Come nasce la Costituzione

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ANTIMERIDIANA DI SABATO 19 APRILE 1947

ASSEMBLEA COSTITUENTE

XCVI.

SEDUTA ANTIMERIDIANA DI SABATO 19 APRILE 1947

PRESIDENZA DEL VICEPRESIDENTE TUPINI

INDICE

 

Interrogazioni (Svolgimento):

Gonella, Ministro della pubblica istruzione                                                       

Petrilli, Sottosegretario di Stato per il tesoro                                                     

Di Vittorio                                                                                                       

Presidente                                                                                                        

Di Gloria                                                                                                          

Miccolis                                                                                                           

Tonello                                                                                                            

Bertola                                                                                                            

Lozza                                                                                                                

Lizzadri                                                                                                            

Disegno di legge: Ordinamento dell’industria cinematografica nazionale (Discussione):

Presidente                                                                                                        

Proia                                                                                                                 

Arata                                                                                                               

Bubbio                                                                                                              

Di Vittorio                                                                                                       

Cappa, Sottosegretario di Stato alla Presidenza del Consiglio                               

Ponti                                                                                                                 

Giannini                                                                                                            

Interrogazioni con richiesta d’urgenza ed interpellanze:

Presidente                                                                                                        

Cappa, Sottosegretario di Stato alla Presidenza del Consiglio                               

Ghidetti                                                                                                            

Interrogazioni (Annunzio):

Presidente                                                                                                        

La seduta comincia alle 10.

FRANCESCHINI, ff. Segretario, legge il processo verbale della precedente seduta antimeridiana.

(È approvato).

Interrogazioni.

PRESIDENTE. L’ordine del giorno reca: Interrogazioni.

Sono state presentate le seguenti interrogazioni:

Di Vittorio, Lizzadri, al Ministro della pubblica istruzione «sui motivi che hanno ritardato l’accoglimento delle giuste rivendicazioni del personale insegnante delle scuole medie ed elementari e degli educandati nazionali, nonostante formali promesse fatte dal Governo, da lungo tempo».

Di Gloria, Rossi Paolo, Preti, Salerno, Binni, Filippini, Codignola, Lami Starnuti, al Ministro della pubblica istruzione «per avere tutti i necessari chiarimenti circa il suo atteggiamento relativamente allo sciopero degli insegnanti di scuole medie».

Miccolis, Rodi, Tumminelli, al Ministro della pubblica istruzione, «per conoscere: 1°) quali siano le ragioni che hanno determinato lo sciopero del personale insegnante della scuola secondaria; 2°) come si è fino ad ora inteso di tradurre in atto gli impegni assunti innanzi all’Assemblea, in sede di esposizione del programma ministeriale, per restituire la scuola italiana alla sua funzione educativa, sociale e morale, negli ordinamenti, nei quadri, nel trattamento economico al personale, nei locali, negli arredamenti e nelle attrezzature».

Tonello, al Ministro della pubblica istruzione, «per sapere se intenda, per l’onore della scuola italiana, accogliere senza altre dilazioni le giuste rivendicazioni dei professori e dei maestri».

Bertola, Cremaschi Carlo, Franceschini, Tumminelli, Lozza, Binni, Giua, Foa, ai Ministri delle finanze e tesoro e della pubblica istruzione, «per sapere se intendano risolvere i problemi che oggi tormentano la scuola media, cioè: i nuovi concorsi e l’indennità di presenza. Si fa presente la necessità dell’urgenza dei provvedimenti per ridare la tranquillità alla scuola».

Bertola, Cremaschi Carlo, Franceschini, Binni, Giua, Foa, Lozza, Silipo, Farina, Platone, ai Ministri della pubblica istruzione e delle finanze e tesoro, «per sapere se non intendano andare finalmente incontro alle richieste avanzate da parecchi mesi dai maestri elementari: ruoli aperti, sistemazione delle pensioni, bando di concorso. Gli interroganti sono d’avviso che si debbano eliminare sollecitamente i motivi di disagio e le ragioni di turbamento che minacciano l’efficienza della nostra scuola elementare».

Lozza, Silipo, al Ministro della pubblica istruzione, «per sapere quali provvedimenti intende prendere per andare incontro alle giuste rivendicazioni degli insegnanti medi e dei Convitti nazionali, in modo da rendere al più presto alla scuola italiana la tranquillità e la serenità indispensabili al funzionamento di essa».

Lizzadri, al Ministro della pubblica istruzione, «sulle ragioni che lo hanno indotto a non accogliere le proposte di soluzione dello sciopero del personale della scuola media, proposte sulle quali erano d’accordo il personale interessato, il Gruppo parlamentare della scuola, la C.G.I.L. e lo stesso Ministro».

L’onorevole Ministro della pubblica istruzione ha facoltà di rispondere.

GONELLA. Ministro della pubblica istruzione. Devo rispondere non ad una, ma ad otto interrogazioni e su un problema particolarmente scottante che interessa una vasta categoria. Perciò sono dispiacente di non poter essere breve.

Rispondo a coloro che hanno chiesto quali siano le ragioni che hanno determinato lo sciopero dei professori delle scuole medie e quali siano i provvedimenti che il Governo intende prendere per migliorare le loro condizioni economiche.

Le richieste presentate dal Sindacato della Scuola Media sono otto:

1°) corresponsione dell’indennità di presenza;

2°) concorsi per il personale, insegnante e non insegnante;

3°) retribuzione degli incaricati e supplenti in base al criterio della cattedra e abbassamento dell’obbligo di orario da 20 a 18 ore;

4°) definizione dello stato giuridico del personale direttivo e insegnante di ruolo;

5°) indennità di carica del personale direttivo e indennità di studio del personale insegnante di ruolo e non di ruolo;

6°) inquadramento degli insegnanti di educazione fisica;

7°) miglioramento di carriera per il personale dei convitti nazionali;

8°) assegnazione di fondi per il pagamento del lavoro straordinario al personale non insegnante.

Queste otto rivendicazioni mirano anzitutto al riconoscimento morale dei diritti degli uomini della Scuola; mirano pure a migliorare la ingiustificata situazione di inferiorità economica di questa categoria.

È evidente il particolare disagio in cui versa la categoria degli insegnanti, non da oggi e neppure soltanto da ieri. La vita degli educatori è una vita dura ed eroica, una vita di sacrificio, dedicata alla più difficile opera di ricostruzione: la ricostruzione delle coscienze.

La loro professione richiede, per non meccanizzarsi in una stanca e arida ripetizione, agio spirituale, tempo libero da occupazioni supplementari, le quali purtroppo sono oggi imposte dall’assillante problema del pane quotidiano.

Gli interessi degli insegnanti hanno un posto preminente negli interessi della Scuola, anche se questi non si esauriscono negli interessi degli insegnanti, bensì coincidono con quelli del popolo tutto. È però evidente che la Scuola non si migliora senza migliorare le condizioni economiche degli insegnanti. La dignità economica è una testimonianza della dignità morale. Per poter essere nella Scuola i tutori dei valori ideali, gli insegnanti devono poter vivere in dignitosa tranquillità economica, segno tangibile della stima di cui il popolo onora gli educatori dei suoi figli. Sono perciò evidenti le gravi conseguenze sociali di un disagio e del malcontento diffuso nella classe degli educatori.

Tutti pensiamo che la Scuola è oggi travagliata da gravi problemi, ma anche in questo campo il disagio maggiore nel nostro momento deriva dal fatto che si pagano le conseguenze della guerra; scuole devastate o occupate, aule disagiate, suppellettili deficienti, insegnanti sfollati, assegnazioni provvisorie caotiche, sezioni staccate improvvisate, sovrappopolazione scolastica determinata da una selezione deficiente per le troppe indulgenze; iniziative private spesso ispirate non a un sano intento educativo, ma a fini di poco onesta speculazione.

Questa situazione esige che, oltre a ridare un’anima alla Scuola, lo Stato compia per essa il massimo sforzo finanziario; elevando la sua scuola esso contribuirà, di conseguenza, ad evitare il tono di tutta la scuola italiana. La politica, quindi, del Ministero della pubblica istruzione ha avuto – sul terreno economico – questo duplice obiettivo: ottenere il massimo dei mezzi e realizzare il migliore impiego dei mezzi.

Lo Stato deve fare molto di più per la Scuola, ma i bilanci della pubblica istruzione comportano già spese cinquanta volte superiori a quelle della media dei bilanci prebellici, e se il beneficio di questo notevole aumento di bilanci non è sensibile per la classe degli insegnanti, si deve al fatto che occorre, anche nel campo della scuola, far fronte a nuove gravose necessità poste in essere dalle devastazioni belliche.

Comunque, più volte io stesso ho fatto notare al Consiglio dei Ministri che non è ammissibile che nel nuovo Stato democratico i bilanci dell’istruzione restino al di sotto dei bilanci dei Ministeri militari. (Applausi). Frattanto gli sdoppiamenti nelle scuole numerose da me predisposti, oltre ad avere benefici effetti didattici e disciplinari, contribuiscono ad aumentare le possibilità di impiego del personale insegnante. Così pure si cerca di disciplinare e sanare le sezioni staccate per avviarle a divenire al più presto scuole autonome e per preordinare di conseguenza nuovi posti di ruolo.

È nota e corrente l’accusa di tradizionale inerzia e lentezza nella nostra Amministrazione, se non addirittura di irresponsabilità e assenteismo.

Ammetto che in alcuni casi l’accusa non sia stata priva di fondamento. In altri casi tuttavia può avvenire che si scambi per inerzia la ponderazione e per incuria l’impossibilità.

Gli onorevoli Di Vittorio, Lizzadri, Tonello ed altri mi chiedono i motivi che hanno ritardato l’accoglimento dei provvedimenti relativi agli insegnanti.

Rispondo loro che nel trattare le rivendicazioni presentate dal Sindacato degli insegnanti non vi è stata inerzia: io stesso ho preso l’iniziativa di costituire una Commissione nella quale, accanto ai funzionari, sono stati ammessi i rappresentanti del Sindacato, e questa Commissione, che continua i suoi lavori, ha presentato alcune delle sue proposte, già portate in discussione al Consiglio dei ministri da poco più di un mese.

Successivamente si dovette interessare il Tesoro e preparare tecnicamente i provvedimenti legislativi. Io stesso, contro tutte le consuetudini, mi sono ripetutamente recato al Tesoro per discutere i provvedimenti con i funzionari di quel Dicastero.

È stata lamentata l’inerzia particolarmente per quanto riguarda i concorsi. A parte l’opportunità di attendere il ritorno dei prigionieri, sarebbe stato possibile bandire prima i concorsi, ma a condizione di non mutare le leggi vigenti, mentre tale mutamento era richiesto dal Sindacato, il quale domandava, fra l’altro, che fossero ammessi anche i semplici laureati supplenti al concorso per titoli.

Non ho creduto di poter accettare proposte di questo genere che ritengo lesive degli interessi della Scuola o sono stato confortato in ciò dall’opinione degli stessi insegnanti di ruolo che hanno ottenuto la cattedra solo dopo aver superato seri esami.

Naturalmente questa esigenza importava lunghe discussioni cogli interessati e pure con il Ministero del tesoro competente, a tutelare l’uniformità dei criteri di ammissione negli impieghi delle singole amministrazioni statali.

Infine, ho potuto portare al Consiglio dei Ministri, che l’ha approvato, un provvedimento legislativo il quale, tenendo fermo il principio che non si sale una cattedra senza un esame, ammette coloro che un esame hanno superato, cioè gli idonei e gli abilitati, al concorso per titoli, e gli altri al concorso per esami.

Far prima avrebbe dovuto dire fare male, cioè o sacrificare le giuste aspirazioni dei reduci, degli idonei e degli abilitati, oppure sacrificare la serietà della Scuola di domani. Con la legge già approvata penso che si sia trovata la via giusta.

Comunque, da questo ritardo nessun danno deriva agli interessati dal momento che i vincitori potranno essere immessi nei ruoli per l’anno scolastico 1947-48 e che, anche se il concorso fosse stato bandito sei mesi fa, questa data di immissione nei ruoli non avrebbe potuto tecnicamente essere anticipata.

Così credo di aver risposto anche agli onorevoli Bertola, Cremaschi, Franceschini, Lozza, Giua, Foa ed altri che mi hanno presentato interrogazioni sui concorsi.

Si parla di fedeltà agli impegni assunti di fronte ai rappresentanti della categoria.

Evidentemente ognuno risponde degli impegni che si è direttamente assunti, risponde di ciò che dipende dalla sua volontà e non dall’iniziativa o inerzia o comunque dal consenso di altri dicasteri.

Per essere precisi, gli interroganti Miccolis, Rodi e Tumminelli chiedono come il Governo abbia finora «inteso di tradurre in atto gli impegni assunti innanzi all’Assemblea in sede di esposizione del programma ministeriale».

Ora, nel programma ministeriale sono stati assunti due impegni fondamentali: i ruoli aperti per i maestri e i concorsi per i maestri e professori. Ambedue questi impegni sono stati mantenuti, poiché furono concessi i ruoli aperti e si approvò la legge per il bando dei concorsi che permetterà di immettere nei ruoli circa 25.000 professori e maestri. Nello stesso tempo si lavora per l’indispensabile aumento dei ruoli organici della scuola media dello Stato, come si è già lavorato e realizzato nel campo della scuola elementare dello Stato, arrivando all’istituzione di ben sei mila nuove scuole statali che nessun governo ha mai saputo istituire in così grande numero nel breve giro di pochi mesi.

Ma più che polemizzare sul modo con il quale si è arrivati a questa situazione, importa determinare la portata economica delle richieste presentate dal Sindacato della scuola media.      

Nella propaganda sindacale si parla spesso di «modestissime» rivendicazioni di natura «prevalentemente morale e giuridica» e ci si meraviglia perché non si viene a capo di nulla.

La meraviglia può essere invero giustificata per chi non ha presenti le nuove spese che comporta l’accettazione di queste rivendicazioni, spese di cui è giudice ultimo non l’istruzione ma il Tesoro.

Oltre al già notevole aggravio determinato dalla concessione dei ruoli aperti ai maestri, l’accoglimento delle sole nuove richieste degli insegnanti delle scuole medie importa, secondo i calcoli del Tesoro, circa 3 miliardi e mezzo di nuove spese annuali. Infatti il premio di presenza viene a gravare per circa un miliardo annuo. Evidentemente esso è dovuto per stretta giustizia agli insegnanti come a tutti gli impiegati dello Stato, e non venne subito ad essi corrisposto perché il sistema di vacanze dei professori richiedeva, perché questi non fossero danneggiati, speciali riguardi. Si trattava cioè di rettificare a favore degli insegnanti l’interpretazione della legge generale, la quale stabilisce che il premio viene concesso solo nei giorni in cui vi è la presenza fisica nell’ufficio. Comunque la legge è retroattiva, e 600 milioni sono già stati anticipati prima dell’approvazione del provvedimento.

Il provvedimento riguardante la retribuzione degli incaricati e supplenti, in base al criterio della cattedra, e l’abbassamento dell’obbligo di orario per il personale di ruolo dalle 20 alle 18 ore, importa un maggiore onere di circa 800 milioni; la concessione dell’indennità di studio per i professori e di carica per i presidi prevede una spesa approssimativa di 700 milioni per l’istruzione classica, di 260 milioni per l’istruzione tecnica, più 630 milioni per le indennità in favore degli incaricati, richiesta pure dal Sindacato. Quindi, questo solo provvedimento importa una spesa di oltre un miliardo e mezzo. Il pagamento del lavoro straordinario al personale non insegnante verrebbe a costare 50 milioni, mentre nuovi obblighi, sia pure di minima portata, si assume il Tesoro con i provvedimenti relativi agli insegnanti di educazione fisica e dei convitti nazionali, di cui si interessano gli onorevoli Lozza e Silipo.

Si chiede infine l’indennità di studio. Ma perché l’indennità di studio, una volta concessa ai professori delle scuole medie, non potrebbe – come da varie parti è già stato chiesto – essere estesa ai maestri e soprattutto ai professori universitari che hanno il compito specifico della ricerca? Forse per questo gli stessi interessati hanno ripiegato sulla richiesta del semplice riconoscimento del principio, il che significa però sempre un impegno, una promessa da mantenere.

Si pensi inoltre, quando si parla di inadempienza di promesse, come la seconda Commissione permanente di questa Assemblea, trattando delle variazioni alle spese dei vari Ministeri, abbia recentemente raccomandato al Governo che il bilancio attuale «sia considerato limite massimo di espansione delle spese per l’esercizio in corso», aggiungendo che deve essere rivolto ai singoli Ministeri l’invito «di realizzare economie e di stornare stanziamenti». Tale è la direttiva che viene da questa Assemblea al Governo, direttiva che gli onorevoli interroganti dovrebbero tener presente.

Malgrado io avessi assicurato sabato 12 aprile alla segreteria del sindacato che avevo fatto porre all’ordine del giorno del Consiglio dei Ministri del 15 corrente i provvedimenti già pronti, cioè la maggior parte di quelli proposti, malgrado questa inserzione avesse già determinato la decisione di non ricorrere allo sciopero da parte dei maestri, la segreteria generale del Sindacato della scuola media ritenne opportuno dichiarare lo sciopero.

Ora gli onorevoli Di Gloria, Rossi, Preti, Salerno, Binni, Filippini, Codignola e Lami Starnuti mi chiedono quale sia stato l’atteggiamento del Ministro della pubblica istruzione di fronte allo sciopero.

Rispondo che, nelle ore immediatamente anteriori allo sciopero, mi furono segnalati dall’autorità scolastiche periferiche alcuni fatti di cui tengo la precisa documentazione a disposizione degli onorevoli interroganti:

1°) manifesti di Camere del lavoro che diffidavano le autorità scolastiche a influire con atti o parole sugli insegnanti nei riguardi dell’agitazione;

2°) disposizione data da alcuni insegnanti ai loro discepoli a non presentarsi a scuola il giorno 14, limitando in tal modo la libertà di altri insegnanti che eventualmente avessero voluto far scuola;

3°) invito di Sindacati non alla sospensione delle lezioni, ma alla «chiusura» delle scuole.

Sono appunto questi fatti documentati, alcuni dei quali gli stessi promotori dello sciopero mi hanno poi lealmente deplorato, che mi indussero ad inviare ai Provveditori il seguente telegramma:

«Comunico che Sindacato maestri manifestando alto senso responsabilità educatori ha deciso non abbia luogo astensione scuola prevista per domani. Avendo Consiglio Ministri su mia proposta assicurato rapido esame provvedimenti relativi scuola, nella eventualità che in altri ordini di insegnamento si dia inammissibile disposizione chiusura scuole che est di competenza esclusiva autorità scolastica, dispongo che Provveditori informino urgentemente capi istituti che non è ammessa interruzione continuità servizio scolastico segnalando eventuali inadempienti. Provveditori saranno personalmente responsabili esecuzione suddette disposizioni informate inderogabili esigenze difesa dignità scuola».

Non si tratta con queste parole di voler dividere, come fu detto, la categoria degli educatori o di voler difendere la dignità della scuola contro gli stessi educatori: nel telegramma non si parla di scioperi, ma di chiusura delle scuole, e contro l’ordine di chiusura delle scuole che provenga da autorità non scolastiche o comunque, anche se scolastiche, non competenti e autorizzate, io ho il preciso dovere di intervenire, come sono intervenuto, chiedendo che mi si segnalino le inadempienze per la difesa del prestigio della Scuola e dei diritti delle famiglie. Se mi vengono segnalate errate interpretazioni o abusi nell’applicazione della disposizione ministeriale, sarà mio dovere di intervenire come sono già intervenuto.

Ciò che oggi dichiaro all’Assemblea, ho già da vari giorni dichiarato nei numerosi incontri coi rappresentanti sindacali, e sono certo che le mie parole saranno state giustamente riferite agli interessati. Su questo tema non ho quindi più nulla da aggiungere.

Scoppiato lo sciopero, e a nulla valsi i provvedimenti adottati nel Consiglio dei Ministri del 15 corrente (concorsi e stato giuridico), non ho mai rifiutato alcun colloquio con i rappresentanti della categoria, e la portata di questi colloqui è documentata in una lettera che ho inviato giovedì scorso all’onorevole Bertola, presidente del Gruppo parlamentare della Scuola.

Questa lettera dice:

«Rinnuovo a te e agli altri colleghi del Gruppo parlamentare il più vivo ringraziamento per la vostra opera a favore della cessazione dello sciopero che è nei nostri comuni desideri e negli interessi supremi della Scuola, che così vivamente stanno a cuore al Governo e agli educatori.

«Tu sai bene come, anche alla vigilia dello sciopero, abbia dichiarato che intendevo proporre all’esame dell’ultimo Consiglio dei Ministri i provvedimenti relativi alla scuola sia elementare che media, e come siano già stati approvati alcuni di tali provvedimenti di importanza essenziale, quali i concorsi per le scuole medie e lo stato giuridico dei presidi e professori.

«Nelle riunioni di ieri abbiamo assieme constatato il proposito unanime dei rappresentanti sindacali e parlamentari di porre termine allo sciopero.

«In conseguenza di ciò, vi ho rinnovato il mio proposito di chiedere subito alla Presidenza del Consiglio l’inserzione degli altri provvedimenti non ancora approvati nell’ordine del giorno della prossima seduta del Consiglio dei Ministri.

«La Presidenza del Consiglio ha accettato la mia proposta, e, cessato lo sciopero, è pronta a dare atto di questa accettazione in un pubblico comunicato, di cui ti allego copia.

«Ti prego quindi di portare a conoscenza degli interessati questo nostro proposito».

La lettera è stata letta in una seduta a cui partecipavano i membri del Comitato centrale del Sindacato e i segretari generali della Confederazione generale italiana del lavoro, i quali hanno creduto di respingere una soluzione che sembrava per tutti onorevole. Da ciò la continuazione dello sciopero, mentre il Governo non vede motivo di abbandonare questo suo ragionevole punto di vista.

Circa i motivi dello sciopero non si discute (e anzi si ammette pienamente) l’esistenza di motivi ideali: se mai si può discutere se i mezzi siano ideali. Personalmente capisco che i mezzi sono quelli che la situazione di emergenza può suggerire, ma nello stesso tempo devo constatare che la categoria dei maestri, la quale presentava rivendicazioni di non meno grave peso economico, ha preferito non ricorrere allo sciopero, sapendo che avrebbe ottenuto soddisfazione delle sue rivendicazioni.

Ma si chiede anche perché il Governo per la prima volta faccia resistenza ad uno sciopero e proprio allo sciopero di una delle categorie più immeritatamente umiliate.

Si aggiunge: perché con la minaccia di far fallire lo sciopero si vuol fare di questa categoria una vittima, quasi a compenso dei torti subiti da altre categorie più forti?

Certamente si tratta di considerazioni molto serie e di grave peso morale. Ma a chi rivolge tale domanda, chiedo quali fatti possano suffragare queste impressioni.

Vi invito a chiedere ai colleghi Ministri Gullo, Ferrari e Cacciatore quale sia stato, col concorde consenso di tutto il Governo, il loro atteggiamento di fronte allo sciopero dei magistrati e alle minacce di sciopero dei ferrovieri e dei postelegrafonici, la cui situazione economica ha pure i suoi profondi disagi.

Il Governo forse ha accettato tutte le richieste dei magistrati, pur essendo questi in sciopero ormai da un paio di settimane?

Quindi non si ripeta l’infondato luogo comune secondo il quale sarebbe la prima volta che il Governo dice di «no». Intanto non si dice di «no» quando si accolgono richieste fondate e di possibile realizzazione, come si è fatto nell’ultimo Consiglio dei Ministri; in secondo luogo non si tratta di «prima volta», poiché questo è l’atteggiamento del Governo che è stato identico anche in casi analoghi anteriori all’attuale.

Questi fatti positivi che ho citato dimostrano che l’atteggiamento del Governo non riguarda la specifica categoria degli insegnanti, ma risponde ad una linea di condotta che si è seguita e che si intende seguire per questo genere di scioperi nel pubblico impiego.

Vi sono alcuni insegnanti i quali mi hanno scritto in questi giorni dichiarando esplicitamente che ritengono che lo sciopero sia stato una colpa e temono che lo sciopero possa assumere un carattere politico che per me non può e non deve avere.

Io non ho mai parlato di colpa, e ammetto soggettivamente negli interessati la migliore buona fede; ammetto soprattutto la legittimità oggettiva delle loro rivendicazioni, ma ammetto pure che non tutto ciò che è giusto è possibile. Ciò non toglie che lo sciopero, come altri ritengono possa essere, se non una colpa, uno sbaglio, ai fini delle concrete conquiste della categoria, poiché lo sciopero non allarga le possibilità del Governo, che già prima dello sciopero aveva garantito di continuare, come fece per i maestri, l’ulteriore adozione di provvedimenti in parte adottati.

Se si voleva fare, come si dice, una protesta morale più che avanzare una rivendicazione economica in questo duro e pericoloso momento delle nostre finanze, sarebbe bastato il gesto di una temporanea sospensione delle lezioni e non c’era bisogno di ricorrere ad uno sciopero, che fu dichiarato sciopero ad oltranza.

Comunque io sono il primo ad augurarmi che il prestigio della categoria degli educatori non sia intaccato e neppure scalfito da uno sciopero che è sempre un’arma difficile da manovrare, e tanto più per una categoria che per proprio connaturato temperamento morale ha sempre rifiutato di servirsi di quest’arma.

Nessuno chiede capitolazioni: si chiede solo che i nostri ragazzi possano al più presto ritornare a scuola dopo una disgraziata annata, in cui la scuola ha duramente sofferto perfino della inimicizia del freddo.

Quindi, con il suo atteggiamento, il Governo non si rivolge ai soli insegnanti; si tratta di una questione di carattere generale, di cui l’attuale sciopero non è che un episodio.

Noi non abbiamo dato alcun ultimatum: se mai, l’ultimatum per il 14 aprile fu dato dal Sindacato al Governo. E quanto all’umiliazione che si dice venga chiesta dal Governo agli insegnanti, vi chiedo se sono forse degli umiliati gli educatori dei Convitti nazionali, i quali, dopo due giorni di sciopero, hanno inviato al Ministero, di loro libera iniziativa, un comunicato in cui è detto che la rappresentanza della categoria «per consentire al Governo di decidere sulle richieste sindacali in una atmosfera più serena, ha deliberato la sospensione dello sciopero». Perché questo esempio non è stato e non può essere imitato?

Non è certo per umiliare la categoria che il Consiglio dei Ministri, nel comunicato della sua seduta anteriore allo sciopero, su mia proposta, si era assunto preciso e pubblico impegno di esaminare nella seduta successiva i provvedimenti relativi alla Scuola.

Non è certo per umiliare la categoria che, pur essendo iniziato lo sciopero, ho ottenuto dal Consiglio dei Ministri l’approvazione dei primi due provvedimenti relativi a due fondamentali richieste degli insegnanti, cioè i concorsi per i professori e il nuovo stato giuridico, e che nessuna parola non riguardosa è stata detta nel comunicato ufficiale dell’ultimo Consiglio dei Ministri, tenuto mentre già era stato iniziato lo sciopero.

È certo che queste ultime leggi approvate non segnano umiliazioni ma successi della categoria, successi dei quali non io ma la categoria degli educatori deve andare orgogliosa.

Non so se io abbia, come confido di avere, i titoli sufficienti per comprendere lo stato d’animo attuale degli insegnanti italiani.

Credo di comprendere gli insegnanti anzitutto per essere stato della loro famiglia fino a quando un ordine di Starace non mi trasferì dalla scuola al carcere. So per esperienza personale che è una categoria che ha molto patito e oggi ancor più patisce. Ma qui non si tratta di un esclusivo problema economico, bensì di un profondo e incancrenito problema sociale: è un triste retaggio di tutta la nostra storia nazionale questo fatto che la vita degli educatori si trova permanentemente e assolutamente inferiore al loro altissimo compito, per cui finiscono sempre per ricevere in ritardo e parzialmente ciò che gli altri ricevono subito e totalmente.

Ma io mi appello agli stessi educatori, per chiedere ad essi se ritengono possibile risolvere in un’epoca di miseria un così profondo e vasto problema morale e sociale che non si è risolto nelle epoche di benessere.

La sofferenza degli educatori è naturalmente più acuta in periodi di punta del generale disagio economico e ogni sforzo dello Stato va anzitutto diretto ad eliminare questo particolare disagio dell’ora, ad assicurare almeno quei provvedimenti che hanno un carattere di perequazione, che sono una doverosa riparazione di ingiustizie passate e di decenni di incuria che hanno imposto agli educatori una situazione di umiliante inferiorità, la quale scoraggia gli ingegni migliori a seguire con decoro la via dell’insegnamento e ad essere il nerbo di quel ceto medio che non è più tale per gli scivoloni progressivi verso l’inflazione.

Noi abbiamo indicato la strada per uscire dagli impacci di questa situazione. Gli insegnanti possono oggi stesso ritornare alle loro scuole: il Governo non può certo riunirsi oggi ma, riprese le lezioni, nella sua prima riunione esaminerà i provvedimenti già preordinati; dico esaminerà, poiché nessun Ministro può evidentemente assumere impegni sulle decisioni di un organo collegiale.

Mi auguro che questa sia la strada che verrà al più presto battuta nel comune interesse della scuola, degli educatori e dello stesso Governo. (Vivi applausi).

PRESIDENTE. Le due interrogazioni dell’onorevole Bertola, alle quali ha già risposto il Ministro della pubblica istruzione, sono anche rivolte al Ministro delle finanze e tesoro.

L’onorevole Petrilli, Sottosegretario di Stato per il tesoro, ha facoltà di rispondere.

PETRILLI, Sottosegretario di Stato per il tesoro. Mi associo a quanto ha detto l’onorevole Ministro della pubblica istruzione, per ciò che riguarda i riflessi economici delle questioni che interessano gli insegnanti elementari e gli insegnanti delle scuole medie.

In realtà, presso il Ministero delle finanze e del tesoro sono state discusse varie questioni, ed il Ministro ed io personalmente abbiamo portato tutto il nostro contributo possibile alla loro risoluzione. Alcune richieste affacciate dai rappresentanti delle categorie interessano la classe degli insegnanti elementari; altre, quella degli insegnanti delle scuole medie; altre il personale dei convitti nazionali.

E noto che il Ministero delle finanze e del tesoro ha dato già la sua adesione alla istituzione dei ruoli aperti per gli insegnanti elementari; ed ormai questa proposta del Ministero della pubblica istruzione – alla quale il Ministro, è doveroso che io lo riconosca, ha dato tutto il suo personale interessamento (perché insieme abbiamo discusso presso il Ministero delle finanze e del tesoro la portata di questo problema, sia per quanto riguarda lo stato giuridico, sia per quanto riguarda lo stato economico, conseguenti alla realizzazione di questa iniziativa) – è stata approvata.

Questo importa un onere abbastanza gravoso per le finanze dello Stato, perché supera, da solo, i 3 miliardi annui.

Il Ministero delle finanze e del tesoro ha fatto la sua parte di sacrifici, perché persuaso della opportunità e della giustizia dell’accoglimento della richiesta e dell’aspirazione, ormai annosa, della categoria degli insegnanti elementari.

L’altra richiesta, presa in considerazione dal Ministero delle finanze e del tesoro, su proposta di quello della pubblica istruzione e dei rappresentanti delle categorie interessate, è quella dell’indennità di presenza, questione comune agli insegnanti elementari e medi.

Anche su questo punto si è trovato il perfetto accordo; il Ministero delle finanze e del tesoro ha già dato la sua adesione a quello della pubblica istruzione, per l’approvazione di questa richiesta, nel senso che l’indennità di presenza viene corrisposta per tutti i giorni del calendario scolastico e viene accordata anche durante le ferie natalizie e pasquali, per quei giorni nei quali ci sono gli scrutini trimestrali, nonché in quel breve periodo di tempo in cui la scuola deve restare chiusa per qualche evento di forza maggiore.

Riguardo alla questione delle pensioni degli insegnanti elementari, devo subito dire che essa è stata prospettata pochi giorni or sono, dico pochi giorni, precisamente nella settimana scorsa, al Ministero delle finanze e del tesoro, direttamente dalla categoria degli insegnanti. Non è ancora venuta alcuna richiesta ufficiale dal Ministero della pubblica istruzione, perché è stata una iniziativa proposta senz’altro, omisso medio, direi, non in via ufficiale, ma ufficiosamente al Ministero delle finanze e del tesoro. Posso aggiungere che, nonostante che il Ministero delle finanze e del tesoro non sia stato investito formalmente della questione, io ho già disposto per lo studio della questione stessa, la quale si pone nei seguenti termini: abolizione e soppressione del Monte pensioni dei maestri elementari, devoluzione del patrimonio dallo Stato, accollo da parte dello Stato delle pensioni dei maestri elementari così come di tutti gli altri dipendenti statali.

Come voi ben comprendete, onorevoli colleghi, non è una proposta sulla quale il Ministero delle finanze e del tesoro può adottare una deliberazione a cuor leggero; è una proposta che va studiata in tutti i suoi riflessi per tutti gli eventuali sviluppi che essa può presentare, ed anzitutto deve essere esaminata nella sua base finanziaria, perché la devoluzione allo Stato del patrimonio Monte pensioni dei maestri elementari potrebbe rappresentare per essi (è bene che i maestri lo comprendano) anche un danno economico ed un vantaggio per la finanza dello Stato. Ora noi non vogliamo danneggiare nessuna categoria, vogliamo esaminare obiettivamente la possibilità di realizzare questa aspirazione su un piano di giustizia e su un piano di opportunità. Studi sono stati disposti – l’iniziativa fu presentata soltanto la scorsa settimana – e noi oggettivamente e serenamente proporremo, d’accordo col Ministero della pubblica istruzione, al Consiglio dei Ministri quelle conclusioni che si renderanno opportune e giuste.

La questione dei concorsi, per i quali, come ha già osservato il Ministro della pubblica istruzione, il Ministero delle finanze e del tesoro ha dato anche la sua adesione, è risolta già con deliberazione del Consiglio dei Ministri; e gli onorevoli Di Vittorio e Lizzadri sanno benissimo quale fosse il mio punto di vista, già da parecchio tempo. Ho portato anche il mio personale contributo, il mio modesto contributo in proposito e con tutta cordialità, nella convinzione che si trattasse di una aspirazione che andava accolta e sono lieto che il Consiglio dei Ministri abbia risoluto favorevolmente la questione.

Resta ora in discussione la riforma di quel decreto n. 539 del 1946, che riguarda il personale non di ruolo delle scuole medie.

Ora, anche per questo, come ho già detto ai rappresentanti delle categorie interessate, il Ministro delle finanze e del tesoro ha dimostrato il suo benevolo interessamento e confermo quello che già ho avuto occasione di dire ai rappresentanti della categoria interessata ed al collega onorevole Di Vittorio, cioè che il Ministro delle finanze e tesoro tratterà benevolmente al Consiglio dei Ministri questa proposta, perché è chiaro che né il Ministro del tesoro, né quello della pubblica istruzione possono risolvere, da soli, una questione così importante. Questi Ministri possono portare il loro contributo, però, su una questione che, riguardando in modo particolare la pubblica amministrazione, è di loro particolare competenza, sebbene si tratti per noi di una competenza passiva.

Vi è infine la questione riguardante il personale dei convitti nazionali, cioè il personale degli istitutori ed il personale direttivo. È una questione proposta relativamente da poco tempo e sulla quale io spero di poter comunicare, al più presto, al Ministero della pubblica istruzione, favorevoli disposizioni da parte del Ministero del tesoro, perché si addivenga celermente a miglioramenti di carriera, attraverso l’apertura dei ruoli per i gradi degli istitutori ed uno spostamento anche di organico.

Di altre questioni non credo che il Ministero del tesoro sia stato interessato, e comunque mi rimetto a quanto ha già dichiarato il Ministro della pubblica istruzione.

PRESIDENTE. L’onorevole Di Vittorio ha facoltà di dichiarare se sia sodisfatto.

DI VITTORIO. Onorevoli colleghi, pur dando atto all’onorevole Ministro della pubblica istruzione e all’onorevole Sottosegretario per il tesoro delle dichiarazioni fatte davanti all’Assemblea, dichiarazioni che esprimono indubbiamente buone intenzioni da parte del Ministero della pubblica istruzione nei confronti del corpo insegnante e di tutto il personale scolastico, sono dolente di non potermi dichiarare completamente sodisfatto.

Desidero evitare ogni parola che possa costituire un ostacolo alla composizione onorevole dello sciopero degli insegnanti delle scuole medie, sciopero che noi ci auguriamo possa cessare al più presto perché sia ristabilita la normalità in questo settore veramente delicato della nostra vita nazionale e portata la tranquillità nelle famiglie dei ragazzi interessati. Tuttavia, bisogna dire che questo sciopero, come altri scioperi di lavoratori dello Stato, di enti parastatali e di enti locali, avrebbe potuto essere evitato. Il fatto è che nel nostro Paese, ed in alcune ruote dell’ingranaggio dello Stato, vi è un andazzo di cose che non si può approvare. Invece di risolvere i problemi a mano a mano che sorgono e maturano, si preferisce rinviarli e accumularli, e così i problemi, invece di essere risolti, si moltiplicano e si complicano. Sembrerebbe, ad esaminare certi atti e certi atteggiamenti specialmente della Ragioneria generale dello Stato, che vi sia della gente che prova un gusto addirittura satanico ad aggrovigliare i problemi, a complicarli e aggravarli per impedirne le soluzioni.

Così, oggi, l’onorevole Gonella ha voluto impressionare l’Assemblea ed il Paese sulle rivendicazioni del corpo insegnante in genere, e dei professori delle scuole medie in particolare, gettando la cifra di 3 miliardi. E una cifra impressionante, nonostante il valore, disgraziatamente ridotto, della nostra moneta. Perché si arriva alla cifra di 3 miliardi? Perché alcuni problemi che sarebbero costati qualche diecina, o al massimo qualche centinaio di milioni, due anni fa, un anno e mezzo fa, un anno fa, man mano che sono sorti non sono stati risolti e così abbiamo da una parte le condizioni economiche di questa categoria di lavoratori intellettuali che si aggravano sempre di più e, dall’altra parte, l’onere dello Stato che si moltiplica, fino ad assumere un carattere di tale gravità da presentare come impossibile ogni soluzione.

Bisogna risolvere i problemi a mano a mano che sorgono, e occorrerebbe una maggiore energia, io credo, da parte degli onorevoli Ministri interessati verso la Ragioneria generale dello Stato, la quale deve esercitare la sua funzione utilissima di controllo e di freno, deve cercare di impedire che sia dissipata qualsiasi parte delle finanze dello Stato, ma non deve giungere, come giunge in moltissimi casi, ad essere il fattore determinante della soluzione, anzi della non soluzione, dei problemi, non soltanto in ordine alla scuola, ma anche a tutte le altre attività dello Stato che hanno rapporti diretti con la nostra azione sindacale.

Io non discuto nemmeno del fondamento delle richieste successivamente avanzate, sia dal Sindacato nazionale della scuola media, come da quello dei maestri, come dall’insieme della Federazione della scuola. Il fondamento di queste richieste non è discusso da nessuno nel Paese e lo stesso Ministro, poco fa, ha ampiamente riconosciuto che queste richieste sono più che legittime, più che giustificate. Non si possono discutere oggi le richieste avanzate da tutti gli altri lavoratori dello Stato, richieste contenute e moderate, perché questi ceti di lavoratori dello Stato, degli enti parastatali e degli enti locali, sono i più sacrificati nelle contingenze attuali del nostro Paese. È perciò che, da parte dello Stato, non vi debbono essere soltanto manifestazioni di buona intenzione, ma vi deve essere uno sforzo concreto diretto ad alleviare la atroce miseria di cui soffrono questi lavoratori a reddito fisso. Dobbiamo dare un aiuto concreto ad essi per alleviare la loro miseria. Sappiamo che il bilancio dello Stato ha delle possibilità limitate, ha da far fronte a tanti altri bisogni, gravi, urgenti del nostro Paese, ha da pensare a riattivare la vita economica, ha da attenuare il terribile e angoscioso problema della disoccupazione, ha da utilizzare tutte le possibilità produttive del Paese per cercare, con la ripresa della vita economica, con l’aumento delle possibilità di lavoro, di attenuare la miseria di cui soffre tutto il popolo.

Bisogna che lo Stato, per far fronte alle esigenze urgenti ed assillanti del Paese, e per andare incontro ai bisogni vitali di queste categorie di lavoratori del medio ceto, dei dipendenti statali, parastatali e degli enti locali, trovi l’energia sufficiente e i mezzi necessari ed efficaci per prendere il denaro dai ceti che lo hanno accumulato sulla miseria del popolo, sulla sventura della Patria.

Credo che in tali condizioni non si possano disconoscere la legittimità e la necessità dello sciopero dei professori delle scuole medie. Da due anni sono state ripetute delle promesse, e nel corso di due anni, ben poco o quasi nulla è stato mantenuto, e le condizioni di questi lavoratori sono andate sempre più aggravandosi. Quale altro mezzo hanno i lavoratori, quando sono giunti al limite della sopportabilità, per far sentire al Paese che non hanno più la possibilità materiale di andare avanti, che bisogna che si faccia qualche cosa per loro; quando tutti gli altri mezzi normali sono stati esauriti: le richieste, le insistenze, gli ordini del giorno, le riunioni, le commissioni, le trattative? Quando tutti questi mezzi sono esauriti, che cosa rimane ai lavoratori per attirare l’attenzione generale sui propri problemi vitali? Lo sciopero. Perciò la legittimità dello sciopero; perciò la necessità del diritto di sciopero riconosciuto a tutti i lavoratori, senza nessuna eccezione.

Io, per le mie funzioni, sono a contatto in questi giorni in modo più diretto col corpo insegnante. Devo dichiarare davanti a voi, onorevoli colleghi, che nessuno più dei professori soffre in questi giorni di questo sciopero e dell’anormalità della vita scolastica; nessuno è più preoccupato di voler ristabilire al più presto la vita normale della scuola. E questa è la prova dell’alto senso di responsabilità, di dignità della scuola che anima il nostro corpo insegnante; e questa è una garanzia per il nostro Paese. Ed è per questo che noi ci siamo compiaciuti quando, avendo interpretato una circolare telegrafica del Ministro dell’istruzione e alcune affermazioni attribuite, probabilmente a torto, al Presidente del Consiglio, come qualche cosa che tendesse ad umiliare, ad offendere il corpo insegnante, tutti i professori, i presidi, i vicepresidi, tutte le autorità scolastiche hanno protestato contro questa supposta offesa alla loro dignità. Essi hanno dimostrato in questo modo di avere una grande sensibilità e un senso altissimo della propria indipendenza. Lo spirito di indipendenza, lo spirito elevato di dignità personale e professionale per coloro che hanno l’alto compito di formare la nostra gioventù, è una garanzia per il nostro popolo, e perciò è da lodare.

Noi prendiamo atto delle dichiarazioni che ha testé fatto l’onorevole Ministro della pubblica istruzione, affermando che in nessun modo si è voluto offendere od umiliare il personale scolastico. Sono lieto che questo equivoco sia stato in tal modo chiarito; mi debbo tuttavia felicitare pubblicamente per la compattezza, la disciplina, la solidarietà totale che ha dimostrato questa volta, con la riuscita completa dello sciopero, il personale insegnante e non insegnante delle scuole medie, come sono pronti a dimostrarlo tutti gli altri lavoratori della scuola e i lavoratori dello Stato e degli enti pubblici in genere, qualora ciò fosse necessario per la difesa dei propri interessi, che in questo caso si riducono soprattutto alla difesa del proprio diritto alla vita, all’esistenza più elementare. (Applausi a sinistra).

Le conclusioni dell’onorevole Ministro della pubblica istruzione offrono, a mio giudizio, la possibilità di quella composizione onorevole dello sciopero che noi abbiamo ricercato nelle nostre discussioni.

Io prendo atto perciò di quelle dichiarazioni ed evito di entrare in polemica, trascurando alcuni punti polemici ai quali l’onorevole Ministro della pubblica istruzione non ha creduto di potersi sottrarre.

Concludendo, mi auguro che lo sciopero possa cessare presto, nell’interesse della dignità della scuola e dei diritti riconosciuti del personale insegnante e non insegnante. Dichiaro, in pari tempo, che tutti i lavoratori italiani hanno in questa occasione dimostrato la loro solidarietà con i lavoratori della scuola, come esprimono la loro solidarietà con i lavoratori di tutti gli enti pubblici. E il Governo faccia tutto quello che può per soddisfare al più presto le rivendicazioni legittime ed urgentissime di tutti questi lavoratori, sapendo che i lavoratori del ceto medio, i professori, i maestri, i lavoratori dello Stato, degli enti parastatali e di quelli locali hanno dietro di sé la solidarietà attiva di tutto il proletariato italiano. (Applausi a sinistra).

PRESIDENTE. Prima di dare la parola all’onorevole Di Gloria, debbo ricordare all’Assemblea che il tempo concesso agli interroganti è di cinque minuti. L’onorevole Di Vittorio lo ha invece superato notevolmente arrivando a parlare per quindici minuti. Tutto questo si può consentire in linea eccezionale, ma l’eccezione non può diventare la regola. Ricordo quindi a tutti gli onorevoli interroganti questa disposizione del Regolamento.

L’onorevole Di Gloria ha facoltà di dichiarare se sia sodisfatto.

DI GLORIA. Onorevoli colleghi, la mia interrogazione si riferisce all’atteggiamento assunto dal Ministro Gonella relativamente allo sciopero degli insegnanti delle scuole medie. È difficile, molto difficile, parlare allo stomaco perché lo stomaco non ha orecchie: così si esprime un celebre oratore latino e il Ministro Gonella avrebbe dovuto tener presente questo pensiero quando ha scritto il suo telegramma. Interpretato bene o interpretato male, il telegramma è stato la principale causa dell’irrigidimento degli insegnanti di scuole medie sulla posizione assunta in seguito allo sciopero, anche se a fondamento dello sciopero ci sono le gravi condizioni economiche nelle quali versa la categoria degli insegnanti. Evidentemente gli insegnanti di scuole medie non possono continuare a vivere tra gli stenti: si può infatti parlare di dignità dell’educatore se esso deve continuamente far fronte alla sua crescente miseria materiale? Il telegramma del Ministro Gonella rivela, attraverso il suo tono di paternalistica sufficienza, una errata interpretazione del concetto di autorità. Proclamare che è di competenza esclusiva dell’autorità scolastica ogni disposizione in materia di chiusura delle scuole; disporre che i provveditori comunichino a stretto giro di posta ogni eventuale inadempienza, è qualche cosa che va al di là dei normali poteri di un Ministero così poco poliziesco quale è o quale dovrebbe essere il Ministero della pubblica istruzione. Gli insegnanti delle scuole medie appartengono alla categoria di coloro che hanno veramente sofferto e che veramente soffrono. Essi hanno venduto tutto il vendibile per non avvilirsi eccessivamente. Ora non ne possono più e chiedono che il Governo vada loro incontro in qualche modo. Con lo stipendio percepito, spesse volte inferiore al salario di molti operai che pure stanno male, non possono comprarsi nemmeno dei libri per alimentare o rinnovellare la loro cultura. Costretti a dare molte lezioni private, essi diventano, per dirla collo Schelling, delle macchine esperte, capaci cioè di ripetere solo quello che hanno imparato nei lunghi anni di preparazione professionale. E quanto questo sia dannoso alla scuola ed agli interessi del Paese, lo dimostra il fatto che la science livresque impartita ai giovani fa di essi delle teste piene ma non delle teste buone.

I desideri degli insegnanti sono stati ritrovati giusti dallo stesso Ministro Gonella, ed insistendo nel loro accoglimento nessuno intende gettare il discredito sul Governo o mettere il Governo in imbarazzo. Solo se si andrà effettivamente incontro alla categoria degli insegnanti delle scuole medie, il Governo potrà avere in queste persone i suoi più validi collaboratori nello sforzo di ricostruzione morale e materiale del Paese, giacché, oggi come ieri, oggi come sempre, la scuola è e resta la migliore difesa della società e del suo reggimento democratico.

L’autorità, mi si permetta e mi si perdoni questo richiamo, non è soltanto quella che ci deriva dalla carica di Governo, ma è anche e soprattutto quella che gli altri ci riconoscono per le nostre doti, quella che gli altri ci danno in seguito alla nostra condotta.

L’onorevole Gonella si faccia vindice delle legittime aspirazioni degli insegnanti delle scuole medie in seno al Consiglio dei Ministri e vedrà rafforzato il suo potere di guida intelligente, consapevole e operosa della scuola italiana nel momento difficile che attraversiamo.

Costringere la cultura a prostituirsi o a vendersi è la più grave sciagura che possa colpire una Nazione. In questo mondo venale, tutto può essere asservito. Solo il pensiero, per la sua natura, può sfuggire a tutte le catene di tutte le tirannie. Si salvi quindi il pensiero difendendo la dignità degli insegnanti e le loro ragioni di vita! Questo è il caldo appello che noi rivolgiamo al Ministro Gonella. (Applausi).

PRESIDENTE. L’onorevole Miccolis ha facoltà di dichiarare se sia sodisfatto.

MICCOLIS. Ringrazio l’onorevole Ministro della pubblica istruzione che ha voluto rispondere, su di uno scottante problema, a tutti gli interroganti e a me. Mi duole assai di non potermi dichiarare sodisfatto. La mia interrogazione ha un significato molto più vasto di quello che oggi è nello sciopero dei docenti, che è pure una delle tante manifestazioni di disordini che affliggono la nostra scuola. La scuola, onorevole Ministro Gonella, non è fatta solo di personale; è fatta di allievi, è fatta di famiglie, è fatta di case, è fatta di banchi, di attrezzature, di cui oggi la scuola quasi completamente manca. La mia interrogazione, dunque, investe un problema molto più vasto, ed io mi sono voluto inserire in questo momento unicamente per richiamare l’attenzione del Governo sul gravissimo problema della scuola. Ma qui ricorderemo che in una delle prime sedute la onorevole Bianchi richiamò l’attenzione del Governo sul problema della scuola, di cui il Governo nel suo programma ministeriale non aveva fatto cenno. Nell’ultimo programma esposto dallo stesso Ministero De Gasperi rimpastato, noi abbiamo sentito che c’era anche il problema della scuola. Oggi l’onorevole Ministro Gonella ci dice che quel problema si riduceva semplicemente a due punti che riguardano il personale. No, onorevole Gonella, il problema della scuola non è questo.

Oggi, dunque, io mi permetto di richiamare l’attenzione del Governo perché questo problema sia effettivamente messo nella sua giusta veste. Io non starò a dimostrare cose impossibili a dire in pochi minuti, specialmente con l’onorevole Presidente il quale ha chiuso un occhio a sinistra e non lo chiude a destra…

PRESIDENTE. Per non fare diventare regola la eccezione.

MICCOLIS. Io non starò a dire al Ministro quali sono le condizioni della scuola. Noi abbiamo visto la scuola riaprirsi dopo la guerra, quando era stata distrutta, abbiamo visto il personale della scuola presentarsi in servizio quando non aveva più né case né arredamenti. Ebbene, questo forse è stato l’unico personale dello Stato che si è presentato in servizio appena chiamato. Le aule – aule per modo di dire, perché non erano che baraccamenti – non avevano vetri, ed il personale ha ripreso il suo lavoro. Oggi la scuola, dopo anni, si trova in identiche condizioni: non ha locali, non ha banchi, non ha attrezzature, non ha quadri di personale selezionato. Eppure la scuola è fatta innanzitutto di quadri e la deficienza dei quadri nelle scuole italiane si aggira intorno al 50 per cento.

Abbiamo la piaga del supplentato. Ebbene, questi supplenti ad ogni principio d’anno scolastico fanno la Via Crucis per avere un posto, e mentre gli alunni sono senza insegnanti, il complesso delle pratiche burocratiche è tale che non si riesce a sistemare il servizio. Un’errata ordinanza sulla nomina dei supplenti ha portato quest’anno alla situazione, per cui nel mese di febbraio si procedeva ancora alla nomina di docenti. Ebbene, quei supplenti hanno il diritto, o faranno valere il loro diritto, ad essere pagati per l’intero anno. Ne vanno di mezzo la dignità degli insegnanti, il profitto degli allievi e la serietà della scuola.

Le questioni sollevate dagli insegnanti, per quanto io sappia, non sono dell’ultim’ora: ne ho sentito parlare da un anno e mezzo.

Perché non si è provveduto prima? domanda l’onorevole Di Vittorio. Non è esatto quello che egli diceva, che ciò che costava cento oggi costerebbe 500: quello che ieri costava 100 oggi costerebbe 2000.

Dal punto di vista finanziario, onorevole Sottosegretario alle finanze, la risoluzione del problema della scuola, ben lo sappiamo, importerebbe una spesa di 4 o 5 miliardi. È vero, ma noi dobbiamo rifare la scuola se vogliamo ricostruire la Nazione. Bisogna tener conto che di tasse scolastiche si paga meno del costo di un libro e io non dico di aumentare le tasse, ma, come mi pare avesse osservato già l’onorevole Bosco Lucarelli, oggi è opportuno fare la selezione tra quelli che possono pagare e quelli che non possono pagare; chi può pagare è necessario che paghi la tassa scolastica in nuova misura. Perché se lo Stato non è in condizione di dare la scuola gratuita, è necessario che trovi il modo di uscire da una situazione insostenibile.

PRESIDENTE. Onorevole Miccolis, cerchi di concludere.

MICCOLIS. Devo parlare un po’ dello sciopero. (Commenti).

Personalmente io sono contrario al concetto dello sciopero come mezzo per risolvere problemi sociali, perché a me pare che in uno Stato veramente libero e di democrazia ordinata, l’educazione – e siamo in argomento – la reciproca comprensione, e la civiltà ci possono portare in altri concetti per risolvere certe questioni. Ma quando il diritto di sciopero è già nel progetto della nostra Costituzione, e quando è dimostrato che è solo con lo sciopero che si può arrivare a delle conclusioni, a me non pare che si debba negare il diritto di sciopero al personale insegnante. È doloroso, perché lo sciopero del personale insegnante incide, e sensibilmente, su una categoria di fanciulli e di giovani che molto imparano dal nostro esempio.

È necessario dunque che il Governo si occupi e si preoccupi della scuola. È necessario che guardi innanzitutto il problema della scuola dal punto di vista del personale, ma anche dal punto di vista organizzativo. E io dico all’onorevole Ministro Gonella che guardi a tutto il nostro ordinamento scolastico dal punto di vista tecnico, perché ha fatto il suo tempo e deve essere rivisto e radicalmente mutato. (Applausi).

PRESIDENTE. L’onorevole Tonello ha facoltà di dichiarare se sia soddisfatto.

TONELLO. Devo confessare che io non sono tenero per il Ministro attuale. (Si ride). Egli è un fautore convinto della scuola confessionale; io sono un fautore convinto della scuola laica italiana. Questa dichiarazione è necessaria. (Commenti).

PRESIDENTE. Onorevole Tonello, cerchi di stare al tema.

TONELLO. C’è nell’animo mio una convinzione – che mi auguro sia errata – e cioè che l’onorevole Ministro Gonella, lasciando andare l’acqua per il mulino cattolico, non voglia assolutamente che la scuola della Repubblica italiana assuma la sua funzione civile e sociale.

Vedete a che cosa siamo ridotti!

È la prima volta, onorevole Ministro, che lei viene qui a rendere conto dell’opera sua, a dare delle delucidazioni; è la prima volta. Se ella ha avuto la fortuna della barca di San Pietro, ricoverandosi nel porto franco del Vaticano, di restare incolume dal naufragio delle varie crisi ministeriali ed è rimasto lì, quasi che una volontà divina lo abbia inchiodato al posto di Ministro, perché non ha mai sentito il bisogno, data questa sicurezza del posto, di presentarsi all’Assemblea con un programma?

Perché non ha parlato prima qui dentro, dove è rappresentato il Paese e la volontà del Paese si esprime?

Soltanto all’ultimo momento, ella si è presentata, con un’aria di buonissimo uomo (Commenti); sarà anche! Vorrebbe fare, naturalmente, la voce del leone, ma sente di non poterla fare, cogli insegnanti italiani. Ella sente che gli insegnanti italiani hanno ragione, cento volte ragione, di fare quello che hanno fatto e che manterranno.

Nel chiudere la sua relazione, l’onorevole Ministro ha fatto capire che gli insegnanti devono ritornare all’insegnamento; ma non ha dato l’assicurazione formale che il problema sarà risolto.

L’onorevole Ministro deve, per un momento, dimenticarsi di essere un rappresentante della Democrazia cristiana, e ricordarsi di essere Ministro della pubblica istruzione della Repubblica italiana; deve, cioè, mettere da parte tutto quello che può essere antipatia o simpatia di parte e risolvere equamente questo problema.

I professori – mi dice qualcuno – sono quasi tutti democristiani.

Ebbene, a questi professori democristiani, in questo momento di battaglia e di lotta, io mando la mia parola di solidarietà, a nome anche del mio partito (Approvazioni); perché noi vogliamo che la scuola italiana si formi mediante l’unione del pensiero e del sentimento di tutti gli educatori italiani.

Abbiamo avuto un periodo di diseducazione nazionale; abbiamo avuto un periodo di corruzione nella gioventù italiana; vogliamo che la scuola italiana torni alla sua santa opera di redenzione morale e intellettuale; vogliamo che sia tolto ogni meschino ostacolo e che la scuola italiana possa proseguire il suo lungo e faticoso cammino.

Chi vi parla, onorevole Ministro, per quasi trent’anni dette l’opera sua nelle scuole italiane come insegnante o con modeste funzioni ispettive. Io so tutti i dolori e tutte le lacrime della scuola italiana e tutte le sue miserie. Date un po’ di tranquillità agli educatori italiani. Ma, se voi continuerete così, se avremo un bilancio della guerra tante volte maggiore di quello che dovrebbe essere il bilancio della scuola, questa sarà sempre così, come la chiamava un mio compianto amico, «la Cenerentola d’Italia» e nulla si potrà fare. Noi socialisti abbiamo il compito di far comprendere questo bisogno assoluto di risurrezione della scuola italiana per i lavoratori italiani.

Permettetemi di chiudere con un ricordo: più di trent’anni or sono, nei campi delle risaie di Molinella, sorgevano delle piccole ville fiorite dove c’erano i nidi dei figli delle risaiuole, con insegnanti pagati meglio dei maestri elementari delle scuole pubbliche. Ebbene, erano gli asili che le operaie di Molinella fondavano e mantenevano per le proprie creature; era la prima attestazione che il popolo dava di contributo diretto alla scuola. Le risaiuole dicevano: per gli educatori dei nostri figli vogliamo che ci siano delle condizioni più umane e civili.

Noi, invece, se andiamo avanti così non faremo altro che moltiplicare l’esercito degli spostati in Italia. Voi dovreste preoccuparvi del problema scolastico, come ha ben accennato il collega che ha parlato prima di me; dobbiamo rispondere a tutte le esigenze nuove della vita scolastica italiana. Bisogna che la scuola abbia una trasformazione ab imis; bisogna che la scuola diventi un organismo nuovo, che diventi la fonte nuova delle aspirazioni nazionali, e non dobbiamo lasciarla morire così, avvilendola con le controversie che rendono impossibile ogni spirito di vita. Ai professori in sciopero, ai maestri elementari italiani, l’Assemblea esprima il proprio sentimento di solidarietà, che sarà anche solidarietà del popolo italiano; a voi, signor Ministro, la raccomandazione di non perdere più tempo, di farla finita in modo che i professori possano tornare serenamente al loro lavoro. Non dobbiamo far continuare questo stato di vita, altrimenti sarà l’avvantaggiarsi della distruzione dell’istituto scolastico italiano, sarà il prevalere di tutte le forze cieche della reazione, mentre noi vogliamo che viva e prosperi la scuola italiana, la scuola della Repubblica italiana. (Applausi a sinistra).

PRESIDENTE. L’onorevole Bertola ha facoltà di dichiarare se sia sodisfatto.

BERTOLA. Ero certo che le parole del Ministro della pubblica istruzione avrebbero portato una distensione di animi in questo problema della scuola. Personalmente mi dichiaro sodisfatto delle sue parole. Del resto è bene che si sappia che la protesta in atto da parte dei professori non fu e non è certo contro la incomprensione del Ministro per le loro rivendicazioni. Esplicitamente la Segreteria del Sindacato ed il Comitato centrale fecero a lui dichiarazioni precise. Ma tale protesta si rivolge contro certe more e certe incomprensioni dell’apparato burocratico statale. Che il Ministro abbia da tempo fatte sue tali rivendicazioni, questo è noto a tutti coloro che si occupano dei problemi della scuola.

Qui non vi erano due parti in causa, l’una contro l’altra, ma erano, Ministro e Sindacato, tesi per raggiungere tutti e due lo stesso scopo: l’elevazione, sia morale che economica, del personale della scuola.

Sotto questo aspetto, se da una parte questa protesta ha recato al Ministro Gonella dolore, dall’altra, oserei dire, egli può trovare in essa un certo compiacimento, poiché gli darà una forza nuova per sostenere le rivendicazioni della scuola, che sono le sue rivendicazioni, nel prossimo Consiglio dei Ministri. Faccia presente il Ministro, al Consiglio stesso quali sono le condizioni di vita e quale compito delicato e difficile è quello degli educatori della nuova generazione d’Italia. Io sono certo che mai come oggi gli educatori hanno la coscienza delle difficoltà nelle quali si muove il Governo nostro, e sono lieto di poter dichiarare che oggi, come non mai, la scuola italiana è seria e cosciente. Domani, gli educatori riprenderanno certo sereni il loro lavoro eminentemente spirituale. (Applausi).

PRESIDENTE. L’onorevole Lozza ha facoltà di dichiarare se sia soddisfatto.

LOZZA. Mi associo pienamente alle parole pronunciate dall’onorevole Di Vittorio. Al Ministro del tesoro una precisazione: occorrano tre miliardi, occorrano 10 miliardi, in Italia vi sono moltissimi miliardari e moltissime fortune personali che superano la cifra di tre miliardi. Da tempo noi chiediamo che si venga alla risoluzione dei giusti problemi e delle giuste rivendicazioni degli insegnanti. Il danaro lo si può trovare, lo si deve trovare. Una raccomandazione al Governo: non si dimentichino i convitti nazionali ed i loro insegnanti, che hanno avuto ed hanno in Italia una importantissima funzione. Io non vorrei che si dimenticassero e si trascurassero, per avvantaggiare una certa categoria di convitti, cioè i convitti privati. (Applausi).

PRESIDENTE. L’onorevole Lizzadri ha facoltà di dichiarare se sia sodisfatto.

LIZZADRI. Devo confessarvi una mia perplessità: è la prima volta che ho fatto una interrogazione e dovrei rispondere al Ministro se sono sodisfatto o se invece non sono sodisfatto. Devo dire che non sono né sodisfatto, né insoddisfatto, perché devo riconoscere che il tono del discorso del Ministro ha dimostrato tale buona volontà, come ha dimostrato buona volontà fino a questo momento il Sindacato, che da questa coincidenza di buone volontà io credo che siamo sulla via per poter arrivare ad una felice soluzione dello sciopero in corso.

Mi permetto solo sottolineare, anzitutto, il riconoscimento che il Ministro ha dato, nel corso del suo discorso, della grande opera morale che la benemerita categoria degli insegnanti esercita in questo travagliato dopoguerra per la ricostruzione delle coscienze (sono queste le parole del Ministro Gonella). Lo stesso Ministro però ha riconosciuto che, di fronte a questa altissima funzione morale degli insegnanti in genere, esiste una sperequazione economica anche nei confronti di altre categorie di lavoratori, e che è necessario un atto di giustizia peor sanare al più presto questa sperequazione.

Una seconda affermazione del Ministro che tengo a sottolineare è che nessuna umiliazione si è mai avuto in animo di dare a questa categoria, né la si può dare ora, e credo che questo sia molto importante non solo nei riguardi della pubblica opinione in genere, ma nei riguardi degli stessi scolari. Credo che niente sarebbe più grave per la dignità degli insegnanti che essi dovessero mostrarsi ai loro stessi scolari, in un certo senso, anche in minima parte, menomati nella loro dignità. Comunque è mia impressione che nel suo discorso il Ministro, come ho detto, abbia dimostrato la stessa buona volontà che ha dimostrato il Sindacato. Probabilmente se questa dimostrazione di buona volontà fosse avvenuta, onorevole Gonella, dieci giorni fa, non sarebbe nato lo sciopero.

Comunque, allo stato attuale, non resta che prendere atto delle dichiarazioni del Ministro e, nell’ambito delle nostre possibilità, lavorare perché al più presto possibile, anche entro oggi stesso, abbia ad avvenire la felice soluzione della vertenza.

GONELLA, Ministro della pubblica istruzione. Chiedo di parlare.

PRESIDENTE. Ne ha facoltà.

GONELLA, Ministro della pubblica istruzione. Ringrazio vivamente gli onorevoli interroganti che hanno portato un contributo alla auspicata distensione degli animi, attorno a questo duro problema. Io, in sostanza, non avrei nulla da aggiungere. Desidero però, nei limiti dei cinque minuti, fare delle brevissime precisazioni.

L’onorevole Di Vittorio ha detto che la politica del Ministero della pubblica istruzione è la politica delle buone intenzioni. Può darsi che questa sua impressione sia stata e sia convalidata da fatti. Però egli parla di buone intenzioni proprio una settimana dopo che il Consiglio dei Ministri ha approvato quella legge sui ruoli aperti che, come egli sa, costa all’erario ben più di tre miliardi. Così egli ha detto che si tratta di promesse che da due anni gli interessati hanno da parte del Governo. Anche su questo desidererei che si fosse un po’ più precisi, perché non circolassero dei luoghi comuni inesatti. Per esempio, non si può parlare certo di richieste che datano da due anni, per il premio di presenza, quando la legge istitutiva del premio stesso è dell’aprile dell’anno scorso. Così non si può certo parlare di due anni di attesa per la legge relativa ai supplenti e all’abbassamento delle ore da 20 a 18, perché qui si tratta di modificare proprio una legge approvata nel giugno dello scorso anno e che era stata considerata, in quel momento, come una conquista per la categoria. Così pure l’indennità di studio, in fondo, è una rivendicazione relativamente recente, sulla quale ancora in questo momento la categoria non domanda che specificamente vi sia una consacrazione in un provvedimento legislativo.

Questo dico così frammentariamente, senza entrare nel merito delle considerazioni sulle quali, come ha riconosciuto lo stesso onorevole Di Vittorio, io stesso concordo.

Così ringrazio l’onorevole Di Gloria per quello che ha detto sulla nobiltà della funzione educativa e penso che le ultime parole della sua dichiarazione appaiono una smentita delle prime, in cui egli aveva prevalentemente posto l’accento sopra il carattere, diciamo così, esclusivamente economico dello sciopero, mentre penso che anche egli condivida la mia convinzione che il problema ha un respiro ben più ampio. Ma io sono d’accordo con lui – e credo, con la mia vita, di averlo anche dimostrato – che il valore dell’indipendenza del pensiero è un valore assoluto sul quale mi troverà sempre come combattente deciso ad affermarlo al di sopra di tutti gli altri valori della cultura stessa.

L’onorevole Miccolis ha posto sul tappeto questioni molto vaste e molto interessanti. A questo proposito, per non andare ora fuori teina, associando quanto ha detto l’onorevole Miccolis con quanto ha detto, sia pure dalla parte opposta, l’onorevole Tonello, devo ripetere che io più volte ho proposto, e propongo anche attualmente all’Assemblea, che si faccia un dibattito ampio, completo, esauriente sui problemi della scuola. Se la Presidenza troverà il modo di inserire nei nostri lavori e in questi orari così avari una tale discussione, non ho nulla in contrario e, ripeto, questo è anche il mio desiderio, più volte da me espresso.

Infine, all’onorevole Tonello debbo dire una sola cosa: io non sono un sostenitore della scuola confessionale; sono un sostenitore della libertà della scuola: è una posizione ben diversa.

TONELLO. Avete dei pessimi incensatori.

GONELLA, Ministro della pubblica istruzione. Lei mi ha parlato – andiamo fuori tema – della barca di San Pietro. Lei sa che a quel tempo la barca di San Pietro era una specie di Arca di Noè in cui c’era posto per tutti e vi sarebbe stato posto anche per lei. (Applausi al centro).

TONELLO. Non so nuotare. (Si ride).

GONELLA, Ministro della pubblica istruzione. Avrebbe trovato anche dei compagni là dentro; e ci si poteva trovare benissimo anche lei. Si dice che non ho dato delle assicurazioni. Mi pare di aver ribadito oggi quello che avevo detto agli organizzatori dello sciopero, ancora prima che lo sciopero si iniziasse: ho detto loro il mio punto di vista, non perché fosse il mio, ma perché era la risultante di studi che erano stati compiuti da Commissioni miste di funzionari del Ministero della pubblica istruzione e di rappresentanti del sindacato. Quindi si trattava già di punti di vista concordati e che avevano permesso sia al Ministero, sia alle rappresentanze sindacali, si trovare quella giusta via intermedia che dava soddisfazione a esigenze fondamentali, e che d’altra parte presentava un programma ragionevole al Tesoro.

Infine, ringrazio gli onorevoli Bertola, Lozza e Lizzadri di quello che hanno detto; e termino facendo mio l’augurio che l’onorevole Di Vittorio all’inizio della discussione e l’onorevole Bertola alla fine hanno espresso, cioè l’augurio che le mie dichiarazioni di oggi offrano la possibilità di una rapida, immediata e soddisfacente risoluzione del problema. Questo è il mio profondo convincimento, questo è l’augurio che parte dal mio animo. (Applausi al centro).

PRESIDENTE. È così trascorso il tempo assegnato alle interrogazioni.

Discussione del disegno di legge: Ordinamento dell’industria cinematografica italiana.

PRESIDENTE. L’ordine del giorno reca: Discussione del disegno di legge: Ordinamento dell’industria cinematografica nazionale.

Dichiaro aperta la discussione generale.

È iscritto a parlare l’onorevole Proia, che ha presentato anche alcuni emendamenti. Egli ha facoltà di parlare, con la intesa, che, in sede di discussione generale, svolgerà anche gli emendamenti.

PROIA. Onorevoli colleghi, l’Assemblea costituente è chiamata ad affrontare e a discutere un serio problema: quello della cinematografia, la seconda industria mondiale per ordine d’importanza economica e finanziaria.

Un argomento, quindi, molto appassionante al quale si interessano vastissime correnti di opinione pubblica.

La produzione cinematografica, per i suoi elementi artistici e per gli altri molteplici requisiti che richiede, dà all’industria una possibilità ed una fisionomia del tutto speciali.

E la discussione della legga sulla cinematografia viene in quest’Aula come primo problema concreto di carattere industriale; problema alla cui soluzione sono legati i destini di tante famiglie, di tanti lavoratori e problema che incide sull’economia e sull’educazione morale di tutto un popolo.

In quest’Assemblea si è discusso e si sta lungamente discutendo sulla nuova Costituzione, per cui gli onorevoli colleghi che prendono parte ad un tale dibattito devono rievocare – per le necessarie analogie della storia del pensiero umano – le ombre pensose di una folla di filosofi, storici e giuristi.

La cinematografia, che nell’insieme è arte ed industria, ma soprattutto arte, non ha – sul piano industriale – una lunga storia.

Ha una storia di mezzo secolo!

Coincide presso a poco con l’età parlamentare di un nostro insigne Maestro, di quella cioè di Vittorio Emanuele Orlando.

Infatti, soltanto nel 1895 fu aperto il primo così detto cinematografo. Quindi storia industriale breve, ma tradizione scientifica ultra secolare. Basti pensare che Lucrezio già parlava di permanenza di immagini sulla retina nel suo De rerum natura; come più tardi dissero Leonardo, Newton e come nel secolo scorso più diffusamente s’interessarono del fenomeno Peter Mark Roger, Plateau, Horner e tanti altri.

Ma la gloria di aver portato la cinematografia all’attuale stato di pratico sfruttamento spetta ai Fratelli Lumière.

E che cosa è avvenuto dal 1895 ad oggi?

La cinematografia – come espressione artistica – ha travolto tutte le altre forme di spettacolo, poiché essa sprigiona una forza ed un valore eccezionali; forza e valore che dal campo industriale e commerciale si estendono a quello spirituale e culturale.

Spettacolo alla portata di tutti; spettacolo essenzialmente popolare perché si rivolge e parla non soltanto al nostro, ma al cuore ed alla mente di tutte le genti.

Dai 35 franchi incassati da Luigi Lumière nel lontano 1895, allorquando presentò al pubblico parigino i suoi primi e brevi saggi, agli incassi mondiali di oggi, che si calcola aggirarsi sui mille miliardi annui, si vedrà come lo sviluppo di una tale industria, così complessa per i suoi vari e molteplici aspetti, richiami la vigile attenzione degli uomini di Stato e dei legislatori.

Ecco la ragione della legge che il Governo porta alla nostra discussione e di cui siamo grati. Questa legge è e deve considerarsi certamente, un necessario ed indispensabile punto di partenza, perché la nostra ripresa industriale cinematografica si attui.

Spesso mi si domanda: – Ma perché una protezione all’industria cinematografica italiana?

Sta di fatto, onorevoli colleghi, che la cinematografia nacque, è vero, in Francia, ma essa crebbe e prosperò in Italia. Più di 20 anni or sono l’Italia era il solo Paese produttore di films spettacolari esportati, come in gergo si dice, «a scatola chiusa». Ma dopo l’avvento del film sonoro e per altre circostanze e cause di natura politica ed economica, il nostro Paese fu sopraffatto ed il primato della produzione passò ad altri Stati più potenti economicamente e con popolazione molto più vasta della nostra. E fu veramente encomiabile l’opera indefessa di alcuni produttori italiani, ai quali va anche la nostra riconoscenza, se questa voce, se questa espressione della nostra civiltà non fu addirittura soffocata.

Poco per volta, quindi, anche l’Italia, dopo una breve parentesi, fu presente sui mercati internazionali col prodotto cinematografico.

Perché, onorevoli colleghi, la cinematografia oltre che ad essere una realizzazione industriale è anche un’espressione visiva della civiltà, delle caratteristiche, dei costumi, del pensiero di un popolo ed attrae, nella sua orbita, i valori più rappresentativi dell’arte narrativa e contende il primato economico alle altre industrie fondamentali, come quella agricola o tessile, metallurgica o radiofonica.

Il nostro Paese – che non è vasto né ricco – deve quindi gareggiare, in materia di produzione cinematografica, con altre nazioni che hanno vasti territori nazionali e vasti imperi ai quali la produzione cinematografica è indirizzata naturalmente.

Fui recentemente a Parigi, come capo di una delegazione per la ripresa dei rapporti industriali cinematografici, e fu per me di grande sodisfazione constatare l’entusiastica accoglienza riservata ad alcuni films italiani che narravano le nostre reali recenti e cocenti disgrazie, le nostre ansie e aspirazioni. Sui boulevards parigini la gente sostava numerosa e paziente, in attesa di entrare in quei grandi cinematografi.

La stampa si occupava largamente della nostra industria cinematografica.

Le Figaro scriveva:

«Si può, dunque, ammettere che il cinema italiano marcia decisamente verso il primato europeo».

George Sadoul, uno dei più eminenti critici francesi, così si esprime nel Les Lettres françaises:

«II cinema italiano se continuerà così come ha fatto in questi ultimi due anni sarà uno dei primi del mondo».

Francesco Chalais, in un titolo su 2 colonne di un articolo su Carrefour, è arrivato ad affermare, con senso di discutibile ironia, ma in ogni modo con una affermazione molto significativa, a proposito di un film italiano:

«L’Italia dovrà più al regista Rossellini che ai signori De Gasperi e Togliatti». (Ilarità).

Negli ambienti cinematografici internazionali si nota un crescente interesse per il film italiano; esponenti dell’industria e dell’arte cinematografica di numerosi paesi, hanno avviato trattative o definito accordi di produzione in compartecipazione con case cinematografiche italiane.

Può quindi l’Italia rinunciare ad un mezzo ed a un’arma così potente?

L’onorevole Vernocchi, relatore della legge, nella sua pregiata relazione vi ha elencato le legislazioni speciali che vigono in tutti i Paesi del mondo per la protezione dell’industria cinematografica. Debbo, in materia, dare maggiori particolari:

1°) in Inghilterra, oltre alla quota di «contingentamento allo schermo», e cioè al numero di ore di spettacolo che deve essere periodicamente riservato alla proiezione di films inglesi, il «Film Act» del 1927 fa obbligo ai noleggiatori di films di riservare il 25 per cento del proprio listino alla distribuzione di films di produzione inglese;

2°) in Francia l’obbligatorietà di 105 giornate riservate al «contingentamento allo schermo»;

3°) in Spagna, non soltanto la legislazione in vigore istituisce tasse di notevole entità per l’importazione e per il doppiaggio di films esteri, non soltanto la legislazione stessa limita a determinati contingenti sia l’importazione che il doppiaggio, ma ciò che è più importante è che la legge riserva i permessi di importazione e di doppiaggio ai produttori di films nazionali, in numero proporzionale al valore della produzione stessa;

4°) nel Portogallo il 29 ottobre 1946 è stata emanata una nuova legge per la protezione del cinema portoghese. Con tale legge si prevede, oltre al contingentamento dell’importazione dall’estero, il divieto del doppiaggio dei films stessi. Anche in Portogallo vige la proiezione obbligatoria dei film nazionali con la determinazione di canoni di noleggio obbligatori a favore dei films stessi;

5°) per quanto riguarda i Paesi dell’Europa orientale e sud-orientale, l’importazione di films esteri è affidata esclusivamente a monopoli statali che riducono al minimo l’importazione stessa, pagando i diritti di esclusività dei films a prezzo fisso.

Per le Americhe:

6°) in Brasile tutti i cinematografi hanno l’obbligo di proiettare i films di produzione brasiliana che a mano a mano siano disponibili sul mercato;

7°) l’Argentina ed il Messico hanno applicato notevoli restrizioni all’importazione;

8°) per quanto, infine, riguarda gli Stati Uniti, i trusts finanziari attuano un regime di protezione molto più rigoroso di quello degli altri Paesi.

L’attuale schema di disegno di legge non chiede che una modesta, anzi modestissima protezione del film italiano con un contingentamento allo schermo di 60 giorni, ed un rimborso di tassa erariale nella misura rispettivamente dal 12 al 18 per cento.

Ma qual è, onorevoli colleghi, lo sviluppo dell’industria e dello spettacolo cinematografico in Italia?

Poche cifre bastano a dimostrarlo.

Gli incassi lordi dei cinematografi dal 1936 ad oggi risultano così specificati:

1936: 440 milioni;

1946: 13 miliardi e 500 milioni.

Gli incassi lordi dei cinematografi seguono un ritmo ininterrotto e progressivo di aumento.

Si può affermare che la cadenza attuale degli incassi degli spettacoli cinematografici in Italia è di circa 18 miliardi di lire all’anno: ciò vuol dire che l’Italia ha raggiunto il terzo posto dopo la Russia e l’Inghilterra per quanto si riferisce all’importanza finanziaria dei rispettivi mercati, ed ha superato la stessa Francia, ove per il 1946 gli incassi lordi si aggirano ad 8 miliardi di franchi, pari a circa 14 miliardi di lire.

Spesso mi si domanda: «Ma con incassi così imponenti e con sale rigurgitanti di spettatori, i produttori dei films dovrebbero guadagnare moltissimo».

Sono costretto a fare rapidamente la ripartizione degli incassi, prendendo per unità di misura 100 lire. Di queste 100 lire lo Stato ne preleva 53 per tassa erariale e imposta sull’entrata, 3 lire per diritti d’autore e documentario, 4 lire per pubblicità, 24 lire sono prelevate dai gestori dei cinema che debbono destinare una parte notevole di questa quota al pagamento dell’affitto a favore del proprietario dell’immobile e delle imposte dirette. Sulle residuali 16 lire debbono essere pagate le spese per la distribuzione ed il noleggio che si calcolano sulla base di circa il 33 per cento dei proventi lordi del film. Su 100 lire al produttore non resta che la misera moneta di 10 lire.

Questo è il calcolo per locali di prima visione; per la grande massa dei cinema rurali, ove il noleggio deve essere fatto a condizioni più favorevoli per il gestore, la quota di spettanza del produttore diminuisce ancora.

Quali proventi invece ha ricavato lo Stato dallo spettacolo cinematografico? Senza tener conto del gettito di tutte le imposte dirette e indirette che gravano in questo come in tutti gli altri settori, la sola tassa erariale applicata sui biglietti d’ingresso nei cinematografi ha dato i seguenti proventi:

1936: 66 milioni;

1942: 180 milioni;

1946: 2 miliardi e 700 milioni.

I dati per il 1946 sono stati calcolati in base ad una incidenza media del 25 per cento delle tasse erariali negli incassi lordi previsti per quest’anno. Sommando i diritti erariali e l’imposta sull’entrata, lo Stato preleverà, per il 1946, circa 4 miliardi di lire dalle «casse» dei cinematografi.

In confronto a questa rispettabile somma, molto modesta è quella che lo Stato pagherà per lo stesso periodo a titolo di parziale rimborso delle tasse erariali a favore dei produttori di films nazionali.

Per il 1947 l’incasso lordo dei soli films italiani può essere preventivato in 4 miliardi di lire e l’ammontare complessivo dei premi (in media il 14 per cento) in 560 milioni.

Sono dati semplici e sufficienti a dimostrare la mancanza di fondamento delle accuse superficiali rivolte al cinema italiano; i denigratori del nostro sforzo di ripresa amano parlare di un cinema parassita, di un cinema divoratore dei milioni dello Stato, mentre è vero esattamente il contrario: lo Stato trae vantaggi finanziari sempre più elevati dallo sviluppo dell’attività cinematografica nazionale.

Ancora più evidenti sono i benefici che lo Stato può trarre dallo sviluppo della nostra produzione per quanto si riferisce alla bilancia dei pagamenti con l’estero.

Il nostro mercato cinematografico si era orientato su un consumo annuo medio (nel 1936 non esistevano ancora norme protettive o di monopolio e, quindi, il fenomeno può considerarsi dovuto esclusivamente al libero gioco delle forze economiche) inferiore ai 250 films inediti: di questo fabbisogno l’industria nazionale ha coperto una percentuale che oscilla fra il 20 e 1’80 per cento.

Nel 1946 la situazione cambia radicalmente: al 31 dicembre risultavano concessi ben 503 permessi di importazione di pellicole estere provenienti dai seguenti Paesi:

Stati Uniti    296

Francia        120

Inghilterra    49

Svezia         17

Russia         10

Spagna        6

Altri Paesi   5

Questa massa di films si aggiunge a quella introdotta nel periodo 1944-45 con i mezzi militari. Attualmente si doppiano nei nostri stabilimenti di doppiaggio da 40 a 50 films al mese. Nello stesso periodo di tempo – 1° gennaio-31 dicembre 1946 – risultano prodotti 54 films italiani.

Quali saranno le conseguenze nei nostri conti con l’estero di questa disordinata politica di importazione che non può non nuocere agli stessi interessi dei più seri produttori stranieri per la impossibilità di assicurare una circolazione normale e proficua ai films migliori soffocati dalla crescente massa di pellicole mediocri?

La risposta è facile: togliendo dai 20 miliardi di incassi lordi 4 miliardi derivanti dalla proiezione di films italiani, e calcolando che solo il 15 per cento dell’incasso lordo resti in definitiva a disposizione del produttore straniero, si ha un indebitamento verso l’estero di oltre 2 miliardi e mezzo di lire all’anno.

Un po’ troppo per un Paese che deve importare grano, carbone, petrolio.

Lusinghieri, invece, sono stati i primi risultati della nostra esportazione di films. Purtroppo mancano ancora statistiche anche approssimative dei proventi netti dei films italiani esportati. Risultano comunque concessi nel 1946 da 800 a 1.000 permessi di esportazione: ciò vuol dire che circa 100 films italiani sono stati venduti in 8 o 10 Stati ciascuno. Anche volendo limitare – con eccessiva prudenza – a solo mezzo milione di lire il controvalore delle valute pregiate che possono essere percepite per ciascuna vendita, si raggiunge un «attivo» per la nostra bilancia commerciale di oltre mezzo miliardo. Questa cifra potrà rapidamente aumentare attraverso una più razionale organizzazione delle nostre vendite e della presentazione dei nostri films sui vari mercati, e più ancora con il miglioramento del livello artistico della produzione e con una rigorosa selezione dell’esportazione.

Sta di fatto che – indipendentemente dall’eventuale revisione delle vigenti disposizioni governative sull’importazione – ogni incremento – numerico e di qualità – dei films italiani esercita una duplice influenza benefica sui nostri conti con l’estero: da una parte riduce l’indebitamento spostando una quota degli incassi lordi dei nostri cinematografi dal settore del film estero a quello del film italiano; dall’altra aumenta le rimesse di valuta dall’estero per maggiori proventi dell’esportazione.

Ma l’Italia ha gli impianti e i quadri industriali occorrenti per un sano sviluppo della produzione cinematografica?

La risposta è affermativa: sono attualmente in attività 31 teatri di posa, ai quali si potranno aggiungere presto i 12 teatri di Cinecittà in corso di ricostruzione; con questo complesso di teatri il volume della produzione annua potrebbe facilmente superare i 100 films. Ottanta case di produzione e 30 organizzazioni nazionali di distribuzione costituiscono i quadri dell’industria e del commercio cinematografico italiano. Risultano inoltre in attività 5.400 sale cinematografiche: la rete dell’esercizio è in continuo incremento, mentre numerose iniziative in corso di realizzazione consentono di sperare nella disponibilità, entro un breve periodo di tempo, di una vasta rete di sale a passo ridotto.

Nel quadro generale del nuovo assetto della cinematografia, in vista del futuro sviluppo della produzione nazionale, riveste particolare importanza il riordinamento degli enti cinematografici di interesse statale.

Cinecittà deve essere al più presto rimessa in efficienza, anche se per una parte soltanto degli impianti originari.

La Sezione di Credito cinematografico, in virtù dell’aumento del fondo di dotazione, disposto dall’articolo 11 del disegno di legge in esame, dovrà riprendere il ritmo normale di finanziamento della nostra industria.

Ma è all’ENIC che l’industria italiana guarda con maggiore attenzione e preoccupazione: data l’indiscriminata libertà di importazione di films esteri, i produttori debbono avere la certezza di poter contare su un saldo ed efficiente circuito di prima visione per la tempestiva presentazione dei loro film: lo Stato pertanto deve con il suo controllo tenere la stessa ENIC al riparo dalle mire di speculatori privati e dai pericoli di sfaldamento della rete dei cinematografi da essa gestiti.

Anche per quanto concerne la materia prima occorrente all’industria cinematografica – la pellicola – la situazione dell’Italia è buona. Mentre, infatti, fino al 1924 l’Italia era un paese dipendente dall’importazione straniera per quanto concerneva la pellicola, il continuo incremento degli impianti industriali della «Ferrania» ha reso possibile non soltanto la copertura del fabbisogno dell’industria e del commercio cinematografico italiano, ma anche una notevole esportazione di questo importante prodotto. La «Ferrania» è entrata a far parte delle poche industrie mondiali fornitrici di prodotti sensibili per la cinematografia e per la fotografia.

Le difficoltà, inerenti alla situazione generale dell’industria italiana in questo dopo guerra, hanno temporaneamente contratto il ritmo di produzione degli stabilimenti Ferrania, ma possiamo ritenere che fra breve l’attività della «Ferrania» possa avviarsi verso la normalizzazione: sono in corso ampliamenti degli impianti e perfezionamenti tecnici che consentiranno l’alimentazione di una larga corrente di esportazione.

Di fronte a queste favorevoli prospettive industriali inerenti ai benefici effetti della legge in esame, c’è peraltro da temere che i beneficî stessi possano essere seriamente compromessi e neutralizzati dal recente decreto che, trasferendo ai comuni i proventi dei diritti erariali sullo spettacolo cinematografico, aumenta le aliquote degli stessi diritti che avevano già raggiunto proporzioni insostenibili. Con tali aumenti si viene soprattutto a colpire il vecchio esercizio già oberato di forti spese di gestione e già messo in difficoltà dal recente aumento del 300 per cento sugli affitti. Per questi locali la nuova tassa inciderà sui prezzi con l’incredibile percentuale del 53 per cento, arrivando fino al 63 per cento in quei comuni, e non sono pochi, ove esistono le addizionali per il turismo.

Inattività cinematografica è legata da rapporti d’interdipendenza più sensibili di qualsiasi altra attività economica. Un aggravio della tassa erariale colpisce la produzione in forma diretta ed indiretta: diretta, perché assottiglia i già magri proventi che spettano al film ed indiretta perché un aumento di prezzi porta – per inevitabile conseguenza – ad una diminuzione di vendita e ad una contrazione degli incassi. E tutto lascia prevedere che la contrazione sarà sensibile, poiché ancor prima di questo aggravio si stava verificando in tutte le zone, e specialmente nei piccoli centri, una notevole crisi.

D’altra parte questo provvedimento, preso avventatamente senza i necessari accordi con le categorie interessate, è anche viziato da un errore tecnico, poiché apporta l’aumento nelle aliquote fissate per i prezzi di un anno fa, mentre tali prezzi, a causa dei continui aggravi verificatisi, sono oggi pressoché raddoppiati. Infatti la nuova legge lascia immutata l’aliquota del 15 per cento per i biglietti fino a 20 lire, che praticamente non esistono più, nemmeno nei piccoli centri rurali, e porta al 35 per cento l’aliquota per quelli da 20 a 60 lire che sono ormai i prezzi dei cinema popolari.

Sarebbe perciò necessario, ove non fosse possibile rinunciare a questo aggravio, adeguare le aliquote ai prezzi attuali, portando a 30 lire il limite per l’aliquota del 15 per cento, da 50 a 150 quello del 35 per cento e lasciare l’aliquota del 50 per cento per i biglietti oltre 150 lire che sono in uso nei grandi locali.

Solo così può evitarsi una crisi di pubblico che avrebbe ripercussioni incalcolabili per tutta l’economia cinematografica risolvendosi in un danno per lo stesso erario.

Venendo all’esame particolareggiato degli articoli della legge, debbo suggerire alcuni emendamenti.

Per l’articolo 3. L’aspetto più favorevole della ripresa in atto della nostra industria cinematografica è dato dalla possibilità di accordi e di intese – nel settore stesso della produzione – con l’industria di altri Paesi produttori.

Un recente accordo italo-francese prevede per il 1947 la realizzazione in Italia ed in Francia rispettivamente di 10 e di 5 films di co-produzione italo-francese. Sono films prodotti con la partecipazione di capitali, di artisti e di tecnici dei due Paesi; altre iniziative di produzione in compartecipazione sono in corso di attuazione e di studio con l’industria di altri Stati, fra i quali l’Inghilterra, il Brasile, l’Argentina, la Spagna, la Svizzera, l’Austria e gli stessi Stati Uniti.

Queste iniziative meritano ogni incoraggiamento perché consentono di produrre film di importanza internazionale, con l’impiego di più vasti mezzi finanziari e con la utilizzazione di elementi tecnici ed artistici di diversi Paesi.

Già molti produttori stranieri lavorano in Italia in collaborazione con produttori italiani: non è possibile peraltro che i films prodotti in Italia ottengano il riconoscimento della nazionalità del Paese al quale appartengono il produttore, gli artisti e i tecnici stranieri, se non siamo in grado di assicurare un trattamento di reciprocità. Occorre, cioè, riconoscere «italiani» anche i films che i produttori italiani, con propri capitali e con la partecipazione di artisti e tecnici italiani, realizzano nello stesso paese estero in collaborazione con produttori stranieri.

Il testo dell’articolo 3 del disegno di legge sottoposto alla vostra approvazione non consente tale riconoscimento, poiché fra le altre condizioni al primo comma si richiede che i films «siano stati girati prevalentemente in Italia».

Per eliminare questa difficoltà, che può costituire un grave ostacolo per le future intese cinematografiche internazionali, propongo una modifica. Questa modifica, mentre consente di eliminare gli ostacoli al sovracennato sviluppo delle intese internazionali di co-produzione, è redatta in termini atti ad evitare ogni abuso; l’emendamento proposto infatti, oltre a sottolineare il carattere eccezionale della concessione, la subordina ad un preciso accertamento, caso per caso, dell’effettivo interesse finanziario ed artistico, con l’intervento del Comitato tecnico.

Per l’articolo 4. L’articolo 4 del disegno di legge stabilisce le aliquote del 12 e del 6 per cento rispettivamente per il contributo governativo a favore di tutti i films di produzione nazionale e per la quota suppletiva a favore dei films più meritevoli per il loro valore culturale ed artistico. Queste aliquote segnano una lieve maggiorazione rispetto a quelle fissate dalla legge precedente (10 per cento e 4 per cento). Considerato che gli elementi che hanno indotto il Governo a concedere tale miglioramento (aumento dei costi di produzione, accresciuta concorrenza dei films esteri, maggiori gravami fiscali sui prezzi dei biglietti d’ingresso, ecc.) sussistono già da vari mesi e che la prima elaborazione del testo della nuova legge risale al novembre 1946, si ritiene opportuno estendere i benefici dell’articolo 4 alla produzione più recente, e pertanto si propone di modificare la prima parte dello stesso articolo 4 sostituendo all’inciso: «dopo l’entrata in vigore della presente legge», l’altro: «dopo il 1° gennaio 1947».

Per gli articoli 12 e 13. L’articolo 12 prevede l’istituzione di una Commissione consultiva per l’esame dei problemi di carattere generale interessanti la cinematografia; mentre l’articolo 13 istituisce un Comitato tecnico per l’ammissione delle singole pellicole al beneficio dei premi e della proiezione obbligatoria.

Del Comitato tecnico è chiamato a far parte anche un rappresentante del Ministero del commercio con l’estero; ciò deve essere dipeso da un equivoco, in quanto, mentre è opportuno che il rappresentante di quel Ministero possa partecipare all’esame dei problemi economici generali della cinematografia, che tanti riflessi hanno sui nostri scambi commerciali con l’estero, appare evidente che egli non ha alcuna competenza o interesse per la valutazione tecnico-artistica dei caratteri dei singoli films ai fini della concessione dei premi o dei benefici della proiezione obbligatoria.

Si nota inoltre che nella composizione della Commissione tecnica è non sufficiente prevedere un solo rappresentante per ciascuna delle due categorie dei lavoratori e degli industriali; sia per la complessità dei pareri da emettere sull’intera produzione dei films spettacolari e documentari, sia per far fronte ad eccezionali casi di incompatibilità, è preferibile che nel Comitato siano inclusi due rappresentanti dei lavoratori e due dei produttori.

Allo scopo inoltre di consentire anche ai rappresentanti degli esercenti cinema, a carico dei quali è sancito l’obbligo della proiezione obbligatoria dei films italiani, di partecipare all’esame delle pellicole che saranno ammesse alla proiezione stessa, è opportuno prevederne l’inclusione nel Comitato tecnico.

Onorevoli colleghi, questa è, in grandi linee, la situazione dell’industria cinematografica in Italia.

È quindi un’industria alla quale s’interessano tutti.

Guardate! Allorquando in quest’Aula le discussioni diventano vivaci, anzi troppo vivaci, sapete cosa dice la gente fuori di qui?

«Hai visto, che cinematografo a Montecitorio?» (Ilarità).

Che significa questo?

Significa che tutti voi, che tutti noi siamo degli attori, significa che il cinema è vita, è movimento, è espressione, è sintesi della vita, della civiltà, della cultura di un popolo.

L’Italia, che seppe nei secoli scorsi, anche quando era divisa e negletta, inondare il mondo con i capolavori dei suoi letterati, pittori, scultori, musicisti, filosofi e continuare così la sua millenaria missione educativa, non può oggi rinunziare ad un mezzo così potente e moderno di pacifica espansione.

Noi siamo certi che la cinematografia, decisamente, contribuirà alla rinascita morale, politica ed economica del nostro Paese. (Applausi – Congratulazioni).

PRESIDENTE, È iscritto a parlare l’onorevole Arata. Ne ha facoltà.

ARATA. Onorevoli colleghi, l’onorevole Proia ha già inquadrato la cinematografia nella sua storia artistica ed economica. Io non intendevo, e non intendo, pronunciare un discorso su questa materia, tanto più che l’onorevole collega che mi ha preceduto ha già mietuto in ogni campo, con quella competenza specifica che egli ha. Mi limiterò ad esprimere alcune modestissime osservazioni che ho tratto dalla lettura del disegno di legge e della relazione del valoroso relatore che mi sta ascoltando, e che mi perdonerà se nella mia incompetenza dirò qualche inesattezza.

D’accordo, io penso, siamo tutti nel salutare con molto fervore questo disegno di legge per le provvidenze che esso intende apportare alla nostra cinematografia, uno slogan comune, oggi, che l’Italia ha perduto tutto e che non le sono rimaste che le sue ricchezze naturali, le sue ricchezze morali, il suo genio nazionale. Allora è necessario, in mancanza di altro, diffondere il più possibile questo nostro genio nazionale, non per tradurlo in una potenza militare, ma per tradurlo in un prestigio spirituale ed intellettuale, che, molte volte, è una causa indiretta di benessere materiale. Ed allora, se è vero – com’è vero – quel che detta la relazione sull’importanza della cinematografia, necessarie e salutari sono le provvidenze dirette a diffondere la nostra cinematografia all’estero ed a diffonderla, in modo speciale, sul piano della qualità, all’interno.

La relazione quasi si scusa di dover indulgere a certi criteri protezionistici a favore della nostra cinematografia e, quindi, di dovere violare i sacri canoni del liberismo in questa materia. Io penso che gli autori del disegno di legge siano già scusati e perdonati, perché, in siffatta materia, purtroppo, e nel tempo in cui viviamo, il protezionismo è la regola.

Vediamo infatti come tutte le altre nazioni hanno provveduto e provvedono a difendersi, e come tutte lavorano per il potenziamento della rispettiva cinematografia in base ad un duplice criterio: l’uno di difesa dalla invasione estera e l’altro di penetrazione la più ampia possibile all’estero.

Il disegno di legge, in esame – ed io, ripeto, intendo limitarmi a brevissime osservazioni per illustrare un mio emendamento – per quello che riguarda il primo criterio, e cioè la difesa dalla concorrenza estera, ha in fondo anche un contenuto profondamente morale, perché non involge soltanto un problema di bilancia dei pagamenti, ma tocca e riflette anche una questione di qualità, in quanto non sempre la cinematografia estera è all’altezza di quella considerazione che noi ce ne eravamo formata. Una parte della produzione estera nella pubblica opinione è già screditata, e questo potrebbe rappresentare per noi un forte punto di vantaggio, in quanto è appunto su questo scadimento almeno temporaneo della cinematografia estera che possiamo e dobbiamo inserire la nostra produzione per raggiungere, se non un primato, per lo meno quella preminente posizione che un giorno essa aveva saputo conquistare e acquisire al Paese.

Il disegno di legge che ci viene presentato ha cercato di attuare il criterio in parola con la norma stabilita all’articolo 7, secondo la quale è imposto agli esercenti di sale cinematografiche di riservare quindici giorni per ciascun trimestre alla proiezione di film nazionali. A me sembra che questa quota di riserva, questa specie di quota legittima, sia insufficiente. Quindici giorni su 90 equivalgono a 60 giorni all’anno. Or bene, la stessa relazione ci segnala che in Inghilterra è riservato ai films nazionali la metà delle proiezioni cinematografiche. In Francia abbiamo 105 giorni all’anno di proiezioni di films nazionali. Questo limite potrebbe forse sembrare modesto, ma non dobbiamo dimenticare che la cinematografia francese vive ancora sulla sua produzione ed ha una fortissima esportazione. Questo le può permettere di essere più generosa nei riguardi della produzione estera. Ad ogni modo, è un fatto che in tutti i paesi la misura obbligatoria di proiezione dei films nazionali in confronto degli esteri è molto rigorosa, e perciò mi sembra che abbiamo troppo scarseggiato nello stabilire 60 giorni di proiezioni di films nazionali, in confronto dei 300 giorni per i films esteri. Questo difetto mi sembra che venga a pregiudicare quella finalità che il disegno di legge si è prefissa: di difendere, cioè, la cinematografia italiana dall’invasione dei films esteri. Ecco perché io proporrei che questa quota fosse elevata a 25 giorni.

LOMBARDO IVAN MATTEO. Questa è autarchia!

ARATA. A 25 per trimestre, cioè 100 giorni all’anno. (Commenti). In verità debbo precisare che io propongo un aumento immediato a giorni 20 per trimestre, mentre la misura di giorni 25 per trimestre dovrebbe iniziare il 1° gennaio 1949; pur rendendomi conto dell’obiezione secondo cui nel 1949 la produzione potrà cominciare a dirsi normalizzata non soltanto in Italia ma anche all’estero. Se così sarà potranno imporsi altri criteri. Ad ogni modo, sono del parere che oggi, se vogliamo difendere, se vogliamo veramente potenziare e incoraggiare la nostra produzione, bisogna elevare quella quota di riserva di 15 giorni prevista dal disegno di legge. (Commenti).

LOMBARDO IVAN MATTEO. Non ci sono i films: questo è l’importante!

ARATA. Prendo atto dell’osservazione, ma mantengo da mia proposta, perché penso che i films ci siano; se il Relatore mi dirà che non ci sono potrò ricredermi e ritirarmi, ma non ne sarò, certo, felice. Io mi guardo bene dal fare enunciazioni categoriche, imperative, in una materia nella quale mi escludo una qualsiasi speciale competenza. Tuttavia ritengo di poter riconfermare il suggerimento che, ove sussista una minima sufficiente produzione, la quota riservata ai films italiani debba essere aumentata. Diversamente non ha valore lo stabilire un periodo per la proiezione di films italiani in confronto agli esteri: tanto vale, allora, non mettere nessuna riserva e nessun divieto.

Poiché, infine, per le proiezioni di films italiani che abbiano luogo prima del 31 dicembre 1949, è stato stabilito, con l’articolo 4, un contributo pari al 12 per cento dell’introito lordo degli spettacoli nei quali il film nazionale sia stato proiettato, ecc., cui si aggiunge un altro contributo del 6 per cento come premio per il valore intrinseco del film, io suggerirei al Relatore, pur senza presentare emendamenti su questo punto – che il 6 per cento comprendesse anche una particolare finalità: andasse, cioè, a premiare i nostri films destinati all’estero e che all’estero abbiano saputo imporsi. Il disegno di legge non prevede alcun riconoscimento concreto per la nostra esportazione: non prevede cioè né premi, né contributi, né quote di riserva, ecc. Io penso però che bisogna provvedere anche a questo, perché non basta difenderci dall’invasione estera, ma bisogna sapere anche noi imporci nel campo estero. Certo, la contemporanea azione di difesa dalla concorrenza estera e di penetrazione nel mercato estero esige molta cura ed una mano leggera e abile. Ma in ogni caso mi sembra che il premiare i films i quali, vincendo le grandi difficoltà che vengono loro frapposte, sappiano imporsi anche nel campo estero, assolvendo così quelle grandi funzioni morali e intellettuali cui ho accennato all’inizio, costituisca un dovere per noi, e risponda anche a un criterio di saggezza economica, perché se è vero, come detta la relazione, che noi dobbiamo anche pensare a sanare la nostra bilancia dei pagamenti, è chiaro che bisogna incoraggiare la nostra esportazione all’estero. Ecco quindi perché insisto nelle mie raccomandazioni, il cui scopo, si intende, è quello d’incoraggiare la esportazione della nostra sana produzione, non già di proteggere quella scadente, perché so bene che mandare all’estero il film cattivo significa deprimere la nostra cinematografia e chiuderci ogni porta e ogni buona possibilità.

Ma il film che abbia saputo degnamente uscir fuori dei confini e che si sia saputo imporre merita un incoraggiamento, onde mi auguro che i compilatori del disegno di legge tengano, di questo consiglio, il debito conto.

PRESIDENTE. È iscritto a parlare l’onorevole Bubbio, il quale ha presentato il seguente emendamento firmato anche dagli onorevoli Siles, Cappi, Rescigno, Cingolani, Clerici, Guidi, Bollato, Perlingieri:

«All’articolo 2, ultimo capoverso, sopprimere le parole: «nonché la Commissione tecnica per l’esame delle domande di costruzione e di apertura di nuove sale cinematografiche, di cui alla legge 30 novembre 1939, n. 2100».

L’onorevole Bubbio ha facoltà di parlare.

BUBBIO. Le ragioni del mio emendamento sono intuitive; esiste a Roma, in base alla legge 30 novembre 1939, una Commissione centrale la quale deve provvedere in ordine alle domande di apertura di nuove sale cinematografiche. Ora, se è essenziale l’esistenza di una simile commissione e se siamo d’accordo che essa vada mantenuta, in relazione peraltro al proposito nostro di attuare, in quanto possibile, un inizio del decentramento, può essere opportuno considerare la possibilità di esplicare tale funzione, anziché mediante un’unica Commissione centrale, mediante Commissioni di carattere provinciale o regionale.

L’esperienza ci dimostra che, allorquando un piccolo e lontano comune, per iniziativa di un ufficio del lavoro locale, o di un circolo sociale, o di una parrocchia, intende aprire un cinematografo, la prescritta documentazione dev’essere presentata a Roma, ove tali pratiche si insabbiano e talora passano mesi ed anni prima che si possa ottenere il provvedimento; il che non è dovuto a minore zelo dei preposti, ma all’eccessivo accentramento ed alle complicazioni dell’istruttoria, la quale invece può essere condotta più agevolmente dalle autorità decentrate. Conseguentemente, in quanto possibile e dato che si tratta non già di decidere se si possa o non si possa accordare la concessione, ma soltanto di esaminare dal punto di vista tecnico se la sala risponda alle esigenze che sono richieste per poter aprire il cinematografo, occorre sveltire, sollecitare, semplificare, istituendo le Commissioni tecniche locali.

Ho quindi domandato la soppressione dell’ultima parte dell’articolo 2 e conseguentemente che il Governo in via regolamentare, o con un nuovo disegno di legge, disponga norme concrete con cui questa funzione tecnica centrale sia smistata e decentrata attraverso le commissioni locali. Questo mio emendamento è stato firmato da diversi onorevoli colleghi che hanno come me compreso come esso sia dettato dalla necessità incombente di sveltire e di semplificare, iniziando alfine con questa modesta riforma un primo passo nel decentramento burocratico di questo servizio, e confido che il Governo vorrà accettarlo, unitamente al seguente ordine del giorno che ne è la conseguenza.

«L’Assemblea, ritenuto che ad evitare centralizzazioni, fonte di spese e di ritardi, sia opportuno demandare a speciali Commissioni regionali tecniche l’esame delle domande di costruzione e di apertura di nuove sale cinematografiche, di cui alla legge 30 novembre 1939, n. 2100, fa voti perché il Governo provveda alla soppressione della Commissione tecnica centrale ed alla istituzione di Commissioni di carattere regionale».

PRESIDENTE. Onorevole Bubbio, è chiaro che ove fosse approvato l’emendamento, cadrebbe il suo ordine del giorno.

È iscritto a parlare l’onorevole Di Vittorio. Ne ha facoltà.

DI VITTORIO. Credo che questo disegno di legge risponda ad una esigenza così evidente della nostra vita nazionale da non richiedere lunghi discorsi. Si tratta di assicurare alcune condizioni di vita e di sviluppo all’industria cinematografica italiana, la quale è una delle poche industrie che non richiedono troppe materie prime da importare dall’estero. È una industria che si basa fondamentalmente sul senso artistico, sulla capacità di esprimere i sentimenti, le passioni del nostro popolo, ed io credo che il popolo italiano possegga ad un grado abbastanza elevato questa capacità. Vi sono perciò le condizioni obiettive per dare uno sviluppo soddisfacente a questa industria che procura lavoro, pane e soddisfazioni a molte migliaia di lavoratori manuali ed intellettuali del nostro Paese.

Non è vero un luogo comune che ha trovato molta fortuna in Italia, secondo il quale i films che ci vengono dall’estero sono generalmente migliori di quelli italiani. Ho avuto frequenti occasioni di viaggiare all’estero recentemente e dappertutto ho sentito esprimere delle opinioni molto elevate sui pochi films italiani che sono stati fatti, specialmente in tempi recenti, dopo la liberazione di Roma. Questi films hanno avuto in molti paesi esteri notevoli successi. Né noi possiamo fermarci a considerare se dobbiamo porci su un terreno protezionistico o liberistico. Per noi comunisti, ed io mi auguro per tutti gli italiani, specialmente in un momento come questo, una simile questione di principio non esiste, non può esistere. La sola questione di principio che possa esistere oggi è quella di compiere ogni sforzo per procurare le maggiori possibilità di lavoro e di pane per il nostro popolo. Lo sviluppo dell’industria cinematografica può portare un contributo non indifferente alla realizzazione di questo scopo. Perciò noi comunisti approviamo questo disegno di legge, che avremmo voluto in alcuni punti anche più radicale.

È un fatto che sui principî generali ai quali si ispira questo disegno di legge è stato raggiunto un accordo completo fra lavoratori, industriali ed altre categorie intermedie interessate alla produzione e all’esercizio dei films. È un esempio di collaborazione utile, produttiva, e perciò progressiva, incoraggiante, specialmente nella situazione attuale del nostro Paese. Perciò raccomandiamo l’approvazione di questo disegno di legge come un riconoscimento agli artisti, agli scrittori, ai tecnici, a tutti i lavoratori italiani della cinematografia, della fiducia che l’Assemblea Costituente e il popolo hanno nella loro capacità di creare delle opere d’arte, atte ad affermarsi sul mercato italiano e sul mercato internazionale.

Noi desideriamo solamente suggerire alcuni emendamenti, diretti a dare l’ordinamento più democratico possibile agli organismi che devono occuparsi dello sviluppo di questa industria nazionale.

Così al secondo comma dell’articolo 2, dove si parla dell’ufficio centrale e se ne determinano le attribuzioni, desidereremmo aggiungere questa frase: «valendosi dell’assistenza della Commissione consultiva di cui all’articolo 12».

PRESIDENTE. Onorevole Di Vittorio, le faccio osservare che questo emendamento non è stato presentato. Per la presentazione occorrono, a norma del regolamento, dieci firme. Forse ella potrebbe associarsi all’emendamento di altri colleghi.

Di VITTORIO. Allora dovrei avere la possibilità di consultarli.

CAPPA, Sottosegretario di Stato alla Presidenza del Consiglio. Onorevole Di Vittorio, quello che ella propone è già nel testo della legge. L’articolo 2 parla dell’ufficio centrale della cinematografia e ne determina le attribuzioni; l’articolo 12 dice che è nominata una Commissione consultiva e ne precisa gli scopi di collaborazione.

MACRELLI. Ma questa precisazione non dice tutto.

PRESIDENTE. Onorevole Di Vittorio, devo ripeterle con dispiacere che la sua proposta di emendamento è tardiva.

DI VITTORIO. Mi permetta di redigere subito l’emendamento e di presentarlo.

PRESIDENTE. Concluda per ora il suo discorso sulle considerazioni generali. Avrà modo di presentare l’emendamento in altra seduta. Speravo che stamane si potesse concludere l’esame della legge; ma vedo che ormai non è più possibile. Sono infatti iscritti a parlare ancora vari deputati, e poi vi sono gli emendamenti. Quindi mi pare che dobbiamo limitarci a concludere la discussione generale, riservando per una prossima seduta la parola al Governo e al relatore.

DI VITTORIO. All’articolo 3 proponiamo un altro emendamento, che tende a rafforzare la rappresentanza dei lavoratori nell’ufficio che deve pronunziarsi sul carattere italiano di determinate produzioni, perché noi intendiamo rafforzare l’attività di questo ufficio, diretta a resistere alla pressione di monopoli stranieri che inondano il mercato italiano di films che non soltanto non rispondono al nostro gusto ma, per il loro carattere di assoluta mediocrità, urtano lo spirito italiano ed hanno soltanto lo scopo di esercitare una concorrenza che impedisca all’industria italiana di affermarsi anche sul proprio mercato.

Io credo che con questi emendamenti il progetto di legge possa essere accolto.

Pertanto, ne raccomando l’approvazione a tutti i settori dell’Assemblea.

PRESIDENTE. Onorevole Di Vittorio, presenti gli emendamenti proposti alla Presidenza, dopo averli corredati del numero di firme necessario perché possano essere presi in considerazione.

È iscritto a parlare l’onorevole Ponti. Ne ha facoltà.

PONTI. Sarò molto breve, per quanto l’argomento mi tenti, anche nella mia particolare qualità di Commissario della Biennale d’Arte di Venezia.

Dico che l’argomento mi tenta effettivamente e potrebbe portarmi a fare un discorso piuttosto ampio e lungo, per spiegarvi quali sono i criteri che hanno ispirato la Biennale nell’estendere la sua attività artistica al campo cinematografico; e per rivolgere poi le mie parole agli onorevoli colleghi, perché appoggino pienamente questo progetto di legge.

Qui si parla di industria cinematografica, ed è evidente che il termine è esattissimo.

Ma noi vediamo il problema sotto altro aspetto, cioè sotto l’aspetto di arte cinematografica; quando diciamo «arte cinematografica» intendiamo elevare il tono di questa industria, per dire, precisamente, che abbiamo un’esigenza particolare verso l’industria cinematografica, la quale è industria sotto certi aspetti, ma sotto tutti gli aspetti deve essere sempre arte.

La Biennale è stata criticata, a suo tempo, quando ha esteso la sua attività da quella limitata alle arti plastiche all’arte cinematografica come all’arte drammatica.

Ma la Biennale, invece, è stata, proprio in quel momento, una precorritrice del giudizio critico comune oggi a tutto il mondo.

La Biennale ha avuto, in quel momento, il felice intuito di aggregare alle altre manifestazioni artistiche anche quella dell’arte cinematografica, che in un certo senso può ritenersi la sintesi di tutte le arti. Perché, nella cinematografia, abbiamo tutte le arti raccolte in forma sintetica, dalla drammatica alla musicale, fino a tutte le arti minori.

Come in tempi precedenti, nella storia dell’arte, abbiamo visto affermarsi espressioni analoghe – per esempio, il melodramma, sintesi di arte poetica, drammatica e musicale – così l’arte cinematografica è diventata un’arte sintesi nella fusione o cooperazione di tutte quelle arti, che hanno avuto la loro precedente espressione.

E appunto come sintesi e come antologia o scelta delle espressioni migliori delle forme artistiche, la cinematografia è diventata espressione artistica per eccellenza del mondo moderno.

E, badate bene, è un’arte che ha assunto un ruolo eminentemente divulgativo, arte diretta al popolo, arte che penetra nell’anima del popolo e, quindi, lo può anche formare artisticamente, lo educa e lo richiama a tutte le manifestazioni della vita, perché la cinematografia, rimanendo sempre espressione artistica, si estende anche al campo delle scienze, del turismo, della geografia, della scuola, ecc.

Ora, noi italiani abbiamo la coscienza di essere tutt’ora un popolo generatore di forze artistiche, e non è questa una riserva nella quale noi ci rifugiamo; ma supponiamo di poter dare molto in questo campo, e daremo certamente molto, perché è un’attività corrispondente alla nostra natura ed alla nostra tradizione. L’attività artistica deve essere effettivamente una delle nostre forze, e dobbiamo far sì che la nostra arte cinematografica sia un’espressione nuova e dignitosa del nostro spirito e della nostra natura geniale. Questa legge ha un’importanza notevole indubbiamente e dovrebbe essere un mezzo ed un punto di partenza per arrivare ad un’arte cinematografica che sia degna dell’Italia.

Raccomandiamo al Governo di tenere presenti tutte le manifestazioni più notevoli in questo campo e la più importante di tutte, quella della Biennale d’arte di Venezia. Badate che questa manifestazione, che è stata unica per molto tempo, ha oggi concorrenti potentissimi in molte parti d’Europa e del mondo. Noi dobbiamo mantenere questa tradizione e questo primato organizzativo nei confronti di altre manifestazioni cinematografiche straniere; e qui mi permetta l’onorevole collega che mi ha preceduto e che ha fatto un accenno ad una maggior limitazione dei films stranieri, di dirgli che io non condivido la sua opinione, per questa ragione: che noi oggi non siamo in grado di produrre un numero di films sufficienti per imporre un aumento di quella proporzione; non solo, ma dobbiamo anche riconoscere che la produzione straniera è molto ampia e progredita rispetto alla nostra, che è regredita soprattutto per colpa del fascismo. Perché se il fascismo da una parte ha avuto delle benemerenze che dobbiamo riconoscergli, e che sono state quelle di promulgare leggi favorevoli alla cinematografia, ha imposto però con il suo spirito, con la sua intransigenza, miope e nazionalistica, delle limitazioni tali nel campo cinematografico che hanno arrecato danni gravissimi all’Italia, proprio con la volontà di diffondere all’estero dei films che erano infelicissimi propagatori della nostra civiltà e del nostro spirito, che era effettivamente regredito, ed era documentata, questa regressione proprio da quelle manifestazioni cinematografiche che all’estero avrebbero dovuto fare réclame al nostro Paese ed hanno invece fatto una réclame a rovescio. Ora noi, che siamo in questo campo molto in arretrato dobbiamo cercare di guadagnare i tempi, e come li guadagnamo i tempi? Anche qui, ritorna la questione della Biennale d’arte di Venezia: un vero progresso si ottiene dai confronti, dalla gara. Perché è sorta la Biennale d’arte di Venezia come esposizione delle arti plastiche? Perché i pittori e gli scultori italiani (non solo i visitatori) vedessero quali erano le forme dell’arte degli altri paesi, perché sentissero dove erano arrivati gli altri. E per questo è sorta anche la Mostra cinematografica di Venezia, non come volevano il fascismo ed il nazismo, per mettere davanti i films italiani in numero e quantità, o per dare premi immeritati alla nostra produzione, ma perché i nostri produttori, i nostri artisti, i tecnici di quest’arte cinematografica vedessero a qual punto erano arrivati gli altri, quali erano i gradini che dovevano anch’essi salire, in modo che si sentissero veramente in gara per essere all’altezza dei migliori.

Per questo ritengo che non si debba aumentare quel numero e si debba riconoscere ampia libertà alla cinematografia straniera di venire qui, perché, state ben sicuri, ove la cinematografia non sia in grado di manifestarsi nelle forme più elevate, non c’è nessuna disposizione che valga a potenziarla, come hanno dimostrato proprio il regime fascista e quello nazista, quando, nonostante tutti gli sforzi per potenziare la produzione cinematografica ispirata alle loro ideologie, non sono riusciti affatto a diffonderla, ma l’hanno vista crollare. La cinematografia, come tutte le forme artistiche, si potenzia col valore intrinseco, con la manifestazione di effettive capacità artistiche.

Quindi, non preoccupiamoci tanto del numero e della quantità della nostra produzione, preoccupiamoci invece che al più presto essa riesca a conquistare quel posto al quale noi dobbiamo aspirare come popolo geniale di artisti, in tutti i campi delle arti, di quelle arti di cui – ripeto – la cinematografia è una vera sintesi, tale da poter in un certo momento, se noi avremo la forza di conquistare veramente delle posizioni degne nel campo dell’arte, portare il nome dell’Italia artistica in tutti i paesi, non per imposizioni di carattere politico, ma per efficiente conquista determinata dal giudizio critico, effettivo ed oggettivo dato dai popoli, i quali, qualunque essi siano, davanti alle vere manifestazioni artistiche si inchinano e riconoscono riverenti la superiorità degli altri. (Applausi).

PRESIDENTE. È iscritto a parlare l’onorevole Giannini. Ne ha facoltà.

GIANNINI. Signor Presidente, onorevoli colleghi, io non deluderò né tradirò la vostra speranza di andare prestissimo a colazione. Io chiedo il rinvio della discussione su questa legge. Sono uno dei più vecchi cinematografisti d’Italia, perché ho incominciato nel 1914; sono quindi più di 30 anni che faccio cinematografo e lo conosco come pochi. Aggiungerò che sono stato il primo che ha creato in Italia quella speciale industria del sonoro raffazzonato, perché quando venne la cinematografia sonora in Italia noi non avevamo niente, nemmeno i tavoli di montaggio. Esiste, ancora oggi, un tavolo di montaggio muto che io ho, personalmente, col cacciavite, ridotto a sonoro. Ho diretto molti films e scritto molti films; ho fatto molte sceneggiature, ho fatto migliaia di riduzioni, e credo di avere una competenza abbastanza profonda di cinematografia. Con tutto ciò, questo disegno di legge mi coglie alla sprovvista. Ci sono cose che non capisco, ed io che sono praticissimo di cinematografia ho bisogno di rileggerle, di studiarle, di ponderarci sopra, perché non saprei, votando a favore o votando contro, di far bene o di far male. Voglio accennare ad uno dei più madornali errori di superficialità che sono in questo progetto di legge.

Incominciamo dal fatto che si dice: «films» al plurale. Ora il plurale in italiano non si fa con la «s». Si deve quindi dire il «film» e i «film», come si dice la città e le città. Quindi bisognerebbe cominciare col fissare questo. (Commenti).

Una voce. Non è una parola italiana.

GIANNINI; È una parola italianizzata e che è entrata nell’uso. Poi se si volesse adoperare la parola straniera nella forma grammaticale straniera, bisognerebbe metterla in corsivo.

Comunque, questa è una osservazione che non ha nessuna importanza e serve solo per aggiungere un sorriso al dramma della vita.

In secondo luogo, praticamente noi istituiamo un ufficio centrale della cinematografia e ripristiniamo – amico Proia – la vecchia Direzione generale della cinematografia, tale e quale. Questa Direzione generale sorse per ovviare a degli inconvenienti che vi erano nella cinematografia. Fece molto bene, ma fece anche molto male, perché nella Direzione generale della cinematografia fascista vi fu un accampamento di padreterni, vi fu un complesso di esclusivismi, vi furono quelle camorre che esistono in tutti i monopoli. Noi praticamente, con questo disegno di legge, diamo a questa rinnovata Direzione generale della cinematografia italiana, non più fascista, il diritto esclusivo di consentire la fabbricazione di film. Permettete che ci si veda chiaro, permettete che per lo meno noi, che siamo dovuti andare a fare dei salamelecchi e degli inchini, e anche dei piccoli «inghippi» per fare un film, non torniamo nelle stesse condizioni di prima, perché gli uomini non variano.

Altra inesattezza enorme è che nell’articolo 4 è menzionata una Società italiana autori ed editori, alla quale nientedimeno si deferisce il compito finanziario di accertare gli introiti.

PROIA. Ma già lo fa.

GIANNINI. Gli introiti sui quali vengono liquidati i contributi, di cui al presente articolo, sono determinati secondo il disegno di legge dalla Società italiana autori ed editori. Ma, signori, la Società italiana autori ed editori non esiste; esiste un Ente italiano per il diritto di autore il quale è successore della Società italiana autori ed editori defunta già da sei o sette anni. Esiste poi una Società italiana degli autori composta di soli autori, senza editori, che ha solo funzioni artistiche e amministrative relativamente alle percentuali dei diritti di autore incassati dagli autori stessi. Quindi, gli estensori di questa legge non sanno nemmeno che esiste un Ente italiano per il diritto di autore, e si riferiscono ad una istituzione che esisteva cinque o sei anni fa. (Commenti – Interruzioni).

PROIA. Ma esiste anche adesso!

CAPPA, Sottosegretario di Stato alla Presidenza del Consiglio. Il progetto non è stato portato in modo inopinato davanti all’Assemblea, come ha affermato l’onorevole Giannini, ma è stato regolarmente trasmesso dal Governo alla Presidenza dell’Assemblea.

GIANNINI. La Società italiana autori ed editori fu una concezione corporativistica del fascismo e fu trasformata, ancora sotto il fascismo, in Ente italiano per il diritto di autore.

PROIA. Ma adesso ha ripreso la vecchia denominazione.

CAPPA, Sottosegretario di Stato alla Presidenza del Consiglio. Ripeto che il provvedimento non è stato portato all’Assemblea in modo inopinato.

GIANNINI. Anche questa è una questione di poca importanza.

CAPPA, Sottosegretario di Stato alla Presidenza del Consiglio. Sì, ma volevo correggere l’affermazione che esso sia stato in modo inopinato portato all’Assemblea, perché è stato già discusso dalla Commissione permanente dell’Assemblea stessa.

GIANNINI. Va bene, onorevole Sottosegretario, questo fa parte di tutto l’andamento dei lavori della Costituente.

Comunque, se mi interrompete, non potrò mantenere la promessa di mandarvi a colazione subito.

C’è poi il vincolo di 15 giorni per trimestre. Signori, questo è uno scherzo. Noi vogliamo il grande film straniero; noi lo vogliamo, lo apprezziamo e ci studiamo sopra. Nessuno più di me può desiderarlo. Io ho fatto la riduzione della «Signora delle camelie» che è stata la più perfetta riduzione, o almeno è stata giudicata così precisamente in quelle grandi assise del cinematografo che si tenevano a Venezia. Quindi, devo amare il grande film straniero; ma il grande film straniero anzitutto può venirci soltanto alla «Biennale», senza pretendere di sfruttare tutte le nostre sale cinematografiche in circuiti che alle volte sono d’acciaio, che escludono tutti gli altri. Secondo: la presenza del grande film non deve giustificare la presenza della paccottiglia, del mediocre film straniero; perché al mediocre film straniero preferisco il mediocre film italiano.

Non è vero che noi dobbiamo prima raggiungere un grado di maturità nell’arte e quindi aspirare all’estero. Posso assicurare gli onorevoli colleghi che sono di questo parere, che le nostre maestranze, i nostri registi, i nostri autori sono in grado di produrre film bellissimi e ne hanno prodotti e continuano ancora a produrne.

LOMBARDO IVAN MATTEO. Ne hanno prodotti due in tutto.

GIANNINI. E hanno poco da apprendere dai grandi direttori americani: dico dai direttori e non dalla grande industria, perché l’industria cinematografica non ha bisogno di colossali impianti; e lo abbiamo dimostrato in tempi di necessità, quando abbiamo girato nelle stalle, per la strada, senza luce, senza mezzi e senza denari.

Una voce al centro. E come va che non si affermano allora questi films?

GIANNINI. Ci vorrebbero tre giorni per discutere questa legge. Noi vogliamo fare troppe cose; noi vogliamo in nove mesi sistemare il mondo. Questo è lo sbaglio. Noi vogliamo far tutto, crediamo di essere tutti dei padreterni, e invece ognuno di noi ha una specifica competenza limitata a qualche cosa, e ringrazi Iddio se ce l’ha.

Ora, quindici giorni su tre mesi sono una irrisione; io domando quarantacinque giorni. Eh, sì, è la funzione che sviluppa l’organo; finché non avremo esercenti affamati di pellicole italiane, non avremo un’industria italiana, e le nostre maestranze, i nostri operai, i nostri artisti, i nostri direttori non avranno mai modo di manifestarsi e di imporsi all’attenzione del pubblico.

Ultimo rilievo, perché la colazione urge. Si dice all’ultimo comma dell’articolo 7: «L’Ufficio centrale per la cinematografia, sentito il parere del Comitato tecnico di cui al seguente articolo 13, escluderà dal beneficio di cui al presente articolo i films sforniti (due «s» una appresso all’altra) dei requisiti minimi di idoneità tecnica, artistica e commerciale».

Signori, non scherziamo: questa disposizione è pericolosissima, perché può escludere dal beneficio del film il produttore isolato, può escludere la cooperativa di attori, può escludere la cooperativa di artisti, può escludere il regista, il quale riesca a concludere questo tipo di contratto con i lavoratori: «Io metto in società l’opera mia; a voi do una paga qualsiasi; facciamo il film: quando sarà proiettato, vi ricompenso».

Poiché questo produttore isolato non è protetto da nessuno, non ha santi in paradiso, non ha maniglie nel Comitato, non ha protettori nell’Ufficio, chi ci garantisce che sia tutelato in tale Comitato che ha la facoltà di giudicare e mandare come Minosse? Chi è che può giudicare l’arte?

Io posso fare un film con tutti esterni e mi si può dire che non c’è dignità commerciale, perché non ci sono interni, mentre invece se io lo proietto in pubblico, è maggiore la sorpresa di aver creato un nuovo genere.

Chi può dunque avere l’autorità di giudicare il contenuto artistico di un film? Ecco perché, onorevoli colleghi, io vi chiedo di approvare il rinvio di questa legge, perché venga studiata con maggiore attenzione. Ed ho finito.

PRESIDENTE. Onorevole Giannini, lei ha fatto una proposta di sospensiva, motivandola con la ragione di una certa fretta nella discussione della legge. Ora, io le faccio osservare che la relazione di questo disegno di legge è stata distribuita da tre o quattro giorni.

Desidero dirle inoltre che, a norma del Regolamento, le proposte di sospensiva debbono essere avanzate prima che si inizi la discussione, a meno che le proposte stesse non rechino le firme di quindici deputati.

Stando la cosa in questi termini, io le domando se ella è in grado di raccogliere le quindici firme.

GIANNINI. Desidero innanzi tutto chiarire che non credo che vi sia un componente di questa Assemblea più rispettoso di me verso la Presidenza. Quindi, la mia critica sulla frettolosità della legge non è rivolta alla Presidenza, né al Governo; la mia critica è di carattere generale e mi permetto, quindi, di preannunciare che la farò nella settimana entrante e dopo le elezioni siciliane, e la farò su tutta la discussione.

Per quanto riguarda le quindici firme che dovrebbero appoggiare la richiesta di sospensiva, io credo di poterle raccogliere sui banchi più diversi.

Non voglio affatto fare dell’ostruzionismo. La mia proposta è solo di rinviare la discussione del disegno di legge di tre o quattro giorni:

PRESIDENTE. Non trattandosi più di una proposta di sospensiva, di fronte a una semplice richiesta di rinvio di qualche giorno della discussione, cadono tutte le ragioni di formalità. Se non vi sono osservazioni in contrario, la discussione del disegno di legge è rinviata al giorno che la Presidenza fisserà.

(Così rimane stabilito).

Interrogazioni e interpellanze con richiesta d’urgenza.

PRESIDENTE. È stata presentata la seguente interrogazione con richiesta di svolgimento urgente:

«Il sottoscritto chiede d’interrogare il Ministro della pubblica istruzione, per sapere se sia a conoscenza della reazione determinata, in tutti gli ambienti solleciti della serietà della scuola, dalla sua circolare n. 6742 del 31 marzo ultimo scorso, con cui viene estesa a tutti gli studenti in debito di esame la sessione speciale già predisposta per i soli reduci; e se abbia qualche notizia delle gravi conseguenze che quel provvedimento potrebbe determinare.

«Colonnetti».

Il Ministro della pubblica istruzione ha comunicato che risponderà a questa interrogazione nella seduta antimeridiana di martedì.

È stata presentata la seguente interpellanza:

«I sottoscritti chiedono di interpellare il Ministro della pubblica istruzione, per conoscere, anche in riferimento a precedenti interrogazioni, se intende provvedere ad una disciplina dell’insegnamento della procedura penale nelle Università statali, sia in riferimento alla destinazione a tale insegnamento di cattedre di ruolo per lo meno nei più popolosi Atenei, sia e soprattutto in riferimento ad una maggiore considerazione del medesimo nell’imminente bando dei concorsi a cattedre universitarie.

«In particolare si ha ragione di temere che nella pur larga sfera di concorsi di prossimo bando non sia compresa la procedura penale, per la quale fu già nel 1943 bandito il concorso che non poté aver luogo per la sopravvenuta situazione di armistizio; mentre dalla conquistata autonomia didattica della materia (1938) nessun concorso è stato mai bandito con grave danno del progresso degli studi in tale materia e dell’insegnamento medesimo che è di estrema importanza scientifica e professionale.

«Bettiol, Leone Giovanni, Ermini, Caristia, Corsanego, Di Fausto, Mariani Francesco, Colonnetti, Ruini».

Chiedo al Governo quando intende rispondere.

CAPPA, Sottosegretario di Stato alla Presidenza del Consiglio dei Ministri. Il Governo si riserva di fissare la data di svolgimento di questa interpellanza.

GHIDETTI. Chiedo di parlare.

PRESIDENTE. Ne ha facoltà.

GHIDETTI. Vorrei sollecitare la risposta ad una mia interpellanza concernente i lavoratori italiani infortunati sul lavoro in Germania, presentata nella seduta del 27 marzo scorso.

PRESIDENTE. Dovrà essere fissata a suo tempo una seduta per lo svolgimento delle interpellanze.

Comunque, può trasformare la sua interpellanza in interrogazione urgente.

GHIDETTI. Sta bene; allora la trasformo subito in interrogazione urgente.

PRESIDENTE. Domando al Governo quando è disposto a rispondere a questa interrogazione urgente.

CAPPA, Sottosegretario di Stato alla Presidenza del Consiglio. Il Governo potrà rispondere nella seduta antimeridiana di martedì.

Interrogazioni.

PRESIDENTE. Si dia lettura delle interrogazioni pervenute alla Presidenza.

MATTEI TERESA, Segretaria, legge:

«Il sottoscritto chiede di interrogare il Presidente del Consiglio dei Ministri e i Ministri delle finanze e tesoro e dei lavori pubblici, per sapere se è vero che la Sicilia, pur avendo eccezionali inderogabili necessità per i senza tetto, case Incis, case popolari e contributi per la riparazione dei danni di guerra, sia stata esclusa da qualsiasi partecipazione alla ripartizione dei 35 miliardi recentemente assegnati a tutta la Nazione per le suddette esigenze.

«Nel caso affermativo l’interrogante chiede come si possa giustificare siffatto provvedimento lesivo di elementari ragioni di giustizia ed in contrasto con esigenze eccezionali derivanti dai disastri subiti per causa di guerra, specialmente da alcuni centri come Messina, danneggiata pel 98 per cento, Randazzo danneggiata per 1’87 per cento e Trapani, Marsala ed altri importanti centri tutti danneggiati ad alta percentuale. Né il provvedimento potrebbe trovare spiegazione nella precedente tardiva assegnazione di otto miliardi destinati ad altre opere di eccezionale urgenza dipendenti da precedenti omissioni e insufficientemente inquadrati nella politica generale di lavori pubblici del Governo, che nei confronti della Sicilia non sempre è stata aderente alle proporzioni fissate dalla prassi, in relazione a criteri di giustizia distributiva fra le regioni.

«Cartia».

«Il sottoscritto chiede di interrogare il Ministro delle finanze e del tesoro, per conoscere quando vorrà provvedere alla promozione al grado XI dei funzionari della Ragioneria generale dello Stato di gruppo C e di grado XII, che tale promozione ansiosamente attendono da diversi lustri. Non si comprende come mai in base alla legge Bonomi del 1944 si sia provveduto alla ricostruzione della carriera dei funzionari del gruppo A e nulla si sia fatto per quelli del gruppo C, che pure esplicano funzioni delicatissime quanto gli altri nel campo dell’amministrazione statale.

«Colitto».

«Il sottoscritto chiede d’interrogare il Ministro delle finanze e del tesoro, per conoscere se non ritenga necessario addivenire ad una sollecita e favorevole soluzione del provvedimento promosso dal Ministro della difesa nei confronti degli ufficiali in servizio permanente effettivo dei carabinieri, di fanteria e di amministrazione, che rivestirono la qualifica di primo tenente, tenendo presente che il provvedimento stesso:

  1. a) è elementare atto di giustizia riparatrice dovuto ad un esiguo numero di valorosi ufficiali combattenti nella guerra italo-austriaca 1915-18, i quali dopo 30 anni di spalline sono ancora capitani o maggiori, gradi iniziali della carriera;
  2. b) è ispirato a criteri di analogia con le disposizioni di cui al decreto legislativo 9 gennaio 1944, n. 9, relativo alla ricostruzione delle carriere danneggiate dall’arbitrio di leggi fasciste;
  3. c) ha strette e logiche relazioni di armonia integrativa con le disposizioni di cui al decreto legislativo 26 agosto 1945, n. 659, relativo all’aumento dei limiti di età per gli ufficiali dei carabinieri, in quanto assicura identità di trattamento agli ufficiali di che trattasi;
  4. d) è confortato dall’alto parere del Consiglio di Stato, il quale ha convenuto che la materia trattata dall’articolo 140 della legge 9 maggio 1940, n. 370, merita di essere riveduta al fine di emanare quelle disposizioni ulteriori, che assicurino una perfetta rispondenza ed armonia tra la norma e la sua finalità, onde eliminare le verificatesi sperequazioni di carriera;
  5. e) non costituisce aggravio alle finanze dello Stato in quanto non comporta corresponsione di arretrati, né eccessivo aumento di emolumenti perché trattasi di un esiguo numero di ufficiali i quali, per la loro anzianità di spalline, percepiscono già le indennità del grado superiore. (L’interrogante chiede la risposta scritta).

«Selvaggi».

«I sottoscritti chiedono di interrogare il Ministro della difesa, per conoscere se e quali provvedimenti intenda adottare per potenziare l’opera dei carabinieri, che con tanta abnegazione si prodigano per la tutela dell’ordine pubblico nelle nostre provincie: essi difettano di armamento, di automezzi leggeri capaci di 10-12 militi, difettanti di vestiario, di scarpe ed altro.

«Per il prestigio dell’Arma occorre provvedere e d’urgenza. (Gli interroganti chiedono la risposta scritta).

«Ferrarese, Burato, Franceschini, Cimenti, Guariento».

«Il sottoscritto chiede d’interrogare il Ministro dell’industria e del commercio, per conoscere l’attuale situazione della Cartiera del Rapido di Sant’Elia Fiumerapido (Frosinone) e quale fondamento abbiano le voci che agitano quelle popolazioni, secondo cui essa non soltanto non verrebbe riattivata riparando i danni bellici, ma verrebbe addirittura smobilitata.

«Se così fosse, si sopprimerebbe una già florida industria, che utilizzava una notevole produzione idroelettrica e dava lavoro ad una media di oltre 500 operai. L’interrogante chiede, pertanto, di conoscere il parere ed i propositi del Ministero competente in merito. (L’interrogante chiede la risposta scritta).

«Camangi».

«Il sottoscritto chiede d’interrogare il Ministro della difesa, per conoscere i motivi per i quali si trovano ancora in Albania nostri connazionali (medici, ingegneri e tecnici), già prigionieri di guerra, senza possibilità di ritorno in Patria per divieto, pare, del Governo albanese, dopo tanti anni di disagiata assenza.

«Per conoscere, inoltre, quali azioni ha svolto il Governo a favore di questi nostri soldati per accelerarne il ritorno, quando esso potrà aver luogo e quali provvedimenti intende adottare, nell’attesa, per sollevare dal grave disagio economico le famiglie di questi ex prigionieri, costrette a vivere con un modesto sussidio. (L’interrogante chiede la risposta scritta).

«Puoti».

«Il sottoscritto chiede d’interrogare il Ministro dei lavori pubblici, per conoscere quali provvedimenti intende adottare a favore del personale in servizio permanente della disciolta milizia della strada, arbitrariamente licenziato, esistendo un regolare stato giuridico.

«Risulta che il Consiglio di Stato, interpellato in proposito, fino dal 6 ottobre 1946 ha espresso l’avviso sulla necessità di provvedere al più presto a sistemare la situazione del personale della predetta milizia già in servizio permanente, consentendogli, nella più ampia misura possibile, l’ammissione nel nuovo organismo di polizia stradale, salvo i motivi di incompatibilità politica, così come è stato deciso per le altre milizie speciali. (L’interrogante chiede la risposta scritta).

«Puoti».

«Il sottoscritto chiede d’interrogare il Ministro delle finanze e del tesoro, per conoscere quali provvedimenti intenda adottare in favore dei giornalisti anziani collocati a riposo per migliorare l’assegno mensile di lire 1500, che attualmente è loro versato, in misura evidentemente non confacente a qualsiasi minima possibilità di vita, disponendo il ripristino del contributo da parte della R.A.I. – pari al 2 per cento sul gettito della pubblicità radiofonica – e le partecipazioni alla futura lotteria di Merano ed all’incasso dei diritti di autore per le opere cadute in pubblico dominio, ad integrazione ed aumento del fondo pensioni dei giornalisti stessi. (L’interrogante chiede la risposta scritta).

«Selvaggi».

«I sottoscritti chiedono di interrogare il Presidente del Consiglio dei Ministri e il Ministro dei lavori pubblici, sulla urgenza di estendere ai lavori di tutte le Amministrazioni dello Stato, degli enti locali e parastatali, le disposizioni per la revisione dei prezzi contrattuali, contenute nel decreto legislativo 23 novembre 1946, n. 463, in relazione al voto in proposito espresso nella seduta del 5 marzo 1947 della quarta Commissione permanente. (Gli interroganti chiedono la risposta scritta).

«Canevari, Merighi».

«Il sottoscritto chiede d’interrogare il Ministro delle finanze e del tesoro, per sapere che cosa gli risulti in merito a quanto denunciato nel Domani d’Italia di Napoli del 12 aprile 1947 (edizione delle provincie), sotto il titolo «A Cava dei Tirreni – Il fattaccio del giorno nella Manifattura Tabacchi», e se intenda disporre una indispensabile inchiesta presso la detta Manifattura, al fine di ristabilirvi la necessaria autorità degli effettivi dirigenti. (L’interrogante chiede la risposta scritta).

«Rescigno».

«Il sottoscritto chiede d’interrogare il Ministro della pubblica istruzione, per sapere se, ai fini dell’incarico dell’insegnamento di economia domestica e lavoro nelle scuole medie, intenda equiparare il titolo di abilitazione all’insegnamento dei lavori femminili a quello dell’insegnamento dell’economia domestica, e ciò per un atto di doverosa giustizia verso non poche insegnanti fornite dell’abilitazione all’insegnamento dei lavori femminili che, dopo lustri di lodevole opera prestata alla scuola, versano in dolorose condizioni di disoccupazione. (L’interrogante chiede la risposta scritta).

«Rescigno».

«Il sottoscritto chiede d’interrogare il Ministro dei trasporti, per sapere se col nuovo orario che andrà in vigore il 4 maggio 1947, intenda ripristinare il treno accelerato in partenza da Salerno per Napoli alle ore 7,10, utilizzando il materiale del treno accelerato 1949, ed accorciare gli orari dei treni accelerati sul tratto Salerno-Napoli e viceversa, essendosi su esso ripristinato il doppio binario; e per sapere ancora se intenda ritardare alle ore 14 la partenza da Sapri per Salerno del treno E.T.760, attualmente fissata alle ore 12,20. (L’interrogante chiede la risposta scritta).

«Rescigno».

«Il sottoscritto chiede d’interrogare il Presidente del Consiglio dei Ministri e i Ministri del lavoro e previdenza sociale, dell’industria e commercio e del commercio con l’estero, per sapere a chi risalga la responsabilità di non avere tempestivamente concessa l’importazione di 2200 quintali di cemento dall’Austria, concordata a Udine con il consenso delle Autorità alleate il 7 agosto 1946 per coprire i risparmi accantonati in 2 mesi di lavoro da 596 fornaciari emigrati nella Carinzia e nella Stiria; talché l’avviamento dei nostri operai in questa direzione non fu potuto continuare (con grave danno dei lavoratori disoccupati); agli operai rimpatriati furono soltanto a grande stento e con molto ritardo corrisposte anticipazioni dai Ministeri del lavoro e dell’assistenza post-bellica, e il cemento fu respinto alla frontiera, mentre per deficienza di questo agglomerante si dovevano interrompere lavori pubblici urgenti; e per sapere come intendano provvedere affinché episodi così deplorevoli non abbiano a ripetersi in avvenire, e si cominci con attuare senza indugi il trasferimento dall’Austria in Italia di 2500 tonnellate di cemento secondo gli accordi stipulati il 1° aprile corrente a Bolzano con le autorità del Tirolo. (L’interrogante chiede la risposta scritta).

«Gortani».

PRESIDENTE. Le interrogazioni testé lette saranno iscritte all’ordine del giorno o svolte al loro turno, trasmettendosi ai Ministri competenti quelle per le quali si chiede la risposta scritta.

La seduta termina alle 13.35.

POMERIDIANA DI VENERDÌ 18 APRILE 1947

ASSEMBLEA COSTITUENTE

xcv.

SEDUTA POMERIDIANA DI VENERDÌ 18 APRILE 1947

PRESIDENZA DEL PRESIDENTE TERRACINI

INDICE

Congedi:

Presidente                                                                                                        

Progetto di Costituzione della Repubblica italiana (Seguito della discussione):

Gullo Fausto                                                                                                   

Molè                                                                                                                 

Nobile                                                                                                               

Bruni                                                                                                                

Ruggiero                                                                                                          

Per l’intervento dell’Italia alla Conferenza interparlamentare:

Presidente                                                                                                        

Risposta della Camera del Lussemburgo al messaggio della Assemblea Costituente:

Presidente                                                                                                        

La seduta comincia alle 16.

AMADEI, Segretario, legge il processo verbale della precedente seduta pomeridiana.

(E approvato).

Congedi.

PRESIDENTE. Hanno chiesto congedo i deputati: De Vita, Terranova, Rapelli e Cairo.

(Sono concessi).

Seguito della discussione del progetto di Costituzione della Repubblica italiana.

PRESIDENTE. L’ordine del giorno reca: Seguito della discussione del progetto di Costituzione della Repubblica italiana.

Sulla discussione generale del Titolo II della parte prima è iscritto a parlare l’onorevole Fausto Gullo.

Ne ha facoltà.

GULLO FAUSTO. Onorevole Presidente, onorevoli colleghi, io non condivido l’opinione di coloro che hanno rivolto severe critiche, dal punto di vista formale e stilistico, al progetto di Costituzione in discussione; tanto meno condivido il rammarico dell’amico onorevole Calamandrei, che la Costituzione non sia stata scritta da un poeta, fosse pure Ugo Foscolo. Di Costituzioni scritte da poeti ne conosco una sola; e l’esempio non si può dire veramente imitabile.

Trovo invece che il nostro progetto di Costituzione ha quasi sempre uno stile semplice e piano, facilmente intelligibile e scevro di retorica.

È per questo che io non intendo perché l’articolo 23 si inizi con l’affermazione che «la famiglia è una società naturale», della quale, se dovessi proprio dire il mio pensiero, non afferro il significato.

L’onorevole Bosco Lucarelli ha proposto un emendamento; vorrebbe, cioè, che all’aggettivo «naturale» si sostituisse «originaria». La frase acquisterebbe, così, un significato, in quanto si porrebbe la famiglia all’origine, prima, cioè che sorgesse ogni forma, anche primordiale, di Stato.

Ma evidentemente la Costituzione con tal definizione risolverebbe un problema che invece non è stato ancora risolto. È sorta prima la famiglia e dopo lo Stato? O non è vero che originariamente esisteva soltanto ciò che Gian Battista Vico definisce una «infame riunione delle cose e delle donne»? che l’umanità cioè nei suoi primordi non conobbe la famiglia? Con questa definizione la Costituzione prende senz’altro partito, sostiene cioè che la famiglia sia originaria, sia la prima ad essere apparsa nel consorzio umano. Ora a me non pare che nella Costituzione sia opportuno che si dica questo, superando le opinioni che sono molteplici, come tutti sanno, e che vanno da quella del patriarcato o del matriarcato, alla teoria di coloro che, come Meyer, sostengono che lo Stato è anteriore alla famiglia. La teoria che ora incontra i maggiori consensi (e dico questo per limitarmi alla famiglia romana, che è quella che ci interessa di più, perché è la precedente diretta della famiglia nostra) è quella del Bonfante, secondo la quale si sarebbe avuto all’inizio una famiglia che era però un organismo politico, uno Stato embrionale, onde si spiegherebbe, per esempio, quel jus vitae et necis, diritto di vita e di morte, che altrimenti parrebbe ingiustificabile, e che costituirebbe, non un diritto del pater familias, ma una potestà sovrana del capo dello Stato sui componenti di questo Stato embrionale.

Anche ad accettare questa teoria del Bonfante, che ora raccoglie il maggior numero di consensi, si ha una concezione della famiglia che mal si attaglia alla definizione che si introduce nel progetto di Costituzione. A me pare, ripeto, che di questa definizione si possa fare a meno, dato che ciò che si vuol fissare è il principio che lo Stato riconosca i diritti della famiglia così come essa è ora in questa società in cui viviamo ed in cui viene a porsi la Costituzione che stiamo per approvare.

Io quindi sarei senz’altro per la seguente formulazione: «La Repubblica assicura alla famiglia le condizioni economiche necessarie alla sua formazione, alla sua difesa ed al suo sviluppo con speciale riguardo alle famiglie numerose». In tal modo l’articolo 23, privo della inutile definizione, non può non incontrare il plauso di quanti pensano che è necessario rafforzare il nucleo familiare, salvaguardarne i diritti, assumerne la tutela da parte dello Stato, ottenendo così che ogni cittadino possa crearsi una famiglia, e possa nello stesso tempo avere in essa quella sufficienza economica che ora non tutti trovano nel nucleo familiare.

Ma l’articolo che molto ha richiamato l’attenzione degli onorevoli componenti dell’Assemblea, e che ha suscitato qualche reazione nell’opinione pubblica, è l’articolo 24: «Il matrimonio è basato sull’uguaglianza morale e giuridica dei coniugi».

Diceva l’onorevole Crispo ed è stato ripetuto ieri dall’onorevole Calamandrei, che essi intendono l’uguaglianza morale dei coniugi, ma non intendono l’uguaglianza giuridica di essi. E si riportavano alle norme del Codice civile, il quale dà al marito una posizione preponderante, di supremazia, nella società familiare trovando in ciò un ostacolo insuperabile per l’affermazione della parità giuridica dei coniugi.

Noi approviamo questa affermazione della Costituzione: è necessario che si affermi questa parità morale e giuridica dei coniugi. Non troviamo che questa parità morale e giuridica dei coniugi debba essere compromessa dalle necessità proprie della società coniugale. Parità giuridica non può voler dire medesimezza assoluta di attribuzioni.

Ogni qual volta ci si trova di fronte ad una società, qualunque essa sia, e di fronte, quindi, anche alla società coniugale, è evidente che non si può parlare di medesimezza di compiti. Vi può benissimo essere parità giuridica e insieme diversità di attribuzioni. Il necessario è che venga rafforzata e cementata questa speciale società, che è la società familiare, poggiandola sulla perfetta parità morale e sulla perfetta parità giuridica dei coniugi, pur avendo presenti i compiti diversi che essi assolvono.

L’articolo, affermata tale parità, continua entrando in quello spinoso argomento che è l’indissolubilità del matrimonio.

Non vorrò io riprendere quanto è stato così profondamente e così brillantemente trattato ieri e dall’onorevole Calamandrei e dall’onorevole Cevolotto. Noi facciamo, innanzi tutto, una questione, dirò così, topografica. È stato già detto e ripeto ancora oggi che, per noi, non è affatto necessario che di questo argomento si parli nella Costituzione. Pensiamo, anzi, che di esso non si debba far parola; la questione non è di natura costituzionale. Non c’è alcuna Costituzione che accolga una formulazione simile a quella contenuta nell’articolo 24 del nostro progetto: è materia, questa, esclusivamente di Codice civile.

Noi non intendiamo affrontare la questione spinosa del divorzio. Pensiamo che nel momento che l’Italia attraversa, quando tanti bisogni urgono e tanti problemi aspettano una loro risoluzione, non si debba risollevare la questione del divorzio. Potremmo anche dire un’altra cosa, e cioè che quelle classi che noi soprattutto rappresentiamo non sentono questo problema, e non lo sentono per un duplice ordine di ragioni: prima, perché sono pressate da ben altri problemi che occorre prontamente risolvere e poi perché del problema stesso ad esse sfugge il punto di vista giuridico. Da qui bisogna trarre una considerazione che ha la sua importanza. Ieri, l’onorevole Calamandrei con brillante parola discorreva del divorzio nei rapporti delle classi ricche, e, in definitiva, egli diceva che queste classi in questo momento hanno il divorzio in Italia, mentre la legge fissa l’indissolubilità del matrimonio. Ma è da osservare che il divorzio lo hanno anche le classi umili, con questa differenza: che la classe ricca trova modo di sistemare giuridicamente la situazione, mentre la classe povera non ha la preoccupazione di tale sistemazione giuridica. Il povero fa ben altro: nel momento in cui la famiglia, che egli ha creato, diviene insostenibile, in quanto il legame di amore e di fede diventa legame di odio, ed egli pensa che debba essere spezzato, lo spezza senz’altro. Io stesso so per scienza diretta di matrimoni celebrati con la festa tradizionale, senza che intervenisse né l’ufficiale dello stato civile, né il parroco, dato che uno dei due coniugi era legato giuridicamente con altra persona. Specialmente nel ristretto ambiente di piccoli paesi montani del Mezzogiorno d’Italia, questi matrimoni sono considerati matrimoni perfettamente validi, pur non intervenendo né l’ufficiale dello stato civile, né il sacerdote. (Commenti). È proprio così, ed io ne parlo per scienza diretta. Ed è un fatto che si rinnova con una certa frequenza, specialmente oggi, oggi che tanti giovani, che sono stati assenti per lunghi anni per ragioni di guerra o di prigionia, tornati a casa hanno trovato il loro nido familiare sconvolto, e aumentato il numero dei loro familiari. Qualcuno si è deciso per il colpo di pistola, ed ha risolto la questione in questo modo; ma altri hanno pensato senz’altro di abbandonare la famiglia. Ma non hanno sentito di poter abbandonare anche la speranza, il bisogno intimo e profondo di crearsi un’altra famiglia, di dover considerarsi finiti dopo aver dato alla loro Patria quattro o cinque anni di sofferenze, ed hanno fatto una cosa semplice: hanno fatto un divorzio per conto loro, hanno creato una famiglia che giuridicamente è illegale, ma che così non è appresa dall’ambiente in cui vivono.

E accade in tal modo che, a causa dell’indissolubilità del matrimonio affermata dalla legge, si creino queste unioni illegali, che però non sono giudicate immorali dall’ambiente in cui il fatto avviene.

A proposito di questo problema così pressante ed urgente, io, come Ministro della giustizia, posso per esempio dire agli onorevoli colleghi che sono molteplici e continue le istanze che mi pervengono da ogni parte d’Italia perché si faciliti la procedura di disconoscimento della paternità, e mi si fanno premure perché si approvi un provvedimento, che del resto fu proposto anche nel dopoguerra passato. Intendiamoci: una cosa è la indissolubilità del matrimonio di fronte ad una situazione normale ed ordinaria ed un’altra di fronte ad una situazione eccezionale. Così come si hanno tremila omicidi all’anno in Italia, è naturale che si abbiano, poniamo, centomila adulterî, per essere un po’pessimisti; ma quando avviene una guerra mondiale come quella che è avvenuta, anche l’adulterio non si tiene più nei suoi binari normali, e diventa un fenomeno sociale così straordinario, così eccezionale che non si trova affatto illogico che si vada incontro ad esso con una norma altrettanto straordinaria ed eccezionale.

Nel dopoguerra passato fu proposto un provvedimento di scioglimento di matrimonio, destinato appunto a migliaia di soldati che tornando avevano trovato sconvolto il loro nido familiare, tale cioè da spezzare la possibilità di ogni convivenza. Ed io ricordo la risposta che diede per le stampe un insigne rappresentante del partito popolare, del partito cioè democristiano di allora, che trovò da obiettare una cosa sola. Disse: il caso è veramente eccezionale, veramente straordinario; ma poiché noi siamo sicuri che esso non si ripeterà, perché l’umanità, dopo questo grande bagno di sangue, va sicuramente verso un lunghissimo periodo di pace, a noi non pare che sia il caso di adottare provvedimenti eccezionali.

Purtroppo la realtà lo ha smentito in maniera violenta e terribile. Ma nessun altro argomento quell’uomo, che pur era per l’assoluta indissolubilità del matrimonio, trovò da opporre. Penso che sia da esaminare la possibilità dello scioglimento almeno in questo caso, quando, cioè, per ragioni di guerra, il marito è stato lontano per anni e trova il nucleo familiare sconvolto, ed aumentato il numero dei suoi componenti.

Ma questa è un’osservazione che ho fatto incidentalmente. La nostra posizione, la posizione che noi assumiamo di fronte all’articolo 24, è che non si tratta di materia costituzionale, e quindi che non c’è necessità di alcuna affermazione di indissolubilità. E v’è un argomento, che è bene ripetere. Essendo stato approvato l’articolo 7, con cui sono stati richiamati quei patti concordatari che fissano l’indissolubilità del matrimonio, è perfettamente inutile – anche per coloro che vogliono che nella Costituzione sia fissato e stabilito il principio – che nell’articolo 24 si inserisca l’affermazione che il matrimonio è indissolubile.

Ripeto: proponendo che questa affermazione venga cancellata dalla Costituzione, noi non vogliamo affatto affrontare la questione del divorzio, perché pensiamo che vi siano problemi molto più urgenti: vogliamo che si faccia la riforma agraria; vogliamo che si faccia la riforma industriale. Del divorzio non è necessario parlare ora; risolviamo questi problemi che sono più pressanti nella vita della Nazione.

L’articolo 25, che nella sua prima parte fissa il dovere dei genitori di istruire, di alimentare e di educare la prole, nel suo capoverso afferma che i genitori hanno gli stessi doveri di fronte ai figli nati fuori del matrimonio. La frase o dice tutto o non dice nulla. Che cosa mai vorrà dire: «I genitori hanno verso i figli nati fuori del matrimonio gli stessi doveri che verso quelli nati nel matrimonio»? Quali genitori? Perché ci sia un genitore che abbia questo dovere, è chiaro che bisogna sapere chi è il genitore. Se con questa frase ci si riporta ai casi che ora fissa il Codice civile, perché la ricerca della paternità sia consentita, a me pare che la norma non porti nulla o ben poco di nuovo, perché questi genitori hanno anche ora, nella legislazione civile, fissati dei precisi doveri verso i figli nati fuori del matrimonio. Ma noi sappiamo che sono ben pochi i casi in cui ora è consentita la ricerca della paternità. Ma al di fuori di questi casi, che cosa accadrà dei figli illegittimi?

Non si fa – è stato già detto da altri, ma è bene ripeterlo – una questione di pietà o di compassione; o meglio, si fa anche questa; ma ciò è troppo poco: bisogna fare una questione più alta; bisogna fare una questione di dovere sociale, che è insieme una precisa questione giuridica.

Dall’onorevole Merlin, mio egregio e caro collaboratore, si diceva qualche cosa che io non mi sarei mai aspettato; ossia si cercava di giustificare la mancanza delle garanzie, onde pur debbono essere assistiti i figli nati fuori del matrimonio, con il fatto che essi sono pochi. Diceva: in definitiva non bisogna poi tanto formalizzarsi, dato che si è di fronte ad una percentuale minima di figli illegittimi, ad una percentuale che si aggira tra il 2 e il 3. Ma non è d’accordo con lui la statistica, perché se noi ci rifacciamo all’ultima statistica che si ha su questo argomento, a quella cioè del 1942, noi vediamo, per esempio, che si arriva, per citare il fenomeno là dove esso si presenta più acuto, a Ferrara, ad una percentuale del 12: 12 illegittimi su cento figli; nella provincia di Roma si ha una percentuale dell’8.

È un fenomeno sociale della massima importanza. E allora, quando si dice che i genitori hanno verso questi numerosi figli nati fuori del matrimonio gli stessi doveri che hanno verso quelli nati nel matrimonio, bisogna intendersi sulla parola genitori. Noi evidentemente non possiamo riferirci con questa parola ai soli pochi casi fissati dal Codice civile perché la ricerca della paternità sia consentita: noi dobbiamo andare oltre.

È necessario innanzi tutto risolvere il problema della ricerca della paternità; e lasciate che io manifesti il mio moto di sorpresa di fronte a quella parte dell’Assemblea che trova da ridire su questa ricerca, proprio quella parte che aveva finora il merito di essere all’avanguardia in questo campo.

Ricordo il progetto Meda il quale voleva appunto che questa ricerca della paternità fosse perseguita in ogni caso. Egli così si ricollegava, oltre che al diritto comune, anche a quello canonico, giacché anche quello canonico non pone alcun limite alla ricerca della paternità.

Molti ricorderanno il detto: creditur virgini parturienti; la vergine che partoriva e diceva il nome di colui che era il complice necessario del parto veniva senz’altro creduta, tanto era largo il campo della ricerca della paternità. (Commenti).

Né è da rispondere come il collega Merlin rispondeva, che cioè in questo campo la prova è difficile ed ardua e che bisogna ricorrere alla presunzione. Il dire ciò non significa affatto creare un ostacolo giuridico, si porta anzi un nuovo argomento, perché la paternità è sempre fondata sulla presunzione, anche quella legittima. (Ilarità). Sarebbe strano che, mentre di fronte al figlio legittimo questa presunzione deve avere un valore giuridico così categorico e preciso, lo stesso valore non debba avere di fronte al figlio illegittimo.

MERLIN UMBERTO. Mater certa, pater incertus.

GULLO FAUSTO. Noi uomini ci dobbiamo acconciare a ciò: nel momento in cui siamo padri, siamo sempre presunti. (Ilarità). È strano che questa presunzione diventi un ostacolo allorché si tratta della paternità nel campo dei figli nati fuori il matrimonio. Anche per essi la paternità si presume. Non c’è niente di male. Ma perché la prima parte di questo capoverso dell’articolo 25 abbia un senso, abbia una portata, è mestieri che la ricerca della paternità senz’altro si allarghi, riprendendo la nostra tradizione. A restringerla fu il Codice napoleonico. Ma prima di esso la ricerca della paternità era libera, ogni mezzo di prova era ammesso. Non si vede il motivo perché oggi non si debba tornare a questa generosa tradizione. E soltanto così il capoverso acquisterà un senso ed un significato, perché, dando a ciascun figlio nato fuori del matrimonio la facoltà di ricercare il suo genitore, noi ne avremo reso possibile l’applicazione, che altrimenti resterebbe confinata nello stretto ambito segnato ora dalla nostra legge.

Sono quindi senz’altro perfettamente d’accordo con il collega onorevole Caroleo, che giustamente propone un emendamento in cui è detto che la legge garantisce ai figli nati fuori del matrimonio l’esperimento dei mezzi idonei ad accertare la paternità naturale ed assicura loro le stesse condizioni giuridiche dei figli legittimi.

Prima dunque che la norma dica che sono assicurate ai figli illegittimi le stesse garanzie dei figli legittimi, è necessario che la norma fissi la possibilità per ogni figlio nato fuori del matrimonio di ricercare i genitori.

Si dice anche: ma voi non pensate che bisogna tutelare la famiglia legittima?

Bisogna un po’ fermarsi sulla tutela della famiglia legittima. Anche il fidecommesso era giustificato con la tutela della famiglia legittima; ma penso che nessuno di noi ardirebbe proporre il ritorno al fidecommesso.

Anche il principe manzoniano, nel momento in cui condannava Gertrude alla clausura perpetua, in realtà pensava di tutelare la famiglia. Dovremmo considerarlo altrimenti come un padre snaturato che aveva la voluttà di sacrificare la sua figliuola. Egli mirava a tutelare la famiglia; e poiché ogni figlio che nasceva, dopo il primo, non faceva altro che scuotere la solidità del nucleo familiare, egli, che sentiva di dover salvaguardarla per tramandarla a sua volta ai successori, condannava alla clausura la figliola e ciò faceva nella convinzione assoluta di compiere un dovere.

Ma nessuno di noi riesce a pensare oggi che ad un padre possa esser dato questo diritto.

Ma che cosa è questa tutela della famiglia?

Quando noi pensiamo, trincerandoci dietro di essa, di contestare ai figli nati fuori del matrimonio il conseguimento dei loro diritti, non è male che, invece di volgere il nostro sguardo soltanto ai nati legittimi, volgiamo un po’ la nostra attenzione ai figli illegittimi che muoiono. Noi sappiamo, e mi riferisco sempre alle statistiche del 1942, che su mille nati vivi muoiono nel primo anno di età, nel Piemonte, 84 legittimi mentre ne muoiono 194 illegittimi; a Genova 68 legittimi e 130 illegittimi. Nel Lazio su mille bambini ne muoiono 82 legittimi, ma 207 illegittimi.

Ma che cos’è questa tutela della famiglia legittima che profonda le sue radici in un mucchio di morti?

Se, sul serio, un moto di pietà e di compassione deve suggerirci un atteggiamento diverso, è proprio ora che, esaminando così eloquenti e pietose statistiche, noi fissiamo le norme costituzionali che governeranno la nuova Italia. Sì, è vero, anche se non valessero le norme giuridiche, valgano la pietà e la compassione, perché in noi sia vivo il dovere preciso di tutelare la vita di tutti i nostri figli, tanto se nati sotto il crisma del matrimonio, quanto se nati fuori di esso. (Vivi applausi all’estrema sinistra).

BETTIOL. L’Italia repubblicana non è illegittima!

COSTANTINI. Cosa c’entra questo? I figli sono figli del sangue, e ancora prima sono figli del cuore. (Commenti).

GULLO FAUSTO. Noi vogliamo dunque che a questi figli illegittimi siano riconosciuti gli stessi diritti dei figli legittimi. E badate, noi così tuteleremo meglio la stessa famiglia legittima.

Quando noi avremo suscitato nell’animo di ogni uomo la convinzione precisa che creando un figlio illegittimo egli crea a se stesso gli stessi obblighi, gli stessi doveri, gli stessi carichi che ha di fronte al legittimo, non solo le statistiche presenteranno dei numeri meno spaventosi, ma ognuno procederà con maggiore senso di responsabilità e si avranno così mezzi più acconci e più idonei per tutelare la famiglia legittima.

Proponiamo quindi, in definitiva, che mentre in questo articolo debba esser posta la precisa norma con la quale si consente la ricerca della paternità, in ogni caso e con ogni mezzo di prova, si debba ancora più energicamente affermare che i figli nati fuori del matrimonio hanno gli stessi diritti dei figli nati nel matrimonio.

Perché, ripeto, sotto questo aspetto, va esaminata l’altra norma che: «La legge garantisce ai figli nati fuori del matrimonio uno stato giuridico che escluda inferiorità civili e sociali».

Mi sapete dire quale è l’inferiorità civile e sociale dei figli illegittimi fissata nella legislazione di oggi? Se si toglie il diritto successorio, non vedo altre inferiorità civili, e tanto meno sociali.

È ben altra la norma che si pretende venga inserita nella Costituzione della nuova Repubblica italiana: ed è che i figli illegittimi devono avere lo stesso diritto dei figli legittimi, non solo di fronte alla società, ma di fronte al genitore.

Coloro i quali pensano di superare una esigenza così giusta con lo specioso argomento che tutti, mogli legittime ed illegittime, figli legittimi ed illegittimi dovrebbero costituire un’unica famiglia, e si è detto, perfino, mangiare allo stesso desco, fanno ipotesi strane e fuori da ogni realtà.

Il necessario è che il figlio illegittimo abbia una sua famiglia, e che il genitore abbia il dovere di provvedervi.

È strano che, mentre egli è obbligato a dare tutto ciò che deve alla figliolanza legittima, consideri l’altra perfettamente estranea alla sfera dei suoi doveri, morali e giuridici.

Il figlio nato fuori del matrimonio deve avere verso il genitore tutti i diritti del figlio legittimo, e deve venire su nella vita, senza essere dannato, fin dalla nascita, a morte prematura.

Si è parlato di innocenza del coniuge legittimo, e pure a volte si è tratti a sollevare dei dubbi su tale innocenza.

Una innocenza, invece, su cui non può sorgere dubbio, è quella dei figli illegittimi; strano che questa innocenza venga trascurata per tutelare una innocenza, che qualche volta non è tale.

Noi vogliamo una norma che sancisca la perfetta parità fra i figli nati nel matrimonio e i figli nati fuori del matrimonio, e che sancisca la possibilità per ognuno dei figli nati fuori del matrimonio, della ricerca della paternità.

Si dice inoltre nel progetto che la Repubblica provvede alla protezione dell’infanzia e della gioventù, e questa è una norma quanto mai opportuna e necessaria. Forse è, se mai, censurabile perché essa non contempla un più largo campo di attività; ma comunque deve rimanere ben scolpito nella Costituzione della Repubblica italiana che la Repubblica provvede a questa protezione della maternità e tutela (questo è il contenuto dell’articolo 26) l’igiene e la salute dell’infanzia e della gioventù. Non è concepibile che vi sia grandezza di Nazione, grandezza di popolo, dove ogni cittadino non abbia la possibilità di crearsi una famiglia e non si senta tutelato nella sua salute, e dove ogni cittadino non abbia la possibilità di sodisfare il suo desiderio di sapere. Io vedo questa parte della Costituzione come quella di più vitale importanza.

Fin qui la Costituzione ha disciplinato le prerogative del cittadino, gli ha riconosciuto il diritto di essere libero, ha tutelato in lui questo grande anelito di libertà che nessuna forza riuscirà mai a distruggere, ed ha fissato lapidariamente tutte le forme, i mezzi e le manifestazioni di questo diritto alla libertà.

Ma che cosa è mai questo diritto alla libertà, che cosa sono questi mezzi e queste forme se noi non facciamo del titolare di questo diritto un cittadino degno di tale nome, un cittadino che senta, che abbia la coscienza dell’importanza del diritto che egli è chiamato ad esercitare? Tutte le altre parti della Costituzione diventano caduche, vane, superflue, se noi non daremo l’esecuzione più precisa a queste norme, che sono le più importanti e che appunto tutelano il cittadino, assicurandogli un nido familiare che sia veramente tale e non un luogo di dolore e di pena, dandogli il modo di conservare la sua sanità fisica, cancellando così la vergogna di statistiche di mortalità che fanno orrore; e assicurandogli infine la possibilità di sodisfare la sua volontà di sapere. Soltanto così noi avremo fatto in maniera che tutte le altre norme abbiano anch’esse la loro effettiva applicazione.

L’onorevole Francesco Nitti, nel suo primo discorso su questo progetto di Costituzione, facendo dolce violenza al suo temperamento così poco incline ad ogni forma di critica anche soltanto corrosiva, diceva che questa Costituzione e la relativa discussione non costituiscono certo materia di storia, e forse nemmeno di cronaca; e per rendere più evidente la sua affermazione, metteva a confronto questo progetto di Costituzione stampato su labile carta con le 12 tavole fuse nel durevole bronzo. Forse, l’onorevole Nitti, affermando ciò, non dava il giusto valore all’alone mitico che circonda tutte le cose passate e che diventa tanto più suggestivo quanto più le cose sono remote nel tempo; forse non considerava un’altra cosa: che, molto probabilmente, quei nostri lontani progenitori non avrebbero fuso le dodici tavole nel bronzo se avessero potuto usare la carta e la stampa. Comunque, vorrei chiedere all’onorevole Nitti: è egli veramente sicuro che quelle 12 tavole, quel coacervo di norme giuridiche confuse e primitive, avessero in se stesse tanta virtù da assicurarsi l’immortalità? Che l’umanità avesse sul serio tanto bisogno di ricordare le 12 tavole, quella umanità che in quel tempo già aveva attinto con Omero le vette più eminenti della poesia e che stava per attingere le vette più eccelse del pensiero con Socrate, Aristotile, Platone?

Ma è un fatto, però, che le 12 tavole sono immortali. Ma vorrei ricordare all’onorevole Nitti che è anche immortale la presa della Bastiglia, che pur fu percepita dai contemporanei come un episodio trascurabile. Tuttavia la presa della Bastiglia ha il valore di un mito; in essa si è fissato l’inizio del mondo moderno. Le 12 tavole segnano un altro inizio. E sono immortali perché ad esse seguì una cosa immensa, seguì il diritto romano; è la luce del diritto romano che si riverberò sulle 12 tavole e le rese luminose per l’eternità. È la rivoluzione francese, creando il nuovo mondo sulle rovine dell’antico, che diede all’episodio della presa della Bastiglia l’immortalità.

Siamo d’accordo: questo progetto può anche soltanto essere materia di cronaca.

Ma se questo progetto di Costituzione della nuova Repubblica italiana diverrà vita del nostro popolo, se sul serio il popolo nostro si orienterà verso la sua nuova vita seguendo i binari segnati da questa Costituzione, allora – me lo lasci dire l’onorevole Nitti – allora anche questo progetto, anche la discussione che noi vi facciamo intorno, saranno forse tratti fuori dall’ambito angusto della cronaca per entrare nel tempio solenne della storia. (Vivi applausi a sinistra Molte congratulazioni).

Per l’intervento dell’Italia alla Conferenza interparlamentare.

PRESIDENTE. Comunico all’Assemblea che, in seguito alla ricostituzione del Comitato italiano dell’Unione interparlamentare, l’onorevole Persico è stato delegato a rappresentare il Gruppo parlamentare italiano alla XXXVI Conferenza interparlamentare, che si è svolta al Cairo dal 7 al 12 aprile. Assolvendo il suo incarico, ch’era, più che di onore, di lavoro, l’onorevole Persico ha partecipato attivamente a tutti i lavori della Conferenza: ed i suoi numerosi ed applauditi interventi nelle discussioni hanno ridato vigore agli antichi legami che il Parlamento italiano prefascista aveva, attraverso le loro rappresentanze, stretto con i Parlamenti delle altre Nazioni. L’onorevole Persico ha presentato alla Presidenza una succinta relazione informativa sui lavori della Conferenza, relazione che rimane depositata in Segreteria a disposizione degli onorevoli deputati.

Risposta della Camera del Lussemburgo al messaggio della Assemblea Costituente.

PRESIDENTE. Comunico che il Presidente dell’Assemblea parlamentare del Lussemburgo ha risposto al messaggio dell’Assemblea Costituente, relativo alla gravità ingiusta di molte clausole del Trattato di pace, con una lettera ispirata a vivi sentimenti di simpatia per il nostro Paese e contenente auspici per il ricostituirsi di una pacifica collaborazione fra tutte le Nazioni. (Vivi, generali applausi).

Si riprende la discussione del progetto di Costituzione della Repubblica italiana.

PRESIDENTE. Riprendiamo la discussione del progetto di Costituzione. È iscritto, a parlare l’onorevole Molè. Ne ha facoltà.

MOLÈ. Stia tranquillo il nostro Presidente, che per ammonirci alla brevità e convincerci della necessità di ridurre il dibattito ha portato sul suo banco la clessidra di Cronos per darci l’immagine fisica del tempo che scorre implacabilmente. Dirò poche cose. Riassumerò. Condenserò. Mi soffermerò soltanto su alcuni punti, che a me sembra siano ancora da svolgere o siano degni di maggiore attenzione e di più particolare interesse. E se mi soffermerò sul tema della famiglia legittima e dei figli naturali, mi si conceda di dire che l’indugio è legittimo e che è naturale che ci preoccupiamo, con particolare interesse, di tali argomenti.

Dopo aver inteso i discorsi, alcuni veramente notevoli, pronunciati dai rappresentanti di ogni parte dell’Assemblea, io voglio anzitutto, riesaminando l’articolo 23, affermare definitivamente il concetto che bisogna, da questo articolo, estromettere due enunciazioni inutili, o addirittura dannose: la definizione della famiglia, già pericolosa per se stessa come tutte le definizioni, e tanto più quando la definizione non definisce; e l’impegno solenne che alla Repubblica faremmo assumere di provvedere, con speciale riguardo, alle famiglie numerose: impegno, per i suoi riflessi concreti, anche più pericoloso della definizione della famiglia, perché risuscita ingrate memorie.

Cominciamo dalla definizione. L’onorevole Orlando ha autorevolmente negato che la famiglia sia una società naturale. Già io osservo anzitutto, che sarebbe più esatto parlare di comunione naturale, perché la società è fondata sulla comunione di persone e di cose, ma richiama in più l’esistenza di un vincolo di natura contrattuale.

Ma, sia comunione o sia società, non posso non essere d’accordo con l’onorevole Orlando, nel rilevare che quando voi mi parlate di società naturale a proposito di questo istituto che ha riflessi ed aspetti così vari e così numerosi, voi accennate soltanto all’elemento naturale, all’origine fisica della famiglia, che è il presupposto di ogni comunione sessuale, anche del concubitus vagus: ma trascurate gli altri elementi, che individuano e qualificano il nostro istituto familiare e non sono meno importanti, anzi sono, se non più, ugualmente importanti dal punto di vista etico, giuridico, politico.

Fu risposto all’onorevole Orlando che evidentemente egli non aveva inteso il valore di questa definizione, in quanto società naturale vuol significare società di diritto naturale. Ma, l’obiezione dell’onorevole Orlando fu così sentita e ritenuta valida dagli stessi democratici cristiani, che l’onorevole Bosco Lucarelli ha inteso il bisogno di proporre un emendamento per spiegare che cosa sarebbe questa società naturale. Non mi pare tuttavia che la soluzione sia felice. Non è facile definire, nella sua complessità, questa vivente e vitale realtà familiare, che costituisce l’istituto fondamentale della vita associata.

E la prova è che invano noi cerchiamo una definizione della famiglia nelle Costituzioni, nelle legislazioni o nei Codici.

Il legislatore romano, che pure ha scolpito nel bronzo dei secoli la stupenda definizione del matrimonio, attraverso la formula di Modestino, non parla della famiglia. Non ne parla nemmeno il Codice canonico, pur così diligente in questo campo e così minuzioso. Non ne parlano nemmeno le Costituzioni recenti. Ne parla lo Statuto irlandese, con una formula che è pressoché identica a quella che ci è proposta. E allora mi perdonino, il mio caro amico onorevole Tupini, Presidente della prima Sottocommissione, e i suoi colleghi valorosi, se io dico che hanno – o Dio! – peccato un po’ d’immodestia, e non sono riusciti con la loro formula… irlandese a oscurar la concinnitas concettosa del legislatore romano o la sapienza del legislatore canonico. (Ilarità).

Esaminiamo dunque la formulazione emendatrice e integratrice dell’onorevole Bosco-Lucarelli. Noi ritroviamo, forse, più accentuati i motivi della nostra perplessità e del nostro dissenso. Se io devo stare a quello che ho sentito in quest’Aula, e che ho letto nel resoconto più completo e più autorizzato del suo discorso, pubblicato dal Popolo, per l’onorevole Bosco-Lucarelli e per i suoi amici, società naturale vuol significare società originaria, fondamentale, di diritto naturale che ha preceduto lo Stato e la legge, che ha una sfera di diritti inalienabili, che lo Stato non può intaccare e deve riconoscere.

È un’applicazione del criterio architettonico della Costituzione e della concezione pluralistica del diritto sociale, che ha esposto o in quest’Aula l’onorevole La Pira.

Nella sua concezione (ch’egli dice organica) del corpo sociale, fra l’individuo e Io Stato si frappongono le comunità naturali (comunità familiare, comunità religiosa, comunità di lavoro, comunità locale, comunità nazionale) attraverso le quali la personalità umana si svolge, e che hanno diritti originarî intangibili. Di questi diritti delle comunioni intermedie che costituiscono i varî status (personale, familiare, religioso, professionale, territoriale) lo Stato, organizzazione complessiva, deve, senza interferire, prendere atto. Poiché questi status sono un prius di fronte allo Stato e alla sua legge, una specie di presupposto necessario e intangibile, lo Stato, se vuole attuare i fini, per i quali è costruito, ha appunto il compito (corrispondente ai suoi fini) di garantire i varî status e di tutelare e assicurare con le sue leggi questi diritti originarî. Ammettiamo per un momento questa concezione, nella sua rigidità integrale.

Ma la famiglia è una comunione originaria?

Se questa definizione voi l’applicate alla comunione dei credenti, è chiaro che per i credenti la comunione religiosa è una comunione originaria. Per i credenti la divinità precede tutte le cose create: Dio è sempre stato al di sopra della realtà sensibile e delle vicende umane. Erat in principio. È, e come è oggi sarà sempre. Questa verità senza principio e senza fine rivelata dal messaggio precede anche il messaggio: è articolò di fede. La comunione dei credenti in questa verità è dunque originaria.

Ma, io mi domando, se questa concezione di comunione originaria, precedente allo Stato, che prescinde dallo Stato, che vanta diritti preesistenti suoi propri, inalienabili di fronte allo Stato, che dal processo storico di evoluzione delle consociazioni umane non ha avuto nascita e forse nemmeno contributo, che la legge deve semplicemente riconoscere; io mi domando se questa concezione di comunione originaria, nata come Minerva dal cervello di Giove, adulta, armata, autonoma, completa nei suoi organi, definita nei suoi lineamenti essenziali, e però atta al raggiungimento dei fini del progresso umano e della perfettibilità dell’individuo e della società, si possa adattare alla famiglia.

Quale famiglia?

Dopo le epoche del branco umano e delle unioni fuggevoli vennero il matriarcato, la poliandria, la poligamia. Queste furono le comunioni naturali originarie. Ma io mi rifiuto di confondere la famiglia con queste comunioni originarie naturali.

Io parlo della «nostra» famiglia. Noi dobbiamo definire, nella carta statutaria, la «nostra» famiglia. Questa definizione unilaterale, mutilata, manchevole, mortificante, che confonde la inferiorità morale, anzi l’amoralità delle unioni meramente naturali con la sanità morale della famiglia, ed a noi ripugna, tanto più dovrebbe ripugnare anche alla vostra coscienza, onorevoli colleghi della Democrazia cristiana, poiché voi non potete dimenticare, non dovreste dimenticare, che la famiglia ha origine dal matrimonio e che il matrimonio è per i cattolici un Sacramento. Voi lo dimenticate, proprio nel momento in cui, per questo carattere religioso del matrimonio, ne affermate la indissolubilità.

Voi vi fermate alla coniunctio maris et foeminae e dimenticato nientemeno il consortium omnis vitae e la humani et divini juris communicatio. (Commenti).

Perché, se la nostra famiglia origina pur sempre dalla stessa necessità naturale, che strinse le prime comunioni ferine ed umane, è tuttavia un prodotto storico della civiltà condizionata alle necessità economiche, alle credenze religiose, alla evoluzione delle leggi morali e giuridiche. Natura e storia. Al fondo è sempre la stessa realtà insopprimibile, dovuta a un’imperiosa esigenza che sorge con la vita.

È la vita che non vuole morire. È l’istinto dell’uomo che vuole perpetuarsi. È il genio della specie che deve sopravvivere alla morte dell’individuo. Legge di natura: quanto di più naturale ci sia. Questa esigenza, che è una fatalità organica, può definirsi, sì, originaria e anche innata, se è nata con l’uomo, nel momento stesso in cui l’uomo è nato, perché l’uomo non dovesse tutto morire.

Ma la famiglia non è ancora nata. Nascerà molto più tardi.

Non basta questa esigenza originaria.

Oltre questo elemento di necessità vitale, che spiega del resto anche l’amplesso belluino, ma non determina la formazione parentale agli albori della vita umana, ditemi voi quanti altri elementi occorrano perché sorga finalmente l’organismo familiare, ed evolva, si disciplini, si perfezioni, si elevi grado a grado – di pari passo col processo di faticosa elevazione umana – da unione meramente naturale a entità religiosa, etica, giuridica, fino a raggiungere il vertice dell’eticità nella famiglia con un solo padre e una sola madre, che opera quella unità spirituale che fa di due esseri un essere solo per la creazione e l’educazione di altri esseri, e converte, come disse Emanuele Kant, l’amore fisico nel dovere morale; dovere di coabitazione, di fedeltà, di assistenza fra i coniugi, dovere di protezione e di abnegazione verso i figli.

Le fasi di questo processo formativo dell’organismo familiare (matriarcato, poligamia, monogamia) corrispondono alle varie fasi della civiltà umana: dalla caverna alla capanna, alla casa; dalla tribù errabonda al villaggio, alla città, allo Stato; dalla idolatria al paganesimo, alla umanità del messaggio cristiano; dalla pastorizia all’agricoltura, alla civiltà industriale; dalla schiavitù alla eguaglianza degli esseri umani.

La storia della famiglia è la storia dell’umanità, la storia delle religioni, la storia dei valori etici, la storia dei cicli economici, la storia dei sistemi politici, la storia delle trasformazioni sociali.

Così si spiega la complessità di questo istituto che ha elementi, aspetti, riflessi, così ricchi e così varî, che la vostra definizione trascura: da quello religioso che pose alle origini Fustel de Coulanges, per il quale la famiglia sorse dalla religione degli avi, dei penati, dei lari e che afferma con il matrimonio la chiesa cristiana, a quello morale che nella conversione dell’amore in dovere determinò Emanuele Kant; da quello economico, su cui si indugiarono i materialisti storici, a quello giuridico-politico, che misero in evidenza i maestri del diritto romano, e soprattutto il nostro Bonfante, configurando la famiglia come un piccolo stato.

L’istituto della famiglia fu paragonato a un’erma trifronte: come ente politico in quanto la sua unità impone la soggezione gerarchica a un capo; come comunione etica, per il dovere reciproco di fedeltà, di protezione fra i suoi componenti; come nucleo economico, per il patrimonio familiare necessario ai bisogni della vita associata.

Ma se tutto questo fuoriesce dalla formula che voi proponete, noi respingiamo la vostra angusta definizione che non definisce. E non solo non definisce, ma è pericolosa. Perché la concezione pluralistica, che pone fra l’individuo e lo Stato le comunioni originarie, perché l’affermazione delle comunioni naturali che con i loro diritti originari inalienabili si ergono di fronte allo Stato e di fronte alle leggi dello Stato, vi porta a concepire le comunioni, e quindi la famiglia, come stati nello Stato, che possono svuotare di ogni contenuto lo Stato.

Noi ammettiamo questi cerchi concentrici attraverso cui passa l’individuo. Èdella natura, è della storia, è della necessità umana che l’individuo cerchi di andare verso forme di solidarietà sempre più ampia e più completa. L’uomo solo è meno che nulla: ha bisogno degli altri uomini. Nel suo bisogno di socialità, l’individuo diventa famiglia, si unisce ad altri individui nelle comunioni religiose, professionali, locali. Ma questi cerchi concentrici non sono immobili. Ma fra tutte queste comunioni non ci sono compartimenti stagni.

Si verifica viceversa il fenomeno dei vasi intercomunicanti.

Lo Stato condiziona la famiglia, la famiglia condiziona lo Stato. Esigenze e diritti reciproci devono comporsi fra di loro. Che, se ammettiamo questi sforzi dell’individuo verso forme sempre più ampie di solidarietà umana, attraverso le comunioni intermedie che tutte insieme confluiscono nel corpo sociale, non possiamo concepire uno Stato nello Stato, non possiamo concepire la famiglia contro lo Stato, così come non concepiremmo uno Stato contro la famiglia. Che cosa diciamo noi? Noi diciamo che il diritto individuale, il diritto familiare, il diritto sociale devono armonizzarsi nell’unità dello Stato, che è la suprema organizzazione sociale e politica. E che non ammettiamo una serie di sovranità per sé stanti, che cozzino fra di loro e annullino la sovranità dello Stato. Altrimenti può diventare realtà il pericolo denunciato da questi settori dell’Assemblea. Dalla teoria della famiglia, comunione originaria, con diritti intangibili, si può arrivare alla conclusione (e alcuni oratori di sinistra l’han letto in un programma ufficiale della Democrazia cristiana) che l’istruzione è una funzione e un diritto originario della famiglia, e che però, essendo la famiglia arbitra della scuola, lo Stato non può avere – tutt’al più – che una funzione ausiliaria, ancillare di fronte ad essa.

Ma allora noi vi diciamo che, se non vogliamo lo statalismo, la soffocazione della famiglia e delle comunioni, attraverso il monopolio di tutte le attività e funzioni da parte dello Stato, non vogliamo nemmeno l’annullamento dello Stato, lo svuotamento dello Stato di fronte alla famiglia.

Non intendo con ciò dire che a questo programma miri la teoria pluralistica dell’onorevole La Pira: ma la sua teoria contiene questo pericolo. Io apprezzo, stimo, ho un sentimento particolare di affetto per l’onorevole La Pira, perché nella freschezza del sorriso e nella purezza dell’animo dà la sensazione, la visione dello stato di grazia: egli è un santo. Ricordo però che i santi, quando legiferarono, furono qualche volta dei pericolosi legislatori. (Ilarità).

E allora, o signori, lasciamo stare tutte le definizioni tendenziali e finalistiche, di destra o di sinistra, di natura filosofica o d’ispirazione teologica che, prestandosi ad particolare orientamento di un partito, è naturale non sodisfino gli altri. Noi facciamo una Costituzione. Già si è osservato che nelle Costituzioni le definizioni sono fuori posto. Comunque, noi dobbiamo fare una Costituzione per tutti. E poiché non troviamo una formula che ci unisca tutti e ci sodisfi tutti, quale valore ha una definizione che non definisce e presenta il pericolo di indirizzi equivoci e di interpretazioni tendenziose?

Onorevole Tupini, rinunciamo alla sapienza… irlandese (Si ride) e torniamo al legislatore romano e al Codice canonico, che hanno definito il matrimonio, ma non hanno mai cercato di definire la famiglia.

Nei Codici noi troviamo soltanto l’enumerazione dei parenti, degli ascendenti, discendenti, collaterali, affini: delle stirpi, dei gradi, delle generazioni. Contentiamoci dei Codici. Rinunciamo alla definizione.

La famiglia è quella che è. E non è con un articolo di statuto o di Codice che se ne suggerisce il concetto o se ne ispira il sentimento. Si sente o non si sente. È qualche cosa di augusto, di santo che portiamo prima che nel cervello nell’anima: nessuno va a leggere i testi storici e filosofici, le Costituzioni e i Codici, per sapere che cosa è questa comunione dei vivi e dei morti che va dalle culle alle tombe: il consorzio di tutta la vita, il focolare, la casa; i figli che crescono intorno al padre augusto e alla madre veneranda.

Passo all’altro punto d’insanabile contrasto: l’impegnò degli aiuti speciali di natura economica che lo Stato promette alle famiglie in formazione e alle famiglie numerose.

Che cosa significa? Risorgono dunque, in regime repubblicano, i premi di nuzialità, i premi di natalità del regime fascista? Anche la Repubblica alimenta la prolificazione per ragion di Stato? Il riaccostamento è ingrato come il ricordo è inevitabile. Ma altre cose io ricordo. Ricordo che le leggi della natura e della vita impongono il crescite et multiplicamini, ma le leggi della natura e della vita si affidano agli impulsi spontanei dell’amore, non hanno bisogno degli stimoli esterni della propaganda e degli argomenti persuasivi di natura economica.

Io ricordo che il biblico invito è nella politica di tutti i tiranni, che chi cercava l’inflazione demografica si chiamava Napoleone, erano i dittatori di tutte le epoche, tutti gli sfruttatori, tutti i negrieri, tutti i guerrieri, tutti coloro che avevano bisogno di soldati o di schiavi per dare olocausto di carne umana alle guerre e sfruttamento di lavoro umano alle grandi opere pubbliche, fossero gli acquedotti e i teatri romani o le piramidi egizie o il taglio delle foreste vergini nelle terre inesplorate.

Storie di tutti i tempi! E ancora ricordo un passo del Digesto, illustrato dal nostro grande maestro Vittorio Scialoja. La prolificità delle schiave era il pregio maggiore nelle famiglie servili, ed elevava il prezzo di vendita.

Schiavi, soldati, servi della gleba: è lo stesso

Enfantez, mesdames! incitava l’Imperatore, perché voleva che le notti di Parigi colmassero i vuoti spaventosi dei suoi eserciti.

E nell’ultima recente esperienza che abbiamo purtroppo vissuto, per opera di dittatori, piccole ombre chinesi di questa grande figura storica, uno stesso programma di dominazione mondiale ispirò uno stesso programma di superproduzione demografica e di procreazione irresponsabile.

Ci fu in Italia un uomo che osò dire agl’italiani: «Non pensate, non occupatevi di politica, andate a teatro, andate alle gare di calcio, divertitevi! E soprattutto prolificate, prolificate quanto più potete; fatemi ogni anno un figliolo per il mio sogno imperiale. Niente tasse, ma premi per le famiglie numerose».

Della politica quest’uomo si occupò così bene che il sogno imperiale finì nel baratro della rovina e del disonore.

Ma il popolo italiano abboccò. E la miseria fu spinta a generare miseria. E le famiglie dei poveri, le famiglie dei pezzenti – stimolate da questa sconcia forma di corruzione statale – misero fuori ogni anno, regolarmente, altri pezzenti. E i figli e le madri rimasero a vivere di stenti in Italia e i padri furono mandati a morire lontano, in tutte le terre.

Crescite et multiplicamini? Sì, ma non a prezzo di moneta, non per precetto di Costituzioni e di legge. Questi fatti di natura abbiano il loro corso e si svolgano nell’ombra discreta, ubbidiscano alla sanità dell’amore, nell’intimità della famiglia. Perché noi che reprimiamo come delitto la soppressione dell’infante, e anche l’aborto, e proteggiamo fino la spes hominis, perché in chi non nasce, in ogni vita che poteva schiudersi e non si schiuse, si dilegua la speranza di un’aurora umana, destinata forse ad avere nel mondo una grande luce, riteniamo d’altra parte immorali e antisociali – soprattutto in un periodo come questo di scarse possibilità economiche, in un’Italia povera, in un territorio così sproporzionato alla popolazione – gli stimoli e le propagande irresponsabili di un esasperato accrescimento demografico.

Aiutiamo le famiglie, tutelandole nella salute della madre e dell’infante, assicurando ai genitori umane possibilità e condizioni di lavoro, accrescendo, come possiamo e quanto più possiamo, i mezzi dignitosi di vita.

Ma premi di nuzialità, no. E nemmeno premi di natalità. Non li possiamo, non li dobbiamo promettere. Noi dobbiamo promettere quel che possiamo mantenere.

E passo oltre.

L’articolo 24 dice: «Il matrimonio è basato sull’uguaglianza morale e giuridica dei coniugi». Che cosa significa? Noi abbiamo sancito la parità morale, sociale, politica dell’uomo e della donna, alla quale abbiamo anche garantito condizioni uguali di lavoro e di guadagno. Ma una perfetta uguaglianza – non morale, che è indiscutibile – ma giuridica possiamo garantirla nella famiglia? Questo è il problema. E io non vorrei, per averlo posto, che le nostre gentili colleghe di deputazione, onorevole Iotti, onorevole Mattei, onorevole Rossi, pensassero – come pare – che sia in me la preoccupazione di svalutare o deprimere la funzione della donna moderna.

Che cosa credono? Che io voglia riportarle alla conocchia e al fuso? Che io sia un nostalgico adoratore della donna di cento o di cinquecento o addirittura di mille anni fa, alla quale si attagliava l’epigrafico elogio latino: Domo mansit, lanam fecit, fìdem servavit? Noi ci contentiamo del fidem servavit! Il resto è finito senza rimpianti. (Si ride).

Perché la donna ha dato tali prove delle sue molteplici capacità in tutti o quasi tutti i campi dell’attività umana che le abbiamo schiuso tutte le porte, anche quelle del Parlamento. È entrata nella vita pubblica senza uscire dalla vita privata. Oggi l’uomo e la donna sono sullo stesso piano. Ma non nell’ambito della famiglia. Ora è questo il problema che ci pone ex novo la formulazione dell’articolo 24.

L’articolo 24 stabilisce un principio di parificazione assoluta, che non era nei Codici. Costituisce dunque una innovazione. Ha dunque uno scopo. Avrà dunque delle conseguenze. Esaminiamo lo scopo e le conseguenze di questa innovazione.

L’onorevole Guardasigilli ha trascurato questo esame, ma questo esame è necessario, per stabilire se il nuovo principio costituzionale, che deve dare l’orientamento alla nuova legislazione, non è in contrasto con le vigenti disposizioni, soprattutto con quelle che attengono alla unità della famiglia. Parità fra i coniugi, siamo d’accordo. La posizione della madre non dev’essere inferiore a quella del padre di fronte ai figli: chi può metterlo in dubbio? Io dirò qualcosa di più. Che la madre, per certi riflessi di natura e dal punto di vista sentimentale, è forse superiore al padre: è la più alta espressione, il cardine, la forza di coesione della famiglia: per i figli è l’immagine stessa della purità, della abnegazione, del sacrificio che riscatta nella maternità la stessa miseria del sesso. Madre, cioè, non più donna, nella religione familiare: madonna.

Ma io vi pongo il problema concreto della direzione interna e della rappresentanza esterna della famiglia.

La famiglia è un organismo complesso: noi ne abbiamo rilevato i suoi molteplici aspetti. Abbiamo detto poco fa che questa comunione è il nucleo essenziale dello Stato; è una specie di piccolo Stato nello Stato. E come in qualunque comunione, l’unità non può e non dev’essere diretta e rappresentata che da uno solo.

Questo piccolo Stato non può non avere chi lo personifichi. Non sarà la monarchia familiare di Giovambattista Vico. Non lo vogliamo. Ma nemmeno l’anarchia familiare. Sarà la Repubblica familiare. Ma con un capo. Ogni organismo collettivo ha un esponente che lo rappresenta e disciplina. L’ha anche questa Assemblea. L’ha finanche il Partito comunista. È inevitabile che l’abbia una comunione complessa e permanente come la famiglia. Credete voi per ragioni di predominio? No. Per l’esigenza insopprimibile di funzionamento organico, che assicuri il raggiungimento dei suoi fini.

Io non vi leggo gli articoli del Codice che presiedono al funzionamento organico e assicurano l’unità della famiglia. Voi li conoscete.

Il Codice dice che la moglie segue la condizione del marito, ne assume il cognome, è obbligata ad accompagnarlo ovunque egli fissi la sua residenza; che il marito deve mantenerla e proteggerla, che ha la patria potestà sui figli, che deve accettare l’eredità, ecc., ecc.

È una serie di attribuzioni in cui la legge determina i poteri di direzione interna e di rappresentanza esterna del marito: cioè la preminenza giuridica del marito.

Ebbene, onorevoli colleghi, io non capisco come l’onorevole Guardasigilli abbia potuto affermare che la norma dell’articolo 24 non ferisce profondamente l’unità della famiglia e la sua costituzione secolare, quale risulta dal Codice.

Se la Costituzione determina e indirizza la norma positiva dei Codici, che non possono essere in contrasto con la Costituzione, poiché l’articolo 24 della Costituzione sancisce la perfetta eguaglianza giuridica, è evidente che gli articoli del Codice vigente, che contrastano con questa eguaglianza, non possono né resistere, né sussistere.

Eguaglianza giuridica fra coniugi significa infatti che non c’è più un pater familias, non c’è più chi la rappresenti, non c’è più chi dà il nome alla moglie e ai figli, non c’è più chi possa e debba fissare il domicilio, non c’è più il marito che possa dire alla moglie: «tu mi devi seguire».

Chi dà il nome? Chi determina la coabitazione? Chi avrà nella nuova famiglia l’attribuzione di questi poteri? Io non mi soffermo – come vedete – sui poteri di rilevanza economica e nemmeno sulla generica dichiarazione che il marito è il capo della famiglia. La famiglia ha una sua intima disciplina, creazione spontanea della quotidiana collaborazione e delle affinità spirituali: la gerarchia non s’impone con la norma del Codice, che interviene solo quando l’unità è già spezzata.

Ma ci sono alcuni poteri del marito, che sono esclusivi suoi proprî, che hanno fondamento in imperiose esigenze di natura, che gli sono attribuiti non nel suo interesse, ma nell’interesse della famiglia. Questi poteri costituiscono le colonne d’Ercole, dinanzi alle quali deve arrestarsi ogni rivendicazione di parità femminile. E sono il diritto del marito a dare il nome, a determinare il domicilio, a imporre la coabitazione della moglie col marito. Ho letto proprio in questi giorni che c’è un grande paese, in cui l’uomo e la donna sono entrambi liberi di assumere l’uno o l’altro dei rispettivi cognomi e di scegliere il loro domicilio o di mantenerlo – ciascuno – per conto suo. Me ne dispiace: ma su questo campo non mi sento di seguire codesti paesi evoluti. Perché la promiscuità dei cognomi o riassunzione del cognome della donna, e l’indipendenza e pluralità dei domicili segnerebbero la disgregazione della famiglia. Sarebbe il commercio girovago dei sessi senza ditta familiare, finirebbe la continuità e la sicurezza delle geniture. Vi pare piccola cosa questa forzata unità del nome, quest’obbligo della convivenza, questo comando della legge: la moglie deve seguire il marito? È su questa piccola formalità che riposa la certezza della paternità per i figli.

Se noi non fissiamo quest’obbligo del nome e della coabitazione, noi togliamo di mezzo la legittima presunzione della paternità. La togliamo di mezzo in questo campo misterioso della natura, l’arcano della procreazione, in cui l’amore è cieco, la determinazione dell’amplesso fecondo è impossibile e il padre è sempre putativo. (Si ride). I padri sono certi legalmente: dal punto di vista della prova non v’è certezza assoluta, non avete che una presunzione di certezza, attraverso il nome e la coabitazione. Mater semper certa, pater incertus. Pater est is quem justae nuptiae demonstrant. Si presume che sia il marito della madre, cioè colui di cui ella porta il nome. Ma il presupposto di questa presunzione è la coabitazione continua della madre col padre.

I vecchi giuristi riconobbero nel matrimonio la pietra angolare della famiglia, proprio per questo: perché il matrimonio è l’istituto fondamentale della ricerca della paternità, in cui la prova è regolata formalmente. Tanto vero che se uno dei coniugi abbandona l’altro, sorge il motivo della separazione coniugale, e ai figli che nascessero dalla moglie lontana dal marito – nel tempo decorso dal 300° al 180° giorno anzi nascita – mancherebbe la presunzione legale della paternità del marito, perché la paternità presunta finirebbe di esistere di fronte alla impossibilità fisica della paternità. L’articolo 235 autorizza il disconoscimento. E l’articolo 244, in base al criterio della ripresa della coabitazione e della fine della lontananza, fissa i termini di decadenza dell’azione.

Ora io vi pongo il problema che è insieme giuridico e pratico. Che avverrebbe di queste norme del Codice, che riassumono la sapienza e la esperienza di secoli nel fissare e perfezionare l’istituto fondamentale della famiglia, se accettassimo in pieno l’assoluta parificazione dei diritti dei coniugi? Evidentemente queste norme verrebbero meno. Crollerebbero i cardini della famiglia.

Nello stesso momento, in cui ci preoccupiamo di dare un padre – e sarà un titolo di onore per questa Costituente – ai figli che non lo hanno, lo toglieremmo a quelli che lo hanno. Colpiremmo i figli legittimi, mentre ci apprestiamo a sollevare la inferiorità dei figli illegittimi.

No. Non è possibile. Possiamo porre sullo stesso piano morale l’uomo e la donna. Ma non possiamo disconoscere la diversità del compito e delle loro funzioni nella famiglia.

C’è un ostacolo di natura.

Quella piccola, piccola differenza che è fra l’uomo e la donna. (Si ride).

Jaurès, che fu un così fervido sostenitore della parità, aggiunse tuttavia che è ridicolo pretendere che la donna diventi uomo e l’uomo diventi donna.

Onorevoli colleghi, voi non potete sovvertire la natura senza sovvertire la morale e il diritto. Dipende dal modo come si nasce. (Ilarità).

La natura dice che i figli li fa la madre; e la madre è sempre certa, il padre incerto. La legge segue la natura. Impone alla moglie il nome del marito e la coabitazione perché questi due elementi danno la certezza del padre e la sicurezza delle geniture. E senza la certezza del padre e la sicurezza della genitura non esiste la famiglia.

Tutela i figli nella famiglia. I figli soprattutto. Noi dobbiamo perciò mantenere i diritti che la legge dà al marito nell’interesse dei figli.

In cima a tutti i pensieri noi dobbiamo porre i figliuoli. E non solo perché sono di noi la parte migliore e continuano la nostra vita e sono la primavera umana da cui dipende l’avvenire, ma perché i figli hanno sui genitori questo maggior diritto alla protezione della legge: che nella loro debolezza, hanno bisogno di maggiore protezione e non chiesero di nascere a coloro che dettero loro la vita e con la vita il retaggio della sofferenza e del dolore.

E nell’interesse dei figli noi voteremo l’articolo 25 che sancisce il diritto dei figli, nati fuori del matrimonio, al nome paterno e a uno stato giuridico che escluda le attuali inferiorità.

Questo doloroso problema umano e sociale siamo lieti di risolverlo. È un dovere della Costituente repubblicana aiutare a sollevarsi dagli ultimi gradi dell’abbiezione verso la normalità della vita civile e della sanità morale i figli di nessuno, i figli d’ignoti, i senza classe, i senza famiglia, i senza nome, cui la malvagità o la sventura sottrassero anche la sola ricchezza del povero: la carezza di una madre e la protezione di un padre. Bastardi. La frase brutale la usò Napoleone, in una seduta del Consiglio di Stato. A chi gli chiedeva perché non volesse concedere la ricerca della paternità l’imperatore rispose: «La Francia non ha nessun interesse che i bastardi abbiano un padre».

Bastardi! L’oltraggio sanguinoso che taglia la faccia come una staffilata, riaffermava contro questi infelici il bando dalla società, e fu pronunciato dal dittatore per allontanare il fantasma minaccioso di una persecuzione giudiziale dai placidi sonni del borghese del primo impero, ben pensante, egoista, libertino e immorale. Ma, come fu già rilevato, la storia ha risposto alla condanna sociale del bastardo con la violenta insurrezione dei bastardi contro la società.

Perché questo è lo spettacolo angoscioso e la sorte disumana dell’infanzia abbandonata al contagio della vita: i suoi poveri piedini nudi muovono verso un destino sempre uguale: la morte fisica o la morte civile. Le statistiche della mortalità e della morbilità contano il numero più elevato fra i figli illegittimi. La tubercolosi li miete. Ma, quando sopravvivono, per qualcuno che si salva, quanti degradano nel delitto e finiscono nella estrema abbiezione umana! Uno ne ricordo, eroico, che arrivò in quest’aula, risalendo la corrente della miseria, dopo una triste giovinezza di studi, di meditazioni, di stenti, e che quando diventò deputato e oratore fascinoso, il padre dimentico chiamò per offrirgli il nome del suo insigne casato: ed egli rifiutando l’offerta: «Io non voglio il tuo nome, rispose, perché non ho padre. Io sono il figlio di me stesso». (Commenti). Ma per uno che si salva e sale eroicamente, quanti non affondano, naufraghi della vita, quanti non si perdono, ribelli della legge, aggressori della società!

Sia dunque benvenuta l’affermazione, non di pietà, onorevole Merlin, ma di giustizia riparatrice, che consacra l’articolo 25! Noi affrontiamo, attraverso la riabilitazione civile dei figli illegittimi, uno degli aspetti più angosciosi del problema sociale che più abbiamo sentito fin dai tempi della giovinezza lontana: da quando sui banchi della scuola, sfuggendo alla sorveglianza del maestro scolopio che ci insegnava il latino, nascondevamo sotto le edizioni teubneriane dei classici e rigavamo di lagrime le storie dei miserabili, dei veri e falsi galeotti, gli splendori e le miserie delle cortigiane, il destino dei piccoli infanti abbandonati che si perdono nel grande deserto popolato di Parigi; e sorse in noi questo anelito di giustizia sociale, questo desiderio di sopprimere le ignominie e i privilegi della società ostile ed iniqua, che perpetua le tenebre dell’ignoranza e gli avvilimenti della miseria e aggrava le debolezze fisiche della donna e del fanciullo, degradando l’uomo in proletario, la donna in prostituta, e i figli in bastardi. Ed ecco che cominciamo l’opera riparatrice concedendo i diritti sul nome e sulle sostanze paterne ai figli illegittimi.

Quali sono gli argomenti che si oppongono a questo progetto? L’allarme, lo scandalo?

S1LES. I diritti della moglie e della famiglia legittima. (Proteste a sinistra Commenti).

MOLÈ. Risponderò subito al rilievo già anticipato dall’onorevole Merlin. Voi dite: il mio nome appartiene a mia moglie e ai miei figli legittimi. E non sono vostri figli anche quelli nati da un’altra donna? O avete fatto una cessione totale del diritto personalissimo al nome, così che non ne potete disporre più? Avete anche obiettato: per il fallo di un’ora voi non potete condannare il genitore alla infelicità di tutta la vita. Ma al figlio nato dall’errore di un’ora non imponete la infelicità di tutta una vita? Ed egli è incolpevole, mentre voi siete colpevole. O volete punire la vostra colpa nella sua innocenza?

La questione ha riflessi economici e riflessi morali. Per il trattamento economico c’è una graduazione di opinioni. C’è chi pone il programma massimo di un trattamento successorio uguale per tutti i figli; chi afferma il principio di riservare agl’illegittimi una quota minore per mantenere la preferenza alla famiglia legittima ed evitare la concorrenza delle unioni naturali; chi si contenta di ribadire l’obbligazione alimentare. Sono discussioni e decisioni che vanno lasciate alla legge positiva, per coordinarle nel sistema del Codice. Ma il diritto al nome dobbiamo, in ogni caso, riconoscerlo.

Ecco il diritto di natura tipico, originario: il diritto che il figlio conosca suo padre. E i figli, di fronte a chi li generò, sono tutti uguali: illegittimi, legittimi, naturali, artificiali… (Si ride). Anche se figli della colpa, i figli sono sempre innocenti. Rispettate i diritti degli innocenti. Bisogna avere, come me, nella professione di avvocato, assistito ad alcuni episodi terribili, per conoscere questa materia umana dolorosa e sapere di che lagrime grondi e di che sangue. C’è qualche cosa che vi fa tremare quando dovete difendere, nei processi di assise, il figlio abbandonato dal padre e che in un momento di miseria, con i crampi della fame nello stomaco e la follia che urla sotto il cranio, uccide il padre. Ed il giudice dice: io non riconosco in questo delitto il parricidio; questo figlio non è figlio e questo padre non è padre; erano due uomini che la colpa o la sofferenza ha messo l’uno contro l’altro.

Io intendo tuttavia la necessità di non ferire la famiglia legittima con la intrusione dei figli illegittimi nel domicilio coniugale. Il rilievo è necessario, perché qualcuno ha affermato che non vede nulla di strano in questa comunione dei figli di più padri e di più madri. Non scherziamo, in un argomento così delicato. Sarebbe il ritorno al gineceo, una breccia nell’unità familiare a favore della poligamia e, peggio ancora, della poliandria.

No. Noi dobbiamo riaffermare la superiorità della famiglia legittima.

Per elevare i figli naturali non bisogna deprimere la famiglia regolare. Assicuriamone l’autonomia. Non feriamo i cuori innocenti.

La famiglia legittima deve essere tutelata nella sua compagine, che la intrusione sgretolerebbe. Questa comunione non gioverebbe a nessuno, perché non è spontanea. Voi potete imporre il nome, la concessione del nome, ma non l’amore, né la convivenza coatta. Se il genitore naturale dev’essere costretto a dare il nome e la sostanza, non può essere costretto a dare l’amore, sentimento spontaneo che non s’impone con la legge. Se l’amore sopravviene tanto meglio. Ma la legge non può imporre una vita comune, che nel maggior numero dei casi sarebbe un inferno per tutti ed esaspererebbe i contrasti e le avversioni reciproche.

Ma, tutelata l’autonomia della famiglia legittima, superate gli altri ostacoli. L’avversione della moglie legittima, di cui tanto si preoccupa l’onorevole Merlin, non è un ostacolo legittimo, perché ella non ha il diritto di annullare il diritto dei figli nati fuori del matrimonio. La moglie soffrirà, ma se è nobile di animo, nella superiorità del suo animo cristiano, mio caro onorevole Merlin, non vorrà impedire che il marito, che ha un altro figliolo, provveda a lui e gli dia il suo nome, sol perché ai suoi figliuoli nati dal matrimonio invece che la totalità delle sostanze perverrà la maggior parte delle sostanze.

E passiamo all’altra parte dell’articolo 25, la quale garantisce uno stato giuridico a tutti i figli nati fuori del matrimonio. Sono d’accordo con l’amico Gullo, che la dizione è monca, equivoca, e bisogna sia completata. Noi non possiamo garantire lo stato giuridico, ma la ricerca della paternità, presupposto necessario della concessione dello stato giuridico…

PRESIDENTE. Onorevole Molè, tutti seguiamo con estremo interesse quello che dice; ma sono costretto a ricordarle che ha superato già di mezz’ora il tempo fissato per queste discussioni.

MOLÈ. Non me ne ero accorto.

PRESIDENTE. Non ce ne eravamo accorti neppure noi.

MOLÈ. E allora riassumo, condenso, mi affretto alla fine. Bisogna riconoscere e disciplinare la ricerca della paternità. La disciplina della ricerca si farà in sede legislativa. In quella sede si risolveranno i due problemi così annosi quanto appassionanti. Il primo problema: se è opportuno, nell’interesse dei figli, allargare la ricerca della paternità nel caso dei filii nefarii, dei figli incestuosi: se sia loro più conveniente avere un nome infamante o rimanere senza nome, provvedendosi in altro modo al loro stato.

L’altro problema è la disciplina della prova, perché questa prova, che fu detta diabolica, sia ragionevole, sia idonea, e non dia al figlio naturale un padre posticcio ed eviti gl’inconvenienti scandalosi della speculazione, per cui alcuni giustificarono le inumane restrizioni del Codice napoleonico.

È una materia delicata e difficile, in cui il pericolo di errore è evidente, perché giocano molto le prove presuntive. Ma bisogna che le presunzioni siano univoche e dialetticamente rigorose. Il Ministro Guardasigilli, onorevole Gullo, ricordando, in proposito, il precetto famoso «creditur virgini parturienti…» lo interpretava in questo senso: che si dava valore di prova, nel diritto canonico, alla dichiarazione della vergine partoriente che affermava essere Tizio il padre del suo figliolo. Ma uno dei nostri più grandi maestri, Vittorio Scialoja, che fu anch’egli Ministro della giustizia e assertore autorevole e appassionato della ricerca della paternità, spiegò, con un memorabile discorso su questo argomento, che il precetto – che non è di diritto canonico, ma di diritto comune – fu dettato da Antonio Fabro, Presidente del Senato di Savoja, romanista inferiore solo a Cuiacio, e voleva significare soltanto che si doveva credere al giuramento della vergine sedotta, madre per la prima volta, non ai fini dell’affermazione della paternità, ma per riversare l’onere delle spese immediate del giudizio e degli alimenti su colui che avesse denunciato come padre del suo figliuolo.

Sono problemi tecnico-giuridici, come vedete. Ma la disciplina del sistema probatorio nella ricerca della paternità non è di nostra competenza. Riguarda l’Assemblea legislativa, non la Costituente.

Troverà il legislatore gli accorgimenti, la maniera per superare queste difficoltà, ma la Costituente non può intanto rifiutarsi di risolvere questo problema di giustizia sociale, affermando il diritto alla dignità umana e al riconoscimento giuridico dei figli illegittimi: i diseredati, i reietti, che quando sopravvivono alla miseria, si vendicano della società che li ha condannati, diventando i negatori della legge, i gregari del delitto, i ribelli della società.

Riportiamo questi esseri umani alla sanità fisica e alla sanità morale: restituiamo questi cittadini allo Stato. E se Napoleone disse che la Francia non aveva nessun interesse a tutelare i figli bastardi, noi diremo che l’Italia democratica ha interesse che i figli illegittimi conoscano il loro padre e che quest’onta secolare venga cancellata dal nostro costume, dalla nostra legislazione, dalla nostra civiltà. (Vivi applausi Molte congratulazioni).

PRESIDENTE. È iscritto a parlare l’onorevole Nobile. Ne ha facoltà.

NOBILE. Onorevoli colleghi, dopo tanta alata oratoria, è certamente difficile per me prendere la parola. Dovete rassegnarvi al mio discorso disadorno che, peraltro, avrà il pregio di essere assai breve.

Su questo Titolo dei rapporti etico-sociali mi riservo di presentare qualche emendamento che, a suo tempo, quando si passerà alla discussione degli articoli, illustrerò concisamente. Qui, in sede di discussione generale, desidero esporre il mio punto di vista sulla questione dell’indissolubilità del matrimonio, né vi meraviglierete, spero, che scelga proprio questo tema così difficile e delicato. Dopo tutto, si tratta di una questione sulla quale chi sia capo di famiglia ed abbia una lunga esperienza di vita è competente a parlare, e la mia esperienza forse si è notevolmente accresciuta con le osservazioni che ho potuto fare durante i molti anni che ho soggiornato negli Stati Uniti d’America e nella Russia sovietica. Alla compilazione della Carta costituzionale ognuno di noi ha il dovere di apportare il proprio contributo, qualunque esso sia, e questo dovere si impone con maggiore forza quando si tratta di dettare le norme per un istituto che, come quello della famiglia, è alla base della società umana, e della cui integrità noi italiani siamo particolarmente gelosi.

L’articolo 24 del progetto che stiamo esaminando stabilisce che la legge regola le condizioni dei coniugi, al fine di garantire la indissolubilità del matrimonio e l’unità della famiglia. Con la discussione di questo articolo, inevitabilmente, si è ripresentata, ancora una volta, nei dibattiti della vita pubblica italiana, la questione del divorzio.

Si fa notare che l’Italia è uno dei pochissimi paesi dove la legge non ammette il divorzio. Le dita di una mano sono anche troppo per contarli: la Spagna, l’Irlanda, l’Italia e qualche altro Stato. In Irlanda il divorzio assoluto, cioè l’annullamento, richiede niente di meno che uno speciale atto del Parlamento, ed è perciò costoso e rarissimo. In Italia il Codice civile considera alcuni casi di annullamento, ma altri casi, ben più numerosi e complicati, contempla il diritto canonico. Tuttavia questi annullamenti in Italia sono molto rari, ammontando, nel complesso, a poche diecine: cinquanta o sessanta all’anno. Nel 1940 su 122 istanze si ebbero 65 annullamenti. Nello stesso anno la Sacra Rota annullava, su 80 ricorsi presentati, 15 matrimoni. Ma in altri paesi o quasi completamente cattolici o solo in parte cattolici, quali ad esempio la Francia, l’Austria, la Germania, gli Stati Uniti d’America, la legge civile ammette il divorzio, e bisogna riconoscere che, a lungo andare, anche molti cattolici finiscono col ricorrervi. D’altra parte, per quello che mi consta, negli Stati Uniti la Chiesa cattolica, pur non ammettendo un nuovo matrimonio, non proibisce ai fedeli di ricorrere alla procedura del divorzio quando si tratti di assicurarsi gli alimenti; ma è chiaro che una volta che il cattolico abbia riconquistato la sua libertà col divorziare legalmente, finisce poi assai spesso col disobbedire all’obbligo fattogli dalla Chiesa; sicché, almeno nei casi più gravi, è difficile che la professione di fede cattolica costituisca un ostacolo insormontabile al contrarre nuove nozze. Certa cosa a me pare che la frequenza dei divorzi nei paesi occidentali, più ancora che con la fede religiosa, sia collegata coi costumi e le condizioni sociali, altrimenti non si spiegherebbe il fatto curioso che nella protestante Inghilterra il numero dei divorzi nell’anno, ad esempio, 1927, per considerare un anno normale nel periodo di pace, era di soli 2671, mentre nella cattolica Francia se ne avevano ben 18.487, cioè circa sette volte di più.

Nei Paesi dove il divorzio esiste, il numero di essi è in continuo aumento, non solo in senso assoluto, ma anche in rapporto alla popolazione o al numero dei matrimoni, indice, questo, indubbio di una crescente instabilità dell’istituto familiare. Per 22 Paesi europei la media annuale dei divorzi su ogni cento matrimoni è aumentata da 5,16 nel 1931 a 5,77 nel 1934, considerevole aumento trattandosi di un periodo di soli tre anni. Ma negli Stati Uniti d’America l’aumento è spaventoso: mentre nel 1870 per ogni 10.000 persone coniugate ve ne erano 81 divorziate, il numero di queste nel 1900 era cresciuto a 200 e nel 1928 a 400. Nel settembre dell’anno scorso la Federal Security Agency annunciava che nel 1945 si era avuto niente meno che un divorzio per ogni tre matrimoni, esattamente 502.000 divorzi su un milione e 618.331 matrimoni.

È vero che si deve tener presente che un incremento eccezionale dei divorzi nell’immediato dopo-guerra è un fenomeno costante; ma pur tenendo conto di ciò, non si può negare che la proporzione dei divorzi negli Stati Uniti d’America sia giunta a tal punto da costituire un pericolo serio per la saldezza dell’istituto familiare.

Del resto, a chi ha vissuto a lungo in quel paese sono ben note l’estrema facilità con cui le unioni matrimoniali vi si contraggono e vi si sciolgono, la lassità dei legami familiari che da ciò deriva e la diminuita autorità dei genitori sui figliuoli, la cui indipendenza raggiunge talvolta limiti per noi incredibili. Ricordo il caso, capitato a New York, di una fanciulla di sedici anni, appartenente a famiglia oriunda italiana, la quale citò il proprio genitore davanti al magistrato, accusandolo di averla violentemente redarguita perché abitualmente tornava a casa tardi nella notte, dopo essersi accompagnata coi suoi amici. E il magistrato diede ragione alla fanciulla, trattando il padre da uomo di altri tempi. Del resto si conoscono dati che veramente ci riempiono di stupore sulla corruzione giovanile negli Stati Uniti. Ne citerò uno solo: la massima parte delle fanciulle delle High Schools, che corrispondono press’a poco al nostro ginnasio, giungono all’ultimo anno di corso senza essere più vergini. A proposito di ciò comparve sulla rivista Liberty una serie di articoli impressionanti di una signora che da molti anni era sponsor di un collegio di ragazze.

Le cause del grande, preoccupante accrescersi dei divorzi in America, come, sebbene in minor misura, anche negli altri paesi del mondo, non possono non mettersi in relazione con le trasformazioni sociali che hanno avuto luogo nell’ultimo secolo per effetto dell’industrialismo, trasformazioni che hanno dato come risultato l’emancipazione economica della donna. La parte sempre maggiore che questa prende alla vita economica, distraendola dalle attività familiari e rendendola sempre più economicamente indipendente dal marito, porta inevitabilmente all’indebolimento dei legami familiari.

Le unioni matrimoniali in America dipendono più che da ogni altra cosa dall’attrazione sessuale e dalle esigenze della personalità. Sui legami della famiglia prevalgono gli egoismi individuali. In molti casi il matrimonio è considerato dalla donna americana semplicemente come un mezzo per conquistarsi una posizione sociale. Per migliorare questa, dopo un primo marito essa passa ad un secondo e poi ad un altro ancora, percorrendo per così dire una specie di carriera matrimoniale.

Fino a qual punto l’enorme numero di divorzi che hanno luogo in America sia conseguenza della facilità con cui il divorzio stesso viene concesso dalla legge, talvolta per i motivi più futili e ridicoli, è difficile stabilire. Sono i costumi che fanno le leggi, ma certamente queste a lor volta reagiscono sui costumi. Vi sono Stati dell’unione nord-americana dove si può cambiare moglie o marito con la facilità con cui si cambia una casa d’abitazione. A Reno si concede il divorzio dopo avervi soggiornato solo pochi giorni.

È interessante a questo riguardo citare l’esperienza russa. Nel 1931, quando per la terza volta tornai nell’unione Sovietica, trovai che la famiglia era in piena dissoluzione: l’aborto era ammesso legalmente come diritto che non si potesse negare a nessuna donna, in nessun caso; il divorzio estremamente facile. Bastava la denuncia allo stato civile di una sola delle due parti, perché l’unione precedentemente registrata venisse considerata come sciolta, e si potesse procedere a contrarre nuove nozze, le quali d’altra parte non richiedevano alcuna formalità, bastando la semplice richiesta di registrazione. Anzi si poteva fare a meno anche di questa, perché era riconosciuto il matrimonio di fatto.

Le conseguenze di questo stato di cose furono talmente disastrose che la legge dovette correre ai ripari. L’aborto fu proibito, tranne nei casi in cui la sua necessità fosse riconosciuta dai sanitari per salvare la vita della donna, con leggi che rapidamente divennero sempre più severe. In quanto al divorzio si cominciò con accrescere le tasse richieste per la registrazione. Ma, più tardi, la sola denunzia non bastò più: la legge prescrisse che solo il magistrato aveva facoltà di sancire il divorzio.

Con questi provvedimenti restrittivi, la ricostruzione della famiglia procedette a larghi passi. Oggi la Russia è uno dei paesi dove indubbiamente il divorzio è meno facile, anche perché chi vi ricorre senza ragioni molto serie si espone al pubblico disprezzo.

Come si vede, le due grandi Confederazioni, la nord-americana e la sovietica, hanno proceduto in senso nettamente opposto: negli Stati Uniti si va verso un progressivo indebolimento dell’istituto familiare; in Russia verso un rinsaldamento di esso. Ora, queste due esperienze ammoniscono ad essere molto guardinghi, a resistere alle suggestioni di coloro che patrocinano il divorzio.

Nei Paesi delle grandi democrazie occidentali, la propaganda per il divorzio si basa sull’affermazione che la felicità matrimoniale sia possibile solo quando il legame coniugale armonizza con quello dell’affetto; e, con ciò, si giunge all’estrema conseguenza di ammettere il divorzio per semplice e mutuo consenso, senza alcun riguardo alle conseguenze che ne possono derivare.

Contro questa, che io giudico una aberrazione, il popolo italiano è bene in guardia. Esso, per istinto, nella sua enorme maggioranza, non vuol sentir parlare di divorzio, nemmeno oggi quando, per le condizioni create dalla guerra, tanti matrimoni sono rotti e tante separazioni legali hanno luogo, come ci ha anche ricordato l’onorevole Cevolotto.

Nel divorzio, il popolo italiano istintivamente scorge un pericolo per l’istituto familiare. Certo, non si può negare che vi siano casi in cui il divorzio riuscirebbe a dare pace, tranquillità, felicità forse, a persone che con un matrimonio infelice hanno perduto questi preziosi beni. Ma il legislatore deve porsi il quesito se, per soddisfare alle esigenze sia pure giustificate d’un singolo individuo, non ne venga un danno ad altri cento, ad altri mille. Si potrebbe, ad esempio, ammettere il divorzio nel caso di adulterio, ma, una volta aperta una breccia nell’indissolubilità che oggi protegge la famiglia italiana, sarà poi difficile impedire che la breccia si allarghi.

È certissimo che vi sono matrimoni così mal riusciti che hanno tramutato il focolare domestico in una bolgia infernale. E ben si vorrebbe, concedendo in tal caso il divorzio, dare al coniuge incolpevole la possibilità di rifarsi una famiglia; ma bisogna aver riguardo alle conseguenze che possono derivarne all’intera collettività. Ammesso infatti il divorzio in un caso, sarà difficile al legislatore resistere alle pressioni per estenderlo ad altri casi analoghi.

I fautori del divorzio sostengono che esso condurrebbe alla diminuzione del libertinaggio, del numero dei suicidi, dei nati illegittimi e adulterini, dei reati contro il buon costume e dell’ordine delle famiglie. In quanto a quest’ultimo è difficile sostenere tali asserzioni con argomenti validi.

Il fatto è che l’istituzione del divorzio diventa fatalmente un incitamento al divorzio. Quando si giunge, come ho detto che avviene in America, alla proporzione di un divorzio per ogni tre matrimoni, non si può più parlare di ordine familiare, perché si finisce talvolta coll’arrivare a situazioni così complicate e strane nel campo dei rapporti fra figli e genitori che realmente l’ordine della famiglia è completamente distrutto.

In quanto agli altri argomenti, mi si consenta citare, a conforto del mio assunto, qualche dato statistico.

Il numero dei figli illegittimi in Italia, prima della guerra (1931), fu del 5,1 per cento dei nati vivi. Ma, nello stesso anno – se si fa eccezione dell’Inghilterra, dove la percentuale fu del 4,4 per cento, e degli Stati Uniti, dove, nonostante l’enorme numero di divorzi, si ebbe in quell’anno una percentuale dei 3,5, e dell’Irlanda dove fu del 3,4 per cento – in tutti i paesi, dove esiste il divorzio, la percentuale degli illegittimi sui nati vivi fu ben più alta che non in Italia. Cito la Francia col 7,9 per cento, la Germania con l’11,7 per cento, la Svezia col 16,3 per cento. Ad ogni modo sempre la media italiana resta notevolmente al di sotto della media che si ha in tutti i paesi europei, media che dal 1939 al 1934 si aggirò attorno al 7,5 per cento.

Gravi, fondamentali obiezioni possono farsi contro l’istituzione del divorzio in Italia. Esso, almeno oggi, ripugna alla coscienza del nostro popolo, e soprattutto all’enorme maggioranza delle nostre donne. Si comprende bene, che in un paese dove la donna economicamente è ancora così strettamente dipendente dall’uomo, essa rifugga da un istituto che inevitabilmente minaccerebbe la stabilità del matrimonio.

E tuttavia, onorevoli colleghi, vi sono casi atroci in cui, nel superiore interesse della pubblica moralità, bisognerebbe concedere, non dirò il divorzio, ma lo scioglimento stesso e l’annullamento del matrimonio.

Alludo a taluni casi di grave indegnità morale. Ad uno mi riferisco più particolarmente, al quale hanno accennato anche l’onorevole Cevolotto e l’onorevole Gullo, quello del soldato che tornando dal fronte, o dalla lunga prigionia, trova il focolare domestico irrimediabilmente devastato da una donna indegna che approfittando dell’assenza del marito, esposto ai rischi mortali della guerra, lo ha tradito, nel modo più abbietto, né di ciò s’è mostrata pentita, nemmeno quando l’uomo generosamente era disposto a perdonare. In casi come questi, ed altri consimili, come negare al disgraziato che si trova ad essere legato ad una donna così degradata, come negar gli la possibilità di farsi legalmente un’altra famiglia?

Si obbietta. Ma concedendo la liberazione formale da un vincolo matrimoniale già irreparabilmente infranto, il legislatore verrebbe a premiare il colpevole. Giustissimo; un tal premio non si dovrebbe concedere. Al coniuge che si fosse comportato nel modo indegno che ho accennato dovrebbe essere negata la possibilità legale di nuove nozze.

In conclusione, onorevoli colleghi, sono avverso alla istituzione del divorzio; ma vorrei vedere accresciuto il numero dei casi in cui il matrimonio possa legalmente dichiararsi nullo.

Certamente io ignoro quale sia la formula giusta che bisognerebbe al riguardo inserire nella Costituzione, pur conservando l’articolo 24 tale come è. Ma quello che so è che il problema esiste, e che dovrebbe essere risoluto se non si vuole profondamente turbare l’ordine sociale.

Mi sia permesso fare – col dovuto rispetto – un’osservazione.

Il diritto canonico contempla una quantità di casi di annullamento del vincolo matrimoniale. Uno d’essi mi ha colpito in modo particolare: quello in cui nel contrarre il matrimonio sia stata apposta una condizione contra bonum sacramenti, cioè contro il principio dell’indissolubilità. La Congregazione del Sant’Uffizio il 6 aprile 1843 emanava una istruzione in cui si dichiarava: «certum est matrimonium contractum cum conditione ipsius substantiae et nominationi ipsius indissolubilitati repugnante, nullum esse». Questo caso offre la possibilità almeno teoricamente a cattolici poco scrupolosi di ottenere il divorzio in un paese dove esso non esiste, come è il nostro. Basterebbe, ad esempio, che nel momento di contrarre il matrimonio i futuri coniugi s’impegnino con clausola tenuta segreta a sciogliere il matrimonio, quando si verifichino date circostanze. Se non vado errato, alcuni anni fa si ebbe il caso clamoroso di un’alta personalità che ebbe annullato il matrimonio precedentemente contratto, e dal quale erano già nati dei figli, precisamente per la causa «ob exclusam indissolubilitatem», per avere cioè escluso l’indissolubilità.

A me sembra assurdo che si finisca col concedere quanto precisamente si vorrebbe vietare; ma quello che voglio fare osservare è che, essendovi già tanta varietà di casi in cui si può dichiarare invalido un vincolo matrimoniale, non vedo perché non si possa studiare la possibilità di contemplarne un altro che permetta di annullare il matrimonio, quando uno dei due coniugi si fosse comportato nel modo indegno che ho citato avanti, a proposito dei reduci dalla guerra. Basterebbe, ad esempio, parlare di errore nel consenso.

Sono ignorante di sottigliezze giuridiche, e i competenti potranno a ragione accusarmi di leggerezza parlando come faccio di argomenti così gravi; ma a me pare che una soluzione, nell’interesse della pubblica moralità, bisogna pur trovare al grave problema. È vero che i casi di annullamento sono rari: appena qualche decina all’anno. Tuttavia è diffusa l’opinione che personalità influenti per posizione sociale, politica od economica possano riuscire ad ottenere quello che al comune italiano è negato. (Commenti al centro). Tanto più vero è ciò, in quanto assai frequenti sono i casi di ricchi italiani che ottengono di divorziare in Ungheria, Svizzera o Austria, senza nemmeno perdere definitivamente quella cittadinanza italiana alla quale temporaneamente rinunciano per ottenere il divorzio.

Concludendo, si deve distruggere l’impressione, oggi prevalente nel popolo italiano, che in Italia l’annullamento del matrimonio o il divorzio esistano, ma solo per pochi privilegiati.

PRESIDENTE. È iscritto a parlare l’onorevole Bruni. Ne ha facoltà.

BRUNI. Signor Presidente, onorevoli colleghi, gli articoli 23, 24 e 26, che riconoscono i diritti della famiglia e l’indissolubilità del matrimonio, mi trovano consenziente, quanto alla loro sostanza.

Sull’articolo 26 – che disciplina le nascite illegittime – a suo tempo mi riserverò di accettare un lieve emendamento, che precisa meglio la portata del suo contenuto, proposto da uno dei miei colleghi.

È, invece, sugli articoli 27 e 28, relativi all’ordinamento scolastico, che mi permetterò d’interloquire, nei limiti di tempo permessi dal costume ormai invalso in questo genere d’interventi.

Onorevoli colleghi! Il soffio innovatore di una Costituzione si rivela da molte cose, ma è soprattutto misurabile, anche a mio parere, come testé ha sottolineato l’onorevole Gallo, dal conto ch’essa fa dell’istruzione e dell’educazione.

Il soffio innovatore di una Costituzione può essere soprattutto avvertito e valutato rispetto alla possibilità concreta che è in grado di offrire ad ogni cittadino di elevarsi moralmente ed intellettualmente.

La risoluzione dei problemi sociali, essendo strettamente legata alla coscienza che i cittadini hanno dei loro doveri e dei loro diritti, è evidente il gran conto che la Repubblica è tenuta a fare dell’istruzione e dell’educazione.

Fa bene perciò l’articolo 28 ad estendere a tutti indistintamente i fanciulli l’insegnamento inferiore «obbligatorio e gratuito», come dice il progetto di Costituzione, per la durata di almeno otto anni.

Inoltre il terzo comma dell’articolo giustamente consacra il diritto a «raggiungere i gradi più alti dell’istruzione» anche per coloro che sono privi di mezzi, purché «capaci e meritevoli».

Senonché, quando nel comma seguente si tratta di determinare i mezzi per rendere effettivo l’esercizio di questo sacrosanto diritto, ecco che non si sa indicare altro che «borse di studio, assegni alle famiglie ed altre provvidenze da conferirsi per concorso agli alunni». In tal modo la fruizione di quel diritto viene ad essere limitata arbitrariamente col legarla alla sorte di un esame o di un concorso e non invece al criterio, molto più stabile e per tutti uguale, di una più rigorosa selezione dei più meritevoli e dei più capaci lungo tutto il corso dell’anno scolastico. Come i ricchi, così anche i poveri devono andare avanti col semplice passaggio. Istituire per i poveri delle speciali borse di studio, dei concorsi, significa ribadire l’attuale discriminazione dei poveri di fronte alla scuola; criterio questo che disonora il Paese.

Si dirà che questo metodo è gravoso per l’erario. Ma io ritengo fermamente che sia venuta l’ora di porsi bene in mente che non si possa continuare a spendere quattro miliardi per l’istruzione quando se ne spendano oltre 100 per le forze armate.

Non ricostruiremo niente in Italia se continueremo ad avere milioni di analfabeti, se continueremo a discriminare i poveri dai ricchi: nulla di duraturo otterremo se non eleveremo di almeno venti volte il bilancio del Ministero dell’istruzione, come prima tappa.

Al fine di rendere più severi gli studi ed evitare la disoccupazione intellettuale, attraverso questo piano di socializzazione della scuola, potrà essere consigliabile l’istituzione di speciali concorsi per adire ai corsi universitari. L’ammissione a questi corsi potrà magari essere regolata con l’adozione del criterio del numerus clausus o col rendere veramente severi gli esami di ammissione alle università.

Fedele ai suesposti criteri di eguaglianza, ho proposto la sostituzione dei tre commi dell’articolo 28 col seguente:

«La scuola in ogni ordine e grado è aperta a tutti, indipendentemente dalle possibilità economiche di ciascuno, e la Repubblica assicura ai meno abbienti l’esercizio di questo diritto».

Come secondo comma dell’articolo resterebbe quello ultimo del progetto che ho lasciato invariato. Sicché l’articolo 28 risulterebbe di due commi invece di quattro.

L’attuale panorama scolastico italiano presenta tre categorie di scuole: primo, le scuole statali; secondo, le scuole non statali che ottengono il riconoscimento giuridico, distinte in «pareggiate» e «parificate»; terzo, le scuole non statali che detto riconoscimento non richiedono.

Nella seconda categoria di scuole non statali (quelle che richiedono il riconoscimento giuridico dei loro titoli) l’articolo 27 del progetto non fa menzione delle scuole così dette «pareggiate», e parla soltanto di «parificazione».

È augurabile che tale omissione possa essere interpretata nel senso che, d’ora in poi, debba cadere la distinzione oggi esistente tra queste due categorie di scuole e che ambedue, d’ora in poi, debbano classificarsi, a parità di diritti e di doveri, tra quelle scuole non statali che richiedono il riconoscimento giuridico dei loro titoli.

Ad ogni modo, data la situazione di fatto, non mi pare che la dizione del comma 4° dell’articolo 27 sia, a questo riguardo, sufficientemente chiara e riesca a comunicarci con precisione il pensiero del legislatore sul regolamento delle scuole non statali.

È necessario adottare una dizione inequivocabile che non faccia più uso degli aggettivi «pareggiate» e «parificate», oggi attribuiti alle scuole e ponga in altri termini quello che dovrà essere il nuovo ordinamento delle scuole non statali.

A tale scopo ho proposto di sostituire il quarto comma dell’articolo 27 con il seguente:

«Le scuole che ottengono il riconoscimento giuridico dei loro titoli, acquistano, nella libertà del loro particolare indirizzo educativo, gli stessi diritti, e si sottopongono agli stessi obblighi di quelle statali. La legge determina le condizioni di tale riconoscimento».

Della terza categoria di scuole (di quelle che non chiedono il riconoscimento giuridico dei loro titoli) si dice nel terzo comma dell’articolo 27 che sono soggette «soltanto alle norme del diritto comune e della morale pubblica».

In verità da questo tipo di scuola lo Stato richiede troppo poco. Esso viene meno ai suoi doveri, e dirò in seguito perché.

Come si vede dalla terminologia da me usata nel classificare i diversi tipi di scuole, ho abolito quella corrente di «scuole pubbliche» e «scuole private», essendo una terminologia che tradisce l’esistenza di falsi concetti sulla missione della scuola che non si possono più coltivare, se vogliamo rispondere alle imperiose esigenze di un ordinamento scolastico democratico e nazionale.

Neanche nel progetto di Costituzione viene usata la vecchia terminologia; ma è un fatto che rimane e vi agisce in pieno il vecchio concetto.

Tutte le scuole hanno di fatto un carattere «pubblico».

Tutte le scuole, e cioè ogni tipo di scuola, appartengono alla comunità italiana.

Tra la scuola «statale» e «non statale» non dobbiamo più mantenere quella separazione esistente al giorno d’oggi.

L’attuale ordinamento scolastico è anarcoide, ed il progetto di Costituzione non lo corregge, lo ribadisce.

D’ora in poi bisogna partire dall’idea che l’insegnamento che si impartisce nella scuola non statale, nei suoi vari tipi, è un servizio non meno «pubblico» di quello che s’impartisce nella scuola statale, e che perciò lo Stato, o chi per esso, ha il dovere di sorvegliarle e di far gravare su di esse, nell’ambito della libertà d’insegnamento, tutto il peso della sua autorità, rivolta al bene comune e all’instaurazione della più rigorosa giustizia verso i professori, verso gli alunni, verso le famiglie degli alunni.

Si dice comunemente che lo Stato deve assumere un costante atteggiamento «laico» o di «neutralità» rispetto al problema dell’educazione.

Posso adottare anch’io una tale terminologia. Ma uno solo è il significato, legato a questa terminologia, che stimo accettabile.

C’è, innanzi tutto, da osservare che la così detta «laicità» e «neutralità» dello Stato rispetto all’educazione, non può davvero significare «indifferenza», sic et simpliciter.

Sull’educazione del fanciullo gravitano, per così dire, tre diritti: uno del fanciullo stesso, uno della famiglia, uno della comunità politica.

Nella personalità stessa del fanciullo, che deve svolgersi nella spontaneità e non può essere sottoposta a coercizione, né interiore né esteriore, l’educazione della famiglia e della Repubblica trovano dei limiti naturali ed invalicabili.

La famiglia ha il diritto di presentare al fanciullo, nell’ambiente scolastico, il sistema di verità assolute in cui crede, e nell’esercizio di questo suo diritto non solo non può essere disturbata dai poteri pubblici, ma deve essere da questi aiutata.

La Repubblica, oltre a questa sua funzione di difesa e di garanzia dell’educazione familiare, ha, inoltre, una sua missione educativa, derivatale dal dovere di assicurare una base di vita comune alle famiglie, che sono spiritualmente diverse.

La parte di educazione che spetta in proprio alla famiglia e quella che spetta in proprio alla Repubblica sono di per sé complementari e non si dovrebbero escludere l’una dall’altra, e non entrare in collisione. Esse costituiscono due aspetti dell’educazione dell’uomo, che è necessariamente unitaria.

Fedele alla sua stessa verità e specifica missione, lo Stato ha il dovere di impartire in proprio, o comunque, di esigere sia impartito, in tutte indistintamente le scuole, quel tipo di educazione che è atto a conservare la comunità politica e questa comunità politica, e cioè un’educazione «civica» ed «italiana» allo stesso tempo.

Lo Stato ha «una» sua funzione educativa, diretta a rendere possibile la civica convivenza delle diverse correnti politiche e spirituali, e a salvaguardare le tradizioni e il carattere della civiltà italiana.

C’è una tradizione storica e culturale italiana, per cui conosciamo ed amiamo il nostro Paese, e questa tradizione dev’essere presentata ai giovani di ogni categoria di scuole, sia statali che non statali.

I poteri pubblici non solo devono sorvegliare l’igiene, la morale, la didattica, ecc., delle scuole non statali, ma anche esigere che l’educazione ideologica e confessionale, che ivi s’impartisce, non uccida l’educazione civica.

II tipo di educazione che lo Stato è tenuto ad impartire e che deve rigorosamente esigere sia impartito anche nelle scuole non statali, è quello della tolleranza civica; è il civismo di tipo democratico.

Su ciò la Repubblica non può transigere, senza compiere un gesto suicida.

Ho perciò proposto di aggiungere il seguente comma all’articolo 27: «Le scuole di qualsiasi tipo compiono un servizio pubblico e sono tenute ad impartire un insegnamento ed una educazione civica di ispirazione democratica e nazionale».

Dalla mia esposizione risulta che i poteri politici devono compiere due interventi «positivi» in campo educativo.

Uno con l’impartire, o col pretendere sia impartita, una educazione «civica e nazionale»; l’altro col garantire di fatto alle famiglie l’esercizio del loro diritto che sia presentato dalle scuole ai loro figli il sistema compiuto di verità, filosofiche o religiose, in cui credono.

A che cosa, dunque, si riduce la «laicità» e «neutralità» dei poteri politici in campo educativo?

Non certo ad un atteggiamento di inimicizia verso la libertà dello spirito e la conseguente libertà di insegnamento.

L’autentico spirito laico consiste nel rifiuto a prendere partito per una determinata corrente spirituale, a scapito delle altre; ma non può manifestarsi come disinteresse perché esse si manifestino e possano convivere politicamente.

In una comunità «politica» giudicherei pertanto iniquo ogni monopolio dell’educazione, esercitato da parte di chi si sia.

Tale essendo la posizione autenticamente «laica» (tanto diversa da quella «laicista»), essa non può manifestarsi ostilmente e aggressivamente verso le diverse correnti spirituali.

In un autentico ordinamento scolastico laico, tali correnti devono tutte trovare un ambiente accogliente. Innanzitutto nelle scuole statali stesse. Così la «laicità» delle scuole statali non può certamente spingersi in Italia sino ad allontanare da esse l’insegnamento, per esempio, della storia della Chiesa, del diritto canonico ed ecclesiastico, della storia dell’arte religiosa, né quella del dogma e del catechismo cattolico, sia pure a titolo facoltativo ed informativo.

Se non vogliamo cadere in un bigottismo laico, possiamo ignorare, non dico la «verità» ma la «realtà» religiosa italiana? E si può dire di professare rispetto ed intelligenza verso la cultura italiana stessa, se ignoreremo l’anima e la storia del cattolicesimo?

Mentre dico questo, non posso che confermare le critiche da me rivolte all’articolo 36 del Concordato lateranense, allorché parlai sull’articolo 7 della nostra Carta costituzionale.

L’articolo 36 su citato ha prodotto alcune situazioni preoccupanti.

Così, per esempio, senza pericolo di irreggimentazione, e perciò di falsare il sentimento religioso, non si può continuare a permettere che si esercitino pressioni, dirette o indirette che siano, su professori ed alunni, volte a far compiere collettivamente determinati atti di culto, come accade in alcune scuole statali oggi in Italia.

Ma l’ordinamento «laico» della scuola italiana deve dimostrarsi ben altrimenti accogliente e liberale. Deve preoccuparsi di realizzare, in misura totale, il principio della libertà d’insegnamento. La libertà d’insegnamento è una libertà di diritto naturale. La comunità politica non può non riconoscere l’incoercibile desiderio dei genitori, ad educare ed istruire i loro figliuoli secondo le loro convinzioni, e deve venire incontro a questo desiderio, secondo le circostanze dettano direttamente o indirettamente.

La libertà d’insegnamento fa parte essenziale del gruppo delle libertà democratiche e non può non essere considerata una delle leggi fondamentali della Repubblica italiana.

Il nostro progetto di Costituzione ha fatto bene, perciò, a consacrarla nel secondo comma dell’articolo 27.

Il problema della libertà d’insegnamento investe in pieno la democrazia: esso deriva dalla libertà di pensiero.

Regime di libertà di insegnamento, è regime opposto al totalitarismo.

Diversi sono i modi con i quali lo Stato può esercitare il suo intervento per garantire l’effettiva libertà dell’insegnamento.

La scelta di questi mezzi dipende dalle contingenze sociali in cui essi sono chiamati ad operare.

Tuttavia, in ogni caso, lo Stato ha il dovere di far sì che l’esercizio di questo sacrosanto diritto sia garantito a tutti ugualmente senza distinzione di razza, di nazionalità, di religione, di censo.

Le scuole, sia statali che non statali, dovranno perciò poter accogliere tutti, a seconda delle preferenze di ciascuno. Ciò vuol dire che lo Stato deve sottoporre il suo ordinamento scolastico ad un rigoroso processo di socializzazione.

In Italia, paese povero, non basta limitarsi a riconoscere a privati e ad enti pubblici la facoltà di aprire degli istituti di insegnamento.

Non solo, nelle così dette scuole «private», i metodi didattici e la scelta dei professori generalmente lasciano molto a desiderare, ma le tasse sono così alte che – in via di fatto – sono i figli delle sole famiglie abbienti che finiscono per usufruire di esse.

Il principio della libertà di insegnamento realizzato come lo è oggi in Italia, e come lo ribadisce il progetto di Costituzione, sbocca praticamente in un regime scolastico di privilegio. Come in altri campi, anche in quello della scuola è il principio formale della libertà liberale che agisce; non quello, concretamente liberale, della libertà socialista.

La scuola non statale italiana, cattolica ed acattolica, è, infatti, frequentata dai «figli di papà». Praticamente ne restano lontani i figli delle famiglie diseredate. Lo Stato non può permettere oltre certe vergognose sperequazioni.

I cristiano-sociali non sanno che farsene dell’attuale libertà suicida delle scuole, dove gli istituti privati vivono fuori del beneficio della legge comune; al di fuori di ogni reale controllo statale; con metodi didattici manchevoli; con professori che fanno la fame; con alunni tartassati finanziariamente in ogni modo; scuole che troppo spesso rimangono inaccessibili ai figli del popolo.

I cristiano-sociali guardano ad un ordinamento scolastico non più solo formalisticamente liberale, ma liberale concretamente, con lo sposare – anche su questo terreno – l’esigenza, che è propria del liberalismo, alla esigenza, che è propria del socialismo.

Con ciò non si vuol dire che tutte le attuali scuole private sono scuole per privilegiati. Esistono delle nobilissime eccezioni. Così, scuole veramente popolari sono quelle, per esempio, di alcuni istituti cattolici, quali i Carissimi e i Salesiani.

Purtroppo ora la speculazione, per l’assenza dei poteri pubblici, si estende anche alle scuole serali, che, tra l’altro, non dànno alcun serio affidamento didattico.

Lo Stato ha il dovere di eliminare tali disparità di fatto rampollate da una concezione meramente liberale e formale della libertà di insegnamento.

E lo può fare in due modi: o finanziando le scuole non statali esistenti o provvedendo esso stesso, direttamente, ad aprire scuole del tipo voluto da quelle famiglie (e con le garanzie da esse desiderate) che altrimenti si vedrebbero costrette ad inviare i loro figli a scuole che non rispondono ai loro desideri.

Ad ovviare a tutti questi inconvenienti provvede il comma aggiuntivo da me proposto all’articolo 28, che dice: «La Repubblica prenderà tutte le misure necessarie perché l’eguaglianza dei diritti di fronte all’istruzione e all’educazione sia di fatto rispettata anche nelle scuole non statali, col provvedere ad un congruo finanziamento di esse, o con l’istituire scuole statali, nel quadro della libertà di insegnamento, del tipo richiesto dalle famiglie».

Quando lo Stato s’appiglia a quest’ultimo mezzo, aprendo, per esempio, una scuola israelita o una scuola cattolica, con ciò non intende insegnare la «verità» degli ebrei, o la «verità» dei cattolici come la «propria» verità; intende soltanto assolvere al dovere – che è proprio suo – di rendere effettivo l’esercizio della libertà di insegnamento.

Se lo Stato, invece di abbracciare questa neutralità – come chiamarla? – accogliente ed aperta, si chiudesse in una neutralità astiosa e negativa, quasi di semplice tolleranza e sopportazione per resistenza di altre scuole, interpreterebbe in direzione dogmatica, e perciò stesso non autentica, la sua missione laica.

E verrebbe ugualmente meno alla sua missione, offenderebbe ugualmente la giustizia, e il diritto delle famiglie e degli alunni; e opererebbe a discapito della stessa serietà degli studi nelle scuole non statali se, accanto a tale affermazione del principio pluralista nel campo dell’insegnamento, parimente non riuscisse ad affermare, con la necessaria energia, il principio unitario, in modo che le scuole italiane escano finalmente dal caos in cui ora si trovano.

Gli emendamenti da me proposti mirano ad armonizzare il pluralismo giuridico, in cui si esprime il diritto delle famiglie, e l’unità, in cui si esprime il diritto della comunità politica.

Non si fraintenda il mio pensiero. Anche io con l’onorevole Binni e con altri sono del parere che l’autorità dello Stato si deve fare più attiva di quello che non è attualmente. Infatti i miei emendamenti mirano a consacrare il carattere «pubblico» di ogni tipo di scuola, a non contemplare più quel tipo di scuola che è oggi la parificata, tipo ibrido che dà scarso affidamento di serietà e sulla quale invece particolarmente insiste il progetto di Costituzione; mirano a riconoscere a queste scuole non statali parità di doveri e di diritti nell’ambito, s’intende, della libertà di insegnamento; mirano a rendere obbligatorio, nelle scuole non statali, l’insegnamento e l’educazione di carattere civico e nazionale.

La sovvenzione alle scuole non statali deve portare al loro pareggiamento e alla parità degli obblighi; la creazione, poi, da parte dello Stato, di scuole a tipo confessionale, mira allo stesso scopo pur nella più leale libertà di insegnamento. Tutti i miei emendamenti, che sono quasi tutti interdipendenti l’uno dall’altro, mirano a creare un ordinamento scolastico organico in cui la libertà di insegnamento, resa finalmente effettiva, non possa più rivolgersi contro la comunità nazionale e si svolga nell’ambito dell’unità civica degli italiani.

Mi creda l’amico onorevole Binni, non è questa l’affermazione di una tesi liberale compiuta con spirito antiliberale come egli direbbe, non è questa per i cristiano-sociali una linea tattica di ripiego; è solo l’ossequio che sento di dover fare al principio in se stesso della libertà e della dignità della persona che mi fa abbracciare questa tesi pluralista e unitaria nell’ordinamento scolastico.

Non è per la libertà dei soli cattolici che parlo, ma per la libertà di tutti; è per la libertà dei cattolici come per la libertà degli acattolici, e cioè, parlo per la libertà di ciascuno, nel quadro della libertà di tutti, vale a dire nel quadro dell’unità civica e nazionale degli italiani.

PRESIDENTE. È iscritto a parlare l’onorevole Ruggiero. Ne ha facoltà.

RUGGIERO; Onorevoli colleghi, mi intratterrò su questa parte del progetto riguardante i rapporti etico-sociali sugli articoli 23 e 24, considerando questi articoli brevemente solo dal punto di vista strettamente giuridico.

Vi dirò subito, onorevoli colleghi, che questi due articoli, proposti e imposti dai rappresentanti della Democrazia cristiana in seno alla Sottocommissione…

MORO. Sono stati regolarmente votati.

RUGGIERO. … appaiono come lo sforzo di un partito il quale voglia introdurre nella Carta costituzionale i precetti della morale cattolica. Dirò allora, entrando subito in argomento, che per me, per la mia modestissima opinione, questi due articoli sono assolutamente inaccettabili. Sono inaccettabili per vari motivi: primo motivo, essenzialissimo, forse insuperabile è questo: che, secondo me, esiste una incompatibilità insanabile, irriducibile, inconciliabile tra quella che è la natura della Carta costituzionale e i principî affermati in questi articoli. Noi, vedete, onorevoli colleghi, per fare la Carta costituzionale – io non voglio aver l’aria di dare dei suggerimenti – dovremmo tener presente una regola, veramente imprescindibile, che è questa: nella Carta costituzionale vanno inseriti i principî, i quali, anche se non riescono a conseguire un’adesione unanime, tuttavia sono profondamente e largamente sentiti dalla collettività; vanno inseriti quei principî i quali abbiano avuto una consacrazione, direi, storica ed etica: quei principî che possano esser considerati come il portato della coscienza comune. Questi sono i principî che vanno nella Carta costituzionale.

E allora, se così è – e ritengo che non possa non essere così – gli articoli 23 e 24 non dovrebbero essere inseriti nella Carta costituzionale, perché, secondo me, sono l’espressione concreta di ideologie particolari e di postulati, che si risolvono – permettetemi di dirlo – in termini di morale cattolica. Quindi, incompatibilità tra le norme particolari, affermate da questi principî e la natura essenziale della Carta costituzionale. Badate, noi non vi diciamo che siamo contro il divorzio, perché non entriamo nel merito della questione. Noi vi diciamo: Poiché queste norme, contenute negli articoli 23 e 24, hanno un carattere di innegabile peculiarità, poiché contrastano con la natura essenziale della Carta, non possono entrare nella Carta costituzionale. Questo noi vi diciamo; infatti la Carta costituzionale comporta sempre dei grandi comandamenti, degli imperativi categorici, che impegnano la legislazione di un popolo per generazioni e generazioni. Quindi vanno nella Carta costituzionale solo quei principî che possono conseguire questo elemento, che cioè la collettività si sia messa d’accordo su quel principio, un principio, insomma, che abbia una garanzia di durabilità. Ora, se così è, noi, quando avremo affermato che il matrimonio è indissolubile, che cosa avremo fatto? Avremo escluso per sempre – se la Carta costituzionale deve essere guardata come un fatto che si proietta nel tempo – il principio del divorzio. Ora, noi questo oggi non lo possiamo fare. Perché? Perché noi non possiamo impegnarci per le generazioni venture. In effetti, nel nostro assetto sociale, fino a questo momento, non è mai apparsa questa esigenza forte e urgente del divorzio, tanto è vero che, pur non essendo consacrato il principio dell’indissolubilità del matrimonio nello Statuto albertino, tuttavia da noi non è stato mai fatto nessun tentativo concreto per portare in discussione il problema del divorzio, salvo una piccola discussione, senza conseguenze, che una volta si fece alla Camera in una assai lontana legislatura. Però, noi dobbiamo anche guardare a quelli che vengono dopo di noi.

Una voce al centro. Si modifica la Costituzione!

RUGGIERO. E allora non faremmo un documento che si proietta nel tempo, che dura per un lungo periodo di anni. Se ci impegniamo per quelli che verranno dopo, avremo fatto una Carta costituzionale che naturalmente non risponde ai requisiti che deve avere una Carta costituzionale. In questo modo noi, in maniera molto arbitraria, e tenendo presenti solo gli elementi etici di oggi, escluderemmo per sempre, o per un lungo periodo di anni, quello che è il principio del divorzio.

MORO. Si farà una revisione costituzionale.

RUGGIERO. Non possiamo, se vogliamo rimaner fedeli al principio che deve informare la Carta costituzionale, non possiamo inserire il principio dell’indissolubilità del matrimonio, perché esso non ha in sé quel carattere di immanenza, non ha in sé quella consacrazione etica, non ha quella portata universale che debbono invece avere tutti i principî che vanno consacrati nella Costituzione.

Vogliamo considerare un po’ il divorzio al di fuori di quella che è una valutazione forse troppo settaria, troppo faziosa, troppo personale? Guardiamo il divorzio, per quello che è, nella sua portata etica. Allora noi vedremo che la totalità o, per lo meno, la quasi totalità dei popoli ammette il divorzio. E allora deve nascere in noi questa constatazione: se tutti i popoli ammettono il divorzio, come facciamo noi a considerare il principio dell’indissolubilità del matrimonio come un principio di tale portata da poterlo consacrare nella Carta costituzionale?

Noi non possiamo infatti non tener presente la valutazione che altri popoli fanno di questo istituto, e ciò appunto perché noi vogliamo riguardare questo istituto dal punto di vista della sua eticità.

Io non penso infatti che noi dobbiamo riguardare il popolo italiano come un popolo che abbia diverso substrato etico, e che per esso valgano dei principî diversi da quelli che possono valere per altri popoli civili.

Quindi noi non possiamo ritenere cardinale ed essenziale il principio dell’indissolubilità del matrimonio, per questo motivo di incompatibilità insanabile e irriducibile tra il principio particolare che esprime un postulato ideologico e quello che è il carattere essenziale della Carta costituzionale.

E allora, per rimanere fedeli alla natura della Carta costituzionale, dovremmo arrivare a questa conseguenza logica, che cioè non possiamo consacrare questo principio dell’indissolubilità del matrimonio nella Carta costituzionale. Una questione quindi di incompatibilità, come vedete. Non entro nel merito.

Adesso vi pongo dinanzi ad un’altra valutazione, che è una valutazione, diciamo, di carattere giuridico comparativo. Noi prendiamo tutte le Costituzioni moderne e vediamo se in queste costituzioni si sia fatto cenno del principio dell’indissolubilità del matrimonio. Ebbene, noi vediamo che in nessuna Carta costituzionale si è fatta menzione di questo principio.

E allora vedete che quelle che possono essere le mie opinioni di carattere personale, e quindi di carattere arbitrario, io le riempio di un contenuto di grande valore probatorio, cioè della sostanza politica delle altre Costituzioni.

Non so, quindi, per quale motivo noi dovremmo fare una Costituzione che si discosti da tutte le altre Costituzioni. Allora voi vedete che deve nascere spontaneamente quel senso di diffidenza per cui si dice: qui si vuole includere nella Carta costituzionale qualche cosa che deve rimanere lontano dalla Carta, perché non è compatibile ed è estraneo alla Carta.

È vero che c’è una Costituzione che parla di questo principio, ma non metterebbe conto di richiamarla. C’è una Costituzione che considera il principio della indissolubilità ed è la Carta costituzionale dell’Islanda.

Mi pare che l’Islanda sia una grossa esportatrice di stoccafisso. Non vorrei che diventasse solo per l’Italia anche esportatrice di prodotti costituzionali.

Quindi io mi riferirò alle altre Costituzioni, perché noi, quando facciamo la Costituzione, non possiamo rinunciare alla scienza giuridica di altri popoli, alla esperienza storica degli altri popoli, alla saggezza umana degli altri popoli. Quindi, dobbiamo vedere se esistono per la nostra attività legislativa dei precedenti ai quali possiamo adeguarci. Altrimenti faremo un’opera arbitraria, la quale non trova, e non può trovare, consacrazione nella storia delle Costituzioni degli alti popoli.

Quindi noi fino a questo momento possiamo porre un principio fondamentale, che cioè, senza entrare in merito al contenuto dell’istituto del divorzio o della indissolubilità del matrimonio, noi possiamo affermare che non si può fare l’inserimento di questi articoli nella Carta costituzionale. Perché? Perché l’articolo 23 e l’articolo 24 contengono dei principî e degli interessi particolari, che appunto per essere particolari non sono compatibili con lo spirito della Carta costituzionale.

Ma, Onorevoli colleghi, vi è da parte dei democratici cristiani uno speciale atteggiamento per cui queste buone ragioni molte volte non trovano nessun accoglimento da parte loro.

Badate che io ho questa impressione: che gli onorevoli colleghi della Democrazia cristiana non guardino la Carta costituzionale per quella che è o che dovrebbe essere nei suoi elementi costitutivi, nei suoi attributi essenziali, ma la guardino un poco come una occasione di cui approfittare per inserire nella Carta stessa quelli che sono i postulati della loro ideologia. Colgono un poco la palla al balzo. (Commenti). Perché io non posso comprendere come giuristi di esimio valore, quali quelli democristiani, non si siano fermati a considerare che, ad un certo punto, c’è una specie di limite che non può essere superato nella Carta costituzionale; e quindi non si può inserire in questa qualche cosa che non ha niente a che vedere con la stessa Carta costituzionale. Ed allora il partito della Democrazia cristiana ricorre a quello che è il principio della maggioranza. Da parte dei rappresentanti democristiani si pone un articolo, una enunciazione di legge, una proclamazione di principio e lo si fa passare nella Sottocommissione e noi ci troviamo di fronte al progetto della Costituzione.

E poi ci vien detto: anche se questo principio, se questa enunciazione di diritto sia incompatibile con la Carta costituzionale, noi ci avvaliamo della maggioranza e introduciamo egualmente, il principio o la enunciazione, se ci fa comodo.

È successa la stessa cosa quando si trattava dell’articolo 7. L’articolo 7 che cosa esprime? L’introduzione di un trattato internazionale nella Costituzione. Ma ciò può avvenire? Ricordo quello che con frase felicemente sintetica disse opportunamente l’onorevole Calamandrei: Se noi avessimo fatto un Trattato internazionale con la Francia, lo avremmo inserito della Carta costituzionale? No! Invece quando si è trattato del trattato internazionale che va sotto il nome di Patti lateranensi esso è riuscito a passare nella Carta costituzionale, anche se rappresenta qualcosa che non ha niente a che vedere con essa.

Vedete dunque come funziona questo principio della maggioranza, che i democristiani raccolgono per forza propria ed anche perché riescono ad attirare altre forze intorno al loro Gruppo.

Ma la maggioranza non può essere considerata al disopra di certi principî fondamentali, perché quando, per esempio, la maggioranza pone un articolo e questo articolo, considerato nella sua natura, è compatibile con la Carta costituzionale, non è estraneo alla Carta costituzionale, non è indipendente da essa, allora la maggioranza può riempire questo articolo del contenuto che vuole. Ciò è accaduto per esempio con l’articolo riguardante la stampa. Ad un certo punto questo articolo viene riempito con delle norme volute dalla maggioranza e per le quali gli agenti di pubblica sicurezza possono fare il sequestro. La maggioranza poteva in questo caso far valere la sua forza, perché si trattava di riempire un articolo di un contenuto invece che di un altro.

Ma quando un principio non è compatibile con la Carta costituzionale, ed è un principio estraneo ed indipendente, che non ha nulla a che fare con la Carta costituzionale, allora mi pare che la maggioranza, ove voglia introdurre quel principio e quella proclamazione, faccia qualcosa che si mette al disopra della Carta costituzionale; per cui, se non vado errato, la Carta costituzionale potrebbe essere considerata così profondamente inficiata da doversi definire incostituzionale.

Ora la Carta costituzionale ha una struttura, una natura, una fisionomia che non possono essere mai alterate da quella che è la forza della maggioranza. La Carta costituzionale ha dei lineamenti che non possono essere deformati dalla forza della maggioranza, altrimenti la maggioranza si metterebbe al disopra del diritto astratto, categorico.

Io penso, per questi motivi di incompatibilità, che gli articoli 23 e 24 non dovrebbero trovare inserimento nella Costituzione; a meno che – mi si passi l’espressione e mi si scusi il tono polemico – si faccia una Costituzione, la quale appaia, a chi la guardi spassionatamente, attraverso una interpretazione solamente giuridica, come concepita in sacrestia o generata nell’ultima pretura dell’ultimo villaggio della Repubblica d’Italia.

Noi abbiamo il dovere di guardare la Carta costituzionale, rispettando i divieti ed i limiti che essa pone, attraverso la sua struttura e la sua fisionomia.

Altra osservazione; e chiedo scusa ai democristiani se potrà sembrare irriverente quello che dirò.

Io vorrei domandare ai miei amici democristiani se essi siano sempre convinti di assolvere, quando fanno la Costituzione, il mandato ad essi affidato.

MORO. Non c’è dubbio su questo.

Una voce al centro. Perché lo domanda a noi?

RUGGIERO. Perché si tratta d’una cosa che riguarda voi. (Commenti).

Dunque, quando una parte del popolo italiano ha conferito al partito democristiano il mandato di fare la Costituzione, ha conferito il mandato di contribuire a fare una Costituzione che esprimesse principî generali e non interessi particolari, che ottemperasse alle grandi istanze della coscienza politica e non d’una ideologia particolare. Può avere dato il mandato di fare una Costituzione che rispondesse al comandamento d’una civiltà anche cristiana, ma non cattolica. (Interruzioni).

Se mi si consente di parlare, continuo.

PRESIDENTE. È lei che suscita queste reazioni; ha detto che avrebbe parlato in tono polemico; quindi non si meravigli.

Piuttosto, tratti il tema costituzionale e non faccia l’interpretazione delle elezioni, fatto più che superato.

RUGGIERO. Mi pare di rimanere nel giusto, quando affermo che, siccome siamo qui per obbedire ad un impegno preciso, quello cioè di fare la Costituzione, penso che dobbiamo fare una Costituzione la quale resti nell’ambito, nei lineamenti, nei caratteri e negli attributi della stessa Costituzione.

Non si può con la forza rompere i limiti e i divieti posti dalla Costituzione.

Io devo domandare se assolviamo veramente a questo compito.

E volevo dire: possono avere gli amici democristiani il mandato di fare una Costituzione, che risponda ai comandamenti di una civiltà cristiana, non cattolica? (Interruzioni).

GUERRIERI FILIPPO. Non ci insegni il nostro dovere; sappiamo benissimo quale è.

PRESIDENTE. Onorevole Ruggiero, lei ha accennato ad un concetto interessantissimo, ma la prego di non insistervi oltre.

RUGGIERO. Tanto per cambiare argomento, quando si leggono gli articoli della Costituzione si riporta la stessa impressione che si ha andando in giro per la città di Roma: tutti gli obelischi e i monumenti che erano dedicati ad un Cesare, ad un Dio pagano, ad un trionfo, sono stati contrassegnati da una croce.

Così, signor Presidente, è avvenuto un po’ per gli articoli della Costituzione. Noi stiamo suggellando nella Costituzione il principio cattolico e non mi pare sia proprio questo che abbia voluto il popolo italiano. Ed ho anche l’impressione che i democristiani, i quali avrebbero dovuto fare con noi la Costituzione del popolo italiano, stiano facendo invece il vade mecum dei chierici. (Commenti).

Quindi questo primo motivo va concluso ed esaurito e si risolve in questi termini: non è possibile che si faccia luogo all’inserimento degli articoli 23 e 24 per il motivo che esiste una incompatibilità, una divergenza insanabile tra i concetti espressi da questi articoli e la natura essenziale di quella che deve essere la Costituzione.

Inoltre, questi due articoli, considerati dal punto di vista giuridico, sono così viziati, così deformi e sbagliati, che non possono trovar luogo nella Costituzione, se vogliamo tener presente la nostra dignità di legislatori o di Soloni, come ci chiamano i giornali umoristici.

Cominciamo a considerare la definizione della famiglia come società naturale. Io non rifarò l’esame che hanno fatto gli altri su tale oggetto, ma pongo una questione pregiudiziale: per quale motivo quando si è trattato di configurare l’istituto della famiglia, si è sentita la necessità di dare la definizione della famiglia? Badate, se questo si fosse fatto per altri principî ed altri istituti, io direi: è diventata una prassi nel progetto di Costituzione e quindi è necessario che vi sia una definizione della famiglia.

MORO. Non è una definizione, è una determinazione di limiti.

RUGGIERO. Qui ci troviamo però di fronte ad una definizione. E perché è stata fatta una definizione, quando in nessun caso questa definizione è stata data per altri istituti e per altri principî? Senonché a questo punto non si può non pensare che forse è una definizione che nasconde qualche fine che non appare troppo chiaro. Nella Costituzione nostra non è stata data neppure la definizione del principio della libertà, a differenza di quello che è stato fatto nella Carta costituzionale francese. Forse non abbiamo dato la definizione di libertà; perché la libertà in Italia può essere considerata anche un fatto opinabile.

Ma, comunque, di nessun istituto o principio è stata data la definizione.

Perché è stata data la definizione dell’istituto della famiglia?

La ragione è questa: si vuole stabilire che la famiglia è una società naturale per poter stabilire un concetto di immanenza attraverso il tempo e la storia e, quindi, arrivare alla conseguenza della inscindibilità della famiglia.

C’è, poi, il contrasto, forte, nella stessa definizione. Fino a questo punto, posso dire che c’è prima di tutto una definizione di cui non mi potrei rendere ragione, e poi una definizione, la quale appare contrastante, quando voi considerate l’articolo tutto insieme:

«La famiglia è una società naturale: la Repubblica ne riconosce i diritti, ecc.»

Ora, io mi domando: come non vedete voi il contrasto forte, inconciliabile, irriducibile che nasce fra queste due entità distinte e diverse, cioè tra una entità naturale che sarebbe la famiglia e la famiglia oggetto di diritto?

Io mi domando: come è possibile che si dica che la famiglia è una società naturale e che la Repubblica ne riconosce i diritti, ecc.; come si fa a qualificare la famiglia «naturale» e poi considerarla oggetto di diritto? Proprio nel momento in cui interviene la Repubblica per darle un riconoscimento di carattere giuridico, allora quella entità perde il suo stato di naturalità, se così si può dire. Quindi emerge un contrasto veramente forte che non si può in nessun modo comporre e che comporta necessariamente l’esclusione di questo articolo per questo secondo motivo: perché la norma mi pare giuridicamente deforme.

Ci troviamo di fronte a due concetti: società naturale ed entità di diritto. Ci troviamo di fronte ad una entità primigenia, originaria, elementare, anteriore ad ogni principio statale, anteriore ad ogni ordinamento giuridico e poi, successivamente, ci troviamo di fronte ad una entità di diritto che si inserisce nella vita giuridica intesa nel suo complesso di norme e di umani rapporti.

Insomma, mi pare che qui ci sia un così grosso errore di carattere giuridico; che, quando si deve passare dalla prima alla seconda parte dell’articolo (e badate che si tratta di poche parole) bisogna lanciare come un arco acrobatico nello spazio, arco che tende a collegare le caverne trogloditiche e il palazzo di giustizia, che tende a collegare le adunanze, dove i barbari esprimevano la loro opinione agitando in un modo o nell’altro le loro lance, e questa Assemblea Costituente.

Non riesco ad intendere come si possa, onorevoli colleghi, conciliare questi due elementi opposti, cioè una famiglia considerata come preistorica e storica, remota e presente, antica e moderna, naturale e giuridica: è un contrasto che non può passare nella Carta costituzionale. (Interruzione dell’onorevole Moro). Vedo che l’ottimo amico onorevole Moro avrebbe il desiderio di chiarire: lo farà dopo. Ma io intendo quello che l’amico Moro vuol dire, cioè quello che ha già detto in sede di Sottocommissione. Egli ebbe a dire che si tratta di due concetti diversi, separati e distinti.

Ma domando al mio ottimo amico Moro, di cui conosco le insigni qualità di giurista: come è possibile che in un solo articolo, cioè nel giro di una breve frase, nell’ambito di quattro parole, come è possibile – amico Moro – porre due concetti così distanti, così lontani, tanto che io ho parlato di arco che deve passare attraverso il tempo e lo spazio?

Badate, un articolo non può essere considerato come qualche cosa che sia passibile di frattura, non può essere composto di due elementi antitetici; un articolo è qualcosa di omogeneo, di coerente, che contiene elementi che convergono tutti verso un determinato punto.

Per questi due motivi, secondo me, questi due articoli non possono trovar luogo nella Costituzione: prima, perché c’è una incompatibilità profonda tra le norme contenute negli articoli 23 e 24, e poi perché quegli articoli contengono in sé dei vizi così gravi che inficiano la necessaria omogeneità che una norma della Costituzione deve contenere in sé.

DOMINEDÒ. Si dimentica così il carattere dichiarativo e non costitutivo del riconoscimento.

RUGGIERO. Ma vi è un terzo motivo. Ad un certo punto, noi ci troviamo di fronte quella norma la quale dice: «Il matrimonio è basato sull’eguaglianza morale e giuridica dei coniugi. La legge ne regola la condizione a fine di garantire l’indissolubilità del matrimonio e l’unità della famiglia». Come vedete, noi ci troviamo di fronte a due concetti, che la legge deve prendere in considerazione: l’indissolubilità del matrimonio e l’unità della famiglia. Mi pare che ad un certo punto la nostra attenzione sia stata così profondamente presa dalla prima proposizione, cioè dal primo concetto, che la seconda proposizione, cioè il secondo concetto, che riguarda l’unità della famiglia, sia stato un po’ trascurato. Ora, io mi domando: nella Carta costituzionale questa espressione «unità della famiglia» che portata deve avere, che valore deve avere, quale forza, vincolativa e normativa deve avere? Io dicevo a certi cari amici, questa mattina, conversando di questo articolo: badate, che se noi stiamo al dettato della norma, arriviamo a questa considerazione; che cioè non sono più ammesse le separazioni personali tra coniugi. Ma è mostruoso, ma è illogico, è ridicolo, è pazzesco! hanno detto i miei amici. Ed io con loro ho detto che è ridicola e pazzesca una cosa di questo genere. Però bisogna considerare il contenuto letterale della norma. Come vedete, noi ci troviamo di fronte a due quesiti: uno che stabilisce l’indissolubilità del matrimonio ed uno che stabilisce l’unità della famiglia. Ora io mi domando: se tutti siamo d’accordo nel ritenere che si vuole escludere il divorzio quando parliamo del principio della indissolubilità del matrimonio, perché non dovremmo essere tutti d’accordo nel ritenere che qui si vuole escludere l’istituto della separazione personale quando si parla dell’unità del matrimonio? Badate che questa mia preoccupazione, che può sembrare campata in aria a chi non ha avuto il tempo e la possibilità di seguire i lavori della Commissione, era apparsa, e in maniera evidente, nei lavori della Sottocommissione. Tanto è vero che l’onorevole Mastrojanni osservava ad un certo punto: «L’unità della famiglia, d’altra parte, la legge non potrebbe ottenerla se non attraverso una coazione fisica, vale a dire costringendo i coniugi alla convivenza e alla coabitazione anche quando esista una manifesta incompatibilità di carattere». Quindi, come vedete, questa preoccupazione emerse anche durante i lavori della Commissione e non è stata dissipata. L’onorevole Moro rispondeva all’onorevole Mastrojanni che era d’avviso contrario al suo facendogli rilevare che l’ipotesi della separazione dei coniugi, che la legge consente, è un caso limitato che non incide sulla disciplina normale che la legge si deve proporre allo scopo di garantire l’unità della famiglia.

L’onorevole Mastrojanni ebbe a dichiarare che le spiegazioni dell’onorevole Moro non lo avevano persuaso, né avevano distrutto le sue argomentazioni, ribadendo che la legge potrà regolare i rapporti familiari, ma non potrà garantire l’unità della famiglia, se non giungendo all’assurdo di una coercizione sui coniugi che non è ammissibile.

Rispondeva l’onorevole Moro che non credeva che per i casi di separazione, che rappresentano una percentuale all’incirca dell’uno per cento, si debba sottrarre alla legge il potere di regolare la vita familiare allo scopo di garantire l’unità di indirizzo.

Mi pare, onorevole Moro, se io non ho le traveggole e se qui non è scritta cosa diversa da quello che era il suo pensiero, che ci sia fortemente da impensierirsi per questa preoccupazione, cioè che non sia proprio il caso di ritenere che qui si voglia proprio escludere la possibilità di una separazione personale.

Tanto è vero che ad un certo punto, poiché l’onorevole Mastrojanni riproponeva la stessa questione e domandava se il principio dell’indissolubilità del matrimonio comprendeva l’istituto della separazione legale per i casi di incompatibilità e per altre ragioni, l’onorevole Dossetti rispondeva che l’indissolubilità del matrimonio e l’unità della famiglia non vietano che si possa giungere, in determinati casi, alla separazione legale dei coniugi.

A me basterebbe questa dichiarazione: «in determinati casi»; mi pare però che sarebbe stato opportuno, logico ed ovvio che si fosse detto «nei casi previsti dalla legge». Invece questi casi che dovranno essere determinati potranno essere una limitazione rispetto al complesso delle norme vigenti. Comunque, io posso anche rinunciare ad ammettere che si voglia escludere la separazione personale, posso rinunciare a questa mia interpretazione, che forse è troppo recisa e personale, e vi domanderò se voi, nella vostra coscienza di giuristi, non vedete che possa sorgere il dubbio che si voglia escludere l’istituto della separazione personale. Noi nella Carta costituzionale, che impegna tutta la vita futura della nazione, dobbiamo sentire il dovere di essere molto chiari, perché si tratta di formulare dichiarazioni che hanno un valore permanente. Dalla lettura di questo articolo risulta che vi è una deficienza grave, la quale potrebbe incrinare quello che è il principio fondamentale del nostro diritto generale, cioè l’istituto della separazione; e vi esorto perciò a dare alla dizione dell’articolo una chiarezza maggiore di quella che non abbia.

Queste sono le obiezioni che intendevo far presenti e i motivi per cui intendo che questi articoli non possono essere inseriti nella Costituzione: l’incompatibilità è il primo motivo, la difformità giuridica è il secondo motivo e poi – terzo motivo – la proposizione relativa all’unità della famiglia che porterebbe uno sconvolgimento profondo dell’istituto familiare. Proposizione che, se realmente portasse all’esclusione dell’istituto della separazione personale, vedrebbe serrati in uno stesso destino insuperabile e infrangibile e vedrebbe inchiodate ad una stessa croce due persone, cioè i coniugi.

Questo non mi pare possa essere consentito, perché, badate, noi verremmo a distruggere l’ordinamento giuridico italiano che ha già avuto la sua consacrazione attraverso la tradizione e l’esperienza del diritto nostro.

Per questi tre motivi mi auguro che i due articoli di cui ho parlato non trovino accoglimento nella Carta costituzionale.

Io dovrei esortare i partiti a seguirmi su questo terreno. Non lo potrei fare, signor Presidente, perché io sono qui il più modesto, l’ultimo venuto e la mia voce è la più piccola di tutte: non credo quindi di poter avere la facoltà di esortare i partiti. Però, quando si pensa alla inclusione del principio dell’indissolubilità del matrimonio… non posso non pensare ai liberali, perché i liberali non possono permettere in alcun modo che venga recisa per sempre un’ideologia che potrebbe maturare nella coscienza popolare. L’onorevole Corbino, la sera in cui si ebbe a votare l’articolo 7, disse che i liberali erano conservatori. Io non devo fare appunti all’onorevole Corbino, che è uomo di così chiara scienza, ma non posso non pensare che quando un liberale dice che il liberalismo è conservatore, nega l’essenza stessa del liberalismo. Il liberalismo è una specie di coscienza critica della storia, è un principio eternamente rinnovatore, è una specie di impulso che rifà tutto quello che precedentemente esisteva per foggiarlo e riplasmarlo in altra forma; è una specie di demonio distruggitore di se stesso. Se dunque i liberali sono aderenti a questo principio così come lo conosco io, attraverso i miei modesti studi, non dovrebbero mai arrivare a questa soluzione: di impedire che una ideologia non possa in nessun modo maturarsi; il che significherebbe cristallizzare un principio in una posizione di inamovibilità, il che no a può essere consentito a nessuno, e tanto meno ai liberali.

Io penso che noi siamo un po’ preoccupati, quando facciamo questa Carta costituzionale, di non urtare troppo fortemente la coscienza popolare. Ci siamo messi in testa – o forse è una mia idea personale – che il popolo italiano sia qualche cosa che resti alieno da ogni forma di rinnovamento, che sia estraneo ad ogni evoluzione, che sia un popolo inchiodato in una certa posizione di staticità spirituale e di inamovibilità storica; e quindi ci mettiamo a fare una Carta costituzionale che forse non risponde a quelle che sono le vere esigenze del popolo italiano.

Vi dirò una cosa sola: io so quello che voi stessi mi insegnate, che cioè la guerra porta sempre con sé una specie di spirito di rinnovamento intimo nelle coscienze popolari, una specie di ansia, di anelito verso nuovi orizzonti. E di questo noi non teniamo conto. A me sembra che il popolo italiano abbia una grande aspirazione verso una strada nuova. Noi non teniamo conto di questo e facciamo una Costituzione che può essere definita una Costituzione assolutamente conservatrice. Io penso che il popolo italiano – e credo lo pensino tutti – è adesso una specie di forza che dorme; però ho anche la convinzione che esso sta tentando in tutti i modi di esplodere; e non solo, vedete, perché non ha di che vivere, ma perché vuole trovare questa grande strada nuova dove incontrarsi con la sua verità spirituale. Ho l’impressione che noi ci mettiamo a fare una politica, industre, sottile e sagace di arabeschi, di ricamucci e di geroglifici, mentre dovremmo dire al popolo italiano, attraverso la politica, e attraverso la Costituzione, una parola di chiarezza e di verità. Noi stiamo forse ricamando su un vulcano. Il popolo nostro ha bisogno di vedere e di sapere, per esempio, se l’economia che si segue è un’economia conservatrice e ideologica nello stesso tempo, se lo Stato può essere confessionale e laico, se la Repubblica può essere a volte repubblicana ed a volte monarchica.

PRESIDENTE. Onorevole Ruggiero, lei entra in tema di discussione generale del preambolo.

RUGGIERO. Ora, concludendo quanto nasceva spontaneamente sulla mia bocca e chiedendo scusa all’onorevole Presidente se sono andato fuori dei limiti, dirò che io penso che, come costituenti, come cittadini, come uomini, noi abbiamo il dovere di dire al nostro popolo questa parola di chiarezza e di verità. (Applausi).

PRESIDENTE. Il seguito della discussione è rinviato a domattina alle 10. Avverto che domani vi sarà seduta anche nel pomeriggio alle 16.

La seduta termina alle 19.50.

Ordine del giorno per le sedute di domani.

Alle ore 10:

  1. – Interrogazioni.
  2. Discussione del disegno di legge:

Ordinamento dell’industria cinematografica nazionale (12).

  1. – Seguito della discussione del progetto di Costituzione della Repubblica italiana.

Alle ore 16:

Seguito della discussione del progetto di Costituzione della Repubblica italiana.

ANTIMERIDIANA DI VENERDÌ 18 APRILE 1947

ASSEMBLEA COSTITUENTE

XCIV.

SEDUTA ANTIMERIDIANA DI VENERDÌ 18 APRILE 1947

PRESIDENZA DEL VICEPRESIDENTE TUPINI

INDICE

 

Interrogazioni (Svolgimento):

Presidente                                                                                                        

Togni, Sottosegretario di Stato per il lavoro e la previdenza sociale                      

Bibolotti                                                                                                          

Cappa, Sottosegretario di Stato alla Presidenza del Consiglio                               

De Palma                                                                                                          

Moro                                                                                                                

Recca                                                                                                                

Musolino                                                                                                          

Mancini                                                                                                            

Braschi, Sottosegretario di Stato per i danni di guerra                                        

Fogagnolo                                                                                                       

Maltagliati                                                                                                     

Galati, Sottosegretario di Stato per le poste e le telecomunicazioni                      

Cianca                                                                                                              

Bernini, Sottosegretario di Stato per la pubblica istruzione                                  

Di Gloria                                                                                                          

Tonello                                                                                                            

Miccolis                                                                                                           

Di Vittorio                                                                                                       

Bertola                                                                                                            

Lozza                                                                                                                

Progetto di Costituzione della Repubblica italiana (Seguito della discussione):

Colonnetti                                                                                                       

Zotta                                                                                                                

Presidente                                                                                                        

Interrogazioni con richiesta d’urgenza:

Presidente                                                                                                        

Interrogazioni (Annunzio):

Presidente                                                                                                        

La seduta comincia alle 11.

MATTEI TERESA, Segretaria, legge il processo verbale della precedente seduta antimeridiana.

(È approvato).

Interrogazioni.

PRESIDENTE. L’ordine del giorno reca: Interrogazioni.

La prima interrogazione è quella dell’onorevole Bibolotti ai Ministri del lavoro e previdenza sociale e dell’industria e commercio, «per conoscere le ragioni del ritardo della pubblicazione del decreto che statuiva l’assunzione obbligatoria di una determinata percentuale di invalidi e mutilati del lavoro da parte di ditte, enti, ecc., così come viene fatto per i mutilati e gli invalidi di guerra e se non si ritenga di provvedere d’urgenza ad evitare ulteriori sofferenze a quei lavoratori che, dopo aver contribuito alla creazione della ricchezza nazionale, si vedono preclusa la via a dare ancora il loro contributo di capacità lavorativa alla rinascita del Paese».

L’onorevole Sottosegretario di Stato per il lavoro e la previdenza sociale ha facoltà di rispondere.

TOGNI, Sottosegretario di Stato per il lavoro e la previdenza sociale. Il Ministero del lavoro aveva predisposto, fin dal dicembre scorso, uno schema di provvedimento legislativo che disponeva l’assunzione obbligatoria presso le imprese private (nella percentuale del 2 per cento dei dipendenti delle singole aziende) dei mutilati e degli invalidi del lavoro, con un sistema analogo a quello vigente per i mutilati di guerra.

Il concetto ispiratore del provvedimento è quello di considerare l’infortunio sul lavoro non come una comune disgrazia, bensì come una calamità nazionale che richiede una prova concreta di solidarietà umana e di civismo.

Dell’assunzione obbligatoria potranno beneficiare i lavoratori che non abbiano superato i 60 anni, se uomini, ed i 55, se donne, i quali abbiano una riduzione permanente della capacità lavorativa superiore al 40 per cento, in base alle vigenti leggi sugli infortuni sul lavoro.

In sede di concerto con i Ministeri di grazia e giustizia e dell’industria e commercio, sono state prospettate da quest’ultimo Dicastero alcune perplessità in merito all’onere che l’assunzione dei mutilati costituirebbe per le aziende e circa la conseguente incidenza sui costi di produzione; sono state pertanto proposte alcune modifiche sostanziali al progetto, nel senso che in luogo di fissare un’aliquota di mutilati ed invalidi per l’assunzione, in aggiunta ai quadri attuali del personale delle aziende, il provvedimento dovrebbe limitarsi a prescrivere genericamente che una determinata aliquota di personale deve essere costituita da mutilati ed invalidi, lasciando alle aziende stesse un lungo periodo di tempo per assolvere a questa prescrizione.

Questo Ministero non ritiene di poter aderire al suaccennato punto di vista. Mentre infatti il provvedimento proposto tenderebbe a tradurre in una concreta norma legislativa di attuazione immediata l’obbligo della assunzione, con la modifica suggerita si avrebbe invece che i mutilati e invalidi del lavoro dovrebbero essere assunti dalle imprese in sostituzione di altrettanti elementi validi, e man mano che i loro posti si rendessero liberi.

È facile vedere che l’accoglimento della proposta di cui sopra, specie nell’attuale periodo di disoccupazione, verrebbe se non ad annullare le aspettative della categoria interessata, per lo meno a rendere la loro attuazione meno efficace e, per così dire, diluita nel tempo.

Questa è la ragione che ha determinato il ritardo nella emanazione dell’atteso provvedimento.

Comunque, malgrado non sia stato possibile raggiungere sul testo un preventivo completo accordo, lo schema è stato già diramato alle altre amministrazioni ed è compreso fra i provvedimenti iscritti nell’ordine del giorno del Consiglio dei Ministri.

PRESIDENTE. L’onorevole interrogante ha facoltà di dichiarare se sia sodisfatto.

BIBOLOTTI. Onorevole Presidente, onorevoli colleghi. Io potrei senz’altro dichiararmi soddisfatto della risposta dell’onorevole Sottosegretario e compiacermi con lui per avere accolto finalmente una richiesta che trova la sua giustificazione in ragioni di solidarietà nazionale, di sentimento di umanità e di equità.

La Patria riconoscente dà ai mutilati e agli invalidi delle guerre nazionali la consacrazione e sul terreno della gloria, e sul terreno della remunerazione come giusto attestato di solidarietà nazionale.

Era ingiusto che ai caduti, ai mutilati ed agli invalidi della battaglia permanente dei lavoratori non si desse questo riconoscimento. È una vecchia richiesta che finalmente trova nel Governo repubblicano accoglimento, cosa di cui mi compiaccio a nome di questa categoria che più volte ha fatto appello alla solidarietà.

I mutilati del lavoro non devono essere considerati come dei limoni spremuti che si gettano alla carità pubblica, ma come dei lavoratori i quali, avendo avuta menomata la loro capacità di produzione, possono e devono essere reimpiegati nella produzione e considerati dal datore di lavoro come coloro che, avendo partecipato alla creazione della ricchezza nazionale e del profitto capitalistico, possono con continuità ed in ragione delle residue capacità lavorative, partecipare ancora a questo processo di produzione.

Avevo già votato favorevolmente nella terza Commissione questo schema di decreto che accoglie, sia pure parzialmente, le richieste di questa categoria. Le nuove rivendicazioni sono più estese e sono soprattutto di carattere morale.

Ora io spero che, in occasioni successive, il Ministero del lavoro troverà l’occasione e la possibilità di riconoscere in modo più ampio che i mutilati ed invalidi del lavoro continuano una battaglia non meno gloriosa di quella che si combatte in guerra. (Approvazioni).

PRESIDENTE. Segue l’interrogazione dell’onorevole De Palma, ai Ministri dell’interno e dell’assistenza post-bellica, «per conoscere quali provvedimenti siano stati adottati, o si intenda adottare, in favore delle donne violentate dalle truppe marocchine, durante la guerra, in alcuni centri della provincia di Frosinone».

L’onorevole Sottosegretario di Stato alla Presidenza del Consiglio ha facoltà di rispondere.

CAPPA, Sottosegretario di Stato alla Presidenza del Consiglio. Rispondo per il Ministero dell’interno.

In seguito alle segnalazioni e alle proposte delle Prefetture di Frosinone e di Latina, questo Ministero dispose la erogazione di speciali sussidi a favore delle donne della zona, che avevano subito violenza da parte delle truppe marocchine o di colore, con particolare riguardo a quelle che versavano in più disagiate condizioni economiche o si trovavano in più grave stato di salute.

I relativi fondi furono accreditati alle Prefetture che li misero a disposizione degli E.C.A. interessati perché provvedessero alla erogazione dei congrui sussidi.

Complessivamente furono spese per tale scopo lire 3.600.000 così ripartite: provincia di Frosinone: ai comuni di Pontecorvo, Castro dei Volsci, Pico, Vallecorsa, lire 100.000 ciascuno; ai comuni di Pastena, Ceccano, Amaseno, Esperia, Giuliano di Roma, Villa Santo Stefano, lire 500.000 ciascuno; provincia di Latina: al comune di Campodimele lire 1.000.000 al comune di Lenola lire 2.000.000.

L’assistenza non si esaurì nelle suddette concessioni, perché le infortunate che ne avevano diritto furono anche ammesse a fruire dei soccorsi predisposti in favore dei sinistrati di guerra e dei soccorsi militari ordinari e straordinari.

In aggiunta a tali provvidenze è stata erogata l’anno scorso, a dicembre, una ulteriore somma di un milione di lire per l’assistenza alle donne bisognose infortunate della provincia di Frosinone.

PRESIDENTE, L’onorevole De Palma ha facoltà di dichiarare se sia sodisfatto.

DE PALMA. Ringrazio il Sottosegretario alla Presidenza per le notizie fornitemi; però non posso ritenermi sodisfatto in quanto da questa risposta rilevo solamente che sono state erogate delle somme senza conoscere come esse siano state effettivamente distribuite alle infortunate. Si è verificata questa situazione: vi sono stati alcuni comuni – e ciò è avvenuto sin dal 1945, epoca in cui io feci rilevare all’Alto Commissariato dell’igiene e della sanità la condizione dolorosa in cui si trovavano queste disgraziate – i quali hanno avuto tanto danaro che, distribuito, ha dato la somma irrisoria di lire 500 ad ogni infortunata. Ora non vi è chi non veda come questa situazione sia veramente tragica nei confronti di queste donne, le quali meritano la massima assistenza, perché ritengo siano quelle più gravemente percosse e ferite dalla guerra. Occorre quindi che le somme siano distribuite con un criterio di equanimità nei confronti di tutti coloro che sono stati colpiti. Non basta inviare ai comuni danaro e lasciare poi all’arbitrio di questi l’erogazione, perché spesso le necessità, in cui si trovano detti comuni, fanno sì che le somme vengano erogate anche per altri bisogni assistenziali, e non per quelli cui esse sono destinate.

Una voce. È il principio del sussidio che è sbagliato!

DE PALMA. È necessario che a costoro il Governo assegni una somma a titolo di indennizzo, sia pure minima, ma che sia data in modo che ciascuna possa avere un tanto prestabilito. Ciò è necessario perché esse vivono in condizioni dolorose. Vi sono persone che, per comprensibile ritegno, non hanno denunciato i fatti, di cui sono restate vittime. Costoro hanno dovuto affrontare col proprio denaro cure costose.

Anche recentemente, allorquando si è trattato di distribuire delle somme, molte di queste donne non sono state tenute in considerazione, perché si è detto che erano abbienti.

Io non devo ricordare che nella provincia di Frosinone, che, purtroppo, ha il tragico privilegio di detenere il primato tra le provincie maggiormente devastate dalla guerra, non vi sono più, oggi, fra gli abbienti, che pochi borsari neri. Ora, non è comprensibile che a queste disgraziate debba essere negato un aiuto, a titolo di risarcimento, sotto il pretesto delle loro condizioni economiche. Ritengo che il Governo debba dare aiuti più cospicui e concreti a queste povere vittime, e debba trattarle tutte ugualmente, senza distinzione tra abbienti e non abbienti.

È inutile che io stia a ricordare episodi. Recentemente la stampa ne ha parlato. Forse quella pubblicità poteva anche essere evitata. Ma essa è stata necessaria, perché il Governo – bisogna riconoscerlo – non ha provveduto ad intervenire tempestivamente.

Io raccomando che queste vittime abbiano l’aiuto doveroso da parte del Governo.

Confido pertanto che queste mie richieste saranno tenute presenti nelle ulteriori assegnazioni che il Governo andrà a fare.

CAPPA, Sottosegretario di Stato per la Presidenza del Consiglio. Sarà fatto.

PRESIDENTE. Segue l’interrogazione dell’onorevole Moro, al Ministro dell’interno, «per sapere quali provvedimenti intenda prendere, per risolvere il problema ospedaliero della città di Bari, il quale interessa anche le provincie e regioni limitrofe. L’ospedale consorziale di Bari, divenuta inabitabile la sede in seguito ad eventi bellici, è allogato, con mezzi di fortuna ed in condizioni insostenibili, nei corridoi dell’Università malamente adattati. L’esiguo materiale va sempre più in rovina; la situazione di cassa, anche per l’inadeguato ritmo della riscossione delle spedalità, non permette di soddisfare i fornitori, i quali sospendono in conseguenza le loro prestazioni. Occorrerebbe ottenere l’immediata derequisizione del Policlinico, che per vicende belliche non poté mai essere occupato e potrebbe dare alloggio all’ospedale insieme alle cliniche universitarie, ed affrettare l’approvazione del decreto, che si dice in elaborazione, per stabilire l’apposita imposta provinciale per il pagamento delle spedalità».

 

L’onorevole Cappa, Sottosegretario di Stato alla Presidenza del Consiglio, ha facoltà di rispondere.

CAPPA, Sottosegretario di Stato alla Presidenza del Consiglio. Rispondo per il Ministero dell’interno.

Si tratta di una interrogazione presentata alcuni mesi or sono.

La situazione dell’ospedale di Bari è stata esaminata da questo Ministero, con ogni attenzione, d’intesa con l’Alto Commissariato per l’igiene e la sanità pubblica. Sono stati anche inviati sul posto un ispettore generale medico ed un ispettore amministrativo incaricati di avvisare ai mezzi più idonei per risolvere i gravi problemi finanziari ed edilizi che interessano tanto l’ospedale quanto le cliniche universitarie della città.

Per quanto concerne la derequisizione dei locali del Policlinico, dove potrebbero eventualmente essere sistemati i servizi, attualmente inadeguatamente e precariamente allogati, l’Alto Commissariato per l’igiene e la sanità sta svolgendo le opportune pratiche intese alla definizione di una pendenza relativa all’assunzione da parte italiana delle spese occorse per gli impianti fissi collocati dalle Autorità alleate durante il periodo della requisizione.

Frattanto, per mettere l’ospedale in grado di fronteggiare le esigenze di cassa, sono state disposte due sovvenzioni dell’ammontare complessivo di lire undici milioni, che hanno sollevato le sorti dell’amministrazione del Pio Istituto.

Il disegno di legge, cui accenna l’onorevole interrogante, relativo al trasferimento dell’onere delle spedalità dai comuni alle provincie ed alla istituzione di una addizionale, il cui gettito dovrebbe essere destinato esclusivamente a tale servizio, predisposto fin dallo scorso anno, non ha più avuto corso, per le difficoltà mosse dall’amministrazione finanziaria.

Nell’attesa di una soluzione, il Ministero interviene, compatibilmente con la situazione del fondo del bilancio, in favore degli istituti che non riescono a fronteggiare le necessità della gestione.

Sono stati raggiunti, altresì, accordi con l’amministrazione della Cassa depositi e prestiti per la concessione di mutui di favore ai comuni, allo scopo di metterli in grado di estinguere i loro debiti per rette di degenza verso le amministrazioni ospedaliere.

PRESIDENTE. L’onorevole interrogante ha facoltà di dichiarare se sia sodisfatto.

MORO. Ringrazio l’onorevole Sottosegretario di Stato alla Presidenza del Consiglio per le sue dichiarazioni. Effettivamente, molti dei problemi prospettati nella mia interrogazione sono stati risolti in questi ultimi quattro-cinque mesi. Quindi io posso dichiararmi soddisfatto, augurandomi che il Governo possa dare rapidamente corso alla sistemazione finanziaria dei complessi ospedalieri.

PRESIDENTE. Poiché l’onorevole Sottosegretario di Stato alla Presidenza del Consiglio si deve assentare, procediamo con precedenza allo svolgimento della seguente interrogazione degli onorevoli Recca, Allegato, al Ministro dell’interno: «per sapere quali provvedimenti abbia preso, o intenda subito prendere, in merito alle disastrose condizioni finanziarie in cui versa l’Asilo inabili al lavoro «Concetta Masselli» di San Severo, in provincia di Foggia, eretto in ente morale con Regio decreto 25 giugno 1903. La sullodata istituzione, che ospita diecine e diecine di poveri, vecchi e inabili al lavoro, ha avuto i suoi locali requisiti da truppe alleate, che li hanno lasciati in condizioni pietose e senza mobili, suppellettili, biancheria. Le rendite, in base a titoli di Stato, per il valore della lira, non sono più sufficienti per il funzionamento dell’ente in parola, ed i fornitori, non soddisfatti, minacciano di sospendere, da un momento all’altro, le loro prestazioni, per cui la pia e benefica istituzione corre il rischio di chiudere i battenti, con grande nocumento dei ricoverati, che rimarrebbero sul lastrico senza cure e senza assistenza. Sin dal 24 novembre 1946, il ripetuto Asilo richiedeva al Ministero dell’interno, Direzione generale dell’Amministrazione civile, un sussidio di lire 500.000, onde pareggiare il bilancio 1946 e far fronte alle spese straordinarie occorrenti, e mentre per molte molte opere pie, asili e ricoveri, sono stati elargiti ingenti soccorsi, per l’Asilo inabili al lavoro di San Severo nulla è stato disposto, lasciando addirittura inevasa l’istanza».

PRESIDENTE. L’onorevole Sottosegretario di Stato alla Presidenza del Consiglio ha facoltà di rispondere.

CAPPA, Sottosegretario di Stato alla Presidenza del Consiglio. A favore dell’Asilo inabili al lavoro «Concetta Masselli» di San Severo fu erogato, nel 1945, un sussidio di lire 200.000. Successivamente nessuna nuova istanza è pervenuta al Ministero dell’interno. Solo nel mese di febbraio l’onorevole Recca ha segnalato la situazione difficile dell’ente ed il Ministero ha subito interessato il prefetto di Foggia a far trasmettere con sollecitudine il verbale di chiusura dell’esercizio 1946 ed il bilancio di previsione 1947 ai fini di una definitiva sistemazione.

Attesi i criteri cui deve necessariamente ispirarsi la concessione di sussidi a favore di enti, è assolutamente indispensabile disporre di tali dati per poter provvedere.

PRESIDENTE. L’onorevole Recca ha facoltà di dichiarare se sia sodisfatto.

RECCA. Mi interesserò perché la pratica venga trasmessa subito al Ministero. Vorrei raccomandare al Ministro, per ragione di umanità, queste opere pie, che meritano tutta la sua attenzione. Nel caso specifico ci troviamo, in quel di San Severo, con diecine e diecine di poveri disgraziati, che sono vecchi ed inabili al lavoro, e che vanno peregrinando di parrocchia in parrocchia, di casa in casa, elemosinando, perché, non solo, dopo la derequisizione dei locali dell’Ente, hanno trovato gli stessi quasi distrutti e vuoti di suppellettili, ma non possono più vivere con le rendite che, provenienti da titoli di Stato, sono diventate insufficienti per la svalutazione della lira.

Ora raccomando che, appena arrivata la pratica, il Ministro prenda i dovuti provvedimenti e venga incontro alle necessarie esigenze di quei poveri vecchi disgraziati.

PRESIDENTE. Segue l’interrogazione degli onorevoli Musolino e Silipo, al Presidente del Consiglio dei Ministri (Alto Commissariato per l’igiene e la sanità pubblica), per sapere quali provvedimenti intende adottare a carico dell’impresa del sanatorio antitubercolare di Chiaravalle in provincia di Catanzaro, dove i ricoverati ricevono un trattamento non rispondente alle minime esigenze di cura, di igiene e profilassi.

L’onorevole Sottosegretario di Stato alla Presidenza del Consiglio ha facoltà di rispondere.

CAPPA, Sottosegretario alla Presidenza del Consiglio. In riferimento alla interrogazione si rappresenta quanto appresso.

Il sanatorio indicato è un istituto privato con 180 posti-letto, che ricovera anche infermi a carico dello Stato.

Occorre tener presente che, stante la deficienza di posti-letto per tubercolotici nei pubblici istituti di cura, verificatasi a seguito degli eventi bellici, e per far fronte alle impellenti necessità di ricovero, notevolmente aumentate per il dilagare della epidemia tubercolare, l’Alto Commissariato per l’igiene e la sanità ed i Consorzi provinciali antitubercolari sono stati costretti a ricorrere, per il ricovero dei propri assistiti, anche ad istituti privati di cura.

In Calabria, poi, fino allo scorso luglio, non esisteva alcun istituto, ad eccezione di quello di Chiaravalle, sia pubblico che privato, per il ricovero dei tubercolotici.

Solo nel settembre 1946 ha potuto riprendere il funzionamento a Catanzaro l’istituto sanatoriale «Luigi Ciaccio» dell’Istituto nazionale della previdenza sociale, con 145 posti-letto, che rimane tuttora, in quella regione, l’unica pubblica istituzione di cura per tubercolotici.

Le contingenti difficoltà del dopoguerra, unitamente alle circostanze verificatesi di un eccessivo affollamento dei ricoverati nei sanatori, hanno determinato in taluni casi deficienze di servizio, che l’Alto Commissariato per l’igiene e la sanità ha provveduto, in ogni modo, a eliminare.

Nel caso del sanatorio di Chiaravalle, per le precedenti considerazioni, sin dall’agosto dello scorso anno il cennato Alto Commissariato disponeva che da parte dell’autorità sanitaria provinciale di Catanzaro venisse esercitato su detta istituzione un costante controllo.

Al riguardo sono state rilevate lievi deficienze concernenti la preparazione del vitto, che è risultato peraltro sufficiente dal punto di vista quantitativo, e qualche inconveniente nei servizi igienici, soprattutto della lavanderia. Sono state date disposizioni al fine di normalizzare sia il trattamento dietetico, che l’andamento dei servizi.

In occasione di una recentissima ispezione improvvisa, disposta dall’Alto Commissariato, eseguita dal medico provinciale e dal direttore del Consorzio provinciale antitubercolare di Catanzaro, è stato constatato che è in corso la sistemazione della nuova lavanderia e che tutti i servizi si svolgono normalmente.

Si aggiunge, infine, che la somministrazione di medicamenti è assicurata in congrua misura, anche per forniture effettuate dal deposito farmaceutico provinciale. L’assistenza sanitaria viene espletata da tre medici, di cui due specializzati in tisiologia.

Assicuro che la vigilanza periodica dell’accennata casa di ricovero verrà continuata mediante improvvisi controlli sanitari.

PRESIDENTE. L’onorevole Musolino ha facoltà di dichiarare se è sodisfatto.

MUSOLINO. Non posso dichiararmi completamente soddisfatto, anzitutto perché devo protestare per il ritardo nella risposta alla mia interrogazione presentata fin dal luglio 1946, nonostante le mie sollecitazioni.

CAPPA, Sottosegretario di Stato alla Presidenza del Consiglio. Ha fatto il suo corso.

MUSOLINO. La risposta viene soltanto oggi con un grande vantaggio dell’impresa del sanatorio, la quale sfrutta il sanatorio stesso a danno dei poveri reduci tubercolotici. Anche la stampa locale si era occupata di questa cosa e aveva chiesto al Governo energici provvedimenti. La Croce Rossa mandò una sua ispettrice regionale, la quale fece una relazione in cui rilevò che il sanatorio difettava di assistenza sanitaria, che mancavano assolutamente le cure e soprattutto i medicinali e rilevò anche la pessima confezione dei cibi, e questo anche l’onorevole Sottosegretario ha confermato nella sua risposta. Un’altra indagine era stata fatta anche precedentemente. Con tutto ciò i reduci non hanno visto ancora alcun miglioramento, nonostante le ispezioni che si dice siano state fatte a Chiaravalle.

Posso assicurare che il sanatorio di Chiaravalle è uno scandalo, è la favola della regione. Quanto ai provvedimenti che si asserisce siano stati presi, l’impresa li tiene in poco conto. Chiedo pertanto che siano adottati provvedimenti più efficaci e radicali, perché l’impresa non continui a sfruttare una situazione veramente indegna di un paese civile.

Devo dire anche che l’assistenza sanitaria è fatta da due eminenti sanitari, veramente valorosi. Ebbene, questi assistenti sanitari non vanno a visitare gli ammalati, che raramente. Il sanatorio antitubercolare non è più un sanatorio, ma è diventato un tubercolosario, tanto è vero che i morti si susseguono giorno per giorno e il sindaco di Chiaravalle non ha più la possibilità di ricevere i cadaveri, perché la moria è tale che egli ha dovuto provvedere già all’ampliamento del cimitero.

MANCINI. Chiedo di parlare.

PRESIDENTE. Su che cosa?

MANCINI. Chiedo di parlare per far sapere all’onorevole Sottosegretario di Stato che a Cosenza esiste un preventorio che è attualmente chiuso e che dovrebbe essere aperto.

PRESIDENTE. Non posso darle facoltà di parlare. Presenti un’interrogazione, se crede.

Segue l’interrogazione dell’onorevole Fogagnolo, al Presidente del Consiglio dei Ministri e al Ministro delle finanze e tesoro, «per sapere se non ritengano giunto il momento, a due anni di distanza dalla fine della guerra, di prendere finalmente a cuore le disgraziate condizioni dei sinistrati di guerra e di affrontare – con una legge di emergenza – il problema del risarcimento dei danni, liquidando totalmente i più modesti e accordando acconti sufficienti per i danni più rilevanti; se non credano giusto e morale stabilire che le leggi emanande in tema di risarcimento per la ricostruzione siano basate sui principî di solidarietà e di mutualità, per cui tutta la ricchezza nazionale debba concorrere alla rinascita del nostro Paese; se a tale scopo non siano anche da facilitare gli Istituti di credito fondiario ad istituire immediatamente speciali sezioni, autorizzate ad emettere cartelle per le opere di ricostruzione a favore di privati e di enti pubblici».

A questa interrogazione possiamo abbinare quella, di contenuto quasi analogo dell’onorevole Maltagliati, al Ministro del tesoro, «per sapere se non intenda dare disposizioni affinché sia revocata la sospensione degli indennizzi per mobilio e masserizie distrutti a causa di rappresaglie tedesche, e che l’indennizzo di tali danni per cause di guerra e rappresaglie sia fatto entro l’anno corrente, al completo, per tutti coloro che nulla possiedono, con precedenza alle famiglie dei caduti in tali rappresaglie, nei bombardamenti e nelle operazioni belliche della lotta di liberazione, nonché alle famiglie dei partigiani, dei reduci e dei combattenti nella guerra suddetta. E se non ritenga opportuno che si inizi anche la concessione di acconti, e l’indennizzo completo, oltre che nel caso precedente, anche per i danni subiti dai cittadini dalle razzie tedesche».

L’onorevole Sottosegretario di Stato per i danni di guerra ha facoltà di rispondere.

BRASCHI, Sottosegretario di Stato per i danni di guerra. Posso assicurare gli onorevoli interroganti che in queste ultime settimane il Ministero del tesoro, a mezzo del Sottosegretariato per i danni di guerra, si è dato premura di affrontare e risolvere in via definitiva il grave problema che è oggetto delle loro interrogazioni.

Come è risaputo, si sono avuti in Italia, in questi ultimi anni, decreti su decreti che, ad iniziativa dei vari Dicasteri, miravano a risolvere in via frammentaria ed episodica i singoli problemi che le necessità impellenti di ogni giorno ponevano sul tappeto. Ne è nata una legislazione incerta, discontinua, talora contraddittoria, spesso equivoca e piena di lacune, che ha determinato, ad un certo momento, la necessità di sospendere ogni liquidazione e ogni pagamento, per provvedere con una legge organica e definitiva al risarcimento dei danni di guerra, con visione unitaria del problema e con unico criterio direttivo.

Sono lieto di annunciare che proprio in questi giorni la nuova legge sui danni di guerra è stata elaborata nella sua struttura fondamentale e sarà subito portata all’esame dei Dicasteri competenti.

Si tratta essenzialmente di una specie di testo unico, che, ordinando e coordinando le molteplici disposizioni finora emanate, verrà a colmare molte lacune e a risolvere problemi finora rimasti sospesi ed insoluti.

L’emanazione della nuova legge darà al Governo la possibilità di cessare la corresponsione di piccoli acconti per affrontare ed iniziare il vero e proprio risarcimento dei danni di guerra.

Le osservazioni e le proposte degli onorevoli Fogagnolo e Maltagliati furono e sono tuttora oggetto di attento esame e potranno essere, occorrendo, riproposte, quando la legge passerà all’esame e alla discussione della competente Commissione legislativa dell’Assemblea Costituente.

Per quanto concerne particolarmente l’interrogazione dell’onorevole Maltagliati, si fa presente, a titolo di cronaca, che da parecchie parti d’Italia, dove vi sono altre categorie di danneggiati e di sinistrati, sono stati fatti dei voti e sono state avanzate delle proposte per avere anche essi a loro volta un trattamento di privilegio, di precedenza e di favore. Anche detti voti e dette proposte sono tutti oggetto di attento esame da parte degli uffici competenti.

PRESIDENTE. L’onorevole Fogagnolo ha facoltà di dichiarare se sia sodisfatto.

FOGAGNOLO. Ringrazio il Sottosegretario onorevole Braschi per la comunicazione fatta stamane all’Assemblea in relazione alla interrogazione che mi sono permesso di presentare. Più che di una legge di coordinamento delle varie disposizioni, che noi conosciamo, molte delle quali fanno a pugni l’una con l’altra e che sono evidentemente il risultato della forma, direi quasi, anarchica con cui si è manipolata questa materia così delicata e che tocca non soltanto quella bella città che è Verona, cui io appartengo, ma tutte quelle belle città d’Italia che tutti noi conosciamo, ci vorrebbe qualcosa di più concreto. Quando veniamo all’Assemblea a presentare una interrogazione per domandare che cosa si sia fatto in due anni, dobbiamo purtroppo constatare, e mi fa piacere che l’onorevole Sottosegretario lo abbia rilevato, che al Governo si è impiegato un anno per decidersi per la nomina di una Commissione che preparasse qualche provvedimento legislativo, e questa Commissione ad un anno di distanza non ha fatto niente, per modo che ogni Ministero ha agito come meglio ha potuto. Oggi finalmente sentiamo una parola che può dare una certa tranquillità a tante famiglie di disgraziati, che da due anni attendono il provvedimento che oggi viene promesso.

Più che di una legge che debba coordinare tutte le varie disposizioni che sono state emanate, abbiamo bisogno di chiedere al Governo se non sia il caso di esaminare determinati ed urgenti provvedimenti di emergenza e, facendo proprie quelle richieste che sono state presentate dal Comitato Centrale dei sinistrati di guerra, vedere se non sia il caso di esaminare l’opportunità di introdurre nella futura legge, che oggi è stata promessa, una tassa di mutualità, la quale in questo momento darebbe al Governo la possibilità di non caricarsi di un onere che ascenderebbe a cifre spaventose se noi pensiamo alla gravità dei danni che la guerra ha apportato al nostro Paese.

Il professor Savoia – disgraziatamente porta il nome di colui su cui grava la colpa di tutti questi danni per i quali noi stiamo esaminando la possibilità di risarcimento – ha fatto distribuire un opuscolo che costituisce uno studio modesto, ma molto accurato. Io credo che farà bene la Commissione legislativa ad esaminare quei suggerimenti, ma nel frattempo, onorevole Sottosegretario, non possiamo dire a migliaia e migliaia di poveri disgraziati che vivono ancora come gli animali in tuguri dove l’igiene e la moralità sono calpestate, di attendere il provvedimento legislativo.

Dobbiamo trovare il modo di venire incontro a questa povera gente, in modo che possa bussare all’Intendenza di finanza e ottenere qualcosa, mentre finora ha bussato senza mai ottenere la possibilità di vedere accolte le proprie domande.

Noi deputati sappiamo come vanno le cose quando interveniamo a favore di qualche postulante, il quale deve portare il certificato di povertà per ricevere un modesto acconto. Oggi per ricevere dieci, quindici mila lire, questa gente deve fare strada su strada e trova tutte le porte chiuse quando va a bussare per ottenere qualche elemosina.

Un provvedimento di emergenza è indispensabile, se vogliamo che questi disgraziati possano far valere il proprio diritto senza essere accolti come cani rognosi, e possano portare a casa qualche cosa che non sia l’elemosina che si dà al povero, ma che sia il riconoscimento di un diritto sancito dalla legge.

Vedo che l’onorevole Sottosegretario fa un gesto come per dire che non è vero. Ma bisogna esaminare la possibilità di imporre una tassazione sul patrimonio. In fondo si tratta di un dieci o dodici per cento del patrimonio nazionale che è andato distrutto dalla guerra. La tassa dovrebbe gravare sul patrimonio che non è stato distrutto. Nessun merito hanno costoro di aver conservato il loro patrimonio intatto e quale legge morale si potrebbe invocare se il Governo gravasse per una modesta cifra su di esso?

D’altra parte, se esaminiamo la Costituzione francese, vediamo che in essa è stabilito il principio della solidarietà nazionale per far fronte alle calamità nazionali.

Il principio, del resto, è accettato da tutti. Ora noi dobbiamo fare in modo – e sono lieto questa volta di vedere un cenno di assentimento – che questa tassa di mutualità sia introdotta nella nostra legislazione e dia al nostro Governo il mezzo di venire urgentemente in soccorso di un numero stragrande di infelici rovinati da ima guerra inumana. (Applausi).

PRESIDENTE. L’onorevole Maltagliati ha facoltà di dichiarare se sia sodisfatto.

MALTAGLIATI. Quantunque debba rilevare che la risposta alla mia interrogazione avrebbe dovuto esser data molti mesi prima, prendo atto con piacere delle dichiarazioni dell’onorevole Sottosegretario, e mi auguro che il decreto non rimanga ancora per altri mesi chiuso nel cassetto.

PRESIDENTE. Segue l’interrogazione degli onorevoli Calosso, Cianca, Parri, Giordani, Patricolo, Badini Confalonieri, al Presidente del Consiglio dei Ministri e al Ministro delle poste e telecomunicazioni, «per sapere se il Governo non ravvisi la necessità di una Commissione parlamentare per lo studio del problema della radio».

L’onorevole Sottosegretario per le poste e telecomunicazioni ha facoltà di rispondere.

GALATI, Sottosegretario di Stato per le poste e le telecomunicazioni. L’interrogazione è sopraggiunta mentre era allo studio presso il Ministero uno schema di decreto legislativo relativo alle nuove norme in materia di vigilanza sulle radiodiffusioni.

Con tale decreto, che è stato approvato definitivamente dal Consiglio dei Ministri dopo il parere espresso dalla Commissione permanente dell’Assemblea Costituente, si coordinano le norme relative alla vigilanza sugli impianti e sui servizi tecnici delle radiodiffusioni circolari, vigilanza che viene affidata al Ministero delle poste e delle telecomunicazioni e a commissioni istituite nelle sedi delle singole stazioni radiotrasmittenti; si stabiliscono i controlli sul funzionamento contabile dell’Ente concessionario; si fissano i controlli governativi sulla nomina del presidente e, eventualmente, del consigliere delegato dell’Ente medesimo.

Nel corso dell’elaborazione del decreto è stata tenuta nella dovuta considerazione la richiesta avanzata dagli onorevoli interroganti, ed infatti, si è prevista la istituzione di una Commissione parlamentare avente il compito dell’alta vigilanza per assicurare l’indipendenza politica e l’obiettività informativa delle radiodiffusioni. Le deliberazioni che la Commissione riterrà di adottare saranno trasmesse alla Presidenza del Consiglio dei Ministri, la quale dovrà impartire al presidente dell’Ente concessionario le disposizioni necessarie per curarne la esecuzione.

Il decreto prevede, altresì, l’istituzione di un Comitato presso il Ministero delle poste e delle telecomunicazioni con il compito di determinare le direttive di massima culturali, artistiche ed educative dei programmi di radiodiffusione circolari, di vigilare sulla loro attuazione, nonché di esprimere il parere sui programmi trimestrali, che dovranno essere definitivamente approvati dal Ministro delle poste e delle telecomunicazioni.

Il decreto suddetto è in corso di perfezionamento.

PRESIDENTE. L’onorevole Cianca ha facoltà di dichiarare se sia sodisfatto.

CIANCA. Ringrazio l’onorevole Sottosegretario per le sue comunicazioni.

Penso che probabilmente sarebbe stato meglio procedere alla nomina della Commissione parlamentare prima che alcuni problemi fossero stati risoluti in sede di decreto. Comunque prendo atto del fatto che la Commissione parlamentare sarà presto nominata. Chiedo che questa nomina avvenga nel più breve tempo, e che a questa Commissione siano date la possibilità e la relativa responsabilità di contribuire ad una soluzione veramente moderna, efficiente, e politicamente equanime dell’essenziale problema delle comunicazioni per radio.

PRESIDENTE. Segue l’interrogazione dell’onorevole Riccio, al Ministro di grazia e giustizia, «per conoscere perché – nonostante le richieste insistenti delle autorità locali, i pareri favorevoli espressi e le proteste vivissime del popolo e degli avvocati per il ritardo – non si sia ancora provveduto all’aggregazione al tribunale di Napoli dei mandamenti di Cicciano, Nola ed Acerra, sebbene quei comuni appartengano amministrativamente e gravitino per ogni bisogno su Napoli, alla quale sono allacciati da ferrovie di Stato e secondarie, e da servizio automobilistico, mentre nessuna relazione di vita hanno con S. Maria, ove è difficilissimo accedere, per cui gravissimi intralci e difficoltà sorgono nell’amministrazione della giustizia».

Non essendo l’onorevole Riccio presente, s’intende che vi abbia rinunziato.

Seguono ora alcune interrogazioni relative al personale insegnante delle scuole medie ed elementari:

Di Vittorio, Lizzadri, al Ministro della pubblica istruzione, «Sui motivi che hanno ritardato l’accoglimento delle giuste rivendicazioni del personale insegnante delle scuole medie ed elementari e degli educandati nazionali, nonostante formali promesse fatte dal Governo, da lungo tempo».

Di Gloria, Rossi Paolo, Preti, Salerno, Binni, Filippini, Codignola, Lami Starnuti, al Ministro della pubblica istruzione, «per avere tutti i necessari chiarimenti circa il suo atteggiamento relativamente allo sciopero degli insegnanti di scuole medie».

Miccolis, Rodi, Tumminelli, al Ministro della pubblica istruzione, «per conoscere: 1°) quali siano le ragioni che hanno determinato lo sciopero del personale insegnante della scuola secondaria; 2°) come si è fino ad ora inteso di tradurre in atto gli impegni assunti innanzi all’Assemblea, in sede di esposizione del programma ministeriale, per restituire la scuola italiana alla sua funzione educativa, sociale e morale, negli ordinamenti nei quadri, nel trattamento economico al personale, nei locali, negli arredamenti e nelle attrezzature».

Tonello, al Ministro della pubblica istruzione, «per sapere se intenda, per l’onore della scuola italiana, accogliere senza altre dilazioni le giuste rivendicazioni dei professori e dei maestri».

L’onorevole Sottosegretario di Stato per la pubblica istruzione ha chiesto di fare una dichiarazione al riguardo.

BERNINI, Sottosegretario di Stato per la pubblica istruzione. L’onorevole Ministro della pubblica istruzione mi comunica che in questo momento è impegnato nell’esame e nella risoluzione della questione che interessa gli onorevoli interroganti. Poiché l’onorevole Ministro desidera di rispondere personalmente, prega l’Assemblea di voler concedere che lo svolgimento delle interrogazioni sia rimandato alla seduta di domani.

DI GLORIA. Chiedo di parlare.

PRESIDENTE. Ne ha facoltà.

DI GLORIA. In un primo momento il Ministro Gonella aveva dichiarato che avrebbe risposto alla mia interrogazione nella seduta di ieri. In un secondo momento si era deciso a rispondere stamane. Ora la risposta è rinviata a domani.

Protesto energicamente per questa condotta del Governo che fa il Don Abbondio con alcuni e il Fra Cristoforo con altri.

È veramente doloroso che di una questione puramente e semplicemente economica si voglia fare una questione esasperatamente politica, una questione di principio e di prestigio.

Evidentemente, si vuole rimandare alle calende greche la risoluzione d’una questione semplicissima, di pure rivendicazioni economiche, già ritenute legittime dal Governo stesso; e si vuole far sì che il Governo si sottragga ulteriormente ai suoi compiti essenziali.

Invito i rappresentanti della sinistra in seno al Governo a farsi interpreti della mia protesta.

TONELLO. Chiedo di parlare.

PRESIDENTE. Ne ha facoltà.

TONELLO. Mi associo di tutto cuore alla protesta del collega onorevole Di Gloria. È deplorevole che ci siano altre dilazioni.

Il liquidatore della scuola italiana deve venire qui a rendere conto dell’opera sua, veramente disfattista, in quanto la risoluzione del problema è urgentissima, per il decoro del Paese e della scuola italiana.

Noi domandiamo che il Ministro venga qui a rendere conto. (Applausi da una tribuna).

PRESIDENTE. Avverto che non sono ammessi né applausi, né dissensi dalle tribune; altrimenti sarò costretto a farle sgomberare. (Interruzione dell’onorevole Gronchi).

MICCOLIS. Chiedo di parlare.

PRESIDENTE; Ne ha facoltà.

MICCOLIS. Devo far rilevare che non è la prima volta che in questa Assemblea si parla invano della scuola. (Approvazioni a sinistra).

È bene che la scuola sia guardata nella sua consistenza e nelle sue necessità, per il decoro della Nazione.

È doloroso che, mentre i giornali parlano di resistenza da parte del Capo del Governo ad accogliere le richieste della scuola, si rimanda la discussione, di cui questa Assemblea è necessario che sia pienamente investita.

Forse l’onorevole Ministro ha bisogno di risolvere le sue questioni con le Commissioni competenti; sono cose che a noi non riguardano. È necessario che l’Assemblea sappia che la scuola ha bisogno che il suo problema sia impostato e risolto in tutta la sua vastità.

PRESIDENTE. Onorevole Miccolis, non entri nel merito.

MICCOLIS. Se entrassi nel merito, dovrei occuparmi della seconda parte della mia interrogazione.

C’è una massa di insegnanti, che non è a scuola; c’è una massa di famiglie, che ha i figli sbandati per le strade.

DI VITTORIO. Chiedo di parlare.

PRESIDENTE. Ne ha facoltà.

DI VITTORIO. Mi associo alle proteste dei colleghi, per il fatto che l’onorevole Ministro non sia presente per lo svolgimento delle nostre interrogazioni.

Trattandosi d’una questione per la quale è in sciopero una categoria di benemeriti lavoratori intellettuali, e che turba un settore delicato della nostra vita nazionale, come quello della scuola, mi auguro che domattina il Ministro sia presente e possa dare risposta ampia e soddisfacente agli interroganti.

Io credo che per un Governo democratico il prestigio non deve consistere nella ricerca della umiliazione di una categoria qualsiasi di lavoratori, ma deve consistere nella ricerca di un accordo onesto con un settore qualsiasi dei lavoratori e del popolo; perché un Governo democratico deve essere caratterizzato dalla capacità che ha di risolvere pacificamente e con soddisfazione completa tutti i problemi della nostra vita nazionale, ed in primo luogo quello delicato della scuola. (Applausi a sinistra).

CAPPA, Sottosegretario di Stato alla Presidenza del Consiglio. Chiedo di parlare.

PRESIDENTE. Ne ha facoltà;

CAPPA, Sottosegretario di Stato alla Presidenza del Consiglio. Devo fare presente che il Ministro della pubblica istruzione, nella impossibilità di rispondere questa mane e di intervenire all’Assemblea, ha pregato l’Assemblea stessa di attendere domattina la risposta che egli personalmente darà.

BERTOLA. Chiedo di parlare.

PRESIDENTE. Ne ha facoltà.

BERTOLA. Aggiungo il mio rincrescimento e quello dei miei amici e colleghi per questo incidente – poiché tutti noi attendevamo questa mattina una parola chiarificatrice del Ministro – e la solidarietà mia e dei miei colleghi in questo delicato problema della scuola. Chi, come me, è della scuola, chi ha vissuto fino a ieri nella scuola e conosce con una sensibilità particolare questi problemi, non può in questo momento non soffrire.

In questa circostanza mi sia permesso aggiungere una parola ancora: vorrei cioè pregare tutti i miei colleghi, che di queste rivendicazioni scolastiche si fanno difensori, per carità, di non farle scivolare nell’ambito della politica. Sono problemi morali e giuridici più che economici…

PRESIDENTE. Onorevole Bertola, la prego di non entrare nel merito.

BERTOLA. Io mi auguro che domani le parole del Ministro della pubblica istruzione siano tali che i miei colleghi possano ritornare nelle loro scuole con piena soddisfazione per quelle rivendicazioni che giustamente chiedono.

LOZZA. Chiedo di parlare.

PRESIDENTE. Su che cosa?

LOZZA. Sono firmatario di un’altra interrogazione sulla scuola elementare.

PRESIDENTE. Onorevole Lozza, ella potrà parlarne alla fine della seduta.

È così esaurito il tempo assegnato allo svolgimento delle interrogazioni.

Seguito della discussione del progetto di Costituzione della Repubblica italiana.

PRESIDENTE. L’ordine del giorno reca: Seguito della discussione del progetto di Costituzione della Repubblica italiana.

È iscritto a parlare l’onorevole Colonnetti. Ne ha facoltà.

COLONNETTI. Onorevoli colleghi, il problema della scuola, la cui soluzione questa Assemblea si accinge a delineare nei tre articoli ad esso dedicati, è, prima di tutto e soprattutto, un problema di libertà. Ed è sotto questo aspetto, e sotto questo soltanto, che io mi propongo di trattarlo qui, nella convinzione che solo se noi riusciremo ad inquadrare i nostri ordinamenti scolastici in un regime di libertà, la scuola risorgerà a vera grandezza e diventerà, come è giusto che diventi e come noi vogliamo che diventi, il più efficace strumento della ricostruzione nazionale. E tanto più necessaria mi sembra questa presa di posizione da parte nostra, dopo gli interventi, avvenuti ieri, di diversi egregi colleghi di parte socialista: interventi che, ispirati essi pure indubbiamente al nostro stesso desiderio di libertà, hanno rivelato preoccupazioni in omaggio alle quali la libertà verrebbe ad essere a parer mio irrimediabilmente menomata e, sotto un certo punto di vista, sia pure con le migliori intenzioni, travisata.

Cercherò, dunque, sia pure brevemente, di precisare il mio pensiero, fissandone il punto fondamentale di partenza e dichiarandone senza ambagi, e senza riserve, le ultime e inevitabili conseguenze.

Il principio della libertà della scuola deriva direttamente dal concetto della personalità umana e dai rapporti che intercorrono fra essa e la collettività.

Questo concetto di personalità implica quello di vocazione cui ogni individuo è necessariamente ordinato e che costituisce, per ogni individuo, un valore che ha precedenza e dignità di fine rispetto a qualunque altra realtà umana, e che in nessun caso e per nessuna ragione può essere sacrificato.

Ma la persona, isolatamente presa, è soggetta ad insufficienze ed a limiti che si oppongono allo sviluppo ed al perfezionamento delle sue facoltà, e che essa può superare solo integrandosi con altre persone.

Questo perfezionamento, di cui l’educazione costituisce il momento caratteristico e saliente, trova la sua prima e naturale sede nella famiglia che a ciò è ordinata come a suo fine e dove il diritto dei figli ad essere educati si traduce nel dovere di educare proprio dei genitori, e reciprocamente, il diritto della famiglia ad educare soddisfa al dovere che i figli hanno di istruirsi e di perfezionarsi.

Senonché i genitori, anche se animati dalla maggior buona volontà, non possono il più delle volte compiere da soli l’opera dell’educazione ed istruzione del fanciullo, e spetta alla scuola compiere quest’opera supplendo i genitori là dove questi non potrebbero assolutamente mai arrivare.

Vi sono però tanti modi di compiere quest’opera. Educazione e istruzione non si compendiano infatti nell’arido apprendimento di un certo numero di cognizioni positive incontrovertibili, ma hanno – e non potrebbero non avere – un contenuto spirituale che può essere diversamente orientato e che può a sua volta diversamente orientare la formazione della personalità del fanciullo. Perciò resta ai genitori il diritto di scegliere la scuola cui affidare i loro figli, in modo che essa risponda al loro ideale educativo ed alla loro concezione della vita; e compete allo Stato – che deve in questa loro opera tutelarli ed aiutarli – il dovere di lasciare alla scuola la più ampia libertà di realizzare quell’ideale nei limiti, ben s’intende, dell’ordine e del bene comune.

E qui io debbo rilevare il mio fondamentale dissenso dall’onorevole Binni, il quale ieri non esitava a definire «chiusa» la scuola orientata e «libera» quella di Stato, dove, proprio perché possono insegnarvi uomini di ogni fede, un orientamento può, in qualche caso almeno, venire a mancare.

Io non voglio contestare all’onorevole Binni il diritto di pensare e di sostenere che una scuola non orientata sia la più adatta per mettere fin dal principio il fanciullo dinnanzi alle perplessità di quella che dovrà essere in seguito la sua scelta di un certo ben determinato modo di concepire la vita. Ma vorrei che egli, con pari liberalità, mi riconoscesse il buon diritto di altri genitori, i quali pensano che più salutare sia per i loro figli l’essere fin dal principio avviati verso quella concezione della vita, che è, per loro, la più vera e la più sana. Vorrei che egli mi riconoscesse che vi possono essere dei genitori i quali, seguendo il pensiero di un grande Pontefice che ieri stesso è stato qui autorevolmente citato, sono convinti che al suo compito educativo la scuola non possa pienamente assolvere, se l’insegnamento di tutte le materie non è tutto permeato e saturato di spirito cristiano.

Certo, per giungere a questo, bisogna aver sorpassato lo stato d’animo che trapelava ieri così chiaramente dalle parole di un altro nostro egregio collega, l’onorevole Giua; il quale è evidentemente preoccupato di quelli che tradizionalmente si usano definire conflitti tra la scienza e la fede, e non nasconde il suo dubbio che intralci al progresso della scienza possano essere frapposti dalla Chiesa Cattolica.

Sono spiacente che non sia presente l’onorevole Giua; ma se fosse presente, vorrei dirgli che mi è parso sentire nelle sue parole l’eco di posizioni mentali che io francamente consideravo definitivamente superate. Sappiamo tutti che le sue preoccupazioni hanno dominato il pensiero di molti studiosi del secolo scorso; sappiamo tutti che conflitti sono nati ed hanno dolorosamente amareggiato molte nobili menti, allorquando qualche inattesa e apparentemente rivoluzionaria conquista della scienza ha posto gli studiosi di fronte alla necessità di revisioni radicali del loro modo di concepire il creato. Sappiamo anche che uomini di chiesa, preoccupati di mettere d’accordo queste conquiste con la lettera dei Sacri Testi (che non sono, né hanno mai avuto la pretesa di essere dei trattati scientifici) per eccessivo – e in certo senso ben spiegabile – attaccamento ad interpretazioni tradizionali, e a volte anche, per incapacità di evolverle con la necessaria prontezza, hanno commesso errori di cui il successivo sviluppo del pensiero ha fatto giustizia.

Ma i fiumi d’inchiostro che il processo di Galileo ha fatto spandere, a questo se non altro hanno servito: a dimostrare cioè che non è lecito dagli errori degli uomini (e sia pure degli uomini di chiesa) trarre argomento per affermare l’esistenza di un reale conflitto tra la scienza e la fede. La quale ultima ha anzi sempre trovato nei progressi della scienza argomento per nuovi e spesso impensati conforti; tanto che sono proprio le conquiste più rivoluzionarie e più ardite della scienza quelle che, quando le idee si chiariscono e le posizioni si precisano, più decisamente ci danno l’impressione della superiorità della concezione spiritualistica dell’universo.

Io non voglio tediare questa Assemblea, né farle perdere con divagazioni scientifiche un tempo che essa deve riservare ai suoi più immediati compiti; ma non posso non dire qui quanto, nella mia vita di studioso, io sia stato impressionato dal misterioso, ma sicuro parallelismo che le nuove concezioni relativistiche dello spazio e del tempo presentano con la concezione che dello spazio e del tempo avevano, in tempi davvero non sospetti, sant’Agostino e san Tommaso d’Aquino.

L’onorevole Giua ci ha detto ieri i suoi timori per un possibile futuro conflitto tra il pensiero cristiano ed i progressi che stanno in questi anni facendo le scienze biologiche, ed in particolare la genetica.

Ora io mi sento a questo proposito perfettamente tranquillo. Prova ne sia che quando, alcuni mesi or sono, nella mia veste di Presidente del Consiglio nazionale delle Ricerche, ho dovuto nominare un Direttore del centro di Biologia istituito a Napoli, non ho esitato a scegliere un valente studioso specializzato in embriologia sperimentale il quale, per avventura, è anche sacerdote. E non ho mai pensato, che tra la sua attività di ricercatore ed il suo pensiero di credente potessero o dovessero sorgere conflitti di sorta.

Creda pure l’onorevole Giua che se la genetica troverà il modo di influire sulle caratteristiche dei nascituri, essa si vedrà sbarrato il cammino dalla Chiesa Cattolica, solo nell’ipotesi che gli uomini, dei nuovi trovati si voglian servire per fini lesivi della dignità umana. Che se invece quei trovati potranno servire a liberare preventivamente qualche creatura da tare ereditarie e ad elevarne le condizioni di vita, la Chiesa sarà al suo posto, al fianco della scienza, per una umanità fisicamente e spiritualmente migliore. (Applausi).

Ma è ora, onorevoli colleghi, che io vi chieda scusa della ormai troppo lunga parentesi, e che io ritorni in argomento. E vi ritorno per dire all’onorevole Preti ed all’onorevole Binni, che, rivendicando la libertà della scuola noi non pensiamo né desideriamo in alcun modo menomare la scuola di Stato, di cui io sono il primo a riconoscere l’alta funzione e le indubbie qualità e benemerenze.

Ma vogliamo che, accanto ad essa, viva e prosperi anche la scuola orientata, e che i genitori italiani, tutti i genitori italiani, siano effettivamente liberi di mandare all’una o all’altra i loro figli.

In questo consiste la libertà della scuola.

Quando, nel 1869, al primo Parlamento riunito in Firenze, Vito d’Ondes Reggio presentava un progetto di legge il cui primo articolo diceva: «L’insegnamento è libero; può esercitarlo chiunque goda dei diritti civili», egli, pur riallacciandosi alle tradizioni dei nostri migliori pedagogisti del secolo scorso, da Antonio Rosmini al Capponi, al Lambruschini, al Tommaseo, intendeva fare un’affermazione di principio. Non voleva, come neppure oggi si vuole, ridurre la questione alla difesa di un gruppo di scuole private; ma affermava la tesi di un insopprimibile diritto della persona e della famiglia, quel diritto alla libertà di insegnamento che, dalla Rivoluzione francese in poi, ha trovato nel monopolio statale della scuola un’aperta violazione ed un’amara sopraffazione contro la fecondità delle libere iniziative.

Noi respingiamo, in maniera assoluta, la concezione dello Stato che si è venuta formando nei tempi moderni, secondo la quale la sua sovranità consiste nel proclamarsi fonte unica di ogni diritto, cosicché tutti i diritti soggettivi, a cominciare da quello dello sviluppo della personalità, non sono che sue benevole concessioni. Per noi, anche nel campo scolastico, lo Stato entra in funzione come tutore di diritti della persona e della famiglia con esse consostanziati, diritti della persona e della famiglia, il cui esercizio deve dallo Stato essere aiutato ed agevolato in vista della formazione e del perfezionamento degli individui e del raggiungimento del bene comune.

Supplire alle insufficienze della persona e della famiglia, ed integrare le loro iniziative al fine di condurre ogni persona al massimo perfezionamento compatibile con le sue doti naturali e con il presente ordine sociale, questa è la funzione dello Stato. Ed è in questi limiti che si delineano chiaramente quei doveri e quei diritti di fronte ai quali prende significato e valore il concetto della libertà della scuola.

Lo Stato dovrà dunque provvedere alla pubblica istruzione aprendo scuole sue e consentendo che ne aprano enti o privati, e vigilando a che tutte queste scuole, pubbliche o private che siano, offrano le dovute garanzie sia per quanto riguarda l’idoneità degli insegnanti, sia per quanto riguarda le modalità tecniche dell’insegnamento e la sua conformità alle leggi vigenti.

Per quel che si riferisce a questa vigilanza, io credo che potremmo – uomini di tutti i partiti – esser tutti d’accordo nell’auspicarla sempre più efficiente; perché sappiamo tutti che abusi e manchevolezze sono anche troppo frequenti, così nella scuola privata come nella scuola pubblica, così nelle elementari come nelle università; ed una vigilanza esercitata con competenza e senso di responsabilità potrebbe finalmente mettere lo Stato in condizione di intervenire tempestivamente ed efficacemente ovunque lo richiedano la dignità e la serietà dell’insegnamento.

Ma non basta che lo Stato consenta alla scuola privata di esistere se ne ha i mezzi e se soddisfa a ben determinate condizioni.

II diritto di insegnare, così inteso, costituisce bensì un minimo inalienabile: ma rappresenta quello che si potrebbe chiamare una libertà negativa, epperò insufficiente.

Ed invero l’insegnamento ha oggi tali esigenze di specializzazione dei docenti, di salubrità di locali, di installazioni e di attrezzature costose, che la scuola privata, se abbandonata a se stessa, non può più sussistere o può sussistere solo al servizio dei ricchi, per non dir dei ricchissimi.

Ora, non i ricchi soltanto devono poter scegliere la scuola cui affidare i loro figli. Se questa scelta ha un senso – come noi pensiamo che l’abbia, in relazione con quei diritti inalienabili della famiglia cui abbiamo detto che lo Stato deve rispetto e tutela – essa deve potersi liberamente esercitare da tutti i cittadini, a qualunque classe sociale appartengano, qualunque siano le loro condizioni economiche.

Una scuola libera, a disposizione soltanto dei privilegiati della fortuna, non solo contrasta con tutte le nostre tradizioni e travisa quelle che sono le origini dell’enorme maggioranza delle nostre scuole, di cui nessuno può dimenticare le benemerenze e che sono state create per il popolo, e che anzi proprio all’istruzione dei poveri erano, nel pensiero e nella volontà dei fondatori, espressamente destinate, ma urta – onorevoli colleghi – contro quel bisogno di giustizia sociale che tutti sentiamo imperioso ed a realizzare il quale sono volti i più nobili e concordi sforzi di questa Assemblea.

Perché la libertà di insegnamento sia effettiva per tutti, perché di essa possano valersi i poveri come i ricchi, perché la scuola cessi di essere un privilegio di classe, e resa accessibile a tutti, divenga veramente quello strumento di sano rinnovamento sociale che tutti auspichiamo, perché essa contribuisca a preparare una più vasta partecipazione del popolo ai compiti ed alle responsabilità della vita nazionale, bisogna che tutti i cittadini senza distinzione di ceto o di condizione, possano contare sull’assistenza anche economica dello Stato, qualunque sia la scuola nella quale compiono i loro studi.

Sarebbe qui fuori di luogo – onorevoli colleghi – una discussione delle modalità con cui questa assistenza potrà domani venir realizzata. Questo è compito della legislazione futura e dovrà assolversi con quella gradualità che le circostanze imporranno.

Ma è compito di questa Assemblea impostare i limiti e fissare le direttive della legislazione futura, in termini tali che la libertà non resti indefinitamente una semplice dichiarazione giuridica, ma diventi al più presto possibile per il popolo italiano una realtà operante. Per il che occorre che lo Stato provveda, come è suo dovere, a predisporre ed organizzare le condizioni economiche che valgano a rendere possibile l’effettivo esercizio della libertà.

L’esempio di altri Paesi in cui questo ideale è in atto basta a rassicurarci sulla possibilità della sua realizzazione, e ci conforta, e ci autorizza ad affermare che, in ogni caso, quelle provvidenze che verranno anche da noi escogitate al duplice fine di rendere effettivo l’obbligo scolastico fino ai quattordici od ai sedici anni, e di assicurare poi ai più meritevoli la continuazione degli studi nel campo della preparazione professionale o dell’alta cultura, dovranno essere attribuite alla persona con piena ed assoluta facoltà di utilizzarle in quella qualsiasi scuola, pubblica o privata, nella quale essa intende compiere la sua educazione.

Questo per quanto riguarda la libertà dei cittadini di scegliersi la loro scuola.

Ma non si esaurisce qui il problema della scuola – non si esaurisce se non si ha il coraggio di affermare un’altra libertà: quella della scuola stessa, della stessa scuola di Stato, a darsi i suoi ordinamenti.

E qui l’argomento assume un particolare rilievo se si guarda all’Università ed agli Istituti di alta cultura, la cui attuale decadenza, da tutti sentita, è in gran parte dovuta all’avvenuta soppressione di ogni autonomia, di ogni libertà.

L’Università è oggi soffocata dalle masse dei giovani che si affollano alle sue porte senza possedere attitudini e nemmeno aspirazioni alla preparazione scientifica o ad una reale elevazione morale e sociale, spinti soltanto dal proposito di conquistarsi in qualunque modo un titolo che apra la via ad uffici lucrosi.

L’Università non si salva se non attraverso un radicale rinnovamento dei suoi ordinamenti, capace di attuare una severa selezione ed un orientamento dei giovani. Tali nuovi ordinamenti dovranno essere così variamente articolati e differenziati da preparare i giovani meritevoli e capaci, perché forniti delle necessarie attitudini e perché orientati, avviandoli mediante una specifica formazione verso le singole attività professionali o verso le più alte mete della cultura.

Ad un tale risultato non si arriverà mai se non si metteranno in gioco le libere iniziative attraverso una completa autonomia di governo didattico ed economico dei singoli Istituti; autonomia che sola può permettere agli Istituti stessi di darsi un particolare e ben determinato carattere nella costituzione stessa del corpo insegnante e nella libera adozione di quegli ordinamenti che, caso per caso, più si confanno al raggiungimento dei fini che i singoli istituti si propongono, adeguando al programma i mezzi di cui essi dispongono.

L’autonomia, se reale e completa, varrà a fissare le responsabilità dei corpi insegnanti e a restituire all’insegnamento superiore quel prestigio che esso ha ormai perduto.

Allo Stato resterà il diritto di disciplinare l’esercizio delle professioni attraverso il conferimento dei relativi diplomi di abilitazione. E nell’esercizio di questo suo diritto avrà sempre modo di operare quel controllo che deve garantire ogni cittadino e stimolare le Università nell’esplicazione delle loro libere attività.

Se questa Assemblea avrà il coraggio di affermare il principio dell’autonomia degli Istituti di alta cultura, essa potrà ben dire di aver con ciò posta una pietra basilare dell’edificio nuovo nel quale si matureranno i futuri destini e le future grandezze d’Italia. (Vivi applausi – Molte congratulazioni).

PRESIDENTE. È iscritto a parlare l’onorevole Zotta. Ne ha facoltà.

ZOTTA. Parlerò sul problema familiare, il quale è trattato negli articoli 23, 24, 25 del progetto di Costituzione, limitando le osservazioni alle esigenze del tempo concesso dall’onorevole Presidente per questa discussione.

Incomincio da un rilievo, che non viene da questo settore, ma da me personalmente, e non so quanto sia condiviso dai colleghi del gruppo parlamentare democristiano. Cioè: l’articolo 23 sulla famiglia ha una formulazione che mi sembra insufficiente ad esprimere quel concetto vivo, che della famiglia noi italiani abbiamo, e che dovrebbe necessariamente in un testo costituzionale avere una dizione chiara, aperta, inequivocabile.

Due concetti sono fissati in questo articolo 23 del progetto.

L’uno afferma il carattere organico del gruppo familiare e la originarietà dei suoi diritti, colla dizione:

«La famiglia è una società naturale. La Repubblica ne riconosce i diritti».

L’altro concetto definisce il rapporto tra la famiglia e lo Stato, cioè la essenza finalistica del controllo che lo Stato esercita sulla famiglia.

Io ho proposto un emendamento.

Quando si dice: «e (la Repubblica) ne assume la tutela» – vedremo poi questo termine «tutela» – «per l’adempimento della sua missione e per la saldezza morale e la prosperità della Nazione», io ho proposto, per dare, appunto, quel carattere di concretezza, quel contenuto che manca, questa aggiunta: «in armonia con la tradizione religiosa, sociale e giuridica del popolo italiano».

Perché, onorevoli colleghi, noi abbiamo una definizione stilizzata valida per tutti i tipi di famiglia.

Questa definizione può prestarsi per la famiglia italiana, per quella anglosassone, per la russa, per la mussulmana, per la famiglia primitiva.

Si dice: «La famiglia è una società naturale. La Repubblica ne tutela i diritti».

Di quale famiglia si intende parlare? Vi è la famiglia cristiana, la quale si fonda sul carattere sacro del matrimonio, esige indissolubilità del vincolo coniugale, ripudia lo stato di concubinato, distingue la filiazione legittima da quella illegittima.

Vi sono anche nel mondo civile tanti altri tipi di società coniugale, da quelli che non riconoscano il crisma della santità, riconducendo il vincolo coniugale ad una mera convenzione di parte, risolubile quando che sia; a quelli che non riconoscono né il crisma sacramentale, né quello legale dello Stato civile, ravvisando il matrimonio nel concubinato.

Ora, io domando: questa dizione a quale di questi tipi si riferisce?

Alla famiglia, qual è intesa dalla coscienza religiosa, sociale e giuridica del popolo italiano? Questo parrebbe desumersi dal successivo articolo 24, dove si consacra il principio della indissolubilità del matrimonio. Se è così, dobbiamo intendere la tutela statale, come diretta al potenziamento di tutti gli elementi, che rafforzano l’istituto familiare e alla lotta contro tutti i fattori che lo debilitano.

Ma, onorevoli colleghi, la dizione formale non autorizza questa sola interpretazione, specialmente se la raffrontiamo col capoverso dell’articolo 25, molto noto e già molto discusso, ove si stabilisce che per i figli nati fuori del matrimonio si crei uno stato giuridico e sociale non inferiore a quello dei figli legittimi, giungendosi per questa via alla parificazione della famiglia legittima con quella illegittima. Ed allora la dizione del testo non si riferisce più ad una famiglia cristiana, ma ad un’altra famiglia.

Dunque, questo articolo 23, che sta all’inizio come un titolo, riceve la sua qualificazione, la sua concretezza ed individuazione negli articoli successivi, ed in questi articoli successivi non c’è univocità tale da farci credere che in quell’articolo sia consacrato il principio della santità del matrimonio cristiano. Ecco perché io propongo l’emendamento aggiuntivo.

Quando il progetto dice: «La famiglia è una società naturale. La Repubblica ne riconosce i diritti», vuol significare che noi accettiamo il principio della pluralità degli ordinamenti giuridici. La famiglia costituisce una formazione sociale, da cui deriva il possesso di diritti anteriori alla legge positiva, diritti che lo Stato riconosce e garantisce. È una teoria questa che si contrappone a quella della statualità del diritto di Hegel e di Jellineck; e trova le sue radici profonde nella scuola francese con Duguit e Hauriou, ma soprattutto in un grande giurista italiano: Santi Romano.

A questo proposito è stata fatta un’osservazione non scevra d’interesse dall’onorevole Preti, il quale ha detto: se voi vi riportate al concetto della pluralità degli ordinamenti giuridici di Santi Romano, voi dovete necessariamente riconoscere anche le associazioni a delinquere. È un rilievo esattissimo questo, perché, onorevoli colleghi, se noi ci fermiamo alla nozione formalistica, noi introduciamo il concetto puro di istituzione, di ordinamento giuridico, e ci mettiamo sulla china che ci porta a dover riconoscere tutte le forme di aggregazioni sociali, non esclusa quella a delinquere. Noi andiamo perciò in cerca di un contenuto, ed è quel contenuto che manca in questo articolo, il quale come è attualmente formulato può essere benissimo interpretato come allusivo anche alla famiglia dei popoli primitivi, alla famiglia poligamica, perché tutte le famiglie sono società naturali e tutte hanno una propria struttura, cioè un proprio ordinamento giuridico e quindi diritti loro propri.

Diamolo questo contenuto! Ma dove lo cerchiamo? Non indubbiamente nel campo del diritto naturale o razionale, in un terreno cioè controverso per le diverse concezioni e definizioni, per i diversi obbietti e limiti. Noi non abbiamo in altri termini un tipo di famiglia valido per tutti i casi, che ci autorizzi a pensare che il testo intenda alludere a quel tipo. Non esiste, come non esiste un tipo di Stato, un tipo di societas gentium, un tipo di una qualunque formazione sociale, ma esiste un determinato Stato, una determinata società delle genti, una determinata formazione sociale, una determinata famiglia. È questa famiglia che noi vogliamo definire. Ecco perché io ho presentato questo emendamento. Perché mi sembra che soltanto allora l’articolo palpiti, viva, dia una nozione precisa e concreta, indichi una direttiva al futuro legislatore, consacri un principio, che è nella coscienza cattolica e giuridica del popolo italiano. Soltanto allora, onorevoli colleghi, non vi potrà essere in avvenire perplessità di interpretazione, perché si saprà che la Costituzione ha voluto consacrare il principio della famiglia italiana, di quella che si basa sul carattere sacro del matrimonio, che ripudia il concubinato, che trae origine da una unione, che non è solo dei corpi, ma delle anime, che ha quindi per obbietto la reciproca assistenza, la procreazione e l’educazione dei figliuoli, il benessere economico, in una comunanza indissolubile di vita: consortium omnis vitae, divini et humani iuris communicatio.

Ora, questo è l’ordinamento giuridico, questi sono i diritti che deve tutelare la Repubblica; un complesso cioè di posizioni giuridiche, le quali hanno radici così profonde nella coscienza del popolo italiano, hanno una rispondenza così immediata nell’animo umano, da collocarsi per la loro forza cogente, almeno per quanto riguarda la nostra gente, sul medesimo livello di quei diritti primordiali e fondamentali della personalità umana, che sono i diritti alla vita ed alla libertà. E come questi, infatti, essi devono essere intangibili ed anteriori ad ogni legge positiva, in quanto una qualsiasi violazione di essi importerebbe offesa alla vita e alla libertà della famiglia, cioè per quella connessione che esiste tra la famiglia e la società, costituirebbe un attentato alla saldezza morale ed alla prosperità della Nazione.

Si parla di tutela, o signori. Chiariamo questo concetto con una aggiunta, ed allora lasciamo correre tutti gli aggettivi e tutti i sostantivi. Tutela! Ma se questo termine è usato nel senso tecnico giuridico nell’articolo 23, – e non dovrebbe essere diversamente, perché nella Costituzione si parla in termini giuridici, i quali hanno un solo significato e non presentano equivocità di interpretazioni – occorre ricordare che la tutela si esercita sugli incapaci; il che farebbe temere una ingerenza eccessiva dello Stato nella famiglia. Se non è un termine giuridico, ed allora bisogna specificare che cosa si vuole intendere. È questo concetto che noi dobbiamo cercare e che io vedrei espresso nella dizione aggiuntiva da me proposta.

Passo poi al secondo emendamento: «Il capo della famiglia è il marito».

GIANNINI. È una illusione!

ZOTTA. Ma noi viviamo di queste illusioni! Noi abbiamo fissato in questo articolo 24 il concetto dell’unità della famiglia e dell’indissolubilità del vincolo coniugale. Se ne vuole aggiungere anche un altro: quello dell’uguaglianza giuridica e morale dei coniugi. Io direi che questo principio è già accolto dalla legislazione vigente, perché riposa sul concetto etico dell’uguaglianza degli esseri umani. Lo si vuole introdurre nella Costituzione? Ma lo si armonizzi con l’altro della unità della famiglia e lo si armonizzi in maniera che non sorga dubbio di interpretazione, perché non deve andare a scapito di questa unità.

Mi pare di aver sentito, su questo punto, più in privato che nell’aula, che questo concetto di gerarchia familiare, che è nella tradizione del popolo italiano, sia già espresso nella dizione «unità della famiglia». Io dissento da questa interpretazione, alla quale mi sembra acceda anche l’onorevole Presidente dell’Assemblea. Mi pare che egli l’abbia accennato in una interruzione. Unità della famiglia, sì, unità di questo nucleo, ma noi dobbiamo anche precisare chi dirige il nucleo, noi dobbiamo preoccuparci della unità della direzione. Sono due concetti diversi.

PRESIDENTE. Mi permetta che lo interrompa: voglio esprimere il mio pensiero a riguardo con una formula latina che non riesco ancora a tradurre in italiano in modo tale che renda lo stesso concetto.

ZOTTA. Sì, l’ho già sentita la formula: primus inter pares.

PRESIDENTE. Non pare anche a lei che se riuscissimo ad esprimere questa formula bene in italiano, daremmo soddisfazione alle comuni esigenze?

ZOTTA. Però mi sembra non sia espressa chiaramente nella dizione del progetto.

PRESIDENTE. Lo stesso dico io.

ZOTTA. E mi riporto anch’io ad una reminiscenza del mondo latino. Non vi è dubbio sulla unità della repubblica romana; essa però aveva una duplicità di direzione espressa nella collegialità: i due consules dotati di par potestas. Il primus inter pares si trovava invece negli altri Stati italici. Vi era un meddix che aveva accanto un meddix minive. Ora la famiglia, quanto ad unità di direzione, è da paragonarsi al meddicium osco non al consolato romano.

Se la dizione da me proposta non può appagare, se ne trovi un’altra, ma che esprima chiaramente questo concetto, il concetto cioè che è stato fatto proprio dalla legislazione vigente, la quale ha già abolito tutte le disparità sopravvissute, ha integralmente soppresso l’istituto dell’autorizzazione maritale, sicché, nel campo del diritto privato, vi è una eguaglianza assoluta dei due coniugi, e tuttavia ha conservato in vita il concetto della gerarchia familiare, che importa subordinazione della moglie verso il marito e dei figli verso i genitori. In altri termini, io dico questo: non ci sarebbe bisogno di questa mia aggiunta, se non ci fosse stata l’altra dell’affermazione solenne dell’eguaglianza dei due coniugi. Sia ben chiaro che si intende consolidare nella Costituzione lo spirito della tradizione, ma non crearne uno nuovo, che sia come la premessa di pericolose innovazioni nell’avvenire.

I coniugi sono eguali! Ma la famiglia, come ogni istituto collettivo, non vive se non ha un capo e il capo lo trova nella persona del più capace e, me lo consentano, del più forte.

Ancora cinque minuti.

PRESIDENTE. Parli pure, onorevole Zotta, che l’Assemblea lo ascolta molto attentamente.

ZOTTA. Mi sento un po’ preoccupato per l’ora tarda e la preoccupazione mi spinge ad esser breve.

Veniamo adesso all’altro emendamento da me proposto; soppressione del capoverso dell’articolo 25. Dalle premesse fissate nell’articolo 23 e nell’articolo 24, scaturiscono inevitabilmente queste conseguenze: distinzione netta fra famiglia e concubinato, distinzione netta tra filiazione legittima e filiazione illegittima. Qui si inserisce una questione molto delicata, la quale ha un profondo contenuto di umanità; una questione che risale ai principî della solidarietà, della eguaglianza umana. Migliorare cioè la condizione degli illegittimi, perché la colpa dei genitori non ricada su chi non ha chiesto di venire al mondo. Questione umanissima, sulla quale devo fare questo rilievo, compiacendomene, che in sostanza, diversità di vedute tra i vari settori non esistono. La diversità è soltanto formale: e mi spiego. Questa formulazione, così come è espressa dal progetto, il quale stabilisce che venga garantito ai figli nati fuori del matrimonio uno stato giuridico, che escluda inferiorità civili e sociali, porta in una interpretazione logica a delle conseguenze, che non sono accettate da nessuno di questi settori, come è stato chiaramente specificato nei vari interventi dei colleghi che mi hanno preceduto. Vi è stata soltanto una voce, che poteva apparire discorde. Quando l’onorevole Merlin Umberto disse: «Ma in questo modo, amici miei, voi ponete il genitore nel dovere di introdurre nella sua casa dei figli naturali, e logicamente con essi anche la mamma, perché se i figli naturali hanno gli stessi diritti dei figli legittimi, è naturale che essi abbiano anche diritto all’assistenza della mamma», vi è stato un mormorio indistinto di protesta nei settori di sinistra. Ho notato però questa interruzione dell’onorevole Calosso: «tendenzialmente sì».

Ora, onorevoli colleghi, se dovessimo appagarci delle assicurazioni sulla interpretazione che viene data oggi a questa disposizione da tutti coloro che sono intervenuti nella discussione, noi saremmo tranquilli, perché questa interruzione dell’onorevole Calosso potrebbe essere anche presa così, come un motto di…

Una voce. …di spirito.

ZOTTA. …già di spirito; ma il fatto è che questo spirito, col decorso degli anni, diventa potente, come avviene per tutti gli spiriti, per tutte le essenze alcooliche; specialmente quando mutano le circostanze ambientali, sociali e politiche. Vi può essere tutta una evoluzione od involuzione inaspettata ed indesiderata in avvenire. E allora questa disposizione va intesa precisamente nel senso paventato, che cioè il genitore abbia il dovere di introdurre nella casa – perché questo dovere gli viene da una chiara disposizione di legge, la quale parifica i figli naturali ai legittimi – i figli illegittimi, e con essi la madre. E allora, onorevoli colleghi, questi nostri tardi nepoti diranno che la nuova Costituzione del popolo italiano – la prima Costituzione che sa darsi il nostro popolo – ha distrutto la famiglia come organismo unitario, ha introdotto l’immoralità nella casa, ha legittimato la poligamia. (Commenti a sinistra).

Vi è un altro lato; è un dilemma questo, da cui non si esce, una volta affermata la posizione di eguaglianza. Il genitore crea un’altra casa per i figli illegittimi e per la madre di essi, cioè istituisce un’altra famiglia. E allora, onorevoli colleghi, è distrutta non solo l’unità della famiglia, ma anche il vincolo dell’indissolubilità, perché questo sarà un comodo ripiego per poter spezzare quel vincolo che noi dichiariamo adesso, nella Costituzione, indissolubile. Questo sarà il mezzo cui faranno ricorso tranquillamente tutti coloro che vogliano ripudiare il coniuge e la famiglia legittima, attratti dalla prospettiva di nuove nozze, perché hanno la tranquillità di costituire un’altra famiglia, che ha le stesse possibilità di una famiglia legittima.

Le provvidenze, sì, le condividiamo nella sostanza. Esse sono nostre. Ci muove uno spirito di pietà per questi derelitti. Che cosa si può fare per essi? Bisogna tentare tutto quello che è possibile e mi sembra che la questione possa essere posta in questi termini: commisurare il bene che si opera in una sfera con l’inevitabile male che si crea in un’altra sfera di esseri umani, che è molto più ampia della prima, perché se noi creiamo questa parità per gli uni, noi danneggiamo grandemente, in profondità e in estensione, gli altri.

Questo è il problema dal punto di vista umano, perché non è generosità quella che, per beneficare alcuni, ha bisogno di danneggiare molti altri; non è giustizia quella che elimina le conseguenze di un male, recando danno a chi non lo ha causato. La giustizia consiste nel ristabilire l’armonia, non nello spostare lo squilibrio da un punto ad un altro.

Si è solennemente dichiarato in quest’Aula che bisogna migliorare le condizioni dei figli illegittimi. Ma sì, senz’altro! Incominciamo, per esempio, col sollevare la condizione dei figli naturali, non adulterini né incestuosi, sancendo tutti gli obblighi da parte dei genitori verso questi derelitti, obblighi sia di indole morale che di indole patrimoniale. Consacrando questi obblighi, non c’è infatti pericolo per l’istituto familiare. Essi si possono anzi ampliare con una ricerca più ampia della paternità e della maternità. Ma altri casi vengono prospettati: sentivo stamane l’onorevole Ruini, il quale citava come questo problema fosse stato tormentosamente vissuto da Salandra, da Scialoia, da Gianturco, e proponeva che ci fosse una possibilità di legittimazione quando uno dei genitori naturali non fosse legato da matrimonio e nei confronti di questi. Negli altri casi è opportuno intensificare l’azione di assistenza da parte di istituzioni private o pubbliche.

In ogni caso occorre eliminare l’umiliazione del marchio d’infamia, che pesa dolorosamente sulla fronte di questi disgraziati, quando essi debbono dichiarare fra i consociati la loro paternità.

Bisogna insomma distruggere per legge ciò che ha carattere di inferiorità, ma purché si mantenga saldo l’istituto della famiglia.

MANCINI. Concretizzi queste provvidenze.

ZOTTA. È compito del Codice civile, non della Costituzione. Io perciò ho presentato un emendamento per la soppressione del capoverso. Comunque non vi insisto, se altri emendamenti sono redatti in forma più aderente al mio pensiero. Io accedo senz’altro ad essi, perché il pericolo è che, pur approvando qui il concetto dell’indissolubilità del matrimonio, lo distruggiamo di fatto, facendo passare una norma che pone sullo stesso piano figli naturali e figli legittimi.

Non è chi non veda quanto sia esiziale questa visione. È esiziale a tutti. Anzitutto agli artefici del dramma, perché essi non saranno più trattenuti dal pensiero di rovinare una disgraziata quando sanno di poterne legalizzare la posizione; non saranno più tormentati dallo spettro di coloro che vengono al mondo. La possibilità stessa di costituire altri focolari costituisce un motivo di inconsiderazione, di leggerezza nella scelta del primo. La unione dell’uomo e della donna, che nella famiglia italiana, grazie a Dio, riposa finora sulla coesione delle anime, ove trova il più sicuro presidio per la sua saldezza morale, questa unione verrebbe ad essere occasionata, con una facilità di trasposizioni, da fattori effimeri, da capriccio, da curiosità, da libidine. Chi ne soffrirebbe enormemente sarebbe l’altro coniuge, la donna. È un fatto questo che non è stato valutato in questa discussione. La moglie, la quale è elemento fondamentale, essenziale, per la formazione della casa, per la costituzione e la conservazione del patrimonio familiare, dovrebbe assistere inerte con i propri figliuoli alla distruzione della sua casa, dovrebbe vedere i suoi risparmi alimentare altre case, dovrebbe vedere disgregarsi quel patrimonio affettivo ed economico cui essa ha dedicato le migliori energie nella sua sublime missione domestica. Esiziale per lo Stato, se è vero quello che abbiamo scritto che dalla famiglia lo Stato trae forza e impulso per il suo proprio sviluppo.

Salviamo la famiglia, onorevoli colleghi! In questa grande povertà, in questo grande travaglio, dopo tante sciagure belliche e politiche, ci sia conservato questo ché è l’unico patrimonio del popolo italiano (Applausi), questo da cui il popolo trae motivo di conforto per credere ancora nel suo avvenire! (Applausi – Molte congratulazioni).

PRESIDENTE. Il seguito della discussione è rinviato alla seduta pomeridiana.

Interrogazioni con richiesta d’urgenza.

PRESIDENTE. Sono state presentate le seguenti interrogazioni con richiesta di urgenza:

«Al Ministro della pubblica istruzione, per sapere quali provvedimenti intenda prendere per andare incontro alle giuste rivendicazioni degli insegnanti medi e dei Convitti nazionali in modo da rendere al più presto alla scuola italiana la tranquillità e la serenità indispensabili al funzionamento di essa.

«Lozza, Silipo».

«Al Ministro della pubblica istruzione, sulle ragioni che lo hanno indotto a non accogliere le proposte di soluzione dello sciopero del personale della scuola media, proposte sulle quali erano d’accordo il personale interessato, il Gruppo parlamentare della scuola, la C.G.I.L. e lo stesso Ministro.

«Lizzadri».

Il Ministro della pubblica istruzione potrà rispondere a queste interrogazioni domani, contemporaneamente alle altre presentate su analogo argomento.

L’onorevole. Di Gloria ha fatto pervenire alla Presidenza una richiesta perché sia sollecitato lo svolgimento di un’interrogazione presentata dall’onorevole Canevari, da lui e da altri deputati sulla cooperazione.

Sarà tenuto conto della sua richiesta.

Interrogazioni.

PRESIDENTE. Si dia lettura delle interrogazioni pervenute alla Presidenza.

SCHIRATTI, Segretario, legge:

«I sottoscritti chiedono di interrogare i Ministri dell’industria e commercio e del lavoro e previdenza sociale, per sapere se, per ridurre la grave disoccupazione cagionata in provincia di Frosinone dai danneggiamenti subìti dagli stabilimenti industriali a causa della guerra, non ritengano opportuno provocare e favorire, con idonei provvedimenti di pronta attuazione, la riattivazione e la trasformazione per produzioni di pace degli stabilimenti già adibiti a produzioni di guerra, che, come quello Bombrini-Parodi di Ceccano, già impiegavano migliaia di operai.

«Carboni, Persico, Cairo, Binni, Preti».

«Il sottoscritto chiede d’interrogare i Ministri delle finanze e tesoro e dei lavori pubblici, per conoscere se:

1°) ritenuto che le somme attualmente stanziate per la revisione dei lavori appaltati dallo Stato alle imprese edili rappresentano solo una esigua parte delle somme effettivamente erogate dalle suddette imprese che, pertanto, restano creditrici dello Stato per somme tali da paralizzare ogni loro ulteriore attività ricostruttrice;

2°) ritenuto che non può dubitarsi del loro diritto ad essere rimborsate delle somme affrontate nell’interesse della ricostruzione nazionale e dei bisogni delle classi lavoratrici che nella attività edilizia hanno trovato e trovano il loro massimo impiego;

3°) ritenuto che la gravissima situazione dei costruttori italiani impone provvedimenti straordinari e di carattere urgentissimo;

4°) ritenuto che lo Stato, seppure si è trovato costretto a differire i pagamenti per difficoltà finanziarie, ha pur tuttavia il dovere di provvedere subito, nei limiti delle sue possibilità effettive, con provvedimenti concreti e realizzabili;

5°) ritenuto che lo Stato è proprietario di tutti i materiali e macchinari raccolti nei campi dell’Arar;

non ritengano, intanto, di venire incontro ai costruttori edili mediante emissione di buoni di prelevamento di materiali dai campi dell’Arar.

«Tali buoni dovrebbero avere valore corrispondente ai crediti da ogni impresa vantati per revisione e che, per le attuali difficoltà, non risultano esigibili per mancanza del corrispondente finanziamento per la Camera.

«Bellavista».

«Il sottoscritto chiede d’interrogare il Ministro della pubblica istruzione, per sapere se intenda:

1°) disporre che sia corrisposto ai supplenti di filosofia negli Istituti magistrali il pagamento delle ore di tirocinio;

2°) provvedere, entro il corrente anno scolastico, alla sistemazione degli idonei di concorso e degli abilitati col concorso per soli titoli;

3°) assegnare (e a quale grado) i supplenti agli effetti della disagiata residenza e della indennità di presenza. (L’interrogante chiede la risposta scritta).

«Tripepi».

«Il sottoscritto chiede d’interrogare il Ministro dei trasporti, per conoscere le ragioni del nuovo trattamento nel servizio di trasporto ferroviario del prodotto ittico proveniente da Chioggia.

«Convogliata su autocarro alle più vicine stazioni di Padova e di Rovigo, questa merce deperibilissima – che veniva fino a poco tempo fa caricata su treni diretti – viene ora fatta viaggiare con treni accelerati, con la conseguenza che il prodotto giunge a destinazione avariato, specialmente se diretto verso l’Italia centro-meridionale.

«In attesa che, per le cure del Ministero, possa presto compiersi la ricostruzione della ferrovia distrutta con la guerra, l’interrogante chiede di conoscere quali provvedimenti verranno disposti per ovviare al grave inconveniente. (L’interrogante chiede la risposta scritta).

«Ghidetti».

«Il sottoscritto chiede d’interrogare il Presidente del Consiglio dei Ministri e l’Alto Commissario per l’igiene e la sanità pubblica, per conoscere se – premesso che, sotto la ragione che «la malaria ha solo qualche caso sporadico», gli organi dirigenti dei servizi antimalarici della provincia di Venezia hanno respinto la richiesta del comune di Chioggia, intesa a far sì che nella zona di disinfestazione con D.D.T. vengano compresi i territori suburbani, che dalla sponda nord del Brenta giungono fino ai margini dell’agglomerato urbano di Chioggia e Sottomarina – non ritengano opportuno assecondare l’azione nuovamente intrapresa dai comuni di Chioggia, per ottenere l’accoglimento della sua domanda, tenuto presente che si tratta di salvaguardare la salute di 3461 abitanti delle località non comprese nella prevista zona di disinfestazione, e di impedire il diffondersi della malaria, essendosi riscontrati già negli stessi agglomerati cittadini più vicini alla zona in discussione, casi autoctoni della malattia. (L’interrogante chiede la risposta scritta).

«Ghidetti».

«Il sottoscritto chiede d’interrogare il Presidente del Consiglio dei Ministri, Ministro, ad interim, dell’Africa Italiana, per sapere se non riconosce essere doverosa assistenza la sistemazione del personale impiegatizio delle Colonie assunto con contratto straordinario e che ora ritorna in Patria dopo cinque anni di prigionia e viene licenziato in massa. (L’interrogante chiede la risposta scritta).

«Tomba».

PRESIDENTE. Le interrogazioni testé lette saranno iscritte all’ordine del giorno e svolte al loro turno, trasmettendosi ai Ministri competenti quelle per le quali si chiede la risposta scritta.

La seduta termina alle 13.15.

POMERIDIANA DI GIOVEDÌ 17 APRILE 1947

ASSEMBLEA COSTITUENTE

xciii.

SEDUTA POMERIDIANA DI GIOVEDÌ 17 APRILE 1947

PRESIDENZA DEL PRESIDENTE TERRACINI

INDICE

Progetto di Costituzione della Repubblica italiana (Seguito della discussione):

Calamandrei                                                                                                   

Binni                                                                                                                 

Bosco Lucarelli                                                                                              

Cevolotto                                                                                                        

La seduta comincia alle 16.

SCHIRATTI, Segretario, legge il processo verbale della precedente seduta pomeridiana.

(È approvato).

Seguito della discussione del progetto di Costituzione della Repubblica italiana.

PRESIDENTE. L’ordine del giorno reca: Seguito della discussione del progetto di Costituzione della Repubblica italiana.

Sulla discussione generale del Titolo II della parte 1ᵃ è iscritto a parlare l’onorevole Calamandrei.

Ne ha facoltà.

CALAMANDREI. Onorevole signor Presidente, onorevoli colleghi, parlo sull’articolo 24, quello – per intenderci – della indissolubilità del matrimonio.

Questo articolo è – secondo me – uno degli esempi più tipici di quelle disposizioni, delle quali ho avuto occasione di parlare in sede di discussione generale, che sono o inutili o illusorie o anche contrarie alla verità. Per questo, coi colleghi del partito d’azione, abbiamo proposto per esso un emendamento radicale, consistente nella sua totale soppressione.

È un articolo che nasconde un nocciolo di ipocrisia.

Già anche nella prima parte, quello che dice non corrisponde a verità:

«Il matrimonio è basato sull’uguaglianza morale e giuridica dei coniugi».

«Morale» certamente; ma non è con una norma giuridica che questa uguaglianza morale può essere assicurata.

Ma, sotto l’aspetto giuridico, il nostro diritto vigente – che nessuno, per ora, che io sappia, vuole cambiare – non è basato sull’uguaglianza giuridica dei coniugi: perché il capo della famiglia è il marito, è lui che dà il cognome alla moglie ed ai figli, è lui che stabilisce il domicilio della famiglia, e la moglie è obbligata a seguire il marito, e non viceversa.

E questa disuguaglianza giuridica dei coniugi nella famiglia è una esigenza di quella unità della famiglia, di questa società, che, per poter vivere, ha bisogno di essere rappresentata e diretta da una sola persona.

Si potrebbe cambiare questo sistema: e stabilire che capo della famiglia sia la moglie, che essa dia il cognome ai figli e stabilisca il domicilio, e che il marito sia obbligato a seguire la moglie; e che ad essa spetti la patria potestà sui figli. Sarebbe un altro sistema.

Ma tra questi due sistemi bisogna scegliere: uno intermedio, che dia a tutt’e due i coniugi la assoluta parità giuridica, non esiste.

E per ora non mi pare che la scelta tradizionale, che è stata fatta nel nostro diritto, si abbia intenzione di cambiarla.

Quindi, l’articolo, in questa parte, non risponde a verità.

Senonché, in questo articolo, quello che conta non è questa prima proposizione; essa ha un carattere introduttivo, preparatorio.

Tutto l’articolo è stato fatto per poter ad un certo punto introdurvi dolcemente la indissolubilità del matrimonio. Non si poteva fare una disposizione secca, semplice, categorica, che dicesse soltanto: «il matrimonio è indissolubile»: sarebbe stata incauta ed irritante. È allora si è cercato di preparare il terreno, una specie di nido, direi, nel quale poi deporre questo piccolo uovo prezioso che è la indissolubilità del matrimonio. Questa è infatti l’anima o il nocciolo dell’articolo che qui occorre discutere.

Io non vi farò qui una discussione sul divorzio, a favore o contro. In un bel discorso, ieri, l’illustre collega Merlin diceva che discutere sul divorzio è, oggi, combattere contro i molini a vento. In realtà chi in questo lungo cammino delle discussioni sulla Costituzione – che è ancora così lontano dalla sua mèta – ci ha costretti ogni tanto, non voglio dire a perdere tempo, ma ad impiegare il nostro tempo nel combattere contro i mulini a vento, sono stati proprio gli amici democristiani, i quali si sono compiaciuti di introdurre nella prima parte della Costituzione una quantità di affermazioni di principio di carattere più o meno apertamente confessionale, sulle quali bisogna soffermarsi per giorni e settimane, prima di affrontare finalmente la parte pratica della Costituzione, quella che veramente conta, quella della costruzione dei meccanismi costituzionali, alla quale costruzione, ancora oggi, dopo dieci mesi di lavoro, non abbiamo neanche dato inizio.

Ma tuttavia, se pure si tratta di una battaglia contro i mulini a vento, l’invito a prenderci parte viene dai democristiani, e bisogna fare anche noi qualche sforzo, per non venir meno all’invito se non altro per una ragione di buona creanza.

Ma, vi ripeto, io non parlerò del divorzio.

Perché? Perché sul divorzio, pro o contro, è stato già detto tutto in ogni senso. Ricordo che quando ero studente a Pisa, ed è una cosa che risale a qualche semestre fa, un mio professore illustre, che era Carlo Francesco Gabba, aveva proibito a noi studenti di fare la tesi di laurea sul divorzio, perché diceva: questa è una materia su cui non c’è più alcun argomento da aggiungere, né a favore né contro.

La ragione profonda di questa affermazione è che la questione del divorzio non è una questione sulla quale gli antagonisti possano ragionare con argomenti di pura logica, che tendano a convincersi reciprocamente; il divorzio è una questione di religione, è una questione di fede, e mettersi a discutere intorno al divorzio qui sarebbe come se ci si dovesse mettere a discutere sulla esistenza di Dio o sulla immortalità dell’anima.

C’è un libro fondamentale in materia matrimoniale, che anche i miei colleghi democristiani certamente apprezzano: Il matrimonio nel diritto canonico di un professore dell’Università di Roma, che è il più eminente ecclesiasticista d’Italia, e che è un cattolico praticante, Arturo Carlo Jemolo; il quale ha una pagina in cui parla del divorzio, che meriterebbe di essere letta per intero, e di cui io vi leggerò soltanto alcune proposizioni nelle quali si mette in evidenza che l’indissolubilità del matrimonio dipende essenzialmente da una concezione sacramentale, la quale, quantunque non esplicitamente accolta, continua ad esercitare tutta la sua efficacia in seno alle legislazioni civili.

«Se ben badiamo al principio della indissolubilità, là dove le legislazioni civili la tengono ferma, gli argomenti, che si possono addurre sopra un terreno laicista, di interesse pubblico e di interesse della prole, porterebbero sicuramente a non consentire ai coniugi di disfare il vincolo di loro autorità, a rendere necessario da prima una regolamentazione rigorosa da parte del legislatore e, poi, un esame ancor più rigoroso da parte di appositi organi statali, per giudicare se lo scioglimento non contrasti con l’interesse pubblico e con quello della prole, ove questa esista; ma non porterebbe mai (ricordatevi che è un cattolico che parla) ad una esclusione assoluta dello scioglimento.

«Non si può in buona fede sostenere che, su un terreno puramente umano e se si astrae da argomenti che superino la ragione e attingano al dominio dell’ultraterreno, non si diano casi in cui e l’interesse pubblico e quello della prole sarebbero meglio salvaguardati dallo scioglimento che non dal mantenimento del vincolo». E continua Jemolo, fino a concludere così: «Nella reiezione del divorzio l’idea del valore arcano del matrimonio esercita ancora, se pur questo non sia chiaro al giurista laico, tutta la sua influenza».

Dunque, questione di religione, sulla quale io non voglio entrare. Ma io parlo dei fini terreni dell’articolo 24: perché i proponenti di questo articolo lo hanno redatto? Quale è lo scopo a cui essi mirano con questo articolo, se questo articolo verrà approvato? Ho sentito dire da qualcheduno dei colleghi e amici fautori di questo articolo che, in sostanza, questo è uno di quegli articoli della nostra Costituzione che si possono chiamare descrittivi. È un articolo il quale non fa altro che consacrare in una formula uno stato di fatto e una situazione storica che esiste già.

Essi dicono: «In Italia il matrimonio è indissolubile; è indissolubile il matrimonio che si celebra secondo il rito cattolico in base agli Accordi lateranensi e in base al diritto canonico; è indissolubile il matrimonio puramente civile, secondo il diritto civile. Quindi, se questo è, perché vi opponete a che questa realtà storica sia consacrata in un articolo in cui non si modifica la realtà, ma la si conferma e la si consacra?»

Allora, se questo è lo scopo per cui l’articolo 24 è inserito nella nostra Costituzione, io mi domando se è proprio vero che il matrimonio, quale è praticato in Italia, sia indissolubile; se questa affermazione che il matrimonio è indissolubile corrisponda alla realtà per tutti, in ogni caso; se questa indissolubilità vi sia per tutti, o soltanto per alcuni; c’è in certi casi sì, e in altri casi no. Questa è la breve indagine sulla quale vorrei intrattenere gli onorevoli colleghi di questa Assemblea.

Voi sapete che nel diritto matrimoniale attuale in Italia si hanno tre tipi di matrimonio: il matrimonio puramente civile, quello che si celebra dinanzi al sindaco, dinanzi all’ufficiale dello stato civile, e che è regolato dal Codice civile; il matrimonio cattolico concordatario, che è regolato dall’articolo 34 del Concordato e dalla legge matrimoniale 27 maggio 1929; il matrimonio dinanzi ai ministri dei culti ammessi, che è regolato dalla legge del 24 giugno 1929.

Questi tre tipi di matrimonio sono egualmente indissolubili. Il principio della indissolubilità, essenzialmente derivante da quella idea sacramentale che è propria del matrimonio cattolico, si è esteso anche agli altri due tipi di matrimonio: quello puramente civile e quello acattolico, ed è quindi comune, oggi, a tutte le forme di matrimonio vigenti in Italia. Peraltro, in tutti e tre questi tipi, il matrimonio, pur essendo indissolubile, è tuttavia annullabile. Che differenza c’è tra dissolubilità e annullabilità? Questa differenza, come sapete, è una differenza assai chiara, per ragioni istituzionali, ai giuristi, i quali hanno i loro schemi, le loro figure mentali, e vedono bene questa figura del matrimonio nullo o annullabile, diversa dallo schema del matrimonio valido ma risolvibile. In sostanza, la differenza fondamentale fra questi due concetti, detta così, in parole semplici e approssimative, è questa: che il matrimonio nullo o annullabile è un matrimonio, o qualcosa che di fuori appare un matrimonio, al quale nel momento in cui è stato celebrato, per un verso o per un altro, è venuto a mancare qualcuno di quegli elementi, di quei requisiti, di quelle condizioni che il diritto ritiene indispensabili perché possa sorgere un matrimonio valido. È un matrimonio che, anche se di fuori si presenta come regolare, in realtà è un organismo giuridico malato e, per questa malattia, condannato a morire, anche se per un certo periodo, che può durare anche qualche anno, questo matrimonio apparentemente vivrà come un matrimonio sano e valido, e che soltanto dopo qualche anno, quando si riveleranno quei vizi che il matrimonio portava con sé fin dal principio, ci si accorgerà che era soltanto una apparenza, un matrimonio putativo. I giuristi distinguono una quantità di gradazioni di questi vizi: parlano di vizi di inesistenza, di vizi che danno luogo a nullità, di quelli che dànno luogo ad annullabilità, ma, in ogni caso, matrimonio nullo o annullabile significa sempre quel matrimonio a cui manca qualcosa fin dal principio, fin dal momento della celebrazione, e nel quale se poi si arriverà a far dichiarare questa nullità iniziale, si vedrà che il motivo per cui il matrimonio viene a cadere risale al momento della celebrazione.

Quando invece si tratta di matrimonio risolubile, di scioglimento, di divorzio insomma, il concetto sotto l’aspetto giuridico è profondamente diverso. Qui il matrimonio nasce vivo, vitale, sano, robusto e va avanti per un periodo più o meno lungo; poi, ad un certo momento, interviene qualcosa per cui questo organismo giuridico, che era vivo e vitale, muore di morte violenta. Può accadere in certi diritti, che ammettono il divorzio, che il matrimonio sia basato soltanto sul consenso dei coniugi, perfettamente valido, è che poi, dopo un certo periodo, i coniugi si pentano di aver dato questo consenso, ritirino il consenso, ed il venir meno del consenso, come se si trattasse di un qualsiasi contratto, faccia sì che il rapporto matrimoniale finisca. Ma nel periodo in cui il contratto è stato vivo, questo contratto è stato perfettamente valido, ha avuto un periodo di vita perfettamente normale e fisiologico.

Senonché, illustri colleghi, questa distinzione che è assai facile e assai semplice nel campo del diritto e intorno alla quale, se io avessi voluto ragionare più esattamente con termini giuridici, che certamente vi avrebbero tediato, si potrebbero fare delle variazioni e precisazioni che potrebbero durare a lungo, questa distinzione, ripeto, se è facile a farsi nel campo giuridico, è difficile a farsi nel campo psicologico e sociologico; quando due coniugi, dopo un certo numero di anni di vita coniugale, arrivano a desiderare di liberarsi da questo vincolo, per una ragione o per un’altra, è per loro perfettamente indifferente che si dica che il matrimonio è dissolubile o annullabile, che il modo per liberarsene sia il divorzio o l’annullamento. Quello che conta per loro è che si trovi il modo giuridico per levar di mezzo questo vincolo, il modo giuridico per poter passare ad altre nozze attraverso la riconquistata libertà.

Ora, illustri colleghi, nonostante che in Italia si dica – e l’articolo 24 solennemente affermi – che il matrimonio è indissolubile, noi assistiamo in Italia a un fenomeno che dimostra il contrario. Qui chi vi parla non è un teorico del diritto, ma un pratico, un avvocato, il quale, pur non praticando questo genere di affari di cui ora vi parlerò, ha però esperienza del modo con cui questi affari si trattano. Questo avvocato vi dice che in Italia l’annullamento del matrimonio, il quale è ammesso e regolato tanto dal diritto civile, quanto dal diritto canonico, in realtà, nella pratica, assume una funzione vicaria di divorzio, di scioglimento matrimoniale. Nella pratica questo annullamento si è andato pian piano foggiando e adattando in modo di raggiungere occultamente e subdolamente quegli stessi fini che, se ci fosse il divorzio, verrebbero raggiunti chiaramente e legittimamente.

Quali sono i modi con cui l’annullamento – questo annullamento ammesso dal nostro diritto – in realtà in Italia funziona come divorzio, in modo che se si facesse una statistica dei casi, in cui in Italia si riesce ad ottenere l’annullamento del matrimonio, si vedrebbe che all’incirca questa statistica corrisponde a quei casi di scioglimento che si avrebbero se ci fosse apertamente il divorzio? (Commenti).

Quali sono questi sistemi nei quali si manifesta questa funzione vicaria dell’annullamento?

Cominciamo dal matrimonio puramente civile. Il matrimonio puramente civile, onorevoli colleghi, è annullabile per vari difetti, per varie mancanze, ma difficilmente si riesce ad annullarlo per vizio del consenso, perché nel matrimonio civile, quello celebrato davanti al sindaco, non c’è soltanto il consenso degli sposi, ma c’è l’intervento dell’organo pubblico, dell’ufficiale di stato civile, che col suo intervento dà al matrimonio un carattere di negozio complesso di diritto pubblico, per cui i motivi o le riserve o la simulazione che possano avere inquinato il consenso degli sposi, rimangono sanati da questa presenza dell’ufficiale di stato civile. Quindi la pratica non ha lavorato nel senso di cercare di allargare i casi di annullamento del matrimonio civile per difetto di consenso; il terreno su cui invece ha operato la pratica è stato quello dell’annullamento per impotentia coeundi. Se voi andate a vedere i repertori di giurisprudenza, e specialmente di quelle riviste di giurisprudenza che sono dedicate al diritto matrimoniale, vedrete che da venti o da venticinque anni si è introdotto nella giurisprudenza italiana un andazzo, da principio timido, di qualche sentenza sporadica, poi pian piano sempre più diffuso nei vari tribunali e Corti, che ha introdotto, su principî fondamentalmente esatti, ma con una diffusione patologica che va assai al di là dei principî, il concetto che quella impotentia coeundi che può portare all’annullamento del matrimonio, non è soltanto la impotenza assoluta, l’impotenza del coniuge che sarebbe impotente qualunque fosse la persona dell’altro sesso con cui tentasse di avere dei rapporti sessuali, ma può essere l’impotenza anche relativa, cioè un’impotenza che si verifica soltanto nei confronti di quella determinata persona, in modo che solo questa coppia si trova di fronte agli inconvenienti di questa impotenza che è una specie di incompatibilità sessuale reciproca. Se questa coppia si scinde, e ciascuno dei coniugi va per conto suo, dell’impotenza relativa non c’è più traccia, e ciascuno recupera la pienezza delle proprie facoltà per un altro connubio.

Questa impotenza relativa, che voi trovate consacrata nella giurisprudenza, si è andata sempre più raffinando e sempre più diffondendo nella pratica, soprattutto quando si è ammesso che si debba considerare come impotenza relativa anche il fatto della moglie che nel compimento di certe funzioni prova un disgusto, un dolore, un sacrificio tale che… povera signora, è meglio annullare il matrimonio. E questo può avvenire anche quando ci siano figli. La giurisprudenza è costante. Due o tre figli: due o tre sacrifici, due o tre crisi di dolore che hanno dato luogo a queste nascite. Ma insomma, dicono i giudici, il matrimonio non è concepibile con questi dolori: e quando esso porta con sé questi dolori, è meglio annullarlo.

Ora, voi capite, onorevoli colleghi, che cosa significhi questa giurisprudenza; si tratta di indagare elementi che possono essere ricostruiti soltanto attraverso le dichiarazioni dei soggetti di questo rapporto. E così questo annullamento, che teoricamente dovrebbe risalire ad una condizione che c’era già in potenza al momento del matrimonio, diventa in realtà un vero e proprio pentimento reciproco, in cui i coniugi, dopo dieci, quindici, venti anni, quando non si piacciono più, quando non si desiderano più, si accorgono di questa reciproca incompatibilità fisica e, attraverso l’annullamento, cercano di farsi un’altra famiglia.

È uno dei sistemi, è uno dei surrogati, attraverso i quali l’annullamento serve in realtà da divorzio; ma di questi surrogati, nella pratica, ve ne sono una quantità: tutti lo sanno. Ieri, un valoroso collega diceva che in America, mi pare, si legge sui giornali che esistono agenzie di divorzio. In Italia, questo non si legge sui giornali; ma in realtà queste agenzie ci sono, con la sola differenza che il divorzio si chiama annullamento. In America i coniugi diranno: «Noi vogliamo divorziare; abbiamo trovato un avvocato che ci farà divorziare». In Italia invece i coniugi di certe classi sociali dicono: «Abbiamo deciso di fare annullare il nostro matrimonio». Le parole cambiano; ma il fenomeno è il medesimo.

Un’altra forma di surrogato, qualche anno fa, era quella dei divorzi in Ungheria. In Ungheria d’era il divorzio ed era possibile ottenere con una certa facilità, da parte di uno dei coniugi italiani, la cittadinanza ungherese che si conseguiva con l’adozione. Ogni tanto infatti venivano in Italia certi avvocati ungheresi, preannunciandosi con circolari, con le quali avvertivano che il giorno tale sarebbero venuti in quella tale città, con il sistema che usano i rappresentanti di certe case commerciali, che vanno in giro in provincia ad applicare ai pazienti certi apparecchi ortopedici. Raccoglievano le domande dei coniugi sofferenti, trovavano in Ungheria il padre adottivo per uno dei due coniugi, facendo ottenere così la cittadinanza ungherese all’adottato; dopo di che era pronunciato il divorzio e quindi la delibazione in Italia.

Ricordo una volta di avere assistito – sono cose che possono far ridere, ma che in realtà fanno anche grande melanconia – ricordo una volta di avere assistito al fatto di due coniugi – il marito aveva settantadue anni e la moglie poco più di venti – che volevano fare divorzio. Arrivato un avvocato dall’Ungheria, si rivolsero a lui e l’avvocato disse: «In questo caso è assai difficile trovare un padre adottivo che abbia, come vuol la legge, venti anni più del figlio adottato, che ne ha settantadue. (Si ride). Tornerò in Ungheria e vedrò se mi sarà possibile riuscire a trovarlo…» Dopo qualche giorno infatti, mandò dall’Ungheria un telegramma così concepito: «Trovato padre». (Si ride). Ma nel frattempo i coniugi si erano pentiti e non volevano più divorziare; allora questo povero avvocato mandava ogni tanto telegrammi pressanti che dicevano: «Affrettatevi. Non garantisco vita padre». (Si ride).

Ma vi sono poi anche altri sistemi; c’è il sistema degli annullamenti in Isvizzera; c’è il sistema degli annullamenti a San Marino, che ora è di moda. E a San Marino, onorevoli colleghi democristiani, è in vigore il diritto canonico.

E parliamo ora dei surrogati del divorzio che esistono nel matrimonio fra cattolici. Qui il terreno su cui opera questa funzione vicaria dell’annullamento che serve da divorzio è il terreno del vizio di consenso; perché, nel matrimonio cattolico, il consenso è tutto; il sacerdote celebrante (non vorrei che l’amico Dossetti, che vedo prendere appunti, mi cogliesse in fallo: mi pare di dire cose esatte; ad ogni modo faccio fino da ora ammenda degli errori che potessi dire, perché Dossetti ne sa in materia tanto più di me e tanto mi può insegnare!), ma insomma mi pare di ricordare che, nel matrimonio cattolico, il sacerdote celebrante è semplicemente un testimonio che raccoglie la volontà degli sposi ed il matrimonio è semplicemente un contratto, ed allora, essendo un contratto, il quale non viene ricoperto e suggellato, come nel diritto civile, dall’intervento dell’ufficiale di stato civile, che dà a questo negozio il carattere di un negozio di diritto pubblico, qualunque vizio, qualunque riserva che vi sia nella volontà degli sposi, se questa volontà non è diretta al matrimonio, con tutti i requisiti essenziali, che il matrimonio deve avere per essere valido, porta all’annullamento del vincolo.

C’è un canone nel Codice di diritto canonico che dice che se le parti, al momento in cui si celebra il matrimonio, escludono positivo voluntatis actu, con un atto positivo di volontà, che però può anche non essere espresso, talune delle proprietà essenziali del matrimonio, il vincolo non sussiste e può essere dichiarato nullo.

Quando io vi dirò che le proprietà essenziali che il matrimonio deve avere per essere valido nel diritto canonico e che devono essere volute al momento della cerebrazione, attengono ad coniugalem actum, cioè alla intenzione reciproca di prestarsi ai rapporti sessuali, al bonum prolis cioè all’intenzione reciproca che il matrimonio sia prolifico, al bonum sacramenti, cioè all’intenzione che il matrimonio sia indissolubile, al bonum fidei, cioè all’intenzione di serbarsi reciprocamente la fedeltà coniugale; voi comprendete con quale facilità il matrimonio può essere annullato per il semplice fatto che uno degli sposi escluda anche tacitamente una di queste qualità. E quindi voi capite come il matrimonio cattolico si presti, o attraverso l’esclusione di aliquam qualitatem o attraverso una condizione de futuro contra matrimonii substantiam, si presti, quando gli sposi vogliono, ad essere annullato. Agli sposi è data la possibilità, se vogliono, di celebrare un matrimonio, il quale ha in sé la chiave, il mezzo per essere annullato il giorno in cui gli sposi si pentono di essersi sposati e decidono di fare risultare questa nullità, questa specie di nullità a scoppio ritardato, ché essi al momento del matrimonio hanno nascosto nel vincolo da essi contratto.

Così, può accadere purtroppo che in questo commercio di annullamento che si fa in certe zone, che non vorrei neanche chiamare professionali, può accadere che vi siano uffici di consulenza preventiva che insegnano agli sposi come si fa a contrarre un matrimonio che dia la certezza, quando si vorrà, di poter essere annullato, magari, addirittura, che insegnano agli sposi di consacrare in iscritto, davanti al notaio, con un atto che si mette in una cassaforte, il modo con cui poi, quando gli sposi non si vorranno più bene, si arriverà ad ottenere l’annullamento. (Commenti).

Io ho qui nel libro di Jemolo, in cui tutte queste cose sono esposte in forma serena da uno scienziato cattolico, verso il quale credo che anche voi abbiate quell’ossequio che merita, una quantità di esempi. Ma uno solo ne leggerò, scritto in nota 1 a pagina 215, che dice così:

«In una causa molto nota per la celebrità di una parte ed in cui fu ritenuta la nullità per condizione apposta di divorziare se l’esito delle nozze non fosse felice, depose la sposa così: «Non abbiamo celebrato il matrimonio con la volontà già decisa di farlo e poi divorziare, ché questo sarebbe stato ridicolo, ma con la riserva o l’intesa di ricorrere lealmente al divorzio se fosse stato necessario».

Questo risultò e questo portò in quel caso all’annullamento; a consimili annullamenti si arriva se risulta, per esempio, che gli sposi al momento del matrimonio si sono messi d’accordo per non avere figli o si sono messi d’accordo nel dire: ci saremo fedeli, finché ci vorremo bene; ma quando non ci vorremo bene più, ciascuno farà il suo comodo. Questo è un accordo che fa mancare il consenso vero che occorre per fare il matrimonio valido, e che dà la possibilità di annullare il matrimonio ed anche di preordinare l’annullamento; ma allora questo annullamento preordinato in realtà è un divorzio, perché non dipende da un elemento obiettivo, da una mancanza obiettiva che vi sia nel matrimonio al momento in cui sorge, ma dipende dal perdurare più o meno della volontà degli sposi, che dopo un certo numero di anni, quando questa volontà non c’è più, sono padroni di ottenere quello scioglimento che anche se si chiama annullamento, è in realtà un divorzio, quel divorzio che si dice non esistere nel diritto canonico.

Ma c’è di più nel diritto canonico, c’è il vero divorzio, cioè ci sono dei casi in cui un matrimonio perfettamente valido, che possiede tutti gli elementi del sacramento ed il vincolo è assoluto, senza vizi, successivamente può essere sciolto: è la dispensa, che è un fenomeno diverso dall’annullamento. Il Pontefice ha questo supremo potere di sciogliere in certi casi un matrimonio valido. È il caso della dispensa del matrimonio rato e non consumato.

MERLIN UMBERTO. E allora che matrimonio è?

CALAMANDREI. La consumazione nel diritto civile non è un elemento indispensabile per la celebrazione del matrimonio valido. Ma la differenza tra matrimonio civile e matrimonio religioso è questa: se due sposi vanno davanti al sindaco e dicono il fatale «sì» e si firma l’atto di matrimonio, poi escono dal municipio e uno degli sposi si pente di quel che ha detto un istante prima, non c’è più modo, una volta redatto l’atto di matrimonio, di tornare indietro; mentre se è stato celebrato il matrimonio col rito cattolico, lo sposo che si pente, purché si penta in tempo, purché si penta… entro la giornata, potrà dire: «Rato è, ma non l’ho consumato!» e potrà ottener la dispensa dal Pontefice. Si deve concludere dunque che il matrimonio civile è molto più resistente, molto meno annullabile, molto meno dissolubile del matrimonio canonico; anche perché c’è un’altra forma di dispensa… (Commenti Si ride).

Io non capisco perché ve la prendete, quando ricordo semplicemente nozioni elementari di diritto canonico, che tutti conoscono. Mi pare strano che ricordare queste nozioni istituzionali, vi faccia perdere la calma o vi faccia ridere.

MERLIN UMBERTO. Non fa neanche ridere. Ma sono eccezioni rarissime, quindi lei non può descriverle all’Assemblea come regola. (Commenti).

CALAMANDREI. Dicevo che vi è un altro caso di dispensa dal matrimonio rato e non consumato: il caso in cui uno degli sposi, prima della consumazione, e dopo che il matrimonio è stato celebrato, entri in un ordine religioso e faccia professione solenne, ovvero pronunzi i voti nella Compagnia di Gesù. Questo basta a far sì che il matrimonio rato, sebbene sia nato perfettamente valido e vitale, sia senz’altro sciolto.

MERLIN UMBERTO. Ci vuole il consenso di tutti e due i coniugi.

CALAMANDREI. Non è esatto. La dispensa si dà anche a richiesta di uno degli sposi, Onorevole Merlin, è inutile che noi intratteniamo l’Assemblea su questi particolari: ne riparleremo, se crede, fuori di quest’aula, e le farò leggere i testi canonici che dimostrano il suo errore.

Vi è poi il caso cosiddetto «dell’apostolo» ossia il privilegio Paolino. Qui non si ha il fenomeno patologico di un annullamento che serve in realtà al pentimento degli sposi, e quindi, in realtà, in funzione di divorzio; ma il caso di un matrimonio valido, nato vivo e vitale, che ad un certo momento, sia pure dopo ventiquattr’ore soltanto, ma spesso anche dopo molti anni, è condannato a morte da un atto di scioglimento che è un vero e proprio divorzio.

E allora, colleghi, se questo è vero, e credo che sia vero perché sono tutte cose che ho letto su libri scritti da professori di diritto canonico, noi torniamo a questo punto essenziale: è proprio vero che in Italia il matrimonio è indissolubile? quello che è scritto nell’articolo 24 è verità o è bugia?

Non è verità. È vero al contrario questo: che per tutti i tipi di matrimonio, sia quello puramente civile, sia quello canonico l’annullamento fa molte volte le veci del divorzio. I medici dicono che nell’organismo umano quando si toglie un organo la funzione di quell’organo può essere assunta in forma vicariante da un altro organo che assume una funzione necessaria perché l’organismo viva. Qualcosa di simile succede nella pratica matrimoniale. Il divorzio non c’è, ma si è trovato il modo di far servire l’annullamento allo scopo del divorzio.

Allora si potrebbe dire: se tu sei fautore del divorzio, di che ti lamenti? Approviamo l’articolo 24 che dice che il matrimonio è indissolubile, mentre in realtà non lo è. Si seguiterà allora con l’annullamento in funzione del divorzio, e saranno tutti contenti, quelli che vogliono il divorzio e quelli che non lo vogliono: i primi perché troveranno il modo di ottenerlo in pratica, i secondi perché saranno contenti di leggere la formula dell’indissolubilità nella Carta costituzionale.

Ma questo non è un ragionamento da farsi davanti ad un articolo di Costituzione.

Perché – io ritorno a quella mia aspirazione, un po’ ingenua, nella quale continuo a credere – noi vogliamo la lealtà, la chiarezza, la sincerità negli articoli della nostra Costituzione.

Ora, questa indissolubilità del matrimonio, quale è consacrata nell’articolo 24, se deve rispondere a come questa indissolubilità funziona nella realtà, in realtà porta a questa conseguenza: che l’annullamento del matrimonio funziona come divorzio per certe classi sociali; che, in realtà, il divorzio c’è in Italia per i ricchi e non per i poveri. (Approvazioni a sinistra).

Perché, onorevoli colleghi, per riuscire ad ottenere che, attraverso l’annullamento con queste sottigliezze, si arrivi allo scopo del divorzio, occorre una procedura lunga, costosa; occorre l’assistenza di avvocati specialisti, i quali hanno tariffe assai alte.

Quando gli sposi siano in condizioni finanziarie da poter dare a questi avvocati quanto occorre per montare la manovra procedurale che fa apparire esistente il motivo di nullità, anche quando non c’è, all’annullamento quasi sempre si arriva. I poveri questo non possono farlo. (Interruzioni al centro).

DOSSETTI. La statistica dimostra che la maggior parte di queste cause sono fatte col gratuito patrocinio.

CALAMANDREI. Soprattutto vorrei che mi intendessero gli amici comunisti.

Allora, può accadere quello che oggi accade in tutte le parti d’Italia.

Torna il prigioniero, dopo cinque o sei anni di assenza; trova la famiglia cresciuta, magari con figli di diverso colore. Niente da fare per lui. Per lui c’è soltanto la possibilità della separazione coniugale, ma il vincolo matrimoniale resta. La possibilità di rifarsi una famiglia, di avere una compagna fedele, di ricostruirsi la vita per lui non c’è; perché è povero, perché non gli viene neanche in mente di potersi rivolgere a quel meccanismo così complicato, a queste idee di impotenza relativa o di riserve mentali che possono esser proprie solo di persone raffinate. Per lui il divorzio non c’è: questo divorzio, in realtà, c’è solo per i ricchi.

Senonché – signor Presidente mi avvio alla fine – qualcuno potrebbe dire: l’intento dell’articolo 24 non è un intento descrittivo, no. Le cose non vanno bene; credo che anche voi colleghi democristiani lo riconosciate; almeno nell’andazzo dei divorzi ungheresi o negli annullamenti sanmarinesi c’è qualcosa che non va. Almeno su questo punto spero che anche lei, onorevole Merlin, consentirà.

MERLIN UMBERTO. Io nego la delibazione e l’approvazione in Italia a quei divorzi.

CALAMANDREI. Lei la nega, ma le Corti d’appello la concedono, e la devono concedere perché c’è un trattato. Ma il vero scopo dell’articolo 24 è uno scopo assicurativo. L’articolo 24 – ce ne sono diversi in questa Costituzione di articoli di questa natura – è una specie di polizza di assicurazione; c’è l’impegno che lo Stato mai introdurrà il divorzio nell’avvenire.

Ora, io francamente ho l’impressione, e lo dico con tutta modestia, che gli amici democristiani con il proporre questo articolo 24, abbiano un pochino, come dire, esagerato. Esagerato perché, io capisco che questo articolo potesse essere proposto prima dell’approvazione dell’articolo 7; ma ora che l’articolo 7 è stato felicemente approvato mi pare che questo articolo 24 sia un fuori d’opera.

L’onorevole Merlin, nel discorso che fece ieri l’altro, se ho letto esattamente, disse in sostanza: bisogna approvare l’articolo 24 per coerenza, perché chi ha approvato l’articolo 7 deve per coerenza approvare l’articolo 24. Coloro che hanno già votato l’articolo 7 non darebbero quindi prova di coerenza se votassero a favore del divorzio, ossia se non votassero l’articolo 24.

Ora, la coerenza ciascuno se la regola per conto suo; ma, io dico: gli amici democristiani hanno avuto la gioia di vedere approvato trionfalmente l’articolo 7, hanno avuto anche la gioia di vedere al momento della votazione una conversione in massa di tutto un settore, ed io penso che per i credenti l’assistere alle conversioni debba essere una grande gioia (Si ride); quindi, che cosa vogliono di più?

Una voce a destra. Che si converta anche lei.

CALAMANDREI. Ed allora cerchiamo di renderci conto di quello che è il vero scopo di questo articolo 24: questo articolo 24 riguarda il matrimonio puramente civile; perché la indissolubilità del matrimonio voi l’avete già garantita con l’approvazione dell’articolo 7, articolo 7 che ha inserito nella Costituzione i Patti lateranensi, in cui c’è l’articolo 34 del Concordato che dà al matrimonio il regime del diritto canonico, in cui c’è anche la indissolubilità della grandissima maggioranza – il 99 per cento forse – dei matrimoni che sono quelli celebrati in Italia con il rito cattolico; assicura l’indissolubilità e non ci sarebbe bisogno di quest’altra forma di assicurazione che voi volete con l’articolo 24. Con l’articolo 24 voi cercate la sicurezza che lo Stato s’impegni in avvenire a non introdurre il divorzio neanche in quella piccolissima percentuale di matrimoni civili (forse l’uno per cento) che resta fuori del diritto matrimoniale consacrato dagli Accordi lateranensi.

Qui ci sarebbe intanto da fare questa domanda: questo matrimonio puramente civile, del quale l’articolo 24 vuole assicurare la indissolubilità, quale valore ha di fronte alla Chiesa? Evidentemente voi, con questo articolo 24, volete introdurre una disposizione che vada sempre più incontro ai desideri della Chiesa in materia matrimoniale; ma la Chiesa il matrimonio puramente civile come lo tratta? Questo matrimonio puramente civile che ci si vorrebbe imporre anche per l’avvenire di rendere indissolubile, la Chiesa, anche quando si sarà dichiarato indissolubile, lo considera forse tale? Nossignori. La Chiesa non solo lo considera in certi casi dissolubile, ma, a suo arbitrio, inesistente, insignificante. Perché? Perché, dopo il Concordato, furono emanate dalla Sacra Congregazione della disciplina dei Sacramenti, in data 1° luglio 1929, le «Istruzioni agli Ordinari d’Italia circa l’esecuzione dell’articolo 34 del Concordato», l’articolo 18 delle quali fa questa ipotesi: che, al momento di celebrare un matrimonio cattolico, sia fatta opposizione perché gli sposi sono già coniugati da matrimonio civile, nel qual caso non c’è bisogno di una ulteriore trascrizione che dia effetti civili al matrimonio religioso, perché gli effetti civili ci sono già prima; ma lo stesso articolo, nel capoverso, fa, poi, una altra ipotesi:

«Qualora, – leggo testualmente – l’opposizione sia fatta a causa di un precedente matrimonio civile contratto da uno degli sposi con altra persona, il parroco deferirà il caso all’Ordinario. Se questi crederà di permettere il matrimonio religioso, detto matrimonio non si potrà trascrivere agli effetti civili e diventa perciò inutile ogni denuncia».

Il che significa che la Chiesa, non solo in certi casi considera il matrimonio puramente civile dissolubile, ma lo considera inesistente, tanto da poter permettere, anche se c’è già un matrimonio civile, che uno degli sposi già coniugato civilmente sposi religiosamente un’altra persona.

E allora, se questo è il trattamento che la Chiesa fa al matrimonio puramente civile, voi, per reciprocità alla Chiesa, vi volete impegnare, di fronte a questo matrimonio – che la Chiesa considera inesistente – a renderlo, per fare omaggio alla Chiesa, indissolubile? (Commenti al centro).

Egregi colleghi – e con questo io finisco – voglio, non dico rivelarvi, ma ricordarvi un fatto che forse non tutti ricordate.

Questo articolo 24, che rinasce così in questa forma, in realtà, è un’appendice del Concordato, è una postilla del Concordato, perché nel 1929 – durante le trattative che precedettero i Patti lateranensi – in un primo progetto di Concordato, quello che fu poi l’articolo 34 aveva una formulazione diversa, molto più ampia: era l’articolo 44 e si trova riportato per intero nella sua formulazione originaria in un altro libro dello stesso Jemolo sul matrimonio nella legislazione civile, pagine 196 e 197. L’articolo 44, allora, aveva un ultimo comma, che rappresentava una proposta e una richiesta della Santa Sede, in questi termini:

«In qualsiasi disposizione concernente il matrimonio, lo Stato si impegna a mantenere illeso il principio dell’indissolubilità».

Orbene, il Governo che allora reggeva l’Italia, e che per la stessa struttura dello Stato autoritario non dava importanza alla difesa della libertà di coscienza, questo Governo che fu così ben disposto, nel Trattato e nel Concordato, a cedere di fronte alle richieste più spinte della Chiesa, anche su punti che uno Stato democratico avrebbe difesi, di fronte a questa richiesta dell’ultimo comma dell’articolo 44, il Governo di allora disse: «Questo impegno (che dovrebbe riguardare soltanto la legislazione civile, non il matrimonio cattolico, ma il matrimonio puramente civile, che rappresenterà, sì e no, l’uno per cento) questo impegno io non intendo assumerlo, perché sarebbe una menomazione troppo grave, troppo penetrante, troppo profonda, della sovranità dello Stato italiano».

Ora, onorevoli colleghi, io mi domando se questa menomazione di sovranità, che il Governo fascista non consentì, possa essere proprio la Repubblica democratica italiana a consentirla.

Amici democratici cristiani, io credo di no, e ritengo che questa volta crederanno di no anche i comunisti. (Vivi applausi a sinistra Molte congratulazioni).

PRESIDENTE. È iscritto a parlare l’onorevole Binni. Ne ha facoltà.

BINNI. Onorevoli colleghi, il mio intervento, fatto evidentemente non come giurista, quale io non sono, ma dal punto di vista di un uomo di cultura, si limita solamente a discutere rapidamente il problema trattato negli articoli 27 e 28, cioè il problema della scuola, problema di tanta serietà e di tanta importanza che, giustamente, in un recente suo articolo, Guido De Ruggiero poteva scrivere che gli italiani non potranno dire di aver iniziato la loro ricostruzione nazionale se non avranno posto questo problema in primo piano, se non tenteranno di risolverlo coerentemente.

Due grandi principî vengono affermati nei due articoli 27 e 28; e se anche la loro formulazione può essere in qualche modo emendata o trovata forse generica e un po’ retorica, questi due grandi principî, cioè la libertà d’insegnamento e la possibilità per tutti di entrare in qualsiasi grado della scuola, evidentemente corrispondono al punto storico della nostra società, corrispondono alle esigenze interne del mondo moderno, corrispondono alle esigenze cioè di portare il maggior numero di persone al possesso dell’istruzione, della tecnica ed alla consapevolezza conseguente di questo possesso; fare cioè quello sforzo di profondità e di vastità che, secondo uno scrittore francese, il socialista Malraux, è appunto il dramma e l’esigenza del mondo moderno; dare al numero maggiore possibile di persone il possesso di cognizioni, ma insieme dare ad esse la possibilità e la consapevolezza della loro destinazione umana.

Evidentemente, sul principio dell’afflusso di forze nuove, di forze fresche, di forze popolari nella scuola credo che il consenso sarà facilmente ottenuto da parte di tutti, anche perché si potrebbe dire con qualche malignità che forse, anche quelli i quali non ammettono questo ingresso delle masse, delle moltitudini sul terreno della cultura e della scuola, non avrebbero certamente il coraggio di esprimersi diversamente. Su questo principio sarebbe facile evidentemente per un socialista fare della demagogia, fare della retorica; ma in questo caso ogni demagogia, ogni retorica è annullata dalla realtà stessa dei fatti, dalla necessità che il nostro Paese ha in questo momento di rinsanguare in ogni modo la sua stanca classe dirigente. Credo perciò che su questo punto non occorra spendere parole eccessive. Tutti sentiamo egualmente questo problema che non è soltanto un problema di giustizia sociale, ma, come già un oratore precedente, mi pare l’onorevole Giua, ha detto è un problema di utilità nazionale, è un bene di tutti quanti.

Molto più delicato invece è il principio che afferma la libertà d’insegnamento; molto delicato, anche, perché questo afflusso che noi desideriamo e vogliamo di forze fresche, questo criterio unico del merito che noi vorremmo garantito nella Costituzione con la più energica sottolineatura (e perciò nell’emendamento all’articolo 28 sosterremo che si debba dire «solo i capaci, i meritevoli anche se sprovvisti di mezzi, ecc.»), porta con sé una particolare delicatezza nel creare le condizioni adatte nella scuola per raccogliere queste nuove forze che vi entrano. Questo punto della libertà d’insegnamento è uno di quei punti e di quei principî in cui la grande parola «libertà» è suscettibile di troppe diverse determinazioni. Può essere qualche volta perfino, come si dice in certi stili, nisi mendacium, non altro che menzogna, può essere un tranello, può essere pericoloso tranello. Evidentemente proprio su questo punto si può spiegare il contrasto e vorremmo dire che non ci si dolga se, in casi di tanta importanza, si verrà a svolgere un contrasto nei suoi veri termini, specialmente di fronte ad una società come quella italiana, in cui troppo spesso l’uso tendenzioso e antitetico delle stesse parole ha generato una strana confusione.

Molti equivoci, sono sorti intorno a questa parola e particolarmente intorno a questo principio della libertà d’insegnamento. Il mio intervento vorrebbe avere l’effetto di sgomberare possibili equivoci da parte nostra. E, poiché io credo di parlare non solo per me e per il Gruppo che rappresento, ma Anche per le sinistre in genere, e per tutte quelle forze democratiche di origine schiettamente e profondamente liberale che si trovano in questa Assemblea, penso che in questo caso noi tutti almeno, vogliamo sgomberare da possibili equivoci questo principio: e con ciò renderemo più facile anche il combattimento, anche la battaglia che certamente avverrà su questo punto. Infatti, quando si parla di libertà di insegnamento, da parte di alcuni si vuole arrivare a conseguenze che noi non possiamo accettare e che sono in contrasto con lo stesso principio. Voglio chiarire che si comincia a dire da parte di alcuni che se c’è una scuola libera, che se c’è libertà della scuola, su questa strada si incontra come ostacolo la scuola di Stato, la scuola che alcuni dicono monopolistica, secondo alcuni perfino si arriverebbe ad una equazione del tutto inaccettabile fra scuola libera e scuola privata. E questo io trovo proprio in una pubblicazione recente di un cattolico, Dante Fossati, che dice: «Non parliamo più di scuola pubblica e scuola privata; parliamo di scuola di Stato e scuola libera».

Vedete dunque, onorevoli colleghi, a quale punto di contradizione si può arrivare: a negare il carattere di scuola libera proprio a quella scuola che, secondo me e secondo molti altri e, perfino, secondo alcuni colleghi democristiani, è invece la scuola veramente e, in senso superiore, unicamente libera. La scuola in cui tutti quanti senza tessera e senza certificato di fede possono entrare; la scuola in cui il merito dei discenti e dei docenti è misurato soltanto dalla loro buona fede e dalle loro capacità; la scuola per cui già un grande socialista, della cui democrazia nessuno dubita, cioè Turati, diceva che in senso più stretto di libertà della scuola, di scuola libera si può parlare solo nella scuola di Stato, «campo aperto a tutte le concezioni della vita, onde il dovere assoluto del rispetto incondizionato della libertà di coscienza». E un altro scrittore socialista, Rodolfo Mondolfo, rivolgeva un invito che noi qui vorremmo ripetere e rivolgere a tutti i colleghi di qualsiasi partito e di qualsiasi fede; egli rivolgeva l’invito di non considerare mai le giovani coscienze, quasi come – diceva lui con una frase un po’ forte – colonie di sfruttamento; di rispettare profondamente in loro la possibilità appunto di questa libera formazione che si può trovare solo nella scuola di Stato.

Né occorre fare lunghe disquisizioni su questo; è la nostra esperienza che parla a favore della scuola di Stato; è il fatto che tutti, io credo, o quasi tutti noi siamo insieme cresciuti in questa scuola di Stato, eppure siamo diventati in casi diversi, cattolici, e buoni cattolici; socialisti, e buoni socialisti; comunisti, e buoni comunisti.

Ma che cosa abbiamo trovato in quella scuola – anche se molti di noi l’hanno frequentata nel suo periodo più triste – che cosa abbiamo trovato che ce la fa sentire così cara e così unicamente libera? Abbiamo trovato lì dei professori che potevano portare voci diverse, e gli scolari venivano educati secondo i meriti, la capacità, la buona fede. Si può dire che una simile garanzia di libertà, di libera formazione, venga data dalla scuola privata? Io non credo. Tutti sappiamo bene che ci sono scuole private e scuole private. Ci sono scuole private di origine commerciale, di origine di guadagno, scuole private in cui il limite più evidente, più serio, più immediato è appunto questo: che non è tanto uno scopo educativo che esse si propongono, quanto piuttosto uno scopo di guadagno, uno scopo di iniziativa industriale. E in verità per queste scuole, se noi ammettiamo che ci siano a volte delle persone che le creano con uno scopo più alto, dobbiamo dire che lì non si tratterà tanto di una preoccupazione educativa, di libera formazione, quanto piuttosto di una preparazione utilitaristica, di una preparazione in vista di esami, di una preparazione per rendere più facile il conseguimento di certi diplomi e, diciamolo pure, per istruire gli scolari nelle gherminelle più astute per poter poi frodare gli esaminatori, per conseguire un diploma.

Non è per questa scuola certamente che noi possiamo scaldarci, non è per questa scuola di iniziativa privata, che gli zelatori della libertà della scuola nella sua forma più ampia possono sentir battere il loro cuore.

Ma c’è un altro tipo di scuola privata, che è la scuola di parte o la scuola confessionale. E questi due termini, io li uso in questo momento senza particolari riferimenti, perché evidentemente è di parte anche una scuola che dipenda da autorità religiose, come è confessionale anche una scuola che dipendesse da un partito: sono, direi così, confessionali o di parte nel senso più vasto della parola, in quanto esse non mirano a formare una persona completamente libera e cosciente della dignità di tutte le varie verità, ma mirano piuttosto a formarla secondo un modello prefissato, secondo un figurino; e noi uomini moderni soprattutto lottiamo proprio contro i modelli, proprio contro i figurini; lottiamo per uomini che siano coscienze aperte ed animi liberi, credendo fermamente che sarà un miglior cattolico, o un miglior socialista, o un miglior comunista colui che, nella sua infanzia e nella sua gioventù, avrà avuto questa educazione più larga che non piuttosto colui che sarà stato nella sua infanzia e nella sua gioventù come una monade chiusa ed ostile.

Noi, in omaggio ad un principio più vasto e formale, possiamo ammettere ed ammettiamo che alcuni individui desiderino una formazione chiusa (noi la qualifichiamo così). Possiamo ammettere un’aspirazione, cioè che è per noi sostanzialmente illiberale, ma non possiamo ammettere che la forza di queste scuole di parte possa ad un certo punto diminuire l’efficienza o addirittura far decadere completamente la scuola di Stato, la scuola libera e capace di realizzare una libera formazione.

È su questo punto che, senza equivoci e con lealtà, e rendendo omaggio ai nostri avversari proprio in quanto consideriamo che essi sanno quello che vogliono, come noi sappiamo quello che vogliamo, è su questo punto che noi sosterremo la nostra battaglia, perché sull’equivoco della libertà dell’insegnamento non si venga a negare la vera libertà della scuola e la vera libera formazione delle coscienze.

È su questo punto che io vorrei dire – e lo dico specialmente rispetto ai democristiani, per quanto possa dispiacermi che sempre dalla sinistra ci si debba rivolgere proprio ai democristiani – che in sostanza questa scuola di parte viene ad insidiare, viene a limitare la scuola pubblica; che questa scuola di parte sta dando in questo momento un assalto sfrenato alla scuola dello Stato.

Essa è soprattutto, infatti, la scuola di una parte, la scuola di una confessione. Non ci si venga a dire che noi, dicendo ciò, mostriamo di essere degli adoratori dello Stato, che in noi c’è una sfrenata statolatria; non ci si venga a dire che noi ci contrapponiamo alla tesi liberale, mettendo in contrasto il principio liberale con il nostro pensiero, perché, secondo noi, invece la tesi liberale più genuina è proprio per la scuola di Stato.

E qui ci conforta non solo l’esperienza nostra storica, non solo l’esperienza della scuola italiana, ma ci confortano altresì le dichiarazioni che abbiamo fatto sopra. Non si tratta di un’esigenza liberale contro gli adoratori dello Stato, ma, se mai, si tratta di utilizzazione della tesi liberale che viene fatta, per uno scopo che è tutt’altro che liberale, da parte di una confessione che per lo meno trae le sue origini da dottrine che non hanno alcuna comunanza con la dottrina liberale, dottrina squisitamente e profondamente nata dal pensiero moderno.

Possiamo dire a questo proposito, quando si fa questa contrapposizione, che si dovrebbe piuttosto pensare non ad un contrasto fra coloro che adorano lo Stato – che saremmo noi della sinistra – e coloro che adorano la libertà: ma dovremmo piuttosto riferirci all’immagine di coloro che adorano il monopolio e lo cercano per la strada della libera concorrenza.

Questo criterio è un criterio assai utile per distinguere quelli che sono profondamente liberali e democratici da coloro che liberali e democratici non sono.

Quando un partito, quando una confessione, ha dimostrato in altri tempi e condizioni – e lo può dimostrare tuttora – di essere pronto ad esercitare un monopolio o viceversa ricorre alla libera concorrenza quando non può esercitare questo monopolio, è evidente che la seconda linea, quella della libera concorrenza è puramente sussidiaria, è una linea di ripiego tattico.

Quando noi pensiamo a questa tesi della libertà di insegnamento nel suo equivoco di libertà per la scuola di parte, vediamo che questa è una tesi che è nata con l’utilizzazione di idee liberali da parte della tesi cattolica. Non farò una lunga dimostrazione storica. So già che altri colleghi sono pronti per questo. So, ad esempio, che il collega Bernini, che ha dato prova di una particolare competenza in un suo recente libro sull’argomento, parlerà su questo tema. Ma basterà ricordare che la Chiesa cattolica, dopo avere largamente usufruito dei regimi assoluti in Francia, dopo l’avvento di Luigi Filippo, nel 1831, non potendo più sfruttare le posizioni di privilegio nel campo scolastico, ripiegò su questa nuova linea con tale discordanza, che in quel periodo molti cattolici francesi rimasero sbandati e stupiti, tanto più che in quello stesso periodo una enciclica di Gregorio XVI ribadiva la scomunica, la condanna di ogni tesi liberale. E questa tesi di origine liberale, ma sfruttata con scopi non liberali, coesisteva con le tesi di carattere assoluto in quegli Stati assoluti, come i principati italiani, in cui la Chiesa nello stesso periodo si guardò bene dal fare campagne per la libertà della scuola e dell’insegnamento. E senza spingerci troppo in questo esame di carattere storico, vogliamo anche dire che quando da parte di polemisti cattolici si dice che quella è la vera tesi della libertà, che li c’è la vera libertà d’insegnamento, noi vogliamo ricordare loro che questa libertà dell’insegnamento trova subito in campo cattolico un grosso e naturale limite che nasce dalla dottrina cattolica. Quando noi pensiamo ad alcuni testi autorizzati, a testi che abbiamo studiato in questi tempi o magari alle pubblicazioni della Civiltà Cattolica o di Vita e Pensiero o di Etudes, quando noi leggiamo testi ufficiali come alcune encicliche papali, vediamo che da parte cattolica, mentre si proclama la libertà d’insegnamento, nello stesso tempo si porta una distinzione che viene a minare quella stessa libertà tanto conclamata.

Si fa distinzione infatti fra verità ed errore. Il padre gesuita Barbera, in una sua notevole pubblicazione sulla Civiltà Cattolica, nel 1919, disse: «Libertà per tutti naturalmente, però non possiamo ammettere, per esempio, una scuola anarchica». E poi disse ancora: «Perché tutto ciò? Perché la verità assoluta è una sola, e solo ad essa in linea assoluta spetta di comparire nell’insegnamento».

E nell’enciclica di Pio XI, già citata questa mattina dal collega Preti, a proposito dell’educazione cristiana della gioventù (che fu emanata dal Papa quasi a commento del Concordato), si viene a dire che dal momento in cui Dio si è rivelato nella religione cristiana, non vi può essere nessuna perfetta educazione se non quella cattolica; e poi si precisa – usufruendo di due pericolosissime parole inserite nel Concordato, e che mediante l’articolo 7 ci ritroveremo di nuovo davanti: «fondamento e coronamento della educazione è l’insegnamento della dottrina cattolica» – che questo coronamento e fondamento si possono intendere sul serio solo se tutta l’educazione viene saturata da principî cattolici.

Non vi è dunque possibilità di equivoci su questo punto; quando si fa distinzione fra verità ed errore, e per errore s’intende inevitabilmente tutto ciò che si scosta dalla precisa linea cattolica, evidentemente è ben difficile proclamare poi la libertà piena d’insegnamento per tutti.

Sono dunque i colleghi democristiani che in qualche modo, e non so esattamente in quale forma, porteranno la loro discussione su questo punto, cercheranno di far prevalere la tesi della scuola libera nel senso della libertà della scuola di parte. Se la libertà della scuola di parte potesse avere il suo pieno sviluppo, porterebbe inevitabilmente alla distruzione della scuola libera, porterebbe all’urto delle diverse concezioni, porterebbe, secondo noi, alla fine di ogni formazione veramente libera e veramente democratica. È per questo che noi crediamo che la scuola di Stato vada difesa e che chi difende la scuola di Stato non fa opera di parte, ma fa gli interessi del Paese e gli interessi della democrazia.

Ed è per questo anche che ci si preoccupa quando vediamo che da alcuni parti si chiede la parità tra scuola privata e scuola di Stato. Bisogna intenderci bene chiaramente su questa parità. Noi abbiamo detto – e lo dimostreremo anche in sede di emendamento – che non neghiamo il principio della libertà di insegnamento, non neghiamo affatto che, se alcuni cittadini lo desiderano, si facciano da loro una scuola di un certo tipo, una scuola di forma chiusa, ma noi non vogliamo che alla scuola di Stato vengano strappate concessioni che la metterebbero in condizioni di assoluta inferiorità.

Quali sono i punti sui quali noi non possiamo cedere, i punti su cui noi siamo disposti a dare battaglia? Sono tre punti che sono stati portati questa mattina in discussione da altri colleghi.

Anzitutto lo Stato solo ha diritto di concedere diplomi, allo Stato compete il diritto degli esami. E su questo punto vorrei illuminare i colleghi, perché bisogna guardare che cosa si intende per esame di Stato, dato che questa precisa formula «esami di Stato» comparve in quella carta della scuola, in quella carta Bottai che ha poi rovinato la scuola italiana, perché ha ridotto gli esami di Stato ad una triste burla, in quanto non è più una commissione governativa che esamina, non è più presso la scuola di Stato che si fanno gli esami, ma tutto si è ridotto all’invio nelle varie scuole di commissari che purtroppo, il più delle volte, vengono anche facilmente influenzati dall’ambiente in cui improvvisamente ed isolatamente vengono a trovarsi. Così ogni dignità, ogni controllo è tolto alla scuola italiana. Noi intendiamo invece gli esami di Stato nella loro forma originaria o in una forma che si possa studiare, ma che garantisca la dignità della scuola.

Ma, oltre agli esami, c’è un altro punto importante a cui noi teniamo. Compare – e non so come mai ci sia entrata – compare nel progetto della Costituzione, ad un certo punto, la parola estremamente equivoca di «parificazione». I colleghi sapranno che in Italia attualmente, oltre alle scuole governative, oltre alle scuole che non chiedono che una generica autorizzazione, ci sono le scuole pareggiate e quelle parificate. E vorrei far notare la grande differenza che c’è tra queste due forme: la forma più seria, più antica, la forma del pareggiamento, la forma che garantisce la dignità della scuola in quanto i suoi insegnanti provengono da concorsi, e la parificazione che è un po’ come un’etichetta che viene posta su una bottiglia, convalidandone il contenuto senza conoscere di che contenuto si tratti. Ed è di questo ultimo istituto che le scuole private si sono avvantaggiate dopo la carta Bottai, anche se il decreto di istituzione della parificazione risale al 1925. Ebbene, io vorrei far osservare che anche in questo caso chi ha approfittato, chi ha utilizzato soprattutto la parificazione sono state le scuole di parte, quelle uniche scuole di parte che possono esistere in Italia. Perché anche su questo punto bisogna ben chiarirci. Non ci si venga a dire che questa parità della scuola di parte può interessare i comunisti, i socialisti o i repubblicani, perché noi sappiamo, e lo dicono i fatti, che in Italia, nelle nostre condizioni storiche, non c’è possibilità se non da parte cattolica di avere delle scuole confessionali.

Orbene le scuole confessionali sono quelle che più hanno cercato di ottenere la parificazione. Le statistiche parlano. Mentre fra le scuole pareggiate quelle che dipendono da autorità religiose sono soltanto 12, e quelle dipendenti da enti morali sono 300, quando si passa al capitolo scuole parificate, in cui si contano 400 o 450 scuole dipendenti da enti morali, le parificate dipendenti da enti religiosi salgono a 1160. Il che permette di pensare che ci sia comunque una strana preferenza dell’autorità religiosa per questa forma! Quando verremo alla proposta degli emendamenti, noi proporremo dunque che questa formula equivoca della parificazione sia esclusa, e che si adotti la formula più seria del pareggiamento.

Un ultimo punto su cui non potremo non scontrarci con i rappresentanti della Democrazia cristiana è la questione della concessione di sovvenzioni. Stamane ho sentito qualcuno di parte democristiana osservare: ma nessuno le chiede! Io sarei lietissimo che nessuno le chiedesse, ma temo che questa mia speranza non si realizzerà (Interruzioni).

MORO. Non le abbiamo chieste e non le chiediamo!

BINNI. Naturalmente siamo abbastanza ben preparati per saper distinguere la forma più rozza della domanda di queste sovvenzioni, la forma cioè diretta della sovvenzione alla scuola, dalla forma più elegante, per cui la sovvenzione è data alle famiglie, agli scolari, o mediante la cosiddetta «ripartizione scolastica». Ma noi terremo fermo che sovvenzioni a scuole private non si devono dare.

Noi non accetteremo, e credo di interpretare il pensiero di molti, non accetteremo la richiesta di alcuna sovvenzione a scuole private, perché queste sovvenzioni hanno l’unico risultato di dare maggiore forza alle scuole private diminuendo l’efficienza delle scuole di Stato.

Basta pensare, per ricordare l’argomento più umile, che molto spesso i fautori della scuola privata vengono a mettere in dubbio la forza della scuola pubblica, dicendo che la scuola pubblica gode di un piccolo bilancio, e che, quindi, è molto bene, nell’interesse nazionale, che la scuola privata possa integrarla nelle sue deficienze. Ma se la scuola di Stato, che ha già tante difficoltà e ha un così magro bilancio, dovesse spartire questo magro bilancio con le scuole private, decadrebbe anche dalla situazione in cui attualmente si trova a causa di tutte le concessioni che lo Stato delittuosamente ha fatto al momento della guerra e della carta Bottai.

Non possiamo ammettere questa ripartizione scolastica, perché nella situazione attuale – ed è inutile riferirsi a condizioni di là da venire – noi sappiamo che di scuole confessionali non ci sono altro che le cattoliche, sicché la scuola statale se dovesse dividere il suo bilancio con esse finirebbe per essere liquidata del tutto a loro unico favore e non a favore della «libertà».

È perciò che io credo nella possibilità di un contrasto e termino il mio intervento senza far troppi di quegli inviti, che abbondano in questa Assemblea, senza quegli allettamenti che secondo me qualche volta diminuiscono il rispetto dei nostri avversari.

Io, però, devo dire due cose ancora ai colleghi democristiani.

Da una parte, che, in verità, quando sento come ho sentito stamani nel corridoio l’onorevole Colonnetti dire che anch’egli ha voluto che i suoi figli andassero nella scuola pubblica e che per lui la maggior libertà è nella scuola pubblica, provo veramente enorme simpatia e gioia; sento che in questo caso potrei dirvi: colleghi democristiani, non rifiutate questo terreno comune, così importante per la democrazia italiana.

Vorrei dirvi che la scuola pubblica ci unisce e la scuola di parte ci divide.

Se penso ai miei figli ed ai figli di alcuni miei amici democristiani, non vorrei che essi fossero separati e desidererei che, come noi siamo stati educati insieme, così anche essi lo fossero.

Vorrei che non fosse rotta quella solidarietà, quell’unità, formatasi anche nell’esperienza dura della lotta contro il tedesco oppressore, vorrei che non si venisse ad infrangere, perché c’è bisogno assoluto di questa comprensione democratica; la quale non si può avere, se formiamo gli individui secondo un modello, secondo una linea, secondo un criterio inevitabile di parte.

Questo è l’unico invito, che facciamo non solo come uomini di scuola, ma come uomini di cultura, che tengono molto sinceramente alla democrazia.

D’altra parte, voglio dire che, se la battaglia che potrebbe nascere nella Costituente dovesse andare fuori della Costituente e dovesse diffondersi nel Paese – come mi pare che si accenni, attraverso certi appelli, che pervengono anche a noi, attraverso certe pubblicazioni d’un Fronte della famiglia, con tante firme, con milioni di firme (e direi, fra parentesi, che non mi pare di buon gusto portare qui dentro il peso di firme, che saranno certamente sincere, ma qualche volta sono del tutto ignare) – se questa battaglia dovesse uscire dalla Costituente, allora la combatteremmo, con la certezza di non essere stati noi a scatenarla.

Noi non portiamo un attacco, ma una difesa; non andiamo all’assalto dell’altrui posizione, ma vogliamo, difendere la posizione della libera formazione.

Su questo punto saremo irremovibili, e lo dico senza nessuna retorica ed astio, ma con la coscienza di non difendere una parte, bensì l’unica possibilità di una formazione di persone aperte, capaci di una lotta democratica.

Senza questo, la nostra Nazione non può risorgere e non potrà gettare le premesse d’una società degna di questo nome, e resterà invece, in quel ruvido mondo di rapporti ostili, e diffidenti, da cui dobbiamo al più presto liberarci. (Applausi a sinistra Congratulazioni).

PRESIDENTE. È iscritto a parlare l’onorevole Bosco Lucarelli. Ne ha facoltà.

BOSCO LUCARELLI. Onorevole signor Presidente, onorevoli colleghi, penso che nel progetto di Costituzione, dopo avere affermato i diritti della personalità umana, bene sia stato affermare i diritti fondamentali della famiglia.

Come da questa e da altra parte della Assemblea si è ricordato, la famiglia è una società originaria fondamentale che ha preceduto lo Stato, ed ha una sfera di diritti propri inalienabili, che lo Stato non crea, ma che deve riconoscere e garantire.

Come una legge regge il mondo fisico, così una legge eterna, scritta nel cuore di tutti gli uomini, governa il mondo morale, e da questa legge l’individuo e la famiglia traggono il fondamento dei loro diritti.

Si sono sollevati dall’onorevole Orlando e da altri dei dubbi circa l’interpretazione della parola «naturale» nell’articolo 23: evidentemente essa vuol significare «di diritto naturale», e potrebbe essere sostituita dalla parola «originaria» per maggior chiarezza.

Tra i diritti fondamentali della famiglia vi sono quelli della propria unità ed integrità; della indissolubilità del vincolo matrimoniale; del potere acquistare attraverso il lavoro ed il risparmio un patrimonio proprio; della educazione della prole.

L’unità della famiglia si manifesta attraverso la mutua assistenza e la integrazione delle varie specifiche funzioni ed attività dei suoi componenti.

La prima parte dell’articolo 24, che sancisce l’uguaglianza morale e giuridica dei coniugi, anche a noi sembra poco esatta. Le osservazioni degli onorevoli Crispo e Calamandrei ci sembrano giuste. La famiglia è un organismo che richiede una gerarchia. Il che nulla toglie alla posizione della donna nella famiglia, che non può essere d’inferiorità, essendo essa la sposa e la madre.

Certamente, come ha osservato la collega Spano, fondamento del matrimonio è l’amore e non deve essere l’idea di una sistemazione materiale ed economica, che deve spingere la donna al matrimonio. Ma non comprendiamo come si mostri contraria al salario familiare, perché contradirrebbe all’uguaglianza dei diritti dei coniugi. Certamente fra i coniugi vi è una diversità di funzioni: la donna deve nella casa attendere ai doveri della maternità, ed il marito deve poter guadagnare quanto basta all’intera famiglia.

La famiglia ha poi il diritto alla indissolubilità del vincolo matrimoniale.

Per i cattolici, che sono la maggioranza del popolo italiano, il quale quasi totalitariamente celebra il matrimonio col rito religioso, il vincolo matrimoniale lega i coniugi per tutta la vita, ed è un sacramento.

Ma anche a prescindere dal fattore religioso e volendosi mettere sul terreno di moralità puramente naturale, che obbliga tutti, per le ragioni esposte dall’onorevole Badini Confalonieri, noi dobbiamo ugualmente affermare l’indissolubilità del matrimonio.

Se il matrimonio non è un contratto, ma un vincolo di comunione di vita, se il suo scopo non è lo sfogo di una passione, se non è il fatto materiale di una unione passeggera ai fini della procreazione, ma è l’unione intima di due cuori e di due anime, che legano insieme le loro vite, sì da formare un’anima sola ed un cuore solo, se scopo precipuo del matrimonio è la prole, alla cui formazione ed educazione i genitori debbono dedicarsi, se i genitori si perpetuano attraverso i figli, non vi è chi non vegga che la stabilità è e deve essere il fondamento della famiglia.

I popoli che hanno voluto infrangere l’indissolubilità del vincolo matrimoniale veggono vuote le culle ed arrestate le nascite, e chiedono ad altri popoli le braccia lavoratrici necessarie alla rinascita ed alla ricostruzione del paese.

E quando la famiglia si spezzasse col divorzio in due o più tronconi, che ne sarebbe dei figli?

La casistica dei casi di nullità e di annullabilità del matrimonio e di eventuali errori od abusi prospettati dall’onorevole Calamandrei nulla prova.

Né casi pietosi, molti o pochi che siano, di matrimoni infelici possono indurre a rendere possibile la distruzione di un vincolo, che è la base necessaria di una ordinata vita civile e sociale.

Necessario corollario della unità e della integrità della famiglia è che ai nati fuori della famiglia non possa concedersi parità di diritti con la prole legittima.

Pur tuttavia un adeguato stato giuridico bisogna pure ad essi dare, ma non di parità con i figli legittimi, e bisognerà che lo determini la legge.

La legislazione sugli esposti e sugli illegittimi va rivista.

Sono favorevole alla ricerca della paternità secondo il progetto Meda, con tutti i necessari accorgimenti e le precauzioni che la delicata materia richiede.

Ritengo che vada riesaminata la facoltà di non dichiarare allo stato civile il nome della madre dei nati illegittimi.

Se bisogna evitare gli arresti della maternità (e noi condanniamo anche l’aborto legale), gli infanticidi, l’abbandono di neonati, bisogna pur evitare che tanti bimbi ignorino il nome sacro di «mamma».

Abbiamo ricordato che la prole è il fine precipuo del matrimonio, ed i genitori debbono provvedere non solo al sostentamento materiale, ma anche ai bisogni morali e culturali di essa.

Onde bene afferma l’articolo 25 che diritto e dovere dei genitori è non solo quello di alimentare la prole, ma anche, ed io direi soprattutto, di istruirla ed educarla.

L’educazione della prole è per noi funzione essenzialmente familiare.

Essa si inizia su le braccia materne; e quante volte adulti abbiamo deposte sul seno materno le nostre lagrime, chiedendo guida c conforto!

La madre è una luce, che non si spegne, ed anche quando l’abbiamo perduta, il ricordo di lei seguita ancora ad ammaestrarci.

E se i genitori hanno il diritto ed il dovere di educare la prole, debbono essere liberi di scegliere la scuola ove mandare i loro figli.

Per cui noi affermiamo come un diritto familiare «la libertà di insegnamento».

Del resto si insegna col libro, col giornale, con la conferenza, col teatro, con la radio.

Il fascismo aveva sottratto i figliuoli alla famiglia, aveva dato loro un moschetto e li aveva mandati ad educarsi nelle caserme della G.I.L., facendo dell’esercizio fisico la base della educazione, spesso spronando i figli ad essere i delatori dei loro genitori ed i controllori dell’opera loro. Bottai poi consegnò loro un libretto come agli antichi vigilati della pubblica sicurezza.

Ci uniamo quindi alle parole di riprovazione pronunziate dalla onorevole Spano contro la G.I.L. e l’opera del fascismo.

Noi affermiamo che i figli appartengono innanzi tutto alla famiglia e chiediamo che, a fianco alla scuola di Stato, prosperi con pari diritti la scuola privata.

Quindi la libertà d’insegnamento ha per noi un significato molto diverso da quello che le dà l’onorevole Binni e noi lo dichiariamo con la maggiore lealtà.

L’istruzione non può essere che un mezzo, il fine è l’educazione, ed educare significa dare ai giovani una norma di vita. E quando questa norma deve darsi non si può prescindere dai supremi principî.

Per cui la scuola neutra non esiste e non può esistere: quando deve illustrarsi ai giovani il pensiero umano, attraverso le opere degli scrittori, ed indicarsi il cammino del genere umano attraverso i fatti della storia, non è possibile non esprimere un avviso, non ricavarne un ammaestramento, non dare un precetto.

E se la scuola dovesse mantenersi in vaghe concezioni di una vaga morale senza un fondamento di fede, essa per ciò stesso mancherebbe al suo scopo educativo, perché mancherebbe del fondamento della legge e della morale; Dio. (Applausi al centro).

Onde noi, senza volere imporre niente a nessuno, chiediamo la libertà di istituire le nostre scuole ove volontariamente possono mandare i figli quei genitori che ritengono che la religione sia il fondamento della vita. (Applausi al centro).

Padronissimi gli altri di avere sentimenti diversi, ma nessuno può contestare a cittadini cattolici di avere le loro scuole e chiederne la parificazione a quelle governative, sotto il vaglio comune dell’esame di Stato, fatto con ogni garanzia di serietà.

Questa non è opera di parte, ma affermazione di libertà.

Circa la scuola governativa, si prospetta la questione se debba essere gratuita.

Penso che la scuola primaria e quella del lavoro debbano essere gratuite.

Non veggo la ragione per cui dovrebbero essere gratuite anche le scuole medie e le superiori, che sono frequentate dagli abbienti.

Ai capaci delle classi lavoratrici lo Stato può legittimamente aprire le vie dell’insegnamento medio e superiore attraverso la concessione di borse di studio e delle altre provvidenze previste dall’articolo 28.

Bisogna aiutare i capaci, essendo un errore mandare avanti i mediocri.

Ritengo che nella dizione dell’articolo 28 bisogna conservare o la parola «capaci» o quella «meritevoli», altrimenti potrebbe sembrare che oltre alla capacità vi possano essere altre considerazioni le quali potrebbero prestarsi al favore.

Ritengo che nella Costituzione bisogna includere un accenno alla necessità di sviluppare l’insegnamento professionale dei lavoratori. All’articolo 41 vi è un accenno all’elevazione professionale dei lavoratori della terra. Ma occorrerebbe in questo titolo porre un accenno più generale e completo per la scuola professionale del lavoro.

Bisogna migliorare l’ordinamento delle nostre scuole industriali, e fare che esse aderiscano alle condizioni, alle necessità ed ai bisogni delle industrie.

Nei pochi mesi nei quali mi sono occupato, come Sottosegretario all’industria e commercio, delle scuole industriali, ho presieduto la Commissione per la riforma dell’insegnamento industriale, Commissione alla quale parteciparono i rappresentanti delle organizzazioni operaie, delle organizzazioni degli insegnanti e degli industriali.

A conclusione fu presentato alla Camera dei Deputati il giorno 11 luglio 1922 analogo disegno di legge.

In esso per la prima volta veniva contemplato quel tipo di scuola, che è poi divenuta la scuola di avviamento al lavoro.

Questa scuola per l’apprendistato era una necessità per le leggi internazionali del lavoro, che avevano elevato a 14 anni l’età minima per essere ammessi al lavoro, e per essere già in funzione nel Trentino, che allora si univa alla patria italiana.

Col detto disegno di legge veniva abbandonato ogni criterio di classifica tra le scuole che non venivano più divise in gradi, e la scuola per operai specializzati veniva lasciata libera di organizzarsi secondo le varie esigenze delle industrie, senza programmi unici e senza neppure un determinato numero fisso di anni di corso.

Venne poi il fascismo e la scuola avulsa dai Ministeri tecnici andò a burocratizzarsi al Ministero della educazione nazionale, divenendo scuola tecnica industriale.

Nel detto disegno di legge erano anche previsti corsi di perfezionamento, ad orari ridotti e per alcuni giorni, ove potessero andare a perfezionarsi gli operai già addetti all’industria, e gli industriali avevano l’obbligo di mandarvi gli operai, conservando loro la paga.

Pensiamo che parte notevole della potenza industriale della Germania era dovuta all’avere a suo tempo riformate le sue scuole industriali.

Una repubblica che dichiara suo fondamento il lavoro, non può non affermare nella sua Carta costituzionale il proposito di voler dare alla scuola del lavoro il suo massimo impulso.

Alla classe lavoratrice, che chiede di partecipare più intensamente alla vita del Paese dobbiamo guardare con fiducia e dobbiamo preparare nella scuola i mezzi per la sua ascesa. (Vivi applausi).

PRESIDENTE. È iscritto a parlare l’onorevole Cevolotto. Ne ha facoltà.

CEVOLOTTO. Onorevoli colleghi. Io ho la fortuna – e sarà una fortuna anche per voi – di poter parlare molto brevemente, perché molte delle cose che avrei voluto dire le ha già dette l’amico onorevole Calamandrei.

Esaminerò, quindi, molto sommariamente gli articoli del progetto di Costituzione relativi alla famiglia.

Articoli che, a dire la verità, non mi sembra possano andare esenti da molte critiche e da molte perplessità da parte nostra. Per esempio, l’articolo 23 dice: «La famiglia è una società naturale». Lasciamo da parte se la famiglia sia in origine una società naturale o non piuttosto una società religiosa, lasciamo da parte tutte le questioni di carattere sociologico; ma che ragione c’è di mettere nella Costituzione una definizione della famiglia? Perché vogliamo inserirla? Altre definizioni ne abbiamo forse date? Parliamo del Comune, ma non diamo la definizione del Comune, parliamo della Regione, ma non diamo la definizione della Regione. E allora, perché questa tale definizione? Non è una superfluità? Non è una qualche cosa che stona con l’armonia anche estetica nel testo della Costituzione? Non è meglio tralasciare un’affermazione di carattere storico e sociologico, che non ha niente a che fare con la Costituzione, e limitarsi a dire che la Repubblica riconosce i diritti della famiglia e la tutela nell’adempimento della sua missione? Si toglie qualche parola, e in questa Costituzione ho l’impressione che sarebbe sempre opportuno di togliere delle parole, perché ce ne sono troppe.

Ma quello che veramente mi preoccupa, o deve preoccupare tutti, è il capoverso dell’articolo 23, in relazione specialmente con l’articolo 25.

Il capoverso dice: «La Repubblica assicura alla famiglia le condizioni economiche necessarie alla sua formazione, alla sua difesa ed al suo sviluppo, con speciale riguardo alle famiglie numerose».

L’articolo 25 aggiunge: «È dovere e diritto dei genitori alimentare, istruire, educare la prole. Nei casi di provata incapacità morale o economica la Repubblica cura che siano adempiuti tali compiti».

Cura che siano adempiuti tali compiti? Come cura? Se i genitori non possono adempierli evidentemente li dovrà adempiere la Repubblica. E allora, anche a prescindere dalla lettera e dal tono del testo, il primo capoverso dell’articolo 23 richiama involontariamente quella che fu la politica demografica del fascismo, che fu del regime uno dei più grossi errori, di cui portiamo anche adesso le conseguenze. Perché non è affatto vero che «il numero è potenza», e se fossimo un po’ meno in questa povera Italia a disputarci il pane che non c’è, senza dubbio staremmo tutti meglio e avremmo avuto o potremmo ricostituire un’organizzazione più salda, più efficace e più potente.

Ma l’intenzione di chi ha redatto gli articoli non è stata probabilmente quella di tornare alla politica demografica, a quell’obbligo di fare figlioli per costringere al quale il fascismo avrebbe voluto collocare i carabinieri ai lati del talamo… per impedire le reticenze. L’intenzione non è stata questa: è stata un’altra, quella del remedium concupiscentiae, per cui è bene che i giovani appena possono si sposino, perché la natura esige certi sfoghi che la morale vuole siano legittimi.

Ma in questo modo si va incontro ad un pericolo. E il pericolo è questo, che quando un giovanotto non ha proprio voglia di lavorare, non ha voglia di far niente – e una volta lo si destinava in tal caso alla carriera militare – venga la voglia di consigliarlo di prendere moglie e metter su famiglia: la Repubblica penserà poi a mantenere i figlioli, e ci potrà scappare anche il modo di vivere e di sistemarsi per lui.

L’intenzione non sarà stata neanche questa in chi da redatto gli articoli. Ma, badate bene, voi finite per dire ai giovani: sposatevi, mettete al mondo figlioli, e poi ci penseremo noi. È un po’ troppo, perché, fra l’altro, siamo noi in grado di provvedere, o facciamo delle promesse a vuoto?

Ecco la mia perplessità. Pur riconoscendo che vi è nella formulazione proposta un contenuto morale di cui non si può non tener conto, mi domando se da un lato i principî che si affermano siano opportuni e utili, e se dall’altro non si mettano a carico di questa povera Repubblica impegni superiori a quelli che potrà mantenere.

Ma il punctum pruriens di questi articoli sulla famiglia è un altro, quello di cui ha parlato a lungo l’onorevole Calamandrei, motivo per cui potrò parlarne brevemente io: l’affermazione che la legge regola le condizioni del matrimonio al fine di garantirne la indissolubilità.

Devo però parlarne, perché in seno alla prima Sottocommissione siamo rimasti in due soli a combattere contro questo esplicito e definitivo divieto: l’amico onorevole Basso ed io. E non capisco come ci siamo trovati così in pochi. Perché se proprio vi è un articolo che deve essere tolto dalla Costituzione, è questo, e prima di tutto per una ragione formale, cioè perché questa non è materia di Costituzione.

Il Codice civile potrà stabilire o non stabilire l’indissolubilità del matrimonio. Ma non c’è motivo che nella Costituzione si affermi questo principio, che, fra le altre cose, è principio tanto poco pacifico che, per esempio, nel momento attuale, che io mi sappia, non vi sono che tre nazioni civili che non ammettono il divorzio: la Spagna, cioè la Spagna di Franco, perché la Repubblica spagnola lo aveva stabilito, la Repubblica di Andorra e la Repubblica di San Marino.

NENNI. Anche il Portogallo!

CEVOLOTTO. No, il Portogallo no. In Portogallo vige l’istituto del divorzio con alcune limitazioni, specialmente di tempo.

Nella marcia verso il divorzio si può rilevare, che man mano che le nazioni si evolvono verso la democrazia, adottano il divorzio: la Spagna quando è diventata democratica, con la Repubblica, ha ammesso il divorzio, che poi fu tolto dallo Stato dittatoriale.

L’onorevole Calamandrei ha fatto un’osservazione, che mi pare decisiva.

Ha detto: «Imperante – bene o male – l’articolo 7, che logica c’è, anche per voi, cattolici, di pretendere che il divieto assoluto del divorzio resti nella Costituzione?».

Perché – con l’articolo 7 – il Concordato è richiamato e cristallizzato nella Costituzione.

E nel Concordato è detto che lo Stato, volendo dare al matrimonio cattolico tutta la sua importanza morale, ne fa il matrimonio civile.

Allora, voi avete i canoni che vi assistono.

Il canone 1016:

«Baptizatorum matrimonium regitur iure non solum divino, sed etiam canonico, salva competentia civilis potestatis circa mere civiles eiusdem matrimonii effectus».

E c’è il canone 1038:

«Supremae tantum auctoritatis ecclesiasticae est authentice declorare quandonam ius divinum matrimonium impediat vel dirimat».

Ed ancora il canone 1960, che completa decisamente la materia, dicendo:

«Causae matrimoniales inter baptizatos iure proprio et exclusivo ad iudicem ecclesiasticum spectant».

Difatti, nel Concordato si stabilisce che le cause matrimoniali sono di spettanza esclusiva dell’autorità ecclesiastica.

Allora, il matrimonio cattolico è fuori di discussione: in base alla Carta costituzionale la indissolubilità è consacrata, è decisa, è sicura.

L’onorevole Calamandrei ha citato una serie di esempî, per i quali questa indissolubilità non è assoluta, neanche nel diritto canonico; e ha perfettamente ragione, specialmente per quel che riguarda la dispensa del matrimonio rato e non consumato.

L’onorevole Bosco Lucarelli diceva: altra cosa è la nullità, altra cosa è il divorzio. La nullità non ha niente a che fare col divorzio.

Il divorzio è scioglimento del matrimonio; ma la dispensa del matrimonio rato e non consumato è proprio una forma di scioglimento del matrimonio valido, ed è, quindi, una forma di divorzio, che può essere concessa agli sposi cattolici, quando siano riconosciute le giuste cause, perché, anche nel caso di matrimonio rato e non consumato, a che venga data la dispensa devono concorrere delle giuste cause.

Fra queste giuste cause vi è quella del periculum incontinentiae, quella del coniuge che non sa adattarsi alla non consumazione del matrimonio. Una giusta causa di questa natura è molto facile che ci sia; oserei dire che ci sarà sempre, perché è difficile che i due coniugi siano proprio d’accordo nel non consumare il matrimonio.

D’altra parte, se fossero d’accordo, non domanderebbero la dispensa del matrimonio rato e non consumato.

Ma questa è materia propria del diritto canonico, sul quale forse noi non abbiamo neanche il diritto di entrare a fondo.

Matrimonio rato e non consumato. Ci sono tanti casi curiosi. Per esempio, una volta la dimostrazione che il matrimonio era rato, ma non consumato, fu data dalla moglie con la testimonianza del suo amante, il quale dichiarava e giurava che l’aveva trovata vergine.

D’altra parte neanche la verginità è assolutamente necessaria, come prova, perché la «copula fornicatoria» – come dicono i canonisti – anteriore al matrimonio non c’entra. Anzi io ho un esempio di due coniugi che si erano sposati solo col rito civile ed avevano avuto un figlio; poi si sono sposati anche in Chiesa, poi si sono pentiti. Hanno dimostrato che il secondo matrimonio, quello in Chiesa, non l’avevano mai consumato ed ebbero la dispensa. Queste sono le conseguenze strane che si avverano in questo campo, anche in base alla più legittima dottrina canonica. Ma il fatto che vi siano delle possibilità di dispensa del matrimonio rato e non consumato, può rappresentare (dato che il matrimonio è ormai per la enorme maggioranza dei cittadini quello regolato dal diritto canonico) un allargamento delle maglie della catena matrimoniale rispetto al Codice civile, di cui beneficieranno coloro che si sposano secondo il rito cattolico. E non saremo noi a lamentarci, se i tribunali ecclesiastici talvolta non si mostreranno molto severi nel prevenire i possibili inganni. La Chiesa avverte che le conseguenze delle menzogne degli interessati sono a loro carico, perché in caso di inganno, il sacramento resta, con tutte le conseguenze di una dichiarazione apparente, che non toglie che i fraudolenti restino in stato di peccato mortale.

Ma, diceva giustamente l’onorevole Calamandrei, che cosa c’entra tutto questo con quei pochissimi matrimoni che si celebrano soltanto col rito civile? E qui io vorrei riferirmi, non soltanto ai matrimoni civili, ma anche ai matrimoni che si celebrano col rito delle altre religioni, i matrimoni che si celebrano coi riti della Chiesa ebraica, valdese, protestante. Perché, la situazione è questa: la regola ebraica ammette il «ripudio», che è una forma di divorzio. Non si vede perché noi diamo al matrimonio cattolico il valore del rito civile, del matrimonio civile, e non diamo lo stesso valore al matrimonio ebraico, ma pretendiamo che i matrimoni di coloro che sposano col rito ebraico siano regolati soltanto dalla legge civile. Perché dobbiamo impedire agli sposi ebrei di poter eventualmente divorziare secondo le forme della loro religione? E perché dobbiamo fissare una regola nella Costituzione che ci proibirà di concedere a questi il divorzio anche in avvenire, in altra occasione, in altri tempi, quando si potrà trattare tranquillamente di questi argomenti che non appaiono forse ora i più urgenti e i più impellenti?

Anche qui – e vorrei quasi quasi insegnare un pochino agli sposi non cattolici come possono fare, tanto più che questo potrebbe portare qualche conversione alla fede cattolica – se due coniugi non di religione cattolica, quindi degli infedeli, si sono sposati, per esempio, col rito ebraico ed uno di essi si battezza, allora c’è il privilegio Paolino, e dopo alcune interrogazioni alle quali è facile rispondere, possono essere dispensati dal matrimonio, cioè dal vincolo. A questo riguardo c’è il canone 1120, che dice: Legitimum inter non baptizatos matrimonium, licet consummatum, solvitur in favorem fidei ex privilegio Paulino. Potreste così acquisire delle conversioni da parte di qualche coniuge (ebreo o protestante) che non sia contento del suo matrimonio e che si faccia cattolico per riacquistare la libertà.

Io mi domando se le avversioni che ci sono per il divorzio, in certi casi – come appunto nei casi dei non cattolici, nei casi dei non credenti che si sono sposati soltanto col rito civile, o con le forme di altre religioni – hanno un qualche fondamento di legittimità. Non l’hanno nel campo giuridico, perché non è controverso che il matrimonio è anche un contratto: del resto, la forma contrattuale al matrimonio l’ha data proprio il diritto canonico. Sta bene che nel diritto canonico il contratto si identifica e coincide col sacramento, e quindi si forma il vincolo in quanto contemporaneamente al contratto sorge anche il sacramento; sta bene questo, ma, per il Codice civile, il matrimonio è anche un contratto dal punto di vista giuridico. Non vedo la ragione – data la natura di un tal contratto – per cui non possa sciogliersi.

Dal punto di vista sociale, il diritto canonico sostiene l’indissolubilità del matrimonio anche per i matrimoni legittimi non cattolici. Il Gasparri, per esempio, afferma l’indissolubilità del matrimonio essere, in qualche modo, di diritto naturale e non potere essere sancito il divorzio dal potere civile, neanche nel caso di infedeltà. Argomenta della indissolubilità del vincolo dai fini del matrimonio, dal fine primario di avere una prole, dal fine di educare la prole, ma specialmente dai precetti primari della legge naturale. Però vi è una obiezione vecchia, che può sembrare anche banale, ma del tutto banale non è: la separazione coniugale non produce forse gli stessi effetti, non – naturalmente – sul vincolo, che rimane, ma gli stessi effetti pratici del divorzio, rispetto alla prole e rispetto alla disunione della famiglia?

Infatti, nel diritto canonico esiste bensì la separazione coniugale, ma i canonisti la chiamano divortium limitatum: limitato, sia pure, perché il vincolo resta, ma divorzio, e gli effetti rispetto alla prole sono gli stessi. Forse non è un male, perché io mi domando, per quanto grave e dolorosa possa essere la situazione dei figli quando una famiglia si è divisa, quando la moglie ed il marito vivono separatamente, se questo male non sia ancora preferibile al fatto che i figli assistano ai litigi, ai dissidi, alla disunione intima della famiglia e ne traggano delle impressioni che non si cancellano. E quanto meglio sarebbe se alla separazione seguisse non – come ora – l’adulterio e la costituzione di nuove famiglie illegittime, ma la forma lecita e legale dello scioglimento del matrimonio e della regolarizzazione delle posizioni irregolari!

Qui è opportuno ricorrere anche alla statistica: in questi tempi le separazioni coniugali legali vanno aumentando in modo impressionante e vi sono molte separazioni che non sono legali. Negli anni del dopoguerra, secondo le statistiche che ho cercato di compulsare, ci sono stati in media 30 mila casi di separazione legale all’anno e almeno altrettante devono essere le separazioni di fatto. Sono cifre che impressionano. Dimostrano che il problema, se non è, come si dice, sentito dalla grande massa (e questo aspetto politico va tenuto in conto), è però urgente per una notevole quantità di cittadini.

Non che io voglia dare un peso assoluto alle statistiche: le statistiche dicono quello che si vuol far dire loro. Leggevo proprio ora un esempio in un libro che tratta del divorzio: racconta di una certa statistica, che era stata fatta dagli inglesi in India, in un reggimento indiano, dalla quale risultava il dato stupefacente che la mortalità degli astemi era del cinquanta per cento e si trattava di giovani soldati. Ma in quel reggimento gli astemi erano soltanto due, e uno se l’era mangiato una tigre nella giungla!

Ora, molte volte, le statistiche si prestano a trarne conseguenze che non sono affatto esatte. Però, l’evidenza della verità che le separazioni, legali e non legali, vanno aumentando nel dopoguerra, è di dominio pubblico, anche perché è una conseguenza inevitabile di ciò che è successo durante la guerra, è una conseguenza della disunione che ha portato con la lontananza dei mariti la libertà sessuale delle mogli, è una conseguenza della disfatta, dell’invasione, della miseria e di tutte le altre disgrazie che ci sono capitate. Io mi domando: perché mettere un divieto assoluto al divorzio, perché mettere questa ipoteca sull’avvenire? Volete convincervi che in un periodo di così evidente immoralità, il divorzio gioverebbe a moralizzare la famiglia, non ad abbassarla?

Non insisto su questo tema perché non voglio uscire dal limite di tempo stabilito, anzi vorrei restare al di qua dei trenta minuti. E poi non desidero ripetere male quello che l’onorevole Calamandrei ha detto benissimo. Ma insisto nel dire che la questione del divorzio prima o poi sorgerà e dovrà essere risolta anche in Italia, sia pure con soluzioni prudenti e limitate. Non è successo niente di catastrofico nelle nazioni che da tanto tempo hanno il divorzio. I famosi «pericoli sociali» si sono dimostrati inesistenti in pratica, poi che da molti anni in tutte le nazioni civili vi è il divorzio. Per i casi più evidenti e dolorosi, con cautela, anche in Italia, prima o poi, ci si dovrà avviare per questa strada. Non mettiamo un punto fermo che non ha ragione di essere né dal lato formale, né dal lato sostanziale. La questione politica del momento nel quale si dovrà innovare al nostro diritto civile in argomento, non è forse – lo riconosco – attuale.

E passo a dire soltanto due parole su ciò che riguarda la condizione dei figli illegittimi. Secondo me, molti colleghi sono stati dominati da una impressione, che hanno ricevuto da una prima lettura dell’articolo del progetto che probabilmente non è esatta. All’articolo 25, che esprime un concetto sul quale senza dubbio saremo tutti d’accordo, si è attribuito un significato e si è data una portata che vanno al di là del principio. Io avrei preferito la formula, magari forse un po’ retorica, che era stata proposta nella prima Sottocommissione e cioè che la legge provvederà perché non possano ricadere sui figli illegittimi le conseguenze di uno stato coniugale non conforme al diritto.

Il testo del progetto di Costituzione dice invece: «I genitori hanno verso i figli nati fuori del matrimonio gli stessi doveri che verso quelli nati nel matrimonio». Il principio è sacrosanto. Si può ammettere che un genitore abbia dei doveri diversi verso il figlio che ha generato fuori del matrimonio, e che non ne ha colpa, e verso il figlio che ha generato nel matrimonio? Anzi, sotto un certo aspetto, i doveri sono più forti verso il figlio incolpevole che è nato da una colpa, e che perciò è in una posizione di inferiorità. Ma non si dice che la parificazione deve essere completa nel senso di introdurre il figlio illegittimo nella famiglia, di farlo sedere allo stesso desco, di considerarlo come membro che ha diritto di abitare nella stessa casa? Questo non è nel progetto? Se sorgesse un dubbio di interpretazione, converrebbe chiarire la portata del testo.

Nessuno può imporre alla moglie legittima, ai figli legittimi una vicinanza, una comunanza di vita che sarebbero fonti di discordie, di avversioni, di lotte, di cattiverie, di disgregazione, di male per tutti.

I doveri dei genitori verso tutti i figli sono gli stessi; cioè tutti i figli devono esser messi nello stato di parità giuridica, non che in fatto devano occupare lo stesso posto.

L’articolo prosegue dicendo che la legge garantisce ai figli nati fuori del matrimonio uno stato giuridico che escluda inferiorità civili e sociali. E anche questo è giusto e sacrosanto. Non vi è nessuna tutela della famiglia che possa prescindere dai doveri dei genitori, verso ciò che essi hanno creato. Se degli individui poco scrupolosi vanno a seminare fuori della casa, ebbene, devono portare le conseguenze di quanto hanno fatto. Non vi è nessuna ragione per cui i figli nati fuori del matrimonio non abbiano garanzia assoluta di una tutela che sia efficace. La formula non dice ciò che molti hanno supposto, ma è una formula che, con un senso di umana giustizia, dovrebbe essere da tutti accettata.

Non aggiungo altro perché il tempo stringe e non vorrei sentirmi richiamare dal Presidente, il quale è molto paziente, ma non intendo abusare della sua pazienza.

Dico soltanto che questi articoli sulla famiglia, che sono evidentemente inspirati ad alte idee etiche e sociali, vanno migliorati nella forma; vanno tolte ad essi quelle disarmonie, quelle difficoltà, di cui ho fatto cenno. Certamente noi vogliamo una salda tutela della famiglia, certamente ci auguriamo che dalla Carta costituzionale questa tutela riesca efficace, certamente noi desideriamo che la nuova famiglia italiana sia una famiglia sana, che dia una base concreta morale ed efficace al risorgimento della nostra Nazione. (Applausi).

PRESIDENTE. Il seguito della discussione è rinviato a domani alle 11. Domani vi sarà seduta anche alle 16.

Avverto che fra dieci minuti l’Assemblea tornerà a riunirsi in Comitato segreto.

La seduta termina alle 19.5.

Ordine del giorno per le sedute di domani.

Alle ore 11:

  1. – Interrogazioni.
  2. – Seguito della discussione del progetto di Costituzione della Repubblica italiana.

Alle ore 16:

Seguito della discussione del progetto di Costituzione della Repubblica italiana.

ANTIMERIDIANA DI GIOVEDÌ 17 APRILE 1947

ASSEMBLEA COSTITUENTE

XCII.

SEDUTA ANTIMERIDIANA DI GIOVEDÌ 17 APRILE 1947

PRESIDENZA DEL VICEPRESIDENTE TUPINI

INDICE

 

Interrogazioni (Svolgimento):

Presidente                                                                                                        

Di Gloria                                                                                                          

Cappa, Sottosegretario di Stato alla Presidenza del Consiglio                               

Ravagnan                                                                                                        

Badini Confalonieri                                                                                        

Miccolis                                                                                                           

Di Fausto                                                                                                         

Fogagnolo                                                                                                       

Braschi, Sottosegretario di Stato per i danni di guerra                                        

Progetto di Costituzione della Repubblica italiana (Seguito della discussione):

Rodi                                                                                                                  

Gallico Spano Nadia                                                                                      

Preti                                                                                                                 

Giua                                                                                                                  

Corsanego                                                                                                       

Tumminelli                                                                                                       

Interrogazione con richiesta d’urgenza:

Presidente                                                                                                        

Interrogazioni (Annunzio):

Presidente                                                                                                        

La seduta comincia alle 10.

MATTEI TERESA, Segretaria, legge il processo verbale della precedente seduta antimeridiana.

(È approvato).

Interrogazioni.

PRESIDENTE. L’ordine del giorno reca le interrogazioni degli onorevoli:

Di Vittorio e Lizzadri al Ministro della pubblica istruzione, «sui motivi che hanno ritardato l’accoglimento delle giuste rivendicazioni del personale insegnante delle scuole medie ed elementari e degli educandati nazionali, nonostante formali promesse fatte dal Governo, da lungo tempo».

Di Gloria, Rossi Paolo, Preti, Salerno, Binni, Filippini, Codignola, Lami Starnuti, al Ministro della pubblica istruzione, «per avere tutti i necessari chiarimenti circa il suo atteggiamento relativamente allo sciopero degli insegnanti di scuole medie».

L’onorevole Gonella ha fatto sapere che risponderà a queste interrogazioni nella giornata di domani.

DI GLORIA. Chiedo di parlare.

PRESIDENTE. Ne ha facoltà.

DI GLORIA. Ieri sera, quando fu data lettura della mia interrogazione circa lo sciopero degli insegnanti delle scuole medie, il Ministro Gonella disse che avrebbe risposto stamane.

PRESIDENTE. Effettivamente l’onorevole Gonella disse che avrebbe risposto stamane. Senonché ha poi fatto sapere che risponderà domani e prega gli onorevoli interroganti di avere la cortesia di attendere la risposta fino a domani.

L’onorevole Ravagnan ha rivolto un’interrogazione al Presidente del Consiglio dei Ministri, «per sapere se non si ritenga necessario dare disposizioni precise perché siano tolti dai fregi e distintivi militari gli emblemi della monarchia e perché dai timbri, sigilli ed intestazioni di uffici ed enti dell’amministrazione dello Stato siano tolte le diciture monarchiche».

L’onorevole Sottosegretario alla Presidenza del Consiglio ha facoltà di rispondere.

CAPPA, Sottosegretario di Stato alla Presidenza del Consiglio. Già è stato esaurientemente risposto alla interrogazione sullo stesso argomento presentata alcuni mesi or sono dall’onorevole Carpano Maglioli, con richiesta di risposta scritta.

Come si ebbe allora a rilevare, il Governo, all’atto stesso della proclamazione della Repubblica, si pose il problema del nuovo emblema dello Stato. Per un senso di profondo e doveroso rispetto verso l’Assemblea Costituente, cui doveva evidentemente riservarsi ogni decisione circa il simbolo della Repubblica, il Governo, con il decreto 19 giugno 1946, n. 1, si limitò a prevedere la nomina di una Commissione incaricata di formulare le proposte da sottoporre alla stessa Assemblea. Si provvide, inoltre, ad eliminare il simbolo della monarchia dalla bandiera nazionale ed a sopprimere ogni qualificazione riferentesi alla forma monarchica dello Stato nelle denominazioni di uffici, commissioni, corpi, enti ed istituti pubblici, nonché nella intitolazione degli atti e delle pubblicazioni di carattere ufficiale.

In conseguenza, l’emblema della monarchia venne eliminato in ogni fregio o distintivo militare.

Quanto ai sigilli, apparve indispensabile consentire l’uso di quelli esistenti, fino a quando gli uffici non fossero provvisti dei nuovi recanti l’emblema della Repubblica. Non sarebbe stato infatti opportuno far luogo alla fabbricazione di sigilli provvisori: ciò a prescindere dalla difficoltà di provvedere subito all’approvvigionamento degli uffici. Analoga disposizione venne accolta per le carte e valori, gli stampati ed i moduli già esistenti, dei quali, per evidenti considerazioni di carattere economico, venne ammesso l’uso fino ad esaurimento delle scorte.

Peraltro, non potendosi tollerare che nei suddetti stampati e moduli, come pure sulla carta da lettere, continuasse a figurare lo stemma monarchico, la Presidenza del Consiglio ha dato precise disposizioni a tutte le Amministrazioni affinché lo stemma stesso, al pari di ogni qualificazione monarchica, venga cancellato su ciascun foglio. Si è, inoltre, disposto che, qualora si debba procedere a nuove ordinazioni di stampati, al posto dello stemma si apponga la dicitura: «Repubblica italiana»; e questo è stato fatto.

Inoltre una circolare dello scorso gennaio ha prescritto che lo stemma e la qualificazione «regia» vengano eliminati nei bolli in uso per la corrispondenza ufficiale in franchigia.

Frattanto, la Commissione presieduta dall’onorevole Bonomi ha ultimato i suoi lavori, comunicando al Presidente del Consiglio il simbolo prescelto a seguito dell’apposito concorso.

La proposta della Commissione sarà al più presto sottoposta alle deliberazioni dell’Assemblea Costituente.

PRESIDENTE. L’onorevole Ravagnan ha facoltà di dichiarare se sia sodisfatto.

RAVAGNAN. Ringrazio l’onorevole Sottosegretario e prendo atto delle sue dichiarazioni, ed assicurazioni. Il Governo comprende certamente molto bene che questa questione non è soltanto di carattere formale, ma riveste una sostanza molto importante.

Vorrei segnalare che ancora pochi giorni fa ho avuto occasione di far presente al Presidente dell’Assemblea che proprio l’Ufficio postale della Camera invia a noi Deputati la corrispondenza che ci perviene – questo avveniva durante le vacanze – con lo stesso timbro che esisteva prima della Repubblica.

Per questo ho presentato la mia interrogazione e sono lieto di prendere atto che oggi le opportune disposizioni sono state date dal Governo; ma bisogna vigilare perché queste disposizioni siano osservate. Potrebbe darsi, infatti, che da parte di certi pubblici funzionari vi fosse della trascuratezza, il che certo non deporrebbe a favore del rispetto che si deve da tutti alle istituzioni repubblicane.

BADINI CONFALONIERI. Chiedo di parlare.

PRESIDENTE. Ne ha facoltà.

BADINI CONFALONIERI. Avevo presentato un’interrogazione di carattere urgente sui fatti di Torino, e il Governo ne aveva riconosciuto l’urgenza, ma ancora non ha risposto.

PRESIDENTE. L’onorevole Sottosegretario di Stato alla Presidenza del Consiglio ha facoltà di rispondere.

CAPPA, Sottosegretario di Stato alla Presidenza del Consiglio. Iersera, quando è stato stabilito l’ordine del giorno, si è detto che si sarebbe risposto lunedì.

MICCOLIS. Chiedo di parlare.

PRESIDENTE. Ne ha facoltà.

MICCOLIS. Ho presentato un’interrogazione urgente per i fatti di Gioia del Colle. Desidero sapere quando il Governo risponderà.

PRESIDENTE. Prego l’onorevole Sottosegretario di Stato alla Presidenza del Consiglio di pronunziarsi in merito.

CAPPA, Sottosegretario di Stato alla Presidenza del Consiglio. Non so se l’urgenza di questa interrogazione sia stata riconosciuta dal Governo. Osservo genericamente che se le interrogazioni non sono riconosciute urgenti fanno il loro corso normale.

PRESIDENTE. Comunque, anche per questa interrogazione mi sembra di ricordare che l’onorevole Presidente del Consiglio abbia ieri sera assicurato che avrebbe risposto quanto prima.

DI FAUSTO. Chiedo di parlare.

PRESIDENTE. Ne ha facoltà.

DI FAUSTO. Ho presentato un’interrogazione urgente riguardante il Cimitero a Monte Mario.

PRESIDENTE. Aspetti di domandare questa sera al Governo che l’urgenza della sua interrogazione sia riconosciuta.

DI GLORIA. Chiedo di parlare.

PRESIDENTE. Ne ha facoltà.

DI GLORIA. Anch’io vorrei domandare al Governo quando risponderà alla mia interrogazione in materia di cooperative.

PRESIDENTE. Onorevole Di Gloria, sarà opportuno che stasera, alla fine della seduta, rinnovi la sua domanda.

FOGAGNOLO. Avevo presentato un’interrogazione urgente il giorno 11 e avevo anche dichiarato che ero d’accordo col Sottosegretario di Stato alle finanze per i danni di guerra, onorevole Bruschi, che mi avrebbe risposto subito. Dal momento che è presente l’onorevole Braschi, lo pregherei di voler fissare la data della risposta alla mia interrogazione.

PRESIDENTE. Prego l’onorevole Braschi di voler dire quando potrà rispondere.

BRASCHI, Sottosegretario di Stato per i danni di guerra. Anche domani.

PRESIDENTE. Allora lo svolgimento dell’interrogazione resta fissato per domani.

Sono così esaurite le interrogazioni inscritte all’ordine del giorno di oggi.

Seguito della discussione del progetto di Costituzione della Repubblica italiana.

PRESIDENTE. L’ordine del giorno reca: Seguito della discussione del progetto di Costituzione della Repubblica italiana.

È iscritto a parlare l’onorevole Rodi.

Ne ha facoltà.

RODI. Onorevole Presidente e onorevoli colleghi, ritengo che sia stato giusto ed esatto aver dato a questo Titolo 2° la denominazione di «rapporti etico-sociali»; però mi sembra che questa denominazione sia stata in un certo senso cristallizzata nel solo titolo di questa parte e non estesa, com’era giusto, all’intera Costituzione. Nell’articolo 23 vi è una definizione che a me sembra singolare e che comunque è gravemente incompleta: la famiglia è una società naturale. Io non so quale significato particolare i redattori dell’articolo abbiano dato all’aggettivo «naturale», ma se mi pongo dall’angolo visuale del cittadino che esamina la Costituzione debbo a questo aggettivo dare una significazione letteraria e scientifica; e se devo dare questa significazione affermo che la famiglia non è una società naturale, poiché l’evoluzione dei tempi ha condotto la famiglia ad essere una istituzione morale e un organismo sociale. Perché non mi si accusi di estremismo, aggiungerò che la famiglia è certamente un fatto naturale, in quanto ha radice nell’esplicazione di una funzione biologica; ma è anche vero che il fattore biologico in seno alla famiglia è stato superato dall’elemento spirituale, il quale, essendosi sovrapposto attraverso secoli di civiltà, costituisce il nucleo principale e fondamentale della famiglia, che non può essere quindi una società naturale, ma soltanto una istituzione morale.

In questo senso io presenterò un emendamento all’articolo 23, emendamento basato sul criterio che la civiltà stessa non è che una spiritualizzazione delle tendenze istintive. Lasciando quindi l’aggettivo «naturale» in questo articolo, non faremmo che sottolineare quest’istinto che la società ha spiritualizzato.

Lo stato coniugale puro e semplice, per me, non è ancora famiglia; diventa tale solo quando viene introdotto il senso etico e l’abito virtuoso.

Del resto noi abbiamo due fattori eminentemente spirituali nella famiglia: la indissolubilità del matrimonio e la monogamia, che rappresentano due eminenti fattori spirituali; e l’uno e l’altro sono elementi che garantiscono appunto l’unità della famiglia; senza contare che l’indissolubilità del matrimonio, che noi abbiamo sottolineato nel progetto – e non certamente per motivi politici – è, per chi lo intende perfettamente, il mezzo per il perfezionamento morale della famiglia.

E quindi la indissolubilità non è soltanto una questione, direi quasi, unilaterale, ma investe la spiritualità stessa della famiglia.

Ora, se la Costituzione ha sancito la indissolubilità del matrimonio, non trovo logico che la famiglia sia stata definita una società naturale. Da questo punto di vista il matrimonio va al di là del diritto e diventa una coscienza etica e religiosa. La famiglia, come è intesa dalla nostra civiltà, non è soltanto quel nucleo fondamentale sul quale si basa la nostra società, ma è una società in piccolo, è un microcosmo, che già contiene in sé tutti gli elementi della società e quindi essa forma e ripete, nello stesso tempo, il macrocosmo, nel quale la società si sviluppa in grande.

Per questa ragione, dalla famiglia si sviluppano, direttamente, il diritto e l’etica, in quanto la famiglia non è soltanto una unione giuridicamente perfetta, ma è un vincolo di affetto, nell’ambito di un profondo senso religioso.

Io trovo che la famiglia sia stata nel progetto eccessivamente schematizzata e resa, in un certo senso, succube della potenza statale. Tutto ciò non risponde alla nostra esigenza e, soprattutto, all’esigenza della nostra civiltà religiosa; poiché tutti sappiamo che la famiglia esercita in Italia, in pieno, il diritto privato; e poiché è presente questo esercizio, abbiamo nello stesso tempo la prova che la famiglia ha un carattere volitivo ed ha una personalità. È chiaro allora che la nostra famiglia ha un elemento oggettivo ed un elemento soggettivo che è, forse, per me il più importante.

Ebbene, la Costituzione non ha tenuto conto del fattore soggettivo in seno alla famiglia ed ha considerato solo quello oggettivo. Per questa ragione ha definito la famiglia una società naturale posta, per di più, sotto il controllo dello Stato. Il quale Stato o potrà essere indifferente – la nota indifferenza statale – nei confronti della famiglia, oppure sarà obbligato a ingerirsi nei fatti della famiglia fino al punto da turbare il suo equilibrio e da inceppare la libertà dei suoi membri.

MORO. Questo non è detto in nessun articolo della Costituzione.

RODI. Non è detto esplicitamente, onorevole Moro, ma segua il mio discorso ed il mio pensiero le si renderà chiaro.

Lo Stato, infatti, assicura alla famiglia certe particolari condizioni economiche. Qui noi ci troviamo o di fronte ad un’affermazione teorica, la quale, quindi, non avrebbe un valore effettivo agli effetti dell’applicazione della Costituzione, oppure questo fatto implica la promessa di una modificazione profonda nella società italiana, e cioè una riforma sociale la quale tenda ad un’ingerenza talmente profonda dello Stato nella famiglia da poter seguire anche le sue vicende economiche.

Del resto noi non sappiamo con quali mezzi e attraverso quali sistemi lo Stato può sorvegliare la famiglia anche nell’ambiente economico; non sappiamo in che modo lo Stato potrà intervenire nella finanza e nell’economia di una famiglia per sopperire alle eventuali esigenze, e naturalmente noi crediamo, che, tutt’al più, allo Stato sia riservato il diritto di aiutare, di appoggiare tutte quelle organizzazioni sociali nelle quali si concentra la solidarietà umana e nelle quali arriva veramente la vivezza della famiglia, quella vivezza che allo Stato sfugge, perché troppo alto e lontano e non in grado di penetrare l’organismo famigliare fino al punto da sostenerlo in ogni sua vicenda.

L’articolo 24 sancisce l’eguaglianza morale e giuridica dei coniugi. Anche questa affermazione mi sembra alquanto singolare, soprattutto perché sono stati aggiunti quei due aggettivi specificativi, quasi che l’uguaglianza di per se stessa non servisse a dare un’idea chiara e precisa di ciò che rappresentano due coniugi nel campo sociale. Io credo che si sia fatto anche qui un abuso della parola eguaglianza, poiché è chiaro che noi siamo di fronte ad una legge armonica dell’universo, e questa legge armonica ha sancito, secondo, un criterio naturale, la supremazia del marito rispetto alla moglie; e questa supremazia è stata riconosciuta e affermata giuridicamente e moralmente. Si intende che la mia osservazione non è destinata a dare alla donna un grado di inferiorità, ma invece è destinata a sollevare le sorti della donna nella sua funzione etica e sociale; funzione di tale preminenza e di tale importanza, specialmente spirituale, che addebitarle un’eguaglianza morale e giuridica, in maniera così schematica e fredda, per me vuol dire, in un certo senso, avvilirla.

Si tratta in altri termini di una specie di amorfa eguaglianza che oscura la figura specialmente della donna italiana che è, come sapete, l’angelo e la regina della casa. È questa donna che nella nostra famiglia rappresenta la grazia che si aggiunge alla forza dell’uomo per completare il senso etico della famiglia e non può essere considerata moralmente e giuridicamente eguale all’uomo, la cui funzione nella società è profondamente diversa. Per cui la donna, in un certo senso, è la parte integrante dell’uomo, e dal suo punto di vista, anche superiore all’uomo, data la funzione che la natura e Dio alla donna hanno dato. E ringrazio l’onorevole Maffi, che scimmiotta i miei gesti con aria ironica: evidentemente le mie idee gli sembrano ridicole, ma non può rinnegarle.

Nell’articolo 25 si tratta della questione dei figli illegittimi. Io lascio ai giuristi il giudizio su questo articolo e lo considero soltanto dal punto di vista etico. Per me questo articolo contiene una legge violenta, una legge che pretende di guarire radicalmente e profondamente un male sociale, ma commette l’errore di aggravare un altro male sociale.

Io comprendo esattamente l’esigenza, da parte del legislatore, di tutelare quei figli che nascono fuori del matrimonio. Capisco l’esigenza di non far ricadere sui figli la colpa dei padri, capisco l’esigenza di non tenere questi figli in uno stato di inferiorità rispetto ai figli legittimi, ma non capisco come la violenza di questa legge, che è diretta alla tutela unilaterale di un fatto sociale, dimentichi completamente la questione morale nei confronti dei genitori. Quindi la Costituzione si è trovata di fronte a due problemi: uno che interessa i figli e l’altro che interessa i genitori; ed i relatori della Costituzione si sono riversati interamente sui figli, trascurando completamente la posizione morale dei genitori. È chiaro quindi che questo articolo, almeno dal punto di vista etico, dovrebbe essere modificato nel senso che si dia una garanzia morale anche per quanto riguarda i genitori e comunque una garanzia che serva a scardinare il male della illegittimità un po’ per volta e non con una legge che tolga improvvisamente questo male sociale senza tuttavia guarirlo.

Io sento che in ogni articolo di questa Costituzione vi è un qualche cosa di penoso, un qualche cosa di stentato, di artificiale, e tutto questo senso che non soltanto io ma anche altri hanno notato, va proprio a svantaggio di quel principio etico e sociale del quale ci interessiamo ora.

Il titolo 2° ha per lo meno alterato il principio etico, che io vedo stretto tra un atto di forza che la Costituzione contiene e l’ormai storico compromesso. L’atto di forza di per se stesso implica la necessità di una obbedienza assoluta ed implica una polarizzazione verso un dato ed unico punto; comunque, appunto perché atto di forza non può essere un atto etico e noi dovremo cercare di farlo scomparire dalla nostra Costituzione, sebbene finora sia stato affermato e confermato.

Per quanto riguarda il compromesso cui ho fatto cenno, ho aggiunto l’aggettivo «storico», perché ormai di questo compromesso si è più volte parlato; e il compromesso, noi sappiamo, ha due poli: quello dell’estrema sinistra e quello della Democrazia cristiana. (Interruzione dell’onorevole Tonello).

Onorevole Tonello, conosco la sua specializzazione nell’interrompere l’oratore quando si parla di Democrazia cristiana o di cristianità.

Noto che la Democrazia cristiana, specialmente sulla base etica, è stata molto più arrendevole; e la sua arrendevolezza ha consentito che nella Costituzione circolasse insistentemente lo spirito collettivista. Ebbene, la Democrazia cristiana non ha saputo ottenere nemmeno la esplicita dichiarazione di una religione nazionale. E penso che questa dichiarazione era da tutti i punti di vista estremamente importante, perché la religione cattolica è l’indiscutibile fondamento etico della nazione italiana. E se questo fondamento etico e sociale è stato in un certo senso il primo punto dal quale la civiltà italiana è partita, io non comprendo come in una nuova Costituzione, che deve aprire una nuova era del popolo italiano, si possa in un certo senso trascurare o dimenticare, per ragioni politiche, un fondamento, al quale il popolo italiano non sa, non può e non vuole rinunciare. Naturalmente, la rinuncia a questo fondamento ha lasciato maggior campo libero all’estrema sinistra, la quale ha approfittato dell’arrendevolezza di cui parlavo poc’anzi per invadere un po’ tutti i campi, e in particolar modo quello economico, di cui discuteremo fra non molto.

Ora, io trovo – sempre agli effetti dei nostri rapporti etico-sociali – che questo sistema è per lo meno strano, perché noi sappiamo che la religione cattolica ha liberato gli uomini non soltanto dai «credi» fatalistici, ma anche e soprattutto da quelli materialistici. Ora, per il solo fatto che la Democrazia cristiana ha ceduto al materialismo, ha in un certo senso ceduto alla sua stessa coscienza.

MORO. Dov’è questa cessione al materialismo, onorevole Rodi?

RODI. Può darsi che io sia in errore, ma è chiaro che ciascuno ha visto la Costituzione dal proprio angolo di visuale; è perciò che io penso e affermo che se la Democrazia cristiana ha ceduto in questo campo – l’unico nel quale non avrebbe mai dovuto cedere – si tratta di una cessione al materialismo, cioè a quella forza che la cristianità ha combattuto con tutte le sue armi.

TONELLO. Sono stati i preti i primi a fare le tariffe.

PRESIDENTE. Onorevole Tonello, non interrompa.

RODI. L’onorevole Tonello sa che l’uomo, in un certo senso, è l’animale più feroce, perché fa il male con intelligenza; e naturalmente i democristiani sanno che le forze spirituali dell’uomo possono anche fare un santo; ed è per questa ragione che essi avrebbero dovuto insistere sui loro principî e non consentire ad una, direi, manomissione.

Però, c’è qualche cosa che è ancora più grave: che, se la Democrazia cristiana in alcuni punti si è fatta sopraffare, in altri punti è riuscita ad affermare alcuni dei suoi principî.

Ma sta qui il grave, onorevoli colleghi, perché noi abbiamo ormai una Costituzione con due volti; abbiamo una specie di Giano bifronte, il cui tempio sarà fatalmente aperto fino a quando questa Costituzione non avrà il volto del popolo italiano, fino a quando cioè questa Costituzione non avrà perduto il volto di due partiti politici, fino a quando questa Costituzione avrà il volto del compromesso, avrà il volto di due tendenze diverse e conseguentemente essa non risponderà al carattere ed alla psicologia italiana.

Così come è compilata ora, la Costituzione è destinata quindi a subire una radicale riforma, perché ogni Costituzione, ogni legge, debbono aderire non già ad uno spirito di parte, ma alla psicologia del popolo cui quella legge, cui quella Costituzione è destinata.

Vi è un io dell’individuo; vi è un io della famiglia; vi è un io della società: abbiamo noi, attraverso la Costituzione, attraverso i rapporti etico-sociali, valorizzato l’io dell’individuo, l’io della famiglia, l’io della società? Non abbiamo piuttosto sottoposto l’io dell’individuo, della famiglia, della società, ad un principio politico che risponde soltanto alla contingenza e non alla larghezza che dovrebbe avere una Costituzione?

Ora, a noi incombe l’obbligo di curare che questo io non sia disperso né dalla sovrapposizione dello Stato né che sia alterato dall’estremismo politico, poiché l’estremismo politico genera egoismo e paura. Noi siamo in un regime di estremismo politico e fatalmente la Costituzione doveva risentire di questo estremismo. Esso costituisce infatti l’aspetto più pericoloso della nostra vita nazionale perché, come dicevo poc’anzi, l’estremismo genera paura ed egoismo, genera cioè due fatti per i quali il partito più forte si chiude in se stesso, per attuare un suo potere dittatoriale, e dall’altra parte v’è la paura, che fa arretrare gli uomini di fronte allo strapotere di un partito e li costringe a soggiacere ad un regime dittatoriale.

È necessario dunque che nella nostra Costituzione sia eliminato questo estremismo; è necessario cioè che i rapporti etico-sociali della nostra nazione siano basati su una maggiore lealtà, siano basati su una maggiore comprensione dei nostri bisogni, dei bisogni del nostro popolo: noi abbiamo cioè bisogno che questa Costituzione rifletta l’ansia di civiltà, l’ansia di rinascita che è nel nostro popolo. (Applausi a destra).

PRESIDENTE. È iscritta a parlare l’onorevole Nadia Gallico Spano. Ne ha facoltà.

GALLICO SPANO NADIA. Il progetto di Costituzione si occupa della famiglia in tre articoli e questo è un fatto certamente positivo del progetto di Costituzione stesso. La famiglia avrà così nella Carta costituzionale d’Italia il posto che le spetta per la funzione che deve assolvere nella vita italiana. D’altra parte, questo è anche un fatto positivo per il tenore stesso degli articoli che sono, nel loro complesso, assai buoni.

Naturalmente alcune modifiche occorreranno.

Avere inserito nella nostra Costituzione degli articoli che si occupano della famiglia è certamente un progresso, perché permetterà che la famiglia sia profondamente rinnovata e trasformata nella vita italiana. Ma per poter avviarci a questo progresso della famiglia è bene esaminare brevemente in quale situazione si trova oggi la famiglia italiana, come essa risulta dalle leggi preesistenti, dalla catastrofe che ha colpito il nostro Paese, dal travaglio stesso che l’Italia attraversa per risollevarsi e per risorgere.

Lo Statuto albertino non parlava della famiglia, come del resto non ne parla nessuna delle Costituzioni che sanciscono la inferiorità della donna. D’altronde non parlava neanche della donna. Il vecchio Statuto regolava soltanto i rapporti tra lo Stato e i cittadini, non prevedeva nessun dovere dello Stato verso le famiglie, nessun contributo della famiglia alla salvezza morale della nazione.

Però non possiamo ignorare che l’ordinamento giuridico e politico, rappresentato dallo Statuto albertino, incidette profondamente sulla situazione della famiglia. Esso stabiliva all’interno del Paese dei rapporti economici, che davano una impronta particolare alla famiglia. I rapporti economici all’interno della famiglia, così come risultano in tutto il periodo in cui l’Italia è retta dallo Statuto albertino, sanciscono la inferiorità della donna.

Il fascismo, durante l’ultimo ventennio, ha aggravato ancora questo stato di inferiorità della donna, ha umiliato anche il carattere del vincolo matrimoniale. Alcuni esempi assai noti confermeranno questa affermazione. Durante il periodo fascista non si poteva accedere ad alcuni gradi superiori dell’esercito senza essere ammogliati. Il matrimonio era così ridotto alla stregua di un qualsiasi titolo di studio. Viceversa, per alcune categorie di cittadini esisteva ed esiste tutt’ora il divieto di sposarsi: per esempio i carabinieri che non abbiano raggiunto una certa età ed un certo grado, le donne che lavorano come infermiere in istituti per malattie mentali.

Altri fattori sono intervenuti durante il periodo fascista per togliere al matrimonio il carattere morale che deve avere. La disoccupazione, lo stato di disagio economico esistente allora in Italia, provocavano in primo luogo il licenziamento delle donne dagli uffici, dagli impieghi; esse cercavano allora nel matrimonio, nel costituirsi una famiglia, una sistemazione economica, ed i loro sentimenti, in genere, erano sacrificati a questa necessità. Infine altre disposizioni particolari impedivano talvolta una unione che poteva essere felice perché liberamente consentita; il divieto per esempio di sposare gli stranieri, o le leggi razziali che impedirono di legalizzare alcune unioni fondate sull’affetto reciproco.

L’umiliante campagna demografica, lanciata dal fascismo, ha certamente umiliato nelle donne italiane il sentimento della maternità. Questi pochi esempi illustrano come nel periodo fascista esistessero condizioni per cui il matrimonio veniva considerato troppo spesso dalle donne come una sistemazione economica, dagli uomini come un fattore della loro carriera.

Contemporaneamente si deve collegare a queste condizioni l’aumento, durante tutto il periodo fascista, del numero delle famiglie illegittime e quindi delle nascite illegittime. A questo stato di fatto, derivante dall’ordinamento giuridico allora vigente, si aggiungono le conseguenze della guerra voluta e combattuta dal fascismo. Sarebbe inutile ricordare qui, perché certo questo pensiero è vivo in noi tutti, quante famiglie siano state disperse, distrutte dalla morte fisica dei loro componenti: gli uomini al fronte, le donne sotto le macerie. Ma l’istituto familiare è stato scosso anche per altri motivi: la lontananza dei coniugi per le prigionie, le deportazioni nei campi di concentramento, la guerra combattuta in paesi lontani hanno spesso indebolita la saldezza della famiglia, ed i vincoli familiari si sono allentati. Non solo, ma la morale stessa è stata scossa. Abbiamo dinanzi agli occhi lo spettacolo doloroso dei bambini che vendono ancora le sigarette agli angoli delle strado. Sappiamo che per il grave disagio economico di questo dopoguerra molte madri italiane hanno dovuto mandare i loro bambini a vendere i pacchi di sigarette; la famiglia senza questa fonte di guadagno non avrebbe potuto vivere. Ma dopo aver vinta la prima riluttanza, si sono abituate a vedere svolgere ai loro figliuoli questa attività.

Nel formulare quindi gli articoli della Costituzione noi non possiamo partire da affermazioni astratte, dobbiamo partire dalla realtà quale essa è, della famiglia italiana, come oggi si trova. E questa è la realtà attuale.

Però non si possono ignorare altri fattori che in questi ultimi anni sono intervenuti per moralizzare la vita italiana. Da una parte, dopo la liberazione e la fine della guerra, in mezzo al caos, al travaglio del nostro paese, i singoli hanno cercato e trovato, proprio nella famiglia, la via per uscire da questa situazione; dall’altra parte il movimento progressivo delle masse femminili rende sempre più coscienti le donne italiane le quali chiedono nella famiglia un posto diverso, e vogliono una famiglia rinnovata. Né si può ignorare la volontà precisa del popolo italiano di cominciare la ricostruzione dell’Italia dalla ricostruzione della famiglia.

A questo proposito mi ha stupito il titolo con il quale il Popolo presenta il discorso dell’onorevole Merlin: «Difesa della famiglia». Difesa contro chi? Nessuno minaccia la famiglia, tutti siamo decisi a ricostruirla, decisi a rinsaldarla; però non possiamo, dimenticare che l’istituto familiare è stato distrutto e indebolito da un regime che troppo a lungo ha oppresso l’Italia, dal fascismo. Negli anni passati difendere la famiglia significava lottare effettivamente contro il fascismo. Oggi, rinsaldare, proteggere l’istituto familiare vuol dire lottare per la democrazia; costruire un regime nuovo, democratico, questo noi dobbiamo fare, questo dobbiamo sancire con la Costituzione italiana. Questo attendono da noi le donne italiane, che vogliono basi nuove per la loro famiglia. Ed infatti uno degli elementi che ha certamente spinto le donne a partecipare alla lotta antifascista è stato il rancore, l’odio che esse provavano per il regime che ha indebolito la saldezza della famiglia italiana. Prima, ancora che la guerra voluta dal fascismo distruggesse materialmente le loro famiglie e le loro case, le donne italiane, umiliate per l’indegna campagna demografica, per le limitazioni che il fascismo imponeva all’esplicarsi della loro personalità, della loro missione di educatrici in seno alla famiglia, furono avverse a quel regime di oppressione. Esse lo odiavano per aver tolto l’educazione dei figli alle madri e per averla lasciata a quelle organizzazioni giovanili che inquadravano obbligatoriamente i bambini, i giovani, orientandoli verso la violenza e la guerra. Così come lo odiarono tutti in Italia, uomini e donne, perché per vent’anni nelle famiglie italiane non si è potuto insegnare ai bambini l’amore per la libertà, per la democrazia, perché i genitori hanno dovuto troppo spesso tacere di fronte ai figli, troppo spesso rinunziare ad agire contro il regime fascista, per via delle persecuzioni che i bambini, spie innocenti, potevano attirare su di loro e sulle famiglie stesse.

Nell’articolo 145 del Codice civile, che sancisce l’obbligo dei genitori di mantenere, educare ed istruire la prole, è detto che l’educazione deve essere conforme alla morale e ai sentimenti nazionali fascisti. Come fosse possibile conciliare la morale e i sentimenti nazionali fascisti non è certo evidente, ma comunque resta il fatto che per norma sancita dal Codice i figli dovevano essere educati dai genitori non ai fini della giustizia, della democrazia; ma soltanto per servire lo Stato secondo quei sentimenti nazionali fascisti che hanno portato l’Italia alla catastrofe.

Ecco perché noi dobbiamo dire al popolo che ci guarda e che attende da noi la Costituzione, una parola nuova, democratica.

Attualmente la famiglia non presenta ancora le caratteristiche che debbono corrispondere all’ordinamento democratico che stiamo costruendo: la Costituzione deve precisamente stabilire questo nuovo concetto dell’istituto familiare. Chiediamoci quindi se gli articoli della Costituzione rispondono a questa attesa delle masse, a questo desiderio del popolo italiano. In gran parte sì, ed è certamente utile che noi precisiamo le ragioni del nostro assenso.

Nella Costituzione è detto: la famiglia è una società naturale. Vi è chi pensa che noi accettiamo questa formulazione perché per noi la semplice unione dell’uomo e della donna è condizione sufficiente per la formazione della famiglia. Non è esatto: la famiglia per noi esiste soltanto quando la sua costituzione è regolata dalla legge, quando è fondata sul vincolo matrimoniale. Però questo vincolo crea un organismo, un istituto che ha delle leggi naturali, preesistenti alle leggi dello Stato. Accettiamo inoltre questa formulazione anche perché è la semplice constatazione di un fatto che genera però la ricerca dei rapporti fra questa società naturale costituita dalla famiglia e lo Stato.

Nel progetto questi rapporti sono esplicitamente indicati: da una parte garanzia dello Stato per facilitare la formazione e lo sviluppo della famiglia; senza questa garanzia sarebbe inutile che noi ci affaticassimo a scrivere tre articoli sulla famiglia. Ma questa garanzia deve trovar posto nel progetto di Costituzione sopra tutto in quegli articoli sui rapporti economici, che debbono assicurare le condizioni materiali per la vita e il consolidamento della famiglia.

A questo proposito è opportuno precisare che il contributo che l’istituto familiare può e deve dare al consolidamento della morale della nazione è condizionato dalle basi su cui viene fondata la famiglia. Solo una famiglia nuova, democratica può contribuire al rinnovamento della vita italiana. Ecco perché è importante stabilire quali debbono essere all’interno della famiglia i rapporti dei coniugi fra di loro e dei genitori verso i figli.

Nel primo comma dell’articolo 24 si afferma l’eguaglianza dei coniugi.

Questa affermazione è giusta e indispensabile. Essa conferma, infatti, nell’ambito della famiglia il principio, già espresso nell’articolo 3, secondo il quale tutti i cittadini, di ambo i sessi, sono eguali di fronte allo Stato ed alla legge. D’altra parte essa si ricollega al giusto riconoscimento di un fatto che è stato in questi ultimi anni confermato in numerosissimi casi.

Vi è chi dice che bisogna mantenere nell’interno della famiglia una determinata, gerarchia, che il marito e padre deve essere il capo della famiglia, perché soltanto lui può essere il fulcro della ricostruzione e dell’unità della famiglia.

Non possiamo essere d’accordo con questa affermazione categorica. In primo luogo per una ragione di principio: in generale, è la donna che tiene stretta ed unita la famiglia, e basta riportarsi ad un passato recente per averne conferma.

La guerra ha portato senza dubbio lutti e dissoluzione nel nostro Paese, ma ha messo in evidenza anche il mirabile esempio di donne, che hanno saputo mantenere viva e salda la famiglia nonostante la lontananza del padre.

Noi dobbiamo riconoscere nella Costituzione questo contributo che le donne italiane hanno dato alla saldezza della Nazione e della famiglia, e rendere loro omaggio tutelando in pari tempo i loro diritti. Non sono d’altronde una minoranza trascurabile. Per varie vicende oggi in Italia vi sono due milioni di donne che debbono, da sole, reggere e guidare la loro famiglia.

Affermare l’eguaglianza dei coniugi è anche porre un freno al fatto che la donna sposi per trovare una sistemazione economica.

Il matrimonio non deve essere per nessuno una professione. Ognuno deve avere nella famiglia doveri e diritti uguali, il legame tra i coniugi deve essere stabilito saldamente sull’affetto reciproco. Questa è la sola base perché la famiglia sia veramente salda, stabile.

E lo Stato deve assicurare, di fatto, la libertà della scelta garantendo lavoro a tutti e permettendo ad ognuno di sposarsi soltanto quando incontri la persona con la quale si sente di unirsi per tutta la vita.

Lo Stato deve inoltre garantire una condizione economica dignitosa alla famiglia, perché il disagio economico è spesso una delle cause di disgregazione della famiglia.

Noi così miriamo a dare al vincolo matrimoniale l’alto valore morale, che esso deve avere; valore che invece, il fascismo ha diminuito e umiliato.

Ad altri rapporti interni della famiglia la Costituzione deve dedicare la sua attenzione: quelli dei genitori verso i figli.

Il primo comma afferma i doveri e i diritti dei genitori, e specialmente i doveri che i genitori hanno verso i figli. Lo approviamo senz’altro, quantunque nella seconda parte sia necessario di precisare meglio, per quali motivi e in quali condizioni lo Stato si deve sostituire ai genitori.

Vi è da chiarire la spinosa questione dei figli illegittimi: essa appassiona l’opinione pubblica, ma a me sembra che in questa Assemblea sia stata finora impostata male. È stata impostata infatti da alcuni oratori sulla pietà, sulla compassione; si è detto che i figli illegittimi non hanno nessuna colpa, che sarebbe opportuno potere impedire che la colpa dei genitori ricada sui figli innocenti, ma che praticamente non si può realizzare tale desiderio. Si è citato per sostenere questa tesi il paragone delle tare fisiche. Ma noi vogliamo appunto che anche per le questioni fisiche la colpa dei genitori non ricada sui figli ed in ogni modo non possiamo ammettere, senza tentare di arginarla, che questa piaga dell’eredità si estenda anche sul terreno morale. È la questione nel suo complesso che è impostata male, perché non si tratta né di compassione né di pietà; si tratta di stabilire prima di tutto un diritto di eguaglianza che è già stato sancito dall’articolo 3. Nell’articolo 3 non si è detto che vi era una categoria di cittadini che aveva diritto soltanto alla pietà e non alla eguaglianza di tutti i diritti; si è detto che tutti sono eguali di fronte alla legge. E le affermazioni fatte in quell’articolo debbono essere riconfermate e non si deve cercare su questioni particolari di infirmarne il valore.

L’affermazione di questo principio di eguaglianza a favore dei figli illegittimi è un richiamo al senso di responsabilità dei genitori, perché se vi è colpa vi è responsabilità e questa appartiene solo ai genitori.

È evidente che dobbiamo lasciare al legislatore il modo di risolvere praticamente la questione della parità dei diritti dei figli illegittimi, questione che interessa un gran numero di cittadini.

Ho sentito con stupore l’onorevole Merlin affermare che era una questione di poca importanza, perché interessava un numero infimo di persone. È certo strano questo disprezzo delle minoranze, disprezzo che non è affiorato soltanto in questo caso, ma è già apparso a proposito dell’articolo 14 per le minoranze religiose, ed a proposito dell’articolo 7, quando l’onorevole De Gasperi riteneva che si potevano non considerare le garanzie richieste dalle altre confessioni religiose perché queste hanno un numero esiguo di fedeli.

In realtà, e lo si vedrà in seguito, la soluzione del problema dei diritti dei figli illegittimi interessa un numero di cittadini non così infimo come si vorrebbe far credere.

Ma, prima di ciò, vorrei controbattere alcune affermazioni un po’ stravaganti che sono state fatte qui: la parità di diritti tra i figli nati fuori dal matrimonio e quelli nati nel matrimonio vorrebbe dire il diritto di convivere sotto il medesimo tetto. Non solo, ma siccome il figlio illegittimo ha diritto all’assistenza della propria madre, la moglie illegittima avrebbe anch’essa diritto di convivere sotto lo stesso tetto. Prima ancora che la legge impedisca una simile aberrazione, sono certa che vi si opporrebbe il senso di dignità della donna italiana che non accetterebbe mai una situazione di questo genere; e se non altro questa supposizione mi pare abbastanza ingenua. Ma vi è un’altra interpretazione abbastanza strana: il fatto che i genitori non avessero nessun dovere verso i figli illegittimi e che potessero quindi impunemente abbandonarli, come avviene nella grande maggioranza dei casi, è certamente stato un elemento dell’aumentare spaventoso delle cosiddette «colpe» dei genitori. Ma è stato affermato in sede di Sottocommissione, che il dover riconoscere i figli illegittimi e dover garantire il loro sostentamento avrebbe certamente, provocato un aumento delle nascite illegittime. Questa affermazione è certamente discutibile. Laddove il freno morale non riesce a richiamare i genitori al senso della responsabilità, le conseguenze della loro azione possono costituire una remora che andrà a vantaggio della morale familiare. Non solo, ma uno degli argomenti più ripetuti per negare la parità di diritti ai figli illegittimi è la necessità di proteggere la famiglia legittima. Ora chiediamoci: chi la minaccia? I figli legittimi non sono minacciati da nessuno; essi godono di tutti i diritti. Non si tratta quindi di proteggere dei cittadini che godono già pienamente dei loro diritti, ma di assicurarli a coloro che fino ad oggi ne sono stati privati. In primo luogo il diritto al nome, in modo che si cancelli quell’N.N. infamante che i figli illegittimi debbono sopportare per tutta la vita, che anche nei certificati di nascita scompaia questo marchio che si è sempre imposto a dei cittadini che tutti riconoscono innocenti, ma che oggi sono menomati di fronte all’opinione pubblica. In secondo luogo il diritto ad una educazione sana. Sarebbe inutile portare qui delle statistiche, perché tutti i colleghi sapranno certamente che la grande maggioranza dei delinquenti sono dei figli illegittimi, che sono stati abbandonati a se stessi. In terzo luogo il diritto all’assistenza incondizionata dello Stato. Lo Stato interviene oggi ad assistere i figli illegittimi solo quando essi sono abbandonati da entrambi i genitori, e spinge quindi la madre a non riconoscere il proprio figlio. Sono assistiti nei brefotrofi soltanto coloro che sono veramente senza nessuna assistenza, salvo qualche eccezione. La cifra dei sussidi che percepiscono i figli illegittimi, non supera le 100 lire mensili: vero insulto alla loro miseria e alla loro situazione.

Ma vi è di più: c’è un diritto elementare che viene di fatto molto spesso negato ai figli illegittimi: il diritto alla vita. Il numero delle nascite illegittime non è così piccolo come si vorrebbe far credere. In certe provincie ha raggiunto perfino il 30 per cento delle nascite. Però, la cifra più impressionante è quella delle morti dei figli illegittimi, che, in certi periodi, ha superato, e di molto, il 50 per cento delle nascite. Non solo, ma è costume considerare che uccidere un bambino illegittimo è meno grave o ha certamente maggiori giustificazioni che uccidere un altro bambino. Quante madri infanticide sono state assolte, o per lo meno hanno ottenuto le circostante attenuanti, perché avevano difeso il proprio onore! Ma qual è l’onore per una donna? È quello di uccidere il proprio bambino o è quello di fare tutti gli sforzi, con l’aiuto che lo Stato deve garantire, per non troncare l’esistenza di un essere al quale essa stessa ha dato la vita?

Certamente il numero delle madri infanticide diminuirebbe di molto se lo Stato venisse loro in aiuto mettendole in condizioni di potere educare ed allevare i propri bambini.

D’altra parte affermare questo diritto vuol dire attuare veramente quello che è già sancito nella prima parte del primo comma di questo articolo: il dovere dei genitori verso la prole, verso tutti i figli, verso tutti gli esseri ai quali essi hanno dato la vita. Inoltre noi permettiamo così che il legislatore futuro studi le possibilità di eliminare le cause che producono questa situazione.

L’ultima parte dell’articolo 25 esamina la protezione della maternità, dell’infanzia e della gioventù. Noi accettiamo questa formulazione alla quale porteremo emendamenti di precisazione; ma nell’affermarlo dobbiamo ricordare che noi lottiamo per la democrazia, lottiamo per una vita nuova. I criteri fascisti di protezione della maternità devono quindi sparire; erano criteri di beneficenza o mossi da interessi politici. La protezione della maternità non è solo un diritto per la donna, per la madre, per i bambini; è una necessità per lo Stato italiano che noi vogliamo rinnovare democraticamente. In altre parti del progetto di Costituzione si dovranno esaminare e stabilire le provvidenze da assicurare alle lavoratrici madri. In questo articolo è il diritto della donna in quanto madre e la sua difesa nell’ambito della Costituzione che deve essere affermato. Per questo bisogna assicurare alla famiglia condizioni economiche dignitose. Occorre proteggere le famiglie numerose. Questo non è un richiamo ad una propaganda che noi riteniamo superata; ma esistono in Italia numerosissime famiglie che hanno parecchi bambini e che si dibattono in difficoltà quotidiane. Lo Stato deve assicurare, accordando aiuti particolari alle famiglie numerose, che tutti i bambini italiani possano avere un avvenire sicuro. Occorre unificare l’assistenza, non lasciarla più in balia di iniziative private concorrenti, di tendenze diverse. Lo Stato deve unificare l’assistenza e creare, là dove non esistono, gli organi ad essa preposti: i nidi rionali, gli asili troppo spesso lasciati ad enti privati, sviluppare e favorire gli organi già esistenti, come per esempio l’Opera maternità e infanzia, la quale deve essere democratizzata. Non è possibile, come avviene attualmente, che delle donne che chiedono di poter controllare come vengono distribuiti, come vengono adoperati i mezzi che l’Opera maternità e infanzia ha a sua disposizione per proteggere la maternità, si debbano veder negato questo diritto di controllo democratico e popolare sotto pretesto che esse debbono essere umilmente riconoscenti a chi le aiuta. Bisogna, introdurre nell’interno stesso dell’Opera maternità e infanzia il concetto che la madre ha diritto all’assistenza e non chiede un’elemosina. Bisogna riformare tutti gli istituti dove troppo spesso avviene che i bambini ricoverati muoiono. I brefotrofi di Roma negli ultimi anni hanno registrato il 40 per cento di morti di bambini; negli asili dove sono ricoverati i bambini dei tubercolosi, come nell’istituto Maraini di Roma, i bambini, per mesi e mesi, non crescono di un grammo, non acquistano peso, non riescono a sostenersi sulle loro gambe per mancanza di calcio dovuta alla denutrizione.

Queste questioni vanno denunciate anche qui, alla Costituente, perché questa è la sede dove debbono venire tutte le richieste, le rivendicazioni di tutto il popolo italiano, perché è qui dove si deve proteggere la famiglia, la vita di tutto il popolo italiano. Occorre moltiplicare le colonie estive, e tutti gli organismi per la protezione preventiva della salute. Per questo noi proponiamo che nella formulazione dell’articolo sia esplicito il riconoscimento dell’importanza sociale della maternità.

È evidente che con questo non è esaurita la questione della famiglia. Questa verrà formulata nei suoi particolari dalla futura legislazione, che qui però deve essere giustamente indirizzata. La questione è delicata ed interessa tutti i settori dell’Assemblea. Tutti dobbiamo collaborare a far sì che essa venga formulata nel modo più giusto possibile da questa Costituzione che per la prima volta in Italia sancisce i diritti della famiglia, e nell’ambito della famiglia, di ogni suo componente. Noi dobbiamo ricordarci che questa è la prima Assemblea della Repubblica italiana e che la Repubblica si deve distaccare dal passato anche per le nuove garanzie che darà alla famiglia, base di un orientamento sano verso una vita nuova, verso una vita democratica quale è quella che noi vogliamo costruire. (Applausi a sinistra).

PRESIDENTE. È iscritto a parlare l’onorevole Preti. Ne ha facoltà.

PRETI. Il Titolo II è tra quelle parti della Costituzione in ordine alle quali la sostanza del dibattito, al di là delle questioni su cui tutti possono essere d’accordo, e che non hanno del resto grande importanza, si riduce, necessariamente, ad uno scontro fra il propugnatore della tesi, diciamo così, laica, e il propugnatore della tesi confessionale.

È forse inutile in questa sede auspicare dei compromessi, che non convincerebbero nessuno. È bene che ciascuno dica quello che pensa, ed è bene che ciascuno voti, alla fine, secondo la propria coscienza.

Ben a ragione l’onorevole La Pira, nel suo notevole discorso dell’11 marzo, in sede di discussione generale, aveva affermato che tutte le tesi sostenute dalla Democrazia cristiana in ordine ai vari problemi costituzionali andavano ricondotte ad un unico punto dipartenza, e cioè a quella che egli chiamava «dottrina pluralistica», della quale fece in quella sede una assai ampia illustrazione.

Orbene, noi siamo assai lungi – come talvolta i democristiani sembrano insinuare – dall’accogliere quella dottrina estrema di origine hegeliana, la quale, facendo dello Stato un assoluto, considera i diritti dei cittadini e dei minori organismi sociali come semplici concessioni dello Stato stesso. Sappiamo anche noi che proprio in questa dottrina cercò la sua giustificazione il totalitarismo fascista.

Nessuna difficoltà abbiamo pertanto ad accogliere la dottrina della pluralità degli ordinamenti giuridici, di cui fu fra noi il massimo divulgatore e propugnatore, già trent’anni or sono, Santi Romano, nel senso di ammettere che lo Stato non è la sola fonte del diritto, e di prendere in considerazione, accanto all’ordinamento statale, gli ordinamenti giuridici minori. Del resto, se ciò non fosse, noi non avremmo votato quello che era, se non erro, l’articolo 6 del progetto di Costituzione.

Ci stupisce invece assai che di questa dottrina si siano fatti qui, in sede di Costituente, così zelanti banditori i democratici cristiani, i quali – si noti bene – ispirandosi ad un concetto trascendente di giustizia, non potrebbero logicamente accogliere una dottrina che, sotto un certo aspetto, riconosce un valore giuridico all’ordinamento di ogni associazione umana, su qualunque principio essa sia fondata, anche, nel caso estremo, ad un’associazione di delinquenti (e mi sembra proprio che sia questo uno dei casi fatti da Santi Romano nel suo famoso libro).

Bisogna perciò necessariamente pensare che ci sia qualche cosa sotto la dottrina dell’onorevole La Pira; e la verità è che, puntando su questa dottrina, ci si propone un assai specifico scopo, che non viene mai qui apertamente confessato: si mira in sostanza a contrapporre allo Stato altre formazioni sociali, con i relativi ordinamenti giuridici, per garantire ad esse, di fronte allo Stato stesso, nuovi intangibili e imprescrittibili diritti che esorbitano dalla sfera di quei classici diritti inerenti alla personalità umana, che è vanto di ogni democrazia – e che per ciò è anche vanto nostro – garantire.

Ed è strano assai che di questi diritti, che io vorrei chiamare – pur con un termine assai improprio dal punto di vista giuridico – antistatali, i cattolici non sentano poi più la necessità, quando abbiano saldamente lo Stato nelle loro mani. E non cito esempi; per non dar luogo a polemiche non simpatiche.

La contrapposizione allo Stato di un altro ordinamento si propongono dunque i democratici cristiani quando vogliono premettere al Titolo secondo la dichiarazione che la famiglia è una società naturale. Questa definizione – già di per sé molto sospetta in quanto è l’unica del testo costituzionale, e non ha precedenti del genere in nessun’altra Costituzione – appare anche assolutamente impropria dal punto di vista giuridico, posto che in siffatti termini giusnaturalistici ci si poteva esprimere al massimo fino alla fine del secolo XVIII. Se pertanto, nonostante ciò, si è così insistito su questa formulazione, è chiaro che si intendeva attraverso di essa perseguire un preciso fine.

Si voleva infatti affermare, per ricorrere all’espressione usata dall’onorevole Corsanego in sede di Commissione, e ieri riecheggiata dall’onorevole Merlin, che la famiglia ha dei diritti originari, preesistenti alla costituzione dello Stato; proposizione politicamente molto insidiosa, in quanto, partendo da essa, i suoi sostenitori, che identificano artificiosamente i pretesi diritti naturali della famiglia e le proprie tesi di parte, con l’arrogarsi il monopolio di interpreti dello spirito familiare, tendono a disconoscere allo Stato il diritto di disciplinare normativamente una determinata sfera, onde serbarla ad un altro ordinamento. È per questo che l’onorevole La Pira, che io considero un poco come l’ispiratore, in questa sede, della Democrazia cristiana…

MERLIN UMBERTO. Padre spirituale!

PRETI. …sì, il padre spirituale; l’onorevole La Pira, dico, ha potuto affermare che «dal fatto che la famiglia abbia una sua costituzione e dei diritti ad essa connessi, discende il criterio della indissolubilità del vincolo». Del resto, mi sembra che identico fosse il ragionamento dell’onorevole Merlin.

Con questo, si pretende dunque che lo Stato esplicitamente rinunzi a riservarsi il diritto di regolare diversamente l’istituto matrimoniale, anche per il caso che dovessero, nel corso della storia, rivelarsi quelle esigenze divorzistiche che oggi pochi forse avvertono. Questo significa svalutare la funzione dello Stato, dichiarandone la incompetenza di fronte alla sfera giuridica familiare. Ed è questa una posizione assai più ardita ed assai più pericolosa di quella che si avrebbe, se i cattolici chiedessero modestamente e semplicemente allo Stato di vietare il divorzio, in omaggio alla tradizione religiosa della grande maggioranza degli italiani, riconoscendosi in questo caso esplicitamente il diritto dello Stato a regolare liberamente il diritto familiare nell’orbita delle tradizioni del Paese.

L’onorevole La Pira, elaboratore ufficiale della teoria costituzionale democristiana, è senza dubbio una figura nobilissima; anzi, noi ci auguriamo di vederlo un giorno sugli altari. (Commenti).

Una voce. Un lontanissimo giorno.

PRETI. Sì, in un lontanissimo giorno! Ma è proprio per questa sua santità che è più pericoloso. Ed è l’impostazione da lui data al problema delle relazioni fra Stato e famiglia che deve rafforzare in noi, che pur siamo oggi lontani dal pensare all’introduzione del divorzio, la volontà di opporci intransigentemente al divieto costituzionale del divorzio stesso. E vorrei che certi liberali, come l’onorevole Badini, che non è qui presente, i quali hanno incondizionatamente aderito alla posizione della Democrazia cristiana, ci pensino un po’ su, per vedere se non abbiano compiuto un errore adattandosi implicitamente alla pericolosa teoria dell’onorevole La Pira e dell’onorevole Merlin.

Sempre dalla contrapposizione fra i diritti originari della famiglia e l’ordinamento giuridico statuale, l’onorevole La Pira faceva derivare la naturale, dico naturale, impossibilità di equiparare il figlio illegittimo a quello legittimo, e negava quindi allo Stato, sostanzialmente, la potestà di emanare in questo senso delle norme. Sulla quale giustificazione teorica noi non potremo mai concordare, anche se, sul piano pratico, sarà forse possibile trovare un accordo circa la filiazione naturale.

Ma è nel campo della scuola che la contrapposizione fra famiglia e Stato rivela le sue più pericolose conseguenze. In questa materia la vera posizione cattolica è quella illustrata nel 1946 dall’onorevole Gonella nel programma della Democrazia cristiana.

Ivi si afferma, se non vado errato, che lo Stato svolge, in ordine alla scuola, una funzione ausiliaria rispetto alla famiglia, alla quale compete naturalmente – e sottolineo quel «naturalmente» – la missione educativa. Dietro alla famiglia, come è ovvio, sta la Chiesa, la quale da secoli insegna che «diritto partecipato soprannaturale inalienabile di insegnamento è soltanto nella vera Chiesa di Cristo, la Chiesa cattolica, la quale sola possiede la verità rivelata infallibilmente». È lo stesso Pio XI il quale, nell’Enciclica del 31 dicembre 1929 della cristiana educazione della gioventù, subordina gli interessi dello Stato nel campo educativo a quelli della Chiesa e della famiglia. Prima la Chiesa, poi la famiglia e solamente terzo lo Stato! Così suonano le parole di Pio XI, che del resto i Deputati del settore democristiano conoscono certo a memoria: «Da tale primato della missione educativa della Chiesa e della famiglia, siccome grandissimi vantaggi, come abbiamo veduto, provengono a tutta la società, così nessun danno può venire ai veri e propri diritti dello Stato rispetto all’educazione del cittadino secondo l’ordine da Dio stabilito.

«Questi diritti sono partecipati alla società civile dall’autore stesso della natura, non per il titolo di paternità, come alla Chiesa e alla famiglia, ma bensì per il promovimento del bene, che è fine proprio. Per conseguenza l’educazione non può appartenere alla società civile nello stesso modo che appartiene alla Chiesa e alla famiglia, ma in modo diverso corrispondente al suo fine proprio».

Ma allora siamo sinceri; dite, colleghi della Democrazia cristiana, che volete l’educazione affidata alla Chiesa!

CARISTIA. Forse lo stesso ragionamento lo ha fatto Mussolini!

PRETI. Non so che cosa c’entri Mussolini in questo momento. Ad ogni modo, dopo parlerò anche di Mussolini e ce ne sarà pure per voi.

Per noi l’educazione è uno dei fondamentali compiti dello Stato, il quale ne è il principale responsabile, proprio perché nulla è possibile porre più in alto di quel «promovimento del bene comune» che è il supremo fine dello Stato stesso.

MERLIN UMBERTO. Aveva ragione Mussolini, che insegnava la stessa cosa!

PRETI. Stia tranquillo con Mussolini! Di Mussolini avete approfittato piuttosto voi attraverso la carta della scuola! (Interruzioni al centro Commenti).

PRESIDENTE. Non interrompano! Onorevole Preti, prosegua.

PRETI. La scuola di Stato è assolutamente necessaria in un paese come l’Italia. Essa non è peraltro una scuola agnostica o scettica, come ebbe a dire l’onorevole Gonella e come altri di parte democristiana hanno ripetuto. Ma è una scuola liberale, aperta palestra di tutte le idee. Nella scuola di Stato possono insegnare i cattolici, i comunisti, gli idealisti, uomini di ogni fede; e la formazione dell’allievo non soggetta a nessuna etichetta di parte, può svolgersi in piena libertà.

La scuola governativa è, possiamo dire, un pubblico servizio, a disposizione di tutti i cittadini. Libero chiunque di ricorrere ad una scuola privata di fiducia, in ossequio all’intangibile principio, che noi vogliamo rispettare, della libertà della persona umana. Ma come colui il quale al medico condotto o al medico della mutua, messi a sua disposizione da pubblici enti, preferisce il suo medico di fiducia, deve sostenerne le spese, così il cittadino deve pagare la scuola privata di sua fiducia, che egli ha scelto. Sarebbe un paradosso che lo Stato, che non ha nemmeno abbastanza denaro per le proprie scuole, dovesse in qualunque maniera finanziare delle scuole che non gli appartengono.

MERLIN UMBERTO. Non abbiamo chiesto un soldo!

PRETI. Vedremo se è vero! Ufficialmente non avete forse chiesto nulla, ma praticamente le cose stanno assai diversamente. Quando risponderete, direte esattamente come la pensate in materia.

Se la scuola privata pretende la parità di trattamento, ad esclusione naturalmente del campo economico, per i suoi alunni, basterà che essa assicuri il medesimo stato giuridico della scuola statale ai propri insegnanti, le medesime condizioni didattiche, insomma tutto ciò che la legge un tempo richiedeva per il pareggiamento.

Per la serietà dell’educazione, che esso solo tutela e può tutelare, lo Stato non può permettere che le scuole, le quali non rispondano a tutti questi requisiti, offrano poi agli alunni parità di trattamento rispetto alle scuole statali. Di qui, per noi, l’impossibilità di accettare che l’equivoco concetto della parificazione – sulla quale voi democristiani avete molto insistito – sia inserito nella Carta costituzionale a sanzionare un deplorevole stato di fatto.

Le parificazioni, negli ultimi anni, sono state la fortuna, da un lato, di privati speculatori, e dall’altro degli istituti ecclesiastici, ma hanno dato un colpo mortale alla serietà degli studi. (Interruzioni). Perché, fino al giorno in cui non è stata istituita la parificazione attraverso la carta della scuola di Bottai, in Italia, nonostante il fascismo e nonostante tutto il resto, l’istruzione scolastica aveva una certa serietà. Da allora in poi siamo andati a rotoli; ed oggi sia la scuola privata che la scuola statale fanno pietà.

E la scuola statale fa pietà appunto perché si è dovuta mettere in concorrenza con la scuola parificata, abituata a promuovere e a licenziare tutti, pur di farsi réclame.

CORSANEGO. Ma c’è l’esame di Stato!

PRETI. L’esame di Stato è oggi una burla, in Italia. L’esame di Stato era una cosa seria, quando c’era una commissione che esaminava tutti gli allievi della scuola statale e privata.

Oggi, tutti sono promossi.

MALAGUGINI. È l’esame contro lo Stato.

Una voce al centro. Si può rimettere la commissione.

PRETI. Se la pensate come noi, siamo d’accordo.

I titoli legali di studio deve poterli rilasciare, attraverso l’esame di Stato, solamente la Repubblica; naturalmente, attraverso quel vero esame di Stato, che intendiamo noi, sul quale s’intratterranno molti colleghi di questa parte, dopo di me.

In questa maniera, la scuola non statale acquisterà prestigio legittimo, in ragione – come è giusto – della preparazione dei suoi allievi. Quando essa possa invece concedere validi titoli, sia pure con l’intervento dei commissari governativi, come accade oggi, il motivo di emulazione fra le scuole private viene dato, per contro, dalle maggiori o minori facilitazioni concesse agli aspiranti ai titoli.

Quanto alle scuole che non chiedono nessun riconoscimento particolare, sembra a noi, che crediamo di avere uno spirito liberale, che debbano avere piena ed assoluta libertà, come sostiene l’onorevole Lucifero, entro i limiti dell’ordinamento giuridico della Repubblica. Questa è la libertà che uno Stato conscio della sua missione può concedere nell’ordine della scuola.

Non si venga dunque a dire che, quando i democristiani chiedono allo Stato di porre la scuola privata, che è scuola di parte, sul piano della scuola pubblica, che è invece scuola di tutti, combattono per la libertà. Essi sanno perfettamente che il giorno in cui lo Stato concedesse alla scuola privata tutti i beneficî della scuola pubblica, le scuole private, se sono confessionali, ne saranno enormemente avvantaggiate, in quanto possono in sovrappiù beneficiare dei lasciti religiosi, dei convitti, delle economie in fatto di retribuzione agli insegnanti, e di tutti i vantaggi che in genere conseguono dalla potenza sia economica che morale di un istituto religioso.

In questo campo è bene essere sinceri e dare alle cose il loro nome. Ed allora finiamola, signori della Democrazia cristiana, con questo insincero slogan della libertà della scuola. Qui si tratta di ben altro. Perché, dunque – io potrei chiedervi – la Chiesa non si batté mai per la libertà della scuola là dove essa ne aveva il monopolio diretto o indiretto?

Forse che la libertà, come voi la concepite, è la libertà di essere cattolici?

Oggi in realtà la bandiera della libertà copre la scuola confessionale, la quale si propone di impedire allo Stato di riconquistare la sua legittima posizione di preminenza nel campo educativo. Dico di riconquistare, perché dal 1859 fino alla carta della scuola di Giuseppe Bottai, questa preminenza lo Stato l’ha sempre serbata, così da poter svolgere la sua missione educatrice. E se, da qualche anno a questa parte, lo Stato ha perso purtroppo questa sua posizione, noi non possiamo qui, in sede di Costituzione, avallare la rinuncia dello Stato ai suoi diritti.

Ed è paradossale che i paladini del confessionalismo asseriscano di difendere la libertà contro di noi affermando che ci proporremmo, attraverso la scuola statale, di garantire le basi a un totalitarismo socialista di domani. Ma non ci credete neanche voi al totalitarismo socialista, non dico a quello di Saragat, ma nemmeno a quello di Nenni! (Commenti Interruzioni).

Poiché mi avete interrotto, tengo a precisare che potrebbe darsi che voi abbiate realmente paura dei comunisti in ordine ad un loro presunto totalitarismo – perché delle volte li accusate di questo – ma di noi questo non lo potete pensare seriamente. Noi non facciamo in realtà che difendere le posizioni dello Stato liberale; se volete, anche la stessa legge Gentile, che non fu affatto fascista, perché preparata da Benedetto Croce, e dal travaglio degli educatori dell’era liberale. Voi, per contro, difendete, come ho già detto, il principio informatore della carta della scuola di Giuseppe Bottai, e non potrete certo affermare con ciò di combattere per ristabilire la libertà conculcata dal fascismo. Voi combattete per rafforzarvi sulla via dei privilegi che solo uno Stato del tutto indifferente ai valori della cultura ed esclusivamente preoccupato della unanimità formale poteva concedervi, onde gettare nella fornace della guerra i denari sottratti alla scuola.

La famiglia è, a nostro avviso, il cavallo di Troia, attraverso cui la Chiesa dà nuovamente l’assalto allo Stato. Sulla trincea della scuola noi difenderemo la libertà del cittadino e la dignità di questo Stato repubblicano che abbiamo fondato e che vogliamo difendere sul piano di una vera e sincera democrazia. (Applausi a sinistra Congratulazioni).

PRESIDENTE. È iscritto a parlare l’onorevole Giua. Ne ha facoltà.

GIUA. Onorevoli colleghi, questo secondo titolo della Carta costituzionale comprende sette articoli, che così si possono dividere: tre riguardano la famiglia, tre riguardano la scuola, ed il settimo riguarda l’igiene. Io, come socialista, mi trovo alquanto perplesso nell’esaminare questo titolo dei rapporti etico-sociali, perché mi trovo, da una parte attratto dalla necessità di esaminare i fenomeni morali in funzione degli articoli dalla Carta costituzionale e, dall’altra, come socialista, attribuisco maggiore importanza al fattore economico nella soluzione del problema sociale.

Tuttavia, il problema che noi vogliamo risolvere è quello non di creare la morale del popolo italiano, ma di stabilire delle norme precise. Su questo problema sono stati proposti degli articoli che riguardano la famiglia, l’organizzazione della scuola, e, in generale, l’insegnamento. Per la famiglia sono state mosse delle obiezioni sullo spirito che ha animato i compilatori dei tre articoli, e molti hanno affermato che dinanzi alla dizione che la famiglia sia «una società naturale», essi si trovano nella condizione di non comprendere veramente quale sia stato il criterio che abbia mosso i compilatori degli articoli.

La famiglia è una società naturale. Il collega Badini ha già mosso l’obiezione che il termine società dà l’idea di contratto, quindi di un fatto di ordine giuridico.

Una questione diversa è quella che ha mosso i democratici cristiani a riprodurre questa dizione dell’articolo.

D’altro canto noi socialisti che ci appelliamo alla tradizione della nostra scuola e che siamo storicisti in base alla nostra concezione materialistica della storia, vediamo che la famiglia è sì un istituto naturale, ma un istituto che è storicamente determinato e quando noi esaminiamo questo articolo e vediamo affermato il concetto come se la famiglia fosse… la derivazione di una morale eteronoma allora noi diciamo no.

Esaminiamo un po’ la storia, vediamo se la storia ci permette di affermare che la famiglia sia veramente da regolare dall’alto o se la famiglia non nasca e si sviluppi da rapporti sociali.

Non entrerò nell’esame storico dell’istituto della famiglia: agamia, poligamia, monogamia, che noi oggi consideriamo come la forma più perfezionata raggiunta dalla famiglia.

Se noi esaminassimo anche l’ultimo stadio della monogamia, noi vedremmo che in essa vi possono essere diverse fasi, che la storia ci dimostra che molti popoli, a seconda della loro condizione sociale, hanno elaborato in modo distinto.

Fasi che non sono in contrasto l’una con l’altra, che sono anche in relazione talvolta col sentimento religioso dei popoli, ma che sono soprattutto in relazione coi fattori produttivi e sociali in generale.

Tanto che non vi sembri esagerata la posizione degli stessi fondatori della nostra dottrina rispetto agli oppositori del socialismo, i quali dicevano che col libero amore si distruggeva completamente la famiglia. I fondatori della nostra dottrina, un secolo fa, quando scrivevano il manifesto del Partito comunista, dicevano che la famiglia non avevano bisogno di distruggerla i socialisti, perché la famiglia era stata sempre distrutta nella storia o per lo meno, essa non aveva trovato concretezza di sviluppo, a causa dei rapporti sociali contrastanti tra le diverse classi.

Instaurata la società borghese, si ebbe il risultato di annullare la famiglia per una gran parte di coloro che avevano pure diritto ad averla, vale a dire per la classe lavoratrice. Quindi, se noi esaminiamo il problema della famiglia nella società attuale, dobbiamo fare per necessità la critica di quelle che sono le condizioni sociali della società stessa, e dire quali sono le cause che impediscono il pieno sviluppo della famiglia.

L’appunto che si fa a noi di essere sostenitori del libero amore e, in base a questo, di giungere alla negazione completa del principio cardinale della famiglia è un’accusa che non regge, perché noi socialisti siamo sostenitori del Libero amore non certamente per condurre l’umanità nella fase della promiscuità. Noi socialisti siamo – e non abbiamo paura di dirlo – per il libero amore se con questa frase intendiamo affermare che la famiglia, in una società socialista, trova la sua pienezza, il suo completo sviluppo, in quanto la famiglia si fonda esclusivamente sull’affinità elettiva tra due esseri che sono portati ad amarsi e in questa specie di contratto mutuo non esistono ragioni di fatto, ragioni economiche, perché in una società socialistica non vi sono contrasti economici, giacché mancando i contrasti di classe, con la socializzazione dei mezzi di produzione, deve sparire completamente qualsiasi causa economica nella formazione della famiglia.

E allora, se ci poniamo da questo punto di vista, noi socialisti affermiamo che nella società attuale qualsiasi riforma si possa introdurre nella famiglia è una riforma che non può toccare la sostanza dell’istituto stesso. Tanto che lo stesso Engels, che collaborò con Marx, ponendosi questo problema della famiglia nella società presente, era giunto a questa conclusione: che la fase monogamica della famiglia è legata intimamente ad un altro fenomeno che voi democratici cristiani non avete accennato quando avete parlato del divorzio, e quando avete voluto affermare la necessità della difesa della famiglia nella sua fase attuale, vale a dire al fenomeno della prostituzione; la quale è direttamente legata allo sviluppo storico nella società borghese della famiglia. Se noi ci troviamo di fronte a questo fenomeno, e se alla fase monogamica della famiglia è legato direttamente questo fenomeno della prostituzione, allora siete voi che dovete rispondere a noi, quando vi diciamo che con le vostre organizzazioni non riuscirete mai ad eliminare tutti gli inconvenienti che sono insiti nell’organizzazione economica della società presente.

Quindi, quando voi esaminate il problema della famiglia, non siete voi che dovete porre domande a noi; siamo noi socialisti che dobbiamo porle a voi… e chiedervi come è, che storicamente, da quando la famiglia nella fase monogamica è stata difesa soprattutto dal cristianesimo non si sia giunti ad impedire la prostituzione.

Se non mi sbaglio, il problema della famiglia indissolubile risale ai sacri testi, ma è stato difeso in modo particolare dal Concilio di Trento nel 1563. Ora, se il Concilio di Trento ha sostenuto la difesa della famiglia indissolubile, ha sostenuto la famiglia quale in quei periodo si presentava: era la famiglia feudale, che non escludeva la prostituzione. Poi vi è anche un altro fenomeno, che noi vediamo anche dalla letteratura, quello dell’adulterio, che è legato inevitabilmente alla forma storica della famiglia nella fase medioevale. Le canzoni di molti poeti di quel periodo cantano l’adulterio; non osannano certamente al matrimonio, all’amore fra i coniugi. Quindi, noi dobbiamo ammettere che a questo istituto sia legato un fenomeno che è quello della violazione del patto, della violazione del giuramento che i due coniugi si fanno all’atto del matrimonio; e se questo fenomeno accompagna la famiglia in tutto il suo sviluppo storico e l’accompagna anche fino ad oggi, vuol dire che a questo istituto è legata appunto qualche cosa che la società finora non ha potuto risolvere. E noi socialisti pensiamo – non offendetevi, colleghi della democrazia cristiana – che sia solamente una società socialistica quella che possa impedire il fenomeno della prostituzione e quello dell’adulterio, perché sarà solamente quando i coniugi si uniranno unicamente per l’affetto, sarà soltanto allora che la famiglia troverà il suo pieno sviluppo. Prima di allora non sarà possibile avere una famiglia che non presenti gli inconvenienti a cui ho accennato.

Detto questo, passo brevemente a determinare gli altri problemi che riguardano questo titolo.

Il primo comma dell’articolo 23, laddove si afferma che «La famiglia è una società naturale: la Repubblica ne riconosce i diritti e ne assume la tutela per l’adempimento della sua missione e per la saldezza morale e la prosperità della nazione», è un comma che io abolirei completamente; lo abolirei sia nel primo periodo che nella seconda parte. La seconda parte ha un riferimento di carattere nazionalistico. È molto recente l’esaltazione che è stata fatta in periodo fascista della famiglia numerosa, perché oggi noi possiamo approvare una tale concezione.

Noi pensiamo che la grandezza del popolo italiano non consista nella prolificità; noi pensiamo che la quantità non risolva il problema della qualità; noi pensiamo che se le leggi intervenissero non per fare propaganda perché le famiglie siano numerose, ma per lasciare invece che il buon costume sorga dalle condizioni reali del popolo, noi pensiamo, dicevo, che una Costituzione e una legge che seguissero questa norma, sarebbero una Costituzione ed una legge più adeguate alle condizioni del popolo italiano.

«La Repubblica assicura alla famiglia le condizioni economiche necessarie alla sua formazione, alla sua difesa e al suo sviluppo, con speciale riguardo alle famiglie numerose». Ecco perché è necessario limitare la formulazione di questo comma, dicendo che «La Repubblica tutela la famiglia» e, se mai, «le condizioni economiche necessarie al suo sviluppo».

L’articolo 24 è, si può dire, quello che mi ha determinato a questo intervento.

Ieri io ho ascoltato con attenzione l’onorevole Merlin quando ha parlato in proposito; e, dico la verità, non ho da muovere delle obiezioni in sede di logica alla tesi che l’onorevole Merlin ha sostenuto. Secondo la sua teoria, egli è stato logico, pienamente logico; e pertanto le nostre obiezioni si devono fare in termini di logica o in termini di sentimento, qualora noi contrapponiamo ad una religione come quella dell’onorevole Merlin, un’altra religione.

Ma, in termini di storia, io ho da fare però qualche obiezione alle considerazioni contro il divorzio dell’onorevole Merlin. E dichiaro senz’altro che la questione del divorzio non è una questione socialista: se io, quindi, come socialista, faccio delle affermazioni favorevoli al divorzio, lo faccio senza fissare principî definitivi.

Molto probabilmente i compagni del mio Gruppo accederanno a questa idea; la questione del divorzio non è una questione socialista: diverrà socialista quando noi avremo in Italia una società socialista. Se noi esaminiamo in Italia lo sviluppo della famiglia, troviamo ch’esso è in relazione con le condizioni sociali del popolo italiano; ma se noi osserviamo la storia dello sviluppo della famiglia presso altri popoli, noi vediamo che il divorzio si è affermato proprio in società, in popoli, in istati che non erano socialisti e che non sono socialisti.

Ed anzi, rispetto alla sacramentalità del matrimonio, noi troviamo che il divorzio è stato introdotto anche presso popoli che sono cattolici. Basti accennare all’impero Austro-Ungarico che era un impero completamente cattolico. Il divorzio è ammesso, quindi, in tutte le legislazioni di tutti gli Stati, tranne che presso tre popoli: l’Italia, la Spagna e il Portogallo.

Se noi, quindi, cerchiamo la ragione di questa diffusione del divorzio, siamo nel nostro pieno diritto, perché vi deve evidentemente essere una ragione; e la ragione, onorevole Merlin, è questa: voi appartenete al popolo italiano e vi riferite alla tradizione del popolo italiano, all’educazione del popolo italiano.

Ma appunto in riferimento alla tradizione cattolica del popolo italiano, voi ponete un problema che muove i vostri avversari a farvi delle domande. Tutte le volte che la Chiesa è passata dal potere spirituale al potere temporale, ha introdotto nella vita sociale, nella vita civile, sì delle verità, ma spesso degli errori.

Guardate, colleghi della Democrazia cristiana, che io non scendo alle obiezioni solite demagogiche, ma vi dico soltanto di prendere in esame la storia della Chiesa, che non sempre dimostra che la Chiesa abbia difeso gli interessi dell’umanità e della civiltà. Io mi pongo semplicemente qualche domanda; nel 1600 la Chiesa aveva affermato non solo la teoria che la terra fosse il centro dell’universo, ma affermato anche determinati principî che erano in contrasto con lo sviluppo della scienza e della meccanica.

PIGNEDOLI. E la relatività?

GIUA. La relatività noi la inseriamo direttamente nella meccanica. Esiste una meccanica classica, fondata da Galileo contro la scienza della Chiesa ed una meccanica quantistica fondata sulla relatività!

PIGNEDOLI. Io parlo della teoria relativistica non della quantistica. Parlo della meccanica, rispetto alla quale non vi sono riferimenti privilegiati e centri assoluti.

GIUA. Ma lei mi insegna che la teoria di Einstein non è una teoria che contrasti con i principî della meccanica classica, ma li integra col calcolo quando i principî non sono sufficienti.

PIGNEDOLI. Non soltanto col calcolo; c’è una interpretazione nuova dello spazio.

GIUA. Ad ogni modo, siccome noi viviamo sullo spazio a tre dimensioni, per quanto si riferisce alla vita nello spazio a tre dimensioni, per noi è sufficiente la meccanica classica. Quindi, anche se non vogliamo giungere ad accettare i principî della meccanica dei quanti di cui alcuni sono discussi… (Interruzioni dell’onorevole Pignedoli).

Io dicevo che la Chiesa si era posta nel 1600 contro determinati principî che erano sorti e si erano sviluppati. E la teoria eliocentrica non è un sogno di Copernico. Questa teoria è la conseguenza diretta di calcoli, di ragionamenti, è fondata sul calcolo matematico e ad essa si opponevano alcuni principî che erano sanciti esplicitamente negli atti della Chiesa. E quando Galileo affermò in Italia il principio di Copernico, quando affermò determinate leggi, la Chiesa si oppose, e se allora avesse prevalso il criterio della Chiesa, io non so come il Vaticano, che possiede un Osservatorio astronomico a Rocca di Papa, avrebbe potuto giustificare la esistenza di questo osservatorio, che è fondato non sui principî della teoria tolemaica, ma sui principî della teoria copernicana.

Quindi, quando noi esaminiamo la storia, vediamo che nel campo pratico, se dessimo a voi il potere di applicare integralmente l’articolo 7 di questa Carta costituzionale, e se per ipotesi in Italia non vi fossero altro che democristiani, noi assisteremmo a questo fenomeno che dall’insegnamento anche universitario sarebbero esclusi la teoria darwiniana e quella della riproduzione della specie. (Commenti).

PIGNEDOLI. È abbastanza superata.

GIUA. Sta bene, ma io le cito un caso molto più recente, e lei non mi può dar torto. Entro nel campo della genetica e mi riferisco ad un campo inerente alla nascita dell’uomo. Cosa vuol dire nascere un uomo? Lei mi può insegnare i principî della nascita dell’uomo ed io in pratica so come nasce l’uomo. Dirò che anche su questo lato l’umanità non ha avuto bisogno degli insegnamenti della Chiesa; perché nella pratica ha saputo apprendere molto facilmente come si può procreare. Ma questo significa che, se noi esaminiamo il fenomeno della nascita dell’uomo e il fenomeno così apparente lo trasportiamo nel laboratorio e analizziamo quali siano i costituenti della cellula maschile e della cellula femminile, – io sono costretto ad usare dei termini parlamentari e non scientifici, perché non vorrei che voi mi opponeste che questi non sono termini parlamentari…

PIGNEDOLI. Parli pure in termini scientifici; tanto, non si preoccupi, la comprendiamo lo stesso.

GIUA. …noi troviamo appunto l’origine di quei caratteri acquisiti che voi avete sempre negato in determinate sostanze chimicamente definite, i cromosomi. Ora potrebbe darsi benissimo che voi, applicando l’articolo 7 e prendendo in esame questo insegnamento, ad un certo momento potreste anche legiferare che tutti i principî della genetica sono contrarî, come sono contrarî i principî darwiniani, ai principî della Chiesa e che, quindi, la genetica non deve essere insegnata, non deve essere neanche sviluppata… sperimentalmente. (Interruzioni Commenti).

Ma io vorrei fare anche un altro ragionamento a proposito del divorzio. Popoli anche cattolici ammettono il divorzio, ed io credo che questi popoli lo abbiano ammesso appunto per moralizzare il matrimonio e questo è proprio in contrasto con quello che voi affermate. Voi affermate che il divorzio significa la rottura, lo schianto dell’istituto familiare. Noi diciamo invece che il divorzio se non è la saldezza non significa incrinare affatto la saldezza dell’istituto familiare, ma anzi moralizza questo istituto. Se voi affermate che l’unione matrimoniale è fondata sul consenso e sull’affetto dei coniugi, voi non potete imporre ai coniugi che si mantengano ancora uniti in matrimonio quando questo affetto venga a mancare, e se voi imponete a due coniugi che rimangano uniti quando l’affetto viene a mancare, voi imponete a questi coniugi un atto contrario ai principî della morale. Ed è per questo che anche dal punto di vista pratico e soprattutto dal punto di vista morale si può e si deve difendere il divorzio, perché qualora non sia ammesso il divorzio dilaga l’adulterio e aumenta la prostituzione e si diffondono tutti gli altri fenomeni negatici che sono intimamente legati al matrimonio. (Interruzioni).

A proposito dell’articolo 25, secondo periodo, che dice: «Nei casi di provata incapacità morale, ecc.», in sede di Sottocommissione io avevo proposto una formulazione alquanto diversa, cioè: «Qualora la famiglia si trovi nell’impossibilità di dare un’educazione civile ai figli, è compito dello Stato di provvedere con istituzioni appropriate. Tale educazione si deve compiere nel rispetto della libertà dei cittadini».

E questo io avevo proposto pensando appunto che lo Stato dovrebbe mantenersi agnostico nell’educazione dei cittadini, e che le famiglie che vengano a perdere i genitori, sia dal punto di vista materiale che dal punto di vista morale, debbano essere aiutate dallo Stato secondo i principî della vera laicità, che pongono lo Stato in posizione di agnosticismo.

L’articolo 26 nel secondo comma fa divieto alle pratiche sanitarie lesive della dignità umana. E questo è in relazione con la vostra concezione, ed è in relazione anche con una concezione che ha trovato pieno sviluppo negli Stati autoritari, il fascista in Italia, il nazista in Germania, circa le pratiche abortive.

Io non difendo le pratiche abortive. Però vorrei chiedere ai formulatori di quest’articolo se mi sanno indicare delle pratiche sanitarie che non siano lesive della dignità umana. Vi sono degli interventi del medico, e sopra tutto del chirurgo – e nei procurati aborti si tratta di intervento chirurgico – che sono lesivi della dignità umana.

Ma vi è una ragione di stabilire proprio nella Carta costituzionale una simile norma senza accennare esplicitamente che si vogliono vietare le pratiche abortive? (Interruzioni).

Vi possono essere interventi medici anche non autorizzati dalla legge, ma dalla professione stessa, dalla missione del medico. E non mi si opponga che molte volte i professionisti esagerano, che molte volte non si attengono alla morale. Quando il medico compie con coscienza la sua missione può ritenere necessario l’intervento chirurgico per procurare l’aborto. Ora, se la Carta costituzionale vietando le pratiche lesive della dignità umana rendesse illegale l’intervento del chirurgo nel caso dell’aborto, la missione del medico diventerebbe più difficile, e probabilmente invece di stabilire nella Carta costituzionale un principio a sostegno della salute del popolo, noi stabiliremmo un principio che con la salute del popolo sarebbe in contrasto.

Da un punto di vista razionale – non c’entra il sentimento religioso, non c’entra la chiesa, onorevole Merlin – io trovo ingiustificata l’inserzione nella Carta costituzionale di una norma come quella formulata nel secondo comma dell’articolo 26.

Da notare anche che, se lo sviluppo della genetica ci permetterà, dal punto di vista chimico, di stabilire quali sono le sostanze, che influiscono su determinati caratteri – e questo non è da escludere – non bisogna impedire, per il bene dell’umanità, anche per combattere determinate malattie, questi interventi sanitari.

Invece, in base alla formulazione del progetto, noi vieteremo l’intervento del medico per il miglioramento dell’organismo e della razza.

Qui si tratta di applicazione dei trovati scientifici.

I razzisti usavano della scienza e della tecnica, dopo che esse erano state prostituite.

Si tratta di applicare, per lo sviluppo della civiltà, i principî della scienza e della tecnica, che devono essere applicati, perché progresso significa applicazione e sviluppo di questi principî.

Qualsiasi divieto si faccia per l’applicazione delle scienze è un divieto che si pone al progresso; è un arresto alla civiltà.

CORSANEGO. Siccome facevo parte della Sottocommissione, che ha redatto l’articolo, faccio presente che, quando si è formulata la dizione «sono vietate le pratiche sanitarie lesive della dignità umana» si pensava soprattutto a quelle orrende pratiche di sterilizzazione obbligatoria, che la Germania ha imposto particolarmente agli ebrei e che noi volevamo proibire per sempre nel nostro Paese come una mostruosità.

GIUA. Non vi è bisogno di stabilire nella Costituzione un principio del genere; può provvedere la legge a vietare qualsiasi pratica lesiva della dignità umana.

Per quanto riguarda la scuola, io ho già espresso il mio parere, in sede di discussione delle dichiarazioni del Governo.

Poiché l’onorevole Bernini ha proposto degli emendamenti alle articolazioni sulla scuola, io non entro nel merito.

Dirò senz’altro che nella terza Sottocommissione, quale relatore, avevo dato formulazione alquanto diversa agli articoli 27 e 28; formulazione che, secondo me, introduceva nella vita scolastica italiana un principio nuovo.

Facevo un’affermazione, che può sembrare generica (ed i componenti la Commissione hanno ritenuto che affermazioni generiche nella Costituzione non si debbono fare, mentre abbiamo visto che per la famiglia si è fatta l’affermazione dogmatica «che la famiglia è una società naturale»).

Nella mia formulazione dicevo:

«L’istruzione è un bene sociale.

«Lo Stato organizza l’istruzione di qualsiasi grado, in modo che tutti i capaci possano usufruire di essa.

«L’insegnamento elementare è obbligatorio per tutti.

«La frequenza delle scuole di grado superiore è permessa ai soli capaci».

Ci si riferisce inoltre alla possibilità di frequentare i corsi superiori, alla concessione di borse di studio, ecc.

Ora, il concetto nuovo su cui io ho insistito è questo: che nelle scuole di grado superiore dovessero solamente entrare i veri capaci, mentre nella formulazione della Carta costituzionale noi non troviamo affermato questo principio. Si dice solamente che «i capaci e i meritevoli, anche se privi di mezzi, hanno diritto di raggiungere i gradi più alti dell’istruzione».

Tutti i codici, anche quelli che hanno preceduto questa Carta costituzionale, non hanno mai fatto divieto ai capaci e ai meritevoli di frequentare le scuole superiori.

Sappiamo solamente che le condizioni economiche hanno impedito a molti capaci e a molti meritevoli di frequentare le scuole superiori.

A questo, punto io mi riservo, se non vi ha pensato il collega Bernini, di proporre un emendamento, perché qui si tratta di un argomento fondamentale. E permettetemi, onorevoli colleghi della Democrazia cristiana, che io, nel terminare queste mie brevi considerazioni mi rivolga a voi per dirvi che nello stabilire questa Carta costituzionale, dopo l’articolo 7, nella formulazione di questi articoli voi volete dare al popolo italiano una Carta costituzionale che assicuri il suo avvenire e sollevate un velo nella storia dell’avvenire; però nel sollevare questo velo non fate altro che introdurre dei principî che sono all’occaso della storia. Quando, invece noi socialisti solleviamo questo velo, noi vediamo qual è l’avvenire del popolo italiano; onorevoli colleghi, questo avvenire per noi ha un solo nome: socialismo! (Applausi a sinistra Congratulazioni).

PRESIDENTE. È iscritto a parlare l’onorevole Tumminelli. Ne ha facoltà.

TUMMINELLI. Onorevoli colleghi, sulla soglia del Titolo II del progetto di Costituzione, conviene una breve sosta per domandarci dove andiamo, cosa vogliamo, donde veniamo; e se siamo nella verità o nell’errore.

La mia perplessità in proposito si è fatta ansia dopo l’approvazione del comma IV dell’articolo 16 del Titolo I, che toglie ogni vitalità alla libertà di stampa.

Il compromesso appalesatosi evidente negli articoli riguardanti le disposizioni generali e i rapporti civili si fa ancor più vivo, e direi quasi minaccioso nel complesso degli articoli e in ciascun articolo dei rapporti etico-sociali.

Io mi sono domandato, e pongo la domanda all’Assemblea Costituente, se non lavoriamo per l’equivoco, avendo perduto di vista la verità, per miopia o per imperdonabile colpevolezza. La domanda rivolgo in modo particolare ai banchi della Democrazia cristiana su cui grava la maggiore responsabilità storica del nuovo statuto che stiamo elaborando.

L’onorevole La Pira, nel suo esame delle crisi costituzionali, ha avanzato l’ipotesi che se costruiamo una casa sbagliata, domani potrà essere intentata «un’azione di indennizzo contro di noi». Egli concludeva: «…saremo, allora in paradiso, sarà, insomma quello che sarà».

Ebbene, onorevole La Pira, proprio a lei che ha portato all’Assemblea il pensiero e l’approvazione di massima del suo Partito al progetto di Costituzione proposto dai 75, io dico, senza tema di sbagliare, che il processo di indennizzo è già in corso e chi pagherà i danni sarà proprio la Democrazia cristiana che, nel compromesso con le sinistre, non ha saputo o voluto difendere la «terza via» che ella ha indicato quale «nuova, integrale, pluralista».

Il collega democristiano ha posto in accusa i principî del 1789 che ispirarono la prima Costituzione francese, perché contemplarono solo i diritti dell’uomo e ignorarono i diritti sociali; ha posto in accusa i principî hegeliani statalisti, accettati dal fascismo e dal nazismo, ha infine difeso il pluralismo che ispirerebbe «tutte le correnti più vive del pensiero sociale contemporaneo sia cattolico che socialista», e costituirebbe il fondo dottrinario della Costituzione che abbiamo all’esame; soffermandosi soprattutto alla corrente che si ispira al pensiero proudhoniano.

Pensiero cattolico e pensiero socialista camminerebbero dunque nello stesso alveo spirituale e sociale pluralista e si sarebbero accordati sul terreno pluralista, nella ispirazione proudhoniana, evitando così e sanando il pericolo dell’individualismo del Contratto sociale che sarebbe la causa di tutti i mali derivati alla società liberale-borghese, dai principî roussoviani; evitando altresì lo statalismo del diritto tedesco d’ispirazione hegeliana, fatto proprio dal fascismo e dal nazismo e pervenendo, nell’attuale progetto, alla nuzialità tra i diritti dell’uomo della Costituzione francese dalla quale quella Albertina trasse ispirazione e suggerimento, e dei diritti sociali collegati alla persona umana, «non in quanto singolo, ma in quanto membro» delle «collettività crescenti che vanno dalla famiglia allo Stato».

La casa ideale nel pensiero democristiano avrebbe quindi, come base l’uomo e l’umano, l’uomo come valore gerarchico eccelso, in ascesa, per gradi di valore, fino all’unione con Dio.

Le pareti della casa, le articolazioni sociali, il tetto della casa, il corpo giuridico, proporzionato e conforme alla base e ai muri della fabbrica. Una costruzione pluralista bilanciata nelle parti e nel tutto, dalla legge della proporzionalità. Dopo l’affascinante descrizione di quella casa che avremmo dovuto e dovremmo trovare nel progetto sottoposto all’Assemblea dei rappresentanti del popolo italiano, legittimamente dovremmo pensare:

1°) che l’accordo tra programma spirituale, morale e sociale, socialista e democristiano è perfetto;

2°) che non esiste un compromesso deteriore e perciò ha ragione l’onorevole Togliatti di definire il compromesso nella interpretazione etimologica di promettere assieme e costruire assieme; in altri termini di collaborare ad un fine unico;

3°) che la Carta costituzionale elaborata dalla diarchia democristiana-socialcomunista è realmente la risultante dal travaglio storico-sociale del nostro tempo, la «terza via» della nuova società italiana alla quale stiamo preparando le direttive.

Se così fosse, noi dell’opposizione, liberali e qualunquisti, secondo l’indagine dello studioso democristiano, risulteremmo esclusi dalla partecipazione attiva a correnti vive del pensiero sociale che sarebbe privilegio noumenico dei socialisti e dei cattolici; storicamente avremmo il triste destino di rappresentare le forze della reazione, della cecità sociale e spirituale.

Saremmo i sopravvissuti dell’individualismo roussoviano e dello statalismo hegeliano; il passato ingombrante che occorre spazzare per far largo al mondo nuovo dell’attivismo socialista, democristiano, pluralista!

È probabile che essendoci dichiarati cattolici, noi qualunquisti, potremmo salvarci dall’inesorabile giudizio – sorprendente per uno storico di problemi spirituali – anche perché come movimento e come partito la nostra giovinezza dovrebbe porci storicamente all’avanguardia delle correnti vive sociali e non alla retroguardia in fuga nella apocalittica Roncisvalle del capitalismo liberale-borghese, incalzato dalle schiere rosse e crociate dei nuovi evangelisti.

La sola critica che da parte democristiana si ammette al progetto di Costituzione è nella disposizione delle pietre che sono servite alla costruzione dei muri della casa, nella scelta dei mattoni della volta, o nell’avere adoperato marmo di Carrara piuttosto che travertino per la base. Le conclusioni della difesa al progetto confluiscono alla perorazione là dove il compromesso ha lasciato qualche dubbio sul perfetto accordo: l’inserimento dei Patti lateranensi, il riconoscimento degli organi economici come manifestazioni della dinamica pluralista che sarebbe la malta dell’edificio.

Il discorso, nel suo complesso strutturale non fa una grinza; la teoretica trascendentale è perfetta e noi potremmo accettarla facendo eccezione alle cause delle crisi costituzionali, là dove si fanno risalire all’individualismo roussoviano. Rousseau combatté la sua battaglia per la causa dei diritti dell’uomo, perché quella e non altra era l’esigenza della società borghese che fece la rivoluzione. I diritti sociali maturarono in seguito, in seno alla società liberale-borghese e sono pervenuti ad esigenza ed attualità soltanto ora, nella nostra età contemporanea.

Le cause peraltro sono assai più vaste e più profonde. Dove la lezione democristiana cade è quando dalla teoretica passa alla morale pratica. Non già perché noi qualunquisti non riconosciamo la inevitabile lacuna del contratto sociale che ha ispirato la Costituzione espressa dalla rivoluzione francese, e neppure per la condanna allo statalismo hegeliano dei paesi totalitari, che noi siamo qui e ovunque a combattere; e neppure infine, la concezione pluralista di ispirazione proudhoniana.

La lezione e la difesa cadono perché la morale pratica di quella teoretica, è reticente, equivoca e contrastante nettamente alla dottrina; soprattutto, perché la Costituzione che è proposta all’Assemblea, partorita dal compromesso della triarchia, non realizza un edificio pluralista che abbia per base l’uomo, per muri maestri il corpo sociale, per volta il corpo giuridico delle due membra, nell’imperio ortodosso della proporzionalità.

Onorevoli colleghi, l’equivoco risiede in questa sproporzione. Il compromesso è deteriore, perché il pluralismo della lezione democristiana non riesce a nascondere l’insidia. Noi ci troviamo di fronte ad un malizioso e fraudolento Gerione che trascina sul suo dorso pennellato di colori smaglianti il Paese, nelle malebolge di una Costituzione statalista hegeliana. Essa potrebbe essere benissimo la Costituzione della repubblica di Salò e del manifesto di Verona.

Si ha un bel combattere il corporativismo, se nelle intenzioni del filosofo relatore della Democrazia cristiana si meditava di trasferirlo nella seconda Camera in sede di proposte al progetto.

Si respinge il corporativismo perché dà fastidio, e si proponeva puramente e semplicemente che la seconda Camera, il Senato, fosse possedimento della classe lavoratrice, con la giustificazione che, data l’esistenza delle organizzazioni di classe «da cui trae forza tutta la classe lavoratrice», dovrebbe esserci una ripercussione di esse nella composizione della seconda Camera; con la conclusione che «è il mondo operaio, è la classe lavoratrice che accede organicamente al potere».

L’onorevole Togliatti e l’onorevole Di Vittorio hanno trovato in campo democristiano il dottrinario mistico dell’attivismo democratico-socialista per la scalata al potere e la restaurazione dello statalismo, non più fascista, ma democristiano, o social-comunista.

Orbene io penso che tutto ciò non sia vero, che non può essere vero, e che la Democrazia cristiana, principale responsabile della nuova Costituzione e del dramma nazionale, sia fuori del suo vero programma, dell’interesse della civiltà e della verità storica, per le stesse ragioni di equivoco e di debolezza che hanno portato a regime quasi fallimentare il suo governo di compromesso.

Onorevoli colleghi, la verità è che noi prepariamo una strana Costituzione che non risponde alle esigenze della società nuova che, alla confluenza di due età ancora confuse, la vecchia e la nuova, va sempre più prendendo contorni e configurazioni promettenti.

Noi stiamo costruendo una casa, non già poggiata sulla persona umana: ma sull’equivoco delle elezioni del 2 giugno, che espressero una verità esasperata ma contingente, perciò imperfetta, che ora si è chiarita e evoluta.

Noi costruiamo una casa con artefici principali i partiti che non hanno più il consenso maggioritario del popolo italiano.

Noi, liberali progrediti del fronte liberal democratico dell’Uomo Qualunque, crediamo fermamente che il nuovo cammino della civiltà che avanza si fonda sulla libertà dell’uomo; noi pensiamo e vogliamo che gli organismi sociali che debbono costituire i muri maestri della Carta costituzionale, debbano essere coordinati e proporzionati all’uomo e all’umano della base, come articolazioni naturali e logiche che mai possano rendere affannoso il respiro dell’uomo che li crea, come sua civile ed economica esigenza.

Noi pensiamo e crediamo che la persona umana è veramente quod est perfectissimum in tota natura, come afferma l’Aquinate, e non può essere annullata dal corpo sociale e dal corpo giuridico, che da essa discendono e per essa sono stati creati. La definizione del grande Santo e pensatore cristiano è veramente indicativa di una gerarchia di valori secondo la quale la persona umana è costruita. Una gerarchia piramidale con un’asse che, muovendo dalla base vegetativa, va oltre il vertice, fino all’unione con Dio. Nella persona umana è predilezione noumenica e perciò è libero arbitrio e libertà.

Se i muri dell’edificio non tengono conto di questa realtà naturale e di questa verità divina, l’edificio crollerà presto, per dissociazione tra la base e il corpo, i muri e il tetto. Noi vogliamo un solo limite alla libertà dell’uomo, le leggi che garantiscano quella libertà dell’uomo, le leggi che garantiscano quella libertà e quei diritti, compresi quelli sociali, collegati e diramanti dalla persona umana, proprio in quanto e in funzione di membro delle collettività nascenti che vanno dalla famiglia allo Stato; ma senza diminuire, o annullare addirittura, per amore delle creature, la persona umana che quelle collettività vuole e crea per accrescersi e avvalorarsi. Noi pensiamo che la società di tutto il mondo civile – e non soltanto quella italiana circoscritta tra le malvietate Alpi e il mare, dal diktat dell’ingiusta pace – stia attraversando la crisi fatale del secondo millennio di Cristo e stia già superando il processo evolutivo della terza arcata della civiltà rinascimentale che proclamerà il diritto nuovo del lavoro; ma non già nei lineamenti di una Carta statutaria in cui siano curiosamente confuse una filosofia spiritualista e una dottrina materialista, per amore di convenienza, per tattica temporeggiatrice, per libido di potere; non già per perpetuare la classe e il proletariato; ma per cancellare la classe e sproletarizzare il lavoratore, associandolo all’impresa, in una formula che lo elevi al risparmio e lo faccia partecipe del capitale, potenziando, nel fatto associativo e per esso, ad un tempo, l’impresa e la produzione, e pervenendo ad un maggiore pacifico godimento di beni.

Questa è la risultanza diagonale della civiltà che avanza, la terza via, proprio in quella concezione pluralista, inutilmente invocata dalla Democrazia cristiana nel compromesso statutario. Su questa terza via già si incamminano, nella schiarita antelucana della nuova età, gli uomini nuovi, rifuggendo gli inutili, dannosi e innaturali compromessi che mai potranno arrestare il corso fatale della evoluzione che solo si realizza «entro lo stato di natura e non fuori di esso». (Vico). La nostra civiltà fonda ancora sulle libertà rinascimentali che ci hanno donato il Settecento delle ricerche seicentistiche, i diritti dell’uomo del 1789, e la società liberale borghese dell’Ottocento. Ora noi siamo nella fase evolutiva di quel rinascimento e siamo ansiosi ed anelanti di formule nuove e di diritti nuovi. Le grandi guerre hanno affrettato il maturarsi della crisi, logica e naturale. E tutti lavoriamo a risolverla, dalla sinistra, dalla destra, dal centro. Muoviamo da parti opposte per giungere alla verità nuova che nascerà dal contrasto; ma se voi uccidete la libertà nella Carta statutaria che siamo chiamati a compilare, voi vi renderete responsabili, di fronte alla storia, di lesa civiltà, senza tuttavia potere impedire il cammino fatale al progresso, in cui ogni nuova fase di civiltà si realizza.

Noi ci proclamiamo cattolici per eredità di fede e perché non è concepibile una civiltà moderna fuori della fede e fuori dello spirito della verità cristiana. Il vostro cattolicesimo è fideismo che dal cuore sale alla mente, talvolta offuscandola; il nostro dalla mente scende al cuore. Voi vivete di eredità e vi inaridite in un formalismo che mira a secolarizzare ancor più la Chiesa; noi esaltiamo la Chiesa nei suoi valori perenni, quale fonte di civiltà, facendoci libera milizia di essa per creare un suo tempio in ogni cuore di uomo.

La battaglia che il mondo combatte è per lo spirito o contro lo spirito, per Cristo o contro Cristo.

E per questo noi non comprendiamo la vostra tattica e la vostra strategia nella compilazione della Carta costituzionale.

Questo io volevo dire prima di passare all’esame del II titolo che farò del resto rapidamente. Io ho voluto portare all’Assemblea questa preoccupazione e questa perplessità di uomo civile, al di sopra dei partiti e delle vostre e nostre meschine passioni. Io volevo comunicare questo mio pensiero a voi dei banchi di centro e anche a voi dei banchi di sinistra, perché io non credo che in ciascuno di voi manchi il segno elettivo della buona volontà.

Perciò io chiudo questa prima parte del mio discorso invitandovi a meditare, ad ascoltare voi stessi, a tendere l’orecchio alla voce che ci viene dal di dentro, onde trovare la via giusta e non compromettere l’esperienza di tre millenni di civiltà e di due millenni di cristianesimo.

L’umanità è ammalata di disordine mentale che si appalesa in tutti i campi. Una delle cause delle malattie è il dilettantismo delle opinioni, altra la corsa affannosa dietro il successo, comunque venga e si ottenga, dietro la dea-cagna, come dicono gli inglesi. Altre sono la crisi del capitale che ha condotto all’anticapitalismo; l’anticapitalismo che ha condotto al socialismo e al collettivismo. Altra ancora, la crisi della democrazia che ha condotto al totalitarismo. Noi dobbiamo uscire da codesto cerchio mortifero e in questa direzione noi qualunquisti combattiamo. Coerentemente alla lezione e alla difesa del progetto di Costituzione, da parte democristiana, riferendoci al titolo «rapporti etico-sociali», noi ci saremmo aspettati le premesse ad un ordinamento nuovo che non ripetesse la concezione statalista della legge Casati che sta ancora a fondamento della legislazione scolastica italiana.

Allora, mentre l’ispirazione dello Statuto albertino venne dalla Francia, l’ordinamento scolastico derivò dalla Germania che esercitava un reale dominio culturale in quasi tutta l’Europa. La scuola italiana, prima del fascismo, fu statolatra e il contenuto di essa ispirato al risorgimento nazionale.

Quella carta scolastica pose la scuola ben lontana dal liberalismo e dagli ordinamenti scolastici in vigore in Inghilterra, madre dell’idea liberale, nel Belgio e nella vicina Svizzera, che avrebbero dovuto darci i modelli archetipi della nuova scuola della rinascente nazione italiana.

Negli articoli relativi ai rapporti etico-sociali ci saremmo aspettati soprattutto che venisse ripudiato il vincolismo culturale della carta scolastica del fascismo, che rafforzava il principio statalista, nello spirito del sapere e nella scienza, e vincolava la gioventù nei segni del littorio. Nient’affatto!

Il titolo dei rapporti etico-sociali ci porta di peso sul disegno, non più larvato, dell’orientamento vincolistico e statalistico della Carta costituzionale in elaborazione.

«La Repubblica assume la tutela della famiglia per l’adempimento della sua missione e per la saldezza morale e la prosperità della Nazione».

Lo Stato dunque entra nel sacrario della famiglia, dichiarata società naturale e perciò originaria autonoma.

In base a questo articolo il bambino è colto ancora nel grembo materno, poi al primo affacciarsi alla conoscenza del mondo circostante, la famiglia virtualmente l’ha in custodia, nella vigilanza e sotto la tutela dello Stato. La famiglia è una vigilata speciale della Repubblica, nella sua stessa formazione naturale che ha per fine la continuità.

Quando il bambino cresce, la Repubblica provvede a proteggerlo «favorendo e istituendo gli organi necessari a tale scopo», il che vuol dire una nuova G.I.L. con i figli della lupa, gli avanguardisti, ecc.

Gli organismi sono già pronti: il fronte della gioventù da parte rossa, i boy-scouts da parte democristiana. Educazione spartana! Licurgo ed Hegel si danno la mano, per la prosperità della nazione e l’annullamento della persona umana, per il conformismo spirituale e mentale, nelle finalità del nuovo stato etico!

Tutto questo per combattere l’individualismo di Rousseau? Per favorire la libertà della persona umana? Per realizzare la res publica christianorum che fa sì che totus mundus est quasi unica res publica, in omaggio agli articoli terzo e quarto?

«L’arte e la scienza sono libere».

E chi potrebbe opporvisi? Sono le manifestazioni dell’arte e della scienza che debbono essere dichiarate libere e rese libere. L’arte e la scienza sono, in sé prese, astrazioni che si concretizzano nelle manifestazioni e nelle creazioni.

E perché non viene dichiarato libero il pensiero? Al pensiero il bavaglio dell’appuntato di polizia che sta in agguato al 4° comma dell’articolo 16!

«La Repubblica assicura alla famiglia le condizioni economiche necessarie alla sua formazione, alla sua difesa ed al suo sviluppo».

Il bambino, il giovinetto, l’uomo, la famiglia; tutto entra nella tutela della Repubblica che annulla ogni iniziativa e assorbisce la personalità individuale, nei tentacoli mastodontici e macchinosi di uno Stato che penetra ovunque, che provvede a tutto, che detta le norme generale sull’istruzione, che assicura assegni alle famiglie ed altre provvidenze.

Una educazione vincolata, una scuola vincolata, una cultura vincolata, manifestazioni dell’arte e della scienza nei confini dei disegni dello statalismo. Il pensiero e l’uomo sono spiati e vigilati. È questa la casa sociale dell’uomo? Sono questi i muri maestri scavati sulla dura pietra della sacra persona dell’uomo, creatura eccelsa per predilezione di Dio? È questa la volta del corpo giuridico della casa civile dell’uomo? No, onorevoli colleghi, questa non è la casa per fratelli, non è la casa per uomini che cooperano per uno stesso fine che è lo sviluppo della personalità umana, sino ai vertici della sua vita religiosa.

Qui manca l’essenziale: libertà e amore. E Iddio non può benedire questa casa senza amore e contro natura. (Applausi a destra).

PRESIDENTE. Il seguito della discussione è rinviato alle 16.

Interrogazione con richiesta di urgenza.

PRESIDENTE. L’onorevole Tonello ha presentato la seguente interrogazione con richiesta di urgenza: «Al Ministro della pubblica istruzione, per sapere se intenda, per l’onore della scuola italiana, accogliere senza altre dilazioni le giuste rivendicazioni dei professori e dei maestri».

L’interrogazione dell’onorevole Tonello sarà abbinata alle altre sullo stesso argomento alle quali il Ministro risponderà nella seduta di domani mattina.

Interrogazioni.

PRESIDENTE. Si dia lettura delle interrogazioni pervenute alla Presidenza.

MATTEI TERESA, Segretaria, legge:

«Il sottoscritto chiede d’interrogare il Ministro delle finanze e del tesoro, per conoscere quale sia stato nell’ultimo decennio il numero delle vedove munite di pensione civile o militare che siano passate a nuove nozze con conseguente perdita della pensione, ed in quale proporzione al totale; se, in relazione allo scarso numero delle vedove rimaritate ed alla sussistenza di un crescente numero di convivenze more uxorio, non si ravvisi la opportunità morale e sociale di abolire la norma relativa alla perdita della pensione in caso di nuove nozze, o quanta meno di conservare l’assegno per almeno la metà, essendo assolutamente inadeguato ed inoperante nel caso delle vedove di guerra la concessione di tre sole annualità.

«Bubbio».

«I sottoscritti chiedono di interrogare i Ministri di grazia e giustizia e dell’agricoltura e foreste, per conoscere se non si ravvisi la improrogabile necessità di promuovere un provvedimento di amnistia per i reati annonari relativi alla denuncia ed al conferimento dei cereali all’ammasso, almeno nei casi di quantitativi di lieve entità destinati ai consumi familiari; e ciò in considerazione della opportunità di ridare tranquillità e fiducia ad una estesa categoria di produttori, di incrementare la produzione granaria e di eliminare lo stridente contrasto tra la tolleranza con cui in tante località e nella stessa capitale è di fatto ammessa la vendita di pane bianco e senza tessera in dipendenza di una larga e sistematica evasione di grano dall’ammasso, e la severità con cui sono perseguiti di contro i piccoli produttori per evasioni anche di lieve portata.

«Bubbio, Bellato».

«Il sottoscritto chiede di interrogare il Presidente del Consiglio dei Ministri, Ministro ad interim per l’Africa Italiana, per conoscere le ragioni che impediscono tuttora agli uffici del Ministero di procedere alla liquidazione degli arretrati spettanti ai militari ex prigionieri i quali, rientrati in gran parte malati da molti mesi, hanno assoluto bisogno di tale liquidazione.

«E per sapere, altresì, quali provvedimenti il Ministro intenda adottare per affrettare il disbrigo di dette pratiche. (L’interrogante chiede la risposta scritta).

«Camangi».

«I sottoscritti chiedono di interrogare il Ministro del lavoro e della previdenza sociale, sulle possibilità di elevare il contributo volontario per i giornalieri di campagna, al fine di metterli in condizioni di avere diritto alla pensione.

«Parecchie sono le pratiche che la previdenza sociale di Pavia respinge per insufficienza di contribuzione, e questi lavoratori hanno la facoltà di chiedere l’autorizzazione ai versamenti volontari, la quale ottenuta possono applicare:

se salariati una marca da lire 13,60 al mese;

se avventizi una marca da lire 3,30 ogni due settimane;

se donne giornaliere una marca da lire 3,30 ogni sei settimane.

«Poiché si tratta di lavoratori che hanno ormai superato il limite di età, e il versamento volontario ammonta spesse volte a qualche centinaio di lire, specialmente per le donne che hanno contribuzioni per monda e trapianto e taglio riso e vengono a raggiungere il diritto solo dopo parecchi anni (per versare lire 33 occorrono 60 settimane) e poiché tutte le marche degli altri settori produttivi sono state maggiorate da parecchio tempo, gli interroganti chiedono se non si ritiene opportuno promuovere sollecitamente un decreto che abbrevi la scadenza e ne elevi il taglio delle marche stesse, in attesa che la legislazione sociale sia riveduta.

«Lombardi Carlo, Farina».

«Il sottoscritto chiede d’interrogare il Ministro del lavoro e della previdenza sociale, per conoscere per quali motivi non è stato ancora provveduto alla nomina del dirigente dell’Istituto nazionale per l’assistenza malattie ai lavoratori, in sostituzione dell’onorevole Achille Grandi, deceduto da oltre cinque mesi.

«La nomina del Commissario per detto Istituto è quanto mai urgente, anche in considerazione che esso è sorto nel 1943 dalla fusione delle varie Mutue malattie dei diversi settori della produzione e che a tutt’oggi non ha ancora un regolamento, che ne disciplini organicamente il funzionamento. (L’interrogante chiede la risposta scritta).

«Puoti».

«Il sottoscritto chiede d’interrogare il Ministro della pubblica istruzione, per conoscere i motivi per i quali ancora non è stata concessa l’approvazione del Ministero relativa alla modifica dello Statuto della Università di Pavia, che introduceva fra i corsi complementari della Facoltà di medicina e chirurgia l’insegnamento di ortopedia. (L’interrogante chiede la risposta scritta).

«Mastrojanni».

«Il sottoscritto chiede d’interrogare i Ministri dell’agricoltura e foreste, dell’interno e delle finanze e tesoro, per sapere quali provvedimenti urgenti intendano adottare per alleviare le conseguenze dei gravissimi danni causati fra domenica 13 e lunedì 14 aprile nella Valle Peligna da una fortissima gelata, che totalmente ha distrutto il raccolto dei vigneti, dei frutteti e i campi di grano. (L’interrogante chiede la risposta scritta).

«Castelli Avolio».

«Il sottoscritto chiede d’interrogare il Ministro dei lavori pubblici, per sapere se gli consta che l’abitato di Monteodorisio (Chieti) è minacciato da una paurosa frana che, guadagnando terreno ogni giorno, dista soli 50 metri dalle prime case, ha fatto sprofondare in più punti le fondamenta del castello medievale ed ha provocata la distruzione preventiva di tutto il raccolto della zona da essa invasa; in caso affermativo, quali provvedimenti urgenti abbia adottato, o intenda prendere, per salvare il paese. (L’interrogante chiede la risposta scritta).

«Paolucci».

PRESIDENTE. Le interrogazioni testé lette saranno inscritte all’ordine del giorno e svolte al loro turno, trasmettendosi ai Ministri competenti quelle per le quali si chiede la risposta scritta.

La seduta termina alle 13.5.

MERCOLEDÌ 16 APRILE 1947

ASSEMBLEA COSTITUENTE

XCI.

SEDUTA DI MERCOLEDÌ 16 APRILE 1947

PRESIDENZA DEL PRESIDENTE TERRACINI

INDICE

Congedi:

Presidente                                                                                                        

Verifica di poteri:

Presidente                                                                                                        

Relazione della Commissione degli «Undici» sulle accuse mosse dal deputato Finocchiaro Aprile ai deputati Campilli e Vaironi (Discussione):

Rubilli, Presidente e Relatore                                                                            

Crispo                                                                                                               

Grassi                                                                                                               

Codignola                                                                                                        

Bertone                                                                                                            

Corbino                                                                                                            

Angelini                                                                                                           

Venditti                                                                                                            

Cappi                                                                                                                 

Grilli                                                                                                                

Leone Giovanni                                                                                                

Mastrojanni                                                                                                    

De Gasperi, Presidente del Consiglio dei Ministri                                                

Presidente                                                                                                        

Togliatti                                                                                                          

Nenni                                                                                                                

Giannini                                                                                                            

Nitti                                                                                                                  

Pacciardi                                                                                                         

Bruni                                                                                                                

Bassano                                                                                                            

Bergamini                                                                                                         

Interrogazioni con richiesta d’urgenza:

Presidente                                                                                                        

Gonella, Ministro della repubblica istruzione                                                     

Sull’ordine del giorno:

Presidente                                                                                                        

La seduta comincia alle 15.

AMADEI, Segretario, legge il processo verbale della seduta precedente.

(È approvato).

Congedi.

PRESIDENTE. Hanno chiesto congedo i deputati: Spataro e Lussu.

L’onorevole Lussu, chiedendo anch’egli congedo, prega di dare lettura all’Assemblea della lettera con la quale la richiesta è presentata:

Roma, 16 aprile.

«Onorevole Presidente, per precedenti impegni devo partire per la Sicilia e mi trovo, quindi, nella impossibilità di partecipare alle sedute dell’Assemblea, che si annunziano particolarmente importanti, specie se il Presidente del Consiglio pone la questione di fiducia.

«Chiedo pertanto congedo con la preghiera di voler comunicare all’Assemblea le ragioni che mi obbligano ad allontanarmi da Roma.

«Distintamente

Emilio Lussu».

(I congedi sono concessi).

Verifica di poteri.

PRESIDENTE. Sono state presentate alla Presidenza dell’Assemblea le relazioni della Giunta delle elezioni sulla elezione contestata della Circoscrizione di Catania (XXIX) e la relazione suppletiva su quella della Circoscrizione di Salerno (XXIV).

Saranno stampate e distribuite.

Discussione della relazione della Commissione degli «Undici» sulle accuse mosse dal deputato Finocchiaro Aprile ai deputati Campilli e Vanoni.

PRESIDENTE. L’ordine del giorno reca: Discussione della relazione della Commissione degli «Undici» sulle accuse mosse dal deputato Finocchiaro Aprile ai deputati Campilli e Vanoni.

RUBILLI, Presidente e Relatore. Chiedo di parlare.

PRESIDENTE. Ne ha facoltà.

RUBILLI, Presidente e Relatore. Parlo a nome dell’intera Commissione per una semplice dichiarazione. Noi abbiamo presentato e letto la nostra relazione a cui non abbiamo né da aggiungere né da togliere una parola. Quindi la Commissione, unanime, si astiene dall’intervenire nella discussione e si asterrà anche dal voto. (Commenti).

CRISPO. Chiedo di parlare.

PRESIDENTE. Ne ha facoltà.

CRISPO. Onorevoli colleghi. Io non posso, prendendo la parola in questo dibattito, astenermi dall’esprimere, innanzi tutto, la mia sorpresa per l’intervento e specialmente per il modo dell’intervento stesso, da parte del Governo, dopo la lettura della relazione della Commissione per le indagini. Quell’intervento – e il modo ancor mi offende – è un atto di sopraffazione del potere esecutivo su di un altro potere, non dovendo il Governo dimenticare che la Commissione è l’espressione dell’Assemblea in funzione giurisdizionale, onde non può, non deve essere consentita la menomazione dell’organo e della funzione da parte del potere esecutivo che ha preteso d’insorgere, fino alla rampogna e al disdegno, contro il giudizio della Commissione. (Interruzione dell’onorevole Angelini).

Elevo, come Deputato, la mia protesta contro siffatta indefinibile procedura. (Applausi a sinistra e a destra – Interruzioni al centro).

PRESIDENTE. Amerei che non si iniziassero già le interruzioni! Prego di conservare il silenzio. Prosegua, onorevole Crispo.

CRISPO. Dopo le dichiarazioni dell’onorevole Rubilli, fatte a nome dell’intera Commissione, io, dinanzi a questo documento, sono indotto a domandarmi quale sia il valore del giudizio emesso sui fatti denunziati.

Vuole essere questo documento una solenne dichiarazione dell’infondatezza degli addebiti, sicché oggi il giudizio dell’Assemblea dovrebbe essere di completa restaurazione dei valori morali e della dignità degli uomini che furono accusati?

O, piuttosto, questo documento esprime uno stato d’animo particolare, quello che si determina nel tormento di una indagine che non riesce a concludere in termini risolutivi? Quello stato d’animo e quel tormento, proprî del giudice, quando, fra il sì e il no, il capo gli tenzona? Ecco il quesito che io mi propongo, e che costituisce la ragione del mio intervento. Se ci si fermasse alla prima conclusione che la Commissione trae per il Ministro Campilli, occorrerebbe, con lealtà, riconoscere che quella conclusione dovrebbe considerarsi definitiva, e che, con essa, la figura morale del Ministro, rivendicata interamente, si leverebbe al disopra dell’accusa e dell’accusatore. Difatti, alla fine della pagina 5 del documento si legge:

«In conclusione, le indagini che sono state fatte con la maggiore diligenza e scrupolosità possibile, ed i risultati ottenuti inducono a ritenere che non è sorto alcun elemento per ammettere che le affermazioni del Ministro Campilli in sua difesa non siano rispondenti a verità».

Per tale conclusione, se dovessi esprimere interamente l’animo mio, mi permetterei di rilevare, col rispetto dovuto agli onorevoli componenti la Commissione, che la forma usata avrebbe potuto, anzi, dovuto essere più incisiva, e meglio rappresentativa d’un giudizio, la cui espressione potrebbe sembrare come preordinata a restringere il significato del giudizio stesso. Si sarebbe dovuto, cioè, affermare chiaramente che l’addebito, fatto al Campilli non sussiste.

Sarebbe stato logico, difatti, che, ritenuto rispondente a verità l’assunto del Ministro Campilli, la Commissione avesse concluso il proprio giudizio con una formula precisa, senza possibilità alcuna di sottintesi. La Commissione ritenne, invece, che il suo compito non fosse esaurito nel giudizio suddetto. Difatti, essa prosegue, a pagina 6: «Resta da esaminare come e da chi i due telegrammi in data 11 e 12 febbraio furono ideati e spediti», e soggiunge: – badate alla gravità, dell’affermazione – «qui il fatto si complica ed appare veramente strano ed incomprensibile»; per riassumere, infine, a pagina 7, il proprio pensiero nel modo seguente: «Insomma, ciò che avvenne per i menzionati telegrammi al Ministero del tesoro è così anormale, che non poteva non produrre in chicchessia una grande impressione e potette certamente e a buon diritto impressionare anche l’onorevole Finocchiaro Aprile».

Nel documento, adunque, non solo manca la deplorazione delle accuse e dell’autore di esse, evidentemente doverosa, nel caso di una calunnia, da parte d’un giudice politico, quale la Commissione; ma vi è chiaramente espressa la giustificazione della denunzia e del denunziante che, nella sua buona fede, doveva necessariamente «impressionarsi».

Giustificazione che vuole essere l’espressione d’un giudizio ispirato al più vigile senso di responsabilità, perché, la Commissione si affretta a renderne conto ricordando una serie di fatti e di circostanze che, chi bene li esamini, stanno come in contrasto con le conclusioni delle quali innanzi vi ho data lettura. La Commissione comincia col proporsi questo quesito: se fosse possibile che provvedimenti relativi alla politica delle Borse potessero essere di competenza di altri, oltre che del Ministro. E, dopo di avere esaminato le norme relative, afferma che l’indole, l’importanza, l’entità e le eventuali ripercussioni dei provvedimenti stessi determinano la competenza esclusiva del Ministro.

La Commissione, inoltre, afferma che non esiste nel Ministero del tesoro un precedente qualunque, nel quale, alla iniziativa del Ministro si fosse sostituita quella del funzionario dipendente, e che, pertanto, il caso Ventura è il caso unico di un direttore generale che prende, di suo arbitrio, il posto del Ministro, in materia così delicata e importante.

E non basta, perché la Commissione rileva che il Ministro Bertone e il dottore Menichella avevano conferito in proposito, concludendo entrambi che non dovesse, per alcun motivo, ripristinarsi il provvedimento relativo alla denunzia mensile, abolito nel febbraio 1945 dal Ministro Soleri, resistendo così a tutte le sollecitazioni ricevute, e fatte anche inutilmente al Ministro Corbino. Conosceva il Ventura tali dati di fatto? Sì, li conosceva, ed era, anzi, stato presente al colloquio Bertone-Menichella.

E, infine, la Commissione ricorda che, più e più volte, il signor Giammei aveva fatto pressioni perfino al Presidente del Consiglio, perché Bertone tornasse sul suo divisamento; e Bertone aveva costantemente opposto il più reciso e categorico rifiuto.

Le cose erano a questo punto, quando, ai primi di febbraio 1947, l’onorevole Campilli diveniva Ministro del tesoro, e nei giorni 11 e 12 dello stesso mese si spedivano i due telegrammi, due distinti telegrammi, l’uno anche relativo al deposito del 25 per cento, l’altro relativo alla denunzia mensile delle operazioni.

Coincidenza di date, per sé sola, impressionante. Perché non si trattava più di richiamare in vita disposizioni già date, o istruzioni già comunicate e non adempiute, ma si trattava, invece, di provvedimento interessante la particolare politica borsistica; un provvedimento già abolito due anni prima, e sul quale era stata persistentemente richiamata l’attenzione di Bertone, di Corbino, e di Menichella, e del quale il dottor Ventura sapeva che non si voleva e non si doveva ripristinare. E, nondimeno, il Ventura fece il telegramma. Perché? Una simile condotta, da parte del dottor Ventura, potrebbe avere una sola spiegazione in un atto di corruzione. Ma tale ipotesi non è consentita, poiché la Commissione conclama l’onestà del Ventura.

Sorge così spontaneo il quesito: se il Ventura è un galantuomo, se è tecnicamente competente, se conosce i precedenti tutti, relativi all’indirizzo della politica borsistica, se non ignora il pensiero di Bertone, di Corbino, di Menichella, se egli stesso, Ventura, aveva trasmesso al Ministero un rapporto, redatto di sua mano, nel quale riconosceva la opportunità e la necessità di evitare provvedimenti a tendenza ribassista, se tutto questo è vero, perché il Ventura trasmise il telegramma? Quell’atto o denunzia un disonesto, o appartiene a un mentecatto. Ma il dottor Ventura non è un disonesto, e non è nemmeno un mentecatto! Dunque? Dunque, la Commissione conclude che il fatto è del tutto incomprensibile. Sì, del tutto incomprensibile. Ma possiamo accontentarci, di una soluzione di questo genere, da parte di un organo giurisdizionale?

Ritengo che non si possa concepire una sentenza, nella quale il giudice dichiari di non poter giudicare perché il fatto gli è incomprensibile. Ecco, perché dicevo, cominciando, che il documento della Commissione tradisce uno stato tormentoso di evidente disagio. In buona sostanza, la Commissione, da una parte si trova dinnanzi ad una determinata prova specifica, raccolta in un ambiente pervaso di timore riverenziale, e siffatta prova le sembra escludere la responsabilità del Ministro Campilli; e, d’altra parte, nello stesso tempo, si trova di fronte ad una condotta inesplicabile, incomprensibile, di fronte, cioè, ad un atto che non si riesce, in alcun modo, ad attribuire alla iniziativa del Ventura, anche quando egli la confessi e l’assicuri a suo carico. Vi sono, peraltro, manchevolezze evidenti e gravi.

Non si è in alcun modo indagato sui rapporti tra il signor Giammei e il Ministro Campilli. Il rilievo ha tanto maggiore importanza, in quanto nella relazione si dice che, mentre il Giammei affermò di non aver veduto il Ministro Campilli, questi, dopo la di lui assunzione al Ministero, non escluse, invece, di essersi incontrato col Giammei.

Ora è certo che il Giammei intervenne presso il Ministro Bertone, insistentemente, sollecitandolo, anche, per mezzo di qualche lettera carpita a De Gasperi, per il ripristino della denunzia mensile. Lo stesso Giammei non nega questo fatto, assumendo di avere agito nientemeno che per fine di interesse nazionale, allo scopo, cioè, di far convergere i capitali verso il prestito in corso. Perché, dunque, il Giammei non si sarebbe rivolto anche al Campilli?

Tanto più in quanto il Giammei è vicesegretario amministrativo della Democrazia cristiana: circostanza, come vedete, del tutto «trascurabile», se non se ne fa cenno alcuno nella relazione!

Occorreva, adunque, proporsi, per lo meno, il quesito se il mistero della condotta del Ventura non trovasse spiegazione nell’intervento dell’amministratore di un partito presso un Ministro appartenente al partito stesso.

Ora, se ci trovassimo dinanzi ad una sentenza, si rileverebbe che la motivazione ne è contradittoria: contradizione evidente, perché, mentre da una parte afferma che l’assunto del Campilli risponde a verità, dall’altra, si affretta a condannare che i motivi per i quali fu ripristinato il provvedimento della denunzia mensile rimangono un imperscrutabile mistero. Intendiamoci, dunque, sul valore di questo documento. La prova testimoniale non è tutta la prova, e può, anzi, dirsi inefficiente, se in contrasto con la prova logica che si riassume nei termini di un ragionamento concludente da premesse certe e precise.

Ora, se l’assunto Campilli è provato per testimoni, esso è smentito dalla prova logica.

Resta così tuttora fermo il dilemma posto dal denunziante.

Il dilemma è questo: se il provvedimento appartiene al Campilli, il Campilli è un disonesto; se il Campilli è del tutto estraneo ad esso, il Campilli è un inetto. Il secondo termine, per vero, non sembra esatto, perché si confonde l’inettitudine, cioè, con la colpa per negligenza per non avere il Campilli impedito il fatto. Ciò chiarito, è inutile domandarsi se i provvedimenti cagionarono danno. Grave, lieve o inesistente, il danno non ha rilevanza ai fini dell’indagine. Siamo dinanzi a fatti di danno potenziale, o di pericolo di danno, i quali, peraltro, pur produssero una flessione dei prezzi, che, sebbene lieve, fu rilevata anche dalla stampa. Resta adunque, il dilemma suddetto. Né mi pare la si possa respingere, perché l’onorevole Finocchiaro non riuscì a produrre le prove dell’accusa.

Altra cosa, infatti, è la prova, ed altra la denunzia, né questa si può dire infondata, perché non sorretta da prova fornita dallo stesso denunziante, se la prova può raccogliersi aliunde, come è avvenuto nel caso nostro per il quale la Commissione non si fermò alle dichiarazioni dell’onorevole Finocchiaro Aprile, ma esperì tutte le indagini che ritenne opportune.

Né può avere importanza decisiva la confessione della propria responsabilità da parte del Ventura. Quale importanza può, difatti, avere, se il dottor Ventura potette tranquillamente rimanere al proprio posto, nell’esercizio delle stesse funzioni e vi rimane tuttora?

La seconda parte del dilemma appare così ispirata ad un criterio di evidente indulgenza. Comunque, qual è la mia conclusione?

Per il caso Campilli il documento suscita le maggiori perplessità. Il fatto a lui attribuito è vero o no? Non si può rispondere in termini decisivi e mi sembra di non concedere troppo, esprimendomi in tal modo.

Onde deve apparire necessario uscire dall’atmosfera del dubbio o del sospetto, nell’interesse degli stessi accusati.

Qualunque sia, difatti, il voto dell’Assemblea, il documento resta, e sarebbe al di sopra di qualunque voto favorevole. Il documento, difatti, proietta troppe ombre, perché, un qualunque voto possa sodisfare le esigenze d’una elementare sensibilità politica e morale.

Il documento, difatti, non adotta una formula liberatoria, non dice che il fatto non sussiste, né dice che non fu commesso dal Campilli. Il documento rimane come un penoso punto interrogativo. Qual è il rimedio? Uno solo: una ulteriore e più approfondita indagine. Vi sono punti sui quali, a mio avviso, la Commissione dovrebbe tornare. Io li ho già segnalati, e l’indagine non può non proseguirsi. Occorre indagare soprattutto sulla figura del Giammei, sull’intervento di lui, chiedersi chi egli è veramente, se è un cittadino probo o un volgare faccendiere che profitti della sua posizione in un partito politico per inconfessabili interessi personali.

Per questi motivi, io presento sul caso Campilli l’ordine del giorno col quale: «L’Assemblea, esaminata la relazione della Commissione, ne rileva la perplessità delle conclusioni, e dispone il prosieguo delle indagini». (Commenti).

Una parola sul caso Vanoni. Qui non occorre esaminare la prova, perché il fatto che si addebita al Vanoni è del tutto pacifico. Egli ottenne che gli fosse attribuita la somma di 2 milioni e 761 mila lire come compenso dell’opera sua di Commissario, di nomina governativa, prestata per 16 mesi presso la Banca dell’agricoltura.

Tale somma non fu tutta riscossa da lui. Una parte – e non si sa quale – fu devoluta a favore del Partito della Democrazia cristiana – devoluta, nel senso che rimase presso la banca, e ritirata poi – non si sa ad opera di chi – nell’interesse del Partito stesso che ne aveva voluto la nomina. Vi è, dunque, da una parte, un compenso la cui entità non si spiega in alcun modo. Vi è, dall’altra, il fatto che alla prebenda partecipò il Partito del Vanoni, e dal quale il Vanoni fu designato all’incarico. Si è tratti quindi subito a pensare ad un rapporto derivante da uno strano do ut des. Se si consideri, inoltre, che la nomina del Commissario era intesa a defascistizzare la Banca, e ad accertare determinati profitti di regime, si comprende agevolmente che anche per il caso Vanoni le indagini siano state manchevoli. E il prosieguo che io propongo dovrebbe essere inteso, soprattutto, allo scopo di stabilire se quel compenso non trovasse la sua giustificazione in ragioni più o meno inconfessabili. Né credo di dovere aggiungere di più.

Resta, peraltro, il giudizio da dare intorno a questo indefinibile costume politico, per il quale può avvenire che partiti di Governo possono attingere i mezzi della propria organizzazione da simili compensi!

Io confido che l’Assemblea Costituente vorrà votare l’ordine del giorno da me presentato. (Applausi).

GRASSI. Chiedo di parlare.

PRESIDENTE. Ne ha facoltà.

GRASSI. Onorevoli colleghi, sarebbe mio vivo desiderio e penso che sia dovere dell’Assemblea Costituente di precisare i termini del presente dibattito. Nella seduta del 6 marzo scorso il Presidente dell’egregia Commissione parlamentare chiedeva all’Assemblea di poter disporre di poteri per indagare sulla fondatezza delle accuse, lesive dell’onorabilità, formulate contro Deputati nella pubblica discussione. E l’Assemblea, dopo un dibattito svoltosi su queste richieste, decise:

«Udite le dichiarazioni del Presidente della Commissione degli Undici e quelle del Presidente del Consiglio, accoglie le richieste della Commissione e passa all’ordine del giorno».

Sicché i limiti dell’indagini e, quindi, le conseguenze che da quelle indagini si devono trarre da parte della Commissione e da parte dell’Assemblea devono essere limitate a questo fatto, ossia se le accuse che furono lanciate da parte di un membro dell’Assemblea contro altri membri dell’Assemblea, rivestiti della carica di Ministri, fossero o no fondate; inquantoché da questo fatto o dall’accertamento di questo fatto devono risultare le conseguenze nei confronti dell’onore di determinate persone.

È necessario precisare questo punto, il quale è in corrispondenza a quella che è la prassi della vita parlamentare, e a quella che è la base dell’articolo 80-bis del Regolamento della Camera, il quale stabilisce che, quando un’accusa lanciata da un membro dell’Assemblea contro altri membri è lesiva della onorabilità – quindi vengono ripetute le parole «lesiva della onorabilità» – l’accusato ha il diritto di rivolgersi al Presidente della Camera, perché nomini una Commissione che accerti la fondatezza dell’accusa.

Quindi, in altri termini, è necessario precisare che, tanto l’ordine del giorno votato dall’Assemblea, quanto l’articolo del Regolamento, che rende possibile la nomina delle Commissioni parlamentari d’indagine, hanno questo compito limitato: accertare i fatti lesivi della onorabilità.

E non vi è ragione di dubitare sulla importanza del limite di questa indagine, in quanto che, se è vero che la tribuna parlamentare deve avere la pienezza della libertà, la pienezza del controllo su tutto ciò che riguarda coloro i quali rivestono cariche ed uffici pubblici, e che questa libertà della tribuna parlamentare è garantita dalla immunità in modo che, in nessuna maniera, possa essere limitata o processata; è anche vera l’altra esigenza, per rendere possibile un normale svolgimento nella vita pubblica, che ci sia una remora a questa libertà, a questa attività di controllo; e questo limite è stabilito nel senso che non può essere intaccata l’onorabilità d’un membro del Parlamento. Il rimedio consiste nel giudizio d’una Commissione parlamentare, alla quale si deferisce l’indagine.

Se tenete presenti queste esigenze e questi rimedi, vi spiegate le ragioni dell’attuale dibattito ed i limiti nei quali esso deve essere racchiuso; in quanto che da questo noi dobbiamo ricavare alcune conseguenze: la prima conseguenza – e mi pare che la Commissione l’abbia tenuta presente e quind’io non posso che illustrare quello che la Commissione ha fatto – è l’esame dei fatti, ossia se i fatti, in se stessi, possono influire sulla onorabilità di alcuni membri di questa Assemblea.

La seconda conseguenza è che noi, essendoci surrogati alla Commissione stessa, (in quanto abbiamo avocato, colla decisione dell’altro ieri, il giudizio sulle indagini della Commissione stessa), dobbiamo spogliarci di ogni passione politica e d’ogni tendenza di parte; ed esaminare la questione solamente come giudici, come persone chiamate a giudicare sulla onorabilità di alcuni nostri colleghi.

Su questo terreno, ci dobbiamo porre tutti, anche se non condividiamo la politica dell’intero Gabinetto o d’un determinato Ministro che è a capo di un ramo della pubblica Amministrazione.

Noi dobbiamo, quindi, spogliarci di ogni passione politica per giudicare strettamente e rigorosamente in base ai fatti; in quanto che si tratta col nostro giudizio di intaccare il patrimonio più sacro a ciascuno di noi, qual è l’onore che ognuno deve tutelare e difendere.

Ed allora, alla stregua di queste considerazioni, io ho esaminato e studiato il documento redatto dalla Commissione, che – al contrario dell’onorevole Crispo – trovo assai diligente nei limiti, che essa aveva, dell’indagine.

La Commissione ha preso in esame i due punti del dibattito, ossia ha preso in esame la persona o le persone dei Ministri rispetto ai fatti, sui quali doveva portare il suo esame, ed anzi, direi quasi, ha voluto estenderlo, perché, oltre al giudizio che si riferisce alla persona del Ministro è andata anche ad esaminare quello che avviene nelle amministrazioni statali, per dedurre osservazioni che sono contenute nella relazione. Penso che da questa doppia visione di indagini da parte della Commissione può essere derivata qualche incertezza sui risultati, o può essere apparsa incompleta la conclusione della Commissione. Ma, se noi stiamo strettamente al giudizio emesso dalla Commissione rispetto alle accuse specifiche fatte nei riguardi delle persone, non mi pare che ci possano essere incertezze; perché, come lo stesso onorevole Crispo ha detto, la Commissione, a conclusione della indagine nei riguardi dell’onorevole Campilli, ha finito per escludere ogni responsabilità morale rispetto al fatto dopo aver dichiarato (e questo è importante rilevare) di aver sentito l’onorevole Finocchiaro Aprile, dopo aver detto e scritto che non furono date prove a sostegno dell’accusa lanciata. Non si tratta di scusare o non scusare l’accusatore, ma di precisare che non è esatto quanto l’onorevole Crispo ha affermato, che diversa è la denuncia e diverse sono le prove; mi pare che ogni accusa formulata, specie se questa accusa investe l’onorabilità di un membro dell’Assemblea, debba essere fondata e provata; non si tratta di fare delle denunce, ma di precisare accuse che devono essere motivate e fondate.

In seguito alle dichiarazioni dell’onorevole Finocchiaro Aprile, di non avere le prove sufficienti per dimostrare la fondatezza delle accuse, la Commissione dice nella sua relazione che avrebbe potuto anche limitare il suo compito a questa semplice indagine e fermarsi; ma ha fatto di più e, secondo me, ha fatto bene ad andare oltre, perché ne aveva ricevuto da parte dell’Assemblea l’incarico. E, dopo avere esaminato tutti i fatti, ed interrogato tutte le persone che potevano portare luce su questi fatti, conclude nella maniera che voi avete letto, ossia dicendo che le indagini fatte con la maggiore diligenza e scrupolosità possibile, ed i risultati ottenuti inducono a ritenere che non è sorto alcun elemento per ammettere che le affermazioni del Ministro Campilli in sua difesa non siano rispondenti a verità. Questa è la verità, questa è la conclusione della Commissione.

Che cosa era il fatto? Il fatto non era se i telegrammi erano stati lanciati o non lanciati l’11 febbraio, ma questo: se la conoscenza di questi telegrammi, prima della loro circolazione presso le Borse, data soltanto ad alcuni operatori in Borsa, avesse portato dei profitti a particolari persone.

Questo è il fatto. Nessuno ha mai messo in dubbio che i telegrammi dell’11 e del 12 siano stati trasmessi; essi portano la firma di un direttore generale.

L’indagine è un’altra: ossia se la conoscenza del documento in anticipo, avesse potuto far approfittare alcuni individui nel campo della Borsa. Ora questo la Commissione lo esclude, lo esclude nel modo più esauriente, nel senso che afferma nella forma più assoluta, che il Ministro Campilli non conosceva il documento stesso.

Ora, qui sta il punto. Forse l’onorevole Campilli avrebbe fatto meglio, dal mio punto di vista, da vecchio parlamentare, ad assumersi – bene o male – la responsabilità del documento. Ma questa è una considerazione di natura politica, perché se è vero (come del resto illustri maestri in questa materia hanno detto, e credo che anche l’onorevole Einaudi abbia scritto qualche articolo al riguardo subito dopo i noti fatti), se è vero che il provvedimento è un provvedimento legittimo, e d’altra parte la stessa Commissione e lo stesso onorevole Finocchiaro Aprile lo ammettono, se è vero che il provvedimento è necessario per infrenare le speculazioni di Borsa, è un provvedimento che poteva benissimo farsi; e pare che questo provvedimento sia ancora rimasto e sia un provvedimento che non ha portato, praticamente, alcuna conseguenza né immediata né in seguito.

Quindi, stiamo drammatizzando su situazioni che non esistono, perché diciamo che si poteva aver speculato, non per l’uso legittimo del provvedimento, ma per l’uso illegittimo, ossia per una propagazione del documento fatta in anticipo.

Ma questa è la gravità dell’accusa, che incide sulla moralità della persona cui è oggi affidato il tesoro dello Stato. Possiamo noi ammettere questa grave accusa? No. La Commissione l’ha escluso e se la Commissione lo ha escluso, noi dobbiamo fermarci; in quanto sarebbe gravissimo continuare ad avvolgere di sospetti l’uomo che è preposto all’amministrazione finanziaria dello Stato, specie in questo momento così delicato e così difficile della vita nazionale.

Questa è la gravità della situazione, donde la necessità di prendere una decisione, in seguito alle indagini, in base alle quali l’intera Commissione – che rappresenta tutti i gruppi dell’Assemblea – ha in forma unanime escluso ogni addebito a carico del Ministro Campilli.

La seconda parte delle indagini fatte da parte della Commissione, ha una grande importanza: la Commissione ha voluto spiegare a sé stessa, e vuole spiegare all’Assemblea, perché questi fatti siano avvenuti: e vuole spiegarlo in una maniera più larga, che forse – direi quasi – non era neanche il compito affidatole da parte dell’Assemblea, in quanto tale compito era limitato all’opera del Ministro Campilli.

Il compito della Commissione poteva considerarsi limitato a questa indagine; comunque, la Commissione è andata anche oltre: ha voluto approfondire e si è trovata di fronte a mille difficoltà d’indagini, anche perché gliene mancavano i poteri, in quanto non era una Commissione d’inchiesta, ma una Commissione parlamentare nei limiti dall’articolo 80-bis. In ogni modo la Commissione ha rilevato una cosa che non possiamo sottacere e che, d’altra parte, è nella convinzione generale di noi tutti e della pubblica opinione: che, effettivamente, la nostra Amministrazione, che era un modello, onorata e rispettata all’interno e all’estero, deve essere liberata da elementi che l’hanno inquinata. Io stesso posso assicurarlo, in quanto in un periodo precedente al fascismo, avendo vissuto all’estero, ho inteso gli apprezzamenti che venivano fatti sullo zelo e sulla capacità, sull’onestà dei nostri funzionari. È passato su tutto il Paese, e quindi sull’Amministrazione dello Stato, un regime autoritario, la guerra, la disfatta: tutto questo ha deformato, spezzato l’Amministrazione dello Stato, che si è andata ricostruendo da Brindisi, poi a Salerno e quindi a Roma, dove ha dovuto cominciare la sua opera di ricostruzione, che non è ancora compiuta.

Questo è un punto delicato e politico che va oltre i limiti dell’indagine che ci interessa. L’indagine che ci interessa è la partita d’onore, una partita nella quale dobbiamo dire se ci sono persone che non meritano di stare in mezzo a noi. Dobbiamo essere sinceri, aperti, dobbiamo dire la nostra parola in base agli elementi che la Commissione ci ha dato. Non può essere diverso il nostro giudizio.

Ora, io non voglio entrare in dettagli. Non credo che, esclusa la colpabilità, dobbiamo giudicare sulla capacità dei Ministri. L’incapacità, del resto, come ha detto l’onorevole Crispo, non sarebbe mai una incapacità intellettuale, ma politica, e per questa li giudicheremo nella loro attività ministeriale. Superiamo questo momento difficile, in cui siamo chiamati come giudici su una questione morale, sulla questione di capacità li giudicheremo prossimamente, ed ognuno prenderà allora il suo posto e la sua funzione; ma, in questo momento, siamo uomini d’onore che dobbiamo giudicare secondo una legge d’onore, alla quale non possiamo sottrarci. Ed in questa legge d’onore dobbiamo esprimere apertamente il nostro pensiero, il nostro giudizio.

Ed allora, non entriamo nei dettagli, perché i dettagli potrebbero rimpicciolire la questione e non metterla nei termini elevati in cui deve essere messa. In questo senso ho presentato un ordine del giorno il quale, partendo dalle conclusioni che la stessa Commissione fa e che sono attendibili, trae le conseguenze accessorie. Potevamo, come altre volte ha fatto l’Assemblea, in altre occasioni, per esempio nel caso Vacirca-Drago, prendere semplice atto delle conclusioni della Commissione, ma dal momento che l’Assemblea ha voluto che si discutessero le conclusioni della Commissione, noi dobbiamo fare questa discussione e concludere affermando che, in base alle dichiarazioni della Commissione, riteniamo che non sono fondate le accuse, e che sia necessario invitare il Governo, in una forma precisa, perché controlli e vigili l’Amministrazione, in modo da renderla degna e stimata nella pubblica opinione, come fu sempre nel passato.

Con questi intendimenti presento il seguente ordine del giorno:

«L’Assemblea Costituente, constatato che la Commissione degli Undici, in seguito ad accurate indagini sulle accuse mosse dall’onorevole Finocchiaro Aprile agli onorevoli Campilli e Vanoni, membri del Governo, ha riconosciuto «rispondenti a verità» le affermazioni fatte in loro difesa dai predetti Ministri; dichiara che non si possono ritenere fondate le accuse nei loro riguardi; e considerate le osservazioni della Commissione, invita il Governo a svolgere azione oculata ed efficace per liberare le Amministrazioni dello Stato da ogni residuo del passato ed elevarne il prestigio nella pubblica opinione».

Ho ripreso nell’ordine del giorno i concetti fondamentali svolti dalla Commissione, e penso che l’Assemblea non possa non approvare le conclusioni della Commissione. (Applausi al centro).

CODIGNOLA. Chiedo di parlare.

PRESIDENTE. Ne ha facoltà.

CODIGNOLA. Onorevoli colleghi, nella seduta del 18 febbraio, su proposta dell’onorevole Natoli, questa Assemblea deliberò di eleggere una Commissione di inchiesta sulle accuse che erano state mosse dall’onorevole Finocchiaro Aprile agli onorevoli Ministri Vanoni e Campilli: accuse che rientravano in un atteggiamento più generale di opposizione al Governo ed alla politica governativa, manifestato in quella occasione dallo stesso onorevole Finocchiaro Aprile. Dal momento in cui l’Assemblea nominava questa Commissione, cioè le delegava tutti i propri poteri di indagine, essa evidentemente si impegnava a prendere atto delle sue conclusioni e a riconoscere quei risultati che dalle sue indagini sarebbero derivati. Io ricordo che proprio in vista della necessità che questa Commissione rappresentasse l’intero Parlamento, non già con criterî di maggioranza o di minoranza, – criterî che non possono essere validi quando si tratti di problemi morali – proprio in vista di questo fu stabilito che la Commissione sarebbe stata composta di undici deputati e cioè che in essa ciascun gruppo politico rappresentato in questa Assemblea, avrebbe avuto la propria voce in condizioni di parità con gli altri. È quindi assai strano, e direi doloroso, che in qualche organo di stampa, e più propriamente in quell’organo di stampa che meno avrebbe dovuto prendere una simile posizione, si siano fatte delle obiezioni sul modo come questa Commissione è stata composta, e si sia addirittura tentato di insinuare che il giudizio di questa Commissione, la lealtà e l’obiettività di questo giudizio erano viziati, in quanto in questa Commissione non era stato mantenuto quel dosaggio di forze politiche che normalmente è osservato in tutte le altre Commissioni di questa Assemblea.

Credo quindi che il primo compito di questa Assemblea sia quello di dichiarare la propria completa solidarietà con il lavoro fatto dalla Commissione. Dobbiamo prima di tutto dire ai nostri colleghi, che la fiducia dell’Assemblea ha chiamato a far parte di questa Commissione di inchiesta, che il loro lavoro è stato condotto con criterî di grande equità, di grande equilibrio e di grande riservatezza.

Ora, di fronte al parere espresso dalla Commissione, noi, ci domandiamo anzitutto se l’Assemblea possa entrare nell’esame del merito della questione. Evidentemente, noi possiamo giudicare se la Commissione abbia eseguito, dal punto di vista procedurale, esattamente il suo compito: e, da questo punto di vista, mi pare che non vi sia nulla da eccepire. Qualcuno ha parlato di reticenze che si sarebbero riscontrate nel testo della relazione: ma queste appartengono piuttosto alle testimonianze e ai mezzi di prova di cui la Commissione ha dovuto servirsi, e derivano anche dal tipo di poteri di cui questa Commissione poteva disporre. Ma se invece dovessimo entrare nel merito della questione, è chiaro che in questo momento sconfesseremmo la Commissione che abbiamo noi stessi nominata. È chiaro che se oggi, in seduta plenaria, dicessimo che vogliamo riprendere in esame gli elementi in base ai quali la Commissione ha espresso il suo giudizio, nel senso cioè che il giudizio della Commissione non ci ha persuasi e che la Commissione non ha lavorato bene, in questo senso noi sconfesseremmo la Commissione che è espressione della nostra stessa Assemblea. Noi non possiamo in realtà entrare nel merito delle questioni discusse. (Commenti).

Noi potremmo eventualmente aderire alla tesi espressa dall’onorevole Crispo, che cioè sia opportuno riconoscere la necessità di ulteriori indagini che la medesima Commissione dovrebbe essere chiamata a svolgere. Ma io penso che una richiesta di questo genere, non tanto dovrebbe partire da noi, quanto dagli interessati. Spetta eventualmente ai colleghi interessati in questa questione di chiedere che ulteriori indagini siano fatte.

Per parte nostra, crediamo invece che si debba distinguere nettamente in tutta la questione un aspetto di natura personale e un aspetto di natura politica.

A nostro giudizio, il primo aspetto ha trovato nel giudizio della Commissione un chiarimento sufficiente. Quando la Commissione dichiara che le indagini, che sono state fatte con la maggiore diligenza e scrupolosità possibili, e i risultati ottenuti inducono a ritenere che non è sorto alcun elemento per ammettere che le affermazioni del Ministro Campilli in sua difesa non siano rispondenti a verità, io trovo che la Commissione, con questa dichiarazione, ha esaurito il suo compito in quel settore che riguarda la moralità personale dei due deputati, dei due Ministri ai quali l’inchiesta si riferiva. E credo che l’Assemblea, onestamente, lealmente, non debba fare altro che prendere atto di questa dichiarazione, prenderne atto con soddisfazione, poiché è evidente che nel momento in cui le accuse personali, relative all’onorabilità personale, che erano state mosse a due nostri colleghi, sono dichiarate decadute e prive di fondamento da questa Commissione, nello stesso momento si rafforza il prestigio non soltanto degli interessati, ma di tutto il Parlamento, di tutti i membri di questa Assemblea.

Ma la Commissione, una volta esaurito questo aspetto del problema, che noi riteniamo chiuso, ha ritenuto giustamente che l’indagine dovesse proseguire, poiché realmente la Commissione aveva – come dicevo da principio – un compito più vasto di quello semplicemente di determinare se vi fossero delle responsabilità di carattere personale. Vi sono – o si pensava che vi potessero essere – responsabilità di diversa natura, responsabilità di carattere politico; e queste responsabilità di carattere politico è evidente che non riguardano, non possono riguardare esclusivamente i due Ministri interessati alla questione, ma riguardano tutto il Governo nel suo complesso, riguardano cioè la direzione della politica governativa, la struttura governativa.

Nella relazione della Commissione leggiamo:

«Chi non vede che i criteri direttivi per la disciplina delle Borse sono di tale importanza che rappresentano tutto un orientamento politico e personale del Ministro in materia tanto delicata?».

E poco dopo si dice: «Succede all’onorevole Bertone il Ministro Campilli, e non appare affatto che sia mutata la politica sulle Borse». Mentre nella stessa pagina si afferma, e con ragione, che i due famosi telegrammi comportavano una reale svolta nella politica delle Borse.

Ancora si osserva: «Prima di ogni altra cosa bisogna vietare rigorosamente che vadano girando per i Ministeri faccendieri o persone non guidate da propri e legittimi interessi, o anche coloro che, privi di ogni carica pubblica, non hanno altra qualità che quella di essere più o meno in vista nei partiti». E più oltre: «È indispensabile che Ministri e Sottosegretari, con la più oculata e personale vigilanza, seguano le pratiche più importanti e specialmente quelle di notevole entità economica».

E si potrebbe continuare. Ora, io penso che mentre questa Assemblea ha il dovere, che è un dovere morale ancor prima che politico, di liberare interamente dalle accuse personali i due Ministri interessati, di liberarli con formula piena, ha anche il dovere di rendersi conto che il Paese non può accontentarsi di questo, deve rendersi conto che il Paese ha ricevuto una scossa psicologica notevole da quanto è accaduto dal febbraio scorso. A questo non possiamo semplicemente rispondere che i due Ministri sono personalmente uomini onesti, poiché la relazione della Commissione ha proceduto oltre, e noi dobbiamo dare una risposta al Paese sulla seconda parte della relazione della Commissione.

L’onorevole Crispo ha parlato, poc’anzi di negligenza amministrativa: si potrebbero usare varie altre espressioni. Mi pare che comunque un risultato appaia indubbio dalla lettera della relazione che è sottoposta al nostro esame, ed è che il Governo ha delle responsabilità generali, che deve rispondere di fronte al Paese di irregolarità nella direzione politica, deve rispondere di fronte al Paese di interferenze extraministeriali che non possono essere accettabili, che il Governo quindi deve esaminare esso quali siano le forme migliori perché il Paese possa riprendere la fiducia nella propria direzione governativa.

Noi veramente avremmo pensato che già dalla seduta di lunedì scorso il Governo si rendesse conto di questo, che il Governo cioè ci presentasse già esso una soluzione che consentisse di uscire nel modo migliore da questa situazione che è spiacevole non soltanto per esso, ma per l’intero Parlamento. E non nascondiamo la nostra meraviglia, condividendo le critiche mosse al riguardo dall’onorevole Crispo, sull’atteggiamento che, nella seduta di lunedì scorso, il Capo del Governo ha ritenuto di prendere su questo argomento. È sembrato quasi, infatti, che egli avesse intenzione di mettere sotto accusa la Commissione, di mettere sotto accusa l’accusatore. Ora, mi pare che non vi siano gli elementi per mettere sotto accusa l’accusatore; ma evidentemente che vi siano tanto meno gli elementi per mettere sotto accusa la Commissione.

Debbo dire che particolarmente grave ci è sembrato questo intervento ministeriale, quando si consideri che i colleghi che sono oggetto di questa inchiesta fanno anch’essi parte del Ministero; e tanto più grave ci è sembrato questo intervento quando si consideri che il Capo del Governo è esso stesso uno dei massimi esponenti di quel partito cui i due Ministri appartengono.

Ormai, dopo questo atteggiamento del Governo nella seduta di lunedì, difficilmente potremo tornare alla soluzione più ovvia, che sarebbe stata quella che l’Assemblea prendesse atto delle conclusioni cui la Commissione è giunta, lasciando al Governo la responsabilità di trarre le conclusioni che esso riteneva di dover trarre.

In questa situazione, che non è stata voluta da noi, ma che è stata voluta dal Governo, il quale ha chiesto questa discussione, quando forse questa discussione, in questi termini, si poteva evitare, mi pare che due soluzioni siano possibili: o accettare la soluzione proposta dall’onorevole Crispo, cioè invitare la Commissione a prendere nuovamente in esame tutto il merito della questione, con maggiori poteri istruttori, in modo da poter emettere una sentenza capace di soddisfare maggiormente l’Assemblea, ovvero limitarsi a lasciare al Governo di assumere esso le decisioni che riterrà più opportune, considerando il valore delle deliberazioni della Commissione e particolarmente della seconda parte della sua relazione.

E con questo io ho terminato. Per il momento non presentiamo ordini del giorno. Ci riserviamo eventualmente di presentarli successivamente.

Desideriamo però, per finire, dichiarare in modo esplicito che qualunque soluzione che possa, in qualunque modo, ledere il prestigio della Commissione, che è il prestigio del Parlamento, sarà da noi respinta. (Approvazioni).

BERTONE. Chiedo di parlare per fatto personale.

PRESIDENTE. Ne ha facoltà.

BERTONE. Onorevoli colleghi. Il rilievo della Commissione, che il Ministro Bertone aveva respinto le sollecitazioni per i provvedimenti che furono poi diramati dalla Direzione generale del tesoro sotto il suo successore, è esatto. Devo tuttavia, e lo credo doveroso, fornire all’Assemblea qualche maggiore chiarimento, utile al giudizio sulla delicata questione, chiarimento già da me fornito alla Commissione stessa alla quale sono veramente grato per la grande e serena deferenza con la quale volle ascoltarmi.

Da Roma e da varie città d’Italia, all’inizio e durante la campagna per il prestito, mi giungevano richiami, consigli, sollecitazioni per adottare provvedimenti di varia natura, intesi ad infrenare il corso, in continua ascesa, dei titoli azionari, indice questo, dicevasi, di indifferenza, se non anche di ostilità al prestito.

Sollecitazioni analoghe giungevano ad altri Ministri ed allo stesso Presidente del Consiglio, che a me le trasmettevano puramente e semplicemente, come oggetto di competenza del Ministero del tesoro. Provvedimenti di tale natura, come ebbe a dichiarare lo stesso onorevole Finocchiaro Aprile – ed il rapporto della Commissione riporta le sue testuali parole – «per se stessi non erano censurabili, perché potevano esercitare, come già in passato, un effetto salutare ai fini del riequilibrio del mercato, spinto troppo in alto dalla speculazione e dalla progressiva svalutazione della lira».

E verosimilmente fu inspirato a tale concetto di tutela della pubblica economia il ripristino del deposito del 25 per cento per le operazioni a termine, disposto dal Ministro Corbino il 2 settembre 1946.

E tuttavia, io stimai di parlarne con le persone con le quali quasi quotidianamente avevo convegno per la preparazione e il buon andamento del prestito, intendo dire con il Governatore della Banca d’Italia, con il suo Direttore generale e con il Direttore generale del tesoro.

E come a persone probe ed espertissime della materia, io chiesi il loro avviso. Concorde ed unanime la risposta.

Il collega onorevole Einaudi, presente, potrà confermarlo. Durante il prestito una qualsiasi misura diretta a variare lo stato di fatto delle Borse avrebbe cagionato o potuto cagionare turbamenti, resistenze e forse anche ritorsioni, in un ambiente già di per sé notoriamente sensibilissimo, e che invece era necessario avere tranquillo e per quanto possibile favorevole per le operazioni del prestito. Senz’altro io presi atto di così autorevole e spassionato consiglio, e ogni misura relativa alle Borse fu per quel momento accantonata. Terminato il prestito, e quando il movimento irregolare delle Borse fosse continuato o si fossero manifestati indizi o sintomi di contrasto, di offesa o di insidia alla pubblica economia, senza alcun dubbio avrei preso in esame un intervento diretto del Ministero, dato che la vigilanza sulle borse è appunto affidata al Ministero del tesoro.

E già nell’ultimo periodo del prestito non era mancato qualche significativo elemento indicatore. Da fonte autorevole, quasi ufficiale, ed assolutamente al di sopra di ogni dubbio o sospetto di riguardo ad interessi privati, era pervenuta segnalazione di riporti passivi, anormali per quantità e rilevanza, nei quali era troppo facile intravedere il fine di creare passività fittizie per elusione dell’imposta straordinaria sul patrimonio, che il Governo aveva ufficialmente dichiarato collegata col prestito, e di non lontana attuazione. Ciò appunto ad opera di taluno di quei ceti abbienti che io nel mio discorso in quest’aula del 25 settembre, e nell’unanime consenso dell’Assemblea, avevo dichiarato dover sostenere il maggior contributo nell’ardua opera della restaurazione del bilancio.

A prestito chiuso, e poiché non vi era alcun pericolo né danno in una breve attesa, utile anzi per meglio raccogliere elementi e prove, un provvedimento inteso ad evitare tale frode fiscale, ed altri tentativi del genere, sarebbe stato non solo opportuno, ma necessario e doveroso: e dichiaro che non avrei esitato a prenderlo. Senonché, appena chiuso il prestito, avvenne la crisi ministeriale e io lasciai l’ufficio.

Questi i dati obiettivi della mia azione in quel tempo. (Applausi).

CORBINO. Chiedo di parlare per fatto personale.

PRESIDENTE. Ne ha facoltà.

CORBINO. Credo opportuno informare l’Assemblea sulle ragioni che m’indussero a prendere nel settembre scorso il provvedimento relativo alle Borse, da cui sono derivati i due telegrammi, oggetto delle indagini della Commissione.

Fin dal mese di agosto, nei titoli azionari si era manifestata una spiccata tendenza al rialzo, tendenza che si accompagnava al rialzo del prezzo delle merci, che si svolgeva parallelamente. Da un comitato di Ministri fu esaminato allora il complesso di misure che sarebbero state le più adatte per contenere il fenomeno.

Personalmente escludevo la possibilità del ripristino del 25 per cento di deposito cauzionale per gli acquisti di titoli a termine, perché tecnicamente questa misura mi è parsa sempre inefficace per ottenere una persistente contrazione dei corsi. Non volli quindi accettare l’invito, che mi era già venuto da molte parti, di ripristinare la disposizione che io stesso avevo abolito nel febbraio del 1946. A me ed ai colleghi del Comitato parve più efficace un provvedimento fiscale, ed esso fu preso dal Consiglio dei Ministri nella giornata di venerdì 30 agosto. Con tale provvedimento si impose un altro 25 per cento, ma non a titolo di deposito cauzionale sull’acquisto dei titoli a termine, bensì a titolo di imposta che lo Stato avrebbe dovuto riscuotere sui titoli distribuiti gratuitamente.

Il provvedimento fu annunziato la notte del venerdì, e determinò, come doveva determinare, una lieve contrazione dei corsi.

Nelle due giornate successive, del sabato e della domenica 31 agosto e 1° settembre, le Borse erano chiuse, ma era intervenuta una certa situazione politica che mi indusse nella mattina del lunedì a dare le mie dimissioni al Capo del Governo. E allora, in vista di quello che si sarebbe potuto verificare sul mercato dei titoli azionari, e al fine di non creare una situazione che avrebbe potuto rendere difficile la posizione del mio successore, decisi di ripristinare, com’era nelle mie facoltà di Ministro del tesoro, l’obbligo del versamento del 25 per cento sugli acquisti a termine. Questa decisione, presa da me nel pomeriggio del lunedì, fu resa pubblica nella notte, quando era contemporaneamente resa pubblica la notizia delle mie dimissioni.

Per quello che attiene al fatto specifico in esame presso la Commissione degli Undici, desidero aggiungere che in questa circostanza il Direttore generale del tesoro mi domandò se il ripristino del 25 per cento dovesse essere accompagnato dalla disposizione, abolita dal Soleri nel febbraio del 1945, relativa all’obbligo delle denunzie dei riporti a fine mese. Risposi che in quel momento mi pareva sufficiente ripristinare la disposizione così come vigeva al febbraio quando essa fu revocata, riservandomi di prendere direttamente, o di far prendere al mio successore, la seconda disposizione, nel caso in cui il corso dei titoli, continuando a salire, avesse suggerito l’opportunità di ulteriori misure restrittive.

Devo aggiungere, per rettificare un’affermazione fatta dall’onorevole Crispo, che su questo punto io non ho avuto poi altre sollecitazioni. Della questione si è parlato soltanto una volta fra me e il direttore generale, al momento in cui il 25 per cento era ripristinato. Dopo ero Ministro dimissionario; nessuno sarebbe venuto a sollecitare da me dei provvedimenti; logicamente, li avrebbe dovuti sollecitare al mio successore.

CRISPO. L’affermazione non è mia.

CORBINO. Nella relazione della Commissione è detto solo che io, in sede di emanazione del decreto, non ho contemporaneamente ristabilito l’obbligo del versamento.

Se l’Assemblea me lo consente, vorrei aggiungere qualche particolare, di carattere tecnico, che agevolerà, forse, la comprensione di alcuni dei problemi trattati dalla Commissione; a meno che il Presidente non creda che così uscirei dal fatto personale.

PRESIDENTE. Esce veramente, dal fatto personale; ma se l’Assemblea ritiene sia utile ascoltare queste sue delucidazioni, continui.

Voci. Sì, sì.

CORBINO. Spiegherò così perché non presi il provvedimento.

Il versamento del 25 per cento nelle operazioni di acquisto può essere effettuato in diversi modi, secondo la procedura stabilita dal Ministro. Può essere effettuato dall’agente di cambio, operazione per operazione; oppure globalmente, per tutte le operazioni compiute nella giornata.

Vi rendete subito conto della differenza dei due metodi.

Il primo metodo costituisce un controllo preciso di tutte le operazioni di compera, e immobilizza il 25 per cento per la durata di circa tre giorni, oltre il periodo intermedio che passa fra il nascere e l’estinguersi delle operazioni: mentre, col versamento globale, l’agente di cambio o la banca possono effettuare una compensazione fra le operazioni che si chiudono e quelle che si aprono nella stessa giornata.

In realtà, seguire una via o l’altra significa imporre l’obbligo di effettuare il versamento del 25 per cento o imporre un obbligo teorico del 25 per cento, che di fatto diventa del 15 o del 20 per cento.

Sorge poi il problema del controllo delle operazioni di versamento; controllo che può essere fatto, ed è fatto abitualmente, con ispezioni saltuarie nei registri degli agenti di cambio; o che può, invece, essere effettuato a posteriori, cioè a dire, o col metodo suggerito dal primo telegramma, che chiedeva le notizie statistiche sui versamenti effettuati in gennaio, oppure con un controllo anche più efficace, coll’obbligo, cioè, della denunzia dei riporti al mese successivo. L’una operazione completa l’altra, perché l’una rappresenta il totale d’un mese, l’altra rappresenta la fotografia d’un giorno, di quel giorno caratteristico dei riporti, in cui tutte le operazioni a termine non chiuse vengono rimandate al mese successivo.

I due telegrammi, quindi, avevano lo scopo: primo, di accertare che i versamenti del 25 per cento erano stati effettuati, e bastava a questo scopo chiedere i dati relativi al mese di gennaio e poi di rendere effettivo il controllo per le operazioni del mese di febbraio.

Questa è la tecnica delle operazioni, che sono contemplate dai due telegrammi. Sugli effetti e sulla portata, la relazione della Commissione è così ampia che non credo di dover aggiungere altro.

ANGELINI. Chiedo di parlare.

PRESIDENTE. Ne ha facoltà.

ANGELINI. Onorevoli colleghi, il collega onorevole Grassi ha giustamente rilevato che questo dibattito rappresenta, direi, il banco di prova della nostra sensibilità politica e morale. Qui oggi noi non giudichiamo uomini di parte; noi, oggi, qui giudichiamo come organo giurisdizionale, due Deputati in funzione di Ministri, e dobbiamo sentire, come certamente sentiamo, tutta la responsabilità del nostro giudizio. Perché, non è un giudizio privatistico, chiuso nell’ambito di una pretura, di un tribunale o di una Corte d’appello. È un giudizio che avrà la sua ripercussione nel Paese, è un giudizio che deve essere chiaro ed onesto e che deve essere spogliato da ogni idea di parte e deve essere dato da noi con serenità, perché tutti noi dobbiamo essere certi che se domani da qualunque parte ci si accusa, qui si può ottenere serena giustizia.

La relazione, date le sue premesse, poteva essere più incisiva e categorica; ma questo non toglie che noi, leggendola ed esaminandola con la dovuta serenità, non si debba riconoscere che essa è decisamente conclusiva. E dall’esame che noi dobbiamo fare del documento, dobbiamo impostare, direi, la materia del contendere nei suoi limiti precisi, dobbiamo riandare alle premesse di fatto onde fissare i limiti del nostro giudizio.

Voi ricorderete la seduta del 17 febbraio 1947, quella seduta che ebbe così larghi commenti nell’opinione pubblica del Paese. In quella seduta l’onorevole Finocchiaro Aprile fece delle dichiarazioni che è bene siano ricordate al fine di fissare la materia del giudizio. Egli disse: «All’onorevole Bertone succedette l’onorevole Campilli. Le stesse suggestioni furono esercitate sull’onorevole Campilli. E l’onorevole Campilli decise di emettere due provvedimenti: il primo, quello di ripristinare il deposito del 25 per cento sugli acquisti di titoli azionari; il secondo, quello di obbligare le banche e gli agenti a denunciare periodicamente i riporti a fine mese. Tali provvedimenti hanno sempre lo scopo di fare abbassare il troppo alto prezzo dei titoli.

«Se le cose si fossero limitate a ciò, non ci sarebbe stato nulla da obiettare».

Vedremo poi che questa dichiarazione di principio è ripetuta. dall’onorevole Finocchiaro Aprile davanti alla Commissione degli Undici. E la Commissione degli Undici la fa propria.

Ma l’onorevole Finocchiaro Aprile continua: «Ora, la domanda che io faccio all’onorevole De Gasperi è questa: quando l’onorevole Campilli decise questi due provvedimenti, egli ne fu informato? E il Ministro Campilli ne informò, per caso, qualche commissionario di Borsa, amico dell’onorevole Presidente del Consiglio e dello stesso Ministro del tesoro? Lei non ne sa niente, onorevole De Gasperi: eppure, veda, si dice questo da tutti, ed è strano che lei non lo sappia, non sappia, cioè, che vi furono dei commissionari di Borsa – per giunta democristiani – che si misero a speculare largamente al ribasso venerdì, vendendo masse di titoli a Roma comperati a Milano. In due giorni le operazioni furono di molti e molti milioni di lire, i titoli precipitarono e gli speculatori al ribasso realizzarono ingenti guadagni».

Questa è una precisa denunzia. Questa è la denunzia per la quale consapevolmente si accusa il Ministro del tesoro. Qui si dice aver adottati lui questi provvedimenti, al fine di propagarli anticipatamente, al fine preciso e determinato di operare un ribasso di Borsa a favore di persone sue amiche, per realizzare ingenti guadagni. E questa dichiarazione l’onorevole Finocchiaro Aprile ha ripetuto, attenuandola, davanti alla Commissione degli Undici. Ha corretto, ad un certo punto, e ha detto: «o questo è avvenuto, oppure, se non è avvenuto, il Ministro è un inetto».

Davanti a questa Assemblea il dilemma non fu posto: la denunzia fu categorica, la denunzia resta. È questo il punto che dobbiamo accertare, perché io ho sentito parlare dal collega onorevole Crispo, ho sentito parlare molto su questi due telegrammi; ho sentito fare molte richieste, ricamare molto su questi due telegrammi.

Ma io mi chiedo se questi due telegrammi hanno proprio il valore politico che è loro attribuito dall’onorevole Crispo; e mi riferisco alle dichiarazioni dell’accusatore davanti alla Commissione. Nella relazione, infatti, è detto che, per quanto riguarda i due provvedimenti del Ministro del tesoro, l’onorevole Finocchiaro Aprile riconobbe che essi non sarebbero stati censurabili per sé stessi «poiché potevano esercitare, come già in passato, un effetto salutare ai fini del riequilibrio del mercato, spinto troppo in alto dalla speculazione e dalla progressiva svalutazione della lira».

Adunque, l’accusatore riconosce che i due telegrammi, di per se stessi, presi a sé stanti, non avevano alcun significato ai fini di infirmare quella che poteva essere la responsabilità morale del Ministro. Poteva essere discusso il provvedimento in sede politica, come provvedimento di Governo, ma noi qui non siamo chiamati a fare questo. Noi siamo chiamati a stabilire se quello fu il mezzo per raggiungere un fine, se quello fu uno strumento che servì al Ministro Campilli per raggiungere il fine di realizzare un vantaggio. E la Commissione, onorevoli colleghi, è esplicita in questo senso. La Commissione, ripeto, a questo proposito dice: «Lo stesso onorevole Finocchiaro Aprile disse, ripetendolo poi dinanzi alla Commissione, che i provvedimenti per se stessi non erano censurabili, poiché potevano esercitare, ecc.». «Quindi – aggiunge la Commissione – il Ministro ben poteva, senza sottrarsi a censure ed a sospetti, provvedere come credeva nell’ambito della sua esclusiva competenza e nessuno poteva trovar da ridire; una propalazione anticipata soltanto avrebbe costituito una grave e deplorevole scorrettezza, per il fine di profittare o di far profittare altri delle costanti oscillazioni che ogni provvedimento produce sulla Borsa; e ciò avrebbe potuto verificarsi ugualmente sia che il Ministro firmasse i telegrammi, sia che li facesse firmare da funzionari».

Ed allora, noi dobbiamo risolvere qui questo quesito: il Ministro Campilli ha dato notizia ad altri dei provvedimenti prima di emanarli, oppure non li ha emanati lui? È un’indagine, direi, puramente pregiudiziale, è una indagine di fatto. Ed allora, la Commissione qui è esplicita. Qui non si tratta, onorevole Crispo, di vedere se il Ventura è stato sollecitato o no dal Ministro Campilli, perché tutti mi dicono – e lei lo riconosce, e lo ha riconosciuto il Ministro Corbino, e lo ha riconosciuto il Ministro Bertone – che il Ventura è un galantuomo; e se è tale, il suo galantomismo è in contrasto con qualunque atteggiamento, che egli avesse potuto assumere, di compiacenza nei confronti del Ministro. Ma non è solo il Ventura che ha operato, perché la Commissione dice espressamente: «Non deve poi dimenticarsi che il direttore generale» (che è Ventura), «l’Ispettore Marzano e gli uffici dipendenti», (qui è tutta la Direzione generale del tesoro), «fin dal principio e con dichiarazioni persistenti, sempre mantenute, si assumono intera ed esclusiva la responsabilità dei due telegrammi, pur non potendo ignorare che trattasi di fatti di non poco conto e di non tenue gravità, come si dirà meglio di qui a poco».

Siamo noi di fronte ad una costatazione di fatto; i due telegrammi sono stati redatti dalla Direzione generale del tesoro e le dichiarazioni di questi funzionari assicurano che la dichiarazione del Ministro, che la Commissione dice «dopo matura e diligente indagine risulta vera», è rispondente a verità.

Qui è necessario che l’Assemblea Costituente concentri la sua attenzione. La Commissione ha detto che nessuna prova si è potuta addurre dall’accusatore, nessuna prova si è potuta raccogliere da altre parti per dimostrare che il Ministro Campilli abbia potuto, comunque, fare a chicchessia qualsiasi comunicazione. Noi oggi aggiungiamo di più, ed è un ragionamento di una logica impeccabile acquisito ai risultati della Commissione, che il Ministro Campilli non conosceva i provvedimenti e che li ha soltanto conosciuti il 14 febbraio, quando il Ministro Morandi glieli accennò. È dunque escluso che egli avesse potuto, in qualunque circostanza, comunicare ad altri quello che egli non conosceva, per fare operare, nei due giorni precedenti, i fatti che sono avvenuti e che la Commissione dice non essere di grande gravità. Noi siamo di fronte a qualcosa che impone dalla nostra coscienza un giudizio onesto.

Qui svanisce il democratico cristiano, il comunista o il socialista; qui c’è un galantuomo da giudicare, qui c’è una persona che non ha commesso il fatto, qui c’è una persona che non sapeva del provvedimento che era stato preso dalla Direzione generale del tesoro, provvedimento che non occorre drammatizzare perché lo stesso Ministro Corbino e lo stesso Ministro Bertone vi dicono che poteva essere tranquillamente preso e vi dicono che in certe circostanze questi sono provvedimenti che si adottano. Potremo noi lamentarci che il Ministro non sia stato informato; ma questa non è inettitudine di Ministro; il fatto deriva dalla circostanza che per 20 anni la nostra burocrazia ha avuto nel suo cassetto un pezzo di potere legislativo, ed in forza di questa mentalità la nostra burocrazia crede spesso di poter fare a meno dei Ministri e del Parlamento; è per questa mentalità che i nostri burocrati – rispettabilissimi se voi volete – sono abituati a legiferare e a fare cose che molti anni fa non potevano fare. Bisogna rieducarli in questo settore della nostra vita politica e, per questo, ha fatto molto bene la Commissione a chiedere al Governo che il Governo si preoccupi di rieducare e di moralizzare questo settore che è così importante nella nostra vita politica.

Adunque l’accusa principale è da considerarsi svanita. Non dobbiamo qui trastullarci sul fatto se i telegrammi siano stati emessi dal Ministro o dalla Direzione generale del tesoro. Io desidero che sia constatato, da oneste persone quali voi siete, che nessuna prova è assolutamente data per cui si possa ritenere che l’accusa di Finocchiaro Aprile sia, non dico fondata, ma circondata dalla più tenue possibilità di fondamento.

Resta un’altra accusa sul Campilli; accusa che è venuta più tardi: Finocchiaro Aprile pregava la Commissione di assumere le debite informazioni su di una ingente importazione di zucchero ad una compagnia cubana della quale fa parte il fratello dell’onorevole Campilli, allora Ministro del commercio estero. Il Campilli ha risposto e ha detto che l’operazione fu iniziata da una società di recente costituzione, la C.I.C.A.; che in quella occasione egli, notando che si trattava di una importazione di 200 mila quintali di zucchero, stabilì: primo, che l’importazione fosse fatta non nell’interesse di una ditta, ma di tutti gli industriali dolciari d’Italia e dei commercianti in materia dolciaria e di liquori, il che doveva risultare da impegni e dichiarazioni della Federazione nazionale rappresentante, le categorie industriali e commerciali; secondo, che il Ministero dell’industria e del commercio riconoscesse l’utilità dell’importazione ai fini dell’industria nazionale; terzo, che venisse dichiarato il nome dell’ente o della persona che metteva a disposizione la valuta estera necessaria per l’importazione.

Risulta dagli atti del Ministero, e la Commissione lo ha constatato, che le tre condizioni sono corrispondenti al vero. Durante la permanenza del Ministro Campilli al Ministero del commercio estero si verificarono le due prime condizioni, cioè che intervenne la Federazione dolciaria e il Ministero dell’industria e del commercio si pronunciò favorevolmente. Senonché a questo punto scoppiò nella stampa nazionale un certo determinato – diciamo così – sapore scandalistico per questa grossa importazione, e risulta accertato che il Ministro Campilli sospese l’operazione.

Intanto l’onorevole Campilli divenne Ministro delle finanze e tesoro e lasciò il Ministero del commercio estero. Il 22 febbraio, in una riunione che è stata tenuta al Ministero del commercio estero, alla presenza del Ministro Vanoni, del Ministro Morandi, del dottor Ferretti, capo servizio al commercio estero, e del dottor Santoro, direttore generale dell’industria, con verbale di quel giorno fu senz’altro dato corso all’operazione; la quale operazione andava a beneficio dell’industria dolciaria nazionale, ma che ancora non ha avuto, in realtà, alcun seguito.

Accertati questi dati di fatto, io dico che è facile arrivare alla conclusione dell’insussistenza del fatto che è stato addebitato al Ministro Campilli.

Resta la posizione del Ministro Vanoni. Voi ricordate le accuse che sono state fatte al Ministro Vanoni. Egli liberamente dichiarò: «Ho riscosso circa due milioni ottocento mila lire». Finocchiaro Aprile ribatté: «Ha riscosso anche due milioni e quattrocento mila lire dalla Sezione ammassi, per cui il beneficio è stato di oltre cinque milioni». Più tardi si è parlato di irregolarità avvenute alla Banca nazionale di agricoltura, per sconti di effetti operati dal Ministro Vanoni, anzi dal professor Vanoni, perché nel momento in cui Vanoni è stato commissario della Banca nazionale dell’agricoltura, nominato con decreto alleato, non aveva nessuna carica pubblica. La Commissione ha accertato che in realtà il Vanoni ha riscosso, per sedici mesi di lavoro, due milioni e settecentosessantun mila lire. Le spese di rappresentanza in quel periodo sono state di duecentoquaranta mila lire; il che significa che il Vanoni – e questo è un dato di fatto che può essere accertato da chiunque – Vanoni, che aveva chiuso il suo studio di avvocato a Milano, che aveva cessato la sua attività professionale, ha riscosso, per la sua posizione di responsabile primo di una Banca dell’importanza della Banca dell’agricoltura, centocinquantadue mila lire mensili. (Commenti – Interruzione dell’onorevole Pajetta Giancarlo).

Che possa sembrare questo un notevole, un discreto emolumento (Commenti a sinistra) io non lo metto in dubbio; ma che si possa affermare – come ha affermato la Commissione – che questo è superiore a quanto normalmente guadagnano i più emeriti professionisti in Italia, su questo punto permettete che vi dica che noi tutti sappiamo perfettamente che i guadagni degli emeriti professionisti in Italia, di qualunque categoria, sono sostanzialmente superiori. (Commenti a sinistra).

Noi siamo di fronte a qualche cosa, onorevoli colleghi, che deve essere precisamente determinato; ed è questo: che la Banca nazionale dell’agricoltura non è una Banca statale o parastatale. Come rileva la Commissione, la liquidazione dell’onorario del professor Vanoni fu fatta dall’Assemblea dei soci della Banca nazionale dell’agricoltura sopra gli utili realizzati dalla Banca, prendendo per base quella che era stata nel passato e sempre la regola di liquidazione dell’onorario spettante al Capo dell’istituto. Ora, noi siamo di fronte ad una situazione talmente chiara e talmente onesta, che non ha bisogno di apprezzamenti più o meno ironici; siamo di fronte ad una realtà tale per cui si conclama, e si deve conclamare da qualunque galantuomo la perfetta onorabilità del professor Vanoni.

Si è detto, da parte del collega onorevole Crispo, che se questa relazione fosse stata scritta nei suoi confronti, egli avrebbe chiesto il giudizio di appello; si è parlato della necessità da parte sua di una eventuale ulteriore indagine; si è parlato di prosecuzione di inchiesta. Io mi permetto di rilevare che noi questa relazione possiamo accettarla con piena tranquillità, perché essa proviene da undici persone appartenenti a tutti i gruppi dell’Assemblea, da undici uomini che si sono trovati unanimemente d’accordo nelle conclusioni e nei rilievi che testé vi ho enunciato. Noi siamo di fronte ad una relazione unanime tale che acquieta e tranquillizza la nostra coscienza; essa può restare, onorevole Crispo, nella storia del Parlamento. Io mi auguro onorevoli colleghi, che nella storia del Parlamento italiano (Commenti a sinistra), insieme con la relazione degli Undici, vi sia la vostra pronunzia, la quale serva a stabilire che non si calunnia impunemente, la quale serva a stabilire che noi dobbiamo dare atto dell’insussistenza dei fatti che sono stati addebitati ai due Ministri, perché questi due Ministri, che sono dei galantuomini, hanno bisogno ed hanno diritto di ottenere questa vostra parola e questo vostro onesto giudizio. (Applausi al centro).

VENDITTI. Chiedo di parlare.

PRESIDENTE. Ne ha facoltà.

VENDITTI. Onorevoli colleghi, le accuse mosse dall’onorevole Finocchiaro Aprile al Ministro Campilli assunsero la forma logica e morale di un dilemma: o, diceva l’accusatore, i due famosi telegrammi dell’11 e del 12 febbraio del corrente anno furono sciente opera del Campilli e questi ne informò i suoi amici al fine di favorirne la speculazione in borsa, ed in tal caso il Campilli si è reso, per la sua disonestà, indegno dell’alta carica che ricopre; o i due telegrammi furono opera dei suoi funzionari, da lui completamente ignorata, ed in tal caso egli è un inetto. Nell’un caso e nell’altro – concludeva l’accusatore – l’onorevole Campilli non può rimanere al suo posto.

Ora, leggendo con un minimum di attenzione la relazione degli Undici, non vi è, credo, persona di elementare intelligenza la quale non si convinca che, dei due corni del dilemma, quello rispondente a verità apparirebbe il primo, che cioè i due telegrammi, la cui gravità è messa pienamente in risalto dalla relazione, furono sciente e volontaria opera del Campilli.

Comunque, volendo tradurre in linguaggio giudiziario penale la situazione del Campilli, quale dalla relazione promana, la formula assolutoria di lui non potrebbe che essere dubitativa, il che basta a renderlo, se non indegno, incompatibile con la carica di Ministro del tesoro.

Rimane poi, ultima accusa, quella di inettitudine. Che dei due telegrammi l’onorevole Campilli fosse pienamente consapevole, promana dai seguenti elementi probatori:

1°) dato il precedente indirizzo borsistico dei ministri Corbino e Bertone, noto ai funzionari del Ministero, con a capo il direttore generale Ventura, i detti funzionari non si sarebbero permessi di redigere i due telegrammi, rappresentanti un radicale mutamento dell’anzidetto indirizzo, senza il beneplacito del Ministro;

2°) l’iniziativa del Ventura e degli altri funzionari era tanto più da escludere in quanto è risaputa, perché da tutti conclamata, la competenza dell’onorevole Campilli in materia di borsa.

3°) il comportamento dell’onorevole Campilli nei riguardi dei funzionari, e specialmente del direttore generale Ventura.

Se la responsabilità di costui, stranamente ed inverosimilmente ammessa dal medesimo nella sua nota dichiarazione, rispondesse a verità, toccherebbe i vertici dell’assurdo il comportamento remissivo del Ministro, il quale, ad onta dei fastidi avuti per colpa del Ventura e degli altri funzionari responsabili, non ha a tutto oggi torto loro un capello. Tale remissività nel Ministro Campilli è stata da lui spiegata dinanzi alla Commissione degli Undici con strane ed assurde ragioni, tra cui quella, prospettatagli dal dottor Menichella e da altri, di non riversare su altri la propria responsabilità.

L’onorevole Campilli, onorevoli colleghi, non riversa sui propri funzionari alcuna responsabilità, essendo questa esclusivamente sua.

Comunque, volendo abbondare in longanimità verso l’onorevole Campilli, assolvendolo dall’accusa mossagli, la formula terminativa dell’assoluzione non può essere quella piena di non aver commesso il fatto, bensì, se mai, quella dubitativa di insufficienza di prove, la quale lascia sempre aperto nei riguardi dell’incolpato il problema della sua incompatibilità con la carica altissima che egli ricopre.

Situazione analoga è quella dell’altro Ministro, l’onorevole Vanoni, il quale percepì, per l’esercizio del commissariato alla Banca di agricoltura di appena 16 mesi, l’ingente corrispettivo di lire due milioni e 800 mila.

Anche per l’onorevole Vanoni esistono osservazioni e rilievi della Commissione degli Undici che rivelano la di lui scarsa correttezza, data la anormalità del compenso percepito; anormalità non attenuata, ma, sotto alcuni aspetti, aggravata dal fatto che buona parte di detto compenso affluì nelle casse del partito della Democrazia cristiana.

Un tal fatto, invero, ribadisce e dà anzi la tangibile prova dello scopo propostosi dagli organi direttivi della Banca nazionale dell’agricoltura: quello di accaparrarsi, attraverso la ingente somma versata ad uno dei più alti esponenti della Democrazia cristiana, il favore del detto partito.

In presenza di tali risultanze della inchiesta sarebbe in verità, onorevoli colleghi, assai grave la permanenza dei due Ministri nei loro seggi di Governo. Dinanzi alla fitta rete di sospetti e di accuse che circonda da ogni parte la rinata democrazia italiana; dinanzi al precoce discredito che minaccia i passi ancora vacillanti della giovane Repubblica; dinanzi allo spettacolo di miseria e di dolore che tormenta in questo terribile dopoguerra la enorme maggioranza del popolo italiano; dinanzi alla sete di luce, di purezza, di verità e di giustizia che anima la parte migliore di questo popolo, io credo di interpretarne il sentimento più profondo, formulando il voto delle dimissioni dei due Ministri, inizio ed auspicio di un profondo e radicale risanamento morale della nostra vita pubblica, ritorno alla tradizione morale gloriosa della democrazia italiana. (Applausi a destra).

PRESIDENTE. È iscritto a parlare l’onorevole Cappi. Ne ha facoltà.

CAPPI. Se lei permette, rinuncio alla parola, volendo limitare il mio intervento ad una semplice dichiarazione di voto, che farò quando si passerà alla votazione sull’ordine del giorno.

PRESIDENTE. Sta bene.

È stato presentato alla Presidenza dell’Assemblea il seguente ordine del giorno dagli onorevoli Grilli, Vigorelli, Cairo, Carboni, Longhena, Corsi, Ruggiero, Zanardi, Taddia, Lami Starnuti, Canevari, Filippini, Montemartini, Preti, Morini, Persico, Fietta, Ghidini:

«L’Assemblea prende atto della relazione della Commissione degli Undici, rilevandone lo scrupolo e la moderazione,

e, considerata la gravità dei fatti, afferma la necessità, sopra ogni altra preminente, di restaurare i principî della moralità nella condotta della cosa pubblica, nelle burocrazie ministeriali e, particolarmente, nell’azione di tutti i partiti in specie quando abbiano responsabilità di Governo;

delibera di conferire alla Commissione i poteri giudiziari per l’accertamento delle circostanze rimaste non chiarite nella relazione e per il proseguimento delle sue indagini».

L’onorevole Grilli ha facoltà di svolgere questo ordine del giorno.

GRILLI. Onorevoli colleghi, io non farò una indagine particolareggiata su questa relazione. Questa indagine è stata fatta dall’onorevole Crispo con il quale mi trovo perfettamente d’accordo su tutti i rilievi che egli ha fatto. A me basta, onorevoli colleghi, questa relazione nel suo complesso, nel suo insieme. E non sentite voi, come sentono, che da questa relazione emana un sospetto, un dubbio, una diffidenza, un mistero che non ci può tranquillizzare, non può tranquillizzare noi che vorremmo che gli uomini del Governo fossero, come la moglie di Cesare, nemmeno sospettabili? Non può tranquillizzare il Governo, non può tranquillizzare il Presidente del Consiglio, nonostante gli sforzi che egli ha fatto per difendere i due uomini del suo gabinetto. Le accuse di Finocchiaro Aprile, sono presentate e ripetute nelle sedute del 14-15 e 17 febbraio. Il 18 febbraio l’onorevole Natoli fa la sua interrogazione e l’Assemblea propone la Commissione d’indagine che il Presidente nomina il 19. L’esame della questione era rimesso alla Commissione d’inchiesta, la quale dà indubbio affidamento in quanto è composta di elementi che rappresentano tutte le correnti dell’Assemblea, e di elementi indiscutibilmente superiori ad ogni sospetto per rettitudine ed ingegno.

A questo punto, dico io, il Governo avrebbe dovuto mettersi sull’attesa per rispetto al giudice che stava per decidere. Invece l’onorevole De Gasperi nella seduta del 25 febbraio – e badate che quattro giorni prima si era radunata per la prima volta la Commissione d’inchiesta, il 21 febbraio, e aveva deciso di domandare all’Assemblea dei poteri più vasti – il 25 febbraio, rispondendo l’onorevole De Gasperi alle osservazioni degli oratori che avevano discusso le comunicazioni del Governo, fece la difesa personale dei suoi Ministri e li assolse con queste parole:

«Egregi colleghi, ho voluto diffondermi in dettagli su questo argomento, non perché le prove già addotte non bastino a chiarire la posizione del Ministro Campilli, ma perché non si poteva tollerare che nemmeno la più piccola ombra cadesse sul Ministro del tesoro, il quale anche nella missione recente ha ottenuto personali successi che egli avrebbe utilizzato in prossimi negoziati».

Il Presidente del Consiglio, senza curarsi del tribunale che stava per giudicare, assolse per conto suo, con una formula che voleva essere piena, per lo meno uno dei due accusati, il Ministro Campilli. Io mi domando allora che cosa ci stava a fare quella Commissione di inchiesta.

Badate che questo intervento del Presidente del Consiglio, con tutta l’autorità che egli possiede come parlamentare di indubbia probità, e come Presidente del Consiglio, poteva avere delle conseguenze.

L’Assemblea approvò le comunicazioni del Governo: votò a favore del Governo. Si potrebbe pensare che avesse implicitamente votato anche per questa assoluzione fatta di sua iniziativa dal Presidente del Consiglio. Il che non è. Ecco come sono possibili certi equivoci, onorevole De Gasperi! Infatti poco tempo dopo, precisamente il 6 marzo, quando l’onorevole Rubilli a nome della Commissione chiedeva i più ampi poteri per poter accertare se vi fossero tra i Deputati e quindi anche fra i membri del Governo, degli elementi incompatibili per immoralità ecc., l’Assemblea, all’unanimità, concesse questi più ampi poteri. Il che vuol dire che l’Assemblea non aveva preso in considerazione la vostra assoluzione, e si rivolgeva e tornava a rivolgersi con maggior entusiasmo al tribunale.

DE GASPERI, Presidente del Consiglio dei Ministri. È inesatto, perché l’Assemblea ha votato anche in relazione alle mie dichiarazioni di Governo.

GRILLI. Ma non l’assoluzione che il Presidente del Consiglio aveva fatta.

DE GASPERI, Presidente del Consiglio dei Ministri. Questo riguardava me. Era mio dovere di Capo del Governo. Il mio pensiero non l’ho imposto a nessuno. (Applausi al centro – Commenti).

GRILLI. Mi permetta, onorevole De Gasperi, che io faccia precedere quello che dico dalla mia specialissima considerazione in suo favore. Né creda che, la mia, voglia essere un’opposizione preconcetta alla sua persona e al suo gabinetto. Il suo dovere, mi scusi, era quello di attendere, prima di pronunciarsi da codesto alto seggio, il giudizio del tribunale che l’Assemblea aveva eletto. Questo era il suo dovere. (Approvazioni a sinistra).

Viene poi la relazione letta dall’onorevole Rubilli. Era stata appena letta – non tutti l’avevano interamente, forse, compresa; avevo chiesto io che si stampasse, per poterla leggere con tranquillità – ed Ella, onorevole Presidente del Consiglio, sentiva il bisogno di alzarsi, per ripetere ancora la sua assoluzione; che l’altra volta fondava sopra una sua certezza intima e questa volta, invece, fondava proprio su questa relazione.

Ora, francamente, è vero che a pagina 5 della relazione si legge qualcosa, che può sembrare assoluzione per mancanza di prova:

«I risultati ottenuti inducono a ritenere che non è sorto alcun elemento per ammettere che le affermazioni del Ministro Campilli in sua difesa non sieno rispondenti a verità».

È vero che è scritto così. Ma, siccome la relazione è lunga, bisognerebbe leggerla tutta; richiamo l’attenzione dell’Assemblea sopra uno degli ultimi periodi:

«Non si può dire con sicura coscienza se sia riuscita ad accertare tutta quanta la verità, ad onta di ogni sforzo di fronte a non lievi difficoltà e anche talora a mal celate reticenze».

Ora, io vi dico, signori: se volete fondare questa vostra assoluzione piena sopra queste «non lievi difficoltà» o sopra le «malcelate reticenze», voi non la fonderete mai sopra il granito, ma sulla sabbia.

E badate, signori, che quando si tratta d’un Ministro, accusato di questioni morali abbastanza gravi, non basta un’assoluzione qualunque, egregi onorevoli Angelini e Grassi; occorre un’assoluzione assoluta, completa, che ci tranquillizzi interamente; e nel caso nostro, siccome l’accusa era venuta da questi banchi, da un Deputato, bisognava che, nell’alternativa fra la colpa del Ministro e la calunnia del Deputato, risultasse questa calunnia. La relazione non parla di calunnia, non solo, ma assolve anche l’accusatore, con queste parole: «Insomma, ciò che avvenne per i menzionati telegrammi al Ministero del tesoro è così anormale, che non poteva non produrre in chicchessia una grande impressione e potette certamente e a buon diritto impressionare anche l’onorevole Finocchiaro Aprile».

Signori, vuol dire che c’è qualcosa di grave, che giustifica l’impressione dell’onorevole Finocchiaro Aprile. E questo qualcosa di grave, infatti, qual è? Si può riassumere in due parole.

Quei tali provvedimenti presi, che, se anche non hanno prodotto delle speculazioni borsistiche rilevanti, erano, tuttavia, tali da poterle permettere; quei provvedimenti, i quali erano di esclusiva competenza del Ministro, quei tali provvedimenti che un uomo di Borsa aveva ripetutamente chiesti a Bertone e questi aveva rifiutati, quei tali provvedimenti che non si dovevano prendere, che erano fuori dell’indirizzo attuale del Ministro del tesoro – tanto vero che se ne era parlato in una discussione, alla quale presenziavano Bertone, Menichella, Einaudi, Ventura ed altri – quei provvedimenti, all’improvviso, sono presi da un funzionario qualunque, non si sa chi precisamente, da un funzionario del Ministero; e questo funzionario non viene punito.

Intendiamoci, signori, la questione è tutta qui: o il Ministro lo sapeva, ed allora perché nega di aver presi i provvedimenti? – o il Ministro non lo sapeva, e perché non ha punito il funzionario che prende di sua iniziativa provvedimenti di spettanza del Ministro senza domandarne il permesso, ingenerando il sospetto legittimo che lo possa aver fatto per favorire delle speculazioni di Borsa?

Il Presidente del Consiglio ha detto che il Consiglio dei Ministri ha ritenuto che non fosse il caso di prendere dei provvedimenti contro questo funzionario; ma non pensate, o signori, che questa mancanza di provvedimenti può far pensare alla gente, al popolo e al Paese che non li avete presi perché avete paura che questi funzionari cantino? (Commenti).

DE GASPERI, Presidente del Consiglio dei Ministri. Non abbiamo nessuna paura.

GRILLI. Badate, io vi confesso francamente, signori colleghi, che avrei desiderato che per il Ministro Campilli e per il Ministro Vanoni si avesse una relazione di assoluta e completa assoluzione; perché, si può essere all’opposizione e non approvare l’indirizzo politico del Governo, ma desideriamo, come cittadini e come Deputati, che non vi sia una parola da dire sulla moralità e sulla onestà dei rappresentanti del Governo. Io ricordo con quale gioia tutta l’Assemblea fece una manifestazione di simpatia all’onorevole Parri, quando fu letta la relazione che lo riabilitava completamente di fronte al Paese; fu una gioia per tutti noi, amici o non amici di Parri. Sarei stato felice se ieri l’altro avessi potuto dire altrettanto prendendo visione di questa relazione; perché il Paese ci coinvolge tutti, il Paese non guarda a chi è o non è all’opposizione; il Paese confonde tutti noi che stiamo qui a parlare e a lavorare a Montecitorio, ed in un momento come questo si dice che siamo qui a continuare una tradizione del periodo fascista. Dunque, questa relazione non mi sodisfa e non può sodisfare nemmeno voi.

E per quanto riguarda il Vanoni, li ha avuti o non li ha avuti, quei due milioni e 761 mila lire per un lavoro che egli ha prestato per 16 mesi? È troppo, signori miei. Diceva un Deputato che ha parlato prima di me che oggi non c’è professionista, che non li guadagni. Io in 45 anni che faccio il professionista non ci sono ancora arrivato! (Commenti).

Dunque, è un po’ troppo, e badate che questo troppo fa impressione in un momento come l’attuale nel quale i Presidenti di Tribunale, se si fanno le scarpe non hanno da farsi il vestito, ed i funzionari, a centinaia di migliaia, che lavorano e dedicano il loro ingegno e la loro attività al loro ufficio, eh, santo cielo, per guadagnare due milioni e 800 mila lire avrebbero bisogno di lavorare per 50 anni!

Non basta però questo: l’onorevole Vanoni ha preso una parte di quei due milioni e 800 mila lire, e l’altra parte l’ha presa uno sconosciuto per conto del Partito.

Ora, io qui non voglio fare un processo al Partito democristiano, Dio me ne guardi! Io dico: facciamola finita con certi sistemi, mettiamoci d’accordo, per non farle più queste cose, e che non sia più permesso ad un Partito di Governo di andare a spiluzzicare su questi enormi guadagni di un funzionario, che lo stesso Governo ha posto a quell’incarico. (Proteste al centro).

Siamo d’accordo, o non siamo d’accordo? Diciamo a tutti i partiti, anche al mio, che se ci dovessero capitare di queste occasioni, liberiamoci dalle occasioni prossime del peccato! (Si ride).

Insomma, signori, io ho preso questa occasione, non tanto per fare il pubblico ministero e tanto meno per fare l’avvocato difensore in questo processo, ma per rivendicare le tradizioni nobilissime dell’antica vita politica italiana. L’onorevole Angelini poc’anzi diceva che questa relazione dovrebbe rappresentare qualche cosa nella storia del Parlamento italiano: per l’amor di Dio, che non rappresenti nulla! Il Parlamento italiano ha una storia; ma bisogna andare al di là delle guerre per trovarla, quando Marcello Soleri chiamato nel 1920 al Ministero aveva diecimila lire depositate in una Banca di Cuneo e, quando riprendeva dopo la catastrofe, a fare l’avvocato a Cuneo, aveva perduto tante speranze e tante illusioni, ma aveva perduto anche le diecimila lire; e quando il Sacchi scriveva agli avvocati d’Italia offrendo l’opera sua di procuratore anche per le preture e prometteva onestà, correttezza e diligenza; quando il Facta tornava a difendere le cause nel suo Piemonte e così Bertone, che è qui presente, e tanti altri ancora che hanno onorato veramente il Parlamento italiano! Torniamo a quelle tradizioni; bisogna tornarci nell’interesse, o signori, dell’antica nobiltà del Parlamento, nell’interesse del Paese. Torniamoci! Bisogna purificare quest’aria che è ammorbata e inquinata! Bisogna ridare al Paese la fiducia nei suoi governanti. Bisogna che il popolo si ricreda dal sospetto che Roma, il Governo, i Ministri non siano che un grande mercato!

Io, a costo di sembrare un laudator temporis acti o, magari, un reazionario, vi dico che bisogna tornare a quella correttezza di trent’anni fa. Va bene che non siamo sodisfatti di quel mondo politico e di quel mondo parlamentare: è vero che tutti noi dobbiamo fare dei grandi passi nell’avvenire, è vero. Ma siccome la storia non va per salti, se vogliamo andare avanti, dobbiamo ripassare su quel periodo di probità e di onestà che si era raggiunto; se vogliamo fare dei salti avanti abbiamo bisogno di un trampolino e questo trampolino non può essere che quello della ricostruzione morale. Altrimenti qualunque salto non potrà essere che un salto nel buio. (Applausi a sinistra).

(La seduta, sospesa alle 18,15, è ripresa alle 18,45).

LEONE GIOVANNI. Chiedo di parlare.

PRESIDENTE. Ne ha facoltà.

LEONE GIOVANNI. Onorevole Presidente, onorevoli colleghi! Per adeguarmi alla significativa serenità di questo dibattito, io vorrò esprimere poche proposizioni atte a ristabilire il problema nelle sue vere linee giuridiche e politiche. Ed a tal fine, io penso che soprattutto serva lo schema di discussione sul quale ha impostato il suo intervento l’onorevole collega Crispo.

Evidentemente, noi ci troviamo di fronte a due tesi. Una è stata espressa dall’ordine del giorno Grassi, con il quale, mentre si prende atto che dalla relazione esce affermata in maniera chiara e indiscutibile la probità e l’onorabilità dei Ministri Campilli e Vanoni, si esprime l’augurio, l’invito, la speranza che il Governo voglia provvedere a perfezionare in Italia l’opera di ristabilimento di una perfetta amministrazione. In opposizione si trova la tesi contenuta nell’ordine del giorno Crispo, con la quale si chiede, in sostanza, un prosieguo di istruzione. Su che cosa fonda la sua tesi l’onorevole Cristo? Per quanto concerne il primo dei due giudicabili (il Ministro Campilli) l’onorevole Crispo osserva che, se la Commissione si fosse fermata al giudizio espresso alla fine della pagina 5 della relazione, egli avrebbe potuto senz’altro accettare nella sua coscienza un giudizio definitivo di probità e d’innocenza del giudicabile. Anzi io devo rendere omaggio alla sua lealtà quando, pur sostenendo una tesi opposta, egli ha detto che a suo giudizio quella espressione conclusiva di pagina 5 avrebbe potuto essere formulata in maniera più energica, in maniera che rispondesse meglio alla chiara interpretazione che di quel documento si deve dare, cioè l’esclusione di ogni responsabilità di Campilli e Vanoni. Senonché, egli aggiunge: «Io ritengo che la Commissione debba passare ad un’ulteriore zona di indagine. La Commissione riconosce che quei provvedimenti erano di competenza ministeriale, che Ventura è un galantuomo, che pertanto la spedizione dei telegrammi da parte del Ventura «non è comprensibile». Questa posizione della Commissione, successiva alla conclusione di pagina 5, nella quale è affermata in maniera chiara la perfetta insussistenza degli addebiti a carico dei Ministri, dà diritto all’onorevole Crispo di pensare che la Commissione debba continuare l’indagine per poter accertare, eventualmente, nuovi elementi. Ma la risposta a questa sua impostazione, per quanto riguarda l’onorevole Campilli, noi la troviamo nella stessa relazione, e soprattutto nella logica di questo dibattito e nei limiti, che bisogna ricostruire, delle attribuzioni della Commissione.

La Commissione quando passa a questa seconda posizione che ricordavo ora, a pagina 7, quasi a conclusione della impostazione di questo problema e di questo accenno, afferma che essa «non può occuparsi che di quanto riguarda il Ministro; ogni altra indagine spetta al Governo».

Ora io osserverò innanzi tutto che i precedenti rilievi tratti dall’onorevole Crispo dalla relazione non vennero da lui interpretati nel modo come io l’interpreto: essi mirano, in sostanza, a stabilire solo questo punto, che cioè quelle manifestazioni sui telegrammi determinarono una certa impressione, la quale si poté riverberare sull’animo del deputato denunciante. Quindi, solo a questo fine, al fine cioè di accertare il delinearsi e il formarsi di una certa impressione, possono essere prese in considerazione. Ma, onorevoli colleghi, non vorrei isterilire l’indagine a questa interpretazione, la quale potrebbe essere anche oggetto di controversia da parte di altri colleghi, e dovrò ridurla ad una osservazione preliminare. A che cosa mirerebbero le richieste di ulteriori indagini? Le richieste di ulteriori indagini non potrebbero concernere il Ministro per lo stesso fatto per cui, fino a pagina 5 della relazione, la Commissione, senza esitazioni, senza incertezze, senza ombre, senza lasciare alcun punto in sospetto, in maniera chiara, definitiva e irrefutabile, ha stabilito che il Ministro Campilli non conosceva i provvedimenti che erano stati dati attraverso i telegrammi, fino a quel giorno in cui ne ebbe comunicazione dal collega Morandi.

Ora, se queste ulteriori indagini non potrebbero portare ad altro che a stabilire eventuali responsabilità nel seno dell’Amministrazione e del Ministero, responsabilità da staccarsi assolutamente dal Ministro che non conosceva quei provvedimenti, esse sono assolutamente irrilevanti per la finalità alla quale noi dobbiamo mirare esclusivamente, cioè quella di ricavare dall’inchiesta un giudizio sulla onorabilità e sulla probità dei due Ministri denunciati. Questa proroga istruttoria, questo prosieguo d’istruzione richiesto dall’onorevole Crispo, non può interessare il Ministro Campilli, non solo per quello che è detto in maniera chiara e senza lasciare incertezze, che cioè il Ministro Campilli ignorava i provvedimenti presi e che li conobbe successivamente attraverso le rivelazioni dell’onorevole Morandi; ma non può interessare il Ministro Campilli neppure per un giudizio di colpa che l’onorevole Crispo esattamente configurava come negligenza più che come inettitudine. Questo per due ragioni che l’Assemblea deve avere la bontà di prendere in considerazione, perché sono due ragioni rispondenti al senso della vita e dell’esperienza quotidiana nella quale ci muoviamo: perché Campilli era Ministro da pochissimi giorni e aveva alle sue dipendenze 25 tra Direzioni generali e uffici equiparati a cui accudire; e perché i provvedimenti erano stati già virtualmente predisposti dal suo predecessore onorevole Bertone.

Ho sentito con grande interesse il sereno intervento che ha fatto poco fa l’onorevole Bertone. Egli ha dichiarato che a prestito chiuso non vi era alcun pericolo né danno per una breve attesa, utile anzi per meglio raccogliere elementi di prova e che questo e altri tentativi del genere sarebbero stati non solo opportuni, ma necessari e doverosi, e dichiara che non avrebbe esitato a prenderli; senonché, appena chiuso il prestito, avvenne la crisi ministeriale ed egli lasciò l’ufficio».

Sicché dovete tener conto, al fine di un eventuale giudizio di negligenza, che quei provvedimenti erano già nell’atmosfera e nell’ambiente del Ministero stesso e che quei provvedimenti, in quanto già fissati e predisposti, erano ritenuti necessari e indispensabili dal Ministro Bertone e potevano dirsi già anticipati anche per l’attività futura che doveva essere perseguita dal nuovo Ministro, che peraltro si poteva sospettare si ponesse sulla stessa linea politica del Ministro Bertone, perché proveniente dallo stesso Gruppo parlamentare. A parte questo notevole rilievo, anche se voi con questo prosieguo di indagine, di istruttoria, poteste stabilire qualche ulteriore elemento, poiché ogni indagine circa la presunta responsabilità dolosa del Ministro Campilli è completamente chiusa dalle conclusioni definitive della Commissione, potrebbe trattarsi soltanto di elementi di colpa; ma io penso che questa indagine uscirebbe dal nostro compito odierno. Non è da dire che noi non abbiamo il diritto, onorevoli colleghi, di giudicare anche il comportamento di diligenza o di negligenza dei Ministri e dei Sottosegretari. Ma l’Assemblea questi giudizi li esprime non in questa sede, che è una sede di giudizio morale, ma in altra sede, in sede politica, quando, esprimendo un voto di fiducia sull’operato del Governo o in linea preventiva o conclusiva, emette un giudizio generale di valutazione collettiva della politica generale complessiva, di tutto l’operato del Governo e dei singoli Ministri.

Appare, perciò, chiaro come questo giudizio politico sia estraneo alla sede odierna, e come il giudizio morale, per quanto concerne il Ministro Campilli, sia chiuso definitivamente proprio da quella pagina 5 della relazione alla quale faceva appello l’onorevole Crispo. Né si può, per sostenere questa richiesta di prosieguo di istruttoria, rifarsi a uno degli ultimi periodi della relazione (pagina 10) che è stato letto dal collega Onorevole Grilli. È chiaro – e la riprova è data dal fatto che l’onorevole Crispo, che è uno dei più esperti in indagini giudiziarie, perché è uno dei più noti avvocati, non ha fermato affatto su questo punto la sua attenzione, ed ha dato a quel periodo un’interpretazione analoga a quella che do io – è chiaro che quel «Non si può dire con sicura coscienza se sia riuscita ad accertare tutta quanta la verità, ecc.» si riferisce alla seconda ulteriore indagine che la Commissione prospetta al Governo, indagine da portare nell’ambito delle amministrazioni. Tanto è vero che questa è l’esatta interpretazione, che quel periodo è seguito immediatamente da un «ma». Dice, infatti, la relazione: «Ma è apparso evidente e indispensabile che una oculata vigilanza e un efficace controllo elevino il prestigio delle Amministrazioni dello Stato, liberandole da ogni residuo del passato e rassicurando in pari tempo completamente la pubblica opinione».

Quel giudizio, quella espressione finale, alla quale faceva riferimento l’onorevole Grilli, collegata col periodo che segue, che è l’ultimo della relazione, non vale a stabilire altro che l’ansia, che si prospetta la Commissione e che essa fa presente al Governo, per una più oculata vigilanza delle amministrazioni statali, per ricondurle a quel periodo di normalità che è stato ucciso non solo dal ventennio, ma soprattutto, direi, dalle infinite conseguenze della guerra.

Non si può, per dubitare che la relazione, per quanto attiene al giudizio morale sul Ministro Campilli, abbia avuto delle esitanze, prendere a base il presupposto che, a giudizio dell’onorevole Grilli, si sarebbe pronunciata l’assoluzione dell’onorevole Finocchiaro Aprile. L’onorevole Finocchiaro Aprile è assente; e questo mi costringe soprattutto ad essere cavalleresco nei suoi confronti e a non esprimere un giudizio sul suo comportamento, anche perché questo giudizio sarebbe prematuro, come lo sarebbe per la Commissione. La Commissione prosegue le indagini nei confronti delle altre accuse che l’onorevole Finocchiaro Aprile ha rivolto ad altri nostri colleghi. Fino a quando non sarà chiusa questa dolorosa pagina della nostra vita parlamentare, né la Commissione può esprimere un giudizio, che deve essere un giudizio complessivo sull’attività e sulle accuse dell’onorevole Finocchiaro Aprile, né noi possiamo esprimere un giudizio in questo momento. Ora, non è questa pretesa assoluzione dell’onorevole Finocchiaro Aprile a creare una situazione di incertezza nella relazione della Commissione; né si può porre il problema così come, con estrema analisi, l’ha posto l’onorevole Grilli, dicendo: «La situazione è qui: o Campilli sapeva del provvedimento, o non avendolo saputo egli non è stato avvertito dal Ventura»; perché su questo punto gli elementi prospettati dal Governo sono stati indiscutibilmente accertati. È stato riferito dal Presidente del Consiglio che il Governo, il Consiglio dei Ministri, quando ebbe inizio questo doloroso incidente, desiderò di rimandare ogni decisione disciplinare concernente il direttore generale Ventura od altri funzionarî da lui dipendenti, per un desiderio altissimo, per un desiderio nobilissimo, che va segnalato e ricordato, per non turbare cioè la serenità e l’obbiettività dell’indagine giudiziaria.

Si sarebbe infatti potuto dire, speculando sul fatto o perfino in buona fede, che il Governo, attraverso il capro espiatorio Ventura, si liberava di qualsiasi pericolo e di qualsiasi accusa, impedendo così che si risalisse ad altre responsabilità.

Bene invece ha fatto il Governo a mantenere per ora il direttore generale Ventura nel suo ufficio: vedrà in seguito il Governo quali provvedimenti saranno da adottarsi.

Voi, onorevoli colleghi, potrete anche ritenere che il Governo meglio avrebbe fatto ad allontanare il direttore generale Ventura; ma ciò non vi dà il diritto di pensare che il mancato allontanamento significhi ombra per quanto attiene alla conclusione nei confronti del Ministro Campilli.

E qual è allora la conclusione nei confronti del Ministro Campilli? Ve l’ha detto poco fa l’onorevole Codignola, quando vi ha affermato che i Ministri sono sostanzialmente immuni da qualsiasi accusa. Ma è una conclusione che si può trarre anche da quanto ci ha detto 1’onorevole Crispo, il quale, riferendosi a pagina 5, non può omettere di riconoscere che a pagina 5 si pone la pietra sepolcrale sulla responsabilità morale dei due Ministri.

E allora come si interpreta il documento? Esso è, onorevoli colleghi, un documento complesso; esso, per una parte, è una sentenza, un giudizio; un giudizio che noi dobbiamo alla Commissione, cui dobbiamo esser grati. Da quel giudizio apprendiamo che il Ministro Campilli e il Ministro Vanoni sono immuni, sono esenti da qualsiasi responsabilità morale, sono uomini probi; e che le accuse mosse nei loro confronti sono assolutamente destituite di qualsiasi elemento di fatto.

Ma vi è un altro aspetto della relazione, un’altra parte, che non è più una sentenza. Più che trattarsi di un giudizio, questa parte della relazione della Commissione può definirsi un documento politico. La Commissione avrebbe potuto infatti omettere questo passo, la Commissione avrebbe potuto dire, in linea formale: qui cessa il nostro compito. Invece la Commissione è andata oltre, ed ha fatto bene. Ha fatto bene, perché la nostra Assemblea è un’Assemblea investita di una funzione che trascende perfino le normali funzioni delle Assemblee legislative ed ha pertanto il diritto, anche se questo non collima perfettamente con alcuni limiti formali, di segnalare al Governo qual sia la strada che esso deve percorrere, quali siano le rettifiche che esso deve porre al suo cammino, quali siano i movimenti psicologici che si determinano nel Paese nei confronti dell’operato del Governo.

Ora, la Commissione ha stabilito che non vi è alcun elemento a carico dei due Ministri, che i fatti sono insussistenti; ma è andata anche oltre, ed ha potuto assodare poche cose, perché non aveva soprattutto i poteri necessari ed era pressata dall’urgenza di darci la sua relazione, di placare la nostra ansia, di far sapere all’Assemblea se a quel banco siedano dei galantuomini oppur no.

Ora, quando la relazione della Commissione degli Undici, superando questi limiti formali, ha messo l’occhio a fondo nell’amministrazione statale, è lì che la Commissione esprime delle riserve, è lì che enuncia delle necessità, è lì che addita delle finalità da raggiungere.

Ecco dunque, la ragione della seconda parte dell’ordine del giorno dell’onorevole Grassi. Guardate dunque come l’ordine del giorno dell’onorevole Grassi, che noi pensiamo possa essere votato, si configuri, si modelli, sulla relazione della Commissione degli Undici.

La prima parte, nella quale si dà atto che sono risultate infondate le accuse contro i Ministri, che sono risultati insussistenti i fatti, si adegua alla prima parte della relazione della Commissione, più sopra ricordata.

La seconda parte dell’ordine del giorno Grassi utilizza il resto della relazione, laddove la relazione esprime delle riserve, delle ansie, delle preoccupazioni intorno alle amministrazioni statali ed esprime quindi al Governo un augurio, una necessità, e gli addita una strada.

Per quanto riguarda il Ministro Vanoni, quali altre indagini si potrebbero fare? Qui il problema è più semplice.

La Commissione ha preso atto della lealtà con la quale il Ministro Vanoni ha rilevato alcune circostanze attinenti alla sua amministrazione ed anche qui si deve dire che il Vanoni era solo professore universitario, uno dei più insigni professori universitari d’Italia di scienza delle finanze – ed è bene che ciò sia ricordato qui da uno dei suoi colleghi – ma non era né Ministro né deputato.

Ora, a proposito delle competenze liquidate si esprime un giudizio comparativo; ma questo giudizio è inficiato da una inesattezza di interpretazione delle funzioni del Vanoni. Non è un rilievo che si fa alla Commissione. Probabilmente, per la fretta delle indagini, non si è potuto configurare esattamente quale era il mandato del professor Vanoni. Egli non era un funzionario governativo. Ecco perché i raffronti con le indennità dei funzionari sono inesatti e ogni raffronto con gli onorari dei professionisti è inopportuno. Il raffronto con i funzionari governativi è inesatto, perché il Vanoni non ebbe la posizione di commissario governativo prevista dalle leggi bancarie; ma fu nominato commissario ai sensi del decreto del settembre 1944. In forza di questo documento, il Ministero del tesoro, con decreto ministeriale 5 ottobre 1944, scioglieva il Consiglio di Amministrazione della Banca di agricoltura, e, confermando la nomina del Vanoni, che era stata già fatta dal Comando alleato, a commissario straordinario con poteri del Presidente del Consiglio di amministrazione e del Comitato esecutivo, stabiliva il suo obbligo a riferire all’Assemblea degli azionisti da convocarsi appena possibile. Sicché, secondo questo decreto di nomina del Vanoni, egli non doveva essere ritenuto come un funzionario governativo immesso nell’amministrazione della banca; ma soltanto come una persona che sostituiva l’amministrazione ordinaria della banca ed agiva pertanto – ecco il punto da sottolineare – non nell’interesse del Governo, non nell’esercizio di una funzione pubblica, ma soltanto nell’interesse degli azionisti.

Badate che questo è un punto delicato. Qui egli non agiva per una funzione pubblica, per conto del Governo, per perseguire finalità pubbliche. Egli sostituiva il Consiglio di amministrazione ordinario e come tale era il servitore degli interessi degli azionisti, che, alla fine della conclusione di questa gestione commissariale, delegarono al nuovo Consiglio di Amministrazione la liquidazione delle indennità, che ebbe luogo secondo la prassi corrente.

Ed allora quali altre indagini da fare circa il Ministro Vanoni? Indagini di fatto, nessuna; perché egli, riducendo le esagerazioni non apprezzabili dell’onorevole Finocchiaro Aprile, stabilì la vera essenza delle indennità percepite. Nessuna indagine; perché egli disse per quanti mesi aveva percepito: 16 e non 11. Nessuna indagine; perché egli disse attraverso quale procedimento queste indennità furono liquidate. E questo procedimento fu lo stesso procedimento ordinario che si attua nelle banche e che venne predisposto nello stesso provvedimento di nomina, per cui non ebbe nessuna relazione postuma col Ministro del tesoro.

Ed allora per l’uno e per l’altro punto dovete, onorevoli colleghi, esprimere un giudizio. Un prosieguo d’indagini sarebbe inutile. Non è che noi lo vorremmo impedire, se occorresse. Se occorresse, non lo impediremmo, non ostacoleremmo mai l’estensione delle indagini.

Noi, fin dal primo momento, non ci siamo mai opposti, ed anche il Governo non si oppose, all’estensione delle indagini; perché queste fossero le più ampie e le più complete. Queste indagini sono state ampiamente condotte; tutti gli elementi sono stati acquisiti agli atti dell’istruttoria perché si potessero stabilire i fatti e risalire ad una eventuale responsabilità morale. Questa ulteriore indagine servirebbe soltanto, per il Campilli, ad assodare se nell’amministrazione, alla quale è stato preposto, vi siano delle interferenze, vi siano delle discrasie da rettificare; e questa è opera del Governo, alla quale naturalmente noi possiamo collaborare con segnalazioni e con la nostra attiva partecipazione. Per il Vanoni le indagini sarebbero inutili, in quanto i fatti sono quelli che sono; fatti banalissimi sui quali abbiamo già portato a fondo la nostra indagine.

Ho finito. Se nelle vostre coscienze trovate che, dopo queste indagini serene – sulle quali noi non abbiamo voluto scendere assolutamente nel dettaglio, e non abbiamo voluto scendere nel dettaglio soprattutto per un atto di riguardo alla Commissione; e appunto perché i due Ministri appartengono alla nostra famiglia noi non abbiamo voluto esaminare criticamente il documento, ma l’abbiamo voluto prendere nel suo complesso e soltanto interpretarlo nelle due distinte parti, la parte che riguarda il giudizio morale, e la parte che riguarda non il giudizio, ma le impressioni, le segnalazioni date al Governo – la probità dei due Ministri è chiaramente assodata; se, quindi, questo documento, come risulta da tutti gli interventi, perché con piena consapevolezza e con molto senso di responsabilità nessuno ha pensato di lanciare ombra su questi due nostri rispettabili colleghi, dice alla vostra coscienza, in maniera chiara, in maniera sicura, in maniera definitiva che è rifermata la probità di questi colleghi ed amici; ebbene io penso che non bisogna tardare a dichiararlo.

Quando avremo liberato da queste pesanti scorie il nostro duro cammino, domani potremo riprendere con serenità il lavoro fondamentale della Costituzione della Repubblica italiana, la quale deve essere espressione non soltanto della nostra civiltà giuridica, ma anche e soprattutto della nostra probità morale. (Applausi).

MASTROJANNI. Chiedo di parlare.

PRESIDENTE. Ne ha facoltà.

MASTROJANNI. Onorevole Presidente, onorevoli colleghi. Non prendo la parola perché si discute qui di uomini che sono rivestiti di così alte funzioni; ma sento il dovere di prendere la parola perché qui vi è una responsabilità morale che investe ciascuno di noi. Accettare o respingere la relazione della Commissione degli «Undici» significa dimostrare quella che è la nostra sensibilità in materia morale. La coerenza, onorevoli colleghi, non è una qualità superiore che distingua determinate personalità, ma la coerenza è un dovere per gli uomini politici, ed è un dovere che ha come riflesso dei diritti, di cui sono investiti gli elettori, diritti di cui è investito l’intero popolo che, dando a noi il mandato di rappresentanti, ha il diritto di seguirci nelle vicende politiche e ha il diritto di constatare quale sia il nostro atteggiamento e la nostra morale nell’esercizio del mandato parlamentare.

Questa Assemblea Costituente ha dimostrato una sensibilità acuta, confortevole, direi quasi sublime, allorché, discutendosi or è qualche mese sull’opportunità che uomini investiti del mandato parlamentare potessero esercitarlo, stabilì che tale mandato dovesse essere revocato allorquando, per una virtuale possibilità di interferenze e di influenze verso il Governo, potesse presumersi una diminuita resistenza della pubblica amministrazione, nei confronti del deputato.

Questa Assemblea Costituente, discutendosi sulla convalida o meno del deputato ingegnere Visocchi, solo perché lo stesso era concessionario di derivazioni di acque pubbliche, derivazioni le quali sono regolate da un sacramentale «disciplinare», decise che non è compatibile l’esercizio del mandato parlamentare per il concessionario di derivazioni di acque pubbliche.

Considerate, onorevoli colleghi, che il rapporto tra il cittadino e lo Stato, regolato da un «disciplinare», si esaurisce nel momento stesso in cui la concessione viene data, e che le eventuali infrazioni possono essere rilevate e punite dalla pubblica amministrazione. Ma poiché nella repressione delle infrazioni eventuali si presume che il deputato possa esercitare influenza sugli organi dello Stato, questa Assemblea ha deciso che sia privato del mandato parlamentare il cittadino che questa influenza può virtualmente esercitare.

E allora mi sono domandato, e mi domando, onorevole Grassi, come voi potete presumere che questa Assemblea Costituente possa senz’altro ritenere chiusa la parentesi di questa vicenda che così da vicino tocca la nostra sensibilità e la onorabilità di due Ministri in carica?

In questa vicenda che suscita in noi emozioni, l’intero popolo italiano, esasperato da questa nebbiosa atmosfera che si è creata intorno a noi, attende da noi una parola chiara e precisa, una parola che restituisca a noi la dignità collegiale a cui abbiamo diritto e dica al popolo italiano che la pubblica amministrazione è tutt’ora lontana da ogni sospetto, e che contro di essa, qualsiasi ombra che possa oscurarla rimane diradata, sicché essa è restituita alla sua cristallina trasparenza.

Onorevoli colleghi, ho seguìto questo appassionato dibattito, da cui diverse opinioni sono scaturite. Tutti hanno puntato decisamente verso la Commissione degli Undici, alla quale si è fatto, direttamente o non, un addebito nel senso che da essa si attendeva una decisione limpida e categorica.

L’errore è grave: la Commissione degli Undici ha espletato in modo impeccabile, con sensibilità squisita, con senso giuridico profondo, il suo mandato; ed ha offerto alla intelligenza ed alla sensibilità di questa Assemblea tutti gli elementi, che valgano a fare pronunziare con fondamento una sua decisione.

D’altra parte, la Commissione avrebbe travisato il suo mandato, se fosse pervenuta a conclusioni decisive.

Noi dobbiamo ricordare i termini del mandato specifico, dato alla Commissione, che è premesso nella relazione e che è inutile rileggere. Ma resta accertato, in punto di fatto, che la Commissione non è Commissione d’inchiesta; ma è – e questo concetto è stato in questa Assemblea chiarito – Commissione d’indagine.

Pertanto, espletate le indagini, con i poteri limitati di cui poteva disporre, essa offre all’Assemblea il materiale ammannito: materiale in senso favorevole, materiale in senso negativo; apprezza giustamente, esattamente, con acuto senso critico e con profonda sensibilità e intuizione quanto vi ha di favorevole; adombra tutto quanto è rimasto oscuro e incerto.

Ed allora, se noi accedessimo alle proposte dell’onorevole Grassi e ci fermassimo su questa relazione – la quale, essendo relazione, è ovvio non possa essere decisione o sentenza – noi, ritengo, non solo faremmo torto a noi stessi, ma offenderemmo la suscettibilità di uomini sì illustri, i quali, ovviamente, non possono ritenersi soddisfatti del componimento complesso delle indagini ammannite.

Ma essi hanno diritto, come uomini, come cittadini, come Deputati, come Ministri, di attendersi un giudizio chiaro, preciso, inequivoco, lampante; sì che da questa Assemblea possa levarsi caloroso e sentito un applauso, che sia un inno alla loro dirittura morale ed alla loro onorabilità.

Onorevole Vanoni, onorevole Campilli, io sono sicuro che voi non vi arresterete di fronte ad una relazione, che può suscitare sospetti nell’animo di persone anche maliziose se volete o di gente che, per temperamento, è usa a vedere l’illecito dove non esiste ma che comunque nulla decide nei vostri confronti in un senso o nell’altro.

Son sicuro che voi chiederete e pretenderete un giudizio chiaro e preciso, che ci consenta di potervi stringere ancora la mano.

Allo stato degli atti, onorevoli colleghi, specie voi, colleghi della Democrazia cristiana, fareste un torto ai vostri illustri esponenti, se vi accontentaste di questa relazione.

Dite che essa è esauriente, che essa precisa in modo inequivoco la situazione morale di questi valentuomini; non è vero!

Io lo nego e con me lo negano sicuramente gli interessati. Quando voi, per alcune circostanze, onorevoli colleghi della Commissione degli Undici, adombrate determinate situazioni, quando voi ponete degli interrogativi, quando lasciate all’intelligenza ed all’intuito del lettore le conseguenze che scaturiscono dalle premesse logiche che voi avete poste, voi avete fin troppo detto, ma voi non potevate d’altra parte pervenire a giudizî concreti e decisivi. Non lo potevate, perché così come avete riferito nella vostra dotta ed elaborata relazione, alcuni che sono venuti a deporre, mentre inizialmente hanno in maniera categorica precisate situazioni gravi, successivamente, degradando dalle prime affermazioni, sono pervenuti a conclusioni che distruggevano le premesse iniziali. Voi non potevate giungere a conclusioni decisive perché non ne avevate i mezzi e i poteri; voi avete citato ed invitato cittadini illustri perché venissero a portare il contributo della loro scienza e della loro conoscenza, in un settore così delicato della vita finanziaria, ma noi non sappiamo se questi valentuomini si sono degnati di venire a voi. Se non fossero venuti, nessun mezzo era nelle nostre mani per costringerli a venire, per costringerli a deporre dinnanzi a voi.

Non solo, ma di fronte a situazione tanto delicata, voi non potevate esaminare testimoni né ammonire con la formula sacramentale del giuramento che intimidisce anche i temperamenti più duri ed incerti e che rende ligi e sicuri anche i più perplessi e i più tetragoni. Di fronte alla maestà del giuramento, la coscienza dell’uomo è eccitata verso la via diritta e onesta ed è svincolata da ogni interesse particolaristico, affettivo o reverenziale, onde è che la verità voi potete comprendere se sia o non nelle vostre mani riposta. Ed allora, come esprimere un giudizio di onorabilità o meno, quando gli elementi di prova sono stati raccolti senza formalità legali e tranquillanti?

Come dare questo giudizio quando la Commissione degli Undici aveva solamente poteri di indagine?

Attraverso il materiale che ci è stato ammannito, noi dobbiamo dire se esula qualsiasi indizio che consenta la instaurazione di una regolare procedura, talché si deve, (come si verifica in tema di procedimento penale) archiviare la denuncia, o gli indizi sufficienti di colpa affiorano ed in tal caso per accertare quanto vi sia di vero e quanto vi sia di falso devesi invertire della procedura l’organo competente. La questione da decidere dunque è per noi questa: stabilire se esistono gli indizi sufficienti o se devesi archiviare la pratica. Noi riteniamo che la pratica non possa essere archiviata, e nel nostro interesse e per la nostra dignità e per la nostra stessa correttezza e coerenza, e soprattutto per i diritti sacrosanti che reclamano le persone che sono state trascinate in questa incresciosa vicenda politica. Né valgono le obiezioni che alcuni colleghi hanno fatto, restringendo la materia del contendere ad un sillogismo semplicistico, che fu impostato in questi termini: se l’onorevole Finocchiaro Aprile ha presentato una denuncia, egli deve provare il suo assunto, e se non lo prova egli decade dal suo diritto; ché anzi dovrà subire le conseguenze della sua leggerezza o della sua malvagità.

Ma qui, onorevoli colleghi, si è confusa la procedura civile con la procedura penale o disciplinare; vero è che onus probandi incumbit ei qui dicit, ma questo è un aforisma che vale in tema di procedura civile, ma in sede penale o in sede disciplinare, onorevoli colleghi, questo aforisma non ha alcun valore. Il cittadino, e tanto più il Deputato, che presenta una denuncia, ha il sacro diritto di vedere espletata ed istruita la sua denuncia; e solo se appaia la sua pervicacia nell’accusare alcuno di fatti inesistenti o di fatti per i quali egli abbia la consapevolezza dell’innocenza, provvede il Codice penale, che la ipotesi delittuosa identifica nel reato di calunnia.

Ma, l’organo investito della denuncia deve espletare tutte le indagini, interrogare gli imputati, esaminare testimoni, procedere a confronti e perizie e sopraluoghi, controllare documenti e quanto altro occorra per stabilire se sia fondata o meno la denuncia. Pertanto, onorevoli colleghi, le obiezioni che si sono fatte con tanta semplicità per chiudere senz’altro questa parentesi che contiene una vicenda di tanta importanza, quale quella di cui discutiamo, mi sembra che siano, se non altro, assai poco convincenti ed addirittura assai ingenue.

La gravità dei fatti che noi dobbiamo esaminare in questa incresciosa vicenda ci investe di una responsabilità tremenda, onorevoli colleghi. Se riandiamo nel passato per attingere da esso il costume parlamentare, nella espressione più significativa della sua moralità profonda, esempio luminoso troviamo in atteggiamenti di parlamentari illustri, che, noi dobbiamo ricordare. Da questi banchi Enrico Ferri… (Commenti).

Una voce a sinistra. Da questi banchi!

MASTROJANNI. I luminari dell’arte e della scienza, i maestri del diritto e del sapere, sono, onorevole collega che mi ha interrotto, patrimonio dell’intera umanità e non esclusività di alcun partito! (Applausi a destra).

Enrico Ferri, dicevo, da questi banchi, chiamò l’ammiraglio Bettòlo, allora Ministro della marina, «divoratore di corazze», perché alcun dubbio si era levato sulla gestione di quell’Amministrazione, durante la costruzione di corazzate. Eppure Egli, maestro luminoso del diritto, sapeva il peso, il significato le conseguenze dell’accusa!…

Voi ricorderete Pietro Rosano, che, accusato da un anarchico di essersi adoperato per mercanteggiare una grazia, non sopportò l’accusa e si tolse la vita. (Commenti a sinistra). Voi ricorderete, onorevoli colleghi, il Ministro Francesco Tedesco. Può il cervello umano subire involuzioni, obnubilazioni, decadimenti, contrasti od impressioni così forti, per cui si perda l’orientamento nel tempo e nello spazio; ma è pur vero che, se qualche lacuna la scienza annovera e identifica fra le malattie mentali, tuttavia, onorevoli colleghi, noi non possiamo negare che anche là dove esiste il morbo, contemporaneamente può esistere una esagerata sensibilità che, sopravalutando lo stimolo esterno, determina decisioni irrimediabili contro se stesso. Ed è per rispondere a quei colleghi, i quali giudicarono normale la vistosa fortuna finanziaria in poco tempo creatasi dalle persone di cui discutiamo, io ricordo Francesco Tedesco, che pur Ministro del tesoro, giunse povero alla vecchiezza, e privo persino della minima possibilità di apprestare a sé i mezzi di cura, qui, in questa Roma, serena ed opulenta, tragicamente troncava la sua esistenza. (Commenti).

Onorevoli colleghi, la questione merita – specie perché si discute dell’onore e dell’onorabilità di uomini rivestiti di sì alta carica – tutta la nostra attenzione.

Sono dell’opinione – e pertanto presento un ordine del giorno – che la vicenda non può qui dichiararsi esaurita, ma che questo complesso di indagini, fornito dalla Commissione degli Undici, debba costituire il materiale sufficiente di indizi e di prove che consentano l’apertura di una regolare procedura per un giudizio definitivo; giudizio definitivo che non può essere affidato che ad una Commissione d’inchiesta. La Commissione d’inchiesta avrà i poteri, avrà il modo, il mezzo, le possibilità di approfondire le indagini in ogni settore, di chiarire gli interrogativi che sono stati posti, di illuminare le ombre che si intravedono nella relazione e di concludere in senso decisivo e in modo che si acquieti la nostra coscienza, la nostra dignità e la nostra sensibilità; ed in modo che si acqueti la pubblica opinione, in modo che sia restituito agli interessati e al Governo stesso quel prestigio di cui ha necessità, per potere degnamente assolvere il suo gravissimo compito, specie in questo momento in cui la pubblica opinione è fortemente scossa nei confronti del Governo stesso. Noi vorremmo, onorevoli colleghi, dire al Governo, che reiteratamente ha assicurato questa Assemblea Costituente di avere esaminato la questione, e che nulla aveva da obiettare, che dopo quanto ha detto e può tornare a dire, e che io mi auguro risponda esattamente a verità, la pubblica opinione e questa Assemblea hanno il diritto di pervenire alle conclusioni governative solo dopo il giudizio scaturito da una regolare inchiesta, che tutti acquieti e che a tutti restituisca dignità, onore e tranquillità. (Applausi a destra).

DE GASPERI, Presidente del Consiglio dei Ministri. Chiedo di parlare.

PRESIDENTE. Ne ha facoltà.

DE GASPERI, Presidente del Consiglio dei Ministri. Credo che abbiamo tutti, egregi colleghi, la consapevolezza della gravità delle nostre decisioni e del nostro voto. Mi sono trovato nella mia lunga vita politica in molte situazioni difficili e in certi momenti ho trovato la via d’uscita nel compromesso. Mi si è accusato di essere troppo esperto di compromessi. Il compromesso l’ho fatto quando, per servire gli interessi del Paese, potevo abbandonare per utilità un mio giudizio particolare sopra questi interessi. Il compromesso non lo posso fare quando v’è di mezzo una questione morale. (Approvazioni).

La situazione del Governo in Italia è difficilissima perché, disgraziatamente, indipendentemente dalla nostra buona volontà e dai nostri sforzi, è gravissima la situazione del Paese. Non temete, io non faccio accenno alla gravità della situazione per trarne illazioni di carattere politico e oscurare il carattere morale della decisione che dovete prendere, che dobbiamo prendere insieme. Tutt’altro; è per dire che, nonostante questo, io, in questo momento, giudicherò soltanto secondo la legge dell’onore e della coscienza.

Non si farebbe, del resto, nessun servizio al Paese mantenendosi al Governo menomati nella questione essenziale, nella questione vitale per il Governo stesso. Non si farebbe servizio all’Assemblea cercando in una questione di carattere morale un compromesso che salvi gli uni e lasci cadere gli altri.

Soprattutto io arrossirei se in questo momento non mi ricordassi della legge della solidarietà ministeriale, ripetutamente applicata in questa particolare questione.

In verità, se le conclusioni della Commissione mi portassero a cambiare il mio giudizio sopra i miei collaboratori, allora sarei in dovere e in diritto di mutare anche i miei rapporti con essi. Ma le conclusioni non sono in tal senso. E ciò è stato ammesso dalla maggioranza degli oratori, anche da coloro che eventualmente voteranno in senso contrario al mio desiderio.

È troppo evidente che si può discutere sopra alcune formule della Commissione: trovarle favorevoli o non favorevoli, sufficienti o insufficienti, abili o meno abili, come tutte le cose di fattura umana; ma non si può escludere che dalle conclusioni della Commissione, l’onorabilità dei membri del Governo è messa fuori causa. La questione, dunque, è essenzialmente morale.

La questione, per un Capo di Governo e per i colleghi di Governo è anche una questione di lealtà e di probità politica. Ciò in modo particolare per quel che riguarda le responsabilità ministeriali dell’onorevole Campilli. Qui non siamo nella sfera privatistica; siamo nella sfera di corresponsabilità ministeriale, ed era mio dovere di esaminare profondamente, con tutti i mezzi a mia disposizione, se le accuse qui portate avessero l’ombra di verità. L’ho fatto. Sono venuto lealmente dinanzi all’Assemblea e prima di chiedere un voto in generale sulla politica del Governo, sull’atteggiamento del Governo, ho portato una esatta, lunga relazione, munita di dati e di dichiarazioni di persone estranee alla politica ed eminenti nell’economia, che secondo me doveva bastare a chiudere sulle accuse al Campilli completamente la discussione.

Mi meraviglio che un Deputato mi abbia fatto il rimprovero d’aver quasi cercato di forzare, di coartare o mettere in imbarazzo le decisioni della Commissione, facendo qui opera di difesa, di solidarietà con i Ministri colpiti. No, signori miei, qui si tratta di responsabilità ministeriale: i primi che sono chiamati a decidere della responsabilità ministeriale, offesa o non offesa da un loro collega, sono Ministri; è il Consiglio dei Ministri, che ha il dovere di dire prima la sua parola e di assumere o non assumere la corresponsabilità e la solidarietà del Gabinetto. Perciò, la prima cosa che noi abbiamo fatto è stata di discutere in seno al Consiglio dei Ministri le accuse mosse; poi, di riferire intorno alle indagini fatte; poi, di deliberare intorno alla nostra solidarietà che è stata piena. La questione non riguardava soltanto il Ministro Campilli, ma anche altri Ministri, che in quel momento erano messi in discussione da una stampa che aveva esagerato, gonfiato alcune apparenze di accuse. Qui mi avete visto venire a difendere Ministri che non appartengono al mio Partito, con la stessa energia, con lo stesso senso del dovere con cui oggi difendo quelli che al mio Partito appartengono. (Approvazioni al centro).

Mi fa meraviglia invero che si dica che con ciò io abbia voluto coartare i signori della Commissione. I signori della Commissione, se non sbaglio, nella loro relazione, non accennano nemmeno alle dichiarazioni del Governo dinanzi all’Assemblea e hanno avuto libertà per quaranta giorni di decidere e discutere quello che volessero; e se ho mostrato impazienza, non era perché mi preoccupassi del merito delle cose, ma solo perché l’angosciosa situazione del Paese esigeva che uomini che sono accusati – e specialmente Campilli – potessero prendere parte attiva ai lavori dell’Assemblea e assumere responsabilità proprio nel settore nel quale si portavano le accuse. Ecco perché mi sono augurato che queste conclusioni venissero presto; non per volere, come che sia, influire sopra la relazione della Commissione, ma nell’interesse del Paese. E credo che non mi vorrete far torto se considero che in un momento in cui la situazione finanziaria è così grave, il tenere in sospeso la questione sull’onorabilità e la responsabilità o meno di un Ministro, proprio per riguardo a ragioni amministrative e finanziarie, è un punto debole del Governo, del Paese e dell’Assemblea.

Oggi stesso, quindi, per un senso di solidarietà morale, in logica ed armonica aderenza con l’atteggiamento preso nel Consiglio dei Ministri da me e dagli altri colleghi, senza eccezione, oggi, con un senso di responsabilità che mi si fa più che mai acuto per la visione panoramica che ho del gravissimo momento che attraversiamo, non posso accettare niente che sospenda o differisca la decisione.

Per questo ho domandato, contro forse il mio interesse politico, che alla relazione seguissero subito la discussione e il voto. Non per me: dinanzi ad una questione di fiducia che abbandono totalmente, non chiedo un appoggio dal punto di vista politico del Governo; chiedo che ciascuno assuma le sue responsabilità nella questione morale e nelle conseguenze che la soluzione di questa questione porta naturalmente, perché né io, né altri abbiamo via di scelta, quando si tratta di una questione di coscienza. Mi si può chiedere, infatti, che io rimanga al servizio del Paese nelle più gravi situazioni, anche quando molti componenti dell’Assemblea sono ben felici di non avere le stesse responsabilità che ho io; mi si può chiedere che porti la croce fino all’ultimo, a costo anche di conseguenze disastrose dal punto di vista elettorale (Applausi al centro); tutto mi si può chiedere, ma una cosa sola non mi si può chiedere, ed è che io non agisca secondo la mia profonda coscienza, secondo il mio senso dell’onore e secondo la logica morale della posizione che abbiamo preso finora. (Applausi al centro).

Mi scuserete, egregi colleghi, se trovo superfluo entrare ancora nella questione del merito, dopo le ragioni, addotte pro e contro, da varie parti. Dirò soltanto, poiché mi è stata rivolta anche l’accusa di avere la tendenza a sdrammatizzare, che qui si sono pronunziate grandi parole, si sono fatti grandi paragoni, come se in questo momento noi del Governo democratico potessimo essere sottoposti ad un giudizio di paragone con altri valentuomini di altri tempi. Ora, credo che anche noi abbiamo esempi luminosi che dimostrano come lo spirito di sacrificio sia ancora quello che anima la classe dirigente italiana. (Applausi al centro). Io credo che possiamo sopportare il confronto soprattutto dei venti anni di governo che ci hanno preceduto e credo che l’Assemblea abbia argomenti obiettivi per salvare il suo decoro o salvare anche le leggi della coscienza e dell’onorabilità, giudicando i membri del Governo.

Certamente, se avessimo avuto la forza di superare la nostra lotta politica e se sentissimo davvero la voce di quei milioni di nostri fratelli che ci chiedono soccorso ed aiuto e sentissimo la gravità della situazione che dipende tutta dall’unione e dalla concordia nostra, sia in confronto dell’interno che dell’estero, avremmo sentito il dovere di assumere la corresponsabilità in questa situazione politica generale e, in ogni caso, di non acuire il conflitto in un momento in cui la decisione può essere grave.

Ho compiuto ripetutamente il tentativo di allargare le basi del Governo per dare una base più sicura alla democrazia, alla Repubblica, per salvare soprattutto il popolo italiano nella grande angoscia in cui si trovava, e trarlo dalla minaccia del baratro in cui domani potrà precipitare. Ho la coscienza tranquilla. Ho fatto tutto quello che potevo. Ho fatto appello ai partiti. Non ho mai posta una questione pregiudiziale di carattere di partito per questo appello all’unità. Ed oggi lo rinnovo ancora. Ma vi dico che, contro certe ostinazioni e contro certi calcoli elettorali, non è possibile lottare. (Applausi al centro).

Alquanto diverso è il caso dell’amico Vanoni, nel senso che, almeno per quelle parti di accusa che ci erano note prima che avvenissero le deposizioni presso la Commissione, non si trattava di responsabilità ministeriale, ma della sua attività privata, in un momento in cui non era né deputato, né ministro.

Ora devo dire che ho conosciuto Vanoni durante il periodo clandestino, né prima avevo notizie della sua esistenza che da lontano, avendone sentito parlare come di un grande esperto finanziario e di un perito in materia giuridica ed in materia finanziaria fiscale. Sapevo che era stato per molti anni membro delle Commissioni che dovevano preparare la legislazione, e fui a contatto con lui durante il periodo clandestino, quando era qui ed aveva dovuto distruggere il suo studio e subire gravi perdite (era uno studio che dava lautissimi guadagni, perché egli era consulente di società italiane e straniere che avevano interessi commerciali di grande importanza). Egli si trovava con la famiglia, in condizioni assai precarie, presso un suo cognato. Ho conosciuto Vanoni in quel momento e mi son fatto l’idea di un uomo di rara conoscenza nel campo finanziario. I colleghi, del resto, del Consiglio dei Ministri possono darvene conferma, perché hanno notato l’acutezza delle sue osservazioni, la profondità dei suoi consigli, e quelli che hanno collaborato con lui, sia alla Banca d’Italia che fuori, sanno che nei momenti difficili, uomini di questa preparazione sono assolutamente preziosi.

Ora, quando io gli ho offerto di entrare al Governo, pensavo che fosse l’uomo adatto per darci consigli e notizie che a noi mancavano, perché se tutti fossero come quel tale signore, di cui l’onorevole Giannini l’altro giorno ha detto: «È un uomo intelligente, ma un miserabile, che non è arrivato a farsi una fortuna: fa il fattore, fa il mezzadro (e si riferiva a me)», evidentemente l’esperienza finanziaria può mancare al Governo in certi momenti!

Ora, io ho saputo della liquidazione Vanoni quando se ne sono occupati i giornali. Ma devo osservare una cosa. Vanoni è stato nominato prima dagli alleati dopo la liberazione di Roma, ed è stato confermato da Soleri, il quale si è sempre rifiutato di fissare emolumenti, dicendo che doveva fissarli la Banca. Ad un certo punto, alla chiusura alla sua relazione generale, senza che fosse stata presa alcuna iniziativa, l’assemblea ha fatto una liquidazione, la quale corrispondeva a certi criteri obiettivi statutari. Ha fatto bene o male? È un’altra questione. Non discuto. Ma, certo, non è in causa né il profittantesimo di Vanoni, Deputato o Ministro, perché questa è l’accusa che è partita la prima volta dall’onorevole Finocchiaro Aprile, né, comunque, una sua attività contro il proprio onore per farsi aumentare o diminuire l’indennità.

Ignoravo assolutamente l’importo della sua liquidazione, ma devo stabilire: 1°) che non fu sollecitata; 2°) che fu decisa dalla Banca secondo le sue norme statutarie; 3°) che una parte di essa non fu da lui intascata, il che – a parte che si possa discutere sulla destinazione della somma – è certo una delle prove che egli non è stato così profittatore come diceva l’accusa. Io lo invitai ad entrare nel Ministero soprattutto come tecnico, nell’interesse del Paese. Lo credo anche persona di retta coscienza ed in tutti gli affari di cui ci ha riferito al Consiglio dei Ministri, circa le sue nuove responsabilità ministeriali, abbiamo trovato un uomo che agisce con molta coscienza e soprattutto con molta ponderazione, benché sia notorio che il Ministero in cui si trova è un campo minato. Tante sono le dicerie sulle decisioni che si devono prendere, che nessun Ministro è sfuggito in questi ultimi periodi all’accusa di favorire una parte o l’altra nelle assegnazioni che da quel Ministero sono fatte.

Sugli ordini del giorno mi esprimerò più tardi.

Egregi colleghi, non fo nessun appello: votate secondo coscienza; io agisco secondo la mia. E poiché avete avuto la bontà di attribuirmi purezza di intenzioni nelle prove che ho dato in tutta la vita, voi sapete che avete dinanzi un uomo non attaccato al potere, il quale sarebbe felice se, senza ledere gli interessi del Paese e senza doversene pentire, potesse abbandonare in questo momento questo posto di estremo sacrificio e di estremo rischio. Dico sarebbe felice, ma non lo farà se l’Assemblea vorrà appoggiarlo nei suoi sforzi, e non vorrà imporgli un atteggiamento che manchi alle leggi di probità, di solidarietà e amicizia, che sono sacre. (Vivissimi prolungati applausi).

PRESIDENTE. Comunico che gli ordini del giorno presentati sono i seguenti, fra i quali quello dell’onorevole Grassi in una nuova formulazione:

«L’Assemblea, preso atto della relazione della Commissione degli Undici, passa all’ordine del giorno.

«Corbino, Morelli, Colonna».

«L’Assemblea, approva la relazione della Commissione degli Undici; prende atto che essa ha posto fuori causa l’onorabilità dei Ministri Campilli e Vanoni; e sollecita le misure richieste dalla Commissione per liberare le Amministrazioni dello Stato da ogni residuo del passato ed elevarne il prestigio nella pubblica opinione.

«Grassi».

«L’Assemblea Costituente, preso atto della relazione della Commissione degli Undici, constatato che i Ministri Campilli e Vanoni risultano indenni dalle accuse formulate contro di loro, ma che rimane aperto il problema della responsabilità politica del Governo per i fenomeni di disordine amministrativo e di interferenza politica lamentati nella relazione; invita il Governo ad esaminare quali conseguenze debbano trarsi dalla situazione.

«Codignola, Bassano».

«L’Assemblea, esaminata la Relazione della Commissione, ne rileva la perplessità delle conclusioni e dispone il prosieguo delle indagini.

«Crispo, Badini Confalonieri».

«L’Assemblea prende atto della relazione della Commissione degli Undici, rilevandone lo scrupolo e la moderazione,

e, considerata la gravità dei fatti, afferma la necessità, sopra ogni altra preminente, di restaurare i principî della moralità nella condotta della cosa pubblica, nelle burocrazie ministeriali e, particolarmente, nell’azione di tutti i partiti in specie quando abbiano responsabilità di Governo;

delibera di conferire alla Commissione i poteri giudiziari per l’accertamento delle circostanze rimaste non chiarite nella relazione e per il proseguimento delle sue indagini.

«Grilli, Vigorelli, Cairo».

«L’Assemblea, esaminata la relazione della Commissione degli Undici e poiché dalla relazione stessa emergono indizi contro i Ministri Campilli e Vanoni in ordine ai fatti ad essi attribuiti; manda ad una Commissione d’inchiesta perché proceda con i suoi poteri.

«Mastrojanni, Perugi, Tumminelli, De Falco, Tieri, Capua, Miccolis, La Gravinese Nicola, Lagravinese Pasquale, Venditti, Vilardi, Rodi, Maffioli, Puoti, Rognoni».

Chiedo all’onorevole Presidente del Consiglio di esprimere il suo parere su questi ordini del giorno.

DE GASPERI, Presidente del Consiglio dei Ministri. Se permettete, dirò la mia opinione sui vari ordini del giorno.

Evidentemente, per le ragioni dette prima, non posso accettare l’ordine del giorno Crispo, che domanda la prosecuzione delle indagini dichiarando insufficienti le conclusioni della Commissione.

Posso accettare la prima parte dell’ordine del giorno Codignola, la quale constata che «i Ministri Campilli e Vanoni risultano indenni dalle accuse formulate contro di loro».

La seconda parte, nella quale si dice che «rimane aperto il problema della responsabilità politica del Governo» non la posso accettare, perché implica un atteggiamento di carattere negativo.

L’ordine del giorno Corbino è anodino: non dice niente (Si ride). Forse nelle sue intenzioni dice qualche cosa, ma letteralmente non dice niente. Il passaggio all’ordine del giorno si potrebbe accettare se questa discussione non avesse messo in luce che le formule della Commissione sono diversamente interpretate.

Non posso accettare l’inchiesta parlamentare che si chiede nell’ordine del giorno Mastrojanni. Il Governo che accetta un’inchiesta parlamentare evidentemente non può essere che un Governo che non sta al suo posto.

Non posso accettare nemmeno il drammatico ordine del giorno dell’onorevole Grilli. E a questo proposito mi pare che è stato proprio egli che ha dato grande rilievo ad un’osservazione della Commissione, che non si fosse trovato chi aveva redatto l’ordine telegrafico. È bastata stamane una telefonata perché si venisse a sapere chi lo ha compilato.

PERTINI. Marzano l’ha sempre negato dinanzi a noi. Perché non l’ha detto? (Vivaci commenti – Rumori).

DE GASPERI, Presidente del Consiglio dei Ministri. A questo riguardo, devo osservare – l’abbiamo detto altre volte, ma bisogna ripeterlo – che noi, come Governo, abbiamo l’obbligo di cercare e vigilare, più che possibile, sopra l’onorabilità dei nostri funzionari. Questo è stato fatto in misura che nessun altro Governo ha fatto.

I miei colleghi possono dire che in ogni Dicastero si sono prese misure, e delle più gravi, che ho citato altre volte.

Abbiamo dato la sensazione che vogliamo, e possiamo e sappiamo fare in questa materia.

Però, devo aggiungere: credo non sia intenzione dell’Assemblea di lasciare che pesi, oltre che sul Governo, sulla burocrazia il sospetto che si tratti nella maggioranza di gente che debba essere vigilata, perché non si lasci corrompere.

Altra volta io non mi son lasciato sfuggire l’occasione – e lo ha fatto anche il Ministro Scoccimarro – per dichiarare che la maggior parte dei funzionari è costituita da persone onorate, che resistono a tutte le tentazioni da parte dei corruttori, i quali appartengono a ben altre categorie. Ed io in questo momento ho il dovere di dire: non generalizziamo; il Governo sa, in via di massima, di avere al suo servizio una burocrazia onesta, la quale non sarà all’altezza in tutti i suoi compiti perché purtroppo, attraverso il ventennio fascista, anche la qualità è venuta a scarseggiare, ma che merita il nostro rispetto e lavora in condizioni difficili. (Approvazioni).

CORBINO. Chiedo di parlare.

PRESIDENTE. Ne ha facoltà.

CORBINO. Mi sono deciso all’ultimo momento a presentare il mio ordine del giorno, che – a giudizio dell’onorevole Presidente del Consiglio – non dice niente. Io penso – dal momento che il Governo ha dichiarato di non voler fare una questione di fiducia politica – che forse su questo ordine del giorno potremmo raggiungere l’unanimità; mentre sugli altri ordini del giorno, o da una parte o dall’altra, vi sono delle perplessità, e delle riserve che non vanno riferite alle persone dei due Ministri Campilli e Vanoni. Io devo, infatti, constatare che tutti gli oratori hanno detto che nella relazione c’è tanto da poter ritenere questi due Ministri come esenti da qualsiasi ombra di rimprovero per quella che è stata l’origine della inchiesta. Vi sono delle altre ombre che vanno al di là della loro persona; ma la loro persona a mio giudizio è fuori causa, e, mentre all’inizio della seduta un ordine del giorno puro e semplice non sarebbe stato conveniente, dopo che tutti hanno parlato e per il modo con cui hanno parlato, l’ordine del giorno puro e semplice potrebbe chiudere ottimamente una discussione, nella quale vi è un fondo politico.

È bene che noi su questo punto si parli chiaro; perché noi non vogliamo la crisi. Lo creda pure il Presidente del Consiglio, che nessuno di noi è desideroso di prendere la sedia coi chiodi sulla quale egli in questo momento è seduto.

DE GASPERI, Presidente del Consiglia dei Ministri. Lo so bene.

CORBINO. Quindi non si tratta di crisi, ma di rafforzare l’autorità ed il prestigio dello Stato.

Io mi domando (ed è un quesito che mi sono posto durante tutta la giornata) se la nostra discussione oggi sarebbe stata diversa qualora i due Ministri Campilli e Vanoni, invece di essere ancora Ministri, fossero stati due semplici Deputati. Ed io mi domando se nel voto che noi andremo a prendere non vi sia l’influenza di qualche cosa che sta dentro di noi, ma che probabilmente ciascuno di noi avrebbe timore di dire. Io personalmente sono disposto a dire a Campilli e Vanoni: voi uscite bene da questa inchiesta, ma tutti saremmo disposti a dirlo più nettamente se avessimo la certezza che domani essi non saranno più al banco del Governo. Io sono abituato a dire le cose chiare come le penso e non ho bisogno di mandarle a dire, mi sono riferito a questa certezza non perché io non li reputi adatti a stare a quel posto anche dal punto di vista morale, ma perché io ritengo che quando si sta a quel posto, uscendo da una situazione come quella dalla quale essi escono, sarebbe nell’interesse del Governo che loro per i primi dicessero: abbiate pazienza, noi siamo stati riconosciuti uomini d’onore, ma uomini di Governo in questo momento non vogliamo essere più. Così io vedo il problema, che diventa quindi problema di solidarietà politica ministeriale, e un problema di solidarietà politica nell’Assemblea. Ma mi consenta il Presidente del Consiglio di rilevare che la solidarietà politica ministeriale non ha trovato la sua eco nella solidarietà politica dell’Assemblea, perché da questi banchi hanno parlato gli esponenti dell’opposizione, hanno parlato gli esponenti della Democrazia cristiana, ma gli esponenti degli altri due gruppi che sono al Governo non hanno parlato. (Approvazioni).

Ed allora io mi domando: che cosa c’è sotto a questo silenzio dal punto di vista politico? Perché la solidarietà di partito che avvertono i colleghi della Democrazia cristiana verso i loro colleghi di Gabinetto non si estende alla solidarietà politica dei tre partiti che formano il Governo dentro l’Assemblea? Noi fino a questo momento non sappiamo, per voci autorizzate di questi partiti, se, di fronte all’ordine del giorno Grassi, saremo soli a votare a favore o contro, o con noi ci saranno anche altri gruppi o se in questi gruppi, non ci sarà quella disciplina che talvolta si osserva in occasioni di minore portata politica. Ecco il dubbio che ciascuno di noi ha in questo momento.

Ho parlato con franchezza, con quella rudezza che, a mio giudizio, era necessaria per esporvi – per lo meno – la mia crisi di coscienza, che forse non è soltanto mia, ma è crisi di coscienza di molti, e che nasce dal fatto che in molti di noi c’è stima per i colleghi che hanno subito questo infortunio – come se ne subiscono tanti nella vita politica – c’è stima per i colleghi della Commissione che si sono cavati da un compito estremamente difficile e delicato, non soltanto per i suoi aspetti tecnici, ma anche per il substrato politico che tutti abbiamo sentito e che oggi è qui affiorato. Di fronte a tutto ciò io mi domando se non convenga al Governo di accettare il mio ordine del giorno.

Io non intendo premere: sarebbe, forse, questa la maniera migliore di uscirne e non ne deriverebbe quel disastro politico al quale ha accennato il Presidente del Consiglio, perché, in sostanza, la solidarietà ministeriale non potrebbe legare le persone dell’onorevole De Gasperi e dei suoi colleghi tutti di gabinetto, con gli altri due, fino al punto da doverli tenere per forza al banco del Governo.

Ad ogni modo, per risparmiarmi una dichiarazione di voto, nel caso in cui il mio ordine del giorno fosse respinto, io dichiaro che sull’ordine del giorno Grassi – che è stato accettato dal Governo – mi asterrò dalla votazione. Mi asterrò allontanandomi, per la prima volta, dal mio atteggiamento netto in materia politica; mi asterrò perché intendo dare un «sì» all’ordine del giorno Grassi per quello che concerne le persone dei Ministri Campilli e Vanoni, come risultato della indagine fatta dalla Commissione; ma dovrei votare « no » perché, altrimenti, io darei un significato di fiducia al Governo che, per le ragioni che ho detto, che escono dal campo morale per entrare nel campo politico, io in questo momento non mi sentirei di dare.

Su questa posizione ho l’impressione che molti amici dell’Assemblea potrebbero addivenire a seguirmi.

TOGLIATTI. Chiedo di parlare.

PRESIDENTE. Ne ha facoltà.

TOGLIATTI. L’onorevole Corbino, nella sua dichiarazione di voto, si è posto una domanda, una domanda che mi sembra stia diventando di moda, quando si parla dei paratiti che siedono in questi settori dell’Assemblea, e particolarmente del nostro Partito, si è chiesto: che cosa c’è sotto? Che cosa c’è sotto, cioè, al fatto che rappresentanti del nostro Partito non hanno parlato, fino ad ora, nel dibattito che qui si è svolto.

Onorevoli colleghi, non avevamo nessun motivo per parlare. Il dibattito ha preso qui, infatti, un carattere quasi giudiziario. Ma qui non siamo in un’aula giudiziaria; qui non siamo in tribunale, onorevole Venditti, non siamo né in Assise né in Pretura, onorevole Crispo! L’organismo giudiziario, in questo caso, c’è già stato; il dibattito a tipo giudiziario ha già avuto luogo, ed ha avuto luogo precisamente in seno alla Commissione degli Undici, dove siede il nostro rappresentante insieme ai rappresentanti di tutte le altre parti dell’Assemblea. Quello era il luogo, ed è stato il luogo, del dibattito di tipo giudiziario. Noi ora ci troviamo di fronte al risultato di questo dibattito, risultato che è, si potrebbe dire, una sentenza. La Commissione ci rappresenta, ci rappresenta tutti, ed è, in sostanza, l’Assemblea stessa come organismo giudicante delle questioni che le sono state sottoposte. Avendo letto la sentenza da essa emessa, non abbiamo trovato nessun motivo per infirmarla o discuterla. Abbiamo ritenuto e riteniamo che la sentenza sia giusta e come tale la accogliamo. Per questo, non avevamo nessun motivo e nessuno interesse per intervenire nel dibattito a tipo giudiziario che qui si è svolto nel pomeriggio. Possiamo, quindi, limitarci a fare uria dichiarazione di voto. E poiché, come ho detto, accettiamo il giudizio, lo facciamo nostro, ed esso è, anzi, nostro per il modo stesso come è stato elaborato, accettiamo quell’ordine del giorno il quale dice questo in modo esplicito, e lo accoglie in tutte le sue parti. Poiché, infine, in questo giudizio esiste una esplicita dichiarazione, nella quale si scagionano i Ministri Campilli e Vanoni per le accuse che loro erano state fatte, è evidente che anche questa parte della sentenza l’approviamo.

L’onorevole De Gasperi ha posto la questione della onorabilità dei Ministri e dell’esplicito riconoscimento di essa. È giusto. È giusto porre questa questione come Governo, in quanto questa fiducia reciproca è condizione stessa, elementare, dell’esistenza di un governo. È giusto anche per quello che si è detto, che i Ministri devono essere come la moglie di Cesare. Anzi, è da augurarsi che questa massima valga non solo per Cesare, per i Ministri e per le loro mogli, ma anche per tutti i membri della famiglia dei Ministri stessi. (Ilarità). Tutti dovrebbero essere così. Tutti dovrebbero esser tali che non si possa avere contro di loro nessun sospetto.

Accettiamo quindi, ripeto, quell’ordine del giorno dove queste cose vengono dette in modo esplicito, e accettiamo l’ordine del giorno Grassi, perché la sua formula è la più ampia.

L’onorevole Corbino, ha però voluto fare, mi sembra, una questione di politica e di Governo. A questo proposito ritengo abbia fatto bene l’onorevole Presidente del Consiglio a non porre la questione di fiducia ed a porre invece un problema più generale, come è detto nella formulazione dell’ordine del giorno che noi accettiamo. E, del resto, l’onorevole Corbino è sceso sul terreno della politica in modo assai curioso, perché, in fondo, ha detto che egli approverebbe, che sarebbe d’accordo di dire di sì, per quello che si riferisce al riconoscimento della onorabilità dei due Ministri; però non lo può dire, perché dirà sì anche questo nostro settore dell’Assemblea.

CORBINO. No, non è questo.

TOGLIATTI. Così ho inteso e così credo che abbiano inteso almeno una gran parte dei miei colleghi.

Noi invece diciamo sì non soltanto per motivi politici, ma diciamo sì perché crediamo alla onorabilità di questi Ministri, e perché la Commissione stessa ci ha dato gli elementi sulla base dei quali dobbiamo credervi. Vorremmo inoltre che questo fosse un voto non solo di quei partiti che appoggiano il Governo, ma di tutti i partiti.

In realtà, e in questo riconosco che ha ragione l’onorevole Corbino, ci troviamo qui di fronte a questioni molto più larghe che investono problemi molto più profondi.

Prima di tutto non possiamo chiudere gli occhi di fronte alla realtà che in alcuni settori delle Amministrazioni dello Stato vi è qualche cosa che non va, residuo del passato e di un duplice passato. Vi è il passato fascista di corruzione e degenerazione del costume amministrativo italiano; ma vi è anche un passato molto più recente. Sono passati sul nostro territorio e hanno retto tutto il nostro Paese eserciti non nazionali. Vi sono state a lungo in tutta Italia amministrazioni straniere e non oserei dire che queste amministrazioni, soprattutto in particolari parti del nostro Paese, abbiano contribuito per il modo come amministravano a distruggere tra i cittadini italiani l’opinione che il sistema delle mance è un sistema arretrato, incivile, antidemocratico, che deve essere abbandonato. Questo duplice passato di corruzione non lo dobbiamo dimenticare. Esso ha lasciato tracce profonde in fenomeni che dobbiamo combattere con tutte le forze nostre, anche se questo richieda tempo, energia e sacrificio.

Del sistema dei controlli sull’Amministrazione ho parlato in altra sede. Esso pure non va, perché i cosiddetti organismi di controllo sono troppo lontani dal funzionamento immediato delle amministrazioni, e male orientati nel loro lavoro. Vi sono organismi di controllo cosiddetto finanziario che si occupano soltanto di mettere impacci all’attività di quei Ministri che vorrebbero amministrare in modo più moderno e prendere le misure richieste dalle condizioni della nostra economia e della nostra finanza. Altri organismi di controllo perdono il loro tempo a rivedere le sentenze di epurazione. Il sistema dei controlli, quindi, non va e sarà questa una delle questioni più gravi che dovremo affrontare in questa Assemblea e nelle future Assemblee legislative, per stabilire un sistema di controlli sull’amministrazione per cui i cittadini possano acquistare piena coscienza che l’amministrazione è onesta, e avere piena fiducia in essa.

Nelle condizioni attuali, se si vuole che l’amministrazione sia ben diretta e funzioni bene, non vi è che una strada: bisogna scegliere bene gli uomini che poniamo alla testa delle amministrazioni, cioè i Ministri; non gravarli di eccessivo lavoro e di eccessiva responsabilità, dirigerli bene e controllarli attraverso il Governo stesso.

Ma oltre a questo vi è un secondo gruppo di questioni strettamente politiche che il nostro dibattito solleva. Mi scusi, onorevole Corbino, se mi rivolgo a lei, ma ella è il solo che sinora ha fatto una dichiarazione di voto ed ha accennato a crisi di Governo, asserendo di non avere nessuna intenzione di aprirne una, dicendo anzi che è lungi da lei l’intenzione di andare a sedere su quella sedia su cui siede oggi l’onorevole De Gasperi.

CORBINO. Sarebbe troppo grossa!

TOGLIATTI. È probabile che le cose stiano così, per quello che riguarda le sue intenzioni personali; non è vero però che non vi siano forze politiche le quali sarebbero molto contente che vi fosse in Italia una crisi di Governo ogni due o tre mesi, perché questo servirebbe soprattutto a screditare la democrazia, e si tratta precisamente di forze politiche che hanno tutto l’interesse al discredito della democrazia, di gruppi sociali e politici, i quali non vogliono che un regime democratico repubblicano si rafforzi, che metta salde radici nella realtà della vita nazionale o nella coscienza del popolo. Di qui derivano anche, almeno per una parte, le campagne di voci, di scandali, come quelle che hanno dato luogo all’inchiesta che si è conclusa con la sentenza che sta davanti a noi.

Sappiamo benissimo chi muove le molle di queste campagne, e con quali intenzioni esse vengono condotte. Vi è qualcuno che non si adatta al fatto che l’Italia sia diventata un regime democratico e repubblicano; vi è qualcuno che non si adatta alla convinzione che la tirannide fascista l’abbiamo distrutta e seppellita per sempre e cerca tutte le strade per riuscire, screditando la democrazia, a creare situazioni in cui spera di poter ancora una volta giocare delle carte analoghe a quelle del passato.

Alle volte, quando leggo i giornali pieni di articoli, di titoli vistosi, ecc., che suonano continuo attacco alla democrazia, sono preso dalla tentazione di fare la proposta che siano ammesse le rivelazioni e campagne scandalistiche soltanto da parte di coloro che hanno avuto il coraggio di denunciare gli scandali del regime fascista quando essi erano in atto. Invece in questi Popoli d’Italia – scusate, in queste Ore d’Italia – che escono adesso (ma è la stessa cosa) o negli altri giornali di questo genere, scrivono uomini, i quali oggi si atteggiano a denunciatori delle malefatte del regime democratico, ma ieri si prosternavano ai piedi di uno Starace, di un Turati Augusto, e peggio ancora, e sarebbero molto contenti domani di ripetere analoghe funzioni e a quelle situazioni vorrebbero spingerci di nuovo. Non possiamo quindi che essere guardinghi e dire a tutto il popolo di stare attento.

Lottiamo per risanare la nostra Amministrazione, lottiamo contro ogni sintomo o apparenza di corruzione, ma teniamo gli occhi aperti contro i pericoli che minacciano il regime democratico. Lottiamo con fiducia reciproca, fra di noi che siamo democratici, fra di noi che vogliamo la rinascita del nostro Paese e il suo rinnovamento profondo. Collaboriamo per rinnovare il Paese. Non si tratta, onorevole De Gasperi, di portare una croce. Per chi ha la fiducia del popolo e ha fiducia nel popolo, il potere non è una croce. Bisogna però sapersela guadagnare la fiducia del popolo, e sapersela mantenere. Allora si può andare avanti con tranquillità, correggere gli sbagli, e gli errori, e lavorare tutti insieme per il rafforzamento delle istituzioni democratiche e repubblicane.

Onorevoli colleghi, è per questi motivi e con questo spirito che il Gruppo parlamentare comunista voterà compatto e disciplinato per l’ordine del giorno presentato dall’onorevole Grassi. (Applausi a sinistra).

NENNI. Chiedo di parlare.

PRESIDENTE. Ne ha facoltà.

NENNI. Onorevoli colleghi, il Gruppo parlamentare socialista non aveva nessun motivo di intervenire in questo dibattito, giacché quando è stata comunicata all’Assemblea la relazione della Commissione degli Undici, ha espressamente domandato che nessuna discussione su di essa si aprisse, e che l’Assemblea si limitasse a prenderne atto.

Non ho l’impressione che la discussione di oggi abbia aggiunto qualche cosa di utile ai lavori ed alle conclusioni della Commissione.

Noi siamo questa sera esattamente al punto in cui eravamo allorché il Presidente della Commissione degli Undici dette comunicazione di quella che è stata chiamata una sentenza; e noi potevamo quindi allora – e lo avremmo potuto oggi – limitarci a prendere atto della sentenza. In questo senso, l’ordine del giorno puro e semplice che era stato da noi suggerito, che è stato qualche istante fa proposto dall’onorevole Corbino, ci appariva come la conclusione adeguata ai lavori della Commissione, all’atmosfera dell’Assemblea e alle esigenze del Paese.

Il Presidente del Consiglio non ha accettato l’ordine del giorno puro e semplice, per le considerazioni che ha esposto pochi minuti fa e che si riferiscono alle interpretazioni diverse e contraddittorie che sono state date alla relazione della Commissione.

L’ordine del giorno dell’onorevole Grassi, che il Governo ha accettato, agli occhi nostri non è che una parafrasi delle conclusioni a cui è arrivata la Commissione degli Undici. A nostra richiesta esso premette l’approvazione della relazione degli Undici, il che era indispensabile, dopo le critiche incaute che da taluni banchi e da taluni giornali sono state mosse alla relazione stessa; prende atto che la Commissione non ha trovato, nel corso delle sue indagini, motivo alcuno per approvare o valorizzare le accuse d’ordine morale mosse a due Ministri dell’attuale Gabinetto; ribadisce la richiesta formulata dalla Commissione circa la necessità di misure tendenti a risanare l’atmosfera delle pubbliche amministrazioni.

Da un punto di vista strettamente logico, non vi è differenza fra l’ordine del giorno puro e semplice da noi suggerito e dall’onorevole Corbino proposto, e l’ordine del giorno dell’onorevole Grassi. Siamo sempre sul terreno della approvazione dell’opera svolta dalla Commissione e delle conclusioni a cui essa è pervenuta, senza sconfinamenti nel campo politico.

Tale sconfinamento è implicito invece nelle parole dell’onorevole Corbino e nell’atteggiamento di alcuni gruppi dell’Assemblea, che si sono spostati sul terreno della fiducia o della sfiducia nel Governo. Noi socialisti pensiamo che se una crisi ci deve essere, essa deve avvenire sul solido terreno del programma che il Governo ha esposto nelle ultime settimane e degli atti che il Governo ha compiuto e sta compiendo nella lotta diretta contro l’inflazione, e che, secondo noi, va diretta con pari energia anche contro la miseria.

Allorché si discuteranno questi che sono i due fondamentali problemi del Paese, entreremo in pieno in un dibattito di natura politica. Oggi non abbiamo che da accogliere le conclusioni oneste, serene, imparziali, della Commissione degli Undici.

Per queste ragioni noi voteremo l’ordine del giorno Grassi. (Applausi a sinistra).

GIANNINI. Chiedo di parlare.

PRESIDENTE. Ne ha facoltà.

GIANNINI. Signor Presidente, onorevoli colleghi. Il Gruppo parlamentare del Fronte liberale democratico dell’Uomo Qualunque voterà contro l’ordine del giorno Grassi. Ma sia ben chiaro che, votando contro l’ordine del giorno Grassi, noi non intendiamo votare contro le fatiche della Commissione, di cui ringraziamo l’illustre Presidente e i componenti. Noi votiamo contro l’ordine del giorno Grassi perché quell’ordine del giorno implica la fiducia nel Governo.

È bene, a questo punto, che da parte nostra si faccia un’altra dichiarazione. Questo nostro atto, questo nostro voto contrario, non è un episodio della nostra lotta contro la Democrazia cristiana, che noi combattiamo, e continueremo a combattere, ma non su questo bensì su altro terreno, più degno, che può onorare l’uno e l’altro partito.

Noi non dimentichiamo che in Italia c’è stata una lunga guerra civile, oltre a una lunga e disastrosa guerra militare, e ci rendiamo conto di tutte le tragedie, e purtroppo anche di tutte le farse a cui può aver dato luogo…

Una voce a sinistra. E anche epopea!

GIANNINI. E anche epopea, a cui abbiamo partecipato col sangue dei nostri cari, senza contare le epopee precedenti alle quali abbiamo partecipato con onore, personalmente.

Voglio dire che noi non prescindiamo dall’inevitabile disordine degli animi e delle cose. Ma non possiamo dimenticare nemmeno questo fatto: noi abbiamo chiesto, noi che abbiamo avuto esperienza dal fascismo molto più viva, perché ci abbiamo vissuto, noi abbiamo chiesto che si finisse, man mano che finiva la guerra militare, man mano che finiva la guerra civile, che si smettesse, che ci si togliesse la bardatura guerresca, questo disciplinamento di tutte le attività commerciali, industriali, perfino artistiche del popolo italiano, regolate da un Governo centralizzato, il quale va diventando sempre più una spaventosa piovra che abbraccia e soffoca tutto il Paese.

Questo noi abbiamo chiesto. Noi deploriamo non la persona del Ministro Campilli, la cui posizione finanziaria e la cui onorabilità personale sono tali da non autorizzare il sospetto che egli possa aver voluto fare un aggiotaggio in borsa per guadagnare pochi milioni (Si ride) che a lui non servono. Questa accusa poteva essere fatta a me o all’onorevole Togliatti, che si proclama povero! (Si ride).

Noi deploriamo che viga un sistema di Governo per cui un Ministro del tesoro o un suo funzionario, con un semplice telegramma, possano scombussolare la vita delle Borse; è questo accentramento, è questa centralizzazione, è questo far dipendere tutta la Nazione da un palazzo, e magari da una stanza di questo palazzo, e magari da una scrivania in questa stanza, che noi respingiamo. Ed è questo contro cui noi votiamo, votando contro l’ordine del giorno dell’onorevole Grassi. (Commenti Si ride).

Onorevoli colleghi, io vi ringrazio della vostra ilarità, ma non credevo di star dicendo cose spiritose.

Ho davanti un giornale non sospetto, diretto dal mio fiero avversario Umberto Calosso. Leggo su questo giornale un titolo: «Una licenza d’importazione per 200 mila quintali di zucchero dal Perù concessa in 24 ore a un consorzio che aveva una settimana di vita e soltanto 50.000 lire di capitale».

Non ho letto l’articolo, quindi non sono in grado di giudicarlo; ma quello che so è che per importare dal Perù 200 mila quintali di zucchero occorre un permesso. È un regime nel quale per tutto occorre il permesso, porta fatalmente al commercio dei permessi.

L’onorevole Presidente del Consiglio ha fatto le lodi della burocrazia italiana. Io mi permetto di ricordargli che le ho fatte anch’io. Ma è certo che quando si danno 25, 26, 27 mila 733 lire al mese a un funzionario, non si ha il diritto di lasciargli amministrare miliardi e pretendere ch’egli abbia un cuore di diamante e non tocchi ciò che potrebbe toccare. È un assurdo. Con questo sistema di centralizzazione noi mettiamo della povera gente, il più delle volte ignara dei grandi affari, il più delle volte incapace non dico di farli, ma di concepirli, alla mercé degli speculatori che gli affari li fanno e devono farli, e fanno bene a farli perché una nazione di affari vive. Ma mettendo questa ignara burocrazia alla testa di affari così importanti, noi finiamo in sostanza col tenere tutto il Paese prigioniero di questi affari. Sia dunque ben chiaro il significato del nostro voto contrario. Noi non vogliamo approfittare d’una circostanza non felice per danneggiare avversari politici; intendiamo solo portare qui, ancora una volta, la protesta dell’Uomo e della Donna qualunque d’Italia contro lo Stato politico, accentratore e fatalmente totalitario. (Applausi a destra).

NITTI. Chiedo di parlare.

PRESIDENTE. Ne ha facoltà.

NITTI. Io spero che questa discussione finisca al più presto. Troppi hanno parlato. L’onorevole Presidente del Consiglio ha voluto oggi riconoscere e dichiarare l’estrema gravità della situazione attuale dell’Italia. Troppe volte io l’ho detto, e sono stato inascoltato, che si andava verso una situazione fallimentare la quale, mi dispiace dirlo, è ancora più grave di quella che l’onorevole De Gasperi vede.

In questa situazione, non abbiamo tempo da perdere, almeno per i provvedimenti più urgenti. Due mesi si sono perduti per adottare una qualsiasi politica finanziaria, che riguardasse almeno i provvedimenti di urgenza.

Mi dispiace che non si faccia una politica di resistenza, una qualsiasi politica, e che l’onorevole Campilli, che ha intelligenza e col quale avevo voluto discutere spesso dei possibili rimedi, non abbia potuto dedicare le sue forze a quello che doveva essere lo scopo principale della sua attività in questo torbido periodo.

Sono stato Ministro del tesoro in ore difficili, e so cosa vuol dire il Tesoro in un momento come questo. Mi auguro che l’onorevole Campilli riprenda il suo posto con coraggio. Non seguo l’onorevole Corbino nell’augurio gentile che l’onorevole Campilli accetti egli stesso il suo sacrificio non necessario. (Approvazioni).

Non ammetto tutti i discorsi catastrofici che ho udito sui suicidi che si sono fatti in altri tempi, sugli uomini che si sono sacrificati perché non sono stati riconosciuti virtuosi. Se la colpa non è provata non vi sono sacrifici necessari: cerchiamo di vivere con volontà di vivere. (Approvazioni).

Approvo dunque l’ordine del giorno del mio collega Grassi, soprattutto – bisogna dichiararlo lealmente – perché non implica la fiducia nel Governo.

Non è questo il momento, e lo stesso onorevole De Gasperi l’ha riconosciuto, in cui possano chiedersi su una questione simile voti di fiducia. Noi vogliamo votare esclusivamente sulle questioni che ci sono state prospettate, e che abbiamo già troppo a lungo discusso.

Non possiamo continuare dunque a fare discorsi inutili, mentre situazioni gravissime e urgenti richiedono tutta la nostra attenzione.

Se questa Assemblea vuole ancora la fiducia del Paese, ricordi che questa fiducia può averla a condizione che non si separi dalla realtà.

Voto dunque l’ordine del giorno Grassi e sarò lieto di ogni cosa che si indirizzi verso la realtà. Ma trovo orribile che in materia simile si parli di crisi. Le crisi io le ho sempre temute, perché ad ogni crisi ho sempre veduto un Ministero peggiore del precedente. (Si ride – Commenti). Crisi non si possono fare decentemente se non per contrapporre un programma a un altro, l’opera di un Governo a quella di un altro in cui non si ha fiducia. Quindi non sono fautore di crisi determinate da malcontenti o da gelosie ed equivoci. Bisogna che l’Italia si renda conto del pericolo in cui vive e l’Assemblea compia il suo dovere sollecitamente e riprenda il suo lavoro. (Applausi).

CAPPI. Chiedo di parlare.

PRESIDENTE. Ne ha facoltà.

CAPPI. Onorevoli colleghi, avevo deliberato di intervenire nella discussione, poi vi ho rinunciato, limitandomi ad una telegrafica dichiarazione di voto, perché avevo pensato, anzi sperato, di intervenire in una diversa atmosfera. Mi ero illuso che, esaminata attentamente e serenamente la relazione della Commissione degli Undici, vi dovesse essere unanimità nel constatare che erano state dichiarate e dimostrate infondate le accuse mosse ai due uomini di Governo. Questo invece non è stato, perché vari oratori hanno dichiarato di non ritenere che le conclusioni della Commissione d’inchiesta significhino pieno esonero di responsabilità dei due Ministri.

Nulla ho a dire sulle opinioni divergenti espresse da questi colleghi. Un rilievo però devo fare che mi lascia perplesso.

Comprendo che in materia di valutazione morale, e non politica, diverse possono essere le opinioni; ma ciò che mi lascia perplesso è questo: che le diversità di opinioni si siano concentrate in determinati gruppi politici. La serenità del giudizio non fu turbata dalla passione politica?

Perciò, dopo gli interventi dei miei amici di Gruppo, devo limitarmi a dichiarare che il Gruppo della democrazia cristiana voterà l’ordine del giorno Grassi.

Mi sia consentito un rilievo ad osservazioni fatte da qualche oratore.

Il rilievo è questo: che questa nostra giovane Assemblea, che questa nostra giovane democrazia, messa dalla sorte ad una nuova e difficile prova, quando, come in altri Parlamenti del passato, si è sollevata una questione morale, ha dimostrato di saper vincere la prova. Se, di fronte alla esplosione improvvisa e, vorrei dire, brutale, delle accuse, poté avere qualche momento di sbandamento e di smarrimento, seppero, poi, questa nostra Assemblea e questo mio Partito, che delle accuse era fatto bersaglio, trovare la via giusta e maestra.

La giovane democrazia seppe dimostrare che, per una superiore esigenza di moralità e di giustizia, passava sopra anche ad eccezioni ed a questioni di forma, che avrebbero potuto essere legittimamente fatte, perché anche la forma è tutela e garanzia di giustizia; vi passava sopra, perché nella grande aria della libera discussione tutti i fatti fossero conosciuti e giudicati.

Questo torna ad onore del nuovo regime.

E, per concludere, lasciate che mi riferisca ad un recente ricordo. Io ebbi l’onore di far parte della Commissione che si occupò dell’incidente Finocchiaro Aprile-Parri. Se non ricordo male, fu proprio l’onorevole Parri, che, davanti alla Commissione, con parola accorata, fece il rilievo della triste condizione in cui si trovava l’uomo onesto, che si vedeva fatto bersaglio di accuse sfornite di qualsiasi elemento di prova, al punto da rendere difficile, quasi impossibile, l’esercizio del diritto alla difesa.

Egli rilevò, questa triste psicologia del nostro popolo, che presta facile, direi avido, orecchio alle accuse, anche le più assurde ed infamanti, ed esercita poi il più ostinato scetticismo ed il più sottile ingegno nel porre in dubbio le affermazioni dell’uomo che si difende.

Cosicché – triste constatazione – si può dire che oggi in Italia vi sia la presunzione che gli uomini e, specialmente, gli uomini che coprono alti uffici pubblici, siano disonesti. Questo è un triste retaggio di secoli di servitù nostrana e straniera. Perché, dove manca la libertà, ivi alligna il sospetto, alligna la vociferazione malevola, che sono, in fondo, la spontanea reazione dell’intimo senso di giustizia, che è in tutti gli uomini. Dove, invece, è regime di libertà, questo malcostume deve essere sradicato.

Ritengo che la conclusione, su cui tutti siamo concordi, sia questa: di trarre da questo triste episodio l’augurio che esso dimostri al popolo come in libero reggimento vi sia libertà, la più ampia, di conoscere, vagliare e giudicare i fatti. Così, io credo, noi potremo concorrere validamente alla ricostruzione morale dell’anima italiana. (Applausi al centro).

(La seduta, sospesa alle 21.5, è ripresa alle 21.20).

PACCIARDI. Chiedo di parlare.

PRESIDENTE. Ne ha facoltà.

PACCIARDI. Onorevoli colleghi, il Gruppo repubblicano non ha partecipato a questa penosa discussione e non ha nemmeno presentato ordini del giorno.

D’altra parte, dinanzi al necessario ed inevitabile schieramento dei Gruppi, ci è sembrato che non fosse nella nostra tradizione rinchiuderci nel silenzio.

Noi da questi banchi, tradizionalmente, per questioni morali abbiamo sempre preso una posizione, come si dice, di punta. Oggi non nascondiamo le nostre perplessità. Sappiamo anche noi che queste campagne, molto spesso, sono alimentate da coloro che le muovono senza vere preoccupazioni morali, ma con preoccupazioni di altra matura.

D’altra parte, quando l’onorevole Finocchiaro Aprile ha mosso indiscriminatamente molti attacchi a personalità di questa Assemblea, abbiamo avuto occasione di deplorare la facilità con cui questi attacchi venivano mossi, e abbiamo anche noi solidarizzato, vivamente, affettuosamente con qualcuno che era stato dall’onorevole Finocchiaro Aprile ingiustamente attaccato.

Siamo perplessi anche per i riflessi personali che giudizi di questo genere hanno verso colleghi coi quali intratteniamo rapporti di cordialità, e con alcuni di essi, di fraternità.

Direi anche che, se dovessimo limitarci ad approvare la relazione, l’approveremmo senz’altro; se dovessimo anche dare un giudizio di carattere personale, sulla onorabilità dei Ministri che la relazione degli Undici ha giudicato, non dovremmo che seguire le orme della relazione, cioè pel senso che è stato dalla relazione ammesso per le accuse specifiche dell’onorevole Finocchiaro Aprile verso il Ministro Campilli specialmente, perché le accuse del Vanoni sono state provate, ma egli non era ancora Ministro, né Deputato quando compiva quegli atti dall’onorevole Finocchiaro Aprile rimproverati; se dovessimo limitarci ad approvare la relazione anche per questa parte personale, non avremmo nessuna difficoltà. Ma, secondo noi, la relazione va approvata nella sua integrità, con le sue circonlocuzioni volute, con le sue ombre volute, con le sue considerazioni volute, con le sue perplessità volute. E noi siamo in uno stato d’animo di perplessità che vi confessiamo, onorevoli colleghi; ed è per questo che ci asterremo dal voto sull’ordine del giorno che il Governo ha accettato.

Le perplessità derivano più dai contorni che dai fatti. È innegabile che non possiamo non essere accorati da un sistema che si è andato diffondendo; non è lecito che si diano – profittando del Governo e delle funzioni di Governo – dei canonicati di cui profittano i partiti politici. Non è lecito che dei familiari di Ministri siano, direttamente o indirettamente, mescolati in un affare di Stato, e non è lecito che nell’Amministrazione dello Stato vi siano ancora uomini che agiscono per proprio conto e in un modo sospetto. Noi abbiamo sempre, sin dall’inizio, anche quando facevamo parte del Governo, preso posizione per la moralità nell’Amministrazione dello Stato, ed è indubbio che la relazione su questo punto non possa non riflettere lo stato d’animo del Paese, che è veramente disorientato dinnanzi alla perpetuazione di sistemi che abbiamo ereditato da regimi che devono essere scomparsi per sempre e che non si devono proiettare, in questa delicata materia, nelle loro più facinorose ed anche più obbrobriose manifestazioni.

È per questo stato d’animo di perplessità, onorevoli signori del Governo, senza dare in questa sede il significato di sfiducia al nostro voto, perché il Governo non ha posto la questione di fiducia; senza dare neanche a questo voto un significato di condanna ai colleghi del Governo che sono stati sottoposti al giudizio della Commissione, ma di condanna esplicita, invece, verso questi sistemi dell’Amministrazione, che devono scomparire per sempre, è per questo stato d’animo che ci asterremo dal voto sull’ordine del giorno che il Governo ha accettato.

CODIGNOLA. Chiedo di parlare.

PRESIDENTE. Ne ha facoltà.

CODIGNOLA. Anche il nostro Gruppo si asterrà dal voto sull’ordine del giorno Grassi, per ragioni almeno parzialmente diverse da quelle espresse poc’anzi dall’onorevole Pacciardi.

Noi pensiamo che votando contro l’ordine del giorno Grassi daremmo l’impressione che restiamo perplessi sul valore della sentenza emessa dalla Commissione nei riguardi personali dei due Ministri, mentre teniamo a confermare che accettiamo la dichiarazione, secondo la quale l’onorabilità personale dei due Ministri è per noi fuori causa. Tuttavia votando a favore noi pensiamo che daremmo in sostanza un voto di fiducia al Governo e voteremmo un ordine del giorno che non tiene conto dell’esigenza di un intervento diretto ed energico del Governo in una situazione generale dello Stato che desta in tutti grandi preoccupazioni:

BRUNI. Chiedo di parlare.

PRESIDENTE. Ne ha facoltà.

BRUNI. Sono convinto dell’onorabilità dei Ministri Campilli e Vanoni e avrei votato a favore dell’ordine del giorno Grassi se esso non andasse più in là della semplice fiducia ai due Ministri. Il Governo, come tale, ha voluto porre di fatto la questione di fiducia su tale questione, scegliendo l’ordine del giorno dell’onorevole Grassi. Ha fatto malissimo. Le accuse riguardano le persone dei due Ministri, non le persone degli altri, non la politica del Governo. L’onorevole De Gasperi, di fatto, confonde, con la sua scelta, le due questioni. Egli non può evitare un voto politico e il mio voto sarebbe necessariamente politico, non morale sui Ministri accusati. La questione morale riguardante i due Ministri si trova perciò confusa con quella della fiducia da dare a tutta la politica del Governo. Perciò sarò costretto ad astenermi sull’ordine del giorno Grassi.

Non posso, infatti, votare a favore di un Governo che, per la sua direzione e per la sua compagine, ha dimostrato la sua radicale inefficacia ad affrontare i problemi più urgenti dell’ora. Né, infine, posso dare il mio voto di fiducia ad un Governo che, in occasione dello sciopero della tanto benemerita categoria dei professori medi, ha dato così evidenti dimostrazioni di autoritarismo, praticamente negando loro il diritto di sciopero con una minaccia di ricatto. (Commenti).

BASSANO. Chiedo di parlare.

PRESIDENTE. Ne ha facoltà.

BASSANO. Anche a nome dei miei amici del Gruppo demolaburista, dichiaro di non poter votare l’ordine del giorno Grassi. Io avevo presentato, insieme con l’onorevole Codignola, un ordine del giorno che mi sembrava rispecchiasse e sintetizzasse meglio dell’ordine del giorno Grassi le risultanze della relazione della Commissione. Perché, se è esatto che la Commissione ha dichiarato completamente esenti da colpa i due Ministri Campilli e Vanoni, e noi siamo stati lieti di prenderne atto – io soprattutto per i vincoli di personale amicizia che mi legano all’uno e all’altro – d’altra parte, però la Commissione stessa ha rilevato tutto uno stato di disordine amministrativo, la cui responsabilità non può non risalire al Governo, che ha il dovere di trarne le conseguenze e di prendere i provvedimenti necessari.

Se quindi, per queste ragioni, noi non possiamo votare l’ordine del giorno Grassi, non possiamo, però, neppure votare contro, in quanto, se votassimo contro, verremmo in certo qual modo a metterci in contradizione con noi stessi, perché quasi getteremmo una ombra di dubbio sulla figura dei due Ministri, che viceversa noi stessi siamo convinti debbano essere ritenuti completamente esenti da colpa.

Per queste ragioni dichiaro, a nome anche dei miei amici del Gruppo demolaburista, che ci asterremo dal voto sull’ordine del giorno Grassi.

BERGAMINI. Chiedo di parlare.

PRESIDENTE. Ne ha facoltà.

BERGAMINI. Dal giorno che è cominciata questa penosa discussione – adopero l’aggettivo dell’onorevole Pacciardi – e aggiungo per mio conto: amara, amarissima discussione, io ho desiderato vivamente, intensamente che uscisse qualche elemento sicuro, lampante, indiscutibile, che smentisse le accuse portate qui dall’onorevole Finocchiaro Aprile. In sostanza io facevo a me stesso l’augurio che ha fatto poc’anzi l’onorevole Grilli nel suo sincero e vibrante discorso. Ora, né dalla discussione, né dalla relazione d’inchiesta – secondo il mio modesto avviso – questo elemento decisivo, schiacciante, che potesse annullare interamente le accuse dell’onorevole Finocchiaro Aprile, non è venuto; il mio schietto desiderio è stato deluso e me ne duole.

L’ordine del giorno Grassi dice bensì che è «posta fuori causa l’onorabilità dei due Ministri». Io sarei molto lieto di questo se fosse incontrovertibilmente dimostrato, ma vorrei che tale affermazione non la facesse l’onorevole Grassi nel suo ordine del giorno, ma la facesse la Commissione d’inchiesta, la quale, avendo approfondita tutta la questione e avendo tutti gli elementi del giudizio, può dire se l’onorabilità dei Ministri è davvero fuori causa. Ma la Commissione tace e si rimane quindi nel dubbio. D’altra parte siccome si deve onestamente, lealmente riconoscere che non è venuta fuori in alcun modo la prova certa, risolutiva di quelle accuse, così, nella perplessità del mio spirito, nel disagio del mio animo, dichiaro che non potendo, in coscienza, avere una opinione netta, non fluttuante, nel dubbio, mi astengo dal voto.

GRILLI. Chiedo di parlare.

PRESIDENTE. Ne ha facoltà.

GRILLI. A nome del mio Gruppo dichiaro che non è stato e non è nostro intendimento di fare una questione personale contro i Ministri Campilli e Vanoni, e che ci atteniamo alle conclusioni prese all’unanimità dalla Commissione, di cui fa parte il nostro compagno D’Aragona.

Non possiamo però accettare l’ordine del giorno Grassi, che non permette quel supplemento d’inchiesta che noi desidereremmo. Per queste ragioni ci asterremo dal voto.

CRISPO. Chiedo di parlare.

PRESIDENTE. Ne ha facoltà.

CRISPO. Per le ragioni che ho ampiamente prospettate, e per le quali mi sembra chiara l’assurdità dell’addebito che mi è stato fatto: di avere, cioè, trasformata quest’aula in un’aula giudiziaria, perché io ho voluto soltanto – ed era mio diritto e dovere – interpretare il pensiero espresso dalla Commissione, dichiaro di votare contro l’ordine del giorno Grassi.

RUBILLI, Presidente e Relatore. Chiedo di parlare.

PRESIDENTE. Ne ha facoltà.

RUBILLI, Presidente e Relatore. La Commissione ha già dichiarato di astenersi.

PRESIDENTE. I presentatori degli altri ordini del giorno, con le stesse loro dichiarazioni di voto, hanno implicitamente accettato che l’ordine del giorno Grassi sia posto in votazione.

D’altra parte il Governo ha dichiarato di accettare tale ordine del giorno che deve, pertanto, avere la precedenza.

Pongo, quindi, in votazione l’ordine del giorno Grassi:

«L’Assemblea approva la relazione della Commissione degli Undici; prende atto che essa ha posto fuori causa l’onorabilità dei Ministri Campilli e Vanoni e sollecita le misure richieste dalla Commissione per liberare le Amministrazioni dello Stato da ogni residuo del passato ed elevarne il prestigio nella pubblica amministrazione».

(Dopo prova e controprova, e tenuto conto degli astenuti, è approvato).

Interrogazioni con richiesta di urgenza.

PRESIDENTE. È stata presentata la seguente interrogazione con richiesta di urgenza:

«Al Presidente del Consiglio dei Ministri e al Ministro dell’interno, sui fatti dolorosi di Petilia Policastro, in provincia di Catanzaro in cui contro una folla di cittadini inermi, che protestavano per il disservizio annonario, del quale era ed è responsabile l’Amministrazione comunale, i carabinieri di servizio non esitavano a sparare, provocando la morte di un operaio e di una donna, nonché il ferimento di quattro cittadini.

«Silipo, Musolino, Mancini, Priolo».

Il Governo ha dichiarato che risponderà a questa interrogazione in una delle prossime sedute.

È pervenuta inoltre alla Presidenza la seguente altra interrogazione per la quale è stato pure richiesto lo svolgimento d’urgenza:

«Al Ministro della pubblica istruzione, per avere tutti i necessari chiarimenti circa il suo atteggiamento relativamente allo sciopero degli insegnanti di scuole medie.

«Di Gloria, Rossi Paolo, Preti, Salerno, Binni, Filippini, Codignola, Lami Starnuti».

Chiedo al Governo quando intende rispondere.

GONELLA, Ministro della pubblica istruzione. Il Governo risponderà nella seduta di domani mattina a questa come pure alla seguente altra interrogazione presentata ieri dagli onorevoli Di Vittorio e Lizzadri:

«Al ministro della pubblica istruzione, sui motivi che hanno ritardato l’accoglimento delle giuste rivendicazioni del personale insegnante e non insegnante delle scuole medie, ed elementari e degli educandati nazionali, nonostante formali promesse fatte dal Governo da lungo tempo».

Sull’ordine del giorno.

PRESIDENTE. Comunico che l’onorevole Facchinetti per il Gruppo repubblicano, l’onorevole Togliatti per il Gruppo comunista, l’onorevole Bergamini e l’onorevole Grassi hanno chiesto che l’Assemblea sia convocata in Comitato segreto per l’esame di provvedimenti amministrativi interni.

La seduta avrà luogo domani, appena terminata quella pomeridiana, che avrà inizio alle 16.

Vi sarà, inoltre, seduta antimeridiana alle 10.

La seduta termina alle 21.45.

Ordine del giorno per le sedute di domani.

Alle ore 10:

  1. – Interrogazioni.
  2. – Seguito della discussione del progetto di Costituzione della Repubblica italiana.

Alle ore 16:

Seguito della discussione del progetto di Costituzione della Repubblica italiana.

Al termine della seduta: Comitato segreto.

POMERIDIANA DI MARTEDÌ 15 APRILE 1947

ASSEMBLEA COSTITUENTE

xc.

SEDUTA POMERIDIANA DI MARTEDÌ 15 APRILE 1947

PRESIDENZA DEL PRESIDENTE TERRACINI

INDICE

 

Congedi:

Presidente                                                                                                        

Progetto di Costituzione della Repubblica italiana (Seguito della discussione):

Presidente                                                                                                        

Cappi                                                                                                                 

Corsanego                                                                                                       

Nobili Tito Oro                                                                                                

Dominedò                                                                                                         

Costantini                                                                                                        

Carignani                                                                                                         

Tupini, Presidente della prima Sottocommissione                                                 

Veroni                                                                                                              

Tosato                                                                                                              

Leone Giovanni                                                                                                

Caroleo                                                                                                           

Crispo                                                                                                               

Calosso                                                                                                            

Badini Confalonieri                                                                                        

Merlin Umberto                                                                                              

Interrogazione con richiesta d’urgenza:

Presidente                                                                                                        

Cappa, Sottosegretario di Stato alla Presidenza del Consiglio                               

La seduta comincia alle 16.

SCHIRATTI, Segretario, legge il processo verbale della seduta precedente.

(È approvato).

Congedi.

PRESIDENTE. Hanno chiesto congedo gli onorevoli Lucifero e Condorelli.

(Sono concessi).

Seguito della discussione del progetto di Costituzione della Repubblica italiana.

PRESIDENTE. L’ordine del giorno reca: Seguito della discussione del progetto di Costituzione della Repubblica italiana.

Pongo in discussione l’articolo 22:

«I dipendenti dello Stato e degli enti pubblici sono personalmente responsabili, secondo le leggi penali, civili e amministrative, degli atti compiuti in violazione di diritti. Lo Stato e gli enti pubblici garantiscono il risarcimento dei danni arrecati dai loro dipendenti.

«La legge determina le condizioni e i modi per la riparazione degli errori giudiziari».

Sono stati presentati a questo articolo parecchi emendamenti. Il primo è quello dell’onorevole Codacci Pisanelli – già svolto nel corso della discussione generale – del seguente tenore:

«Sostituirlo col seguente:

«I dipendenti dello Stato e degli enti pubblici sono personalmente responsabili verso i cittadini e verso la pubblica Amministrazione, secondo le leggi penali, civili e amministrative, degli atti dolosamente o colposamente compiuti in violazione di diritti o interessi giuridicamente protetti. Lo Stato e gli enti pubblici sono solidalmente responsabili con i loro dipendenti per ogni danno dolosamente o colposamente arrecato nell’esercizio delle pubbliche funzioni a questi attribuite e, negli altri casi, sono direttamente responsabili per i danni derivati da atti governativi che ledano o anche legittimamente sacrifichino diritti o interessi giuridicamente protetti. La legge determina le condizioni e i modi per la riparazione degli errori giudiziari».

Gli onorevoli Cappi, Castelli Edgardo, Schiratti, Tosato, Recca, De Palma, Bastianetto, Tozzi Condivi, Bulloni, Lettieri, Chieffi, hanno presentato il seguente emendamento:

«Sostituire l’articolo 22 col seguente:

«Lo Stato e gli Enti pubblici sono responsabili – salvo rivalsa – degli atti illegali compiuti dai loro dipendenti.

«Le vittime di errori giudiziari hanno diritto di essere indennizzate dallo Stato».

L’onorevole Cappi ha facoltà di svolgerlo.

CAPPI. Rinunzio all’emendamento.

PRESIDENTE. L’onorevole Corsanego ha presentato i seguenti emendamenti:

«Al primo comma, dopo la parola: atti, aggiungere: o omissioni».

«Fare del secondo comma un articolo a sé».

Ha facoltà di svolgerli.

CORSANEGO. Propongo in primo luogo che alla parola «atti», scritta nel testo preparato dalla Commissione, siano aggiunte le parole «o omissioni»; per due motivi: i giuristi sanno che nella parola «atti» sono comprese anche le omissioni; però, poiché la Costituzione non è scritta soltanto per i giuristi, ma è scritta per il popolo, forse è opportuno aggiungere la parola «omissioni». Il secondo motivo è il seguente: di regola il cittadino si lamenta che i pubblici uffici omettano di compiere qualche cosa che a lui sta a cuore. Si presenta ad un ufficio per chiedere un documento, e questo non gli viene consegnato, o gli viene consegnato con molto ritardo. Quindi la negligenza degli uffici statali nei riguardi del cittadino è di solito una negligenza omissiva. Per questi motivi ho proposto di aggiungere la parola «omissioni».

Contemporaneamente ho proposto che il secondo comma dell’articolo 22 diventasse un articolo a sé; e questo non l’ho suggerito solo per ragioni di euritmia legislativa, ma per un motivo di tecnica giuridica. Se noi leggiamo infatti attentamente il secondo comma, immediatamente dopo aver letto il primo, ci sembra a prima lettura che il comma primo si riferisca agli errori giudiziari nei giudizi sulla responsabilità dei pubblici funzionari, mentre il secondo comma ha una portata molto più ampia, molto più generale.

Per questo motivo propongo che, pur restando immutato il testo del secondo comma, questo faccia parte a sé, come articolo.

PRESIDENTE. L’onorevole Nobili Tito Oro ha presentato il seguente emendamento:

«Al primo comma sopprimere le parole: Lo Stato e gli enti pubblici garantiscono il risarcimento dei danni arrecati dai loro dipendenti».

Ha presentato inoltre, unitamente agli onorevoli Tonello, Fogagnolo, Merighi, Faccio, Fornara, Giua, Tega, Barbareschi, Vernocchi e Costantini, il seguente emendamento:

«Subordinatamente all’emendamento soppressivo della fine del primo comma, sostituire alla parola: garantiscono, l’altra: assicurano».

L’onorevole Nobili Tito Oro ha facoltà di svolgerli.

NOBILI TITO ORO. I miei due emendamenti, onorevoli colleghi, prospettano una questione giuridica e ne propongono due soluzioni subordinate. Il primo comma dell’articolo 22 contempla i danni cagionati da dipendenti dello Stato o degli enti pubblici per violazione di diritti; si intende di tutti i diritti, illimitatamente; ne dichiara responsabili, in via penale, civile ed amministrativa, i dipendenti medesimi e dichiara che lo Stato e gli enti pubblici garantiscono il risarcimento dei danni prodotti da costoro: si intende, non v’ha dubbio e tuttavia sarebbe stato necessario dirlo, prodotti dai dipendenti nell’esercizio delle loro attribuzioni.

Si prospetta quindi la questione vessata, la questione storica, direi quasi, dei limiti di responsabilità dello Stato e delle pubbliche amministrazioni, per il fatto dei dipendenti. E pertanto non si può prescindere dal tener conto dello stato della dottrina e della giurisprudenza che si sono affermate in proposito sia nel campo giuspubblicistico sia in quello del diritto privato, in base alla legge positiva.

Ora, io non riesco a comprendere – e la relazione del Presidente della Commissione non ce lo spiega – perché si sia usata nel testo, là ove si parla dell’obbligo dello Stato di risarcire i danni, l’espressione «garantiscono». Giuridicamente non si tratta di una garanzia; si tratta bensì di una responsabilità diretta; e di questa responsabilità si è in passato molto discusso e molto dubitato.

Agli albori del nostro Codice si è addirittura osato negarla in pieno, in base alla teoria che lo Stato, come ente etico destinato ad organizzare il bene e, secondo alcuni filosofi, perfino la felicità dei cittadini, non possa essere chiamato responsabile dell’insuccesso dei suoi sforzi nel campo di questa organizzazione. Si è detto anche che lo Stato non può rispondere della cattiva scelta dei suoi dipendenti in quanto questa scelta sia avvenuta, come per legge, a mezzo di pubblico concorso. Si è fatta altresì distinzione fra atti patrimoniali e atti di imperio, per riconoscere la responsabilità nei primi e negarla per i secondi; in relazione agli atti dell’amministrazione militare, c’è stato un periodo in cui si è totalmente negata, sotto questo riflesso, la responsabilità dello Stato; ma siamo arrivati poi – e ci siamo arrivati da qualche tempo – al riconoscimento completo, sia da parte della dottrina in generale e di quella dello Stato in particolare, sia da parte della giurisprudenza regolatrice, non solo della giuridica sussistenza della responsabilità dello Stato, ma del suo carattere diretto, e cioè per fatto proprio (a rigore dell’art. 1151 del Codice civile abrogato e 2043 del Codice civile vigente) e non di carattere indiretto, e cioè per colpa del commesso, ai sensi degli articoli 1153 e – rispettivamente – 2049.

Beninteso deve farsi distinzione fra il fatto illecito, «colposo o doloso» (art. 2043 del Codice civile vigente), del dipendente e l’atto amministrativo, che è e resta insindacabile nel campo giudiziario e che può essere impugnato per illegittimità soltanto in sede amministrativa, sia in via gerarchica sia in via giurisdizionale. Questa distinzione va tenuta ben presente nella terminologia che dovrà essere usata nel testo definitivo dell’articolo.

Con questa precisazione, che pure era necessaria, insisto nella affermazione, evidentemente non valutata nella formulazione, che ormai da tempo la giurisprudenza della Corte Suprema, anche a Sezioni Unite, ha riconosciuto in pieno che lo Stato deve rispondere del fatto del proprio dipendente; e che ne risponde, come poc’anzi ho accennato, non per colpa indiretta del committente, e cioè per colpa institoria, ma per fatto proprio; in quanto lo Stato, non essendo persona fisica, ma ente morale, non può agire ed essere impegnato se non a mezzo e per fatto dei propri organi, e cioè dei suoi dipendenti. Onde, quando questi mancano e danneggiano i terzi per errore o per dolo, è lo Stato stesso che ha mancato e danneggiato e che deve riparare.

E così stando le cose, mi domando: perché usare il termine «garantire»? Non so se, dato l’uso inesplicabile di questo termine inusitato, vi si annidi qualche riserva mentale di carattere giuridico, o politico, qualche cautela nell’interesse dello Stato per eventuali rivalse, in quanto concretamente possibili, verso i dipendenti personalmente responsabili, ma effettivamente la formula dovrebbe essere la seguente: «Lo Stato risponde in proprio».

Se a una affermazione così rigorosa non si voglia arrivare, e se ne potrebbe fare a meno, perché essa, è conseguenza diretta e automatica della responsabilità del dipendente (primo emendamento), si presenta un’altra soluzione: adoperiamo una formula che non abbia carattere giuridico, come quella usata, che non è assolutamente la più indicata, in quanto si garantisce l’obbligazione altrui, non quella propria; ricorriamo ad altra locuzione, non giuridica, generica e quindi anodina, ma tale da far sicuri ugualmente coloro che possono essere danneggiati del diritto al risarcimento da parte dello Stato. Lasciamo impregiudicata la natura giuridica del diritto a questo risarcimento, ed adoperiamo la formula che: «lo Stato assicura il risarcimento dei danni» (emendamento subordinato). Diciamo quindi che: «lo Stato e gli enti pubblici assicurano il risarcimento dei danni prodotti dai loro dipendenti», e, vorrei aggiungere, «nell’esercizio delle loro funzioni».

PRESIDENTE. Segue l’emendamento, già svolto, dell’onorevole Veroni:

«Al primo comma, sostituire le parole: Lo Stato e gli enti pubblici garantiscono il risarcimento dei danni arrecati dai loro dipendenti, con le seguenti: È solidale la responsabilità dello Stato e degli enti pubblici per il risarcimento dei danni arrecati dai loro dipendenti».

L’onorevole Dominedò ha presentato tre emendamenti:

«Al primo comma, alle parole: garantiscono il risarcimento, sostituire le altre: rispondono direttamente, oppure: sono tenuti al risarcimento».

«Al primo comma, secondo periodo, dopo la parola: dipendenti; aggiungere: nell’esercizio delle loro funzioni».

«Trasferire il secondo comma all’articolo 19, quale terzo comma».

Ha facoltà di svolgerli.

DOMINEDÒ. Ho proposto due emendamenti al secondo periodo del primo comma all’articolo 22.

Il primo, e qui mi avvicino a quanto accennava l’onorevole Nobili Oro, ha lo scopo di sostituire l’espressione «garantiscono il risarcimento», la quale non sembra la più indovinata, se è vero che si garantisce in adempimento in senso positivo, mentre qui sorge il problema di una responsabilità per l’illecito già maturato. Quindi escluderei la terminologia «garantiscono» preferendo quella «rispondono», dato che tecnicamente qui siamo di fronte ad una vera e propria responsabilità per fatto altrui. Una terminologia così lata, offre il vantaggio di lasciare aperta, in sede legislativa, ogni ulteriore specificazione; onde la responsabilità, qui genericamente affermata, potrà essere successivamente definita come sussidiaria o, in determinate ipotesi, eventualmente solidale, sarà obbiettiva o nascente da colpa, a seconda dei casi. Quindi, emendando il mio originario emendamento e togliendo l’avverbio «direttamente», mi limiterei a dire: «Lo Stato e gli enti pubblici rispondono».

Il secondo rilievo è questo: che lo Stato e gli Enti pubblici rispondono dei danni arrecati dai loro dipendenti, ma in quanto rientranti «nell’esercizio delle loro funzioni». Io vorrei aggiungere questa specificazione, che è una delimitazione essenzialmente inerente al concetto della responsabilità per fatto altrui, ed appare qui tanto più necessaria, in quanto serve da temperamento alla lata formula di «dipendenti», adottata dal progetto, in luogo di quella di funzionari o esercenti pubbliche funzioni. Anche la Costituzione spagnola del 1931, la quale, salvo errore, è la sola che tratta di professo questo problema, esprime il concetto della delimitazione della responsabilità nell’ambito delle funzioni spettanti al dipendente. Ed analogamente, in materia civilistica, vige un tale principio per quanto concerne la responsabilità del preponente per il preposto o del committente per il commesso.

V’è infine un terzo emendamento, di mera forma, riguardante il secondo comma dell’articolo, che io propongo di unire all’articolo 19, laddove sono sanzionati i principî generali in tema di esercizio di azioni a tutela dei propri diritti e interessi. Quindi penso che la norma sugli errori giudiziari vada più opportunamente inserita in sede di articolo 19, ovvero, in subordine, mi assocerei alla proposta Corsanego di fare un articolo a sé.

PRESIDENTE. Segue l’emendamento dell’onorevole Bellavista, già svolto:

«Sostituire il secondo comma col seguente: «La legge riconosce il diritto di riparazione alle vittime degli errori giudiziari, e ne determina le condizioni ed i modi per l’esercizio».

Gli onorevoli Costantini, Morini, Arata, Binni, Veroni, Badini Confalonieri, Cifaldi, Treves, Bassano, Crispo, hanno proposto di sostituire l’articolo con il seguente:

«I dipendenti dello Stato e degli enti pubblici sono responsabili degli atti compiuti nell’esercizio delle funzioni loro attribuite, in violazione di diritti o di interessi legittimi.

«Le norme relative alla responsabilità civile sono estese allo Stato e agli enti pubblici per fatti dei loro dipendenti.

«La legge determina le condizioni ed i modi per la riparazione degli errori giudiziari».

L’onorevole Costantini ha facoltà di svolgerlo.

COSTANTINI. Ho ritenuto di presentare un emendamento sostitutivo di tutto l’articolo 22, in unione ad altri colleghi, perché mi sembrava che il testo dell’articolo formulato dalla Commissione dei Settantacinque non rispondesse a quella che è la situazione e, sotto determinati aspetti, attribuisse allo Stato responsabilità che vanno molto al di là di quelle che sono, in genere, le responsabilità per fatti altrui, cioè l’onere di risarcire i danni creati dal fatto dei propri dipendenti, secondo quanto è stabilito nella legge civile.

Ed allora, senza ripetere quello che su questa materia ci è stato detto da altri colleghi che mi hanno preceduto mi sembra che l’espressione «i dipendenti dello Stato e degli Enti pubblici sono personalmente responsabili secondo le leggi penali, civili ed amministrative degli atti compiuti in violazione di diritti», possa essere vantaggiosamente sostituita, fermo il concetto basilare della responsabilità, con quella da me usata: «I dipendenti dello Stato ed Enti pubblici sono responsabili degli atti compiuti, nell’esercizio delle funzioni loro attribuite, in violazione di diritti o di interessi legittimi». Con ciò, sostanzialmente, non si tratta di stabilire una responsabilità diretta dei dipendenti dello Stato, originata da fatti colposi o da violazioni di diritti; responsabilità già affermata dalla legge per tutti i cittadini, ma invece di stabilire, come conseguenza di un illecito o di un atto colposo del dipendente, quello che si afferma col secondo comma, cioè la responsabilità del committente per il fatto del commesso. Ecco perché ritengo che la specificazione di essere il fatto posto in relazione alle funzioni attribuite al dipendente sia indispensabile nella fattispecie, perché altrimenti noi giungeremmo ad affermare una forma di responsabilità diretta dello Stato, anche per quanto un pubblico funzionario od un dipendente dello Stato in genere faccia al di fuori delle funzioni che ad esso sono state delegate od assegnate.

Nel secondo punto, infatti, il testo del progetto dice: «Lo Stato e gli Enti pubblici garantiscono il risarcimento dei danni arrecati dai loro dipendenti», e questo senza specificare se si tratti d’una garanzia per violazioni di norme o di interessi; se nell’esercizio delle funzioni attribuite o all’infuori di esse. Ho ritenuto più utile, ripeto, chiarire il concetto, che, in fondo, dovrebbe essere quello determinante la norma, cioè: lo Stato risponde per responsabilità indiretta ai termini delle leggi vigenti.

In ultima analisi, la legislazione italiana, mi riferisco al diritto privato, soprattutto, determina la responsabilità del committente per il fatto del commesso, dell’appaltatore per il fatto del proprio dipendente, ecc., quando il fatto lesivo sia compiuto nell’esecuzione dell’incombenza o in relazione ad essa.

È la forma di responsabilità indiretta, che viene chiaramente richiamata con riferimento alle norme fondamentali vigenti nel nostro diritto privato sulla materia.

Mi è sembrato utile dire che:

«le norme relative alla responsabilità civile sono estese allo Stato ed agli Enti pubblici per i fatti (si intende, quelli di cui al comma precedente) dei loro dipendenti».

La terza parte potrà restar tale quale, in quanto che sostanzialmente si stabilisce una responsabilità che è utile sia determinata, e si rimanda alla legge comune la specificazione delle forme, attraverso cui giungere al risarcimento dei danni recati dagli errori giudiziari.

In sostanza, io ho creduto utile portare la posizione dei dipendenti statali a quella di tutti i dipendenti privati in generale, cioè dei lavoratori per conto e nell’interesse di terzi.

La responsabilità civile per fatto altrui, la quale finora era attribuita esclusivamente ai privati, deve gravare anche sullo Stato e sugli Enti pubblici, per rispetto di un principio di eguaglianza e di giustizia, che è indispensabile stabilire, specialmente dopo le recenti se pur passate aberrazioni della giurisprudenza, che ha per tanto tempo stabilito l’assoluta irresponsabilità dello Stato per il fatto del proprio dipendente.

PRESIDENTE. L’onorevole Carignani, unitamente ad altri, ha proposto i seguenti emendamenti:

Sostituire il primo comma con il seguente:

«I dipendenti dello Stato e degli Enti pubblici sono responsabili per i loro atti, secondo le leggi penali e amministrative. Lo Stato e gli enti pubblici sono tenuti al risarcimento dei danni derivati ai cittadini a causa dei loro dipendenti».

Ha poi proposto di trasferire il secondo comma all’articolo 19 del progetto.

L’onorevole Carignani ha facoltà di svolgere l’emendamento.

CARIGNANI. Mi valgo dell’esperienza di vita amministrativa.

La mia intenzione veramente era di proporre addirittura la soppressione dell’articolo, perché trovavo superfluo che della legge costituzionale fondamentale facesse parte un provvedimento di carattere, direi, occasionale, e che si riferisce e si deve riferire, evidentemente, al tempo ed ai luoghi, dove le responsabilità devono essere delimitate.

Quindi, l’articolo in sé, secondo il mio modo di vedere, è già in una posizione difficile, quando si trova soltanto al termine del capitolo sui rapporti civili; mentre, allorché si dovrebbe parlare di responsabilità dell’impiegato, dovrebbe essere compreso ed esteso a tutta quella che è l’attività funzionale dello Stato nei suoi vari rami.

Comunque, nell’intendimento di ridurre al minimo e di affermare il concetto della responsabilità, da parte dei funzionari, nell’esercizio delle loro mansioni, io ho pensato che convenisse, soprattutto, variare la prima parte dell’articolo, sopprimendo quella che poteva apparire una cosa troppo pesante per la grande massa dei dipendenti dello Stato, che leggeranno la Carta costituzionale; ed intanto direi di abolire quell’avverbio «personalmente» che mi dà l’impressione di un pugno nel petto per quei disgraziati di impiegati che debbono attendere a questi servizi. E direi: «I dipendenti dello Stato e degli Enti pubblici sono responsabili (anziché sono personalmente responsabili) dei loro atti secondo la legge penale ed amministrativa».

Qualche collega mi ha fatto osservare che parlare di responsabilità secondo la legge penale è una cosa pleonastica, perché evidentemente qualunque cittadino che compia in qualsiasi grado e stadio della sua vita un atto che offenda la legge penale cade sotto la legge penale stessa, e questo non c’è bisogno di dirlo qui.

Si dice nel testo che, oltre che ai sensi della legge penale, l’impiegato risponde anche civilmente. Anche su questo io richiamo la vostra attenzione; specialmente gli avvocati sanno che cosa vuol dire quell’avverbio «civilmente»: questa responsabilità caricata sulle spalle di un povero burocrate, non è il caso di affermarla qui, anche perché non dobbiamo vedere sempre nei burocrati solo dei nemici degli amministrati, perché ci sono, ci sarà, un’aliquota di persone che dovrebbero andare a fare un altro mestiere, ma nella grande massa i burocrati, da decenni e decenni, danno un esempio di molta serietà ed hanno un senso di responsabilità veramente rispettabile. È una cosa questa che in fondo finisce per creare un’atmosfera di antipatia fra la nuova Repubblica e la massa degli impiegati.

Tornando alla questione della «responsabilità civile», io desidero ricordare che, quando si richiama questo concetto, si dice cosa che supera ogni sanzione inerente ai doveri dell’ufficio e pone l’impiegato alla mercé dello spirito litigioso dei cittadini. E le conseguenze saranno sempre gravi per il povero impiegato, perché – anche se avrà ragione – dovrà pur sempre difendersi. Quindi eviterei di adoperare quel termine «civile» nell’articolo, perché dà la sensazione di essere un qualche cosa di molto pesante sulle spalle degli impiegati, mentre che, per la natura del diritto privatistico, si ha sempre l’affermazione di eventuali responsabilità civili senza bisogno di dirlo. La responsabilità amministrativa, inoltre, è in re ipsa, per il fatto stesso che un impiegato il quale esercita una mansione amministrativa cade sotto la sanzione di quella legge che – per così dire – è lo strumento del suo lavoro.

Per indulgere in qualche maniera al testo della Commissione, io avrei limitato la motivazione soltanto in riferimento alle sanzioni delle leggi penali ed amministrative, omettendo «con intenzione» quelle civili, perché rappresentano evidentemente un pericolo anche più grave per i dipendenti che oltre le responsabilità derivanti dalle norme amministrative – già di per sé onerose – si troverebbero a sopportare il carico di un risarcimento danni che finirebbe per rovinarli del tutto, nel caso deprecato di qualche infortunio professionale. Una considerazione, di ordine generale mi pare che si imponga: se noi tendiamo a stringere questa grande massa impiegatizia nelle morse di gravi responsabilità, bisogna stare attenti, perché potremmo paralizzare la vita del Paese; questo è il più grande pericolo. (Commenti).

Voci. No, no!

CARIGNANI. Può dire di no chi non vive molto in questo ambiente; io ho dovuto viverci, e quando cominciate a pensare che l’impiegato possa domani giustificare se stesso con queste responsabilità che gli derivano dallo Statuto del nostro Paese, evidentemente noi non possiamo neanche fare delle pressioni maggiori, perché quell’impiegato giustifica bene la sua inerzia. E questo rappresenterebbe un grande detrimento per tutta la vita burocratica dello Stato.

Per ciò che riguarda il secondo periodo, le considerazioni sono ovvie ed ognuno le ha fatte prima di me. Anche qui ho cercato di attutire il colpo per ciò che riguarda sempre la funzione dell’impiegato.

Mentre il testo dice: «Lo Stato e gli Enti pubblici garantiscono il risarcimento dei danni arrecati dai loro dipendenti», io ridurrei la formula in questi termini: «Lo Stato e gli Enti pubblici sono tenuti al risarcimento dei danni derivati ai cittadini a causa dei loro dipendenti».

La dizione da me proposta tende ad attenuare la sostanza e la forma. Il concetto che lo Stato debba risarcire i danni arrecati dalla cattiva amministrazione è un concetto giuridicamente fondato; ma il dire, come si dice qui, che i danni dovevano essere arrecati dai dipendenti, viene a creare quasi una rivalsa dello Stato verso i dipendenti, per il danno che essi avessero potuto arrecare nei confronti di qualche cittadino in conseguenza della loro attività professionale di impiegati. Ed allora mi è sembrato che fosse più opportuno ridurre al minimo questa espressione, dandosi ad essa il modo per una interpretazione più favorevole verso i dipendenti.

Un’ultima osservazione, che mi pare di ordine logico e credo sia stata già fatta dall’onorevole Dominedò, a proposito del secondo comma dell’articolo 22, il quale dice:

«La legge determina le condizioni e i modi per la riparazione degli errori giudiziari».

Mi pare che sia ovvio come questo comma non abbia proprio nulla a che fare con l’articolo 22. Cosa c’entrano gli errori giudiziari con l’affermazione di un principio di responsabilità?

Giustamente l’onorevole Dominedò ha già osservato che questo capoverso poteva andare benissimo a fine dell’articolo 19; ed io mi associo volentieri a questo suo modo di vedere, perché la lettura dell’articolo 19 convince facilmente che esso è il punto più adatto in cui si può inserire questo capoverso.

Infatti, dice l’articolo 19:

«Tutti possono adire in giudizio per la tutela dei propri diritti ed interessi legittimi».

E con questo si afferma il diritto attivo del cittadino all’azione, quindi si entra nel cuore dei rapporti giudiziari che consacrano il diritto del cittadino a chieder giustizia allo Stato.

E si aggiunge: «La difesa è diritto inviolabile in ogni stato e grado del procedimento». E allora ne può discendere, anzi ne deve discendere, che gli errori giudiziari devono essere riparati in quel determinato modo che fisserà la legge; di modo che mi pare che, per logica conseguenza di un criterio strutturale dell’articolo 19, potrebbe andare in calce questo ultimo capoverso, piuttosto che lasciarlo in fondo all’articolo 22, dove è assolutamente fuor di posto.

PRESIDENTE. L’onorevole Patricolo ha presentato i seguenti emendamenti:

«Raggruppare gli articoli 8, 17, 18, 21, 20, 19, 22 nell’ordine».

«Raggruppare gli articoli 10, 12, 13, 14, 15 nell’ordine».

«Raggruppare gli articoli 16, 9 nell’ordine».

«Porre in ultimo l’articolo 11».

«La disposizione degli articoli sarebbe, pertanto, la seguente: 8 (8), 9 (17), 10 (18), 11 (21), 12 (20), 13 (19), 14 (22), 15 (10), 16 (12), 17 (13), 18 (14), 19 (15), 20 (16), 21 (9), 22 (11)».

«Trasferire l’ultimo comma all’articolo 22, quale ultimo comma».

Non essendo l’onorevole Patricolo presente, gli emendamenti si intendono decaduti.

Chiedo il parere della Commissione sugli emendamenti.

TUPINI, Presidente della prima Sottocommissione. Mi permetto anche io fare una raccomandazione agli onorevoli colleghi: quella di non presentare gli emendamenti all’ultima ora.

CARIGNANI. L’ha già fatta il Presidente.

TUPINI, Presidente della prima Sottocommissione. A maggior ragione devo farla io, perché sono io che devo rispondere. E non la faccio all’onorevole Carignani, ma a tutti. Noi dobbiamo anche prepararci per rispondere e, quindi, una raccomandazione di questo genere non mi pare che sia superflua, e non ha alcun riferimento personale. La raccomandazione è generale, vale per tutti e, se accolta, avrà una particolare importanza per noi che pur dobbiamo rispondere a tutti. In questa raccomandazione non c’è niente di men che deferente verso i colleghi.

Ma per tornare al merito, prendo senz’altro in esame gli emendamenti presentati all’articolo 22 del progetto.

Questo articolo rappresenta una notevole conquista nel piano costituzionale. Afferma un principio ormai maturo nella coscienza nazionale e un progresso importante nel campo del diritto pubblico. L’articolo consta di due elementi fondamentali: 1°) la responsabilità personale del funzionario; 2°) la garanzia, che vorrei dire sussidiaria, dello Stato, in ordine alle omissioni o agli atti dei funzionari in dispregio delle leggi penali, civili e amministrative.

La prima parte dell’articolo, infatti, stabilisce che «I dipendenti dello Stato e degli Enti pubblici sono personalmente responsabili, secondo le leggi penali, civili e amministrative, degli atti compiuti in violazione di diritti». Esaminerò pertanto gli emendamenti relativi a questo comma a cominciare da quello dell’onorevole Corsanego, il quale propone che alla parola «atti» si aggiungano le altre «o omissioni». Lo stesso onorevole Corsanego ha detto, nell’illustrazione del suo emendamento, che anche l’omissione esaurisce per se stessa la figura di un atto. Tuttavia egli giustifica la proposta con la necessità di rendere più chiaro ed esplicito il concetto relativo, affermando che la Costituzione è fatta per il popolo e non per i giuristi. Osservo subito all’onorevole Corsanego che per sua stessa ammissione la parola «atto» è comprensiva di atto omesso e però il meno che si possa dire è che l’emendamento è pleonastico. In ogni caso se è vero che la Costituzione è fatta per il popolo è altrettanto vero che ad applicarla saranno chiamati i giuristi, i quali non potranno non tener conto dello spirito che ci anima. La Commissione quindi è contraria all’emendamento e prego l’onorevole Corsanego di ritirarlo.

L’onorevole Nobili Tito Oro propone in via principale la soppressione pura e semplice della seconda proposizione del primo comma: Lo Stato e gli Enti pubblici garantiscono, ecc., e in via subordinata la sostituzione del termine garantiscono con quello: «assicurano».

NOBILI TITO ORO. È un altro emendamento.

TUPINI, Presidente della prima Sottocommissione. Comunque, l’emendamento dice: «assicurano il risarcimento dei danni arrecati dai loro dipendenti». Anche questo emendamento subordinato non può essere accettato dalla Commissione, perché altera il significato di tutto il primo comma in cui – secondo l’illustrazione da me fattane – la responsabilità prevista è graduata, cioè investe prima il funzionario e in via sussidiaria l’Amministrazione dello Stato. Se questo è il nostro pensiero, l’espressione più adeguata è data dalla parola «garantiscono» e non da quella «assicurano» proposta dall’onorevole Nobili Tito Oro; il quale vorrà accogliere la mia preghiera di non insistervi. A mia volta, assicuro lo stesso onorevole Nobili Tito Oro che l’emendamento aggiuntivo da lui proposto con la seguente formula: «nell’esercizio delle loro funzioni» è accettato dalla Commissione, e poiché eguale emendamento è stato proposto dall’onorevole Dominedò, valga per lui la stessa assicurazione.

L’onorevole Dominedò propone anche un altro emendamento, quello, cioè, di sostituire l’avverbio «direttamente» all’altro: «personalmente» usato nella nostra formula.

Accettiamo l’emendamento, perché il termine proposto dall’onorevole Dominedò sottolinea ancora di più la gradualità di responsabilità del funzionario e la garanzia sussidiaria dello Stato, che è nel nostro pensiero.

Però non potremo accedere all’altra proposta di emendamento: «sono tenuti al risarcimento», perché, mentre l’onorevole Dominedò, nel darne ragione e atto, crede che questo sia un termine meno accentuato di quello che non sia l’altro «garantiscono», l’impressione mia e nostra è che dire «sono tenuti al risarcimento lo Stato e gli Enti pubblici» sia ancora più forte che dire «garantiscono», quando a questo termine «garantiscono» si dà quel valore sussidiario, graduale, vorrei dire, subordinato, alla responsabilità diretta del funzionario di cui ho dato ragione nel sostenere il nostro articolo.

Accediamo inoltre alla proposta degli onorevoli Dominedò e Carignani di collocare il secondo comma dell’articolo 22 in fine all’articolo 19.

E ora passiamo agli ultimi due emendamenti, dell’onorevole Costantini l’uno e ancora dell’onorevole Carignani l’altro. All’onorevole Costantini ricordo le ragioni da me addotte a sostegno del primo comma dell’articolo e l’accettazione da noi data agli emendamenti degli onorevoli Dominedò e Nobili Tito Oro, circa la sostituzione della parola «personalmente» con l’altra «direttamente», e l’aggiunta «nell’esercizio delle loro funzioni» al primo comma dell’articolo stesso. Penso che, così modificato, il comma possa anche sodisfare l’esigenza di cui si è reso interprete l’onorevole Costantini, al quale, pertanto, rivolgo l’invito a non insistere nel suo emendamento, e a ritenersi altresì sodisfatto di quanto ho detto a proposito dell’ultima parte dell’articolo e del suo collocamento alla fine dell’articolo 19. L’onorevole Carignani inoltre propone con un suo emendamento di sopprimere dal testo della formula del primo comma «le leggi civili», modificandola così: «I dipendenti dello Stato e degli Enti pubblici sono responsabili per i loro atti, secondo le leggi penali ed amministrative». Non sono d’accordo con l’onorevole Carignani, circa l’opportunità della soppressione di questo inciso che restringerebbe di troppo la portata di applicazione dell’articolo, sottraendogli un vasto campo di tutela a favore dei cittadini nei riguardi dei funzionari civili, il cui vigile senso di responsabilità non deve venir mai meno.

La seconda, parte dell’emendamento dell’onorevole Carignani, consistente nelle parole «Lo Stato e gli Enti pubblici sono tenuti al risarcimento dei danni derivati ai cittadini a causa dei loro dipendenti», mi pare sia un po’ troppo sfumata e sia molto meno energica e precisa della nostra formula, che raccomando all’approvazione dell’Assemblea.

PRESIDENTE. I presentatori degli emendamenti hanno udito le considerazioni della Commissione.

Onorevole Corsanego, mantiene i due emendamenti?

CORSANEGO. Dopo aver sentito le spiegazioni dell’onorevole Tupini, devo insistere. Io direi: «I dipendenti dello Stato e degli enti pubblici sono personalmente responsabili secondo le leggi penali, civili e amministrative degli atti compiuti od omessi in violazione di diritti».

TUPINI, Presidente della prima Sottocommissione. Onorevole Corsanego, le faccio notare che la formula «atti omessi» non è eccessivamente propria.

PRESIDENTE. Onorevole Nobili Tito Oro, insiste nei suoi emendamenti?

NOBILI TITO ORO. Desidero spiegare le ragioni per le quali ritiro uno dei miei due emendamenti. Come avevo previsto, era interessante conoscere le ragioni per le quali, contrariamente alla terminologia giuridica, la Commissione aveva ritenuto di adoperare il termine «garantiscono» (ossia assumono l’obbligazione sussidiaria di garantire di pagare). In effetti è qui l’errore che si annida nella terminologia usata dalla Commissione. L’obbligo dello Stato e degli enti pubblici non è un obbligo sussidiario. Mi rincresce che l’onorevole Tupini non mi abbia ascoltato. La dottrina moderna e anche l’attuale giurisprudenza hanno riconosciuto che lo Stato e gli enti pubblici, non essendo persone fisiche, non possono assumere obbligazioni se non attraverso i propri organi, e i dipendenti sono appunto gli organi dello Stato e degli enti pubblici.

TUPINI, Presidente della prima Sottocommissione. Il concetto della Commissione rimane quello che ho esposto.

NOBILI TITO ORO. Ora, la responsabilità per gli atti di un dipendente è per lo Stato e per gli enti pubblici sempre una responsabilità diretta; quindi per essi non va offerta una garanzia per il fatto altrui, ma va riconosciuta una responsabilità per il fatto proprio. Ecco perché, proponendo la formula «assicurano» invece di quella «garantiscono» rispondevo a una sola preoccupazione: quella di non deformare la natura giuridica dell’obbligo e, insieme, di non pregiudicare la ulteriore elaborazione della dottrina e della giurisprudenza: e a entrambe le necessità risponde a pieno la locuzione proposta «assicurano».

Tale locuzione infatti consente al legislatore di domani di adottare la risoluzione dottrinaria più rispondente alla evoluzione dello Stato e degli enti pubblici, pur senza disubbidire al precetto della Costituzione. Approvando invece il testo del progetto, il legislatore si troverebbe domani nella condizione di dover considerare come forma di garanzia il risarcimento da parte dello Stato delle indennità dovute per lesioni di diritti.

E pertanto, io rinuncio all’emendamento soppressivo e insisto nell’emendamento subordinato che sostituisce la locuzione «assicurano» all’altra «garantiscono».

PRESIDENTE. Onorevole Veroni, insiste nel suo emendamento?

VERONI. Insisto.

PRESIDENTE. Onorevole Dominedò, insiste nei suoi emendamenti?

DOMINEDÒ. Ringrazio la Commissione per avere accettato i miei due emendamenti relativi alla delimitazione all’«esercizio delle funzioni» del dipendente dello Stato, nonché alla collocazione del secondo comma. Quanto all’emendamento relativo al termine «garantiscono», rispondo che dovrei insistere per motivi evidenti di tecnica giuridica. Domanderei comunque alla Commissione se, volendo insistere nel concetto della responsabilità, che a mio avviso resta impregiudicato anche con la formula generica, non pensi di dire: «rispondono in via sussidiaria» anziché «garantiscono».

PRESIDENTE. Onorevole Tupini, vuole rispondere a quest’ultima proposta dell’onorevole Dominedò?

TUPINI, Presidente della prima Sottocommissione. L’onorevole Dominedò propone di usare la formulazione «rispondono in via sussidiaria». Mi pare che il termine sia poco costituzionale. Quando ho detto che al termine «garantiscono» deve essere dato un valore di garanzia sussidiaria, mi pare che l’esigenza dell’onorevole Dominedò debba essere soddisfatta. È questo il valore del termine «garantire».

Anche nei confronti dell’onorevole Nobili osservo che, ove noi accettassimo il suo emendamento, consentiremmo alla soppressione automatica della responsabilità personale e diretta del funzionario, la quale è primaria e come tale deve essere perseguita per prima. Lo Stato viene dopo e la sua responsabilità è sussidiaria. Sancirla in via diretta sarebbe troppo grave e noi non vi potremmo consentire.

NOBILI TITO ORO. Chiedo di parlare.

PRESIDENTE. Ne ha facoltà.

NOBILI TITO ORO. Io attribuisco troppo valore al pensiero giuridico dell’onorevole Tupini per non sentire il dovere di una ulteriore risposta e la risposta conferma quello che dicevo prima; la responsabilità sussidiaria non sorge in colui che ha una responsabilità propria, diretta, iniziale. È lo Stato, sono gli enti pubblici che sono direttamente responsabili; ciò non toglie che verso lo Stato e verso gli enti pubblici possano essere a loro volta responsabili, per il fatto proprio materiale o per la loro omissione, i dipendenti Ma responsabili nei confronti dei terzi saranno lo Stato e gli enti pubblici. E la preoccupazione dell’onorevole Tupini, di fare rispondere in via principale il dipendente e in via sussidiaria lo Stato e gli altri enti, nasconde anche una possibilità di danno per lo Stato: perché il giorno in cui fosse investito di responsabilità il dipendente, il primo interessato a difenderlo sarebbe l’ente. E questo lo dovrebbe difendere per cercare di difendere con lui se stesso nei confronti di chi richiede il risarcimento del danno.

Per conseguenza morale, quando sarà avvenuta la condanna nei confronti del terzo, lo Stato pagherà, ma non potrà ripetere dal dipendente che egli ha difeso e ha dichiarato innocente.

PRESIDENTE. Onorevole Carignani, mantiene il suo emendamento?

CARIGNANI. Devo insistere. Giustamente ha detto l’onorevole Tupini che in fondo il mio emendamento tende a svuotare di contenuto quello che è stato il pensiero della Commissione, ed è proprio quello che mi proponevo di fare. Sono d’accordo, anche con me, molti altri colleghi che hanno ascoltato le mie modeste considerazioni, e mi dolgo soltanto di non averle esposte più ampiamente in fase preliminare allorché si è discusso dei rapporti civili in genere.

Per queste ragioni, serie, obiettive e degne di considerazione, devo insistere nelle formule così come sono state da me dettate, rilevando ancora una volta che anche là dove si parla di leggi penali ed amministrative si tratta semplicemente di una concessione che io ho fatto alla formula della Commissione nell’intendimento di trovare un mezzo termine che potesse consentire un’intesa; ma per la mia coscienza e per le nozioni di diritto che ho, mi sembra che in un atto importante come la Costituzione basterebbe soltanto l’affermazione del principio di responsabilità per dire quello che si è inteso dire con questa formula, riservando alle leggi future di determinare i limiti e i termini della responsabilità dei dipendenti in relazione all’importanza della materia regolata.

PRESIDENTE. Onorevole Costantini, mantiene il suo emendamento?

COSTANTINI. Devo mantenerlo, perché non sono affatto dell’opinione di Nobili che cioè lo Stato risponde di responsabilità diretta per l’azione dei propri dipendenti. Devo mantenere l’emendamento da me proposto in quanto che credo che nella formulazione da me data si rispecchi una maggiore rispondenza al principio stesso. Le norme relative alla responsabilità civile sono estese allo Stato e agli enti pubblici per il fatto dei loro dipendenti: questa formulazione credo che sia la più idonea ed ecco perché mantengo il mio emendamento.

PRESIDENTE. Passiamo ora alla votazione. Per il primo comma occorre votare innanzitutto sull’emendamento sostitutivo della prima parte proposto dall’onorevole Costantini:

«I dipendenti dello Stato e degli enti pubblici sono responsabili degli atti compiuti nell’esercizio delle funzioni loro attribuite in violazione di diritti o d’interessi legittimi».

TOSATO. Chiedo di parlare.

PRESIDENTE. Ne ha facoltà.

TOSATO. A me sembra che debbano esser messi prima in votazione gli emendamenti proposti dagli onorevoli Nobili Tito Oro e Carignani, perché più si allontanano dal testo della Commissione. Noi dobbiamo pronunciarci per la responsabilità diretta o per la responsabilità indiretta dello Stato. La tesi seguita dalla Commissione è per la responsabilità indiretta dello Stato e per la responsabilità diretta del funzionario; la tesi propugnata sia dall’onorevole Nobili Tito Oro che dall’onorevole Carignani è per la responsabilità diretta dello Stato e soltanto indiretta del funzionario.

PRESIDENTE. L’emendamento dell’onorevole Nobili Tito Oro si riferisce alla seconda parte del primo comma dell’articolo, poiché egli chiede che alla parola «garantiscono» si sostituisca la parola «assicurano».

Il primo comma dell’emendamento dell’onorevole Costantini, si riferisce, invece, alla prima parte.

Pongo dunque in votazione l’emendamento Costantini, non accettato dalla Commissione.

(Dopo prova e controprova, non è approvato).

Pongo ora in votazione l’emendamento dell’onorevole Carignani, inteso a sostituire la prima parte del primo comma dell’articolo:

«I dipendenti dello Stato e degli enti pubblici sono responsabili per i loro atti secondo le leggi penali ed amministrative».

(Non è approvato).

Pongo in votazione la prima parte del primo comma del testo della Commissione, con la modificazione accettata che sostituisce alla parola: «personalmente» l’altra: «direttamente»:

«I dipendenti dello Stato e degli enti pubblici sono direttamente responsabili, secondo le leggi penali, civili e amministrative, degli atti compiuti in violazione di diritti».

(È approvata).

Pongo in votazione la proposta dell’onorevole Corsanego di aggiungere, alla prima parte del primo comma, dopo la parola: «atti» le parole: «o omissioni».

LEONE GIOVANNI. Chiedo di parlare per dichiarazione di voto.

PRESIDENTE. Ne ha facoltà.

LEONE GIOVANNI. Voterò a favore della proposta Corsanego, perché a me sembra che l’espressione «atti» non abbia accezione concorde; da taluni è interpretata come azione positiva, come qualcosa che si fa.

Ora, la Commissione vuole colpire anche le omissioni.

D’altra parte lo stesso Codice penale parla di omissioni e di atti. Omissione è il mancato adempimento dei doveri.

TUPINI, Presidente della prima Sottocommissione. Questa proposta, se accettata, potrebbe avere gravi conseguenze.

PRESIDENTE. La Commissione non accetta la proposta Corsanego; anzi ne sottolinea la particolare gravità.

La pongo ai voti.

(Non è approvata).

Passiamo alla votazione sulla seconda parte del primo comma. L’onorevole Costantini ha proposto di farne un comma a sé, con questa formulazione: «Le norme relative alla responsabilità civile sono estese allo Stato e agli enti pubblici per i fatti dei loro dipendenti».

VERONI. Chiedo di parlare.

PRESIDENTE. Ne ha facoltà.

VERONI. Mi associo all’emendamento dell’onorevole Costantini e ritiro il mio emendamento.

CAROLEO. Chiedo di parlare.

PRESIDENTE. Ne ha facoltà.

CAROLEO. Voto a favore dell’emendamento dell’onorevole Costantini, perché è già notevole la responsabilità che si è addossata allo Stato con l’articolo che abbiamo già in parte votato. È vero quanto diceva l’onorevole Nobili Oro, e cioè che dal punto di vista tecnico-giuridico si tratterebbe di una vera e propria responsabilità diretta; ma anche nei rapporti fra privati la responsabilità per colpa grave può essere limitata, e quindi nei rapporti tra enti pubblici e privati può anche essere modificata la forma della responsabilità, per attenuarne le conseguenze. Pertanto io aderisco senz’altro alla formulazione dell’onorevole Costantini.

NOBILI TITO ORO. Chiedo di parlare.

PRESIDENTE. Ne ha facoltà.

NOBILI TITO ORO. Dato che la formulazione attuale dell’emendamento Costantini è assorbente anche dell’emendamento mio, in quanto le norme della responsabilità civile sono ormai interpretate nel senso da me esposto, dichiaro che accetto tale formulazione, in quanto generica ma più precisa del testo del progetto; voto per essa e ritiro il mio emendamento.

PRESIDENTE. Pongo in votazione la formula proposta dall’onorevole Costantini:

«Le norme relative alla responsabilità civile sono estese allo Stato ed agli enti pubblici per i fatti dei loro dipendenti».

(È approvata).

Con l’approvazione di questa formula resta assorbita la seconda parte dell’emendamento Carignani.

Resta anche assorbito l’emendamento dell’onorevole Dominedò, il quale proponeva – e la Commissione aveva accettato – di aggiungere alla fine del primo comma del testo della Commissione le parole: «nell’esercizio delle loro funzioni». Pongo in votazione la proposta degli onorevoli Dominedò e Carignani, accettata dalla Commissione, di trasferire in fine all’articolo 19 l’ultimo comma dell’articolo 22:

«La legge determina le condizioni e i modi per la riparazione degli errori giudiziari».

(È approvata).

Con l’approvazione di questa proposta l’emendamento dell’onorevole Corsanego, tendente a fare del secondo comma un articolo a sé, rimane assorbito.

Il testo dell’articolo 22 resta pertanto il seguente:

«I dipendenti dello Stato e degli enti pubblici sono direttamente responsabili secondo le leggi penali, civili ed amministrative degli atti compiuti in violazione di diritti.

«Le norme relative alla responsabilità civile sono estese allo Stato ed agli enti pubblici per i fatti dei loro dipendenti».

L’ultimo comma che abbiamo votato: «La legge determina le condizioni, ecc.» sarà trasferito alla fine dell’articolo 19.

Con ciò è conclusa la votazione degli articoli contenuti nel primo titolo del progetto di Costituzione: «Rapporti civili».

Resta adesso da esaminare l’articolo aggiuntivo, proposto dall’onorevole Crispo:

«L’esercizio dei diritti di libertà può essere limitato o sospeso per necessità di difesa, determinate dal tempo o dallo stato di guerra, nonché per motivi di ordine pubblico, durante lo stato di assedio. Nei casi suddetti, le Camere, anche se sciolte, saranno immediatamente convocate per ratificare o respingere la proclamazione dello stato di assedio e i provvedimenti relativi».

L’onorevole Crispo ha già svolto la sua proposta. Chiedo il parere della Commissione.

TUPINI, Presidente della prima Sottocommissione. Domando all’onorevole Crispo se egli consenta, senza pregiudizio del merito del suo emendamento, che se ne discuta nella seconda parte del progetto, quando parleremo del Parlamento e dovremo, quindi, anche stabilire le garanzie da riservare al Parlamento nel caso e durante il periodo di scioglimento delle Camere.

Non entriamo, dunque, nel merito: in quella sede potremo riparlarne e, quanto al collocamento, lo decideremo allora.

CRISPO. Chiedo di parlare.

PRESIDENTE. Ne ha facoltà.

CRISPO. Vorrei fare osservare questo: io mi preoccupo soprattutto delle garanzie che dovrebbero essere stabilite per le libertà e per i diritti dei cittadini nei due casi non contemplati in alcun modo nella Costituzione, quello dello stato di guerra e quello dello stato d’assedio. Quindi, mi pare che l’articolo da me proposto debba trovare la sua sede proprio in questo titolo, perché io mi riferisco esclusivamente ai diritti dei cittadini, i quali non possono essere menomati dal potere esecutivo senza l’intervento del Parlamento.

Comunque, se la Commissione ritiene diversamente, non ho alcuna difficoltà a consentire.

TUPINI, Presidente della prima Sottocommissione. Onorevole Crispo, io le posso dire, anticipando il parere della Commissione, che sull’indole del suo emendamento siamo d’accordo. Poiché qui però si parla di Camere e non sappiamo come saranno costituite, quando parleremo di questo argomento potremo meglio discutere il comma da lei proposto.

CRISPO. Nessuna difficoltà.

PRESIDENTE. Allora, resta inteso che la discussione di questo articolo aggiuntivo proposto dall’onorevole Crispo avverrà quando parleremo dei poteri del Parlamento e, pertanto, possiamo considerare esaurito l’esame del primo titolo della Costituzione.

Prima di passare alla discussione generale sul secondo titolo, desidero rendere edotti i colleghi che vi sono 71 iscritti: il doppio degli iscritti per la discussione generale sul primo titolo.

Vorrei pregare gli onorevoli colleghi di essere presenti alle sedute, perché ritengo necessario, d’ora innanzi, che coloro che non rispondono col loro intervento al momento in cui spetta il loro turno decadano dall’iscrizione. È questa una necessità che forse non corrisponde completamente alle disposizioni del Regolamento, ma che amerei che l’Assemblea riconoscesse, appunto per evitare che queste discussioni ci prendano troppo lungo tempo.

Prego anche i colleghi di autorizzarmi a voler alternare nell’ordine di iscrizione gli oratori dei diversi settori, perché è avvenuto che alcuni gruppi hanno iscritto tutti i loro oratori in successione. Ritengo che sentire cinque o sei iscritti dello stesso gruppo politico, i quali svolgono gli stessi concetti, potrebbe essere anche interessante ma toglierebbe alla discussione quel sapore polemico che è necessario conservare per ravvivare la discussione stessa.

Se non vi sono opposizioni, redigerò un elenco e lo farò conoscere, in maniera che ogni collega possa calcolare, approssimativamente, quando gli spetta il turno della parola.

(Così rimane stabilito).

CALOSSO. Chiedo di parlare.

PRESIDENTE. Ne ha facoltà.

CALOSSO. Ho presentato una mozione, relativa alla tecnica della discussione. Credo che sarebbe opportuno radunare tutte queste questioni in giorni speciali, per discuterle effettivamente. Ieri, per esempio, vi fu certamente una discussione confusa. Noi andiamo adagio perché non ci siamo mai fermati un giorno a discutere sulla nostra tecnica. Perciò, se lei, onorevole Presidente, vorrà mettere in discussione, un giorno, questa mia mozione, si potrebbe discutere di tutto questo, anche di quello che lei ha detto.

PRESIDENTE. Darò senza indugio comunicazione all’Assemblea della mozione dell’onorevole Calosso. Tuttavia, ritengo che la proposta Calosso praticamente significhi mettere in discussione e rimaneggiare tutto il Regolamento dell’Assemblea. Basterà accennare – ed è un’antica passione dell’onorevole Calosso – che egli propone, come mezzo di abbreviamento delle discussioni, di riunire l’intera Assemblea in Comitato, affinché, in una forma discorsiva, i colleghi possano reciprocamente farsi presenti le loro opinioni, per comprendere che la proposta non si riduce a offrire un metodo di lavoro capace di produrre un abbreviamento del lavoro, ma è un capovolgimento di quella tecnica nostra che si è elaborata nel corso di molte legislature e che può essere riveduta, ma non proprio in questa occasione.

Comunque, nel momento in cui darò lettura della mozione Calosso, l’Assemblea sarà arbitra di accettarne la discussione ed eventualmente di approvarne tutte le proposte. Ritengo, personalmente, in ogni caso, che non si potrà mai realizzare quella di ridurre quest’aula a misura più piccola.

Ciò premesso, credo che possiamo incominciare la discussione generale sul secondo titolo: «Rapporti etico-sociali», salvo poi ad esprimere il giudizio sulla proposta concreta che l’onorevole Calosso ha presentato.

Nel dare la parola al primo iscritto, onorevole Badini Confalonieri, mi rimetto alla comprensione dei colleghi per l’osservanza di quelle limitazioni di tempo, alle quali parecchie volte si è fatto richiamo nelle sedute precedenti.

BADINI CONFALONIERI. Onorevole Presidente, onorevoli colleghi. Io terrò innanzi tutto conto del suo parere autorevole, onorevole Presidente, per tralasciare ogni disquisizione di carattere filosofico e per attenermi al campo strettamente politico, come si conviene fare nella discussione di uno statuto che è atto squisitamente politico. Tralascio altresì ogni orpello di forma, ogni divagazione di natura letteraria, storica o comparativa che sarebbero superflue, e pertanto inutili. Inizio, rileggendo quegli articoli sostitutivi, dal 23 al 25, che io ho proposto al progetto di Costituzione.

Art. 23. – «Lo Stato riconosce la famiglia, costituita dal matrimonio indissolubile, come nucleo naturale, originario e fondamentale della società, e tutela l’adempimento della sua funzione».

Art. 24. – «Il matrimonio è basato sull’eguaglianza morale e giuridica dei coniugi nei limiti stabiliti dal bene comune della famiglia, dalla mutua assistenza, dagli interessi della prole».

Art. 25. – «L’educazione morale, intellettuale, fisica, sociale della prole è un diritto della famiglia.

«Lo Stato, nel rispetto della libertà del cittadino, sorveglia e, occorrendo, integra l’adempimento di tale compito, con speciale riguardo alle condizioni economiche necessarie alla formazione, difesa e sviluppo della famiglia.

«Provvede, inoltre, alla protezione della maternità, dell’infanzia e della gioventù, favorendo ed istituendo gli organi necessari allo scopo.

«La legge detta le norme per l’efficace protezione dei figli nati fuori del matrimonio e consente l’esperimento dei mezzi di prova idonei ad accertare la discendenza naturale».

Si tratta di un meditato, anche se modesto, rifacimento di tutta la materia relativa all’istituto della famiglia, che si avvale della elaborazione altrui e che vuol essere innovatore soltanto là dove ciò sia strettamente necessario.

L’onorevole Calamandrei nel suo discorso affermò che le disposizioni contenute nel progetto e relative alla famiglia sono dei precetti morali mascherati da norme giuridiche. Ora, con tutta la debita deferenza per chi ci è maestro insigne, penso di poter porre il mio dissenso nella incontrovertibile considerazione dell’importanza che l’istituto della famiglia riveste per la struttura stessa dello Stato, e che ne impone una regolamentazione ad un tempo giuridica e politica. Ne consegue non soltanto la necessità per lo Stato di tener conto di questa entità che si frappone fra esso Stato e l’individuo, ma ancora la necessità che l’opera normativa conseguente sia parte integrante della Costituzione, qualora la famiglia sia – come è – un pilastro fondamentale nella costruzione di quell’edificio statale a cui con la Costituzione noi tendiamo. Altro discorso è – e a questo riguardo l’onorevole Calamandrei aveva ragione – l’osservare che la formulazione degli articoli contenuti nel progetto è giuridicamente imperfetta, che la Repubblica non «assicura» alla famiglia le condizioni economiche necessarie al suo sviluppo, che la Repubblica non «tutela la salute», che non «l’arte e la scienza sono libere», ma, se mai, le manifestazioni dell’arte e della scienza sono libere.

Osservazioni di forma, obietterebbe l’onorevole Tupini.

TUPINI, Presidente della prima Sottocommissione. No, non mi attribuisca…

BADINI CONFALONIERI. Me lo consenta, onorevole Tupini, è un’osservazione che molto spesso nei giorni scorsi noi abbiamo sentito muoverci, sia da parte sua, sia da parte dell’onorevole Ruini. Ora, mi permetta con tutta schiettezza e con tutta deferenza che le risponda che io francamente non comprendo quale dispendio maggiore di tempo occorra a votare un articolo in italiano corretto piuttosto che a votare un articolo che contenga espressioni che sono vaghe, incerte ed equivoche. Che anzi, se sempre è difficile distinguere tra forma e sostanza, mai come nella redazione di una Costituzione, per sua essenza concisa e normativa, la forma è sostanza e la sostanza è forma.

Per siffatte necessità di ermeneutica giuridica noi dobbiamo addivenire anche ad una diversa collocazione di questi articoli; e, iniziando il titolo che tratta dei rapporti etico sociali, non la parola «famiglia», ma l’espressione «lo Stato» deve dare l’avvio alle norme. È l’entità Stato che si trova di fronte l’entità famiglia, una entità che è originaria e storicamente e logicamente preesistente, e non può pertanto né creare, né costituire, ma soltanto riconoscere. Per questo l’emendamento che io propongo inizia con l’espressione: «Lo Stato riconosce la famiglia», e la riconosce non già come società, anche con il correttivo di «naturale», ma come nucleo naturale, originario e fondamentale della società. «Società» è un’espressione più limitata che non quella di «associazione». «Società» è un termine che noi assumiamo in prestito dal linguaggio giuridico, e che quindi non ci dà quel senso di sacro, per molti; per gli altri, quanto meno di umanamente altissimo, che è nel concetto della famiglia. Quindi, non una società. «Società», ripeto, è un termine preso a prestito dalla terminologia giuridica soprattutto commerciale, che troppo ci avvicina ad altra espressione giuridica commerciale, quella di contratto. Ma noi non intendiamo la famiglia come un contratto; ond’è che la società è il contratto in base al quale due o più persone si accordano al fine di, ecc. È sufficiente a tale proposito ricordare, se si trattasse di contratto, che come il contratto si costituisce, il contratto si scioglie; oltre che il senso umano, e, mi si consenta, sacro, manca in codesta definizione la possibilità di comprendervi quel carattere di indissolubilità che noi vogliamo affermare e che per me è fondamentale, insisto, consostanziale al matrimonio e che il matrimonio distingue e diversifica da ogni contratto.

Propongo, nella speranza di altra formulazione più felice che da altre parti potrà venire, e che non mi è stato possibile esprimere, di dire «nucleo», rifacendomi ad un termine non assunto a prestito dalla terminologia giuridica, ma da quella delle scienze naturali, così come naturale è la famiglia, un termine che significhi l’originarietà dell’istituto, così come originaria è la famiglia. Un termine – l’espressione «nucleo», come d’altronde l’espressione «cellula» – che dà l’impressione di qualcosa di inscindibile, di una nuova entità costituita dall’armonica fusione delle varie personalità umane che costituiscono appunto la famiglia.

Un nucleo – riprendo un concetto cui avevo fatto cenno all’inizio – che lo Stato trova di fronte a sé, perché così sta scritto nel gran libro della natura, e che pertanto è «nucleo naturale originario e fondamentale della società». Lo Stato lo riconosce e «tutela l’adempimento della sua funzione».

Altri proponeva: «tutela l’adempimento della sua missione». Il concetto è rispettabilissimo ed è da molti condiviso, ma mi pare che il dire «missione» in un articolo della Costituzione è usare un termine che fuoriesce da quella che è la prassi giuridica; più esatto, più opportuno mi pare il termine di «funzione».

Però, dobbiamo ancora dire qualche cosa; rimane da esaminare quale famiglia lo Stato in tale guisa riconosca e tuteli. Evidentemente soltanto la famiglia legittima; cioè quella famiglia che è costituita dal matrimonio; e che è costituita per noi dal matrimonio indissolubile. Perché è a questo punto che noi che intendiamo sostenere l’indissolubilità del vincolo, dobbiamo precisare il nostro concetto, non nell’articolo successivo come è nel progetto, non nell’articolo 24. È un elemento essenziale, costitutivo che caratterizza l’istituto della famiglia. Discuteremo appresso se l’indissolubilità sia principio da affermarsi o meno, se – affermandolo – debbasi o meno includerlo nella Costituzione, ma se così è, non mi sembra possa dar luogo a dubbio che cotesta sia la sua collocazione.

Ed ora poche considerazioni, a favore della indissolubilità del matrimonio. Diceva Benedetto-Croce, in questa stessa Aula e con la consueta arguzia, che egli è contrario al divorzio, perché chi divorzia una prima volta, divorzia una seconda, e deve pertanto trarsi la conseguenza che il rimedio non è efficace.

Ebbene, onorevoli colleghi, se il rimedio non è efficace, è efficientissimo il male che il divorzio produce. La solubilità del vincolo matrimoniale mina l’istituto della famiglia alle sue fondamenta.

Altri, ed io stesso – cattolico credente e professante – potrebbe porre a base di tale sua convinzione considerazioni di natura religiosa, che per essere di coscienza, e quindi individuali e non politiche, non hanno ragionevole motivo di costituire la base e il fondamento di disposizioni statutarie. Non basta dire che la coscienza si ribella, perché, anche se l’istituto del divorzio fosse introdotto nella legislazione italiana, qualunque cittadino che in esso ravvisasse la violazione dei dettami della propria coscienza sarebbe pur sempre libero di non usufruirne. Qui siamo in campo politico; ed è in campo politico, con argomentazioni di ordine politico, e pertanto soprattutto relative al costume e alla mentalità del popolo italiano, che la vexata quaestio si deve risolvere. Per tale motivo, e sotto tale riflesso nettamente liberale, era necessario che una voce liberale si elevasse a precisare che il principio dell’indissolubilità del matrimonio non intacca menomamente i principî di libertà. Libertà non è licenza, libertà non è anarchia, libertà non è assenza di vincoli, libertà è libera scelta, è libera elezione di quella condizione giuridica che ciascuno predilige.

Chi, come noi, concepisce la libertà come soltanto possibile ove essa sia causa ed effetto ad un tempo dell’elevazione spirituale dell’uomo e della società; chi, come noi, intende come uno dei fattori indispensabili di essa elevazione la stabilità della famiglia, e la famiglia segno inequivocabile di civiltà; costui, come noi, non può non convenire, contrariamente ad ogni apparenza, che l’istituto del divorzio non possa, non debba trovar luogo in uno stato liberale italiano.

Non è l’opinione estemporanea, di un isolato: è, al contrario, la tradizione italiana di tutti quei governi liberali che, dal Risorgimento in poi, non hanno mai consentito (Commenti a sinistra), non hanno mai consentito, amico onorevole Grilli, l’immissione del divorzio nella legislazione italiana.

È tutta una tradizione di giuristi che tu come io e come tutti ammiriamo; è tutta una tradizione di giureconsulti insigni, da Bonghi a Gabba, da Salandra a Filomusi Guelfi; è contributo non di cattolici soltanto, ma di uomini di diversi credi religiosi, dal protestante Lord Gladstone all’israelita professor Polacco, i quali evidentemente non sostenevano l’indissolubilità del matrimonio sulla scorta di criteri religiosi, ma tutti riconobbero nell’unità della famiglia il principio etico che si è connaturato, sino a giungere al Simon, il quale ha definito il divorzio come «un matrimonio a prova» ed ha concluso che la semplice «possibilità di una dissoluzione toglie al matrimonio la dignità ed alla famiglia l’unità».

D’altronde è bene dire che non sono consentite le soluzioni intermedie in questo campo; o si è per il matrimonio indissolubile o per il divorzio.

Coloro che aspirano ad una soluzione intermedia, ad un divorzio sì, ma molto limitato, quelli sono nell’utopia; quando si consenta il divorzio, i limiti che vi si pongano sono contingenti, transitori; si manifesta ineluttabilmente la tendenza a modificare la legge in senso più largo, sino a giungere al divorzio per semplice consenso, sino ad ammetterlo per semplice volontà di uno dei coniugi; sino a consentirlo in forme che addirittura contraddicono alla pubblica moralità, secondo il concetto nostro europeo.

Io vi vorrei riportare un annunzio pubblicitario inserito su di un giornale americano, non molto tempo fa, in cui si diceva testualmente: «Divorzio completo, senza pubblicità, in un mese. Tutti i motivi, successo garantito, consultazioni gratuite».

È inutile recriminare di poi: il fatto è la conseguenza delle premesse, e chi non vuole consentire, non deve volere le premesse, perché se quelle premesse sono poste, si addiviene a quelle conseguenze.

Per questa considerazione, posso anche ritenere superfluo di confutare i motivi che i fautori del divorzio pongono a base delle loro argomentazioni, e che si possono così raggruppare: cause legali, quali per esempio la condanna, soprattutto la condanna, all’ergastolo; cause morali, come l’adulterio; cause fisiologiche, come le malattie, soprattutto contagiose ed in specie l’impotentia perpetua.

Ora tutte queste cause, che i fautori del divorzio portano, come elementi a favore della loro tesi, sono viziate da un errore di principio: la valutazione unilaterale che essi danno e in base alla quale si considerano soltanto i diritti del coniuge offeso, e non il rovescio della medaglia: quei doveri che egli ha spontaneamente assunto all’atto del matrimonio e che proprio nel momento nel quale diventerebbero effettiva manifestazione della mutua assistenza imposta ai coniugi, egli potrebbe a tutto agio scuotersi di dosso col divorzio.

Comunque queste cause che i fautori del divorzio portano innanzi sono tutte cause singole mentre la legge, e soprattutto la Costituzione, deve tener conto della generalità dei casi e non dei casi singoli.

MAFFI. C’è il 95 per cento dei casi singoli. È un grossolano errore di ragionamento.

BADINI CONFALONIERI. Il cinque per cento sarebbe l’eccezione alla quale accennavo io, quindi la grossolanità del ragionamento non sarebbe nella mia, ma nella sua osservazione. Io dicevo che è il principio che deve essere affermato, nella Costituzione, mentre i casi singoli, temperabili con l’istituto della separazione personale, potranno eventualmente essere sottoposti a diversa, più ampia regolamentazione dei casi di nullità dei matrimoni, quando possano costituire errore di persona. È la generalità dei casi il principio che nella Costituzione dev’essere affermato; un principio di natura eminentemente costituzionale, se vero è che senza indissolubilità del matrimonio non vi è famiglia, e senza la famiglia manca un pilastro fondamentale alla costruzione dell’edificio statale, cui noi con la Costituzione tendiamo.

Questo è il contenuto dell’articolo 23, un articolo 23 che, per essere il cappello di tutto il titolo secondo dei rapporti etico-sociali, evidentemente non può contenere altre aggiunte di carattere particolare, ma deve rimanere così redatto quale definizione generale e di principio.

L’articolo 23 considera la famiglia; l’articolo 24, secondo il mio emendamento, il matrimonio; l’articolo 25 la prole legittima ed illegittima, e la tutela dello Stato nei confronti della famiglia.

Se la Costituzione si redige per creare un’educazione sociale e politica al popolo, per incrementare un costume, per dare stabilità e forza a quegli istituti che della rinnovata società costituiscono il nerbo, alla affermazione della famiglia costituita dal matrimonio deve seguire l’altra, non meno esplicita, relativa all’eguaglianza morale e giuridica dei coniugi. Veramente credo che si sia tutti d’accordo a questo riguardo. L’autorizzazione maritale, la tanto deprecata autorizzazione maritale della relazione presentata dall’onorevole Iotti, è istituto che è stato abolito dal Governo liberale del 1919, e che quell’abolizione fosse conforme al nostro costume è dimostrato dal fatto che neppure il fascismo ha osato ripristinarla. La donna ha proseguito nel giusto cammino della sua emancipazione; ed oggi ha piena, assoluta parità di diritti, anche politici, come è affermazione categorica dell’articolo 9 della Costituzione, che più alcuno intende porre in discussione. Ma l’affermazione di principio, come è formulata nel progetto sottoposto al nostro esame, è in una forma che direi eccessivamente drastica, un’affermazione campata in aria, che non risponde a verità storica né a possibilità giuridica.

Qualora sorga dissenso fra i coniugi, per esempio, al riguardo della patria potestà, al riguardo della fissazione del domicilio, al riguardo di tanti altri problemi che nella vita coniugale sono diuturni, non possono coesistere due volontà perfettamente eguali e contrarie: si eliderebbero. Nessuno intende sancire uno stato di inferiorità; ma non ci si può nascondere la necessità, secondo le leggi civili vigenti, di statuire la prevalenza dell’una o dell’altra volontà nell’interesse comune e in quello superiore della famiglia. L’argomento è complesso ed esorbita dai limiti di una Costituzione: ad essa rimane il compito dell’affermazione di principio relativa all’eguaglianza, così come recita l’emendamento proposto «nei limiti stabiliti dal bene comune della famiglia, dalla mutua assistenza, dagli interessi della prole». È formulazione che, con poche modifiche, ho fatta mia, ispirandomi alla recente Costituzione estone.

Rimane l’articolo 25.

Riguardo all’articolo 25 direi che i concetti di tutta la Commissione e penso di tutta l’Assemblea siano concordi nella sostanza, ma si tratta di dare una formulazione che sia esatta anche giuridicamente.

Bisogna innanzi tutto dire che l’educazione della prole è diritto della famiglia e questo concetto deve essere posto in risalto soprattutto nei confronti dello Stato, anche perché la nostra Costituzione viene alla luce dopo il regime fascista, nel quale lo Stato totalitario aveva cercato di invadere – come ogni altro campo – anche quello della famiglia. È d’uopo, quindi, riaffermare i diritti precisi della famiglia nei confronti di ogni altra entità, compresa l’entità statale.

Lo Stato potrà intervenire in determinati casi, con determinate cautele, a scopo integrativo. Questo è esatto. Questo è anche il concetto della Commissione. Ma mi pare – e lo dico schiettamente, se pur con tutta deferenza – che il concetto propugnato dalla Commissione sia nel progetto male espresso. Far riferimento «ai casi di provata incapacità morale o economica» è espressione troppo vaga, se – per deprecata ipotesi – il Governo dovesse cadere in mani di uomini non democratici, i quali nel fare l’accertamento potrebbero stabilire che questi casi, onorevole Maffi, potrebbero passare dal cinque al 95 per cento. Come vede, raccolgo qui una sua osservazione che a questo riguardo mi sembra appropriata. Perché quel «provata» del progetto non dice da chi né come si debba provare.

Con la formulazione sottoposta al vostro esame, onorevoli colleghi, si vogliono meglio porre in luce quei concetti di limitazione, di cautele, di carattere integrativo cui testé facevo riferimento. Il diritto è della famiglia; lo Stato sorveglia; solo occorrendo, integra; ma integra con dei limiti, limiti che sono dati «dall’adempimento di tale compito» e dal «rispetto della libertà del cittadino». Ed è a questo punto, e non nel primo articolo del titolo secondo, che deve essere riservato alla impostazione di principio, la esatta collocazione dell’intervento economico. Perché, naturalmente, l’integrazione, che ha da fare lo Stato, sarà soprattutto sotto l’aspetto economico al fine che ognuno sia posto in grado di formarsi, di difendere e di favorire lo sviluppo della propria famiglia. Ecco perché, seguitando nella mia formulazione, propongo di dire: «con speciale riguardo alle condizioni economiche necessarie alla formazione, difesa e sviluppo della famiglia».

Ho soppresso l’accenno alle famiglie numerose, non già perché io non sia d’accordo – e se c’è qualcuno che dovrebbe essere d’accordo, mi suggerisce l’onorevole Grilli, dovrei essere proprio io – ma perché il concetto della tutela delle famiglie numerose è già assorbito in quello che è statuito nei confronti degli interventi economici. È manifesto, infatti, che la tutela economica dello Stato deve in maggior misura rivolgersi alle famiglie numerose, perché le loro condizioni economiche sono più difficili. E d’altronde il progetto di Costituzione già fa suo siffatto concetto nell’articolo 32; dove recita che «il lavoratore ha diritto ad una retribuzione adeguata alle possibilità di vita per sé e per la famiglia».

L’articolo da me proposto prosegue: «provvede inoltre alla protezione della maternità, dell’infanzia e della gioventù, favorendo ed istituendo gli organi necessari allo scopo».

È un concetto già proposto dalla Commissione ed ogni commento sarebbe superfluo. L’ho riportato in questo comma solo per ragione di più armonica collocazione.

E siamo all’ultimo capoverso che prevede la posizione dei figli nati fuori del matrimonio.

E anche qui si impone una parola chiara, lontana da ogni sentimentalismo, che sarebbe fuor di luogo in un testo giuridico, una parola politicamente serena ed equilibrata.

Il problema dei figli nati fuori del matrimonio è problema complesso che non consente quell’unica drastica soluzione che è proposta nel progetto di Costituzione: figli legittimi, figli naturali, figli prematrimoniali, figli adulterini, figli incestuosi, tutti in un fascio solo, misurati con unico metro, mentre sono in situazioni di fatto, nettamente diverse, che non lo consentono.

L’affermazione di principio ci trova tutti, evidentemente, d’accordo, nel senso che le colpe dei padri non devono ricadere sui figli innocenti.

Ma qui si tratta di emanare una norma che sia attuabile.

Ora, l’equiparazione dei figli illegittimi ai legittimi in quella maniera crea in seno alla famiglia la stessa discrasia che, per altro verso, vi apporterebbe il divorzio; significa una coabitazione forzosa, che mina l’unità della famiglia; e quella soluzione che vorrebbe essere di giustizia, si manifesterebbe ingiusta nei confronti dei figli legittimi. Basta considerare una conseguenza anche se paradossale: chi ha figli legittimi, ed illegittimi vorrà tenere nella sua casa la moglie legittima e quella illegittima.

Pensate al caos di quella famiglia!

Ritengo che a questo nessuno di noi voglia arrivare.

MAFFI. È una logica speciale.

BADINI CONFALONIERI. Io mi accontento di questa logica.

Dicevo, dunque, che l’argomento è complesso, ed è tema di Codice civile, anche perché non può essere valutato con una norma sola, drastica, assoluta.

Occorre valutare le diverse posizioni, le diverse conseguenze. Fissi però la Costituzione il principio generale, in ottemperanza al quale il Codice dovrà contenere le norme particolari: cioè che le colpe dei padri non devono ricadere sui figli; che sono vietati i nomi e i dati anagrafici infamanti; che, comunque, l’ignota origine non può costituire marchio infamante per il bimbo innocente; che lo Stato non consente che la vita che gli si apre innanzi sia resa senza sua colpa e per ragion di nascita più dura e più difficile.

Ma tutto questo lo si può comprendere nella formula dell’emendamento che propongo:

«La legge detta le norme per l’efficace protezione dei figli nati fuori del matrimonio».

Si consenta piuttosto, e si consenta esplicitamente – perché il principio è innovatore delle norme vigenti – che ogni figlio possa conoscere il padre suo! (Applausi).

PRESIDENTE. È iscritto a parlare l’onorevole Crispo. Ne ha facoltà.

CRISPO. Trattando lo stesso tema dell’onorevole Badini, cercherò di evitare inutili ripetizioni, il titolo secondo si inizia con una definizione della famiglia. Si dice che «la famiglia è una società naturale»; evidentemente per affermare che la famiglia preesiste alla legge ed allo Stato, sì che i diritti familiari non sono diritti riflessi, cioè non sono creati, ma riconosciuti dallo Stato. Una siffatta definizione non può e non deve trovar posto in un articolo della Costituzione, perché il concetto che la definizione esprime ha un carattere storico, sociologico, e non un contenuto giuridico; vorrei anzi dire all’onorevole Tupini, se me lo consente, che è giuridicamente controproducente. Perché? Perché lo Stato non si occupa del fatto della convivenza, ma si occupa della famiglia giuridicamente ordinata. Sotto questo aspetto, a mio avviso, non vi possono essere un prius ed un posterius, in quanto i diritti individuali e i diritti familiari sono un tutt’uno con l’ordinamento giuridico, sorgono, cioè, allo stesso punto.

Pertanto, lo Stato non riconosce la famiglia, ma ne riconosce i diritti, per essere la famiglia, per sé, una entità giuridica.

Per concludere, se le definizioni sono sempre da evitare nelle leggi, questa definizione della famiglia, giuridicamente irrilevante, e di equivoco significato, non deve trovar posto nella Costituzione.

Nell’articolo 24 si dice che «il matrimonio è basato sull’eguaglianza morale e giuridica dei coniugi». Mi permetto di fare qualche riserva su questo concetto, non in quanto io voglio riferirmi ad una eventuale condizione di inferiorità dell’un coniuge rispetto all’altro, ma in quanto intendo riferirmi a quel concetto di ordinamento gerarchico che è insito in ogni organismo, e che, quindi, è proprio della famiglia. Concetto gerarchico di cui nell’articolo non è cenno di sorta, poiché esso si limita ad affermare l’eguaglianza giuridica e morale dei coniugi come base del matrimonio. La mia riserva è, dunque, del tutto giustificata perché, chi bene guardi, il concetto gerarchico è come scolpito, quando si dice che il marito è il capo della famiglia, che la moglie segue la condizione civile di lui, che ne assume il cognome e che è obbligata ad avere la stessa residenza del marito.

Pertanto, se si può affermare l’eguaglianza giuridica in rapporto agli obblighi dell’assistenza, della fedeltà e della coabitazione, che sono innegabilmente obblighi reciproci, non si può, invece, affermarla per tutti gli altri rapporti che derivano dal matrimonio. Eccovi un esempio.

Quando si dice che il marito è il titolare del domicilio, tale titolarità non è meramente nominale, ma ad essa corrisponde, nel caso di violazione del domicilio, un diritto che può essere esercitato dalla moglie solo quando non possa essere esercitato dal titolare.

Del pari, titolare della potestà patria è il padre, e solo in via sussidiaria la madre, onde la rappresentanza legale di figli minori spetta al padre, come gli spetta anche il diritto di querela per i reati commessi in danno dei minori stessi. È evidente, adunque, che nello svolgimento dei rapporti familiari il concetto dell’ordinamento gerarchico della famiglia stabilisce necessariamente una differenza giuridica, se non morale.

Rappresentanza, nel suo molteplice contenuto: in giudizio, nell’accettazione di una eredità, nell’accettazione di una donazione, e simili. Questo diritto è riconosciuto da tutte le leggi al padre.

E mi permetto di ricordarle, onorevole Tupini, che a questi diritti che spettano al padre ope legis, ed a quei diritti che spettano a ciascun coniuge, non è consentito derogare per eventuali convenzioni fra le parti. Il che significa che vi sono dei rapporti che la legge contempla come di diritto pubblico, di interesse pubblico, dando la preminenza al padre in rapporto alla posizione della madre. Tale preminenza può rilevarsi in rapporto al patrimonio familiare, quando esso è costituito, in rapporto al regime della comunione dei beni, in rapporto alla dote, alle azioni e ai diritti relativi alla dote, e specialmente in rapporto al regime coniugale nel caso di separazione personale dei coniugi, perché la colpa dell’uno o dell’altro coniuge, come causa della separazione, determina, per sé, una evidente condizione d’inferiorità, sia nella posizione morale sia in quella giuridica ed economica del coniuge colpevole.

Così, la moglie può perdere gli utili stabiliti nel contratto di matrimonio, l’usufrutto legale sui beni del figlio, e perfino l’uso del cognome del marito, e anche gli alimenti nel caso di abbandono ingiustificato del domicilio coniugale. Occorre, adunque, che la Commissione trovi una formula espressiva del concetto gerarchico da me prospettato.

Quanto alla indissolubilità del matrimonio, io ritengo che il problema non costituisca materia costituzionale. Ma se dovessi esprimere il mio pensiero direi che il problema del divorzio non si può porre, come ha fatto il collega Badini, in termini di libertà, perché in tali termini sarebbe agevole dire che, come non potrebbe essere imposto ad alcuno il vincolo matrimoniale, così non potrebbe imporsi la indissolubilità del vincolo stesso, soprattutto in quei casi nei quali la indissolubilità può divenire peggio che una catena di dolore e d’infamia.

Il problema si pone in termini ben diversi. Quando si dice che il matrimonio non è un contratto, ma è un sacramento, io mi domando che cosa resta del sacramento, che cosa, cioè, resta della grazia intima, propria del sacramento, nei casi in cui il vincolo è già spezzato di fatto o per adulterio, o per condanna grave infamante di uno dei coniugi. Si può anche seguire la dottrina della chiesa, come fa la Democrazia cristiana, ma non si può, nello stesso tempo, non avere nel cuore un senso di orrore per l’indissolubilità del vincolo nei casi da me ricordati. (Commenti Interruzioni al centro).

Comunque, io ripeto che pongo la questione in termini, per così dire, procedurali, per dire che questa non è materia costituzionale, ma materia propria del Codice civile. Non comprendo, peraltro, che cosa significa la disposizione per la quale «la legge regola la condizione dei coniugi al fino di garantire l’indissolubilità del matrimonio e l’unità della famiglia».

TUPINI, Presidente della prima Sottocommissione. Corrisponde a quella preoccupazione che giustamente lei ha espresso poc’anzi circa il pericolo che non ci sia almeno un primus inter pares. Ecco a che cosa vuol arrivare.

CRISPO. No, onorevole Tupini: la legge non regola la famiglia allo scopo di garantirne l’indissolubilità, perché l’indissolubilità è nella legge, nel senso, cioè, che il vincolo si risolve solo con la morte. In che modo, adunque, la legge regola la famiglia per garantirne l’indissolubilità? Garantire significa offrire sicurtà che il vincolo non sarà spezzato. La legge, invece, impone l’indissolubilità, ma non può far nulla per garantirla: la tutela soltanto con le norme del Codice penale. Alla stessa guisa colui che assassina è punito, ma questo non significa che la legge garantisce la vita. Per me, adunque, le parole della disposizione sono assolutamente prive di contenuto e, come tali, dovrebbero essere eliminate dal progetto.

Sull’articolo 25 osservo che la seconda parte mi pare contenga in sé già il concetto e il contenuto della prima parte; perché, quando si dice che la legge garantisce ai figli nati fuori del matrimonio uno stato giuridico che escluda inferiorità civili e sociali, innegabilmente questo stato giuridico, garantito dalla legge, comprende i doveri dei genitori verso i figli nati fuori del matrimonio. Se non è consentita una condizione di inferiorità, come è stabilito nell’articolo 25, tra figli nati nel matrimonio e figli nati fuori del matrimonio, nel senso che deve essere esclusa ogni inferiorità, innegabilmente la eguaglianza giuridica dei figli legittimi e dei figli illegittimi comprende il dovere dei genitori, nel senso che allo stato giuridico dei figli deve corrispondere l’obbligo correlativo dei genitori.

Se non che, non vi siete resi conto che, a mio avviso, il voto generoso col quale si vuole tendere la mano ad innumerevoli creature incolpevoli rimane un voto senza possibilità di realizzazione, perché quando si stabilisce l’obbligo dei genitori, io vi domando: di quali genitori? Di quali genitori, se essi non si conoscono, e se il presupposto dell’obbligo è il riconoscimento dei figli illegittimi, riconoscimento che crea un problema complesso e grave in rapporto ai figli adulterini e, specialmente, in rapporto ai figli incestuosi?

Come potrà, dunque, il legislatore applicare il principio di giustizia sociale affermato nella Costituzione, dell’eguaglianza dei figli legittimi e dei figli illegittimi, come farà questo legislatore, se i genitori non si conoscono, e se non sarà possibile il riconoscimento?

Un’ultima osservazione: si dice nell’articolo 25: «È dovere e diritto dei genitori alimentare, istruire, educare la prole», e si contempla l’ipotesi in cui deve subentrare lo Stato nei casi di provata incapacità o di impossibilità da parte dei genitori a provvedere.

Mi permetto, innanzi tutto, di ricordare che, nel caso suddetto d’incapacità, subentrano negli obblighi dei genitori gli altri ascendenti, sì che dovrebbe tenersi conto di ciò, prima di stabilire l’intervento dello Stato.

L’intervento dello Stato si riferisce agli istituti di assistenza, contemplati già nel Codice civile fascista, Sorge così il problema dello Stato-educatore, dello Stato-scuola, dello Stato-famiglia, il problema per il quale vengono addossati allo Stato compiti che lo Stato non è in grado di adempiere.

Comunque, il principio posto nell’articolo 25 deve essere considerato in rapporto ai genitori più che in rapporto ai figli, perché fino a quando il padre e la madre saranno schiavi del bisogno, della miseria, della fame, non potrà costituirsi un saldo nucleo familiare, tale da concorrere alla saldezza morale dello Stato.

Se volete veramente sollevare alto la famiglia come la cellula fondamentale della Repubblica, cercate di provvedere prima ai genitori e poi ai figli. (Applausi).

PRESIDENTE. È iscritto a parlare l’onorevole Merlin Umberto. Ne ha facoltà.

MERLIN UMBERTO. Confesso che sono stato incerto se intervenire in questa discussione, perché io avevo già avuto occasione di esprimere il mio parere in seno alla Commissione dei 75, della quale faccio parte. Ma poiché è utile che la Democrazia cristiana dica il proprio pensiero anche davanti all’Assemblea ed al Paese in ordine a questo grave problema della famiglia, io prendo la parola ed intervengo nella discussione, semplicemente con questo fine, di segnare un mio aperto consenso ed un mio aperto dissenso, su due punti che reputo importanti; e spero di interpretare il pensiero anche dei miei amici. Tanto più che si è già visto dai due discorsi degli egregi colleghi che mi hanno preceduto che la utilità di una precisazione apparisce evidente, perché i due colleghi, pur tanto autorevoli, non hanno espresso pensieri concordi in ordine ai problemi di cui vi parlerò.

Il mio consenso cade sull’articolo 24; il mio dissenso sull’articolo 25. L’articolo 24 dice così: «II matrimonio è basato sulla eguaglianza morale e giuridica dei coniugi. La legge ne regola la condizione a fine di garantire l’indissolubilità del matrimonio e l’unità della famiglia».

Il mio dissenso cade sull’articolo 25, capoverso primo, là dove è detto: «I genitori hanno verso i figli nati fuori del matrimonio gli stessi doveri che verso quelli nati nel matrimonio. La legge garantisce ai figli nati fuori del matrimonio uno stato giuridico che escluda inferiorità civili e sociali».

Superfluo in realtà è il ricordare a tutti coloro che conoscono il nostro pensiero quale sia il nostro animo, il nostro favore, vorrei dire la nostra adorazione, per l’istituto della famiglia. Superfluo è dire che noi rendiamo plauso sincero alle parole di un grande giurista italiano, il quale recentemente ha detto che lo Stato deve serbare verso questo istituto il favor familiae, perché questo soltanto può essere il principio direttivo della costruzione dello Stato. Nulla infatti si può costruire all’infuori o contro la famiglia, perché essa è stata definita la piccola cellula, e come la cellula è l’elemento fondamentale dell’organismo biologico, altrettanto la famiglia è l’elemento fondamentale dell’organismo sociologico. Ora, se si vuole rafforzare lo Stato, bisogna difendere e rafforzare la famiglia.

E diciamo anche chiaramente questo, che a sostenere queste idee non siamo soli e ciò noi lo constatiamo con soddisfazione, con animo lieto, senza avere nessuna gelosia e nessuna preoccupazione; per cui, quando, per esempio, la onorevole Iotti, per citare la testimonianza di una collega che, appartenendo al partito comunista, può presentare le idee più antitetiche alle nostre, nella sua relazione scrive queste parole: «La famiglia si presenta ora più che mai come il nucleo primordiale su cui i cittadini dello Stato possono e devono poggiare per il rinnovamento materiale e morale della vita italiana ed è di importanza fondamentale la tutela da parte dello Stato dell’istituto familiare», noi non possiamo che prendere atto di queste dichiarazioni con grande soddisfazione e con animo lieto. Ed altrettanto ci hanno soddisfatto e ci soddisfano le parole che ha pronunziato testé un liberale, l’onorevole Badini Confalonieri.

Siamo ben lontani da quei tempi (lo dico purtroppo con amarezza, perché quei tempi coincidevano col periodo della mia giovinezza, che è superata da gran tempo) in cui si diceva che «l’amore deve essere libero», che «l’appagamento dell’istinto sessuale è un affare personale di ciascun individuo», che «deve essere soppresso ogni regime matrimoniale», che «deve essere affermato l’assoluto disinteresse dello Stato nei riguardi delle relazioni intercedenti fra maschio e femmina», che «la famiglia è una istituzione borghese», ecc. Questi evidenti errori non si ripetono più, perché è accaduto nella famiglia quello che accade di tutte le istituzioni che seguono le leggi di natura, che quanto più sono colpite, ferite, combattute, tanto più resistono e dimostrano così la loro forza e la loro vitalità.

Quindi noi di questo prendiamo atto con soddisfazione e diciamo, in risposta a quello che ha detto testé il collega Crispo, che abbiamo voluto nell’articolo 23 proprio affermare con le parole «la famiglia è una società naturale» una definizione esatta della famiglia che non può essere negata da nessuno a qualunque scuola appartenga.

Infatti, a parte lo stabilire quando sia sorto lo Stato e quale Stato, ognuno comprende che la famiglia lo precede.

Lo Stato è l’organizzazione giuridica della società. Ma quale organizzazione giuridica? Non parliamo dello Stato moderno, che è recentissimo; ma anche a risalire nei secoli gli studiosi non scorgono una forma chiara di organizzazione statuale, ma l’unica forma di organizzazione, l’unico centro nel quale si afferma il principio di autorità è veramente la famiglia, nella quale il capo è padre, legislatore e sovrano. Più tardi più famiglie daranno vita alle tribù e queste a forme primordiali dello Stato; ma la famiglia ha preceduto questa organizzazione. Noi diciamo che questo concetto è affermato con le parole «la famiglia è una società naturale», per dimostrare questa semplice verità che la famiglia ha dei diritti primordiali, propri, che lo Stato non deve concedere come una graziosa concessione, ma che deve semplicemente riconoscere perché sono preesistenti alla sua organizzazione.

Ecco perché noi crediamo che l’Assemblea vorrà votare questa formula, la quale, ripeto, può essere accettata da tutti senza offesa al patrimonio di idee che ciascuno conserva.

La famiglia è formata da due elementi, è una unione fisiologica; ma è ovvio – e io dico delle cose elementari e certamente condivise da tutti – che essa è una unità economica, una unità politica e soprattutto, o signori, è una unità morale. Ora è evidente che questa unione non può essere lasciata a se stessa senza che lo Stato intervenga. Lo Stato ha il dovere di intervenire, e presso tutti i popoli e presso le più antiche civiltà la cura maggiore di uno Stato ben ordinato è stata quella di tutelare e difendere la famiglia. Parole vecchie e ripetute di Platone ricordano che «perché una repubblica sia bene ordinata, le principali leggi devono essere quelle che regolano il matrimonio». Se così è, poteva la nostra Carta statutaria tacere di questo istituto?

Vi fu un collega che, parlando nella discussione generale, ha detto che questa non era materia da Carta costituzionale, che nella Carta costituzionale si poteva non parlarne, perché l’argomento rientrava nei rapporti regolati dal Codice civile e dalle leggi ordinarie.

Risponderei a questa obiezione pregiudiziale, se fosse ripetuta, che io non sono certo un costituzionalista e non ho la pretesa di insegnare a nessuno; ma se devo dire, modestamente, la mia opinione, dirò che se la Carta statutaria, per antonomasia e per definizione, deve regolare in sintesi i principali doveri e diritti dei cittadini, non so come si sarebbe potuto tacere della famiglia, che è la fonte dei maggiori doveri non solo dei coniugi fra loro, ma anche verso i figli.

E vi sono già precedenti, non in Islanda, come recentemente si scrisse equivocando la s con la r, ma in Irlanda, la cui Costituzione parla abbondantemente dell’istituto familiare. Si dica egualmente della Costituzione di Weimar e, anche più recentemente, della Costituzione jugoslava.

Perché avremmo dovuto tacerne noi?

Del resto un grande italiano, Giuseppe Mazzini, ha scritto su questo argomento: «La vita associata è come disposta in ordini concentrici, via via più ampi: la città, lo Stato, l’umanità». Ma al centro di tutto l’ordine sociale Giuseppe Mazzini collocava la famiglia e la definiva «la prima società su cui tutte le altre si assidono».

E allora, signori, bisogna parlarne, anche perché noi non siamo soltanto legislatori, ma costituenti; e dobbiamo avere la franchezza di dire il nostro pensiero su questo argomento, per non aver l’aria – scusate quello che dico in questo momento – di voler eludere le più spinose e delicate questioni.

Parliamo dunque del matrimonio e parliamone chiaramente.

Dalla classica definizione di Modestino che è nota a tutti, all’elevazione che Cristo ha fatto del matrimonio a Sacramento, è tutta una serie di giureconsulti, di scrittori, di riformatori, di romanzieri e di poeti, che hanno esaltato la forza e la grandezza di questa divina istituzione.

Ora noi nella Costituzione stiamo per scrivere innanzi tutto che il matrimonio si basa sull’eguaglianza morale e giuridica dei coniugi e poi sulla indissolubilità e unità della famiglia.

Era perfettamente superfluo riaffermare nella Carta statutaria il principio monogamico della famiglia, perché sarebbe stata quasi un’offesa alla nostra stessa civiltà, perché è tale un principio questo accettato da tutti che non era il caso di parlarne. La famiglia monogamica rappresenta, nel corso dei secoli, una elevazione ed un perfezionamento per il quale la famiglia, abbandonando forme di poliandria e di poligamia deprecabili, si avvia al suo perfezionamento, l’unione di un uomo con una sola donna ed i figli procreati da loro.

Dunque l’articolo 24 sancisce l’eguaglianza morale e giuridica dei coniugi e l’indissolubilità del matrimonio.

Sul primo punto devo dire chiaramente che noi l’abbiamo votato perché consideriamo la donna pari all’uomo in molti punti e perché questo concetto della elevazione della donna che diventa uguale all’uomo nella collaborazione e nel vantaggio della famiglia è un principio morale e cristiano che noi accettiamo. Ma con ciò non vogliamo negare che l’uomo resti capo della famiglia, come la donna ne è il cuore; l’uomo tiene il primato del governo, come la donna può e deve attribuirsi come suo proprio il primato sull’amore.

Onde bene ha detto l’onorevole Tupini nel discorso, con cui egli ha aperto la discussione generale, che l’uomo resta il primus inter pares, nel senso che noi vogliamo dare alla donna la parità morale e giuridica, conciliando questo principio con l’altro che capo della famiglia è l’uomo.

Se in questo punto – come già altri oratori hanno fatto supporre – fosse necessario chiarire, io domanderei che si chiarisse.

Ma non su questo, ma sul secondo punto si darà forse battaglia: quello cioè della indissolubilità.

Già abbiamo sentito due oratori autorevolissimi, appartenenti tutt’e due al partito liberale, se non erro.

Una voce. Liberali veri.

MERLIN UMBERTO. Liberali veri, ma che non vanno d’accordo. Perché, mentre a quello che ha detto l’onorevole Badini Confalonieri io mi sono associato plaudendo, non altrettanto potrei fare per il collega Crispo, pur così eloquente e profondo giurista, come egli è.

Io ho sentito dall’onorevole Badini Confalonieri esprimere delle idee, che collimano perfettamente col nostro pensiero ed io lo ringrazio di quanto ha detto.

Su questo punto dichiaro: possiamo essere agnostici?

Possiamo fare quello che l’onorevole Grilli proporrebbe: che si levassero quelle parolette della indissolubilità e si lasciasse questa questione indecisa?

Signori, so cosa voi dite su questo punto contro di noi, quando ci si vuole combattere e disprezzarci…

MOLÈ. No, no.

MERLIN UMBERTO. Sta bene, ritiro la parola.

Voi dite dunque che noi lo facciamo per calcolo politico. Non è vero.

Se voi sentiste il nostro animo verso la famiglia, se voi sapeste qual è l’affezione profonda…

Voci. Noi, lo stesso.

MERLIN UMBERTO. Ne prendo atto con piacere.

MANCINI. Non siete dei privilegiati voi.

MERLIN UMBERTO. No, non siamo dei privilegiati, ma uomini che sostengono questi principî per ragioni profondamente superiori e morali, pronti ad accettare la collaborazione di tutti.

Vi parla un uomo libero, il quale ama profondamente la libertà ed ha sempre sentito che impara di più dalle critiche degli avversari che dal plauso degli amici.

Perciò io rispetto anche il punto di vista di quanti non condividono il mio pensiero, pur rimanendo fermo e deciso a sostenere il mio.

Io, ad ogni modo, stasera, anche perché il Presidente non me lo permetterebbe, non farò un discorso contro il divorzio; sia per ragioni di tempo, sia perché – tranne l’accenno dell’onorevole Crispo al solito caso dell’ergastolano che desta pietà nel cuore di tutti – nessun deputato si è fatto iniziatore d’una legge a favore del divorzio. (Interruzioni).

Una voce. Vi fu l’emendamento Comandini e vi fu il progetto Marangoni.

MERLIN UMBERTO. Dopo quel progetto Marangoni, che conosco perché ero deputato con lui, non ho sentito alcuna altra proposta del genere.

Ad ogni modo, se voi volete proporre il progetto siete sempre in tempo; ma proponetelo, non fate come si è fatto nella prima Sottocommissione in cui non c’era uno che si dichiarasse divorzista e tutti continuavano a ripetere che il popolo italiano non vuole il divorzio e che nessuno pensava di proporre una legge simile. Ed allora lasciateci sbarrare la porta, lasciateci venire incontro alla volontà popolare. Ma lasciatemi anche ricordare che il divorzio coincide con i periodi della maggiore decadenza di un popolo (Interruzioni Commenti).

Andate a imparare dove questa grande fortuna esiste, e troverete tutti gli uomini maggiori: i sociologi, i medici, i giuristi, che non fanno che riconoscere tutto il danno e tutto il pregiudizio che deriva alla unità della famiglia da questa legge.

Ma del resto qui noi siamo in Italia e noi possiamo riferirci piuttosto alla nostra Roma ed al suo insegnamento. Roma decadde quando non riconobbe la santità della famiglia…

CALOSSO. Ma lei è contro il cristianesimo.

MERLIN UMBERTO. L’onorevole Calosso è profondo in tutto e quindi anche nella conoscenza del cristianesimo. Creda però, onorevole collega, che noi conosciamo il cristianesimo un po’ più di lei, perché lo pratichiamo. (Applausi al centro).

Le illustri matrone romane – e parlo delle matrone perché questa legge sul divorzio il popolo non la vuole; e se la vogliono, la vogliono certi aristocratici per far diventare legale anche l’adulterio…

CALOSSO. Evviva Roma pagana!

MERLIN UMBERTO. Le illustri matrone romane, diceva Seneca, contavano il numero degli anni non dal numero dei consoli, ma dal numero dei mariti che avevano avuto. Fu il cristianesimo che salvò la famiglia e salvò anche la civiltà. (Interruzione dell’onorevole Minio).

E allora, o signori, dove se ne va la famiglia quando i genitori non si riconoscono più e i figli non riconoscono più i genitori? La famiglia non solo decade, ma aumenta (cosa che sembra strana) il numero dei celibi. Sicuro, pure con la facilità di rompere il matrimonio, in Roma i celibi aumentarono a tal punto da preoccupare l’imperatore, e vennero le leggi di Augusto che condannavano il celibato per salvare Roma, la sua civiltà, e le generazioni future.

CALOSSO. C’è una pagina del Manzoni che è contro quello che dice lei.

Una voce al centro. È divorzista anche Manzoni, adesso?

MERLIN UMBERTO. Ma io vorrei domandare alla lealtà dei miei cortesi contraddittori – che questa sera, si vede, sono in vena di umorismo sé vogliono scherzare su una cosa tanto seria – vorrei domandare: cosa accade nei paesi dove il divorzio è ammesso? Lo ha detto già Badini: si arriva dalla divisione per mutuo consenso ai matrimoni risolti perché la donna non sa cuocere una bistecca o interpretare il pensiero del marito nell’abbigliamento della casa. (Rumori Commenti a sinistra).

Io dico, signori, e concludo su questo punto, che il divorzio sarebbe come un veleno roditore, un veleno che si insinua inavvertitamente fin dal primo giorno, di matrimonio. Badate, voi potete anche essere di parere contrario al mio, ma le donne no, a qualunque partito appartengano; vorrei sentire anche il parere delle donne comuniste, anche delle donne socialiste (Intenzione dell’onorevole Mattei Teresa); esse sono tutte contrarie al divorzio, perché capiscono una cosa: è facile voler bene ad una donna quando le grazie della gioventù la rendono bella e piacente; ma è altrettanto facile ai signori uomini di abbandonarla quando i capelli diventano bianchi o le rughe deturpano il viso. (Interruzioni).

PRESIDENTE. Sono costretto a richiamare con una certa decisione i signori deputati al silenzio. Ci sono ancora tanti altri iscritti a parlare. Prosegua, onorevole Merlin.

MERLIN UMBERTO. Ho letto pochi giorni fa un libro di Chesterton che è intitolato La superstizione del divorzio. Basterebbe leggerlo per convincersi della verità della tesi da me sostenuta. Quel chiaro autore scrive:

«È vero che l’indissolubilità crea talvolta (ce lo ha ricordato l’onorevole Crispo) nelle famiglie dei casi veramente dolorosi; ma la famiglia è basata su concetti di lealtà, di fedeltà e di onore, ed è a questi concetti che bisogna richiamarsi. Questi concetti sono quelli che sono, non si cambiano a piacere, come si cambia a vista lo scenario di un teatro. La fedeltà non è condizionata o temporanea: come il cittadino non diserta la bandiera quando è in pericolo la patria, così la lealtà, l’onore e la fedeltà impongono di non disertare la famiglia».

Ma, anche per poter dimostrare che questa discussione può essere un tantino superflua, io ricordo a coloro che hanno votato l’articolo 7 della nostra Costituzione che essi sarebbero in contrasto con se stessi se non volessero votare l’articolo 24 così come è concepito, perché per l’articolo 7 i rapporti tra la Chiesa e lo Stato sono regolati dai Patti lateranensi. Ora, l’articolo 34 del Concordato dice:

«Lo Stato italiano, volendo ridonare all’istituto della famiglia dignità conforme alle tradizioni cattoliche del suo popolo, riconosce al sacramento del matrimonio, disciplinato dal diritto canonico, gli effetti civili».

Dunque, la materia è regolata dal diritto canonico e, per questo diritto, il matrimonio è un sacramento. Se è un sacramento, è per sua natura indissolubile.

Ma del resto volete sapere, o signori, dopo il Concordato quanti matrimoni si sono celebrati in Italia col rito civile? Io ho le statistiche. Dal 1930 al 1942 in Italia, ogni anno, fino al 1942 – l’anno forse della maggiore depressione per cause abbastanza chiare, e cioè la guerra – il numero dei matrimoni è stato di 300 mila all’anno. Volete sapere quanti matrimoni si sono celebrati col solo rito civile? Da 9448 nel 1930 si discende a 2339 nel 1942, neanche l’uno per cento. (Commenti Interruzioni a sinistra). E badate, o signori, che il Concordato non impone in Italia, un matrimonio confessionale, come sarebbe in Austria o in Ispagna; esso non impone cioè ai cattolici di celebrare il matrimonio soltanto col rito della loro fede. No, il matrimonio civile è libero anche per i cattolici, e chiunque voglia andare a celebrarlo davanti al sindaco con la fascia tricolore è perfettamente libero. La verità è che queste statistiche dimostrano, nel modo più eloquente, che in Italia la gran massa dei cittadini vuole il matrimonio cattolico, saldo e indissolubile, a garanzia della sanità e dell’unità della famiglia.

Ma la famiglia si difende anche con altri mezzi…

CALOSSO. Con l’adulterio!

MERLIN UMBERTO. Questa è una volgarità. La famiglia, dicevo, si difende anche con tutte le provvidenze economiche e sociali che nell’articolo 23 sono sancite, col riconoscimento dei suoi diritti, con la tutela nell’adempimento delle sue mansioni. (Commenti Interruzioni a sinistra). Di più, assicurando alla famiglia le condizioni economiche necessarie alla sua formazione, alla sua difesa, al suo sviluppo, con una protezione particolare per le famiglie numerose. Inoltre, nello Statuto è detto che la Repubblica provvede alla protezione della maternità, dell’infanzia e della gioventù e promuove l’igiene di tutti i cittadini.

A coloro che dicono che noi con queste, norme abbiamo firmato delle cambiali in bianco, che non saremo in condizione di pagare, noi rispondiamo che la Carta statutaria non è fatta solo per cristallizzare una determinata situazione, ma anche per fissare delle direttive al legislatore di domani. Ora, è sperabile che il domani sia migliore dell’oggi e che la nostra Italia, con il lavoro, l’onestà e la probità della sua gente, possa darci condizioni economiche che permettano di attuare ampiamente queste provvidenze che lo Statuto approva.

Ma ho detto che noi non potevamo approvare l’articolo 25, capoverso 1°: «I genitori hanno verso i figli nati fuori del matrimonio gli stessi doveri che verso quelli nati nel matrimonio». Queste parole non le approviamo, quantunque ne sarà difficile poi la concreta applicazione da parte del legislatore, in quanto voi comprendete benissimo che se per ipotesi – che spero i colleghi vogliano escludere – io avessi un figlio illegittimo (Ilarità), io non potrei mai dare a quel figlio tutto ciò che do ai figli legittimi, neanche se gli dessi tutto il mio patrimonio. (Commenti).

Una voce. Molto male!

MERLIN UMBERTO. Molto male, ma è una impossibilità assoluta, caro collega, perché il mio cognome appartiene anche a mia moglie e ai miei figli ed io da solo non posso disporne. (Commenti Interruzioni). Assisterlo, sì, economicamente, ma non dargli il mio cognome. Questo dimostra che la formula non potrà ottenere dal legislatore quell’applicazione piena e completa che le parole di essa direbbero. Ma dove soprattutto non possiamo accettare l’articolo è nella parte successiva in cui si dice che la legge garantisce ai figli nati fuori del matrimonio uno stato giuridico che escluda inferiorità civili e sociali.

La formula è dell’onorevole Togliatti. La onorevole Iotti aveva proposto una formula un po’ diversa, là dove essa aveva chiesto la parità assoluta, cioè le stesse condizioni giuridiche tra figli legittimi e figli illegittimi; ma non credo alla diversità delle due formule e non lo credo sia per l’identità di pensiero politico che vi è tra i due proponenti, sia perché la formula negativa dell’«escludere inferiorità» equivale alla formula positiva di «assicurare la parità». Ora noi abbiamo ripetutamente detto, e il Presidente della nostra Commissione con noi durante le discussioni, che i democratici cristiani trattano questo argomento con animo di profonda pietà; i figli illegittimi sono degni della maggiore considerazione e della maggiore pietà. (Commenti).

Una voce. Figli di Dio, in sostanza.

MERLIN UMBERTO. Ripeto la parola pietà perché non ne trovo altra adatta. Concorrere ad elevare la loro sorte è un dovere, a patto però di non offendere i terzi innocenti. I figli illegittimi, chiamati volgarmente frutto della colpa, sono innocenti, ma sono altrettanto innocenti i figli legittimi e il coniuge. (Commenti).

Noi non ci possiamo perciò lasciar trasportare in questo campo soltanto dal cuore, ma dobbiamo lasciarci trasportare dal cuore e dalla ragione. La famiglia legittima ha i suoi diritti, che noi dobbiamo gelosamente custodire, e per custodirli bisogna che siano consacrati nello Statuto. La famiglia legittima è soltanto quella costituita dal padre, dalla madre e dai figli che sono nati da loro. Se elevassimo i figli illegittimi alla parità, noi abbasseremmo i legittimi, e questo non si può fare se non a patto di danneggiare la difesa della famiglia legittima, l’unica che deve essere riconosciuta.

Adottare la formula come è proposta dal progetto sarebbe dunque un errore, vorrebbe dire aprire nella famiglia una breccia che la coscienza sana e morale dei più non accetterebbe. Ora, o signori, bisogna parlarci chiaro: anche qui vi possono essere dei sacrificati; ma fra il bene pubblico e quello privato, fra il bene collettivo e sociale e quello dell’individuo, noi legislatori costituenti dobbiamo scegliere il primo e abbandonare il secondo, se occorre. (Commenti a sinistra). Ho già parlato del cognome, e dell’impossibilità assoluta di darlo agli illegittimi. Quindi, quando si dice la parità o la non inferiorità, voi domandate una cosa impossibile. Ma a parte questo, che cosa volete dire con questa «non inferiorità» o con questa «parità»? Volete forse ammettere il figlio illegittimo alla stessa mensa, nella stessa casa della famiglia legittima, e magari con la madre diversa o il padre diverso?

CALOSSO. Tendenzialmente, sì.

MERLIN UMBERTO. Lascio a voi di esprimere queste parole, ma di vedere poi quali conseguenze dolorose ne deriverebbero, quali lotte cruente, quali tremendi dissidi nell’ambito stesso della famiglia.

Perciò noi non possiamo accettare questa formula, e non la possiamo accettare anche per un’altra ragione, perché per potervi dare piena applicazione bisognerebbe anche affrontare il tema gravissimo della ricerca della paternità. Che vale scrivere nel Codice che i figli illegittimi sono pari ai legittimi, quando voi non deste ai figli illegittimi la piena completa ricerca della paternità?

Una voce a sinistra. La daremo!

MERLIN UMBERTO. Ora, signori, badate che di legislatori ce ne sono stati tanti, e gli scandali che si sono verificati nei periodi in cui per breve ora il legislatore ha ammesso la più ampia ricerca della paternità magari affidata alle prove testimoniali – sono state tali che nessun legislatore successivo si è sentito di ripetere quello sproposito e quell’errore. (Interruzioni a sinistra Commenti).

Ora, io credo che nessun legislatore si sentirebbe il coraggio di ampliare quei casi di ricerca della paternità che sono stati per esempio segnati dall’articolo 269 del Codice civile; la materia è delle più ampie e più delicate. Anche su questo punto io voglio concludere, a tranquillità magari anche di tutti quelli che, non avendo famiglia, sostengono un’opinione contraria alla mia, che le cifre nel loro linguaggio eloquente dimostrano quale è, per fortuna nostra, l’importanza del fenomeno nel nostro Paese. Perché il legislatore deve, sì, preoccuparsi di tutto e di tutti, ma deve anche guardare se il fenomeno abbia assunto un’importanza sociale considerevole.

Una voce a sinistra. Purtroppo, sì!

MERLIN UMBERTO. Ora, per fortuna nostra, signori, le statistiche dimostrano che in Italia nascono un milione di creature all’anno; di questo milione di creature, il 97 per cento è di figli legittimi, il 3 per cento di figli illegittimi. (Interruzioni Commenti a sinistra).

PRESIDENTE. Per favore, non interrompano! Onorevole Merlin, la prego di tener presente che lei sta parlando da cinquanta minuti. Veda di concludere.

MERLIN UMBERTO. Non è colpa mia: è colpa dei colleghi i quali non fanno che interrompere. Ad ogni modo, onorevole Presidente, vedrà che l’accontento subito.

Dicevo che, di questo 3 per cento, il 2 e mezzo per cento viene più tardi riconosciuto; per cui, fra figli legittimi e illegittimi riconosciuti, si arriva al 99 e mezzo per cento. La povera prole che rimane nella categoria non riconosciuta o di filiazione ignota rappresenta il mezzo per cento.

Povere creature anche queste, verso le quali va la nostra profonda pietà, ma non al punto da ferire la dignità e l’unità della famiglia legittima, non al punto di immettere in essa dei figli nati fuori del matrimonio.

Con questo assenso e con questo dissenso, io ho voluto, onorevoli colleghi, portare il mio contributo a questa discussione e, se possibile, dimostrare un sentimento che non è mio soltanto, ma è di tutta l’Assemblea, e cioè l’amore geloso, la cura affettuosa, l’adesione viva che ci legano all’istituto familiare, così profondamente custodito dalla, sanità morale di tutto il popolo italiano. (Vivi applausi al centro Molte congratulazioni).

PRESIDENTE. Il seguito della discussione è rinviato a giovedì mattina 17, dovendosi nella seduta di domani alle 15 discutere la relazione della Commissione degli Undici, che sarà fatta dall’onorevole Rubilli.

L’ordine degli oratori giovedì mattina sarà il seguente: Rodi, Rossi Maria Maddalena, Molè, Tumminelli, Gullo, Calamandrei, Bosco Lucarelli, Cevolotto, Giua, Della Seta, Avanzini, Nitti, Gallico Spano Nadia, Fusco, Grilli, Colonnetti, Bianchi Bianca, Nobile, Einaudi, Grilli.

Prego gli oratori di non chiedere spostamenti del loro turno perché altrimenti, senza stabilità di elenco, non riusciremo mai a organizzare gli interventi oratori.

Interrogazione con richiesta d’urgenza.

PRESIDENTE. Gli onorevoli Musolino e Silipo hanno presentato la seguente interrogazione, con richiesta di risposta urgente:

«Al Presidente del Consiglio dei Ministri (Alto Commissariato per l’igiene e la sanità pubblica), per sapere quali provvedimenti intende adottare a carico dell’Impresa del Sanatorio antitubercolare di Chiaravalle in provincia di Catanzaro, dove i ricoverati ricevono un trattamento non rispondente alle minime esigenze di cura, di igiene e di profilassi».

CAPPA, Sottosegretario di Stato alla Presidenza del Consiglio dei Ministri: Il Governo si riserva di precisare la data in cui risponderà a questa interrogazione dopo che sarà stata esaurita la discussione sulla Relazione della Commissione degli Undici.

La seduta termina alle 19.30.

Ordine del giorno per la seduta di domani.

Alle ore 15:

Discussione della relazione della Commissione degli Undici sulle accuse mosse dal deputato Finocchiaro Aprile ai deputati Campilli e Vanoni.

ANTIMERIDIANA DI MARTEDÌ 15 APRILE 1947

ASSEMBLEA COSTITUENTE

LXXXIX.

SEDUTA ANTIMERIDIANA DI MARTEDÌ 15 APRILE 1947

PRESIDENZA DEL PRESIDENTE TERRACINI

 

INDICE

Progetto di Costituzione della Repubblica italiana (Seguito della discussione):

Presidente                                                                                                        

Nobili Tito Oro                                                                                                

Tupini, Presidente della prima

Sottocommissione                                                                                               

Cappi                                                                                                                 

Ruini, Presidente della Commissione per la Costituzione                                      

Badini Confalonieri                                                                                        

Ferrarese                                                                                                         

Meda                                                                                                                 

Dominedò                                                                                                         

Veroni                                                                                                              

Bulloni                                                                                                            

Carboni                                                                                                            

Riccio Stefano                                                                                                 

Leone Giovanni                                                                                                

Grilli                                                                                                                

Corsanego                                                                                                       

Cifaldi                                                                                                              

Nobile                                                                                                               

Bettiol                                                                                                             

Crispo                                                                                                               

Rescigno                                                                                                           

Caroleo                                                                                                           

Bastianetto                                                                                                     

Moro                                                                                                                

Maffi                                                                                                                

Mazza                                                                                                               

Pertini                                                                                                              

Gatta                                                                                                               

Franceschini                                                                                                    

Interrogazione con richiesta d’urgenza:

Presidente                                                                                                        

Interrogazioni (Annunzio):

Presidente                                                                                                        

La seduta comincia alle 10.15.

MOLINELLI, Segretario, legge il processo verbale della precedente seduta antimeridiana.

(È approvato).

Seguito della discussione del progetto di Costituzione della Repubblica italiana.

PRESIDENTE. Do lettura del testo definitivo dell’articolo 16, come risulta dopo gli emendamenti approvati:

«Tutti hanno diritto di esprimere liberamente il proprio pensiero con la parola, lo scritto ed ogni altro mezzo di diffusione.

«La stampa non può essere sottoposta ad autorizzazioni o censure.

«Si può procedere a sequestro soltanto per atto motivato dell’autorità giudiziaria nei casi di delitti, per i quali la legge sulla stampa espressamente lo consenta, e nei casi di violazione delle norme relative all’obbligo dell’indicazione dei responsabili.

«Nei casi predetti, quando vi è assoluta urgenza e non è possibile il tempestivo intervento dell’Autorità giudiziaria, il sequestro della stampa periodica può essere eseguito da ufficiali di pubblica sicurezza, che debbono, immediatamente, e non mai oltre ventiquattro ore, inoltrare denunzia all’Autorità giudiziaria.

«La legge può stabilire, con norme di carattere generale, che siano resi noti i mezzi di finanziamento della stampa periodica.

«Sono vietate le pubblicazioni a stampa, gli spettacoli e tutte le altre manifestazioni che siano contrarie al buon costume. La legge determina misure adeguate preventive e repressive».

Passiamo all’esame dell’articolo 17:

«Nessuno può essere privato per motivi politici della capacità giuridica, della cittadinanza, del nome».

A questo articolo ha presentato un emendamento l’onorevole Condorelli, proponendo di sopprimere le parole: «per motivi politici».

L’onorevole Condorelli ha ieri dichiarato di mantenere l’emendamento e di non poterlo svolgere, poiché ha chiesto congedo.

L’emendamento sarà, pertanto, messo in votazione.

L’onorevole Nobili Tito Oro ha presentato il seguente emendamento:

«Dopo le parole: del nome, aggiungere le altre: né del diritto di circolare liberamente e di soggiornare in qualsiasi parte del territorio».

Ha facoltà di svolgerlo.

NOBILI TITO ORO. Ritiro l’emendamento e ne spiego brevemente le ragioni.

La tutela del diritto di soggiorno era prevista nell’articolo 10, del quale avevo proposto la soppressione in funzione dell’emendamento sull’articolo 8. Siccome l’emendamento sull’articolo 8 non è stato accettato e l’articolo 10 è stato approvato, compresa la tutela del diritto di soggiorno, l’attuale emendamento, collegato con i precedenti, non ha ora più ragion d’essere.

PRESIDENTE. Invito la Commissione ad esprimere il suo avviso sull’emendamento dell’onorevole Condorelli.

TUPINI, Presidente della prima Sottocommissione. La Commissione è contraria all’accoglimento dell’emendamento dell’onorevole Condorelli, perché esclude l’unica ipotesi che rappresenta la ragion d’essere dell’articolo. Se si accogliesse la proposta dell’onorevole Condorelli, tutti i criminali e condannati per reati comuni verrebbero a godere d’un privilegio che noi vogliamo solo riservare a ipotesi di natura politica.

PRESIDENTE. L’onorevole Cappi aveva presentato una proposta di soppressione dell’articolo 17. Invito l’onorevole Cappi a dar ragione della sua proposta.

CAPPI. Ho presentato una proposta di soppressione degli articoli 17 e 18. Se l’onorevole Presidente permette, svolgo anche quella relativa all’articolo 18.

Mi pare che stiamo facendo una Costituzione reattiva; e l’onorevole Nitti per primo ci ha parlato appunto di queste Costituzioni che vengono fatte in momenti di sconvolgimento. Una Costituzione reattiva dunque. Ora, se noi vogliamo, per tutte le violazioni di libertà commesse dal fascismo, introdurre, in altrettanti articoli della Costituzione, la rivendicazione di quelle speciali libertà che sono state oppresse, violate dal fascismo, noi verremo a fare una Costituzione che non avrà quasi fine. Io vi invito a riflettere sull’articolo 17: «Nessuno può essere privato per motivi politici della capacità giuridica, della cittadinanza, del nome». Ma noi abbiamo già votato un articolo, l’articolo 3, nel quale è detto che i cittadini, senza distinzione di sesso, di razza e lingua, di condizioni sociali, di opinioni religiose e politiche, sono uguali di fronte alla legge.

Allora, se abbiamo già votato questo articolo, quale necessità vi è ora di dire che nessuno può essere privato, per motivi politici, della capacità giuridica, della cittadinanza e del nome? Se abbiamo detto che tutti i cittadini sono uguali, senza alcuna distinzione, né di sesso, né di razza o di lingua, o di condizioni, sociali, di opinioni religiose e politiche, di fronte alla legge, mi pare che abbiamo già detto tutto.

Aggiungerò poi che io ricordo, che, durante il fascismo, non si poteva esercitare una determinata professione, per esempio quella di avvocato, senza essere iscritti al partito fascista. Ed allora bisognerebbe mettere anche questo: che cioè non si può impedire l’esercizio della professione. Questa allora sarebbe una dimenticanza: ecco il pericolo delle specificazioni; si finisce sempre per dimenticare qualche cosa.

Pare, quindi, a me, che l’articolo 17 sia stato già, nel suo significato, pienamente compreso nell’articolo 3.

Per quello poi che riguarda l’articolo 18, sono del parere che è superfluo.

RUINI, Presidente della Commissione per la Costituzione. C’è in molte Costituzioni, onorevole Cappi.

TUPINI, Presidente della prima Sottocommissione. Dell’articolo 18 si parlerà dopo.

PRESIDENTE. No: dato che l’onorevole Cappi ha la parola, è preferibile, per economia di tempo, che svolga subito anche l’altro emendamento.

CAPPI. L’articolo 18 dice: «Nessuna prestazione personale o patrimoniale può essere imposta se non per legge». Ma che ipotesi facciamo? È un privato che impone questa prestazione? In tal caso commette il delitto di violenza privata. È l’Autorità? Ma noi abbiamo votato che la nostra Repubblica deve essere una Repubblica democratica e parlamentare, il che significa che l’esecutivo non può se non eseguire le deliberazioni emanate dal legislativo, cioè le leggi; ché se un funzionario eseguisse arbitrariamente un atto che non fosse una legge o un decreto emanante dal potere legislativo, commetterebbe un reato e sarebbe – come è detto nell’articolo 22 – responsabile personalmente. Per queste ragioni, sembra a me che la superfluità di questi articoli sia evidente, superfluità che si traduce in pericolosità, in quanto che si fanno alcune ipotesi, ma non sono tutte le ipotesi. Quindi io insisto perché sia l’articolo 17 che l’articolo 18 vengano soppressi.

PRESIDENTE. Chiedo all’onorevole Tupini di esprimere il parere della Commissione sull’emendamento soppressivo proposto dall’onorevole Cappi.

TUPINI, Presidente della prima Sottocommissione. La Commissione è contraria all’accettazione dell’emendamento Cappi. Le ragioni spiegate prima per oppormi all’emendamento dell’onorevole Condorelli valgono anche per l’emendamento Cappi.

Faccio osservare che se anche questo articolo avesse quel carattere di reattività che egli ha denunziato, è proprio per questo carattere che noi insistiamo, perché l’articolo sia mantenuto nella Costituzione, come abbiamo avuto più volte occasione di chiarire nella discussione generale e nei successivi nostri interventi ogni qualvolta è stata trattata la stessa materia.

PRESIDENTE. L’onorevole Cappi mantiene il suo emendamento?

CAPPI. Se la Commissione non l’accetta, non insisto.

BADINI CONFALONIERI. Chiedo di parlare.

PRESIDENTE. Ne ha facoltà.

BADINI CONFALONIERI. In assenza dell’onorevole Condorelli desidero fare una dichiarazione di voto. L’emendamento proposto dall’onorevole Condorelli, cioè l’emendamento soppressivo della formula «per motivi politici», trova la sua ragione d’essere in questo: che il dire che per «motivi politici non si può essere privati della capacità giuridica, della cittadinanza e del nome» significa che per «motivi non politici» se ne possa essere privati. L’onorevole Tupini ha data una spiegazione, dicendo che ci sono l’inabilitazione, l’interdizione ed altri istituti che limitano la capacità giuridica. Ma tutti questi istituti si riferiscono non già alla capacità giuridica, ma alla capacità di agire. Sono questi due concetti nettamente diversi, perché l’ammettere una privazione di capacità giuridica significa ridurre l’uomo da soggetto di diritto, ad oggetto di diritto: il che certo non era l’intento che la Commissione aveva nella formulazione dell’articolo 17. In questo senso si deve intendere da parte dell’onorevole Condorelli la richiesta dell’abolizione dell’inciso «per motivi politici».

PRESIDENTE. Pongo in votazione la proposta dell’onorevole Condorelli di sopprimere le parole: «per motivi politici».

(Non è approvata).

Pongo in votazione l’articolo 17 nel testo della Commissione:

«Nessuno può essere privato per motivi politici della capacità giuridica, della cittadinanza, del nome».

(È approvato).

Passiamo all’articolo 18:

«Nessuna prestazione personale o patrimoniale può essere imposta se non per legge».

A questo articolo sono stati presentati i seguenti emendamenti:

«Sopprimere le parole: se non per legge, ed aggiungere le altre: fuori del servizio militare e dei tributi e nei limiti delle leggi che li regolano.

«Condorelli».

«Aggiungere, in fine, il seguente comma:

«I tributi diretti saranno applicati con criterio di progressività.

«Meda Luigi, Malvestiti, Fanfani, Lazzati, Bianchini Laura, Balduzzi, Mastino Gesumino, Murgia, Turco, Ferrarese».

«Collocarlo dopo l’articolo 8.

«Ruggiero Carlo».

Vi è, infine, l’emendamento soppressivo proposto e svolto dall’onorevole Cappi.

L’onorevole Ferrarese, firmatario dell’emendamento Meda, ha facoltà di svolgerlo.

FERRARESE. Lo mantengo senza svolgerlo.

PRESIDENTE. Non essendo presente l’onorevole Ruggiero, il suo emendamento si intende decaduto.

BADINI CONFALONIERI. Data l’assenza dell’onorevole Condorelli, chiedo di svolgere io il suo emendamento.

PRESIDENTE. Ne ha facoltà.

BADINI CONFALONIERI. Le ragioni dell’emendamento sono queste: dire che nessuna prestazione personale o patrimoniale può essere imposta se non per legge, significa che per legge si possano imporre prestazioni personali o patrimoniali. Le prestazioni personali sono un concetto medioevale, cioè sono le corvées ed a questo la Commissione di certo non mirava. Bisogna, quindi, limitare (e questa è la ragione fondamentale dell’emendamento) le prestazioni personali ai due casi in cui lo Stato ha il diritto di imporle per legge: l’uno riguarda l’eventualità in cui il cittadino è chiamato a prestare l’opera sua di collaborazione all’Amministrazione della giustizia – ed è caso previsto nel Titolo sull’ordinamento giudiziario – l’altro è il caso del servizio militare, per cui, esclusa la formula del «può se non per legge», occorre aggiungere «fuori del servizio militare».

Per quanto attiene alla prestazione patrimoniale, noi dobbiamo accennare ai tributi, e naturalmente nei limiti delle leggi che li regolano.

PRESIDENTE. Prego l’onorevole Tupini di esprimere il parere della Commissione sugli emendamenti.

TUPINI, Presidente della prima Sottocommissione. La Commissione è contraria all’accoglimento dell’emendamento Condorelli illustrato dall’onorevole Badini. Noi insistiamo per mantenere l’articolo 18 così com’è. Se dovesse accogliersi questo emendamento, con quale diritto il legislatore potrebbe imporre il munus publicum del servizio di giurato? Ma vi sono anche altre ipotesi da tenere presente, sia pure di minore importanza, quali l’imposizione dell’obbligo di spazzatura della neve in caso di necessità ed altre che possano scaturire da numerose esigenze di carattere pubblico. Ora tutto questo deve essere previsto, perché altrimenti un cittadino potrebbe rifiutarsi di eseguire un ordine che emanasse da autorità competenti in simili contingenze, perché ingiusto, arbitrario e capriccioso.

Per queste ragioni, noi siamo contrari all’accoglimento dell’emendamento e preghiamo l’Assemblea di volerlo respingere.

Piuttosto io farei all’Assemblea una proposta di modifica che è soltanto di forma: invece di dire «nessuna prestazione personale o patrimoniale può essere imposta se non per legge» sarebbe meglio dire «in base ad una legge».

A maggior ragione, la Commissione non può accettare l’emendamento soppressivo proposto dall’onorevole Cappi.

PRESIDENTE. Onorevole Badini Confalonieri, dopo questa dichiarazione ella mantiene l’emendamento?

BADINI CONFALONIERI. Io non posso ritirare l’emendamento perché ho parlato a nome dell’onorevole Condorelli che è assente; però mi pare che ci sia una differenza sostanziale fra l’opinione della Commissione e l’emendamento proposto. Si vuole comprendere nella Costituzione una norma che riguardi il servizio obbligatorio del lavoro; da parte dell’onorevole Condorelli si ritiene invece che la Costituzione non dovrebbe assolutamente consentire la possibilità di emanare l’obbligo di un servizio del lavoro, tranne i due casi di assistenza alla giustizia e di servizio militare.

PRESIDENTE. Onorevole Cappi, ella insiste nel suo emendamento?

CAPPI. Non insisto.

TUPINI, Presidente della prima Sottocommissione. Chiedo di parlare.

PRESIDENTE. Ne ha facoltà.

TUPINI, Presidente della prima Sottocommissione. Prego gli onorevoli Meda e Malvestiti che hanno proposto di aggiungere il seguente comma: «I tributi diretti saranno applicati con criterio di progressività», di voler rimandare l’esame del loro emendamento al capitolo dei rapporti economici. Senza pregiudizio del merito, quella sede mi sembra più opportuna.

PRESIDENTE. Prego l’onorevole Meda di esprimere il suo avviso su questa proposta della Commissione.

MEDA. Visto che non si entra nel merito e che perciò la questione rimane impregiudicata, sono d’accordo di rinviare l’esame della nostra proposta.

PRESIDENTE. Pongo in votazione l’emendamento dell’onorevole Condorelli, secondo il quale l’articolo dovrebbe essere così concepito:

«Nessuna prestazione personale o patrimoniale può essere imposta fuori del servizio militare e dei tributi e nei limiti delle leggi che li regolano».

(Non è approvato).

Pongo allora in votazione l’articolo 18 nel testo della Commissione con la variante proposta dall’onorevole Tupini, cioè «in base alla legge» invece di «per legge».

«Nessuna prestazione personale o patrimoniale può essere imposta se non in base alla legge».

(È approvato).

Passiamo all’articolo 19:

«Tutti possono agire in giudizio per la tutela dei proprî diritti ed interessi legittimi.

«La difesa è diritto inviolabile in ogni stato e grado del procedimento».

A questo articolo sono stati presentati i seguenti emendamenti, già svolti:

«Sopprimerlo.

«Mastino Pietro».

«Sostituirlo col seguente:

«Nessuno può esercitare il proprio diritto o potere, pubblico o privato, per fini diversi da quelli per cui gli è stato riconosciuto.

«Tutti possono pretendere la tutela giurisdizionale dei proprî diritti e interessi giuridicamente protetti.

«La difesa è diritto inviolabile in ogni stato e grado del procedimento.

«Codacci Pisanelli».

Sostituire il secondo comma col seguente: «La difesa, diritto inviolabile in ogni stato e grado del procedimento, è regolata per legge.

«Veroni».

Restano due emendamenti da svolgere, di cui il primo è quello dell’onorevole Dominedò, così concepito:

«Al primo comma, sostituire le parole: diritti ed interessi legittimi, con: diritti e interessi (ovvero: diritti e interessi giuridicamente protetti)».

L’onorevole Dominedò ha facoltà di svolgerlo.

DOMINEDÒ. Basteranno poche parole per dar conto di questo emendamento che ha una portata essenzialmente tecnica. Io propongo che sia corretta la dizione dell’articolo 19, dove si parla di «diritti e interessi legittimi» formula che può assumere un significato restrittivo secondo il significato tecnico di interesse legittimo, come è comprovato dall’articolo 103 dello stesso progetto dove si adotta una dizione più lata: «diritti e interessi». Uguale formulazione io proporrei in sede di articolo 19, col significato di includere e gli interessi legittimi e gli interessi discrezionalmente protetti e gli interessi semplici, nel caso in cui per questi sussista possibilità di tutela giurisdizionale come nel caso dell’azione popolare. In tal modo si comprenderebbero gli interessi nel campo civile oltre che amministrativo, sempre che per essi sussista possibilità giuridica di agire, per il che mi richiamo all’emendamento che propone di contemplare in sede costituzionale il concetto di «abuso di diritto».

Penso che la formula lata di «diritti e interessi» risulti la più appropriata, rispondendo a quella adottata anche nell’articolo 103, ed essendo certamente tale da non involgere il dubbio che con ciò si possa concedere azione nei confronti d’un interesse per il quale dall’ordinamento giuridico non emerga possibilità di agire. Questo dubbio è eliminato dalla circostanza che la dizione lata qui proposta ha invece una finalità specifica, servendo a menzionare tutte le diverse categorie di interessi, nei confronti dei quali vi sia una facoltà di agire, sia pure sfumata e graduata secondo le enunciazioni testé fatte.

Se l’Assemblea non dovesse accedere a questa più lata terminologia, che mi pare conveniente e tale da escludere la possibilità di equivoci, in subordine accederei alla formula proposta dall’onorevole Codacci Pisanelli, cioè di «interessi giuridicamente protetti» anziché «interessi legittimi».

PRESIDENTE. L’altro emendamento è quello dell’onorevole Persico:

«Al secondo comma, dopo le parole: La difesa è diritto, aggiungere le altre: necessario e».

Non essendo presente l’onorevole Persico, l’emendamento si intende decaduto.

Parimenti si intende decaduto l’emendamento dell’onorevole Mastino Pietro, essendo egli assente.

È anche assente l’onorevole Codacci Pisanelli, il quale aveva già svolto il suo emendamento così formulato:

«Sostituirlo col seguente:

«Nessuno può esercitare il proprio diritto o potere, pubblico o privato, per fini diversi da quelli per cui gli è stato riconosciuto.

«Tutti possono pretendere la tutela giurisdizionale, dei propri diritti e interessi giuridicamente protetti.

«La difesa è diritto inviolabile in ogni stato e grado del procedimento».

DOMINEDÒ Chiedo di parlare.

PRESIDENTE. Ne ha facoltà.

DOMINEDÒ. Faccio mio il suo emendamento. E mi permetto di sottolineare l’importanza del primo comma, relativo alla introduzione in sede costituzionale del concetto di abuso dei diritti mentre gli altri due commi, nella loro sostanza, finiscono per coincidere con quelli del progetto.

PRESIDENTE. L’onorevole Veroni mantiene il suo emendamento?

VERONI. Lo mantengo.

PRESIDENTE. Invito la Commissione ad esprimere il suo parere sugli emendamenti.

TUPINI, Presidente della prima Sottocommissione. All’onorevole Dominedò faccio osservare che la dizione principale contenuta nel suo emendamento è troppo lata e darebbe luogo ad una complessa casistica e a una serie notevole di incertezze e perplessità. La Commissione non crede di dover secondare, senza gravi preoccupazioni, una simile possibilità.

Quanto alla dizione «interessi giuridicamente protetti», che rappresenta la subordinata nella quale l’onorevole Dominedò si rifugia, d’accordo con l’onorevole Codacci Pisanelli, faccio osservare, in linea di forma, primo: che se è un interesse giuridicamente protetto, intanto è un interesse legittimo; secondo: che la giurisprudenza – e l’onorevole Dominedò, che è un competente in materia, potrà darmene atto – ha sempre costituito un mirabile banco di prova per la concretizzazione di quello che suole chiamarsi «interesse legittimo». Lasciamo quindi anche per l’avvenire, senza inopportuni imbrigliamenti, il libero giuoco della funzione propria della giurisprudenza.

L’innovazione proposta dall’onorevole Dominedò pecca d’imprudenza e le avventure nel campo del diritto sono sempre da evitare. Prego perciò il proponente di non insistervi e – in caso contrario – l’Assemblea di respingerla.

L’onorevole Codacci Pisanelli, nell’emendamento che l’onorevole Dominedò ha fatto proprio, ha chiesto di sostituire l’articolo 19 con il seguente:

«Nessuno può esercitare il proprio diritto o potere, pubblico o privato, per fini diversi da quelli per cui gli è stato riconosciuto.

«Tutti possono pretendere la tutela giurisdizionale dei proprî diritti e interessi giuridicamente protetti.

«La difesa è diritto inviolabile in ogni stato e grado del procedimento».

Questa proposizione vuole – a mio avviso – combattere l’abuso. Evidentemente noi non crediamo che si possa prevedere una cosa simile nella Costituzione. Certo è che l’abuso è sempre proibito, mentre la Costituzione e le leggi non devono prevedere che l’uso normale del diritto. Il meno che si possa dire è che si tratti di una proposta superflua e quindi pleonastica. Pregheremmo, perciò, l’onorevole Dominedò di voler ritirare anche questo emendamento. E veniamo ora all’emendamento proposto dall’onorevole Veroni. Esso si riferisce al secondo comma dell’articolo 19, ed è così formulato:

«La difesa, diritto inviolabile in ogni stato e grado del procedimento, è regolata per legge».

È evidente che il nostro compito è quello di segnare una direttiva precisa al legislatore. Spetterà poi a questi di adeguare le leggi alla norma fondamentale. Spero che l’onorevole Veroni abbia letto gli atti che hanno portato a questa formulazione e che vi abbia trovato sufficientemente spiegate le ragioni che ci hanno guidato nel determinarla. Essa tiene conto degli abusi, delle incertezze e delle deficienze che hanno vulnerato nel passato l’istituto della difesa, specie per quanto attiene alla sua esclusione da vari stati e gradi del processo giurisdizionale. E con una norma chiara, assoluta, abbiamo voluto garantirne la presenza e l’esperimento attivo in tutti gli stati del giudizio e davanti a qualsiasi magistratura.

Questa esigenza è espressa in termini così lapidari e perentori che nessuna legge potrà mai e per nessuna ragione violarla.

Per questi motivi prego l’onorevole Veroni di voler rinunziare al suo emendamento.

PRESIDENTE. Chiedo all’onorevole Dominedò se insiste sull’emendamento dell’onorevole Codacci Pisanelli; che egli ha fatto proprio.

DOMINEDÒ. Dovrei insistere, perché ha un significato la menzione costituzionale dell’abuso di diritto.

TUPINI, Presidente della prima Sottocommissione. Però facciamo troppe casistiche.

DOMINEDÒ. Aggiungo che la proposta di menzionare nella Costituzione l’abuso di diritto significa affermare il concetto che l’eccesso di potere è condannato: ciò che avrebbe una larga possibilità diffusiva anche nei confronti del diritto privato. Io mi limito comunque a sottolineare il significato di questo emendamento, senza insistervi; come pure non insisto nel mio emendamento.

PRESIDENTE. Resterebbe l’emendamento dell’onorevole Veroni.

TUPINI, Presidente della prima Sottocommissione. Onorevole Veroni, credo che le spiegazioni da me fornite siano sufficienti a persuaderla dell’inopportunità del suo emendamento. Ella, che è un avvocato di valore, deve comprendere che la formula da noi adoperata, e di cui rivendico la paternità, è tale da soddisfare e placare tutte le sue preoccupazioni. Voglia quindi consentire alla mia richiesta.

VERONI. Vorrei che risultasse chiaramente questo: che le dichiarazioni dell’onorevole Tupini, in nome della Commissione, vogliano significare riportarsi da una parte ai lavori della Commissione, che sono stati giustamente da lui richiamati, dall’altra al criterio ed al concetto che la difesa è un diritto inviolabile, ma deve avere dei limiti e deve avere naturalmente delle protezioni che fino a questo momento, durante l’epoca fascista, per i Codici che hanno dominato, non hanno mai avuto. Comunque non insisto nell’emendamento.

PRESIDENTE. Pongo in votazione l’articolo 19 nel testo della Commissione:

«Tutti possono agire in giudizio per la tutela dei propri diritti ed interessi legittimi.

«La difesa è diritto inviolabile in ogni stato e grado del procedimento».

(È approvato).

L’onorevole Dominedò ha proposto un articolo 19-bis del seguente tenore:

«La legge dispone per l’avvenire: essa non ha efficacia retroattiva nei confronti dei diritti quesiti».

L’onorevole Dominedò ha facoltà di svolgerlo.

DOMINEDÒ. Il progetto di Costituzione contempla il principio di irretroattività della legge sotto un aspetto parziale, e cioè in materia penale. Sembra che, facendosi così, nel corpo del progetto costituzionale, menzione esplicita di un principio fondamentale dell’ordinamento giuridico nel solo settore penale, si debba altresì pensare ad una sua formulazione generale, potendo nascere perplessità dal fatto che la regola della irretroattività – regola di ordine generale – appaia menzionata in sede particolare e non presupponga un più largo riconoscimento. Questo è lo spirito che ha determinato il mio emendamento. Quanto alla collocazione della proposta, essa precede l’articolo 20, dove si contempla l’applicazione speciale del principio, per una evidente ragione di euritmia, il principio risultando così menzionato prima su un piano generale e poi in sede di applicazione.

Che si tratti di un principio generale dell’ordinamento giuridico parrebbe a me non discutibile. Le disposizioni preliminari dell’abrogato Codice civile, le vigenti disposizioni generali sulla legge, il corpo di norme introduttive ai più importanti Codici di diritto comparato – basti ricordare l’Einfuerungs gesetz al Bürgerliches Gesetzbuch – concordemente fanno capo a questo canone, ormai consacrato dalla teoria generale del diritto: la legge dispone per l’avvenire e non ha efficacia retroattiva. La discutibilità può sorgere in riguardo alla determinazione dei più precisi confini di una tale irretroattività, e si apre così un problema che non tocca la competenza costituzionale. Ma, proprio allo scopo di introdurre una formula, che non pregiudichi gli sviluppi della legislazione e sia ad un tempo la più certa possibile, consacrando i migliori risultati della nostra elaborazione giuridica, ho creduto di dover fare capo alla dottrina dei diritti quesiti come quella che, dalle luminose pagine del Gabba in qua, risulta la più sicura in materia. E ciò con la conseguenza pratica di concedere notevole duttilità alla regola, escludendo la irretroattività tanto nei confronti delle così dette aspettative legittime quanto nei riguardi delle mere facoltà di legge.

Se l’Assemblea riterrà che con questo principio si traccia un binario maestro nei confronti della futura legislazione, se essa giudicherà che così si riesca realmente a dettare una disposizione generale sulla legge, si potrà anche discutere sulla formulazione concreta del principio, ma penso che in sede costituzionale non si possa rinunciare a dettare una norma la quale rappresenta una conquista della civiltà giuridica, ed essendo già menzionata in sede particolare di singolare importanza, dovrebbe essere logicamente riportata in sede generale alla dignità che le conviene.

PRESIDENTE. Prego la Commissione di esprimere il suo parere.

TUPINI, Presidente della prima Sottocommissione. Mi dispiace che anche questa volta debbo respingere il nuovo emendamento dell’onorevole Dominedò.

DOMINEDÒ Io insisto però.

TUPINI, Presidente della prima Sottocommissione. E allora le dico subito che in materia penale la irretroattività della legge è indiscutibile. La Costituzione deve dire una parola definitiva a questo riguardo anche per quelle ragioni reattive alle quali poc’anzi faceva cenno l’onorevole Cappa. In materia civile però bisogna procedere con estrema cautela. Se l’onorevole Dominedò ha seguito, come non dubito, i lavori recentissimi della Costituente francese, mi potrà dare atto che quei nostri colleghi hanno discusso per varie ore il problema da lui proposto a quest’Assemblea, per concludere in senso negativo. E secondo me hanno fatto bene. Qui stiamo in campo costituzionale, non di legislazione ordinaria. Non c’è dubbio che il principio generale della irretroattività debba guidare tutta la legislazione e tutta l’attività del legislatore; ma quando si verte nel campo del diritto privato non si può trascurare il carattere specifico di mobilità che lo caratterizza e distingue, specie in materia di diritti sociali, di fronte ai quali non dobbiamo né possiamo fin da questo momento cristallizzare o incatenare in formule rigide la necessaria libertà del legislatore futuro, il quale però dovrà usarne con prudenza e col dovuto rispetto, compatibile col bene generale, dei diritti quesiti. Se facessimo diversamente, sottoporremmo tutto l’apparato costituzionale a una vicenda continua di rifacimenti che metterebbero in forse la stessa stabilità della nostra carta fondamentale. Bisogna quindi non impedire in modo assoluto alla legge di interpretare tempestivamente certe esigenze di carattere sociale senza dovere ricorrere a revisioni costituzionali troppo frequenti. Insisto perciò nel pregare l’onorevole Dominedò di ritirare il suo emendamento.

PRESIDENTE. Onorevole Dominedò, ella mantiene l’articolo 19-bis?

DOMINEDÒ. Sono particolarmente sensibile alla parola del Presidente della Sottocommissione, ma nel caso mi duole di non poter recedere dalla proposta, perché essa involge una questione di massima che non consente transazioni, significando condanna delle leggi eccezionali nel loro principio e nei loro effetti.

Osservo che la salvezza di questo principio sia perfettamente compatibile con tutte le innovazioni cui i tempi anelano, essendo il più idoneo a conciliare tradizione e progresso, certezza dei rapporti giuridici e convenienza di evoluzione sociale.

PRESIDENTE. Pongo in votazione l’articolo 19-bis, proposto dall’onorevole Dominedò, di cui do nuovamente lettura:

«La legge dispone per l’avvenire, essa non ha efficacia retroattiva nei confronti dei diritti quesiti».

(Non è approvato).

Passiamo all’articolo 20:

«Nessuno può essere distolto dal giudice naturale che gli è precostituito per legge.

«Nessuno può essere punito se non in virtù di una legge in vigore prima del fatto commesso e con la pena in essa prevista, salvo che la legge posteriore sia più favorevole al reo».

A questo articolo sono stati presentati molti emendamenti.

L’onorevole Bulloni ha proposto di sostituire l’articolo col seguente:

«Nessuno può essere distolto dai suoi giudici naturali, né può essere sottoposto a processo e punito se non in forza di legge in vigore anteriormente al fatto commesso».

L’onorevole Bulloni ha facoltà di svolgerlo.

BULLONI. Ritiro l’emendamento.

PRESIDENTE. Segue l’emendamento presentato dagli onorevoli Lami Starnuti, Carboni, Tremelioni:

«Sostituirlo col seguente:

«Nessuno può essere distolto dai suoi giudici naturali.

«Nessuno può essere sottoposto a processo o punito se non in virtù di una legge in vigore al tempo del commesso reato».

Non essendo presente l’onorevole Lami Starnuti, ha facoltà di svolgerlo l’onorevole Carboni.

CARBONI. Ritiro l’emendamento.

PRESIDENTE. Segue l’emendamento presentato dall’onorevole Patricolo:

«Comporre l’articolo 20 come appresso:

«Primo comma, l’attuale secondo comma.

«Secondo comma, il terzo comma dell’articolo 21.

«Terzo comma, il quarto comma dell’articolo 21.

«L’articolo avrà, pertanto, la seguente formulazione:

«Nessuno può essere punito se non in virtù di una legge in vigore prima del fatto commesso e con la pena in essa prevista, salvo che la legge posteriore sia più favorevole al reo.

«Le pene devono tendere alla rieducazione del condannato e non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità.

«Non è ammessa la pena di morte. Possono fare eccezione soltanto le leggi militari di guerra».

Non essendo presente l’onorevole Patricolo, l’emendamento si intende decaduto.

L’onorevole Bellavista ha presentato e già svolto il seguente emendamento:

«Sostituire il primo comma col seguente:

«Nessuno può essere sottratto ai suoi giudici naturali».

Non essendo presente l’onorevole Bellavista, l’emendamento si intende decaduto.

L’onorevole Riccio Stefano ha presentato il seguente emendamento:

«Al primo comma, sopprimere la parola: naturale».

Ha facoltà di svolgerlo.

RICCIO STEFANO. Mantengo il mio emendamento, ma non lo svolgo, poiché il concetto mi pare evidente.

PRESIDENTE. L’onorevole Leone Giovanni ha presentato il seguente emendamento:

«Al primo comma, sopprimere le parole: che gli è».

Ha facoltà di svolgerlo.

LEONE GIOVANNI. Mantengo il mio emendamento, perché le parole che chiedo di sopprimere potrebbero prestarsi ad equivoci di interpretazione.

PRESIDENTE. Segue l’emendamento dell’onorevole Grilli:

«Sostituire il secondo comma coi seguenti:

«Nessuno può essere punito se non in virtù di una legge in vigore prima del fatto commesso e colla pena in essa prevista.

«Se la legge del tempo in cui fu commesso il fatto e le posteriori sono diverse, si applica quella le cui disposizioni sono più favorevoli al reo».

L’onorevole Grilli ha facoltà di svolgerlo.

GRILLI. Il difetto di questo capoverso dell’articolo 20, secondo me, dipende dal fatto che in un solo periodo si sono voluti riassumere tre vecchi principî, che nel codice penale sono contemplati in due articoli, e precisamente: 1°) il principio che nessuno può essere punito se non esiste una legge penale; 2°) che chi deve essere punito, non possa essere punito che con le pene stabilite dalla legge in vigore; 3°) che in caso di successione di leggi penali, si applica la legge più favorevole.

Questi sono i tre principî, cui il codice penale, ha dedicato due articoli e che si vorrebbero comprendere in questo capoverso. Con la prima parte di questo capoverso: «Nessuno può essere punito se non in virtù di una legge in vigore prima del fatto commesso e con la pena in essa prevista», si stabiliscono i due primi principî; e siamo d’accordo. Si potrebbe modificare un po’ la forma.

TUPINI, Presidente della prima Sottocommissione. Lo faremo in ultimo.

GRILLI. L’onorevole Targetti, con un emendamento eguale al mio, propone di sostituire alle parole «in virtù», le altre «in applicazione»; si potrebbe dire anche «in base», ecc. Questo lo vedrà la Commissione. Questo «in virtù di una legge» è un’espressione nuova: la parola «virtù» non l’avevo ancora veduta in nessuna legge. Ma lasciamo andare: queste sono piccolezze. D’accordo su questi due principî che sono compresi nell’articolo 20; ma le parole «salvo che» guastano tutto. Il terzo principio, quello cioè della successione delle leggi penali e dell’applicazione della legge più favorevole, qui sembrerebbe che fosse un’eccezione, perché il «salvo che» regge un’accezione. Ora, che si debba applicare la legge più favorevole quando si ha una successione di leggi penali, costituisce un’eccezione alla regola che si debba punire il colpevole con le pene stabilite dalla legge del tempo, ma non forma un’eccezione al primo principio, che cioè nessuno può essere punito se non esiste una legge, perché, se non esiste una legge, non è possibile parlare più di successioni di leggi, perché nessuna legge sarà più favorevole per il reo di quella che non ammette possibilità di punizione, di quella che non comprende, cioè, il fatto come reato.

Ecco perché io ritengo opportuno di dividere in due parti questo capoverso, cioè: «Nessuno può esser punito se non in virtù di una legge in vigore prima del fatto commesso e con la pena in essa prevista». Punto e a capo: «Se la legge del tempo in cui fu commesso il fatto e le posteriori sono diverse, si applica quella le cui disposizioni sono più favorevoli al reo».

In questo modo, noi abbiamo tutti e tre i principî che sono nei primi due articoli, del codice penale e li abbiamo chiari, senza che permanga l’equivoco originato dal «salvo che», il quale stabilisce un’eccezione che sembra riguardare anche quel primo principio che non può invece sopportare eccezioni.

PRESIDENTE. L’onorevole Riccio Stefano ha presentato un altro emendamento:

«Sostituire il secondo comma col seguente:

«Nessuno può essere punito se non per una norma preesistente al fatto e con la pena in essa prevista, salvo che la legge posteriore sia più favorevole al reo».

Ha facoltà di svolgerlo.

RICCIO STEFANO. Poiché si tratta soltanto di un emendamento di forma, potrei passarlo come una semplice raccomandazione alla Commissione.

PRESIDENTE. Sta bene. Segue un emendamento dell’onorevole Targetti:

«Sostituire il secondo comma col seguente:

«Nessuno può esser punito se non in applicazione di una legge in vigore al momento del fatto commesso e con pene da essa stabilite. Se la legge del tempo in cui il fatto fu commesso e le leggi posteriori sono diverse, si applica quella le cui disposizioni sono più favorevoli all’imputato».

Non essendo presente l’onorevole Targetti, l’emendamento si intende decaduto.

Segue un emendamento dell’onorevole Mastrojanni:

«Sostituire il secondo comma col seguente:

«Nessuno può essere punito per un fatto non espressamente preveduto come reato dalla legge del tempo in cui fu commesso, né con pene diverse da quelle dalla legge stessa stabilite».

Non essendo presente l’onorevole Mastrojanni, l’emendamento si intende decaduto.

Gli onorevoli Leone Giovanni, Bettiol, Mastino Gesumino, Notarianni, Firrao, Balduzzi, Lazzati, Gatta, De Michele, Fanfani, hanno proposto il seguente emendamento:

«Sostituire il secondo comma col seguente:

«Nessuno può essere punito se non in forza di una legge in vigore prima del fatto commesso».

L’onorevole Leone Giovanni ha facoltà di svolgerlo.

LEONE GIOVANNI. L’emendamento che io e numerosi altri colleghi abbiamo presentato tende a questo: poiché la formulazione del capoverso dell’articolo 20, così come si trova nel progetto, ha dato luogo ad alcune esatte osservazioni dell’onorevole Crispo, che ha proposto un suo emendamento, osservazioni tendenti a mettere in rilievo che nel capoverso dell’articolo 20 non si è tenuto conto del problema delle leggi penali eccezionali e temporanee, noi pensiamo che, non parlandosi di pena, si risolva il problema della necessità di adottare in questa sede soluzioni circa la successione delle leggi penali. In sostanza, il capoverso dell’articolo 20 mira a due esigenze fondamentali che abbiamo tutti sottolineato nella discussione generale: mira in primo luogo a stabilire il principio della legalità o della tassatività della legge penale; mira in secondo luogo a stabilire il principio della irretroattività della legge penale.

Sono queste due esigenze che danno luogo alla necessità dell’inserzione nella Carta costituzionale dei due tradizionali principî.

Per quanto poi attiene al problema della legge più favorevole, io penso, che non sia questa la sede per risolverlo, sia perché questo è un problema di dettaglio, nel quale il legislatore futuro potrebbe anche essere di diverso avviso, senza con questo mancare alla nostra tradizione; sia perché, secondo me, se fosse risolto dovremmo occuparci di una serie di problemi (come quello della successione delle leggi penali eccezionali e temporanee) estranei all’economia di una Carta costituzionale. Mantenendo queste due esigenze, principio della legalità e principio della retroattività, non accennando alla pena (la quale è implicita nel concetto di legge penale, perché quando si dice che non si può punire per una legge non in vigore al momento del fatto, si fa accenno ai due momenti, precetti e sanzione), si rischia di dover risolvere tutta la ricca casistica dei problemi di successione.

Se l’Assemblea vorrà aderire a questo nostro emendamento semplificatore, potremmo anche non preoccuparci degli emendamenti presentati dall’onorevole Crispo e da altri, i quali tendono a che si ponga in questa sede la risoluzione dei problemi particolari in tema di successione di leggi penali.

PRESIDENTE. L’onorevole Corsanego ha presentato il seguente emendamento:

«Al secondo comma, alle parole: di una legge in vigore, sostituire le altre: pubblicata ed entrata in vigore».

Ha facoltà di svolgerlo.

CORSANEGO. Poche parole per spiegare il mio emendamento che è fatto nella ipotesi che non venga accolto l’emendamento dell’onorevole Leoni. La mia precisazione ha semplicemente lo scopo di evitare che con cavillose interpretazioni si possa pubblicare una legge con efficacia retroattiva; per cui è meglio dire «legge pubblicata ed entrata in vigore», anziché «legge in vigore». L’emendamento è chiaro.

PRESIDENTE. L’onorevole Nobili Tito Oro ha presentato il seguente emendamento:

«Al secondo comma, dopo le parole: fatto commesso, aggiungere: e se non».

Ha facoltà di svolgerlo.

NOBILI TITO ORO. Lo trasformo in segnalazione per il Comitato di redazione.

PRESIDENTE. Segue l’emendamento dell’onorevole Crispo, già svolto:

«Al secondo comma, aggiungere le seguenti parole: fuori dei casi di leggi eccezionali o temporanee».

L’onorevole Cifaldi ha presentato il seguente emendamento, firmato anche dagli onorevoli Cevolotto e De Caro Raffaele:

«Al secondo comma, aggiungere le parole seguenti: e ciò anche in riferimento a leggi speciali o eccezionali».

L’onorevole Cifaldi ha facoltà di svolgerlo.

CIFALDI. L’emendamento che mi permetto di presentare all’esame dell’Assemblea è un emendamento il quale vorrebbe risolvere, circa la questione della successione delle leggi penali e in contrasto con quanto diceva il collega che mi ha preceduto, la questione della ultra attività della legge penale. Contro questo mio criterio vi è un emendamento dell’onorevole Crispo che è di tesi perfettamente opposta, perché l’onorevole Crispo desidererebbe che, a chiarire la portata dell’articolo 20 della Costituzione che noi stiamo esaminando, pel quale rimane impregiudicata la questione della successione della legge penale, a chiarirla in senso negativo alla possibilità di estendere la ultra attività delle leggi penali, si aggiungesse «fuori dei casi di leggi eccezionali e temporanee». Sono di parere perfettamente opposto e chiedo all’Assemblea di risolvere questo problema che a me sembra di capitale importanza.

Allo stato attuale abbiamo il principio universalmente accettato della non retroattività della legge penale, ma rimane in dubbio, per lo meno in confusa dizione, che cosa debba accadere in merito alla successione della legge penale, se cioè per leggi temporanee e eccezionali si debba o no applicare la legge più favorevole nel momento in cui il dibattito viene celebrato.

Per l’articolo 2 del Codice penale, questo concetto è risolto nel senso negativo; a meno che non vi sia una speciale disposizione contenuta nella stessa legge di eccezione o temporanea normalmente, quindi, non vige il concetto della non ultrattività, di talché abbiamo che, decorso il periodo relativo alla legge di eccezione, quando questa o quella temporanea non sono più in vigore, un fatto debba essere ancora giudicato applicando quella legge non più in vita. Onde appare chiaro come la questione debba essere guardata con molta attenzione e preoccupazione. Oggi noi possiamo esaminare, con dolorosa esperienza del passato, quanto il problema sia attuale ed impellente, perché abbiamo avuto in Italia una serie di leggi speciali e di leggi temporanee, le quali hanno dimostrato la estrema facilità pel potere esecutivo di derogare alle norme comuni e come sia possibile imporre un giogo pericoloso a tutto intero l’aggregato sociale.

Penso che il concetto di dovere applicare la legge più favorevole, anche in tema di leggi eccezionali, non abbia in sostanza nulla che fondatamente vi si opponga. Per le leggi temporanee si obietta che, qualora si accettasse questo concetto se ne verrebbe a rendere impossibile praticamente l’applicazione, in quanto, negli ultimi giorni in cui una legge temporanea è in vigore, ciascuno potrebbe delinquere sicuro che essa va a decadere. Ma a questo argomento è possibile rispondere che si potrebbe reagire attraverso la stessa legge, nel senso di fare procedimenti per direttissima, onde ridurre al minimo la possibilità di poter infrangere impunemente la legge temporanea.

Per quanto riguarda la legge eccezionale, bisogna fermarsi sul concetto che essa non deve aver effetto che per il momento eccezionale in cui è stata creata; si obietta che il cittadino che l’ha violata non può pretendere in un secondo momento, quando queste circostanze sono venute meno, di essere giudicato con una legge più favorevole.

Ma la legge eccezionale, creata per un periodo cosiddetto di emergenza e per una visione particolaristica di date circostanze, non può mantenere la sua forza, quando si celebra il dibattimento in altro momento ed in altre circostanze, e quando non vi è più quel rapporto fra la coscienza sociale e giuridica ed il fatto che viene giudicato.

Ricordo un episodio che è rimasto impresso nella mia memoria. Da ragazzo vidi una pagina a colori di un giornale illustrato, che raffigurava una fucilazione avvenuta durante il terremoto calabro-siculo. In quell’occasione era stato proclamato lo stato di assedio, e coloro che commettevano furti e saccheggi venivano fucilati sul posto immediatamente.

Io non mi riferisco ad episodi recenti ed attuali per non far riferimenti che non potessero essere generalmente accolti, e mi domando: se uno di quegli individui sorpreso in quelle circostanze fosse sfuggito, per una ragione qualsiasi, alla esecuzione, (poniamo, ad esempio, che per ragione di malattia mentale fosse stato sottratto al procedimento e dopo due, tre o quattro anni fosse stato poi giudicato regolarmente) pensate che quell’individuo potesse subire la pena di morte? L’episodio giudicato nel momento in cui si verificava il fatto, nella urgenza drammatica dell’ora, giustificava un procedimento sommario che rafforzasse il pubblico interesse contro ogni attentato individuale, ma, non diventava ripugnante alla coscienza giuridica di un Paese civile prendere un simile provvedimento? E pensate che si sarebbe potuto anche trattare di atti iniziali, invece che di un reato consumato e che la sorpresa nell’atto del saccheggio imponeva la pena di morte.

Ricordo che nel 1941 la legge emanata in materia annonaria all’articolo 1 prevedeva la pena di morte per sottrazioni rilevanti agli ammassi, e nel capoverso la pena dell’ergastolo quando non vi fosse stato sensibile ripercussione sul mercato, oltre alla penalità per delitti minori. Nel 1943, invece, le pene furono rese assai più lievi. La giurisprudenza, nel succedersi delle stesse leggi speciali, non ha ritenuto di poter applicare la legge più favorevole. A me sembra che questo sia un caso tipico e che sia preoccupante il vedere che, anche nella sequenza di leggi speciali, il reo viene giudicato con la legge speciale anteriore e che non venga applicata quella posteriore più favorevole. Ciò appare aberrante. Non mi sembra, quindi, che vi siano ragioni valide ad ostacolare l’applicazione del principio della non ultrattività della legge penale, anche in tema di leggi speciali o temporanee, onde insisto e prego la Commissione, e poi la Costituente, perché vogliano accogliere il mio emendamento.

PRESIDENTE. L’onorevole Nobile ha presentato il seguente emendamento:

«Al secondo comma, alle parole: in vigore prima del fatto commesso, sostituire le parole: in vigore nel tempo in cui fu commesso il fatto».

Ha facoltà di svolgerlo.

NOBILE. Non svolsi questo emendamento nella discussione generale sul titolo, perché non mi sembrò necessario. L’emendamento parla da sé, in quanto mira a correggere quello che a me sembra un’evidente improprietà di linguaggio. Anzi direi linguaggio erroneo, perché si parla di legge in vigore «prima del fatto commesso», invece di dire: nel tempo in cui il fatto fu commesso. L’errore è ripetuto anche negli emendamenti presentati da altri colleghi, ma è stato implicitamente corretto in quelli presentati dagli onorevoli Lami Starnuti e Targetti, il che mi conforta a ritenere che il mio emendamento, di carattere formale, sia giusto.

PRESIDENTE. Gli onorevoli Bettiol e Leone Giovanni hanno presentato il seguente emendamento:

«Aggiungere, dopo il secondo, il seguente comma:

«Nessuno può essere sottoposto a misure di sicurezza al di fuori dei casi previsti dalla legge».

L’onorevole Bettiol ha facoltà di svolgerlo.

BETTIOL. È stato detto, mi pare, in questa Assemblea, un po’ malignamente, che da questo progetto di Costituzione bisognava togliere il troppo e il vano. Ma occorre anche dire, non malignamente, che bisogna aggiungere il necessario, perché vi sono situazioni molto importanti, ormai consolidatesi nel campo della legislazione penale, che non hanno trovato in questo progetto una conferma o un riverbero: tale è il problema delle misure di sicurezza.

È noto come la legislazione penale moderna marci su un doppio binario: da un lato le pene che postulano la colpevolezza e hanno carattere repressivo; dall’altro le misure di sicurezza. Per quanto riguarda le pene il progetto si pronunzia, mentre tace per quanto riguarda le misure di sicurezza.

Il concetto della misura di sicurezza è decisivo: accanto al criterio della repressione del delitto si accetta anche quello della prevenzione, basata sul presupposto della pericolosità del delinquente. La cosa è molto importante. La misura di sicurezza si presenta con carattere indeterminato e, quindi, incide più marcatamente della pena stessa sulla libertà dell’individuo, tanto è vero che oggi i delinquenti temono molto più le misure di sicurezza che la pena stessa, appunto per questo carattere di indeterminatezza. Sullo sfondo vediamo balenare lo Stato di polizia, quindi non si tratta di misure che siano consone, al cento per cento, ai principî di una Costituzione liberale. Ma siccome lo Stato deve difendersi contro i delinquenti, è necessario che in certi casi possa disporre di provvedimenti difensivi di carattere preventivo. Si tratta sempre di misure di sicurezza che entrano in considerazione nella legge penale, e quindi vengono applicate nei confronti di persone socialmente pericolose, in occasione della perpetrazione di un reato.

Non sono misure di polizia: questo devo chiarire perché non sorgano equivoci. Si tratta di misure preventive di sicurezza, che devono essere applicate, a norma del Codice penale, nei confronti di individui imputati o imputabili in occasione della perpetrazione di un reato.

Data la grande importanza di queste misure, dato il loro incidere sulla libertà personale, e dato che sono riconosciute anche dalle altre legislazioni moderne, è bene fissare anche per esse il principio di legalità, onde la discrezionalità sia bloccata, in modo che anche per queste misure si possa avere il presidio della legge scritta sull’arbitrio del giudice o delle altre autorità statali che possano privare il cittadino della libertà individuale.

PRESIDENTE. Con altro emendamento gli onorevoli Leone Giovanni e Bettiol propongono di fare dei due commi due distinti articoli.

L’onorevole Leone Giovanni ha facoltà di svolgere l’emendamento.

LEONE GIOVANNI. Lo ritiro.

Chiedo di parlare per esprimere il mio dissenso sull’emendamento presentato dall’onorevole Nobile.

PRESIDENTE. Ne ha facoltà.

LEONE GIOVANNI. Penso non si possa accettare la formula proposta dall’onorevole Nobile per questo profilo tecnico.

Quando si parla di «fatto», nella scienza giuridica e nella legislazione è controversa la nozione.

Per alcuni «fatto» è sia l’azione che l’evento, per altri «fatto» è solo l’azione.

Se noi diciamo che si può punire soltanto in forza d’una legge, che sia in vigore nel momento in cui si commette il fatto, questa formula potrebbe prestarsi ad una applicazione pericolosa; cioè: ritenere che basti, per punire un soggetto, che la legge sia andata in vigore prima dell’evento, anche dopo l’azione.

Ora la norma deve preesistere all’azione, in quanto è nell’azione che si realizza il contrasto tra la volontà imputabile del delinquente e la volontà della legge.

Per questo profilo tecnico e perché non vi sia equivoco, vogliamo che si stabilisca in maniera precisa che la norma di legge penale deve preesistere non solo all’evento, ma anche all’azione.

Onde è necessario scrivere «in vigore prima del fatto».

CRISPO. Chiedo di parlare per esprimere il mio dissenso sull’emendamento Cifaldi, che è in opposizione al mio.

PRESIDENTE. Ne ha facoltà.

CRISPO. Se fosse accolto l’emendamento Leone-Bettiol, lasciandovi impregiudicata la questione della successione delle leggi, non avrei ragione di insistere sul mio emendamento.

TUPINI, Presidente della prima Sottocommissione. D’accordo.

CRISPO. Allora non insisto.

NOBILE. Chiedo di parlare per rispondere all’onorevole Leone Giovanni.

PRESIDENTE. Ne ha facoltà.

NOBILE. Rendo omaggio alla sapienza giuridica dell’onorevole Leone Giovanni. Mi consenta però l’Assemblea di considerare che il linguaggio adoperato nella Costituzione deve essere chiaro non solo per i giuristi, ma per tutti i cittadini. Nel testo proposto dalla Commissione si parla di legge in vigore prima del fatto, ma una legge vigente prima del fatto potrebbe non esserlo più al momento del fatto, e sarebbe perciò inapplicabile.

RUINI, Presidente della Commissione per la Costituzione. No, no.

NOBILE. E io direi invece sì, sì. Se si vuole adoperare un’espressione letterariamente corretta, che non si presti ad equivoci, si deve dire legge in vigore al tempo del fatto, e non già prima del fatto, come per l’appunto ho proposto col mio emendamento.

PRESIDENTE. Degli emendamenti presentati sull’articolo 20, restano ancora validi quelli degli onorevoli Riccio Stefano, Leone Giovanni, Grilli, Corsanego, Nobile, Cifaldi, Bettiol.

NOBILE. Ritiro il mio emendamento.

PRESIDENTE. Chiedo il parere della Commissione sugli emendamenti mantenuti.

TUPINI, Presidente della prima Sottocommissione. La Commissione è contraria all’emendamento dell’onorevole Riccio Stefano, e si propone di mantenere il concetto del giudice naturale appunto per dare al cittadino la certezza del giudice che lo deve giudicare. Spero che l’onorevole Riccio non vi insista. La Commissione accetta, invece, l’emendamento soppressivo dall’onorevole Leone Giovanni, in base al quale la formula attuale della prima parte dell’articolo diverrebbe la seguente: «Nessuno può essere distolto dal giudice naturale precostituito per legge». L’onorevole Grilli ha insistito nel suo emendamento relativo alle disposizioni più favorevoli al reo. Questa dizione (come l’onorevole Grilli ha potuto apprezzare attraverso la discussione che si è fatta anche in sede di discussione di emendamenti) in fondo si riferisce anche alle discussioni analoghe che hanno fatto gli onorevoli Leone Giovanni, Crispo e Cifaldi attraverso i loro rispettivi emendamenti.

La Commissione sarebbe per eliminare tutte le questioni che possono insorgere e che hanno avuto largo riflesso nel dibattito nell’Assemblea a proposito dell’applicazione della legge più favorevole, specie in relazione alle leggi eccezionali. Sarebbe disposta ad accogliere inoltre l’emendamento degli onorevoli Leone Giovanni e Bettiol, di soppressione pura e semplice della seconda parte del secondo comma, di modo che rimane al codice penale di statuire definitivamente in ordine a questa questione.

L’onorevole Grilli mi pare che con il suo assenso sia disposto a seguire la Commissione, su questo punto di vista. L’onorevole Crispo lo ha già dichiarato da parte sua. Penso che l’onorevole Cifaldi potrà fare altrettanto, se rifletterà al contrasto tra lui e l’onorevole Crispo in questa materia, contrasto che accentua il disagio e che giustifica l’eliminazione della formula della Costituzione.

All’onorevole Corsanego faccio osservare che la sua proposta aggiuntiva è pleonastica, perché quando si dice «in vigore» ci si riferisce chiaramente alla pubblicazione della legge, e quindi confido nel ritiro del relativo emendamento.

Prendo atto che l’onorevole Nobile ha ritenuto giuste e convincenti le mie considerazioni e ha dichiarato di ritirare il suo emendamento.

NOBILE. No. Non sono affatto rimasto persuaso; ma ho ritirato l’emendamento solo per deferenza verso il collega Leone.

TUPINI, Presidente della prima Sottocommissione. Non so se l’onorevole Nobili Oro Tito vorrà seguire l’esempio dell’onorevole Nobile.

NOBILI TITO ORO. Non insisto.

TUPINI, Presidente della prima Sottocommissione. La ringrazio. All’onorevole Bettiol dichiaro che la Commissione è favorevole ad accogliere il suo emendamento aggiuntivo a questo articolo nei termini da lui stesso e dall’onorevole Leone proposto, cioè: «Nessuno può essere sottoposto a misure di sicurezza al di fuori dei casi previsti dalla legge».

Lo svolgimento che ne ha fatto, così esaurientemente, l’onorevole Bettiol, mi dispensa dal dire le ragioni della mia adesione personale e di quella della Commissione.

PRESIDENTE. Chiedo agli onorevoli presentatori di emendamenti se, dopo le dichiarazioni dell’onorevole Tupini, li ritirano.

RICCIO STEFANO. Ritiro il mio emendamento.

GRILLI. Aderisco alle dichiarazioni della Commissione e ritiro l’emendamento.

CORSANEGO. Non insisto sul mio emendamento.

CIFALDI. Dopo i chiarimenti favoriti dall’onorevole Tupini, non insisto nel mio emendamento, in quanto con la modifica dell’articolo della Costituzione così come suggerita, la questione è impregiudicata e sarà risoluta dalla legge.

CRISPO. Ritiro l’emendamento, in quanto la Commissione accetta l’emendamento Leone Giovanni-Bettiol.

PRESIDENTE. Pongo in votazione il primo comma dell’articolo 20 con la modifica proposta dall’onorevole Leone Giovanni, accettata dalla Commissione:

«Nessuno può essere distolto dal giudice naturale precostituito per legge».

(È approvato).

Per il secondo comma, la Commissione ha dichiarato di accettare la formulazione presentata dagli onorevoli Leone Giovanni, Bettiol, Mastino Gesumino ed altri:

«Nessuno può essere punito se non in forza di una legge in vigore prima del fatto commesso».

La pongo in votazione.

(È approvata).

Vi è poi la proposta degli onorevoli Bettiol e Leone Giovanni, che la Commissione ha dichiarato di accettare, di aggiungere dopo il secondo, il seguente comma:

«Nessuno può essere sottoposto a misure di sicurezza al di fuori dei casi previsti dalla legge».

La pongo in votazione.

(È approvata).

Il testo definitivo dell’articolo 20 risulta, quindi, del seguente tenore:

«Nessuno può essere distolto dal giudice naturale precostituito per legge.

«Nessuno può essere punito se non in forza di una legge in vigore prima del fatto commesso.

«Nessuno può essere sottoposto a misure di sicurezza al di fuori dei casi previsti dalla legge».

Passiamo ora all’esame dell’articolo 21:

«La responsabilità penale è personale.

«L’imputato non è considerato colpevole sino alla condanna definitiva.

«Le pene devono tendere alla rieducazione del condannato e non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità.

«Non è ammessa la pena di morte. Possono fare eccezione soltanto le leggi militari di guerra».

A questo articolo sono stati presentati numerosi emendamenti.

Il primo è quello dell’onorevole Patricolo:

«Comporre l’articolo 21 come appresso:

«Secondo comma, il primo comma dell’articolo 20.

«Terzo comma, l’attuale secondo comma.

«L’articolo avrà, pertanto, la seguente formulazione:

«La responsabilità penale è personale.

«Nessuno può essere distolto dal giudice naturale che gli è precostituito per legge.

«L’imputato non è considerato colpevole sino alla condanna definitiva».

Non essendo l’onorevole Patricolo presente, l’emendamento si intende decaduto.

Segue l’emendamento dell’onorevole Mastino Pietro già svolto:

«Sostituirlo col seguente:

«Non è ammessa la pena di morte. Possono far eccezione soltanto le leggi militari di guerra».

Non essendo presente l’onorevole Mastino, l’emendamento si intende decaduto.

Segue l’emendamento dell’onorevole Targetti:

«Sostituirlo col seguente:

«La responsabilità penale è personale.

«Le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità.

«La pena capitale può essere comminata soltanto da leggi militari di guerra».

Non essendo presente l’onorevole Targetti, l’emendamento si intende decaduto.

Segue l’emendamento degli onorevoli Leone Giovanni e Bettiol:

«Sostituire il primo comma col seguente:

«La responsabilità penale è solo per fatto personale».

L’onorevole Leone Giovanni ha facoltà di svolgerlo.

LEONE GIOVANNI. L’emendamento proposto da me e dal collega Bettiol, come ebbi occasione di rilevare in sede di discussione generale, tende a confermare il concetto, che era certamente anche nell’animo della Commissione, che la responsabilità penale è personale, in quanto è per fatto personale e non per fatto altrui. Poiché mi sembra che la formula da noi proposta sia più chiara, pensiamo che sia da preferirsi.

PRESIDENTE. Segue l’emendamento dell’onorevole Rescigno:

«Sostituire il secondo comma col seguente:

«L’imputato si presume innocente sino alla sentenza, anche non definitiva, di condanna».

L’onorevole Rescigno ha facoltà di svolgerlo.

RESCIGNO. Onorevoli colleghi, se il secondo comma dell’articolo 21 dovesse avere un semplice valore teorico, come tanti altri articoli della Costituzione, allora potrebbe rimanere anche nella formulazione del progetto o addirittura essere soppresso, come propone l’onorevole Crispo. Ma se, come io penso, questo secondo comma deve essere suscettivo e produttivo di conseguenze pratiche, ritengo che debba essere modificato, perché l’esigenza di questa disposizione è quella sentita da tutti, e cioè che l’imputato, il quale potrà anche essere dichiarato innocente, non subisca e non sopporti una custodia preventiva, talora molto lunga, perché sappiamo, che in Italia le istruttorie penali sono ancora lentissime. Se questa è l’esigenza a cui deve obbedire la disposizione in esame allora non possiamo dire che l’imputato, il quale è un accusato, viene nello stesso tempo considerato non colpevole, il che sarebbe una contraddizione in termini, ma dobbiamo parlare di presunzione; né possiamo protrarre fino alla condanna definitiva questa presunzione di innocenza. Invece questa presunzione di innocenza dovrà indubbiamente capovolgersi alla prima condanna, alla condanna anche non definitiva, e da quel momento sarà l’imputato il quale dovrà distruggere invece la presunzione di colpevolezza, e da quel momento sarà anche giusto che sia sottoposto alle restrizioni della propria libertà e sia assicurato alla giustizia.

Credo di avere così chiarito il pensiero che giustifica e determina la dizione da me proposta.

PRESIDENTE. L’onorevole Crispo ha proposto di sopprimere il secondo comma.

Ha facoltà di svolgere l’emendamento.

CRISPO. Dissi già le ragioni per le quali ritengo che il secondo comma dell’articolo 21 debba essere soppresso, perché esso contiene in buona sostanza una presunzione di innocenza, anche in casi in contrasto con tale presunzione. Io ricordai il caso del perdono giudiziale, che presuppone un’affermazione di responsabilità, e nel quale non si ha condanna, e ricordai le varie ipotesi dell’articolo 152 del nostro Codice di rito penale, per il quale, pur ricorrendo una causa estintiva del reato, l’imputato può domandare l’esame del merito; onde può accadere che il giudice affermi la responsabilità senza poterla dichiarare con sentenza di condanna.

Ritengo peraltro che la presunzione di innocenza è contrastata da tutte le norme della nostra legislazione penale, sia in rapporto all’emissione dei mandati, sia in rapporto all’emissione di una sentenza di rinvio a giudizio, sia in rapporto al rito della citazione diretta e direttissima, in rapporto ai casi di flagranza, quasi flagranza e confessione. Non mi pare adunque che il principio possa essere affermato nella Costituzione. L’imputato sarà innocente o colpevole secondo che il giudice lo dichiarerà innocente o colpevole.

Queste sono le ragioni per le quali, a mio avviso, dovrebbe eliminarsi il secondo comma dell’articolo 21.

TUPINI, Presidente della prima Sottocommissione. Sulle quali, speriamo, non insisterà.

PRESIDENTE. L’onorevole Caroleo ha presentato il seguente emendamento:

«Sostituire il secondo comma col seguente:

«Qualunque imputazione è inefficiente sino alla condanna definitiva».

Ha facoltà di svolgerlo.

CAROLEO. L’onorevole Crispo e l’onorevole Rescigno hanno in parte svolto le ragioni che giustificano il mio emendamento, e potrei essere anche d’accordo per la soppressione del secondo comma dell’articolo 21. Ma penso che si debba un po’ tenere conto delle aspirazioni espresse dal collega Rescigno, le quali però non mi sembra possano essere tradotte nella formula da lui proposta e che riproduce nella sostanza gli inconvenienti a cui accennava l’onorevole Crispo.

Se noi potessimo superare la fase istruttoria del processo, di cui è presupposto essenziale l’imputato, che, per definizione del Codice di procedura penale, è «colui al quale il reato viene attribuito», se potessimo superare i casi di flagranza, di confessione, di custodia preventiva, per cui l’emissione del mandato è condizionata alla ricorrenza di gravi indizi di colpevolezza, allora potremmo anche adottare qualcuna di queste formule, così come propone la Commissione o secondo la enunciazione dell’onorevole Rescigno. Ma, poiché dobbiamo cercare di essere un po’ aderenti alla logica e aderenti anche alla rilevata realtà ed esigenza processuale nella fase istruttoria, credo che nessuna delle due formule possa essere adottata; perciò ho pensato di suggerire alla Commissione un’altra formula, del seguente tenore: «Qualunque imputazione – resta fermo il fatto dell’imputazione, cioè dell’attribuzione provvisoria del reato – è inefficiente – cioè non produttiva, nemmeno in via provvisoria, di responsabilità penale – sino alla condanna definitiva». E questo dovrebbe servire di avviamento a quelle aspirazioni, dicevo, di possibilità di riduzione, per lo meno, se non di eliminazione della custodia preventiva, ed almeno di assistenza difensiva per l’imputato nel periodo istruttorio, durante il quale – tutti sappiamo – al difensore è soltanto consentito di avere copia del mandato di cattura e di prendere visione degli atti istruttori solo ad istruzione chiusa, sia sommaria, sia formale. È ammessa, com’è noto, la possibilità di presentare difese, memorie e richieste, ma non si fa obbligo al giudice di dare neppure una risposta a queste memorie o scritti difensivi nel periodo istruttorio.

Ora, in questo senso io penso che la formula da me adottata, o quell’altra che l’onorevole Commissione pensasse di sostituire a questa, potrebbe aprire la via ad una maggiore partecipazione del difensore al processo nel periodo istruttorio, per la maggiore tutela del diritto di libertà del cittadino.

PRESIDENTE. Segue l’emendamento dell’onorevole Persico:

«Sostituire il terzo comma col seguente:

«Le sanzioni penali hanno soltanto scopo curativo ed educativo, secondo i casi e le necessità, e devono essere a tempo indeterminato».

Non essendo presente l’onorevole Persico, l’emendamento si intende decaduto.

Segue l’emendamento degli onorevoli Leone Giovanni e Bettiol:

«Sostituire il terzo comma col seguente:

«Le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità o che ostacolino il processo di rieducazione morale del condannato».

L’onorevole Leone Giovanni ha facoltà di svolgerlo.

LEONE GIOVANNI. L’emendamento proposto da me e dall’onorevole collega Bettiol si pone nella stessa posizione spirituale in cui, a mio avviso, si è posta la Commissione nei confronti del secolare problema della funzione della pena. La Commissione, è chiaro, non ha voluto prendere posizione su questo problema. Esso è un problema che tormenta da secoli le menti dei pensatori e dei filosofi e che agita le legislazioni di tutto il mondo; non sarebbe stata quindi questa la sede opportuna per tentare di risolverlo.

La Commissione vuol quindi esprimere qualche cosa di diverso: che cioè, nell’esecuzione della pena, lo Stato si assuma l’impegno di facilitare il processo di rieducazione, di recupero morale del delinquente.

Ora, a me sembra che la formula del terzo comma proposta dalla Commissione possa, sia pure con una interpretazione esagerata, dar luogo all’impressione che la Commissione abbia voluto stabilire che il fine principale della pena sia la rieducazione. A mio avviso, poiché non si deve prender posizione, se non nel senso di individuare un fine collaterale dell’esecuzione della pena, il fine cioè di non ostacolare il processo di rieducazione del reo, la formula da noi proposta è la più idonea a rendere questo concetto, sul quale sono d’accordo i componenti della stessa Commissione.

PRESIDENTE. I seguenti emendamenti sono stati già svolti:

«Al terzo comma, sopprimere le parole: devono tendere alla rieducazione del condannato e

«Crispo».

«Sostituire l’ultimo comma col seguente:

«Non è ammessa la pena di morte se non nei casi previsti dalle leggi militari di guerra.

«Veroni».

«Introdurre dopo l’articolo 21 le disposizioni di cui all’articolo 104, con la seguente aggiunta:

«L’azione penale non può essere promossa o proseguita, in alcun caso, quando sia intervenuta una causa estintiva del reato.

«Crispo».

Gli onorevoli Bastianetto, Ferrarese, Cotellessa, Ponti, Franceschini, Lizier, Rumor, Valmarana, Marzarotto e Cappelletti hanno presentato il seguente emendamento:

«Sostituire il terzo comma col seguente:

«Nella esecuzione delle pene si deve aver riguardo soprattutto al rispetto della persona umana».

L’onorevole Bastianetto ha facoltà di svolgerlo.

BASTIANETTO. Mi riallaccio a quanto ha detto l’onorevole Leone, che cioè questo gravissimo problema, il problema secolare dell’esecuzione della pena, deve trovare in questa nostra Costituzione una formula che abbia a servire soprattutto a quella che sarà la futura riforma carceraria, dobbiamo cioè impostare il problema dell’esecuzione delle pene.

Secondo me, la formula che hanno adottato gli amici onorevoli Leone e Bettiol viene a restringere questo problema; perché, se noi ci limitiamo già a dire cosa deve essere la pena, a che cosa questa pena vuol tendere, come questa pena deve eseguirsi, noi veniamo già a restringere il problema.

L’esperienza ha già dimostrato cosa significa trattamento in esecuzione di pena. Se noi pensiamo infatti che cos’è il trattamento che si fa all’uomo recluso, al quale, per esempio, si fanno fare calze con una specie di stuzzicadenti di legno anziché coi soliti ferri – per ovvie ragioni di sicurezza – comprenderemo facilmente come un uomo che fa questo, dopo dieci anni, non sia più uomo.

Ora, in quest’aula ci sono tanti uomini che hanno fatto un’esperienza dolorosissima di carcere; noi sappiamo come il problema penitenziario e, soprattutto, la pratica penitenziaria, abbiano insegnato molto. Ma dove non si è imparato è proprio nel campo teorico, perché, da oltre cinquant’anni, in Italia si fanno voti per questo indirizzo rieducativo, ma sempre sulla carta: tanto che è fatto obbligo all’agente di custodia di essere rieducatore. Ma è anche detto in altra parte del regolamento che l’agente di custodia che si azzardi di parlare al detenuto con confidenza è punito. Di maniera che questa aspirazione della rieducazione esiste; ma in pratica è difficile.

Ora qui si arrischia di votare una formula che non dà l’indirizzo a quelli che dovranno fare la riforma carceraria; e penso, pertanto, che sia molto più opportuno di inserire una formula semplice, generica, che possa offrire domani la base solida per questa riforma. Infatti, se noi leggiamo l’articolo, così come è stato proposto, rileviamo che la pena deve tendere semplicemente alla rieducazione. Invece nella formula che io consiglio si trova affermato il concetto che nella esecuzione della pena si debba aver riguardo soprattutto al concetto della personalità umana. Ora, in questa formula non si considera solo il detenuto, ma anche il custode del detenuto, perché l’esperienza ha insegnato che l’agente di custodia, dopo pochissimo tempo che è agente di custodia, ha già distrutto la sua personalità, è un meccanismo, è diventato parte di una macchina che va dal semplice agente sino al comandante, con un compito repressivo che avvilisce e custode e detenuto.

Fo notare che nei paesi stranieri, in America, in Inghilterra, si è affrontato il problema e recentemente è stato avanzato il suggerimento di mettere dei magistrati alla direzione delle carceri, magistrati che possono offrire questa garanzia giurisdizionale anche nella esecuzione della pena, perché l’uomo in esecuzione di pena è sempre uomo e lo Stato non ha nessun diritto di distruggere l’uomo nell’esecuzione della pena.

Ecco perché, allora, quando noi poniamo come cardine fondamentale questo rispetto non solo dell’uomo, ma anche dell’agente di custodia, noi veniamo a porre la base fondamentale di quello che domani può essere tutto il problema della riforma carceraria, che dovrà pure essere affrontata in Italia.

Una voce a sinistra. Ci vogliono i milioni!

BASTIANETTO. L’Italia non è stata mai capace di affrontare il problema della esecuzione delle pene, per cui abbiamo una esecuzione di pene che è inferiore a qualsiasi altro Paese.

Ecco perché insisto nell’emendamento.

PRESIDENTE. Chiedo alla Commissione di esprimere il suo parere sugli emendamenti mantenuti dagli onorevoli Leone Giovanni, Crispo, Rescigno, Caroleo, Veroni e Bastianetto.

TUPINI, Presidente della prima Sottocommissione. Agli onorevoli Leone Giovanni e Bettiol rivolgo la preghiera, che conferma l’invito rivolto poc’anzi all’onorevole Leone quando svolgeva il suo emendamento, di ritirare il proprio emendamento, perché le preoccupazioni da loro affacciate, secondo il nostro parere, non sono giustificate data la formulazione dell’articolo proposto dalla Commissione.

All’onorevole Crispo, che ha insistito, riproducendo argomenti e fatti già svolti nella discussione generale a favore del suo emendamento, io faccio osservare che non possiamo aderire alla sua proposta, e teniamo a mantenere il capoverso dell’articolo 21, perché anche i fatti e i casi da lui esposti, a nostro avviso, non sono pregiudicati dal mantenimento della nostra formula, mentre il sopprimerla potrebbe dar luogo a delle conseguenze più gravi di quelle che potrebbero derivarne col mantenerla. Per queste ragioni noi riteniamo di mantenerla e di mantenerla nei termini in cui si esprime, senza peraltro poter aderire alle formule proposte dagli onorevoli Rescigno e Caroleo.

Quella dell’onorevole Rescigno si discosta meno dalla nostra. In fondo egli si riferisce a quello che è stato il modo come fino adesso si è regolata la concezione dell’imputato in ordine alla sua eventuale innocenza, responsabilità o colpevolezza. Noi abbiamo ritenuto, onorevole Rescigno, durante la discussione della prima Sottocommissione (e la formula è stata poi apprezzata e mantenuta dalla Commissione dei 75 ed anche il Comitato di coordinamento in vista di questi emendamenti ha creduto di doverla mantenere), che usare, questa formula, di cui rivendico un po’ anche la paternità, sia un modo più chiaro per esprimere quel concetto che ha espresso lei e che esprimono tutti coloro che presumono il reo innocente finché non sia stato definitivamente condannato. Poiché il concetto che ella vuole esprimere è questo, noi crediamo che sia meglio espresso dalla nostra formula. Ci consenta quindi di mantenerla e se ella non ci sottoporrà al peso di una votazione gliene saremo grati.

L’onorevole Caroleo prescinde dalla personalità e fa una definizione astratta. Il concetto che l’anima è il medesimo che anima noi, ma per quelle ragioni che io ho esposto in relazione ad un emendamento che è molto vicino alla formula nostra, pregherei l’onorevole Caroleo di non insistere nella sua formula.

All’onorevole Leone Giovanni, col quale mi compiaccio per la fecondità dei suoi emendamenti, che, del resto, sono sempre molto importanti, e ne abbiamo dato prova venendo frequentemente loro incontro, questa volta devo però dire che noi teniamo ferma la nostra formula. Tanto a lei quanto all’onorevole Crispo, il quale domanda la soppressione pura e semplice del secondo comma…

CRISPO. Desidero dichiarare che nel caso che fosse approvato l’emendamento Leone, ritirerei il mio.

TUPINI, Presidente della prima Sottocommissione. Vede, onorevole Leone, si sono proiettate in questa discussione le preoccupazioni che hanno riferimento alle scuole filosofiche. C’è la preoccupazione di chi è più ligio alla scuola classica, l’altra di chi è più ligio alla scuola positiva, e il timore che la nostra formula aderisca più all’una che all’altra e viceversa. Fo osservare agli onorevoli proponenti degli emendamenti che, in fondo, se noi siamo convinti, come chi vi parla è convinto, che effettivamente la società non deve rinunciare ad ogni sforzo, ad ogni mezzo affinché colui che è caduto nelle maglie della giustizia, che deve essere giudicato, che deve essere anche condannato, dopo la condanna possa offrire delle possibilità di rieducazione, perché ci dobbiamo rinunciare? Non importa a me che questo possa rispondere ad un postulato scientifico di una determinata scuola.

Sono convinto, per un elementare senso umano, che bisogna fare ogni sforzo perché il reo possa essere rieducato, e credo che non dobbiamo rinunciare in nessun caso a questa possibilità. Giacché questo è anche il sentimento dell’onorevole Leone, dirlo in questa forma mi sembra il modo più chiaro possibile. Per queste ragioni noi teniamo ferma la formulazione della Commissione.

All’onorevole Bastianetto, che all’ultim’ora ha presentato un emendamento anch’esso apprezzabile, io faccio osservare che quel senso di umanità che vena tutte le sue considerazioni e il suo emendamento, è già contenuto ed espresso nella formulazione del nostro articolo e che almeno per questa parte non è contrastato né dall’onorevole Bettiol né dall’onorevole Leone: il trattamento del reo cioè, o di chi, comunque, venga privato della libertà, deve ispirarsi a quelle ragioni di umanità che per il rispetto della persona umana devono essere il viatico per tutti coloro che fanno ed applicano le leggi in un regime di libertà e di democrazia.

Non voglio addentrarmi in quello che ha detto l’onorevole Bastianetto circa il trattamento carcerario. Le condizioni delle carceri sono quelle che sono e lo sono, purtroppo, anche in relazione alla situazione finanziaria generale del Paese, che pesa su tutti gli aspetti della vita nazionale. È chiaro, ad ogni modo, che occorre migliorarne il trattamento. Quando diciamo che il reo deve essere trattato umanamente, noi diamo nella Costituzione una norma alla quale il legislatore di domani dovrà attenersi: è un imperativo che noi segniamo al legislatore perché faccia effettivamente quello che risponde alla nostra precisa e unanime volontà. Chi potrebbe infatti non volere che le carceri italiane fossero meglio attrezzate?

Io ricordo – e scusate il ricordo personale: via via che si va avanti negli anni sembra che i ricordi personali abbiano una loro particolare suggestione – ricordo che una delle prime disposizioni da me impartite nella mia qualità di Ministro della giustizia fu quella che ai carcerati si usasse un trattamento quanto più umano possibile, con particolare riguardo ai detenuti politici. Credo che i miei successori al palazzo di via Arenula abbiano confermato la mia direttiva e che questa sia una esigenza da tutti riconosciuta, apprezzata ed applicata.

La formula del nostro articolo non solo non vi contraddice, ma la convalida, facendone oggetto di specifica norma costituzionale. Penso che ne sia soddisfatto anche l’onorevole Bastianetto, cui, perciò, rivolgo la preghiera di ritirare il suo emendamento.

All’onorevole Veroni dirò di non oppormi al suo emendamento col quale si esprime meglio che con la nostra formula lo stesso concetto. Che si dica «possono fare eccezione soltanto le leggi militari di guerra», oppure «non è ammessa la pena di morte se non nei casi previsti dalle leggi militari di guerra» è sostanzialmente la stessa cosa. Ma se l’onorevole Veroni proprio ci tiene, vada pure per la sua formula.

Riguardo all’ultima proposta dell’onorevole Crispo – introdurre dopo l’articolo 21 le disposizioni di cui all’articolo 104 – ne parleremo in sede di discussione dell’articolo 104.

BETTIOL. Chiedo di parlare.

PRESIDENTE. Ne ha facoltà.

BETTIOL. Anche a nome del collega Leone Giovanni, affermo che non siamo disposti a ritirare il nostro emendamento, per il semplice fatto che vogliamo proprio evitare di entrare nell’atmosfera d’una determinata scuola, per evitare, cioè, di prendere con una norma costituzionale, posizione rispetto al contenuto dottrinario d’una tendenza penalistica piuttosto che d’un’altra, per esprimere, invece, una esigenza che possa trovare la sua concretizzazione sul piano politico e sul piano giuridico.

In secondo luogo, la nostra formulazione non esclude l’accentuazione delle necessità della rieducazione del condannato.

Ci permettiamo, anzi, di proporre la soppressione nel nostro emendamento della parola «processo» e di dire: «o che ostacolino la rieducazione morale del condannato», per sottolineare la necessità che la pena, nel suo concreto modo di essere, sia tale da giovare direttamente alla rieducazione morale del condannato, senza mettere questo principio in forma dommatica all’inizio dell’articolo.

TUPINI, Presidente della prima Sottocommissione. Il fatto stesso che gli onorevoli Bettiol e Leone Giovanni hanno inteso il bisogno di sopprimere nel loro emendamento la parola «processo», è un argomento a sostegno della nostra formula, sulla quale insistiamo.

PRESIDENTE. Onorevole Leone, ella mantiene il suo emendamento sostitutivo del primo comma?

LEONE GIOVANNI. Lo ritiro.

PRESIDENTE. L’onorevole Rescigno mantiene l’emendamento sostitutivo del secondo comma?

RESCIGNO. Devo mantenerlo, perché il divario fra la formulazione da me proposta e quella del progetto mi sembra sostanziale, non formale.

PRESIDENTE. L’onorevole Caroleo, mantiene l’emendamento sostitutivo del secondo comma?

CAROLEO. Dopo i chiarimenti del Presidente della Commissione, lo ritiro. Dichiaro anche di preferire il testo proposto dalla Commissione alla formulazione dell’emendamento Rescigno.

PRESIDENTE. L’onorevole Crispo mantiene il suo emendamento soppressivo del secondo comma?

CRISPO. Lo mantengo

PRESIDENTE. Mantiene l’altro emendamento al terzo comma?

CRISPO. Ho già dichiarato che, se fosse approvato l’emendamento Leone Giovanni-Bettiol, lo ritirerei. In caso contrario, chiederei la votazione sul mio emendamento.

PRESIDENTE. L’altro emendamento dell’onorevole Crispo:

«Introdurre dopo l’articolo 21 le disposizioni di cui all’articolo 104, con la seguente aggiunta:

«L’azione penale non può essere promossa o proseguita, in alcun caso, quando sia intervenuta una causa estintiva del reato»

è rinviato alla discussione dell’articolo 104.

Onorevole Bastianetto, ella mantiene l’emendamento?

BASTIANETTO. Le parole dell’onorevole Tupini mi hanno confermato nel dovere che ho di insistere sul mio emendamento.

Quando si parla di carcere e di esecuzione di pena, si fa consistere la rieducazione ed il benessere dei detenuti nel dare disposizioni ai direttori carcerari relativamente al trattamento interno.

Ora, non è il problema della detenzione che investe il detenuto, come cittadino che ha perduto la libertà e come cittadino che deve essere restituito, dallo Stato, alla libertà migliorato. Io ho avuto occasione di visitare molte case di pena all’estero ed ho avuto la sfortuna di sperimentare personalmente il carcere.

Cosa succede anche in America? Gli americani in fatto di rieducazione sono stati costretti a introdurre l’afflizione dove c’era soltanto l’educazione. Oggi nei più grandi carceri d’America vi è un carcere nelle carceri. Bisogna evitare di porre i futuri legislatori della riforma carceraria nella penosa situazione di dover discutere che cos’è il trattamento carcerario. E non è neppure questione di milioni, ma di impostazione.

PRESIDENTE. La prego di non svolgere una seconda volta il suo emendamento.

BASTIANETTO. Concluderò dicendo che i varî Ministri della giustizia che si sono susseguiti in Italia fino ad oggi, questo problema carcerario lo hanno lasciato completamente in mano di un direttore generale, il che significa in mano di gente che, pur avendo altissime doti, non può capire il problema sociale gravissimo della esecuzione della pena. Ecco perché le ragioni che hanno svolte gli onorevoli Bettiol e Leone confermano la mia tesi: noi dobbiamo porre nella Costituzione una norma semplice, generale, che sia direttiva e fondamento della riforma carceraria di domani. (Applausi al centro).

PRESIDENTE. Pongo in votazione il primo comma dell’articolo 21, per il quale non è stato mantenuto alcun emendamento:

«La responsabilità penale è personale».

(È approvato).

Passiamo al secondo comma, così formulalo nel testo della Commissione:

«L’imputato non è considerato colpevole sino alla condanna definitiva».

Pongo in votazione la proposta di soppressione dell’onorevole Crispo.

(Non è approvata).

L’onorevole Rescigno ha proposto di sostituire il secondo comma col seguente:

«L’imputato si presume innocente sino alla sentenza, anche non definitiva, di condanna».

L’emendamento non è stato accettato dalla Commissione.

MORO. Chiedo di parlare.

PRESIDENTE. Ne ha facoltà.

MORO. Non comprendo la ragione della parola «anche». Si può dire: o «fino alla condanna definitiva» o «fino alla prima condanna».

PRESIDENTE. Pongo in votazione l’emendamento Rescigno: «L’imputato si presume innocente fino alla sentenza, anche non definitiva, di condanna».

(Non è approvato).

MAFFI. Chiedo di parlare.

PRESIDENTE. Ne ha facoltà.

MAFFI. Dichiaro di non aver presentato nessun emendamento a questo articolo, perché non sono un giurista; però trovo che la formula adottata al secondo comma non è chiara. Essa, in sostanza, significa che l’imputato è considerato colpevole soltanto per un certo periodo, fino alla condanna definitiva.

Una formula più esplicita potrebbe essere la seguente: «L’imputato non può essere considerato colpevole se non dal momento in cui la condanna sia divenuta definitiva».

Avevo presentato questo emendamento alla Commissione.

PRESIDENTE. Quale è il parere della Commissione?

TUPINI, Presidente della prima Sottocommissione. Ho trovato una formula senza firma; ecco perché non ho risposto.

Le ragioni che ho addotto per sostenere la nostra formula valgono anche per oppormi a quella dell’onorevole Maffi. La Commissione, quindi, è contraria.

PRESIDENTE. Onorevole Maffi, si tratta, più che altro, di una questione di forma. Ella insiste?

MAFFI. Non insisto.

PRESIDENTE. Pongo in votazione il testo della Commissione:

«L’imputato non è considerato colpevole sino alla condanna definitiva».

(È approvato).

Passiamo al terzo comma, così formulato nel testo della Commissione:

«Le pene devono tendere alla rieducazione del condannato e non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità».

Per questo comma sono stati mantenuti gli emendamenti degli onorevoli Leone Giovanni, Crispo, Veroni e Bastianetto.

MAFFI. Chiedo di parlare.

PRESIDENTE. Ne ha facoltà.

MAFFI. In ordine al terzo comma ritengo che vi sia un errore di impostazione mentale, morale e sociale da considerare, quando si dice che: «Le pene devono tendere alla rieducazione del condannato». La pena, di per se stessa, non può tendere alla rieducazione, ma è l’ambiente in cui la pena si sconta che può rieducare il condannato. La pena, pertanto, dovrebbe tener conto della condizione disgraziata del condannato e non della colpa a cui deve corrispondere un pagamento a tipo vendicativo di sofferenza.

Bisognerebbe perciò dire: «L’ambiente carcerario deve essere organizzato conformemente al bisogno sociale di rieducazione del condannato». Accanto alla pena deve esistere una organizzazione che miri a questo. Deploro che qui non si sia portato nella discussione un fatto già acquisito, quello della riorganizzazione del carcere nella Russia sovietica, dove è stabilito il principio che la pena non è definitiva per durata, che essa può essere accorciata in base all’esperienza constatata sulla condotta del condannato e che la pena può essere protratta se l’individuo, nell’espiazione del suo periodo carcerario, si è dimostrato un incorreggibile, un antisociale, un uomo pericoloso per la società.

Ho voluto esprimere il mio parere perché mi pare che su questo argomento la Commissione non abbia sufficientemente studiato.

PRESIDENTE. Onorevole Maffi, vuole precisare l’emendamento che propone?

MAFFI. Il testo è il seguente:

«L’ambiente carcerario deve essere organizzato conformemente al bisogno sociale di rieducazione del condannato. Nessun trattamento può essere contrario al senso di umanità».

TUPINI, Presidente della prima Sottocommissione. La formula Bastianetto, mi sembra meglio articolata.

Comunque, di fronte a questa perplessità anche di formule, da parte di coloro che presentano all’ultima ora degli emendamenti, credo che vi sia una ragione di più per pregare l’Assemblea di apprezzare la nostra formula e di votarla. Quindi non possiamo accettare nessuna formulazione nuova dell’articolo 21 e insistiamo su quella da noi preparata.

MAZZA. Chiedo di parlare.

PRESIDENTE. Ne ha facoltà.

MAZZA. Credo che la formula dettata dagli onorevoli Leone Giovanni e Bettiol sia la più adatta ad accontentare tutti e per questo motivo voterò l’emendamento Leone-Bettiol.

PERTINI. Chiedo di parlare.

PRESIDENTE. Ne ha facoltà.

PERTINI. All’emendamento proposto dall’onorevole Maffi sostituirei le parole «ambiente carcerario» con le parole «sistema carcerario».

MAFFI. Aderisco a questa modificazione.

MORO. Chiedo di parlare.

PRESIDENTE. Ne ha facoltà.

MORO. Dichiaro che voterò a favore del secondo emendamento degli onorevoli Leone e Bettiol. Mi rendo conto delle ragioni che sono state esposte dal Presidente della Sottocommissione e sono certo che nelle intenzioni dei proponenti non vi è il desiderio di risolvere con la formulazione presentata l’annoso problema degli orientamenti penalistici della scienza e della legislazione italiana. Sono certo che, in questa sede costituzionale, si vuole anche con la formulazione proposta lasciare libera la strada, perché domani sia il legislatore, sotto la pressione della coscienza sociale, a decidere in merito agli orientamenti in materia di pene. Tuttavia non posso nascondermi il pericolo che deriva dalla formulazione così come è presentata. Il parlare di pene che devono tendere alla rieducazione del condannato, può essere considerato da parte dei futuri legislatori e da parte degli scienziati di un determinato orientamento, come fondamento di una pretesa ad orientare la legislazione penale italiana in modo conforme ai postulati della scuola positiva. Tutti quanti i postulati penalistici sono evidentemente rispettabili, ma il problema che essi involgono è talmente grave e talmente serio che non possiamo pretendere, con una rapida discussione, quale è quella che si è verificata in questa sede di risolverlo.

D’altra parte dobbiamo preoccuparci che per una leggerezza da parte nostra, per una imprecisione nella formulazione, non si dia l’apparenza di aver risolto quello che in realtà non si voleva e non si poteva risolvere in questa sede. Certamente l’esigenza della rieducazione morale del condannato è presente al nostro spirito. Anche noi, che siamo seguaci di un altro indirizzo in materia penale, riteniamo che la pena persegua tra i suoi fini anche quello fondamentale della rieducazione del condannato, ma mi pare che questa esigenza sia soddisfatta pienamente dall’emendamento Leone-Bettiol al quale aderisco, in quanto vi si dichiara che le pene non possono consistere in trattamenti disumani e debbono essere tali da permettere la rieducazione morale del condannato. Con ciò si dà una precisa disposizione che vale come orientamento per la riorganizzazione del sistema penitenziario, ma senza prendere posizione, neppure in apparenza, in ordine a uno dei problemi più gravi della nostra scienza e della nostra prassi sociale, cosa che mi parrebbe in questa sede estremamente pericolosa.

GATTA. Chiedo di parlare.

PRESIDENTE. Ne ha facoltà.

GATTA. Dichiaro di aderire alla proposta degli onorevoli Bettiol e Leone, qualora i proponenti, anziché adottare la formula: «Le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità o che ostacolino, ecc.», dicano: «Le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità e devono agevolare la rieducazione morale del condannato».

Una voce. Questo è il testo della Commissione. (Commenti).

TUPINI, Presidente della prima Sottocommissione. Quando vi scostate dalla retta via, vedete le confusioni che sorgono. Mantenete la guida del progetto se non volete smarrirvi. (Ilarità).

PRESIDENTE. Passiamo alla votazione degli emendamenti. L’onorevole Bastianetto ha proposto di sostituire il terzo comma col seguente:

«Nella esecuzione delle pene si deve aver riguardo soprattutto al rispetto della persona umana».

LEONE GIOVANNI. Chiedo di parlare per dichiarazione di voto.

PRESIDENTE. Ne ha facoltà.

LEONE GIOVANNI. Dichiaro che non voteremo questa formulazione, perché, pur condividendone lo spirito, preferiamo la nostra.

FRANCESCHINI. Chiedo di parlare per dichiarazione di voto.

PRESIDENTE. Ne ha facoltà.

FRANCESCHINI. Dichiaro che voterò a favore dell’emendamento dell’onorevole Bastianetto, perché esso, oltre ad essere sostanzialmente comprensivo di tutte le modificazioni proposte, designa chiaramente un compito positivo che la Repubblica deve proporsi nell’amministrazione della giustizia per un principio di umanità.

PRESIDENTE. Pongo in votazione l’emendamento dell’onorevole Bastianetto.

(Non è approvato).

Pongo in votazione l’emendamento Maffi con la modifica proposta dall’onorevole Pertini ed accettata dal presentatore:

«Il sistema carcerario deve essere organizzato conformemente al bisogno sociale di rieducazione del condannato. Nessun trattamento può essere contrario al senso di umanità».

(Non è approvato).

Pongo in votazione la formula proposta dagli onorevoli Leone Giovanni e Bettiol:

«Le pene non possono consistere in trattamenti contrarî al senso di umanità o che ostacolino la rieducazione morale del condannato».

(Segue la votazione per alzata e seduta).

Poiché l’esito della votazione appare incerto, procediamo alla votazione per divisione.

(Segue la votazione per divisione).

Comunico che, secondo il giudizio dell’ufficio di Presidenza, l’emendamento non è approvato. (Commenti – Rumori).

RUINI, Presidente della Commissione per la Costituzione. Chiedo di parlare.

PRESIDENTE. Ne ha facoltà.

RUINI, Presidente della Commissione per la Costituzione. Vorrei fare una preghiera ed è questa: perché vogliamo suscitare qui una questione di scuola scientifica, che è l’unico riflesso che potrebbe fendere l’Assemblea contraria alla proposta della Commissione? Badate che l’esigenza della rieducazione non è soltanto privilegio e monopolio della scuola positiva: è principio del diritto canonico e del cristianesimo. Non vi è qui nessuna questione di ordine politico, ma solo una questione di scuola scientifica. Siamo tutti d’accordo che non si tratta con questo articolo di definire la finalità, più o meno filosofica, della pena, ma di stabilire che occorre sempre anche la rieducazione del condannato. Perché non accettiamo, quindi, il voto che è venuto fuori? (Approvazioni).

MORO. Dato l’esito dubbio della votazione, chiedo l’appello nominale.

PRESIDENTE. Non è possibile accogliere la sua proposta, poiché è stato già proclamato il risultato della votazione.

LEONE GIOVANNI. Chiedo di parlare.

PRESIDENTE. Ne ha facoltà.

LEONE GIOVANNI. Signor Presidente, dopo la votazione per alzata e seduta, la perplessità di alcuni Segretari ha imposto alla sua coscienza di indire una seconda votazione per divisione. A nostro avviso anche questa seconda votazione, così come la prima, deve lasciare perplesso il suo animo.

PRESIDENTE. Mi permetto di osservare che proprio in ciò che lei ha detto è la giustificazione della decisione che ho preso poco fa. Lei ha detto che dopo la votazione iniziale, alcuni Segretari – cioè una parte dell’ufficio di Presidenza – hanno avuto delle perplessità, mentre in questo momento nessuno dei Segretari è perplesso. Lo sono alcuni membri dell’Assemblea, ma questi nella valutazione dei risultati di una votazione non hanno voce in capitolo. Sono, quindi, due soggetti diversi che hanno avuto le perplessità. Le perplessità del primo, evidentemente, inficiavano la decisione; il dubbio del secondo, rispettabilissimo, non può avere la stessa efficacia. (Applausi).

LEONE GIOVANNI. Se vi è un problema nel quale non occorre essere faziosi è proprio questo. (Commenti).

RUINI, Presidente della Commissione per la Costituzione. Siamo d’accordo! Proprio per questo non bisogna insistere!

PRESIDENTE. Onorevole Leone, il fatto stesso che in questa votazione i gruppi politici si sono suddivisi, mi pare dimostri che non vi fu in essa una posizione di partito.

LEONE GIOVANNI. Accetto l’esito della votazione, ma poiché bisogna mettere in votazione il testo dell’onorevole Crispo, chiedo su di esso la votazione per appello nominale.

CRISPO. Chiedo di parlare.

PRESIDENTE. Ne ha facoltà.

CRISPO. Ricordo che nel caso di rigetto dell’emendamento Leone-Bettiol, ho dichiarato di mantenere il mio.

PRESIDENTE. Sta bene.

Pongo in votazione la proposta dell’onorevole Crispo, che nel terzo comma siano soppresse le parole «devono tendere alla rieducazione del condannato e», sicché il testo del comma risulterebbe il seguente:

«Le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità».

Su questo emendamento è stato chiesto dagli onorevoli Leone Giovanni, Badini Confalonieri e altri la votazione per appello nominale.

Senza contestare agli onorevoli firmatari della richiesta di appello nominale questa facoltà, ripeto quello che ho già detto l’altro giorno a proposito di altra votazione: se dalla votazione risultasse la mancanza del numero legale, dovremmo o rinviare di un’ora la seduta, oppure rinviarla addirittura a domani, a termini del Regolamento.

BADINI CONFALONIERI. Chiedo di parlare.

PRESIDENTE. Ne ha facoltà.

BADINI CONFALONIERI. Quale firmatario della richiesta, anche a nome dei miei colleghi, rinuncio alla richiesta d’appello nominale. Chiederei in cambio che si potesse fare da parte nostra una dichiarazione di voto perché vi è stata già una dichiarazione dell’onorevole Ruini in un senso, ed è giusto che da parte nostra si possa rispondere. L’onorevole Ruini ha dichiarato che non si vuole entrare nel merito della questione; ma vi entra: ed è quanto noi vogliamo evitare. Certo è comunque che la pena non ha esclusivamente uno scopo rieducativo, ma altresì uno scopo afflittivo, uno scopo repressivo, ecc., e noi che consentiamo di tutto cuore nello scopo rieducativo della pena non reputiamo però che questo sia l’unico scopo che la pena si prefigge. Altrimenti, con la formula usata nel progetto, si addiverrebbe all’assurdo che anche la pena di morte – ammessa sia pure in casi eccezionali – avrebbe valore rieducativo. Per queste ragioni noi siamo favorevoli all’emendamento Crispo.

LEONE GIOVANNI. Chiedo di parlare per dichiarazione di voto.

PRESIDENTE. Ne ha facoltà.

LEONE GIOVANNI. Dichiaro di votare per l’emendamento Crispo, non perché ritenga che non si debba tener conto di questo fine complementare e nobilissimo della rieducazione del condannato, ma perché penso che la formula della Commissione è una formula equivoca, in quanto non rispecchia il vero pensiero che indubbiamente si voleva esprimere. Noi votiamo l’emendamento Crispo, «le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità», perché nella frase «senso di umanità» a noi sembra sia contenuta e compresa l’ansia della rieducazione di cui alla prima parte dell’articolo, di chiunque sia caduto, sicché la seconda parte del nostro emendamento, che era interpretativo e correttivo, visto che non è stato approvato, deve intendersi contenuta nella prima parte. Donde, il nostro orientamento di votare l’emendamento Crispo.

BETTIOL. Chiedo di parlare per dichiarazione di voto.

PRESIDENTE. Ne ha facoltà.

BETTIOL. Mi associo alle dichiarazioni dell’onorevole Leone.

MORO. Chiedo di parlare per dichiarazione di voto.

PRESIDENTE. Ne ha facoltà.

MORO. Mi associo alle dichiarazioni degli onorevoli Badini Confalonieri, Leone Giovanni e Bettiol.

PRESIDENTE. Pongo in votazione la formula proposta dall’onorevole Crispo:

«Le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità».

(Dopo prova e controprova non è approvata).

Pongo in votazione la formula della Commissione:

«Le pene devono tendere alla rieducazione del condannato e non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità».

(Dopo prova e controprova è approvata).

Passiamo ora all’ultimo comma. La Commissione ha dichiarato di accettare la formulazione dell’onorevole Veroni che pongo in votazione:

«Non è ammessa la pena di morte se non nei casi previsti dalle leggi militari di guerra».

(È approvata).

Dichiaro approvato l’articolo 21, nel seguente testo:

«La responsabilità penale è personale.

«L’imputato non è considerato colpevole sino alla condanna definitiva.

«Le pene devono tendere alla rieducazione del condannato e non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità.

«Non è ammessa la pena di morte se non nei casi previsti dalle leggi militari di guerra».

Il seguito della discussione è rinviato al pomeriggio alle 16.

Interrogazione con richiesta d’urgenza.

PRESIDENTE. È pervenuta alla Presidenza la seguente interrogazione con richiesta d’urgenza:

«Ai Ministri del lavoro e previdenza sociale e dell’interno, per conoscere in qual modo il Governo intenda andare incontro ai desiderata degli ex partigiani, reduci ed ex internati, le cui gravissime condizioni economiche hanno provocato a Torino la manifestazione e gli spiacevoli incidenti del 9 aprile.

«Montagnana Mario, Roveda, Flecchia».

Chiederò al Governo quando intenda rispondere a questa interrogazione.

Interrogazioni.

PRESIDENTE. Si dia lettura delle interrogazioni pervenute alla Presidenza.

MOLINELLI, Segretario, legge:

«I sottoscritti chiedono d’interrogare il Ministro della pubblica istruzione, sui motivi che hanno ritardato l’accoglimento delle giuste rivendicazioni del personale insegnante e non insegnante delle scuole medie ed elementari e degli educandati nazionali, nonostante formali promesse fatte dal Governo, da lungo tempo.

«Di Vittorio, Lizzadri».

«Il sottoscritto chiede d’interrogare il Ministro della marina mercantile, per conoscere se sia vero che, nello schema di ripartizione del secondo contingente di navi di provenienza americana, ripartizione per la quale era stato assicurato dall’onorevole Ministro della marina mercantile che si sarebbe seguito un criterio regionale, oltre che criteri economici, la Puglia sia rimasta assolutamente esclusa da assegnazioni. (L’interrogante chiede la risposta scritta).

«Cicerone».

PRESIDENTE. Le interrogazioni testé lette saranno iscritte all’ordine del giorno e svolte al loro turno, trasmettendosi ai Ministri competenti quella per la quale si chiede la risposta scritta.

La seduta termina alle 13.5.

POMERIDIANA DI LUNEDÌ 14 APRILE 1947

ASSEMBLEA COSTITUENTE

LXXXVIII.

SEDUTA POMERIDIANA DI LUNEDÌ 14 APRILE 1947

PRESIDENZA DEL PRESIDENTE TERRACINI

INDICE

 

Congedi:

Presidente                                                                                                        

Progetto di Costituzione della Repubblica italiana (Seguito della discussione):

Presidente                                                                                                        

Tupini, Presidente della prima Sottocommissione                                                 

Ghidini                                                                                                              

Cappa                                                                                                                

Cevolotto                                                                                                        

Andreotti                                                                                                        

Ruini, Presidente della Commissione per la Costituzione                                      

Relazione della Commissione degli Undici:

Presidente                                                                                                        

Rubilli, Presidente della Commissione e Relatore                                               

Grilli                                                                                                                

Costantini                                                                                                        

Manzini                                                                                                            

Filippini                                                                                                             

Lucifero                                                                                                           

Zerbi                                                                                                                 

Crispo                                                                                                               

De Gasperi, Presidente del Consiglio dei Ministri                                               

Tupini                                                                                                                

Corbino                                                                                                            

Piemonte                                                                                                          

Micheli                                                                                                             

Dugoni                                                                                                              

Si riprende la discussione del progetto di Costituzione della Repubblica italiana:

Presidente                                                                                                        

Tupini, Presidente della prima Sottocommissione                                                 

Ghidini                                                                                                              

Perassi                                                                                                              

Colitto                                                                                                             

Moro                                                                                                                

Lucifero                                                                                                           

Badini Confaloneri                                                                                         

Cappa                                                                                                                

Bulloni                                                                                                            

Cevolotto                                                                                                        

Cifaldi                                                                                                              

Grieco                                                                                                              

Carboni                                                                                                            

Giannini                                                                                                            

Gronchi                                                                                                            

Vigorelli                                                                                                          

Piemonte                                                                                                          

Molinelli                                                                                                         

Dugoni                                                                                                              

Coccia                                                                                                              

Ruggiero                                                                                                          

Mortati                                                                                                            

Crispo                                                                                                               

Corbino                                                                                                            

Andreotti                                                                                                        

Condorelli                                                                                                      

La seduta comincia alle 16.

MATTEI TERESA, Segretaria, legge il processo verbale della precedente seduta pomeridiana.

(È approvato).

Congedi.

PRESIDENTE. Hanno chiesto congedo i deputati Bernardi, Pellizzari e Falchi.

(Sono concessi).

Seguito della discussione del progetto di Costituzione della Repubblica italiana.

PRESIDENTE. Riprendiamo la discussione sopra l’articolo 16 del progetto di Costituzione. Ha facoltà di parlare l’onorevole Tupini per esprimere l’avviso della Commissione sopra gli emendamenti che sono stati mantenuti.

TUPINI, Presidente della prima Sottocommissione. Onorevoli colleghi, come già ebbi occasione di dire all’Assemblea, dopo aver presa visione dei vari emendamenti, io, in armonia col pensiero della maggioranza della Commissione, sosterrò l’articolo del progetto in esame.

Esso rappresenta uno sforzo notevole di elaborazione, durante il quale furono vagliati tutti gli argomenti contrari e favorevoli che poi sono nuovamente affiorati nella discussione dell’Assemblea. Sui primi due commi – procediamo per eliminazione – non sono stati presentati emendamenti.

CAPPA. Sì, sì.

TUPINI, Presidente della prima Sottocommissione. Un momento: incominciamo dal primo comma, cioè dalla prima parte dell’articolo. Onorevole Cappa, lei non ha partecipato intensamente a questi lavori e quindi la sua interruzione può non essere appropriata.

Comunque, e certo sulla prima parte dell’articolo, non c’è alcun emendamento specifico, salvo quello dell’onorevole Andreotti, che investe tutto l’articolo.

RUINI, Presidente della Commissione per la Costituzione. No, no.

TUPINI, Presidente della prima Sottocommissione. Ripeto sì, se l’emendamento è quello che ho sotto gli occhi; e a proposito di esso, che è sostitutivo della formula del progetto, osservo che la prima parte ne è fatta salva, ad eccezione di «i cittadini» da aggiungere alla parola «tutti» del progetto.

CAPPA. È quello che volevo dire.

TUPINI, Presidente della prima Sottocommissione. Bene, onorevole Cappa: stavo appunto venendo a questo; ed ora posso rispondere all’onorevole Andreotti. Personalmente sono d’accordo con lui, perché l’aggiunta delle parole «i cittadini» all’altra «tutti» serve a differenziare tra di loro i cittadini e gli stranieri, ai quali ultimi – in via di massima e come ebbi occasione di dire a proposito di analoga questione per il diritto di associazione – molti sono esitanti a riconoscere con uguale estensione gli stessi diritti dei primi.

Comunque, la Commissione si rimette all’Assemblea, sempre che l’onorevole Andreotti insista nel suo emendamento.

ANDREOTTI. Sì.

TUPINI, Presidente della prima Sottocommissione. Quanto al resto dell’emendamento, che dovrebbe sostituire la formula dell’articolo 16 del progetto, so che l’onorevole Andreotti ci tiene fino ad un certo punto, e allora credo che il voto dell’Assemblea debba riguardare unicamente l’aggiunta: «i cittadini».

Per la prima parte dell’articolo 16 non vi sono altri emendamenti, e così per il secondo comma.

Il terzo comma invece è investito da vari emendamenti. Cominciamo da quello dell’onorevole Perassi ed altri: «Sostituire i commi 3 e 4 coi seguenti…».

Prima di procedere all’esame di esso, domando all’onorevole Perassi se vi insiste.

PERASSI. Sì, e mi riservo di rispondere alle sue osservazioni.

TUPINI, Presidente della prima Sottocommissione. Sta bene. La Commissione, nella sua maggioranza è contraria all’emendamento Perassi ed è disposta ad accogliere quello dell’onorevole Grassi, che in parte lo comprende e lo assorbe. L’emendamento Grassi si esprime con questa formula: «Si può procedere al sequestrò soltanto per atto motivato dall’Autorità giudiziaria nei casi di delitti per i quali la legge sulla stampa espressamente lo consenta e nei casi di violazione delle norme relative all’obbligo dell’indicazione dei responsabili».

Io già ho fatto presente all’onorevole Grassi che sarebbe più opportuno e più proprio dire «reati» al posto di «delitti», comprendendo quindi, nei casi in cui si può procedere al sequestro per atti motivati dall’autorità giudiziaria, non soltanto i delitti stricto nomine, ma anche i reati nei quali sono comprese le contravvenzioni, che riguardano pubblicazioni che offendono la pubblica decenza e contravvenzioni di altra natura, e quindi dare all’emendamento dell’onorevole Grassi un carattere più estensivo di quello che non avrebbe se si limitasse soltanto alla parola «delitti».

Ho ragione di ritenere che l’onorevole Grassi non abbia ragioni speciali per insistere sulla sua formula su questo punto, e credo che possa accettare la mia proposta.

Dunque, la Commissione, nella sua maggioranza, sarebbe favorevole ad accettare l’emendamento dell’onorevole Grassi, piuttosto che quello dell’onorevole Perassi. In questo caso, l’emendamento dell’onorevole Grassi dovrebbe sostituire il terzo comma dell’articolo 16, così com’è proposto dalla Commissione.

Anche il quarto comma ha avuto l’onore di vari emendamenti da parte degli onorevoli Gabrieli, Schiavetti, Ghidini, Lami Starnuti ed altri. Mirano tutti alla soppressione pura e semplice del comma.

La Commissione, in maggioranza, è disposta ad accogliere la proposta soppressiva.

Circa il quinto comma, gli onorevoli Bellavista, Mastrojanni, Montagnana e Cavallari, ne propongono in emendamenti separati la soppressione. Mentre, però, gli onorevoli Bellavista e Mastrojanni ne vorrebbero la soppressione pura e semplice, gli onorevoli Montagnana e Cavallari condizionano la soppressione all’accoglimento da parte dell’Assemblea degli emendamenti aggiuntivi da loro proposti al primo e al secondo comma dell’articolo.

L’emendamento aggiuntivo al primo comma degli onorevoli Montagnana e Cavallari, si esprime nei seguenti termini: «Al fine di garantire a tutti i cittadini l’effettivo esercizio di questo diritto e di escludere ogni monopolio di fatto, lo Stato può disporre il controllo per l’accertamento dei mezzi di finanziamento e può regolare l’impiego dei mezzi di produzione».

Così pure l’aggiunta proposta dagli stessi onorevoli Montagnana e Cavallari al secondo comma in fondo si riferisce a quello che è espresso al quinto comma dell’articolo 16 del progetto, dove si dice che la legge può stabilire controlli per l’accertamento delle fonti di notizie e dei mezzi di finanziamento della stampa periodica. Anche questo emendamento aggiuntivo al secondo comma si riferisce presso a poco al testo del quinto comma dice: «Lo Stato può disporre controlli sulle agenzie di informazione al fine di accertarne le fonti di notizie e i mezzi di finanziamento».

A questo punto devo osservare che nei riguardi del quinto comma proposto dalla Commissione i pareri dei colleghi che sono intervenuti nella discussione sono stati diversi e talvolta opposti. Ci sono colleghi che hanno reclamato, attraverso i loro emendamenti, la soppressione pura e semplice del quinto comma dell’articolo, e ne hanno spiegato le ragioni, alle quali mi riferisco, senza ripeterle. Ci sono poi colleghi, come gli onorevoli Montagnana e Cavallari, che non solo insistono, ma aggiungono specificazioni che rendono ancora più grave, più pesante, il quinto comma proposto dalla Commissione.

La Commissione a questo riguardo non si è trovata d’accordo. Non è d’accordo per la soppressione; non è d’accordo per l’accoglimento degli emendamenti degli onorevoli Cavallari e Montagnana. Se devo esprimere il pensiero della Commissione, questa è favorevole al testo del progetto.

Personalmente io mi rendo conto delle difficoltà che presenta l’applicazione di questo articolo, tanto maggiori, ove si tenga nel dovuto conto l’emendamento proposto dall’onorevole Ruggiero, il quale, pur facendo buon viso a questo comma, domanda di modificare «può stabilire» con l’espressione «stabilisce» o «dispone». Personalmente ritengo la formula del progetto migliore, perché più elastica. La questione dei controlli in mano al potere esecutivo è molto delicata e bisogna quindi procedere su questo terreno con molta cautela.

Non mi nascondo che la concezione della democrazia varia da partito a partito e da settore a settore dell’Assemblea. Per me, democratico oltre che cristiano, anche se e soprattutto perché cristiano, (Interruzioni – Commenti) un sano e reale regime democratico deve garantire nel modo più efficace e sicuro tutte le libertà umane e popolari di fronte a ogni tentativo sopraffattore dell’esecutivo. L’idea cristiana suffraga e rafforza la concezione integrale della democrazia. (Interruzioni).

Ciò premesso, mi corre l’obbligo di dire che, se mai, io avrei persino qualche esitazione circa la formula da noi proposta. Se l’accetto è soltanto per sottolineare che in democrazia tutto deve essere trasparente e come contenuto entro una campana di vetro. Da qui l’opportunità del comma del progetto.

Andare oltre mi sembra pericoloso. E questo pericolo potrebbe accentuarsi ove l’Assemblea facesse buon viso agli emendamenti degli onorevoli Montagnana e Cavallari, ai quali rivolgo la preghiera di ritirarli.

PIEMONTE. Ma Cristo non ha mandato fuori del Tempio i mercanti, attendendo che i Filistei decidessero!

TUPINI, Presidente della prima Sottocommissione. Se ho ben capito, onorevole Piemonte, la sua interruzione non c’entra. Comunque, la Commissione, in maggioranza, non è favorevole alla proposta degli onorevoli Montagnana Mario e Cavallari; non è favorevole alla proposta di soppressione venuta dagli altri colleghi, e preferisce – se mai – la formula del progetto.

E veniamo all’ultimo comma. Gli onorevoli Mortati e Moro propongono un emendamento aggiuntivo: «preventive e repressive», alle parole: «misure adeguate». In linea di massima siamo favorevoli all’emendamento, se l’Assemblea sarà dello stesso avviso.

Mi pare a questo punto di avere esaminato tutti gli emendamenti, perché quelli riguardanti la morale, il buon costume e il sentimento religioso, sono stati ritirati; quello dell’onorevole Schiavetti è decaduto per assenza del proponente.

L’assenza dell’onorevole Calosso fa decadere anche il suo emendamento. Me ne dispiace. Se l’avesse mantenuto, mi sarei pronunziato a suo favore con viva cordialità.

All’onorevole Preziosi, infine, noterò che il suo è un emendamento al quarto comma e lo potremo esaminare solo nel caso che l’Assemblea respingesse la proposta di soppressione del comma stesso.

PRESIDENTE. Onorevole Tupini, con sua sopportazione devo comunicarle che mi è pervenuto un altro emendamento. Chiedo alla Commissione se, data l’importanza della materia, voglia tenerne, conto.

Gli onorevoli Bulloni, Grieco, Laconi, Montini, Cappi, Ravagnan, Montagnana Mario, Roselli, Bianchini Laura, Cavallari e Bazoli hanno proposto di sostituire al quarto comma il seguente:

«Nei casi predetti, quando vi è assoluta urgenza e non è possibile il tempestivo intervento dell’autorità giudiziaria, il sequestro del periodico può essere eseguito da ufficiali di pubblica sicurezza, che debbono immediatamente, e non mai oltre dodici ore, inoltrare denuncia all’autorità giudiziaria».

TUPINI, Presidente della prima Sottocommissione. Ove l’Assemblea accogliesse la proposta di emendamento soppressivo, la risposta, da me data all’onorevole Preziosi, varrebbe anche per l’onorevole Bulloni. Ma se l’Assemblea fosse di contrario avviso, evidentemente io direi che una certa attenzione va portata a questa proposta di emendamento che, come mia prima impressione, non esiterei ad accettare.

Poiché l’emendamento stesso, tra l’altro, sostituisce il termine «polizia giudiziaria» a quello di «pubblica sicurezza», osservo che, conformemente a quanto abbiamo l’altro giorno stabilito in relazione ad analogo intervento dell’onorevole Crispo, la proposta emendativa è più appropriata e quindi preferibile alla formula del progetto.

PRESIDENTE. È stata presentata anche una diversa formulazione da parte dell’onorevole Cappa, che riprende quella degli onorevoli Perassi e Natoli, e che tende a sostituire il terzo e quarto comma coi seguenti:

«Il sequestro delle edizioni dei giornali o di altri stampati, la cui pubblicazione sia eseguita con l’osservanza delle formalità prescritte dalla legge, non può aver luogo che per sentenza irrevocabile dell’autorità giudiziaria.

«Tuttavia, nei casi di reati di offesa ai Capi di Stato, di istigazione a commettere delitti, o di pubblicazioni oscene o contrarie alla pubblica decenza, il sequestro può essere disposto dal pubblico ministero o dal giudice all’inizio o nel corso del procedimento penale, ovvero quando vi è assoluta urgenza, e non è possibile il tempestivo intervento dell’autorità giudiziaria, da ufficiali di polizia giudiziaria. In tale ipotesi il sequestro decade, se non è confermato dall’autorità giudiziaria nel termine di ventiquattr’ore».

Chiedo il parere della Commissione su questa proposta.

TUPINI. Io credo che potremo mettere in votazione, i due primi comma, sui quali non ci sono stati emendamenti.

PRESIDENTE. Procediamo alla votazione dell’articolo 16, comma per comma. Il primo comma, nel testo della Commissione, è così formulato:

«Tutti hanno diritto di esprimere liberamente il proprio pensiero con la parola, lo scritto, ed ogni altro mezzo di diffusione».

L’onorevole Andreotti ha proposto di aggiungere, dopo la parola: «Tutti» le altre «i cittadini».

GHIDINI. Chiedo di parlare per dichiarazione di voto.

PRESIDENTE. Ne ha facoltà.

GHIDINI. Dichiaro che non voterò la prima parte di quest’articolo con l’emendamento Andreotti, nel senso cioè di sostituire alla dizione ordinaria «Tutti hanno diritto», l’altra «Tutti i cittadini». La ragione è questa: se si tratta di una disposizione la quale abbia una finalità politica, non vedo la ragione della distinzione che si debba fare fra cittadini e stranieri. Credo che il diritto di esprimere liberamente il proprio pensiero, attraverso ogni forma, non appartenga al cittadino in quanto facente parte dello Stato italiano, ma appartenga alla personalità umana. E questo diritto io lo riconosco a tutti: stranieri o cittadini che siano. Se invece con questa sostituzione si mira a creare una misura di carattere protezionista nei riguardi dell’industria editoriale, le opportune misure potranno essere prese in altra sede.

Per questa ragione non voto l’emendamento Andreotti, ma voto invece la prima parte dell’articolo così come è stata deliberata dalla Commissione.

CAPPA. Chiedo la parola per dichiarazione di voto.

PRESIDENTE. Ne ha facoltà.

CAPPA. Non voto l’emendamento Andreotti; osservo che può essere opportuno limitare la facoltà di dirigere un giornale o di essere editore di un giornale; penso che per questo forse sarà opportuno stabilire la cittadinanza italiana; ma penso anche che non si possa distinguere lo straniero dal cittadino in rapporto a un diritto fondamentale. In questo senso si è pronunciata la Commissione ministeriale che ha redatto il progetto di legge; a questo criterio si ispira il disegno di legge che è stato dal Governo rassegnato all’Assemblea. Voterò la formula come proposta dalla Commissione.

CEVOLOTTO. Chiedo di parlare per dichiarazione di voto.

PRESIDENTE. Ne ha facoltà.

CEVOLOTTO. Mi associo alla dichiarazione dell’onorevole Ghidini, osservando che se l’aggiunta che viene proposta fosse approvata, si potrebbe arrivare a tanto da negare il diritto, da parte di un editore, di pubblicare opere le quali ci portino il pensiero degli stranieri nel campo politico, nel campo artistico, nel campo scientifico; specialmente nel campo politico. Quindi, l’aggiunta avrebbe una portata molto maggiore di quel che sembra a prima vista e potrebbe limitare la estrinsecazione della prima libertà del pensiero. Per queste ragioni, voterò contro.

TUPINI. Presidente della prima Sottocommissione. Chiedo di parlare.

PRESIDENTE. Ne ha facoltà.

TUPINI, Presidente della prima Sottocommissione. Preferisco la formula della Commissione. Per quanto riguarda la stampa, poi, si vedrà in altra sede. Qui si tratta del diritto fondamentale di ognuno di parlare, di pensare, di esprimersi nel modo come egli ritiene più conforme ai principî di libertà. Quindi, sono d’accordo con l’onorevole Cappa; mi dispiace di non esserlo altrettanto con l’onorevole Andreotti. Ma è un mio pensiero personale che non impegna quello dell’intera Commissione.

ANDREOTTI. Chiedo di parlare.

PRESIDENTE. La prego di specificare il motivo.

ANDREOTTI. Chiedo di parlare per motivare il ritiro dell’emendamento.

PRESIDENTE. Ne ha facoltà.

ANDREOTTI. Avevo presentato questa specificazione non per togliere qualcosa ai diritti essenziali che noi dobbiamo riconoscere agli stranieri, ma perché mi pare che si possa lasciare aperta la strada, al legislatore di domani, di porre alcune limitazioni. Comunque, siccome sono certo che, dato anche l’andamento delle dichiarazioni di voto, il mio emendamento non passerebbe, lo ritiro interamente, ma specifico che non avrei voluto affatto che fosse considerato come una limitazione che noi potevamo mettere. L’ipotesi fatta, che si potesse vietare in Italia la traduzione di un libro storico, non regge in quanto nessuno avrebbe potuto mai invocare che un tal diritto sarebbe stato da noi negato; era solo una specificazione che si faceva in favore dei cittadini. Comunque, per facilitare la votazione, ritiro il mio emendamento.

PRESIDENTE. Pongo in votazione il primo comma nel testo della Commissione:

«Tutti hanno diritto di esprimere liberamente il proprio pensiero con la parola, lo scritto, ed ogni altro mezzo di diffusione».

(È approvato).

Dovrei ora porre in votazione l’emendamento degli onorevoli Montagnana Mario e Cavallari per il quale, dopo il primo comma, si dovrebbe aggiungere:

«Al fine di garantire a tutti i cittadini l’effettivo esercizio di questo diritto e di escludere ogni monopolio di fatto, lo Stato può disporre controlli per l’accertamento dei mezzi di finanziamento e può regolare l’impiego dei mezzi di produzione».

RUINI, Presidente della Commissione per la Costituzione. Chiedo di parlare.

PRESIDENTE. Ne ha facoltà.

RUINI, Presidente della Commissione per la Costituzione. Vorrei che per semplificare, possibilmente, la discussione, si rinviasse l’esame di questo comma al quinto a cui è legato per la materia, restando ben inteso che, se l’adottiamo, lo sposteremo poi subito dopo il primo. Desidererei, se il nostro Presidente consente, che si procedesse ora alla votazione sul complesso dei primi tre commi sui quali sembriamo ormai tutti d’accordo.

Il primo l’abbiamo già votato; il secondo non solleva difficoltà; e così è da ritenersi del terzo nella formula Grassi accettata dalla Commissione. Esauriamo prima questi tre punti.

Che cosa viene dopo? Vengono le questioni più grosse e più contese che riguardano altri punti: il primo concerne la facoltà all’autorità di polizia, o di pubblica sicurezza, di intervenire nei casi urgentissimi; il secondo riguarda i controlli sui mezzi di finanziamento e sulle fonti di notizie; infine, con l’emendamento proposto dagli onorevoli Montagnana Mario e Cavallari, vi è la disposizione sui mezzi di produzione. Questi punti sollevano vive controversie.

La Commissione aveva in maggioranza ritenuto che in casi di assoluta urgenza potesse ammettersi anche l’intervento della pubblica sicurezza. Nella mia relazione è detto che sarebbe desiderabilissimo che un magistrato, e più precisamente un funzionario del pubblico ministero, con una destinazione ed un’opera continua, potesse provvedere sempre a tempo, eliminando ogni altro intervento. Era il concetto di Ghidini e lo ho registrato. La maggioranza ritenne che bisognava mirare a tale assetto; ma ove non sia possibile l’azione tempestiva d’un magistrato, è meglio che intervenga la pubblica sicurezza, piuttosto che ricorrere a quel famoso articolo 19 della legge di pubblica sicurezza che autorizza, nei casi di necessità, a stracciare la legge. Questo era il concetto della Commissione. Risorta ora dopo qualche tempo la questione, in sede d’Assemblea, io personalmente dichiaro – e il Comitato di redazione stamane nel suo riesame sembrava assentire – che, al punto in cui siamo, di fronte alle manifestazioni della stampa ed alle orientazioni della pubblica opinione, si possa arrivare a togliere il quarto comma stabilendo che deve essere sempre l’autorità giudiziaria a procedere al sequestro, con quegli affidamenti di rapidità a cui si era fin da principio accennato. Si sono però ora presentati o si presenteranno emendamenti degli onorevoli Bulloni, Laconi ed altri che tornano ad ammettere eccezionalmente il sequestro da parte della pubblica sicurezza.

Restano inoltre i dissensi sul controllo dei mezzi di informazione e dei mezzi di finanziamento; e, con l’ultima aggiunta, dei mezzi di produzione e della tipografia.

Giacché alcuni emendamenti sono stati proposti all’ultima ora, e la Commissione sarebbe altrimenti costretta a chiedere la sospensione per 24 ore, come il regolamento le dà diritto, per poterli esaminare, pregherei di consentire una sospensione di 10 minuti, in modo che si possa, con l’intervento dei presentatori e dei rappresentanti delle varie tendenze, vedere se è possibile arrivare ad accordi, e comunque precisare le linee di contrasto con vantaggio delle future votazioni.

PRESIDENTE. Resta inteso che se, nel tentativo lodevole che farà la Commissione di trovare un accordo, questo non fosse malauguratamente raggiunto, l’emendamento proposto dagli onorevoli Cavallari e Montagnana Mario sarà posto nel corpo dell’articolo in votazione trovandogli poi il suo posto naturale.

CAPPA. Chiedo di parlare.

PRESIDENTE. Ne ha facoltà.

CAPPA. Mi sembra che potremmo adesso limitarci ad approvare il secondo comma, perché il terzo e il quarto comma possono essere modificati a seguito delle trattative per raggiungere una intesa.

RUINI, Presidente della Commissione per la Costituzione. È inutile complicare le cose; siamo già d’accordo sulla formula Grassi.

CAPPA. Ci sono delle varianti al terzo e quarto comma; c’è l’emendamento Perassi che contempla proprio il terzo e quarto comma, e il mio lo stesso. Quindi potremo votarli insieme.

PRESIDENTE. Onorevole Cappa, l’emendamento Perassi era già noto alla Commissione, la quale conosceva già anche gli altri emendamenti, e tuttavia è giunta alla conclusione di non poter accedere alla proposta Perassi. Pertanto mi pare difficile – anche se adesso si rinvia – che la Commissione possa tornare su questa sua decisione che è stata lungamente ponderata.

Passiamo, quindi, al secondo comma dell’articolo 16:

«La stampa non può essere sottoposta ad autorizzazioni o censure».

Nessuno chiedendo di parlare, lo pongo ai voti.

(È approvato).

Il terzo comma nel testo del progetto è così concepito:

«Si può procedere al sequestro soltanto per atto dell’autorità giudiziaria nei casi di reati e di violazioni di norme amministrative per i quali la legge sulla stampa dispone il sequestro».

Sul terzo comma vi è l’emendamento dell’onorevole Perassi, che è stato mantenuto, e resta l’emendamento Grassi-Mortati e altri, fatto proprio dalla Commissione, del seguente tenore:

«Si può procedere a sequestro soltanto per atto motivato dell’autorità giudiziaria nei casi di delitti, per i quali la legge sulla stampa espressamente lo consenta, e nei casi di violazione delle norme relative all’obbligo dell’indicazione dei responsabili».

TUPINI, Presidente della prima Sottocommissione. Con la sostituzione della parola: «reati» al posto di «delitti».

RUINI, Presidente della Commissione per la Costituzione. Chiedo di parlare.

PRESIDENTE. Ne ha facoltà.

RUINI, Presidente della Commissione per la Costituzione. Di fronte al desiderio che è stato manifestato – sebbene complichi la discussione – credo che si potrebbe rimandare la votazione del terzo comma, anche per la questione «reati»-«delitti», su cui vi è diversità d’opinioni, fermandoci per ora ai primi due commi.

PRESIDENTE. Se tutto questo può servire a concordare gli emendamenti, sta bene.

(La seduta, sospesa alle 17, è ripresa alle 17,35).

Relazione della Commissione degli Undici.

PRESIDENTE. Onorevoli colleghi, interrompiamo brevemente l’esame dell’articolo 16, poiché il presidente della Commissione, a suo tempo costituita su proposta dell’onorevole Natoli, mi ha comunicato che è pronto a fare la relazione sui risultati di uno degli incarichi che alla Commissione stessa erano stati affidati dall’Assemblea. Ritengo pertanto che si debbano ascoltare le sue dichiarazioni.

Ha facoltà di parlare l’onorevole Presidente della Commissione e Relatore.

RUBILLI, Presidente della Commissione e Relatore. Onorevole Presidente, onorevoli colleghi, premetto che la Commissione, nominata dal signor Presidente ha votato all’unanimità la presente relazione.

Nelle sedute del 14, 15 e 17 febbraio 1947 l’onorevole Finocchiaro Aprile formulò delle accuse contro alcuni onorevoli deputati, due dei quali, e cioè gli onorevoli Campilli e Vanoni, appartenenti al Governo.

Nella seduta successiva del 18 febbraio si passò da una interrogazione dell’onorevole Natoli a formali proposte dallo stesso così formulate:

«L’Assemblea Costituente invita l’Ufficio di Presidenza a richiedere a ogni deputato se fa parte di istituti finanziari, economici o imprese private.

«L’Assemblea Costituente invita l’Ufficio di Presidenza a richiedere al Presidente del Consiglio l’elenco dei deputati i quali coprano una carica retribuita e affidata dal Governo, presso enti parastatali, economici, finanziari, o in altri organismi che abbiano relazione con lo Stato, indicando anche l’ammontare della retribuzione o dell’indennità».

«L’Assemblea Costituente, udite le dichiarazioni del Presidente del Consiglio in risposta all’interrogazione Natoli, delibera di deferire al suo Presidente la nomina di una Commissione incaricata di esaminare gli elementi che saranno comunicati dal Governo e le dichiarazioni che i deputati faranno alla Presidenza dell’Assemblea.

«La Commissione riferirà altresì alla Presidenza le proposte circa eventuali casi di incompatibilità morale e politica e circa l’opportunità di stabilire nel regolamento della futura Camera, o nella legge elettorale, norme riguardanti il problema generale delle incompatibilità».

Le proposte furono accolte e approvate dall’Assemblea: il dì seguente il Presidente comunicò i nomi dei deputati da lui prescelti per la Commissione.

Questa si riunì il giorno 21 febbraio e si propose pregiudizialmente di esaminare l’indole e i limiti del compito ad essa affidato; considerò tra l’altro che non si trattava soltanto di proporre o stabilire i nuovi casi di incompatibilità, che hanno sempre un carattere esclusivamente giuridico, ma di scendere a una valutazione morale e politica che non poteva prescindere dalle accuse che nelle sedute precedenti erano state lanciate contro alcuni membri dell’Assemblea e avevano immediatamente determinato la proposta dell’onorevole Natoli. Quindi nessun serio giudizio poteva essere pronunciato, se non si fosse concessa alla Commissione un’ampia facoltà di indagini, atta a stabilire la sussistenza o meno degli addebiti e la valutazione della loro entità dal punto di vista morale e politico. In tali sensi fu formulato ad unanimità il seguente ordine del giorno consegnato poi al Presidente dell’Assemblea:

«La Commissione, nominata dal Presidente dell’Assemblea Costituente nella seduta del 19 febbraio 1947, in seguito all’approvazione della proposta Natoli;

considerato che la proposta stessa assegna alla Commissione tre ordini d’indagini:

1°) esaminare gli elementi che saranno comunicati dal Governo e dalla Presidenza dell’Assemblea, concernenti i deputati i quali «coprano una carica retribuita e affidata dal Governo presso enti parastatali, economici, finanziari o in altri organismi che abbiano relazione con lo Stato»; ovvero facciano parte «di istituti finanziari, economici o imprese private»;

2°) riferire alla Presidenza dell’Assemblea le «proposte circa eventuali casi di incompatibilità morale e politica»;

3°) riferire circa «l’opportunità di stabilire nel regolamento della futura Camera o nella legge elettorale norme riguardanti il problema generale delle incompatibilità»;

ha espresso all’unanimità l’avviso che, mentre per formulare le proposte di legge sulle future incompatibilità, potranno essere sufficienti gli elementi che il Governo e la Presidenza dell’Assemblea si sono impegnati di fornire alla Commissione, per adempiere al compito, assai più delicato e che più vivamente interessa l’opinione pubblica, previsto dal n. 2, è necessario che la Commissione disponga dei poteri per indagare sulla fondatezza delle accuse, lesive dell’onorabilità, formulate contro deputati nella pubblica discussione dell’Assemblea».

L’Assemblea Costituente, nella seduta del 6 marzo 1947, approvò all’unanimità il seguente ordine del giorno:

«L’Assemblea, udite le dichiarazioni del Presidente della Commissione degli Undici e quelle del Presidente del Consiglio, accoglie la richiesta della Commissione e passa all’ordine del giorno».

Apparve chiaro, dopo quanto si è ricordato innanzi, che la Commissione doveva esclusivamente occuparsi degli addebiti che erano stati formulati nelle sedute dell’Assemblea.

Quindi si cominciò con l’esaminare l’onorevole Finocchiaro Aprile, il quale, nella riunione del 12 marzo, precisando e, in qualche punto, ampliando ciò che aveva detto all’Assemblea, riferì, nei rapporti del Ministro Campilli, che questi era giunto rapidamente con un’attività affaristica a una elevatissima posizione finanziaria formatasi senza ostacoli e successivamente aumentata fino al punto da non potersi riportare a mezzi sempre leciti.

E aggiunse che la cennata attività avrebbe dovuto consigliare l’onorevole De Gasperi a non richiedere la collaborazione al Governo dell’onorevole Campilli, essendo tanto discussa da non poter dare al Paese alcuna garanzia di corretta amministrazione del pubblico denaro. Proseguì affermando che il fatto fondamentale da lui deplorato era quello relativo ai due provvedimenti del Ministero Campilli, cioè del deposito in contanti del 25 per cento del prezzo dei titoli negoziati in borsa per consegne differite e della denunzia dei riporti a fine mese e testualmente dichiarò:

«Tali provvedimenti non sarebbero stati censurabili per se stessi, poiché potevano esercitare, come già in passato, un effetto salutare ai fini del riequilibrio del mercato, spinto troppo in alto dalla speculazione e dalla progressiva svalutazione della lira.

«La questione tuttavia non è qui. Sanno tutti al Ministero del tesoro che al tempo di Bertone alcuni finanzieri, non certo disinteressati, avevano premuto su di lui, perché emettesse i suddetti provvedimenti, ma Bertone ebbe ad opporre un netto diniego, dopo conosciuto il parere del Direttore generale della Banca d’Italia Menichella, il quale si era mostrato contrario per evitare il perturbamento del mercato in un momento difficile e delicato. Il Direttore generale Ventura o fu presente al colloquio Bertone-Menichella o ne fu informato.

«Succeduto Campilli a Bertone, gli stessi finanzieri dovettero tornare alla carica e il Ministro, ben più pratico del predecessore in affari di borsa, non poté non informare il Direttore generale Ventura delle sue idee al riguardo e dei suoi divisamenti che trovarono in questo ultimo un puntuale esecutore.

«Dei provvedimenti quei tali finanzieri dovettero essere informati e poterono così operare a piacer loro al ribasso, prima che i provvedimenti stessi fossero resi di pubblica ragione, realizzando cospicui guadagni.

«Soltanto dopo le proteste dei compratori di Milano, Campilli dovette avvertire il pericolo e finì col riversare la colpa sul Ventura, il quale si addossò con una lettera sorprendente la responsabilità dei provvedimenti: lettera alla quale nessuno prestò fiducia, non essendo mai avvenuto al Ministero del tesoro che un Direttore generale abbia preso iniziative del genere e di così gravi conseguenze. Così non persuasero alcuno le giustificazioni ad usum delphini addotte dal Campilli e ripetute incontrollatamente dal Capo del Governo.

«Sul terreno politico la responsabilità è dunque di Campilli, e io non ho che a ripetere che, se egli ordinò i provvedimenti, informandone i suoi amici, prima della pubblicazione, perché essi speculassero in borsa, compì opera disonesta, mentre egli è manifestamente un inetto, se i provvedimenti furono presi da altri a sua insaputa. In quest’ultimo caso egli avrebbe almeno avuto il dovere di destituire il Ventura e non di premiarlo.

«Comunque, si tratta di fatti di eccezionale gravità sui quali la Commissione, superando le difficoltà che saranno frapposte, dovrà nel pubblico interesse e per la pubblica moralità compiere una indagine a fondo».

Nella successiva riunione del 13 marzo l’onorevole Finocchiaro Aprile aggiunse:

«Dichiaro che desidero pregare la Commissione di assumere debite informazioni su di un’ingente importazione di zucchero ad una compagnia cubana, della quale fa parte il fratello dell’onorevole Campilli, allora Ministro del commercio estero».

Come si vede, l’onorevole Finocchiaro Aprile non offrì elementi di prova sulle accuse da lui formulate. La Commissione quindi avrebbe potuto anche senz’altro fare a meno di attendervi, ma pensò che instai modo non avrebbe compiuto il suo dovere, né avrebbe bene risposto ai fini per i quali era stata nominata, sia di fronte all’Assemblea, sia di fronte all’opinione pubblica. Le accuse erano state pronunziate e i fatti denunziati rimanevano senza spiegazioni e senza chiarimenti, con quel discredito che ne era inevitabile conseguenza e rappresentava un danno enorme non solo per la dignità di chi ne era fatto segno, ma anche per il pubblico interesse, trattandosi di uomini cui era affidato il Governo dello Stato.

E così volle assumersi l’obbligo di fare direttamente le più ampie indagini per esaminare con ogni sforzo e con ogni pazienza, se e fino a qual punto fosse possibile giungere a validi accertamenti e a serene valutazioni.

Premesse in breve e ricordate le più importanti circostanze di fatto, si rileva, per quanto riguarda la attuale consistenza del patrimonio dell’onorevole Campilli, che questi, all’uopo interpellato, dichiarò che, per quanto concerneva la sua condizione economica, poteva anche pregare la Commissione di fare tutte quante le indagini che ritenesse opportune, perché ciò che egli possiede deriva soltanto da lecita attività e da fortunate combinazioni svolte quasi esclusivamente nel campo fondiario edilizio; respinse fermamente che la sua fortuna derivasse in tutto o in parte da speculazioni borsistiche.

La Commissione, pur essendo assai discutibile che eventuali addebiti sulle origini della fortuna economica del Campilli rientrassero nei limiti della sua competenza, osserva che l’accusa formulata dall’onorevole Finocchiaro Aprile è così generica e priva di ogni concreto elemento, che non permette in alcun modo una qualsiasi seria indagine.

Del resto, egli ne fece cenno al solo scopo di rilevare che la scelta del Ministro del tesoro e delle finanze in persona dell’onorevole Campilli non era la migliore né la più adatta; ma anche un rilievo di tal genere non può evidentemente, per la sua natura, formare oggetto di esame da parte della Commissione.

Conviene passare perciò immediatamente a quello che lo stesso onorevole Finocchiaro Aprile definisce come il più grave addebito, sorretto, come si vedrà, da alcuni fatti la cui sussistenza materiale non può mettersi in dubbio, salvo ad esaminare se e quale responsabilità se ne possa far risalire all’onorevole Campilli.

I provvedimenti ai quali si riferisce l’onorevole Finocchiaro Aprile sono due: trattasi cioè di due telegrammi circolari, l’uno in data 11 febbraio 1947 e l’altro del 12 dello stesso mese.

Il primo telegramma è il seguente:

«4844-/131177 Riferimento telegramma 2 settembre 1946 n. 138334 pregasi comunicare urgenza ammontare depositi effettuati mese gennaio per acquisti termine titoli azionari».

E il secondo è così formulato:

«4955/131197 Decorrere giorno prossimo riporti ripristinasi obbligo denunzia mensile operazioni riporti borsistici titoli azionari da parte agenti cambio commissionari et banche. Pregasi darne comunicazione interessati et assicurazione scrivente».

Entrambi i telegrammi portano la firma del dottor Ventura, Direttore generale del Tesoro.

In proposito è bene rilevare che, effettivamente, nel periodo del Ministero Bertone, vi fu una ascesa lenta, ma continua, dei titoli azionari. Da varie parti, e con lettere e con segnalazioni dirette, si faceva osservare al Ministro che, allo scopo di indurre i risparmiatori a sottoscrivere in maggior misura al prestito, sarebbe stato opportuno adottare qualche provvedimento che frenasse l’ascesa dei titoli in borsa. Tra quelli che maggiormente facevano sollecitazioni in proposito, era il dottor Enrico Giammei, che è a capo di una delle più importanti Ditte commissionarie di borsa in Roma; egli scrisse al riguardo sia al Ministro Bertone, sia al Presidente del Consiglio dei Ministri, il quale mandò la sua lettera per competenza all’onorevole Bertone. Pare che vi sia stato anche qualche colloquio tra il Giammei e l’onorevole Bertone, che però respinse sempre decisamente, e dopo essersi consigliato con persone competentissime, qualsiasi richiesta di nuovi e più rigorosi provvedimenti, ed oppose fermo diniego ad ogni insistenza, non volendo turbare in alcun modo l’andamento delle Borse e non volendo prestarsi, come chiarisce anche il Direttore generale Ventura, a interventi a tendenza ribassista delle quotazioni.

Rimaneva così fermo soltanto l’obbligo del deposito in contanti del 25 per cento del prezzo dell’acquisto di titoli a termine, e cioè a consegna differita. Quest’obbligo fu abolito nel febbraio 1946, perché, come ha dichiarato l’onorevole Corbino, allora Ministro, la situazione del mercato azionario presentava i sintomi di una notevole depressione e il freno del 25 per cento alle operazioni a termine poteva costituire un notevole ostacolo al ristabilimento dei corsi normali. Lo stesso onorevole Corbino non aderì ad altre insistenze che ebbe per ripristinarlo, e preferì invece adottare provvedimenti di carattere fiscale. Quando però egli decise di dare le dimissioni, decise contemporaneamente di ripristinare l’obbligo del versamento del 25 per cento sulle operazioni a termine, proponendosi in tal modo d’impedire che la notizia delle dimissioni potesse dar luogo a un movimento speculativo non controllato. Ciò avvenne precisamente il 2 settembre 1946.

Giunse poi, dopo l’onorevole Bertone, al Ministero l’onorevole Campilli, ai primi di febbraio 1947.

Rinnovò il dottor Giammei al nuovo Ministro il suo puntò di vista relativo alla necessità di interventi in Borsa?

All’uopo il primo ha dichiarato che non aveva avuto occasione di parlare con l’onorevole Campilli da quando era Ministro delle finanze e del tesoro.

L’onorevole Campilli a sua volta ha precisato che conosceva il commissionario di borsa dottor Giammei, che aveva avuto parecchie volte occasione d’incontrarsi con lui, forse anche dopo la sua nomina a Ministro, ma escludeva che col Giammei egli avesse mai parlato di affari di borsa.

Intanto si ebbero il giorno 11 e il giorno 12 i due telegrammi sopra riportati. Quale ne fu la conseguenza? In quali limiti influirono sui movimenti di borsa? Secondo voci non facilmente controllabili, i due telegrammi ebbero una non lieve né momentanea ripercussione sulle quotazioni delle borse e dei dopoborsa, ma può darsi pure che si esageri. Certo la Commissione non ha avuto modo di fare troppo estese indagini al riguardo su tutte le Borse, ma non si è limitata neppure a interpellare soltanto il Direttore generale Ventura e l’ispettore generale sulle Borse Marzano; ha sentito anche l’onorevole Corbino, il commendatore Zeitun, Presidente del Comitato degli agenti di cambio presso la Borsa di Roma, e l’onorevole avvocato Stefano Siglienti, il quale dà affidamento per le sue qualità personali e anche per la sua competenza, come Presidente dell’Associazione bancaria italiana. Vi è all’uopo in atti anche un suo dettagliato e lungo rapporto diretto al Ministro. Costoro sono stati concordi nell’affermare che, come ad essi constava, sia a Roma, sia a Milano, vi era stata soltanto una lieve flessione dei titoli azionari nel dopoborsa e nella mattina seguente. Poi la Borsa riprese il suo andamento normale.

Del resto tale indagine, se utile e forse anche indispensabile, non è per se stessa decisiva. Può anche verificarsi in linea d’ipotesi che si adotti un qualsiasi provvedimento sulle Borse e se ne dia intanto notizia anticipata a qualche amico, perché profitti delle inevitabili conseguenze che ne derivano; ma che poi, per quelle manovre e contromanovre che rientrano negli imperscrutabili misteri delle speculazioni borsistiche, i previsti effetti non si verifichino o non risultino di alcuna notevole entità. Se ciò per caso avvenisse, ad onta della mancanza o quasi mancanza del danno, non sarebbe né eliminata né attenuata la gravissima scorrettezza commessa da chi dette l’anticipata notizia.

Comunque, per stabilire i fatti in esame integralmente nella loro verità e farne poi una completa ed esatta valutazione, non può omettersi che le informazioni raccolte non autorizzano a ritenere che vi sia stata una grave o protratta ripercussione sulla Borsa a seguito dei due telegrammi in data 11 e 12 febbraio; tuttavia, anche se limitata, l’avvenuta ed improvvisa flessione non sfuggì all’attenzione e alla critica della stampa che la commentò in vario senso, e fu rilevata persino dal Ministro Morandi, che ne chiese spiegazioni all’onorevole Campilli.

Il quesito più importante è però un altro, poiché si tratta di esaminare se e quale parte, direttamente o anche indirettamente, il Ministro Campilli abbia avuta nella trasmissione dei cennati telegrammi e se ne sia stato o pur no a conoscenza.

Egli dichiarò all’Assemblea, ed ha ripetuto anche alla Commissione, cui presentò un memoriale con un fascicolo di dichiarazioni allegate, che i due telegrammi erano da lui completamente ignorati; ne ebbe notizia soltanto il 14 febbraio mentre si trovava al Ministero degli affari esteri, ove il Ministro Morandi, come or ora si è detto, richiamò la sua attenzione sulle notizie che giungevano da Milano in ordine a oscillazioni di Borsa; fece telefonare immediatamente al Ministero del tesoro dal commendator Antonucci, che era con lui, e solo così seppe dei telegrammi che erano stati spediti nei giorni precedenti. A sua volta l’onorevole Finocchiaro Aprile, nelle sue accuse, non sa dare alcun elemento preciso e concreto al riguardo. Si è stimato opportuno riferire innanzi completamente e testualmente le sue accuse, perché potessero meglio da chiunque valutarsi, tanto più che non vi può essere alcun equivoco, anche di forma, in proposito, essendo state le accuse medesime presentate per iscritto alla Commissione e quindi ben valutate e ponderate.

Ora da queste accuse appare che l’onorevole Finocchiaro Aprile non riferisce circostanze che personalmente gli constino o che siano comunque di sua scienza diretta. Prospetta soltanto delle induzioni, delle possibilità, sulle quali peraltro non offre alcuna prova. E poi non si sente neppure in grado di esprimere un convincimento sicuro e preciso; fa una doppia ipotesi: o l’onorevole Campilli, egli dice, sapeva dei telegrammi, informandone i suoi amici, e in tal modo fece opera disonesta; o li ignorava, perché furono opera di altri, e in questo caso ha dato prova d’inettitudine.

Mal si comprende poi perché mai il Ministro, volendo adottare provvedimenti borsistici, sia pure anche col proposito di favorire i suoi amici, dovesse nascondersi dietro i propri funzionari e affidarsi così all’opera di altri, in difformità di quanto si era sempre prima praticato, mentre avrebbe dovuto ben comprendere che un nuovo metodo senza precedenti poteva complicare le cose e dar luogo a più facili sospetti.

Lo stesso onorevole Finocchiaro Aprile disse, ripetendolo poi dinanzi alla Commissione, che i provvedimenti per se stessi non erano censurabili, poiché potevano esercitare, come già in passato, un effetto salutare ai fini del riequilibrio del mercato, spinto troppo in alto dalla speculazione e dalla progressiva svalutazione della lira. Quindi il Ministro ben poteva, senza sottrarsi a censure ed a sospetti, provvedere come credeva nell’ambito della sua esclusiva competenza e nessuno poteva trovar da ridire; una propalazione anticipata soltanto avrebbe costituito una grave e deplorevole scorrettezza, per il fine di profittare o di far profittare altri delle costanti oscillazioni che ogni provvedimento produce sulla Borsa; e ciò avrebbe potuto verificarsi egualmente sia che il Ministro firmasse i telegrammi, sia che li facesse firmare da funzionari.

A prescindere dalle esposte osservazioni, non sono acquisiti elementi che facciano dubitare della sincerità di quella sorpresa manifestata dall’onorevole Campilli, quando al Ministero degli affari esteri l’onorevole Morandi gli dette le prime notizie dei telegrammi e della relativa ripercussione in Borsa, come non può negarsi la conversazione telefonica, non fatta neppure da lui direttamente, ma ordinata senza por tempo in mezzo al commendator Antonucci, per caso presente. Nel pomeriggio, poi, l’onorevole Campilli va al Ministero e chiede spiegazioni al Direttore generale Ventura in presenza del suo Capo di gabinetto e dell’Ispettore Petitto.

Non deve poi dimenticarsi che il Direttore generale, l’ispettore Marzano e gli Uffici dipendenti, sin dal principio e con dichiarazioni persistenti, sempre mantenute, si assumono intera ed esclusiva la responsabilità dei due telegrammi, pur non potendo ignorare che trattasi di fatti di non poco conto e di non tenue gravità, come si dirà meglio di qui a poco.

In conclusione, le indagini che sono state fatte con la maggiore diligenza e scrupolosità possibile, ed i risultati ottenuti inducono a ritenere che non è sorto alcun elemento per ammettere che le affermazioni del Ministro Campilli in sua difesa non sieno rispondenti a verità.

Resta da esaminare come e da chi i due telegrammi in data 11 e 12 febbraio furono ideati e spediti: qui il fatto si complica e appare veramente strano e incomprensibile.

Non è il caso di cavillare e sofisticare, fermandosi su di una nuda parola, per stabilire se quei provvedimenti fossero o meno di esclusiva competenza del Ministro. È vero che a proposito di provvedimenti borsistici tanto la legge 19 febbraio 1931, n. 950, quanto quella del 4 dicembre 1939, n. 1913, dicono «il Ministero» e non indicano tassativamente «il Ministro». Ma è scritto assai di frequente in disposizioni legislative «Ministero» anziché «Ministro». Peraltro il capo del Ministero è sempre il Ministro. Occorre unicamente esaminare l’indole, la natura, la portata di un provvedimento, per stabilire se sia di pertinenza del Ministro o possa anche rientrare nell’attività e nei poteri delle Direzioni generali. Chi non vede che i criteri direttivi per la disciplina delle Borse sono di tale importanza che rappresentano tutto un orientamento politico e personale del Ministro in materia tanto delicata? D’altra parte, come è stato riconosciuto e dichiarato anche dall’onorevole Bertone, dall’onorevole Corbino, dall’onorevole Campilli e dallo stesso Direttore generale Ventura, non vi è un solo esempio, un solo caso fra i precedenti in cui provvedimenti di tal genere non sieno stati adottati esclusivamente dal Ministro. Ciò è confermato altresì dai documenti che la Commissione ha chiesti e ottenuti dal Ministro del tesoro.

Ma vi è di più. Come si è sopra riferito, l’onorevole Bertone, per quante insistenze avesse avute, si rifiutò sempre di adottare provvedimenti di maggiori vincoli sulle operazioni borsistiche. E tale indirizzo fu anche ribadito in una discussione che all’uopo ebbe luogo tra l’onorevole Bertone, il dottore Menichella e l’onorevole Einaudi, con la presenza del Direttore generale Ventura, di cui esiste in atti un lungo rapporto diretto proprio al Ministro Bertone, concludente sempre sulla inopportunità di qualsiasi ulteriore vincolo.

Succede all’onorevole Bertone il Ministro Campilli, e non appare affatto che sia mutata la politica sulle Borse. Da un rapporto del Ragioniere generale si desume che il Ministro Campilli, preso possesso del suo ufficio solo ai primi di febbraio, aveva detto al Ventura che, a proposito delle Borse, occorreva essere molto cauti prima di disturbarle, trattandosi di organismi molto sensibili che nel momento attuale hanno da assorbire o far assorbire ingenti somme di titoli azionari di nuova emissione. E il Ventura conferma quanto scrive il Ragioniere generale e con lui riconosce che nell’accennata conversazione col Ministro Campilli si parlò soltanto dell’importo dei depositi in contanti in ragione del 25 per cento per i contratti a termine, come dal provvedimento in data 2 settembre 1946 emanato dal Ministro Corbino.

Intanto l’ispettore generale del Tesoro dottor Marzano dichiarò alla Commissione che nel febbraio di quest’anno si stabilì di adottare e seguire per le Borse criteri più rigorosi.

Ma chi, come e quando stabilì tali criteri? Nulla si è potuto accertare in proposito. L’Ufficio, senza ordini superiori, prepara i telegrammi (e non si è potuto neppure precisare quale funzionario li abbia materialmente scritti); son portati al Direttore generale, che esita un momento, e poi firma, pur sapendo che il Ministro ignorava, e si riserva di informarlo dopo. Ma neppur dopo si pensò al Ministro, che solo il 14 e a mezzo dell’onorevole Morandi ne ebbe notizia.

Che procedimento amministrativo è mai questo? Anche la forma di quei telegrammi non si spiega in alcun modo. Ordini che si potevano dare contemporaneamente e con un solo telegramma, e come di consueto a borsa chiusa, anziché a metà settimana, ed in prossimità del giorno per la determinazione dei prezzi di compenso, si danno invece con due telegrammi a distanza di ventiquattro ore e col secondo si ripristina un obbligo che non era destinato certamente a raccogliere le simpatie degli operatori di borsa ed era stato abolito dal Ministro Soleri sin dal febbraio del 1945.

Non basta: allorché il Ministro Corbino il 2 settembre 1946 ristabilì il versamento del 25 per cento sulle operazioni a termine, gli si chiese se volesse ristabilire anche la norma sul controllo dei riporti di fine mese, che forma oggetto del secondo telegramma sopra indicato del 12 febbraio 1947; ed egli rispose che per il momento non gli pareva necessario e che eventualmente si poteva riesaminare la cosa, tenendosi conto del movimento del mercato.

Ora chi non vede che il ripristino di un obbligo di già abolito e poi contrastato e negato da precedenti Ministri non rappresenta un semplice richiamo di disposizioni vigenti o soltanto di istruzioni impartite dalla Direzione del Tesoro?

E come mai si poté ritenere giunto il momento del ripristino di una norma di non lieve importanza, senza interpellare e informare in alcun modo il Ministro? Certo, tanto l’onorevole Bertone quanto l’onorevole Corbino hanno detto che il Direttore generale Ventura è un galantuomo e non potrebbero in alcun modo mettere in dubbio la sua rettitudine.

Ma quei telegrammi che si succedono quasi immediatamente a pochi giorni dall’arrivo di un nuovo Ministro, sì da far prevedere un mutamento di indirizzo politico sulle Borse, potevano anche produrre un movimento e una scossa assai più violenti di quanto per fortuna ebbe a verificarsi.

Insomma, ciò che avvenne per i menzionati telegrammi al Ministero del tesoro è così anormale, che non poteva non produrre in chicchessia una grande impressione e potette certamente e a buon diritto impressionare anche l’onorevole Finocchiaro Aprile.

La Commissione non può occuparsi che di quanto riguarda il Ministro; ogni altra indagine spetta al Governo.

Ma perché non manchi qualche considerazione di utilità pratica, non si vuol fare a meno di esprimere il bisogno di un maggiore e più oculato controllo sull’andamento delle pubbliche Amministrazioni.

Nel caso in esame si è cercato di approfondire le indagini per sapere se qualcuno avesse potuto influire sui funzionari del Ministero. Il Giammei ha dichiarato che egli ai tempi del Ministero Bertone nelle sue richieste era sospinto da un interesse pubblico e non da fini privati; ha persino aggiunto che non conosce affatto né il Direttore generale Ventura, né l’ispettore generale Marzano. Di altri nomi non vi è traccia di sorta, e semmai si potrebbe solo entrare nel campo dei sospetti, mentre la Commissione non può che rimaner ferma sul terreno della realtà e delle indagini concrete.

Certo è che troppe voci corrono, e tutt’altro che favorevoli, specialmente per quei Ministeri dai quali dipendono concessioni più o meno importanti. Può darsi pure che sieno voci esagerate, forse anche in gran parte infondate, perché chi non ottiene accoglie troppo facilmente il sospetto che altri, ottenendo, abbia dovuto ricorrere a mezzi tutt’altro che leciti. Ma d’altra parte non si può negare che è assai difficile il controllo su queste voci. Si parla anche troppo per le piazze, per i ritrovi e forse anche nelle redazioni dei giornali, ma quando si è chiamati da organi autorevoli e responsabili, ostinatamente si nega o si sbiadisce ciò che si è detto, fino a distruggerlo. Coloro che veramente sanno, sono poi vincolati al silenzio, perché corruttori e corrotti sono egualmente colpevoli. Forse non vi sono che due mezzi in certo modo efficaci. Prima di ogni altra cosa bisogna vietare rigorosamente che vadano girando per i Ministeri faccendieri o persone non guidate da propri e legittimi interessi, o anche coloro che, privi di ogni carica pubblica, non hanno altra qualità che quella di essere più o meno in vista nei partiti; non può fare buona impressione al pubblico tutta quella gente che ha sempre l’aria di vantare amicizie cospicue e di offrire protezioni non sempre disinteressate. In secondo luogo, specialmente ora, è indispensabile che Ministri e Sottosegretari, con la più oculata e personale vigilanza, seguano le pratiche più importanti e specialmente quelle di notevole entità economica.

Non possono oggi i Governi e i governanti esimersi dall’obbligo di dare il sicuro convincimento che i sistemi di un tempo tutt’altro che lieto sieno completamente banditi dalle Amministrazioni della Repubblica italiana.

Per quanto riguarda l’addebito d’inettitudine, fatto al Ministro Campilli, che in ogni caso, come sostiene l’onorevole Finocchiaro Aprile, avrebbe dovuto punire severamente il Direttore generale Ventura, anziché premiarlo, va osservato che non è risultato affatto dalle indagini che al Ventura sia stato assegnato o promesso alcun premio.

Sulla mancanza poi di severi provvedimenti, il Campilli, all’uopo interpellato dalla Commissione, si è giustificato dicendo che, quando nel pomeriggio del 14, dopo le informazioni assunte per telefono, si recò al Ministero, «fece le sue rimostranze al Direttore generale Ventura, ma rapidamente, perché nello stesso tempo fu chiamato all’Assemblea, dove si erano verificate le prime rivelazioni dell’onorevole Finocchiaro Aprile».

E aggiunse che aveva anche in animo, per il fatto dei telegrammi, di «adottare qualche provvedimento, dopo le successive e più insistenti rivelazioni dell’onorevole Finocchiaro Aprile»; era stato questo il suo primo divisamento, ma, consigliandosi all’uopo e nello stesso giorno anche col dottor Menichella e con l’onorevole Siglienti, questi lo dissuasero, dicendogli che non sarebbe stato opportuno in quel momento, poiché poteva anche apparire che egli volesse riversare su altri eventuali sue responsabilità; trovò giusto il suggerimento datogli e maggiormente lo seguì per sua delicatezza dopo che fu nominata la Commissione d’indagini.

Le spiegazioni date dall’onorevole Campilli non dispensano peraltro la Commissione dal dover notare che meglio il Ministro si sarebbe regolato, adottando provvedimenti immediati nei confronti di coloro che fossero risultati responsabili di quanto si era verificato.

Come è indicato sopra, l’onorevole Finocchiaro Aprile pregò anche la Commissione di assumere informazioni su di una ingente importazione di zucchero che si diceva consentita ad una compagnia cubana dall’onorevole Campilli, quando era Ministro al commercio estero.

E la Commissione non ha trascurato opportune indagini in proposito. Ma nulla è risultato in ordine a concessioni che si dicono fatte a compagnie o a società cubane.

L’onorevole Campilli chiarì che come Ministro del commercio estero ebbe domanda dalla società C.I.C.A., che è una società italiana e non cubana, per una importazione di ventimila tonnellate di materia zuccherina dal Perù. Dato l’ingente quantitativo, egli pose tre condizioni:

1°) che l’importazione fosse fatta nell’interesse non di una ditta ma di tutti gli industriali dolciari d’Italia e dei commercianti in materia dolciaria e di liquori; il che doveva risultare da impegni e dichiarazioni della Federazione nazionale rappresentante le categorie industriali e commerciali;

2°) che il Ministero dell’industria e commercio riconoscesse l’utilità dell’importazione ai fini dell’industria nazionale;

3°) che venisse dichiarato il nome dell’ente o della persona che metteva a disposizione la valuta estera necessaria per l’importazione.

La società richiedente portò dichiarazioni di adempimento della prima e della seconda condizione: rimaneva ancora da dare l’indicazione dell’ente che offriva la valuta; quando l’onorevole Campilli uscì dal Ministero del commercio estero non ebbe occasione di seguire ulteriormente la pratica. Furono sentiti anche i funzionari del Ministero che detta pratica avevano l’uno dopo l’altro istruita, e cioè il dottor Arturo Colombo, Direttore generale per le esportazioni al commercio estero e il dottor Giuseppe Ferretti, Ispettore generale presso lo stesso Ministero. Entrambi confermarono le dichiarazioni dell’onorevole Campilli e spiegarono pure che in seguito a qualche reclamo e a qualche articolo di giornale che criticava la concessione, la pratica fu per alcun tempo sospesa, ma, dopo una riunione tenuta dai Ministri Vanoni e Morandi e cioè quando l’onorevole Campilli era di già uscito dal Ministero del commercio estero, con l’intervento del dottor Ferretti e del dottor Santoro, Direttore generale dell’industria, il 22 febbraio, fu dato corso alla domanda. Per le indicate circostanze nulla è emerso di concreto che potesse inficiare la regolarità della pratica e della concessione.

Certo è che Cuba produce lo zucchero ma senza poterlo liberamente esportare, mentre il Perù ne produce in esigua quantità. Per ciò può darsi pure che dietro la ditta italiana con denominazione C.I.C.A., che pare avesse capitali molto limitati, sì da non poter fronteggiare una importazione di tale entità da costituire quasi un monopolio, si nascondessero altri o altre società, forse anche di origine cubana. Ma non è stato possibile alla Commissione, dati anche i limiti dei suoi poteri, accertare elementi precisi al riguardo, sebbene in materia di concessioni, specialmente se rilevanti, i sospetti non sieno sempre infondati. Gli organi governativi competenti e responsabili, con i mezzi di cui dispongono, possono ben rilevare tutta l’opportunità di approfondire le indagini in proposito.

Sugli incarichi in società o enti privati, l’onorevole Campilli ha assicurato ancora una volta che non ha avuto mai alcuna parte e alcun interesse nella Società dell’Acqua Marcia e nel Banco di Santo Spirito; che dalla società, di cui era amministratore, si era dimesso prima ancora di presentarsi come candidato alle elezioni politiche e che successivamente aveva vendute integralmente le sue partecipazioni nella società medesima, per avere piena e intera la sua libertà d’azione.

Nessun elemento per dubitare di tali dichiarazioni o per essere autorizzati a ritenere che possa trattarsi di dimissioni fittizie.

Nei rapporti del Ministro Vanoni l’onorevole Finocchiaro Aprile, nella riunione del 12 marzo, precisò così le sue accuse:

«Io effettivamente equivocai quando dissi la prima volta, parlando di lui, che aveva avuto come compenso, quale Commissario della Banca Nazionale dell’Agricoltura, lire 4.000.000. Ne aveva avuto, come poi rettificai, 2.800.000. Vanoni non smentì ciò.

«Ma furono questi soltanto i suoi emolumenti? Non ebbe egli dalla Sezione ammassi della stessa Banca il secondo compenso di lire 2.400.000 che fa ascendere il suo guadagno a lire 5.200.000 per appena undici mesi di gestione, come può la Commissione di inchiesta controllare all’ispettorato del credito?

«E, avendo Vanoni confessato pubblicamente di aver versato al Partito democratico cristiano una parte delle prime lire 2.800.000, non ha fatto lo stesso per le seconde lire 2.400.000? E quale fondamento hanno le voci insistenti di altri emolumenti percepiti per trattative di altri affari?

«Ora a me sembra necessario e urgente che la Commissione faccia diligenti indagini sulla gestione Vanoni per la Banca Nazionale dell’Agricoltura, gestione che appare per tanti aspetti inficiata da irregolarità e da scorrettezze. Mi dicono, ad esempio, che egli, contro il parere dell’apposita Commissione della Banca, avrebbe ammesso allo sconto cambiali per oltre un centinaio di milioni di lire, non poche delle quali cambiali sarebbero cadute in sofferenza».

La Commissione esaminò l’avvocato Jurgens, Presidente della Banca Nazionale dell’Agricoltura, il quale si dichiarò in grado di dare i più precisi chiarimenti e anche più di qualsiasi altro funzionario.

Egli affermò che durante la gestione Vanoni numerose cambiali furono ammesse allo sconto per una somma complessiva anche superiore ai cento milioni di lire; ma nessuna delle dette cambiali è andata in sofferenza. Fu ammessa tra l’altro allo sconto una partita di 40 milioni; su questa ammissione sorse divergenza di parere tra i funzionari della Banca e vari furono i commenti che si fecero al riguardo dopo che il Vanoni lasciò la carica di Commissario. Ciò ebbe a verificarsi perché alle prime scadenze il debitore non aveva mantenuto puntualmente i suoi impegni. Ma, dopo, l’intera somma è stata riscossa dalla Banca anche con notevoli vantaggi.

Resta così a vedere quale compenso abbia effettivamente riscosso l’onorevole Vanoni.

Egli fu nominato Commissario della Banca Nazionale dell’Agricoltura dalle Autorità alleate e successivamente confermato nella carica dal Governo italiano, poiché il Consiglio di Amministrazione di detta Banca si era dimesso nel luglio 1944 immediatamente dopo la liberazione di Roma, in previsione di un eventuale scioglimento, dato che i suoi componenti erano troppo legati al regime fascista.

Rimase in carica per sedici mesi.

Prima di allontanarsi dalla Banca, fece la sua relazione all’Assemblea dei soci il 28 novembre 1945. L’Assemblea medesima affidò al Consiglio di Amministrazione il mandato di liquidare le indennità spettanti al Vanoni e il Consiglio assegnò la stessa somma che, come percentuale sugli utili, avrebbe riscosso l’amministratore delegato, se fosse stato in carica.

Rimase altresì accertato a mezzo dell’avvocato Jurgens che, all’infuori di questa percentuale che complessivamente ascende a lire 2.761.000, l’onorevole Vanoni non ha percepito altro sotto alcuna forma e sotto alcun titolo. Nella somma medesima è compreso quanto si riferisce alla Sezione ammassi.

Furono invitati dinanzi alla Commissione anche il dottor Paolo Ambrogio, addetto al servizio vigilanza presso la Banca d’Italia e il dottor Alfredo De Liguoro, Ispettore generale del Tesoro, per avere anche da essi maggiori chiarimenti. Il primo disse che il servizio finanziamento ammassi rappresenta una normale operazione d’impiego della Banca, che rientra nel complesso dei servizi e per il quale nessun compenso speciale può spettare a funzionari o commissari o amministratori. E il secondo, come del resto è noto, poté soltanto affermare che il compenso a un commissario di Banca è determinato da vari coefficienti che si desumono dalla entità finanziaria della Banca, dalla qualità della persona, dalla durata dell’incarico, dai poteri conferiti e dal lavoro espletato, nonché dalle varie circostanze e modalità con cui è compiuto il lavoro.

Senonché l’onorevole Finocchiaro Aprile aveva una lettera a lui diretta, in data 26 febbraio scorso, dal dottor Giuseppe Giunta, domiciliato in Milano, Corso d’Italia 6, con la quale si affermava che l’onorevole Vanoni non ebbe soltanto a titolo di compenso dalla Banca Nazionale dell’agricoltura per la sua opera di commissario lire 2.800.000; ma percepì ancora lire 2.400.000 per la Sezione ammassi. Si ritenne così utile interpellare il dottor Giunta, per sapere se potesse confermare quanto aveva scritto all’onorevole Finocchiaro Aprile e quali elementi fosse in grado di fornire a sostegno delle sue asserzioni.

Se ne affidò quindi l’incarico al commissario di pubblica sicurezza dottor Calogero Marrocco, che si recò a Milano, dove non poté rintracciare il Giunta, che si era recato a Firenze presso la madre inferma. Ebbe però con lui una conversazione telefonica dalla Questura di Milano e apprese che le notizie comunicate all’onorevole Finocchiaro Aprile gli erano state riferite dall’avvocato Albasini Vittorio e che egli non era affatto in condizione di dare maggiori chiarimenti di quelli che con la sua lettera aveva segnalati. Fu allora interrogato l’avvocato Albasini, il quale confermò di avere fornito al Giunta le notizie in questione e aggiunse di non poter dare altre delucidazioni in proposito in quanto le notizie stesse egli le aveva apprese dal professore Libero Lenti. (Commenti).

Il Commissario Marrocco voleva interrogare anche il professor Lenti, il quale rappresentava la fonte originaria della circostanza degli emolumenti che si dicevano percepiti dall’onorevole Vanoni per la Sezione ammassi della Banca, ma seppe che egli era partito per Roma per suoi affari professionali, e si ignorava dove avesse preso alloggio.

Fatte a Roma le debite ricerche, si rintracciò il professor Lenti all’albergo Minerva; quindi, regolarmente invitato, fu sentito dalla Commissione. E il professor Lenti chiarì che nulla gli constava di sua scienza (Si ride) e che si trattava di un episodio insignificante, di una chiacchiera per la strada. (Commenti). Non conosceva il dottor Giunta ma solo l’avvocato Albasini Vittorio, che incontrò un giorno a Milano, mentre si pubblicavano sui giornali con cifre varie le propalazioni fatte all’Assemblea Costituente sulle somme che avrebbe riscosso l’onorevole Vanoni quale Commissario della Banca nazionale dell’agricoltura. L’Albasini disse: «Vedi che avviene? Vi sono troppi appetiti. Si prendono per compensi somme esorbitanti. Si parla per Vanoni di lire 2.800.000». Al che il Lenti soggiunse: «Ma forse anche di più». E ha dichiarato che ciò disse sol perché i giornali parlavano di somme varie e in qualcuno di essi era riportata una somma anche maggiore di quella sopra indicata.

Dai risultati delle indagini adunque si può desumere che egli riscosse solo la somma di lire 2.800.000 o meglio di lire 2.761.000, come con maggiore precisione ha indicato il Presidente della Banca avvocato Jurgens e come del resto ha sempre detto e ammesso l’onorevole Vanoni sia dinanzi all’Assemblea Costituente, sia dinanzi alla Commissione.

Che si può dire al riguardo?

Possono farsi due osservazioni soltanto. È vero che il compenso fu liquidato all’onorevole Vanoni dal Consiglio di amministrazione della Banca all’uopo delegato dall’Assemblea dei soci e nella misura delle percentuali che sarebbero state percepite dall’Amministratore delegato; ma non si può non rimanere assai sorpresi e impressionati da questi speciali sistemi bancari per cui si assegnano emolumenti assai fuori dell’ordinario e in misure veramente eccessive e assai sproporzionate ai guadagni di solito tratti dal proprio lavoro anche dai più elevati funzionari o da insigni professionisti; mentre occorrerebbe un maggiore e più scrupoloso rispetto per il danaro dei soci, azionisti e altri interessati nell’azienda bancaria. In secondo luogo va notato che altro è il compenso per un amministratore delegato altro è quello che può spettare, e di solito è assegnato a un Commissario governativo, cui la legge affida una speciale funzione di pubblico interesse. Difatti la Commissione ha accertato che in casi analoghi furono assegnati dal Ministro del tesoro compensi incomparabilmente inferiori: così per la Banca nazionale del lavoro e per il Banco di Roma.

Va anche notato che l’onorevole Vanoni riscosse soltanto una parte del compenso assegnatogli e l’altra, la parte maggiore, la fece ritirare da persona rimasta completamente ignota, per conto del suo partito. (Commenti).

Occorre però rilevare altresì che quanto si è riferito avveniva e si espletava in un tempo in cui l’onorevole Vanoni non era né Ministro né deputato.

Con le osservazioni e le conclusioni esposte la Commissione ritiene di aver compiuto interamente il suo dovere e di non essere venuta meno agli impegni che assunse dinanzi all’Assemblea Costituente, procedendo sempre con ogni diligenza e serenità. Non si può dire con sicura coscienza se sia riuscita ad accertare tutta quanta la verità, ad onta di ogni sforzo di fronte a non lievi difficoltà e anche talora a mal celate reticenze. Ma è apparso evidente e indispensabile che una oculata vigilanza e un efficace controllo elevino il prestigio delle Amministrazioni dello Stato, liberandole da ogni residuo del passato e rassicurando in pari tempo completamente la pubblica opinione. (Vivi applausi).

GRILLI. Chiedo di parlare.

PRESIDENTE. Ne ha facoltà.

GRILLI. Chiedo che questa relazione, che è indubbiamente ampia e importante, sia stampata e distribuita a tutti i Deputati. (Commenti – Approvazioni).

COSTANTINI. Chiedo di parlare.

PRESIDENTE. Ne ha facoltà.

COSTANTINI. Mi associo all’istanza formulata dall’onorevole Grilli. Mi sia consentito anche di rivolgere, in questa occasione, un ringraziamento ai membri della Commissione, per il lavoro diligente ed accurato da essi compiuto nell’interesse della dignità e del prestigio di questa Assemblea. (Applausi).

MANZINI. Chiedo di parlare.

PRESIDENTE. Ne ha facoltà.

MANZINI. Ho ascoltato con intimo compiacimento l’esposizione accurata e diligente della Commissione e mi rendo conto della complessità del lavoro e, soprattutto, del senso di responsabilità, che ha mosso la Commissione nel misurare, direi, e nel circoscrivere i propri giudizi; però non posso nascondere una penosa impressione. La mia impressione diverge, cioè, da quella dei colleghi che mi hanno preceduto, poiché intorno a persone che sono state colpite da una accusa esplicita, diretta e clamorosa, che ha avuto grandi ripercussioni nel Paese, ci si nasconde spesso nell’indeterminato in questa relazione, nella quale si trovano delle espressioni crepuscolari, delle reticenze sfumate. Perciò la mia impressione è alquanto penosa.

Prima di tutto la Commissione, ad un certo momento, per quanto riguarda l’onorevole Campilli, dice che è corsa voce che delle profonde ripercussioni sono avvenute in borsa; ma, continua: «può darsi che queste voci non siano esatte». Subito dopo, riconosce che alla borsa di Milano e di Roma le ripercussioni sono state pressoché nulle.

Ora, io ricordo esattamente che nelle dichiarazioni dell’onorevole De Gasperi sono state citate delle cifre accurate ed attinte alle fonti, dalle quali si desumeva che, nei tre giorni successivi ai telegrammi diramati dal Ministero, le ripercussioni in borsa erano state minori nei confronti della settimana immediatamente precedente. Ricordo, con esattezza assoluta, che il Presidente citava appunto come nei mesi precedenti le mutazioni erano state molto più ampie e profonde. Quindi, non ci si può nascondere dietro una parola così evanescente e dire che forse «non era vero». Io desidero avere delle cifre esatte al riguardo, e se ci sono state delle statistiche è necessario poterle conoscere. (Commenti).

FILIPPINI. Chiedo di parlare per mozione d’ordine.

PRESIDENTE. L’onorevole Manzini è entrato nel merito della questione; ma, per entrare nel merito occorre una deliberazione dell’Assemblea, ed è possibile che l’onorevole Filippini, che ha chiesto di presentare una mozione d’ordine, si pronunci appunto in questo senso. L’Assemblea discuterà la mozione d’ordine, e lei, onorevole Manzini, potrà esporre le sue ragioni in quella sede.

Ha facoltà di parlare l’onorevole Filippini.

FILIPPINI. Onorevole signor Presidente, ella mi ha preceduto, interpretando il mio pensiero: la relazione testé letta costituisce un documento morale e politico di notevole importanza e di particolare gravità.

Essa, starei per dire, non investe soltanto le persone degli interessati e le accuse specifiche che sono state a loro dirette, ma investe tutti i fenomeni più gravi di questa ripresa, di questa ricostituzione morale del nostro Paese, che riguarda gli individui, i partiti, il Governo e la società tutta. Ma, perché questo è, io penso, signor Presidente, che l’Assemblea non possa in questo momento procedere ad una discussione affrettata e dare senz’altro il proprio apprezzamento sulla relazione.

La mia mozione d’ordine, pertanto, consiste in ciò: di rivolgere preghiera al nostro signor Presidente affinché egli voglia stabilire, come meglio gradirà, il giorno e l’ora in cui l’Assemblea Costituente possa prendere atto della relazione che ci è stata testé letta e procedere, poi, ad esprimere il proprio giudizio.

MANZINI. Chiedo di parlare sulla mozione d’ordine.

PRESIDENTE. Ne ha facoltà.

MANZINI. Ritengo che la natura dell’argomento che ha portato all’interruzione della discissione sul progetto di Costituzione sia tale, per le sue ripercussioni delicatissime di carattere morale, psicologico e politico, che si debba immediatamente discutere.

LUCIFERO. Chiedo di parlare.

PRESIDENTE. Ne ha facoltà.

LUCIFERO. Onorevole Presidente, senza entrare menomamente nel merito della questione, perché – e mi associo a quanto è stato detto da altri – non mi sentirei di essere uomo responsabile, se affrontassi la discussione di un documento di tale mole, senza averlo studiato ed esaminato, io credo che la mozione d’ordine dell’onorevole Filippini sia senz’altro da accettare.

Qualunque discussione affrettata non potrebbe che nuocere al prestigio delle decisioni alle quali una simile discussione potrebbe eventualmente portare.

Bisogna che il Paese sappia che, quando esaminiamo cose di questa gravità, le esaminiamo dopo averle studiate e nel pieno possesso degli elementi, e quindi della nostra responsabilità. (Approvazioni).

ZERBI. Chiedo di parlare.

PRESIDENTE. Ne ha facoltà.

ZERBI. Mi associo a quanto ha detto precedentemente l’onorevole Manzini. Mi permetto di notare come dalla relazione della Commissione degli Undici non siano emersi sufficienti accertamenti… (Commenti).

Una voce. Questo è merito!

ZERBI. …in ordine al fatto principale, se cioè vi furono variazioni di borsa che potevano essere cagionate dai noti telegrammi. (Rumori – Commenti).

PRESIDENTE. Onorevole Zerbi, la prego di non entrare nel merito.

ZERBI. Ritengo che non possiamo, comunque, consapevolmente affrontare una serena e fondata discussione, se non avremo ulteriori accertamenti e dati di fatto, che la Commissione non ci ha esposto nella sua relazione.

Abbiamo i corsi di Borsa, e possiamo avere a disposizione anche i fissati bollati relativi. È necessaria un’ulteriore documentazione. (Commenti – Rumori).

PRESIDENTE. Prego vivamente di mantenere il silenzio.

ZERBI. Chiedo, quindi, che sia fatta una indagine sui prezzi di Borsa, e particolarmente su quelli della Borsa di Milano, affinché, questi dati siano portati a cognizione dell’Assemblea. (Commenti).

CRISPO. Chiedo di parlare.

PRESIDENTE. Ne ha facoltà.

CRISPO. Aderisco alla proposta dell’onorevole Filippini. Non mi pare che il caso abbia precedenti, né mi pare che trovi una norma nel Regolamento.

Comunque, mi sembra che si possa affermare questo concetto: che le conclusioni della Commissione di inchiesta non possano comunque vincolare il parere dell’Assemblea, e che l’Assemblea abbia innegabilmente il diritto di rivendicare a sé il giudizio intorno alle accuse che furono formulate. Onde, a me sembra che la proposta dell’onorevole Filippini debba essere anche allargata, nel senso che ciascuno di noi abbia il diritto di compulsare i documenti, di dare a questi documenti stessi il contributo del proprio esame e della propria valutazione, per potere, in questa Assemblea, quando l’onorevole Presidente avrà posto la questione all’ordine del giorno, dare consapevolmente giudizio sulle eventuali responsabilità.

PRESIDENTE. Poiché l’onorevole Crispo, nel desiderio di portare un contributo alla questione in esame, ha detto, che non vi sono precedenti del genere nel Parlamento italiano, voglio rendere noto – ed i vecchi parlamentari lo ricorderanno – che un precedente c’è, e lo richiamo brevemente per chiarire ai colleghi il problema che ci è dinanzi.

Il precedente si riferisce al noto caso Drago-Vacirca. In quella occasione, nel momento in cui la Commissione riferì alla Camera, al Parlamento, furono presentati quattro ordini del giorno, uno dei quali richiedeva la discussione, un altro la pubblicazione dei documenti e della relazione, un terzo la pubblicazione della relazione salva la discussione, ed il quarto affermava invece semplicemente di procedere alla pubblicazione e di non fare nessuna discussione. Io non dirò adesso, onorevoli colleghi, le motivazioni di questi vari ordini del giorno. Coloro i quali hanno interesse potranno trovarle nella collezione degli atti della Camera. In conclusione, fra i quattro ordini del giorno messi in votazione, risultò approvato a maggioranza, con appello nominale, l’ordine del giorno per il quale la relazione doveva essere pubblicata, ma la Camera riteneva che la discussione non dovesse farsi, poiché la Commissione aveva rappresentato nel suo complesso la Camera nell’esprimere un suo giudizio; ed un giudizio dato non poteva essere materia di un rinnovato giudizio.

Questo per richiamare i precedenti e perché si abbiano dinanzi a noi le decisioni prese, in tempo passato, dai nostri predecessori.

DE GASPERI, Presidente del Consiglio dei Ministri. Chiedo di parlare.

PRESIDENTE. Ne ha facoltà.

DE GASPERI, Presidente del Consiglio dei Ministri. Mi permetto di ricordare all’Assemblea che il Governo, allorché l’Assemblea approvò l’ordine del giorno della Commissione, fece le seguenti dichiarazioni: «Per quanto riguarda le accuse mosse dall’onorevole Finocchiaro Aprile ad alcuni suoi componenti, il Governo ha già accertato che nessun addebito può essere ad essi fatto, così come risulta dalle dichiarazioni qui pronunziate dal Presidente del Consiglio, le quali hanno raccolto la fiducia dell’Assemblea Costituente. Tuttavia, il Governo fa espressa e formale richiesta che, anche per gli addebiti mossi a Ministri, la Commissione inviti l’onorevole Finocchiaro Aprile a produrre gli elementi che egli considera come prove delle sue affermazioni, affinché si possa valutarne l’attendibilità e trarne un giudizio, che valga anche, nei confronti di chi ha lanciato l’accusa, come tutela della dignità e del decoro dell’Assemblea». (Approvazioni).

Non ho che da ripetere testualmente questa dichiarazione e convalidarne il senso. Dalla relazione, se bene ho compreso, non è risultato che l’onorevole Finocchiaro Aprile abbia portato alcuna prova che possa in qualche modo corroborare le sue generiche o particolari accuse contro Ministri. (Commenti).

Una voce. Questa è una discussione nel merito. (Commenti – Rumori).

PRESIDENTE. Ritengo che il Governo, in qualunque momento, possa dire di fronte all’Assemblea, piacente o non piacente, ciò che ritiene di dover dire. In secondo luogo rilevo che a me pare che sino a questo momento il Governo si attenga alla mozione d’ordine. Onorevole De Gasperi, prosegua.

DE GASPERI, Presidente del Consiglio dei Ministri. Desidero turbare il meno che sia possibile l’Assemblea e non intendo, comunque diminuire o intaccare i diritti dell’Assemblea stessa, anzi mi rimetto alla maggioranza di questa Assemblea. Però c’è un diritto anche del Governo, specialmente se membri del Governo sono stati attaccati e su di essi possano restare delle ombre: c’è un diritto e un dovere di difesa e di chiarimento, e questo atteggiamento devo prenderlo subito, poiché credo di avere il diritto di dedurre dalla relazione che nessuna prova è stata portata che aggravi la situazione dei due Ministri. (Applausi al centro).

Tuttavia aggiungo un particolare, che è necessario, per chiarire l’atteggiamento dell’onorevole Campilli. Nel Consiglio dei Ministri tenuto subito dopo quelle che la Commissione classifica come rivelazioni – e per le quali io avrei un altro nome – si discusse sull’opportunità, o meno di prendere disposizioni immediate contro il direttore responsabile della spedizione dei telegrammi circa le borse. I pareri furono diversi: vi furono quelli che erano talmente convinti e persuasi che il Ministro era fuori questione, che volevano che subito se ne desse la prova licenziando il direttore; ve ne furono altri invece – e furono la maggioranza – che per un debito riguardo di delicatezza verso l’Assemblea, verso la Commissione, verso la discussione che si doveva fare ed eventualmente le indagini che si dovevano provocare, ritennero che il Governo, come tale, amministrativamente, non prendesse nessuna disposizione. Se ciò è biasimevole, ripeto che è stato fatto per un riguardo verso l’Assemblea e per nessun’altra ragione.

La Commissione ha fatto una relazione in cui si esprimono, accanto alle conclusioni negative circa la fondatezza delle accuse, anche dei giudizi generici di carattere amministrativo e si fanno in proposito delle raccomandazioni. Ne prendo atto e mi riservo, insieme con i colleghi del Consiglio, di esaminarle più attentamente per vedere ciò che ne possiamo trarre ad integrazione della nostra attività e intensificazione della nostra vigilanza. Aggiungo solo che desidero – e mi riservo di sentire al riguardo anche il parere dei miei colleghi – che rapidamente si venga ad una conclusione, perché un Governo che deve agire in condizioni difficilissime anche nel settore delle borse, come si è fatto recentemente, non può stare sotto il sospetto di agire in questo settore per interessi che non siano quelli del Paese. (Applausi al centro).

Prego i colleghi di astrarre completamente dall’interesse politico del Governo che siede oggi su questi banchi. Tutti sanno le difficoltà della nostra situazione finanziaria, l’urgenza di provvedimenti, e tutti sanno che è più facile accusare con vaghe formule e lasciare delle ombre con le insinuazioni, che difendere con un contegno retto e con prove sicure; e si meraviglieranno che alla fine di questa relazione nulla sia stato fatto – e forse la Commissione se lo riserverà alla fine della sua inchiesta – per la tutela del decoro e della dignità dell’Assemblea nei confronti dell’accusatore. (Applausi al centro).

PRESIDENTE. Vi è la proposta formale della pubblicazione della relazione e della distribuzione di essa ai membri dell’Assemblea; e mi pare che questa proposta non coinvolga o pregiudichi nessun’altra decisione; rappresenterebbe, se mai, eventualmente proprio l’avvio a decisioni ulteriori che l’Assemblea prenderà nel momento in cui essa lo riterrà necessario.

Non credo di poter io stesso prestabilire una data per la discussione, perché in primo luogo occorrerà decidere se la discussione si debba fare ed essa resta subordinata sempre alla distribuzione della relazione, che io mi impegno di far eseguire nel modo più sollecito possibile.

Dovrei, quindi, porre in votazione la proposta dell’onorevole Grilli, di far pubblicare e distribuire la relazione.

RUBILLI, Presidente della Commissione. La Commissione dichiara di astenersi.

MANZINI. Chiedo di parlare.

PRESIDENTE. Ne ha facoltà.

MANZINI. Mi associo alla proposta della pubblicazione, ma credo che l’Assemblea desideri anche sapere che al più presto si addivenga a questa discussione.

PRESIDENTE. Sta bene. Chiunque può, in qualunque momento, farne la proposta: anche in questo momento l’Assemblea deciderà. Frattanto è stata formulata una sola proposta precisa: quella di procedere rapidamente alla pubblicazione e alla distribuzione della relazione.

FILIPPINI. Chiedo di parlare.

PRESIDENTE. Ne ha facoltà.

FILIPPINI. La proposta della discussione io l’ho già fatta: mi sono rivolto a lei, onorevole Presidente, perché stabilisse il giorno e l’ora. Se l’onorevole Presidente ritiene che prima debba decidere l’Assemblea, così si faccia; ma rimane ferma senz’altro la mia proposta perché si svolga la discussione.

TUPINI. Chiedo di parlare.

PRESIDENTE. Ne ha facoltà.

TUPINI. L’onorevole Presidente del Consiglio ha sollecitato che una discussione dell’Assemblea, in ordine alle conclusioni della Commissione degli Undici, avvenga quanto prima. Noi partecipiamo a questa esigenza interpretata e manifestata dal Presidente del Consiglio, ma devo ricordare all’Assemblea che proprio nella seduta di sabato essa sollecitò il Governo per essere nel più breve termine possibile messa in grado di discutere il programma finanziario, in relazione anche al decreto su cui aspettiamo la relazione dell’onorevole La Malfa. Penso che la discussione sulle conclusioni della Commissione degli Undici debba avvenire al più presto, e in ogni caso prima che si inizi la discussione sul programma finanziario del Governo. (Applausi al centro).

PRESIDENTE. Vi sono dunque due proposte: la proposta della pubblicazione della relazione e la proposta della fissazione di una data per la discussione.

COSTANTINI. Chiedo di parlare.

PRESIDENTE. Ne ha facoltà.

COSTANTINI. Mi sembra che, pur avendo tutta la buona volontà e riconoscendo la necessità di accelerare la discussione, possiamo fissarne la data soltanto dopo che sarà distribuita la relazione (Commenti); diversamente, onorevole Presidente, su che cosa discuteremo? Discuteremo sul nostro ricordo allora potremmo discutere anche subito, perché il ricordo è più recente.

CORBINO. Chiedo di parlare.

PRESIDENTE. Ne ha facoltà.

CORBINO. A mio giudizio vi è, come ha detto l’onorevole Presidente del Consiglio, una duplice necessità: per noi membri della Assemblea di studiare il documento per poterne, qualora l’Assemblea lo decida, discutere; per il Governo, di affrontare una questione che è forse ancora più importante della nostra, perché ciascuno di noi si deve rendere conto della fondatezza delle parole pronunziate dall’onorevole Presidente del Consiglio.

Di fronte a questa duplice necessità, aderendo alla proposta dell’onorevole Tupini che tale discussione debba in ogni caso precedere l’altra sulla situazione economica e finanziaria, io penso che, se la Presidenza giudica che nella giornata di domani si possano distribuire le copie già stampate, noi possiamo fissare per giovedì la data della discussione. Ne faccio, quindi, oggetto di una mia proposta subordinatamente alla questione della pubblicazione.

PRESIDENTE. Egregi colleghi, vi sono elementi di carattere materiale con i quali bisogna fare i conti: la relazione – ci è stato segnalato da un preciso registratore – ha occupato 65 minuti per la lettura: sono trenta pagine; per domani non è possibile distribuirla. Penso potrà essere distribuita mercoledì, e per giovedì, se i colleghi ritengono di poterla aver letta e ponderata per quel giorno, si potrà fissare la discussione.

DE GASPERI, Presidente del Consiglio dei Ministri. Chiedo di parlare.

PRESIDENTE. Ne ha facoltà.

DE GASPERI, Presidente del Consiglio dei Ministri. Prego che questa discussione sia stabilita per il pomeriggio di mercoledì. Tutti i colleghi sanno di che cosa si tratta. È della sostanza che basta decidere, e, su di essa, bisogna decidere subito. Sulle questioni particolari, la discussione potrà anche prolungarsi.

PRESIDENTE. Pongo in votazione la proposta di procedere subito alla stampa della relazione dell’onorevole Rubilli.

(È approvata).

Pongo ora in votazione la proposta di fissare per il pomeriggio di mercoledì la discussione.

PIEMONTE. Chiedo di parlare per dichiarazione di voto.

PRESIDENTE. Ne ha facoltà.

PIEMONTE. Dichiaro che voterò contro questa deliberazione, non già perché io non consideri l’interesse che abbiamo a far presto, ma perché mi pareva più giusta la proposta dell’onorevole Filippini che la Presidenza fosse in grado di giudicare il momento opportuno della discussione. (Commenti).

Io credo che il minimo necessario per noi, per esaminare l’importanza di questo documento, sia costituito da un periodo di ventiquattr’ore dopo la distribuzione.

PRESIDENTE. La Presidenza è venuta nella convinzione, dopo tutto quanto è stato osservato, che la giornata di mercoledì sia la più indicata per la discussione. Pongo ai voti la proposta che la discussione sulla relazione degli Undici sia svolta nella seduta di mercoledì.

(La proposta è approvata).

Resta, dunque, inteso che domani sera si procederà alla distribuzione del testo della relazione e nel pomeriggio di mercoledì sarà posta all’ordine del giorno la relativa discussione. Naturalmente la Commissione continua nei suoi lavori per l’altro mandato che ha ricevuto dall’Assemblea.

Si chiede ora da qualche collega di sospendere per dieci minuti la seduta. Rammento che stamane ho fatto presente l’opportunità che ci si predisponesse a proseguire nelle ore tarde di questa sera l’esame del progetto della Costituzione. Credo che si possano coordinare le due proposte in questo senso: sospendiamo la seduta per due ore e poi la riprendiamo. (Commenti).

Fo presente – e la seduta di oggi ne è un esempio – che i lavori dell’Assemblea non possono svolgersi secondo un programma preordinato, perché di momento in momento problemi nuovi si presentano e devono essere affrontati. Così nella giornata di oggi dovevamo condurre a termine l’esame degli articoli del primo Titolo della prima parte del progetto. Ci siamo trovati nella impossibilità di adempiere a questo compito che ci eravamo prefissati ed è per questo che ritengo necessario di proseguire questa sera i nostri lavori. Citerò un piccolo dato: sulla discussione generale del secondo Titolo gli iscritti a tutto stamane sono 73, e poiché ritengo che non possiamo pretendere che essi rinuncino alla parola, dobbiamo pensare di avere il tempo necessario anche per questo lavoro. Per questa ragione ritengo assolutamente necessaria la seduta di stasera. Potremo, se mai, venire nella determinazione di non tenere seduta domattina. (Commenti).

PIEMONTE. Chiedo di parlare.

PRESIDENTE. Ne ha facoltà.

PIEMONTE. Segnalo l’opportunità di tenere seduta domani sera, poiché molti deputati hanno viaggiato la notte scorsa e hanno quindi bisogno di riposo.

MICHELI. Chiedo di parlare.

PRESIDENTE. Ne ha facoltà.

MICHELI. Devo dichiarare il mio dissenso circa l’opportunità di tener seduta questa sera. Il signor Presidente poco fa ha parlato di coordinamento ed io parlo contro un coordinamento fatto in questo modo, perché mi pare che non riesca a coordinare nulla. Dopo le comunicazioni fatte ieri abbiamo bisogno di poterci affiatare con i nostri colleghi, e credo non solo noi, ma tutti quanti. Abbiamo bisogno di intenderci nei nostri Gruppi. Questo gioverà assai per una maggiore serenità domani o dopo nelle discussioni che si stanno preparando. Quindi io prego il signor Presidente di consentire che anche coloro che ieri hanno votato a favore della proposta per l’acceleramento delle discussioni oggi siano di diverso avviso, perché mi pare che siano eccessive tre sedute in un giorno. Domani, se del caso, potremo continuare per tutta la giornata. Stasera la cosa è imprevista, e molti di noi hanno altri impegni, adunanze, commissioni, giacché ella stessa, signor Presidente, ci aveva invitato a ciò. (Rumori). Ce lo ha detto lei: lavorate la sera. Ed ecco che stasera parecchi di noi hanno preso degli impegni.

Voglia quindi il signor Presidente tener conto di questa necessità nella quale ci troviamo. Se vuole, domani e posdomani potremo fare sedute notturne, se sarà necessario; ma è bene saperlo prima: ciascuno di noi così provvederà ad organizzare di conseguenza il proprio lavoro. Prego quindi il Presidente di modificare in questo senso la sua proposta.

DUGONI. Chiedo di parlare.

PRESIDENTE. Ne ha facoltà.

DUGONI. Sono dell’opinione che noi dobbiamo continuare a discutere questa sera appunto per non far la seduta domani sera, in quanto domani sera ci verrà distribuita la relazione stampata della Commissione e dobbiamo avere il tempo di leggerla. (Commenti).

PRESIDENTE. Faccio una proposta transattiva: accogliendo anche in parte l’idea dell’onorevole Micheli, propongo di proseguire fino alle ore 21 per votare almeno l’articolo 16. Domattina e domani pomeriggio terremo seduta, riservandoci sempre, d’ora innanzi – e prego i colleghi di tenerlo presente – la possibilità di sedute serali.

(La seduta, sospesa alle 19.30, è ripresa alle 19,55).

Si riprende la discussione del progetto di Costituzione della Repubblica italiana.

PRESIDENTE. Riprendiamo la discussione del progetto di Costituzione.

TUPINI, Presidente della prima Sottocommissione. Chiedo di parlare.

PRESIDENTE. Ne ha facoltà.

TUPINI, Presidente della prima Sottocommissione. Come l’Assemblea rammenta, sono stati votati i due primi commi dell’articolo 16. Al momento in cui si doveva votare sul terzo comma è stata chiesta una sospensiva dell’Assemblea per 10 minuti al fine di concordare con i presentatori dei vari emendamenti una formula definitiva. La Commissione nella sua maggioranza si è trovata d’accordo su quanto avevo io stesso proposto prima che venisse sospesa la seduta, nel senso di accettare – salvo il voto dell’Assemblea, s’intende – l’emendamento sostitutivo dell’onorevole Grassi al 3° comma dell’articolo 16, con la modifica dalla Commissione proposta e dall’onorevole Grassi accettata, e cioè che al posto di «delitti» si dovesse invece mettere «reati».

Quindi prego l’onorevole Presidente di mettere ai voti questo emendamento, salvo poi a parlare sugli altri commi dell’articolo.

GHIDINI. Chiedo di parlare.

PRESIDENTE. Ne ha facoltà.

GHIDINI. Fo mio l’emendamento originario dell’onorevole Grassi, nel senso che manteniamo la parola «delitti» al posto di «reati», e ciò per una ragione molto ovvia: che un provvedimento di questa natura e gravità come il sequestro, sia disposto per semplice contravvenzione ci pare un’esagerazione.

PRESIDENTE. Passiamo alla votazione degli emendamenti al terzo comma.

Vi è anzitutto il comma presentato dagli onorevoli Perassi, Natoli, Facchinetti, Chiostergi, Pacciardi, Conti, De Mercurio, Bellusci, Spallicci, Macrelli:

«Sostituire i commi terzo e quarto coi seguenti:

«Il sequestro della edizione dei giornali o di altri stampati, la cui pubblicazione sia eseguita con l’osservanza delle formalità prescritte dalla legge, non può aver luogo che per sentenza irrevocabile dell’Autorità giudiziaria.

«Tuttavia, nei casi di reati di istigazione a commettere delitti o di pubblicazione oscena, il sequestro dell’edizione di giornali o di altri stampati può essere disposto dal pubblico ministero o dal giudice all’inizio o nel corso del procedimento penale».

Seguirà poi la votazione dell’emendamento Grassi nel suo testo iniziale; successivamente, quella dello stesso emendamento modificato dalla Commissione.

TUPINI, Presidente della prima Sottocommissione. Chiedo di parlare.

PRESIDENTE. Ne ha facoltà.

TUPINI, Presidente della prima Sottocommissione. Poiché l’onorevole Grassi ha accettato la sostituzione della parola «reati» a «delitti», penso che si possa votare l’emendamento così concordato.

PERASSI. Chiedo di parlare.

PRESIDENTE. Su quale argomento?

PERASSI. Siccome l’onorevole Presidente della Commissione mi ha pregato di non insistere nel nostro emendamento, desidero rispondere a questo invito con una dichiarazione.

PRESIDENTE. Ha facoltà di parlare.

PERASSI. Desidero indicare brevemente le condizioni e lo spirito in cui noi abbiamo proposto l’emendamento. Ci è parso che l’Assemblea non dovesse introdurre nella Costituzione dei principî, che prevedono un regime di libertà di stampa che segue un passo indietro rispetto a quello esistente prima del fascismo.

Ora, il testo presentato dalla Commissione colpisce in quanto che il terzo comma, e soprattutto il quarto, verrebbe a creare un regime, che sarebbe profondamente regressivo rispetto allo stato del diritto italiano, quale risultava dopo la legge del 1906, come ha già accennato stamani l’onorevole Ghidini. Sovrattutto per il quarto comma, che introduce un sequestro, in via amministrativa, che era ignoto alla legislazione italiana anteriore al fascismo.

In conseguenza, noi avevamo proposto un emendamento, il quale nella prima parte sostanzialmente ripete la disposizione dell’articolo primo della legge Sacchi del 1906 e del decreto legislativo 31 maggio 1946, numero 561, vale a dire che il sequestro non può essere eseguito se non per sentenza irrevocabile dell’autorità giudiziaria. Tuttavia, rendendoci conto dei caratteri speciali di alcuni reati di stampa, avevamo previsto di aggiungere una eccezione, ma una eccezione che stesse nella linea dei principî già acquisiti, vale a dire che un sequestro, prima che sia accertata l’esistenza di un reato, possa essere disposto solo dal pubblico ministero o dal giudice istruttore all’inizio o nel corso di un procedimento penale e limitatamente al caso di determinati reati; e cioè: istigazione a commettere delitti (articolo 414 del Codice penale) e pubblicazione oscena.

Di fronte all’invito fatto dal Presidente della Commissione di non insistere, io osservo che è stato presentato un emendamento dall’onorevole Ghidini, il quale propone la soppressione del comma 4. Il comma 4 costituisce, in realtà, la deviazione più profonda dal regime anteriore al fascismo. Esso ammette il sequestro per opera della pubblica sicurezza. Sarebbe un passo indietro assolutamente inammissibile.

Di fronte all’emendamento proposto dall’onorevole Ghidini, e tenuto conto delle discussioni avvenute, noi dichiariamo di non insistere nel nostro emendamento e che ci associamo all’emendamento Ghidini.

Augurandoci che l’Assemblea adotti l’emendamento Ghidini soppressivo del comma 4, formuliamo anche l’augurio che la legge sulla stampa, che sarà presto elaborata, delimiti in maniera precisa i delitti per i quali sarà ammissibile il sequestro ordinato dal pubblico ministero o dal giudice istruttore, mantenendo l’elencazione di tali delitti in un ambito ristretto per evitare una legislazione che leda il principio della libertà di stampa.

PRESIDENTE. Poiché l’onorevole Perassi ha dichiarato di ritirare il suo emendamento, procediamo alla prima votazione sopra l’emendamento Grassi nella sua formulazione iniziale, fatto proprio dall’onorevole Ghidini.

COLITTO. Chiedo di parlare per dichiarazione di voto.

PRESIDENTE. Ne ha facoltà.

COLITTO. Poiché le argomentazioni svolte dall’onorevole Ghidini sembrano molto chiare e convincenti, noi dichiariamo di votare a favore dell’emendamento Grassi nella sua prima formulazione.

MORO. Chiedo di parlare per dichiarazione di voto.

PRESIDENTE. Ne ha facoltà.

MORO. Dichiaro che noi voteremo contro l’emendamento dell’onorevole Ghidini ed a favore dell’emendamento dell’onorevole Grassi nella sua formulazione ultima. Credo che non sia più il caso di giustificare le ragioni per le quali non abbiamo potuto accettare l’emendamento Perassi, poi ritirato. Pensiamo che sia eccessivamente restrittivo e non corrispondente alle esigenze di difesa della collettività, gravi e serie quanto le esigenze di difesa della libertà, un regime della stampa, nel quale all’autorità giudiziaria sia consentito di intervenire soltanto a seguito di sentenza irrevocabile.

Da un altro punto di vista noi siamo favorevoli all’espressione ultima adoperata dall’onorevole Grassi – reati anziché delitti – in quanto vi possono essere delle ipotesi di contravvenzioni per le quali, in vista della possibilità che hanno di incidere (mi riferisco a quanto ho detto stamattina sull’educazione della gioventù e sul buon costume) sulla dignità della persona e sugli interessi della comunità, la legge sulla stampa ritenga opportuno autorizzare il sequestro da parte dell’autorità giudiziaria. Ho appena bisogno di osservare che con questa norma costituzionale noi non impegniamo la futura legge sulla stampa, alla quale offriamo soltanto una possibilità, di cui dovrà fare un uso molto discreto. Essa determinerà espressamente – come è detto nell’emendamento Grassi – le figure di reati, delitti e contravvenzioni, per i quali intende concedere, per la difesa della collettività (e noi soggiungiamo: della moralità), alla autorità giudiziaria questo potere di sequestro, del quale si parla nell’emendamento Grassi.

PRESIDENTE. Pongo ai voti l’emendamento Grassi, fatto proprio dall’onorevole Ghidini:

«Si può procedere a sequestro soltanto per atto motivato dell’autorità giudiziaria nei casi di delitti, per i quali la legge sulla stampa espressamente lo consenta, e nei casi di violazione delle norme relative all’obbligo dell’indicazione dei responsabili».

(Dopo prova e controprova, è approvato).

Passiamo ora al quarto comma. È stato mantenuto l’emendamento degli onorevoli Ghidini, Lami Starnuti, Tremelloni, Carboni, Cairo tendente a sopprimere il quarto comma.

MORO. Chiedo la parola per dichiarazione di voto.

PRESIDENTE. Ne ha facoltà.

MORO. Voteremo contro la soppressione del quarto comma dell’articolo 16. Ci rendiamo conto delle ragioni di delicatezza e di sensibilità, per le esigenze di libertà che noi tutti vogliamo garantite, che hanno spinto i nostri colleghi a chiedere la soppressione del quarto comma dell’articolo 16. E noi siamo, come loro, preoccupati che un abuso, da parte della polizia, possa infirmare la libertà di stampa che tutti vogliamo piena. Ma, da un altro punto di vista, non possiamo non aver presenti delle esigenze fondamentali, di difesa della collettività di fronte a taluni casi che presentino tali caratteri di urgenza e di necessità, da non consentire un tempestivo intervento dell’autorità giudiziaria. È un voto al quale noi ci associamo quello formulato da alcuni colleghi questa mattina, che vi siano dei magistrati addetti a questo lavoro. Vorremmo che così fosse; ma, poiché abbiamo l’esperienza la quale ci dice del lento, lentissimo lavoro della Magistratura, non possiamo sottrarre al potere esecutivo – che speriamo, ed anzi siamo certi, ne farà, in regime democratico, un uso estremamente discreto – questo potere per casi eccezionali di necessità e di urgenza. Questo potere, del resto, corrisponde ad altro analogo che noi abbiamo conferito al medesimo potere esecutivo in ordine ad altre libertà che sono sacre quanto la libertà di stampa. Così per la libertà personale. Anche lì, attraverso qualche tentennamento, attraverso qualche esitazione, siamo tuttavia giunti a riconoscere la necessità che in casi eccezionali di necessità e di urgenza al potere esecutivo sia dato di prendere quelle misure provvisorie, le quali peraltro debbono essere comunicate all’autorità giudiziaria e da questa convalidate. Anche in questo comma dell’articolo 16 vi è una analoga precauzione. L’autorità giudiziaria è in ogni caso chiamata a conoscere del provvedimento (Commenti), che dev’essere nel più breve termine convalidato. Guardando dunque a questa situazione, avendo presente questa necessità di un intervento tempestivo, che in taluni casi è assolutamente indispensabile, temendo che l’autorità giudiziaria non possa provvedere essa stessa con la necessaria sollecitudine, nella certezza che la convalida che l’autorità giudiziaria deve dare al provvedimento sia di remora nei confronti di quei funzionarî – i quali volessero abusare di questo potere funzionarî i quali del resto rispondono personalmente, a norma dell’articolo 22 – noi voteremo in favore del quarto comma dell’articolo 16.

PRESIDENTE. Comunico che sull’emendamento soppressivo del quarto comma dell’articolo 16 è stata chiesta la votazione per appello nominale dagli onorevoli Cairo, Bassano, Morini, Ruini, Preti, Calosso, Tremelloni, Ruggiero, Bocconi, Carboni, Foa, Veroni, Filippini, Canevari, Ghidini, Zanardi, Taddia.

LUCIFERO. Chiedo di parlare per dichiarazione di voto.

PRESIDENTE. Ne ha facoltà.

LUCIFERO. Voteremo a favore dell’emendamento Ghidini, che è un altro emendamento tendente a garantire quella che dovrebbe essere la nostra maggiore preoccupazione, cioè la vera libertà di ogni opinione e di ogni forma di manifestazione di una opinione. (Approvazioni).

BADINI CONFALONIERI. Chiedo di parlare per dichiarazione di voto.

PRESIDENTE. Ne ha facoltà.

BADINI CONFALONIERI. Voterò a favore dell’emendamento Ghidini, in quanto che ogni volta che si esorbita da quei limiti che sono propri dell’autorità giudiziaria e si lascia la porta aperta all’autorità di polizia, non si sa se questa porta non si spalancherà. L’unica osservazione in contrario che è stata portata dall’onorevole Moro, quella della non tempestività dell’intervento dell’autorità giudiziaria, potrà essere un inconveniente ovviato da norme che in parte sono state attuate con un recente decreto dei primi dello scorso marzo, il quale prevede nei giudizi di diffamazione a mezzo della stampa il procedimento per direttissima. Altre disposizioni di legge in questo senso potranno essere adottate, ma la Costituzione deve sancire il principio che il potere di controllo spetta unicamente all’autorità giudiziaria. (Approvazioni).

PRESIDENTE. Procediamo alla votazione per appello nominale. Estraggo a sorte il nome del deputato dal quale comincerà la chiama.

(Esegue il sorteggio).

Comincerà dall’onorevole De Caro Gerardo. Si faccia la chiama.

RICCIO, Segretario, fa la chiama:

Rispondono sì:

Azzi.

Badini Confalonieri – Barbareschi – Bassano – Bellusci – Benvenuti – Bergamini – Bernini Ferdinando – Binni – Bocconi – Bonomelli – Bozzi.

Cairo – Calosso – Camangi – Canevari – Capua – Carboni – Carmagnola – Cevolotto – Chiostergi – Cicerone – Cifaldi – Colitto – Condorelli – Conti – Corbino – Corsi – Costa – Costantini – Crispo.

Damiani – D’Aragona – Della Seta – De Mercurio – De Michelis Paolo – Dugoni.

Einaudi.

Fabbri – Facchinetti – Faccio – Fantuzzi – Fietta – Filippini – Foa – Fornara.

Ghidini – Giacchèro – Giannini – Giua – Grassi – Grazi Enrico – Grilli.

La Gravinese Nicola – Lombardo Ivan Matteo – Lucifero – Luisetti.

Maffioli – Malagugini – Mancini – Marinaro – Martino Enrico – Mastrojanni – Mazza – Merighi – Mezzadra – Montemartini – Morandi – Morini.

Natoli Lamantea – Nobili Oro.

Perassi – Pertini Sandro – Piemonte – Preti – Preziosi – Priolo – Puoti.

Quintieri Quinto.

Rodi – Rubilli – Ruggiero Carlo.

Spallicci – Stampacchia.

Taddia – Tieri Vincenzo – Tonello – Tonetti – Tremelloni – Treves – Tumminelli.

Valiani – Venditti – Vernocchi –Veroni – Vigorelli – Vilardi – Villabruna – Vischioni.

Zanardi – Zannerini – Zerbi.

Rispondono no:

Allegato – Amadei – Andreotti – Angelini – Angelucci – Arcaini – Arcangeli.

Baldassari – Balduzzi – Baracco – Barontini Anelito – Bastianetto – Bazoli – Bei Adele – Belotti – Bernamonti – Bertola – Bertone – Bettiol – Biagioni – Bianchi Bruno – Bianchini Laura – Bibolotti – Bitossi – Bosco Lucarelli – Bosi – Bovetti – Braschi – Brusasca – Bubbio – Bulloni Pietro.

Caccuri – Caiati – Camposarcuno – Cappa Paolo – Cappi Giuseppe – Cappugi – Caprani – Carbonari – Carignani – Caroleo – Carratelli – Castelli Edgardo – Castelli Avolio – Cavallari – Cavalli – Cerreti – Chatrian – Chieffi – Ciampitti – Ciccolungo – Coccia – Colombi Arturo – Colombo Emilio – Colonnetti – Coppi Alessandro – Corsanego – Cremaschi Carlo – Cremaschi Olindo.

De Caro Gerardo – De Gasperi – Del Curto – De Martino – De Michele Luigi – De Unterrichter Maria – Di Fausto – Di Vittorio – Dominedò – D’Onofrio – Dossetti.

Ermini.

Fanfani – Farina Giovanni – Ferrarese – Ferrario Celestino – Ferreri – Firrao – Flecchia – Foresi – Franceschini – Froggio – Fuschini.

Galati – Gallico Spano Nadia – Garlato – Gatta – Gemmano – Gervasi – Ghidetti – Giolitti – Gonella – Gortani – Grieco – Gronchi – Guariento – Guerrieri Filippo.

Imperiale – Iotti Nilde.

Jervolino.

Laconi – Landi – Lazzati – Leone Giovanni – Lombardi Carlo – Longo – Lozza.

Maffi – Magnani – Maltagliati – Malvestiti – Mannironi – Manzini – Marazza – Marina Mario – Marzarotto – Massola – Mastino Gesumino – Mattei Teresa – Meda Luigi – Medi Enrico – Merlin Umberto – Micheli – Molinelli – Montagnana Mario – Montini – Moranino – Moro – Mortati – Mùrdaca – Murgia – Musolino.

Nobile Umberto – Notarianni – Numeroso.

Orlando Camillo.

Pallastrelli – Pastore Giulio – Pat – Pecorari – Pella – Perlingieri – Petrilli – Piccioni – Pignedoli – Platone – Ponti – Pratolongo – Proia – Pucci.

Quarello – Quintieri Adolfo.

Raimondi – Ravagnan – Recca – Rescigno –  Restagno – Ricci Giuseppe – Riccio Stefano – Rivera – Roselli – Rossi Giuseppe – Ruggeri Luigi – Rumor.

Sampietro – Sartor – Scalfaro – Scarpa – Schiratti – Scoca – Secchia – Sicignano – Siles – Silipo – Stella – Storchi.

Tambroni Armaroli – Taviani – Titomanlio Vittoria – Togni – Tosato – Tozzi Condivi – Trimarchi – Tupini – Turco.

Uberti.

Valenti – Valmarana – Viale – Vicentini.

Zotta.

Sono in congedo:

Abozzi.

Bernardi – Bucci.

Cacciatore – Carpano Maglioli – Cingolani – Corsini.

D’Amico Michele.

Falchi – Fiore.

Gavina.

La Malfa – Li Causi.

Macrelli – Mastino Pietro – Montalbano.

Nenni.

Pacciardi – Parri – Pellizzari – Penna Ottavia.

Rapelli.

Saccenti – Selvaggi – Simonini.

Tega – Tosi.

Dichiaro chiusa la votazione per appello nominale e invito gli onorevoli Segretari a procedere alla numerazione dei voti.

(Gli onorevoli Segretari numerano i voti).

Comunico il risultato della votazione:

Presenti e votanti       291

Maggioranza             146

Hanno risposto        102

Hanno risposto no     189

(L’Assemblea non approva).

Dobbiamo ora prendere in esame gli emendamenti degli onorevoli Mastrojanni, Crispo e Preziosi, i quali si differenziano dal testo e dagli altri emendamenti perché aboliscono completamente ogni intervento di polizia nei casi di sequestro che il quarto comma prevede, mentre gli emendamenti degli onorevoli Cappa, Bulloni ed altri prevedono l’intervento degli organi di polizia, salva poi la ratifica dell’autorità giudiziaria.

L’emendamento dell’onorevole Mastrojanni, che ha la precedenza nella votazione, è del seguente tenore:

«Sostituire il quarto comma col seguente:

«Nei casi predetti, quando vi è assoluta urgenza, il sequestro può essere eseguito con provvedimento anche non motivato dall’Autorità giudiziaria».

In esso manca l’indicazione di un termine di tempo, che invece è compreso negli emendamenti degli onorevoli Crispo e Preziosi. Lo pongo in votazione ricordando che la Commissione non lo ha accettato.

(Non è approvato).

Pongo ora in votazione l’emendamento a firma degli onorevoli Crispo, Cifaldi, Einaudi, Vassallo:

«Nei casi predetti, su richiesta dell’autorità di polizia, l’autorità giudiziaria, entro le ventiquattro ore, può ordinare il sequestro».

(Non è approvato).

Pongo ora in votazione l’emendamento dell’onorevole Preziosi:

«Sostituire il quarto comma col seguente:

«Nei casi predetti, quando vi è assoluta urgenza, a richiesta degli ufficiali di polizia giudiziaria, l’autorità giudiziaria medesima deve, entro ventiquattro ore, procedere al sequestro, qualora riscontri violazioni contemplate dalla legge sulla stampa».

(Non è approvato).

Dovrei ora porre in votazione l’emendamento presentato dall’onorevole Cappa.

CAPPA. Chiedo di parlare.

PRESIDENTE. Ne ha facoltà.

CAPPA. Accetto il testo della Commissione e ritiro il mio emendamento.

PRESIDENTE. Sta bene. Passiamo alla votazione dell’emendamento a firma degli onorevoli Bulloni, Laconi, Grieco, Montini, Cappi, Ravagnan, Montagnana Mario, Roselli, Bianchini Laura, Cavallari, Bazoli:

«Nei casi predetti, quando vi sia assoluta urgenza e non sia possibile il tempestivo intervento dell’autorità giudiziaria, il sequestro della stampa periodica può essere eseguito da ufficiali di pubblica sicurezza che debbono immediatamente, e non mai oltre dodici, ore, inoltrare denuncia all’autorità giudiziaria».

TUPINI, Presidente della prima Sottocommissione. Chiedo di parlare.

PRESIDENTE. Ne ha facoltà.

TUPINI, Presidente della prima Sottocommissione. Data la brevità del termine di 12 ore, che potrebbe non consentire l’intervento tempestivo dell’autorità giudiziaria, chiedo ai presentatori dell’emendamento se consentono di portare tale termine a 24 ore. Faccio soltanto notare che dobbiamo formulare articoli la cui applicazione si prevedaì possibile.

PRESIDENTE. Chiedo ai presentatori dell’emendamento se aderiscono alla richiesta della Commissione.

BULLONI. Fo presente che si tratta di stampa periodica, per cui si richiede il più ristretto termine perché sia inoltrata la denunzia all’autorità giudiziaria. Il protrarre ulteriormente questo termine mi sembra un diminuire la garanzia che con l’emendamento proposto si è voluto stabilire contro possibili arbitri da parte della pubblica sicurezza.

CEVOLOTTO. Chiedo di parlare per dichiarazione di voto.

PRESIDENTE. Ne ha facoltà.

CEVOLOTTO. Voterò contro l’emendamento Bulloni, anche perché alle parole «ufficiali di polizia giudiziaria», come è nel testo, sostituisce «agenti di pubblica sicurezza». Fo presente la gravità estrema di questa modificazione sostanziale.

Voci. È la stessa cosa.

BULLONI. Il Questore non è ufficiale di polizia giudiziaria. Se abbiamo commesso un errore non dobbiamo commetterne altri.

BADINI CONFALONIERI. Chiedo di parlare per dichiarazione di voto.

PRESIDENTE. Ne ha facoltà.

BADINI CONFALONIERI. Voterò contro l’emendamento proposto per non commettere l’errore, al quale faceva cenno l’onorevole Bulloni, già commesso dalla legge fascista di dare facoltà di sequestro preventivo non soltanto all’autorità giudiziaria, ma ancora al potere esecutivo. Se non che quella legge si riferiva quanto meno al Prefetto; oggi ci riferiremmo ad un ufficiale di polizia giudiziaria, cioè in parole povere, ad un appuntato dei carabinieri.

CIFALDI. Chiedo di parlare per dichiarazione di voto.

PRESIDENTE. Ne ha facoltà.

CIFALDI. Voterò contro, perché non si fa nell’emendamento nessuna indicazione del termine entro il quale l’autorità dovrebbe provvedere. Si pretende che nelle 12 ore si dia comunicazione dell’avvenuto sequestro, ma non si stabilisce in che termine debba avvenire la convalida.

BULLONI. Chiedo di parlare.

PRESIDENTE. Ne ha facoltà.

BULLONI. Consento nella proroga del termine da 12 a 24 ore e nella soppressione nel testo della parola «periodica».

PRESIDENTE. Gli altri firmatari dell’emendamento concordano con l’onorevole Bulloni?

GRIECO. Solo per quanto riguarda le 24 ore. Non accetto la soppressione della parola «periodica».

CAPPA. Chiedo di parlare per dichiarazione di voto.

PRESIDENTE. Ne ha facoltà.

CAPPA. Non voto questo emendamento, poiché non comprendo perché si debba parlare soltanto della stampa periodica e non di tutta la stampa.

MORO. Chiedo di parlare.

PRESIDENTE. Ne ha facoltà.

MORO. Poiché alcuni presentatori dell’emendamento non accettano una parte della formulazione proposta, chiedo che si voti l’emendamento per divisione.

CARBONI. Chiedo di parlare.

PRESIDENTE. Ne ha facoltà.

CARBONI. Penso che si debba mettere prima in votazione la formula comprensiva della parola «periodica», altrimenti alcuni deputati porrebbero essere indotti a votare favorevolmente contro il loro stesso pensiero, in quanto che votare «stampa» è il presupposto indispensabile per votare in un secondo momento «periodica». Mettendo in votazione «stampa periodica», se la votazione fosse favorevole non ci sarebbe bisogno di altra.

PRESIDENTE. Pongo in votazione la formula che più si allontana dal testo, e cioè senza l’aggettivo: «periodica»: «Nei casi predetti quando vi sia assoluta urgenza e non è possibile il tempestivo intervento dell’autorità giudiziaria, il sequestro della stampa può essere eseguito da ufficiali di pubblica sicurezza, che devono immediatamente, e non mai oltre 24 ore, inoltrare denunzia all’autorità giudiziaria».

(Dopo prova e controprova, non è approvato).

Pongo in votazione la stessa formula includendo l’aggettivo «periodica».

(Si procede alla votazione per divisione – L’emendamento è approvato).

GIANNINI. Chiedo di parlare.

PRESIDENTE. Ne ha facoltà.

GIANNINI. Da questa formulazione scaturisce un problema importantissimo, che è questo: qual è l’autorità che stabilisce le condizioni di urgenza nelle quali possono essere presi quei provvedimenti che testé abbiamo votato? Io non avrei parlato su questo, che è un argomento squisitamente tecnico, perché non ho avuto la possibilità di farlo in sede politica. Dopo l’approvazione di questo articolo, nel quale si stabilisce che in speciali circostanze di urgenza l’autorità di polizia può sequestrare un giornale, chiedo agli onorevoli colleghi di dire quale è l’autorità che deve stabilire le circostanze di urgenza. (Commenti).

PRESIDENTE. Mi permetto di risponderle – penso che tutti le potrebbero rispondere così – che è la stessa autorità di polizia la quale procede al sequestro e che risponderà poi delle sue decisioni, a norma degli articoli successivi della Costituzione. (Commenti).

GIANNINI. Vuol dire allora che abbiamo ucciso la libertà di stampa. (Commenti prolungati).

PRESIDENTE. Onorevole Giannini, lei ha chiesto la parola non per fare dei commenti, ma per un chiarimento. Non è questa la sede per fare dei commenti alla Costituzione; in questa sede lei è invitato a collaborare per fare la Costituzione.

GIANNINI. Mi scusi, io non ritenevo di avere fatto un commento e se l’ho fatto la prego di perdonarmi. Io ho detto che la mia osservazione scaturisce dal fatto che l’articolo è stato approvato ora. Prima non potevo fare questa osservazione perché l’articolo non era stato ancora approvato.

PRESIDENTE. Lei ha posto una questione ed io ho cercato di darle una risposta.

GIANNINI. La ringrazio per la sua risposta. Vuol dire che mi guarderò dall’autorità di polizia. (Interruzioni – Commenti).

PRESIDENTE. Tutto ciò che lei ha detto, sarà molto utile per il commento dei giornali di domani; ma posto di fronte ad un voto dell’Assemblea cui lei stesso appartiene, forse non era opportuna la protesta. (Commenti).

Passiamo al quinto comma dell’articolo 16:

«La legge può stabilire controlli per l’accertamento delle fonti di notizie e dei mezzi di finanziamento della stampa periodica».

Gli onorevoli Mastrojanni, Montagnana Mario e Cavallari hanno proposto di sopprimerlo.

CEVOLOTTO. Chiedo di parlare per dichiarazione di voto.

PRESIDENTE. Ne ha facoltà.

CEVOLOTTO Domando se il problema, molto grave, che noi affrontiamo e risolviamo votando il comma quinto in questa dizione non sarebbe meglio riservarlo a quando discuteremo la legge sulla stampa. Per questo io voterò l’emendamento soppressivo.

Faccio presente che l’indagine sulle fonti di notizie implica questioni assai gravi. Fra l’altro, essa potrebbe persino sopprimere la possibilità della cronaca e ridurre i giornali ad altrettanti bollettini delle comunicazioni ufficiali del Governo. Non svolgo questi concetti perché l’ora non lo consente.

Quanto, poi, alle fonti del finanziamento, guardiamoci dal fare una cosa inutile, perché quando bene avremo deliberato che la legge stabilisca le indagini e i controlli sulle fonti del finanziamento, noi non sapremo mai da dove vengono i fondi per i giornali, perché basterà, per eludere ogni ricerca, che il giornale apra una sottoscrizione con molti N.N., o che il finanziamento avvenga attraverso le sezioni dei partiti, attraverso le parrocchie, attraverso le persone dei componenti il partito. L’origine vera di questi fondi, se ci sarà un interesse a tenerla celata, non si saprà mai.

Del resto, io osservo che nel progetto della legge sulla stampa vi è un articolo apposito che concerne la indagine sulle fonti di finanziamento e tale articolo noi potremmo, in quella sede, discuterlo molto meglio e più a fondo che non ora; tanto più che nel progetto della legge sulla stampa vi è già chi ha trovato il modo di eludere l’obbligo di dimostrare da dove trae i fondi per i propri giornali. Perché, infatti, l’articolo 14 dice: «Le disposizioni di cui all’articolo 11 – cioè dell’articolo sull’indagine circa le forme del finanziamento – non si applicano alle pubblicazioni promosse da pubbliche amministrazioni, da enti pubblici, da accademie e società scientifiche, artistiche e letterarie riconosciute come persone giuridiche o da autorità religiose riconosciute dallo Stato». Così vi è già chi, mettendo il proprio giornale sotto l’egida dell’autorità religiosa, si propone forse di sfuggire all’indagine sulle fonti di finanziamento. (Rumori Commenti al centro). Ed allora, non è meglio che tutto questo lo discutiamo con calma e con la dovuta attenzione quando parleremo della legge sulla stampa?

Per queste ragioni, io accetto l’emendamento soppressivo.

GRONCHI. Chiedo di parlare per dichiarazione di voto.

PRESIDENTE. Ne ha facoltà.

GRONCHI. Noi votiamo per l’emendamento soppressivo, perché ne abbiamo presentato uno sostitutivo.

LACONI. Chiedo di parlare per un chiarimento.

PRESIDENTE. Ne ha facoltà.

LACONI. Questa questione deve essere chiarita, e cioè tutti coloro che votano per emendamenti sostitutivi, possono votare per la soppressione del comma? Io non credo.

PRESIDENTE. Mi permetta, onorevole Laconi. Se la maggioranza vorrà che di questo problema non si tratti nella Costituzione, è evidente che non c’è nulla da fare; ma se invece ve lo inserirà, dobbiamo esaminare la formula che deve essere adottata.

LACONI. Il che significa che qualora l’emendamento soppressivo abbia la maggioranza, tutti gli emendamenti sostitutivi decadono. Allora, l’onorevole Gronchi non potrà votare.

CAPPA. Chiedo di parlare per dichiarazione di voto.

PRESIDENTE. Ne ha facoltà.

CAPPA. Dichiaro che voto per la soppressione, perché a parte ciò che sarà per decidersi per la legge sulla stampa, mi sembra inutile che si includa nella Costituzione questa disposizione, la quale potrà essere esaminata in sede di discussione della legge sulla stampa.

Vorrei rispondere brevemente all’onorevole Cevolotto, a proposito dell’articolo 12 del disegno di legge sulla stampa che è stato rassegnato all’Assemblea.

PRESIDENTE. Onorevole Cappa, non stiamo discutendo la legge sulla stampa, e, vorrei aggiungere, se me lo consente, che non vi è affatto contradizione nel fatto che vi siano leggi che sviluppano dei principî contenuti nella Costituzione nello stesso tempo che si vota una formula adeguata nella Costituzione stessa. Si può votare un articolo di Costituzione e votare insieme la legge sulla stampa, naturalmente facendo in maniera che le due votazioni non si contraddicano.

CAPPA. Onorevole Presidente, mi sembra inutile che oggi si faccia una grande discussione e si includa questa norma nella Costituzione.

Se Ella me lo consente, dirò all’onorevole Cevolotto che la disposizione alla quale ha accennato non si applica che alle pubblicazioni di esclusivo carattere amministrativo, religioso, tecnico, scientifico e letterario. Quindi, non si trattava di eliminare dal controllo quotidiani e stampe che si mettessero sotto il manto della religiosità. Si tratta di esenzione da questo controllo di tutte le pubblicazioni di esclusivo carattere amministrativo, religioso, tecnico, scientifico e letterario.

GRONCHI. Chiedo di parlare per un chiarimento.

PRESIDENTE. Ne ha facoltà.

GRONCHI. Se il votare per la soppressione del quinto comma vieta di presentare emendamenti sostitutivi, noi non possiamo votare tale soppressione. (Commenti).

CALOSSO. Chiedo di parlare per dichiarazione di voto.

PRESIDENTE. Ne ha facoltà.

CALOSSO. Mi pare che l’Assemblea non sia abbastanza matura per risolvere questo problema. Non so se il regolamento prescriva qualche cosa in materia, ma penso che sia profondamente interessante il violarlo, in ogni caso, per sapere quello che si fa. Noi votiamo un articolo di Costituzione di cui sentiamo che non siamo al corrente. Io stesso in questo momento, benché abbia fatto parte della Commissione della legge sulla stampa, non riesco a capire chiaramente cosa dobbiamo fare. Si dovrebbe procrastinare. Credo che questo avvenga appunto per il metodo che abbiamo di non poter fare colloqui, per cui si fanno lunghi discorsi che noi stiamo a sentire e poi non siamo pronti a deliberare. Non possiamo in coscienza votare senza essere pronti. Non credo che il regolamento ce lo imponga.

PRESIDENTE. Se c’è una questione che è chiarissima e non presenta quelle difficoltà e quelle complicazioni di carattere giuridico che forse nei precedenti commi si potevano trovare, è proprio questa. Noi stiamo per votare una disposizione la quale prevede il controllo delle fonti di notizie e dei mezzi di finanziamento.

CALOSSO. Io confesso la mia ignoranza, ma vedo diversi volti che mostrano la stessa mia preoccupazione. Desidero evidentemente votare sul controllo di queste fonti, ma si fa osservare dall’onorevole Cevolotto e da altri che votando questo comma di fatto noi apriamo la strada a che si controlli noi od altri, ma viceversa vi saranno delle persone che non saranno controllate.

PRESIDENTE. Ciò dipende dalla confusione che si è fatta da parecchi oratori tra la discussione del progetto di Costituzione e la discussione del disegno di legge sulla stampa. Forse ciò si deve all’onorevole Cevolotto, il quale ha accennato a quell’ipotesi alla quale l’onorevole Calosso si richiama. L’onorevole Cevolotto non parlava del testo della Costituzione, ma del disegno di legge sulla stampa. Restiamo dunque a ciò che dobbiamo fare. Quando l’Assemblea avrà votato il testo della Costituzione, non voterà certo una legge sulla stampa che sia in contrasto con le disposizioni in esso contenute. L’articolo 16 in esame stabilisce le linee fondamentali di una legislazione sulla stampa e al comma quinto si dice che «la legge può stabilire controlli per l’accertamento delle fonti di notizie e dei mezzi di finanziamento della stampa periodica». Se l’Assemblea approva il comma, nella legge sulla stampa si svolgerà questo principio; se non lo approva, è evidente che gli articoli della legge sulla stampa che l’onorevole Cappa ha elaborato con tanta fatica e tanta preoccupazione dovranno decadere.

CAPPA. Non è vero, signor Presidente.

VIGORELLI. Chiedo di parlare per mozione d’ordine.

PRESIDENTE. Ne ha facoltà.

VIGORELLI. Ho l’impressione che ci avviamo, su questo argomento, ad una discussione che non è possibile fare alle 22.5.

PRESIDENTE. Non siamo più in tema di discussione, ma in tema di votazione. Si possono solo fare delle dichiarazioni di voto.

VIGORELLI. L’argomento è troppo importante perché sia strozzato.

PRESIDENTE. È stato discusso per otto giorni.

VIGORELLI. Ho l’impressione che alle 22.5 non si possa votare su una questione di tale importanza.

PRESIDENTE. Si può votare a qualunque ora, salvo ad avere idee precise su ciò che si vota.

BADINI CONFALONIERI. Chiedo di parlare.

PRESIDENTE. Ne ha facoltà.

BADINI CONFALONIERI. Dichiaro che voterò per la soppressione del comma, in quanto si parla di fonti di notizie, il che significa addirittura inaridire la possibilità di una libera stampa. Avremo tutt’al più una stampa di partito, unicamente una stampa di partito; e anche per cotesto verso si limiterà la libertà di stampa. Comunque, parlare di accertare le fonti di notizie, è norma inapplicabile; perché inapplicabile, è inutile, superflua; perché inutile e superflua, è dannosa. Quindi voterò contro.

GIANNINI. Chiedo di parlare.

PRESIDENTE. Ne ha facoltà.

GIANNINI. Desidero far presente che la discussione su questo comma si presta ad equivoci, poiché c’è qualcuno che può non essere disposto a votare per la soppressione di un comma che vuole indagare sul finanziamento del giornale. Ora, noi potremmo anche accettare questa indagine sul finanziamento, poiché è un’indagine amministrativa, nella quale può rilucere la chiarezza di un giornale e di un giornalista; ma non possiamo in nessun modo accettare un’indagine sulle fonti di notizie.

LACONI. Chieda la votazione per divisione.

GIANNINI. Proporrei, quindi, che si votasse – se possibile – per divisione; cioè separando il controllo sui mezzi di finanziamento da quello sulle fonti di notizie. Siamo almeno liberi di avere le notizie.

PIEMONTE. Chiedo di parlare.

PRESIDENTE. Ne ha facoltà.

PIEMONTE. Mi associo alla proposta dell’onorevole Giannini.

MOLINELLI. Chiedo di parlare.

PRESIDENTE. Ne ha facoltà.

MOLINELLI. Mi pare che la questione si sia spostata. Non si tratta di discutere come sarà formulato questo comma: si tratta di votare se il comma debba essere soppresso o no. Soltanto successivamente, quando avremo deciso che il comma non deve essere soppresso, discuteremo come esso debba essere formulato.

DUGONI. Chiedo di parlare.

PRESIDENTE. Ne ha facoltà.

DUGONI. Credo che si possa benissimo votare per divisione: cioè se dobbiamo sopprimere la prima parte o la seconda o tutto il comma nel suo complesso.

COCCIA. Chiedo di parlare.

PRESIDENTE. Ne ha facoltà.

COCCIA. È piuttosto un chiarimento che vorrei domandare. Se votiamo per la soppressione di un comma, non potremo poi votare i relativi emendamenti, perché, se non c’è l’articolo, come possiamo emendarlo? Se viceversa votiamo a favore, come possiamo emendare un articolo che è già approvato?

PRESIDENTE. Se la maggioranza non vuole l’articolo, è evidente che non c’è posto per alcun emendamento.

COCCIA. Ma anche se la maggioranza lo vuole, come sarà possibile emendarlo, se è stato già votato?

LACONI. Chiedo di parlare.

PRESIDENTE. Ne ha facoltà.

LACONI. Vorrei rilevare che lei, onorevole Presidente, pone in votazione soltanto il fatto se si debba o no mantenere un comma che genericamente si riferisca all’argomento in esame e che in un secondo momento porrà in votazione i diversi emendamenti presentati. (Commenti).

PRESIDENTE. In relazione alla proposta dell’onorevole Giannini, fatta propria anche dall’onorevole Piemonte, l’emendamento soppressivo deve essere messo in votazione per divisione, perché si tratta di due questioni diverse e si possono avere due maggioranze diverse a seconda che si tratti del controllo sulle fonti di notizie oppure del controllo sui mezzi di finanziamento.

Pongo quindi in votazione la soppressione della parte del comma relativa al controllo per l’accertamento delle fonti di notizie.

(È approvata).

Pongo ora in votazione la soppressione della parte relativa al controllo per l’accertamento dei mezzi di finanziamento.

(Non è approvata).

Gli onorevoli Ruggiero e Canevari hanno proposto che al quinto comma le parole:

«La legge può stabilire», siano sostituite dalle altre: «La legge stabilisce». Debbo quindi porre in votazione la seguente formulazione del quinto comma:

«La legge stabilisce i controlli per l’accertamento dei mezzi di finanziamento della stampa periodica».

LACONI. Chiedo di parlare per mozione d’ordine.

PRESIDENTE. Ne ha facoltà.

LACONI. Desideravo osservare che, fra gli altri emendamenti, questo è il più vicino al testo e, come tale, dovrebbe essere votato per ultimo.

PRESIDENTE. Onorevole Laconi, devo farle rilevare in primo luogo che l’emendamento degli onorevoli Montagnana Mario e Cavallari, già svolto, e che riguarda la stessa materia, è un emendamento aggiuntivo al primo comma.

In secondo luogo occorre tener presente che gli onorevoli Mortati, Cappi, Bettiol, Rapelli, Moro, Valenti, Carbonari, Belotti, Balduzzi, Ferrario Celestino hanno proposto di sostituire il quinto comma col seguente:

«La legge potrà stabilire, con norme di carattere generale, che siano resi noti i mezzi di finanziamento della stampa periodica».

LACONI. È esatto; ma l’unico rilievo che io intendessi fare era che questi due emendamenti si distaccano dal testo più di quello dell’onorevole Ruggiero ed hanno quindi il diritto di precedenza: null’altro che questo.

PRESIDENTE. L’emendamento dell’onorevole Montagnana Mario conserva la dizione del testo della Commissione, perché dice «può stabilire», mentre il testo dell’onorevole Ruggiero dice «stabilisce». Esso non limita quindi la facoltà, ma dà una norma imperativa e si distacca appunto per questo dal testo.

Quindi la votazione sull’emendamento dell’onorevole Ruggiero deve indubbiamente avere la precedenza.

CARBONI. Chiedo di parlare.

PRESIDENTE; Ne ha facoltà.

CARBONI. Se non ho inteso male, sembra che ella, signor Presidente, abbia detto questo, che qualunque sia la formulazione definitiva, di debba prima decidere se si deve dire: «può stabilire», o «stabilisce».

Mi pare che sia una votazione poco organica, perché o noi mettiamo in votazione l’emendamento Ruggiero, così come esso è formulato, e se esso sarà approvato, sarà chiusa la discussione; se invece l’emendamento proposto dall’onorevole Ruggiero sarà respinto, allora si potrà passare alla discussione di un altro emendamento. Ma che si voti in questo momento soltanto sul principio se adottare la parola «stabilisce» in luogo delle parole «può stabilire», lasciando impregiudicato tutto il resto, a me pare non sia possibile.

PRESIDENTE. Onorevole Carboni, lei deve convenire che non ci sono molte alternative: o si vota il testo dell’onorevole Ruggiero o si vota il testo presentato dalla Commissione.

LACONI. Chiedo di parlare.

PRESIDENTE. Ne ha facoltà.

LACONI. Vorrei ricordare che vi è anche l’emendamento Mortati, che è sostitutivo come quello Ruggiero.

PRESIDENTE. L’emendamento Mortati è del seguente tenore:

«La legge può stabilire, con norme di carattere generale, che siano resi noti i mezzi di finanziamento della stampa periodica».

Chiedo all’onorevole Ruggiero se il suo emendamento vale come emendamento a quello dell’onorevole Mortati.

RUGGIERO. Vale come emendamento a quello dell’onorevole Mortati e lo mantengo.

PRESIDENTE. Nel testo della Commissione si parla di controlli che la legge può stabilire; in quello dell’onorevole Mortati si dice che la legge può stabilire che siano resi noti i mezzi di finanziamento, e suppongo che ciò significhi che dovranno essere coloro stessi che fanno parte delle aziende giornalistiche che dovranno fornire i dati. Pertanto, nella formulazione dell’onorevole Mortati mi pare si escluda qualsiasi disposizione che autorizzi il controllo da parte dello Stato dei mezzi di finanziamento. Desidererei che l’onorevole Mortati confermasse ciò, perché altrimenti non capirei il motivo per cui egli ha presentato l’emendamento.

MORTATI. Effettivamente lo spirito dell’emendamento sta nel sopprimere ogni potere di controllo dello Stato su queste fonti di entrata e di limitare semplicemente l’obbligo alla pubblicazione dei bilanci, in modo da affidare il controllo alla pubblica opinione.

PRESIDENTE. Così chiarito il significato dell’emendamento Mortati, devo porlo in votazione con la sostituzione proposta dall’onorevole Ruggiero della parola «stabilisce» alle parole «può stabilire», perché in questa maniera l’emendamento si allontana maggiormente dal testo della Commissione.

TUPINI, Presidente della prima Sottocommissione. Chiedo di parlare.

PRESIDENTE. Ne ha facoltà.

TUPINI, Presidente della prima Sottocommissione. Mi permetto di richiamare l’attenzione dell’Assemblea sulle varie dizioni degli emendamenti nei confronti del testo del progetto. In ciascuno di questi emendamenti, ed anche nel testo del progetto, si dice «può disporre» «può stabilire». Così negli emendamenti Ravagnan, Laconi e Cavallari, così nell’emendamento Mortati, ecc.

A questo punto, qualunque sia il testo che noi voteremo nel merito, io credo che fosse nel vero il Presidente dell’Assemblea quando proponeva all’Assemblea stessa di fissare la sua attenzione sul verbo «può» o «stabilisce» o «dispone» o «può disporre», per cui qualunque sia il testo cui noi andremo a votare, poiché ciascuno degli emendamenti proposti mostra di preferire il concetto di facoltà a quello di norma, è su questo punto che dobbiamo in primo luogo votare. Poi voteremo il resto degli emendamenti. Così potremo procedere con una certa chiarezza e con una certa tranquillità, in quanto altro è parlare di norma e altro di facoltà.

CRISPO. Chiedo di parlare.

PRESIDENTE. Ne ha facoltà.

CRISPO. Aderisco all’emendamento Ruggiero. La ragione della mia adesione è chiara. La Costituzione fissa un principio, vale a dire riconosce la necessità del controllo sull’accertamento dei mezzi che finanziano la stampa. Evidentemente al legislatore può essere demandato il modo dell’esercizio di questo controllo, ma non si può, per una tecnica legislativa evidente, fissare il principio nella Costituzione e lasciare l’eventuale applicazione al legislatore, perché significherebbe demandare all’arbitrio del legislatore di stabilire o meno questo controllo.

PRESIDENTE. Pongo in votazione l’emendamento Ruggiero che propone di dire: «La legge stabilisce» anziché «può stabilire».

(Dopo prova e controprova l’emendamento non è approvato).

Pongo in votazione l’emendamento Mortati, per cui il quinto comma sarebbe così sostituito:

«La legge può stabilire, con norme di carattere generale, che siano resi noti i mezzi di finanziamento della stampa periodica».

(È approvato).

Con l’approvazione di questa formula, restano assorbiti i due emendamenti degli onorevoli Montagnana Mario e Cavallari, se i proponenti non hanno osservazioni in contrario.

(Così rimane stabilito).

Resta da approvare l’ultimo comma, così formulato:

«Sono vietate le pubblicazioni a stampa, gli spettacoli e tutte le altre manifestazioni che siano contrarie al buon costume. La legge determina misure adeguate».

L’onorevole Moro ha proposto di aggiungere, infine, le parole: «preventive e repressive».

TUPINI. Presidente della prima Sottocommissione. Chiedo di parlare.

PRESIDENTE. Ne ha facoltà.

TUPINI. Presidente della prima Sottocommissione. Propongo che le due parti del comma siano poste ai voti per divisione.

PRESIDENTE. Metto ai voti la prima parte dell’ultimo comma:

«Sono vietate le pubblicazioni a stampa, gli spettacoli, e tutte le manifestazioni che siano contrarie al buon costume».

(È approvata).

Metto ora in votazione la seconda parte con raggiunta delle parole proposta dall’onorevole Moro:

«La legge determina le misure adeguate preventive e repressive».

(È approvata).

Vi è ora la proposta di un emendamento aggiuntivo degli onorevoli Fanfani e Gronchi:

«Per garantire a tutti i cittadini l’effettivo esercizio di questo diritto, la legge può regolare l’utilizzazione delle imprese tipografiche e di radiodiffusione».

CORBINO. Chiedo di parlare per dichiarazione di voto.

PRESIDENTE. Ne ha facoltà.

CORBINO. Pare impossibile ammettere l’esistenza di imprese editoriali, di qualsiasi genere, qualora esse fossero esposte al rischio di dover fare quello, che non è o nelle loro funzioni o nelle loro intenzioni o nelle loro possibilità. Noi riteniamo la disposizione tale da sopprimere, di fatto, il diritto di proprietà di tutte le aziende editoriali italiane. Per queste ragioni voteremo contro.

CAPPA. Chiedo di parlare per dichiarazione di voto.

PRESIDENTE. Ne ha facoltà.

CAPPA. Sono spiacente di non poter votare a favore dell’emendamento presentato dai miei amici.

ANDREOTTI. Chiedo di parlare per dichiarazione di voto.

PRESIDENTE. Ne ha facoltà.

ANDREOTTI. In conformità con quanto ho detto stamani, ad illustrazione del mio emendamento, pur comprendendo le ragioni obiettive che possono spingere, in buona fede, a presentare un emendamento del genere, credo che noi, approvandolo, apriremmo la possibilità d’una gravissima intromissione piena di incognite.

Pertanto, voterò contro l’emendamento.

TUPINI, Presidente della prima Sottocommissione. Chiedo di parlare per esprimere il parere della Commissione.

PRESIDENTE. Ne ha facoltà.

TUPINI, Presidente della prima Sottocommissione. La Commissione è divisa nel suo apprezzamento circa l’emendamento Gronchi.

Però la maggioranza di essa è contraria, per le stesse ragioni illustrate dall’onorevole Andreotti.

GIANNINI. Chiedo di parlare per dichiarazione di voto.

PRESIDENTE. Ne ha facoltà.

GIANNINI. Concordo con le dichiarazioni degli onorevoli Cappa e Andreotti.

BADINI CONFALONIERI. Chiedo di parlare per dichiarazione di voto.

PRESIDENTE. Ne ha facoltà.

BADINI CONFALONIERI. Sono contrario e approfitto dell’occasione per protestare contro il fatto che la radio è in mano dei partiti al Governo.

DUGONI. Chiedo di parlare per dichiarazione di voto.

PRESIDENTE. Ne ha facoltà.

DUGONI. Io voterò a favore dell’emendamento Gronchi per questa ragione: in città di provincia esiste molto spesso un solo impianto tipografico in condizioni di stampare un giornale.

LACONI. Chiedo di parlare per dichiarazione di voto.

PRESIDENTE. Ne ha facoltà.

LACONI. Voterò a favore dell’emendamento – e penso che debba essere posto subito dopo il primo comma – in quanto ritengo che questa sia l’unica disposizione, che miri a rendere effettivo il diritto solennemente enunciato nel primo comma.

A tutti coloro i quali hanno trovato in questo emendamento una limitazione della libertà di stampa o altro, faccio notare che inutilmente sono state affermate nel primo comma le più grandi libertà, quando lo Stato non lasci nessuna possibilità per rendere effettivo questo diritto. (Interruzioni).

Sappiamo qual è oggi la situazione, per quanto riguarda le tipografie, le stazioni radio trasmittenti e tutti i mezzi di informazione.

L’ultima ragione per cui voterò a favore dell’emendamento consiste nel fatto che nel recente Congresso a Palermo, con l’unanimità di tutte le correnti politiche, si è votato un ordine del giorno i cui criteri dominanti sono rappresentati e riassunti nel comma proposto.

RUGGIERO. Chiedo di parlare.

PRESIDENTE. Ne ha facoltà.

RUGGIERO. Colgo questa occasione per protestare dal più profondo del cuore per l’assassinio della libertà di stampa che è stato consumato qui questa sera. (Rumori).

PRESIDENTE. Lei non si rende conto che con queste parole – formalmente dignitose – lei ha offeso l’Assemblea che, votando a maggioranza, avrebbe compiuto secondo lei un grave delitto. Queste parole andranno indubbiamente al di là del suo pensiero; ma appunto per evitare che ciò avvenga è bene che i colleghi evitino parole arrischiate.

PIEMONTE. Chiedo di parlare.

PRESIDENTE. Ne ha facoltà.

PIEMONTE. Non vedo che cosa c’entri la radio in questo articolo. Bisognerebbe votare per divisione.

PRESIDENTE. L’articolo 16 non parla soltanto della stampa, ma di ogni altro mezzo di diffusione, e pertanto è ben giustificato che si richiami questo concetto nell’ultimo comma. Pongo in votazione l’emendamento aggiuntivo all’ultimo comma degli onorevoli Fanfani e Gronchi:

«Per garantire a tutti i cittadini l’effettivo esercizio di questo diritto, la legge può regolare l’utilizzazione delle imprese tipografiche e di radiodiffusione».

(Dopo prova e controprova, l’emendamento non è approvato).

Il testo completo dell’articolo 16 sarà letto domattina, all’inizio di seduta.

Il seguito della discussione è rinviato a domani alle 10. Vi sarà seduta anche alle 16.

CONDORELLI. Chiedo di parlare.

PRESIDENTE. Ne ha facoltà.

CONDORELLI. Vorrei ricordare al Presidente la promessa fatta di sottoporre all’Assemblea gli emendamenti da me presentati agli articoli 17 e 18, che devo rinunciare a svolgere perché sono costretto a partire per la Sicilia a causa delle elezioni, ed ho a tal fine chiesto congedo.

PRESIDENTE. Onorevole Condorelli, lei è l’unico dei deputati siciliani che non si è ancora trasferito in Sicilia per la campagna elettorale; è comprensibile che debba dunque ormai partire. Prendo atto di quanto lei mi dice e le assicuro che i suoi emendamenti, anche in sua assenza, saranno ritenuti validi e saranno sottoposti all’Assemblea.

CONDORELLI. La ringrazio, signor Presidente.

La seduta termina alle 22.40.

Ordine del giorno per le sedute di domani.

Alle ore 10 e alle ore 16:

Seguito della discussione del progetto di Costituzione della Repubblica italiana.

ANTIMERIDIANA DI LUNEDÌ 14 APRILE 1947

ASSEMBLEA COSTITUENTE

LXXXVII.

SEDUTA ANTIMERIDIANA DI LUNEDÌ 14 APRILE 1947

PRESIDENZA DEL VICEPRESIDENTE CONTI

indi

DEL PRESIDENTE TERRACINI

INDICE

 

Interrogazioni (Svolgimento):

Cappa, Sottosegretario di Stato alla Presidenza del Consiglio                               

Magnani                                                                                                  Meda      

Petrilli, Sottosegretario di Stato per il tesoro                                                     

Morini                                                                                                              

Progetto di Costituzione della Repubblica italiana (Seguito della discussione):

Presidente                                                                                                        

Conti                                                                                                                 

Cavallari                                                                                                        

Andreotti                                                                                                        

Ghidini                                                                                                              

Mastrojanni                                                                                                    

Calosso                                                                                                            

Giannini                                                                                                            

Titomanlio Vittoria                                                                                       

Bosco Lucarelli                                                                                              

Colitto                                                                                                             

Moro                                                                                                                

Ruggiero                                                                                                          

Grassi                                                                                                               

Montagnana Mario                                                                                        

Preziosi                                                                                                            

Marina                                                                                                             

Interrogazioni con richiesta d’urgenza:

Presidente                                                                                                        

Veroni                                                                                                              

Morini                                                                                                              

Interrogazioni e interpellanza (Annunzio):

Presidente                                                                                                        

La seduta comincia alle 10.

MATTEI TERESA, Segretaria, legge il processo verbale della precedente seduta antimeridiana.

(È approvato).

Interrogazioni.

PRESIDENTE. L’ordine del giorno reca le interrogazioni.

La prima è quella degli onorevoli Bardini, Gervasi, Magnani, al Presidente del Consiglio dei Ministri ed al Ministro delle finanze, «per conoscere quali misure d’urgenza intendano prendere per avocare allo Stato i beni che già furono della Corona e ordinare il sequestro dei fondi che furono, più o meno lecitamente, depositati in Istituti finanziari all’estero per conto della Casa regnante».

L’onorevole Sottosegretario di Stato alla Presidenza del Consiglio ha facoltà di rispondere.

CAPPA, Sottosegretario di Stato alla Presidenza del Consiglio. Debbo attenermi al testo della interrogazione, che forse non esprime precisamente il pensiero degli interroganti.

Come già ebbe occasione di chiarire, in risposta ad analoga interrogazione di altri onorevoli deputati, l’onorevole Sottosegretario per il tesoro, i cosiddetti «beni della Corona» non hanno bisogno di essere avocati allo Stato, per la semplice ragione che sono sempre appartenuti a quest’ultimo, formando oggetto di quel particolare demanio che si chiamava «Demanio della Corona» in considerazione della sua particolare destinazione.

Sicché, oggi, non di avocazione allo Stato deve parlarsi, ma, eventualmente, di mutamento del fine. E a tal riguardo il problema sarà esaminato con la dovuta attenzione, al momento opportuno; quando, cioè, accertate le esigenze del nuovo Capo dello Stato, esigenze cui, per ovvie ragioni, occorrerà provvedere, sarà possibile stabilire quali beni saranno liberi da tale specifica destinazione e quale migliore forma di utilizzazione converrà ad essi attribuire. Su tale questione, naturalmente, l’Assemblea avrà pieno diritto di esprimersi.

Se poi gli onorevoli interroganti intendano riferirsi ai beni privati di Casa Savoia, si fa presente che il progetto di Costituzione riserva agli organi legislativi ordinari la determinazione sulla loro avocazione allo Stato. Il Governo si è perciò in questa materia limitato a prevedere misure di carattere conservativo; un disegno di legge, già approvato dal Consiglio dei Ministri, e presentato a questa Assemblea, stabilisce la nullità di tutti gli atti di alienazione posti in essere in ordine a detti beni.

Questo trattamento include ovviamente anche i conti bancari all’estero; ma in proposito devesi rilevare che gli Stati esteri di solito non riconoscono la validità di misure di sequestro o di confisca sui beni che si trovano nei loro territori, adottati da altri Stati.

PRESIDENTE. L’onorevole Magnani, ha facoltà di dichiarare se sia sodisfatto.

MAGNANI. Ringrazio l’onorevole Sottosegretario della risposta data alla nostra interrogazione.

Siamo solamente in parte sodisfatti. Noi desideriamo che i beni della Corona siano devoluti a favore del popolo.

Siamo in parte insoddisfatti anche perché desideriamo che il Governo provveda in modo preciso alla reintegrazione dei fondi che si trovano all’estero, perché anche essi vadano destinati a favore del popolo italiano.

PRESIDENTE. Segue l’interrogazione dell’onorevole Bibolotti, ai Ministri del lavoro e previdenza sociale e dell’industria e commercio, «per conoscere le ragioni del ritardo della pubblicazione del decreto che statuiva l’assunzione obbligatoria di una determinata percentuale di invalidi e mutilati del lavoro da parte di ditte, enti, ecc., così come viene fatto per i mutilati e gli invalidi di guerra e se non si ritenga di provvedere d’urgenza ad evitare ulteriori sofferenze a quei lavoratori che, dopo aver contribuito alla creazione della ricchezza nazionale, si vedono preclusa la via a dare ancora il loro contributo di capacità lavorativa alla rinascita del paese».

Poiché gli onorevoli Sottosegretari del lavoro e previdenza sociale e dell’industria e commercio non sono presenti, lo svolgimento dell’interrogazione si intende rinviato.

Seguono due interrogazioni relative alla stessa materia:

Meda Luigi, Ferrano Celestino, Malvestiti, Castelli Edgardo, al Ministro di grazia e giustizia, «per conoscere le ragioni per le quali la disposizione dell’articolo 1 del decreto luogotenenziale 5 ottobre 1944, numero 345, che stabilisce inefficacia giuridica di tutti i provvedimenti legislativi del Governo della repubblica di Salò, non sia stata applicata al decreto 14 settembre 1944, che consentiva, in ispregio alla legge sul blocco degli affitti agricoli, di realizzare la trasformazione in generi, con elevato aumento dei canoni stessi e gravame insostenibile per una massa di coltivatori diretti».

Meda Luigi, Ferrano Celestino, Malvestiti, Castelli Edgardo, al Ministro dell’agricoltura e delle foreste, «sulla situazione creatasi nel campo degli affittuari per la mancata abrogazione ad ogni effetto del decreto della ex repubblica di Salò del 14 settembre 1944, che permetteva ai proprietari di terra, che percepivano per contratto un canone in denaro (cioè una cifra fissa e non nel valore corrispondente ad una determinata quantità di generi), la trasformazione del canone in generi. In ottemperanza al decreto, infatti, molti proprietari effettuarono la trasformazione del sistema di canone, facendosi corrispondere dagli affittuari il valore corrispondente a determinate quantità di prodotti, creando così praticamente (in ispregio al regime di blocco) un aumento sensibilissimo dei canoni stessi».

L’onorevole Sottosegretario per la Presidenza del Consiglio ha facoltà di rispondere.

CAPPA, Sottosegretario di Stato alla Presidenza del Consiglio. Le due interrogazioni dell’onorevole Meda non hanno più ragione d’essere, poiché sono stati presi provvedimenti in merito.

PRESIDENTE. L’onorevole Meda ha facoltà di dichiarare se sia sodisfatto.

MEDA. Si tratta di due interrogazioni presentate nel luglio dell’anno scorso. Sono stati già pubblicati i decreti, che hanno risolto le questioni da noi sollevate.

PRESIDENTE. Lo svolgimento delle seguenti interrogazioni è rinviato, d’accordo coi Ministri interessati:

De Palma, ai Ministri dell’interno e dell’assistenza post-bellica, «per conoscere quali provvedimenti siano stati adottati, o si intenda adottare, in favore delle donne violentate dalle truppe marocchine, durante la guerra, in alcuni centri della provincia di Frosinone».

Raimondi, Caso, al Ministro dell’agricoltura e delle foreste, «per conoscere se risponde a verità che si stia elaborando un provvedimento legislativo per la gestione degli enopoli (un tempo di proprietà del settore in liquidazione della viticoltura) da parte delle Federazioni dei Consorzi agrari, il che equivarrebbe a stroncare ancora un altro ramo della libera iniziativa economica; ed, in caso affermativo, per sollecitare, all’opposto, dal Governo un provvedimento che trasformi i detti enopoli in cantine sociali cooperative (come recentemente ha sostenuto Raimondi sul Popolo del 15 settembre) col duplice scopo di salvaguardare e rinforzare l’iniziativa privata associata ed ottenere vini tipici concorrenti sul mercato delle esportazioni, unico, pratico e benefico mezzo di soddisfazione per le classi produttrici e per i consumatori che, con adeguata tutela morale e legislativa dello Stato, potranno assieme potenziare la vitivinicoltura, dando nuovo benessere all’economia nazionale».

Segue l’interrogazione dell’onorevole Moro, al Ministro dell’interno, «per sapere quali provvedimenti intenda prendere per risolvere il problema ospedaliero della città di Bari, il quale interessa anche le provincie e regioni limitrofe. L’ospedale consorziale di Bari, divenuta inabitabile la sede in seguito ad eventi bellici, è allogato, con mezzi di fortuna ed in condizioni insostenibili, nei corridoi dell’Università malamente adattati. L’esiguo materiale va sempre più in rovina; la situazione di cassa, anche per l’inadeguato ritmo della riscossione delle spedalità, non permette di sodisfare i fornitori, i quali sospendono in conseguenza le loro prestazioni. Occorrerebbe ottenere l’immediata derequisizione del Policlinico, che per vicende belliche non poté mai essere occupato e potrebbe dare alloggio all’ospedale insieme alle cliniche universitarie, ed affrettare l’approvazione del decreto, che si dice in elaborazione, per stabilire l’apposita imposta provinciale per il pagamento delle spedalità».

CAPPA, Sottosegretario di Stato alla presidenza del Consiglio. Il Ministro dell’interno ed il Sottosegretario di Stato sono assenti da Roma e quindi pregherei di rinviare lo svolgimento dell’interrogazione.

(Così rimane stabilito).

PRESIDENTE. Seguono le interrogazioni:

Rescigno, al Presidente del Consiglio dei Ministri, Ministro dell’interno, ed al Ministro di grazia e giustizia, «per sapere se non ritengano opportuna la eliminazione dell’assurdo giuridico costituito dal capoverso dell’articolo 3 del regio decreto legislativo 25 maggio 1946, n. 425, contenente le norme per la risoluzione delle controversie sulle requisizioni degli alloggi, con la statuizione in sua vece della obbligatorietà della decisione sulle opposizioni avverso i provvedimenti dei Commissari per gli alloggi».

Rescigno, al Ministro della pubblica istruzione, «per sapere se non ritenga opportuno un provvedimento legislativo che disciplini, con norme semplici e definitive, il conferimento degli incarichi e delle supplenze negli Istituti di istruzione secondaria, attualmente regolato da circolari complicate e mutevoli».

Non essendo presente l’onorevole interrogante, si intende che vi abbia rinunziato.

Segue l’interrogazione dell’onorevole Morini, ai Ministri dei trasporti e del tesoro, «per sapere se non si ritiene conforme a criteri evidenti di equità e di giustizia la urgente modifica – con effetto retroattivo – del decreto 11 gennaio 1946, n. 18, nel senso di estendere i benefici di cui al decreto stesso, ai ferrovieri sinistrati, anche se non residenti nelle località distrutte, nella misura del quaranta per cento; e ciò per evitare stridenti casi di patente ingiustizia».

L’onorevole Sottosegretario di Stato per il tesoro ha facoltà di rispondere.

PETRILLI, Sottosegretario di Stato per il tesoro. In risposta a questa interrogazione, il Ministero delle finanze e tesoro deve osservare che il decreto legislativo 11 gennaio 1946, n. 18, ebbe per iscopo di agevolare gli impiegati dello Stato che erano costretti a prestare servizio in centri urbani, che, per effetto di distruzioni belliche e di requisizione da parte delle autorità alleate, presentavano una mancanza di alloggi almeno del 40 per cento, e quindi difficoltà, indirettamente, per l’utile disimpegno dei servizi, in quanto non era possibile all’Amministrazione di pretendere che funzionari e altri dipendenti dello Stato andassero o restassero a prestare servizio in centri che difettavano di alloggi.

Naturalmente non vi era possibilità di discriminare categoria da categoria di personale. Quindi il problema non è particolare per i ferrovieri, ma investe tutte le categorie dei dipendenti statali costretti a prestare servizio in determinati centri urbani. Quel decreto intendeva di avere presente una situazione di difficoltà oggettiva e non una situazione di difficoltà soggettiva: non si trattava di sapere se determinati dipendenti statali avevano subito danni in dipendenza della guerra, e quindi di venire loro incontro per attenuare le difficoltà in cui essi si trovavano, perché, per quanto riguarda la questione del risarcimento dei danni, evidentemente, in base alla vigente legislazione, non è possibile distinguere la categoria degli impiegati statali da tutti gli altri cittadini che pure hanno subito danni in dipendenza della guerra. Il decreto legislativo n. 18 era dunque un decreto il quale conteneva provvidenze non intuitu subiectorum, ma in considerazione di un fatto oggettivo, cioè della necessità che gli impiegati statali fossero costretti a prestare servizio in determinati centri, dove più grave si faceva sentire la mancanza degli alloggi, o per distruzioni belliche o per requisizione da parte delle autorità alleate.

Data questa situazione, non si comprende neppure quale sia questa evidente, questa stridente, questa patente ingiustizia, come, dichiara l’onorevole interrogante, alla quale bisognerebbe porre riparo per mettere la categoria dei ferrovieri in condizioni di parità con le altre categorie, che sarebbero invece meglio trattate. Ignorando il particolare motivo che ha determinato l’onorevole interrogante a presentare questa interrogazione al Governo, mi riservo di aggiungere qualche chiarimento quando egli sarà stato più esplicito.

PRESIDENTE. L’onorevole Morini ha facoltà di dichiarare se sia sodisfatto.

MORINI. Non posso dichiararmi sodisfatto della risposta data. Il concetto da cui muovono i ferrovieri ed a cui io pure mi sono attenuto è questo: il criterio discriminatore del 40 per cento di distruzione porta, evidentemente, proprio a quelle ingiustizie, alle quali accennava l’onorevole Sottosegretario. In talune città, ad esempio Voghera, non si raggiunge il 40 per cento di distruzione, ma si raggiunge una quota che può essere del 30 o del 35 per cento. Orbene: noi chiediamo al Governo se i ferrovieri sinistrati di Voghera non si trovino in condizioni peggiori dei ferrovieri non sinistrati di Milano, che raggiunge il 40 per cento di distruzioni. Ora, l’onorevole Sottosegretario mi parla di criteri soggettivi ed oggettivi. Qui non siamo in materia di risarcimento di danni. Noi riteniamo e riaffermiamo al Governo che i ferrovieri, che sono stati sinistrati in località non colpite del 40 per cento, si trovano in condizioni soggettive ed oggettive peggiori dei ferrovieri non sinistrati residenti in località colpite per il 40 per cento.

A noi sembra, mi sia permesso di dirlo, che vi sia una frattura fra provincia e Roma, e che le parole e la logica e lo stesso buon senso abbiano un significato diverso in provincia e nella capitale. I ferrovieri, quando leggono questo decreto, che dà le provvidenze ai ferrovieri non sinistrati (ed è giusto) di località colpite al 40 per cento, fanno un semplice ragionamento: «E noi, perché non le dobbiamo avere queste provvidenze?» In provincia si ritiene che sarebbe sufficiente venire a Roma per far presenti queste cose; non sanno ancora che qui ci si nasconde dietro ragionamenti sottili, che le masse non possono capire e non possono comprendere. Ma sono queste sottigliezze e queste differenziazioni che determinano quella frattura, fra provincia e capitale, cui ho già accennato.

Io chiedo che il Governo riesamini il problema. Non è possibile negare ai ferrovieri sinistrati di località che hanno il 39 per cento di distruzione quelle provvidenze che sono concesse ai ferrovieri non sinistrati delle località colpite per il 40 per cento.

Ed è sotto questo aspetto, che io mi rivolgo particolarmente all’onorevole Ferrari, che so vicino alle necessità dei ferrovieri, perché si riesamini il problema e si dia un provvedimento veramente riparatore.

PETRILLI, Sottosegretario di Stato per il tesoro. Chiedo di parlare.

PRESIDENTE. Ne ha facoltà.

PETRILLI, Sottosegretario di Stato per il tesoro. Le esigenze dei ferrovieri sono certamente tenute presenti dal Governo, il quale tiene presenti anche le esigenze di tutte le altre categorie di dipendenti statali, perché il problema non è limitato ad un settore determinato di impiegati statali, ma a tutti i settori. Non c’è la possibilità di fare una distinzione senza cadere appunto in un caso di patente e sicura ingiustizia; non è possibile tener presente una categoria di personale e non un’altra categoria. Dunque, le esigenze dei ferrovieri sono apprezzabili, e non meno apprezzabili quelle di tutti gli altri dipendenti statali.

E per venire incontro a casi particolari, nei quali non si raggiunga il 40 per cento delle distruzioni, posso soggiungere che è in corso di esame, presso il Ministero delle finanze e del tesoro, un provvedimento il quale accorda i medesimi beneficî del decreto legislativo n. 18 a coloro i quali sono costretti a risiedere, per ragioni di ufficio e pel disimpegno delle loro mansioni di servizio pubblico, in centri che abbiano distruzioni minori del 40 per cento, purché si tratti di piccoli centri urbani, nei quali, anche se non si raggiunga la percentuale di distruzione e di requisizioni alleate nella misura del 40 per cento, la stessa piccola consistenza del centro urbano rappresenta, in aggiunta a una percentuale inferiore al 40 per cento, un giustificato motivo per l’estensione dei beneficî del decreto legislativo n. 18.

Io spero che l’onorevole interrogante anche di fronte a questa notizia, a questa primizia, dirò, di un nuovo provvedimento vorrà ritenersi sodisfatto, e, in ogni caso, prendere atto della buona disposizione del Governo per andare incontro alle esigenze dei ferrovieri e a quelle, non meno urgenti e pressanti, di tutte le altre categorie degli impiegati statali.

MORINI. Fo presente all’onorevole Sottosegretario di Stato che se avesse detto prima quello che ha detto ora nella sua replica, non avrei insistito nella mia richiesta.

PRESIDENTE. Sono così esaurite le interrogazioni inscritte all’ordine del giorno di oggi.

Presidenza del Presidente TERRACINI

Seguito della discussione del progetto di Costituzione della Repubblica italiana.

PRESIDENTE. L’ordine del giorno reca: Seguito della discussione del progetto di Costituzione della Repubblica italiana.

Dobbiamo esaminare l’articolo 15:

«Il carattere ecclesiastico ed il fine di religione o di culto d’una associazione od istituzione non possono essere causa di speciali limitazioni legislative né di speciali gravami fiscali per la sua costituzione, per la sua capacità giuridica, per ogni sua forma di attività».

Non essendo stati presentati emendamenti, metto ai voti il testo proposto dalla Commissione.

(È approvato).

Passiamo all’articolo 16:

«Tutti hanno diritto di esprimere liberamente il proprio pensiero con la parola, lo scritto, ed ogni altro mezzo di diffusione.

«La stampa non può essere sottoposta ad autorizzazioni o censure.

«Si può procedere al sequestro soltanto per atto dell’autorità giudiziaria nei casi di reati e di violazioni di norme amministrative per i quali la legge sulla stampa dispone il sequestro.

«Nei casi predetti, quando vi è assoluta urgenza e non è possibile il tempestivo intervento dell’autorità giudiziaria, il sequestro della stampa periodica può essere eseguito da ufficiali di polizia giudiziaria, che debbono immediatamente, e non mai oltre ventiquattro ore, chiedere la convalida dei loro atti all’autorità giudiziaria.

«La legge può stabilire controlli per l’accertamento delle fonti di notizie e dei mezzi di finanziamento della stampa periodica.

«Sono vietate le pubblicazioni a stampa, gli spettacoli e tutte le altre manifestazioni che siano contrarie al buon costume. La legge determina misure adeguate».

A questo articolo sono stati presentati alcuni emendamenti.

L’onorevole Persico ha proposto di sostituire i primi cinque commi col seguente:

«È garantita la libertà di stampa: una legge ne determinerà i modi di esercizio».

Poiché l’onorevole Persico non è presente, si intende che l’emendamento è decaduto.

Segue l’emendamento presentato dagli onorevoli Perassi, Natoli, Facchinetti, Chiostergi, Pacciardi, Conti, De Mercurio, Bellusci, Spallicci, Macrelli:

«Sostituire i commi terzo e quarto coi seguenti:

«Il sequestro della edizione dei giornali o di altri stampati, la cui pubblicazione sia eseguita con l’osservanza delle formalità prescritte dalla legge, non può aver luogo che per sentenza irrevocabile dell’Autorità giudiziaria.

«Tuttavia, nei casi di reati di istigazione a commettere delitti o di pubblicazione oscena, il sequestro dell’edizione di giornali o di altri stampati può essere disposto dal pubblico ministero o dal giudice all’inizio o nel corso del procedimento penale».

Domando se l’onorevole Perassi o qualcuno degli altri firmatari dell’emendamento intendono svolgerlo.

CONTI. Rinunciamo allo svolgimento.

PRESIDENTE. Gli onorevoli Montagnana Mario e Cavallari hanno presentato i seguenti emendamenti:

«Dopo il primo comma, aggiungere:

«Al fine di garantire a tutti i cittadini l’effettivo esercizio di questo diritto e di escludere ogni monopolio di fatto, lo Stato può disporre controlli per l’accertamento dei mezzi di finanziamento e può regolare l’impiego dei mezzi di produzione».

«Dopo il secondo comma, aggiungere:

«Lo Stato può disporre controlli sulle agenzie d’informazione al fine di accertarne le fonti di notizie e i mezzi di finanziamento».

«Sopprimere il quinto comma».

L’onorevole Cavallari ha facoltà di svolgere questi emendamenti.

CAVALLARI. Onorevoli colleghi, il motivo per cui ci siamo indotti a presentare i due emendamenti non è dovuto a differenziazioni di carattere sostanziale fra la concezione generale che noi abbiamo della libertà di stampa e quella che noi leggiamo nell’articolo 16. Noi siamo, al pari degli altri colleghi, degli assertori convintissimi della libertà di stampa, ma l’addebito o la critica che facciamo all’articolo 16, così come è stato concepito, è che il suo testo è un po’ troppo generico, laddove parla della libertà di stampa; è, direi quasi, un po’ troppo platonico. Noi siamo invece del parere che occorre qui, attraverso gli emendamenti che abbiamo presentato e le modifiche proposte, ottenere che quelle dichiarazioni di principî che vengono sanciti in questo articolo diventino veramente realtà operante; e intendiamo proporre, quindi, la strada e il modo attraverso i quali noi pensiamo che si possa addivenire ad una vera libertà di stampa. Infatti, quando si dice che: «Tutti hanno diritto di esprimere liberamente il proprio pensiero con la parola, lo scritto, ed ogni altro mezzo di diffusione», si enuncia un principio altissimo, un principio che io penso non possa non essere condiviso da nessun rappresentante che siede in quest’Aula; ma non è detto tutto; non è detto per quale strada noi vogliamo arrivare a dare veramente questa libertà di stampa.

Dobbiamo togliere questo carattere di genericità alla norma, per poter vedere di renderla veramente tale che abbia un effetto tangibile e sicuro; in quanto non è sufficiente che la Costituzione della Repubblica italiana affermi dei principî astratti; non è sufficiente affermare dei principî anche se alti, ma che di per se stessi non sono sufficienti a dare a noi la tranquillità che essi vengano in realtà attuati. E vi è necessità di chiarezza, onorevoli colleghi, quando noi parliamo di libertà di stampa; vi è necessità di una grande chiarezza, perché noi abbiamo visto, nei 20 anni e più in cui in Italia ha imperato il regime fascista, che i giornalisti fascisti hanno sacrificato la loro dignità e prostituito il loro ingegno, quando essi ne avevano – e, a dire la verità, in alcuni di loro spesso vi era una notevole dose di ingegno – hanno prostituito il loro ingegno ai facili onori, ai facili plausi; hanno immolato la dignità del loro intelletto sull’altare dell’oro, del denaro; hanno tenuto un contegno che sotto tutti gli aspetti è stato riprovevole.

Ma questo è ancora il danno minore che noi dobbiamo deplorare nella stampa fascista. Il danno più grave è che questa stampa ha avuto serie ripercussioni sopra la formazione dell’opinione pubblica del nostro Paese; noi dobbiamo deplorare che un numero rilevante di cittadini si sia fatto influenzare, anche inavvertitamente, anche involontariamente da questo stillicidio, da questo veleno che veniva quotidianamente propinato all’opinione pubblica. Noi abbiamo visto che quella stampa fascista ha concorso grandemente a ingenerare nell’opinione pubblica italiana, in molti cittadini italiani, il culto della violenza, il culto dell’ingiustizia, il culto, insomma, di tutti i sentimenti deteriori dell’uomo e del cittadino, e invece ha deriso quelle che erano le istituzioni più alte: la democrazia, la libertà; tutto ciò che rende l’uomo veramente degno di tale nome.

E allora noi siamo indotti a ritenere che questa stampa fascista, che ha causato un danno così grave al nostro Paese, ha una notevole responsabilità sulla sorte che è toccata ad esso. Noi siamo del parere che furono responsabili indubbiamente i grossi gerarchi del fascismo, i generali della milizia che componevano il tribunale speciale; ma come furono responsabili tutti coloro che direttamente provocarono la rovina del nostro Paese, non meno responsabili furono i giornalisti fascisti i quali avvelenarono l’opinione pubblica. E forse, in fatto di responsabilità, essi la cedono solamente a coloro che si nascondevano dietro di loro e li sovvenzionavano affinché emettessero e spargessero nel nostro Paese quel veleno sottile che lo ha tratto alla rovina.

Noi, per queste considerazioni, e anche per tante altre che non riteniamo sia qui il caso di illustrare ampiamente e nemmeno di accennare, reputiamo sia saggio che lo Stato intervenga per proteggere i cittadini da una nuova immissione di veleno, ossia da una recrudescenza di stampa la quale si possa orientare, più o meno palesemente, nello stesso modo in cui la stampa fascista si era orientata, in modo cioè da compromettere la salute del Paese.

Escano pure i giornali che vogliono: noi non vogliamo mettere alcun freno alla libertà di stampa; scrivano pure tutte quelle cose che non li facciano incorrere nelle sanzioni del Codice penale. Ma facciano prima di tutto sapere chi li sovvenziona, da quali fonti traggono il denaro col quale sono in grado di mantenersi.

E non ci si venga a dire, onorevoli colleghi, che i giornali vivono con la vendita delle copie e con gli abbonamenti. Ne abbiamo esempî chiarissimi qui in Roma ove, su ventisei giornali circa che escono tutti i giorni, solo quattro o cinque sono attivi, mentre gli altri vendono in media meno di diecimila copie al giorno, perdendo così circa tre milioni al mese.

È evidente, quindi, che noi non possiamo credere che tutto questo grandissimo numero di giornali, a Roma e in tutta Italia, si mantenga con la vendita delle copie e degli abbonamenti. Perciò riteniamo opportuno sapere come e da chi questi giornali vengono sovvenzionati, perché è perfettamente inutile che una legge sull’epurazione abbia detto più o meno chiaramente che non possono scrivere sui giornali quei direttori e quei giornalisti che hanno in modo rilevante fatto l’apologia del fascismo, quando poi ammettiamo condizioni per cui questi giornali rimangono in proprietà e vengono sovvenzionati da quegli stessi Gruppi che li sovvenzionavano durante il fascismo.

Il tono del giornale non è dato infatti tanto dal direttore o dai redattori, quanto da chi lo sovvenziona, perché quel giornale rappresenta i suoi interessi ed è l’esponente delle sue idee. Se, per esempio, vi sono giornali sovvenzionati dagli industriali tessili del Biellese, ebbene, lo si dica; se ve ne sono sovvenzionati dagli appaltatori romani, ebbene, lo si dica; se vi sono, ad esempio, dei giornali milanesi, sovvenzionati da industriali milanesi, ebbene, lo si dica pure chiaramente.

Se, infatti, questi giornali hanno degli interessi di categoria che sono in patente contrasto con gli interessi delle classi lavoratrici e poi ci vengono a dire di essere i difensori delle classi lavoratrici, questi giornali commettono la peggiore menzogna che si possa commettere a carico del popolo italiano.

Ma noi troviamo qui, nell’articolo 16, secondo il testo del progetto della Commissione, che questo controllo sul finanziamento è sancito solo per ciò che riguarda i periodici. Ora, noi ci domandiamo per quale motivo questo controllo debba esercitarsi nei confronti dei periodici e non già dei quotidiani, quando sappiamo che è infinitamente minore l’influenza che i periodici esercitano sull’opinione pubblica italiana di quella che esercitano invece i quotidiani.

I periodici, infatti, hanno influenza su strati di popolazione molto più limitati di quelli che vengono influenzati e toccati da parte dei quotidiani.

Ed allora, se si riconosce che sia utile e necessario il controllo sul finanziamento dei periodici, a maggior ragione noi riteniamo che sia necessario controllare il finanziamento dei quotidiani.

Se questo si facesse, onorevoli colleghi, credo che in molti casi si vedrebbe che quelli che finanziano determinati giornali, che escono oggi, sono gli stessi che finanziavano i giornali che uscivano prima, sono gli stessi che stavano dietro le persone dei vari direttori del tempo fascista e che, con il loro comportamento, con la loro sovvenzione, hanno tratto a rovina il nostro Paese.

Imponendo un controllo sulla sovvenzione dei giornali, noi pensiamo che ne guadagnerà la sincerità, l’onestà di essi, ma non ancora vi sarà completa libertà della stampa. Qui ritengo che occorra dare una definizione di questa libertà di stampa, concetto questo che viene esaltato da parte di tutti, ma sul quale è bene intendersi una volta chiaramente.

Noi, per libertà di stampa, intendiamo la possibilità concreta e reale di ogni persona, di ogni Gruppo, di ogni Partito, di ogni ceto, di potere elevare la sua libera voce; e mentre vediamo che nei comizi, qui nell’Assemblea, nei giornali, da parte di alcuni elementi conservatori della Nazione, da parte di alcuni partiti conservatori, si elevano inni a questa libertà di stampa, in realtà constatiamo che quegli ambienti e quei ceti che vengono rappresentati da questi partiti conservatori, si comportano in modo tale da monopolizzare la stampa ed in modo del tutto contrario alla libertà di stampa.

Infatti noi dobbiamo osservare una cosa del tutto evidente. La carta, per esempio, ha un prezzo elevatissimo. Ebbene noi sappiamo, e, potremmo anche darne le prove, che vi sono dei contatti, dei rapporti tra i grandi industriali della carta e i direttori dei grandi quotidiani, che si dicono indipendenti, rapporti intesi ad elevare di tanto il prezzo della carta da renderlo accessibile soltanto alle tasche dei grandi capitalisti che sovvenzionano questi giornali, e non ai partiti o a quelle altre organizzazioni che non hanno la stessa potenzialità di acquisto.

Veniamo agli impianti tipografici. Essi sono costituiti da rotative, macchine, immobili, da tutto quell’insieme di attrezzatura che è necessaria per far uscire un giornale.

Orbene, tutte queste hanno un valore venale altissimo, tanto che, per darvi solamente qualche esempio, posso dirvi che il complesso editoriale che prima stampava il Popolo d’Italia può valutarsi ad un miliardo e mezzo, il complesso editoriale che prima stampava Il Resto del Carlino può valutarsi a più di trecento milioni, ed il complesso editoriale che prima stampava La Nazione può valutarsi a 260-270 milioni.

Enunciando questi dati, qui in seduta pubblica, credo di non violare alcun segreto, perché sono notori a tutti coloro che si interessano di giornali e sanno quanto costa una rotativa.

PRESIDENTE. Onorevole Cavallari, la prego di tener conto del tempo.

CAVALLARI. Ora, poiché si parla di milioni e di miliardi, è evidente che dobbiamo tener presenti questi complessi di valore ingente che non devono essere accaparrati da una ristretta cerchia di persone.

Noi dobbiamo avere di mira che lo Stato possa controllare questi complessi editoriali, in modo da poter fornire anche a coloro che non hanno somme così ingenti di denaro la possibilità di manifestare la loro libera opinione.

Un altro emendamento al quale molto brevemente accennerò è quello che riguarda la moralizzazione della stampa. Noi siamo d’accordo con i colleghi di parte democristiana che occorre colpire la stampa pornografica, perché essa arreca mali notevolissimi alla nostra opinione pubblica e specialmente alla nostra gioventù, di cui lo Stato deve oltremodo curarsi; ma noi domandiamo ai colleghi democristiani se non ritengano che anche la propalazione di certe notizie non pornografiche non rappresenti un pericolo altrettanto grave. Mi riferisco alle notizie che appaiono in alcuni giornali a cui ho accennato poco fa, le quali vorrebbero far credere al Paese che, per esempio, il Governo sta per cadere da un momento all’altro, che la moneta italiana è svalutata al massimo grado, o che il maresciallo Tito sta marciando verso Trieste da più di un anno e mezzo con un ritmo tale per cui a quest’ora sarebbe giunto già in America. Se tutte queste notizie fossero prese sul serio, esse creerebbero un tale stato di disorientamento dell’opinione pubblica da far correre al nostro Paese dei gravi pericoli.

D’altra parte, l’emendamento presentato dall’onorevole Andreotti, nel punto in cui dice che non si può procedere al sequestro dei giornali se non per sentenza irrevocabile, mi rende perplesso. L’onorevole Andreotti è uomo di legge e sa il significato delle parole «sentenza irrevocabile», sentenza cioè che sia stata emanata presso il Giudice di primo grado e poi impugnata presso il Tribunale, la Corte d’appello ed eventualmente in Cassazione. Procedura questa per la quale occorre un periodo di tempo lunghissimo, mentre noi sappiamo che le sanzioni contro la stampa devono avere principalmente il carattere della tempestività, cioè devono far vedere all’opinione pubblica che quel giornale è stato proibito, che una sanzione è stata presa contro quel determinato giornale perché esso era andato contro una norma.

Questo è, presso a poco, il contenuto degli emendamenti che noi abbiamo proposto. E vorremmo che, come noi abbiamo, concordemente con la democrazia cristiana, deplorato il sorgere di questa stampa pornografica, ed anche di certa stampa di carattere nettamente anticlericale, gli stessi democratici cristiani fossero altrettanto convinti assertori della necessità di tutelarci dalla stampa fascista, perché la religione cristiana vive da duemila anni e non sarà certamente il Pollo, o qualche altro giornale portante il nome di animali da cortile, che metterà in pericolo il cristianesimo il quale ha attraversato crisi ben più tremende.

La democrazia italiana non ha invece duemila anni: essa è giovane, e muove in questi mesi i suoi primi passi. La democrazia italiana è suscettibile a questi attacchi che le vengono da parte di certa stampa, ed è dovere dello Stato italiano di proteggerla nel modo più assoluto.

Queste sono le misure che noi proponiamo, perché attraverso l’articolo 16 si stabilisca una vera libertà e dignità della stampa che vuol essere espressione di uomini liberi, fiaccola luminosa che guidi il popolo dall’oscurantismo alla luce e non lo tragga a nuove e più profonde tenebre. (Approvazioni a sinistra).

PRESIDENTE. L’onorevole Andreotti ha proposto di sostituire l’articolo col seguente:

«Tutti i cittadini hanno diritto di esprimere liberamente il proprio pensiero con la parola, lo scritto ed ogni altro mezzo di diffusione.

«La stampa non può essere sottoposta ad autorizzazioni, né ad altre misure preventive, salve le eccezioni stabilite dalla legge per la censura delle notizie militari in tempo di guerra.

«Non si può procedere al sequestro dei giornali e di ogni altra pubblicazione o stampato se non per sentenza irrevocabile dell’Autorità giudiziaria, salve le disposizioni di legge sul sequestro della stampa contraria alla morale o al buon’costume, della stampa periodica non registrata e degli stampati clandestini.

«Tuttavia, con atto dell’Autorità giudiziaria, può essere disposto il sequestro di non oltre tre esemplari dei giornali od altri stampati, in cui si ravvisi una violazione della legge penale.

«La legge punisce severamente i reati commessi mediante la stampa periodica. In caso di recidiva, può disporre anche la sospensione o la soppressione delle testate.

«Sono vietati, a tutela della pubblica moralità e per la protezione della gioventù, gli spettacoli e tutte le altre manifestazioni che siano contrari alla morale o al buon costume. La legge determina misure adeguate».

L’onorevole Andreotti ha facoltà di svolgere l’emendamento.

ANDREOTTI. Mi limiterò a poche illustrazioni del mio emendamento, premettendo una considerazione che pur mi pare ovvia. Nel discutere questo articolo, dovremmo spogliarci di ogni impressione contingente, sia del ricordo troppo vivo di quella che era la violazione della libertà di stampa sotto il regime fascista, sia della molteplicità dei giornali, la quale è forse l’aspetto più caratteristico ed evidente, del mutato regime in Italia, ma che può senza dubbio portare ad un senso di disorientamento.

Dobbiamo quindi, nello stabilire la regolamentazione della stampa per il futuro, esulare dalle forme di trapasso da un regime all’altro proprie dei nostri giorni. Bisogna tracciare norme che valgano specialmente quando – e speriamo che ciò avvenga presto – il nostro regime sia diventato, non soltanto giuridicamente, ma anche nel fatto, definitivo e sia entrato nel costume della grande maggioranza dei cittadini.

Il mio emendamento si rivolge all’intero testo dell’articolo 16, che ho rifatto non perché ritenessi che l’articolo così come era concepito fosse integralmente da buttar via, ma per un’esigenza organica che non vuol affatto essere misconoscimento dell’opera della Commissione.

Dove si diceva «tutti hanno diritto», propongo di dire «tutti i cittadini». Questo non soltanto per contemplare nella stessa maniera la materia come è contemplata nelle Costituzioni di molti altri Paesi, ma perché si possa, senza violazione alcuna di libertà fondamentali, prevedere la liceità che restrizioni particolari vengano messe agli stranieri quando essi intendano impiantare in Italia aziende editoriali, ovvero quando, e questa ipotesi ha una grande importanza, cittadini di altri Paesi possano chiedere al nostro di impiantare qui stazioni radio trasmittenti. Infatti, anche secondo il testo nell’articolo 16 della Commissione e secondo gli emendamenti proposti dagli altri colleghi, si viene a riconoscere potenzialmente abolito il regime monopolistico della radio. Quindi, la distinzione tra cittadini e stranieri mi pare necessaria.

L’espressione, poi, della Commissione, che «la stampa non può essere sottoposta ad autorizzazioni o censure» mi pare possa essere accolta. Io ho usato un’espressione più ristretta, perché racchiude ogni misura preventiva togliendo la possibilità di introdurre qualche altra forma di impedimento, come potrebbero, essere le cauzioni. Comunque, se la Commissione insisterà nel suo testo, mi sembra che non vi siano inconvenienti per accettarlo.

Non insisto nel riferimento alla censura militare, in quanto la sospensione delle garanzie costituzionali in caso di guerra sarà esaminata dalla Commissione e prevista in un articolo che affronterà la questione, oltre che per la libertà di stampa, anche per tutte le altre libertà.

Si viene poi a parlare del sequestro. Io sarei per una formula la più restrittiva possibile, perché se lasciamo, anche con determinate garanzie, al legislatore normale di poter prevedere cause di sequestro, questo equivale in pratica a lasciare a questo legislatore di poter eludere le disposizioni, che noi stiamo stabilendo in questo articolo 16.

Certo che con l’ipotesi di deferimento all’Autorità giudiziaria, e non più a quella amministrativa, di ogni potere di disporre il sequestro, si è fatto un notevole passo verso una piena libertà di stampa.

Ma ritengo che, se lasciamo l’espressione «nei casi di reati e di violazioni di norme amministrative, per i quali la legge sulla stampa dispone il sequestro», il legislatore, cioè la maggioranza di domani, potrà, in qualsiasi momento, non solo con legge formale, ma anche con decreto legge (perché credo che i decreti legge, nonostante il potere della Commissione, dovranno essere reintrodotti, se vogliamo che il Governo funzioni) modificare la legge sulla stampa e, quindi, introdurre delle ipotesi di reati, per cui si ammetta il sequestro, con violazione dello spirito e della lettera di quest’articolo 16. Ancora nel progetto di legge sulla stampa, che porta il nome dell’onorevole Cappa, sono elencati alcuni casi, in cui il sequestro può essere ammesso. Di questi casi io ho conservato – e forse sarà necessario indicare nel mio emendamento a chi spetti (ufficiali di pubblica sicurezza con d’obbligo di immediata convalida da parte dell’Autorità giudiziaria) operare il sequestro – l’ipotesi della violazione della morale e del buon costume; perché, qui mi pare vi sia un’esigenza evidente di urgenza.

Vorrei qui richiamare, infatti, l’esperienza pratica che, se uno presenta di sabato pomeriggio alla Procura della Repubblica istanza perché si proceda ad un sequestro, certamente questo non avverrà che al lunedì mattino; e si dà, quindi, a chi vuol gettare sul mercato delle stampe oscene la possibilità di lanciarle di sabato ed esaurirle nelle 48 ore successive. L’ipotesi contenuta nel progetto Cappa dell’offesa ad un Capo di Stato italiano o straniero, è esclusa dal testo da me proposto, perché da un lato mi pare che non debba essere costituita una garanzia particolare per il Capo della Repubblica italiana, la cui figura non può che essere posta almeno sullo stesso piano dei massimi organi rappresentativi.

Per quanto riguarda poi il Capo di uno Stato straniero, bisogna andar piano, non solo per evitare specialmente ai giornali comunisti di non poter seguitare a dire male del Capo della Repubblica spagnuola e del regime franchista, ma anche per evitare che una critica ad altri regimi venga fatta passare per offesa al Capo di uno Stato, e come tale soffocata. Ricordo che l’anno scorso si volle agire in tal senso in un caso specifico, in cui tra l’altro, si confuse il maresciallo Stalin con il Presidente dell’unione delle Repubbliche sovietiche che in quel momento era Kalinin.

Il progetto dell’onorevole Cappa presentava anche l’ipotesi di sequestro per istigazione al reato. Mi pare una ipotesi piuttosto vaga, elastica e quindi pericolosa.

Stamane l’onorevole Ruini osservava che, se non si dà la possibilità di sequestro immediato può darsi che la istigazione operi il suo effetto prima che il potere giudiziario possa intervenire.

Ripeto che l’ipotesi è troppo generica, per poter essere affidata ad un semplice atto della Procura o addirittura ad un atto della pubblica sicurezza, e penso, quindi, che la materia non debba essere tolta dal regime normale.

Terza ipotesi: insegnamento di pratiche abortive. Orbene, o esso è fatto in modo da richiamare la tutela della morale e del buon costume ed allora non vi è motivo di discussione, o si contempla una esposizione in termini puramente scientifici e di studio ed allora sono del parere che non potrebbe rientrare nella tutela che noi qui prevediamo per la stampa.

Ai casi di offesa alla morale e al buon costume, io ho aggiunto, nel terzo capoverso del mio emendamento, una precisazione per quanto riguarda la violazione di norme amministrative, espressione che è pericoloso lasciare così generica. Ho parlato di stampati clandestini e stampa periodica non registrata, riferendomi per questa seconda ipotesi, all’istituto della registrazione come è enunciato nel progetto Cappa, in forma di semplice atto unilaterale che non richiede per la sua perfezione alcun giudizio di merito o discrezionale da parte di autorità amministrative o giudiziarie. La «registrazione» non può classificarsi come misura preventiva e, quindi, non viola il principio generale di libertà.

In quanto alla «sentenza irrevocabile», posso comprendere l’osservazione dell’onorevole Cavallari, ma è una espressione che si trova già nella nostra legislazione; e nella parziale riforma alle leggi sulla stampa fatta nello scorso anno si parla di sentenza «definitiva» con la firma a questo decreto di un Guardasigilli, politicamente vicino al Sottosegretario Cavallari, cioè dell’onorevole Togliatti.

Comunque, io posso anche dire «definitivo» o addirittura togliere l’aggettivo e lasciare semplicemente «per sentenza dell’Autorità giudiziaria»; però – a parte le mie proposte – se dovesse passare il testo, così come è formulato dalla Commissione, io credo che noi non raggiungeremmo quello che è il primo fine di questo articolo. Non sono infatti convinto in via generale che tutta la Costituzione debba precipuamente essere – come disse l’onorevole Lucifero – tutela delle minoranze, perché essa deve rappresentare anche un chiaro indirizzo positivo attraverso cui la maggioranza deve marciare, ma questo di oggi è un articolo tipico, che deve vedersi a protezione delle minoranze, e che domani dovrà potersi invocare dalle minoranze, quando la maggioranza governativa intendesse derogare a qualcuna di queste norme.

Peraltro, il punto in un certo senso più delicato di tutto l’articolo è quello che riguarda il quinto comma: io non ho affatto riprodotto questa norma nel mio emendamento, e mi troverò per avventura a votare la soppressione di questo articolo, insieme ad altri colleghi di vario colore ed in ispecie ad un Deputato che è proprietario, se non mi inganno, della tipografia in cui noi stampiamo il nostro giornale di Partito. Che cosa vuol dire, che cosa significa il controllo sulle informazioni o sulle fonti finanziarie? Questo controllo verrebbe a paralizzare la vita di un giornale e verrebbe a dare la possibilità di intromissioni assurde. Ogni giornale ha una sua precisa indicazione di responsabilità; e quindi, quando la notizia è pubblicata nel giornale, ne risponde chi risponde di tutto il giornale. C’è un segreto professionale che in questo caso è quanto mai geloso ed essenziale.

Da un punto di vista strettamente economico, poi, il controllo finanziario è un assurdo, perché ogni giornale può attraversare dei periodi eccezionali di difficoltà, per cui può verificarsi la necessità (senza che questo debba comunque risapersi, altrimenti la stessa tipografia, quando vedesse che il proprietario non ha più mezzi sufficienti potrebbe estrometterlo dicendo: io passo ad altri clienti e non stampo più il tuo giornale) di ricorrere al credito di banche o di privati. Ciò non offende la libertà di stampa, ma la tutela.

Ma c’è di più: o questo controllo deve essere un’affermazione del tutto teorica, e si reputa sufficiente anche per il futuro il controllo normale che si fa sui bilanci delle società editoriali – per i quali basta un ragioniere qualsiasi, capace di mettere delle cifre su due colonne, per salvaguardare l’ortodossia di fronte al fisco ed al tribunale – o può essere un controllo producente conseguenze oggi imprevedute, che potrebbero arrivare ad indagini interminabili e profonde, a sospensioni cautelative ed anche a soppressione di fogli a stampa.

E qui, parliamoci chiaramente, e lo faccio con tanta maggiore obiettività, in quanto siamo oggi il Partito di maggioranza, e mi auguro che lo saremo anche nel domani, io dico: O si dovrebbe escludere da questo controllo delle fonti finanziarie la stampa di correnti politiche, o si comprenderebbe anche questa stampa. Escluderla non avrebbe senso perché verremmo a creare un assurdo, poiché io ed un altro che volessimo fare un giornale, fonderemmo il «partito della libellula» e faremmo il giornale, come organo del nuovo partito. Non escludendola, noi mettiamo il Partito di maggioranza nella possibilità di avere una pericolosissima intromissione in quello che è il complesso interno amministrativo (e non so quanto sia facile dissociare la libertà politica da quella amministrativa) delle varie correnti politiche di minoranza.

Io sono per l’esclusione assoluta di queste possibilità di controllo. Ma c’è un emendamento in cui si è introdotta una ulteriore ipotesi – è l’emendamento Montagnana-Cavallari – cioè di poter regolare l’impiego dei mezzi di produzione. Anche qui, o signori, forse l’emendamento sarebbe potuto venire da altre parti, perché, mi ricordo, che la prima polemica nacque quando un giornale – che non condivido nella sua impostazione – che si chiamava appunto Polemica non trovava chi glielo stampasse, e non solo perché i proprietarî di tipografie non volevano seccature, ma perché c’erano ordini interni, dati a certe cellule di partito, che vietavano ai tipografi di stampare certi giornali. Voi forse questo lo ricorderete. Se noi stabilissimo che lo Stato o un qualsiasi altro organo come la Federazione della stampa, ad esempio, possa obbligare i proprietarî delle tipografie a stampare un certo giornale, il nostro, in ipotesi e quello dei liberali, ovvero quello di altre correnti politiche, credo che la libertà di stampa non avrebbe più un senso pratico.

Io non ignoro quanto oggi sia difficile per chi è venuto dopo il fascismo nell’arengo pubblico, Gruppo o individuo, potersi attrezzare in modo da essere alla pari, come posizione di partenza, con certe aziende che hanno una loro tradizione, che hanno un complesso di forze che nessuno dei nostri Partiti potrà forse aspirare di poter raggiungere in un cinquantennio. Ma ritengo che dovremmo essere, se mai, più leali e dire e stabilire che il privato o il Gruppo privato non può possedere una azienda tipografica.

Se diciamo questo, ed allora ognuno si regolerà in conformità; se invece è riconosciuta al privato la possibilità di avere una sua industria tipografica, allora non si può obbligare questo privato a dover stampare un qualsiasi giornale, anche quando questo giornale non trovi eventualmente la possibilità di stamparsi in alcun’altra parte. Se il nuovo regime voleva affrontare il problema doveva farlo non in questa sede attuale, ma al momento delle sanzioni contro il fascismo. Oggi dobbiamo essere più realistici ed obiettivi. Né mi pare che si possa invocare l’articolo 3 che abbiamo approvato, quello che attribuisce alla Repubblica il diritto e il dovere di rimuovere gli ostacoli, perché questo dovrà concretarsi in interventi diretti. Domani potrò stabilire, io legislatore, affinché il massimo numero possibile di cittadini e di correnti politiche abbia la possibilità di esprimere le proprie opinioni, che siano istituiti crediti per aiutare questi Gruppi incipienti a mettere insieme un azienda tipografica che possa affermarsi, naturalmente con le garanzie che potrebbero essere date da un certo numero di aderenti al Gruppo (500.000 ad esempio), ma non posso assolutamente dire, per lealtà, che anche se oggi in fatto noi abbiamo una situazione in cui è difficile ad alcuni di noi, ad alcuni gruppi politici di gareggiare con vecchie aziende, non posso prevedere che possa, impunemente, e salva la libertà di stampa, essere introdotta una modificazione del genere.

PRESIDENTE. Onorevole Andreotti non dimentichi che il tempo fissato è trascorso: svolga il suo emendamento, sia pure con qualche richiamo agli emendamenti degli altri.

ANDREOTTI. Vorrei ricordare ancora che giudice di un giornale è in un’ultima analisi il pubblico. Noi avremo delle partenze con posizioni di sfavore, ma a lungo andare, se il pubblico oggi legge 600 mila copie del Corriere della Sera e un numero molto inferiore del nostro giornale, questo deriva, da elementi che non riguardano soltanto la proprietà delle tipografie, ma consegue a quelle che sono le esigenze informative ed i gusti del pubblico dei lettori.

Il penultimo comma, come l’ho introdotto, l’ho stilato, non perché debba essere operante di conseguenze immediate, ma perché deve rappresentare la strada attraverso la quale noi vogliamo riportare un miglior costume nel campo della stampa, cioè la strada della responsabilità personale. Quando io dico che la legge punisce severamente i reati commessi mediante la stampa periodica, so bene – ripeto – che non dico una cosa che produce un risultato immediato, ma stabilisce una strada che ha portato, in altri Paesi, a rendere effettiva la libertà di espressione. Gravi pene pecuniarie serviranno a limitare grandemente le diffamazioni, le false notizie, ecc. E si dovrà introdurre, a mio giudizio, nella legislazione penale futura che chi commette in un certo spazio di tempo un congruo numero di reati per mezzo di stampa, riportando le relative condanne, possa incorrere nella conseguenza della sospensione o della soppressione della testata del giornale. Questa strada della responsabilità è la sola strada che mi pare conveniente.

Nell’ultimo comma, infine, ho introdotto quello che a me pare sia stato fatto presente anche da altri Deputati, cioè il concetto che la legge può introdurre certe misure di garanzia collettiva di fronte alla produzione cinematografica, alla produzione teatrale e ad altre manifestazioni di pensiero del genere, a tutela della morale o del buon costume.

E dico esplicitamente che a ciò si è mossi dalle guarentigie della pubblica moralità e della protezione della gioventù. Mi pare che questo sia veramente da sancirsi e che cioè vi è un bene, che è quello della moralità pubblica, vi è un bene che è quello dell’educazione della gioventù, che noi costituenti sentiamo in modo particolare. Questo rappresenta, credo, una conquista che rivaluta la protezione della gioventù elevandola però da come era concepita nel passato, di una protezione, cioè, fatta perché questa gioventù rendesse di più per lo Stato. Con ciò si riporta questa protezione ad un concetto più nobile. Mi auguro – e so che la Commissione accetterà questo concetto – che anche la Costituente lo approvi in maggioranza. Sarà un sigillo, direi, che noi mettiamo alla libertà di stampa, che mi pare darà un colorito alla libertà di espressione in generale, che darà un contenuto concreto e positivo a quella che sarà la formula che noi avremo saputo trovare e che come oggi, come è stato ieri e come sarà in futuro – se accettata o negata – l’indice di come la libertà sarà riconosciuta al nostro Paese. (Applausi al centro).

PRESIDENTE. L’onorevole Schiavetti ha presentato i seguenti emendamenti:

«Al terzo comma, dopo le parole: nei casi di reati, aggiungere le parole: o di presunzione di reato».

«Sopprimere il quarto comma».

«All’ultimo comma, alle parole: La legge determina misure adeguate, sostituire le altre: La legge determina misure particolari per la protezione della gioventù».

Non essendo l’onorevole Schiavetti presente, gli emendamenti si intendono decaduti.

Segue l’emendamento dell’onorevole Gabrieli:

«Sopprimere il quarto comma».

Non essendo l’onorevole Gabrieli presente, l’emendamento si intende decaduto.

Segue l’emendamento degli onorevoli Ghidini, Lami Starnuti, Tremelloni, Carboni, Cairo:

«Sopprimere il quarto comma».

L’onorevole Ghidini ha facoltà di svolgerlo.

GHIDINI. Il nostro emendamento è per la soppressione pura e semplice del quarto comma dell’articolo 16. Mi limito alla discussione del mio emendamento senza occuparmi degli altri presentati dai colleghi, a proposito dei quali mi riservo di fare dichiarazioni di voto in sede opportuna.

Questo articolo 16 è stato uno dei più tormentati e dei più dibattuti, prima in seno alla prima Sottocommissione, e successivamente dinanzi al Comitato di redazione del progetto di Costituzione; e anche nella Commissione dei Settantacinque. Ed è naturale, perché si tratta di una libertà fondamentale, forse della libertà più caratteristica dei reggimenti democratici e civili.

Non tutti i commi sono stati oggetto di discussione. Alcuni vennero accettati come furono proposti. Parlo del primo e del secondo: «Tutti hanno diritto di esprimere liberamente il proprio pensiero con la parola, lo scritto, ed ogni altro mezzo di diffusione. La stampa non può essere sottoposta ad autorizzazioni o censure».

Su questi commi tutti quanti sono stati d’accordo; né potevamo noi avere esitazioni di sorta. Quelli che per avventura hanno scrupoli in base al ricordo di posizioni recentemente assunte, le potranno certamente superare invocando quelle medesime eleganze, quei medesimi virtuosismi, quelle medesime acrobazie dialettiche di cui abbiamo avuto sott’occhi il campionario nelle recenti sedute.

Per conto mio è accettabile anche il terzo comma. Io, che sono profondamente geloso di questo diritto, avrei forse fatto un passo più avanti, ma le condizioni in cui si è svolta la discussione e la necessità di arrivare a concretare la disposizione in base a un pensiero comune mi ha indotto ad accettare il terzo comma: «Si può procedere al sequestro soltanto per atto dell’Autorità giudiziaria, nei casi di reati e di violazioni di norme amministrative per i quali la legge sulla stampa dispone il sequestro».

Avrei desiderato che maggiori limitazioni si fossero introdotte per quanto riguarda i «reati», per i quali l’Autorità giudiziaria possa disporre il sequestro; avrei voluto che fossero state meglio specificate le norme di carattere amministrativo, per le quali la legge sulla stampa possa domani disporre il sequestro, limitando così il provvedimento alla stampa clandestina. Esistono infatti altre norme, che hanno formato oggetto della legislazione passata, che esistono ancora oggi, e che forse passeranno nella legislazione futura, le quali non hanno importanza tale per cui sia giustificabile la violazione del diritto di libertà. Non ho però voluto insistere, perché ho fiducia che l’Autorità giudiziaria saprà fare buon governo del compito delicatissimo affidatole, se noi metteremo l’Autorità giudiziaria in condizioni di vivere e, quindi, di lavorare secondo il vecchio aforismo adattato al caso: primum vivere, deinde… iudicare.

Ma il comma, sul quale si è spiegata più viva la mia opposizione e quella dei colleghi che mi erano a fianco, è il quarto, del quale appunto domandiamo la soppressione. Il quarto comma dice:

«Nei casi predetti, quando vi è assoluta urgenza e non è possibile il tempestivo intervento dell’autorità giudiziaria, il sequestro della stampa periodica può essere eseguito da ufficiali di polizia giudiziaria, che debbono immediatamente, e non mai oltre ventiquattro ore, chiedere la convalida dei loro atti all’autorità giudiziaria».

Per me questo comma rappresenta un passo in avanti per quanto riguarda la legislazione fascista; ma non si deve menar vanto di un tale miglioramento, perché la legislazione fascista aveva ridotto al nulla le libertà di stampa, specialmente con le leggi del 1923 e del 1925.

Il comma rappresenta invece un passo indietro nei confronti della legislazione anteriore al fascismo; e mi riferisco in modo particolare al decreto del 1906, in virtù del quale fu abolito il sequestro preventivo. Il comma è un residuo della concezione fascista della libertà, ed è veramente deplorevole che non riusciamo ancora a scrollare completamente dalle spalle il tristo peso della legge e del costume fascista.

Tutti i colleghi del Comitato di coordinamento, come i colleghi della prima Sottocommissione, si sono del resto resi conto del grave pericolo al quale veniva esposta la libertà di stampa affidando alla polizia giudiziaria il sequestro preventivo, ed hanno conseguentemente cercato di limitarne la portata.

Infatti questo comma dice «nei casi predetti», vale a dire nei casi di reati e di violazioni delle norme amministrative. È stato detto «violazioni delle norme amministrative»; ma l’espressione è troppo generica, comprendendo in tal modo casi in cui la violazione non è tale da cagionare grave pregiudizio.

Si parla poi di reati in genere senza alcuna specificazione o limitazione. Non si è voluto, ed esempio, specificare: «di reati non politici». Ora, se io posso confidare nell’Autorità giudiziaria, persuaso che essa farà buon uso del testo, sebbene così ampio, non posso ugualmente confidare negli ufficiali della polizia giudiziaria. II comma parla del caso in cui vi sia assoluta urgenza e non sia possibile il tempestivo intervento dell’Autorità giudiziaria; ma voi capite che l’uno e l’altro criterio hanno carattere eminentemente soggettivo e arbitrario.

È chiaro adunque che il 4° comma è in patente contrasto con la prima e la seconda parte dell’articolo 16, dove è riconosciuta la piena libertà di pensiero attraverso la libera stampa.

Un’altra limitazione che è stata posta è il riferimento alla sola stampa periodica: come se i pericoli derivanti da reati commessi attraverso la stampa non fossero uguali quando si tratti di un numero unico o di un libro.

Finalmente, una garanzia si avrebbe in quanto la facoltà del sequestro sarebbe affidata non alla polizia in genere, ma alla polizia giudiziaria, come se non fosse vero che, pur dipendendo dal Procuratore generale e dal Procuratore della Repubblica, la polizia giudiziaria può, anzi deve, agire, di propria iniziativa, salvo ottenerne la convalida entro le 24 ore.

Si è detto «ufficiali» di polizia giudiziaria, come se questi ufficiali di polizia giudiziaria fossero tali per la loro preparazione e la loro cultura, da potere degnamente assolvere l’incarico loro affidato.

Devo ricordare a questo proposito che la nozione dell’«ufficiale» di polizia giudiziaria, secondo il Codice attuale, secondo il Codice Zanardelli, eminentemente liberale, secondo la dottrina e secondo la giurisprudenza, comprende anche dei semplici graduati, i brigadieri della questura, i brigadieri dei carabinieri, delle guardie forestali, delle finanze ecc.

Ora io domando alla vostra coscienza, onorevoli colleghi, se potete riconoscere in questi umili funzionari la necessaria capacità intellettuale e morale. Parlo anzitutto della capacità intellettuale e vi domando se in una materia così delicata, così squisitamente intellettuale, quando cioè si tratta di risolvere questioni di carattere giuridico (che è una delle forme più elevate della intellettualità), queste persone siano in grado di farlo. Come si può pretendere che un semplice brigadiere sappia decidere se una espressione letteraria è oscena oppure semplicemente realistica, se siamo di fronte ad una bruttura e non piuttosto ad un’opera d’arte?

Come potrà questo graduato della questura giudicare se una certa espressione, se l’attribuzione di un fatto determinato a danno di altro cittadino costituisca una diffamazione inescusabile perché determinata da un fine egoistico, o non sia piuttosto l’esercizio di un diritto-dovere di pubblica censura?

Il brigadiere dell’arma o della questura, inoltre non manca soltanto della necessaria capacità intellettuale, ma difetta altresì di quella indipendenza che è la maggiore garanzia di una retta applicazione della legge.

Questi funzionari dipendono dal potere esecutivo. Rimettendosi alla loro iniziativa mettiamo la libera stampa alla mercé del potere esecutivo.

La sola obiezione di apparente serietà fatta in sede di Commissione è un’altra di cui dirò dopo. Premetto un’altra obiezione consistente nel rilievo che contro gli abusi dei funzionari esiste una disposizione nel testo della Costituzione in virtù della quale sono puniti i funzionari che, per dolo o per colpa, violino i diritti sanciti dalla legge. La conseguenza sarebbe che noi dovremmo punire questi poveri funzionari i quali hanno fatto male ciò che non potevano far bene a causa di una incapacità che noi stessi riconosciamo; oppure dovremmo punire quei funzionari che hanno obbedito a un ordine dell’esecutivo… che non si tocca. L’obiezione più seria, in apparenza, fu così formulata: il provvedimento di sequestro esige una rapidità di esecuzione che solo attraverso la polizia è possibile ottenere. Io, per verità, credo che l’Autorità giudiziaria possa fin d’ora disporre, se la mettiamo in condizione di vivere, di organi e mezzi idonei, può applicare prontamente la legge. Può anche bastare una telefonata. Ad ogni modo io penso che a questa esigenza di rapidità o di immediatezza si possa agevolmente provvedere, facendo di questo servizio un ufficio particolare e fisso del pubblico ministero, il quale abbia poi alle sue dipendenze il personale necessario, che potrà essere costituito da ufficiali ad agenti di polizia giudiziaria. Essi però non potranno più agire di loro iniziativa col danno probabile ed irrimediabile di un sequestro ingiusto, ma dovranno agire soltanto attraverso la più alta e consapevole responsabilità del magistrato.

Per queste ragioni domando all’Assemblea la soppressione radicale e completa di questo comma che è troppo al disotto della nostra civiltà democratica. (Applausi).

PRESIDENTE. Segue l’emendamento, già svolto, dell’onorevole Preziosi:

«Sostituire il quarto comma col seguente:

«Nei casi predetti, quando vi è assoluta urgenza, a richiesta degli ufficiali di polizia giudiziaria l’Autorità giudiziaria medesima deve, entro ventiquattro ore, procedere al sequestro, qualora riscontri violazioni contemplate dalla legge sulla stampa».

L’onorevole Mastrojanni ha presentato i seguenti emendamenti:

«Sostituire il quarto comma col seguente:

«Nei casi predetti, quando vi è assoluta urgenza, il sequestro può essere eseguito con provvedimento anche non motivato dall’Autorità giudiziaria».

«Sopprimere il quinto comma».

Ha facoltà di svolgerli.

MASTROJANNI. Il mio emendamento sull’articolo 16 tratta precisamente gli stessi argomenti che testé ha svolto ampiamente l’onorevole Ghidini. Le preoccupazioni che egli ha rappresentate con tanta chiarezza, io già avevo riferite davanti alla prima Sottocommissione ed ivi avevo proposto una soluzione che, a mio avviso, può sodisfare egualmente le due esigenze della salvaguardia dall’eventualità delle offese alla pubblica morale e alla pubblica opinione e di intervento tempestivo per il sequestro della stampa oscena o pornografica. Lasciare all’arbitrio della polizia giudiziaria il sequestro della stampa è cosa pericolosissima ed anche un’offesa, noi riteniamo, alla dignità di chi stampa o di chi divulga perché l’uomo, nella sublime manifestazione del suo pensiero, ha diritto di essere, quanto meno, giudicato da persone che ne siano all’altezza e che abbiano la competenza per poter giudicare. Questa competenza, questa capacità in un settore così delicato dell’attività spirituale umana non può essere certamente affidata né riservata a ufficiali di polizia giudiziaria, tanto più che, come l’onorevole Ghidini testé ha riferito, gli ufficiali di polizia giudiziaria propriamente intesi non sono solo i veri e proprî ufficiali ma anche i sottufficiali dei carabinieri, della pubblica sicurezza, della guardia di finanza, ecc.

Ed è ovvio che i sottufficiali hanno un grado di cultura talmente modesto, in relazione al compito che dovrebbero assolvere in materia di stampa, da non poter essere considerati all’altezza di un tale ufficio, in un settore che sfugge ovviamente alla loro competenza e capacità.

D’altra parte, rendendoci conto della necessità di un intervento immediato perché effettivamente si possa tutelare la pubblica moralità, abbiamo ritenuto che si possa egualmente intervenire con la maggiore urgenza, ma sempre con l’intervento della Magistratura.

L’osservazione dell’onorevole Andreotti, fatta nel senso che chiunque fosse male intenzionato potrebbe stampare pubblicazioni oscene e pornografiche nel pomeriggio del sabato quando gli uffici della Procura della Repubblica rimangono chiusi, non regge, perché gli uffici della Procura della Repubblica sono costantemente aperti, notte e giorno, senza distinzione di giorni festivi o feriali. Tanto è vero che quando si presenta, purtroppo, qualche reato di sangue, quegli uffici intervengono in qualsiasi ora del giorno e della notte. Quindi l’obiezione relativa alla impossibilità di accedere agli uffici della Procura della Repubblica e di trovarli costantemente a disposizione del pubblico, è destituita di fondamento.

Nel mio emendamento proponevo che in casi di assoluta urgenza, gli uffici della polizia giudiziaria avessero sempre la possibilità di rivolgersi tempestivamente agli uffici della Procura della Repubblica, e, in mancanza al pretore, per le infrazioni relative alla stampa, e di provocare un’ordinanza anche non motivata per il sequestro immediato.

Vi è quindi sempre la possibilità di procedere a tale sequestro e la tranquillità che esso emanerebbe da un organo, «l’autorità giudiziaria», la sola che sia in grado di giudicare se vi sia o meno offesa alla pubblica moralità.

Ecco le ragioni del testo del mio emendamento, a proposito del quale osservo che si è incorso in un errore di stampa: dove si dice «con provvedimento anche non motivato dall’autorità giudiziaria» bisognava dire «dell’autorità giudiziaria».

Ritengo che le considerazioni da me svolte siano sufficienti a dimostrare la fondatezza di questo mio emendamento.

Vi è poi l’altro mio emendamento, quello di sopprimere il quinto comma.

Su tale argomento si è già parlato stamane. Ma, oltre alle considerazioni che già sono state svolte, vi è anche questa. Non si comprende quale valore possa avere nella Carta costituzionale il dire che la legge può stabilire controlli per l’accertamento delle fonti di finanziamento della stampa periodica.

Mi sembra che l’affermazione abbia un valore assolutamente platonico. Se deve il legislatore realizzare questo compito, ci domandiamo a quale risultato si potrà pervenire quando questi accertamenti saranno fatti. Perché delle due l’una: o deve conseguire una sanzione nel caso che si ritenga il finanziamento illecito, e allora comprendiamo il movente, la causale di questa inserzione; o la sanzione non esiste, e allora non comprendiamo la ragione delle indagini sull’origine del finanziamento di una determinata attività giornalistica.

A noi sembra che questo comma offenda la libertà dell’individuo, offenda la libertà del cittadino, il quale intende attuare una manifestazione del suo pensiero o favorire la manifestazione del pensiero altrui, apprestando i mezzi economici.

Questa forma di generosità, che potrà elargirsi da parte di alcuni mecenati, non riteniamo che possa essere repressa.

Il movente di questo comma ha un carattere squisitamente politico: individuare le fonti per determinati giornali, i quali non potrebbero vivere solo attraverso la vendita dei fogli.

Ma questa indagine non può essere affidata al legislatore. È un’attività di parte, è un’attività politica; è il partito politico, che intende espletare questa indagine, può senz’altro farlo coi mezzi di cui dispone.

In ultimo, non mi pare che questo intervento della legge per questa indagine, sfornito di sanzione, abbia consistenza giuridica e quindi fondamento serio.

Per queste ragioni chiedo la soppressione del comma 5, condividendo le argomentazioni fondate già svolte dai colleghi che mi hanno preceduto.

PRESIDENTE. L’onorevole Calosso ha proposto di sostituire il quarto comma col seguente:

«La legge stabilisce i modi per garantire la libertà della stampa dallo Stato, dal capitale, dalla diffamazione e dalla pornografia».

Ha facoltà di svolgerlo.

CALOSSO. L’emendamento che ho presentato non è molto importante; è soltanto un pretesto per poter intervenire in questa discussione.

Mi pare che ci sia un equivoco da parte dei giornalisti di destra – mi rivolgo a lei, onorevole Giannini, in modo particolare ed ai suoi colleghi – sul concetto di libertà della stampa.

In certo senso, voi dite ed io dico con parole mie: la libertà di stampa c’è sempre stata in Italia, dal tempo dei mazzieri, che adesso si vedono mandati per le strade dei villaggi ad insultare il pubblico. Ricordo un esempio tipico di questi mazzieri, ben chiomati, d’accordo con la polizia, i quali mettono manifesti infamanti contro le persone. Questo tipo di libertà di stampa in Italia è stato sempre diffusissimo e lo è ancora.

Dobbiamo dire che è libertà? No. È schiavitù. Se fiorisce in questo momento, attraverso tante stampe, è perché usciamo da una schiavitù. Quindi, siamo portati a credere come il negro, uscito dalla schiavitù, che la libertà consista nello sputare addosso al prossimo.

C’è libertà di stampa nei paesi negri. Leggevo e non oso ripeterlo – avrei bisogno della penna dell’onorevole Giannini per poterlo descrivere – la citazione d’un caso analogo visto in un villaggio: una donna per insultare un avversario – era la levatrice del paese – si alzò le vesti e si mise a battersi su quello che restava scoperto, a titolo infamante.

È una forma di libertà.

GIANNINI. È una forma anche di protesta. Caterina Sforza fece lo stesso, a Forlì, in modo più intelligente.

CALOSSO. Quello era un modo più intelligente. Disse ai tedeschi: «Se uccidete i miei figli, ho la fabbrica per farne altri».

Ma non credo che questo sistema debba essere esteso. (Si ride).

Il regime più libero in Italia è stato il fascista, in cui si poteva eccitare all’assassinio, d’accordo, beninteso, con la polizia.

GIANNINI. Ma lei non c’era!

CALOSSO. E dove ero?

GIANNINI. Lei non c’era, perché dice delle cose inesatte: io, per esempio, non ho mai potuto stampare un giornale politico sotto il fascismo; quindi non c’era questa libertà.

CALOSSO. Comunque, ho presentato questa mia proposta relativamente al comma quarto, perché il comma mi sembra sbagliato. Si parla dell’urgenza quasi che la Magistratura non possa essere urgente anch’essa, quasi che sia soltanto accademica e filistea. D’altra parte è sottinteso sempre che in caso di urgenza si può fare quello che si vuole: anche l’uomo della strada, senza essere un poliziotto, né un magistrato, quando vede che un giornale è osceno lo prende e lo strappa, dopo di che il giudice assolverà sempre colui che lo ha fatto.

Questo è un po’ il difetto: di voler legiferare su tutto.

Noi non dobbiamo, secondo me, fare un articolo sulla stampa, generico, che preveda tutti i casi; dobbiamo determinare alcuni punti specifici per modo che dove c’è un male, si possa rimediare. Mi appello anche ai colleghi cristiani, cioè ai colleghi che conoscono il Vangelo e quanto diceva San Paolo.

GIANNINI. Democristiani, perché cristiani siamo anche noi.

CALOSSO. Non è difficile, mi lasci dire una insolenza, onorevole Giannini, questo sistema esterno di essere cristiani, perché tra i sacramenti presi c’è la penitenza, che in greco vuol dire capovolgimento.

GIANNINI. Questo non è un sacramento.

CALOSSO. Ma come, lei ha preso un sacramento e non lo sa!

TUPINI. Lei è un neofita immaturo, onorevole Giannini! (Si ride).

CALOSSO. Io leggevo l’Uomo Qualunque e non ho visto questo capovolgimento. Si vuol fare una legge e da un male si ricade in un male peggiore. È una manìa quella di voler legiferare su tutto, come abbiamo visto anche da parte dei democristiani quando, a proposito dell’articolo 7, si finiva per far nascere un anticlericalismo. (Interruzione dell’onorevole Fuschini).

Evidentemente quando vi è un eccesso di potere dello Stato, noi dobbiamo limitare questo potere, e mi sembra che qualche articolo rimedi a questi inconvenienti limitando i poteri dello Stato. Vi è un punto che l’esperienza dimostra tutti i giorni come sia importante: noi vediamo che chiunque ha un capitale può fare un giornale e chi non l’ha non lo può fare. Quindi mi pare giusto di affermare la libertà della stampa dal capitale oltre che dallo Stato. La libertà è sempre una libertà da qualche cosa: da una passione, da un peccato, se mi permettete. Farò un esempio, onorevole Mastrojanni. C’è un uomo, una fabbrica, che durante il ventennio fascista è riuscito a fare un giornale clandestino, cioè ad affermare quella libertà di stampa che non furono i liberali ad affermare (era il loro dovere, ma mancarono gravemente, se la libertà è un fatto, non solo una aspirazione). Ma gli operai di quella fabbrica fecero un giornale clandestino ed oggi, in regime di libertà, desidererebbero continuare a farlo con i metodi grandi e costosi che esso richiede. Non possono, non sono liberi di farlo, perché non hanno i capitali. Viceversa, quel capitalista che ha sempre fornicato col fascismo riesce a fare il giornale, un vero giornale di informazioni. Questo non mi pare giusto. Vorrei essere qui interrotto per sapere se può essere giusto il fatto, che questi operai che hanno creato un giornale clandestino ed hanno mantenuto nell’atto un senso di libertà, non possano più fare il giornale, mentre invece lo può fare il capitalista qualunque. Mi pare che questo sia ingiusto.

GIANNINI. Lo fa il giornalista qualunque, non il capitalista qualunque. Lei crede che il giornale sia fatto dal capitalista. Questo è l’errore. Il giornale è fatto dal giornalista. C’è chi sa farlo e chi non sa farlo. Quale è il capitalista che fa il giornale? (Rumori – Interruzioni a sinistra). Dov’è? Io ho incominciato il mio giornale senza un soldo.

CALOSSO. La sua è stata una eccezione.

PRESIDENTE. Onorevole Giannini, la prego; questa notizia che lei adesso ci fornisce l’abbiamo letta tante volte sul suo giornale.

GIANNINI. Ha ragione.

PRESIDENTE. Lei sa che io sono un lettore assiduo del suo giornale.

GIANNINI. La ringrazio.

CALOSSO. Dobbiamo certo trovare qualche rimedio a questa schiavitù del capitale che si chiama, normalmente, non so perché, libertà. Però riconosco una cosa: è chiaro che il volere una legge precisa su questo vuol dire fare la rivoluzione socialista per decreto borghese, il che è impossibile. Perciò, accetto volentieri una certa vaghezza in questa materia, perché non è possibile raggiungere il nostro scopo. Forse, si potrebbe suggerire – rispondendo al senatore Einaudi che scrisse un articolo in materia su un giornale – che abbiano il diritto di fare un giornale solo dei gruppi di venti o trentamila uomini, in maniera che non ci sia l’uomo isolato, che possa tirare fuori un giornale.

Comunque, non riusciremo certo, in una assemblea non socialista, a risolvere questo problema, e neanche bisogna insistere eccessivamente. Insomma, bisogna fare qui una cattiva legge che tiri avanti come può.

C’è il terzo punto: la libertà dalla diffamazione. Questo è un punto importante, perché conosco alcuni colleghi della destra – non Giannini, il quale col suo modo scherzoso leva via qualche volta i pungiglioni dalle cose che dice – direttori di giornali della destra, deputati al Parlamento, i quali non sono orientati e credono che fare l’aggressione del bravaccio, del vile, del mazziere, sia un’azione libera, lasciando all’accusato di difendersi, come si faceva nell’inquisizione, in cui si accusava chi doveva difendersi, mentre è chiaro che la prova tocca all’accusa. Questo è qualcosa di profondamente antipatriottico, come se l’uomo italiano valesse poco e lo si potesse insultare con facilità. Ora, prima di fare una cosa tanto grave, si deve richiedere che colui che la fa abbia già pronti tutti i dossiers d’accusa, tutti i testimoni, in maniera che in sette giorni dovrebbe essere possibile la sentenza del tribunale. Non si deve lasciare al signore, che vuole la comodità di voler insultare senza pagare troppo dazio, questa possibilità; bisogna dare dei fastidi a questo nobile signore, in maniera che il giudice possa in sette giorni compiere il processo. Si deve supporre che tutto sia pronto prima di fare una simile cosa. Ora, e questo è il punto grave, vedo la stampa umoristica che accusa qualche volta di cose che bisognerebbe dire…

GIANNINI. È proprio la stampa umoristica che entra nel segreto delle famiglie, che parla delle mogli, delle sorelle, delle figlie; è uno scandalo generale.

CALOSSO. Questo è il fatto. Un giorno il Becco Giallo – lo ricevo sotto forma di Eco della stampa – diceva: vorrei sapere se De Gasperi, Togliatti e Calosso – non so perché mi ha messo con questi grandi uomini (Si ride) – comprano il pane bianco. Ora, basterebbe andare a vedere dove io abito; nella stessa casa c’è il panettiere – il quale per di più è anche monarchico – e domandargli se io ho mai comperato un ettogrammo di pane bianco. L’ho mangiato, sì, qualche volta, ma all’osteria o in casa di amici, ma io non ne ho mai comperato un etto. Questa è la realtà. Non posso dare querela al Becco Giallo per questo. Ho dato invece querela ad un altro giornale a Torino, ma sono già dieci mesi e non ne ho saputo più niente. La Magistratura non funziona. Egli mi aveva accusato, ed era un prete – questo lo dico non perché fosse prete, ma era un mascalzone, anche se prete – del fatto che in una cerimonia religiosa a Firenze avrei proposto di cambiare le Chiese fiorentine in sale di divertimento e case del popolo.

Immaginate che proprio io vada a dire di ballare in Santa Croce, in Santa Maria del Fiore, in Santa Maria Novella, come se ignorassi che cosa queste Chiese rappresentano; che proprio io dicessi una sciocchezza simile? Eppure dieci mesi sono passati e adesso scriverò al mio avvocato che lasci perdere tutto. Questo tale non ebbe il coraggio di capire che aveva detto una sciocchezza, né la Magistratura seppe fare quello che doveva con quella velocità necessaria dinanzi all’evidenza. È la situazione italiana. Perciò bisogna essere feroci su questo punto, come lo si è in paesi civili. Gli inglesi sono meno teneri; insultare un uomo inglese è una cosa molto più difficile che insultare un uomo italiano. A me è capitato una volta di scrivere su un giornaletto della colonia italiana, da me diretto durante la guerra, che vi era stata una certa assemblea che aveva votato un ordine del giorno. I nostri avversari travisano, da un punto di vista politico, questo ordine del giorno. In seguito ricevo l’avviso di un avvocato che mi dice che devo rispondere per libello. Domando: «Cosa è questo libello? – Sono 500 sterline e alcuni mesi di prigione». Riuscimmo a cavarcela trovando un’altra accusa del genere contro gli avversari.

Ciò determina nella stampa di questi paesi quello stile umano e anche umoristico – onorevole Giannini – che serve come l’olio a lubrificare la discussione.

Io credo, dunque, che dobbiamo essere feroci: non saprei trovare una parola più mite. Voi dite che una misura simile debba essere usata per paura; ma invece deve essere usata per un senso di dignità umana e italiana.

PRESIDENTE. Onorevole Calosso, la prego di concludere.

CALOSSO. La libertà dalla pornografia è un punto su cui direi che bisogna addivenire ad una eccezione. Sono contento che tocchi a me di parlare di questo, perché avevo notato che alcuni democristiani hanno una certa timidità, come se questo fatto fosse legato al democristianesimo, mentre invece tocca tutti gli uomini e sono quindi ben lieto – ripeto – di far mia questa proposta. Non essendo politica, la questione della pornografia va trattata come una eccezione. È bene fare delle eccezioni e avere in questo mondo il senso delle eccezioni. Qui non c’è politica, non c’è paura di dittatura, ma il pericolo c’è. Io passeggio, per esempio, con un ragazzo per una strada e vedo una caricatura, un disegno molto pornografico; è un’offesa irrimediabile che può avere effetti gravissimi. È giusto che ci sia una particolare gravità di pene, di sanzioni; quindi farei la legge meno controllata che quella politica, anche se ci fosse qualche eccesso. Direi che è meglio in questo campo l’eccesso che il difetto, perché – ripeto – non c’è il fatto politico di mezzo. E non bisogna aver paura degli inconvenienti, che ci sono dappertutto, come, ad esempio, che domani un giudice filisteo abolisca il Decamerone o Madame Bovary di Flaubert. Insomma, corriamo questo rischio, qualche Decamerone, qualche Madame Bovary sarà abolito, ma troverà poi lo stesso il modo di farsi la sua strada. Io correrei quindi questo rischio senza paura. Mi pare meglio quello che si guadagna che non quello che si perde.

Perciò ho proposto questo piccolo emendamento, sul quale non insisto se non come orientamento generale.

PRESIDENTE. Quando l’onorevole Calosso presenta degli emendamenti, d’ora in poi gli chiederemo subito se li ha presentati soltanto per aver diritto a parlare, visto che poi li abbandona così rapidamente.

GIANNINI. Onorevole Presidente, la pregherei di concedermi la facoltà di parlare, soltanto per un minuto e mezzo, per fatto personale.

PRESIDENTE. Non vedo in che consista il fatto personale.

GIANNINI. Non ho altro mezzo per rispondere al mio amico Calosso.

PRESIDENTE. Va bene, ma metterò la clessidra.

GIANNINI. Desidero precisare al mio amico, al caro amico Calosso, che noi non siamo affatto contrari a che la Magistratura sia messa in condizioni di perseguire nel più breve termine possibile il giornalista – anzi, lo pseudo-giornalista – che, dimenticando i doveri professionali e artistici – perché la nostra professione è principalmente un’arte – si renda colpevole del reato di diffamazione.

La nostra figura di rappresentanti dell’«Uomo Qualunque», caro Calosso, ci mette in una stranissima condizione; siccome «qualunque» è un po’ «tutti», noi siamo volta per volta individuati con chiunque. Quindi siamo individuati con la destra; io sono stato individuato con il fascismo; alcuni mi hanno individuato con il comunismo; e così lei oggi ci individua per quei giornalisti i quali non vogliono che la Magistratura sia messa in grado di perseguire il giornalismo diffamatore e ricattatorio. Ma questa è una cosa che tutti noi giornalisti, di qualunque partito, abbiamo sempre chiesto e sempre chiederemo, perché questa è la garanzia della nobiltà della nostra professione, per la quale – creda, amico Calosso, lei che la esercita più da uomo politico che da professionista – ci vogliono fiumi d’ingegno che, se fossero rivolti verso altre attività più redditizie, come, per esempio, il cambio o la borsa nera, renderebbero molto denaro di più, e molte ingiurie, spesso toccanti il cuore delle famiglie, di meno, di quello che ci dà l’esercizio del nostro giornalismo politico e appassionato, che è solamente fonte di amarezza, e che raramente dà una gioia, come quella che ho io oggi nel discutere con lei. (Approvazioni a destra).

Onorevole Presidente, non credo di avere oltrepassato il limite.

PRESIDENTE. La cito ad esempio. L’onorevole Bellavista ha presentato il seguente emendamento, già svolto:

«Sopprimere il quinto comma».

L’onorevole Trimarchi ha presentato il seguente emendamento:

«All’ultimo comma, dopo la parola: contrarie, aggiungere le altre: alla morale e».

Non essendo presente, l’emendamento si intende decaduto.

Segue l’emendamento dell’onorevole Titomanlio Vittoria:

«All’ultimo comma, dopo la parola: contrarie, aggiungere le parole: alla morale e».

TITOMANLIO VITTORIA. Lo ritiro.

PRESIDENTE. Gli onorevoli Bosco Lucarelli, Castelli Avolio, Cappi, Turco, Balduzzi, Gabrieli, Coppi Alessandro, Salizzoni, Lettieri, Bulloni hanno presentato il seguente emendamento:

«All’ultimo comma, dopo le parole: al buon costume, aggiungere: ed al sentimento religioso del popolo italiano».

L’onorevole Bosco Lucarelli ha facoltà di svolgerlo.

BOSCO LUCARELLI. Onorevole Presidente, dato che al di sopra e al di fuori dei partiti si è da tutti dichiarato di volere il più assoluto rispetto del sentimento religioso, e dato soprattutto che il popolo non consentirebbe offese a detto suo sentimento, ben riflettendo, ritengo superfluo il mio emendamento e dichiaro di ritirarlo.

PRESIDENTE. Vi è, poi, l’emendamento presentato dagli onorevoli Coppa Ezio, Patricolo, Marina, De Falco, Colitto, Vilardi, Mazza, Puoti, Corsini, Rognoni:

«All’ultimo comma, alle parole: al buon costume, aggiungere: o che offendano il sentimento religioso del popolo».

L’onorevole Colitto, firmatario, ha facoltà di svolgerlo.

COLITTO. Abbiamo presentato questo emendamento per quel giusto rilievo che è stato testé formulato dall’onorevole Bosco Lucarelli a proposito dell’emendamento precedente. Ma poiché al sentimento religioso sono stati nei giorni scorsi levati mirabili e commoventi inni, da tutti i settori dell’Assemblea, noi crediamo di non dover insistere sul nostro emendamento, il quale mira alla confermazione di sentimenti che sono in fondo al cuore di ogni italiano.

PRESIDENTE. L’onorevole Moro, unitamente agli onorevoli Tosato, Di Fausto, Bianchini Laura, Dominedò, Tozzi Condivi, Ciccolungo, Recca, Cremaschi Carlo, Balduzzi, ha proposto di aggiungere in fine dell’articolo le parole: «preventive e repressive».

L’onorevole Moro ha facoltà di svolgere il suo emendamento.

MORO. Dirò brevissime parole per giustificare l’aggiunta che io ed altri amici abbiamo chiesto di apportare all’ultimo comma dell’articolo 16.

Mi piace innanzitutto ricordare che questa disposizione dell’ultimo comma è stata concordemente presentata, in sede di Commissione, da noi e dai colleghi comunisti, in particolare, dai colleghi onorevoli Terracini e Nobile. Noi desideravamo infatti, che fosse data una precisa disposizione, per richiamare la legge futura ad una rigorosa repressione di tutte le manifestazioni del pensiero che si concretino in un attacco al buon costume.

Mi pare quindi che su questo punto vi sia concordia in tutta l’Assemblea; tutti quanti noi desideriamo infatti che la libertà di pensiero, in ogni sua forma, non si risolva in un’offesa al buon costume e alla morale.

Quello, di cui si tratta invece è di determinare le misure idonee alla repressione di eventuali abusi. A questo proposito l’ultima parte dell’articolo 16 parlava di misure adeguate che sarebbero state determinate ad opera della legge. Ma io ed i miei amici abbiamo avvertito la preoccupazione che tale dizione non risultasse sufficientemente chiara per il futuro legislatore, che cioè, in virtù di essa, venisse fatto un richiamo soltanto a misure di repressione, ma non già a quelle misure di prevenzione che a noi sembrano anche essenziali.

Questo nostro dubbio è stato d’altronde aggravato dalla proposta, fatta da alcuni onorevoli colleghi, relativa alla soppressione del quarto comma che parla di sequestro preventivo della stampa che può essere eseguito da ufficiali della polizia giudiziaria. Ora, effettivamente, questo quarto comma potrebbe destare qualche preoccupazione, perché rimetterebbe nelle mani della polizia giudiziaria un delicato potere di controllo. Sicché ci rendiamo ben conto dei motivi per i quali i nostri colleghi hanno chiesto l’abolizione di questo quarto comma dell’articolo 16. In tal caso verrebbe meno la garanzia di una effettiva rispondenza delle norme costituzionali, che stiamo stabilendo, alle esigenze di tutela del buon costume e della moralità. Noi chiediamo che, almeno per le pubblicazioni oscene, almeno per gli spettacoli e per le altre manifestazioni che urtino contro il buon costume, sia ammessa non solo una severa repressione, ma anche la possibilità di una prevenzione, adeguata ed immediata. A me sembra che in questo caso la immediatezza dell’intervento sia cosa indispensabile. Io mi auguro, come si augura l’onorevole Ghidini, che possa organizzarsi l’attività della Magistratura, in modo tale che un magistrato adibito a questo lavoro, possa giornalmente controllare la stampa, per operare quei sequestri che si rendono necessari; ma non ne sono sicuro. Penso che, talvolta, potrebbe essere indispensabile l’intervento esecutivo. Questo intervento, che per altri casi va guardato con qualche preoccupazione, può essere ammesso con animo tranquillo quando sono in giuoco il buon costume e la moralità. La immediatezza è, dicevo, in questo caso indispensabile. Si tratta di evitare che il veleno corrosivo che si trova nella stampa pornografica e nelle altre manifestazioni contrarie al buon costume possa dilagare, si tratta di fare in modo che sia impedito nel suo sorgere. Se noi lasceremo circolare questo veleno anche per poco, non avremo la possibilità di difendere effettivamente la moralità del nostro popolo e la nostra gioventù.

Io voglio ricordare quanto diceva qualche minuto fa l’onorevole Calosso: se sotto il profilo politico, per altri aspetti del problema, si deve ammettere un grande rigore a tutela della libertà individuale, possiamo invece largheggiare un poco, quando si tratta di tutelare la libertà e dignità della persona, le quali potrebbero essere turbate gravissimamente da abusi licenziosi della libertà di stampa e di espressione del pensiero.

La realtà delle cose è in questo momento questa, che la pornografia non è occasionale, non è incidentale, ma è intenzionalmente diretta ad infirmare la coscienza morale del popolo italiano. Io credo che l’Assemblea tutta si troverà concorde in questa difesa, la quale, essendo difesa della nostra gioventù, che è veramente la nostra speranza, essendo difesa della moralità del nostro popolo, è anche la più piena e la più sana affermazione che noi possiamo fare del nostro amor di Patria. (Applausi al centro).

PRESIDENTE L’onorevole Ruggiero, unitamente agli onorevoli Canevari, Cairo, Morini, Grilli, Carboni, Veroni, Zanardi, Piemonte, Preti, ha presentato il seguente emendamento:

«Al quinto comma, alle parole: la legge può stabilire, sostituire: la legge stabilisce».

L’onorevole Ruggiero ha facoltà di svolgere il suo emendamento.

RUGGIERO. L’emendamento riguarda il comma cinque dell’articolo 16. Dove il progetto di Costituzione dice: «La legge può stabilire controlli per l’accertamento delle fonti di notizie ecc.» noi vorremmo sostituire quest’altra formulazione: «La legge stabilisce i controlli, ecc.».

Come vedete, noi non consideriamo adesso la formulazione nella sua contenenza intima.

Insomma non intacchiamo il principio nella sua sostanza, lasciamo intatto il principio, ma vorremmo, con l’emendamento, tradurlo in una realtà giuridica concreta. A noi pare che il principio resti come un’affermazione astratta, e metafisica, non efficace e non operativa sul piano concreto. Infatti quando la disposizione dice: «La legge può stabilire controlli», che cosa fa? Concede alla legge una facoltà, ma intanto, ove la legge non provvede ad avvalersi di questa facoltà, la Costituzione, rimanendo ferma in questa formulazione, non può in nessun modo obbligare la legge ad adeguarsi alla formulazione stessa. Come vedete, la formulazione resta nei limiti di una affermazione astratta e in un campo di ambiguità. Quindi noi chiediamo che l’emendamento stabilisca in modo chiaro questa affermazione. Vi faccio notare, d’altra parte, che è la prima volta che nella Costituzione è usata questa espressione, «la legge può», cioè è la prima volta che la Costituzione concede questa facoltà alla legge. E vorrei che si evitasse l’equivoco che potrebbe nascere da una lettura un po’ sommaria di altre disposizioni che contengono l’espressione «può». Se voi vedete, anche l’articolo 16, in altra parte, comporta questa espressione «può», ma vediamo in che misura. Si dice, al terzo comma dell’articolo 16: «Si può procedere al sequestro soltanto per atto dell’autorità giudiziaria». Quindi ci troviamo di fronte al «si può».

Altra volta ci troviamo di fronte ad un «può», e cioè nell’articolo 8 in cui si dice che, «in casi eccezionali di necessità ed urgenza indicati tassativamente dalla legge, l’autorità di pubblica sicurezza può prendere misure provvisorie». Così ancora nell’articolo 19 in cui si dice che «tutti possono agire in giudizio, ecc.». Ma come vedete, qui la facoltà è concessa a persone od enti i quali possono o non possono fare una cosa nell’ambito della latitudine che la legge concede a questi enti o persone. All’articolo 12 si dice: «può procedere al sequestro soltanto per atto dell’autorità giudiziaria nei casi, ecc.». Quindi può procedere al sequestro, chi? L’autorità giudiziaria, e nei casi previsti dalla legge; ma è affermato il principio che l’autorità giudiziaria possa fare. Qui invece ci troviamo di fronte ad una facoltà della legge che può disporre e può anche non disporre.

È una questione di tecnica, di carattere, costituzionale, inquantoché, se è vero che la Costituzione dovrebbe essere scritta sulle tavole di bronzo, come si pensa quando la Costituzione viene considerata da un punto di vista ideale, è pur vero che nella Costituzione non può essere consacrato un principio il quale potrebbe essere suscettibile o meno di applicazione.

Se è vero che esiste questa necessità che è consacrata nel progetto di Costituzione al 5° comma dell’articolo 16, io penso che per ragioni di chiarezza e per ragioni della stessa dignità costituzionale questo principio debba essere espresso in forma normativa e categorica come tutte le formulazioni della Costituzione.

Si tratta di veri e propri comandamenti alla nostra coscienza di costituenti e di cittadini.

Mi pare che se la formulazione resta così come è espressa nel 5° comma dell’articolo 16, sorga la necessità di precisare l’efficacia di questo controllo. Altrimenti sembra che noi costituenti non ci sentiamo vincolati in modo tassativo e abbiamo l’aria di voler rimandare al domani la decisione circa l’opportunità di una disposizione precisa.

Per tutte queste ragioni chiedo, per rimanere coerente all’intimo spirito che deve informare la Costituzione, che il mio emendamento sia accolto realizzando una maggiore chiarezza ed efficacia della carta costituzionale.

PRESIDENTE. È stato presentato un emendamento a firma degli onorevoli Grassi, Mortati, Camposarcuno, Castelli Avolio, Dominedò, Recca, De Michelis, Fanfani, Bianchini Laura, Pastore Giulio, Montini, per sostituire il terzo comma col seguente:

«Si può procedere a sequestro soltanto per atto motivato dell’autorità giudiziaria nei casi di delitto, per i quali la legge sulla stampa espressamente lo consenta, e nei casi di violazione delle norme relative all’obbligo dell’indicazione dei responsabili».

L’onorevole Grassi ha facoltà di svolgerlo.

GRASSI. Ho cercato, con i firmatari dell’emendamento, di concretare meglio questo comma. I principî rimangono sempre gli stessi, come stabiliti nel testo della Commissione, ma abbiamo portato delle modifiche.

L’atto dell’autorità giudiziaria richiesto per procedere al sequestro rimane nel nostro emendamento come nel testo presentato dalla Commissione.

Tuttavia preferiamo limitare i casi di sequestro ai «delitti» invece che ai «reati», perché la parola «reati» si presta ad una maggiore quantità di casi. Intendiamo inoltre ridurre le possibilità di sequestro per violazioni amministrative soltanto ai casi della stampa clandestina, nella quale manca un responsabile nel gerente o nella tipografia. Soltanto in questi casi di violazioni si può addivenire al sequestro da parte dell’autorità giudiziaria. Come si vede, lo scopo è limitativo. Si vuole, in altre parole, tener fermo il principio della libertà e stabilire che il sequestro non venga autorizzato se non per delitti stabiliti dalla legge sulla stampa, oppure nei casi in cui si sia venuto meno all’obbligo dell’indicazione del responsabile. Il Presidente della Commissione assicura che questo emendamento può essere accettato.

PRESIDENTE. Lo svolgimento degli emendamenti è così esaurito.

Chiedo ora ai presentatori se intendano mantenerli, in modo che la Commissione sia in grado di esprimere il suo avviso sugli emendamenti mantenuti. Onorevole Andreotti, ella mantiene il suo emendamento?

ANDREOTTI. Lo mantengo.

PRESIDENTE. Onorevole Perassi?

CONTI. Lo manteniamo.

PRESIDENTE. Onorevole Montagnana Mario?

MONTAGNANA MARIO. Li manteniamo tutti e tre.

PRESIDENTE. Onorevole Ghidini?

GHIDINI. Lo mantengo.

PRESIDENTE. Onorevole Preziosi?

PREZIOSI. Lo mantengo.

PRESIDENTE. Onorevole Mastrojanni?

MASTROJANNI. Li mantengo tutti e due.

PRESIDENTE. Onorevole Calosso?

CALOSSO. Lo ritiro.

PRESIDENTE. Non essendo presente l’onorevole Bellavista, si intende che abbia rinunziato al suo emendamento.

Onorevole Moro?

MORO. Lo mantengo.

PRESIDENTE. Onorevole Ruggiero?

RUGGIERO. Lo mantengo.

PRESIDENTE. Onorevole Grassi?

GRASSI. Lo mantengo.

PRESIDENTE. La Commissione esprimerà nel pomeriggio il suo parere.

Desidero far presente ai colleghi che, siccome è necessario concludere entro oggi l’esame del Titolo primo, bisogna che regolino le loro cose personali in vista d’una eventuale seduta notturna.

MARINA. Chiedo di parlare.

PRESIDENTE. Ne ha facoltà.

MARINA. Penso che sia opportuno avere due giornate della settimana, il sabato ed il lunedì, libere dalla votazione, ma tenendo sedute tutti i giorni.

PRESIDENTE. Onorevole Marina, purtroppo, l’assenza di troppi colleghi non è soltanto un triste fenomeno del lunedì. Se, accedendo alla sua richiesta, ritenessimo di sospingere gli onorevoli deputati ad intervenire negli altri giorni, proveremmo una delusione, perché alcuni di essi avendo vinto la non bella battaglia per non venire due giorni la settimana, inizierebbero la battaglia per non venire negli altri giorni.

Il seguito della discussione è rinviato alle 16.

Interrogazioni con richiesta di urgenza.

PRESIDENTE. Sono state presentate le seguenti interrogazioni con richiesta di urgenza:

«Il sottoscritto chiede di interrogare i Ministri del lavoro e previdenza sociale, dell’industria e commercio e dell’interno, per conoscere le ragioni per le quali non si è tempestivamente provveduto a consacrare con provvedimento legislativo le provvidenze a favore degli ex-partigiani e degli ex-internati, disposte nel febbraio 1945 con decreto del C.L.N.A.I. e per le quali così il Ministero dell’industria, come quello del lavoro avevano nello scorso mese di febbraio dato assicurazione di immediata definizione.

«La fondamentale giustizia delle richieste avanzate, l’aspettazione legittima creata dalle promesse ministeriali, e la conseguente delusione per l’inerzia del Governo hanno creato un vivo stato di inquietudine, del quale così la Presidenza del Consiglio, come il Ministero dell’interno sono stati tempestivamente informati fra il 27 marzo ed il 2 aprile, senza che peraltro si sia creduto di dover adottare le urgenti decisioni, delle quali era prospettata la necessità.

«Le agitazioni del 9 aprile a Torino, con gli spiacevoli incidenti che ne sono risultati, sono diretta conseguenza del profondo stato di disagio provocato dall’inerzia governativa in una questione già concordata e definita e sulla quale si chiede ai Ministri responsabili di fornire le necessarie spiegazioni.

«Foa».

«I sottoscritti chiedono di interrogare il Presidente del Consiglio dei Ministri, per conoscere se non ritenga indispensabile, con opportuno provvedimento, prorogare di un altro biennio le disposizioni contenute nel decreto luogotenenziale del 10 agosto 1945, n. 473, d’imminente scadenza, e che consentono il trasporto, con diritto a rimborso di spese, della famiglia e delle masserizie, nei trasferimenti di dipendenti statali, e ciò avuto riguardo del grandissimo numero di alloggi distrutti dalle operazioni belliche e della esiguità del processo, di ricostruzione.

«Piemonte, Paris, Ruggiero, Chiaramello, Grilli, Canevari».

«I sottoscritti chiedono d’interrogare i Ministri della marina mercantile e delle finanze e tesoro, per conoscere perché non si dà corso ai formali impegni assunti verso le maestranze dei cantieri di Venezia per la riparazione del Nino Bixio, tanto che si corre rischio di lasciar passare il 14 aprile 1947, termine ultimo, per l’applicazione della legge che autorizza lo stanziamento dei fondi necessari.

«Fanno presente il grave danno che ne deriverebbe alla economia nazionale se non si desse corso ai provvedimenti formalmente promessi da parte della marina mercantile, privando le maestranze del lavoro.

«Gli interroganti fanno pure presente che la marina mercantile verrebbe privata di una modernissima unità che, con una spesa ammontante a metà del valore della nave, avrebbe un valore notevole (oltre un miliardo).

«Bastianetto, Costantini, Ponti, Ravagnan, Franceschini, Sartor, Ghidetti, Tonetti, Ferrarese»,

«I sottoscritti chiedono di interrogare ii Presidente del Consiglio dei Ministri e il Ministro dei lavori pubblici, per conoscere se rispondono a verità le voci, che hanno vivamente allarmato le popolazioni del Molise, secondo le quali si starebbero predisponendo provvedimenti per distrarre le acque del Biferno dal Molise per l’approvvigionamento idrico di Napoli e di alcuni comuni della Campania.

«Sarebbe sommamente nociva agli interessi della Regione Molisana la sottrazione dell’unica risorsa idrica rimastale. Infatti:

  1. a) rimarrebbero inattive le numerose centrali elettriche ivi esistenti, sviluppanti non meno di 12.000 HP. di forza;
  2. b) sarebbe impossibile irrigare i terreni delle pianure di Boiano e di Larino e quelli di collina;
  3. c) sarebbero peggiorate le condizioni sanitarie, già gravi, dell’intero bacino del Biferno, attualmente infettato dalla malaria;
  4. d) nel Molise non rimarrebbe alcuna risorsa idrica.

«La sottrazione delle acque del Biferno non è necessaria per sodisfare i bisogni della città di Napoli, in quanto, a tale scopo, possono essere sfruttate più razionalmente le acque del Volturno, altro fiume molisano purtroppo sottratto, nel 1904 alla Regione a favore della città di Napoli.

«Camposarcuno, Colitto, Ciampitti»

«I sottoscritti chiedono d’interrogare il Ministro delle finanze e del tesoro, sulla necessità di immediati provvedimenti a disciplina delle borse valori, il cui andamento in questi ultimi giorni è di gravissimo danno alla difesa della moneta contro manovre inflazionistiche.

«Meda, Cappi, Malvestiti, Rossi Paolo, Lombardo Ivan Matteo».

«I sottoscritti chiedono d’interrogare i Ministri della pubblica istruzione e delle finanze e tesoro, per sapere se non intendano andare finalmente incontro alle richieste avanzate da parecchi mesi dai maestri elementari: ruoli aperti, sistemazione delle pensioni, bando di concorso.

«Gli interroganti sono d’avviso che si debbano eliminare sollecitamente i motivi di disagio e le ragioni di turbamento che minacciano l’efficienza della nostra scuola elementare.

«Bertola, Binni, Lozza, Silipo, Cremaschi Carlo, Giua, Farina, Platone, Franceschini, Foa».

«I sottoscritti chiedono d’interrogare i Ministri delle finanze e tesoro e della pubblica istruzione, per sapere se intendano risolvere i problemi che oggi tormentano la scuola media; e cioè: i nuovi concorsi e l’indennità di presenza.

«Si fa presente la necessità dell’urgenza dei provvedimenti per dare la tranquillità alla scuola.

«Bertola, Cremaschi Carlo, Franceschini, Tumminelli, Lozza, Binni, Giua, Foa».

«I sottoscritti chiedono d’interrogare il Ministro dell’interno, per sapere se non ritenga opportuno di revocare la circolare 9 aprile 1935, n. 600/158, con la quale si disponeva lo scioglimento delle Associazioni dei Pentacostali, la chiusura al culto dei relativi oratorii o sale di riunione, e il divieto di ulteriori riunioni o manifestazioni di attività religiose da parte degli adepti.

«Canevari, Calosso».

«I sottoscritti chiedono d’interrogare il Ministro della pubblica istruzione, per conoscere:

1°) quali siano le ragioni che hanno determinato lo sciopero del personale insegnante della scuola secondaria;

2°) come si è fino ad ora inteso di tradurre in atto gli impegni assunti innanzi all’Assemblea, in sede di esposizione del programma ministeriale, per restituire la scuola italiana alla funzione educativa, sociale e morale, negli ordinamenti, nei quadri, nel trattamento economico al personale, nei locali, negli arredamenti e nelle attrezzature.

«Miccolis, Rodi, Tumminelli».

«Il sottoscritto chiede d’interrogare il Ministro della pubblica istruzione, per conoscere, nell’imminenza dell’ordinanza per la chiusura dell’anno scolastico e per esami, se non ritiene opportuno di tenere presente la necessità che non si ripeta, nella scuola legalmente riconosciuta, come nell’anno scolastico passato, l’inconveniente di una interferenza tra il diario degli esami di ammissione e idoneità e quello di maturità e abilitazione.

«Se non si pensa che la causa non ultima delle variabili disposizioni del Ministero della pubblica istruzione nell’ordinamento scolastico sia da ricercarsi nei rapporti dei provveditori reggenti improvvisati, ignari taluni del funzionamento della scuola, governativa e non governativa.

«Tumminelli».

VERONI. Chiedo di parlare.

PRESIDENTE. Ne ha facoltà.

VERONI. Ho presentato da oltre un mese una interrogazione sul funzionamento del Commissariato degli alloggi. Vorrei chiedere se potrò ottenere risposta prima del 16 venturo, data di scadenza dei poteri commissariali. Vedo però che nessun membro del Governo è presente.

PRESIDENTE. Il Governo non ha l’obbligo di essere presente durante la discussione del progetto di Costituzione. Invito l’onorevole Veroni a presentare la sua richiesta nella prima parte della seduta, quando è presente qualche membro del Governo.

MORINI. Chiedo di parlare.

PRESIDENTE. Ne ha facoltà.

MORINI. Penso che sia opportuno che la lettura delle interrogazioni urgenti sia fatta subito dopo lo svolgimento delle interrogazioni, quando è ancora presente il Governo.

PRESIDENTE. Gli onorevoli Deputati che hanno presentato le interrogazioni testé lette potranno chiedere domattina ai membri del Governo che saranno presenti se accettano l’urgenza, stabilendo il giorno della risposta.

Interrogazioni e interpellanza.

PRESIDENTE. Si dia lettura delle interrogazioni e di una interpellanza pervenute alla Presidenza.

MATTEI TERESA, Segretaria, legge:

«La sottoscritta chiede di interrogare il Ministro della difesa, per conoscere le vigenti disposizioni a favore delle famiglie dei prigionieri italiani in Russia, e la misura dei contributi assistenziali stabiliti a loro favore: per conoscere, altresì, i motivi che hanno determinato la cessazione del pagamento di quei sussidi, che fino a poco tempo fa erano corrisposti agli aventi diritto, da parte di molti distretti militari; ed infine per sapere quali risoluzioni si intenda adottare per definire la posizione giuridica personale di molti soldati italiani fatti prigionieri in Russia, dei quali le famiglie non hanno avuto da molto tempo notizia alcuna, ed il Governo russo – come è noto – ha recentemente dichiarato di non essere in grado di darne.

«Gotelli Angela».

«I sottoscritti chiedono di interrogare il Ministro della difesa, per sapere se non ritenga che gli ex ufficiali incorsi nella perdita del grado per antifascismo debbano essere reintegrati d’ufficio, senza pretendere da loro una speciale domanda, che viene ad avere un carattere mortificante per chi ha difeso a viso aperto la libertà e ha portato con onore le spalline.

«Meda Luigi, Cremaschi Carlo».

«Il sottoscritto chiede d’interrogare il Ministro delle finanze e del tesoro, per conoscere se intenda modificare il decreto legislativo 21 marzo 1947, n. 116, per ciò che concerne il trattamento fiscale dell’alcole di seconda categoria e in particolare dell’alcole prodotto da vinaccia.

«L’interrogante ritiene insufficiente l’abbuono concesso all’alcole di seconda categoria, soprattutto perché segna un orientamento nuovo, sostanzialmente sfavorevole alla valorizzazione dei sottoprodotti della vinificazione e al miglioramento tecnico della produzione vinicola, e perché quindi è assolutamente contrario ai bisogni di un Paese come il nostro in cui occorre ridare fiducia ai viticoltori e non deprimerli indirettamente.

«Si richiama poi l’attenzione sull’inevitabilità dell’aumento delle evasioni fiscali perché l’industria di seconda categoria, non potendo gareggiare con l’industria di prima categoria, verrebbe praticamente a esaurirsi, mentre si verranno a creare focolai di distillazione clandestina, numerosi e difficili a colpire dal fisco perché sparsi un po’ dovunque.

«Solo con un maggiore abbuono, o comunque subordinatamente con un trattamento meglio proporzionato, gli inconvenienti denunciati potranno essere eliminati. (L’interrogante chiede la risposta scritta).

«Sullo».

«Il sottoscritto chiede d’interrogare il Ministro del lavoro e della previdenza sociale, per conoscere i motivi per cui l’Istituto nazionale previdenza marinara non provvede all’immediato adeguamento delle pensioni dei vecchi marittimi, che dopo avere per anni rischiata la vita sul mare, si vedono condannati all’inedia da pensioni oltraggiosamente da fame, mentre quasi tutte le altre categorie di pensionati, per quanto anche esse mal trattate, sono almeno al di sopra delle quote di poche centinaia di lire, attribuite oggi ai nostri pensionati marittimi. (L’interrogante chiede la risposta scritta).

«Mazza».

«Il sottoscritto chiede d’interrogare il Ministro della difesa, per conoscere per quali motivi il Ministero della guerra, con sua circolare dell’8 febbraio 1947, dando interpretazione all’articolo 1 del decreto 11 novembre 1946, n. 408, circa la concessione di una speciale indennità ai grandi invalidi di guerra aventi diritto all’accompagnatore, ha escluso dal beneficio di detta indennità i mutilati di guerra amputati di coscia al terzo inferiore o di gambe al terzo medio, nonché tutti gli amputati bilaterali di gambe al terzo medio.

«Sorge invero, per la gravità delle amputazioni, la necessità di estendere, magari con un’altra circolare interpretativa e chiarificatrice, il beneficio della concessione della speciale indennità per l’accompagnatore, anche a questa categoria di mutilati, i quali hanno assoluto bisogno di un costante aiuto materiale per muoversi nella esplicazione delle loro attività. (L’interrogante chiede la risposta scritta).

«Puoti».

«Il sottoscritto chiede d’interrogare il Presidente del Consiglio dei Ministri ed il Ministro dell’interno, per conoscere quali provvedimenti intendono di adottare di fronte alla deliberazione dei proprietari di case di rifiutarsi di pagare le tasse.

«È opinione del sottoscritto che tale deliberazione abbia a suscitare nella massa degli inquilini, ed in modo particolare fra quelli meno abbienti (lavoratori, statali, pensionati, disoccupati, ecc.), una vivissima agitazione e delle legittime ritorsioni, ove non intervenga tempestivamente il Governo a richiamare decisamente i proprietari di case sulle conseguenze del loro gesto inconsulto. (L’interrogante chiede la risposta scritta).

«Mariani Francesco».

«Il sottoscritto chiede di interrogare il Presidente del Consiglio dei Ministri, ed i Ministri dell’interno, dei lavori pubblici e delle finanze e tesoro, per conoscere se non ritengano rispondente a giustizia, oltreché conforme all’universale aspettazione, inserire opportunamente nel prossimo decreto, che regola il vasto piano della ricostruzione edilizia, una disposizione che distingua i sinistri per causa di rappresaglia da tutti gli altri considerati comunque effetto di eventi bellici; e conceda ai primi speciali condizioni di favore, sia quanto alla misura del risarcimento, che dovrebbe essere in buon numero di casi anche totale, sia quanto alla precedenza ed alla procedura nel vaglio dei progetti, nelle anticipazioni e nella esecuzione dei lavori.

«Il criterio discriminatorio per l’invocato provvedimento è imposto soprattutto dalla considerazione che, mentre i danneggiati da bombardamento o da altre operazioni belliche furono passivi verso l’azione causa di sinistro, i rappresagliati invece, nella loro quasi totalità, determinarono direttamente l’atto di devastazione nei propri riguardi col rendersi attivi nei confronti della lotta clandestina, per efficace partecipazione ad essa o per vario favoreggiamento: sì da incorrere coscientemente nelle barbare misure di repressione o di intimidazione, singola come collettiva. Tali specifiche benemerenze, frutto di amore, di fede, di sacrificio, non possono non essere ritenute sacrosanto motivo per il riconoscimento d’un particolare debito della Patria. (L’interrogante chiede la risposta scritta).

«Franceschini».

«Il sottoscritto chiede d’interrogare il Ministro della pubblica istruzione, per conoscere:

  1. a) per quali ragioni, dopo tre anni dalla liberazione, non è stato ancora provveduto a sistemare nei ruoli i maestri ed i professori che, per non essere stati iscritti al disciolto partito fascista, non hanno potuto prendere parte a pubblici concorsi;
  2. b) se intende provvedere subito a tale sistemazione e con quali modalità, dal momento che su uno schema di decreto in proposito il Consiglio di Stato ha espresso parere favorevole da circa un anno;
  3. c) quali agevolazioni e riconoscimenti intende dare a tali insegnanti nel conferimento degli incarichi e delle supplenze nelle scuole medie e elementari per il prossimo anno scolastico, in attesa della predetta sistemazione. (L’interrogante chiede la risposta scritta).

«Bitossi».

«Il sottoscritto chiede d’interrogare il Ministro della difesa, per conoscere quali provvedimenti intenda adottare in favore degli ufficiali di complemento del ruolo speciale marina, istituito con legge 6 giugno 1935, n. 1098, che a seguito del decreto legislativo 31 maggio 1946, n. 490, sulle condizioni di liquidazione degli appartenenti al ruolo stesso per riduzione di quadri, si sono visti lesi nei loro diritti legalmente acquisiti col decreto-legge 3 dicembre 1942, n. 1417, che stabiliva un concorso per titoli per trasferimento in servizio permanente effettivo e che, portato a termine, non venne pubblicato per il sopraggiunto armistizio dell’8 settembre 1943, e non essendo stato abrogato da alcuna disposizione, deve ritenersi ancora valido, in pieno contrasto col suddetto decreto legislativo 31 maggio 1946, n. 490, privo in conseguenza di ogni base giuridica. (L’interrogante chiede la risposta scritta).

«Tieri».

«Il sottoscritto chiede d’interrogare il Ministro della pubblica istruzione, per conoscere se non crede doveroso porre riparo ad una non lieve iniquità che una legge ed un decreto-legge – piuttosto remoti – quella del 1923 e questo del 1931, riguardanti la professione di architetto, hanno inflitto ad una categoria di onesti e seri lavoratori.

«È noto come nel 1922 il Ministro di allora ponesse nuove condizioni, e più difficili, per il raggiungimento del titolo di architetto – un corso universitario – ed istituisse la facoltà di architettura di Roma; è noto pure che i corsi di architettura nelle Accadente continuarono e fino al 1927 vissero e distribuirono titoli.

«Ora la legge 24 giugno 1923, n. 1395, nelle disposizioni transitorie stabilisce norme e per coloro che avevano esercitato la professione da 10 anni e per coloro che, possedendo la licenza di professore di disegno architettonico, conseguita in un’Accademia o Istituto di belle arti, avessero esercitato lodevolmente per 5 anni la professione.

«Una Commissione era incaricata di dare il giudizio sul lodevole esercizio.

«Ma continuando le Accademie a distribuire diplomi – e ciò, come si è detto, fino al 1927 – alla legge del 1923 fece seguito il decreto-legge del 23 novembre 1931, decreto che cercava di completare la legge e di renderla consona alla realtà.

«Naturalmente tale decreto – esplicativo e correttivo – non poteva esser più rigido della legge, e difatti invitava le Commissioni a riesaminare le domande presentate ed i titoli e documenti esibiti e quegli altri (titoli e documenti) che i richiedenti ritenessero opportuno di presentare per meglio dimostrare il lodevole esercizio professionale.

«Il termine 1931 era improprio: bisognava porre come ultimo termine il 1932; come pure improprio era il termine 1926 posto dalla legge del 1923.

«Ora le Commissioni non hanno applicato il decreto-legge del 1931: si sono fermati alla legge del 1923; un gran numero di architetti non sono stati iscritti all’albo, e debbono quindi adattarsi ad una condizione di minorità. Costoro insistono perché, sia pure in ritardo, si voglia porre rimedio al danno non piccolo ed alla non lieve mortificazione. (L’interrogante chiede la risposta scritta).

«Longhena».

«Il sottoscritto chiede d’interrogare il Ministro dei trasporti, per conoscere se si intenda rimediare tempestivamente alla composizione e attrezzatura veramente indecorose dei treni 18-63 e 18-64 Roma-Ancona e Ancona-Roma, che, malgrado la loro importanza per l’orario e per la grande frequenza di viaggiatori, viaggiano ancora con una sola vettura di terza classe e con carri sprovvisti perfino di qualsiasi forma di sedili. (L’interrogante chiede la risposta scritta).

«Binni».

«I sottoscritti chiedono d’interpellare il Presidente del Consiglio dei Ministri e il Ministro delle finanze e tesoro, per conoscere quali provvedimenti il Governo intenda adottare a fronte del continuo ribasso dei corsi del prestito della ricostruzione, 3 e mezzo per cento; prestito quotato il giorno 10 corrente quasi per il 20 per cento al di sotto del prezzo di emissione, con la perdita dei risparmiatori che più prestarono fede alla propaganda ed alle assicurazioni del Governo, di una cinquantina di miliardi circa; prestito che, allo stato attuale, costituisce la prova tangibile del poco affidamento da fare nella parola dello Stato, e che, se non si prenderanno provvedimenti, sarà causa di danno notevole per la finanza italiana non appena si dovrà fare di nuovo appello al credito per fronteggiare le necessità di bilancio.

«Corbino, Quintieri Quinto, Patricolo, Coppa Ezio, Fusco, Badini Confalonieri, Rodi, Cifaldi».

PRESIDENTE. Le interrogazioni testé lette saranno iscritte all’ordine del giorno e svolte al loro turno, trasmettendosi ai Ministri competenti quelle per le quali si chiede la risposta scritta.

Così pure l’interpellanza, sarà iscritta nell’ordine del giorno, qualora i Ministri interessati non vi si oppongano nel termine regolamentare.

La seduta termina alle 12.45.