ASSEMBLEA COSTITUENTE
cc.
SEDUTA POMERIDIANA DI GIOVEDÌ 24 LUGLIO 1947
PRESIDENZA DEL PRESIDENTE TERRACINI
INDICE
Comunicazione del Presidente:
Presidente
Disegno di legge (Discussione):
Approvazione del Trattato di pace tra le Potenze Alleate e Associate e l’Italia, firmato a Parigi il 10 febbraio 1947. (23).
Presidente
Sforza, Ministro degli affari esteri
Croce
Gasparotto
Canepa
Ruini
Interpellanza ed interrogazioni con richiesta d’urgenza (Annunzio):
Presidente
De Gasperi, Presidente del Consiglio dei ministri
Grassi, Ministro di grazia e giustizia
Sui lavori dell’Assemblea:
Presidente
La Malfa
De Gasperi, Presidente del Consiglio dei ministri
Interrogazioni (Annunzio):
Presidente
La seduta comincia alle 17.
RICCIO, Segretario, legge il processo verbale della precedente seduta pomeridiana.
(È approvato).
Comunicazione del Presidente.
PRESIDENTE. Comunico che l’onorevole Corbino mi ha fatto pervenire le sue dimissioni da presidente e da componente del gruppo parlamentare liberale.
Sarà pertanto iscritto al gruppo misto.
Discussione sul disegno di legge: Approvazione del Trattato di pace fra le potenze Alleate ed Associate e l’Italia, firmato a Parigi il 10 febbraio 1947. (23).
PRESIDENTE. L’ordine del giorno reca la discussione sul disegno di legge: Approvazione del Trattato di pace tra le Potenze Alleate ed Associate e l’Italia, firmato a Parigi il 10 febbraio 1947. (23).
Ha chiesto di parlare il Ministro degli affari esteri, onorevole Sforza. Ne ha facoltà.
SFORZA, Ministro degli affari esteri. Onorevoli colleghi, è perché sento la grave responsabilità morale che pesa oggi su ognuno di noi, che, più che un discorso vorrei sottoporvi una specie di riassunto assolutamente obiettivo.
Il Trattato che è oggi sottoposto alla vostra ratifica fu firmato il 10 febbraio scorso.
La responsabilità di quella dolorosa decisione fu presa dall’onorevole De Gasperi e da me, confortati non solo dal favorevole avviso dei partiti che erano allora al governo con noi, ma anche di altri gruppi, i cui capi, con franchezza e decisione, ci dichiararono la loro solidarietà.
Malgrado ciò, il nostro rispetto per la sovrana volontà dell’Assemblea Costituente fu e rimase sì profondo che, per mia istruzione, d’accordo col Presidente del Consiglio, il nostro Plenipotenziario partì per Parigi con l’ordine di depositare prima della firma una formale dichiarazione precisante – qui cito – che «la firma stessa rimane subordinata alla ratifica che spetta alla sovrana decisione del– l’Assemblea Costituente».
La notte che precedette il momento della firma telefonai io stesso al nostro Plenipotenziario a Parigi, ripetendogli che se fossero sorte obiezioni alla solenne accettazione della nostra dichiarazione egli doveva tornar tosto a Roma senza firmare.
L’Assemblea Nazionale, voi dunque lo vedete, è pienamente libera e sovrana nelle sue decisioni. E il mondo intero lo sa.
Poche ore dopo la firma pensai ch’era dovere mio di chiarire al mondo a quali condizioni e per quali ragioni ci eravamo indotti a firmare. Credo opportuno leggervi la breve nota che quel 10 febbraio inviai per telegrafo alle venti Potenze firmatarie del Trattato.
Eccone il testo:
«Il Governo italiano, firmando un Trattato che non è stato chiamato a negoziare e che sarà sottoposto alla approvazione dell’Assemblea Costituente, ha voluto provare che affronta gli atti più dolorosi per affrettare l’avvenire di una vera pace costruttiva nel mondo.
«Ma il suo primo dovere verso i Governi firmatari e i loro popoli è di esprimersi ed agire con la più assoluta lealtà. Questa lealtà gli impone di ricordare che i Trattati di Pace non sono eseguibili che se sostenuti dalla coscienza morale dei popoli.
«Il popolo italiano ha la coscienza di aver agito coatto di fronte al regime che lo trascinò poi nella guerra e che tanti all’estero sostennero con le loro lodi. Il popolo italiano non poté mostrare al mondo il suo vero carattere che riuscendo a liberarsi per il primo da un regime di oppressione e fornendo poi agli alleati, durante la guerra di liberazione, dei vantaggi diretti ed indiretti cui non è stata resa sufficiente giustizia.
«Il Governo italiano mancherebbe all’onore – il patrimonio che gli è più sacro – se non avvertisse gli alleati che il Trattato peggiora ancora nelle sue clausole territoriali economiche coloniali militari quella atmosfera di soffocazione demografica che pesava praticamente sul popolo italiano e che in parte è all’origine di tanti mali per noi e per gli altri. Il Governo italiano stima che è un interesse diretto delle grandi democrazie di rivedere per il bene generale le loro relazioni col problema italiano che è un aspetto essenziale del riassetto mondiale.
«Pur ammettendo tanti errori passati, l’espiazione del popolo italiano è stata sì dura fino alla firma odierna che noi ci sentiamo per l’avvenire, come italiani e come cittadini del mondo, in diritto di contare su una revisione radicale di quanto può paralizzare o avvelenare la vita di una Nazione di quarantacinque milioni di esseri umani congestionati su un suolo che non li può nutrire».
Tale fu il mio primo commento alla firma del Trattato. La risposta che primo fra tutti – dieci giorni dopo – mi fece giungere il Segretario di Stato americano, fu per noi preziosa, colla sua franca affermazione che la via della revisione ci era aperta. Quasi tutte le risposte, del resto, furono ispirate a sincera simpatia. Ciò che più mi piacque come italiano fu che il mondo capì che noi protestavamo non solo come italiani, ma come europei, e che protestavamo onestamente e lealmente, perché decisi a rigettare tanto una politica di astuzie quanto di sterili violenze; e che, se ci dolevamo del cattivo Trattato, ciò non era solo pel torto che esso ci infliggeva, ma anche perché colle sue concezioni da secolo xviii esso nuoceva agli interessi più alti e più veri di coloro stessi che lo redassero e ce lo imposero.
Il Trattato di pace costituisce l’ultimo capitolo di un periodo della storia d’Italia. Non distinguendo sufficientemente un popolo – reso incapace di ribellarsi – da un regime di oppressione (che – come ricordai il 10 febbraio – tanti appoggi ricevette dallo straniero), il Trattato volle costituire la condanna di una lunga politica inconsciamente contraria agli interessi supremi dell’Italia.
Il Trattato non è tanto la sanzione di una sconfitta, quanto il suggello di una politica immorale e sbagliata. Esso è l’atto finale di un isolamento, che cominciò nel 1922, quando una dittatura soffocò i sentimenti della Nazione, e ci separò moralmente e politicamente dal resto dell’Europa libera, gettandoci poi, impreparati, in una guerra dove in ogni caso avevamo tutto da perdere. Nel 1940 l’isolamento politico e morale divenne crisi violenta e portò il paese alla catastrofe e disperse le vite di tanti italiani in Patria e sui fronti di guerra. Amarissimo è per noi soprattutto il ricordo di questi soldati, formati ad una tradizione di sacrificio e di disciplina, che combatterono una guerra ingrata, male armati ed equipaggiati, abbandonati spesso dai tedeschi nei momenti di maggiore sfortuna, e che scrissero tuttavia belle pagine nella storia del valore e della fedeltà del soldato italiano.
Fu necessaria ancora, dopo l’8 settembre, l’innata generosità di questi stessi nostri soldati, furono necessari i sacrifici eroici della nostra Marina, fu necessario il sangue di tanti volontari e di tante vittime, perché intorno alla Nazione Italiana si riformasse all’estero un alone di simpatia. Il nostro isolamento morale finì relativamente presto, perché presto si vide di che sostanza umana l’Italia era fatta. Entro certi limiti, questo miglioramento si tradusse in termini politici. L’armistizio fu interpretato con spirito più aperto, l’Italia normalizzò o quasi le sue relazioni diplomatiche cogli altri paesi, entrò a far parte di vari organismi internazionali.
Tuttavia alla Conferenza della Pace e ai tavoli dove erano uomini mai stati a contatto con l’Italia liberata, italiani ardenti di patriottismo – come Alcide De Gasperi – dovettero riconoscere che c’era ancora molta strada da percorrere per adeguare al piano morale raggiunto, il piano politico e diplomatico. Fu allora che dovemmo sentire come il rifiutare la firma avrebbe significato ribadire l’isolamento nostro, mentre nostro supremo interesse era di rientrare di pieno diritto nel concerto delle Nazioni, appunto perché eravamo sicuri di noi stessi e del nostro avvenire. Non firmando, avremmo in un certo senso dato ragione agli autori del Trattato, i quali non si erano accorti che fra il più irragionevole degli armistizi e i negoziati di Parigi il clima nazionale e internazionale dell’Italia era profondamente mutato.
Da allora gli spiriti mutarono gradualmente, fino a che si cristallizzò una atmosfera di cui l’espressione più recente fu l’accoglienza cordiale e leale che le Potenze, riunite a Parigi per la ricostruzione economica dell’Europa, fecero ad una rinnovata Italia, riconoscendole la posizione e l’influenza che le spettano, e ciò prima dell’atto formale della nostra ratifica del Trattato.
Ma non è soltanto da un punto di vista immediato che va posta la questione.
Per noi è necessario creare delle vie libere intorno alla nostra politica. Un singolo uomo diventa un eroe se rimane in prigione; un popolo non ha il diritto di rimanere in un campo di concentramento, un popolo deve affermarsi, agire, espandersi. (Applausi al centro). È soprattutto quando, temporaneamente o no, non si è forti, che bisogna – se non si vuol essere esclusi dalla vita – accettare il principio della collaborazione.
Guardate la Germania, ancora immersa nello stupore che segue la crisi di follia, quale quella di cui questo sciagurato popolo fu preda; essa giace accasciata e son certo che vi sono ancora tra i tedeschi dei nazisti abbastanza fatui per compiacersi del loro isolamento.
Ma noi italiani, la cui vita è sempre stata tanto più dura di quella dei ben pasciuti tedeschi, possiamo bensì sentir pietà del loro fato come si ha pietà delle follie di don Chisciotte, ma non indulgere agli stessi sentimenti, poiché abbiamo superato il punto morto e riacquistato una sana fiducia in noi stessi, ben diversa dalla malata megalomania che ha invasato per tanti anni la Germania.
Guardate invece la Cecoslovacchia: sempre fedele, sotto la guida di Masaryk e di Benes, alla collaborazione internazionale. Essa cadde: a Berchtesgaden e a Palazzo Venezia irrisero alla sua caduta; ma essa risorse circondata dal rispetto del mondo.
Purtroppo noi italiani facemmo l’esperienza inversa. Pagammo il fio del massimo errore dei capi fascisti: aver rotto la collaborazione internazionale.
Ormai la coscienza dei popoli tende ad una sempre maggiore coordinazione economica e morale, come condizione essenziale di pace e di progresso. E i popoli hanno forse capito tutto questo meglio dei governi ed è perciò che – in assenza di un organismo internazionale in perfetta efficienza e di una compenetrazione di interessi sentiti da tutti – dobbiamo porci al riparo dal pericolo che, in caso di crisi, il problema europeo si ponga di nuovo in termini di forza. È qui che noi italiani non dobbiamo farci illusioni in caso di ritorno alla violenza, sarà chi è militarmente più disarmato che soccomberà pel primo, che pagherà per tutti.
Oltre a queste elementari ragioni di sicurezza, che ci spingono a solidarizzare con gli sforzi di tutti quei paesi europei che sono decisi ad adoperarsi in ogni modo perché sia scongiurato il pericolo di una nuova guerra, vi sono altre ragioni, che ci consigliano di reprimere giusti sdegni e santi dolori pur di collaborare a una impostazione non isolazionista della nostra politica estera.
Gli avvenimenti degli ultimi anni hanno impresso un tale ritmo al progresso collettivo degli uomini, da modificare completamente il volto della società. Ciò che noi abbiamo chiamato finora democrazia si avvia a divenire democrazia più ampia e più vera, trasformandosi in regime che può reggersi solo se sostenuto dalle grandi masse popolari in continua, pacifica ascesa. Ma come potremmo effettuare la costruzione di tale solida moderna democrazia, come potrebbe aver luogo questo grande pacifico assestamento di tutta la nostra società nazionale, se la nostra politica estera si orientasse verso un isolamento che, anche se non divenisse morbosamente xenofobo, rischierebbe di giuocar le sorti della patria su giuochi di carte di cui a noi sfuggirebbero gli sviluppi e gli scopi?
Non dimentichiamo quanto si verificò all’epoca dell’ultimo Ministero Giolitti, di cui feci parte. Allora una politica estera di calda collaborazione europea, che sarebbe stata feconda di bene in ogni campo per l’Italia, cadde sotto i colpi di forze reazionarie; oggi la creazione della nuova Italia potrebbe venire compromessa da una politica estera che ci separasse dal mondo. È un dato acquisito ormai che il cammino delle masse popolari è legato al trionfo delia collaborazione internazionale.
È d’altronde una tendenza naturale quella che sta ovunque conducendo alle unità, alle collaborazioni. Guardate la crescente unione degli Stati Americani, dall’Argentina al Canada, quella dei Paesi Arabi, quella dei Paesi Scandinavi, quella del Belgio, Paesi Bassi, Lussemburgo, che han perfino creato una nuova parola collettiva: il Benelux. Guardate sovratutto la grande tendenza unitaria maturata durante la seconda guerra mondiale: l’organizzazione delle Nazioni Unite.
Quando parliamo dell’O.N.U. noi non pensiamo soltanto alla strada che pacificamente ci potrà avviare verso la revisione del Trattato e attraverso la quale porteremo all’attenzione dei popoli alcuni nostri problemi fondamentali; noi pensiamo anche, e soprattutto, allo spirito che sempre più dovrà animare il mondo.
L’organizzazione delle Nazioni Unite, significa fiducia che le grandi forze internazionali prevalenti sulla terra trovino un terreno di intesa o almeno di tolleranza. Uno scettico e ignaro richiamo, a proposito dell’O. N. U., del triste fato che toccò alla Società delle Nazioni non tiene conto di una differenza essenziale: che da Ginevra erano assenti gli Stati Uniti e la Russia; e che Russia e Stati Uditi sono invece attivi e presenti a Lake Success. Spesso discordi? Ebbene, ciò non fa che rendere più importante il nostro compito, che noi non si sfugga al più nobile forse dei nostri doveri, quello di essere anche noi presenti e di aiutare le intese, di creare atmosfere di accordo. È là, là solo, in tali funzioni, che un popolo disarmato come l’Italia può farsi valere conte interprete e araldo di formidabili forze morali.
E a questo punto occorre ricordiate che entro il 10 agosto la Commissione formata dal Consiglio di Sicurezza per l’esame delle domande di ammissione all’O.N.U. dovrà riferire al Consiglio stesso l’esito delle sue indagini. Se per quella data l’Italia non avrà ratificato il Trattato, essa sarà costretta a riferire che manca uno degli elementi essenziali per la nostra ammissione. E che, se perdiamo quella data, potrà essere ritardato di un anno il nostro ingresso nel più solenne areopago del mondo, dove tanto potremmo per noi e, spero, per la pace mondiale, cioè per la eliminazione di blocchi ostili. Qualcuno ha già obiettato a questa considerazione che, anche con la nostra ratifica, è dubbio che saremmo ammessi per la formale imperfezione del Trattato, finché le ratifiche dei Quattro non siano presentate. Ma vi dirò, in primo luogo, che nulla esclude che nei prossimi giorni questa presentazione avvenga; nel qual caso solo l’espresso veto di una delle grandi Potenze potrebbe escluderci dall’O.N.U.
Comunque, sia di fronte ad un impedimento di forma, che di fronte a un inverosimile veto, la nostra posizione sarà più forte di quel che non sarebbe se la responsabilità dell’esclusione potesse farsi, senza compromissione degli altri, ricadere su di noi.
Avevo cominciato a parlarvi di questi problemi anche in relazione alla nostra vita interna: lasciatemi ripetere su questo punto, che è solo attraverso una politica internazionale di collaborazione profonda che sarà possibile salvare la democrazia e la pace anche in casa nostra. È solo con una politica estera che non speculi su delle ipotesi di guerra che noi potremo realizzare quella distensione che è condizione prima perché la democrazia si stabilizzi e progredisca come una legge di natura ammessa da tutti.
Bisogna essere franchi.
O noi consideriamo il Trattato come un atto ingiusto, la cui necessaria revisione deve farsi con mezzi pacifici, ed allora la ratifica diviene la sola via per far valere, sopratutto attraverso l’O.N.U., ma non l’O.N.U. soltanto, il nostro diritto a progressivi superamenti di situazione; o noi rifiutiamo la ratifica, e allora ciò significa che noi affidiamo la nostra sorte ad una crisi internazionale, che noi contiamo – anche senza confessarcelo – su nuove conflagrazioni. Ma, in questa ipotesi, chi dunque non vede che rischieremmo di pagare la distruzione del Trattato con la distruzione dell’Italia?
Del resto, questo Trattato è così poco un organismo sicuro e stabile che già gli Stati Uniti da un lato e la Gran Bretagna dall’altro hanno aderito da tempo ad intese che hanno significato dei veri e propri inizi di revisione.
Il Governo inglese cominciò col riconoscere spontaneamente che, secondo l’art. 46, le clausole militari e navali potevano venire modificate in seguito ad accordi fra noi e le Potenze Alleate. E più oltre lo stesso Governo ci significò che era disposto, dopo la ratifica, ad addivenire ad accordi diretti col Governo italiano su tutte quelle parti del Trattato che, riferendosi unicamente a diritti riconosciuti alla Gran Bretagna, potevano venire modificati senza pregiudizi a diritti di terze Potenze. Saremmo ingiusti se dimenticassimo gli «accordi Menichella», con cui il Governo britannico accolse amichevolmente non poche nostre importanti richieste.
Quanto al Governo degli Stati Uniti, esso fu ancor più esplicito circa il superamento del Trattato. In molte dichiarazioni di capi politici – fra cui importantissime quelle del Senatore Vandenberg, il 10 luglio – si ribadiva il concetto della revisione, si lasciava comprendere che attraverso l’O.N.U. si sarebbe potuto giungere a modifiche anche sostanziali. Questo stato di animo del Governo e del popolo americano veniva, con un atto che credo unico nella storia, solennemente confermato, al momento della ratifica americana, da un messaggio del Presidente Truman, che non solo riconosceva l’ingiustizia di certe clausole e la possibilità della revisione, ma, in un certo senso, parlando del contributo italiano alla causa comune, svalutava anche l’ingiusto preambolo del Trattato stesso. E ciò andò al nostro cuore, perché (bene o male che sia) noi italiani siamo così fatti: una parola sincera e fraterna vale spesso per noi più dei vantaggi materiali. Lo ricordino quegli stranieri che ci rinfacciano spesso un nostro più o meno autentico machiavellismo e non si accorgono che non siamo mai tanto ingenui come quando ci imbarchiamo in ragionamenti pseudo machiavellici.
La lontana ma amica Repubblica cinese, in risposta alla nota italiana, ci dichiarava per iscritto di ritenere che il Governo italiano, dopo l’entrata in vigore del Trattato di pace, non ha che da chiederne la revisione, purché nell’ambito dell’O.N.U.
Di un’altra iniziativa per la revisione del Trattato si è fatto promotore l’Equatore: tale iniziativa fu sviluppata mediante il nostro suggerimento di un passo collettivo degli Stati americani presso l’O.N.U., passo che ha servito e servirà a mettere in chiaro come sorse un Trattato, che non fu negoziato con l’Italia, ma ad essa imposto. Molti Stati, fra i quali l’Argentina, hanno risposto favorevolmente, e il movimento di simpatia per la nostra tesi prende sempre più corpo in tutti quei Paesi.
Le Repubbliche di Cuba, Panama e Honduras sono andate ancor più in là, con atti che, per ciò che le concerne, annullano quasi il Trattato. Vada a tutti i nobili popoli latini d’oltre Oceano la riconoscenza dell’Italia! (Applausi al centro).
Quando un Trattato di pace nasce accompagnato da tali manifestazioni – e molte altre potrei citarne, e negli stessi ambienti responsabili di quasi tutti gli Stati interessati – esso porta già in sé il marchio di una vitalità destinata ad esaurirsi. Del resto noi dovremmo allargare il nostro orizzonte e sentire che l’Italia non può circoscrivere la sua azione alla revisione del Trattato, per importante e necessaria che essa sia. Vi sono, al di là del Trattato, interessi italiani spirituali e materiali, come il salvataggio di un grande patrimonio di sacrifici e di lavoro in Africa e la ricostruzione di tutte le influenze economiche e spiritual di un grande paese quale l’Italia è stata, è, e dovrà essere.
Ora, l’«atto» della ratifica incide anche su tutti questi interessi; è bensì vero che affidamenti precisi non possiamo ancora dire di averne; ma dobbiamo riconoscere che impostare questi problemi rinviando la ratifica, significherebbe non avere neanche la possibilità di chiedere e di lottare in una atmosfera di fiducia e di simpatia.
Se l’Assemblea o il Paese non sentissero che occorre un gesto di saggezza politica e accettare la ratifica, cosa potrebbe accadere?
È certo che una nostra mancata ratifica provocherebbe una reazione nettamente sfavorevole, anche se più o meno dissimulata, in un primo tempo. Le stesse Repubbliche latino-americane sarebbero inceppate nella loro azione a nostro favore. Rimarrebbero certo amicissime, ma di qual prudenza avrebbero bisogno!
In caso di incidenti e rivolgimenti che purtroppo niuno può assolutamente escludere, saremmo noi, questa volta, i più imperdonabili; perché dopo l’esperienza dell’anno scorso, saremmo stati noi, gli uni con nuove dubbiezze e altri con speranze di ipotetici terni al lotto, a riportare la nostra Italia sul tavolo anatomico su cui le folli guerre fasciste la gettarono.
Certo, cotali ipotesi noi vogliamo considerarle assurde. Ma tutt’altro che assurdo è il prevedere che se rimanessimo staccati dal resto del mondo, potremmo trovarci, senza saperlo e senza volerlo, di fronte a conseguenze pratiche pericolose. Prendiamo un esempio recentissimo: per le delimitazioni di confine interno a Gorizia, problema di cui mi sono personalmente occupato anche a Parigi coll’affetto che voi pensate, ricevetti parole di simpatia e di comprensione; ma ciò accadeva in una atmosfera che, pel fatto stesso della nostra presenza nella capitale francese, faceva considerare la ratifica come acquisita. Anche per continuare a difendere l’italianità di Trieste abbiamo bisogno di un punto fisso da cui batterci.
Potrei qui indicarvi i danni immediati di interessi pubblici e privati italiani che potrebbero colpirci, in caso di non ratifica, in Libia come in Eritrea, in Tunisia come al Giappone, in Germania come nel campo delle riparazioni, punti tutti dove, lentamente, tacitamente, pazientemente siamo riusciti a migliorare la situazione a nostro favore. Ma non lo farò perché, pensoso soprattutto degli interessi italiani, non voglio neppur supporre che certe cose possano accadere. Ma il dovere del Governo non è solo di lavorare con fiducia e ragionevole ottimismo, sibbene anche di prospettarsi tutte le eventualità.
Non voglio neppure pensare a un rovesciamento di attitudine degli Stati Uniti verso di noi; è forse perché ricordo tuttora con emozione che pochi mesi dopo che Mussolini dichiarò la guerra a quel grande Paese amico, un giorno ancor vivo nel mio spirito, i dieci milioni di italiani sparsi nelle due Americhe udirono commossi e stupefatti questo messaggio da Washington: «L’America è in guerra con il fascismo, non con l’Italia; noi, quindi, convinti che gli italiani sono amici nostri, decidiamo di togliere i cittadini italiani dalla lista dei nemici; d’or innanzi essi rimarranno fra noi liberi e tranquilli con tutti i diritti dei cittadini degli Stati Uniti».
E così accadde fra lo stupore del mondo, se non dell’Italia incatenata che niente ne seppe. Ma, malgrado tanta generosità, è nostro dovere renderci conto che anche negli Stati Uniti si darebbe alla mancata ratifica un significato di nostra scarsa volontà di collaborazione internazionale. E di ciò avremmo inevitabili ripercussioni, anche in relazione alla Conferenza per il cosidetto piano Marshall, ripercussioni da cui mi sembra che tutto il buon volere degli Stati Uniti non riuscirebbe a salvarci. Mi spiego.
Entrata l’Italia onorevolmente nei lavori della Conferenza di Parigi, sono convinto che nessuno penserebbe ad eliminarla, benché giuridicamente ciò sia concepibile.
Ma quando il piano di aiuto americano all’Europa venisse in esecuzione e fossero fissate le cifre di intervento, è verosimile che le aperture di credito in dollari sarebbero gestite dai singoli Governi, mentre invece per quanto riguarderà la Germania i crediti dovranno essere gestiti dalle Nazioni occupanti o da qualche organismo che esse creeranno. La più ovvia delle giustificazioni a questa diversità di trattamento sarà quella che la Germania si troverà ancora senza trattato di pace. Non sarebbe allora probabile che anche per l’Italia, non legata da trattati si deliberasse la stessa procedura prevista per la Germania?
E come sarebbe concepibile l’esecuzione del piano Marshall nei confronti dell’Italia, quando questa, per essersi rifiutata di ratificare il Trattato, non fosse in condizione di procedere a pagare le riparazioni che il Trattato le impone? Le Nazioni aventi diritto a riparazioni potrebbero invocare dall’America di sospendere l’applicazione del piano Marshall nei riguardi dell’Italia, per costringere questa all’osservanza di un Trattato che l’America ha ratificato.
Queste considerazioni portano a concludere, dunque, che ben difficilmente l’esecuzione del piano Marshall (non la sua formulazione) sarebbe conciliabile con una posizione di un’Italia rimasta isolata nel mondo; in tal caso, sarebbe molto probabile la creazione, per l’esecuzione del piano Marshall nei confronti dell’Italia, di organi speciali per la garanzia delle nazioni vincitrici, organi che, mentre diminuirebbero la dignità e la sovranità dello Stato italiano, finirebbero per avvicinare la figura dell’Italia a quella della Germania, cioè a farci fare un formidabile passo indietro sulla via che abbiamo onorevolmente percorso per raggiungere la posizione che ci spetta.
D’altronde, che materia copre politicamente il Trattato?
Il Trattato si basa su concetti che la coscienza e la realtà del nostro secolo vanno scartando come arcaismi. Esso infatti è tutto basato su clausole di confini, di servitù militari, di imposizioni e limitazioni economiche. Ora l’esperienza storica e, vorrei dire, tecnica del mondo moderno ha rivelato – come già prima ho accennato – il progressivo fondersi dei confini nazionali in unità sempre più vasta, ha spostato completamente i termini della potenza militare, facendone ormai un semplice aspetto della potenza industriale, ha per sempre fatto svanire il mito dei circuiti economici chiusi e quindi ha messo in piena luce il principio cardinale che le riparazioni eccessive o non si pagano o presto o tardi creano uno scompenso risentito da tutto il sistema economico internazionale.
Che cosa, invece, il Trattato non copre?
Vorrei dire che esso non copre proprio la materia della politica estera che noi italiani abbiamo impostato e vogliamo impostare. Noi agiamo – e in tal senso mi espressi anche nei giorni scorsi alla Conferenza di Parigi – per contribuire a creare un’Europa che non sia aggressivamente tesa contro altri sistemi, ma sia un’Europa di libertà e di comprensione per tutte le forze del mondo.
Sul piano che una volta si chiamava coloniale, abbiamo cercato di affrontare in maniera moderna il problema dei nostri rapporti con il mondo africano. Di fronte all’emancipazione e alla coscienza popolare e nazionale del mondo arabo e africano abbiamo sentito che il vecchio colonialismo era morto per tutti e che per tutelare i frutti del nostro lavoro e della nostra libera emigrazione in Africa noi dovevamo associarci a quei popoli in marcia ormai verso l’indipendenza, creando per l’avvenire le premesse di un rapporto di dignitosa collaborazione e, se possibile, di alleanza.
Il terzo pilastro della costruzione dovrebbe essere, oltre la politica migratoria coll’America latina, anche una vasta politica culturale e commerciale con la stessa America latina, da un lato e con l’Europa orientale dall’altro, non perdendo occasioni per migliorare le nostre relazioni con quei mondi dell’avvenire per noi tanto importante, dalla vicina Jugoslavia fino all’Unione sovietica, passando per tutti i popoli balcanici.
Il Trattato esprime insomma una concezione anacronistica della guerra, della vittoria, della pace, della vita internazionale. Per contestare il Trattato non possiamo servirci di un arnese della vecchia politica.
Opponendo al Trattato non un rifiuto, che oggi come oggi danneggia noi, ma una visione più larga e più intelligente, noi lo superiamo nella realtà.
Il miglior modo per modificare il Trattato non è solo la sua pacifica revisione: è l’invenzione o l’applicazione di una politica più fresca ed elastica, degna del secolo in cui viviamo e dell’età verso cui marciamo.
Mi sembra che in Italia la grande maggioranza l’abbia sentito; tanto è vero che il dibattito si è spostato: soprattutto negli ultimi giorni è parso chiaro che il problema non verte più tanto sulla ratifica quanto sul rinvio o meno della ratifica. Le tesi a questo proposito sono in sostanza due: una prevalentemente giuridica e l’altra prevalentemente politica.
La prima parte del concetto è che, siccome l’U.R.S.S. non ha ancora ratificato, il Trattato non è entrato in vigore e quindi noi non siamo obbligati a ratificarlo. A questo riguardo la formula suggerita dal Governo concilia la necessità politica e morale della urgente ratifica con il desiderio di non impegnare, né giuridicamente né moralmente l’Italia, finché il Trattato non sia entrato in vigore.
Ma conviene, a noi, metterci su un terreno esclusivamente giuridico?
In fondo, in che cosa è consistita la nostra politica dal 1943 in poi? Nel modificare di fatto una situazione di diritto. Tutta la nostra politica è consistita nell’annullare o per lo meno diminuire di fatto le dure clausole armistiziali. Ciò che l’Italia ha sempre cercato di fare è di sovrapporre al crudo testo una situazione di fiducia, fondata sulla nostra assoluta franchezza e lealtà, una situazione politica articolata, cordiale, sicura di noi.
Al diritto armistiziale abbiamo opposto la impareggiabile tenacia della nostra gente e il suo spirito di resurrezione materiale e spirituale. Siamo riusciti così a compiere un arduo cammino.
Ma noi abbiamo interesse a che le nostre posizioni si rafforzino al più presto, noi abbiamo interesse a dare una ferma base alla nostra azione.
Il Trattato fu per i Grandi un faticoso compromesso; un atto di pacificazione fra di loro. I nostri interessi furono duramente subordinati al bisogno di intese altrui, quali in quel momento prevalevano.
Ma da qualche tempo le relazioni fra gli alleati sono, speriamo solo provvisoriamente, peggiorate. Molti hanno interesse a rendere di nuovo fluido tutto, a non considerare più definitivo niente, a rimettere tutto in discussione. Noi invece non ci troviamo in una condizione che consenta di attendere fra nuove incertezze. Abbiamo bisogno di fondare su basi sicure e coincidenti con gli interessi generali dell’Europa e della pace il nostro sforzo modificante la situazione di inferiorità in cui fummo posti. Con la ratifica noi acquisteremo subito, sia pure a duro prezzo, un motivo per proseguire la lotta che meniamo da lunghi mesi. Con la ratifica oggi noi non modifichiamo il nostro status giuridico ma il nostro status politico-morale.
Qui una osservazione mi pare essenziale; da alcuni si teme che la nostra ratifica, votata prima della ratifica sovietica, possa contribuire, sia pure senza volerlo, alla instaurazione della politica dei blocchi, foriera forse di guerra, quindi fatale per noi.
Ora mi pare che proprio il contrario sia vero: la ratifica servirà invece a creare una atmosfera di fiduciosa collaborazione con le Potenze europee che, come noi, vogliono creare l’Europa. E creare l’Europa è la sola maniera di evitare la politica dei blocchi. Isolandoci dal resto del continente, ostacoleremmo la creazione di un complesso europeo interessato alla pace, cioè allo sviluppo di buone relazioni fra gli Stati Uniti e l’Unione Sovietica.
Del resto, l’atteggiamento dell’Unione Sovietica rispetto al nostro Trattato di pace non ci risulta mutato da quando ci si disse che firma e ratifica erano per essa la stessa cosa, e che dovevamo – in nome del nostro futuro – dare per scontato sia l’una che l’altra.
Noi non dobbiamo metterci nella situazione di una foglia morta, alla mercé degli eventi. Alla mercé degli eventi tutto diventa un gioco: può andar meglio, può andare peggio. Ma ratificando, mentre non cambiamo nulla di nulla, finché tutti non ratificano, fissiamo d’altro canto, una base, creiamo un diaframma politico e morale fra un passato opprimente e l’avvenire.
Se tutti ratificheranno, la nostra ratifica sarà un atto apprezzato da tutti; e se il Trattato non dovesse entrare in vigore noi ci saremmo creati un titolo che ci permetterà di chiedere la riconsiderazione di molti problemi italiani. Ma una ragione soprattutto, debbo ancora ripeterlo, fece che il problema della ratifica divenisse questione urgente e fu la convocazione della Conferenza di Parigi. Non andare a Parigi significava non solo isolarci dall’Europa, ma recidere colle nostre mani ogni possibilità di futuri crediti americani. Fu allora che gli Ambasciatori a Londra e a Parigi mi fecero sapere in modo categorico che, se non v’era interdipendenza giuridica, v’era tuttavia interdipendenza psicologico-politica tra la ratifica e una nostra efficace degna partecipazione alla conferenza.
L’urgenza che v’era allora e di cui la maggioranza della Commissione dei Trattati si rese conto, cresce ora – già ve l’ho detto – perché siamo alla vigilia della discussione all’O.N.U. circa la nostra ammissione.
Riassumendo, ci sono ragioni contingenti, e ci sono ragioni assolute. Fra queste la prima è che dobbiamo creare fiducia degli altri popoli in noi.
Il senso del Trattato non sta solo nella dolorosa mutilazione che esso ci infligge, ma anche e soprattutto nello spirito di sfiducia che è alla base di quello strumento. Si teme o si temeva un ritorno di spirito aggressivo, non si crede o non si credeva in una nostra vera funzione: insomma si ha l’impressione che si cerchino garanzie contro una politica di inconsistenti oscillazioni. È questo che si legge tra le righe del Trattato.
Ed è perciò che nostro primo interesse è creare questa atmosfera di fiducia all’estero. In gran parte ci siamo già riusciti. E come potremmo pretendere di più, se basta un momento di incertezza a far cambiare opinioni, a far sorgere da ogni lato, come funghi, delle sottigliezze procedurali? Non è per cotali vie che si tuteleranno i nostri interessi in Africa o che si difenderà l’onore di quella marina da guerra il cui eroismo fu nostro orgoglio e la cui disciplina fornì vantaggi preziosi agli alleati (Vivi applausi). Non è per questa via che si riconquisterà finalmente la piena indipendenza nazionale.
E noi qui, in questa Aula, dall’estrema sinistra all’estrema destra, non invochiamo ogni giorno a gran voce indipendenza per l’Italia, indipendenza, libertà, e pace?
Ma solo la ratifica è l’argomento di cui potremmo incessantemente servirci per chiedere il ritiro delle truppe e la cessazione di ogni controllo.
Io credo, con tutta l’anima, che sarebbe dannoso per noi l’arrestarci oggi sul cammino dell’intesa europea; noi rischieremmo di perdere quanto anni di lavoro e di sacrificio ci han fatto guadagnare; ma attualmente credo che la ratifica dovrà servirci a meglio condurre su tutti i fronti, non solo la battaglia pel superamento del Trattato, ma anche per ridare a tutte le funzioni dello Stato l’importanza che compete a una grande Nazione sicura del proprio avvenire. La ratifica è la porta da cui dobbiamo passare, se vogliamo sul serio impostare davanti al mondo tutti i nostri problemi.
Condannando con una solenne protesta morale il Trattato e mostrando insieme con la nostra stabilità interna e con la nostra ripresa in ogni campo che noi stiamo già marciando molto più in là della miope atmosfera del Trattato stesso, noi affermeremo di fronte al mondo la vitalità della Nazione italiana. Il resto verrà.
Anche giorni fa a Parigi, io mi domandai più di una volta se sapevamo abbastanza quanto ci eravamo rialzati. Ovunque sentii un nuovo rispetto per questa nostra Italia laboriosa e tenace.
Abbiamo dunque fiducia in noi, nelle nostre forze, nel nostro avvenire: una politica estera non è che lo specchio di una politica interna. Sian pure vive le nostre lotte politiche, ma purché tutti noi guardiamo avanti e non indietro. Indietro non troveremmo che recriminazioni e rancori. Se noi amiamo i nostri fratelli ai violati confini, proviamolo loro con l’unione di tutti di fronte ai supremi ideali comuni di democrazia. Sarà questa la forza maggiore dei nostri fratelli, la loro linfa di italianità.
Fra qualche decennio parrà miracoloso ciò che abbiamo già compiuto per rifare l’Italia, dopo lo sfacelo del 1943. La via è dolorosa, come oggi. Ma troppe volte i nostri avi parlarono dello Stellone. Questa volta, quando sarà chiaro a tutti che l’Italia si è risollevata, nessuno potrà dire che lo Stellone ci aiutò. Sarà nostro vanto di esserci salvati da noi colla tenacia del nostro lavoro, colla forza di un popolo come il nostro, che mai si abbatte a lungo, che sempre risorge, fedele ai più santi ideali di pace e di libertà. (Vivissimi applausi – Congratulazioni).
PRESIDENTE. È iscritto a parlare l’onorevole Croce. Ne ha facoltà.
CROCE. Io non pensavo che la sorte mi avrebbe, negli ultimi miei anni, riserbato un così trafiggente dolore come questo che provo nel vedermi dinanzi il documento che siamo chiamati ad esaminare, e nell’essere stretto dal dovere di prendere la parola intorno ad esso. Ma il dolore affina e rende più penetrante l’intelletto che cerca nella verità la sola conciliazione dell’interno tumulto passionale. Noi italiani abbiamo perduto una guerra, e l’abbiamo perduta «tutti», anche coloro che l’hanno deprecata con ogni loro potere, anche coloro che sono stati perseguitati dal regime che l’ha dichiarata, anche coloro che sono morti per l’opposizione a questo regime, consapevoli come eravamo tutti che la guerra sciagurata, impegnando la nostra Patria, impegnava anche noi, senza eccezioni, noi che non possiamo distaccarci dal bene e dal male della nostra Patria, né dalle sue vittorie né dalle sue sconfitte. Ciò è pacifico quanto evidente.
Senonché il documento che ci viene presentato non è solo la notificazione di quanto il vincitore, nella sua discrezione o indiscrezione, chiede e prende da noi, ma un giudizio morale e giuridico sull’Italia e la pronunzia di un castigo che essa deve espiare per redimersi e innalzarsi e tornare a quella sfera superiore in cui, a quanto sembra, si trovano, coi vincitori, gli altri popoli, anche quelli del Continente nero.
E qui mi duole di dover rammentare cosa troppo ovvia, cioè che la guerra è una legge eterna del mondo, che si attua di qua e di là da ogni ordinamento giuridico, e che in essa la ragion giuridica si tira indietro lasciando libero il campo ai combattenti, dall’una e dall’altra parte intesi unicamente alla vittoria, dall’una e dall’altra parte biasimati o considerati traditori se si astengono da cosa alcuna che sia comandata come necessaria o conducente alla vittoria. Chi sottopone questa materia a criteri giuridici, o non sa quel che si dica, o lo sa troppo bene, e cela l’utile, ancorché egoistico, del proprio popolo o Stato sotto la maschera del giudice imparziale. Segno inquietante di turbamento spirituale sono ai nostri giorni (bisogna pure avere il coraggio di confessarlo) i tribunali senza alcun fondamento di legge, che il vincitore ha istituiti per giudicare, condannare e impiccare, sotto nomi di criminali di guerra, uomini politici e generali dei popoli vinti, abbandonando la diversa pratica, esente da ipocrisia, onde un tempo non si dava quartiere ai vinti o ad alcuni dei loro uomini e se ne richiedeva la consegna per metterli a morte, proseguendo e concludendo con ciò la guerra. Giulio Cesare non mandò innanzi a un tribunale ordinario o straordinario l’eroico Vercingetorige, ma, esercitando vendetta o reputando pericolosa alla potenza di Roma la vita e l’esempio di lui, poiché gli si fu nobilmente arreso, lo trascinò per le strade di Roma dietro il suo carro trionfale e indi lo fece strozzare nel carcere. Parimenti si è preso oggi il vezzo, che sarebbe disumano, se non avesse del tristemente ironico, di tentar di calpestare i popoli che hanno perduto una guerra, con l’entrare nelle loro coscienze e col sentenziare sulle loro colpe e pretendere che le riconoscano e promettano di emendarsi: che è tale pretesa che neppure Dio, il quale permette nei suoi ascosi consigli le guerre, rivendicherebbe a sé, perché egli non scruta le azioni dei popoli nell’ufficio che il destino o l’intreccio storico di volta in volta loro assegna, ma unicamente i cuori e i reni, che non hanno segreti per lui, dei singoli individui. Un’infrazione della morale qui indubbiamente accade, ma non da parte dei vinti, sì piuttosto dei vincitori, non dei giudicati, ma degli illegittimi giudici.
Noi italiani, che abbiamo nei nostri grandi scrittori una severa tradizione di pensiero giuridico e politico, non possiamo dare la nostra approvazione allo spirito che soffia in questo dettato, perché dovremmo approvare ciò che sappiamo non vero e pertinente a transitoria malsania dei tempi: il che non ci si può chiedere. Ma altrettanto dubbio suscita questo documento nell’altro suo aspetto di dettato internazionale, che dovrebbe ristabilire la collaborazione tra i popoli nell’opera della civiltà e impedire, per quanto è possibile, il rinnovarsi delle guerre.
Il tema che qui si tocca è così vasto e complesso che io non posso se non lumeggiarlo sommariamente e in rapporto al solo caso dell’Italia, e nelle particolarità di questo caso.
L’Italia dunque, dovrebbe, compiuta l’espiazione con l’accettazione di questo dettato, e così purgata e purificata, rientrare nella parità di collaborazione con gli altri popoli. Ma come si può credere che ciò sia possibile, se la prima condizione di ciò è che un popolo serbi la sua dignità e il suo legittimo orgoglio, e voi o sapienti uomini del tripartito o quadripartito internazionale, l’offendete nel fondo più geloso dell’anima sua, perché, scosso che ebbe da sé l’Italia, non appena le fu possibile, l’infesto regime tirannico che la stringeva, avete accettato e sollecitato il suo concorso nell’ultima parte della guerra contro la Germania, e poi l’avete, con pertinace volontà, esclusa dai negoziati della pace, dove si trattava dei suoi più vitali interessi, impedendole di far udire le sue ragioni e la sua voce e di suscitare a sé spontanei difensori in voi stessi o tra voi? E ciò avete fatto per avere le sorti italiane come una merce di scambio tra voi, per equilibrare le vostre discordi cupidigie o le vostre alterne prepotenze, attingendo ad un fondo comune, che era a disposizione. Così all’Italia avete ridotto a poco più che forza di polizia interna l’esercito, diviso tra voi la flotta che con voi e per voi aveva combattuto, aperto le sue frontiere vietandole di armarle a difesa, toltole popolazioni italiane contro gli impegni della cosiddetta Carta atlantica, introdotto clausole che violano la sua sovranità sulle popolazioni che le rimangono, trattatala in più cose assai più duramente che altri Stati ex nemici, che avevano tra voi interessati patroni, toltole o chiesta una rinunzia preventiva alle colonie che essa aveva acquistate col suo sangue e amministrate e portate a vita civile ed europea col suo ingegno e con dispendio delle sue tutt’altro che ricche finanze, impostole gravi riparazioni anche verso popoli che sono stati dal suo dominio grandemente avvantaggiati; e perfino le avete come ad obbrobrio, strappati pezzi di terra del suo fronte occidentale da secoli a lei congiunti e carichi di ricordi della sua storia, sotto pretesto di trovare in quel possesso la garanzia contro una possibile irruzione italiana, quella garanzia che una assai lunga e assai fortificata e assai vantata linea Maginot non seppe dare.
Non continuo nel compendiare gli innumeri danni ed onte inflitti all’Italia e consegnati in questo documento, perché sono incisi e bruciano nell’anima di tutti gli italiani: e domando se, tornando in voi stessi, da vincitori smoderati a persone ragionevoli, stimate possibile di avere acquistato con ciò un collaboratore in piena efficienza per lo sperato nuovo assetto europeo. Il proposito doveroso di questa collaborazione permane e rimarrà saldo in noi e lo eseguiremo, perché risponde al nostro convincimento e l’abbiamo pur ora comprovato col fatto: ma bisogna non rendere troppo più aspro all’uomo il già aspro suo dovere, né dimenticare che al dovere giova la compagnia che gli recano l’entusiasmo, gli spontanei affetti, l’esser libero dai pungenti ricordi di torti ricevuti, la fiducia scambievole, che presta impeto ed ali.
Noi italiani, che non possiamo accettare questo documento, perché contrario alla verità, e direi alla nostra più alta coscienza, non possiamo sotto questo secondo aspetto dei rapporti fra i popoli, accettarlo, né come italiani curanti dell’onore della loro Patria, né come europei: due sentimenti che confluiscono in uno, perché l’Italia è tra i popoli che più hanno contribuito a formare la civiltà europea e per oltre un secolo ha lottato per la libertà e l’indipendenza sua, e, ottenutala, si era per molti decenni adoperata a serbare con le sue alleanze e intese difensive la pace in Europa. E cosa affatto estranea alla costante sua tradizione è stata la parentesi fascistica, che ebbe origine dalla guerra del 1914, non da lei voluta ma da competizioni di altre potenze; la quale, tuttoché essa ne uscisse vittoriosa, nel collasso che seguì dappertutto, la sconvolse a segno da aprire la strada in lei alla imitazione dei nazionalismi e totalitarismi altrui. Libri stranieri hanno testé favoleggiato la sua storia nei secoli come una incessante aspirazione all’imperialismo, laddove l’Italia una sola volta fu imperiale, e non propriamente essa, ma l’antica Roma, che peraltro valse a creare la comunità che si chiamò poi l’Europa e, tramontata quell’egemonia, per la sua posizione geografica divenne campo di continue invasioni e usurpazioni dei vicini popoli e stati. Quei libri, dunque, non sono storia, ma deplorevole pubblicistica di guerra, vere e proprie falsificazioni. Nel 1900 un ben più sereno scrittore inglese, Bolton King, che con grande dottrina narrò la storia della nostra unità, nel ritrarre l’opera politica dei governi italiani nel tempo seguito all’unità, riconosceva nella conclusione del suo libro che, al confronto degli altri popoli d’Europa, l’Italia «possedeva un ideale umano e conduceva una politica estera comparativamente generosa».
Ma se noi non approveremo questo documento, che cosa accadrà? In quali strette ci cacceremo? Ecco il dubbio e la perplessità che può travagliare alcuno o parecchi di voi, i quali, nel giudizio di sopra esposto e ragionato del cosiddetto Trattato, so che siete tutti e del tutto concordi con me ed unanimi, ma pur considerate l’opportunità contingente di una formalistica ratifica.
Ora non dirò ciò che voi ben conoscete; che vi sono questioni che si sottraggono alla spicciola opportunità e appartengono a quella inopportunità opportuna o a quella opportunità superiore che non è del contingente ma del necessario; e necessaria e sovrastante a tutto è la tutela della dignità nazionale, retaggio affidatoci dai nostri padri, da difendere in ogni rischio e con ogni sacrificio. Ma qui posso stornare per un istante il pensiero da questa alta sfera che mi sta sempre presente e, scendendo anch’io nel campo del contingente, alla domanda su quel che sarà per accadere, risponderei, dopo avervi ben meditato, che non accadrà niente, perché in questo documento è scritto che i suoi dettami saranno messi in esecuzione anche senza l’approvazione dell’Italia: dichiarazione in cui, sotto lo stile di Brenno, affiora la consapevolezza della verità che l’Italia ha buona ragione di non approvarlo. Potrebbero bensì, quei dettami, venire peggiorati per spirito di vendetta, ma non credo che si vorrà dare al mondo di oggi, che proprio non ne ha bisogno, anche questo spettacolo di nuova cattiveria, e, del resto, peggiorarli mi par difficile, perché non si riesce a immaginarli peggiori e più duri.
Il governo italiano certamente non si opporrà all’esecuzione del dettato; se sarà necessario, coi suoi decreti o con qualche suo singolo provvedimento legislativo, la seconderà docilmente, il che non importa approvazione, considerato che anche i condannati a morte sogliono secondare docilmente nei suoi gesti il carnefice che li mette a morte. Ma approvazione, no! Non si può costringere il popolo italiano a dichiarare che è bella una cosa che esso sente come brucia, e questo con l’intento di umiliarlo e di togliergli il rispetto di se stesso, che è indispensabile ad un popolo come a un individuo, e che solo lo preserva dall’abiezione e dalla corruttela.
Del resto, se prima eravamo soli nel giudizio dato di sopra del trattamento usato all’Italia, ora spiritualmente non siamo più soli: quel giudizio si avvia a diventare un’opinio communis e ci viene incontro da molti altri popoli e perfino da quelli vincitori, e da minoranze dei loro parlamenti che, se ritegni molteplici non facessero per ora impedimento, diventerebbero maggioranze. E fin da ora ci si esorta a ratificare sollecitamento il Trattato per entrare negli areopaghi internazionali, da cui siamo esclusi e nei quali saremmo accolti a festa, se anche come scolaretti pentiti, e ci si fa lampeggiare l’incoraggiante visione che le clausole di esso più gravi e più oppressive non saranno eseguite e tutto sarà sottoposto a revisione.
Noi non dobbiamo cullarci nelle facili speranze e nelle pericolose illusioni e nelle promesse più volte trovate fittizie, ma contare anzitutto e soprattutto su noi stessi; e tuttavia possiamo confidare che molti comprenderanno la necessità del nostro rifiuto dell’approvazione, e l’interpreteranno per quello che esso è: non una ostilità contro il riassetto pacifico dell’Europa, ma, per contrario un ammonimento e un contributo a cercare questo assetto nei modi in cui soltanto può ottenersi; non una manifestazione di rancore e di odio, ma una volontà di liberare noi stessi dal tormento del rancore e dalle tentazioni dell’odio.
Signori deputati, l’atto che oggi siamo chiamati a compiere, non è una deliberazione su qualche oggetto secondario e particolare, dove l’errore può essere sempre riparato e compensato; ma ha carattere solenne, e perciò non bisogna guardarlo unicamente nella difficoltà e nella opportunità del momento, ma portarvi sopra quell’occhio storico che abbraccia la grande distesa del passato e si volge riverente e trepido all’avvenire. E non vi dirò che coloro che questi tempi chiameranno antichi, le generazioni future dell’Italia che non muore, i nipoti e pronipoti ci terranno responsabili e rimprovereranno la generazione nostra di aver lasciato vituperare e avvilire e inginocchiare la nostra comune Madre a ricevere rimessamente un iniquo castigo; non vi dirò questo, perché so che la rinunzia alla propria fama è in certi casi estremi richiesta all’uomo che vuole il bene o vuole evitare il peggio; ma vi dirò quel che è più grave, che le future generazioni potranno sentire in se stesse la durevole diminuzione che l’avvilimento, da noi consentito, ha prodotto nella tempra italiana, fiaccandola. Questo pensiero mi atterrisce, e non debbo tacervelo nel chiudere il mio discorso angoscioso. Lamentele, rinfacci, proteste, che prorompono dai petti di tutti, qui non sono sufficienti. Occorre un atto di volontà, un esplicito «no». Ricordare che, dopo che la nostra flotta, ubbidendo all’ordine del re ed al dovere di servire la Patria, si fu portata a raggiungere la flotta degli alleati e a combattere al loro fianco, in qualche loro giornale si lesse che tal cosa le loro flotte non avrebbero mai fatto. Noi siamo stati vinti, ma noi siamo pari, nel sentire e nel volere, a qualsiasi più intransigente popolo della terra. (Applausi – Congratulazioni).
PRESIDENTE. È iscritto a parlare l’onorevole Gasparotto. Ne ha facoltà.
GASPAROTTO. Onorevoli colleghi, tutti portiamo nel cuore la pena, anzi l’angoscia, di questa discussione. Il Presidente del Consiglio, con parola sincera, com’è suo costume, ha dichiarato che l’urgenza della ratifica è questione di opportunità. Oggi, il Ministro degli esteri, parlando, con tono quasi apocalittico, ci ha messo, invece, di fronte ad un’ineluttabile stato di necessità. Anzi, ad un certo momento, abbiamo avuto l’impressione che l’onorevole Ministro degli esteri volesse, se non giustificare il Trattato, attenuarne la gravità della portata.
Ma, onorevole Sforza, perché dissimularlo? Questo Trattato – bisogna riconoscerlo – coi suoi novanta articoli glaciali, è una atroce sentenza di condanna, resa «inaudita altera parte», contro il popolo italiano; è un verdetto inesorabile che richiama, a distanza di secoli, il vae victis di gallica memoria.
Legato alla responsabilità ministeriale al tempo della prima firma del Trattato che ora porta la data di Parigi del 19 febbraio scorso, avverto la delicata posizione in cui si trova la mia persona; perciò mi propongo di parlare col maggior senso di misura, di responsabilità, di moderazione.
Tutti, o per lo meno quasi tutti, comprendiamo che oggi o domani dovremo eseguirlo questo Trattato. Dovremo ratificarlo ed eseguirlo, chi per convinzione, i più per disperazione! Ci sarà assieme a lei un altro uomo, in quest’Aula, onorevole Croce, che non potrà firmare la ratifica e convalidare l’ingiusto Trattato col suo voto: l’onorevole Orlando: l’uomo che il 18 ottobre del 1918, quando vi erano esitanze nei comandi militari circa l’opportunità e la possibilità di riprendere l’offensiva o trasferirla alla successiva primavera; il 18 ottobre, con un telegramma che non ancora è passato alla storia, imponeva al Comando Supremo italiano di passare il Piave e tre giorni dopo si recava sul posto, di Villa Giusti, a confermare l’audace Comando, e il 27 ottobre ci portava alla vittoria della Sernaia, sulla strada già aperta di Vittorio Veneto.
Ora, io comprendo che l’uomo che porta il peso di tanta gloria non possa, non debba firmare questo Trattato che distrugge tutta l’opera sua e dei nostri soldati. Ma noi non siamo prigionieri di nessuna gloria, e dobbiamo al sentimento far prevalere la ragione. Noi siamo grati alle democrazie europee ed americane che hanno salvato il mondo dal pericolo tedesco, già denunziato da un italiano oltre cento anni fa: Carlo Cattaneo. Siamo grati all’America per avere offerto all’Europa un piano seducente che ci fa sperare che i sensi di solidarietà umana che sembravano smarriti possano rivivere in noi; siamo grati alla Francia e all’Inghilterra per il trattamento fatto a Parigi ai nostri rappresentanti; e ci felicitiamo con l’onorevole Presidente del Consiglio e ci felicitiamo con l’onorevole Ministro degli esteri per i successi recentemente ottenuti.
Ma ciò non toglie, per quanto grande sia la nostra simpatia, per quanto sia profonda la mia personale ammirazione per le potenze vittoriose della guerra, che in questa occasione non ci si debba peritare dal dire una libera e franca parola.
Meritava dunque, l’Italia tanto duro trattamento? Ci si imputa, di aver dichiarato guerra; ci si imputa di avere per troppo tempo – per venti anni – tollerato il fascismo che ha condotto il Paese alla guerra; e questa è la nostra vergogna, questa è la nostra sventura; ma ci sono delle complicità europee, e non soltanto europee, alla nostra sventura. (Approvazioni). Quando il popolo italiano era incatenato ad un regime di forza, vi furono liberi Paesi che mandarono in Italia ambascerie generose di elogi al «duce» predestinato alla nostra fortuna e invece scelto dal destino alla nostra suprema rovina. (Approvazioni).
E subito dopo l’8 settembre, non richiesti, per primi noi abbiamo offerto alle Potenze Unite l’aiuto italiano colle forze ancora intatte dell’esercito che presidiavano la Sardegna. E l’offerta fu respinta. E subito dopo abbiamo dato – accettata l’offerta, questa volta – il Raggruppamento motorizzato che si è sacrificato a Cassino. Successivamente entrò in campo il Corpo di Liberazione, e in un terzo tempo abbiamo creato un piccolo esercito – piccolo, perché non ci fu consentito di farlo maggiore – un esercito di 300.000 uomini che ha accompagnato gli alleati dal Garigliano fin oltre la linea del Po, mentre i partigiani uscivano da ogni macchia e da ogni casa. E quando ci fu chiesto il concorso della nostra Marina, tutta essa si è data agli alleati, dal primo fino all’ultimo giorno. E ci fu un Ministro italiano che, sempre su richiesta degli alleati, si è portato a visitare tutti i campi di aviazione nelle Puglie, per gridare agli aviatori italiani che, per la causa che gli alleati dicevano «la causa comune», era necessario bombardare anche le città italiane dell’Istria, anche le opere militari di Pola, della nostra Pola. E con la morte nel cuore gli aviatori italiani hanno obbedito a questo invito crudele. Perché queste cose sono state dimenticate? Permettetemi di ricordarle a voi, onorevoli colleghi, dolente di non avere tanta autorità per far sì che queste cose uscissero da qui e fossero sentite da tutti, fuori d’Italia.
Dunque, venendo più da presso al tema: le soluzioni che ci si presentano sono tre: rifiuto alla ratifica; accettazione della ratifica subordinata al verificarsi delle condizioni portate dall’articolo 90 del Trattato; sospensiva su ogni deliberazione.
Onorevole Orlando: rifiuto alla ratifica! Atto generoso senza dubbio, atto che potrebbe forse segnare nella storia un ammonimento, non per noi, ma per tutti i popoli – come ha detto Benedetto Croce – ma purtroppo gesto sterile, purtroppo gesto dannoso.
Secondo punto: ratifica deliberata dalla Assemblea, in questa sede di discussione, ma subordinata al verificarsi delle condizioni di cui all’articolo 90. È già questo un felice accorgimento del Presidente del Consiglio; è un passo avanti sulla via della conciliazione fra le opposte opinioni. E poiché la politica italiana minaccia di essere dominata dai capi-partito, anziché essere fatta dall’Assemblea, mi auguro che i capi-partito trovino il modo, questa volta, di accordarsi col Governo per una soluzione che possa raccogliere la grande maggioranza dell’Assemblea, perché il Paese aspetta da essa una prova di saggezza, ma, al tempo stesso, una prova, se non di fierezza, almeno di dignità.
La sospensiva proposta ieri dall’onorevole Orlando mirava ad un fine: fortificare di fronte alla pubblica opinione del mondo la nostra protesta, e non pregiudicare, attraverso un’anticipazione di volontà, che potrebbe essere domani qualificata atto di spontanea acquiescenza al Trattato, la revisione. Questo è il sentimento dei più, perché la revisione, che sarà la nostra salvezza, in fondo, è già in atto. Le Repubbliche americane infatti hanno già alzato, a nord e a sud, la voce a nostro favore, e sarebbe imprudente pregiudicare la situazione con un atto di affrettata e volontaria ratifica. Questo, in fondo, è stato il pensiero di coloro che – me compreso – si son trovati concordi nella domanda sospensiva dell’onorevole Orlando, che suona, ripeto, protesta contro il Trattato e domanda di revisione.
E perché revisione? E, prima della revisione, perché la protesta? Perché la rivolta contro questo Trattato che anche il cauto relatore della maggioranza qualifica pressoché iniquo? Perché noi abbiamo diritto di domandare in questo momento, profittando di questa discussione, senza perdere neanche un minuto, agli alleati: Cosa intendete di fare delle nostre colonie? Come intendete che restino in avvenire fissati i nostri confini d’oriente e d’occidente che aprono le porte d’Italia allo straniero? Cosa intendete di fare delle navi che dovremmo consegnare a voi, dopo che esse hanno combattuto per voi dall’8 settembre 1943? Cosa intendete di fare, soprattutto, della frontiera orientale? Cosa intendete fare di Gorizia, che secondo voci recenti è minacciata di essere divisa per metà nel suo stesso abitato? Insomma, volete mantenere al Trattato lo spirito e la forma di una condanna a tutto il popolo italiano?
No; vi sono segni – per fortuna – che ci persuadono che ciò non sta per avvenire; che ciò non avverrà.
Già il Partito comunista francese l’anno scorso, per bocca del suo segretario generale, ha dichiarato che il Partito non si sentiva di chiamare il popolo italiano responsabile della dichiarazione di guerra del 10 giugno 1940; e il Ministro Bidault, il 18 giugno di questo stesso anno ha detto: il popolo non va confuso con gli uomini. Sante parole! La democrazia francese, del resto, non può ignorare che tutte le volte che il popolo italiano fu libero, esso fu solidale con essa per impedire conflitti fratricidi. Basti il ricordo della guerra di tariffe, imperante Crispi, nel 1887-88, che minacciava di portare l’Italia e la Francia alla guerra più ingiusta. Ebbene, la democrazia italiana, interprete del popolo italiano, si è eretta in quel momento contro il Governo del suo Paese e contro Crispi, che pure proveniva dai suoi ranghi, per mettersi al fianco della democrazia francese e scongiurare la guerra. E con questo fu salvo l’avvenire della civiltà latina!
E la democrazia francese anche non può ignorare che proprio per dar modo alla Francia di sguarnire la frontiera delle Alpi e portare le sue truppe sul Reno, il giorno dopo la dichiarazione di guerra della Germania (1° agosto), il due agosto l’Italia, che era legata da un patto di 32 anni agli imperi centrali, insorgendo contro il patto e proclamando la sua neutralità le consenti di portare le sue truppe sulla Marna.
Dunque? Noi non verremo meno alla gratitudine verso gli alleati d’America ed Europa per il grande servigio reso alla civiltà, ma ciò non toglie che verso di essi abbiamo diritto di dire una libera e decisa parola. Che cosa dunque, intendete fare delle nostre vecchie colonie? Noi vi abbiamo profuso tesori di lavoro, di sudore, di lacrime, di sangue, di denaro; abbiamo trasformato villaggi in città (Massaua, Asmara, Cheren, Adua, Adi-Ugri, Agordat); abbiamo bonificato deserti, abbiamo irrigato terre incolte, abbiamo nella sola Eritrea aperto 3300 chilometri di strade camionabili, abbiamo gettato ponti su torrenti e sbarrato acque con dighe, e soprattutto abbiamo portato la luce nel cuore semplice degli indigeni, che ancor oggi ci ricordano e ci amano.
Sì, ci amano; tanto è vero che se le loro rivendicazioni culminano in via principale nella domanda di autonomia, in via subordinata essi chiedono il protettorato italiano. Senza di noi, infatti, cosa è avvenuto nelle vecchie colonie? Disoccupazione preoccupante; industrie languenti, autarchia distrutta. L’Italia, dunque, ha portato in quel paese tesori di civiltà che non possono andare dimenticati e soprattutto non devono essere distrutti. Ora, perché si vuole interrompere l’opera nostra? Quando l’estrema sinistra, in tempi lontani, si batteva contro Crispi e contro le imprese africane, tuttavia per bocca di Giovanni Bovio diceva: Qualunque sia la sorte di queste vicende, siamo certi che il popolo italiano porterà su quelle sabbie lontane una parola di civiltà. E l’Italia l’ha portata; tanto è vero, ripeto, che gli indigeni ci vogliono ancora bene, malgrado le turpitudini compiute dal regime fascista e i massacri del maresciallo Graziani. Ma vi è di più. La perdita delle nostre colonie ci condanna a concentrare la nostra economia nel territorio nazionale e a mandare in altri Paesi, che non sono e non saranno mai nostri, i nostri lavoratori, destinati, forse a non ritornare mai più.
Una parola sulla frontiera d’occidente. Con la Francia, ho già detto, non abbiamo che ragioni di affetto. Penso che un’intesa fra noi non dovrebbe essere difficile. Le parole che in occasione della Fiera campionaria ha pronunciato a Milano un ministro francese, per la prima volta e ben prima della ratifica, venuto in Italia a rappresentare ufficialmente il suo Governo, ci danno affidamento che le nuove promesse saranno mantenute. Tuttavia, qui, in sede di ratifica di un trattato così duro, non possiamo dimenticare che i passi delle Alpi sono aperti ai francesi. Varranno i plebisciti a modificare la situazione?
Più difficile, anzi angosciosa, è la situazione nostra rispetto ai confini orientali. Con il trattato di Versaglia il confine tra l’Italia e la Jugoslavia era di 240 chilometri, costituito da una zona alta a taglio di coltello, e alle spalle di Trieste spaziavano 50 chilometri d’aria. Oggi si ritorna, onorevoli colleghi, al confine del 1866. Fin quasi alle foci del Timavo, dalla conca di Tarvisio, lungo quella di Plezzo e di Caporetto, l’Italia abbandona i suoi territori alla Jugoslavia. Tutte le montagne irrorate di sangue italiano – Merzli, Monte Nero, Sabotino, San Marco, San Gabriele – restano in mano altrui. A noi rimangono, a modesto conforto e perpetuo ricordo, il Cimitero degli Eroi della IIIa Armata a Redipuglia, e l’ossario di Oslavia colmo d’ossa italiane. La città di Gorizia ha il confine fra le mura del suo Cimitero; eppure anche essa ci è contesa, e il Trattato che non porta ancora la firma della grande Potenza che avalla le richieste jugoslave, non si sa quale sorte le riserbi.
Ma Gorizia, signori, fa parte del Friuli; la vecchia Contea ha sempre fatto parte del territorio del Friuli, del quale parla il dialetto che la poesia di Zorutti ha elevato a lingua letteraria. Gorizia nel 1914, prima della grande guerra, il 25 marzo del 1914, quando l’Austria era un possente impero militare temuto per la implacabile severità della sua Polizia, Gorizia mandava fin da allora al Consiglio Comunale la maggioranza italiana, e quando le si domandavano giuramenti di fedeltà all’imperatore, Gorizia li negava, come sempre li ha negati Trieste resistendo ad ogni minaccia. Questo dovrebbero ricordare i nostri avversari. No, preferisco chiamarli i nostri vicini. Non parlo per spirito nazionalista.
Si dice, anzi, che io abbia sangue slavo nelle vene. Ci fu uno scienziato italiano che sedeva nell’antico Parlamento che dal colore degli occhi e dall’etimologia del mio nome mi giudicava «più slavo che italiano». Può darsi. Non me ne offendo. Non ci sono razze pure in Italia. Il Friuli ha avuto, a suo tempo, una notevole immissione di sangue slavo; ma il Friuli è fra le italiane, la più italianissima Provincia, o Regione che sia. E quegli stessi che sono chiamati slavi del Natisone e di Resia che il Trattato di pace del 1866 ha incorporato all’Italia sono diventati e sono italiani, quanto i romani di Piazza Montecitorio.
A questo riguardo, l’onorevole Tessitori, recentemente, ha ricordato l’episodio del battaglione Natisone. Io ne ricorderò un altro ancora più significativo: nelle giornate di Caporetto quando il battaglione Val Fella, composto in gran parte di ex slavi, è sfilato per il suo Paese, San Leonardo, nessuno ha pensato di disertare; nessuno si è fermato davanti alla propria casa, e dalle case invece vennero fuori le donne ed i fanciulli per accompagnare i padri e i mariti fino al Tagliamento, aiutandoli a portare gli zaini, per poi ritornare al paese e alle case per riaccendere il focolare e mantenere calda la fede e la causa degli italiani. Del resto, quando nel 1920, Ministro della guerra, mi sono portato a Trieste per l’applicazione della prima leva militare, il rappresentante slavo, l’onorevole Wilfan, mi ha dichiarato lealmente che gli slavi intendevano «di sottoporsi ai comuni doveri, senza invocare privilegi». Mettere in dubbio, comunque, la italianità di Gorizia e della Venezia Giulia è fuori luogo; lo hanno riconosciuto tutte le potenze europee nel Patto di Londra, e lo ha riconosciuto, prima delle potenze dell’Intesa, prima della Francia e della Inghilterra, la stessa Russia, che il 23 ottobre 1914, ben prima che l’Italia entrasse in guerra, ha dato la libertà a tutti i prigionieri della Venezia Giulia, riconoscendo che essi facevano parte non dell’Austria, ma dell’Italia, anticipando di quattro anni gli avvenimenti di Vittorio Veneto e di cinque anni il trattato di pace.
Io sono antico ammiratore del maresciallo Tito, e gli ho espresso la mia ammirazione in più occasioni. Sono un ammiratore di questo uomo che ama disperatamente il suo Paese e ha trasformato bande partigiane in formazioni quasi regolari che hanno fronteggiato per lunghi anni la potenza germanica. Ma il maresciallo Tito deve ricordare che le sue bande ebbero il soccorso di buona parte delle divisioni italiane che l’armistizio ha sorpreso in Oriente. E il maresciallo Tito deve ricordare ancora che, se conseguì la brillante vittoria di Serajevo, quando vi entrarono i suoi soldati trovarono la città sgomberata dai tedeschi, perché gli aviatori italiani ne l’avevano già ripulita! Dunque, al maresciallo Tito domandiamo una ben maggiore comprensione della situazione giuliana. E gli domandiamo anche cosa abbia fatto degli italiani deportati nel suo Paese, contro ogni legge umana e civile.
La questione della Venezia Giulia, signori, può essere fatale all’Europa, perché l’Isonzo può diventare quello che era il Reno per la Francia e la Germania: il fiume della discordia. Sull’Isonzo si incontrano due civiltà: la civiltà latina e la civiltà slava. Io mi auguro che si incontrino e non che si scontrino. Questo è il pensiero di tutti. Ma per arrivare a fissare questo pensiero – pensiero o sogno – nella concreta realtà della vita internazionale, bisogna che non ci siano nazionalismi né da una parte né dall’altra dell’Isonzo. Perciò, noi che siamo un popolo estremamente sensibile, non possiamo che registrare con sdegno e amarezza che lungo la strada che porta a Trieste, presso le foci del Timavo, sia stata abbattuta l’erma che ricordava gli eroi della terza Armata, abbattuta da coloro che dovrebbero ricordare che gli eroi della terza Armata sono morti non solo per la nostra, ma anche per la loro libertà.
Torni dunque Trieste all’Italia in breve tempo, o vi ritorni in un tempo più o meno lungo, oggi noi non possiamo che deplorare la costituzione di uno Stato libero senza sovranità, uno Stato libero ma non sovrano, che non può nominare il proprio Governatore e nemmeno il capo della sua polizia; uno Stato senza territorio, senza retroterra, che deve vivere quasi di mendicità e ricevere tutti i rifornimenti dai popoli vicini. Che avvenire può avere una simile larva di Stato?
È stato detto in America, da Bridges, che la questione di Trieste può diventare «il focolaio pericoloso nel centro meridionale di Europa», – e fu detto anche in Senato, dal senatore Wherry, che il Trattato pone l’Italia dietro un sipario d’acciaio.
Noi intendiamo denunciare alla pubblica opinione del mondo – se la nostra voce avesse tanta forza da arrivare lontano – che la soluzione di Trieste, com’è disciplinata nel Trattato, non può essere che una soluzione provvisoria.
È vero che ci sono stati sempre antichi appetiti su Trieste, anche da parte germanica; è vero che nel 1919, quando Orlando perorava la causa italiana a Parigi, il Ministro Korosec, a Lubiana, diceva con linguaggio poetico che «la nostra solatia Gorizia e la nostra soave Trieste non possono che essere slave». È vero che egli diceva questo, ma il Capo della polizia di Trieste, il Lanech, anche diceva che scavando cento metri sotto terra, a Trieste, si finiva sempre per trovare l’irridentismo…
Per nostra fortuna il Trattato lascia immutato il confine settentrionale. Giusto ed ottimo confine di 290 chilometri costituito da enormi massicci alpini, dei quali 140 coperti di ghiacciai. Per 152 volte l’Italia ha subito l’invasione straniera; per 62 volte l’invasione venne dalla via del Brennero; le altre volte venne quasi sempre da Oriente, tanto è vero che il Friuli chiamava la conca di Adesberg la «strada dei barbari».
Con gli allogeni dell’Alto Adige andremo d’accordo. Siamo già andati d’accordo con loro fino al giorno dell’avvento del fascismo.
Un Ministro dell’interno dell’impero Austriaco, Toggemberg, diventato deputato italiano, in un incontro nel 1921 col nostro Ministro della guerra, a me non ignoto, diceva: «L’italiano è un popolo che irradia dietro a sé fervide simpatie. Voi potrete conquistare l’anima degli allogeni alla condizione che sappiate governare «con autorità e con giustizia».
Venne il fascismo, che volle governare con autorità e senza giustizia, da qui persecuzioni disinganni e conflitti.
Un breve accenno ora alle clausole militari, che non possono non preoccupare l’animo nostro.
L’esercito italiano il 25 luglio 1943 teneva in armi 4 milioni e 150 mila uomini (siamo ben lontani dai dieci milioni di baionette promesse da Mussolini a Hitler). Oggi il Trattato di pace ci autorizza a mantenere in armi 185 mila uomini più 65 mila carabinieri; in totale 250 mila uomini.
Per dovere di sincerità, dobbiamo riconoscere che il sacrificio, per quanto riguarda l’esercito, è sopportabile.
Infatti, l’esercito fascista, secondo le statistiche del 1930, era costituito di 15 mila ufficiali, 13 mila sottufficiali, 220 mila uomini di truppa, 50 mila carabinieri: un totale di 298 mila unità.
Non siamo molto lontani da questa cifra. L’esercito – checché ne dica qualche generale deluso – non è in sfacelo. Esso non fu mai tanto saldo come ora. L’esercito italiano in questo momento gode le simpatie del Paese, come lo dimostra il fatto che tutte le volte che i suoi soldati sfilano per le vie delle città, riscuotono gli applausi delle folle popolari.
L’aver conciliato il soldato col popolo italiano è stata una conquista che intendiamo mantenere. Esso esce dalla guerra con l’onore intatto. Formazioni regolari e partigiane gareggiarono in eroismi.
L’Aeronautica al 25 luglio 1943 disponeva di 1337 apparecchi, dei quali 272 da bombardamento, 582 da caccia: di 195 mila uomini al servizio degli apparecchi.
Dopo l’8 settembre essa ha compiuto 4155 azioni di guerra con 24199 ore di volo; ha compiuto 33 mila voli per trasporti e collegamenti a profitto degli alleati.
Oggi l’Aviazione è ridotta: a 200 apparecchi da caccia, a 150 da trasporto; a 25 mila uomini. Non si meritava simile trattamento, dopo le prove date.
Ma il colpo formidabile lo riceve, purtroppo, la Marina italiana; e il Paese lo sente e lo registra con profonda amarezza.
In contrasto con l’accordo intervenuto a Taranto il 23 settembre 1943 fra Cunningham e De Courten, accordo da noi lealmente rispettato e generosamente praticato, contro tutte le aspettative, un secondo accordo segreto fra gli Alleati intervenuto a Teheran nel dicembre del 1943, stabiliva la spartizione fra essi della flotta italiana.
Perciò, il Capo di Stato Maggiore della Marina italiana in un rapporto meditato e severo, che dà a pensare profondamente per l’autorità del nome e dell’ufficio, poteva scrivere che, mentre si chiedeva alla Marina di collaborare con tutte le sue unità alla causa comune, «una decisa volontà di spoliazione dominava gli Alleati». Parole tanto forti che sono esitante a sottoscrivere.
Comunque, nelle azioni di guerra compiute «per la causa comune» dopo 1’8 settembre, la Marina italiana ha perduto 71 unità da combattimento, per un totale di 135 mila tonnellate: un terzo e più del suo tonnellaggio totale; sempre per la causa alleata ha spiegato una imponente attività, trasportando 543.000 uomini e 448.000 tonnellate di materiale da guerra, compiendo 47.000 missioni da guerra, con un percorso complessivo di 5.150.000 miglia; offrendo agli alleati tutte le nostre basi navali contro la Germania, tra cui il cantiere navale di Taranto di cui gli alleati disposero ampiamente per le loro operazioni. La Marina, in base al Trattato di pace, non può più conservare che due vecchie corazzate, quattro incrociatori, quattro cacciatorpediniere, venti corvette e un certo numero di unità minori. A guerra finita, malgrado le falcidie e gli affondamenti subiti negli scontri con il nemico, la Marina italiana era rimasta con 266.000 tonnellate e con 39.000 uomini. Il Trattato di pace ci lascia soltanto 68.500 tonnellate e 25.000 uomini.
Oggi tutta la nostra costiera adriatica, già povera di porti, è lasciata alla prevalenza assoluta dei nostri vicini; con la smilitarizzazione delle Puglie, della Sardegna, della Sicilia, con il divieto di costruzione di armi moderne e con divieto del diritto di studio e con il divieto – state bene attenti – di costruzione dei sommergibili, l’arma dei paesi poveri, con il divieto di uso delle motosiluranti che rende impossibile l’addestramento dei mezzi antisommergibili, il Trattato ci mette in condizioni umilianti. Insomma, si vuol togliere all’Italia il diritto di autodifesa, riconosciuto a tutti i popoli dalla Carta di San Francisco.
E se ciò non bastasse, ci si impone l’affondamento di 31 sommergibili, e tutte le navi esuberanti a quelle 153 unità che ci sono riconosciute, tolte quelle destinate in un secondo tempo all’autoaffondamento o alla demolizione, debbono essere consegnate agli alleati.
Apro una parentesi: non può non preoccuparci il fatto che nella Marina italiana è corsa voce più volte che vi è chi intende ribellarsi a questa dura imposizione. Io, Ministro del tempo, ho creduto di intervenire ed ho richiamato quei giovani ardenti, che intendevano di sacrificarsi con un atto di fierezza alla clausola ingiuriosa, facendo loro intendere che il Governo italiano soltanto ha facoltà di scegliere il modo onde provvedere alla dignità della Marina italiana.
Il Capo di Stato Maggiore domanda su questo delicato argomento la solidarietà dell’Assemblea. L’Assemblea è certamente concorde nell’esonerare la Marina italiana da qualunque responsabilità di quello che possa accadere. Alla dignità di essa penserà il Governo italiano. L’Assemblea difende fin d’ora i nostri valorosi marinai, che si sono tanto sacrificati nella lunga guerra, dall’accusa o dal sospetto di debolezza. (Bene).
Essi hanno sempre fatto salvo l’onore delle loro navi e la maestà della tradizione militare, e hanno diritto alla riconoscenza del Paese. Rinuncio a parlare di altre clausole che offendono il diritto e la stessa dignità umana, come l’amnistia ai soldati traditori e la consegna allo straniero dei criminali di guerra.
Dunque, signori del Governo, in un momento o in un altro, domani o dopo domani, tra qualche giorno e tra qualche mese, a seconda delle circostanze e dell’andamento delle cose, purtroppo, noi finiremo con l’approvare, o meglio coll’eseguire, questo Trattato, coll’eseguire questo Trattato che ci lacera l’animo. Lo eseguiremo per non aggravare ancor più le condizioni del Paese e per non assumere la terribile responsabilità di ritardare la ricostruzione economica, e soprattutto spirituale, dell’Europa. Ma dovremo pur sempre ricordarci ed assumere l’impegno d’onore di pensare, oggi, domani e sempre, all’avvenire dei nostri fratelli giuliani che, contro ogni interesse materiale, intendono restare fedeli al genio del loro Paese. Spettacolo commovente! Se un giorno il poeta italiano del Risorgimento, Giovanni Berchet, in un canto accorato, ha esaltato i profughi di Parga, sfuggenti al dominio del turco, che cosa dovrebbe dire il poeta moderno dei profughi di Pola, che hanno abbandonato altari e sepolcri, e spento i focolari, e fatta della propria terra deserto, per rifugiarsi in grembo alla vecchia Italia, per pensare e parlare e vivere italianamente?
Se vi sono ancora in Italia uomini, donne, bambini, così fedeli alla loro Patria, da amarla di così puro e santo amore, vivaddio, l’opinione pubblica del mondo deve convincersi che questa vecchia Italia è un Paese che non può morire. E non morirà. Prima di tutto per la salvezza dei propri figli; poi per l’avvenire e la gloria di tutti i popoli liberi. (Applausi a sinistra).
PRESIDENTE. è iscritto a parlare l’onorevole Canepa. Ne ha facoltà.
CANEPA. Onorevoli colleghi, io parlo a nome del gruppo parlamentare del Partito Socialista dei Lavoratori Italiani, il quale darà votò favorevole alla ratifica nella formula proposta dal Governo.
Abbiamo ascoltato tutti, con la riverenza che merita l’illustre pensatore, il discorso di Benedetto Croce, ma egli si è tenuto nelle sfere eteree della filosofia e della storia, mentre qui siamo sul terreno della politica che non ammette voli molto alti, ma richiede una seria espressione logica. Non si è dato un minimo pensiero dei danni che deriverebbero al Paese, e specialmente alle classi lavoratrici, da una denegata ratifica. Nemmeno una parola. Ed allora, mi sia permesso di dire che chiunque è padrone di fare l’atto sdegnoso che crede, di dire «costi quel che costi» quando paga lui, non quando manda il conto agli altri, non quando chi paga è il popolo. Non si ha il diritto di sacrificare una nazione per un atto di fierezza che può essere, se è individuale, epico, ma che quando invece è fatto a spese degli altri è meramente retorico. Il sacrificio che noi stiamo per fare, obtorto collo, non è certamente nuovo. Tutta la storia è piena di trattati ingiusti e duri che i vincitori impongono ai vinti: i vinti firmano perché non ne possono a meno, ma non per questo si disonorano, non per questo vengono meno alla propria dignità. E mi sia lecito ricordare il più glorioso degli esempi: il Trattato che a noi sta davanti è pieno di quelle ingiustizie che splendidamente l’amico Gasparotto ha illustrato, ma ingiustizie non meno minori conteneva il trattato che la Germania impose alla Francia dopo la guerra del ’70 e ’71. Il Secondo Impero di Napoleone il Piccolo era stato come una prefigurazione del fascismo, aveva portato la Francia a Sédan; ebbene, la repubblica nata da quella catastrofe ha firmato il trattato di Francoforte e poi ha atteso al proprio risorgimento economico e spirituale, con uno splendore che tutto il mondo ha ammirato appena tre anni dopo, alla splendida esposizione di Parigi del 1874! Questo è onore, questa è la dignità delle nazioni! Non negare una firma, quando vi prendono per il collo, ad un pezzo di carta; ma rilevarsi dalla bassura in cui si è cacciati da un regime iniquo e dalla prepotenza dei vincitori, rilevarsi alti e ascendere di nuovo alla gloria del benessere, della cultura, insomma, dello splendore della civiltà.
Questo ha fatto la Francia nel 1870-74, questo faremo noi, in modo certo non meno minore, conformemente alle nostre tradizioni.
È inutile, è superfluo che io dica che questo Trattato che dobbiamo ratificare contiene molte clausole dure ed inique, perché l’ha già detto il collega Gasparotto, perché tutti ne siano convinti; ma vorrei notare che, pur dovendo amaramente deplorare che esso abbia dimenticato la cobelligeranza e l’insurrezione gloriosa dei nostri partigiani, si può in parte comprendere la gravezza di certe clausole, quando si pensi al delitto che aveva compiuto la coppia criminale monarchia-fascismo: la monarchia più colpevole del fascismo (Applausi a sinistra), perché domani, 25 luglio ricorre l’anniversario del giorno in cui il re, liberatosi di Mussolini, ha lanciato l’appello al popolo, nel quale però diceva «la guerra continua».
Quelle fatali parole sono state una delle cause più gravi delle nostre disgrazie e della sventura che ci ha colpito.
Tutti i popoli vincitori commettono sempre delle ingiustizie, ed io non sono qui a sminuirne l’importanza, ma dico che è urgente uscire dall’armistizio, il quale non è altro che una guerra sospesa. L’armistizio, come dice la parola stessa, per definizione, altro non è che la condizione del popolo che si è arreso ed è in balìa, quindi, dei vincitori.
Noi oggi siamo a questo punto: non siamo padroni nemmeno di concludere un trattato di commercio senza il beneplacito e l’autorizzazione dei riveriti nostri quattro padroni.
E abbiamo le nostre piazze occupate da truppe straniere, ivi compresi i marocchini le cui gesta tutti conoscete. Questa è la condizione che si protrarrebbe con il rinvio a tempo indeterminato della nostra ratifica. Se, senza preconcetti, si esamina questa questione, non può sorgere in noi ombra di dubbio.
Io mi rendo perfettamente conto che, fino a poco tempo fa, nell’animo di molti, specie di una parte della Assemblea, vi fossero delle esitazioni, vi fossero dei dubbi. Si diceva: perché la Russia non ha ratificato? Io ho rivolto questa domanda a persone le quali, sia per il loro partito, sia per le informazioni diplomatiche di cui si presumeva potessero disporre, avrebbero dovuto essere in grado di saperne qualche cosa: tutti si stringevano nelle spalle. «Chi lo sa? – mi si rispondeva – Forse medita qualche cosa; forse si attendono delle novità che non si sa bene che cosa siano». Insomma un’aria di mistero si era determinata e è proprio della natura umana che nella notte del mistero i cavalli della fantasia galoppino.
Si è creata così ogni sorta di ipotesi. Ma ora questo stato d’animo deve essere dileguato, perché c’è un fatto a cui mi meraviglio non si dia la dedita importanza: recentemente nell’assemblea delle Nazioni Unite, Gromyko, rappresentante dell’Unione sovietica, ha dichiarato che appena l’Italia avrà ratificato, anche la Russia ratificherà (Interruzioni a destra) e non c’è motivo per dubitare della parola data dalla Nazione sovietica.
Dunque è tolto questo dubbio, dunque la questione è chiarita; ora il popolo sente che entriamo in un’epoca nuova.
L’onorevole Gasparotto ha parlato benissimo della questione delle navi. Ebbene, l’altro giorno, il Municipio di Genova ha chiesto che una di queste navi sia data ai genovesi perché essi possano rinnovare l’antica, gloriosa tradizione della nave Garaventa che raccoglieva i ragazzi dalle strade, li educava e li istruiva: da quella scuola sono in gran parte usciti i nostri valorosi marinai. E sapete a chi Genova ha rivolto questa domanda? Non già ai signori Quattro, ma all’organizzazione delle Nazioni Unite. E alla stessa Organizzazione spetta il decidere anche su tutto quanto riguarda le ex colonie.
Dico le ex colonie, perché il regime delle colonie è tramontato; al regime delle colonie succede ora il regime dei mandati fiduciari che si dànno a un popolo perché educhi alla civiltà dei popoli indigeni, e, una volta che tali popoli abbiano raggiunto un dato livello di civiltà, li lasci alla loro sorte. Ebbene, questi mandati che tanto giovano al popolo cui è affidata tale missione, come al popolo che ne è l’oggetto, questi mandati con le nostre antiche colonie prefasciste, nelle quali abbiamo speso tanti capitali e in cui tanti nostri lavoratori possono trovare lavoro, io ho la certezza che ci saranno dati, precisamente da quella organizzazione della quale ho parlato.
Ora, qui dovrei entrare a parlare del cosiddetto «piano Marshall»; dico cosiddetto, perché non esiste un piano Marshall, ma esiste semplicemente un’offerta fatta dal generale Marshall, a nome dell’America, di soccorsi, di aiuti alla comunità europea: il piano deve farselo ogni nazione europea prima, e poi deve farselo l’Europa unita.
Ma io ho la fortuna – fortuna per me e fortuna per voi – di poter forse fare a meno di parlare del «piano Marshall», perché debbo darvi la lieta notizia che stamane è giunto da Parigi il nostro collega Tremelloni, il quale si fermerà qui qualche giorno per raccogliere dati per l’esercizio del suo alto mandato tecnico; e per quanto egli debba fare sollecito ritorno a Parigi, spero che troverà il tempo per parlare qui. Egli ci dirà, a causa cognita, meglio di quello che potrebbe farlo chiunque di noi, perché ha vissuto queste settimane nel centro della creazione della nuova Europa, quali siano le condizioni nostre in questa cooperazione, in questo Comitato, e credo di poter affermare che da quanto egli dirà, ricaverete una forza, un argomento più decisivo ancora per comprendere che la ratifica è assolutamente necessaria.
Senza dubbio tutti vorremmo che questa cooperazione europea fosse di tutta quanta l’Europa geografica, dall’Atlantico agli Urali. Io non entro nella questione del perché la Russia e i suoi satelliti non abbiano aderito, perché non è questo il momento di trattare tale questione; dico soltanto che la porta è lasciata aperta, e mi auguro che ben presto la Russia e i suoi vicini vogliano associarsi a questo lavoro. Ma intanto noto che lo spirito di questa Europa occidentale, chiamiamola così, è stato espresso benissimo, prima di tutti dal nostro Ministro Sforza, e poi, domenica scorsa, tre giorni fa, dai discorsi pronunciati ai rispettivi popoli dai rappresentanti dei Governi di tre grandi Nazioni: dell’Inghilterra, della Francia e dell’Italia. Ha parlato Bevin, in un sobborgo di Londra, Ramadier, a Perpignano, sui Pirenei, De Gasperi a Trento. Ebbene, tutti hanno espresso quasi con le stesse parole lo stesso concetto: cioè hanno auspicato l’unificazione dell’Europa che si conseguirà eliminando l’antagonismo fra Mosca e Washington. Questo voto dei tre Ministri, rappresentanti dell’Europa d’oggi, è certamente il voto nostro, è certamente il voto di tutto il popolo italiano.
Sul compito della cooperazione europea, oltre che, come ho detto, della parte economica, parlerà l’onorevole Tremelloni; dico che è il principio di quella unificazione Europea, di quegli Stati Uniti d’Europa di cui si è parlato tanto e a cui finora si sono dedicati libri e giornali e congressi. Ma ora cominciano i fatti. C’è l’unione del Belgio, Olanda e Lussemburgo (Benelux) che hanno spezzato le barriere doganali che li dividevano e si sono stretti in unione. E pare su via analoga si stiano mettendo i tre Stati Scandinavi, che stanno al vertice della scala della civiltà. Da queste unioni parziali nascerà l’unione generale, gli Stati Uniti d’Europa da idealità diventeranno una realtà concreta. È questo l’unico modo di risolvere la questione germanica, la quale non può certamente continuare nello stato in cui è, perché la Germania ha diritto di essere riunita, ha diritto di essere posta in condizioni di vivere, ma nello stesso tempo il mondo ha anche diritto di vigilare e prevenire il ripetersi di aggressioni, come consigliava Arrigo Heine nel suo celebre libro De l’Allemagne. E io non vedo come si possa stare con gli occhi aperti senza unificare l’Europa, togliendo così a ciascuno nazione la possibilità di aggredire le altre. Non si deve confondere il concetto di indipendenza con quello di sovranità. Devo ricordare per gloria nostra (dicono tanto male di noi, che, se qualche volta possiamo citare qualche merito è un piacere), che con l’art. 4 del nostro Statuto «l’Italia rinuncia alla guerra come strumento di conquista e di offesa alla libertà degli altri popoli e consente, a condizione di reciprocità e di eguaglianza, alle limitazioni di sovranità necessarie ad un ordinamento che assicuri la pace e la giustizia tra i popoli».
Per questo lavoro, rivolto alla resurrezione d’Europa come condizione necessaria del nostro risorgimento, l’uscita dallo stato armistiziale è assolutamente necessaria; e possiamo uscirne a capo alto, come un popolo che ha riscattato i suoi errori e riprende le sue gloriose tradizioni, dal Rinascimento che ha rinnovato la vita del mondo, fino al Risorgimento.
Ma non basta l’unione Europea. Occorre ancora l’unione mondiale. Io devo qui citare un giornale che è l’espressione dei veneti giuliani, La Venezia Giulia giornale calorosissimo per la loro causa. Ebbene, il 22 giugno La Venezia Giulia domandava al Governo di fare una decisiva e fattiva politica per la difesa dell’italianità nel territorio libero di Trieste e nel resto della Venezia Giulia assegnata agli slavi, e diceva: «Noi possediamo i mezzi per applicare questa politica. Ce li conferisce oltre che il diritto naturale, la ratifica e l’applicazione del trattato aprendoci le porte dell’O.N.U.».
È dunque lo stesso organo giuliano che riconosce la necessità della ratifica, perché si possa svolgere la nostra azione a favore di quelle regioni.
Con molta sorpresa ieri quando ho detto brevi parole per combattere la tesi del rinvio e ho accennato all’O.N.U., ho sentito qualche sogghigno come se si trattasse di una creazione di poca importanza. Ho sentito anche, ironizzando, ricordare la Società delle Nazioni. Ebbene dobbiamo aver fede che dall’O.N.U. staranno lontani i fati della Società delle Nazioni, la quale è morta per vari motivi che rapidissimamente possiamo vedere.
Il primo è che ad essa non appartenevano i due più grandi e potenti stati del mondo, la Russia e gli Stati Uniti. Ora invece la Russia e gli Stati Uniti sono a capo dell’O.N.U.
Il secondo motivo è la mina posta alle sue fondamenta dal fascismo e dal nazismo. Questo si sapeva già, ma ora abbiamo la confessione del reo, nel «Diario» di Ciano che è stato pubblicato, tradotto in giornali esteri, ma che oggi vede la luce anche su un giornale italiano, il Corriere della Sera, nel testo originale. Nel «Diario» di Ciano è narrata la storia della congiura che Mussolini e Hitler avevano ordito per mandare all’aria la Società delle Nazioni.
Ora, purtroppo, nazismo e fascismo non sono morti o meglio tentano di risorgere, ma ciò non può avvenire senza che il mondo abbia perduto il senso della propria conservazione: il nazismo e il fascismo non potrebbero risorgere che per la rovina delle nazioni e della collettività umana.
Terzo motivo: l’organizzazione operaia in quel tempo, cioè dopo la guerra 1915-1918 era ancora un poco infantile, e i partiti che da essa promanavano affettavano una intransigenza assoluta. Eravamo in pochi allora, accanto al nostro insigne Maestro, Leonida Bissolati, ad insistere perché l’organizzazione operaia suffragasse la Società delle Nazioni. Ma ci si rispondeva che era una istituzione borghese.
Ora tutto questo è cambiato. Vediamo che l’organizzazione operaia si è fatta adulta e che i partiti che da essa promanano appartengono ai governi insieme ad altri partiti.
Ora anche qui c’è un altro fatto che è passato inosservato e che per me invece ha grande importanza, poiché giorni fa a Praga la Federazione sindacale mondiale stringeva intimi rapporti con l’Ufficio Internazionale del lavoro; e l’Ufficio Internazionale del Lavoro altro non è che una sezione dell’O.N.U. Le due istituzioni, l’organizzazione delle Nazioni Unite e l’Internazionale operaia, stringendosi l’una all’altra si irrobustiscono a vicenda e da questo irrobustimento dipende in gran parte la conservazione della pace.
Quarto ed ultimo motivo – ma non ultimo per ragioni d’importanza – è toccato alla Società delle Nazioni, quella che Niccolò Machiavelli diceva per i profeti disarmati.
La Società delle Nazioni era inerme, l’O.N.U. sarà ben armata.
È all’ordine del giorno della sua prossima sezione l’abolizione degli eserciti nazionali, e la creazione di un esercito unico; e in che misura ogni nazione deve contribuire, alla formazione dello Stato Maggiore, e alla forza dei varii reparti.
Risaliamo i secoli col pensiero, richiamiamo alla nostra memoria i grandi congressi che segnano le epoche della storia: nessuno mai ha avuto la minima importanza a paragone di questo che segna la più radicale delle trasformazioni del mondo. Riuscirà? Non riuscirà? Sarà rimandato? Ma il solo fatto che sia all’ordine del giorno, il solo fatto che tutte le nazioni ne discutono dimostra la grande importanza; e ditemi se è possibile che ad un avvenimento come questo, per il quale si deve ripetere il verso che due mila anni fa scriveva il nostro Virgilio: Novus ab integro saeclorum nascitur ordo, ditemi se a questo convegno noi possiamo mancare.
Ditemi se può esservi presente tutto il mondo meno l’Italia e la Spagna. Questo è impossibile.
Non entro nella disamina del Trattato, perché questo sarà fatto domani dal nostro collega onorevole Treves; ed è già stato fatto dall’onorevole Gasparotto. Ma mi limito ad osservare che per la questione del confine con la Francia c’è un ordine del giorno che abbiamo firmato quasi tutti: credo che raccolga la firma di tutti quanti.
Noi abbiamo l’ardente desiderio che si venga ad una conciliazione con la Francia; ed io ho una viva speranza che ci si arriverà, perché ricordo che contro l’amputazione dei nostri confini occidentali ha protestato Léon Blum, leader del partito socialista francese, il quale ha detto: «per pochi jugeri di neve – quelques arpents de neige – volete voi turbare i rapporti di due popoli che la storia, la natura, soprattutto i loro interessi legano?
Pertanto nella transazione auspicata dall’ordine del giorno io ho ferma fiducia.
Lo so, il confine orientale stringe il cuore, perché lo hanno segnato due numi indigeti della Patria, Dante Alighieri, nei celebri versi «…a Pola presso del Quarnaro, che Italia chiude e suoi termini bagna» e Giuseppe Mazzini nell’ultimo suo scritto sulla politica internazionale. E i confini antichi li hanno santificati il sangue di tanti nostri fratelli caduti ed il martirio di Guglielmo Oberdan. A questi nostri fratelli che sono strappati dal nostro seno dobbiamo mostrare un amore che non sia un amore platonico. Noi dobbiamo accogliere i giuliani che non credono di poter rimanere di là, coll’affetto che si mostra ad uno della famiglia che ritorna, assisterli in tutti i modi, sistemarli tra noi. E quanto a quelli che restano dall’altra parte ricorderò – Gasparotto ha parlato di Tito ed è giusto quello che ha detto – che se noi volessimo protestare perché sono tenuti in stato di soggezione, purtroppo, se rimaniamo in stato di armistizio, la nostra protesta cadrebbe nel vuoto.
Orbene, il paragrafo 4 dell’articolo 19 del Trattato dice: «Lo Stato al quale è stato ceduto il territorio assicurerà a tutte le persone che si trovano sul detto territorio, senza distinzione di razza, di sesso, di lingua, di religione, il godimento dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali ivi comprese le libertà di espressione del pensiero, di stampa, di pubblicazioni, di culto, di associazione e di riunione».
Noi non potremo fare rispettare questo articolo, se non quando avremo ratificato il Trattato. Potremo dire: «Se pesa su noi per tante parti inique ci si accorda, almeno per questo barlume di luce che ci si lascia, la forza e la solidarietà internazionale a cui rivolgerci».
Concludo: quanto a Trieste, Stato Libero, esso deve avere una amministrazione, un Consiglio Comunale, un Sindaco, comunque lo chiamino, un Sopraintendente, un Commissario, qualcosa come i Prefetti delle nostre Provincie.
Chi lo nomina il Prefetto? L’O.N.U. Se dunque noi saremo fuori di questa organizzazione, non avremo voce in capitolo nemmeno per l’amministrazione di Trieste, sopra la quale invece dobbiamo influire per mantenere con essa tutti i rapporti economici e culturali e sopratutto spirituali che conservano l’anima della italianità. Questo noi lo potremo fare se vivremo la vita internazionale, che è lo spirito dei tempi nuovi, che è l’anima verso la quale i popoli che hanno paura, giustamente, della guerra aspirano.
Verso questa politica internazionale e sopranazionale noi dobbiamo rivolgere i nostri sforzi, anche perché essa sarà il bene non soltanto di tutto il mondo, ma il bene particolarmente nostro; è in essa la via della salvezza in cui ritroveremo il nostro benessere, la nostra cultura, le nostre glorie antiche. Questa è la via che i giovani devono percorrere ed essi devono essere ben superbi che un simile compito ad essi assegni la storia. (Applausi al centro e a sinistra – Congratulazioni).
PRESIDENTE. L’onorevole Ruini ha presentato il seguente ordine del giorno:
«L’Assemblea Costituente,
esprime il dolore e la protesta dell’Italia, perché non è questa la pace che ha meritato; il Trattato che le è imposto ferisce, assieme ai suoi diritti, le esigenze internazionali proclamate dalla Carta Atlantica e dalle dichiarazioni degli Alleati; né tiene conto che la responsabilità della guerra è del fascismo, e che il popolo italiano è insorto ed ha combattuto a fianco delle Potenze Unite contro la Germania per il trionfo delle democrazie;
riconosce che, nonostante tutto, l’Italia deve, per lo stato di necessità in cui viene messa, ratificare il Trattato, rivendicando nel tempo stesso il suo incancellabile diritto alla revisione;
autorizza il Governo a procedere all’atto formale di ratifica quando, col deposito delle ratifiche delle quattro grandi Potenze, a termini dell’articolo 90, si verifichino le condizioni obiettive, di fronte alle quali l’Italia è costretta a tale ratifica».
L’onorevole Ruini ha facoltà di svolgere il suo ordine del giorno.
RUINI. Onorevoli colleghi, l’ordine del giorno che ho presentato una settimana fa, aveva un intento di chiarificazione e cercava di evitare il pericolo che la soluzione allora sostenuta dal Governo di una ratifica immediata, e le opposizioni che sollevava spostassero le basi ed il terreno della discussione. Quella che doveva essere unanime ed accorata protesta, non doveva diventare una angusta e rissosa questione di procedura, che si sarebbe prestata ad interpretazioni non esatte: di adesione all’uno o all’altro blocco, di appendice d’un termine di ratifica al trattato.
Ad un dato momento si verificò un incontro. Il Governo adottò la soluzione, espressa nel mio ordine del giorno – che non era soltanto mia, ma rispecchiava idee manifestate da gran parte delle correnti d’opposizione e da non pochi democristiani – di riconoscere la ratifica inevitabile, ma di rinviarne l’atto formale a quando, col deposito delle ratifiche delle Quattro Grandi Potenze, il Trattato sarebbe divenuto esecutivo, e si sarebbe verificata per l’Italia la necessità di firmare.
Sembrava che si potesse realizzare un pieno consenso; ma ecco nuovamente divampare il dibattito, che si annuncia confuso ed a linee non ferme; così che il mio ordine del giorno risponde ancor più ad una esigenza di chiarificazione e, nell’oscillare delle posizioni altrui, tiene fermo un punto di vista che esprime, con la via tramata dalla coscienza, quella del più sicuro interesse nazionale.
Ho sentito l’onorevole Sforza parlare con tanta nobiltà; ma, qualche volta, nel suo discorso, mi pareva che si attardasse la difesa della prima posizione, della ratifica immediata, che poi era stata abbandonata. D’altra parte, i partiti estremi, che avevano ottenuto quanto chiedevano, rimettono tutto nell’incertezza e, rinviando una netta orientazione, si riuniscono, nella confusione delle lingue, con coloro che non vogliono la ratifica.
Bisogna, sollevandosi al di sopra della tattica di partito, cercare non di confondere ma di distinguere tre posizioni essenziali. Prima, il grido di dolore e la protesta, che è di tutto il popolo italiano, e noi qui, avremo l’unanimità.
Seconda, il riconoscimento che non si può evitare, quando che sia, la ratifica; ed avremo anche per questo una quasi unanimità, tranne un piccolo gruppo di spiriti eletti, e di elementi nazionalisti, che non si vogliono piegare alla ratifica mai.
Terza, la determinazione del momento, in cui dovremo ratificare; quando? subito? dopo la ratifica delle Quattro Grandi potenze? Qui va localizzato il dissenso. Ma, abbandonata dal Governo la tesi della ratifica immediata, qual è la differenza, che ci può dividere?
Parlo con un sillogismo: visto che si deve fare la ratifica, visto che all’atto formale di ratifica si addiviene con una autorizzazione al Governo, ecco la conclusione: questa autorizzazione la dobbiamo dare ora o aspettare che sia data quando le quattro Potenze avranno firmato? La differenza è qui.
Dirò rapidamente le ragioni, per cui credo di potere difendere la tesi adombrata nel mio ordine del giorno.
Protesta unanime. Non dobbiamo neppure per un momento indugiare. La frase «questa non è la pace che abbiamo meritata» è frase detta dal Capo dello Stato con alta passione. Noi possiamo e dobbiamo affermare che il nostro paese, col suo contegno, in guerra, ha meritato una pace diversa di quella che le è duramente imposta. Qualche giornale estero cerca di negarci il diritto a questa protesta. Crede di aver ragione, nel senso che questa non è la pace dell’Italia, una pace che i vincitori hanno fatto con l’Italia; è un tentativo di pace che hanno fatto fra di loro.
Ricordo sempre la frase di Byrnes: «sì, vi sono cose ingiuste; ma dovevamo evitare la guerra europea e mondiale». Se vi sono ingiustizie, se l’Italia è crocefissa e martoriata, abbiamo il diritto ed il dovere della protesta. I nostri figli ci rimprovererebbero un umiliato silenzio. Né la protesta è inutile gesto; è dignità e volontà di popolo, che non accetta anche se costretta a dargli esecuzione, il trattato non si ribella, ma si riserva il futuro e la rivendicazione dei propri diritti.
Non andrò a cercare – è stato detto con molta autorità e finezza da Croce – le ragioni per cui questo Trattato offende la storia italiana. È la storia che insorge contro di esso, con i valori più alti dello spirito, con gli apporti decisivi che ha dato alla civiltà universale; con la certezza che, come ha fatto sempre dopo le più gravi catastrofi (ed in ciò è unica nel mondo) l’Italia contribuirà ancora, e sarà alla testa, nello sforzo per una nuova civiltà.
Ho accentuato, nell’ordine del giorno, due ragioni immediate contro l’ingiusto Trattato. La responsabilità della guerra è del fascismo, che – sorretto al suo sorgere da larghi strati politici ed economici negli attuali vincitori asservì con la violenza il popolo italiano; ma questo è insorto, ed ha combattuto a fianco degli alleati. Responsabilità del fascismo.
Voce. Della monarchia.
RUINI. Io parlo di un regime nel suo complesso. Che la responsabilità sia del fascismo è ammesso ora dagli alleati; e bisogna ripeterlo. Se no, sembrerebbe che la responsabilità fosse dell’Italia, e che questa dovesse giustamente pagare. Dobbiamo ripeterlo perché è la verità e perché oggi assistiamo ad una mostruosa inversione: che sono proprio coloro che furono fascisti o che hanno la nostalgia del fascismo a rimproverare ora all’Italia, al popolo che è insorto, a noi che l’abbiamo guidato, la responsabilità della dura pace che l’Italia dove subire come credito del loro regime funesto. (Approvazioni).
Un’altra ragione profonda, a cui ci appelliamo, sono le dichiarazioni che gli Alleati hanno fatto, durante la guerra, sulla pace e le esigenze della convivenza internazionale. La Carta Atlantica ed altre solenni proclamazioni non sono state applicate all’Italia e la pace fra gli alleati ha ferito, insieme agli interessi vitali d’Italia, i principî del diritto e della giustizia internazionale; né ha tenuto conto che, anche come convenienza pratica e concreta, le soluzioni meno sfavorevoli all’Italia erano quelle che più si confacevano all’interesse comune ed assicuravano una pace durevole nel mondo.
Mi sono appellato alle dichiarazioni generali, più che alle promesse largite dagli Alleati a l’Italia. Vi è tutta una storia, che si potrebbe fare, delle illusioni, o autoillusioni in cui è vissuto il popolo italiano. Non è forse esatto dire che ci hanno ingannati. Ci siamo ingannati, ma hanno lasciato che noi ci ingannassimo e si sono valsi delle nostre illusioni. Se anche, come è degli infelici ci siamo illusi sulla portata delle loro promesse, queste vi sono state, e si è formato – l’affermazione non è mia, l’ho letta in uno degli ultimi numeri di Civiltà Cattolica – un tacito patto tra noi e fra loro. È un’esigenza morale ed abbiamo il diritto di chiedere che il tacito patto sia mantenuto.
Su questi motivi si basa la protesta che io vi propongo di elevare, in nome del popolo italiano. Noi non possiamo approvare un testo di legge sulla ratifica anche non immediato, senza consegnare agli atti dell’Assemblea, ed alla memoria del popolo un grido di dolore, che vorrei risultasse da un documento migliore del mio.
Dopo la protesta, il riconoscimento che la ratifica è necessaria. Abbiamo accettato Croce; sentiremo Orlando: vi sono alcuni dinieghi, nobilissimi, che non possono però indurci ad accettare la loro tesi. Ho vissuto e vivo anch’io nell’ansia, di fronte all’ingiusto Trattato. Ma sono tranquillo dal punto di vista morale, perché quando la situazione determina uno stato di necessità al quale siamo materialmente costretti a piegare, la nostra coscienza non è menomata; e possiamo e dobbiamo tener conto di altre considerazioni, d’ordine pratico, e valerci della stessa ratifica nello sforzo di risollevarci dal nostro isolamento e dalla nostra depressione. Se l’esigenza etica è salva, resta quella che Croce chiama, nella sua filosofia, «economica» in senso lato; ed egli stesso non vorrà negare che, soltanto uscendo dal regime armistiziale ed entrando nel circolo della organizzazione internazionale, potremo iniziare la nostra difficile ascesa. La pace, anche non giusta, è per noi condizione di vita. Non basta che la pace diventi, anche senza la nostra ratifica, esecutiva. Bisogna che, pur protestando e riservandoci il diritto di chiederne una men sfavorevole applicazione ed una futura revisione, dichiariamo intanto – questa è la ratifica – di darle noi stessi, per quanto ci riguarda, esecuzione, e di collaborare subito, con situazione non dubbia, all’opera comune di salvare l’economia europea ed impedire nuove guerre nel mondo.
Sono entrato così, ormai, nel terzo punto dell’ordine del giorno, che, tutti lo sanno, era stato comunicato a molti amici ed aveva il consenso di molte correnti, tranne l’esile e nobile schiera dei negatori assoluti, «negatori di coscienza». Ratifica sì, ma non immediata. L’ordine del giorno è contro la ratifica immediata. Non ha capito, il paese, la fretta e la corsa alla ratifica, che erano nelle prime intenzioni del Governo; e non apparivano giustificate dalle pressioni di alcuni alleati che non si sa in quale misura vi furono, e le amplificò comunque il desiderio e la sollecitazione di chi le ha ricevute. Vi sono in questa materia due punti di vista estremi ed esagerati, di chi non sente che il bisogno della protesta incondizionata ed aspra, senza vedere le esigenze della collaborazione, per rimetterci in piedi, e l’altra di chi non ha un accento di protesta (non ne ho sentito uno solo nel discorso di Sforza) e prova soltanto l’anelito della aziono per la ripresa. Sono due note che bisogna far convergere ad una sintesi superiore.
Quando? quando dovremo compiere l’atto formale di ratifica? Quando, in base all’art. 90, il Trattato sarà divenuto esecutivo, con la ratifica delle quattro grandi potenze. Badiamo bene: il Trattato non sarà neppure allora perfezionato; ha ragione il collega Perassi: perché sia perfetto occorre anche la ratifica dell’Italia; ma pur senza di essa, l’art. 90 è chiaro, il Trattato avrà le correlazioni richieste (con formula eccezionale) per la sua esecutorietà. Non può sorgere dubbio giuridico al riguardo.
Fino a che il Trattato non sia esecutivo, non sussistono le condizioni obiettive dello stato di necessità, di fronte al quale la ratifica nostra non può esser negoziata. Allora soltanto saremo anche moralmente giustificati; prima di quel momento ripugnerebbe alla nostra coscienza di curvarci a ciò che non ha ancora la forza della coazione.
Ma se è così – si può opporre – perché non attendere la quarta firma, e decidere allora sulla ratifica? Non è certamente stato opportuno che impazienza del Governo ci abbia sottoposto fin da ora la questione. Sarebbe stato meglio attendere. Ma poiché noi siamo, come Assemblea, investiti del problema, non possono sfuggire i riflessi d’ordine internazionale del non voler riconoscere la necessità della ratifica.
La soluzione che vi è proposta è di affermare tale necessità; il che equivale ad una ratifica implicita, virtuale, sospesa nella sua applicazione; e nell’autorizzare il Governo a compiere l’atto formale di ratifica, quando siano avvenute le altre quattro ratifiche. Si dice – è un’altra obiezione – se intanto avvengono delle nuove cose? Potremo sempre ritirare la nostra autorizzazione, che va intesa con la clausola rebus sic stantibus. Intanto, mentre è sotto ogni altro aspetto etico-giuridico ineccepibile, la formula che vi è davanti, è politicamente la più felice, ed ha l’abilità spontanea della esattezza e della sincerità sostanziale: sodisfa gli alleati che domandano la nostra decisione per la ratifica, ed è perfettamente riguardosa per l’altra Potenza che non ha ancora ratificato.
Fin da ora, e nell’atto formale della ratifica, dobbiamo rivendicare il nostro incancellabile diritto alla revisione del Trattato. «Pensarvi sempre e non parlarne mai», fu detto in Francia dopo il settanta. Non parlarne apertamente, non opporci all’esecuzione, ma cercare che siano risolute a nostro minor svantaggio alcune questioni ancora aperte d’applicazione; e non stancarci mai di rivendicare, con la nostra stessa collaborazione leale al bene comune, in ogni occasione che si presenti opportuna, l’esigenza di una concreta e giusta revisione.
Sarà una dura fatica. Vi sono molti punti dolorosi nel nostro Trattato: mutilazioni di territorio, perdita delle colonie, riparazioni economiche, dei quali non sarà facile ottenere la revisione.
Ci hanno mutilati alle nostre frontiere; tranne al Nord. Sarebbe un assurdo se l’Austria avesse avuto brani del nostro territorio, dopo che ha combattuto fino all’ultimo contro le Potenze alleate. Eppure abbiamo temuto anche questo pericolo! Vedo qui nel Trattato un patto De Gasperi-Grüber, col quale l’Italia si impegna a dare all’Alto Adige poteri legislativi ed esecutivi autonomi. Non chiedo se il Patto era necessario; non chiedo se doveva essere inserito nel trattato. Avremmo concesso noi, spontaneamente, tutela adeguata agli allogeni tedeschi come abbiamo fatto ai francesi. Comunque il Patto c’è, e non formulato felicemente. Non entro nel fatto che le due dizioni, quella francese e quella italiana, non sono eguali fra loro (il testo autentico, in cui fu stipulato, è l’inglese, e non lo conosciamo). La frase «potere legislativo ed esecutivo autonomo» può prestarsi ad una interpretazione eccessiva, che può essere invocata contro di noi, tanto più che quest’Atto diventa un Atto internazionale.
Io vorrei – e credo l’onorevole Presidente del Consiglio non avrà difficoltà – che l’Assemblea, nell’atto di autorizzare la ratifica del Trattato, dichiari che questi poteri legislativi ed esecutivi si devono intendere in limiti analoghi a quelli che abbiamo concesso alla Sicilia, ed alle Regioni con autonomie speciali.
Non sono poteri autonomi nel senso pieno della parola, è un’autonomia regionale nei limiti della sovranità dello Stato italiano e nei limiti della costituzione e delle leggi che il nostro Stato vorrà stabilire. Se noi facciamo questa dichiarazione come interpretazione autentica, ha un certo valore e può correggere le impressioni che possono venire da una considerazione affrettata.
Mutilazioni alle frontiere occidentali. Vi è l’ordine del giorno Badini-Confalonieri; non sarà facile riavere queste terre, ma dobbiamo affermare il nostro diritto.
Mutilazioni alle frontiere orientali: le più vaste e profonde: interi lembi di territorio ci sono strappati; perdiamo la gemme giuliane che sono Italia, e si trovano ridotte in una situazione angosciosa; Trieste è ridotta ad una Danzica, ad una Shanghai, pericolosa per l’equilibrio d’Europa. Conveniva a tutti gli alleati che fosse rimasta a noi. Qualcuno degli anglosassoni si è accorto che non è opportuno portare gli slavi fino all’Isonzo. Gli slavi, fino a poco tempo fa, erano numericamente la terza parte; s’avviano ora ad essere la metà dell’Europa, continua il loro sviluppo politico ed economico; e grande è il loro peso complessivo. D’altra parte ne è balenato un accenno, quando si è parlato della possibilità di negoziare Gorizia con Trieste; che la stessa Russia forse si è accorta che non era sua convenienza far sorgere una grande città, marinara, in mano ad altre Potenze. Per verità, vien in mente il giudizio di Talleyrand per l’assassinio di duca d’Enghien: «Non è soltanto un delitto; è anche un errore».
Malgrado tutto, una volta compiuto l’errore, non sarà facile rimediare.
E così por le colonie. Avemmo il «no» secco dell’Inghilterra ad una proposta russo-francese, appoggiata dall’America, di restituirle alla nostra gestione. Le sabbie invadono le fattorie libiche; sono inutilizzati gli impianti industriali e commerciali d’Eritrea, marciscono le banane somale. Ma gli inglesi sono contro di noi; io vedo ancora levarsi un alto funzionario del Foreign Office e dire che avere le vecchie colonie significa avere la flotta, significa la guerra con gli arabi, significa una disponibilità di mezzi finanziari che noi non abbiamo. Chiara sia la nostra risposta: che non vogliamo il vecchio tipo di colonie; vogliamo un tipo nuovo che esce da quello storico, che non è più colonia, e che basa su due cose: sulla sicurezza, sulla libertà, sull’avviamento alla indipendenza dille popolazioni indigene, ed insieme sulla collaborazione con le altre potenze nello sforzo comune.
Vi sono poi le riparazioni: 230 milioni di dollari cui ci ha condannato il Trattato. Essere condannati a pagare delle riparazioni è un assurdo, se si considera ciò che abbiamo dato agli alleati come apporto economico di requisizioni, di lavoro, di amlire; e quanto abbiamo sofferto combattendo insieme contro i tedeschi; tre quarti dei danni globali per tutta la guerra caddero su noi quando eravamo cobelligeranti con le Potenze Unite.
Dovremo pagare anche più dei 230 milioni di dollari, se ci applicheranno duramente l’art. 69 che, col sequestro di tutti i beni italiani all’estero, ci obbliga ad indennizzare tutti i danni avuti dai cittadini stranieri. In Brasile, dove si discute, e non è certo, se una delle sue navi sia stata affondata da un sommergibile italiano, tutti i beni dei nostri connazionali vennero sequestrati e venduti.
Si aggiunga che, essendo obbligato a concorrere alle riparazioni con le nostre industrie, ciò potrà limitare il nostro sforzo di ricostruzione, anche pel piano Marshall.
Saranno i 230 milioni ed i diritti di riparazione al di sopra di essi, rinunziati? Hanno rinunziato le potenze più grandi, l’Inghilterra, l’America; sono in corso accordi con la Francia per il sequestro di beni italiani; non molleranno le piccole nazioni.
Dobbiamo combattere con tutte le forze le battaglie per la revisione, senza crearci nuove e facili illusioni. Alcuni giornali ripetono, con grande leggerezza: «la revisione è in atto». Dal ministro Sforza – nessuno può con maggior prodigio rappresentare il nostro paese – ho ascoltato parole così vibranti di speranza che non oso prendere di fronte; egli ci ha detto di atmosfera spirituale; di parole buone; noi italiani, ci ha detto, amiamo molto le parole che toccano il nostro cuore. Ha aggiunto che non dobbiamo fare i piccoli Machiavelli. Domando perdono alla ombra di messer Nicolò; almeno sapessimo fare da piccoli Machiavelli, e non buttarci avanti, senza nulla di concreto, ed accontentarci di solo parole! L’idealismo più alto non si può scompagnare da un sano realismo. L’onorevole Sforza ci ha detto di avere udito parole buone per Gorizia, di cui si lima e s’insidia la cerchia più stretta.
SFORZA. Ministro degli affari esteri. Furono dichiarazioni, non parole: le parole sono parole e le dichiarazioni sono dichiarazioni.
RUINI. Sono parole, onorevole Sforza; nessuno più di me le augura che diventino cose.
Nessuno più di me ha sofferto delle parole buone che abbiamo ascoltato noi della resistenza e della cobelligeranza; e ne nasceva più spesso il frutto amaro della delusione. Non dobbiamo rinsaldare ancora di nuove anella la catena umiliante delle illusioni. L’onorevole Sforza fu molto cortese con me, e disse di ammirare la schietta semplicità con la quale, il giorno che Badoglio al Grand Hôtel, rivolto al Comitato di liberazione nazionale ci offerse di entrare nel suo Governo io risposi: sì, il Comitato come governo di liberazione. Se io avessi saputo da Lei (ma Lei era ancora ottimista) come stavano realmente i nostri rapporti con gli Alleati, che non ci lanciavano muovere, e non ci davano abbastanza di ciò che domandavamo, di armarci per morire per loro, se io avessi saputo questo, non avrei risposto così. Sarebbe stato forse meglio che al governo fosse restato Badoglio o un comando alleato.
Perdonatemi, se insisto. Vorrei che ci immunizzassimo contro il ritorno amaro o desolante delle autoillusioni.
Anche per il piano Marshall; che voi volete troppo legare al Trattato, ma che certamente rientra nel quadro attivo della pace.
Che cosa è il piano Marshall? In verità, non è un piano; è un invito a fare un piano; un avvertimento alle potenze europee perché pensino a se stesse: perché coordinino i loro sforzi; l’America vedrà poi che cosa darà di aiuti per evitare il disordine e lo sfacelo, per rendere possibile la ricostruzione e la salvezza d’Europa. Questo è il piano Marshall; e non vi è neppure un impegno formale. Non si sa che cosa deciderà, a fine d’anno, il Congresso, dove non mancano riserve e dubbiezze di partiti.
Il piano Marshall è per noi una necessità, perché non potremmo avere altrimenti gli aiuti che ci sono indispensabili. Ed è, ad ogni modo, una cosa seria e formidabile.
Dobbiamo andargli incontro senza esitazione e con fervore, come hanno fatto, al primo parlarne qui, con giovanile entusiasmo, in un loro duetto, Campa e Sforza. Ma non ci giova accendere ancora una volta la fiaccola dell’illusione; e credere che sia il Bengodi destinato a risolvere tutti i nostri problemi. Dio non voglia che si passi troppo facilmente dal torrido entusiasmo alla boutade – non certamente sua, onorevole Sforza, che la montagna partorisce il topo. Andiamo incontro a questo piano con tutte le nostre forze, ma illusioni no: il Paese ne riporterebbe domani un’altra amarezza.
L’America ha perfettamente ragione di impostare così la sua possibilità d’aiuto; che non sarebbe efficace senza un coordinamento europeo di sforzi. A prescindere da ogni prospettiva politica, che vi è sempre, la ripresa economica europea – e l’America si rivolgeva anche alla Russia, è condizione di pace ed implica un piano d’insieme. E l’America ha la possibilità d’aiutarci: non ne dubiti l’onorevole Nitti; immenso Paese, ricco, così ricco che non c’è neppure il socialismo; un operaio guadagna 400 dollari al mese (centinaia di migliaia delle nostre lirette). Questo Paese ha una bilancia commerciale che quest’anno presenta, dagli ultimi dati, un supero di otto miliardi di dollari. Ne godremo due col turismo, ha detto qualche americano; ed anche il turismo ci aiuterà; resteranno ad ogni modo i sei miliardi, che sono una piccola parte della i sua produzione annua di 150–200 miliardi di dollari all’anno, e potrebbero bastare alle esigenze dell’Europa.
Né la convenienza degli Stati Uniti di America è soltanto indiretta, seppure come tale grandissima, nell’assicurare l’ordine e la quiete nel mondo. È anche diretta, economica. Se l’America vuole continuare nel suo enorme apparato produttivo, nella sua gigantesca struttura industriale, deve aiutare gli altri Paesi e continuare come faceva con la legge «affitti e prestiti». Che questo tenga lontano da lei per sempre la crisi di sovraproduzione, io non so; che possa continuare sempre ad importare tanto meno di ciò che esposto, io non so, ma la situazione attuale è questa, ed esiste una larga possibilità di aiuti.
Hoover ha detto che l’America non vuole più darci soltanto carbone, petrolio, grano, noli; vuole esportare piuttosto prodotti finiti. Si è d’altra parte affermato che alcuni rami d’industria hanno già comandi per 10 anni, e si dovranno equilibrare le domande interna ed esterna. Ma presupposto di studio, pel piano Marshall, è l’esatta situazione della economia americana; e l’Europa deve rendersene conto per le sue domande; ma questo è certo, onorevole Nitti, che non ne manca la possibilità.
Dobbiamo prepararci per l’elaborazione del piano Marshall. Anzi: avremmo dovuto essere già preparati; e non lo siamo. Gli organi di ricerca che io avevo formati al Ministero della Ricostruzione (o di quello pei piani avevo chiamato alla presidenza l’attuale ministro Del Vecchio) non vissero più, quando lasciai il Ministero, per dissensi sul piano finanziario-economico. Si sono, per eccezione, proseguiti gli studi della Commissione Casini, che avevo costituito per la riconversione; ma i suoi risultati non vennero ancora pubblicati. Né lo sono i dati che si dovevano raccogliere, secondo le disposizioni di Campilli e Vanoni, per la nostra documentazione a Bretton Woods.
È questione di coscienza e di responsabilità; ed io non esito a dire che l’Ufficio economico agli Esteri – il quale ha alla testa un ex diplomatico, che non si intende di cose economiche e ad una conferenza stampa ha detto cose molto inesatte – deve essere riorganizzato, non solo per la stipulazione di trattati di commercio (ove più gioverebbe la competenza del Ministero del commercio estero), ma per la raccolta e l’uso tempestivo di elementi sulla nostra economia, di cui non si può fare a meno nei rapporti internazionali.
Manca tale preparazione; e dobbiamo sperare che non si ripeta la scampagnata e l’improvvisazione che si ebbe un’altra volta a Parigi. L’esempio ci ammonisce; sono andati in meno, e sono capaci; ma la preparazione non era purtroppo già pronta.
In Italia manca il piano; c’è dappertutto: il piano Truman in America, il piano Morrison in Inghilterra, il piano Monnet in Francia, il piano De Groote in Belgio. Noi non ne abbiamo nessuno. I piani sono paziente opera collettiva; da noi si parla piuttosto dei pianificatori, come di rabdomanti che hanno la bacchetta magica; e ci fermiamo alle formule esterne. Il piano manca; e se ne vede ora l’assoluta necessità.
Se occorre fare, del piano Marshall, un piano dei piani europeo, bisogna che vi sia prima, per noi, un piano italiano. Dobbiamo averlo per le nostre richieste, di fronte a quelle degli altri. Dobbiamo averlo, perché se è necessario un coordinamento europeo, non può andare oltre i limiti delle inderogabili esigenze della nostra economia nazionale; e se va seppellita per sempre la funesta chimera dall’autarchia, non si può distruggere una determinazione autonoma di movimento economico, che è condizione di successo e di vita. Il coordinamento richiede obblighi reciproci, ma anche, in ciascun paese, una certa libertà di azione.
Il piano dobbiamo averlo e manovrarlo noi italiani: l’America tende a dare i suoi mutui alle singole imprese, ed industrie, sia pure con la garanzia dello Stato. Ora è evidente che allo Stato spetta l’intervento ed il controllo, per la miglior distribuzione di sforzi nell’interesse della Nazione. Il piano italiano è, anche sotto tale aspetto, necessario.
Ed è necessaria una nostra impostazione nel piano europeo che risponda ai nostri interessi. Nel questionario o memorandum alle potenze aderenti, di cui abbiamo avuto fugace notizia dalla stampa d’oggi, sembra che si chiedano dapprima dati sui danni di guerra. Possiamo e dobbiamo dimostrare che più di altri ne ha sofferto la nostra Italia, percorsa tutta, nella sua lunghezza, dalla guerra devastatrice. Ma la sostanza della richiesta sembra impostarsi così: far l’inventario delle risorse di ogni paese, indicare la possibilità di sviluppo di queste risorse, ricavare – come termine di mediazione fra i. due ordini di date – il fabbisogno del paese per lo sviluppo indicato. Se è così – od appare probabile – bisogna guardarsi perché l’Italia non parta handicappata ed in condizioni di inferiorità di fronte alle altre nazioni; e seduta al tavolo di Parigi accanto a potenze più forti, avvantaggiate dalla loro condizione di vincitrici, non abbia meno di ciò che avrebbe avuto, presentandosi sola, agli Stati Uniti. Noi non abbiamo le risorse che hanno altri Paesi; noi ci troviamo in uno stato di sofferenza e disagio maggiore degli altri paesi. Non deve far velo lo spettacolo balordo e dannoso di godimento e di spreco, a cui assistiamo da parte di pochi privilegiati; leggevo anche stamane in giornali stranieri: «Lusso e miseria in Italia». In realtà da noi, il tenor di vita e la situazione alimentare sono inferiori che altrove. Se siamo considerati nazione vinta, si tenga conto almeno della posizione peggiore, in cui siamo gettati.
Vi dirò soltanto alcune cifre:
Inflazione. Tranne i paesi in dissolvimento monetario (come l’Ungheria e la Grecia) la circolazione non supera negli Stati extra europei e negli altri europei di quattro volte quella del preguerra; in Gran Bretagna non la supera di due volte; in Francia, pur così provata, di sei volte. In Italia (sono dati del 1946) l’aumento è di 25 volte!
Costo della vita. Prendendo come riferimento il 1939 ed il 1946, nei paesi extra europei ed anche europei, nel Benelux e nei paesi Scandinavi, non si è raddoppiato il costo della vita. In Inghilterra è aumentato soltanto di un terzo. In Francia di 8 volte. In Italia di 30, ed ora siamo a 40 volte, in confronto al preguerra.
Sono cifre di comparabilità discutibile, ma servono come grande indicazione; e vorrei che fossero tenute presenti.
Ma sì, noi aderiamo con tutte le nostre forze, ma chiediamo che si tenga conto delle nostre necessità. Il generale Marshall, quando parlò per la prima volta del suo piano, disse che voleva evitare il bisogno ed il disordine, e dare la sicurezza all’Europa. Noi italiani che, malgrado le nostre beghe, non abbiamo conosciuto gli scioperi e le agitazioni di altri Paesi, ed abbiamo dato prova di disciplina, ci troviamo in condizioni peggiori di altri paesi, per alimentazione e per tenore di vita, e siamo pertanto più esposti, obiettivamente, ai pericoli che il piano intende evitare.
Noi non vogliamo togliere nulla a nessuno, ma far presenti le nostre necessità particolari. Non parlo dei paesi scandinavi, non parlo del Benelux, ove il franco belga fa premio sulla sterlina, ed è quasi alla pari del dollaro; e quel governo, ha nel suo piano, dichiarato di poter far fronte ai suoi bisogni con le sue risorse.
Siamo legati all’Inghilterra ed alla Francia, con cui siamo destinati a fare molto cammino, specialmente sul terreno economico. Conosciamo le loro difficoltà. Grava sull’Inghilterra l’ombra dell’impero che sembra dissolverà, della funzione di clearing, mondiale che ha perduta, della necessità in cui si trova di importare più della metà del suo pane e delle materie prime, per le sue industrie. Nonostante le enormi difficoltà, l’Inghilterra, con sforzo austero verso cui deve andare l’ammirazione di tutti, ha fatto sì che il bilancio dello Stato è in pareggio; che le esportazioni hanno quasi raddoppiato i valori che avevano nel 1938; che la paurosa data del 15 luglio in cui la sterlina doveva parificarsi al dollaro (ne parlò qui con apprensione Corbino) è passata, e le cose sono andato a posto. Morrison ha ragione di elevare l’inno alla vita, contro il disfattismo. La vecchia Inghilterra vuol rinnovare i suoi macchinari, ed impianti perché il fatto fondamentale economicamente, oggi, è che l’America si è industrializzata in una forma modernissima, di fronte alle altre potenze, che si trovano arretrate. Complessivamente, dagli Stati Uniti e dal Canada, l’Inghilterra ha avuto crediti per oltre 5 miliardi di dollari.
La Francia è in condizioni non buone, come noi, per la finanza dello Stato, per l’inflazione, per i prezzi, per il disavanzo nella bilancia dei pagamenti internazionali.
Ma non dobbiamo dimenticare che la buona terra di Francia bastava a sfamare la sua popolazione ed anche ora, nel piano Monnet, è previsto che, ridotta del 25 per cento la superficie a grano, basterà al suo pane. La Francia era la terza potenza al mondo per il ferro, la quinta per il carbone. Grandi sono le sue risorse. Ed ora vuole anche essa rinnovare i suoi impianti, ed ha avuto prestiti per quasi tre miliardi di dollari.
Ne ha avuto per 300 milioni il Belgio; da 150 a 200 ciascuna l’Olanda, la Danimarca, la Norvegia; più di 100 ciascuna la Cecoslovacchia, la Polonia, la piccola Grecia. L’Italia ne ha avuti 180, come prestiti, ed è vissuta dei 550 milioni di elargizione dell’U.N.R.R.A., che pure non hanno raggiunto, per abitante, l’aiuto dato alla Grecia. L’Italia ora chiede anch’essa prestiti da restituire. Ed ha diritto ad una perequazione.
I suoi bisogni sono grandi: ha pagato la guerra, sostanzialmente, con una riduzione del tenore di vita più duro che altrove. Si è calcolato che soltanto nel 1950, con sforzi eroici, producendo di più, esportando di più riusciremo a raggiungere un tenore di vita corrispondente a quello del 1938. L’Italia ha un suolo in gran parte arido e montuoso, che non basta al suo cibo; ha un sottosuolo povero; e non possiede grandi risorse d’energia. Durante il periodo fascista, quando per vivere dovevo scrivere articoli anonimi in riviste tecniche, ho dimostrato, con raffronti internazionali che il primato e la vasta disponibilità dell’Italia per la «conquista della forza» è una leggenda. Non parliamo poi del Mezzogiorno: al sud del Sangro e del Liri la portata di tutti i corsi d’acqua è soltanto di 50 metri cubi al secondo; cioè non superiore alla portata di magra del Ticino.
Fra i paesi del mondo l’Italia era, secondo Colin Clark, al venticinquesimo posto per il reddito. Secondo il Fischer, non potrebbe mantenere più di 100 abitanti per chilometro quadrato; e ne ha più di 150. L’Italia rappresenta soltanto il due e mezzo dell’industria del mondo; mentre come popolazione, di fronte alle altre nazioni industrializzate, rappresenta il cinque per cento. Dati raccolti (che hanno stupito dapprima gli stessi dirigenti della nostra Statistica) dicono che il numero degli occupati nell’agricoltura è rimasto a 8,8 milioni (lo sforzo dei miglioramenti è compensato dallo sviluppo dei mezzi tecnici); gli addetti alle industrie ed ai trasporti sono andati da 4,6 a 6,2 milioni; al commercio ed alle banche da 0,7 ad 1,6; a professioni varie da 1,4 ad 1,7. Ciò che impressiona è che la cosiddetta popolazione improduttiva è salita da 7,6 a 15,4 milioni. È gente che in parte attende anch’essa, ad esempio, ad attività domestiche, ma la cifra, raffrontata ad altri paesi, ha un innegabile significato: che in Italia è più difficile trovar da lavorare; che vi è da noi, in questo senso una disoccupazione cronica, endemica; più profonda che quella dei disoccupati temporanei, iscritti agli uffici del lavoro.
La popolazione, così numerosa, è il nostro tormento, ma è anche la nostra forza. Un’altra volta vi dissi che di fronte al preguerra siamo aumentati di un milione e mezzo di vite. Siamo invece aumentati di 2 milioni e, se teniamo conto di un milione della Venezia Giulia abbiamo un aumento di 3 milioni. Soltanto gli Stati Uniti che sono saliti da 130 a 140 milioni, ci superano in percentuale d’incremento. Sono aumentati i paesi extra europei. In Europa – tranne la Scandinavia e l’Olanda, in lieve aumento –, tutti i paesi sono diminuiti. L’Inghilterra ha perduto più di mezzo milione; la Francia un milione e mezzo di vite. L’Italia ormai – infranta la Germania – è la nazione più popolosa del continente europeo, tranne la Russia, che è un continente.
Questa enorme «umanità» nostra, italiana, ci crea dei bisogni; che devono essere prospettati per il piano Marshall anche sotto il riflesso internazionale. Ascoltate: «In Francia, come nell’America Latina e nella stessa Inghilterra, nessun processo di ricostruzione e di sviluppo industriale e agricolo può essere realizzato senza la mano d’opera italiana, che è la chiave di tutti i problemi». Questo è scritto in un piano economico francese.
Se altri paesi hanno bisogno della nostra mano d’opera, dobbiamo fare in modo che i nostri emigranti siano accolti bene e senza sospetto; non dobbiamo proseguire nella stolta politica dei Fasci italiani all’estero, ma farci rispettare; e studiare piani di emigrazione, una buona volta organici e completi.
L’emigrazione comunque non può bastare. È necessaria anch’essa (Interruzione del deputato Mazzoni). Caro Mazzoni, sto per dire ciò che desidera; che è preferibile lavorare in casa nostra. Anche dal punto di vista internazionale – dobbiamo dimostrarlo a Parigi – costa di più trasportare un italiano nel Belgio od in Francia (bisogna creargli alloggi e condizioni di vita, bisogna pagarlo tre volte i nostri salari); costa di più che far lavorare i nostri operai in Italia.
Abbiamo in Italia, ogni anno, 400 mila unità lavorative in più; e dobbiamo farle lavorare. Manderemo fuori con l’emigrazione, soltanto quelli che non troveranno occupazione nella agricoltura (non saranno molti, e nell’industria, dove esistono possibilità, abbiamo, oltre alle alimentari ed alle trasformazioni dei nostri prodotti agricoli, rami d’industria come le tessili, le chimiche, le stesse meccaniche (ma non devono più vivere sulle commesse di Stato) che possono assorbire nuova mano d’opera.
Ci sia dato il modo di lavorare, con materie grezze o semi lavorati stranieri; il nostro destino è di esportare mano d’opera, anche quando esportiamo prodotti finiti.
Sta beninteso – è caposaldo del piano Marshall – che i rapporti di scambio non saranno con la sola America, né soltanto fra i paesi aderenti al piano. Dovranno estendersi ai paesi che non vi hanno aderito; speriamo che aderiscano in seguito. Intanto la sfera degli interscambi sarà, con criteri economici la più larga e la più conveniente. Noi italiani non possiamo far a meno di esportare e di importare con paesi, che hanno caratteri di complementarità con la nostra economia. Così coi paesi balcanici e con la stessa Russia, che ci può dare materie prime perché lavoriamo le sue navi. Così con i paesi mediterranei e del Medio Oriente; dove – pur riprendendo la gestione fiduciaria delle nostre ex colonie – possiamo avere contatti con le popolazioni arabe, più amichevoli che non abbiano con le grandi potenze europee; (a proposito perché non si è dato corso agli accordi commerciali con l’Egitto, che ci potevano compensare degli altri, meno favorevoli per il sequestro dei nostri beni?). Vi sono poi i rapporti col Sud America… Non insisto più, ma vorrei che questo largo panorama non sfuggisse ai nostri rappresentanti a Parigi, perché non ne mancasse il riflesso, sia pure indiretto nel piano Marshall. Soltanto con uno sforzo di ampio respiro possiamo – tale sia il nostro piano interno – realizzare la nostra ricostruzione; purché ci stringiamo la cintola ancora per qualche anno; e purché riusciamo ad esportare il 130 per cento più di prima; ad accrescere la nostra marina mercantile del 50 per cento. Meta di aspra conquista, e da affrontare senza illusioni….
Ho voluto assumermi il compito di vaccinare contro le autoillusioni; ed esporvi nuove cifre, che ho messo insieme con fatica, ed hanno soltanto un valore di indicazione e di interesse per illuminare la via. Il piano Marshall, con le sue difficoltà, è luce di speranza di organizzazione internazionale…
Lasciate ora che, da un dovere più ingrato, mi sollevi anch’io all’inno fervente di Canepa. L’Italia ha dato il contributo maggiore al concetto di nazione, con i suoi pensatori, sia dal punto di vista ideale, come il Mazzini, sia da quello strettamente giuridico, come il Mancini. Uno scandinavo, premio Nobel, il Lange dice: «Quando si parla di nazione, si pensa in italiano». L’idea di nazione è la forma più alta finora raggiunta dallo spirito: noi siamo nati e viviamo nel cerchio di quell’idea, disposti a sacrificarle la vita ed ogni altra cosa le nostre convinzioni individuali, la stessa giustizia supernazionale. L’idea di nazione non può è non deve morire; deve anzi potenziarsi e vivificarsi nel quadro dell’idea internazionale. Anche qui noi italiani siamo all’avanguardia. Nell’altro dopoguerra Coodenhove Kalergi aveva scritto nella sala di Paneuropa: «L’Europa di Mazzini ha vinto sull’Europa di Metternich». Purtroppo non è stato così.
Sembrò che vincesse l’Italia di Hitler; e purtroppo noi oggi viviamo, come per una vendetta beffarda di Hitler, fra due «spazi vitali» che stanno di fronte, e purtroppo lo stesso piano Marshall parrebbe avere dato occasione ad un irrigidimento e ad una frattura. Vi è un blocco che ormai gravita sopra la Russia e potrà non chiedere mai un soldo all’America, vivendo appunto col sistema russo di ridurre i propri consumi e provvedere ad impianti e piani nuovi. Contro questa lacerazione noi dobbiamo reagire con tutte le nostre forze e potremo riuscirci con lo stesso sviluppo del piano Marshall, esercitando intanto una funzione di indipendenza e di mediazione tra i due blocchi. Noi apparteniamo alle potenze del piano Marshall; apparteniamo all’occidente, e del resto anche l’onorevole Togliatti nel suo discorso a Venezia disse che l’Italia deve partecipare al piano Marshall, purché questo non soffochi l’autonomia economica delle nazioni partecipi, e non sia un’arma contro la Russia, Il piano Marshall non deve prendere posizione contro il più ampio complesso internazionale, nel quale potrà sboccare domani. Chi depreca la guerra, desidera con tutto il cuore che, non in antitesi, ma come anello fra i due «spazi» che sono ciascuno (anche la Russia) un continente, la vecchia Europa che fu definita un promontorio dell’Asia per la sua posizione geografica, la piccola Europa che ha creato e dato la civiltà bianca al mondo, l’industre Europa che nel secolo scorso era diventata «l’officina del mondo», l’impoverita Europa che durante questa guerra ha perduto il suo primato economico ed ha visto la rivolta delle genti di colore nonostante tutto, l’Europa possa – ne sia il piano Marshall l’inizio – riprendere una sua funzione di equilibrio, e riaffermare ancora il suo compito e la sua forza di civiltà. In questa rinascenza l’Italia sarà al suo posto, accanto all’Inghilterra, e più ancora alla Francia, ed insieme alle altre nazioni europee.
Da questa Assemblea, nell’atto stesso che ferita come nazione, l’Italia rivendica i suoi diritti, si alzi un’invocazione appassionata all’idea ed all’organizzazione dell’Internazionale, che è la non spenta fede dei democratici alimentata da Mazzini; è lo spirito profondo della religione cattolica, che vuol dire «universale»; è il pensiero del manifesto dei comunisti, che non rinnegano più l’idea di patria. In nome di queste forze vive, sollevandosi sopra i partiti, l’Assemblea – dovrebbe essere l’ultima parte del mio ordine del giorno, che riecheggia un articolo della nostra Costituzione – l’Assemblea afferma la volontà dell’Italia di partecipare allo sforzo comune per la salvezza economica dell’Europa e per la creazione di un ordine internazionale che, anche mediante limitazioni reciproche di sovranità fra gli Stati, assicuri la pace e la giustizia fra i popoli (Applausi).
PRESIDENTE. Il seguito della discussione è rinviato a domani.
Interpellanza e interrogazioni con richiesta di urgenza.
PRESIDENTE. Comunico che gli onorevoli Lucifero. Condorelli e Colonna hanno presentato la seguente interpellanza con richiesta di svolgimento urgente:
«Al Governo, per conoscere se, considerando la necessità di rientrare nella normalità e di dare un effettivo contributo alla pacificazione nazionale, non ritenga di procedere alla liquidazione delle leggi, delle procedure e degli organi straordinari, restituendo ai giudici precostituiti ed alle leggi ordinarie dello Stato l’autorità ed il prestigio indispensabili ad un reale sviluppo democratico della vita del Paese.
«Lucifero, Condorelli, Colonna».
Chiedo al Governo quando intende rispondere.
DE GASPERI. Presidente del Consiglio dei Ministri. Farò sapere quando questa interpellanza potrà essere svolta, dopo essermi concertato con gli altri Ministri.
PRESIDENTE. Sono state inoltre presentate le seguenti interrogazioni con richiesta di risposta urgente:
«Al Ministro dell’interno, sul contenuto della sua circolare telegrafica dell’8 luglio 1947, con la quale si dispone di sottoporre ad autorizzazioni e controlli della polizia le riunioni dei lavoratori all’interno delle aziende in cui lavorano, anche quando dette riunioni sono indette dalle Commissioni interne; ciò che costituisce un attentato gravissimo alle libertà democratiche e sindacali.
«Di Vittorio, Bitossi, Noce Teresa, Negro, Flecchia, Massini».
«Al Ministro dell’interno, per conoscere i motivi che hanno indotto il direttore generale della pubblica sicurezza ad emanare la circolare 40617/4412/1962 dell’8 luglio 1947, che vieta le riunioni all’interno delle fabbriche.
«Questo provvedimento annulla di fatto cinquanta anni di conquiste sindacali, realizzate dai lavoratori italiani di ogni tendenza politica col proprio sacrificio e spesso col proprio sangue, e pone il nostro Paese alla retroguardia di tutte le Nazioni democratiche del mondo.
«L’interrogante chiede, perciò, che la circolare venga immediatamente revocata.
«Lizzadri».
Chiedo al Governo quando intende rispondere.
DE GASPERI, Presidente del Consiglio dei Ministri. Informerò il Ministro dell’interno perché faccia sapere quando intende rispondere a queste interrogazioni.
PRESIDENTE. Comunico il testo delle seguenti altre interrogazioni urgenti:
«Al Ministro di grazia e giustizia, per sapere se risponde a verità la notizia data dal giornale l’Umanità sui fatti delle carceri di Poggioreale; e quali provvedimenti d’ordine generale intenda prendere per difendere d cittadino dagli arbitrii della polizia.
«Calosso».
«Al Ministro di grazia e giustizia, perché dia chiari riferimenti su quanto la stampa vien pubblicando circa sevizie e maltrattamenti che sarebbero stati inflitti a detenuti nel carcere di Poggioreale di Napoli, e per sapere se, in vista di siffatti avvenimenti, non creda di impartire istruzioni intese a rafforzare il potere di controllo sulle carceri da parte dell’autorità giudiziaria e di organi ausiliari, e di ripristinare il diritto di accesso dei membri del Parlamento negli Istituti di pena.
«Salerno, Leone Giovanni, Riccio Stefano».
Chiedo al Governo quando intende rispondere.
GRASSI, Ministro di grazia e giustizia. Ricordo di avere già dichiarato, in occasione di analoga interrogazione dell’onorevole Pertini, che risponderò allorché mi saranno pervenuti i risultati di un’inchiesta che ho ordinato sui fatti di cui a queste interrogazioni.
PRESIDENTE. L’onorevole Cimenti ha presentato le seguenti interrogazioni urgenti:
«Al Ministro della difesa, per conoscere: 1°) quali provvedimenti siano stati adottati a seguito di quanto il Ministero del tesoro disponeva, con suo telegramma 6 giugno 1947, n. 1718) – diretto al Ministero della difesa (Esercito) – per il rapido e meno oneroso completamento della bonifica dei campi minati, e ciò conforme anche a quanto a suo tempo suggerito dagli organi tecnici competenti dell’Ispettorato bonifica campi minati (B.C.M.); 2°) se non sia il caso, quindi, di accogliere le richieste del Ministero del tesoro, dirette a fare eseguire tutti i lavori di bonifica campi minati attraverso il sistema degli appalti, adottando il criterio della formazione di piccoli lotti (5 o 6 milioni), da affidarsi a cooperative che assumano la totalità degli operai sminatori e diano garanzia di risolvere rapidamente questo delicato, quanto urgente problema; 3°) perché, dopo la precisazione data alla stampa dal Generale ispettore del B.C.M., riguardo alle irregolarità della zona di Genova (caso Ricci), che escludono in modo assoluto qualsiasi corresponsabilità da parte delle cooperative, non sia stata sentita la necessità di smentire le affermazioni contenute in una lettera diretta alla stampa dal Segretario del Sindacato nazionale sminatori, dipendente dall’Ispettorato B.C.M., con la quale si ledeva, senza giustificato motivo, il buon nome della cooperazione e si affermava che i lavori di sminamento sarebbero stati proseguiti dal Gruppo di sminatori alle dirette dipendenze dell’Ispettorato B.C.M., con l’esclusione quindi delle cooperative.
«Cimenti».
«Al Ministro del tesoro, per sapere:
1°) perché in questi giorni ha disposto il collocamento a riposo di pochi funzionari di gruppo A, di grado elevato, nati nel primo semestre dell’anno 1881, i quali soltanto da poco hanno raggiunto i limiti di legge; mentre funzionari molto più anziani, anche ultrasettantenni, continuano il loro lodevole servizio presso tutte le Amministrazioni statali, compresa quella delle finanze, cui il Tesoro fino a poco tempo fa è stato unito;
2°) perché sono stati esclusi da siffatta grave misura, che mette i colpiti in pietosissime condizioni economiche, date le attuali gravi contingenze della vita, i funzionari della Ragioneria generale dello Stato e degli Uffici provinciali del Tesoro, tutti dipendenti dalla stessa Amministrazione; il che giustificherebbe il sospetto di un provvedimento non obiettivo, ma inteso solamente a favorire interessi particolari;
3°) perché non ha ritenuto di uniformarsi alla circolare della Presidenza del Consiglio dei Ministri n. 49941/43320/1 del 23 ottobre 1945, tuttora in vigore, la quale faceva obbligo alle Amministrazioni di procedere gradualmente ai collocamenti a riposo, solo dopo che, espletati i concorsi, fosse stato possibile di procedere alle conseguenti nomine in relazione ai posti vacanti.
«L’interrogante fa osservare che nei riguardi della carriera amministrativa del Tesoro risulta che sono scoperti oltre 160 posti, mentre l’Amministrazione di recente ha bandito un concorso per coprire soltanto una parte di essi; e la definizione di tale concorso è da ritenersi non prossima.
«Cimenti».
Chiedo al Governo quando intende rispondere a queste interrogazioni.
GRASSI, Ministro di grazia e giustizia. Interesserò i Ministri competenti, affinché facciano sapere quando intendono rispondere.
Sui lavori dell’Assemblea.
PRESIDENTE. Avverto l’Assemblea che la seduta di domani, con inizio alle ore 10, sarà dedicata al seguito della discussione sul disegno di legge relativo all’imposta straordinaria progressiva sul patrimonio.
Mi permetto dire alcune cose a questo proposito. Salvo alcune decisioni, di carattere non dirò secondario, ma che sono state lasciate indietro per alcune precisazioni, ci si trova adesso di fronte ad un Titolo nuovo, quello relativo agli enti collettivi.
Non voglio porre la questione se sia possibile, dal punto di vista della procedura parlamentare e della pratica legislativa, inserire ex novo un Titolo nel progetto di legge presentato e discusso dalla Commissione, Titolo che tratta una materia, la quale, pur collegandosi a quella del progetto di legge in esame, potrebbe essere considerata a sé stante, come materia d’un progetto di legge del tutto indipendente.
Anche accettando l’Assemblea un procedimento di carattere così anormale, quanto meno occorre che la cosa di svolga secondo un certo criterio; ed il criterio è questo: che tutto ciò potrà avvenire, dopo che l’Assemblea avrà espresso il suo parere. Il progetto è stato esaminato dalla Commissione. Ora la Commissione è una parte molto importante dell’Assemblea, ma non può sostituirsi ad essa. Il progetto, anche se, per ipotesi, la Commissione lo accettasse nelle sue linee generali, è ignorato dall’Assemblea; esso dovrebbe essere distribuito immediatamente, come è stato distribuito il testo del progetto del Governo, prima ancora che l’Assemblea lo esaminasse. Tutti gli onorevoli colleghi, prima ancora che la Commissione esaminasse il progetto, avevano il diritto di riceverne il testo completo.
Vorrei che si tenesse presente questo aspetto particolare della questione: che, sia pure trovandosi l’accordo tra il Ministro, la Commissione e l’Assemblea nel suo complesso, questo accordo non rappresentasse poi qualche cosa, che domani esponesse il provvedimento conclusivo a delle eccezioni, che lo rendessero inapplicabile.
Perciò, prego il Governo e l’onorevole La Malfa, di volere esaminare questo problema.
Ha facoltà di parlare l’onorevole La Malfa.
LA MALFA. A me pare che il problema non esista o almeno non esista nella gravità, in cui l’onorevole Presidente l’ha prospettato.
In definitiva, l’Assemblea deve decidere sull’accoglimento di questo terzo Titolo, dopo aver deciso sugli emendamenti all’art. 2. Quindi, non si tratta di un nuovo provvedimento. La discussione dell’art. 2 è stata sospesa e sarà ripresa domani. Se l’Assemblea accoglierà gli emendamenti all’art. 2, nel senso di accettare la tassazione degli enti collettivi, dovremmo esaminare il provvedimento, che consiste in una serie di disposizioni tecniche forniteci dal Governo. Quindi, il Governo, a mio giudizio, non ha presentato un nuovo progetto, ma una serie di emendamenti per il caso che l’Assemblea decidesse l’estensione della tassazione agli enti collettivi.
In questa situazione, io credo che domani la Commissione potrà esprimere il suo parere sugli emendamenti all’art. 2. L’Assemblea deciderà e poi continuerà la discussione sugli altri importanti articoli, come quelli sulle aliquote dell’imposta progressiva che non sono stati votati.
Chiedo all’onorevole Presidente di fissare per martedì mattina la seduta conclusiva, in modo che siano distribuiti gli emendamenti aggiuntivi del terzo Titolo prima della seduta di martedì; cosicché l’Assemblea avrà preso conoscenza di questi articoli e martedì potremo iniziare la discussione.
PRESIDENTE. Questi che lei, onorevole La Malfa, chiama emendamenti aggiuntivi, sono in realtà dei nuovi articoli. Quando saranno portati a conoscenza dell’Assemblea?
LA MALFA. La Commissione si riunirà lunedì e per martedì verranno portati a conoscenza della Assemblea, in modo che nella giornata stessa si potrà iniziare la discussione.
PRESIDENTE. È comunque desiderabile che tutti gli onorevoli colleghi siano posti in grado di esaminare questi articoli per poterli discutere.
Il Ministro, insieme con il Presidente ed i membri della Commissione, potrebbero completare il loro esame nella giornata di domani, in modo che sabato mattina, sia possibile distribuire il testo di comune accordo redatto.
Avverto inoltre gli onorevoli colleghi che sabato sarà necessario tenere due sedute e due lunedì.
Nelle sedute di domani mattina – come ho detto – si proseguirà nella discussione dell’imposta patrimoniale. Nel pomeriggio sarà proseguita la discussione del disegno di legge sul Trattato di pace. La seduta dovrebbe prolungarsi nelle ore notturne per proseguire l’esame della patrimoniale e se l’onorevole La Malfa domani sera non potrà esser pronto, nella seduta notturna continueremo la discussione del Trattato di pace. L’onorevole Presidente del Consiglio è d’accordo?
DE GASPERI. Presidente del Consiglio dei Ministri. Sono d’accordo.
PRESIDENTE. Se non vi sono osservazioni, resta stabilito questo ordine del giorno.
(L’Assemblea approva).
Interrogazioni.
PRESIDENTE. Si dia lettura delle interrogazioni pervenute alla Presidenza.
AMADEI, Segretario, legge:
«Il sottoscritto chiede d’interrogare il Ministro della difesa, per sapere se non creda opportuno e giusto provvedere alla sistemazione nell’Esercito degli ufficiali giuliani trattenuti in servizio perché provenienti da territori nazionali ceduti allo straniero e che meritano la riconoscenza della Patria per l’alto spirito di sacrificio di cui han dato prova. (L’interrogante chiede la risposta scritta).
«Abozzi».
«I sottoscritti chiedono di interrogare il Presidente del Consiglio dei Ministri, per sapere se non ritenga opportuno, anzi necessario, un intervento del Governo presso il C.O.N.I., affinché sia riveduta la situazione dell’Unione Sportiva Triestina nel campionato di calcio italiano.
«Questa società, che da 19 anni ininterrottamente partecipa al massimo campionato nazionale, dovrebbe quest’anno retrocedere nella divisione inferiore: tale retrocessione, che in tempi normali costituirebbe niente altro che un episodio, assume nel momento attuale un significato che esula dal settore sportivo. Infatti, la partecipazione dell’Unione Sportiva Triestina al campionato ha rappresentato lo scorso anno uno dei pochi vincoli che ancora uniscono Trieste con la Madre Patria. Un vincolo cui hanno partecipato idealmente tutti i triestini. Di importanza ancora maggiore risulta il problema, ove si consideri che a Trieste un’altra società disputa un campionato di calcio, che non è quello italiano. L’«Amatori Ponziana», aiutata con larghezza di mezzi e potenziata in ogni modo, parteciperà anche il prossimo anno al più importante campionato di calcio jugoslavo, per cui le manifestazioni di quest’ultima società, qualora si verificasse la deprecata retrocessione dell’Unione Sportiva Triestina, risulteranno le più importanti in Trieste.
«Dal punto di vista tecnico, il mantenimento della Triestina nella divisione A può essere deliberato senza ledere le regole del campionato: infatti, o si potrebbe, come già altre volte è stato fatto nel passato, non procedere per quest’anno alla retrocessione di alcune squadre, o si potrebbe tenere conto di un particolare tutt’altro che trascurabile, quale quello che l’Unione Sportiva Triestina ha giuocato la prima parte del campionato scorso senza il notevole vantaggio del fattore campo. (Gli interroganti chiedono la risposta scritta).
«Salizzoni, Zaccagnini».
PRESIDENTE. Le interrogazioni testé lette, per le quali si chiede la risposta scritta, saranno inviate ai Ministri competenti.
La seduta termina alle 20.45.
Ordine del giorno per le sedute di domani.
Alle ore 10:
Seguito della discussione sul disegno di legge:
Convalida del decreto legislativo del Capo provvisorio dello Stato in data 29 marzo 1947, n. 143, concernente l’istituzione di una imposta straordinaria progressiva sul patrimonio. (14).
Alle ore 17:
- – Seguito della discussione sul disegno di legge:
Approvazione del Trattato di pace tra le Potenze Alleate ed Associate e l’Italia, firmato a Parigi il 10 febbraio 1947. (23).
- – Seguito della discussione sul disegno di legge:
Convalida del decreto legislativo del Capo provvisorio dello Stato in data 29 marzo 1947, n. 143, concernente l’istituzione di una imposta straordinaria progressiva sul patrimonio. (14).