era al governo, non c’era un Parlamento regolare. Se pertanto una applicazione illegittima, antiliberale, dovesse farsi di queste disposizioni, il Parlamento ha tutti i giorni il diritto di rettificare, di condannare queste applicazioni. A me non è stato segnalato nulla di questo genere; ma io pregherei, comunque, che tutte le volte che succedono fatti di questo genere, anziché elevare proteste, si volesse richiamare l’attenzione del Ministro.

C’è dunque un’azione del Parlamento che vigila costantemente e che rappresenta una remora a qualsiasi tentativo non volontario di soffocazione delle libertà democratiche: di quelle libertà democratiche verso cui venti anni di resistenza al fascismo e tutta una educazione rappresentano una garanzia ben più alta che non qualsiasi altra manifestazione. (Applausi al centro).

Il Parlamento ha il diritto di vigilare sugli atti del Governo; questo potere nessuno mette in discussione, ma, anzi, se ne riconosce l’efficacia anche per gli errori che noi uomini del Governo, insieme con gli organi della polizia o della burocrazia, possiamo commettere.

E noi saremo lieti tutte le volte che il Parlamento ci richiamerà sugli attentati alla libertà, qualunque essi siano, e, ci auguriamo, sugli attentati contro tutte le libertà; e vorremmo anche che le deplorazioni fossero per tutte le violazioni alla libertà e non soltanto per quelle di una parte. (Applausi al centro).

PRESIDENTE. Segue l’interrogazione degli onorevoli Ghidetti, Pellegrini e Cevolotto, «al Presidente del Consiglio dei Ministri e al Ministro delle finanze, per sapere se sono a conoscenza della decisione adottata dalla Direzione generale del demanio concernente la concessione in affitto del villaggio alpino denominato Colonia Vai-Grande di Comelico (Belluno) e, se non l’approvano, quali provvedimenti intendono prendere».

L’onorevole Ministro delle finanze ha facoltà di rispondere.

PELLA, Ministro delle finanze. In merito all’interrogazione mi onoro di comunicare quanto segue:

L’ex partito nazionale fascista creò in Val-Grande di Comelico (provincia di Belluno) un villaggio alpino per adibirlo a colonia estiva per ragazzi.

L’Intendenza di finanza, dopo la liberazione, per salvaguardare l’integrità dell’immobile e dei mobili, concedeva ai padri salesiani, e precisamente al Collegio Don Bosco di Pordenone, unico richiedente, di occupare provvisoriamente la colonia con l’obbligo di custodia. I padri salesiani provvidero a riattare a proprie spese alcuni ambienti, per rendere possibile il ricovero di più di trecento orfani e ragazzi della strada delle provincie di Treviso, di Belluno e di Udine.

Successivamente il predetto compendio, oltre che dall’Opera salesiana, la quale insisteva per regolarizzare i rapporti col demanio, venne chiesto:

  1. a) dall’Ente nazionale assistenza lavoratori di Treviso;
  2. b) dalla Croce Rossa italiana, comitato di Treviso;
  3. c) dall’Associazione italiana alberghi per la gioventù, la quale, però, tendeva ad ottenere l’uso di una sola parte del compendio stesso.

In seguito ad un affermato diritto dell’E.N.A.L. di Treviso di essere preferito a seguito di un’asserita concessione in uso della colonia di Val-Grande da parte dell’ex federazione fascista di detta ultima città a quel cessato dopolavoro provinciale, l’Intendenza di finanza di Belluno invitò l’E.N.A.L. stesso ad esibire l’atto comprovante la fatta affermazione. Ma L’E.N.A.L., con lettera 21 maggio ultimo scorso, n. 2761 di protocollo, comunicò l’irreperibilità di tale atto a causa dell’avvenuta distruzione parziale del relativo archivio.

L’Amministrazione demaniale, in considerazione che l’Opera salesiana si trovava già in possesso del compendio, tenuto conto delle spese fatte dalla medesima, dell’attività altamente filantropica svolta e dell’assicurazione che sarebbe stato provveduto per la corrente stagione estiva al ricovero di almeno quattrocento ragazzi delle tre provincie, ha ritenuto opportuno regolarizzare l’occupazione di fatto, autorizzando l’intendenza di finanza di Belluno, con lettere del 3 giugno ultimo scorso n. 96067, a stipulare nei confronti dell’Opera stessa regolare contratto per la durata di cinque anni dal giorno dell’effettiva occupazione, in base al canone annuo da determinarsi dall’Ufficio tecnico erariale.

TONELLO. Sono state le famiglie che hanno pagato; e loro prendono la roba degli altri! Era fatto per i bambini di Treviso! (Commenti al centro).

PRESIDENTE. L’onorevole interrogante ha facoltà di dichiarare se sia soddisfatto.

GHIDETTI. L’onorevole Pella mi consentirà di rilevare che dall’esposizione che egli ha fatto risulta evidente che si trova in grave difetto di informazioni; e brevissimamente – data la ristrettezza del tempo – lo dimostrerò subito.

Nel 1929 i lavoratori delle aziende industriali della provincia di Treviso, operai e impiegati, insieme agli industriali e a qualche istituto bancario, hanno riunito il denaro necessario per la costruzione di quello che si è poi chiamato Villaggio alpino, o Colonia Val-Grande di Comelico.

Dominando il partito nazionale fascista, era naturale, nel 1929 – noi allora eravamo a Portolongone o altrove – che l’etichetta del p.n.f. venisse appiccicata anche a questa istituzione; ed era anche pacifico attendersi che – a liberazione avvenuta – il demanio prendesse in consegna anche questi fabbricati, perché una legge cautelativa così disponeva per tutti i beni patrimoniali che avevano quella famosa etichetta del cessato regime.

Ma, di fatto, la situazione è questa: operai e impiegati dell’industria della provincia di Treviso, con i loro sacrifici, con il concorso degli industriali e con quello della Cassa di risparmio, hanno potuto far costruire questo magnifico villaggio alpino allo scopo di assicurare, per turno, ai più bisognosi figli dei lavoratori, operai e impiegati della provincia di Treviso, svago, ristoro e cure, tanto nel periodo estivo, che in quello invernale.

Che cosa è avvenuto in seguito? Al Dopolavoro, che ha amministrato questo Villaggio alpino fino alla caduta del fascismo, fino al 25 luglio 1943, essendo succeduto l’E.N.A.L., in attesa di passare a questo la gestione del villaggio, il complesso patrimoniale fu preso in consegna dal Demanio.

Le pratiche per il trapasso, iniziate sedici mesi (dico sedici mesi!) or sono, dall’E.N.A.L. di Treviso, e sollecitate anche attraverso l’E.N.A.L. centrale, non sono riuscite a venirne a capo, perché da parte del Demanio si stava inventariando. Ora, finalmente, ad inventario compiuto, ai primi di aprile del 1947, l’E.N.A.L. di Treviso e lo stesso E.N.A.L. centrale, dove è commissario (se non erro) l’avvocato Malavasi, hanno chiesto, come avevano fatto durante sedici mesi, e più specialmente a fine marzo e ai primi di aprile, che il Ministero delle finanze e il Demanio avessero finalmente a decidersi, sicuri dell’esito favorevole dal momento che era stato riconosciuto dalla Direzione generale del Demanio che, a pari condizioni, era naturale che dovesse essere preferito l’E.N.A.L. nell’affitto di immobili del genere: a Treviso come in qualunque altra provincia. E va tenuto conto che anche il prefetto segnalava, con telegramma alla Direzione generale del Demanio, l’opportunità e l’urgenza di assicurare l’uso della Colonia Vai-Grande di Belluno all’E.N.A.L. di Treviso e che per l’immediata assistenza, ed il funzionamento della Colonia erano stati preparati dall’E.N.A.L. i turni dei bambini dei lavoratori di Treviso ed era stato tutto predisposto per la rapida sistemazione dei locali e dell’attrezzatura danneggiati in precedenza.

L’informazione quindi che ha potuto fornire – onorevole Pella – il Ministero delle finanze in questa faccenda, è evidentemente molto confusa. La verità è che il 19 aprile scorso l’intendente di finanza di Belluno, a conclusione di tutta l’istruttoria della pratica, ha proposto al Ministero delle finanze la cessione in affitto all’E.N.A.L. di Treviso di questa Colonia: perché risultava dalla posizione giuridica, che ho illustrato in precedenza, che era stata costruita per l’uso dei figli dei lavoratori, operai e impiegati della provincia di Treviso e che, pertanto, non era possibile destinarla ad altri.

È vero che, mentre si attendevano le conclusione del Demanio e la Colonia si trovava abbandonata a se stessa, un padiglione fu richiesto dai salesiani della provincia di Udine, i quali aiutati dal Governatore alleato, ed essendo stati riforniti del materiale necessario dall’U.N.R.R.A., dal «Dono Svizzero», dalla Croce Rossa italiana e da chi ha potuto essere d’aiuto, hanno raccolto dei ragazzi dell’udinese e del bellunese in una piccola parte di questo grande complesso di fabbricati (sono ben 14 edifici, e si comprenderà meglio di che si tratta, sottolineando che oggi il loro valore è qualche cosa come un centinaio di milioni di capitale) essendo assurdo lasciarli abbandonati. Ma è anche vero che questa concessione è stata data in uso provvisorio, senza nessuno impegno, e senza pregiudizio per la definitiva destinazione. Onorevole Ministro Pella, cosa dovevamo noi dire agli operai e impiegati che volevano formare una carovana, nel mese scorso, quando hanno sentito questa curiosa decisione della Direzione generale del Demanio, secondo la quale, tutto considerato (lei la ha ben letta poc’anzi onorevole Pella) si è ritenuto di cedere la Colonia a quelli che sono dentro – cioè ai salesiani di Udine – e per cinque anni si firma un contratto?

Quando fu conosciuta questa decisione, masse di operai ed impiegati volevano formare una carovana, andare nell’alto Bellunese e prendere possesso di questo complesso del Villaggio alpino, considerando che è loro diritto portare lassù i figli a ristorarsi ed a riprendersi. Ed occorre tener presente che, specialmente per i figli dei lavoratori della città di Treviso, questo bisogno è sentito, poiché per le gravi devastazioni che la città ha subìto durante la guerra, questi figli sono vissuti in situazioni molto difficili, come del resto, purtroppo, anche in altre provincie d’Italia. Si ricordi che per due anni tutta questa popolazione non ha conosciuto che cosa sono i vetri nel crudo inverno: ha vegetato nelle stalle e in rifugi mezzo distrutti dai bombardamenti; ebbene, adesso che si offriva finalmente la possibilità di potere un po’ ristorare i figli dei lavoratori, e far loro riprendere forza e benessere, ecco che la Direzione generale del Demanio prende una decisione in contrasto con il diritto più elementare e con la volontà dei lavoratori che hanno offerto i denari per la costruzione, insieme con gli industriali; in contrasto con la proposta dell’Intendenza, con il sollecito del prefetto e con la richiesta dell’E.N.A.L. centrale il quale, in definitiva, da mesi continuava a incitare l’E.N.A.L. di Treviso perché si tenesse pronto, appena fosse possibile che si riprendesse il funzionamento di questa colonia.

In una parola, e per concludere, il Ministro delle finanze, con la assurda decisione presa, dimostra di tener conto e di far valere soltanto una sua legalità formale; la legalità sostanziale l’ha messa sotto i piedi. Ecco perché diciamo: noi ci siamo adoperati, ed alla fine siamo riusciti, a trattenere quelle popolazioni, perché sono di animo mite, perché ci hanno accordato fiducia. Ma, come gli onorevoli colleghi sanno – specialmente lo sanno i magistrati, e gli avvocati che sono numerosi nella nostra Assemblea – le popolazioni di animo mite, quando vedono calpestare i loro diritti, quando sentono che una ingiustizia le offende, sono capaci di arrivare agli eccessi. Noi questi eccessi li abbiamo impediti, fino a ieri; ma se il Ministro delle finanze non riesaminasse la questione – prego il Ministro delle finanze a dire qui una parola in questo senso – (il Ministro fa segni di assentimento) e se non sarà prontamente riveduta la questione, credo che dovremo decidere, l’onorevole Pellegrini e l’onorevole Cevolotto che con me hanno firmato l’interrogazione, col focoso onorevole Tonello, l’onorevole Costantini, e, spero, con gli amici democristiani deputati di Treviso di metterci alla testa di questa carovana per ristabilire sulla vostra legalità formale, la legalità sostanziale.

PELLA, Ministro delle finanze. Chiedo di parlare.

PRESIDENTE. Ne ha facoltà.

PELLA, Ministro delle finanze. Desidererei aggiungere due parole alle precedenti mie comunicazioni per dare assicurazione che il punto di vista del Ministero, mentre a prima vista sembra divergere da quello degli onorevoli interroganti, in realtà si muove nello stesso spirito informatore. L’onorevole Ghidetti ha impostato il problema sopra un terreno più ampio su cui sono lieto di dare delle assicurazioni. Egli ha proposto il problema della legittimità o meno del possesso di questo complesso da parte del Demanio. Per questo non ho difficoltà a dichiarare che, trattandosi di un problema comune a centinaia di casi (relativi cespiti appartenenti un tempo a cooperative, a comuni, ad enti di varia natura), la soluzione sarà data da un provvedimento legislativo su cui i Ministeri interessati stanno, da tempo, portando la loro attenzione. Ed io penso che sia molto vicino il giorno in cui questo provvedimento legislativo sarà varato. La difficoltà principale da superare è quella di determinare la norma per potere ancora oggi riconoscere l’antico proprietario ingiustamente spossessato. Tale difficoltà ha ritardato la preparazione del provvedimento. (Interruzione del deputato Ghidetti).

Ora, in attesa che si risolva il problema centrale, l’Amministrazione disporrà perché il contratto annunciato sia limitato a breve periodo di tempo, per non intralciare la soluzione del problema principale.

PRESIDENTE. Segue l’interrogazione degli onorevoli Musolino, Silipo e Priolo, al Presidente del Consiglio a dei Ministri e al Ministro dell’interno, «per avere delucidazioni sull’arresto del sindaco di Roccaforte del Greco (Reggio Calabria) avvenuto giorni or sono, in seguito ad ordine del tenente dei carabinieri di Melito Porto Salvo, perché il predetto sindaco, nella sua qualità di ufficiale di pubblica sicurezza, impedì ad un carabiniere di malmenare un ragazzo sulla pubblica via del paese e perché si rifiutò di firmare un verbale contenente false asserzioni; e per sapere se tale arresto, nella persona del capo di un comune, senza autorizzazione del Presidente della Repubblica, sentito il Consiglio di Stato, a norma dell’articolo 51 in relazione all’articolo 22 della legge vigente comunale e provinciale testo unico 1934, non debba essere immediatamente revocato e seguito da un provvedimento disciplinare o giudiziario a carico dell’ufficiale dei carabinieri predetto, che valga a restaurare la dignità offesa di un sindaco, e perché valga ad imporre il rispetto della rappresentanza democratica popolare, anche essa gravemente offesa».

L’onorevole Sottosegretario di Stato all’interno ha facoltà di rispondere.

MARAZZA, Sottosegretario di Stato all’interno. Il mattino del 25 aprile in Roccaforte del Greco il carabiniere Di Meo di quella stazione, imbattutosi in un tale Pasquale Pitassi si accorgeva che costui portava infilata alla cintola una grossa rivoltella di tipo militare. Ovviamente insospettito, lo invitò a seguirlo in caserma. Il Pitassi tentò invece di fuggire e avendolo il Di Meo impedito afferrandolo per la giacca, gli si ribellò violentemente con morsi e calci causando al carabiniere lesioni guaribili in 10 giorni. Il Di Meo tentò allora con maggiore energia di trascinarlo in caserma. Ne derivò una colluttazione che richiamò una piccola folla la quale, ignorando i precedenti del fatto, sembrava parteggiare per il Pitassi. A favore di costui intervenne, dapprima gridando dalla finestra del Municipio e quindi scendendo nella strada e partecipando direttamente alla colluttazione, il sindaco del paese, signor Pangallo, al quale, per contro, il carabiniere aveva chiesto di mandargli in aiuto una guardia municipale.

Nella confusione del momento, il Pitassi si liberò della pistola che venne raccolta e nascosta da uno dei presenti e che poi fu restituita al proprietario.

Il sindaco, nella sua partecipazione, non moderò, in effetti, né i gesti né le parole. Ingiuriò difatti il Di Meo con l’epiteto di cafone, ecc. e soprattutto strappò egli stesso al carabiniere il Pitassi per metterlo subito dopo in libertà. Risaputo il fatto dalla Tenenza dei carabinieri di Melito Porto Salvo, il Comandante di questa, tenente Angiolillo, credette di ravvisare nel comportamento del sindaco gravi responsabilità di ordine penale, quali oltraggio a pubblico ufficiale aggravato, violenza parimenti aggravata ed ancora procurata evasione sempre aggravata; e poiché quando il giorno 28 egli poté recarsi in loco, vi trovò sempre viva la commozione determinata dagli eventi, credette altresì di ravvisare l’ipotesi della flagranza e procedette all’arresto del sindaco. Tale arresto, appena venuto a conoscenza, il giorno successivo, del comandante della compagnia dei carabinieri di Reggio Calabria, veniva da questi immediatamente revocato. Il Pangallo, il Pitassi ed altri venivano invece, con verbale del 6 maggio, denunciati all’autorità giudiziaria la quale autorità giudiziaria, e precisamente la Procura generale della Corte di Messina, avendo esaminato la condotta del tenente Angiolillo, con provvedimento in data 22 maggio, dichiarava non luogo a procedere nei suoi confronti. Nei confronti del medesimo ufficiale venivano invece adottati adeguati provvedimenti disciplinari.

Da questi fatti, emerge come l’arresto del sindaco non sia stato occasionato, in verità, dal rifiuto di questi a sottoscrivere un verbale qualsivoglia, come dice l’interrogazione; emerge altresì che l’arresto in questione è stato revocato il giorno successivo dagli stessi carabinieri e che l’autore dell’arresto è stato oggetto di una severa inchiesta.

PRESIDENTE. L’onorevole Musolino ha facoltà di dichiarare se sia sodisfatto.

MUSOLINO. Ringrazio il Sottosegretario per aver dato la risposta alla mia interrogazione, ma devo dichiarare subito di non essere sodisfatto, perché le informazioni che egli ha ricevuto non sono esatte. Sta di fatto che il sindaco di Roccaforte del Greco fu richiamato dalle voci che venivano dalla strada, mentre trovavasi nella casa comunale. Uscito fuori per vedere ciò che avveniva sulla strada, ove vi era molta folla, ha visto che vi era un carabiniere che malmenava un giovane. Invitato il carabiniere a entrare nel Municipio per continuare lì la perquisizione, che egli voleva fare, il carabiniere si è rivoltato contro il sindaco in maniera offensiva. Questi, vistosi offeso dal carabiniere, nella veste di ufficiale di pubblica sicurezza, ha fatto valere la sua autorità.

La perquisizione fu fatta nel Municipio, ed in sua presenza, ma il giovane non aveva alcuna arma.

Il maresciallo dei carabinieri, saputo il fatto, si è recato dal sindaco e, quando ha saputo come si. erano svolte le cose, ha chiesto scusa al sindaco. Ma tre giorni dopo vi è andato il tenente dei carabinieri, il quale, informato certamente dal verbale steso dallo stesso carabiniere, faceva chiamare nella caserma il sindaco e lo sottoponeva ad un interrogatorio violento. Il tenente dei carabinieri, poi, voleva che il sindaco dichiarasse che il giovane era armato.

Il sindaco non volle firmare questa dichiarazione. In seguito a questo rifiuto il tenente suddetto gli metteva i ferri ed ammanettato lo conduceva a Melito Porto Salvo, dove lo tratteneva in istato di arresto per cinque giorni consecutivi.

Che le informazioni ricevute dal Ministro dell’interno siano inesatte, è dimostrato dal fatto che il Procuratore della Repubblica di Reggio Calabria, competente a giudicare il caso, in seguito alle risultanze processuali, ha avanzato richiesta al Ministero di autorizzazione a procedere contro il tenente dei carabinieri.

MARAZZA, Sottosegretario di Stato per l’interno. Al Ministero della guerra?

MUSOLINO. No, al Ministero dell’interno.

MARAZZA, Sottosegretario di Stato per l’interno. Non mi è pervenuta questa richiesta.

MUSOLINO. Sta di fatto che l’autorizzazione non è stata concessa.

Ora, devo ricordare all’Assemblea che questa disposizione, riguardante l’autorizzazione a procedere contro i carabinieri, è tipicamente fascista, perché il fascismo voleva sindacare e controllare tutto, per avere la possibilità di troncare i processi, quando gli conveniva.

In base a questa disposizione, di cui il Governo democratico non dovrebbe avvalersi o che per lo meno dovrebbe essere senz’altro abrogata, perché essa è contraria allo spirito democratico, deve oggi il Ministero dell’interno o quello della guerra concedere questa autorizzazione, perché il tenente dei carabinieri sia punito, in quanto la sua azione ha offeso un’intera popolazione e la democrazia e la legge, poiché un sindaco non può essere arrestato, se non vi è un decreto del Capo dello Stato.

Dunque tra le informazioni pervenute al Ministro e quelle che io riferisco c’è molto divario, per cui io chiedo che egli sia energico così come è stato nei confronti del questore di Cremona, il quale è stato destituito, senza che siano state svolte indagini, mentre nei confronti del tenente dei carabinieri questo provvedimento non lo ha ancora preso.

La giustizia e l’imparzialità, ha detto l’onorevole De Gasperi a Trento, sono alla base dello Stato democratico; ma esse sono del tutto ignorate dal Ministro dell’interno.

PRESIDENTE. Ha chiesto di parlare l’onorevole Sottosegretario di Stato per l’interno. Ne ha facoltà.

MARAZZA, Sottosegretario di Stato per l’interno. Desidero aggiungere una parola per dimostrare ancora una volta come da parte nostra ci sia il desiderio della assoluta completezza delle informazioni e soprattutto lo scrupolo della massima lealtà nei confronti degli onorevoli interroganti.

Do lettura della lettera, alla quale ho fatto riferimento, della procura di Messina:

«Al Ministero di grazia e giustizia, Direzione generale affari penali, e, per conoscenza, al Procuratore della Repubblica di Reggio Calabria.

«In seguito ai fatti di cui all’unito verbale dell’Arma dei carabinieri di Melito Porto Salvo, il Procuratore della Repubblica di Reggio Calabria, con rapporto 13 maggio 1947, del quale trasmetto copia, ha denunziato l’ufficiale indicato in oggetto per l’applicazione delle sanzioni disciplinari previste dall’articolo 229 del Codice di procedura penale, secondo comma e terzo comma, regio decreto 20 gennaio 1944-45, ritenendo non legittimo perché sfornito dei presupposti richiesti dall’articolo 1 del decreto sopracitato, il fermo effettuato dal predetto ufficiale in persona del sindaco di Roccaforte del Greco, Pangallo. Questa Procura generale ha ritenuto per contro che un presupposto di legittimità il fermo abbia avuto, quello cioè che la condotta del Pangallo si era dimostrata particolarmente pericolosa per la sicurezza pubblica, nel corso dei fatti, sì da impedire che l’Arma assolvesse i propri doveri di polizia in presenza di reati e nella necessità di fissare con le necessarie indagini gli avvenimenti. Epperò, con provvedimento in data odierna, ha dichiarato non esser luogo a sanzione disciplinare o procedurale a carico del tenente dei carabinieri Angiolillo».

Voci a sinistra. Non ha abusato forse?

MUSOLINO. È un sindaco comunista, ecco perché il magistrato di Messina ha dato parere contrario a quello del magistrato di Reggio Calabria!

ASSENNATO. Ha commesso un delitto quell’ufficiale. E va punito. C’è il Codice penale per i delitti.

MARAZZA, Sottosegretario di Stato per l’interno. Ho già spiegato che non è esatto dire che non si sia proceduto…

ASSENNATO. Anche lei è responsabile!

MARAZZA, Sottosegretario di Stato per l’interno. Vorrei dire ancora due parole. Dovrei dire molte cose all’onorevole Assennato, ma preferisco riferirmi alle dichiarazioni dell’onorevole interrogante a proposito della condotta del Ministero nei confronti dell’ufficiale dei carabinieri. Non è esatto che nei confronti di questo ufficiale non si sia proceduto. Lo si è denunciato all’autorità giudiziaria. Cosa si poteva fare di più? L’autorità giudiziaria si è pronunciata nel senso che ho detto. Cosa resta da fare al Ministero dell’interno? Io desidero che l’onorevole Musolino sia convinto che da parte del Ministero è stato fatto proprio tutto.

Il paragone con il questore di Cremona non ha ragione d’essere; a parte i fatti, in cui ovviamente non è il caso di entrare, qui c’è la figura della personalità che avrebbe commessa la violazione della norma, nella specie abbiamo un ufficiale dei carabinieri, nei confronti del quale la procedura per le eventuali sanzioni è ben differente da quella che si deve seguire nei confronti di un ufficiale di polizia.

Finisco con l’assicurare l’onorevole interrogante che la sua ingiusta e perciò ingenerosa puntata a proposito del sindaco comunista, è nella specie del tutto ingiustificata

L’onorevole interrogante ha sentito come il giorno stesso l’autorità immediatamente superiore all’ufficiale che ha proceduto illegalmente all’arresto abbia immediatamente rimediato, rilasciando l’arrestato. Di più non poteva fare.

PRESIDENTE. Le interrogazioni inscritte all’ordine del giorno sono così esaurite.

Seguito della discussione sul disegno di legge: Approvazione del Trattato di Pace tra le Potenze alleate ed associate e l’Italia, firmato a Parigi il 10 febbraio 1947. (23).

PRESIDENTE. L’ordine del giorno reca il seguito della discussione sul disegno di legge: Approvazione del Trattato di pace tra le Potenze alleate ed associate e l’Italia, firmato a Parigi il 10 febbraio 1947.

È iscritto a parlare l’onorevole Benedettini. Ne ha facoltà.

BENEDETTINI. Onorevoli colleghi, premesso che parte di questa Assemblea è favorevole alla pronta ratifica del diktat e parte al rinvio; precisato che un’altra parte è decisa a non ratificarlo né oggi, né mai, è chiaro che la questione della ratifica presenti due aspetti: uno, puramente formale, riguarda il tempo, e cioè ratificare oggi o domani, e l’altro decisamente sostanziale concerne la decisione di non ratificare. Su di un punto l’Assemblea è unanime, quello della protesta. Ma anche questo è puramente formale, poiché, non essendo la maggioranza dell’Assemblea vittima dell’ingiustificato ed ineffabile ottimismo del conte Sforza, credo che tutti possano concordare nel ritenere che la protesta, verbale o scritta, non vale nulla se ratifichiamo e quindi accettiamo la nostra condanna.

Il Ministro Sforza si è sforzato di dimostrare (Si ride) non solo la necessità della ratifica, ma anche i vantaggi che ci verrebbero da una pronta ratifica.

Ora, io credo che egli col suo discorso non solo non abbia convinto né persuaso alcuno, ma abbia ottenuto l’effetto contrario a quello che si proponeva di raggiungere. Infatti, è proprio per questo che la stampa di sinistra, di centro, di destra, e quella che con eufemismo si chiama indipendente, ha rilevato quasi all’unanimità che l’onorevole Sforza, più ottimista di Candide, inebriato di un astratto europeismo, ben lontano dall’essere attuato, non ha portato alcun contributo alla sua tesi. Prima ancora di entrare nel merito delle asserzioni del Ministro degli esteri, devo rilevare che questi, col suo discorso, e ancor più col tono con il quale lo ha letto, ha fatto intendere di conoscere lui, lui solo, i veri e segreti motivi che ci spingono a ratificare.

Questa impressione non è stata mia particolare, ma generale; ed è stata confermata dall’atteggiamento preso dalla stampa che appoggia la tesi Sforza, quando detta stampa ha rilevato che se Sforza e il Governo desiderano una pronta ratifica, avranno le loro buone ragioni.

Questa può essere una norma di prammatica nei regimi paternalistici, dittatoriali e non mai in quelli democratici, perciò se le segrete ragioni esistono (ma non esistono) si faccia pure una seduta a porte chiuse.

Sette sono i punti del discorso Sforza che prenderò in esame per mostrare com’essi o manchino di fondamento, o siano falsi e contrastanti, dal che deriva che le ragioni da lui apportate sulla necessità e sulla convenienza non solo di ratificare, ma di ratificare subito, mancano di fondamento e sono false e contrastanti.

Prima asserzione speranzosa dell’onorevole Sforza è che noi usciamo oggi da una politica di isolamento e che, pertanto, potremo ottenere ora ciò che non ottenemmo ieri.

Tutto ciò non è vero.

Certo, non saremo noi a difendere la politica fascista della quale, con la guerra perduta, andiamo scontando le conseguenze; ma affermare ciò che l’onorevole Sforza afferma, significa porsi fuori della realtà e della storia.

Significa dimenticare – come ha rilevato l’onorevole Nitti – che fino all’impresa etiopica l’Italia è stata nella Società delle Nazioni, significa dimenticare il progettato Patto a quattro e obliare che in quei vent’anni di dittatura, qui, in questa Roma, vennero i Mac Donald e i Chamberlain, i Churchill e gli Eden, i Sumner Wells e i Laval, per citare i più importanti. Ora se tutto ciò e il conseguente convegno di Monaco del 1938 significano per l’onorevole Sforza isolamento, bisognerà cambiare il significato delle parole al nostro vocabolario.

Il Ministro Sforza si è poi accanito contro la politica immorale fatta dal passato regime, e non saremo noi a difenderla. Ma ci dica l’onorevole Ministro degli esteri se, secondo la sua alta opinione, è morale la politica che le grandi potenze vanno svolgendo ora verso le Nazioni satelliti; se morale è la politica che esse svolgono nei confini dell’Italia oggi; se morale è mai stata la politica di tutti i popoli in ascesa e in espansione.

E allora perché accanirsi solo contro ciò che fu commesso dall’Italia, sia pure erroneamente, e non accanirsi contro ciò che gli altri commettono contro di noi? Perché? Solo per il sadismo sforzesco di un male dell’Italia e degli italiani? Per denigrarci di fronte al mondo intiero?

E così quando il Ministro degli esteri asserisce che dopo il 1943, cito le sue parole, «vi fu un’interpretazione con spirito più aperto dell’armistizio» asserisce cosa non conforme al vero.

Infatti, è noto che gli Alleati promisero che se l’Italia avesse dato un valido contributo come cobelligerante, avrebbe potuto riscattare con la pace l’armistizio. È noto che ci si fece intendere che le nostre frontiere non avrebbero subito tremende violazioni, e che (con l’accordo Cunningham-De Courten) la nostra gloriosa marina non avrebbe dovuto ammainare la sua e nostra bandiera; e, invece, tutte queste promesse furono ignobilmente violate, così che io non soltanto, ma milioni e milioni di italiani, non riescono a comprendere che cosa l’onorevole Sforza intenda quando accenna ad una interpretazione dell’armistizio con spirito più aperto. E che cosa sarebbe stato mai se codesto spirito fosse stato più chiuso?

E veniamo al quarto punto.

L’onorevole Sforza asserisce che la mancata ratifica da parte dell’Italia farebbe ritardare di un anno il nostro ingresso in quello che egli definisce «il più solenne aeropago del mondo, cioè l’O.N.U.».

Ora, a parte il fatto che prima della conferenza di Parigi, il nostro Ministro degli esteri fece affermare dal suo portavoce che condizione per la nostra ammissione alla conferenza, era, appunto, la ratifica del diktat, mentre subito dopo, tale affermazione fu smentita dalle agenzie straniere oltre che dai fatti; a parte che dopo l’immediato ritorno da Parigi, il nostro Ministro degli esteri fece intendere che v’erano forti pressioni da parte degli Alleati per la nostra ratifica, mentre subito dopo, la stampa smentiva tale notizia; a parte il fatto che nello stesso tempo, l’onorevole Sforza accennava ad un piano di intesa e di collaborazione economica italo-francese, mentre proprio in questi giorni una agenzia francese smentiva che il Ministro Sforza avesse presentato un piano di collaborazione economica italo-francese al Ministro Bidault; a parte queste smentite che ci danno il diritto di attenderne qualche altra relativa all’affermazione dell’onorevole Sforza circa la necessità della ratifica per essere ammessi all’O.N.U.; dobbiamo ricordare che in tutto lo Statuto dell’O.N.U. non v’è alcun paragrafo, alcun articolo, alcun punto in cui si dica implicitamente o esplicitamente che la ratifica di un trattato sia conditio sine qua non per essere ammessi.

Poiché lo Statuto parla chiaro, dobbiamo convenire che anche questa asserzione dell’onorevole Sforza è priva di qualsiasi fondamento politico e giuridico; essa, nel migliore dei casi, è una delle tante sue fallaci opinioni personali. L’onorevole Sforza fa credere e forse crede e s’illude di poter ottenere chi sa che cosa dall’O.N.U. Ora noi abbiamo il diritto di ritenere che il nostro Ministro degli affari esteri abbia letto e studiato lo Statuto dell’O.N.U.; e allora dovrebbe essere proprio lui a disilludere e non a illudere e ingannare la Costituente, dovrebbe essere proprio lui a ricordare che, mentre nel Covenant della Società delle Nazioni era prevista la revisione dei Trattati, lo Statuto dell’O.N.U. preclude ogni revisionismo.

Anzi, poiché codesto Statuto pone un perpetuo marchio d’infamia sulle Nazioni vinte e precisamente sugli «Stati nemici», cioè un qualunque Stato che durante la seconda guerra mondiale sia stato nemico di qualsiasi firmatario della Carta (è questo l’articolo 107); poiché questo Statuto non ci pone su un piede di parità, è chiaro che noi non dovremmo entrare con entusiasmo in questo famoso aeropago che non pone gli aderenti su un effettivo piede di parità.

Come per la pacificazione nazionale noi ci siamo battuti e ci battiamo per liberare l’Italia da tutte le leggi eccezionali che dividono l’Italia in due, così sul piano internazionale l’Italia dovrebbe battersi per spezzare queste barriere che in un organismo internazionale vogliono tenere ancora in poco conto quelli che furono Stati nemici. Comunque, contrariamente a ciò che l’onorevole Sforza afferma, è chiaro che la ratifica del diktat non ha nulla a che fare con la nostra ammissione all’O.N.U.

E veniamo al quinto punto.

Il Ministro degli affari esteri ha avuto l’ordine (poiché si tratta di vero e proprio ordine) di affermare che l’atto della ratifica inciderà favorevolmente sui nostri interessi africani.

Ma forse egli dimentica che ratificare significa sanzionare, fra l’altro, quel tremendo articolo 23 del diktat in cui si dice: «L’Italia rinuncia ad ogni diritto e titolo sui possedimenti territoriali italiani in Africa, e cioè la Libia, l’Eritrea e la Somalia italiana». Quindi ci sembra veramente strano che da parte nostra si possa accampare qualche diritto coloniale dopo la ratifica, specie se si tenga presente che lo stesso onorevole Sforza, così ottimista per le altrui promesse, ha detto al riguardo – e cito le sue parole – «è bensì vero che affidamenti precisi non possiamo ancora dire di averne».

Ma allora su chi e su che cosa si fondano le sue speranze? Dobbiamo ancora notare l’affermazione del nostro Ministro degli esteri, secondo cui le stesse repubbliche latino-americane sarebbero inceppate nella loro azione a nostro favore qualora mancasse la nostra ratifica. Ebbene, purtroppo, avendo io trascorso la mia vita più assai fra le armi e gli aeroplani da combattimento che non fra diplomatici e nella vita mondana, essendo stato costretto da questo mio mestiere a partecipare alle guerre e non agli alti misteri della diplomazia, il mio senso comune, il «buon senso», direbbe Giannini, mi porta a credere che, non ratificando, le repubbliche latino-americane potranno battersi ancor più per noi, giustificando e approvando il nostro atto. Mentre, se noi ratifichiamo, quelle repubbliche potranno anche dirci: Ebbene, contenti voi, contenti tutti.

Infine, per quanto concerne il timore che ratificare prima della ratifica russa possa contribuire a favorire la politica dei blocchi, il conte Sforza ha detto testualmente: «Ora, mi pare che proprio il contrario sia vero: la ratifica servirà invece a creare un’atmosfera di fiduciosa collaborazione con le Potenze europee che, come noi, vogliono la collaborazione». Ebbene, a parte il fatto che non condividiamo tale opinione, il conte Sforza vorrà onestamente ammettere che se gli onorevoli Togliatti e Nenni – e quindi i comunisti e i socialisti – sono favorevoli al rinvio della ratifica, ciò significa che questo loro atteggiamento è conforme all’atteggiamento dell’internazionale comunista e socialista: e se Togliatti e Nenni non si sbagliano, è chiaro che chi sbaglia è l’onorevole Sforza. (Interruzione del deputato Togliatti).

E a tal proposito, sento il dovere di rilevare che se effettivamente, cioè a fatti e non a parole, l’onorevole Sforza – che si picca di apparire come uomo di centro sinistra – fosse contrario, come noi siamo contrari, alla politica dei blocchi, se egli auspicasse, come noi auspichiamo, la partecipazione della Russia sovietica e delle altre nazioni dell’Europa orientale al comune sforzo per la ricostruzione europea, bisognava che egli a Parigi non avesse detto, come ha detto e come è suo abituale linguaggio, che l’Italia è pronta a qualsiasi sacrificio. Bisognava invece che dicesse: ciascuna nazione faccia un sacrificio, e l’Italia con esse, purché si elimini questo schieramento in due blocchi opposti e si crei quell’unico blocco che è nelle aspirazioni di tutti i popoli europei che vanno tristemente scontando le conseguenze di questo ultimo flagello umano.

SFORZA, Ministro degli esteri. Mi permetta, onorevole Benedettini. Io non dissi: È pronta a qualunque sacrificio; dissi: È pronta a qualsiasi sacrificio che serva agli scopi comuni. Non si deve troncare a mezzo una citazione: lei lo ha fatto certamente in buona fede, ché altrimenti non sarebbe stato corretto.

BENEDETTINI. E poiché ci stiamo occupando della Russia, ricorderò che l’onorevole Sforza ha detto e ripeto le sue parole: «Del resto, l’atteggiamento dell’Unione Sovietica rispetto al nostro trattato di pace, non ci risulta mutato da quando ci si disse che firma e ratifica erano per essa la stessa cosa e che dovevamo dare per scontata sia l’una che l’altra».

Ma, allora, di grazia, onorevole Sforza e onorevoli colleghi, di che ci andiamo occupando? Non è un bizantinismo, il nostro? Se effettivamente, come l’onorevole Sforza ha detto ed io stesso credo, è nelle intenzioni non solo della Russia sovietica, ma anche dell’Inghilterra liberale e dell’America democratica di dare per scontate sia la firma e sia la ratifica; se, volenti o nolenti, dobbiamo subire questa iniquità; se il nostro non è un trattato (e non può esserlo, in quanto l’Italia non è stata mai interpellata come parte contraente), se il nostro è un diktat che ci si vuole imporre, ma, insomma, perché noi dobbiamo ratificarlo oggi invece di domani o invece che mai? Se non possiamo opporci né con la forza né col diritto; se ratificare o non ratificare è la stessa cosa, perché la condanna è ormai pronunciata e a noi non resta che scontarla, ebbene, perché subire questa umiliazione, perché commettere, proprio noi, rappresentanti del popolo, ciò che il popolo italiano da noi rappresentato, non commetterebbe mai?

I discorsi di coloro che in quest’Aula hanno parlato contro la ratifica, e in particolar modo quello dell’onorevole Croce, che ha trovato in quest’occasione un calore, un accento, una commozione veramente degni del dramma che viviamo, una parte delle critiche dell’onorevole Nitti, le affermazioni di Russo Perez e il «no» di Vittorio Emanuele Orlando, mi dispensano dall’esaminare e dal ribadire i motivi per i quali non dobbiamo ratificare diktat che, se offende noi profondamente, ancor più profondamente colpisce coloro che avendolo concepito e compilato, ora ce lo impongono.

Ed io ho voluto qui riesaminare il discorso del Ministro degli esteri non per motivo polemico, ma per rilevare, come ciascuno aveva già rilevato in cuor suo, che quel discorso non ha portato alcun contributo alla necessità della ratifica.

Non un motivo di quelli esposti dal conte Sforza spinge a ratificare. E qui voglio rilevare che se nel febbraio scorso l’Assemblea avesse potuto negare la firma, a quest’ora il nostro rifiuto sarebbe stato già scontato, mentre oggi la discussione che noi facciamo sa di bizantinismo, di pura accademia.

Onorevoli colleghi, se noi ascoltiamo il grido dei fratelli che vengono strappati dalla patria comune, se ci poniamo sul terreno storico, politico e soprattutto morale ed umano, noi non possiamo ratificare questo diktat, né oggi né mai.

Dopo tante promesse, dopo tanti sacrifici sopportati con la nostra cobelligeranza, noi non possiamo ratificare un diktat che mutila le nostre frontiere, ci strappa i fratelli di Briga e Tenda, dell’Istria, del Quarnaro, della Venezia Giulia, delle italianissime città dalmate; un diktat che vuol privarci di quella gloriosa marina che non fu mai vinta, e che riduce il nostro non meno glorioso esercito a numero irrisorio; un diktat che ci impone di rinunciare a quelle colonie che conquistammo, bonificammo e civilizzammo con decenni di sacrificio e che sono indispensabili non al nostro imperialismo, ma alla nostra mano d’opera, alle necessità vitali del nostro proletariato; un diktat che, mentre ci carica di debiti, ci toglie le poche riserve auree della Banca d’Italia, e sancisce la rinuncia a ogni nostro diritto nei confronti della Germania. Un tale diktat si vuole imporre all’Italia in un momento in cui per la ricostruzione europea, l’Europa ha bisogno dell’Italia, più di quanto questa ha bisogno di quella. Un tale diktat, non discuto, si può subirlo, ma non mai accettarlo. Ratificarlo significa non rendersi conto di ciò che l’Italia rappresenta in Europa e nel mondo, e significa, innanzi tutto, non valutare noi stessi come gli altri già ci valutano. Nessuna nazione potrà mai interpretare la nostra mancata ratifica come segno di ribellione, ma ogni nazione sarà invece costretta a riconoscere che l’Italia ha, sì, perduto una guerra – e ogni popolo può perderla – ma non la sua dignità, non il suo onore.

MAZZONI. E il popolo può fare le spese della sua retorica!

BENEDETTINI. Sganciamoci per un sol momento dalle ire di parte, dalle posizioni preconcette, dalle ideologie e dalla pesante disciplina di partito; ragioniamo con la nostra coscienza di cittadini, pensando veramente all’Italia e agli italiani di oggi e di domani; svincoliamoci per un momento solo dalle strettoie delle convenzioni politiche diplomatiche e giuridiche e poniamoci di fronte ai fatti, alla realtà.

Ebbene, che cosa potrà accadere se non ratifichiamo? Nulla, assolutamente nulla, poiché l’articolo 90 del diktat parla chiaro. Esso prescrive, è vero, che il Trattato dovrà essere ratificato anche dall’Italia, ma precisa che «esso entrerà in vigore immediatamente dopo il deposito delle ratifiche da parte dell’unione delle Repubbliche socialiste sovietiche, del Regno Unito di Gran Bretagna e dell’Irlanda del Nord, degli Stati Uniti d’America e della Francia».

Ciò dimostra che anche nell’ultimo articolo del diktat, si è voluto deliberatamente offendere la nostra dignità e il nostro onore, prescrivendo implicitamente che la ratifica italiana non è necessaria all’entrata in vigore del diktat.

E noi vogliamo ratificarlo? Ratificarlo quando – come la Russia ha fatto sapere e l’onorevole Sforza ci ha detto – firma e ratifica sono per noi già scontate?

No, onorevoli colleghi. Ed è perciò che, obbedendo alla mia coscienza, sento il dovere di presentare alla vostra approvazione il seguente ordine del giorno:

«L’Assemblea Costituente, certa d’interpretare il sentimento unanime del popolo italiano, eleva la sua protesta verso un Trattato di pace che, violando i principî della Carta Atlantica e del diritto delle genti, disconoscendo i sacrifici e il contributo portato dall’Italia con la sua cobelligeranza, mutila le sue frontiere, la priva delle colonie, le toglie le navi, le riduce l’esercito, l’aggrava di debiti, l’offende nella dignità e nell’onore;

conscia che la ratifica dell’Italia non è necessaria all’entrata in vigore del Trattato, il cui articolo 90 precisa che «esso entrerà in vigore immediatamente dopo il deposito delle ratifiche da parte dell’Unione delle Repubbliche socialiste sovietiche, del Regno Unito di Gran Bretagna e dell’Irlanda del Nord, degli Stati Uniti d’America e della Francia»;

decide di non ratificare il Trattato, nella certezza che tale decisione non verrà interpretata dalle altre nazioni come ribellione, ma come sentimento di dignità nazionale;

invita il Governo a far conoscere alle altre Nazioni tale solenne decisione che si accompagna al vivo desiderio di tutto il popolo italiano di collaborare con tutti gli altri popoli per la ricostruzione economica, per la giustizia sociale, per la giusta pace, per la libertà e la civiltà cui tanto contribuì l’Italia».

Onorevoli colleghi, se il popolo italiano, libero da discipline e da propaganda di partito, fosse chiamato oggi alle urne per esprimere il suo parere sulla ratifica o meno del diktat, voi tutti siete certi che esso all’unanimità voterebbe: «No!».

Ebbene, se noi siamo qui per interpretare ed esprimere il pensiero e il sentimento del popolo che ci ha eletti, se noi non vogliamo tradire questo popolo, ch’è la coscienza stessa della Nazione, noi abbiamo il sacro dovere di non ratificare, di dire: «No!», per il popolo, per l’Italia, per tutti i nostri Caduti! (Applausi a destra).

PRESIDENTE. È iscritto a parlare l’onorevole Corbino.

CARONIA. Data l’ora tarda, propongo che la discussione sia sospesa anche per un riguardo all’oratore, dato che l’Aula è vuota. (Approvazione – Commenti).

ROSSI PAOLO. Sentire l’onorevole Corbino sarebbe una cosa molto interessante. Ma appunto per l’interesse che il discorso presenta, sarebbe bene rinviare la seduta al pomeriggio.

PRESIDENTE. Onorevole Rossi le sue argomentazioni possono ritorcersi. Perché lei vuol dare un premio agli assenti facendo loro sentire nel pomeriggio quello che non hanno voluto sentire stamane?

Ad ogni modo tengano presente, onorevoli colleghi, che vi sono ancora 37 oratori inscritti.

CARONIA. Mantengo la mia proposta di rinvio della discussione.

PRESIDENTE. Pongo ai voti la proposta di rinvio avanzata dall’onorevole Caronia, dichiarando il mio netto dissenso, perché rinviare significa far cosa contraria alle esigenze del nostro lavoro. Preavviso comunque che la seduta del pomeriggio si prolungherà nelle ore notturne.

(Dopo prova e controprova, la proposta di rinvio è approvata).

La seduta termina alle 12.40.

POMERIDIANA DI SABATO 26 LUGLIO 1947

ASSEMBLEA COSTITUENTE

CCIV.

SEDUTA POMERIDIANA DI SABATO 26 LUGLIO 1947

PRESIDENZA DEL PRESIDENTE TERRACINI

indi

DEL VICEPRESIDENTE CONTI

INDICE

 

Disegno di legge (Seguito della discussione):

Approvazione del Trattato di Pace tra le Potenze Alleate ed Associate e l’Italia, firmato a Parigi il 10 febbraio 1947. (23).

Presidente

Cicerone

Nitti

Bassano

Nobile

Paris

 

Interrogazioni (Annunzio):

Presidente

La seduta comincia alle 17.

MATTEI TERESA, Segretaria, legge il processo verbale della precedente seduta pomeridiana.

(È approvato).

Seguito della discussione sul disegno di legge: Approvazione del Trattato di pace tra le Potenze Alleate ed Associate e l’Italia, firmato a Parigi il 10 febbraio 1947. (23).

PRESIDENTE. L’ordine del giorno reca il seguito della discussione sul disegno di legge: Approvazione del Trattato di pace tra le Potenze alleate ed associate e l’Italia, firmato a Parigi il 10 febbraio 1947.

È iscritto a parlare l’onorevole Cicerone. Ne ha facoltà.

CICERONE. Onorevoli colleghi! Prendo la parola in questo momento, quasi per un senso di dovere verso le giovani generazioni, che mi onoro di rappresentare in quest’Aula e che sono quelle più direttamente interessate alla pace italiana, perché dovranno sopportarne il peso e le conseguenze maggiori.

E giusto, quindi, che, più del passato, io mi preoccupi dell’avvenire della nostra politica estera. Occorre guardare innanzi a noi; occorre, anzitutto che ci si renda conto che nel mondo molte cose sono cambiate.

Io non credo che, nel campo della morale, ci siano nuove scoperte e nuovi orizzonti e, tanto meno, nuove applicazioni, nella politica, del pensiero morale: ma qualche cosa è terribilmente mutata, nelle proporzioni in cui si svolge la vita dell’umanità.

Le Potenze latine, l’Italia e la Francia, si presentano oggi al mondo in una situazione di tragica inferiorità. E io intendo richiamare la vostra attenzione su questo fatto essenziale, specialmente per noi: che l’Italia e la Francia non ora hanno perduto la guerra, ma nel 1914-18; è precisamente durante il primo conflitto mondiale che si determina un fatto essenziale nella storia dell’umanità. Due forze nuove gravitano attorno all’Europa, è l’intervento americano che per la prima volta nella storia si esercita direttamente nel vecchio continente: lo sbarco delle truppe americane in Francia è un punto che l’avvenire considererà come uno dei grandi avvenimenti nella vita dell’Europa. E c’è un altro fatto importantissimo, determinante, la rivoluzione bolscevica, che, dal 1918, si dà ad organizzare le masse immense della sterminata Asia, per lanciarle successivamente a gravitare anch’esse verso l’Europa.

Ci siamo resi conto allora di questo grande avvenimento e ce ne siamo resi conto dopo? Non mi pare; non mi pare, perché, mentre i popoli anglosassoni combattevano per il dominio degli oceani e, mentre la Russia bolscevica cedeva a cuor leggero vaste zone di territorio alle armate tedesche perché oramai, divenuta internazionalista non riferiva al territorio alcuna importanza, da parte delle Potenze latine si combatteva per città irredente, per passi montani e confini fluviali. E la guerra attuale ha sanzionato questo grandioso evolversi della vita del mondo, ha consacrato la nuova proporzione in cui questa vita si svolgerà nell’avvenire e sarebbe un errore fatale se, pur dopo la gravissima lezione del nuovo conflitto, i popoli europei non riuscissero a comprendere quale pericolo sia per essi il fatto che oggi l’Europa non può, come una volta, unita, propagare la sua civiltà nel mondo, ma che si trova divisa, lacera, impoverita e fatta preda di potenze a lei estranee e che ne metteranno in forse la sua esistenza.

Come ci troviamo noi italiani di fronte alla pace che si apre? Io ritengo che dovremmo porgere anzitutto, come europei, il pensiero alla grande Madre Europa perché, se non pensiamo ad essa, noi non pensiamo neanche alla nostra civiltà, noi non riusciremo nemmeno a conservare le nostre caratteristiche storiche.

Vi è la possibilità che l’Europa segua due strade; o essa si unirà e si porrà come elemento nell’equilibrio mondiale, o essa è destinata a fare nel mondo avvenire la parte che nell’800 vi fece l’impero turco. Essa sarà la grande malata su cui si eserciteranno gli interventi dell’Oriente e dell’Occidente, ma in definitiva essa non avrà più alcun ruolo da esercitare nella vita del mondo.

Partiamo, dunque, da queste premesse che superano e sovrastano la contingenza del Trattato di pace, ma che sono necessarie, perché è alla luce di queste considerazioni che noi dobbiamo vagliare e giudicare quello che si sta facendo nel mondo e in Europa nei nostri riguardi. Naturalmente, quando noi scendiamo dai grandi e vasti orizzonti intercontinentali nella cerchia più ristretta della vecchia Europa, ritroviamo vecchie ubbie, ritroviamo errori fatali, ma ritroviamo anche esigenze dello spirito europeo, che è necessario sodisfare.

Come dobbiamo giudicare questo Trattato che ci viene presentato? Io ritengo che il giudizio su di esso debba dividersi in due parti. C’è il contenuto morale del Trattato di pace che va assolutamente rigettato per le considerazioni che sto per fare; c’è il contenuto politico: abbiamo perduto una guerra, dobbiamo pagare per aver perduto la guerra.

Ricordo di aver letto una frase del grande socialista francese Léon Blum, in un libro che egli ha scritto durante l’occupazione tedesca. Egli dice ad un certo punto che vuole spogliarsi di qualsiasi prevenzione verso il suo Paese e adopera questa frase: «Il dovere della equità esiste anche verso noi stessi». Cerchiamo, dunque – e io ne rivendico a me il diritto, come ad uno dei più giovani rappresentanti della Camera italiana – di lavare la macchia che pesa sul popolo italiano. Gli Alleati ci accusano di aver dato vita al fascismo; la condanna morale che ci infliggono è di aver tollerato l’instaurazione di una dittatura e di esserci lasciati condurre da questa dittatura verso così dette folli avventure.

Ma noi potremmo rispondere a questi signori, i quali si compiacciono troppo spesso di ricordarci un periodo critico della nostra vita nazionale, che quanto noi facemmo venticinque anni fa di fronte al dilagare di un sovversivismo, che minacciava le basi stesse della società nazionale, essi stanno facendo ora per minacce molto meno attuali; e lo stanno facendo dopo la nostra triste esperienza. Il loro fascismo, questa ondata anti-comunista che si esercita in America, per il momento a mezzo di leggi eccezionali, sarebbe pensabile come condotto alle conseguenze estreme, cui siamo giunti noi con Mussolini, e moralmente sta in ogni caso sullo stesso piano del fascismo italiano. Noi dobbiamo francamente dire a codesti nostri amici che essi non hanno il diritto di accusarci di aver fatto venticinque anni fa quello che oggi essi stanno facendo.

E poi, allontaniamo da noi decisamente un’altra accusa: quella dell’imperialismo. C’è una preoccupazione costante, c’è una cappa di piombo che grava su tutti i nostri gesti; noi non possiamo parlare di Trieste; noi non possiamo parlare del Mediterraneo; noi non possiamo parlare di ripresa economica, perché ci vengono all’orizzonte presentate queste lettere di fuoco: «imperialismo italiano».

Che cos’è l’imperialismo italiano in definitiva? È la rivendicazione di un popolo povero ai diritti della vita. E ci viene rimproverato questo imperialismo in un momento in cui la Francia ha combattuto in Indocina contro un popolo inferiore e lo ha soggiogato con la forza; in un momento in cui l’Olanda dichiara una guerra contro Sumatra e Giava, perché non intende rinunciare alla sua politica coloniale e ai suoi Dominî d’oltremare; in un momento in cui la stessa Polonia è spinta dalla Russia ad avanzare fino alle porte di Berlino, e la Bulgaria, la Grecia e la Romania, e anche più piccoli Paesi hanno fatto valere le loro rivendicazioni territoriali.

Noi non possiamo concedere che ci si incolpi di imperialismo da parte di Potenze che ancor oggi – e bisogna avere l’ardire di dirlo – usano in Palestina mezzi di cui noi ci saremmo sempre vergognati. Naturalmente, questo problema degli spazi vitali non è morto perché sono morti Hitler e Mussolini; questa necessità per Paesi sopra popolati di espatriare esiste ancora. Noi accettiamo e ringraziamo l’ospitalità delle Repubbliche sud-americane e di tutti quei Paesi europei ed extra-europei, i quali concedono lavoro ai nostri operai. Ma, evidentemente, è molto triste constatare che questi nostri fratelli vanno a lavorare sotto bandiera straniera. Diciamo: vogliamo anche noi avere la possibilità di lavorare in terre nostre. Noi non avanziamo la pretesa di riconquistare quello che è stato perduto, ma diciamo: mettiamo in comune tutte le risorse mondiali e diamo lavoro a questi Paesi poveri.

Certamente, se nel 1938 la Germania fosse stata sodisfatta nelle sue giuste esigenze di attuare, da grande popolo com’è, una politica di espansione, la guerra non sarebbe venuta.

Vi è un altro problema che incide profondamente sull’Italia, perché si vuol vedere in questo problema un’altra delle cause del fascismo: il problema del nazionalismo. Io sono d’accordo che il nazionalismo sia stato uno dei veleni più pericolosi e più dannosi che l’800 abbia fatto nascere fra le masse europee, ma questo sentimento di un popolo di essere nazione ormai c’è e non si può ignorarlo.

Come correggere questo sentimento? Come dare sfogo a questo sentimento? Come riuscire a che lo stimolo maggiore che nelle masse determina il desiderio della guerra venga sodisfatto?

In altri tempi ci sono state le guerre religiose. Oggi sarebbe assurdo, sarebbe incredibile che un Paese scendesse in guerra per difendere una libertà religiosa che gli è concessa o per imporre ad altri una fede religiosa. Dobbiamo arrivare alle stesse conclusioni per il nazionalismo: occorre che al nazionalismo si dia lo sfogo più ampio e la soddisfazione più completa. Quando un popolo sarà racchiuso nei suoi giusti confini, allora naturalmente non vi sarà lo stimolo alla guerra, non vi saranno questi focolai di irredentismo che da cento anni periodicamente travolgono i popoli d’Europa.

Il Trattato di pace che è stato proposto all’Italia sodisfa a questa duplice esigenza di non lasciare rancori nel Paese, di metterci in pace con tutti i nostri vicini, e sodisfa all’altra esigenza che è quella di consentire ai popoli europei di rifare la loro unità e di porsi come terzi arbitri fra due contendenti?

È su queste basi che – secondo me – il Trattato di pace va esaminato.

Ed in relazione alla soluzione di questi due problemi si deve discutere se si può accettare il Trattato e ratificarlo, o se si deve tentare la sua modifica.

Abbiamo lasciato oltre i confini terre italiane. La Francia ha voluto condursi verso di noi secondo la sua vecchia scuola politica: quella delle teste di ponte in casa altrui e del confine montano o fluviale. Abbiamo rinunciato o stiamo per rinunciare a qualsiasi forma di espansione africana, a qualsiasi attività coloniale. Siamo stretti fra le più angustiose necessità, cosicché mi pare che gli interessi essenziali – non dell’Italia ma dell’Europa –– siano stati lungi dall’essere salvati. Il Trattato, quindi, è completamente deficitario per noi. In questa pace – non soltanto nella pace italiana ma anche nella pace germanica – in tutta la pace di questo dopoguerra manca uno spirito giuridico, manca un principio informatore.

A Vienna, un secolo e mezzo fa, nel 1814, si trovò una formula giuridica da applicare indistintamente ai vincitori e ai vinti: quella formula giuridica della legittimità delle conquiste prerivoluzionarie, riconosciuta dagli uni e dagli altri, dette tregua alla Francia napoleonica e assicurò bene o male per circa un secolo la pace del Continente.

A Versaglia un altro principio fu seguito. Il principio delle nazionalità. Si sapeva che bisognava cercare di unire sotto uno stesso Governo uomini di una stessa lingua e di una stessa razza.

Anche in questa guerra si era partiti bene con la Carta atlantica. Si era detto che la situazione sarebbe tornata quale era prima delle aggressioni fasciste; si era promesso che da nessuna parte vi sarebbero state conquiste o perdite di territorio: era il vecchio principio di Vienna. Ma tutto è finito in una lotta d’interessi egoistici e di compromessi fra l’Oriente e l’Occidente, fra Anglo-sassoni e Russi, che si è esercitata unicamente a danno dell’Europa. Forse questo fatto, il principio del diritto, è in fondo come la morale nella vita dei popoli, perché un principio morale e giuridico può anche non attuarsi completamente essendo i rapporti tra i popoli rapporti di potenza; ma comunque esso serve, come nell’individuo la morale, a lenire le pretese del vincitore, a segnare un limite ai suoi appetiti. In questa pace, questo limite morale e questo principio giuridico sono mancati completamente ed io oserei dire che questo principio è mancato, proprio perché è mancata, nella compilazione della pace, quella mentalità giuridica latina che fino ad oggi aveva guidato le sorti del mondo.

Possiamo noi consentire che si continui per questa strada? Possiamo noi consentire che l’Europa continui ad essere fatta oggetto dei compromessi di forze estranee? Che cosa hanno fatto il Governo italiano ed i precedenti Governi per evitare queste sventure? Senza dubbio noi siamo stati le vittime di iniziative altrui.

L’Italia ha avuto solo due momenti in cui poteva agire: il primo quando le truppe americane invasero la Sicilia e la Calabria e giunsero fino a Cassino.

Eravamo il primo Paese liberato dell’Europa: tutto il mondo guardava con enorme attenzione a quello che avrebbero fatto le nostre popolazioni, da 25 anni oppresse da un regime dittatoriale. Tutto il mondo, e specialmente la Russia e l’America, faceva a gara per accattivarsi l’animo di queste genti. Già si era capito che la situazione interna di ogni Stato ed i sentimenti filomarxisti o filodemocratici avrebbero avuto un peso determinante nella politica di questi Stati. Purtroppo, non si seppe approfittare allora di questa situazione.

Che cosa si poteva fare? Non si poteva fare una politica di equilibrio, perché, per fare una politica di equilibrio, bisogna che un Paese abbia un peso da gettare in questa o quella bilancia. L’Italia non poteva fare una politica di affiancamento all’uno o all’altro blocco, oppure una politica ardita di colpi di mano, una politica machiavellica, se così ci piace chiamarla.

Ma purtroppo questa occasione ci è sfuggita. Io voglio essere equanime: non vorrei che la responsabilità di questa situazione si addebitasse unicamente ai Governi. In quel momento l’Italia cominciò ad essere divisa: gli animi degli italiani si scissero in due parti: da una parte stettero i comunisti ed i socialisti con le loro simpatie verso la Russia, dall’altra parte stettero le forze democratiche e reazionarie in genere. Di queste forze, spassionatamente, senza pudore, le une si appoggiarono alla Russia e le altre – confessiamolo pure – alle potenze Anglo-sassoni. Fu un fenomeno di degenerazione gravissima che si ripete in tutti i Paesi in stato di decadenza. Non avemmo spirito nazionale; non sentimmo che l’ideologia non doveva soverchiare in quel momento le necessità della Patria e che bisognava tacere.

Questa è, a mio avviso, la verità spassionata della nostra situazione. Evidentemente errori poi ci furono da parte del Governo ma furono, più che altro, errori tecnici e perciò stesso, visibilissimi. Per esempio, si affidavano le nostre ambasciate a uomini nuovi alla diplomazia, nuovi alla gente che andavano a conoscere. Il Governo italiano credette che anche all’estero ci fosse stato un fascismo, ci fosse stata una lotta clandestina. Non trovammo il nostro Talleyrand, l’uomo che fosse stato in contatto con l’estero non soltanto al momento del crollo del fascismo, ma anche prima del fascismo e durante il fascismo. Quell’uomo avrebbe potuto dire tante cose agli Alleati, che questi nostri illustri rappresentanti, impreparati e sconosciuti all’estero, non seppero evidentemente dire. Ci fu anche un errore gravissimo: si smantellarono tutte le organizzazioni del Governo. Si credette che lo strumento che aveva servito il fascismo non potesse più servire alla democrazia.

Una voce al centro. Certo.

CICERONE. Mi dispiace, ma non sono del suo avviso. Noi rinunziammo a qualsiasi forma di organizzazione segreta d’informazioni che tutti gli Stati hanno, perché noi abbiamo visto, egregio amico, nella nostra Italia, in ogni provincia, in ogni casa, direi, esercitarsi la sorveglianza di organizzazioni segrete anglo-americane. Sono strumenti di cui uno Stato si serve, perché la difesa all’estero non ha niente a che fare con il regime di un Paese. Ci furono degli errori e molti di questi errori, come dicevo, non possono addebitarsi al Governo, ma ad una situazione di rapida decadenza del popolo italiano.

Poi la guerra terminò. Gli Alleati non ebbero più bisogno dell’Europa; perché l’Europa era loro, l’avevano nelle mani, ne decisero come vollero, ed allora ogni iniziativa sfuggì al Governo italiano, che dovette rassegnarsi a subire operazioni chirurgiche sul tavolo anatomico della pace, in condizioni di anestetica immobilità.

Si rinnova in questo momento la possibilità di fare una politica estera. I compromessi fra i Grandi sono finiti.

Essi litigano nuovamente, ciascuno di essi ha bisogno nuovamente di noi. E questo è un momento cruciale della vita della Nazione; è questo il momento in cui bisognerà decidersi e scegliere la nostra strada. Forse ci sfuggirà l’ora, ci sfuggirà l’occasione nuovamente e forse non si presenterà più; quindi richiamo l’attenzione del Governo sulla opportunità che in questa Assemblea, dopo la ratifica o non ratifica, si faccia un altro dibattito sulla politica internazionale del Paese. Si rinnova la possibilità di una politica estera; è la politica estera dei deboli. Dobbiamo confessarlo francamente: è quella libertà relativa di muoversi tra i colossi destreggiandosi che confina con l’indipendenza, ma non è l’indipendenza.

Dobbiamo andare con la Russia o dobbiamo andare con gli Anglo-americani? È arduo rispondere ad un quesito di questo genere. Debbo dichiarare che, come conservatore, non avrei, in linea di principio, nessuna difficoltà al più stretto avvicinamento con la Potenza russa, perché i rapporti esterni non hanno niente a che fare con la vita interna dei popoli. Ma, d’altra parte, si è determinata in Italia una situazione interna di cui conviene tener conto, quella situazione che ci ha impedito di fare una politica estera tre anni fa.

Un avvicinamento alla Russia? Data la proporzione delle forze politiche nel Paese e dato il precedente per cui in tutti i Balcani i Paesi sottoposti all’influenza russa sono caduti sotto il Governo comunista, dati questi precedenti, io ritengo che non si dovrebbe andare con la Russia. Ma c’è il rovescio della situazione. Possiamo noi stringerci intimamente con le Potenze anglosassoni? E qui ci si presentano alcune difficoltà.

È inutile nasconderci che le guerre ci sono state e che guerre ci saranno. (Proteste – Commenti a sinistra). Non possiamo nasconderci, anche se alcuni idealisti lo vogliono ignorare oggi, come l’hanno ignorato ieri, che le possibilità di un conflitto sono sempre immanenti nella vita del mondo.

Ed allora io vi chiedo se seriamente si può pensare ad un’Italia, ad una Francia tese in uno sforzo bellico contro la Potenza sovietica, quando questo sforzo dovrebbe ricadere principalmente su quella classe operaia, che è sentimentalmente legata con la madre del marxismo mondiale.

È quindi evidente che un nostro intimo avvicinamento con gli Anglo-americani è da evitare per una situazione di cui essi sono responsabili, perché essi stessi hanno aiutato al loro arrivo in Italia lo sviluppo delle forze marxiste, e a furia di frugare nelle nostre tasche nella speranza di trovarci il distintivo fascista, ad un certo punto non si sono accorti che quel distintivo era saltato nelle loro tasche. Sono situazioni paradossali che si ripetono molte volte nella storia del mondo, come quando la Germania, credendo di aver vinto la Francia rivoluzionaria, si è trovata la rivoluzione in casa sua.

Ma c’è fra queste due vie egualmente pericolose, una terza via: è la via che io ho indicato all’inizio di questo mio breve discorso, cioè la via del blocco europeo. Il Governo italiano si adoperi a questa possibilità. Il Governo italiano cerchi l’avvicinamento con tutti i popoli europei, compreso il popolo tedesco, perché non è pensabile un’Europa senza l’elemento germanico, come suo componente primario. Questa Germania, così misteriosamente mistica, questa Germania per tanti secoli pacifica, questo popolo che per tutto il Medioevo ha assicurato l’equilibrio e la pace dell’Europa, ad un certo punto si è sentito stretto fra la Potenza russa che nasceva e la Potenza francese che declinava, e da questo urto è nato probabilmente il suo timore folle di essere schiacciata fra i due blocchi, il suo spirito guerresco.

Non illudiamoci: la Germania non si può dividere fra la Russia e gli Anglo-americani. Se noi ricostruiremo in Europa un concerto di Potenze europee, nel quale la Germania conti per se stessa, ma nel quale le altre Potenze unite contino più della Germania, allora l’elemento germano-latino potrà di nuovo ridare forza e potenza alla nostra civiltà e potrà porre l’Europa fra i due contendenti mondiali; potrà questa Europa essere nuovamente la salvazione della civiltà.

Ora, sulla via della Unione europea, troviamo noi il piano Marshall e troviamo la ratifica del trattato? È questo, dal mio punto di vista, il problema.

Il piano Marshall suona anzitutto accusa agli europei, suona ammonimento da parte di un continente estraneo a questi popoli che non hanno trovato in se stessi abbastanza intelligenza e abbastanza forza per comprendere che dovevano unirsi; ma è sempre iniziativa estranea, è spirito di altra mentalità; è una iniziativa che somiglia ad una impresa commerciale, che risponde allo stile dei governanti americani. Si ripetono, un po’ in altre forme, le difficoltà che incontrò Wilson nell’applicare all’Europa un piano concepito fuori dell’Europa, assente l’Europa.

Se il piano Marshall sarà uno spunto per mettere insieme queste Potenze europee, esso potrà avere ulteriori e buoni sviluppi. Ma occorre che la sua origine sia dimenticata; occorre che sia quasi cosa nostra. Le energie del vecchio continente sono ancora immense. Esse sole, unite, potrebbero risolvere il problema economico dell’Europa; e se l’America si fosse posta come mediatrice nei nostri problemi europei, avrebbe fatto molto meglio e di più.

In altri termini, non riusciremo a dimenticare, per il carbone e la farina, due millenni di tradizioni e di contrasti, consumati per la delicata questione dei problemi di confine e di commistione di popolazioni e di razze diverse. È in questo lavoro paziente, veramente europeo, che può consistere l’intervento americano come mediatore delle contese europee. Se l’America si accontenterà di esercitare una protezione solo economica, non avrà fatto gran che.

Incontriamo per la via dell’unione europea la ratifica del Trattato di pace? Non lo so. Perché, in fondo, non attribuisco nessuna o quasi importanza a questo atto formale, perché nei rapporti tra i popoli, che sono rapporti di potenza e di equilibrio, gli atti formali contano finché sono sostenuti dalla volontà di farli contare. La volontà di far contare il Trattato di pace da parte italiana non ci potrà essere mai.

Signori del Governo, non è ignorando l’ammalato che potete guarirlo; non è rinunziandovi, che potete eliminare l’irredentismo futuro. Oggi come oggi tutti quanti siamo in questa Assemblea potremmo anche mettere una pietra sui nomi di Trieste, Zara, Tripoli, Bengasi, Briga e Tenda. Potremmo farlo noi. Ma siccome la fiamma della italianità vivrà in questi Paesi eterna, i nostri figli ed i figli dei nostri figli potrebbero trovare in quei nomi un vessillo di guerra.

Perciò, piuttosto che contentarvi del formalismo di essere trattati da pari a pari nelle conferenze internazionali, piuttosto che premere per l’ingresso all’ONU, al quale non credo, come non credo in nessuna di queste mastodontiche formazioni internazionali, le quali spesso mascherano una politica egoistica, badate ai problemi concreti. E se la ratifica può servire a risolvere questi problemi, ad aprire una strada perché questi focolai di nazionalismo siano spenti, per il bene d’Europa, ratificate!

Ma, se mai voi aveste la sensazione che le promesse di revisione non siano più sincere di quelle fatte in altri tempi alla Germania, se mai aveste la sensazione che quel machiavellismo di cui ci si accusa è invece machiavellismo degli altri, è la concezione anglo-sassone del machiavellismo che ha portato nella guerra diecine di popoli, sapendo di non poterli sostenere, e da radio Londra ha scoraggiato i nostri combattenti, per poi trarli in campi di prigionia, allora non ratificate!

La mia generazione e le più giovani, non hanno responsabilità di tutto quanto è accaduto: veramente siamo immuni da ogni colpa. Noi non vi chiediamo molto, noi non vi chiediamo le utopie della pace perpetua, né vi chiediamo l’associazione mondiale dei popoli: vi chiediamo molto meno. Noi vi chiediamo qualcosa che è stato già fatto nella storia dell’umanità: vi chiediamo la pace.

Noi riteniamo che questa pace debba fondarsi principalmente sulla eliminazione dei rancori. Un secolo fa, uomini che rappresentavano l’autoritarismo regio, al loro tempo, con i sistemi della loro morale politica, seppero assicurare questa pace in Europa, perché trovarono tanta forza i vincitori da rinunciare al timore folle della rivincita, e tanta forza e tanta abilità i vinti da far intendere al vincitore che era suo interesse non incrudelire su di essi.

Noi vi chiediamo soltanto questo: e quando ci avrete assicurato un avvenire scevro di rancori e di rivendicazioni, allora le nuove generazioni, su questa serenità, si impegneranno a conservare la pace. (Applausi a destra).

PRESIDENTE. È iscritto a parlare l’onorevole Nitti. Ne ha facoltà.

NITTI. L’idea di ratificare desta in me una profonda tristezza per i ricordi del passato. Io non volli firmare il trattato di Versailles; invece di recarmi io stesso a Parigi incaricai l’onorevole Sonnino.

ORLANDO VITTORIO EMANUELE. C’ero io!

NITTI. No, tu non c’eri! È un equivoco.

ORLANDO VITTORIO EMANUELE. Ti dico che c’ero. (Si ride).

NITTI. È un equivoco che chiarirai facilmente. Non volli firmare: ero convinto che quel trattato avrebbe portato l’Europa ad una nuova e ben più grande rovina. Dovetti firmare ciò che non avrei voluto. Pochi mesi dopo, richiamato a Parigi, andai a firmare la ratifica.

Ricordo ancora quella scena dolorosa: il rappresentante tedesco aveva l’aria triste, come di uomo che nel corpo e nell’anima avesse qualcosa che non comunicava! La firma della ratifica fu fatta con solennità. I francesi se ne valsero anche dopo nella loro propaganda di guerra. La ratifica era l’atto solenne di consacrazione della vittoria. Quando la Francia era in guerra con la Germania dopo il 1939 e voleva dar prova della sua grandezza, ricordava la consacrazione della precedente vittoria. In tutti i cinema dei grandi boulevards di Parigi c’era il documentario della ratifica sotto della quale era una mia brutta firma che pareva contraffatta. Ero così nervoso, quando firmai, che la firma par quasi non mia. Soffrivo nel firmare: sentivo che la guerra era prima o dopo inevitabile. Uscii dall’aula, la stessa dove ora si fanno le riunioni (la Sala dell’Orologio) deciso a combattere quel trattato e a volerne la revisione. O la revisione, che nella generale esaltazione pareva allora impossibile, o inevitabilmente a più o meno lungo termine una più immensa guerra. Da allora, appena fui libero dal Governo, pubblicai una serie di libri per dimostrare come si dovesse arrivare necessariamente alla guerra. Il primo di questi libri fu L’Europa senza pace, tradotto in 24 lingue dell’Europa e dell’Asia e che fece il giro del mondo. Le cose che prevedevo, e a cui quasi tutti si rifiutavano di credere, dolorosamente sono avvenute.

L’idea di ratifica, dunque, mi è per il passato triste ricordo e mi è causa di dolore e di ansia per l’avvenire. Questa ratifica, che si domanda a noi, è per me suprema umiliazione, perché, dopo aver assistito alle ratifiche da vincitore, assisto ora da vinto, e ne sento tutta l’amarezza. Il mio paese è triste e umiliato.

Noi tutti, ci troviamo di fronte ad un problema terribile: bisogna accettare l’umiliazione? Ratificare o non ratificare il trattato?

Non vi sono che tre soluzioni: o respingere il trattato con tutte le conseguenze gravissime che ne sarebbero il triste corollario; o adottare una ratifica che ora non ha tutti gli elementi per essere operante a nostro vantaggio; o ratificare quando vi siano tutte le condizioni necessarie e intanto dare al governo tutti i poteri necessari perché la ratifica avvenga anche quando il Parlamento non è riunito. Negli ultimi due casi però la ratifica non può avvenire senza una solenne e dignitosa protesta contro l’iniquo trattamento fatto all’Italia cui è stato imposto un diktat umiliante e odioso.

Io, per quanto sia doloroso, ho detto fin dal primo momento che noi dobbiamo accettare. Noi abbiamo perduto la guerra. Non possiamo che accettarne le conseguenze. Se non sottoscrivessimo, dovremmo arrivare (e come e quando?) ad una serie di paci separate che non so quale cosa terribile sarebbero, per noi, perché ogni atto isolato che ci riguardi da parte di qualcuno dei vincitori non può essere che peggiore di quelle che sono state finora le loro espressioni collettive.

Dopo tante promesse fatte, dopo tanti annunci di democrazia (ahi, queste democrazie che dovevano dare non solo la pace, la solidarietà e la giustizia, ma metterci sul buon cammino, dopo tanti anni in cui, secondo i nostri giudici, eravamo stati sul cammino triste del fascismo), ahi, che cosa sono state queste paci!

I primi atteggiamenti dei vincitori sono stati seguiti da manifestazioni sempre meno amichevoli. Ogni decisione che è seguita ha peggiorato le cose a nostro danno. Ogni riunione dei vincitori si è risoluta sempre in un aggravamento delle nostre situazioni. Dopo la pace di Potsdam, in cui i vincitori avevano dichiarato che l’Italia aveva liberato se stessa dal regime fascista, facendo progressi verso il sistema delle democrazie (quali progressi! tutto quello che le democrazie volevano è stato adottato), la monarchia è caduta. E dopo, quale è stato il contegno degli alleati? Mai migliore di prima, anzi sempre peggiore. Si è mentito e si mentisce quando si afferma che noi possiamo sperare facilmente in un cambiamento rapido delle situazioni precedenti: ora nessuno crede possibile una modificazione sostanziale dei trattati a nostro favore.

Noi dobbiamo ratificare. Il solo problema è questo: dobbiamo ratificare nelle condizioni presenti? e perché dobbiamo ratificare con tanta sollecitudine, quando il Trattato è inoperante per noi, perché manca la ratifica della Russia?

Si dice che rapida ratifica è voluta a Parigi e a Londra e che produrrebbe vive soddisfazioni all’America. Si dice anche che Mosca sarà solidale con gli alleati, e che ratificherà a sua volta presto; che nessun miglioramento ci possiamo attendere da prossime mutazioni, e che col Trattato si è realizzata una situazione che deve avere carattere di permanenza. Ecco il grave, ma una cosa è ancor più grave, ed è che si attribuiscono a noi tutte le colpe del fascismo e della guerra.

Dante aveva detto: «La colpa seguirà la parte offensa»; ora, tutte le colpe si attribuiscono a noi. La guerra, secondo i trattati dei vincitori, è stata nostra colpa, ed è stata conseguenza del fascismo! È inutile illudersi: questa falsa idea è germogliata ed è continuata a durare ed è anche disonestamente contenuta nella pace firmata a Parigi il 1° febbraio 1947. Quella pace, dunque, mi offende in tutti i miei sentimenti, ed io trovo che non potrò mai rassegnarmi ad essa, se non come ad una necessità. Noi non dobbiamo discuterla nella convinzione che la sua enormità e la sua ingiustizia sono tali che, prima e dopo, noi volenti o rassegnati, i vincitori volenti o nolenti, si imporrà la revisione di questo Trattato, che non è onesto e non può essere a lungo durevole.

Ma noi, come abbiamo accettato, sottoscrivendo il Trattato, con le condizioni imposte, dobbiamo ora, per eseguire il Trattato, ratificarlo e dobbiamo agire in buona fede.

Tutto dobbiamo fare, tranne l’equivoco di dire una cosa e di farne un’altra. Troppo sull’Italia è pesata questa accusa di infedeltà: dal giro di valzer fino ai successivi tradimenti che purtroppo sono esistiti nella politica italiana, a cominciare dalla guerra del 1915, che fu iniziata in modo non onorevole, perché quando il Trattato di Londra fu redatto vi furono settimane in cui l’Italia si trovava nello stesso tempo alleata dell’Austria-Ungheria, della Germania e della Francia, Russia ed Inghilterra; cioè l’Italia fu nello stesso tempo alleata delle due parti. Questa accusa ci è sempre pesata. Ai vincitori attuali, per quanto siano stati e siano con noi ingiusti, non dobbiamo promettere ciò che non siamo decisi a mantenere.

L’Italia ha avuto da secoli l’accusa infame di essere il paese di Machiavelli. Quanto male all’Italia ha fatto senza volere Machiavelli! Machiavelli era eruditissimo e uomo studioso di antichità e spirito profondo. Ma era fuori della realtà. Grande storico era stato il primo scrittore italiano di storia che non aveva mai considerata la religione a spiegazione degli avvenimenti che mettono gli uomini in eterna contesa e non mostrava alcuna disposizione a metterla a base delle lotte fra gli uomini. Egli, dai «Discorsi sulla prima deca di Tito Livio» alle «Storie fiorentine» ed al «Principe» come in tutti i suoi trattati minori, applicava i principî del suo tempo per spiegare i fatti dell’antichità come i fatti di allora, e i principî che a noi sembrano immorali erano gli stessi che gli servivano a spiegare i fatti della storia. Machiavelli visse presso a poco nello stesso tempo di un altro grandissimo italiano che fu tanta causa del declinare della grande prosperità economica dell’Italia: Cristoforo Colombo.

Questi due grandi uomini, che non si conobbero mai, fecero per diverse ragioni non poco male al nostro paese.

Cristoforo Colombo nacque quando l’Italia era il centro dell’Europa, quando prestava denaro a tutto il mondo ed era creditrice dei re. Il commercio del danaro era soprattutto di Milano e di Firenze. Le città anseatiche sorsero più tardi.

Il Mediterraneo era allora il centro della ricchezza mondiale. Non esisteva altra grande linea di traffico che il Mediterraneo. L’Italia era non solo il paese della religione dominante, ma era nel campo economico il paese del grande traffico, della navigazione commerciale più importante, della banca.

L’Italia era il paese dei grandi banchieri, creditori di tutta Europa. Firenze e Milano prestavano a tutti i re. Cristoforo Colombo con la scoperta dell’America rovinò il traffico e la ricchezza dell’Italia. Questo uomo ardito e saggio non pensò, quando scopri l’America, che spostando le correnti marittime, il Mediterraneo diventava fino al taglio di Suez soltanto un mare interno. Colombo rovinò tutta la ricchezza italiana: per quella massa d’oro che si riversò in Europa, fece fallire tutti i banchieri italiani, tutti i risparmiatori.

Machiavelli in un altro campo ci fece assai grave male, ci discreditò moralmente. Machiavelli era un uomo (non vi meravigliate di queste parole) di altissima intelligenza, ma di animo mediocre: era un sensuale, era uomo che non aveva nessuna alta concezione della vita.

Io sono stato un attento lettore di Machiavelli e l’ho sempre fra i libri che più leggo. Era uomo che mancava di ogni altezza spirituale, non aveva idealità, non capiva né meno i grandi fatti del suo tempo. Proprio al suo tempo avvennero le due più grandi scoperte e invenzioni che mutarono la situazione del mondo: la scoperta dell’America e l’invenzione della polvere. A questi due fatti che agirono sulla vita del mondo egli non dette alcuna importanza e non dedicò neppure una parola. Egli credeva che il più notevole fatto fosse la potenza della Svizzera e che la Svizzera dovesse dominare l’Europa per la sua forza guerriera. Fece teorie della guerra ed insegnò come si dovessero dirigere gli eserciti. Ma un giorno che Giovanni De’ Medici lo ebbe ospite, lo pregò di dirigere le manovre delle sue truppe, secondo i principî esposti nel suo libro. Machiavelli si provò: dopo poco vi era tanto disordine che le truppe marciavano a caso, le une contro le altre. E allora Giovanni De’ Medici, sorridendogli disse di sospendere il tentativo, ché egli stesso avrebbe regolato le cose secondo la sua pratica: fece suonare i tamburi e in un quarto d’ora le truppe furono regolate e ripresero il loro andamento normale…

CALOSSO. La sua era una pedagogia militare, non una strategia! Permetta che difenda il Machiavelli contro di lei. (Commenti – Ilarità).

NITTI. Machiavelli, dunque, ci ha reso, senza sospettarlo, il cattivo servigio di far credere che noi italiani facciamo una politica di falsità. In realtà egli non faceva che studiare situazioni del suo tempo e riprodurle come poteva, teorizzando. Era uomo volgare e penetrato di oscenità. Io ho letto, qualche cosa come 50 anni fa, nella casa di un erudito fiorentino che si chiamava Gustavo Uzielli, famoso collezionista e illustratore delle opere di Machiavelli, le lettere private del segretario fiorentino che egli raccoglieva e che non pubblicò. Sono un monumento di volgarità e di oscenità. Machiavelli indicava con linguaggio fisiologico (se volete, anatomico) tutte le varie parti del corpo e le metteva in rilievo parlando dei suoi amici e delle sue proprie avventure…

CALOSSO. Era l’uso del tempo…

NITTI. Ora, questo singolare uomo, che certamente aveva così straordinario intelletto, ci ha reso il cattivo servigio di farci passare come uomini sempre disposti a mentire, egli che, in fondo, era un onest’uomo e, data la morale dei tempi, anche probo.

Noi dobbiamo, per quanto è possibile, essere sinceri fino all’esagerazione, perché nulla ci pesa sul capo come questo equivoco della nostra «abilità». Io preferisco che l’Italia sia piuttosto inabile, che avere la cattiva fama di troppo abile. Ma vi è niente di peggio che mancare di abilità per volere essere troppo abile?

Ho letto troppo spesso anche nei nostri giornali e leggo ancora giudizi che mi sembrano non solo falsi ma anche inabili, che fanno cadere sull’Italia la responsabilità della guerra mondiale, dicendo che essa è dovuta al fascismo. Non sono convinto che noi abbiamo seguito la buona via e né meno la vera quando nella lotta contro il fascismo abbiamo detto e diciamo come ora che la guerra è una conseguenza del fascismo e che il fascismo è stato soltanto fenomeno italiano. Quali falsità!

Signori, non è vero; ed è stolto ripetere la stessa falsità come continuare a fare ora i professionali dell’antifascismo.

Vi sono state cause ben più profonde della guerra d’Europa. Per nuocere al fascismo, noi abbiamo fatto cosa pessima a danno dell’Italia. Siamo arrivati a dire che tutte le responsabilità della grandissima guerra che ha sconvolto il mondo pesano sul fascismo. Non abbiamo pensato alla conseguenza. Il fascismo è stato una detestabile cosa, una trista avventura e Mussolini è stato, assai più che uno scellerato, un pazzo, perché ha trascinato l’Italia nella sua megalomania, verso un destino di morte. Ma Mussolini non è il solo responsabile del fascismo: e il fascismo è ben lontano dall’essere il maggiore responsabile dei tragici avvenimenti. Questo noi dobbiamo dire a tutto il mondo; la responsabilità del fascismo non è soltanto nostra. La responsabilità del fascismo è divisa con i vincitori, perché sono stati essi che, quando il fascismo era tante volte in pericolo lo hanno aiutato, lo hanno sorretto.

Il fascismo è stata una deplorevole avventura italiana. Il fascismo non è stato però soltanto un uomo, né è stato soltanto un fenomeno italiano. Il fascismo è stato l’espressione di uomini ricchi e di ceti privilegiati (Applausi a sinistra), e non è stato solo un episodio italiano, è stato un episodio europeo e americano di un certo periodo.

Dopo che io mi resi conto che non potevo più resistere alle persecuzioni fasciste, dopo che avevo avuto la casa distrutta e che ero con la mia famiglia in permanente pericolo, mi persuasi che non avevo altro da fare se non esulare, e mi recai prima, in Isvizzera, a Zurigo. Zurigo è città ricca, è la città dei grandi banchieri. A Zurigo nessuno osava apertamente esaltare il fascismo. Ma quasi tutti gli uomini importanti erano fascisti. Là erano infatti quasi tutti quei banchieri che agivano potentemente sulla vita economica. Tanta parte del movimento industriale italiano si riattacca a Zurigo; soprattutto il cotone.

Ebbene, tutti senza dirlo erano per il fascismo e avevano quasi l’aria di compiangermi mentre io li guardavo non senza tristezza. A Zurigo lasciai molti estimatori e amici personali e pochi antifascisti.

Dopo quasi due anni, andai a Parigi, dove purtroppo dovetti rimanere molti anni. Pur avendo grandi amici e accoglienze cordiali, l’esilio fu troppo lungo. La prima cosa di cui dovetti occuparmi appena arrivato fu la ricerca di una casa: allora le case erano costosissime, e quasi sempre superiori alle mie risorse.

Trovai alfine la casa di un vecchio barone. Andai da lui, declinai il mio nome che egli probabilmente non conosceva o non comprese. Mi chiese un prezzo esorbitantissimo e, quando io gli dissi delle difficoltà della vita, e quando gli dichiarai che non potevo spendere quanto mi chiedeva, allora mi rispose che i tempi erano difficili per tutti, ma che io era italiano e soggiunse: Voi almeno, in Italia, avete la fortuna di un uomo che può veramente salvarvi. E mi fece l’apologia di Mussolini! Poi aggiunse che di uomini simili c’era gran bisogno e che anche la Francia avrebbe dovuto averne. Io gli risposi soltanto: Prenez le nôtre. (Ilarità).

Io non so se quell’uomo banale apprezzò il complimento, ma certo non se ne mostrò offeso.

Se vi raccontassi tutta la mia odissea e tutte le cattive impressioni che io dovetti avere! In diverso modo tutti gli uomini di buona società o gran parte di essi erano benevoli per il fascismo. Ah! quale fastidio di sentir dire ancora adesso dagli italiani, al mio ritorno in patria, che il fascismo è stato soltanto un fenomeno italiano. E però io non tollero che questa menzogna duri. Il fascismo è stato un fenomeno generale: gli uomini ricchi, i ceti privilegiati trovarono che era più conveniente la morale fascista: prendere l’operaio per la gola piuttosto che prenderlo per la mano. E furono per Mussolini. Io ho fatto, in tanti anni di esilio, prove dolorose: con tristezza ho trovato negli ambienti ch’io credevo meno favorevoli, simpatie e solidarietà d’idee e di sentimenti col fascismo. La colpa originaria del fascismo senza dubbio è nostra, sì: un popolo di oltre 40 milioni di abitanti (ora di 46) è responsabile sempre del suo Governo; e quando noi esageriamo le colpe del fascismo internazionalmente e intenzionatamente, non pensiamo che il pubblico straniero si domanda (quante volte da uomini di studio e di esperienza ho sentito questo discorso): Ma se l’Italia non è responsabile di aver inventato il fascismo, chi ne è responsabile? Si può ammettere che un esercito di occupazione nemico invada un Paese, e lo domini e costringa all’obbedienza tutti i cittadini; ma un Paese che non è invaso, che ha un suo esercito, una sua vita nazionale, come può non essere responsabile di tutte le colpe di un sistema che dura a lungo? Quante volte questa osservazione mi ha colpito, perché è vera. Noi ci siamo troppo a lungo rassegnati al fascismo. Siamo responsabili, perché non abbiamo saputo e voluto ribellarci. La nostra difesa non è nel negare le nostre colpe, ma nel constatare che la colpa nostra è stata divisa dall’Inghilterra, dalla Francia, dall’America. Quante volte l’Italia mostrava di volersi liberare del fascismo, i loro uomini o i loro giornali più importanti intervenivano in una forma o nell’altra a favore del fascismo. I popoli liberi, in cui credevamo, non solo ci sono spesso mancati, ma i loro uomini più notevoli non sono stati per noi, è sono stati spesso contro di noi.

Quando penso che l’Inghilterra (ho tanti amici inglesi; non vorrei dire cosa poco rispettosa) ci ha dato i più tristi esempi, e con la sua azione in Italia e nel mondo ha sostenuto i fascisti, proprio quando il fascismo era per cadere: quale tristezza! All’indomani del delitto Matteotti, come all’indomani di altri delitti, grandi personaggi inglesi sono venuti in Italia a mostrare simpatia e solidarietà.

Noi abbiamo visto le cose più inverosimili; abbiamo visto Capi di Governo e ministri potenti venire a Roma, mostrarsi ossequienti verso Mussolini, prodigargli espressioni di simpatia e di stima; e non solo uomini dei partiti conservatori, ma dei partiti popolari più avanzati. E il mio buon amico Mac Donald non si è egli stesso degnato di venire a Roma, egli, Capo dell’Impero britannico, a fare atto di omaggio a Mussolini, che non si degnava di andare all’estero e di visitare Paesi stranieri…

ROMITA. Aveva paura!

NITTI. Probabilmente. Ora, quale spettacolo! Quando l’Italia era in qualche momento sul punto di riprendere la sua vita normale e forse di liberarsi, veniva a Mussolini l’aiuto straniero. Tutta l’Inghilterra ha appoggiato il fascismo. Abbiamo visto i giornali più conservatori come i più liberali essere in gara di simpatia con i giornali a grande diffusione, i giornali più riservati nei loro giudizi come i più popolari. Quale è ora il giornale più diffuso?

Voci. Il Times.

NITTI. No, il Daily Express. I giornali di lord Beaverbrook come di lord Rothermere, ecc., vuol dire parecchi milioni di copie di giornali, erano destinati ogni giorno a glorificare Mussolini o per lo meno ad esaltarlo! Tutti questi giornali non hanno fatto che l’apologia del fascismo, per tanti anni, a milioni, a diecine di milioni di copie ogni giorno. E noi abbiamo visto, ciò che è molto più grave, i più grandi personaggi inglesi venire in Italia solo per sostenere il fascismo. I viaggi di Austen Chamberlain mi scandalizzarono e mi offesero; io ruppi con lui ogni amicizia, benché fossi suo amico fin dai tempi di suo padre. Gli scrissi un’aspra lettera, quando vidi che si abbandonava anche lui ad adulazioni di quel genere. Austen Chamberlain è andato in Spagna, per sostenere Franco, ed è venuto in Italia soltanto per sostenere la dittatura; il Governo inglese, per mezzo del rappresentante più autorevole della sua politica estera, è stato il primo a sostenere il governo fascista! Ed ora rimproverare le colpe del governo fascista come colpe soltanto italiane è per lo meno eccessivo!

Io non posso dimenticare che non solo vi è stata assistenza amichevole, ma che quasi tutti gli ambasciatori che si sono succeduti sono stati più o meno per il fascismo, a cominciare dal mio vecchio amico Rennell Rodd, che alla vigilia di lasciare la sua carriera, ha voluto chiuderla facendo l’apologia del fascismo. E gli altri ambasciatori che si sono seguiti, in diversa misura hanno apertamente sostenuto il fascismo!

E se il fascismo è responsabile della guerra contro il loro Paese, quale non è anche la loro responsabilità! Non bisogna dimenticare che si è sempre tenuto lo stesso atteggiamento da parte del Governo inglese. Basta ricordare l’azione funesta di Erick Drummond, già segretario generale della Società delle Nazioni. Io ho documenti che provano che, nel periodo di maggiori difficoltà di Mussolini, Drummond cercò di toglierlo da tutti gli imbarazzi e di fare agire in suo favore il Governo inglese!

Anche quando Austen Chamberlain è morto, Neville Chamberlain, prima Ministro e poi Primo Ministro, ha lavorato per il fascismo. Morto Austen Chamberlain, la sua cortese signora si è installata a Roma, quasi come l’agente della propaganda fascista, anche presso il cognato divenuto primo Ministro. Quando abbiamo assistito a questi tristi fatti, perché tutte le colpe del fascismo si fanno ricadere sull’Italia?

E altrove è stata la stessa cosa. L’America forse ha minor colpa, ma anch’essa quale colpa!

Quali cose inverosimili sono accadute! L’America che non ha mai mandato in passato ambasciatori che entrassero nelle cose interne dell’Italia, ha mandato per la prima volta ambasciatori la cui funzione è stata quella di essere veri agenti del fascismo! Fra questi, tristissimo per la sua opera, Child, il quale per lungo tempo è stato qui a Roma arbitro di situazioni importantissime. Era un modesto scrittore che si credeva grande scrittore, ma era di una grande fertilità. Era divenuto l’apologista di Mussolini in tutti i giornali e in tutte le riviste. Nella stampa americana e nella rivista più diffusa in America, «Saturday Evening Post», non ha fatto che l’apologia del fascismo e di Mussolini, in scritti ridicoli (perfino Mussolini col leone, Mussolini che va a cavallo, Mussolini guerriero, agricoltore, oratore ecc.). Tutte queste banalità sono state diffuse dall’ambasciatore del più grande Stato. Tutte queste stupidaggini sono state pubblicate e diffuse dal rappresentante dell’America nella più diffusa stampa americana e forse del mondo.

Ma è cosa ancora inferiore al danno più grave di vedere i più grandi banchieri d’America prestarsi alla gloria del fascismo. Noi abbiamo visto l’inverosimile. Non vi parlo di Morgan, che era indifferente ma benevolo, né di un uomo stimabile come il suo grande socio, Lamont; vi parlo in generale di tutta la finanza americana. Ma i grandi banchieri che avevano tradizioni erano moderati nelle loro manifestazioni.

E la finanza ebraica? Quei finanzieri ebrei, Loeb, Schiff, Kahn, non sono stati caldi sostenitori del fascismo? Io scrissi ad uno di essi un’aspra lettera (si chiamava Otto Kahn, grandissimo banchiere) e gli dissi: i movimenti reazionari del tipo di quello di Mussolini cominciano e finiscono nell’antisemitismo. A Kahn ebreo vanitosissimo, io volli avvertire che con Mussolini prima o dopo si sarebbe arrivati all’antisemitismo. Egli è morto, ma io devo ricordare a sua vergogna che egli portò la mia lettera in omaggio all’ambasciatore d’Italia a Washington e da allora molti miei amici non ebbero facilità di vivere in alcuni ambienti!

Abbiamo visto le cose più inverosimili. Il più ricco uomo di America, il più potente era Andrew Mellon. Individualmente più ricco di Rockfeller e di Ford. Era nello stesso tempo non solo l’uomo più ricco ma potentissimo come Ministro del tesoro. La sua potenza era enorme negli Stati Uniti. Io lo conoscevo personalmente, e, vedendo l’appoggio che dava a Mussolini, gli scrissi una lettera per dirgli quale dolore ne provavo: perché Mussolini non poteva che fare opera incivile. Ebbi una risposta che ho conservato a lungo come documento inspiegabile di passione conservatrice e vorrei dire di aberrazione. Conosceva benissimo l’Italia. Veniva quasi ogni anno a Roma, dove aveva una figliuola maritata. Mi rispose con una difesa calorosa di Mussolini e del fascismo. Mi parlò delle opere importanti di Mussolini e disse che non era vero che in Italia non c’era libertà. Volle mettere in luce che si lavorava in Italia e che le ferrovie arrivavano in orario. Gli risposi con una lettera ironica: i treni arrivavano spesso in orario, in quanto a libertà era come a Sing Sing, che è il carcere di New York. C’era una libertà vigilata. E in quanto al lavoro, anche prima si era lavorato in Italia come si doveva lavorare anche dopo. Se un uomo come Mellon, che era potenza economica e finanziaria mondiale, si metteva apertamente in questa posizione e, dopo essere stato a Roma, mostrava tanto entusiasmo, chi non riconosce che l’America ha la più grave responsabilità del fascismo?

Non vi parlo della Francia. Ho vissuto tanti anni e ho frequentato tutti gli ambienti anche i più aristocratici e i più ricchi e sono stato un po’ dovunque. Ora che cosa fu la Francia per il fascismo? Tranne Clemenceau, in principio, e pochi liberali e pochi conservatori di vecchio stampo, quasi tutti gli altri uomini politici ebbero la loro debolezza per il fascismo.

Senza dubbio Herriot, Caillaux, Painlevé non furono amici del fascismo e Briand, senza combattere il fascismo, mi diceva che era sicuro della sua prossima, fine. Ma dopo di essi quale mutazione! Tardieu sognava di imitare il fascismo e Mussolini, e sognava qualche cosa che dovesse essere il fascismo. Gli uomini conservatori che parevano in apparenza più rispettabili, gli uomini dell’«Académie», quei grossi personaggi in generale noiosi e senza vera importanza nel mondo del pensiero, non furono nella gran parte che propagandisti di Mussolini? Non vi parlo di Henri Bordeaux, di Paul Bertrand, di Abel Hermant, dei vescovi, degli arcivescovi, di tutta quella gente inutile dell’«Académie». Ma tutto il mondo dell’«Académie», anche quello che pareva il più progressivo non faceva che l’apologia di Mussolini. L’espressione abituale era: Moscou ou Rome: come se fossero due cose che dovevano essere indispensabili, l’una o l’altra.

Vi fu maggiore scandalo del viaggio di Laval a Roma nel 1935? Laval era al colmo del suo successo e della sua potenza. Era a capo di un enorme Ministero nazionale, che conteneva i maggiori uomini, anche Herriot.

La guerra europea fu decisa a Roma nel 1935. Da che cosa? Dalla visita di Lavai a Mussolini, cosa gravissima che non è stata sufficientemente considerata. Il brindisi di Mussolini del 5 gennaio 1935 e tutta l’organizzazione che fu fatta intorno a quel movimento determinarono la situazione che precipitò poi verso la guerra. Laval è caduto; ma egli era l’uomo più potente di Francia in quel momento e, nel 1935, tutti i grandi capi, o molti capi, erano nel Ministero Laval, che era un Ministero di concentrazione nazionale. Ebbene, che cosa fu il risultato di quella visita? Fu la guerra di Abissinia che significò la guerra europea. Laval nel suo brindisi (cosa incredibile) disse a Mussolini: Vous avez écrit la plus belle page dans l’histoire de l’Italie moderne, cioè pagina più grande di quelle scritte da Michelangelo, da Leonardo da Vinci e dai più celebri italiani. Quando venne il dissidio fra Inghilterra e Italia, e tutto il conflitto davanti la Società delle nazioni, Laval fingendo solidarietà con l’Inghilterra, i lavorava contro di essa e faceva ridere i suoi giornali sulla vieille ferraille della flotta inglese.

Cosa ben più terribile; il generale Mordacq uomo di grande fama e che era stato il capo di gabinetto militare di Clemenceau e il maggiore suo collaboratore, scrisse con la sua firma che l’amicizia e la solidarietà di Mussolini e del fascismo erano la cosa più importante. Messa nelle condizioni di scegliere fra l’amicizia dell’Inghilterra e quella dell’Italia fascista, la Francia non doveva esitare ed essere per l’Italia fascista. La risposta a Mordacq, che ebbe larga eco, io non potetti firmare ma era scritta da me. La guerra dell’Abissinia non poteva finire che con la guerra europea. Ora la Francia così sensibile non ricorda che la responsabilità del fascismo è anche e in non poca parte sua. Non parlo dei nazionalisti francesi. A quali eccessi per tanti anni non ricorsero, per ammirazione di Mussolini!

Ed anche, mi perdonate, molti socialisti non furono tolleranti o benevoli per il fascismo? Perfino il buon amico Thomas non fece in forma abile e discreta l’apologia di Mussolini e non trovò anche che Primo de Rivera era apprezzabile per ciò che faceva per le classi operaie?

Ognuno ha la sua parte di colpa del fascismo, che è stato fenomeno internazionale. Buttare tutte le colpe sull’Italia e dire che il fascismo è stato un fenomeno italiano e che ha prodotto la guerra è falso. È cosa che io non posso leggere in un documento ufficiale italiano senza disgusto e senza indignazione.

Io avevo, andando all’estero, molte illusioni. Credevo che la massoneria, essendo una associazione libera ed umanitaria, dovesse combattere il fascismo. E, preso da questa illusione, ho viaggiato a mie spese buona parte dell’Europa per vedere tutti i capi delle massonerie. Io non sono stato mai massone e tengo a ripeterlo perché non vi sia equivoco. Ma ho sempre avuto simpatie nella massoneria, che ho considerato istituzione libera e progressiva. Ho girato gran parte di Europa: sono andato perfino nei paesi del nord, dove i re e i principi reali sono sempre i capi della massoneria. Ho girato dovunque, ho bussato a tutte le porte. Credevo che un movimento intellettuale contro gli eccessi e le violenze del fascismo potesse avere un gran peso.

In Inghilterra il capo della massoneria era uno zio del re attuale, il duca di Connaught, uomo serio, vecchio e che della massoneria si occupava moltissimo. Suo successore fu il duca di Kent, fratello del re attuale che morì in un incidente di aviazione.

Devo dire che il duca di Connaught mi parlò con molta stima del fascismo, tanto che io non osai davanti a lui proseguire molto nella mia dura critica, perché vicino ad un personaggio reale di tanta importanza e anche serio e di buona fede non mi parve cosa opportuna.

E poi girai tutti i Paesi scandinavi; visitai i re di Svezia, di Norvegia e di Danimarca e trovai spiriti liberi, uomini meglio disposti a comprendere il fascismo. Quelle massonerie erano tutte sotto la direzione di personaggi reali, o un re o un personaggio della famiglia reale, quindi gente seria e ben educata e che ascoltava correttamente anche le mie critiche. In fondo, tutti convenivano nelle mie espressioni, ma non erano, a quanto mi parve, disposti a fare nulla. Sperai nelle massonerie latine. Qui ebbi nuove delusioni.. Scusate se vi intrattengo su argomenti massonici.

Le massonerie continentali sono di tipo scozzese; ma alcune di queste democrazie sono aderenti all’A.M.I. L’onorevole Labriola lo sa. (Ilarità – Interruzione dell’onorevole Labriola).

Io volevo rendermene conto e cercai di capire le situazioni. Le massonerie continentali sono divise, in fondo, dall’idea del Dio personale. Le massonerie del tipo anglosassone non ammettono che si possa essere massoni senza credere nell’Iddio personale. Vi sono quelli che fanno a meno del Dio personale e non ne fanno una convinzione indispensabile. Io volevo penetrare le varie massonerie e vidi quindi tutti i capi che mi era possibile vedere: in Svizzera, in Francia, nel Belgio, ecc. In Belgio il capo della massoneria (e anche dell’A.M.I) era un mio amico personale, Charles Magnette, che era presidente del Senato. Egli mi dovette confessare che, in fondo, il fascismo aveva molti amici e ammiratori nella massoneria anche più radicale, di fronte a quella antica e tradizionale. E per quanto avesse cercato da parte sua di essermi utile (veniva anche spesso a vedermi a Parigi), non poté fare un grande lavoro perché l’ambiente non era del tutto favorevole.

Illuso, come ero allora, spesi parecchio denaro, mandai amici, di cui qualcuno è ora qui, a vedere i capi delle organizzazioni operaie. Mi interessavo soprattutto della Federazione internazionale dei trasporti che, per la sua potenza e per la sua ricchezza, poteva con un movimento bene organizzato mettere il fascismo in condizione di non resistere in alcuni momenti. Vidi tanta gente. Credevo di trovare spiriti ardenti: in fondo erano d’accordo con me, ma non facevano niente per far cadere il fascismo.

Mi accorsi di aver perduto molto denaro, molto tempo e molto fiato, con modestissimi risultati.

Vi affermo dunque che la responsabilità del fascismo non è solo italiana, ma è divisa in larga misura fra i grandi dominatori, e soprattutto da quei Paesi, come l’Inghilterra, l’America e la Francia, che ora più ci rimproverano di aver seguito il fascismo.

E per questo mio profondo convincimento io non accetto, così com’è concepito, l’ordine del giorno dell’onorevole Ruini, e lo combatterò se non si toglie l’affermazione delle responsabilità che pesano sull’Italia per colpe del fascismo, considerato esso stesso come fenomeno solamente italiano e, cosa più assurda, come causa principale della guerra.

Dicono qui che questo ordine del giorno sia stato ispirato (tante cose si dicono qui dentro che non sono vere) dall’onorevole De Nicola. Più che l’Aula, il Transatlantico è fertile di invenzioni. E poi che l’onorevole De Nicola, rispettoso dei suoi doveri costituzionali, equanime e riservatissimo sempre, abbia suggerito questo ordine del giorno…

RUINI. Non è affatto vero. Chi l’ha detto?

NITTI. Si è detto qui e si ripete da molti e certamente non è vero. Non penso che abbia detto lei una cosa simile. Penso anzi il contrario. Ma l’ordine del giorno suo io non voterò se non sarà mutato perché, così com’è, fa cadere la responsabilità della guerra sul fascismo, facendo anche supporre che il fascismo sia stato soltanto italiano.

RUINI. La responsabilità è del fascismo, non dell’Italia, come sostengono coloro che ritengono la pace giusta e meritata.

NITTI. Ciò è tanto più grave, se può creare un terribile equivoco. Se più grave è stata la responsabilità dell’Italia nel fenomeno del fascismo, questa responsabilità ricade in gran parte sui grandi stati vincitori; e le cause della guerra sono ben più profonde e antiche.

E se noi siamo stati e siamo vinti, non è detto che questa sia una situazione permanente. Tutto è nello stato d’animo che sarà in noi. Risorgeremo. Guardate alla Francia. La Francia è stata in guerra più battuta di noi. La Francia ha presentato un caso unico nel mondo moderno di un esercito intero, di un esercito di milioni di uomini che si arrende al nemico senza combattere. Questo fatto non era avvenuto mai prima.

Le cause della caduta dell’esercito francese non sono militari soltanto e non tolgono alla gloria di un paese che è stato il più guerriero di Europa. Rappresentano un fenomeno transitorio che è dipeso da cause molteplici.

Ora noi perché dobbiamo abbatterci? Ogni momento diciamo non solo che siamo vinti, ma che siamo responsabili della guerra. Sì, siamo vinti, ma la Francia è stata più vinta di noi. Soltanto essa spiritualmente non ha accettato la disfatta. In fondo, perde chi vuole perdere. L’uomo che vuole resistere resiste contro tutte le avversità.

E se noi, a causa del fascismo, abbiamo responsabilità della guerra, i vincitori non solidarizzarono con il fascismo, non lo sorressero quando era in difficoltà, non lo aiutarono quando era nei suoi momenti più critici? L’Inghilterra e la Francia e la stessa America e i loro uomini più importanti e in più grande situazione, non ne vollero forse consolidare il trionfo?

Il fascismo è stato l’espressione di uno stato d’animo di un periodo di reazione spirituale e morale. Inventato in Italia, ha conquistato tanta parte di Europa e di America a traverso alcuni ceti e a traverso uomini che anche inconsciamente ne dividevano le passioni. Il Fascismo fu la manifestazione di sentimenti che fermentavano negli animi: era la forma spesso incosciente della reazione.

Io sono il solo capo di governo italiano che non si è fatto mai illusione. Io ho sempre combattuto il fascismo. Non ho mai voluto riconoscerlo. Dal primo momento quando gli altri cedevano io non volevo né meno riconoscerlo e affrontavo tutti i pericoli e tutte le avversioni degli esaltati e dei convertiti. Gli altri cedevano perché speravano, come si diceva allora, di «normalizzare» il fascismo che io ho sempre ritenuto un governo di fatto e non un governo di diritto e che doveva fatalmente arrivare, a traverso la follia, a una catastrofe nazionale.

Mussolini, l’ho sempre detto, fu soprattutto un folle. La follia ha una grande attrazione e una grande potenza diffusiva. Nella storia abbiamo visto tante volte la follia comunicarsi anche in ambienti che parevano meno disposti quando corrispondeva a condizioni di disordine morale o di incertezza o di pericolo.

Perché uomini diversissimi giunti al massimo della potenza come i Mellon, come i Chamberlain, come i grandi ambasciatori britannici e americani abbiano accettato con entusiasmo il fascismo e abbiano lavorato per consolidarlo, occorreva che si trattasse non già solo di una perversione nazionale italiana, ma di qualche cosa che non era solo dell’Italia.

Il fascismo non è stato dunque un fenomeno soltanto italiano, ma rappresentava una disposizione di spiriti che assunse in Europa e in America forme differenti e che si esplicò nel proteggere e difendere, o almeno nel non disturbare, l’azione dell’Italia fascista.

Quando si afferma che il fascismo ha prodotto la guerra e che è stato un fenomeno italiano, si dice cosa non vera da uomini che, se non sono ignoranti, preferiscono mostrare ignoranza.

Le cause profonde di guerra esistevano in Europa fin dopo l’altra guerra e non certo a causa dell’Italia.

Se non si arrivava prima o dopo alla revisione del trattato di Versailles, bisognava arrivare alla guerra.

La Società delle nazioni essa stessa non fu il tempio della pace che Wilson si era proposto, ma la borsa dei valori dei vincitori e il covo di tutti gli intrighi e di tutti i grandi affari.

Per molti anni si è vissuti sugli equivoci e sulle falsità. Le vicende della pace di guerra sono note. Si è arrivati dove si doveva arrivare e ciascun paese ha avuto la sua parte di responsabilità nella catastrofe finale, che è culminata nella guerra del 1939. E certamente anche l’Italia con il suo contegno vi ha contribuito. Ma vi hanno contribuito altri paesi in misura anche maggiore.

Io, ripeto, non posso però accettare, tanto più se viene dagli Italiani stessi, la ridicola affermazioni che la guerra è conseguenza del fascismo, che per essere stato italiano il fascismo, deve il nostro paese scontarne le conseguenze.

Se si aggiunge, come si fa di ordinario, che l’Italia stessa, con il movimento dei partigiani e dei ribelli, abbia cooperato alla fine del fascismo, si dice cosa vera, ma della quale i vincitori non sembra abbiano tenuto sufficientemente conto. Durante la lotta contro il fascismo in rovina, vi sono state disposizioni amichevoli da parte dei vincitori che sono state man mano dimenticate.

Ma il fatto che moltissimi italiani, liberati dal fascismo, attribuivano essi stessi nel fervore della lotta ogni responsabilità al fascismo e anche la guerra, della quale sapevano poco, per quanto riguardava le cause, non fu utile né alla verità, né alla causa dell’Italia.

I generali francesi più in vista e uomini politici fra i più notevoli sono stati miei amici e compagni di prigionia (da Gamelin a Paul Reynaud, a Daladier ecc.) e nella intimità della prigionia, quando abbiamo potuto, abbiamo discusso tutti gli argomenti della guerra. Io ho sostenuto, spesso in disaccordo, la tesi che ora sostengo: che l’Italia non era più abbattuta della Francia e che l’Italia non rappresentava un paese decadente, ma rappresentava ancora una grande forza; e che sarebbe risorta.

Una voce. La Francia ha avuto De Gaulle.

NITTI. Sì, la Francia ha avuto De Gaulle. Ma chi era De Gaulle? Era un ignoto ufficiale, un colonnello. Aveva pubblicato due libri: uno, soprattutto, di un vero interesse, sulla necessità di avere una armée professionnelle. Rappresentava una tesi nuova. Al programma dei vecchi generali (sopra tutto Pétain) di un esercito numeroso per la difensiva e con mezzi potenti di difensiva (ligne Maginot) contrapponeva l’idea di un esercito meno numeroso e sempre pronto a entrare in guerra offensiva con mezzi potenti e tecnicamente di grande efficacia.

Ora De Gaulle sarebbe stato ignorato, se un uomo politico intelligente, il mio amico Paul Reynaud, finanziere e studioso e spirito polemico, non gli avesse dato grande notorietà. Ed allora De Gaulle fu celebre, non per atti di guerra, che non aveva compiuti: anzi egli era uomo di fiducia del maresciallo Pétain.

L’Italia non ha avuto De Gaulle e non poteva averlo. De Gaulle, sempre colonnello, promosso da Pétain maggior generale, era andato in Inghilterra inviato dal maresciallo Pétain e fece l’opposto di ciò che Pétain voleva. Trovò aiuti in Inghilterra e poi non potendo fare la guerra sul territorio francese, caduto completamente in mano dei tedeschi, la trasportò in Africa del Nord, in Algeria. Aiutato dagli inglesi, giunse con navi inglesi e trovò largo aiuto e collaborazione e mezzi di lotta.

Certamente vi erano in Italia ufficiali superiori e generali coraggiosi e degni. Ma chi poteva aiutarli? E dove potevano andare, anche ribellandosi, a iniziare la lotta e con quali mezzi?

Questa è la spiegazione semplice perché in Italia non vi sia stato un De Gaulle.

Ma tutta la lotta dové essere concentrata nell’interno. La cosa più semplice per tutti coloro che odiarono il fascismo e per i pochissimi che ne avevano subito le persecuzioni era di insultare il fascismo e di attribuirgli anche le colpe che non aveva. Il fascismo era solo responsabile di tutto e anche della guerra mondiale; questa la tesi più semplice che i vincitori accettavano e che più contribuì anche agli effetti del trattato di pace come causa della nostra debolezza.

Avevamo molte responsabilità, ma le esagerammo o almeno per odio di parte e desiderio di vendette interne nessuno pensò di ricordare che il fenomeno fascista non era solo italiano, che i principali responsabili di aver sostenuto e rafforzato e in alcune ore difficili salvato e mantenuto il fascismo in Italia era proprio dei capi e responsabili dei paesi vincitori, sopra tutto Inghilterra, America, Francia.

Questo fu un grosso errore. (Interruzioni – Commenti).

Ora è tempo di realtà e anche nelle relazioni internazionali è tempo di rinunziare a false illusioni. Mi limito ad alcuni punti dell’attuale controversia e soprattutto ad alcuni errori che ritornano e ad alcune nuove illusioni che risorgono.

Il Ministro degli esteri ci ha presentato i nuovi avvenimenti di questi giorni come tali da trasformare o modificare profondamente la nostra situazione. Gli avvenimenti cui il conte Sforza ha preso parte non sono di notevole importanza politica, né riguardano in alcun modo la nostra situazione internazionale, né tanto meno i cattivi passi che ci sono imposti ingiustamente dal diktat e che noi, per non aver modo di resistere alle ingiustizie, dovremo accettare.

Il conte Sforza è andato a Parigi solamente in occasione della riunione di una commissione internazionale che deve occuparsi dello studio di ciò che si chiama impropriamente il piano Marshall. Non è un piano politico, o economico, ma materia di studio proposta dagli americani agli europei e a tutti gli europei perché si mettano d’accordo su ciò che è possibile fare per regolare con l’America la loro azione economica, in modo che non vadano per diverse vie e opposte.

È in fondo un tentativo dell’America di cercare di metter gli europei, cosa molto difficile, in accordo fra di loro. Dunque né un aiuto diretto ora, né un piano: ma materia di studio, senza dubbio importantissima.

L’onorevole Ministro degli esteri, conte Sforza, è però andato a Parigi in una situazione afrodisiaca dello spirito (Ilarità), o per lo meno euforica, disposto a vedere tutto roseo ed ha annunziato tutte le più grandi cose, che non sono state fatte e che non si fanno, o non si faranno perché non si possono fare.

Da parecchi giorni prima della sua andata a Parigi i giornali italiani in data del 13 e del 15 avevano esaltato l’opera che il conte Sforza andava a compiere. Si trattava invece di andare a Parigi per prender parte a una importante commissione di studio di materia non facile, che interessa l’Europa e l’America, non di un grande successo dell’Italia in un ambiente politico mutato.

Quando, tornando da Parigi, il Conte Sforza – amo sempre chiamarlo conte, perché la radio per lui solo questo titolo ripete più volte ed è egli l’unico uomo per cui lo ripete (Ilarità) e non voglio mancargli di riguardo – è disceso all’aerodromo di Ciampino alle ore diciotto (ricordiamo anche l’ora storica). Egli ha voluto fare immediatamente alcune dichiarazioni, cosa che fa onore alla sua solerzia e alla sua resistenza, e dopo tanto viaggio, ha detto: «Torno da Parigi, dove l’Italia, dopo tanti anni di dolore ha almeno ritrovato il suo giusto posto di pari tra i pari, tra le più grandi potenze del mondo. Io a Parigi non ho fatto che pensare continuamente agli interessi dell’Italia che si identificano con la pace e per questo abbiamo cercato di creare nuove forze di collaborazione internazionale, di collaborazione europea che salvi l’Europa dal caos e dalla miseria. Abbiamo cercato, io per primo (naturalmente), (Si ride) di lasciare la porta aperta a tutti i popoli e a tutti gli uomini di Stato e a chiunque voglia aderire alla nostra buona volontà». E la gente senza dubbio si è domandata: Che cosa ha ottenuto il Conte Sforza?

E poi il Conte Sforza si è abbandonato alle fantasie. Ha lasciato sperare che il patto, che non è patto e che non è fatto, può rimettere presto in piedi l’Europa e quindi l’Italia…

CALOSSO. Si sta facendo.

NITTI. Me lo spiegherà lei dopo.

CALOSSO. Lei è infallibile. Mi permetta…

PRESIDENTE. Onorevole Calosso, non interrompa!

CALOSSO. Nitti è un grande uomo, d’accordo, ma non è il Padre Eterno. Io non ho fatto che una semplice interruzione. (Commenti).

PRESIDENTE. Desidera forse anche lei essere un grande uomo? (Si ride).

NITTI. Il Conte Sforza ha parlato del piano Marshall e di questo avvenimento che senza dubbio tutti osserviamo con interesse come una conquista e un successo, ma si è abbandonato ai sogni più diversi e ha preveduto le cose più lontane. Ha detto perfino: dobbiamo mettere in comune tutte le nostre risorse di Europa. Abbandonandosi alla fantasia, l’onorevole Conte aveva parlato anche di cose lontane cui nessuno a Parigi aveva forse pensato. A un certo punto ha detto di una sua idea: di mettere le risorse idrauliche dei ghiacciai alpini al servizio di tutto il mondo, come se le risorse alpine, già ora utilizzate, fossero ignote. Egli ha parlato del massiccio delle Alpi che è italiano, francese, svizzero ed austriaco. Se questi quattro popoli si uniscono, ha detto il conte Sforza, noi possiamo dare all’Europa più migliaia di volts in energia pari a molti milioni di tonnellate di carbone.

E che sono questi ghiacciai alpini? Non forse esistevano sempre e forse sono ignoti agli idraulici e non sono adoperati e utilizzati in grandissima parte? S’è detto che le quattro nazioni interessate si debbano unire; ma adesso come fanno? È proprio necessario attendere tutte queste nuove forme di vita esposte in forma iperbolica per arrivare all’idea d’impiegare in comune risorse idrauliche? E perché trasformare una questione attuale di acque fra Italia e la Svizzera in una questione di costituzione economica mondiale?

Il Conte Sforza è andato anche più in là nel suo ottimismo. Egli ha sperato di essere mediatore fra l’Oriente e l’Occidente e di mettere qualche cosa come la pace del mondo fra gli uni e gli altri. Cosa senza dubbio importante, ma in cui naturalmente egli dovrebbe trovare qualche difficoltà, e soprattutto una certa incredulità, non dirò da parte dei popoli lontani che vuole raggiungere, ma anche dai suoi ascoltatori. Queste cose si possono chiamare ideali. Ma sono seriamente ideali?

Ideali, tutti possono averne: e ognuno a suo modo ne ha. Si tratta di vedere se si tratta di ideali che possiamo realizzare e che abbiano fondamento.

Che cosa in fondo, signori, si prepara a Parigi? Che cosa è quello che impropriamente si chiama il piano Marshall? Non è niente di definito. È materia di studio. L’Europa, in conseguenza della guerra, si è non solo rovinata politicamente, ma non è più una unità economica vivente.

L’Europa, anche prima di questa guerra ultima, era discesa da quella che fu la sua grandezza, ma fino alla guerra era ancora il centro economico del mondo.

Infatti il commercio di importazione del mondo era in dollari di 32 milioni e 149 mila dollari, di cui 19.143 erano dell’Europa, 7182 dell’America, 3634 dell’Asia, 923 dell’Australia, 815 dell’Africa. Quindi, l’Europa era l’arbitra del mondo.

L’America, entrata in guerra nel 1915, era debitrice dell’Europa di 5 miliardi di dollari. Ne uscì creditrice di 15 miliardi. Il movimento ascensionale dell’America da allora è continuato. L’Europa si è sempre più impoverita, l’America si è sempre più sviluppata.

Dopo la guerra dalla quale usciamo, l’azione dell’America è diventata onnipotente. Ora essa domina la situazione economica mondiale e l’Europa e l’Asia sono ben lungi dall’esportare ciò che chiedono largamente all’America, spesso senza possibilità di pagamento, soccorsi e aiuti.

Che cosa è il piano Marshall? L’America teme giustamente di essere vittima della sua potenza e della sua larghezza. Essa, ormai, al di là di un certo limite, non può che dare, ma non ricevere. La difficoltà dell’America è che importa poco in scambio delle sue esportazioni. Non vi sono in America importazioni se non in quantità assai limitata. Di fronte ad una esportazione di 16 miliardi di dollari destinati in gran parte ai paesi assistiti, vi sono 8 o 9 miliardi soltanto di esportazione dei paesi quasi tutti debitori dell’America.

Questa situazione minaccia l’America nella sua vita sociale e anche nella sua vita economica. L’America non può continuare a esportare senza pericolo il doppio di ciò che importa sopra tutto a credito.

L’America ha fatto anche a noi molti prestiti ed è stata di amichevole larghezza. E se noi non siamo caduti nei due ultimi anni è per l’assistenza amichevole dell’America a cui non dobbiamo mai negare la nostra gratitudine.

L’America, quando accorda un prestito, che cosa fa in realtà? Dà facoltà di acquisto di merci e di mezzi sul suo territorio. Siccome non dà nulla in valuta straniera, dà il diritto di acquistare merci e di valersi di mezzi che sono sul suo territorio: ma queste merci e questi mezzi sono per noi condizioni di vita: carbone, grano, cotone, trasporti; e chi li dà? È lo stato americano che per dare a noi paga. Ma lo Stato compera dai privati e in fondo l’America contribuisce a noi con mezzi dati dai privati.

In realtà sono i cittadini privati che in forma diretta o indiretta forniscono i mezzi. Dall’estero le merci importate sono scarse, perché la produzione europea e a più gran ragione l’asiatica, sono scarse. Mancano le materie prime e in generale si lavora assai meno di prima e qualche volta non vi è in alcuni paesi né meno volontà di lavoro.

Che cosa si è proposto Marshall? Egli si è proposto di porre agli europei il loro problema, dicendo loro: voi vivete in guisa da rendere difficile se non impossibile, ogni ricostruzione economica e chiedete all’America che vi dia merci e crediti in quantità grandissima e non esportate che solo in parte ciò che vi sarebbe necessario. Aumentate dunque la vostra produzione e quindi la vostra esportazione…

CALOSSO. E vi pare niente?

NITTI. …per chiedere a noi quello che vi possiamo dare utilmente, e nello stesso tempo per produrre di più sul vostro territorio.

CALOSSO. Dice il contrario di quello che aveva prima annunciato.

NITTI. Nossignore. Lei non comprende, lei interrompe senza comprendere.

Gli Americani, non hanno un piano, ma sperano di riuscire, mediante la iniziativa Marshall, a determinare, insieme alla coscienza del pericolo da parte degli Europei, e diminuendo le divisioni e i contrasti economici fra di loro, la necessità urgente di aumentare tutti i mezzi e la produzione, senza di cui non vi può essere ripresa. Non vi è alcun piano, ma è un proposito, è una idea che vuole determinare la base di un movimento. Il nostro governo non è stato invitato a Parigi per alcuno scopo politico, ma per una partecipazione a una iniziativa di carattere economico e che costituisce nella fase attuale materia di studio.

A Parigi mancavano tutti gli stati europei continentali importanti per il loro numero, tranne la Francia, che è considerata fra i vincitori.

Non vi era nessun grande Stato: la Russia non c’era, non c’era la Germania vinta, non vi era una nazione di grande popolazione. L’Italia aveva almeno la funzione di un grande Stato che entrava nel movimento per l’idea di Marshall con larghezza di popolazione, ma non di mezzi. Era il paese occidentale di Europa che presentava il vantaggio di avere una popolazione di 46 milioni di abitanti, tale da dare la sensazione che vi era possibilità di una intesa di un grande nucleo di europei. A quale risultato arriverà la iniziativa Marshall e fra quanto tempo? Nessuno può ora dire.

Mi hanno detto che è ritornato da Parigi l’onorevole Tremelloni che il governo italiano aveva delegato. Non ho visto ancora l’onorevole Tremelloni.

È difficile che egli possa dire molto più di ciò che tutti supponiamo e anche se ha fatto qualche comunicazione non può dire ciò che ancora non esiste. Noi rivolgiamo a noi stessi alcune domande. E prima di tutto: quanto tempo occorrerà perché la conferenza arrivi a risultato? Senza dubbio parecchio tempo. E per ciò che riguarda aiuti sperati, se vi saranno, credo che le fantasie esagerino. L’America, all’infuori del movimento Marshall, può dare ancora, per necessità o per generosità, qualche tentativo di aiuto all’Europa. Deve liquidare il passato e può anche, se crede, con una certa larghezza: ma l’America, mediante e a causa della iniziativa Marshall, non può fare niente subito. Deve seguire da ora necessariamente lunghe procedure. Le richieste dei paesi europei, se vi saranno, bisogna che siano coordinate e messe di accordo. Le richieste e le proposte dovranno essere riunite in un progetto concreto che deve essere a suo tempo presentato al Presidente, il quale lo farà esaminare a traverso gli organi competenti da un certo numero di esperti. Dopo vi sarà l’esame del Congresso con tutte le formalità necessarie. Dopo il Congresso, sempre che non vi siano opposizioni, il progetto dovrà essere mandato alla Tesoreria, che deve preparare e disporre i mezzi occorrenti in misura adeguata.

Queste non sono cose di immediata esecuzione.

L’America, a sua volta, deve agire secondo i suoi interessi e deve tener conto delle sue difficoltà; se vuole evitare una crisi sociale, deve nello stesso tempo evitare che si produca un’altra forma di inflazione.

Quindi, in questa situazione, noi dobbiamo attendere e confidare e guardare le cose in cui possiamo sperare. Niente è puerile come credere o far sperare aiuti immediati o solleciti e tanto meno permanenti per effetto delle discussioni nel non dirò piano, ma suggerimento di studi che è il tentativo Marshall.

Il Conte Sforza ha voluto dire ciò che potremo perdere non ratificando immediatamente. Ha parlato anche delle grandi pressioni che ha avuto per la sollecita ratifica.

Io devo osservare, egli mi scuserà, che io non credo a intense pressioni dell’America e dell’Inghilterra per farci ratificare presto, né al grande pericolo di qualche ritardo. Quando lo stesso Conte Sforza (credo il 16 o il 17 luglio) alla Commissione dei trattati ci parlò di pressioni dell’Inghilterra, l’ambasciatore d’Inghilterra era stato al Ministero degli esteri all’una del pomeriggio e, io credo, aveva anche dichiarato che l’Inghilterra si rimetteva alle decisioni degli italiani.

Il Conte Sforza, dopo aver accennato ai danni che ci potevano venire, ci ha parlato di altre cose che eravamo minacciati di non avere è ci ha detto che, se noi entro il 10 agosto non avessimo ratificato il trattato, non potevamo, entrare nell’O.N.U.

Ma, scusi, onorevole Sforza, da quale disposizione dei trattati e degli accordi risulta questo divieto? Io ho fatto ricercare nelle ambasciate e negli uffici inutilmente e sempre senza trovar nulla. Ma il Conte Sforza ha qualche elemento che lo autorizzi a dire che noi non possiamo tardare oltre il 10 agosto senza pericolo? Questa disposizione dubito che ci sia: io non l’ho trovata e temo che il Ministro si sia sbagliato e non la troverà.

Nello stesso tempo che le pressioni degli ambasciatori di Francia, di Gran Bretagna e perfino dell’America sarebbero state attive perché il trattato fosse presto ratificato da parte dell’Italia, l’onorevole Sforza ha assicurato che a dare esecuzione al trattato sarebbe seguita presto la ratifica dell’U.R.S.S. Di ciò io non avevo sicurezza, e non mi risultava in alcuna guisa. Ma l’onorevole Sforza se ne mostrava fiducioso e vorrei dire sicuro: in base a quale informazione? Ho cercato di raccogliere informazioni e non ne ho trovato alcuna attendibile, né da quelli che sono gli organi dell’informazione russa, né altrove. Non ho trovato alcun elemento che ci faccia credere che la Russia abbia dato un affidamento a breve termine, come è stato dichiarato dall’onorevole Sforza che non vedo dunque dove abbia preso queste notizie.

SFORZA, Ministro degli affari esteri. Dalle corrispondenze degli ambasciatori, è semplicissimo.

NITTI. Quali ambasciatori? Quello forse di Mosca? Da Brosio, l’ineffabile Brosio? (Commenti).

PACCIARDI. Perché ineffabile? Rappresenta l’Italia in Russia.

CALOSSO. Privo di vanità com’è Brosio!

NITTI. L’O.N.U., se anche vi entreremo, non sarà probabilmente in condizione di essere e di agire come vorremmo in nostro favore, se ne avremo bisogno, almeno per qualche tempo. Ciò che accade in Grecia e nei Balcani ne è la prova.

Fra le altre grandi potenze del mondo, ve ne sono due, che, per ragioni opposte, sono le maggiori, sì che per il loro contrasto più inquietano: sono gli Stati Uniti di America e l’U.R.S.S. L’America ha la più gran parte delle materie prime, la più gran parte della produzione di tutto ciò che costituisce il materiale necessario alla guerra, i mezzi bellici nuovi e più potenti che non sono, o si crede che non siano, in altri paesi.

Essa può mettere ogni altro paese in imbarazzo e dal punto di vista economico dispone e disporrà della sorte di interi continenti, fin che non vi sarà una situazione diversa che non prevediamo se e quando possa formarsi.

L’America è ora in situazione unica di potenza dal punto di vista economico e militare. Ha la nostra simpatia e la nostra gratitudine per quanto ha fatto per noi.

La Russia non ci ha dato nulla e non può ora dar nulla. È un mondo in formazione. È il paese immenso con la sua enorme riserva di terre ancora incoltivate e di materie prime utilizzabili se non ancora utilizzate. Ma non può ora aiutare alcuno. Basta tutt’al più a se stessa e con difficoltà e non vi è nemmeno possibilità di commerciare considerevolmente anche in prossimo avvenire. Ha avuto nella guerra le più grandi perdite, manca o difetta di molti prodotti anche per sé stessa. Per esportare produce a costi più alti che altrove. Anche il livello di vita della sua popolazione non potrà essere prossimamente elevato; il suo commercio sarà molto limitato e sarà anche inferiore a quello di piccoli paesi occidentali. Però la Russia ha sulle folle di occidente una grande attrazione che non possiamo dimenticare, un’attrazione spirituale: essa ha agli occhi di tutte le masse umane il fascino di un paese senza padroni, cioè di rappresentare come aspirazione un ideale umano, che se non è realizzabile secondo l’ideale comunista, vive non di meno in molte anime.

Vi sono popoli di occidente ancora ricchi e potenti, non vi sono popoli che hanno la sicurezza dei loro sistemi sociali.

Ma vi sono popoli e genti che a somiglianza e nella illusione dell’U.R.S.S. vivono con lo stesso miraggio e si rassegnano anche a situazioni di miseria e di oppressione. Sperano in un ideale che sarà raggiunto se non dai loro figliuoli dai loro nipoti. Credono e certamente attendono che tutto diventi comune a tutti? Sono stati illusi? Si illudono? Io credo che il loro sogno non sarà realizzato. L’avvenire solo dirà. Ma noi non possiamo essere indifferenti dinanzi a questo avvenimento umano, di masse umane che nei paesi più diversi corrono dietro lo stesso ideale e le stesse speranze.

Noi siamo, come paese di scambio, legati strettamente all’Inghilterra e all’America. Non possiamo risorgere senza l’aiuto e senza la benevolenza dell’America.

Non dobbiamo né meno dimenticare che l’America ci ha dato aiuto e può dare e che non è possibile la nostra ricostruzione del sistema di scambio senza di essa.

La Russia e l’America sono le due grandi antitesi della civiltà moderna.

Hanno vinto la guerra del 1939. La Russia ha avuto le più grandi perdite di uomini che la storia dei popoli di tutto il mondo e in tutti i tempi ricordi. L’America stessa che non aveva avuto mai una grande guerra fuori del suo territorio (nel 1914-18 aveva annunziato la perdita complessiva di 50 mila uomini, ma i veri morti combattenti o morti in seguito di combattimenti furono forse appena 10 mila) ha nella guerra ultima avuto perdite rilevanti e non può dire ancora di esser sicura della pace che si prepara. Se non risolverà in Asia il problema del Giappone e in Europa il problema della Germania, l’America non potrà dire di aver raggiunto i suoi scopi e né meno una pace sicura e durevole.

L’America e la U.R.S.S. cercano invano dopo la guerra di ritrovare se non un’azione comune, una intesa per scopi comuni.

L’America è spiritualmente in contrasto acuto con la Russia. Il contrasto spirituale e di potenza determinerà la guerra? La guerra che non ha basi economiche ma contrasti di sentimenti e volontà incosciente di potenza? La guerra può anche essere vicina? E la guerra giungerà inattesa e più terribile e distruggitrice?

Noi speriamo, se verrà, di esserne fuori e io ho creduto fino ad alcuni mesi fa che la guerra non dovesse venire, che noi in ogni caso dovessimo rimanere fuori della terribile lotta. Ora ho qualche dubbio e anche non posso dissimulare inquietudini che sorgono in me.

Il mio amico Paul Reynaud, che ha tutte le qualità più notevoli dei Francesi e anche l’orgoglio nazionale, ha pubblicato due volumi: su come «la France a sauvé l’Europe» (perché i Francesi, anche gli spiriti più fini credono di aver salvato il mondo). Il mio amico Paul Reynaud è un osservatore politico di cui bisogna tener conto. Fu lui che primo in Francia sostenne che la guerra doveva essere tecnica e meccanizzata e non essere difensiva con masse di soldati. In altri termini aveva anticipato gli avvenimenti e in altra forma preveduta l’azione dei Tedeschi. Nel 1939 non vi erano i mezzi tecnici attuali né tanto meno le forze sovvertitrici e travolgenti come la bomba atomica e altri che son tenuti secreti. È fatto nuovo e che ancora poco tempo fa non era prevedibile. Vi sarà chi, avendo i mezzi e la forza per una guerra fulminea e di sterminio, oserà? Chi li avrà e oserà, avrà vinto la guerra fulmineamente. Chi sarà il primo? Ha fatto questa domanda. Se altri avesse detto queste cose io non mi sarei inquietato. Ma Paul Reynaud che sarà probabilmente il capo di un prossimo governo francese (Commenti) e che conosce tutto il meccanismo dello scambio e la situazione degli armamenti date le forme moderne, quando ha parlato questo linguaggio mi ha vivamente turbato.

Noi dobbiamo rimanere fuori della guerra per quanto ciò sia possibile. Le nostre frontiere sono oramai pur troppo aperte a tutti e noi siamo senza veri mezzi di difesa.

Non volere la guerra da cui non possiamo sperar nulla e che non può esserci che dannosa se non fatale necessità. Dobbiamo però in tutti i nostri atteggiamenti conservare rapporti con i paesi di scambio e soprattutto dobbiamo avere la fiducia dell’America, senza di cui non è facile la nostra resurrezione, e anche per gratitudine.

Io devo finire con un voto. Io non ho niente da proporre. (Commenti). Solo i fatui hanno soluzioni per tutti i problemi e rimedi per tutti i mali.

CALOSSO. Questa è la critica al suo discorso.

NITTI. Abbia la cortesia di ascoltarmi per cinque minuti e, se le piacerà, vedrà che sono disposto a trovare in questa difficile ora qualche cosa che ci raccolga in un consenso di volontà.

CALOSSO. È quel che faccio religiosamente!

NITTI. Io non voglio accettare e tanto meno presentare un ordine del giorno che sia materia di divisione, ma voglio che l’ordine del giorno da adottare sia espressione di fierezza e di dolore e, tenendo conto della situazione penosa, affermi la nostra volontà di resurrezione. Ratificando un trattato ingiusto, riconosciamo la realtà che ci è imposta. Ma, pur non volendo essere elemento di disordine e turbare quella relativa pace che si potrà avere in tanta discordia del mondo, noi affermiamo che nello stesso interesse dei vincitori e della pace, giustizia ci dovrà essere resa in avvenire.

Noi dobbiamo ratificare il trattato, non appena esso avrà le condizioni per essere eseguito. Dobbiamo prima di tutto però trovare modo di esprimere il nostro profondo dolore all’atto della ratifica del trattato di pace, affermando che constatiamo con dolore come le condizioni fatte all’Italia sono non solo in contradizione con tutte le solenni affermazioni dei vincitori, ma anche ingiuste e tali da fare torto a coloro che le hanno volute.

Senza dubbio il trattato è contrario in quasi tutte le sue disposizioni alle norme fondamentali della giustizia internazionale. È durissimo, per un ammirevole popolo come l’italiano che ha dato inestimabili contributi alla civiltà del mondo, e che dovrà, passata l’ora della sua oppressione, dare ancora largo contributo alla nuova civiltà, per la sua vitalità sempre rinascente.

Queste parole vanno interpretate nel senso che non vi è nessun paese in Europa che sia rinato tante volte. L’Italia cade e rinasce. Quante volte l’Italia è caduta dopo periodi di sfolgoranti vittorie! Non è mai caduta in maniera da abbattersi! Ha avuto le orde di Alarico e nei tempi moderni l’umiliazione e i danni del tempo di Clemente VII, in cui Roma fu saccheggiata e tutta Italia fu in fiamme. Eppure è sempre rinata!

Nell’ora del dolore noi dobbiamo proclamare che rinasceremo. Bisogna affermare questa volontà di rinascita, che è in noi non solo affermazione sentimentale, ma proposito nazionale.

L’Italia riconosce che, nonostante tutto, deve per lo stato di necessità in cui è messa accettare le condizioni imposte dai vincitori. Il Trattato di pace sottoposto all’esame dell’Assemblea e che il Governo sottoscrisse quando ne assunse la responsabilità, rende tanto più necessario che vi sia una ratifica sincera e sicura del Parlamento.

Dal momento che dai vincitori, esagerando a torto, si attribuisce al fascismo la guerra mondiale, io voglio che, accettando il Trattato, noi affermiamo che il fascismo sorto in Italia fu proprio nella sua fase peggiore, nel colmo del suo sviluppo e della sua potenza, che trovò sempre il consenso la difesa e l’aiuto di quelli che sono stati i nostri vincitori.

La responsabilità del fascismo, come universale tendenza di reazione, non è stata solo dell’Italia, ma effetto di un movimento generale anche nei paesi di civiltà liberale e democratica.

L’Italia ha sottoscritto il Trattato di pace. Il Trattato è stato firmato dal Governo senza essere sottoposto al Parlamento. È tanto più necessario che il Parlamento lo discuta e lo affronti lealmente in occasione della ratifica.

Non sapete quanto io soffra e come avrei preferito essere coi miei amici, soprattutto con l’amico Croce, nella sua idealità filosofica e per cui forse non si rende conto sufficientemente delle condizioni in cui sarebbe posto il popolo italiano se vi fosse un distacco da parte nostra dai paesi vincitori e anche soltanto diffidenza per noi da parte dell’America.

Io invidio il mio amico Orlando che nella sua serenità spirituale osa dire che non ratifica!

ORLANDO VITTORIO EMANUELE. No, no, no! (Applausi).

NITTI. Io invidio che egli possa fare, senza temere gravi conseguenze per il paese, questo gesto che ha tanta attrazione per chi lo fa e tanta ne avrebbe per me. Noi sappiamo invece quali responsabilità assumeremmo e che cosa sarebbe dei nostri figli. Tutti che siano uomini devoti alla patria dobbiamo invece umiliare noi stessi e subire con l’amarezza il dovere della ratifica.

L’Italia dunque ratificherà il Trattato di pace immediatamente dopo il voto del Parlamento, appena che ne sia possibile l’entrata in vigore, cioè dopo il deposito delle ratifiche da parte della Francia, della Gran Bretagna e Irlanda del Nord, degli Stati Uniti di America e dell’U.R.S.S.

Ma per ciò che il Governo ci domanda, per la ratifica immediata, io vorrei trovare una formula che il Governo possa accettare. Noi dobbiamo attendere la ratifica di Mosca: non è possibile che non l’attendiamo. Ma poiché nel Governo vi è la preoccupazione di dar prova della sua buona volontà, l’Assemblea, alla vigilia di sospendere i suoi lavori e le sue discussioni, per le vacanze parlamentari, autorizza il Governo a dare tutti gli affidamenti, perché, subito dopo che vi saranno le condizioni necessarie, il trattato votato dal Parlamento sarà ratificato.

Questa è cosa che tutti possono accettare.

Io accetto la ratifica con estremo dolore; mi umilio nel chiedere questo, ma voglio che la nostra decisione sia efficiente e chiara. Ora, quando noi con il voto del Parlamento diamo garanzia che, compiuti gli adempimenti, il Governo procederà immediatamente alla ratifica, ci obblighiamo fin da ora a scegliere la via più semplice e più breve che deve rassicurare tutti.

L’ordine del giorno che mi son deciso a sottoscrivere desidero sia espressione di un comune sentimento di tutti i partiti e spero che raccolga l’unanimità dei consensi. La votazione deve essere affermazione del comune dolore, ma insieme della volontà comune di resurrezione.

Io non devo fare altre dichiarazioni.

Signori, io non chiedo nulla, non voglio nulla: voi lo sapete. Ho l’anima piena di dolore e tutta la mia vita è tristezza. Nessuno mi può attribuire alcuna vanità, cioè alcun desiderio. Anche il mio più crudele nemico non può credere che io anche ora non dia prove di rassegnazione e di modestia. Dopo tanti anni di lotte, d’esilio e di deportazione nell’amore della patria, per me è più penoso che per ogni altro accettare il sacrificio di un sentimento che è profondo nella mia anima, l’orgoglio nazionale. Ma è l’inizio necessario. Vi chiedo, signori, in questo momento di unirci nell’ideale della Patria, senza di cui non è resurrezione. Io detesto tutte le nostre divisioni e la fazione che soffoca la nazione, il particolarismo che rende difficile o impossibile l’opera comune di resurrezione e di vita. Questo è giorno di umiliazione e di dolore. Cerchiamo, accettando il sacrificio, di essere uniti in una stessa fede nazionale e nella stessa visione di avvenire.

Signori, se possiamo, ritroviamoci almeno oggi insieme. (Vivi applausi – Congratulazioni).

PRESIDENTE. È iscritto a parlare l’onorevole Bassano. Ne ha facoltà.

BASSANO. Onorevoli colleghi, mi sembra anzitutto superfluo dichiarare che io parlo non a nome del mio Gruppo, ma a titolo puramente personale. Mi sembra superfluo dichiararlo, in quanto in una discussione come questa, che investe i fondamentali interessi del Paese, non vi possono essere distinzioni di gruppi; ognuno assume le proprie responsabilità di fronte alla propria coscienza e di fronte al Paese.

Ciò premesso, devo innanzi tutto rilevare – e mi sembra che in questo siamo tutti d’accordo – che il momento scelto dal Governo per questa discussione non poteva essere meno felice. Basterebbe a dimostrarlo il fatto che l’Assemblea, unanime o quasi nel riconoscere la ineluttabilità più che la necessità di ratificare il Trattato di pace, è oggi divisa circa la tempestività di tale ratifica.

Detto però questo, e nonostante l’autorità dei sostenitori della contraria opinione, a me sembra, francamente, che la scelta del momento per questa discussione non debba influire sulla nostra decisione, e che ridurre la discussione stessa ad una questione di tempestività significhi abbassarne il tono e diminuire la indubbia importanza – giuridica, politica, morale – della decisione che dobbiamo prendere.

La questione ha un duplice aspetto, uno che si potrebbe chiamare formale o giuridico, l’altro sostanziale o politico. Ma i due aspetti in fondo si identificano, perché mai, forse, come in questo caso la forma assume carattere di sostanza. Lo conferma il fatto che coloro i quali sostengono che la ratifica dovrebbe essere ritardata, se non addirittura negata, partono dal presupposto, a mio modo di vedere errato, che il Trattato di pace possa entrare in vigore anche senza la ratifica dell’Italia, col semplice deposito delle ratifiche da parte delle quattro grandi Potenze. E mi sembra che anche il Governo sia su questo terreno, almeno a giudicarne dal testo dell’articolo che ci è stato sottoposto, nel quale si legge che «il Governo della Repubblica è autorizzato a ratificare il Trattato dopo che esso sarà divenuto esecutivo a norma dell’articolo 90».

E precisamente perché a me sembra che questo sia errato ho presentato un emendamento nel quale, invece, si dice che il Governo della Repubblica è autorizzato a ratificare il Trattato di pace dopo il deposito delle ratifiche da parte delle quattro grandi Potenze.

Il mio emendamento sostitutivo dell’articolo unico del disegno di legge è così formulato:

«Il Governo della Repubblica è autorizzato a ratificare il Trattato di pace fra le Potenze Alleate e Associate e l’Italia, firmato a Parigi il 10 febbraio 1947, dopo il deposito delle ratifiche da parte dell’Unione delle Repubbliche Socialiste Sovietiche, del Regno Unito di Gran Bretagna e dell’Irlanda del Nord, degli Stati Uniti d’America e della Francia, ai sensi dell’articolo 90».

Dunque la questione, dal punto di vista giuridico o formale che dir si voglia, si imposta in questi precisi termini: dobbiamo ritenere che il Trattato di pace, per diventare perfetto, attenda la manifestazione di volontà che deve concretarsi nella ratifica da parte dell’Italia e delle Potenze Alleate e Associate, oppure che questo Trattato possa entrare in vigore indipendentemente dalla ratifica dell’Italia, per il semplice fatto di essere ratificato dalle quattro grandi Potenze, nel qual caso neppure da un punto di vista meramente formale sarebbe a parlare di Trattato, ma dovrebbe, invece, esclusivamente parlarsi di imposizione delle condizioni di pace fatte all’Italia?

Ora, io devo subito dichiarare che mi rifiuto di accettare questa seconda interpretazione, prima di tutto per ragioni di carattere politico, per il rispetto che noi dubbiamo alle Potenze vincitrici, nei riguardi delle quali la ratifica del Trattato dovrebbe rappresentare una data veramente storica, cioè segnare la fine di un periodo doloroso per tutti e l’inizio di una nuova era di collaborazione, anzi di solidarietà fra i popoli, per la soluzione di problemi che interessano egualmente tutti, vincitori e vinti, in quanto attengono alla ricostruzione dell’Europa e del mondo su nuove basi.

Se però, io mi rifiuto prima di tutto per questa ragione di carattere meramente politico di accettare tale interpretazione, a maggior ragione devo respingerla per motivi di ordine strettamente giuridico. Possiamo cioè noi ritenere che le Potenze vincitrici abbiano voluto, con il Trattato che purtroppo ci viene imposto, violare prima di tutto quell’elementare principio di diritto internazionale, secondo il quale i trattati devono essere ratificati, e diventano perfetti esclusivamente con la ratifica?

In due soli casi, che non ci riguardano, la ratifica non è necessaria: quando essa non sia richiesta dalle leggi costituzionali dello Stato, o quando il plenipotenziario sia munito di pieni poteri, e quindi di ratifica non vi sia bisogno. Ma, ripeto, né l’una né l’altra ipotesi riguarda l’Italia.

Non la prima. Se ne sarebbe, infatti, potuto parlare imperando lo Statuto Albertino, che all’articolo 5 demandava la dichiarazione di guerra e la firma dei trattati di pace esclusivamente al Re, il quale ne dava comunicazione alle Camere appena l’interesse e la sicurezza dello Stato lo avessero consentito. In questo caso, quando il plenipotenziario era munito di pieni poteri, non c’era neppure bisogno di ratifica e l’approvazione da parte del Parlamento costituiva esclusivamente materia di diritto pubblico interno, cioè serviva solo perché il Trattato entrasse a far parte dell’ordine giuridico interno.

Di questo, però, non è più a parlare ora, dato che più non vige lo Statuto Albertino, ma la nuova legge istituzionale del marzo 1946, che ha demandato esclusivamente all’Assemblea Costituente l’approvazione dei trattati internazionali.

Neppure è a parlare della seconda ipotesi, perché, quando l’Ambasciatore Soragna firmò il Trattato di pace, accompagnò la firma non solo con una solenne protesta, ma con la espressa riserva della ratifica da parte di questa Assemblea.

Quindi, la firma apposta al Trattato rappresentò solo una obbligazione del Governo, ed obbligazione fino ad un certo punto, in quanto subordinata alla condizione sospensiva della ratifica da parte di questa Assemblea.

Basta poi semplicemente leggere l’articolo 90 del Trattato di pace per convincersi che le Potenze vincitrici non hanno inteso per nulla violare il principio di diritto internazionale di cui sopra.

«Il presente Trattato (dice l’articolo 90), di cui i testi francese, inglese e russo fanno fede, dovrà essere ratificato dalle Potenze Alleate ed Associate. Esso dovrà anche essere ratificato dall’Italia».

L’articolo soggiunge: «Esso entrerà in vigore immediatamente dopo il deposito delle ratifiche da parte dell’Unione delle Repubbliche Socialiste Sovietiche, del Regno Unito di Gran Bretagna e dell’Irlanda del Nord, degli Stati Uniti d’America, della Francia».

Come si vede, questa clausola aggiuntiva non si riferisce ai rapporti tra l’Italia e le Potenze Alleate o Associate, bensì ai soli rapporti interni tra queste ultime.

Presupposto di essa è che vi sia la ratifica dell’Italia.

Se noi dessimo all’articolo una diversa interpretazione, violeremmo anche quella norma interpretativa di carattere generale, per cui le clausole d’un contratto devono nel dubbio interpretarsi nel senso che abbiano un qualche effetto e non nel senso che non ne abbiano alcuno.

Infatti, interpretando l’articolo 90 nel senso che il Trattato potrebbe entrare in vigore anche senza la ratifica da parte dell’Italia, col semplice deposito delle ratifiche da parte delle quattro grandi Potenze, noi verremmo a non dare alcun effetto alla clausola secondo la quale il Trattato deve essere ratificato anche dall’Italia.

Quindi la ratifica dell’Italia costituisce il presupposto per la perfezione del Trattato. Questo per diventare perfetto – e per potere, di conseguenza, entrare in vigore – deve essere ratificato da noi e dalle Potenze Alleate o Associate.

E che sia così, onorevoli colleghi, è confermato dal capoverso dell’articolo 90, il quale dice: «Per quanto concerne ciascuna delle Potenze Alleate o Associate, i cui strumenti di ratifica saranno depositati in epoca successiva, il Trattato entrerà in vigore alla data del deposito». Non vi si parla, cioè, dell’Italia – la cui necessità, di ratifica, per la perfezione del Trattato, è fuori discussione – ma solo vi si regolano, come dicevo, rapporti interni fra le Potenze Alleate ed Associate, disponendo che nei riguardi di ciascuna di esse il Trattato entrerà in vigore alla data del deposito delle rispettive ratifiche: in conformità, precisamente, dei principî del diritto internazionale.

Quale, allora, lo scopo della clausola aggiuntiva circa la entrata in vigore del Trattato? Quello, evidentemente ed esclusivamente, di rendere possibile la fine del regime armistiziale con l’Italia prima ancora della ratifica del Trattato da parte di tutte le Potenze Alleate ed Assodate, col semplice deposito delle ratifiche da parte delle quattro grandi Potenze.

Concludendo, se a fare entrare in vigore il Trattato di pace basta il deposito delle ratifiche da parte delle quattro grandi Potenze, questo deposito ha come necessario presupposto la ratifica da parte dell’Italia.

Questa necessità, del resto, era stata esplicitamente quanto unanimemente riconosciuta da questa Assemblea con l’ordine del giorno votato nella seduta del 25 febbraio di quest’anno, nel quale è detto: «L’Assemblea Costituente, preso atto delle comunicazioni del Governo sulle condizioni nelle quali è stato firmato il Trattato di pace, afferma che il deposito della ratifica italiana, per la quale è costituzionalmente richiesta l’autorizzazione dell’Assemblea Costituente, costituisce, in conformità alle regole del diritto internazionale, un requisito essenziale per la perfezione e l’entrata in vigore del Trattato».

Ed allora viene fatto di domandarsi: come è che il Governo per il primo, come risulterebbe dal testo dell’articolo che ci è stato sottoposto, avrebbe, a questo riguardo, cambiato opinione?

Chiedendo, infatti, di essere autorizzato a ratificare dopo che il Trattato sarà divenuto esecutivo, esso mostra di ritenere che questa esecuzione ci possa essere indipendentemente dalla ratifica nostra: il che mi sembra costituisca, per tutto quello che ho detto, un vero assurdo giuridico e politico.

Ecco perché mi permettevo di dire che la questione formale e giuridica nel caso si identifica con quella sostanziale.

Non intendo poi abusare della pazienza dell’Assemblea, ma dal punto di vista sostanziale mi sembra non si possa, quale che sia l’interpretazione da dare al detto articolo 90, fare a meno di ratificare questo sia pure ingiusto e, più che ingiusto, deplorevole Trattato.

Noi antifascisti dobbiamo anzitutto ratificarlo per quelle stesse ragioni di libertà, di giustizia, di collaborazione tra i popoli per le quali siamo stati sempre avversi al fascismo: se anche queste ragioni, che sono le ragioni ideali per le quali i nostri ex-nemici dicevano di fare la guerra, essi oggi, nell’imporci il Trattato, hanno mostrato di dimenticarle. Poco importa, onorevoli colleghi, che tocchi proprio a noi, antifascisti, di dover accettare un Trattato che sanziona gli errori di un regime che abbiamo, per venticinque anni, sempre combattuto, e commina, per essi, pene immeritate che vanno oltre la misura del giusto. Esso, infatti, non ha tenuto conto che il popolo italiano non poteva essere tenuto responsabile degli errori del fascismo, in quanto avendo, per fatto del fascismo, perduta la propria libertà, era di quegli errori non il responsabile, bensì la prima vittima.

Ciò nonostante, ripeto, noi abbiamo il dovere di accettare e ratificare questo Trattato, anche perché è proprio dei popoli forti accettare la responsabilità degli errori dei governanti e subirne le conseguenze, se anche ingiuste o immeritate. Accettando questo indegno Trattato, noi, rappresentanti del popolo italiano, daremo prova di quella stessa forza, di quella stessa fierezza di cui, di fronte alle sue immeritate sventure, ha saputo dar prova il popolo italiano, opponendo ad esse uno spirito di resistenza e di rinascita che ci può essere invidiato da molti di quegli stessi Stati vincitori che oggi ci impongono le condizioni della loro pace.

Noi antifascisti (e credo, con questo, di parlare a nome della grande maggioranza, se non della quasi totalità di questa Assemblea) siamo stati sempre avversi al regime fascista per ragioni di politica interna, perché questo regime, giunto al potere con mezzi illegali, ci aveva, per mantenervisi, privati di ogni libertà. Ma non lo siamo stati meno per la sua politica di avventure nel campo internazionale, per avere esso, anche in questo campo, tentato di sostituire un regime di violenze, di egoismi, di sopraffazioni a quei rapporti di collaborazione e di solidarietà tra i popoli, che dovrebbero costituire il fondamento della politica degli stati democratici nel campo internazionale.

Noi fummo, quindi, tenacemente avversi all’impresa etiopica, che con la rottura del così detto fronte di Stresa preparava le condizioni favorevoli per una nuova conflagrazione internazionale. E non mutammo opinione neppure quando il successo arriso all’impresa sembrò darci torto e rafforzare il regime ed il suo capo. E fummo del pari, ed anche più tenacemente avversi alla nostra partecipazione alla nuova guerra mondiale, nonostante sembrasse che la vittoria fosse già dalla parte del nostro alleato, ed a noi non toccasse che concorrere alla spartizione dei frutti della vittoria tedesca. Lo fummo esclusivamente per ragioni ideali e per tre lunghi anni abbiamo vissuto nel tragico dilemma di non potere augurare al nostro Paese una disfatta, di cui erano prevedibili le conseguenze, ma di non potergli, purtroppo, neppure augurare la vittoria, che avrebbe segnato la rovina nostra e dell’umanità, in quanto ci avrebbe asserviti tutti alla Germania hitleriana.

È questa anzi, fra le tante, la colpa che neppure oggi sappiamo perdonare a Mussolini, nonostante l’espiazione della sua tragica quanto ingloriosa fine. Ed è la colpa stessa per la quale abbiamo rovesciato la monarchia, nonostante non fosse, non dico fatta, ma neppure preparata la repubblica.

Non si dica, quindi – perché costituirebbe offesa ai nostri sentimenti più sacri – che il nostro atteggiamento dopo l’armistizio fu determinato da ragioni di opportunità o di calcolo. Non si dica che con la cosiddetta cobelligeranza noi avremmo inteso seguire quella politica che tante volte ci è stata rimproverata, e che è stata definita dei giri di walzer. No, quella politica noi abbiamo seguito esclusivamente perché rispondeva ai reali e sinceri sentimenti del popolo italiano, che anelava alla libertà propria e del mondo e nelle truppe alleate vedeva veramente le truppe liberatrici. E se – come si dice da molti, ed è esatto – questo Trattato è ingiusto anche perché non ha tenuto conto, o non ha tenuto nel giusto conto quella nostra cobelligeranza, ebbene noi non ce ne adontiamo e molto meno ne facciamo una ragione di opposizione al Trattato, precisamente perché di quella cobelligeranza, di cui siamo fieri ed orgogliosi, noi non intendevamo essere ringraziati e molto meno retribuiti, in quanto determinata esclusivamente dai nostri sentimenti e da quelli che ritenevamo fossero i nostri interessi di cittadini di uno Stato tornato finalmente libero.

Per queste stesse ragioni ideali che determinarono la nostra cobelligeranza noi vogliamo oggi, nonostante le sue palesi ingiustizie, ratificare il Trattato di pace. Abbiamo però, prima di ratificarlo, il diritto di dire qualche parola amara a coloro che ce lo impongono; abbiamo, cioè, il diritto di dire loro: voi avete creduto, con questo Trattato, di umiliarci nel nostro orgoglio di Nazione, non sottoponendoci un Trattato, ma imponendoci un dettato sulle condizioni di pace; voi avete creduto di ferirci in quel sentimento che abbiamo più caro, cioè nel sentimento di Nazione, privandoci di terre che ci sono particolarmente care, per averle riscattate nell’altra guerra col sangue di milioni di nostri soldati; voi avete creduto di umiliarci, privandoci, con le colonie, del frutto di mezzo secolo del nostro lavoro; voi avete voluto dimenticare che i nostri soldati sono morti a fianco dei vostri per la stessa causa della libertà del mondo; voi avete dimenticato – come ha ricordato l’onorevole Gasparotto nel suo elevato discorso di due giorni fa – le gesta gloriose, al vostro fianco, della nostra Marina, che già da avversaria avevate imparato a rispettare, se non ad ammirare.

Voi avete dimenticato tutto questo, ma non ci avete umiliati. Cercando di umiliarci, ci avete anzi messo su un piano morale più elevato del vostro. Noi possiamo infatti rispondervi che, se avete creduto di umiliarci imponendoci un Trattato disonorevole, ebbene questo Trattato noi invece accettiamo precisamente per rialzarci: per riprendere cioè il posto che ci spetta nel consesso delle libere Nazioni. Se voi ci avete privato di terre che ci sono particolarmente care, ebbene, non fatevi illusioni, quelle terre, da oggi, saranno più che mai italiane, e i nostri fratelli che Voi, con la violenza, avete voluto staccare da noi, si sentiranno più che mai legati alla Madrepatria, si sentiranno, da oggi, più che mai italiani! E se avete creduto di toglierci il frutto del nostro lavoro, togliendoci le colonie, ebbene in quelle colonie resteranno le tracce non solo di quel nostro lavoro, ma resteranno, soprattutto, le tracce del nostro grado di civiltà, perché il nostro non è stato un regime di oppressione, ma un regime di civiltà.

Questo noi abbiamo il diritto di dirvi nel momento in cui Voi, dimenticando le ragioni ideali della nostra guerra al vostro fianco, ci imponete questo indegno Trattato. Ma se voi avete dimenticato i nostri morti, i soldati morti a fianco dei vostri, noi non abbiamo dimenticato i vostri morti; noi non abbiamo dimenticato che sul suolo italiano è venuto a morire il fior flore della gioventù anglo-americana. Noi non abbiamo dimenticato i vostri morti di Cassino e di Anzio, che ci sono cari quanto i nostri morti. Anche per questi morti, anzi, noi ratifichiamo questo indegno Trattato. Ma abbiamo il diritto di dirvi che anche per questi morti, per il rispetto che dovete ad essi, Voi non avreste dovuto imporcelo. (Applausi – Congratulazioni).

Presidenza del Vicepresidente CONTI

PRESIDENTE. È iscritto a parlare l’onorevole Nobile. Ne ha facoltà.

NOBILE. Onorevoli colleghi! Ero ben lontano dall’immaginare che avrei avuto l’occasione di parlare sul cosiddetto trattato di pace. Mi ero convinto che l’Assemblea avrebbe deciso di non tenere alcun dibattito su tale penoso argomento. Ciò che poteva dirsi contro l’indegno documento, che ora è davanti a noi, quasi tutto era stato già detto fuori di questa Assemblea; perciò; immaginavo che in quest’Aula avrebbe avuto luogo, non già una discussione, ma piuttosto una solenne, austera cerimonia, in cui, dopo che avesse parlato per la storia, nella maniera concisa e scultorea che gli è propria, il più alto rappresentante del pensiero italiano, voglio dire Benedetto Croce, avrebbe preso la parola il Presidente dell’Assemblea per invitarci a ratificare unanimemente, col lutto nel cuore, quel documento, se tale fosse stata la dura, imperiosa necessità del momento, oppure, se tale necessità non vi fosse stata, a rifiutare, con voto altrettanto unanime, la ratifica, ubbidendo ai dettami della nostra coscienza e a quelli che ci ispira il sentimento di onore del popolo italiano.

Ma le vicende della vita politica interna del nostro Paese, così strettamente legate oggi con quelle della vita internazionale, hanno portato prima del tempo il «Trattato» davanti all’Assemblea, con fretta che a molti autorevoli nostri colleghi non è sembrata per nulla giustificata. Donde l’apertura di questo dibattito. Perciò, invece di quella ratifica da darsi o da rifiutarsi con voto unanime senza alcuna discussione, ci troviamo oggi divisi da disparità di opinioni che verosimilmente si rifletterà anche nel nostro voto. Dal momento che è così, non vi sembrerà eccessiva presunzione la mia, se ho chiesto la parola per un breve commento su quella parte del «Trattato» che, se non è grave ed irreparabile come quella che si riferisce alle mutilazioni del nostro territorio nazionale, è però certamente fra le più umilianti: voglio dire le clausole militari.

Né vi faccia meraviglia, onorevoli colleghi, che chi si accinga a parlarvi di questi argomenti sia proprio colui che per convinzioni antiche e nuove vorrebbe veder soppresse in Italia, come altrove, tutte le forze armate nazionali per dar luogo ad un solo potente esercito, una sola marina, una sola aviazione militare, messe tutte a disposizione di un Governo mondiale per salvaguardare la pace e la giustizia sociale nel mondo.

Ma il fatto è, onorevoli colleghi, che con questo Diktat si disarma il popolo italiano, laddove nessuna limitazione di forze militari viene imposta ai paesi vicini, e precisamente quando nei paesi, che dall’ultimo conflitto sono emersi come i più potenti Stati militari del mondo, fervono febbrilmente i preparativi per un nuovo, ancora più catastrofico conflitto.

Le clausole militari, non meno che le amputazioni del nostro territorio nazionale, mostrano lo spirito retrivo, reazionario, anacronistico che ispirò il «Trattato».

Lo spirito bassamente vendicativo, la nessuna fede mantenuta alla parola data, il feroce egoismo, infine, delle quattro Potenze che dettarono le condizioni della pace, si rivelano per l’appunto in queste clausole dove la nostra Italia democratica, sorta con tanto stento e a prezzo di tante sofferenze sulle rovine di un regime infausto, viene considerata, nientemeno, come un possibile futuro aggressore sia del vicino d’Oriente che di quello dell’Occidente. I lupi che prendono misure di cautele contro l’agnello!

Avviene così che un trattato, il quale avrebbe dovuto, a detta del signor Attlee, liberare per sempre l’Europa dalla guerra, non fa che evocare questa con ciascuna di quelle clausole militari che, lasciando il nostro Paese senza difesa valida, lo pongono indirettamente alla mercé della prepotenza straniera.

Triste caratteristica della guerra moderna, la più triste forse, è che essa nulla risolve. Al suo cessare gli antagonismi nazionali ed economici che l’hanno provocata sussistono aggravati, sia pure sotto altra forma. Sicché le divisioni, gli odii fra i popoli ne risultano accresciuti, e a una vera pace più non si arriva, ma piuttosto ad un armistizio, che dura più o meno a lungo fino al prossimo conflitto. La riprova di questa verità è fornita dal documento che è posto davanti a noi. Nel compilarlo le quattro Potenze misero da parte i principî umanitari, i grandi ideali proclamati durante la guerra, quando a gran voce invocavano da tutti i popoli, compreso il nostro, l’aiuto per la vittoria.

La Carta Atlantica è ormai uno sbiadito ricordo di frasi retoriche le quali, pronunciate in un momento di grande pericolo, non hanno più alcuna risonanza nel cuore stesso degli uomini che le proclamarono. Le solenni promesse di Roosevelt e di Churchill sono dimenticate. Della necessità di unificare il mondo, di promuovere il progresso sociale ed economico di tutti i popoli, dando ad essi la possibilità di vivere l’uno a fianco dell’altro da buoni vicini, si parlò nello statuto dell’organizzazione delle Nazioni Unite, ma nei fatti, le stesse Nazioni che ne formano il direttorio agirono contro quei principî, dettando all’Italia condizioni di pace che gettano il seme di future, catastrofiche guerre.

Un trattato come quello di cui ci viene chiesta la ratifica, non è un trattato di pace, ma un odioso compromesso, con cui le quattro potenze che lo stipularono tentarono, a nostre spese, di comporre almeno per il momento i loro contrasti di interessi.

Esso non elimina le vecchie cause di conflitti, ma a queste ne aggiunge di nuove. La conferenza di Versailles, fra i suoi errori, offrì ai vinti almeno un raggio di speranza, allorché vi si parlò di disarmo generale. Ma nella conferenza di Parigi del 1946 si è parlato di disarmo solo per i popoli vinti!

Il trattato, che di quella conferenza fu il risultato, costituisce per se stesso un anacronismo storico. Oggi il mondo dovrebbe andare verso l’unificazione, verso una stretta solidarietà e collaborazione fra i popoli; e qui si stabiliscono condizioni che dividono ancora più profondamente i popoli dell’Europa. Il progresso tecnico degli ultimi 150 anni, il meraviglioso sistema di comunicazioni moderne, che di fatto ha soppresso le distanze, e la conquista della potenza meccanica da parte dell’uomo, portano come naturale, fatale conseguenza alla soppressione delle frontiere; e qui si tracciano, a danno del nostro Paese, nuove frontiere destinate ad accentuare le diffidenze, i sospetti, i contrasti fra l’Italia ed i suoi vicini.

Per colmo di ironia, l’Italia repubblicana viene trattata come se potesse davvero costituire nel futuro una grave, permanente minaccia alla pace dei paesi del blocco occidentale, non meno che di quelli del blocco orientale! E le si impongono perciò misure militari dirette in sostanza a impedire che essa possa difendersi all’uno e all’altro confine.

Il diritto di autodifesa, proclamato dall’articolo 51 dello statuto delle Nazioni Unite, è essenzialmente negato al nostro Paese, obbligandoci, come si fa, a rimuovere ogni fortificazione o installazione militare lungo le frontiere, senza che un eguale obbligo sia fatto ai nostri vicini.

Ma le clausole dove più è palese l’intenzione di volerci lasciare impotenti a difenderci contro chi tentasse invadere il nostro territorio nazionale, sono quelle stabilite con l’articolo 50, che impongono la rimozione di tutte le postazioni permanenti di artiglieria per la difesa delle coste di Sardegna. Se eguale ordine fosse stato dato alla Francia per quanto riguarda la Corsica, nulla vi sarebbe stato da ridire; ma imposizioni unilaterali come quella che ho citato ed altre simili sono immorali, perché, impedendo la difesa delle nostre coste contro un tentativo di invasione, mettono il territorio nazionale alla mercé dei vicini.

Questo nostro popolo, che se di una cosa può legittimamente vantarsi, è proprio quella di essere per sua natura pacifico, viene considerato così pericoloso che gli si fa divieto perfino di studiare nuove armi. Con che implicitamente gli si vieta altresì di studiare come difendersi da esse.

Salutare e gradito sarebbe un tale divieto, se fosse generale per tutti, ma imporlo soltanto al nostro Paese, mentre altrove febbrilmente si preparano nuovi spaventosi mezzi di distruzione, è certamente cosa iniqua.

Gli effettivi dell’esercito, comprese le guardie di frontiera, sono limitati a 185 mila uomini, quando la Francia ancor oggi ne ha, forse, tre volte tanto sotto le armi. Si ha, poi, cura di aggiungere che l’organizzazione e l’armamento di tali forze debbono essere concepiti in modo da soddisfare unicamente ai compiti di carattere interno, cioè a dire polizieschi, e a quelli di difesa locale della frontiera.

Ben più largamente sono stati trattati a tale riguardo gli altri Paesi: la Bulgaria, l’Ungheria, la Romania e perfino la Finlandia. Alla Bulgaria, ad esempio, con appena 6 milioni di abitanti, è stato concesso un esercito di 55 mila uomini. Con la medesima proporzione, a noi avrebbe dovuto essere permesso un esercito di 400 mila uomini anziché di 185 mila.

Lo stesso dicasi dell’aviazione. Fra apparecchi da caccia e da ricognizione potremo avere tutt’al più 200 aeroplani; ma la Bulgaria, con una popolazione sette volte più piccola, ne avrà 90, e 60 la Finlandia, la cui popolazione è appena la dodicesima parte della nostra.

Mai onorevoli colleghi, le più gravi, umilianti ed inique clausole militari sono certamente quelle che si riferiscono alla Marina. Esse ne costituiscono anche la parte più importante. La spartizione come bottino di guerra della flotta italiana fra i vincitori, dopo che essa aveva con onore combattuto al loro fianco e dopo i solenni riconoscimenti dei capi militari alleati e le ancor più solenni dichiarazioni di Roosevelt e di Churchill, è – secondo me – la cosa più vile di tutto il Trattato! Il meglio della flotta italiana, per un tonnellaggio complessivo di 160 mila tonnellate, oltre a 51 mila tonnellate di naviglio ausiliario, deve entro tre mesi dall’entrata in vigore del Trattato essere consegnata alle quattro Potenze, fra cui è compresa anche la Francia; eppure, la Francia la guerra non vinse, come ci ha ricordato poc’anzi l’onorevole Nitti, che ha sostenuto la tesi che essa ha subìto in questa guerra una disfatta ben più grave della nostra!

Per giunta, ci si fa obbligo di consegnare le navi in piena efficienza, con che dovremo accollarci l’obbligo gravoso e penoso di ripristinare le unità inefficienti per poterle presentare in perfetto ordine agli spartitori del bottino.

All’Italia vengono lasciate due vecchie corazzate, la Doria e la Duilio, che non potranno nemmeno esser più sostituite allorquando dovranno essere messe fuori servizio; quattro incrociatori, quattro cacciatorpediniere ed un numero limitato di navi minori per un tonnellaggio complessivo di 67 mila tonnellate.

Fra le unità che restano all’Italia, molte sono di tipo antiquato e parecchie inefficienti. Per di più, la loro scelta è stata fatta in modo da impedirne un’organica utilizzazione.

Dei sommergibili, otto, i migliori, sono da consegnarsi in mani alleate. I rimanenti dovranno essere affondati! Fra questi sono compresi anche quelli i cui comandanti, per servizi resi in guerra a fianco degli alleati, furono proposti per decorazioni britanniche.

La spartizione della nostra flotta fra i vincitori: tale è la ricompensa di venti mesi di splendido servizio prestato dalla Marina italiana nella lotta contro il nazismo!

Tali sono, onorevoli colleghi, le clausole militari del Trattato che ci viene imposto.

L’umiliazione inflitta alla nostra Marina e il rinnegamento delle solenni promesse fatteci per ottenere il suo aiuto in guerra hanno sollevato lo sdegno del popolo italiano, forse altrettanto quanto le mutilazioni imposteci nel nostro territorio nazionale.

L’Italia a Parigi fu tradita. Gli alleati ci avevano promesso di trattarci non da vinti ma da amici. Tutti noi ancor oggi ricordiamo il messaggio con cui Churchill nel 1942 asseriva che la Gran Bretagna combatteva non contro il popolo italiano ma contro Mussolini, e ci esortava a liberarci dal regime che ci opprimeva. L’aiuto che gli inglesi allora chiesero fu dato dagli Italiani con generosità come meglio essi potevano.

Lo slancio con cui accolsero l’invito sta a provare che la guerra al lato della Germania nazista era stata imposta al popolo italiano contro i suoi sentimenti, le sue aspirazioni, la sua volontà. Nessun popolo che non avesse profondamente odiato una guerra, alla quale era stato forzato da una tracotante dittatura, avrebbe potuto decidersi a combattere, al fianco degli anglo-americani, contro quello stesso potente esercito che ufficialmente era stato l’alleato della vigilia!

La cobelligeranza, accettata dall’Italia con tanto entusiasmo, avrebbe dovuto portare come logica conseguenza a farci considerare, se non come alleati, almeno come amici. E non si sarebbe dovuto dimenticare che il popolo italiano aveva combattuto con tedeschi assai più della Francia, che pure è una delle quattro Nazioni che dettarono le condizioni della nostra pace nella conferenza di Parigi.

Le testimonianze in proposito degli stessi Alleati sono irrefutabili. Il 22 agosto 1944 il generale Browning dichiarava: «L’esercito italiano è stato riorganizzato nel caos. Esso ha combattuto bene ed efficacemente, ed ha avuto notevoli perdite».

Il generale Hays, della V Armata americana, rivolgendosi ai militari italiani impiegati nei servizi ausiliari, diceva loro: «Le parole sono inadeguate a descrivere il coraggio che occorreva per effettuare l’approvvigionamento di munizioni fino al completo annientamento della resistenza del nemico. Esso ci permise di penetrare nelle posizioni nemiche, ora disorganizzate, e invadere la valle padana. Voi adempiste a questi obblighi in maniera degna delle più belle tradizioni delle forze alleate».

Churchill, parlando ai Comuni il 27 febbraio del 1945 disse: «Sarebbe ingiusto non rendere omaggio agli impagabili servizi, di cui non si può narrare tutta la storia, che gli italiani, uomini, donne e le loro forze armate, sul mare e sulla terra, e dietro le linee nemiche, rendono continuamente alla causa comune».

Più tardi, il 5 marzo 1945, egli telegrafava al Governo italiano «fervide congratulazioni per la liberazione finale dell’Italia dal comune nemico», e il messaggio continuava accennando al contributo dato dalle forze regolari italiane e dai patrioti dietro le linee.

Il 5 ottobre dell’anno scorso, quasi come protesta contro la Conferenza di Parigi, il generale Morgan, comandante in capo delle forze alleate del Mediterraneo, celebrandosi lo sbarco di Salerno, invitò le autorità italiane a parteciparvi da uguali. Ma già prima, nel luglio, il generale Clark, distribuendo decorazioni americane ai volontari della libertà, diceva loro: «Avete vinto la guerra, meritate di vincere la pace». Nei certificati che egli distribuiva era stampato: «Col loro coraggio e la loro devozione i patrioti italiani hanno dato un genuino contributo alla liberazione italiana e alla grande causa degli uomini liberi».

E chi potrebbe dubitare? Se le forze regolari operarono facendo splendidamente il loro dovere in condizioni di evidente inferiorità rispetto agli alleati; se le forze regolari perdettero sul campo 43.000 uomini, ancora più dura fu la guerra spontaneamente voluta e organizzata dalle forze popolari. E come potevano le autorità supreme del Comando alleato non riconoscere che quel popolo si era ben guadagnato il diritto di vincere la pace allorquando esso aveva pagato con la vita di 80 mila dei suoi figli quel diritto? La memoria di questi morti italiani nella guerra di liberazione è quella che impone il dovere categorico di rifiutare la ratifica se non vi è una assoluta impellente necessità. Se non ci fossero state imposte inique modificazioni di frontiera, se ci fosse stato imposto il disarmo, sia pure totale, come preludio al disarmo universale, se ci avessero detto di consegnare tutta la nostra flotta non già ai quattro vincitori, ma alla Organizzazione delle Nazioni Unite onde costituisse il primo nucleo di quella forza internazionale che dovrebbe presidiare la pace e la giustizia fra i popoli, si sarebbe potuto accettare di buon grado un tale «trattato».

Ma così come è, sarebbe viltà ratificare un trattato che disonora l’Italia, che la mette alla mercé di tutti, e le toglie di fatto ogni indipendenza. Accettare un tale trattato prima di essere costretti a farlo, sarebbe tradire la memoria dei morti della guerra combattuta dal popolo italiano contro il nazismo. Né io credo che, affrettando la ratifica, come ci si propone di fare, noi contribuiremmo a quell’opera di mediazione tra oriente ed occidente che pure sarebbe il nostro attuale destino. A me sembra proprio il contrario. Una ratifica a cui ancora nessuno ci obbliga sarebbe un errore aggiunto agli altri.

È convinzione di molti che se l’Italia fosse stata meno intimamente identificata con gli interessi degli anglo-americani, la sua posizione internazionale sarebbe stata a Parigi ben differente. Dopo il crollo del nazismo fu certo grave errore non mantenersi strettamente neutrali tra i due blocchi in contrasto. L’errore si aggraverebbe affrettandosi, oggi, come in sostanza ci si propone di fare, a prendere posizione a fianco del blocco occidentale contro quello orientale; perché, si voglia o no, tale sarebbe il significato che assumerebbe un’affrettata ratifica.

Benedetto Croce diceva l’altro ieri in questa Assemblea cose memorabili che la storia registrerà; ma una sua dichiarazione mi colpì in modo particolare e fu quando disse che la guerra è legge eterna delle vicende umane. Se così fosse, se fosse vero che l’umanità non potrà mai più riuscire a liberarsi della guerra, ci sarebbe veramente da disperare delle sorti del mondo. La guerra, quale era una volta, avrebbe potuto ben perpetuarsi indefinitamente senza che portasse necessariamente alla distruzione della civiltà umana; ma oggi, dopo le scoperte e le invenzioni dei secoli XIX e XX, è divenuta cosa essenzialmente diversa da quella che fu fino un secolo e mezzo fa. Soppresse praticamente le distanze grazie all’aviazione e alla radio, il mondo all’improvviso si è rimpicciolito: i popoli vivono gomito a gomito l’uno coll’altro; e perciò la guerra, quando scoppia, presto si espande dovunque, e con i potenti orribili mezzi di distruzione di cui si dispone, si tramuta in una catastrofe generale.

Oggi, si impone ai popoli l’imperativo categorico di trovare il modo come liberarsi per sempre da questo flagello, il che non si può ottenere se non istaurando una legge mondiale. Senza di ciò la decadenza, il crollo della civiltà umana è cosa inevitabile. Tale è il dilemma tremendo.

Un popolo come il nostro, che ha sempre donato al mondo idee universali, deve porsi risolutamente sulla prima delle due strade, quella che conduce all’unificazione politica ed economica del mondo. Ma a questa non si contribuisce affrettandosi in questo momento a ratificare il trattato, con la speranza, forse, di acquistarsi le simpatie di una delle due parti in conflitto.

Nel momento attuale, di aspra, pericolosa tensione fra oriente ed occidente, ratificare il «Trattato» senza averne l’obbligo, significa compiere un atto che non può non apparire ostile ad una delle due parti in contesa. Tale ratifica dobbiamo rifiutare per salvare il nostro onore e la nostra dignità, ma anche, e soprattutto, nell’interesse della pace e nell’interesse stesso dell’umanità. (Applausi a sinistra).

PRESIDENTE. Il seguito della discussione è rinviato alla seduta di lunedì mattina.

PARIS. Chiedo di parlare.

PRESIDENTE. Ne ha facoltà.

PARIS. Per accelerare i nostri lavori, propongo di tenere seduta anche domani mattina, tenendo conto che vi sono ancora numerosi oratori iscritti in questa discussione, e che la patrimoniale richiederà anch’essa qualche seduta ancora.

PRESIDENTE. Faccio osservare che l’Assemblea non è in numero per poter adottare una decisione di questo genere.

La prossima seduta è fissata per lunedì alle 9,30.

La discussione sul Trattato di pace proseguirà anche nella seduta pomeridiana.

Interrogazioni.

PRESIDENTE. Si dia lettura delle interrogazioni pervenute alla Presidenza.

MOLINELLI, Segretario, legge:

«I sottoscritti chiedono di interrogare l’Alto Commissario per l’igiene e la sanità pubblica e il Ministro del tesoro, per conoscere con quali mezzi s’intende provvedere al ricovero nei sanatori di mezza ed alta montagna – attraverso l’Istituto nazionale di previdenza sociale – delle migliaia e migliaia di tubercolotici poveri che attendono da mesi e mesi il trasferimento; e per conoscere se non si ritiene urgente ed improrogabile l’assegnazione all’Alto Commissariato per l’igiene e la sanità pubblica di altri due miliardi necessari per la costruzione di nuovi sanatori, oltre quelli già assegnati.

«Morini, Cairo».

«I sottoscritti chiedono di interrogare il Presidente del Consiglio dei Ministri e i Ministri dell’interno e delle finanze, per conoscere:

  1. a) se è esatta la notizia secondo la quale è in corso di emanazione una legge di regolamentazione delle lotterie; legge che porrà fine al monopolio, da parte della S.I.S.A.L. del totalizzatore del gioco calcio;
  2. b) se, d’altra parte, è vero che la legge affiderà la gestione del toto-calcio, anziché al C.O.N.I., alla Direzione lotto, il che significherebbe la morte dell’iniziativa;
  3. c) se, infine, è vero che la legge stessa porterà alla soppressione delle percentuali, che oggi affluiscono nelle casse del C.O.N.I., con conseguente paralisi completa di tutte le federazioni sportive, che raggruppano nelle proprie file 2 milioni d’inscritti ed interessano tutta la gioventù d’Italia.

«Morini, Cairo».

«Il sottoscritto chiede d’interrogare il Ministro dell’interno, per conoscere se, di fronte alla riconosciuta impossibilità di stroncare il gioco, illecito e clandestino, che dilaga per le città e le borgate d’Italia, non ritenga urgente e necessario regolare e disciplinare il gioco stesso attraverso opportune provvidenze legislative, che ne convoglino gli eventuali gettiti consentiti a scopi di ricostruzione nazionale.

«Morini, Cairo».

«Il sottoscritto chiede d’interrogare il Ministro della difesa, per conoscere se non ritiene doveroso ed urgente assicurare alla città di Messina il mantenimento dell’arsenale, anche nello studio alacre della possibilità di maggiore e redditizio sviluppo produttivo; tenuto conto che detto arsenale assorbe ben tremila capi-famiglia tra operai, in gran parte specializzati, ed impiegati in una città dove la disoccupazione è grave e persistente, essenzialmente in conseguenza della guerra, che così ingenti danni ha causato, danni che purtroppo permangono.

«Salvatore».

«Il sottoscritto chiede d’interrogare il Ministro delle finanze, per conoscere quali provvedimenti intende adottare per la liquidazione dei danni di guerra già regolarmente accertati, in considerazione anche che una liquidazione parziale di tali danni fu effettuata nell’Italia settentrionale.

«Porzio».

«Il sottoscritto chiede d’interrogare il Presidente del Consiglio dei Ministri, per conoscere se non sia il caso di concedere ai reduci, ad integrazione delle liquidazioni già ricevute, un premio in danaro, proporzionato al grado ed agli anni di prigionia, per aiutarli a superare le difficoltà che essi incontrano nel riprendere le loro abituali attività dopo anni e anni d’internamento. (L’interrogante chiede la risposta scritta).

«Matteotti Matteo»

«Il sottoscritto chiede d’interrogare il Ministro dei lavori pubblici, per conoscere quali provvedimenti sono stati adottati per dar corso al piano di lavoro riguardante il comune di Plataci (Cosenza), e precisamente;

  1. a) strada rotabile Plataci-Villapiana;
  2. b) sistemazione del Cimitero;
  3. c) costruzione di fognature ed impianto di fontane nell’abitato. (L’interrogante chiede la risposta scritta).

«Zagari».

«Il sottoscritto chiede d’interrogare il Ministro delle finanze, per conoscere se non ritenga conforme ad equità e giustizia consentire che gli eredi degli esattori temporaneamente autorizzati all’esercizio della esattoria resasi vacante per la morte del loro dante causa, i quali non poterono – per malattia, per forza maggiore o per qualsiasi altra causa – sostenere l’esame di abilitazione previsto dall’articolo 14 del decreto legislativo luogotenenziale 18 giugno 1945, n. 424, siano ammessi a sostenere tale esame in una sessione straordinaria o nella prossima sessione ordinaria, senza incorrere nella decadenza dalla esattoria.

«Non sembra infatti giusto che il beneficio, di cui al citato articolo 14, concesso agli eredi degli esattori in riconoscimento dell’opera da loro prestata con senso di responsabilità nei momenti difficili della guerra, debba essere negato con gravi conseguenze economiche a coloro che per malattia o per altra causa di forza maggiore non poterono sostenere l’esame. (L’interrogante chiede la risposta scritta).

«Valmarana».

«Il sottoscritto chiede d’interrogare il Ministro dell’interno; per conoscere in base a quali disposizioni il prefetto di Siracusa ha proibito al Blocco del Popolo l’affissione di un manifesto sulla imposta patrimoniale.

«Fiorentino».

«Il sottoscritto chiede d’interrogare il Ministro della difesa, per conoscere se non ritenga opportuno, oltreché giusto, proporre che le norme contenute nel decreto legislativo presidenziale del 13 maggio 1947, n. 500, per lo sfollamento dei sottufficiali dell’Esercito e della Marina, vengano estese a quell’esiguo numero di sottufficiali piloti dell’Aeronautica (circa 40), che dovrebbero essere collocati in congedo al compimento del 45° anno di età e di 20 anni di servizio, in base alle disposizioni della legge 3 febbraio 1938, la cui attuazione porrebbe i predetti sottufficiali piloti – tanto benemeriti della Patria – in condizioni di enorme inferiorità anche per il trattamento economico rispetto ai colleghi delle altre forze armate. (L’interrogante chiede la risposta scritta).

«Paolucci».

«Il sottoscritto chiede d’interrogare il Ministro della pubblica istruzione, per conoscere:

1°) le ragioni che lo hanno spinto ad escludere l’antropologia criminale dall’elenco delle materie per il conferimento delle libere docenze nella prossima sessione.

«L’esclusione dell’antropologia criminale dall’elenco pubblicato sulla Gazzetta Ufficiale del 7 luglio decorso è tanto più grave, in quanto la disciplina anzidetta ha abbandonato le angustie di precedenti concezioni rigidamente materialiste (del resto sempre rispettabili) per svilupparsi in più ampi indirizzi di ricerca clinica integrale;

2°) se le ragioni di cui trattasi non debbano ricercarsi nell’arbitraria prevenzione di soffocare un poderoso materiale di studio, che ha messo l’Italia al primo posto nel campo della moderna criminologia, primato che si affermò decisamente nel I Congresso internazionale del 1938;

3°) se non ritiene opportuno.– per non mortificare il campo della ricerca scientifica e non deprimere sempre più la preparazione dei giovani universitari con studi unilaterali – di provvedere immediatamente, con decreto suppletivo, a includere l’antropologia criminale nell’elenco delle materie per il conferimento delle libere docenze per la prossima sessione. (L’interrogante chiede la risposta scritta).

«Montalbano».

«I sottoscritti chiedono di interrogare i Ministri dell’agricoltura e foreste e dell’industria e commercio, sui motivi che determinano il mantenimento del Consorzio nazionale canape, nelle sue attuali struttura e funzioni, sottoponendo tuttora i produttori della canapa a un rigoroso regime vincolistico, che non trova poi riscontro nei successivi stadi di utilizzazione industriale della fibra e di smercio dei prodotti finiti.

«Gli interroganti chiedono se non sia il caso di procedere, se non alla soppressione, almeno a una profonda e radicale riforma del Consorzio che – mentre ne conservi la sana funzione di assicurare, soprattutto ai piccoli produttori, prezzi remunerativi ed equi nei periodi di maggiore offerta e l’essenziale dell’attrezzatura organizzativa con finalità equilibratrici del mercato in eventuali periodi di crisi – lo privi di ogni carattere monopolista e renda ai produttori quella libertà di disposizione del prodotto, che è assicurata per gli altri non strettamente indispensabili alla vita nazionale.

«Gli interroganti chiedono, infine, se non si debba dare la massima pubblicità al bilancio del Consorzio, e in particolare alle condizioni con cui il prodotto viene ceduto alle industrie nazionali e negli scambi con l’estero, anche ad evitare che sorgano sospetti di favolosi profitti e di ingente costo dell’organizzazione consortile, purtroppo alimentati dalla sproporzione tra il prezzo finora pagato ai produttori e quello dei prodotti finiti delle canape. (Gli interroganti chiedono la risposta scritta).

«De Michele, Numeroso».

«Il sottoscritto chiede d’interrogare il Presidente del Consiglio dei Ministri (Alto Commissariato per l’igiene e la sanità pubblica) e il Ministro dell’interno, per conoscere le ragioni per le quali non è stato ancora espletato il concorso bandito con decreto n. 16561, del 20 agosto 1946, del prefetto di Roma, per l’apertura di nuove farmacie.

«Il ritardo nell’espletamento di tale concorso reca grave danno economico e morale alle centinaia di concorrenti che hanno presentato domanda e ciò impedisce che si bandiscano altri concorsi per nuove sedi farmaceutiche resesi necessarie in Roma e nella provincia. (L’interrogante chiede la risposta scritta).

«Sapienza».

«Il sottoscritto chiede d’interrogare il Ministro dei trasporti, per sapere se non ritenga equo ed opportuno provvedere ad una revisione della posizione degli «assuntori» vincolati da un contratto stipulato in base a capitolato che risale al passato governo fascista e che non risponde a nessuna delle esigenze di vita cui ogni lavoratore ha diritto. (L’interrogante chiede la risposta scritta).

«Bellato».

«Il sottoscritto chiede d’interrogare il Ministro della difesa, per conoscere se è vero che, mentre la proprietà ed il diritto di gestire gli aeroporti locali sono stati rivendicati dai comuni di Milano, Genova, Torino, Bologna e Verona, per l’aeroporto di Capodichino a Napoli si sarebbe presa la decisione di affidarlo, anziché al comune, ad un consorzio che, allo scopo, andrebbe costituendo un’associazione privata denominata «Aeroclub».

«Per sapere, inoltre, se il Ministro è a conoscenza che il detto Aeroclub ha specialmente funzioni di circolo mondano e non rappresenta gli effettivi interessi della massa dei combattenti dell’aria, e se non ritiene utile e opportuno interessare alla soluzione del problema il Sindacato gente dell’aria della Camera del lavoro di Napoli ed altre associazioni di categoria, quale il settore aeronautico del Fronte dell’Uomo Qualunque di Napoli, che da tempo non riescono ad ottenere dal Ministero dell’aeronautica alcuna concessione, che crei possibilità di lavoro ai loro consociati, i quali, pure, hanno, indubbiamente, ben meritato dalla Patria. (L’interrogante chiede la risposta scritta).

«Rodinò Mario».

«Il sottoscritto chiede d’interrogare il Presidente del Consiglio dei Ministri, per sapere per quali ragioni, dopo la pubblicazione della prima lista di informatori dell’O.V.R.A., non si proceda alla sollecita pubblicazione di altre quattro liste già compilate dall’apposita Commissione. (L’interrogante chiede la risposta scritta).

«Matteotti Matteo».

PRESIDENTE. Le interrogazioni testé lette saranno iscritte all’ordine del giorno e svolte al loro turno, trasmettendosi ai Ministri competenti quelle per cui si chiede la risposta scritta.

La seduta termina alle 20.45.

Ordine del giorno per le sedute di lunedì

Alle ore 9,30:

  1. – Interrogazioni.
  2. Seguito della discussione sul disegno di legge:

Approvazione del Trattato di pace tra le Potenze Alleate ed Associate e l’Italia, firmato a Parigi il 10 febbraio 1947. (23).

Alle ore 17:

Seguito della discussione sul disegno di legge:

Approvazione del Trattato di pace tra le Potenze Alleate ed Associate e l’Italia, firmato a Parigi il 10 febbraio 1947. (23).

ANTIMERIDIANA DI SABATO 26 LUGLIO 1947

ASSEMBLEA COSTITUENTE

CCIII.

SEDUTA ANTIMERIDIANA DI SABATO 26 LUGLIO 1947

PRESIDENZA DEL VICEPRESIDENTE CONTI

 

 

INDICE

 

Congedi:

Presidente

 

Disegno di legge (Seguito della discussione):

Convalida del decreto legislativo del Capo provvisorio dello Stato in data 29 marzo 1947, n. 143, concernente l’istituzione di una imposta straordinaria progressiva sul patrimonio. (14).

 

Presidente

Condorelli

Cannizzo

Corbino

La Malfa, Relatore

Pella, Ministro delle finanze

Rescigno

Moro

Paris

Germano

Scoca

Scoccimarro

Pesenti

Zerbi

Tozzi Condivi

UbertiVeroni

Cifaldi

Bubbio

Balduzzi

Caroleo

Quintieri Quinto

Adonnino

De Mercurio

Bertone

Cappi

Cremaschi Carlo

Marinaro

 

Interpellanza con richiesta d’urgenza (Annunzio):

Presidente

La seduta comincia alle 10.

MOLINELLI, Segretario, legge il processo verbale della precedente seduta antimeridiana.

(È approvato).

Congedi.

PRESIDENTE. Hanno chiesto congedo i deputati Abozzi, Gui, Rubilli, Sardiello e Cairo.

(Sono concessi).

Seguito della discussione sul disegno di legge: Convalida del decreto legislativo del Capo provvisorio dello Stato in data 29 marzo 1947, n. 143, concernente l’istituzione di una imposta straordinaria progressiva sul patrimonio. (14).

PRESIDENTE. L’ordine del giorno reca il seguito della discussione sul disegno di legge: Convalida del decreto legislativo del Capo provvisorio dello Stato in data 29 marzo 1947, n. 143, concernente l’istituzione di una imposta straordinaria progressiva sul patrimonio.

Siamo agli articoli 25, 28 e 29.

Credo che i tre articoli possano essere riuniti nella discussione, cominciando con l’esaminare l’articolo 28 nel testo proposto dalla Commissione (articolo 29 del testo governativo). Si dia lettura di questo articolo.

MOLINELLI, Segretario, legge:

«Sono soggetti all’imposta i contribuenti il cui patrimonio imponibile, al lordo della detrazione stabilita nel comma successivo, raggiunga il valore di lire 3.000.000.

«Dal patrimonio imponibile si detrae la somma di lire 2.000.000.

«Dal cumulo dei patrimoni tassabili dei genitori, al netto ciascuno della detrazione fissa di due milioni, è ammessa un’ulteriore detrazione pari a un ventesimo, con un massimo di lire 250.000 per ogni figlio. Questa detrazione si distribuisce proporzionalmente tra i due patrimoni. La detrazione stessa non si applica quando il cumulo, al lordo della detrazione, superi i 10 milioni di lire.

«L’ammontare della detrazione è calcolato sul patrimonio di ciascun figlio ai fini dell’imposta straordinaria».

PRESIDENTE. All’articolo 28 vi è innanzi tutto il seguente emendamento degli onorevoli Crispo, Morelli Renato, Bozzi, Cifaldi, Vinciguerra, Perrone Capano e Rubilli:

«Al primo comma, alle parole: valore di lire 3.000.000, sostituire le altre: valore di lire 5.000.000».

Identico emendamento ha proposto l’onorevole Rescigno.

Nessuno dei firmatari del primo emendamento è presente.

CONDORELLI. Lo faccio mio.

PRESIDENTE. Sta bene. L’onorevole Rescigno è presente.

CANNIZZO. Non dovrebbe essere esaminato prima l’articolo 25?

PRESIDENTE. Ho già detto che nel corso della discussione terremo presenti tutti e tre gli articoli, ma ritengo che sia prima da esaminare il 28.

CORBINO. Io credo che la cosa migliore sarebbe quella di discutere prima l’articolo 29, relativo al minimo imponibile. Mi pare che esso dovrebbe essere il punto di partenza. Dopo, si potrebbe passare all’articolo 25 ed all’articolo 28, che avevamo rimandato appunto per l’emendamento che era stato presentato all’articolo 29.

PRESIDENTE. Lei, probabilmente, onorevole Corbino, si riferisce all’articolo 29 del testo ministeriale.

CORBINO. Sì.

PRESIDENTE. Ed allora siamo proprio sul terreno che io avevo indicato.

CANNIZZO. In merito a quanto dice l’onorevole Corbino, faccio osservare che mi pare più logico scendere prima all’esame delle aliquote. Si potrebbe, in tal modo, sgombrare il terreno dalla questione principale.

LA MALFA, Relatore. Secondo il parere della Commissione è opportuno partire dall’articolo 28 dalla Commissione stessa proposto.

Dichiaro subito che la Commissione mantiene il suo testo dell’articolo 28 e quindi respinge tutti gli emendamenti relativi a questo articolo.

PRESIDENTE. L’onorevole Ministro delle finanze ha facoltà di esprimere il parere del Governo.

PELLA, Ministro delle finanze. Il Governo è d’accordo con il pensiero espresso dal Relatore, onorevole La Malfa.

PRESIDENTE. Allora passiamo alla votazione degli emendamenti che propongono di elevare da tre milioni a cinque il valore del patrimonio imponibile, emendamenti sui quali Governo e Commissione hanno espresso parere contrario.

CONDORELLI. Chiedo di parlare.

PRESIDENTE. Ne ha facoltà.

CONDORELLI. Malgrado il parere contrario espresso dalla Commissione e dal Governo, il che mi fa disperare circa l’accoglimento del mio emendamento, tuttavia sento il dovere di dire poche parole a difesa dell’emendamento stesso.

Noi, poche settimane addietro, abbiamo votato nella Costituzione una norma che afferma che la Repubblica protegge la piccola proprietà. Senonché, il primo atto di questa Repubblica è l’emanazione di una legge fiscale che, consentitemelo, accoppa la piccola proprietà, tassata contemporaneamente con l’imposta proporzionale e con quella progressiva.

Ora, quando noi ci troviamo di fronte a patrimoni di tre milioni, ci troviamo di fronte alla piccola proprietà, ci troviamo di fronte all’appartamento che è il ricovero di una famiglia, oppure a quei 2, 3 o 4 ettari di terreno che sono appena gli strumenti di lavoro.

A me pare che se in questa prima legge noi vogliamo essere fedeli a quello che solennemente abbiamo incluso nella Costituzione, la piccolissima proprietà dovremmo lasciarla esente. Questa è del resto una voce che proviene da diverse parti: vi è anche un emendamento da parte della Democrazia cristiana, e mi era sembrato che anche i comunisti fossero di questo parere, cioè di favorire la piccola proprietà con l’esenzione, oppure spostando il limite. È questo il momento di decidere.

Prego vivamente l’Assemblea Costituente di essere fedele al principio sancito nella Costituzione: proteggiamo la piccola proprietà!

PRESIDENTE. Ha chiesto di parlare l’onorevole Rescigno. Ne ha facoltà.

RESCIGNO. Ho presentato un emendamento simile a quello illustrato dall’onorevole Condorelli.

Mi limiterò a fare due semplici osservazioni. Io credo che sia tanto più necessario elevare a 5 milioni la misura adottata dalla Commissione, perché si disse parecchi giorni fa che sarebbe stata alleggerita l’imposta proporzionale e si sarebbe così venuti incontro alle esigenze dei modesti, dei piccoli possidenti. Viceversa, questo alleggerimento in sede proporzionale non c’è stato, né ci poteva essere perché la proporzionale non è che il riscatto dell’imposta patrimoniale ordinaria di dieci anni.

Si è detto anche, per giustificare la misura della Commissione, che altro è la valutazione fiscale, altro è la situazione reale, perché quella sarebbe sempre inferiore a questa. In pratica, mi permetto di osservare, avviene il contrario, perché i procuratori delle imposte i loro accertamenti li fanno a tavolino e, per mettersi a posto di fronte ai loro superiori, si mantengono sempre al di sopra della realtà.

Un’altra osservazione – ed è la principale ragione che si adduce – concerne il gettito dell’imposta, che verrebbe ad essere diminuito. Mi permetto di osservare che questa imposta incomincia a diventare efficiente da un importo piuttosto elevato: basta dare uno sguardo alle aliquote per convincersi che dai 10 milioni in su questa imposta potrà essere efficiente.

Per queste ragioni a me sembra che, per andare incontro veramente ai modesti, ai piccoli possidenti, bisogna elevare il minimo imponibile a 5 milioni, con un abbattimento alla base di 3 milioni.

PRESIDENTE. Sta bene. Pongo in votazione la proposta di elevare il minimo imponibile da tre a cinque milioni, contenuta negli emendamenti Crispo e Rescigno.

MORO. Chiedo di parlare per dichiarazione di voto.

PRESIDENTE. Ne ha facoltà.

MORO. Noi voteremo per il testo della Commissione, accettato dal Governo e perciò contro la proposta.

(La proposta non è approvata).

PRESIDENTE. Segue l’emendamento degli onorevoli Crispo, Morelli Renato, Bozzi, Cifaldi, Vinciguerra, Perrone Capano e Rubilli:

«Al secondo comma, alle parole: si detrae la somma di lire 2.000.000, sostituire le altre: si detrae la somma di lire 3.000.000».

In conseguenza del fatto che l’emendamento al primo comma è stato respinto, questo emendamento resta assorbito.

Così pure resta assorbito l’altro emendamento dell’onorevole Rescigno:

«Al secondo comma, alle parole: la somma di lire 2.000.000, sostituire le parole: la somma di lire 3.000.000».

Al terzo e al quarto comma è proposto il seguente emendamento dagli onorevoli Paris, Piemonte, Preziosi, Tonello, Ghislandi, Corsi, Gullo Rocco, Segala, Preti; Grilli, Caporali, Canevali e Bocconi:

«Sostituire il terzo e il quarto comma con i seguenti:

«Dal cumulo dei cespiti che costituiscono un patrimonio familiare, al netto ciascuno della detrazione fissa di due milioni, è ammessa un’ulteriore detrazione pari a un ventesimo per ogni congiunto dei contribuenti fino al secondo grado in linea diretta ascendente, discendente e laterale, purché alla data del 28 marzo 1947 convivessero con la famiglia e per coloro che alla stessa data avevano compiuto i ventun anni e prestassero inoltre la loro opera nella gestione del patrimonio.

«La detrazione non si applica quando il cumulo, al lordo della detrazione dei due milioni, superi gli otto milioni.

«L’ammontare della detrazione è suddiviso proporzionalmente fra i patrimoni dei singoli contribuenti».

L’onorevole Paris lo ha già svolto; invito pertanto l’onorevole Relatore a pronunciarsi in merito.

LA MALFA, Relatore. Vorrei pregare l’onorevole Paris e gli altri presentatori di questo emendamento di non insistere. Ritengo infatti che, specialmente per questi patrimoni medi che sono la grande maggioranza dei patrimoni su cui verrà ad esercitarsi la pressione fiscale, l’imposta, ove questo emendamento venisse approvato dall’Assemblea, finirebbe con il dileguarsi. Sarebbe lo stesso criterio fiscale ad annullarsi.

PRESIDENTE. Invito l’onorevole Ministro delle finanze a esprimere l’avviso del Governo.

PELLA, Ministro delle finanze. Il Governo ricorda le ragioni con cui l’onorevole Paris ha brillantemente illustrato questo suo emendamento. Sono ragioni però, se ben ricordo, che soprattutto avevano riguardo a determinate composizioni familiari, o, meglio, ai patrimoni familiari in determinate regioni. Se fosse possibile individuare situazioni regionali e adottare particolari temperamenti, valevoli per le situazioni stesse, si potrebbe anche accedere all’ordine di idee dell’emendamento proposto; ma, un emendamento di questo genere portato sul piano nazionale, potrebbe avere ripercussioni di cui non è possibile precisare la portata.

È dunque per queste ragioni che, con rammarico, debbo dare parere contrario all’emendamento in parola.

PRESIDENTE. Onorevole Paris, mantiene il suo emendamento?

PARIS. Lo mantengo.

CORBINO. Onorevole Presidente, c’è l’emendamento Cannizzo sullo stesso argomento; si potrebbero votare insieme.

CANNIZZO. Chiedo di parlare.

PRESIDENTE. Ne ha facoltà.

CANNIZZO. Tre sono, onorevole Presidente, gli emendamenti che, a un dipresso, presentano uguale contenuto: quello Paris che è ora in discussione, il mio testé ricordato dall’onorevole Corbino e quello costituente l’articolo 29-bis presentato dall’onorevole Zerbi e da altri colleghi. Chiedo pertanto che vengano messi a partito insieme.

PRESIDENTE. Quale è il parere della Commissione?

LA MALFA, Relatore, A me pare che non si possa accedere al criterio dell’onorevole Cannizzo, perché l’emendamento Paris parla di convivenze familiari: non è dunque la stessa cosa.

CANNIZZO. Allora, però, si lascino impregiudicati gli altri due.

PRESIDENTE. D’accordo. Pongo dunque ai voti l’emendamento dell’onorevole Paris ed altri di cui ho dato lettura poco fa. Ricordo che il Governo e la Commissione hanno espresso parere contrario.

MORO. Chiedo di parlare per dichiarazione di voto.

PRESIDENTE. Ne ha facoltà.

MORO. Dichiaro che voteremo contro l’emendamento Paris.

(Non è approvato).

PRESIDENTE. Segue l’emendamento dell’onorevole Cannizzo:

«Sostituire il terzo comma col seguente:

«Al cumulo dei patrimoni tassabili dei genitori, al netto ciascuno della detrazione fissa di due milioni, ed a richiesta di entrambi, verrà applicata, tenendo presente il numero dei figli che non abbiano un proprio patrimonio tassabile, un’aliquota così ridotta:

  1. a) per i patrimoni inferiori ai cento milioni, del 2 per cento per ogni figlio;
  2. b) per i patrimoni superiori ai cento milioni, dell’l per cento per ogni figlio.

«L’aliquota così ridotta, non potrà essere inferiore alla metà di quella imputabile al cumulo dei patrimoni».

L’onorevole Cannizzo ha facoltà di svolgere l’emendamento.

CANNIZZO. Desidererei far notare che il mio emendamento presuppone un cumulo di patrimoni facoltativo e non obbligatorio.

Immaginiamo per esempio un patrimonio di 5 milioni della moglie e di 5 milioni del marito. Su questi due patrimoni cumulati si applicherà l’aliquota superiore dell’8,53 per cento, appunto in conseguenza del cumulo. Sarà su questa maggiore aliquota, a richiesta esclusivamente dei coniugi, che si dovrà calcolare la detrazione.

Non deve preoccupare, perciò, il fatto che io abbia chiesto per tutte le aliquote una riduzione, perché, se per i piccoli patrimoni le aliquote saranno più facilmente ridotte, per i grandi patrimoni il numero dei figli potrà avere limitata influenza. Supponiamo, infatti, il caso limite di due patrimoni di 500 milioni ciascuno. L’aliquota, se viene chiesto il cumulo, si dovrà applicare su un miliardo: perciò invece del 33 per cento si dovrà applicare il 50 per cento. Sarà in tale caso necessario avere quindici figli soltanto per tornare all’aliquota originaria.

Ritengo poi che si debba tener presente la composizione familiare. E se questo criterio per apprezzamento strettamente fiscale non dovesse essere accettato né dalla Commissione né dal Ministro, sarà col rifiuto violato il senso morale e di giustizia. Perché le ipotesi sono due: o i figli sono in tenera età ed allora è da tener presente che a carico dei genitori è ancora tutta la loro educazione, oppure i figli hanno una determinata età e si deve in tal caso considerare che col loro lavoro hanno contribuito ad incrementare il patrimonio dei genitori.

Ecco perché raccomanderei – nel caso che il mio emendamento non venisse accettato – che la Commissione proponesse almeno qualche variante al testo sempre allo scopo di agevolare le famiglie numerose, e togliesse ogni limitazione che riguarda l’ammontare del patrimonio, perché secondo me, colui che ha un patrimonio di 50 milioni ed ha 5 figli è meno ricco di colui che ha un patrimonio di 20 milioni e non ne ha nessuno.

Insisto sull’emendamento, pur sapendo che Governo e Commissione sono di contrario avviso.

PRESIDENTE. Qual è il parere della Commissione sull’emendamento dell’onorevole Cannizzo?

LA MALFA, Relatore. Onorevoli colleghi, nella legge del 1922 la detrazione per i figli non era ammessa e mi pare che questo fosse un sanissimo criterio fiscale. Prendere in considerazione la composizione delle famiglie in una legge fiscale, ai fini dell’attuazione di un’imposta, mi pare che sia un criterio da respingere da ogni punto di vista. Ad ogni modo, per i piccoli patrimoni la Commissione ha mantenuto il testo governativo. Diversamente si dovrebbe costringere la Finanza a fare questi accertamenti per ogni patrimonio. Non mi pare che si possa giungere a questo.

PRESIDENTE. Qual è il parere del Governo?

PELLA, Ministro delle finanze. Mi associo alla Commissione nel dare parere contrario all’emendamento dell’onorevole Cannizzo, anche perché non fissa un limite massimo ai fini dell’applicazione della detrazione invocata.

CANNIZZO. Chiedo di parlare.

PRESIDENTE. Ne ha facoltà.

CANNIZZO. Ho spiegato, onorevole Ministro, che il mio emendamento non arrecherà grave danno alla Finanza, specie nel caso di grossi patrimoni. Infatti, per due patrimoni di 500 milioni di cui si chiede il cumulo sarà necessario avere più di 15 figli perché la detrazione possa ridurre le aliquote in misura non molto rilevante.

PRESIDENTE. Onorevole Cannizzo, lei intende dunque mantenere l’emendamento.

CANNIZZO. Lo mantengo.

MORO. Chiedo di parlare.

PRESIDENTE. Ne ha facoltà.

MORO. Dichiaro che noi non accettiamo l’emendamento Cannizzo.

CONDORELLI. Chiedo di parlare.

PRESIDENTE. Ne ha facoltà.

CONDORELLI. Si potrebbe completare l’emendamento, perché io faccio notare alla Assemblea che sarebbe indispensabile provvedere a questo. Anche qui noi dovremmo cominciare ad attuare un’altra norma della Costituzione che, come tante altre, sembra invece destinata a restare una affermazione platonica senza nessuna ripercussione pratica nella nostra legislazione. Si è affermato difatti che si proteggono le famiglie numerose.

Ora, proprio da parte democristiana, sento dire questo: che l’emendamento, intonato a questo principio, non ha ragione di essere. Ma quando vogliamo pensarci?

PRESIDENTE. Mi pare che lei, onorevole Condorelli, e gli altri che la pensano come lei, non tengano presente che si tratta di una imposta straordinaria, la quale si riferisce al disastro finanziario del Paese in conseguenza della guerra!

CONDORELLI. Ma tutte queste esigenze di giustizia e di ripartizione ci devono essere anche per le imposte straordinarie. Evidentemente noi lo dimentichiamo. Per l’argomento che diceva il Presidente della Commissione, in materia fiscale queste considerazioni non si possono fare. Ma io faccio presente che c’è una imposta complementare che tiene conto della composizione della famiglia.

Perché non se ne dovrebbe tener conto anche in questa imposta?

Io voterò a favore dell’emendamento Cannizzo.

PRESIDENTE. Pongo ai voti l’emendamento Cannizzo.

(Non è approvato).

Vi sono ora i seguenti emendamenti firmati dagli onorevoli Germano, Cimenti, Burato, Baracco, Bellato, Montini, Garlato, Roselli, Schiratti, Ferrario Celestino, Bastianetto, Pat, Rapelli, Ermini, Marconi, Corsanego:

«Sostituire il primo periodo del terzo comma col seguente:

«Dal cumulo dei patrimoni tassabili dei genitori, al netto ciascuno della detrazione fissa di lire un milione e cinquecento mila, è ammessa una ulteriore detrazione pari ad un ventesimo con un massimo di lire 500.000 per ogni figlio.

«Alla fine del comma, dopo le parole: 10 milioni di lire, aggiungere: ad eccezione delle famiglie con sette o più figli a carico».

L’onorevole Germano ha facoltà di svolgerli.

GERMANO. Prendo lo spunto per spiegare i miei emendamenti da quello che disse l’onorevole Relatore, ossia che l’ordinamento fiscale non deve consentire a interessarsi dei figli o meno.

Invece io dico il contrario: ritengo che sia il caso di interessarsi anche della famiglia. Qua vediamo tre tesi: la prima, la mia, prende come base la famiglia ed il numero dei suoi figli; abbiamo una tesi del Governo la quale fa qualcosa di intermedio tenendo presenti figli e coniugi; abbiamo viceversa la tesi della Commissione che cerca in tutti i sensi di non considerare i figli. Si è cercato di mettere il padre di famiglia numerosa sotto imputazione. Siamo considerati come qualcosa di antisociale, e questo non va. Molti in questa Assemblea sostengono che siamo in troppi. Ad esempio, l’onorevole Corbino ha scritto un articolo: noi siamo in troppi. Meno male che l’onorevole Corbino non ha trovato molti seguaci e non mi risulta che qualcuno si sia sparato per sfoltire quel troppo indicato in quell’articolo.

Posso dire all’onorevole Corbino che è vero che 45 milioni di italiani in Italia sono troppi, ma è anche vero che 500 milioni di italiani nel mondo, sarebbero anche pochi.

Vediamo poi l’onorevole La Malfa il quale viene a dire: chi vuole i figli se li mantenga. Ma che ragioni sono queste? Come se i figli fossero una merce da volere o non volere.

I figli vengono perché abbiamo una moralità cristiana, perché sentiamo imperioso e categorico il comandamento del Signore. Ora la moralità è tanto ricercata nel mondo, e perché non vogliamo infangare il matrimonio ed i figli nascono, dobbiamo vedere negato ogni aiuto e considerazione? Perché la Commissione propone che si devono avere otto figli per avere una detrazione uguale a quella di un coniuge?

Io vorrei dire all’onorevole La Malfa che se anche avendo una moglie di lusso, non costerebbe certo più di otto figli.

Abbiamo sentito lo stesso venerato onorevole Orlando dire che ai suoi tempi nessuno pensava a delle agevolazioni a favore dei padri di famiglia numerosa.

È vero, ma ai tempi dell’onorevole Orlando i tisici potevano benissimo morire in casa loro, mentre oggi vanno nei sanatori; i disoccupati non avevano sussidi ed ora sì. Il mondo cammina e le provvidenze sociali acquistano valore. Perché non aiutare le famiglie numerose?

PESENTI. Non quelli che hanno da detrarre 300 mila lire!

GERMANO. Ecco perché ho presentato questo emendamento; e siccome mi preoccupa la visione finanziaria dello Stato propongo che la somma da detrarre anziché di 2 milioni per ogni coniuge si riporti ad un milione e mezzo. Così abbiamo un miglioramento notevole per la Finanza dello Stato che compensa la detrazione di 500.000 lire per figlio, e questo mi sembra logico.

Analizziamo ancora l’articolo della Commissione e vediamo che l’unica detrazione che non si applica quando il patrimonio supera i 10 milioni è quella che riguarda i figli, perché se il patrimonio fosse anche di 100 milioni verrebbero senz’altro tolti da questi 100 milioni, 2 milioni per la moglie e 2 milioni per il marito. Ma nessuna detrazione si avrebbe per i figli. Dice infatti l’articolo 28: dal cumulo dei patrimoni tassabili dei genitori, al netto ciascuno della detrazione fissa di 2 milioni, è ammessa una ulteriore detrazione pari a un ventesimo con un massimo di lire 250 mila per ogni figlio. Questa detrazione si distribuisce proporzionalmente tra i due patrimoni. La detrazione stessa (ossia quella dei figli) non si applica quando il cumulo, al lordo della detrazione, superi i dieci milioni di lire.

Perché includere questo? Perché soltanto la detrazione per i figli non deve aver luogo qualora il patrimonio superi i dieci milioni? O tutto o niente. Si dica che per i patrimoni di oltre 10 milioni la detrazione non viene fatta neanche per i coniugi, oppure rimanga anche per i figli. Ecco una ingiustizia da correggere. Chiedo quindi che sia messo in votazione il mio emendamento.

PRESIDENTE. L’onorevole Relatore ha facoltà di esprimere il suo parere.

LA MALFA, Relatore. La Commissione si è già espressa.

PRESIDENTE. Ha facoltà di parlare l’onorevole Ministro.

PELLA, Ministro delle finanze. Il Governo desidererebbe trovare una onesta transazione fra i due punti di vista e forse la direttrice ne è data dal testo originario del decreto. Perciò, in primo luogo, pregherei l’onorevole Germano di diminuire il massimo di lire 500 mila a 300 mila, come nel testo cui ho accennato, in secondo luogo non posso accettare il concetto della detrazione fissa di un milione e 500 mila. Conosco le ragioni di ordine empirico che hanno portato l’onorevole Germano a determinare questa cifra, ma siccome vi è una detrazione unica contemplata dalla legge, che è quella dei 2 milioni, pregherei in ogni caso di dire «al netto ciascuno della detrazione fissa di due milioni».

Perciò se l’onorevole Germano ritiene di modificare la prima parte del suo emendamento nel senso di sostituire «due milioni» a «un milione e 500 mila» e «300 mila lire» a «500 mila» il Governo esprime parere favorevole alla prima parte dell’emendamento.

Per quanto riguarda la seconda parte, a favore delle famiglie con sette o più figli a carico, il Governo, per considerazioni d’ordine sociale, non ha difficoltà ad aderire.

GERMANO. Aderisco a quanto ha proposto il Governo.

PRESIDENTE. Ha chiesto di parlare il Relatore. Ne ha facoltà.

LA MALFA, Relatore. La Commissione, che ha valutato tutti gli emendamenti e li ha giudicati, ha questa sola ragione di fronte ai colleghi che si preoccupano della situazione familiare. Ci sono famiglie con 10 o 20 milioni che hanno sette figli, ma ci sono famiglie senza alcun milione che hanno sette figli! Questa è la verità, e noi non possiamo fare una legislazione fiscale se non tenendo conto dei casi più gravi. Tra i casi più gravi sono quelli di impiegati che hanno sette o più figli. Quindi prego i colleghi di non separare mai la vita nazionale in settori e di votare una legge fiscale che sia un fondamento di giustizia.

SCOCA. Chiedo di parlare.

PRESIDENTE. Ne ha facoltà.

SCOCA. Questa determinazione di un numero fisso di figli – sette o più – ricorda troppo da vicino la legislazione fascista, la quale aveva certi determinati scopi demografici da raggiungere. Io comprendo benissimo, una volta che riportiamo la questione sul terreno prettamente fiscale, che chi ha figli debba venire considerato in una imposta personale in modo diverso di chi non ha figli, perché evidentemente la capacità contributiva di colui che non ha figli e quella di colui che deve provvedere all’esistenza dei figli, sono diverse; però il mettere un numero fisso di figli è una spinta a prolificare fino a quel determinato numero. (Si ride).

Ma se è giusto considerare il numero dei figli – e difatti nel progetto della Commissione questa preoccupazione c’era – non mi pare che si debba dare un premio solo a coloro che hanno sette o più figli e si debbano escludere invece da questo beneficio coloro che hanno soltanto sei figli!

Se si vuole andare incontro alle esigenze che sono state prospettate, io non avrei difficoltà ad elevare la cifra di 250 mila lire ad una cifra maggiore, che potrebbe essere di 400.000 lire. Così si adotterebbe una misura intermedia, e si rispetterebbe sia l’esigenza del fisco, sia la necessità di non svuotare di contenuto questo strumento fiscale straordinario, e sia anche le necessità delle famiglie con una modesta posizione che hanno un cospicuo numero di figli.

Il limite dei 10 milioni è un limite che si può discutere se sia adeguato o meno, ma un certo limite bisogna metterlo. Quando una famiglia ha un patrimonio ingente, viene meno la necessità di considerare i bisogni nascenti dall’esistenza di un certo numero di figli.

SCOCCIMARRO. Chiedo di parlare.

PRESIDENTE. Ne ha facoltà.

SCOCCIMARRO. Desidero ricordare che solo pochi giorni fa è stato respinto l’emendamento che veniva in aiuto a coloro che pagano l’imposta da un minimo di 50 e 100 mila lire in su. Oggi si fa l’apologia e la difesa della piccola proprietà dopo aver respinto l’emendamento che veniva in suo aiuto. E ora si propone di togliere il limite di 10 milioni per le detrazioni per i figli e di consentire tale agevolazione anche a chi possiede 100 o 2000 milioni.

Io vi dico: ricordatevi della votazione di quattro giorni fa; ingiustizie già vi sono, in questa legge, non aggravatele.

Perciò, noi voteremo contro l’emendamento proposto.

CORBINO. Chiedo di parlare.

PRESIDENTE. Ne ha facoltà.

CORBINO. Non voglio entrare nel merito della politica demografica. Qui c’è un fatto concreto: ci sono famiglie numerose che non possiedono niente e ci sono famiglie numerose che possiedono qualche cosa. Io dico che queste devono pagare come pagano le famiglie non numerose. Questo è il problema essenziale.

La Commissione ha accolto il principio che si debba tener conto di questa situazione; il Governo è andato anche un po’ oltre, consentendo l’aumento di 50.000 lire nella dotazione per ogni figlio, come massimo. Non si può andare al di là, perché 300 mila lire per 20 figli costituirebbero 6 milioni.

Quindi, in sostanza, noi resteremo nei limiti dei patrimoni piccoli, e per detrazioni modeste.

Io credo che la formula della Commissione, temperata dall’emendamento proposto dal Ministro, sia accettabile per tutti, senza scendere ad esaminare con troppi dettagli le conseguenze di carattere demografico, che possono derivare da una legislazione, la quale da noi non dovrebbe più aver seguito.

PESENTI. Chiedo di parlare.

PRESIDENTE. Ne ha facoltà.

PESENTI. L’onorevole Germano ha presentato un emendamento fatto su misura per il suo caso, come, diciamo, fosse la sua fabbrica di caramelle. (Si ride). È per questo, oltre tutto, che mi pare sia da respingere quell’emendamento. I colleghi onorevoli Scoccimarro e Corbino, come del resto il Presidente della Commissione, hanno chiaramente indicato che non si può fare un trattamento di favore a coloro che hanno una posizione economica con cui possono mantenere numerosi figli. Il massimo che si possa ottenere – è chiaro – è di aumentare da 250 mila a 300 mila la dotazione per ogni figlio. Più di questo assolutamente non è possibile.

ZERBI. Chiedo di parlare.

PRESIDENTE. Ne ha facoltà.

ZERBI. Posto che anch’io sono firmatario di un emendamento, il quale riprende per altra via questo argomento, vorrei chiedere se non sia il caso di cercare una piattaforma di conciliazione delle varie esigenze affiorate nella discussione di stamane, nel riprendere l’articolo 28 così come era stato originariamente formulato.

Si tratterrebbe, in sostanza, di sopprimere il limite dei 10 milioni, quale è comportato dall’emendamento suggerito dalla Commissione. In tal caso potremo soddisfare tutte le esigenze affiorate. Quanto meno dovremmo concordare una elevazione di quel limite, il quale, alla stregua del coefficiente di 1 a 60 assunto dall’onorevole La Malfa nella sua relazione al presente progetto per il confronto tra i valori del 1920 e quelli del 1947, corrisponde a circa 166 mila lire.

Ritengo che su questo piano potremmo trovare la conciliazione delle varie esigenze ed io rinuncerei a svolgere il mio emendamento.

PRESIDENTE. Ma questo emendamento si riferiva all’articolo 29 e adesso non lo svolgiamo per non creare confusioni. Infatti, ora stiamo discutendo dell’emendamento dell’onorevole Germano. Lei fa una proposta?

ZERBI. Sì, propongo di armonizzare i due articoli 28 e 29.

LA MALFA, Relatore. Mi scusi onorevole Zerbi, ma il suo emendamento è un po’ troppo complesso.

PRESIDENTE. All’articolo 29, secondo l’emendamento dell’onorevole Zerbi, i 100 milioni sarebbero ridotti a 50.

LA MALFA, Relatore. La Commissione accetta di portare a 300.000 il massimo, aderendo al suggerimento dei colleghi. Oltre questa cifra andremmo addirittura in un campo di formule logaritmiche.

PRESIDENTE. Ha facoltà di parlare l’onorevole Ministro delle finanze.

PELLA, Ministro delle finanze. Formulo definitivamente il pensiero del Governo, nel senso di portare le 250.000 lire a 300.000 lire, restando fermo l’ulteriore testo della Commissione.

PRESIDENTE. Onorevole Germano, mantiene il suo emendamento?

GERMANO. Lo mantengo: la finanza ci rimetteva con il testo iniziale e non con l’altra redazione.

TOZZI CONDIVI. Chiedo di parlare.

PRESIDENTE. Ne ha facoltà.

TOZZI CONDIVI. Ho presentato anche io un emendamento, che potrebbe essere votato insieme con questo, dato che è ad esso connesso. Vorrei illustrarlo brevemente.

PRESIDENTE. Il suo emendamento può essere votato dopo quello dell’onorevole Germano, perché propone la soppressione dell’ultima parte del terzo comma. Potremo mettere prima in votazione l’emendamento Germano, e successivamente l’approvazione del terzo comma del testo della Commissione con la modifica che porta le 250.000 lire a 300.000.

CANNIZZO. Non si potrebbe mettere in votazione il comma per divisione, lasciando da parte la esclusione dei patrimoni superiori ai dieci milioni di lire?

LA MALFA, Relatore. Quando metteremo in votazione il terzo comma, voteremo per divisione l’ultimo periodo.

PRESIDENTE. Porrò dunque ai voti innanzi tutto la prima parte dell’emendamento dell’onorevole Germano, che propone di sostituire il primo periodo del terzo comma col seguente:

«Dal cumulo dei patrimoni tassabili dei genitori, al netto ciascuno della detrazione fissa di lire un milione e cinquecentomila, è ammessa una ulteriore detrazione pari ad un ventesimo con un massimo di lire cinquecentomila per ogni figlio».

UBERTI. Chiedo di parlare.

PRESIDENTE. Ne ha facoltà.

UBERTI. Siamo contrari all’emendamento dell’onorevole Germano, e voteremo il testo della Commissione, in seguito all’elevazione del massimo da 250 mila a 300 mila, accettata dal Governo.

GERMANO. Ma il Ministro non aveva detto di voler fare una transazione fra quello che era il testo dell’emendamento ed il testo della Commissione?

PRESIDENTE. Il Ministro ha aderito al testo della Commissione. Se lei crede, può modificare l’emendamento, con le diverse cifre che sono state accettate dal Governo.

GERMANO. La mia modifica è per 2 milioni, più 300 mila lire per ogni figlio.

PRESIDENTE. L’emendamento sarebbe allora così formulato:

«Dal cumulo dei patrimoni tassabili dei genitori, al netto ciascuno della detrazione fissa di lire 2 milioni, è ammessa una ulteriore detrazione pari ad un ventesimo con un massimo di lire 300 mila per ogni figlio».

LA MALFA, Relatore. Ma questo è il testo della Commissione!

PESENTI. Mi pare che sarebbe più logico dire che l’onorevole Germano accetta la proposta della Commissione. Non so se questo sistema di modificare all’ultimo momento un emendamento serva solo per far scrivere sui giornali di provincia che è stato accettato un proprio emendamento!

SCOCCIMARRO. Noi voteremo a favore del testo della Commissione.

PRESIDENTE. Chiedo all’onorevole Germano se mantiene il suo emendamento.

GERMANO. Lo ritiro e aderisco al testo della Commissione.

PRESIDENTE. Pongo allora ai voti il terzo comma dell’articolo 28 con la modifica concordata fra Commissione e Governo, per cui la cifra da 250 mila diventa 300 mila. Il testo è il seguente:

«Dal cumulo dei patrimoni tassabili dei genitori, al netto ciascuno della detrazione fissa di due milioni, è ammessa una ulteriore detrazione pari a un ventesimo con un massimo di lire 300 mila per ogni figlio. Questa detrazione si distribuisce proporzionalmente tra i due patrimoni».

(È approvato).

Segue l’emendamento aggiuntivo proposto dagli onorevoli Germano, Cimenti, Burato, Baracco, Bellato, Montini, Garlato, Roselli, Schiratti, Ferrario Celestino, Bastianetto, Pat, Rapelli, Ermini, Marconi, Corsanego, del seguente tenore:

«Alla fine del comma, dopo le parole: 10 milioni di lire, aggiungere: ad eccezione delle famiglie con sette o più figli a carico».

GERMANO. Rinunzio all’emendamento.

PRESIDENTE. Sta bene.

Segue l’emendamento soppressivo proposto dagli onorevoli Tozzi Condivi, Arcangeli, Ponti, Franceschini, Angelucci, Cappi, Foresi, Cotellessa, Rescigno, Cremaschi Carlo:

«Al terzo comma, sopprimere il periodo:

«La detrazione stessa non si applica quando il cumulo, al lordo della detrazione, superi i 10 milioni di lire».

L’onorevole Tozzi Condivi ha facoltà di svolgerlo.

TOZZI CONDIVI. Onorevoli colleghi, la situazione è tale che richiede una parola chiara. Si cerca di ricorrere a delle espressioni fatte, in questo campo: qui è necessario, invece, seguire semplicemente la logica e la giustizia.

Quando si è trattato di andare incontro agli interessi dei piccoli patrimoni, noi ci siamo andati, votando una rateizzazione maggiore di quella proposta dalla Commissione e dal Governo.

Qui, la Commissione ed il Governo hanno accettato una detrazione in favore di ciascuno dei figli portandola a 300.000 lire. Ora, io domando alla Commissione e al Governo: quando hanno fissato questo limite, che cosa hanno voluto fissare? Hanno voluto porre un limite a questo beneficio, per modo che coloro che avessero un patrimonio molto grande non usufruissero di quel beneficio, se non fino al limite di 300.000 lire.

Il concetto della limitazione è contenuto già in questo limite di 300.000 lire. Quando mi mettete un successivo limite di 10 milioni, portate l’argomento su di un altro piano, portate una seconda limitazione contro giustizia e contro logica. Contro giustizia, perché in questa maniera, quando c’è una famiglia numerosa, non venite a concedere questo beneficio, in quanto questa famiglia si trova in condizioni inferiori rispetto ad un’altra meno numerosa.

Quindi, quando noi diciamo: «togliete questo limite di 10 milioni» vogliamo portare un principio di giustizia e di logica in questa legge, vogliamo dire che coloro che hanno una famiglia numerosa e hanno 10 milioni, possano beneficiare di questo ventesimo.

PRESIDENTE. L’onorevole Relatore ha facoltà di esprimere il parere della Commissione.

LA MALFA, Relatore. La Commissione ha posto un limite perché, al di là di un certo patrimonio, la somma di 300.000 lire per un figlio non ha più alcun significato. Se il patrimonio è piccolo, questa detrazione ha un significato, ma se il patrimonio è grande, detrarre 300.000 lire diventa una inutile complicazione.

C’è una relazione tra detrazione e patrimonio e noi non possiamo sopprimere questa relazione.

PRESIDENTE. L’onorevole Ministro delle finanze ha facoltà di esprimere il parere del Governo.

PELLA, Ministro delle finanze. Il Governo insiste perché sia mantenuto fermo il limite di 10 milioni. Facendo l’ipotesi che ogni contribuente abbia in media un figlio e supposto che i contribuenti siano un milione, la perdita ammonterebbe a un milione di volte 300.000 lire; esiste, quindi, una legittima preoccupazione in ordine al gettito.

Per questo, prego gli onorevoli proponenti di non insistere sul loro emendamento.

SCOCA. Chiedo di parlare.

PRESIDENTE. Ne ha facoltà.

SCOCA. Occorre un chiarimento. Effettivamente, il mantenimento del limite fisso di dieci milioni, secondo me, può creare delle disparità, può mettere cioè in condizioni deteriori colui il quale abbia undici milioni di patrimonio ed abbia dei figli, di fronte a colui il quale, avendo nove milioni di patrimonio, o nove milioni e rotti, abbia lo stesso numero di figli.

Secondo la norma in esame, chi abbia nove milioni di patrimonio è ammesso alla detrazione; per chi invece abbia undici milioni o dieci milioni e una lira non è ammessa la detrazione. Se, pertanto, il limite ci vuole, se l’Assemblea è del parere che il limite debba essere fissato, bisognerà che essa studi un espediente attraverso il quale non sia posto in condizioni di inferiorità colui che ha un patrimonio lievemente superiore a quello dei dieci milioni, di fronte a colui che lo ha lievemente inferiore.

Mi pare, infatti, evidente che, se la norma si mantiene qual è, veniamo a porre un limite che crea delle disparità e delle ingiustizie.

CANNIZZO. Chiedo di parlare.

PRESIDENTE. Ne ha facoltà.

CANNIZZO. A me pare che un limite ci sia già nella legge: è proprio il limite delle 300.000 lire, che per i grandi patrimoni non influirà molto sulla riduzione eventuale delle aliquote.

SCOCCIMARRO. Chiedo di parlare.

PRESIDENTE. Ne ha facoltà.

SCOCCIMARRO. Io penso che l’obiezione sollevata dall’onorevole Scoca si possa facilmente risolvere con i soliti accorgimenti tecnici già in atto per altri tributi per evitare delle sperequazioni. Desidero osservare a coloro che propongono di togliere ogni limite, che la Commissione ha concepito questo problema non nel senso di concedere la detrazione per i figli a chiunque, ma nel senso di portare una qualche agevolazione ai patrimoni medi e si è fissata al limite dei dieci milioni.

Se pertanto si propone di togliere questo limite, avverto che presenterò un emendamento che proporrà di togliere ogni detrazione per i figli.

CORBINO. Chiedo di parlare.

PRESIDENTE. Ne ha facoltà.

CORBINO. L’osservazione fatta dall’onorevole Scoca contempla effettivamente un caso che si potrebbe verificare. Per ovviare all’inconveniente da lui lamentato, io credo che sarebbe sufficiente sostituire l’espressione «al lordo» con l’espressione «al netto». Se io infatti, con la detrazione, supero i dieci milioni, è evidente che non avrò diritto alla detrazione, mentre, se fossi al di sotto, ne avrei diritto.

Si tratta sempre di un limite.

PRESIDENTE. Onorevole Tozzi Condivi, mi pare che ci si stia avviando verso una modificazione del suo emendamento.

TOZZI CONDIVI. Ad una eventuale modificazione, onorevole Presidente, potrò anche accedere, ma il principio che io ho inteso affermare sono convinto che è un principio di giustizia e quindi lo mantengo.

LA MALFA, Relatore. Chiedo di parlare.

PRESIDENTE. Ne ha facoltà.

LA MALFA, Relatore. Desidero far rilevare che l’osservazione sollevata dall’onorevole Scoca non si presenta soltanto nel caso in oggetto, ma si presenta tutte le volte che si stabilisce un limite. Ora, non si può fare un sistema fiscale basato tutto su aliquote.

La Commissione, pertanto, aderisce al criterio dell’onorevole Corbino, che si dica cioè «al netto» anziché «al lordo» della detrazione stessa.

PRESIDENTE. Qual è il parere del Governo?

PELLA, Ministro delle finanze. In questo articolo si parla due volte di detrazione, una volta della detrazione dei due milioni, il cosiddetto «abbattimento» alla base; l’altra volta della cosiddetta detrazione del ventesimo per ogni figlio, con un massimo di 300.000 lire. Desidererei, quindi, chiedere a quale delle due detrazioni si riferisca la frase «non si applica quando il cumulo, al lordo della detrazione…».

LA MALFA, Relatore. È sempre la detrazione per i figli.

CORBINO. È meglio chiarire.

PELLA, Ministro delle finanze. È vero, è meglio chiarire, perché l’equivoco potrebbe essere possibile, in quanto il comma si inizia facendo riferimento al patrimonio netto della detrazione dei due milioni.

LA MALFA, Relatore. Io lascerei: «la detrazione stessa», perché implicitamente questo riferimento è chiaro. «La detrazione stessa non si applica, quando il cumulo, al netto di essa, superi i dieci milioni di lire».

CORBINO. D’accordo.

PELLA, Ministro delle finanze. Accetto la formula.

PRESIDENTE. Onorevole Tozzi Condivi, mantiene il suo emendamento?

TOZZI CONDIVI. Lo mantengo.

PRESIDENTE. Allora pongo ai voti l’emendamento Tozzi Condivi ed altri, soppressivo del terzo comma.

(Non è approvato).

Pongo ora ai voti il testo proposto dalla Commissione ed accettato dal Governo:

«La detrazione stessa non si applica quando il cumulo, al netto di essa, superi i dieci milioni di lire».

(È approvato).

Non essendovi altre osservazioni, l’articolo 28 si intende approvato con le modificazioni testé votate.

PRESIDENTE. Passiamo all’articolo 29 nel testo proposto dalla Commissione. Se ne dia lettura.

MOLINELLI, Segretario, legge:

«L’ammontare dell’imposta da corrispondersi è determinato in base alle seguenti aliquote, riferite al patrimonio al lordo delle detrazioni indicate nell’articolo precedente ed applicate sul patrimonio al netto delle detrazioni suddette:

per i patrimoni di:

3.000.000 di lire              6,00   %

5.000.000                       7,23   %

10.000.000                     8,53 %

50.000.000                     13,57 %

100.000.000                   17,50 %

200.000.000                   23,29 %

500.000.000                   35,46 %

1.000.000.000                 50  –  %

1.500.000.000 ed oltre     61,61 %

«Per i patrimoni intermedi la misura dell’aliquota è determinata in base alla formula seguente:

y = 6 + 0,0002885 (x – 3.000.000) 0,576

nella quale x rappresenta la cifra del patrimonio imponibile e y l’aliquota.

«I patrimoni imponibili vengono arrotondati nel seguente modo:

 

 

Lire

Lire

Per unità di lire

tra

3.000.000 e

5.000.000

50.000

 

5.000.001 e

10.000.000

100.000

 

10.000.001 e

50.000.000

200.000

 

50.000.001 e

100.000.000

500.000

 

100.000.001 e

200.000.000

1.000.000

 

200.000.001 e

500.000.000

2.000.000

 

500.000.001 a

1.000.000.000

5.000.000

 

1.000.000.001 ed oltre

 

10.000.000

«Con decreto del Ministro per le finanze sarà pubblicata una tabella indicante le aliquote e la misura d’imposta corrispondente alle varie cifre di patrimoni imponibili.

«Le società, ditte ed enti costituiti all’estero debbono l’imposta sul patrimonio accertato al loro nome con aliquote corrispondenti ad un terzo, con il massimo del 10 per cento».

PRESIDENTE. A questo articolo sono stati proposti parecchi emendamenti ed articoli aggiuntivi.

Il primo, degli onorevoli Cannizzo, Tumminelli, Russo Perez, Venditti, Corsini, Salvatore e Rescigno è del seguente tenore:

«Sopprimere il testo della Commissione e ripristinare il testo governativo».

L’onorevole Cannizzo ha facoltà di svolgere l’emendamento.

CANNIZZO. So di accingermi ad un’impresa quasi disperata (Si ride) perché tutti gli attacchi che sono stati mossi contro questo castello costituito dall’imposta sul patrimonio hanno incontrato un duplice ordine di sbarramenti, due trincee ben munite, difese, una dal Ministero e l’altra dall’onorevole La Malfa, che io vorrei chiamare il defensor fisci…

LA MALFA, Relatore. Della Commissione.

CANNIZZO. …della Commissione. Ad ogni modo, siccome devo ricordare che scopo precipuo dei Parlamenti fu appunto quello di insorgere contro tutti gli abusi del fisco, mi propongo di parlare per sostenere di tornare al testo governativo perché non so spiegarmi il motivo di questa variazione nella progressività delle aliquote.

Potrebbero essere addotti due argomenti a favore: o che lo Stato abbia bisogno di una determinata cifra prescindendo dalla capacità contributiva del popolo italiano, oppure che vi sia il presupposto che questa capacità contributiva esiste.

Non mi risulta che vi sia stato sulla capacità contributiva un attento esame o, per lo meno, che in Parlamento o dal Governo siano stati addotti argomenti idonei a dimostrare che potrà la imposta riscuotersi senza far crollare tutta l’economia italiana.

Si è detto che le aliquote non verranno integralmente applicate perché vi è grande differenza fra valore reale e valore fiscale. Mi permetto di dire che se questa osservazione può esser fatta – in certo senso – quando si parli dell’imposta proporzionale (sempre che l’onorevole Ministro assicuri che gli uffici delle imposte osserveranno le circolari che disse di avere inviato quando si trattò dell’emendamento Bosco Lucarelli), non può farsi per l’imposta progressiva.

Noi abbiamo infatti casi in cui il valore reale sarà addirittura inferiore al valore fiscale, e questo desumo non solo dai miei apprezzamenti ma dalle discussioni fatte in Assemblea.

Il valore fiscale sarà in un primo tempo modificato ed aumentato da tutte le tabelle che saranno adottate dalle Commissioni censuarie, in sede di accertamento definitivo. E non è dato prevedere fin d’ora quali saranno questi aumenti.

Ma c’è di più: accanto agli accertamenti rigidi e meccanici si è posto come correttivo il criterio della presunzione da tenore di vita. In materia di presunzione, giuoca sempre l’arbitrio e l’ingiustizia.

Ho letto pochi giorni fa (si trattava di tassa di famiglia, e come sapete bene, le tre imposte che possono essere accertate col criterio induttivo sono appunto l’imposta patrimoniale, la complementare e l’imposta di famiglia); ho letto pochi giorni fa sul Giornale d’Italia che un accertamento è stato portato da settemila lire a 432 mila lire solo perché un funzionario del comune di Roma, recatosi in casa del contribuente, vi aveva trovato dei fiori che vi erano stati portati il giorno precedente in occasione di una festa di famiglia.

Casi simili si ripeteranno in Italia e contribuiranno notevolmente ad elevare il valore fiscale fino al limite del valore reale ed oltre.

Vi è un altro esempio, quello delle case con fitti bloccati. Anche in questi casi il valore fiscale si avvicinerà o supererà quello reale.

In proposito, da parte del Governo si è detto che il blocco dei fitti potrebbe essere revocato o modificato. È sempre un’opera altamente meritoria di dare speranza ai contribuenti. Credo però che le speranze rimarranno tali e tutt’al più potranno servire a far sopportare con maggiore rassegnazione la notifica delle cartelle dell’esattore.

Ma vi è un caso chiarissimo in cui il valore fiscale supera il reale. L’abbiamo creato ieri quando è stato respinto l’emendamento Cifaldi circa la media decennale dei prezzi da tenere a base della valutazione dei canoni in natura. L’emendamento che feci mio per l’assenza dell’onorevole Cifaldi, è stato respinto. Avremo, e per legge, in questo caso un valore fiscale enormemente superiore al reale.

Il contribuente si conforterà pensando che le opere di beneficenza, i benefici ecclesiastici e molte zone che hanno il loro patrimonio prevalentemente composto di canoni enfiteutici, sono stati esclusi dall’imposta. Che l’aliquota sia esagerata, risulta poi da una concorde ammissione fatta da tutti i settori di quest’Aula quando si è parlato dei piccoli contribuenti. Tutti sono stati d’accordo nella difesa del piccolo contribuente. Non mi è mai sorto il dubbio che questo interessamento fosse dovuto al fatto che la categoria dei piccoli contribuenti è la più numerosa. Se questa idea mi fosse venuta l’avrei scacciata, perché non penso che discutendo la legge si sia potuto fare della propaganda elettorale. Credo invece che questa categoria sia stata presa ad esempio per dimostrare che se sarà impossibile pagare le aliquote più basse, l’impossibilità a maggior ragione esisterà quando si tratterà d’applicare quelle più alte. L’imposta sul patrimonio può essere, senza far crollare l’economia generale, pagata soltanto quando, attraverso una lunga rateizzazione nel tempo, si possa equiparare ad un’imposta sul reddito. Un’imposta che si applichi direttamente sul patrimonio, è addirittura inconcepibile, antigiuridica e rovinosa. Poi, quasi che le aliquote fissate dal Governo fossero basse, non sappiamo spiegarci perché siano state aumentate. O sono aumentati i bisogni dello Stato o vi sono dei nuovi elementi dai quali si può dedurre che la capacità contributiva del contribuente sia ancora di più aumentata. Credo che non si possa dimostrare né l’una né l’altra tesi. Questo aumento è anche assurdo e non depone in favore della politica finanziaria del Governo, in considerazione anche del fatto che il decreto per l’imposta sul patrimonio, colle aliquote già note, è stato da molto tempo pubblicato, e molte denunce sono state fatte in base a questo decreto. Questo brusco aumento non si giustifica in nessun modo e non solo non sono stati approfonditi i motivi che hanno indotto la Commissione ad accettarlo, ma non ho inteso nemmeno accennarli. Il contribuente vorrà invece conoscerli questi motivi. Perché anche qui le ipotesi sono due: o da quando si varò il decreto dell’imposta sul patrimonio ad oggi i bisogni dello Stato sono cresciuti a tal punto da rendere necessario l’aumento delle aliquote (ed allora bisogna dare subito al contribuente la garanzia che anche le spese dello Stato vengano contenute perché fra due o tre anni sarà necessario, diversamente un nuovo galoppo); ovvero sono sorti dei fatti nuovi per determinare una maggiore capacità contributiva nel contribuente.

La verità è, onorevoli colleghi, che stiamo slittando sopra un terreno molto accidentato, perché stiamo gravando il contribuente di una imposta tale che non potrà essere pagata; e lo stiamo mettendo nelle condizioni di colui che è obbligato a fare il lavoro che solo in un tempo determinato possono fare dieci persone. Questi o incrocerà le braccia o comincerà a sperare nell’intervento di forze estranee o vorrà che si determini qualche fatto nuovo che lo aiuti nello svolgimento del suo lavoro, ed il fatto nuovo desiderato potrà essere la svalutazione della lira.

E voi avrete creato anche nel contribuente, che era interessato alla rivalutazione, questa mentalità disfattista che non lo cointeresserà in quella lotta che il Governo sta riprendendo per sanare le finanze, perché ha opposto interesse. Ecco perché, pure essendo sicuro che le mie ragioni saranno inesorabilmente respinte dal Governo e dalla Commissione, insisto nel mio emendamento. Se non altro, avrò fatto il mio dovere.

PRESIDENTE. L’onorevole Relatore ha facoltà di esprimere il parere della Commissione.

LA MALFA, Relatore, La Commissione, avendo proposto un elevamento di aliquote, non può che respingere l’emendamento Cannizzo. Devo dire però che l’onorevole Cannizzo, quando vuol giudicare le ragioni per cui la Commissione ha elevato le aliquote, si deve riferire sempre alla situazione base da cui siamo partiti, cioè l’imposta straordinaria proporzionale che, come diceva l’onorevole Scoccimarro, colpisce con il 4 per cento i patrimoni di 100 mila lire. Ora, se da questo 4 per cento arriviamo al 17 per cento per i patrimoni di 100 milioni, non mi pare che abbiamo qui perpetrato un sistema di ingiustizia tributaria.

D’altra parte, io e la Commissione consideriamo questa legge sull’imposta straordinaria come un correttivo anche a quella che è stata la difficoltà con cui il sistema tributario si è adattato alla situazione che si è creata con la svalutazione della lira. I congegni tributari non hanno potuto seguire la svalutazione della lira nonostante che i Ministri succedutisi alle Finanze abbiano lavorato attivamente per questo.

Ora, queste aliquote servono a recuperare quello che il fisco in un certo senso non ha percepito da molti anni a questa parte. Guardate anche da questo punto di vista, le aliquote non sono alte per i patrimoni fino a 100 milioni: sono tutt’altro che alte; ed a nostro giudizio sono sopportabili. Per i patrimoni al disopra dei 100 milioni entra un altro criterio. Siccome i piccoli patrimoni, benché non abbiano una grande capacità contributiva, sono stati tassati perché rappresentano la massa del gettito fiscale, per ragioni di giustizia abbiamo dovuto tassare fortemente i grossi patrimoni. La Commissione prega i colleghi di non insistere sulla modificazione delle aliquote.

PRESIDENTE. L’onorevole Ministro ha facoltà di esprimere il suo parere.

PELLA, Ministro delle finanze. Il Governo non può dare parere favorevole all’emendamento Cannizzo. Già in occasione delle riunioni preparatorie, il Governo aveva manifestato il suo consenso ad adeguare le tabelle delle aliquote. La nuova tabella sostanzialmente era già concordata con il Governo. Per questo devo pregare l’Assemblea di mantenerla ferma.

CORBINO. Chiedo di parlare.

PRESIDENTE. Ne ha facoltà.

CORBINO. Aderisco al testo della Commissione, accettato dal Governo. Può sembrare strano che da questa parte della Camera venga la conferma della richiesta di aliquote così alte.

SCOCCIMARRO. Sembra strano che venga da lei! Ne siamo felici.

CORBINO. Mi permetto di farle notare, onorevole Scoccimarro, che in un progetto d’imposta sul patrimonio da me preparato nel 1944 proponevo aliquote che al di là di certe cifre arrivavano al cento per cento e proponevo queste aliquote perché noi abbiamo applicato e stiamo applicando in Italia, per alcuni patrimoni, un’imposta reale che supera il 99 per cento del patrimonio. Mi riferisco a tutti coloro che erano creditori dello Stato per somme prestate anteriormente al 1914 che hanno pagato e che pagano il 99,70 per cento del patrimonio, con un’imposta reale che si applica anche per i patrimoni di 100 lire che nel 1914 potevano costituire il risparmio di una persona di servizio che avesse lavorato per vent’anni.

Del resto, le guerre hanno questa funzione: di facilitare lo spostamento della ricchezza da una categoria all’altra, e di eliminare coloro che sono molto al di sopra del patrimonio medio. Nel nostro Paese costoro non sono molti. Le aliquote altissime non colpiranno che pochi casi, e per questi pochi casi, cioè a dire di gente che dovrà pagare il 61,61 per cento su un patrimonio fiscale superiore al miliardo e mezzo, e che resterebbe con un patrimonio fiscale di 600 milioni almeno, io domando se nessuno di noi, se nessuno di tutti gli altri contribuenti italiani, non saremmo disposti a prendere la posizione di questi contribuenti, pagare il 60 per cento, e trattenere il 40 per cento per conto proprio.

C’è un contenuto sociale in questa legge; c’è un contenuto politico…

SCOCCIMARRO. Finalmente lo dice anche lei!

CORBINO. L’ho sempre detto. C’è un contenuto politico e il contenuto politico è questo: che se vi sono dei danni da riparare, delle ricchezze da ricostruire, l’onere più forte deve cadere su chi ha di più. (Applausi generali).

PRESIDENTE. L’onorevole Ministro ha facoltà di esprimere il suo parere.

PELLA, Ministra delle finanze. Aderisco al testo della Commissione.

PRESIDENTE. Debbo porre ora ai voti l’emendamento dell’onorevole Cannizzo.

CANNIZZO. Lo ritiro.

PRESIDENTE. Sta bene. Seguono gli emendamenti dell’onorevole Rescigno:

«Al primo comma, sopprimere l’alinea: 3.000.000 di lire …6,00 per cento».

«Al terzo comma, sopprimere l’alinea: tra 3.000.000 e 5.000.000 …50 per cento».

Questi emendamenti si intendono assorbiti.

RESCIGNO. D’accordo.

PRESIDENTE. Vi è ora l’emendamento dell’onorevole Veroni così concepito:

«Aggiungere, in fine, il seguente comma:

«Per i patrimoni costituiti per oltre la metà del loro valore di fabbricati soggetti al regime vincolistico, le aliquote di cui sopra vengono ridotte ad un terzo per i patrimoni sino a 10 milioni di valore e alla metà per quelli di valore superiore».

L’onorevole Veroni ha facoltà di svolgerlo.

VERONI. Questo mio emendamento, come quello degli onorevoli Crispo, Cifaldi, ed altri, è inteso ad alleggerire le pressioni tributarie sugli immobili, soggetti al vincolo dei fitti.

Ora il Presidente della Commissione ed il Ministro delle finanze hanno avuto occasione di dichiarare che per questa grave situazione creata ai fabbricati oppressi da regime vincolistico, bisogna riportarsi alla disposizione dell’articolo 10 della legge in discussione che prevede la loro discriminazione riferibilmente all’accertamento del loro valore: non si tratta, infatti, di determinazione di aliquote, ma di determinazione di valore.

Pur riconoscendo ciò, io vorrei, anche a nome degli altri colleghi che hanno presentato un separato emendamento, cioè gli onorevoli Crispo, Cifaldi ed altri, sapere dal Ministro ed anche dal Presidente della Commissione, che ha preparato questa dizione diversa dalla proposta ministeriale, che significato ha il generico proposito di «discriminare» i fabbricati secondo che siano o meno soggetti a regime vincolistico. Con quali criteri avverrà questa discriminazione?

Questo è bene si sappia, dopo di che noi ci indurremo a ritirare o meno l’emendamento.

PELLA, Ministro delle finanze. Il Governo ha già avuto occasione di esprimere il suo pensiero al riguardo, quando ebbe ad osservare che, a suo avviso, l’esplicita discriminazione fra fabbricati soggetti o meno a regime vincolistico era sostanzialmente pleonastica, poiché la Commissione censuaria centrale, dovendo procedere alla determinazione del valore venale dei fabbricati per il periodo di riferimento, evidentemente deve considerare tutti gli elementi che concorrono a determinare questo valore ed in prima linea il reddito, che è uno degli elementi essenziali per la determinazione del valore capitale.

Tutto ciò può essere fatto dalla Commissione censuaria centrale sulla base della situazione del mercato, poiché è notorio che i fabbricati soggetti a regime vincolistico valgono molto meno di quelli che non sono soggetti a tale regime.

Quindi la portata dell’emendamento, ad avviso del Governo, è che la Commissione censuaria dovrà tener conto del minor reddito di questi fabbricati per adottare una valutazione più bassa, ciò che del resto ha già accusato il mercato con le sue leggi meccaniche.

VERONI. Chiedo di parlare.

PRESIDENTE. Ne ha facoltà.

VERONI. Tenendosi conto di queste ampie dichiarazioni che ha fatto il Ministro e che potranno servire di norma alla Commissione centrale censuaria e più tardi ai competenti Uffici delle imposte, ritiro il mio emendamento.

PRESIDENTE. Vi è ora il seguente emendamento aggiuntivo degli onorevoli Crispo, Morelli Renato, Bozzi, Cifaldi, Perrone Capano e Rubilli:

«Aggiungere, in fine, le parole seguenti: Per i patrimoni costituiti prevalentemente da fabbricati soggetti a regime vincolistico le aliquote suddette vengono ridotte alla metà».

I proponenti lo mantengono?

CIFALDI. Se permette, desidererei mantenerlo.

PRESIDENTE. Lo pongo allora ai voti.

(Non è approvato).

 

Passiamo all’emendamento Cannizzo cui ha dichiarato di aderire l’onorevole Foresi:

«Aggiungere, in fine:

«Nel caso di morte del contribuente tra il 28 marzo 1947 ed il 30 settembre 1947, all’asse ereditario sarà applicata l’aliquota di imposta pertinente al quoziente risultante dalla divisione del patrimonio del contribuente per il numero dei figli».

BUBBIO. Chiedo di parlare.

PRESIDENTE. Ne ha facoltà.

BUBBIO. Mi pare che i colleghi devono essere d’accordo nel ripudiare questo emendamento. Esso va contro i principî che sono basilari in materia finanziaria; e tanto meno in questa imposta, che è così importante, può essere lecito creare delle eccezioni che più tardi potrebbero essere poi invocate in casi consimili.

L’elemento essenziale in materia finanziaria è la data a cui va riferita l’esistenza del cespite da assoggettare al tributo; e qui con l’articolo 1 si è perentoriamente stabilita la data del 28 marzo 1947. Pertanto, ogni evento successivo a quella data non può in alcun modo avere efficacia. La data della denuncia è elemento solo accidentale; e poiché d’altra parte il termine della denuncia può essere suscettibile di variazioni (già fu variato due volte questo termine dopo l’emanazione del decreto) è ovvio che non si possa lasciare alla stessa volontà del contribuente la decorrenza della data agli effetti dell’emendamento proposto.

È insomma indispensabile che rimanga fissa e per tutti uguale la data cui l’accertamento va riferito; il che non risponde solo ad un principio che è incontestabile, non potendosi tenere conto dei fatti successivi, ma è anche necessario se si vuole che l’imposta abbia a dare il gettito ripromesso. Gli onorevoli colleghi avranno certamente subito avvertito la gravità delle conseguenze in caso di accoglimento della proposta; ed invero nel caso che un padre avente dieci milioni venga a decedere dopo il 28 marzo 1947, secondo l’emendamento il patrimonio si dividerebbe tra i figli e in concreto quindi l’imposta progressiva sarebbe elegantemente elusa.

Invito pertanto i colleghi a respingere l’emendamento proposto dall’onorevole Cannizzo.

CANNIZZO. Io chiedo di svolgere il mio emendamento.

PRESIDENTE. Ne ha facoltà.

CANNIZZO. Se il collega mi avesse prima ascoltato, non avrebbe fatto molte delle sue osservazioni.

BUBBIO. Sarà difficile che mi convinca; la questione è dura.

CANNIZZO. So perfettamente che il mio emendamento ha carattere eccezionale, e che il Governo e la Commissione mi obietteranno che l’imposta colpisce i patrimoni secondo la loro consistenza al 28 marzo 1943. Ma ritengo che, in sede di emendamenti, si possa proporre una disposizione eccezionale.

Ci troviamo in presenza di un evento che nessuno può affrettare o ritardare: la morte. La questione è di esaminare se, in considerazione di determinati casi pietosi, si possa accettare il principio della deroga alla legge; poiché, lo riconosco, si tratta di derogare alla legge. Mi pare che sia doveroso aiutare una famiglia quando è colpita dalla morte del padre, che lascia figli in tenera età, i quali non hanno ancora l’abilità di potere badare agli affari, che devono pagare le spese funebri e di malattia e l’imposta di successione. Si vorrà fare differenza tra grandi e piccoli patrimoni? Non credo. Si tratta di affermare un principio e la morte del resto non fa distinzione.

Potrei accogliere un criterio limitativo, nel senso di non portare la data al 30 settembre 1947; ma dichiaro che mi sono riferito a quella data, perché è la data del termine di presentazione delle denunce.

PRESIDENTE. L’onorevole La Malfa ha facoltà di esprimere il parere della Commissione.

LA MALFA. Relatore, La Commissione non ha nulla da aggiungere alle osservazioni, esattissime, fatte dall’onorevole Bubbio. Il patrimonio si accerta al 28 marzo 1947. Non possiamo tener conto di quello che succede dopo, anche perché quelli che muoiono dopo il 30 settembre vengono a trovarsi in una situazione di svantaggio. C’è una ragione di logica. All’articolo 3 abbiamo cumulato i patrimoni già divisi; sarebbe strano che qui dividessimo i patrimoni uniti.

PRESIDENTE. L’onorevole Ministro ha facoltà di esprimere il parere del Governo.

PELLA, Ministro delle finanze. Il Governo è contrario all’emendamento proposto dall’onorevole Cannizzo.

Ciò che avviene posteriormente al 28 marzo non può influire sull’applicazione dell’imposta.

Abbiamo respinto la possibilità di tener conto di determinate detrazioni per eventi che possono verificarsi posteriormente al 28 marzo, anche in casi in cui un atto di generosità poteva essere opportuno.

Non l’abbiamo potuto fare per la ferrea logica della legge. Per questo mi duole di non potere aderire al temperamento chiesto dall’onorevole Cannizzo.

PRESIDENTE. Pongo ai voti l’emendamento proposto dall’onorevole Cannizzo.

(Non è approvato).

LA MALFA, Relatore. A nome della Commissione, propongo di sopprimere l’ultimo comma dell’articolo proposto dalla Commissione stessa e così formulato:

«Le società, ditte ed enti costituiti all’estero debbono l’imposta sul patrimonio accertato al loro nome con aliquote corrispondenti ad un terzo, con il massimo del 10 per cento».

Questo comma può essere trasferito, a suo tempo, nel titolo relativo agli enti collettivi.

PELLA, Ministro delle finanze. Mi associo.

PRESIDENTE. Pongo ai voti la soppressione del comma proposta dalla Commissione.

(È approvata).

L’articolo 29 si intende pertanto approvato nel testo proposto dalla Commissione, con la soppressione dell’ultimo comma.

Vi è ora la proposta del seguente articolo 29-bis presentata dagli onorevoli Pesenti, Scoccimarro, Foa, Valiani e Lombardi Riccardo:

«Il patrimonio imponibile delle società, le cui azioni sono quotate in borsa, è valutato in base alla media dei prezzi di compenso del trimestre indicata dall’articolo 18.

«In tale valore imponibile nessuna detrazione è consentita.

«Il patrimonio imponibile delle società ed enti diversi da quelli indicati nel comma precedente è valutato in base alle disposizioni degli articoli 9 e seguenti della presente legge.

«In tale patrimonio imponibile sono detraibili soltanto le passività afferenti ai cespiti patrimoniali che formano oggetto imponibile».

Poiché tale emendamento riguarda gli enti collettivi, sarà esaminato quando si discuterà di tale materia.

Gli onorevoli Zerbi, Uberti, Salvatore, Cimenti e Germano hanno proposto il seguente articolo aggiuntivo 29-bis:

«Agli effetti dell’applicazione in via definitiva delle aliquote di cui all’articolo 29, il contribuente il quale, al 28 marzo 1947, avesse almeno due figli viventi o premorti con prole può chiedere di essere ammesso a pagare l’imposta con l’aliquota pertinente al quoziente risultante dalla divisione del proprio patrimonio imponibile per il numero dei figli e delle loro stirpi, esclusi però da tal numero i figli che abbiano un patrimonio proprio soggetto all’imposta a norma dell’articolo 29.

«Quando il coniuge del contribuente abbia un proprio patrimonio imponibile a norma del precitato articolo, il quoziente anzidetto sarà calcolato sul cumulo dei patrimoni imponibili dei coniugi, i quali saranno colpiti, in via definitiva, con la medesima aliquota.

«Qualora il quoziente determinato come sopra risultasse inferiore al minimo imponibile di cui all’articolo 28, il patrimonio del contribuente e quello del coniuge saranno ugualmente soggetti all’imposta con l’aliquota minima.

«Non è ammesso l’esercizio della facoltà di cui al presente articolo quando il patrimonio imponibile accertato oppure il cumulo a norma del secondo comma superino i cento milioni di lire.

«Non potrà esercitare la facoltà accordata dal presente articolo il contribuente il quale non ne abbia fatto esplicita richiesta contemporaneamente alla dichiarazione di cui all’articolo 30. Tale dichiarazione dovrà essere sottoscritta anche dal coniuge nel caso di cui al comma secondo».

L’onorevole Zerbi ha facoltà di svolgere il suo emendamento.

ZERBI. Dopo la sorte subìta dall’opportunissimo emendamento dell’onorevole Tozzi Condivi, il nostro ha ben scarse probabilità di successo. L’emendamento da me proposto insieme con gli onorevoli Uberti, Salvatore, Cimenti e Germano vuole alleviare l’aliquota progressiva dell’imposta in rapporto al numero dei figli del contribuente. A tal fine gli interi patrimoni fiscali dei coniugi vengono cumulati, mentre non si considerano come figli a carico quelli che già abbiano una propria autonomia patrimoniale fiscalmente accertata.

È proposito particolarmente caro alla sociologia cristiana quello di valorizzare il nucleo familiare quale elemento costitutivo della società statale. Ciò dovrebbe autorizzarci a sperare che una porzione non piccola di quest’Assemblea dovrebbe convenire nel riconoscere che, specie in questa sede di tassazione straordinaria, progressiva e patrimoniale, non sia equo ignorare la numerosità della famiglia del contribuente o tenerne il piccolo conto che ne tiene l’articolo 28 votato poc’anzi.

Non è equo – almeno quando non si tratti di patrimoni veramente ingenti – colpire con la medesima aliquota il padre che abbia una prole anche numerosa ed il contribuente che prole non abbia o che abbia un figlio unico.

Ma il nostro emendamento servirebbe anche ad attenuare quello che a parer nostro sarà un inconveniente dell’articolo 3. Con tale articolo vengono ricondotti all’ascendente – agli effetti dell’imposta progressiva – i componenti patrimoniali che, dopo il 28 marzo 1947, siamo passati a discendenti a titolo gratuito – dote esclusa – od anche a titolo oneroso, quando l’accipiente non possa dimostrare di avere pagato con capitali propri. Teoricamente tale cumulo riguarderebbe tanto i beni mobili che gli immobili, ma in linea di fatto esso inciderà quasi esclusivamente sui trapassi immobiliari. Questi, infatti, hanno documentazione solenne e pubblica, mentre i trapassi di ricchezza mobiliare non hanno abitualmente tale documentazione o ne hanno di meno evidente. I trapassi di pacchetti azionari, ad esempio, avranno lasciato tutt’al più traccia in un fissato bollato e nell’annotazione sul libro degli azionisti e nello schedario centrale, se avvenuti dopo l’adozione della nominatività obbligatoria.

Senonché, quando tale trapasso fosse stato suggerito da propositi di esazione fiscale, è da ritenere che il rapporto diretto fra ascendente e discendente sia stato per lo più occultato con l’interposizione di un prestanome e con due fissati bollati, invece di uno: il primo per il trapasso dall’ascendente al prestanome ed il secondo per quello dal prestanome al discendente. Il tutto, fino a pochi mesi fa, era attuabile senz’alcun apprezzabile onere fiscale, onere tuttavia irrisorio rispetto alle gravi aliquote che colpirebbero le grandi concentrazioni patrimoniali.

L’emendamento da noi proposto non respinge affatto, anzi utilizza il cumulo disposto dall’articolo 3 e lo completa estendendolo all’intero patrimonio imponibile del coniuge, e su tale vasto cumulo vorrebbe innestare una larga considerazione del numero dei figli del contribuente.

Ulteriori commenti sono forse superflui a chiarire il contenuto del nostro emendamento.

Non potrà usufruire della facoltà di cui al nostro emendamento chi abbia un cumulo patrimoniale ingente, superiore al massimo di 50 milioni di lire attuali. Nel proporre tal limite abbiamo avuto presente il rapporto di 1 a 60 adottato dall’onorevole La Malfa, a pagina 13 della sua relazione, per la comparazione fra le lire del 1920 e quelle del 1947. Pertanto, il limite proposto corrisponderebbe ad un cumulo patrimoniale massimo di 833.000 lire del 1920.

Ci pare anche di avere evitato molte complicazioni procedurali in quanto si condiziona il diritto del contribuente di usufruire del proposto trattamento speciale ad una sua domanda fatta contemporaneamente alla denuncia patrimoniale, sottoscritta dal coniuge, qualora anche tutto il patrimonio del coniuge debba cumularsi. E con ciò si è esonerata l’amministrazione finanziaria da ogni obbligo nell’amministrazione del nucleo familiare.

PRESIDENTE. Qual è l’avviso della Commissione?

LA MALFA, Relatore. La Commissione non accetta l’emendamento Zerbi.

PRESIDENTE. Qual è l’avviso del Governo?

PELLA, Ministro delle finanze. L’emendamento proposto dall’onorevole Zerbi resterà certamente negli atti parlamentari come un contributo intelligente per la soluzione di un complicato problema, qualora venissero ammessi i presupposti da cui l’onorevole Zerbi parte. Ma siccome l’onorevole Zerbi per primo dovrà convenire che il Governo non può accettare la premessa, non potrà, di conseguenza, stupirsi se non accetto il suo emendamento.

PRESIDENTE. Pongo ai voti l’emendamento Zerbi.

(Non è approvato).

Vi è ora la proposta di un articolo 29-ter degli onorevoli Pesenti, Scoccimarro, Foa, Valiani e Lombardi Riccardo. L’articolo sarebbe così formulato:

«Sono soggetti ad imposta gli enti collettivi il cui patrimonio valutato a norma dell’articolo precedente è superiore a cinque milioni.

«L’ammontare dell’imposta da corrispondersi è determinata in base alle seguenti aliquote da applicarsi nel patrimonio valutato a norma dell’articolo precedente:

 

fino a 5 milioni, esenti

 

 

da 5 a

20 milioni

1 %

da 20 a

50   

1,50%

da 50 a

100

2%

da 100 a

250

2,50%

da 250 a

500

3%

da 500 a

1000

3,50%

da 1 a

2 miliardi

4%

da 2 a

5

4,50%

da 5 a

10

5%

da 10 a

20

5,50%

oltre i 20 miliardi

….

6 %

Poiché anche questo articolo riguarda gli enti collettivi, lo rimandiamo a quando verrà posta in discussione la questione.

CORBINO. Chiedo di parlare.

PRESIDENTE. Ne ha facoltà.

CORBINO. Desidero richiamare l’attenzione del Governo sopra un problema sul quale stiamo concordando un ordine del giorno con gli altri settori della Camera a proposito delle modalità di pagamento specialmente per quanto concerne i contribuenti colpiti da aliquote altissime. Vorrei che il Governo si preoccupasse fin da ora di escogitare i mezzi relativi al versamento dell’imposta in modo che non si determini un grave sconquasso nell’economia nazionale; specialmente avuto riguardo a quei casi in cui una grande parte del patrimonio dovrà essere versata sotto forma di imposta. Prego il Governo di mettere allo studio questo problema fin da questo momento.

LA MALFA, Relatore. Mi associo alla richiesta dell’onorevole Corbino.

PRESIDENTE. Torniamo allora per un momento indietro ad esaminare gli emendamenti relativi all’articolo 25, di cui molti sono stati già assorbiti e superati con le votazioni successive.

Si dia lettura innanzi tutto del testo dell’articolo 25 proposto dalla Commissione.

MOLINELLI, Segretario, legge:

«Si presume che facciano parte del patrimonio del contribuente le seguenti quote percentuali in conto rispettivamente del valore del mobilio, dell’arredamento e dei gioielli, del danaro, dei depositi e dei titoli di credito al portatore:

 

Fino a

6 milioni

Fino a

10 milioni

Fino a

60 milioni

Oltre

60 milioni

Mobilio, arredamento e gioielli.

3%

5%

7%

10%

Denaro, depositi e titoli di credito al portatore

2%

4%

6%

10%

«Dette quote si computano con riferimento al patrimonio netto, risultante dalla differenza tra il valore lordo delle attività, escluse quelle costituite dai cespiti sopra indicati, e l’ammontare delle passività deducibili.

«Le quote stabilite nel comma precedente rappresentano l’ammontare minimo dei cespiti soggetti all’imposta, al quale si elevano i valori eventualmente dichiarati per una cifra inferiore, fermo l’obbligo, da parte del contribuente, di dichiarare il maggior valore di ognuno dei cespiti indicati effettivamente posseduto, e ferma la facoltà, da parte della finanza, di procedere all’accertamento di maggiori valori in base a dati e circostanze di fatto.

«La quota presunta in conto mobilio, arredamento e gioielli è ridotta alla metà nei riguardi del cittadino e dello straniero residenti all’estero, che abbiano beni nello Stato. La quota non si aggiunge se non risulti che detti contribuenti possiedano del mobilio nello Stato».

A questo articolo è stato presentato un emendamento sostitutivo, dagli onorevoli Bosco Lucarelli, Perlingieri, Turco, Coppi Balduzzi, Titomanlio Vittoria, Salizzoni, De Unterrichter Maria, Caristia e Viale, del seguente tenore:

«Sostituirlo col seguente:

«Per i patrimoni superiori ai 5 milioni, e salvo maggiore valutazione, si presume una quota del 3 per cento in conto del valore del mobilio, dell’arredamento e dei gioielli, nonché una quota del due per cento in conto del danaro, dei depositi e dei titoli di credito al portatore».

Non essendo presente l’onorevole Bosco Lucarelli, prego uno dei firmatari, l’onorevole Balduzzi, di dichiarare se intende mantenere questo emendamento.

BALDUZZI. Rinuncio all’emendamento. Faccio mio, invece, l’altro emendamento a firma dell’onorevole Bosco Lucarelli così formulato:

«Nella tabella contenuta nel primo comma alle parole: fino a 5 milioni, sostituire le parole: fino a 10 milioni, e alle parole: fino a 10 milioni, sostituire le parole: fino a 20 milioni».

Rinunzio peraltro a svolgerlo.

PRESIDENTE. L’onorevole Relatore ha facoltà di esprimere il parere della Commissione.

LA MALFA, Relatore. La Commissione ha attenuato in questi casi la gravezza delle aliquote del provvedimento governativo. Infatti, se leggete il testo del disegno di legge, vedete che si fissa una quota del 7 per cento pel mobilio e del 5 per il denaro. La Commissione non intende spostarsi dal testo governativo e prega il collega Balduzzi di non insistere su questo emendamento.

PRESIDENTE. L’onorevole Ministro delle finanze ha facoltà di esprimere il parere del Governo.

PELLA, Ministro delle finanze. Prego l’onorevole Balduzzi di non insistere sull’emendamento perché il testo concordato dal Governo con la Commissione – a parte tutte le critiche che in sede teorica può trovare – in sede pratica risolve abbastanza bene il problema.

PRESIDENTE. Onorevole Balduzzi, mantiene l’emendamento?

BALDUZZI. Non vi insisto.

PRESIDENTE. Segue l’emendamento a firma degli onorevoli Condorelli, Quintieri Quinto, Corbino, Colonna, Benedettini, Fabbri e Perrone Capano, così formulato:

«Emendare il primo comma come segue:

«Si presume che faccia parte del patrimonio del contribuente una quota del 7 per cento, in conto del valore del mobilio, dell’arredamento e dei gioielli, nonché una quota del 5 per cento in conto del denaro, dei depositi, dei titoli di credito, nominativi o al portatore».

L’onorevole Condorelli ha facoltà di svolgerlo.

CONDORELLI. Il testo del mio emendamento va naturalmente modificato in relazione all’emendamento ora approvato dalla Commissione, perché io mi riferisco alle quote stabilite nel decreto che andiamo convalidando, mentre le quote che ha stabilito la Commissione e che sono state accettate dal Governo, sono inferiori.

Si tratta di un problema di equità e di giustizia, compatibile anche con le esigenze del fisco.

Tutti quanti abbiamo la coscienza che i titoli di Stato abbiano già largamente pagato questa imposta sul patrimonio, come ora ha detto l’onorevole Corbino con la sua competenza. Ci sono effettivamente titoli di Stato che hanno pagato proprio questa stessa imposta sul patrimonio, nella misura del 99 per cento. Il titolo di Stato meglio trattato sarebbe quello che ha preceduto il Prestito della ricostruzione, che deve aver pagato questa imposta almeno per il 70 per cento.

Ora, sarebbe necessario preoccuparsi di questi titoli di Stato: viceversa, nella legge nulla si è fatto, probabilmente per la impossibilità di stabilire in quale momento erano stati acquistati. Perché chi è detentore di titoli emessi per esempio nel 1914, non è detto che sia il sottoscrittore, anzi, probabilmente, non è il sottoscrittore, può essere un borsaro nero che ha investito in titoli di Stato i suoi male acquistati guadagni.

Però, nel quadro di tutti questi titoli di Stato, quelli che sono stati addirittura maltrattati sono proprio quelli che avrebbero avuto diritto ad una maggiore considerazione. Parlo dei titoli nominativi e dei buoni postali fruttiferi.

Questi titoli nominativi e i buoni postali fruttiferi portano proprio impressa nella loro natura, la loro origine e il contributo vasto che hanno dato, l’esproprio che hanno subito. Questi titoli nominativi, in genere, non sono altro che le doti e i beni dei minori che, non potendosi tener in denaro liquido o in titoli al portatore, sono stati così investiti. I buoni postali fruttiferi sono i risparmi dell’umile gente, che tutto in una volta si vede trasportata, per l’inflazione, nel rango dei milionari.

E noi possiamo dire questo: che un titolo di 10.000 lire vi porta dalla zona esente dall’imposta alla zona tassata.

Ora, il trattamento di rigore che è stato fatto, consiste in questo: che, mentre c’è per tutte le altre possidenze liquide – depositi di banca, denaro contante, titoli al portatore – il conglobamento nella percentuale stabilita dalla legge, i titoli da me considerati si presuppongono come al di là della percentuale, necessariamente al di là.

Questo è ingiusto ed è ingiusto, prima di tutto, dal punto di vista probatorio, perché viene a costituire una presunzione, che è certamente contraria alla verità; perché, in sostanza, noi cosa abbiamo? Che si presume che questi titoli nominativi e buoni postali fruttiferi siano un qualche cosa che sia necessariamente un di più di quella scorta di liquido che presumiamo, necessariamente, in ogni patrimonio.

Ora, questo non è assolutamente vero, perché chi investe denaro preferisce i titoli al portatore, evidentemente. Prendono titoli nominativi quelli che non possono tenere titoli al portatore, principalmente per ragioni attinenti al loro stato civile. Non è che questi siano dei contribuenti che, oltre quei tali titoli al portatore hanno questi altri; sono invece delle persone che hanno titoli nominativi, proprio perché non possono avere titoli al portatore.

Viceversa, noi andiamo a creare, a base del congegno previsto dalla legge, una presunzione che è tutto l’opposto della realtà: che questi titoli nominativi siano posseduti oltre ai titoli al portatore.

Ebbene, penso che, fermo restando l’obbligo della denunzia che è per tutti i beni mobili, questi titoli nominativi e i buoni postali fruttiferi che sono i risparmi della povera gente – di coloro che, non potendo comprare dei cespiti reali, acquistano un titolo, perché chi risparmiava 500 o 1000 lire, l’impiegato, il contadino, non poteva fare altro che andarsi a comprare un buono postale fruttifero, si denuncino, ma siano compresi in questa quota del 5 per cento, o in quella che stabilirà la legge; e che non si debbano presumere necessariamente come un’aggiunta a questa quota. Io spererei che, una volta tanto, la Commissione e il Ministro rinunciassero al sistema di estrema, di eccessiva difesa del fisco, tanto più che quanto da me proposto non potrà spostare sostanzialmente le posizioni, in quanto i titoli nominativi sono pochi.

I buoni postali fruttiferi sono indubbiamente molti, ma hanno tutti quanti quella stessa origine: origine di lavoro, di risparmio faticoso di povera gente, in rapporto alla quale è veramente intollerabile che si faccia un trattamento più rigoroso di quello che si fa ai titoli al portatore.

PRESIDENTE. Invito l’onorevole Relatore a esprimere il parere della Commissione.

LA MALFA, Relatore. L’onorevole Condorelli, in certo senso, ha posto un problema che preoccupa ed ha preoccupato la Commissione; c’è indubbiamente un certo fondamento di verità in quello che l’onorevole Condorelli ha detto. Tuttavia, come facciamo noi a mettere in una quota presuntiva i titoli nominativi? Da che punto di vista possiamo farlo?

Nel sistema della legge, come possiamo considerare presuntivamente titoli nominativi? Mi pare un assurdo così evidente che, con la migliore buona volontà, la Commissione non si trova in grado di accogliere la proposta.

CONDORELLI. Onorevole Presidente, mi consenta di replicare.

PRESIDENTE. Sia breve, onorevole Condorelli.

CONDORELLI. La obiezione che mi fa l’onorevole La Malfa io l’avevo già prevista. Io non dico che si debba fare un accertamento presuntivo, ma dico che i titoli di cui ho parlato, se non superano quella data percentuale, vadano nella percentuale. In sostanza, infatti, la legge viene a creare una presunzione che è contro la verità: la presunzione cioè che essi vadano oltre la percentuale, mentre essi invece rientrano nella percentuale, rientrano cioè nel 5 per cento.

LA MALFA, Relatore. Ma in verità l’emendamento parla di presunzione.

CONDORELLI. Perdoni. Io non ho grandi doti, ma quella della chiarezza me l’hanno sempre riconosciuta tutti. L’obbligo della denuncia esiste per tutti i titoli: sarà anche vero che i furbi non denunzieranno i titoli al portatore, ma l’obbligo non cessa per questo di esistere.

Io ritengo dunque, che si possa benissimo dire: si presume che facciano parte del patrimonio del contribuente, ecc., ecc., in conto del denaro, dei depositi, dei titoli nominativi e al portatore. Poi c’è il comma successivo che dice: questa quota viene considerata però soltanto come un minimo; se poi di fatto c’è di più, si paga.

Ciò vuol dire che quando sarà fatta la denuncia, e tra titoli al portatore e nominativi, compresi i buoni postali fruttiferi, si abbia superato quel 5 o 7 per cento, sul di più, si dovrà pagare.

Perciò credo che anche questa volta sia stato chiaro.

PRESIDENTE. Ha facoltà di parlare l’onorevole Relatore.

LA MALFA, Relatori. Non sono d’accordo con l’onorevole Condorelli, in questo senso: che la presunzione, così com’era stabilita nel disegno di legge governativo – fermo restando l’obbligo della dichiarazione – era una presunzione per valori che potevano sfuggire ad un accertamento; in un certo senso la presunzione ha questo significato, e lo dobbiamo confessare. Noi diciamo: dovete denunciare questi valori, ma siccome sono di difficile accertamento, li calcoliamo in via presuntiva. Quando aggiungiamo «nominativi», tutto questo sistema cade. È stato prospettato il caso di beni dei minori investiti in titoli. Vorrei sentire il Ministro su questi determinati casi. Qui vi è una dizione talmente generica che sotto la denominazione di titoli nominativi può passare parecchia roba, mi pare.

PRESIDENTE. Qual è il parere dell’onorevole Ministro?

PELLA, Ministro delle finanze. La ragione sistematica dovrebbe portare all’esclusione della richiesta dell’onorevole Condorelli, perché una volta impostato il sistema dell’articolo 25 sull’accertamento presuntivo di ciò che è al portatore, deriva da una tale impostazione l’inammissibilità dell’emendamento.

Vi è un caso che può richiamare la nostra attenzione: il caso del minore intestatario di determinati titoli che sono rimasti al suo nome per più anni e che, quindi, evidentemente, hanno subìto in pieno la svalutazione.

Se l’onorevole Condorelli ritiene che la Commissione e il Governo possano studiare questo problema, credo che si potrebbe ricercare una formula che offra qualche particolare agevolazione per il minore, o per qualche altro caso che sia assimilabile a quello del minore, soprattutto, ripeto, quando è evidente che i titoli, per essere rimasti nelle stesse mani per tutto il periodo dell’inflazione, hanno scontato automaticamente gli effetti dell’inflazione stessa.

Se l’onorevole Condorelli, invece, insistesse per avere una votazione immediata del suo emendamento, dovrei pronunciarmi contro l’emendamento stesso.

PRESIDENTE. Onorevole Condorelli, insiste per la votazione?

CONDORELLI. Evidentemente, non posso insistere per la votazione immediata. Prego, però, il Ministro e la Commissione di volermi ascoltare quando esamineranno questo problema.

LA MALFA, Relatore. Vorrei proporre che si voti l’articolo 25 anche per questa parte, salvo ad aggiungere un comma per quei casi che prenderemo in considerazione.

CONDORELLI. Pregherei di lasciare impregiudicata la questione, perché oso sperare di potervi sottoporre degli argomenti che mi daranno ragione anche sulla parte sulla quale non mi sembra che mi si voglia dar ragione. Del resto, dovendo sospendere, mi pare che sarebbe bene sospendere per intero.

LA MALFA, Relatore. Francamente, il primo comma così com’è a me pare che si debba lasciare. Se si devono fare delle eccezioni, facciamole con un titolo specifico, quindi con un comma specifico.

Io apprezzo molto le opinioni dell’onorevole Condorelli e ammetto che mi possa convincere di molte cose, ma spostare la questione sino ad includere, sia pure per inciso, i titoli nominativi, mi pare vada oltre il segno.

CONDORELLI. Chiedo di parlare.

PRESIDENTE. Ne ha facoltà.

CONDORELLI. Dati i termini in cui si svolge la discussione, sono pronto a ritirare l’emendamento ed a lasciare a voi tutta la responsabilità della cosa!

PRESIDENTE. Ha facoltà di parlare il Ministro delle finanze.

PELLA, Ministro delle finanze. Vorrei fare una proposta sul piano pratico. Dall’emendamento dell’onorevole Condorelli nascono dei suggerimenti di cui la Commissione ed il Governo terranno conto. Se per ragioni di ordine procedurale, per il sollecito procedimento dei nostri lavori, riteniamo opportuno di votare – magari respingendolo – l’emendamento dell’onorevole Condorelli, tutto questo deve avere però un significato; che l’emendamento dell’onorevole Condorelli, anche se provvisoriamente respinto, lasci una traccia feconda attraverso l’impegno della Commissione e del Governo di riservarsi la presentazione di altro emendamento che tenga eventualmente conto di buona parte dello spirito della proposta dell’onorevole Condorelli.

PRESIDENTE. Mi pare che, avendo l’onorevole Condorelli ritirato l’emendamento, non sia il caso di metterlo in votazione. L’emendamento sarà tenuto presente dal Governo perché eventualmente prepari un articolo aggiuntivo…

LA MALFA, Relatore. Un comma.

PRESIDENTE. …un comma aggiuntivo da approvare nella seduta di martedì. Così non c’è il rigetto e resta il desiderio dell’onorevole Condorelli all’esame del Governo e della Commissione. Mi pare che questa, possa essere la soluzione.

L’onorevole Caroleo ha presentato il seguente emendamento:

«Al primo comma aggiungere:

«Nel calcolo delle attività non si comprende, ai fini della determinazione delle quote predette, in conto mobilio e denaro, il valore attribuito ai fabbricati soggetti a regime vincolistico».

Ha facoltà di svolgerlo.

CAROLEO. Insisto perché questo emendamento venga accolto. Dopo la discriminazione ammessa nella legge tra fabbricati soggetti a regime vincolistico e fabbricati non soggetti a regime vincolistico, questo emendamento s’impone: «Nel calcolo delle attività non si comprende, ai fini della determinazione delle quote predette, in conto mobilio e denaro, il valore attribuito ai fabbricati soggetti a regime vincolistico».

Mi pare che presumere dette quote per proprietari senza reddito sia come voler mettere il denaro in tasca al contribuente, che non può averlo in maniera assoluta, perché non c’è nessun possessore di fabbricati soggetti a regime vincolistico che possa aver comprato mobili o messo da parte denaro. Mi pare che questa presunzione nei confronti di questi proprietari non debba operare. L’estenderla, ripeto, significherebbe questo: porre fittiziamente in tasca denaro al contribuente per avere poi il diritto di ripeterlo. È come se si mettesse un portafoglio vuoto in tasca ad un Tizio per richiederlo poi a questo stesso Tizio pieno di denaro, che non ha avuto e non ha preso.

PRESIDENTE. Qual è il parere della Commissione.

LA MALFA, Relatore. Una volta che si tenga conto del sistema vincolistico in sede di valutazione, non si può tenerne conto in altra sede.

PRESIDENTE. Prego il Ministro di esprimere il parere del Governo.

PELLA, Ministro delle finanze. Anch’io devo esprimere parere contrario all’emendamento dell’onorevole Caroleo. D’altra parte, vorrei sottolineare una conseguenza particolare che deriverebbe dall’accoglimento dell’emendamento.

Facciamo l’ipotesi di un uguale arredamento che sia posseduto da chi è proprietario di un fabbricato vincolato e da chi è proprietario di un fabbricato non sottoposto al vincolo. La percentuale presuntiva del proprietario d’un fabbricato vincolato, calcolata su un valore più basso, porta ad attribuire all’arredamento un valore ridotto; invece, la percentuale calcolata sul valore del fabbricato non vincolato, fa attribuire un più elevato valore all’arredamento che, come si diceva, è sempre lo stesso. In definitiva mi pare che vi siano nella legge dei correttivi che vanno oltre quello che vorremmo raggiungere. L’onorevole Caroleo si richiama ad un caso quasi marginale, il caso di colui che possiede soltanto un fabbricato vincolato. Lo possiede dall’epoca dell’altra guerra, e non ha mai posseduto altro. Forse esiste questo caso. Ma, purtroppo, non si possono prendere in considerazione questi casi marginali, per adottare soluzioni di specie che sconvolgerebbero tutta la legge.

PRESIDENTE. Onorevole Caroleo, insiste nel suo emendamento?

CAROLEO. Insisto.

PRESIDENTE. Pongo ai voti l’emendamento Caroleo.

(Non è approvato).

Vi è ancora un emendamento all’articolo 25, degli onorevoli Condorelli, Quintieri Quinto, Corbino, Colonna, Benedettini, Fabbri e Perrone Capano, così concepito:

«Aggiungere, in fine, il seguente comma:

«La quota presunta in conto del danaro, dei depositi e dei titoli di credito è ridotta al 3 per cento nei riguardi del cittadino e dello straniero residenti all’estero che abbiano beni nello Stato».

L’onorevole Condorelli ha facoltà di svolgerlo.

CONDORELLI. Siccome penso che i cittadini residenti all’estero ovviamente svolgono all’estero la loro attività, è da supporre che questo denaro liquido non l’abbiano proporzionalmente al loro patrimonio in Italia, ma l’abbiano in parte all’estero. È da presumersi che ne abbiano almeno la metà all’estero, perché il patrimonio mobiliare si detiene essenzialmente dove si risiede.

PRESIDENTE. Qual è il pensiero della Commissione?

LA MALFA, Relatore. La Commissione è contraria.

PRESIDENTE. Qual è il pensiero del Ministro?

PELLA, Ministro delle finanze. Il Governo è contrario.

QUINTIERI QUINTO. Domando di parlare.

PRESIDENTE. Ne ha facoltà.

QUINTIERI QUINTO. Desidero fare un’osservazione di carattere generale, e non specifica. Questi coefficienti stabiliti in base a presunzione costituiscono solo un aggravio nella tassazione degli immobili e non colpiscono affatto i beni mobili, i valori al portatore od il denaro liquido. Si resta sempre a tassare il patrimonio immobiliare secondo un doppio coefficiente A e B, e non si tassa il denaro, né i gioielli, né le opere d’arte.

PRESIDENTE. La Commissione modifica il suo avviso di fronte a questa osservazione dell’onorevole Quintieri?

LA MALFA, Relatori. La Commissione rimane contraria.

PRESIDENTE. E il Governo?

PELLA, Ministro delle finanze. Tengo a sottolineare che troppo spesso si finisce per identificare tutta la ricchezza mobiliare con quella espressa in titoli al portatore.

Vi è invece da tenere in conto anche quella nominativa; vi è tutto il settore dei titoli azionari, settore che la Finanza non ha intenzione affatto di trascurare quando si procede al calcolo della quota presuntiva, che dev’essere calcolata non soltanto sul valore dei cespiti immobiliari, ma anche su quello dei titoli azionari che rappresentano un elemento tutt’altro che trascurabile.

PRESIDENTE. Pongo ai voti l’emendamento dell’onorevole Condorelli ed altri.

(Non è approvato).

Non essendovi altre osservazioni, l’articolo 25 si intende approvato.

Passiamo all’articolo 54. Se ne dia lettura.

MOLINELLI, Segretario, legge:

«Il contribuente che ometta di presentare la dichiarazione nei termini stabiliti è soggetto al pagamento di una sopratassa pari all’ammontare dell’imposta definitivamente accertata, ed è punito con l’ammenda da una metà all’intera somma dell’imposta stessa.

«La sopratassa stabilita nel comma precedente è ridotta ad un terzo, nei casi in cui il contribuente presenti la dichiarazione entro 60 giorni dalla scadenza del termine, e l’ammenda non si applica.

«Ove il contribuente presenti la dichiarazione nei termini stabiliti dall’articolo 30, omettendo l’indicazione di uno o più cespiti, è soggetto ad una sopratassa pari alla quota proporzionale di imposta definitivamente accertata sui cespiti omessi, ed è punito con l’ammenda dalla metà all’ammontare della quota stessa.

«La sopratassa prevista nel comma precedente è ridotta ad un terzo, ove il contribuente dichiari i cespiti stessi entro 60 giorni dalla scadenza del termine, e l’ammenda non si applica.

«Ove il contribuente dichiari un valore imponibile inferiore a quello minimo determinato secondo le norme degli articoli da 34 a 37, è soggetto ad una pena pecuniaria pari alla differenza tra l’imposta liquidata sul valore determinato secondo le norme degli articoli sopra citati e quella liquidata sul valore dichiarato.

«La pena pecuniaria non si applica quando l’imposta di cui l’Erario sarebbe stato defraudato non supera il quinto dell’imposta dovuta».

PRESIDENTE. Su questo articolo, accettato dalla Commissione nel testo del Ministero, vi è un emendamento degli onorevoli Castelli Edgardo, Scoca, Coccia, Vicentini, Veroni, Nasi, Bassano, Tosi, Castelli Avolio, Arcaini e Pesenti, così formulato:

«Al terzo comma, dopo le parole: o più cespiti, aggiungere: o dichiarando debiti che risultino fittizi».

Il Governo e la Commissione hanno comunicato di accettarlo.

Lo pongo ai voti.

(È approvato).

 

PELLA, Ministro delle finanze. Chiedo di parlare.

PRESIDENTE. Ne ha facoltà.

PELLA, Ministro delle finanze. Prego l’Assemblea di delegare il Governo a modificare in sede di coordinamento l’ultima parte del terzo comma, poiché mi sembra necessario prevedere l’applicabilità della soprattassa in conseguenza della dichiarazione di debiti fittizi: proporrei quindi la formula seguente, da aggiungere dopo le parole «sui cespiti omessi» le altre: «o che sarebbe stata sottratta».

PRESIDENTE. Il Ministro propone, dunque, che al terzo comma dell’articolo 54 dopo le parole: «sui cespiti omessi» si aggiunga l’espressione: «o che sarebbe stata sottratta».

LA MALFA, Relatore. La Commissioni accetta l’emendamento.

PRESIDENTE. Lo pongo ai voti.

(È approvato).

Il terzo comma risulta pertanto così formulato:

«Ove il contribuente presenti la dichiarazione nei termini stabiliti dall’articolo 30 omettendo l’indicazione di uno o più cespiti, o dichiarando debiti che risultino fittizi, è soggetto ad una soprattassa pari alla quota proporzionale di imposta definitivamente accertata sui cespiti omessi, o che sarebbe stata sottratta, ed è punito con l’ammenda della metà dell’ammontare della quota stessa».

Non essendovi altre osservazioni, l’articolo 54 si intende approvato con l’emendamento testé votato.

Passiamo ora alle proposte di articoli aggiuntivi al disegno di legge, i primi tre de quali concernono la stessa materia. Ne do lettura:

Art. …

«L’Assemblea Costituente – a mezzo della sua Presidenza – nomina un ristretto Comitato di deputati che, in accordo col Ministero delle finanze, sorvegli costantemente l’applicazione della presente imposta.

«Adonnino».

Art. …

«L’Assemblea Costituente – a mezzo della sua Presidenza – nomina un ristretto Comitato di deputati che, in accordo col Ministero delle finanze, collabori alla emanazione di norme complementari e regolamentari e sorvegli costantemente l’applicazione della presente imposta.

«Cannizzo».

Art. …

«Resta in facoltà del Ministero delle finanze di presentare opportuni provvedimenti, intesi a fare affiancare da elementi tecnici di provata capacità, nominati eventualmente da consessi elettivi di cittadini, gli Uffici fiscali e le Commissioni provinciali.

«De Mercurio».

Questi tre articoli potrebbero essere esaminati complessivamente. L’onorevole Adonnino ha facoltà di svolgere il suo articolo aggiuntivo.

ADONNINO. Prendo solo la parola per chiarire il concetto del mio articolo aggiuntivo, specialmente di fronte ad altri simili articoli presentati.

PRESIDENTE. Mi pare piuttosto che si dovrebbe discutere sulla proponibilità di un organo quale quello indicato.

ADONNINO. Ma la opportunità di istituire un dato organo deriva dalla importanza maggiore o minore, dallo sviluppo maggiore o minore che a questo organo si voglia dare. E siccome l’importanza, lo sviluppo dell’organo che io propongo sono minimi, ne vorrei spiegare il motivo. Io ho fatto tesoro di una proposta che è stata avanzata dal Presidente della Commissione di finanza.

L’azione del Comitato di deputati che io propongo di nominare andrebbe tenuta nei limiti più ristretti.

Sento, per esempio, che l’onorevole Bertone dice: «ma allora gli uffici ministeriali sarebbero inceppati dalla presenza di questi deputati».

No, i deputati non avrebbero nessunissima facoltà di determinare l’azione degli uffici; e perciò non potrebbero in essa interferire, e non potrebbero incepparla.

La Commissione di deputati sarebbe solo accanto al Ministro per avere tutte le informazioni immediate che possono venire dagli uffici.

A me pare che tale Commissione sarebbe utilissima specialmente in questa legge, che, diciamolo francamente, è un po’ una legge che facciamo a tastoni, con gli occhi bendati, tanto è vero che si dice…

PRESIDENTE. La prego di non fare divagazioni.

ADONNINO. Non faccio divagazioni; spiego il mio concetto. Si dice chiaramente e si ammette da tutti che a questa legge ne dovranno seguire varie altre integrative e modificative; sappiamo tutti che è una legge che nella applicazione pratica potrà dare tante sorprese.

Una Intendenza di finanza potrà dire che sorge quel tale ostacolo; un’altra Intendenza di finanza potrà dire che sorge quel tale inconveniente.

C’è, si capisce, il Ministero con i suoi organi, ma l’esistenza di un ristretto comitato di deputati con funzioni informative, (quindi non sono d’accordo con gli altri articoli proposti che vogliono dare a questo comitato un potere costituzionale) che possa proporre poi nelle forme costituzionali eventuali emendamenti, mi sembra opportuna.

PRESIDENTE. L’onorevole Cannizzo ha facoltà di svolgere il suo articolo aggiuntivo.

CANNIZZO. Io ho usato la forma più larga, ma l’ho usata senza volere con questo violare il principio della divisione dei poteri, perché so benissimo che la funzione di emanare regolamenti spetta al potere esecutivo. Però parlo di collaborazione. Vado all’idea quindi di un organo consultivo che si affianchi al Ministro. E del resto, poiché il Governo durante le discussioni ha fatto tante promesse, ha lasciato intravedere tante possibilità di modificazioni alla legge e dimostrato tanta volontà di mitigare la inflessibilità, credo che una commissione di deputati che controlli benevolmente e collabori col Ministro possa essere utile anche per ricordare le promesse. Tanto più quando si pensi che il Presidente della Commissione, onorevole La Malfa, ha lasciato intravedere la utilità di questa commissione, e credo, del resto, e l’onorevole La Malfa ne deve convenire, che, quando avremo votato tutta la legge, non avremo per nulla una legge completa, ma una legge piena di lacune. Ritengo di aver chiarito il senso che intendo dare alla parola «collabori».

PRESIDENTE. L’onorevole De Mercurio ha facoltà di illustrare il suo articolo aggiuntivo.

DE MERCURIO. Questo articolo aggiuntivo è stato già da me svolto nel mio ultimo discorso. È un inciso dell’articolo 75. È stato riconosciuto dallo stesso Governo nell’elaborare la legge, che l’attrezzatura attuale degli uffici fiscali è inadeguata. Allora, con questo mio articolo aggiuntivo, chiedo che gli uffici fiscali e le commissioni provinciali siano affiancati da elementi tali da poter garantire un più efficace lavoro.

PRESIDENTE. Qual è il pensiero del relatore?

LA MALFA, Relatore. Effettivamente nel mio discorso generale sulla imposta patrimoniale, avevo accennato alla possibilità che in piena Camera si potesse avere un Comitato che seguisse, direi così, quella che è un po’ la pressione dell’opinione pubblica. Ma era lontana da me l’idea che nella legge si aggiungesse un articolo creativo di questo Comitato. Siccome gli onorevoli Deputati, all’inizio della discussione, attraverso gli emendamenti, hanno manifestato l’esigenza di seguire attentamente l’applicazione della legge, si può, in sede di Commissione di finanza, o altrimenti, regolare questa materia, ma come deliberazione interna e non creando un Comitato.

Per quanto riguarda l’emendamento De Mercurio, forse a titolo di raccomandazione il Governo può accettarlo, ma anche in questo caso non possiamo accogliere una disposizione formale.

BERTONE. Chiedo di parlare.

PRESIDENTE. Ne ha facoltà.

BERTONE. Mi rendo conto del pensiero che ha ispirato le richieste degli articoli aggiuntivi degli onorevoli Adonnino, Cannizzo e De Mercurio, ma mi preoccupo del modo come queste funzioni potrebbero essere esercitate. Gli uffici fiscali hanno bisogno di essere lasciati in pace, hanno bisogno di non essere né imbarazzati né intralciati in alcun modo nella loro opera. Si vuole nominare un Comitato di deputati; ma domani questi deputati ci sono e non ci sono, poi quelli che ci sono si radunano, e che fanno? Fanno quello che fa la Commissione finanze e tesoro, che è permanentemente costituita e che se ha bisogno di notizie le chiede. Anzi, rientra nei compiti della Commissione finanze e tesoro di sorvegliare il provvedimento e vedere se ha il suo normale svolgimento. Quindi, anche per quella esperienza che ho in questa materia, crederei che non sia opportuno intralciare l’opera degli uffici fiscali, e pregherei pertanto i colleghi, dei quali apprezzo d’intendimento, di non insistere su questa richiesta che non apporta alcun vantaggio.

LA MALFA, Relatore. Io non ho parlato di Commissione di finanza per evidenti ragioni, ma è chiaro che se i colleghi che seguono in provincia l’applicazione di questa imposta, hanno da sottoporre quesiti di ogni genere, noi possiamo continuamente vagliare tali quesiti relativi all’applicazione dell’imposta patrimoniale, e siccome abbiamo un contatto permanente coi Ministeri delle finanze e del tesoro, possiamo fare questo lavoro per conto dei colleghi.

PRESIDENTE. Qual è il pensiero del Governo?

PELLA, Ministro delle finanze. Il Governo non solo deve respingere l’emendamento proposto, per le ragioni di ordine pratico che sono state accennate dagli onorevoli La Malfa e Bertone, ma per ragioni di principio, che deve sottolineare fermamente.

Il Governo desidera avere la migliore delle leggi, attraverso la collaborazione degli onorevoli deputati, ma è responsabilità del Governo di applicare la legge, e mi si permetta di dire che l’Amministrazione finanziaria, mentre invoca il controllo del Parlamento e dell’Assemblea Costituente su tutta la sua attività, con i mezzi normali di controllo, non ritiene che possa subire lo spirito informatore dell’emendamento; e cioè che, proprio ai fini dell’applicazione dell’imposta sul patrimonio, sia necessario un particolare controllo.

Daremmo in questo caso una patente di insufficienza, per non dire altro, a un complesso di funzionari degnissimi, che certamente saranno all’altezza dell’applicazione di questa imposta.

Ben venga il controllo parlamentare su questo tributo e su tutti gli altri, con i mezzi normali, che vorrei effettivamente funzionassero in concreto, anche di più di quello eh? normalmente funzionano! Ma assolutamente devo essere contrario alla introduzione di una particolare forma di controllo per un particolare tributo.

La Commissione permanente di finanza e tesoro, che tanta collaborazione ha dato al Governo, per questa imposta come per altre, certamente assolverà nel modo più degno il suo compito.

Apporti ognuno tutto il contributo di suggerimenti, venga a chiedere tutte le informazioni che può desiderare; non ho nulla in contrario alla costituzione, in futuro, di un Comitato per il perfezionamento della legge; ma non potrei aderire alla proposta di istituire un controllo sulla Amministrazione da me rappresentata, in una forma veramente eccezionale, che, appunto perché tale, non potrebbe essere consentita.

Per quanto riguarda l’emendamento proposto dall’onorevole De Mercurio, soggiungo che è già nella consuetudine dell’Amministrazione di servirsi dell’opera di tecnici ogni qualvolta lo ritenga opportuno. Sottolineare questa prassi con un esplicito articolo di legge sarebbe dare un particolare tono alla questione, che non può essere gradito alla amministrazione.

Quindi, do atto all’onorevole De Mercurio che i tecnici saranno largamente utilizzati.

Per quanto riguarda il riordinamento dell’Amministrazione – perdoni onorevole De Mercurio – è questione tutta diversa. Si tratta di potenziare l’Amministrazione con funzionari che già ne fanno o che ne faranno parte.

Per quanto ho detto, prego gli onorevoli presentatori degli articoli aggiuntivi di non insistere.

PRESIDENTE. Onorevoli Adonnino, Cannizzo e De Mercurio, insistono nei loro emendamenti?

ADONNINO. Ritiro il mio.

CANNIZZO. Anch’io lo ritiro.

DE MERCURIO. Dopo i chiarimenti avuti, lo ritiro.

PRESIDENTE. L’onorevole Cappi ha proposto il seguente emendamento aggiuntivo:

«È riconosciuta all’Amministrazione finanziaria la facoltà di annullare, entro 3 anni dalla loro conclusione, i concordati intervenuti coi contribuenti, quando risultasse la omissione di qualche elemento patrimoniale o l’alterazione di qualche elemento di valutazione. Sono fatti salvi, agli effetti dei privilegi fiscali, i diritti dei terzi di buona fede».

Ha facoltà di svolgerlo.

CAPPI. Come ho avuto occasione di dire altra volta, il buon esito di una legge fiscale, più che dall’inasprimento delle aliquote, dipende dalle misure difensive contro le evasioni e contro – diciamolo pure – le corruzioni.

Ora, specialmente a proposito di una legge così complicata, come quella dell’imposta straordinaria progressiva, gli errori, non volontari o, in qualche caso, anche volontari, in sede di concordato non sono difficili.

Quindi, parrebbe a me monito e freno, sia ai funzionari dall’Amministrazione finanziaria sia ai contribuenti, avvertirli che, concluso il concordato, la pratica non è definita, non passa in archivio, ma l’Amministrazione ha la facoltà, che potrà esercitare anche saltuariamente, di potere – entro dati limiti di tempo – rivedere il concordato. So, onorevoli colleghi, che questa facoltà sussiste in base all’articolo 43 del testo unico del 1877 sulla imposta di ricchezza mobile, ma è indicata nell’articolo 43 in modo piuttosto vago e non è conosciuta dalla grande massa dei contribuenti. Quindi sembrerebbe a me non inutile – se non necessario – mettere a monito – ripeto – e freno dei funzionari dell’Amministrazione finanziaria e dei contribuenti questo articolo nel testo della legge.

PRESIDENTE. L’onorevole Relatore ha facoltà di parlare.

LA MALFA, Relatore. L’onorevole Cappi ha già chiarito i termini del problema. Mi sembra che vi sia già una disposizione generale contenuta in un testo di legge ancor più generale. Per questi motivi la Commissione ritiene che non si debba ripetere in questa sede in modo specifico. In ogni modo si rimette al parere del Governo.

PRESIDENTE. L’onorevole Ministro delle finanze ha facoltà di parlare.

PELLA, Ministro delle finanze. Ringraziando l’onorevole Cappi della sua segnalazione, spero di convincerlo che lo spirito del suo emendamento è già contenuto, almeno in parte, nell’articolo 46 della legge e, in parte, nella prassi dei concordati.

Se si seguirà la prassi dell’imposta del 1920 – e non vi è ragione per non seguirla – i concordati conterranno la clausola della riserva di accertare i cespiti omessi, che spiega i suoi effetti nei limiti della prescrizione per la azione della finanza. Questo dovrebbe essere il primo elemento di tranquillità; ma vorrei richiamare l’articolo 46, che abbiamo difeso con energia nell’interesse dell’Amministrazione, contro quanti, qui in Assemblea, protestavano per la precarietà dei concordati di fronte alla facoltà prevista da tale articolo.

Orbene, l’articolo 46 va interpretato nei limiti di tempo che la prescrizione fissa alla finanza, e perciò, entro questi limiti, l’applicazione dell’articolo 46 e la riserva presa in sede di concordato portano ai risultati che l’onorevole Cappi vuole raggiungere.

L’ipotesi, invece, in cui l’emendamento dell’onorevole Cappi aggiungerebbe qualcosa a favore dell’Amministrazione, è quella in cui i tre anni oltrepassino i limiti della prescrizione; ma, francamente, mentre ringrazio l’onorevole Cappi di essersi preoccupato degli interessi della finanza, temo che si finirebbe per violare quei limiti oltre i quali la finanza stessa non può andare nella tutela dei propri interessi. Per questo, pur senza respingere nel contenuto il suggerimento dell’onorevole Cappi, che sostanzialmente è in parte accolto nella legge ed in parte sarà accolto dalla prassi, debbo pregarlo di non insistere.

CAPPI. Non insisto, ma osservo che il Ministro ha accennato soltanto alla omissione di cespiti e non agli errori di valutazione. La frode consiste spesso lì…

PELLA, Ministro delle finanze. Provvede sempre l’articolo 46.

PRESIDENTE. Vi è ora l’articolo aggiuntivo proposto dagli onorevoli Proia, Cremaschi Carlo, Carbonari e Giannini, che è del seguente tenore:

«I diritti di autore si valutano tenendo conto della durata temporanea fissata per legge e dell’aleatorietà dello sfruttamento economico delle opere dell’ingegno.

«Non sono valutati i diritti dell’autore in vita, in quanto costituiscono un reddito di lavoro».

I proponenti lo mantengono?

CREMASCHI CARLO. Se il Governo accetta lo spirito dell’articolo, non avrei difficoltà a ritirarlo.

PELLA, Ministro delle finanze. Chiedo di parlare.

PRESIDENTE. Ne ha facoltà.

PELLA, Ministro delle finanze. La questione è di estimazione. Vorrei dare una prima assicurazione nel senso di convenire che nell’ipotesi del diritto d’autore, quando l’autore è in vita, si tratta, prevalentemente, di un lavoro che si basa sull’opera personale dell’autore.

Quindi, assicuro l’onorevole Cremaschi che non si procederà a capitalizzazione per la valutazione della quota parte del diritto d’autore, che deriva da prestazioni d’opera personale.

L’altra parte, in via sistematica, deve essere soggetta a capitalizzazione per la determinazione del valore da attribuire al diritto di autore. Non posso assumere degli impegni precisi, ma è evidente che, in sede di estimazione, l’Amministrazione userà sempre una più accentuata benevolenza verso quei cespiti che hanno origine puramente dal lavoro.

CREMASCHI CARLO. Ritiro il mio articolo aggiuntivo.

PRESIDENTE. Sta bene. Allora l’esame degli articoli è terminato.

MARINARO. Prego il Presidente di volermi dare atto, nella sua cortesia, che a questo punto risultano discussi, esaminati ed approvati tutti i 75 articoli del decreto legislativo 29 marzo 1947, nel testo originario e nel testo della Commissione.

PRESIDENTE. Io le do atto di quello che risulta a verbale.

LA MALFA, Relatore. Io devo fare formale obiezione a questa presa di posizione. Noi abbiamo qui degli emendamenti sospesi, e sono gli emendamenti 29-bis, 29-ter che sono in relazione agli enti collettivi. Non solo, ma noi abbiamo sospeso alcuni commi riguardanti la tassazione delle società estere, che dobbiamo inserire in un nuovo testo. Quindi, il lavoro su questi articoli non è stato compiuto e su questi emendamenti la Commissione ed il Governo non hanno dato risposta.

PELLA, Ministro delle finanze. Desidero dare atto che il Governo si associa su questo punto alle considerazioni dell’onorevole Relatore.

MARINARO. Osservo che questa non era la sede indicata per presentare quegli emendamenti ai quali ha accennato il Relatore, che dovevano essere prima portati dinanzi alla Commissione.

PRESIDENTE. Rinvio il seguito della discussione ad altra seduta.

Interpellanza con richiesta d’urgenza.

PRESIDENTE. Comunico che l’onorevole Selvaggi ha presentato la seguente interpellanza con richiesta di svolgimento urgente:

«Al Governo, per conoscere se, di fronte all’ora storica che volge, che impone l’unione di spiriti di tutti gli italiani e, per conseguenza, provvedimenti di pacificazione nazionale che rendano tutti i cittadini eguali nei diritti come nei doveri dinanzi alla legge comune, non ritenga che sia giunto il momento di procedere all’abrogazione di tutta la legislazione straordinaria e speciale, restituendo così il prestigio e l’autorità dello Stato democratico alle leggi ordinarie.

Questa interpellanza sarà posta all’ordine del giorno della seduta in cui saranno svolte altre interpellanze già presentate in materia analoga.

La seduta termina alle 13.

POMERIDIANA DI VENERDÌ 25 LUGLIO 1947

ASSEMBLEA COSTITUENTE

CCII.

SEDUTA POMERIDIANA DI VENERDÌ 25 LUGLIO 1947

PRESIDENZA DEL PRESIDENTE TERRACINI

INDICE

Disegno di legge (Seguito della discussione):

Approvazione del Trattato di pace fra le Potenze Alleate ed Associate e l’Italia, firmato a Parigi il 10 febbraio 1947. (23).

Presidente

Russo Perez

Treves

Pecorari

Spano Velio

Cevolotto

Adonnino

Valiani

La seduta comincia alle 17.

VISCHIONI, ff. Segretario, legge il processo verbale della precedente seduta pomeridiana.

(È approvato).

Seguito della discussione sul disegno di legge: Approvazione del Trattato di pace tra le Potenze Alleate ed Associate e l’Italia, firmato a Parigi il 10 febbraio 1947. (23).

PRESIDENTE. L’ordine del giorno reca il seguito dellà discussione sul disegno di legge: Approvazione del Trattato di pace tra le Potenze Alleate ed Associate e l’Italia, firmato a Parigi il 10 febbraio 1947.

È iscritto a parlare l’onorevole Russo Perez. Ne ha facoltà.

RUSSO PEREZ. Onorevoli colleghi, quando l’altra sera un amico venne a portarmi la notizia che la proposta degli onorevoli Orlando e Giannini non era stata accolta, mi disse: «Siete stati battuti». Io ho risposto: «Sei in errore; è stato battuto il Governo», perché, nella nostra intenzione, la proposta dell’onorevole Orlando, se accettata, sarebbe stato un bene per il Governo. Altri ci hanno detto: «Ma voi, così, fate causa comune con i comunisti!». Io ho risposto: «Anzitutto, non è detto che i comunisti abbiano sempre torto; non è detto che Nenni abbia sempre torto. In secondo luogo è strano – dissi – che questa accusa venga da quelli che hanno collaborato per due, tre anni al Governo coi comunisti, mentre la nostra era una casuale convergenza di idee sopra un voto». Ed ecco che, respinta la proposta Orlando, si è venuti alla discussione, che, naturalmente, involge tutta la politica estera del Governo, e non soltanto di questo, ma specialmente dei Governi precedenti. E io avrei amato che in questa materia si fosse lasciata piena libertà di atteggiamento ai deputati; avrei sperato, avrei osato sperare, che i dirigenti, nella questione che oggi ci occupa e ci preoccupa, avessero avuto il pudore di non chiedere e i gregari la fierezza di non dare alcun affidamento; perché la materia è così alta, è così impegnativa per la nazione, che sarebbe veramente un bene per tutti se a ciascuno fosse lasciata piena libertà di ubbidire, nel voto, soltanto ai dettami della propria coscienza.

Il Governo, secondo noi, quando si è deciso per la firma del Trattato, ed amo ricordare che il solo Gruppo parlamentare che ha tenuto sempre un atteggiamento costante di avversione alla firma e alla ratifica è stato il nostro, e che noi siamo riusciti, con uno strattagemma procedurale, a pronunciare la nostra protesta nella seduta dell’8 febbraio di quest’anno…

CONDORELLI. Io l’ho gridata!

RUSSO PEREZ. …È vero, l’onorevole Condorelli l’ha gridata; ma non siete riusciti parlamentarmente ad esprimerla… Dicevo che il Governo, quando si è deciso per la firma, ha commesso un errore. Ma imperdonabile è il secondo errore: quello di non aver voluto, non dico seguire, ma sentire il parere dell’Assemblea.

Dico perdonabile il primo, perché commesso certamente per amore degli altri, per amore del Paese; ma dichiaro imperdonabile il secondo, perché commesso per amore di sé, per orgoglio, per aver creduto di avere il possesso della verità e di potere quindi sdegnare il parere di questa Assemblea.

Io credo potersi dimostrare storicamente che una parte della durezza del Trattato di pace (chiamiamolo Trattato, tanto per intenderci, ma, quando pronunciamo la parola «Trattato», supponete sempre che ci siano le virgolette da una parte e dall’altra; così eviteremo di pronunciare quella brutta parola: Diktat), è senza dubbio da attribuirsi alla sciagurata guerra perduta, ma una parte (non so se maggiore o minore, ma certo notevole) alla insufficienza dei nostri Governi e specialmente di coloro che hanno tenuto nelle loro mani non capaci le leve della politica estera, cominciando da Badoglio, da Bonomi a De Gasperi, ed anche un pochino a Nenni ed a Sforza, in ordine decrescente, perché probabilmente il demerito segue la cronologia.

L’uomo saggio non sdegna il consiglio, anche dei minori. Io ricordo che esattamente un anno fa in questa Assemblea ebbi l’onore di pronunciare, sulla cobelligeranza, un discorso – il 18 luglio – in cui chiedevo qualche cosa al Governo, e il mio pensiero, sintetizzato anche in un ordine del giorno. Dissi altre cose, che alla pace preliminare promessaci a Potsdam come un privilegio avremmo dovuto rinunciare. Quell’ordine del giorno non fu votato, perché il Governo, nella persona dell’onorevole De Gasperi, disse che l’accettava come raccomandazione. Ma la raccomandazione non fu tenuta in conto e niente fu fatto di quello che io chiedevo che si facesse. E oso dire (non per orgoglio), oso dire che, se mi si fosse ascoltato, forse un gran bene sarebbe venuto all’Italia, come dimostrerò fra poco.

Inquadriamo, intanto, il problema della ratifica.

È facile inquadrarlo. Vi sono tre questioni da discutere. Prima: il Trattato nella sua obiettività. Qui siamo tutti d’accordo. Si tratta di un pessimo Trattato. La parola più gentile e più parlamentare che è stata pronunciata per qualificarlo è stata «iniquo». Quindi, su questo punto, c’è poco da discutere.

Secondo punto del problema: ratificare o non ratificare E qui le correnti sono due: una grande maggioranza è per la ratifica; un’infima minoranza è per la non ratifica.

Ma vi è un terzo problema che è il più importante: ratificare oggi? Perché ratificare oggi? Amici, io potrei essere un po’ orgoglioso della seconda formula escogitata dal Governo, quella della «esecuzione», perché fui io a proporla nella tornata della Commissione dei Trattati, del giorno 8. Però io dicevo: questa deliberazione noi dovremo prenderla quando il momento sarà venuto, non adesso; perché, se prendiamo subito la nostra decisione, sia pur rimandandone a quel tempo l’effettiva attuazione, noi comunque oggi facciamo una manifestazione di volontà. È perfettamente la stessa cosa. O in forma di ratifica o in forma di incarico dato al Governo di attuare più tardi quanto noi oggi avremo deciso, una nostra manifestazione di volontà attuale ci sarà stata sempre. Quindi il problema è vedere se sia necessario, o anche semplicemente opportuno, che tale manifestazione sia fatta. Poi, come problema connesso, vi è tutta la politica estera del Governo.

Vi sono state recentemente tre riunioni alla Commissione degli Esteri. Essendo non più giovane, penso spesso alla possibilità dell’errore: del mio errore, prima che degli errori altrui, e, quindi, ho temuto di essermi troppo appassionato alla mia tesi. Vi assicuro, onorevoli colleghi, che da 15 giorni io vado cercando affannosamente – vorrei dire spasmodicamente – gli argomenti per convincermi che ho torto; e, naturalmente, questi argomenti li ho chiesti anzitutto alla persona più indicata per darli: il Ministro degli esteri, conte Sforza. Nelle riunioni della Commissione dei Trattati io e gli altri colleghi abbiamo chiesto più volte al Ministro che ci spiegasse perché dobbiamo procedere alla ratifica oggi, perché l’Italia deve fare oggi questa manifestazione di volontà; che è enormemente impegnativa, come vedremo in seguito, onorevoli colleghi. Gli argomenti sono stati questi. In primo luogo, sia pure in forma di suggerimento garbato, Bevin e Bidault hanno accennato all’opportunità della ratifica. Recentemente, però, il signor Bevin ha detto così (lo ha riportato la stampa italiana, credo nei giornali di ieri mattina): «Personalmente io penso che, avendo firmato il Trattato, esso debba essere ratificato, perché possiamo metterlo in atto». Questo avrebbe detto Bevin: niente altro che questo. Dunque, onorevoli colleghi, è storicamente certo che pressioni vere e proprie non ce ne sono state né da parte della Francia, né da parte dell’Inghilterra, né tanto meno, quello che più importa, da parte dell’America. V’è stato uno scambio, direi, di cortesie; noi saremmo lieti che voi firmaste. Orbene, per ricambiare una cortesia, si può regalare una copia in bronzo della lupa capitolina, anche fatta da un buon artista, ma non firmare un trattato di quel genere.

Altri argomenti: gli accordi economici e commerciali conclusi con varie potenze, con l’Inghilterra, con la Cecoslovacchia, potrebbero cadere. Pericolo di perdere garanzie per certe categorie di beni italiani all’estero. La Jugoslavia, l’Albania, la Bulgaria, la Grecia potrebbero chiedere un aumento della cifra delle riparazioni.

Amici miei, io vi prego di esaminare se vi sia uno solo di questi argomenti, il quale, pur essendo utile a sostenere la tesi che in un dato momento occorrerà ratificare il Trattato, serva a dimostrare l’opportunità di ratificarlo oggi. Notate che, tranne, forse, per gli accordi con l’Inghilterra, per gli altri accordi non c’è mai stata alcuna subordinazione alla ratifica. Ma, comunque, questa reazione delle altre Potenze, quando potrebbe venire? Evidentemente soltanto dopo che le quattro Grandi Potenze avessero ratificato e avessero depositato a Parigi la loro ratifica.

Poi vi è quell’altra terribile minaccia che ieri è stata tanto accentuata dall’onorevole Ministro Sforza: noi perderemo al possibilità di entrare in quel paradiso, in quel regno delle fate che è l’O.N.U, Organizzazione delle Nazioni Unite. La domanda è in corso, ci si dice: se la nostra ratifica non sarà intervenuta, noi, nonostante abbiamo fatto la domanda, non potremo entrare nella Organizzazione delle Nazioni Unite. Ma il conte Sforza prevede la facile obiezione che, senza la ratifica della Russia, non potremmo entrarvi ugualmente, e allora, per consolarci, ci dice che, in base alle informazioni che egli possiede, la ratifica russa potrebbe aversi nei prossimi giorni, al che anche un bambino risponderebbe: e allora aspettiamo lo scorrere dei prossimi giorni, cosicché, invece di affidarci a quel futuro incerto, che è sempre sulle ginocchia di Giove, noi vedremo la realtà.

Dunque: ingresso all’O.N.U. Io personalmente – e in ciò credo di avere dalla mia parte qualcuno dei maggiori, dei vecchi parlamentari, che onorano, non soltanto con la loro canizie, ma con il loro senno, questa Assemblea – penso che, di questo ingresso all’O.N.U, non ce ne importa niente o, perlomeno, molto poco. Ce ne importerebbe molto se non ci fosse il diritto di veto delle Grandi Potenze. Ma, onorevoli colleghi, col diritto di veto delle Grandi Potenze, che cosa significa l’appartenenza all’O.N.U? Anzitutto, anche ammessi in quel nobile consesso, noi saremmo considerati come l’ultima delle Potenze, e non soltanto in ordine cronologico. Che cosa avrebbe di diverso la nostra sorte da quella dei vassalli, che, nel medioevo, dovevano apprestare al signore un certo numero di fanti e cavalieri onde aiutarlo nelle sue imprese ed in cambio essere dal signore protetti contro la reazione dei più deboli da loro spogliati?! Ma noi non abbiamo spogliato nessuno. Sono gli altri che tengono le nostre misere spoglie, e le conserveranno all’ombra dei sacri ideali ridicolizzati e oltraggiati da questa rediviva Lega delle Nazioni, alla quale non so come abbiano potuto brindare in buona fede gli uomini, se non «grandi» certo notevoli, che l’hanno tenuta a battesimo.

Comunque, su questo risponde anche Don Luigi Sturzo. Egli ha detto: voi mi parlate di revisione, che potremmo ottenere attraverso l’O.N.U. Ebbene; se noi chiediamo questa revisione prima di essere entrati nell’O.N.U, la Russia potrebbe opporsi. Se la chiediamo dopo, non soltanto la Russia, ma anche la Cina può opporsi. Il diritto di veto è stato già esercitato in parecchie occasioni e noi chiederemmo sempre invano.

Vi è un altro argomento, che si fa a favore della ratifica, che è il più appariscente di tutti. E questo argomento il popolo lo sente. Uscire dal provvisorio per entrare nel definitivo; uscire dal regime armistiziale per entrare nel regime di pace. Se fosse vero! Ma, amici miei, con la nostra manifestazione di volontà questa allettante prospettiva non è affatto avvicinata. Notate questo, che, anche se noi non ratificassimo domani; se noi, quando fossero già depositate a Parigi le ratifiche delle quattro grandi Potenze, ci rifiutassimo, in forma garbata, come propongo io, non offensiva, né minacciosa, e manifestando la nostra decisione di non opporci in alcun modo alla esecuzione di esso, ci rifiutassimo, dico, di ratificarlo, anche in quel caso non avremmo fatto alcunché per prolungare il regime armistiziale, perché esso automaticamente, quando siano depositate le ratifiche delle quattro Grandi Potenze, cessa ed entra in vigore il regime di pace.

È questo il punto che non è stato ancora tenuto presente quando ci si parla dei pericoli della non ratifica. L’argomento reggerebbe soltanto se fosse detto nel Trattato di pace, in quel famoso articolo 90, che tutti conosciamo: Se l’Italia non ratifica, vi saranno delle sanzioni, per esempio, vi sarà un regime armistiziale inasprito. Ma questo non è detto. La nostra ratifica è facoltativa; e questo è stato fatto di proposito. E dirò che l’unico passo del Trattato, in cui le Potenze Alleate hanno mostrato di rispettarci ancora, è questo. Probabilmente l’hanno fatto perché nessun russo, nessun francese, nessun inglese avrebbe ratificato un Trattato di quel genere. Essi ci hanno voluto lasciare la possibilità di questa piccola ribellione formale senza conseguenze. E se noi, in tali condizioni, ratificassimo, ci porremmo al disotto del giudizio morale che di noi hanno fatto gli Alleati.

Quando ci si dice: ratifichiamo, non domani, ma subito, per uscire dal provvisorio, si dice – per essere cortesi – per lo meno una cosa inesatta, perché noi, anche dando subito la nostra approvazione al Trattato, non usciremo dal regime armistiziale nel quale ci troviamo.

Poi vi è qualche altra cosa detta dal conte Sforza in cui non posso concordare, e me ne dispiace. Io vorrei con quell’egregio gentiluomo essere sempre d’accordo. E così obbligante nelle sue maniere, che si vorrebbe sempre contentarlo. Ma sono sempre in disaccordo.

Ci ha detto questo: Vi è una ostilità della Francia e dell’Inghilterra a qualunque proposta di revisione, se prima non abbiamo ratificato.

A questo argomento, onorevoli colleghi, risponderò più tardi, quando parlerò della ragione che hanno gli italiani di non credere più alle promesse e di volere veramente iniziare una politica degna del grande segretario fiorentino. Non siamo stati, sinora, altro che il trastullo delle altre Nazioni.

Il machiavellismo lo hanno imparato a memoria gli altri e lo hanno applicato nel Trattato di pace, che ci si chiama a ratificare.

Un solo argomento ci si fece in Commissione dei trattati per dimostrare la necessità dell’immediata ratifica.

Permettetemi che apra una parentesi. Il Governo ha già dimostrato che la ratifica immediata non era necessaria, perché ha convertito la vecchia formula nella seguente «l’Assemblea autorizza il Governo a ratificare, quando sarà venuto il momento». Quindi, il Ministro degli esteri ci ha implicitamente dimostrato che chiedeva, esponendo a gravi pericoli la nostra Nazione, qualcosa che non era necessario accordare. Chiudiamo la parentesi.

L’argomento è questo: noi saremmo stati ammessi in condizioni di parità a Parigi soltanto se avessimo ratificato. Argomento appariscente. Il pensiero di presentarsi veramente pari fra pari in un Congresso internazionale era qualcosa che poteva commuovere le viscere di noi altri italiani, ormai usi ad essere trattati come l’ultima delle Nazioni.

Ha un’importanza questo convegno di Parigi e quegli altri che verranno? Sicuramente sì. La nostra partecipazione al Congresso di Parigi sicuramente è stata un bene. Il rappresentante dell’Italia è stato ammesso a far parte di quello che potremmo chiamare l’esecutivo di questo aereo piano Marshall; ciò è stato un bene. E facciamo parte anche – mi pare – delle Commissioni dell’agricoltura e dei combustibili. Sì, sono delle buone cose, ma non bisogna esagerare.

Che cos’è il piano Marshall? L’onorevole Nitti, tanto caustico, ha detto che neanche Marshall lo sa. E, in fondo – non so da chi prendo a prestito questa frase – il detto: «aiutati che io ti aiuto». L’America, prima di continuare ad aiutarci, vuole che noi ci mettiamo d’accordo, che stabiliamo di scambiarci le nostre stesse risorse e che presentiamo, quindi, un piano concreto di aiuti integrativi.

Amici miei, mettersi d’accordo! Dunque, la base di questo futuro aiuto sarà l’accordo delle nazioni europee. Ma, se non sono d’accordo, neanche in questo momento, la Francia, l’Inghilterra e gli Stati Uniti, per esempio, a proposito della Germania, a proposito della sistemazione della Ruhr?! Non sono d’accordo neanche le tre Potenze vincitrici! E dovremmo metterci d’accordo tutti!

Non soltanto questo. Onorevoli colleghi, la politica, specialmente la politica estera – è una frase dell’onorevole Sforza – non è governata dai sentimenti e dai risentimenti; è governata dagli interessi.

Perché ci hanno voluto nel Congresso di Parigi per il piano Marshall? Perché finalmente il loro cuore si è intenerito? Credete che ci sia tanta gente che piange in Francia e, specialmente, in Inghilterra per la nostra sorte? Sapete che gli inglesi sono notoriamente così sensibili: hanno perfino abolito il tiro al piccione.

In America, sì. Bisogna dirlo alto e forte: se non fosse stato per gli aiuti delle nobili Nazioni americane e, soprattutto, degli Stati Uniti, quanti bambini in Italia, in questo dopoguerra, sarebbero morti di fame e quanti vecchi non avrebbero avuto di che coprirsi! (Applausi a destra).

Dunque, ci hanno invitato non soltanto per simpatia verso di noi, ma – diciamolo pure – perché hanno un po’ bisogno di noi.

Guardate la cartina geografica, intelligentissima, pubblicata giorni fa dal Giornale d’Italia e vedete se è possibile creare ed applicare un piano Marshall senza la Spagna, che è già esclusa, e facendo a meno, lasciatemelo dire, senza che ciò abbia un significato politico, facendo a meno dell’asse Roma-Berlino, senza l’Italia e senza la Germania. Difatti adesso si dice che la somma di venti miliardi – che era stata promessa o, per lo meno, annunciata – sarebbe stata ridotta a 10 miliardi e di questi 10 miliardi il 40 per cento sarebbe destinato alla Germania ed il 60 per cento a tutte le altre nazioni. Ma la Germania non ha un conte Sforza come Ministro degli esteri, che deve andare a Parigi, né un Trattato di pace da ratificare, e tuttavia si è sentito il bisogno di aiutare la Germania, perché, amici miei, il mondo è diventato troppo piccolo e, se noi abbiamo bisogno degli altri, è altrettanto vero che gli altri hanno bisogno di noi. C’è qualcosa, che ha detto il Ministro Togni – non ho qui l’appunto – recentemente, affermando che il nostro apporto, a questo che siamo ormai usi a chiamare «piano Marshall», potrebbe essere costituito, per quanto riguarda l’Italia, dalla nostra esuberante mano d’opera ed anche dai nostri impianti industriali che, se riforniti opportunamente di materie prime, potrebbero dare il doppio della produzione che danno ora e che è già abbondante.

E il signor Harriman, Ministro del commercio degli Stati Uniti d’America, ha parlato anch’egli della enorme importanza che nel piano Marshall avrebbero l’Italia e la Germania. Ecco perché, onorevoli colleghi, la partecipazione al Congresso di Parigi è stata certamente un bene, ma che sia una cosa enormemente importante noi certamente non possiamo dirlo. Comunque siamo stati ammessi a Parigi, senza che ci fosse la ratifica; e dobbiamo dire che il Ministro degli esteri ha errato – non voglio dire che ci ha ingannati, usando una parola forte, né che si è ingannato – dichiarando che fosse necessaria la nostra ratifica immediata perché intervenissimo al Congresso di Parigi.

Una voce a sinistra. Meglio la speranza…

RUSSO PEREZ. Sì è vero, la speranza è l’ultima a lasciarci, ma se, invece della speranza, potessimo avere delle certezze, sarebbe anche meglio! E noi non abbiamo mai fatto nulla per avere cose concrete e – questo è il nocciolo della mia critica – ci siamo sempre pasciuti di speranze e nulla più. Abbiamo dato la cobelligeranza, abbiamo rinunciato al Dodecanneso e c’è stata la rinuncia allo statuto di Tunisi, senza nessuna contropartita, e vogliamo continuare a far così: mentre crediamo di non aver più carte per il nostro giuoco, il destino ce ne offre alcune. (Rumori al centro). Giuochiamole, amici miei, non buttiamole via, non regaliamole all’avversario, e se, alla fine, saremo costretti a dire: nutriamoci di speranze, ci nutriremo di speranze.

Sul problema della revisione, nella relazione di maggioranza dell’onorevole Gronchi, è detto:

«…segni non dubbi, che è lecito rilevare in manifestazioni ripetute ed autorevoli, consentono di confidare in una migliore giustizia per l’Italia». Però, quando poi si scorre ancora la relazione, si trova quest’altro passo: «Il ratificare – o il promettere la ratifica, che è lo stesso nella nuova forma –, vale anche a segnare una linea di arresto sul pericoloso piano inclinato di patteggiamenti rinnovantisi senza di noi e contro di noi».

Ed allora, dove sono i segni non dubbi? Se ci fossero i segni non dubbi, non si reggerebbe il secondo periodo, cioè che i patteggiamenti si sono rinnovati senza di noi e contro di noi.

L’amico mi invita alla speranza. Entriamo qui nel campo di quella che l’acuto spirito di Vittorio Emanuele Orlando, alla Commissione dei Trattati, chiamò «mistica». Ebbene, nessuno vi può impedire di avere fede e fiducia, e di questa fede si sente una traccia anche nella relazione dell’onorevole Gronchi, che ad un certo punto esprime la speranza che «in un mondo che si indirizza ad attuare, in una sintesi più alta ed umana, le concezioni universali del cristianesimo (questo mondo che voi vedete, che è il mondo della bomba atomica, quell’ordigno per cui il male, che, sino allora, per quanto grande, era umano, è diventato diabolico) …i problemi che tormentano il nostro spirito, di fronte alla iniquità del Trattato, dovranno trovare inevitabilmente una ben diversa soluzione». Onorevoli colleghi, voi sapete se io non sia tra quelli che anelano l’avvento di quel giorno da noi tutti cristiani sognato, in cui regnerà la pace fra gli uomini di buona volontà; ma ditemi anche se si possano oggi riscontrare nel mondo i segni di questa rinascita cristiana. Bisogna dire allora che l’onorevole Gronchi somiglia molto a Candido, che fu, nella fantasia di Voltaire, così ottimista da vedere il bene anche nell’essere impiccato, squartato e condannato a remare nelle galere!

Convinciamoci di una cosa, onorevoli colleghi: la politica si fa per interesse e non per sentimento. Un uomo può essere un martire, un santo, un eroe, ma uno Stato non è mai eroico, non è mai altruistico, ed è sempre governato dagli interessi.

La revisione verrà se e quando saranno nate nel mondo le condizioni storiche e politiche perché la revisione avvenga, quando cioè sarà nato l’interesse della controparte ad accordare la revisione. Ed allora, ammissione all’O.N.U. o esclusione, ratifica o non ratifica, la revisione avverrà. In caso diverso, questa revisione mai non avverrà.

Una voce a sinistra. Vinceremo! (Si ride).

RUSSO PEREZ. Come vedete, ragioni per cui possa apparire, non dico necessaria, ma semplicemente opportuna, la ratifica del Trattato, non ve ne sono.

Ma è opportuno dare uno sguardo fugace a questo Trattato. È opportuno darlo, perché gli italiani sono di memoria labile e perché si è creata una situazione di spirito per cui molti credono che il Trattato sia una cosa finita, già scontata, già sofferta, mentre implica ancora tanti dolori, per tanti anni di là da venire.

Inutile esaminarlo dettagliatamente. Ormai tutti lo conosciamo quasi a memoria ed ognuno, secondo la sua sensibilità e la sua particolare forma mentis, avrà notato piuttosto la crudezza di una che di un’altra clausola di esso. Ma è bene che io guardi a qualcuna di queste clausole.

Vi sono le mutilazioni occidentali, di cui si è parlato ieri, cioè Briga e Tenda e il Moncenisio. Noi non vogliamo mandare l’onorevole Pacciardi alla conquista del Moncenisio (egli ha detto che vincerà)… Noi non vogliamo affidare la revisione di questi problemi, mai più, alla sorte delle armi. Noi diciamo soltanto questo: il torto fatto alla Francia nel 1940 sicuramente fu grave, ma i francesi avrebbero dovuto pensare che solo un italiano lo volle: il morto senza sepoltura; 40 milioni di italiani dissentirono. Avrebbero dovuto ricordarsi, piuttosto, ritornando un poco indietro nella storia, che 40 milioni di italiani nel 1915 resero impossibile, col loro sentimento, l’aggressione della Francia, e per la nostra neutralità fu possibile la vittoria della Marna. Con gli amici francesi abbiamo un’arte e una storia in comune; le arti francesi ammiriamo come arti nostre; noi ammiriamo le glorie di Napoleone, non perché egli fosse un italiano, ma perché il nostro spirito è anche francese.

Noi siamo certi che quando un po’ di comprensione ci sarà tra queste due Nazioni – perché le nostre controversie sono originate più da una somiglianza di carattere che da dissonanze – quando questa comprensione sarà venuta, anche le questioni di Briga e Tenda potranno trovare la loro soluzione.

Ma ben diversa è la situazione che riguarda il confine orientale, questione della quale bisogna parlare con un notevole senso di misura.

Onorevoli colleghi, tutti noi della mia generazione, che abbiamo vissuto la nostra fanciullezza, la nostra infanzia e la nostra gioventù sognando la liberazione di Trieste, tutti noi che per ricongiungerla alla madre Patria abbiamo versato il nostro sangue, non possiamo, senza rinnegare i 600 mila fratelli morti, ratificare quelle clausole del Trattato che ci privano di Trieste italiana.

Noi non vogliamo minacciare alcuno (del resto la nostra minaccia oggi farebbe semplicemente sorridere), e non minacciamo soprattutto perché non intendiamo affidare alla forza le nostre rivendicazioni; però la soluzione che è stata data alle questioni di Trieste, Fiume e Zara (e a quelle generose ed infelici popolazioni mando il mio saluto a nome del nostro Gruppo, come lo mando ai nostri fratelli esuli da Pola) non può essere accettata da noi. Noi non possiamo che negare la ratifica a queste disposizioni del Trattato. Certamente bisogna trovare una via per intenderci. Voi ricordate che, alla Commissione dei Trattati, quando l’onorevole Togliatti fece una non richiesta gita in Jugoslavia e tornò con una serie di proposte, qualcuno presentò un ordine del giorno di deplorazione per quanto aveva fatto il leader comunista.

Ma noi non abbiamo voluto approvare quell’ordine del giorno, perché il passo dell’onorevole Togliatti, per quanto personale, per quanto di dubbia finalità, lasciava uno spiraglio aperto verso la possibilità di una intesa fra i due popoli; e se un giorno noi potessimo intenderci – e per intenderci non è necessario fare, come fecero dei colleghi, degli elogi al maresciallo Tito, che sarà un grande soldato, ma lo sarà per la Jugoslavia – e ciò va detto alla Skupcina – mentre qui, all’Assemblea Costituente Italiana, vanno ricordati i nostri 50 generali caduti alla testa delle nostre gloriose truppe – se un giorno potremo intenderci con la Jugoslavia, sarà certamente un bene, così come è stato a suo tempo fatto con gli alto-atesini per mezzo dell’accordo De Gasperi-Grüber; se un giorno gli italiani in Jugoslavia si potessero sentire come in casa loro e gli Jugoslavi in Italia si potessero sentire anch’essi in casa loro, la gravissima controversia sarebbe in molta parte appianata. Ma è possibile ciò?

Bisognerebbe avere fede nella leale esecuzione dei patti; bisognerebbe aver fede nello spirito con cui questi patti dovrebbero essere fatti ed applicati. Ma l’esodo delle nostre popolazioni non ci dà molto affidamento su questo! Altro non voglio dire.

Speriamo che un giorno, poiché Iddio ci ha creati contermini, poiché sventuratamente dobbiamo vivere a contatto di gomito, speriamo – e verso questa meta vorrei si avviasse la politica estera del nostro Paese – speriamo che si possa creare una distensione fra i due popoli e che essi possano vivere in pace, dimenticando ogni rivalità.

Vi è una piccola questione che vorrei ricordare. Sembra una piccola questione; ma quando si dice «ratificare il Trattato», bisogna pur ricordare la questione dell’oro, del vile metallo, quello che S. Francesco chiamava lo «sterco del demonio» (Commenti).

Secondo l’articolo 78, dobbiamo restituire l’oro di cui eventualmente avessimo spogliato le altre nazioni. Ma è detto in questo articolo 78 che ciò non implica un corrispettivo dovere da parte delle potenze alleate, le quali, quindi, non devono restituirci quelle povere settanta tonnellate d’oro che ci sono state rubate dai tedeschi e che sono state rinvenute: questo poco oro non deve esserci restituito.

Amici miei, come si può ratificare una norma di questo genere? Come si potrebbe reagire? Un giornalista di spirito potrebbe proporre una nuova raccolta dell’oro, per racimolarne ancora qualche grammo nei taschini dei nostri panciotti, al polso delle nostre donne, e fabbricarne tre o quattro lingotti da un chilo da offrire in omaggio ai generosi inventori di questa clausola del Trattato. Ma non potendo rispondere così, rispondiamo almeno col rifiuto del nostro consenso.

C’è, poi, la questione della flotta.

Voi sapete, amici miei, ed è stato ricordato, che la nostra flotta e il nostro esercito furono gloriosi: ma, mentre l’esercito ebbe vittorie e sconfitte, la nostra flotta non è stata mai battuta. Voi sapete che, obbedendo all’ordine del Re, con un grande senso di abnegazione, ma con non meno grande dolore, la nostra flotta il 23 settembre invertì rotta e nemico e si consegnò a Malta. In base all’accordo De Courten-Cunningham, negoziato all’infuori dell’armistizio, fu stabilito che i nostri equipaggi, in uno Stato non più sovrano, conservassero la propria sovranità sugli scafi; le nostre navi continuarono a combattere con la bandiera tricolore sui loro pennoni. Qualche giorno dopo ci fu il cosiddetto «lungo armistizio» del 29 settembre.

Evidentemente, quando l’esercito ha consegnato le armi perché non può più combattere ed ha, all’uopo, firmato un armistizio, tutte quelle altre norme che possono venire in seguito dettate dalle potenze vincitrici non possono avere né il sapore né il contenuto giuridico e morale di un armistizio, ma costituiscono un’imposizione. Di modo che quelle aggiunte del 29 settembre che seguono il «breve armistizio» e vanno sotto il nome di «lungo armistizio» non sono un «lungo armistizio» ma una grossa prepotenza. Le nostre navi non possono essere considerate bottino di guerra, non debbono essere consegnate alle potenze vincitrici; e bene ha fatto l’Ammiraglio De Courten a dimettersi da Capo di Stato Maggiore della marina in segno di protesta.

Pensate che vi sono delle norme che offendono, più dei nostri interessi, il nostro spirito, la nostra sensibilità, la nostra dignità tranne quella dell’onorevole Pacciardi, poiché egli, come vedo, sorride.

Voi ricordate, perché conoscete il Trattato, che certe navi che gli Alleati non vogliono per loro e non vogliono che noi conserviamo, devono essere affondate; e le navi affondate, qualora costituiscano ostacolo alla navigazione, devono essere ripescate e riaffondate di nuovo in fondali da 100 braccia, invece di essere trasformate, ad esempio, come proponeva una madre italiana, in carrozzelle per bambini, apparecchi ortopedici ed aratri. E noi dovremmo ratificare questo Trattato; e noi dovremmo ratificarlo in anticipo!

Vi è poi anche il preambolo, che è offensivo per il popolo italiano: il preambolo dove si parla della guerra di aggressione. Lo nota pure, del resto, l’onorevole Sforza nella sua relazione. Che cosa hanno guadagnato i nostri uomini politici a cospargersi il capo di cenere e a riconoscere le gravi colpe del popolo italiano nella guerra di aggressione?

Entriamo qui in un campo difficile. Che cosa è stata la guerra della Russia alla Finlandia? Molti mesi prima che l’America venisse attaccata, F.D. Roosevelt annunciò che essa sarebbe divenuta l’«arsenale della democrazia», e subito dopo fece approvare la legge «prestiti ed affitti».

Nessun allarme, onorevole Sforza, nessun allarme, onorevoli colleghi; io non sono un diplomatico di carriera, ma so quello che va detto e quello che non va detto. Non sono parole mie, queste: sono parole del sottosegretario di Stato americano Byrnes. Del resto, se la nostra soltanto, di tutte le guerre combattute dai tempi omerici ad oggi, fosse stata la guerra tipica di aggressione, che vantaggio avevano da ritrarre i nostri governanti dal cospargersi il capo di cenere e riconoscere le nostre colpe? Essi pensavano forse che ne sarebbe venuto lustro all’Italia antifascista, oppure che se ne sarebbero sollevati in gloria la loro incolpevole personalità o i loro partiti?

Errore, errore! Pur ieri, il Ministro Byrnes rispondeva – ed è un nostro amico, perché gli americani sono nostri amici – pur ieri dunque il Ministro Byrnes rispondeva all’onorevole De Gasperi: il popolo italiano deve convincersi che deve pagare per la guerra fascista. E non era facile prevedere questa obiezione? E allora sarebbe stato più nobile, oltreché più intelligente, non insistere sul tema delle nostre colpe, non assumere l’atteggiamento del colpevole pentito, pronto a ogni riconoscimento, pronto a ogni rinunzia, come si è fatto per le colonie.

Prima ancora infatti che ce le togliessero, alcuni uomini politici, come l’onorevole Nenni ed altri, dissero che le colonie costituiscono un peso per noi. Più tardi però l’onorevole Nenni ha ripiegato in un’altra trincea… egli non era più Ministro degli esteri… ma può essere stata un’evoluzione del suo spirito. Nel Congresso di Firenze non si provò a ripetere che le colonie non ci sono necessarie, ma disse che l’istituto coloniale è un istituto in declino e che la nostra rinuncia è destinata a precedere analoghe rinunce da parte dei vincitori.

Onorevoli colleghi, noi siamo qui nel campo delle speranze. Il regime coloniale è in declino? Sarà: ma il tramonto di questo regime non è come quello del sole che avviene in ventiquattr’ore; esso può avvenire anche in ventiquattro anni e in duecentoquaranta anni; e intanto è bene che chi ha molte colonie ne ceda qualcuna a chi non ne ha, a noi che dobbiamo, in un territorio che può appena nutrire trenta milioni di abitanti, nutrirne invece quarantacinque.

Noi abbiamo bisogno imprescindibile delle nostre colonie. E del resto ci sono state promesse quelle prefasciste. Che cosa vogliono? Che impazziamo nel nostro angusto territorio? O vogliono che sbattiamo la testa nei muri dei nostri confini, a rischio di rompercela o di romperla anche agli altri?

Voci al centro. No!

RUSSO PEREZ. Le nostre colonie ci sono necessarie e questo bisognava pur dirlo. E che poi la nostra rinuncia preceda nel tempo analoghe rinunce dei vincitori mi sembra assai difficile. Comunque, chi ha vita lunga, aspetterà che gli inglesi abbandonino le loro colonie e la nostra Tobruk.

Questo, dunque, è il Trattato che noi dovremmo ratificare!

Ma vi sono due altre disposizioni su cui io faccio perno e su cui richiamo la vostra attenzione, perché è un punto basilare del problema che ci occupa: sono gli articoli 77 (n. 4) e 18. Me ne occuperò più tardi; ma ricordate questi due articoli: sono quelli per cui, mentre da una parte noi rinunciamo a tutti i nostri diritti in confronto della Germania, dall’altro ci obblighiamo a riconoscere come validi i trattati che le potenze Alleate e Associate faranno domani con quella Nazione.

Ma finora non vi ho parlato dell’argomento principe contro la ratifica intempestiva: argomento che io trattai nella tornata della Commissione degli esteri del giorno 8, e che poi ebbi l’orgoglio di vedere ripreso in pieno dal Maestro di diritto costituzionale e di vita parlamentare, Vittorio Emanuele Orlando. Che cosa ci può giustificare dinanzi alla nostra coscienza, ai nostri figli, alla storia? La coazione, l’aver agito in stato di necessità: questo solo può giustificarci. Ma, amici miei, noi non saremmo in stato di coazione, ma soltanto in stato di opportunità, se mai, quando i Quattro avessero ratificato e depositato la loro ratifica, perché – come vi ho ricordato poc’anzi – la nostra ratifica non è elemento imprescindibile per l’esecutività del Trattato; il Trattato viene eseguito lo stesso. Quindi, in quella occasione, noi ci troveremmo in uno stato di opportunità. Ma, anche se vogliamo chiamarlo di necessità, il momento non è ancora venuto. Ora, se viceversa noi oggi ratifichiamo il Trattato, oppure facciamo questa manifestazione di volontà – che è la stessa cosa – cioè deleghiamo il Governo a ratificare il trattato, noi non ci siamo trovati in stato di necessità; noi siamo stati liberi di regolare la nostra condotta, e quindi la ratifica oggi, la ratifica intempestiva, significa adesione della coscienza del popolo italiano a questo trattato, che tutti siamo concordi nel ritenere iniquo. Qualche cosa di simile dice l’onorevole Gronchi nella sua relazione.

In un altro punto siamo stati tutti concordi, ed è nella necessità di una protesta e che la protesta sia solenne.

Ora, la nostra protesta, fatta oggi, non solenne sarebbe, ma addirittura poco seria, perché noi protesteremmo contro un atto che liberamente compiamo, che nessuno ci obbliga a compiere. Essa sarebbe fuori di luogo, vana, inutile.

Un altro argomento è stato portato ieri dall’onorevole Sforza: voi che non volete ratificare – ci ha detto – sperate forse, per avere una revisione, in una futura conflagrazione mondiale? Ma neanche per sogno! Su questo punto siamo tutti d’accordo. Gli è, onorevole Sforza, che noi siamo del parere che questo atto nostro, fatto oggi, invece di essere l’atto più neutrale – come si espresse l’onorevole De Gasperi – sarebbe l’atto più partigiano dal punto di vista internazionale e più impegnativo (Commenti al centro) che si poteva fare oggi. Ditemi, perché è sollecitata, sia pure in forma garbata, la nostra adesione, la nostra ratifica? Perché il mondo sventuratamente è diviso in due blocchi.

Sembra che siamo d’accordo anche in questo: che non bisogna schierarsi né con gli uni né con gli altri. Fare la politica equidistante – lo so – è molto difficile, perché il blocco di ferro che sta fra l’incudine e il martello vuole essere equidistante, ma finisce col prendere e le martellate del fabbro e le sollecitazioni dell’incudine.

Ma noi dobbiamo cercare di far sì che la nostra neutralità, in una eventuale futura conflagrazione europea (che deprechiamo con tutte le nostre forze), possa esserci garantita. Ora, se noi ratificheremo il Trattato quando i Quattro avranno depositato le loro firme, la nostra ratifica e la nostra adesione non avranno il carattere impegnativo che avrebbero oggi. Ratificare in questo momento significherebbe scegliere la nostra via, subito e liberamente. E, se la nostra via saremo un giorno costretti a scegliere, sarà bene negoziare il dono che di noi stessi faremo. Se il destino ci dà qualche carta, negoziamola. Cominciamo a dire: voi volete che ratifichiamo? Ma è proprio necessario, oggi, che vi consegniamo le nostre corazzate, che affondiamo i nostri sommergibili, che rinunciamo a tutte le nostre colonie? Si potrà fare qualche cosa in questo senso.

E torniamo all’articolo 78. Onorevoli colleghi, nel mio discorso del 18 luglio io dicevo: rinunciamo al privilegio di Potsdam. Che cosa significa la pace preliminare? A Potsdam ci si promise una pace di giustizia. Quando ci siamo accorti che alla pace di giustizia veniva sostituita una pace duramente punitiva, noi dovevamo rinunciare a questo privilegio e dire: vogliamo trattare insieme e la pace con voi, potenze vincitrici, e la pace con la Germania sconfitta: anche per avere una visione unitaria delle sorti d’Europa e per potere in conformità decidere il nostro atteggiamento.

Si può rispondere: non ci avrebbero ascoltato!

Ma c’è la contro risposta. Voi, onorevole De Gasperi, a Parigi, avete sempre, con senso diplomatico, subordinalo le vostre proposte e le vostre accettazioni all’accettazione dell’Assemblea Costituente. Qualunque proposta, che faceva la nostra delegazione (ma non direttamente, perché non era consentito: si faceva attraverso delegazioni di Stati vincitori, nell’orbita delle Nazioni Associate, delle Nazioni Unite) veniva sempre subordinata all’approvazione dell’Assemblea Costituente. Ebbene, per ciò che riguardava le colonie prefasciste, per ciò che riguardava il Trattato di Pace con la Germania, voi non avreste dovuto fare nessuna controproposta. Avreste dovuto dire: io vi avverto che a queste condizioni il Trattato non sarà mai né firmato né ratificato. (Commenti).

Non sarà mai ratificato! E avevamo tutte le ragioni, e nessuno che abbia senno e saggezza può dissentire da quello che io dico.

Amici miei, qual è la sola, la vera giustificazione delle Potenze che ci hanno imposto questo trattato? «Siamo i vincitori!». La spada di Brenno! Ma, riguardo alla nostra cobelligeranza, questo argomento non può essere usato. Quindi, se noi avessimo detto: siamo pronti ad accettare il Trattato in tutte le sue clausole, tranne in quelle che vogliono regolare i nostri rapporti con la Germania, perché nei confronti di quella non siamo gli sconfitti e quindi non avete il diritto d’imporci di rinunciare ai nostri crediti e alle nostre rivendicazioni nei suoi confronti, allora può darsi che il Trattato si sarebbe maturato in una nuova atmosfera.

Perché, ricordate: in maggio dell’anno scorso, come ci fu detto alla Commissione dei Trattati, Trieste era nostra, era sicura. Si discuteva solo di Pola; e quando i nostri rappresentanti, quando l’onorevole De Gasperi insisteva patriotticamente per Pola, gli si rispose: Volete che facciamo la guerra per Pola?

Più tardi gli si rispose: Volete che facciamo la guerra per Trieste?

Perché era quello il periodo in cui l’America riteneva opportuno d’incassare, in cui l’Inghilterra e l’America pensavano che una politica di cessioni, una politica dolce in confronto alla Russia, avrebbe potuto finalmente portare la distensione, avrebbe potuto finalmente interrompere le pretese sempre nuove, sempre risorgenti di quella Nazione.

Ma venne l’ora in cui gli Stati Uniti di America compresero che questa politica era sbagliata; e questo mutamento della politica estera americana fu annunciato con il discorso di Truman del 12 marzo di quest’anno. Ebbene, non pensate voi, che, se la nostra pace fosse stata decisa dopo il 12 marzo, in questa nuova atmosfera che si è creata, in questo nuovo spirito che orienta adesso la politica degli Stati Uniti, gli Stati Uniti non avrebbero preferito che il nostro confine fosse alla displuviale delle Alpi, conservando a noi Trieste e quella parte dell’Istria che è andata alla Jugoslavia? Quindi, non sono orgoglioso, ma sono soltanto storicamente nel vero quando dico che, se si fosse tenuto conto della mia proposta, se si fosse insistito in essa, se si fosse detto che un trattato, per quanto duro fosse, tra le Potenze alleate, che ci hanno battuto, e noi, lo avremmo accettato, ma un Trattato che codificasse anche i nostri rapporti, imponendoci una completa rinuncia, con la Germania, non lo avremmo firmato mai, probabilmente avremmo trattato insieme la pace con le Potenze vincitrici e la pace con la Germania, e le condizioni di pace sarebbero state ben diverse; forse non avremmo perduto Trieste. Questo io penso e penso anche che nessuno possa dissentire da me. Quindi la nostra politica estera è stata sbagliata, sia per quanto ho detto, sia per la nostra cobelligeranza non negoziata.

Secondo l’accordo di Quebec (Roosevelt, Churchill), il nostro intervento armato non era previsto. Noi, all’atto dell’armistizio, potevamo rimanere con le armi al piede; quindi consegnarle al nemico e astenerci dal partecipare a qualsiasi altra operazione di guerra. È scritto nel preambolo dell’accordo di Quebec. Dunque, la nostra cobelligeranza doveva essere un atto negoziato. Ci fu richiesta: l’abbiamo accordata; e appena fatta la nostra dichiarazione di guerra alla Germania, le Potenze Alleate, nella stessa data (il giorno successivo alla dichiarazione di guerra), hanno fatto il riconoscimento esplicito della nostra qualità di cobelligeranti. È del resto riconosciuto anche dal preambolo del Trattato. Si trattava di dare gli ultimi nostri figli, le ultime nostre navi, i velivoli, il nostro sangue migliore; e noi non li abbiamo negati. Ma non abbiamo negoziato il supremo dono, nutrendoci solo di speranza. Questo è un errore imperdonabile. Quella cobelligeranza doveva essere negoziata in patti scritti; invece non lo si è fatto.

E voi, onorevole conte Sforza, avete un altro peccato sulla coscienza. Voi, nel settembre 1942, avete scritto al re d’Italia dicendogli, come suo antico ministro: «Vi assicuro sul mio onore che gli americani e gli inglesi sono pronti a concludere con noi una pace di giustizia, una pace generosa». Onorevole Sforza, o il vostro onore o la vostra capacità sono in giuoco; e siccome io, da gentiluomo, devo riconoscere che siete un gentiluomo, sono costretto a proclamare la vostra incapacità. E quando oggi volete la ratifica intempestiva, promettendoci ancora qualche cosa in cui non è alcunché di concreto, noi dobbiamo pensare che anche questa volta vi sbaglierete. Questo è il mio pensiero, onorevoli colleghi. Non pretendo di avere il possesso della verità; ma vi posso assicurare che, come voi tutti e come sicuramente il Presidente del Consiglio – perché sono convinto che in tutte le sue azioni egli non può essere guidato che dalla visione del bene della Patria – anch’io ho avuto di mira l’interesse supremo del Paese. Nelle notti insonni, meditando sul problema del Trattato, mi sono convinto che questa è la soluzione giusta; perché quando noi neghiamo la ratifica, ma offriamo di eseguire il Trattato, incanaliamo per una via pacifica la nostra ribellione.

Ci sono molti che dicono: facciamo come fecero i tedeschi a Compiègne: firmiamo, lo avvenire deciderà. Ma tutti coloro che dicono codesto, che cosa pensano? Pensano quello che pensavano i tedeschi. I tedeschi firmarono la pace ma prepararono la guerra. Noi no. Noi non minacciamo reazioni prossime o lontane, anzi vogliamo che nel nostro cuore non resti questo rancore, quest’ira, questa indignazione, perché la giustizia offesa non si adira, ma si indigna. E quindi questo nostro rifiuto di firmare deve essere lo sfogo e l’esaurirsi del nostro risentimento: che eseguano pure il Trattato. La nostra ratifica non è necessaria, perché lo han detto nell’articolo 90: basta la ratifica della 4 grandi Potenze. Quindi la protesta del nostro buon diritto offeso non impedisce alla forza, di avere la sua attuazione e al Trattato di essere eseguito.

Noi non minacciamo; e non minacciamo, con purezza di cuore, alcuna reazione, né prossima, né lontana. Di che cosa dovrebbero dolersi gli Alleati?

C’è qualcuno che pensa ai pericoli del piroscafo carico di grano che inverte la rotta. Ma coloro che pensano così offendono la nobile Nazione americana, che non sarà mai capace di simili bassezze e continuerà ad esserci sorella come è stata per noi nei tempi durissimi del dopoguerra. Quindi non credo che vi siano dei pericoli. Quando con un ordine del giorno, che io non intendo presentare, perché probabilmente non sarebbe approvato (si sa ormai come vanno le votazioni; ed è doloroso che, in materia così alta e nobile, si debba conoscere in anticipo l’esito di esse), si proclamasse questo principio, che la mancata ratifica non significa ribellione, anzi implica la nostra volontà che il Trattato sia eseguito; che non si minacciano reazioni prossime o lontane; io non vedo perché il nostro gesto dovrebbe, potrebbe avere conseguenze nocive; avremmo invece salvato la nostra dignità, e questa Assemblea potrebbe ricordarsi di essere erede, per quanto molto lontana, di quel Senato di Roma, quando quel tale ambasciatore straniero che vi fu ammesso, disse, tornando al suo paese, che gli era sembrato di essere in un consesso di re.

Ho detto. (Applausi – Congratulazioni).

PRESIDENTE. È iscritto a parlare l’onorevole Treves. Ne ha facoltà.

TREVES. Onorevoli colleghi, questo dibattito è giunto all’Assemblea preceduto da 15 giorni di appassionate polemiche, che attraverso la stampa si sono diffuse nel Paese e hanno agitato in un senso o nell’altro l’opinione pubblica. E questo fatto non poteva non ripercuotersi in modo sfavorevole sulla nostra discussione.

Noi abbiamo voluto questo dibattito, siamo stati favorevoli a che il dibattito ci fosse, perché ci sembrava contrario a quelli che sono veramente gli interessi del Paese, che una questione di tanta importanza, su cui si esercitano le passioni, ma che dovrebbe invece essere considerata con più freddo giudizio, fosse sottratta in quest’ora alla Assemblea Costituente.

Il rinvio – e lo abbiamo detto – sarebbe stato un errore, come sarebbe adesso un errore snaturare il dibattito, che ha un suo scopo preciso. Siamo di fronte ad un problema definito ed è problema sufficientemente solenne, sufficientemente importante nella vita del Paese, perché non venga adulterato con passioni meno pure, non venga distolto da quello che è il suo vero fine.

È stato anche detto che questo deve essere un dibattito su tutta la politica estera del Governo.

Noi, il Gruppo a nome del quale mi onoro di parlare, non siamo sospettabili di eccessiva tenerezza per questo Governo. Noi manteniamo tutti i nostri motivi di critica per la sua politica estera, ma non pensiamo che sia questa la sede, che sia questo il momento di esercitare tale critica, perché qui si tratta di prendere delle responsabilità precise: si tratta di chiudere un capitolo della storia del nostro Paese, poiché veramente di fronte a questo documento, di fronte a questo che si chiama trattato di pace sarebbe (forse più esatto chiamarlo dettato) abbiamo l’impressione di essere giunti all’epilogo, all’epilogo logico, anche se terribilmente doloroso, all’epilogo inevitabile del periodo storico che si è iniziato col tradimento di un monarca e la complice e folle politica suicida di una cosiddetta classe dirigente.

Siamo giunti all’epilogo. Ma io credevo di dire una cosa banale, dubitavo anzi se avessi dovuto dirla in questa Assemblea, affermando che il trattato di pace che ci sta davanti dev’essere considerato lo sbocco di venti anni di mal governo fascista, e non, come pure in certi settori del Paese si tende a credere, di quattro anni di governo antifascista. Io credevo che questa banalità non avrei dovuto dire in questa Assemblea, e mi dispiace che l’onorevole Russo Perez non sia presente in questo momento nell’Aula, perché questa banalità a me sembra di dover ripetere e riaffermare dopo il suo discorso, dopo tutta l’intonazione del suo discorso. Infatti, dinanzi a questa grande tragedia italiana, dinanzi a questo trattato imposto come conseguenza della inevitabile sconfitta di un regime, non è stato trovato che motivo di critica per il nuovo reggimento repubblicano e democratico che ha preso il posto di quel regime che ci ha condotto a questi estremi.

Questo, io credo, è significativo dall’attuale discussione e in quest’Assemblea dobbiamo essere molto precisi su questo punto; perché già una volta, dopo l’altra guerra – una guerra che pur avevamo vinta, una guerra, quindi, che ci poneva in una situazione estremamente diversa ed estremamente migliore in Europa è stato proprio da un trattato di pace che è sorta la speculazione nazionalistica, che ci ha poi condotto al fascismo, alla sconfitta, a questo trattato di pace. (Approvazioni al centro).

Voglio riaffermare che noi ci troviamo qui, personalmente incolpevoli, a dover onorare una cambiale, che non è stata tratta da noi. Questo bisogna dire in questa sede, e bisogna dire che noi accettiamo di pagare tale cambiale, perché pur esiste una continuità storica delle nazioni, esiste una responsabilità legale, se non una responsabilità morale.

La storia intera ci mostra che i popoli di maggiore civiltà non hanno avuto paura di fronte a trattati di pace anche più ingiusti e più duri, anche più dolorosi del nostro. Si sono risollevati ed hanno continuato sulla strada segnata. Né ho bisogno di fare della retorica per dire che la nostra fiducia nelle possibilità del nostro popolo non conosce esitazioni. È per ciò che noi assumiamo questa posizione di fronte al trattato di pace.

Quindi, non intendo di esaminare i particolari di esso, di scendere al dettaglio. Certo è banale di dire che non vi è stato «negoziato», che non vi è quindi un vero «trattato». Se la filologia ha un senso, trattato è il risultato di trattative, è un contratto. Ma non vi è stato contratto: siamo di fronte a un documento estremamente doloroso, per noi. Anche senza entrare nei particolari delle sue clausole, basta ricordare Tenda e Briga, Trieste, le Colonie, la flotta, tutte ferite che incidono profondamente sull’anima del nostro Paese.

Ripeto che non voglio fare qui un’analisi della politica estera del Governo. Bisognerà farla un giorno, ed allora potremo anche dire che non sempre, pur nei limiti imposti dalla situazione di assoluta inferiorità in cui ci siamo trovati sul piano diplomatico, non sempre forse è stato impostato giustamente il nostro problema, non sempre in questi anni – lo documenteremo a suo tempo – si è compreso che bisognava toccare soprattutto il fattore psicologico, il punto più rispondente, su cui imperniare la nostra battaglia.

Un’altra analisi io credo si debba fare in questo momento ed in questa sede, cioè rendersi conto del perché di questo trattato, della sua genesi, dei motivi che hanno condotto a questa pace, alla redazione finale del documento che ci sta di fronte.

È una storia che può essere – ma io non lo farò – analizzata in modo diffuso ed è, in fondo, la storia dolorosa dell’Europa di questi ultimi anni, perché non era ancora cessato il conflitto armato, non era ancora finito il fragore delle armi, che già si iniziava, con molta più difficoltà nel campo dei vincitori, la strada che doveva condurre alla pace. È anche banale (questo mio discorso è una collezione di banalità), dire che è più facile fare la guerra che fare la pace. Ma ne abbiamo una prova nella lunga strada, le cui tappe sono le conferenze internazionali di questi anni, le conferenze dei vincitori da Potsdam a Yalta, a Mosca, a Parigi, quando, ogni giorno di più, dolorosamente noi constatavamo e tutti potevano constatare quella spaccatura profonda, quella lacerazione che si andava producendo in Europa, il dissidio che piano piano si andava cristallizzando, sino a formare i due aggruppamenti, che si chiamano ormai comunemente blocchi.

Noi socialisti abbiamo assistito con l’angoscia nell’animo al prodursi di questa situazione, perché noi non siamo di quelli che, in questi anni, compiaciuti ammiccavano ad ogni indizio di dissenso tra i «Grandi» e ad ogni prova di sfiducia reciproca, sperando furbescamente di guadagnare qualcosa da questo dissidio. Noi siamo sufficientemente internazionalisti per sapere che solo dall’accordo altrui può venire il bene anche del vinto. Solo dall’accordo dei «Grandi» i piccoli, o i «nuovi piccoli», hanno qualcosa da guadagnare, non dal disaccordo.

Ed allora, ecco questa pace. Ecco anche, da una conferenza internazionale all’altra, la nostra sempre maggiore esclusione dall’elaborazione di questa pace, proprio, direi, per la impossibilità dei vincitori di discutere con i vinti, documentata dalla impossibilità dei vincitori di raggiungere un accordo tra di loro. Perché non si poteva evidentemente giungere ad una diversa conclusione per quanto riguarda i vinti, quando tristemente maturava e cresceva il disaccordo tra i vincitori.

Così, questa pace è un compromesso; è l’unico accordo, che direi negativo, possibile fino ad oggi tra i vincitori e, naturalmente, a nostre spese. Questa, credo, è la ragione, la storia, la diagnosi di questo documento che si chiama trattato di pace.

Se si è detto, con frase abusata, che la pace di Versailles era la pace del capitalismo, di questa pace credo si possa dire che è la pace dell’imperialismo, una cosa leggermente diversa; è pace che rispecchia purtroppo la preoccupazione e la sfiducia reciproca di due gruppi di potenze perseguenti una politica di imperialismo uguale e contraria, perseguenti quindi una politica in cui era estremamente difficile trovare un accordo. Soprattutto, diveniva impossibile di seguire un principio, ed una delle ragioni di condanna di questa pace è che essa non si fonda su nessun principio logico, anche se per noi negativo.

Abbiamo veduto ciascuno dei vincitori disposto a lasciarci quello che l’altro voleva toglierci nella reciproca contraddizione, per cui una potenza non aveva nessuna obiezione a che l’Italia tenesse Trieste, ma un’altra esigeva che l’Italia non tenesse Tenda e Briga, senza che fosse possibile di armonizzare le vane pretese in un sistema logico e unitario.

Tale è lo sfondo di questa pace. Io non vorrei ricordare una frase del Clausewitz, una volta famosa, e cioè essere la guerra una politica che continua con altri mezzi. Ma temo si potrebbe parodiarla in questo momento, di fronte alla realtà, dicendo: che per i vincitori questa pace è una guerra che continua tra loro con altri mezzi.

È in questa situazione che si presenta per noi il problema della ratifica. Potrebbe forse sembrare a persone o a partiti politici aderenti ad una visione antitetica alla nostra, che la sommaria delineazione che ho fatto dovesse condurre a conclusioni opposte a quelle che noi abbiamo raggiunto. Ma è proprio perché l’Europa ed il mondo sono in questa situazione, che noi sempre più sentiamo la necessità di ritornare all’Europa, di ritornare al mondo, per il bene nostro e di tutti, per riaffermare nell’Europa e nel mondo quegli ideali e quelle ragioni di giustizia cui l’Italia non ha mai rinunciato.

Ecco, signori, il problema della ratifica. Ed è qui che si inserisce la discussione che appassiona queste sedute. Ecco l’articolo 90, il cui contenuto del resto, è già nell’ultimo paragrafo del Comunicato finale della Conferenza di Mosca alla fine del 1945. Ma vorrei superare questo punto, non immiserire il problema in una discussione cavillosamente giuridica, come da troppe parti è stato fatto. Restituiamo al dibattito il suo carattere.

Benedetto Croce (non dico l’onorevole Croce, perché quando ci si chiama Benedetto Croce non vi è appellativo, anche di etichetta parlamentare, che aggiunga qualche cosa al prestigio del nome), Benedetto Croce e qualche altro venerabile e venerando membro di questa Assemblea hanno sostenuta una tesi che io comprendo perfettamente. Posso non condividerla, ma non posso non ammetterla.

È la tesi che direi eroica. In sostanza Benedetto Croce ci ha detto: «Pereat mundus, ma non piegarsi all’ingiustizia». Ma ieri abbiamo anche sentito dal Ministro degli esteri una frase che mi è sembrata singolarmente indovinata in questo momento.

Il Ministro degli esteri ha detto, in sostanza, che un uomo ha il diritto, anzi, il dovere, di rimanere prigioniero per attestare la sua fede (ed in questa Assemblea molti hanno avuto questo onore), ma che un popolo non può e non deve restare prigioniero.

Ebbene, io credo che l’onorevole Ministro degli esteri abbia espresso le ragioni profonde, le ragioni ideali, per cui dalla sfera del dover essere noi dobbiamo dolorosamente discendere nella sfera dell’essere. Ed allora non resta che una posizione, quella della ratifica, anche se, nella passione di queste settimane si è dovuto fare dell’accessorio il principale, cioè la disputa sulla sua «tempestività».

In fondo, favorevole alla posizione di non ratifica (che è una posizione logica ed eroica) è solo una minima percentuale di questa Assemblea.

L’altra posizione raccoglie, dovrebbe raccogliere, una maggioranza amplissima, direi quasi la totalità dell’Assemblea. Ma rimane e domina la «tempestività», rimane appunto la disposizione formale dell’articolo 90, rimane in sostanza un problema politico che non dovrebbe, secondo noi, entrare in questa sede ed in questo dibattito.

Io non voglio nemmeno nominare quella grande Potenza che non ha ancora ratificato il Trattato di pace, perché non fa assolutamente nessuna differenza al mio ragionamento quale delle quattro grandi Potenze possa essere. Nella fattispecie tutti sappiamo quale è, ma questo non ha nessuna importanza. Non voglio, infatti, commettere l’impertinenza di entrare a discutere delle ragioni, dei motivi, degli scopi che informano la politica di una grande nazione sovrana. Qualsiasi nazione ha il diritto, e direi il dovere, di perseguire la sua politica con i mezzi, i sistemi che crede migliori ai suoi interessi ed ai suoi scopi.

Non discuterò quindi perché l’Unione Sovietica non abbia ancora ratificato il Trattato di pace: non entrerò in questo ginepraio di congetture e di ipotesi.

Il Ministro degli esteri ci ha detto che nulla ci lascia supporre – in base alle informazioni che egli ha – che la ratifica russa non venga. Ma certo sarebbe un errore, se noi rinunciassimo a quella che è la caratteristica prima di uno Stato indipendente e sovrano, e cioè di attuare quella politica che esso reputa la migliore per il bene del suo popolo. Quella medesima indipendenza, quella medesima assoluta sovranità che io – sarebbe ridicolo dire non contesto, ma che non tocco neppure per la grande nazione sovietica – su questo punto e su questo problema voglio rivendicare in pieno anche all’Italia.

Quindi, il problema si pone soltanto in questi termini: di scegliere ciò che è più confacente agli interessi del nostro Paese, in questo determinato momento storico; di vedere dove sia il suo bene, o almeno – poiché, purtroppo siamo costretti a scegliere tra un male ed un altro e i mali ci affliggono da ogni parte dell’orizzonte europeo – il minor male.

La nostra conclusione l’Assemblea sa quale è stata. Noi, con molto dolore, con molta angoscia, di fronte a questo problema veramente terribile, eravamo anche favorevoli ad una ratifica immediata; anche quello ci sembrava, in questa determinata situazione, un male minore, piuttosto che contribuire noi stessi ad escluderci dalle grandi correnti dell’Europa e del mondo.

Ma noi non siamo dei mistici, dei fanatici dell’autoflagellazione. La nuova formula escogitata dal Governo, evidentemente, è stata proposta perché il Governo è persuaso, in base alle sue informazioni, in base a quello che gli risulta della situazione internazionale, che anche con questa formula si ottiene per il Paese almeno quel male minore che si sarebbe ottenuto con una ratifica immediata. Ed è per questo che noi non faremo una questione giuridica. Noi ci domandiamo soltanto, dal punto di vista politico, dove sono i vantaggi che il nostro Paese avrebbe a non ratificare.

Abbiamo sentito la parte opposta, abbiamo seguito in questi giorni le polemiche della stampa, e devo confessare che non una sola ragione mi sembra seria sugli ipotetici vantaggi che noi avremmo a non ratificare, mentre molte ragioni mi sembrano fondate per reputare che noi avremo degli svantaggi, prendendo oggi una posizione diversa.

In sintesi, il nostro punto di vista si può riassumere così: la nostra non ratifica si risolverebbe, fatalmente, in una politica di speculazione sui dissidi altrui, né ci potrebbe essere, mi sembra, nessun’altra giustificazione logica, se non proprio di cadere nella posizione di chi dall’altrui dissidio spera possa derivare a noi qualche vantaggio. È la posizione che abbiamo già condannato in partenza, che abbiamo già abbandonato e quindi, innegabilmente, la non ratifica si risolverebbe, in certo modo, in una politica di blocchi, che è proprio la politica che noi respingiamo.

La non ratifica significa contribuire non all’unità, ma alla divisione dell’Europa, non all’armonia, ma all’approfondimento di quella lacerazione, che purtroppo esiste, e che con tutto il cuore auspichiamo possa presto venir superata. E allora, signori, allora noi diamo alla nostra decisione il valore di un coraggioso gesto di solidarietà europea, nel quadro della necessità di uscire da una situazione per noi intollerabile.

Si dice, si obietta: «ma non ne usciamo; ma l’armistizio rimane». È vero: è vero che legalmente non ne usciamo. Ma guardiamo all’orizzonte internazionale, che è ben più vasto di quanto non siano i ferrei limiti di un regolamento: qualche cosa di nuovo, qualche cosa di diverso cresce e fermenta nel mondo. Non ne usciamo? Ma se fossimo così domenicani dell’osservanza dei regolamenti – come direbbe il mio amico onorevole Mazzoni – allora, signori, noi dovremmo essere ancora nella condizione in cui eravamo tre anni fa, in cui eravamo due anni fa. Se badiamo solo alla lettera, alle parole scritte, in realtà da allora nessun fatto giuridico è intervenuto, eppure la situazione è quella che è, e per accorgersene basta volger lo sguardo intorno e fra i molti esempi vi è anche il fatto medesimo che siamo qui, in questa Assemblea che siede ed è sovrana. Ma io cerco di abbreviare questo già troppo lungo discorso. Non vi parlerò dell’O.N.U., di cui molti hanno parlato e su cui ieri il mio illustre e «giovanissimo» amico onorevole Canepa ci ha intrattenuti con così viva passione. Ma non posso non rilevare il tono che mi ha davvero agghiacciato dell’onorevole Russo Perez poco fa – ripeto il mio dispiacere che non sia ora presente – quel tono in cui mi è sembrato di sentire un’eco di tutti gli articoli contro la Società delle Nazioni che ci hanno deliziato per oltre vent’anni. (Applausi a sinistra).

La ratifica, dunque, è l’inizio, non è la fine della nostra politica, e soprattutto della nostra politica estera. La ratifica è la porta aperta verso l’avvenire, è la possibilità di avere finalmente una politica estera, e fino ad ora non l’abbiamo avuta in Italia, non l’abbiamo potuta avere. Onorevole Sforza, noi certamente faremo la nostra critica alla politica estera del Governo, ma non oggi. Perché abbiamo bisogno di una politica estera, di una politica estera che sia un fattore di pace, un fattore di stabilità in Europa.

Ciò emerge dalla stessa situazione geografica in cui siamo posti in Europa, in cui è posta questa virgola, questa grande virgola che noi siamo nel Mediterraneo e che segna oggi una specie di confine ideale fra quello che disgraziatamente dobbiamo chiamare est e ovest.

Io credo che, anche se non ci fossero tutte le saggezze della politica le quali ci consigliano a non correre, con immotivate scelte, verso l’uno o verso l’altro campo, basterebbe questa semplice situazione geografica a persuaderci dell’errore che costituirebbe per noi il seguire una politica estera di blocchi. E dico ciò, alludendo naturalmente a qualunque blocco, sia dell’est che dell’ovest. La nostra scelta, del resto, non servirebbe né all’est né l’ovest, ma soltanto ad accentuare, a rendere più amare, più insolubili, le differenze che esistono tra est e ovest. Noi abbiamo qualche cosa di meglio da fare in Europa, che aggiungere fuoco alle polveri, sia dell’est sia dell’ovest. Io credo che il compito nostro, di noi italiani, anche di noi vinti, sia proprio quello di parlare per la ragione, quella ragione che spesso i «grandi», i cosiddetti grandi, non riescono ad intendere. E questa ragione, signori, consiglia all’Europa una diversa giustizia nei nostri riguardi.

Noi non abbiamo paura delle parole, anche se ci sono alcune parole che non ci piacciono. Tra queste vi è la parola revisionismo; ma, senza dubbio, il nostro revisionismo, il revisionismo di questa parte dell’Assemblea, non ha nulla del «revanchismo» nazionalista, di cui ho sentito, anche un’ora fa, un’eco da quella parte (Accenna alla destra) dell’Assemblea. (Applausi a sinistra). Noi sosteniamo un principio revisionistico, che è lo stesso principio della giustizia per tutta l’Europa, che è il principio della giustizia per tutti i popoli. E se fossimo diventati così cinici da credere che queste siano illusioni, abbiamo tuttavia veduto in forma molto pratica che la perdita di queste illusioni, che il contrasto a queste illusioni ha condotto la miseria, la rovina e la strage nel mondo intero. (Applausi a sinistra).

Si profila in questi giorni il tentativo di un nuovo ordine economico in Europa. Non mi diffonderò sul piano Marshall, famoso prima di esistere. Tutto è stato detto prima che esistesse, su quello che sarà e su quello che non sarà e sui pericoli che esso rappresenta e sulle possibilità che esso offre. Posso anche condividere le preoccupazioni giustamente espresse ieri sera qui dall’onorevole Ruini, e sono perfettamente d’accordo con lui nel dire che sarebbe un gravissimo errore se noi credessimo che il piano Marshall sia una specie di bacchetta magica, una specie di toccasana, e che col nostro inserimento nel piano Marshall tutti i nostri problemi verranno risolti.

Pure, che cosa è, in sé, questo «piano»… che non esiste? È, in fondo, un primo tentativo, è la prima volta che si dice all’Europa: «Pianificate, tentate di superare quelli che sono i vostri problemi immediatamente nazionali nella sfera economica in un piano più vasto, in un piano europeo». Io non vedo perché questo invito possa tanto riuscire sgradito, possa tanto spaventare una grande Potenza e altre Potenze che le sono vicine ed amiche. A me pare che la nostra adesione al piano Marshall, non solo non sia in nessun modo uno scivolamento verso un blocco, ma sia di vantaggio anche per coloro che non hanno ancora creduto di aderire a questo piano. Quanto più l’Europa riesce ad organizzarsi, quanto più l’Europa riesce ad unirsi in una singola unità economica, a vantaggio di tutti i Paesi e di tutti i popoli, tanto meno pericolo vi è per l’Europa intera.

Noi sappiamo – noi socialisti – che la pace non può fondarsi sulla miseria umana. La pace non è sicura quando la fame domina il mondo, la pace non è sicura quando la vita economica non è sicura, quando un onesto livello economico di vita non è certo per tutti i popoli.

Onorevole Sforza, lei sorride forse giudicando ingenue, giovanili, queste mie opinioni; ma io spero – anzi ne sono sicuro – che ella è sufficientemente giovane per condividerle.

SFORZA, Ministro degli esteri. No, sorridevo, perché mi compiacevo.

TREVES. Allora la ringrazio. E aggiungo che noi socialisti abbiamo un’altra ragione per essere favorevoli a questa grande esperienza, per essere favorevoli a che l’Italia vi partecipi, non solo a vantaggio suo, ma a vantaggio della collaborazione economica europea. Noi abbiamo spesso insistito (e il Governo lo sa) sulla necessità della pianificazione anche e soprattutto all’interno, ed evidentemente non potremmo essere contrari ad una pianificazione europea, aperta a tutti, sia ad est che ad ovest. Né vediamo come noi potremmo non parteciparvi; anche se ad alcuni ciò possa dispiacere.

Signori, ho finito. La ratifica è un passo avanti verso la pace, verso la pace nostra e verso la pace del mondo. Io non farò nessuna chiusa retorica, che in questo momento sarebbe un’offesa al sentimento profondo del popolo italiano. Ma voglio dire soltanto che – secondo noi – questa dura strada, questa decisione dolorosa che dobbiamo prendere è un grande atto di fede nelle possibilità, nel valore, nel lavoro, nel divenire del nostro popolo. E quando dico popolo italiano, penso soprattutto alle classi lavoratrici nostre, che sono state le vittime prime del regime che ci ha condotti a questi dolori e che sono adesso gli esempi primi del nostro desiderio di resurrezione e di catarsi.

Signori, mai come adesso, io credo, sono state vere le parole di Mazzini, non solo quelle che dicono che il martirio non è sterile mai, ma anche le altre, secondo cui l’ora più buia della notte (forse quella che viviamo) è quella che precede l’aurora. (Applausi – Congratulazioni).

PRESIDENTE. È iscritto a parlare l’onorevole Pecorari. Ne ha facoltà.

PECORARI. Come giuliano, è ben comprensibile lo stato d’animo mio e dei miei confratelli di fronte a questo Trattato di pace. In questi ultimi giorni ho ricevuto vari messaggi e ordini del giorno provenienti dalla Venezia Giulia o da associazioni di giuliani sparsi in Italia, e tutti protestano per questo Trattato di pace. Voglio ricordarne almeno uno, quello delle Associazioni Giuliane riunite. In esso, nella certezza di interpretare il sentimento di tutti i giuliani e di tutti i dalmati, si riafferma l’inalienabile diritto dell’Italia sulla Venezia Giulia e su Zara, e si rivolge un appello all’Assemblea Costituente perché respinga l’iniquo Trattato imposto all’Italia in aperta violazione del principio dell’autodecisione dei popoli.

Questo stato d’animo è ben comprensibile: non si può pretendere da un condannato che firmi la propria sentenza. Noi che viviamo in uno stato tutto particolare, che non è né quello armistiziale, né quello del vinto, noi che siamo abituati a rinunziare ad ogni cosa pur di poter vivere civilmente in ambiente nostro, comprendiamo la posizione difficile e delicata della Nazione. Ma non possiamo non levare la nostra protesta più fiera contro questo Trattato, che incide nelle nostre carni e che è stato fatto senza consultarci, e anzi mettendo nel preambolo che tutto viene fatto secondo giustizia ed equità.

Il tempo, galantuomo, ha fatto sì che della situazione della Venezia Giulia ormai tutti siano più o meno edotti. Eppure non è cambiato niente. L’esodo degli italiani dalle zone destinate ad essere cedute ad un altro Stato continua ancora; e sì che i documenti fotografici e cinematografici fatti di qua e anche di là, fatti per le foibe, ma anche per dimostrare le condizioni in cui vengono a trovarsi gli esuli in Italia, avrebbero dovuto scoraggiare quelli che, secondo una certa propaganda, spinti da un nazionalismo eccessivo, abbandonavano le loro terre per rifugiarsi nella madre patria.

No, signori, io credo di poter affermare con tutta tranquillità di coscienza che noi non siamo nazionalisti. Saranno nazionalisti quelli che favoleggiano una revisione di patti, che noi sappiamo troppo bene che non potranno essere revisionati. Noi non desideriamo la guerra, e sappiamo che i confini purtroppo non si spostano che con le guerre. Noi tutti siamo compresi dell’importanza della nostra regione. Sappiamo che nella nostra regione può sorgere un affratellamento dei popoli, una comprensione di nazionalità diverse, che può portare a quella unione di stati e di interessi che può consolidare la pace.

Ma non possiamo dimenticare il modo e la maniera nella quale veniamo tagliati e divisi fra noi e soprattutto dalle nostre terre.

Qualcuno si domanda come mai ancora ci siano di questi giuliani che abbandonano le loro terre. Io stesso ho avuto occasione di avvicinare un mio collega abitante in una cittadina istriana. Egli si sta preparando per abbandonare la sua casa, il suo campicello, i suoi beni per venire – non più giovane – a crearsi un’altra esistenza in Italia. Egli è un vecchio antifascista iscritto ad un partito di sinistra fin dall’altra guerra, benvisto dalle autorità jugoslave, appoggiato, solleticato, invitato a restare, al punto che gli hanno offerto anche di optare per l’Italia e di rimanere al suo posto.

E gli ho chiesto: «Allora perché vuoi venirtene via?». Egli mi descrisse la situazione della sua cittadina, la vita che deve condurre: una vita nella quale non entra la calma, la quiete, la fiducia, la tranquillità, ragioni tutte che gli rendono impossibile resistere nella sua terra. Sappiate quindi – e questo è opportuno prima che voi decidiate di un voto così importante e decisivo – che con il vostro voto, salvo miracoli – nei quali sempre crederemo e spereremo – con questo Trattato la civiltà italiana della sponda orientale e dell’Adriatico sparirà: sparirà come è sparita in Dalmazia; sparirà come è sparita a Nizza.

Si dice che con il Trattato si difenderà meglio l’italianità del territorio libero di Trieste. Ma chi crede alla funzionalità, alla capacità di sopravvivere di questo staterello? Vi ricordo che della Venezia Giulia un decimo di territorio va all’Italia, un altro decimo al territorio libero e gli otto decimi alla Jugoslavia. La densità della popolazione sarà nel territorio libero superiore a quella dell’Italia di quasi il doppio. Questo vi dimostra già la impossibilità di vita di questa popolazione. Ma oltre a questo noi abbiamo un’esperienza già vissuta di due anni di Governo alleato, di governo neutrale; ed abbiamo visto che in questi due anni l’italianità di Trieste non ha progredito affatto, anzi ha regredito. Eppure i triestini sono oggi più italiani che mai, più fervidamente italiani ancora del ’18; ma l’invasione, la pressione delle genti orientali si fa sempre più opprimente e, soprattutto, la ricchezza di mezzi con la quale questa gente arriva nei nostri territori è tale che è vano, illusorio, ingenuo pensare che l’Italia potrà controbattere efficacemente questa pressione che tende a snazionalizzare la città di Trieste.

Eppure siamo in condizioni così diverse da quelle nelle quali si trovava, per esempio, la città di Nizza. Ricordo che nel 1860 si svolse nel Parlamento italiano un dibattito che ha strane analogie con questo dibattito odierno.

Ci furono vari interventi di grandi personalità che io, per brevità, tralascio di citare. Eppure, pur trovandosi di fronte una nazione sorella, latina, la città di Nizza, staccata dalla madre Patria, non seppe mantenere la sua italianità. Non potrà purtroppo avvenire diversamente della nostra Città.

Ed è per questo che con una protesta serena ma obiettiva – obiettiva, perché sentita, perché vissuta, perché suffragata da una esperienza – noi protestiamo contro questo Trattato, invocando il sorgere di un’altra era di pace nel mondo che faccia sì che i confini non dividano più le genti e siano liberi i popoli di comunicare fra loro in un nuovo clima di pace, di tranquillità, di concordia, senza barriere, senza saracinesche che aizzino i popoli l’uno con l’altro in una lotta fratricida e dannosa per tutti quanti, e soprattutto per la pace del mondo.

Con queste brevi, brevissime considerazioni termino, implorandovi a riflettere con tutta serietà sul tremendo voto che state per dare. Pensate alle responsabilità che vi assumete e pensate anche agli obblighi, se questo voto sarà sfavorevole per la Venezia Giulia, che verranno a voi, a tutta la Nazione, di aiutare questi fratelli italiani, che pagano innocenti una colpa che non è loro e caso mai una colpa collettiva, di tutta la Nazione. Fate questo gesto, fate questo esame di coscienza e questo proponimento di solidarietà verso questi poveri fratelli italiani. (Applausi – Congratulazioni).

PRESIDENTE. È iscritto a parlare l’onorevole Spano Velio. Ne ha facoltà.

SPANO VELIO. Io non sarei intervenuto in questo dibattito, nel quale il mio Gruppo avrà modo di esporre ampiamente le sue opinioni, se non fossi stato spinto da una esperienza personale e da una conoscenza diretta a porre dinanzi a voi, onorevoli colleghi, e soprattutto dinanzi a voi, signori del Governo, un problema che è insieme uno degli aspetti più dolorosi della situazione internazionale dell’Italia e uno dei punti maggiormente indicativi dell’orientamento che deve seguire la nostra politica internazionale. Parlo del problema degli italiani in Tunisia, del problema di quella collettività italiana, che è particolarmente cara al nostro cuore di italiani di tutti i partiti e di tutte le correnti, perché essa ha fornito uno degli esempi più luminosi delle virtù creative del lavoro italiano.

La collettività italiana in Tunisia è composta essenzialmente di viticultori e operai agricoli, pescatori, minatori, operai dell’industria.

Il giornalista francese De Montety così la descriveva, già nel 1937: «A parte un centinaio di imprenditori, mugnai, grossi proprietari, viticultori e medici, la colonia italiana è costituita da piccoli benestanti, che traggono sussistenza dai loro 4 o 5 ettari di terra, e da una gran massa di salariati al servizio di imprese francesi; essa (la colonia italiana) fornisce la più gran parte della mano d’opera europea».

Ora, l’interesse fondamentale di questa gente laboriosa era la conquista di quel modesto benessere che essi, operai o contadini, non erano riusciti a conquistare nelle loro regioni di origine, i minatori in Sardegna, i contadini siciliani al servizio dei loro feudatari. E alla conquista di quel benessere erano in certa misura pervenuti, sia per virtù personale del loro lavoro, sia per la forza delle organizzazioni sindacali.

Senonché, le preoccupazioni fondamentali di questa nostra gente laboriosa non erano le preoccupazioni del fascismo. Il fascismo aveva altre preoccupazioni: il fascismo era essenzialmente preoccupato di mettere le mani sui fosfati e sui minerali di ferro per conto della Terni, vale a dire del gruppo Ciano-Mussolini, e per conto della Montecatini.

Da qui una politica di oscuri intrighi e di provocazioni che talvolta marciavano parallelamente, talvolta si alternavano. Una grande calma era sopravvenuta in Tunisia nei primi mesi del 1938, fino a quel mese di giugno nel quale la Corte internazionale dell’Aja respinse come infondati i reclami di un certo Tassara, agente del gruppo Ciano-Mussolini, il quale protestava contro il monopolio che esercitava nell’Africa del Nord l’«Office chérifien des phosphates». Subito dopo, nel novembre, dilagarono, partendo da quest’Aula, i clamori della rivendicazione territoriale sulla Tunisia.

Tutto ciò ha provocato le conseguenze che sono note. Ma forse meno nota, non dico ai servizi del Ministero degli esteri, ma all’opinione generale italiana è, almeno nei particolari, l’odissea che hanno dovuto vivere in questi anni gli italiani della Reggenza di Tunisi.

Nel 1940, quando il fascismo scatenò la guerra, la repressione necessariamente si abbatté sugli italiani in Tunisia, una parte di provocatori fascisti, di quelli che erano maggiormente responsabili localmente della situazione che ora si creava, una parte di costoro era scappata in Italia. Un’altra parte di essi si era naturalizzata francese, trovando modo così di sfuggire definitivamente alla repressione, che si abbatteva sulla grande massa degli italiani. Ceravamo noi, c’erano i fascisti minuti, c’era la grande massa degli italiani; e prendemmo la strada dei campi di concentramento: Sbeitla, Casseime, dove passammo nel deserto, in mezzo agli scorpioni, il mese di giugno e buona parte del luglio del 1940. Poi venne l’armistizio e con l’armistizio ricominciarono immediatamente le provocazioni dei fascisti. Questi ritornarono subito in Tunisia, e l’azione di provocazione fu allora meglio organizzala. Finché nel 1943, quando le truppe naziste e fasciste furono cacciate dalla Tunisia, si scatenò implacabile sulla nostra colonia tutta un’azione che non era più soltanto di repressione, ma era anche di rappresaglia.

Gli operai furono inviati ai lavori forzati, con un salario uguale ad un decimo del salario normale degli altri operai. Abbiamo visto in quell’epoca nelle strade di Tunisi dei giovani studenti, di 18-20 anni, costretti a scopare le strade. Buona parte di italiani furono internati nei campi di internamento. Le requisizioni implacabilmente colpirono i beni degli italiani e furono requisite case, appartamenti, mobili, suppellettili. Fu perfino requisita una biblioteca, con tutti libri italiani, appartenente a Giuseppe Miceli, giovane nostro compagno comunista, che era stato assassinato nel settembre del 1937 dai cadetti fascisti nella sede del circolo Garibaldi. Tutti i beni italiani furono messi sotto sequestro, e soltanto pochissimi riuscirono a svincolarne una parte. Fu fatta una lista di espulsione, e molti italiani furono espulsi dalla Reggenza, senza tener conto se andavano via con le loro famiglie o senza di esse. Una lista di «nemici della Francia» fu stabilita e pubblicata in Tunisia e contemporaneamente furono prese misure che interdicevano l’esercizio professionale ai medici, farmacisti, avvocati e a tutti gli altri professionisti italiani. Molti furono costretti allora a vendere i loro beni acquistati con il loro sudore. Ma anche qui si fece una distinzione di classe; infatti i pochi che sono riusciti in parte a salvare i loro beni sono i grossi possidenti, perché essi hanno potuto accettare il ricatto che veniva loro fatto, hanno cioè potuto vendere una parte di beni alla «Cooperativa d’acquisto dei beni nemici» creata in Tunisia in quel tempo, per poter conservare il resto. Questo regime è durato fino ai primi mesi del 1947, con quali conseguenze e con quali effetti di disgregazione economica e morale è facile immaginare: migliaia di famiglie sono state disperse o sono cadute preda della miseria; migliaia di italiani di Tunisia si trovano oggi disoccupati in Italia.

Oggi, il lavoro obbligatorio è cessato, i campi di concentramento sono chiusi. Ma le case sono rimaste requisite, i sequestri sono mantenuti; i malati italiani sono tuttora esclusi dall’ospedale Garibaldi, che si chiama oggi Hôpital de la Libération, con la scusa addotta da un funzionario del Gabinetto del Residente generale che «bisogna eliminare quella atmosfera di italianità che vi aleggia ancora». E per di più una decisione recente elimina dal beneficio della proprietà commerciale tutti gli industriali e commercianti italiani, i quali si trovano così sottoposti al doppio pericolo di uno sfratto immediato e di ogni sorta di ricatti. Si dice loro infatti: «se non vuoi lo sfratto immediato, paga subito tale somma o paga di nascosto tale esorbitante aumento di affitto».

In questo modo, onorevoli colleghi, gli italiani di Tunisia pagano oggi le malefatte, le provocazioni, le prepotenze del fascismo, le bombe del console Barduzzi, l’odio antifascista e tutti i germi dell’antitalianità seminati a piene mani dal fascismo.

È avvenuto quello che doveva avvenire.

Noi, comunisti, abbiamo l’orgoglio di potere dire oggi che già da tempo avevamo messo in guardia le nostre colonie italiane di Tunisia contro quello che oggi sta avvenendo.

In un suo proclama il Comitato centrale del Partito comunista, subito dopo le rivendicazioni scoppiate a Montecitorio nel novembre del 1938, dopo avere rilevato quale grado di benessere erano riusciti ad ottenere con il loro lavoro gli italiani in Tunisia, affermava che tutte le conquiste, frutto di sacrificio e di decenni di lavoro, erano messe in pericolo dalla politica provocatrice di Mussolini, e che i lavoratori perdevano la possibilità di continuare a guadagnare pacificamente un discreto salario.

Cosa accadrà degli italiani di Tunisia – dicevamo – che si saranno inconsciamente prestati a questa politica?

Essi saranno costretti ad abbandonare per sempre la Tunisia ed a condurre la vita di miseria e di disperazione del nostro popolo, della nostra Sicilia, per colpa della dispendiosa e brigantesca politica del regime fascista. «Nel corso di pochi giorni potrà scatenarsi un uragano, che spazzerà il frutto di 50 anni di lavoro e di sacrifici degli italiani di Tunisia»: questo noi dicevamo.

Ebbene, l’uragano è venuto. Oggi si tratta per noi di rimediare alle conseguenze di questo uragano e di ricostruire sulle devastazioni. Non vale oggi ricorrere a spiegazioni parziali, né parlare della xenofobia dei funzionari francesi, i quali, dopo essere stati talvolta complici dell’azione provocatrice del fascismo ed essere stati più tardi agenti di Hitler, al servizio di Vichy, fanno oggi sfoggio di antitalianità. Non vale parlare della capacità degli industriali francesi. Questa xenofobia e questa rapacità esistono; ma non possiamo far niente per eliminarle. Questo è problema che concerne la democrazia francese, non quella italiana. Ma noi possiamo e dobbiamo agire per eliminare o attenuare gli effetti di questa rapacità e di questa xenofobia; noi possiamo e dobbiamo agire, per affermare vittoriosamente, nella misura in cui è possibile, le rivendicazioni degli italiani di Tunisia: abolizione del sequestro dei beni e ripristino della libera gestione degli stessi, con relativa libertà di vendita e di acquisto dei beni mobili ed immobili – ristabilimento delle libertà di associazione, di riunione e di espressione, tutte libertà di cui sono ancora privi i democratici italiani in Tunisia – riconoscimento dei diritti acquisiti al 10 giugno del 1940, data da cui viene fatta decorrere l’abolizione delle Convenzioni del 1896, ciò che significa, in particolare, il ripristino della libertà di esercizio pei professionisti, farmacisti, medici, avvocati, che si erano stabiliti laggiù, in virtù delle condizioni che venivano fatte loro in base alle Convenzioni del 1896, e il diritto di pesca per i pescatori italiani, diritto che fu loro riconosciuto ancor prima della suddetta data.

Mi si obietterà che il problema è stato già posto dal Ministro degli esteri e dal nostro Ambasciatore in Francia, Quaroni. Lo so. Tanto l’onorevole Sforza che l’Ambasciatore Quaroni mi hanno dato personalmente, in privato, assicurazioni in proposito. Forse non sarebbe stato male che il problema fosse stato posto in pubblico nelle dichiarazioni del Governo. Difatti è certo che noi comunisti e senza dubbio tutta l’Assemblea, abbiamo molto apprezzato al loro giusto valore le espressioni di benevolenza che ci sono state trasmesse dalle Repubbliche Sud Americane di Cuba, per esempio, e del Guatemala, ma la Assemblea forse avrebbe amato conoscere in quale stadio si trovano le trattative concernenti il regolamento della situazione degli italiani di Tunisia. Si obietterà anche che poco si può fare oggi per gli italiani di Tunisia, soprattutto poco si può fare sul terreno delle trattative particolari. È vero. Ma appunto per questo bisogna intensificare lo sforzo per arrivare ad una distensione dei rapporti tra l’Italia e la Francia e per fare, in generale, una politica estera di amicizia e di collaborazione con le altre Nazioni.

Bisogna, in altri termini – noi comunisti lo stiamo ripetendo da anni e cogliamo l’occasione per ripeterlo ogni volta che abbiamo potuto esprimere pubblicamente il nostro giudizio sulla politica estera del Governo italiano – fare di tutto per evitare che la responsabilità della politica fascista ricada interamente sul popolo italiano. Sappiamo perfettamente che non possiamo evitare tutte le responsabilità e respingerle interamente da noi, ma possiamo fare in modo che esse, interamente su di noi non ricadano. So che la corresponsabilità tra l’Italia del passato e l’Italia del presente è considerata come fatale e inevitabile da alcuni, per esempio dall’onorevole Croce, il quale ci ha espresso questa sua personale convinzione al Congresso di Bari dei Comitati di liberazione, ella lo ricorda, onorevole Sforza, nel gennaio del 1944, e ci ha ripetuta questa sua personale convinzione qui ieri. Ed è logico che, partendo da questa premessa, l’onorevole Croce versi poi lagrime sulla sorte dei criminali di guerra giustiziati e ritenga quasi invidiabile, al confronto, la sorte di Vercingetorige, e lodi quasi Giulio Cesare per aver fatto strozzare il suo nemico in carcere. Ma è proprio questa corresponsabilità che noi neghiamo, e bisogna negarla concretamente, coi fatti, affinché non ricadano interamente sull’Italia le terribili responsabilità del fascismo. Anche per questo noi abbiamo reclamato, durante la guerra, l’intensificarsi dello sforzo di guerra a fianco degli alleati. Anche per questo non abbiamo mai pensato che si potesse negare o negoziare la nostra cobelligeranza ed anche per questo, per salvaguardare l’avvenire del nostro Paese, consacrammo tutte le nostre energie alla guerra partigiana.

Ma per trarre tutte le conseguenze da questo sforzo tendente ad evitare che le responsabilità ricadano interamente su di noi, possiamo dire di aver fatto, sul piano della politica estera, tutto quel che potevamo fare? Possiamo dire di aver fatto tutto il nostro dovere? Credo di no. Noi non abbiamo sufficientemente mutato l’orientamento, il tono, i sistemi della nostra politica estera, anche perché, onorevole Sforza, non abbiamo sufficientemente cambiato l’apparato. È evidente che il Ministro degli esteri e gli Ambasciatori, almeno in generale, parlano oggi un linguaggio diverso da quello che parlavano il Ministro degli esteri e gli Ambasciatori sotto il regime fascista, quando esprimevano apertamente la loro criminalità nazionalista. Ma è anche evidente che i funzionari, che non sono cambiati, molto spesso parlano oggi lo stesso linguaggio che parlavano prima ed adoperano gli stessi sistemi. Io vorrei citare alcuni esempi, restando nel quadro della situazione tunisina.

C’era in Tunisia, fino al 1943, ad eccezione della breve interruzione giugno-luglio 1940, un avvocato, un noto provocatore fascista fortemente indiziato per essere stato iscritto nell’elenco dell’O.V.R.A., il quale dopo il 1938 rinnegò perfino la sua religione, a seguito della campagna razziale, pur di seguire fino in fondo il fascismo.

C’era un medico fazioso e provocatore, noto e inviso a tutta la Tunisia.

C’era un diplomatico, infine, che era stato console generale di Tunisi e che poi, durante il periodo dell’occupazione italo-tedesca, divise col ministro nazista Rahn il potere. Ebbene, quando l’Italia è stata liberata ed anche prima ch’essa fosse interamente libera – e mi dispiace che non sia presente l’onorevole Morelli, il quale potrebbe darmi testimonianza di quello che affermo – questi tre signori ce li siamo trovati tra i piedi, insediati con importanti funzioni direttive a Palazzo Chigi e al palazzo della Consulta. E credo che ci siano ancora.

E così è nei Consolati all’estero, dove i nostri connazionali e gli altri incontrano le stesse facce che vedevano nel periodo repubblichino, e per questo si verificano talvolta incresciosi incidenti. Costoro parlano lo stesso linguaggio di prima, adoperano gli stessi sistemi di prima, sono – come prima – lontani dagli interessi dei nostri lavoratori emigrati. Bisogna fare uno sforzo per eliminare quei funzionari che si sono troppo compromessi col fascismo. So che un tale sforzo è particolarmente difficile in un momento nel quale le sciarpe littorio e gli ex ufficiali della milizia siedono perfino nei Consigli del Governo. E infatti oggi, se le mie informazioni sonò esatte, una oscura minaccia sembra gravare non soltanto sugli impiegati dei Consolati all’estero, particolarmente in Francia, che sono stati assunti per indicazione delle organizzazioni democratiche, ma anche su quei funzionari di carriera mandati da Roma, i quali si sono resi colpevoli di aver stabilito delle relazioni amichevoli con le loro colonie e di aver dato prove di sentimenti veramente democratici e repubblicani. Parlo particolarmente di uno dei nostri consoli generali, il caso del quale mi consta essere stato segnalato al Ministro degli esteri.

Capisco dunque che oggi è difficile, specie nel clima che il governo attuale ha creato, eliminare dal nostro apparato del Ministero degli esteri quei funzionari che costituiscono un ostacolo all’applicazione di una politica di collaborazione e di amicizia con gli altri popoli, ma questo sforzo bisogna farlo. Cambiate l’aria di Palazzo Chigi, signori del governo, se volete davvero realizzare quella politica di amicizia e di collaborazione che proclamate di voler realizzare.

Il giuoco vale la candela, signori, perché da esso dipendono sul piano generale, gli interessi dell’Italia e sul piano più modesto, sul quale io mi sono tenuto, gli interessi dei lavoratori e di centinaia di migliaia di connazionali onesti e laboriosi, ai quali bisogna ridare oggi una prospettiva di vita.

Permettetemi, onorevoli colleghi, di rievocare un ricordo personale: un vecchio minatore sardo di Redeyef, miniera di fosfati nel Sud della Tunisia, parlando del progresso che i lavoratori italiani avevano realizzato dal 1936 al 1938 attraverso le lotte sindacali, si esprimeva così: «Prima vedevamo il sole una volta alla settimana, giacché scendevamo in miniera prima dell’alba e risalivamo a notte, oggi vediamo il sole ogni giorno».

Si tratta proprio di questo, onorevoli colleghi, si tratta di impostare e realizzare una politica estera di vera amicizia, di vera collaborazione, estendendo i nostri rapporti amichevoli con i paesi esteri e creando una situazione per cui i nostri lavoratori «tornino a vedere il sole ogni giorno». (Applausi a sinistra).

PRESIDENTE. Secondo l’intesa di ieri sera, sospendiamo la seduta. La riprenderemo alle 21.30, per proseguire la discussione che è stata incominciata oggi nel pomeriggio.

Risultano iscritti a parlare gli onorevoli Cevolotto, Adonnino, Ambrosini, Crispo, Valiani, Jacini, Cicerone, Bassano ed altri.

Incomincerò a dare la parola nell’ordine, agli iscritti, considerando come volontariamente rinuncianti alla iscrizione a parlare coloro che non saranno presenti alla seduta. (Approvazioni).

Con questa intesa, sospendo la seduta per riprenderla alle ore 21.30.

(La seduta, sospesa alle 19.50 è ripresa alle 21.30).

PRESIDENTE. È iscritto a parlare l’onorevole Cevolotto. Ne ha facoltà.

CEVOLOTTO. Onorevoli colleghi, il Trattato di pace non è soltanto iniquo, non è soltanto in contrasto con i principî della Carta Atlantica – e a questo proposito ricordo che, quando l’onorevole Ruini accennò a non tener molto conto delle parole, il Ministro Sforza gli rispose che non si trattava di parole, ma di dichiarazioni: la Carta Atlantica è una solenne dichiarazione, di cui non si è tenuto conto – il Trattato non è soltanto dannoso agli interessi della pace del mondo, e agli stessi interessi bene intesi delle potenze vincitrici: è anche ineseguibile.

È un trattato che, per quanto ci riguarda, noi non possiamo eseguire. Le clausole delle riparazioni, le clausole economiche, se entrassero in vigore e dovessero essere da noi rispettate, metterebbero a terra l’Italia. Da ciò la ripugnanza da parte nostra, da parte di tutta l’Italia, da parte del popolo italiano, a consentire e ad accettare quella che noi dobbiamo considerare la nostra rovina, e che sentiamo di dover rifiutare, perché ci appare come una ingiustizia. Il popolo italiano ha sempre, soprattutto, la pronta sensazione di ciò che è giusto e di ciò che è ingiusto. Capisco, quindi, l’impulso di coloro che sono spinti a negare, in tutti i casi, la ratifica. Capisco la posizione dell’onorevole Orlando e di Benedetto Croce. Intendo le ragioni che li spingono a rispondere: «No», in ogni caso, a costo di qualunque cosa possa accadere; a negare la firma, pronti a correre qualunque rischio peggiore.

Ma è altrettanto plausibile che molti di noi non si sentano di assumere la responsabilità delle conseguenze di un rifiuto di ratifica; delle conseguenze – cioè – che potrebbero essere gravissime, di un rifiuto dell’accettazione del Trattato di pace. E anche coloro che, come me, più ripugnano da questo Trattato sconcio, in fondo pensano che in esso vi è un punto che ci può consentire di eseguirlo senza accettarlo, ed è quel famoso articolo 90, che è stato escogitato contro di noi, col proposito di aggravare la nostra situazione, ma che, in fondo, finisce per giovarci.

L’articolo 90 ci consente, infatti, di dare alla nostra ratifica un carattere e un aspetto tutti particolari, svuotandola (questa volta, sì, è il caso di usare la parola) del suo contenuto. Non deve però mancare la protesta contro l’ingiustizia, non deve mancare in nessun caso la dichiarazione che noi subiamo uno stato di necessità, anzi di violenza morale.

L’ordine del giorno proposto dall’onorevole Ruini contiene appunto, nella sua prima parte, questa protesta, ma io credo che la protesta vera, la protesta reale, quella che ha un significato positivo, non può consistere né in un ordine del giorno, né in una dichiarazione; deve risultare dal nostro atteggiamento di fronte alla ratifica del Trattato.

Che cos’è questo articolo 90 del Trattato? L’onorevole Perassi, in una sua precisazione pubblicata ne La Voce Repubblicana, ha illustrato l’aspetto giuridico della ratifica ed ha ricordato l’ordine del giorno votato dall’Assemblea Costituente il 25 febbraio 1947 all’unanimità. Dice questo ordine del giorno: «L’Assemblea Costituente, preso atto delle comunicazioni del Governo sulle condizioni nelle quali è stato firmato il Trattato di pace, afferma che il deposito della ratifica italiana, per la quale è costituzionalmente richiesta l’autorizzazione dell’Assemblea Costituente, costituisce, in conformità alle regole del diritto internazionale, un requisito essenziale per la perfezione e l’entrata in vigore del Trattato».

Questo ha votato l’Assemblea Costituente. Ma qual è il significato di questo voto e di questa dichiarazione? Il significato di questo voto e di questa dichiarazione è una protesta, la protesta per quello che dice chiaramente l’articolo 90, per quanto si sia voluto affermare da qualche parte che si tratta di una formula nebulosa ed ambigua. No, non è una formula nebulosa ed ambigua: è una formula precisa: «Il presente Trattato, di cui il testo francese, inglese e russo fanno fede, dovrà essere ratificato dalle Potenze Alleate e Associate. Esso dovrà anche essere ratificato dall’Italia. Esso entrerà in vigore immediatamente dopo il deposito delle ratifiche da parte dell’Unione delle Repubbliche socialiste sovietiche, del Regno Unito di Gran Bretagna e dell’Irlanda del Nord, degli Stati Uniti d’America e della Francia. Gli strumenti di ratifica saranno, nel più breve tempo possibile, depositati presso il Governo della Repubblica francese».

Il capoverso aggiunge che per quanto concerne ciascuna delle Potenze Alleate o Associate, i cui strumenti di ratifica saranno depositati in epoca successiva, il Trattato entrerà in vigore alla data del deposito. Avviene così che, mentre il Trattato, nei confronti delle quattro Grandi Potenze alleate entra in vigore subito dopo il deposito delle quattro ratifiche e per ciascuna delle altre Potenze Alleate e Associate entra in vigore al momento del successivo deposito delle singole loro ratifiche, per l’Italia entra in vigore al momento del deposito delle quattro Grandi Potenze, anche se l’Italia non abbia ratificato.

L’onorevole Perassi dice, ed ha ragione: «La ratifica dell’Italia è sempre necessaria, secondo le regole del diritto internazionale». Infatti noi lo abbiamo detto nel nostro ordine del giorno. Nel nostro ordine del giorno c’è una protesta a questo riguardo, ed è una protesta perfettamente legittima; arrivo a dire che è una protesta che non sarebbe neanche necessaria, perché senza la nostra ratifica, qualunque valore si voglia dare a questo termine, senza la nostra dichiarazione che eseguiremo il Trattato, non v’è possibilità che esso divenga esecutivo pacificamente. Il Trattato, per forza di cose, se non lo ratifichiamo, non entra pacificamente in esecuzione.

Se noi non diciamo che vi daremo esecuzione, il Trattato non potrà entrare in esecuzione se non nell’altra forma, che è adombrata nell’articolo 90. Quando in questo articolo si dichiara che il Trattato entrerà in vigore dopo il deposito delle ratifiche da parte delle quattro Nazioni, ci si intima in sostanza: o voi ratificate ed eseguite volontariamente questo Trattato, oppure entrerà in vigore lo stesso, cioè lo faremo entrare in vigore, perché con la coazione vi obbligheremo ad eseguirlo. Il che è sempre possibile dal momento che noi siamo una Nazione vinta ed occupata e loro sono i vincitori, e hanno tutti i mezzi per costringerci, dall’uso diretto della forza alla coazione indiretta, facendoci mancare gli aiuti di cui abbiamo necessità per vivere. Noi ci troviamo di fronte ad un dilemma: o accettiamo e diamo la ratifica che ci vien chiesta in questa forma, oppure gli alleati metteranno in esecuzione lo stesso il Trattato, lo metteranno, cioè, in esecuzione con la forza o con la coercizione.

Ecco perché l’articolo 90 ci consente di ratificare in questa particolarissima condizione, senza in sostanza accettare il Trattato.

Ci si mette di fronte a un dilemma perfetto: o ratificare ed eseguire volontariamente, o noi rendiamo esecutivo il Trattato lo stesso, cioè vi imponiamo con la forza l’esecuzione. In altre parole: le navi, se non ce le date, ce le prendiamo; le riparazioni, se non le pagate, pensiamo noi a pagarcele, con quelle forme che possiamo usare, dato che siamo gli occupanti del vostro territorio e possiamo aggravare questa occupazione, anche se, per ora, l’abbiamo allentata e possiamo sempre domarvi affamandovi.

Ci troviamo di fronte ad uno stato di necessità, ad uno stato di coercizione, ad uno stato di violenza morale, che non può essere disconosciuto o negato.

Se noi ratifichiamo in questa situazione, la nostra ratifica non avrà certo il valore di una ratifica vera e propria. Perché non è neanche una ratifica quella che ci si chiede: non è altro che la dichiarazione, da dare in buona fede, che noi eseguiremo o cercheremo di eseguire per quello che sarà possibile questo Trattato iniquo. Ci assoggetteremo ad eseguirlo, perché non possiamo fare altrimenti e perché aneliamo ad uscire da questo stato di armistizio che limita la nostra indipendenza.

Questo è in sostanza il valore della nostra ratifica; e questa allora è la vera protesta che ora possiamo fare, la sola che in qualche modo salva l’avvenire. Ma essa non ha lo stesso valore, se è fatta quando lo stato di necessità è evidente, è in atto, è tale da escludere ogni libera forma di adesione o di accettazione da parte nostra. Perciò dev’esser fatta quando il Trattato entrerebbe in vigore lo stesso, anche se noi non lo ratificassimo, nelle forme dell’imposizione; quando ci si dirà, con deposito delle quattro ratifiche: se non ratificate, noi metteremo in vigore lo stesso il Trattato.

Di fronte alla realtà inesorabile, l’Italia non avrà libertà di scelta e potrà ratificare senza che tale atto significhi volontaria adesione al Trattato. L’articolo 90 – che è anche esso iniquo nei nostri riguardi – qualche vantaggio ci può dare. Perché dobbiamo rinunziarvi?

Il disegno di legge che ci è sottoposto ha varie formulazioni. La prima formulazione era quella dell’approvazione esplicita del Trattato. Il disegno di legge all’articolo 1 dice: «È approvato il Trattato di pace fra le potenze alleate e associate e l’Italia, firmato a Parigi 10 febbraio 1947». La Commissione dei Trattati non approvò questo schema, e le ragioni sono evidenti. Propose allora una formula diversa: «Il Governo della Repubblica è autorizzato a ratificare il Trattato di pace fra le Potenze alleate e associate e l’Italia, firmato a Parigi il 10 febbraio 1947». Vi era in questo schema l’autorizzazione alla ratifica anche immediata: noi accettavamo di ratificare prima che le condizioni dell’articolo 90 si fossero verificate. In seguito alla discussione che si svolse alla Commissione dei Trattati, venne fuori la terza formula definitiva del testo emendato, accettato, anzi proposto dal Governo: «Il Governo della Repubblica è autorizzato a ratificare il Trattato di pace tra le potenze alleate e associate e l’Italia, firmato a Parigi 10 febbraio 1947, dopo che esso sarà divenuto esecutivo a norma dell’articolo 90». È evidente la grande differenza tra il primo testo del disegno di legge proposto dal Governo, il testo della Commissione e questo terzo testo che viene proposto ora. Anzi, questo testo va al di là anche di una formula che aveva elaborato, in un ordine del giorno che non ho veduto stampato, l’onorevole Perassi, il quale proponeva una forma di ratifica condizionata: «Il Governo della Repubblica è autorizzato a ratificare il Trattato di pace firmato a Parigi il 10 febbraio 1947, condizionando la ratifica dell’Italia a quella delle potenze firmatarie nominativamente indicate nell’articolo 90». Ora, la diversità del testo della proposta Perassi sta in questo, che la proposta Perassi è una ratifica condizionata; la proposta del Governo invece, non è una ratifica: in sostanza è un mandato a ratificare. E questo mandato, se si interpreta in buona fede, dovrebbe essere un mandato irrevocabile e, in quanto accettato, anzi richiesto, obbligatorio in ogni caso per il Governo. Uso delle formule che non sarebbero strettamente giuridiche, ma voglio rendere in qualche modo evidente il mio pensiero. Là vi è una ratifica condizionata; qui non vi è ratifica: vi è un mandato a ratificare. Si potrebbe persino pensare e si potrebbe persino sostenere che questa nuova formula del Governo contiene un divieto al Governo, che ha chiesto l’approvazione del Trattato e la ratifica, di ratificare, finché non si saranno verificate le condizioni dell’articolo 90. Cerco di precisare il lato giuridico della questione; non vi nascondo che la questione è essenzialmente politica: ma in fondo, i Trattati di pace sono atti di diritto internazionale, atti giuridici. Noi discutiamo una legge: dunque dobbiamo, prima di tutto, delimitare il terreno giuridico nel quale ci moviamo e precisare i punti giuridici della questione, dopo di che potremo prendere quelle decisioni politiche che troveranno la loro base nella situazione giuridica che si sarà chiarita.

Proseguo nella mia dimostrazione. È innegabile che la formula governativa viene incontro alle critiche di coloro che non vogliono la ratifica immediata, perché la ratifica non c’è. Mi permetta l’onorevole Sforza – con tutto il rispetto e l’ammirazione che ho per lui (e non è la mia una formula di complimento) – di dirgli che il suo discorso mi ha stupito. In sostanza io ho avuto l’impressione – mi perdoni – che sia stato preparato in relazione alla formula della Commissione, non alla formula ultima del Governo. Perché egli, infatti, si è sforzato di dimostrare la necessità della ratifica, mentre il Governo ora rinunzia alla ratifica. Questa è la contradizione che mina alla base il suo discorso.

Sorge così un nuovo quesito, e un problema. È certo che l’ultima formula dell’emendamento governativo sarà accettata da quelle Potenze che ci consigliavano la ratifica immediata, come se la ratifica immediata noi avessimo accettato? Se il Ministro ha delle informazioni, delle sensazioni, o delle presunzioni che gli permettono di credere che realmente questa formula sarà accettata come la formula della ratifica immediata, allora non vi è forse qui una indicazione – se non una vera e propria dimostrazione – che la ratifica immediata non era poi necessaria a tutti gli effetti che si sperava di ottenerne? Ci si è detto che la ratifica era necessaria per presentarsi a Parigi degnamente. Il problema è importante per tutti coloro che pensano che sia sempre un enorme vantaggio non essere assente da convegni internazionali di quella portata. Ma noi a Parigi eravamo stati chiamati senza condizioni; e l’impressione che si è avuta qui, da quelli che non hanno forse tutte le notizie, è stata che in fondo, anche senza la ratifica, anche quando la ratifica era contrastata, anche su una semplice indicazione della Commissione dei Trattati, che aveva un valore molto relativo, la nostra situazione a Parigi non ha cambiato sensibilmente. Ora ci si viene a dire – e questo mutamento di argomento è un po’ fastidioso – che la ratifica è necessaria per il nostro ingresso nella Organizzazione delle Nazioni Unite. Qui non vorrei dire cose amare; ma mi si permetta di osservare che l’articolo 23 numero 1 ci fa in ogni caso per ora una posizione subordinata nella Organizzazione delle Nazioni Unite. Inevitabilmente, perché noi non possiamo nemmeno essere chiamati a far parte, come membro non permanente, del Consiglio di sicurezza, in quanto i posti sono riservati, in primo luogo, al contributo dato dalle Nazioni aspiranti al mantenimento della pace e della sicurezza internazionale. E l’articolo 23 va poi messo in relazione con l’articolo 107, che può riservarci qualche sorpresa. Aderendo, in qualunque modo, al Trattato, noi accettiamo anche quel preambolo che ci qualifica come Stato aggressore. L’articolo 23, numero 1, dovrà essere modificato, perché ingiusto, specialmente nei nostri riguardi, ma la modifica non potrà venire dall’oggi al domani. Ci vorranno dei mesi, ci vorrà forse un anno per ottenerne la modifica. Intanto noi saremmo nell’O.N.U. in una posizione che non sarà quella che le nostre tradizioni, la nostra realtà di Potenza, non oso dire grande, ma che è stata grande e che è grande sempre per la sua storia, per la sua tradizione, per il suo passato, dovrebbero darci. Ci converrà indubbiamente in tutti i casi entrare nell’organizzazione delle Nazioni Unite, senza però farci soverchie illusioni. Per ora, disgraziatamente, questa Organizzazione delle Nazioni Unite non promette tutto quello che è nelle nostre speranze, e che potrà dare in seguito. Ad ogni modo non dovremo esserne esclusi. Ma non mi pare che sia proprio la formula proposta ora dal Governo a schiuderci quella porta che probabilmente ci sarebbe schiusa lo stesso nella posizione subordinata che per ora lo statuto delle Nazioni Unite ci consente.

UBERTI. E se fosse una illusione?

COSTANTINI. Sarebbe come oggi!

Una voce al centro. Così parlava Mussolini.

COSTANTINI. Così parlate voi, non Mussolini. Cosa c’entra Mussolini? Lo avete troppo in bocca, perché lo avete troppo amato. (Rumori).

CEVOLOTTO. Ci si è parlato di trattati internazionali che sono stati felicemente e abilmente negoziati e conclusi anche nello stato attuale.

Ora io sono d’accordo che un diniego di ratifica nostra potrebbe peggiorare questa situazione; non sono d’accordo che un semplice rinvio della ratifica potrebbe avere la stessa conseguenza. Però, sebbene la formula del Governo sia nella sua sostanza giuridica un vero e proprio rinvio della ratifica a dopo che le quattro grandi Nazioni avranno depositato le loro ratifiche, e sebbene giuridicamente non venga modificato lo stato armistiziale in cui ci troviamo (perché con questa formula, dopo che noi l’avremo votata ci troveremo nella precisa condizione di prima), sebbene questo sia evidente ed indiscutibile, pure fra il rinvio che noi chiediamo e la formula governativa una differenza ci deve essere; ci deve essere, anche perché, altrimenti, il Ministro Sforza non sarebbe favorevole alla formula governativa, mentre si è opposto al rinvio. È proprio una differenza capillare, come ha detto l’onorevole Ruini nel suo discorso? Se fosse una differenza capillare, allora io proporrei una obiezione logica e facile. Dal momento che il Governo non ratifica ora ma gli è consentito di farlo solo dopo che saranno depositate le ratifiche delle quattro Grandi Nazioni e poiché voi dite che la differenza fra questo e quello che noi chiediamo è capillare, non è preferibile attendere che la ratifica dei Quattro sia avvenuta?

Non vale, in contrario, opporre che la ratifica della Russia sarebbe vicina; cosa di cui dubito molto (e posso sbagliarmi, perché non ho tutti gli elementi che sono da altra parte acquisiti). Ma anche questa non è una buona ragione; se l’evento definitivo è così vicino, perché non dobbiamo aspettarlo? La Costituente non avrebbe difficoltà a convocarsi in 24-48 ore, sospendendo le sue vacanze, quando la ratifica da parte della Russia fosse avvenuta e apparisse necessario e urgente procedere alla ratifica da parte nostra.

La differenza c’è e ci deve essere e non deve essere capillare. Il punto è questo: per la mancata o ritardata ratifica da parte della Russia, non siamo ancora in quello stato di necessità e di coazione, in cui ci troveremmo se le quattro ratifiche fossero depositate. Non è giunto il momento in cui dobbiamo decidere fra i due mali; tanto è vero che la relazione di maggioranza dell’onorevole Gronchi parla di «atto di volontà». Chi ci consiglia la ratifica immediata desidera appunto questo atto di volontà, probabilmente perché non conosce, non ha potuto valutare, non ha potuto rendersi conto del nostro particolare punto di vista, della nostra particolare situazione, che non sempre è capita dall’estero.

Nella discussione in seno alla Commissione dei trattati ho persino sentito dire, con molto stupore, che i signori inglesi credono e sostengono di avere trattato con noi, semplicemente perché hanno sentito una volta la protesta dignitosa ed alta del nostro Presidente del Consiglio, allora Ministro degli esteri. Credono di avere trattato, pretendono di avere trattato. Non si rendono conto, evidentemente, della nostra situazione; ed appunto per questo ci domandano un atto di buona volontà. Quando ci hanno richiesto o ci hanno consigliato, sia pure nella forma più garbata e più ortodossa, di ratificare, il nostro Ministro degli esteri non avrà certamente mancato di opporre – argomento evidente –: «Sì, noi ratificheremo, appena le vostre quattro ratifiche di cui all’articolo 90 saranno depositate». Questo, evidentemente, non è bastato; si vuole qualcosa di più. E invece il nostro pensiero è rettilineo: né ratifica condizionata, né mandato a ratificare; nulla che abbia l’aspetto di adesione volontaria al Trattato. Rinvio, quindi: e solo quando, col deposito delle ratifiche delle quattro grandi Nazioni, il Trattato diverrà esecutivo per noi, daremo – allora – alla nostra ratifica il significato di una semplice dichiarazione di impegno a eseguire il dettato; come diamo oggi al rinvio il significato di una ferma protesta.

Si diffida di noi; ed anche questo è vero. Non c’è chi abbia avuto un qualche posto di responsabilità dopo l’armistizio, che non abbia sentito, nel modo più umiliante, questo senso di diffidenza, ingiustificata, che c’è sempre stato verso di noi. Si è pensato al nostro machiavellismo, che più che un luogo comune è una fola priva di qualunque base di verità, a nostre manovre, che non ci possono essere, nello stato in cui siamo ridotti.

Non è esatto suggerirci che è opportuno mettere fine allo stato provvisorio, quando la formula ministeriale non vi mette fine, perché non muta la situazione giuridica e non ci consente di uscire dallo stato armistiziale. Se qualcosa muta nella situazione politica, è proprio per quell’atto di volontà e di adesione, che molti pensano non si possa e non si debba fare; a prescindere da tutto quello che lo farebbe apparire, per un errore di prospettiva, come nostra adesione a uno dei due blocchi, in cui disgraziatamente si va dividendo l’Europa, il che deve essere rigorosamente evitato. L’onorevole Sforza a Parigi ha ben precisato la nostra situazione e l’ha ripetuta nel discorso dell’altro ieri. Noi vogliamo essere equidistanti e, se mai, essere mediatori tra i due blocchi. Il Trattato ci ha disarmato; ma, disarmandoci, ci ha obbligati ad una politica di equidistanza e di amicizia con tutti, di mediazione fra gli eventuali gruppi contrastanti. Questo è il nostro pensiero e la nostra volontà; ma questa è anche una necessità per un popolo disarmato, che ha le sue frontiere aperte agli occidentali ed agli orientali.

In una guerra noi, disarmati per volontà degli alleati, nella impossibilità di difenderci, cosa potremmo offrire, se non il nostro territorio alle devastazioni di tutti i belligeranti? In tale tragica situazione è naturale che dobbiamo difendere la pace prima e poi, se fosse possibile, finché l’illusione fosse possibile, la nostra neutralità. Non è colpa nostra se il Trattato non garantisce la pace e non facilita le intese con i popoli; nemmeno le intese tra i popoli vicini. Noi vogliamo stendere la mano ai nostri vicini dell’est e vogliamo dimenticare tutto: vogliamo dimenticare qualunque contrasto del passato per l’ideale di avvicinarci gli uni agli altri, di comprenderci e, se possibile, di reciprocamente aiutarci, per arrivare ad uno stesso livello di civiltà, anche se il nostro è un livello di civiltà superiore.

Ma, il Trattato lascia aperta, purtroppo, non solo la questione dei nostri confini militari, ma anche la questione della Venezia Giulia, di Trieste, di Pola, di Zara, e favorisce così gli irredentismi ed i nazionalismi, che non sono patriottismo, ma sono la peggiore delle deformazioni del patriottismo: favorisce, in una parola, le più pericolose dissensioni tra popoli confinanti. Nessun pericolo vi sarebbe stato per le minoranze slave che, per ragioni di confine, fossero rimaste nel territorio italiano; ma il pericolo è mortale e la distruzione sicura per le minoranze italiane che restano nel territorio jugoslavo.

Abbiamo noi prospettato, a suo tempo, e documentato all’opinione pubblica mondiale ed alle nazioni che ci hanno imposto l’iniquo trattato, questa verità? Anche sotto questo aspetto non dobbiamo, con forme che potrebbero essere interpretate come spontanea adesione al Trattato, rinunciare a quelli che sono i nostri diritti, non dobbiamo rinunciare a quelli che sono i diritti dei nostri fratelli. Non lo dobbiamo per il nostro passato, per la lotta del Risorgimento, che credevamo conchiusa a Vittorio Veneto, non lo dobbiamo per le speranze dell’avvenire, che non si fondano su future guerre, che noi deprechiamo, e non si fondano su irredentismi, che non vogliamo favorire, o su nazionalismi, da cui ripugniamo nella visione di più alte forme di società fra le genti, ma si fondano sul nostro diritto, si fondano sulla certezza di questo diritto al quale non possiamo in nessun modo rinunciare. Perché il domani ci dovrebbe riservare l’immenso conforto di vedere restituita la giustizia nell’Europa travagliata, di vedere restituita Trieste all’Italia. (Applausi – Congratulazioni).

PRESIDENTE. È iscritto a parlare l’onorevole Adonnino. Ne ha facoltà.

ADONNINO. Onorevoli colleghi, il problema che ci tiene ih questo momento in grande trepidazione – tutti, perché certo, qui dentro, tutti da un estremo all’altro di quest’Aula fremiamo del più ardente e puro amore per questa Patria nostra, che è tanto più degna di immenso amore quanto più è sventurata – questo problema che qui ci attanaglia e che è gravissimo, fra quanti, pur gravi, nel nostro lavoro ci si presentano, pare che adesso si vada avvicinando, in quest’ultima fase della discussione, al suo centro di gravità, che è l’interpretazione dell’articolo 90 del Trattato. Questo articolo finora è stato esaminato da un punto di vista solo politico. Invece io credo che l’indagine preliminare e basilare che su esso deve farsi sia di carattere giuridico: solo sulla base rigida di diritti e di obblighi, cioè di attributi giuridicamente fissati, si può costruire l’indagine flessibile, elastica, dell’opportunità politica. Affermo poi subito senz’altro che il risultato di questa indagine giuridica costituisce la ragione più solida della necessità di ratificare. Quella ratifica che si è sostenuta finora quasi soltanto nel campo politico, trova nel campo giuridico la sua ragione giustificatrice fondamentale.

Finora, tanto i sostenitori della non ratifica, quanto i sostenitori della ratifica, immediata o successiva, si sono basati sulla seguente interpretazione dell’articolo 90: il Trattato si perfeziona e si esegue indipendentemente dalla nostra ratifica. Dicono dunque i sostenitori della non ratifica: siccome la nostra ratifica nulla aggiunge al Trattato, nessuno ha interesse a costringerci a ratificare, e la ratifica del turpe e iniquo strumento sarebbe un atto spontaneo di omaggio contrario alla dignità e agl’interessi di un popolo libero; sarebbe un atto di accettazione che ci legherebbe definitivamente di fronte all’avvenire.

Dicono, per contro, i sostenitori della ratifica: se l’iniquo Trattato si perfeziona e si esegue indipendentemente da ogni nostro intervento, la ratifica nostra nulla aggiunge ad esso, ed in nulla dunque ci nuoce; ma, per converso, ci renderebbe meglio accetti alle grandi Nazioni alleate che anelano a stabilire un ambiente di pace e di ricostruzione; costituirebbe il nostro ingresso in tale ambiente, il nostro contributo alla nuova vita internazionale, su cui, purtroppo, tanto oscure nubi si addensano minacciose.

È sempre il concetto della perfezione ed esecuzione indipendente da noi: lo esprime chiaro la relazione di minoranza laddove dice: «Se il Trattato diventerà prossimamente perfetto con la ratifica delle quattro grandi potenze…». Dunque solo tali ratifiche perfezionano il Trattato. Anche la relazione di maggioranza a ciò accenna, sebbene meno chiaramente, in quanto mette in rilievo l’insufficienza e non l’inutilità della nostra ratifica, laddove dice: «…il nostro status giuridico non può essere modificato in forza soltanto della nostra ratifica».

Io ritengo che, partendo da tale interpretazione dell’articolo 90, in linea giuridica, si dovrebbe conchiudere per la non ratifica. Perché compiere un atto giuridicamente inutile? In linea politica, invece, la ratifica rappresenterebbe un positivo contributo alla pace e alla collaborazione universale.

Ma – come ho sopra detto – a questa argomentazione politica, si aggiunge, una fondamentale giuridica in base alla diversa interpretazione che io do all’articolo 90, e che è la seguente.

Nell’articolo 90, come in tutti i contratti, dobbiamo distinguere due fasi: la perfezione e la esecuzione del contratto. Due fasi perfettamente differenti, e tra le quali può anche intercorrere un lasso di tempo notevole. Vi sono tanti atti giuridici perfetti, ma non esecutivi; ne abbiamo molti esempi in diritto pubblico: durante la vacatio legis abbiamo una legge perfetta ma non ancora esecutiva. Vi sono, per converso, tanti atti – anche e specialmente nel diritto pubblico – immediatamente esecutivi, ma non ancora definitivi, in quanto, per divenire tali, debbono essere sottoposti alla relativa convalida: ne sono esempio i decreti catenaccio; e, in genere, tutti gli atti amministrativi, i quali sono immediatamente esecutivi.

Anche in diritto privato abbiamo atti perfetti ma non esecutivi, ad esempio: tutti i contratti per scrittura privata, cui occorre una sentenza per aver forza esecutiva; e, per converso, atti esecutivi, ma non ancora perfetti, come i decreti di sequestro. Perfettamente distinti dunque, anche nel Trattato di cui discutiamo, perfezione ed esecuzione.

E, corrispondentemente a tali due concetti, occorre distinguere nell’articolo 90 due diversi gruppi di atti, diversi numericamente, ma non perciò meno essenzialmente; cioè: le ratifiche e correlativo deposito di esse presso il Governo francese da parte di tutti cinque i contraenti, cioè le quattro grandi potenze e l’Italia, gruppo di atti al quale corrisponde la perfezione del contratto; e le ratifiche e correlativo deposito da parte delle sole quattro grandi potenze, gruppo di atti al quale corrisponde l’entrata in vigore del Trattato.

L’articolo 90 tiene accuratamente distinti questi due concetti con i correlativi atti e momenti: per la perfezione del Trattato come contratto, richiede cinque ratifiche depositate, per l’entrata in vigore ne richiede solo quattro. Non è possibile confonderli oppure unificarli. Dice l’articolo 90: «Il presente Trattato, il cui testo francese, inglese e russo fanno fede, dovrà essere ratificato dalle Potenze Alleate ed Associate. Esso dovrà anche essere ratificato dall’Italia». Dunque sono necessarie cinque ratifiche. Continua poi l’articolo 90: «Esso entrerà in vigore immediatamente dopo il deposito delle ratifiche da parte dell’Unione delle Repubbliche Socialiste Sovietiche, del Regno Unito di Gran Bretagna e dell’Irlanda del Nord, degli Stati Uniti d’America e della Francia. Gli strumenti di ratifica saranno, nel più breve tempo possibile, depositati presso il Governo della Repubblica francese».

Dunque, per l’entrata in vigore sono necessarie quattro (non cinque, quello dell’Italia non occorre) depositi di ratifica. Non è possibile confondere o unificare.

Questo ci spiana la via, onorevoli colleghi, ad interpretare che cosa vuol dire l’articolo 90, quando dice che il Trattato «dovrà anche essere ratificato dall’Italia». Non è possibile interpretare questo «dovrà anche essere ratificato» nel senso che l’Italia sia obbligata a ratificare, voglia o non voglia. La formula: «dovrà essere ratificato» è perfettamente uguale per l’Italia e per le quattro grandi potenze. E non si può pensare che le quattro grandi potenze siano obbligate, vogliano o non vogliano, a ratificare.

Altro argomento per quest’affermazione si trova negli articoli 39-42: in essi, volendosi effettivamente obbligare l’Italia ad una data manifestazione di volontà, si dice: «L’Italia s’impegna ad accettare ogni intesa che sia già stata o sia per essere conclusa per la liquidazione della Società delle Nazioni…» (art. 39); e «L’Italia accetterà e riconoscerà ogni accordo che possa essere concluso dalle Potenze Alleate ed Associate… ecc.» (art. 42). Dunque, quando l’articolo 90 dice che il Trattato dovrà essere ratificato dalle quattro potenze e dovrà anche essere ratificato dall’Italia, intende dire che le dette cinque ratifiche sono necessarie per la perfezione del Trattato.

Da tutto ciò traggo una prima affermazione che mi pare sicurissima, ed è questa: la ratifica dell’Italia è necessaria, al pari delle ratifiche delle quattro grandi potenze, per la perfezione del Trattato. Se l’Italia non ratifica, il Trattato non è perfetto; è inesistente. Malgrado però esso sia inesistente come strumento giuridico, le sue clausole, nella loro materialità obiettiva, saranno applicate immediatamente dopo il deposito delle ratifiche delle quattro grandi potenze a Parigi. Queste quattro ratifiche depositate, non sono, nei riguardi nostri, entità giuridiche, ma condizioni di puro fatto; il Trattato, senza nostra ratifica, non è neppure esso entità giuridica, ma è l’affermazione di forza di un vincitore, che, nel campo della pura forza materiale, infierisca sul vinto. Non rapporto giuridico, ma rapporto di forze. Questo è il meccanismo dell’articolo 90. Altro non può essere. I due momenti, per il primo dei quali occorrono cinque interventi, e per il secondo dei quali ne occorrono solo quattro, non possono esser confusi.

Se il Trattato non viene ratificato da noi, ma viene ratificato dalle quattro grandi potenze, non sarà un contratto, non sarà un’entità giuridica per noi, ma potrà esserlo nei riguardi interni delle quattro grandi potenze ratificanti.

Le sue clausole saranno a noi applicate come entità di puro fatto di fronte a noi, che, non avendo ratificato, abbiamo reso inesistente nei nostri confronti il Trattato; saranno applicate come norme giuridiche nei riguardi interni dei quattro alleati tra loro, i quali, avendo ratificato, l’hanno reso perfetto.

Questo ci apre l’adito a considerare la condizione giuridica di tutte le Potenze Alleate ed Associate di fronte al Trattato, cioè la loro solidarietà o meno nel perfezionamento giuridico di esso. Io credo che il sistema dell’articolo 90 sia questo: se una delle quattro grandi potenze non ratifica, il Trattato è inesistente di fronte a tutti. Riguardo a ciascuna delle altre potenze alleate ed associaste il Trattato diviene perfetto ed entra in vigore a guisa che la relativa ratifica sia depositata a Parigi.

È errato, concludo io dunque, dire, come generalmente si dice, che la ratifica dell’Italia non influisce affatto sulla perfezione del Trattato. Al contrario: se noi non ratifichiamo, il Trattato nei nostri riguardi è inesistente.

Nessuno pensi di dirmi: «Ma allora, se il Trattato senza la ratifica nostra non esiste, è bene che noi non ratifichiamo, e così lo renderemo inesistente, ed eviteremo tutte le sue gravezze».

Nulla eviteremo noi, purtroppo! La chiara parola dell’articolo 90 dice che il Trattato entra in vigore e va in esecuzione con il solo deposito delle ratifiche delle quattro grandi potenze, dunque la mancanza della nostra ratifica non impedisce l’esecuzione dell’iniquo Trattato. Ed inoltre, anche a voler considerare la cosa, invece che dal lato dell’esecuzione, dal lato della perfezione del Trattato, è chiaro che, inesistente il Trattato per la mancanza della nostra ratifica, i vincitori potenti ed armati resteranno liberi di commettere contro di noi sconfitti ed inermi tutte le iniquità e le atrocità di cui lo stesso Trattato li dimostra capaci.

È questa anzi la ragione fondamentale, nel campo giuridico, per la quale noi abbiamo l’interesse, meglio, la necessità, di ratificare: per rendere perfetto, col Trattato, il limite massimo delle iniquità che ci si impongono; per acquistare il diritto all’esecuzione di quei minimi benefici che il Trattato ci riconosce; per impedire che i vincitori incrudeliscano contro di noi sempre più. Insomma, noi, negando la ratifica, non evitiamo l’applicazione delle crudeli clausole che così profondamente ci feriscono, e rendiamo, invece, possibile, che i vincitori, liberi da ogni freno, senza il limite di un Trattato, vieppiù le inaspriscano. C’è sempre da temere il peggio, purtroppo, specialmente in questi tempi torbidi e incerti: ogni lotta interna tra gli alleati si può risolvere in un aggravio dei nostri danni. È necessario che noi facciamo tutto quanto è in nostro potere, per mettere ad essi un punto fermo.

Ratifichiamo dunque, non per nostra spontanea libera volontà, ma piegandoci ad una crudele inesorabile necessità. Come tutti gli sconfitti, sempre, hanno ratificato. Infatti, da che mondo è mondo, da che il sole risplende sulle sciagure umane, sempre, i vinti, hanno accettato i Trattati loro imposti. Anche i più duri! Perché? Non certo per benedire, con animo lieto, le gravezze che il Trattato loro impone; ma per evitare un facile loro inasprimento, per mettere ad esse un punto fermo! Può parere un paradosso, onorevoli colleghi, quello che io sto per dirvi, ma è una verità: i Trattati di pace non sono fatti a beneficio dei vincitori e a danno dei vinti, ma viceversa a beneficio dei vinti e a danno, a limitazione dei vincitori. Col Trattato, lo sconfitto esce dal campo della pura forza materiale, in cui si trova, inerme e impotente, nelle grinfie dell’onnipotente vincitore, ed entra nel campo del diritto, in cui ambedue sono regolati da norme precise; toglie di mano al vincitore la spada fiammeggiante di odio e di vendetta, sfrenata nell’impeto delle sue cupide voglie, e lo costringe nei limiti insormontabili della morale e della civiltà.

Continuando, se permettete, nella via dei paradossi, si può forse dire che l’articolo 90 è per noi una fortuna: ci pone in una situazione privilegiata con la sua speciale formulazione. I grandi giuristi che l’hanno redatto non so se siano veramente grandi giuristi; pur seguendo un sistema comune nella redazione dei trattati, non hanno sufficientemente riflettuto, essi che tanto danno avevano in animo di fare, alla portata di certe sue conseguenze per noi benefiche. Ponete mente, vi prego, onorevoli colleghi: se non si fosse consacrata esplicitamente nell’articolo 90 l’entrata in vigore, l’esecutività per l’accettazione delle sole quattro grandi Potenze e senza richiedere alcun nostro minimo intervento, se non si fosse così stabilita la netta inconfondibile distinzione tra perfezione ed esecuzione del Trattato e si fossero invece unificati i due concetti e i due momenti, noi ora ci troveremmo in questa terribile condizione: o ratificare per mettere un limite fermo alle inique persecuzioni contro di noi, e allora implicitamente acconsentiremmo all’esecuzione delle gravi clausole imposteci; o non ratificare per non acconsentire a tale esecuzione e allora rinunzieremmo a mettere il limite fermo che tanto c’interessa. La formula dell’articolo 90 invece ci dà agio di mettere il punto fermo che c’interessa, e di non acconsentire all’esecuzione. A raggiungere questi due scopi mirabilmente serve il nuovo testo proposto dal Governo: «Il Governo della Repubblica è autorizzato a ratificare il Trattato di pace fra le Potenze Alleate ed Associate e l’Italia, firmato a Parigi il 10 febbraio 1947, dopo che esso sarà divenuto esecutivo a norma dell’articolo 90». Con la ratifica noi rendiamo perfetto il Trattato nei nostri confronti, ponendo il punto fermo che ci interessa; nel contempo, ratificando dopo che esso è già divenuto, senza alcun nostro intervento, esecutivo, nessun consenso prestiamo a tale esecuzione. Il momento, cioè, della nostra ratifica e le dichiarazioni esplicite che costantemente abbiamo fatto e facciamo, dimostrano che, più che parlare di un nostro consenso all’esecuzione coartato e non libero, devesi parlare di consenso inesistente, di assenza di ogni consenso.

Ho detto che perfezionare il Trattato, mediante la nostra ratifica, servirà principalmente ad evitare temibili inasprimenti dei nostri guai; e servirà in secondo luogo ad assicurarci qualche piccolo beneficio che, pur tra tante iniquità, il Trattato contiene.

Di queste iniquità, di queste gravezze tutti hanno parlato e parlano tuttavia. Ma mai se ne parlerà abbastanza! Gli Alleati avevano il dovere sacrosanto di mantenere le loro costanti premesse, e di non dimenticare il grande contributo dato dall’Italia alla loro causa, alla causa comune. Grande, enorme contributo! Basti ricordare schematicamente che, di cinque anni di sua guerra, l’Italia ne combatté tre a fianco della Germania e contro gli Alleati, ma ne combatté due (cioè quasi la metà) a fianco degli Alleati e contro la Germania; che noi siamo stati il primo grosso masso distaccatosi dal blocco tedesco, quando esso era ancora granitico, e noi soli ne abbiamo provocato la disgregazione e la rovina; che l’Italia si schierò contro la Germania, essendo ancora questa fortissima, tanto da resistere ancora ben due anni; che nella guerra combattuta dagli Alleati in Italia questa diede un contributo, più che notevole, enorme: Churchill riconobbe ufficialmente alla Camera dei Comuni il grande apporto della nostra marina in tutti i mari; e lodò l’eroico ardimento degli aviatori, dicendo di fare ogni sforzo per dotarli di apparecchi efficienti e moderni; l’alta proporzione del concorso italiano nello sforzo comune innegabile risulterà a chi ricordi le lotte partigiane, le azioni clandestine, l’ambiente di inesorabile ostilità di cui erano circondati i tedeschi, il palpito costante di simpatia, di cooperazione, di solidarietà di cui beneficiarono gli Alleati, non sempre ugualmente ricambiando!

Promesse ed aiuti, tutto fu dimenticato. Mai dunque sarà sufficiente la nostra protesta; che deve essere altissima e solenne, specialmente in questo momento, e deve costituire elemento preponderante ed essenziale della complessa nostra azione di fronte al Trattato e agli Alleati.

In relazione alle promesse altrui e alla azione nostra, mai Trattato imposto e non negoziato fu più iniquo e grave! Ci martirizza nel nostro orgoglio, nella nostra dignità e in quanto abbiamo di più sacro; ci mutila nel territorio metropolitano e ci priva delle Colonie fecondate e civilizzate col sangue dei nostri soldati, e col sacrificio dei nostri lavoratori; ci lascia indifesi nei confini e nelle armi; distrugge la nostra potenza marinara ed aerea; ci impone pesi economici, mai praticamente sopportabili.

Ed è doveroso ricordare, in queste ore di angoscia, che i termini iniziali proposti per l’iniquo Trattato erano anche più duri e spietati. Si deve all’azione appassionata ed abilissima dei nostri Governi se qualche – anche piccolo – miglioramento s’è ottenuto.

Giunti al momento culminante del nostro calvario, sarebbe ingeneroso non ricordare tale azione, che, se raggiunse dei buoni risultati nell’ambito proprio del Trattato, di veramente cospicui ne ha raggiunto nella posizione generale internazionale dell’Italia.

Azione di governo difficilissima quanto altre mai, e, in tanti momenti culminanti, addirittura disperata! Ogni azione diplomatica è un problema di equilibrio; questa, vorrei chiamarla un miracolo di equilibrio. Circondata dall’ostilità di tutti, mira delle più accese cupidigie e delle più irose vendette, era necessario usare un tono alto e vibrato nel difendere i nostri diritti e nel dolerci di iniquo trattamento, ma nel contempo dimesso e pacato per non acuire le ire e per ottener concessioni; sommamente prudente per mantenerci neutrali nelle contese tra alleati, ma nel contempo giustamente riconoscente verso chi ci aiutava e ci riforniva dei mezzi imprescindibilmente necessari alla nostra vita, e giustamente sostenuto, ma senza ombra di ritorsione, verso chi si mostrava meno benevolo con noi. Questo difficilissimo equilibrio si raggiunse e costantemente si seguì; si prospettarono sempre gli interessi italiani in funzione dei superiori generali interessi europei e mondiali di ricostruzione e di pace; si svolse un’azione dignitosa, serena, accorata, costante per opera dei grandi partiti rappresentanti nei vari Governi, se pure con qualche inopportuno sbandamento di stampa a scopo interno. Si curarono massimamente i rapporti personali, e gli uomini politici nostri andarono nei luoghi ove era più opportuno andassero: viaggiò il capo e l’ispiratore di tutta la nostri politica onorevole De Gasperi; il Ministro Sforza andò nell’America latina; l’onorevole Nenni nei Paesi dell’Europa settentrionale; l’onorevole Togliatti andò ove l’azione sua – per affinità ideologiche – poteva essere più utile, e in perfetta buona fede, sebbene senza alcun concerto col Governo responsabile, portò delle proposte pur cospicue sebbene non tali da potere essere prese in considerazione.

Di questa azione costante, complessa, equilibrata, tutti i frutti si perderebbero irrimediabilmente se ora non si ratificasse il Trattato, e ci si estraniasse volutamente dalla nascente armonia internazionale.

Ho detto che, a prescindere dallo scopo fondamentale di evitare inasprimenti alla nostra situazione, occorre anche ratificare per vedere attuati i vantaggi – pur non grandi – che nel Trattato stesso siamo riusciti a raggiungere, e per conservare e migliorare la nostra posizione internazionale, frutto veramente cospicuo della nostra azione diplomatica.

Esamino brevemente questi due settori. E in primo luogo quello dei punti del Trattato che ci interessa siano eseguiti.

L’articolo 9 del Trattato dispone che «Al fine di garantire all’Italia lo stesso godimento dell’energia idroelettrica e delle acque provenienti dal Lago del Cenisio, come prima della cessione del relativo territorio alla Francia, quest’ultima concederà all’Italia le garanzie tecniche stabilite nell’allegato III». E stabilisce inoltre: «Affinché l’Italia non debba soffrire alcuna diminuzione nelle forniture di energia elettrica che essa traeva da sorgenti esistenti nel territorio di Tenda-Briga prima della cessione di tale territorio alla Francia, quest’ultima darà all’Italia, in forza di un accordo bilaterale, le garanzie tecniche stabilite all’allegato III». Orbene: se non si perfeziona il Trattato, questi benefici ci saranno negati.

Una voce: Ma è nostra quell’energia.

ADONNINO. Ce l’hanno rubata, ma appunto perciò non è più nostra!

L’articolo 13 dispone che «L’approvvigionamento dell’acqua per Gorizia ed i suoi dintorni sarà regolato a norma delle disposizioni dell’Allegato V». E correlativamente l’Allegato V conferma che la Jugoslavia curerà la manutenzione degli impianti e assicurerà l’approvvigionamento idrico della parte del territorio di Gorizia che resta all’Italia, e dà le relative norme particolari. Orbene: se il Trattato è inesistente, non potremo beneficiare di tali disposizioni.

Benefici minimi, certo, di fronte all’enormità dei sacrifici; ma benefìci cui non si può rinunciare!

L’articolo 46 dispone: «Ognuna delle clausole militari, navali ed aeree del presente Trattato resterà in vigore, finché non sarà stata modificata in tutto o in parte, mediante accordo tra le Potenze Alleate ed Associate e l’Italia, o, dopo che l’Italia sia divenuta membro delle Nazioni Unite, mediante accordo tra il Consiglio di Sicurezza e l’Italia». Non mi pare trascurabile questa clausola. Vi si può vedere un germe di revisione in atto. È possibile mandarle a monte?

L’articolo 74 è dei più gravi per noi. Nondimeno, trattando, al n. 3, dei quantitativi e dei tipi delle merci da consegnare in pagamento all’Unione Sovietica, dice: «La scelta sarà effettuata e le consegne saranno distribuite nel tempo in modo da non creare interferenze con la ricostruzione economica dell’Italia». Se il Trattato non diventa perfetto e sarà inesistente, conserveremo la gravezza – che potremo vedere anche inasprita – e perderemo il vantaggio.

L’articolo 83 stabilisce che ogni controversia sugli articoli 75 e 78 (relativi alle restituzioni dovute dall’Italia e ai beni delle Nazioni Unite in Italia) «dovrà essere sottoposta a una Commissione di Conciliazione, composta di un rappresentante del Governo della Nazione Unita interessata e di un rappresentante del Governo italiano, esercitanti le loro funzioni su una base di parità». Clausola anche questa che ci conviene venga applicata.

Ma è più importante il secondo punto, quello relativo alla nostra posizione generale internazionale.

Qui il successo della nostra azione diplomatica è stato più notevole. Basta confrontare due momenti: il momento iniziale e quello presente. Ho sentito una volta descrivere la posizione desolante della delegazione italiana in una delle prime riunioni internazionali, a Londra, poco dopo la cessazione delle ostilità. Soli, in un angolo della hall di un grande albergo, non conoscendo nessuno, e da nessuno conosciuti o notati, i nostri assistevano smarriti al passaggio dei grandi astri della politica internazionale: qualche cameriere li indicava a nome, ed essi passavano pieni d’importanza e di sussiego. L’ingresso della delegazione jugoslava parve un corteo imperiale: giunta in ritardo per un incidente d’aeroplano, incedeva preceduta e circondata da cerimonieri e da valletti, piena di alterigia, di disprezzo. Nessuno degnava i nostri di uno sguardo: la forma più atroce di offesa è l’indifferenza! Tutto questo, allora. Ed ora? Ora è il viaggio trionfale del Presidente De Gasperi in America, è l’accoglienza calorosa, sul piede di parità, delle grandi nazioni europee al Ministro Sforza, recatosi giorni addietro a Parigi. Negando la ratifica noi ci apparteremmo da questi grandi consessi europei e mondiali, rientreremmo nell’ombra dell’urto e dell’indifferenza.

Occorre ricordarsi che, senza la ratifica, noi non avremo una personalità giuridica internazionale autonoma. È la condizione d’inferiorità in cui ci tiene lo stato armistiziale. Non ci fa più, ora, grande impressione, perché ad esso ci siamo in parte abituati e perché in parte la sua gravità è diminuita, in seguito alla nota lettera di MacMillan. Ma occorre tener presente che è sempre uno stato d’inferiorità politica, giuridica, morale.

Ci ha informato il Governo, ad esempio, che numerosi trattati di commercio sono stati stipulati con l’estero: orbene, essi non possono essere perfezionati e non possono entrare in vigore, se non usciamo dallo stato armistiziale. È questa la realtà, sono queste le nostre dolorose necessità ed occorre considerarle con animo forte.

CHIOSTERGI. Ma senza esagerare.

ADONNINO. Senza esagerare, naturalmente; ma senza dimenticare la loro pratica importanza.

Noi, inoltre, prendiamo degnamente parte alle trattative per il piano Marshall: sia quel che si vuole di questo piano, saranno quali che saranno le sue pratiche effettuazioni, è certo però che esso rappresenta pur sempre un cospicuo tentativo di ricostruzione armonica, ed apre fondatamente l’adito alle migliori speranze per gli interessi italiani. Le proposte italiane, d’altra parte, in quelle trattative sono degnamente tenute in conto. Cosa sarebbe di questa nostra preziosa opera, che si va prudentemente svolgendo, se noi, rifiutandoci di ratificare il Trattato, ci ponessimo al bando da ogni armonica cooperazione internazionale?

E finalmente, coronamento di questa nostra opera abile, complessa, costante, intesa appassionatamente a ricostruire la nostra personalità, e ad imporla, nel consorzio delie Nazioni civili, in un rango degno del nostro grande passato e del nostro immancabile avvenire, l’ammissione nell’Organizzazione delle Nazioni Unite. La ratifica è condizione essenziale perché possiamo esservi accolti.

Onorevoli Colleghi, quattro sono le esigenze fondamentali a cui dobbiamo ispirare le nostre azioni. Prima: la riaffermazione alta, solenne della nostra protesta contro l’iniquità del Trattato e la dimostrazione precisa che la nostra volontà ad essa non si piega, ma lo subisce come una tragica inesorabile necessità di materiale coartazione. Seconda: l’affermazione fondamentale e costante della necessità della revisione delle inique clausole del Trattato. In quanto rendiamo perfetto il Trattato, poniamo la base necessaria per la sua revisione. Non si modifica né si rivede ciò che non esiste. Revisione che è una fondamentale esigenza di giustizia; che ci è autorevolmente promessa ed annunziata da varie parti; che già mostra i primi inizi, sia pur timidi di sua attuazione. Terza: l’assoluta indipendenza da eventuali blocchi contrastanti, in cui si possano raggruppare le varie potenze. La formula propostavi per la ratifica si ispira perfettamente a tale esigenza. Essa rispetta la Russia in quanto autorizza il Governo a ratificare, ma soltanto dopo che esso sarà divenuto esecutivo, cioè dopo la ratifica della Russia; essa rende il dovuto omaggio alle grandi Potenze occidentali in quanto ratifica dopo le loro ratifiche, ed agevola quella grande opera di armonia, di ricostruzione, di pace cui esse tendono. Quarta esigenza: dare tutto il nostro apporto, tutta la nostra appassionata cooperazione a tale grande, magnifica opera; che è l’unica speranza di salvazione per questo travagliato mondo.

Ho sentito dalla destra l’eco di un nazionalismo che può parere troppo iroso e intempestivo. Ho sentito dalla sinistra gli inni ad un internazionalismo che può parere troppo positivistico. All’uno e all’altro noi opponiamo una grande fiaccola, quella della nostra idea cristiana. L’idea cristiana è un grande conforto per i singoli e per le collettività nei momenti più duri della vita; è un’idea che sublima il nazionalismo nell’amor di Patria, e l’internazionalismo nell’amore di tutti i popoli. Facciamo, onorevoli colleghi, che tutti quanti, singoli e popoli, possiamo veramente ricevere da questa idea nuova forza e nuova fede per portare la nostra croce serenamente, coraggiosamente. (Applausi).

PRESIDENTE. È iscritto a parlare l’onorevole Ambrosini. Non è presente, s’intende che vi abbia rinunciato.

È iscritto a parlare l’onorevole Crispo. Non è presente, s’intende che vi abbia rinunciato.

È iscritto a parlare l’onorevole Valiani. Ne ha facoltà.

VALIANI. Onorevoli colleghi, io parlerò con rude franchezza, intervenendo nella discussione che il Governo ha voluto che si facesse in questo momento. Ieri la discussione è stata elevata nella sfera della filosofia, ed è stata elevata nella sfera della filosofia non solo da parte dell’onorevole Croce, come egli doveva fare, ma anche da parte dell’onorevole Sforza. E se la filosofia dell’onorevole Croce trova consenziente chi parla, si è perché la sua filosofia politica storicista si addice ai tempi di durezza, ai tempi di ferro che noi traversiamo; perché l’onorevole Croce ristabilisce veramente il legame storico fra le generazioni che ci precedettero, che fecero l’Italia, e la nostra generazione che rischia di perderla, e le generazioni di coloro che verranno.

Se la filosofia dell’onorevole Croce può e deve trovarci consenzienti – quali che siano i giudizi da dare in sede di discussione politica-pratica – la filosofia sviluppata invece dall’onorevole Sforza – la filosofia che potrei chiamare dell’illuminismo democratico – è eccessivamente ottimistica. Mi pare di doverlo dire, pur con tutta la stima e la devozione che ho per il Ministro degli esteri. Duri tempi noi attraversiamo e ne attraversa il mondo intero, il quale è a rischio di precipitare in una nuova catastrofe, in nuovi conflitti.

L’illuminismo democratico poteva anche essere una grande forza in un periodo non lontano, quando lo propugnò l’onorevole Sforza, come Ministro degli esteri, dopo l’altra guerra, o quando in Francia, una ventina di anni addietro, Briand parlava a nome di un paese vincitore. L’illuminismo democratico che li animava e la loro generosità erano una forza proprio perché si trattava di uomini di Stato, di uomini politici di paesi vincitori. Questo illuminismo ottimista non si addice però al Ministro degli esteri di un paese vinto, che deve ancora combattere per ritrovare una situazione che garantisca la sua sopravvivenza.

SFORZA, Ministro degli affari esteri. Fede e ottimismo!

VALIANI. Onorevole Sforza, la sua fede è ammirevole e con la sua fede concordo; però la fede guarda a lunghissima scadenza, mentre l’azione politica che noi siamo chiamati a compiere si riferisce ad un periodo limitato all’oggi, e le conseguenze di un nostro atto le scontiamo oggi e nei prossimi dieci anni, che non sono anni in cui sia permesso l’ottimismo. Ci potrebbero certamente essere dei correttivi all’ottimismo, e se questi correttivi ci fossero in seno al Governo, allora anche l’ottimismo dell’onorevole Sforza potrebbe essere di nuovo una forza. Se l’onorevole De Gasperi, Presidente del Consiglio, che, del resto, ha preceduto l’onorevole Sforza, dopo la caduta del fascismo, al Ministero degli esteri, desse prova in questa circostanza del realismo che le condizioni esigono, noi potremmo anche dire che l’illuminismo ottimista dell’onorevole Sforza è un fatto positivo, in quanto sorretto dal rude realismo del suo Presidente del Consiglio. Ma noi constatiamo nell’onorevole De Gasperi, in questi ultimi tempi, uno strano miscuglio di rude realismo e di eccessivo ottimismo; e poi anche di strana confusione fra politica estera e politica interna.

L’onorevole De Gasperi, come Ministro degli esteri, partì bene nel 1944 e nel 1945: ottenne qualche indubbio risultato positivo. Non fu senza l’influenza della sua azione che a Londra, nel settembre del 1945, fu ammesso il principio etnico per la risoluzione della vertenza alla frontiera orientale; ma poi l’onorevole De Gasperi – che ottenne qualche risultato con una politica di resistenza alla ingiustizia del Trattato e che arrivò a dirci alla Consulta che egli disponeva tuttavia di una carta: il rifiuto della firma, e ce lo disse alla Commissione degli esteri – poi non giocò in tempo utile questa carta. A Parigi, ancora nell’agosto 1946, l’onorevole De Gasperi si batté non solo con molto coraggio, ma con molto realismo; e la sua proposta di rinvio della soluzione della questione triestina e della frontiera orientale era una proposta realistica, perché coincideva – egli stesso non ne era del tutto consapevole – con l’interesse obbiettivo al rinvio che aveva la Russia. Questo mi permisi di segnalarglielo ancora a Parigi. Infatti, quella previsione si avverò. La Russia non ha ratificato il Trattato, anche se Molotov allora attaccò violentemente l’onorevole De Gasperi per fini polemici, sulla proposta del rinvio. Ma quel realismo non si mantenne, e al momento del suo viaggio negli Stati Uniti incominciò a prendere piede nell’animo dell’onorevole De Gasperi da un lato un eccesso di ottimismo, forse in seguito ai brillanti ricevimenti e agli entusiastici consensi del popolo americano; ma gli americani si scaldano facilmente e particolarmente si scaldano gli italiani d’America, generosi oltre ogni dire. E oltre all’ottimismo prese piede anche la confusione fra politica interna e politica estera, confusione che fu all’origine della accettazione della immediata firma del Trattato.

Io fui fra i pochissimi deputati a criticare allora – nel febbraio di quest’anno – quella firma, perché prevedevo le conseguenze di politica estera e di politica interna che ne sarebbero derivate e che ne sono derivate.

Anche l’altro giorno, parlando qui sui motivi di urgenza del dibattito, l’onorevole De Gasperi da un lato si è riferito a questioni molto astratte, alla funzione di equilibrio che noi assolveremmo ratificando il Trattato. Non so che senso questo possa avere, a meno che non sia una ritorsione polemica contro l’onorevole Togliatti, il quale fece capire che si ratifica oggi il Trattato, perché si vuole aderire al blocco occidentale.

Funzione di equilibrio? Ma quale funzione di equilibrio può esercitare un Paese vinto come l’Italia?

Informazioni particolari, valutazione della nostra situazione fuori dei nostri confini, sono tutte cose che non persuadono.

Io spero che l’onorevole De Gasperi, sia pure in seduta segreta, ci dirà queste informazioni particolari e ci parlerà più concretamente di questi strani rapporti che consigliano la firma del Trattato.

E vengo agli argomenti concreti che sono stati addotti in favore della ratifica.

La questione della nostra ammissione all’O.N.U. voglio analizzarla, perché sono persuaso che proprio ciò provi come la ratifica del Trattato non sia urgente e non si debba dare.

Quali sono i Paesi che hanno chiesto di essere ammessi all’O.N.U. e la cui questione deve essere discussa al Consiglio di Sicurezza? Sono l’Italia, l’Austria, la Romania e l’Ungheria. L’Austria, onorevoli colleghi, non ha firmato nessun trattato di pace, perché per disgrazia sua si trova in una situazione peggiore ancora della nostra: nessun trattato è stato redatto nei riguardi dell’Austria. Il caso dell’Austria sarà egualmente discusso all’O.N.U. E gli altri due? Romania e Ungheria? Non vi dice niente questo quadrinomio? Si vota nell’O.N.U.; si contano i voti. Romania e Ungheria si suppone che voteranno, quando fossero ammesse, in un senso; l’Italia e l’Austria si suppone voteranno, quando fossero ammesse, in un altro senso.

C’è una lotta diplomatica, e speriamo che sia solo diplomatica, fra le Grandi Potenze, nell’O.N.U. e fuori dell’O.N.U.

L’ammissione di nuovi Stati è in funzione di questa lotta diplomatica. Ora, evidentemente, noi abbiamo il dovere, come nazione, di profittare di ogni possibilità per rientrare nel consesso internazionale. Anche della rivalità tra le grandi potenze e anche se tali rivalità deprechiamo. Non dobbiamo pagare un particolare pedaggio per avere il diritto di essere ammessi nell’O.N.U., quando è almeno altrettanto forte l’interesse degli altri di includerci nell’O.N.U. Se saremo inclusi o non saremo inclusi, non sarà in funzione della ratifica che daremo o non daremo, ma in funzione della ratifica che la Russia darà o non darà ai Trattati con gli Stati danubiani; cioè, in parole povere, della decisione che l’Unione sovietica prenderà di evacuare o non evacuare l’Ungheria e la Romania, la quale decisione, a sua volta, è in funzione della questione dell’Austria, della speranza che l’Unione sovietica può avere o non avere di trovare un accordo con le altre grandi Potenze sulla questione dell’Austria, sulla questione della Germania. In una situazione di questo genere, addurre la nostra domanda di ingresso all’O.N.U. come un argomento di estrema urgenza per la ratifica del Trattato, mi pare significhi mancare di realismo politico, mi pare significhi fare gratis quello che forse potremmo condizionare, per esempio, a quello che ha detto l’onorevole Cevolotto, all’abolizione di quella parte del preambolo che stabilisce la nostra inferiorità nell’O.N.U. stesso. Un Paese non deve rassegnarsi così alla leggera ad una situazione di inferiorità. Dopo l’altra guerra, la Germania combatté strenuamente, prima di firmare e dopo aver firmato, per una posizione di parità, e non entrò nella Società delle Nazioni finché non l’ottenne.

Altro argomento in favore dell’immediata ratifica: la nostra adesione al piano Marshall. Io devo dire che su questo punto non posso condividere gli argomenti e le preoccupazioni dell’estrema sinistra dell’Assemblea. Il conte Sforza ha fatto benissimo a dare la nostra adesione al piano Marshall. Può darsi che coloro che hanno ospitato i rappresentanti del Governo italiano a Parigi abbiano pensato che la nostra adesione fosse sinonimo della ratifica del Trattato. In tal caso l’errore era loro e non nostro. Ma l’abbiano creduto o non l’abbiano creduto, ciò è una questione secondaria, perché il piano Marshall, che purtroppo non ha ancora una consistenza molto forte, perché è evidentemente in funzione del voto che gli darà o non gli darà il Congresso degli Stati Uniti il quale si riunirà nel gennaio del 1948, cioè fra sei mesi, il piano Marshall, dunque in realtà non è cosa di cui Gran Bretagna e Francia, che sono poi le Potenze ovviamente interessate alla sollecita ratifica del nostro Trattato (anche noi saremmo interessati alla sollecita ratifica di questo Trattato se ci trovassimo al loro posto), il piano Marshall, dicevo, non è cosa di cui queste due potenze con le quali vogliamo e dobbiamo tuttavia collaborare, possano disporre a loro piacimento ed ammettervi chi ratifica e non ammettervi chi non ratifica.

Il piano Marshall riflette tutta la situazione economica e politica degli Stati Uniti.

Onorevoli colleghi, io mi sono permesso, quando l’onorevole De Gasperi venne qui, in febbraio, a prospettarci il prestito americano, di richiamare l’attenzione sul fatto che i prestiti di natura puramente ideologica o puramente umanitaria stavano per finire e che l’ascesa del generale Marshall al dipartimento di Stato avrebbe significato, dopo qualche mese, un cambiamento di rotta, cambiamento di rotta imprevedibile nei suoi sviluppi e nelle opposizioni che avrebbe suscitato, anche perché in America, molto più che in qualsiasi altro Paese, il Ministro degli esteri ha le mani incatenate dall’opinione pubblica, dal Congresso, dal Senato e dal Presidente.

Il cambiamento di rotta indubbiamente c’è ed io credo che, per quanto dipende dalle intenzioni del generale Marshall, questo cambiamento di rotta sia in meglio. Il generale Marshall è uomo dotato indubbiamente di un poderoso pensiero. Basta leggere il suo rapporto sulla guerra, nel quale, tra parentesi, si fa cenno elogiativo dell’azione dei partigiani italiani, che contribuirono, insieme al Corpo italiano di liberazione, alla vittoria degli Alleati in Italia. Si nota in quel rapporto un forte pensiero. Nel piano di Marshall si rivela l’uomo di Stato, che vuole stringere rapporti economici tra l’Europa e l’America, tali da impedire crisi economiche come quelle dell’altro dopoguerra. Questa politica è indipendente dalla ratifica del Trattato da parte dell’Italia.

Come ha spiegato Marshall stesso, vista l’Europa come mercato di sbocco e vista la possibilità di una costruzione economica supernazionale, l’Italia vi ha il suo posto, nella misura delle sue risorse economiche e della sua forza produttiva, in relazione alla sua popolazione di 46 milioni di abitanti. La ratifica del Trattato non ha niente a che fare con ciò.

Anche la Germania occidentale è inclusa nel piano Marshall, su un piede di maggiore importanza che la stessa Italia, come è spiegabile, trovandosi lì il carbone e l’acciaio della Ruhr ed essendo quel popolo laborioso al pari del nostro, e tecnicamente il primo del mondo.

Se la Jugoslavia, la Bulgaria, la Polonia, l’Ungheria, la Romania aderissero al piano Marshall, gli organizzatori della Conferenza, per volontà dello stesso Marshall, sarebbero ben lieti di accoglierle e non domanderebbero se abbiano firmato e ratificato il Trattato. Non so neppure se la Bulgaria abbia ratificato. L’adesione al piano Marshall è al di sopra di tutto questo.

Nella misura in cui esiste sul serio, perché, purtroppo, questo piano Marshall è ancora sub iudice, nella misura in cui esiste, esso prova soltanto che non la ratifica d’un Trattato, ma l’effettiva forza economica e politica d’un popolo è quella che gli apre la via nella comunità dei popoli. In atteggiamento di ratifica o in atteggiamento di resistenza al Trattato si può egualmente ritornare nella comunità dei popoli, se si ha forza e compattezza politica ed economica; si può egualmente restarne fuori, se non la si ha.

È stato fatto cenno alle conseguenze spiacevoli che, particolarmente sul terreno economico, avrebbe il rifiuto o il rinvio della ratifica. Si è fatto cenno alla situazione degli italiani all’estero. Essa certo è andata migliorando, da quando, anche con la collaborazione, di cui gli dobbiamo dare atto, del conte Sforza, il Presidente Roosevelt nel 1942 cessò di considerare gli italiani in America come nemici, dal punto di vista dei loro diritti. Però, onorevoli colleghi, non dimentichiamo che la situazione dei nostri connazionali all’estero non è soltanto in funzione di quello che fa l’Italia o che fanno gli uomini politici italiani; è anche in funzione della loro propria forza.

L’Economist notava l’altro giorno, discutendo il piano Marshall e gli aiuti che l’Italia potrebbe ricevere, il fatto che esistono negli Stati Uniti milioni di cittadini di origine italiana, i quali votano ed il cui voto conta anche per l’elezione presidenziale del 1948. Se l’Economist, rivista inglese d’indubbia competenza e serietà, vede questo nesso fra la posizione degli italiani all’estero e la loro forza propria, non dobbiamo vederlo noi?

D’altra parte non vogliamo neppure escludere che ci possano essere difficoltà in caso di mancata ratifica; ma, per valutare queste difficoltà, bisognerebbe che l’onorevole Sforza o l’onorevole De Gasperi ci dicessero quali garanzie hanno già avuto per il miglioramento della situazione economica dell’Italia e degli italiani all’estero in caso di ratifica. Ci sono le clausole economiche del Trattato. Saranno o non saranno applicate con severità? Saranno o non saranno applicate con larghezza? Il Presidente del Consiglio ed il Ministro degli esteri non ci hanno detto nulla su questo e ci chiedono di ratificare una cambiale in bianco. Se si parla delle difficoltà che potrebbero derivare dalla mancata ratifica, bisogna parlare anche delle garanzie che la politica estera ed in generale la politica del Governo saprebbero conquistare nel caso di ratifica. Solo in tal caso possiamo giudicare con realismo la situazione. Gli stessi accordi finanziari con l’Inghilterra sono stati interpretati in vario modo: quando se ne parlò alla Camera dei Comuni, non se ne parlò allo stesso modo come se ne è parlato in Italia. Fu data un’altra interpretazione, diversa da quella che qui è stata data. Non so dove stesse l’equivoco: spero ci sia un equivoco. Ma queste cose vanno spiegate, perché un documento di questa gravità, che contiene clausole economiche così importanti, necessita di essere chiarito.

Si parla della possibilità della revisione dopo la ratifica del Trattato. Pur essendo, sul terreno generale della questione di principio, di parere diverso da quello dell’onorevole Nenni, tuttavia come giornalista e come deputato, mi sono compiaciuto quando egli affermò, come Ministro degli esteri, la sua idea della lotta per la revisione dopo la ratifica. A parte quelli che possono essere i dissensi tra l’onorevole Nenni e l’onorevole Orlando sulla questione di principio della ratifica, è chiaro che porre la questione della revisione, sia pure dopo la ratifica del Trattato – dato che il Governo ormai è per la ratifica – è una questione fondamentale ed importante. Ma anche qui bisogna avere idea ben chiara di quel che si decide di fare e come si intende farlo.

La questione della revisione è in funzione delle quattro grandi Potenze che debbono ratificare il Trattato: è in funzione di tutte e quattro le grandi Potenze che debbono ratificare il nostro Trattato.

Proprio se ci si mette sul terreno della necessità della ratifica, non si può considerare che esista possibilità di revisione se non collegialmente da parte di tutte e quattro le grandi Potenze. E su questo, finora, il Governo è stato d’accordo. Solo nel caso di mancata ratifica si può pensare a paci separate e a revisioni separate.

Sappiamo che l’onorevole Nenni aveva un piano. Lo espose allora: non potemmo discuterlo, purtroppo, immagino perché non era più Ministro degli esteri. Vorrei che anche il conte Sforza delineasse il suo piano ed il modo di ottenere, o meglio di chiedere (l’ottenere non dipende da noi) la procedura di revisione, prima di portarci al voto sulla questione della ratifica del Trattato.

L’onorevole Bonomi – con l’autorità che egli ha – ha esposto, l’altro giorno, in un articolo del Corriere della Sera, le questioni che, a suo giudizio, devono essere tenute aperte per l’Italia anche dopo la ratifica del Trattato. È notorio che l’onorevole Bonomi è favorevole alla ratifica del Trattato. Egli dice che, dopo la ratifica del Trattato, tre questioni – tutte e tre revisioniste – dovranno essere poste sul tappeto: colonie italiane in Africa; clausole economiche; flotta.

Io penso che nella questione della flotta egli abbia voluto includere anche la questione dell’esercito e della smilitarizzazione delle frontiere.

Le colonie italiane oggi sono occupate dagli inglesi. Dicendo questo, io credo che nessuno possa accusarmi di essere mosso da animosità verso la Gran Bretagna, a fianco della quale noi abbiamo combattuto come cobelligeranti dopo il 1943, ed a fianco della quale gli antifascisti del mondo intero hanno combattuto, quando essa si trovava in condizioni disperate. Indipendentemente dai nostri sentimenti, che sono di indubbia ammirazione verso la Gran Bretagna, verso il suo liberalismo e verso il suo socialismo democratico, e in generale verso la sua fierezza, verso la sua lotta per la libertà, a prescindere da questo, c’è il fatto che la Gran Bretagna possiede le nostre colonie. Noi dovremo rivolgerci alle grandi Potenze per chiedere loro che, al termine del primo anno dopo la validità del Trattato, quando sarà ridiscussa la questione delle colonie in Africa, si abbia da parte loro un atteggiamento favorevole a noi. La Francia, gli Stati Uniti, la Russia dovrebbero, e comunque solo esse possono, persuadere la Gran Bretagna a restituirci, in una forma di mandato, o in una qualsiasi altra forma, qualcuna o tutte le nostre colonie.

Perciò, la questione della revisione, se la si vuole addurre come argomento per l’urgenza della ratifica, prova se mai il contrario, prova se mai che la nostra ratifica ha uno stretto legame con la ratifica di tutte e quattro le grandi Potenze, anche con la ratifica dell’Unione sovietica. L’Unione sovietica ci è stata ostile nella questione di Trieste, ma nella questione africana potrebbe avere degli interessi che coincidano con i nostri.

In ogni modo, non vi è chi non veda come per incominciare con la prima di tali questioni (quella delle colonie), se la si pone sul terreno della revisione, si debba supporre come data la ratifica da parte di tutte quattro le grandi Potenze e in secondo luogo un atteggiamento benevolo verso di noi da parte di alcune delle grandi Potenze medesime.

Per il resto, io non mi sentirei di condividere le argomentazioni, non più riguardanti la revisione, ma riguardanti la politica da seguire in generale, che adduce l’onorevole Bonomi. Egli si riferisce alla pagina di storia italiana che corre dal 25 luglio 1943 all’8 settembre. Allora Bonomi, che aveva anche la rappresentanza spirituale delle forze democratiche repubblicane, sostenne con molta nobiltà contro Badoglio la tesi che non già prima si dovesse concludere l’armistizio con gli Alleati e poi schierarci in guerra a loro fianco contro la Germania, ma inversamente: prima agire e poi firmare i patti.

Quella tesi prova solo che anche questa volta prima si deve fare una politica estera e poi, se mai, si ratifica, e non inversamente. L’onorevole Bonomi dimostrò da par suo, da storico quale egli è (e lo intuì anche come uomo politico) che se noi facevamo precedere la firma dell’armistizio alla politica e quindi all’azione militare da svolgere, l’armistizio sarebbe stato peggiore. La stessa cosa vale in verità per i Trattati: prima si fa una politica estera e poi si ratifica, se è il caso.

L’onorevole De Gasperi si mise su questa strada nel 1945-46, sulla questione della frontiera orientale. Poi il suo impegno svanì, forse perché si stabilirono delle connessioni tra politica estera e politica interna.

Credo dunque che gli argomenti dell’onorevole Bonomi, Presidente della Commissione dei Trattati, addotti sulla stampa, circa i motivi che rendono urgente la ratifica, siano in realtà argomenti che provino come, prima di dover addivenire alla ratifica – cosa di cui io non sono in generale persuaso – bisogna avere bene scelto una politica estera ed essere stati fermamente coerenti a questa politica estera, almeno per qualche anno.

Questo modo di vedere le cose si potrà anche qualificare per mercanteggiamento, come è opinione del Times, che è un giornale che leggiamo con rispetto tutti, almeno quelli che seguono la stampa inglese, ma di cui sappiamo pure che da cinquant’anni a questa parte non ha mai parteggiato per l’Italia.

Il Times prova solo come questa questione possa essere considerata da diversi punti di vista. È ovvio che il Times deve difendere la urgenza della ratifica di un Trattato che stabilisce tra l’altro la nostra rinuncia alle colonie di Africa e che stabilisce una posizione di favore soprattutto per la Gran Bretagna.

Su molti punti vi è una convergenza tra gli inglesi e noi, perché apparteniamo alla stessa civiltà, perché noi socialisti vogliamo realizzare lo stesso loro socialismo democratico, perché noi democratici vorremmo che l’autogoverno democratico che esiste in Gran Bretagna prendesse radici anche in Italia, perché apparteniamo alla stessa economia occidentale. Ma in questa specifica questione della ratifica del Trattato di pace, i nostri interessi non coincidono affatto.

Infatti, tutte le volte che i Ministri e deputati inglesi parlano dell’Italia alla Camera dei Comuni, ne parlano con crudo e brutale realismo. È vero, noi sosterremo sempre la necessaria collaborazione con la Gran Bretagna, anche perché il nostro atteggiamento verso la Germania deve essere molto più simile a quello della Gran Bretagna che non a quello della Francia. Però su questa specifica questione della ratifica del Trattato noi abbiamo interessi che divergono da quelli inglesi. E perciò le sollecitazioni di Bevin non sono argomenti per convincerci dell’urgenza della ratifica. Sarebbe argomento molto più forte il fatto che si fossero già effettuati i sondaggi necessari presso le potenze che possono invece avere interessi identici ai nostri, rispetto alla revisione delle clausole coloniali africane del Trattato, presso le potenze che in Africa possono preferirci agli inglesi.

E vengo alla questione che per me fondamentalmente prova come non si debba firmare, o almeno, non si debba affrettarci a firmare il Trattato: la questione dei nostri rapporti con la Jugoslavia.

Onorevoli colleghi, forse che la Jugoslavia ha già ratificato, è in procinto di ratificare? Il Ministro degli esteri ci ha parlato dell’opinione dei nostri ambasciatori a Londra e a Parigi: cosa dice il nostro Ministro in Jugoslavia? Non lo sappiamo. Lo sa egli? Probabilmente non lo può ancora sapere; ma il fatto che non lo possa sapere, significa che è una questione ancora aperta. Cosa è in grado di sapere l’onorevole Sforza sulle intenzioni del Governo jugoslavo? Ha il Governo jugoslavo l’intenzione di proporre al suo Parlamento la ratifica del Trattato entro il mese di agosto?

Onorevoli colleghi, per noi, lo Stato con il quale ci troviamo in contesa, contesa che vogliamo dirimere pacificamente – ma che esiste, e non si può ignorare – è la Jugoslavia.

Si sono sollevate grandi questioni: blocco occidentale, blocco orientale, Washington, Mosca; andiamo con gli uni o con gli altri? I nostri problemi immediati sono più modesti, ma non meno importanti: il nostro problema è di giungere ad una chiarificazione con la Jugoslavia. Questo problema è ancora in sospeso; possiamo anche restare avversari; però, senza la ratifica della Jugoslavia, non è ammissibile che ratifichi l’Italia. Come giuliano, io nego al Governo il diritto di ratificare il Trattato, se la Jugoslavia non lo ratifica!

L’articolo 89 del Trattato stabilisce che il Paese che non ratifica – si parla dei paesi vincitori – non godrà dei benefici del Trattato: la Jugoslavia gode già dei benefici che il Trattato le assegna, perché una particolare situazione militare l’ha già messa in possesso di questi benefici. I territori italiani che devono essere ceduti alla Jugoslavia, la Jugoslavia li ha già annessi e li considera come territori definitivamente suoi e coloro che vi risiedono già sono cittadini jugoslavi: gli italiani di Fiume e di Pisino sono già considerati e trattati come cittadini jugoslavi, a meno che non scappino, a meno che non se ne vadano clandestinamente, abbandonando i loro averi.

In generale, da tutti i punti di vista, militari ed economici, la Jugoslavia gode già dei benefici che il Trattato le dovrebbe dare solo dopo la ratifica.

Il Governo si è preoccupato di questa questione?

Ha domandato in proposito chiarimenti a Belgrado? Ha detto: «Il fatto che godiate questi benefici implica la vostra ratifica?». Finora, la Jugoslavia ha sempre dichiarato di non voler ratificare.

Tra gli argomenti finora addotti dal Governo della Jugoslavia, alcuni sono speciosi, altri rispecchiano l’esuberanza nazionalistica dei popoli giovani ed altri ancora riflettono temi di cui usano i Governi rivoluzionari e totalitari, siano essi di sinistra o non di sinistra. Ma quali che siano questi argomenti, per noi il problema non è solo di controbatterli in sede propagandistica, per noi il problema è di sapere cosa loro realmente faranno e di sapere se noi possiamo modificare il loro atteggiamento, trattando con essi o viceversa, ove ci persuadessimo che in ogni modo non ratificheranno, trarne le conseguenze e porci in un atteggiamento di resistenza.

Io credo di non aver bisogno di dimostrare, come giuliano, cosa rappresenti per noi, per i miei questo Trattato, in particolare nelle clausole che ci feriscono nelle carni vive. Tuttavia io sono sincero fautore di una intesa con la Jugoslavia, come lo sono stato durante tutta la nostra lotta. Sincero fautore; ma anche qui, o gli accordi si fanno sulla base della chiarezza, o meglio non farli. È dovere del Governo di considerare ciò e di dirci quali sono le intenzioni della Jugoslavia. Il giudizio del Governo sulle intenzioni della Jugoslavia deve prima della fine di questo dibattito essere portato alla conoscenza dell’Assemblea; magari in seduta segreta. Occorre inoltre che si sappia che cosa sta facendo il Governo per modificare le intenzioni jugoslave se queste sono a noi ostili o per resistere alla loro realizzazione.

Trieste: il Trattato stabilisce il Territorio libero di Trieste, ma ciò presuppone l’accordo delle quattro Potenze e l’accordo non c’è. Io non so, né vado a sceverare, se ciò sia bene o male, ma constato il fatto. Le prospettive sono quelle di una permanente occupazione militare: probabilmente le truppe inglesi non se ne andranno. Anche questa è una faccenda da considerare.

L’onorevole Sforza ci ha detto che, se noi non ratificheremo il Trattato, saremo una foglia al vento. Ma, onorevole Sforza, un popolo di 46 milioni di abitanti non è mai una foglia in balia del vento. Diciamo piuttosto che 250 mila triestini avulsi dallo Stato, abbandonati alla mercé di potenze occupanti, quelli, sì, sono una foglia al vento.

Prima dunque di ratificare un Trattato, che ha paurose lacune e incognite, è evidente che bisogna andare cauti. Bisogna sapere quali sono le intenzioni che hanno di fronte a Trieste gli inglesi, i russi, gli jugoslavi; e bisogna che l’Assemblea sappia ciò che il Governo farà per tentar di modificare quelle intenzioni. Ecco ciò che noi abbiamo il dovere di fare di fronte ai triestini. Io ho qui le lettere che mi sono state inviate numerose dal Partito repubblicano d’azione di Trieste, dal Comitato di liberazione dell’Istria, dal Comitato dalmati. Io non starò, onorevoli colleghi, a leggervele per intero, perché penso che i sentimenti che pulsano in queste righe siano quegli stessi che pulsano in tutti i nostri cuori.

E la questione dei nostri confini? Dall’articolo 21 del Trattato, noi apprendiamo che la sovranità dell’Italia sul costituendo territorio libero di Trieste avrà termine con l’entrata in vigore del Trattato stesso. Ora, questo significa che non è nostro interesse di affrettare l’entrata in vigore del Trattato medesimo, perché la nostra sovranità oggi, sia pure solo giuridica e teorica, verrebbe a cessare anche giuridicamente da quel momento. Questo è chiaro.

Se noi, ad esempio, potessimo influire sulla possibilità che anche la Russia si decida ad addivenire alla ratifica – è certo che noi non lo possiamo menomamente, trattandosi di una grandissima Potenza come l’Unione sovietica – ma, dico, ove mai noi lo potessimo, noi dovremmo influire non già nel senso di affrettare questo evento, ma dovremmo influire, al contrario, nel senso di farlo rimandare il più possibile, perché dal momento in cui quella ratifica fosse depositata e il Trattato fosse per conseguenza diventato esecutivo, noi esplicitamente avremmo rinunciato alla nostra sovranità su Trieste.

Noi avremmo rinunciato, onorevoli colleghi, alla nostra sovranità su Trieste, senza sapere se Trieste diventerà una Zanzibar, una Salonicco, o non so che cosa. Onorevole Ministro degli esteri, onorevole Presidente del Consiglio, queste sono questioni che non avete il diritto di sottovalutare, sulle quali non avete il diritto di accontentarvi di vaghe assicurazioni e di un generico ottimismo; queste sono questioni che vanno vagliate con estrema vigilanza. Se occorre, facciamo una seduta segreta, ma bisogna discuterne, se si vuole proprio ratificare il Trattato, cioè se si decide di affrettare con la nostra ratifica il momento in cui il Trattato sarà esecutivo e in cui rinunceremo ai nostri diritti su Trieste. Se si vuole questo, bisogna addurre dei fatti gravi per suffragarlo, delle prove circa la possibilità di erigere effettivamente lo Stato libero di Trieste e assicurare la collaborazione fra italiani e slavi, e la possibilità che italiani e slavi, una volta stabilita la loro collaborazione, non siano poi alla mercé di influenze militari, essi da una parte e noi dall’altra.

Mi pare che l’onorevole De Gasperi abbia basato tutta la sua polemica a Parigi, nell’agosto 1946, sui pericoli che possono derivare dallo Stato libero di Trieste. E l’onorevole De Gasperi condusse coraggiosamente quella polemica, non scevra di rischi. Da quella polemica con Molotov si va ora all’atteggiamento opposto: si ratifica, pur nel costante peggioramento delle condizioni di Trieste. Non ho certo bisogno di parlarvi di che cosa sia successo nel Governo militare alleato di Trieste in queste ultime settimane. Ma non è possibile passare così da un atteggiamento estremo all’altro. Bisogna difendere quello che si potrebbe ancora difendere di pratico, di concreto; bisogna scendere un po’ sul terreno della realtà empirica in questa questione: tracciare una via di mezzo e percorrerla; e ratificare – ammesso che si debba ratificare, il che io non do ancora per provato – solo quando una parte almeno di quella via si sia percorsa.

La ratifica russa perché tarda? Io credo che la ratifica russa tardi per questioni che si riferiscono alla Germania, all’Austria e ai Paesi danubiani e balcanici. Ora, evidentemente, vi è una grossa questione: entro 90 giorni dal giorno che i trattati saranno esecutivi, cioè ratificati da tutte e quattro le Potenze, questo Trattato e quegli altri Trattati, entro novanta giorni questo Paese e quegli altri Paesi dovranno essere evacuati; e questo è un decisivo argomento per ogni Paese, perché ogni Paese desidera l’evacuazione del suo suolo da parte delle truppe straniere.

Onorevoli colleghi, proprio perché si tratta di un fatto, direi così, spontaneo, cioè che ogni Paese che subisce l’occupazione desideri la evacuazione, proprio per questo dobbiamo anche sapere che in merito le Potenze occupanti non vengono sempre incontro ai desideri degli occupati. E anche qui noi non sappiamo affatto se, nel caso che dessimo la nostra ratifica, e la Russia desse la sua, veramente novanta giorni dopo, data la mancata soluzione della questione di Trieste, dato il mancato accordo in Austria, il nostro suolo sarebbe evacuato. In realtà, il nostro Trattato potrebbe essere esecutivo, ma l’Unione sovietica potrebbe dire che non evacua l’Austria perché non c’è il Trattato austriaco; che non evacua l’Ungheria, perché deve comunicare con l’Austria e allora neanche gli americani possono evacuare l’Austria; e allora avranno ovviamente le vie di comunicazione verso l’Austria per le loro truppe, che passano attraverso l’Italia.

Quale garanzia abbiamo dell’effettiva evacuazione? Io credo che prima di ratificare noi dovremmo assicurarci che, qualunque cosa avvenga in Austria, il nostro Paese, che avesse ratificato dopo la ratifica russa, sarà evacuato, che l’inadempienza dell’Unione sovietica in Ungheria, motivata dalla mancanza del Trattato austriaco, non sarà seguita dall’inadempienza da parte degli americani in Italia.

Facciamo, se occorre, una seduta segreta, ma la questione va chiarita; è inutile illudere il Paese dicendo che, quando il Trattato sarà divenuto esecutivo, entro novanta giorni il nostro suolo sarà stato evacuato. Noi abbiamo sempre avuto un atteggiamento di estrema amicizia verso le truppe anglo-americane; ma non trasformate questo atteggiamento in insofferenza, quale sorgerebbe fatalmente quando 90 giorni dopo si dicesse al Paese che, invece di diventare esecutivo, il Trattato non lo è, su questo punto.

Noi possiamo avere qualsiasi opinione sul procedere dell’Unione sovietica in Ungheria e in Romania; ma qui dobbiamo preoccuparci solo della situazione dell’Italia, e non possiamo ratificare finché non abbiamo la garanzia che 90 giorni dopo l’esecutività di questo Trattato lo truppe alleate lasceranno l’Italia.

Si può dire che esse proteggono noi per il caso di un’eventuale aggressione da parte della Jugoslavia. Io voglio prendere in considerazione tutte le ipotesi, perché non devo nutrire e ammettere qui preferenze di parte. Ma anche in quel caso, che ha come presupposto che non ci si sia potuti intendere con la Jugoslavia, che ci sia il pericolo che la Jugoslavia voglia prendersi Trieste e quindi si renda necessaria la presenza di truppe angloamericane in Italia, ci dovrebbe essere un nuovo Trattato italo-anglo-americano, redatto da pari a pari, perché… le cose hanno preso un andamento per cui è legittimo supporre anche il peggio, e sia pure per combattere contro il verificarsi del peggio.

Onorevole De Gasperi, io capisco bene che sono questioni delicate, e proprio per questa ragione io e molti colleghi eravamo contrari all’immediata discussione; ma se si discute, bisogna che il Governo parli con chiarezza, oppure, cosa più ragionevole ancora, si rinvii la ratifica.

Si dice che, se ratifichiamo oggi, riacquisteremo la nostra indipendenza. Per la questione materiale – dell’occupazione alleata – io ho già provato che questo risultato è dubbio. Bisogna vederci più chiaro. La questione dell’indipendenza coinvolge però anche altri problemi: c’è l’indipendenza politica e l’indipendenza economica.

Non vi è dubbio, su questo, che noi che sediamo su questi pochi banchi siamo contro ogni pensiero di autarchia economica, di nazionalismo economico. Questi pensieri esulano dalla nostra mente. Come siamo stati dal primo istante per l’adesione al piano Marshall, pur sapendo disgraziatamente l’incerta consistenza di questo piano, così siamo sempre per la più grande collaborazione economica con tutti i Paesi. Certamente questa collaborazione internazionale può nascere, ed il primo Stato che può crearla è l’America del Nord. Ma se si dice che avremo l’indipendenza solo dopo la ratifica, al nostro cervello viene un po’ il dubbio che prima ci si chieda la ratifica per avere l’indipendenza e poi ci si chieda ancora questo o quest’altro per avere l’indipendenza, oppure prima ci si offre un prestito per-avere la ratifica e poi ci si chiede la ratifica preventiva e la formazione di un certo Governo per poter discutere in concreto del prestito.

Il generale Marshall è un uomo di Stato che rappresenta in America la tendenza politica opposta alla diplomazia del dollaro, ma questo non significa che la diplomazia del dollaro non esista più. Il generale Marshall non è solo a decidere, così come l’onorevole De Gasperi non è solo, ma tiene conto degli uomini alla sua destra e alla sua sinistra.

Così non si può ignorare, non si può far finta d’ignorare che la questione dell’indipendenza politica ed economica italiana può sempre essere compromessa dalla nostra cedevolezza davanti alle pressioni altrui.

La realtà è che anche dopo la ratifica bisognerà sostenere una lotta per riavere l’indipendenza politica ed economica. Per poterla sostenere, bisogna percorrere una via che non è certamente quella su cui si è messo il Governo dal mese di gennaio in poi. Viceversa, anche senza la ratifica si può ottenere l’indipendenza politica ed economica, ove si riesca a trovare un terreno di franca intesa con il generale Marshall, che è proprio quegli che non sollecita la ratifica con la stessa intensità della Francia e dell’Inghilterra, anche se genericamente la desidera.

Noi siamo psicologicamente più vicini agli inglesi e ai francesi che agli americani; ma questo fatto non toglie che sulla questione della ratifica inglesi e francesi hanno interessi diversi dai nostri, mentre gli Stati Uniti possono vedere la questione con maggiore larghezza.

C’era e c’è, a mio giudizio, un margine per far valere le posizioni nostre e anche per trovare la formula che permetta di conciliare la nostra appartenenza al mondo economico, che ha il suo centro negli Stati Uniti con la nostra indipendenza politica e con la nostra indipendenza di giudizio.

Ma la sicurezza di avere fatto il necessario noi non l’abbiamo, onorevole De Gasperi e onorevole Sforza. Noi non abbiamo la sensazione che le pressioni che avete accettato e subito per la ratifica, siano veramente il mezzo migliore per stabilire rapporti effettivamente proficui tra noi e gli altri.

Non è una questione di equilibrio. L’equilibrio è impossibile, perché per stare in equilibrio fra due potenze in conflitto ci vogliono altre forze che quelle che noi abbiamo. In caso di guerra noi saremmo fatalmente occupati o da una parte o dall’altra.

Quello che chiediamo è che, indipendentemente dall’estrema ambizione di tenere, in caso di conflitto, una posizione di equilibrio, voi cerchiate di creare condizioni tali fra noi e gli altri, per cui le potenze non ci ricattino, in tempo di pace, in un senso o nell’altro.

Ecco, a mio giudizio, il problema di politica estera del Governo.

Noi dobbiamo tener fede a questa prospettiva. Io ho ammesso un momento fa quello che ci viene dall’insegnamento delle cose: in caso di conflitto noi saremmo occupati dall’una o dall’altra parte. Ma una cosa dobbiamo evitare: l’essere arruolati da una parte o dall’altra.

L’Italia – caduto il fascismo – non deve arruolarsi sotto la bandiera altrui, né da una parte né dall’altra, e per resistere alla pressione formidabile che si eserciterebbe su di noi anche solo in condizioni di acuto conflitto diplomatico, bisogna cominciare ad abituarci a resistere su questioni come quella del Trattato. Onorevoli colleghi, noi non abbiamo il diritto di ripetere volontariamente la tragedia spontaneamente prodottasi nel passato nostro recente, la tragedia per cui la guerra mondiale dovette trasformarsi tra di noi in guerra civile. Dobbiamo avere la forza di restare piuttosto soli.

E questo non è in contradizione con la cooperazione economica e politica. Ripeto, sono per la cooperazione politica ed economica con gli Stati Uniti d’America e con gli altri Paesi che sono compresi nel piano Marshall, così come sarei per la cooperazione con i paesi d’Oriente, ove questa cooperazione diventasse fattibile e spero che, con alcuni almeno di questi Paesi, diventi fattibile e assai proficua; spero che gli accordi con i Paesi orientali diventino facili, almeno sul terreno economico. Ma, ripeto, l’adesione agli accordi economici e politici con l’Occidente non significa che dobbiamo lasciar credere a quei paesi (né agli altri) che essi possono influire su decisioni fondamentali nostre, non fosse che per sollecitarne l’urgente definizione.

Proprio sulla questione del Trattato bisogna provare che, finché si tratterà di cooperazione politica economica, diremo di sì di tutto cuore; ma quando si facessero pressioni, e voi sapete che ove c’è rischio di conflitto si fanno spesso pressioni, noi dobbiamo metterci in grado di resistere a qualsiasi pressione; dobbiamo rafforzare dunque la nostra volontà di resistenza.

L’onorevole Sforza ha delineato la filosofia di un’Italia indipendente e che tuttavia coopera con tutti i Paesi del mondo in una situazione in cui si sciolgono le frontiere. Totalmente d’accordo in questa visione, anche se non d’accordo – purtroppo – nella prospettiva di una sua immediata o rapida attuazione; ma se le frontiere si sciolgono e si supera la propria indipendenza e sovranità nazionale, e si va verso la Federazione europea o mondiale, si vada tutti e non solo noi. Non possiamo dare solo noi l’esempio.

Potremmo anche dare l’esempio per primi, ma solo in una determinata situazione in cui avessimo la certezza che gli altri ci seguiranno; ma non quando tutti fanno l’opposto.

Noi dobbiamo avere dunque un atteggiamento tale, da provare a tutti che le decisioni fondamentali della nostra politica estera saranno prese indipendentemente da ogni pressione; e siccome è emerso il sospetto che pressioni vi siano state, proprio per questo non dobbiamo ratificare. Avrei voluto che l’onorevole De Gasperi, quando si recò in America, avesse avuto un atteggiamento altrettanto fermo nei confronti di Byrnes e Truman come lo ebbe a Parigi, dove tenne coraggiosamente testa a Molotov. Byrnes, accogliendolo, nel brindisi, diede invece come un dato di fatto acquisito la nostra firma (allora si trattava di firma).

Purtroppo il Trattato è costantemente peggiorato da quando se ne discusse la prima volta a Londra nel 1945. A Londra si ammise il principio etnico. È vero che non bisognava farsi molte illusioni in proposito. Alcuni di noi – ricordo il compianto Adolfo Omodeo – misero in guardia l’opinione italiana e il Governo stesso contro la sopravalutazione della stabilità, del risultato acquisito. Ad ogni modo il risultato c’era, anche se più fragile di quanto si immaginasse da parte dello stesso Governo, anche se si sopravvalutò il risultato e forse per averlo sopravvalutato non si chiese il plebiscito.

Dal principio etnico si passa alla annessione di tutta l’Istria alla Jugoslavia. Anche questo senza che ciò sia conforme all’articolo 89 del Trattato. È vero che gli anglo-americani sono ancora a Pola, ma è anche vero che gli italiani non ci sono più, e che l’amministrazione di Pola praticamente passa già in mano jugoslava. Continua a peggiorare la situazione a Trieste, che il principio etnico darebbe indubbiamente all’Italia. L’onorevole De Gasperi riteneva nel 1945 che l’internazionalizzazione valesse solo per il porto. Io non mi feci illusioni e lo scrissi sui giornali; ma poi naturalmente sostenni le speranze dell’onorevole De Gasperi. Si passa dunque allo Stato libero di Trieste. E poi non c’è più nemmeno il disgraziato Stato libero di Trieste, che era meglio di niente, perché pur staccando Trieste dall’Italia, doveva avere una Costituzione che assicurava la sua italianità. Lo Stato libero di Trieste non c’è più. C’è una occupazione militare che può oggi essere di questo colore e domani di quell’altro. Nessuna garanzia per Trieste.

Anche la questione della smilitarizzazione delle frontiere diventa più grave, man mano che la situazione internazionale si acuisce.

Per i rapporti economici miglioramento sostanziale non c’è; e ove c’è, non è ancora garantito, non è reso indipendente dalle pressioni; la nostra politica estera ed economica è ancora tale, che se qualche potente dice di sì, dobbiamo dire di sì; se dice di no, dobbiamo dire di no. Ancora non si tratta dunque di garanzie economiche, ma di cosa più modesta.

Garanzie in generale sono quelle che si hanno indipendentemente da un orientamento di politica estera. Un accordo economico veramente forte è quello che è indipendente da quello che sarà domani l’indirizzo politico estero nostro. Credo che gli errori del Governo sulla questione del Trattato provengano dal punto di partenza che non è stato bene impostato da parte del Governo, e devo dire neppure da parte dei partiti di sinistra, che oggi non fanno più parte del Governo, ma che ne fecero parte fino a poco fa.

Si ammise troppo facilmente la nostra possibilità di vivere, di prosperare, firmando un Trattato incluso in un mondo diviso in zone di influenza. Dovevamo invece metterci fin dal principio in un atteggiamento di resistenza, per non essere assegnati fatalmente ad una zona di influenza. Per me oggi è indifferente l’ideologia che si propaganda, il colore della zona a cui ci assegnano; ma fatto sta che una Potenza come l’Italia, che non ha forze militari, ma tuttavia è grande potenza, in una situazione in cui il mondo è diviso in zone di influenza ha sempre la peggio. Dunque l’Italia, come ha spiegato l’onorevole Croce e come spiegherà forse l’onorevole Orlando, ha interesse di resistere alle zone di influenza.

E anche nella questione della Germania; non posso essere d’accordo né con l’onorevole Togliatti né con l’onorevole Sforza. Non con Togliatti, perché egli sposa una tesi vendicativa francese che, a mio giudizio, è sbagliata. L’Italia ha interesse a che il carbone e l’acciaio tedesco sia prodotto nella più larga misura possibile e che il mercato tedesco rifiorisca e che la Germania ridiventi indipendente, perché l’indipendenza della Germania assicura l’indipendenza dell’Italia.

Questo fatto di interdipendenza esiste, malgrado che con la Germania ci siamo trovati due volte l’una contro l’altra in questo secolo e anche se diciamo di esserci trovati dieci volte l’una contro l’altra dai tempi del Medioevo. Esiste un’Europa solo se l’Italia e la Germania e la Francia sono tutte in piedi, se vivono e fioriscono.

Accettare perciò a cuore leggero l’articolo 18 del Trattato, che impegna noi a priori di riconoscere il trattamento che sarà imposto alla Germania, non è giusto; io purtroppo non conosco alcun atteggiamento di resistenza del Governo a questo articolo 18. Perciò dico che l’atteggiamento dell’onorevole Sforza non mi trova consenziente. Anche questa è una questione da soppesare prima di ratificare, perché abbiamo bisogno dell’amicizia del popolo francese, del popolo inglese, del popolo statunitense, del popolo russo, del popolo jugoslavo, ma avremo anche bisogno della amicizia del popolo tedesco. Se si vuole fare una politica popolare bisogna tener conto di tutti i popoli d’Europa. L’onorevole Sforza ha fatto un accenno alla necessità della ratifica del Trattato nello spirito di democrazia popolare che anima l’Europa e l’Italia. Speriamo che finisca con l’animarli; per il momento non prevale questo spirito di democrazia popolare in Europa. Non prevale per la volontà dei vincitori e forse anche per l’immaturità dei vinti.

La questione della ratifica o meno dovrebbe essere presentata qui da un Governo che non fosse di parte. È questa una questione di cui le generazioni future terranno conto. Trattati di questo genere, trattati di petizione, trattati duri imposti dai vincitori ai vinti, sono presentati ai rispettivi Parlamenti o da Governi di funzionari e di tecnici, oppure da Governi di larga coalizione e non da Governi di un solo colore. Questa è l’esperienza che voi ricaverete da molti dei casi storici che avete citato, di Paesi che dopo una sconfitta hanno firmato. Se così non fate, cadete nell’errore delle destre in Francia dopo il 1870, dove – come denunciò Gambetta – fu un Governo di colore a presentare il Trattato per la ratifica, ed era un Governo che si illudeva di avere la possibilità di essere conservatore e pacifista e invece produsse lo scoppio – non immediato ma fatale – dello sciovinismo nazionalista e della volontà di rivincita.

Tendere la corda in un determinato senso provoca sempre la reazione in senso inverso. Non bisogna tendere la corda, quando si hanno problemi nazionali di questo genere in discussione. La ratifica suppone, se mai, un Governo di tecnici e di funzionari o un Governo di larga coalizione. In tal caso soltanto si riesce ad ottenere e creare un atteggiamento di concordia nazionale.

Onorevole Sforza, lei ha accennato al Governo Giolitti che fu rovesciato dalla campagna nazionalista. Però il Governo Giolitti non fu rovesciato solo per colpe altrui. C’erano anche gli errori di politica interna ed estera di quel Governo, e senza quegli errori il fascismo non si sarebbe sviluppato. Noi non riavremo il fascismo. Non c’è oggi nessun pericolo di rivederlo ed al riguardo io non ho preoccupazioni; ma possiamo avere ancora situazioni reazionarie diverse dal fascismo, ma ugualmente dannose ed ugualmente contrarie alla libertà e alla democrazia sociale e popolare. Onorevole Sforza, bisogna che il Governo, il quale prende posizione davanti a questo Trattato, per accettarlo o rifiutarlo, sia immune da ogni critica al riguardo.

Per anni noi cammineremo sull’orlo di una strada pericolosa, per colpa delle grandi Potenze vincitrici, se volete della situazione economica e politica del mondo intero. Ne usciremo, speriamo, forse attraverso una intesa russo-americana, forse in un altro modo; non lo sappiamo.

Ad ogni modo, io concludo con la filosofia di Croce: è indispensabile un atteggiamento di durezza da parte dell’Italia lungo questo cammino pericoloso; occorre un atteggiamento di strenua difesa della nostra indipendenza, anche dalle pressioni più benevole e più paterne. Ci vuole anche la fede, ma soprattutto la fede nella capacità dei popoli e delle pubbliche opinioni di spezzare il sistema delle zone d’influenza, di obbligare i Governi ad un atteggiamento internazionale diverso da quello attuale.

Quella di Croce è anche la filosofia della democrazia socialista indipendente, che non ricade né nel massimalismo né nel riformismo. Per questo, nella situazione attuale, mi è impossibile dare il mio voto alla ratifica del Trattato (Applausi).

PRESIDENTE. La seduta è rinviata a domani, alle ore 10, per il seguito della discussione sull’imposta patrimoniale. Alle ore 17, in seduta pomeridiana, sarà proseguita la discussione sul Trattato di pace.

La seduta termina alle 24.10.

Ordine del giorno per le sedute di domani.

Alle ore 10:

Seguito della discussione sul disegno di legge:

Convalida del decreto legislativo del Capo provvisorio dello Stato in data 29 marzo 1947, n. 143, concernente l’istituzione di un’imposta straordinaria progressiva sul patrimonio. (14).

Alle ore 17:

Seguito della discussione sul disegno di legge:

Approvazione del Trattato di pace tra le Potenze Alleate ed Associate e l’Italia, firmato a Parigi il 10 febbraio 1947. (23).

ANTIMERIDIANA DI VENERDÌ 25 LUGLIO 1947

ASSEMBLEA COSTITUENTE

CCI.

SEDUTA ANTIMERIDIANA DI VENERDÌ 25 LUGLIO 1947

PRESIDENZA DEL VICEPRESIDENTE CONTI

INDICE

Congedo:

Presidente

Disegno di legge (Seguilo della discussione):

Convalida del decreto legislativo del Capo provvisorio dello Stato, in data 29 marzo 1947, n. 143, concernente l’istituzione di una imposta straordinaria progressiva sul patrimonio. (14).

Presidente

La Malfa, Relatore

Marinaro

Corbino

Cannizzo

Pella, Ministro delle finanze

Tozzi Condivi

De Vita

Scoccimarro

Scoca

Dugoni

Pesenti

Foa

Perlingieri

Micheli

Caroleo

Bertone

Cappi

Zerbi

Molinelli

Condorelli

Togliatti

Votazione nominale:

Presidente

Risultato della votazione nominale:

Presidente

La seduta comincia alle 10.

SCHIRATTI, Segretario, legge il processo verbale della precedente seduta antimeridiana.

(È approvato).

Congedo.

PRESIDENTE. Comunico che ha chiesto congedo il deputato Mazza.

(È concesso).

Seguito della discussione del disegno di legge: Convalida del decreto legislativo del Capo Provvisorio dello Stato in data 29 marzo 1947, n. 143, concernente l’istituzione di una imposta straordinaria progressiva sul patrimonio. (14).

PRESIDENTE. L’ordine del giorno reca il seguito della discussione sul disegno di legge: Convalida del decreto legislativo del Capo provvisorio dello Stato in data 29 marzo 1947, n. 143, concernente l’istituzione di una imposta straordinaria progressiva sul patrimonio.

Proseguendo nella discussione degli articoli rimasti in sospeso, dovremmo riprendere l’esame dell’articolo 2. Chiedo all’onorevole Relatore a qual punto sono i lavori della Commissione in merito all’articolo stesso.

LA MALFA, Relatore. Questa mattina la Commissione si è riunita. Sull’articolo 2, in linea di principio, essa aveva comunque già deciso a maggioranza di accettare l’emendamento Castelli Edgardo, Scoca ed altri. La Commissione non avrebbe quindi nulla in contrario ad iniziare la discussione con l’articolo 2. Poiché tuttavia l’Aula è in questo momento pressoché deserta, data l’importanza che riveste l’articolo, proporrei, se l’onorevole Presidente non ha nulla in contrario, di iniziare questa mattina i nostri lavori dall’articolo 3, salvo poi a ritornare sull’articolo 2, se la situazione numerica dell’Assemblea lo consiglierà.

MARINARO. Chiedo di parlare.

PRESIDENTE. Ne ha facoltà.

MARINARO. Dato che il Presidente della Commissione propone di incominciare l’esame dell’articolo 3, lasciando indietro l’articolo 2, proporrei senz’altro di approvare una sospensiva sull’articolo 2. Come infatti l’onorevole Presidente della Commissione sa…

PRESIDENTE. Ma l’onorevole Relatore, onorevole Marinaro, propone non già di rimandare, ma di sospendere momentaneamente.

MARINARO. Ma se fossimo d’accordo fino da questo momento…

PRESIDENTE. Ma lei comprende che una proposta di sospensiva riveste un carattere di molta importanza.

SCOCCIMARRO. Si tranquillizzi, onorevole Marinaro, perché non saremmo d’accordo noi.

PRESIDENTE. Se non vi sono altre osservazioni, l’esame dell’articolo 2 è momentaneamente sospeso. Si passa dunque all’articolo 3. Se ne dia lettura nel testo proposto dalla Commissione.

SCHIRATTI, Segretario, legge:

«Ai fini dell’imposta straordinaria, si considerano nel patrimonio del marito i beni acquistati dalla moglie, a titolo oneroso, dopo il 28 marzo 1937.

«È fatta eccezione per i beni per i quali sia dimostrato che l’acquisto rappresenta trasformazione di beni posseduti dalla moglie anteriormente al matrimonio o acquisiti successivamente a titolo gratuito, ovvero investimento di redditi propri, conseguiti durante il matrimonio, o fondi provenienti da accensione di debiti.

«Ai medesimi fini, si considerano nei patrimonio degli ascendenti i beni da essi ceduti ai discendenti dopo il 28 marzo 1937, quando la cessione dipenda:

  1. a) da trasferimenti a titolo gratuito, esclusi quelli effettuati per costituzione di dote in occasione di matrimonio o per costituzione di patrimonio ecclesiastico;
  2. b) da trasferimenti a titolo oneroso, salvo non sia dimostrato che l’acquisto rappresenta trasformazione di beni posseduti dall’acquirente anteriormente alla data predetta o acquisti successivamente a titolo gratuito, ovvero investimento di redditi propri o di fondi provenienti da accensioni di debiti.

«Quando si fa luogo al cumulo previsto nel presente articolo, il contribuente ha il diritto di rivalersi, verso gli intestatari dei beni cumulati, della quota proporzionale d’imposta afferente i beni medesimi».

PRESIDENTE. A questo articolo sono stati presentati e svolti due emendamenti: uno dall’onorevole Adonnino e uno dall’onorevole Condorelli, rispettivamente del seguente tenore:

«All’ultimo comma, aggiungere:

«Quando si fa luogo al cumulo previsto nel presente articolo, la quota proporzionale di imposta afferente i beni ceduti farà carico, mediante il rimborso, all’intestatario fino alla somma che egli avrebbe pagato per il bene ceduto ove esso fosse stato compreso nel suo patrimonio, e, per il di più, al contribuente e all’intestatario in proporzione della ripartizione del valore del patrimonio originario».

Adonnino.

«Prima dell’ultimo comma inserire il seguente:

«Il cumulo non si opera ove prima del 28 marzo 1947 i beni siano stati ulteriormente trasferiti a soggetti diversi dal coniuge e dai discendenti del primo cedente».

«Alla fine dell’ultimo comma aggiungere: e non oltre l’importo della quota proporzionale di imposta che il cessionario avrebbe dovuto pagare se i beni stessi fossero stati computati nel suo patrimonio».

Condorelli.

Chiedo al Relatore di esprimere il parere della Commissione su questi emendamenti.

LA MALFA, Relatore. Gli emendamenti degli onorevoli Adonnino e Condorelli riguardavano la facoltà del contribuente di rivalersi verso gli intestatari dei beni cumulati e facevano eccezione al principio della ripartizione proporzionale dell’imposta fra i discendenti.

La Commissione ha esaminato attentamente il problema in tutti i suoi aspetti, ma non ha trovato una disposizione migliore di quella che è già nel testo governativo: qualsiasi altra soluzione – compresa quella prospettata dagli onorevoli Adonnino e Condorelli – presenta inconvenienti molto gravi, e possibilità di sperequazione tra i vari discendenti. La norma del testo governativo, invece, stabilendo la possibilità di ripartizione proporzionale della quota, rispetta in un certo senso la volontà dell’ascendente che, dividendo il suo patrimonio fra i discendenti in proporzioni diverse, ha voluto che il rapporto patrimoniale fra i discendenti fosse quello.

Ora, con una quota proporzionale d’imposta si mantiene quel rapporto. Faccio un esempio pratico; se un figlio ha trecento milioni di lire e un altro cento milioni, con un carico tributario – supponiamo – su un patrimonio complessivo di un miliardo, del 50 per cento, applicando la quota proporzionale, il figlio che ha avuto trecento milioni se li vede ridurre a centocinquanta e quello che ha avuto cento milioni, a cinquanta. Questa norma fa sì che i rapporti patrimoniali tra ascendente e discendenti si mantengano nella stessa proporzione dopo l’applicazione dell’imposta.

Credo che, non avendo la possibilità di applicare un principio più opportuno, sia da mantenere almeno il criterio di rispettare la volontà dell’ascendente.

Per quanto riguarda poi l’emendamento Condorelli la Commissione manifesta parere contrario. Essa si è infatti prospettati due casi: ha supposto che il discendente avesse ceduto a titolo oneroso il bene ad un terzo; al posto del bene che dovrebbe essere cumulato si sostituisce un controvalore del bene stesso, e quindi si cumula il controvalore. Se, invece, il discendente ha ceduto ad un suo discendente, supponiamo, il bene a titolo gratuito, per donazione, ecc., si può far risalire questo bene all’ascendente primo. E quindi, in un certo senso, il principio del cumulo affermato nell’articolo bisogna portarlo fino alle estreme conseguenze. La Commissione non ha visto che avvenga, né il caso di duplicazione dell’imposta, né il caso di aggravamento dell’imposta stessa.

Per queste ragioni ha respinto l’emendamento Condorelli.

CORBINO. Chiedo di parlare.

PRESIDENTE. Ne ha facoltà.

CORBINO. Volevo soltanto chiarire questo: probabilmente il primo emendamento Condorelli si sarebbe potuto prendere in maggiore considerazione se avesse detto «siano stati ulteriormente trasferiti a titolo oneroso», perché si andrebbe incontro a questa ipotesi: il padre cede il bene al figlio; il figlio lo ha venduto e non ha più niente, e, quindi, il padre non ha più possibilità di rivalsa dell’imposta.

LA MALFA, Relatore. Chiedo di parlare.

PRESIDENTE. Ne ha facoltà.

LA MALFA, Relatore. Questo caso è stato considerato dalla Commissione; ma è un caso generale, che rientra cioè in una disposizione generale, mi pare nell’articolo 24. Se un contribuente ha ceduto un bene o lo ha consumato, evidentemente non può essere tassato. Ma non è una disposizione specifica per il fatto del cumulo. Ogni volta che un contribuente ha venduto un cespite patrimoniale e per ragioni di consumo non ha potuto mantenerlo, il controvalore la finanza non lo tassa. Ma questo è un principio che non riguarda solo il cumulo. In qualsiasi caso un cespite sia venuto meno, si dà luogo all’esenzione rispetto a quel cespite. Senza introdurre qui una disposizione specifica (e vorrei sentire in proposito l’interpretazione del Governo) è evidente che quando un contribuente in buona fede dimostra di aver consumato un cespite, la Finanza non può fiscalmente indagare su questa situazione.

PRESIDENTE. Ha chiesto di parlare l’onorevole Cannizzo. Ne ha facoltà.

CANNIZZO. Potrei obiettare all’onorevole La Malfa questo: che va bene quello che dice lui, ma la prova del consumo in questo caso dovrà darla il genitore e non il figlio. Si supponga che il padre abbia ceduto un bene al figlio ed il figlio l’abbia venduto. Giuoca nei riguardi del figlio la presunzione che il controvalore sia in possesso del figlio. Però il padre potrebbe non essere in condizione di dare la prova del consumo perché il padre può ignorare quanto concerne il figlio. Sono due cose distinte ed è auspicabile che si definisca bene questo punto.

LA MALFA, Relatore. Io credo che la prova del consumo la debba dare sempre il figlio. Ad ogni modo, nelle istruzioni, questo potrà essere oggetto di una disposizione specifica. Credo che i processi verbali di tutte le nostre discussioni debbano essere trasmessi al Ministero perché è bene che la Finanza dia tassative istruzioni in questa materia. Ma è inutile farne oggetto di disposizione di legge.

PRESIDENTE. Ha facoltà di parlare l’onorevole Ministro.

PELLA, Ministro delle finanze. Per brevità mi associo alle conclusioni dell’onorevole Relatore e chiedo la conferma del testo che è stato posto in discussione.

PRESIDENTE. Ha facoltà di parlare il Relatore.

LA MALFA, Relatore. La Commissione proporrebbe solo, nell’ultimo comma del testo governativo dell’articolo 3, di modificare la dizione: «ha il diritto di rivalersi» in quella di: «può rivalersi».

PELLA, Ministro delle finanze. Le due espressioni mi sembrano equivalenti, ma non ho difficoltà ad adottare la formula «può».

TOZZI CONDIVI. Chiedo di parlare.

PRESIDENTE. Ne ha facoltà.

TOZZI CONDIVI. Sempre agli effetti del cumulo, io crederei forse opportuno per la Finanza che al terzo capoverso, invece di dire: «Ai medesimi fini, si considerano nel patrimonio degli ascendenti», si dicesse: «Ai medesimi fini, si possono considerare». E ciò per un caso che può verificarsi ai danni dello Stato. Facciamo il caso che il genitore abbia un patrimonio di 3 milioni e che ne ceda 2 al figlio, che ne ha 2 per conto suo. Il figlio ne avrebbe così 4. Se, con la presunzione, 2 ritornano al padre, non paga il figlio né il padre. Il figlio può infatti dire: io posseggo 2 milioni e non pago niente. Ma il padre ne possiede 3 e non paga neanche lui. Quindi la Finanza viene a perdere. Invece la Finanza potrebbe tassare il figlio.

LA MALFA, Relatore. Comprendo l’obiezione, ma credo che questo principio ci porterebbe a dare troppa licenza alla Finanza. Se si ritiene necessario fare il cumulo, allora bisogna lasciare che tutte le conseguenze abbiano luogo, anche se sono a sfavore della Finanza. Non si può rendere questo istituto così elastico.

PELLA, Ministro delle finanze. Apprezzo la preoccupazione del collega, ma devo chiedere anche qui la conferma del testo governativo.

PRESIDENTE. Pongo allora ai voti l’emendamento dell’onorevole Adonnino.

(Non è approvato)

PRESIDENTE. Pongo ai voti il primo emendamento dell’onorevole Condorelli.

(Non è approvato).

Pongo in votazione il secondo emendamento dell’onorevole Condorelli.

(Non è approvato).

Dovrò ora porre ai voti la modificazione proposta dalla Commissione all’ultimo capoverso dell’articolo 3: sostituire alle parole «ha il diritto» la parola «può».

DE VITA. Chiedo di parlare.

PRESIDENTE. Ne ha facoltà.

DE VITA. Pregherei la Commissione di mantenere ferma la formula del Governo. Se mettiamo «può», diventa una facoltà; e l’esercizio di una facoltà non è trasmissibile agli eredi.

LA MALFA, Relatore. Dal punto di vista della successione l’obiezione dell’onorevole De Vita può avere qualche fondamento. Se l’ascendente non ha esercitato questa facoltà possono sorgere delle difficoltà di questo genere. Allora forse conviene lasciare «ha il diritto».

PRESIDENTE. Il Governo?

PELLA, Ministro delle finanze. Ho manifestato la mia indifferenza in materia.

PRESIDENTE. Allora, poiché la Commissione ritira il suo emendamento, l’articolo 3 si intende approvato definitivamente nel testo proposto.

Passiamo all’articolo 8, anch’esso rimasto in sospeso: se ne dia lettura nel testo della Commissione.

SCHIRATTI, Segretario, legge:

«Sono esenti dall’imposta straordinaria sul patrimonio i seguenti cespiti:

1°) i capitali corrispondenti a contributi che, per legge o per contratto, siano stati versati a Casse di previdenza, o di soccorso, istituite contro i rischi di malattia, infortuni, vecchiaia ed invalidità; a Casse di previdenza o Casse di pensione per gli impiegati privati, od a Casse di pensione per vedove o orfani, contemplate alle lettere c) ed f) dell’articolo 2 del regio decreto-legge 29 aprile 1923, n. 966;

2°) i capitali corrispondenti a rendite vitalizie o ad altre rendite di carattere temporaneo;

3°) il prezzo di riscatto delle somme assicurate sulla vita, fatta eccezione per i contratti di assicurazione a premio unico, stipulati dopo il 10 giugno 1940;

4°) le chiese ed ogni altro edificio destinato al culto, col mobilio, gli arredi sacri, i reliquari e qualunque altro oggetto di spettanza della chiesa;

5°) gli immobili dichiarati esenti da tributi ordinari e straordinari in forza dell’articolo 16 del trattato tra la Santa Sede e l’Italia, reso esecutivo con la legge 27 maggio 1929, n. 810;

6°) i titoli del Prestito della Ricostruzione autorizzato con decreto legislativo del Capo provvisorio dello Stato 26 ottobre 1946, n. 262, che non siano stati convertiti in titoli 5 per cento;

7°) le cose mobili, che presentano interesse artistico, storico, archeologico o etnografico, quando facciano parte di collezioni o serie notificate ai sensi dell’articolo 5 della legge 1° giugno 1939, n. 1089, oppure siano soggette a pubblico uso o godimento;

8°) le rendite dei benefici ecclesiastici maggiori e minori».

PRESIDENTE. Al n. 8 dell’articolo 8 è stato proposto questo emendamento:

«Sostituire il n. 8°) col seguente:

le rendite dei benefici ecclesiastici maggiori e minori che abbiano diritto a congrua o che, con la detrazione di imposta, rientrino nelle categorie aventi diritto a congrua.

«Scoccimarro, Dugoni, Pesenti, Maffi, Corbi, Farina, Bardini, Moranino, D’Onofrio, Barontini Anelito».

L’emendamento è stato già svolto.

La Commissione ha facoltà di esporre il suo parere.

LA MALFA, Relatore. L’emendamento dell’onorevole Scoccimarro ed altri colleghi riproduce una disposizione – direi, quasi, negli stessi termini – che era contenuta nella legge sull’imposta patrimoniale del 1922.

Quella legge tassava i benefici ecclesiastici: il che è esposto nella relazione, dove c’è una nota che illustra specificamente questo punto. Tuttavia quella legge distingueva i benefici ecclesiastici in nuda proprietà e usufrutto e considerava le rendite dei benefici ecclesiastici come usufrutto.

Naturalmente la dizione del testo governativo è molto più larga perché esenta tutte le rendite dei benefici ecclesiastici, rientrino o non rientrino nell’istituto della congrua. La Commissione ha discusso questo emendamento e, a maggioranza, l’ha respinto.

L’argomento della maggioranza è che anche quando le rendite dei benefici ecclesiastici non rientrano nell’istituto della congrua, per disposizione interna della Chiesa, le rendite maggiori servono a coprire necessità, a colmare o completare le rendite minori, cioè c’è una compensazione, nell’ambito dei beni ecclesiastici, fra rendite maggiori, più pingui, e rendite minori. La maggioranza della Commissione si è espressa dunque in senso contrario all’emendamento.

PRESIDENTE. L’onorevole Ministro ha facoltà di esporre il suo parere.

PELLA, Ministro delle finanze. Vorrei, per spiegare il parere del Governo contrario all’emendamento, aggiungere qualche altra considerazione a quelle riassunte dall’onorevole Relatore, considerazioni che si riallacciano al sistema di esenzioni contemplate dall’articolo 8.

Dobbiamo toner presente che, per il numero 2 dell’articolo 8, sono esenti dall’imposta straordinaria i capitali corrispondenti a rendite vitalizie o ad altre rendite di carattere temporaneo. Orbene, tali rendite possono avere provenienza diversissima, e derivare sia da puro lavoro, sia da puro capitale. Al numero 2 è prevista per tutte l’esenzione, anche per quelle che provengono da puro capitale. Il numero 8, in definitiva, estende il principio dell’esenzione, indicato nel n. 2, ai capitali corrispondenti ad una determinata categoria di rendite, quelle che provengono dai benefici ecclesiastici. Le rendite dei benefici ecclesiastici rappresentano la remunerazione di quella altissima attività spirituale che svolge l’investito del beneficio. Il Governo non vedrebbe per quale ragione, dopo avere esentato le rendite che derivano da puro capitale, non si dovessero esentare le rendite dei benefici ecclesiastici maggiori o minori. Per un senso di perequazione, sul piano morale, il Governo aggiunge la cennata considerazione per sostenere il suo parere contrario all’emendamento dell’onorevole Scoccimarro ed altri.

SCOCCIMARRO. Chiedo di parlare.

PRESIDENTE. Lei ha già svolto il suo emendamento; la prego pertanto di limitarsi ad una breve dichiarazione.

SCOCCIMARRO. Desidero far notare che, nonostante le dichiarazioni del Relatore e dell’onorevole Ministro, io mantengo l’emendamento per queste ragioni: 1°) nell’articolo 8, mentre al numero 2 si parla di capitali corrispondenti a rendite, al numero 8°) si parla invece solo di rendite; quindi non si può per analogia porre sullo stesso piano i due punti; 2°) non v’è ragione per la quale su questo problema la legge attuale debba essere più generosa di quella del 1920. Penso che se ragioni di mutamento ci fossero, sarebbero da attuarsi piuttosto in senso inverso date le maggiori necessità e i maggiori bisogni che oggi ha il Paese; 3°) l’argomento portato in sede di Commissione, che cioè la Chiesa parifica le rendite dei benefici ecclesiastici, non può essere una ragione sufficiente per noi, perché quella è una misura interna che oggi esiste e domani potrebbe non esistere. Essa può, caso mai, dare al Ministro delle finanze la possibilità di una particolare valutazione delle rendite che derivano da tale conguaglio. Nella legge bisogna prescindere dalle disposizioni interne della Chiesa. E non mi pare nemmeno giustificata la ragione che si richiama all’attività spirituale del titolare delle rendite, perché qui si tratta della constatazione oggettiva di un reddito e non, in generale, dell’attività di chi usufruisce e gode di quel reddito: se si dovesse accettare il criterio del Ministro, allora tutta la nostra legislazione in materia, anche quella che riguarda altre imposte, dovrebbe essere modificata.

Riassumendo, io mantengo l’emendamento: 1°) perché esso corrisponde alle disposizioni esistenti nelle leggi finanziarie su questi problemi; 2°) perché non è opportuno che per l’attuale imposta straordinaria vi siano norme più lievi di quelle del 1920, dato che oggi la situazione del Paese è più grave ed esige maggiori sacrifici; 3°) perché, infine, ogni disposizione interna della Chiesa non può valere in questa sede mentre, se mai, può valere in sede di applicazione della legge per i criteri che il Ministro intenderà applicare in merito.

PRESIDENTE. Ha chiesto di parlare l’onorevole Relatore. Ne ha facoltà.

LA MALFA, Relatore. Io ho espresso, com’era mio dovere, il parere della maggioranza della Commissione. Dichiaro che, personalmente, voterò l’emendamento Scoccimarro.

SCOCA. Chiedo di parlare per dichiarazione di voto.

PRESIDENTE. Ne ha facoltà.

SCOCA. Io voterò contro l’emendamento Scoccimarro, innanzitutto per una ragione tecnica. Mentre si tratta di imposta sul patrimonio, cioè di imposta sul capitale, nell’emendamento si fa menzione di rendite dei benefici ecclesiastici. È la stessa cosa come si dicesse che dall’imposta di cui ci occupiamo fossero esenti gli stipendi degli impiegati dello Stato o degli impiegati privati. Perché evidentemente le rendite dei benefici ecclesiastici sono il frutto del capitale e non il capitale. È la stessa cosa come se si dicesse che il frutto di certi determinati beni, e non i beni capitali, sono esenti da questa imposta che contempla come oggetto di imposizione il capitale, ossia il patrimonio.

A parte ciò, io ritengo che l’esenzione qui stabilita non abbia una ragion d’essere specifica in questa legge, inquantoché incide in quella norma del Concordato, che tutti sappiamo, per cui il fine di culto e di religione è equiparato al fine di assistenza e di beneficenza.

DUGONI. Chiedo di parlare per dichiarazione di voto.

PRESIDENTE. Ne ha facoltà.

DUGONI. Noi voteremo a favore dell’emendamento Scoccimarro per una questione di giustizia fiscale.

Noi crediamo sia principio veramente insuperabile che tutti i patrimoni, i quali non siano sottratti, per la destinazione, per effetto del Trattato del Laterano, alla legge fiscale italiana, devono rientrare nella normalità della tassazione.

Notiamo anche che, secondo noi, non conviene alla democrazia cristiana di prendere posizione a favore di specifiche esenzioni, che contrastano con i principî del diritto finanziario italiano. (Proteste al centro). E quindi, per rimanere fedeli alla questione di principio della eguaglianza di tutti i cittadini di fronte alla legge fiscale, noi voteremo a favore del proposto emendamento.

PESENTI. Chiedo di parlare per dichiarazione di voto.

PRESIDENTE. Lei, onorevole Pesenti, è firmatario dell’emendamento Scoccimarro, che è stato svolto abbondantemente.

PESENTI. Siccome l’onorevole Scoca ha motivato il suo voto contrario all’emendamento con due argomentazioni, che non ritengo giuste, è necessario che io risponda.

PRESIDENTE. Ha facoltà di parlare.

PESENTI. L’onorevole Scoca ha affermato che qui nominare le rendite è un errore, in quanto che sarebbe come nominare stipendi e salari. E allora è chiaro che non ci dovrebbe essere esenzione, e non dovrebbero essere nominate. Se, invece, il nominarle ha un significato, allora siano colpiti i benefici e non le rendite che ne derivano.

Quanto alla questione che questi benefici sarebbero compresi nel Concordato, è opinione non soltanto mia, ma di parecchi colleghi democristiani, che non siano compresi nel Concordato. Se eventualmente lo fossero, non ci sarebbe bisogno di nominarli particolarmente nella esenzione stabilita all’articolo 8.

PRESIDENTE. Pongo ai voti l’emendamento all’articolo 8 proposto dall’onorevole Scoccimarro ed altri.

(Non è approvato).

L’articolo 8 si intende quindi approvato nel testo proposto dalla Commissione.

Passiamo all’articolo 12. Se ne dia lettura nel testo proposto dalla Commissione.

SCHIRATTI, Segretario, legge:

«Contro le valutazioni dei terreni, eseguite dagli Uffici distrettuali delle imposte dirette con i coefficienti indicati negli articoli precedenti, i contribuenti possono ricorrere alle Commissioni amministrative per questioni riflettenti la non corrispondenza dei fondi alla qualità di coltura risultante dal catasto. Gli Uffici distrettuali delle imposte possono, a loro volta, rettificare le risultanze catastali, quando esse non corrispondono alla qualità di coltura, salvo il diritto del contribuente di ricorrere, contro la rettifica, alle Commissioni suddette.

«Contro le valutazioni dei fabbricati eseguite dagli Uffici distrettuali delle imposte con i coefficienti indicati negli articoli precedenti, i contribuenti possono, ai soli fini della imposta straordinaria sul patrimonio, ricorrere alle Commissioni amministrative per questioni riflettenti l’assegnazione del fabbricato alla categoria o alla classe, quando la destinazione o le caratteristiche di esso siano, in atto, notevolmente diverse da quelle dell’unità tipo, approvate dalla Commissione censuaria centrale come rappresentative della categoria o classe cui il fabbricato è stato assegnato».

PRESIDENTE. A questo articolo gli onorevoli Foa, Pesenti, Scoccimarro e Valiani hanno proposto il seguente emendamento:

«Aggiungere il seguente comma:

«Qualora il valore dei fabbricati risultante dall’applicazione dei coefficienti di cui all’articolo 9 sia superiore di almeno un quinto al valore medio effettivo del periodo 1° luglio 1946-31 marzo 1947, il contribuente può chiedere all’ufficio distrettuale delle imposte l’accertamento del valore effettivo e l’applicazione dell’imposta in base ad esso. Contro l’accertamento dell’ufficio è concesso il ricorso alle Commissioni amministrative. Il ricorso non sospende l’iscrizione a ruolo dell’imposta».

L’emendamento è stato già svolto.

L’onorevole Relatore ha facoltà di esprimere il parere della Commissione in proposito.

LA MALFA, Relatore. La Commissione prega l’onorevole Foa di ritirare questo emendamento, perché esso complicherebbe le cose.

FOA. Lo ritiro.

PRESIDENTE. Dato che l’unico emendamento all’articolo 12 è stato ritirato, questo articolo s’intende approvato nella formulazione di cui è stata data testé lettura.

Passiamo all’articolo 15, del quale pure era rimasto sospeso l’esame. Se ne dia lettura, nel testo formulato dalla Commissione.

SCHIRATTI, Segretario, legge:

«I censi, canoni, livelli ed altre prestazioni di carattere perpetuo o enfiteutico, compresi i canoni da colonia perpetua, si tengono in conto in ragione del 100 per 5 del rispettivo ammontare, a meno che, per convenzione o per legge, non debbasi applicare, per il riscatto, un saggio diverso.

«Nel caso in cui il canone sia stabilito in natura, il suo valore si determina in base alla media dei prezzi del periodo 1° luglio 1946-31 marzo 1947».

PRESIDENTE. Su questo articolo è stato presentato il seguente emendamento dall’onorevole Cifaldi:

«Al secondo comma, dopo la parola: media, aggiungere: decennale».

L’onorevole Cifaldi non è presente.

CANNIZZO. Faccio mio l’emendamento.

PERLINGIERI. Anch’io.

PRESIDENTE. Sta bene. L’onorevole Relatore ha facoltà di esprimere il parere della Commissione, in merito a questo emendamento.

LA MALFA, Relatore. La Commissione accetta l’emendamento Cifaldi, in questa dizione: «Il valore si determina in base alla media dei prezzi del periodo 1937-1946».

PRESIDENTE. Qual è l’avviso del Governo?

PELLA, Ministro delle finanze. Il Governo ricorda le ragioni che avevano suscitato qualche perplessità sulla bontà del testo ministeriale emendato dalla Commissione, in relazione alle norme di diritto comune per il riscatto di questi oneri. Perciò, allo scopo di non turbare l’armonia dei criteri di valutazione contemplati dalla legge, il Governo non dà parere favorevole al nuovo emendamento, anche perché ritiene che la regola della valutazione decennale, agli effetti del diritto comune, possa trovare una revisione in funzione delle variazioni monetarie che si sono verificate.

PRESIDENTE. Pongo ai voti l’emendamento Cifaldi nella formulazione indicata dalla Commissione.

(Non è approvato).

L’articolo 15 si intende quindi approvato nel primitivo testo proposto.

Passiamo all’articolo 19. Se ne dia lettura nel testo proposto dalla Commissione.

SCHIRATTI, Segretario, legge:

«Per i titoli indicati nell’articolo precedente, non quotati in borsa, nonché per le quote delle società assoggettate all’imposta di negoziazione, si adottano i valori medi del periodo 1° ottobre 1946-31 marzo 1947, accertati con la procedura relativa all’imposta di negoziazione.

«Quando si tratti di quote di partecipazione in società non soggette all’imposta di negoziazione, il valore è determinato valutando il patrimonio della società, ai sensi del precedente articolo 17, e ripartendone l’importo tra i soci in proporzione alle quote di spettanza di ciascuno».

PRESIDENTE. Avverto che per questo articolo, il Governo ha ora presentato un nuovo testo, così formulato:

«Per i titoli azionari non quotati in borsa, nonché per le quote di partecipazione in società ed enti, si adottano i valori medi del periodo 1° ottobre 1946-31 marzo 1947, tenendo conto dei criteri di valutazione valevoli per l’imposta di negoziazione, ed in ogni caso, per quanto riguarda le aziende industriali e commerciali, del valore dei vari elementi che ne compongono il patrimonio, ai sensi del precedente articolo 17.

«Gli Uffici distrettuali delle imposte dirette, entro il termine stabilito nel secondo comma dell’articolo 61 del presente decreto, notificano alle società od enti, aventi sede nella propria circoscrizione, l’accertamento del valore dei titoli e delle quote, relativamente al periodo di tempo indicato nel comma precedente. Contro tale accertamento la società od ente può, entro il termine perentorio di giorni trenta dalla notifica, presentare ricorso alla Commissione per la valutazione dei titoli, competente per territorio.

«Per la risoluzione delle vertenze si osservano le norme valevoli per l’accertamento dell’imposta di negoziazione; la rappresentanza dell’Amministrazione finanziaria è affidata, nel giudizio di primo grado, ad un funzionario dell’Amministrazione provinciale delle imposte dirette e, nel giudizio di secondo grado all’ispettore compartimentale per le imposte dirette competente per territorio.

«Il valore definitivamente accertato nei confronti della società od ente in conformità dei commi precedenti si assume come valore definitivo dei titoli e delle quote di partecipazione agli effetti dell’imposta straordinaria progressiva sul patrimonio dovuta dai singoli proprietari dei titoli e delle quote medesime.

«Per le obbligazioni, le cartelle di prestito ed ogni altro titolo di credito non quotato in borsa, si adotta la valutazione in base alla quale è stata liquidata l’imposta di negoziazione per l’anno 1947.

«Le disposizioni del presente articolo si applicano anche ai titoli azionari quotati in borsa, quando nel semestre 1° ottobre 1946-31 marzo 1947 non esistano almeno tre prezzi di compenso nella borsa in cui furono quotati».

Quale è il parere della Commissione?

LA MALFA, Relatore. La Commissione accetta il nuovo testo governativo.

PRESIDENTE. Al vecchio testo dell’articolo 19 era stato presentato un emendamento dall’onorevole Foa, insieme agli onorevoli Pesenti, Scoccimarro e Valiani. L’emendamento è del seguente tenore:

«Sostituirlo col seguente:

«Per le azioni non quotate in borsa e per le quote di partecipazione in società il valore è determinato valutando il patrimonio della società secondo le disposizioni del capo quarto della presente legge.

«Per le obbligazioni e gli altri titoli di credito non quotati in borsa si adottano i valori medi del periodo 1° ottobre 1946-31 marzo 1947 accertati con la procedura relativa alla imposta di negoziazione».

L’onorevole Foa mantiene l’emendamento?

FOA. Non abbiamo ragione di mantenere il nostro emendamento perché il Governo ha accettato, nel nuovo testo, i nostri criteri.

PRESIDENTE. Anche gli onorevoli De Mercurio e Mazzei, avevano presentato un emendamento al vecchio testo dell’articolo. L’emendamento era così formulato:

«Al primo comma, sostituire le parole: del periodo 1° ottobre 1946-31 marzo 1947, con le altre: dei trimestre 1° gennaio 1947-31 marzo 1947».

Poiché gli onorevoli De Mercurio e Mazzei non sono presenti, l’emendamento si intende decaduto.

LA MALFA. Relatore. Vorrei rivolgere una domanda all’onorevole Pella, circa l’ultimo comma dell’articolo 19. Noi abbiamo scelto, come periodo di valutazione dei titoli azionari, il trimestre gennaio-marzo, mentre qui si fa ancora riferimento al semestre ottobre-marzo. Credo che occorra rettificare.

PELLA, Ministro delle finanze. Non ho difficoltà a rettificare, riducendo ad un trimestre, qualora l’onorevole Relatore insista. Desideravo far presente, però, che quest’ultimo comma non riguarda il periodo di riferimento per la valutazione: è un periodo di tempo stabilito per esaminare se almeno vi sia stato un certo numero di prezzi di compenso perché le valutazioni possano avere un significato.

Tuttavia nessuna difficoltà, ripeto, ad accogliere la proposta.

SCOCCIMARRO. C’è anche il primo comma da rettificare, onorevole Ministro.

PELLA, Ministro delle finanze. D’accordo nel senso di armonizzare tutto l’articolo in sede di coordinamento, per fare riferimento al trimestre.

PRESIDENTE. Allora, l’articolo 19 si intende approvato nel nuovo testo proposto dal Governo, con riserva di procedere, in sede di coordinamento, alle rettifiche accennate.

LA MALFA, Relatore. Sostanzialmente, è l’accettazione dell’emendamento De Mercurio-Mazzei, cioè il riferimento al periodo 1° gennaio-31 marzo 1947.

PELLA, Ministro delle finanze. Avendo il Governo presentato un articolo sostitutivo, per cui non esiste più il testo precedente, mi sembra – da un punto di vista formale – che non abbia ragione di discutersi e di mettersi in votazione un emendamento che presuppone il vecchio testo.

Dal punto di vista sostanziale, rilevo che il nuovo testo, ratificato nella seduta odierna, contiene già il principio uniformato dell’emendamento dell’onorevole De Mercurio, per cui, ad avviso del Governo, questo emendamento non dovrebbe essere più posto in votazione.

PRESIDENTE. D’accordo.

MICHELI. Chiedo di parlare.

PRESIDENTE. Ne ha facoltà.

MICHELI. Volevo accennare, indipendentemente dalla questione particolare, alla questione di procedura, per ciò che si riferisce al testo nuovo con l’emendamento sostitutivo.

Noi abbiamo sostenuto in altra adunanza che il cambiamento di testo doveva essere considerato come emendamento sostitutivo; il Presidente, che reggeva allora le sorti della discussione, sosteneva invece il contrario ed applicò l’articolo 70, appunto perché riteneva che emendamento sostitutivo non fosse quello che il Presidente dei Settantacinque aveva proposto.

Questo dico perché vorrei che non passasse inosservata la prassi che il Presidente – certo, più che altro per economia di discussione – ha seguito allora, che sarebbe perfettamente in contradizione con quanto ha detto l’onorevole Ministro ora, ma che, del resto, nella pratica applicazione porta allo stesso risultato inquantoché gli emendamenti presentati non decadono, perché allora verrebbe a venir meno un diritto dei presentatori, ma devono essere ripresi e – per la virtù che il Presidente sa così bene disporre – trovar modo che vengano coordinati nella discussione, prima, e successivamente nel testo nuovo.

Ecco perché ho creduto opportuno che sorgesse una voce a ricordare come potrebbe essere anche erronea l’interpretazione– che allora si è voluta dare, eliminando l’emendamento sostitutivo per ricalcare invece un privilegio non mai esistito nel nostro Regolamento, a favore del testo nuovo.

PRESIDENTE. Si tratta di casi diversi, onorevole Micheli: là era la Commissione che presentava un testo, qua è invece il Governo. Comunque è stato qui praticato proprio quello che è il suo desiderio.

MICHELI. Sono d’accordo con lei, onorevole Presidente; le faccio però osservare che la differenza che ella ha posto in relazione al mio breve dire non ha ragione di essere, perché c’è per analogia la medesima situazione.

PRESIDENTE. Sta bene.

Si passa all’articolo 23. Se ne dia lettura nel testo proposto dalla Commissione.

SCHIRATTI, Segretario, legge:

«Quando la esistenza di un debito di qualsiasi natura, denunziato dal debitore agli effetti della detrazione dal proprio patrimonio, è negata dal creditore, il rapporto giuridico è dichiarato inesistente a tutti gli effetti, anche fra le parti.

«Per i crediti derivanti da rapporti con imprese commerciali e sempre che si tratti di atti inerenti all’esercizio dell’impresa, la esistenza del debito può venire provata in base alle scritture contabili dell’impresa creditrice regolarmente tenute.

«Quando si tratti di rapporti con aziende di credito indicate alle lettere a), b), c) e d), dell’articolo 5 del regio decreto-legge 12 marzo 1936, n. 375, convertito nella legge 7 marzo 1938, n. 141, ed al regio decreto-legge 17 luglio 1937, n. 1400, convertito nella legge 7 aprile 1938, n. 636, la esistenza del debito può essere provata in base agli estratti dei saldi conti, certificati conformi alle scritturazioni da uno dei dirigenti dell’Istituto».

PRESIDENTE. A questo articolo è stato presentato un emendamento dall’onorevole Caroleo, soppressivo del primo comma. Ha facoltà di svolgerlo.

CAROLEO. Come ho accennato in altra occasione, se si vuol stabilire un principio concreto e conforme a quelle che possono essere anche le esigenze della finanza, bisognerebbe dire che si ammettono in detrazione soltanto i debiti che abbiano una data certa anteriore al 28 marzo 1947. La formula della Commissione mi sembra invece non rispondente ai principî elementari del diritto; mi sembra inaccettabile il principio di questa declaratoria di inesistenza, quando vi sia l’accordo fra il debitore e il creditore senza alcun rispetto dei diritti del terzo, che alle volte possono essere invece anche meritevoli di maggiore tutela.

Io penso quindi che, in sostituzione del comma di cui ho chiesto la soppressione, si potrebbe inserire qualche espressione in questo articolo, la quale chiarisse appunto che i debiti di cui si ammette la detrazione debbano risultare da titoli con data certa anteriore al 28 marzo 1947.

PRESIDENTE. Ma allora, onorevole Caroleo, il suo non è soltanto un emendamento soppressivo, ma è in pari tempo anche un emendamento aggiuntivo. Dovrebbe perciò far pervenire formale proposta.

Segue un emendamento, a firma degli onorevoli De Vita, Villabruna, Bertone, Arcangeli, Uberti, Giordani, Valenti, Magrassi e Della Seta, così formulato:

«Al primo comma, dopo le parole: il rapporto giuridico è, sopprimere la parola: dichiarato».

L’onorevole De Vita ha facoltà di svolgerlo.

DE VITA. L’emendamento che io propongo non è soltanto formale, ma anche sostanziale. Dice l’articolo 23: «Quando l’esistenza di un debito di qualsiasi natura, denunziato dal debitore agli effetti della detrazione dal proprio patrimonio, è negata dal creditore, il rapporto giuridico è dichiarato inesistente a tutti gli effetti, anche fra le parti».

Dichiarato inesistente da chi? Ovviamente non può dichiarare inesistente un debito l’amministrazione finanziaria, perché non è competente; è competente l’autorità giudiziaria. Ma se l’autorità giudiziaria dovesse dichiarare l’esistenza o l’inesistenza di un debito dovrebbe essere sospeso l’accertamento.

Io sono contrario alla disposizione nel suo complesso, perché mi sembra eccessivo modificare rapporti essenzialmente civili, come sono i rapporti di debito e di credito, avendo di mira soltanto un fine tributario. Penso che per modificare le norme del Codice civile sarebbe stato necessario un dibattito più ampio.

Comunque, in via subordinata, qualora il Governo e la Commissione ritengano opportuno mantenere l’articolo, propongo almeno che sia emendato nel senso da me proposto, sopprimendo la parola «dichiarata».

SCOCA. Presento un emendamento all’articolo che stiamo discutendo. Mi pare preferibile che l’ultima parte dell’articolo sia modificata in questo senso: «è inesistente fra le parti», e che si tolga il resto.

PRESIDENTE. L’onorevole Perlingieri ha proposto il seguente emendamento:

«Al primo comma, dopo le parole: è dichiarato inesistente a tutti gli effetti, sopprimere: anche fra le parti, e aggiungere: fra le parti, salvo i diritti dei terzi».

Ha facoltà di svolgerlo.

PERLINGIERI. Non credo, onorevole Presidente, che sia necessario illustrare la mia proposta, perché essa si attiene a principî elementari, fondamentali del diritto.

L’articolo 23 stabilisce la declaratoria di inesistenza di un rapporto giuridico, prevedendo l’ipotesi dell’evasione dall’imposta da parte del creditore tenuto a denunciare il credito ai fini dell’imposta stessa. Ora, non vi è dubbio che la creazione, modifica o estinzione di un rapporto giuridico produce effetti tra i soggetti del rapporto. Rispetto al terzo è res inter alios, non può né giovare né nuocere. Noi non potremmo, quindi, legare il terzo ad una responsabilità per fatto altrui, nel senso che, dichiarata l’inesistenza del debito, questa dichiarazione possa portare pregiudizio al terzo, estraneo al rapporto. Faccio due esempi: il debitore, oltre ad avere il creditore, tenuto a denunciare il proprio credito, può avere un altro creditore, il quale può fondare sulla sua dichiarazione di debito, fatta ai fini dell’imposta, per stabilire l’insolvenza di esso debitore e far fissare la data di cessazione dei pagamenti da parte dello stesso. Se il debito viene dichiarato inesistente erga omnes, è ovvio che la dichiarazione di debito, fatta dal debitore non potrà più costituire la base per la determinazione dello stato di insolvenza e della data di cessazione dei pagamenti.

Il creditore, tenuto a denunciare il credito, può, a sua volta, avere un «terzo» creditore, estraneo all’altro rapporto creditorio. Con la declaratoria di inesistenza del credito non denunciato noi metteremmo questo terzo creditore in balia dell’altro creditore, suo debitore, e sottrarremmo a lui la garanzia generale, costituita dall’intero patrimonio dell’obbligato. È evidente che tutto questo è antigiuridico, e, perciò, inammissibile.

Quindi: noi dobbiamo limitare la sanzione della inesistenza del debito, unicamente rispetto ai titolari del rapporto giuridico ih oggetto.

Per esprimere il mio pensiero in termini giuridici più appropriati, mi permetto di proporre che l’emendamento, formulato così: «inesistente tra le parti, salvo i diritti dei terzi», sia, dal punto di vista formale, così precisato: «fra le parti, senza pregiudizio dei terzi».

In questi termini, mi pare che l’Amministrazione delle finanze non possa trovare difficoltà. Qual è il suo fine? Quello di garantire l’esazione dell’imposta. Questo si raggiunge allorquando si stabilisce la sanzione dell’inesistenza del debito negato dal creditore. Ma non possiamo andare oltre, sino a pregiudicare e consentire che si possa pregiudicare il patrimonio del «terzo».

Affido a queste considerazioni, che mi sembrano elementari, l’accoglimento del mio emendamento.

CANNIZZO. Chiedo di parlare.

PRESIDENTE. Ne ha facoltà.

CANNIZZO. Mi pare che bisognerebbe invece discutere sull’opportunità di mantenere la parola «inesistente». Che cosa si vuole dire? È un rapporto giuridico che si vuole dichiarare sciolto o è un rapporto giuridico di cui si dichiara l’inesistenza fin da quando è sorto?

Questa questione può avere gravissimi riflessi, anche in materia di sanzioni, perché è stato proposto un emendamento che riguarda i crediti fittizi.

Anzi, mi ricordo che quell’emendamento fu rimandato, perché non trovammo come collegarlo con l’articolo 23. Secondo quest’articolo, la dichiarazione del creditore verrebbe equiparata al pagamento; quindi atterrebbe piuttosto allo scioglimento del negozio giuridico anziché alla esistenza del rapporto giuridico. Questo è molto grave, perché, a prescindere dai rapporti fra amministrazione finanziaria e il contribuente, non è risolta la questione dei terzi. Infatti, supposto che il terzo voglia far valere gli stessi diritti cedutigli dal creditore, non so come li possa far valere senza che il debitore di buona fede, che abbia dichiarato un debito effettivamente esistente e negato dal creditore, possa ottenere che sia iscritto nel passivo il suo debito.

Quindi accederei all’ipotesi dell’onorevole Caroleo di sopprimere il primo capoverso. Del resto può supplire l’articolo 22, nel quale si parla di «debito a carico del contribuente, di cui sia riconosciuta l’effettiva sussistenza». Chi ammette un debito ne deve dare le prove, le quali possono risultare anche da una dichiarazione del creditore contestuale alla denuncia fatta dal debitore. Non so poi se sia opportuno introdurre addirittura questa sanzione che equiparerebbe al pagamento la dichiarazione del creditore. Ed appunto anche perché il termine «inesistente» si potrebbe prestare ad interpretazioni non previste, io ritengo (e questa è anche una mia dichiarazione di voto) che sia opportuno ripiegare sull’emendamento soppressivo dell’onorevole Caroleo.

PRESIDENTE. Ma l’onorevole Caroleo l’ha ritirato perché ne ha proposto uno sostitutivo.

CAROLEO. Subordinatamente.

PRESIDENTE. Sta bene.

Ha facoltà di parlare l’onorevole Relatore.

LA MALFA, Relatore. Nella legge del 1922 la disposizione era esattamente la stessa e non pare che abbia dato luogo a molti inconvenienti. Perché la legge del 1922 diceva: «Quando l’esistenza di un debito di qualsiasi natura che non risulti da atto pubblico è denunciato dal debitore e negato dal creditore, il rapporto giuridico è dichiarato inesistente a tutti gli effetti anche fra le parti, senza che sia ammessa prova contraria».

La Commissione naturalmente ha soppresso quello che sarebbe stato – direi – superfluo nel testo governativo, riproducendo la disposizione del 1922. Comunque, per queste considerazioni, la Commissione, rispetto ai vari emendamenti proporrebbe questa dizione: «Il rapporto giuridico è considerato inesistente a tutti gli effetti fra le parti», per dare l’impressione che dopo lo accertamento di questa situazione del creditore e del debitore viene la conseguenza legislativa della inesistenza, che non è una inesistenza ab origine.

CANNIZZO. Io direi: «è risolto».

DE VITA. Ma la dichiarazione può farla l’autorità giudiziaria.

LA MALFA, Relatore. L’osservazione dell’onorevole De Vita è giusta. Ma il «considerato» fa discendere l’inesistenza dal fatto che debito e creditore hanno negato il rapporto reciproco. Dicendo: «inesistente fra le parti a tutti gli effetti», sono salvi i diritti dei terzi. L’inesistenza si limita al solo rapporto fra le parti. Così insisto perché si lasci: «è considerato inesistente a tutti gli effetti fra le parti».

CAROLEO. Ma l’inesistenza del rapporto principale implica anche quella dei rapporti accessori. Con questa formula, pertanto i diritti dei terzi sono pregiudicati.

PRESIDENTE. Prego l’onorevole Ministro delle finanze di esporre il parere del Governo.

PELLA, Ministro delle finanze. Forse, se avessimo maggior tempo, potremmo lavorare di cesello per trovare la formulazione migliore. Ad ogni modo, credo che sia esatto quanto ha detto l’onorevole Relatore, cioè, che, trattandosi di riprodurre le disposizioni già esistenti nel 1920, disposizioni che non hanno dato luogo ad inconvenienti, molte preoccupazioni degli onorevoli colleghi non abbiano ragion d’essere.

Convengo col Relatore innanzi tutto per mantenere il primo comma dell’articolo, poi per accogliere sostanzialmente l’emendamento De Vita e quindi rendere non necessaria una declaratoria di inesistenza. Sostituendo la parola «dichiarato», con l’altra «considerato», ritengo che lo scopo principale dell’emendamento De Vita sia raggiunto, in quanto non sarà più necessaria la declaratoria di una particolare autorità.

Sono d’accordo col Relatore nel sopprimere la parola «anche», onde esprimo parere favorevole per questa formulazione. «Quando l’esistenza di un debito di qualsiasi natura, denunciato dal debitore agli effetti della detrazione dal proprio patrimonio, è negata dal creditore, il rapporto giuridico è inesistente».

Per quanto riguarda i diritti dei terzi, penso anche io che non possano essere lesi nel caso di collusione fra creditore e debitore.

SCOCA. Chiedo di parlare.

PRESIDENTE. Ne ha facoltà.

SCOCA. La questione ha una certa gravità. Io mi preoccupo dei diritti dei terzi, i quali restano sacrificati da una presunzione di legge che può non aver fondatezza nella realtà delle cose.

Proporrei una nuova formula che forse potrebbe sodisfare le varie tesi; propongo cioè che dopo le parole «è negata dal creditore» si dica: «il credito è inesigibile nei confronti del debitore».

Preferisco che non si parli di inesistenza, perché parlando di inesistenza, qualunque forma si adoperi, il rapporto è sempre distrutto fra le parti e quindi rimangono distrutti anche i rapporti collegati.

Vorrei, in altri termini, limitare la sanzione alla inesigibilità e quindi alla non azionabilità del diritto di credito fra le parti. Questa mia proposta potrà non sodisfare tutti, ma mi pare che si venga incontro con essa al desiderio espresso da varie parti. Propongo di dire, dunque, che il credito è «inesigibile», non «inesistente».

PRESIDENTE. Domando il parere del Governo.

PELLA, Ministro delle finanze. Vorrei chiedere se per avventura la formula dell’onorevole Scoca non peggiori la situazione nei confronti dell’Amministrazione finanziaria. Infatti, il termine «inesigibilità» sostituito al termine «inesistenza» verrebbe a negare un diritto d’azione nei confronti del debitore, in modo da mantenere ferma l’esistenza del credito. Probabilmente – mi scusino i giuristi presenti, se sbaglio – si verificherebbe la trasformazione di una obbligazione civile in una obbligazione naturale.

Potendosi sempre verificare l’accordo fraudolento rispetto a un terzo, l’amministrazione finanziaria si preoccupa che per salvaguardare il diritto di un terzo in malafede si possa rendere inoperante la sanzione nei confronti dei due contribuenti che si mettono d’accordo fra di loro.

Vogliono gli onorevoli colleghi, giacché la discussione ormai si allarga, vedere se non ritengano di ripiegare su un’altra formula che si riallacci all’emendamento Perlingieri, il quale dice: «salvi i diritti dei terzi»?

PERLINGIERI. Modifica senza pregiudizio.

PELLA, Ministro delle finanze. In questo caso desidererei che si dicesse: «diritti dei terzi», perché vorrei aggiungere, «risultanti da atti aventi data certa anteriore al 28 marzo 1947».

PERLINGIERI. Questo è implicito, perché il terzo che non ha il titolo anteriore non ha azione.

PELLA, Ministro delle finanze. È la conseguenza di atti aventi data certa, non essendo ammissibile una prova in base a documenti che non abbiano data certa; né sarebbe ammissibile una prova testimoniale. Rientreremmo nel grande solco della prassi tributaria la quale accetta gli atti aventi data certa e cerca di non essere danneggiata da altre prove.

DE VITA. Chiedo di parlare.

PRESIDENTE. Ne ha facoltà.

DE VITA. Penso che la parola «dichiarato» si possa sostituire con la parola «considerato». La formulazione dell’articolo potrebbe essere questa:

«…il rapporto giuridico è considerato inesistente a tutti gli effetti, anche fra le parti, salvo i diritti dei terzi».

LA MALFA, Relatore. Tutto sommato, manteniamo la nostra proposta: «considerato inesistente a tutti gli effetti fra le parti…».

BERTONE. Chiedo di parlare.

PRESIDENTE. Ne ha facoltà.

BERTONE. Dichiaro che sono molto perplesso sull’opportunità di introdurre questo articolo. La Finanza deve pensare a sé stessa e non preoccuparsi dei rapporti più o meno onesti e fraudolenti che possono correre fra le parti, né preoccuparsi dei diritti dei terzi.

Ora è evidente che introdurre questo articolo significa aprire la porta alla possibilità di frodi architettate fra debitore e creditore. Due individui si mettono d’accordo per cedere un debito, magari in cifre imponenti, che fino a ieri ha pagato la ricchezza mobile in categoria A2, che è iscritto in ruolo; questo debito conviene alle parti cancellarlo di fronte al fisco per sottrarsi a tutti gli oneri continuativi e per sottrarsi anche all’imposta straordinaria che viene attuata con questo progetto.

L’accordo fra le parti, chi lo può misurare? Chi può sapere quali accorgimenti possono accompagnarlo? Verrà dichiarato estinto questo debito e le parti avranno già creato un altro titolo che non è più questo. Il fisco sarà frodato; le parti saranno a posto; i terzi forse saranno danneggiati, ma di questo non ci dobbiamo preoccupare. La verità è che volendoci preoccupare degli interessi della Finanza, dobbiamo dire che con questo articolo gli interessi della Finanza sono messi in grave pericolo. (Approvazioni a sinistra).

Io non direi niente. Se domani c’è un creditore che dice che non è creditore, la Finanza farà tutte le sue indagini. Presterà fede? – Cancellerà il debito. Non presterà fede? – Ricorrerà a tutte le prove dirette ed indirette per tutelare il proprio diritto. Ma togliere alla Finanza il diritto di tutelare i propri interessi con un articolo il quale le impone di cancellare dai suoi ruoli un debito che fino a ieri c’era, a me pare eccessivo e pericoloso.

Faccio la proposta che questo articolo venga cancellato.

CAPPI. Chiedo di parlare.

PRESIDENTE. Ne ha facoltà.

CAPPI. A me pare che la preoccupazione dell’onorevole Bertone sia eccessiva, perché la finanza è difesa dalla lettera a) dell’articolo 22, il quale non ammette in detrazione qualsiasi debito fondato sulla semplice dichiarazione del debitore, ma dice: «tutti i debiti a carico del contribuente, di cui sia riconosciuta l’effettiva sussistenza alla data del 28 marzo 1947». Però i pericoli di frode mi sembrano non difficili.

Io riterrei opportuno di fare menzione della salvezza del diritto dei terzi, ma non vorrei che così si aprisse una breccia a danno della finanza. Quindi io proporrei di aggiungere: «sono salvi i diritti dei terzi, fermi i diritti della finanza», in questo senso che quando il terzo viene, prova che invece il debito sussisteva e lo vuole riscuotere, in sostituzione del primo creditore, si dia prima la prova che è stata pagata l’imposta.

PRESIDENTE. L’onorevole Relatore ha facoltà di esprimere il suo parere.

LA MALFA, Relatore. Ricordo agli onorevoli colleghi che questa disposizione era nella legge del 1922. La legge del 1922 era essa stessa frutto di esperienza e direi anche di giurisprudenza.

Se modifichiamo quella disposizione, riapriamo questioni che in sede giurisprudenziale sono state risolte. Quindi manterrei fermo il concetto della Commissione di aggiungere dopo «dichiarato» «è considerato inesistente, a tutti gli effetti, fra le parti».

Implicitamente sono salvi i diritti dei terzi, ma rimaniamo sulla scia di una disposizione che è stata già applicata e che ha avuto i suoi vantaggi.

Io non so misurare gli effetti di cambiamenti, in questa sede, senza avere tutti i dati del problema. Quindi insisterei nel mantenimento della formula.

PRESIDENTE. L’onorevole Ministro ha facoltà di parlare.

PELLA, Ministro delle finanze. Concordo con l’onorevole Relatore nella formula che si vorrebbe pregare l’onorevole Presidente di mettere in votazione.

L’onorevole Bertone, ha manifestalo la preoccupazione che un articolo, a prima vista lesivo del diritto comune, per dare una maggiore difesa alla finanza, si possa tradurre in un’arma contro la finanza stessa, cioè possa servire non a simulare dei debiti, ma a far cadere dei crediti esistenti.

Con la eliminazione della parola «anche», così come propone l’onorevole La Malfa, cade la preoccupazione dell’onorevole Bertone, perché quando si dice «il rapporto giuridico è considerato inesistente a tutti gli effetti fra le parti», questa disposizione di ordine sanzionistico opera soltanto tra debitore e creditore e la finanza rimane estranea all’inesistenza, mentre non lo sarebbe stato se si fosse lasciata la parola «anche», perché «anche» avrebbe potuto significare che il credito cade e fra le parti e per la finanza.

BERTONE. Chiedo che queste considerazioni del Ministro risultino comunque bene a verbale.

PRESIDENTE. Ha chiesto di parlare l’onorevole Relatore. Ne ha facoltà.

LA MALFA, Relatore. Volevo dire che nella disposizione del 1922 la dizione era esattamente questa: «Quando l’esistenza di un debito di qualsiasi natura che non risulti da atto pubblico».

Ora, nel testo governativo della nuova legge, questo inciso «che non risulti da atto pubblico» è stato soppresso. Noi della Commissione abbiamo ritenuto che sia stato soppresso, perché quando risulta da atto pubblico il debitore non può negarle. Comunque, se volete, questo inciso possiamo metterlo.

Voci. No, non è necessario.

PRESIDENTE. Allora passiamo alla votazione degli emendamenti. Pongo anzitutto in votazione l’emendamento dell’onorevole Caroleo.

(Non è approvato).

Segue l’emendamento dell’onorevole De Vita.

DE VITA. Sostanzialmente il mio emendamento è stato accolto dalla Commissione.

PRESIDENTE. Sta bene. Allora segue l’emendamento dell’onorevole Perlingieri. Lo mantiene?

PERLINGIERI. Lo mantengo e chiedo che sia votato per divisione. La prima parte è accettata dalla Commissione; la seconda parte «senza pregiudizio dei terzi» chiedo che sia messa ai voti separata.

LA MALFA, Relatore. Credo che si possa accettare la formula «Considerato a tutti gli effetti tra le parti».

PRESIDENTE. Si dovrà porre prima in votazione l’emendamento Scoca, che modifica l’articolo. Onorevole Scoca, mantiene il suo emendamento?

SCOCA. Mi pare che le formule, dopo i chiarimenti avuti in Assemblea, si equivalgano. Quindi sono disposto a ritirare il mio emendamento.

PRESIDENTE. Sta bene, allora siamo di fronte al testo definitivo proposto per il primo comma dal Governo e dalla Commissione.

BERTONE. Chiedo di parlare.

PRESIDENTE. Ne ha facoltà.

BERTONE. L’onorevole Relatore, accennava poco fa al testo della legge del 1922, nella quale era scritto che l’annullamento dei debiti non riguardava quelli risultati da atto pubblico. Ritengo sia opportuno conservare questa dizione, perché, quando nell’articolo 23 si dice che la disposizione si applica a tutti i crediti, di qualsiasi natura, possono esservi compresi quelli nascenti da atto pubblico, i quali non possono essere affetti da presunzione di inesistenza.

Pertanto, sarebbe bene, a mio avviso, conservare l’inciso.

SCOCA. Chiedo di parlare.

PRESIDENTE. Ne ha facoltà.

SCOCA. Ritengo che la menzione dell’atto pubblico sia stata eliminata a ragion veduta. Essa non eliminerebbe una quantità – non so dire in quali proporzioni – di possibili simulazioni. Può darsi, poi, il caso che il debito sia stato estinto e che si faccia rivivere in questa sede.

Ecco perché ritengo possa essere approvata la dizione generica della legge.

BERTONE. Non insisto.

PELLA, Ministro delle finanze. Concordo con l’onorevole Scoca.

PRESIDENTE. Metto ai voti il primo comma dell’articolo 23, nel testo emendato proposto dalla Commissione, con la soppressione cioè della parola «anche» e con la sostituzione della parola «considerato» alla parola «dichiarato»:

«Quando la esistenza di un debito di qualsiasi natura, denunziato dal debitore agli effetti della detrazione dal proprio patrimonio, è negata dal creditore, il rapporto giuridico è considerato inesistente, a tutti, gli effetti, fra le parti».

(È approvato).

Metto ai voti l’emendamento aggiuntivo proposto dall’onorevole Perlingieri: «senza pregiudizio dei terzi».

(Non è approvato).

SCOCA. Bisogna intendersi. Il fatto che sia stata esclusa l’aggiunta potrebbe dar luogo a disparità di interpretazione. Sia ben chiaro che non abbiamo votato l’emendamento aggiuntivo, in quanto lo consideriamo pleonastico.

La sostanza è questa: che i diritti dei terzi sono sempre salvi.

PERLINGIERI. Se avessi avuto simile esplicita assicurazione, non avrei insistito sulla votazione della seconda parte del mio emendamento.

LA MALFA, Relatore. Mi pare che il concetto sia ben chiaro. L’hanno affermato tanto la Commissione quanto il Governo.

PELLA, Ministro delle finanze. D’accordo.

PRESIDENTE. Restano agli atti le dichiarazioni che sono state fatte. Si è precisato che benché l’emendamento Perlingeri sia stato respinto, non si è inteso portare alcun danno ai diritti dei terzi, i quali rimangono salvi anche secondo la formulazione approvata.

Non essendovi altre osservazioni, l’articolo 23 si intende approvato con le modificazioni apportate al primo comma.

Si dovrebbe ora passare all’esame dell’articolo 25.

PESENTI. Chiedo di parlare.

PRESIDENTE. Ne ha facoltà.

PESENTI. Chiederei al Presidente della Commissione se non sarebbe molto più opportuno ritornare all’articolo 2 e votarlo ora in quanto che, senza questa votazione, i lavori della Commissione possono essere in parte intralciati. Secondo la proposta del Governo, si rimetteva all’Assemblea la decisione di approvare o meno l’emendamento presentato dagli onorevoli Castelli, Scoca, Valiani, Pesenti, cioè firmato da membri di diversi settori dell’Assemblea, perché fosse istituita una imposta proporzionale sugli enti collettivi. Senza questa approvazione di principio io credo che la Commissione non possa proseguire i suoi lavori.

PRESIDENTE. Onorevoli colleghi, rammento quanto è stato detto ieri sera dal Presidente, onorevole Terracini, il quale, su questo punto, ha accennato alla questione, ponendola nei suoi termini precisi. Il Governo ha presentato alla Commissione, ma non ancora alla Presidenza dell’Assemblea per la distribuzione ai deputati, il testo di un nuovo Titolo da inserirsi nel decreto. Facendo mie le considerazioni del Presidente Terracini, ritengo che prima di porre in discussione l’emendamento all’articolo 2, sia opportuno, per non autorizzare giusti rilievi di onorevoli colleghi, distribuire all’Assemblea il nuovo testo, a meno che non si voglia accogliere il concetto di delegare il Governo ad emanare un successivo provvedimento legislativo.

SCOCCIMARRO. Chiedo di parlare.

PRESIDENTE. Ne ha facoltà.

SCOCCIMARRO. Io credo che, in questioni di questo genere, è l’Assemblea, in definitiva, che deve decidere.

PRESIDENTE. Senza dubbio, onorevole Scoccimarro. Il Presidente dell’Assemblea ha però indicato il programma di lavoro che si potrebbe adottare.

SCOCCIMARRO. Qui c’è un emendamento composto di due righe, sul quale l’Assemblea può pronunciarsi. Si provvederà poi all’inserzione nella legge di un titolo organico i già pronto.

PRESIDENTE. Come l’Assemblea sa, il Governo ha presentato un Titolo III che è i in esame presso la Commissione. Ora l’Assemblea – come fu osservato giustamente da qualche collega – ha diritto di conoscere il testo presentato dal Governo, perché potrebbe rilevare che non è possibile adottare una decisione intorno agli emendamenti se non si conoscono le conseguenze legislative dell’affermazione del principio e della regola generale.

SCOCCIMARRO. L’Assemblea può decidere in linea di principio la tassazione degli enti collettivi. Si discuterà poi sui diversi modi nei quali quel principio può realizzarsi.

PRESIDENTE. Rammento che vi è un emendamento Castelli-Scoca, all’articolo 2, concernente gli enti collettivi, così formulato:

«Sono soggette all’imposta straordinaria progressiva le persone fisiche.

«Gli enti collettivi sono soggetti ad una imposta straordinaria proporzionale, secondo le norme del Titolo III».

Ora l’Assemblea può votare un emendamento che si richiama al Titolo III, di cui ignora il contenuto?

Io credo, onorevole Scoccimarro, che si potrebbe eliminare la frase «secondo le norme del Titolo III», e approvare poi un ordine del giorno invitando il Governo a formare queste norme.

SCOCCIMARRO. Non posso accedere alla sua proposta, perché ritengo che un semplice ordine del giorno si risolverà in nulla. Io penso che questo problema deve essere risolto e deciso nella votazione dell’imposta straordinaria.

PRESIDENTE. È stato dunque proposto di passare all’esame dell’emendamento sull’articolo 2, che ha per oggetto gli enti collettivi. Su questa proposta dobbiamo decidere.

MARINARO. Io propongo la sospensiva!

PRESIDENTE. Ha chiesto di parlare l’onorevole Scoca. Ne ha facoltà.

SCOCA. Se non erro, la difficoltà di procedere all’esame ed alla eventuale approvazione dell’articolo 2 dipende dal fatto che il secondo comma di quest’articolo dice che «gli enti collettivi sono soggetti ad una imposta straordinaria proporzionale, secondo le norme del Titolo III».

Ora, siccome questo Titolo III non lo conosciamo, si dice che prima di esaminare e di approvare quest’articolo si debbano conoscere le norme del Titolo III. Se questa fosse la difficoltà, sarebbe una difficoltà che si potrebbe facilmente eliminare, ed io, come firmatario dell’emendamento, non ho difficoltà – e credo che non ne possano avere neanche gli altri colleghi – a cancellare la frase «secondo le norme del Titolo III», cioè il richiamo ad un Titolo che oggi l’Assemblea non ha sott’occhi.

In sostanza, potremmo approvare l’applicazione di una imposta con carattere proporzionale che colpisca gli enti collettivi, e ci riserveremmo di presentare successivamente tutti quegli emendamenti che nell’insieme formeranno il Titolo III.

SCOCCIMARRO. Dichiaro di essere d’accordo con quanto ha proposto l’onorevole Scoca.

MARINARO. Chiedo di parlare.

PRESIDENTE. Ne ha facoltà.

MARINARO. Come ho già accennato, faccio una proposta formale di sospensiva…

PRESIDENTE. L’avverto onorevole Marinaro, che per la sospensiva occorre una proposta scritta con quindici firme.

MARINARO. Si stanno raccogliendo.

La mia proposta è giustificata da varie considerazioni.

Prima di tutto, è un dato di fatto che ieri sera è stato distribuito ai singoli membri della Commissione di finanza un Titolo III che non è contemplato nella legge che noi stiamo convalidando.

Questo Titolo III, secondo tale comunicazione ufficiosa, disciplina interamente tutta la materia degli enti collettivi.

Davanti a questa situazione, mi sembra inutile affermare in una sede, che non è la sede naturale, un principio che è disciplinato interamente nel Titolo III, che è stato comunicato alla Commissione di finanza e che sarà quanto prima portato a conoscenza dell’Assemblea.

Ma, oltre che per questa ragione, io penso che, anche per esigenze di tecnica giuridica, l’affermazione della tassabilità degli enti collettivi non possa trovar sede nell’articolo 2. Il decreto legislativo 29 marzo è composto di due titoli, il primo dei quali s’intitola «Imposta straordinaria progressiva sul patrimonio», e l’articolo 2 stabilisce i soggetti passivi dell’imposta, che sono le persone fisiche. Ora noi non possiamo inserire in questo articolo 2, che prevede soltanto l’imposizione per le persone fisiche, anche gli enti collettivi, che persone fisiche non sono. Sarebbe – a mio modesto avviso – un non senso dal punto di vista giuridico. La sede naturale deve essere un titolo a parte, come appunto è stato predisposto. Da questo punto di vista mi pare che non ci possa essere dubbio.

Noi non diciamo: Respingete l’emendamento; diciamo: Siccome siamo chiamati a discutere in giornata tutto il Titolo III, discuteremo della materia degli enti collettivi quando discuteremo il Titolo, e non vediamo l’opportunità di procedere all’esame questa mattina, tanto più che l’emendamento così come fino a questo momento è formulato – mi consentano i firmatari – mi sembra anche poco riguardoso per l’Assemblea. Infatti, come lo stesso signor Presidente ha fatto rilevare, si fa esplicitamente riferimento ad un Titolo III che l’Assemblea ancora non conosce.

Allo stato attuale, quindi, non c’è che da adottare questa soluzione: sospendere l’esame dell’emendamento e rinviare la discussione al momento in cui discuteremo tutto il Titolo III.

LA MALFA, Relatore. Chiedo di parlare.

PRESIDENTE. Ne ha facoltà.

LA MALFA, Relatore. Vorrei chiarire alcuni termini di fatto di questo emendamento.

L’onorevole Marinaro ieri, in sede di Commissione, aveva sollevato, mi pare, un’eccezione molto più ampia, cioè quella della possibilità di inserire la tassazione degli enti collettivi nel sistema di questa legge. Eccezione ampia, perché non riguardava il momento in cui si deve discutere degli enti collettivi – se discuterne, cioè o deliberare quando il Titolo III sia stato distribuito – ma ampia nel senso che l’onorevole Marinaro non ammetteva che si potesse introdurre questa tassazione nel sistema del provvedimento presentato dal Governo.

Io vorrei chiarire, come ho fatto ieri al Presidente dell’Assemblea, onorevole Terracini, che la Commissione, quando ha preso in esame il disegno di legge mandato dal Governo e, quindi, il decreto legislativo, si è trovata di fronte ad una impostazione del problema degli enti collettivi, fatta già dal Governo. Perché fatta dal Governo? Perché – e vorrei anticipare quello che dichiarerò quando si discuterà della materia – perché la legislazione del 1920-22 applicava già l’imposta progressiva agli enti collettivi. Quindi, nella nostra tradizione legislativa, la tassazione degli enti collettivi è un dato legislativo. Non ci possono essere eccezioni di principio. Non ci sono neanche ragioni dottrinarie. Il Governo ha detto all’Assemblea, nella relazione: ritengo che non siano da tassare gli enti collettivi. Ma è evidente che con ciò il Governo implicitamente ammetteva che questo problema esiste e riguarda il merito stesso del provvedimento legislativo.

Badate poi che, nella relazione ministeriale. si tratta di opportunità e non già di eccezione di principio; la Commissione si è ritenuta quindi in dovere, di fronte all’Assemblea, di riesaminare il problema. Essa ha tuttavia deciso a maggioranza, nella sua prima deliberazione, nel senso indicato dal Governo, ha deciso cioè di non tassare gli enti collettivi.

Ma nel contempo ha legato il provvedimento dell’imposta a un altro provvedimento sulla rivalutazione dei patrimoni che il Governo doveva presentare.

Questo, comunque, non ha importanza. Quando in Assemblea alcuni colleghi hanno presentato degli emendamenti intesi a stabilire la tassazione degli enti collettivi, il problema si è naturalmente ripresentato, come già si era presentato in sede di Commissione. Tutto ciò si è svolto dunque in maniera perfettamente normale, nella sede propria della legislazione. Si tratta sempre di considerare se questo tipo di imposta straordinaria sia o non sia da applicare agli enti collettivi.

I due schemi di Titolo III che il Governo ha inviato alla Commissione sono due proposte di emendamenti su cui il Governo non ha assunto alcuna responsabilità. Voi sentirete al riguardo il parere della Commissione; poi sentirete se il Governo accetta o meno gli emendamenti. Per il caso in cui il Governo decida la tassazione degli enti collettivi, la Commissione si troverà in grado di dire all’Assemblea: Questo è il Titolo III che viene presentato quale emendamento.

Io non ritengo che si possano sollevare eccezioni sospensive di principio. L’Assemblea può passare, a nostro giudizio, tranquillamente alla discussione di sostanza sull’articolo 2, cioè al problema se accettare o meno l’emendamento Castelli Edgardo, Scoca ed altri.

PRESIDENTE. Prima di passare alla votazione sulla proposta di sospensiva dell’onorevole Marinaro e di altri colleghi, che hanno fatto pervenire analoga domanda alla Presidenza, io tengo a stabilire che il Titolo III, di cui ha parlato in questo momento il Relatore onorevole La Malfa, è completamente ignorato dalla Presidenza e dall’Assemblea.

LA MALFA, Relatore. Ho già spiegato che non è un atto formale del Governo.

PELLA, Ministro delle finanze. Chiedo di parlare.

PRESIDENTE. Ne ha facoltà.

PELLA, Ministro delle finanze. Vi è veramente la possibilità che si possa muovere l’appunto al Governo d’una mancanza di riguardo nei confronti della Presidenza e nei confronti dell’Assemblea.

Prego di considerare che così non è, perché dobbiamo riportarci a come si sono svolte le cose. Il Governo ha desiderato che l’Assemblea risolvesse la questione di principio, ma ha desiderato, nello stesso tempo, dare la dimostrazione che con questo non intendeva sottrarsi alla più rapida attuazione delle deliberazioni dell’Assemblea sulla questione stessa. Poiché tali deliberazioni potevano essere orientate verso due diverse soluzioni, il Governo ha approntato due strumenti tecnici che potrebbero servire per l’una o per l’altra delle soluzioni del problema. Naturalmente, siccome si tratta di un anticipo di buona volontà, non si poteva dare un’espressione costituzionale e formale a tale manifestazione del Governo; quindi, non era possibile provvedere ad una presentazione formale all’onorevole Presidente.

Il Governo desiderava dare questa dimostrazione di buona volontà, soprattutto in relazione a qualche appunto che in materia era stato formulato. E la sola via pratica era quella di comunicare, a titolo personale, al Presidente della Commissione, gli elaborati del Ministero in questa materia.

Ecco perché debbo pregare gli onorevoli colleghi di non vedere nulla in tutto questo che possa significare mancanza di riguardo nei confronti dell’Assemblea.

PRESIDENTE. Si dovrà allora passare alla votazione sulla proposta dell’onorevole Marinaro di sospensiva della discussione nell’articolo 2. Per questa votazione è pervenuta richiesta di appello nominale dall’onorevole Marinaro stesso e da altri.

Ricordo comunque che l’emendamento Castelli-Scoca ed altri è stato così modificato:

«Sono soggette all’imposta straordinaria progressiva le persone fisiche.

Gli enti collettivi sono soggetti ad una imposta straordinaria proporzionale».

Viene tolto cioè il riferimento alle norme del Titolo III.

DE VITA. Mi permetto di far presente che vi è anche un mio emendamento che non è stato svolto.

LA MALFA, Relatore. È assorbito.

DE VITA. È assorbito ? Ma io non ho firmato l’emendamento preparato dalla Commissione.

PRESIDENTE. Votiamo prima la proposta di sospensiva.

L’onorevole Marinaro ed i colleghi che hanno sottoscritto la domanda di appello nominale, insistono ?

MARINARO. Insistiamo. (Commenti).

PRESIDENTE. Onorevole Marinaro, vuole dire con precisione come formula la sua proposta di sospensiva?.

MARINARO. Premesso in via di principio, che noi, anche di questo settore, siamo favorevoli all’istituzione di un’imposta straordinaria a carico delle società e degli altri enti collettivi, sosteniamo soltanto che questa materia dovrà trovare la sua sede di discussione quando si discuterà tutto il Titolo III. (Commenti).

L’articolo 2 disciplina l’istituzione di una imposta progressiva personale, a carico delle persone fisiche, mentre in questo caso si tratta di un’imposta straordinaria proporzionale a carico degli enti collettivi. Non è dunque questa la sede per disciplinare tale materia. E poiché questa materia verrà in discussione nella seduta pomeridiana di oggi, io chiedo la sospensiva perché la materia sia esaminata oggi, in quella sede.

ZERBI. Chiedo di parlare.

PRESIDENTE. Ne ha facoltà.

ZERBI. Parlo per dichiarazione di voto, a strettissimo titolo personale; personalmente convengo col mio Gruppo sull’opportunità della tassazione degli enti collettivi, ma purtroppo non mi ha persuaso nemmeno l’emendamento. Voterò per la sospensiva, perché mi pare che nemmeno la rinuncia a citare esplicitamente il Titolo III superi la questione dell’opportunità e della deferenza verso i membri dell’Assemblea che non sono contemporaneamente membri della Commissione di finanza. Evidentemente i membri della Commissione di finanza possono esprimere i loro voti con una consapevolezza maggiore di quanto possiamo fare noi che non siamo ancora a conoscenza del Titolo III. (Commenti a sinistra).

SCOCA. Chiedo di parlare.

PRESIDENTE. Ne ha facoltà.

SCOCA. Parlo per dichiarazione di voto. Intendo che sia ben chiaro che l’onorevole Zerbi ha parlato a titolo personale. Il Gruppo democristiano vota contro la sospensiva. (Applausi a sinistra).

PRESIDENTE. Insiste l’onorevole Marinaro nella richiesta di appello nominale?

MARINARO. Insisto.

Votazione nominale.

PRESIDENTE. Indico la votazione nominale sulla proposta di sospensiva dell’onorevole Marinaro.

Estraggo a sorte il nome del deputato da cui comincerà la chiama.

(Segue il sorteggio).

Comincerà dall’onorevole Fusco.

Si faccia la chiama.

MOLINELLI, Segretario. Fa la chiama.

Rispondono sì:

Coppa Ezio.

Marinaro.

Perrone Capano.

Zerbi.

Rispondono no:

Alberti – Allegato – Amadei – Amendola – Angelini – Arcangeli – Assennato – Avanzini – Azzi.

Bacciconi – Badini Confalonieri – Baldassari – Balduzzi – Baracco – Bardini – Bargagna – Barontini Anelito – Barontini Ilio – Basso – Bastianetto – Bei Adele – Bellusci – Belotti – Benvenuti – Bernamonti – Bernini Ferdinando – Bertola – Bertone – Bettiol – Bianchi Bianca – Bianchi Bruno – Bianchini Laura – Bibolotti – Bitossi – Bocconi – Bonomelli – Bordon – Borsellino – Bosco Lucarelli – Bovetti – Braschi – Bubbio – Bucci – Buffoni Francesco – Bulloni Pietro.

Cacciatore – Cairo – Calamandrei – Caldera – Calosso – Camangi – Caporali – Cappi Giuseppe – Cappugi – Carbonari – Carboni Angelo – Carboni Enrico – Carignani – Carìstia – Carmagnola – Caroleo – Caronia – Carpano Maglioli – Carratelli – Cartìa – Castelli Edgardo – Castelli Avolio – Cevolotto – Chiostergi – Cianca – Ciccolungo – Clerici – Coccia – Codacci Pisanelli – Colombi Arturo – Colonnetti – Conci Elisabetta – Coppi Alessandro – Corbi – Corbino – Corsanego – Corsi – Costa – Costantini – Cremaschi Carlo – Crernaschi Olindo.

D’Aragona – De Caro Gerardo – Del Curto – Delli Castelli Filomena – De Mercurio – De Michelis Paolo – De Palma – De Vita – Di Fausto – Di Giovanni – Di Vittorio – D’Onofrio – Dossetti – Dozza – Dugoni.

Ermini.

Fabriani – Faccio – Fantuzzi – Faralli – Farina Giovanni – Fedeli Armando – Federici Maria – Ferrarese – Ferrari Giacomo – Ferrario Celestino – Fietta – Filippini – Fiore – Fiorentino – Fioritto – Firrao – Flecchia – Foa – Foresi – Fornara – Franceschini.

Galati – Gallico Spano Nadia – Garlato – Gavina – Germano – Gervasi – Geuna – Ghidetti – Ghidini – Ghislandi – Giacchéro – Giolitti – Giua – Gorreri – Gotelli Angela – Grazi Enrico – Grilli – Gronchi – Guerrieri Emanuele – Guerrieri Filippo – Gui – Guidi Cingolani Angela – Gullo Rocco.

Imperiale.

Jacini – Jacometti.

Labriola – Laconi – La Malfa – Lami Starnuti – La Rocca – Lazzati – Leone Giovanni – Li Causi – Lizier – Lizzadri – Lombardi Riccardo – Longhena – Longo – Lopardi – Lozza – Luisetti – Lussu.

Maffi – Magnani – Magrini – Malagugini – Maltagliati – Malvestiti – Mannironi – Manzini – Marconi – Mariani Enrico – Martinelli – Marzarotto – Massini – Massola – Mattarella – Mattei Teresa – Meda Luigi – Medi Enrico – Mentasti – Merighi – Merlin Angelina – Micheli – Minella Angiola – Minio – Molinelli – Montagnana Rita – Montalbano – Montemartini – Monterisi – Morandi – Mora– nino – Morini – Moro – Moscatelli – Murgia – Musolino.

Nasi – Nenni – Nicotra Maria – Nobili Tito Oro – Noce Teresa – Numeroso.

Pajetta Gian Carlo – Pallastrelli – Paolucci – Paris – Parri – Pastore Raffaele – Pat – Pella – Pellegrini – Pera – Perassi – Perlingieri – Persico – Pesenti – Piccioni – Piemonte – Pieri Gino – Pistoia – Platone – Ponti – Porzio – Pratolongo – Pressinotti – Priolo.

Quarello – Quintieri Adolfo.

Rapelli – Reale Eugenio – Recca – Rescigno – Restagno – Ricci Giuseppe – Rodinò Ugo – Romano – Romita – Rossi Maria Maddalena – Rossi Paolo – Rubilli – Ruggeri Luigi – Rumor.

Saccenti – Saggin – Salizzoni – Salvatore – Sampietro – Sansone – Sartor – Scalfaro – Scarpa – Schiavetti – Scoca – Scoccimarro – Secchia – Segala – Segni – Sereni – Sicignano – Siles – Silipo – Silone – Spallicci – Spano – Stampacchia – Stella – Sullo Fiorentino.

Tambroni Armaroli – Targetti – Tega – Titomanlio Vittoria – Togliatti – Tomba – Tonello – Tonetti – Tosato – Tozzi Condivi – Treves – Trimarchi – Turco.

Uberti.

Valenti – Valiani – Valmarana – Veroni – Viale – Vicentini – Vigna – Vigo – Villani – Vischioni.

Zaccagnini – Zagari – Zanardi – Zappelli – Zuccarini.

Si sono astenuti:

Conti.

Quintieri Quinto.

Schiratti.

Sono in congedo:

Ambrosini.

Bellavista.

Fedeli Aldo.

Galioto.

Lombardo Ivan Matteo.

Mazza.

Pignatari.

Raimondi – Ravagnan.

PRESIDENTE. Dichiaro chiusa la votazione ed invito gli onorevoli Segretari a procedere al computo dei voti.

(Gli onorevoli Segretari fanno il computo dei voti).

Risultato della votazione nominale.

PRESIDENTE. Comunico il risultato della votazione nominale sulla proposta di sospensiva dell’onorevole Marinaro:

Presenti                   309

Votanti                    306

Astenuti                  3

Maggioranza           154

Hanno risposto sì     4

Votanti……………………… 306

Astenuti………………………. 3

Maggioranza………………. 154

Hanno risposto si .        4 1


Hanno risposto no    302

(L’Assemblea non approva).

Si riprende la discussione sul disegno di legge: Convalida del decreto legislativo del Capo provvisorio dello Stato in data 29 marzo 1947, n. 143, concernente l’istituzione di una imposta straordinaria progressiva sul patrimonio. (14).

PRESIDENTE. Onorevoli colleghi. Ritengo che si debba rimandare il seguito della discussione ad altra seduta…

Voce a sinistra. No, no!

PRESIDENTE. …in considerazione soprattutto di un fatto. Durante la votazione sono venuti al banco della Presidenza alcuni colleghi i quali hanno domandato se, dopo la votazione, si sarebbe proseguito nell’esame dell’articolo 2. Io ho creduto, data l’ora, di rispondere che la discussione sarebbe stata ripresa nella seduta successiva. Credo che, in queste condizioni, l’Assemblea non possa continuare nella discussione.

SCOCCIMARRO. Chiedo di parlare.

PRESIDENTE. Ne ha facoltà.

SCOCCIMARRO. Sono molto spiacente di questo contrattempo, ma penso che se noi non proseguiamo ora nella discussione, l’esito della votazione non avrebbe significato. Siccome il responso del voto è stato contro la sospensiva, noi non possiamo accettare nessuna sospensiva. Si tratta di non perdere ulteriormente tempo.

PRESIDENTE. Onorevole Scoccimarro, ella equivoca fra sospensiva e sospensione. Qui si tratta di sospensione della discussione. Respinta la sospensiva, si tratta di riprendere in altro momento l’esame dell’emendamento sul quale deve ancora svolgersi la discussione.

MOLINELLI. Chiedo di parlare.

PRESIDENTE. Ne ha facoltà.

MOLINELLI. Mi rendo perfettamente conto, signor Presidente, di quello che è il suo scrupolo di coscienza, ma vorrei fare osservare che sul testo emendato dell’articolo già svolto sono d’accordo tutti i gruppi dell’Assemblea, la Commissione ed il Governo. L’assenza di qualche deputato non può provocare un diverso esito della votazione. Pregherei quindi il Presidente di mettere subito ai voti l’emendamento.

PRESIDENTE. Ho già detto che non posso mettere in votazione l’emendamento, se prima non si svolge la discussione.

SCOCCIMARRO. Chiedo di parlare.

PRESIDENTE. Ne ha facoltà.

SCOCCIMARRO. Vorrei ricordare una giusta osservazione fatta giorni or sono in questa Aula dall’onorevole Corbino, il quale disse: L’Assemblea in problemi di questo genere deve decidere subito per non permettere speculazioni fuori di questa Aula.

LA MALFA, Relatore. Chiedo di parlare.

PRESIDENTE. Ne ha facoltà.

LA MALFA, Relatore. Onorevoli colleghi, la discussione su questo emendamento si era effettivamente svolta per intero. Doveva rispondere il Relatore e doveva dire la propria opinione il Ministro. Per quanto mi riguarda, posso dire brevemente il mio pensiero. Non so quale sia l’opinione del Ministro. In effetti l’Assemblea ha davanti a sé soltanto un problema di cortesia verso il Presidente.

PRESIDENTE. Pongo ai voti la proposta che si proceda nella discussione.

(Dopo prova e controprova, la proposta è approvata).

Si procede allora nella discussione. Siamo all’articolo 2, che come l’Assemblea ricorda, è stato proposto dalla Commissione nella seguente formulazione:

«Sono soggette all’imposta straordinaria le persone fisiche.

«Sono altresì, soggetti all’imposta straordinaria le società, ditte ed enti costituiti all’estero, limitatamente al capitale comunque investito od esistente nello Stato, con deduzione dell’ammontare delle partecipazioni alla società, ditta o ente, che risultino accertate al nome di persone fisiche, proporzionalmente agli investimenti della società, ditta o ente in Italia».

Rileggo il testo dell’emendamento presentato dagli onorevoli Castelli Edgardo, Scoca, Valiani, Dugoni, Pesenti, Mazzei, Bertone, Tosi, Baracco nella sua definitiva formulazione:

«Sostituire l’articolo col seguente: «Sono soggette all’imposta straordinaria progressiva le persone fisiche.

«Gli enti collettivi sono soggetti ad una imposta straordinaria proporzionale».

CORBINO. Chiedo di parlare.

PRESIDENTE. Ne ha facoltà.

CORBINO. Dichiaro di essere favorevole all’emendamento dal punto di vista sostanziale. Solo mi permetto di far rilevare una questione di collocamento. Noi abbiamo un disegno di legge che comincia così: Titolo I – Imposta straordinaria progressiva sul patrimonio. Noi ora, all’articolo 2° del Capo I, dichiariamo: «Gli enti collettivi sono sottoposti alla imposta proporzionale». Io vorrei pregare di affermare il principio, e poi in sede di inizio del Titolo II – dove manca il titolo del Titolo (si guardi alla pagina 46 del documento), si dovrebbe mettere: «Imposta straordinaria proporzionale sul patrimonio»; Capo XIII: Sul patrimonio dei contribuenti e delle persone fisiche; Capo XIV: Sugli enti collettivi.

Mi pare che in questo modo si approvi il principio e si faccia una cosa che non dirò dal punto di vista formale per la scienza, ma dal punto di vista formale per la tipografia (Si ride), risponde alla logica.

SCOCCIMARRO. Sono d’accordo con la proposta dell’onorevole Corbino. Propongo che si voti subito l’emendamento e si disponga poi in sede di coordinamento, nel senso ora indicato dall’onorevole Gorbino.

CONDORELLI. L’espressione che si usa: «enti collettivi» mi lascia dubbioso. Le società per azioni non sono certamente degli enti collettivi per il vigente codice civile. D’altro canto, le fondazioni si vogliono escludere dalla tassazione? Le fondazioni non sono enti collettivi, ma sono enti morali, perché il concetto di enti collettivi corrisponde all’altro di universitas personarum, per cui non rientrano nella nozione di enti collettivi né le società per azioni, che sono il principale obietto di questa tassazione, né le fondazioni che, secondo me, non devono sfuggire alla tassazione. Basterebbe ricordare certe fondazioni colossali, le quali indubbiamente devono pagare il loro contributo. Parlo di alcune banche che sono fondazioni e che certamente sfuggono al concetto. Secondo me, la intestazione è errata e se noi oggi facessimo un voto in questo senso, avremmo fissato con una legge che sia le società, che invece vogliamo colpire, sia le fondazioni, che devono essere colpite, non sono tassate.

TOGLIATTI. Propongo la chiusura della discussione.

PRESIDENTE. È stata chiesta la chiusura della discussione. Domando se è appoggiata.

(È appoggiata).

Pongo allora ai voti la proposta di chiusura.

(È approvata).

LA MALFA, Relatore. Chiedo di parlare.

PRESIDENTE. Ne ha facoltà.

LA MALFA, Relatore. Ho chiesto la parola per dire il parere della Commissione, perché credo che sia questo il momento giusto. Comunque, rispondo alla obiezione dell’onorevole Condorelli: ormai, nella legislazione finanziaria l’espressione «enti collettivi» ha il preciso significato di istituti ed enti che comprendono società e fondazioni. La dizione della legge del 1922 era: «L’imposta è dovuta dalle persone fisiche e dagli enti collettivi». All’articolo 3 si diceva: «L’imposta non si applica alle società per azioni».

CONDORELLI. Allora, le società per azioni erano enti collettivi; ora non lo sono.

LA MALFA, Relatore. In tutta la legislazione finanziaria è questa la dizione usata per distinguere le persone fisiche dagli enti.

In quanto alla sostanza, dovrei rispondere a tutti gli oratori e principalmente all’onorevole Einaudi, ma mi pare che l’Assemblea si sia orientata sul problema. Devo soltanto esprimere il giudizio della Commissione che è stato favorevole all’accettazione dell’emendamento Castelli Edgardo ed altri.

PRESIDENTE. Qual è l’avviso del Governo?

PELLA, Ministro delle finanze. Come ho già accennato l’altro giorno, il Governo si rimette completamente all’Assemblea.

PRESIDENTE. Pongo allora ai voti l’emendamento dell’onorevole Castelli Edgardo ed altri.

(È approvato).

Resta inteso che nel coordinamento si deciderà sulla definitiva collocazione di questa disposizione, secondo quanto ha osservato l’onorevole Corbino.

(Così rimane stabilito).

C’è ora un emendamento del Governo del seguente tenore:

«Aggiungere il seguente comma:

«Dal valore delle azioni o di quote di partecipazione in società costituite in Italia si detrae una quota-parte proporzionale al valore dei beni posseduti dalle società all’estero, ivi assoggettabili a tributi straordinari».

LA MALFA, Relatore. La Commissione propone di sopprimere questo emendamento e di limitare l’articolo 2 all’emendamento Castelli ed altri non votato.

Tutto quanto riguarda la disciplina delle società, anche all’estero, lo riporteremo al titolo riguardante gli enti collettivi.

PRESIDENTE. Quale è il parere del Ministro?

PELLA, Ministro delle finanze. Quando ebbi l’onore di annunciare questo emendamento, una diecina di giorni fa, vi fu una quasi concorde opinione che si trattasse di un emendamento superfluo, dato che, in sostanza, era naturale che non si potesse tassare quella parte di patrimonio dichiarata esente.

Devo però mantenere l’emendamento stesso a scopo di migliore chiarimento, salvo studiare il collocamento più opportuno.

Forse, non è felice il collocamento all’articolo 2, essendo questo modificato secondo l’emendamento Castelli. Non sarebbe neanche troppo felice collocarlo nel titolo che riguarda la nuova imposta proporzionale sugli enti collettivi.

Cercheremo nella prossima seduta la sede più opportuna.

PRESIDENTE. Rinvio il seguito della discussione ad altra seduta.

La seduta termina alle 13.25.

POMERIDIANA DI GIOVEDÌ 24 LUGLIO 1947

ASSEMBLEA COSTITUENTE

cc.

SEDUTA POMERIDIANA DI GIOVEDÌ 24 LUGLIO 1947

PRESIDENZA DEL PRESIDENTE TERRACINI

INDICE

Comunicazione del Presidente:

Presidente

Disegno di legge (Discussione):

Approvazione del Trattato di pace tra le Potenze Alleate e Associate e l’Italia, firmato a Parigi il 10 febbraio 1947. (23).

Presidente

Sforza, Ministro degli affari esteri

Croce

Gasparotto

Canepa

Ruini

Interpellanza ed interrogazioni con richiesta d’urgenza (Annunzio):

Presidente

De Gasperi, Presidente del Consiglio dei ministri

Grassi, Ministro di grazia e giustizia

Sui lavori dell’Assemblea:

Presidente

La Malfa

De Gasperi, Presidente del Consiglio dei ministri

Interrogazioni (Annunzio):

Presidente

La seduta comincia alle 17.

RICCIO, Segretario, legge il processo verbale della precedente seduta pomeridiana.

(È approvato).

Comunicazione del Presidente.

PRESIDENTE. Comunico che l’onorevole Corbino mi ha fatto pervenire le sue dimissioni da presidente e da componente del gruppo parlamentare liberale.

Sarà pertanto iscritto al gruppo misto.

Discussione sul disegno di legge: Approvazione del Trattato di pace fra le potenze Alleate ed Associate e l’Italia, firmato a Parigi il 10 febbraio 1947. (23).

PRESIDENTE. L’ordine del giorno reca la discussione sul disegno di legge: Approvazione del Trattato di pace tra le Potenze Alleate ed Associate e l’Italia, firmato a Parigi il 10 febbraio 1947. (23).

Ha chiesto di parlare il Ministro degli affari esteri, onorevole Sforza. Ne ha facoltà.

SFORZA, Ministro degli affari esteri. Onorevoli colleghi, è perché sento la grave responsabilità morale che pesa oggi su ognuno di noi, che, più che un discorso vorrei sottoporvi una specie di riassunto assolutamente obiettivo.

Il Trattato che è oggi sottoposto alla vostra ratifica fu firmato il 10 febbraio scorso.

La responsabilità di quella dolorosa decisione fu presa dall’onorevole De Gasperi e da me, confortati non solo dal favorevole avviso dei partiti che erano allora al governo con noi, ma anche di altri gruppi, i cui capi, con franchezza e decisione, ci dichiararono la loro solidarietà.

Malgrado ciò, il nostro rispetto per la sovrana volontà dell’Assemblea Costituente fu e rimase sì profondo che, per mia istruzione, d’accordo col Presidente del Consiglio, il nostro Plenipotenziario partì per Parigi con l’ordine di depositare prima della firma una formale dichiarazione precisante – qui cito – che «la firma stessa rimane subordinata alla ratifica che spetta alla sovrana decisione del– l’Assemblea Costituente».

La notte che precedette il momento della firma telefonai io stesso al nostro Plenipotenziario a Parigi, ripetendogli che se fossero sorte obiezioni alla solenne accettazione della nostra dichiarazione egli doveva tornar tosto a Roma senza firmare.

L’Assemblea Nazionale, voi dunque lo vedete, è pienamente libera e sovrana nelle sue decisioni. E il mondo intero lo sa.

Poche ore dopo la firma pensai ch’era dovere mio di chiarire al mondo a quali condizioni e per quali ragioni ci eravamo indotti a firmare. Credo opportuno leggervi la breve nota che quel 10 febbraio inviai per telegrafo alle venti Potenze firmatarie del Trattato.

Eccone il testo:

«Il Governo italiano, firmando un Trattato che non è stato chiamato a negoziare e che sarà sottoposto alla approvazione dell’Assemblea Costituente, ha voluto provare che affronta gli atti più dolorosi per affrettare l’avvenire di una vera pace costruttiva nel mondo.

«Ma il suo primo dovere verso i Governi firmatari e i loro popoli è di esprimersi ed agire con la più assoluta lealtà. Questa lealtà gli impone di ricordare che i Trattati di Pace non sono eseguibili che se sostenuti dalla coscienza morale dei popoli.

«Il popolo italiano ha la coscienza di aver agito coatto di fronte al regime che lo trascinò poi nella guerra e che tanti all’estero sostennero con le loro lodi. Il popolo italiano non poté mostrare al mondo il suo vero carattere che riuscendo a liberarsi per il primo da un regime di oppressione e fornendo poi agli alleati, durante la guerra di liberazione, dei vantaggi diretti ed indiretti cui non è stata resa sufficiente giustizia.

«Il Governo italiano mancherebbe all’onore – il patrimonio che gli è più sacro – se non avvertisse gli alleati che il Trattato peggiora ancora nelle sue clausole territoriali economiche coloniali militari quella atmosfera di soffocazione demografica che pesava praticamente sul popolo italiano e che in parte è all’origine di tanti mali per noi e per gli altri. Il Governo italiano stima che è un interesse diretto delle grandi democrazie di rivedere per il bene generale le loro relazioni col problema italiano che è un aspetto essenziale del riassetto mondiale.

«Pur ammettendo tanti errori passati, l’espiazione del popolo italiano è stata sì dura fino alla firma odierna che noi ci sentiamo per l’avvenire, come italiani e come cittadini del mondo, in diritto di contare su una revisione radicale di quanto può paralizzare o avvelenare la vita di una Nazione di quarantacinque milioni di esseri umani congestionati su un suolo che non li può nutrire».

Tale fu il mio primo commento alla firma del Trattato. La risposta che primo fra tutti – dieci giorni dopo – mi fece giungere il Segretario di Stato americano, fu per noi preziosa, colla sua franca affermazione che la via della revisione ci era aperta. Quasi tutte le risposte, del resto, furono ispirate a sincera simpatia. Ciò che più mi piacque come italiano fu che il mondo capì che noi protestavamo non solo come italiani, ma come europei, e che protestavamo onestamente e lealmente, perché decisi a rigettare tanto una politica di astuzie quanto di sterili violenze; e che, se ci dolevamo del cattivo Trattato, ciò non era solo pel torto che esso ci infliggeva, ma anche perché colle sue concezioni da secolo xviii esso nuoceva agli interessi più alti e più veri di coloro stessi che lo redassero e ce lo imposero.

Il Trattato di pace costituisce l’ultimo capitolo di un periodo della storia d’Italia. Non distinguendo sufficientemente un popolo – reso incapace di ribellarsi – da un regime di oppressione (che – come ricordai il 10 febbraio – tanti appoggi ricevette dallo straniero), il Trattato volle costituire la condanna di una lunga politica inconsciamente contraria agli interessi supremi dell’Italia.

Il Trattato non è tanto la sanzione di una sconfitta, quanto il suggello di una politica immorale e sbagliata. Esso è l’atto finale di un isolamento, che cominciò nel 1922, quando una dittatura soffocò i sentimenti della Nazione, e ci separò moralmente e politicamente dal resto dell’Europa libera, gettandoci poi, impreparati, in una guerra dove in ogni caso avevamo tutto da perdere. Nel 1940 l’isolamento politico e morale divenne crisi violenta e portò il paese alla catastrofe e disperse le vite di tanti italiani in Patria e sui fronti di guerra. Amarissimo è per noi soprattutto il ricordo di questi soldati, formati ad una tradizione di sacrificio e di disciplina, che combatterono una guerra ingrata, male armati ed equipaggiati, abbandonati spesso dai tedeschi nei momenti di maggiore sfortuna, e che scrissero tuttavia belle pagine nella storia del valore e della fedeltà del soldato italiano.

Fu necessaria ancora, dopo l’8 settembre, l’innata generosità di questi stessi nostri soldati, furono necessari i sacrifici eroici della nostra Marina, fu necessario il sangue di tanti volontari e di tante vittime, perché intorno alla Nazione Italiana si riformasse all’estero un alone di simpatia. Il nostro isolamento morale finì relativamente presto, perché presto si vide di che sostanza umana l’Italia era fatta. Entro certi limiti, questo miglioramento si tradusse in termini politici. L’armistizio fu interpretato con spirito più aperto, l’Italia normalizzò o quasi le sue relazioni diplomatiche cogli altri paesi, entrò a far parte di vari organismi internazionali.

Tuttavia alla Conferenza della Pace e ai tavoli dove erano uomini mai stati a contatto con l’Italia liberata, italiani ardenti di patriottismo – come Alcide De Gasperi – dovettero riconoscere che c’era ancora molta strada da percorrere per adeguare al piano morale raggiunto, il piano politico e diplomatico. Fu allora che dovemmo sentire come il rifiutare la firma avrebbe significato ribadire l’isolamento nostro, mentre nostro supremo interesse era di rientrare di pieno diritto nel concerto delle Nazioni, appunto perché eravamo sicuri di noi stessi e del nostro avvenire. Non firmando, avremmo in un certo senso dato ragione agli autori del Trattato, i quali non si erano accorti che fra il più irragionevole degli armistizi e i negoziati di Parigi il clima nazionale e internazionale dell’Italia era profondamente mutato.

Da allora gli spiriti mutarono gradualmente, fino a che si cristallizzò una atmosfera di cui l’espressione più recente fu l’accoglienza cordiale e leale che le Potenze, riunite a Parigi per la ricostruzione economica dell’Europa, fecero ad una rinnovata Italia, riconoscendole la posizione e l’influenza che le spettano, e ciò prima dell’atto formale della nostra ratifica del Trattato.

Ma non è soltanto da un punto di vista immediato che va posta la questione.

Per noi è necessario creare delle vie libere intorno alla nostra politica. Un singolo uomo diventa un eroe se rimane in prigione; un popolo non ha il diritto di rimanere in un campo di concentramento, un popolo deve affermarsi, agire, espandersi. (Applausi al centro). È soprattutto quando, temporaneamente o no, non si è forti, che bisogna – se non si vuol essere esclusi dalla vita – accettare il principio della collaborazione.

Guardate la Germania, ancora immersa nello stupore che segue la crisi di follia, quale quella di cui questo sciagurato popolo fu preda; essa giace accasciata e son certo che vi sono ancora tra i tedeschi dei nazisti abbastanza fatui per compiacersi del loro isolamento.

Ma noi italiani, la cui vita è sempre stata tanto più dura di quella dei ben pasciuti tedeschi, possiamo bensì sentir pietà del loro fato come si ha pietà delle follie di don Chisciotte, ma non indulgere agli stessi sentimenti, poiché abbiamo superato il punto morto e riacquistato una sana fiducia in noi stessi, ben diversa dalla malata megalomania che ha invasato per tanti anni la Germania.

Guardate invece la Cecoslovacchia: sempre fedele, sotto la guida di Masaryk e di Benes, alla collaborazione internazionale. Essa cadde: a Berchtesgaden e a Palazzo Venezia irrisero alla sua caduta; ma essa risorse circondata dal rispetto del mondo.

Purtroppo noi italiani facemmo l’esperienza inversa. Pagammo il fio del massimo errore dei capi fascisti: aver rotto la collaborazione internazionale.

Ormai la coscienza dei popoli tende ad una sempre maggiore coordinazione economica e morale, come condizione essenziale di pace e di progresso. E i popoli hanno forse capito tutto questo meglio dei governi ed è perciò che – in assenza di un organismo internazionale in perfetta efficienza e di una compenetrazione di interessi sentiti da tutti – dobbiamo porci al riparo dal pericolo che, in caso di crisi, il problema europeo si ponga di nuovo in termini di forza. È qui che noi italiani non dobbiamo farci illusioni in caso di ritorno alla violenza, sarà chi è militarmente più disarmato che soccomberà pel primo, che pagherà per tutti.

Oltre a queste elementari ragioni di sicurezza, che ci spingono a solidarizzare con gli sforzi di tutti quei paesi europei che sono decisi ad adoperarsi in ogni modo perché sia scongiurato il pericolo di una nuova guerra, vi sono altre ragioni, che ci consigliano di reprimere giusti sdegni e santi dolori pur di collaborare a una impostazione non isolazionista della nostra politica estera.

Gli avvenimenti degli ultimi anni hanno impresso un tale ritmo al progresso collettivo degli uomini, da modificare completamente il volto della società. Ciò che noi abbiamo chiamato finora democrazia si avvia a divenire democrazia più ampia e più vera, trasformandosi in regime che può reggersi solo se sostenuto dalle grandi masse popolari in continua, pacifica ascesa. Ma come potremmo effettuare la costruzione di tale solida moderna democrazia, come potrebbe aver luogo questo grande pacifico assestamento di tutta la nostra società nazionale, se la nostra politica estera si orientasse verso un isolamento che, anche se non divenisse morbosamente xenofobo, rischierebbe di giuocar le sorti della patria su giuochi di carte di cui a noi sfuggirebbero gli sviluppi e gli scopi?

Non dimentichiamo quanto si verificò all’epoca dell’ultimo Ministero Giolitti, di cui feci parte. Allora una politica estera di calda collaborazione europea, che sarebbe stata feconda di bene in ogni campo per l’Italia, cadde sotto i colpi di forze reazionarie; oggi la creazione della nuova Italia potrebbe venire compromessa da una politica estera che ci separasse dal mondo. È un dato acquisito ormai che il cammino delle masse popolari è legato al trionfo delia collaborazione internazionale.

È d’altronde una tendenza naturale quella che sta ovunque conducendo alle unità, alle collaborazioni. Guardate la crescente unione degli Stati Americani, dall’Argentina al Canada, quella dei Paesi Arabi, quella dei Paesi Scandinavi, quella del Belgio, Paesi Bassi, Lussemburgo, che han perfino creato una nuova parola collettiva: il Benelux. Guardate sovratutto la grande tendenza unitaria maturata durante la seconda guerra mondiale: l’organizzazione delle Nazioni Unite.

Quando parliamo dell’O.N.U. noi non pensiamo soltanto alla strada che pacificamente ci potrà avviare verso la revisione del Trattato e attraverso la quale porteremo all’attenzione dei popoli alcuni nostri problemi fondamentali; noi pensiamo anche, e soprattutto, allo spirito che sempre più dovrà animare il mondo.

L’organizzazione delle Nazioni Unite, significa fiducia che le grandi forze internazionali prevalenti sulla terra trovino un terreno di intesa o almeno di tolleranza. Uno scettico e ignaro richiamo, a proposito dell’O. N. U., del triste fato che toccò alla Società delle Nazioni non tiene conto di una differenza essenziale: che da Ginevra erano assenti gli Stati Uniti e la Russia; e che Russia e Stati Uditi sono invece attivi e presenti a Lake Success. Spesso discordi? Ebbene, ciò non fa che rendere più importante il nostro compito, che noi non si sfugga al più nobile forse dei nostri doveri, quello di essere anche noi presenti e di aiutare le intese, di creare atmosfere di accordo. È là, là solo, in tali funzioni, che un popolo disarmato come l’Italia può farsi valere conte interprete e araldo di formidabili forze morali.

E a questo punto occorre ricordiate che entro il 10 agosto la Commissione formata dal Consiglio di Sicurezza per l’esame delle domande di ammissione all’O.N.U. dovrà riferire al Consiglio stesso l’esito delle sue indagini. Se per quella data l’Italia non avrà ratificato il Trattato, essa sarà costretta a riferire che manca uno degli elementi essenziali per la nostra ammissione. E che, se perdiamo quella data, potrà essere ritardato di un anno il nostro ingresso nel più solenne areopago del mondo, dove tanto potremmo per noi e, spero, per la pace mondiale, cioè per la eliminazione di blocchi ostili. Qualcuno ha già obiettato a questa considerazione che, anche con la nostra ratifica, è dubbio che saremmo ammessi per la formale imperfezione del Trattato, finché le ratifiche dei Quattro non siano presentate. Ma vi dirò, in primo luogo, che nulla esclude che nei prossimi giorni questa presentazione avvenga; nel qual caso solo l’espresso veto di una delle grandi Potenze potrebbe escluderci dall’O.N.U.

Comunque, sia di fronte ad un impedimento di forma, che di fronte a un inverosimile veto, la nostra posizione sarà più forte di quel che non sarebbe se la responsabilità dell’esclusione potesse farsi, senza compromissione degli altri, ricadere su di noi.

Avevo cominciato a parlarvi di questi problemi anche in relazione alla nostra vita interna: lasciatemi ripetere su questo punto, che è solo attraverso una politica internazionale di collaborazione profonda che sarà possibile salvare la democrazia e la pace anche in casa nostra. È solo con una politica estera che non speculi su delle ipotesi di guerra che noi potremo realizzare quella distensione che è condizione prima perché la democrazia si stabilizzi e progredisca come una legge di natura ammessa da tutti.

Bisogna essere franchi.

O noi consideriamo il Trattato come un atto ingiusto, la cui necessaria revisione deve farsi con mezzi pacifici, ed allora la ratifica diviene la sola via per far valere, sopratutto attraverso l’O.N.U., ma non l’O.N.U. soltanto, il nostro diritto a progressivi superamenti di situazione; o noi rifiutiamo la ratifica, e allora ciò significa che noi affidiamo la nostra sorte ad una crisi internazionale, che noi contiamo – anche senza confessarcelo – su nuove conflagrazioni. Ma, in questa ipotesi, chi dunque non vede che rischieremmo di pagare la distruzione del Trattato con la distruzione dell’Italia?

Del resto, questo Trattato è così poco un organismo sicuro e stabile che già gli Stati Uniti da un lato e la Gran Bretagna dall’altro hanno aderito da tempo ad intese che hanno significato dei veri e propri inizi di revisione.

Il Governo inglese cominciò col riconoscere spontaneamente che, secondo l’art. 46, le clausole militari e navali potevano venire modificate in seguito ad accordi fra noi e le Potenze Alleate. E più oltre lo stesso Governo ci significò che era disposto, dopo la ratifica, ad addivenire ad accordi diretti col Governo italiano su tutte quelle parti del Trattato che, riferendosi unicamente a diritti riconosciuti alla Gran Bretagna, potevano venire modificati senza pregiudizi a diritti di terze Potenze. Saremmo ingiusti se dimenticassimo gli «accordi Menichella», con cui il Governo britannico accolse amichevolmente non poche nostre importanti richieste.

Quanto al Governo degli Stati Uniti, esso fu ancor più esplicito circa il superamento del Trattato. In molte dichiarazioni di capi politici – fra cui importantissime quelle del Senatore Vandenberg, il 10 luglio – si ribadiva il concetto della revisione, si lasciava comprendere che attraverso l’O.N.U. si sarebbe potuto giungere a modifiche anche sostanziali. Questo stato di animo del Governo e del popolo americano veniva, con un atto che credo unico nella storia, solennemente confermato, al momento della ratifica americana, da un messaggio del Presidente Truman, che non solo riconosceva l’ingiustizia di certe clausole e la possibilità della revisione, ma, in un certo senso, parlando del contributo italiano alla causa comune, svalutava anche l’ingiusto preambolo del Trattato stesso. E ciò andò al nostro cuore, perché (bene o male che sia) noi italiani siamo così fatti: una parola sincera e fraterna vale spesso per noi più dei vantaggi materiali. Lo ricordino quegli stranieri che ci rinfacciano spesso un nostro più o meno autentico machiavellismo e non si accorgono che non siamo mai tanto ingenui come quando ci imbarchiamo in ragionamenti pseudo machiavellici.

La lontana ma amica Repubblica cinese, in risposta alla nota italiana, ci dichiarava per iscritto di ritenere che il Governo italiano, dopo l’entrata in vigore del Trattato di pace, non ha che da chiederne la revisione, purché nell’ambito dell’O.N.U.

Di un’altra iniziativa per la revisione del Trattato si è fatto promotore l’Equatore: tale iniziativa fu sviluppata mediante il nostro suggerimento di un passo collettivo degli Stati americani presso l’O.N.U., passo che ha servito e servirà a mettere in chiaro come sorse un Trattato, che non fu negoziato con l’Italia, ma ad essa imposto. Molti Stati, fra i quali l’Argentina, hanno risposto favorevolmente, e il movimento di simpatia per la nostra tesi prende sempre più corpo in tutti quei Paesi.

Le Repubbliche di Cuba, Panama e Honduras sono andate ancor più in là, con atti che, per ciò che le concerne, annullano quasi il Trattato. Vada a tutti i nobili popoli latini d’oltre Oceano la riconoscenza dell’Italia! (Applausi al centro).

Quando un Trattato di pace nasce accompagnato da tali manifestazioni – e molte altre potrei citarne, e negli stessi ambienti responsabili di quasi tutti gli Stati interessati – esso porta già in sé il marchio di una vitalità destinata ad esaurirsi. Del resto noi dovremmo allargare il nostro orizzonte e sentire che l’Italia non può circoscrivere la sua azione alla revisione del Trattato, per importante e necessaria che essa sia. Vi sono, al di là del Trattato, interessi italiani spirituali e materiali, come il salvataggio di un grande patrimonio di sacrifici e di lavoro in Africa e la ricostruzione di tutte le influenze economiche e spiritual di un grande paese quale l’Italia è stata, è, e dovrà essere.

Ora, l’«atto» della ratifica incide anche su tutti questi interessi; è bensì vero che affidamenti precisi non possiamo ancora dire di averne; ma dobbiamo riconoscere che impostare questi problemi rinviando la ratifica, significherebbe non avere neanche la possibilità di chiedere e di lottare in una atmosfera di fiducia e di simpatia.

Se l’Assemblea o il Paese non sentissero che occorre un gesto di saggezza politica e accettare la ratifica, cosa potrebbe accadere?

È certo che una nostra mancata ratifica provocherebbe una reazione nettamente sfavorevole, anche se più o meno dissimulata, in un primo tempo. Le stesse Repubbliche latino-americane sarebbero inceppate nella loro azione a nostro favore. Rimarrebbero certo amicissime, ma di qual prudenza avrebbero bisogno!

In caso di incidenti e rivolgimenti che purtroppo niuno può assolutamente escludere, saremmo noi, questa volta, i più imperdonabili; perché dopo l’esperienza dell’anno scorso, saremmo stati noi, gli uni con nuove dubbiezze e altri con speranze di ipotetici terni al lotto, a riportare la nostra Italia sul tavolo anatomico su cui le folli guerre fasciste la gettarono.

Certo, cotali ipotesi noi vogliamo considerarle assurde. Ma tutt’altro che assurdo è il prevedere che se rimanessimo staccati dal resto del mondo, potremmo trovarci, senza saperlo e senza volerlo, di fronte a conseguenze pratiche pericolose. Prendiamo un esempio recentissimo: per le delimitazioni di confine interno a Gorizia, problema di cui mi sono personalmente occupato anche a Parigi coll’affetto che voi pensate, ricevetti parole di simpatia e di comprensione; ma ciò accadeva in una atmosfera che, pel fatto stesso della nostra presenza nella capitale francese, faceva considerare la ratifica come acquisita. Anche per continuare a difendere l’italianità di Trieste abbiamo bisogno di un punto fisso da cui batterci.

Potrei qui indicarvi i danni immediati di interessi pubblici e privati italiani che potrebbero colpirci, in caso di non ratifica, in Libia come in Eritrea, in Tunisia come al Giappone, in Germania come nel campo delle riparazioni, punti tutti dove, lentamente, tacitamente, pazientemente siamo riusciti a migliorare la situazione a nostro favore. Ma non lo farò perché, pensoso soprattutto degli interessi italiani, non voglio neppur supporre che certe cose possano accadere. Ma il dovere del Governo non è solo di lavorare con fiducia e ragionevole ottimismo, sibbene anche di prospettarsi tutte le eventualità.

Non voglio neppure pensare a un rovesciamento di attitudine degli Stati Uniti verso di noi; è forse perché ricordo tuttora con emozione che pochi mesi dopo che Mussolini dichiarò la guerra a quel grande Paese amico, un giorno ancor vivo nel mio spirito, i dieci milioni di italiani sparsi nelle due Americhe udirono commossi e stupefatti questo messaggio da Washington: «L’America è in guerra con il fascismo, non con l’Italia; noi, quindi, convinti che gli italiani sono amici nostri, decidiamo di togliere i cittadini italiani dalla lista dei nemici; d’or innanzi essi rimarranno fra noi liberi e tranquilli con tutti i diritti dei cittadini degli Stati Uniti».

E così accadde fra lo stupore del mondo, se non dell’Italia incatenata che niente ne seppe. Ma, malgrado tanta generosità, è nostro dovere renderci conto che anche negli Stati Uniti si darebbe alla mancata ratifica un significato di nostra scarsa volontà di collaborazione internazionale. E di ciò avremmo inevitabili ripercussioni, anche in relazione alla Conferenza per il cosidetto piano Marshall, ripercussioni da cui mi sembra che tutto il buon volere degli Stati Uniti non riuscirebbe a salvarci. Mi spiego.

Entrata l’Italia onorevolmente nei lavori della Conferenza di Parigi, sono convinto che nessuno penserebbe ad eliminarla, benché giuridicamente ciò sia concepibile.

Ma quando il piano di aiuto americano all’Europa venisse in esecuzione e fossero fissate le cifre di intervento, è verosimile che le aperture di credito in dollari sarebbero gestite dai singoli Governi, mentre invece per quanto riguarderà la Germania i crediti dovranno essere gestiti dalle Nazioni occupanti o da qualche organismo che esse creeranno. La più ovvia delle giustificazioni a questa diversità di trattamento sarà quella che la Germania si troverà ancora senza trattato di pace. Non sarebbe allora probabile che anche per l’Italia, non legata da trattati si deliberasse la stessa procedura prevista per la Germania?

E come sarebbe concepibile l’esecuzione del piano Marshall nei confronti dell’Italia, quando questa, per essersi rifiutata di ratificare il Trattato, non fosse in condizione di procedere a pagare le riparazioni che il Trattato le impone? Le Nazioni aventi diritto a riparazioni potrebbero invocare dall’America di sospendere l’applicazione del piano Marshall nei riguardi dell’Italia, per costringere questa all’osservanza di un Trattato che l’America ha ratificato.

Queste considerazioni portano a concludere, dunque, che ben difficilmente l’esecuzione del piano Marshall (non la sua formulazione) sarebbe conciliabile con una posizione di un’Italia rimasta isolata nel mondo; in tal caso, sarebbe molto probabile la creazione, per l’esecuzione del piano Marshall nei confronti dell’Italia, di organi speciali per la garanzia delle nazioni vincitrici, organi che, mentre diminuirebbero la dignità e la sovranità dello Stato italiano, finirebbero per avvicinare la figura dell’Italia a quella della Germania, cioè a farci fare un formidabile passo indietro sulla via che abbiamo onorevolmente percorso per raggiungere la posizione che ci spetta.

D’altronde, che materia copre politicamente il Trattato?

Il Trattato si basa su concetti che la coscienza e la realtà del nostro secolo vanno scartando come arcaismi. Esso infatti è tutto basato su clausole di confini, di servitù militari, di imposizioni e limitazioni economiche. Ora l’esperienza storica e, vorrei dire, tecnica del mondo moderno ha rivelato – come già prima ho accennato – il progressivo fondersi dei confini nazionali in unità sempre più vasta, ha spostato completamente i termini della potenza militare, facendone ormai un semplice aspetto della potenza industriale, ha per sempre fatto svanire il mito dei circuiti economici chiusi e quindi ha messo in piena luce il principio cardinale che le riparazioni eccessive o non si pagano o presto o tardi creano uno scompenso risentito da tutto il sistema economico internazionale.

Che cosa, invece, il Trattato non copre?

Vorrei dire che esso non copre proprio la materia della politica estera che noi italiani abbiamo impostato e vogliamo impostare. Noi agiamo – e in tal senso mi espressi anche nei giorni scorsi alla Conferenza di Parigi – per contribuire a creare un’Europa che non sia aggressivamente tesa contro altri sistemi, ma sia un’Europa di libertà e di comprensione per tutte le forze del mondo.

Sul piano che una volta si chiamava coloniale, abbiamo cercato di affrontare in maniera moderna il problema dei nostri rapporti con il mondo africano. Di fronte all’emancipazione e alla coscienza popolare e nazionale del mondo arabo e africano abbiamo sentito che il vecchio colonialismo era morto per tutti e che per tutelare i frutti del nostro lavoro e della nostra libera emigrazione in Africa noi dovevamo associarci a quei popoli in marcia ormai verso l’indipendenza, creando per l’avvenire le premesse di un rapporto di dignitosa collaborazione e, se possibile, di alleanza.

Il terzo pilastro della costruzione dovrebbe essere, oltre la politica migratoria coll’America latina, anche una vasta politica culturale e commerciale con la stessa America latina, da un lato e con l’Europa orientale dall’altro, non perdendo occasioni per migliorare le nostre relazioni con quei mondi dell’avvenire per noi tanto importante, dalla vicina Jugoslavia fino all’Unione sovietica, passando per tutti i popoli balcanici.

Il Trattato esprime insomma una concezione anacronistica della guerra, della vittoria, della pace, della vita internazionale. Per contestare il Trattato non possiamo servirci di un arnese della vecchia politica.

Opponendo al Trattato non un rifiuto, che oggi come oggi danneggia noi, ma una visione più larga e più intelligente, noi lo superiamo nella realtà.

Il miglior modo per modificare il Trattato non è solo la sua pacifica revisione: è l’invenzione o l’applicazione di una politica più fresca ed elastica, degna del secolo in cui viviamo e dell’età verso cui marciamo.

Mi sembra che in Italia la grande maggioranza l’abbia sentito; tanto è vero che il dibattito si è spostato: soprattutto negli ultimi giorni è parso chiaro che il problema non verte più tanto sulla ratifica quanto sul rinvio o meno della ratifica. Le tesi a questo proposito sono in sostanza due: una prevalentemente giuridica e l’altra prevalentemente politica.

La prima parte del concetto è che, siccome l’U.R.S.S. non ha ancora ratificato, il Trattato non è entrato in vigore e quindi noi non siamo obbligati a ratificarlo. A questo riguardo la formula suggerita dal Governo concilia la necessità politica e morale della urgente ratifica con il desiderio di non impegnare, né giuridicamente né moralmente l’Italia, finché il Trattato non sia entrato in vigore.

Ma conviene, a noi, metterci su un terreno esclusivamente giuridico?

In fondo, in che cosa è consistita la nostra politica dal 1943 in poi? Nel modificare di fatto una situazione di diritto. Tutta la nostra politica è consistita nell’annullare o per lo meno diminuire di fatto le dure clausole armistiziali. Ciò che l’Italia ha sempre cercato di fare è di sovrapporre al crudo testo una situazione di fiducia, fondata sulla nostra assoluta franchezza e lealtà, una situazione politica articolata, cordiale, sicura di noi.

Al diritto armistiziale abbiamo opposto la impareggiabile tenacia della nostra gente e il suo spirito di resurrezione materiale e spirituale. Siamo riusciti così a compiere un arduo cammino.

Ma noi abbiamo interesse a che le nostre posizioni si rafforzino al più presto, noi abbiamo interesse a dare una ferma base alla nostra azione.

Il Trattato fu per i Grandi un faticoso compromesso; un atto di pacificazione fra di loro. I nostri interessi furono duramente subordinati al bisogno di intese altrui, quali in quel momento prevalevano.

Ma da qualche tempo le relazioni fra gli alleati sono, speriamo solo provvisoriamente, peggiorate. Molti hanno interesse a rendere di nuovo fluido tutto, a non considerare più definitivo niente, a rimettere tutto in discussione. Noi invece non ci troviamo in una condizione che consenta di attendere fra nuove incertezze. Abbiamo bisogno di fondare su basi sicure e coincidenti con gli interessi generali dell’Europa e della pace il nostro sforzo modificante la situazione di inferiorità in cui fummo posti. Con la ratifica noi acquisteremo subito, sia pure a duro prezzo, un motivo per proseguire la lotta che meniamo da lunghi mesi. Con la ratifica oggi noi non modifichiamo il nostro status giuridico ma il nostro status politico-morale.

Qui una osservazione mi pare essenziale; da alcuni si teme che la nostra ratifica, votata prima della ratifica sovietica, possa contribuire, sia pure senza volerlo, alla instaurazione della politica dei blocchi, foriera forse di guerra, quindi fatale per noi.

Ora mi pare che proprio il contrario sia vero: la ratifica servirà invece a creare una atmosfera di fiduciosa collaborazione con le Potenze europee che, come noi, vogliono creare l’Europa. E creare l’Europa è la sola maniera di evitare la politica dei blocchi. Isolandoci dal resto del continente, ostacoleremmo la creazione di un complesso europeo interessato alla pace, cioè allo sviluppo di buone relazioni fra gli Stati Uniti e l’Unione Sovietica.

Del resto, l’atteggiamento dell’Unione Sovietica rispetto al nostro Trattato di pace non ci risulta mutato da quando ci si disse che firma e ratifica erano per essa la stessa cosa, e che dovevamo – in nome del nostro futuro – dare per scontato sia l’una che l’altra.

Noi non dobbiamo metterci nella situazione di una foglia morta, alla mercé degli eventi. Alla mercé degli eventi tutto diventa un gioco: può andar meglio, può andare peggio. Ma ratificando, mentre non cambiamo nulla di nulla, finché tutti non ratificano, fissiamo d’altro canto, una base, creiamo un diaframma politico e morale fra un passato opprimente e l’avvenire.

Se tutti ratificheranno, la nostra ratifica sarà un atto apprezzato da tutti; e se il Trattato non dovesse entrare in vigore noi ci saremmo creati un titolo che ci permetterà di chiedere la riconsiderazione di molti problemi italiani. Ma una ragione soprattutto, debbo ancora ripeterlo, fece che il problema della ratifica divenisse questione urgente e fu la convocazione della Conferenza di Parigi. Non andare a Parigi significava non solo isolarci dall’Europa, ma recidere colle nostre mani ogni possibilità di futuri crediti americani. Fu allora che gli Ambasciatori a Londra e a Parigi mi fecero sapere in modo categorico che, se non v’era interdipendenza giuridica, v’era tuttavia interdipendenza psicologico-politica tra la ratifica e una nostra efficace degna partecipazione alla conferenza.

L’urgenza che v’era allora e di cui la maggioranza della Commissione dei Trattati si rese conto, cresce ora – già ve l’ho detto – perché siamo alla vigilia della discussione all’O.N.U. circa la nostra ammissione.

Riassumendo, ci sono ragioni contingenti, e ci sono ragioni assolute. Fra queste la prima è che dobbiamo creare fiducia degli altri popoli in noi.

Il senso del Trattato non sta solo nella dolorosa mutilazione che esso ci infligge, ma anche e soprattutto nello spirito di sfiducia che è alla base di quello strumento. Si teme o si temeva un ritorno di spirito aggressivo, non si crede o non si credeva in una nostra vera funzione: insomma si ha l’impressione che si cerchino garanzie contro una politica di inconsistenti oscillazioni. È questo che si legge tra le righe del Trattato.

Ed è perciò che nostro primo interesse è creare questa atmosfera di fiducia all’estero. In gran parte ci siamo già riusciti. E come potremmo pretendere di più, se basta un momento di incertezza a far cambiare opinioni, a far sorgere da ogni lato, come funghi, delle sottigliezze procedurali? Non è per cotali vie che si tuteleranno i nostri interessi in Africa o che si difenderà l’onore di quella marina da guerra il cui eroismo fu nostro orgoglio e la cui disciplina fornì vantaggi preziosi agli alleati (Vivi applausi). Non è per questa via che si riconquisterà finalmente la piena indipendenza nazionale.

E noi qui, in questa Aula, dall’estrema sinistra all’estrema destra, non invochiamo ogni giorno a gran voce indipendenza per l’Italia, indipendenza, libertà, e pace?

Ma solo la ratifica è l’argomento di cui potremmo incessantemente servirci per chiedere il ritiro delle truppe e la cessazione di ogni controllo.

Io credo, con tutta l’anima, che sarebbe dannoso per noi l’arrestarci oggi sul cammino dell’intesa europea; noi rischieremmo di perdere quanto anni di lavoro e di sacrificio ci han fatto guadagnare; ma attualmente credo che la ratifica dovrà servirci a meglio condurre su tutti i fronti, non solo la battaglia pel superamento del Trattato, ma anche per ridare a tutte le funzioni dello Stato l’importanza che compete a una grande Nazione sicura del proprio avvenire. La ratifica è la porta da cui dobbiamo passare, se vogliamo sul serio impostare davanti al mondo tutti i nostri problemi.

Condannando con una solenne protesta morale il Trattato e mostrando insieme con la nostra stabilità interna e con la nostra ripresa in ogni campo che noi stiamo già marciando molto più in là della miope atmosfera del Trattato stesso, noi affermeremo di fronte al mondo la vitalità della Nazione italiana. Il resto verrà.

Anche giorni fa a Parigi, io mi domandai più di una volta se sapevamo abbastanza quanto ci eravamo rialzati. Ovunque sentii un nuovo rispetto per questa nostra Italia laboriosa e tenace.

Abbiamo dunque fiducia in noi, nelle nostre forze, nel nostro avvenire: una politica estera non è che lo specchio di una politica interna. Sian pure vive le nostre lotte politiche, ma purché tutti noi guardiamo avanti e non indietro. Indietro non troveremmo che recriminazioni e rancori. Se noi amiamo i nostri fratelli ai violati confini, proviamolo loro con l’unione di tutti di fronte ai supremi ideali comuni di democrazia. Sarà questa la forza maggiore dei nostri fratelli, la loro linfa di italianità.

Fra qualche decennio parrà miracoloso ciò che abbiamo già compiuto per rifare l’Italia, dopo lo sfacelo del 1943. La via è dolorosa, come oggi. Ma troppe volte i nostri avi parlarono dello Stellone. Questa volta, quando sarà chiaro a tutti che l’Italia si è risollevata, nessuno potrà dire che lo Stellone ci aiutò. Sarà nostro vanto di esserci salvati da noi colla tenacia del nostro lavoro, colla forza di un popolo come il nostro, che mai si abbatte a lungo, che sempre risorge, fedele ai più santi ideali di pace e di libertà. (Vivissimi applausi – Congratulazioni).

PRESIDENTE. È iscritto a parlare l’onorevole Croce. Ne ha facoltà.

CROCE. Io non pensavo che la sorte mi avrebbe, negli ultimi miei anni, riserbato un così trafiggente dolore come questo che provo nel vedermi dinanzi il documento che siamo chiamati ad esaminare, e nell’essere stretto dal dovere di prendere la parola intorno ad esso. Ma il dolore affina e rende più penetrante l’intelletto che cerca nella verità la sola conciliazione dell’interno tumulto passionale. Noi italiani abbiamo perduto una guerra, e l’abbiamo perduta «tutti», anche coloro che l’hanno deprecata con ogni loro potere, anche coloro che sono stati perseguitati dal regime che l’ha dichiarata, anche coloro che sono morti per l’opposizione a questo regime, consapevoli come eravamo tutti che la guerra sciagurata, impegnando la nostra Patria, impegnava anche noi, senza eccezioni, noi che non possiamo distaccarci dal bene e dal male della nostra Patria, né dalle sue vittorie né dalle sue sconfitte. Ciò è pacifico quanto evidente.

Senonché il documento che ci viene presentato non è solo la notificazione di quanto il vincitore, nella sua discrezione o indiscrezione, chiede e prende da noi, ma un giudizio morale e giuridico sull’Italia e la pronunzia di un castigo che essa deve espiare per redimersi e innalzarsi e tornare a quella sfera superiore in cui, a quanto sembra, si trovano, coi vincitori, gli altri popoli, anche quelli del Continente nero.

E qui mi duole di dover rammentare cosa troppo ovvia, cioè che la guerra è una legge eterna del mondo, che si attua di qua e di là da ogni ordinamento giuridico, e che in essa la ragion giuridica si tira indietro lasciando libero il campo ai combattenti, dall’una e dall’altra parte intesi unicamente alla vittoria, dall’una e dall’altra parte biasimati o considerati traditori se si astengono da cosa alcuna che sia comandata come necessaria o conducente alla vittoria. Chi sottopone questa materia a criteri giuridici, o non sa quel che si dica, o lo sa troppo bene, e cela l’utile, ancorché egoistico, del proprio popolo o Stato sotto la maschera del giudice imparziale. Segno inquietante di turbamento spirituale sono ai nostri giorni (bisogna pure avere il coraggio di confessarlo) i tribunali senza alcun fondamento di legge, che il vincitore ha istituiti per giudicare, condannare e impiccare, sotto nomi di criminali di guerra, uomini politici e generali dei popoli vinti, abbandonando la diversa pratica, esente da ipocrisia, onde un tempo non si dava quartiere ai vinti o ad alcuni dei loro uomini e se ne richiedeva la consegna per metterli a morte, proseguendo e concludendo con ciò la guerra. Giulio Cesare non mandò innanzi a un tribunale ordinario o straordinario l’eroico Vercingetorige, ma, esercitando vendetta o reputando pericolosa alla potenza di Roma la vita e l’esempio di lui, poiché gli si fu nobilmente arreso, lo trascinò per le strade di Roma dietro il suo carro trionfale e indi lo fece strozzare nel carcere. Parimenti si è preso oggi il vezzo, che sarebbe disumano, se non avesse del tristemente ironico, di tentar di calpestare i popoli che hanno perduto una guerra, con l’entrare nelle loro coscienze e col sentenziare sulle loro colpe e pretendere che le riconoscano e promettano di emendarsi: che è tale pretesa che neppure Dio, il quale permette nei suoi ascosi consigli le guerre, rivendicherebbe a sé, perché egli non scruta le azioni dei popoli nell’ufficio che il destino o l’intreccio storico di volta in volta loro assegna, ma unicamente i cuori e i reni, che non hanno segreti per lui, dei singoli individui. Un’infrazione della morale qui indubbiamente accade, ma non da parte dei vinti, sì piuttosto dei vincitori, non dei giudicati, ma degli illegittimi giudici.

Noi italiani, che abbiamo nei nostri grandi scrittori una severa tradizione di pensiero giuridico e politico, non possiamo dare la nostra approvazione allo spirito che soffia in questo dettato, perché dovremmo approvare ciò che sappiamo non vero e pertinente a transitoria malsania dei tempi: il che non ci si può chiedere. Ma altrettanto dubbio suscita questo documento nell’altro suo aspetto di dettato internazionale, che dovrebbe ristabilire la collaborazione tra i popoli nell’opera della civiltà e impedire, per quanto è possibile, il rinnovarsi delle guerre.

Il tema che qui si tocca è così vasto e complesso che io non posso se non lumeggiarlo sommariamente e in rapporto al solo caso dell’Italia, e nelle particolarità di questo caso.

L’Italia dunque, dovrebbe, compiuta l’espiazione con l’accettazione di questo dettato, e così purgata e purificata, rientrare nella parità di collaborazione con gli altri popoli. Ma come si può credere che ciò sia possibile, se la prima condizione di ciò è che un popolo serbi la sua dignità e il suo legittimo orgoglio, e voi o sapienti uomini del tripartito o quadripartito internazionale, l’offendete nel fondo più geloso dell’anima sua, perché, scosso che ebbe da sé l’Italia, non appena le fu possibile, l’infesto regime tirannico che la stringeva, avete accettato e sollecitato il suo concorso nell’ultima parte della guerra contro la Germania, e poi l’avete, con pertinace volontà, esclusa dai negoziati della pace, dove si trattava dei suoi più vitali interessi, impedendole di far udire le sue ragioni e la sua voce e di suscitare a sé spontanei difensori in voi stessi o tra voi? E ciò avete fatto per avere le sorti italiane come una merce di scambio tra voi, per equilibrare le vostre discordi cupidigie o le vostre alterne prepotenze, attingendo ad un fondo comune, che era a disposizione. Così all’Italia avete ridotto a poco più che forza di polizia interna l’esercito, diviso tra voi la flotta che con voi e per voi aveva combattuto, aperto le sue frontiere vietandole di armarle a difesa, toltole popolazioni italiane contro gli impegni della cosiddetta Carta atlantica, introdotto clausole che violano la sua sovranità sulle popolazioni che le rimangono, trattatala in più cose assai più duramente che altri Stati ex nemici, che avevano tra voi interessati patroni, toltole o chiesta una rinunzia preventiva alle colonie che essa aveva acquistate col suo sangue e amministrate e portate a vita civile ed europea col suo ingegno e con dispendio delle sue tutt’altro che ricche finanze, impostole gravi riparazioni anche verso popoli che sono stati dal suo dominio grandemente avvantaggiati; e perfino le avete come ad obbrobrio, strappati pezzi di terra del suo fronte occidentale da secoli a lei congiunti e carichi di ricordi della sua storia, sotto pretesto di trovare in quel possesso la garanzia contro una possibile irruzione italiana, quella garanzia che una assai lunga e assai fortificata e assai vantata linea Maginot non seppe dare.

Non continuo nel compendiare gli innumeri danni ed onte inflitti all’Italia e consegnati in questo documento, perché sono incisi e bruciano nell’anima di tutti gli italiani: e domando se, tornando in voi stessi, da vincitori smoderati a persone ragionevoli, stimate possibile di avere acquistato con ciò un collaboratore in piena efficienza per lo sperato nuovo assetto europeo. Il proposito doveroso di questa collaborazione permane e rimarrà saldo in noi e lo eseguiremo, perché risponde al nostro convincimento e l’abbiamo pur ora comprovato col fatto: ma bisogna non rendere troppo più aspro all’uomo il già aspro suo dovere, né dimenticare che al dovere giova la compagnia che gli recano l’entusiasmo, gli spontanei affetti, l’esser libero dai pungenti ricordi di torti ricevuti, la fiducia scambievole, che presta impeto ed ali.

Noi italiani, che non possiamo accettare questo documento, perché contrario alla verità, e direi alla nostra più alta coscienza, non possiamo sotto questo secondo aspetto dei rapporti fra i popoli, accettarlo, né come italiani curanti dell’onore della loro Patria, né come europei: due sentimenti che confluiscono in uno, perché l’Italia è tra i popoli che più hanno contribuito a formare la civiltà europea e per oltre un secolo ha lottato per la libertà e l’indipendenza sua, e, ottenutala, si era per molti decenni adoperata a serbare con le sue alleanze e intese difensive la pace in Europa. E cosa affatto estranea alla costante sua tradizione è stata la parentesi fascistica, che ebbe origine dalla guerra del 1914, non da lei voluta ma da competizioni di altre potenze; la quale, tuttoché essa ne uscisse vittoriosa, nel collasso che seguì dappertutto, la sconvolse a segno da aprire la strada in lei alla imitazione dei nazionalismi e totalitarismi altrui. Libri stranieri hanno testé favoleggiato la sua storia nei secoli come una incessante aspirazione all’imperialismo, laddove l’Italia una sola volta fu imperiale, e non propriamente essa, ma l’antica Roma, che peraltro valse a creare la comunità che si chiamò poi l’Europa e, tramontata quell’egemonia, per la sua posizione geografica divenne campo di continue invasioni e usurpazioni dei vicini popoli e stati. Quei libri, dunque, non sono storia, ma deplorevole pubblicistica di guerra, vere e proprie falsificazioni. Nel 1900 un ben più sereno scrittore inglese, Bolton King, che con grande dottrina narrò la storia della nostra unità, nel ritrarre l’opera politica dei governi italiani nel tempo seguito all’unità, riconosceva nella conclusione del suo libro che, al confronto degli altri popoli d’Europa, l’Italia «possedeva un ideale umano e conduceva una politica estera comparativamente generosa».

Ma se noi non approveremo questo documento, che cosa accadrà? In quali strette ci cacceremo? Ecco il dubbio e la perplessità che può travagliare alcuno o parecchi di voi, i quali, nel giudizio di sopra esposto e ragionato del cosiddetto Trattato, so che siete tutti e del tutto concordi con me ed unanimi, ma pur considerate l’opportunità contingente di una formalistica ratifica.

Ora non dirò ciò che voi ben conoscete; che vi sono questioni che si sottraggono alla spicciola opportunità e appartengono a quella inopportunità opportuna o a quella opportunità superiore che non è del contingente ma del necessario; e necessaria e sovrastante a tutto è la tutela della dignità nazionale, retaggio affidatoci dai nostri padri, da difendere in ogni rischio e con ogni sacrificio. Ma qui posso stornare per un istante il pensiero da questa alta sfera che mi sta sempre presente e, scendendo anch’io nel campo del contingente, alla domanda su quel che sarà per accadere, risponderei, dopo avervi ben meditato, che non accadrà niente, perché in questo documento è scritto che i suoi dettami saranno messi in esecuzione anche senza l’approvazione dell’Italia: dichiarazione in cui, sotto lo stile di Brenno, affiora la consapevolezza della verità che l’Italia ha buona ragione di non approvarlo. Potrebbero bensì, quei dettami, venire peggiorati per spirito di vendetta, ma non credo che si vorrà dare al mondo di oggi, che proprio non ne ha bisogno, anche questo spettacolo di nuova cattiveria, e, del resto, peggiorarli mi par difficile, perché non si riesce a immaginarli peggiori e più duri.

Il governo italiano certamente non si opporrà all’esecuzione del dettato; se sarà necessario, coi suoi decreti o con qualche suo singolo provvedimento legislativo, la seconderà docilmente, il che non importa approvazione, considerato che anche i condannati a morte sogliono secondare docilmente nei suoi gesti il carnefice che li mette a morte. Ma approvazione, no! Non si può costringere il popolo italiano a dichiarare che è bella una cosa che esso sente come brucia, e questo con l’intento di umiliarlo e di togliergli il rispetto di se stesso, che è indispensabile ad un popolo come a un individuo, e che solo lo preserva dall’abiezione e dalla corruttela.

Del resto, se prima eravamo soli nel giudizio dato di sopra del trattamento usato all’Italia, ora spiritualmente non siamo più soli: quel giudizio si avvia a diventare un’opinio communis e ci viene incontro da molti altri popoli e perfino da quelli vincitori, e da minoranze dei loro parlamenti che, se ritegni molteplici non facessero per ora impedimento, diventerebbero maggioranze. E fin da ora ci si esorta a ratificare sollecitamento il Trattato per entrare negli areopaghi internazionali, da cui siamo esclusi e nei quali saremmo accolti a festa, se anche come scolaretti pentiti, e ci si fa lampeggiare l’incoraggiante visione che le clausole di esso più gravi e più oppressive non saranno eseguite e tutto sarà sottoposto a revisione.

Noi non dobbiamo cullarci nelle facili speranze e nelle pericolose illusioni e nelle promesse più volte trovate fittizie, ma contare anzitutto e soprattutto su noi stessi; e tuttavia possiamo confidare che molti comprenderanno la necessità del nostro rifiuto dell’approvazione, e l’interpreteranno per quello che esso è: non una ostilità contro il riassetto pacifico dell’Europa, ma, per contrario un ammonimento e un contributo a cercare questo assetto nei modi in cui soltanto può ottenersi; non una manifestazione di rancore e di odio, ma una volontà di liberare noi stessi dal tormento del rancore e dalle tentazioni dell’odio.

Signori deputati, l’atto che oggi siamo chiamati a compiere, non è una deliberazione su qualche oggetto secondario e particolare, dove l’errore può essere sempre riparato e compensato; ma ha carattere solenne, e perciò non bisogna guardarlo unicamente nella difficoltà e nella opportunità del momento, ma portarvi sopra quell’occhio storico che abbraccia la grande distesa del passato e si volge riverente e trepido all’avvenire. E non vi dirò che coloro che questi tempi chiameranno antichi, le generazioni future dell’Italia che non muore, i nipoti e pronipoti ci terranno responsabili e rimprovereranno la generazione nostra di aver lasciato vituperare e avvilire e inginocchiare la nostra comune Madre a ricevere rimessamente un iniquo castigo; non vi dirò questo, perché so che la rinunzia alla propria fama è in certi casi estremi richiesta all’uomo che vuole il bene o vuole evitare il peggio; ma vi dirò quel che è più grave, che le future generazioni potranno sentire in se stesse la durevole diminuzione che l’avvilimento, da noi consentito, ha prodotto nella tempra italiana, fiaccandola. Questo pensiero mi atterrisce, e non debbo tacervelo nel chiudere il mio discorso angoscioso. Lamentele, rinfacci, proteste, che prorompono dai petti di tutti, qui non sono sufficienti. Occorre un atto di volontà, un esplicito «no». Ricordare che, dopo che la nostra flotta, ubbidendo all’ordine del re ed al dovere di servire la Patria, si fu portata a raggiungere la flotta degli alleati e a combattere al loro fianco, in qualche loro giornale si lesse che tal cosa le loro flotte non avrebbero mai fatto. Noi siamo stati vinti, ma noi siamo pari, nel sentire e nel volere, a qualsiasi più intransigente popolo della terra. (Applausi – Congratulazioni).

PRESIDENTE. È iscritto a parlare l’onorevole Gasparotto. Ne ha facoltà.

GASPAROTTO. Onorevoli colleghi, tutti portiamo nel cuore la pena, anzi l’angoscia, di questa discussione. Il Presidente del Consiglio, con parola sincera, com’è suo costume, ha dichiarato che l’urgenza della ratifica è questione di opportunità. Oggi, il Ministro degli esteri, parlando, con tono quasi apocalittico, ci ha messo, invece, di fronte ad un’ineluttabile stato di necessità. Anzi, ad un certo momento, abbiamo avuto l’impressione che l’onorevole Ministro degli esteri volesse, se non giustificare il Trattato, attenuarne la gravità della portata.

Ma, onorevole Sforza, perché dissimularlo? Questo Trattato – bisogna riconoscerlo – coi suoi novanta articoli glaciali, è una atroce sentenza di condanna, resa «inaudita altera parte», contro il popolo italiano; è un verdetto inesorabile che richiama, a distanza di secoli, il vae victis di gallica memoria.

Legato alla responsabilità ministeriale al tempo della prima firma del Trattato che ora porta la data di Parigi del 19 febbraio scorso, avverto la delicata posizione in cui si trova la mia persona; perciò mi propongo di parlare col maggior senso di misura, di responsabilità, di moderazione.

Tutti, o per lo meno quasi tutti, comprendiamo che oggi o domani dovremo eseguirlo questo Trattato. Dovremo ratificarlo ed eseguirlo, chi per convinzione, i più per disperazione! Ci sarà assieme a lei un altro uomo, in quest’Aula, onorevole Croce, che non potrà firmare la ratifica e convalidare l’ingiusto Trattato col suo voto: l’onorevole Orlando: l’uomo che il 18 ottobre del 1918, quando vi erano esitanze nei comandi militari circa l’opportunità e la possibilità di riprendere l’offensiva o trasferirla alla successiva primavera; il 18 ottobre, con un telegramma che non ancora è passato alla storia, imponeva al Comando Supremo italiano di passare il Piave e tre giorni dopo si recava sul posto, di Villa Giusti, a confermare l’audace Comando, e il 27 ottobre ci portava alla vittoria della Sernaia, sulla strada già aperta di Vittorio Veneto.

Ora, io comprendo che l’uomo che porta il peso di tanta gloria non possa, non debba firmare questo Trattato che distrugge tutta l’opera sua e dei nostri soldati. Ma noi non siamo prigionieri di nessuna gloria, e dobbiamo al sentimento far prevalere la ragione. Noi siamo grati alle democrazie europee ed americane che hanno salvato il mondo dal pericolo tedesco, già denunziato da un italiano oltre cento anni fa: Carlo Cattaneo. Siamo grati all’America per avere offerto all’Europa un piano seducente che ci fa sperare che i sensi di solidarietà umana che sembravano smarriti possano rivivere in noi; siamo grati alla Francia e all’Inghilterra per il trattamento fatto a Parigi ai nostri rappresentanti; e ci felicitiamo con l’onorevole Presidente del Consiglio e ci felicitiamo con l’onorevole Ministro degli esteri per i successi recentemente ottenuti.

Ma ciò non toglie, per quanto grande sia la nostra simpatia, per quanto sia profonda la mia personale ammirazione per le potenze vittoriose della guerra, che in questa occasione non ci si debba peritare dal dire una libera e franca parola.

Meritava dunque, l’Italia tanto duro trattamento? Ci si imputa, di aver dichiarato guerra; ci si imputa di avere per troppo tempo – per venti anni – tollerato il fascismo che ha condotto il Paese alla guerra; e questa è la nostra vergogna, questa è la nostra sventura; ma ci sono delle complicità europee, e non soltanto europee, alla nostra sventura. (Approvazioni). Quando il popolo italiano era incatenato ad un regime di forza, vi furono liberi Paesi che mandarono in Italia ambascerie generose di elogi al «duce» predestinato alla nostra fortuna e invece scelto dal destino alla nostra suprema rovina. (Approvazioni).

E subito dopo l’8 settembre, non richiesti, per primi noi abbiamo offerto alle Potenze Unite l’aiuto italiano colle forze ancora intatte dell’esercito che presidiavano la Sardegna. E l’offerta fu respinta. E subito dopo abbiamo dato – accettata l’offerta, questa volta – il Raggruppamento motorizzato che si è sacrificato a Cassino. Successivamente entrò in campo il Corpo di Liberazione, e in un terzo tempo abbiamo creato un piccolo esercito – piccolo, perché non ci fu consentito di farlo maggiore – un esercito di 300.000 uomini che ha accompagnato gli alleati dal Garigliano fin oltre la linea del Po, mentre i partigiani uscivano da ogni macchia e da ogni casa. E quando ci fu chiesto il concorso della nostra Marina, tutta essa si è data agli alleati, dal primo fino all’ultimo giorno. E ci fu un Ministro italiano che, sempre su richiesta degli alleati, si è portato a visitare tutti i campi di aviazione nelle Puglie, per gridare agli aviatori italiani che, per la causa che gli alleati dicevano «la causa comune», era necessario bombardare anche le città italiane dell’Istria, anche le opere militari di Pola, della nostra Pola. E con la morte nel cuore gli aviatori italiani hanno obbedito a questo invito crudele. Perché queste cose sono state dimenticate? Permettetemi di ricordarle a voi, onorevoli colleghi, dolente di non avere tanta autorità per far sì che queste cose uscissero da qui e fossero sentite da tutti, fuori d’Italia.

Dunque, venendo più da presso al tema: le soluzioni che ci si presentano sono tre: rifiuto alla ratifica; accettazione della ratifica subordinata al verificarsi delle condizioni portate dall’articolo 90 del Trattato; sospensiva su ogni deliberazione.

Onorevole Orlando: rifiuto alla ratifica! Atto generoso senza dubbio, atto che potrebbe forse segnare nella storia un ammonimento, non per noi, ma per tutti i popoli – come ha detto Benedetto Croce – ma purtroppo gesto sterile, purtroppo gesto dannoso.

Secondo punto: ratifica deliberata dalla Assemblea, in questa sede di discussione, ma subordinata al verificarsi delle condizioni di cui all’articolo 90. È già questo un felice accorgimento del Presidente del Consiglio; è un passo avanti sulla via della conciliazione fra le opposte opinioni. E poiché la politica italiana minaccia di essere dominata dai capi-partito, anziché essere fatta dall’Assemblea, mi auguro che i capi-partito trovino il modo, questa volta, di accordarsi col Governo per una soluzione che possa raccogliere la grande maggioranza dell’Assemblea, perché il Paese aspetta da essa una prova di saggezza, ma, al tempo stesso, una prova, se non di fierezza, almeno di dignità.

La sospensiva proposta ieri dall’onorevole Orlando mirava ad un fine: fortificare di fronte alla pubblica opinione del mondo la nostra protesta, e non pregiudicare, attraverso un’anticipazione di volontà, che potrebbe essere domani qualificata atto di spontanea acquiescenza al Trattato, la revisione. Questo è il sentimento dei più, perché la revisione, che sarà la nostra salvezza, in fondo, è già in atto. Le Repubbliche americane infatti hanno già alzato, a nord e a sud, la voce a nostro favore, e sarebbe imprudente pregiudicare la situazione con un atto di affrettata e volontaria ratifica. Questo, in fondo, è stato il pensiero di coloro che – me compreso – si son trovati concordi nella domanda sospensiva dell’onorevole Orlando, che suona, ripeto, protesta contro il Trattato e domanda di revisione.

E perché revisione? E, prima della revisione, perché la protesta? Perché la rivolta contro questo Trattato che anche il cauto relatore della maggioranza qualifica pressoché iniquo? Perché noi abbiamo diritto di domandare in questo momento, profittando di questa discussione, senza perdere neanche un minuto, agli alleati: Cosa intendete di fare delle nostre colonie? Come intendete che restino in avvenire fissati i nostri confini d’oriente e d’occidente che aprono le porte d’Italia allo straniero? Cosa intendete di fare delle navi che dovremmo consegnare a voi, dopo che esse hanno combattuto per voi dall’8 settembre 1943? Cosa intendete di fare, soprattutto, della frontiera orientale? Cosa intendete fare di Gorizia, che secondo voci recenti è minacciata di essere divisa per metà nel suo stesso abitato? Insomma, volete mantenere al Trattato lo spirito e la forma di una condanna a tutto il popolo italiano?

No; vi sono segni – per fortuna – che ci persuadono che ciò non sta per avvenire; che ciò non avverrà.

Già il Partito comunista francese l’anno scorso, per bocca del suo segretario generale, ha dichiarato che il Partito non si sentiva di chiamare il popolo italiano responsabile della dichiarazione di guerra del 10 giugno 1940; e il Ministro Bidault, il 18 giugno di questo stesso anno ha detto: il popolo non va confuso con gli uomini. Sante parole! La democrazia francese, del resto, non può ignorare che tutte le volte che il popolo italiano fu libero, esso fu solidale con essa per impedire conflitti fratricidi. Basti il ricordo della guerra di tariffe, imperante Crispi, nel 1887-88, che minacciava di portare l’Italia e la Francia alla guerra più ingiusta. Ebbene, la democrazia italiana, interprete del popolo italiano, si è eretta in quel momento contro il Governo del suo Paese e contro Crispi, che pure proveniva dai suoi ranghi, per mettersi al fianco della democrazia francese e scongiurare la guerra. E con questo fu salvo l’avvenire della civiltà latina!

E la democrazia francese anche non può ignorare che proprio per dar modo alla Francia di sguarnire la frontiera delle Alpi e portare le sue truppe sul Reno, il giorno dopo la dichiarazione di guerra della Germania (1° agosto), il due agosto l’Italia, che era legata da un patto di 32 anni agli imperi centrali, insorgendo contro il patto e proclamando la sua neutralità le consenti di portare le sue truppe sulla Marna.

Dunque? Noi non verremo meno alla gratitudine verso gli alleati d’America ed Europa per il grande servigio reso alla civiltà, ma ciò non toglie che verso di essi abbiamo diritto di dire una libera e decisa parola. Che cosa dunque, intendete fare delle nostre vecchie colonie? Noi vi abbiamo profuso tesori di lavoro, di sudore, di lacrime, di sangue, di denaro; abbiamo trasformato villaggi in città (Massaua, Asmara, Cheren, Adua, Adi-Ugri, Agordat); abbiamo bonificato deserti, abbiamo irrigato terre incolte, abbiamo nella sola Eritrea aperto 3300 chilometri di strade camionabili, abbiamo gettato ponti su torrenti e sbarrato acque con dighe, e soprattutto abbiamo portato la luce nel cuore semplice degli indigeni, che ancor oggi ci ricordano e ci amano.

Sì, ci amano; tanto è vero che se le loro rivendicazioni culminano in via principale nella domanda di autonomia, in via subordinata essi chiedono il protettorato italiano. Senza di noi, infatti, cosa è avvenuto nelle vecchie colonie? Disoccupazione preoccupante; industrie languenti, autarchia distrutta. L’Italia, dunque, ha portato in quel paese tesori di civiltà che non possono andare dimenticati e soprattutto non devono essere distrutti. Ora, perché si vuole interrompere l’opera nostra? Quando l’estrema sinistra, in tempi lontani, si batteva contro Crispi e contro le imprese africane, tuttavia per bocca di Giovanni Bovio diceva: Qualunque sia la sorte di queste vicende, siamo certi che il popolo italiano porterà su quelle sabbie lontane una parola di civiltà. E l’Italia l’ha portata; tanto è vero, ripeto, che gli indigeni ci vogliono ancora bene, malgrado le turpitudini compiute dal regime fascista e i massacri del maresciallo Graziani. Ma vi è di più. La perdita delle nostre colonie ci condanna a concentrare la nostra economia nel territorio nazionale e a mandare in altri Paesi, che non sono e non saranno mai nostri, i nostri lavoratori, destinati, forse a non ritornare mai più.

Una parola sulla frontiera d’occidente. Con la Francia, ho già detto, non abbiamo che ragioni di affetto. Penso che un’intesa fra noi non dovrebbe essere difficile. Le parole che in occasione della Fiera campionaria ha pronunciato a Milano un ministro francese, per la prima volta e ben prima della ratifica, venuto in Italia a rappresentare ufficialmente il suo Governo, ci danno affidamento che le nuove promesse saranno mantenute. Tuttavia, qui, in sede di ratifica di un trattato così duro, non possiamo dimenticare che i passi delle Alpi sono aperti ai francesi. Varranno i plebisciti a modificare la situazione?

Più difficile, anzi angosciosa, è la situazione nostra rispetto ai confini orientali. Con il trattato di Versaglia il confine tra l’Italia e la Jugoslavia era di 240 chilometri, costituito da una zona alta a taglio di coltello, e alle spalle di Trieste spaziavano 50 chilometri d’aria. Oggi si ritorna, onorevoli colleghi, al confine del 1866. Fin quasi alle foci del Timavo, dalla conca di Tarvisio, lungo quella di Plezzo e di Caporetto, l’Italia abbandona i suoi territori alla Jugoslavia. Tutte le montagne irrorate di sangue italiano – Merzli, Monte Nero, Sabotino, San Marco, San Gabriele – restano in mano altrui. A noi rimangono, a modesto conforto e perpetuo ricordo, il Cimitero degli Eroi della IIIa Armata a Redipuglia, e l’ossario di Oslavia colmo d’ossa italiane. La città di Gorizia ha il confine fra le mura del suo Cimitero; eppure anche essa ci è contesa, e il Trattato che non porta ancora la firma della grande Potenza che avalla le richieste jugoslave, non si sa quale sorte le riserbi.

Ma Gorizia, signori, fa parte del Friuli; la vecchia Contea ha sempre fatto parte del territorio del Friuli, del quale parla il dialetto che la poesia di Zorutti ha elevato a lingua letteraria. Gorizia nel 1914, prima della grande guerra, il 25 marzo del 1914, quando l’Austria era un possente impero militare temuto per la implacabile severità della sua Polizia, Gorizia mandava fin da allora al Consiglio Comunale la maggioranza italiana, e quando le si domandavano giuramenti di fedeltà all’imperatore, Gorizia li negava, come sempre li ha negati Trieste resistendo ad ogni minaccia. Questo dovrebbero ricordare i nostri avversari. No, preferisco chiamarli i nostri vicini. Non parlo per spirito nazionalista.

Si dice, anzi, che io abbia sangue slavo nelle vene. Ci fu uno scienziato italiano che sedeva nell’antico Parlamento che dal colore degli occhi e dall’etimologia del mio nome mi giudicava «più slavo che italiano». Può darsi. Non me ne offendo. Non ci sono razze pure in Italia. Il Friuli ha avuto, a suo tempo, una notevole immissione di sangue slavo; ma il Friuli è fra le italiane, la più italianissima Provincia, o Regione che sia. E quegli stessi che sono chiamati slavi del Natisone e di Resia che il Trattato di pace del 1866 ha incorporato all’Italia sono diventati e sono italiani, quanto i romani di Piazza Montecitorio.

A questo riguardo, l’onorevole Tessitori, recentemente, ha ricordato l’episodio del battaglione Natisone. Io ne ricorderò un altro ancora più significativo: nelle giornate di Caporetto quando il battaglione Val Fella, composto in gran parte di ex slavi, è sfilato per il suo Paese, San Leonardo, nessuno ha pensato di disertare; nessuno si è fermato davanti alla propria casa, e dalle case invece vennero fuori le donne ed i fanciulli per accompagnare i padri e i mariti fino al Tagliamento, aiutandoli a portare gli zaini, per poi ritornare al paese e alle case per riaccendere il focolare e mantenere calda la fede e la causa degli italiani. Del resto, quando nel 1920, Ministro della guerra, mi sono portato a Trieste per l’applicazione della prima leva militare, il rappresentante slavo, l’onorevole Wilfan, mi ha dichiarato lealmente che gli slavi intendevano «di sottoporsi ai comuni doveri, senza invocare privilegi». Mettere in dubbio, comunque, la italianità di Gorizia e della Venezia Giulia è fuori luogo; lo hanno riconosciuto tutte le potenze europee nel Patto di Londra, e lo ha riconosciuto, prima delle potenze dell’Intesa, prima della Francia e della Inghilterra, la stessa Russia, che il 23 ottobre 1914, ben prima che l’Italia entrasse in guerra, ha dato la libertà a tutti i prigionieri della Venezia Giulia, riconoscendo che essi facevano parte non dell’Austria, ma dell’Italia, anticipando di quattro anni gli avvenimenti di Vittorio Veneto e di cinque anni il trattato di pace.

Io sono antico ammiratore del maresciallo Tito, e gli ho espresso la mia ammirazione in più occasioni. Sono un ammiratore di questo uomo che ama disperatamente il suo Paese e ha trasformato bande partigiane in formazioni quasi regolari che hanno fronteggiato per lunghi anni la potenza germanica. Ma il maresciallo Tito deve ricordare che le sue bande ebbero il soccorso di buona parte delle divisioni italiane che l’armistizio ha sorpreso in Oriente. E il maresciallo Tito deve ricordare ancora che, se conseguì la brillante vittoria di Serajevo, quando vi entrarono i suoi soldati trovarono la città sgomberata dai tedeschi, perché gli aviatori italiani ne l’avevano già ripulita! Dunque, al maresciallo Tito domandiamo una ben maggiore comprensione della situazione giuliana. E gli domandiamo anche cosa abbia fatto degli italiani deportati nel suo Paese, contro ogni legge umana e civile.

La questione della Venezia Giulia, signori, può essere fatale all’Europa, perché l’Isonzo può diventare quello che era il Reno per la Francia e la Germania: il fiume della discordia. Sull’Isonzo si incontrano due civiltà: la civiltà latina e la civiltà slava. Io mi auguro che si incontrino e non che si scontrino. Questo è il pensiero di tutti. Ma per arrivare a fissare questo pensiero – pensiero o sogno – nella concreta realtà della vita internazionale, bisogna che non ci siano nazionalismi né da una parte né dall’altra dell’Isonzo. Perciò, noi che siamo un popolo estremamente sensibile, non possiamo che registrare con sdegno e amarezza che lungo la strada che porta a Trieste, presso le foci del Timavo, sia stata abbattuta l’erma che ricordava gli eroi della terza Armata, abbattuta da coloro che dovrebbero ricordare che gli eroi della terza Armata sono morti non solo per la nostra, ma anche per la loro libertà.

Torni dunque Trieste all’Italia in breve tempo, o vi ritorni in un tempo più o meno lungo, oggi noi non possiamo che deplorare la costituzione di uno Stato libero senza sovranità, uno Stato libero ma non sovrano, che non può nominare il proprio Governatore e nemmeno il capo della sua polizia; uno Stato senza territorio, senza retroterra, che deve vivere quasi di mendicità e ricevere tutti i rifornimenti dai popoli vicini. Che avvenire può avere una simile larva di Stato?

È stato detto in America, da Bridges, che la questione di Trieste può diventare «il focolaio pericoloso nel centro meridionale di Europa», – e fu detto anche in Senato, dal senatore Wherry, che il Trattato pone l’Italia dietro un sipario d’acciaio.

Noi intendiamo denunciare alla pubblica opinione del mondo – se la nostra voce avesse tanta forza da arrivare lontano – che la soluzione di Trieste, com’è disciplinata nel Trattato, non può essere che una soluzione provvisoria.

È vero che ci sono stati sempre antichi appetiti su Trieste, anche da parte germanica; è vero che nel 1919, quando Orlando perorava la causa italiana a Parigi, il Ministro Korosec, a Lubiana, diceva con linguaggio poetico che «la nostra solatia Gorizia e la nostra soave Trieste non possono che essere slave». È vero che egli diceva questo, ma il Capo della polizia di Trieste, il Lanech, anche diceva che scavando cento metri sotto terra, a Trieste, si finiva sempre per trovare l’irridentismo…

Per nostra fortuna il Trattato lascia immutato il confine settentrionale. Giusto ed ottimo confine di 290 chilometri costituito da enormi massicci alpini, dei quali 140 coperti di ghiacciai. Per 152 volte l’Italia ha subito l’invasione straniera; per 62 volte l’invasione venne dalla via del Brennero; le altre volte venne quasi sempre da Oriente, tanto è vero che il Friuli chiamava la conca di Adesberg la «strada dei barbari».

Con gli allogeni dell’Alto Adige andremo d’accordo. Siamo già andati d’accordo con loro fino al giorno dell’avvento del fascismo.

Un Ministro dell’interno dell’impero Austriaco, Toggemberg, diventato deputato italiano, in un incontro nel 1921 col nostro Ministro della guerra, a me non ignoto, diceva: «L’italiano è un popolo che irradia dietro a sé fervide simpatie. Voi potrete conquistare l’anima degli allogeni alla condizione che sappiate governare «con autorità e con giustizia».

Venne il fascismo, che volle governare con autorità e senza giustizia, da qui persecuzioni disinganni e conflitti.

Un breve accenno ora alle clausole militari, che non possono non preoccupare l’animo nostro.

L’esercito italiano il 25 luglio 1943 teneva in armi 4 milioni e 150 mila uomini (siamo ben lontani dai dieci milioni di baionette promesse da Mussolini a Hitler). Oggi il Trattato di pace ci autorizza a mantenere in armi 185 mila uomini più 65 mila carabinieri; in totale 250 mila uomini.

Per dovere di sincerità, dobbiamo riconoscere che il sacrificio, per quanto riguarda l’esercito, è sopportabile.

Infatti, l’esercito fascista, secondo le statistiche del 1930, era costituito di 15 mila ufficiali, 13 mila sottufficiali, 220 mila uomini di truppa, 50 mila carabinieri: un totale di 298 mila unità.

Non siamo molto lontani da questa cifra. L’esercito – checché ne dica qualche generale deluso – non è in sfacelo. Esso non fu mai tanto saldo come ora. L’esercito italiano in questo momento gode le simpatie del Paese, come lo dimostra il fatto che tutte le volte che i suoi soldati sfilano per le vie delle città, riscuotono gli applausi delle folle popolari.

L’aver conciliato il soldato col popolo italiano è stata una conquista che intendiamo mantenere. Esso esce dalla guerra con l’onore intatto. Formazioni regolari e partigiane gareggiarono in eroismi.

L’Aeronautica al 25 luglio 1943 disponeva di 1337 apparecchi, dei quali 272 da bombardamento, 582 da caccia: di 195 mila uomini al servizio degli apparecchi.

Dopo l’8 settembre essa ha compiuto 4155 azioni di guerra con 24199 ore di volo; ha compiuto 33 mila voli per trasporti e collegamenti a profitto degli alleati.

Oggi l’Aviazione è ridotta: a 200 apparecchi da caccia, a 150 da trasporto; a 25 mila uomini. Non si meritava simile trattamento, dopo le prove date.

Ma il colpo formidabile lo riceve, purtroppo, la Marina italiana; e il Paese lo sente e lo registra con profonda amarezza.

In contrasto con l’accordo intervenuto a Taranto il 23 settembre 1943 fra Cunningham e De Courten, accordo da noi lealmente rispettato e generosamente praticato, contro tutte le aspettative, un secondo accordo segreto fra gli Alleati intervenuto a Teheran nel dicembre del 1943, stabiliva la spartizione fra essi della flotta italiana.

Perciò, il Capo di Stato Maggiore della Marina italiana in un rapporto meditato e severo, che dà a pensare profondamente per l’autorità del nome e dell’ufficio, poteva scrivere che, mentre si chiedeva alla Marina di collaborare con tutte le sue unità alla causa comune, «una decisa volontà di spoliazione dominava gli Alleati». Parole tanto forti che sono esitante a sottoscrivere.

Comunque, nelle azioni di guerra compiute «per la causa comune» dopo 1’8 settembre, la Marina italiana ha perduto 71 unità da combattimento, per un totale di 135 mila tonnellate: un terzo e più del suo tonnellaggio totale; sempre per la causa alleata ha spiegato una imponente attività, trasportando 543.000 uomini e 448.000 tonnellate di materiale da guerra, compiendo 47.000 missioni da guerra, con un percorso complessivo di 5.150.000 miglia; offrendo agli alleati tutte le nostre basi navali contro la Germania, tra cui il cantiere navale di Taranto di cui gli alleati disposero ampiamente per le loro operazioni. La Marina, in base al Trattato di pace, non può più conservare che due vecchie corazzate, quattro incrociatori, quattro cacciatorpediniere, venti corvette e un certo numero di unità minori. A guerra finita, malgrado le falcidie e gli affondamenti subiti negli scontri con il nemico, la Marina italiana era rimasta con 266.000 tonnellate e con 39.000 uomini. Il Trattato di pace ci lascia soltanto 68.500 tonnellate e 25.000 uomini.

Oggi tutta la nostra costiera adriatica, già povera di porti, è lasciata alla prevalenza assoluta dei nostri vicini; con la smilitarizzazione delle Puglie, della Sardegna, della Sicilia, con il divieto di costruzione di armi moderne e con divieto del diritto di studio e con il divieto – state bene attenti – di costruzione dei sommergibili, l’arma dei paesi poveri, con il divieto di uso delle motosiluranti che rende impossibile l’addestramento dei mezzi antisommergibili, il Trattato ci mette in condizioni umilianti. Insomma, si vuol togliere all’Italia il diritto di autodifesa, riconosciuto a tutti i popoli dalla Carta di San Francisco.

E se ciò non bastasse, ci si impone l’affondamento di 31 sommergibili, e tutte le navi esuberanti a quelle 153 unità che ci sono riconosciute, tolte quelle destinate in un secondo tempo all’autoaffondamento o alla demolizione, debbono essere consegnate agli alleati.

Apro una parentesi: non può non preoccuparci il fatto che nella Marina italiana è corsa voce più volte che vi è chi intende ribellarsi a questa dura imposizione. Io, Ministro del tempo, ho creduto di intervenire ed ho richiamato quei giovani ardenti, che intendevano di sacrificarsi con un atto di fierezza alla clausola ingiuriosa, facendo loro intendere che il Governo italiano soltanto ha facoltà di scegliere il modo onde provvedere alla dignità della Marina italiana.

Il Capo di Stato Maggiore domanda su questo delicato argomento la solidarietà dell’Assemblea. L’Assemblea è certamente concorde nell’esonerare la Marina italiana da qualunque responsabilità di quello che possa accadere. Alla dignità di essa penserà il Governo italiano. L’Assemblea difende fin d’ora i nostri valorosi marinai, che si sono tanto sacrificati nella lunga guerra, dall’accusa o dal sospetto di debolezza. (Bene).

Essi hanno sempre fatto salvo l’onore delle loro navi e la maestà della tradizione militare, e hanno diritto alla riconoscenza del Paese. Rinuncio a parlare di altre clausole che offendono il diritto e la stessa dignità umana, come l’amnistia ai soldati traditori e la consegna allo straniero dei criminali di guerra.

Dunque, signori del Governo, in un momento o in un altro, domani o dopo domani, tra qualche giorno e tra qualche mese, a seconda delle circostanze e dell’andamento delle cose, purtroppo, noi finiremo con l’approvare, o meglio coll’eseguire, questo Trattato, coll’eseguire questo Trattato che ci lacera l’animo. Lo eseguiremo per non aggravare ancor più le condizioni del Paese e per non assumere la terribile responsabilità di ritardare la ricostruzione economica, e soprattutto spirituale, dell’Europa. Ma dovremo pur sempre ricordarci ed assumere l’impegno d’onore di pensare, oggi, domani e sempre, all’avvenire dei nostri fratelli giuliani che, contro ogni interesse materiale, intendono restare fedeli al genio del loro Paese. Spettacolo commovente! Se un giorno il poeta italiano del Risorgimento, Giovanni Berchet, in un canto accorato, ha esaltato i profughi di Parga, sfuggenti al dominio del turco, che cosa dovrebbe dire il poeta moderno dei profughi di Pola, che hanno abbandonato altari e sepolcri, e spento i focolari, e fatta della propria terra deserto, per rifugiarsi in grembo alla vecchia Italia, per pensare e parlare e vivere italianamente?

Se vi sono ancora in Italia uomini, donne, bambini, così fedeli alla loro Patria, da amarla di così puro e santo amore, vivaddio, l’opinione pubblica del mondo deve convincersi che questa vecchia Italia è un Paese che non può morire. E non morirà. Prima di tutto per la salvezza dei propri figli; poi per l’avvenire e la gloria di tutti i popoli liberi. (Applausi a sinistra).

PRESIDENTE. è iscritto a parlare l’onorevole Canepa. Ne ha facoltà.

CANEPA. Onorevoli colleghi, io parlo a nome del gruppo parlamentare del Partito Socialista dei Lavoratori Italiani, il quale darà votò favorevole alla ratifica nella formula proposta dal Governo.

Abbiamo ascoltato tutti, con la riverenza che merita l’illustre pensatore, il discorso di Benedetto Croce, ma egli si è tenuto nelle sfere eteree della filosofia e della storia, mentre qui siamo sul terreno della politica che non ammette voli molto alti, ma richiede una seria espressione logica. Non si è dato un minimo pensiero dei danni che deriverebbero al Paese, e specialmente alle classi lavoratrici, da una denegata ratifica. Nemmeno una parola. Ed allora, mi sia permesso di dire che chiunque è padrone di fare l’atto sdegnoso che crede, di dire «costi quel che costi» quando paga lui, non quando manda il conto agli altri, non quando chi paga è il popolo. Non si ha il diritto di sacrificare una nazione per un atto di fierezza che può essere, se è individuale, epico, ma che quando invece è fatto a spese degli altri è meramente retorico. Il sacrificio che noi stiamo per fare, obtorto collo, non è certamente nuovo. Tutta la storia è piena di trattati ingiusti e duri che i vincitori impongono ai vinti: i vinti firmano perché non ne possono a meno, ma non per questo si disonorano, non per questo vengono meno alla propria dignità. E mi sia lecito ricordare il più glorioso degli esempi: il Trattato che a noi sta davanti è pieno di quelle ingiustizie che splendidamente l’amico Gasparotto ha illustrato, ma ingiustizie non meno minori conteneva il trattato che la Germania impose alla Francia dopo la guerra del ’70 e ’71. Il Secondo Impero di Napoleone il Piccolo era stato come una prefigurazione del fascismo, aveva portato la Francia a Sédan; ebbene, la repubblica nata da quella catastrofe ha firmato il trattato di Francoforte e poi ha atteso al proprio risorgimento economico e spirituale, con uno splendore che tutto il mondo ha ammirato appena tre anni dopo, alla splendida esposizione di Parigi del 1874! Questo è onore, questa è la dignità delle nazioni! Non negare una firma, quando vi prendono per il collo, ad un pezzo di carta; ma rilevarsi dalla bassura in cui si è cacciati da un regime iniquo e dalla prepotenza dei vincitori, rilevarsi alti e ascendere di nuovo alla gloria del benessere, della cultura, insomma, dello splendore della civiltà.

Questo ha fatto la Francia nel 1870-74, questo faremo noi, in modo certo non meno minore, conformemente alle nostre tradizioni.

È inutile, è superfluo che io dica che questo Trattato che dobbiamo ratificare contiene molte clausole dure ed inique, perché l’ha già detto il collega Gasparotto, perché tutti ne siano convinti; ma vorrei notare che, pur dovendo amaramente deplorare che esso abbia dimenticato la cobelligeranza e l’insurrezione gloriosa dei nostri partigiani, si può in parte comprendere la gravezza di certe clausole, quando si pensi al delitto che aveva compiuto la coppia criminale monarchia-fascismo: la monarchia più colpevole del fascismo (Applausi a sinistra), perché domani, 25 luglio ricorre l’anniversario del giorno in cui il re, liberatosi di Mussolini, ha lanciato l’appello al popolo, nel quale però diceva «la guerra continua».

Quelle fatali parole sono state una delle cause più gravi delle nostre disgrazie e della sventura che ci ha colpito.

Tutti i popoli vincitori commettono sempre delle ingiustizie, ed io non sono qui a sminuirne l’importanza, ma dico che è urgente uscire dall’armistizio, il quale non è altro che una guerra sospesa. L’armistizio, come dice la parola stessa, per definizione, altro non è che la condizione del popolo che si è arreso ed è in balìa, quindi, dei vincitori.

Noi oggi siamo a questo punto: non siamo padroni nemmeno di concludere un trattato di commercio senza il beneplacito e l’autorizzazione dei riveriti nostri quattro padroni.

E abbiamo le nostre piazze occupate da truppe straniere, ivi compresi i marocchini le cui gesta tutti conoscete. Questa è la condizione che si protrarrebbe con il rinvio a tempo indeterminato della nostra ratifica. Se, senza preconcetti, si esamina questa questione, non può sorgere in noi ombra di dubbio.

Io mi rendo perfettamente conto che, fino a poco tempo fa, nell’animo di molti, specie di una parte della Assemblea, vi fossero delle esitazioni, vi fossero dei dubbi. Si diceva: perché la Russia non ha ratificato? Io ho rivolto questa domanda a persone le quali, sia per il loro partito, sia per le informazioni diplomatiche di cui si presumeva potessero disporre, avrebbero dovuto essere in grado di saperne qualche cosa: tutti si stringevano nelle spalle. «Chi lo sa? – mi si rispondeva – Forse medita qualche cosa; forse si attendono delle novità che non si sa bene che cosa siano». Insomma un’aria di mistero si era determinata e è proprio della natura umana che nella notte del mistero i cavalli della fantasia galoppino.

Si è creata così ogni sorta di ipotesi. Ma ora questo stato d’animo deve essere dileguato, perché c’è un fatto a cui mi meraviglio non si dia la dedita importanza: recentemente nell’assemblea delle Nazioni Unite, Gromyko, rappresentante dell’Unione sovietica, ha dichiarato che appena l’Italia avrà ratificato, anche la Russia ratificherà (Interruzioni a destra) e non c’è motivo per dubitare della parola data dalla Nazione sovietica.

Dunque è tolto questo dubbio, dunque la questione è chiarita; ora il popolo sente che entriamo in un’epoca nuova.

L’onorevole Gasparotto ha parlato benissimo della questione delle navi. Ebbene, l’altro giorno, il Municipio di Genova ha chiesto che una di queste navi sia data ai genovesi perché essi possano rinnovare l’antica, gloriosa tradizione della nave Garaventa che raccoglieva i ragazzi dalle strade, li educava e li istruiva: da quella scuola sono in gran parte usciti i nostri valorosi marinai. E sapete a chi Genova ha rivolto questa domanda? Non già ai signori Quattro, ma all’organizzazione delle Nazioni Unite. E alla stessa Organizzazione spetta il decidere anche su tutto quanto riguarda le ex colonie.

Dico le ex colonie, perché il regime delle colonie è tramontato; al regime delle colonie succede ora il regime dei mandati fiduciari che si dànno a un popolo perché educhi alla civiltà dei popoli indigeni, e, una volta che tali popoli abbiano raggiunto un dato livello di civiltà, li lasci alla loro sorte. Ebbene, questi mandati che tanto giovano al popolo cui è affidata tale missione, come al popolo che ne è l’oggetto, questi mandati con le nostre antiche colonie prefasciste, nelle quali abbiamo speso tanti capitali e in cui tanti nostri lavoratori possono trovare lavoro, io ho la certezza che ci saranno dati, precisamente da quella organizzazione della quale ho parlato.

Ora, qui dovrei entrare a parlare del cosiddetto «piano Marshall»; dico cosiddetto, perché non esiste un piano Marshall, ma esiste semplicemente un’offerta fatta dal generale Marshall, a nome dell’America, di soccorsi, di aiuti alla comunità europea: il piano deve farselo ogni nazione europea prima, e poi deve farselo l’Europa unita.

Ma io ho la fortuna – fortuna per me e fortuna per voi – di poter forse fare a meno di parlare del «piano Marshall», perché debbo darvi la lieta notizia che stamane è giunto da Parigi il nostro collega Tremelloni, il quale si fermerà qui qualche giorno per raccogliere dati per l’esercizio del suo alto mandato tecnico; e per quanto egli debba fare sollecito ritorno a Parigi, spero che troverà il tempo per parlare qui. Egli ci dirà, a causa cognita, meglio di quello che potrebbe farlo chiunque di noi, perché ha vissuto queste settimane nel centro della creazione della nuova Europa, quali siano le condizioni nostre in questa cooperazione, in questo Comitato, e credo di poter affermare che da quanto egli dirà, ricaverete una forza, un argomento più decisivo ancora per comprendere che la ratifica è assolutamente necessaria.

Senza dubbio tutti vorremmo che questa cooperazione europea fosse di tutta quanta l’Europa geografica, dall’Atlantico agli Urali. Io non entro nella questione del perché la Russia e i suoi satelliti non abbiano aderito, perché non è questo il momento di trattare tale questione; dico soltanto che la porta è lasciata aperta, e mi auguro che ben presto la Russia e i suoi vicini vogliano associarsi a questo lavoro. Ma intanto noto che lo spirito di questa Europa occidentale, chiamiamola così, è stato espresso benissimo, prima di tutti dal nostro Ministro Sforza, e poi, domenica scorsa, tre giorni fa, dai discorsi pronunciati ai rispettivi popoli dai rappresentanti dei Governi di tre grandi Nazioni: dell’Inghilterra, della Francia e dell’Italia. Ha parlato Bevin, in un sobborgo di Londra, Ramadier, a Perpignano, sui Pirenei, De Gasperi a Trento. Ebbene, tutti hanno espresso quasi con le stesse parole lo stesso concetto: cioè hanno auspicato l’unificazione dell’Europa che si conseguirà eliminando l’antagonismo fra Mosca e Washington. Questo voto dei tre Ministri, rappresentanti dell’Europa d’oggi, è certamente il voto nostro, è certamente il voto di tutto il popolo italiano.

Sul compito della cooperazione europea, oltre che, come ho detto, della parte economica, parlerà l’onorevole Tremelloni; dico che è il principio di quella unificazione Europea, di quegli Stati Uniti d’Europa di cui si è parlato tanto e a cui finora si sono dedicati libri e giornali e congressi. Ma ora cominciano i fatti. C’è l’unione del Belgio, Olanda e Lussemburgo (Benelux) che hanno spezzato le barriere doganali che li dividevano e si sono stretti in unione. E pare su via analoga si stiano mettendo i tre Stati Scandinavi, che stanno al vertice della scala della civiltà. Da queste unioni parziali nascerà l’unione generale, gli Stati Uniti d’Europa da idealità diventeranno una realtà concreta. È questo l’unico modo di risolvere la questione germanica, la quale non può certamente continuare nello stato in cui è, perché la Germania ha diritto di essere riunita, ha diritto di essere posta in condizioni di vivere, ma nello stesso tempo il mondo ha anche diritto di vigilare e prevenire il ripetersi di aggressioni, come consigliava Arrigo Heine nel suo celebre libro De l’Allemagne. E io non vedo come si possa stare con gli occhi aperti senza unificare l’Europa, togliendo così a ciascuno nazione la possibilità di aggredire le altre. Non si deve confondere il concetto di indipendenza con quello di sovranità. Devo ricordare per gloria nostra (dicono tanto male di noi, che, se qualche volta possiamo citare qualche merito è un piacere), che con l’art. 4 del nostro Statuto «l’Italia rinuncia alla guerra come strumento di conquista e di offesa alla libertà degli altri popoli e consente, a condizione di reciprocità e di eguaglianza, alle limitazioni di sovranità necessarie ad un ordinamento che assicuri la pace e la giustizia tra i popoli».

Per questo lavoro, rivolto alla resurrezione d’Europa come condizione necessaria del nostro risorgimento, l’uscita dallo stato armistiziale è assolutamente necessaria; e possiamo uscirne a capo alto, come un popolo che ha riscattato i suoi errori e riprende le sue gloriose tradizioni, dal Rinascimento che ha rinnovato la vita del mondo, fino al Risorgimento.

Ma non basta l’unione Europea. Occorre ancora l’unione mondiale. Io devo qui citare un giornale che è l’espressione dei veneti giuliani, La Venezia Giulia giornale calorosissimo per la loro causa. Ebbene, il 22 giugno La Venezia Giulia domandava al Governo di fare una decisiva e fattiva politica per la difesa dell’italianità nel territorio libero di Trieste e nel resto della Venezia Giulia assegnata agli slavi, e diceva: «Noi possediamo i mezzi per applicare questa politica. Ce li conferisce oltre che il diritto naturale, la ratifica e l’applicazione del trattato aprendoci le porte dell’O.N.U.».

È dunque lo stesso organo giuliano che riconosce la necessità della ratifica, perché si possa svolgere la nostra azione a favore di quelle regioni.

Con molta sorpresa ieri quando ho detto brevi parole per combattere la tesi del rinvio e ho accennato all’O.N.U., ho sentito qualche sogghigno come se si trattasse di una creazione di poca importanza. Ho sentito anche, ironizzando, ricordare la Società delle Nazioni. Ebbene dobbiamo aver fede che dall’O.N.U. staranno lontani i fati della Società delle Nazioni, la quale è morta per vari motivi che rapidissimamente possiamo vedere.

Il primo è che ad essa non appartenevano i due più grandi e potenti stati del mondo, la Russia e gli Stati Uniti. Ora invece la Russia e gli Stati Uniti sono a capo dell’O.N.U.

Il secondo motivo è la mina posta alle sue fondamenta dal fascismo e dal nazismo. Questo si sapeva già, ma ora abbiamo la confessione del reo, nel «Diario» di Ciano che è stato pubblicato, tradotto in giornali esteri, ma che oggi vede la luce anche su un giornale italiano, il Corriere della Sera, nel testo originale. Nel «Diario» di Ciano è narrata la storia della congiura che Mussolini e Hitler avevano ordito per mandare all’aria la Società delle Nazioni.

Ora, purtroppo, nazismo e fascismo non sono morti o meglio tentano di risorgere, ma ciò non può avvenire senza che il mondo abbia perduto il senso della propria conservazione: il nazismo e il fascismo non potrebbero risorgere che per la rovina delle nazioni e della collettività umana.

Terzo motivo: l’organizzazione operaia in quel tempo, cioè dopo la guerra 1915-1918 era ancora un poco infantile, e i partiti che da essa promanavano affettavano una intransigenza assoluta. Eravamo in pochi allora, accanto al nostro insigne Maestro, Leonida Bissolati, ad insistere perché l’organizzazione operaia suffragasse la Società delle Nazioni. Ma ci si rispondeva che era una istituzione borghese.

Ora tutto questo è cambiato. Vediamo che l’organizzazione operaia si è fatta adulta e che i partiti che da essa promanano appartengono ai governi insieme ad altri partiti.

Ora anche qui c’è un altro fatto che è passato inosservato e che per me invece ha grande importanza, poiché giorni fa a Praga la Federazione sindacale mondiale stringeva intimi rapporti con l’Ufficio Internazionale del lavoro; e l’Ufficio Internazionale del Lavoro altro non è che una sezione dell’O.N.U. Le due istituzioni, l’organizzazione delle Nazioni Unite e l’Internazionale operaia, stringendosi l’una all’altra si irrobustiscono a vicenda e da questo irrobustimento dipende in gran parte la conservazione della pace.

Quarto ed ultimo motivo – ma non ultimo per ragioni d’importanza – è toccato alla Società delle Nazioni, quella che Niccolò Machiavelli diceva per i profeti disarmati.

La Società delle Nazioni era inerme, l’O.N.U. sarà ben armata.

È all’ordine del giorno della sua prossima sezione l’abolizione degli eserciti nazionali, e la creazione di un esercito unico; e in che misura ogni nazione deve contribuire, alla formazione dello Stato Maggiore, e alla forza dei varii reparti.

Risaliamo i secoli col pensiero, richiamiamo alla nostra memoria i grandi congressi che segnano le epoche della storia: nessuno mai ha avuto la minima importanza a paragone di questo che segna la più radicale delle trasformazioni del mondo. Riuscirà? Non riuscirà? Sarà rimandato? Ma il solo fatto che sia all’ordine del giorno, il solo fatto che tutte le nazioni ne discutono dimostra la grande importanza; e ditemi se è possibile che ad un avvenimento come questo, per il quale si deve ripetere il verso che due mila anni fa scriveva il nostro Virgilio: Novus ab integro saeclorum nascitur ordo, ditemi se a questo convegno noi possiamo mancare.

Ditemi se può esservi presente tutto il mondo meno l’Italia e la Spagna. Questo è impossibile.

Non entro nella disamina del Trattato, perché questo sarà fatto domani dal nostro collega onorevole Treves; ed è già stato fatto dall’onorevole Gasparotto. Ma mi limito ad osservare che per la questione del confine con la Francia c’è un ordine del giorno che abbiamo firmato quasi tutti: credo che raccolga la firma di tutti quanti.

Noi abbiamo l’ardente desiderio che si venga ad una conciliazione con la Francia; ed io ho una viva speranza che ci si arriverà, perché ricordo che contro l’amputazione dei nostri confini occidentali ha protestato Léon Blum, leader del partito socialista francese, il quale ha detto: «per pochi jugeri di neve – quelques arpents de neige – volete voi turbare i rapporti di due popoli che la storia, la natura, soprattutto i loro interessi legano?

Pertanto nella transazione auspicata dall’ordine del giorno io ho ferma fiducia.

Lo so, il confine orientale stringe il cuore, perché lo hanno segnato due numi indigeti della Patria, Dante Alighieri, nei celebri versi «…a Pola presso del Quarnaro, che Italia chiude e suoi termini bagna» e Giuseppe Mazzini nell’ultimo suo scritto sulla politica internazionale. E i confini antichi li hanno santificati il sangue di tanti nostri fratelli caduti ed il martirio di Guglielmo Oberdan. A questi nostri fratelli che sono strappati dal nostro seno dobbiamo mostrare un amore che non sia un amore platonico. Noi dobbiamo accogliere i giuliani che non credono di poter rimanere di là, coll’affetto che si mostra ad uno della famiglia che ritorna, assisterli in tutti i modi, sistemarli tra noi. E quanto a quelli che restano dall’altra parte ricorderò – Gasparotto ha parlato di Tito ed è giusto quello che ha detto – che se noi volessimo protestare perché sono tenuti in stato di soggezione, purtroppo, se rimaniamo in stato di armistizio, la nostra protesta cadrebbe nel vuoto.

Orbene, il paragrafo 4 dell’articolo 19 del Trattato dice: «Lo Stato al quale è stato ceduto il territorio assicurerà a tutte le persone che si trovano sul detto territorio, senza distinzione di razza, di sesso, di lingua, di religione, il godimento dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali ivi comprese le libertà di espressione del pensiero, di stampa, di pubblicazioni, di culto, di associazione e di riunione».

Noi non potremo fare rispettare questo articolo, se non quando avremo ratificato il Trattato. Potremo dire: «Se pesa su noi per tante parti inique ci si accorda, almeno per questo barlume di luce che ci si lascia, la forza e la solidarietà internazionale a cui rivolgerci».

Concludo: quanto a Trieste, Stato Libero, esso deve avere una amministrazione, un Consiglio Comunale, un Sindaco, comunque lo chiamino, un Sopraintendente, un Commissario, qualcosa come i Prefetti delle nostre Provincie.

Chi lo nomina il Prefetto? L’O.N.U. Se dunque noi saremo fuori di questa organizzazione, non avremo voce in capitolo nemmeno per l’amministrazione di Trieste, sopra la quale invece dobbiamo influire per mantenere con essa tutti i rapporti economici e culturali e sopratutto spirituali che conservano l’anima della italianità. Questo noi lo potremo fare se vivremo la vita internazionale, che è lo spirito dei tempi nuovi, che è l’anima verso la quale i popoli che hanno paura, giustamente, della guerra aspirano.

Verso questa politica internazionale e sopranazionale noi dobbiamo rivolgere i nostri sforzi, anche perché essa sarà il bene non soltanto di tutto il mondo, ma il bene particolarmente nostro; è in essa la via della salvezza in cui ritroveremo il nostro benessere, la nostra cultura, le nostre glorie antiche. Questa è la via che i giovani devono percorrere ed essi devono essere ben superbi che un simile compito ad essi assegni la storia. (Applausi al centro e a sinistra – Congratulazioni).

PRESIDENTE. L’onorevole Ruini ha presentato il seguente ordine del giorno:

«L’Assemblea Costituente,

esprime il dolore e la protesta dell’Italia, perché non è questa la pace che ha meritato; il Trattato che le è imposto ferisce, assieme ai suoi diritti, le esigenze internazionali proclamate dalla Carta Atlantica e dalle dichiarazioni degli Alleati; né tiene conto che la responsabilità della guerra è del fascismo, e che il popolo italiano è insorto ed ha combattuto a fianco delle Potenze Unite contro la Germania per il trionfo delle democrazie;

riconosce che, nonostante tutto, l’Italia deve, per lo stato di necessità in cui viene messa, ratificare il Trattato, rivendicando nel tempo stesso il suo incancellabile diritto alla revisione;

autorizza il Governo a procedere all’atto formale di ratifica quando, col deposito delle ratifiche delle quattro grandi Potenze, a termini dell’articolo 90, si verifichino le condizioni obiettive, di fronte alle quali l’Italia è costretta a tale ratifica».

L’onorevole Ruini ha facoltà di svolgere il suo ordine del giorno.

RUINI. Onorevoli colleghi, l’ordine del giorno che ho presentato una settimana fa, aveva un intento di chiarificazione e cercava di evitare il pericolo che la soluzione allora sostenuta dal Governo di una ratifica immediata, e le opposizioni che sollevava spostassero le basi ed il terreno della discussione. Quella che doveva essere unanime ed accorata protesta, non doveva diventare una angusta e rissosa questione di procedura, che si sarebbe prestata ad interpretazioni non esatte: di adesione all’uno o all’altro blocco, di appendice d’un termine di ratifica al trattato.

Ad un dato momento si verificò un incontro. Il Governo adottò la soluzione, espressa nel mio ordine del giorno – che non era soltanto mia, ma rispecchiava idee manifestate da gran parte delle correnti d’opposizione e da non pochi democristiani – di riconoscere la ratifica inevitabile, ma di rinviarne l’atto formale a quando, col deposito delle ratifiche delle Quattro Grandi Potenze, il Trattato sarebbe divenuto esecutivo, e si sarebbe verificata per l’Italia la necessità di firmare.

Sembrava che si potesse realizzare un pieno consenso; ma ecco nuovamente divampare il dibattito, che si annuncia confuso ed a linee non ferme; così che il mio ordine del giorno risponde ancor più ad una esigenza di chiarificazione e, nell’oscillare delle posizioni altrui, tiene fermo un punto di vista che esprime, con la via tramata dalla coscienza, quella del più sicuro interesse nazionale.

Ho sentito l’onorevole Sforza parlare con tanta nobiltà; ma, qualche volta, nel suo discorso, mi pareva che si attardasse la difesa della prima posizione, della ratifica immediata, che poi era stata abbandonata. D’altra parte, i partiti estremi, che avevano ottenuto quanto chiedevano, rimettono tutto nell’incertezza e, rinviando una netta orientazione, si riuniscono, nella confusione delle lingue, con coloro che non vogliono la ratifica.

Bisogna, sollevandosi al di sopra della tattica di partito, cercare non di confondere ma di distinguere tre posizioni essenziali. Prima, il grido di dolore e la protesta, che è di tutto il popolo italiano, e noi qui, avremo l’unanimità.

Seconda, il riconoscimento che non si può evitare, quando che sia, la ratifica; ed avremo anche per questo una quasi unanimità, tranne un piccolo gruppo di spiriti eletti, e di elementi nazionalisti, che non si vogliono piegare alla ratifica mai.

Terza, la determinazione del momento, in cui dovremo ratificare; quando? subito? dopo la ratifica delle Quattro Grandi potenze? Qui va localizzato il dissenso. Ma, abbandonata dal Governo la tesi della ratifica immediata, qual è la differenza, che ci può dividere?

Parlo con un sillogismo: visto che si deve fare la ratifica, visto che all’atto formale di ratifica si addiviene con una autorizzazione al Governo, ecco la conclusione: questa autorizzazione la dobbiamo dare ora o aspettare che sia data quando le quattro Potenze avranno firmato? La differenza è qui.

Dirò rapidamente le ragioni, per cui credo di potere difendere la tesi adombrata nel mio ordine del giorno.

Protesta unanime. Non dobbiamo neppure per un momento indugiare. La frase «questa non è la pace che abbiamo meritata» è frase detta dal Capo dello Stato con alta passione. Noi possiamo e dobbiamo affermare che il nostro paese, col suo contegno, in guerra, ha meritato una pace diversa di quella che le è duramente imposta. Qualche giornale estero cerca di negarci il diritto a questa protesta. Crede di aver ragione, nel senso che questa non è la pace dell’Italia, una pace che i vincitori hanno fatto con l’Italia; è un tentativo di pace che hanno fatto fra di loro.

Ricordo sempre la frase di Byrnes: «sì, vi sono cose ingiuste; ma dovevamo evitare la guerra europea e mondiale». Se vi sono ingiustizie, se l’Italia è crocefissa e martoriata, abbiamo il diritto ed il dovere della protesta. I nostri figli ci rimprovererebbero un umiliato silenzio. Né la protesta è inutile gesto; è dignità e volontà di popolo, che non accetta anche se costretta a dargli esecuzione, il trattato non si ribella, ma si riserva il futuro e la rivendicazione dei propri diritti.

Non andrò a cercare – è stato detto con molta autorità e finezza da Croce – le ragioni per cui questo Trattato offende la storia italiana. È la storia che insorge contro di esso, con i valori più alti dello spirito, con gli apporti decisivi che ha dato alla civiltà universale; con la certezza che, come ha fatto sempre dopo le più gravi catastrofi (ed in ciò è unica nel mondo) l’Italia contribuirà ancora, e sarà alla testa, nello sforzo per una nuova civiltà.

Ho accentuato, nell’ordine del giorno, due ragioni immediate contro l’ingiusto Trattato. La responsabilità della guerra è del fascismo, che – sorretto al suo sorgere da larghi strati politici ed economici negli attuali vincitori asservì con la violenza il popolo italiano; ma questo è insorto, ed ha combattuto a fianco degli alleati. Responsabilità del fascismo.

Voce. Della monarchia.

RUINI. Io parlo di un regime nel suo complesso. Che la responsabilità sia del fascismo è ammesso ora dagli alleati; e bisogna ripeterlo. Se no, sembrerebbe che la responsabilità fosse dell’Italia, e che questa dovesse giustamente pagare. Dobbiamo ripeterlo perché è la verità e perché oggi assistiamo ad una mostruosa inversione: che sono proprio coloro che furono fascisti o che hanno la nostalgia del fascismo a rimproverare ora all’Italia, al popolo che è insorto, a noi che l’abbiamo guidato, la responsabilità della dura pace che l’Italia dove subire come credito del loro regime funesto. (Approvazioni).

Un’altra ragione profonda, a cui ci appelliamo, sono le dichiarazioni che gli Alleati hanno fatto, durante la guerra, sulla pace e le esigenze della convivenza internazionale. La Carta Atlantica ed altre solenni proclamazioni non sono state applicate all’Italia e la pace fra gli alleati ha ferito, insieme agli interessi vitali d’Italia, i principî del diritto e della giustizia internazionale; né ha tenuto conto che, anche come convenienza pratica e concreta, le soluzioni meno sfavorevoli all’Italia erano quelle che più si confacevano all’interesse comune ed assicuravano una pace durevole nel mondo.

Mi sono appellato alle dichiarazioni generali, più che alle promesse largite dagli Alleati a l’Italia. Vi è tutta una storia, che si potrebbe fare, delle illusioni, o autoillusioni in cui è vissuto il popolo italiano. Non è forse esatto dire che ci hanno ingannati. Ci siamo ingannati, ma hanno lasciato che noi ci ingannassimo e si sono valsi delle nostre illusioni. Se anche, come è degli infelici ci siamo illusi sulla portata delle loro promesse, queste vi sono state, e si è formato – l’affermazione non è mia, l’ho letta in uno degli ultimi numeri di Civiltà Cattolica – un tacito patto tra noi e fra loro. È un’esigenza morale ed abbiamo il diritto di chiedere che il tacito patto sia mantenuto.

Su questi motivi si basa la protesta che io vi propongo di elevare, in nome del popolo italiano. Noi non possiamo approvare un testo di legge sulla ratifica anche non immediato, senza consegnare agli atti dell’Assemblea, ed alla memoria del popolo un grido di dolore, che vorrei risultasse da un documento migliore del mio.

Dopo la protesta, il riconoscimento che la ratifica è necessaria. Abbiamo accettato Croce; sentiremo Orlando: vi sono alcuni dinieghi, nobilissimi, che non possono però indurci ad accettare la loro tesi. Ho vissuto e vivo anch’io nell’ansia, di fronte all’ingiusto Trattato. Ma sono tranquillo dal punto di vista morale, perché quando la situazione determina uno stato di necessità al quale siamo materialmente costretti a piegare, la nostra coscienza non è menomata; e possiamo e dobbiamo tener conto di altre considerazioni, d’ordine pratico, e valerci della stessa ratifica nello sforzo di risollevarci dal nostro isolamento e dalla nostra depressione. Se l’esigenza etica è salva, resta quella che Croce chiama, nella sua filosofia, «economica» in senso lato; ed egli stesso non vorrà negare che, soltanto uscendo dal regime armistiziale ed entrando nel circolo della organizzazione internazionale, potremo iniziare la nostra difficile ascesa. La pace, anche non giusta, è per noi condizione di vita. Non basta che la pace diventi, anche senza la nostra ratifica, esecutiva. Bisogna che, pur protestando e riservandoci il diritto di chiederne una men sfavorevole applicazione ed una futura revisione, dichiariamo intanto – questa è la ratifica – di darle noi stessi, per quanto ci riguarda, esecuzione, e di collaborare subito, con situazione non dubbia, all’opera comune di salvare l’economia europea ed impedire nuove guerre nel mondo.

Sono entrato così, ormai, nel terzo punto dell’ordine del giorno, che, tutti lo sanno, era stato comunicato a molti amici ed aveva il consenso di molte correnti, tranne l’esile e nobile schiera dei negatori assoluti, «negatori di coscienza». Ratifica sì, ma non immediata. L’ordine del giorno è contro la ratifica immediata. Non ha capito, il paese, la fretta e la corsa alla ratifica, che erano nelle prime intenzioni del Governo; e non apparivano giustificate dalle pressioni di alcuni alleati che non si sa in quale misura vi furono, e le amplificò comunque il desiderio e la sollecitazione di chi le ha ricevute. Vi sono in questa materia due punti di vista estremi ed esagerati, di chi non sente che il bisogno della protesta incondizionata ed aspra, senza vedere le esigenze della collaborazione, per rimetterci in piedi, e l’altra di chi non ha un accento di protesta (non ne ho sentito uno solo nel discorso di Sforza) e prova soltanto l’anelito della aziono per la ripresa. Sono due note che bisogna far convergere ad una sintesi superiore.

Quando? quando dovremo compiere l’atto formale di ratifica? Quando, in base all’art. 90, il Trattato sarà divenuto esecutivo, con la ratifica delle quattro grandi potenze. Badiamo bene: il Trattato non sarà neppure allora perfezionato; ha ragione il collega Perassi: perché sia perfetto occorre anche la ratifica dell’Italia; ma pur senza di essa, l’art. 90 è chiaro, il Trattato avrà le correlazioni richieste (con formula eccezionale) per la sua esecutorietà. Non può sorgere dubbio giuridico al riguardo.

Fino a che il Trattato non sia esecutivo, non sussistono le condizioni obiettive dello stato di necessità, di fronte al quale la ratifica nostra non può esser negoziata. Allora soltanto saremo anche moralmente giustificati; prima di quel momento ripugnerebbe alla nostra coscienza di curvarci a ciò che non ha ancora la forza della coazione.

Ma se è così – si può opporre – perché non attendere la quarta firma, e decidere allora sulla ratifica? Non è certamente stato opportuno che impazienza del Governo ci abbia sottoposto fin da ora la questione. Sarebbe stato meglio attendere. Ma poiché noi siamo, come Assemblea, investiti del problema, non possono sfuggire i riflessi d’ordine internazionale del non voler riconoscere la necessità della ratifica.

La soluzione che vi è proposta è di affermare tale necessità; il che equivale ad una ratifica implicita, virtuale, sospesa nella sua applicazione; e nell’autorizzare il Governo a compiere l’atto formale di ratifica, quando siano avvenute le altre quattro ratifiche. Si dice – è un’altra obiezione – se intanto avvengono delle nuove cose? Potremo sempre ritirare la nostra autorizzazione, che va intesa con la clausola rebus sic stantibus. Intanto, mentre è sotto ogni altro aspetto etico-giuridico ineccepibile, la formula che vi è davanti, è politicamente la più felice, ed ha l’abilità spontanea della esattezza e della sincerità sostanziale: sodisfa gli alleati che domandano la nostra decisione per la ratifica, ed è perfettamente riguardosa per l’altra Potenza che non ha ancora ratificato.

Fin da ora, e nell’atto formale della ratifica, dobbiamo rivendicare il nostro incancellabile diritto alla revisione del Trattato. «Pensarvi sempre e non parlarne mai», fu detto in Francia dopo il settanta. Non parlarne apertamente, non opporci all’esecuzione, ma cercare che siano risolute a nostro minor svantaggio alcune questioni ancora aperte d’applicazione; e non stancarci mai di rivendicare, con la nostra stessa collaborazione leale al bene comune, in ogni occasione che si presenti opportuna, l’esigenza di una concreta e giusta revisione.

Sarà una dura fatica. Vi sono molti punti dolorosi nel nostro Trattato: mutilazioni di territorio, perdita delle colonie, riparazioni economiche, dei quali non sarà facile ottenere la revisione.

Ci hanno mutilati alle nostre frontiere; tranne al Nord. Sarebbe un assurdo se l’Austria avesse avuto brani del nostro territorio, dopo che ha combattuto fino all’ultimo contro le Potenze alleate. Eppure abbiamo temuto anche questo pericolo! Vedo qui nel Trattato un patto De Gasperi-Grüber, col quale l’Italia si impegna a dare all’Alto Adige poteri legislativi ed esecutivi autonomi. Non chiedo se il Patto era necessario; non chiedo se doveva essere inserito nel trattato. Avremmo concesso noi, spontaneamente, tutela adeguata agli allogeni tedeschi come abbiamo fatto ai francesi. Comunque il Patto c’è, e non formulato felicemente. Non entro nel fatto che le due dizioni, quella francese e quella italiana, non sono eguali fra loro (il testo autentico, in cui fu stipulato, è l’inglese, e non lo conosciamo). La frase «potere legislativo ed esecutivo autonomo» può prestarsi ad una interpretazione eccessiva, che può essere invocata contro di noi, tanto più che quest’Atto diventa un Atto internazionale.

Io vorrei – e credo l’onorevole Presidente del Consiglio non avrà difficoltà – che l’Assemblea, nell’atto di autorizzare la ratifica del Trattato, dichiari che questi poteri legislativi ed esecutivi si devono intendere in limiti analoghi a quelli che abbiamo concesso alla Sicilia, ed alle Regioni con autonomie speciali.

Non sono poteri autonomi nel senso pieno della parola, è un’autonomia regionale nei limiti della sovranità dello Stato italiano e nei limiti della costituzione e delle leggi che il nostro Stato vorrà stabilire. Se noi facciamo questa dichiarazione come interpretazione autentica, ha un certo valore e può correggere le impressioni che possono venire da una considerazione affrettata.

Mutilazioni alle frontiere occidentali. Vi è l’ordine del giorno Badini-Confalonieri; non sarà facile riavere queste terre, ma dobbiamo affermare il nostro diritto.

Mutilazioni alle frontiere orientali: le più vaste e profonde: interi lembi di territorio ci sono strappati; perdiamo la gemme giuliane che sono Italia, e si trovano ridotte in una situazione angosciosa; Trieste è ridotta ad una Danzica, ad una Shanghai, pericolosa per l’equilibrio d’Europa. Conveniva a tutti gli alleati che fosse rimasta a noi. Qualcuno degli anglosassoni si è accorto che non è opportuno portare gli slavi fino all’Isonzo. Gli slavi, fino a poco tempo fa, erano numericamente la terza parte; s’avviano ora ad essere la metà dell’Europa, continua il loro sviluppo politico ed economico; e grande è il loro peso complessivo. D’altra parte ne è balenato un accenno, quando si è parlato della possibilità di negoziare Gorizia con Trieste; che la stessa Russia forse si è accorta che non era sua convenienza far sorgere una grande città, marinara, in mano ad altre Potenze. Per verità, vien in mente il giudizio di Talleyrand per l’assassinio di duca d’Enghien: «Non è soltanto un delitto; è anche un errore».

Malgrado tutto, una volta compiuto l’errore, non sarà facile rimediare.

E così por le colonie. Avemmo il «no» secco dell’Inghilterra ad una proposta russo-francese, appoggiata dall’America, di restituirle alla nostra gestione. Le sabbie invadono le fattorie libiche; sono inutilizzati gli impianti industriali e commerciali d’Eritrea, marciscono le banane somale. Ma gli inglesi sono contro di noi; io vedo ancora levarsi un alto funzionario del Foreign Office e dire che avere le vecchie colonie significa avere la flotta, significa la guerra con gli arabi, significa una disponibilità di mezzi finanziari che noi non abbiamo. Chiara sia la nostra risposta: che non vogliamo il vecchio tipo di colonie; vogliamo un tipo nuovo che esce da quello storico, che non è più colonia, e che basa su due cose: sulla sicurezza, sulla libertà, sull’avviamento alla indipendenza dille popolazioni indigene, ed insieme sulla collaborazione con le altre potenze nello sforzo comune.

Vi sono poi le riparazioni: 230 milioni di dollari cui ci ha condannato il Trattato. Essere condannati a pagare delle riparazioni è un assurdo, se si considera ciò che abbiamo dato agli alleati come apporto economico di requisizioni, di lavoro, di amlire; e quanto abbiamo sofferto combattendo insieme contro i tedeschi; tre quarti dei danni globali per tutta la guerra caddero su noi quando eravamo cobelligeranti con le Potenze Unite.

Dovremo pagare anche più dei 230 milioni di dollari, se ci applicheranno duramente l’art. 69 che, col sequestro di tutti i beni italiani all’estero, ci obbliga ad indennizzare tutti i danni avuti dai cittadini stranieri. In Brasile, dove si discute, e non è certo, se una delle sue navi sia stata affondata da un sommergibile italiano, tutti i beni dei nostri connazionali vennero sequestrati e venduti.

Si aggiunga che, essendo obbligato a concorrere alle riparazioni con le nostre industrie, ciò potrà limitare il nostro sforzo di ricostruzione, anche pel piano Marshall.

Saranno i 230 milioni ed i diritti di riparazione al di sopra di essi, rinunziati? Hanno rinunziato le potenze più grandi, l’Inghilterra, l’America; sono in corso accordi con la Francia per il sequestro di beni italiani; non molleranno le piccole nazioni.

Dobbiamo combattere con tutte le forze le battaglie per la revisione, senza crearci nuove e facili illusioni. Alcuni giornali ripetono, con grande leggerezza: «la revisione è in atto». Dal ministro Sforza – nessuno può con maggior prodigio rappresentare il nostro paese – ho ascoltato parole così vibranti di speranza che non oso prendere di fronte; egli ci ha detto di atmosfera spirituale; di parole buone; noi italiani, ci ha detto, amiamo molto le parole che toccano il nostro cuore. Ha aggiunto che non dobbiamo fare i piccoli Machiavelli. Domando perdono alla ombra di messer Nicolò; almeno sapessimo fare da piccoli Machiavelli, e non buttarci avanti, senza nulla di concreto, ed accontentarci di solo parole! L’idealismo più alto non si può scompagnare da un sano realismo. L’onorevole Sforza ci ha detto di avere udito parole buone per Gorizia, di cui si lima e s’insidia la cerchia più stretta.

SFORZA. Ministro degli affari esteri. Furono dichiarazioni, non parole: le parole sono parole e le dichiarazioni sono dichiarazioni.

RUINI. Sono parole, onorevole Sforza; nessuno più di me le augura che diventino cose.

Nessuno più di me ha sofferto delle parole buone che abbiamo ascoltato noi della resistenza e della cobelligeranza; e ne nasceva più spesso il frutto amaro della delusione. Non dobbiamo rinsaldare ancora di nuove anella la catena umiliante delle illusioni. L’onorevole Sforza fu molto cortese con me, e disse di ammirare la schietta semplicità con la quale, il giorno che Badoglio al Grand Hôtel, rivolto al Comitato di liberazione nazionale ci offerse di entrare nel suo Governo io risposi: sì, il Comitato come governo di liberazione. Se io avessi saputo da Lei (ma Lei era ancora ottimista) come stavano realmente i nostri rapporti con gli Alleati, che non ci lanciavano muovere, e non ci davano abbastanza di ciò che domandavamo, di armarci per morire per loro, se io avessi saputo questo, non avrei risposto così. Sarebbe stato forse meglio che al governo fosse restato Badoglio o un comando alleato.

Perdonatemi, se insisto. Vorrei che ci immunizzassimo contro il ritorno amaro o desolante delle autoillusioni.

Anche per il piano Marshall; che voi volete troppo legare al Trattato, ma che certamente rientra nel quadro attivo della pace.

Che cosa è il piano Marshall? In verità, non è un piano; è un invito a fare un piano; un avvertimento alle potenze europee perché pensino a se stesse: perché coordinino i loro sforzi; l’America vedrà poi che cosa darà di aiuti per evitare il disordine e lo sfacelo, per rendere possibile la ricostruzione e la salvezza d’Europa. Questo è il piano Marshall; e non vi è neppure un impegno formale. Non si sa che cosa deciderà, a fine d’anno, il Congresso, dove non mancano riserve e dubbiezze di partiti.

Il piano Marshall è per noi una necessità, perché non potremmo avere altrimenti gli aiuti che ci sono indispensabili. Ed è, ad ogni modo, una cosa seria e formidabile.

Dobbiamo andargli incontro senza esitazione e con fervore, come hanno fatto, al primo parlarne qui, con giovanile entusiasmo, in un loro duetto, Campa e Sforza. Ma non ci giova accendere ancora una volta la fiaccola dell’illusione; e credere che sia il Bengodi destinato a risolvere tutti i nostri problemi. Dio non voglia che si passi troppo facilmente dal torrido entusiasmo alla boutade – non certamente sua, onorevole Sforza, che la montagna partorisce il topo. Andiamo incontro a questo piano con tutte le nostre forze, ma illusioni no: il Paese ne riporterebbe domani un’altra amarezza.

L’America ha perfettamente ragione di impostare così la sua possibilità d’aiuto; che non sarebbe efficace senza un coordinamento europeo di sforzi. A prescindere da ogni prospettiva politica, che vi è sempre, la ripresa economica europea – e l’America si rivolgeva anche alla Russia, è condizione di pace ed implica un piano d’insieme. E l’America ha la possibilità d’aiutarci: non ne dubiti l’onorevole Nitti; immenso Paese, ricco, così ricco che non c’è neppure il socialismo; un operaio guadagna 400 dollari al mese (centinaia di migliaia delle nostre lirette). Questo Paese ha una bilancia commerciale che quest’anno presenta, dagli ultimi dati, un supero di otto miliardi di dollari. Ne godremo due col turismo, ha detto qualche americano; ed anche il turismo ci aiuterà; resteranno ad ogni modo i sei miliardi, che sono una piccola parte della i sua produzione annua di 150–200 miliardi di dollari all’anno, e potrebbero bastare alle esigenze dell’Europa.

Né la convenienza degli Stati Uniti di America è soltanto indiretta, seppure come tale grandissima, nell’assicurare l’ordine e la quiete nel mondo. È anche diretta, economica. Se l’America vuole continuare nel suo enorme apparato produttivo, nella sua gigantesca struttura industriale, deve aiutare gli altri Paesi e continuare come faceva con la legge «affitti e prestiti». Che questo tenga lontano da lei per sempre la crisi di sovraproduzione, io non so; che possa continuare sempre ad importare tanto meno di ciò che esposto, io non so, ma la situazione attuale è questa, ed esiste una larga possibilità di aiuti.

Hoover ha detto che l’America non vuole più darci soltanto carbone, petrolio, grano, noli; vuole esportare piuttosto prodotti finiti. Si è d’altra parte affermato che alcuni rami d’industria hanno già comandi per 10 anni, e si dovranno equilibrare le domande interna ed esterna. Ma presupposto di studio, pel piano Marshall, è l’esatta situazione della economia americana; e l’Europa deve rendersene conto per le sue domande; ma questo è certo, onorevole Nitti, che non ne manca la possibilità.

Dobbiamo prepararci per l’elaborazione del piano Marshall. Anzi: avremmo dovuto essere già preparati; e non lo siamo. Gli organi di ricerca che io avevo formati al Ministero della Ricostruzione (o di quello pei piani avevo chiamato alla presidenza l’attuale ministro Del Vecchio) non vissero più, quando lasciai il Ministero, per dissensi sul piano finanziario-economico. Si sono, per eccezione, proseguiti gli studi della Commissione Casini, che avevo costituito per la riconversione; ma i suoi risultati non vennero ancora pubblicati. Né lo sono i dati che si dovevano raccogliere, secondo le disposizioni di Campilli e Vanoni, per la nostra documentazione a Bretton Woods.

È questione di coscienza e di responsabilità; ed io non esito a dire che l’Ufficio economico agli Esteri – il quale ha alla testa un ex diplomatico, che non si intende di cose economiche e ad una conferenza stampa ha detto cose molto inesatte – deve essere riorganizzato, non solo per la stipulazione di trattati di commercio (ove più gioverebbe la competenza del Ministero del commercio estero), ma per la raccolta e l’uso tempestivo di elementi sulla nostra economia, di cui non si può fare a meno nei rapporti internazionali.

Manca tale preparazione; e dobbiamo sperare che non si ripeta la scampagnata e l’improvvisazione che si ebbe un’altra volta a Parigi. L’esempio ci ammonisce; sono andati in meno, e sono capaci; ma la preparazione non era purtroppo già pronta.

In Italia manca il piano; c’è dappertutto: il piano Truman in America, il piano Morrison in Inghilterra, il piano Monnet in Francia, il piano De Groote in Belgio. Noi non ne abbiamo nessuno. I piani sono paziente opera collettiva; da noi si parla piuttosto dei pianificatori, come di rabdomanti che hanno la bacchetta magica; e ci fermiamo alle formule esterne. Il piano manca; e se ne vede ora l’assoluta necessità.

Se occorre fare, del piano Marshall, un piano dei piani europeo, bisogna che vi sia prima, per noi, un piano italiano. Dobbiamo averlo per le nostre richieste, di fronte a quelle degli altri. Dobbiamo averlo, perché se è necessario un coordinamento europeo, non può andare oltre i limiti delle inderogabili esigenze della nostra economia nazionale; e se va seppellita per sempre la funesta chimera dall’autarchia, non si può distruggere una determinazione autonoma di movimento economico, che è condizione di successo e di vita. Il coordinamento richiede obblighi reciproci, ma anche, in ciascun paese, una certa libertà di azione.

Il piano dobbiamo averlo e manovrarlo noi italiani: l’America tende a dare i suoi mutui alle singole imprese, ed industrie, sia pure con la garanzia dello Stato. Ora è evidente che allo Stato spetta l’intervento ed il controllo, per la miglior distribuzione di sforzi nell’interesse della Nazione. Il piano italiano è, anche sotto tale aspetto, necessario.

Ed è necessaria una nostra impostazione nel piano europeo che risponda ai nostri interessi. Nel questionario o memorandum alle potenze aderenti, di cui abbiamo avuto fugace notizia dalla stampa d’oggi, sembra che si chiedano dapprima dati sui danni di guerra. Possiamo e dobbiamo dimostrare che più di altri ne ha sofferto la nostra Italia, percorsa tutta, nella sua lunghezza, dalla guerra devastatrice. Ma la sostanza della richiesta sembra impostarsi così: far l’inventario delle risorse di ogni paese, indicare la possibilità di sviluppo di queste risorse, ricavare – come termine di mediazione fra i. due ordini di date – il fabbisogno del paese per lo sviluppo indicato. Se è così – od appare probabile – bisogna guardarsi perché l’Italia non parta handicappata ed in condizioni di inferiorità di fronte alle altre nazioni; e seduta al tavolo di Parigi accanto a potenze più forti, avvantaggiate dalla loro condizione di vincitrici, non abbia meno di ciò che avrebbe avuto, presentandosi sola, agli Stati Uniti. Noi non abbiamo le risorse che hanno altri Paesi; noi ci troviamo in uno stato di sofferenza e disagio maggiore degli altri paesi. Non deve far velo lo spettacolo balordo e dannoso di godimento e di spreco, a cui assistiamo da parte di pochi privilegiati; leggevo anche stamane in giornali stranieri: «Lusso e miseria in Italia». In realtà da noi, il tenor di vita e la situazione alimentare sono inferiori che altrove. Se siamo considerati nazione vinta, si tenga conto almeno della posizione peggiore, in cui siamo gettati.

Vi dirò soltanto alcune cifre:

Inflazione. Tranne i paesi in dissolvimento monetario (come l’Ungheria e la Grecia) la circolazione non supera negli Stati extra europei e negli altri europei di quattro volte quella del preguerra; in Gran Bretagna non la supera di due volte; in Francia, pur così provata, di sei volte. In Italia (sono dati del 1946) l’aumento è di 25 volte!

Costo della vita. Prendendo come riferimento il 1939 ed il 1946, nei paesi extra europei ed anche europei, nel Benelux e nei paesi Scandinavi, non si è raddoppiato il costo della vita. In Inghilterra è aumentato soltanto di un terzo. In Francia di 8 volte. In Italia di 30, ed ora siamo a 40 volte, in confronto al preguerra.

Sono cifre di comparabilità discutibile, ma servono come grande indicazione; e vorrei che fossero tenute presenti.

Ma sì, noi aderiamo con tutte le nostre forze, ma chiediamo che si tenga conto delle nostre necessità. Il generale Marshall, quando parlò per la prima volta del suo piano, disse che voleva evitare il bisogno ed il disordine, e dare la sicurezza all’Europa. Noi italiani che, malgrado le nostre beghe, non abbiamo conosciuto gli scioperi e le agitazioni di altri Paesi, ed abbiamo dato prova di disciplina, ci troviamo in condizioni peggiori di altri paesi, per alimentazione e per tenore di vita, e siamo pertanto più esposti, obiettivamente, ai pericoli che il piano intende evitare.

Noi non vogliamo togliere nulla a nessuno, ma far presenti le nostre necessità particolari. Non parlo dei paesi scandinavi, non parlo del Benelux, ove il franco belga fa premio sulla sterlina, ed è quasi alla pari del dollaro; e quel governo, ha nel suo piano, dichiarato di poter far fronte ai suoi bisogni con le sue risorse.

Siamo legati all’Inghilterra ed alla Francia, con cui siamo destinati a fare molto cammino, specialmente sul terreno economico. Conosciamo le loro difficoltà. Grava sull’Inghilterra l’ombra dell’impero che sembra dissolverà, della funzione di clearing, mondiale che ha perduta, della necessità in cui si trova di importare più della metà del suo pane e delle materie prime, per le sue industrie. Nonostante le enormi difficoltà, l’Inghilterra, con sforzo austero verso cui deve andare l’ammirazione di tutti, ha fatto sì che il bilancio dello Stato è in pareggio; che le esportazioni hanno quasi raddoppiato i valori che avevano nel 1938; che la paurosa data del 15 luglio in cui la sterlina doveva parificarsi al dollaro (ne parlò qui con apprensione Corbino) è passata, e le cose sono andato a posto. Morrison ha ragione di elevare l’inno alla vita, contro il disfattismo. La vecchia Inghilterra vuol rinnovare i suoi macchinari, ed impianti perché il fatto fondamentale economicamente, oggi, è che l’America si è industrializzata in una forma modernissima, di fronte alle altre potenze, che si trovano arretrate. Complessivamente, dagli Stati Uniti e dal Canada, l’Inghilterra ha avuto crediti per oltre 5 miliardi di dollari.

La Francia è in condizioni non buone, come noi, per la finanza dello Stato, per l’inflazione, per i prezzi, per il disavanzo nella bilancia dei pagamenti internazionali.

Ma non dobbiamo dimenticare che la buona terra di Francia bastava a sfamare la sua popolazione ed anche ora, nel piano Monnet, è previsto che, ridotta del 25 per cento la superficie a grano, basterà al suo pane. La Francia era la terza potenza al mondo per il ferro, la quinta per il carbone. Grandi sono le sue risorse. Ed ora vuole anche essa rinnovare i suoi impianti, ed ha avuto prestiti per quasi tre miliardi di dollari.

Ne ha avuto per 300 milioni il Belgio; da 150 a 200 ciascuna l’Olanda, la Danimarca, la Norvegia; più di 100 ciascuna la Cecoslovacchia, la Polonia, la piccola Grecia. L’Italia ne ha avuti 180, come prestiti, ed è vissuta dei 550 milioni di elargizione dell’U.N.R.R.A., che pure non hanno raggiunto, per abitante, l’aiuto dato alla Grecia. L’Italia ora chiede anch’essa prestiti da restituire. Ed ha diritto ad una perequazione.

I suoi bisogni sono grandi: ha pagato la guerra, sostanzialmente, con una riduzione del tenore di vita più duro che altrove. Si è calcolato che soltanto nel 1950, con sforzi eroici, producendo di più, esportando di più riusciremo a raggiungere un tenore di vita corrispondente a quello del 1938. L’Italia ha un suolo in gran parte arido e montuoso, che non basta al suo cibo; ha un sottosuolo povero; e non possiede grandi risorse d’energia. Durante il periodo fascista, quando per vivere dovevo scrivere articoli anonimi in riviste tecniche, ho dimostrato, con raffronti internazionali che il primato e la vasta disponibilità dell’Italia per la «conquista della forza» è una leggenda. Non parliamo poi del Mezzogiorno: al sud del Sangro e del Liri la portata di tutti i corsi d’acqua è soltanto di 50 metri cubi al secondo; cioè non superiore alla portata di magra del Ticino.

Fra i paesi del mondo l’Italia era, secondo Colin Clark, al venticinquesimo posto per il reddito. Secondo il Fischer, non potrebbe mantenere più di 100 abitanti per chilometro quadrato; e ne ha più di 150. L’Italia rappresenta soltanto il due e mezzo dell’industria del mondo; mentre come popolazione, di fronte alle altre nazioni industrializzate, rappresenta il cinque per cento. Dati raccolti (che hanno stupito dapprima gli stessi dirigenti della nostra Statistica) dicono che il numero degli occupati nell’agricoltura è rimasto a 8,8 milioni (lo sforzo dei miglioramenti è compensato dallo sviluppo dei mezzi tecnici); gli addetti alle industrie ed ai trasporti sono andati da 4,6 a 6,2 milioni; al commercio ed alle banche da 0,7 ad 1,6; a professioni varie da 1,4 ad 1,7. Ciò che impressiona è che la cosiddetta popolazione improduttiva è salita da 7,6 a 15,4 milioni. È gente che in parte attende anch’essa, ad esempio, ad attività domestiche, ma la cifra, raffrontata ad altri paesi, ha un innegabile significato: che in Italia è più difficile trovar da lavorare; che vi è da noi, in questo senso una disoccupazione cronica, endemica; più profonda che quella dei disoccupati temporanei, iscritti agli uffici del lavoro.

La popolazione, così numerosa, è il nostro tormento, ma è anche la nostra forza. Un’altra volta vi dissi che di fronte al preguerra siamo aumentati di un milione e mezzo di vite. Siamo invece aumentati di 2 milioni e, se teniamo conto di un milione della Venezia Giulia abbiamo un aumento di 3 milioni. Soltanto gli Stati Uniti che sono saliti da 130 a 140 milioni, ci superano in percentuale d’incremento. Sono aumentati i paesi extra europei. In Europa – tranne la Scandinavia e l’Olanda, in lieve aumento –, tutti i paesi sono diminuiti. L’Inghilterra ha perduto più di mezzo milione; la Francia un milione e mezzo di vite. L’Italia ormai – infranta la Germania – è la nazione più popolosa del continente europeo, tranne la Russia, che è un continente.

Questa enorme «umanità» nostra, italiana, ci crea dei bisogni; che devono essere prospettati per il piano Marshall anche sotto il riflesso internazionale. Ascoltate: «In Francia, come nell’America Latina e nella stessa Inghilterra, nessun processo di ricostruzione e di sviluppo industriale e agricolo può essere realizzato senza la mano d’opera italiana, che è la chiave di tutti i problemi». Questo è scritto in un piano economico francese.

Se altri paesi hanno bisogno della nostra mano d’opera, dobbiamo fare in modo che i nostri emigranti siano accolti bene e senza sospetto; non dobbiamo proseguire nella stolta politica dei Fasci italiani all’estero, ma farci rispettare; e studiare piani di emigrazione, una buona volta organici e completi.

L’emigrazione comunque non può bastare. È necessaria anch’essa (Interruzione del deputato Mazzoni). Caro Mazzoni, sto per dire ciò che desidera; che è preferibile lavorare in casa nostra. Anche dal punto di vista internazionale – dobbiamo dimostrarlo a Parigi – costa di più trasportare un italiano nel Belgio od in Francia (bisogna creargli alloggi e condizioni di vita, bisogna pagarlo tre volte i nostri salari); costa di più che far lavorare i nostri operai in Italia.

Abbiamo in Italia, ogni anno, 400 mila unità lavorative in più; e dobbiamo farle lavorare. Manderemo fuori con l’emigrazione, soltanto quelli che non troveranno occupazione nella agricoltura (non saranno molti, e nell’industria, dove esistono possibilità, abbiamo, oltre alle alimentari ed alle trasformazioni dei nostri prodotti agricoli, rami d’industria come le tessili, le chimiche, le stesse meccaniche (ma non devono più vivere sulle commesse di Stato) che possono assorbire nuova mano d’opera.

Ci sia dato il modo di lavorare, con materie grezze o semi lavorati stranieri; il nostro destino è di esportare mano d’opera, anche quando esportiamo prodotti finiti.

Sta beninteso – è caposaldo del piano Marshall – che i rapporti di scambio non saranno con la sola America, né soltanto fra i paesi aderenti al piano. Dovranno estendersi ai paesi che non vi hanno aderito; speriamo che aderiscano in seguito. Intanto la sfera degli interscambi sarà, con criteri economici la più larga e la più conveniente. Noi italiani non possiamo far a meno di esportare e di importare con paesi, che hanno caratteri di complementarità con la nostra economia. Così coi paesi balcanici e con la stessa Russia, che ci può dare materie prime perché lavoriamo le sue navi. Così con i paesi mediterranei e del Medio Oriente; dove – pur riprendendo la gestione fiduciaria delle nostre ex colonie – possiamo avere contatti con le popolazioni arabe, più amichevoli che non abbiano con le grandi potenze europee; (a proposito perché non si è dato corso agli accordi commerciali con l’Egitto, che ci potevano compensare degli altri, meno favorevoli per il sequestro dei nostri beni?). Vi sono poi i rapporti col Sud America… Non insisto più, ma vorrei che questo largo panorama non sfuggisse ai nostri rappresentanti a Parigi, perché non ne mancasse il riflesso, sia pure indiretto nel piano Marshall. Soltanto con uno sforzo di ampio respiro possiamo – tale sia il nostro piano interno – realizzare la nostra ricostruzione; purché ci stringiamo la cintola ancora per qualche anno; e purché riusciamo ad esportare il 130 per cento più di prima; ad accrescere la nostra marina mercantile del 50 per cento. Meta di aspra conquista, e da affrontare senza illusioni….

Ho voluto assumermi il compito di vaccinare contro le autoillusioni; ed esporvi nuove cifre, che ho messo insieme con fatica, ed hanno soltanto un valore di indicazione e di interesse per illuminare la via. Il piano Marshall, con le sue difficoltà, è luce di speranza di organizzazione internazionale…

Lasciate ora che, da un dovere più ingrato, mi sollevi anch’io all’inno fervente di Canepa. L’Italia ha dato il contributo maggiore al concetto di nazione, con i suoi pensatori, sia dal punto di vista ideale, come il Mazzini, sia da quello strettamente giuridico, come il Mancini. Uno scandinavo, premio Nobel, il Lange dice: «Quando si parla di nazione, si pensa in italiano». L’idea di nazione è la forma più alta finora raggiunta dallo spirito: noi siamo nati e viviamo nel cerchio di quell’idea, disposti a sacrificarle la vita ed ogni altra cosa le nostre convinzioni individuali, la stessa giustizia supernazionale. L’idea di nazione non può è non deve morire; deve anzi potenziarsi e vivificarsi nel quadro dell’idea internazionale. Anche qui noi italiani siamo all’avanguardia. Nell’altro dopoguerra Coodenhove Kalergi aveva scritto nella sala di Paneuropa: «L’Europa di Mazzini ha vinto sull’Europa di Metternich». Purtroppo non è stato così.

Sembrò che vincesse l’Italia di Hitler; e purtroppo noi oggi viviamo, come per una vendetta beffarda di Hitler, fra due «spazi vitali» che stanno di fronte, e purtroppo lo stesso piano Marshall parrebbe avere dato occasione ad un irrigidimento e ad una frattura. Vi è un blocco che ormai gravita sopra la Russia e potrà non chiedere mai un soldo all’America, vivendo appunto col sistema russo di ridurre i propri consumi e provvedere ad impianti e piani nuovi. Contro questa lacerazione noi dobbiamo reagire con tutte le nostre forze e potremo riuscirci con lo stesso sviluppo del piano Marshall, esercitando intanto una funzione di indipendenza e di mediazione tra i due blocchi. Noi apparteniamo alle potenze del piano Marshall; apparteniamo all’occidente, e del resto anche l’onorevole Togliatti nel suo discorso a Venezia disse che l’Italia deve partecipare al piano Marshall, purché questo non soffochi l’autonomia economica delle nazioni partecipi, e non sia un’arma contro la Russia, Il piano Marshall non deve prendere posizione contro il più ampio complesso internazionale, nel quale potrà sboccare domani. Chi depreca la guerra, desidera con tutto il cuore che, non in antitesi, ma come anello fra i due «spazi» che sono ciascuno (anche la Russia) un continente, la vecchia Europa che fu definita un promontorio dell’Asia per la sua posizione geografica, la piccola Europa che ha creato e dato la civiltà bianca al mondo, l’industre Europa che nel secolo scorso era diventata «l’officina del mondo», l’impoverita Europa che durante questa guerra ha perduto il suo primato economico ed ha visto la rivolta delle genti di colore nonostante tutto, l’Europa possa – ne sia il piano Marshall l’inizio – riprendere una sua funzione di equilibrio, e riaffermare ancora il suo compito e la sua forza di civiltà. In questa rinascenza l’Italia sarà al suo posto, accanto all’Inghilterra, e più ancora alla Francia, ed insieme alle altre nazioni europee.

Da questa Assemblea, nell’atto stesso che ferita come nazione, l’Italia rivendica i suoi diritti, si alzi un’invocazione appassionata all’idea ed all’organizzazione dell’Internazionale, che è la non spenta fede dei democratici alimentata da Mazzini; è lo spirito profondo della religione cattolica, che vuol dire «universale»; è il pensiero del manifesto dei comunisti, che non rinnegano più l’idea di patria. In nome di queste forze vive, sollevandosi sopra i partiti, l’Assemblea – dovrebbe essere l’ultima parte del mio ordine del giorno, che riecheggia un articolo della nostra Costituzione – l’Assemblea afferma la volontà dell’Italia di partecipare allo sforzo comune per la salvezza economica dell’Europa e per la creazione di un ordine internazionale che, anche mediante limitazioni reciproche di sovranità fra gli Stati, assicuri la pace e la giustizia fra i popoli (Applausi).

PRESIDENTE. Il seguito della discussione è rinviato a domani.

Interpellanza e interrogazioni con richiesta di urgenza.

PRESIDENTE. Comunico che gli onorevoli Lucifero. Condorelli e Colonna hanno presentato la seguente interpellanza con richiesta di svolgimento urgente:

«Al Governo, per conoscere se, considerando la necessità di rientrare nella normalità e di dare un effettivo contributo alla pacificazione nazionale, non ritenga di procedere alla liquidazione delle leggi, delle procedure e degli organi straordinari, restituendo ai giudici precostituiti ed alle leggi ordinarie dello Stato l’autorità ed il prestigio indispensabili ad un reale sviluppo democratico della vita del Paese.

«Lucifero, Condorelli, Colonna».

Chiedo al Governo quando intende rispondere.

DE GASPERI. Presidente del Consiglio dei Ministri. Farò sapere quando questa interpellanza potrà essere svolta, dopo essermi concertato con gli altri Ministri.

PRESIDENTE. Sono state inoltre presentate le seguenti interrogazioni con richiesta di risposta urgente:

«Al Ministro dell’interno, sul contenuto della sua circolare telegrafica dell’8 luglio 1947, con la quale si dispone di sottoporre ad autorizzazioni e controlli della polizia le riunioni dei lavoratori all’interno delle aziende in cui lavorano, anche quando dette riunioni sono indette dalle Commissioni interne; ciò che costituisce un attentato gravissimo alle libertà democratiche e sindacali.

«Di Vittorio, Bitossi, Noce Teresa, Negro, Flecchia, Massini».

«Al Ministro dell’interno, per conoscere i motivi che hanno indotto il direttore generale della pubblica sicurezza ad emanare la circolare 40617/4412/1962 dell’8 luglio 1947, che vieta le riunioni all’interno delle fabbriche.

«Questo provvedimento annulla di fatto cinquanta anni di conquiste sindacali, realizzate dai lavoratori italiani di ogni tendenza politica col proprio sacrificio e spesso col proprio sangue, e pone il nostro Paese alla retroguardia di tutte le Nazioni democratiche del mondo.

«L’interrogante chiede, perciò, che la circolare venga immediatamente revocata.

«Lizzadri».

Chiedo al Governo quando intende rispondere.

DE GASPERI, Presidente del Consiglio dei Ministri. Informerò il Ministro dell’interno perché faccia sapere quando intende rispondere a queste interrogazioni.

PRESIDENTE. Comunico il testo delle seguenti altre interrogazioni urgenti:

«Al Ministro di grazia e giustizia, per sapere se risponde a verità la notizia data dal giornale l’Umanità sui fatti delle carceri di Poggioreale; e quali provvedimenti d’ordine generale intenda prendere per difendere d cittadino dagli arbitrii della polizia.

«Calosso».

«Al Ministro di grazia e giustizia, perché dia chiari riferimenti su quanto la stampa vien pubblicando circa sevizie e maltrattamenti che sarebbero stati inflitti a detenuti nel carcere di Poggioreale di Napoli, e per sapere se, in vista di siffatti avvenimenti, non creda di impartire istruzioni intese a rafforzare il potere di controllo sulle carceri da parte dell’autorità giudiziaria e di organi ausiliari, e di ripristinare il diritto di accesso dei membri del Parlamento negli Istituti di pena.

«Salerno, Leone Giovanni, Riccio Stefano».

Chiedo al Governo quando intende rispondere.

GRASSI, Ministro di grazia e giustizia. Ricordo di avere già dichiarato, in occasione di analoga interrogazione dell’onorevole Pertini, che risponderò allorché mi saranno pervenuti i risultati di un’inchiesta che ho ordinato sui fatti di cui a queste interrogazioni.

PRESIDENTE. L’onorevole Cimenti ha presentato le seguenti interrogazioni urgenti:

«Al Ministro della difesa, per conoscere: 1°) quali provvedimenti siano stati adottati a seguito di quanto il Ministero del tesoro disponeva, con suo telegramma 6 giugno 1947, n. 1718) – diretto al Ministero della difesa (Esercito) – per il rapido e meno oneroso completamento della bonifica dei campi minati, e ciò conforme anche a quanto a suo tempo suggerito dagli organi tecnici competenti dell’Ispettorato bonifica campi minati (B.C.M.); 2°) se non sia il caso, quindi, di accogliere le richieste del Ministero del tesoro, dirette a fare eseguire tutti i lavori di bonifica campi minati attraverso il sistema degli appalti, adottando il criterio della formazione di piccoli lotti (5 o 6 milioni), da affidarsi a cooperative che assumano la totalità degli operai sminatori e diano garanzia di risolvere rapidamente questo delicato, quanto urgente problema; 3°) perché, dopo la precisazione data alla stampa dal Generale ispettore del B.C.M., riguardo alle irregolarità della zona di Genova (caso Ricci), che escludono in modo assoluto qualsiasi corresponsabilità da parte delle cooperative, non sia stata sentita la necessità di smentire le affermazioni contenute in una lettera diretta alla stampa dal Segretario del Sindacato nazionale sminatori, dipendente dall’Ispettorato B.C.M., con la quale si ledeva, senza giustificato motivo, il buon nome della cooperazione e si affermava che i lavori di sminamento sarebbero stati proseguiti dal Gruppo di sminatori alle dirette dipendenze dell’Ispettorato B.C.M., con l’esclusione quindi delle cooperative.

«Cimenti».

«Al Ministro del tesoro, per sapere:

1°) perché in questi giorni ha disposto il collocamento a riposo di pochi funzionari di gruppo A, di grado elevato, nati nel primo semestre dell’anno 1881, i quali soltanto da poco hanno raggiunto i limiti di legge; mentre funzionari molto più anziani, anche ultrasettantenni, continuano il loro lodevole servizio presso tutte le Amministrazioni statali, compresa quella delle finanze, cui il Tesoro fino a poco tempo fa è stato unito;

2°) perché sono stati esclusi da siffatta grave misura, che mette i colpiti in pietosissime condizioni economiche, date le attuali gravi contingenze della vita, i funzionari della Ragioneria generale dello Stato e degli Uffici provinciali del Tesoro, tutti dipendenti dalla stessa Amministrazione; il che giustificherebbe il sospetto di un provvedimento non obiettivo, ma inteso solamente a favorire interessi particolari;

3°) perché non ha ritenuto di uniformarsi alla circolare della Presidenza del Consiglio dei Ministri n. 49941/43320/1 del 23 ottobre 1945, tuttora in vigore, la quale faceva obbligo alle Amministrazioni di procedere gradualmente ai collocamenti a riposo, solo dopo che, espletati i concorsi, fosse stato possibile di procedere alle conseguenti nomine in relazione ai posti vacanti.

«L’interrogante fa osservare che nei riguardi della carriera amministrativa del Tesoro risulta che sono scoperti oltre 160 posti, mentre l’Amministrazione di recente ha bandito un concorso per coprire soltanto una parte di essi; e la definizione di tale concorso è da ritenersi non prossima.

«Cimenti».

Chiedo al Governo quando intende rispondere a queste interrogazioni.

GRASSI, Ministro di grazia e giustizia. Interesserò i Ministri competenti, affinché facciano sapere quando intendono rispondere.

Sui lavori dell’Assemblea.

PRESIDENTE. Avverto l’Assemblea che la seduta di domani, con inizio alle ore 10, sarà dedicata al seguito della discussione sul disegno di legge relativo all’imposta straordinaria progressiva sul patrimonio.

Mi permetto dire alcune cose a questo proposito. Salvo alcune decisioni, di carattere non dirò secondario, ma che sono state lasciate indietro per alcune precisazioni, ci si trova adesso di fronte ad un Titolo nuovo, quello relativo agli enti collettivi.

Non voglio porre la questione se sia possibile, dal punto di vista della procedura parlamentare e della pratica legislativa, inserire ex novo un Titolo nel progetto di legge presentato e discusso dalla Commissione, Titolo che tratta una materia, la quale, pur collegandosi a quella del progetto di legge in esame, potrebbe essere considerata a sé stante, come materia d’un progetto di legge del tutto indipendente.

Anche accettando l’Assemblea un procedimento di carattere così anormale, quanto meno occorre che la cosa di svolga secondo un certo criterio; ed il criterio è questo: che tutto ciò potrà avvenire, dopo che l’Assemblea avrà espresso il suo parere. Il progetto è stato esaminato dalla Commissione. Ora la Commissione è una parte molto importante dell’Assemblea, ma non può sostituirsi ad essa. Il progetto, anche se, per ipotesi, la Commissione lo accettasse nelle sue linee generali, è ignorato dall’Assemblea; esso dovrebbe essere distribuito immediatamente, come è stato distribuito il testo del progetto del Governo, prima ancora che l’Assemblea lo esaminasse. Tutti gli onorevoli colleghi, prima ancora che la Commissione esaminasse il progetto, avevano il diritto di riceverne il testo completo.

Vorrei che si tenesse presente questo aspetto particolare della questione: che, sia pure trovandosi l’accordo tra il Ministro, la Commissione e l’Assemblea nel suo complesso, questo accordo non rappresentasse poi qualche cosa, che domani esponesse il provvedimento conclusivo a delle eccezioni, che lo rendessero inapplicabile.

Perciò, prego il Governo e l’onorevole La Malfa, di volere esaminare questo problema.

Ha facoltà di parlare l’onorevole La Malfa.

LA MALFA. A me pare che il problema non esista o almeno non esista nella gravità, in cui l’onorevole Presidente l’ha prospettato.

In definitiva, l’Assemblea deve decidere sull’accoglimento di questo terzo Titolo, dopo aver deciso sugli emendamenti all’art. 2. Quindi, non si tratta di un nuovo provvedimento. La discussione dell’art. 2 è stata sospesa e sarà ripresa domani. Se l’Assemblea accoglierà gli emendamenti all’art. 2, nel senso di accettare la tassazione degli enti collettivi, dovremmo esaminare il provvedimento, che consiste in una serie di disposizioni tecniche forniteci dal Governo. Quindi, il Governo, a mio giudizio, non ha presentato un nuovo progetto, ma una serie di emendamenti per il caso che l’Assemblea decidesse l’estensione della tassazione agli enti collettivi.

In questa situazione, io credo che domani la Commissione potrà esprimere il suo parere sugli emendamenti all’art. 2. L’Assemblea deciderà e poi continuerà la discussione sugli altri importanti articoli, come quelli sulle aliquote dell’imposta progressiva che non sono stati votati.

Chiedo all’onorevole Presidente di fissare per martedì mattina la seduta conclusiva, in modo che siano distribuiti gli emendamenti aggiuntivi del terzo Titolo prima della seduta di martedì; cosicché l’Assemblea avrà preso conoscenza di questi articoli e martedì potremo iniziare la discussione.

PRESIDENTE. Questi che lei, onorevole La Malfa, chiama emendamenti aggiuntivi, sono in realtà dei nuovi articoli. Quando saranno portati a conoscenza dell’Assemblea?

LA MALFA. La Commissione si riunirà lunedì e per martedì verranno portati a conoscenza della Assemblea, in modo che nella giornata stessa si potrà iniziare la discussione.

PRESIDENTE. È comunque desiderabile che tutti gli onorevoli colleghi siano posti in grado di esaminare questi articoli per poterli discutere.

Il Ministro, insieme con il Presidente ed i membri della Commissione, potrebbero completare il loro esame nella giornata di domani, in modo che sabato mattina, sia possibile distribuire il testo di comune accordo redatto.

Avverto inoltre gli onorevoli colleghi che sabato sarà necessario tenere due sedute e due lunedì.

Nelle sedute di domani mattina – come ho detto – si proseguirà nella discussione dell’imposta patrimoniale. Nel pomeriggio sarà proseguita la discussione del disegno di legge sul Trattato di pace. La seduta dovrebbe prolungarsi nelle ore notturne per proseguire l’esame della patrimoniale e se l’onorevole La Malfa domani sera non potrà esser pronto, nella seduta notturna continueremo la discussione del Trattato di pace. L’onorevole Presidente del Consiglio è d’accordo?

DE GASPERI. Presidente del Consiglio dei Ministri. Sono d’accordo.

PRESIDENTE. Se non vi sono osservazioni, resta stabilito questo ordine del giorno.

(L’Assemblea approva).

Interrogazioni.

PRESIDENTE. Si dia lettura delle interrogazioni pervenute alla Presidenza.

AMADEI, Segretario, legge:

«Il sottoscritto chiede d’interrogare il Ministro della difesa, per sapere se non creda opportuno e giusto provvedere alla sistemazione nell’Esercito degli ufficiali giuliani trattenuti in servizio perché provenienti da territori nazionali ceduti allo straniero e che meritano la riconoscenza della Patria per l’alto spirito di sacrificio di cui han dato prova. (L’interrogante chiede la risposta scritta).

«Abozzi».

«I sottoscritti chiedono di interrogare il Presidente del Consiglio dei Ministri, per sapere se non ritenga opportuno, anzi necessario, un intervento del Governo presso il C.O.N.I., affinché sia riveduta la situazione dell’Unione Sportiva Triestina nel campionato di calcio italiano.

«Questa società, che da 19 anni ininterrottamente partecipa al massimo campionato nazionale, dovrebbe quest’anno retrocedere nella divisione inferiore: tale retrocessione, che in tempi normali costituirebbe niente altro che un episodio, assume nel momento attuale un significato che esula dal settore sportivo. Infatti, la partecipazione dell’Unione Sportiva Triestina al campionato ha rappresentato lo scorso anno uno dei pochi vincoli che ancora uniscono Trieste con la Madre Patria. Un vincolo cui hanno partecipato idealmente tutti i triestini. Di importanza ancora maggiore risulta il problema, ove si consideri che a Trieste un’altra società disputa un campionato di calcio, che non è quello italiano. L’«Amatori Ponziana», aiutata con larghezza di mezzi e potenziata in ogni modo, parteciperà anche il prossimo anno al più importante campionato di calcio jugoslavo, per cui le manifestazioni di quest’ultima società, qualora si verificasse la deprecata retrocessione dell’Unione Sportiva Triestina, risulteranno le più importanti in Trieste.

«Dal punto di vista tecnico, il mantenimento della Triestina nella divisione A può essere deliberato senza ledere le regole del campionato: infatti, o si potrebbe, come già altre volte è stato fatto nel passato, non procedere per quest’anno alla retrocessione di alcune squadre, o si potrebbe tenere conto di un particolare tutt’altro che trascurabile, quale quello che l’Unione Sportiva Triestina ha giuocato la prima parte del campionato scorso senza il notevole vantaggio del fattore campo. (Gli interroganti chiedono la risposta scritta).

«Salizzoni, Zaccagnini».

PRESIDENTE. Le interrogazioni testé lette, per le quali si chiede la risposta scritta, saranno inviate ai Ministri competenti.

La seduta termina alle 20.45.

Ordine del giorno per le sedute di domani.

Alle ore 10:

Seguito della discussione sul disegno di legge:

Convalida del decreto legislativo del Capo provvisorio dello Stato in data 29 marzo 1947, n. 143, concernente l’istituzione di una imposta straordinaria progressiva sul patrimonio. (14).

Alle ore 17:

  1. Seguito della discussione sul disegno di legge:

Approvazione del Trattato di pace tra le Potenze Alleate ed Associate e l’Italia, firmato a Parigi il 10 febbraio 1947. (23).

  1. Seguito della discussione sul disegno di legge:

Convalida del decreto legislativo del Capo provvisorio dello Stato in data 29 marzo 1947, n. 143, concernente l’istituzione di una imposta straordinaria progressiva sul patrimonio. (14).

ANTIMERIDIANA DI GIOVEDÌ 24 LUGLIO 1947

ASSEMBLEA COSTITUENTE

CXCIX.

SEDUTA ANTIMERIDIANA DI GIOVEDÌ 24 LUGLIO 1947

PRESIDENZA DEL PRESIDENTE TERRACINI

INDICE

Svolgimento di una mozione:

Farri

Foa

Leone Giovanni

Croce

Di Fausto

Rivera

Gonella

Presidente

Votazione segreta:

Presidente

Risultato della votazione segreta:

Presidente

La seduta comincia alle 10.

MAZZA, ff. Segretario, legge il processo verbale della precedente seduta antimeridiana.

(È approvato).

Svolgimento di una mozione.

PRESIDENTE. L’ordine del giorno reca lo svolgimento della seguente mozione degli onorevoli: Parri, Bernini, Chiostergi, Codignola, Foa, Cianca, Lussu, Binni, Fornara, Carmagnola, Moscatelli, Faralli, Cacciatore, Malagugini, Barbareschi, Nasi, Mariani Enrico, Montemartini, Costa, Nobili Tito Oro, Mariani Francesco, Bennani, Della Seta, Di Giovanni:

«L’Assemblea Costituente, considerato che nella questione del nuovo ordinamento dei Corpi consultivi del Ministero della pubblica istruzione, il Ministro ha volontariamente trascurato di interpellare la Rappresentanza nazionale, sia pure attraverso la sua apposita Commissione legislativa e di consultare tutte le categorie interessate; ritenuto inoltre del tutto ingiustificata la procedura d’urgenza adottata dal Ministro della pubblica istruzione per la sostituzione del Consiglio superiore di detto Ministero, tuttora in carica; riscontrando nel comportamento del Ministro un grave difetto di valutazione dell’importanza e delicatezza politica della materia; invita il Governo a sospendere l’esecuzione del provvedimento, a risolvere la vertenza coll’attuale Consiglio superiore della pubblica istruzione ed a sottoporre il nuovo ordinamento alla Assemblea Costituente».

L’onorevole Parri ha facoltà di svolgere la mozione.

PARRI. La mozione che ho l’incarico di svolgere nasce dalla profonda insoddisfazione lasciata in larghi settori della Camera dall’esito delle interpellanze svolte dagli onorevoli Calamandrei, Bernini e Codignola. Io prego vivamente l’onorevole Ministro ed i colleghi della Democrazia cristiana di non voler considerare le proteste e le richieste nostre su un angusto ed opaco piano di partito; di non voler avvilire questa discussione ad una bega politica da risolvere a colpi di maggioranza e non in ossequio alle buone ragioni. L’onorevole Ministro consideri i firmatari della mozione: sono uomini di scuola – o che amano e sentono la scuola – di parti diverse dell’Assemblea e non è – lo creda l’onorevole Ministro – una speculazione politica, non passione o mentalità settaria che li muove, ma è l’interesse supremo della scuola, è un senso di dovere che li induce a tentare l’ultimo mezzo a loro di posizione per salvare la dignità e l’indipendenza, come essi la intendono, della scuola. Queste preoccupazioni sono cosi aliene da posizioni di partito che le ritengo condivise anche da non pochi ed egregi colleghi di parte democratico-cristiana; e tutti i firmatari, senza eccezione, credo, avremmo preferito risolvere questa questione con un amichevole componimento, componimento la cui sostanza, signor Ministro, non può peraltro essere se non un preciso e categorico impegno di Governo.

Questo essendo mancato, noi ci troviamo costretti ad insistere per chiedere al Ministro o per proporre all’Assemblea di sospendere di urgenza queste malaugurate elezioni al Consiglio Superiore.

Ed il fatto che a muover questa richiesta sia proprio io, che cerco di seguire una linea politica di temperatezza e mi sforzo quanto posso di obbedire ad una oggettiva serenità di giudizi, vi dovrebbe dire quanto siano diffuse e sentite le preoccupazioni destate dalla politica scolastica dell’onorevole Gonella. Non solo, signori, da questa questione del Consiglio Superiore. Voi intendete perfettamente che l’ampiezza e l’asprezza che essa ha preso è in relazione ai precedenti, al peso di una diffidenza sedimentata giorno per giorno.

Lei potrà dire, voi potrete dirci: settarismo, prevenzione. Io vi rispondo domandando a voi, colleghi della Democrazia cristiana, quale era l’interesse del vostro partito che aveva ottenuto quel posto – il Ministero della pubblica istruzione – superando voi sapete quali resistenze e quali aspre opposizioni. Avrebbe meglio servito i vostri interessi, attuali e soprattutto futuri, di partito di governo, un Ministro che avesse smorzato, dissipato le diffidenze e dimostrato con i fatti l’ingiustizia dalle prevenzioni, se queste vi erano.

Io non vorrei neppure, in nessun modo, dare sull’opera dal Ministro Gonella un giudizio ingiusto. Desidero sempre astenermi dal dar corpo alle ombre e dal cedere ad allarmismi interessati. E credo si debba rendergli giusto merito di molta attività e fattività, di provvedimenti amministrativi di indubbia importanza, di serie ed interessanti intenzioni riformatrici.

Ma la diffidenza e le preoccupazioni cui ho accennato riposano su basi oggettive. Mi limito ad accennarne i motivi principali. Egli sa che in tutti i settori della democrazia laica il suo modo di considerare la scuola privata di fronte alla scuola pubblica ha fortemente turbato la nostra coscienza. Si è aggiunta la sua politica delle parificazioni. Si è aggiunta infine la questione dalla riammissione nella scuola di professori universitari, di presidi di istituti medi, di insegnanti medi di troppo chiara fama fascista. Non si copra ancora una volta l’onorevole Ministro con le consuete giustificazioni legali. Io vorrei ricordargli che in questioni di questa importanza morale e politica, come in quella del Consiglio superiore, le giustificazioni legali e formali non toccano la sostanza. E la sostanza è questa: che nella scuola e soprattutto nella scuola italiana nelle attuali condizioni, e specialmente dopo il fascismo, non possiamo tenere elementi che si sono mostrati indegni della missione di educatore. Crediamo che lei avrebbe avuto modo e mezzi per risolvere questa questione, anche se avesse avuto obbligo di mantenere in servizio questo personale, potendo provvedere sia con impieghi amministrativi, sia con comandi in altre amministrazioni che hanno difetto di personale, sia promovendo opportuni provvedimenti legislativi. E non le nascondo, onorevole Gonella, che non doveva proprio lo scrittore di Acta diurna essere lui a riaffidare la scuola a mani notoriamente impure: proprio quello scrittore che aveva giustamente caratterizzato l’indegnità del regime fascista con questa perversione dell’istituto scolastico. Ed io mi induco a parlargliene ora, incidentalmente, a proposito di questa diversa materia, solo perché sento il dovere di farmi eco delle lettere accorate, delle espressioni di sfiducia che mi vengono da molte parti, da gente della scuola e non da gente di parte.

In questo quadro e con questi precedenti va posta la questione del rinnovamento del Consiglio superiore.

Reputo superfluo rifare la discussione particolareggiata, che è già stata fatta dall’onorevole Calamandrei, in ordine alla controversia col Consiglio superiore dimissionario, relativamente ai docenti immessi dal fascismo per chiara fama nei ranghi universitari, e dagli on. Bernini e Codignola relativamente al decreto formulato dal Ministro Gonella por la ricomposizione del nuovo Consiglio Superiore.

Lascio considerazioni e questioni particolari, per tenermi solo ai lati essenziali.

Può essere che su taluna di esse il Ministro abbia ragione; altre questioni sono variamente opinabili: considero tuttavia certamente importante il modo di composizione delle Sezioni media ed elementare del Consiglio Superiore, come risulta dal progetto.

Ancor meno opinabile e più inaccettabile è la obbligatorietà del voto: le ragioni sono state qui già ampiamente esposte dai colleghi. Il Ministro si persuada che questo obbligo, imposto da un Ministro di partito, per una elezione così precipitata e non preparata, coronato di una minaccia di sanzioni amministrative, ha un sapore più che equivoco. Si persuada signor Ministro, che in un corpo così timorato, se non di Dio certo dei superiori, come quello dogli insegnanti medi ed elementari, la minaccia di «tener conto» è la più temibile, la più temuta ed equivoca sanzione che egli potesse adottare. Il signor Ministro capisce cosa possa significare «tener conto»: trasferimenti, incarichi, ore straordinarie, supplenze ecc.

Ma più essenziale ancora è la profonda e sostanziale illegittimità politica di legiferare, in regime parlamentare, in materia così delicata ed importante, come quella della scuola, senz’altro controllo e collaborazione che quelli del Consiglio dei Ministri. Si tratta di illegittimità di sostanza, di illegittimità politica.

Io non voglio indugiarmi sulla questione controversa se il Consiglio Superiore sia da considerare come organo di natura istituzionale. E lasciamo stare anche la necessità di consultare il Consiglio di Stato, che pure il suo stesso Governo ha ritenuto di dover interpellare a proposito della ricomposizione del Consiglio Superiore delle Miniere. Ma tengo per certo che non si può fare una riforma così importante e centrale, in un settore così vitale ed essenziale, dell’attività politica del Governo, senza la collaborazione, il controllo e l’intervento del Parlamento. Non possiamo abbandonare a nessun Ministro la facoltà di poter legiferare in materia così delicata a proprio beneplacito.

Non insegnerò a lei, signor Ministro, cosa abbia significato il Consiglio Superiore della pubblica istruzione nella storia della scuola italiana; quale sia l’importanza e la delicatezza delle sue funzioni; e come sia essenziale che in un regime di democrazia e di sospettosa lotta di partiti questo organo funzioni con le garanzie più manifeste di indipendenza, di imparzialità, di libertà di controllo.

Convinto che in cuor loro sia d’accordo con me buona parte dei colleghi della Democrazia cristiana, la cui collaborazione fortemente mi interessa, dato il piano in cui desidero si ponga il problema, desiderando che, prima di tutto lei, signor Ministro e poi essi, apprezzino la natura delle nostre preoccupazioni riassumo in questo modo i due punti che in questa controversia noi riteniamo fondamentali:

1°) illegittimità politica del provvedimento. Non si può trattare questa materia fuori del Parlamento.

2°) osservanza di una elementare regola di buon giuoco democratico: preliminare regola di lealtà per la quale deve lei stesso, onorevole Ministro, preoccuparsi di dare a tutte le altre parti diverse ed opposte al suo partito la stessa possibilità, che il suo partito ha, della propaganda nel preparare queste così importanti elezioni.

Io intendo – e lei le ha ricordate – che vi sono ragioni di urgenza. Lei ha bisogno che questo Consiglio funzioni e che funzioni presto in ordine a provvedimenti della cui importanza ed urgenza noi ci rendiamo veramente conto. Ora, noi riteniamo che queste necessità di urgenza avrebbero potuto essere soddisfatte con quel componimento cui accennavo; forse, con provvedimenti temporanei e transattivi, che potrebbero essere ancora escogitati. Lei sa che, volendo, queste elezioni potrebbero essere ritardate al massimo solo di un paio di mesi e, se lei vuole, si potrebbe procedere ad esse non oltre la prima decade di ottobre.

Ma, in ogni modo, la conclusione nostra è che il danno del rinvio è assolutamente inferiore al danno di elezioni che si svolgessero nel mese che lei ha predisposto.

E badi, che, in ultima analisi, queste ragioni di fretta e di urgenza si ritorcono contro di lei e contro la sua opera. Non si nasconda, onorevole Ministro, che non può deporre favorevolmente per lei il fatto che sia sorto un antagonismo così acuto tra lei e l’organo più delicato cd importante del suo Ministero: il Consiglio Superiore della pubblica istruzione. E che lei non abbia trovato il modo o la volontà di dirimere questo antagonismo. E che lei abbia così a lungo indugiato su questo problema grave e non lo abbia apparentemente considerato se non all’ultimo momento: lei aveva il dovere di preoccuparsi in tempo di far funzionare questo organo così vitale per il suo ministero. E non depone a suo favore che lei, all’ultimo momento, mi lasci dire la parola, a precipizio, senza voler degnarsi di consultare, nemmeno in forma privata, gli esponenti degli interessi della scuola di parte diversa dalla sua, abbia pensato di risolvere questo problema in questo modo.

Questo non ci può disporre favorevolmente nei riguardi della sua opera, tanto più, torno a dire, in un governo di questa natura: non è più il Ministro della pubblica istruzione di un Governo di coalizione; lei è il Ministro della pubblica istruzione di un Governo di partito – che è ben lungi dall’avere la maggioranza dell’Assemblea – nel quale lei è troppo vicino al facile sospetto di sviluppare senza alcun controllo una politica di partito, quando invece maggiori garanzie si impongono alla sua opera.

Poiché queste critiche vanno oltre la sua persona, vorrei vedere al suo fianco il Capo del Governo, al quale vorrei ancora una volta, e con la spassionatezza che spero egli mi riconosca, contestare l’errore, l’insufficienza e la pericolosità di un Governo monocolore, non solo di fronte ai grandi problemi della politica internazionale, e della politica economica e finanziaria, ma anche di fronte a questi settori così delicati della politica generale, quale è quello della scuola.

Per queste ragioni, noi chiediamo che Ella signor Ministro, disdica queste elezioni con la massima urgenza e che presenti all’Assemblea un nuovo progetto di composizione del Consiglio Superiore, che potrà studiare insieme agli organi dell’Assemblea. Altrimenti, noi dobbiamo chiedere formalmente all’Assemblea Costituente di darle torto.

Ma il mio ultimo appello, signor Ministro, è per lei. Lei non può non rendersi conto della situazione grave nella quale il Consiglio Superiore, Consiglio esautorato in partenza da queste polemiche o dalle astensioni. Io non credo che lei si auguri di fare il Ministro della pubblica istruzione a vita. Ed il suo successore che cosa farà di questo Consiglio Superiore? Con quale autorità vuole che questo Consiglio operi? E lei in quale situazione di disagio e di imbarazzo potrà trovarsi?

Ed allora, il mio ultimo appello è per lei, Ministro Gonella, per lei, che è un uomo di alta moralità. Ed è per questo che noi vogliamo ancora sperare che questa disgraziata controversia possa essere senz’altro risolta da un suo atto di coraggio morale. (Applausi a sinistra).

PRESIDENTE. Ha facoltà di parlare l’onorevole Foa, altro firmatario della mozione.

FOA. Onorevoli colleghi, dopo le dichiarazioni dell’onorevole Parri, io credo di dover dire solo pochissime parole perché l’onorevole Parri ha veramente toccato il fondo della controversia, ì motivi profondi e non contingenti che ci hanno mosso a presentare questa mozione.

Io vorrei sottolineare, di fronte all’Assemblea, che con la presentazione della mozione noi non abbiamo inteso e non intendiamo dare alla controversia in atto un minimo significato di schieramento politico, di presa di posizione nei confronti del Governo. Questo è un punto che devo essere ben chiaro alla coscienza di tutti noi. Quando gli onorevoli Bernini, Calamandrei e Codignola hanno presentato le loro interpellanze ed hanno sviluppato le loro richieste, anche nelle loro dichiarazioni iniziali, noi non abbiamo sentito alcuna intenzione polemica di parte politica. Anche nelle loro dichiarazioni noi abbiamo sentito unicamente la passione per la scuola ed abbiamo udito una richiesta (che nelle parole era modesta, persino umile) al signor Ministro perché vagliasse il contenuto del problema, discutesse e vedesse se non si potesse modificare il provvedimento adottato.

È con quello spirito che, completamente insoddisfatti del risultato delle interpellanze, noi siamo stati costretti a proporre all’Assemblea il tema, perché potesse essere dibattuto serenamente da tutti i settori. Ma quello stesso orientamento, spirituale non di polemica ma di concreto giudizio sui fatti, che ha spinto noi a presentare la mozione noi chiediamo a tutte le parli dell’Assemblea. Lungi dunque, dal nostro pensiero il desiderio di conseguire qualsiasi successo politico; quello che oggi preme a noi presentatori della mozione è l’avvenire della scuola; e l’avvenire della scuola, come ben disse il mio collega ed amico onorevole Codignola qualche giorno fa, riflette un problema che non ci deve dividere, ma ci deve unire.

Badate, colleghi, che il terreno di opposizione o di collaborazione col Governo, il terreno di solidarietà o di battaglia noi sapremo trovarlo in altra sede: in questa sede nei chiediamo invece all’Assemblea che essa decida serenamente, per gli interessi della scuola; noi chiediamo all’onorevole Ministro che ci renda possibile quindi di non arrivare al voto, che ci renda possibile di risolvere il problema in termini concreti.

Alla richiesta dell’onorevole Parri io mi associo quindi con tutto il cuore. Onorevoli colleghi, che cosa noi chiediamo in fondo? Perché mai questo dibattito che poteva mantenersi sul terreno tecnico è giunto invece, ad un determinato momento, ad una così acuta tensione ed ha diviso l’Assemblea nei termini tradizionali in cui essa si scinde da quando è Stato formato questo Governo?

Questo, onorevoli colleghi, non doveva accadere, questo non era nelle nostre intenzioni. Quando noi abbiamo chiesto all’onorevole Ministro che si compiacesse di rispondere alle nostre richieste sull’argomento del Consiglio Superiore della pubblica istruzione e intorno al provvedimento relativo alle nuove elezioni, io debbo dire che anche quella moderazione che può costituire per noi un dato di temperamento e comunque di responsabile saggezza politica, è stata messa a dura prova. Perché il Ministro ci ha risposto insistendo puramente sulla legittimità formale dei suoi provvedimenti, legittimità che è contestata e contestabile, ma, a parte questo, il Ministro non ci ha dato minimamente ascolto circa il contenuto delle richieste. Si è così diffusa in tutti i settori l’impressione, e profonda e penosa, che il Ministro, davanti alle voci di dissenso – non dico nemmeno di opposizione, perché non volevano essere di opposizione nel senso della politica del Governo – che il Ministro, dicevo, abbia inteso di rispondere: Questa è la mia volontà.

Ma questo, onorevoli colleghi, è il linguaggio cui noi eravamo abituati in tempi lontani: era il linguaggio dei nostri nemici. Ma noi non vogliamo considerare l’onorevole Gonella come un nostro nemico, ma come un leale avversario: noi vogliamo ricordare in lui il compagno di lotta e il direttore del «Popolo» clandestino. Noi chiediamo dunque, che l’onorevole Gonella segua la regola democratica sul modo di valutare le richieste della opposizione.

È innegabile che mai prima d’ora noi avevamo udito in questa Assemblea quanto si è udito in questa occasione da parte dell’onorevole Ministro della pubblica istruzione, cioè un simile linguaggio di forza.

Questo è veramente un dato che con tutta la misura, la modestia e la moderazione necessarie deve essere sottolineato. E questo comportamento, come voi comprenderete, ci preoccupa, perché, in fondo, nel conflitto iniziale sorto tra il Ministro e il Consiglio Superiore della pubblica istruzione, per le nomine per «chiara fama», che cosa è accaduto? È accaduto che, sorto un dissenso su un importante problema di politica scolastica, non di politica di partiti – perché questo dissenso col Ministro riguardava uomini di tutti i partiti e di tutte le correnti – numerosi membri del Consiglio Superiore della pubblica istruzione hanno creduto di dare le dimissioni.

Ora, io credo che il fatto che il Ministro abbia creduto di dover ignorare queste dimissioni sia veramente un atto di violazione del metodo democratico, perché il Consiglio Superiore della pubblica istruzione non era un organo gerarchicamente subordinato – per cui le dimissioni potessero essere considerate come un atto di indisciplina – ma un Corpo consultivo che, come ha ricordato l’onorevole Parri, ha svolto prima del fascismo un’altissima funzione di guida e di orientamento per la scuola superiore. Quando sorge un conflitto di questo genere, quando si danno le dimissioni per sottolineare un dissenso politico, questo è un atto normale di metodo democratico. Non tener conto di un atto di questo genere significa non riconoscere le leggi della democrazia, che impongono determinati rispetti. Formalmente il Ministro ha voluto dire: «Voi vi siete dimessi; io vi ignoro». Non credo che ciò abbia giovato né al metodo democratico, né alla scuola, e neanche alla considerazione, all’estimazione che nella scuola e fuori della scuola si deve avere del capo dell’amministrazione scolastica.

Quindi, noi chiediamo, in una delle nostre tre richieste, che il Governo risolva la vertenza con il Consiglio Superiore della pubblica istruzione. E noi crediamo di avanzare una richiesta che rimane nei termini del metodo democratico; noi crediamo che sorto un conflitto nei termini del metodo democratico, esso non possa essere ignorato, ma debba essere risolto.

E in secondo luogo, noi crediamo che quelle stesse necessità di lavoro che si adducono per il rinnovamento del Consiglio Superiore della pubblica istruzione, militino oggi – finché l’Assemblea non abbia approvato un nuovo ordinamento – a favore della conservazione in vita del vecchio Consiglio Superiore della pubblica istruzione. Cerne è stato osservato, se questo contrasto non fosse sanato, se si istituisse questo precedente, che una manifestazione di dissenso, espressa in termini democratici da un alto organo consultivo, col Ministro, viene pretermessa, considerata come un nulla di fatto, io credo veramente che tutti i nuovi Consigli Superiori della pubblica istruzione che saranno eletti, non avranno più l’autorità necessaria per rappresentare di fronte al Paese, di fronte all’amministrazione – come hanno rappresentato in passato – la dignità e le esigenze della scuola.

Per queste ragioni io chiedo che l’Assemblea valuti la nostra richiesta nei suoi termini di merito: è o non è giusto che questo contrasto venga composto; è o non è giusto che le elezioni di un Consiglio Superiore della pubblica istruzione, circondate da tutte le diffidenze che questo stesso dibattito ha contribuito a creare nei confronti del metodo elettorale prescelto, vengano rinviate – che in qualche modo si riesamini il problema e che esso venga riesaminato nella sede sua propria, che è la Sedi legislativa, la sede della Commissione legislativa dell’Assemblea Costituente italiana?

In termini di merito (onorevoli colleghi, io rinnovo la mia preghiera con insistenza), questo problema deve essere valutato. La politica ci divide, e continuerà a dividerci – o ci unisce, e continuerà ad unirci, su altri problemi e in altre occasioni: non in questa. Nel problema della scuola dobbiamo valutare tutti con assoluta libertà quali sono le esigenze della scuola, quali sono i metodi necessari per arrivare a quel miglioramento che credo sia nel cuore di tutti noi.

In questi termini di libertà io chiedo ai colleghi di valutare la mozione.

LEONE GIOVANNI. Chiedo di parlare.

PRESIDENTE. Ne ha facoltà.

LEONE GIOVANNI. Signor Presidente, onorevoli colleghi, al provvedimento legislativo concernente la ricostituzione del Consiglio Superiore dell’istruzione ed all’attuazione di questo provvedimento sono state rivolte numerose critiche che si possono considerare di due ordini: un ordine di critiche concerne la formazione della legge, un altro ordine concerne il metodo di applicazione della legge.

Prendendo in esame le critiche sulla formazione della legge, occorrerà occuparsi (perché questa è stata l’impostazione data nelle precedenti sedute e ribadita in parte oggi) di due aspetti di quest’ordine di idee: legittimità formale del provvedimento legislativo, legittimità sostanziale dal provvedimento legislativo.

La legge della quale discutiamo e sulla quale verte la mozione odierna, non è venuta alle Commissioni dell’Assemblea; e non è venuta perché il Consiglio dei Ministri ha ritenuto che si trattasse di materia di massima urgenza, ipotesi per la quale l’articolo 3 del nostro regolamento – così come noi lo modificammo – stabilisce che non sussiste l’obbligo politico (perché si tratta di obbligo politico) di Governo di sottoporre il disegno di legge al preventivo parere delle Commissioni dell’Assemblea Costituente.

Chi è il giudice della massima urgenza? Giudice della massima urgenza è soltanto il Consiglio dei Ministri e, forse, la Corte dei conti. Nella specie, il Consiglio dei Ministri (siamo sempre sul piano formale) ha valutato la massima urgenza e la Corte dei conti l’ha ribadita quando ha registrato il decreto legislativo di cui ci andiamo occupando.

Si è detto ancora che questo decreto non è stato preceduto dal parere del Consiglio di Stato e ci si è riferiti, dalla parte opposta, – per analogia – al caso della legge concernente il Consiglio Superiore dalle miniere. Che il Consiglio di Stato non dovesse dare alcun parere per una legge del genere fu sufficientemente dimostrato dall’intervento del Ministro in sede di discussione dell’interpellanza, e ritengo, per la validità indiscutibile ed obiettiva delle argomentazioni portate dal Ministro e per l’assoluta inefficienza, anzi inesistenza, di argomenti contrari, che quella dimostrazione sia rimasta ferma. Non vale dire che per il Consiglio Superiore delle miniere la legge fu preceduta da un parere del Consiglio di Stato, perché è noto che il Governo ha facoltà di avvalersi, quando lo crede, del parere del Consiglio di Stato, e l’averlo fatto una volta per particolari motivi ed in un momento nel quale forse ragioni di urgenza non si profilavano come nel caso presente, non significa l’instaurazione neppure di una prassi, per cui possa stabilirsi che una legge concernente il riordinamento o le elezioni di un Consiglio Superiore debba passare prima per il parere del Consiglio di Stato. Anzi, in contrario, potrebbe osservarsi che se voi non avete potuto trovare altro che questo precedente legislativo, vuol dire che le leggi concernenti altri Consigli Superiori non sono passate per il parere del Consiglio di Stato.

Questo per quanto attiene la correttezza formale del provvedimento legislativo. Massima urgenza decretata in maniera insindacabile dal Consiglio dei Ministri e ribadita dalla Corte dei conti. Nessun sindacato sulla massima urgenza da parte dell’Assemblea Costituente, la quale, anche dopo la modifica del regolamento che ha ampliato i suoi poteri (perché è opportuno non dimenticare che noi sorgemmo come Assemblea Costituente e con l’unico potere di provvedere a emettere leggi soltanto per quanto concerneva i trattati internazionali e la materia costituzionale; e non penso si possa sostenere che la disciplina del Consiglio Superiore abbia riferimento con la materia costituzionale), non ha alcun potere di sindacato sul giudizio di urgenza. Non occorreva infine, come ho dimostrato, alcun parere del Consiglio di Stato. La legge, pertanto, si presenta corretta dal punto di vista esclusivamente formale.

Ma noi abbiamo anche la possibilità, e in questo sono d’accordo con i presentatori dell’interpellanza e della mozione, anzi il dovere, direi, di domandare, per lo meno in sede politica o in sede di giudizio sulla tecnica di un determinato Ministero, se ricorresse quella massima urgenza, non per trarre un motivo di invalidità della legge – la legge è formalmente valida – ma per trarre un giudizio che possa attenere all’operato politico del Ministro o meglio del Gabinetto. Ora, dal punto di vista della correttezza sostanziale, io credo che le ragioni che indicò il Ministro, e che soprattutto sono note a tutti noi che amiamo la scuola, fossero di tale importantissima urgenza da non poter far rimandare ancora ulteriormente una disciplina e soprattutto le elezioni del Consiglio Superiore della pubblica istruzione.

Per chi conosca, come ho l’onore di conoscere io per la mia attività professionale, la vita dell’Università non è un mistero che il Consiglio Superiore costituisce una delle chiavi dell’attività amministrativa; che il Consiglio Superiore costituisce una delle valvole fondamentali, centrali, per la vita di tutta l’amministrazione dell’istruzione superiore. Si può dire, anzi, che con il ripristino della vita democratica dell’istruzione superiore non vi siano organi sovrani in materia di disciplina e di amministrazione universitaria che le Facoltà e il Consiglio Superiore, e che l’attività del Ministro sia svuotata di qualsiasi contenuto sostanziale. Le Facoltà, con il potere sovrano e in gran parte insindacabile di chiamare i professori per trasferimento e su concorso; il Consiglio Superiore con il potere insindacabile ed esclusivo di proporre bandi di concorsi, di procedere allo scrutinio – non alla nomina delle Commissioni – delle votazioni alle quali abbiamo provveduto qualche giorno fa per la formazione delle Commissioni di concorsi con il potere di nominare le Commissioni per la libera docenza, col parere vincolante per il Ministro sul passaggio da una cattedra all’altra, con il potere di dar parere vincolante sulla riforma degli statuti delle Università. Deve dirsi che tutta la vita universitaria, tutto il governo dell’istruzione superiore è ancorato alla vita del Consiglio Superiore dell’istruzione pubblica. Ora il Consiglio Superiore dell’istruzione pubblica cadde in crisi.

È notorio che 23 su 36 membri del Consiglio Superiore si dimisero collegialmente. Le dimissioni – non è un mistero, perché a questo proposito c’è stata una interpellanza e d’altronde il caso è notissimo – furono presentate collegialmente come una critica, come un sindacato nei confronti del Ministro. Intervenuta la crisi con le dimissioni di 23 membri, per cui il Consiglio Superiore, mancante di due terzi, non poteva più riunirsi, si profilavano queste due strade (ed è su questo appunto, onorevoli colleghi, che richiamo la vostra lealtà, la massima meditazione o la massima consapevolezza): o ricomporre il Consiglio Superiore, sostituendo i 23 dimissionari, o procedere, affrettare, accelerare quelle elezioni del Consiglio Superiore, che non avrebbero potuto andare oltre il 15 ottobre corrente anno, se è vero che la legge De Ruggiero comportava la vitalità del Consiglio Superiore fino al 15 ottobre dell’anno decorso, prorogata soltanto por un anno. Si è detto: il Ministro poteva ricorrere ad altri espedienti o battere altre strade. Poteva sul piano della efficienza del Consiglio Superiore invitare i dimissionari a recedere dalle dimissioni. Questo, onorevoli colleghi, è un punto che concerne esclusivamente, personalmente l’attività del Ministro. E lasciatemi dire che quando un Ministro vede che le dimissioni non sono atti singoli, non sono date singulatim, non sono espressione di uno stato sia pure di disagio personale di alcuni membri, ma sono le espressioni di una deliberazione quasi collegiale, di una deliberazione complessiva preparata, perché è noto che fu preparata da circolare ed accompagnata da una notevole campagna di stampa, io penso che il Ministro possa sentire anche l’opportunità di non rinnovare ai dimissionari l’invito a recedere dalle dimissioni. Ma, aggiungo, avrebbe potuto condurre a qualche effetto pratico, in maniera sicura, l’invito a recedere dalle dimissioni? Perché voi supponete che l’invito del Ministro agli illustri e rispettabili componenti del Consiglio Superiore dimissionari avrebbe potuto portare come conseguenza il recesso da parte di costoro dalle dimissioni? Ma chi ci impedisce di pensare, chi può assolutamente provare che i dimissionari, che a mio avviso avrebbero fatto bene ad insistere, non avessero insistito nelle loro dimissioni? Si trattava di dimissioni dovute non ad un particolare incidente né ad un piccolo contrasto con il Ministro, ma dimissioni dovute a un contrasto, sia pure montato, ma certamente di apparente notevole importanza, concernente un settore delicato della vita universitaria, cioè la conservazione in carriera o l’allontanamento dall’ambiente universitario dei professori nominati per chiara fama; e di dimissioni presentate in maniera collegiale, accompagnate da una campagna di stampa per cui è da ritenere, molto più agevolmente, che non sarebbero state seguite dal recesso delle medesime.

Comunque, su questo punto di non avere voluto il Ministro rivolgere l’invito ai dimissionari di ritirare le dimissioni, io penso che l’Assemblea non possa e non debba e non abbia facoltà di esprimere alcun parere; se è vero che si tratta di un provvedimento personale del capo di una amministrazione, il quale non è tenuto a subire l’umiliazione di chiedere il recesso dalle dimissioni di persone, certamente rispettabili, che però queste dimissioni hanno accompagnato con un gesto che non era certamente deferente, ma di perfetta lotta e di battaglia… (Approvazioni – Applausi al centro – Interruzione del deputato Tonello).

Nessuna urgenza, nessuna esigenza può imporre ad un Ministro, per obbedire a questi profili, di umiliarsi a chiedere il ritiro delle dimissioni, quando può scegliere una via più diretta, più solare, quella della ricostituzione democratica dell’organo, suggerita dalla prossima scadenza dell’organo medesimo. Perché è opportuno non dimenticare che il Consiglio Superiore, che io ammiravo perché era costituito indubbiamente, in gran parte, dai più autorevoli maestri di tutte le discipline, non era di formazione elettiva, ma, per necessità del momento, c’era stato elargito, sia pure elargito con mano generosa e giusta.

Ci si diceva (altro profilo di accusa che si presenta nei confronti del Ministro): se non avete voluto incamminarvi per questa strada umiliante e pericolosa e non di sicuro effetto favorevole, l’invitare i dimissionari a recedere dalle dimissioni, voi avreste potuto fare procedere alle elezioni (altra critica in fase di interpellanza) soltanto per la prima Sezione del Consiglio Superiore, cioè quella che concerne la istruzione superiore, rimandando la disciplina e le elezioni delle altre due Sezioni a sede più opportuna.

Anche qui, onorevoli colleghi, voi dovete riconoscere che ad un Ministro, anzi a un Governo, perché la responsabilità della legge risale al Governo, sia pure sul piano delle critiche tecniche (ed io sono convinto ed accetto le vostre delimitazioni di questa cavalleresca lotta a un campo puramente tecnico; e prendo atto con viva soddisfazione, e con rispetto delle vostre nobili ed ottime intenzioni, che qui si agita un problema di carattere tecnico, di tecnica di governo e quindi non si agita un problema di carattere esclusivamente politico) bisogna lasciare un minimo di libertà di organizzazione legislativa di un organo.

Il Consiglio Superiore dell’istruzione, se ha qualche cosa di notevole (non so se di originale, perché, per l’urgenza di questa discussione, io confesso che non ho potuto approfondire alcuna indagine) se non per originalità, certo por interesse, se si presenta degno di studi e considerazione è per il fatto che costituisce un organo unitario, in cui si articolano tre Sezioni: istruzione superiore, istruzione media tecnica, istruzione elementare, ma che conserva tuttavia, ad onta di questa ben formata articolazione, una unità di organizzazione e soprattutto di finalità; ed io vorrei che ciò fosse sottolineato alla vostra coscienza.

Se è vero, come voi avete dotto più volte in questa sede, che la scuola è una, che se vi sono distinzioni, non sono di gradi ma di funzioni e di responsabilità, che il più umile maestro elementare può esercitare una funzione alta come il più autorevole professore universitario, è vero che bisogna trarne la conseguenza che un organo consultivo, che in talune questioni è consultivo con il parere vincolante, che un organo consultivo della istruzione sia un organo unitario, un organo nel quale sfociano i desideri, le esigenze, le aspirazioni, le necessità di tre ordini di studi, ma che trova una soluzione unitaria; perché solo attraverso un esame unitario, complessivo del problema della scuola, senza distacchi che siano separazioni ma invece con piccole differenze, che ribadiscano l’unità delle esigenze scolastiche, si può realizzare una sana politica scolastica. Ora, onorevoli colleghi, con la legge, con la cosiddetta riforma del Consiglio Superiore, che poi, in sostanza, contiene piccoli dettagli di variazioni, si obbedisce a questa ispirazione, alla quale non poteva rinunciare un Ministro che avesse voluto disciplinare in Italia gli studi con un metodo squisitamente democratico. Non quindi un Consiglio Superiore della scuola media ed elementare inerte, non un Consiglio di istruzione superiore che ignori le esigenze della scuola elementare. Se la legge su questo punto è adattata a questa necessità ed è sentita sotto questa spiritualità, voi non potete criticare un Governo, più che il Ministro, e neppure una legge che provvede unitariamente a questa formazione. Riconosco che le urgenze si delineavano, si profilavano prevalentemente, non esclusivamente, ma prevalentemente, per quanto attiene all’istruzione superiore. Riconosco che rispetto ad essa il Ministro si sentiva condannato a scegliere una via senza possibilità di adottare neppure soluzioni diverse per i noti motivi di urgenza. Ma se la riforma di questo organo consultivo era imperniata su questa base unitaria, voi non potete far critica al Ministro se questa base unitaria non ha infranto. (Applausi).

Contenuto della legge. Ho detto che la legge può essere contestata ed è stata criticata e per la legittimità della sua formazione e per il contenuto.

Noi ci dobbiamo domandare, come si è domandato poco fa l’onorevole Foa, se la legge, oltre che rispondere, nella sua legittimità costituzionale, formale, alla essenza vera delle cose, su cui mi sono soffermato, risponda alle esigenze di una buona politica scolastica, di una buona tecnica della scuola.

Io potrei chiudermi in una pregiudiziale; e dovete riconoscerlo. Potrei dirvi che in regime di legislazione delegata è strano che della sostanza della legge si debba discutere in questa sede e non nella sede più propria, cioè nel futuro Parlamento, che potrà esaminare nel complesso tutta questa legislazione, quando dovrà convertire in legge il decreto di delega al Governo per il potere legislativo, o in sede singola; perché non sappiamo né possiamo prevedere quale atteggiamento assumerà il futuro Parlamento nei confronti di tutta questa nostra legislazione.

In sostanza, anche nei casi in cui una legge del Governo viene inviata alle Commissioni dell’Assemblea, il parere di queste non è vincolante.

Quell’accorgimento, al quale ricorremmo, quando, un anno fa circa, fummo posti di fronte al dilemma o di abdicare al potere legislativo, come voleva la legge che ci costituiva, o di assumere tutto il potere legislativo, come poteva essere nelle nostre aspirazioni (perché riconoscevamo di essere il primo organo democratico del Paese), quell’accorgimento ingegnoso di introdurre, attraverso una modesta modifica del regolamento della Camera, una prassi (e questa prassi non incide sulla validità dilla leggi), quella, cioè, che il Governo passasse i disegni di legge alle Commissioni dell’Assemblea (tranne i casi di massima urgenza) e queste esprimessero un parere, non comporta altro che un dovere morale, di correttezza, un dovere politico del Governo di tener conto ed accogliere gli emendamenti che le Commissioni permanenti propongono, ma non comporta alcuna incidenza formale, vincolante sul contenuto della legge.

E non vi siete meravigliati, quando, in un problema veramente scottante, perché riguardava la disciplina economica della Magistratura – della cui sorte siamo tutti pensosi – mentre la prima Commissione permanente unanimemente esprimeva al Governo il parere dell’elevamento dal minimo di indennità di toga, il Governo non abbia sentito l’opportunità, per motivi più che spiegabili, di accogliere il voto della Commissione dell’Assemblea.

Non ho possibilità, in questo momento, di offrire una documentazione di quanto asserisco; ma ritengo che non sia raro il caso, in cui il parere dalla Commissione dell’Assemblea non sia atteso dal Governo.

Non mi voglio rinchiudere, dicevo, in questa pregiudiziale.

Sono d’accordo con voi che occorre parlare in questa sede, senza una diretta conclusione di carattere costituzionale, trattandosi di giudicare la politica dei Governo, concernente un particolare settore dell’Amministrazione, l’istruzione. Sono d’accordo che possiamo esaminare il contenuto della legge. Ed allora vedete se la legge sia veramente il capestro della scuola, se uccida veramente la libertà della scuola, se a causa di questa legge ci possiamo preoccupare dalle sorti che sono riservate alla scuola e se essa ci faccia pensare che per la scuola italiana si apra una tomba, che si scoperchi quella tomba in cui la scuola deve affondare il suo miserando corpo. O se non sia piuttosto una legge che – pur con le inevitabili mende che hanno tutte le leggi, specie quelle che si formano in un momento così delicato e travagliato della vita nazionale, mende che potremo tuttavia correggere e ritoccare con una legge integrativa – segni un passo sulla via dalla ricostruzione democratica della scuola in Italia: su questo chiedo a voi un riconoscimento leale. (Rumori a sinistra – Applausi).

Questo è il punto decisivo sul quale io richiamo la vostra attenzione. Ora, onorevoli colleghi, dopo oltre venti anni nei quali in Italia non esisteva un organo democratico della pubblica istruzione – e vi passerò in brevissima rassegna questa legislazione solo indicandovi tutti i procedenti legislativi, nei quali questa democrazia non si era mai realizzata, sia prima del fascismo, che durante il fascismo – solo ora si è potuta realizzare una così perfetta democrazia degli organi consultivi della pubblica istruzione. (Rumori a sinistra – Applausi al centro).

Ve lo dimostrerò: è inutile sollevarvi in massa. Potete discutere la mozione e potete, in questa Assemblea, controbattere le idee con le idee. Quando vi dirò che con la legge Casati si costituiva un consiglio Superiore di 21 membri, tutti di nomina ministeriale, e che con la legge Baccelli si stabiliva che dei 32 membri 16 erano eletti e 16 di nomina ministeriale, e quando infine vi rammenterò che la legge Gentile fissava a 21 il numero dei membri, tutti di nomina ministeriale, voi avrete intesa la verità della mia affermazione. Né vi citerò tutta la sequela delle leggi fasciste in cui tutto intero il Consiglio Superiore era di nomina autoritaria. Il Consiglio Superiore è organo veramente importante e delicato, perché l’unico che ha poteri sovrani, tali che lo sovrappongono allo stesso Ministro, cosi da farlo chiamare, come hanno fatto taluni, in modo grossolano, il «passacarte» del Consiglio Superiore della pubblica istruzione.

Quando noi consideriamo che l’attuale Consiglio Superiore è formato per oltre le quarti di membri elettivi, permettetemi di dirvi che la legge in discussione ha attuato in Italia non la perfezione della democrazia, ma il massimo della democrazia. (Rumori a sinistra).

La stessa legge De Ruggiero, che pure non si può negare abbia stabilito che il Consiglio Superiore fosse elettivo (e stabiliva contemporaneamente – non lo dimentichiamo – che il Consiglio Superiore se lo nominava il Ministro) quella stessa legge De Ruggiero importava la possibilità di cooptazione di membri ministeriali da parte di quelli eletti.

Io non nego che, attraverso un perfezionamento legislativo, si potrà avere un più perfetto funzionamento democratico del Consiglio Superiore; ma io voglio qui rilevare che in Italia, nemmeno prima del fascismo, si è potuto mai realizzare un Consiglio Superiore totalmente elettivo. È nelle nostre aspirazioni arrivare a questo. Ma ci arriveremo a gradi. Questo è il primo passo verso quella perfezione. Io penso che la democrazia debba risorgere attraverso non una rivoluzione, bensì un’evoluzione che si svolga a passi lenti, ma costruttivi; perché i passi troppo apparentemente ed eccessivamente rivoluzionari possono condurre all’abisso.

Ora, onorevoli colleghi, com’è composto l’attuale Consiglio Superiore? Scusatemi, se ripeto dei dati a voi già noti – io, benché presente all’altro dibattito, non vi ho preso parte oratoriamente – ma è necessario che ne riassuma la composizione:

prima Sezione: 28 membri, di cui 19 eletti dalle Facoltà, 3 dalle categorie e 6 soltanto di nomina ministeriale;

seconda Sezione: su 12 membri, 7 eletti e 5 nominati.

Io conosco la critica che si è rivolta qui perché si è detto che i tre professori universitari che fanno parte della seconda Sezione del Consiglio Superiore possono essere prescelti fra quei sei che il Ministro ha nominato di sua nomina diretta e che non provengano dell’elezione. Io potrei rispondere che con questi casi estremi e con questi casi limiti non si può formulare una critica della legge.

Ma ancorché si verificasse che il Ministro prescelga i tre professori universitari, che devono andare a far parte della seconda Sezione, da quei sei che egli ha nominato, non vi pare che sia estremamente offensivo non per la categoria alla quale appartengono ma per una categoria qualsiasi di insegnanti il sospettare che perché nominati dal Ministro possono asservire la loro coscienza al Ministro stesso? Questi professori durano in carica tre anni – e la democrazia ci insegna che nessun Ministro è durato mai in carica tre anni – ed in questi tre anni essi dovrebbero asservire la loro coscienza di tecnici, di studiosi, di scienziati, o di umili servitori della scuola, ai desideri del Ministro?

L’ingiurioso sospetto lo potete formulare nei riguardi del Ministro. Anzi è bene che questa diffidenza verso l’esecutivo ci ispiri; ma questa diffidenza noi dobbiamo organarla, debbiamo farla vivere. Questa diffidenza è offensiva per coloro a cui si rivolge, non per il Ministro.

L’esperienza ci dice – e questo lo potete affermare anche voi, onorevole Calamandrei, che con la vostra presenza onoraste il Consiglio Superiore – che non ci si è mai legati al Ministro e che la propria personalità si è sempre tenuta al di sopra dell’organo governativo, dimenticando perfino se la nomina era stata fatta da questo o da quel Ministro.

LUSSU. Allora, era Ministro De Ruggiero, il meno settario degli uomini politici.

LEONE GIOVANNI. Io sono così ammiratore del professor De Ruggiero che devo raccogliere l’interruzione per ribadire l’affermazione. Questo prova la grande nobiltà di azione governativa del professor Di Ruggiero. Ma il mio esempio non significava possibilità di ingerenza, ma significava che quando si è nominati ci si dimentica perfino del Ministro che ha provveduto alla nomina. (Approvazioni).

Gli stessi sospetti che voi formulate per i professori universitari chiamati a far parte della seconda Sezione, si potrebbero formulare per tutti quegli organi consultivi dello Stato o di altri enti pubblici o per quelle alte gerarchie la cui nomina è di competenza ministeriale. Ed allora perché non diffidare anche degli organi che sono di nomina del Ministro? Perché non sospettare, per esempio, nell’attuale ordinamento dilla Magistratura, che i magistrati degli alti gradi che, come sapete, sono nominati dal Consiglio dei Ministri, possano subordinare la loro azione giudiziaria al Governo che li ha nominati?

Questo sospetto non si è mai profilato in Italia e non si deve mai profilare. Lo desidero, perché la categoria dei professori universitari che andranno alla Sezione media e tecnica sentiranno di portare con maggior senso di responsabilità il contributo della loro esperienza e il peso del loro prestigio.

È questo il punto su cui desidero soffermarmi. Si è detto che può costituire oltraggio alle categorie dei professori di scuola media la presenza di tre professori universitari nel loro organo. Si è detto che questo costituirebbe una paralisi per l’autogoverno di questa categoria.

Ora, intendiamoci, questa categoria, già con la legge Gonella – chiamiamola così, per intenderci, dato che Gonella è l’imputato – già con la legge Gonella ha fatto grandi, notevoli passi verso il suo autogoverno, se è vero che dal 1911 in poi gli ordini inferiori di scuole non hanno mai avuto un Consiglio Superiore, un organo consultivo. È già un notevole passo e noi dovremmo elogiare il Governo, che anche per la scuola media ed elementare ha istituito una Sezione del Consiglio Superiore, la quale ha il notevole pregio di essere sullo stesso piano del Consiglio Superiore, Sezione universitaria, proprio per quella disciplina organica e unitaria sulla quale mi sono soffermato poco fa. (Applausi al centro).

Ma perché occorre la presenza di professori universitari? Non certo per un riguardo verso i professori universitari: è perché taluni organi consultivi, o che hanno il governo di una particolare categoria, si orientano per necessità pratiche e, soprattutto per una esigenza di maggiore serenità, a chi è al di sopra della mischia ed è, quindi, più sereno; si giustifica così l’inclusione in questi organi di elementi appartenenti alla medesima amministrazione, ma che si trovano ad un grado più elevato.

Su questo punto, dovremmo prendere esempio dal Consiglio Superiore della Magistratura: nessun magistrato inferiore – usiamo questa espressione, anche se non è molto rispettabile – nessun giudice, nessun pretore si è mai lamentato che il Consiglio Superiore sia organizzato in modo da essere composto in prevalenza da consiglieri di Cassazione, presidenti di Sezione, ecc.

Perché si ricorre a questo? Perché, trattandosi dell’organo che ha il governo di una categoria, di un potere, di una attività amministrativa, è bene che vi sia assicurata la partecipazione degli organi superiori, che hanno esaurito la loro aspirazione di carriera, o hanno aspirazione di altra natura, che hanno larga esperienza, che sono lontani dal conflitto di interessi e che possono, quindi, portare il contributo della loro serenità ed imparzialità.

Ed allora, per quanto attiene a questa seconda e terza Sezione – non mi fermo sugli altri Consigli Superiori perché la loro funzione non è caduta sotto la nostra critica e perché, d’altra parte, il mio modestissimo, umile contributo in questa discussione vuol portare l’elemento dell’esperienza dei professori universitari e non vorrei invadere campi estranei alla mia esperienza – per quanto concerne queste sezioni, io devo concludere su questo punto, ed è la conclusione quasi finale: noi dobbiamo fermarci alla sostanza. E la sostanza è questa: che l’istruzione media, tecnica ed elementare devono pur avere un loro congegno, che, anche se è ancora imperfetto, rudimentale, può essere perfezionato più o meno rapidamente. Questi due ordini di scuole hanno conquistato già parzialmente, se non totalmente – secondo la dimostrazione che io volevo offrire – il loro autogoverno. Ma, questa espressione è ancora imprecisa: hanno conquistato già la democrazia nella organizzazione dei loro organi consultivi.

C’è un secondo ordine di critiche, che concerne le modalità di applicazione della legge.

Iniziando questo mio intervento, avevo detto che erano due gli ordini di critiche che si proclamavano ex adverso: quelle attinenti alla legge riguardo al suo contenuto e critiche concernenti le modalità di applicazione della stessa. Esauriamo, pertanto, questo secondo ordine di critiche, concernenti cioè le modalità di applicazione della legge. L’onorevole Parri ha contenuto in questi limiti lo svolgimento e l’interpretazione della mozione; ma, proprio per questa impostazione di una critica tecnica, voi non potete approfittare di questa mozione per scivolare in una critica alla politica scolastica del Governo.

Per rispetto al regolamento stesso, io mi appello alla vostra sensibilità nella discussione; io vorrei che la discussione si riducesse a questo.

La prima critica è che la legge è stata fatta alla macchia e che di conseguenza è mancato quel certo tempo che si deve alla ponderazione necessaria in una decisione di tale natura. Ma questa critica non ha alcun fondamento perché, prima che si compissero le formalità per cui la legge fosse perfetta, il Ministro ne ha dato ampia pubblicità attraverso la stampa e attraverso lo stesso Bollettino della pubblica istruzione, il quale ha annunciato le elezioni. Non si tratta dunque di cosa fatta alla macchia.

Ma rimane una seconda critica, ed è che la brevità del tempo intercorrente tra la pubblicazione della legge e la data fissata per le elezioni non sia da reputarsi sufficiente, così che questa eccessiva angustia di tempo inciderebbe sulla normalità e la sincerità delle elezioni stesse. A me ciò pare inesatto; il dibattito su questo punto si è in particolar modo soffermato sulla impossibilità di far sì che, in così ristretto spazio di tempo, si possano delineare le candidature ed orientarsi i pareri dei votanti. Si è detto: non crediate che si possa dare, senza la dovuta ponderazione, un voto qualsiasi; bisogna che le candidature si formino, che di esse venga fatta ampia pubblicità, bisogna che vi siano delle liste.

Onorevoli colleghi, quando hanno luogo le elezioni politiche, si ode in genere discorrere di lettere che circolano, di nomi, di candidature e qualche volta anche di autocandidature: ma qui non si tratta di elezioni politiche; qui si tratta di una cosa profondamente diversa.

Il giorno 26 ognuno dovrà dire, in coscienza, chi sono i tre professori – per attenerci all’esempio della mia facoltà, quella di giurisprudenza – che ritiene i più degni non solo per l’operosità scientifica, ma anche e in particolar modo per la probità morale (e la probità morale non si accerta davvero nei pochi giorni procedenti alle annunciate elezioni; la probità morale si accetta attraverso mesi ed anni addirittura, si accerta attraverso tutta una vita di studi, tutta una vita di esperienze, di commissioni, di concorso, di insegnamento, di pensiero), quali sono dunque, i tre uomini che non soltanto per la loro competenza scientifica ma, direi, soprattutto per la dirittura morale sono i più degni di governarci; quali sono i tre uomini, i tre giuristi italiani, che sono i più degni di disporre del destino delle nostre cattedre, dei concorsi, delle commissioni di docenza, dei nostri trasferimenti da cattedra a cattedra diversa.

Se, dunque, questo è l’aspetto negativo raggiunto dalla decisione dell’onorevole Gonella, io credo che sia questo un felice effetto negativo, se così si può dire, perché allora veramente avremo quell’effetto… negativo rispondente alle aspettative in Italia.

Ma non è neppure così, purtroppo, perché da oltre un mese il Ministro ha annunciato le elezioni; e badate che in oltre un mese, attraverso – e sono lieto che arrivi in questo momento il Ministro delle poste e delle telecomunicazioni – il ripristinato funzionamento dei servizi di comunicazione, le liste di candidati possono circolare da un capo all’altro d’Italia in due giorni. (Commenti a sinistra). Ma, ancorché, onorevoli colleghi, voi vogliate ritenere che qualche cosa si è sacrificato attraverso questo breve spazio di tempo tra la pubblicazione della legge e le elezioni, non vi pare che spetti al Governo e al Ministro di valutare le due esigenze: sacrificare una perfetta, non dico normalità, ma una perfetta rispondenza delle elezioni a queste pretese inesistenti esigenze democratiche, o sacrificare gli interessi dell’istruzione pubblica che sono giacenti, che dormono da mesi, forse da qualche anno? In questo conflitto non volete riconoscere la discrezionalità del Governo di poter sacrificare in un momento così delicato della vita del Paese alcune esigenze invece di altre? Si è sacrificato tanto, e spesso ingiustamente! Le stesse elezioni del 2 giugno furono precedute soltanto di due mesi dalla pubblicazione del relativo decreto; e se i partiti non avessero preparato in precedenza le liste, si sarebbero forse trovati a disagio per il breve periodo di tempo concesso tra la pubblicazione del decreto e le elezioni. Quante cose sono state affrettate, quante variazioni, quante applicazioni di leggi sono andate in esecuzione, specialmente in materia fiscale attraverso anticipate circolari! Debbo ricordare, ad esempio, che con una circolare si adottò l’abolizione della ricchezza mobile per determinate categorie di lavoratori?

Ora, in un momento delicato come questo, così grave per l’urgenza della ricostruzione, che cosa significa sacrificare qualche piccolo dettaglio, quando la sostanza può essere salva?

Altra critica: la difficoltà di partecipare alle elezioni. Su questo punto, credo di poter affermare che il congegno, che non solo si trova in quell’ordinanza ministeriale così criticata, ma che è stato esposto anche dal Ministro, sia così perfetto, anzi, direi, largo da consentire a chiunque la massima comodità di votazione, implicando solo il fastidio per il votante di recarsi da casa sua ad una qualsiasi scuola che si trovi nelle vicinanze.

Obbligatorietà del voto. Ma si può dire fondatamente, seriamente, che in quell’ordinanza si parli di obbligatorietà del voto? Quando il Ministro si è limitato a richiamare ciascuno a questo dovere morale? Questo rientra anzitutto nei doveri del Ministro fra cui vi è quello di attivare lo spirito democratico in un Paese che esce da un regime dittatoriale. Voi dovreste apprezzare un Ministro (Commenti a sinistra) che dopo venticinque anni di dittatura nella scuola, quando nessuno di voi ha votato, ma ha dovuto subire i diversi organi, vuole risvegliare questa coscienza democratica; per quanto io sia convinto che la nobile categoria di elettori ai quali egli si rivolgeva, si senta così degna della sua responsabilità, da non sentire il bisogno di essere sollecitata dal Ministro. Ma, comunque, una sollecitazione del Ministro ad un risveglio dell’attività in questo senso, richiamare cioè la necessità morale, richiamare il senso di responsabilità e la coscienza di ciascuno a partecipare alla formazione degli organi preposti alla vita della propria amministrazione, è un atto che va elogiato e non criticato.

E qual è la sanzione? Segnalare quelli che non partecipano; ed il Ministro è forse in grado di esibire una cartella che riguarda l’attività di ogni singolo professore, in cui si segnano perfino le assenze dalle lezioni. Non volete che l’assenza dal voto possa essere messa alla pari almeno con l’assenza dalle elezioni? (Commenti – Interruzioni a sinistra).

TONELLO. Altro che morale! Voi sapete che difendete una causa ingiusta! (Rumori al centro – Interruzione del deputato Coccia).

È immorale! E dico il mio pensiero, piaccia o non piaccia!

LEONE GIOVANNI. Io vorrei che l’onorevole Tonello si rendesse conto che certi atteggiamenti, se sono utili dal punto di vista elettorale, in questa Assemblea non hanno nessuna risonanza (Applausi al centro).

TONELLO. Nessun atteggiamento elettorale! Non si deve speculare sulla moralità! (Proteste al centro – Interruzione del deputato Coccia).

LEONE GIOVANNI. Comunque, onorevoli colleghi, questo punto della cosiddetta obbligatorietà del voto è un punto sul quale voi potete esprimere un giudizio, giudizio che significherà per il Ministro segnalazione a non applicare quelle che voi chiamate sanzioni. Ma non importa, quel punto, rinvio delle elezioni, perché se quelle che voi chiamate sanzioni dovessero operare opererebbero dopo le elezioni. E allora l’Assemblea ha diritto su un’ordinanza o circolare ministeriale di esprimere un’opinione e può anche dire: noi riteniamo che sia stato mal fatto segnalare gli assenti alle elezioni. Ma questo non importa il rinvio delle elezioni. Vuol dire che il Ministro si asterrà dal tener conto delle segnalazioni, quelle che voi chiamate sanzioni. E allora, onorevoli colleghi, la situazione è questa: (Interruzioni – Commenti). Speravo per lo meno che, essendo uno dei deputati più contenuti nell’alzarsi a parlare, potessi avere la tolleranza dei colleghi.

Una voce a sinistra. Ne ha abusato!

LEONE GIOVANNI. La situazione è questa, onorevoli colleghi: richiamare in vita il procedente Consiglio Superiore. Oggi, ancorché il Ministro volesse attuare quello che non ha creduto opportuno di attuare – un invito a ritirare le dimissioni – un rinvio delle elezioni non è possibile, perché, essendo entrata in vigore la legge di cui andiamo discutendo, questa legge nell’articolo 25 porta l’abrogazione espressa (che è inutile perché l’abrogazione è implicita) della legislazione precedente. Il Ministro, se volesse attuare quell’invito che non ha creduto di attuare, non lo potrebbe; e quindi, anche se rinviasse le elezioni (è bene che questo sia tenuto presente ai fini della responsabilità che andiamo assumendo di fronte alla scuola) il Consiglio Superiore non potrebbe esistere.

E allora che cosa potrebbe fare il Ministro? Ecco un punto veramente importante che non è stato finora eccessivamente preso in considerazione da voi. Il Ministro aveva un solo potere: potere prima della legge della quale stiamo discutendo; avrebbe potuto (se la legge precedente non fosse stata abrogata con quella di cui discutiamo) sostituire i 23 membri dimissionari con altri 23 membri di sua nomina. E allora, di fronte a questa alternativa, io ho il diritto di domandare: di fronte a questo problema, anche politico, un Ministro, che dovendo scegliere fra due strade: ricomporre, rinsanguare il Consiglio Superiore con la nomina diretta e quindi con la possibilità di essere accusato di aver preso 23 amici o quasi amici; o invece affrettare con una legge che può essere imperfetta ma che ripristina il principio democratico (le elezioni del Consiglio Superiore), sceglie la prima; osate voi deplorarlo? È su questo che dovete giudicare, onorevoli colleghi. Se avesse sostituito i ventitré membri immediatamente, la vita universitaria sarebbe rifluita, sarebbe ritornata nel suo corso normale; i professori non attenderebbero da un anno i trasferimenti da una cattedra all’altra; le buste dei concorsi non starebbero giacenti in una cassaforte del Ministero; le libere docenze, che non sono state ancora riprese dopo la liberazione, non starebbero a dormire; la revisione dei concorsi, per cui multi studiosi attendono un atto di riparazione da tre anni, non sarebbe ulteriormente sospesa. Ed ancora altri settori non sarebbero rimasti paralizzati: le riforme di statuti; cattedre da sopprimere perché di impronta fascista; cattedre da istituire perché di impronta democratica: e, infine, il Consiglio Superiore sarebbe sopravvissuto con 23 membri di fiducia del Governo. Questo egli si è rifiutato di fare. Se ciò è vero, io, terminando, ho il diritto di dirvi (specie a voi colleghi di sinistra che vi siete scagliati contro l’operato del Ministro): se siete pensosi della scuola – come non vorrei dubitare – ed insieme entusiasti del ripristino del metodo democratico, che noi avremmo dovuto presagire, lungi dal tentativo di rinvio, la facilitazione di questo primo esperimento di costituzione degli organi consultivi democratici, elettivi della scuola. La democrazia, in un Paese che ne è rimasto privo per oltre venti anni, non si restaura d’incanto: essa procede per gradi e, provando e riprovando, approda a quelle sponde della perfezione e dell’armonia, che sono nella nostra unanime aspirazione. Ci saremmo attesi, dopo un esperimento di Consiglio Superiore di nomina ministeriale, sia pure in persone di rispettabili maestri, che un provvedimento legislativo, il quale attuava una ricostruzione del Consiglio Superiore, a larga base elettiva, e che dopo moltissimi anni ripristinava una Sezione per l’insegnamento medio ed una sezione per l’insegnamento elementare, riconoscendo così a questi due settori dell’insegnamento il prestigio e la dignità che loro spettano; ci saremmo attesi che questo provvedimento, che costituisce un notevole passo sulla difficile via della ricostruzione dell’amministrazione statale, avesse placato le nostre e le vostre ansie verso quella giustizia nell’amministrazione che si realizza soprattutto mediante organi consultivi ed elettivi. È amaro per noi assistere a questo schieramento. Le dimissioni del Consiglio Superiore potevano rispondere a questa alternativa: o sostituire i membri dimissionari o accelerare le elezioni del nuovo Consiglio Superiore, anche perché quello dimissionario non avrebbe potuto prorogare la sua vita oltre il 15 ottobre 1947.

Fra un atto di autorità per la sostituzione di molti membri dimissionari – senza dubbio legittimo, ma forse inopportuno e facilmente criticabile – e una iniziativa di ricostituzione democratica dell’organo, il Ministro ha scelto la seconda strada.

Nella legge vi potranno essere incongruenze e difficoltà pratiche, ma il danno non sarà grave. A parte la possibilità che la correttezza di un Ministro, e soprattutto il controllo parlamentare, potranno perfezionare la legge, non è da dimenticare che il prossimo Parlamento, il quale sarà certamente in funzione fra non molto, avrà i più ampi poteri di apportare le rettifiche e gli emendamenti necessari. Tutto questo è dettaglio. La verità, che nessun avversario e nessun artificio di propaganda potrà oscurare, resta chiara ed è che l’operato dell’onorevole Gonolla risponde a un senso di indiscutibile correttezza e soprattutto di democrazia. (Applausi).

PRESIDENTE. Ha chiesto di parlare l’onorevole Croce. Ne ha facoltà.

CROCE. Tra i motivi per i quali è stata fissata nella tornata antimeridiana la discussione di questa mozione, è stato detto che un deputato più che ottantenne desiderava esservi presente e non avrebbe potuto in una seduta notturna. Tale motivo era bensì gentile nell’intenzione, ma inopportuno politicamente, come è stato notato da altro più rigoroso osservatore delle buone norme, e io mi associo a lui.

Ora, venendo al motivo per il quale prendo la parola dirò quale questo sia. Sono stato anch’io al posto che ora occupa l’onorevole Gonella, e proprio quando il Partito cattolico o popolare fece la sua prima e grande entrata nel Parlamento italiano. Liberale e laico e già autore di quella filosofia che a tutti era nota e la Chiesa non aveva creduto allora conveniente di innalzare all’onore dell’indice, io riuscii molto gradito ai cattolici per la mia connaturata imparzialità.

Ricordo una discussione con uno dei loro uomini più autorevoli, di poi senatore, intorno a certe richieste delle scuole confessionali, nella quale io gli dimostrai il punto in cui dovevo fermarmi, e il bravo uomo, persuaso, si levò e si accomiatò dicendomi; ab amicis justa petamus. Ricordo che Don Sturzo, che tanto bene starebbe ora in questa Aula, quando accadde la crisi del Ministero Giolitti, venne da me a dirmi che il Partito popolare avrebbe puntato sul mio nome per la nuova combinazione, e io gli feci osservare, ridendo, che egli aveva dimenticato che io ero un liberale! Memorie di tempi lontani. E se nelle crisi dei nostri giorni deprecai che il Ministero dell’istruzione fosse occupato dai democristiani, è tra l’altro perché io temevo gli effetti della lunga brama e della lunga astensione, e gli eccessi e le prepotenze che ne sarebbero seguiti.

Ciò purtroppo è accaduto e l’onorevole Gonella, del quale pregio l’ingegno e che sono dolente di dover criticare, ricordevole della molta cortesia di cui m’ha dato prove, ha troppo fatto nell’interesse della sua parte e ha suscitato molto scontento e opposizione negli animi. Di ciò è prova il suo contegno verso i deliberati pareri del Consiglio Superiore dell’istruzione, che anche uomini insigni della sua parte hanno deplorato, e sul quale io non mi distenderò, benché potrei illustrarlo con qualche esempio assai efficace. E, per di più, egli ha adottato un metodo, che dirò imperatorio nel sentimento e precipitoso nell’esecuzione; e anche di questo è prova la riforma del Consiglio Superiore, alla quale ha avuto un anno intero per pensare e che ha attuato con un decreto urgentissimo, togliendo all’Assemblea il respiro per esaminarlo e criticarlo ed emendarlo.

Ier l’altro mi si è detto che con un simile decreto è stato provveduto al patronato scolastico: un’istituzione che fu già fatta da me nel 1920, con una semplice circolare, perché così come l’avevo formata non costava niente allo Stato, non richiedeva nuovi impiegati, e contava sull’interessamento e concorso delle famiglie degli alunni abbienti, che si manifestò molto largo e volenteroso.

Non ho avuto mai il proposito di diventare il critico dell’opera dell’onorevole Gonella, per la pratica ragione che altri e più dolorosi problemi mi occuparono e che mi mancava il tempo e la forza per questo particolare lavoro, che spettava a più giovani e più alacri colleghi. Ma nell’occasione che mi si è ora presentata ho sentito il dovere di stare accanto ad essi e unirmi alle loro ben ragionevoli richieste, con la speranza che l’onorevole Gonella finisca con l’accettarle, reprimendo in sé il naturale impulso che porta a ostinarsi per impegno di amor proprio, il quale in questo caso (l’amico Nitti ama celiare sulle parole della Chiesa che mi suonano sovente sulla labbra) sarebbe un atto di superbia e, sotto colore della fermezza da dimostrare, una suggestione del Maligno. (Applausi).

PRESIDENTE. È iscritto a parlare l’onorevole Di Fausto. Ne ha facoltà.

DI FAUSTO. Essendo fra i pochissimi in questa Assemblea interessato ai problemi dell’arte, io non posso non fare un accenno al Consiglio Superiore delle belle arti, riportandomi anche a precedenti dichiarazioni. Particolarmente mi riferisco alle dichiarazioni fatte il 4 giugno, quando tentai di sottrarre dopo le «Antichità e Belle Arti» anche la «Urbanistica» dall’ingerenza delle Regioni.

In quella occasione deplorai la mancata creazione di quell’organismo autonomo che, in piena emergenza, dopo le gravi ferite inferte dalla guerra, avrebbe dovuto presiedere con visione unitaria ed organica, a tutte le attività artistiche ed alle enormi necessità della ricostruzione. Mi ridussi ad invocare in quella occasione la più sollecita ricostituzione del Consiglio Superiore delle belle arti, supremo organo tecnico consultivo, al quale solamente possono essere deferiti i gravissimi problemi che interessi contrastanti potrebbero compromettere irrimediabilmente.

Esemplificai, fra i tanti temi in attesa di esame, le questioni relative al Palazzo della Ragione a Ferrara, al Palazzo dei Tribunali a Vicenza, all’ex Palazzo Reale di Milano, al restauro dei Duomo di Modena, al grattacielo sul mare di Napoli, alle Mura Urbane di Piacenza, alla ricostruzione del Ponte di mezzo e dei quartieri interni di Pisa, alla ricostruzione dei Borghi intorno al Ponte Vecchio di Firenze.

Sorvolai sui problemi peculiari di Roma che avevo trattati precedentemente, ma non potei non denunciare la minaccia che sia infirmato il vincolo panoramico che tutela la suggestione dell’Appia antica.

Illustrai infine la minaccia che grava sulla Basilica di San Marco. Ma questa Assemblea, che dedicò una intera settimana a discutere sulla formula di giuramento di fedeltà alla Repubblica, non troverà certo una mattinata da dedicare a questi più veri e più alti problemi di interesse nazionale e internazionale.

Esigenze – queste da me denunciate – che superano qualunque critica e qualunque polemica.

Ecco perché fui indotto a sollecitare ed a scongiurare che fosse ricostituito senza ulteriore indugio il Consiglio Superiore delle belle arti.

Sono pertanto sodisfatto di constatare che questo problema sia finalmente all’ordine del giorno.

PRESIDENTE. Ha chiesto di parlare l’onorevole Rivera. Ne ha facoltà.

RIVERA. Onorevoli colleghi, non avrei preso la parola in questa discussione se da più parti e, questa mattina stessa, da alcuni colleghi della Facoltà di scienze dell’Università di Roma riunita in Commissione di laurea, non mi fosse stata confidata una loro vivissima preoccupazione di andare incontro, a causa di questa discussione, ad un ulteriore prolungamento della loro attesa. Io parlo dunque a nome dei colleghi meno anziani, giacché per quelli più anziani il problema è diverso.

Per i primi questo problema è divenuto angustiante ed assillante: si tratta in molti casi di persone che hanno superato la quarantina, di specialisti che hanno trascorso una vita a studiare, chiusi nell’Università, a cercare di far progredire la scienza.

Qui si sono discusse eleganti tesi giuridiche, si sono fatte acute disamine di competenze, raffinate valutazioni di poteri, ma nella discussione è rimasto dimenticato l’interesse massimo che noi dovremmo curare e tutelare, quello dell’alta cultura, delle Università e, per queste, degli insegnati universitari.

La parte migliore e più meritevole di questi è, come già detto, impressionata della possibilità di un rinvio, che può significare per loro l’oscurarsi della speranza di poter presto salire la cattedra di quella disciplina per la quale hanno lavorato per decenni e della quale si sono resi ormai talora altamente benemeriti. Si tratta di diecine di colleghi che ci ostiniamo a chiamar giovani, anche se ultra quarantenni, i quali hanno sopportato in questo ventennio l’amara martellatura di concorsi non indetti o peggio male eseguiti.

Accennerò ad un episodio, che ho vissuto, perché riguarda un mio allievo.

Si fa un concorso per cattedra universitaria: Presidente della Commissione è un senatore fascista e questi, con pugni sul tavolo e mezze parole di colore oscuro, impone la soluzione seguente al concorso: una parte dei concorrenti è idonea scientificamente, ma non didatticamente, un’altra parte è idonea didatticamente, ma non scientificamente. Io non ho mai capito come una persona non idonea scientificamente, cioè non sufficientemente preparata, possa efficacemente insegnare, cioè essere un didatta idoneo, come non ho mai capito come possa una Commissione, che neppure forse conosceva la faccia dei candidati, tutti liberi docenti, giudicare di inidoneità didattica persone non messe alla prova.

Questo arbitrio, evidente per l’assurdo logico attraverso il quale è stato perpetrato, e con così poca graziosità, a carico di una schiera di una diecina di giovani, che sono poi rimasti per dodici o quattordici anni ad aspettare che queste cattedre di cui erano evidentemente degni, almeno in parte venissero finalmente loro concesse subito dopo la caduta del fascismo, è uno dei tanti che la originalità del fascismo ha saputo escogitare. Ad alcuni di questi candidati si chiudevano le porte in faccia quali «sospetti» ad occhi fascisti in quanto, non si crederebbe, discepoli di persone non in odore di santità presso il partito fascista. Questo è uno degli esempi; ve ne sono tanti altri del genere, o diversi.

Orbene, nell’ambiente universitario si invoca solo che agli insegnanti universitari sia lasciata libertà di fare. Oggi sono indette delle elezioni ed ad essi poco importa se perfetta sia la forma giuridica escogitata, perché esprimano con la scheda il loro pensiero. Gli insegnanti universitari intendono di essere tutori di se stessi, ci dispensano volentieri dal compito di far noi da tutori alle scienze ed ai cultori di scienza.

Esistono delle liste, che circolano è vero, ma personalmente ho fatto esperimento, parlandone con colleghi di varie Università, che nessuna è di gradimento, sicché succederà che saranno nominate al Consiglio Superiore della pubblica istruzione le personalità più degne del mondo universitario. Non è dunque gradita questa nostra premurosa tutela fatta di argomentazioni giuridiche più o meno valide e perciò lasciamo che le nomine i professori universitari le facciano a loro piacimento.

C’è una preoccupazione nelle parole che ha pronunciato qualcuno di quella parte (Accenna a sinistra): quella di far tornare al Consiglio Superiore quelle stesse persone che facevano parte del Consiglio Superiore dimissionario. Ebbene, io vi dico: se i professori universitari italiani hanno per quelle persone questa stessa predilezione dei colleghi che questo ci hanno fatto capire, essi hanno il modo, votando nomi dei vecchi componenti dei Consiglio Superiore di riporli sull’antico scanno: ciò attraverso la scheda che loro si offre.

Ma la cosa che importa, l’interesse dell’Università è quella di coprire le cattedre al più presto possibile. Io vi chiedo che lasciate che i nostri docenti votino come essi credono affinché sia accelerato il completamento dei quadri delle nostre Università. Questo mi sembra il problema essenziale e se qualche valore ha la mia voce, essa vuole farsi interprete del desiderio di questi studiosi, non più giovani, che hanno atteso tanto tempo. Questa è la preghiera che io porto, a loro nome, all’Assemblea Costituente oggi, che lasciate che abbia libero sviluppo questa votazione, onde siano degnamente e presto riempiti i quadri della nostra alta cultura con coloro che sono capaci di dar lustro alla scienza e, attraverso quella, di dar lustro all’Italia. (Applausi al centro).

TONELLO. Hanno atteso tanti anni con la tessera fascista in tasca e possono aspettare ancora!

PRESIDENTE. Ha facoltà di parlare l’onorevole Ministro della pubblica istruzione.

GONELLA. Ministro della pubblica istruzione. Ringrazio vivamente coloro che sono intervenuti in questo dibattito e particolarmente l’onorevole Leone, che ha esposto in maniera così precisa i motivi sui quali, già nel corso di due interpellanze, ho avuto occasione di intrattenermi.

Purtroppo oggi non avrei che da ripetermi per la maggior parte delle argomentazioni.

Sono grato anche all’onorevole Parri di aver portata la discussione in una sfera più alta di serenità, che particolarmente conferisce alla trattazione dei temi scolastici e di tutti i problemi che riguardano la dignità della scuola.

Il Governo non ha nulla da aggiungere a quello che ha sostenuto ed il suo punto di vista in rapporto a questa mozione è il seguente: il Governo si rimette a quello che sarà il voto della maggioranza dell’Assemblea e farà suo il voto della maggioranza dell’Assemblea. (Applausi al centro).

PRESIDENTE. Onorevole Parri, a norma del regolamento, ella ha ancora diritto di parlare. Vuole usufruire di questo suo diritto?

PARRI. Vorrei rispondere al Ministro Gonella ed ai colleghi della Democrazia cristiana che le argomentazioni addotte dall’onorevole Leone, se costituiscono un’arringa degna della sua fama, non hanno potuto avere nessun potere persuasivo su di noi, perché esse hanno girato intorno al nocciolo dell’argomento ed alla sostanza della controversia.

Se lei, onorevole Ministro, si rimette al parere dell’Assemblea per cercare di sollecitare un atto da risolvere nel miglior modo e di trovare degli espedienti che possano tener conto della situazione che ha prospettato qui il professore Rivera, noi saremmo disposti ad omettere alcuni «considerando» della nostra mozione, cioè quelli che possono sembrare una presa di posizione contro di lei, contro il suo Ministero e contro la sua politica scolastica, mantenendo l’invito a sospendere l’esecuzione del provvedimento e insistendo nel sottoporre il nuovo ordinamento all’Assemblea Costituente.

PRESIDENTE. Si passa allora alla votazione della mozione, dato che l’onorevole Parri ha dichiarato di conservarla.

PARRI. La mozione è subordinata ad una risposta del Ministro; potrebbe cioè essere resa non necessaria solo con l’accettazione sostanziale delle nostre richieste. Mancando tale risposta, la conservo, modificandola nei seguenti termini:

«L’Assemblea Costituente invita il Governo a sospendere l’esecuzione del provvedimento relativo alla ricostituzione del Consiglio Superiore della pubblica istruzione ed alle relative elezioni;

«a risolvere la vertenza con l’attuale Consiglio Superiore della pubblica istruzione, ed a sottoporre il nuovo ordinamento all’Assemblea Costituente».

PRESIDENTE. Comunico all’Assemblea che su questa mozione è stata chiesta la votazione per appello nominale dagli onorevoli Mazza, Leone Giovanni, Mattarella, Numeroso, Marconi, Pat, Medi, Galati, Moro, Benvenuti. D’altra parte, gli onorevoli Fiorentino, Pistoia, Carpano Maglioli, Proti, Grilli, Cartia, Lombardi Riccardo, Foa, Binni, Filippini, Malagugini, Mariani Enrico, Morandi, Dugoni, Lussu, Codignola, Ghidini, Bernini, Vernocchi, Fioritto, Zanardi, Caporali, Bocconi, Rossi Paolo, Merighi, Faccio, Jacometti, Fornara, Giua e Cacciatore hanno chiesto la votazione a scrutinio segreto.

A termini di Regolamento ha prevalenza la richiesta di votazione a scrutinio segreto.

Votazione segreta.

PRESIDENTE. Indico la votazione a scrutinio segreto sulla mozione dell’onorevole Parri.

(Segue la votazione).

Dichiaro chiusa la votazione e invito gli onorevoli Segretari a procedere alla numerazione dei voti.

(Gli onorevoli Segretari numerano i voti).

Risultato della votazione segreta.

PRESIDENTE. Comunico il risultato della votazione a scrutinio segreto:

Presenti e votanti       412

Maggioranza              207

Voti favorevoli          218

Voti contrari              194

(L’Assemblea approva – Applausi a sinistra – Commenti).

Voci a sinistra. Dimissioni! dimissioni!

Hanno preso parte alla votazione:

Abozzi – Adonnino – Alberti – Allegato – Amadei – Amendola – Andreotti – Angelini – Angelucci – Arata – Arcangeli – Assennato – Avanzini – Azzi.

Balduzzi – Baracco – Barbareschi – Barbini – Barontini Anelito – Barontini Ilio – Bassano – Basso – Bastianetto – Bei Adele – Bellato – Bellusci – Belotti – Bencivenga – Benvenuti – Bergamini – Bernabei – Bernamonti – Bernini Ferdinando – Bertola – Bertone – Bettiol – Bianchi Bianca – Bianchi Bruno – Bianchi Costantino – Bianchini Laura – Binni – Bitossi – Bocconi – Bonomelli – Bonomi Paolo – Bordon – Borsellino – Bosco Lucarelli – Bovetti – Bozzi – Braschi – Brusasca – Bubbio – Bucci – Bulloni Pietro – Buonocore – Burato.

Cacciatore – Caiati – Calamandrei – Calosso – Camangi – Camposarcuno – Canevari – Cannizzo – Caporali – Cappa Paolo – Cappelletti – Cappi Giuseppe – Cappugi – Caprani – Carbonari – Carboni Angelo – Carboni Enrico – Carignani – Caristia – Carmagnola – Caroleo – Caronia – Carpano Maglioli – Carratelli – Cartia – Caso – Cassiani – Castelli Edgardo – Castelli Avolio – Cavalli – Cavallotti – Cerreti – Cevolotto – Chatrian – Chieffi – Chiostergi – Ciampitti – Cianca – Ciccolungo – Cifaldi – Cimenti – Clerici – Coccia – Codacci Pisanelli – Codignola – Colombi Arturo – Colombo Emilio – Colonna di Paliano – Colonnetti – Conci Elisabetta – Condorelli – Coppa Ezio – Coppi Alessandro – Corbi – Corbino – Corsanego – Corsi – Cortese – Costa – Costantini – Cotellessa – Covelli – Cremaschi Carlo – Cremaschi Olindo – Croce.

D’Amico Michele – De Caro Gerardo – De Caro Raffaele – De Falco – Del Curto – Della Seta – Delli Castelli Filomena – De Martino – De Michele Luigi – De Michelis Paolo – De Palma – De Unterrichter Maria – De Vita – Di Fausto – Di Giovanni – Di Vittorio – Dominedò – D’Onofrio – Dossetti – Dozza – Dugoni.

Ermini.

Fabriani – Facchinetti – Faccio – Fantoni – Fantuzzi – Faralli – Farina Giovanni – Farini Carlo – Fedeli Armando – Federici Maria – Ferrari Giacomo – Ferrario Celestino – Ferreri – Fietta – Filippini – Finocchiaro Aprile – Fiore – Fiorentino – Fioritto – Firrao – Flecchia – Foa – Fognagnolo – Foresi – Fornara – Fuschini.

Gabrieli – Galati – Gallico Spano Nadia – Garlato – Gasparotto – Gatta – Germano – Gervasi – Geuna – Ghidetti – Ghidini – Ghislandi – Giacchero – Giacometti – Giannini – Giolitti – Giordani – Giua – Gonella – Gorreri – Gortani – Gotelli Angela – Grazi Enrico – Grazia Verenin – Grieco – Grilli – Gronchi – Guariento – Guerrieri Emanuele – Guerrieri Filippo – Gui – Gullo Fausto – Gullo Rocco.

Imperiale – Iotti Leonilde.

Jacini – Jacometti – Jervolino.

Labriola – Laconi – La Malfa – Lami Starnuti – Landi – La Pira – La Rocca –Lazzati – Leone Giovanni – Lettieri – Li Causi – Lizier – Lizzadri – Lombardi Carlo – Lombardi Riccardo – Longhena – Longo – Lozza – Luisetti – Lussu.

Macrelli – Maffi – Maffioli – Magnani – Magrassi – Magrini – Malagugini – Maltagliati – Malvestiti – Mancini – Mannironi – Manzini – Marazza – Marchesi – Marconi – Mariani Enrico – Marinaro – Martinelli – Marzarotto – Massini – Massola – Mastino Gesumino – Mastino Pietro – Mastrojanni – Mattarella – Mazza – Meda Luigi – Medi Enrico – Mentasti – Merighi – Merlin Angelina – Merlin Umberto – Mezzadra – Miccolis – Micheli – Minella Angiola – Minio – Molinelli – Montagnana Rita – Montalbano – Monterisi – Monticelli – Montini – Morandi – Moranino – Morelli Luigi – Morelli Renato – Moro – Mortati – Moscatelli – Murgia – Musolino.

Nasi – Negarville – Negro – Nenni – Nicotra Maria – Nobile Umberto – Nobili Oro – Noce Teresa – Novella – Numeroso.

Orlando Camillo – Orlando Vittorio Emanuele.

Pajetta Gian Carlo – Pallastrelli – Paolucci – Paratore – Parri – Pastore Raffaele – Pat – Pecorari – Pellegrini – Penna Ottavia – Pera – Perlingieri – Perrone Capano – Pertini Sandro – Perugi – Pesenti – Piccioni – Piemonte – Pignedoli – Pistoia – Platone – Ponti – Porzio – Pratolongo – Pressinotti – Preti – Preziosi – Priolo – Proia – Pucci – Puoti.

Quarello – Quintieri Adolfo.

Rapelli – Reale Eugenio – Recca – Rescigno – Restagno – Ricci Giuseppe – Riccio Stefano – Rivera – Rodi – Rodinò Mario – Rodinò Ugo – Rognoni – Romano – Romita – Roselli – Rossi Giuseppe – Rossi Maria Maddalena – Rossi Paolo – Ruggeri Luigi – Rumor – Russo Perez.

Saccenti – Saggin – Salizzoni – Salvatore – Sampietro – Sansone – Sardiello – Scalfaro – Scarpa – Scelba – Schiavetti – Schiratti – Scoca – Scoccimarro – Scotti Alessandro – Secchia – Segala – Selvaggi – Sereni – Sicignano – Silipo – Simonini – Spallicci – Spano – Spataro – Stampacchia – Stella – Sullo Fiorentino.

Tambroni Armaroli – Targetti – Taviani – Tega – Terranova – Titomanlio Vittoria – Togliatti – Tomba – Tonello – Tonetti – Tosi – Tozzi Condivi – Treves – Trimarchi – Tumminelli – Tupini – Turco.

Uberti.

Valenti – Valiani – Valmarana – Vanoni – Vernocchi – Viale – Vicentini – Vigna – Vigo – Vigorelli – Villani – Vinciguerra – Vischioni.

Zaccagnini – Zagari – Zanardi – Zannerini – Zappelli – Zerbi – Zuccarini.

Sono in congedo:

Ambrosini.

Bellavista.

Fedeli Aldo – Ferrarese.

Galioto.

Lombardo Ivan Matteo.

Pignatari.

Raimondi.

Ravagnan.

Saragat.

Zotta.

PRESIDENTE. Rinvio il Seguito dello svolgimento dell’ordine del giorno alla prossima seduta antimeridiana.

La seduta termina alle 12.50.

POMERIDIANA DI MERCOLEDÌ 23 LUGLIO 1947

ASSEMBLEA COSTITUENTE

CXCVIII.

SEDUTA POMERIDIANA DI MERCOLEDÌ 23 LUGLIO 1947

PRESIDENZA DEL VICEPRESIDENTE CONTI

indi

DEL PRESIDENTE TERRACINI

INDICE

Verifica di poteri:

Presidente

Disegno di legge (Seguito della discussione):

Convalida del decreto legislativo del Capo provvisorio dello Stato in data 29 marzo 1947, n. 143, concernente l’istituzione di un’imposta straordinaria progressiva sul patrimonio. (14).

Presidente

Cappi

Corbino

Scoccimarro

Rescigno

Carbonari

La Malfa, Relatore

Pella, Ministro delle finanze

Bonomi Paolo

Bertone

Uberti

Vigorelli

Clerici

Crispo

Bosco Lucarelli

Cannizzo

Castelli Edgardo

Micheli

Dugoni

Marinaro

Pesenti

Fabbri

Einaudi, Vice Presidente del Consiglio dei Ministri, Ministro del bilancio

Valiani

Sulla fissazione dell’ordine del giorno:

De Gasperi, Presidente del Consiglio dei Ministri

Orlando Vittorio Emanuele

Presidente

Canepa

Giannini

Cevolotto

Valiani

Togliatti

Crispo

Gronchi

Nenni

Selvaggi

Labriola

Votazione nominale:

Presidente

Risultato della votazione nominale:

Presidente

Sull’ordine dei lavori:

Codignola

Gronchi

Croce

Presidente

Selvaggi

Gonella, Ministro della pubblica istruzione

Malagugini

La Malfa

Interpellanze e interrogazioni con richiesta d’urgenza (Annunzio):

Presidente

De Gasperi, Presidente del Consiglio dei Ministri

Pertini

Grassi, Ministro di grazia e giustizia

Targetti

Interrogazioni (Annunzio):

Presidente

La seduta comincia allo 17.

AMADEI, Segretario, legge il processo verbale della precedente seduta pomeridiana.

(È approvato).

Verifica di poteri.

PRESIDENTE. Comunico che la Giunta delle elezioni, nella riunione odierna, ha verificato non essere contestabili le elezioni dei deputati:

Enrico Carboni, per la circoscrizione di Cagliari (XXXI), lista del Partito democratico cristiano;

Eliseo Giovanni Magrassi, per il Collegio unico nazionale, lista del Partito repubblicano italiano;

e, concorrendo negli eletti i requisiti previsti dalla legge elettorale, ne ha dichiarata valida l’elezione.

Do atto alla Giunta di questa sua comunicazione e, salvi i casi di incompatibilità preesistenti e non conosciuti sino a questo momento, dichiaro convalidate queste elezioni.

Seguito della discussione del disegno di legge:

Convalida del decreto legislativo del Capo provvisorio dello Stato in data 29 marzo 1947, n. 143, concernente l’istituzione di una imposta straordinaria progressiva sul patrimonio. (14).

PRESIDENTE. L’ordine del giorno reca il seguito della discussione sul disegno di legge: Convalida del decreto legislativo del Capo provvisorio dello Stato in data 29 marzo 1947, n. 143, concernente l’istituzione di una imposta straordinaria progressiva sul patrimonio.

Come l’Assemblea ricorda, abbiamo stamane rinviato i nostri lavori con l’intesa che tra Governo, Commissione ed i vari proponenti di emendamenti all’articolo 72 si cercasse di giungere ad una formulazione concordata. Comunico che l’accordo è stato raggiunto con la proposta di un emendamento così formulato:

«Aggiungere dopo il primo comma:

«Quando l’imponibile non supera le lire 400.000, fermo restando l’obbligo di pagamento delle rate di giugno e agosto 1947, l’imposta rimanente è riscossa in sedici rate uguali fino all’aprile 1950.

«Per le Opere pie, gli Istituti ed enti di beneficenza od assistenza legalmente costituiti e riconosciuti, gli Istituti di istruzione, i Corpi scientifici, le Accademie e Società storiche, letterarie, scientifiche, aventi scopi esclusivamente culturali, gli enti il cui fine è equiparato, a norma dell’articolo 29, lettera h) del Concordato, ai fini di beneficenza e di istruzione, le partecipanze ed università agrarie, il pagamento dell’imposta è fissato in trenta rate uguali fino all’aprile 1952».

«Aggiungere al quarto comma del testo governativo:

«L’abbuono è del 15 per cento, quando l’imponibile non superi le lire 400.000, e del 20 per cento per le Opere pie e gli altri enti di cui al terzo comma».

CAPPI. Chiedo di parlare.

PRESIDENTE. Ne ha facoltà.

CAPPI. Onorevoli colleghi, mi dispiace di non poter concordare col nuovo testo, che si dice concordato.

PRESIDENTE. Scusi, onorevole Cappi, fa una dichiarazione di voto?

CAPPI. Non ho chiesto di parlare per dichiarazione di voto. Non posso insistere sul mio emendamento?

PRESIDENTE. No, se lei ritira il suo emendamento ha cinque minuti per potere dichiarare le ragioni per cui lo ritira. Altrimenti non posso darle la parola, se non per una dichiarazione di voto.

CAPPI. Farò allora una dichiarazione di voto.

PRESIDENTE. Ne ha facoltà.

CAPPI. Non posso votare l’emendamento proposto dal Governo. Non lo posso votare perché (non vorrei usare parole grosse) il votarlo, da parte mia e da parte di coloro che hanno aderito al mio emendamento, sarebbe una mancanza di lealtà. Non trovo altra parola. Perché ieri sera io e coloro che hanno aderito al mio emendamento – il quale proponeva una notevole rateazione a favore dei piccoli proprietari – abbiamo votato contro l’emendamento Scoccimarro-Pesenti, dichiarando che era però anche nel nostro intendimento venire incontro alla piccola proprietà. Solo che differivamo nel modo; e abbiamo detto che eravamo contrari all’esenzione, ma eravamo favorevoli ad una notevole rateazione che facilitasse il pagamento da parte dei piccoli proprietari.

Aggiungo che il Governo, pur senza fare cifre, ieri sera aveva detto di essere sulla stessa linea, cioè di essere disposto a concedere notevoli rateazioni.

Nell’adunanza di stamane, prima che si riprendesse la seduta, io avevo moderato i termini del mio emendamento e avevo aderito a portare a cinque anni, invece di dieci, la rateazione per le opere pie e gli enti morali, avevo aderito a portare a tre anni, invece di cinque, la rateazione per i piccoli patrimoni e a diminuire il limite imponibile da un milione e mezzo ad un milione.

Francamente, se io dovessi aderire ad un emendamento, il quale è pressoché irrisorio nei vantaggi che concede alla piccola proprietà – perché porta il termine di pagamento da un anno e qualche cosa a sedici mesi ed il minimo imponibile da 1.500.000 lire a 400.000 – mancherei a quello che è un mio profondo convincimento e potrei essere accusato di poca lealtà da parte di coloro (l’onorevole Scoccimarro, l’onorevole Pesenti ed altri) che avevano aderito al mio emendamento.

Per queste ragioni sono contrario all’emendamento proposto dal Governo e mantengo il mio.

CORBINO. Chiedo di parlare per dichiarazione di voto.

PRESIDENTE. Ne ha facoltà.

CORBINO. Dichiaro che voterò a favore dell’emendamento concordato dalla Commissione con alcuni dei presentatori. Voterò a favore, perché giudico che la formula – per quanto sia lontana dalle speranze che potevano essere nate in altri presentatori di emendamenti per cifre più alte – risponda a quel principio di venire incontro alle categorie che meno possono oggi affrontare il pagamento dell’imposta decennale.

In corrispettivo, rinuncio anche per parte mia a sostenere l’elevazione del minimo imponibile da 3 a 5 milioni, in quanto ritengo che gli oneri che i contribuenti sono chiamati ad assolvere con questa legge, con i temperamenti che sono stati già introdotti, specialmente in materia di accertamento di valori, rispondano alla possibilità di sopportazione della più larga parte di essi. Vi possono essere delle piccolissime frazioni della massa dei contribuenti che per ragioni di carattere personale o contingente non saranno in condizioni di pagare questa imposta, come non possono pagare nemmeno le altre. Da che mondo è mondo vi sono stati sempre dei contribuenti che non hanno potuto pagare l’imposta; né abbiamo noi sentito la necessità di turbare il normale assetto del sistema tributario per venire incontro a questi casi di carattere particolare.

SCOCCIMARRO. Chiedo di parlare.

PRESIDENTE. Ne ha facoltà.

SCOCCIMARRO. Dichiaro, a nome del gruppo comunista, che noi voteremo per l’emendamento Cappi il quale, benché non risponda a tutte le esigenze espresse dal nostro emendamento, fra tutti gli altri è ancora il migliore, a nostro modo di vedere, che si presenta alla nostra votazione; ed è quello che più si avvicina a quelle che secondo noi sono le esigenze di difesa dei piccoli patrimoni.

RESCIGNO. Chiedo di parlare.

PRESIDENTE. Ne ha facoltà.

RESCIGNO. Ritiro il mio emendamento per aderire a quello dell’onorevole Cappi.

CARBONARI. Chiedo di parlare.

PRESIDENTE. Ne ha facoltà.

CARBONARI. Dichiaro di associarmi all’emendamento Cappi.

LA MALFA, Relatore. Chiedo di parlare.

PRESIDENTE. Ne ha facoltà.

LA MALFA, Relatore. Io ho già detto troppo in materia: aggiungerò semplicemente che l’accettazione dell’emendamento Cappi toglie ogni significato all’imposta straordinaria proporzionale.

PELLA, Ministro delle finanze. Chiedo di parlare.

PRESIDENTE. Ne ha facoltà.

PELLA, Ministro delle finanze. Devo associarmi all’onorevole Relatore nel pregare l’Assemblea di misurare la portata dell’emendamento Cappi. Io ho l’impressione che si sia molto al di là di quella zona opinabile in cui si cerca il limite della giusta difesa dei piccoli proprietari. La Commissione, il Governo e diversi presentatori di emendamenti avevano ritenuto di trovare questo limite nelle 400.000 lire di valore accertato ai fini dell’imposta ordinaria sul patrimonio per il 1947; che significa, in linea di valori attuali, una cifra che oscilla fra il milione ed il milione e mezzo. Io vorrei pregare che in questo momento, davanti alla possibilità di uno schieramento dell’Assemblea favorevole ad un emendamento che tanto si sposta da quello concordato fra il Governo e la Commissione, vorrei pregare – ripeto – l’onorevole Cappi di misurarne tutta la portata e, nell’eventualità ch’egli ritenga di potere sia quanto ottenerne l’approvazione, di vedere se non meno il caso di limitarlo nella sua portata.

CAPPI. Chiedo di parlare.

PRESIDENTE. Ne ha facoltà.

CAPPI. Da quanto ho detto, ritengo di essere già andato incontro al desiderio espresso dall’onorevole Ministro delle finanze; perché, ripeto – ma è bene chiarire, perché il testo modificato non è ancora al banco della Presidenza – che, mentre ieri avevo proposto…

PRESIDENTE. Il testo modificato non è ancora pervenuto.

CAPPI. L’ho annunciato ora. Ad ogni modo ritengo di essere venuto incontro al desiderio del Ministro delle finanze mitigando il mio emendamento notevolmente, perché per le Opere Pie riducevo da dieci a cinque anni il termine di rateazione ed accettavo integralmente la formula proposta dal Governo e che abbiamo sentito leggere pochi minuti fa.

Per i patrimoni privati, non di enti, la rateazione che avevo proposto in cinque anni la riduco a tre anni, cioè al 31 dicembre 1950 e mentre prima avevo insistito perché la rateazione fosse concessa ai patrimoni non superiori all’imponibile di un milione e mezzo, ora la riducevo ad un milione e potrei, anche per desiderio di accordo, limitarla a 750 mila lire. (Commenti a sinistra).

Ma contro le osservazioni, e non polemizzo, del Presidente della Commissione di finanza, per il quale mi associo all’elogio fatto stamani dall’onorevole Basile e dall’onorevole Mazzei di essere un simpatico, perché antidemogogico, tutore degli interessi dello Stato, osservo che ieri sera l’onorevole Ministro delle finanze, pur senza fare cifre, aveva lasciato chiaramente intendere a tutta l’Assemblea che, se respingeva l’emendamento Scoccimarro, era però sulla linea di concedere notevoli facilitazioni, in tema di rateazione, ai piccoli proprietari. Ed osservo ancora che il pericolo per il bilancio dello Stato circa un minor gettito dell’imposta è eliminato dalla facilità del riscatto, perché il mio emendamento propone un abbuono del venti per cento a favore di chi riscatta e siamo sicuri che la maggior parte dei contribuenti riscatterà. Quindi le difficoltà di cassa dello Stato saranno minori. Concludendo, onorevole Presidente, il mio emendamento si concreta così: per la prima parte che riguarda gli enti morali – e che si può votare per divisione – concorda con l’emendamento del Governo; per i patrimoni privati per tutte le partite il cui imponibile sia inferiore a lire 750 mila, il termine è portato al 31 dicembre 1950 e l’abbuono, in caso di riscatto sarà del venti per cento.

Il comma aggiuntivo resterebbe pertanto così formulato definitivamente:

«Il termine di pagamento è portato a cinque anni per le Opere pie e gli Enti morali.

«Per tutte le partite il cui imponibile sia inferiore a lire 750 mila, il termine è portato al 31 dicembre 1950 e l’abbuono in caso di riscatto sarà del venti per cento.

«Coloro che avessero già effettuato il riscatto con l’abbuono del dieci per cento avranno diritto ad ottenere l’abbuono dell’ulteriore quindici per cento».

CORBINO. Chiedo di parlare.

PRESIDENTE. Ne ha facoltà.

CORBINO. Vorrei fare una proposta. La sostanza del dissidio è questa: il Relatore propone il pagamento entro tre anni; l’onorevole Cappi lo propone entro 3 anni. La cifra sarebbe di 400 mila per il Relatore e 750 mila per l’onorevole Cappi.

Io credo che si potrebbe consentire, su richiesta del contribuente, di effettuare il pagamento in tre anni, anziché in due, col pagamento del due per cento di interesse. E così potremmo trovare l’accordo.

PELLA, Ministro dette finanze. Chiedo di parlare.

PRESIDENTE. Ne ha facoltà.

PELLA, Ministro dette finanze. È una materia difficilmente suscettibile di transazione per la sua stessa natura. Tutto quello che il Governo potrebbe consentire, sarebbe di ammettere, oltre le 400 mila lire, limite sino al quale opera un diritto di rateazione, una possibilità di rateazione da parte dell’Amministrazione finanziaria nei confronti dei contribuenti che veramente ne abbiano la necessità, dietro pagamento eventualmente di quel due per cento cui accenna l’onorevole Corbino. Ma l’elevazione del minimo, quanto dire un diritto ugualmente operante per tutti, il Governo non potrebbe consentirla. Lascio naturalmente all’Assemblea la possibilità di una diversa determinazione.

BONOMI PAOLO. Chiedo di parlare.

PRESIDENTE. Ne ha facoltà.

BONOMI PAOLO. Io ho presentato un emendamento preciso, che in certo qual senso si può abbinare anche a quello del collega Cappi, abbinamento che tiene conto anche delle esigenze degli uffici finanziari. Io ho chiesto questo: tenuto conto che un poco da tutti i settori di quest’aula si è richiesto di considerare quelle che sono le condizioni dei piccoli proprietari di terreni e di case, io chiedo: per le partite di imposta inferiori alle ventimila lire (cioè mezzo milione) la rata di agosto dovrà purtroppo essere pagata prima che la legge entrerà in vigore; resteranno da pagare altre otto rate. Il valore di queste otto rate dovrebbe essere diviso per tre, cosicché abbiamo ventiquattro rate e andiamo all’agosto del 1951. Per le partite di imposta fra le 20 e le 40 mila lire (cioè valore un milione), invece che in otto rate, in sedici rate, di modo che anche per il fisco che ha già iscritto a ruolo queste partite, sarà semplice, dividendo per due e per tre, poter concedere questa facilitazione ai piccoli proprietari il cui valore patrimoniale non supera un milione da una parte e mezzo milione dall’altra.

In sostanza il mio si avvicina all’emendamento Cappi, ma io ritengo vada ancora più incontro ai piccolissimi proprietari e al fisco.

PRESIDENTE. Ritengo che il suo emendamento possa seguire quello dell’onorevole Cappi.

Ha chiesto di parlare l’onorevole Bertone per dichiarazione di voto. Ne ha facoltà.

BERTONE. Io sono uno dei firmatari dell’emendamento Cappi, e ho firmato in piena coscienza, perché ritenevo che fosse giusto andare incontro alle esigenze di quelle categorie che l’emendamento contempla. Ma questo emendamento, come accade sempre, ha suscitato obiezioni ed eccezioni e per dirimere le eccezioni e le obiezioni stamane si è affidato al Governo ed alla Commissione di vedere come si potevano comporre queste divergenze. Oggi ci si comunica che il Governo e la Commissione, tenuto conto delle esigenze di coloro a cui si voleva pensare e delle esigenze non meno inderogabili del bilancio, dichiarano concordemente che sarebbero addivenuti alla soluzione di cui è stata data lettura. Dichiaro che, poiché la Commissione ed il Governo sono concordi nell’emendamento testé proposto, io lo accetto.

PRESIDENTE. L’onorevole Bertone ritira la sua firma dall’emendamento dell’onorevole Cappi; a questo manca perciò una firma.

UBERTI. La pongo io.

PRESIDENTE. Sta bene. Poiché l’onorevole Cappi accetta l’emendamento del Governo nella sua prima parte, il suo emendamento si riduce al secondo comma.

VIGORELLI. Chiedo di parlare.

PRESIDENTE. Ne ha facoltà.

VIGORELLI. Ho presentato un emendamento, riguardante una determinata categoria di enti di beneficenza, cioè gli enti pubblici di assistenza. Secondo questo emendamento, il termine della rateazione per tale categoria di enti dovrebbe essere portato a dieci anni.

Pongo il quesito se, votandosi l’emendamento del Governo, sia poi possibile votare il mio.

PRESIDENTE. Ricordo che l’emendamento aggiuntivo dell’onorevole Vigorelli è così formulato:

«Per le istituzioni pubbliche di assistenza, il termine di rateazione dell’imposta è dieci anni.

Questo emendamento, evidentemente deve essere votato prima di ogni altro, perché il termine in esso fissato è il massimo.

VIGORELLI. Desidererei parlare brevemente per illustrare il mio emendamento.

PRESIDENTE. Mi pare che ella, onorevole Vigorelli, lo abbia già illustrato abbondantemente nel corso dei suoi vari interventi.

VIGORELLI. Su questo argomento, onorevole Presidente, non ho mai parlato.

PRESIDENTE. Sono spiacente, ma non posso più darle facoltà di parlare.

Pongo ai voti l’emendamento dell’onorevole Vigorelli.

(Dopo prova e controprova è approvato).

Avverto che il Governo ha chiesto che l’emendamento, concordato, sia posto in votazione per divisione. Si dovrà pertanto votare preliminarmente il primo comma che – come l’Assemblea ricorda – è così formulato:

«Quando l’imponibile non supera le lire 400 mila, fermo restando l’obbligo di pagamento delle rate di giugno e agosto 1947, l’imposta rimanente è riscossa in rate uguali fino all’aprile 1950».

LA MALFA, Relatore, Credo che si debba votare anzitutto il primo comma del testo della Commissione, che contiene una disposizione generale.

PRESIDENTE. Siccome su questo primo comma dell’articolo 72 non v’è discussione, s’intende senz’altro approvato. Debbono invece essere votate le aggiunte a questo primo comma dell’articolo 72. A questo punto, siamo in presenza di due emendamenti: uno concordato dalla Commissione e dal Governo, l’altro proposto dall’onorevole Cappi.

Si tratta ora di stabilire quale dei due emendamenti ha la precedenza nella votazione.

UBERTI. Prima l’emendamento Cappi, e dopo il testo concordato!

LA MALFA, Relatore, Se viene votato prima l’emendamento Cappi, avrei desiderato, a titolo personale, di sapere dal Governo quali conseguenze la votazione di questo emendamento ha su tutto il sistema di riscatto dell’imposta proporzionale e progressiva. Siccome l’imposta proporzionale è in riscossione, e se ne è già fatto un largo riscatto, prima di fare una dichiarazione di voto sull’emendamento Cappi, vorrei conoscere l’apprezzamento del Governo sulle conseguenze dell’agevolazione concessa dall’emendamento Cappi circa il riscatto.

PELLA, Ministro delle finanze. Certamente, le conseguenze sarebbero notevoli. Non è possibile determinarne la portata in cifra, sia pure soltanto approssimativa, perché – come già ho avuto occasione di accennare altra volta – la statistica dei patrimoni, secondo l’imposta ordinaria del 1939, con riferimento alle iscrizioni nei ruoli del 1947, contempla un scaglione unico per tutte le iscrizioni fino a due milioni; non è agevole quindi misurare la portata di una facilitazione che riguardi soltanto un settore di questo scaglione sino ai due milioni. Come orientamento, come misura grossolana della portata dell’emendamento dell’onorevole Cappi, è possibile osservare quanto segue. Se, come ritengo sia nei voti dell’onorevole Cappi, la concessione dell’abbuono del venti per cento dovesse operare come stimolante al ricorso al riscatto immediato di tutti i contribuenti che si trovano in determinato scaglione, allora, da un lato vi sarebbe un miglioramento nella situazione di tesoreria per un breve periodo di tempo, ma si correrebbe indubbiamente – dall’altro lato – il grave rischio di aver perduto per istrada il venti per cento sopra tutta una vasta zona di imponibile che certamente è molto notevole.

Se, invece, non dovesse operare lo stimolo del venti per cento, le conseguenze sarebbero ancora più gravi, in quanto ci troveremmo di fronte ad un assottigliamento del gettito dell’imposta, proprio in quel periodo di tempo in cui non si riscuote ancora l’imposta straordinaria progressiva.

Posso quindi dire all’onorevole La Malfa che, purtroppo, l’emendamento, se approvato, avrebbe ripercussioni notevolissime, o nel senso di compromettere il gettito di rate future, se fossero abbondanti i riscatti, oppure nel senso di attenuare il gettito iniziale qualora non si dovesse verificare la previsione formulata dall’onorevole Cappi di riscatti abbondanti e notevoli.

PRESIDENTE. Pongo allora ai voti l’emendamento dell’onorevole Cappi, secondo comma, essendo il primo caduto con l’approvazione dell’emendamento Vigorelli. La formulazione proposta dall’onorevole Cappi è la seguente:

«Per tutte le partite il cui imponibile sia inferiore a lire 750 mila, il termine è portato al 31 dicembre 1950 e l’abbuono, in caso di riscatto, sarà del venti per cento».

(È approvato).

Cade allora la prima parte dell’emendamento del Governo.

CLERICI. Onorevole Presidente, il mio emendamento all’emendamento aggiuntivo del Governo resta egualmente, rispetto all’emendamento dell’onorevole Cappi.

PRESIDENTE. Senza dubbio. Porrò ora in votazione l’emendamento proposto dagli onorevoli Clerici, Crispo ed altri, formulato nei seguenti termini:

«Il Ministro delle finanze può concedere le stesse rateazioni alle stesse condizioni al contribuente, che lo richieda, relativamente all’imposta su immobili sottoposti al regime vincolistico degli affitti».

Questo emendamento è stato già svolto; non credo che lei, onorevole Clerici, abbia altro da aggiungere.

CLERICI. Debbo solo osservare, onorevole Presidente, che è una facoltà che io propongo sia data al Ministero delle finanze anche per imponibili che siano superiori a quelli indicati, ma che si riferiscono esclusivamente ad immobili sottoposti al regime vincolistico degli affitti. In tali casi, e solo su richiesta degli interessati, il Ministero può, valutate tutte le circostanze, volta per volta concedere al contribuente la stessa facoltà, alle stesse condizioni.

PRESIDENTE. Invito l’onorevole Relatore ad esprimere il parere della Commissione su questo emendamento.

LA MALFA, Relatore. Non lo conosco, perché non ho potuto interpellarla.

PRESIDENTE. Qual è il parere del Governo?

PELLA, Ministro delle finanze. Non posso esprimere parere favorevole, in quanto mi sembra troppo ampio e troppo vago il concetto enunciato nell’emendamento. L’Amministrazione finanziaria, se l’Assemblea lo ritiene, potrà valersi del suo potere discrezionale per concedere maggiori rateazioni, qualora esse siano richieste da giustificate e provate necessità dei contribuenti. Ma, soprattutto dopo l’approvazione delle agevolazioni di pagamento per gli imponibili inferiori alle lire 750.000, credo che venga meno la ragione di configurare una rateazione su un settore così vasto, quale è quello proposto dall’onorevole Clerici.

Perciò, sia pure accettando la raccomandazione di concedere rateazioni in casi speciali, non posso accettare l’emendamento così come è predisposto.

CLERICI. Potrei ritirarlo, ma non so come il Ministro intende presentare giuridicamente la questione…

PRESIDENTE. La prego di dichiarare esplicitamente se lo ritira o lo mantiene.

CLERICI. Lo potrei ritirare, qualora il Governo ritenesse di avere il diritto, accettando come raccomandazione il mio emendamento, di attuarlo attraverso circolari esplicative ai dipendenti Uffici finanziari. Dubito che ciò sia possibile senza una norma di legge.

PRESIDENTE. Quale è il parere del Governo?

PELLA, Ministro delle finanze. Nei limiti delle facoltà che in materia competono all’Amministrazione finanziaria, assicuro l’onorevole Clerici che queste maggiori rateazioni potranno venire accordate. Devo, però, subito aggiungere che saranno accordate con molta oculatezza e parsimonia.

CRISPO. Se l’onorevole Clerici ritirasse l’emendamento, dichiaro di mantenerlo io, che ne sono uno dei firmatari.

CLERICI. Io non lo ritiro affatto, e lo mantengo.

PRESIDENTE. Pongo allora ai voti l’emendamento Clerici.

(Non è approvato).

Segue un emendamento dell’onorevole Bonomi Paolo, Giacchero, ed altri, del seguente tenore:

«Le partite di imposta inferiori alle lire 20 mila verranno riscosse entro il mese di agosto 1950; quelle fra le lire 20 mila e le lire 40 mila entro il mese di aprile 1950».

Onorevole Bonomi, non le sembra che il suo emendamento sia assorbito dall’emendamento Cappi?

BONOMI PAOLO. Si sarebbe dovuto mettere in votazione prima dell’emendamento Cappi; ora lo ritengo assorbito da questo emendamento.

PRESIDENTE. Rimarne ora la seconda parte dell’emendamento concordato tra Commissione e Governo; il Governo propone che sia votata con l’intesa di successivo coordinamento con le deliberazioni già adottate, specialmente con gli emendamenti Vigorelli e Cappi.

Ricordo che l’emendamento è così formulato:

«Per le Opere pie, gli Istituti ed Enti di beneficenza ed assistenza legalmente costituiti e riconosciuti, gli Istituti di istruzione, i Corpi scientifici, le Accademie e Società storiche, letterarie, scientifiche aventi scopi esclusivamente culturali, gli enti il cui fine è equiparato, a norma dell’articolo 29 lettera h) del Concordato, ai fini di beneficenza e di istruzione, le Partecipanze ed Università agrarie, il pagamento dell’imposta è fissato in trenta rate uguali fino all’aprile 1952».

BERTONE. Chiedo di parlare.

PRESIDENTE. Ne ha facoltà.

BERTONE. Avevo accennato già stamani ad un fatto. Per quanto riguarda tutte le Opere pie e gli enti morali deve – mi pare – dominare un concetto tutto speciale. Quello che verseranno tutti insieme gli enti morali e le opere pie è assolutamente insignificante ai fini del gettito dell’imposta patrimoniale. Quindi, concedere una rateazione più o meno lunga disturba poco.

Mi permetto perciò di pregare il Governo e la Commissione di finanza che, per quanto riguarda le Opere pie in genere e gli enti morali, invece di cinque anni siano concessi dieci anni, per mettersi d’accordo con gli altri enti di assistenza, in modo che non ci sia una doppia bilancia: un settore che abbia cinque anni e un altro dieci.

PRESIDENTE. Allora lei propone un nuovo emendamento. Ha chiesto di parlare l’onorevole Relatore. Ne ha facoltà.

LA MALFA, Relatore. Onorevole Presidente, dopo l’accettazione dell’emendamento Cappi si può accettare il termine di dieci anni, perché queste disposizioni sono coordinate. Se si tiene un imponibile basso per i privati, si può restringere la concessione agli Istituti di beneficenza; ma se si allarga la concessione ai privati, è inutile mantenere il limite di cinque anni.

Propongo quindi che l’emendamento Vigorelli sia iscritto nella dizione della Commissione, che è più larga e riguarda molti Istituti, e alla fine si dica che l’imposta è riscossa in dieci anni; e così usciamo da questa questione.

PELLA, Ministro delle finanze. Concordo con le considerazioni dell’onorevole Relatore e ritengo anche io che l’emendamento dell’onorevole Vigorelli possa essere trasfuso nel secondo comma dell’emendamento unico, opportunamente coordinandolo.

PRESIDENTE. Pongo ai voti la proposta che il concetto informatore dell’emendamento dell’onorevole Vigorelli sia esteso a tutti gli enti previsti dall’articolo in questione.

(È approvata).

Pongo quindi ai voti – con questa intesa – il secondo comma del testo concordato tra Commissione e Governo.

(È approvato).

Vi è ora l’emendamento dell’onorevole Bosco Lucarelli:

«Sostituire il quarto comma con il seguente:

«Il contribuente ha facoltà di chiedere, entro il 15 settembre 1947, il riscatto con l’abbuono del dieci per cento dell’imposta dovuta ai sensi dell’articolo 68».

Onorevole Bosco Lucarelli, mantiene il suo emendamento?

BOSCO LUCARELLI. Lo mantengo, tanto più che questa mattina pareva che il Governo e la Commissione lo avessero accettato. È una proroga del termine di riscatto in correlazione con altre proroghe concesse.

PRESIDENTE. Qui si parla di abbuono del 10 per cento; ma l’aliquota è stata modificata. Eventualmente, in sede di coordinamento, si provvederà all’opportuna equiparazione.

Onorevole La Malfa, quale è il pensiero della Commissione?

LA MALFA, Relatore. Dipende dal Governo che termine vuol dare per il riscatto.

PRESIDENTE. Ha facoltà di parlare l’onorevole Ministro delle finanze.

PELLA, Ministro delle finanze. Siamo ormai alla fine di luglio: si tratta di concedere una proroga di un mese e mezzo per facilitare i riscatti. Oggi siamo su una via di eccezionale larghezza, da quello che pare, ed allora non oppongo difficoltà a condizione che si aggiunga: «purché la somma sia integralmente versata entro il 30 settembre 1947»; cioè, entro il 15 presentare la domanda ed entro i 15 giorni successivi pagare integralmente la somma.

PRESIDENTE. Vuole precisare l’emendamento, onorevole Ministro?

PELLA, Ministro delle finanze. Signor Presidente, penso che la garanzia che io chiedevo possa essere meglio contemplata all’ultimo comma dell’articolo; ed allora, accettando l’emendamento Bosco Lucarelli, chiedo che sia emendato l’ultimo comma dell’articolo e si dica: «Il versamento del prezzo di riscatto deve effettuarsi in Tesoreria entro il 30 settembre 1947».

BOSCO LUCARELLI. Preferirei il 15 ottobre.

PRESIDENTE. Accetta onorevole Ministro?

PELLA, Ministro delle finanze. Non potrei accettare un termine più lungo per il versamento, perché, tenendo conto della dilazione concessa dal Governo, già attualmente la presentazione delle domande deve avvenire entro il 10 di agosto ed il pagamento entro il 18 di agosto, cioè vi sono 8 giorni di tempo. Perciò 15 giorni sono largamente sufficienti, anche perché è da ritenere che non tutti i contribuenti aspetteranno l’ultimo giorno per proporre la domanda di riscatto.

CANNIZZO. Desidererei sapere dal Ministro se le domande già presentate verranno equiparate a quelle da presentare. Vorrei sapere, cioè, se per le domande presentate il termine resterà il 30 agosto o si intende prorogato al 30 settembre. Vi possono essere errori di interpretazione. È una delucidazione che chiedo al Governo.

PELLA, Ministro delle finanze. Così come verrebbe emendato l’articolo, secondo la proposta dell’onorevole Bosco Lucarelli, è indubbio che il nuovo termine per il versamento opererebbe nei confronti di tutti i contribuenti.

PRESIDENTE. L’emendamento dell’onorevole Bosco Lucarelli potrà essere così formulato:

«Il contribuente ha facoltà di chiedere, entro il 15 settembre 1947, il riscatto con l’abbuono previsto dalla presente legge dell’imposta dovuta ai sensi dell’articolo 68».

CORBINO. Non «dalla presente legge», perché per il riscatto dell’imposta ordinaria sono previsti altri termini. Quindi «del presente Titolo».

PRESIDENTE. È giusto. Pongo ai voti l’emendamento con la formulazione indicata.

(È approvato).

Pongo in votazione l’emendamento aggiuntivo proposto dal Governo all’ultimo comma dell’articolo 72:

«Il versamento del prezzo di riscatto deve effettuarsi in Tesoreria entro il 30 settembre 1947».

(È approvato).

Resta ora l’emendamento degli onorevoli Castelli Edgardo, Perlingieri e Balduzzi, che doveva essere discusso in sede di articolo 68, e che è stato rinviato in sede di articolo 72. L’emendamento propone l’aggiunta del seguente comma:

«L’usufruttuario può rivalersi verso il proprietario della quota di imposta afferente al valore della nuda proprietà, fatte le valutazioni ai sensi dell’articolo 14».

La Commissione ha dichiarato di essere contraria a questo emendamento.

PELLA, Ministro delle finanze. Chiedo di parlare.

PRESIDENTE. Ne ha facoltà,

PELLA, Ministro delle finanze. Io comprendo la ragione di ordine equitativo che ha ispirato l’onorevole Castelli nel suo emendamento. Non devo però dimenticare che fondamentalmente l’imposta ordinaria sul patrimonio è imposta sul reddito, per quanto commisurata al patrimonio, e come tale grava sull’usufruttuario. Ora, il 4 per cento o è il riscatto di questa imposta o è il tributo sostitutivo di questa imposta. Unicamente per la preoccupazione di non snaturare la portata del 4 per cento, devo aderire al parere contrario della Commissione in merito all’emendamento.

CASTELLI EDGARDO. Chiedo di parlare.

PRESIDENTE. Ne ha facoltà.

CASTELLI EDGARDO. A titolo di dichiarazione di voto, faccio presente che anche se si concepisce la straordinaria proporzionale come un riscatto, è sempre un prelievo sul capitale che si opera, e quindi non si tratta di un’imposta che si paga sul reddito, tanto più che i termini di soluzione sono assai brevi. È giusto che il nudo proprietario paghi la sua parte, almeno per quanto si riferisce al valore della nuda proprietà. In sostanza, con questo emendamento, si vuole fare al nudo proprietario, in sede di imposta proporzionale straordinaria, lo stesso trattamento per esso già stabilito in sede di imposta progressiva straordinaria: entrambe le imposte hanno la stessa base e la stessa fisionomia: non c’è ragione di una disparità di trattamento.

PRESIDENTE. Pongo in votazione l’emendamento dell’onorevole Castelli.

(Dopo prova e controprova è approvato).

Resta inteso che rimane deferita al coordinamento la collocazione di questo comma.

LA MALFA, Relatore, Chiedo di parlare.

PRESIDENTE. Ne ha facoltà.

LA MALFA, Relatore. Volevo proporre che all’articolo 72 si riproducesse la norma dell’articolo 51, penultimo comma, nel quale si dice che «In tutti i casi di versamento diretto in Tesoreria, non compete alcun aggio all’esattore e al ricevitore provinciale».

PRESIDENTE. Il Governo è d’accordo?

PELLA, Ministro delle finanze. Sì.

PRESIDENTE. Pongo ai voti questa proposta di aggiunta, che potrà costituire un ultimo comma.

(È approvata).

L’articolo 72 si intende approvato con i vari emendamenti votati.

Passiamo all’articolo 73. Se ne dia lettura.

AMADEI, Segretario, legge:

«Per quanto non è previsto nel presente Titolo, si applicano le disposizioni del regio decreto-legge 12 ottobre 1939, n. 1529, convertito nella legge 8 febbraio. 1940, n. 100, e successive modificazioni.

«Per il riscatto si applicano le disposizioni dell’ultimo comma dell’articolo 51».

PRESIDENTE. Su questo articolo non sono state presentate proposte di modifica e, pertanto, si intende approvato nel testo proposto dal Ministero.

Vi sono ora proposte di articoli aggiuntivi. La prima è quella dell’onorevole Micheli, il quale ha formulato, unitamente all’onorevole Jacini, il seguente articolo 73-bis:

«Le cartelle fondiarie ed obbligazioni emesse ed in genere tutti i cespiti patrimoniali formati dopo il 13 aprile 1947, sono esenti dal 4 per cento».

L’onorevole Micheli ha facoltà di svolgere il suo emendamento.

MICHELI. Pare a me che la cosa sia intuitiva per le disposizioni già stabilite in articoli antecedenti; però è opportuno precisare.

Rilevo che, poiché l’imposta straordinaria proporzionale è dovuta per i soli beni esistenti al 13 aprile 1947, sarebbe incongruo e contradittorio che quella ordinaria (di cui la straordinaria, sostanzialmente, rappresenta il riscatto) fosse dovuta per beni ancora, a quella data, inesistenti.

Ciò, invero, per la quasi totalità dei beni, non può verificarsi, attesoché l’articolo 40 del regio decreto-legge 12 ottobre 1939 n. 1529, convertito nella legge 8 febbraio 1940, n. 100, stabilisce, applicando un comune principio tributario, che l’imposta ordinaria è dovuta dal 1° gennaio dell’anno successivo a quello in cui i cespiti acquistano o mutano consistenza.

Il fatto potrebbe verificarsi, invece, per le obbligazioni e gli altri titoli di cui agli articoli 26 e 36 dello stesso regio decreto-legge, in quanto la relativa imposta viene applicata, non dietro dichiarazione e mediante ruoli, ma mercé «ritenuta al momento della scadenza di ciascuna rata di interesse».

Ne deriverebbe, come si è detto, una vera incongruenza, che sarebbe anche fonte di numerosi inconvenienti pratici, giacché le cedole di taluni titoli sarebbero soggette alla ritenuta dell’imposta ordinaria e non a quella straordinaria, con incertezza nelle contrattazioni, difficoltà nei pagamenti ecc.

Ad evitare ciò, così da mantenere il parallelismo fra imposta ordinaria e straordinaria, è diretto il comma proposto.

PRESIDENTE. Quale è il pensiero del Relatore?

CASTELLI EDGARDO. Vi è anche un mio emendamento.

PRESIDENTE. È assorbito dell’emendamento Micheli.

CASTELLI EDGARDO. È giusto.

PRESIDENTE. Il Relatore è invitato ad esprimere il suo parere sull’emendamento dell’onorevole Micheli.

LA MALFA, Relatore. È questione di carattere generale. Tutti i cespiti sorti dopo l’accertamento dell’imposta ordinaria sul patrimonio, non sono soggetti a tassa. Non mi pare necessario dirlo esplicitamente.

Essendo inteso che la interpretazione è questa, si potrebbero pregare gli onorevoli proponenti di ritirare l’emendamento.

PRESIDENTE. L’onorevole Ministro ha facoltà di esprimere il parere del Governo.

PELLA, Ministro delle finanze. Siamo d’accordo nel ritenere che questi cespiti sorti posteriormente alla data di applicazione dell’imposta (l’onorevole Micheli risolve il problema della data, facendo riferimento al 13 aprile, anziché al 28 marzo; non credo che la questione abbia importanza pratica) non debbano essere tassati.

Forse hanno preoccupato l’onorevole Micheli le conseguenze di una interpretazione letterale dell’articolo 68, il quale abilita l’amministrazione finanziaria ad applicare il quattro per cento, laddove possa esservi un’iscrizione a titolo d’imposta ordinaria sul patrimonio nel corso dell’anno 1947. Le interpretazioni letterali possono portare a risultati preoccupanti e forse qui effettivamente l’interpretazione letterale avrebbe portato al risultato di colpire qualche cespite sorto tra il 13 aprile e il 31 dicembre 1947.

Perciò, per quanto l’emendamento, nei confronti dello spirito con cui l’Amministrazione finanziaria interpreta l’articolo 68, sia superfluo, non ho difficoltà a dare parere favorevole per l’immissione formale di esso nella legge.

PRESIDENTE. Pongo ai voti l’articolo aggiuntivo proposto dagli onorevoli Micheli e Jacini.

(È approvato).

Passiamo all’articolo 74. Se ne dia lettura nel testo originario, accettato dalla Commissione.

AMADEI, Segretario, legge:

«L’imposta ordinaria sul patrimonio, istituita con il regio decreto-legge 12 ottobre 1939, n. 1529, convertito nella legge 8 febbraio 1940, n. 100, è soppressa con decorrenza dal 1° gennaio 1948».

PRESIDENTE. Non essendovi emendamenti proposti, l’articolo si intende approvato.

Vi è ora un articolo 74-bis proposto dall’onorevole Corbino, che è del seguente tenore:

«Il Ministro delle finanze è autorizzato a dettare norme per accertare che i contribuenti, di cui alla presente legge, abbiano versato le quote dovute al Fondo di solidarietà nazionale, in base al decreto legislativo luogotenenziale 8 marzo 1945, n. 72.

«A tal fine di intendono riaperti i termini, ed il pagamento sarà esente da sopratassa e da multe».

L’onorevole Corbino ha facoltà di svolgerlo.

CORBINO. Vorrei che questo emendamento fosse compreso nel capo XIV delle disposizioni finali. Ad illustrarlo basteranno poche parole.

Come voi ricorderete, con un decreto-legge del 1945, furono istituiti dei contributi speciali a favore del Fondo di solidarietà nazionale. Molti hanno adempiuto all’obbligo del versamento dei contributi; molti, seguendo il proverbio che «a pagare c’è sempre tempo», non hanno pagato né entro i termini, né dopo. Oggi ci troviamo di fronte ad una imposta straordinaria, rispetto alla quale i contribuenti sono divisi in due gruppi: quelli che hanno pagato nel 1945 e quelli che non hanno pagato. Io penso che dobbiamo adottare una disposizione diretta a non far perpetuare la vecchia mentalità ed il vecchio giudizio, che spesso si sente in Italia, che chi paga è scemo.

Ecco perché vorrei che il Ministro delle finanze fosse autorizzato a dettare norme per l’accertamento degli obblighi nascenti dalla legge sul Fondo di solidarietà nazionale, riaprendo i termini ed esentando i contribuenti dall’obbligo del pagamento di una sopratassa o di una multa, cosicché tutti saranno messi sullo stesso piede.

PRESIDENTE. L’onorevole Relatore ha facoltà di esprimere il parere della Commissione.

LA MALFA, Relatore. Credo che si possa accettare il principio dell’onorevole Corbino. Vorrei però sentire il parere del Ministro delle finanze.

PRESIDENTE. Ha facoltà di parlare l’onorevole Ministro delle finanze.

PELLA, Ministro delle finanze. Mi sembra che l’onorevole Corbino abbia colto l’occasione per richiamare l’attenzione dell’amministrazione finanziaria su di un tributo che merita ancora un’operazione di raccolta. Accetto con animo di cordialità questo invito, che può essere anche un piccolo rimprovero per quel che non è stato fatto finora.

Ad ogni modo, spingere l’amministrazione finanziaria a raccogliere dei tributi è sempre una cosa che fa piacere, perché costituisce un apporto. Io penso, però, che la parte essenziale dell’emendamento dell’onorevole Corbino sia la preghiera della remissione in termine per coloro i quali non hanno pagato. Nessuna difficoltà per parte mia.

PRESIDENTE. Onorevole Corbino, dove dovrebbe essere collocato l’articolo 74-bis?

CORBINO. Dovrebbe essere il primo del Capo XIV riguardante le disposizioni finali.

PRESIDENTE. Se ne prenderà nota per il coordinamento, ove risulti approvato. Pongo ai voti l’articolo 74-bis proposto dall’onorevole Corbino.

(È approvato).

PRESIDENTE. Si dovrebbe ora passare al Titolo III, Capo XIV: Disposizioni finali e transitorie.

LA MALFA, Relatore. Onorevole Presidente, sono d’avviso che dopo il Titolo II, prima di passare ai successivi articoli, si debba decidere la questione degli enti collettivi.

PRESIDENTE. Credo che si possa accogliere la proposta dell’onorevole La Malfa; vale a dire possiamo rimandare l’esame delle disposizioni finali a dopo esaurita la discussione sulle molte parti del decreto, rimaste in sospeso. Propongo pertanto di passare agli articoli la cui discussione è stata rimandata. Se non vi sono osservazioni, resta così stabilito.

(Così resta stabilito).

Prendiamo allora in esame gli articoli rimasti in sospeso. Il primo è l’articolo 2, il cui testo proposto dalia Commissione è il seguente:

«Sono soggette all’imposta straordinaria le persone fisiche.

«Sono, altresì, soggetti all’imposta straordinaria le società, ditte ed enti costituiti all’estero, limitatamente al capitale comunque investito od esistente nello Stato, con deduzione dell’ammontare delle partecipazioni alla società, ditta o ente, che risultino accertate al nome di persone fisiche, proporzionalmente agli investimenti della società, ditta o ente in Italia».

A questo articolo l’onorevole Dugoni ha proposto il seguente emendamento: Sostituire l’articolo con il seguente:

«Sono soggetti a questa imposta:

  1. a) le persone fisiche;
  2. b) gli enti collettivi che sono tassati di imposta di ricchezza mobile in base a bilancio».

Ha facoltà di parlare l’onorevole Dugoni:

DUGONI. Mi associo all’emendamento dell’onorevole Castelli Edgardo, che abbiamo redatto insieme e firmato questa mattina.

PRESIDENTE. Avverto che l’emendamento Castelli, sostitutivo dell’articolo, è il seguente:

«Sono soggette all’imposta straordinaria progressiva le persone fisiche.

«Gli enti collettivi sono soggetti ad una imposta straordinaria proporzionale, secondo le norme del Titolo III». L’emendamento è firmato dagli onorevoli Castelli Edgardo, Scoca, Valiani, Dugoni, Pesenti ed altri. Si tratta, cioè, di un emendamento concordato tra le diverse parti dell’Assemblea.

Chiedo chi intende svolgere questo emendamento.

DUGONI. Rinunciamo a svolgerlo.

PRESIDENTE. Sta bene.

MARINARO. Chiedo di parlare.

PRESIDENTE. Ne ha facoltà.

MARINARO. Onorevoli colleghi, mi sembra che questo emendamento mal si inquadri e direi, anzi, che non si possa inquadrare nel sistema della legge che stiamo approvando. Noi siamo in sede di convalida di un decreto legislativo; di un decreto, cioè, diverso da un decreto-legge, e voi già avete sentito accennare alla questione dall’onorevole Crispo, che l’ha sollevata con quella competenza che tutti gli riconosciamo.

Una cosa è il decreto legislativo, che presuppone una delega di poteri; una cosa è il decreto-legge, che consente una convalida davanti al Parlamento.

Ora, questa è una questione tanto discutibile, che domani potrebbe dar luogo a ricorsi davanti al Supremo collegio, con tutte le conseguenze che ognuno di noi può fin da questo momento prevedere.

È possibile, in questa sede, cambiare addirittura la natura del provvedimento che noi siamo chiamati ad emettere? Noi dobbiamo, tutt’al più, convalidare il decreto 29 marzo che ha già ottenuto la sua esecuzione. Si può dubitare che tutti quegli emendamenti proposti dalla Commissione di finanza e che hanno sostanzialmente inasprito il contenuto fondamentale del provvedimento fiscale siano legittimi o non legittimi; ma, indipendentemente da questa questione, io mi domando come si possa oggi, in questa sede, proporre una questione nuova, quella cioè…

PRESIDENTE. Onorevole Marinaro, mi pare che lei stia ponendo in sostanza una pregiudiziale.

MARINARO. Giungerò alla proposta di un ordine del giorno, onorevole Presidente.

PRESIDENTE. Allora mi corre l’obbligo di leggerle l’articolo 92 del Regolamento: «A fronte sia di uno, sia di più emendamenti, non è ammessa la questione pregiudiziale o sospensiva, né l’ordine del giorno puro e semplice, né alcun altro ordine del giorno che non costituisca un emendamento, salvo il caso previsto dall’articolo 89».

MARINARO. Io dico questo, signor Presidente; che si tratta di un argomento del quale mi servo per giungere al rigetto dell’emendamento, per poi suggerire un ordine del giorno su cui chiederò la votazione dell’Assemblea.

Ora, dicevo, signor Presidente e onorevoli colleghi, che possiamo essere tutti d’accordo nel merito dell’emendamento proposto dagli onorevoli Castelli e Scoca, nel senso cioè che gli enti collettivi debbano essere anche tassati con un’imposta proporzionale; ma non è questa la sede opportuna. Io ritengo invece che il Governo debba provvedere con un disegno di legge a parte, con il quale venga disciplinata tutta la materia.

Mentre, quindi, mi oppongo all’emendamento presentato dagli onorevoli Castelli e Scoca, presento a mia volta un ordine del giorno così formulato: «L’Assemblea Costituente approva l’istituzione di un’imposta straordinaria proporzionale sul patrimonio a carico delle società e degli altri enti collettivi che svolgono un’attività economica produttiva di reddito di categoria B e dà mandato al Governo di predisporre il relativo provvedimento».

SCOCCIMARRO. Chiedo di parlare.

PRESIDENTE. Ne ha facoltà.

SCOCCIMARRO. Confesso di essere alquanto sorpreso delle parole dell’onorevole Marinaro ed anche del fatto che qui non si discuta il testo di un progetto che riguarda gli enti collettivi che già è stato preparato. Debbo ricordare all’Assemblea che, discutendo questa legge, il Governo si era impegnato ad includere il problema della tassazione degli enti collettivi in questo provvedimento, per cui molti nostri voti erano condizionati a questa accettazione del Governo.

Noi abbiamo anche esaminato – e la Commissione ha pure esaminato – un progetto del Governo. Vi sono state riunioni, si è discusso degli enti che debbono o che non debbono essere tassati: io mi attendevo quindi che oggi la discussione venisse condotta su questo progetto e che gli oppositori svolgessero la loro opposizione in rapporto al progetto stesso.

Mi pare invece che oggi il Governo ci venga a dire: ieri ci siamo impegnati, oggi ritiriamo il nostro impegno e l’Assemblea faccia quello che vuole. Ora, francamente ciò mi pare poco corretto, perché se noi avessimo potuto prevedere questo, il nostro atteggiamento su alcuni articoli sarebbe stato diverso da quello che è stato. La nostra approvazione ad alcune soluzioni l’abbiamo concessa perché pensavamo che fosse già accettato il principio della tassazione degli enti collettivi. Ora il Governo pone di nuovo in discussione questo punto che sembrava già acquisito.

Se dovesse passare l’ordine del giorno Marinaro, io mi riservo di risollevare tutti quei problemi sui quali il nostro giudizio è stato quello che è stato, perché condizionato all’impegno assunto dal Governo, che ora verrebbe a mancare.

PESENTI. Chiedo di parlare.

PRESIDENTE. Ne ha facoltà.

PESENTI. L’ordine del giorno Marinaro non ha nessuna base…

PRESIDENTE. Infatti, non è proponibile.

PESENTI. L’Assemblea ha approvato già numerose variazioni al testo di legge presentato dal Governo, e, quando si è trattato dell’articolo 2, il Governo non ha fatto alcuna opposizione, ma ha soltanto chiesto che la discussione fosse rinviata, appunto perché si stava preparando un progetto che avrebbe colpito gli enti collettivi. D’altra parte, sorge proprio il dubbio a me che l’intervento di oggi dell’onorevole Marinaro sia dovuto forse a qualche pressione che io vorrei indicare – si scusi il dubbio – proveniente da qualche superiore di ufficio. Perciò io credo che l’ordine del giorno Marinaro sia intempestivo. Avrebbe dovuto essere svolto in altro momento.

PRESIDENTE. Debbo ripetere quello che ho già detto e cioè che l’ordine del giorno Marinaro non è ammissibile a norma dell’articolo 92 del Regolamento.

CRISPO. C’è l’articolo 87!

PRESIDENTE. Continui pure, onorevole Pesenti.

PESENTI. Confortato dal parere dell’onorevole Presidente dell’Assemblea, io chiedo che si discuta e si ponga in votazione appunto l’emendamento proposto dagli onorevoli Castelli, Scoca, Dugoni e da molti altri firmatari dell’emendamento che era stato proposto in un primo tempo da noi all’articolo 2; emendamento che noi ritiriamo.

Anche se il criterio dell’emendamento degli onorevoli Castelli, Scoca ed altri è leggermente diverso da quello che noi proponevamo, lo accettiamo, perché è il frutto di un accordo intervenuto fra l’onorevole Scoca, noi e altri presentatori di emendamenti.

PRESIDENTE. Onorevole Crispo, riferendomi ad una interruzione da lei fatta poco fa, le faccio osservare che è l’articolo 92 cui occorre richiamarsi.

L’articolo 87 dice, infatti:

«Durante la discussione generale, o prima che s’apra, possono essere presentati da ciascun deputato ordini del giorno concernenti il contenuto della legge, che ne determinino o ne modifichino il concetto o servano d’istruzioni alle Commissioni.

Tali ordini del giorno sono votati prima che sia posto termine alla discussione generale.

L’ordine del giorno puro e semplice ha la precedenza di tutti gli altri ordini del giorno».

E quindi, nel caso, non è da applicarsi l’articolo 87, ma il 92.

CRISPO. Comunque, faccio osservare che se l’articolo 87 consente la presentazione di un ordine del giorno durante la discussione generale, poiché evidentemente noi non siamo più in questa ipotesi, non è consentito presentare un ordine del giorno.

PRESIDENTE. È giusto: entrambi gli articoli confermano l’inammissibilità dell’ordine del giorno Marinaro.

FABBRI. Chiedo di parlare.

PRESIDENTE. Ne ha facoltà.

FABBRI. Desidero fare una osservazione in un certo senso in antitesi a quella dell’onorevole Scoccimarro, cioè fondata sul criterio opposto a quello da lui invocato.

Secondo il mio modesto parere, costituisce un serio inconveniente questa specie di generica divisione fra i componenti dell’Assemblea, fra coloro che sono al corrente delle segrete cose e coloro che le segrete cose ignorano. In linea di fatto, l’onorevole Scoccimarro afferma che dovrebbe rimettere in discussione una quantità di voti già dati da lui e dal suo Gruppo, in quanto molte disposizioni egli avrebbe votato col presupposto che il Governo avrebbe proposta una certa leggina o un completamento della legge attuale che, per chiamare le cose col loro nome, sarebbe puramente e semplicemente la proposta di una doppia imposizione.

Imperocché io non ho, astrattamente parlando, niente in contrario all’imposizione degli enti collettivi, ma ho invece una repugnanza molto precisa alla doppia imposizione. E volevo dire che, quando io ho votato tutte le aliquote che ho votato a carico delle persone fisiche, sono partito proprio dal presupposto che l’imposta sul cespite era quella, e non che ce ne sarebbe stata dopo un’altra sul medesimo cespite.

PRESIDENTE. Quindi voterà contro?

FABBRI. Non basta il fatto ch’io possa attenermi alla norma di votar contro: mi preme di chiarire che questa situazione logica opposta a quella dell’onorevole Scoccimarro è, secondo me, legittima da parte mia, poiché aveva a base il presupposto di un disegno di legge che è stato discusso, mentre invece l’onorevole Scoccimarro avrebbe avuto per presupposto una notizia di carattere riservato.

SCOCCIMARRO. Commissione di finanza! Non era riservata!

FABBRI. Questo ho voluto chiarire e poi integrerò le mie dichiarazioni in merito, se sarà il caso.

PRESIDENTE. Ha facoltà di parlare l’onorevole Ministro.

PELLA, Ministro delle finanze. Ho chiesto all’onorevole Presidente e chiedo alla vostra cortesia di poter dedicare qualche minuto al riepilogo di tutta questa complessa questione che stiamo per affrontare, soprattutto per dimostrare che da parte del Governo non vi è stata nessuna deviazione rispetto alle sue impostazioni iniziali del problema e rispetto agli affidamenti che ha avuto occasione di dare durante la discussione.

Non sarebbe la prima volta che dimostrazioni di buona volontà possono prestare il fianco a malintesi. Ricordo che durante il precedente Governo, quando si è discusso il decreto sull’imposta straordinaria del patrimonio, dinanzi alla Commissione parlamentare di finanza è stata sollevata per la prima volta la questione degli enti collettivi, questione che si è profilata in misura e con caratteristiche diverse da quella che era la questione così come considerata nella imposta patrimoniale del 1922. Poiché non sarà mai abbastanza ricordato – a scopo di chiarimento – che nella legge del 1922 vi erano, sì, degli enti collettivi tassati, ma questi non erano le società commerciali, non erano le Opere pie, non erano gli enti ecclesiastici; erano invece gli enti appartenenti ad una zona residuale, così come risultava dopo che si erano tolte le diverse esenzioni contemplate dalla legge. Nella Commissione parlamentare di finanza la questione si è presentata con carattere più ampio (ricordo che il precedente progetto dell’onorevole Scoccimarro in materia aderiva in sostanza alla linea della legge del 1922), in funzione di un duplice ordine di considerazioni. Da una parte considerazioni di natura scientifica che portavano ad affermare l’esistenza di una capacità contributiva degli enti collettivi indipendente, separata capacità contributiva che si affianca o magari si sovrappone a quella della singola persona fisica appartenente a quel determinato ente collettivo. Dall’altra parte, una considerazione d’ordine empirico, se così vogliamo chiamarla, determinata dalla preoccupazione che attraverso al frazionamento – e qui si mirava soprattutto alle società azionarie – dei titoli fra molte mani, potesse avvenire che larghe zone del patrimonio di queste società finissero per non subire il peso dell’imposta, in quanto afferenti a titolari di patrimoni inferiori al minimo imponibile.

Innanzi a questo duplice ordine di considerazioni, il Governo di allora, in persona del Ministro del tempo, ed anche in persona del Sottosegretario di allora che oggi ha l’onore di parlarvi, eccepì soprattutto, per quanto riguardava la teoria della capacità contributiva delle società, indipendente dalla capacità contributiva del singolo, che questa rappresentava un concetto su cui neppure la dottrina era concorde, ma che malamente sarebbe stata assimilata dalla opinione pubblica. Infatti, se è vero che esiste per le grossissime società la posizione dell’azionista che si sente distante dalla società e che quindi non sentirebbe soggettivamente una duplicazione se si tassasse contemporaneamente, ad esempio, il patrimonio della società e quello dell’azionista, per le azioni possedute, questo certamente non avviene per la zona delle medie e piccole società, nelle quali sarebbe vivamente sentita la doppia imposizione. Sorse quindi la difficoltà di trovare una soluzione pratica, di trovare un limite di demarcazione al di là del quale non sarebbe stato necessario procedere a un procedimento di compensazione nella tassazione rispettiva delle società e dei singoli. Nel corso delle discussioni affiorò il concetto dell’opportunità di impostare il problema sotto un altro aspetto. Vi era da tempo sul tappeto un problema di tassazione delle rivalutazioni delle società commerciali, problema sorto in dipendenza del processo di svalutazione monetaria iniziatasi nel 1940 e, speriamo, definitivamente concluso.

Or bene, attraverso a queste svalutazioni monetarie si sono create, nel patrimonio delle società, determinate plusvalenze rispetto a impostazioni di bilancio. Questo plusvalenze rappresentano in molti casi una parte preponderante del patrimonio sociale, per cui impostare il problema della tassazione delle rivalutazioni significava impostare quello di una tassazione suppletiva del patrimonio delle società commerciali e industriali. Ritenne il Governo del tempo che fosse via più tecnicamente corretta procedere alla tassazione di tali rivalutazioni con questo criterio: il complesso delle rivalutazioni, delle attività di bilancio porta, con l’applicazione di determinati coefficienti, su cui naturalmente lungo potrebbe essere il discorso, al manifestarsi di un valore dell’attivo largamente superiore a quello risultante dalle impostazioni di bilancio. Questo valore, che rappresenta la plusvalenza conseguente al variato metro monetario dei beni rispetto alla impostazione di bilancio, grosso modo può avere una triplice origine: o sono beni che dipendono dall’investimento di un capitale proprio della società ed in tal caso il maggior valore dei beni dipendente dalla svalutazione monetaria non è che il corrispettivo della rivalutazione del capitale versato dagli azionisti o delle riserve palesemente costituite e che già hanno scontato l’imposta. In questo caso ci troviamo non davanti a un incremento reale, ma davanti a un incremento puramente nominale. Questa zona di rivalutazione avrebbe dovuto essere colpita con criteri più moderati ed in relazione all’uso che la società avesse inteso di farne. Ma vi sono altre due zone di rivalutazione dell’attivo, le quali hanno una fisionomia tutta diversa, perché o dipendono dall’investimento in beni reali di capitali presi in prestito dalla società, o dipendono dall’investimento di riserve occulte della società. Nel primo caso, si tratta di investimento di danaro preso a prestito in lire buone e restituito in lire meno buone e pertanto la rivalutazione riguarda e costituisce un incremento reale che la società ha potuto conseguire a spese dei propri debitori; nel secondo caso trattasi di conversione in riserve palesi di quelle che erano riserve occulte. Nell’uno e nell’altro caso, secondo il sistema tributario attuale ci troviamo davanti a incrementi patrimoniali, che ancora non hanno sopportato un tributo né in via ordinaria né in via straordinaria. Questa, ad avviso del Governo di allora, era la zona su cui effettivamente si sarebbe potuto prelevare un tributo senza incappare nella eccezione della doppia imposizione. Ed era per questo che il Governo di allora assunse l’impegno di presentare un provvedimento che colpisse le rivalutazioni. Questo concetto fu accolto dalla Commissione di finanza a maggioranza e la Commissione all’unanimità invitò il Governo a presentare il progetto. Sopravvenuta la crisi, ho avuto l’onore di consegnare in via breve alla Commissione parlamentare il testo del progetto che era stato allora elaborato. La mia consegna aveva esclusivamente questo scopo: di dare la dimostrazione documentale che l’affermazione della esistenza di un progetto corrispondeva a verità. Successivamente le conversazioni attorno alla tassazione degli enti collettivi ripresero e molti contatti ebbero luogo fra Governo, Commissione parlamentare e Comitato ristretto della Commissione parlamentare. Dimostrazione di buona volontà da parte del Governo, non impegni in senso costituzionale da parte del Governo, il quale subito fin dall’inizio, affermò che qualora l’Assemblea avesse fatto prevalere il concetto della tassazione degli enti collettivi, il Governo avrebbe dato tutta la sua collaborazione affinché questo concetto ricevesse l’espressione concreta in sede legislativa la più sollecita possibile. Ed è in questo senso che fu predisposto anche un progetto di tassazione degli enti collettivi, che è stato nella sua dizione definitiva consegnato stamane, sempre in via breve e con lo stesso significato, alla Commissione parlamentare di finanza. Il nuovo progetto parte dal concetto di applicare una moderata aliquota con criterio proporzionale su tre categorie di enti collettivi: le società azionarie, le società di persone (accomandita semplice e collettiva), gli enti morali che svolgono una attività lucrativa.

In questo progetto si è avuto cura di esentare dal tributo tutto ciò che non significasse attività lucrativa, intesa questa attività come quella che appartiene alla zona della categoria B, in sede di imposta di ricchezza mobile, cioè il settore dell’attività industriale e commerciale. Sono escluse quindi le società immobiliari e gli enti possessori di un patrimonio immobiliare, in quanto proprio in questo campo occorre ricordare le osservazioni già fatte, che la tecnica dell’applicazione della legge sull’imposta straordinaria porterà a valutazioni così drastiche per cui il settore immobiliare, appartenga esso ai contribuenti individuali o ad enti collettivi, non potrebbe sopportare una tassazione suppletiva.

Diversa è la posizione nel settore dell’economia industriale e dell’economia commerciale. Qui difficilmente troveremmo ragioni di ordine sistematico, di ordine scientifico per superare l’eccezione della doppia imposizione. Però, se discendiamo dalla sfera del sistema e della teoria pura, per prendere contatto con quella realtà che tante volte è meno simpatica di come vorremmo trovarla, ma rappresenta una fatalità di cui dobbiamo tener conto, un duplice ordine di considerazioni è possibile di fare:

1°) io non so se sia vero – ma potrebbe anche esserlo – che nonostante la buona volontà del legislatore, nonostante la buona volontà dell’organo esecutivo, la tassazione del settore terriero e quella del settore edilizio finiscono per essere fatte in modo più rigoroso di quello che si segue per la tassazione del settore industriale e del settore commerciale. Se questo fosse vero (e lo abbandono al vostro giudizio), la tassazione suppletiva degli enti collettivi per questa zona avrebbe una funzione di integrazione dell’imposta straordinaria progressiva sul patrimonio;

2°) (ragione di ordine pratico). Si tratta di una zona che certamente ha conseguito dei redditi negli anni scorsi, redditi che si è cercato di colpire con i tributi ordinari e con i tributi straordinari. La buona volontà dei Ministri che si sono succeduti (e non può essere messa in dubbio la buona volontà di eminenti colleghi che mi hanno preceduto) ha cercato in tutti i modi di colpire queste zone con l’imposta sul reddito, ma la tecnica dell’accertamento, ben nota agli onorevoli colleghi, arriva con un certo ritardo a colpire queste zone di reddito. Perciò questa tassazione degli enti collettivi potrebbe rappresentare una seconda volta uno strumento di perequazione, che consentirebbe di assorbire, attraverso un tributo sul capitale, quanto per avventura non è stato assorbito con lo strumento dell’imposta suo reddito. Per questo ritengo che, qualora l’Assemblea accedesse all’ordine di idee della tassazione degli enti collettivi, si potrebbero forse sottolineare queste due ragioni di ordine pratico che permetterebbero di superare quella eccezione di duplicazione, che certamente rende perplessi parecchi degli onorevoli colleghi.

Se si accede all’ordine di idee della tassazione degli enti collettivi con questo tributo proporzionale addizionale, io pregherei l’Assemblea – ed in tale senso è il progetto predisposto dal Governo – di aggiornare la disciplina delle rivalutazioni.

Voi sapete che la disciplina attuale presta il fianco a critiche ed osservazioni. Oggi ci troviamo davanti a possibilità di rivalutazioni secondo coefficienti che presuponevano il dollaro al cambio di cento lire. Ma sovratutto – secondo ordine di critiche – l’attuale disciplina aveva lasciato la porta aperta alla utilizzazione di residui di valutazione, secondo le leggi monetarie del 1927 e del 1936, senza obbligo di pagare alcun tributo, alcun pedaggio fiscale; poiché il venticinque per cento oggi esistente, non riguarda i residui di rivalutazione ancora possibili rispetto alle leggi monetarie del 1927 e del 1936. Evidentemente di tutto questo non può essere fatta colpa al Governo in carica, il quale però si è preoccupato e di chiudere questa porta e di dare una disciplina più aggiornata alle possibilità di rivalutazione, secondo l’attuale corso del dollaro, 225.

Ed è per questo che troverete nel progetto alcuni articoli che autorizzano ad adeguare le poste dell’attivo secondo un coefficiente di rivalutazione, che è ragguagliato al dollaro 225, ma entro il limite invalicabile della rivalutazione del capitale proprio e delle riserve palesi delle società, affinché queste rivalutazioni siano veramente e soltanto quelle, che economicamente rappresentano ombra e non cosa certa. Nessuna possibilità di rivalutazione per l’attivo eccedente la rivalutazione del capitale sociale e delle riserve, perché in questo caso noi creeremmo una zona di franchigia per la successiva applicazione dell’imposta di ricchezza mobile – categoria B. Per la rivalutazione, contenuta in questi limiti, noi contempliamo, qualora siano utilizzate in aumento di capitale, il pagamento di un altro quattro per cento. Però l’utilizzo ad aumento di capitale non può avere luogo sotto forma di azioni gratuite; può aver luogo soltanto sotto forma di aumento del valore nominale delle azioni. I tecnici della materia, che conoscono i riflessi psicologici della consegna d’un nuovo titolo, afferrano tutta la portata di questa limitazione. Ed affinché non si verifichi che, dopo aver tenuto un’assemblea, che aumenta il valore nominale, un’altra se ne possa tenere che deliberi il frazionamento dei titoli, si stabilisce che, per la durata di un anno, non possa aver luogo il frazionamento dei titoli, aumentati in dipendenza della rivalutazione.

Queste le linee generali del progetto.

Ora, onorevoli colleghi, un Governo che ha predisposto i due progetti – l’uno per la tassazione delle rivalutazioni; l’altro per la tassazione degli enti collettivi – io penso che debba essere dispensato da un giudizio severo, penso che gli si possa dare il riconoscimento di una buona volontà dimostrata per apprestare tutto il materiale necessario e sufficiente per dar seguito alla volontà dell’Assemblea.

La scelta dell’una, piuttosto che dell’altra strada, è di competenza dell’Assemblea.

Per queste considerazioni, che si riallacciano al senso di ossequio e di deferenza che il Governo ha verso l’autorità dell’Assemblea, attendiamo da voi, onorevoli colleghi, di sapere qual è la strada preferita. Una volta fatta la scelta, il Governo sarà a completa disposizione, perché gli articoli relativi trovino una immediata inserzione nel disegno di legge che stiamo discutendo. (Applausi al centro).

SCOCCIMARRO. Vorrei chiedere all’onorevole Ministro se il Governo ha una sua opinione in merito. Quale delle due vie preferisce seguire?

PELLA, Ministro delle finanze. Ritengo di aver risposto già in precedenza. Il Governo ritiene di non dover esprimere un suo pensiero ufficiale sulla questione di massima. Esso però ha dato la dimostrazione di esser pronto a seguire l’una e l’altra via. Non è a questa Assemblea che si possa fare il torto di desiderare di essere scaricata da questa responsabilità. Sono sicuro che l’Assemblea questa responsabilità della scelta l’assume volentieri. (Applausi al centro – Rumori a sinistra).

SCOCCIMARRO. Il Governo non è un organo tecnico; è organo politico e deve portare qui il suo giudizio sulla opportunità di scegliere l’una o l’altra via.

Una voce a destra. La terza via!

SCOCCIMARRO. La terza via è di non far niente. (Rumori al centro).

DUGONI. Chiedo di parlare.

PRESIDENTE. Ne ha facoltà.

DUGONI. Ho chiesto la parola proprio per esprimere la mia meraviglia e la meraviglia del nostro gruppo di fronte alla posizione presa dal Governo nel problema della tassazione degli enti collettivi. La parte storica, che è stata presentata così abilmente dal Ministro Pella, prova – se ce ne fosse bisogno – quale deviazione continua ci sia stata nel pensiero del Governo in questa materia. Il Governo prima ci ha parlato di tassazione delle rivalutazioni, poi si è venuti al concetto di tassare gli enti nell’ambito della legge sulla imposta patrimoniale. Ieri, di nuovo, ci siamo trovati di fronte ad un brusco voltafaccia del Governo, che ha detto all’Assemblea che non aveva più nessun pensiero. Cioè noi dobbiamo pensare che il Governo, che dovrebbe essere alla testa della Nazione, di fronte ad un problema così grave come quello della tassazione degli enti collettivi non ha un proprio pensiero. Mi chiedo se questo è un Governo o cosa è. (Applausi a sinistra – Rumori al centro).

Una voce a sinistra. Non è un Governo. (Rumori al centro).

EINAUDI, Vicepresidente del consiglio dei Ministri, Ministro del bilancio. Chiedo di parlare.

PRESIDENTE. Ne ha facoltà.

EINAUDI, Vicepresidente del Consiglio dei Ministri, Ministro del bilancio. Io mi associo completamente alle dichiarazioni che ha fatte il mio collega delle finanze (Commenti a sinistra) intorno ai propositi del Governo di lasciar libera l’Assemblea sulla decisione che deve prendere in questa materia delicata. Credo che parecchi dei miei colleghi abbiamo già compreso che le esitazioni che esistono su questo banco in materia di tassazione degli enti collettivi e di tassazione delle rivalutazioni rimontano alla mia persona e io ho il dovere di dire all’Assemblea le ragioni delle mie esitazioni e dei miei dubbi; libera l’Assemblea di dare il giudizio che riterrà in proposito opportuno. Credo utile che l’Assemblea conosca i motivi di questa mia esitazione.

Se avessi potuto in qualche modo persuadermi che la tassazione degli enti collettivi, in questa sede, ha un qualche fondamento, non avrei dubitato. Se io esito, in questa materia, è perché le argomentazioni che sono state presentate qui ed altrove, sono argomentazioni le quali – ai miei occhi – non hanno valore.

Non da oggi io sono di questa opinione: da decenni ho sempre combattuto la tesi avversaria. Mancherei quindi al mio dovere morale se, in questo momento, io non esponessi, per lo meno, la mia opinione.

Quali sono le ragioni dei miei dubbi in questa materia?

Una voce a sinistra. La Confindustria!

EINAUDI, Vicepresidente del Consiglio dei Ministri, Ministro del bilancio. Non la Confindustria, perché non esisteva, quando trenta anni fa io cominciai a scrivere in questa materia. E credo che molti in quest’Aula sanno che le mie opinioni non derivano da nessuno. (Vivi applausi al centro). In questa materia sono persuaso che non bisogna ascoltare nessuno, salvo la propria coscienza.

Ora, quali sono le ragioni che sono state addotte, a favore della tassazione degli enti collettivi?

Ve ne è una che credo che in quest’Aula non sia stata ancora ricordata; una motivazione che ha avuto un’enorme diffusione in molti paesi stranieri e si intitola al nome dell’economista forse più celebre dei tempi moderni, il Keynes.

Secondo questa concezione, gli enti collettivi – sopratutto le società per azioni – dovrebbero essere tassati a parte, nei paesi dove li tassano, allo scopo di impedire ad essi di accumulare riserve esenti da imposte.

La argomentazione non è valida legalmente per il nostro paese, in quanto che – come tutti sanno – l’imposta di ricchezza mobile non colpisce il reddito distribuito agli azionisti, ma colpisce invece l’intero reddito prodotto, sia esso distribuito, sia esso mandato a riserva.

In altri paesi, dove il reddito tassato è il reddito distribuito, c’è una falla nella tassazione: non è invero soggetta all’imposta normale, quella che si chiama qui in Italia l’imposta di ricchezza mobile, la somma mandata a riserva. Epperciò, in quei paesi si dice che occorre istituire una imposta speciale per le società per azioni, allo scopo di tassare le somme mandate a riserva, e si ritiene che ciò debba accadere perché si crede – da coloro che sono fautori di questa norma – che il mandare somme a riserva, ossia il fare un risparmio di carattere societario collettivo, sia uno dei delitti capitali della società moderna. Si ritiene da costoro che le crisi economiche, che ogni tanto si verificano nel mondo, siano dovute all’eccessivo risparmio.

Io non voglio giudicare se questa teoria o tesi sia vera o falsa. È un qualche cosa che non ci interessa, né dal punto di vista giuridico, perché la nostra legge d’imposta tassa già le somme mandate a riserva; né dal punto di vista economico, poiché nessuno dubita qui, in questa Assemblea, che nel momento presente e nel nostro paese il mandare somme a riserva, il risparmiare non sia una delle necessità più impellenti del momento. È necessario mandare somme a riserva, allo scopo di compiere la ricostruzione di ciò che è stato distrutto dalla guerra.

Discuteremo dopo, discuteranno coloro che saranno qui fra quattro o cinque anni, quando tutto sarà ricostruito in Italia, discuteranno allora, essi, se sia conveniente favorire o non favorire il risparmio e mandare somme a riserva. Credo che nel momento presente la questione sia di fuori dalla realtà, ché oggi nessun dubbio può sussistere che, se una scelta deve essere fatta verso l’incoraggiare o lo scoraggiare il risparmio e l’inviare somme a riserva, il dubbio deve ricevere soluzioni nel senso per lo meno di non scoraggiare.

Una tassazione, quindi, la quale si fondi su questo motivo, non si può dire abbia un fondamento logico e reale, oggi.

Un secondo motivo che può spiegare una tassazione particolare degli enti collettivi fu già ricordato in questa seduta da parecchi oratori ed anche dal mio collega delle finanze; e consiste in una asserita maggiore capacità contributiva delle società per azioni, in confronto alle imprese private individuali ed anche alle imprese collettive minori.

Ciò è esatto. Nessuno si sognerebbe infatti di costituire una società per azioni, se cosiffatta maniera di società non fosse lo strumento utile per poter incrementare il reddito di coloro che attendono ad operazioni economiche. Se questo non fosse il risultato previsto, la costituzione di una società per azioni sarebbe un qualche cosa di veramente irrazionale.

La premessa è dunque indiscutibile: ma, da questa premessa, che cioè la società per azioni sia uno strumento di produzione di maggior reddito, non discende l’illazione che le società per azioni possano essere soggette a tassazioni particolari. Se è vero, come io ritengo che sia vero, ove le cose procedano razionalmente, che l’effetto è quello sopra enunciato, questo effetto che le società per azioni hanno di incrementare il reddito o di incrementare il patrimonio netto delle società, trova necessariamente la sua espressione visiva nel reddito delle azioni appartenenti agli azionisti e nel valore – e noi qui particolarmente guardiamo ai valori patrimoniali – nel valore, dicevo, delle società stesse.

La argomentazione serve quindi soltanto a dimostrare che il valore capitale delle azioni ammesse alla società per azioni o il valore capitale delle carature delle altre società, viene ad incrementarsi appunto per la capacità di reddito che hanno le società. Ma questo eventuale maggior valore capitale noi lo tassiamo già con la imposta progressiva sul patrimonio degli azionisti. La tassazione ulteriore degli enti collettivi sarebbe evidentemente, se dovuta a questo motivo, un bis in idem.

Una terza argomentazione che anche qui è stata ricordata – ed è un’argomentazione pratica, concreta – è quella che si riferisce alla maggiore possibilità che hanno i patrimoni mobiliari, che sono soprattutto quelli dai quali traggono vita le società per azioni, di essere sottovalutati ai fini dell’imposta patrimoniale progressiva, in confronto ai patrimoni immobiliari terrieri od edilizi.

Si dice cioè: ciò che in pratica succede è che i patrimoni consistenti in terreni ed in case sono valutati, ad esempio, cento e l’imposta patrimoniale progressiva straordinaria li colpisce su cento, mentre invece i patrimoni mobiliari sono tassati soltanto, di fatto, a causa dell’imperfetto funzionamento del nostro sistema tributario ordinario, su qualche cosa di meno di cento, supponiamo su 70 o 80.

È quindi corretto che vi sia questa speciale imposta sugli enti collettivi, la quale ripari alla, per così dire, dimenticanza della finanza in sede di imposta straordinaria progressiva sul patrimonio. È un espediente che si adotta allo scopo di raggiungere la parità di trattamento tra i contribuenti immobiliari e i contribuenti mobiliari.

Alla tesi io contrappongo qualche osservazione che, ripeto, credo sia anch’essa concreta. Se la tesi è valida, essa vale per tutti i contribuenti mobiliari, e non soltanto per quei contribuenti i quali hanno la forma della società per azioni o delle altre società che sarebbero tassate in sede di tassazione particolare degli enti collettivi. Se la argomentazione è valida, essa si riferisce anche ai commercianti e agli industriali individuali, alle imprese individuali e, anzi, si riferisce con tanto maggior ragione a questi, poiché, se c’è una qualche sperequazione, la sperequazione opera massimamente a vantaggio dei contribuenti individuali, i quali non sono soggetti a quegli obblighi di tenere libri, di compilare bilanci, ecc., che sono certamente, nel campo delle società per azioni, un aiuto per la finanza per conoscere meglio il reddito imponibile e i valori capitali.

L’argomentazione è dunque troppo ampia perché possa essere applicata soltanto ad un gruppo di contribuenti. L’argomentazione porterebbe a stabilire un’altra imposta, la quale, per controbilanciare il maggiore peso della tassazione dell’imposta straordinaria progressiva sui patrimoni immobiliari, colpisca con un supplemento ulteriore i patrimoni mobiliari. Io non so se l’Assemblea voglia porsi su questa via; e prima di porsi su questa via, io desidererei che essa riflettesse un poco a ciò che è il significato morale dell’argomentazione medesima. In sostanza, quando noi diciamo: «Tu contribuente frodi la finanza, poiché la tua tassazione è fatta su basi più basse di quelle sulle quali sono fatte le tassazioni dei contribuenti proprietari di terreni e di case; e frodando tu la finanza, perché sei tassato o collabori a questa minore valutazione della tua sostanza, tu frodi, se non intenzionalmente, almeno di fatto; e poiché tu frodi noi ti facciamo pagare una seconda volta o ti facciamo pagare il 10 invece che il 5 percento, il 20 invece del 10 per cento», noi veniamo a legittimare la frode. Non è morale, non è onesto dire ad un contribuente: «Tu sei frodatore; e poiché sei frodatore, io aumento l’aliquota d’imposta a tuo carico»: poiché il contribuente che si sente fare questo discorso ha diritto di dire: «Tu, Stato, legittimi la mia frode, perché la accogli già fin dal principio; poiché già fin dall’inizio ammetti, riconosci, sovratassandomi in maniera che sarebbe ingiusta se io non frodassi, che io sia tassato su una base minore di quello che non sia la base degli altri contribuenti». I contribuenti possono replicare: «Fa il tuo dovere, tu, finanza: accerta l’intiero reddito o l’intiero valore, ma non parlare di frode, non legittimare la frode; non falsare il sistema tributario; non aumentare a torto le aliquote, le quali possono colpire anche i contribuenti che, pur trovandosi nella medesima mia categoria, sono stati tassati sull’intiero valore del loro patrimonio».

Io credo, quindi, che questa sia un’argomentazione pericolosa. Lo abbiamo visto di fatto in altre circostanze quanto sia pericolosa la argomentazione dell’aumentare le aliquote delle imposte per taluni contribuenti, perché si suppone essi frodino la finanza. Essa ha portato ad esagerazioni di enormi aliquote a carico di certi contribuenti nelle categorie B e C, dell’imposta di ricchezza mobile, perché i contribuenti di categoria D, ossia i dipendenti dello Stato e degli altri enti pubblici, dicevano sempre: «Noi paghiamo l’imposta di ricchezza mobile sull’intero ammontare del nostro stipendio. Neppure una lira del nostro stipendio sfugge all’imposta». (Interruzioni a sinistra).

GULLO FAUSTO. Onde una aliquota minore e una presunzione di frode dello Stato rispetto ai professionisti.

EINAUDI, Vicepresidente del Consiglio dei Ministri, Ministro del bilancio. Lo Stato, appunto in considerazione di questa presunzione di frode fatta a carico dei professionisti, e non solo a carico dei professionisti ma anche degli impiegati privati e degli industriali e dei commercianti privati, ha aumentato sempre di più l’aliquota e l’ha aumentata in maniera scorretta, perché io dico che, se i contribuenti fanno il loro dovere, l’aliquota che colpisce i professionisti dovrebbe essere minore di quella che colpisce gli impiegati, ché il reddito degli impiegati è un reddito, a parità di somme (qui si parla sempre a parità di somme), costante che si percepisce in tutti i mesi dell’anno, che può essere riscosso anche durante i mesi di malattia e può dar luogo a pensioni…

Una voce a sinistra. Pensioni di fame!

EINAUDI, Vicepresidente del Consiglio dei Ministri, Ministro del bilancio. …mentre il reddito dei professionisti è incostante, non si percepisce in tempi di malattia e non si ottiene quando si è vecchi e si deve abbandonare il lavoro. Quindi, se si volesse fare giustizia vera, se l’aliquota dell’imposta sugli impiegati è dell’8 per cento, l’aliquota dell’imposta sui professionisti dovrebbe essere del 4 per cento, non del 16.

Io ricordo che tanti anni fa (credo che l’onorevole Corsi si sia recentemente ricordato di queste mie dimostrazioni) ho sostenuto la tesi che per togliere di mezzo questo argomento, il quale faceva sì che le aliquote dell’imposta di ricchezza mobile a carico delle categorie dei professionisti e degli industriali fossero aumentate troppo, occorreva esentare gli impiegati dello Stato da ogni e qualsiasi imposta di ricchezza mobile, così da togliere occasione al ripetersi di questo argomento. Ed ho avuto la soddisfazione, che per altre ragioni (ed anche allora dicevo che il momento di introdurre l’immunità degli stipendi degli impiegati pubblici dall’imposta sarebbe venuto quando si fosse dovuto aumentare il loro stipendio) il presente governo ha esentato i redditi degli impiegati, dando ad essi praticamente un aumento di stipendio. L’imposta sui redditi degli impiegati era del resto pura forma, non sostanza. Tutti gli impiegati sapevano fino a ieri che quando ricevevano uno stipendio di cento lire, non ricevevano cento lire ma 92 lire e nessuno si occupava del lordo. Dovendosi aumentare lo stipendio, è stato meglio abolire la ricchezza mobile e togliere così l’imbarazzo di una infinità di scritturazioni contabili che non rendevano un centesimo allo Stato, aumentavano il malcontento degli impiegati, e fornivano causa ad aggravamenti odiosi e dannosi di imposta a carico di altre categorie di contribuenti.

L’argomento della differenza di severità nell’accertamento non può dunque essere invocato, perché è un argomento che in materia di finanza non è morale. La finanza se vuole dare buoni risultati economici, se vuole condurre le imposte al massimo di rendimento, deve soprattutto osservare principî morali, non deve basarsi su ipotesi e presunzioni di frode da parte del contribuente. La finanza deve procedere dritto, tassare il contribuente per quello che ha e punirlo il giorno in cui scopre che egli ha occultato una parte del suo reddito. E le punizioni devono essere esemplari, non soltanto costituite da multe, le quali possono essere anche obliterate e condonate.

L’argomento fondamentale a proposito della tassazione degli enti collettivi è però, in sostanza, tolto di mezzo questo preliminare apparato ingombrante di falsi ragionamenti, quello delle rivalutazioni.

Nell’attuare la perequazione tra i contribuenti, si possono adottare avvedimenti utili a facilitare il calcolo del reddito. Si possono adottare criteri di stima fondati sul reddito medio, su coefficienti presuntivi; ma debbono essere criteri e coefficienti uguali per tutti.

In questo argomento delle rivalutazioni c’è qualche cosa che è serio e qualche cosa che serio non è.

Rivalutazioni: che cosa vuol dire? Se una legge dello Stato dicesse ad esempio che il metro è lungo 10 centimetri soltanto, il legislatore avrebbe perfettamente ragione di dire ciò: è in suo arbitrio di dirlo. Improvvisamente, ad esempio, io che sono alto 1,67 di altezza diventerei alto 16 metri e 70.

Sarebbe questa una buona ragione perché qualcuno mi dicesse: dammi una parte di quello che ti avanza, dell’incremento di altezza tua; dammi un pezzo di piede, dammi la testa? Tutti vediamo che questa è un’argomentazione priva di valore. Or bene, in tema di rivalutazioni bisogna distinguere fra ciò che è apparenza e ciò che è realtà. C’è dell’apparenza e c’è della realtà. Comincerò a dire ciò che è apparenza per passare poi a quello che è realtà.

L’apparenza è il cambiamento di nome monetario dato alle stesse cose che erano possedute dagli enti, sia privati che collettivi. Non c’è a questo riguardo nessuna differenza fra enti privati e collettivi. Siamo qui in materia di enti collettivi e si discorre di enti collettivi, ma l’argomentazione è valida per tutti. Quando una macchina, supponiamo una rotativa, la quale un tempo poteva essere acquistata per un milione di lire, in virtù della svalutazione monetaria viene a valere 100 milioni, io dico che qui c’è una variazione puramente nominale: non c’è nessuna variazione sostanziale nel patrimonio del contribuente; è la stessa rotativa che adempie ai medesimi fini di prima e che ha un altro nome monetario. È lo Stato il quale ha variato il metro monetario e invece di adoperare una lira lunga adopera una lira corta per misurare i valori e adoperando una lira corta quelle stesse attività patrimoniali le quali valevano uno vengono poi a valere venti, trenta, cinquanta e anche cento a seconda dell’epoca alla quale possiamo far risalire la variazione del metro monetario.

Se ci riferiamo all’ultima guerra diremo che il coefficiente sarà, ad esempio, 40; se ci riferiamo all’epoca anteriore al 1914 diciamo che il metro monetario è una centesima parte, o anche meno, di quello che era prima. Questa variazione monetaria è puramente nominale, apparente, e non muta nulla alla ricchezza ed alla capacità contributiva del contribuente. Ma, appunto per questo, una tassazione delle rivalutazioni apparenti del patrimonio proprio del contribuente – mi riferisco a tutti i contribuenti in generale – è senza fondamento logico, senza fondamento economico.

CRISPO. Intanto l’abbiamo già votata.

EINAUDI, Vicepresidente del Consiglio dei Ministri, Ministro del bilancio. Quella che ha fondamento è un’altra rivalutazione: una diversa rivalutazione. Vi ha già accennato il mio collega delle finanze. Supponiamo che, invece di lavorare con capitali proprî, il contribuente abbia lavorato con capitali altrui presi a prestito; supponiamo che la stessa azienda giornalistica che aveva comperato la rotativa per un milione di lire tanti anni fa, l’avesse acquistata contraendo un debito di un milione di lire: adesso, quell’azienda giornalistica si trova a possedere una rotativa la quale vale cento milioni. Ma poiché il capitale con cui aveva comperato la rotativa non era suo – era di un altro – quel contribuente ha ottenuto un vero guadagno. Qui c’è una rivalutazione non apparente, ma una rivalutazione effettiva, una rivalutazione reale. E questa è vera materia di imposta: c’è un guadagno effettivo, un arricchimento sostanziale in confronto al patrimonio reale precedente.

Distinguiamo perciò tra quelle che sono le rivalutazioni nominali apparenti e quelle che sono le rivalutazioni reali, perché si riferiscono a beni che sono stati comperati prendendo a prestito la somma. In questo caso, giustizia astratta, piena, che cosa vorrebbe? Vorrebbe che i 99 milioni di differenza che sono stati appropriati dall’azienda giornalistica che ha comperato, facendo dei debiti, quella rotativa che oggi vale 100 milioni, fossero restituiti ai legittimi proprietari, ai creditori che hanno dato il danaro a prestito.

Il problema si è presentato infinite volte. Anche dopo la prima guerra mondiale si era presentato, sopratutto nei paesi a larga svalutazione come la Germania; non solo è stato discusso, ma ha dato luogo a provvedimenti legislativi di restituzione parziale a coloro che erano stati danneggiati dalla svalutazione monetaria. Bisogna riconoscere che in questa materia è molto difficile, quasi impossibile, nella maggior parte dei casi, andare rintracciando quei tali creditori i quali avevano dato a mutuo la somma al debitore che si è in questa maniera arricchito. Se si trattasse di transazione recentissima, la restituzione sarebbe pensabile; ma se si tratta di transazione non recentissima, il margine di errore sarebbe molto grande. Quando il tempo trascorso è lungo, l’arricchimento è avvenuto a carico di creditori che sono morti, che hanno venduto le ragioni di credito; ci sono stati trapassi per cui resta quasi impossibile rintracciare il vero danneggiato. In questo caso può intervenire lo Stato e dire: in questa materia di rivalutazioni sostanziali c’è un vero lucro, c’è un vero arricchimento di taluni contribuenti; non potendo andare a rintracciare e conoscere coloro i quali sarebbero i veri proprietari della somma che è andata a favore di taluni e a danno di altri, io, Stato, mi approprio di una parte dell’arricchimento. Orbene, qui mi tocca ricordare un’altra massima fondamentale tributaria: se le imposte vogliono essere imposte giuste, imposte corrette, non solo devono soltanto colpire tutti gli arricchimenti, solo e tutti gli arricchimenti effettivi e sostanziali, ma li devono colpire quando essi siano realizzati. È la massima fondamentale della nostra imposta di ricchezza mobile fin dal 1864; è la massima sulla quale riposa tutta la tassazione mobiliare, cioè tassare i redditi, gli arricchimenti che abbiano trovato la loro realizzazione. Se invece andiamo in un altro ordine di idee e tassiamo gli arricchimenti quando essi sono soltanto in potenza, ma non sono stati ancora realizzati, noi diamo la materia tributaria in pasto all’arbitrio; noi tassiamo soltanto la possibilità astratta che in avvenire, vendendosi quei cespiti imponibili, il contribuente realizzi un lucro.

Tutta la nostra legislazione, tutta la nostra giurisprudenza è informata al concetto di tassare questi arricchimenti, ma quando essi si siano realizzati. Cercare un’altra via sarebbe come dire: oggi i prezzi sono tali e tu ti sei arricchito, ma domani i prezzi possono essere diversi, possono essere ribassati, e tu, che non hai venduto, invece di aver guadagnato, hai perduto; ma noi siamo stati accorti e ti abbiamo tassato per tempo, aggiungendo un’altra perdita a quella che ti apprestavi a subire.

Se si tratta di queste rivalutazioni, la nostra legislazione vigente provvede già. È infatti pacifica giurisprudenza nel nostro sistema di imposte di ricchezza mobile che i maggiori prezzi che sono stati ottenuti formino materia di tassazione quando ci sia realizzo, e tutti sappiamo che l’imposta di ricchezza mobile non ha la mano leggiera nelle aliquote.

Possono, oltre alla appropriazione delle rivalutazioni da debiti, esservi altre ragioni di rivalutazioni effettive: da situazioni monopolistiche o da circostanze transitorie, le quali abbiano fatto aumentare il valore di singoli cespiti al di sopra dell’aumento mediamente dovuto alle svalutazioni. Trattasi, a parer mio, di cose non grosse dal punto di vista fiscale; ma in ogni caso ad esse provvede già l’imposta di ricchezza mobile. Riassumendo, la tassazione degli enti collettivi non riposa su alcun fondamento di ragione, o per quel che in essa vi è di corretto fiscalmente, ad essa provvede già pienamente la nostra imposta di ricchezza mobile, che a torto si dimentica, quasi che dal 1844 in poi essa non consentisse di tassare tutti i redditi e tutti gli arricchimenti meritevoli di tassazione.

Questi sono i dubbi che mi hanno angustiato in questi giorni, e mi hanno indotto di esporli all’Assemblea. Era mio dovere esporli, affinché l’Assemblea possa pronunciare il suo giudizio dopo aver ascoltato tutte le argomentazioni pro e contro. Ed è naturale che io mi associ pienamente alle dichiarazioni del collega Ministro alle finanze nel dire che, qualunque sia la deliberazione che vorrà prendere l’Assemblea, io, pur mantenendo la validità, quando non sia confutata da nuove argomentazioni a me ignote, delle mie critiche, mi inchinerò ad essa. (Vivi applausi al centro).

VALIANI. Chiedo di parlare.

PRESIDENTE. Ne ha facoltà.

VALIANI. Onorevoli colleghi. Voglio intrattenervi brevemente su questa questione della tassazione degli enti collettivi, perché sono stato il primo a sollevare la questione nella discussione generale. Devo dare atto al Ministro Pella della sua estrema buona volontà in questa questione e devo ringraziarlo della sua lealtà e della sua fermezza nel difendere sopratutto l’interesse del fisco che è superiore alle considerazioni dottrinarie esposteci dall’onorevole Einaudi e superiore anche agli interessi particolari che premono su questa Assemblea.

L’onorevole Pella ha resistito alle pressioni particolari e voglio dargli atto e ringraziarlo di ciò.

Quanto alla questione dell’una o dell’altra forma di tassazione, evidentemente potevano esserci motivi fondati di preferenza a colpire le rivalutazioni, nel momento in cui il Ministro Campilli venne davanti alla Commissione delle finanze e annunciò il suo progetto chiedendo alla Commissione stessa, la quale stava per orientarsi verso la tassazione degli enti collettivi, di sospendere ogni decisione in merito, inquantoché egli si impegnava a fare approvare in brevissimo tempo dal Consiglio dei Ministri la legge sulle rivalutazioni.

Ora però sono successi due fatti:

1°) Molte rivalutazioni sono già state fatte dopo la seduta del 20 aprile.

2°) Siamo alla fine di luglio, l’Assemblea va in vacanza e il Governo, se non va in vacanza, certamente riposa, e quindi esiste il rischio che la legge sulla rivalutazione finisca con l’essere approvata prima dal Consiglio dei Ministri e poi dall’Assemblea in ottobre, quando ancora altre rivalutazioni saranno state fatte. Di modo che l’interesse del fisco, malgrado gli argomenti di carattere teorico in favore della rivalutazione, non sarebbe salvaguardato nella stessa misura, in cui potrebbe esserlo con la tassazione degli enti collettivi.

Da calcoli sommari, che non sono molto esatti, ma che hanno una certa base di fondamento, con la tassazione degli enti collettivi, secondo lo stesso progetto ufficioso del Ministro Pella, si possono incassare 60 miliardi e forse anche di più; a questo progetto si potrebbero, infatti, apportare alcune modificazioni, che permetterebbero di colpire un po’ di più; ma, anche così com’è, esso dà un introito abbastanza sicuro e cospicuo; mentre il provvedimento sulle rivalutazioni, se giunge con qualche mese di ritardo ancora, rischia di darci molto di meno di quanto avrebbe dovuto dare in aprile. Un provvedimento di rivalutazione, in periodo inflazionistico, e, onorevole Einaudi, noi siamo purtroppo in periodo inflazionistico, anche se Ella, come Governatore della Banca d’Italia, da tre anni si rifiuta di ammetterlo ed agisce come se questo processo inflazionistico non esistesse, dicevo – dunque – in periodo inflazionistico una legge che colpisce le rivalutazioni è sempre un terno a lotto: può dar molto come può dar poco. Secondo gli argomenti esposti dall’onorevole Einaudi, gli accrescimenti di valori nominali non sempre si basano su effettivi accrescimenti di consistenze patrimoniali. Può anche darsi che così sia per la maggior parte dei piccoli e medi industriali, che in generale non sono costituiti in società anonime, e che guadagnano in danaro e perdono in scorte. Questa categoria è interessata però a che si colpisca di più l’altra categoria, la quale viene ad essere soprattutto colpita col provvedimento sulle tassazioni degli enti collettivi.

Non solo; io non conosco, purtroppo, il progetto sulle rivalutazioni, annunciato dall’onorevole Pella. Pur facendo parte della Commissione finanze e Tesoro, non me ne è stata data copia; immagino che l’onorevole Pella l’abbia data a titolo personale al Presidente della Commissione, pregandolo di non comunicarlo ancora alla Commissione stessa, inquantoché il Governo non si era pronunciato.

PELLA, Ministro delle finanze. È esatto.

VALIANI. Nulla da eccepire: non voglio fare nessuna speculazione politica sulla indecisione del Governo. Anzi, gli onorevoli Einaudi e Pella sono stati molto leali nel portare i loro dubbi davanti all’Assemblea. Permettano ora anche ai membri all’Assemblea di controbattere alcuni di questi dubbi e di esporne altri.

Uno di questi dubbi sul provvedimento delle rivalutazioni annunziate dall’onorevole Pella, che evidentemente devo giudicare nelle sue grandi linee, come l’onorevole Pella lo riassunse, riguarda il criterio del dollaro, il quale è considerato non più a cento, ma a 225.

Io ho ascoltato con molta gratitudine l’esposizione dell’onorevole Einaudi, perché ricordo con quanto godimento e interesse leggevo i suoi scritti quando, in prigionia, cercavo di completare i miei studi. Tuttavia, da uomo che ha qualche esperienza pratica, devo dire che uno degli errori più patenti del Governo e del governatore della Banca d’Italia fu di fissare a suo tempo il dollaro a 225, mentre doveva fissarlo a 400 o 500.

EINAUDI, Vicepresidente del Consiglio dei Ministri, Ministro del bilancio. Era giusto a 225, allora.

VALIANI. Io tornavo in quei giorni dall’America, quando ella fissò il cambio del dollaro a 225; il rapporto reale tra i costi di produzione era allora 400-450. Noi scontiamo questo errore. Ci sono grosse società, che noi vorremmo tassare, le quali hanno guadagnato diecine di miliardi, perché hanno ricevut. prodotti in assegnazione ad un cambio e li hanno rivenduti ad un altro, molto più elevato.

Una voce. Prodotti tessili.

VALIANI. Non soltanto tessili. In periodo inflazionistico ognuno cerca di difendere con estremo accanimento i propri interessi. Gli argomenti che l’onorevole Einaudi ha addotti in un recente articolo, a giustificazione del contadino che deve difendere la propria stalla, valgono per tutti. Quando il Governo – non è il caso di giudicarlo per questo – mantiene il corso ufficiale del dollaro a 224 (e quindi nel provvedimento di rivalutazione si tiene conto di questo fatto), è inutile e vano parlare, come fa l’onorevole Einaudi, di giustizia tributaria. Se si tenesse fede alla giustizia tributaria, tutto questo disegno legge sulla patrimoniale bisognerebbe respingerlo. Malgrado che l’onorevole Einaudi abbia più volte sostenuto che si possono pagare le imposte sul patrimonio, l’Assemblea, nella stragrande maggioranza, accetta l’altra tesi, che esse si pagano solo sul reddito e per ciò, nonostante l’esistenza del brillante opuscolo dell’onorevole Einaudi, l’Assemblea – se fosse libera di scegliere – non accetterebbe questo provvedimento come un provvedimento di giustizia tributaria. C’è tutta una serie di tributi che sono oggi ingiusti, come ad esempio quel tre per cento sulle fatture. Quando quel tributo fu congegnato, il Governo del tempo non poteva pensare che la merce avrebbe cambiato quindici volte di mano prima di giungere in mano al consumatore, per cui la gente è costretta a frodare il fisco, perché, evidentemente, non può pagare quindici volte la tassa. È dunque un’imposta che ha una sola giustificazione, cioè il fatto di togliere il massimo possibile di moneta dalla circolazione e di darla al fisco. Se si fosse fatto il cambio della moneta – contro cui si possono pur addurre gli argomenti logici che l’onorevole Einaudi ha addotto – si poteva, con questo mezzo, frenare effettivamente l’inflazione ed allora noi potevamo prescindere dal provvedimento odierno. Ma non si è adottato, e dobbiamo dunque esigere il provvedimento sugli enti collettivi, che potrebbe dare 70 miliardi!

Il provvedimento sulle rivalutazioni non ci dà sufficienti garanzie al riguardo, e per questo mantengo l’emendamento nel quale si chiede la tassazione degli enti collettivi e che questa sia stabilita dall’Assemblea ora, e che, prima del voto finale sulla imposta patrimoniale, questo provvedimento sulla tassazione degli enti collettivi sia incorporato nella imposta stessa, come titolo III.

Onorevoli membri del Governo! Dovete dare atto all’Assemblea ed all’opposizione che è in questa Assemblea, che essa vi ha votato e vi voterà un provvedimento che una opposizione, in tempi normali, non voterebbe, perché è un’imposta molto dura e molto impopolare e sarà tanto più impopolare quanto più si pagherà; e tuttavia sarà pagata.

Bisogna dare atto alla severità dell’onorevole Pella, il quale ha fatto paura alla gente, ed ha fatto bene a far paura (i risultati sono brillanti): vi dico però che un’Assemblea dotata di minor senso di responsabilità non l’accetterebbe ed avrebbe mille ragioni per non accettarlo; voi non avete voluto, infatti, che si desse severa esecuzione ad altre imposte molto più giuste di questa, come quella sui profitti di monopolio realizzali in periodo di guerra, in periodo di autarchia e di occupazione tedesca. Noi voteremo dunque questa imposta, ma il Governo ci deve dare una contropartita, cioè dal momento che un’imposta è votata all’unanimità, o almeno, da una stragrande maggioranza dell’Assemblea, il Governo stesso deve venire incontro al voto di gran parte dell’Assemblea, la quale chiede che su questa strada si vada fino in fondo e che si riscuotano i 60 o 70 miliardi, che possono essere riscossi con la tassazione degli enti collettivi.

Chiedo dunque al Governo di non influenzare il voto dell’Assemblea, ma di lasciare libertà in questo voto. Lo dico come presentatore dell’emendamento, che è stato firmato anche da esponenti di diversi partiti – ci sono tra di essi democratici cristiani e uomini di sinistra – sicché la maggioranza già c’è per approvare la tassazione degli enti collettivi.

Chiedo che il Governo non forzi gli uomini del partito maggioritario e lasci che questi colleghi, che hanno firmato sapendo di interpretare il pensiero della maggioranza del loro partito, partito, malgrado tutto, legato alle masse popolari, partito che ha cura degli interessi del Paese; lasci che questi colleghi votino insieme all’onorevole Scoca e agli altri che hanno firmato l’emendamento.

Ripeto, queste considerazioni che ho voluto esporre non significano che io non tenga nel dovuto conto gli argomenti dell’onorevole Einaudi; gli argomenti dell’onorevole Einaudi hanno sempre grande peso, però, nel periodo in cui viviamo, nella situazione di emergenza che attraversiamo, noi dobbiamo basarci anche su alcuni elementi che l’onorevole Einaudi, per ragioni dottrinarie, sottovaluta. (Applausi a sinistra).

PESENTI. Chiedo di parlare.

PRESIDENTE. Ne ha facoltà.

PESENTI. Sono lieto che l’onorevole Einaudi abbia espresso chiaramente il suo parere. Sono lieto per due motivi: prima di tutto perché ha dato un esempio interessante di un Ministro che espone chiaramente il suo pensiero in disaccordo – con ogni probabilità – da quello di altri membri del Governo. Io penso che questo sia giusto e sia un esempio di democrazia; ma intendo ricordarlo perché, quando in altre occasioni era avvenuta la stessa cosa, e non dai banchi del Governo, ma soltanto dai settori della stampa, questo atteggiamento è stato a torto criticato.

Ma vi è un altro motivo che mi rende lieto del chiarissimo parere espresso dall’onorevole Einaudi: perché, se noi abbiamo ben compreso, l’onorevole Einaudi si è espresso contro sia la tassazione degli enti collettivi, sia la tassazione delle rivalutazioni, portando degli argomenti di carattere scientifico e degli argomenti di carattere pratico.

Io non voglio qui esporre tutti gli argomenti di carattere scientifico. Faccio rilevare soltanto brevemente che l’onorevole Einaudi ha dato degli indirizzi di politica economica, cioè ha ricordato che la tassazione degli enti, sia pure con particolari imposte sul reddito, è effettuata in alcuni paesi e corrisponde a quella dottrina economica che crede opportuno stimolare il consumo e limitare l’autofinanziamento. Questa è una dottrina di politica economica, che corrisponde a particolari situazioni in quei paesi.

Ma il problema è diverso nel campo fiscale; non si tratta di vedere se si deve o non si deve attuare una determinata politica economica, il che è da discutere in altra sede, ma tratta di vedere se esista una particolare capacità contributiva, cioè un soggetto particolare di imposta, nell’ente collettivo.

Ora, senza far torto all’onorevole Einaudi, questo punto non è affatto pacifico, perché, come l’onorevole Einaudi ritiene che non vi sia questa personalità particolare dal punto di vista fiscale, vi sono altri che pensano che questa personalità esiste, dal punto di vista economico…

EINAUDI, Vicepresidente del Consiglio dei Ministri, Ministro del bilancio. Sono trent’anni che discutiamo!

PESENTI. Sono trent’anni che discutiamo, quindi evidentemente ciò vuol dire che il parere dell’onorevole Einaudi è un parere che può essere contestato, perché ci sono altri di diverso parere, ed io appartengo a coloro che sono di diverso parere, perché, se non vi fosse una diversa potenzialità economica – diversa dalla somma dei singoli – non so perché i singoli si unirebbero per costituire una determinata società, un determinato ente economico.

Comunque, non intendo entrare in questi argomenti, anche perché l’onorevole Einaudi potrebbe obiettare che qui si tratta di imposta sul patrimonio e non sul reddito, quantunque esista certo un legame tra le due entità.

Gli altri argomenti addotti dall’onorevole Einaudi non hanno, evidentemente, un carattere di obiezione scientifica: si tratta soltanto di considerazioni pratiche, di valutazioni. E io penso che di queste non è da discutere. Ma lasciamo da parte l’aspetto teorico della questione e veniamo a quella che è propriamente l’accusa di doppia imposizione che si farebbe tassando gli enti, se questi enti non fossero una cosa distinta dalle persone che li compongono, mentre, per me, economicamente sono distinti. Quali sono questi enti? Questi enti sono le fondazioni. Ebbene, le fondazioni non hanno dei soggetti particolari, singoli individui, che siano colpiti dalle imposte.

Per quanto riguarda le società per azioni: o i titoli azionari sono in possesso di piccoli azionisti che possono essere esenti dall’imposta in quanto al di sotto del minimo imponibile (del resto io penso che gli azionisti, anche se non sono piccoli, nonostante tutte le norme dello schedario dei titoli azionari, sfuggiranno facilmente), oppure questi titoli sono in possesso di società, ed è questo il caso più frequente. Ma anche qui c’è l’esenzione; perché le società non sono attualmente colpite, quindi di fatto non c’è una doppia tassazione.

Io credo perciò che le argomentazioni addotte dall’onorevole Einaudi per quello che riguarda la tassazione degli enti collettivi siano, da un punto di vista dottrinario, discutibili. È certo comunque che sono discusse e, per quello che riguarda il fatto pratico, bisogna dire che non corrispondono alla situazione di fatto.

Io non discuto la questione di politica economica, perché questa non è la sede, evidentemente; osservo solo che, se si volesse fare una politica che aiutasse il finanziamento, non si dovrebbe allora parlare soltanto di società, ma si dovrebbe parlare di tutti i contribuenti.

Vi è poi la questione della tassazione sulle rivalutazioni. Riconosco che le argomentazioni portate dall’onorevole Einaudi sono conseguenti, ma esse portano alla conclusione che, quando questo plusvalore diventa reddito, è già tassato e non dovrebbe quindi venire più considerato. Una tassazione invece che dovrebbe essere possibile, nei limiti delle argomentazioni dell’onorevole Einaudi, sarebbe quella delle plusvalenze in seguito ad investimenti fatti a credito. È questo un argomento che si discuterà dopo però, perché altrimenti, ove noi dovessimo discuterlo oggi, andremmo a finire come quel tale asino di Buridano che vi ho dianzi ricordato: andrà a finire cioè che si morirà di fame non sapendo scegliere e, se l’Assemblea sarà messa di fronte alla necessità di prendere una decisione, io credo che tale decisione non potrà essere se non quella che è stata già accettata in linea di massima dai membri della Commissione e da tutti coloro che hanno presentato emendamenti.

Io chiedo quindi che si voti sul principio della tassazione degli enti collettivi, principio generale a favore del quale noi abbiamo pure sacrificato qualche cosa, principio a favore del quale noi abbiamo almeno accettato il sistema empirico della proporzionalità che era stato suggerita dal progetto del Governo, in luogo della nostra più razionale, moderata progressività.

FABBRI. Chiedo di parlare.

PRESIDENTE. Ne ha facoltà.

FABBRI. Io desidererei una spiegazione intorno alle ultime parole dell’onorevole Pesenti, perché qui, secondo la mia modesta opinione, si sta giocando a mosca cieca. Diceva poc’anzi l’onorevole Pesenti che egli e i suoi amici avrebbero accettato, come criterio della tassazione degli enti collettivi, quello proporzionale; mentre qui tutta la campagna che era stata fatta, era stata fatta a proposito della richiesta applicazione agli enti collettivi dell’imposta progressiva. Se si parla, invece, di proporzionale, parliamo di tutt’altra cosa, e dovremmo avere sott’occhio un testo, dovremmo leggere una norma precisa, perché non si può evitare quello che è il problema fondamentale, cioè quello della doppia tassazione, attraverso dei giochi di parole. Perché, per esempio, la legge del 1919, quella sull’imposta patrimoniale, diceva a chiarissime note che gli enti collettivi erano tassati; ma, però, dopo aver detto questo, spiegava che le società per azioni, le società di cui il capitale era diviso e veniva accertato alle persone fisiche, erano esenti. Qui si parla in modo cumulativo delle fondazioni, che sono una cosa, e delle società per azioni, che sono un’altra cosa; delle fondazioni, dove le persone fisiche non ci sono, e quindi è comprensibilissimo che le fondazioni paghino un’imposta; mentre, viceversa, se nell’espressione «enti collettivi» imponibili si comprendono anche le società per azioni, sorge una doppia imposizione nel momento in cui le azioni sono tassate anche nel patrimonio del singolo detentore in quanto le azioni sono nominative.

Qui, a mio parere, bisogna avere dei dati precisi; bisogna sapere di che imposta si tratta, cioè se della progressiva o della proporzionale; se l’espressione «enti collettivi» implica tutti gli enti collettivi o implica invece la possibilità dell’esenzione precisa per quei tali enti collettivi di cui il patrimonio è diviso fra le persone, e tassato alle singole persone.

Non è possibile passare alla votazione e chiedere il parere della Commissione, senza che i deputati conoscano approssimativamente la natura dell’imposta e il testo di questo progetto di legge che nessuno conosce.

Quindi, propongo una sospensione per essere edotti di che cosa si tratta. E poi vorrei fare un’ultima considerazione… (Commenti a sinistra). Permettete, un’ultima considerazione, che credo abbia il suo peso, cioè che tutto l’orientamento del Governo si è espresso relativamente ad una certa scelta, che esso rimetteva all’Assemblea, in ordine all’adozione o dell’imposta sulle rivalutazioni o dell’imposta sugli enti collettivi. Ora, qui si dimentica che una imposta sulle rivalutazioni c’è già in questo momento, e fortissima, e gravosissima per le società. E allora bisogna sapere se l’approvazione di principio dell’imposta sugli enti collettivi implichi automaticamente l’abrogazione di quell’altra imposta, perché altrimenti, quando noi scegliamo una, ne scegliamo una ma le società ne pagano due. Insomma, bisogna sapere qualche cosa di chiaro e preciso… (Commenti a sinistra).

PRESIDENTE. Rinvio il seguito della discussione ad altra seduta.

Presidenza del Presidente TERRACINI

Sulla fissazione dell’ordine del giorno.

DE GASPERI, Presidente del Consiglio dei Ministri. Chiedo di parlare.

PRESIDENTE. Ne ha facoltà.

DE GASPERI, Presidente del Consiglio dei Ministri. Chiedo all’Assemblea di porre all’ordine del giorno della seduta di domani la discussione del disegno di legge sulla ratifica del trattato di pace.

ORLANDO VITTORIO EMANUELE. Chiedo di parlare.

PRESIDENTE. Ne ha facoltà.

ORLANDO VITTORIO EMANUELE. Vorrei pregare il Presidente del Consiglio di non insistere nella sua proposta.

Vi è questo progetto di legge che ha la sua relazione, anzi le sue relazioni, il quale va automaticamente all’ordine del giorno. Ma che la discussione abbia a cominciare domani non mi sembra opportuno; e non mi sembra opportuno per ragioni esclusivamente – per ora – attinenti all’ordine dei lavori parlamentari.

Vuol dire che io mi interdico qualunque considerazione che sia attinente al problema in se stesso e a tutte le varie opinioni che si possano avere e professare su di esso.

È dunque una questione di pura tecnica parlamentare. L’Assemblea in questo momento dispone dei suoi lavori, all’infuori della politica, per il migliore andamento dei lavori stessi. Ora vi è una consuetudine per cui questa stagione rappresentava il limite delle nostre fatiche. La consuetudine ha sempre una sua ragione d’essere; è quindi inutile alludere agli effetti più o meno debilitanti della canicola. Vi è una tradizione per cui la Camera assai prima d’ora solea sospendere i suoi lavori. Questa volta, sotto la pressione di speciali urgenze, si era stabilito di prolungare questi lavori. E non credo di tradire nessun segreto, se dico che in una conversazione amichevole, che io ebbi col Presidente nostro, onorevole Terracini, egli mi disse, così, come in una conversazione (ripeto, senza alcuna preoccupazione politica, perché allora non ce n’era alcuna) che prevedeva che le vacanze si sarebbero potute prendere verso il 19 luglio. Questo come tempo, come giorno di calendario.

Come materia, occorreva definire due argomenti: la Regione, come parte della Costituzione, e la legge sull’imposta patrimoniale. L’uno e l’altro argomento non si sono ancora potuti definire. O meglio, uno sì: la Regione. Per l’altro mi dicono che occorreranno ancora due o tre giorni.

Dopo di che l’Assemblea avrebbe virtualmente preso le sue vacanze.

Si presenta ora questa proposta. Ripeto che io spero e credo ed auguro che altri eventuali oratori e lo stesso Presidente del Consiglio (perché senza di ciò riprenderei la parola) prescindano da ogni considerazione in merito al problema. Ma credo che tutta l’Assemblea sarà unanime, senza distinzione di partito, se io dico che è il più grave degli argomenti su cui l’Assemblea deve decidere, il più grave, non solo per la sua importanza storica, parola di cui si è tanto abusato, ma che mai è così vera come a proposito di questa deliberazione che dobbiamo prendere; ma anche dal punto di vista, oserei dire tecnico, cioè dell’Assemblea Costituente, io domando quale parte della Costituzione è più essenziale di questo progetto che dobbiamo discutere: quale parte della Costituzione è più costituzionale di questo articolo che dobbiamo votare e voteremo, perché tocca il territorio, tocca il diritto di sovranità dello Stato. È una constatazione obiettiva in cui credo che saremo tutti d’accordo.

Dunque, si tratta del più grave degli argomenti. E credo di essere interprete dei sentimenti unanimi dell’Assemblea. È una bella vanità la mia. Ma ci tengo: io vorrei dire cose sulle quali non vi possa essere alcun dissenso per ragioni politiche. Ritengo di essere interprete di tutta l’Assemblea dicendo che essa vuole che questa discussione sia degna dell’argomento.

C’è qualcuno che opina diversamente? C’è qualcuno che opina che si tratti di un peso fastidioso che bisogna rapidamente togliersi dalle spalle? E allora non si posson dare, credo, condizioni più sfavorevoli di queste all’alta discussione che occorre.

L’Assemblea, per rispetto a sé stessa, non dovrebbe consentire questa discussione, meno che in un caso: Annibale alle porle, «salus rei publicae suprema lex». Ci si dica che «rei publicae interest», che è essenziale all’interesse del Paese che l’Assemblea affronti ora la questione in tali condizioni di disagio e d’inferiorità sua in confronto dell’altezza e della nobiltà del tema: e allora ci sobbarcheremo.

Ma se questa ragione non c’è, perché dobbiamo affrontare la questione?

Da ciò la mia preghiera. Non so se devo fare riferimenti e se vengo meno al mio impegno di non toccare il merito della questione, se dico che nella discussione fatta in Commissione dei Trattati, alla quale ho preso parte, questo interesse essenziale dello Stato è stato affrontato. La maggiore comodità di un ambasciatore che deve discutere l’argomento non credo che si possa porre come una legge che imponga all’Assemblea di discutere e di deliberare in maniera non degna della gravità del tema.

Le ragioni che abbiamo ascoltato non parvero a me, né alla Commissione nella sua grande maggioranza, che avessero carattere di gravità.

Prego dunque il Presidente del Consiglio di non insistere. Il disegno di legge vada inscritto all’ordine del giorno. L’Assemblea termini gli argomenti per cui ancora tardivamente è convocata, e quando riprenderemo, allora verrà la questione. Verrà la questione di merito, perché vi è un rinvio di merito gravissimo che non giova abbinare, onorevole Presidente del Consiglio, perché moltissimi che accettano il disegno di legge, abbracciano la croce, per usare una frase cristiana; non trovano però che sia maturo il momento.

Ora non conviene questa questione, attinente in un tempo, ma in un tempo che radica nella natura del Trattato, non conviene porla quando non è necessario porla. Noi possiamo sperare – io spero e mi auguro cordialmente – che nella ripresa queste ragioni siano comprese. Allora la discussione sarà più franca, più netta, più semplice. Questa è la preghiera che rivolgo all’onorevole Presidente del Consiglio. (Vivi applausi a sinistra e a destra).

CANEPA. Chiedo di parlare.

PRESIDENTE. Ne ha facoltà.

CANEPA. Chiedo che la questione del Trattato sia iscritta all’ordine del giorno di domani. Nella discussione noi esamineremo gli argomenti portati dall’onorevole Orlando.

ORLANDO VITTORIO EMANUELE. No, non è questo. Domani è tutt’altro. (Commenti).

CANEPA. Assumiamo la responsabilità di esaminare questa questione, lasciando naturalmente la facoltà a tutti di dire la propria opinione. (Interruzioni – Commenti).

Se permettono, dico la ragione dell’urgenza. Si tratta di sapere se l’Italia deve rimanere nello stato di minorità, nello stato di armistizio nel quale si trova (Interruzioni – Commenti) o se deve riacquistare la propria indipendenza. Voi non tenete conto di un fatto di cui non si è occupato l’onorevole Orlando, ma che pure l’onorevole Ministro degli esteri potrà confermare. Per il giorno 10 agosto, cioè fra pochi giorni, l’organizzazione delle Nazioni Unite discuterà la nostra domanda di ammissione alla organizzazione stessa (Interruzioni – Commenti). È l’organizzazione a cui appartengono i Paesi di tutto il mondo, eccetto noi e la Spagna. Questa è la verità. Ora, se noi saremo respinti, e lo saremo indubbiamente, se non avremo ratificato (Interruzioni – Commenti), noi continueremo in quello stato di soggezione nel quale ci troviamo. Considerate che l’onorevole Ministro degli esteri ha potuto ottenere nella Commissione di Parigi che l’Italia entrasse fra le cinque Nazioni componenti il Comitato esecutivo della organizzazione europea…

NOBILI TITO ORO. Il merito è stato escluso!

CANEPA. …soltanto perché la Commissione dei Trattati aveva dato parere favorevole al Trattato; altrimenti l’onorevole Ministro degli esteri non sarebbe andato a Parigi (Interruzioni – Commenti).

Pensate quale sarebbe la nostra condizione se, per la negata ratifica, non avessimo più voce in capitolo! (Commenti – Rumori).

GIANNINI. Chiedo di parlare.

PRESIDENTE. Ne ha facoltà.

GIANNINI. Signor Presidente, onorevoli colleghi! Il nostro Maestro, onorevole Orlando, interpretando il sentimento di grandissima parte di questa Assemblea, ha posto un problema procedurale su una ragione che io ardisco di dire futile. Ed appunto per questo mi inchino all’ingegno di Vittorio Emanuele Orlando, che ha saputo trovare nella futilità della ragione il modo per mettere d’accordo le più varie e contrastanti tendenze. È chiaro che ad un uomo come Vittorio Emanuele Orlando non sarebbero mancati copia di argomenti da portare a sostegno di una tesi, se egli avesse voluto sostenere qualche cosa di più della piccola questione che ha voluto portare. Ciò prova che l’onorevole Vittorio Emanuele Orlando non ha voluto entrare nel merito, nel quale non è possibile entrare a quest’ora e in questo clima. Non entrerò nemmeno io nel merito, signor Presidente, onorevoli colleghi. Mi limito a chiedere che la proposta fatta dall’onorevole Vittorio Emanuele Orlando sia messa senz’altro in votazione e che la discussione sia chiusa. (Applausi a destra).

PRESIDENTE. L’onorevole Orlando aveva rivolto un invito al Presidente del Consiglio; l’onorevole Giannini lo riprende e lo traduce in una proposta formale. Chi domanda la parola a questo proposito?

DE GASPERI, Presidente del Consiglio dei Ministri. Chiedo di parlare.

PRESIDENTE. Ne ha facoltà.

DE GASPERI, Presidente del Consiglio dei Ministri. Il Governo ha presentato il 27 giugno un disegno di legge per la ratifica del Trattato. Esso è stato demandato alla Commissione dei Trattati, la quale ha discusso e deliberato nei giorni 8 e 9 luglio. Nel frattempo si è svolta la Conferenza di Parigi. Dopo la Conferenza di Parigi, precisamente il 17, si è avuta un’altra seduta della Commissione dei Trattati in cui, con riferimento anche ai risultati di Parigi, c’è stata non una decisione, ma un nuovo scambio di idee sull’argomento pro e contro la ratifica del Trattato stesso.

In seguito alle sedute dell’8 e del 9 luglio, l’Assemblea si è trovata dinanzi a due relazioni: una di maggioranza ed una di minoranza. Una di maggioranza per la ratifica immediata, un’altra di minoranza che espone le ragioni del rinvio con riferimento all’articolo 90 del Trattato, sostenendo che già queste ragioni dimostrano l’impossibilità di dare subito esecuzione, comunque sia, o rendere, col voto dell’Italia, eseguibile il Trattato.

Il Governo si è dato premura di tener conto delle ragioni esposte dalla minoranza, ha cercato una soluzione che potesse conciliare le proposte della maggioranza con quelle della minoranza, ha creduto di trovarle in un nuovo testo che ha presentato stamane e che credo sia stato distribuito, o comunque verrà distribuito domattina. Testo che, come vi è noto, accettando il disegno di legge della Commissione, vi aggiunge che questa ratifica si dovrà fare in base alla norma dell’articolo 90, cioè quando il Trattato sarà esecutivo in forza delle quattro ratifiche date dalle quattro Potenze.

Con ciò il Governo ha tenuto conto non solo delle obiezioni di logica, direi, che provenivano da una parte dei commissari, ma ha tenuto conto anche della situazione internazionale, preoccupato di dare una sensazione di equilibrio e di imparzialità assoluta in confronto alla tensione momentanea che, speriamo, passi rapidamente, preoccupato di prendere una posizione autonoma propria in correlazione oggettiva a quello che è il Trattato.

È evidente che io non ho il diritto di entrare nel merito della discussione, come non l’hanno fatto che fuggevolmente gli oratori precedenti. Ho il dovere, però, di dire qual è l’opinione del Governo, qual è, in particolare, l’opinione dei Ministri che si sono occupati in dettaglio, fino all’ultimo momento, di questo problema. È inutile che ci nascondiamo dietro una questione di procedura formale. Non solo è noto a noi tutto il corso che ormai questo progetto ha fatto, non solo è noto a noi, ma è noto a tutto il mondo. Il nostro atteggiamento risponde senza dubbio ad una attesa che non è semplicemente del Paese, ma una attesa che è anche al di fuori del Paese. L’Assemblea si trova innanzi ad un compito che è di sua responsabilità, poiché le disposizioni del decreto legislativo del 16 marzo 1946 prevedono che i trattati siano riservati all’Assemblea.

Io credo che il Paese mal capirebbe che in questa Assemblea si sia potuto discutere di tante cose più o meno importanti e si eviti di discutere e deliberare su quello che è un Trattato di immensa importanza e che si riferisce direttamente alla responsabilità dell’Assemblea.

Siamo stati nominati, egregi colleghi, per assumere la responsabilità più grave, per assumere la responsabilità della liquidazione della guerra e della conclusione della pace. Abbiamo innegabilmente una immensa responsabilità. Se fosse possibile allontanare questo calice e non berlo mai, vorremmo ricorrere ad ogni mezzo. Non è possibile. È nostro dovere, com’è nostro diritto, di affrontare questo problema, e dobbiamo affrontarlo in maniera che quando esso si presenta, la risoluzione riguardi tanto le ragioni pro e contro il Trattato stesso, quanto la posizione internazionale.

Il Governo, quindi, ha un obbligo particolare, per aver seguito tutte le trattative, per essere in grado di avere informazioni più dirette di quelle che possa avere il pubblico in generale, ha il dovere di dire la sua opinione all’Assemblea, la quale deciderà nella sua sovranità.

Il Governo, in base alle sue informazioni, è giunto alla conclusione della assoluta inopportunità di un rinvio, perché lo crede controproducente e nocivo agli sviluppi della nostra vita internazionale autonoma, appena iniziata.

Il Governo, consapevole della sua responsabilità, fa istanza perché l’Assemblea discuta e deliberi in una materia, che è esplicitamente riservata alla sua competenza.

Il Governo è sicuro che l’Assemblea, nel supremo interesse del Paese, anche se, per le particolari circostanze in cui la discussione si svolge, le costi fatica, saprà, in forma degna, coadiuvarlo con i suoi consigli e con le sue decisioni, nello sforzo che esso fa di trarre l’Italia dal suo stato armistiziale, di liquidare definitivamente, per quanto ci riguarda, la guerra, e iniziare, per quanto da noi dipende, e intensificare un periodo di dignità e di collaborazione internazionale.

Mi trovo nella situazione umiliante di essere di parere diverso da quello di un uomo come l’onorevole Orlando, al quale va tutta la mia devozione e la mia alta estimazione. Tuttavia, nei momenti di grave responsabilità, anche se per il Governo il rinvio potrebbe rappresentare un sollievo fisico e forse politico, un uomo deve agire secondo le informazioni che ha, secondo la convinzione che si è fatta, secondo la coscienza che ne risulta, secondo le responsabilità che lo muovono. Ed è per questo che prego l’Assemblea di assumere anche essa le responsabilità sue. (Vivi applausi al centro).

CEVOLOTTO. Chiedo di parlare.

PRESIDENTE. Ne ha facoltà.

CEVOLOTTO. Poiché il Presidente del Consiglio ha annunziato di avere presentato un nuovo disegno di legge su questo argomento, domando che questo disegno di legge sia inviato alla Commissione dei Trattati, perché questa lo esamini e he riferisca all’Assemblea.

PRESIDENTE. Onorevole Cevolotto, mi consenta: io non ho ricevuto, nelle forme che dovrebbero essere seguite, un nuovo disegno di legge; ma ho ricevuto soltanto un nuovo testo, rielaborato negli articoli, del disegno di legge già distribuito.

Lei, onorevole Cevolotto, avrebbe potuto, se mai, protestare perché il disegno di legge era giunto all’Assemblea non per la via ordinaria, cioè con la presentazione in Aula e con dichiarazione del Ministro, ma in forma indiretta, ciò che non sarebbe compatibile con le norme che regolano la vita della nostra Assemblea.

Questo nuovo testo non è stato ancora distribuito, perché la materia relativa non è stata posta ancora all’ordine del giorno. Se l’Assemblea decide stasera in questo senso, il testo sarà distribuito.

CEVOLOTTO. Chiedo di parlare.

PRESIDENTE. Ne ha facoltà.

CEVOLOTTO. Io non faccio una questione di procedura per la presentazione; faccio una questione di merito. Dal momento che c’è un nuovo testo, esso deve seguire la trafila normale, cioè andare prima alla Commissione dei Trattati per l’esame. Non si può prescindere da questo gradino, in qualunque modo il testo sia stato presentato. Io faccio la questione che il testo deve essere anzitutto esaminato dalla Commissione dei Trattati.

PRESIDENTE. Il Governo ha diritto di proporre emendamenti ai testi che presenta, non solo prima della discussione, ma anche nel corso stesso della discussione e lei comprende, onorevole Cevolotto, che quando il Governo si valesse di questa seconda facoltà, la richiesta che lei ora presenta non potrebbe assolutamente sostenersi e non potrebbe nemmeno sostenersi se l’emendamento fosse presentato prima della discussione del testo di legge.

Comunico che il nuovo testo dell’articolo unico è così formulalo: «Il Governo della Repubblica è autorizzato a ratificare il Trattato di pace tra le Potenze Alleate od Associate e l’Italia, firmato a Parigi il 10 febbraio 1947, dopo che esso sarà divenuto esecutivo a norma dell’articolo 90».

VALIANI. Chiedo di parlare.

PRESIDENTE. Ne ha facoltà.

VALIANI. Io chiedo che la proposta dell’onorevole Orlando, appoggiata dall’onorevole Giannini, abbia la precedenza su ogni altra questione e su ogni altra votazione. La questione che ha sollevato l’onorevole Cevolotto potrebbe essere dibattuta soltanto se, in via preliminare, fosse stata respinta la proposta dell’onorevole Orlando.

In suffragio della proposta dell’onorevole Orlando, e dopo che ha parlato il Presidente del Consiglio, mi permetto di osservare che proprio uno degli argomenti addotti dal Presidente del Consiglio, cioè le informazioni particolari di cui è in possesso ed il giudizio che, fuori del Paese, si può dare su questa questione, costituisce in realtà un argomento in favore della proposta dell’onorevole Orlando. Siamo stati eletti evidentemente per affrontare il Trattato, ma, in via pregiudiziale, siamo stati eletti per assumere, davanti al Trattato, un atteggiamento di fierezza e di resistenza. L’onorevole De Gasperi non può dimenticare le dichiarazioni che egli ha fatte a questo riguardo, a più riprese, ancora alla Consulta, dinanzi alla Commissione degli esteri della Consulta stessa ed anche in seguito. Questo vale anche per la grande maggioranza dell’Assemblea. E siccome le informazioni di cui il Governo è in possesso non sono in nostro possesso, ed essendo di natura così delicata, dovrebbero essere vagliate attentamente prima di essere sottoposte a discussione pubblica, e se la proposta dell’onorevole Orlando fosse respinta, mi domando se non convenga sollevare la questione dell’opportunità di fare una seduta segreta. Proprio questo argomento ed il fatto che l’attenzione sul problema è desta sia dentro che fuori i nostri confini, suggeriscono che se ne discuta senza eccessiva precipitazione.

Essendo stati eletti per opporre resistenza a questo Trattato, alla cui discussione e redazione non abbiamo potuto in alcun modo partecipare e che ci viene imposto, conviene procedere con estrema ponderatezza prima di discutere dell’argomento pubblicamente. Se si discute pubblicamente, è chiaro che oltre alle due tesi che si sono profilate con gli ordini del giorno già noti, oltre la tesi per la ratifica immediata e la tesi a favore della ratifica solo dopo che sia avvenuta la ratifica di tutte e quattro le Potenze, ci sarà anche la terza tesi presentata dall’onorevole Orlando e da alcune decine di colleghi, la tesi a cui personalmente aderisco, la tesi cioè che respinge senz’altro il Trattato.

Per queste considerazioni credo che la proposta dell’onorevole Orlando, che è una proposta che veramente rispecchia il desiderio della stragrande maggioranza del Paese, di porre cioè questa questione in una sfera più elevata, sia da accogliersi.

TOGLIATTI. Chiedo di parlare.

PRESIDENTE. Ne ha facoltà.

TOGLIATTI. Onorevoli colleghi, credo si pensasse da qualcuno, e forse da molti, in questa Assemblea, che la proposta dell’onorevole Orlando, una volta fatta, dovesse essere posta in discussione e accettata o respinta senza dibattito. Era una strada possibile. Non so però se sarebbe stata aderente alla realtà, dato il rilievo che la questione ha preso nell’opinione pubblica, dato il modo come il Paese si interessa alla cosa e ci guarda, dato che il popolo vuol sapere qualche cosa e non si accontenterebbe di un voto senza giustificazioni: in realtà, parlare bisogna.

In ogni modo, ho ammirato la finezza con la quale l’onorevole Orlando ha tentato di ridurre tutto a una questione di procedura, anzi – egli ci ha detto – di «tecnica parlamentare», sostenendo la poca opportunità di affrontare un simile dibattito nei giorni canicolari, quando siamo stanchi, quando non si possono avere assemblee numerose, solenni, come questa, per esempio. Ho ammirato questa finezza dell’onorevole Orlando, la quale tendeva, come tutti abbiamo capito, a uno scopo ben determinato.

L’onorevole Presidente del Consiglio, nella replica che ha fatto, non poteva non allontanarsi da questo terreno, che è il terreno delle forme; non poteva non scendere sul terreno su cui è sceso, con la sua dichiarazione terminale, cioè sul terreno della sostanza.

È dal 27 giugno – questa è la data ricordata dall’onorevole Presidente del Consiglio – che siamo investiti di questo problema. Ne abbiamo discusso ampiamente; vi sono state due, tre, quattro riunioni della nostra Commissione degli esteri, vi è un rapporto di maggioranza e un rapporto di minoranza, i quali stanno ora davanti a noi. Siamo quindi investiti in pieno non soltanto dei problemi di forma e di convenienza, ma anche della sostanza, quantunque il dibattito di oggi sia un dibattito del tutto preliminare.

Ci troviamo di fronte a una proposta che ci viene dall’onorevole De Gasperi, dal suo Governo e dal suo partito. Essi ci propongono la rapida, rapidissima, immediata ratifica del Trattato di pace redatto dalle quattro grandi potenze per l’Italia e approvato dalla Conferenza dei Ventuno. Dobbiamo discuterlo oggi, domani, dopodomani; dobbiamo accettare o non accettare la proposta che ci viene fatta.

In sostanza, io interpreto la proposta dell’onorevole Orlando come il modo più cortese di non accettare la proposta del Governo; non in altro modo credo che possa essere interpretata.

Di conseguenza e per questo siamo d’accordo con la proposta dell’onorevole Orlando, e se verremo ai voti l’approveremo.

Devo però dire che una certa perplessità, nel nostro Gruppo, esiste, ed esiste per parecchi motivi.

Soprattutto, esiste perché non siamo ancora riusciti a capire il perché dall’onorevole De Gasperi, dal suo Governo e dal suo partito in questo momento e con tanta fretta ci viene chiesto di prendere posizione sul problema della ratifica.

Sul fondo, cioè sulla opportunità di ratificare o non ratificare, vi possono essere opinione diverse. Diverse possono essere le opinioni in questa Assemblea circa il ratificare o non ratificare; circa il giudizio da darsi del Trattato, dei suoi precedenti, del modo con cui si è ad esso arrivati, del modo come potremo eseguirlo, e così via. Sappiamo che esiste una grande parte dell’opinione pubblica italiana, la quale – a ragione o a torto – crede che la ratifica non debba essere data. Noi possiamo avere opinioni diverse da questa parte dell’opinione pubblica, ma non v’è dubbio che siamo però tenuti, come italiani, a rispettarla, e rispettarla vuol dire che il giorno in cui prendiamo una decisione contraria a quell’opinione, dobbiamo argomentarla a sufficienza e il Governo, e il Ministro degli esteri, hanno essi pure il dovere di argomentare a fondo la posizione che essi assumono al riguardo e che chiedono a noi di assumere.

È questo, onorevoli colleghi, il primo motivo per cui siamo perplessi; cioè, perché non abbiamo ancora sentito dal Governo l’esposizione precisa e completa dei motivi della sua fretta. Siamo anche perplessi, però, vorrei dire, per conto nostro. Anche per conto nostro, infatti, abbiamo cercato di andare a fondo della questione e ci siamo studiati di intenderla in ogni suo aspetto.

Del resto, gli argomenti che ci ha dato l’onorevole Presidente del Consiglio sono in fondo i medesimi che ci davano, qualche mese fa, esprimendosi a favore della firma e della ratifica, l’onorevole Nenni e altri uomini di questa Assemblea. Sono argomenti, però, contro cui allora lo stesso attuale Presidente del Consiglio insorgeva, dicendo che erano gli argomenti dei rinunziatari, gli argomenti dei capitolatori. E contro quegli argomenti insorgeva la stessa Democrazia cristiana.

Si dice che oggi la situazione è mutata. È vero: oggi non c’è più un Ministro socialista al Governo, contro cui occorra condurre una campagna per cacciarlo dal posto di Ministro degli esteri. (Proteste al centro). Si dice che è cambiata la situazione internazionale. Comprendo anche questo; ma la verità è che da qualche tempo vediamo la nostra politica estera svilupparsi in modo che non ci appare giustificato; vediamo compiersi da parte del Governo atti di politica estera che ci appaiono come affrettati e inconsiderati. Anche se questi atti di politica estera sono accompagnati da campagne di stampa che artificialmente li esaltano, non v’è dubbio che già parecchie volte abbiamo visto gli argomenti sviluppati da queste campagne di stampa essere contraddetti dalla realtà stessa.

Così, per esempio, è stata data l’adesione immediata a un piano, non so se americano o anglo-francese, cui hanno aderito alcune potenze europee ed altre no. Questa adesione è stata data senza che l’Assemblea fosse stata ascoltata, senza che la Commissione dei trattati fosse stata interpellata. E dire che proprio il giorno in cui il nostro Ministro degli esteri annunciò questa adesione, proprio quel giorno la Commissione dei trattati si riuniva e gli sarebbe stato molto facile presentarsi ad essa per comunicare quelle che erano le sue intenzioni.

Noi eravamo allora assai preoccupati e crediamo che anche una gran parte dell’opinione pubblica italiana fosse assai preoccupata del modo come si è svolta la fase preliminare della Conferenza di Parigi: preoccupata di una possibile rottura fra le grandi potenze, rottura di cui, quando si è compiuta, forse non si poteva ancora afferrare appieno il significato, ma che ora incominciamo a comprendere. Ma è proprio perché ora comprendiamo meglio il significato di quella rottura, che comprendiamo in pari tempo meglio quanto inconsiderata sia stata la affrettata adesione decisa dal nostro Governo.

Ma questi atti si vanno ripetendo. Così abbiamo avuto l’altrettanto affrettata adesione dei nostri rappresentanti a Parigi a determinate proposte per la ripresa economica della Germania. Questa adesione – e questo è il grave – non ha tenuto conto della posizione nettamente contraria assunta dalla Francia, quando noi dovremmo andare assolutamente d’accordo con la Francia, per la comune esigenza di difenderci da nuove possibili aggressioni tedesche

SFORZA, Ministro degli affari esteri. Un semplice scambio di idee è stato.

TOGLIATTI. Tutti questi fatti gettano una luce particolare sulla proposta che ci vien fatta di discutere domani e di approvare domani o dopodomani la ratifica. Non possiamo non valutare questa proposta, che ci viene fatta dall’onorevole Presidente del Consiglio, come elemento di una politica determinata, per la quale sentiamo non soltanto perplessità e dubbi, ma disapprovazione. In sostanza, in tutto ciò che si sta facendo da chi dirige oggi la nostra politica estera, sentiamo una fretta ingiustificata e sbagliata di inserire l’Italia in una determinata formazione politica internazionale in modo non coerente… (Commenti a destra).

GIANNINI. Questo è merito! (Commenti).

TOGLIATTI. …con gli interessi del popolo italiano. (Rumori a destra).

Onorevole Giannini, può darsi che sia merito (Commenti a destra); ma adesso le spiegherò perché sono stato costretto a entrare nel merito. È semplicissimo, onorevole Giannini. Il nostro Gruppo, per i motivi che io rapidissimamente ho esposto, e che potrei sviluppare se ci fosse una discussione di politica estera, avrebbe desiderato e desidererebbe una discussione generale sulla politica estera di questo Governo, ed è evidente che una discussione di politica estera avrebbe luogo in modo inevitabile, se domani si iniziasse il dibattito circa la ratifica del Trattato, cioè circa quel progetto di legge che il governo ci ha presentato.

In pari tempo, però, ci troviamo di fronte a una proposta procedurale di rinvio, la quale, in un certo senso, è senza dubbio un colpo di arresto che viene dato ad una politica verso cui noi sentiamo, ripeto, perplessità, dubbi e disapprovazione. (Commenti al centro). Di qui deriva una conclusione, la quale è che il nostro Gruppo, il quale pure desidererebbe una discussione a fondo di politica estera, perché la ritiene necessaria oggi al Paese, nonostante questo, dato il significato che inevitabilmente prende, onorevole Orlando, anche una proposta di procedura fatta con la finezza con la quale ella l’ha fatta, approva la sua proposta e la voterà. (Applausi a sinistra).

GRONCHI. Chiedo di parlare.

CRISPO. Chiedo di parlare prima dell’onorevole Gronchi, per una mozione d’ordine.

PRESIDENTE. Ha facoltà di parlare l’onorevole Crispo.

CRISPO. Vorrei fare una modesta osservazione: la questione sollevata dall’onorevole Orlando è una questione di sospensiva contemplata nell’articolo 93 del Regolamento; vale a dire, è una questione per la quale – come è detto nel testo dell’articolo 93 – si richiede il rinvio della discussione. Ora, mi permetto di ricordare che, a norma dell’ultimo capoverso dell’articolo 93, due soli deputati possono parlare a favore e due contro la proposta.

Era questo il rilievo che volevo permettermi di fare. (Approvazioni a destra).

PRESIDENTE. Onorevole Crispo, la prego di tener presente che l’articolo 93 si riferisce alle questioni già inserite all’ordine del giorno (Commenti) e che formano materia di discussione dell’Assemblea. Qui siamo in tema di fissazione dell’ordine del giorno, ed a questo proposito l’articolo 93 evidentemente non ha norme da dettare.

CRISPO. Mi permetto, signor Presidente di non essere del suo parere. Siamo innanzi tutto in tema di una norma procedurale la quale consente, evidentemente, l’interpretazione analogica, sicché… (Interruzioni – Commenti).

PRESIDENTE. Onorevoli colleghi, lascino parlare.

CRISPO. Dicevo, innanzi tutto, che in tema procedurale è norma ammessa l’interpretazione analogica. In ogni modo, qui vi è una pregiudiziale: se si debba o non porre all’ordine del giorno la discussione del Trattato di pace. Su questa questione si chiede il rinvio, ossia su questa questione si solleva la pregiudiziale. Mi pare che il caso sia perfettamente identico.

PRESIDENTE. Onorevole Crispo, si convinca che in questa sede l’interpretazione analogica non può applicarsi, perché il Regolamento prevede specificatamente tutte le questioni e le risolve, e non v’è dubbio che l’articolo 93 si riferisce ai problemi in discussione perché posti all’ordine del giorno e non, genericamente, a qualsiasi discussione che si svolga in Assemblea, quella ad esempio che si riferisce alla definizione dell’ordine del giorno su cui poi si dovrà discutere. E pertanto non ritengo che la sua osservazione possa arrestare questa discussione, che non è pregiudiziale su una materia, ma che si prefigge l’argomento su cui dovremo poi discutere.

Ha facoltà di parlare l’onorevole Gronchi.

GRONCHI. L’andamento che il dibattito di oggi ha preso sulla richiesta fatta dal Governo ha assunto il carattere di una vera e propria anticipazione sulla discussione di merito che noi faremo domani, se la proposta sospensiva o la preghiera di rinvio che l’onorevole Orlando ha fatto, non sarà accolta dalla Assemblea.

Non seguirò perciò né le argomentazioni dell’onorevole Valiani né quelle dell’onorevole Togliatti, al quale ultimo vorrei però osservare che le sue dichiarazioni mi richiamano l’immagine di un colpo sfuggito prima del tempo, perché la posizione che egli ha rivelato avrebbe avuto sede più appropriata e, nell’interesse stesso del suo partito, più opportuna, nell’esame della politica estera generale del Governo, considerata in relazione all’attuale disegno di legge. Tale posizione ha infatti una incidenza del tutto secondaria sulle ragioni che possono o meno consigliare un rinvio.

Siamo di fronte ad una richiesta che occorre considerare fondata, solo che non si creda che il Governo sia guidato da considerazioni estranee all’interesse del Paese. Esso ha chiesto la discussione immediata del suo progetto di legge.

Di fronte a questa richiesta è evidente che ogni ragione procedurale perde ogni valore; anzi, secondo me, fa perdere all’argomento quell’intrinseco grandissimo rilievo che esso invece ha nell’attuale momento veramente storico del nostro Paese.

Noi chiederemmo perciò che la proposta del Governo fosse posta senz’altro ai voti e che ogni discussione di merito (questa è preghiera rivolta ai colleghi di ogni settore) fosse rinviata all’esame e alla discussione del progetto di legge. (Applausi al centro).

NENNI. Chiedo di parlare.

PRESIDENTE. Ne ha facoltà.

NENNI. Il Gruppo socialista aderisce alla domanda di sospensiva dell’onorevole Orlando, nello spirito stesso con cui essa è stata formulata.

Noi riteniamo che ci siano ragioni di carattere internazionale che rendono difficile in questo momento affrontare il tema che il Governo ha chiesto sia posto all’ordine del giorno di domani, con la piena libertà di cui l’Assemblea avrebbe bisogno per esaminare il fondo della questione e la correlazione tra l’anticipata ratifica del Trattato e l’attuale situazione di politica internazionale.

Noi avremmo desiderato che prima di andare alla Conferenza di Parigi, e indipendentemente dalla questione della ratifica del Trattato, il Governo avesse detto all’Assemblea con quale programma andava a Parigi, con quali propositi.

Ciò non è stato possibile. In tali condizioni la discussione si potrà fare quando i lavori della Conferenza di Parigi siano abbastanza avanzati perché noi abbiamo elementi sufficienti di giudizio, o siano conclusi. Ma è difficile discutere l’azione del Governo proprio nel momento in cui questa si svolge ora per ora, minuto per minuto.

Il Governo non è venuto dinanzi all’Assemblea prima di andare a Parigi e, a mio giudizio, ha avuto torto. Verrà il momento in cui l’Assemblea gli chiederà conto e del perché non è venuto e della politica che ha fatto.

Ma in questo momento noi siamo convinti che la discussione non sarebbe nell’interesse del Paese. Noi socialisti accettiamo perciò la proposta dell’onorevole Orlando, con lo spirito con cui è stata formulata, senza cioè entrare nel merito, e nella convinzione che giovi al Paese, non affrontare la discussione del Trattato nelle presenti condizioni. (Applausi a sinistra).

SELVAGGI. Chiedo di parlare.

PRESIDENTE. Ne ha facoltà.

SELVAGGI. Onorevoli colleghi, devo confessare che sento un senso di malessere per la piega che queste dichiarazioni di voto, se vogliamo così chiamarle, hanno preso.

Si è entrati nel merito di un problema che è di capitale importanza, con eccessiva superficialità. È un problema che, come ha detto l’onorevole Orlando, è di carattere storico per il nostro presente e per il nostro futuro. Sugli orientamenti o tesi che ci possono essere su questo problema, non credo sia consentito a nessuno di fare delle speculazioni politiche, e soprattutto di dubitare della buona fede di ciascuno dei sostenitori delle opposte tesi.

Noi non dubitiamo minimamente della buona fede che spinge l’onorevole De Gasperi ed il suo Governo a presentare in questo momento il progetto di legge per la ratifica del Trattato di pace, imposto all’Italia al Lussemburgo. Riteniamo però, con la stessa buona fede, che questo non sia il momento opportuno per una discussione di un argomento tanto importante.

E non entro nel merito della questione, non avendo noi del Gruppo qualunquista nessun chiodo fisso di rovesciare il Governo. Noi vediamo il problema soltanto nell’interesse generale del Paese e riteniamo quindi che la formula – se così vogliamo dire – escogitata dall’onorevole Orlando sia l’unica che possa essere votata con preciso significato. Essa non ha un valore politico né nei confronti del Governo né nei confronti della ratifica che esso persegue.

C’è, oltre tutto, un argomento. L’onorevole De Gasperi ha accennato alla legge costitutiva dell’Assemblea, in base alla quale spetta di diritto all’Assemblea Costituente la discussione e la conseguente ratifica o meno degli Accordi internazionali. Se è questa l’interpretazione, credo che anche l’iniziativa del momento della discussione possa spettare soltanto all’Assemblea Costituente, la quale, individualmente o per gruppi, ha anche essa elementi sufficienti per stabilire se questo è o non è il momento opportuno.

A nome del mio Gruppo dichiaro quindi che noi voteremo la proposta dell’onorevole Orlando. (Applausi a destra).

Voci. Ai voti!

LABRIOLA. Chiedo di parlare.

PRESIDENTE. Ne ha facoltà.

LABRIOLA. Voterò naturalmente la proposta dell’onorevole Orlando; ma il motivo personale per cui la voterò è un po’ differente da quello che hanno potuto invocare gli oratori precedenti. All’unica seduta della Commissione dei Trattati alla quale io fui presente – si tratta ormai di due o tre mesi addietro – allorché fu presentata la questione della firma al Trattato che si imponeva all’Italia, io feci la proposta di venire subito all’Assemblea e chiedere all’Assemblea la ratifica che si chiedeva del Trattato imposto all’Italia. Misi appunto in rilievo il fatto che la firma che il plenipotenziario italiano si disponeva a dare a nome dell’Italia a quel Trattato, non equivaleva alla ratifica. Ma nel mio concetto la questione poteva assumere un significato più alto. Il significato era questo: io credo che al Trattato medesimo non convenisse dare una importanza eccessiva. Posi in rilievo che la ratifica andava fatta dall’Assemblea, ma che non bisognava dare ad essa troppa importanza. Volevo pertanto che la questione venisse all’Assemblea solo per dare a questo atto il minor valore che si poteva. Proposi che il Trattato giungesse all’Assemblea all’ultimo momento di una discussione qualsiasi e quindi si desse la ratifica. Come imbattendosi in un cumulo di sassi e un po’ di immondizie basta un colpo di piede per mandare via tutto, così la ratifica da dare al Trattato, secondo me, non doveva avere un valore differente.

In quel momento l’onorevole De Gasperi – e credo anche altri colleghi che facevano parte della Commissione dei Trattati – non furono del mio avviso. Io rimasi solo nel sostenere questa tesi. Basta questa tesi per me per spiegare l’atteggiamento… (Rumori). L’onorevole Togliatti ha detto che una discussione di politica estera in questa Assemblea si impone e potrebbe venire in discussione in occasione appunto della ratifica del Trattato, ma sia per tutti evidente che non bisogna dare troppa importanza a questa ratifica. Io voterò la proposta sospensiva dell’onorevole Orlando. (Applausi).

PRESIDENTE. Avverto che sulla proposta Orlando-Giannini di non inserire all’ordine del giorno di domani la discussione sulla ratifica del Trattato di pace è stata presentata richiesta di votazione nominale. La richiesta è firmata dagli onorevoli Uberti, De Palma, Coccia, Angelucci, Clerici, Bubbio, Garbato, Monticelli, Mastino Gesumino, Angelini, Bosco Lucarelli, Taviani, Tozzi Condivi, Firrao e Bovetti.

Votazione nominale.

PRESIDENTE. Indico la votazione nominale sulla proposta Orlandi-Giannini di non includere, all’ordine del giorno di domani la discussione sulla ratifica del Trattato di pace, contrariamente alla richiesta del Presidente del Consiglio.

Estraggo a sorte il nome del deputato dal quale comincerà la chiama.

(Segue sorteggio).

Comincerà dal nome del deputato La Pira. Si faccia la chiama.

MOLINELLI, Segretario, Fa la chiama.

Rispondono sì:

Abozzi – Allegato – Amadei – Amendola – Assennato – Azzi.

Baldassari – Barbareschi – Bardini – Bargagna – Barontini Anelito – Barontini Ilio – Basso – Bei Adele – Bellusci – Bencivenga – Benedetti – Bergamini – Bernabei – Bernamonti – Bernini Ferdinando – Bianchi Bruno – Bianchi Costantino – Bibolotti – Binni – Bitossi – Bonomelli – Bordon – Bruni – Bucci – Buonocore.

Cacciatore – Calamandrei – Camangi – Cannizzo – Caprani – Carmagnola – Carpano Maglioli – Cavallotti – Cerreti – Cevolotto – Cianca – Codignola – Colombi Arturo – Condorelli – Coppa Ezio – Corbi – Corsini – Costa – Cremaschi Olindo.

D’Amico Michele – De Michelis Paolo – De Vita – Di Vittorio – D’Onofrio – Dozza – Dugoni.

Fabbri – Facchinetti – Faccio – Fantuzzi – Faralli – Farina Giovanni – Farini Carlo – Fedeli Armando – Ferrari Giacomo – Finocchiaro Aprile – Fiore – Fiorentino – Fioritto – Flecchia – Foa – Fogagnolo – Fornara.

Gallico Spano Nadia – Gasparotto – Gavina – Gervasi – Ghidetti – Ghislandi – Giacometti – Giannini – Giolitti – Giua – Gorreri – Grazi Enrico – Grazia Verenin – Grieco – Gullo Fausto.

Imperiale – Iotti Nilde.

Jacometti.

Labriola – Laconi – Lagravinese Pasquale – Landi – La Rocca – Li Causi – Lizzadri – Lombardi Carlo – Longo – Lozza – Luisetti – Lussu.

Maffi – Maffioli – Magnani – Magrassi – Magrini – Malagugini – Maltagliati – Marchesi – Mariani Enrico – Marina Mario – Marinaro – Massini – Massola – Mastino Pietro – Mastrojanni – Mattei Teresa – Matteotti Carlo – Mazza – Merighi – Merlin Angelina – Mezzadra – Miccolis – Minella Angiola – Minio – Molinelli – Montagnana Rita – Morandi – Moranino – Moscatelli – Musolino.

Nasi – Negarville – Negro – Nenni – Nitti – Nobile Umberto – Nobili Tito Oro – Noce Teresa – Novella.

Orlando Vittorio Emanuele.

Pajetta Gian Carlo – Paolucci – Pastore Raffaele – Patricolo – Pecorari – Pellegrini – Penna Ottavia –– Pertini Sandro – Perugi – Pesenti – Pistoia – Platone – Pratolongo – Pressinotti – Preziosi – Priolo – Pucci – Puoti.

Reale Eugenio – Ricci Giuseppe – Rodi – Rodinò Mario – Rognoni – Romita – Rossi Giuseppe – Rossi Maria Maddalena – Ruggeri Luigi – Russo Perez.

Saccenti – Sansone – Sardiello – Scarpa – Schiavetti – Scoccimarro – Secchia – Selvaggi – Sereni – Sicignano – Silipo – Spallicci – Spano – Stampacchia.

Targetti – Tega – Tieri Vincenzo – Togliatti – Tomba – Tonello – Tonetti – Trulli – Tumminelli.

Valiani – Venditti – Vernocchi – Veroni – Vigna – Vinciguerra – Vischioni.

Zanardi – Zuccarini.

Rispondono no:

Adonnino – Alberti – Andreotti – Angelini – Angelucci – Arata – Arcaini – Arcangeli – Avanzini.

Bacciconi – Badini Confalonieri – Balduzzi – Baracco – Bassano – Bastianetto – Belotti – Bennani – Benvenuti – Bertola – Bertone – Bettiol – Bianchi Bianca – Bianchini Laura – Bocconi – Borsellino – Bosco Lucarelli – Bovetti – Braschi – Brusasca – Bubbio – Bulloni Pietro – Burato.

Caccuri – Caiati – Calosso – Camposarcuno – Canepa – Canevari – Caporali – Cappa Paolo – Cappelletti – Cappi Giuseppe – Cappugi – Carbonari – Carboni Angelo – Carboni Enrico – Carignani – Carìstia – Caronia – Carratelli – Cartìa – Caso – Cassiani – Castelli Edgardo – Castelli Avolio – Cavalli – Chatrian – Chieffi – Chiostergi – Ciampitti – Ciccolungo – Cifaldi – Cimenti – Clerici – Coccia – Codacci Pisanelli – Colombo Emilio – Colonnetti – Conci Elisabetta – Coppi Alessandro – Corsanego – Corsi – Cortese – Cotellessa – Cremaschi Carlo – Croce.

D’Amico Diego – D’Aragona – De Caro Gerardo – De Caro Raffaele – De Gasperi – Del Curto – Della Seta – Delli Castelli Filomena – De Martino – De Michele Luigi – De Palma – De Unterrichter Maria – Di Fausto – Di Giovanni.

Einaudi – Ermini.

Fabriani – Fanfani – Fantoni – Ferrario Celestino – Fietta – Filippini – Firrao – Foresi – Franceschini – Fuschini.

Gabrieli – Galati – Garlato – Gatta – Germano – Geuna – Ghidini – Giacchero – Gonella – Gortani – Gotelli Angela – Grassi – Grilli – Gronchi – Guariento – Guerrieri Emanuele – Gui – Gullo Rocco.

Jacini – Jervolino.

La Malfa – Lami Starnuti – La Pira – Lazzati – Leone Giovanni – Lettieri – Lizier – Longhena.

Macrelli – Mannironi – Manzini – Marazza – Marconi – Martinelli – Marzarotto – Mastino Gesumino – Mattarella – Mazzoni – Meda Luigi – Medi Enrico – Mentasti – Merlin Umberto – Micheli – Montemartini – Monterisi – Monticelli – Montini – Morelli Luigi – Morelli Renato – Morini – Moro – Mortati – Motolese.

Nicotra Maria – Notarianni – Numeroso.

Orlando Camillo.

Pacciardi – Pallastrelli – Paris – Parri – Pastore Giulio – Pat – Pella – Pera – Perassi – Perrone Capano – Persico – Petrilli – Piccioni – Piemonte – Pignedoli – Ponti – Preti – Proia.

Quarello – Quintieri Adolfo.

Rapelli – Recca – Rescigno – Restagno – Riccio Stefano – Rivera – Rodinò Ugo – Roselli – Rossi Paolo – Rumor.

Saggin – Salerno – Salizzoni – Salvatore – Sampietro – Sapienza – Scalfaro – Scelba – Schiratti – Scoca – Scotti Alessandro – Segala – Segni – Sforza – Simonini – Spataro – Stella – Storchi – Sullo Fiorentino.

Taviani – Terranova – Titomanlio Vittoria – Togni – Tosato – Tosi – Tozzi Condivi – Treves – Trimarchi – Tupini – Turco.

Uberti.

Valenti – Vallone – Valmarana – Vaironi – Viale – Vicentini – Vigo – Vigorelli – Villani.

Zaccagnini – Zagari – Zerbi.

Si sono astenuti:

Conti – Corbino – Crispo.

Malvestiti.

Rubilli.

Sono in congedo:

Ambrosini.

Bellavista.

Fedeli Aldo – Ferrarese.

Galioto.

Lombardo Ivan Matteo.

Pignatari.

Raimondi – Ravagnan.

Saragat.

Zotta.

PRESIDENTE. Dichiaro chiusa la votazione ed invito gli onorevoli Segretari a procedere al computo dei voti.

(Gli onorevoli Segretari procedono al computo dei voti).

Risultato della votazione nominale.

PRESIDENTE. Comunico il risultato della votazione nominale:

Presenti                441

Votanti                 436

Astenuti                5

Maggioranza         219

Hanno risposto sì     204

Hanno risposto no    232

(L’Assemblea non approva la proposta degli onorevoli Orlando e Giannini).

Dato l’esito della votazione, resta, pertanto, inteso che all’ordine del giorno di una delle sedute di domani si porrà il progetto di legge sulla ratifica del Trattato di Pace.

Sull’ordine dei lavori.

CODIGNOLA. Chiedo di parlare.

PRESIDENTE. Ne ha facoltà.

CODIGNOLA. Mi dispiace di dover affliggere ancora una volta – la quarta volta – l’Assemblea intorno ad una questione rimasta tuttavia in sospeso, la questione cioè della discussione di una mozione da me presentata al Ministro della pubblica istruzione. Come i colleghi ricorderanno, ieri sera la questione è stata discussa e il collega onorevole Gronchi ha avuto a proporre che questa sera si decidesse quando discutere della mozione stessa. Successivamente poi l’onorevole Sansone propose che si discutesse questa mattina, ma la maggioranza respinse questa proposta.

Mi corre pertanto l’obbligo di richiamare nuovamente l’attenzione dell’Assemblea sul fatto che restano ormai due soli giorni alla data fissata dall’onorevole Ministro della pubblica istruzione per le elezioni dei membri del Consiglio Superiore. Se non si procederà domani mattina a questa discussione, nel frattempo avranno luogo le elezioni e sarà perfettamente inutile discuterne più.

Prego quindi l’onorevole Presidente di volere far presente all’Assemblea il carattere di urgenza che presenta questa discussione.

GRONCHI. Chiedo di parlare.

PRESIDENTE. Ne ha facoltà.

GRONCHI. Nella seduta dei capi-Gruppo, si era stabilito che si dovesse includere il minor numero possibile di altri argomenti negli ordini del giorno per il prosieguo dei nostri lavori parlamentari in questi ultimi giorni. Data comunque l’importanza e il carattere di urgenza della questione di cui si tratta, siamo favorevoli a proporre che domani venga tenuta una seduta notturna, appositamente per discutere della mozione in oggetto.

CROCE. Chiedo di parlare.

PRESIDENTE. Ne ha facoltà.

CROCE. Vorrei unirmi alla richiesta che la questione venga, in qualche modo, affrontata nella seduta di domani, perché il momento delicatissimo in cui ci troviamo sconsiglia che le elezioni per il Consiglio Superiore vengano tenute frettolosamente: desta tale preoccupazione, nel mondo degli insegnanti, una simile eventualità, che io reputo assolutamente necessario che la discussione debba aver luogo nel giorno di domani.

PRESIDENTE. Vi è dunque la proposta dell’onorevole Gronchi di fissare per domani una seduta notturna per la discussione della mozione. (Commenti).

SELVAGGI. Chiedo di parlare.

PRESIDENTE. Ne ha facoltà.

SELVAGGI. Io proporrei che si discutesse la mozione nella seduta antimeridiana perché, nella seduta dei capi-Gruppo, si erano formulate soltanto delle proposte, ma non si era stabilito nulla di definitivo. Io chiederei pertanto che la discussione sulla ratifica del Trattato di pace fosse fissata per la seduta pomeridiana, riservando invece quella antimeridiana allo svolgimento della mozione.

PRESIDENTE. Invito l’onorevole Ministro della pubblica istruzione a pronunciarsi al riguardo.

GONELLA, Ministro della pubblica istruzione. Mi rimetto al voto dell’Assemblea.

MALAGUGINI. Chiedo di parlare.

PRESIDENTE. Ne ha facoltà.

MALAGUGINI. Circa quest’ultima proposta, vorrei pregare il collega Gronchi di riflettere che una discussione la quale avvenisse nella seduta notturna di domani non servirebbe allo scopo, in quanto metterebbe nella quasi impossibilità di prendere un provvedimento qualsiasi, di conferma o di rinvio delle elezioni, fissate per sabato prossimo.

C’è poi un’altra considerazione di carattere particolare che mi permetto di sottoporre alla sensibilità del collega Gronchi. Poiché alla discussione desidererebbe prender parte anche l’onorevole Croce, sarebbe bene evitare al venerando nostro collega il disagio di una seconda seduta notturna.

PRESIDENTE. Onorevole Gronchi, quale è il suo parere?

GRONCHI. Non perché io ritenga giustificata l’osservazione del collega Malagugini, ma per quanto egli ha detto nei riguardi dell’onorevole Croce, non insisto nella mia proposta.

PRESIDENTE. Rimane allora la proposta dell’onorevole Selvaggi di discutere domani nella seduta antimeridiana la mozione Codignola.

La pongo ai voti.

(È approvata).

LA MALFA. Chiedo di parlare.

PRESIDENTE. Ne ha facoltà.

LA MALFA. Faccio presente che se la Commissione avesse tempo domani di esaminare il progetto del Titolo III dell’imposta patrimoniale, riguardante gli enti collettivi, potrebbe presentarsi alla discussione dopodomani in una posizione, per dir così, più definita.

PRESIDENTE. Onorevoli colleghi, desidero sottolineare che il lavoro che ci si prospetta, si presenta assai duro. Evidentemente al ritmo con il quale procede l’esame della patrimoniale, è da escludersi che questo disegno di legge possa essere approvato entro la giornata di sabato. (Commenti). Credo che tutti i colleghi siano convinti di ciò. Pertanto, se deve essere esaminata la materia della patrimoniale, discussa la mozione e discussa la ratifica del Trattato di pace, occorre predisporci senz’altro ad un ordine di lavori che si prolunghi oltre il tempo inizialmente previsto.

Per sabato non potremo perciò concludere la sessione dell’Assemblea. (Commenti).

Resta comunque inteso che domani si terranno due sedute: alle 10 per discutere la mozione Codignola, ed eventualmente per il seguito della discussione sull’imposta patrimoniale, e alle 17 per l’esame del disegno di legge sulla ratifica del Trattato di Pace.

(Così rimane stabilito).

Interpellanze e interrogazioni con richiesta d’urgenza.

PRESIDENTE. Comunico che sono state presentate le seguenti interpellanze con richiesta di risposta urgente:

«Al Ministro dell’interno, per conoscere chi abbia autorizzato le autorità di pubblica sicurezza a limitare la libertà di propaganda vietando l’affissione di manifesti di critica al Governo, e quali misure il Governo intende prendere per richiamare tutte le autorità dello Stato al rispetto delle libertà democratiche.

«Togliatti, D’Onofrio, Secchia, Novella, Rossi Maria Maddalena».

«Al Presidente del Consiglio dei Ministri e al Ministro dell’interno, per conoscere quali motivi abbiano finora impedito di dare all’Associazione nazionale reduci il riconoscimento giuridico elevandola ad Ente morale: per sapere se risulti lo stato di crisi emergente esistente nell’Associazione stessa, in conseguenza del mancato riconoscimento e di procedimenti autoritari messi in opera da taluni dirigenti, ed aggravato dai recenti provvedimenti dei prefetti di Milano e di Genova: per sollecitare in via di urgenza il riconoscimento giuridico di cui sopra, onde restituire ai reduci, attraverso un saggio controllo, la certezza della onesta tutela dei loro specifici interessi e diritti.

«Bonfantini, Bianchi Bianca, Rossi Paolo, Segala».

Chiedo al Governo quando intende rispondere.

DE GASPERI, Presidente del Consiglio dei Ministri. Se i lavori dell’Assemblea dovessero prolungarsi oltre la settimana, il Governo si riserva di determinare, nella seduta di lunedì prossimo, il giorno in cui intende discutere queste interpellanze.

PRESIDENTE. Sono inoltre pervenute alla Presidenza le seguenti interrogazioni con richiesta di risposta urgente:

«Al Ministro dei trasporti, per conoscere per quali valide ragioni non debba effettuarsi la domenica il servizio dell’autolinea Napoli-Piedimonte d’Alife; il che costringe la popolazione di quella zona a servirsi di autolinee private che effettuano il servizio in concorrenza con la linea sovvenzionata.

«Sansone».

«Al Presidente del Consiglio, dei Ministri, per conoscere:

1°) se, in previsione dell’Anno Santo 1950 – avvenimento che si annunzia di particolare importanza e significazione, e per cui un elevato numero di pellegrini, da ogni parte del mondo cattolico, affluirà in Italia – non ritenga di redigere un concreto piano, elaborato nei suoi dettagli organizzativi e tecnici, per mettere «a punto» l’attrezzatura turistica e ricettiva italiana e adeguarla alla eccezionale esigenza;

2°) se non reputi doveroso, da parte del Governo italiano, in omaggio alla portata universale della fausta e sacra ricorrenza – e congiuntamente nell’interesse della Nazione, che potrà ricevere dall’afflusso cospicuo di visitatori stranieri un benefico e provvidenziale apporto di valuta pregiata – di stabilire le indispensabili premesse, e provvedere gli stanziamenti finanziari occorrenti, perché l’Italia possa offrire ai pellegrini dell’Anno Santo 1950 il massimo desiderabile di conforto, col rendere efficiente l’attrezzatura alberghiera non soltanto della Capitale – dove convergeranno essenzialmente la folle – ma anche nelle zone a spiccato carattere turistico di cui la Penisola è doviziosamente ricca. Il patrimonio d’arte e di archeologia; la incomparabile e prestigiosa bellezza delle riviere, delle pianure e dei monti; i ricordi recenti – come i luoghi dello sbarco alleato, i campi di battaglia ed i Cimiteri di guerra – costituiscono un irresistibile richiamo di amore e di nostalgia;

3°) se non ritenga essenziale armonizzare l’attuazione del programma di opere pubbliche per la ricostruzione ed a sollievo della disoccupazione, alle esigenze relative al miglioramento della rete stradale e delle comunicazioni che si rende necessario realizzare per consentire un ordinato e soddisfacente movimento turistico;

4°) se non giudichi conveniente dar sollecito inizio ad una perfetta, moderna propaganda dei luoghi considerati nel paragrafo 2°, attraverso la pubblicazione di opuscoli editi con serietà di propositi e dignità di forma nelle varie lingue e da diffondersi nei vari paesi del mondo; con la ripresa di documentari cinematografici; con radiotrasmissioni nelle varie lingue, anche in collegamento con stazioni estere, perché si formi, intorno all’avvenimento dell’Anno Santo 1950, una fervida atmosfera di interesse e di attesa;

5°) se non creda di dover, tra l’altro – direttamente il Governo o attraverso organi ed enti che più si riterranno competenti ed idonei – predisporre la organizzazione di veri e propri peripli turistici attraverso i luoghi che offrano al forestiero motivi, risorse e conforti di maggiore attrattiva, fissando persino il costo di essi, comprensivo dal momento dello sbarco o dall’arrivo sul suolo italiano, di viaggi, albergo, vitto, tasse di soggiorno e di ogni altra eventuale prestazione, allo scopo di incoraggiare con opportuna tempestività, coloro i quali, per avventura, intendessero rinunciare al viaggio in Italia per non correre l’alea dell’imprevisto, nei riguardi della spesa;

6°) se non ritenga di suscitare, con proficue iniziative, negli italiani che dovranno aver comunque contatti con gli ospiti – funzionari, pubblici ufficiali, agenti, personale alberghiero e dei pubblici esercizi, guide e cittadini tutti – una fervida gara di cortesia dignitosa ed accogliente, perché la tradizionale gentilezza italica superi la aspettativa e si affermi come non ultima e non trascurabile espressione di civiltà e di consapevolezza;

7°) se non ravvisi, infine, l’opportunità di demandare ad una Commissione parlamentare di studio il compito di coordinare le varie iniziative in un piano unico da attuarsi con gradualità e che, fino d’ora, impegni la Nazione e la prepari materialmente e spiritualmente all’importante avvenimento.

«De Martino, Giordani, Rodinò Ugo».

«Al Presidente del Consiglio dei Ministri e al Ministro dei lavori pubblici, per conoscere in quale modo intendano di provvedere perché siano rispettati gli impegni che lo Stato ha assunto, verso cittadini gravemente colpiti dall’insulto bellico, a mezzo dell’Ufficio di assistenza post-bellica di Parma, di quella Prefettura e Genio civile, impegnando ed in parte erogando 57.830.000 lire, ordinate dall’allora Ministro onorevole Gasparotto con la sua lettera all’assistenza post-bellica di Parma, in data 19 aprile 1946, e con le precise istruzioni contenute nell’altra del 14 maggio 1946, per l’erogazione a ricostruzione di case danneggiate o distrutte per rappresaglie contro i partigiani.

«In base ad esse l’Ufficio in parola, d’accordo coi sindaci, presidenti dei singoli Comitati comunali di ricostruzione, ha assegnato le somme, ha promosso ed accettato le cessioni dei contributi per la legge dei senzatetto, chiesti dal Genio civile con contratti per mano di notaio, ha anticipato, nelle forme regolari, le rate pattuite sulla base dello stato di avanzamento dei lavori, circa venti milioni di lire.

«Col passaggio della competenza al Ministero dei lavori pubblici ogni cosa è stata fermata con danno incalcolabile delle ricostruzioni incominciate e di tanti colpiti e danneggiati, i quali non comprendono e l’interrogante con loro, come la pubblica Amministrazione possa sottrarsi, pel semplice passaggio da un Ministero all’altro, ad impegni legalmente assunti.

«Micheli, Valenti».

Informo che il Governo si riserva di comunicare quando intende rispondere a queste interrogazioni.

PERTINI. Chiedo di parlare.

PRESIDENTE. Ne ha facoltà.

PERTINI. Ho presentato una interrogazione sui gravi fatti verificatesi nelle carceri di Poggioreale. Chiedo al Governo quando intenda rispondere.

GRASSI, Ministro di grazia e giustizia. Comunico di avere inviato sul posto un alto funzionario per svolgere un’inchiesta e riferire. Mi riservo, pertanto, di dare una risposta sui fatti denunciati appena in possesso dei risultati dell’inchiesta.

PERTINI. Prendo atto della comunicazione del Ministro, da cui risulta che il fatto segnalato esiste e che è stata predisposta una inchiesta. Rimango in attesa di una risposta concreta.

TARGETTI. Chiedo di parlare.

PRESIDENTE. Ne ha facoltà.

TARGETTI. Unitamente ad altri colleghi avevo presentato un’interrogazione al Ministro di grazia e giustizia II Ministro dichiarò di essere pronto a rispondere all’interrogazione. Noi chiediamo ora se può essere fissato il giorno di discussione dell’interrogazione stessa.

PRESIDENTE. Faccio presente ai colleghi che la eventuale fissazione di una seduta dedicata alle interrogazioni è subordinata al lavoro che l’Assemblea dovrà affrontare e concludere prima delle vacanze.

Vorrei comunque pregare i colleghi di considerare che il generoso e lodevole interesse di ciascuno per particolari, sia pure importanti, problemi, deve essere contenuto nei limiti ormai fissati all’attività dell’Assemblea.

Interrogazioni.

PRESIDENTE. Si dia lettura delle interrogazioni pervenute alla Presidenza.

MOLINELLI, Segretario, legge:

«Il sottoscritto chiede d’interrogare il Ministro della pubblica istruzione, per conoscere quali provvedimenti intenda adottare nei riguardi del Commissario della Società italiana di metapsichica, in relazione alle ripetute violazioni delle disposizioni statutarie da lui compiute ed alla sua pervicace resistenza agli inviti perentori rivoltigli dal Ministero della pubblica istruzione di rientrare nella legalità, convocando l’assemblea generale dei soci per la regolare elezione delle cariche sociali.

«Mortati».

«Il sottoscritto chiede di interrogare i Ministri delle finanze e del tesoro, per conoscere se non ritengano opportuno, oltreché giusto, estendere, nella stessa misura, al proprietario che coltiva la vigna in unione alla mano d’opera altrui il beneficio dell’esenzione dal pagamento dell’imposta di consumo, sul vino concesso dall’articolo 2 del decreto legislativo presidenziale 29 marzo 1947, n. 177, al solo manuale coltivatore del fondo.

«Costringere il proprietario, che paga le non lievi imposte sulla vigna, che dà lavoro ai disoccupati, che dirige e controlla tale lavoro, che acquista concimi e insetticidi, a pagare il dazio sul bicchiere del proprio vino, che con la famiglia giornalmente consuma, e sul vino che somministra agli operai addetti ai lavori del vigneto, è semplicemente assurdo, per non dire iniquo.

Devesi rilevare, inoltre, che, negandosi la esenzione di cui sopra a questa benemerita categoria di piccoli proprietari, molte vigne cederanno il posto a colture meno faticose e remunerative, con grave danno per l’economia nazionale. (L’interrogante chiede la risposta scritta).

«Paolucci».

«Il sottoscritto chiede d’interrogare il Ministro dell’interno e l’Alto Commissario per l’igiene e la sanità pubblica, per conoscere quali provvidenze precauzionali s’intenda adottare per evitare che la ripresa attività delle fabbriche di Borgofranco Ivrea: Società alluminio italiana, Società idroelettrica Borgofranco e Società Cheddite rechino serio danno con le esalazioni di gas nocivi alla vegetazione, ai raccolti e ai numerosi agricoltori della zona, come già precedentemente si è verificato. (L’interrogante chiede la risposta scritta).

«Scotti Alessandro».

«Il sottoscritto chiede d’interrogare il Ministro delle finanze, per conoscere se non reputi necessario ed urgente promuovere provvedimenti i quali valgano ad assicurare ai comuni – meglio che non facciano ora le disposizioni contenute negli articoli 161 e seguenti del testo unico 14 settembre 1931, numero 1175 e successive modificazioni ed aggiunte – la percezione dell’imposta sulle industrie in confronto delle aziende industriali che hanno la propria sede principale o anche solo gli uffici nella capitale, o nei capoluoghi di regione o di provincia, come suole accadere, mentre tengono i propri impianti industriali di produzione nei comuni minori.

«E notorio che questi comuni, per ragioni certamente non ignote al Ministero delle finanze, riescono difficilmente ad ottenere un congruo riparto del reddito di ricchezza mobile accertato alle aziende dagli uffici distrettuali delle imposte ove le aziende stesse hanno la propria sede: generalmente la ottengono in misura inadeguata e con notevole dannoso ritardo. Accade così che comuni, nei quali vi sono stabilimenti industriali con migliaia di operai e dove, pertanto, i pubblici servizi costano assai più che nei comuni con popolazione rurale, devono sostenere spese gravose, in misura cospicua e sempre in aumento, senza riuscire a poterne trasferire anche solo una congrua parte sulle industrie ivi operanti.

«L’intervento del Ministro delle finanze, nel senso chiesto, è divenuto tanto più urgente ora, attese anche le disposizioni rivolte a contenere per quest’anno ed eliminare in seguito i contributi dello Stato ad integrazione dei bilanci comunali. (L’interrogante chiede la risposta scritta).

«Bulloni».

«Il sottoscritto chiede d’interrogare il Ministro dell’agricoltura e delle foreste, perché chiarisca la ragione per la quale non sia ancora stato disposto il beneficio consentito dall’articolo 1664 del nuovo Codice civile concernente la bilaterale revisione dei prezzi per i contratti-appalto, quando vengono a verificarsi le condizioni previste dall’articolo stesso.

«Ciò, perché, nelle attuali condizioni di continuo rialzo del costo della mano d’opera e di quello delle merci, le imprese assuntrici di lavori in appalto per conto del Ministero dell’agricoltura e delle foreste non hanno ancora beneficiato del trattamento che è stato già disposto per i contratti assunti per conto del Ministero dei lavori pubblici, determinando:

1°) malcontento nell’ambiente delle imprese appaltataci, acuito dai continui ed annunciati stanziamenti in ordine di decine di miliardi per la realizzazione di nuove opere, mentre soano ancora in via di liquidazione lavori di contratti estinti, molti dei quali risalenti al 1941, liquidazioni ferme non tanto per la macchinosa burocrazia, quanto per le divergenze sorte nell’applicazione delle clausole contrattuali relative alle revisioni;

2°) l’esodo all’estero di molte imprese, in modo particolare di quelle più importanti e meglio attrezzate, che determinano – e maggiormente determineranno nell’avvenire – nocumento alla ricostruzione della Patria. (L’interrogante chiede la risposta scritta).

«Rognoni».

«Il sottoscritto chiede d’interrogare il Ministro del tesoro, per conoscere per quali motivi non si sia dato ancora corso al decreto legislativo concernente la corresponsione della intera indennità di caroviveri al personale in effettivo servizio presso comandi, enti o reparti dell’Esercito e dell’Aeronautica militare, ove siano regolarmente costituite mense obbligatorie. (L’interrogante chiede la risposta scritta).

«Nobile».

«I sottoscritti chiedono d’interrogare il Ministro della difesa, per conoscere i motivi in base ai quali ufficiali superiori e generali pretermessi (prima dell’8 settembre 1943) per ragioni di salute o per mancanza del periodo di comando, siano stati collocati nella riserva con pensione normale e non si siano applicate ai medesimi le disposizioni speciali di cui al regio decreto legislativo 14 maggio 1946, n. 384; di tali disposizioni usufruiscono anche ufficiali discriminati e puniti per il loro comportamento dopo l’8 settembre 1943.

«La diversità di trattamento non solo è in contrasto coi precedenti di detti ufficiali pretermessi e spesso anche con la lodevole attività svolta dopo l’8 settembre 1943, ma mette i medesimi, con la limitata pensione ad essi concessa, in condizioni impossibili di vivere con le loro famiglie.

«Si chiede perciò, per evidenti ragioni di giustizia, che ai predetti ufficiali vengano estese le norme di cui al citato regio decreto legislativo. (Gli interroganti chiedono la risposta scritta).

«Numeroso, Riccio, Leone Giovanni, De Michele».

«Il sottoscritto chiede d’interrogare il Ministro della pubblica istruzione, per sapere se non creda necessario che la pubblica Amministrazione si pronunci sui ricorsi presentati dalle insegnanti elementari che parteciparono al concorso magistrale del gennaio 1942 (posti di prima categoria nelle scuole di Roma) contro la limitazione del numero dei posti messi a concorso, prima che siano banditi i nuovi concorsi, o che siano effettuati trasferimenti dalla provincia per l’anno scolastico 1947-48.

«L’urgenza di decidere i ricorsi suddetti si giustifica, a prescindere da considerazioni di buona amministrazione, con il pericolo che abbiano diversa destinazione posti che debbono essere reintegrati al concorso magistrale del 15 gennaio 1942. (L’interrogante chiede la risposta scritta).

«Bozzi».

«Il sottoscritto chiede di interrogare il Governo, per sapere:

1°) se intende concretare la promessa, più volte fatta, di emanare un provvedimento che riconosca i debiti contratti dalle formazioni, partigiane e dai Comitati di liberazione nazionale che per esse hanno agito in zona libera;

2°) se non creda opportuno emanare tale provvedimento al più presto per limitare il danno già grave derivante dalla svalutazione della moneta. (L’interrogante chiede la risposta scritta).

«Mezzadra».

PRESIDENTE. La prima delle interrogazioni testé lette sarà iscritta all’ordine del giorno e svolta al suo turno, trasmettendosi ai Ministri competenti le altre per le quali si chiede la risposta scritta.

La seduta termina alle 22.40.

Ordine del giorno per le sedute di domani.

Alle ore 10:

  1. – Svolgimento di una mozione dell’onorevole Parri ed altri sull’elezione del Consiglio superiore della pubblica istruzione.
  2. Seguito della discussione sul disegno di legge:

Convalida del decreto legislativo del Capo provvisorio dello Stato in data 29 marzo 1947, n. 143, concernente l’istituzione di un’imposta straordinaria progressiva sul patrimonio. (14).

Alle ore 17:

Discussione sul disegno di legge:

Approvazione del Trattato di pace tra le Potenze Alleate ed Associate e l’Italia, firmato a Parigi il 10 febbraio 1947. (23).

ANTIMERIDIANA DI MERCOLEDÌ 23 LUGLIO 1947

ASSEMBLEA COSTITUENTE

CXCVII.

SEDUTA ANTIMERIDIANA DI MERCOLEDÌ 23 LUGLIO 1947

PRESIDENZA DEL VICEPRESIDENTE CONTI

INDICE

Sul processo verbale:

Perassi

Mortati

Per un attentato all’abitazione dell’onorevole Tessitori:

Fantoni

Presidente

Disegno di legge (Seguito della discussione):

Convalida del decreto legislativo del Capo provvisorio dello Stato in data 29 marzo 1947, n. 143, concernente l’istituzione di un’imposta straordinaria progressiva sul patrimonio. (14).

Presidente

Cappi

Rescigno

Mazzei

Crispo

Sullo

Dugoni

Veroni

Bosco Lucarelli

Castelli Edgardo

Coppi

La Malfa, Relatore

Pella, Ministro delle finanze

Vigorelli

Basile

Bertone

Disegni di legge (Presentazione):

Sforza, Ministro degli affari esteri

Presidente

La seduta comincia alle 10.30.

AMADEI, Segretario, legge il processo verbale della precedente seduta antimeridiana.

Sul processo verbale.

PERASSI. Chiedo di parlare.

PRESIDENTE. Ne ha facoltà.

PERASSI. Un impegno universitario mi ha impedito di essere presente alla seduta di ieri mattina, quando, improvvisamente, essendosi rinviato l’esame dell’articolo 123, che avrebbe coinvolto una lunga discussione, venne in esame l’articolo 124 del progetto di Costituzione, relativo all’ordinamento regionale.

Dal resoconto sommario risulta che il Presidente della Commissione, onorevole Ruini, cortesemente, nonostante la mia assenza, ha voluto leggere il testo dell’articolo 124 quale io lo avevo proposto, aggiungendo che la Commissione lo ha accolto sostanzialmente.

Io direi, anzi, che la Commissione lo ha letteralmente ed integralmente accolto; ma vi ha fatto un’aggiunta finale, sì che sarei tentato di dire in cauda venenum. L’aggiunta finale consiste nella disposizione secondo la quale lo statuto di ogni Regione, elaborato e adottato secondo le norme indicate nello stesso articolo, «è approvato con legge dello Stato».

Se io fossi stato presente non avrei mancato di insistere in una maniera particolarmente energica nel mettere in evidenza le ragioni di merito che, a mio parere, stanno contro questa disposizione, la quale rende estremamente pesante il meccanismo di formazione degli statuti.

Ma, a prescindere da questa ragione di merito, avrei ieri preliminarmente sollevato un’altra questione, ossia avrei proposto che questa parte finale dell’articolo 124 venisse rinviata per la seguente considerazione. La disposizione che prevede l’approvazione con legge degli statuti regionali è una forma particolare di controllo della formazione di questa speciale legge regionale che, avuto riguardo al suo contenuto specifico, è designata nell’articolo 124 con la parola «Statuto». Ora, l’Assemblea aveva già sospeso e rinviato l’esame dell’articolo 118 il quale concerne i controlli sulle leggi regionali in generale. La conseguenza mi pare logica: essendosi rinviato l’articolo 118, sarebbe stato opportuno rinviare anche questa parte finale dell’articolo 124, concernente il controllo sulla formazione dello Statuto. Per queste considerazioni mi riservo di riproporre la questione in sede di coordinamento.

MORTATI. Chiedo di parlare.

PRESIDENTE. Ne ha facoltà.

MORTATI. Se fossi stato presente, avrei fatto una proposta analoga a quella dell’onorevole Perassi, per il rinvio a quando sarà discusso l’articolo 118; e mi riservo anche di riproporre la questione.

Per un attentato all’abitazione dell’onorevole Tessitori.

FANTONI. Chiedo di parlare.

PRESIDENTE. Ne ha facoltà.

FANTONI. Ieri mattina, nelle primissime ore, a Udine, contro l’abitazione di un membro della Costituente, l’onorevole Tiziano Tessitori, ed a causa dell’atteggiamento politico da lui assunto sia in questa Assemblea sia fuori di essa per ciò che attiene e riguarda l’autonomia del Friuli delle persone rimaste sconosciute finora – ma che mi rifiuto di credere friulane – hanno lanciato e fatto scoppiare una bomba, che per fortuna non ha causato danni alle persone, ma solo alle cose. Nel protestare contro questo atto di criminosa intolleranza politica che attenta alla libertà dei membri della Costituente, che viola le norme del vivere civile e del costume democratico, e che richiama noi anziani a quelle che sono state le avvisaglie del fascismo nel 1919-20-21 contro uomini e contro cose, io, a nome del Gruppo democristiano, ed in particolare dei deputati del Friuli – da questa Assemblea eretto ormai a Regione – rivolgo all’amico onorevole Tessitori l’espressione della solidarietà indefettibile e completa, augurando che polizia e Magistratura compiano il loro dovere per la scoperta e punizione dei colpevoli. (Applausi).

PRESIDENTE. Credo di interpretare i sentimenti di protesta dell’Assemblea associandomi, a nome di tutti i colleghi, alle parole dell’onorevole Fantoni per l’ignobile aggressione perpetrata ai danni dell’onorevole Tessitori. (Applausi generali).

Seguito della discussione sul disegno di legge: Convalida del decreto legislativo del Capo provvisorio dello Stata in data 29 marzo 1947, n. 143, concernente l’istituzione di una imposta straordinaria progressiva sul patrimonio. (14).

PRESIDENTE. L’ordine del giorno reca il seguito della discussione sul disegno di legge: Convalida del decreto legislativo del Capo provvisorio dello Stato in data 29 marzo 1947, n. 143, concernente l’istituzione di una imposta straordinaria progressiva sul patrimonio. (14).

Siamo all’articolo 72. Se ne dia lettura nel testo proposto dalla Commissione:

AMADEI, Segretario, legge:

«L’imposta straordinaria proporzionale iscritta a ruolo è riscossa, non oltre il 31 dicembre 1948, in rate uguali coincidenti con quelle normali per le imposte dirette.

«I relativi ruoli di riscossione non sono soggetti a pubblicazione.

«Per la riscossione compete all’esattore l’aggio contrattuale, esclusa l’addizionale prevista dagli articoli 5 e 8 del decreto legislativo luogotenenziale 18 giugno 1945, n. 424.

«Il contribuente ha facoltà di chiedere, entro il giorno 10 del mese successivo a quello di scadenza della prima rata, il riscatto, con l’abbuono del dieci per cento, dell’imposta dovuta ai sensi dell’articolo 68.

«Il versamento del prezzo di riscatto deve effettuarsi in Tesoreria entro il termine di scadenza della seconda rata».

PRESIDENTE. Su questo articolo l’onorevole Cappi ha presentato il seguente emendamento, firmato anche dagli onorevoli Avanzini, Bonomi Paolo, Bosco Lucarelli, Stella, Uberti, Balduzzi, Benvenuti, Monticelli e Adonnino:

«Il termine di pagamento è portato a dieci anni per le opere pie e gli enti morali.

«Per tutte le partite, il cui imponibile sia inferiore a lire 1.500.000 il termine è portato a cinque anni e l’abbuono, in caso di riscatto, sarà del 25 per cento.

«Coloro che avessero già effettuato il riscatto con l’abbuono del 10 per cento, avranno diritto ad ottenere l’abbuono dell’ulteriore 15 per cento».

L’onorevole Cappi ha facoltà di svolgere il suo emendamento.

CAPPI. Onorevoli colleghi, io ho già svolto ieri, almeno in parte, l’emendamento che avevo presentato e che tendeva, sia pure in forma e con metodo diversi da quello proposto dall’emendamento Scoccimarro, Pesenti ed altri, a favorire la piccola proprietà relativamente al pagamento dell’imposta sul patrimonio.

Quell’emendamento mantengo; però ho apportato qualche modifica di forma, non di sostanza. Cosicché l’emendamento nella sua nuova forma, che ho già comunicato al Ministro delle finanze ed ora alla Presidenza dell’Assemblea, suonerebbe così: «Il termine di pagamento è portato a 10 anni per le Opere Pie ed enti morali; per tutte le partite il cui imponibile sia inferiore a 1 milione, il termine è portato a 3 anni e l’abbuono del canone in caso di riscatto sarà del 20 per cento».

Le modifiche che ho portato sono sostanzialmente due ed accentuano, a mio avviso, il favore alla piccola proprietà, perché, mentre nel mio primo emendamento si parlava di un termine di 5 anni per le partite costituite da fabbricati e immobili, qui ho parlato, in genere, di tutte le partite comprendendo cioè quelle piccole aziende artigiane, alle quali, mi pare, aveva fatto cenno ieri l’onorevole Scoccimarro, cioè tutte le partite, comunque costituite, il cui imponibile sia inferiore a 1 milione avranno un termine di 3 anni senza interessi. La seconda modificazione è stata questa: nel mio primo emendamento parlavo di una rateazione quinquennale per tutti gli immobili soggetti al vincolo dei canoni. Ma fu fatto osservare, credo giustamente, che non è del tutto equo questo, perché se taluno ha un palazzo che vale milioni e milioni, anche se è vincolato nell’affitto, non sembra giusto concedergli questa rateazione. Perciò, anche per gli immobili vincolati è concessa la rateazione nel caso che l’imponibile non superi 1 milione.

Tengo poi ferma l’altra proposta: in caso di riscatto sarà concesso l’abbuono del 20 per cento. Il che non è eccessivo, perché si tratta di pagare anticipatamente non più un’imposta che deve essere pagata in un anno, ma in 5 anni. Si considera, cioè, il valore attuale della lira.

Non nascondo che tecnicamente forse è un po’ alto l’abbuono del 20 per cento, ma questo l’ho fatto per allettare ad esercitare il riscatto nell’interesse di una più pronta riscossione da parte del fisco. Perciò mantengo il mio emendamento nella forma che ora ho illustrato.

PRESIDENTE. L’onorevole Rescigno ha presentato il seguente emendamento:

«Al primo comma, alle parole: non oltre il 31 dicembre 1948, sostituire le parole: non oltre il 31 dicembre 1949».

Onorevole Rescigno, lo mantiene?

RESCIGNO. Lo mantengo e non credo che ci sia bisogno di illustrarlo, in quanto la finalità è evidente e mi auguro che il Governo lo accolga.

PRESIDENTE. L’onorevole Bonomi Paolo, ha già svolto il seguente emendamento presentato insieme con l’onorevole Valmarana:

«Dopo il primo comma, aggiungere il seguente:

«Le partite di imposta inferiori a lire 30.000 verranno riscosse entro il 1952 e quelle comprese fra le lire 30.000 e le lire 60.000 entro il 1950».

Segue l’emendamento dell’onorevole Mazzei:

«Dopo il primo comma, aggiungere il seguente:

«L’imposta è riscossa in sedici rate bimestrali eguali con inizio dal giugno 1947 per imponibili non superiori a lire 500 mila e in ventidue rate per imponibili non superiori a lire trecentomila».

L’onorevole Mazzei ha facoltà di svolgerlo.

MAZZEI. Ho già detto le ragioni che mi inducevano a presentare i due emendamenti, quando ho illustrato l’emendamento sull’articolo 68, che disgraziatamente non è passato per una lieve differenza di voti. In mancanza dell’elevamento del minimo imponibile è maggiormente necessaria una rateazione del pagamento dell’imposta per gli imponibili minori.

Il mio emendamento prevede il pagamento in 16 rate bimestrali uguali per imponibili non superiori a 500 mila lire e il pagamento in 22 rate per imponibili non superiori a 300 mila lire. È evidente che questo è il minimo beneficio che si possa concedere alla piccola proprietà. Visto che si è tanto parlato di difesa della piccola proprietà, ma poi quando si è votato nessuno ha creduto di doverla concretamente proteggere, ritengo che questa dilazione servirà almeno a rendere non impossibile il pagamento dell’imposta, che è indubbiamente gravosa, da parte dei piccoli proprietari. Non v’è bisogno di aggiungere altro.

PRESIDENTE. L’onorevole Crispo ha presentato, insieme con gli onorevoli Morelli Renato, Bozzi, Cifaldi, Vinciguerra e Perrone Capano il seguente emendamento:

«Al primo comma, sostituire il seguente: L’imposta straordinaria proporzionale inscritta a ruolo è riscossa in 20 rate bimestrali eguali con inizio dal giugno 1947».

L’onorevole Crispo ha facoltà di svolgerlo.

CRISPO. Mantengo il mio emendamento, ma non ho bisogno di illustrarlo.

PRESIDENTE. Segue l’emendamento degli onorevoli Clerici, Saggin, Alberti, Bovetti, Cavalli e Baracco del seguente tenore:

«Relativamente agli immobili sottoposti al regime vincolistico dei fitti, l’imposta stessa è suddivisa in rate bimestrali entro il 31 dicembre 1951».

Non essendo presente alcuno dei firmatari, s’intende che rinuncino ad illustrarlo.

Segue l’emendamento dell’onorevole Sullo:

«Dopo il primo comma aggiungere:

«I contribuenti sottoposti all’imposta proporzionale complessivamente per non oltre le lire centomila hanno facoltà di chiedere di pagare l’imposta entro il 31 dicembre 1949: quelli sottoposti per non oltre le lire cinquantamila entro il 31 dicembre del 1950».

Ha facoltà di illustrarlo.

SULLO. Il mio, in sostanza, è un emendamento simile agli altri emendamenti che sono stati presentati e che chiedono una rateazione per le varie categorie che possa corrispondere alla piccola e media proprietà. Non intendo, presentando l’emendamento, che esso sia senz’altro accettato così com’esso è. Voglio piuttosto fornire alla Commissione un altro elemento di cui certamente potrà tener conto nella scelta di qualche limite preciso.

In sostanza, con il mio emendamento, viene fatta una vera partizione fra quella che si potrebbe dire la piccola proprietà e la media proprietà. I termini sono alquanto abbreviati rispetto alle altre preposte che io he visto nel fascicolo degli emendamenti, perché ritengo che anche in questo caso bisogna tener presente che l’imposta necessita al Tesoro e che, quindi, i termini della riscossione non devono essere molto allungati.

Per quanto riguarda i limiti in cifre, potrebbero, grosso modo, corrispondere, sia pure con qualche eccedenza, ai limiti dell’imposta progressiva, nel senso che si dovrebbe cercare di far pagare coloro che non sono sottoposti all’imposta progressiva.

Concludendo, non ho fatto che fornire alla Commissione un altro elemento di cui si potrà scrivere, libera poi di accettare questo o quell’emendamento. L’importante è che il principio dola rateizzazione venga accettato, principalmente per la piccola e la media proprietà e che, come il Ministro ha detto, venga all’articolo 72 esaminato, nella forma tecnica migliore, quello che invece per l’articolo 38 non è stato possibile concedere.

PRESIDENTE. Segue l’emendamento Dugoni del seguente tenore:

«Dopo il primo comma aggiungere il seguente:

«L’imposta è riscossa:

  1. a) in 24 rate bimestrali per gli imponibili inferiori alle lire trecentomila;
  2. b) in egual numero di rate, per i patrimoni costituiti per oltre la metà da fabbricati soggetti al blocco degli affitti, o per oltre la metà danneggiati da eventi bellici;
  3. c) in 12 rate per gli imponibili inferiori alle cinquecento mila lire».

L’onorevole Dugoni ha facoltà di illustrarlo.

DUGONI. Mantengo l’emendamento, ma rinuncio ad illustrarlo.

PRESIDENTE. Vi è ora il seguente emendamento dell’onorevole Veroni:

«Al quarto comma sostituire alla parola dieci la parola dodici».

VERONI. Rinuncio all’emendamento.

PRESIDENTE. Sta bene. Segue l’emendamento dell’onorevole Mazzei:

«Dopo il quarto comma aggiungere il seguente:

«Tale abbuono sarà del 14 per cento per i contribuenti che paghino per imponibili non superiori a lire 300 mila e del 12 per cento per imponibili non superiori a lire 500 mila».

L’onorevole Mazzei ha facoltà di svolgerlo.

MAZZEI. Non credo che il mio emendamento abbia bisogno di illustrazione. Lo mantengo, rinunciando a svolgerlo.

PRESIDENTE. Segue l’emendamento dell’onorevole Bosco Lucarelli, del seguente tenore:

«Sostituire il quarto comma col seguente:

«Tale abbuono sarà del 14 per cento per i contribuenti che paghino per imponibili non superiori a lire 300 mila e del 12 per cento per imponibili non superiori a lire 500 mila».

Ha facoltà di svolgerlo.

BOSCO LUCARELLI. Il mio emendamento non ha bisogno di grande illustrazione. Siccome sono stati prorogati tutti i termini, riterrei opportuno prorogare anche il termine del riscatto. Quindi, se la Commissione ed il Ministro non trovano difficoltà, mantengo l’emendamento, altrimenti non insisto, perché non è una questione sostanziale.

PRESIDENTE. Segue l’emendamento dell’onorevole Castelli Edgardo del seguente tenore:

«Aggiungere, dopo il secondo comma:

«L’usufruttuario può rivalersi verso il proprietario della quota di imposta afferente al valore della nuda proprietà, fatte le valutazioni ai sensi dell’articolo 14».

L’onorevole Castelli ha facoltà di illustrarlo.

CASTELLI EDGARDO. Bastano poche parole, io penso, per illustrare l’assoluto senso di equità cui questo emendamento è informato. La legge istitutiva dell’imposta ordinaria sul patrimonio accollava all’usufruttuario il carico del l’imposta stessa perché, per quanto essa si chiamasse imposta sul patrimonio, di fatto si risolveva in una imposta sul reddito, in certo senso progressiva ed era naturale che, in conformità alle disposizioni del diritto comune, l’usufruttuario, godendo della proprietà, sopportasse anche gli oneri inerenti al godimento stesso.

Ma noi, ora, istituendo, col progetto che stiamo esaminando, una imposta straordinaria proporzionale sul patrimonio, oppure, secondo un’altra interpretazione, riscattando l’imposta ordinaria con un anticipo di dieci annualità, operiamo un vero e proprio prelievo una tantum sulla ricchezza: tanto più che i termini di pagamento sono assai brevi. Quindi, è giusto, in linea di principio, che questo prelievo venga sopportato non dall’usufruttuario, ma dal proprietario, come avverrà per la straordinaria progressiva.

Naturalmente, il nudo proprietario dovrà sopportare soltanto il carico del valore della quota di nuda proprietà, la quale viene determinata in base ai criteri, che la legge afferma nell’articolo 14, da noi già deliberato.

Per rendere più evidente la fondatezza di questo emendamento, basti considerare il caso – che non è poi rarissimo, anzi comune, perché gli usufruttuari sono, di solito, di avanzata età – dell’usufruttuario che non abbia probabilità di vivere dieci anni ancora. Perché egli dovrebbe anticipare dieci annualità d’imposta e locupletare così il proprietario, accollandosi un carico, che non gli appartiene, almeno in rapporto agli anni che la vita gli negherà? Perché dovrà pagare anche per quegli anni nei quali, con la fine della sua vita, l’usufrutto sarà estinto?

Ritengo, per quanto l’emendamento sia stato respinto dai colleghi della Commissione, che esso possa venire senz’altro accettato dall’Assemblea.

COPPI. Chiedo di parlare.

PRESIDENTE. Ne ha facoltà.

COPPI. Io ho firmato l’emendamento Cappi, nel quale si parla di Opere Pie e di Enti morali.

Mi è sorto il dubbio – e forse da un punto di vista strettamente giuridico può essere fondato – che la dizione «Opere Pie ed Enti morali» non possa comprendere le partecipanze agrarie. Mi riferisco in modo particolare, anzi esclusivo, perché è fenomeno particolare dell’Emilia, alle partecipanze agrarie di quella Regione.

Vorrei, perciò, sapere dal Presidente della Commissione e dal Ministro se essi ritengano che nella dizione «Enti morali», agli effetti di questa legge, si comprendano anche le partecipanze agrarie. Perché, in caso diverso, io dovrei insistere a che fosse aggiunta anche l’espressione «partecipanze agrarie».

PRESIDENTE. Ha facoltà di parlare l’onorevole La Malfa.

LA MALFA, Relatore. Dei vari emendamenti presentati, che si distinguono per la maggiore o minore lunghezza del periodo di ratizzazione, la Commissione, a maggioranza, accetta, come principio, l’emendamento presentato dall’onorevole Mazzei e implicitamente quelli di altri colleghi, che a quello si avvicinano, come l’emendamento dell’onorevole Dugoni, che, in sostanza, diversifica la ratizzazione concessa, secondo l’imponibile.

Nell’emendamento Mazzei è stabilita la concessione di un ulteriore anno di ratizzazione per gli imponibili che vanno da trecentomila a cinquecentomila, e di due anni per quelli sino a trecentomila.

Alla Commissione sembra che questo emendamento concilî la necessità di aiutare i piccolissimi patrimoni con la possibilità di pagare nel periodo prescelto.

Per quanto riguarda gli Istituti di assistenza e di beneficenza, la Commissione sarebbe favorevole ad una rateizzazione di cinque anni, non di dieci; perché la rateizzazione di dieci anni corrisponderebbe alla situazione fiscale attuale. Ora, ridurre questo periodo a metà, rappresenta, sì, un aggravio, ma, in certo senso, pone sugli Istituti di beneficenza un aggravio sopportabile.

Quindi all’emendamento Mazzei la Commissione aggiungerebbe un secondo comma:

«L’imposta è riscossa entro l’aprile 1952, quando si tratta di istituzioni pubbliche di beneficenza e di assistenza, qualunque sia l’imponibile accertato».

PRESIDENTE. Questa aggiunta è tratta dall’emendamento Cappi?

LA MALFA, Relatore. Sì, ma è ridotto il periodo di pagamento da dieci a cinque anni. Correlativamente, si accetta pure l’emendamento Mazzei e De Mercurio, che stabilisce un premio di riscatto in relazione al periodo di rateazione, cioè aumenta il riscatto al 14 per cento, quando la rateazione è di due anni, e al 12 per cento, quando la rateazione è di un anno. La Commissione si è espressa per due periodi di rateazione e per queste percentuali di riscatto, perché se la rateazione andasse oltre questi limiti e si portasse, ad esempio, ad oltre un quinquennio, il riscatto da concedere dovrebbe essere anche maggiore di quello proposto dall’onorevole Cappi. Ciò porterebbe l’erario a fare una restituzione massiccia di imposta, dovremmo cioè restituire sul pagato, non solo per il 25 per cento, ma, commisurando la rateazione al riscatto, anche per il 50 per cento, cioè torneremmo nell’articolo 72 ad accettare un principio già posto dall’onorevole Scoccimarro nell’articolo 68. Al di là di un certo limite si tratta di una vera e propria percentuale di sgravio. Perciò non abbiamo fatta la concessione di sgravio di imposta nell’articolo 68 ed abbiamo contenuto la rateazione entro limiti in cui la restituzione di somme sul riscatto sia contenuta entro cifre sopportabili dall’erario. Quindi gli emendamenti Mazzei ed affini, secondo il pensiero della Commissione, sono da accettare. Ci sono poi emendamenti che non riguardano la rateazione, come, per esempio, quello dell’onorevole Bosco Lucarelli, che potrebbero essere accettati: tale emendamento prolunga il termine di riscatto e poiché concede un più lungo periodo di rateazione, bisogna, di conseguenza, concedere un più lungo periodo per la richiesta del riscatto.

L’emendamento dell’onorevole Castelli Edgardo è stato respinto dalla maggioranza della Commissione.

L’emendamento dell’onorevole Crispo è assorbito – per quanto riguarda i minimi imponibili fino a 500.000 lire – dall’emendamento Mazzei; per gli imponibili oltre le 500.000 lire è respinto dalla Commissione, sembrando la concessione eccessiva.

L’emendamento Rescigno al primo comma, poiché è identico a quello dell’onorevole Crispo, è accettato per l’imponibile fino a 500.000 lire ed è respinto per l’imponibile oltre le 500.000 lire.

Quello dell’onorevole Dugoni è assorbito, perché identico, da quello dell’onorevole Mazzei: in altri termini, gli emendamenti che differiscono da quello Mazzei, per quanto riguarda il periodo e la rateazione, sono implicitamente respinti dalla Commissione.

PRESIDENTE. L’onorevole Ministro delle finanze ha facoltà di parlare.

PELLA, Ministro delle finanze. Come giustamente ha già osservato il Relatore, la maggior parte degli emendamenti imposta il problema di una maggiore rateazione. Su questo punto il Governo, fin dalla chiusura della discussione generale, aveva assicurato essere suo intendimento di concedere larghe rateazioni alle categorie degli enti morali delle opere pie in genere, ai proprietari di fabbricati soggetti a regime vincolistico, ai piccoli proprietari di terreni, di fabbricati e, nel corso della discussione degli articoli, dette ulteriore assicurazione per quanto riguardava le piccole aziende commerciali e industriali.

Il problema è oggi di dare espressione concreta a queste intenzioni del Governo, in adesione alle richieste dei presentatori dei diversi emendamenti, cioè di ridurre a formula comune le diverse proposte. Il Ministero avrebbe predisposto un suo emendamento, il quale in parte accoglierebbe le richieste ed, in parte, andrebbe anche al di là delle stesse.

Propongo, pertanto, se ciò non sarà considerato come intralcio al corso dei nostri lavori, che, con una sospensione di un quarto d’ora o di mezz’ora della seduta, o rinviando alla seduta pomeridiana l’ulteriore discussione intorno agli emendamenti, per continuare ora l’esame delle altre questioni, sì permetta alla Commissione, al Governo e ai presentatori dei diversi emendamenti di riunirsi per concordare un testo comune, ciò che non ritengo difficile.

Desidero però, fin da questo momento, far presente all’onorevole Cappi, che, nelle intenzioni del Governo, anche le partecipanze dovrebbero, agli effetti della rateazione, essere assimilate agli enti morali e alle opere pie.

VIGORELLI. Chiedo di parlare.

PRESIDENTE. Ne ha facoltà.

VIGORELLI. Desidero far rilevare che in sostanza sta avvenendo quello che ieri era facile prevedere. Se io infatti ieri insistevo perché si votasse il mio emendamento in sede di articolo 68, lo facevo perché esso tende ad ottenere un’esenzione; viceversa adesso, avendolo votato in sede di articolo 72, noi stiamo scivolando verso quella rateazione che adesso è stata ridotta da dieci a cinque anni.

Onorevoli colleghi, ho l’impressione che non si sia inteso bene qui che si parla di enti pubblici di assistenza i quali siano sovvenzionati dallo Stato. Che cosa avviene infatti per questi enti? Avviene che lo Stato dovrà poi rimborsare quello che essi gli corrispondono a titolo di imposta. Ne deriva quindi un danno per questi enti che dovranno in modo oneroso procurarsi l’ammontare di questa pressione fiscale, mentre nessun vantaggio ne deriverà allo Stato, il quale dovrà poi, come ho detto, provvedere al rimborso agli enti stessi.

Ciò significa, onorevoli colleghi, andare contro le categorie degli umili e dei poveri, senza alcun vantaggio per le finanze dello Stato. È quindi veramente una cosa curiosa, della quale non riesco a rendermi conto. Vuol dire che non si è ancora capito questo semplicissimo problema.

Io insisto dunque perché tale mia proposta, la quale è veramente pregiudiziale all’articolo 72, venga messa a partito prima di quella eventuale riunione che l’onorevole Ministro ha proposto di fare.

PRESIDENTE. Qual è il pensiero della Commissione?

LA MALFA, Relatore. Non reputo di dover ripetere ciò che a nome della Commissione ho già avuto campo di esporre: gli istituti di beneficenza, quando la rateazione fosse concessa in dieci anni anziché in cinque, pagherebbero esattamente quello che già pagano. L’argomento del collega è che molti di questi istituti gravano sul bilancio dello Stato.

VIGORELLI. S’intende che io parlo soltanto di quelli che sono sovvenzionati dallo Stato.

LA MALFA, Relatore. Siccome non si può, in questa legge, introdurre una distinzione fra gli istituti di beneficenza che gravano sul bilancio dello Stato e istituti che non gravano, oltre a tutto, perché molte volte questo sarebbe un premio a cattive amministrazioni, l’emendamento è da respingere. È un principio da applicare rigorosamente, che quando si tratta di pagare una imposta, e di fronte all’imposta c’è il fatto che un ente vive a carico dello Stato, l’ente paghi l’imposta, e lo Stato, che deve valutare la situazione patrimoniale, darà un contributo.

Ma è una confusione alla quale noi non dobbiamo prestarci, quella che, in occasione del pagamento di un’imposta, si dica: «Siccome il bilancio è passivo, l’ente non la paghi». Un’imposta deve gravare su tutti, perché l’esenzione potrebbe essere in molti casi un premio a cattive amministrazioni. Quando un bilancio si chiude in passivo, e grava sullo Stato, lo Stato va a valutare i pesi su questo bilancio e dà il suo contributo; ma dà il suo contributo sapendo che tutti gli enti sono in parità di condizioni. Anche perché, onorevoli colleghi, se non si facesse così, non si potrebbe percepire l’imposta da quegli istituti che sono in condizioni patrimoniali tali da poter pagare l’imposta.

Noi dobbiamo tener fermi certi principî discriminativi; altrimenti continuiamo nella confusione amministrativa e legislativa che ci ha deliziato per vent’anni e potrebbe continuare a deliziarci per altri venti.

VIGORELLI. Chiedo di parlare.

PRESIDENTE. Ne ha facoltà.

VIGORELLI. Mi pare che ci sia una confusione abbastanza evidente. Io parlo di enti pubblici di assistenza, cioè – come tutti sanno – dei Comuni, delle Provincie e di altri enti di assistenza autarchici; parlo esclusivamente di questi enti pubblici, non di istituti di assistenza o di beneficenza privati, confessionali od altri. Questi enti pubblici vivono sia col reddito dei loro patrimoni, sia col contributo dello Stato. Ora, una delle due: o lo Stato dà questi contributi, e – ripeto – dà questi contributi a rimborso dei denari che vengono spesi per tassazione, e allora lo Stato, oltre al denaro che già deve dare per far fronte a questi impegni, deve pagare anche per premi, interessi, ecc.; o lo Stato non li dà, perché si tratta di patrimoni che non abbisognano del contributo delio Stato, e allora noi andiamo a portar via i denari ai poveri, nello stesso momento in cui c’è una quantità di gente che a questa imposta si sottrae, mentre dovrebbe pagarla.

Ora, che si incominci la severità della tassazione proprio dalle categorie più povere, credo che sia una cosa che questa Assemblea non vorrà affermare.

PELLA, Ministro delle finanze. Chiedo di parlare.

PRESIDENTE. Ne ha facoltà.

PELLA, Ministro delle finanze. Il Governo non può che confermare il suo pensiero in materia, già ripetutamente espresso. Come non vi erano esenzioni ai fini dell’imposta ordinaria sul patrimonio, così non possono essere ammesse esenzioni ai fini di questa imposta straordinaria, sia che essa venga considerata come un riscatto dell’imposta ordinaria già esistente, sia che venga riguardata come un tributo sostitutivo una tantum.

Mi perdoni l’onorevole Vigorelli se debbo respingere con le sue stesse parole l’accusa che con questa imposta si sottrarrà qualche cosa ai poveri e, in genere, agli assistiti, perché l’impostazione del suo emendamento poggiava sopra l’inutilità di una partita di giro, nel senso che è inutile che lo Stato percepisca un’imposta, quando poi deve andarla a rimborsare. Quindi, niente di sottratto agli assistiti, ma problema dell’utilità e dell’inutilità di una partita di giro.

Le partite di giro non hanno un aspetto soltanto formale, ma hanno anche un contenuto sostanziale, perché di ogni servizio – sia pure di un servizio a contenuto eminentemente filantropico – è necessario saper vantare sempre il costo. E le imposte sono un elemento del costo, perché è norma di corretta amministrazione che, anche quando ci si trovi davanti a elementi figurativi del costo, detti elementi debbano esser presi in considerazione.

Quindi non tema l’onorevole Vigorelli che questa imposta diminuisca le possibilità di assistenza. Le possibilità di assistenza saranno più o meno ampie in relazione alle di disponibilità che può avere lo Stato; questa imposta non le diminuirà, se viene mantenuta, come non le aumenterebbe se venisse eliminata.

Per quanto riguarda la rateazione, io sono d’accordo con l’onorevole Vigorelli che bisogna andare al limite estremo. Questo limite dovrà essere determinato, con visione molto larga, in modo da accogliere nella sostanza il suo punto di vista.

VIGORELLI. Comunque, chiedo che il mio emendamento si voti in precedenza, perché è pregiudiziale.

PRESIDENTE. Sta bene, sarà messo per primo in votazione. Il Ministro fa una proposta di sospensiva per la votazione di questo articolo?

FELLA, Ministro delle finanze. No, chiedo il rinvio ad oggi nel pomeriggio.

LA MALFA, Relatore. Possiamo sospendere la seduta per qualche minuto.

PELLA, Ministro delle finanze. D’accordo.

VIGORELLI. Mi permetto d’insistere nel chiedere che si voti prima sulla esenzione, perché poi, eventualmente, si potrà discutere sulla rateazione, mentre io ho chiesto in primo luogo che si esenti.

PELLA, Ministro delle finanze. Vorrei raccomandare all’Assemblea di tener conto delle ripercussioni che potrebbero derivare se si aprisse una breccia nel sistema. La generosità delle intenzioni potrebbe portare al pericolo di conseguenze, che in questo momento non sarebbe il caso di dettagliare, ma che sono facilmente prevedibili.

Quindi, non per avversione allo spirito della proposta dell’onorevole Vigorelli, ma unicamente per ragioni di vera prudenza, pregherei l’Assemblea di tener conto della portata di questa esenzione, attraverso la concatenazione con altre disposizioni e attraverso interpretazioni estensive e analogiche che potrebbero essere richieste.

PRESIDENTE. Allora metteremo in votazione l’emendamento dell’onorevole Vigorelli. Fatta questa votazione, sospenderemo per cinque minuti la seduta, per concordare un testo che riassuma i vari emendamenti sui quali il Governo e la Commissione si sono pronunciati.

L’onorevole Basile ha chiesto di parlare. Ne ha facoltà.

BASILE: Chiedo che sia messo prima in votazione il mio emendamento che si riferisce ad una questione più semplice, cioè all’esenzione dall’imposta soltanto per gli ospedali. E una questione diversa dagli altri emendamenti. Se consente, lo svolgerò brevemente.

PRESIDENTE. È tanto chiaro! Se potessimo risparmiare del tempo, sarebbe tanto di guadagnato. Ad ogni modo, ha facoltà di parlare.

BASILE. Sì, è evidente che il mio emendamento dovrebbe raccogliere l’unanimità dell’Assemblea, ma ci sono state, onorevole signor Presidente, le dichiarazioni del Ministro e del Relatore, i quali fanno una questione di logica tributaria, che è… un po’ diversa dalla logica comune, e dicono: non possiamo ammettere per nessuna ragione che un’imposta non debba essere pagata da tutti, anche dagli enti locali, anche dagli enti di assistenza e beneficenza, anche dai Comuni e dalle Provincie che lo Stato sussidia, anche dagli ospedali, perché tutti, anche gli enti di assistenza e beneficenza, devono tener conto, nel costo dei servizi, prima di tutto, del costo dell’imposta.

Ora io vorrei pregare il Ministro onorevole Pella e l’amico onorevole La Malfa, che pare voglia aspirare in questa discussione al titolo di tassatore spietato – e di questo coraggio gli do ampia lode – vorrei pregare tutti e due, perché non giungano all’eccesso di chiedere il pagamento dell’imposta anche agli ospedali. Io dico che esigere l’imposta dagli ospedali, è volerla esigere dai poveri; a un malato toccano tre cucchiai di medicinale, e lo Stato gli dice: uno lo confisco io per l’imposta.

Il mio emendamento non chiede l’esenzione per gli enti comunali, cui si potrebbero adattare benissimo le ragioni espresse dal Ministro onorevole Pella. Ma quando mi parlate di rateazione, io non posso restar sodisfatto per gli ospedali; perché ciò significherà dire: invece di infliggervi una lesione personale guaribile in novanta giorni, ve ne diamo nove guaribili in dieci giorni ciascuna.

Gli ospedali non hanno quello che è necessario per pagare gli impiegati e i medici. Vi sono ospedali i cui medici non sono pagati, non possono essere pagati. Se c’è un ente che ha un reddito di 200.000 lire all’anno che non bastano per pagare il pane, come volete che su queste 200.000 lire di reddito l’ospedale, cioè i ricoverati, cioè i poveri, siano costretti a pagare l’imposta? Mi rivolgo alla comprensione del Ministro Pella perché voglia perciò consentire l’esenzione dell’imposta. Non vale obiettare: questa è un’imposta straordinaria: gli ospedali non sono lo stesso in grado di pagarla, e non pagano questa soltanto, pagano tutte le imposte e le sovrimposte, ordinarie e straordinarie, le addizionali e le sovraddizionali, tutti i tributi che sono un’inesausta pompa aspirante che sottrae ai malati una parte dell’assistenza, delle cure, dei servizi e talvolta le medicine e anche il pane. L’Assemblea Costituente, oggi, che è la prima volta che fa una legge tributaria, potrebbe dire che gli ospedali sono esenti dall’imposta e poi, in tema di coordinamento, si ripeterà questo principio che l’Assemblea oggi avrà affermato: gli ospedali, cioè, i poveri, devono essere esenti dai tributi.

PRESIDENTE. Qual è il suo parere, onorevole la Malfa?

LA MALFA, Relatore. Ho già espresso il parere della Commissione. La Commissione si rende conto di questo; ma quando si tratta di una dizione così generica: «gli istituti di assistenza e beneficenza», non dobbiamo guardare ai casi più gravi, ma pensare invece che alcuni di questi istituti possono essere in condizioni di floridezza. È bene prendere l’imposta da questi ed assistere quelli che ne hanno bisogno. Perché se noi adeguiamo l’imposta ai casi peggiori, esimiano dal pagamento coloro che possono pagare.

PRESIDENTE. Onorevole Ministro, qual è il suo parere?

PELLA, Ministro delle finanze. Non posso che conformare il punto di vista del Governo. Penso che il problema doveva e poteva essere proposto nei confronti dell’imposta ordinaria sul patrimonio. Quella poteva e doveva essere la sede. Ora, se il Governo, d’accordo con l’Assemblea, arrivasse ad una rateazione così lunga, per cui in sostanza l’onere si riducesse a quello che già attualmente si sostiene, non vedrei come si potrebbe pensare di risolvere il più grave problema dell’assistenza e beneficenza in Italia in funzione di un 0,40 per cento o un 0,80 per cento all’anno sopra il valore fiscale dei fabbricati utilizzati dagli enti dei quali si sta discutendo.

Creda l’onorevole Basile che il problema dell’assistenza e della beneficenza ed in particolar modo quello relativo alle necessità degli ospedali, sono considerati dal Governo ih tutta la loro portata. Penso, però, che non sia il caso di sconvolgere le linee generali di un tributo, per portare forse un bicchiere d’acqua a spegnere un incendio.

Tale è la portata della facilitazione che si richiederebbe, di fronte al problema molto più ampio da risolvere. Quindi vorrei pregare l’onorevole Basile, non di ritirare il suo emendamento, ma di prendere atto dell’intenzione del Governo.

PRESIDENTE. Onorevole Basile, dopo queste dichiarazioni del Ministro, mantiene il suo emendamento?

BASILE. Sì, vorrei dire al Ministro delle finanze che gli ospedali, per pagare questa imposta, devono prendere a prestito il denaro, pagando alle banche gli interessi, e poi lo Stato dovrà pagare anche gli interessi!

PRESIDENTE. Allora mantiene il suo emendamento?

BASILE. Lo mantengo.

PRESIDENTE. Anche lei, onorevole Vigorelli?

VIGORELLI. Sì.

BERTONE. Chiedo di parlare.

PRESIDENTE. Ne ha facoltà.

BERTONE. Dichiaro che sono decisamente contrario a tutte le esenzioni e mi associo pienamente al parere espresso dal Ministro delle finanze e dal Presidente della Commissione.

Prego l’Assemblea di voler meditare sulla gravità del principio che noi andiamo a vulnerare con l’ammettere le esenzioni. Noi siamo di fronte ad una imposta che esiste da otto anni e che tutti pagano.

Voce a sinistra. Male che esiste da otto anni! È un’imposta del fascismo. (Rumori al centro). La legge del 1922 non faceva pagare questa imposta! (Interruzione del deputato Scoca).

BERTONE. È un’imposta che da otto anni viene iscritta a ruolo, contro la quale i contribuenti che si ritengono ingiustamente tassati hanno ricorso, possono ricorrere, che comunque è sempre stata pagata regolarmente, Ora, con l’istituzione dell’imposta straordinaria proporzionale, lo Stato ha già concesso un grandissimo benefìcio a tutti i debitori di imposta, perché questa imposta, che era illimitata nel tempo, viene limitata a 10 anni. Questo è un vantaggio, evidentemente, di cui usufruiscono indistintamente tutti i contribuenti.

Io sto pensando se sia stato un bene abolire l’imposta ordinaria sul patrimonio e se non sarebbe stato forse più opportuno mantenerla tale e quale, accordando a tutti i contribuenti la facoltà del riscatto.

L’imposta è iscritta oggi in bilancio, e, notate bene onorevoli colleghi, per l’esercizio 1947 per 9 miliardi, che saranno incassati; con la revisione degli imponibili, che è in corso, andremmo, probabilmente, ai 13-14-15 miliardi.

Rateando l’imposta nei 5 anni per una gran parte dei contribuenti, noi verremo ad incassare una cifra che non sarà molto superiore a quella che viene pagata normalmente.

Per questo dico: accordiamo la rateazione. Io non ho nessuna difficoltà di aderire a che le opere pie, gli enti comunali di assistenza, gli enti morali, possano continuare a pagare l’imposta nella medesima cifra e nel medesimo modo con cui hanno pagato fino a ieri; cioè che sia accordata la rateazione di dieci anni.

Se il Ministro e la Commissione delle finanze credono di accedere a questa idea che si accosta all’emendamento proposto dall’onorevole Vigorelli e dall’onorevole Basile, io credo si faccia opera buona, ma per il resto chiedo all’Assemblea che voglia tener presente la necessità in cui ci troviamo non soltanto di pensare agli interessi dei contribuenti, ma anche di pensare alla costituzione del bilancio. Perciò, ripeto, dichiaro di votare contro all’esenzione, mentre sono favorevole alla maggiore rateazione possibile per gli enti morali, le opere pie e gli enti di assistenza.

PRESIDENTE. Passiamo alle votazioni. Pongo in votazione l’emendamento Basile.

(Non è approvato).

Pongo in votazione l’emendamento Vigorelli.

(Non è approvato).

Presentazione di disegni di legge.

PRESIDENTE. Ha chiesto di parlare l’onorevole Ministro degli affari esteri per la presentazione di alcuni disegni di legge. Ne ha facoltà.

SFORZA, Ministro degli affari esteri. Ho l’onore di presentare all’Assemblea i seguenti disegni di legge:

Esecuzione degli Atti internazionali adottati a Montreal dalla Conferenza internazionale del lavoro nel corso della sua XXIX sessione, il 9 ottobre 1946.

Approvazione degli Accordi di carattere economico conclusi in Roma, fra l’Italia e la Francia, il 22 dicembre 1946.

Approvazione degli Accordi finanziari conclusi a Roma, a mezzo scambi di Note, tra il Governo italiano ed il Governo del Regno Unito, il 7 aprile 1947.

Approvazione degli Accordi stipulati in Roma, fra l’Italia e la Cecoslovacchia, il 10 febbraio 1947, in materia di emigrazione.

Approvazione dell’Accordo fra l’Italia e l’Argentina in materia di emigrazione concluso a Roma il 21 febbraio 1947.

PRESIDENTE. Do atto al Ministro degli affari esteri della presentazione di questi disegni di legge. Saranno trasmessi alla Commissione competente.

Sospendo la seduta per dar modo ai presentatori degli ordini del giorno di trovare un accordo con il Governo e la Commissione.

(La seduta, sospesa alle 11.35, è ripresa alle 12.50).

Si riprende la discussione del disegno di legge: Convalida del decreto legislativo del Capo provvisorio dello Stato in data 29 marzo 1947 n. 143, concernente l’istituzione di una imposta straordinaria progressiva sul patrimonio. (14).

PELLA, Ministro delle finanze. Chiedo di parlare.

PRESIDENTE. Ne ha facoltà.

PELLA, Ministro delle finanze. Nella riunione tenuta con i presentatori degli ordini del giorno si è cercato un denominatore comune tra i desideri dei diversi proponenti e le necessità dell’Amministrazione.

L’esame è stato portato su due settori: il settore degli istituti e degli enti di beneficenza ed assimilati, ed il settore dei piccoli contribuenti privati.

Si è arrivati ad una conclusione, per quanto riguarda il primo settore; per il secondo avremmo avuto bisogno di qualche minuto di più.

Per il primo, presento alla Presidenza l’emendamento che è stato concordato e che il Governo fa proprio.

Esso suona così: «Per le opere pie, per gli istituti e gli enti di beneficenza od aventi semplici fini assistenziali, legalmente costituiti e riconosciuti, per gli istituti di istruzione, per i corpi scientifici, per le accademie e le società storiche, letterarie e scientifiche aventi scopi esclusivamente culturali, per gli enti il cui fine è equiparato – a norma dell’articolo 29, lettera h) del Concordato – ai fini di beneficenza e di istruzione, l’imposta è riscossa entro l’aprile 1952».

Quindi è una rateazione quinquennale.

PRESIDENTE. Per il resto?

PELLA, Ministro delle finanze. Per il resto, l’invito a riprendere i lavori ci ha sorpresi quando stavamo definendo il limite di patrimonio per i contribuenti privati, a favore dei quali accordare una determinata rateazione.

È naturale che il Governo, attorno a questo limite, sia molto più resistente di quello che potrebbero desiderare i presentatori degli emendamenti, ed è per questa ragione che la discussione si è protratta a lungo.

Credo che, in un’altra mezz’ora, certamente una intesa si raggiungerebbe; ma, stante l’ora tarda, penso che convenga rinviare alla ripresa dei lavori, alle ore 17, la comunicazione dell’accordo, che certamente si raggiungerà anche per questo secondo settore.

PRESIDENTE. Credo che anche l’Assemblea sia dello stesso parere del Ministro.

Rinvio pertanto la seduta alle ore 17.

La seduta termina alle 13.

POMERIDIANA DI MARTEDÌ 22 LUGLIO 1947

ASSEMBLEA COSTITUENTE

CXCVI.

SEDUTA POMERIDIANA DI MARTEDÌ 22 LUGLIO 1947

PRESIDENZA DEL VICEPRESIDENTE CONTI

INDICE

Disegno di legge (Seguito della discussione):

Convalida del decreto legislativo del Capo provvisorio dello Stato in data 29 marzo 1947, n. 143, concernente l’istituzione di una imposta straordinaria progressiva sul patrimonio. (14).

Presidente

La Malfa, Relatore

Perlingieri

Pella, Ministro delle finanze

Clerici

Mastino Pietro

Bertone

Tozzi Condivi

Fabbri

Dugoni

Rescigno

Pesenti

Bosco Lucarelli

Scoccimarro

Rubilli

Mazzei

Micheli

Castelli Edgardo

Bubbio

Vigorelli

Mannironi

Cappi

Scoca

Piccioni

Bonomi Paolo

Lussu

De Vita

Schiratti

Basile

Veroni

Votazione segreta:

Presidente

Risultato della votazione segreta:

Presidente

Interrogazioni e interpellanze con richiesta d’urgenza:

Presidente

Cappa, Ministro della marina mercantile

Cingolani, Ministro della difesa

Pella, Ministro delle finanze

Gonella, Ministro della pubblica istruzione

Petrilli, Sottosegretario di Stato per il tesoro

Sui lavori dell’Assemblea:

Foa

Gonella, Ministro della pubblica istruzione

Lozza

Lussu

Gronchi

Codignola

Pella, Ministro delle finanze

Presidente

La Malfa

Sansone

Dugoni

Interrogazioni e interpellanza (Annunzio):

Presidente

La seduta comincia alle 17.

MOLINELLI, Segretario, legge il processo verbale della precedente seduta pomeridiana.

(È approvato).

Seguito della discussione del disegno di legge: Convalida del decreto legislativo del Capo provvisorio dello Stato in data 29 marzo 1947, n. 143, concernente l’istituzione di una imposta straordinaria progressiva sul patrimonio. (14).

PRESIDENTE. L’ordine del giorno reca il seguito della discussione del disegno di legge: Convalida del decreto legislativo del Capo provvisorio dello Stato in data 29 marzo 1947, n. 143, concernente l’istituzione di una imposta straordinaria progressiva sul patrimonio.

Onorevoli colleghi, prima di cominciare il nostro odierno lavoro, è necessario che io richiami la loro attenzione sul grave lavoro che ci attende. È probabile che l’Assemblea debba essere occupata lungamente per la discussione sul Trattato di pace, e d’altra parte è necessario che la legge che stiamo esaminando sia portata a termine entro la corrente settimana.

Occorre perciò disciplinare le nostre discussioni, imponendo al loro sviluppo quei limiti che sono necessari per giungere a conclusioni utili, senza sconfinamenti.

Riprendiamo l’esame degli articoli.

Come l’Assemblea ricorda, nell’ultima seduta la Commissione si era riservata di presentare un nuovo testo dell’articolo 66 e pertanto era stata deliberata la sospensiva.

Il primitivo testo della Commissione era così formulato:

«Il contribuente che, alla data del 28 marzo 1947, non abbia ripristinato i cespiti danneggiati per eventi bellici e nei cui confronti venga accertato un importo di danaro, depositi e titoli al portatore per un valore superiore a quello risultante dalle quote previste all’articolo 25, ove provveda al ripristino nel termine di un anno dalla pubblicazione del presente decreto, potrà ottenere che dall’imponibile sia detratta la spesa occorsa per il ripristino stesso, nel limite dell’eccedenza del valore definitivamente accertato per danaro, depositi e titoli al portatore indicati nella dichiarazione, rispetto a quello risultante dalle quote sopra richiamate».

Onorevole Relatore, il nuovo testo è pronto?

LA MALFA, Relatore. È pronto. Vi sono però, all’articolo 66, due emendamenti non ancora illustrati. Desidererei prima che i presentatori di questi emendamenti li svolgessero.

PRESIDENTE. Sta bene. Vi è innanzi tutto un emendamento dell’onorevole Cavallari, così concepito:

«Sostituire l’articolo 66 col seguente:

«Il contribuente che, alla data del 28 marzo 1947, non abbia ripristinato j cespiti danneggiati per eventi bellici, ove provveda al ripristino nel termine di un anno dalla pubblicazione del presente decreto, potrà ottenere che dall’imponibile sia detratta la spesa occorsa per il ripristino stesso».

L’onorevole Cavallari non è presente, si intende quindi che abbia rinunciato a svolgerlo.

L’onorevole Perlingieri ha presentato la seguente proposta di articolo 66-bis, che può considerarsi emendamento all’articolo 66:

«Il contribuente che, alla data del 28 marzo 1947, non abbia ripristinato i cespiti danneggiati per eventi bellici e nei cui confronti non venga accertato un importo di danaro, depositi e titoli al portatore, oltre le quote presuntive previste dall’articolo 25, potrà ottenere che dall’imponibile sia detratta la spesa che occorre per il ripristino stesso.

«Se respinto, aggiungere al testo soprariprodotto le parole seguenti: non oltre l’ammontare delle dette quote presuntive».

L’onorevole Perlingieri ha facoltà di svolgere il suo emendamento.

PERLINGIERI. Se conoscessi il nuovo testo della Commissione potrei regolarmi in conseguenza e forse anche ritirare il mio emendamento. Comunque do brevemente ragione di esso.

La mia proposta muove dalla preoccupazione di una sperequazione fra i contribuenti di una medesima categoria, in ispecie quella dei proprietari di cespiti danneggiati dalla guerra. La legge fa due ipotesi: quella dell’articolo 65, la quale contempla il caso dei proprietari di cespiti danneggiati dalla guerra che abbiano ricostruito i propri immobili alla data del 28 marzo (e per costoro la legge concede la detrazione della somma spesa per la ricostruzione); la seconda ipotesi, quella dell’articolo 66, contempla il caso dei proprietari di cespiti danneggiati dalla guerra che, entro un anno di tempo, effettueranno la ricostruzione dei cespiti danneggiati. Ora a me pare che in questa maniera si concedano agevolazioni proprio ai contribuenti che hanno maggiori possibilità e si escludono i contribuenti che non hanno la possibilità economica di ricostruire. Non comprendo veramente la detrazione concessa con l’articolo 65 a favore dei proprietari di cespiti danneggiati i quali abbiano già ricostruito alla data del 28 marzo. Questa agevolazione rappresenta una perdita secca per l’Amministrazione senza contropartita, non potendosi addurre in corrispettivo l’interesse dello Stato di promuovere ed incoraggiare la ricostruzione, in quanto si tratta di ricostruzioni già ultimate alla data del 28 marzo, che non hanno bisogno di ulteriori incoraggiamenti.

Comunque, se si concede una agevolazione a questi contribuenti e a coloro che provvederanno a ricostruire entro l’anno, a me pare che non si possa non tener presente anche il caso di coloro che hanno avuto danni dalla guerra e non hanno la possibilità di ricostruire. Una considerazione si dovrebbe avere anche per costoro ed è per questo che io avevo proposto un articolo di questo tenore:

«Il contribuente che, alla data del 28 marzo 1947, non abbia ripristinato i cespiti danneggiati per eventi bellici e nei cui confronti non venga accertato un importo di danaro, depositi e titoli al portatore, oltre le quote presuntive previste dall’articolo 25, potrà ottenere che dall’imponibile sia detratta la spesa che occorre per il ripristino stesso».

Se respinto tale articolo, avevo proposto di aggiungere al testo sopra riprodotto le parole seguenti: «non oltre l’ammontare delle dette quote presuntive».

Si dice che in questa maniera noi verremmo a svuotare la portata dell’imposta. Io posso anche rimanere perplesso di fronte a questa osservazione, ma, d’altra parte, non posso che raccomandare al Presidente della Commissione di considerare con maggior scrupolo le condizioni di coloro che hanno avuto il patrimonio falcidiato dalla guerra e non hanno la possibilità di ricostruirlo.

Vi faccio un esempio: prendo tre proprietari di un patrimonio di dieci milioni ciascuno quali hanno avuto questo patrimonio, in seguito alla guerra, ridotto a cinque milioni. Colui che aveva liquido, e lo ha ricostruito portandolo nuovamente a dieci milioni, viene tassato per metà, ossia per cinque; colui che, avendo liquido, effettua la ricostruzione entro l’anno viene tassato anch’egli per metà, ossia per cinque milioni; nel mentre colui che non ha liquido, rimane con il suo patrimonio residuale di cinque milioni e deve pagare integralmente su cinque milioni, di fronte agli altri che avendo dieci, pagano, come lui, su cinque.

Quindi io prego vivamente il Presidente della Commissione di voler tener presente questo caso nella sua nuova formulazione dell’articolo 66, eliminando una patente sperequazione a danno dei meno abbienti e a favore dei più dotati.

PRESIDENTE. Ha facoltà di parlare l’onorevole La Malfa.

LA MALFA, Relatore. La Commissione non era favorevole al mantenimento dell’articolo 66 e dava ragione alle obiezioni del collega che mi ha preceduto, nel senso che l’articolo 66, come era redatto, costituiva una situazione di privilegio per coloro che avrebbero investito capitali nella ricostruzione dopo l’applicazione della imposta patrimoniale; mentre mette colui che abbia ricostruito prima della data del 28 marzo 1947, nella stessa condizione di colui che non ha ricostruito, ai fini dell’accertamento dell’imponibile. Nell’articolo 66 si dava infatti una sanatoria per coloro che, avendo quote di danaro, di depositi e di titoli al portatore superiori alla quota presuntiva, investano in questa maggior liquido dopo il 28 marzo in opere di ricostruzione.

Si sono presentate due strade alla Commissione: o allargare la portata dell’articolo 66 ed estenderla al di là della quota presuntiva, consentendo la detrazione dall’imponibile a coloro che compissero opere di ricostruzione entro l’anno, o restringerne la portata ulteriormente.

La Commissione ha preferito questa seconda strada ed ha ristretto l’articolo 66 in questo senso; perché abbia luogo la detrazione, di cui all’articolo 66, si deve trattare non della quota presuntiva accertata, ma di quella dichiarata dal contribuente all’atto della dichiarazione al 28 marzo.

In che consiste la differenza?

Sappiamo che questa quota di liquido al di là della quota presuntiva è di difficile accertamento da parte degli uffici finanziari. Ed allora, siccome ai fini fiscali questa quota non potrebbe essere colpita, noi invitiamo il contribuente a dichiarare quello che ha di liquido al di là della quota presuntiva, e se egli investe questo liquido in opere di ricostruzione entro l’anno (abbiamo portato il termine a 18 mesi dal 28 marzo) questa quota non sarà considerata ai fini del calcolo dell’imponibile. La Finanza, con la restrizione proposta dalla Commissione, rinunzia ad un cespite, che non potrebbe accertare, ed invoglia il contribuente, che abbia liquidità, ad investirle in opere di ricostruzione, per evitare accertamenti susseguenti e quindi per evitare una imposizione ed un pagamento delle relative ammende.

Ma la Commissione ha ristretto questa stessa norma dichiarando in un secondo comma che la disposizione di cui all’articolo 66, non si applica al contribuente, il cui patrimonio imponibile superi 50 milioni di lire. Cioè: la Commissione si è preoccupata che questa norma non servisse per i possessori di forti patrimoni, per evadere in certo senso l’imposta, impiegando una somma di liquido eccessiva in loro possesso, e l’ha limitata ai possessori di patrimoni inferiori ai 50 milioni.

PRESIDENTE. Do lettura del testo proposto dalla Commissione, ora pervenutomi:

«Il contribuente che, alla data del 28 marzo 1947, non abbia ripristinato i cespiti danneggiati per eventi bellici e abbia dichiarato un importo di danaro, depositi e titoli al portatore per un valore superiore a quello risultante dalle quote previste dall’articolo 25, ove provveda al ripristino nel termine di 18 mesi dal 28 marzo 1947, potrà ottenere che dall’imponibile sia detratta la spesa occorsa per il ripristino stesso, nel limite dell’eccedenza del valore dichiarato per danaro, depositi e titoli al portatore, rispetto a quello risultante dalle quote sopra richiamate.

«La disposizione del comma precedente non si applica al contribuente il cui patrimonio imponibile superi i 50 milioni di lire».

Ha facoltà di parlare l’onorevole Ministro delle finanze.

PELLA, Ministro delle finanze. Il Governo non ha difficoltà ad associarsi alle considerazioni dell’onorevole Relatore e ad accettare l’emendamento proposto dalla Commissione.

CORBINO. Chiedo di parlare.

PRESIDENTE. Ne ha facoltà.

CORBINO. Dichiaro di non accettare l’articolo proposto come non avrei accettato la precedente formulazione; e questo non per ragioni di politica finanziaria, quanto per ragioni di politica economica. Rispetto all’articolo 65 noi ci troviamo di fronte ai casi in cui l’utilità della ricostruzione era evidentissima, tanto vero che, prescindendo dall’eventualità di avere o no degli indennizzi, il danneggiato ci ha pensato per conto proprio. Ammettendo la facoltà di investire in ricostruzioni una parte del patrimonio, sottraendolo dalla cifra dell’imponibile per l’imposta sul patrimonio, noi veniamo indirettamente ad incoraggiare delle ricostruzioni, che potrebbero non avere un valore economico corrispondente alla spesa effettiva. Io ritengo che il problema della ricostruzione debba essere affidato a coloro i quali hanno interesse a ricostruire e lo Stato non dovrebbe – a mio giudizio – intervenire continuamente, stimolando ricostruzioni che potrebbero non corrispondere al valore sostanziale dei beni ricostruiti. Voterò quindi contro l’emendamento.

PRESIDENTE. Pongo ai voti l’articolo 66 nel nuovo testo proposto dalla Commissione.

(Dopo prova e controprova è approvato).

Passiamo all’articolo 67. Se ne dia lettura nel testo della Commissione.

MOLINELLI, Segretario, legge:

«Il contribuente che abbia subito danni per eventi bellici in misura tale da far ritenere eccessivamente gravoso il pagamento dell’imposta straordinaria accertata a suo carico, può chiedere che il pagamento stesso sia effettuato in termini più lunghi di quelli stabiliti al capo VIII del presente decreto, salva la corresponsione di un interesse del 2 per cento che aggiungerà all’annualità d’imposta per il periodo successivo alla scadenza dei termini stessi.

«La domanda è presentata dall’intendente di finanza della provincia nella cui circoscrizione trovasi il comune nel quale il pagamento deve essere effettuato, e contro la determinazione negativa dell’intendente è ammesso ricorso al Ministero delle finanze, che decide in via definitiva».

PRESIDENTE. Su questo articolo era stato proposto il seguente emendamento dall’onorevole Veroni:

«Alla settima linea sostituire alle parole: salva la corresponsione di un interesse del 2 per cento che aggiungerà all’annualità d’imposta per il periodo successivo alla scadenza dei termini stessi, le altre: senza corresponsione di interessi sulle somme pagate nel periodo successivo alla scadenza dei termini stessi».

L’onorevole Veroni ha dichiarato di ritirarlo.

Non essendovi altri emendamenti, l’articolo si intende approvato nel testo proposto dalla Commissione.

Vi è ora la proposta di due articoli aggiuntivi, 67-bis. Il primo, proposto dagli onorevoli Clerici, Balduzzi, Tozzi Condivi, Bosco Lucarelli, Nasi, Giordani, Quintieri Adolfo, Ambrosini, Cappi, Bellato e Coppi è del seguente tenore:

«Le somme dovute dallo Stato al contribuente per il risarcimento di danni di guerra accertati e liquidati si compensano con le somme dovute per l’imposta straordinaria sul patrimonio, e vanno computate in sede di riscatto della imposta stessa».

L’onorevole Clerici ha facoltà di svolgerlo.

CLERICI. L’articolo aggiuntivo da me proposto mi pare risponda da un lato ad una evidenza, il che fa sì che io possa risparmiare un lungo chiarimento, dall’altro a ragioni di legalità e di giustizia. Stabilisce cioè, una compensazione tra le somme che il contribuente deve allo Stato per la legge che stiamo discutendo e le somme liquide dallo Stato dovute al contribuente stesso per ragioni di danni di guerra da questo subiti.

Abbiamo dunque tutti gli estremi per una compensazione, a cui riferire liquidità da una parte e dall’altra. Ed il principio che si debbano compensare le somme che il contribuente deve per questa legge straordinaria, legge che deriva evidentemente da una situazione anormale, eccezionale, determinata dallo stato di guerra, dalle rovine della guerra; con le somme che lo Stato deve al cittadino innocente per i danni arrecatigli dalla guerra stessa, risponde a ragioni patenti di giustizia oltreché all’istituto millenario della compensazione. La legge ha insomma questo significato: di compensare lo squilibrio determinato dalla guerra in questo campo tra i fortunati e le vittime. Quindi il tenere conto dei sacrifici subiti durante la guerra da coloro che ebbero distrutta la loro proprietà è ragione di evidente giustizia. Infatti, costoro hanno già fatto in anticipo un sacrificio, e non è logico richiedere oggi ad essi un altro sacrificio, come si richiede invece a coloro ai quali la guerra non arrecò danni diretti e sensibili.

Non credo debbano derivarne notevoli diminuzioni delle entrate pubbliche; perché il mio emendamento si riferisce esclusivamente ai danni liquidati, i quali non possono riguardare solamente quella parte di contribuenti, che contribuiscono a questa imposta straordinaria e relativamente ad una parte soltanto degli immobili, i fabbricati, restando esclusa tutta la categoria dei terreni. Per queste ragioni di giustizia credo che nulla osti a che l’emendamento che io propongo venga accolto dall’Assemblea.

PRESIDENTE. L’onorevole La Malfa ha facoltà di esprimere il parere della Commissione.

LA MALFA, Relatore. Sono dolente di dire che la Commissione non può accettare l’emendamento Clerici, perché non può ammettere in linea generale il principio della compensazione tra una imposta dovuta ed i crediti verso lo Stato.

Siccome la liquidazione di questi danni di guerra è avvenuta in pochissimi casi, si stabilirebbe una differenza di trattamento per coloro che hanno potuto liquidare questi danni e gli altri. Prego perciò l’onorevole Clerici di non insistere sul suo emendamento.

PRESIDENTE. Ha facoltà di parlare l’onorevole Ministro delle finanze.

PELLA, Ministro delle finanze. Desidero associarmi alla preghiera rivolta dall’onorevole relatore all’onorevole Clerici e agli altri firmatari dell’emendamento, perché lo ritirino.

Ha perfettamente ragione l’onorevole Relatore quando osserva che le eventuali liquidazioni, già effettuate nel passato, riguardano pochi casi che tuttavia potrebbero dar origine a una disparità di trattamento rispetto ai molti, moltissimi, che tale liquidazione non hanno potuto avere. E, per quanto riguarda il futuro – e dovrebbe essere per il futuro che l’emendamento potrebbe trovare una più larga applicazione – ha perfettamente ragione l’onorevole Clerici, quando dice che un credito accertato e liquidato dovrebbe trovare la sua realizzazione finale, magari attraverso una compensazione; ma penso che, nel futuro, i danni di guerra accertati e liquidati non siano destinati a restare nel campo della speranza e che alla liquidazione debba far seguito il pagamento. Allora, l’onorevole Clerici chiederebbe una compensazione tra l’eventuale negligenza nel pagare i danni di guerra da parte degli uffici competenti ed una tradizionale diligenza da parte degli esattori nel riscuotere l’imposta.

Ritengo che le preoccupazioni che sono alla base del ragionamento dell’onorevole Clerici non avranno ragion d’essere, e di fronte alla pericolosità di questo principio della compensazione – che non sappiamo dove ci potrebbe portare – mi associo all’onorevole Relatore nel non accogliere l’emendamento proposto.

PRESIDENTE. Onorevole Clerici, insiste nella sua proposta?

CLERICI. Insisto.

PRESIDENTE. Pongo ai voti l’articolo aggiuntivo 67-bis proposto dall’onorevole Clerici.

(Non è approvato).

Segue l’articolo aggiuntivo 67-bis proposto dagli onorevoli Mastino Pietro, Lussu, Corsi, Schiavetti, Mannironi, De Vita, Mastino Gesumino, Abozzi, Simonini, Bruni:

«Quando la consistenza del patrimonio, posseduto alla data del 28 marzo 1947 subisca, entro il termine fissato per il pagamento, una diminuzione, per perdita o distruzione, superiore al 50 per cento, l’imposta sarà ridotta in misura corrispondente. Tale riduzione sarà applicata anche nei confronti di chi abbia esercitato il diritto di riscatto».

L’onorevole Mastino Pietro ha facoltà di svolgere il suo emendamento aggiuntivo.

MASTINO PIETRO. L’articolo aggiuntivo che ho proposto riguarda il caso in cui taluno sia possessore di un dato patrimonio al 28 marzo 1947, data stabilita per la fissazione della consistenza patrimoniale, ai fini dell’imposta, e venga poi a perdere, per forza maggiore, il patrimonio stesso entro il termine stabilito per il pagamento.

Vi sono due principî in contrasto: da un lato vi è la situazione personale di quelli che, non avendo più patrimonio, dovrebbero, ciò nonostante, essere obbligati a pagare l’imposta; dall’altra vi è invece il principio per cui l’erario, creditore alla data del 28 marzo di tutta l’imposta, e che ha concesso l’agevolazione di un pagamento rateale, pretende l’intero pagamento. I due principî, come ho detto, sono in contrasto e a me parrebbe che l’Assemblea Costituente debba tener conto della difficoltà effettiva in cui il contribuente viene a trovarsi, difficoltà che, ove venisse risolta a suo danno, costituirebbe una palese ingiustizia.

Si può verificare questo, onorevoli colleghi: che taluno – ed è questo rilievo che ha suggerito la presentazione dell’articolo 67 aggiuntivo – proprietario di un dato numero di bestiame, d’improvviso ne sia stato privato o per epidemia, o – si è verificato anche questo – per danneggiamento ad opera di terzi o per furto; questo tale si vedrà ciò non di meno, invitato a pagare l’imposta, che si pretenderebbe applicare ad un patrimonio che non esiste più. Ciò potrebbe apparire giusto dal punto di vista della logica giuridica astratta, in virtù del principio del diritto romano per cui res perit domino; ma noi dobbiamo essenzialmente badare non a principî teorici ma, nel caso, al fatto che l’imposta graverebbe su un patrimonio non più esistente.

Ecco perché ho domandato che il contribuente, nel caso specifico, sia posto in condizione di dimostrare come egli sia rimasto, per forza maggiore, privo per lo meno del 50 per cento del patrimonio tassato e, in tal caso, ottenga di esser tenuto a corrispondere l’imposta solo relativamente alla parte del patrimonio che gli è rimasta. Non ho altro da aggiungere.

PRESIDENTE. Invito l’onorevole Relatore ad esprimere il parere della Commissione.

LA MALFA, Relatore. Vorrei pregare l’onorevole Mastino di rendersi conto delle conseguenze del principio affermato nel suo articolo aggiuntivo. Se noi dovessimo considerare le variazioni patrimoniali dopo la data del 28 marzo 1947, è evidente che dovremmo tener conto non solo delle perdite, ma anche degli incrementi patrimoniali. D’altra parte è da osservare che le ragioni di perdita patrimoniale sono infinite e ciò aprirebbe la via ad esenzioni fiscali per una varietà inesauribile di casi.

Non è quindi possibile che un’imposta sia condizionata ad una serie simile di eventi. Forse il caso prospettato dall’onorevole Mastino, caso che si esemplifica con l’assumere l’ipotesi di epidemie di invasioni di cavallette o di terremoti, è chiaro che non può configurarsi se non nel senso che è l’evento in sé a determinare un’agevolazione fiscale per l’intera zona che è stata colpita, il che del resto generalmente avviene con la concessione di rateazioni o anche di esenzioni, sempre che però si tratti di un evento di generale portata.

Ma è evidente che noi non passiamo introdurre una disposizione di carattere generale in questa legge, perché in tal modo finiremmo quasi con l’annullarla.

Prego pertanto l’onorevole Mastino di ritirare il suo emendamento.

PRESIDENTE. Ha facoltà di parlare l’onorevole Ministro delle finanze.

PELLA, Ministro delle finanze. Il Governo si dichiara del parere dell’onorevole Relatore. Ho già avuto l’onore di manifestare all’onorevole Mastino il mio pensiero sull’impossibilità di accedere ad un ordine di idee del genere, in quanto è stato stabilito che la legge dovrà colpire i patrimoni nella loro consistenza alla data del 28 marzo 1947.

C’è già un esempio clamoroso sotto questo riguardo; ed è quello che si è verificato nei confronti dei creditori di quell’importante istituto di credito che andò in dissesto nel 1922. Anche allora venne sollevato il medesimo problema, ma anche allora si dovette arrivare alla conclusione che nulla era possibile fare in quanto l’evento era posteriore alla data presa a base per il rilievo delle consistenze patrimoniali.

Qualora, del resto, casi del genere dovessero verificarsi, certamente il Governo dell’epoca si farà promotore di quelle agevolazioni che si renderanno opportune. Noi non possiamo però impegnarci ora formalmente in questo senso. Mi associo pertanto alla preghiera dell’onorevole Relatore perché il presentatore voglia ritirare il suo emendamento.

PRESIDENTE. Onorevole Mastino, mantiene il suo emendamento?

MASTINO PIETRO. Sì.

PRESIDENTE. Pongo ai voti l’articolo aggiuntivo 67-bis proposto dall’onorevole Mastino Pietro.

(Non è approvato).

È così esaurito l’esame del Titolo I. Si dovrà passare ora al Titolo II, Capo XIII: Imposta straordinaria proporzionale sul patrimonio.

BERTONE. Chiedo di parlare.

PRESIDENTE. Ne ha facoltà.

BERTONE. Vorrei far presente che vi è un articolo aggiuntivo da me proposto riguardante l’imposta straordinaria patrimoniale progressiva e che quindi dovrebbe essere discusso subito, prima di iniziare l’esame dell’imposta straordinaria proporzionale sul patrimonio.

PRESIDENTE. D’accordo. L’emendamento aggiuntivo dell’onorevole Bertone è così formulato:

«Quando il nudo proprietario non sodisfi alla sua imposta, e non possegga altri cespiti su cui la finanza possa agire per la esazione della stessa, l’usufruttuario è tenuto a corrispondere alla finanza l’interesse del 5 per cento annuo sull’importo dell’imposta dovuta e non sodisfatta dal proprietario».

L’onorevole Bertone ha facoltà di svolgerlo.

BERTONE. Vorrei far presente al Ministro e alla Commissione un caso che si presenterà – credo – con molta frequenza. Vi sono state in questo periodo, da qualche anno in qua, molte liberalità, donazioni, trapassi di patrimoni fra congiunti, specialmente da padre a figlio, da zio a nipote, da marito a moglie e via dicendo, tutte liberalità e trapassi fatti con riserva integrale di usufrutto.

L’articolo 14 del disegno di legge stabilisce che l’imposta progressiva va calcolata separatamente per la nuda proprietà e per l’usufrutto, e l’articolo 48 stabilisce i termini in cui l’imposta deve essere o può essere esatta.

Ora, nei rapporti dell’usufruttuario, la Finanza non ha fastidi di sorta: se L’usufruttuario non paga, la Finanza si farà pagare con provvedimento di esecuzione sull’usufruttuario. Ma nei rapporti del nudo proprietario il quale non abbia nessun altro cespite, io mi domando come farà la Finanza ad essere sodisfatta del tributo che incombe al nudo proprietario, il quale, per parte sua, ha ragione di dire: io non pago perché non ho niente, io ho una proprietà che non ha nessun valore commerciale perché nessuno acquista una proprietà sottoposta a vincolo di usufrutto per una durata di chissà quanti anni.

E allora ci troviamo in questa condizione: di un proprietario gravato da un debito che non sa come sodisfare.

Ora, la regola generale del Codice civile, articolo 1009, è questa; che quando vi è questo debito il quale se fosse pagato verrebbe a gravare sull’usufrutto togliendo all’usufruttuario una parte della proprietà che egli ha in godimento, l’usufruttuario è tenuto a corrispondere a chi paga il debito l’interesse legale.

Io domando che questo sia applicato nei rapporti della Finanza, e cioè: se il nudo proprietario non possiede nessun altro cespite su cui la Finanza possa agire per farsi pagare e non potendo la Finanza agire sul proprietario contro l’usufruttuario, che non è tenuto a pagare il capitale dovuto dal nudo proprietario, credo si debba applicare la regola generale che riguarda tutti i debiti, tutti i carichi che fanno peso su una proprietà sottoposta ad usufrutto; e cioè, fino a che il debito d’imposta del nudo proprietario non venga pagato, l’usufruttuario sia tenuto a corrispondere alla Finanza il 5 per cento dell’imposta dovuta.

Se l’usufruttuario vorrà liberarsi dal pagamento di questo interesse, non avrà che da pagare l’imposta e rivalersi a sua volta sul nudo proprietario. Se non vorrà pagare l’imposta, pagherà questo interesse cha servirà da spinta, da incitamento a pagare l’imposta o a riscattare.

La domanda che faccio è conforme alla regola generale del diritto civile e mi pare non vi sia nessuna ragione per usare verso la Finanza un trattamento più duro e meno riguardoso di quello che si fa verso un creditore qualsiasi.

Penso pertanto che il mio emendamento possa essere accolto dal Governo e dalla Commissione.

PRESIDENTE. L’onorevole Relatore ha facoltà di esprimere il suo parere.

LA MALFA, Relatore. La proposta dell’onorevole Bertone risponde ai principî generali del Codice civile. La perplessità della Commissione sta nel fatto che la materia è stata un po’ superata nella discussione. Noi potremo esaminare ancora la questione più profondamente e proporre una soluzione, probabilmente, nel senso indicato dall’onorevole Bertone in sede di coordinamento, perché dovremo collocare questa disposizione al giusto posto. Se l’Assemblea è d’accordo, in sede di coordinamento faremo una proposta definitiva. Qui non sapremmo dove collocarla.

PRESIDENTE. Onorevole Ministro?

PELLA, Ministro delle finanze. Accetto l’emendamento dell’onorevole Bertone, salvo esaminare in sede di coordinamento il collocamento opportuno.

TOZZI CONDIVI. Chiedo di parlare.

PRESIDENTE. Ne ha facoltà.

TOZZI CONDIVI. Mi sembra che questo articolo aggiuntivo possa accogliersi, ma semplicemente come una facoltà da parte dell’erario in quanto, quando ci sia la possibilità, può essere fatta l’esecuzione anche sulla nuda proprietà.

PRESIDENTE. Bisognerà allora che ella presenti un emendamento in tal senso.

PELLA, Ministro delle finanze. Chiedo di parlare.

PRESIDENTE. Ne ha facoltà.

PELLA, Ministro delle finanze. Desideravo far presente che ritengo sottinteso che la Finanza può sempre agire nei confronti del nudo proprietario. Il significato che do all’emendamento dell’onorevole Bertone è in questo senso: impregiudicati restando tutti i diritti di esecuzione nei confronti del nudo proprietario, fino a quando la Finanza non sia riuscita a coprirsi del suo credito, l’usufruttuario è obbligato a pagare l’interesse legale del cinque per cento sulla parte rimasta scoperta. Soltanto in questo spirito il Governo accetta l’emendamento dell’onorevole Bertone; non potrebbe accettarlo se indirettamente dovesse significare una menomazione o una limitazione dei diritti di esecuzione nei confronti del nudo proprietario. Prego pertanto l’onorevole Bertone di confermare che in questo senso è lo spirito del suo emendamento.

BERTONE. Il mio emendamento ha questo significato.

PELLA, Ministro delle finanze. Siccome non si parla, né nell’emendamento Bertone né in altri articoli della legge di menomare in qualsiasi modo il diritto di esecuzione spettante alla Finanza, mi pare che sia perfettamente inutile, anzi pericoloso, volersi interessare di questo punto. L’emendamento Bertone aggiunge soltanto un diritto suppletivo della Finanza a riscuotere un interesse, fermi restando tutti gli altri diritti che nessun emendamento può menomare.

PERLINGIERI. Chiedo di parlare.

PRESIDENTE. Ne ha facoltà.

PERLINGIERI. Desideravo conoscere se per questa imposta c’è l’obbligo del non riscosso da parte dell’esattore. In tal caso, quale interesse pretende la Finanza per il ritardo?

PELLA, Ministro delle finanze. Onorevole Perlingieri, l’obbligo dell’esattore di versare il carico di ruolo non rappresenta un obbligo che si esaurisca con il versamento; dopo, vi è tutta la pratica di recupero nei confronti delle quote eventualmente inesigibili; giustificata l’inesigibilità, l’esattore può essere rimborsato di quanto ha anticipato.

LA MALFA, Relatore. Insisto nel dichiarare che accettiamo il principio dell’onorevole Bertone, ma non nella dizione formulata.

FABBRI. Chiedo di parlare.

PRESIDENTE. Ne ha facoltà.

FABBRI. Dichiaro che voterò contro, perché, francamente, non capisco su che cosa sia basato il principio per cui uno deve pagare gli interessi sul debito di un altro, cioè su un debito che in sostanza non lo riguarda in nessun modo, né diretto né indiretto.

Dice il collega Bertone che questa è l’applicazione di un principio generale. Io non ho fra le mani il Codice civile…

LA MALFA, Relatore. Articolo 1009.

FABBRI. …ma temo che qui ci sia un grosso equivoco, cioè che il Codice contempli l’ipotesi di un debito che gravando un cespite e gravandolo nella sua totalità implicherebbe la conseguenza che una volta che avvenga una esazione in detrazione di quel cespite, l’esazione si ripercuoterebbe tanto sui beni del nudo proprietario, quanto sui beni dell’usufruttuario e allora la legge come principio generale, per quanto io ricordi vagamente a memoria, mette in gioco la possibilità di una anticipazione da parte dell’uno o dell’altro degli interessati per mantenere la integrità del cespite. Nel caso nostro, invece, abbiamo l’ipotesi di un debito che grava distintamente sulla nuda proprietà ed un debito che grava distintamente sull’usufrutto.

Quale ragione c’è mai per cui l’usufruttuario che deve la propria imposta, si debba andare ad ingerire degli interessi del debito fermo, in ipotesi il non pagamento del debito da parte del nudo proprietario? Se il nudo proprietario non paga, sarà espropriato e l’usufruttuario avrà un nudo proprietario diverso. Ma avere un nudo proprietario diverso, non altera nemmeno di una lira e nemmeno di un centesimo di lira la sua posizione giuridica di proprietario di usufrutto e di debitore dell’imposta sull’usufrutto.

Sarebbe come dire che quando un inquilino di una casa non paga la sua imposta, il proprietario della casa paghi il 5 per cento per interessi sul debito dell’inquilino.

Posta e tenuta ferma la distinzione fra il carico tributario del nudo proprietario ed il carico tributario dell’usufruttuario, non c’è nessun rapporto di cointeressenza tra i due debitori e quindi temo che ci sia un errore nella invocazione del preteso principio generale contenuto nel Codice civile.

DUGONI. Chiedo di parlare.

PRESIDENTE. Ne ha facoltà.

DUGONI. Una parte delle argomentazioni che io intendevo svolgere sono state perfettamente svolte dall’onorevole Fabbri.

Volevo solo aggiungere che qui siamo in presenza di un’imposta personale accompagnata da una garanzia reale, quindi noi non possiamo fare nessuna eccezione per un debitore che sia insolvente, perché la garanzia reale deve giocare proprio per tutti i debitori di questa imposta. Concepire quindi un nudo proprietario che sia insolvente rispetto alla imposta, sarebbe come dire che qualcuno che è perfettamente solvibile non paghi. Questa è una cosa che non ha nessun significato.

D’altra parte c’è un argomento pratico: cioè che di fronte alla possibilità che ci sia la concessione del pagamento dell’interesse non ci sia più nessuno che paghi l’imposta, perché tutti si limiteranno a pagare il semplice interesse. Quindi, in queste circostanze, io credo che si debba respingere l’articolo, prima, per le ragioni dette dall’onorevole Fabbri e poi per quelle che ho detto io, tenendo conto del carattere placido, che cioè questo sarebbe un invito a non pagare l’imposta perché tutti preferiranno pagare un piccolo interesse piuttosto che una grossa imposta.

PRESIDENTE. Ha chiesto di aggiungere un chiarimento l’onorevole Bertone. Ne ha facoltà.

BERTONE. Dichiaro di accettare il principio del Ministro. Invece di dire che l’usufruttuario è tenuto a rispondere, direi che «quando il nudo proprietario non sodisfi alla sua imposta e non possegga altri cespiti su cui la Finanza possa agire per la esazione della stessa, la finanza può richiedere all’usufruttuario l’interesse del 5 per cento».

PELLA, Ministro delle finanze. Per lealtà, devo dichiarare che il Governo si è dato carico, appena letto l’emendamento dell’onorevole Bertone, delle considerazioni che sono state chiaramente espresse dall’onorevole Fabbri e dall’onorevole Dugoni. Però il Governo ha dato parere favorevole in base ad argomentazioni di ordine empirico, se si vuole, ma che hanno un notevole peso, che l’onorevole Bertone ha posto alla base della sua proposta, e cioè quello di staccare il diritto di usufrutto dalla nuda proprietà per ottenere determinati risultati di ordine fiscale. Capisco perfettamente che vi è tutta un’altra zona in cui questo presupposto non si verifica, ma io penso che la sanzione proposta dall’onorevole Bertone all’atto pratico si rivelerà senza conseguenze gravi per quell’altra zona per la quale non sarebbero valide le di lui argomentazioni. Ed è in questo senso, allo scopo di far acquisire alla Finanza una determinata garanzia, che il Governo ha dato parere favorevole per l’accettazione dell’emendamento.

DUGONI. Questo emendamento non ha senso.

PRESIDENTE. Pongo ai voti l’emendamento Bertone.

(Non è approvato).

Passiamo al Titolo II, Capo XIII (Imposta straordinaria proporzionale sul patrimonio).

Si dia lettura dell’articolo 68, nel testo ministeriale accettato dalla Commissione.

MOLINELLI, Segretario, legge:

«I contribuenti tenuti per l’anno 1947 al pagamento dell’imposta ordinaria sul patrimonio sono assoggettati, per l’anno stesso, ad una imposta straordinaria proporzionale in misura del 4 per cento sui valori definitivamente accertati ai fini dell’imposta ordinaria per l’anno 1947.

«I contribuenti che, prima dell’entrata in vigore del presente decreto, abbiano alienato uno o più dei cespiti sui quali è stata applicata l’imposta del 4 per cento, hanno il diritto di rivalersi verso l’avente causa dell’imposta stessa afferente i cespiti alienati».

PRESIDENTE. Sono stati presentati su questo articolo numerosi emendamenti.

L’onorevole Rescigno propone di sostituire, al primo e al secondo comma, alle parole «4 per cento» le parole «3 per cento».

L’onorevole Rescigno ha facoltà di svolgere il suo emendamento.

RESCIGNO. Osservo che l’aliquota del 4 per cento mi sembra eccessivamente gravosa per i piccoli e medi patrimoni. Propongo perciò la riduzione al 3 per cento. Del resto era così previsto anche nel progetto dell’onorevole Scoccimarro.

PRESIDENTE. L’onorevole Pesenti, insieme con gli onorevole Scoccimarro, Lombardi Riccardo, Foa, Valiani e Piemonte, ha presentato i seguenti emendamenti:

«Al primo comma, sopprimere le parole: sui valori definitivamente accertati ai fini dell’imposta ordinaria per l’anno 1947».

«Aggiungere un secondo comma così formulato:

«L’imposta è dovuta sui valori definitivamente accertati ai fini dell’imposta ordinaria sul patrimonio per l’anno 1947. Per le società per azioni e in accomandita per azioni l’imposta è dovuta sui valori che saranno definitivamente accertati ai fini dell’imposta di negoziazione per l’anno 1947».

L’onorevole Pesenti ha facoltà di svolgerlo.

PESENTI. Lo scopo dell’emendamento è di porre le società sullo stesso piano dei contribuenti privati. L’articolo 68 dice:

«I contribuenti tenuti per l’anno 1947 al pagamento dell’imposta ordinaria sul patrimonio, sono assoggettati, per l’anno stesso, ad una imposta straordinaria proporzionale in misura del 4 per cento sui valori definitivamente accertati ai fini dell’imposta ordinaria per l’anno 1947».

Noi facciamo una condizione diversa ai contribuenti privati ed alle società, perché le società sono iscritte al ruolo per l’anno 1947 in base ad una valutazione fatta ai fini dell’imposta di negoziazione per il 1946, valutazione che si riferisce al 1943 o, al massimo, al 1945.

Perciò, con la dizione proposta: «L’imposta è dovuta sul valore definitivamente accertato, ai fini dell’imposta ordinaria sul patrimonio per l’anno 1947. Per le società per azioni e in accomandita per azioni l’imposta è dovuta sui valori che saranno definitivamente accertati ai fini dell’imposta di negoziazione per l’anno 1947», le società vengono a trovarsi sullo stesso piano dei contribuenti privati, pagano sul patrimonio quale era nel 1946.

Quindi, questo emendamento risponde ad una esigenza di giustizia e ritengo sia stato già accettato dalla Commissione.

PRESIDENTE. L’onorevole Bosco Lucarelli ha presentato il seguente emendamento.

«Aggiungere al primo comma le parole: sulla base dell’imponibile al 1° gennaio 1940, moltiplicato per dieci per i terreni e per cinque per i fabbricati».

Ha facoltà di svolgerlo.

BOSCO LUCARELLI. Un emendamento simile io proposi all’articolo 34, circa la denunzia per l’imposta progressiva; in quella sede la Commissione e il Ministro dissero che l’emendamento andava riportato in questo articolo; quindi non ripeterò quello che dissi allora.

Ma dalla risposta del Ministro ho l’impressione che fra quello che dicevo io e quello che diceva il Ministro c’è qualche differenza, che, per dovere di lealtà, in materia tributaria, è necessario chiarire.

L’imposta ordinaria sul patrimonio fu dettata con decorrenza dal 1° luglio 1940, basandosi sul prestito immobiliare obbligatorio.

Dopo è subentrata una disposizione per cui i valori accertati per il triennio 1936-39 dovevano essere di base anche per il triennio 1943-1946. In questo periodo 1943-46 alcuni uffici distrettuali delle imposte hanno provveduto ad una revisione dei valori ed ho accennato come in alcuni uffici distrettuali delle imposte fosse stato moltiplicato per 4 e per 5 volte l’imponibile del triennio precedente.

Ed ora è stato moltiplicato per 10 non l’imponibile 1936-39, ma quello rivalutato nel 1944. Il Ministro ha osservato che se questa rivalutazione del 1944 era stata fatta in base ai valori del triennio 1936-39, la rivalutazione era legittima; per cui, io penso che il Ministro ritenga legittimo moltiplicare per 10 questo valore rivalutato e già moltiplicato per 4.

Quindi, di fatto, l’imponibile del 1936-39, agli effetti dell’imposta ordinaria patrimoniale per il 1947 è stato moltiplicato per 40. Ora, siccome questa rivalutazione dell’imponibile del 1936-39 non è avvenuta in tutti gli uffici distrettuali delle imposte, ritengo necessario portarsi ad una data fissa di imponibile, da moltiplicarsi per 10 o per 5, secondo che si tratta di terreni o di case, senza tener presenti le rivalutazioni avvenute dal 1944 in poi. Perciò io ritengo che vada chiarito che la moltiplicazione per 10 per i terreni e per 5 per i fabbricati si faccia sull’imponibile al 1° gennaio 1940; anzi, nell’altro emendamento io avevo messo al 1° luglio 1940, e mi sembra più esatta quest’ultima data, 1° luglio 1940, in quanto da tale data, la patrimoniale entrò in vigore. La Commissione pareva accedere all’idea di una data fissa, ma è necessario chiarire questo concetto, altrimenti noi potremmo avere una notevole differenza d’interpretazione per cui alcuni uffici distrettuali delle imposte ritengono avere ben fatto moltiplicando per 10 per i terreni e per 5 per i fabbricati gli imponibili del 1936-39 già rivalutati nel 1944.

Moltiplicare così per 40 per i terreni e per 20 per le case l’imponibile al 1° luglio 1940, mi sembra eccessivo.

FABBRI. Chiedo di parlare.

PRESIDENTE. Ne ha facoltà.

FABBRI. Desidero fare un’osservazione sull’ordine della discussione. Mi pare che con le pochissime parole dette dall’onorevole Pesenti si sia sollevata una questione gravissima di duplicazione di imposta sia nel campo della patrimoniale progressiva che in quello della patrimoniale proporzionale, mentre viceversa l’accenno dell’onorevole Bosco Lucarelli si riferiva a questioni di data di accertamento del cespite. Non vedo un nesso tra le due questioni, ma mi pare che quella sollevata dall’onorevole Pesenti sia di un’imponenza tale da travolgere tutta l’economia della legge, e che quindi non possa essere trascurata come una cosa insignificante.

PRESIDENTE. Noi procediamo allo svolgimento degli emendamenti. Alla fine dello svolgimento ogni collega potrà prendere la parola per riferirsi ad uno o ad un altro degli emendamenti facendo le sue obiezioni.

SCOCCIMARRO. Chiedo di parlare.

PRESIDENTE. Ne ha facoltà.

SCOCCIMARRO. Mi pare che dato il numero degli emendamenti presentati su questo articolo, e gli argomenti a cui si riferiscono, sia consigliabile raggrupparli, discuterli secondo le singole questioni e votare via via che si esaurisce ogni singolo problema.

PRESIDENTE. Possiamo farlo, ma lei ha visto che molti emendamenti si riferiscono a due, tre questioni fondamentali, quindi in fondo lo svolgimento di essi significa l’esame delle questioni fondamentali.

Non essendo presenti gli altri firmatari, l’onorevole Rubilli ha facoltà di svolgere il seguente emendamento che reca anche le firme degli onorevoli Crispo, Morelli Renato, Bozzi, Cifaldi, Perrone Capano:

«Aggiungere dopo il primo comma il seguente:

«Per i fabbricati soggetti a regime vincolistico l’aliquota è del 2 per cento sui valori definitivamente accertati ai fini dell’imposta ordinaria per l’anno 1947, prendendosi a base di quest’ultima i valori accertati per il prestito immobiliare 1936».

RUBILLI. Come uno dei firmatari dell’emendamento, io lo mantengo, e con poche parole dico essere di un’assoluta evidenza che dovrebbe essere accolto, perché nelle condizioni attuali, come ognuno sa, c’è una differenza enorme fra i proprietari di un fabbricato soggetto a regime vincolistico ed i proprietari di un fabbricato che invece è soggetto a regime libero. E assai rilevante infatti il divario tra quello che si può introitare da parte degli uni e da parte degli altri. Ora è chiaro che ragioni di equità e di giustizia impongono che sia fatto un trattamento diverso agli effetti della imposta, dato che le condizioni sono pur diverse, in un caso e nell’altro.

Quindi noi proponiamo con l’emendamento che, mentre per i fabbricati non soggetti a regime vincolistico si paghi il 4 per cento, per gli altri, i cui fabbricati sono soggetti a regime vincolistico, l’aliquota sia ridotta almeno della metà.

C’è fra i due proprietari una differenza che è certo molto maggiore del doppio, ma per lo meno si tengano presenti le singole condizioni alle quali occorre almeno approssimativamente adeguare e proporzionare l’imposta.

Spero che l’Assemblea vorrà accogliere l’emendamento.

PRESIDENTE. Il seguente emendamento, a firma dell’onorevole Bonomi Paolo, è già stato svolto:

«Dopo il primo comma, aggiungere il seguente:

«I contribuenti che non risulteranno assoggettabili all’imposta progressiva di cui all’articolo 1 avranno diritto allo sgravio del 50 per cento dell’imposta proporzionale gravante su cespiti immobiliari. Lo sgravio è accordato su domanda della parte».

Segue l’emendamento presentato dagli onorevoli Pesenti, Scoccimarro, Lombardi Riccardo, Foa, Valiani e Piemonte:

«Aggiungere dopo l’attuale primo comma il comma seguente:

«I contribuenti che non risultano assoggettabili all’imposta progressiva di cui all’articolo 1 hanno diritto allo sgravio del 75 per cento dell’imposta proporzionale gravante sui cespiti immobiliari.

«Il diritto allo sgravio è del 50 per cento per i contribuenti il cui patrimonio accertato in base agli articoli 29 e seguenti sia compreso tra i 3 ed i 5 milioni e del 25 per cento per i contribuenti il cui patrimonio sia compreso tra i 50 ed i 10 milioni di cui allo stesso articolo 29.

«Lo sgravio è concesso su domanda del contribuente».

L’onorevole Scoccimarro ha facoltà di svolgerlo.

SCOCCIMARRO. L’emendamento che noi abbiamo presentato sull’imposta straordinaria tocca il punto dolente di questa legge.

È noto che, non solo da parte di larghe zone dell’opinione pubblica, ma anche di diversi settori di questa Camera, si è sollevata l’obiezione che questo provvedimento finanziario grava eccessivamente sulla piccola proprietà.

Ora, l’osservazione è giustificata. Senonché, i diversi emendamenti che sono stati presentati per attenuare e correggere questo difetto della legge, pare a me che non risolvano il problema e non rispondano alle esigenze che l’articolo 68 pone, e sul quale l’Assemblea deve dare una risposta.

Si è voluto unificare in un unico provvedimento l’imposta straordinaria progressiva e l’imposta proporzionale che, in sostanza, è il riscatto dell’imposta.

Questa unificazione non è né razionale né politicamente opportuna. È perciò che, in sede di discussione generale, io avevo proposto di stralciare questa parte del provvedimento e di esaminarla a parte con altri criteri e su altre basi. Ma, poiché il Governo ha respinto questa proposta, noi dobbiamo accettare quella unificazione, come un dato di fatto per la discussione.

Gli emendamenti presentati su questo punto dall’onorevole Crispo ed altri non risolvono il problema di attenuare la pressione sulla piccola e piccolissima proprietà. Quando si propone di elevare da tre a cinque milioni la detrazione fissa, in realtà noi diamo l’esenzione ai patrimoni che vanno dai tre ai cinque milioni e delle agevolazioni a quelli che vanno dai cinque milioni in su, ma ci si dimentica che, in sede di proporzionale, si paga da 100.000 lire in su per i terreni e da 50.000 in su per i fabbricati, con una aliquota che è notevolmente superiore a quella che si paga per la progressiva.

Se poi si tiene presente che il valore fiscale non corrisponde al valore reale e che i valori fiscali scendono al 60-50 per cento dei valori reali – e qualche volta anche al disotto – allora quegli emendamenti acquistano questo significato: è una agevolazione concessa ai proprietari medi, mentre la vera piccola proprietà, quella piccola proprietà che è uno strumento di lavoro, rimane senza sollievo alcuno sotto i rigori della proporzionale.

E perciò che io ho pregato a suo tempo i colleghi di riesaminare il problema del minimo imponibile da questo punto di vista, ed è per la stessa ragione che oggi chiedo loro di ritirare gli emendamenti e di associarsi a quello da noi presentato, che risolve il problema da essi posto, risponde alle loro esigenze nei limiti del giusto, e risolve la questione in modo più razionale ed organico.

Ed ora, permettetemi di spiegare brevemente le ragioni di questa richiesta. Perché non si deve aumentare il minimo imponibile, né si deve aumentare la detrazione fissa? Perché, se noi consideriamo il minimo di 3 milioni e teniamo conto che con la detrazione fissa si paga su un milione, il 6 per cento della legge si riduce al 2 per cento e quel 2 per cento si riduce ancora quando passiamo dal valore fiscale al valore reale del patrimonio.

Vi do senz’altro i risultati di un breve calcolo, che del resto ognuno può fare da sé: per i patrimoni di 3 milioni l’aliquota effettiva che si viene a pagare sul valore reale va dall’l all’l,50 per cento; per i patrimoni di 4 milioni va dall’l,50 al 2 per cento; per i patrimoni fino ai 5 milioni va dal 2 al 2,50 per cento. Le aliquote sui valori fiscali sono rispettivamente del 2, 3, 3,50 per cento.

Ora, da questi dati voi vedete che nella imposta progressiva fino a 5 milioni non si raggiunge il 4 per cento, che facciamo invece pagare nella proporzionale anche a chi possiede un patrimonio di solo 50 mila lire in fabbricati e di 100 mila lire in terreni.

Ora, queste considerazioni dimostrano che il minimo imponibile dell’imposta progressiva non è eccessivo né gravoso, perché il 6 per cento scende di molto e per la detrazione fissa e per lo scarto che c’è fra il valore fiscale e il valore reale.

Ma adesso c’è il rovescio della medaglia. Noi colpiamo nell’imposta proporzionale con il 4 per cento tutti i patrimoni che superano le 50 mila lire per i fabbricati e le 100 mila lire per i terreni. E qui non v’è alcuna detrazione fissa. Ora, se si tiene presente chi può essere soggetto all’imposta progressiva e non alla proporzionale e viceversa, e che molta gente paga la proporzionale e non la progressiva, perché la loro consistenza patrimoniale è al disotto dei 3 milioni, le sperequazioni che ne derivano sono evidenti. Infatti, chi possiede case, terreni e beni comunque soggetti all’imposta ordinaria sul patrimonio fino a tre milioni è soggetto all’imposta del 4 per cento, mentre chi possiede lo stesso patrimonio però non soggetto all’imposta ordinaria non paga nulla. E evidente che si tratta di una sperequazione che bisogna eliminare.

Ma v’è di più. Chi sono oggi i proprietari che posseggono un patrimonio inferiore ai tre milioni e pagano il 4 per cento? Sono gli artigiani, i piccoli produttori, per i quali la proprietà costituisce un vero e proprio strumento di lavoro. Ora, questi pagano il 4 per cento, mentre chi possiede tre milioni di titoli azionari e perciò non è un lavoratore, è esente dall’imposta straordinaria.

E la sperequazione rimane anche al disopra dei tre milioni: infatti, chi paga in sede di proporzionale è colpito col 4 per cento, mentre chi paga in sede di progressiva è colpito solo col due per cento per i tre milioni, col 3 per cento per 4 milioni e col 3,50 per cento per 5 milioni. E qui si tratta di aliquote fiscali che sono superiori a quelle reali. Anche qui dunque si ha una sperequazione che bisogna eliminare.

Per di più, in sede di proporzionale, non c’è alcuna detrazione fissa, mentre questo beneficio esiste nell’imposta progressiva. Inoltre la proporzionale si paga subito, mentre la progressiva si inizia a pagare nel 1948. Infine nell’imposta progressiva c’è una possibilità di evasione per la ricchezza mobiliare che non esiste nella proporzionale che si riferisce essenzialmente ai beni immobiliari. Da questo raffronto fra i due sistemi seguiti per l’imposta proporzionale e quella progressiva, appaiono chiaramente le gravi sperequazioni che io ho posto in rilievo, sperequazioni a danno dei piccoli proprietari e produttori soggetti alla imposta proporzionale.

L’emendamento da noi proposto tende in sostanza ad eliminare tali sperequazioni.

Lo sgravio del 75 per cento per i patrimoni inferiori ai 3 milioni significa far pagare fino a quel limite 1’1 per cento, che è poi l’aliquota effettiva generale che si paga sui patrimoni sotto i 3 milioni nell’imposta progressiva; lo sgravio del 50 per cento per i patrimoni dai 3 ai 5 milioni significa far pagare il 2 per cento; lo sgravio del 25 per cento per i patrimoni da 5 ai 10 milioni significa far pagare il 3 per cento; dai 10 milioni in su si paga il 4 per cento: qui non v’è più ragione di riduzione. Per cui oggi noi chiederemmo a chi possiede meno di 3 milioni di pagarci due volte e mezzo quella che è l’imposta ordinaria che pagava finora; a chi possiede da 3 a 5 milioni, di pagarci cinque volte l’imposta ordinaria; e dai 5 ai 10 milioni, di pagarci sette volte e mezzo questa imposta.

Ora, se noi raffrontiamo fra loro i singoli emendamenti, che cosa troviamo?

Consideriamo l’emendamento più importante, quello dell’onorevole Crispo. Con questo emendamento, tutti i piccoli e piccolissimi proprietari, fino a 3 milioni, sono dimenticati, perché questi non rientrano nella progressiva ma solo nella proporzionale, e qui non c’è detrazione fissa né minimo imponibile. Quindi, con questo emendamento ai piccolissimi proprietari non si dà alcun aiuto. Viceversa, con lo stesso, si esentano i contribuenti dai 3 ai 5 milioni, mentre si attenua il gravame per coloro che possiedono da 5 milioni in su. Infatti, coll’emendamento Crispo, per i possessori di patrimoni di cinque milioni, si viene a ridurre l’aliquota dal 3,50 al 2,40 per cento.

Col nostro emendamento invece si viene veramente in aiuto alla piccolissima proprietà; un patrimonio di un milione, un milione e mezzo, due milioni, è appena una bottega da lavoro, un pezzettino di terra, o una di quelle casette che gli operai si costruiscono da soli quando hanno messo da parte qualche risparmio, o uno di quei piccoli alloggi che può avere un pensionato che è riuscito a mettere qualche cosa da parte per la vecchiaia. È a tutti costoro che noi portiamo un aiuto. A coloro che possiedono dai tre ai dieci milioni, noi portiamo un’attenuazione per quelli che pagano in sede di progressiva e in sede di proporzionale; lasciamo invece immutata la situazione per coloro che pagano solo in sede di progressiva, il che significa che possiedono solo beni mobiliari.

Il significato del nostro emendamento è questo: venire veramente in aiuto ai piccolissimi proprietari; attenuare il gravame per i piccoli proprietari che possiedono dai 3 ai 10 milioni; per coloro, però, che non pagano in sede di imposta proporzionale – il che vuol dire che non hanno case, terreni, ecc., ma possiedono ricchezze mobiliari, e per i quali è facile anche l’evasione – per questi pare a me che le aliquote della legge, così come sono, sono giuste, e non sono eccessive.

L’efficacia del nostro emendamento consiste nel fatto di venire incontro proprio alla difficile situazione che si è creata per molta gente. Io mi atterrò alla raccomandazione del Presidente e non vi darò lettura delle infinite lettere che mi sono arrivate con segnalazioni di casi diversi l’uno dall’altro, ma vi dirò che qui noi possiamo veramente portare un aiuto effettivo senza gran danno per la Finanza. C’è un limite al di là del quale ci si illude di riscuotere di più – e magari si riscuote di più in un primo momento – ma si arreca un danno che si ripercuote in seguito a danno delle finanze dello Stato.

Arrivato a questo punto, io credo che i colleghi presentatori di altri emendamenti dovrebbero riconoscere che la loro esigenza trova una soluzione più razionale in questo nostro emendamento e perciò io penso che essi potranno associarsi a noi per ottenere l’approvazione dell’Assemblea su questo punto.

Quali critiche si sono fatte a questo emendamento? Una delle critiche è stata questa: ma è proprio vero che questi piccoli proprietari non possono pagare? La realtà dimostra che si è già riscattato l’imposta per dieci miliardi, il che vuol dire che i mezzi per pagare l’imposta ci sono.

Questo ragionamento pecca di astrattismo: si crea un tipo di contribuente ed a quello si assimilano tutti gli altri contribuenti.

Ora i dieci miliardi di riscatto non sono gran cosa rispetto al gettito complessivo della proporzionale. D’altronde coloro che oggi riscattano possono essere benissimo i proprietari medi o grossi, i quali hanno un notevole beneficio con lo sconto che la legge concede. E il fatto che una parte dei contribuenti è in grado di riscattare non è una ragione per ammettere che tutti siano in grado di pagare l’imposta. Allo schematismo che pone tutti i contribuenti sul piano di coloro che hanno possibilità di riscatto, bisogna sostituire una valutazione socialmente ed economicamente differenziata dei contribuenti, per cui ci sono categorie e classi sociali che sono in condizioni di pagare l’imposta, ma vi sono altre che non sono in queste condizioni.

Per queste ragioni non mi convince l’argomento del riscatto. Io non sono sicuro che noi non faremo involontariamente del danno approvando la legge così com’è. Non bisogna mai dimenticare che nei problemi finanziari è essenziale il loro fondamento economico. La finanza è sempre subordinata all’economia e un risanamento finanziario non si ottiene senza il risanamento economico.

Quando si prendono provvedimenti finanziari che, come questo, arrivano ai margini della capacità contributiva, bisogna saper valutare bene e tener conto del limite di resistenza economica dei contribuenti, e quel limite marginale non deve essere superato perché, se si supera, noi distruggiamo una serie di piccole entità produttive che pure sono attività concrete nella vita economica del Paese.

Colpendo le piccolissime proprietà, che sono strumento e mezzo di lavoro, noi arrischiamo di mettere in dissesto una moltitudine di piccoli contribuenti; e così non solo rechiamo danno all’economia del Paese, ma indirettamente rechiamo un danno anche alle finanze dello Stato perché distruggiamo una attività creatrice di reddito che concorre al pagamento delle imposte ordinarie. In tal modo si costruisce sulle sabbie mobili e si preparano nuovi collassi finanziari.

È perciò che io raccomando al Ministro delle finanze di tener presente questo aspetto particolare della legge, e di ricordare che oggi vi sono in Italia milioni di piccoli artigiani, di piccolissimi proprietari che attendono con ansia l’esito del voto su questo emendamento, perché da esso dipende per molti la possibilità di lavorare e di vivere con una certa tranquillità oppure di vedersi spalancare dinanzi il baratro della miseria e della rovina.

Onorevole Ministro, accolga il nostro emendamento. Lei farà così opera politicamente saggia e moralmente giusta!

PRESIDENTE. L’onorevole Mazzei ha presentato un emendamento del seguente tenore:

«Dopo il primo comma aggiungere:

«Quando il minimo imponibile ai fini del pagamento dell’imposta ordinaria sia inferiore alle lire 200 mila, i contribuenti saranno esentati dal pagamento dell’imposta straordinaria proporzionale».

Da facoltà di svolgerlo.

MAZZEI. L’emendamento da me presentato è di per sé molto chiaro. Si tratta di elevare il minimo imponibile all’imposta proporzionale straordinaria da cento mila a duecento mila lire. Tutte le considerazioni che testé ha fatte l’onorevole Scoccimarro per patrimoni ben più alti, in difesa delle esigenze della piccola proprietà vanno ripetuti per dei patrimoni piccolissimi quali sono quelli fino alle lire duecentomila. Va osservato in particolare che i patrimoni fino a duecentomila lire sono, almeno di regola, patrimoni che non danno redditi liquidi: sono, di solito, la piccola casetta del contadino oppure il piccolo orto o il piccolo appezzamento che servono, l’una all’uso diretto di chi lo abita, l’altro a fornire prodotti alimentari al diretto consumo della famiglia di chi lo possiede. Quindi colpire con una imposta, che lo stesso onorevole La Malfa ha dichiarato senz’altro gravosa nella sua relazione, questi patrimoni, significa colpire la piccola proprietà in modo veramente eccessivo. E ciò non è ammissibile da un punto di vista sociale e di giustizia tributaria. Non vi è, d’altra parte, neppure probabilità alcuna che questi piccoli patrimoni diano, attraverso un pagamento immediato, attraverso il riscatto dell’imposta, un notevole contributo all’erario perché sono patrimoni che non danno di regola, redditi liquidi immediatamente disponibili. Né l’onere o, per lo meno, il danno che viene al fisco dalla limitazione del gettito dell’imposta è tale da poter escludere l’elevazione del minimo imponibile. Noi repubblicani, durante la discussione sulla patrimoniale, siamo partiti dal concetto di badare soprattutto alle esigenze del bilancio dello Stato; ci siamo, diremmo, messi piuttosto dal punto di vista del Ministro delle finanze che dal punto di vista dei contribuenti. Noi repubblicani abbiamo seguito rigorosamente questa linea, perché riteniamo che salvare la situazione dell’Erario, che è totalmente esausto, e salvare il bilancio, se ci si riesce, può essere di ben maggior vantaggio per i piccoli proprietari e per le classi medie, che oggi sono le più duramente colpite, di quanto non sia il beneficio immediato di un alleviamento tributario. Ma questo criterio nostro di badare all’esigenza generale di assicurare il massimo gettito dell’imposta per dare la massima prosperità all’Erario, trova qui una necessaria eccezione. Perché c’è un limite oltre il quale l’imposta diventa non più suscettibile di un pagamento normale e finirebbe per non potere essere pagata che facendosi ricorso alla vendita del cespite colpito, che nella specie è costituito dalla casetta di abitazione dell’artigiano e dal piccolo appezzamento di terra del coltivatore diretto e via dicendo. Quindi mi pare che la legittimazione, da un punto di vista sociale, della esenzione richiesta è indubbia. E se vi è una limitazione del gettito dell’imposta, come vi sarà, mi pare che essa debba essere sopportata dall’Erario perché, indubbiamente, il problema di un’imposta straordinaria è proprio quello di trovare il punto di giusto equilibrio fra le possibilità del contribuente e le esigenze dell’Erario, specie quando si tratta dei piccoli patrimoni che vanno particolarmente tutelati e protetti.

Non aggiungo perciò altro. Faccio presente che l’onorevole Dugoni, che ha presentato un emendamento analogo al mio, mi ha incaricato di dire che egli è disposto ad aderire al mio emendamento, nel caso io aggiungessi ad esso un capoverso per l’esenzione dei patrimoni delle pubbliche istituzioni di beneficenza e di assistenza.

Lo faccio senz’altro. Il mio emendamento, in definitiva, viene quindi così formulato:

«Quando il minimo imponibile ai fini della imposta straordinaria sia inferiore alle 200 mila lire, i contribuenti saranno esentati dal pagamento di un’imposta straordinaria proporzionale.

«Saranno esentati altresì i patrimoni delle pubbliche istituzioni di beneficenza e di assistenza».

PRESIDENTE. Onorevole Dugoni, aderisce all’emendamento dell’onorevole Mazzei con raggiunta del capoverso?

DUGONI. Mi riservo di esprimere la mia opinione quando svolgerò il mio emendamento.

MAZZEI. Avverto infine, che ho presentato un emendamento all’articolo 72 che è alternativo con questo. Se questo passasse, rinuncerei all’emendamento all’articolo 72.

PRESIDENTE. L’onorevole Micheli ha facoltà di svolgere il suo emendamento presentato insieme con i colleghi Valenti, Fantoni, Tessitori, Marconi, Pallastrelli, Canapa e così concepito:

«Aggiungere, in fine:

«Sono esenti dall’imposta straordinaria proporzionale i terreni esentati dall’imposta fondiaria a norma del decreto legislativo del Capo provvisorio dello Stato 7 gennaio 1947, n. 12».

MICHELI. Parlerò brevemente, per quanto l’argomento sia importante e grave, perché io ho già avuto l’onore di svolgerlo altre due volte in questa Assemblea: nell’occasione delle comunicazioni del Governo, quando ricordando come lo Stato nostro avendo creduto di dare questo premio a coloro i quali restavano nelle terre lontane per coltivarle e quasi custodirle non dirò contro al nemico, ma di fronte alle intemperie che apportavano ingenti danni, io sostenni che non si poteva attraverso i meandri della burocrazia e alla richiesta di singolari documenti come perizie e carte topografiche, diminuire quello che era il valore della concessione che il Governo aveva creduto di fare a questa brava gente meritevole di ogni più grande considerazione nostra, perché in altis habitat.

Lo dissi allora e l’ho ripetuto anche in questa stessa discussione, quando si è parlato nella prima parte dell’imposta progressiva. Allora il Ministro mi ha avvertito come in quella sede poteva essere meno opportuna la mia proposta e così insieme alle richieste di coloro i quali hanno accennato alla opportunità di particolari riguardi alla piccola proprietà nell’applicazione dell’imposta proporzionale, ho presentato ancora il mio emendamento in questa sede, giacché nelle terre a tale altitudine è quasi esclusivamente prevalente la piccola proprietà. Poco debbo aggiungere a quello che dissi allora, perché effettivamente la questione è molto semplice. Noi colpiamo coloro i quali pagano. Perché vogliamo cercare di colpire coloro i quali sono stati esentati dal pagare la imposta fondiaria colla legge che è indicata nel mio emendamento? Non capisco: o si è sbagliato allora o si sbaglia adesso. Ma io dico che non si sbagliò allora, con la concessione fatta a quella gente, che sta nelle più alte pendici del nostro Paese, lontana da ogni comodità, in luoghi impervi ed inospitali, per cercare di rendere feconde quelle zolle. Lo Stato, dal 1° gennaio 1947, ha concesso questo beneficio. Ora noi cerchiamo di toglierlo inviando una cartella, nella quale tutti questi tributi, che dal principio d’anno non sono stati pagati, sono concretati in un maggiore ed insostenibile gravame?

Ecco perché io ho voluto portare queste rivendicazioni, confortato da tanti colleghi, che allora hanno aderito al mio pensiero; perché effettivamente la questione dei 700 metri e dei suoi tributi si discute da anni nel libero Parlamento ed è stata accolta per la prima volta nella provincia di Aosta per la sua sovrimposta: simpatica affermazione di una provincia a bilancio modesto e limitato.

In seguito, anche lo Stato si è persuaso di questo ed ha concesso questo sgravio alla piccola proprietà montana. Con molto piacere ho visto che la piccola proprietà ha trovato in quest’Aula tanti sostenitori. Io che la sostengo in quest’Aula da 40 anni, vedo che la nostra coorte è aumentata e mi auguro che essa possa giungere finalmente alla vittoria. La piccola proprietà, se deve rimanere nella sua forza e rispondenza sociale, non deve essere soppressa o frantumata dagli aggravi fiscali, dai vecchi, che sembravano già troppo gravosi, a quelli che si vuole aggiungere e che porterebbero la piccola proprietà alla sua scomparsa.

Voglio sperare che i colleghi siano persuasi di questo e che essi mi seguiranno in questa via con il loro voto.

Il Ministro delle finanze, nel giorno in cui io levai la voce per chiedere questo beneficio, forse in un momento meno adatto, con quella grande cortesia che egli adopera nel rispondere, fece quasi comprendere che egli avrebbe aderito in questa sede. Ed io spero che egli vorrà venire incontro a quelle forti popolazioni, che abitano sull’alto Appennino e sulle Alpi quasi a custodia dei nostri confini, in zone scarsamente produttive. Abbiamo visto con grande piacere che anche gli antiregionalisti più accesi, di fronte alle Regioni di confine, hanno diminuito il loro calore ed hanno finito con l’accedere. Questi confini hanno sempre una grande importanza. Lo Stato, è vero, ha bisogno di aiuto. Ma che aiuto può dare questo popolo bisognoso che vive in luoghi di scarsa produttività lontani ed impervi? Esso ha bisogno del conforto dell’Assemblea, la quale dica loro: continuate a rimanere lassù, scolte vive di stirpe indefessa al suo lavoro, legata alla sua terra, e fecondate quelle zolle colla vostra diuturna fatica. L’Assemblea vi ha compreso e cercherà insieme col Governo della Repubblica di premiare la vostra fedele attività ed il vostro lavoro. (Applausi).

PRESIDENTE. L’onorevole Dugoni ha presentato il seguente emendamento:

«Aggiungere, in fine:

«Sono esentati dall’imposta:

  1. a) i contribuenti il cui imponibile ai fini dell’imposta proporzionale non raggiunga le lire duecentomila;
  2. b) i patrimoni delle pubbliche istituzioni di beneficenza».

Ha facoltà di svolgerlo.

DUGONI. Io sono dell’opinione che i presentatori dei diversi emendamenti all’articolo 88 hanno un minimo comune denominatore, e che questo minimo comune denominatore può essere stabilito in una brevissima riunione dei presentatori di questi emendamenti, durante una sospensione dei lavori dell’Assemblea. Io chiederei, pertanto, una brevissima sospensione allo scopo di far riunire i presentatori di emendamenti, la rappresentanza della Commissione delle finanze e forse anche il Ministro, per concordare insieme una linea di condotta nei riguardi dell’articolo 68 e degli sgravi fiscali.

Mi riservo d’illustrare il mio emendamento, qualora la mia proposta non fosse accettata.

PRESIDENTE. Credo che i colleghi possano essere d’accordo sul principio espresso dall’onorevole Dugoni.

Procediamo comunque nello svolgimento dei restanti emendamenti. L’onorevole Castelli Edgardo, unitamente ai colleghi Perlingieri e Balduzzi, ha presentato un emendamento all’articolo 72, che potrebbe essere adattato anche alla norma dell’articolo 68; i presentatori dell’emendamento hanno infatti espresso il desiderio che l’emendamento sia spostato. Esso è del seguente tenore:

«Aggiungere, dopo il secondo comma:

«L’usufruttuario può rivalersi verso il proprietario della quota di imposta afferente al valore della nuda proprietà, fatte le valutazioni ai sensi dell’articolo 14».

CASTELLI EDGARDO. Onorevole Presidente, lasciamo a lei di decidere se si debba discutere in sede di articolo 68 od in sede all’articolo 72.

PRESIDENTE. Ritengo opportuno discuterlo quando tratteremo dell’articolo 72.

Gli onorevole Vigorelli, D’Aragona, Preti, Corsi e Tremelloni hanno presentato il seguente emendamento aggiuntivo che è stato già svolto:

«Sono esenti dall’imposta i patrimoni mobiliari e immobiliari delle Istituzioni pubbliche di assistenza, compresi gli Enti comunali di assistenza (e Opere pie dipendenti), che fruiscono di contributi permanenti dello Stato».

L’onorevole Basile ha presentato il seguente emendamento:

«Sono esenti dall’imposta i patrimoni mobiliari e immobiliari degli Ospedali, Opere pie e istituti pubblici di assistenza e beneficenza».

Non essendo presente, si intende che vi abbia rinunciato.

Vi è ora l’emendamento presentato dall’onorevole Bovetti:

«Aggiungere, in fine, il seguente comma:

«Sono esenti dall’imposta proporzionale le Istituzioni e gli Enti di beneficenza, assistenza e gli Enti locali».

«Oppure:

«Per gli enti e le istituzioni di beneficenza, assistenza e per gli enti locali è mantenuta la rateazione stabilita con la legge sulla imposta ordinaria sul patrimonio».

L’onorevole Bovetti non è presente.

BUBBIO. Faccio mio l’emendamento Bovetti, rinunziando a svolgerlo, dato che esso è di per sé chiarissimo.

PRESIDENTE. Ritengo che si possa fondere l’emendamento Bovetti con l’articolo aggiuntivo dell’onorevole Vigorelli. È d’accordo, onorevole Vigorelli?

VIGORELLI. Sono d’accordo.

PRESIDENTE. C’è, per ultimo, l’emendamento dell’onorevole Mannironi, che è del seguente tenore:

«Tra il primo ed il secondo comma inserire il seguente:

«Per la Sardegna, nella valutazione dei patrimoni da farsi a norma del decreto legislativo 31 ottobre 1946, n. 382, si adotterà il coefficiente di maggiorazione 6 per i terreni e 3 per i fabbricati».

L’onorevole Mannironi ha facoltà di svolgerlo.

MANNIRONI. Desidero brevemente illustrare il mio emendamento, perché ha bisogno di qualche chiarimento almeno per taluni colleghi.

Onorevoli colleghi, abbiate pazienza se vi parlerò di questioni, direi, regionali, che si riferiscono alla Sardegna.

Debbo fare questa premessa, perché mi rendo conto dello stato d’animo dei colleghi, che si sono sentiti ieri parlar troppo della Sardegna e potrebbero essere infastiditi dal fatto che se ne parli anche oggi.

La ragione per cui ho presentato questo emendamento all’articolo 68 è fondata su particolarissime condizioni economiche nelle quali la Sardegna è venuta a trovarsi immediatamente dopo la fine della guerra e negli anni successivi dal 1943 al 1945. È stata una condizione veramente particolare, nella quale non si sono venute a trovare altre Regioni della penisola. Subito dopo la guerra, la Sardegna rimase tagliata fuori dal resto della penisola e non ebbe la possibilità materiale di corrispondere con essa. Cera una difficoltà di natura bellica e post-bellica per cui le comunicazioni erano materialmente interrotte.

In questo primo momento, che durò circa un anno, avvenne che la Sardegna dovette provvedere autarchicamente a tutte le sue necessità ed avvenne anche che gli scambi tra l’Isola ed il Continente rimasero interrotti, per cui non solo non si facevano uscire dall’Isola i prodotti che l’Isola abitualmente esportava, ma nemmeno poterono affluire altri beni o capitali nell’Isola. L’ondata inflazionistica che si determinò nell’Italia meridionale in seguito all’invasione anglo-americana e quella che si determinò nell’Italia settentrionale per effetto della fabbricazione della carta moneta, da parte del governo nazi-fascista, non si estese alla Sardegna dove non vi fu alcun fenomeno inflazionistico perché mancò la possibilità di fare affluire i capitali nell’Isola stessa.

Non essendovi quindi stata una inflazione, avvenne che anche il regime dei prezzi rimase necessariamente contenuto.

Io potrei citarvi delle cifre per dimostrarvi come vi fosse una nettissima distinzione tra il costo dei prodotti in Sardegna e quelli della penisola durante lo stesso periodo. Cito il caso del prodotto più importante per noi: il formaggio. Quando costava nella penisola 600 lire, da noi costava appena 80 lire.

Seguì poi un altro momento altrettanto difficile, che portò una alterazione nelle leggi normali dell’economia.

La situazione si determinò soprattutto per effetto di una politica economica seguita dalle autorità isolane e dall’Alto Commissario, coadiuvati dalla Giunta regionale: siccome le autorità isolane si preoccupavano che un livellamento dei prezzi potesse determinarsi bruscamente e rapidamente, si preoccupavano di regolarli e mantenerli, soprattutto impedendo che i prodotti isolani (formaggio, ricotta, carne, ecc.) potessero uscire dall’Isola.

Si determinò una situazione che potrà sembrare assurda, ma che è una realtà di fatto e di cui oggi non si può non tenere conto. La situazione particolarissima è stata questa: che nello stesso territorio dello Stato, rispetto alla Sardegna, si determinava quasi una situazione come fra Stato e Stato. Erano impedite, come avviene in parte anche oggi, dall’Alto Commissariato della Sardegna le esportazioni: figuratevi che si chiamano «esportazioni» tutti quelli che sono movimenti di merci e di capitali tra l’Isola e la Penisola.

Ora, questa singolare situazione economica ha determinato una contrazione, una compressione, un contenimento dei prezzi, per disposizioni d’imperio, per cui ancora oggi se ne risentono le conseguenze.

Ad esempio, la Sardegna, che avrebbe potuto in questo ultimo periodo mandare nella penisola una notevole quantità di bestiame bovino, non lo può fare perché vi è ancora un divieto dell’Alto Commissario.

Ora, tutto questo ha fatto sì che la classe più importante dell’Isola, quella dei produttori agricoli (armentari e coltivatori) – che sono l’ossatura e la spina dorsale dell’economia isolana – non possono esitare i loro prodotti ai prezzi giusti della penisola e, perciò, sono messi nella condizione di non poter realizzare dei grossi capitali.

Quindi, in Sardegna non vi è stata l’inflazione, e per effetto della compressione dei prezzi dei prodotti, vi è stata necessariamente – per le leggi economiche che voi conoscete – una stasi, una riduzione dei valori dei beni capitali. Ora mi si è risposto ed obiettato che, quando noi oggi maggioriamo col coefficiente 10 i valori medi capitali che i beni avevano nel triennio 1937-1939, siamo sempre al di sotto della realtà, perché, si dice, se si dovesse tenere conto effettivamente del valore reale dei beni, quel coefficiente 10 dovrebbe essere portato a 20, e a 30, in taluni casi. Lo rilevava del resto anche l’onorevole Scoccimarro riferendosi alla distinzione tra il valore fiscale e il valore reale dei beni.

Io posso ammettere che, generalmente parlando, questo sia esatto; posso cioè ritenere che effettivamente per i beni capitali della Penisola il coefficiente 10 non rappresenti il valore dell’aumento effettivo di capitali; ma, se questo è vero ed esatto per i beni della Penisola, non lo è assolutamente per i beni dell’Isola. Potrei dirvi, signori, che se voi usate un trattamento particolare di benevolenza e di buon trattamento e di beneficio per i detentori di beni immobili della Penisola, evitando volutamente inasprimenti fiscali, voi stabilite però una sperequazione nei confronti dei proprietari di beni immobili dell’Isola, in quanto, mentre questi pagherebbero il valore giusto dei loro beni, i detentori di beni nella Penisola, non pagherebbero con lo stesso criterio e per il valore giusto.

Perché voi possiate avere una idea degli effetti finanziari che può avere l’accoglimento del mio emendamento, vi dirò che l’imposta patrimoniale ordinaria in Sardegna avrebbe dovuto dare un gettito di 135 milioni; la proporzionale straordinaria dovrebbe dare un miliardo e 375 milioni circa. Se voi accoglieste l’emendamento che io ho proposto, per lo Stato si avrebbe un lucro cessante di poco meno o poco più di mezzo miliardo. Ora, per lo Stato, questo rappresenta una duecentesima parte del gettito complessivo previsto dell’imposta patrimoniale proporzionale, mentre – nei riflessi e nei riguardi dei nostri piccoli produttori – costituirebbe un notevole beneficio in quanto rappresenterebbe un sensibile alleggerimento della pressione fiscale attuale.

Ma credo abbia soprattutto, onorevole colleghi, un valore morale e un valore politico, perché finalmente si potrebbe avere la dimostrazione che tutta la benevolenza e la simpatia che si usa per l’Isola da parte della classe dirigente politica italiana non si riduce soltanto a buone parole e a manifestazioni verbali ed accademiche di comprensione dei nostri bisogni, ma si concreta in manifestazioni reali di beneficio. E l’occasione migliore per dimostrarlo mi pare sia questa, onorevoli colleghi. Non è – badate – una delle solite querimonie di cui noi meridionali ed isolani siamo accusati. Noi non vogliamo qui sottrarre niente allo Stato; ma fare soltanto una questione di giustizia. Penso che non adempirei fedelmente ai miei doveri di rappresentante della Regione nell’Assemblea, se non presentassi a voi questa situazione di cui voi, membri dell’Assemblea, dovrete tener conto, anche se siete preoccupati di evitare tutte le possibili evasioni, anche se l’onorevole Relatore e l’onorevole Ministro a nome del Governo, mostrano di temere che con ciò si venga ad agevolare delle scappatoie che potrebbero condurre ad un assottigliamento del gettito dell’imposta.

Ripeto che voi, accogliendo il mio emendamento, non arrecate alcun danno allo Stato, ma fate un atto di giustizia verso una Regione di cui ieri si è tanto parlato. Se dunque ieri si è parlato della Sardegna a proposito della sua autonomia, è bene che teniate presente, onorevoli colleghi, che la Sardegna non ha bisogno soltanto di autonomia, ma ha bisogno anche di interventi tempestivi e di benefici diretti da parte dello Stato. (Applausi al centro).

DUGONI. Chiedo di parlare.

PRESIDENTE. Ne ha facoltà.

DUGONI. Onorevole Presidente, io ho fatto una proposta formale di sospensione e dichiaro di insistervi.

Ho rinunziato a svolgere il mio emendamento in vista appunto della sospensione; ma se questa sospensione non vi dovesse essere, – evidentemente – avrei il diritto di svolgere il mio emendamento.

LA MALFA, Relatore. Chiedo di parlare.

PRESIDENTE. Ne ha facoltà.

LA MALFA, Relatore. Desidero pregare gli onorevoli colleghi che hanno presentato emendamenti a questo articolo di volerli svolgere.

Proporrò anche, quando lo svolgimento degli emendamenti sarà esaurito, di votare per divisione, così da potere esaminare più a fondo certi argomenti.

CAPPI. Chiedo di parlare.

PRESIDENTE. Ne ha facoltà.

CAPPI. Circa la proposta di sospensione, vorrei osservare al collega Dugoni che io credo che per rendere utile la sospensione sarebbe opportuno che lo stesso onorevole Dugoni e l’Assemblea sentissero almeno annunziare un nuovo emendamento che potrebbe influire sulla decisione.

LA MALFA, Relatore. Chiedo di parlare.

PRESIDENTE. Ne ha facoltà.

LA MALFA, Relatore. Insisto nell’affermare che è opportuno, prima di decidere intorno a qualsiasi nuovo emendamento concordato, sentire il parere della Commissione.

PRESIDENTE. Chiedo al Ministro il suo parere sulla proposta di sospensione.

PELLA, Ministro delle finanze. Non ho particolari preferenze in un senso o nell’altro; poiché però l’onorevole Relatore ha espresso al riguardo un suo punto di vista, volentieri lo accetto.

PRESIDENTE. Pongo ai voti la proposta dell’onorevole Dugoni di sospendere per qualche tempo la seduta onde dar modo ai presentatori degli emendamenti di addivenire ad un accordo.

(Non è approvata).

DUGONI. Chiedo allora di svolgere il mio emendamento.

PRESIDENTE. L’onorevole Dugoni ha facoltà di svolgere il seguente emendamento, di cui ricordo il testo:

«Aggiungere, in fine:

«Sono esentati dall’imposta:

  1. a) i contribuenti il cui imponibile ai fini dell’imposta proporzionale non raggiunga le lire duecentomila;
  2. b) i patrimoni delle pubbliche istituzioni di beneficenza».

DUGONI. Le ragioni per le quali abbiamo insistito per la modifica dell’articolo 68 sono state ripetute sia in sede di imposta progressiva, sia, dettagliatamente, oggi in sede di discussione sull’imposta proporzionale. Noi abbiamo avuto la convinzione che sarebbe stato possibile, attraverso un incontro fra i diversi presentatori di emendamenti, molti dei quali identici nelle loro finalità al mio, la Commissione e il Governo giungere ad un testo concordato.

Mi stupisce il desiderio del Relatore che si discutano prima gli emendamenti, e poi si venga ad una conciliazione. A me pareva che, prima che la Commissione finanze e tesoro esprimesse un parere e quindi mettesse ciascuno di fronte ad una determinata soluzione e posizione, sarebbe stato infinitamente meglio che ci fossimo riuniti per cercare di trovare un accordo, tanto più che l’onorevole Scoccimarro ha spiegato con molta chiarezza e abbondanza di dati che effettivamente siamo di fronte ad un articolo che porta ad una sperequazione delle posizioni tributarie dei diversi contribuenti. La dimostrazione dell’onorevole Scoccimarro non ha bisogno di essere ripetuta, perché – come ho detto – è matematica ed estremamente elementare. Quindi, su questo punto, non si faccia illusioni il Governo e non si faccia illusioni il Relatore: sul punto della modifica dell’articolo 68 vi è una maggioranza che si è formata dentro l’Assemblea, proprio perché si deve in qualche modo ovviare agli inconvenienti di una sperequazione tributaria in una legge che ha un peso non indifferente, come questa: perché l’articolo 68 grava di ben 4 per cento tutti i cespiti i quali superino la modesta somma di centomila lire.

Ora, noi, come partito, sosteniamo appieno l’emendamento Pesenti, Scoccimarro, ecc., alla cui elaborazione abbiamo partecipato. Spiego la ragione per cui l’emendamento da me presentato si discosta in modo notevole da quello degli onorevoli Pesenti e Scoccimarro. La ragione è questa: noi crediamo – ed è molto probabile che così sia – che una rinuncia dello Stato pura e semplice ad una parte cospicua dell’imposta, come quella proposta nell’emendamento Pesenti-Scoccimarro, non si possa probabilmente avere. Ed allora abbiamo cercato una via di conciliazione. Su questa via di conciliazione noi volevamo veder venire anche la Commissione e il Governo. Purtroppo la Commissione e il Governo preferiscono che si faccia la discussione.

CAPPI. Chiedo di parlare.

PRESIDENTE. Ne ha facoltà.

CAPPI. Onorevoli colleghi, una parola breve, ma che riguarda tutti gli emendamenti, all’infuori forse di quello dell’onorevole Micheli.

Tutti questi emendamenti hanno uno scopo: favorire la piccola proprietà nel pagamento dell’imposta proporzionale sul patrimonio.

Ora, onorevoli colleghi, propugnare delle esenzioni fiscali è facile ed è simpatico, ma vi è un limite, un limite che riguarda non questo o quel governo, ma che riguarda lo Stato. Perché non dobbiamo dimenticare che quando gli effetti di queste due imposte – sia la progressiva che la proporzionale – si faranno sentire, saranno già avvenute le elezioni ed è probabile (sperabile o deprecabile a seconda dei punti di vista) che un altro Governo sia al posto di quello attuale.

Quindi noi dobbiamo renderci conto delle esigenze dello Stato, a prescindere dal Governo che a un dato momento lo dirige.

Io personalmente sono contrario a tutti gli emendamenti i quali tendono a delle esenzioni dall’imposta proporzionale ordinaria. Però (e questo ho preannunciato all’onorevole Dugoni) io con molti altri colleghi ho presentato un emendamento all’articolo 72 che mi riservo di svolgere allora; ma, poiché non è stampato ancora, è molto opportuno che io ne dia lettura. Io propongo: «Il termine di pagamento dell’imposta proporzionale ordinaria è portato a dieci anni per le opere pie e per gli enti morali» (e con questo vengo incontro agli emendamenti che vorrebbero addirittura l’esenzione) «a cinque anni il termine per l’imposta gravante sui fabbricati soggetti a vincolo di canone e a cinque anni per i terreni e i fabbricati gravati da imposta non superiore a lire 60.000. Per i casi di pagamento quinquennale, l’abbuono in caso di riscatto sarà del 25 per cento».

Gli onorevoli colleghi hanno avvertito che si tratta di miglioramenti massicci, perché si tratta di portare il termine di pagamento da un anno a dieci anni e a cinque anni, il che solleva di molto il carico dei contribuenti.

Il ragionamento dell’onorevole Scoccimarro (perché è principalmente a proposito del suo emendamento che ho chiesto di parlare), il ragionamento dell’onorevole Scoccimarro attrae, in quanto si basa su quel principio di giustizia che si chiama della perequazione fiscale. Egli ha cercato di raggiungere la perequazione fra i contribuenti all’imposta proporzionale ordinaria e i contribuenti all’imposta personale progressiva. Ma l’onorevole Scoccimarro ha dimenticato un dato di fatto essenziale: che per l’imposta progressiva personale si tratta di un nuovo tributo che creiamo in questo momento, ma per l’imposta proporzionale si tratta di un tributo che già esisteva e per il quale si propone il riscatto.

Ora, (riferendomi ad una cortese polemica che ho avuto con l’onorevole Scoccimarro sulla stampa in questi giorni) l’onorevole Scoccimarro ricorderà che nel gennaio scorso egli ammetteva l’opportunità di disporre il riscatto, cioè il pagamento anticipato dell’imposta proporzionale, però aggiungeva che questo riscatto doveva essere circondato da tali accorgimenti che evitassero il pericolo che il contribuente, per pagare, dovesse essere costretto ad alienare il proprio patrimonio.

Ora, pare a me – se vogliamo essere sereni e obiettivi – che quando per i piccoli patrimoni, per le opere pie e per i fabbricati soggetti al vincolo degli affitti diamo tempo cinque anni, senza interesse, per pagare, il pericolo che il contribuente debba alienare il proprio patrimonio è completamente evitato. Non esiste.

Quindi, io vorrei che i colleghi dell’Assemblea si rendessero conto dell’importanza di questa rateazione di dieci e cinque anni, che io confido il Governo voglia accettare.

Aggiungo (e prendo argomento dallo stesso onorevole Scoccimarro) che noi tutti sappiamo bene che i valori, agli effetti fiscali, dell’imposta proporzionale ordinaria, sono di gran lunga inferiori ai valori reali e, a differenza dei valori dell’imposta progressiva personale, non sono soggetti ad accertamento ulteriore da parte della Finanza. Sono quelli che sono, cioè gli imponibili che sono a ruolo attualmente.

Faccio inoltre presente all’onorevole Scoccimarro ed alla sua sensibilità ed acutezza finanziaria che il suo emendamento porterebbe uno sconvolgimento e un turbamento notevoli nel pagamento dell’imposta proporzionale ordinaria; perché egli vuol ridurre il tributo del 75, 50 e 25 per cento correlativamente all’accertamento definitivo del patrimonio agli effetti dell’imposta progressiva. Ma questo accertamento lo avremo tra due o tre anni, così che, praticamente, per due o tre anni, per una larga zona di contribuenti, lo Stato non potrà incassare nulla.

Concludo. Sembra a me che ci si debba mantenere entro limiti ragionevoli che tengano conto delle esigenze supreme, non di questo o quel Governo ma dello Stato, a difesa soprattutto della lira che deve interessare specialmente piccoli e medi proprietari. Mi pare che se il Governo e la Commissione accettano questa larghissima modifica nella rateazione del pagamento dell’imposta, questo nostro dovere verso i piccoli e medi proprietari sia adempiuto. (Applausi al centro).

SCOCA. Chiedo di parlare.

PRESIDENTE. Ne ha facoltà.

SCOCA. Signor Presidente, mi pare che quanto ora si sta dicendo sposti la discussone dal terreno tecnico sul terreno politico. Non avrei pensato che la disposizione dell’articolo 68 della legge avesse dato luogo a questa discussione la quale va al di là dei limiti tecnici della legge stessa. Sono stati proposti vari emendamenti i quali urtano proprio contro le esigenze tecniche. Noi abbiamo qui due imposte: una imposta progressiva che colpisce il complesso del patrimonio, ed una imposta proporzionale che colpisce il patrimonio nelle sue singole parti. Il voler unire l’imposta proporzionale con l’imposta progressiva, vuol dire violare un principio tecnico dell’imposizione; vuol dire addizionare o detrarre due entità che sono discordi fra di loro.

SCOCCIMARRO. Ma è proprio questo che non bisognava fare.

SCOCA. Onorevole Scoccimarro, quando lei dice che non bisognava far questo, mi consenta di affermare che io sono dello stesso parere. Personalmente, io sono dello stesso parere; però le ricordo che lei non era dello stesso parere. Io ricordo che quando lei, il 12 febbraio di questo anno, prese la parola sulle dichiarazioni del Governo e pronunciò un elegantissimo discorso, trattò anche dell’imposta straordinaria sul patrimonio e dell’imposta proporzionale. L’idea è sua, onorevole Scoccimarro. Ho qui il suo discorso e leggo il brano che si riferisce all’imposta di cui oggi stiamo discutendo. «Secondo provvedimento: noi abbiamo nel nostro sistema una imposta istituita nel 1939 per ragioni di guerra; l’imposta ordinaria sul patrimonio. Ora, logicamente, questa imposta oggi bisognerebbe abolirla perché è finita la guerra. Però io penso che se la guerra è finita le conseguenze della guerra stanno ancora innanzi a noi; ed allora si può organizzare il riscatto di questa imposta e farla contribuire a facilitare l’opera di ricostruzione. Questa imposta ha oggi un imponibile di 250 miliardi. Basterebbe chiedere, a me pare, il 3 per cento per il riscatto e realizzare una entrata di 75 miliardi».

PRESIDENTE. Onorevole Scoca, vediamo di stringere questa discussione: con la polemica non si finirebbe più.

SCOCA. Non è questione di polemica politica. Io non sarei sceso su questo terreno. Io dicevo che voler unire l’imposta proporzionale con l’imposta progressiva, col legame il quale si ravvisa nell’emendamento Scoccimarro, Pesenti ed altri, vuol dire addizionare entità diverse.

Questo dicevo. Siccome c’è stata l’interruzione dell’onorevole Scoccimarro, il quale ha detto che era proprio questo che non bisognava fare, ho voluto ricordare che proprio lui voleva questo congiungimento.

SCOCCIMARRO. Non è vero, poi spiegherò.

SCOCA. Quello che sia avvenuto fuori di qui, lo ignoro. Io so che lei ha pronunciato un discorso il 12 febbraio di quest’anno e in questo discorso v’è il periodo che ho letto.

SCOCCIMARRO. Non è vero. Io ho detto un’altra cosa. Si trattava di riscatto indipendente dall’imposta straordinaria e concepito in modo del tutto diverso dall’attuale imposta proporzionale. Qui invece si tratta di una imposta straordinaria del 4 per cento. Il riscatto che io proponevo era un’altra cosa.

SCOCA. Che cosa vuol dire, onorevole Scoccimarro, riscatto se non pagare in una unica soluzione una determinata imposta ed abolire questa imposta? Il concetto non è che questo: pagare in un’unica soluzione o in breve periodo di tempo 10 annualità ed abolire l’imposta. Questo vuol dire «riscatto». Semmai, posso osservare che il riscatto avrebbe dovuto farsi a condizioni più onerose; viceversa si è richiesto non il pagamento delle rate che bisognava richiedere, ma il pagamento di un minor numero di rate.

Si è fatto così il riscatto a condizioni favorevoli. Quando si abolisce un’imposta col pagamento di una determinata somma, vuol dire che si fa il riscatto di quella imposta. Non saprei vedere diversamente. Di modo che l’onorevole Scoccimarro proponeva che l’imposta, da conglobarsi in un anno, perché egli pensava che questo fosse un rimedio per costruire il bilancio di un anno, si potesse riscattare con un’aliquota del 3 per cento.

Lasciamo la questione dell’aliquota; l’aliquota sarà quella che sarà: può essere del 4, del 2, od altra. Quello che mi preme di sottolineare è questo: che allora l’onorevole Scoccimarro stava su una linea logica, cioè considerava l’imposta proporzionale per quella che è, e cioè indipendentemente dalle condizioni personali, perché in un’imposta reale non si possono valutare le condizioni personali del contribuente. Considerava l’imposta quale è; tanto è vero che diceva che, siccome l’imponibile soggetto ad essa è di 2500 miliardi, bastava applicare una determinata aliquota per avere un determinato risultato. Il che vuol dire che nessuna considerazione di persona prendeva in esame; vuol dire che l’imposta bisognava esigerla, riscattarla senza considerazioni estranee all’imponibile risultante agli uffici finanziari.

Questo, come dicevo, io l’ho voluto rilevare unicamente perché vi è stata l’interruzione dell’onorevole Scoccimarro.

Resta fermo il fatto che il voler legare questa imposta reale alla imposta progressiva di carattere personale, vuol dire fare l’addizione di due elementi che hanno natura diversa.

Vorrei anche dire, onorevoli colleghi, che quando si invocano i principî di giustizia, le ragioni di commiserazione per i piccoli possidenti, nessuno più di me, io penso, sente che bisogna fare qualche cosa in questo senso; e coloro che hanno letto qualche mio modesto scritto sanno che, non da oggi, ma da anni, sono su questa linea. Il passaggio di categoria che l’onorevole Scoccimarro ha attuato con una circolare, era stato da me modestamente propugnato già alcuni anni or sono. Non potrei essere accusato, penso, di favorire i grandi proprietari; però occorre guardare le cose nella loro linea logica e nella loro realtà.

Noi ci troviamo di fronte ad un’imposta del 4 per cento su un imponibile assai al di sotto dei valori effettivi. E questo, o colleghi, è necessario tener presente: l’imposta non colpisce un valore che è stato accertato con riferimento al 1937-1939 e questo valore è stato moltiplicato per 10 per quanto riguarda i terreni, per 5 per quanto riguarda i fabbricati. Il che vuol dire che gli imponibili legali, in questo modo determinati, sono molto al di sotto degli imponibili veri, forse metà, forse un quarto degli imponibili veri. A Roma, per esempio, mercato edilizio che io conosco, i fabbricati venivano accertati nel 1937-1939, a seconda della zona ove erano situati, da un minimo di 10-12 mila lire a vano ad un massimo, per le case di lusso e di gran lusso nella zona Parioli, di 25.000 lire a vano. Oggi, questo imponibile si moltiplica per cinque, il che vale a dire che un appartamento il cui valore era calcolato in base a 10.000 lire a vano, oggi è calcolato in base a 50.000. Ma io domando: dove è oggi la casa che si può comprare sul libero mercato su questa base, il cui valore è di 50.000 lire a vano? Non c’è casa, anche nei quartieri popolari, che non vada sulle 200-300 e perfino 500.000 lire a vano, per poi salire a uno o anche a due milioni per le case di lusso ai Parioli. Ciò vuol dire che l’aliquota effettiva di questa imposta non è del 4 per cento, ma è una aliquota che in media non va al di sopra dell’uno per cento.

Ora, di fronte a questa situazione di fatto, situazione reale, concreta e che con coscienza, consapevolezza e sincerità dobbiamo guardare, non possiamo dire che ci troviamo di fronte ad un tributo che non possa essere sopportato. E quando passiamo alla valutazione dei terreni, le discrepanze sono ancora più forti. Siccome il prezzo dei prodotti della terra è quello che è, molti di coloro per i quali si invocano le viscere della pietà di questa Assemblea possono benissimo pagare l’imposta odierna, riscattando una imposta che gravava sul loro patrimonio e che si sarebbe continuata a pagare fino a che non fosse abolita, vendendo un quintale di vino o qualche centinaio di uova.

Mi dispiace che io debba portare la discussione in questi termini banali, ma ritengo dovere di coscienza l’affermare che noi dobbiamo, quando si tratta degli interessi dello Stato (e qui si tratta degli interessi dello Stato in quanto si tratta di salvare il bilancio dello Stato) non fare esagerazioni e non fare della demagogia, da qualunque parte essa venga, da destra, da sinistra o dal centro: ma conviene dire la verità per quella che è.

Per queste ragioni credo che non sia possibile accogliere l’emendamento Scoccimarro e tutti gli altri emendamenti che all’emendamento Scoccimarro si riallacciano: non è possibile e per ragioni tecniche, perché non è possibile confondere una imposta reale e proporzionale con una imposta personale e progressiva, e perché effettivamente quelle ragioni di giustizia che si invocano non mi pare che esistano.

Ci può essere il caso singolo di un tizio che non possa pagare l’imposta per circostanze particolari, ma non si può dire che questo sia un fenomeno generale. Io appartengo ad una zona povera, ad una zona che usufruirebbe tutta quanta del beneficio proposito dall’onorevole Scoccimarro, ma devo dire in verità che i miei compaesani non hanno sentito il peso di questa imposta. Sentono il peso delle altre imposte, ma non di questa… (Rumori a sinistra).

AMENDOLA. Glielo vada a dire!

SCOCA. Glielo dico, è naturale che glielo dico. Io non ho due facce e due parole: ho sempre lo stesso volto e lo stesso linguaggio. Glielo dirò e, se vuole, la invito a venire con me per sentire… (Applausi al centro – Rumori a sinistra).

AMENDOLA. Provi ad andarle a dire ai suoi elettori, queste cose!

SCOCA. Mi dispiace che quando qui si parla con sincerità e lealtà si faccia ricorso a questi argomenti. Sono argomenti che non mi toccano, perché io non ci tengo a ritornare in questa Camera, se per ritornarvi dovessi fare della demagogia. (Applausi al centro).

Concludendo, ho l’impressione che si voglia tentare una montatura, che non ha base reale.

Sono contrario, quindi, all’emendamento Scoccimarro ed a quelli che ad esso si ricongiungono, mentre posso votare per gli emendamenti che prevedono una rateizzazione dell’imposta. (Applausi al centro).

SCOCCIMARRO. Chiedo di parlare per fatto personale.

PRESIDENTE. Ne ha facoltà.

SCOCCIMARRO. Desidero rispondere brevemente alle osservazioni fatte. Anzitutto intendo respingere nel modo più energico la accusa che l’emendamento da me presentato sia espressione di demagogia.

Vorrei, soprattutto, richiamare i colleghi ad una valutazione più obiettiva dei fatti reali.

Si è detto: non abbiamo da fare con una imposta nuova, si tratta di un’imposta vecchia, già in atto.

Devo ricordare che, se è vero che abbiamo a che fare con un tributo già esistente mentre l’imposta progressiva è un tributo nuovo, il modo come si stabilisce questo nuovo tributo ed il modo come si esaurisce il vecchio è tale, che di fatto si esce dal piano di un semplice riscatto: questa è la realtà quando si scende dalle definizioni generali alle determinazioni concrete.

Spesso, specialmente da colleghi di parte democristiana, sulla stampa ed in pubblici discorsi mi si attribuiscono posizioni, intenzioni e propositi, che non ho mai avuti né espressi. La prima volta che si è elaborato il progetto dell’imposta straordinaria nel 1945, io avevo proposto la abolizione pura e semplice della imposta ordinaria sul patrimonio. Nel 1946, in conseguenza del mancato cambio della moneta, elaborando un piano triennale di fidanza straordinaria, ho concepito il riscatto dell’imposta ordinaria con la elevazione del minimo esente, con aliquote differenziate secondo la grandezza del patrimonio ed il pagamento in tre anni (nonostante il carattere reale dell’imposta); ma questo provvedimento non si inseriva nell’imposta straordinaria, non ne diveniva parte essenziale: era solo un elemento subordinato ed il meno importante di un complesso di molteplici provvedimenti da attuarsi in tre anni. Ed anche l’aliquota del 3 per cento che l’onorevole Scoca ha ricordato, era un’aliquota media: più bassa per i piccoli patrimoni, più elevata per i maggiori patrimoni.

Poiché lei, onorevole Scoca, ha ricordato or ora il brano di un mio discorso, sia pure in modo inesatto, dovrebbe ricordare anche l’ultimo discorso da me pronunciato in questa Assemblea nel quale ho dato indicazioni ed informazioni precise sulla questione alla quale lei si è riferito. So benissimo che in materia di imposte reali non si può parlare di minimo imponibile e di aliquote progressive: sarebbe illogico e si può dar luogo ad ingiustizie e sperequazioni. Ma, nonostante ciò, io avrei adottato egualmente tale criterio perché quelle ingiustizie e sperequazioni sarebbero state in concreto di scarso rilievo e comunque gli aspetti positivi sarebbero stati più importanti di quelli negativi e in definitiva si sarebbero agevolati i piccoli patrimoni. E se vuol sapere, onorevole Scoca, il gettito previsto di quel riscatto le dirò che nel piano finanziario, il riscatto dell’imposta ordinaria figurava con una media di venti miliardi all’anno; al disotto di un certo limite si esentavano i patrimoni; i piccoli patrimoni avrebbero pagato meno del 3 per cento, i maggiori patrimoni avrebbero pagato con un’aliquota superiore: nel complesso la media era del 3 per cento. È una cosa completamente diversa dalla attuale imposta proporzionale. Se si presentasse oggi quel provvedimento di riscatto come allora fu concepito io l’approverei senza mutare una virgola.

Onorevole Scoca, io non vengo a fare qui delle critiche perché il mio partito è all’opposizione; nelle questioni in cui sono d’accordo, non ho difficoltà ad approvarle, anche se il mio partito è all’opposizione. Ma voi commettete un errore politico e credo, entro certi limiti, anche un errore economico a mandare avanti questo provvedimento senza correggerlo nel punto a cui si riferisce il mio emendamento. Non è il caso qui di parlare di opposizione perché la mia proposta è nell’interesse dello stesso Governo. Voi avete un bel dire che ci sono le esigenze fiscali, ma specie quando si tratta di una imposta straordinaria, oltre all’esigenza fiscale bisogna tener conto anche della giustizia fiscale. Quello che ci preoccupa non è la situazione di quelle categorie di proprietari che possono pagare: nel mio emendamento, al disopra di un certo limite, non si chiede nessuna attenuazione. Ho difeso i minimi imponibili dell’imposta progressiva. Per patrimoni dai tre ai cinque milioni, che non sono gravati dalla proporzionale, il nostro emendamento non chiede nessuna attenuazione. Ma con l’imposta proporzionale si colpiscono dei piccoli proprietari per i quali il termine «patrimonio» non significa altro che lo strumento di lavoro di piccoli produttori indipendenti.

Questa non è demagogia, onorevole Scoca, è realtà, e non vorrei che, senza saperlo, il Governo spezzasse nelle mani di quei lavoratori lo strumento del loro lavoro. Con questa imposta si rischia di mettere in dissesto una moltitudine di piccoli produttori. So bene che nessuno vuol pagare le imposte e si va alla ricerca di tutti i mezzi per giustificare la resistenza al pagamento delle imposte, ma io vorrei leggervi alcune relazioni su concrete situazioni di fatto ed allora voi vedreste che le mie parole sono molto al disotto della realtà: questa non è demagogia.

All’onorevole Cappi voglio osservare che io ho proposto nella discussione generale di stralciare questa parte del provvedimento per poter discutere il riscatto della imposta ordinaria, indipendentemente dall’imposta straordinaria. Ma il Governo non ha ritenuto di accettare quella proposta.

Ed è stato male, perché il popolo oggi è convinto di pagare un’imposta straordinaria, e non un riscatto d’imposta, e lo sente talmente che si è diffusa in Italia (ed il Ministro delle finanze farà bene a smentire) l’opinione che il parlare di riscatto è un mezzo trucco, e che in seguito si ristabilirà quell’imposta ordinaria che ora si dice di voler abolire. Così reagisce l’opinione pubblica, e questo per il modo come il provvedimento è stato presentato e per i termini nei quali è stato presentato.

Che cosa chiede il nostro emendamento? Che al di sotto dei dieci milioni si dia la possibilità di uno sgravio progressivo. Vogliamo discutere quelle cifre? Discutiamole. Sembrano eccessive? Riduciamole.

Io vi dico francamente che mi sono basato oltre che sui criteri adottati per la imposta progressiva, anche su concrete situazioni di fatto, e basandomi su tali situazioni mi son detto che se riusciamo a salvare un certo numero di piccoli proprietari e a salvaguardare la loro efficienza economica, io penso che avremmo fatto non solo un atto di giustizia, ma avremmo fatto anche un atto utile all’economia ed alle finanze dello Stato.

Riconosco che la maggiore rateazione è una facilitazione; le sperequazioni che io ho rilevato rimangono, perché sarebbe come dire: «va bene; pagherai in 5 anni invece di due anni, però mi pagherai sempre il 4 per cento del tuo patrimonio».

PRESIDENTE. Onorevole Scoccimarro, si ricordi del fatto personale.

SCOCCIMARRO. Quanto alle difficoltà tecniche fatte presenti dall’onorevole Cappi, esse effettivamente esistono; ma tali difficoltà si possono superare con accorgimenti tecnici che non mancano e che non è qui il caso di discutere: in attesa dell’accertamento definitivo nella progressiva, il pagamento della proporzionale può farsi a titolo provvisorio.

Se per taluni è vero che c’è il desiderio di sfuggire all’imposta, per altri c’è veramente una situazione di necessità.

Ho ritenuto mio dovere dire questo. Anche se in passato io avessi concepito una imposta come questa, oggi, di fronte a questi dati di fatto, direi: «signori, io cambio opinione». Ma, in realtà, io non ho mai concepito l’imposta straordinaria in questo modo; per me il riscatto non doveva essere parte integrante dell’imposta straordinaria.

Perciò io, nonostante riconosca giusta l’osservazione dell’onorevole Scoca sul piano tecnico, insisto nel mio emendamento e forse oserei troppo sperare di chiedere agli onorevoli Scoca e Cappi di ritirare il loro, e di accettare il nostro con quelle attenuazioni che siano pronti a discutere col Governo e con voi? Ma se è vero – come diceva l’onorevole Cappi – che qualunque Governo si troverebbe oggi di fronte alle stesse necessità finanziarie, che c’è un limite posto dalle esigenze dello Stato, badate però che c’è pure un limite di resistenza economica che non bisogna superare. Con questo articolo io ho l’impressione che per molti piccoli contribuenti questo limite di resistenza economica venga superato. (Applausi a sinistra).

PRESIDENTE. Ritengo che, a questo punto, si possa sospendere la seduta per qualche tempo, in modo che durante la sospensione, senza che si siano pronunciati il Governo e la Commissione, sarà possibile probabilmente accordare i divergenti punti di vista.

PICCIONI. Chiedo la parola.

PRESIDENTE. Ne ha facoltà.

PICCIONI. Proporrei di sospendere invece la seduta per un’ora e mezza e fare poi una seduta notturna. (Commenti).

PRESIDENTE. Vi è qualche collega il quale propone la discussione fino ad esaurire l’esame del testo del decreto.

Pongo pertanto ai voti, per prima, la proposta di continuare i lavori senza giungere ad una lunga interruzione.

(È approvata).

Sospendiamo allora la seduta per alcuni minuti.

(La seduta, sospesa alle 20.10, è ripresa alle 20.30).

PRESIDENTE. Ritengo che il nostro lavoro possa svolgersi in questo modo: continueremo stasera l’esame del testo del decreto sulla patrimoniale, fino ad esaurirlo; nella seduta antimeridiana di domani potremo esaminare la questione degli enti collettivi e dei minimi imponibili e nel pomeriggio gli articoli aggiuntivi.

LA MALFA, Relatore. Chiedo di parlare.

PRESIDENTE. Ne ha facoltà.

LA MALFA, Relatore. Faccio presente, per quanto riguarda gli enti collettivi, cioè il Titolo II del decreto, che il Governo non ci ha ancora investiti del progetto ufficiale.

PELLA, Ministro delle finanze. Chiedo di parlare.

PRESIDENTE. Ne ha facoltà.

PELLA, Ministro delle finanze. Perché non si pensi ad una negligenza del Governo in questa materia, debbo anche far presente una ipotesi, che non esito a definire reale. Il Governo, dichiarandosi pronto a presentare schemi di provvedimenti, rispondenti alle diverse soluzioni che si possono prospettare, può desiderare che sia l’Assemblea a risolvere la questione pregiudiziale sul tipo di soluzione da adottare.

Da domattina il Governo ha pronti tali schemi.

Riservandomi di fare domani le comunicazioni definitive del Governo al riguardo, debbo, fin d’ora, ripetere che il Governo richiederà in via pregiudiziale all’Assemblea di pronunciarsi sulla natura della soluzione che intende adottare.

PESENTI. Chiedo di parlare sulle dichiarazioni del Ministro.

PRESIDENTE. Ne ha facoltà.

PESENTI. Desideravo che il Governo precisasse e vorrei che il Ministro rispondesse se, con le dichiarazioni ora fatte, il Governo intende mantener fede all’impegno che la tassazione degli enti collettivi sia parte integrante della legge sull’imposta straordinaria progressiva che stiamo ancora esaminando; cioè, se il Governo intende che, appunto entro questi due o tre giorni, il progetto sia presentato e discusso.

PRESIDENTE. L’onorevole Ministro ha facoltà di rispondere.

PELLA, Ministro delle finanze. Posso assicurare l’onorevole Pesenti che, con le mie prime dichiarazioni, non avevo affatto intenzione di formulare l’ipotesi di un rinvio della risoluzione del problema ad un provvedimento separato da quello che stiamo discutendo. Anticipando quanto forse avrò occasione di dire più ampiamente domani, ricordo che il problema fondamentale si riduce a questo: allorquando il precedente Governo presentò alla Commissione parlamentare di finanza il disegno di legge che stiamo oggi discutendo e si sollevò la questione degli enti collettivi, comunicò che era sua intenzione di presentare il provvedimento di tassazione delle rivalutazioni, aggiungendo che tale provvedimento avrebbe assorbito quello della tassazione degli enti collettivi.

Orbene, il Governo attuale, che vuole mantener fede agli impegni del Governo precedente, desidera, nello stesso tempo non fare nulla che possa impedire un riesame libero e approfondito di tutta la questione: non desidera, cioè, chiedere all’Assemblea di rinunciare all’esame se convenga o non convenga sostituire alla tassazione delle rivalutazioni la tassazione degli enti collettivi.

Quando io accennavo alla scelta di una strada piuttosto che di un’altra, di una soluzione piuttosto che di un’altra, e accennavo al desiderio del Governo di investire l’Assemblea di questa scelta, soprattutto volevo riferirmi alla scelta fra l’una e l’altra di queste due soluzioni.

A partire da domattina, il Governo è pronto, appena l’Assemblea avrà determinato la sua scelta, a dare il suo contributo tecnico per la migliore attuazione del principio che l’Assemblea adotterà. Se l’Assemblea adotterà il principio della tassazione delle rivalutazioni, il Governo consegnerà uno schema – che d’altra parte, in via breve, è stato già consegnato – relativo alla tassazione delle rivalutazioni; se adotterà, invece, il criterio della tassazione degli enti collettivi, presenterà uno schema, ancor più dettagliato di quello già consegnato in via breve, per la tassazione degli enti collettivi.

Ma con la consegna di questi schemi il Governo intenderà mettersi nella posizione di chi dà il proprio contributo tecnico per attuare un principio liberamente adottato dall’Assemblea.

DUGONI. Chiedo di parlare.

PRESIDENTE. Ne ha facoltà.

DUGONI. Faccio presente che abbiamo avuto un solo testo per ora ed è il testo che riguarda gli enti collettivi. Ora noi non possiamo fare una scelta fra l’uno e l’altro tipo di imposta se non conosciamo le due proposte che il Governo intende fare.

In secondo luogo, spostare questa sera alle ore 21 la posizione del Governo che fino ad oggi abbiamo avuto il diritto di credere convergente con quella della maggioranza della Commissione, cioè a favore degli enti collettivi dentro questa legge, devia completamente tutto il piano di discussione.

Quindi mi chiedo veramente se in queste condizioni non sia il caso che il Governo rinvii a sabato mattina la questione degli enti collettivi, perché è materialmente impossibile che possiamo procedere all’esame di un provvedimento come quello della tassazione delle rivalutazioni in un giorno o in un giorno e mezzo.

LA MALFA, Relatore. Chiedo di parlare.

PRESIDENTE. Ne ha facoltà.

LA MALFA, Relatore. Alcuni giorni fa l’onorevole Pella mi ha rimesso in via prettamente confidenziale – e io ho interpretato anche in via personale – due progetti sulle rivalutazioni patrimoniali.

Qualche giorno dopo il Governo mi pareva avesse scelto la via di preparare un progetto sulla tassazione degli enti collettivi e, avendo avuto una dichiarazione del Governo al riguardo, la Commissione si è orientata nel senso di esaminare un provvedimento, inteso come terzo titolo della legge, sulla tassazione degli enti collettivi.

Ieri o l’altro ieri ci è stato rimesso un primo schema, non in via ufficiale, del terzo titolo della legge. Ma poiché si è appreso che non poteva trattarsi di testo definitivo del Governi, se ne è sospeso l’esame.

Apprendo oggi che la posizione del Governo è mutata: il Governo vuole che la questione se si debbano tassare gli enti collettivi e procedere alle rivalutazioni patrimoniali sia votata dall’Assemblea.

Questo sposta completamente la posizione che fino a qualche ora fa pareva quella del Governo. Quindi l’Assemblea dovrà decidere su questo punto. Naturalmente la Commissione non può dir nulla perché non conosce nessun progetto ufficiale.

PELLA, Ministro delle finanze. Desidero ricondurre la questione nei limiti abbastanza ristretti che essa ha, considerata da un punto di vista pratico.

Abbiamo cercato negli ultimi giorni di accelerare il corso dei nostri lavori, e in questo desiderio abbiamo tolto significato a molti aspetti procedurali di quello che era il nostro lavoro. Per questo, il Governo, ogni qualvolta ha elaborato qualche schema, ne ha fatto oggetto di comunicazione alla Commissione, senza tuttavia annettervi un carattere ufficiale.

Ora, esattamente l’onorevole La Malfa ha accennato che esiste una questione pregiudiziale. Su questa questione pregiudiziale l’onorevole Relatore riteneva che il Governo si fosse già impegnato.

All’infuori di qualsiasi impegno assunto o non assunto – e francamente a me sembra che il solo impegno del Governo sia quello che è stato preso davanti alla Commissione, a suo tempo, di presentare il progetto relativo alla rivalutazione – mi sembra vi sia nell’atteggiamento del Governo, di cui mi rendo interprete in questo momento, soltanto il desiderio di un atto di deferenza nei confronti dell’Assemblea a cui si vuol lasciare la risoluzione della questione pregiudiziale. Penso infatti, che l’Assemblea, anche a costo di dedicare una seduta o due in più, possa anche desiderare di contribuire a discutere il problema nei suoi termini generali. Per i non iniziati ai misteri di queste piccole cose, in sostanzia parlare di rivalutazione e di tassazione di enti collettivi, significa adottare un linguaggio che sa di ermetico e che forse ha bisogno di essere chiarito e più largamente spiegato.

Il Governo non ha avuto finora l’occasione di chiarire dinanzi all’Assemblea per quali ragioni un giorno ha ritenuto più opportuna la tassazione delle rivalutazioni. Così ancora, il Governo non ha indicato ancora le ragioni per cui, cammin facendo, esso non si è rifiutato di sentire correnti che preferiscono la tassazione degli enti collettivi. Soprattutto il Governo desidera che l’Assemblea, informata dei diversi aspetti del problema, sia essa a decidere sulla questione pregiudiziale.

Voglio aggiungere che la questione pregiudiziale può e – vorrei dire – deve essere risolta ancora prima di passare all’esame di determinati schemi. Si tratta di discutere principî d’ordine generale, e la discussione dei principî d’ordine generale, trasportata su un esame di schemi, finisce per esserne danneggiata, piuttosto che avvantaggiata. Certo, tutto questo porterà forse a non conchiudere domani i nostri lavori: forse sarà necessario un giorno di più. Ma penso che l’argomento sia così importante che valga la pena di dedicarvi qualche ora di discussione.

PRESIDENTE. Faccio presente al Ministro che ciò porterebbe su un’altra linea di lavori. Era desiderio del Presidente del Consiglio – questo è risultato alla Presidenza – che, prima di passare ad altri lavori, l’Assemblea esaurisse l’argomento della patrimoniale.

PELLA, Ministro delle finanze. Possiamo farlo. Se domattina, attraverso la presentazione di un ordine del giorno, si fa la discussione di carattere generale, discussione che può concludersi in un’ora o in un paio d’ore e se la discussione si conclude attraverso l’approvazione di un ordine del giorno per la scelta di una strada piuttosto che un’altra, abbiamo subito superato la pregiudiziale e possiamo passare all’esame di uno schema specifico.

LA MALFA, Relatore. Chiedo di parlare.

PRESIDENTE. Ne ha facoltà.

LA MALFA, Relatore. Prendo atto delle dichiarazioni del Ministro delle finanze; devo tuttavia confermare quanto ho già detto.

La Commissione aveva avuto l’impressione che il Governo si fosse orientato per la tassazione degli enti collettivi. Il Governo oggi prospetta una diversa soluzione e la pone come questione pregiudiziale dinanzi all’Assemblea. Naturalmente non assumo responsabilità su questo aspetto della situazione, perché, naturalmente, i lavori dalla Commissione e quindi dell’Assemblea potrebbero in un caso essere abbreviati e nell’altro molto allungati.

PRESIDENTE. Domando alla Commissione se è pronta con una sua decisione sulla questione degli enti collettivi. Se fosse d’accordo ci sarebbe questo punto di riferimento.

LA MALFA, Relatore. La Commissione non è pronta, soprattutto, perché dopo le dichiarazioni del Ministro delle finanze, non ha nessun progetto da esaminare. Infatti il progetto già presentato in via confidenziale si deve considerare come ritirato.

Sulla questione di principio, così come è posta dal Governo, la Commissione si deve pronunciare riunendosi ancora una volta.

PRESIDENTE. Onorevole Relatore, guardi la situazione come si presenta. C’è stata la sospensione dell’esame della questione degli enti collettivi. Su questo problema c’è un emendamento dell’onorevole Dugoni. La Commissione è in grado di pronunciarsi su questo emendamento quando si è posta la questione?

LA MALFA, Relatore. Domani mattina se il Governo, come credo, conferma questo suo punto di vista, la Commissione si può riunire e riconsiderare il problema così come l’ha posto il Governo e quindi arrivare ad una decisione su un problema di principio.

Comunque, l’esame di questa questione cade sull’articolo 2 che noi dobbiamo riesaminare. Io proporrei, per non prolungare la discussione, di continuare l’esame dell’articolo 68 ed esaurirlo.

Se il Governo conferma questo punto di vista, domani mattina se non vi è seduta per la patrimoniale…

PRESIDENTE. V’è seduta sulla patrimoniale domani mattina alle 9.30.

LA MALFA, Relatore. Non è possibile!

Questa posizione del Governo che io vengo a conoscere in questo momento, deve essere considerata dalla Commissione in una seduta apposita che avrà una certa importanza e gravità. Credo quindi che se il Governo mantiene il punto di vista espresso dall’onorevole Pella in questo momento, debba essere data alla Commissione la possibilità di esaminare domani mattina il problema. Nel pomeriggio la Commissione sarà in grado di riferire sulla questione di principio. (Interruzione del deputato Valiani).

PELLA, Ministro delle finanze. Chiedo di parlare.

PRESIDENTE. Ne ha facoltà.

PELLA, Ministro delle finanze. Vorrei fare una proposta pratica. Se la Commissione ritiene di dover concretare un suo punto di vista rispetto all’atteggiamento del Governo, che deferisce all’Assemblea la risoluzione della questione pregiudiziale, la Commissione potrebbe riunirsi questa sera, e domani mattina potremmo tenere una seduta apposita.

Assicuro che in tutto questo, da parte del Governo c’è soltanto il desiderio di rendere omaggio ed ossequio alle libere conclusioni dell’Assemblea.

Il Governo è pronto con gli schemi, per l’una o per l’altra strada.

PRESIDENTE. In fine di seduta, potremo prendere accordi per i lavori di domani.

Riprendiamo dunque la discussione sugli emendamenti all’articolo 68.

Chiedo al Relatore di esprimere il suo parere sugli emendamenti presentati per questo articolo.

LA MALFA, Relatore. L’articolo 68 rappresenta uno dei cardini di tutta la legge sull’imposta proporzionale e progressiva, quindi ha una importanza fondamentale.

Assicuro il collega Dugoni che nel pregare l’Assemblea di ascoltare prima il Relatore era lontana da me l’idea di creare una posizione che impedisse qualsiasi accordo di Gruppo. Volevo soltanto che l’Assemblea disponesse di tutti i dati del problema prima di prendere una qualsiasi posizione.

Per facilitare la discussione ed anche le decisioni, volevo proporre inoltre che cominciassimo la votazione per divisione, perché l’articolo 68 contempla una quantità di questioni che non sono sullo stesso piano.

Le questioni che sono giudicate sullo stesso piano dalla Commissione sono gli emendamenti Crispo, Bonomi, Mannironi, Pesenti, Mazzei, Bovetti, fino a Basile che costituiscono un tutto su cui la Commissione potrà dare il suo giudizio.

Gli emendamenti Scoca, Cappi ed altri, che in definitiva propongono l’aggiunta di un secondo comma, vogliono una trattazione molto approfondita, mentre per esempio l’emendamento dell’onorevole Rescigno, che propone la riduzione dell’aliquota dal 4 al 3 per cento, potrebbe essere messo subito in votazione. Naturalmente il parere della Commissione è che l’onorevole Rescigno ritiri questo suo emendamento perché si tratta oltre tutto di una imposta in esazione.

Respinto l’emendamento Rescigno, si potrebbe votare il primo comma fino alla parola 4 per cento.

PRESIDENTE. Ma c’è un emendamento sul primo comma dell’onorevole Pesenti.

LA MALFA, Relatore. L’onorevole Pesenti ha proposto un secondo comma che contiene un primo periodo che potrebbe essere votato come secondo comma immediatamente, e su cui tutta l’Assemblea mi pare unanime, e poi potremmo votare il secondo periodo del secondo comma che è il vero emendamento Pesenti e su cui la maggioranza della Commissione ha espresso parere favorevole. Effettivamente quando si è trattato di applicare l’imposta ordinaria sul patrimonio alle società in accomandita e per azioni, si è dovuto ricorrere alla imposta di negoziazione, cioè alle valutazioni che si fanno del patrimonio sociale ai fini delle valutazioni della imposta di negoziazione la quale finora, col sistema vigente, accertava i valori con un ritardo di due anni. Avveniva cioè che l’imposta patrimoniale dell’anno 1947 faceva riferimento alla imposta di negoziazione del 1946 e questa ultima faceva riferimento ai valori del 1945, o, qualche volta, del 1944. L’emendamento Pesenti mette questi valori sul piano di un accertamento alla data del 1947 ed intende porli sullo stesso piano in cui sono posti gli altri valori che però, badate bene, non sono accertati con l’accertamento reale, ma con l’applicazione di coefficienti. A giudizio della Commissione, il fatto di moltiplicare i terreni per dieci secondo i valori del 1937-1939 ci fa avvicinare alla situazione del 1947 più di un’imposta di negoziazione che si riferisce ai valori reali degli anni 1944-1945.

Vi è l’emendamento dell’onorevole Bosco Lucarelli. Ora mi pare che il Governo abbia dato l’assicurazione che gli imponibili dell’imposta straordinaria sul patrimonio saranno tutti riferiti ai valori del 1937-1939 e su questi valori si applicheranno i coefficienti di 5 per i fabbricati e di 10 per i terreni. Il che vuol dire che in sede di imposta straordinaria, avverrà una sperequazione di tutti gli accertamenti ed i redditi rivalutati saranno ricondotti ai valori del 1937-1939 e poi moltiplicati, rispettivamente, per 5 e per 10. Dato che questa revisione ha fatto oggetto di una specifica circolare agli uffici finanziari, prego l’onorevole Bosco Lucarelli di ritirare l’emendamento.

Credo, così, che si possano votare il primo e il secondo comma dell’articolo 68. Mi riservo di esprimere il parere della Commissione per quello che si può considerare un terzo comma, comprendente tutti gli altri emendamenti da quello dell’onorevole Crispo in poi.

PRESIDENTE. Ha facoltà di parlare l’onorevole Ministro delle finanze.

PELLA, Ministro delle finanze. Prima di prendere la parola su questo contrastato articolo 68, su cui tanto si discute in quanto esso interessa la grande massa dei modesti contribuenti, desidero cogliere l’occasione per ringraziare l’onorevole Relatore per il contributo che ha dato nel difendere la legge laddove modifiche, che potevano tentare gli onorevoli colleghi, avrebbero significato compromissione del gettito del tributo.

L’onorevole La Malfa ha saputo diverse volte assumere posizioni che non sempre sono piacevoli nei confronti di un’opinione pubblica, che preferisce le facili rinunce e le agevoli modifiche. Di questa forza di resistenza io non ho che da ringraziarlo a nome del Governo.

Ciò premesso, per quanto riguarda l’emendamento dell’onorevole Rescigno, confermo quanto ha detto la Commissione. Il Governo è dolente di non poterlo accettare.

Il quattro per cento è effettivamente il riscatto della imposta ordinaria sul patrimonio. Riscuotere oggi il 4 per cento significa dare a questa imposta una vita media di 12-13 anni tenendo conto degli interessi. Se si riducesse al 3 per cento si accorderebbe a questa imposta una vita media di 8-9 anni. Ora, se si pensa che l’imposta ordinaria doveva essere perenne, credo si possa arrivare alla conclusione che è già molto limitata una vita media di 12-13 anni. Inoltre, se l’imposta fosse rimasta in vita, lo 0,40 per cento, sarebbe stato applicato su valori periodicamente in aumento, ed il contribuente avrebbe dovuto pagare lo 0,40 per cento anche sopra gli incrementi addizionali del proprio patrimonio. Quindi io credo che il 4 per cento non debba essere considerato eccessivo e meriti di essere mantenuto.

Per quanto riguarda l’emendamento degli onorevoli Pesenti, Scoccimarro ed altri, sono d’accordo nel ritenere che la prima parte non costituisce una modifica della legge. La seconda parte deve essere esaminata alla stregua di quel concetto di perequazione a cui ha accennato l’onorevole La Malfa.

Il sistema della legge raggiunge lo scopo di colpire, con criterio di perequazione, i diversi cespiti: terreni, fabbricati, aziende facenti capo a società azionarie.

Gli uffici competenti che si sono soffermati su questo problema, arrivano alla conclusione che la formula usata nel decreto è sufficiente a raggiungere questa perequazione, perché, per quanto riguarda le azioni non quotate in borsa, le indagini statistiche svolte al riguardo hanno condotto a stabilire che i valori medi accertati per l’anno 1942 – che è l’anno a cui si arrestano le valutazioni dei collegi peritali – danno risultati cinque volte superiori a quelli di anteguerra.

Io ritengo che, lasciando la formula precedente, cioè il valore definitivo ai fini dell’imposta ordinaria sul patrimonio per il 1947, si raggiunga quello scopo di perequazione che si vuole perseguire.

Quindi, dissentendo dal Relatore, il Governo preferisce mantenere ferma la formula originaria.

Per quanto riguarda l’emendamento dell’onorevole Bosco Lucarelli, confermo che sono state date istruzioni perché si rettifichino di ufficio, per quanto riguarda i terreni, e su domanda dei contribuenti, per quanto riguarda i fabbricati, i valori imponibili che non risultino basati sulla media dei valori venali in comune commercio nel triennio 1937-1939.

Quindi, stia certo l’onorevole Bosco Lucarelli che i coefficienti 5 e 10 saranno applicati sui valori accertati con riferimento triennio 1937-1939, prescindendo dalle rivalutazioni eventualmente fatte dagli uffici in tempo successivo.

BOSCO LUCARELLI. Allora, il Governo accetti il mio emendamento!

PELLA, Ministro delle finanze. Davanti alla richiesta dell’onorevole Bosco Lucarelli, debbo rispondere che l’emendamento da lui proposto presta il fianco a qualche equivoco, perché riferirsi all’imponibile al 1° gennaio 1940 non significa riferirsi ai valori medi del triennio 1937-1939.

Come ho già avuto l’onore di spiegare all’Assemblea qualche giorno fa, nel primo triennio l’imposta ordinaria patrimoniale è stata applicata, per la maggior parte dei casi, su valori provvisori accertati per la sottoscrizione del prestito redimibile 5 per cento del 5 ottobre 1936, valori – dobbiamo avere il coraggio di dirlo in omaggio alla verità e alla giustizia – che molto spesso sono al disotto di quelli del triennio 1937-1939; per questo il riferimento ai valori del 1940 non può essere accolto dal Governo.

Veda l’onorevole Bosco Lucarelli, se, dinanzi alle mie reiterate assicurazioni, ritenga di accogliere la preghiera dell’onorevole Relatore di ritirare l’emendamento proposto.

PRESIDENTE. L’onorevole Rescigno insiste nel suo emendamento?

RESCIGNO. Lo ritiro.

PRESIDENTE. L’onorevole Bosco Lucarelli?

BOSCO LUCARELLI. Dopo le dichiarazioni dell’onorevole Ministro e del Relatore, dichiaro di ritirare il mio emendamento.

Però insisto presso il Ministro perché si dia applicazione al criterio accennato, dato che praticamente non viene seguito.

PELLA, Ministro delle finanze. Sono circolari di pochi giorni fa.

DE CARO RAFFAELE. Ma non sono arrivate, perché gli accertamenti vengono fatti come prima…

PRESIDENTE. Onorevole Pesenti, lei insiste nel suo emendamento?

PESENTI. Vorrei chiarire il mio emendamento che, del resto, è stato illustrato anche dall’onorevole La Malfa. Forse qualcuno può aver equivocato sulla sua importanza. Non si tratta qui di introdurre nuovi soggetti dell’imposta; cioè, in questo caso, le società sono già soggette all’imposta straordinaria proporzionale. Si tratta di una diversa valutazione.

Ora, io dissento da quello che ha affermato adesso il Ministro, perché effettivamente la valutazione che viene fatta per le società nell’iscrizione nei ruoli dell’imposta 1947 si riferisce a quella che è l’imposta di negoziazione del 1945.

PELLA, Ministro delle finanze. Del 1946; bilancio 1945.

PESENTI. Ora, i titoli, nel 1945 non erano certo aumentati cinque volte rispetto al 1937-1940. Perciò, se noi teniamo questa valutazione, vediamo che le società tassate in base ai bilanci vengono ad avere, rispetto al 1937-1940, una maggiorazione di cinque volte al massimo; anzi, altri calcoli dicono da tre e mezzo a cinque volte al massimo, mentre i privati contribuenti vengono ad avere una maggiorazione di dieci volte.

Perciò, se noi, invece, rapportiamo in base all’imposta di negoziazione pagata nel 1947, non avviciniamo la posizione delle società alla posizione dei privati.

Per questo motivo, insisto nel mio emendamento.

PRESIDENTE. Dovrò ora porre in votazione l’emendamento Pesenti-Scoccimarro.

DUGONI. Chiedo di parlare per dichiarazione di voto.

PRESIDENTE. Ne ha facoltà.

DUGONI. Richiamo l’attenzione dei colleghi sul fatto che io voterò a favore dell’emendamento degli onorevoli Pesenti e Scoccimarro anche perché la valutazione che risulterebbe per il 1946 sarebbe talmente al di sotto della realtà che il Governo ha creduto di proporre, con una nuova procedura, la rivalutazione dei patrimoni di queste aziende, quando, in tali circostanze, noi chiediamo che anche questa imposta venga passata secondo un metodo di valutazione che l’avvicini se non alle dieci volte, per lo meno a qualche cosa di simile.

PELLA, Ministro delle finanze. Chiedo di parlare.

PRESIDENTE. Ne ha facoltà.

PELLA, Ministro delle finanze. Per amore di brevità, avevo omesso di ricordare che la nuova legge di valutazione, che è stata approvata dal Consiglio dei Ministri una decina di giorni fa, si applica a tutte le procedure aperte, anche degli anni precedenti, perché è norma procedurale. Siccome le valutazioni, in genere, si arrestano al 1943-44, la valutazione dell’anno 1945 avrà già luogo con le nuove norme. Questo è un dato che prego di tener presente.

CORBINO. Chiedo di parlare per dichiarazione di voto.

PRESIDENTE. Ne ha facoltà.

CORBINO. Io voterò per il testo della Commissione accettato dal Ministro, per quanto riconosca che c’è innegabilmente un fondamento nell’osservazione fatta dal collega Pesenti. Desidero però far presente all’onorevole Ministro che noi ci siamo preoccupati della rettifica dei coefficienti per quello che concerne i valori dei terreni e dei fabbricati, ma non abbiamo contemplato la possibilità di rettifiche analoghe anche per le piccole aziende commerciali e industriali. Bisogna infatti tener presente che molte di queste piccole aziende si son trovate nella seguente situazione: che hanno concordato nel 1944 la cifra del loro patrimonio, e immediatamente dopo se la son vista moltiplicare per dieci.

Ora, se i valori del 1946 sono valori che corrispondono alla consistenza patrimoniale, non credo equo che quelli del 1947 debbano essere moltiplicati per dieci. Io vorrei perciò pregare l’onorevole Ministro che, in sede di applicazione dell’articolo 68, voglia dare la stessa autorizzazione anche per le piccole aziende commerciali e industriali.

PRESIDENTE. Metto dunque ai voti l’emendamento al primo comma dell’articolo 68, presentato dagli onorevoli Pesenti, Scoccimarro, Lombardi Riccardo, Foa, Valiani, e Piemonte, di cui do nuovamente lettura:

«Al primo comma, sopprimere le parole: sui valori definitivamente accertati ai fini della imposta ordinaria per l’anno 1947».

(Dopo prova e controprova è approvato).

Si dovrà ora porre in votazione il secondo emendamento, a firma degli stessi colleghi, che propone l’aggiunta di un secondo comma.

Avverto che la Commissione, e per essa il Relatore, ha chiesto che questo emendamento sia votato per divisione.

LA MALFA, Relatore. Chiedo di parlare.

PRESIDENTE. Ne ha facoltà.

LA MALFA, Relatore. Mi permetta, onorevole Presidente, di chiarire la questione. Siccome ogni criterio di riferimento è caduto dal primo comma, se l’emendamento fosse respinto cadrebbe qualsiasi riferimento ad un anno; il riferimento all’anno deve rimanere, invece, per tutti, se no cadrebbe l’imposta. E allora, votando per divisione, coloro che volessero respingere il criterio di tassazione delle società, avrebbero votato l’anno.

PRESIDENTE. Lei mantiene o meno la sua proposta di votazione per divisione?

LA MALFA, Relatore. Non ho nulla in contrario; però bisogna veder come si farà tecnicamente.

PRESIDENTE. Pongo, allora, in votazione, la prima parte dell’emendamento:

«L’imposta è dovuta sui valori definitivamente accertati ai fini dell’imposta ordinaria sul patrimonio per l’anno 1947».

(È approvata).

SCOCA. Chiedo di parlare per dichiarazione di voto.

PRESIDENTE. Onorevole Scoca, doveva chiederla prima. Ormai si è in votazione.

Pongo ai voti la seconda parte:

«Per le società per azioni e in accomandita per azioni l’imposta è dovuta sui valori che saranno definitivamente accertati ai fini dell’imposta di negoziazione per l’anno 1947».

(Dopo prova e controprova è approvata).

L’onorevole Scoca mi scuserà se non gli ho dato facoltà di parlare per dichiarazione di voto, ma le dichiarazioni di voto si fanno prima che si metta in votazione l’emendamento.

SCOCA. Se mi consente, onorevole Presidente, desidero dire che credo che quando la votazione si fa per divisione, si tratta di due votazioni distinte. Volevo dar ragione del mio voto contrario, per motivi tecnici.

PRESIDENTE. Onorevole Scoca, quando è annunciata la divisione, si è già in votazione.

Prego l’onorevole Relatore di esprimere il suo parere sugli altri emendamenti.

LA MALFA, Relatore. Vorrei prendere occasione dagli emendamenti presentati all’articolo 68 per portare l’Assemblea a valutare di nuovo in tutta la sua portata e nei suoi punti cardinali il progetto di legge che stiamo esaminando.

Io non sono d’accordo con l’onorevole Scoca che non si debba tener conto dell’imposta progressiva quando si esamina l’imposta proporzionale. Credo che da questo punto di vista l’onorevole Scoccimarro abbia ragione. Del resto è un concetto che ho sviluppato quando abbiamo parlato dell’articolo 29 riguardante le aliquote dell’imposta progressiva. Se noi vogliamo fare un giusto apprezzamento dei due tipi di imposta – proporzionale e progressiva – e vogliamo misurare la giustizia fiscale dei due tipi d’imposta, dobbiamo aver presenti tutte le condizioni e tutto il gravame fiscale che si ha in conseguenza delle due imposte; come, se venisse il terzo Titolo sugli enti collettivi, noi dovremmo aver presente la tassazione degli enti collettivi per giudicare se questo provvedimento risponda a certi principî di giustizia fiscale e alle necessità del bilancio dello Stato. E soprattutto – per me – in sede di Commissione, l’imposta proporzionale è stato il punto decisivo per giudicare delle aliquote dell’imposta progressiva.

Perché, onorevoli colleghi, noi non possiamo esaminare questo progetto articolo per articolo e a colpi di maggioranza creare una situazione in un articolo o un’altra situazione in un altro articolo. Dobbiamo avere il senso dell’equilibrio e, in qualsiasi punto diamo un giudizio, dobbiamo darlo con riferimento al complesso, altrimenti avremmo un’accozzaglia di disposizioni senza senso comune.

Anche per me, vi confesso, quando si è trattato di giudicare l’imposta proporzionale è sorto un dubbio: che cos’è l’imposta proporzionale? È un’imposta del 4 per cento che comincia a colpire i patrimoni da 100 mila lire in su. Devo dichiarare che 100 mila lire non costituiscono un valore effettivo, ma un valore fiscale. È un’osservazione che hanno fatto molti colleghi che mi hanno preceduto. Comunque, è un valore minimo imponibile e va preso come punto di partenza nel giudicare l’imposta. Non sono imponibili rivalutabili secondo la svalutazione della lira perché, per esempio, i valori terrieri del 1937-1939 sono stati moltiplicati per dieci e sappiamo che i valori delle terre e delle culture si possono moltiplicare per venti ed anche più.

Accettando come punto di partenza le 100 mila lire di imponibile, da questo punto di partenza si deve costruire tutto il sistema dell’imposta in maniera che la pressione fiscale risulti progressivamente crescente in relazione al patrimonio. Questo e soltanto questo vuol dire progressività dell’imposta.

Ed ecco che in materia di imposta progressiva – l’onorevole Scoccimarro lo ricorderà – io ho proposto, e sono rimasto solo in Commissione, di abbassare il minimo imponibile. Poiché si parte dal 4 per cento su 100 mila lire di imponibile fiscale non posso ammettere che si paghi il 6 per cento a partire da tre milioni. Io tendevo non ad esentare perché – l’ho già detto in questa sede – la situazione del bilancio dello Stato non consente esenzioni, ma a raggiungere la giustizia di questa imposta, che se è gravosa per i piccoli, deve essere gravosissima per i medi e i grandi patrimoni.

Ho sentito parlare di tre milioni come di una piccola somma. Ma in Commissione ho combattuto per ridurre il minimo imponibile ad un milione e mezzo, e sono rimasto solo. I colleghi di sinistra e di destra che fanno parte della Commissione lo ricorderanno.

C’è l’emendamento del Gruppo liberale che vuol abbassare il minimo imponibile ed aumentare la detrazione portando il minimo a cinque milioni e la detrazione a tre milioni. Mi oppongo decisamente a questo emendamento, attraverso il quale il Gruppo liberale ha inquadrato in un certo senso un settore di contribuenti, ma non in relazione al modo in cui l’imposta incide nei vari settori di contribuzione. Quando ho un imponibile di 100 mila lire tassato al 4 per cento, nessuno può chiedere che un imponibile di tre milioni sia tassato al 6 per cento. E così via di seguito. Man mano che si sale da tre milioni, si deve gravare la situazione del contribuente. Questo spiega perché la Commissione abbia modificato le aliquote. Non aveva altro metodo per rendere giustizia tributaria e soddisfare le esigenze del bilancio dello Stato.

Se giudichiamo l’imposta al di fuori – lasciatelo dire a me che come Presidente della Commissione sono in una posizione singolare –, se giudichiamo tutto il sistema dell’imposta al di fuori degli interessi politici particolari, rileviamo la necessità di garantire un equilibrio fiscale. E questa dell’equilibrio fiscale non è una questione in cui si può andare per maggioranza o minoranza. Si tratta di una questione fondamentale.

La tassazione degli enti collettivi non possiamo vederla come una questione isolata da quella che è la costruzione dell’imposta: è un elemento necessario di perequazione tributaria, che a mio giudizio va tenuto presente. E anche se si fanno eccezioni particolari, se poniamo il punto di partenza col minimo di 100 mila lire, dobbiamo essere rigorosi nel dare un carico tributario ai grossi patrimoni.

Veniamo adesso agli emendamenti. Credo che l’approvazione dell’emendamento Pesenti, che abbiamo votato testé – ed io sono lieto che sia stato votato dalla maggioranza dell’Assemblea – ai fini di questa costruzione dell’imposta abbia avuto molta importanza. Ma questo emendamento, che è gravosissimo – non crediate che non sia gravoso – spiega la posizione che si deve prendere in altri problemi. Sono aspetti dell’imposta che vanno seriamente esaminati.

Dicevo: quale è la giustificazione del 4 per cento? E quali sono i problemi della tassazione nel campo della proporzionale? Questa è una imposta che già esiste. Il primo dato che l’Assemblea deve avere è questo: è una imposta che i contribuenti pagano. Ora, quando l’imposta è già pagata dai contribuenti, evidentemente non si può parlare di esenzione. L’imposta si pagava, si doveva pagane in dieci anni. Lo Stato annulla l’imposta dopo il decennio e la consolida e la fa pagare in un periodo più breve. Il problema che possiamo porre in materia d’imposta proporzionale è un problema di rateazione, non di esenzione; altrimenti a coloro che pagano l’imposta faremmo un trattamento migliore di quello che essi hanno avuto fino ad ora. Ora, stiamo applicando delle imposte straordinarie, cioè chiediamo un sacrificio al contribuente: non possiamo arrivare all’assurdo che il contribuente che pagava finora, per virtù di tassazione straordinaria rimanga esente dall’imposta. Al limite dovremmo per qualsiasi piccolo patrimonio – quindi anche per i patrimoni intorno alle 100 mila lire – rateare l’imposta in dieci anni. E questo non solo è vero per i contribuenti privati – e mi rivolgo all’onorevole Vigorelli – ma per gli istituti di beneficenza. Vedo emendamenti che parlano di esentare gli istituti di beneficenza dall’imposta. Io dico: gli istituti di beneficenza hanno finora pagato questa imposta. Se voi volete fare agevolazioni, dovete fare pagare l’imposta in dieci anni, ma non esentare gli istituti.

Noi possiamo decidere, se mai, come deve essere rateata l’imposta per certi tipi di contribuenti; ma non dobbiamo decidere sgravi d’imposta.

Se questa è la posizione che l’Assemblea fa sua, noi non possiamo accettare nessuno di questi emendamenti in sede di articolo 68; ma dobbiamo rinviare la discussione di possibili agevolazioni per i contribuenti in sede di articolo 72: cioè tutti gli emendamenti che tendono a creare una posizione di privilegio del contribuente in questa sede, e quindi tendono ad annullare l’imposta, non dovrebbero essere accolti dall’Assemblea; mentre quelli che hanno la preoccupazione da cui sono ispirati e l’emendamento Scoccimarro e l’emendamento Mazzei ed altri emendamenti potrebbero trovare più opportuna sede attraverso un accordo (e mi riferisco alla proposta dell’onorevole Dugoni) in sede di articolo 72.

PELLA, Ministro delle finanze. Chiedo di parlare.

PRESIDENTE. Ne ha facoltà.

PELLA, Ministro delle finanze. In questa discussione, il Governo ha la fortuna e la disgrazia di dover parlare dopo l’onorevole Relatore e siccome l’onorevole La Malfa è tecnico che sa sviscerare così a fondo i diversi problemi, al Governo resta quasi sempre ben poco da aggiungere.

Vorrei dire che la tentazione di accordare concessioni, di allargare le zone delle esenzioni, di diminuire le aliquote, ecc. è una tentazione forte per tutti, può essere forte soprattutto per il Governo; ma è dovere del Governo di difendere determinate posizioni. Ed è per questa necessità che il Governo deve purtroppo respingere tutto quello che può significare riduzione di aliquote per determinate zone o concessione di particolari esenzioni. Non sto a ripetere quanto hanno già detto alcuni onorevoli colleghi in merito alla portata del limite delle 100 mila lire. Vorrei solo ricordare che sopra 9 milioni e 600 mila articoli di ruolo di imposta terreni, oltre 8 milioni di questi sono già esenti attraverso il limite delle 100 mila lire. È un dato su cui prego di riflettere.

Ora, nei riguardi dell’emendamento «centrale», che è quello degli onorevoli Pesenti e Scoccimarro, per le ragioni di ordine generale che non consentono riduzioni di aliquote in un’imposta reale, io devo dichiarare che non posso aderire; ma vorrei fare presente che l’emendamento proposto, per lo meno a mio sommesso avviso, non raggiungerebbe il risultato che i proponenti intendono perseguire.

Occorre ricordare che qui si tratta di anticipo di un’imposta che veniva già pagata nel passato.

Il problema della facilitazione si riconnette ad una difficoltà di cassa in cui alcuni contribuenti si possono trovare per far fronte al pagamento tempestivo delle 10 bimestralità, perché, se questa difficoltà di cassa non esistesse per alcuno, non vi sarebbe ragione di proporre la concessione di riduzioni in sede di capitalizzazione di un’imposta che già si pagava in permanenza. Ora, se non erro, la procedura che deriverebbe dall’emendamento dell’onorevole Pesenti, sarebbe la seguente: Fermo restando il corso della riscossione del ruolo – e gli onorevoli Pesenti e Scoccimarro, che hanno provato l’onere del Governo, con quel senso di responsabilità che ancora li accompagna sul banco di deputati, non potevano che partire dal principio che il ruolo continuasse ad avere il suo corso – occorrerebbe attendere il risultato dell’accertamento per constatare se si verificano le condizioni volute, cioè per constatare che il contribuente non raggiunge il minimo imponibile, o che esso è compreso entro una determinata zona tassabile.

Io credo che si arriverebbe a fare queste constatazioni e a concedere i relativi sgravi, solo dopo la riscossione dell’imposta. Questa è una considerazione di ordine pratico. Resta però ferma la ragione fondamentale già accennata, per cui non si potrebbe accedere ad una riduzione di aliquote. Il Governo però è perfettamente d’accordo sul concetto di attenuare, per quanto possibile, le difficoltà di pagamento nelle quali parecchi contribuenti possono trovarsi.

Ho accennato, in sede di discussione generale, che una lunga rateizzazione sarebbe stata concessa agli enti morali ed alle Opere pie, ai proprietari di fabbricati vincolati, ai modesti proprietari di terreni e fabbricati.

L’onorevole Veroni aveva aggiunto la raccomandazione per i sinistrati. Su questa strada il Governo è disposto volentieri ad accettare degli emendamenti, soprattutto nel quadro dell’emendamento Cappi ed altri, per il quale, attraverso una larga facilitazione per il riscatto, si potranno anche indurre moltissimi a rinunciare a questa maggiore rateizzazione.

Pertanto, in linea di massima, il Governo può prendere in considerazione l’emendamento Cappi; non però così come è stato formulato.

PRESIDENTE. Ma questo riguarda l’articolo 72.

PELLA, Ministro delle finanze. Va bene, allora ne riparleremo in sede di articolo 72.

VIGORELLI. Desidererei che il Ministro esponesse esplicitamente le ragioni per le quali non accetta il mio emendamento.

PELLA, Ministro delle finanze. Il ragionamento è molto semplice. Si può chiedere che questo nuovo provvedimento non comporti un maggior aggravio per qualcuno, ma sarebbe pretendere troppo se si chiedesse di arrivare, attraverso il provvedimento stesso, a sgravare qualcuno di un tributo esistente. Ora, se per effetto di altri emendamenti si giungesse alla rateizzazione decennale, gli enti così autorevolmente patrocinati dall’onorevole Vigorelli finirebbero per essere avvantaggiati lo stesso, perché dopo i dieci anni non pagherebbero più.

PRESIDENTE. Comunque, onorevole Vigorelli, il suo è un articolo aggiuntivo. Se ne parlerà poi.

PELLA, Ministro delle finanze. L’emendamento Bovetti sarebbe assorbito nell’esame degli emendamenti all’articolo 72.

PRESIDENTE. Onorevoli colleghi, l’emendamento che io credo debba essere posto in votazione con precedenza è quello presentato dagli onorevoli Pesenti, Scoccimarro, Lombardi Riccardo ed altri colleghi che, giustamente, il Ministro delle finanze ha definito «centrale».

Ricordo che esso è così formulato:

«I contribuenti che non risultano assoggettabili all’imposta progressiva di cui all’articolo 1, hanno diritto allo sgravio del 75 per cento dell’imposta proporzionale gravante sui cespiti mobiliari.

«Il diritto allo sgravio è del 50 per cento per i contribuenti il cui patrimonio accertato in base agli articoli 29 e seguenti sia compreso tra i 3 e i 5 milioni e del 25 per cento per i contribuenti il cui patrimonio sia compreso fra i 5 e i 10 milioni di cui allo stesso articolo 29.

«Lo sgravio è concesso su domanda del contribuente».

Su questo emendamento è stata presentata domanda di votazione per appello nominale e, successivamente, di scrutinio segreto.

Quest’ultima ha pertanto la precedenza.

Presentatori della domanda di scrutinio segreto sono gli onorevoli Medi, Garlato, Roselli, Delli Castelli Filomena, Bianchini Laura e numerosi altri.

Votazione segreta.

PRESIDENTE. Indico la votazione segreta sull’emendamento Pesenti-Scoccimarro.

(Segue la votazione).

Dichiaro chiusa la votazione e invito gli onorevoli Segretari a procedere alla numerazione dei voti.

(Gli onorevoli Segretari numerano i voti).

Risultato della votazione segreta.

PRESIDENTE. Comunico il risultato della votazione a scrutinio segreto:

Presenti e votanti     308

Maggioranza           155

Voti favorevoli        147

Voti contrari             161

(L’Assemblea non approva).

Hanno preso parte alla votazione:

Abozzi – Adonnino – Alberti – Allegato – Amadei – Amendola – Angelucci – Arcaini – Arcangeli – Assennato – Avanzini.

Bacciconi – Badini Confalonieri – Baldassari – Balduzzi – Baracco – Bardini – Bargagna – Barontini Anelito – Barontini Ilio – Basile – Bastianetto – Bei Adele – Belotti – Benedetti – Benvenuti – Bernamonti – Bernini Ferdinando – Bertini Giovanni – Bertola – Bertone – Bettiol – Bianchi Bianca – Bianchi Bruno – Bianchini Laura – Bibolotti – Bitossi – Bocconi – Bonomelli – Bonomi Paolo – Bordon – Bosco Lucarelli – Braschi – Bubbio – Bucci – Bulloni Pietro – Burato.

Caiati – Camangi – Camposarcuno – Canevari – Cannizzo – Caporali – Cappa Paolo – Cappi Giuseppe – Cappugi – Capitani – Carbonari – Carboni Angelo – Carboni Enrico – Caronia – Carpano Maglioli – Carratelli – Caso – Castelli Edgardo – Castelli Avolio – Cavalli – Cavallotti – Cerreti – Cevolotto – Chatrian – Chieffi – Chiostergi – Ciampitti – Cianca – Ciccolungo – Cifaldi – Cimenti – Clerici – Coccia – Codacci Pisanelli – Codignola – Colitto – Colombi Arturo – Colombo Emilio – Colonnetti – Conci Elisabetta – Coppi Alessandro – Corbi – Corbino – Corsanego – Corsi – Corsini – Costa – Cotellessa – Cremaschi Carlo – Cremaschi Olindo.

D’Aragona – De Caro Gerardo – Del Culto – Della Seta – Delli Castelli Filomena – De Martino – De Michele Luigi – De Michelis Paolo – De Palma – De Unterrichter Maria – De Vita – Di Fausto – Di Giovanni – Di Vittorio – D’Onofrio – Dossetti – Dugoni.

Ermini.

Fabbri – Fabriani – Fantoni – Fantuzzi – Farina Giovanni – Farini Carlo – Fedeli Armando – Federici Maria – Ferrari Giacomo – Ferrario Celestino – Ferreri – Fiore – Fioritto – Flecchia – Foa – Foresi – Franceschini – Fuschini.

Galati – Gallico Spano Nadia – Garlato – Gavina – Ghidetti – Ghidini – Giacchero – Giacometti – Giolitti – Giordani – Giua – Gonella – Gorreri – Gotelli Angela – Grassi – Grazi Enrico – Grazia Verenin – Grieco – Gronchi – Guariento – Guerrieri Emanuele – Guerrieri Filippo – Gui – Guidi Cingolani Angela – Gullo Fausto.

Iotti Leonilde.

Jacini – Jacometti.

Laconi – Lagravinese Pasquale – La Malfa – Landi – La Pira – La Rocca – Lazzati – Lettieri – Li Causi – Lizier – Lizzadri – Lombardi Carlo – Longo – Lozza.

Maffli – Magnani – Magrassi – Malagugini – Maltagliati – Mannironi – Manzini – Marazza – Marconi – Marinaro – Martinelli – Marzarotto – Massola – Mastino Gesumino – Mastino Pietro – Mattarella – Mattei Teresa – Mazza – Mazzei – Medi Enrico – Mentasti – Merlin Angelina – Mezzadra – Micheli – Minella Angiola – Molinelli – Monterisi – Monticelli – Montini – Morandi – Moranino – Moro – Mortati – Moscatelli – Musolino.

Nasi – Negarville – Negro – Nenni – Nobili Tito Oro – Noce Teresa – Notarianni – Novella.

Pajetta Gian Carlo – Pallastrelli – Paris – Parri – Pastore Giulio – Pastore Raffaele – Pat – Pecorari – Pella – Pera – Perassi – Perlingieri – Pertini Sandro – Pesenti – Petrilli – Piccioni – Piemonte – Pignedoli – Platone – Ponti – Pressinotti – Preziosi – Priolo – Proia – Pucci.

Quintieri Adolfo.

Rapelli – Reale Eugenio – Recca – Rescigno – Restagno – Ricci Giuseppe – Rivera – Rodi – Rodinò Mario – Roselli – Rossi Giuseppe – Rossi Paolo – Ruggeri Luigi.

Saccenti – Saggin – Salerno – Salizzoni – Salvatore – Sampietro – Santi – Sardiello – Scarpa – Schiratti – Scoca – Scoccimarro – Scotti Alessandro – Secchia – Sereni – Sicignano – Silipo – Spallaci – Spano – Spataro – Stampacchia – Stella – Storchi – Sullo Fiorentino.

Targetti – Taviani – Tega – Terranova – Tessitori – Titomanlio Vittoria – Togliatti – Togni – Tosato – Tosi – Tozzi Condivi – Trimarchi.

Uberti.

Valenti – Valiani – Valmarana – Vernocchi – Veroni – Viale – Vicentini – Vigna – Vigo – Vigorelli – Vischioni.

Zanardi – Zuccarini.

Sono in congedo:

Ambrosini – Arata.

Bellavista – Bernabei.

Fedeli Aldo – Ferrarese.

Galioto.

Lombardo Ivan Matteo.

Matteotti Matteo.

Pignatari.

Raimondi – Ravagnan.

Saragat.

Tomba.

Zotta.

Si riprende la discussione del disegno di legge: Convalida del decreto legislativo del Capo provvisorio dello Stato in data 29 marzo 1947, n. 143, concernente l’istituzione di una imposta straordinaria progressiva sul patrimonio. (14).

PRESIDENTE. Passiamo all’emendamento a firma degli onorevoli Crispo, Morelli Renato, Bozzi, Cifaldi, Perrone Capano e Rubilli:

«Aggiungere dopo il primo comma il seguente:

«Per i fabbricati soggetti a regime vincolistico l’aliquota è del 2 per cento sui valori definitivamente accertati ai fini dell’imposta ordinaria per l’anno 1947, prendendosi a base di quest’ultima i valori accertati per il prestito immobiliare 1936».

In assenza di tutti i presentatori, si intende decaduto.

Segue l’emendamento dell’onorevole Bonomi Paolo:

«Dopo il primo comma, aggiungere il seguente:

«I contribuenti che non risulteranno assoggettabili all’imposta progressiva di cui all’articolo 1 avranno diritto allo sgravio del 50 per cento dell’imposta proporzionale gravante su cespiti immobiliari. Lo sgravio è accordato su domanda della parte».

Onorevole Bonomi, lo mantiene?

BONOMI PAOLO. Sì.

PRESIDENTE. Lo pongo in votazione.

(Non è approvato).

Segue l’emendamento dell’onorevole Mannironi:

«Tra il primo ed il secondo comma inserire il seguente:

«Per la Sardegna, nella valutazione dei patrimoni da farsi a norma del decreto legislativo 31 ottobre 1946, n. 382, si adotterà il coefficiente di maggiorazione 6 per i terreni e 3 per i fabbricati».

Non essendo presente l’onorevole Mannironi, s’intende che vi abbia rinunciato.

LUSSU. Lo faccio mio.

PRESIDENTE. Pongo allora ai voti l’emendamento Mannironi che l’onorevole Lussu ha fatto proprio.

(Non è approvato).

Segue l’emendamento dell’onorevole Mazzei:

«Dopo il primo comma aggiungere:

«Quando il minimo imponibile ai fini del pagamento dell’imposta ordinaria sia inferiore alle lire 200 mila, i contribuenti saranno esentati dal pagamento dell’imposta straordinaria proporzionale».

Non essendo presente l’onorevole Mazzei, s’intende che vi abbia rinunciato.

DE VITA. Lo faccio mio.

DUGONI. Anch’io lo riprendo, insieme con il mio.

PELLA, Ministro delle finanze. Chiedo di parlare.

PRESIDENTE. Ne ha facoltà.

PELLA, Ministro delle finanze. Per le stesse ragioni per cui non ho potuto dare parere favorevole all’emendamento dell’onorevole Pesenti e degli altri colleghi, non posso accogliere l’emendamento dell’onorevole Mazzei.

PRESIDENTE. Sta bene: lo pongo ai voti.

(Non è approvato).

Passiamo allora all’emendamento degli onorevoli Micheli, Valenti, Fantoni, Tessitori, Marconi, Pallastrelli, Canepa:

«Aggiungere, in fine:

«Sono esenti dall’imposta straordinaria proporzionale i terreni esentati dall’imposta fondiaria a norma del decreto legislativo del Capo provvisorio dello Stato 7 gennaio 1947, n. 12».

I presentatori lo mantengono?

MICHELI. Sì.

PRESIDENTE. Lo pongo ai voti.

(Non è approvato).

Vi è ora l’emendamento degli onorevoli Vigorelli, D’Aragona, Preti, Corsi e Tremelloni, che propongono un articolo 68-bis così formulato:

«Sono esenti dall’imposta i patrimoni mobiliari e immobiliari delle Istituzioni pubbliche di assistenza, compresi gli Enti comunali di assistenza (e Opere pie dipendenti), che fruiscono di contributi permanenti dello Stato».

I presentatori lo mantengono come articolo aggiuntivo al 68?

VIGORELLI. Sì.

CORBINO. Ma l’emendamento è identico a quello Bovetti, rinviato all’articolo 72!

SCOCA. Chiedo di parlare.

PRESIDENTE. Ne ha facoltà.

SCOCA. Su questo argomento ci sono vari emendamenti e non solo quello dell’onorevole Vigorelli. Come abbiamo rimandato all’articolo 72 gli altri, non c’è ragione che non rimandiamo anche questo. Se votiamo su questo dobbiamo votare anche sugli altri, ed anche su quello Bovetti.

PRESIDENTE. Faccio presente che l’emendamento Bovetti è stato rimandato all’articolo 72 perché l’onorevole Bovetti vi ha consentito.

SCOCA. È la Commissione che aveva chiesto questo.

PRESIDENTE. Il Relatore della Commissione ha fatto questa proposta, che ha coinciso con quella dell’onorevole Bovetti.

VIGORELLI. Vorrei chiarire che nel mio emendamento si parla di esenzione, non di rateazione e credo che questa sia la sede più adatta per discutere il mio emendamento.

SCHIRATTI. Propongo formalmente di rinviare.

VIGORELLI. Mi dichiaro contrario a questa proposta.

Siamo in sede di articolo 68, che determina i casi in cui si applica l’imposta. Io chiedo che in questa sede – che è la sola sede utile – siano stabilite anche le esenzioni. Io parlo, ripeto, di esenzioni e non di rateazioni.

CORBINO. Chiedo di parlare.

PRESIDENTE. Ne ha facoltà.

CORBINO. Vorrei fare rilevare al collega Vigorelli che la questione da lui sollevata è di estrema gravità perché si tratta dell’imposizione sui patrimoni degli enti di assistenza e beneficenza. È una questione di carattere generale. Oggi si discute di una imposta non di carattere personale, ma reale. Ora, una questione di questo genere (il collega Vigorelli me lo consenta) non possiamo risolverla e deciderla in una votazione affrettata in cui tutti abbiamo, in certo senso, il desiderio di concludere in qualunque modo. Il problema esiste, ma non esiste soltanto per questa imposta: esiste per l’imposta fondiaria, esiste per tutti gli altri tipi di imposte reali che colpiscono il patrimonio degli enti di assistenza. Ecco perché vorrei che il problema fosse rimandato all’articolo 72 per avere il tempo di esaminarlo con più calma.

PRESIDENTE. Pongo ai voti la proposta dell’onorevole Schiratti di rinviare l’emendamento Vigorelli all’articolo 72.

(È approvata).

Vi è un emendamento analogo dell’onorevole Basile. Domando al proponente se consente a rinviare anche il suo emendamento all’articolo 72.

BASILE. Sì.

PRESIDENTE. L’articolo 68 si intende allora approvato con gli emendamenti testé votati.

Passiamo all’articolo 69, che la Commissione accoglie nel testo ministeriale. Se ne dia lettura.

MOLINELLI, Segretario, legge:

«Gli Uffici distrettuali delle imposte dirette procedono alla liquidazione dell’imposta dovuta ai sensi dell’articolo precedente senza notificazione ai contribuenti».

PRESIDENTE. Su questo articolo vi è un emendamento aggiuntivo dell’onorevole Schiratti così concepito:

«Aggiungere il seguente comma:

«I contribuenti che hanno subìto danni per eventi bellici e della cui conseguente diminuita consistenza patrimoniale non sia stato tenuto conto nel determinare l’imponibile ai fini dell’imposta straordinaria proporzionale, debbono denunciare tale loro diminuita consistenza patrimoniale entro il 30 settembre 1947. Le conseguenti variazioni ed i relativi conguagli troveranno applicazione nei ruoli 1948».

FELLA, Ministro delle finanze. Chiedo di parlare.

PRESIDENTE. Ne ha facoltà.

PELLA, Ministro delle finanze. Nel suo emendamento l’onorevole Schiratti chiede che sia data la possibilità ai contribuenti che hanno avuto gli immobili lesionati, di poter chiedere la rettifica del loro imponibile entro il 30 settembre 1947.

Sono lieto di comunicare all’onorevole Schiratti che in questi giorni è già stato adottato un provvedimento con cui si dà la possibilità di chiedere la revisione entro il 31 dicembre 1947. E siccome nel più c’è il meno, evidentemente la richiesta dell’onorevole Schiratti è già accolta in questo provvedimento.

PRESIDENTE. Onorevole Schiratti, mantiene il suo emendamento?

SCHIRATTI. Date le assicurazioni del Ministro, ritiro l’emendamento.

PRESIDENTE. L’articolo 69 si intende allora approvato nel testo proposto.

Segue un emendamento dell’onorevole Veroni contenuto in un articolo aggiuntivo 69-bis, così concepito:

«Nel determinare l’imponibile ai fini dell’imposta straordinaria proporzionale dovrà tenersi conto della diminuita consistenza patrimoniale causata da eventi bellici. Tale diminuita consistenza dovrà essere denunciata entro il 15 ottobre 1947 e le conseguenti variazioni e i relativi conguagli troveranno applicazione nei ruoli 1948».

Onorevole Veroni, mantiene questo suo emendamento?

VERONI. Prendo atto anch’io delle dichiarazioni del Ministro e ritiro l’emendamento.

PRESIDENTE. Passiamo allora all’articolo 70. Se ne dia lettura.

MOLINELLI, Segretario, legge:

«Qualora, alla data di entrata in vigore del presente decreto, non esista un valore definitivamente accertato per il 1947 ai fini dell’imposta ordinaria sul patrimonio, l’imposta è provvisoriamente liquidata sul valore iscritto a ruolo per l’anno 1947, salvo conguaglio.

«Nei riguardi delle società ed enti assoggettabili all’imposta ordinaria sul patrimonio con le norme di cui all’articolo 21 e seguenti del regio decreto-legge 12 ottobre 1939, numero 1529, convertito nella legge 8 febbraio 1940, n. 100, l’imposta è liquidata sul valore provvisoriamente iscritto a ruolo per l’anno 1947, salvo conguaglio».

Poiché non vi sono emendamenti al testo governativo, l’articolo 70 si intende approvato.

Segue l’articolo 71. Se ne dia lettura.

MOLINELLI, Segretario, legge:

«Gli enti di qualsiasi specie e le società commerciali tenuti al pagamento dell’imposta prevista nell’articolo 68 sulle obbligazioni e sugli altri titoli di credito da essi emessi eseguono la ritenuta di detta imposta al momento della scadenza di ciascuna rata di interesse nel periodo dal 1° luglio 1947 al 31 dicembre 1948 e la versano in Tesoreria con le modalità previste nell’articolo 30 del regio decreto-legge 12 ottobre 1939, n. 1529, convertito nella legge 8 febbraio 1940, n. 100».

PRESIDENTE. Poiché anche su questo articolo non vi sono emendamenti al testo governativo, l’articolo si intende approvato.

Rinvio ad altra seduta il seguito della discussione.

Interrogazioni e interpellanze con richiesta di urgenza.

PRESIDENTE. Comunico che sono state presentate alla Presidenza alcune interrogazioni con richiesta di risposta urgente.

La prima è dell’onorevole Pertini:

«Al Ministro di grazia e giustizia, per sapere:

1°) se corrisponda alla verità la notizia data da un quotidiano di Roma e secondo la quale agenti di custodia delle carceri di Poggioreale (Napoli) avrebbero brutalmente seviziato e percosso detenuti, causando la morte di uno di essi;

2°) nel caso che detta notizia sia vera, quali provvedimenti intenda prendere, perché finalmente venga posto termine a questi atti disumani, veri reati, che se, come è ovvio, potevano impunemente essere consumati sotto il fascismo, sarebbe inconcepibile si continuasse a tollerarli anche nel nuovo regime democratico, il quale deve sentire, fra l’altro, l’altissimo compito di far rispettare la persona umana».

Chiedo al Governo quando intende rispondere.

CAPPA, Ministro della marina mercantile. Interesserò il Ministro competente, perché faccia sapere quando intende rispondere.

PRESIDENTE. Un’altra interrogazione è quella dell’onorevole Costa:

«Ai Ministri della difesa e del tesoro, per sapere se ritengano opportuno di promuovere un provvedimento legislativo sulle retrocessioni di immobili, per i quali sia stata sospesa la espropriazione per pubblica utilità dopo l’occupazione di urgenza oppure sia avvenuta requisizione di uso, in modo che, se siano state eseguite dallo Stato costruzioni in riferimento alle necessità militari, sia obbligatorio pagare il valore attuale dei miglioramenti, togliendosi la possibilità del privato arricchimento derivante dall’esercizio della facoltà di semplicemente rimborsare le spese di costruzione, attribuita dalla legislazione vigente».

Chiedo al Governo quando intende rispondere.

CINGOLANI, Ministro della difesa. Risponderò nella prima seduta in cui saranno all’ordine del giorno le interrogazioni.

PRESIDENTE. Gli onorevoli Costa, Bettiol, Merlin Angelina e Gui hanno presentato la seguente interrogazione con richiesta di risposta urgente:

«Ai Ministri dei lavori pubblici, della pubblica istruzione e del tesoro, per sapere se sia vero che, mentre è già stato promulgato e pubblicato un decreto legislativo del Capo dello Stato, che proroga il termine per l’esecuzione del piano regolatore della città di Ferrara, viceversa non si intenda provvedere per analoga proroga del termine, scadente il 31 corrente, di esecuzione del piano regolatore della città di Padova, e ciò su invito, non prescritto, della Ragioneria generale dello Stato, mentre il Ministero dell’istruzione ancora non ha dato il parere prescritto di competenza propria».

Chiedo al Governo quando intende rispondere.

GONELLA, Ministro della pubblica istruzione. Il Governo risponderà nella prima seduta in cui saranno poste all’ordine del giorno le interrogazioni.

PRESIDENTE. Vi è poi una interrogazione urgente dell’onorevole Dugoni:

«Ai Ministri delle finanze, del tesoro e della difesa, per conoscere quali azioni abbiano intrapreso per determinare e riassorbire gli illeciti profitti realizzati da persone ed enti sia in occasione del decreto del Commissario ministeriale Liguori del 14 settembre 1943, sia per finanziamenti, crediti ed assegnazioni di materie prime disposti posteriormente a tale data dal Governo di Salò e risoltisi in definitiva in un incremento patrimoniale privato non guadagnato».

Chiedo al Governo quando intenda rispondere.

CINGOLANI, Ministro della difesa. Risponderò nella prima seduta in cui saranno poste all’ordine del giorno le interrogazioni.

PELLA, Ministro delle finanze. Faccio analoga dichiarazione.

PRESIDENTE. Seguono altre interrogazioni urgenti:

«Al Ministro del bilancio, per conoscere se non intenda favorire l’istituzione di un ente bancario piemontese, con sede in Torino, per evitare che i risparmi assorbiti in Piemonte vengano per la maggior parte destinati a finanziare iniziative di altre regioni, dato che le sedi principali delle banche sono a Roma e a Milano.

«Geuna, Giacchero».

«Ai Ministri del bilancio e del tesoro, per sapere se riconoscano la convenienza di promuovere la modificazione dell’articolo 16 del decreto legislativo presidenziale 27 giugno 1946, n. 37, sulla costituzione e sul funzionamento dei Provveditorati regionali alle opere pubbliche, per armonizzarlo con l’articolo 36 del decreto legislativo di pari data, n. 38, sulla Azienda nazionale autonoma delle strade statali, in maniera che anche per il Provveditorato regionale alle opere pubbliche di Venezia l’ufficio distaccato della Corte dei conti eserciti il riscontro soltanto successivo delle spese, limitando il controllo preventivo agli atti del magistrato.

«Costa».

Chiedo al Governo quando intende rispondere.

PETRILLI, Sottosegretario di Stato per il tesoro. Mi riservo di far conoscere quando il Governo potrà rispondere a queste due interrogazioni.

PRESIDENTE. Sono state infine presentate le seguenti interpellanze con richiesta di svolgimento urgente:

«Ai Ministri del tesoro e dell’agricoltura e foreste, per conoscere le ragioni che hanno indotto il Ministro del tesoro a vendere all’asta pubblica notevoli quantitativi di granone avariato giacenti presso la Federazione nazionale dei consorzi agrari e se intende usare il medesimo sistema per la vendita di altre ingenti quantità giacenti nelle medesime condizioni.

«Cremaschi Olindo, Bianchi Bruno, Gavina, Pastore Raffaele, Gorreri, Fantuzzi, Malagugini, Moranino, Lozza, Bucci, Caprani, Mezzadra, Lizzadri».

«Al Ministro dell’agricoltura e delle foreste, per sapere se e quali provvedimenti intenda adottare per eliminare le conseguenze che si sono determinate, a tutto danno per la produzione, in materia di pagamento di canoni di affitto in natura (grano) in seguito alla promulgazione del decreto che fissava in lire 4000 (quattromila) il quintale il prezzo del grano consegnato agli ammassi; e per sapere se e quali direttive intenda infine dare agli organi periferici delle provincie di Pavia e Como per permettere che le operazioni di trebbiatura e di consegna agli ammassi si possano svolgere in un clima di ordinato lavoro eliminando la grande tensione che minaccia di turbare la tranquillità di quelle laboriose popolazioni.

«Gavina, Cremaschi, Gorreri, Bianchi Bruno, Moranino, Lozza, Bucci, Caprani, Mezzadra, Fantuzzi, Lizzadri, Pastore Raffaele, Malagugini».

Chiedo al Governo quando intende rispondere a queste interpellanze.

PETRILLI, Sottosegretario di Stato per il tesoro. Dichiaro che il Governo risponderà alla prima di queste due interpellanze nella prima seduta dedicata alle interpellanze.

CAPPA, Ministro della marina mercantile. Per quanto riguarda la seconda interpellanza, interesserò il Ministro competente perché faccia conoscere quando intende rispondere.

Sui lavori dell’Assemblea.

FOA. Chiedo di parlare.

PRESIDENTE. Ne ha facoltà.

FOA. Chiedo quando sarà discussa la mozione urgentissima presentata dall’onorevole Parri e di cui sono uno dei firmatari, concernente le elezioni del Consiglio Superiore della pubblica istruzione.

GONELLA, Ministro della pubblica istruzione. Sono pronto a discutere la mozione nel giorno in cui si intenda fissarne lo svolgimento. Mi rimetto alla decisione dell’Assemblea.

LOZZA. Chiedo di parlare.

PRESIDENTE. Ne ha facoltà.

LOZZA. Si tenga presente che le scuole stanno concludendo gli esami di Stato e che le scuole non hanno tranquillità. Le elezioni del Consiglio Superiore avranno luogo il 26, è quindi urgente che il Ministro dica la sua parola.

LUSSU. Chiedo di parlare.

PRESIDENTE. Ne ha facoltà.

LUSSU. La questione è estremamente importante. L’onorevole Ministro – e di questo noi gli siamo grati – si è rimesso all’Assemblea per la discussione di questa mozione. Come voi sapete, questa mozione è firmata da parecchi nostri colleghi ed ha avuto una precedente discussione attraverso un’interpellanza che ricorderete. Siccome il 26 di questo mese sono convocate le elezioni per il Consiglio Superiore, evidentemente il termine massimo per poter discutere questa mozione è domani; anche se la mozione si discute dopodomani, non si avrà più il tempo di fermare la macchina elettorale. (Commenti).

GRONCHI. Chiedo di parlare.

PRESIDENTE. Ne ha facoltà.

GRONCHI. Noi non intendiamo che si rinvii sine die; intendiamo di prendere tempo fino a domani per armonizzare la discussione di questa mozione, alla quale non vogliamo fare affatto opposizione, col resto dei lavori parlamentari. Il che vuol dire che domani, nella seduta del pomeriggio potrà essere fissato il giorno di discussione della mozione. (Commenti).

CODIGNOLA. Chiedo di parlare.

PRESIDENTE. Ne ha facoltà.

CODIGNOLA. Mi dispiace di non poter aderire alla proposta dell’onorevole Gronchi perché questa mira evidentemente a portare la discussione, come minimo, al 24, cioè alla vigilia del giorno delle votazioni per le elezioni del Consiglio. Ora è chiaro che è del tutto vano discutere alla vigilia delle votazioni. Quindi mi pare che se vogliamo veramente discutere seriamente, come l’onorevole Gronchi ha confermato e come ha confermato l’onorevole Ministro, ci sono due strade: o discutere questa sera, o domani mattina. Non c’è altra possibilità.

PELLA, Ministro delle finanze. Chiedo di parlare.

PRESIDENTE. Ne ha facoltà.

PELLA, Ministro delle finanze. Volevo pregare la Presidenza e l’Assemblea di lasciare la giornata di domani per la discussione della patrimoniale, perché abbiamo già delibato la questione degli enti collettivi e sarebbe interessante che domani la questione cominciasse ad essere esaminata a fondo, e possibilmente fosse definita.

Io credo che questo sia armonizzabile con i desideri dell’onorevole Lussu e dell’onorevole Codignola.

LUSSU. Questo problema è ugualmente importante quanto quello finanziario. (Commenti al centro e a destra).

PRESIDENTE. Prego il Ministro della pubblica istruzione di voler fare una proposta precisa.

GONELLA, Ministro della pubblica istruzione. A termini di regolamento, l’Assemblea decide: mi rimetto all’Assemblea.

LOZZA. Se l’onorevole Ministro rimandasse le elezioni provvisoriamente all’inizio del nuovo anno scolastico, potremmo rimandare la discussione di alcuni giorni. (Commenti al centro).

GRONCHI. Io ho proposto, che per porre la discussione di questa mozione in armonia con il corso dei lavori parlamentari, nella seduta di domani sia stabilito il giorno della discussione che, secondo me, potrebbe essere dopodomani, nella mattina o nel pomeriggio.

Voci a sinistra. Troppo tardi!

LA MALFA. Faccio presente che la Commissione avrà bisogno della mattinata di domani per discutere la questione della tassazione degli enti collettivi e le altre questioni rimaste in sospeso per la patrimoniale.

Quindi noi non siamo in grado domani mattina di continuare la discussione sulla patrimoniale.

SANSONE. Propongo formalmente che la mozione sia discussa nella seduta di domani mattina alle 9.30 e prego il Presidente di porre in votazione la mia proposta. (Commenti – Rumori prolungati).

DUGONI. Il Governo deve dire che cosa pensa della proposta dell’onorevole Lussu. (Commenti al centro e a destra – Rumori – Richiami del Presidente).

GONELLA, Ministro della pubblica istruzione. Ripeto che il Governo si rimette alla decisione dell’Assemblea.

PRESIDENTE. Pongo ai voti la proposta dell’onorevole Sansone, di fissare per domani mattina la discussione della mozione.

(Non è approvata – Proteste e rumori a sinistra – Commenti al centro e a destra – Scambio di vivaci apostrofi).

PRESIDENTE. Avverto che domani si terranno due sedute alle ore 10.30 e alle ore 17 per il seguito della discussione sulla patrimoniale.

Interrogazioni e interpellanza.

PRESIDENTE. Si dia lettura delle interrogazioni e di una interpellanza pervenute alla Presidenza.

AMADEI, Segretario, legge:

«I sottoscritti chiedono di interrogare il Ministro della pubblica istruzione, sulle condizioni del bando di concorso per titoli a 6 posti di provveditore agli studi, pubblicato nella Gazzetta Ufficiale del 18 giugno 1947. Il bando presenta le seguenti anomalie:

1°) l’assegnazione di un termine di 20 giorni per la presentazione della domanda e dei documenti, invece di 60, come disposto per gli altri concorsi, termine che non appare sufficiente a chi, risiedendo lontano dal centro, non è in grado di provvedersi dei necessari documenti;

2°) l’attribuzione di punti 40, sui 100 di cui può disporre la Commissione, al servizio lodevolmente prestato, quale reggente provveditore dopo la liberazione.

«Sembra un concorso su misura a favore di determinate persone.

«Ragioni di equità impongono l’annullamento del bando, perché sia elevato il termine di presentazione della domanda e dei documenti e sia convenientemente ridotto il numero dei punti da assegnare al servizio prestato quale reggente.

«Di Giovanni, Tonello».

«I sottoscritti chiedono di interrogare i Ministri dell’industria e commercio, delle finanze e dei lavori pubblici, per conoscere se ravvisino di prorogare per un decennio le disposizioni della legge 5 dicembre 1941, numero 1572, concedente agevolazioni agli impianti industriali dell’Italia centro-meridionale, iniziati entro il termine del 31 dicembre 1946 e ciò sia in considerazione del fatto che, a causa del periodo bellico, la detta legge non ha potuto avere pratica attuazione, sia in considerazione della necessaria evoluzione industriale dell’Italia centro-meridionale, resa più urgente dalle distruzioni belliche e costituente un aspetto primario del problema meridionale.

«Perlingieri, Moro, Bettiol, Salvatore, Bosco Lucarelli, Fuschini, Ermini, Rescigno, Recca, Uberti, Gabrieli».

«Il sottoscritto chiede d’interrogare il Ministro dell’agricoltura e delle foreste, per conoscere se non ritenga di disporre – in considerazione del continuo depauperamento della terra delle colline, provocato dalle piogge e dalle annuali e superficiali coltivazioni – che sulle colline, specie a forte pendio, siano sospese le coltivazioni superficiali, sia impedito il depauperamento della terra (muratura, palizzate) e sia favorita in ogni modo la piantagione di alberi a profonde e fitte radici.

«Lettieri».

«Il sottoscritto chiede d’interrogare il Ministro della pubblica istruzione, per conoscere se ha in programma l’elevazione culturale e tecnica dei medici che intendono dedicarsi alla condotta, la quale, specie se è espletata in paesi lontani da centri ospedalieri ed universitari, richiede nel sanitario cognizioni precise di diagnostica e di pronto soccorso.

«Il giovane medico si laurea generalmente ricco di cognizioni scientifiche, ma poco esperto nella pratica.

«L’interrogante crede sia il tempo di istituire per i giovani laureati, che desiderano avviarsi a diventare medici-condotti, corsi ospedalieri di tirocinio pratico per almeno due anni.

«Si dovrebbero creare, cioè, scuole statali per la preparazione del medico-condotto.

«Lettieri».

«Il sottoscritto chiede d’interrogare il Ministro della pubblica istruzione, per conoscere il suo interessamento per combattere l’analfabetismo, che è sempre in aumento nell’Italia meridionale, e per impedire la mancanza di stabilità degli insegnanti, i quali, in questo loro servizio ambulante, spesso a causa della pioggia, della neve, del freddo, disertano le scuole e con la loro assenza favoriscono la negligenza degli alunni.

«Lettieri».

«Il sottoscritto chiede d’interrogare il Ministro dell’agricoltura e delle foreste, per conoscere se non creda opportuno favorire ed incoraggiare l’allevamento del baco da seta e l’allevamento delle api, per incrementare la produzione e la ricchezza nazionale.

«Lettieri».

«Il sottoscritto chiede d’interrogare il Ministro dei lavori pubblici, per conoscere le ragioni per cui sono rimasti sospesi i lavori stradali fra Sacco e Roscigno, fra Orria e Omignano Scalo, fra Perito ed Ostigliano, tutti paesi della provincia di Salerno, costretti, per la incompiuta opera di cui sopra, a fare lunghissimi e disagiati tragitti per raggiungere i rispettivi scali ferroviari.

«Lettieri».

«Il sottoscritto chiede di interrogare il Presidente del Consiglio dei Ministri e il Ministro della pubblica istruzione, per conoscere:

1°) se il Commissariato nazionale della G.I. (Gioventù Italiana), creato con decreto del 2 agosto 1943 con il compito di reperire il patrimonio della ex GIL e di predisporre i lavori di una Commissione interministeriale per decidere sulla destinazione di quel patrimonio, abbia espletato il suo compito e con quali conclusioni;

2°) se non si ritiene improrogabile imporre a partiti politici e ad enti l’immediata restituzione allo Stato degli immobili e delle attività tutte della ex GIL, di cui sono in illegittimo possesso o fanno arbitrario uso;

3°) se non sembra opportuno ed urgente che l’intero patrimonio della ex GIL venga conferito all’Ente dei patronati scolastici, tenendo presente che solo con questa destinazione quel cospicuo patrimonio del popolo italiano può considerarsi restituito al legittimo uso, fuori di ogni passione politica.

«Tumminelli».

«Il sottoscritto chiede d’interrogare il Presidente del Consiglio dei Ministri e i Ministri degli affari esteri e delle finanze, per conoscere se – esaminato l’articolo 9, n. 3, del Trattato di pace tra le Potenze alleate ed associate e l’Italia, firmato a Parigi il 10 febbraio 1947, per il quale il Governo italiano si impegna a indennizzare i cittadini italiani, i cui beni saranno confiscati ai sensi del presente articolo e non saranno loro restituiti; considerato che, cittadini italiani, già residenti fino allo scoppio della guerra in Paesi alleati e associati e nei territori da essi dipendenti, avevano ivi col loro tenace lavoro e con l’intelligente loro iniziativa creato la loro fortuna economica, dovuta abbandonare per il coatto loro rimpatrio; ritenuto che tali cittadini rimasti sul lastrico, si dibattono in Patria nelle angustie avvilenti di una immeritata miseria, privati, come sono, di tutti i beni che con dura fatica si erano creati, e che l’impegno del Governo italiano di risarcire i danni deriva non tanto dall’articolo 9, n. 3, dell’iniquo trattato di pace, quanto dalla morale dello Stato italiano e dal diritto che Roma ha sempre insegnato al mondo – in considerazione di quanto accennato, non ritengano essere necessario ed urgente di sovvenire con adeguate anticipazioni, in attesa del risarcimento definitivo, quei cittadini italiani, che privati di tutti i loro beni all’estero, languono in Patria nella più spaventosa indigenza, e ciò indipendentemente dall’entrata in vigore del Trattato di pace. (L’interrogante chiede la risposta scritta).

«Mastrojanni».

«Il sottoscritto chiede d’interrogare il Ministro di grazia e giustizia, per sapere se non ricorrano ancora gli estremi che consigliano la continuazione «a porte chiuse» del processo Graziosi: perché sia diradata, nella fase conclusiva, l’insana atmosfera di delitto creata dalla stampa con la conseguente morbosa partecipazione della pubblica opinione al dibattito, così da turbare l’alto isolamento che si addice alla giustizia; e perché dalla devastazione, dalla cruda vivisezione di corpi e di anime e dallo scempio dei più doloranti riposti segreti umani, sia sottratta la più vera vittima: la piccola inconsapevole creatura innocente, alla quale il tempo e la comprensione futura non potranno che apportare il crescente sovrumano peso della sciagura senza speranza. (L’interrogante chiede la risposta scritta).

«Di Fausto».

«Il sottoscritto chiede d’interrogare il Ministro dell’agricoltura e delle foreste, per conoscere per quali ragioni sono stati interrotti i lavori di bonifica del torrente Alento, il quale nel suo lungo decorso apporta ogni anno, nel periodo delle piogge, incalcolabili danni alle campagne che ne formano le sponde. (L’interrogante chiede la risposta scritta).

«Lettieri».

«Il sottoscritto chiede d’interrogare il Ministro del commercio con l’estero, per conoscere quali provvedimenti intenda adottare per fronteggiare la grave crisi che minaccia la produzione e l’industria serica nazionale a causa principalmente della rinata concorrenza giapponese e per conoscere se non intenda ovviare a tale situazione con la concessione di facilitazioni valutarie ai produttori esportatori e, in ispecie, acconsentendo a loro favore una percentuale di divisa estera superiore al 50 per cento, di guisa che il maggior margine possa costituire un compenso remunerativo delle maggiori spese di produzione; e per conoscere, altresì, se non ritenga di considerare la opportunità di graduare le disponibilità di divisa estera agli esportatori, sia in proporzione alle necessità delle singole categorie di provvedersi di materie prime provenienti dall’estero, sia in relazione alle necessità di adeguare i costi di produzione interna a quelli dei mercati internazionali. (L’interrogante chiede la risposta scritta).

«Bulloni».

«Il sottoscritto chiede d’interrogare il Ministro della pubblica istruzione, per conoscere quali provvedimenti intenda adottare perché, in conformità con le richieste già da tempo avanzate dalle autorità accademiche dell’Università di Perugia, venga ufficialmente chiarita, nei rapporti del personale universitario, la situazione determinatasi in seguito a notizie apparse sulla stampa circa i pretesi risultati dell’inchiesta esperita alcuni mesi or sono dal Ministero dell’interno sul locale Ospedale civile.

«Risponde infatti ad una immediata esigenza dell’Università che una manifestazione ufficiale ridia a coloro che non hanno nulla da rimproverarsi la piena serenità indispensabile al migliore adempimento del loro ufficio. (L’interrogante chiede la risposta scritta).

«Ermini».

«I sottoscritti chiedono di interrogare il Ministro del lavoro e della previdenza sociale, per sapere se non ritenga necessario, al fine di eliminare un trattamento iniquo nei confronti dei piccoli agricoltori conduttori diretti nel campo dei contributi unificati in agricoltura, di porre allo studio la riforma della legge attuale che regola questa materia, modifica intesa nel senso che i contributi unificati non siano più corrisposti dagli agricoltori in base all’ettaro-coltura, ma sulla effettiva occupazione di mano d’opera extra famigliare.

«È noto infatti che il sistema dell’ettaro-coltura, se può essere gradito per i grandi agricoltori, non può più essere sopportato dai piccoli perché, non impiegando essi lavoratori avventizi o salariati al di fuori del proprio nucleo famigliare, si prodigano nei campi a seconda della stagione e l’urgenza dei lavori.

«Cade quindi con ciò il dato tecnico dell’ettaro-coltura nei riguardi della conduzione del terreno.

«La cura e la custodia del bestiame è per i piccoli agricoltori conduttori diretti un lavoro sempre compiuto extra orario (al mattino presto ed a sera molto inoltrata) affinché non vengano distolti i membri della famiglia dai lavori dei campi.

«Con il sistema dell’ettaro-coltura si vengono a colpire così molte aziende che, pur non collocando nessun lavoratore durante la intera annata, sono assoggettate a pagare contributi per lavoratori ipotetici aggiudicati loro dopo le detrazioni di legge delle giornate lavorative concesse ai conduttori diretti.

«È per questo che queste aziende chiedono che venga applicata loro non la legge dell’ettaro-coltura, ma quella della reale occupazione di mano d’opera. In questo modo ogni azienda, sia grossa sia piccina, pagherà effettivamente il contributo che le compete. (Gli interroganti chiedono la risposta scritta).

«Bertola, Pastore Giulio».

«Il sottoscritto chiede d’interrogare il Presidente del Consiglio dei Ministri e il Ministro della difesa, sulla situazione dei proprietari di terreni situati nella zona del confine occidentale, che, alla vigilia della dichiarazione di guerra, furono occupati d’urgenza per opere militari e poi espropriati.

«Si tratta spesso di parcelle intensamente coltivate con impianti irrigui e serre che consentivano, su limitatissima superficie, il lavoro e il benessere di intere famiglie di proprietari.

«Le indennità computate in ordine ai valori 1939-40, furono pagate o versate alla Cassa depositi e prestiti nel 1946-47 e rappresentano sì e no un importo pari al 5 per cento dei valore attuale.

«Le opere militari si rivelarono inutili, o non furono eseguite, o risultarono abbandonate.

«L’interrogante chiede se non appaia giusto e utile all’economia nazionale, un provvedimento che consenta, quando ciò sia praticamente possibile, la restituzione degli appezzamenti ai proprietari espropriati, contro rinuncia della indennità e degli interessi. (L’interrogante chiede la risposta scritta).

«Rossi Paolo».

«Il sottoscritto chiede d’interrogare il Presidente del Consiglio dei Ministri e i Ministri dei trasporti e del tesoro, per sapere quanto ci sia di vero nella pubblicazione apparsa nel Giornale del Mezzogiorno di lunedì 21 luglio, n. 26, sotto il titolo «Scandalo all’ARAR senza precedenti – Un contratto sbalorditivo frutterà all’UNAM un miliardo ai danni dello Stato», nella quale si accenna alla cessione da parte dell’ARAR all’Unione aziende meccaniche (UNAM) di un quantitativo di 1800 motori GM Diesel per gruppi elettrogeni al prezzo di lire duecentosettantacinque mila ciascuno ed a condizioni di favore, mentre il prezzo degli stessi motori sul mercato italiano varia da lire novecento mila a tre milioni ciascuno; ciò che sottrae allo Stato un introito di circa un miliardo di lire.

«Data la gravità dell’argomento è necessario il più accurato accertamento dei fatti e delle eventuali responsabilità. (L’interrogante chiede la risposta scritta).

«Di Giovanni».

«Il sottoscritto chiede di interpellare il Presidente del Consiglio dei Ministri ed il Ministro degli affari esteri, sulle direttive dell’Italia pel piano Marshall.

«Ruini».

PRESIDENTE. Le interrogazioni testé lette saranno iscritte all’ordine del giorno e svolte al loro turno, trasmettendosi ai Ministri competenti quelle per le quali si chiede la risposta scritta.

Così pure l’interpellanza sarà iscritta all’ordine del giorno, qualora il Ministro interessato non vi si opponga nel termine regolamentare.

La seduta termina alle 23.

Ordine del giorno per le sedute di domani.

Alle ore 10.30 e alle ore 17:

Seguito della discussione sul disegno di legge:

Convalida del decreto legislativo del Capo provvisorio dello Stato in data 29 marzo 1947, n. 143, concernente l’istituzione di un’imposta straordinaria progressiva sul patrimonio. (14).